Wenn die Sterne leuchten.

di Chemical Lady
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo Primo ***
Capitolo 3: *** Capitolo Secondo ***
Capitolo 4: *** Capitolo Terzo ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quarto ***
Capitolo 6: *** Capitolo Quinto ***
Capitolo 7: *** Capitolo Sesto ***
Capitolo 8: *** Capitolo Settimo ***
Capitolo 9: *** Capitolo Ottavo ***
Capitolo 10: *** Capitolo Nono ***
Capitolo 11: *** Capitolo Decimo ***
Capitolo 12: *** Capitolo Undicesimo ***
Capitolo 13: *** Capitolo Dodicesimo ***
Capitolo 14: *** Capitolo Tredicesimo, parte Prima. ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


11

 

 

Wenn die Sterne leuchten.

 

 

 

 

Prologo.

 

Kuroi namida nagashi sakendemo

Shiranu kao de ashita wa kite

 

Anno 846

Un anno dopo il crollo del Wall Maria.

 

La landa di fronte al suo sguardo si perdeva verso il tramonto, increspandosi solamente laddove le cime degli alberi spezzavano il confine tra cielo e terra.

Nina non riusciva a smettere di pensare a quanto vasto e bello fosse il mondo aldilà di quelle alte mura grigie e spente, di quanto fosse meraviglioso e indomabile, selvaggio. Unico.

Persino in quel momento, seduta sul ramo di un albero, con qualche costola incrinata, messa innanzi alla certezza che non sarebbe mai tornata a casa, non riusciva comunque ad odiare la decisione che aveva preso, unendosi alla Legione Esplorativa.

 

L’inizio della 32esima missione oltre le mura era stato come  quello di ogni altra missione. Ultimamente, dopo il crollo del Wall Maria, c’era addirittura stato un incremento dei permessi per uscire, al fine di trovare un modo utile per ottemperare al nuovo obbiettivo imposto alla Legione di Ricerca; se alla nascita, questo corpo scelto di coraggiosi soldati aveva come fine ultimo quello di scoprire la vera natura che stava dietro ai giganti, adesso la priorità era diventata quella di trovare un modo per riconquistare i territori perduti, riducendo al minimo le perdite umane. 

Detta così pareva semplice, ma, come è logico pensare, non lo era: il numero dei morti si accumulava nonostante gli sforzi e quella volta la Fortuna aveva voltato le spalle proprio a lei.

Dopo tre anni di missioni, soddisfazioni, meriti, era arrivata la resa dei conti. Nina era in pace con se stessa, perché nonostante la paura che provava, sapeva che qualsiasi cosa sarebbe successa di lì in avanti, non sarebbe dipesa da lei.

La sua era diventata una sfida aperta col Fato e nonostante fosse molto giovane, sapeva che era difficile battere un avversario così abile.

Fece mente locale della situazione in cui si trovava, pensando attentamente a cosa poteva fare per andare avanti: si trovava ad almeno un’ora a cavallo dal campo base che il comandante Erwin aveva allestito. La sua squadra, quella che faceva testa al Capitano Andrej Sankov, era stata completamente annientata mentre espletava alla sua missione ricognitiva sul fianco sinistro dell’avanguardia. Persino Sankov era caduto, stroncato da un’emorragia che lei non era riuscita a fermare. Non che fosse la prima volta; quando si era arruolata nell’esercito, aveva già preso in considerazione l’idea di diventare il medico di campo, ma dopo aver vissuto la prima missione, come recluta diciassettenne, e dopo aver visto l’orrore e il dolore dei feriti, la specializzazione presso il cerusico militare di Trost era diventata praticamente un obbligo morale verso i suoi commilitoni.

Era brava, attenta. Meritava il giglio rosso ricamato sulla fascetta bianca che teneva sul braccio sinistro, simbolo della gilda dei guaritori. Erwin lo diceva sempre che aveva proprio la stoffa –e tristemente, la scrittura- di un dottore in medicina.

Però  la bravura non serve a molto, oltre le mura.

La fatica di trascinare Sankov fra gli alberi, i tentativi di fermare l’emorragia con le cinghie dell’equipaggiamento dell’uomo, ormai inutilizzabile…. Tutto era stato vano. Sankov era morto valorosamente, combattendo un nemico imponente. Tutti erano morti, per la causa in cui credevano e lei non poteva nemmeno riportare quel poco che rimaneva di loro a casa.

Erano usciti fuori tracciato, a causa di un gruppo di otto giganti che si erano ritrovati davanti durante la ronda. Mai visti così tanti tutti insieme. Avevano perso Ravenstein mentre cercavano di abbatterli al centro di un campo, senza possibilità di sfruttare a pieno le potenzialità del movimento tridimensionale. Due giganti a terra e altri quattro in arrivo, verso di loro. Un gruppo di nove persone, ora otto, che cercava di battere in potenza e velocità quei titani assetati di sangue.

Nina ne aveva buttati giù ben tre, un record personale,  prima di essere colpita alla schiena da una manata accidentale, provocata dalla caduta a terra di un gigante ucciso da Reinolds. Era caduta, sbattendo forte contro al carretto con le costole e aveva perso i sensi. Non sapeva dire per quanto tempo era rimasta così, stesa sull’erba bassa, accanto al carro in legno da cui i cavalli erano stati sbrigliati.

Quando si era destata, però, ad attenderla non c’era più nessuno. Nessun gigante, nessun compagno. Reinolds, Jutah, Baumann, Kalhaf, Ravenstein, Fisher e Tulak. Morti, a pezzi, sparsi come petali di rosa per la piana circostante.

Nina aveva osservato quella scena, certa che non se la sarebbe mai levata dalla mente e si era alzata in piedi, reggendosi con la mano al carretto, mentre con l’altra si teneva il busto che rimandava delle fitte lancinanti a seconda dei movimenti. Non era riuscita a trattenere qualche lacrima al pensiero che non solo aveva perso i suoi compagni, ma che non avevano segnalato il loro cambio di rotta e che, quindi, li stavano di certo cercando da tutt’altra parte.

Fu in quel momento, quando tutto sembrava perduto, che udii un lamento. Il Capitano era vivo. Portò la sua attenzione su di lui e dopo aver constatato che non era in sé, l’aveva trascinato per duecento metri in mezzo al nulla, col terrore di essere vista o sentita da un gigante, fino alla vegetazione fitta del boschetto. Lì aveva provato di tutto, fallendo.

Ritrovandosi da sola, senza un cavallo e con il gas necessario forse a fare ancora qualche rapida azione, se riusciva ad essere parsimoniosa.

Smise di scribacchiare sul quadernino che portava sempre con sé nella tasca posteriore dei pantaloni chiari, alzando lo sguardo verso l’ovest, la direzione da cui erano venuti.

Laddove il sole andava a morire.

 Non normale per lei scrivere. Su quelle pagine leggermente ingiallite dall’usura e dalle molte volte che aveva preso la pioggia sui bordi, lei soleva disegnare. Parti anatomiche, sezioni mediche, magari qualche appunto su una particolare erba medicale o esperimento portato avanti insieme al Capo Squadra Hanji, ma non aveva mai tenuto un diario. In quel momento, però, rischiava di non tornare a casa. Rischiava di non poter dire addio a nessuno.

Ne ai suoi genitori, ne a suo fratello.

A nessuno del Corpo di Ricerca.

Nemmeno a Levi.

Voleva quindi rendere le sue ultime parole tangibili, vere. Se avessero ritrovato quel misero artefatto, almeno non sarebbe morta in silenzio come tanti altri dispersi.

Con un sospiro lento e una lacrima che premeva per scorrere come una debolezza sulla sua guancia, la ragazza si rialzò, sistemando il quaderno, tenuto fissato alla cinta da una cordicella, nella tasca. Poi guardò in basso, sotto di sé.

Sarebbe stata una lunga marcia e forse di lei sarebbero rimaste solo quelle poche parole scarabocchiate con una scrittura ardua da decifrare, ma ci avrebbe provato veramente.

Il campo base era laggiù, da qualche parte, laddove l’orizzonte baciava gli alberi.  Ci avrebbe provato, avrebbe venduto a casa la pelle. Non voleva morire.

Mancavano dieci giorni ai suoi vent’anni e aveva intenzione di festeggiarli.

 

 

Continua…

 

 

 

NdA:

Non ho idea di cosa io stia facendo, ne del motivo per cui mi sono messa a scrivere alle tre del mattino.

L’idea di questo OC mi è balenata nel cervelletto bacato per puro caso e visto che quando mi fisso non riesco a non scrivere senza avere un blocco su qualsiasi altro tema, ho pensato di provarci.

Non posso avere un blocco in piena scrittura della tesi, non sarebbe carino.

 

Un paio di informazioni velocissime sulla storia, che cercherò di tenere corto per non annoiare nessuno.

 

Prima di tutto, potrebbero esserci degli accomodamenti nella trama generale di SnK. Cose da poco, soprattutto sulla vita di un personaggio che adesso ho deciso di non spoilerarvi. Non intendo però uscire dai binari base della storia del manga e dell’anime.

 

Nina Müller è un personaggio di mia invenzione e su di lei scoprirete qualcosa in più andando avanti. Ovviamente la coppia è con Levi, che domanda. Nonostante il mio cuore da Ereri, io mi diverto davvero da morire a creare nuovi personaggi, non posso farci niente. Questa storia è ambientata dopo la presa di Shigashina, ma prima del ritrovamento del diario di Ilse Langnar, dalla quale potrebbe sembrare che io abbia preso ispirazione…

… Non è esattamente così e solo andando avanti capirete il perché.

 

Sono contraria alle Mary Sue quindi Nina le prenderà un po’ da tutte le parti, ma si sa che la fortuna aiuta gli audaci.

 

L’inserimento del medico militare è una mia invenzione di sana pianta, così come la fascetta rossa con disegnato sopra il giglio rosso. Dovevo pensare a un escamotage un po’ medievale che potesse compensare una croce e la scelta è caduta su uno dei simboli più banali riscontrabili nella medievalistica. Però va detto, che ha classe.

 

Davvero, nessuno si è mai chiesto perché non ci sono dei dottori qui??

 

La canzone citata all’inizio è ‘Kuroi Namida’, tratta dal soundtrack dell’anima Nana (https://www.youtube.com/watch?v=_wxoPZijXU0 ) . Del quale io abuserò, vi avverto.

Il titolo invece, tradotto, signirica ‘Quando le Stelle Brillano’. Banalità orrenda in italiano, molto figo in tedesco. Il motivo della scelta? Rivedetevi gli OAV sulla nascita di Levi e ascoltate bene le canzoni ;)

 

Ringrazio chiunque sia arrivato sino qui a leggere.

Ringrazierò il doppio chi avrà anche il buon cuore di darmi una piccola opinione, mi piace trovare un riscontro con i lettori, ma EFP ormai è diventato un po’ desertico.

Speriamo nel bene.

 

Spero di postare il prima possibile il seguito!

Buonanotte o buongiorno (?) a tutti!

C.L

 

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Capitolo 2
*** Capitolo Primo ***


11

 

 

Wenn die Sterne leuchten.

 

 

 

 

Capitolo Primo.

 

Life is too short to even care at all.

 

 

 

Anno 846

Un anno dopo il crollo del Wall Maria.

 

 

Aveva aspettato fino a che il sole non era definitivamente calato, lasciando spazio a una notte luminosa e piena di stelle. La luna brillava argentea, quasi piena, abbastanza da permetterle di spostarsi senza bisogno di fuochi.

Nina non aveva atteso che le tenebre arrivassero a tanto per fare la prima mossa, però. Era arrivata al carretto e ci si era infilata con un saltello agile, che le era costato un mugolio basso e una fitta la costato. Lì  aveva trovato quello che cercava: le lame e le bombole. Aveva cambiato velocemente quelle che aveva nell’attrezzatura in favore di due piene e si era premurata di aggiungere un paio di lame extra, nonostante fosse certa che se sulla via per l’accampamento si fosse ritrovata di fronte dei giganti, difficilmente sarebbero stati attivi e svegli come di giorno. Questa informazione era frutto di un paio di ricerche effettuate dal Capo Squadra Hanji sul primissimo gigante catturato dalla Legione, qualche anno prima del suo ingresso nel corpo di Ricerca. Non avevano potuto lavorarci molto, purtroppo, ma quel poco che avevano visto su quell’esemplare di quattro metri, la notte le loro capacità di movimento si riducevano drasticamente. Era presto per poter decretare che la loro fonte di energia fosse la luce solare, ma era già stato avviato qualche passo in quella direzione.

Era una teoria debole, quella di Nina, ma era la migliore a cui poteva aggrapparsi.

Si era sistemata per bene, steccandosi il busto con dei rami affinché rimanesse rigido e tenendo tutto insieme con delle bende che teneva sempre con sé in una scatolina di latta, dentro alla tasca interna del giubbotto di rappresentanza. Aveva buttato via la mantella verde, intrisa del sangue di Sankov e aveva legato i capelli biondi in una treccia. In ultimo, si era preparata psicologicamente.

Niente più appunti sul quadernino, niente più malinconici pensieri alla ‘e se gli avessi parlato prima di partire’ o alla ‘e se mi fossi offesa così tanto’. Era una tipetta che sapeva focalizzarsi molto bene su un obiettivo, una dote di famiglia.

Nella piana non volava una zanzara, quando con un piccolo scatto, Nina si lanciò fuori dal carro e iniziò a correre. Il dolore alle costole era forte, ma non abbastanza da frenarla. La paura era un deterrente sufficiente che, sommato alla voglia di vivere e alla determinazione, le permisero di essere veloce quasi quanto lo era senza ossa rotte. Scattò in avanti il più possibile e per dieci minuti non fece altro se non pensare a quanto sarebbe stato bello tornare, rivedere quei visi, raccontare loro cosa era successo personalmente e poi piangere insieme gli amici che se n’erano andati.

Ed. Nick. Non doveva pensarci in quel momento. Non poteva permetterselo.

Corse e corse fino a che non ne poté più, ma per allora aveva già raggiungo il bosco di conifere che aveva puntato. Non era nemmeno a un quarto del tragitto, ma si era decisa a ritenersi soddisfatta se avesse bruciato una tappa alla volta. Lo attraversò tutto restando in guardia, attenta a dove metteva i piedi, poiché laddove c’erano molte meno preoccupazioni su come usare l’attrezzatura, c’erano molti punti ciechi e meno luminosità a causa delle fronde alte.

Dopo quella zona boschiva  si stendeva una piana a perdita d’occhio che la scoraggiò non poco, ma ricordava bene che vi erano passati e che, avanti, avrebbe incontrato il corso del torrente che andava a toccare il paesino ora abbandonato dove era stato sistemato l’accampamento.

Riportò alla mente le parole del ex comandante Shadis, se rimanete senza cavallo non correte a perdifiato come una massa di idioti ma fatelo con la testa, conservando le energie per fare uno scatto in caso di bisogno, e partì di nuovo. Corse, attenta a respirare bene e a concentrarsi su qualcosa che non fosse il dolore. Corse e corse.

Corse così tanto che quando iniziò a spuntare il sole, tingendo prima di azzurro e poi di rosa il cielo, si ritrovò a sentirsi delusa. Sperava che una notte sola le sarebbe bastata per compiere quella distanza, ma forse si era illusa o sopravvalutata. Cosa avrebbe fatto? Avrebbe atteso su un albero un giorno intero? Senza cibo ne acqua?

Non avrebbe mai avuto la forza di proseguire e se i dolori fossero peggiorati, allora sicuramente non sarebbe stata in grado nemmeno di camminare, figurarsi correre.

Un essere umano che non può correre o saltare è cibo.

 

Quella che aveva memorizzato come un’ora a cavallo al galoppo, si rivelò essere una notte e buona parte della mattinata, tra corsa e camminata. Seguì il corso del torrente non appena lo raggiunse ed esso le offriva non pochi ripari e nascondigli, che sfruttò ogni qualvolta sentiva anche il ben che più piccolo rumore.

 Fu fortunata, perché riuscì a raggirare un paio di giganti e fu costretta ad ingaggiare uno scontro solo con un dodici metri. Riuscì ad abbatterlo nonostante la fatica e il dolore. Ogni singola cinghia dell’imbragatura le causava una compressione sulla zona dolente quasi insopportabile, ma riuscì lo stesso a recidere la collottola del mostro che cadde con un tonfo sordo nel bosco.

La buona notizia era che quella zona era a prevalenza boschiva, quindi arrivare non fu impossibile anche se stancante.

La cattiva notizia era che, quando raggiunse la meta dove era stato insidiato il presidio, essa era tristemente deserta.  

 

 

 

Anno 844
Qualche giorno dopo l’arruolamento di Rivaille e la sua brigata di fuorilegge.

 

 

Nell’aria c’era odore di fiori di zucca fritti e la contagiosa risata di un sergente chiassoso.

Nina aveva speso tutta la mattina a strigliare i cavalli e a pulire la stalla insieme a Ed Reinolds e Nicholas Ravenstein, godendo della pace nella quale il quartier generale della Legione Esplorativa era caduto da quando, cinque giorni prima, il Comandante Shadis e il Capitano Erwin erano partiti alla volta della Capitale.

“Sai per quale motivo si sono recati lì?”

Alla domanda, Nina si era sollevata sulle punte, incrociando le braccia sul dorso del cavallo e spiando Ravenstein oltre il groppone della bestia “Non ne ho idea, mio fratello non me l’ha detto.” Ammise senza particolare inflessione della voce.

Era una recluta, perché avrebbe dovuto metterla al corrente?

Come ogni altra recluta, Nina aveva  terminato l’addestramento interno della Legione e poi aveva partecipato a tre missioni nell’ultimo anno, ma eccetto l’essere incaricata del recupero dei feriti e della loro cura – cosa nella quale era stata addestrata e istruita, d’altronde - non aveva mai avuto un ruolo fondamentale o comunque di rilievo. Si era distinta per il sangue freddo, quello andava detto, ma solo perché nei momenti di forte pressione o di crisi, tendeva a chiudersi in se stessa e tenere la mente impegnata facendo qualcosa. Qualsiasi cosa.

Le mani ben conficcate nello sterno di un compagno nel tentativo di fermare un’emorragia erano un ottimo deterrente alla paura.

Lavorare con il tenente Renson, il primo ufficiale medico della Legione, era il massimo a cui ambiva.

“Se ci fanno chiudere, a che corpo vi unirete?”

La ragazza bionda tornò a sollevarsi, stavolta con più prepotenza, facendo nitrire con disappunto la bestia “Non dirlo nemmeno per scherzo, Ed. Non ci faranno chiudere.”

Nick smise di spazzare, schiarendosi la voce “Si dice che non abbiamo i fondi per fare spedizioni oltre le mura.”

Ed indicò l’amico, come per sottolineare l’ovvio “Niente missioni vuol dire nessun senso di mantenerci qui a grattarci dal mattino alla sera. Ci faranno scegliere, vi dico io che finirà così. Nina, tu sei arrivata terza durante l’addestramento, io sesto. Il buon Nick decimo, quindi a filo. Ve lo dico io come dovrebbe finire: dovremmo unirci alla Gendarmeria tutti e tre.”

La bionda sbuffò incolore, raccattando la spazzola che le era sfuggita di mano e riprendendo a spazzolare il pelo raso del cavallo, accarezzandogli il collo “Stipendio migliore, massimo guadagno con il minimo impegno…. Ma voi l’avete capito cosa fanno dal mattino alla sera quelli della Gendarmeria?!”

“Quelli dalla Guarnigione guardano un muro, Müller. Direi che come divertimento, non c’è una grande differenza.”

Tutti e tre ridacchiarono alle parole di Nick, ma vennero interrotti dall’arrivo del Capo Squadra Ness, che intimò bonariamente a tutti e tre di sbrigarsi. Il pranzo sarebbe stato servito di li a qualche minuto e poi potevano prendersi il pomeriggio di licenza per riposare.

“Adoro essere un suo uomo.” disse Ed non appena Ness se ne fu andato dalla stalla “Voglio dire, potevamo avere Erwin come Capitano. O Hanji Zoe e il suo malato desiderio di avere sempre un gigante in custodia. Vogliamo parlare di Farlon? Se potesse picchiarci, ogni tanto, lo farebbe. Invece no, abbiamo Ness. Che il cielo lo protegga sempre. Il suo solo difetto è che è troppo fissato con la toletta dei cavalli e la pulizia della stalla.”

“Magari fosse fissato anche con la pulizia del resto del castello.” Nina riaccompagnò il cavallo nel box, prima di  voltarsi verso i due compagni che stavano sistemando le scope e la pala “Ci sono dei topi, nelle cucine, grandi come gatti.”

“Allora ci servono solo gatti grandi come cani!” sbottò Nick nel pieno della frenesia, prima di scoppiare a ridere con i due amici, così rumorosamente che dovette sistemarsi gli occhiali sulla punta del naso prima di vederli cadere a terra sul ciottolato.

Avevano fatto insieme l’accademia, erano nati come soldati insieme e ognuno aveva incoraggiato l’altro quando avevano donato la loro vita alla Legione.

Quando avevano deciso di essere le ali dell’umanità.

A quel tempo, Nina non credeva di poter chiedere di più di quello che aveva: una vita piena di avventure che seppur rischiava d’essere tragicamente breve, aveva allargato i suoi orizzonti nel mondo; amici sinceri, una famiglia ad aspettarla a Stohess.

Un obiettivo nobile.

Non avrebbe chiesto altro, ma ciò non significa che null’altro le sarebbe stato dato.

 

Erano quasi arrivati alle scale laterali che li avrebbero condotti direttamente alla mensa, quando lo scalpitare di zoccoli e il lento andare di una carrozza li fece voltare verso il cancello d’ingresso. Qualcuno giungeva.

“Se si tratta del Comandante, possiamo dire addio al pomeriggio di licenza.” Sussurrò a denti stretti Ed, mentre gli altri due, molto meno combattivi di lui, sospiravano piano.

Non sembrava la carrozza di Shadis, però.

Da essa, infatti, non scese né lui né tanto meno Erwin.

Scesero quattro figure, ma le reclute riuscirono ad identificare solamente il Caporale Thoma.

“Chi accidenti sono quelli?”

Ignorata la domanda di Reinolds, Nina scese un paio di gradini, così da non avere più il sole a bloccarle la visuale. Il primo era un ragazzo, biondo, alto e allampanato. Sembrava stranito dal luogo in cui era arrivato, ma si guardava attorno con un interesse posato. Fu il primo a ricambiare lo sguardo della Müller e ad azzardare lo spettro di un pallido saluto che lei rilanciò con un sorriso.

La seconda era una ragazza con i capelli che parevano un  fuoco tanto erano rossi. Lei nemmeno notò le tre reclute, troppo impegnata a lanciare frasi ricolme di stupore e di meraviglia verso qualsiasi cosa si trovasse lì intorno.

“Guarda fratellone, è pazzesco! Questo posto è enorme!”

Il terzo, all’inizio, dava loro le spalle. Al contrario degli altri due, pareva del tutto padrone della situazione, era calmo. La statura era bassa, tanto che Nina stimò che dovesse essere persino più basso di lei, ma aveva qualcosa….

Qualcosa che lo elevava.

Qualcosa che gridava ‘sto cercando guai’ da ogni poro e solo quando finalmente si voltò verso l’ingresso, Nina poté in qualche maniera avere una riprova di quella sensazione.

I suoi occhi erano affilati come lame e freddi come il ghiaccio, specchiati all’interno di quelli grandi della giovane. Aveva i capelli più neri che lei avesse mai visto e l’espressione apatica e svogliata di chi non ha voglia di sentir ragioni. Istintivamente, fece un passo indietro, lanciando uno sguardo a Nick.

Si misero sull’attenti, facendo il saluto militare al Caporale quando questi passò davanti a loro, facendo sfilare i tre verso gli alloggi delle reclute.

“Quelli chi diavolo sono?” rilanciò sottovoce Ed.

Nick non rispose, sporgendosi verso Nina, la quale non tolse gli occhi di dosso al moro fino a che non sparì dietro l’angolo, alla volta del portone interno “Dovresti domandarlo a tuo fratello.”

Lei annuì, velocemente “Sarà la prima cosa che domanderò ad Erwin appena metterà piede qui. Ora andiamo, prima che i fiori di zucca finiscano.”

 

 

 

 

 

Nda.

Si è iniziato a svelare qualcosa.

Tengo il bello per i prossimi capitoli, perché mi piace tenere un po’ sulle spine e perché sotto sotto, mi piace lasciare tante piccole molliche per creare la trama.

 

La canzone che ho scelto per questo capitolo è Cough Syrup degli Young the Giants. Mi sembra molto coerente con la situazione un po’ infelice.

 

Spero che questo capitolo piacerà quanto il primo, che ha ricevuto ben due recensioni, non credevo sarebbe successo! Ringrazio entrambe le ragazze che hanno recensito, anche se una delle due passa la maggior parte del tempo universitario con me, ma apprezzo lo sforzo della recensione.

 

Grazie davvero, è sempre bellissimo trovare un riscontro.

 

Per il prossimo capitolo, spero di far presto.

Se il caldo non mi ammazza.

 

Buonanotte, buonanotte!

 

C.L.

 

 

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Capitolo 3
*** Capitolo Secondo ***


11

 

 

Wenn die Sterne leuchten.

 

 

 

 

Capitolo Secondo.

 

To the outside, the dead leaves lay on the lawn

For they don't have trees to hang upon.

https://www.youtube.com/watch?v=UPW8y6woTBI

 

 

 

Anno 846

Un anno dopo il crollo del Wall Maria.

 

 

 

Trattenersi dall’urlare fu difficile. Piangere, invece, fu inevitabile.

Nina non poteva crederci che dopo aver fatto tutta quella strada, ogni speranza era svanita, come neve sotto al sole, sciolta dalla consapevolezza che non sarebbe resistita quarantotto ore da sola.

Erwin, l’intero gruppo della spedizione, tutti i suoi compagni erano andati via. Dovevano essere partiti alle prime luci dell’alba.

Questa fu l’idea che la giovane si fece, avvicinandosi  al gruppetto di case in pietra che erano servite da campo base negli ultimi due giorni.

Che non si fossero accorti di aver perso l’avanguardia? Impossibile.

Sarebbero dovuti tornare prima del tramonto e, in ogni caso, era palese che avevano avuto dei problemi.

Che fossero andati a cercarli e non l’avessero vista? Era possibile, anche se difficile. Nina aveva ricordi molto contrastanti del giorno precedente; il carro la nascondeva alla vista, ma era protocollo che si cercasse sempre di recuperare i corpi per dividere i caduti dai dispersi. Quando si era spostata nel bosco insieme al Capitano Sankov ormai morente, era comunque abbastanza vicina da potersi accorgere dell’arrivo della squadra incaricata della loro ricerca.

Si lasciò cadere mollemente su un tronco d’albero usato a mo’ di panca, di fronte ai resti di un fuoco i cui tizzoni dovevano ancora spegnersi completamente e si prese il capo fra le mani. Teneva gli occhi sbarrati sul terreno, mentre le mani si stringevano istintivamente attorno alle ciocche chiare.

Un pensiero la paralizzò.

Doveva essersi addormentata.

Aveva scelto accuratamente l’albero su cui nascondersi, quello con le fronte più fitte così da nasconderla alla vista e lì si era tenuta il più stesa possibile a causa dei dolori al busto, ma non poteva negare a se stessa di essere certa di non aver mai chiuso gli occhi, nemmeno per un istante. Era ferita, confusa e sicuramente in preda allo shock. Come medico doveva riconoscere i suoi limiti umani. Ci aveva messo un po’ a metabolizzare tutte quelle morti e a trovare un piano efficace per se stessa. Poi si era seduta e aveva atteso la notte. Quindi aveva dormito? Era possibile? Forse aveva perso i sensi per lo sfinimento?

La verità era una sola, però; non avrebbe mai fatto breccia in tutta quella confusione che provava, non sentendosi così vicina alla fine.

Si chiese cosa fosse andato storto. Facendo missioni da diversi anni, sapeva che le risposte potevano essere molteplici.

Non c’era stato un recupero? Perché?  Forse i corpi erano stati abbandonati lì, era troppo pericoloso, oppure non avevano avuto modo di caricarli su un carro. Forse erano stati attaccati a loro volta.  Nina non aveva controllato i caduti prima di iniziare la sua marcia. Non era stata lucida, ma non c’erano superstiti e non avrebbe avuto senso in quella situazione scoprirsi più del necessario.

Cosa avrebbe fatto, ora?

Le lacrime iniziarono a caderle dagli occhi fino al terreno, incontrando qualche sporadico filo d’erba.

Il silenzio attorno a lei era così forte da ferirle le orecchie e lasciarla disorientata ancor più di quanto non si sentisse già.  

Cosa avrebbe mai potuto fare lì, da sola, senza nemmeno del cibo o un cavallo per tentare di seguire il resto della Legione? Senza contare che non sapeva nemmeno dove si erano diretti. Erano tornati a Trost? Forse avevano deciso di proseguire lo stesso? Non era importante.

Avrebbe potuto far semplicemente ritorno a Trost. Spiegata la situazione, nessuno l’avrebbe condannata per diserzione: la sola cosa furba da fare, non sapendo dove si trovavano i suoi, era proprio quella di girare il cavallo e tornare a casa. Peccato che il cavallo non c’era, quindi non si poneva il problema.

Tornare a nord a piedi? Impossibile.

Non sarebbe mai arrivata viva.

Era brava, aveva imparato molto negli ultimi due anni ed era migliorata in un modo che aveva dell’incredibile, ma da sola e circondata dai giganti sarebbe morta come qualsiasi altra persona. Non era il Guerriero più Forte dell’Umanità.

Era una ragazzina sola, veloce a menare fendenti, ma che non aveva nemmeno prestato la massima attenzione se qualcuno era andato o meno a cercarla. Era stata stupida. 

Il terra tremò sotto ai suoi piedi, riscuotendola da ogni pensiero. Un passo pensate, due, tre e lei capì che doveva levarsi di torno. La situazione era già abbastanza disperata senza il bisogno di peggiorarla.

“No. Ti prego, no…

Scattò in piedi, tenendosi una mano al costato e l’altra sulla bocca. Prese guardandosi attorno e lascio fare al mero istinto di sopravvivenza. Entrò nella casa che aveva ospitato gli ufficiali in quei due giorni, andando ad addossarsi alla parete interna, accanto alla porta. Il gigante che passò di lì doveva essere un dodici metri, a giudicare dal rombo che accompagnava il suo spostamento, ma Nina non aveva la voglia di indagarne la natura in quel momento. Rimase ferma e zitta, con le gambe stese e la schiena diritta contro alla parete fredda, mentre con gli occhi sgranati fissavano un punto imprecisato di fronte a lei, nel vuoto.

Sarebbe morta lì. Mangiata o di fame e stenti, non faceva una grande differenza. Sarebbe stato tremendo.

Non poteva andare a caccia o cercare un mezzo di sussistenza. Era circondata dai giganti, forse con qualche osso rosso e con pochissimo gas.

Sarebbe morta lì e nessuno lo avrebbe saputo.

Sospirò pesantemente, allungando la mano per prendere il suo quardernino. Lo aprì sulla prima di copertina, leggendo le poche parole scarabocchiate velocemente il giorno prima, giusto per assegnare un proprietario all’oggetto nel caso in cui qualcuno l’avesse recuperato dopo la sua morte. 

Primo ufficiale Medico della Legione Esplorativa, Sergente Nina Müller, 32esima missione oltre le Mura. Squadra d’Avanguardia del Capitano Sankov.

Letta così poteva sembrare onorevole, la sua carriera. Non lo era per niente, dal suo punto di vista.

Assurdo come una serie di titoli messi in fila potessero, in qualche modo malsano, definire una persona. Forse l’avrebbero considerata un eroina, una volta rinvenuto il suo scheletro con in mano quell’oggetto rilegato in cuoio chiaro. ‘Ha resistito e combattuto fino all’ultimo’, avrebbero detto ‘Era un medico, una dottoressa. Sicuramente ha provato a salvare i suoi uomini, ma alla fine cosa poteva fare?’.

…. Cosa poteva fare?

Da sola, contro i giganti, senza niente. Senza nemmeno la speranza.

Era stata abbandonata e non le avevano lasciato nemmeno quella.

Commiserava se stessa come l’avrebbero commiserata gli altri.

Una martire in una guerra che non vedeva vittorie.

 

Ci volle parecchio prima che Nina trovasse la forza di rimettersi in piedi. Non trovava un senso nel movimento, nel provare a ‘fare un tentativo’, quindi ci mise il suo tempo a decidersi che non poteva comunque aspettare la morte seduta accanto alla porta.

Prima di tutto, sganciò l’attrezzatura per il movimento tridimensionale. Il gas era così poco che forse non le sarebbe servito nemmeno per un’azione e quella casa, costruita su una piave, sembrava particolarmente solida. Se non avesse fatto rumore, difficilmente un gigante l’avrebbe fiutata oltre il forte odore di chiuso e umido della casa.

Fece leva sulle gambe, reggendosi con un braccio alla parete mentre l’altro premeva ancora al costato che, però, non sembrava far più così tanto male. Si sarebbe preoccupata anche di indagare quanto grave era la sua situazione, ma non subito. Fece un giro veloce, passando per ogni stanza per piano terra e trovando la cucina, leggermente interrata rispetto il resto della costruzione. Il braciere era ancora tiepido, così come quello che aveva visto fuori, cosa che le strappò una mezza risata priva di colore.

Forse doveva partire prima. Forse doveva correre di più. Forse doveva stare ferma nel carretto e aspettare, perché qualcuno sarebbe andato a controllare in un modo o nell’altro.

“Forse, forse, forse.” Strinse il pugno della mano che penzolava lungo i fianchi “Se sommo tutti i ‘forse’, magari riesco a mettere insieme una linea di pensiero che spieghi la mia stupidità.” Si fermò, mentre andava verso la porta, e quasi trasalì “Fantastico, ora parlo anche da sola.”

Di una cosa era tristemente consapevole, però: se avesse voluto sentire una voce, di lì in avanti avrebbe dovuto continuare a pensare a voce alta.

Non troppo alta, però.

 

Il corridoio del piano di sopra era abbastanza pulito, il che le fece pensare che Levi doveva essere passato con una scopa e tanto olio di gomito. Al solo rievocare una simile immagine, non riuscì a non sorridere leggermente, chiedendosi cosa avesse pensato lui quando non l’aveva vista tornare.

Era stata un’idea di Nina, quella a chiedere il trasferimento dalla squadra di Levi a quella di Sankov e se n’era pentita nell’esatto momento in cui Erwin aveva acconsentito, spostando Petra Ral nel gruppo della retroguardia e lei in quello dell’avanguardia. Era stata un’idea di Nina anche innescare la discussione che aveva avuto con Levi, a dirla tutta. Quello la fece sentire ancora peggio, tanto da voler accantonare l’argomento per il momento.

Ci mancavano solo i rimorsi di coscienza per concludere in bellezza quella giornata.

Aprì la porta della stanza in cui aveva dormito proprio il Caporale, quella in cui avevano discusso sottovoce, lanciandosi sguardi delusi in una gara di sensi di colpa che non definiva nessuno dei due. Il carattere dell’uomo era famoso ai più: non aveva una grande pazienza o pazienza alcuna e non si fermava di certo a ponderare troppo come metter giù una frase. Se Levi doveva dirle una cosa, gliela avrebbe detta diretto come aveva sempre fatto. Quella volta, però, aveva tergiversato troppo. L’aveva fatta arrabbiare e lei, esattamente come lui, non aveva avuto il garbo di fermarsi e pensare prima di parlare.

La scusa a cui aveva addotto con suo fratello, in sede privata, era stata che nelle retrovie era sprecata: gli uomini dell’esplorativa di prima linea avevano più bisogno di un dottore. Erwin di certo non l’aveva bevuta, perché che una squadra fosse avanti o indietro, rimaneva sempre scoperta su tre lati.

Non ci voleva un genio militare per capirlo.

Aveva però accettato il trasferimento, con la promessa che ne avrebbero parlato al suo rientro. Aveva temuto così tanto quella conversazione che non aveva pensato ad altro, fino all’attacco.

Più andava avanti a rimuginare, più si rendeva conto di essere una completa cretina.

Avrebbe preferito cento conversazioni imbarazzanti con Erwin, che oltre essere suo fratello maggiore era anche il suo superiore diretto, piuttosto che quella situazione gettata alle ortiche.

Andò a sedersi sul letto, sospirando e lanciando un veloce sguardo alla finestra. Per precauzione sarebbe stato meglio tirare le tende. Ogni pensiero coerente però venne meno, nel momento in cui notò cosa c’era, sotto a quella finestra.

Sgranò gli occhi, incredula, prima di alzarsi, andando ad inginocchiarsi sulle tavole di legno marcio, di fronte a quella che sembrava una scorta  per la sopravvivenza di fortuna, arrangiata in fretta.

Davanti a lei c’era un’intera attrezzatura per lo spostamento tridimensionale, quattro bombole che a logica dovevano essere piene, due borracce, quattro mele, un sacchetto che si rivelò essere pieno di farinata d’avena, una pagnotta di pane, del formaggio stagionato accanto a quella che aveva tutta l’aria di essere della carne essiccata, una bussola,  una cartina della zona – oggetto estremamente prezioso- e una divisa pulita.

Nina prese in mano la giacca, controllandone il contrassegno dentro al colletto e notando che apparteneva al Capo Squadra Hanji. C’era anche il suo kit medico di scorta, integro e perfettamente conservato. Vi appoggiò una mano sopra, prima di notare che, dietro al sacchetto della farinata c’era dell’altro. Un barattolo e un foglio strappato malamente da un quaderno, con scarabocchiata qualche parola. A Nina mancò un battito, quando realizzò che quella scrittura la conosceva molto bene, perché aveva corretto tanti rapporti scritti da quella mano.

Questo è tutto quello che sono riuscito a mettere insieme nel breve tempo che ho avuto. Erwin è fuori di sé e ha deciso di rimettere in marcia la Legione subito. Non muoverti, non fare niente di stupido e dilaziona il cibo. Non avventurarti troppo lontano per cacciare, fruga nelle case qua attorno. Troverò il modo di tornare il prima possibile. Mi dispiace per tutto. L.

La lesse due volte e a metà della terza, con gli occhi pieni di lacrime, lasciò cadere a terra il foglio. Aprì il barattolo, costatando che non si era sbagliata. Era pieno di miele. La mano le tremò, mentre immergeva l’indice dentro a quella pasta dolce, portandolo poi alle labbra per assaggiarlo. Una lacrima le rigò il viso, ma non riuscì a non sorridere pallidamente.

Non era semplicemente miele. Erano ricordi.

‘Appoggia quel barattolo o ti verrà un culo così grosso che nemmeno legando insieme due cavalli potremo portarti in missione all’esterno.’

Erano poche le persone che sapevano quanto fosse golosa di dolci e Levi era fra loro. Le retate in cucina, durante la preparazione dei pasti, passate a parlare con il cadetto Nolan, nel patetico tentativo di distrarlo per rubare anche solo un cucchiaio di miele erano diventate oggetto di prese in giro, soprattutto da parte di Ed e Nick che-

Ed e Nick, che erano morti.

Li aveva visto morire entrambi, in un batter d’occhi. Erano stati amici per quattro anni nella legione e tre di addestramento… E lei li aveva visti cadere per difendere ciò in cui credevano.

Richiuse il barattolo, tenendolo fra le mani e osservandolo come se in esso avrebbe trovato un senso all’andare avanti. Quello però era solo un simbolo.

Nick, Ed, Erwin, Levi….

“Non devo arrendermi.” Sussurrò a se stessa, perché solo dicendolo l’avrebbe reso vero. Guardò di nuovo le provviste e si asciugò la guancia con il dorso della mano, adesso più decisa “E non mi arrenderò.”

Poteva farcela, doveva solo resistere.

Per coloro che erano morti, ma soprattutto per coloro che erano ancora vivi.

 

 

I'm coming up only to hold you under

And coming up only to show you're wrong

 

 

 

Anno 844

Poco dopo l’arruolamento di Farlan, Isabel e Levi.

 

 

 

“I tuoi occhi sono diversi.”

Quella che suonò come un’affermazione incerta più che una vera e propria domanda, andò ad infrangere il silenzio pacato nel quale l’infermeria era caduta. Nina alzò lo sguardo, incontrando quello di Farlan. Tirò istintivamente indietro il capo quando notò quando vicino fosse il viso  dell’altro in quel momento.

“E il battito del tuo cuore è regolare.” Confermò a sua volta la bionda, andando a segnarsi un paio di appunti sul quaderno appoggiato sullo stesso tavolo su cui aveva fatto sedere il ragazzo, ormai quasi mezzora prima. Gli aveva fatto levare tutto eccetto i pantaloni e aveva iniziato la visita medica, che al contrario dell’addestramento, non poteva essere saltata.

“Sono serio.” Insistette Farlan, mentre anche Isabel si avvicinava con cipiglio annoiato e le mani dietro al capo, indagando a sua volta “Uno è celeste come il cielo in una giornata d’estate, mentre l’altro è di un azzurro diverso, screziato di verde, come l’acqua del torrente che scorre dietro al castello.”

“Che poeta!” disse la ragazzina dai capelli rossi, tirandogli una gomitata nel costato e facendolo sobbalzare, mentre Nina ridacchiava divertita.

Quei tre, presi insieme, sapevano essere divertenti.

“Ha ragione però, i miei occhi sono leggermente diversi.” Aveva concordato la dottoressa, prendendo un paio di aghi e appoggiandoli sul lettino.

Farlan si zittì e sbiancò al solo vederli, mentre Isabel invece sembrava abbastanza presa dalla discussione “Vedi bene con entrambi? Magari da uno vedi peggio?”

Nina le sorrise, scuotendo il capo “No, non c’è cambiamento da un occhio all’altro. Sono semplicemente nata così e non sono in molti a notarlo ,dopotutto.”

“Ehm, dottoressa?” Farlan richiese di nuovo attenzioni e quando Nina notò il cambio di colorito, le venne di nuovo da ridere “Quelli a cosa servono?”

“A niente di mortale.” Rispose lei, mettendo avanti le mani e prendendo il primo ago, mentre con l’altra mano costringeva il ragazzo a stendere il braccio “Serve per provocare un piccolissimo salasso.”

Se possibile, Farlan sbiancò ancora di più, ritraendo istintivamente l’arto “Un salasso? Non è quella cosa oscena che fate voi segaossa quando volete far stare peggio un malato??”

Isabel sbuffò una risata sardonica “Coniglio” gli disse, prima di alzarsi la manica per mostrare fieramente una porzione di braccio coperta dalla garza bianca “Anche io me lo sono fatta fare, senza storie!”

“Non capirò mai a cosa serve.” La voce di Levi, che se ne stava appoggiato alla parete alle spalle di Nina, fece voltare tutti nella sua direzione. Era rimasto in silenzio per così tanto che lei si era dimenticata addirittura della sua presenza.

“A niente.”

Farlan guardò stupito la bionda perché quella risposta non era nemmeno lontanamente soddisfacente. “A niente?” rilanciò infatti, mentre lei gli legava il budello di un maiale attorno al braccio e batteva piano due dita appena sotto alla piega del gomito, per far risaltare le vene. Prese quindi dalla sua borsa un coltellino dalla lama piccola e molto affilata, sorridendogli incoraggiante.

“Il dottor Renson vuole vedere se i vostri umori sono bilanciati.” Veloce, tagliò  il braccio del ragazzo che sobbalzò stupito e inserì l’ago largo nella ferita piccola ma precisa, prendendo poi una piccola ciotolina nel quale poterlo raccogliere “Se devi svenire, fanno in avanti. Se cadi all’indietro, non posso garantirti di prenderti in tempo, sei troppo alto.”

“I miei umori stavano benissimo prima di questo.” Le fece sapere il biondo, prima di prendere un respiro e iniziare a fissare il muro di fronte a sé. Una volta fatto, Nina gli fasciò la ferita e premette su di essa per far cessare la fuoriuscita. Una volta fatto, e gli permise di rivestirsi.

“Non credo nel salasso o nella teoria degli umori, che sta alla base degli studi che vengono impartiti da qualsiasi cerusico di città. Li trovo utili tanto quanto il letame sulle ferite purulente o l’olio per cacciare il malocchio. Però questa è la prassi e io qui valgo meno del tavolo su cui vi visito.” Gli rivelò mentre si infilava la camicia, senza ancora la minima traccia di colore sul suo viso. Sarebbe rimasto così tutto il giorno, di quel passo, così gli passò un biscotto che teneva nascosto in un piccolo sacchettino “Mangialo, ti farà sentire meglio.”

“Un biscotto? Ci vorrebbe un cinghiale intero per farmi sentire meglio.”

Nina scosse il capo senza nascondere tutto il divertimento che quella scena gli stava regalando. “Quando ti senti debole devi sempre mangiare qualcosa di dolce. Non chiedermi il motivo, ma è così. Senza contare che Nolan è particolarmente bravo con forno.” Prese in mano il quaderno e segnò un paio di appunti con il carboncino. Avrebbe stilato un rapporto ordinato solo in seguito. Una volta finito di segnare tutto ciò che il protocollo esigeva, alzò gli occhi verso Levi, che sembrava parecchio disinteressato. Come sempre. “Avanti il prossimo” gli disse, cercando di suonare allegra per compensare.

L’uomo avanzò, aprendosi la camicia e abbandonandola su una sedia insieme alla giacca. Nina si permise di guardarlo per bene, perché in fondo quello era il suo lavoro. L’aveva fatto anche con Farlan, poco prima.

“Nome e cognome.” Disse a voce alta, segnando già qualcosa sul margine sinistro.

L’uomo non collaborò, “Levi.”

Dalle sue labbra non uscì altro.

“Levi come?

“Levi e basta.”

La dottoressa rimase a fissarlo in attesa per diversi secondi, mentre alle loro spalle, i due compagni di avventura del moro passavano gli occhi da una all’altro con un discreto interesse. Non c’era però spirito di partecipazione, perché il cognome non uscì e Nina, giusto per preservarsi da eventuali sfuriate di Renson, segnò per davvero Levi E Basta come nome della nuova e riottosa recluta.  

Prese il metro e si abbassò “Alza il piede” ordinò, poco prima di tirandosi di nuovo diritta, controllando l’altezza precisa. A diciassette anni già gli mangiava in testa e Nina sapeva che sarebbe cresciuta ancora di qualche centimetro, andando a staccarlo di parecchio “Un metro e cinquantanove. Forse sessanta. Segno sessanta.” Ritirò il metro, prendendo anche quell’appunto “Sei parecchio basso per un uomo con la  tua grinta.”

“Tu invece parli troppo, fai più rumore di un gruppo di galline.”

Nina alzò un sopracciglio, “Ferisce di più una spada.” Confermò, spiazzandolo leggermente per la semplicità con cui glielo disse. Senza la minima preoccupazione o stizza. Stava continuando a divertirsi. Con i soldati di solito era facile. Facevano tutto quello che lei chiedeva, alle volte svenivano per il prelievo, ma non parlavo se non interpellati.

Quei tre non erano soldati. Erano criminali dei bassifondi della Capitale.

Agli occhi di Nina, quindi, erano affascinanti da osservare. Erano una novità.

Terminò tutte le procedure e Levi non fece una piega al prelievo. La sola cosa che domandò era se il coltello fosse pulito.

“Ovviamente lo è, ne uso uno diverso per ogni persona e poi li metto a bagno nell’aceto.”

“Lo spero per te, cretina.”

Nina sbuffò una mezza risata, finendo di fasciargli la ferita per poi prendere il quaderno e andare verso la scrivania “Sei troppo piccolo per contenere tutta questa cattiveria. L’aceto ce l’hai nelle vene.”

Levi si allacciò la camicia, non spostando gli occhi da lei “Cosa dovrei fare per offenderti? Non capisci quando una persona ti insulta?”

La dottoressa prese dei fogli bianchi, la penna d’oca e l’inchiostro, prima di guardarlo pensierosa “Lo capisco, ma non mi tange molto il pensiero di uno come te.”

Non c’era molta ostilità nei loro sguardi. La loro era più una sfida a chi avrebbe parlato in seguito, a chi si sarebbe spinto oltre e a chi invece avrebbe lasciato perdere quella battaglia per portare avanti la guerra.

Quando Levi si infilò la giacca e si avviò all’uscita “Stupida ragazzina” fu il solo commento che si lasciò alle spalle, quasi come se non volesse abbassarsi al suo livello.  

Nina sapeva che aveva fatto qualche punto, ma che era molto lontana dalla vittoria “Ci vediamo a cena, Levi e Basta.” Gli disse dietro, scuotendo poi il capo mentre lanciava uno sguardo agli altri due ragazzi “Potete andare. Se non avete niente da fare credo che possiate ritirarvi a riposare.”

Isabel non disse niente, si sbrigò a seguire il moro. Farlan, invece, si avvicinò alla scrivania, con le mani dietro alla schiena. Nina alzò gli occhi su di lui, “Posso fare altro per te, Church?”

“A dire il vero, mi stavo solo chiedendo se potevo avere un altro di quei biscotti.” Chiese, quasi timidamente “Mi ha fatto sentire meglio per davvero!”

 

“Ti fidi di loro?”

Nina alzò lo sguardo dalla scacchiera, puntandolo in quello limpido di Erwin. Era sempre stato particolarmente pragmatico, ma con gli anni continuava a peggiorare. Lei era assolutamente certa che il problema risiedesse nel fatto che lui, nella sua testa, fosse pieno di congetture e teorie che però teneva per sé.

Nonostante questo, non si esentava dal chiedere pareri alle persone attorno a lui, ovviamente ignare, “Mi fido di te” rilanciò la ragazza, mandando avanti la torre e mangiando il cavallo bianco, prima di incrociare le mani sotto al mento.

Erwin però non fece la sua mossa. La guardò attentamente e attese che lei ricambiasse lo sguardo, prima di parlare nuovamente “Io non ho mai detto di fidarmi di loro. Ho detto che saranno fondamentali per i progetti futuri che ho in mente, ma la fiducia è tutta un’altra storia.”

Quella frase, messa giù a quel modo, la fece riflettere. Assottigliò lo sguardo, iniziando a capire dove volesse andare a parare il Capitano Smith.

Non si fidava di loro, ma li aveva inseriti fra le loro fila. Non era stupido, doveva avere qualcosa in mente, quindi non restava altro se non assecondarlo, anche se sotto c’era qualcosa che lei non sapeva ancora.

Lo guardò fare la sua mossa, prima di chiedere la sola cosa che l’altro si aspettava in quel momento “Cosa vuoi che faccia?”

L’alfiere nero si avvicinò pericolosamente al re bianco.

“Ho un lavoro per te, ma dovrai stare attenta. Se ho ragione, potrebbero anche ucciderti se dovessero venirlo a sapere.”

E le diede scacco matto.

 

Il dormitorio femminile delle reclute  era più grande di quello maschile e, da quanto Levi era arrivato, anche molto più caotico e disordinato. Era la sola cosa che sembrava rallegrare Flagon, il fatto che quanto meno fossero ordinati.

Nonostante la differenza di spazio, però, il numero delle occupanti era minore, perché solitamente c’erano più uomini che si univano al corpo, rispetto alle donne. Per questo motivo, i letti a castello erano occupati per lo più in modo non continuo e Isabel Magnolia ne aveva approfittato per andare a sistemarsi nel letto di sopra, prima fila, vicino alla porta.

La posizione offriva i suoi vantaggi, come per esempio defilarsi nel cuore della notte senza destare sospetto, visto che sapeva essere molto silenziosa.

Sarebbe andata bene anche quella sera, se solo Nina non si fosse ritrovata in prima linea con l’intenzione di non tirarsi indietro. Lasciò uscire la rossa, fingendo di dormire nel suo letto, disposto nella parete opposta alla porta, prima di buttare all’aria la coperta di lana, scendendo dal letto con un saltello silenzioso. Non si era cambiata per la notte, addosso aveva ancora i vestiti che aveva usato durante la giornata e le cinghie, che iniziavano a darle non poco fastidio. Prese l’attrezzatura per lo spostamento tridimensionale, che suo fratello le aveva permesso di tenere e il foglio con la delibera dello stesso capitano in caso un superiore l’avesse beccata e avesse fatto storie, indossandola senza però prendere ne la giacca ne il mantello. Aprì solo la finestra, attenta a non svegliare le compagne di camerata e uscì dalla finestra, ancorandosi con un solo lato delle funi alla parete. Iniziò a farsi calare, scendendo lentamente e seguendo con gli occhi Isabel che percorreva le scalinate verso il portone. Quando la ragazza uscì dal castello, diretta alle stalle, non si accorse che sulla sua testa, la bionda la osservava con entrambi i piedi appoggiati alla parete verticale e le braccia incrociate sotto al seno.

Sospetto…” sussurrò fra sé e sé Nina, scendendo con una capovolta elegante e andando a nascondersi dietro una delle siepi, mentre la guardava entrare “E molto stupido. Avrebbe dovuto controllare anche sopra di sé e non solo ai lati. Così come io non dovrei parlare da sola.”

Non pretendeva di essere perfetta, era un medico e non una spia, ma le basi doveva conoscerle. Se no Erwin non avrebbe chiesto a lei.

Decise di avvicinarsi a piedi per evitare di farsi sentire usando il dispositivo e andò dietro al fabbricato dei box, camminando bassa per non farsi vedere. Si mise sotto una delle finestre quando sentì le voci dei tre giovani, attenta a non urtare il muro con le bombole, cosa che rischiò per ben due volte di fare prima di decidere di inginocchiarsi con la spalla contro al muro.

“-per non parlare del fatto che qui siamo controllati ventiquattro ore su ventiquattro, Levi. Se si deve fare, si deve fare in un momento in cui non siamo circondati dai membri della Legione.”

La voce di Farlan era leggermente più alta di quella di Levi, infatti Nina non colse la risposta del moro nonostante stesse praticamente trattenendo il respiro per non perdersi nemmeno una battuta.

Era lampante che però qualcosa bolliva in pentola, ormai aveva trovato un riscontro nei timori di Erwin. Nina appoggiò il ginocchio a terra per avere equilibrio e portò una ciocca mossa dei lunghi capelli color grano dietro all’orecchio, allungando il capo per vedere dove si trovassero i ragazzi. Trasalì quando vide la schiena di Levi direttamente di fronte a sé. Doveva essersi appena spostato lì, appoggiato alla finestra.

Ora non poteva spostarsi o l’avrebbe sentita. Se si fosse voltato verso l’esterno, l’avrebbe vista.

La prima missione ufficiosa che le veniva affidata e finiva già così? Tornò ad abbassarsi lentamente, decidendo che non valeva la pena fasciarsi già la testa prima di essersela rotta. O di essersela fatta rompere.

“Dovremmo aspettare la prima missione esplorativa? Potrebbero volerti mesi, Farlan.”

Un mugolio contrariato uscì dalle labbra di Isabel, mentre il ragazzo alto rispondeva a quella domanda di Levi “Secondo me è la cosa più saggia. Quando verrà il momento, basterà prenderlo da solo e cercare addosso a lui i documenti. Daremo la colpa ai giganti, dal momento che questo piano ci porterà alla necessità di…. Doverlo uccidere.”

“Avremmo dovuto farlo comunque.” Nina strinse la mano in un pugno, mentre Isabel parlava con il solito tono sfacciato “Non sarà troppo difficile. Se lo accerchiamo insieme, non avrà scampo contro noi tre.”

Una brutta sensazione le nacque alla bocca dello stomaco. Sensazione che trovò presto un riscontro.

“Ucciderò io Erwin Smith. Poi torneremo per primi a Trost e diremo che il resto della squadra è disperso. A quel punto basterà levarsi dai piedi e portare i documenti a Lobov, che ci darà i nostri permessi di soggiorno per la superficie.”

“Il nostro nuovo inizio.” La voce sognante di Farlan  valeva più di mille commenti a riguardo, Nina doveva riconoscerlo.

Incredibile come in sole tre battute, avesse tutto ciò che le serviva.

Non sapeva cosa provare, se non un misto di disgusto, ma allo stesso tempo, una leggera consapevolezza che non poteva però concretizzare. Era troppo personale, per lei.

Sentì Levi scostarsi con i fianchi dalla finestra “Ci rifaremo una vita da qualche parte, magari nel Wall Rose, dove non verranno a cercarci e a quel punto, solo a quel punto, capiremo che ne sarà valsa la pena.”

“A che prezzo, però?” Farlan fece un passo verso di lui, improvvisamente dubbioso “Queste persone…. Loro inseguono un obiettivo nobile. Non so perché, ma li rispetto.”

“Uccideremo solo uno di loro, non sarà un così grande dramma. Dopotutto rischia già di morire ogni volta che cavalca oltre le mura.” Levi gli diede le spalle, appoggiandosi con le mani al davanzale della finestra e guardando verso la luna “Con Erwin morto e quei documenti nelle nostre mani, non cambieremo comunque il destino di questo gruppo di illusi speranzosi. Non lo sanno nemmeno loro cosa stanno cercando, noi sì. Questo mi basta per andare avanti.”

Oltre quella finestra c’era un mondo che lui avrebbe esplorato, con il vento e il sole ad accompagnare le sue giornate senza filtri e senza oscurità. Se questo era egoista, allora, non gli importava.

Se ne fregava dell’altruismo dal momento che quelle persone non potevano capire cosa significasse vivere in un buco schifoso per tutta la vita. Abbassò gli occhi sul terreno, prima di rientrare nella stalla.

La sua sensazione era errata, non c’era nessuno sotto quel davanzale.

 

Così come molti membri della Legione esplorativa – per non dire tutti- non era raro che Erwin Smith non riuscisse a trovare riposo. Era notte fonda, ma lui non aveva ancora completato quel rapporto dettagliato da presentare come domanda per la nuova formazione di avvistamento sulle lunghe distanze sul quale stava lavorando incessantemente da un paio di settimane.

Era diventato il suo nuovo chiodo fisso, quel tarlo che se non portato a compimento, lo avrebbe consumato. Per questo, nonostante l’ora tarda e gli occhi che iniziavano ad incrociarsi sul foglio, resisteva e disegnava formazioni su formazioni, cercando la collocazione giusta per ogni squadra e, soprattutto, dividendo ogni squadra nel modo più equilibrato possibile.

Stava giusto rivedendo il gruppo numero quattro, ala destra, seconda fila quando qualcuno bussò. Non contro la porta però, ma alle sue spalle, al vetro della finestra.

Si voltò sorpreso, vedendo sua sorella che muoveva la mano quasi timidamente, indicando poi la maniglia della finestra per chiedergli di aprirle. Lui si alzò, aiutandola poi ad entrare dalla finestra, “Spero che tu non stia usando le attrezzature per spiare i ragazzi.” La prese in giro, incrociando le braccia sul busto.

Nina aveva la stessa espressione che aveva sempre avuto da bambina, quando veniva sorpresa in fragranza di reato e non aveva intenzione di dire la verità. La differenza, però, stava nel fatto che non avrebbe mentito.

Solo non le piaceva quella verità.

Erwin…” lo chiamò con un filo di voce, quasi imbarazzata, prima di andare verso la sedia, di fronte alla scrivania “Siediti.” Gli intimò, sganciandosi l’attrezzatura per lo spostamento 3d e prendendo a sua volta posto.

Lui la guardò attentamente, imitandola e congiungendo le mani sotto al mento “Non mi dirai che hai già informazioni, vero?”

Erano passati solo due giorni da quando le aveva chiesto di tenere controllati quei tre.

“Sono stata brava e attenta.” Quando la conferma arrivò, il biondo assottigliò appena lo sguardo. Nina non fece altro se non prendere un bel respiro.

“Sono tutto orecchie.”

Nei cinque minuti che seguirono, lei non lasciò da parte nemmeno il più piccolo dettaglio. Raccontò di come aveva seguito Isabel, della stalla e di ciò che si erano detti a partire da questa storia dei ‘documenti’ che un certo Lobov aveva richiesto loro e della sua eventuale condanna a morte.

“Hai le loro spade a penderti sul collo.” Concluse infine la ragazza, passandosi una mano sulla nuca mentre con l’altro braccio si teneva appoggiata alla scrivania. “Come intendi procedere? Insomma, se questo Lobov è chi penso che sia, è una persona molto influente.”

Si aspettava che lui la invitasse a starne fuori, perché era non solo una recluta al suo secondo anno nella Legione, ma anche perché era sua sorella e non intendeva metterla in mezzo. Invece, Erwin decise di stupirla, cosa nella quale era sempre stato incredibilmente bravo. Aveva un talento per lasciare le persone a bocca aperta.

“C’è un motivo se li ho presi con noi, Nina. Voglio che gli eventi continuino a svilupparsi esattamente in questa direzione.”

La giovane sgranò gli occhi, socchiudendo le labbra “Tu lo sapevi?”

L’uomo annuì “Non trovi strano che ci mandino a indagare su un trio di teppistelli dei bassifondi proprio ora che mi sono procurato i fondi per la ricerca? Ho capito che questa storia puzzava di marcio da subito, ma quando li ho visti…. Quando ho visto Levi, come si muoveva, come combatteva, allora ho capito tutto.” fece una pausa, sicuro di non aver chiarito di molto le idee di Nina. Si sporse verso di lei, allungando le mani e appoggiandole vicino alle sue, prima di proseguire “Un uomo che non ha niente da perdere, non ha nemmeno niente che non rischierebbe.”

“Per lascia passare per la superficie. Per un nuovo inizio.” Nina ripeté le esatte parole che Farlan aveva usato, prima di abbassare gli occhi sulle mani di Erwin, che prese fra le sue. Si ritrovò molto stupita da quel gesto. Erwin non era mai stato un uomo particolarmente affettuoso e poteva contare su le dita di una mano gli abbracci che le aveva concesso in diciassette anni di vita. Guardò quelle mani, grandi e ruvide, in contrasto con le sue dalle dita lunghe, esili e lisce.

Abbozzò un sorriso un po’ triste “Assurdo.” Sussurrò piano, incapace di alzare gli occhi in quelli di Erwin. Si sentiva ingenua. “Mi iniziavano a stare davvero simpatici, sai? Non è più possibile avere fiducia in nessuno. Ogni persona che incontriamo potrebbe essere un nemico?”

L’uomo strinse le mani attorno alle sue, costringendola a rialzare lo sguardo per avere una risposta “Tutti coloro che non sono noi, sono nemici. Almeno, lo sono fino a prova contraria.” Il tono con cui parlò era sì rassicurante, ma non molto incoraggiante. “So a cosa stai pensando e non posso dissuaderti: tienili d’occhio, se vuoi.”

“Pensavo di cercare di far loro cambiare idea, piuttosto. Come hai detto tu, sono solo persone disperate che vogliono vivere libere.”

Erwin sorrise, ma fu un sorriso amaro “Noi non siamo liberi tanto quanto non lo sono loro. Abbiamo solo il cielo aperto sulla testa, ma pesanti mura come un recinto tutte attorno.”

“Lo siamo invece. Possiamo decidere come morire, almeno. Queste sono le vere ali della libertà.”

Si scambiarono una lunga occhiata e, alla fine, Erwin ritirò le mani “Fa ciò che ritieni giusto, ma fallo con la testa. Ti uccideranno, se dovessero scoprirti.”

Nina si alzò, sentendo che la conversazione andava spegnendosi. Appoggiò l’attrezzatura sul tavolo e portò un braccio dietro alla schiena, appoggiando il pugno sul cuore. “Farò quanto in mio potere, Capitano.”

Lui sorrise più disteso, recuperando il pennino “So che lo farai. Va a dormire.”

“Vacci anche tu, signore.” Concluse Nina, scambiando un ultimo sorriso divertito con il fratello, prima di lasciare la stanza. Nel corridoio, si ritrovò a fissare la porta per qualche secondo, immobile.

Con la mano ancora sulla maniglia, tornò a distendere le spalle che si erano irrigidite, poi alzò il capo e si avviò verso le scale, per raggiungere la camerata delle donne.

“Ciao, Levi.” Disse con tono disteso, iniziando a salire qualche gradino mentre gli occhi vagavano lungo il corridoio.

Da dietro uno degli angoli, una figura ammantata di verde si mostrò, con le braccia incrociate sul petto e lo sguardo attento. “Tardi per una scampagnata.”

Un sorrisetto si dipinse sulle labbra della bionda “Che posso dire, le partite a scacchi mi conciliano il sonno. Dovremmo provare a farne una insieme una di queste sere. Buonanotte, Levi e basta.”

“Buonanotte, ragazzina.”

 

Doveva essere brava.

Doveva stare attenta.

Però doveva anche provare a fare qualcosa.

 

 

 

Nda.

Ho deciso di fare un capitolo più lungo, visto che può di una persona mi aveva fatto notare che erano un po’ brevi.

Spero di non aver annoiato nessuno!

 

Non ho molti appunti, questa volta.

Spreco un paio di parole sulla medicina medievale, sottolineando che Nina non è né una innovatrice né una luminare; tanti medici e soprattutto tanti frati hanno lasciato testimonianze scritte sul quanto trovassero inutile la pratica del salasso e la teoria degli umori. Per non parlare dello sterco, bleah.

Non ci vuole un laureato in medicina per capire che certe cose non fanno bene, insomma.

 

L’argomento medicina verrà toccato molte altre volte, quindi non mi dilungo troppo.

 

Ringrazio le due ragazze che hanno recensito, siete preziose** Spero di non avervi deluse.

 

Il prossimo capitolo sarà tutto dal punto di vista di Levi, quindi non vogliatemene se ci metterò un po’ a scriverlo. Non voglio mandarlo OOC!

 

Vi ringrazio di aver letto sino a qui, a presto!

C.L.

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Capitolo 4
*** Capitolo Terzo ***


11

 

 

Wenn die Sterne leuchten.

 

 

 

 

Capitolo Terzo.

 

Touch my mouth and hold my tongue

I'll never be your chosen one

I'll be home, safely tucked away

You can't tempt me if I don't see the day

https://www.youtube.com/watch?v=4W9l8ePxH28

 

 

 

Anno 846

Baluardo della Legione Ricognitiva nelle regioni a sud del Wall Rose.

 

 

 

“La squadra del Caporale Levi ha fatto ritorno!”

Molbit aveva rischiato il collasso per quella corsa e, come ricompensa, si era anche visto snobbato da Hanji che, uscendo dalla tenda nella quale era rimasta tutta la notte in ansia, l’aveva ignorato platealmente e lasciato lì ad ansare.

La donna si affrettò a scendere lungo il crinale del paesello, accelerando l’andamento quando riconobbe il gruppo della retroguardia tornare incolume, con tutti i membri al completo.

Ma con nessuno in più.

“Non li avete trovati, vero?” chiese sconsolata, mentre Levi, tirava le redini del cavallo indietro, deciso a non smontare.

“No.” Fu la sua risposta secca  a quella domanda tristemente ovvia, facendo cenno ai suoi uomini che potevano andare. Non li avrebbe portati con sé di nuovo. 

“Abbiamo girato tutta la notte fino a che non abbiamo esaurito l’olio delle lampade, poi ci siamo fermati ad aspettare l’alba nel punto esatto in cui l’avanguardia sarebbe dovuta arrivare prima di fare ritorno.” Fu la risposta un po’ più dettagliata di Ginter, che  portò una mano alla base della schiena, dolente per il tanto cavalcare.

Petra Ral, che di tutti quei tecnicismi ancora non era pratica essendo alla sua prima missione, strinse più forte le redini del cavallo “Secondo il Caporale, nessuno è passato di lì da molto tempo, Capo Squadra Zoë.”

“Erwin?” Levi prese la parola con tono pretorio, attirando di nuovo gli occhi di Hanji su di sé. La donna, che stava ancora guardando verso Petra con l’espressione più sconsolata che poteva esternare, si voltò a guardarlo quasi interrogativa. “Muoviti, quattrocchi, sono di fretta!”

Lei si riscosse come da un sogno pieno di elucubrazioni, guardandolo con gli occhi appena sgranati. Quella si che era una bella domanda. “L’ho visto dirigersi verso ovest poco prima dell’alba. Lui, Nababa, Thoma e Mike. Non sono ancora tornati.”

Per il Comandante, attendere le prime luci del mattino e dare tutte le disposizioni nel caso in cui non fosse tornato, era stato difficile. Una squadra era sparita nel nulla, non avevano avvistato razzi di segnalazione e il fatto che nemmeno uno di loro avesse fatto ritorno lo aveva messo più che mai in allarme.

Quella era la squadra di sua sorella, la compostezza non era stata nemmeno vagamente contemplata.

Senza contare che anche il gruppo di Levi non aveva atteso ordini e, a una certa ora, si era lanciato nella ricerca.

“Ovest?” Domandò il Caporale, lanciando uno sguardo oltre la landa “Ottimo.”

“Levi! Aspetta! Non puoi andare da solo!” Hanji si mise di fronte alla cavalla nera del Caporale, che nitrì, sollevandosi di poco sulle zampe posteriori “Questa bestia è stremata e tu sei fuori di testa! Non posso permetterti di andare da solo!|”

“Levati di torno o ti passerò sopra!”

“Signore la ascolti!” lo pregò Petra Ral, sempre stringendo quelle briglie al punto da far sbiancare le nocche, mentre anche le ginocchia le tremavano.

Levi non la degnò nemmeno di una risposta, cercando di aggirare Hanji senza troppe cerimonie. Il grido di una vedetta lo fece rallentare, ma solo di poco.

“Il Comandante sta facendo ritorno!” sbraitò Ilianson, abbassando i binocoli e guardando alla volta dei due ufficiali. “Ha bisogno di sostegno!”

Levi non se lo fece ripetere, lanciò in cavallo al galoppo giù per la discesa, deciso ad andare loro incontro. Sentiva il cuore battere forte contro al petto, mentre si schiacciava contro al collo dell’animale per prendere più velocità. Girò attorno a un paio di case, lasciando la borgata in favore dello spazio aperto.

Di fronte a lui, quattro cavalli galoppavano nella sua direzione. Alle loro spalle, un dieci metri li inseguiva. Non c’era nessuno però sul cavallo con Erwin.

Non l’avevano trovata.

Spronò l’animale ad andare più forte, superando Erwin, che nemmeno per errore guardò verso il suo viso. Usando il corpo del gigante stesso come ancoraggio si sollevò, volando in aria per diversi metri prima di atterrare deciso sul mostro, tagliandogli la collottola con un taglio chirurgico, come ogni volta. La carcassa gigantesca cadde con un tonfo sordo, sollevando la polvere del campo e Levi andò giù con lei, saltando poco prima che potesse impattare il terreno. Atterrò sulle gambe, piegandole per evitare di stirarsi un muscolo e fischiò al cavallo, che tornò verso di lui immediatamente.

Con la mente già proiettata al territorio che rimaneva da setacciare, tornò verso il gruppo accampato nella piazzola della borgata. Non diede il tempo a nessuno di parlare, visto che attaccò direttamente non appena smontò dalla sella.

“Abbiamo pattugliato ovest e est, non ci resta che spingerci di più verso sud. Il torrente si ramifica, scendendo verso Shigashina. Se sono stati attaccati, Nina si sarà trovata un riparo su un albero o qualcosa di simile.” Sapeva cosa stava dicendo.

Certi schemi li avevano studiati insieme, a tavolino, certi che nonostante il fremere delle battaglie e l’angoscia della morte, ricordare la soluzione più furba sarebbe stato il modo migliore per levarsi da un impiccio.

La sua preparazione non venne colta, questa volta.

La mancanza di una risposta da parte dei compagni lo face incazzare.

“Allora?! Siete diventati stupidi, sordi o entrambe le cose?! Erwin ascoltami, dobbiamo-”

Levi non seppe cosa esattamente gli impedì di terminare la frase. Forse i volti di Nababa e Thoma oppure il modo in cui Mike fissava Erwin come per chiedergli il permesso di fare qualcosa. Forse, o quasi del tutto sicuramente, il fatto che il Comandante gli tenesse la schiena e non avesse ancora aperto bocca. Quando lo fece, però, ciò che disse riuscì in qualche modo a destabilizzarlo ancora di più. Tutto il suo autocontrollo, la sua statica apatia, si sgretolarono così come era successo due anni prima, in circostanze che sembravano differenti. O almeno lo sperava ancora.

“Raccogliete le provviste e le attrezzature. Pronti a partire per Trost tra trenta minuti.”

“Cosa?!”

Tornavano indietro.

Una squadra intera era dispersa da qualche parte e loro tornavano a casa? Nina era scomparsa chissà dove, sola e sicuramente in attesa che andassero a prenderla e loro dovevano ritirarsi con una settimana di anticipo?!

“Erwin, sei diventato pazzo all’improvviso?!” Levi sbraitò con tutto il fiato che aveva in gola, superando Mike che non fu abbastanza veloce da mettergli un freno e tirando il Comandante per il braccio, facendolo quasi barcollare per la forza che ci aveva messo.

Solo allora, finalmente, Erwin lo guardò e Levi se ne pentì immediatamente. Il suo volto era cereo, il suo sguardo, seppur impassibile, era spento.

Non gli disse niente.

Allungò solo verso il Caporale ciò che stringeva fra le mani, particolare che Levi si era lasciato sfuggire fino a quel momento. Una giacca beige, di rappresentanza della Legione. Era così tanto piena di sangue da essere rigida come una scatola e, esattamente come essa, nascondeva qualcosa al suo interno.

Levi non si mosse per qualche secondo, saggiandone il peso con espressione di sfida. Poi, con molta lentezza, sollevò i lembi della stoffa intrisa di liquido vermiglio rappreso. Una mano e una porzione quasi insignificante di avambraccio facevano bella mostra di loro, avvolti con cura fraterna.

Ackerman non si azzardò a commentare. Sollevò il colletto della giacca, guardando il contrassegno e costatando che sì, si trattava della giacca di Nina. Non fece una piega, però, mentre estraeva la mano e la guardava. Il suo viso si era disteso nuovamente in una maschera impenetrabile e, solo a quel punto, rialzò gli occhi su Erwin.

Si era dimenticato che non erano soli, visto il silenzio che era sceso, ma Thoma spezzò quella sorta di incanto in cui i due uomini erano caduti, non riuscendo però a portare su di sé lo sguardo di nessuno di loro “L’intera avanguardia è stata spazzata via. Abbiamo trovato più  o meno tutti, a pezzi. Non è prudente recuperare i corpi o le attrezzature, la zona pullula di giganti. Siamo riusciti a recuperare la giacca di Nina perché era vicino al limitare del bosco, poco lontano dal corpo di Sankov….”

“Devono averla attaccata mentre cercava di salvarlo.” Aggiunse Mike, con tono dimesso, abbassando il capo e scuotendolo piano “I resti non erano molto lontani di lì.”

Hanji, che era rimasta paralizzata dal dolore che quella consapevolezza aveva portato, riuscì a scrollarsi solo a quel punto e fece un paio di passi verso Levi. Non riuscì però ad appoggiargli una mano sulla spalla, perché lui le schiaffò il macabro avambraccio in mano, facendola sussultare.

“La teoria sarebbe inoppugnabile, se quella fosse davvero la mano di Nina.”

Erwin sembrò riscuotersi a quelle parole. Abbassò gli occhi azzurri sull’altro, mentre Mike sospirava come rassegnato. Nababa prese a sua volta la parola “Sappiamo che perdita sia per te. Lo è per tutti noi, Nina era un’amica prima di un medico e un membro della Legione. Ma posso assicurarti, dopo aver visto quel luogo, che nessuno sarebbe mai riuscito ad uscirne vivo.”

Il Caporale non le diede retta. Si avvicinò di più a Erwin, appoggiandogli la giacca intrisa di sangue contro al petto e spingendola, cercando così di ridestarlo “Non è la sua mano.” Ripeté, deciso. Se tutti pensavano che quello fosse un delirio di un folle, si sbagliavano di grosso. Levi era certo di quello che stava dicendo “Non possiamo andarcene, dobbiamo cercarla.”

Il Comandante lo ascoltò, certo, ma non corresse i suoi ordini. Fece per voltarsi e andare alla tenda, mostrando che no, non gli credeva.

Mostrando che aveva rinunciato a ogni speranza.

Non poteva accettarlo. “Cazzo, Erwin! Ascoltami!” Levi lo costrinse a rimanere voltato verso di lui. Improvvisamente avvertì il forte desiderio di prenderlo a calci nel culo da lì fino al luogo in cui era caduta l’avanguardia e ritorno “In questi due anni mi sono sempre fidato di te, non ho mai chiesto niente. Ora sei tu che devi fidarti di me, va bene? Quella non è la sua mano e quel sangue te lo posso giustificare in almeno dieci modi diversi perché, nel caso in cui tu non te lo ricordassi, tua sorella è un medico!”

“Ora basta!” la voce del Comandante tonò per tutta la borgata, facendo sussultare più di un cuore. Quella voce, fonte inesauribile di speranza e incitamento durante le numerose battaglie che combattevano fianco a fianco ogni volta che oltrepassavano le mura, ora veniva usata per zittirlo. “Questo è un ordine, Levi! Prenderai il tuo cavallo e i tuoi uomini e posizionati più avanti. Ora che abbiamo perso l’avanguardia mi servi lì.”

Stava delirando.

Nonostante giocasse all’impassibile, si vedeva che non era in sé.

Era un gioco che potevano giocare in due, però.

“Non rispetterò quest’ordine.”

“Allora ti giustizierò di fronte a tutti per aver disertato.”

Levi assottigliò gli occhi, che luccicarono colmi di ira. Abbassò ma mano sull’impugnatura della lama, come a sfidarlo “Puoi provarci. Sai benissimo come finirebbe per te e per coloro che proverebbero a mettersi in mezzo.”

Molte lame vennero sguainate. Levi era diventato un pericolo, perché che lo volesse o meno, quelle erano minacce e un tentativo sovversivo di non rispettare gli ordini del Comandante. Era pronto ad andare in fondo, non si sarebbe spostato di un metro.

Attese un qualsiasi gesto di Erwin, un ordine impartito a Mike che già teneva entrambe le armi in mano, ma fu Hanji a correre fra i due “Partiremo” disse, sorprendendo Levi che si aspettava di trovare almeno in lei un appoggio. “Non c’è bisogno di scaldarsi tanto” proseguì, agitando la mano mozzata e provocando la nausea in più di uno dei soldati “Partiremo, Erwin.”

Il biondo la ascoltò, poi guardò un ultima volta Levi ed entrò nella tenda. Tutti iniziarono a raccogliere le loro cose e a sellare i cavalli a riposo, mentre Levi se ne stava immobile come un cretino, al centro dello spiazzo, con ancora la mano sul comando del dispositivo. Rinvenne in fretta, pronto a farla pagare alla donna “Dovrei decapitarti!” le disse, estraendo la lama e puntandola contro al suo viso “Perché diamine ti sei messa in mezzo, deficiente di una quattrocchi?! Lo sai che cosa hai fatto?!”

Hanji non gli diede il tempo di fare niente. Appoggiò entrambe le mani sulle sue spalle dopo aver scansato la lama con uno schiaffo “Sei certo che questa mano non sia sua?”

Era così seria da zittire persino lui. Levi abbassò gli occhi un ultima volta sul di essa, guardandone le dita troppo corte e tozze. Era sicuramente una mano femminile, ma non era di Nina. Era pronto a giurarlo sulla sua stessa vita.

“Non è sua. Conosco ogni parte di lei e questa non è una di esse.” Fece una pausa e per un istante, la donna poté vedere la vulnerabilità nel suo sguardo, seppur celata dalla falsa supponenza “Cosa dovrei fare, adesso?”

Lei si sistemò gli occhiali sul naso, guardandolo con lo sguardo di chi ha già un piano ben delineato in testa“Dobbiamo sbrigarci.” Lanciò il resto in mano a Molbit, che sussultò e trasalì fissando l’arto con gli occhi sgranati “Trova del cibo, io mi occuperò dell’attrezzatura.”

 

Per quanto l’idea gli rivoltasse le budella, Levi doveva concordare che Hanji non era in torto quando sosteneva che andare contro il volere di un Erwin atterrito non un modo intelligente per aiutare Nina.

Non potevano rimanere lì, certo, ma potevano provare a farlo ragionare una volta tornati a Trost. Il punto era però che se Nina fosse stata davvero viva- e Levi di questo era certo come era certo che il sole sorgesse ad Est- allora dovevano metterla nella condizione di aspettare.

L’ipotesi di nascondere un cavallo era impossibile da prendere in considerazione. Erano contati e tenuti sempre sotto controllo dall’unità di approvvigionamento, la quale poteva chiudere un occhio su tutto il cibo che Levi aveva preso senza nemmeno premurarsi di spiegarne il motivo, ma non poteva giustificare la sparizione di una di quelle bestie. Per l’attrezzatura era tutt’altro discorso.  Ci avevano provato spesso a tener conto di quanto gas venisse prelevato e da chi, ma tra una cosa e l’altra e soprattutto l’atmosfera caotica che contraddistingueva quasi tutte le missioni, riempire quattro bombole e rubare l’attrezzatura da un morto, fu semplice.

“Il povero Tiger non la userà più in ogni caso.”

Levi alzò gli occhi su Hanji, mentre questa disponeva gli oggetti in terra, nella stanza che il Caporale aveva occupato in quei giorni. Tra le mani teneva un foglio di carta bianco e una matita di grafite e sembrava parecchio pensieroso.

Cosa scrivere alla persona alla quale tieni di più al mondo e che stai abbandonando a se stessa oltre le mura? Scelta difficile. Si inginocchiò accanto ad Hanji, la quale stava appoggiando la sua bussola insieme al resto delle cose che avrebbero lasciato a Nina. Poi voltò il capo verso Levi “Cosa ti fa essere così sicuro del fatto che lei non sia morta? Lo vediamo ogni giorno, qua fuori” non era mai stata così seria, nel rivolgersi a lui.

Il Caporale lo sentì, così per una volta le parlò francamente, “Se le fosse successo qualcosa lo sentirei e basta.”

Si scambiarono uno sguardo veloce e alla fine lei sorrise “Mi basta” fu la sola cosa che si sentì di aggiungere, prima di sfilarsi la giacca, appoggiandola a terra. Levi la imitò, sfilandosi la mantella  verde e piegandola con cura, prima di lasciarla sulla giacca di Hanji, la quale si stava assicurando la sua sulle spalle. Rimasero fermi, in silenzio, per diversi minuti.

Levi si sforzò di scrivere qualcosa di vagamente consolante – e lui faceva schifo a tirare su di morale le persone- poi appoggiò il biglietto sul vasetto, dietro alla farinata d’avena. “Detesta questa roba.” Sussurrò poi con tono basso, facendo voltare sorpresa Hanji verso di sé. Non ricambiò lo sguardo “La farinata, intendo. Quando mi ha chiesto di addestrarla così come ero stato addestrato io per diventare più forte, c’erano dei giorni in cui la colpivo così forte che non riusciva a masticare niente di solido senza sentire dolore. Così mangiava ciotole su ciotole di questa brodaglia schifosa.”

“Il compito di voi uomini è principalmente questo: terminare il cibo che non piace alla vostra donna. Oltre, naturalmente, ad aiutarla a diventare più forte.”

La sua donna. Levi non pensava quasi mai a Nina in quei termini.

Dire che le cose fra loro erano complicate era un eufemismo. Non erano complicate, no. La parola complicato è per le persone per bene che andavano in giro con un cappello a cilindro per la capitale e un bel farfallino sulla camicia appena inamidata. Poteva andare bene anche per gli adolescenti innamorati, che passano le giornate a sospirare rivolti a una finestra pensando all’amore di una ragazzina il cui padre non le permette di uscire. Non faceva per loro, però.

Le cose fra lui e Nina andavano di merda.

Levi nemmeno l’aveva capito il perché ed era abbastanza sicuro che nemmeno la bionda lo sapesse. Avevano giusto un’idea, ma la sua era diversa da quella della bionda. Non importava, ne avrebbero parlato appena l’avrebbe ritrovata.

Su questo punto non aveva nessuna remora. Era questione di tempo e sarebbe tornato a riprenderla.

Stava per alzarsi, quando dei passi per la stanza costrinsero sia lui che Hanji a voltare il capo. Mike avanzò verso di loro, annusando l’aria “Avete rubato della carne secca?”

“Se sei qui per fare il leccaculo con Erwin, prima dovrai impedirmi di spaccarti la faccia.” La voce del Caporale uscì bassa, come se stesse ringhiando.

Mike però non sembrava avere brutte intenzioni. La sola cosa che fece fu guardare gli oggetti in terra, prima di sogghignare leggermente con l’espressione di chi la sa lunga “Allora avevo ragione. Stavate preparando una piccola scorta. Sei davvero fiducioso che lei sia viva, piccolo coglione.”

Ackerman non lo degnò nemmeno di risposta, mentre si alzava. Misurò lo spazio fra loro a grandi passi, ma quando fu lì per sorpassarlo e uscire dalla stanza, Mike gli premette contro il petto qualcosa, facendogli fare un passo indietro. Poteva anche essere l’uomo più forte dell’umanità, certo, ma era un metro e sessanta per settantacinque chili, mentre l’altro di fronte a lui era un vero e proprio armadio, più alto del Comandante. La fisica era dalla sua parte, ma Levi non ne era intimorito. Avrebbe steso quel leccapiedi, se solo si fosse presentata l’occasione o l’avesse sfidato oltre.

Abbassò gli occhi su ciò che ora si ritrovava pressata contro al petto e afferrandola, capì di cosa di trattava prima ancora di spiegarne i fogli. Una mappa.

“Ho tracciato il percorso per tornare a Trost. Lasciala lì, potrebbe servirle se recupera un cavallo in qualche modo. Mi avevi convito prima della scenata, comunque.” Girò sui tacchi, lasciandolo lì in piedi a osservare la linea rossa tratteggiata sulla cartina. Non si evitò però un ultimo commento, prima di lasciarlo di nuovo solo con Hanji “Ti do un consiglio da quasi amico, Levi: non avere mai la presunzione di essere la sola persona al mondo a tenere a qualcuno.”

Il Caporale non gli rispose, ma non poté nascondere a se stesso che quelle parole avevano sortito un certo effetto.  Appoggiò la mappa col resto della scorta e osservò ciò che stavano lasciando.

Non si sentiva fiero o soddisfatto di sé, anzi, si sentiva una nullità.

Doveva però sottostare agli ordini, quindi aveva agito al meglio delle sue possibilità.

Pregò affinché Nina non l’avrebbe odiato.

“Andiamo ora, non c’è altro che possiamo fare.”

 

 

Crawl on my belly til the sun goes down

I'll never wear your broken crown

I took the rope and I fucked it all the way

In this twilight, how dare you speak of grace

 

 

 

 

Anno 844

Preparazione alla ventisettesima missione oltre le mura.

 

 

 

“Lei ti piace.”

Farlan, negli ultimi tempi, aveva questa mania di fare affermazioni che volevano sembrare decisive, ma che tendevano a suonare in modo insopportabile come delle domande.

Levi gli aveva lanciato uno sguardo ben poco amichevole, mentre cavalcava al suo fianco alla volta di Trost. Sarebbero partiti per la loro prima missione oltre le mura di lì a qualche giorno e Shadis aveva predisposto di spostare l’intera compagnia nella caserma della Legione nella città fortificata, al fine di ottimizzare i tempi di preparazione.

L’atmosfera era equamente suddivisa fra chi era spaventato e chi era rassegnato. Levi passava gli occhi su tutti loro, tenendo il suo viso coperto dalla solita aurea di menefreghismo nascosto dal cappuccio verde della mantella, cercando di ignorare insistentemente Farlan che non faceva altro che fissarlo con espressione di chi aveva capito tutto della vita.

Coglione.

“Andiamo” ci riprovò quello “Non c’è niente di male in una sana infatuazione.”

“Quella è una ragazzina, Farlan. Per te potrà anche non essere un problema, ma io non me la faccio con chi ha ancora il labbro sporco di latte.”

Il biondino sorrise maliziosamente, guardandolo con gli occhi scintillanti di divertimento, mentre lasciava perdere una battuta pessima che era affiorata nella sua mente alle parole dell’amico.

“Non è così piccola.” Farlan aveva proprio deciso di marciarci, su quella storia. “Senza contare che è brillante e dolce, sarebbe un bel cambiamento per uno a cui piacciono le puttane truccate con il seno fuori dal corsetto.”

Solo Farlan poteva concedersi il lusso di certe affermazioni senza ricevere una coltellata nello stomaco.

Levi gli lanciò lo stesso un’occhiata, storcendo leggermente il naso “Perché stai descrivendo i tuoi, di gusti? Sei tu quello che si è preso la cotta e cerchi di scaricarla a me?”

“La guardi sempre.” Calcando su quell’ultima parola, sperò di suscitare qualche emozione nell’altro. Invece niente, non disse assolutamente nulla, facendolo sospirare quasi scocciato “Sei così noioso…. Prima o poi ti aprirai anche con me, visto che sono anni che ti sopporto?”

Levi proseguì nel suo silenzio chiuso, chiedendosi però cosa intendesse davvero Farlan. Assottigliò lo sguardo, cercando proprio la giovane dottoressa e trovandone l’esile figura qualche metro più avanti. Cavalcava accanto a Isabel, che sembrava essersi lanciata nel racconto di una delle loro avventure nel ghetto. La studiò in silenzio per qualche istante, sicuro che mentre lui guardava lei, Farlan guardasse lui.

Seccante a dir poco.

Il profilo della giovane era pressoché perfetto; gli occhi grandi dai colori magnetici, l’incarnato chiaro, lunare e screziato dalle lentiggini rade che correvano lungo la dorsale del naso piccolo e diritto. Nina era oggettivamente bella come doveva esserlo anche Erwin e di fatto erano entrambi pieni di spasimanti pronti a fare qualsiasi cosa per uno sguardo o un cenno di assenso. I capelli di lei erano di un biondo freddo rispetto a quello del fratello e scendevano lungo le spalle, fino alla schiena in morbide onde.

Era più alta di lui e lo sarebbe stata ancora di più se avesse continuato a crescere. Era magra, in un modo sano con delle belle forme, che la divisa non valorizzava a dovere.

E aveva delle mani bellissime. Erano perfette, dalle dita lunghe e curate. Quelle erano state la prima cosa che Levi aveva notato di lei, mentre lo visitava. Aveva notato quello e il suo sguardo penetrante e leggermente ironico.

Non era mai fermato a studiarla così tanto come in quel momento e un po’ si chiese perché sapesse già tutto di lei.

Forse era vero.

Forse la guardava sempre.

Il motivo poteva essere molto meno nobile, però.

Levi non infatti aveva negato che la trovasse brillante. Forse troppo brillante.

I dubbi che lo attanagliavano erano troppi e iniziavano a diventare quasi pressanti. Un ulteriore conferma venne quando lei si accorse che la stava guardando. Forse sentì la nuca pruderle o il voltarsi nella sua direzione fu casuale, ma non appena gli occhi sottili di Levi incontrarono quelli espressivi di lei, Nina non riuscì a reggere quello sguardo, spostando il suo verso il basso.

Non c’erano poi così tanti dubbi, in fin dei conti.

Il moro accostò meglio il cavallo a quello dell’amico, facendogli cenno di farsi più vicino.

Gli occhi di Farlan brillano, aspettandosi chissà quale rivelazione, mentre Levi gli appoggiava una mano sulla testa per avvicinarla alla sua.

Non era però ciò che sperava di sentirsi dire.

“Lei sa. Lei sa tutto.”

 

Volendo evitare di creare allarmismi, decisero di tenere fra loro quella che infondo era solo una supposizione, lasciando Isabel all’oscuro.

Levi però promise di indagare meglio e se necessario, risolvere la faccenda nel modo più silenzioso possibile.

Non potevano parlarne nel mezzo della carovana di legionari, ma Farlan riuscì comunque a dirgli le sue preoccupazioni. La scomparsa di Nina Müller non sarebbe passata inosservata; quella di nessuno lo sarebbe stata, certo, ma quella della sorella di Erwin? Era rischioso.

Eppure non potevano permettersi di venire scoperti.

Se fosse saltata la missione, avrebbero atteso ancora o magari avrebbero approfittato dello scompiglio che si sarebbe venuto a creare e avrebbero fatto fuori anche il Capitano Erwin, impegnato nelle ricerche.

Il nuovo piano andava già delineandosi nonostante l’essenza di prove vere e proprie.

Forse era addirittura già deciso.

 

Levi non dovette aspettare molto per incontrarla da sola.

Nina aveva lasciato la caserma da sola la mattina successiva al loro arrivo. Scelta singolare, ma Trost era diventata una seconda casa per i membri della Legione e lei sembrava padrona di se stessa. Levi l’aveva tenuta d’occhio, seduto sul davanzale della finestra della sua camera, e ne aveva visto la figura leggera camminare lungo i gradini di pietra fino a raggiungere la strada.

Non ci aveva messo a decidere di seguirla.

Era l’occasione che aspettava.

“Nina!”

La guardò voltarsi nella sua direzione, stupita nel vederlo lì “Levi…” sussurrò di fatti, portando entrambe le mani sul petto, come se infondo il fatto di averlo riconosciuto non la mettesse del tutto a suo agio. Seguì i suoi movimenti verso di lei, “Come mai già in piedi?”

“Non dormo molto.” fu la risposta laconica dell’uomo, che la osservò da sotto i ciuffi neri che ricadevano sulla fronte. “Tu invece?”

“Io dormo fin troppo.” Gli sorrise, abbassando nuovamente gli occhi e muovendosi quasi istintivamente verso di lui. Non arretrava,  “Così quando mi sveglio da sola, cerco di rendere la giornata degna di essere vissuta.” Fece una pausa, alzando gli occhi in quelli dell’uomo prima di umettarsi le labbra, “Sto andando a comprare qualche benda per una scorta personale. Quelle che ci danno in dotazione sono di pessima fattura, perché sono le più economiche. Vanno bene per tagli e graffi, ma se devo fare delle amputazioni mi serve merce di prima scelta per evitare dissanguamenti. Vuoi…. Accompagnarmi?”

Levi annuì, prima di farle cenno con mento di fargli strada.

Si tenne sempre un paio di passi dietro di lei, ascoltandola parlare di procedure chirurgiche disgustose di cui sperò di non avere mai bisogno.

Se lui non parlava quasi per niente, lei non stava zitta un secondo. Forse era fatta così.

Magari era nervosa.

Altro punto a favore della teoria di Ackerman.

La lasciò fare, comunque, constatando come la tensione si fosse improvvisamente allentata nel momento in cui avevano raggiunto il mercato cittadino.

“Ti dispiace se facciamo una deviazione? Vorrei comprare qualche pianta medicinale.”

Di nuovo, Levi non rispose, accennando appena col capo che sì, poteva fare il cavolo che voleva.

Nina si avvicinò ad una bancarella, dove un uomo dall’aria bonacciona la salutò cordialmente “Dottoressa Müller! Qual buon vento!”

“Ciao Olaf.” Rispose lei, appoggiando le mani sul banchetto di legno e passando gli occhi improvvisamente avidi sui sacchetti di iuta contenenti le più disparate piante e odori. “Sto per partire per una missione e mi servono rifornimenti!”

“Sono qui per servirti, Nina” le disse bonario lui, facendo trasparire una certa confidenza con lei. Guardò incuriosito Levi, che notò solo a quel punto “Questo tuo amico?”

“Lui è Levi e basta.”  La giovane prese fra le mani i sacchettini che l’uomo le stava porgendo, beccandosi un’occhiata con tanto di sopracciglio alzato da parte dell’uomo alla sua destra “Arruolato da poco.”

“Che il cielo ti protegga, ragazzo.”

Anche volendolo, Ackerman non sapeva come rispondere alle parole dell’uomo, ma soprattutto al suo tono; erano dei morti che camminavano, certo, ma non c’era un grande appoggio dal resto della popolazione. Non doveva essere affatto divertente, come vita, vivere nel costante pensiero della morte che veniva addirittura ricordato da tutti.

Alla faccia dello spirito di sacrificio, tutto ciò era masochistico.

Spostò gli occhi su Nina che aveva iniziato a servirsi da sola, trovando curiosa la cura con cui sembrava dosare ad occhio ogni ingrediente “Cosa stai comprando?”

Lei sorrise, senza spostare l’attenzione dalla paletta con cui stava versando in uno dei sacchetti una polvere color giallo sabbia “Questa è essenza di bergamotto” rivelò, chiudendo il contenitore di carta marroncina e passandolo al mercante, che la appoggiò su una bilancia “Serve per lo più come disinfettante” quelle ultime parole catalizzarono l’attenzione dell’uomo, che addirittura si chinò per annusarne il profumo.

“Sa di limone.”

“C’è anche della scorza di limone lì dentro. Usato sulle ferite fa i miracoli.”

I limoni erano davvero rari, quella roba doveva costare molto.

Nina però era inarrestabile nei suoi acquisti,          “Questa invece è Malaleuca.” Levi prese fra le mani il rametto che lei gli porgeva, guardando il fiore bianco a capo di esso e le foglie che assomigliavano vagamente a rosmarino, ma non ne possedevano né l’odore né la rigidezza “Anche questa ha proprietà depurative e disinfettanti, ma è molto più potente.”
“La usi per le amputazioni?” chiese a quel punto lui con una velata punta di ironia, appoggiando nel sacchetto il ramo che andò a far compagnia a una dozzina di altri suoi simili. Anche quello venne passato ad Olaf.

“Sì anche.” Nina rise e Levi si ritrovò a pensare che avesse un che di musicale, “Questo invece è un composto brevettato dal nostro Olaf” fece l’occhiolino all’uomo che ridacchiò sotto ai baffoni grigi “a base di uva ursina, foglie di mirtillo rosso, teh nero e carote bollite. Serve per… Diciamo solo che certi soldati hanno qualche problema a livello intestinale, durante le missioni.” Nina lo guardò ovvia.

Levi prese la palla al balzo “Mi stai dicendo che se la fanno sotto?”

“Ripetutamente e dietro un cespuglio. Con questo cerco di evitare fuoriuscite da davanti o da dietro, anche se il gusto è pessimo. Senza offesa, Olaf.”

L’uomo prese il terzo sacchetto, “Deve funzionare, non essere buono.”

“Anche questo è vero” scostando i capelli da davanti al viso, Nina prese un po’ di un composto di un giallo più intenso in cui si intravedevano anche dei petali bianchi “Camomilla e tiglio per la febbre. Alle volte sale ai soldati per via di infezioni, ma anche la paura fa venire i malesseri. La maggior parte di queste erbe le userò per questo motivo.”

“Molto stupido ammalarsi per paura. Nessuno li ha costretti ad arruolarsi.”

Nina lo guardò un po’ divertita “Novellino” lo prese in giro, prima di prende un ultimo ingrediente “Cosa ne sai tu della vera paura? Tu che, a quanto mi ha detto Isabel, hai sempre affrontato tutto di petto?”

“La vera domanda è cosa ne sai tu di me, ragazzina.”

“Oh, ti ho offeso. Voglio farti un regalo di pace. Vedi queste radici?” Levi annuì, mentre lei gli sventolava sotto al naso una radice di un odore sgradevole “Valeriana. Ti servirà a dormire e a smettere di essere così insopportabile.”

“Fammi il favore e taci, cretina.”

Olaf guardò l’uomo con un cipiglio poco convinto, ma un segno di Nina gli fece capire che andava bene così. Quando chiese per quella roba ben cinque monete d’oro, Levi si sentì sul punto di un mezzo collasso. Così cara, la medicina? Nina però non fece una piega e gliene passò sei.

“Nina, non dovresti. Non dopo quello che hai fatto per Ivan.”

“Sono felice di essere stata in grado di aiutare tuo figlio con le bambine. Accetta, tanto non ho molti modi di spendere lo stipendio.”

Non fu il gesto a colpire Levi, ma l’espressione del mercante, che prese quella singola moneta in più con le mani quasi tremanti e gli occhi colmi di rispetto e commozione.

Nina era anche una brava persona, perfetto. Ora sì che voleva metterla a tacere.

Fece un passo indietro, stringendo il pugno sotto alla mantella, mentre la giovane metteva ogni singolo sacchettino ricolmo di erbe, che lei riteneva al pari di un tesoro, nella sacca di pelle che le pendeva dal fianco.

Poi lo guardò, improvvisamente distesa, come se la tensione di quella mattina si fosse dissipata “Andiamo, ho ancora due o tre posti in cui voglio passare prima di rientrare.”

 

“Ti piacerebbe, Stohess.”

Levi aveva smesso di dubitare delle parole di Nina, quindi decise che poteva credere anche a quell’ultima affermazione.

L’osteria in cui si erano fermati per pranzare dopo aver raccolto bendaggi, garze, pinze emostatiche, budelli di maiale e quant’altro era piena, ma il cibo valeva la pena di un po’ di confusione.

Attorno a loro vecchi amici si raccontavano aneddoti, membri della Guarnigione bevevano in faccia a quel lungo periodo di pace e giovani si attardavano attorno alle ragazze.

L’atmosfera era così rilassata che anche Levi si concesse di esserlo, seppur doveva tenere bene a mente il motivo per cui era lì.

“Come mai?”

“Perché è molto più pulita di Trost” fu l’ammissione divertita di Nina, che raccolse un po’ di purè di patate sulla punta dell’indice, che accompagnò poi alle labbra “Fa freddo, di inverno. Nevica anche per giorni interi e le persone sanno essere un po’ malevole come ogni abitante del Wall Sina, ma i colori della città sono meno freddi. Anche se c’è la cosa peggiore che possa capitare in questo mondo: mia madre.”

Levi incurvò appena le labbra, mentre sollevava il boccale di birra per prenderne un sorso.

Nina si sporse verso di lui, appoggiando i gomiti alla tovaglia a quadri “Quello era un sorriso? Dannazione, è aprile e sta per nevicare anche a Trost.”

“Non ti zittisci mai?” si informò lui, mentre una cameriera passava col conto. Nina le passò le monete per pagare e le lasciò anche una mancia generosa. Levi, che non aveva soldi per il momento, non disse niente, limitandosi a riappoggiare il boccale ora vuoto.

“Starò zitta da morta.”

La bionda fu la prima ad alzarsi, stirando le braccia verso il cielo. Si passò anche una mano sulla pancia, tirando la cinghia dell’imbragatura per sistemarla, prima di rivolgersi di nuovo a lui “Sei stanco?” si informò, raccogliendo la sacca di iuta nel quale c’era metà del materiale comprato. L’altra l’aveva Levi “Ci sarebbe un altro posto in cui mi piacerebbe passare, ma non è necessario.”

“Fa’ strada.”

 

Non l’avesse mai detto.

Dopo un’ora di camminata lungo vicoli ristretti e stradine secondarie che gli fecero capire il motivo per cui Nina aveva fatto quell’appunto sulla pulizia,  arrivarono di fronte a un negozio che vendeva miele.

Miele.

Dannato lui quando le aveva lasciato tutta quella libertà!

“Mi hai portato fino a qui per questo?!”

“Guarda che io te l’ho chiesto se eri stanco!” Nina lo guardò ridendo, prima di schiaffargli una pacca al centro del petto che le costò un’occhiataccia. Troppo contatto interpersonale, forse “Mi farò perdonare con una tisana alla valeriana dopo cena, ora muovi quelle chiappette secche, questo è negozio che vende il miglior miele del Wall Rose.”

“Questa ragazzina mi sta prendendo per il culo.”disse a se stesso, scuotendo il capo.

Levi non sapeva come reagire davanti a quell’urgano di entusiasmo. Era abituato a Isabel, ma Nina....

Nina era tremenda.

Sotto ogni punto di vista.

Una bambina nel corpo di una giovane donna, così tanto entusiasta della vita e delle piccole cose come il miele. Non era giusto che una persona del genere, che poteva dare tanto, andasse a morire.

…Pensiero incoerente per l’uomo che era andato con le per tagliarle la gola alla prima occasione.

Di nuovo, si sentì spiazzato. Non gli capitava mai, eppure in quella giornata era almeno la terza volta che lei lo lasciava assolutamente senza parole.

Non la seguì nel negozio, lasciandole fare il suo acquisto in pace e andando a sedersi sui gradoni di una Chiesa del Culto, lì di fronte.

Si sentiva diviso a metà.

Le parole di Farlan gli rimbombavano nel cervello così come la risata di Nina, mentre gli occhi riconoscenti del mercante gli ricordavano quanto deprecabile fosse la sua condotta.

Levi aveva sempre rispettato le persone così. Aveva protetto chi si prodigava per gli altri, come Nina. Lui stesso lo aveva fatto tante volte, nel ghetto. Per gli amici, ma anche per chi ne aveva semplicemente bisogno.

Uccidere una ragazza che non aveva colpe non era nella sua natura, ma rischiava di mandare tutto a monte. Rischiava di rovinare le loro vite e chissà, forse portare alla loro fine.

Non poteva permetterlo.

Tutto ciò che stava facendo, lo faceva per Isabel e Farlan. Nessuno si sarebbe dovuto mettere in mezzo e, tristemente, Nina non era niente per lui.

Levi era certo che sapesse.

Ne era sicuro.

Lo leggeva negli occhi dalla giovane ogni volta che non era in grado di ricambiare il suo sguardo.

Perché lo facendo?

Perché non andava da Erwin e parlava?

Perché l’aveva trascinato in quella ridicola giornata?

La domanda più importante era un'altra: perché non accettava il fatto che, nonostante la maschera di compostezza e distacco, non si divertiva e si distraeva così tanto da mesi? Forse anni.

Forse da sempre.

Nina si sedette senza grazia accanto a lui, costringendolo a smetterla di progettare.

La guardò svitare il coperchio del barattolo, che poi gli mise sotto al naso “Assaggia.”

“Ho le mani sporche.”

Nina lo guardò con compatimento misto a tenerezza, prima di immergere il dito nella sostanza pastosa e dolce. Quando portò il dito alle labbra, non trattenne un leggero squittiò che sortì effetti contrastanti nell’uomo.

Divertente? Inizia a pentirsi di non essersene rimasto a letto.

“Avanti, prova. Non te ne pentirai” lo sfidò di nuovo lei, dandogli anche una gomitata per niente delicata nelle costole.

Levi si massaggiò il punto colpito, “Sei elegante come un cavallo, ragazzina.”

“Muoviti!”

Levi si arrese alle insistenze, certo che non avrebbe trovato il modo di farla cedere. Guardò di nuovo la superficie ora increspata dentro al barattolo di vetro, prima di immergerci l’indice della mano destra.

Riportò gli occhi in quelli della giovane, che non li scostò, ma anzi, lo invitò con un cenno a procedere.

Quando lo fece, Levi dovette ammettere che non aveva mia mangiato niente di così buono in tutta la sua vita.

Non le avrebbe però dato tanta soddisfazione tutta insieme “Non male.”

“Sei un falso.” Nina chiuse il barattolo, mettendolo al sicuro nella sua tracolla, prima di sospirare con tutta la felicità che non poteva contenere “Sai, sarà anche stupido aver camminato tanto per del miele, ma non mi importa. Non so se tornerò viva a Trost, dopo questa missione” fece una pausa, tenendo gli occhi sul cielo azzurro sopra di sé mentre stringeva le gambe contro al petto “Ogni volta che esco da quelle mura penso solo a una cosa: non ho rimpianti, vero? Non mi voglio risparmiare nessun dolce, nessuna parola, nessuna occasione perché potrei tornare avvolta da un lenzuolo bianco” girò il capo verso di lui, appoggiando il mento al braccio “Nella vita è sempre meglio avere rimorsi, che rimpianti, Levi e basta.”

Lui sbuffò, cogliendo la profondità delle parole, certo, ma contestandone la fonte “E lo hai imparato in diciassette anni di vita? Una saggia.”

“L’ho imparato guardando uomini morirmi tra le braccia o sbranati dai giganti. Grazie per aver rovinato l’atmosfera.”

Si alzò in piedi con in mezzo scatto, lasciandolo perplesso.

Donne.

“Ti sei offesa, ragazzina?”

“Non mi offendono gli stronzi come te!” lo guardò, attendendolo di vederlo alzarsi a sua volta “Coraggio, torniamo. Abbiamo la licenza solo fino alle quattro, poi Erwin vuole fare un ripasso del modulo di formazione per gli avvistamenti sulle lunghe distanza.”

Come prima, l’uomo la seguì tenendosi un paio di passi indietro.

Teneva con una mano la sacca di iuta, mentre la mano destra era libera.

Guardò la schiena della ragazza, rendendosi conto che si era improvvisamente ammutolita, colta da chissà quale pensiero.

Se voleva farlo, doveva farlo ora.

Fra qui vicoli stretti, nessuno si sarebbe accorto di nulla, per non parlare poi dei tombini al lato della strada che sembravano fatti a posta per occultare un cadavere.

Con attenzione, fece scivolare il pugnale che teneva nella manica fino al palmo.

Sarebbe stato facile, Nina era assorta e non poteva aspettarselo.

Se le avesse aperto la gola con un singolo movimento, da un orecchio all’altro, non avrebbe nemmeno potuto urlare.

Sarebbe stato facile da fare.

Poi doveva solo conviverci.

Levi abbassò il capo, incassandolo fra le spalle, poi accelerò l’andatura e la prese per il braccio, lasciando cadere a terra il sacco.

 

Un paio di reclute gli passarono davanti concitate.

Levi non si scostò dal muro, al quale si era appoggiato con le spalle, guardandoli affannarsi alla volta delle loro cavalcature.

Accanto a lui, Farlan torturava il bordo del mantello.

Era nervoso, non poteva negarlo.

“Credi di aver fatto la scelta giusta?”

Levi temeva quella domanda, ma aveva già una risposta pronta.

“Sì.”

I suoi occhi si spostarono su un punto alla sua sinistra, sulla figura di Erwin Smith.

Era pensieroso, il suo sguardo cupo e pieno di loschi pensieri.

Forse anche lui, sotto quella scorza impenetrabile di sicurezza, non sapeva bene come gestire quella situazione.

Passò tutto, però, non appena delle mani gentili andarono a sistemargli la mantella sulle spalle.

Nina gli parlò, sporgendosi per abbracciarlo stretto e Erwin si immerse nel momento, abbandonando per un attimo tutte le strategie.

La strinse, accarezzandole il capo, prima di scostarsi per sussurrarle qualcosa, guardandola in pieno viso.

Lei sorrideva.

Levi non poteva non guardarla.

“Se parlerà mentre siamo la fuori, siamo morti.”

“Forse mi sono sbagliato. Forse non sa nulla.”

Sapeva di non essersi sbagliato, ma non poteva farlo.

Qualcosa dentro di sé gli gridava che non poteva e quando lei si voltò a guardarlo, allargando di poco il sorriso, lui sentì che sarebbe andato tutto bene.

Se aveva sbagliato, se ne sarebbe accorto, ma non avrebbe fatto del male a qualcosa di così bello.

Avrebbe cercato di evitarlo e avrebbe proseguito sulla sua strada.

Così come aveva sempre fatto.

 

 

 

NdA

 

Sarò franca con voi, sono terrorizzata da questo capitolo.

L’ho letto e riletto, sistemato, cancellando e aggiungendo a destra e manca.

Se Levi è OOC, sparatemi!

 

Io ci ho provato seriamente a entrare in quella testolina, ora lascio a voi l’ardua sentenza.

 

Non ho molte altre annotazioni per voi, se non che in questo capitolo vediamo Nina con gli occhi di un’altra persona. Nina, una ragazzina costretta a crescere in fretta.

Per scelta, certo, ma non può comunque non essere ancora una ragazza acerba.

 

Levi, sei un adescatore.

 

Ringrazio i tre angeli che mi recensiscono, senza di voi sarei più triste! Grazie anche solo a chi legge, il numero di letture è lievitato e io non posso che esserne felice.

 

Sarà il caso di dormire? Sono le sei meno un quarto del mattino.

Ci sentiamo alla prossima, chiunque ha intenzione di lasciarmi un commentino verrà amato!

 

Peace and Levi

C.L.

 

 

 

 

 

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Capitolo 5
*** Capitolo Quarto ***


11

 

 

Wenn die Sterne leuchten.

 

 

 

 

Capitolo Quarto.

 

 

 

I wanna screamIs this a dream?’

How could this happen, happen to me?

This isn't fair, this nightmare

This kind of torture, I just can't bear

I want you here…

https://www.youtube.com/watch?v=SWww880E9wU

                             

 

 

 

Anno 846

Oltre il Wall Rose, nella terra dei giganti.

 

 

 

 

Nina aveva avuto modo di visitarsi per bene, per capire quali fossero esattamente le sue condizioni.

Si era liberata dell’imbragatura e delle stecche di fortuna che aveva assicurato al costato, facendo non poca fatica a sciogliere i nodi che aveva fatto per tenere insieme tutta quella garza. Si ritrovò a pensare che fosse uno spreco e doveva essere parsimoniosa, seppure il suo kit medico d’emergenza fosse lì, accanto a lei.

Si era privata del modulo per lo spostamento a terra e una volta aperta la camicetta bianca smanicata aveva iniziando a passare le mani sul busto con attenzione, passando sopra alle bende che le comprimevano il seno fino alla fine del costato,  cercando di sentire se ci fossero dei rigonfiamenti sotto pelle o una rottura delle costole.

La fortuna sembrava essere dalla sua perché, nonostante il livido violaceo che si estendeva per quasi tutto il fianco sinistro a causa del colpo che aveva preso cadendo sul carro, non sembrava avere niente di davvero rotto.

Quella era un’ottima notizia.

La missione che si era prefissa non avrebbe quindi avuto molti intoppi, essendo in salute, anche se ancora un po’ stordita dagli accadimenti. Il suo obiettivo principale era quello di cercare il modo più efficace per sopravvivere nell’attesa di una squadra di salvataggio. Il fatto di essere una sola persona era un grosso vantaggio, sarebbe passata inosservata se avesse ridotto al minimo i rumori.

Doveva solo aspettare e mettersi nella condizione migliore per vivere e poi chi lo sa, in un impeto di ottimismo avrebbe anche potuto ricavarne qualcosa di fruttuoso. Essere un membro dell’esplorativa aveva un ventaglio di diversi significati, ma il più importante non era di certo il più famoso. Più che soldati, dovevano essere degli osservatori.

Mentre si rivestiva, allentando appena le cinghie dell’imbragatura per evitare che facessero pressione sul fianco ferito, Nina decise che avrebbe annotato scrupolosamente tutto ciò che avrebbe visto o sentito in quel periodo. Sapeva che al suo ritorno, Hanji ne sarebbe stata felice, anche se sperava di rimanere lì per il periodo più breve possibile.

Chiedere i permessi per uscire dalle mura richiedeva del tempo e delle risorse, ma era sicura che Levi avrebbe trovato un modo. Sapeva che si sarebbe mosso in fretta.

Erwin invece…

Lo capiva. Non poteva avercela con lui, perché sapeva che se l’aveva lasciata indietro, era solo perché era certo che fosse morta. Doveva aver trovato la compagnia dell’avanguardia distrutta e doveva aver pensato – non a torto- che in quella situazione nessuno ne sarebbe potuto uscire vivo. Davvero, lo capiva, era il Comandante e non poteva fare preferenze e rimanere in un luogo tanto pericoloso solo perché aveva perso sua sorella. Nina non valeva né più né meno di qualsiasi altro dei suoi ufficiali.

Più di ogni altra cosa, però, Nina sapeva che suo fratello si stava incolpando.

E si sentì male al pensiero di averlo fatto patire così.

Passò una mano sul viso, scostando i capelli che erano sfuggiti alla treccia arrangiata alla meno peggio e si alzò, tenendosi con una mano il costato. Per iniziare, doveva trovare una disposizione migliore. Lì c’erano troppe finestre.

Mettersi in sicurezza era il primo passo per arrivare al giorno successivo e da lì sarebbe andata avanti. Avrebbe vissuto alla giornata, cercando anche di tenersi occupata nel frattempo.

“Assurdo come sia bastato del miele a calmarmi” soppesò sottovoce, raccogliendo il bigliettino che Levi le aveva lasciato e rileggendolo. Cercare nelle case qui attorno era un’ottima idea. La borgata era piccola e le abitazioni erano tutte costruite sulla medesima roccia. Non sarebbe stato difficile entrare da una porta e uscire dall’altra.

Senza contare che la posizione sopraelevata rispetto alla campagna e al bosco aveva numerosi vantaggi.

Un passo alla volta, però. Stava già mettendo troppa carne al fuoco.

Il rifugio. Doveva partire da lì.

Ripensò alla cucina interrata, costatando che quello sarebbe stato senza ombra di dubbio il luogo più sicuro. C’era un odore molto forte di umidità al piano di sotto, che avrebbe coperto il suo profumo. Se era quella la sua preoccupazione, ci avrebbe pensato anche l’impossibilità di farsi un bagno decente, cosa che la demotivò parecchio. Non era il caso di essere schizzinosi, dato che i giganti erano bravi a fiutare gli esseri umani.

Se doveva puzzare, per non essere mangiata, sarebbe stata felicissima di puzzare.

Prese la mantella verde, avvolgendosela attorno alle spalle, avvertendo subito un dore famigliare che la portò ad accarezzare il tessuto morbido dell’indumento, sollevandolo poi contro al naso. Non era brava come Mike a fiuta, ma avrebbe potuto scommettere entrambi i suoi occhi che quella era la mantella di Levi.

Quella fragranza la rincuorò ancora di più.

Strinse la stoffa fra le mani, prima di avvicinarsi cauta alla finestra, affacciandosi da essa. Tutto sembrava tranquillo, forse anche troppo, ma non si sarebbe di sicuro lamentata se non avesse visto nessun gigante. Tirò la tenda, decidendo di non prendere il modulo per lo spostamento tridimensionale, per il momento e lasciò la stanza, tornando al piano di sotto.

Non aveva osservato molto bene la cucina quando c’era entrata la prima volta, troppo presa dallo sconforto e dalla paura di essere prossima a una morte solitaria. Quando vi rientrò nuovamente, invece, colse dei dettagli che lasciavano trasparire la storia dei precedenti abitanti. Nell’angolo sulla destra c’era un tavolo enorme, ancora apparecchiato per il pranzo. Nina raccolse con la mano il pane ammuffito e un piatto contenente quelle che sembravano patate andate a male da tempo e si chiese come doveva essere stato.

Come doveva essere l’inferno vero, vissuto con gli occhi di qualcuno che non l’ha scelto, ma si è ritrovato di fronte il male all’improvviso.

I giganti erano arrivati in fretta in quella zona, nessuno doveva essere riuscito a giungere per avvertirli di cosa stava succedendo. Nessuno aveva detto a quelle persone che il Wall Maria era caduto, perché non doveva essercene stato il tempo.

Avevano lasciato il pranzo, la loro vita, tutto ciò che possedevano e avevano cercato la salvezza nella fuga. Nina sperò che quella famiglia ce l’avesse fatta, ma non si sentiva molto positiva in quel frangente. Erano in pochi quelli che vivevano all’interno di quei piccoli villaggi stanziati per le campagne, che in qualche modo si erano salvati arrivando alla prima porta. A Trost.

La strada era lunga e i giganti erano più veloci.

Era passato solo un anno da quella follia, ma la pesantezza di quel ricordo riecheggiava ancora per le mura di pietra del borgo. Quello era stato l’evento più drammatico provocato dalla furia dei giganti, che si avvicinava tristemente alla ‘crociata degli sciagurati’ organizzata dalla corona per sfollare i tanti esuli del Wall Maria e garantire un rancio in più agli abitanti delle mura interne.

Erano stati quelli dell’esplorativa a denominarla così.

Crociata degli sciagurati.

Nina ringraziò di non essere mai stata invitata di istanza a dare supporto a quelle persone, non avrebbe mai sopportato la vista di contadini armati di forconi che venivano sbranati.

Erwin aveva detto che era stato tremendo, ma era sicura che stesse minimizzando come sempre.

Smise di pensarci quando terminò di togliere tutto dalla tavola, ammucchiando le stoviglie ormai inutilizzabili e il cibo scaduto dentro a una cesta che trovò poco lontano, accanto alle scale. Iniziò ad aprire gli sportelli delle credenze, liberandosi anche di tutto il cibo andato a male che trovava, constatando che non c’era molto altro da salvare.

Qualche foglia di te e un sacchetto di riso bianco.

Sempre meglio di niente.

Spostò le sedie e cercando di non fare rumore e spinse il tavolo fin sotto alla finestra, salendoci poi in piedi sopra e affacciandosi dal quell’unica, piccola fessura che dava sull’esterno della cucina, a livello della pavimentazione stradale. Scese con un saltello, dandosi della scema per tutti i dolori che ancora provava, prima di andare al piano di sopra.

La parte divertente venne a quel punto.

Trascinare un materasso per le scale, strapazzata come era, non fu divertente. Però ci riuscì.

Non sarebbe mai guarita da tutti quei dolori se avesse dormito su un tavolo e l’antifona era chiara: sarebbe rimasta lì per un po’.

Il passo successivo fu quello di trasferire tutte le cose che Levi aveva lasciato per la sua sopravvivenza e in sei o sette viaggi per le scale fece anche quello. In ultimo, rubò quanti più cuscini possibili e qualche coperta dalle stanze. Solo quando riuscì a sfilare gli stivali, stendendosi su quel materasso, comprese quando davvero fosse sfinita.

Appoggiò un braccio sugli occhi, realizzando che ancora non aveva mangiato niente dalla mattina precedente e che quel pane non sarebbe stato buono per molto, ma poteva concedersi un pisolino dopo aver corso una notte intera. Il profumo di Levi le arrivò di nuovo alle narici, mentre chiudeva gli occhi, accoccolandosi sul fianco sano e per un attimo le sembrò di sentire le sue dita fresche scostarle i capelli dalla fronte con gentilezza.

La sua mente insisteva, in modo del tutto razionale, che il profumo veniva dalla mantella, ma il pensiero che lui fosse lì a vegliare sul suo sonno la fece crollare.

 

Il risveglio fu brusco.

Un gigante che passava di lì la destò con la sua infinita grazia, facendo rombare la terra e tremare la pavimentazione della cucina.

Nina scattò seduta, ringhiando per il dolore e cadendo dal materasso. Portò entrambe le mani alla bocca, mentre sentiva il corpo tremarle e il cuore batterle all’impazzata. I ricordi di ciò che era successo le tornarono in mente, così come la morte di Nick e di Ed, la sua prima missione e il senso di smarrimento, i pezzi di cadavere dei membri della quarta divisione e ogni singolo soldato che era morto fra le sue mani,  il corpo straziato di Farlan alla sua destra e la fascia di Renson impregnata di sangue. Tutte queste memorie vivide che aveva conservato all’interno della sua mente, insieme con la sensazione di abbandono che aveva provato nel momento in cui era arrivata lì e non aveva trovato nessuno, rischiarono di far crollare il delicato equilibrio che Levi aveva cercato di costruirle attorno con le sue accortezze. Si sporse sulla cesta piena di cibi avariati, credendo che avrebbe vomitato bile e saliva dato lo stomaco vuoto, mentre cercava disperatamente di rimettere insieme i pezzi del suo mondo.

Quando riuscì a farlo, si sedette con la schiena al muro, sentendo le lacrime agli occhi per lo sforzo, tirando fuori dalla tasca dei pantaloni il biglietto di Levi.

Lo lesse e lo rilesse, nonostante ormai lo sapesse a memoria, fino a che non tornò ad essere padrona di se stessa.

A quel punto si trascinò di nuovo sul materasso, tirandosi la coperta fino al mento e fissando il soffitto della cucina con intensità. Il cuore le batteva ancora forte e la nausea era accompagnata da un senso di debolezza diffuso. Chissà da quanto tempo non mangiava, non aveva idea di quanto avesse dormito.

Si alzò, trovando difficoltoso l’orientarsi per la casa e salì le scale, arrivando alla stanza. Attenta a non farsi vedere da niente, scostò la tenda, alzando gli occhi al cielo.

Dalla posizione del sole dovevano essere circa le nove del mattino.

Aveva dormito una giornata e una notte intera e non mangiava da due giorni, quindi.

Per forza si sentiva debole, aveva corso così tanto che era un miracolo che non fosse svenuta per le scale.

Il pane era ancora buono o forse, molto semplicemente, si ritrovò con lo stomaco così vuoto che avrebbe trovato delizioso qualsiasi cosa. Mangiò velocemente, divorando la pagnotta, mentre seduta sul tavolo con il suo quaderno appoggiato sulle gambe incrociate, annotava ciò che era successo il giorno precedente e come si era arrangiata dentro a quella casa. La penombra perenne nella stanza le fece registrare che doveva cercare delle candele. Una era rimasta sul tavolo, mezza consumata e non le sarebbe durata per molto.

Solo dopo aver messo di nuovo mano al miele raccolse l’attrezzatura, sistemandosela al bacino e si preparò a fare un giro. Aveva nove lame, contando quelle extra che Levi le aveva fatto trovare e quattro bombole di gas. Se Erwin aveva sempre detto che dovevano essere parsimoniosi, Nina avrebbe dovuto battere ogni record. Laddove era possibile, non avrebbe ingaggiato uno scontro, per iniziare.

Prese la sua sacca di cuoio e ci mese dentro il necessario, qualche garza e la boraccia, insieme alla candela e una scatolina di fiammiferi. In ultimo recuperò quaderno e matita, insieme a un coltello a serramanico. A quel punto sollevò il cappuccio della mantella, nascondendoci dentro i capelli e si avviò alla porta.

 

La strada era libera.

Per prima cosa, doveva tracciare un perimetro, cosa che solitamente spettava a Mike.

Salì sul tetto di una casa sfruttando solo il potere trainante delle corde, andando ad inginocchiarsi rapida accanto al comignolo, per rimanere nascosta. Dalla sacca prese un binocolo, un vecchio rudere con una potenza visiva limitata che suo padre le aveva fatto avere anni prima e che non aveva mai usato davvero. Non le era mai servito, aveva altri che le facevano da occhi e orecchie.  Lei era una segaossa, dopotutto.

C’era due giganti nella pianura, un classe sei metri e un classe tre, totalmente disinteressati a lei.

Avrebbe lasciato le cose esattamente così. Attirare la loro attenzione era l’ultima cosa che voleva fare.

Come ogni volta che era agitata, prese fuori dal colletto della camicia il medaglione dorato che portava sempre al collo e lo infilò fra le labbra, giocherellando con la catenina che pendeva sul suo mento.

Nella borgata non c’erano pericoli.

Ne approfittò subito, scendendo dal tetto e infilandosi nella finestra del terzo piano del palazzo su cui si era posizionata.

Era una palazzina di medie dimensioni,  ma con una posizione sopraelevata grazie a uno sperone di roccia, con poco o niente da prendere. Trovò qualche candela, altro riso, delle posate e dei fogli da lettera, che prese per ogni evenienza.

Un po’ delusa, Nina continuò la sua ricerca, girovagando anche per le stanze dei vari piani. Infondo a un corridoio stretto ma luminoso ne era rimasta una sola, colorata e piena di disegni. I fogli su cui erano stati fatti, purtroppo, erano ingialliti a causa del tempo, ma mostravano tutto l’estro di un bambino. Doveva essere una famiglia ricca o benestante per potersi permettere i pastelli a cera e gli acquerelli di tutte quelle tonalità. Nina lo sapeva bene, considerato che disegnava fin da quando era piccola e suo padre, per potersi permettere di viziarla un po’, nascondeva i soldi a sua madre, tornando poi a casa con scatoline di latta contenenti veri tesori, carboncini e tele.

Non c’è nulla che un genitore non avrebbe fatto per suo figlio e Nina sapeva che, presto o tardi, anche lei avrebbe voluto crearsi una famiglia con piccoletti da vezzeggiare.

Con la vita che faceva sarebbe stato difficile, ma non si voleva precludere la possibilità di avere dei figli suoi.

Forse aveva anche già trovato la persona giusta con cui farlo.

Comunque sia, non sarebbe potuto essere altrimenti, visto il suo carattere. Era cresciuta in una famiglia numerosa, così tanto che alla nascita di sua sorella Mieke erano arrivati a toccare le diciannove persone in casa, più i cani e i cavalli nel cortile interno.

Si sedette sul letto con una manciata di disegni trovati su una scrivania di noce verniciata, iniziando a sfogliare alberi dalla corolla brillante e soli luminosi. In qualche foglio c’erano dei cavalli, in altri fiori dai colori così vividi come solo un bambino li può immaginarne. Sorrise intenerita di fronte a forse due tipi diversi di tratto, fatti da due mani diverse e quindi da due diversi piccoli artisti, scorgendo solo in seguito, in basso sulla destra di uno dei fogli, delle firme scarabocchiate alla meno peggio.

“Marianne e Karoline” lesse a voce alta, domandandosi come dovessero essere quelle bambine, quale fosse la più grande e se fossero delle pesti così come lo era lei alla loro età.

Nina era una peste a quasi vent’anni, ma da bambina era un demonio.

Sua madre sosteneva che era a causa sua se aveva passato un travaglio così lungo per Mieke; temeva di averne due, poi, di bestie a correre per casa urlanti.

Peccato che il travaglio fu difficile perché sua madre aveva superato i quarantacinque quando era nata sua sorella minore, dopo otto anni dalla nascita di Nina, ma allora non poteva saperlo e ci rimase comunque male. Adelaide Müller era sempre stata una madre rigida, la faceva impazzire e Nina per dispetto portava lei ad ammattire.

Non andavano d’accordo quando era piccola, figurarsi crescendo, quando aveva sviluppato un animo tutt’altro che accondiscendente ai desideri di sua madre, che voleva una figlia che facesse la moglie, invece che il medico in prima linea. Mentre Alma e Frieldhem era i ‘figli di suo marito’, e per questo li aveva sempre trattati in modo diverso, delegando a Wilhem Müller l’incarico di crescerli, con lei e Mieke era stata inflessibile e severa. Per Erwin la storia era molto diversa.

Nina se lo ricordava poco, quando era piccola. Era partito per l’addestramento quando lei aveva sì e no due anni. Aveva imparato a conoscerlo nelle visite a casa, quando parlava della Legione nonostante fosse un tabù imposto da Adelaide, che però non aveva mai tarpato le ali del figlio prediletto. Erwin era nato per diventare un soldato, il fatto che sua madre avesse sposato un uomo che nonostante non facesse parte dell’esercito, venisse da una lunga discendenza di gendarmi, non poté che aiutare l’ascesa del Capitano  Smith.

L’orgoglio di casa.

Poteva sembrare un capriccio, ma Nina sapeva che sua madre non avrebbe mai amato nessuno come amava Erwin. Glielo aveva detto, una volta. ‘Non amerai mai nessuno quanto amerai il tuo primo figlio’, era stata la frase che la giovane aveva comunque incassato, sentendosi più amareggiata dal fatto che se lo aspettava che dalle parole in sé. Le credeva, perché sua madre non guardava nessuno come guardava Erwin, era il suo vanto più grande, il suo orgoglio.

Perché assomigliava molto al padre, il suo primo marito, ma questo Adelaide non lo aveva mai detto.

Nina non era mai stata gelosa di Erwin, perché lui era tutto ciò che lei voleva diventare. Aveva lavorato tanto, studiato e faticato per arrivare dove era arrivata e lo aveva fatto sì per amore di scoperta, per essere libera e lontana da quei muri che rendevano la vita claustrofobica e lenta, ma anche per stare con lui.

Per seguirlo nelle sue battaglie, per curare le sue ferite e per godere della compagnia che non aveva potuto avere quando era una bambina.

Non c’era una persona al mondo che Nina adorasse più di Erwin. Non c’era stata mai, prima dell’arrivo di Levi nella Legione.

I fogli le caddero di mano, destandola da quei ricordi dolci e amari, dall’immagine del volto di sua madre che la guardava ferita indossare le Ali della Libertà sulla schiena.

Da quella vita che le sembrava così lontana, così come lo era Stohess.

Chissà se sapevano già che era dispersa. Chissà se pensavano che non sarebbe tornata.

Forse sua madre l’avrebbe pianta, pensata. Si sarebbe pentita di ogni schiaffo che avrebbe potuto tramutare in un abbraccio, di ogni urlo che poteva essere una canzone cantata insieme nel cortile, attorno al falò che suo padre accendeva ad ogni prima nevicata per scaldare il vino aromatizzato.

Si alzò sentendosi malinconica, chinandosi su un ginocchio e iniziando a raccogliere i fogli. Se avesse potuto esprimere un desiderio, sarebbe stato quello di poter tornare indietro per poterle parlare. Per dirle che la perdonava di non essere stata una buona madre come lo era stata la zia Lucille.

Avrebbe voluto un abbraccio, per una volta, avrebbe voluto sedersi davanti al camino e parlare di ragazzi, delle missioni e di intricate diatribe mediche, come faceva sempre con suo padre.

Si asciugò una lacrima al lato dell’occhio e in quel momento notò qualcosa di strano, sotto al lettino. Curiosa, alzò la coperta, chinandosi meglio per osservare cosa mai potesse esserci di nascosto in quella stanza.

Perse la presa sul resto dei fogli, mentre gli occhi sbarrati fissavano la piccola mano appassita che si intravedeva appena dalla posizione in cui si trovava. Sembrava protesa verso di lei, cristallizzata in un momento eterno, in una incompiuta richiesta di aiuto. Sembrava che quel luogo le stesse mostrando il risultato di un’attesa infinita.

Il respiro le si bloccò in gola.

Non diede il tempo all’odore della decomposizione di investirla.

In un attimo, uscì dalla finestra, lasciando i disegni sparsi e la stanza vuota e silenziosa.

Come una tomba.

 

La casa accanto divenne un rifugio per almeno una decina di minuti.

Nina ci mese un po’ a riprendersi da quell’immagine, certa che se la sarebbe sognata quella notte, insieme a tutte le altre bellissime situazioni che aveva vissuto durante quella missione.

Che fosse un messaggio della provvidenza? Era destinata ad aspettare fino alla morte?

Era assurdo pensarlo, non poteva permettere a se stessa di abbattersi.

Si appoggiò con il bacino a un tavolo e si costrinse a concentrarsi sulla sua ricerca di viveri e beni. Prese la borraccia dalla saccoccia per tirare un sorso di acqua e pensò al pozzo che aveva visto al centro della piazzola.

Doveva verificare se fosse o meno funzionante, ma avrebbe atteso la notte per quello.

La strada per arrivare al torrente, seppur breve, sarebbe stata pericolosa. Doveva sperare che il pozzo fosse ancora funzionante e che ci fosse ancora la carrucola.

Dopo essersi passata le mani sul viso almeno dieci volte, decise di  muoversi.

La casa in cui si era infilata questa volta sembrava contenere molti tesori, affacciandosi dall’ingresso.

Selle, briglie e armi per la caccia.

Nina prese un pugnale dalla lama grande e lo guardò attentamente, notando che era sporco di sangue rappreso.

Forse lo stesso che imbrattava la porta.  Non c’erano corpi, però. Iniziava a farsi troppe domande circa cosa era successo in quel villaggio e dopo l’esperienza nella camera delle bambine, decise che non voleva le risposte.

Prese il pugnale, decidendo di lasciare il resto della roba lì, per il momento in cui magari le sarebbe servita.

Prese a camminare per il piano terra, guardandosi attorno e trovando alcune foto su un ripiano. Un uomo e una donna, vicini. Lui era sorridente, lei più seria, ma dallo sguardo buono.

Dovevano essere dei guardia-boschi a giudicare dal quantitativo di oggetti per le escursioni.

Sul camino trovò qualcosa di inaspettato.

Incorniciata, c’era una mantella identica a quella che indossava in quel momento.

Dovevano avere avuto un figlio nella Legione, forse un fratello.

La giovane sentì una stretta allo stomaco.

Chissà se Erwin aveva trovato la sua giacca imbrattata del sangue di Sankov e l’aveva portata a casa.

Sperò di no.

“Sarebbe di cattivo gusto, visto che sono ancora qui, no?” chiese al suo stesso riflesso, quando si ritrovò di fronte a uno specchio.

Aveva un aspetto pessimo, ma non si aspettava di meglio. Era pallida, aveva gli occhi cerchiati di nero e la treccia sfatta.  Si sistemò una ciocca giusto per pudore, prima di riprendere il giro.

Sotto ai suoi piedi, il pavimento in legno scricchiolava un po’ troppo, ma sperò di non dare lo stesso nell’occhio. Doveva esserci stata un’infiltrazione di acqua dal tetto rotto, perché le sembrava di camminare su dei gusci di uovo.

Arrivò di fronte a un mobiletto, nel quale trovò delle chiavi, forse della stalla.

Fece un passo indietro per tornare verso la porta, quando un’asse del pavimento si ruppe, inghiottendole la gamba. Trattenne a stento un urlo per la sorpresa e cercò di tirarsi su, ma anche l’asse affianco era danneggiata, così cadde sotto al pavimento, al buio.

Tossì per il quantitativo di polvere che si sollevò, riuscendo in qualche modo a trovare nella sacca la candela che aveva intelligentemente portato e dei fiammiferi. Al terzo tentativo, riuscì ad accenderla.

Doveva essere finita in cantina e per fortuna aveva l’attrezzatura per tornare di sopra.

Scrollò alla meno peggio la mantella, prima di alzare gli occhi sulla parete di fronte a lei per cercare un appoggio.

Ciò che vide la colse di sorpresa, tanto che le fece sgranare gli occhi e socchiudere le labbra.

“Non posso crederci, è incredibile…

 

 

 

 

I waited so long, for you to come

Then you were here, and now you're gone

I was not prepared, for you to leave me

Oh this is misery. Are you still there?

 

 

 

 

Anno 844

Ventitreesima spedizione oltre le mura.

 

 

 

“Vedo che ti hanno dato Meruka.” La mano di Nina si allungò verso il muso della cavalla nera che, dopo averla annusata rumorosamente, iniziò a leccarle le dita.

“Cosa ha di speciale, questo cavallo?”

La bionda non voltò il viso verso Levi, mentre iniziava ad accarezzare il manto lucido del collo.

“Era la cavalla di un caro amico…” fece una piccola pausa, mentre i suoi occhi venivano attraversati da una leggera ombra. Quando si voltò verso di lui, però, sulle labbra aveva il solito sorriso “Spero che a te porterà più fortuna che a lui.”

“Incoraggiante.”

Nina ridacchiò sotto ai baffi, tornando al carro, dopo aver controllato che tutte le bestie legate lì avessero la biada e l’acqua. Prese una grossa cassa e la tirò verso il bordo, proprio davanti a sé, per poi aprirla iniziando ad estrarre uno alla volta, tanti sacchettini marroni.

“Se sei qui ad aiutare con la spartizione del rancio, devi aver fatto incazzare Flagon.”

Il commento a voce alta della giovane arrivò forte e chiaro a Levi, che non si stava dando un gran da fare per aiutare quelli delle provvigioni. Ovviamente non rispose, ma era vero. Nonostante avesse lasciato tutti a bocca aperta quella mattina stessa – si erano lasciati Shigashina  alle spalle molto presto e nemmeno due ore dopo lui aveva già atterrato un gigante anomalo- il suo modo di rispondere insolente al caposquadra gli aveva fatto guadagnare quella punizione.

Non si poteva lamentare, però.

Quello in cui si stavano accampando per la notte era un vecchio castello in rovina. Gran parte dei muri era crollata e il tramonto che bagnava di rosso sangue il cielo aiutava a dipingere un’atmosfera sinistra. Era comunque uno spettacolo, per una persona abituata a vivere in un luogo dove la luce aveva un unico colore ed era quello riprodotto dal fuoco di una candela.

Fino a che poteva rimanere con la testa coperta solo dalla volta celeste, a Levi stava bene e Nina lo sentiva. Iniziava quasi a credere che si sarebbe anche offerto per il primo turno di vedetta.

Osservò il profilo dell’uomo, spiandolo mentre iniziava a mischiare la farinata all’acqua dentro al tegame di rame, notando come tenesse spesso il naso rivolto verso le nuvole. Chissà cosa si provava, dopo una vita di buio, a vedere la luce.

Nina ipotizzò che doveva essere risanante come riprendere fiato dopo una lunga apnea sott’acqua.

“Levi?” lo chiamò, incurvando le labbra in una smorfia divertita “Lo abbiamo perso” insistette poi, rivolta verso Nick, che rise a sua volta.

Ed, invece, non sembrava per niente tranquillo con il moro attorno “Sayram mi ha detto che è completamente fuori controllo” sibilò con tono basso alla volta dei compagni, ricevendo come ricompensa a tutta quella malevolenza il cucchiaio di legno in bocca. Dalla sua espressione, quella farinata d’avena doveva essere davvero pessima.

Nina si riprese l’utensile, tornando a mescolare il miscuglio pastoso, “Smettila, parli di uno di noi.”

“Non è uno di noi.”

“Lo è. Ora inizia a mettere questo schifo nelle ciotole.”

Lasciò tutto nelle mani dei due compagni, andando ad affiancarsi a Levi, che ancora fissava assorto la pianura di fronte a loro. Da quella visuale rialzata potevano vedere tutta la lunga vallata priva di vegetazione.

Poteva sembrare un posto poco sicuro, ma era il luogo più grande in cui potevano dormire rimanendo tutti vicini e senza rimanere allo scoperto. Era una rarità oltre il Wall Maria.

“Sto per farti una domanda, quindi preparati a darmi una risposta soddisfacente” iniziò la bionda, appoggiando le mani alla cintura. Teneva gli occhi fissi in un punto lontano, mentre sentiva l’altro spiarla con la coda dell’occhio, in attesa “Cosa vedi?”

Levi si voltò leggermente verso di lei, con la classica espressione apatica di chi non ha voglia di stupidi giochetti, ma che comunque non può nascondere una leggera punta di curiosità “Che cazzo di domanda è?”

“Una domanda come un’altra” rispose pronta Nina, come se si aspettasse di sentirlo parlare così “Se vuoi rispondo prima io, ma devi promettermi che dirai più di cinque parole di seguito per esprimere un concetto. Se volessi parlare da sola, andrei dai cavalli.”

Ormai doveva sapere dove quella ragazzina aveva intenzione di andare a parare, era diventato un fatto di principio. Più parlava, più comprendeva il grado di parentela che la legava al Capitano Erwin; se tutti parlavano per enigmi, in quella famiglia, non osava immaginare come si potesse vivere in quella casa.

“Sentiamo cosa vedi, allora.”

Nina incrociò le braccia sotto al seno, inclinando di lato il capo e osservando attentamente. Sembrò pensarci per bene, prima di parlare “Almeno una trentina di alberi, un fiumiciattolo quasi in secca, campi…. Altri campi” schioccò la lingua contro al palato, passando il peso da un piede all’altro, sempre senza guardare verso Levi, sicura che si sarebbe spazientito “Libertà” concluse infine, decidendo a quel punto di voltarsi per guardarlo negli occhi per cercare dentro alle iridi verdi un’emozione. Poteva tenere un’espressione neutrale, ma i suoi occhi erano vivi, accesi e trasparenti “Vedo un’insieme di possibilità, di fronte a me. Se potessi, correrei lungo il crinale, come facevo da bambina. Andrei fino al fiume e ci ficcherei dentro i piedi perché, dannazione, scommetto che l’acqua è fresca e io ho cavalcato così tanto che mi sento come se mi avessero impiantato la staffa nel calcagno. Mi stenderei sull’erba e guarderei le stelle, cercando di scoprire se riconosco ancora i disegni che ci vedevo quando, insieme a Rilke, approfittavamo dei litigi di mia madre e di mio padre per scappare sul tetto e rimanerci ore.” Solo quando smise di parlare, Nina si rese conto che Levi non aveva assolutamente idea di chi stesse parlando o del perché lo stesse facendo “Però i giganti potrebbero mangiarmi, visto che non è ancora calato il sole. Erwin non credo mi permetterebbe di farlo, siamo solo in due medici.” mosse un passo nella sua direzione, guardandolo con aspettativa e chinandosi un po’ per mettersi alla sua altezza “E tu cosa vedi, grande guerriero?”

A quell’appellativo, Levi inarcò un sopracciglio, non scostandosi però da lei “Io vedo più di un oggetto che potrei usare per tramortirti e farti stare zitta, per iniziare.” Tornò a puntare gli occhi verso l’immensità del niente che li circondava, mentre Nina rideva piano “Vedo anche un grande spreco.”

Lei parve capire “Ci starebbe proprio bene una fattoria qui, per un nuovo inizio, non trovi?”

La reazione dell’uomo fu esagerata, ma comprensibile. Nina non aveva usato delle parole casuali, lo sapevano entrambi. La prese per un braccio, stringendo la presa mentre la guardava con gli occhi sbarrati “Ti sembra un gioco questo?”

Nina, però, rimase impassibile. Anzi, gli sorrise “Ho detto che sarebbe un bel luogo per vivere. Perché?”

La ragazza sapeva che aveva giocato col fuoco, ma era un esperimento il suo. Se non l’aveva pugnalata quella mattina nei vicoli maleodoranti di Trost, non l’avrebbe nemmeno lanciata dalle mura. Era giusto che lui sapesse che anche lei aveva capito qualcosa, che sapeva che aveva rischiato portandolo con sé.

Ma che erano ancora lì entrambi e avrebbero potuto continuare così.

“Ehi tu!” Ed misurò la distanza che lo separava dei due con ampi passi “Lasciala andare, subito!”

“Va tutto bene” disse Nina, alzando una mano per fargli segno di non fare un altro passo, poi si rivolse a Levi, andando a stringergli il polso “Perché va tutto bene, no?”

La presa sul braccio si fece debole, fino a che l’uomo non la lasciò andare del tutto. Passò accanto a Ed, andandosene verso le rovine del castello, mentre la giovane si massaggiava piano sopra al gomito, osservandolo fino a che non sparì, nascosto da un muro diroccato.

“Ha una presa decisa, l’amico” commentò con tono quasi divertito, facendo sbarrare gli occhi di Reynolds.

“Smettila di fare così.”

Nina sollevò gli occhi su di lui, mentre le sue sopracciglia si inarcavano per lo stupore “Così?” domandò.

“Come se valesse la pena spendere del tempo con lui. Hai tanti spasimanti, trovatene uno che sia meno pericoloso.”

Con quell’ultima affermazione dalla sfumatura infelice, il ragazzo tornò verso il carro per aiutare Nick e Eldo con i rifornimenti.

Nina rimase appoggiata con i fianchi al parapetto delle mura, continuando a massaggiarsi il braccio.

Quello non se lo aspettava proprio.

 

La notte era passata abbastanza in fretta, senza intoppi.

Ad accoglierli la mattina sembrava esserci un cielo capriccioso che prometteva pioggia.

Nina aveva dormito almeno tre ore e si sentiva abbastanza fiera di quel piccolo record personale. Solitamente, quando uscivano in missione, trovare riposo la prima notte era pressappoco impossibile. Per la maggior parte degli uomini, era così, in modo particolare per le reclute.

Nemmeno gli ufficiali avevano l’aria poi così riposata, ma l’aria fredda della mattina, unita alla possibilità di incontrare dei giganti rendeva particolarmente attivi i soldati, a prescindere da quanto avessero riposato.

“Ricordati il fumogeno viola per l’assistenza medica!” ripeté per l’ennesima volta a Kaulitz, uno dei cadetti alla prima missione, avanguardia sinistra. Lei aveva il compito di occuparsi di quel quadrante, visto che il gruppo dove militava, quella del Capo Squadra Ness, aveva come obiettivo di far strada alla fila centrale dei carri.

Per il fianco destro c’era il Tenente Renson, il suo diretto superiore dell’unità medica, che si occupava della quarta squadra in quella direzione.

Nina sistemò il cavallo, cercando di ricordarsi più o meno la posizione di tutti i gruppi sparsi. Era un esercizio mnemonico non da poco, ma doveva essere veloce in caso di emergenza.

Con la coda dell’occhio adocchiò Farlan, Isabel e Levi mentre salivano sui cavalli. Lei si premurò salire sul suo, prima di avvicinarsi “Dormito bene?” domandò un po’ ironica, notando la faccia che tutti e tre avevano.

Certo, rimanevano più rilassati degli altri all’apparenza, ma sembravano provati.

Sicuramente non avevano chiuso occhio e Nina sperò che a tenerli svegli fossero stati solo i pensieri sui giganti.

“Diciamo che un’altra ora non l’avrei rifiutata” le rispose Farlan, mentre Isabel sbadigliava.

“Alla sveglia prima dell’alba non ci si fa mai l’abitudine” lo rassicurò lei, prima di spronare il cavallo a muoversi lungo il crinale.

Scambiò uno sguardo con Levi e lei gli sorrise, prima di raggiungere Erwin, che guardava oltre l’orizzonte.

“Tu cosa vedi?” le chiese e Nina, per risposta, esplose a ridere.

“Che siamo proprio parenti!”

 

Nina era, per natura, una persona fortemente ottimistica.

Persino lei però si sentì parecchio sconfortata, quando la nebbia fitta iniziò ad avvolgersi attorno a loro come una pesante coperta grigia.

“Capo Squadra, cosa facciamo?” chiese Nick, mentre si teneva con una mano il cappuccio verde sul capo, cercando di vedere nonostante gli occhiali bagnati di pioggia.

Ness, zuppo dalla bandana sul capo fin dentro alle mutande, teneva gli occhi il più rivolti verso il cielo possibile. Sarebbe stato impossibile vedere un fumogeno con quel tempo, quindi la risposta era tristemente ovvia “Procediamo in linea retta! Il Comandante Shadis si è raccomandato di non fare deviazioni di direzione!”

Sembrava una teoria un po’ debole, ma non c’erano soluzioni, così procedettero.

Il clima peggiorava sempre di più e alla pioggia e alla nebbia andò sommandosi un vento forte, che schiaffeggiava i loro visi.

“Fortuna che è primavera!” fu il commento sarcastico di Ed, mentre Nina cercava invano di scostare i capelli zuppi dal viso e dal collo.

Il pericolo era triplicato, perché ora non rischiavano solo di essere divorati da un istante all’altro ma anche di scontrarsi con altre unità. Perdere l’orientamento non sarebbe stato così strano, non si vedeva ad un metro dal naso.

Un nitrire impazzito attirò la loro attenzione e dal nulla, un cavallo dal manto dorato sbucò, tagliando loro la strada e facendo impennare la cavalcatura del Capo Squadra. Tutti tirarono le redini, mentre la bestia debitamente addestrava si fermava affiancandosi a loro, scalpitando e nitrendo spaventata.

Nick, che era il più vicino, scese andando verso di essa e tirandolo per le redini. Quando ritrasse la mano dal suo collo, essa era sporca di sangue. Scambiò uno sguardo con i compagni, prima di sollevare il bordo della sella, deglutendo rumorosamente “A-appartiene a Lahm. Dove si trovava?”

Tobias Lahm?” chiese Nina, facendo mente locale. Quando realizzò che sapeva bene in quale unità si trovasse l’uomo, sbiancò “Il quarto gruppo, lato destro. È l’unità di Renson!”

“Dannazione. Potremmo aver perso tutta la copertura dell’avanguardia?” mormorò Jutah, stringendo fra le mani le briglie.

“Signore!” Nina si accostò con cavallo a quello di Ness, che la guardò “Chiedo il permesso di andare. Potrebbero esserci dei sopravvissuti e soccorrerli.”

“La tua area di competenza si estende solo al fianco sinistro, però” le ricordò il Capo Squadra, riluttante al pensiero di lasciarla andare.

“Lo so, ma potrebbe non esserci più un medico per quello destro.”

Ness ci pensò su, prima di sospirare pesantemente “Va bene. Fa ciò che devi. Reynolds e Gin verranno con te.”

Nina annuì, “Sì, signore.”

Scambiò un veloce sguardo di intesa con Ed e Eldo, mentre Nick risaliva sul cavallo solo dopo aver assicurato le briglie dell’altro alla sua sella “Cercate di tornare interi, ragazzi.”

“Lo faremo.” Ed gli strinse l’occhiolino prima di lanciarsi dietro a Nina, che era già partita di gran carriera verso la posizione che, teoricamente, doveva avere assunto la quarta divisione.

Quando non li trovarono, iniziarono a risalire verso sud.

“Possibile che si siano fermati così indietro?” domandò Eldo, affiancato alla bionda.

Lei portò il medaglione dorato di suo nonno alle labbra, tesa “Dipende dove li hanno attaccati.”

 

Lo scenario che si aprì di fronte ai loro occhi era raccapricciante.

La quarta unità era stata distrutta completamente e pezzi di cadaveri giacevano a terra straziati, insieme ai cavalli.

Il sangue tingeva di rosso l’acqua piovana che scorreva fra le rocce e l’erba in un fiume vermiglio, regalando uno spettacolo che Nina sapeva non si sarebbe mai tolta dalla mente.

“Ehi! C’è nessuno!” urlò con tutta la voce che aveva nei polmoni, “Tenente!” chiamò ancora e ancora, avanzando fra i corpi.

Ed prese dalla scatola dei fumogeni uno nero “Questa è l’opera di un anomalo” disse più a se stesso che agli altri, prima di alzare la pistola e sparare.

Nina non l’aveva ascoltato.

I suoi occhi erano fissi su un ammasso di carne scomposta, lasciata a terra come spazzatura.

Non era possibile riconoscere a chi appartenesse, se non fosse stato per la fascia bianca che teneva attorno al braccio sinistro. La ragazza si chinò, sfilandola con accortezza, come se temesse di ferirlo, mentre una lacrima cadeva mista alle gocce di pioggia sul giglio rosso ricamato.

Tenente…” sussurrò sconfortata, stringendo la fascetta fra le mani.

Non c’erano superstiti.

Non c’era più il primo ufficiale medico.

Per qualche minuto, persino la speranza scomparve.

Poi apparve lui.

Il nitrito della cavalla la costrinse ad alzare il capo mentre dalla sua pozione, inginocchiata fra il fango e il sangue che appestava l’aria, poteva vedere solo parzialmente la persona che era giunta sino a lì. Ammantata e nascosta dalla nebbia, per un attimo, le parve quasi una visione immaginaria, ma quando realizzò che si trattava di Levi, si alzò in piedi.

Doveva chiedergli cosa ne era del resto della squadra di Flagon.

Non le diede il tempo di farlo.

Girò il cavallo e partì di nuovo, al galoppo.

“Levi!” urlò, cercando di fermarlo.

Si ficcò la fascetta nella tasca interna della giubba, sotto alla mantella, prima fischiare. Il cavallo la raggiunse e lei montò in groppa con un singolo salto agile.

Ed improvvisò una corsa verso di lei “Nina! Nina, cosa stai-”

“Vai!” la giovane spronò il cavallo, che partì di gran carriera, non permettendo all’amico di terminare la frase.

“Nina!” la chiamò con tutto il fiato che aveva in gola, ma lei non si fermò.

Sparì, inghiottita dalla nebbia.

Inseguendo lui.

 

Nina cavalcò da sola nella nebbia solo per cinque minuti, ma furono in assoluto i cinque minuti più lunghi di tutta la sua vita.

Fu straziante e spaventoso.

Era terrorizzata e determinata allo stesso tempo, le faceva male il cuore tanto batteva veloce contro al suo costato.

Sentiva che doveva essere successo qualcosa di orribile.

Se Ness aveva ragione e avevano perso tutto il fianco destro, allora…

“Siamo completamente nella merda, Arold” disse rivolta al cavallo, spronandolo ad andare ancora più veloce.

La nebbia iniziò a diradarsi, localizzandosi in tanti banchi circoscritti e iniziando a permetterle di guardarsi attorno.

Allora vide, poco distante, cinque giganti.

Sentì il sangue ghiacciarsi nelle vene quando, guadagnati altri cinquanta metri, vide che da solo a fronteggiarli, c’era Levi.

Al centro di uno spiazzo aperto.

“Levi!” urlò di nuovo, più forte, decidendo di andare avanti anche se cinque giganti, per due persone, erano troppi.

Erano un suicidio.

Non fece comunque in tempo a raggiungerlo che già tre erano a terra, morti.

Guardò con gli occhi spalancati la scena, fermando il cavallo.

Un altro cadde, poco distante da lei, facendo nitrire la bestia che montava.

L’uomo era così veloce che faticava a seguirlo con lo sguardo nonostante la nebbia si fosse diradata.

Sconvolta, Nina non si rese conto dei corpi a terra.

Quando fu tutto finito, quando tutti i giganti vennero sconfitti, scese da cavallo con le gambe che tremavano, cercando di riscuotersi.

Osservò Levi inginocchiarsi accanto alla testa mozzata di un soldato dai capelli così rossi da apparire come il fuoco vivo, chiedendosi come fosse possibile. Isabel era morta e di lei era rimasto ben poco da poter piangere. Poco distante, con il corpo strappato a metà, c’era anche Farlan.

Nina deviò, avvicinandosi a lui e lasciandosi cadere con le ginocchia tra il fango, con le mani nascoste fra le cosce e lo sguardo sbarrato.

Improvvisamente le tornarono in mente le parole di suo fratello.

Un uomo che non ha niente da perdere, non ha nemmeno niente che non rischierebbe.

Si sbagliava. Si sbagliavano entrambi, visto che lei gli aveva creduto. Levi aveva qualcosa che poteva perdere e loro, con le macchinazioni politiche e il doppiogioco, glielo avevano portato via.

La sola cosa che provò Nina, oltre a quel rimasuglio di paura che le torceva lo stomaco e la nausea per lo spettacolo che le si presentava di fronte, era il senso di colpa.

Forse avrebbe dovuto denunciarli alla Guarnigione di Trost.

Se l’avesse fatto, non sarebbero mai usciti all’esterno.

Se l’avesse fatto, non sarebbero morti così e Levi non sarebbe rimasto solo a seppellire quel poco che aveva.

Allungò la mano tremolante, chiudendo gli occhi di Farlan e appoggiando le sue braccia sul petto.

Solo ora che li vedeva morti, comprendeva cosa erano davvero: ragazzi di strada, non addestrati e buttati in pasto ai giganti solo perché volevano una vita migliore.

Una vita vera, sotto a un cielo stellato che non puzzasse di muffa e rancido.

Gli appoggiò una mano sulla spalla, come a volersi scusare, prima di cercare di alzarsi. Non dovette sforzarsi molto, visto che venne tirata su di peso.

“Tu! Tu sapevi!” Levi la tenne sollevata per il collo della camicia scuotendola senza delicatezza mentre ringhiava direttamente coltro al suo viso. Nina gli afferrò i polsi, cercando di tenersi sollevata, ma non aveva forza nelle braccia. “Dillo! Sapevi che sarebbe finita così eppure l’hai permesso!”

Ci fu un istante nel quale Nina cercò una giustificazione, in cui razionalmente voleva spiegargli che non poteva aver causato lei quel tempo avverso e che non poteva prevedere quel gruppo di giganti…

Ma sarebbe stato ancor più egoista.

Gli occhi le si riempirono di lacrime mentre realizzava che sì, non aveva fatto salire lei la nebbia, ma che aveva portato avanti il progetto di Erwin stando in silenzio.

“Mi dispiace, Levi. Perdonami, ti prego.”

Il corpo dell’uomo ebbe uno spasmo, mentre la guardava incredulo, come se si aspettasse qualsiasi altra risposta, tutto ma non quello. Sembrava quasi che avesse sperato in una bugia, ma Nina non aveva il coraggio di guardarlo negli occhi e mentirgli.

La lasciò cadere, mollando la presa sul colletto e Nina cadde nuovamente a terra, alzando un braccio per aggrapparsi alla cinghia sulla coscia dell’uomo. Le sue spalle vennero scosse dai singhiozzi, mentre teneva il viso chino verso il terreno.

Perdonami…

Lui si staccò con un movimento secco e lei rimase così, alzando il capo solo quando sentì la voce di suo fratello.

No, Erwin. Non doveva avvicinarsi.

Nina cercò di alzarsi, scivolando nel fango. Levi le dava le spalle, volto verso l’arrivo delle due persone a cavallo.

“Erwin! Vattene!” urlò Nina, sentendo la gola in fiamme.

Non servì a niente e a lei non rimase altro se non rimanere pietrificata lì, a terra, mentre Levi si lanciava contro suo fratello con le spade sguainate.

In quel frangente, dimenticò di essere all’esterno.

Si dimenticò dei giganti e della formazione.

Dimenticò persino la Morte.

 

 

 

 

Nda.

Ecco qui il nuovo capitolo!

Ho volutamente interrotto la prima parte con tutto questo pathos perché sono una persona orrenda…

… soprattutto perché il prossimo sarà ambientato a Trost e non riguarderà Nina, almeno non nella parte presente!

 

Un paio di puntualizzazioni veloci: Perché Nina ha delle bende attorno al busto, sul seno? Perché non esistevano i reggiseni sportivi nel medioevo/mondo passato/apocalisse futura o come lo intendete voi. indi per cui cavalcare doveva essere qualcosa di impossibile da fare, soprattutto per molte ore, se non tenendo le gemelle al sicuro e ben strette al corpo. Questo è un tipo di accortezza che alcuni sportivi hanno ancora oggi, per esempio le ragazze che praticano il karate, sotto alla protezione, molto spesso si bendano il petto per evitare di provare fastidio.

 

Ho cercato di narrare un po’ la storia di questo paese, di cui spero di aver modo di rivelare il nome presto o tardi, lasciato deserto a causa dell’arrivo dei giganti. La storia è ricca di avvenimenti come questo, come Prypriat per esempio o altri città lasciate deserte a causa di guerre o avvenimenti catastrofici. Credo che la metafora della tavola imbandita lasciata deserta sia un immagine forte. Ti fa pensare.

Come un bambino nascosto sotto al letto, lasciato solo da genitori sicuramente finiti sbranati. Domando scusa se ho turbato qualcuno con questa immagine, i bambini sono un argomento delicato e lo capisco, ma se volete qualcosa di soft non è proprio il fandom adatto in cui cercarlo.

 

Ho iniziato anche ad introdurre un po’ la storia di Nina, il suo background e la sua famiglia. In particolare, ho marciato un po’ sul rapporto con sua madre, ma ho intenzione di dedicare a tutti loro un capitolo in particolare, da un punto di vista particolare.

 

Il racconto dalla missione oltre le mura…

Allora, ho scelto volutamente di seguire più il manga dell’anime perché, secondo me, è più bello. Tutto qui. Da più ‘figaggine’ a Levi e Farlan… Che lo saluta prima di morire….

Avete capito insomma.

 

Detto questo, vi saluto e vi ringrazio per avere letto fin qui.

In particolare, mando tanti coriandoli e glitter ai due angeli, Auriga e la mia compagna di chiacchiere no sense Shinge, per avermi commentata.

Ringrazio anche RLandH che è una stronzetta che commenta una volta ogni morte di cristo, ma con la quale sto plottando l’implottabile.

 

Spero di riaggiornare presto!

Un saluto a tutti,

C.L.

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Capitolo 6
*** Capitolo Quinto ***


11

Wenn die Sterne leuchten.

Capitolo Quinto.

Don't try to fix me, I'm not broken

Hello, I am the lie living for you so you can hide

Don't cry

https://www.youtube.com/watch?v=9MHGtlEYZBA

Anno 846

Caserma militare del distretto di Trost.

Erwin lo aveva evitato per tre giorni, ovvero dal loro ritorno entro le mura del Distretto di Trost.

Non c’era stato verso, per Levi, di avere con lui un colloquio, non era riuscito nemmeno a trovarlo la sera, come se Erwin non avesse fatto dormito nella caserma cittadina.

La situazione si era fatta frustrante oltre ogni dire, perché quello non solo era solo insolito – il Comandante era sempre reperibile, a qualsiasi giorno e della notte, persino nelle rare licenze che aveva preso negli ultimi due anni – ed era anche inopportuno.

Aveva scelto il momento sbagliato per prendersela comoda.

Anche se sapeva di essere ingiusto, Levi non riusciva comunque a non irritarsi; se c’era una cosa che era severamente vietata dalla legge, era quella di uscire dalle mura senza avere ottenuto tutti i permessi necessari. L’iter per richiederli era lungo e pieno di scartoffie che il Caporale si sarebbe anche scomodato a compilare, se solo avesse avuto il consenso del Comandante.

Non era nemmeno capace di falsificare la sua firma, era Nina quella che solitamente si prendeva una tale responsabilità ed era anche brava a farlo. Certo, di solito erano firme su lascia passare per i soldati che richiedevano una licenza per tornare a casa già precedentemente concordata con Erwin che, puntualmente, si dimenticava di compilare i congedi momentanei.

Nina non era solamente il Primo Ufficiale Medico, era anche la collaboratrice più stretta di suo fratello. Avvolte gli faceva anche la madre, se era per quello. La ragazzina sapeva diventare spaventosa quando partiva con una delle sue ramanzine da sorella, seppure fosse più giovane di Erwin di quasi dodici anni.

Il Caporale scosse il capo lentamente, mordendosi piano il labro inferiore tanto era assorto da quei pensieri.

Senza di lei, sarebbe andato tutto a rotoli.

Mike avrebbe senza ombra di dubbio iniziato ad odorare le ferite di tutti per capire quali stessero andando in cancrena o quali no, mentre Hanji l’avrebbe assistito nei suoi strani deliri. Al solo pensiero della Zoë come primo ufficiale medico ad interim gli fece venire due o tre capelli bianchi.

Cosa avrebbe fatto Erwin? Dimenticava spesso le cose. Aveva sempre la mente altrove, persa in formazioni nuove, missioni impossibili e piani orribili e compromettenti.

Non preparava mai la documentazione da portare a Zackley senza averla letta almeno cinque volte e averla fatta leggere a qualcun altro. Sicuramente si sarebbe ammalato dieci volte in un mese visto che era troppo impegnato anche per badare ai cambiamenti climatici.

Cosa avrebbe fatto lui stesso? Levi non si era mai ritrovato così tanto da solo nella sua vita.

Due anni prima aveva perso Farlan, con il quale era cresciuto in quella topaia del ghetto, e Isabel, che a modo suo l’aveva sempre aiutato. Li aveva persi per sempre e a raccogliere i pezzi c’erano Erwin e Nina.

Loro due, in modo diverso, ma presenti nella sua vita erano riusciti a tenerlo a galla e a proteggerlo da se stesso.

Adesso gli sembrava non gli fosse rimasto nulla, una volta perso il sorriso di Nina e la fiducia del Comandante.

Levi se ne stava seduto sul letto con le mani strette attorno al bordo di una cornice in ottone opaco dall’aria antica, che aveva appena finito di lucidare utilizzando uno straccio vecchio intinto in un poco di aceto.

Allora bussarono alla porta, riportando la sua attenzione sul mondo dal quale si era momentaneamente straniato. Il tocco fu leggero, quasi inesistente, tanto che per un istante il Caporale pensò di averlo solo sognato.

L’uscio però si aprì lento, quasi con timore, mentre da esso si affacciava la figura troneggiante di Erwin Smith.

Levi lo guardò con lo stesso stregato cipiglio con cui si guarda un’apparizione miracolosa, alzando le sopracciglia, senza però abbandonare il grugno scostante e seccato che aveva addosso come una maschera cucita sulla carne ormai da giorni.

“Sapevo che ti avrei trovato qui” furono le parole con cui Erwin iniziò a parlare, guardandosi attorno quasi come se si aspettasse chissà quale spettacolo. Doveva essere entrato in quella camera arredata in modo essenziale almeno venti volte solo nell’ultimo anno, visto che era lì che viveva sua sorella quando stanziavano a Trost e non al quartier generale della Legione. Negli ultimi tempi, poi, erano sempre in città.

Levi lo osservò attentamente, dalla punta degli stivali fino alla giacca distinta. Era vestito da civile, non capitava spesso di vederlo conciato così, dato che sembrava esserci nato con addosso la divisa militare. Avrebbe tanto voluto domandargli dove diavolo si fosse cacciato, ma la domanda gli morì in gola quando adocchiò il borsone che pendeva dal fianco.

“Sei in partenza” decretò con tono funereo, sentendo l’amaro in bocca. Provò però lo stesso a stare calmo, perché se avessero ripreso a urlarsi addosso come due animali, allora non avrebbe ottenuto proprio un bel niente.

Il suo volto tornò apatico e impassibile, deluso, mentre le dita si stringevano ancora di più alla cornice contenente il ritratto.

Erwin non lo stava guardando.

Non rispose nemmeno all’insinuazione.

Si limitò a lasciare il borsone accanto alla porta, mentre si avvicinava alla scrivania. Accarezzò una pila di libri, il primo del quale era stato spolverato da Levi, pochi minuti prima, nel patetico tentativo di tenersi impegnato con le pulizie della stanza. Erwin passò poi al comò, per lo più vuoto ad eccezione dei primi due cassetti. Su di esso c’erano diversi disegni piene di ritratti, bei volti e sorrisi. La più grande stava fra le mani di Levi, mentre tutte le altre sparse raccontavano una storia. Erwin raccolse quella che ritraeva sua sorella il giorno in cui aveva potuto completare gli studi. Era la prima laureata della famiglia. Suo padre aveva viaggiato da Stohess alla Capitale per potere assistere alla sua proclamazione a Primo Ufficiale Medico. Era una bella soddisfazione, ma Nina di soddisfazioni ne aveva portate molte.

Erwin si sentì in colpa per non averle mai posto un limite, per aver preteso da lei troppo. Ricordava molto bene quando aveva fatto il suo ingresso in accademia, promettendo alla loro madre cose che poi non aveva mantenuto. Ricordava anche il giorno in cui si era unita alla Legione, la sua espressione durante la prima spedizioni all’esterno. Cercava di incamerare la paura in un falso sguardo determinato per impressionarlo, Erwin lo aveva capito da lontano cosa provava veramente, ma era sempre stata brava a fare finta di niente.

A fingere con leggerezza che andasse tutto bene, a sorridere sempre anche quando desiderava solo piangere, riuscendo a crollare solo al sicuro fra quattro mura conosciute. Per non farlo preoccupare, per non farsi vedere debole.

Era sempre stata così. Aveva sempre finto per cercare di nascondere tutto il dolore che quella vita le aveva procurato.

“Hai intenzione di rimuginare tutta la sera o parlerai, prima o poi?”

Levi iniziava a spazientirsi. Di nuovo. Quel silenzio non era affatto piacevole.

L’altro parve accorgersi della tensione che attraversava l’aria, così andò a sedersi accanto a lui, facendo cigolare le molle del materasso. Lanciò uno sguardo alla cornice che Levi continuava a stringere quasi ossessivamente, tradendo quindi il suo reale stato d’animo.

Raffigurava un gruppo di cadetti allegri, con addosso ancora le giubbe recanti le due spade incrociate dell’addestramento. Nina aveva detto una volta che a disegnare quella meravigliosa scena era stato Moblit, il talentuoso secondo di Hanji, che faceva l'accademia al loro tempo seppur indietro di un anno. Da sinistra verso destra, poté osservare i volti sorridenti di un piccolo gruppo del novantaseiesimo corpo reclute. Il primo era un ragazzo alto, allampanato, con gli occhi azzurri limpidi, nascosti da grossi lente. Nicholas Ravenstein, settore ingegneristico, morto nello svolgimento del suo dovere oltre le mura. Il secondo era un giovane di poco più basso e mingherlino, con una testa di capelli biondo pagliericcio e delle lentiggini marcate su tutto il naso. Rielke Müller, suo cugino acquisito, che aveva scelto la Guarnigione ed era di istanza a Stohess. C’era poi una ragazza casta, con i capelli lunghi tenuti in una treccia che le girava attorno al capo come una corona e gli occhi caldi. Kayla Jutah, morta nell’adempimento del suo dovere oltre le mura. La stessa sorte era toccata al ragazzo moro dagli occhi neri come il carbone. Eddart Reynolds, deceduto anche lui durante la trentaduesima missione della Legione. Eldo Gin sembrava il più sicuro di sé, in mezzo a quei ragazzi, li sovrastava anche in altezza. Unico superstite dell’armata ricognitiva raffigurato in quei ritratti. C’era poi quel ragazzo della Gendermeria di cui Erwin non ricordava il nome, con i capelli rossi e l’espressione quasi annoiata. Stringeva il braccio attorno alle spalle di sua sorella, che sorrideva più luminosa degli altri, con i capelli a nasconderle parzialmente il volto e le gote leggermente arrossate. In ultimo, un ragazzo castano ricciolino, con gli occhi un po’ persi, che non faceva parte di quel reggimento seppure fosse più grande degli altri. Friederich ‘Fritz’ Meier era molto legato a Nina, che aveva vissuto con lui per anni, quando studiava medicina come apprendista nello studio di suo padre, Franz Meier. Anche Fritz aveva scelto di unirsi alla Legione e così era morto, l’anno prima, vittima del crollo del Wall Maria. Era rimasto bloccato nel distretto di Briemer, la città più a nord di tutte, tra il freddo e la fame, in una morsa letale. Nessuno si era curato delle città abbandonate e a Nina si era spezzato il cuore nel sapere che era rimasto chiuso al di fuori delle mura.

Il bilancio dei caduti lasciava poco spazio alla speranza che Levi gli stava chiedendo.

Erwin sospirò piano, abbassando il capo che andò ad incassarsi fra le spalle larghe. “Ti perdono per ciò che hai detto mentre eravamo là fuori. So che eri sconvolto, lo siamo ancora entrambi, e voglio che tu sappia che va tutto bene.”

Va tutto bene? Non c’era un cazzo che andava bene.

Il cervello del Caporale ebbe un arresto improvviso a quelle parole. Per un attimo ebbe il presentimento di essere diventato un povero imbecille, poi però realizzò che tutte le prove portavano al fatto che non era lui l’idiota in quella stanza. Portò pollice e indice alla radice del naso, mentre abbandonava con non curanza la cornice sul letto.

Sicuramente qualcosa non tornava.

L’intelligenza di Erwin non tornava, doveva avere dimenticato il senno oltre le mura.

Altro motivo per uscire il prima possibile e recuperare tutto e tutti. “Mi sto trattenendo dal prenderti a calci fino a farti sputare il culo, eppure vieni qui e mi dici che sei tu a perdonare me?”

Se si fosse trattato di chiunque altro, l’avrebbe fatto. Avrebbe usato i pugni e i calci fino a convincerlo che aveva ragione lui, l’avrebbe ridotto a un quintale di macinato di vacca e poi forse ne avrebbero riparlato. Forse.

Ad Erwin dava però il beneficio del dubbio. Era l’unico a poter godere di quel piccolo lusso.

L’uomo però non colse la provocazione né tanto meno il tono minaccioso di Levi. Abbozzò un sorriso amaro, tenendo gli occhi sul pavimento in totale contemplazione del disegno geometrico delle mattonelle.

“Parto domani all’alba per Stohess. Mi aspetto che tu venga con me.”

“Non mi stai nemmeno ascoltando. Fantastico.” In quel frangente, Erwin gli ricordò così tanto Nina da fargli male.

Il Comandante si levò in tutta la sua altezza, appoggiandogli una mano sulla spalla come per fornirgli un qualsivoglia conforto. Levi non ne aveva bisogno.

Voleva solo che l’altro lo ascoltasse.

“Mi sono sempre fidato di te, nel bene e nel male, Erwin” insistette, tirandosi in piedi a sua volta, ma rimanendo accanto al letto con le braccia rigide lungo i fianchi e gli occhi a pugnalare la schiena del Comandante “L’anno scorso, quando hanno mandato a morire tutta quella gente innocente, io ero con te. Anche se non era per questo che mi sono unito alla Legione, c’ero. Gli altri stavano per ribellarsi, quello stronzo di Schäfer ti ha quasi fatto le scarpe e Shadis ha deciso di andarsene proprio in tempo per evitarsi gli ordini di merda di Zackley. Ti ho appoggiato e centinaia di persone ci sono morte di fronte, mentre noi della Legione stavamo a guardare. Nora è morta davanti ai tuoi occhi e tu te ne sei rimasto impassibile su quel cazzo di cavallo. Tua sorella è rimasta sotto a quel dannato tendone bianco a soccorre feriti per tre giorni di fila senza dormire, fino a che non l’ho tirata fuori per i capelli quando, sempre tu, hai ordinato la ritirata dei pochi ancora vivi. Abbiamo tutti sputato l’anima per te, Erwin, senza mai pretendere che tu dicessi nulla perché è giusto così. Non ti ho mai chiesto niente, dannazione! Né una spiegazione, né una motivazione per i tuoi piani di merda che promettono sempre male in partenza e adesso non mi stai nemmeno a sentire? Non hai nemmeno le palle di guardarmi negli occhi?!”

Attese qualche secondo, ma Erwin non si voltò. Lo guardò chinarsi, raccogliere il borsone e caricarselo sulla spalla, ma non ebbe il coraggio di fronteggiare Levi. Chi lo sa, forse non ne aveva al forza.

“Dannazione Erwin, fa l’uomo! Ti sto dicendo che ho ragione di credere che tua sorella è viva e a te non importa niente?! Non verrò con te a guardare in faccia tua madre per dirle una menzogna!” la rabbia montò di nuovo in lui, più forte di qualche giorno prima. Andò verso di lui e prese per un braccio, costringendolo a voltarsi e, finalmente, a guardarlo.

Non c’era nessuna speranza nei suoi occhi azzurri, ma nemmeno ira.

Non c’erano emozioni. Solo un grande gelo che Levi avvertì all’altezza del petto.

“Levi, ascoltami bene” iniziò con calma, prendendogli il polso per costringerlo con gentilezza mista a tensione a lasciarlo andare “Non hai idea di come era ridotto il campo che ha visto lo scontro tra la squadra di Sankov e i giganti, perché non c’eri. Ti ho risparmiato la vista.”

Ora giocava anche al premuroso nei suoi riguardi? Da quando?

“Ho visto quello in cui sono morti Farlan e Isabel” rilanciò, determinato a vincere quello scontro verbale ad ogni costo, ritirando anche fuori quei ricordi che dilaniavano ancora la sua anima “Faceva schifo, c’erano brandelli di carne e pozze di sangue ovunque, ma io sono sopravvissuto.”

“Nina non è come te, per quanto tu voglia sforzarti di credere il contrario. Tu sei l’eccezione.”

Levi sbuffò, tirandosi indietro “Infatti. Il suo spirito è molto più forte del mio. Se c’è una persona determinata a questo mondo, questa è tua sorella. Dalle un mattone e in due giorni avrai un castello, dovresti saperlo molto meglio di me.”

Erwin sorrise nuovamente, in quel modo malinconico e triste, seppur fiero, che metteva a Levi una gran voglia di vomitargli sulle scarpe di vernice nera. Ripetutamente. “Tenevi a lei, lo so, ma devi darti pace. Ora lasciami andare a riposare, domani dovrò portare alla mia famiglia la giacca di servizio di Nina.”

Non c’era spazio per la speranza, quell’uomo era diventato più irraggiungibile del cielo e più duro delle mura. Non c’era possibilità di fare breccia nella sua ragione o nel suo cuore spezzato. Levi sistemò la giacca nera che teneva appoggiata alle spalle, voltandosi per non guardare più il suo viso. Non replicò oltre, anche se poteva dirsi tutto tranne che arreso.

Erwin non aggiunse altro a sua volta, lanciandogli uno sguardo tra l’impietosito e qualcos’altro che non era possibile cogliere, prima di lasciare la stanza, chiudendosi la porta alle spalle.

Rimasto solo, il Caporale recuperò la cornice, passando l’indice della mano sinistra sul volto sorridente di Nina.

“Allora vorrà dire che dovrò scavalcarti. Vaffanculo Erwin, dovrò faticare parecchio a causa tua.”

Si era guardato bene dall’uscire dalla caserma all’alba per evitare di incontrare anche solo per errore Erwin, ma aveva rimediato Hanji al suo posto. Nonostante la compagna di viaggio rumorosa, non gli dispiacque averla con sé. L’aveva aiutato quando ne aveva avuto bisogno e Levi sapeva riconoscerle il merito che con quell’entusiasmo comunque teneva sollevato il morale. Non lo avrebbe mai ammesso, ma in quei due anni nella Legione insieme, Hanji Zoë era riuscita a scavarsi una piccola nicchia fra gli affetti del Caporale.

“Quindi la tua idea è quella di scavalcarlo?”

“Esattamente. Se lui non mi ascolta, lo farà qualcun altro.”

“Chi, con esattezza?”

Il volto dell’uomo rimase impassibile, mentre spiava con gli occhi il sole che brillava ancora pallido nel cielo. Tutto attorno a lui l’odore della rugiada bagnava l’aria, mentre il nuovo giorno si stava levando ancora pigro. Avevano lasciato ormai da una buona oretta Trost e sapeva di essere quasi arrivato.

Il luogo in cui erano diretti non stava che a un’ora a cavallo a passo lento dal Distretto, abbastanza lontano per poterne sfruttare il terreno in sicurezza, ma comunque sufficientemente lontano da non causare problemi. Tutto attorno, una fitta foresta dagli alberi i cui tronchi parevano di carbone, troneggiava e difendeva l’accampamento.

“Erwin Smith non è il solo Comandante che conosciamo, sbaglio?”

Hanji capì a cosa si riferiva senza nemmeno dover domandare. Un sorrisetto divertito le incurvò le labbra sottili, mentre abbassava il capo con fare meditabondo “Furbo.”

“Lo so. Qualcuno deve pur esserlo.”

Keith Shadis sembrava invecchiato dall’ultima volta che Levi l’aveva visto, meno di un anno prima.

Aveva perso un po’ di capelli, stempiandosi e gli occhi sembravano contornati da più rughe di quante avrebbe effettivamente dovuto averne un uomo della sua età. Ciò che maggiormente lo stranì, però, fu il suo sguardo. Nonostante il colore caldo, come caramello fuso, esso era glaciale, scostante. Non lo ricordava così, però doveva ammettere che non aveva mai prestato molta attenzione a quell’uomo. Non aveva avuto molto tempo per conoscerlo, visto che era stato il suo Comandante per qualcosa come quattordici mesi, che Levi aveva passato per lo più nella Capitale e dietro agli ordini diretti di Smith. Quando Shadis aveva lasciato la Legione, chiedendo a Erwin di prendere le redini, aveva fatto qualcosa di nuovo, qualcosa che nessuno si era mai permesso di fare prima: ogni Comandante si era succeduto al precedente solo alla morte di questo. Shadis, invece, aveva letteralmente abdicato.

Inutile dire che ad Ackerman non aveva fatto né caldo né freddo, ma più di una persona aveva storto il naso o sbottato frasi di falsa cortesia e accondiscendenza a quel gesto.

La stessa falsa cortesia e accondiscendenza usata dallo stesso Shadis quando li aveva visti arrivare a passo di marcia.

Aveva staccato gli occhi solo per qualche istante da una recluta che sembrava più un salame lasciato a stagionare, che un feroce guerriero, e si era ritrovato di fronte la Zoë e Levi.

Non prometteva bene quella visita.

Aveva urlato a un certo Moritz che faceva paura tanto quanto un piccolo pulcino appena nato così insalsicciato nell’imbragatura e appeso lassù in aria, per poi decretare qualche minuto di pausa.

Forse avrebbero avuto addirittura il resto della mattinata libera, quei ragazzi.

“Fatemi capire bene: voi due siete venuti fino a qui perché io vi aiuti a scavalcare il vostro Comandante?”

“Pressappoco.”

Keith osservò Levi, seduto accanto a lui al tavolo, prima di sospirare piano, con un cipiglio particolarmente rassegnato. “Almeno possiamo berci una tazza di teh prima o dobbiamo buttarci subito in questi affari loschi?”

La tazza di teh, secondo il criterio di Ackerman, poteva aspettare. Il che era indicativo della premura che aveva.

Fu Hanji però a raccontargli per filo e per segno perché avevano bisogno di un aiuto. Anzi, necessitavano di un consiglio, visto che l’uomo non avrebbe mai preso parte a un’azione sovversiva ai danni di Erwin.

Shadis non sembrava molto convinto, ma si decise a dire la sua nel modo più onesto e spietato che conosceva “Ammesso che lei sia davvero viva” sottolineò, guardando verso il Caporale che sbuffò appena, assottigliando gli occhi. “E trovo molto debole la tua argomentazione sul fatto che te lo senti, Levi, non so per quanto una persona sola possa resistere nella terra dei giganti. Nina è brava, sa il fatto suo e il sangue che le scorre nelle vene vorrà pur dire qualcosa, ma è una donna rimasta sola. Quanto potrà sopravvivere prima di venire mangiata? Non avete il tempo di convincere Erwin.”

Levi batté il pugno sul tavolo, facendo sussultare Hanji, ma non ottenendo nessuna reazione da parte dell’uomo. Doveva fare di meglio per spaventarlo o scuoterlo “Quindi mi stai dicendo che dovrei lasciare perdere? Non sono venuto fin qua per vedere quanto scarse sono le tue reclute, ma per sentirmi dire qualcosa di vagamente sensato.”

“Ti sto dicendo che non puoi convincere Erwin. Fatti furbo e sfrutta ciò che hai imparato in questi due anni. Per quali motivi usciamo la fuori?”

Levi tornò ad appoggiarsi allo schienale della sedia con lentezza, chiedendosi dove l’uomo volesse arrivare “Per diventare lo spuntino dei giganti?”

“Io non ti ho mai capito, Levi. Sei strano.”

Hanji portò una mano alla fronte, prima di interrompere quello scambio di parole, che iniziava a farsi leggermente ridicolo “Per studiare la natura dei giganti.”

Shadis incrociò le braccia sul petto, chiudendo gli occhi per qualche secondo, pensieroso. Gli altri due lo guardavano attendendo una qualsiasi reazione.

“Ti stai per addormentare, vecchio?”

“Sto pensando, nanerottolo. Fa silenzio.”

Il tempo parve dilatarsi, tanto che Levi iniziò a spazientirsi. Erano venuti fin lì per farsi prendere per il culo da un vecchio pazzo? Non avrebbe di certo perso altro tempi. Scostò la sedia rumorosamente, lasciando che i piedi di legno grattassero contro al pavimento, mentre puntellava il braccio per alzarsi.

“Dovete proporre un progetto.” Shadis lo interruppe, riportando gli occhi su di loro, ma parlando principalmente con Hanji, che a quelle parole aveva rizzato per bene le orecchie “Avete detto che Erwin è andato a Stohess, no? Ottimo. La Capitale è incantevole in questo periodo, portate i vostri culi da Zackley sostenendo che non volevate turbare il Comandante durante un lutto tanto importante e che volete richiedere un permesso per una spedizione all’esterno il prima possibile.”

“Come possiamo attirare così tanto la loro attenzione da ignorare il fatto che la domanda non è arrivata dal Comandante, ma da noi?”

“Non lo so! Inventati qualcosa!” Shadis si sporse in avanti, verso di lei, agitando vago la mano mentre cercava le parole “Dite che avete visto un gigante con due teste, un Krampus che stava sgranocchiando un bambino o una marmotta blu! Pensate a qualcosa, andrà bene quel che vi viene, persino un cazzo di unicorno. Ma deve essere qualcosa che necessita un immediato riscontro. Proponetelo e sperate. Questa è tutto ciò che il potere che avete vi permette.”

Levi lo guardò, con il capo inclinato di lato, decretando che poteva andare bene. “Hanji, lascio a te questo compito. Trova qualcosa di strano e malato da studiare, dovrebbe essere il tuo campo.”

La donna lo guardò alzarsi seria, con il cervello che già viaggiava su quella lunghezza d’onda. Avrebbe trovato di sicuro qualcosa di interessante “Va bene, conta su di me.”

“Perfetto. Recupera i cavalli, io devo fare un’ultima cosa e poi possiamo andarcene. Ex Comandante…” rivolse un cenno di saluto verso Shadis, non scomodandosi nemmeno di ringraziare.

Quando di lui non rimase che lo svolazzare vago di quel ‘arrivederci’ che non sembra nemmeno per niente, Keith tornò a voltarsi verso la donna, che guardava divertita il cipiglio irritato che aveva assunto il suo volto.

“Ho sempre pensato che Levi fosse una testa di cazzo, ma spero che abbia ragione.”

Mieke si era preoccupata non poco quando, dal Capo Camerata, era arrivato l’ordine di prendere le sue cose e prepararsi alla partenza. Uno dei ragazzi dell’ultimo anno di addestramento l’avrebbe condotta a Stohess, dove la sua famiglia avere richiesto di poterla vedere.

Con lo zaino sulle spalle e l’espressione mesta s’era lasciata alle spalle il dormitorio, stringendosi addosso la mantella verde e chiedendosi cosa mai potesse essere successo. Che suo nonno si fosse sentito male? Forse era successo qualcosa nell’ultima missione oltre le mura? Quelle erano le prime due ipotesi che la sua mente aveva partorito. Erano anche le più ovvie. Il nonno era molto anziano e aveva patito parecchio la perdita della moglie, un anno prima e naturalmente, Nina ed Erwin correvano un rischio costante ogni volta che si lasciavano le mura sicure del Wall Rose dietro alla schiena.

Il non sapere la stava divorando lentamente.

Mieke.” La voce le arrivò alle spalle, spaventandola leggermente sia per il tono impellente, sia perché non s’aspettava di certo di ritrovarsi lui lì in quel momento.

Invece eccolo, sempre uguale seppure non lo vedesse ormai da qualche mese.

“Levi?” chiamò di rimando, attendendo che la raggiungesse e smettendo di torturare il bordo della mantella con le mani per mettersi sull’attenti. Quando le fu di fronte, la giovane ragazza non poté trattenersi “Sai cosa sta succedendo? Mi hanno detto che devo tornare a Stohess, ma nessuno mi dice perché!”

L’uomo ricambiò lo sguardo, prima di appoggiarle una mano sul capo, abbassandole il cappuccio e scoprendo i capelli biondi come il grano, tagliati corti come quelli di un ragazzo.

“Ti dirò tutto, ma tu prima devi promettermi che farai una cosa per me.”

Lei sembrò spiazzata sia da quell’atteggiamento, sia dalle parole del moro.

Iniziò a capire che doveva essere successo qualcosa di brutto “Levi?”

“Promettimelo.”

Quando insistette, Mieke non ebbe esitazione.

Nina si fidava di lui incondizionatamente, l’aveva letto nei suoi occhi ogni volta che guardava quell’uomo.

Questo le sarebbe bastato per fidarsi a sua volta “Te lo prometto. Ma ora parla.”

Suddenly I know I'm not sleeping

Hello, I'm still here

All that's left of yesterday

Anno 844

Ritorno dalla ventisettesima spedizione oltre le mura.

Levi osservava le pire bruciare e il fumo sparire nel buio della notte.

Da qualche parte, sotto quei corpi ammassati e a pezzi, c’erano anche quelli dei suoi amici.

Ci aveva pensato su, mentre guardava gli altri accatastarli come legna da ardere, a come avrebbe fatto a riconoscere quali sarebbero state le loro ceneri, ma alla fine aveva compreso che non aveva importanza. Non sarebbe stato un pugno di nulla a riportarglieli indietro e non avrebbe comunque avuto modo di far avere loro una bella lapide o una targa laddove qualcuno avrebbe potuto ricordarsene. Non sarebbe interessato a nessuno se un paio di ladruncoli dei bassifondi ci avevano rimesso le penne nel tentativo di guadagnarsi la libertà. Non importava più, però, perché loro erano già liberi.

Sarebbero stati per sempre liberi.

E lui solo.

Portò una mano sul viso, stropicciandolo mentre sentiva la stanchezza montare, ma rimaneva consapevole che per quanto il suo corpo potesse essere scosso, non avrebbe trovato ristoro nel sonno. Avrebbe potuto domandare alla dottoressa di preparargli quello schifo di intruglio alla valeriana, certo, ma non voleva parlarle.

Non voleva parlare con nessuna delle persone che si erano raggruppate a qualche metro da lui, in cerchio, poco lontano dalle pire. Erwin l’aveva anche invitato a unirsi a loro, quando era passato di lì con in mano una bottiglia contenente un sospetto liquido trasparente. Non aveva nemmeno risposto alla domanda, constatando solamente a voce alta che, da quando avevano fatto ritorno al quartiere generale, il Comandante Shadis era sparito.

“Dopo ogni missione si ritira nel suo ufficio, per scrivere il rapporto.”

Una scusa comoda, di circostanza, che il Capitano Smith aveva adottato ad hoc per coprire la realtà, ovvero il lampante senso di colpa che Shadis doveva provare ogni volta che riportava più morti che vivi. Lo poteva capire, però. Il suo fallimento era misurabile in vite spezzate e l’organizzazione delle cremazioni non doveva essere qualcosa di sua competenza. L’avevano fatto tutti gli altri, insieme, sottoposti e capitani, spostando ogni corpo con la dovuta accortezza e poi accendendo le fiamme. Levi non si era più spostato di lì da allora. Non era andando a cambiarsi o a rinfrescarsi come avevano fatto gli altri, tutti belli nei loro abiti civili, con in mano quel grande boccale pieno di qualche strana sostanza alcolica e una sigaretta che si passavano come un branco di ragazzini al vicolo di una via. Studiò ognuno di loro, costatando che non ricordava il nome della metà, ma semplicemente il loro titolo. Soldati semplici, reclute, capitani, capi squadra…

Venire valutati in vita per un titolo, doveva essere poco soddisfacente.

Continuò a guardarli, curioso di vedere fino a che punto si sarebbe spinto quel giochino senza senso. Quando finalmente la sigaretta, doveva essere la terza o la quarta, arrivò nelle mani di qualcuno insieme al boccale, tutti si zittirono.

Erwin appoggiò la mano sulla spalla dell’uomo accanto a lui, che lo sovrastava di almeno una decina di centimetri, “Tocca a te questa volta, Mike.”

“Bel festeggiamento per la promozione a Capo Squadra” aggiunse la ragazza con i capelli corti e i tratti del viso quasi maschili, poco distante da loro, lanciando un sorriso smaliziati all’uomo più alto.

“Non sono bravo coi discorsi” iniziò questi, annusando il contenuto del bicchiere, prima di prendervi un sorso generoso. Passò quindi quello ad Erwin e la sigaretta al ragazzino alla sinistra, prima di guardare una delle pire, che ancora ardeva intensa “Conoscevo poco le reclute cadute, ma conoscevo bene Flagon. Non avrebbe voluto un discorso sentito e delle lacrime, ma avrebbe voluto vederci bere ancora di più, augurandoci che alla fine, potremo dimenticarci di questa giornata. Quindi propongo di ricordare tutti così, bevendo nel loro ricordo.”

Un piccolo coro di assenso si levò dal gruppo, mentre il boccale arrivava nelle mani di Nina, che accanto al fratello s’era fatta piccola, avvolta in una coperta di lana ingiallita. Levi la guardò prendere un piccolo sorso, prima di storcere il naso e passare il boccale. La sigaretta venne spenta, il resto dell’alcool versato a terra, verso la pira, centrale, quella degli ufficiali. Mentre il gruppo iniziava a disperdersi, Levi si chiese cosa doveva aspettarsi. Che ricordassero Farlan e Isabel? Illuso.

“Sei certa di non volere venire?” l’attenzione di Levi venne attirata nuovamente da Erwin. Con quella voce tonante, seppur morbida in quel momento, era complicato ignorarlo. Stava accarezzando il capo di Nina, sorridendole gentile.

Lei, scosse piano la testa “No, non sono dell’umore per l’osteria, ma dì a Peter che se ha ancora problemi con la sciatica posso scendere in paese domani mattina.”

Stavano andando a bere? Dopo tutto quello che era successo, andavano a bere sul serio? L’uomo non s’era mai detto un sentimentale, ma persino ai suoi occhi gli parve egoista. I loro compagni erano morti e loro andavano a festeggiare? Ancora non poteva capire. Non aveva ancora compreso che era un modo di commemorarli, celebrando la vita e stando insieme.

Ci sarebbe arrivato col tempo e anche lui avrebbe iniziato a bere alla memoria di coloro che non sarebbero mai tornati a casa dell’esterno.

Qualcuno tornò verso l’ingresso del castello, ma la maggior parte si diresse verso il sentiero che conduceva al paese lì vicino, tenendo delle lanterne fra le mani. Nina non aveva intenzione di andare con loro. “Davvero, sono troppo stanca Ed” stava di fatti dicendo a quella recluta dallo sguardo perennemente irritato, che non aveva occhi che per lei. Levi l’aveva notato il primo giorno nel momento in cui s’era messo in mezzo, ma forse la bionda non se ne doveva essere accorta.

“Cosa farai, allora?”

“Rimarrò un po’ qui fuori e poi andrò a dormire” Nina gli sorrise, prima di accarezzargli la guancia “Bada a Nick, sai che brutto effetto hanno su di lui i lutti e le bevute.” Strisciò via dall’abbraccio quasi forzato che Reynolds le stava dando e Levi ebbe la brutta sensazione che si stesse dirigendo proprio dove si trovava lui.

Sensazione che si rivelò esatta nel momento in cui lei prese posto al sui fianco, in silenzio. La guardò con la coda dell’occhio, voltandosi solo quando percepì lo sguardo dell’amico della giovane addosso. Levi non seppe interpretarlo, era qualcosa di molto simile al disgusto, ma misto a una certa invidia. Giusto per non alimentare voglia di rissa in nessuno – non aveva voglia di spaccargli il culo, era stata probabilmente la giornata peggiore della sua vita dalla morte di sua madre- tornò a fissare le fiamme.

Quando ogni singola persona ebbe lasciato lo spiazzo di fronte al quartier generale, a coprire il suono quasi rassicurante delle cicale e dello scoppiettare delle fiamme, fu la voce leggermente, più grave del solito di Nina.

“Al villaggio di Irsee li chiamano i fuochi della speranza, perché bruciano intensamente e poi, quando si spengono, rimangono solo fumo e cenere.”

Azzeccato, fu il primo pensiero che invase la mente dell’uomo. Persino degli zotici contadini potevano sentire quanto poco utile fosse tutto ciò. Un lungo, infinito massacro senza ottenere uno straccio di risultato. Dovevano essere davvero dei martiri, questi soldati. O degli stupidi.

E guarda caso, lui aveva accettato di unirsi a loro. Sicuramente era il più coglione di tutti.

“Perché non ti sei unito alla nostra cerimonia?” Nina insisteva, con una certa dolcezza, certo, ma non aveva intenzione di cedere e lasciarlo nel suo mutismo “Tutte le volte che torniamo e portiamo dei morti- quindi ogni volta- ci raduniamo vicino alla pira e beviamo questo schifo” per sottolineare il discorso, alzò la bottiglia che il fratello le aveva lasciato, che ormai non conteneva che la metà del liquido trasparente “Grappa di mirto, la fanno al villaggio. Poi ci passiamo una sigaretta e a chi toccano insieme nello stesso momento deve fare un discorso. Stasera è andata male, Mike non è particolarmente loquace. Un po’ come te.” Levi sentiva gli occhi grandi della ragazza sul suo viso, ma si obbligò a non dire niente “Hai deciso che non mi parlerai mai più, vedo. Hai anche deciso di unirti alla Legione e di risparmiare la vita a me, a mio fratello e a Mike che era lì con noi. Perché lo hai fatto? Avresti potuto ucciderci tutti senza nemmeno versare una goccia di sudore, visto come ti muovi.”

L’uomo sbuffò scocciato, capendo l’antifona. Non se ne sarebbe andata se non avesse almeno provato a cacciarla “Diciamo solo che non mi rimane altro. Andarmene equivarrebbe a rendere nulla la morte dei miei amici.”

E non aveva un luogo in cui tornare, perché non poteva nemmeno pensarci che sarebbe tornato la sotto, nel ghetto, senza Farlan e Isabel. Non sarebbe stata una vita, quella. Tanto valeva aggrapparsi con le unghie e con i denti alla speranza che Smith gli aveva dato.

“Sei stato stregato anche tu da mio fratello, vero?” solo a quel punto, Levi si voltò a guardarla, già pronto a dirle cosa pensava esattamente di lei e di suo fratello, al momento. Non gliene diede il tempo “È normale. Lui è fatto così, ti entra nella testa e diventa impossibile dimenticare le sue parole.”

Dannata ragazzina. Scocciato, Levi si sistemò meglio la mantella verde addosso, iniziando a provare un po’ di disgusto per quanto era sporca e macchiata.

Nina, a quel punto, ridacchiò.

“Sembri desiderosa di ricevere un pugno da me, stasera.”

“No, ma trovo adorabile il fatto che tu ti stia offendendo perché ho ragione.”

Tralasciando che gli aveva affibbiato l’aggettivo adorabile, Levi si senti preso in giro dalla sicurezza della ragazza. Tornò a guardarla con sufficienza, sforzandosi di non notate come il danzare delle fiamme giocasse creando dei giochi di luce e ombra nelle sue iridi dai colori simili ma non identici, o come le lentiggini le risaltassero screziandole il volto stanco. Ritornò quindi nel suo mutismo, puntando gli occhi verso la pira e domandandosi perché non poterva semplicemente alzarsi e andarsene a dormire. Era l’occasione giusta.

Se l’avesse seguito, le sarebbe arrivato il tanto decantato pugno.

Peccato che non si spostò di un centimetro.

Nina la prese come una dichiarazione di intenti “Sai, quando ero all’università, non ho potuto frequentare perché i miei genitori non avevano i soldi per permetterselo. Così ho terminato gli studi come privatista, sostenendo gli esami e studiando medicina dal dottor Franz Meier.”

Di nuovo, Levi si voltò a guardarla con espressione scocciata “Non mi importa un cazzo della tua vita.”

Lei non diede segno di averlo sentito. Nemmeno lontanamente “Speravo di non entrare mai più ad Heinderich per tutta la mia vita, odiavo andare a sostenere gli esami in quel posto. Tutti mi guardavano come una poveraccia, mi odiavano perché ottenevo risultati migliori di loro e alla fine mi sono comunque ritrovata con una laurea in Medicina Militare, anche se ne sapevo più di loro tutti messi insieme sulle malattie infettive e i metodi di guarigione officinali. Invece dovrò tornarci perché mio fratello ha chiesto al comandante di promuovermi a Sergente per farmi avere il posto Primo Ufficiale Medico. Non solo non credo di avere le competenze e soprattutto l’esperienza per quel posto, ma mi serve anche una stupida abilitazione. Tutti partono dal basso, il Tenente Renson era un erborista prima di prendere la laurea in medicina dopo il sesto anno da ufficiale, ma bisogna dimostrare che bisogna saper fare qualcosa di più che amputare un arto e suturare una ferita. Come se poi, la fuori, servisse altro.” Fece una piccola pausa, aprendo la bottiglia e portandola alle labbra. Non prese nemmeno un sorso, limitandosi ad appoggiare il vetro alle labbra, prima di ritrarla velocemente “Tutto questo discorso introduttivo inutile per dirti che, tra le mille cazzate che mi hanno fatto studiare senza nessun motivo apparente, c’è stata una cosa che mi ha colpita molto e vorrei condividerla con te.”

“Mi sento molto fortunato, al momento.”

“Il sarcasmo non ti salverà, se non vuoi starmi a sentire puoi solo alzarti e andartene.” Nina prese un sorso, storcendo il naso per il sapore forte della bevanda, aspettando di vedere se Levi si sarebbe o meno alzato. Quando non lo fece, allungò la bottiglia verso di lui “Diversi secoli fa, c’era una leggenda che veniva tramandata di villaggio in villaggio, facendo il giro delle mura più e più volte” iniziò col dire, mentre l’altro afferrava quella bottiglia, certo che sarebbe stata una cosa lunga e gli sarebbe servito un piccolo aiuto alcolico “Per fartela breve, te la spiegherò come è stata spiegata a me dal dottor Meier: immagina di essere all’interno di una caverna buia, incatenato a terra e costretto a guardare sempre e solo innanzi a te. L’uscita si trova alle tue spalle, lontana, ma tu non puoi né vederla ne tanto meno raggiungerla. Di tanto in tanto, una luce viene accesa e tu puoi vedere, proiettate sulla parete di fronte a te, le ombre di un alto muro e di diversi uomini che immobili paiono osservarti. Non solo, però. Qualsiasi rumore proveniente dall’esterno tu lo puoi percepire solo come un eco lontano, distorto. Pensa di passare tutta la vita in questo modo, seduto a terra a osservare solamente delle ombre e a sentire solamente degli echi. Per te è normale, non ti senti in difetto perché tu e coloro che ti circondano hanno vissuto tutta la loro vita così. Ci sei nato, non c’è niente di strano nel guardare quelle che sono solo delle ombre, per te.”

“Non so dove vuoi arrivare, ma ho capito il punto.” Levi si era attaccato alla bottiglia alla terza frase, forse alla seconda. Non credeva di essere poi così ignorante, ma non aveva la minima idea di cosa Nina stesse dicendo.

Doveva ammettere, però, che il racconto l’aveva preso.

“Bene. Adesso immagina che all’improvviso, un uomo arrivi e spezzi le tue catene. Sei libero, finalmente puoi voltarti e guardarti alle spalle” sistemando la gonna bianca che indossava, Nina lo guardò negli occhi e Levi si rese conto solo in quel momento che glielo stava concedendo “All’inizio la luce ti acceca, ti spaventa, vorresti solo tornare a voltare il capo per vedere qualcosa di rassicurante e famigliare, ma ormai è tardi non puoi fare a meno di notare qualcosa. Non esiste nessuna persona, ma solo piccole statuette, appoggiate su un piccolo muro a secco, che però ti sembrava invalicabile, così come quelle figure titaniche. Allora capisci che per tutta la tua vita, hai vissuto solo nell’ignoranza e aprire gli occhi, adesso, è doloroso tanto quanto edificante.”

Levi annuì lentamente, ripassandole la bottiglia, pensieroso “Quindi il buio rappresenta l’ignoranza e le statue….”

Lei lo guardò compiaciuta per l’osservazione. “Le bugie che ti vengono ficcate in testa fin da quando sei nato.” Il tono di Nina era ora rinvigorito. Appoggiò la mano sull’avambraccio di Levi, guardandolo negli occhi “Questo è Erwin. Una persona che è capace di farti uscire dal buio della grotta. E questo è il motivo per cui sei rimasto, non è vero? Perché sai che lui vede qualcosa che tu non riesci a cogliere, che lui sa, che combatte per un mondo diverso. Lo hai capito guardandolo negli occhi e hai capito che lui è la persona giusta per cui vale la pena morire. Per questo sei rimasto.”

Quello era troppo. Chi erano quei due per pretendere la sua vita con così tanta leggerezza?!

“Cosa vuoi saperne?!” strappando via il braccio dalla sua presa, Levi si alzò “Smettila di fare questo. Smettila di cercare di capirmi, sprecheresti solo il tuo tempo.”

La giovane abbassò il capo, con un piccolo sorriso sulle labbra “Il professore che scrisse il libro da cui ho letto questo mito fu sospeso e non lo rivedemmo più. A quanto pare, gli fu addirittura revocata la licenza medica.”

Di nuovo.

Nina non lo stava ascoltando, di nuovo.

Levi sbuffò frustrato “Vorrei sapere quale è il tuo problema.”

“Il mio problema, è che tu devi capire a cosa ti sei unito.”

Per un attimo, Levi non registrò la frase. A cosa si era unito? A un gruppo di pazzi.

“Nemmeno io credo di averlo capito.”

“Appunto per questo ti sto parlando.” Nina si alzò in piedi per guardarlo, mentre stringeva la coperta sulle spalle, combattiva e determinata a imprimergli bene quel concetto nella mente “Gli uomini, una volta che escono dalla grotta, hanno il dovere morale di tornarvi per liberarne altri. Ma questo può costargli la vita, per questo bisogna agire di astuzia” sospirò, guardandolo e facendosi più vicina, cospiratoria “Mio fratello si fida di te. Io mi fido di te. Inizia anche tu a fidarti di noi, anche se non ce lo meritiamo. Anche se ti abbiamo ingannato, anche se ci odi. Tu sei prezioso, Levi. Sei unico. E noi abbiamo bisogno che tu ci aiuti a spezzare le catene.”

“Tu hai bisogno di dormire, Nina, e così anche io.”

Non attese repliche, né le augurò la buona notte. Girò sui tacchi, dirigendosi verso il dormitorio non appena messo piede dentro alle mura del castello. Infuriato com’era, non si rese conto degli occhi tristi della ragazza, del sorriso forzato o della voce sempre più rotta.

Aveva altro a cui pensare. Come il motivo per cui, nonostante tutto, non riuscisse ad odiarla, ma nemmeno a perdonarla.

Nda.

Aaah sono riuscita ad aggiornare.

Scusare l’attesa, ma il pezzo iniziale l’avrò scritto quelle comode sessanta volta. Non mi piaceva, continua a non farmi impazzire, ma ehy!

Serve.

Serve un sacco quindi lasciamolo lì e vediamo che succede.

Parlando di un paio di dettagli…

Ho collocato il campo di addestramento un po’ a caso, visto che nel fumetto non ci danno molti dettagli. Ci ho messo un po’ di strada, un po’ di Foresta Nera e tanto amore per Shadis, che è un personaggio che a me, personalmente, piace tanto. Quell’uomo ha solo avuto una sfiga: portare dentro alle mura uno stronzo.

#buhGrishafaischifo.

Per quel che riguarda il secondo pezzo, ho volutamente inserito il mito della caverna platonico perché andiamo, in quale mondo andrebbe perduta una cosa del genere? Non voglio vivere in un mondo in cui certe perle filosofiche non vengono tramandate.

Sono breve perché ho sonno, ma ringrazio sentitamente chi legge.

In particolare ringrazio le due caramelline al miele che hanno commentato.

Prometto che rispondo, ora vo a letto!

Al prossimo capitolo!

C.L.

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Capitolo 7
*** Capitolo Sesto ***


11

 

Wenn die Sterne leuchten.

 

 

 

 

Capitolo Sesto.

 

 

 

Not ready to let go

Cause then I'd never know

What I could be missing

But I'm missing way to much

so when do I give up

what I've been wishing for

https://www.youtube.com/watch?v=VvGYYg40Ijw

 

 

 

 

 

 

Anno 844

Prima Università degli Studi Umani di Heinrich, Capitale.

 

 

 

“Largo! Fate strada!”

La bici sfrecciava lungo i viali alberati, incurante dei signorotti ben vestiti che li percorrevano a braccetto con eleganti dame in abiti di pregiata fattura e colori vivi. Fritz non pareva preoccuparsi particolarmente delle occhiatacce e delle imprecazioni a lui dirette, mentre divertito spiava la strada oltre la spalla di Nina, seduta sul manubrio, intenta a tenere il capello con una mano e la presa al braccio dell’amico con l’altra.

“Ci farai ammazzare!” gli disse, ridendo di cuore, mentre imboccavano una stradina più stretta, fra gli alti edifici che rilucevano sotto le prime luci della Capitale, innalzandosi verso l’alto.

Lui, per risposta, pedalò più in fretta, andando ad infilarsi fra due palazzi e facendo cadere a una povera donna una cesta contenenti quelle che sembravano lenzuola fresche di bucato “Mi scusi!” urlò, facendo ridere ancor di più la giovane che stava portando, “Manchi di fede, Nina!”

“Non la chiamerei mancanza di fede, quanto più spirito di autoconservazione!”

“Detto da una legionaria suona ironico!”

Il viale si aprì nuovamente su una delle strade principali, contornata di alti alberi dalla corolla piena, mentre tutto attorno a loro la città ancora faticava a svegliarsi. Quelle vie, solitamente caotiche e piene di persone, sembravano quasi piacevoli nel letargico abbraccio della mattinata. Nina non sapeva come Fritz facesse a vivere nella Capitale, ma forse la risposta risiedeva nel fatto che, fra quelle strade curate e quelle vite piene di apparenze e fronzoli, lui c’era nato. Al contrario di lei che veniva da un Distretto, sapeva molto bene come rapportarsi alla magnificenza che con tanta brutalità gli veniva schiaffata in viso. Anzi, non lo sapeva affatto ed era quello il suo biglietto vincente.

La totale non curanza nei costumi. L’aveva preso in simpatia da subito perché era pazzo quanto lei.

Arrivati a destinazione, Nina scese con un saltello, sistemandosi la gonna del vestito e andando anche a stringere un laccio del bustino che s’era allentato durante la corsa matta e disperata “Anche oggi sono arrivata viva. Inizio a credere che quelli del Culto delle Mura ci abbiamo mancati, mentre ci tiravano le loro maledizioni, l’altro giorno.”

Fritz sbuffò, mentre le passava la tracolla di cuoio chiara. Si appoggiò poi con le braccia al manubrio, sorridendole sornione “Tanto rumore per nulla.”

“Sei passato in mezzo a una processione!”

“Avevamo fretta, ho rischiato di arrivare in ritardo all’esercitazione di chirurgia! Prendere un’altra strada era assolutamente fuori discussione, mi pareva ne avessimo già parlato!” sebbene la difesa fosse un po’ debole, la ragazza parve desistere. Si sfilò il cappello dalla visiera larga, premendolo sul capo dell’amico, prima di prendergli il viso fra le mani “Sei sicura che non vuoi che ti porti di fronte all’ingresso? È un bel pezzo di strada da qui.”

Lei scosse la testa, facendo salire una delle mani per spostargli i riccioli castani dalla fronte e poterlo guardare attentamente “Mi piace camminare per il parco, soprattutto se la prima lezione ce l’ho fra un’ora e mezzo. Sei tu quello che ha premura di arrivare alle esercitazioni e la sede delle Opere Pie è parecchio distante ancora.” Si chinò piano su di lui, spiando qualcosa all’attaccatura dei capelli “Sta cicatrizzando bene…” soppesò infine fra sé e sé.

Fritz arrossì, andando ad appoggiare una mano su quella di Nina, ancora ferma sulla sua guancia “Ho solo preso una piccola botta, non è niente.”

“Hai tirato una testata così forte da alzare il tavolo di una spanna. Pensavo ti fosse venuta una commozione.” Nina scosse il capo intenerita, prima di baciargli la fronte, facendo infine due passi indietro “Avanti, vai! Farai tardi!”

Lui si riscosse, annuendo vago “Sì, giusto. L’intervento. Giusto.” Schiarita la voce e ripresa coscienza di sé, il giovane alzò un dito, puntualizzando, mentre Nina iniziava già a imboccare il viale “Ci vediamo a cena! Ricorda che stasera cucina Jara, quindi non far tardi.”

“Ci sarò! Corri!”

La guardò allontanarsi, osservandole i capelli riflettere la luce del sole e la gonna che lasciava scoperte le caviglie chiare ondeggiare ad ogni passo, prima di trovare la forza necessaria per riprendere in mano il manubrio. Lei si voltò un’ultima volta per salutarlo con un sorriso e Fritz si convinse che quella poteva essere la volta buona per chiedere la sua mano. Non s’erano visti per niente durante l’anno precedente e non poteva rischiare di far passare ancora così tanto tempo prima di prendere una decisione definitiva e buttarsi. Se ne avesse avuto l’occasione, si sarebbe proposto il giorno successivo, non un giorno casuale. Il giorno del compleanno della ragazza.

Nina, dal canto suo, vedeva in modo molto diverso la loro situazione. Aveva solo dieci anni quando, per la prima volta, era stata portata in Capitale da Erwin per diventare un’apprendista medico ed era stata presentata alla famiglia Meier. Il figlio minore, Friederich, era diventato fin da subito il suo confidente e compagno di studi. Il ragazzo, al tempo dodicenne, era praticamente nato con i ferri in mano e si era rivelato un amico fedele. Lei era stata la prima a rivolgersi a lui a chiamarlo Fritz, era stato il primo supporto che aveva avuto dentro e fuori le mura domestiche, che non fosse un libro o un saggio. Per ben tre anni aveva vissuto con loro, tornando raramente a Stohess, fino al momento in cui si era arruolata. Colpito dalle belle parole e da un’eredità personale, anche Fritz aveva deciso di iniziare l’addestramento con l’obiettivo di entrare nella Legione Ricognitiva, ma solo al termine dei suoi studi, un anno dopo Nina, poco prima del suo sedicesimo compleanno. Non era però un ragazzo fortunato, non lo era mai stato, infatti lo avevano spedito a nord, presso la sede di Renin della ricognitiva, non a sud con l’amica.

Il motivo era uno solo: la penuria di dottori nell’armata. In quanto medico, aveva avuto un tipo di addestramento totalmente diverso, da ufficiale. Nonostante ciò, avevano condiviso non poche punizioni a causa del temperamento ben poco rispettoso delle regole sia suo che di Nina, oltre che del gruppo di amici che gli si era creato attorno.

Erano sempre stati molto uniti, sotto alcuni aspetti come fratello e sorella, sotto molti altri in modo totalmente diverso. Per Nina, Fritz era stato il primo bacio, la prima volta che si era ubriacata così tanto da dimenticare il suo nome e dove si trovasse, la prima notte passata a fare l’amore fino al mattino, tra risatine imbarazzate e sospiri lascivi. Per Fritz, Nina era stata l’unica.

Per lei, lui era stato importante, ma non fondamentale. Per lui, lei rimaneva tutto ciò che voleva davvero.

Sarebbe stata una moglie perfetta, brillante, bella e terribile come un’alba ammirata oltre le Mura, dolce e con un futuro spianato di fronte ai piedi, oltre che con un nome non da poco, nell’ambiente militare. Suo padre  Franza l’adorava, sua sorella non aveva occhi che per lei quando dimorava da loro a causa degli studi universitari, persino il gatto riottoso e grasso che Jara si era portata a casa qualche anno prima e che credeva che il volto di Fritz fosse perfetto per affilare le unghie, appena vedeva la giovane dottoressa di Stohess faceva le fusa.

Sarebbe stata la donna perfetta, se solo lei l’avesse amato.

 

L’edificio era stranamente vuoto quando Nina vi entrò. Andò diretta al bancone, sorridendo gentile a un uomo sulla quarantina, calvo e dall’aria già annoiata, nonostante il turno fosse appena iniziato.

“Come posso aiutarla, signorina?”

“Dovrei far recapitare una lettera al Capitano Erwin Smith della Legione Ricognitiva” snocciolò Nina, avendo una certa famigliarità col sistema postale dopo tanti anni lontani da casa. Metà della sua vita l’aveva vissuta altrove, era diventata insolitamente brava a racchiudere la sua intera esistenza all’interno di fogli di carta macchiati di inchiostro nero, “Di istanza al quartier generale di Irsee, distretto di Trost. Una raccomandata, per favore.”  

Nina passò la lettera all’uomo, che stava compilando la ricevuta. Quando si voltò per domandare se ci fosse un messo che era diretto per quelle zone, lei strinse fra le mani una seconda lettera, che però non prese fuori dalla sacca. Passò lo sguardo sul nome di Levi, impresso con l’inchiostro sulla  carta bianca, ma alla fine desistette e decise che non l’avrebbe spedita insieme a quella per il fratello.

“Mittente?”

“Sergente Nina Müller” fu la risposta della bionda, mentre preparava le quattro monete d’argento che la commissione richiedeva. Se non l’avesse fatto, con un ottima probabilità, la lettera sarebbe arrivata in due settimane o tre, se non si fosse persa per strada. L’uomo ci stava mettendo un po’ tutta la sua vita, scrivendo con una calligrafia tremenda la ricevuta di pagamento, così lento da permettere a Nina di guardarsi un po’ attorno per ammazzare l’attesa. La stanza era piccola, claustrofobica per essere un ufficio pubblico e piena di manifesti dei più svariati temi; qualche locandina del teatro locale, richieste di prestazioni professionali, qualcosa dell’università. Erano soli, lei e quel buffo ometto, ad eccezione di un terzo individuo, seduto su una sedia a qualche metro di distanza. Nina non l’aveva notato all’inizio, ma se ne stava lì, a leggere un giornale in silenzio. I loro occhi si incontrarono quando si accorse che la stava guardando, ma non ci fu nessuno scambio verbale. Non ci trovò niente di strano, in quel posto. Solo, iniziava ad annoiarsi e  solo dopo almeno un  altro quarto d’ora, finalmente, riuscì ad andarsene da lì.

Riprese a percorrere il viale, che andava via via a popolarsi di persone, lavoratori nelle loro botteghe e studenti diretti verso l’università. Lei aveva ancora almeno un’ora prima di iniziare le lezioni, così si prese il suo tempo per godersi un po’ il clima leggero che solo a quell’ora poteva avvertire. Attraversò la via, prendendo a percorrere il sentiero che si accostava il SiegerPark. Quando di fronte a lei iniziò a stagliarsi alta e fiera la figura della palazzina principale dell’università di Heinrich, Nina cercò con lo sguardo la prima panchina libera fra il verde e vi si sedette. La gonna scampanata le permise di incrociare le gambe, sulle quali andò ad appoggiare il blocco da disegno. Aprì il libro di anatomia, iniziando a leggere un paio di nozioni sulla fisionomia della mano, l’argomento della lezione giornaliera, prima di afferrare il carboncino con la sinistra e portare di fronte al viso la destra. Iniziò a tratteggiare i contorni, dall’estensore comune delle dita alla base del polso, fino all’adduttore del pollice. I rintocchi dell’orologio della sede centrale della Gendarmeria, alle sue spalle, segnalò che erano quasi le nove, ma lei non alzò gli occhi dal suo lavoro. Non lo fece nemmeno quando avvertì qualcuno sedersi accanto a lei. Proseguì, tracciando linee sottili e veloci, ripassandole decisa se soddisfatta, prima di ripassare la muscolatura.

“Chiedo scusa, signorina?”

Una voce leggera, rassicurante, la costrinse ad abbandonare la concentrazione. Alla sua destra aveva preso posto un bel ragazzo, con i capelli di un biondo ramato, tenuti in una coda di cavallo ordinata, e con un paio di singolari occhi scuri. Le stava sorridendo educato e quando lei ricambiò quello sguardo, lui si grattò impacciato la nuca “Domando scusa se ho interrotto il suo lavoro, ma ecco…. Volevo congratularmi con lei. È per caso un artista?”

Nina alzò le sopracciglia, un po’ sorpresa da quell’approccio, prima di replicare con un leggero divertimento nella voce “Da bambina ero un animo artistico, ora scientifico: studio medicina.”

Lui abbassò gli occhi sul libro aperto, frapposto fra loro due, arrossendo vistosamente “Mi scusi, non sono un grande osservatore, a quanto pare.”

Nina appoggiò il carboncino nell’astuccio di stoffa verde sbiadito, soffiando sul disegno per far sparire le tracce in eccesso “Tu invece?” chiese, abbandonando le formalità e indicando con il mento il libro che il giovane stringeva fra le mani “Sei anche tu uno studente?”

“Sì, di legge.”

“Ah, un giurista” rispose questa, mentre lui le mostrava il tomo di diritto penale. “Devo quindi prestare attenzione a quello che dirò?” rilanciò divertita e civettuola. Non lo faceva nemmeno a posta, era una nota caratteriale quell’essere sempre un po’ troppo accattivante nel modo di porsi.

“Direi di no, signorina, se non avete niente da nascondere” anche lui sembrò rilassarsi un po’ “Una laureanda in scienze mediche, quindi. Oltre che bella, anche intelligente.”

A Nina sfuggì una mezza risata “Diretto. Comunque no, sto facendo un corso di formazione per l’abilitazione da ufficiale medico.”

Lui parve particolarmente affascinato da quell’affermazione “Gendarmeria?”

“Legione.”

“Quindi oltre che bella e intelligente, anche coraggiosa?”

Nina ripose il blocco da disegno, constatando dall’orologio da taschino di suo padre che iniziava a farsi tardi “Pensavo che avresti detto sprovveduta. C’è chi ci considera dei pazzi suicidi.”

“L’ignoranza popolare non conosce limiti. Il vostro è un grande sacrificio.” La guardò alzarsi, prima di farlo a sua volta, di nuovo imbarazzato “Non volevo infastidirla. Se è a causa mia che state andando via, vi chiedo di perdonarmi.”

“A dire il vero è a causa dei corsi” la bionda allungò la mano, “Il sono Nina, comunque. Basta con questo voi.”

Lui accettò quella stretta “Va bene, allora, Nina della Legione. Io sono Hans.”

“Il piacere è mio Hans. Se il destino lo vorrà, ci rincontreremo allora.”

Lui si scostò per farla passare “Me lo auguro. Buona giornata.”

A tutto ciò, Nina c’era abituata. Sapeva di essere una ragazza di bell’aspetto, tenuta in costante allenamento dalle spiegazioni tattiche e dalle spedizioni. Sapeva anche di essere incredibilmente sfortunata in amore.

Attirava sempre persone a cui lei non era interessata ed era costretta a stare in contatto con coloro che bramava senza venire ricambiata.

 

“Allora, lui com’è?”

Nina smise di passare la stuoia sul piatto, immergendolo per sciacquarlo, prima di voltarsi di poco verso Jara per guardarla. Sul viso dell’altra ragazza c’era un sorriso alquanto inquietante, il sorriso di una persona che sa più di quanto dovrebbe e che vuole solo confermare una teoria “Non ho idea di cosa a tu ti stia riferendo.”

“Non prendermi in giro, hai la stessa espressione che avevi quando volevi avere un appuntamento con Leopoldo Schitz. La stessa che ha mio fratello tutto il giorno, tutti i giorni, quando tu sei qui.”

Con le spalle al muro e la certezza matematica che Jara non le avrebbe permesso di lasciare la cucina senza prima aver detto tutto ciò che voleva sentirsi dire, Nina decise di vuotare il sacco. Prese un bel respiro, sentendosi già giudicata dall’altra, mentre appoggiava il piatto ora pulito sulla rastrelliera del bancone, prendendone un altro con una certa decisione. Almeno così avrebbe potuto evitare di guardarla “Lui è-”

“Allora c’è davvero un lui!”

“Si ma non gridare!” Nina si scostò, sporgendo all’indietro il busto per lanciare uno sguardo al soggiorno tappezzato di librerie traboccanti di libri. Fritz e il signor Meier non sembravano essere al corrente del dramma che si stava per consumare in quella cucina. Meglio così, Nina non voleva che l’amico potesse starci male, se l’avesse sentita. Non poteva scappare per sempre, certo, prima o poi avrebbero dovuto parlarne, ma….

Non c’era nulla su cui rimuginare, perché nulla era ciò che era successo.

“Allora? Parla.”

“Lui è un uomo.”

Jara sbuffò, muovendo rapida il capo per scostare i riccioli simili a quelli del fratello, prima di passare lo sguardo sul volto dell’altra, per setacciarlo a dovere e cogliere ogni emozione “Grazie alle Sante Mura non è un cavallo.”

“Nel senso che è adulto, cretina.”

“Parli come se tu fossi un’infante. Guarda che lo so cosa avete fatto tu e mio fratello nella mansarda.” Fece una pausa, la figlia maggior del dottor Meier, prima di passare una mano sulla fronte leggermente sudata a causa della calura estiva. Nina non sembrava toccata o imbarazzata da quello scambio di parole, aveva la massima fiducia in Jara e non c’erano segreti fra loro. Guardò l’amica appoggiarsi al bancone, mentre lei era intenta ad asciugarsi le mani nel grembiule color sabbia. Quando Jara ripartì all’attacco, Nina era pronta a rispondere a qualsiasi domanda “Da dove esce questo? Quanti anni ha di preciso?”

“Sono entrambi due quesiti molto interessanti.” La bionda si sfilò il grembiule, appoggiandolo ordinatamente sulla sedia, mentre l’altra  la imitava nei movimenti e si faceva più vicina. C’era aria di cospirazione in quella cucina “Non sono né il cognome, né l’età precisa -anche se suppongo attorno alla trentina-, né nient’altro, se non che viene dal ghetto.”

“Un criminale del ghetto? Andiamo bene. Credevo ti piacessero i soldati, non i rifiuti sotterranei.”

“Il bello è questo: è un legionario. Adesso.”

Jara appoggiò le mani sui fianchi larghi, “Non sono certa di aver compreso, allora. Tu sei uno membro del corpo medico e non hai tutti i suoi dati?”

Per risposta, Nina rise forzatamente, sottolineando così in modo eloquente quel che pensava. Sembrava una barzelletta da porto, eppure non lo era “Esattamente. Cogli il mio dramma, ora?”

Sul volto di Jara si dipinse un’espressione consapevole “…Erwin?”

“Erwin.”

Le due si scambiarono un’occhiata complice, mentre la padrona di casa prendeva da una vetrinetta in vetro del liquore di more e quattro bicchieri. “Almeno il nome lo sai?”

Nina sorrise, stupendo l’altra perché per la prima volta da quando la conosceva le parve nascondere un leggero imbatazzo, rubandole un paio di bicchieri per salvarli da un equilibrio precario “Levi” fu la sola che pigolò.

“Levi? Che nome altisonante, per un criminale” un ultimo sguardo segnò la fine del discorso, o la sua posticipazione al momento in cui si sarebbero ritirate a dormire nella stanza che dividevano quando Nina rimaneva a dormire lì, in favore di un po’ di compagnia rispetto alla camera degli ospiti situata, per l’appunto, nella mansarda. Quando arrivarono in salotto, i due uomini di casa sedevano sulle poltrone di pelle, entrambi con un libro in mano e l’espressione spensierata che solo la pancia piena di fa avere “Un digestivo veloce per i lor signori” li prese in giro Jara, mentre Nina passava il bicchiere a Fritz e si sedeva sul tappeto di pelliccia, tirando le gambe al petto. Jara rimboccò i bicchieri prima di sedersi con lei, guardando poi il fratello “Allora Lotto, quando riprendi servizio?”

Fritz sbuffò, infastidito dal soprannome. Da bambino era grasso e tutti, in quella casa, lo chiamavano barilotto. Persino suo padre. Ora che era cresciuto e s’era slanciato,doveva convivere ancora con quello stigma “Ho un mese intero di licenza per seguire i corsi.”

“Ma pensa che caso; ora che Nina è qui anche tu chiedi di poter fare gli aggiornamenti.”

Fritz non rispose all’illazione, mentre sia la bionda che Franz Meier ridacchiavano sotto ai baffi. Fu proprio quest’ultimo ad alzare il bicchiere, guardandoli tutti e tre “A cento di questi giorni, insieme, in questa casa.”

“A cento di questi giorni!” dissero in coro i tre giovani, prima di sorseggiare il liquore, con Fritz desideroso di iniziare un intricato discorso circa la natura del Morbo degli Amanti, o Malattia del Bacio, e il modo in cui infettava i tessuti. Carne marcia dopo un pasto, tipico dei tagliaossa, avrebbe detto Ed se fosse stato lì con loro. Nina però si sentiva bene con loro. A casa. Alle volte, si sentiva quasi più a casa lì con loro che sotto allo stesso tetto di sua madre. Andava tutto bene, sarebbe anche potuto migliore se forse avesse spedito quella lettera.

…. Forse no. Si sarebbe crogiolata nella speranza di una risposta che non le sarebbe mai arrivata.

“Domani è il tuo compleanno” a riscuoterla dai pensieri fu Fritz, che andò ad appoggiarle una mano sul capo, iniziando poi a giocherellare con una ciocca ondulata “Hai deciso cosa vuoi che ti regali?”

“Andiamo già a cena con gli altri” si lamentò lei, osservandolo mentre arrotolava la ciocca attorno al dito “Non desidero niente, se non l’avervi con me, davvero.”

Jara sbuffò “Tanto qualcosa lo abbiamo già comprato.”

“Mi ospitate e vi prendete cura di me per mesi interi! Questo dovrebbe essere il vero regalo!”

“Smettila di lamentarti, quel che è fatto è fatto.”

Vincere uno scontro verbale con Jara era impossibile, che fosse esso di natura accademica o meno. Nina alzò una mano in segno di resa “Un giorno vi ripagherò delle premure, è una promessa.”

Ci avrebbe quanto meno provato, ma ripagare quelle persone di tutto ciò che avevano fatto per lei, le pareva impossibile. Tutto i soldi del mondo non potevano comprare certi sentimenti e certi ricordi.

 

Rielke!”

La voce di Nina era riuscita a rimbombare per tutta l’osteria, sovrastando il chiacchierio alticcio degli avventori di quella serata, per lo più gendarmi in libera uscita. Non si aspettava di vedere suo cugino così presto, né tanto meno di avere la fortuna di cenare insieme a lui proprio in quell’occasione.

“Buon compleanno Nina!” trillò questi, sollevandola da terra e girando su se stesso, mentre ricambiava con egual intensità quell’abbraccio.

Rielke le era mancato ogni singolo giorno. A dividerli erano giusto una manciata di mesi, per il resto avevano la medesima età ed erano cresciuti insieme fino al giorno in cui lei era stata costretta a spostarsi per studiare. A primo acchito, i due si sarebbero potuti dire gemelli: avevano lineamenti molto simili, le stesse lentiggini e lo stesso colore di capelli. Era però l’eterocromia dei Müller ad accumunarli per la maggiore, infatti gli occhi brillavano della stessa curiosa diversità, seppur quelli di Rielke fossero leggermente più tendenti al verde. Le similitudini non si fermavano però all’aspetto fisico. Avevano anche lo stesso energico temperamento e l’atteggiamento affabile.

Nina lo adorava e lui adorava lei. Era forse il membro della sua famiglia di cui sentiva di più la mancanza, oltre che suo padre e sua sorella Mielke.

“Ho chiesto una licenza per poter essere qui a tirarti le orecchie!” le disse il giovane ragazzo, portando la mano sul lobo dell’orecchio di Nina e iniziando a tirare piano “Diciotto volte! Qualcuno qui sta diventando grande!”

“Prima o poi ci arriverai anche tu, scemo!” Nina gli abbraccio i fianchi, appoggiando poi il capo alla sua spalla, visto che il cugino la sovrastava di almeno quindici centimetri, seppur la sua magrezza lo facesse sembrare allampanato.

“Ci sarei anche io, se per caso la festeggiata si decidesse a salutarmi.”

Nina l’aveva notato, ma dopotutto era quasi impossibile non far caso a Leopold Schitz. Il pel di carota aveva un qualcosa di particolare che lo rendeva appariscente, e non erano solo i capelli di un insolito rosso acceso o gli occhi di un verde così particolare da sembrare gialli come quelli di un felino; era il suo carisma. Il suo ego riempiva tranquillamente tutta l’osteria. Non era però di sgradevole compagnia, anzi, sapeva farsi voler bene; non era solo bello e dotato di un fascino tale da oscurare qualsiasi altro essere di genere maschile con la sua sola influenza, era anche abbastanza intelligente da schivarsi la Legione.

“Stasera paghi tu, vero? Guadagni il doppio di quanto guadagniamo noi, dopotutto.” Lo prese in giro Nina, mentre lo abbracciava e costatava che non il suo profumo non era più così buono e che gli occhi non erano poi così straordinari. Per la prima volta in quasi sei anni, non si senti attratta da lui. Il che le sembrò strano, dopo tanto tempo a guardarlo di sottecchi insieme a Kayla per non farsi notare e non rovinare quindi quell’equilibrio che s’era formato fra loro.

“Per te posso anche pagare, ma a questi mentecatti non offrirò niente” rilanciò Leo, portando un braccio attorno alle sue spalle e guardando falsamente pensieroso sia Rielke che Fritz “Si son fatti addirittura più brutti, non lo credevo possibile.”

“Io invece non credevo che tu saresti riuscito a diventare ancora più stronzo, bada bene” rilanciò divertito Rielke, battendogli la mano sul petto, prima di fingere di sistemargli il colletto della camicia nera “Allora, vediamo di cenare, che a pranzo ho dovuto sorbirmi la frittata di tua madre e ancora devo digerirla!”

“La cucina della signora Schitz riesce addirittura peggiorare?” si informò all’improvviso Fritz, fingendosi allibito. Il diretto interessato non aveva la forza di ribattere, la cucina di sua madre era leggenda e non in positivo.  Si sedettero tutti assieme ad un tavolo e subito Leo ordinò un giro di birre e della carne. Si sarebbero trattati bene, dopotutto valeva la pena di festeggiare. “Allora, come stanno i giganti?” si informò proprio questi, appoggiando un braccio sullo schienale della sedia per poter guardare Nina in viso.

Lei scosse il capo, divertita da come l’amico aveva formulato la domanda e dal tono che aveva utilizzato “Purtroppo stanno meglio di tutti noi messi insieme. Non hanno grandi preoccupazioni, la fuori.”

“Nella prossima vita rinasco gigante” rilanciò Rielke con disarmante leggerezza.

“Che cosa orribile da dire” lo riprese immediatamente Fritz, storcendo il naso con disappunto “Con tutti i morti che s’accumulano, fa di queste battute? Incivile.”

“Pensaci: non puoi parlare quindi non dici cazzate, devi solo vagare per l’esterno a grattarti il culo dal mattino alla sera. Non hai nemmeno il cazzo, così hai una scusa valida e non patetica per il fatto che non fai sesso dall’ultimo anno di accademia.”

Nina e Leo esplosero a ridere, mentre Fritz sbuffava, incrociando le braccia sul petto, sulla difensiva “Tu che ne sai?”

“Sesto senso” rilanciò subito Rielke, con un sorrisetto smaliziato sulle labbra, mentre si batteva il dito sul lato nel naso per sottolineare che lui, per questo tipo di cose, aveva intuito. Si lanciò sulla birra non appena l’oste li servì, tirando un bel sorso “Che peccato non esser tutti qui, però. Degli altri si sa qualcosa? Non sono potuti venire?”

“La Legione si prepara a una missione oltre le mura per la fine del mese” lo mise al corrente la cugina, mentre a sua volta alzava il boccale e lo accompagnava alle labbra. L’ultima volta che avevano avuto la fortuna di trovarsi tutti insieme era stato il giorno in cui avevano scelto la compagnia a cui unirsi, ed era stata una serata dal sapore dolce amaro dato che, in ultimo, Leo aveva deciso di non entrare nella Legione con tutti loro, ma di prendere il posto che gli spettava di diritto nella Gendarmeria, visto che era arrivato primo fra i dieci più meritevoli. Il discorso di Erwin doveva averlo spiazzato, così come il modo freddo con cui aveva enumerato le ingenti perdite, quasi matematicamente, come se quelle vite avessero avuto ben poco spessore. In fin dei conti l’aveva convinto che quello non era il suo posto. Per questo aveva voltato le spalle al Capitano Smith e aveva lasciato quel luogo, lasciandosi dietro Nina, Eld, Eddart, Kayla e Nicholas. L’aveva fatto perché era un codardo, non l’avrebbe forse mai ammesso, ma non era pronto a morire e diventare solo un ‘venti per cento’ sul un foglio di carta abbandonato in uno schedario.

“Almeno noi ci proviamo a fare qualcosa di produttivo.” Fritz riportò l’attenzione su di sé, mentre un tagliere di profumata carne al sangue veniva appoggiato fra loro. Tutti si sporsero in avanti per annusarne il prelibato odore, eccetto Leopold, che agli agi c’era ben abituato.  “Non come i gendarmi e gli stazionari.”

“Ehi!” si difese Rielke mentre andava ad afferrare una forchetta, puntandola minaccioso coltro al dottore, in un chiaro monito “Io faccio turni di nove ore!”

“A guardare un muro? Sai che roba” rilanciò Nina, decisa a prenderlo in giro e a dare onore e lustro alla sua compagnia, “Noi facciamo turni di sei giorni, quando siamo all’esterno. Una volta siamo rimasti isolati quasi un mese, alla Rocca di Boltz. Eppure ci senti mai lamentarci?”

“I morti si lamentano ben poco, cugina.”

“Vogliamo parlare di chi passa la sua vita a importunare i pedoni” proseguì Meier, dando una leggera gomitata al migliore amico, che sbuffò “Dimmi Leo, quante carrozze si sono scontrate questa settimana? Perché è la sola cosa di cui la polizia militare si occupa, a quanto so.”

“Spero continui così” fu la candida ammissione del rosso, che però si prese il tempo di masticare per bene la carne prima di proseguire a parlare “Vogliono mandare sei di noi nel ghetto sotterraneo, come supporto a coloro che già sono di ronda là sotto” spiegò loro, attirando su di sé l’attenzione di Nina, che s’era distratta per via a cercare di difendersi da Rielke che voleva tirarle i capelli “Lì c’è anche troppo lavoro, spero che ci spediscano un’oca che fa parte del mio turno di ronda. La odio così tanto..”

“Stai ammettendo quindi che sei fiero di non fare niente per guadagnarti la paga?” si informò Fritz, mentre l’altro ridacchiava sottecchi e annuiva convinto “Che pezzente. Io, ora che sono di istanza a Renin, invece-”

“Sei mai stato nel ghetto sotterraneo, Leo?”

La domanda di Nina arrivò come una fucilata nella notte. Tutti e tre spostarono lo sguardo un po’ stupito su di lei.

Il rosso scrollò con non curanza le spalle “Ovviamente. La gavetta delle reclute inizia con qualche breve gitarella nel ghetto. Serve a farci fare un po’ le ossa e a tenerci occupati. Molti entrano nella Gendarmeria per servire il re e diventare eroi, ma quando riemergono da quella fogna, sono ben felici di starsene tranquilli al lato di una strada a controllare che, per l’appunto, le carrozze non si scontrino, né che i signorotti abbiano di che lamentarsi.” Snocciolò quelle informazioni senza darci troppo peso, preferendo continuare a mangiare, ma gli occhi della ragazza sembravano particolarmente attenti “Come mai ti interessa tanto?”

Nina sorrise “Che c’è? Non posso domandare di qualcosa che non conosco?”

“Assolutamente” rispose affabile Leo, sporgendosi appena verso di lei “Ma tu non fai mai niente per niente; hai desiderio di andare nel ghetto?”

“Ma che dici?” lo riprese Fritz, mentre Rielke preferiva alle chiacchiere il masticare veloce “Chi mai vorrebbe scendere la sotto? L’aria deve essere putrida e sono sicuro che molte delle malattie più diffuse, come la Malattia del Respiro, possa propagarsi più velocemente in un luogo come-”

“Se volessi scendere nel ghetto, come dovrei fare?” di nuovo, Nina lo interruppe, rivolgendosi prettamente al rosso. Fritz iniziò ad agitarsi sulla sedia, ma capitava sovente che non approvasse le sue idee, quindi Nina non ci diede molto peso, assetata come era di informazioni.

Schitz incollò gli occhi ai suoi, prima di schioccare la lingua contro al palato “Niente. Devi andare a una delle scale e scendere. Il pedaggio funziona solo per coloro che vogliono salire. Non per chi scende. Se hai un permesso di soggiorno per la superficie o la cittadinanza quassù non hai vincoli. Dopotutto, sono rare le persone che scelgono di loro iniziativa di andare nel ghetto. È un luogo pieno di pericoli, ci vengono mandati tutti i criminali o i relitti sociali. Chi sceglie l’esilio lì è solo perché qui verrebbe giustiziato. Come mai vuoi scendere?”

La bionda fece orecchie da mercante, infilzando un pezzo di carne “Sono un medico, potrebbe essere interessante andare la sotto. Studiare da vicino la Malattia del Bacio, la Malattia del Respiro…. Scommetto che il Morbo degli Indigenti la sotto prolifera.”

“Questo cos’è?” chiese Rielke.

Leo mugolò rumoroso “Stiamo mangiando, per la Sacre Mura!”

Troppo tardi, Fritz e Nina erano già partiti in quarta “Un male molto sviluppato fra i poveri” aveva di fatto iniziato a spiegare la ragazza, gesticolando sotto al suo naso con la mano libera “Si diffonde velocemente, la carne marcisce e si inizia col perdere le estremità come naso e orecchie, proseguendo poi agli arti.”

“Peggio della Malattia della Sete” proseguì per lei Fritz, annuendo velocemente.

“Ora m’è tornato alla mente quando hai bevuto il piscio” sbottò disgustato il gendarme, allontanando da sé il boccale.

Rielke strabuzzò gli occhi “Che strani gusti sessuali hai, Fritz?”

“Non per quello, coglione te e idiota quell’altro qua!” si difese strenuamente il medico, scoraggiato dal fatto che Nina preferiva ridersela piuttosto che soccorrerlo “l’urina diventa dolce e quindi è facile diagnosticarla. Siete ignoranti.”

“Legionari e pure medici, il peggio del peggio” trovato il coraggio di prendere un nuovo sorso di birra, Leo lasciò cadere così il discorso, sperando di concentrarsi su altro. Prima, però, aveva qualcosa da aggiungere “Non andare là sotto da sola, Nina. Se vuoi fare la brava dottoressa dei poveri, verrò con te. Magari con un paio di amici belli grossi.”

“Credo di conoscere già la persona che potrebbe accompagnarmi” fece presente lei, attirando su di se tre paia di occhi curiosi. Fritz stava giusto per domandare, ma lo scatto che Leo fece lo spaventò.

“Comandante, buonasera!” aveva di fatto detto il rosso, scattando in piedi e facendo il saluto militare, seguito pochi istanti dopo dai tre compagni di bevuta.

Nina si era alza rapidamente, appoggiando la mano destra sul cuore, mentre la sinistra andava dietro alla schiena, non appena riconosciuta la figura che avanzava verso il loro tavolo. Una donna,  che pareva perfettamente a suo agio avvolta in un bel abito di pregiata fattura e una mantella, scura come la notte senza stelle. Gli occhi, di un taglio prezioso, affilato e obbliquo, ma grandi ed espressivi, rilucevano dello stesso colore degli zaffiri, in netto contrasto con i capelli neri come il carbone, tenuti legati in una crocchia elegante, da cui scappava un singolo ciuffo che cadeva elegante a contornarle volto.

Sebbene avesse ormai raggiunto i cinquant’anni, Nora Kessler rimaneva la donna più bella che Nina avesse mai visto in tutta la sua vita. Era bella, delicata nei gesti e nel parlare, sebbene fosse uno dei migliori soldati sulla piazza. Comandante della corpo di Gendarmeria ormai da quasi vent’anni, sapeva farsi amare dei suoi uomini, quanto rispettare. Il fatto che si fosse accostata al loro tavolo, con quel sorriso leggero e bonario ben impresso sulle labbra piene, fece sorridere anche Nina.

“Signora, buonasera.”

Müller, complimenti per la promozione” disse questa, stupendola. Come poteva già saperlo? “Riposo, signori, riposo.” Fece segno ai giovanotti di sedersi e quando tutti ebbero preso posto, lei fece segno ai due ufficiali con cui era entrata di andare a prendere posto. Lei si accomodò di fronte a Nina.

“Quale onore, averla al nostro tavolo, Comandante” Leopold fece segno all’oste, che afferrò una bottiglia di bourbon invecchiato, quello che la donna soleva bere e versandone un bicchiere, lo allungò al rosso. Questi lo porse a Nora, che inclinò il capo in segno di ringraziamento.

“Cerca di tenerti in piedi, Schitz. Domani mattina sei di turno, no?” Uno dei molti motivi per cui era così tanto brava a farsi voler bene, era la sua straordinaria memoria. Raramente dimenticava un volto e le piaceva conoscere personalmente i suoi uomini, per quanto ne avesse la possibilità. Leopold faceva parte del terzo reggimento della polizia militare, quindi avevano spesso l’occasione di incontrarsi. “Vediamo chi abbiamo qui invece.” Gli occhi zaffirini saettarono su Rielke, che si mise istintivamente diritto con la schiena “Tu sei sicuramente un altro Müller. Riconoscerei i vostri occhi ovunque.”

Rielke Müller della Guarnigione di Stohess, Signora. Per servirla.”

“E tu sei il figlio del dottor Meier. Friederich, giusto?”

Fritz avvampò, rosso in viso “Sì, sono io, Comandante.”

“Come mai questo ritrovo?” si informò quindi curiosa, posando di nuovo gli occhi su Nina “Tutti in licenza nella Capitale? Immagino tu debba ottenere le abilitazioni.”

“Esatto, Comandante Kessler.”

“Stiamo festeggiando il compleanno del neo Sergente” confidò Leopold, come se potesse prendersi un po’ più confidenza degli altri, seppur tenendo le dovute distanze che il grado gli imponeva.

La donna guardò di nuovo verso Nina “Che tu possa passare altri cento di questi giorni” fu il commento sincero, mentre alzava il bicchiere alla sua salute “Tuo fratello maggiore? Come sta?”

Nina se lo aspettava, stava contando i minuti. Quella era la domanda che Nora avrebbe voluto porle dal primo istante, Nina poteva leggerglielo in viso. S’erano incontrate in un totale di dieci volte nel corso della vita della giovane ragazza e ogni singola volta, lei era venuta per vedere Erwin o, viceversa, era stato lui a recarsi da lei.

“Ho due fratelli maggiori, Signora” disse Nina, tirando leggermente la corda più per conferma che per provocazione, mentre continuava a rivolgersi a lei rispettosa “Il gendarme o il legionario?”

Nora sbuffò divertita, muovendo una mano davanti a sé come per scacciare una mosca, mentre con un sorso deciso svuotava il bicchiere. Come poteva una donna bere così tanto, ma con cotanta grazia, lo sapeva solo lei “Il gendarme è uno dei miei capitani. Friedelhm lo vedo ogni due settimane quando da Stohess viene a portarmi i rapporti su quello che succede. E non succede mai nulla” fece una pausa, facendo ridacchiare piano l’intero tavolo, girando il poco rimasto dentro al bicchiere sul fondo con dei movimenti lenti del polso “Parlo del leggendario legionario, ovviamente.”

“Erwin sta bene, Comandante. Sta addestrando una nuova squadra.”

Nora fece un piccolo sorriso, guardando la superficie del tavolo, prima di alzarsi in piedi “Portagli i miei saluti e digli di farsi vivo da questa parti, ogni tanto. Shadis anche potrebbe venire in Capitale, ma so che è impegnato a studiare strategie. Dovrei invitarli entrambi a cena.”  Quando si alzò dalla sedia, anche gli altri quattro giovani fecero lo stesso, mettendosi sull’attenti “Tutta questa formalità” commentò divertita, scuotendo piano il capo “Sedete e divertitevi, che non si sa cosa porterà la prossima alba. Oscar!” chiamò l’oste, che subito si voltò a guardarla “Qualsiasi cosa questo tavolo consumi, sarò io a pagare. Inizia col portare una bottiglia di quel vecchio vino invecchiato che tanto piace al Comandante Pixis.”

“Comandante, non dovete” Nina non poteva accettarlo. Nonostante l’occhiataccia lanciatole da Rielke, provò a declinare “Non  è necessario, davvero. Siete troppo generosa.”

“Un personale regalo di compleanno e promozione” le passò accanto, appoggiandole una mano sulla spalla dopo averle spostato i capelli dietro alla schiena “Diventi sempre più bella, Nina. Ricordo ancora la prima volta che t’ho vista, avrai avuto al massimo dieci anni.” Prese nuovamente le distanze, inclinando il capo in un cenno di saluto, prima di ricordarle “Mi raccomando, salutami Erwin.”

Un ultimo sorriso e poi andò via, sparendo fra i clienti. Nina rimase in piedi a guardarla per qualche istante, sino a che non fu del tutto fuori dal suo sguardo. Quando ritornò a sedersi, sul loro tavolo c’erano quattro calici di cristallo dall’aspetto costoso e una bottiglia di vino che nemmeno nei loro sogni si sarebbero mai potuti permettere.

“Un brindisi alla salute del Comandante è d’obbligo” decretò, mentre Rielke versava, non sentendosi per niente in colpa.

“Secondo te ancora scopano, quei due?” domandò con tono basso Leopold, avvicinando il capo a quello dell’amica.

Non c’era nemmeno bisogno di chiedere di chi stesse parlando.

Nina lo guardò allusiva “Se no perché lo avrebbe nominato per almeno tre volte?” domandò quindi retorica, prendendo il suo bicchiere e odorando piano il vino. Sembrava assolutamente delizioso “Erwin però sa tenere i suoi segreti e il Comandante Kessler ancora meglio.”

Era infondo anche il motivo per cui la donna s’era presa così tanta confidenza con lei. L’aveva letteralmente vista crescere fra le strade della Capitale, ogni qualvolta Erwin andava a trovarla.

“Che invidia” fu il solo commento di Rielke, mentre lanciava un rapido sguardo dietro alle sue spalle, come se temesse di venir origliato. “Una donna così bella a quell’età…. Che bastardo fortunato, Erwin.” Il volto degli altri due ragazzi si illuminò, come se per loro fosse impossibile dar torto dall’amico.

Nina scosse il capo, rassegnata, ma allo stesso tempo divertita “Uomini.”

 

Il vino era finito in fretta, così come la seconda bottiglia, molto più economica, ordinata.

Nina sopportava in modo dignitoso l’alcool, ma al quarto bicchiere, contata anche la prima birra, aveva iniziato a vacillare. Nell’inferno di uva e luppolo, aveva trovato comunque la forza di tenersi su, continuando a ridacchiare ai discorsi sempre più senza senso degli amici, prima di passare ai ricordi dell’accademia, agli scherzi tra le camerate e a ogni risata o lacrima che avevano condiviso.

“Basta, non posso farcela” asciugandosi il lato dell’occhio, Nina s’era alzata in piedi “Mi duole il fianco tanto sto ridendo e il vino non mi aiuta. Ho bisogno di una boccata d’aria per riprendermi. Leo, hai una sigaretta?”

Fritz, che non pareva aspettare altro, scattò in piedi come una molla, mentre ancora il rosso cercava il pacchetto nella tasca del cappotto estivo “Ti accompagno” si propose, guardandola con aspettativa.

Lei annuì, grata “Meglio, ci sorreggeremo a vicenda.”

“Non fate bambini per strada o dovrò arrestarvi” li prese in giro Leopold, mentre allungava una sigaretta e il pacchetto di fiammiferi alla ragazza, facendo ridere Rielke “Noi vi aspettiamo qui e quasi quasi ordiniamo un'altra  birra. Che dici, stazionario?”

“Perché no? Voi ragazzi?”

“Io passo, non voglio vomitare come ha fatto Nick quella volta a Rüttherberg” disse Fritz, facendo ridere gli amici.

“Come lui, non voglio diventare io la nuova barzelletta del gruppo!”

Nina fece strada, prendendo Fritz per il polso e sfilando in mezzo a tutte quelle persone. Nonostante fosse estate, l’aria fresca della sera la risanò, facendola già sentire meglio. Si aggrappò al braccio dell’amico, mentre attraversavano la strada, andando a sedersi su una panchina, all’ombra di un cipresso. Alle loro spalle, il lato nord del Siegerpark  si innalzava inquietante “Non ci sono stelle, questa notte” realizzò la bionda alzando il naso verso l’alto, mentre Fritz accendeva la sigaretta, sprecando un paio di fiammiferi

“Non vedevo un cielo così buio dall’ultima uscita” confermò lui, appoggiandosi con la schiena contro al legno della panchina, mentre buttava fuori il fumo dalle narici “Peccato che mi abbiano mandato di istanza nel settentrione. Se ci fossi stata tu, avresti illuminato la mia veglia.”

“Che adulatore” fu la risposta di Nina, che non tardò di un secondo ad arrivare. Gli sfilò la sigaretta dalle dita, portandola alle labbra “Secondo te un giorno scopriremo che queste cose sono nocive?”

“Butti del miasma nei polmoni, non credo servano degli esperimenti empirici per capire che bene non può fare.” Per risposta, la ragazza gli soffiò il fumo in viso “Sei dispettosa!”

Fritz portò le braccia attorno a lei, facendola ridere “Aggressione, aiuto!” cercò di difendersi lei, mentre la sigaretta le sfuggiva dalle dita in un tentativo di difendersi “Fritz, dai!”

I loro sguardi si incontrarono a metà strada, mentre i loro respiri si fondevano e il giovane medico non attendeva un istante di più per far collidere le loro labbra in un bacio, che Nina ricambiò con la stessa dolcezza che l’altro ci mise.

C’era qualcosa di sbagliato in quel momento, e lei lo colse da subito.

Concesse però alla sua coscienza di goderne per un poco, mentre con la mano scostava i capelli di Fritz, scivolando fra le ciocche ricce fino alla nuca. La mano  dell’altro, invece, andò a posizionarsi sul suo fianco, mentre il bacio si intensificava.

Fu proprio nel momento in cui lui le chiese di approfondire il contatto, che lei abbassò fin troppo brusca il viso, mordendosi il labbro inferiore.

C’era qualcosa di sbagliato, perché lei stava pensando ad un altro.

Era ora di mettere le carte in tavola, perché Fritz valeva troppo perché lei potesse immaginare labbra sottili e occhi di ghiaccio mentre lui la baciava.

“C’è una cosa che devo dirti.” 

Non era stata lei a parlare. Stupita, alzò il viso di nuovo, specchiandosi in quegli occhi nocciola, caldi e famigliari. “Anche io, Fritz. Inizia tu.”

Lui si scostò, abbassando una delle due braccia per prenderle la mano. “Nina, ci ho pensato tanto e non posso più continuare così. Vederci così poco è una tortura, per me.” iniziò, cautamente “Per questo io-”

La bionda, che già stava pensando a come poter contrattaccare a quella confessione che avevano rimandato per anni nel modo più dolce possibile, si ritrovò a chiedersi perché l’altro si fosse fermato. E perché aveva preso a palparsi il petto in un paio di punti.

“Che succede?”

“Ho lasciato dentro la giacca”

Nemmeno il tempo di poter dire qualcosa, che era schizzato in piedi, barcollando e inciampando nei suoi stessi passi, mantenendo però un equilibrio precario. Lei si sentì sempre più confusa e fece per alzarsi a sua volta.

“Torno subito!” la fermò però lui, appoggiandole la mano sulla spalla e iniziando a camminare verso l’osteria “Aspettami qui, ok? Ci metterò un attimo.”

Nina lo guardò allontanarsi, sperando che arrivasse vivo alla porta. Una volta sparito nell’osteria, lei affondò il viso nelle mani, lasciando che i capelli lunghi scivolassero in avanti a coprirla.

Era tropo su di giri a causa del vino per articolare un discorso coerente, ma temeva quello che Fritz avrebbe potuto aggiungere. Jara glielo aveva detto tante volte, che avrebbe dovuto essere spietata dall’inizio. Che avrebbe dovuto dirgli che anche se s’erano baciati tante volte e avevano fatto l’amore, quell’attrazione non era abbastanza.

Che lei non lo amava.

La paura di ferirlo era stata troppa però e lei non se l’era sentita di spezzargli il cuore. Aveva sperato che gli sarebbe passata, ma evidentemente non ciò era ancora avvenuto.

“Che faccio, ora?” sussurrò a se stessa, grattandosi gli occhi mentre ricercava inutilmente di riprendere lucidità.

Dei passi alle sue spalle la fecero sussultare e immediatamente scattò in piedi, rischiando di perdere l’equilibrio.

“Nina?” Una voce calma e conosciuta, un volto che sapeva di aver già visto. Nina lo osservò per qualche istante, poco lucida, prima di capire chi fosse quel giovane.

“Hans?”

 

“Non posso crederci, stai per chiederle la mano.”

Rielke teneva entrambe le mani sul volto, con le dita aperte per permettere ad un solo occhio di spiare Fritz, che stava aspettando che Leo gli rendesse l’anello che aveva estratto dalla tasca della giacca con un certo orgoglio.

“Era l’anello di fidanzamento di tua madre?” domandò infatti il rosso, mentre l’altro annuiva “Spero per te che non ti dica di no, oppure probabilmente dovremo riportarti a casa in lacrime come una ragazzina.”

Fritz, a quelle parole, sbiancò appena “Spero di evitarvi una tale scena” si gonfiò il petto con un ultimo respiro profondo “Auguratemi buona fortuna.”

“Vai, stallone.”

Rielke alzò un pugno nella sua direzione, per incoraggiarlo e quando Fritz ripartì deciso, scivolò sulla panca fino ad arrivare vicino a Leo “Finirà male. Andiamo a spiarli?”

Il rosso lo guardò come se fosse un autentico idiota “Ovviamente”

Fuori faceva più freddo di quanto si aspettassero, tanto che lo stazionario si strinse meglio la mantella nera attorno al collo. Cercarono con gli occhi gli amici, ma trovarono solo Fritz che se ne stava da solo, fermo dall’altra parte della strada, grattandosi la nuca.

“Se Nina è scappata, riderò fino a star male” commentò non senza una piccola dose di cattiveria Leo. Entrambi, sia lui che il cugino della ragazza, sapevano molto bene che non c’erano possibilità che quella proposta andasse in porto, ma non se la sentivano di dirlo a Meier.

Meritava la sua sana dose di delusione amorosa.

“Cosa fai, scemo?” domandò Rielke al dottore, battendogli la mano sulla schiena, mentre anche l’altro si affiancava.

“Nina e io eravamo su quella panchina, ma lei non c’è. Che sia entrata nel parco?” domandò un po’ preoccupato Fritz, guardando verso Rielke, il quale sbuffò divertito. Leo, invece, lanciò uno sguardo alla panchina, tornando subito però a fissarla e muovendo qualche passo verso di essa.

“Forse è tornata a casa tua. L’ho vista bella provata.”

“Può darsi, ma le avevo domandato di attendermi qui!”

“Ragazzi?” entrambi si voltarono verso Leopold, che dava loro le spalle. Attesero che dicesse qualcosa e quando si voltò a guardarli, sembrava bianco in viso. Sembrava pensieroso e quando velocemente li superò, non diede loro alcuna spiegazione per quel  repentino cambiamento di atteggiamento.

“Devi vomitare?” chiese Rielke, prima di notare che teneva qualcosa fra le mani. I due amici lo seguirono sotto alla grande lanterna ad olio posta sulla via come lampione, guardandolo mentre leggeva velocemente qualcosa. “Leo?”

La risposta ci mise un po’ ad arrivare, sembrava che Leopold stesse rileggendo più e più volte. Alla fine si riscosse nel modo più strano “D-dobbiamo rientrare subito e andare dal Comandante Kessler” mormorò balbettante, prima di alzare gli occhi su di loro. Erano spiritati.

“Mi dici cosa è successo?” chiese Fritz e, per risposta, gli venne piazzata in mano la busta e la lettera che il rosso aveva trovato sulla panchina. Non aggiunse altro, Schitz, attraversano la strada di corsa e ficcandosi dentro all’osteria.

“Che diamine sta succedendo?!” iniziò ad agitarsi anche Rielke, mentre le mani di Fritz prendevano a tremare, strette attorno alla carta bianca.

“Non può essere…” sussurrò, prima di passargli i fogli ormai stropicciati, voltandosi verso il parco “Nina! Nina!”

A quel punto, il biondo aveva compreso cosa stava succedendo. Non ebbe il coraggio di leggere quel messaggio, mentre iniziava a crearsi un certo caos di gendarmi attorno a loro.

“Coprite il perimetro esterno e interno, cercate ovunque” stava impartendo ordini Nora, mentre Leo prendeva la lettera e gliela passava, parlando concitato per raccontarle cosa era avvenuto. Fritz urlava alle sue spalle, chiamando Nina sempre più forte e quello era il solo suono che Rielke sentiva.

Fra le sue mani era rimasta solo la busta che conteneva la lettera.

Su di essa, una calligrafia ordinata riportava un solo destinatario.

All’attenzione del Capitano della Legione Esplorativa Erwin Smith.

 

 

Continua…

 

 

 

Nda.

Questo capitolo unicamente flashback – che posticipa cosa c’è nella maledetta cantina, ma ormai io e Isayama siamo diventati amici in questo – doveva concludersi. Però non ho proprietà di sintesi e quindi niente, per sapere cosa cavolo sta succedendo dovrete aspettare il prossimo capitolo. Chiedo scusa in anticipo.

Davvero, la proprietà di sintesi questa conosciuta.

 

Questo capitolo è particolare, perché introduce tutti i personaggi nuovi che andranno a servirmi più avanti. E a servire a una mia amica che sta a sua volta scrivendo una storia, visto che Fritz è mio solo in parte.

Per il resto è il suo protagonista.

E io ho scritto di lui per prima.

 

…. Tranquilli, è normale per noi. Lo facciamo sempre.

 

A parte il caro dottor Meier abbiamo la sua famiglia, Rielke che sarà importantissimo, il carismatico Leo e questo strano Hans.

Nina non ha visto Frozen, evidentemente. Se no non si sarebbe fidata.

Manna che non l’ho chiamata Anna.

(e fa rima)

 

Oltre a loro c’è anche il Comandante Nora Kessler, nella mia ottica il precedente comandante della Gendarmeria prima di quel poraccio di Nile. Che non preoccupatevi, arriverà anche lui prima o poi. Non posso mettere un po’ di scambi su quanto era figa Marie.

 

Levi solo citato.

Nel prossimo farà la sua porca figura non temete.

Ho paura di farlo OOC ma quando non lo metto mi manca.

 

Passando oltre per non infastidirvi – evito i comizi medici su tutti i vari morbi, Nina ce ne parlerà andando avanti -  ringrazio le sei anime buone che hanno inserito questa storia fra le seguite.

Cento volte grazie.

E mille volte per le meravigliose fanciulle che mi commentano sempre, anche se sono impegnate.

Grazie Auriga, grazie Shinge.

Siete preziose come il foulard del Capitano Levi.

 

Ci sentiamo presto con un capitolo che tornerà ad essere un ordinario presente-passato.

Un bacio a tutti e buona settimana!

C.L.

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Capitolo 8
*** Capitolo Settimo ***


11

 

Wenn die Sterne leuchten.

 

 

 

 

Capitolo Settimo.

 

 

 

Bitte, sag' mir 
Bitte, sag' mir, was ist mit mir geschehen?
Die neue Seit' an mir - Ich mich in ihr verlier'
Ich bin zerbrochen, bin zerbrochen in dieser tristen Welt
Doch lächelst du mich an, ist all der Schmerz vergangen
https://www.youtube.com/watch?v=78g-OsJIhyA

 

 

 

Anno 846

All’esterno del Wall Rose.

 

 

 

Uno dei lati positivi del trovarsi a sud delle mura, sperduta nei territori di Maria,  tra le rovine di un villaggio lasciato a marcire nel dimenticatoio così come le anime che lì vi erano perite, era senza dubbio il grande lavoro scientifico che poteva uscirne fuori.

Tanto per iniziare, i giganti, a qualche ora dal tramonto, si mettevano a ‘dormire’. Nina osservava il classe dieci metri appoggiato con la schiena alla parete della casa di fronte alla quale si era accampata, a meno di venti passi da lei, senza provare il solito strisciante terrore nelle viscere. La prima volta che le era successo di trovarsi così vicina a un gigante, senza essere impegnata a combatterlo, era stata la terza notte e aveva rischiato un attacco di cuore, ma la sua inefficienza era stata testata dall’alto di un tetto, tirandogli addosso delle tegole. Molte tegole.

Nessuna reazione, se non qualche debole lamento, come un bambino confuso in dormiveglia.

Stupefacente e interessante, perché a quanto ne sapeva Nina, nessuno aveva mai condotto un’indagine di quel tipo. Chi era rimasto oltre le mura abbastanza da raccontarlo, in ogni caso? Nessuno dotato di senno l’avrebbe fatto, ma lei iniziava a perdere qualche venerdì, immersa come era in quella solitudine. Almeno questa la motivazione che si era data.

Con in mano un secchio pieno dell’acqua che aveva tirato su dal pozzo, la giovane fece un altro paio di passi verso il gigante, arrivando a colpirlo sulla gamba con la punta del piede, sempre in allerta, pronta a mollare il secchio e schizzare velocemente via.

Di nuovo, nessuna reazione. Stavolta nemmeno un lamento, non sembrava averlo nemmeno sentito.

Al fine di portare avanti queste dimostrazioni empiriche, Nina non usciva mai senza il modulo per lo spostamento tridimensionale. Avventata? Sì. Forse un po’ sprovveduta? Sicuramente.

Ma non era diventata né matta, né tanto meno scema.

Sospirò, rendendosi conto che se non fosse per le ginocchia che tremavano, iniziava a farci il callo. Dopotutto, quello era il suo sesto giorno lì, ma dopo l’aver visto tanti amici morti mangiati, rimanere del tutto impassibile era impossibile.  

Tra gli approvvigionamenti, le impressioni personali scritte con precisione chirurgica su quel quaderno e quella sorta di vaghi esperimenti notturni giusto per sondare un po’ il terreno, il tempo era quasi volato.

Quasi.

C’erano dei momenti di una noia tale da farle venire voglia di partire a piedi solo perché non ce la faceva più. Le mancava casa,  voleva solo rivedere tutti quei volti famigliari e dormire in un letto vero, certa che non avrebbe avuto risvegli bruschi. Magari non da sola. Magari con qualcuno a cui sentiva ogni giorno di più di dover chiedere scusa.

Pensieri e rimpianti a parte,  Nina aveva trovato qualcosa di molto interessante nel quale spendere un po’ di tempo.

Nel basamento della casa del guardiacaccia era stato celato un tesoro. Da chi non ne aveva idea, ma iniziava a capire il perché.

Rientrata nel rifugio, Nina s’era chiusa in cucina, lanciando uno sguardo verso il tavolo dove qualche pezzo di quel tesoro era stato portato per essere studiato. Passò una mano sulla copertina verde smeraldo del primo di una lunga pila di libri, decidendo di farsi un teh.

Chi lo avrebbe mai detto che una caduta rovinosa a causa di un pavimento marcio avrebbe riportato alla luce così tanto?

Una biblioteca di come non ne aveva mai viste, senza possibilità di entrarvi perché non vi erano porte o scale che potessero condurre lì. Centinaia, forse migliaia di libri abbandonati al tempo su numerosi scaffali. Nina non aveva creduto ai suoi occhi in un primo momento, mentre con la candela passava di libreria in libreria, osservando i dorsi dei volumi rovinati dall’umidità. Non tutti erano in buono stato, diversi scaffali avevano sofferto troppo il lungo periodo senza luce né aria, mentre altri sembravano aver avuto più fortuna.

Mentre sceglieva due foglie di the – doveva essere parsimoniosa- si chiese se il guardiacaccia sapesse di cosa la sua casa nascondesse nel ventre. Di tutte le caratteristiche straordinarie che quella scoperta aveva, una le saltò agli occhi prima ancora di uscire dalla cantina.  Il punto non era che ci fossero dei libri, ma che ci fossero quei libri. Il mistero che nascondevano rischiava di rimanere tale però, visto che non erano scritti in nessuna lingua che Nina conosceva. Sapeva che nel settentrione, nelle zone di Briemer e Jiina, era stato adottato un alfabeto un po’ diverso dal loro, quello tradizionale e parlato nella Capitale. Non aveva mai avuto la possibilità di imparare a leggerlo – i membri della Legione lì stanziati parlavano e scrivevano nella lingua comune le loro missive e i rapporti-  ma avrebbe saputo riconoscerlo, se visto. No, quello era molto, molto diverso. Le lettere erano continue, eleganti e sconosciute. Senza contare che di libro in libro, se pur si mantenesse lo stesso alfabeto, sembrava cambiare la lingua. Erano solo congetture le sue, ma c’era un libro di botanica, che aveva scelto giusto per le immagini, che sembrava essere scritto in modo diverso da un altro, un’enciclopedia medica piena di sezioni anatomiche.

Non era la sola cosa strana.

Il modo in cui erano stati stampati era strano. Nina poteva sentire le pagine lucide sotto ai polpastrelli, in un modo che lei non aveva mai avvertito prima, invece di essere ruvide come tutti i libri che aveva conosciuto nella sua vita, usciti dalla pressa di un copista. I caratteri erano piccoli, precisi, come se la mano che li aveva tracciati fosse così allenata da fare ogni singola lettera identica.

Sorseggiando il suo teh, Nina arrivò alla conclusione più assurda: chiunque avesse scritto quei libri, non apparteneva al mondo che lei conosceva. Doveva quindi esserci qualcosa al di fuori delle Mura, oltre ogni sua immaginazione.  C’erano altre città da qualche parte? Esistevano altri insediamenti di esseri umani in lotta contro i giganti? E se così era, perché non potevano venire in contatto con loro? Alla base della scienza vi è lo scambio di nozioni; chissà quanto avrebbero potuto imparare da un popolo che era anche solo in grado di fare delle stampe di quella qualità. Nina era però consapevole di avere fra le mani qualcosa di nuovo, ma anche di potenzialmente mortale. Era severamente vietato detenere o anche solo leggere dei libri riguardanti il mondo oltre le Mura, figurarsi poi dei volumi che venivano direttamente dall’esterno. Qualsiasi cosa avesse scoperto, avrebbe dovuto selezionare molto attentamente coloro a cui parlarne. Sapeva delle storie, di uomini e donne che avevano provato a visitare il mondo esterno o che anche solo avevano cercato di scoprire i segreti delle mura. Erano tutti spariti, in un modo o nell’altro, sicuramente per mano di qualche corpo specializzato della Gendarmeria. Persino loro dovevano sempre fare rapporto di ogni scoperta ad un organo specializzato, ogni qualvolta tornavano da una missione ed era anche capitato di vedersi negare i permessi per indagare più a fondo eventi peculiari.

Le leggi che la Corona aveva imposto tutelavano la stessa, non l’Umanità.

“Questa è della malva” disse Nina, passando il dito sulla parola scritta sotto all’immagine di una foglia a lei fin troppo conosciuta “Mentre in questa sezione anatomica, è indicata la mandibola. ‘Ma’ e ‘ma’ sono però scritte in modo diverso, senza dubbio sono due lingue diverse, sempre che si chiami con lo stesso nome sia la pianta che la parte del volto in questione.”

Bel problema.

“Pazienza, avrò il tempo in un momento in cui sarò meno stanca per lavorarci. Quello, qui, non manca mai.”

Appoggiando la tazza ora vuota, Nina stirò le braccia verso l’alto, portandole poi dietro al capo. Doveva andare in bagno, altra necessità sconveniente, visto che doveva uscire per ottemperare ai bisogno fisiologici. E farlo di giorno, con l’attrezzatura per lo spostamento tridimensionale addosso era quasi impossibile. Le iniziava a mancare la latrina del campo reclute, e ciò diceva tutto sulla situazione.

Decidendo di essere davvero avventurosa, la ragazza non prese il modulo per lo spostamento e si liberò anche di tutte le cinghie, lasciandole cadere sul materasso. Sarebbe entrata e uscita nel giro di massimo due minuti, così da non contravvenire al codice di regole base che si era data da sola, il cui punto numero uno era proprio tenere sempre le armi a portata di mano. Se quel mese le fosse venuto il sangue mentre era ancora la fuori, allora si che sarebbe stato parecchio sconveniente e poco, poco divertente. Uscì dalla casa, girandole attorno verso le latrine esterne e, una volta liberatasi, tornò a guardare verso il cielo. Era una bella nottata di luna crescente. Di nuovo, venne meno alle sue stesse regole e si avvicinò a una staccionata, salendovi sopra per sedersi e tenendo lo sguardo puntato verso la vastità del cielo, ma non prima di aver controllato che la finestra più vicina non solo fosse aperta, ma anche facilmente raggiungibile. Il silenzio era ispirante, tranquillizzante, tanto da farla cadere nel vortice dei ricordi di altre, belle notti in cui aveva potuto godere di un po’ di compagnia.

Con Fritz, oppure con Levi, come l’ultima notte dell’anno. Sorrise, sistemandosi meglio col sedere, ripensando a quella serata, mentre avvertiva un senso di calore e conforto nel petto. Con la mano sistemò la mantella verde, chiedendosi cosa stesse facendo lui in quel momento. Di sicuro, non stava dormendo. Levi dormiva troppo poco e lei non smetteva di ripeterglielo e ingozzarlo di radici di valeriana.

“Chissà se stai guardando lo stesso cielo e stai parlando da solo come me. Improbabile, ma non si sa mai.”

Anche con Erwin passava parecchio tempo in silenzio, a fissare il cielo notturno, fuori dalla sede del quartier generale della Legione, nelle belle notti estive come quella. Oppure seduti sul tetto di casa, a Stohess, insieme a Rielke e a  Mieke o da soli, persi in discorsi impegnati sulle missioni o su eventi particolarmente divertenti successi in giornata, quasi sempre al cugino.

Un ricordo in particolare arrivò a solleticarle la mente, facendole stringere il cuore.

Nina era appena tornata dal villaggio natale del Tenente Renson, dopo aver consegnato alla moglie un vaso anonimo color crema con dentro una manciata di ceneri e la fascetta col giglio rosso, macchiata di sangue. Aveva chiesto lei di andare a dare la notizia alla donna, ma l’averla vista sgretolarsi davanti ai suoi occhi, insieme ai figli di dieci e quindici anni, le aveva spezzato il cuore. Erwin l’aveva trovata seduta su un tronco caduto, con un mano quella fascetta macchiata che la donna non aveva voluto e gli occhi arrossati dalle lacrime trattenute.

Allora s’era seduto con lei, ironizzando sul fatto che Levi aveva spostato tutte le sue cose in un dormitorio vuoto, ma solo dopo averlo ripulito da cima a fondo. Alla fine, aveva portato un braccio attorno alle sue spalle e l’aveva stretta a sé, permettendole di disperarsi un po’. Perché lui sapeva come era Nina, aveva bisogno di essere invitata a sfogarsi e a piangere, aveva bisogno di qualcuno accanto, a tenerle la mano e a dirle che andava tutto bene, che sarebbe tornato normale fino alla prossima morte, al prossimo addio. Le aveva permesso di liberarsi e poi le aveva dato un fazzoletto per asciugarsi il volto.

Ciò che aveva detto dopo, Nina non l’avrebbe mai dimenticato.

“La tradizione vuole che i soldati che muoiono oltre le Mura diventino stelle” aveva iniziato con quel suo tono che aveva un che autoritario anche mentre suonava rassicurante, facendole alzare gli occhi sulla volta celeste con un cenno. “Il loro ardore non smetterà mai di risplendere e illuminare il cammino di coloro che verranno dopo. Per ogni vita che si spezza, si accende una luce.”

Lei sapeva che era un contentino, una storia per bambini, ma per il cielo, la forza che le aveva dato quel discorso l’aveva rinvigorita. Erwin, che era abituato a trascinarsi avanti, sempre avanti, in mezzo a un lago di sangue e corpi, sembrava crederci sinceramente. Una tradizione della Legione, della loro gente, di quelle persone che conoscevano il  dilaniante dolore della perdita come lo conosceva lei. Nina non aveva mai capito cosa significasse davvero appartenere a qualcosa, prima di tornare dalla sua prima missione e scorgere sul v0olto dei compagni lo stessa amarezza che provava lei. Ma anche la stessa, forte determinazione nel voler davvero credere che, quelle luci, non si sarebbero mai spente o  avrebbero smesso di vegliare.

Il Culto delle Mura predicava la via per i Cieli Aperti, oltre le barriere imposte per proteggere il corpo fisico, dove le anime pure di coloro che periscono si riuniscono ai loro antenati e vivono un’eternità priva di sofferenza e affanni, né fame né paura li avrebbero mai più tormentati.  Ai Cieli Aperti e ai Campi del Fuoco, dove sempre secondo il Culto andavano cadendo coloro che peccavano contro le Sacre Mura e il volere dell’Unico, Nina preferiva credere alle stelle.

Perché le stelle le poteva vedere e ciò che più la confortava era che loro potevano vedere lei.

Prima ancora che potesse realizzarlo, le sue guance erano bagnate e i suoi occhi leggermente offuscati.

“Nick, Ed e Kay, se anche voi siete lassù ora, vegliate su di me” sussurrò, portando la mano al petto quasi involontariamente.

Nonostante non ci fosse nessuno con lei, si lasciò andare, finalmente.  Quella era la prima volta che si fermava a piangere i suoi amici. Piangerli davvero, non come la prima giornata lì, quando era troppo stanca e le lacrime che aveva versato erano confuse dal ricordo della dormiveglia e dalla fame.

Ora che su di lei brillava un tappeto di stelle lucenti, poteva pensare a loro.

Pensò a quale grave perdita fosse per lei e per il genere umano, la caduta di guerrieri così determinati e sicuri. Mai si sarebbe aspettata di arrivare tutti insieme a quel punto, sopravvivere per tre anni di missioni all’esterno, quando la maggior parte delle reclute non vedeva una nuova alba di libertà.

Si diceva che nessuno era davvero un legionario prima di essere tornato vivo dalla prima missione. Loro, di queste ne avevano affrontate diverse e sempre tornando più o meno incolumi. Nicholas era un piccolo genio, una mente brillante della sezione ingegneristica. Poteva riparare un modulo per lo spostamento in quattro e quattr’otto. Aveva anche aiutato nella realizzazione di un potenziamento al sistema di erogazione del gas che aveva evitato lo spreco del prezioso materiale in uscita. Ed, invece, era una macchina da guerra. Fra loro, era probabilmente il più bravo ad abbattere i giganti, anche se ci aveva messo un po’ a sbloccarsi, una volta riuscito a superare la paura di venire mangiato che attanaglia ogni singola recluta fino a immobilizzarla, aveva dato un enorme contributo alla causa. Kayla Jutah invece, seppur non spiccasse né in forza né in intelligenza, era un supporto morale fondamentale. Niente sembrava abbatterla o frenarla.

La loro perdita era incolmabile, soprattutto dopo aver saputo di ciò che era accaduto Fritz, un anno prima.

Non aveva potuto dire addio a nessuno di loro e questo, per lei, era ciò che di peggio poteva avvenire.

C’erano cose non dette, altre che forse non sapeva nemmeno lei che c’erano, ma avrebbe tanto desiderato poter tirar fuori.

Non sarebbe più successo.

Chissà chi aveva portato la notizia delle loro morti alle loro famiglie. Avrebbe dovuto farlo lei.

Chissà se Leo e Rielke sapevano già tutto. Sicuramente, conoscendo i ritmi con cui venivano rilasciate certe notizie, tutti sapevano della distruzione totale della squadra di Sankov.

Non totale.

Lei era ancora lì e ci sarebbe rimasta.

Immediatamente, tornò ad alzarsi. Puntò un’ultima volta lo sguardo verso le stelle, brillanti e irraggiungibili, pregandole.

Avrebbe vissuto anche per loro, glielo doveva dopo tutto ciò che avevano condiviso.

Avrebbe vissuto e li avrebbe ricordati, fino al giorno in cui si sarebbero ritrovati di nuovo.

 

 

 

 

Die Welt, so wie sie war, zerfällt in Scherben
Als dir zu schaden, würd' ich eher sterben
Erinnere dich an das, was ich einst war

Das alles scheint real...

 

 

 

 

 

Anno 844

Wall Sina, Capitale.

 

 

 

Non aveva idea di quanto tempo fosse passato, né di dove si trovasse.

Dal dolore alle ossa, Nina suppose che dovevano essere passati almeno un paio di giorni da quando è stata presa. Da chi era un altro mistero a cui non ha potuto dare una risposta.

La posizione che era costretta a mantenere era deleteria, soprattutto per i polsi, legati dietro alla schiena, e per le ginocchia, su cui era costretta a stare per la maggior parte del tempo, perché un’anella metallica la teneva ancorata al suolo e, da seduta, sentiva le spalle dolerle troppo. Tutte le informazioni che aveva erano state acquisite con i suoi sensi, eccetto la vista e il gusto, perché non solo non mangiava dalla cena da cui era stata strappata,  ma a  stento le era stata data qualche goccia di acqua. A coprirle gli occhi aveva una benda scura che non permetteva alla luce di filtrare e quindi di distinguere nessuna sagoma.

Non aveva praticamente ricordi di quello che era successo. Il vino l’aveva stordita prima ancora del panno imbevuto di etere che le era stato premuto sulla bocca da Hans, quel ragazzo dall’aria così per bene che l’aveva approcciata non più di un giorno prima.

Vatti a fidare delle apparenze.

Una cosa però l’aveva recepita forte e chiara: i suoi carcerieri non erano d’accordo su nulla. Li aveva sentiti litigare attraverso la porta più di una volta. Dove portarla, se spostarla, se nutrirla o lasciarla così per evitare che potesse in qualche modo ribellarsi. Era un soldato, un buon soldato, ma rimaneva  prima di tutto un medico che aveva seguito più aggiornamenti che allenamenti nel corpo a corpo. Non era come Mike o Ed, non aveva le capacità di stendere tre uomini – sembravano tre dal numero di voci che era riuscita a distinguere- e scappare.

Non per questo, non ci avrebbe provato.

Superato il panico iniziale, insorto nel momento in cui aveva ripreso conoscenza, dolorante e confusa, aveva fatto un paio di conti facendo ricorso a tutto il suo provvidenziale sangue freddo. Non aveva assolutamente idea di dove si trovava, questo è vero, ma poteva cercare di capirlo. La stanza era fredda e umida, forse un seminterrato privo di finestre che teneva lontana la calura estiva. L’odore umido nell’aria pareva confermarlo, così come l’eco costante che si udiva. Aveva trovato un piccolo sasso a terra e l’aveva lanciato. Il suono era rimbombato per un po’ prima di fermarsi, segno che la stanza era anche parecchio grande.

Aveva provato poi a liberarsi, ma quelle che aveva ai polsi sembravano tristemente delle manette. Non sarebbe mai riuscita ad aprirle senza una forcina e forse nemmeno con quella vista la sua scarsa esperienza in escapologia.

In ultimo, non aveva potuto che tentare un approccio diretto con i suoi rapitori, quando andavano a controllarla o a portarle da bere quelle due volte che l’avevano fatto, forse ricordandosi che un essere umano medio, per vivere, ha bisogno di qualche bene di prima necessità. Domande, richieste, ma niente. Come premio aveva giusto ricevuto uno schiaffo che le aveva spaccato il labbro, ma nemmeno un sussurro.

A quel punto, non aveva potuto fare nient’altro che riporre le sue speranze nell’essere trovata prima di morire di fame.

 

La porta si era aperta col solito cigolio sinistro, ridestandola dal sonno tormentato in cui era caduta a stento qualche ora prima. Nina aveva scostato il capo dal palo dietro di sé, allungando il collo per cercare di cogliere qualche nuovo movimento.

Sorprendentemente, sentì qualcuno parlare. Non con lei, però.

“Dovremmo ucciderla e liberarci del corpo” gracchiò la prima voce, un po’ troppo alta per appartenere ad un uomo. Sentì un vuoto allo stomaco, ma non riusciva a  dire niente a causa del bavaglio. D’altronde, cosa dire a una persona che ti vuole fare la pelle?

Una seconda voce, stavolta profonda e baritonale, si intromise “Bella idea, Liebert” commentò sarcastico, mentre un terzo uomo entrava nella stanza, camminando veloce “Così sarà stato tutto inutile. Il rapimento è andato come previsto, perché non fare ciò che avevamo deciso e basta?”

“Perché questa puttana sa troppo. A partire dal nome di Hans.”

Fu proprio quest’ultimo a parlare, Nina riconobbe la sua voce subito “Non la uccideremo. Non ora.” La pausa ad effetto non piacque molto alla ragazza, ma a quanto pareva, aveva altro tempo “La sposteremo nel luogo che avevamo previsto, dietro alla tua officina, Bertram. Lì difficilmente verranno a cercarla.”

“La Legione ricognitiva è arrivata in città e quelli non sono come la Polizia Militare!” proseguì quello dal tono viscido, mentre nel cuore della ragazza nasceva di nuovo la speranza “Se ci trovano, ci faranno a pezzi prima ancora di portarci in tribunale, ve lo dico io.”

“Avevamo stipulato che dovesse morisse di fronte a Erwin Smith o sbaglio? Se è ciò che va fatto, uno di noi dovrà per forza metterci la faccia.”

Ora tutto iniziava ad avere un senso. Si era chiesta spesso perché stava succedendo a lei. Ed ecco la risposta.

Era lì per una vendetta ai danni di suo fratello.

Di nuovo, scelse di aspettare a parlare. Si sarebbe dimostrata il più docile e debilitata possibile, nel caso in cui avesse avuto la possibilità di usare tutte le sue energie per scappare.

“Lo so, Hans, visto che il piano è mio. Mi sto solo chiedendo fino a che punto vale la pena vendicare nostro padre.”

“Se hai intenzione di tirarti indietro, Liebert, proseguiremo io e Bertram.”

Continuavano a ripetere i loro nomi senza nessun ritegno, permettendo così a Nina di memorizzarli senza alcuna fatica. Non dovevano essere delle volpi o forse, più semplicemente, non erano avvezzi a quel tipo di azioni criminali. Il che era un bene.

Non sarebbe stato difficile ingannarli, se ne avesse avuto l’occasione.

“Andiamo avanti insieme, allora. Portala dove ti pare, Hans, ma fallo prima dell’alba.”

Due paia di passi uscirono dalla stanza e lei rimase con il suo rapitore, da sola. Lo sentì muoversi verso di lei, liberarla dall’anella metallica, mentre le manette venivano lasciate ai polsi. La fece alzare e lei si lasciò prendere su di peso, zoppicando poi un po’, non facendo fatica a simulare il dolore; le ginocchia stavano gridando tanto facevano male e così la schiena, che le rimandò anche una fitta che per un attimo le tolse il fiato.

I modi del ragazzo furono insolitamente gentili, mentre attraversavano una stanza e salivano una rampa di scale. Quando sentì la bocca libera dal bavaglio non riuscì a trattenersi oltre.

“Perché lo stai facendo, Hans?”

La domanda era stata un azzardo, perché sapeva che la ricompensa poteva anche essere uno schiaffo in viso, ma tanto valeva rischiare. Era stanca, spaventata e piena di acciacchi. Non era mai stata molto combattiva sul piano fisico, non sapeva nemmeno se sarebbe stata in grado di menare le mani abbastanza forte, ma lo doveva fare per forza in un qualche modo.

Sorprendentemente, ricevette una risposta, “Quando arriveremo nel luogo in cui siamo diretti, risponderò alle tue domande.”

Sembrava una promessa fragile, ma era tutto ciò a cui poteva aggrapparsi. Nella sua falsa remissività si limitò ad annuire impercettibilmente, mentre l’aria della notte la investiva insieme all’odore del fieno da poco mietuto. Non erano nemmeno in città, maledizione. Avrebbe dovuto cercare un rifugio, una volta tentata la fuga.

La faccenda si faceva di minuto in minuto più complessa.

 

Il viaggio in carretto fu breve.

Nina, nascosta sotto a qualche coperta, aveva quanto meno avuto la possibilità di stendere le gambe e la schiena.  Non provò a urlare o a dibattersi, né di alzarsi per provare a correre via. Se aveva capito bene, era notte fonda e non avrebbe avuto nessun aiuto contro una carrozza in corsa e un rapitore decisamente più in forma di lei.

Hans sembrava volersi porre in modo gentile nei suoi confronti. Non credeva che un uomo che aveva promesso di ammazzarla di fronte a suo fratello fosse una persona di buon cuore quindi decise di non farsi fregare da quelle premure.

Giunti a destinazione, il giovane la fece entrare in un’altra struttura sconosciuta. L’odore che colpì le narici di Nina era sgradevole tanto era forte. Sembrava un odore di vernici, era intenso. Avevano parlato di un’officina, così ipotizzò che forse,in quel luogo, costruivano o assembravano oggetti. Hans le fece attraversare almeno un paio di stanze, prima di fermarsi nell’ultima, facendo tintinnare qualcosa che Nina capì essere una catena, che le venne assicurata alle manette.

“Avevi promesso di rispondere alle mie domande” ricordò, con la voce che le tremava appena, perché più si sforzava di essere decisa e sembrare padrona di sé, meno si convinceva che il piano di fare la povera vittima delle circostanze avrebbe funzionato.

Ci fu un attimo di silenzio sospeso, mentre la dottoressa respirava piano per poter cogliere ogni singolo rumore. Sentì nitidamente qualcosa che veniva trascinato per la stanza e capì che doveva trattarsi di una sedia. Si metteva comodo?

“Ogni promessa è un debito d’onore, Nina. Risponderò alle tue domande.”

Avevano proprio intenzione di farla fuori, ormai ogni dubbio si era dissipato, o non avrebbe mai detto niente. La bionda passò la lingua sulle labbra screpolate, prima di arrivare diretta al nocciolo della questione “Chi sei? Cosa vuoi da me?”

“Il mio nome è Hans Lobov” rispose immediatamente il giovane, come se si fosse già preparato alle presentazioni vere e proprie. Una volta svelato il cognome, Nina capì “Immagino che le spiegazioni, ora, siano superflue. Avresti dovuto domandarmi il nome completo.”

“Non me l’avresti mai rivelato, ti saresti inventato qualcosa” non era stupida, nemmeno volendolo avrebbe potuto impedire il ciclo di eventi scaturiti da una semplice chiacchierata di nemmeno due minuti al parco “Immagino che coloro  che ti stanno aiutando siano i tuoi fratelli, magari dei parenti stretti.”

Hans schioccò la lingua contro al palato, mentre la sua voce si faceva improvvisamente fredda. Tutte le buone maniere e il falso garbo erano solo un modo sicuro per poterla fino a lì senza ottenere resistenza “Sei più sveglia di quello che sembra. Peccato tu non lo sia stata del tutto.”

“Non mi biasimerò per aver risposto a un complimento, anche se il tuo approccio è stato un po’ fiacco. Dimmi, sei negato nel rapportarti con il gentil sesso o, semplicemente, non intendevi impegnarti?”

Il giovane rise sottovoce, strusciando nuovamente la sedia, forse per sporgersi in avanti verso di lei, seduta sul terreno freddo “Ironia un po’ inopportuna, non pensi?”

“La vera ironia è che state facendo tutto questo trambusto perché vostro padre è stato sbattuto in galera per essere un maiale che mangiava più soldi che cibo” proseguì Nina con tono amabile, come se stesse facendo non pochi complimenti alla famiglia di Hans e al suo buon nome “Pensi che uccidendomi, otterrai qualcosa, eccetto la forca? Sempre se ci arrivi al farti impiccare, perché se mio fratello dovesse prenderti prima, nemmeno un Dio o chi per lui potrebbe salvarti.”

“Sei parecchio fiduciosa che tuo fratello ti salverà o vendicherà, ma sono passati due giorni da quando sei sparita nel nulla e lui non è ancora alla mia porta, nonostante gli abbiamo lasciato una lettera in cui esprimevamo i nostri intenti.”

Due giorni, almeno aveva una finestra temporale su cui basarsi. Quarantotto ore senza mangiare, non era poi così grave.

“Vi siete firmati? Non credo, no. Anche i migliori investigatori necessitano di qualche pista. Sicuro di non aver trascurato niente?” nel tono della giovane non c’erano provocazioni, non era affabile o presuntuoso, ma volutamente neutro.

Un odore pungente fendette l’aria, arrivando direttamente al naso di Nina, che non ci mise molto a riconoscerlo. Stava fumando, il bastardo “No. L’hai detto tu che bisogna stare attenti a quel che si dice a un giurista, dopotutto; noi siamo i più bravi a giocare con le parole e a rigirare  le persone.” Lo sentì alzarsi e girarle attorno, prima di chinarsi proprio di fronte a lei “Sai, per colpa di tuo fratello, noi abbiamo perso tutto. Le terre, i possedimenti in Capitale, i titoli, la fiducia delle persone e tutti i nostri soldi fino all’ultima moneta di bronzo. Io non ho potuto finire l’università, a pochi passi dalla laurea, mentre Bertram e Lieberth non possono più andare avanti le loro attività, che sono state pignorate dalla corona. Tutto ciò che ci è rimasto è questa vecchia officina, di proprietà della moglie di mio fratello e una baracca diroccata nelle campagne. Erwin Smith ha buttato nostro padre in galera per corruzione, ma vuoi sapere come ha ottenuto le prove?” una mano si alzò fino al suo viso, scostandole i capelli biondi dietro all’orecchio, mentre l’alito del ragazzo, che puzzava di fumo e vino dozzinale, le fece storcere la bocca in una smorfia “Estorsioni e doppio gioco. Si è sporcato le mani di sangue, sguinzagliando i suoi uomini e ottenendo confessioni con metodi tutt’altro che accomodanti. Tuo fratello, Nina Müller, non è meno colpevole di mio padre.”

Nina non intendeva credere ad una sola parola. Ai suoi occhi, Erwin era un modello di onestà, un’ispirazione. Era la persona che lei aveva sempre ambito diventare, non poteva averlo fatto. Non sarebbe venuto meno alla sua umanità.

“Tu menti.”

“Io mento? No, sei tu che racconti bugie a te stessa. Tuttavia…” la stessa mano che le aveva toccato il viso, costringendola a voltare rapida il capo di lato, ora risaliva la sua gamba, alzandole la gonna bianca che ormai doveva essersi sporcata non poco, fino alla coscia. Nina sgranò gli occhi sotto alla benda, mentre il panico le faceva salire la nausea. Era consapevole che non avrebbe potuto sottrarsi in nessun modo, se non scalciando “Magari hai ragione. Forse il Capitano Smith è qui nei paraggi e presto irromperà da quella porta per salvarti e farmi saltare la testa. Dovrei quindi fare qualcosa, non credi? Svergognare sua sorella potrebbe essere un ottimo inizio, anche se dubito che una come te possa essere arrivata pura fino ad oggi. Sarebbe stupido, per una persona che va spontaneamente a morire, non avere dei diletti. Dopo di che, potrei iniziare a tagliuzzarti il viso. Non sono un medico come te, ma sono sicuro che la mia inesperienza renderà il tutto più doloroso e interessante.”

“Hans! Vieni qui immediatamente!”

Quella voce viscida, che aveva appena richiamato il fratello, suonò come la campana della libertà alle orecchie di Nina.

“Rimandiamo a dopo, cosa ne pensi?” Hans le sfiorò il mento con il pollice, prima di alzare nuovamente il bavaglio che pendeva sul collo della giovane, ficcandoglielo in bocca senza troppo cerimonie. Lasciò la stanza qualche istante dopo e Nina sospirò così forte da svuotare i polmoni.

Il tempo per avere paura era ufficialmente fino. Non si sarebbe fatta più trattare a quel modo.

Avrebbe agito e l’avrebbe fatto subito, prima del ritorno di Hans.

Era anche abbastanza arrabbiata per farlo.

 

Un po’ a fatica riuscì a rannicchiarsi abbastanza da passare le gambe oltre le manette, portando le mani davanti al busto. La prima cosa che fece fu di liberarsi di quel bavaglio sudicio, prima di passare alla benda, strappandola via da davanti agli occhi e lasciandola cadere a terra. Nonostante fosse notte fonda, un po’ di luce lunare filtrava dalla finestra sbarrata, permettendole di vedere attorno a sé. La stanza era sgombra, ad eccezione della catena che riuscì facilmente a sganciare dai polsi e della sedia su cui Hans si era seduto. Si alzò in piedi, barcollando per il dolore alle articolazioni, per poi avvicinandosi alla porta e accostarsi ad essa. Sentiva delle voci concitate dall’altra parte, qualcuno stava litigando e per lei andava più che bene.

Avrebbero coperto da soli il rumore della sedia che Nina spacco con un calcio secco sul sedile, dall’alto. Per sua fortuna, una delle gambe si staccò di netto, così non dovette dare altri colpi per potersi procurare un’arma di fortuna. Si portò dietro all’uscio, non provando nemmeno ad aprirlo. Non avrebbe avuto senso, perché certamente era chiuso e oltre di esso due uomini erano pronti a riceverla. Piuttosto, tenne in mano quel pezzo di legno, notando che all’estremità più grande c’era anche qualche chiodo. Bene così.

Un po’ di catarsi se la meritava, dopo due giorni in ginocchio sul cemento.

Spero sentitamente che le gambe la reggessero nella fuga, ma per stare più tranquilla prese a flettere le ginocchia, cercando di scaldare i muscoli intorpiditi. Aveva così tanta adrenalina in corpo da non sentire quasi più la fatica e la fame.

All’udire dei passi concitati, si preparò alzando il bastone improvvisato sul capo.

Tra l’ingresso nella stanza di uno dei suoi carcerieri e il primo colpo passarono solo una manciata di respiri. Lui non fece in tempo a fare nulla, se non guardare spiazzato la catena abbandonata e la sedia distrutta, perché appena si voltò di nuovo verso l’uscito, venne colpito. Nina picchiò più forte che poteva, prima sullo stomaco e poi sul capo dell’uomo, almeno tre volte, fino a che questi non cadde a terra con un tonfo.

Quando si avvicinò per girarlo, notò che purtroppo non era Hans.

Trovare le chiavi per liberare le mani era una buona idea, ma anche uscire di lì e farsi liberare da suo fratello o da un fabbro suonava bene. Aveva i minuti contati, forse i secondi e non aveva intenzione di rimanere lì ancora. Si sarebbe liberata da sola, era un soldato, doveva ricordare che aveva vissuto situazioni molto peggiori di quella e non si sarebbe spezzata per così poco.

“Non mi hanno ammazzata i giganti, non mi ammazzeranno nemmeno tre figli di papà viziati” decretò, tenendo nelle mani il bastone e uscendo circospetta. Girò lungo un corridoio, oltrepassando un paio di porte che trovò aperte.

Sembrava non esserci nessuno, così avanzò, seppur circospetta e schiacciata alle pareti, in quel dedalo di anticamere e stanzoni dagli alti soffitti. Più che un’officina, sembrava un’industria. Quando arrivò finalmente nella stanza che puzzava di vernice non perse troppo tempo ad esaminarla. Notò però che c’erano diversi pannelli di legno dipinti o lasciati ad asciugare, appesi ad alcune travi con delle funi dall’aria abusata.

Costruivano carrozze, in quel luogo.

Ottimo, altre informazioni che avrebbe spiattellato quanto prima alla polizia militare.

Arrivata alla porta principale in una rapida corsa attraverso la stanza deserta scoprì, con non poco stupore, che era solo accostata. Spalancò l’uscio e subito venne investita dal vento notturno.

All’esterno, l’aria era tersa e il cielo sulla sua testa non le era mai sembrato così grande. Prese un respiro e si riempì per bene i polmoni saturi di aria viziata, prima di guardarsi attorno, constatando che non c’era niente attorno a loro se non un vecchio casolare diroccato.

Doveva correre, nascondersi nel bosco al lato della via prima che si accorgessero che era fuggita.

Non riuscendo a trattenere un sorriso brillante sul  suo volto sporco, Nina prese a correre a perdifiato, sentendo le gambe pesanti e doloranti ma trovando nella speranza la forza di mettercela tutta.

Corse, puntando la macchia di vegetazione di fronte a lei, assaporando già la ritrovata libertà. Doveva solo resistere…

Un boato, seguito da un lancinante dolore alla spalla, però, infransero ogni suo sogno.

Cadde a terra, sentendo il fiato e la vista venir meno, mentre il male si acutizzava. Lungo il braccio prese a scorrere un liquido caldo, che Nina comprese essere il suo sangue solo dopo aver metabolizzato cosa era successo. Tentò comunque di alzarsi, arrancò nel terreno, cadendo e ferendosi le ginocchia sotto alla gonna, prima di tentare ancora, tirandosi in piedi a fatica e riprendendo a correre. Non compì però più di una manciata di falcate che una voce la gelò.

“Ferma o il prossimo te lo sparo nella schiena. Non camminerai mai più dopo, figurarsi fuggire.” Il tono usato da Hans era calmo, sicuro così come la sua presa sul fucile, quando Nina si voltò a guardarlo, sconfitta. Il ragazzo non sembrava incollerito, né vittorioso. Sembra più che altro indeciso tra il finirla lì oppure proseguire quel piano malsano.

“Fallo” gli disse la bionda, sentendo le forze iniziare a mancarle del tutto, mentre l’emorragia iniziava a farle annebbiare la vista. Si arrendeva? Era stanca, la spalla la stava facendo impazzire e non voleva che lui la toccasse. Non voleva nemmeno che la guardasse.

Preferiva morire.  

Preferiva non sapeva se per Hans ne sarebbe valsa o meno la pena, a posteriori.

La canna del fucile rimase puntata verso di lei per quelle che sembravano ore, ma che non potevano essere altro che una misera manciata di secondi, ma poi il giovane la abbassò.

“Torniamo dentro” decretò infine, facendole cenno di precederlo.

A Nina non rimase altro se non riprendere a camminare verso la sua prigione polverosa, certa che avrebbe pagato a caro prezzo quella presa di posizione.

 

Non venne punita, ma non venne nemmeno curata, il che poteva dirsi la peggiore delle pene.

Impossibilitata a curarsi da sola, a Nina non era rimasto altro se non strappare una porzione ampia della gonna sulla base, fasciando con quel pezzo di stoffa lercio la zona ferita che, quanto meno, aveva smesso di perdere sangue. Se c’erano dei pallettoni dentro alla carne viva, sarebbe morta per intossicazione da metalli. Se aveva sfiorato un’arteria anche solo per poco e essa si fosse poi rotta in seguito a un movimento secco, sarebbe morta dissanguata.

Senza contare che niente impediva alla ferita aperta di riprendere a sanguinare ogni qualvolta l’articolazione veniva mossa o peggio ancora, di infettarsi a causa dello sporco e della polvere che la circondava. Per impedire qualsiasi eventualità, rimase seduta immobile nell’angolo della stanza, tenendosi contro alla parete. Non l’avevano nemmeno incatenata,  avevano solo tolto tutto ciò che avrebbe potuto usare come arma, ma sapevano bene che non ci avrebbe riprovato.

Di ora in ora, Nina diventava più debole, più pallida.

Quando si destò la mattina successiva a causa del sole  che filtrava attraverso le finestre alte, bruciava per la febbre. Aveva un’infezione in corso, ne aveva riconosciuto da sola i sintomi e il pensiero di non poter nemmeno lavare la carne viva, lasciata esposta dalla ferita ampia, le dava il tormento.

Cercò di tenersi vigile e lucida fino a che riuscì, ma quando il sole tramontò nuovamente oltre le piane e i campi, ogni buona volontà venne meno. Passò quindi da una fase all’altra, da agguerrita, a positiva, fino a rassegnarsi.

Erwin non l’aveva trovata e forse Nina avrebbe dovuto accettare la realtà che non ci sarebbe riuscito prima che lei morisse per un’infezione del sangue. Se non avesse tentato così stupidamente la fuga, forse avrebbe avuto più tempo.

Con quella consapevolezza si abbandonò, con le palpebre troppo pesanti per rimanere aperti e la testa pesante.

Crollò sapendo che forse non avrebbe mai più aperto gli occhi, ma non sapeva se stava o meno dormendo.

Una serie di immagini iniziarono a vorticare nella sua mente, troppo vivide per essere sogni, ma anche troppo astratte per essere dei ricordi veri o propri.

Sua madre.

Chissà cosa avrebbe detto sua madre. Non avrebbe mai incolpato Erwin,  su questo ci poteva mettere la mano sul fuoco. Con chi se la sarebbe presa, allora? Con la provvidenza? Con i figli di Lobov? Forse addirittura con Nina stessa, che aveva ben pensato di diventare una legionaria invece di sfornare figli come suo padre sfornava pagnotte.

Sperò che Erwin non si sentisse troppo in colpa, così come Fritz che l’aveva lasciata su una panchina, ovviamente senza pensare a quell’ipotesi così assurda.

Arrivò addirittura a chiedersi se a Levi sarebbe dispiaciuto almeno un po’. Perché mai, poi? Aveva visto morire i suoi amici, la sua famiglia. Lei, per lui, non era nessuno. Anzi, Nina era stata determinante nella morte di Farlan e Isabel, perché non aveva fatto assolutamente nulla per impedire a suo fratello di mandare avanti i suoi piani.

Fu però concentrandosi su di lui, quel suo sguardo sprezzante e la sua voce bassa,  che Nina si ricordò perché non doveva morire. Aveva progetti, aveva anche dei doveri. Verso la Legione e suo fratello, ma soprattutto verso se stessa.

Non avrebbe ceduto così.

Riaprì gli occhi e iniziò ad elencare tutte le ossa presenti nel corpo umano, poi i muscoli, quindi i nervi e gli organi. Quando terminò con l’anatomia, iniziò con le procedure chirurgiche, poi le modalità di formazione dell’esercito, il regolamento, tutto ciò che le veniva in mente per tenersi vigile.

Il sole tornò a sorgere e lei non smise un solo istante di tenere la mente concentrata su qualcosa. Quando non seppe più a cosa votarsi, iniziò a pensare a cosa ambiva in futuro. A dove l’avrebbero portata le missioni, a chi avrebbe dato il suo cuore.

Continuò, lottando contro il forte desiderio di lasciarsi andare definitivamente, fino a che la porta non si spalancò nuovamente, colpendo con un suono secco la parete dietro,  mentre due uomini irrompevano nella stanza, con gli occhi sbarrati e il fiato corto.

Lieberth guardò Hans, prima di andare verso Nina, costringendola ad alzarsi e facendola gemere per il dolore.

“Non c’è più tempo” blaterò, mentre il giovane fratello sembrava incapace di muoversi, pietrificato “Sono qui.”

 

La prima cosa che Erwin notò, fu l’ambito imbrattato di sangue, insieme al colore cadaverico che la pelle della sorella aveva assunto. Successivamente, si rese conto che i due rapitori sembravano più spaventati che determinati e questo gli fece largamente intendere che le cose stavano per risolversi in uno e un solo modo.

Fece un cenno a Mike, che tenendo la spada premuta contro al collo di un Bertram Lobov dal volto livido e pieno di tagli, si avvicinò a lui “Vi spiego la situazione” iniziò il Capitano, mentre attorno a loro si radunavano diversi membri della Legione, supportati da diverse unità della Polizia Militare “Vostro fratello ci ha già detto tutto ciò che ci interessava sapere. Questa storia può finire solo in un modo e voi lo sapete benissimo. Lasciatela andare e noi vi ammanetteremo seduta stante, conducendovi nelle carceri della Capitale con la sola accusa di rapimento. Vi prometto che, per il momento, non vi verrà fatto altro.”

Non esisteva persona più calma, seppur seria, di Erwin, in quel momento. Sembrava completamente padrone della situazione, al contrario dei due sequestratori.

Nina gemette di nuovo, sentendo le forze mancarle, mentre Lieberth la spingeva per farla rimanere diritta. Stava premendo un coltello contro alla sua gola e non sembrava in vena di negoziare. Tirò un sorrisetto nervoso, guardando l’uomo negli occhi, come se in quello spiazzo ci fossero solo loro due e non almeno una cinquantina di soldati pronti a massacrarli, se solo avessero alzato il fucile che Hans stringeva in mano “Ormai è fatta” convenne, stringendo il braccio ferito della ragazza, che strinse gli occhi e i denti, ansimando per il dolore “Allora perché non finire quello che abbiamo iniziato?”

“Vogliamo fartela pagare, Erwin Smith, per ciò che hai fatto alla nostra famiglia!” intervenne Hans, con vigore, guardando con disgusto il Capitano e facendo un passo avanti, mentre i gendarmi puntavano le loro armi contro di lui, pronti a premere il grilletto e falciarlo nell’esatto istante in cui avrebbe fatto un passo falso “Ci hai rovinati! Meriti di soffrire come abbiamo sofferto noi!”

“Quindi uccidete una ragazza innocente per fare un torto a un uomo” una voce carezzevole si sollevò tra le fila dei soldati, attirando su di sé l’attenzione. Erwin si spostò di lato e, alle sue spalle, apparve il Comandante Kessler, ammantata da un cappotto d’ordinanza marrone scuro, che le arrivava alle caviglie. “Non è molto acuto nemmeno per un Lobov” proseguì, mentre Nina alzava una mano e si aggrappava al braccio di Lieberth, per avere un appiglio e non scivolare verso il basso, premendo la carne delicata della gola contro alla lama “Facciamo così: voi ci consegnate la ragazza e io non ordinerò ai miei uomini di portarvi in quel bosco e spararvi in testa. A tutti e tre. Che ne pensate? Equo?”

Hans parve vacillare, tanto che prese a boccheggiare. Lieberth, il quale aveva avuto dei ripensamenti il giorno precedente, parve invece aver trovato tutto il coraggio di cui aveva bisogno. Premette la lama sul collo della ragazza, che sentì la pelle incidersi e bruciare, lesa “La finiremo così e niente ci impedirà di vendicarci! Guarda tua sorella morire, Capitano Smith, e fa ammenda!”

“Ora!” la voce di Erwin coprì la fine del discorso di Lieberth Lobov, lasciandolo spiazzato, mentre un’ombra si sollevò sopra alle loro teste. Hans lo intravide con la coda dell’occhio saltare dal tetto e usare l’attrezzatura per lo spostamento tridimensionale per darsi lo slancio. Il tempo di battito di ciglia e Nina sentì la presa del suo aguzzino farsi debole, fino a che il coltello non gli cadde di mano. Lieberth cadde riverso all’indietro e quando la ragazza abbassò lo sguardo su di lui, vide che l’uomo aveva un coltello ficcato in mezzo agli occhi  sbarrati, con precisione chirurgica.

E Levi ora era in piedi di fronte a lei, con i comandi del modulo ancora in mano e gli occhi fissi su Hans, che buttò a terra il fucile, arretrando di qualche passo, prima di correre dentro all’officina.

Nina scivolò il terra, sedendosi e portando la mani ancora ammanettate alzare sul collo. Per un attimo, non capì niente, tutto si fece nero e confuso. Ogni azione andava troppo veloce, i soldati che le correvano attorno non erano che macchie di colore in movimento. Una mano forte si appoggiò sulla spalla sana, attirando lo sguardo smarrito della giovane su di sé.

Erwin.

Nina lo guardò, aprendo le labbra per dire qualcosa e sentendo gli occhi chiari pizzicarle per le lacrime. Spostò la mano sul suo viso, come per testare che fosse davvero lì e sporcandolo di sangue su una guancia. Poi, però, indurì lo sguardo, mentre con un respiro si tranquillizzava abbastanza da poter parlare.

“Prendilo” soffiò e il fratello non se lo fece ripetere, alzandosi e inseguendo Hans Lobov, dopo aver detto qualcosa che però Nina non riuscì a cogliere.

Fritz fu su di lei in un baleno, insieme a Rielke e Leo. C’era anche Hanji, Nina sentiva la sua voce, ma non riusciva proprio a inquadrare cosa stessero cercando di dirle. Avrebbe voluto ascoltarli, dire loro che era viva, che era ancora lì, ma  era arrivata al limite di sopportazione, sia fisico che emotivo.

Perse i sensi prima ancora di realizzare che era stato Levi a sollevarla dalla polvere, per portarla via, mentre gli altri si le si affaccendavano attorno.

 

Quando svegliandosi Nina chiese di poter mangiare qualcosa di dolce perché ci aveva fatto la passione in quei quattro giorni, tutti tirarono un sospiro di sollievo. Nell’ospedale militare dove l’avevano portata, la sua camera era diventata la più chiassosa dello stabile. Il via vai continuo di persone non era ben visto dalle Sorelle della Congrega che aiutavano i medici nella cura dei pazienti, ma quando era stato il Comandate Kessler in persona a sostenere che potevano continuare così, nessuno aveva avuto il coraggio di mettersi contro Nora.

Nina s’era stufata del ricovero già al secondo giorno quando, dopo essersi nutrita e dopo che Fritz aveva provveduto ad estrarre i pallini metallici e a medicarla come si deve la spalla, aveva iniziato a domandare di essere spostata a casa del dottor Meier.

“Odio gli ospedali, sono un medico, non un paziente” sosteneva determinata, facendo sbuffare un po’ tutti coloro che si recavano giornalmente a trovarla, in particolare Erwin. “Sto bene e il dolore alla spalla non passerà in questo letto come non passerà in un altro. Senza contare che in quella casa ci vivono tre dei migliori dottori della Capitale!”

“Rimarrai qui almeno per tre giorni, facci il callo e sta zitta” la ammonì Jara, ficcandole in bocca una radice di liquerizia, che Nina prese a mordicchiare, con tanto di broncio infantile “E non fare quella faccia, che sai bene cosa capita se quei punti si aprono o s’infettano!”

“Li disinfettiamo e li rifacciamo?” chiese retorica Nina, ricevendo un’occhiataccia che la fece desistere. Erwin, seduto su una sedia accanto al capezzale della sorella, sorrise in un misto di rassegnazione e divertimento, accarezzandole la mano “Cos’altro potrebbe andare storto?”

“Ho scritto a nostra madre, che pare intenzionata a venire qui” la mise al corrente il Capitano, ottenendo un’occhiata di fuoco dalla degente. Perché passare da un inferno all’altro in così poco tempo? Quello era sadismo.

“Oh, fantastico!” sbottò, mentre Hanji rideva senza pudore, seguita da Rielke e Erwin “Potevi lasciare che mi sgozzassero a questo punto, sarebbe stato meno doloroso!”

“Non dire certe cose, cretina” la riprese il cugino, mentre Fritz entrava nella stanza con in mano una siringa dall’aspetto poco rassicurante.  Li guardò tutti con gli occhi contornati dalle occhiaie, indice che non aveva passato delle notti serene.

“Ancora tutti qui?” domandò con una nota indignata nella voce “Avanti, l’orario delle visite è terminato e Nina deve dormire.”

“Questa deve essere una congiura” appurò Nina, allungando il braccio per farsi fare l’iniezione e non staccando gli occhi dall’ago, mentre Fritz trovava con facilità la vena in cui infilarlo “Non posso andarmene e devo anche stare sola?”

“Puoi dormire.”

“Ho dormito un giorno intero, Fritz!”

Erwin le lasciò la mano, scostandosi per permettere ad Hanji di salutare la sorella “Tornerò domani con qualche libro interessante” le disse, accarezzandole il braccio che non le doleva “È bello sapere che stai bene, come avrei fatto senza di te?”

“Senza qualcuno che appoggia ogni tuo strambo piano di cattura dei giganti? Sarebbe stata una grave lacuna per tutti.” mormorò retorico Mike, facendole strada dopo aver salutato Nina con un cenno. La bionda li guardò uscire, sventolando senza entusiasmo la mano nella loro direzione. Già si stava annoiando, non poteva che peggiorare la cosa.

“Verrò prima di cena a portarti qualcosa che non sia la sbobba da ospedale” le disse Rielke, mentre Erwin si chinava a darle un bacio sulla fronte.

“Dormi, Nina.”

“Per caso è un ordine, Capitano Smith?”

Lui scosse piano il capo, arrendendosi “Un consiglio” aggiunse, accarezzandole i capelli sul capo “Sei molto pallida e hai bisogno di riprenderti se vorrai tornare a studiare per le abilitazioni.”

“Questo sì che è consolante, Erwin. Sai essere motivazionale con tutti tranne che con me.”

Uno ad uno, coloro che erano presenti nella stanza uscirono, eccetto due persone.

Fritz si era quasi scordato della presenza di Levi, visto che questo era rimasto zitto tutto il tempo, seduto su una sedia infondo alla stanza, con le gambe accavallate e lo sguardo un po’ perso verso la finestra.

Quando il dottore si era voltato per andare a chiudere la porta e l’aveva visto, però, aveva alzato le sopracciglia riconoscendo in quella figura, l’uomo che l’aveva un po’ spaventato. Aveva visto quello strano legionario affettare di peso Bertram Lobov e scaraventarlo a terra, prima di prenderlo a calci per farsi dire dove avessero portato Nina. Vista la sua stazza minuta, non avrebbe mai creduto possibile che quell’uomo potesse avere tanta forza, sembrava fisicamente impossibile.

Invece era stato molto efficace.

“Chiedo scusa, l’orario delle visite è finito” ripeté, cercando di non essere scortese nell’attirare l’attenzione del moro, il quale non disse niente. Spostò gli occhi su Nina, prima di alzarsi in piedi, prendendo la giacca di ordinanza.

“In realtà, preferirei che Levi rimanesse con me” rivelò la degente a Fritz “Io mi sentirei più tranquilla, se ci fosse lui e vorrei anche parlargli in privato. Potresti lasciarci soli?”

Il medico non la prese molto bene. Socchiuse le labbra, stringendo l’anello che teneva ancora nascosto nella tasca della casacca azzurra che portava sui vestiti, prima di tirare un sorriso un po’ pallido “Ma certo. Passo dopo per vedere come stai, allora.”

Nina gli sorrise, seppur stanca, “Grazie per tutto quello che fai per me, Fritz.”

Lui  si chinò, baciandola quasi di sfuggita sulle labbra, delicato come il battito di ali di una farfalla. O come un ragazzino alla prima cotterella. Quando andò via, chiudendosi l’uscio alle spalle, Nina fece cenno a Levi di avvicinarsi.

“Ansioso il tuo fidanzato” furono le prime parole che uscirono dalle labbra dell’uomo, mentre avvicinava la sedia su cui era precedentemente seduto Erwin e vi prendeva posto “Non ha fatto altro che urlare come una cornacchia stonata per quattro giorni.”

“Lui non è io mio – senti Levi, lascia perdere. Non è un discorso in cui vuoi andare ad infilarti, fidati.” Nina portò la mano alla fronte, cercando di nascondere il rossore che le stava colorando le gote, reso ancor più evidente dal pallore malaticcio che la sua pelle aveva assunto a causa della perdita di sangue importante “Io volevo ringraziarti. Tu mi hai salvato la vita.”

Levi la guardò, prima di annuire  lentamente “Non ringraziarmi.”

Criptico. Lei non seppe dire con certezza cosa intendesse con quella risposta.

Abbassò gli occhi chiari sulle mani dai polsi lividi, unite sul grembo, prima di parlare nuovamente “Posso chiederti di farmi un favore?” Il moro le fece cenno di continuare a parlare, mentre si appoggiava ai braccioli della sedia “Tu sei la persona più forte che conosco, anche più di mio fratello. Riesci a controllarti, sei letale negli intenti e negli atti” non sapeva nemmeno lei perché aveva preso a berciare così in astratto, forse perché temeva che lui non accettasse. Nervosamente, sistemò la camiciola bianca che le avevano messo mentre era ancora incosciente, coprendo la spalla completamente avvolta da candide fasce “Io, invece, sono debole. In questo caso, sono stata un peso per mio fratello, per i miei amici e per la polizia militare. Sono un soldato che non è stata in grado di salvare se stessa.”

Levi sbuffò, seccato “Smettila di piangerti addosso. Non ha alcun senso, nelle tue condizioni nessuno si sarebbe liberato.”

“Tu sì.”

Sì, lui ci sarebbe riuscito.

Non si sarebbe nemmeno fatto prendere, probabilmente e avrebbe spaccato la faccia a quei tre senza nemmeno sforzarsi troppo. Nell’ottica di Nina, Levi era invulnerabile. L’aveva visto uccidere cinque giganti senza nemmeno spettinarsi e mai avrebbe permesso a Hans di sparargli, l’avrebbe reso inoffensivo prima di lasciare l’officina, perché lui avrebbe avuto la forza morale, ma soprattutto fisica, di riuscirci.

“Levi, io voglio diventare più forte” alla fine, trovò il coraggio e lo chiese “Voglio che ti mi faccia diventare più forte.”

L’uomo non parve particolarmente impressionato, ma i suoi occhi parvero brillare nella penombra della stanza di fronte a tanta determinazione “Vuoi che io ti alleni?”

“Sì.”

Lui sembrò quasi preso in contropiede. Si aspettava qualcosa da quella conversazione, per questo non aveva lasciato la stanza insieme a tutti gli altri ma aveva aspettato. Nonostante questo, però, non perse in compostezza “A me non tornerebbe indietro nulla, facendoti questo favore. Lo sai, vero?”

“Non mi interessa cosa tornerà indietro a te” ammise senza peli sulla lingua Nina “Ti ho già detto che mi fido di te, non c’è un’altra persona a cui lo chiederei.”

Quello era un colpo basso anche per una donna.

“Sai che sarà molto dura?”

“Sì.”

Lei resse il suo sguardo e a lui parve bastare. Si alzò in piedi, allungando la mano verso di lei, che la afferrò e la strinse fra le sue “Inizieremo appena sarai tornata in forze. Ti avverto che io non ho mai insegnato niente a nessuno, ma diciamo che ho avuto un buon mastro, in passato. Sappi però che non ci andrò piano né perché sei una ragazzina, né perché sei una donna. Pensi di farcela, a non mollare?”

“Se non proviamo non posso saperlo, ma ciò di cui sono certa è che non sarò mai più un peso per nessuno.”

Sentiva che sarebbe stato difficile, che si sarebbe fatta male e che sarebbe finita a piangere frustrata ogni qualvolta Levi l’avrebbe sbattuta a terra senza troppi fronzoli. Ne avrebbe prese tante, ma le avrebbe anche ridate indietro, prima o poi.

Se lui l’aiutava poteva farcela e l’uomo parve iniziare da subito, poiché non sfilò la mano dalle sue ma anzi, si sedette sul bordo letto, decidendo di rimanere lì con lei.

 

 

 

 

 

NdA

 

Questo è stato, fino ad ora, il capitolo più sudato.

Non è stato semplice scrivere il pezzo flashback, che ho cambiato qualcosa come tre volte, ma ora sono finalmente soddisfatta.

 

Partiamo dal principio, però. Il pezzo iniziale, quello presente, è un chiaro e lampante riferimento al titolo. Ah che belle le stelle, che sono persone morte. Erwin è incoraggiante, per carità, ma in un mondo dove tutto è deprimente, anche puntare gli occhi verso l’alto è motivo di tristezza. Nina però pende dalle sue labbra ed è una brava ragazza molto positiva.

Beata lei, io non sono così speranzosa.

 

Tutti gli OOC che ho creato, dalla protagonista ai personaggi di contorno, vogliono essere il più sviluppati possibile. Io mi ci affeziono e poi crepano o finiscono dispersi.

Su Fritz, che viene anche citato nella prima parte, non mi sbilancio.

Scoprirete cosa gli è successo davvero nella storia della mia socia, RLandH, che prima o poi inizierà a mettere in fila pezzi e a postare.

POSTA LUNA, POSTA.

Il sequel delle due storie, prima o poi, lo dovremmo scrivere insieme.

Abbiamo già iniziato a scriverlo.

Siamo pessime.

Ps nelle recensioni mette l’hastag #postaLunaposta per motivarla a iniziare a pubblicare la sua storia o qui diventiamo vecchi.

 

Una cosa sulla quale ci tengo a soffermarmi un minuto in più è l’importanza dei sentimenti di Nina verso Levi. Sicuramente avrete notato che essi non sono praticamente mai al centro della narrazione, perché per il flashback sarebbe prematuro, mentre invece per le parti in presente, io trovo cretino anteporre i sentimenti alla drammaticità della situazione.

Questa è sfortunata come un cane in chiesa, come si dice a Modena, ne tocca da tutte le parti, viene rapita, le sparano, rimane bloccata oltre il Wall Maria…. Ovviamente l’amore scivola un po’ in basso nella catena di priorità, ma non per questo è meno vero.

Ogni riferimento a  Levi sto cercando di renderlo il più vero possibile.

Il più sentito, ricercando di far si che sembri prezioso.

Non è la classica storiella con la signorina in questione persa per il bello ma dannato, tanto sesso, tanti drammi e tutti a casa.

Ho cercato di creare un personaggio vero, che esprime concetti veri e sentiti.

Motivo per cui ho anche speso molto tempo sul flashback. Il pericolo Mary Sue, come in tanti mi hanno anche detto nei commenti sino ad ora positivi, è sempre in agguato.

Non credo che Nina lo sia per una serie di cose.

Tanto per iniziare, non è autosufficiente. Ha il desiderio di diventarlo, ma non è brava come Levi, ne ha poi questa grande forza di volontà. Cambia idea in fretta, prima insiste, poi cede, poi si riprende, perché è umana, sanguina e vuole andare a casa.

So che questo è un manga, non è qualcosa di reale. Ma io ci tengo a dare il dovuto spessore agli OC, a renderli tangibili.

Se no come fanno le persone a provare empatia?

Non mi sono chiesta ‘questa cosa è da Mary Sue?’ quanto piuttosto ‘Questa cosa è credibile?’.

Se avesse spaccato la faccia a tre uomini, salvandosi da sola, allora sarebbe stato strano.

Invece è una appena diciottenne, dottoressa che di combattimenti corpo a corpo con altri essere umani ne sa poco o niente, quel che ha imparato nell’esercito, ma lo dice le stessa che è più avvezza ai libri che alle legnate.

Io ci ho provato, ma a voi va l’ardua sentenza finale v.v

 

Ora comunque Levi le fa fare un po’ di upgrade.

E presto vedremo anche la mamma cattiva, promesso.

Manca poco.

 

Un paio di noticine e la pianto, che le NdA stanno diventando più lunghe del capitolo.

Le Sorelle della Congrega sono come le nostre suore: giovani donne che rinunciano al loro nome e al loro titolo – i membri del Culto delle Mura sono quasi tutti nobili, che qui ho inventato tutto di sana pianta dall’inferno al paradiso- e danno la loro vita al Culto, impegnandosi a ubbidire e non sposarsi.

 

L’umanità incrollabile di Erwin che, chi legge il fumetto, sa che non esiste.

Che posso dire, Nina ancora questo lato del fratello ancora non l’ha visto e ci sarà il carramba che sorpresa in merito.

Se lo meritava.

 

Dulcis in fundo, i libri.

Su di loro non dirò niente perché è alla base della futura storia che scriverò con RLandH (#postaLunaposta) ma AMEREI leggere le vostre supposizioni. Cosa c’è dietro questo mistero?

Ditemi la vostra, vi imploro.

 

Come sempre grazie a chi legge la storia e mi segue.

Le letture sono lievitate e io vi adoro.

Ringrazio le due dolci anime che mi hanno commentato lo scorso capitolo e tutti gli otto che mi hanno aggiunta fra le seguite.

 

Ultimissima cosa, ho iniziato una Ereri per non farci mancare nulla, la trovate qui: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3508941&i=1

 

Al prossimo capitolo!

Un abbraccio titanoso.

 

C.L.

 

 

 

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Capitolo 9
*** Capitolo Ottavo ***


11

 

Wenn die Sterne leuchten.

 

 

 

 

 

Capitolo Ottavo.

 

 

 

-Interlude-
https://www.youtube.com/watch?v=UIzjNZs6y2c&index=1&list=PL371CF9A0A0185B35  

 

 

 

 

Anno 844

                                                   La fine dell’estate e l’arrivo dell’autunno nella Capitale.

 

 

Nina non credeva che avrebbe mai rimpianto quella stanza polverosa dai soffitti alti, ma nell’esatto istante in cui aveva messo piede in città Adelaide Müller, avrebbe soppesato volentieri l’idea di uno scambio pur di non sentire più la voce della madre chiamarla ogni dieci secondi. La sua libertà in cambio di un po’ di pace e silenzio, non era male.

L’appartamento di due stanze e una zona giorno che Erwin aveva ereditato da uno zio paterno in Capitale s’era fatto saturo già nelle prime ore e il fratello maggiore doveva averlo predetto, perché  aveva avvisato sin da subito che non avrebbe soggiornato li con loro, ma che, per impellenti questioni militari, avrebbe fatto meglio a rimanere in caserma.

“Così vi lascio sole” aveva commentato con tono amabile mentre se ne andava. Nina l’aveva odiato con sentimento sincero, ma con quella spalla fuorigioco non aveva avuto i mezzi per opporsi. O per fargliela pagare nell’immediato. Sapeva che la Legione sarebbe ripartita di lì a pochi giorni e tutto ciò  che voleva era tornare a casa con i Meier per permettere al suo corpo di rimettersi del tutto, curando al contempo anche la mente che s’era parecchio scossa. La spalla ancora doleva, la ferita di fucile faticava a rimarginarsi a dovere e non le permetteva di dormire bene. La sua indole solitamente dolce e solare era poi messa a dura, durissima prova dal temperamento di Adelaide, che non accettava un no come risposta e non conosceva il significato della parola inopportuno.

“Il figlio del dottor Meier ancora non s’è dichiarato?”

Sia Nina che Levi alzarono gli occhi dal banchetto delle erbe officinali, puntandoli con rassegnazione sulla donna che li staccava di qualche metro, presa nell’osservare delle vesti. Era tremenda oltre ogni dire. Arrivata quattro giorni prima, non aveva parlato d’altro. La bionda pagò il mercante, passando a Levi il sacchetto con l’acquisto usando la mano libera, visto che l’altro braccio pendeva appeso al collo con una benda bianca di lino. “Da ieri sera non si son visti cambiamenti” sottolineò con un leggero sarcasmo ad impregnarle la voce, non guardando la madre.

Adelaide osservò Levi disporre i sacchetti con ordine nella cesta che portava per la ragazza, prima di rilanciare “Wölf  Bender è ancora celibe” le fece sapere  fingendo non curanza, mentre passava le mani magre e cariche di anelli su delle stoffe pregiate. Ne accostò una di un pizzo candido alla figlia facendola sussultare per la sorpresa “A lui sei sempre piaciuta molto. Chiede di te a Fried ogni volta che lo vede.”

“Peccato allora che lui, a me, non sia mai piaciuto. Levi vuoi delle mele?”

L’uomo non fu collaborativo, permettendo così alla signora Müller di continuare ad ignorarne la presenza.

“Quel giovane è  figlio del notaio più famoso del distretto. Cosa deve avere un uomo per entrare nelle tue grazie?”

“Un cervello” fu la replica in fine acida che venne strappata alla giovane, la guardò la madre con astio “Puoi smetterla? Non intendo sposarmi, né ora né mai. Vai ad importunare Erwin che ha più di trent’anni e ancora non s’ha da fidanzarsi.”

“Erwin sa il meglio per se stesso.” La risposta sommessa di Adelaide sottolineava che invece non credeva affatto che la figlia fosse padrona del suo destino. Peccato non glielo volesse permettere lei “Poi se non ne parliamo ora, quando dovremmo? Fra due giorni riparto per Stohess e tu non vieni mai a casa.”

Chissà perché.

Nina sospirò sollevata, alzando gli occhi verso le nuvole “Grazie al cielo.” fu la sola replica che sfuggì alle sue labbra sottili e che Adelaide finse di non sentire. “Smettila lo stesso. Più me lo dici, meno mi convinci.”

“Sei una bambina.”

“E tu un arpia.”

Il soldato che camminava accanto alla giovane prese un lungo respiro, prima di concedersi di spiare la bella donna, che aveva il vanto di aver messo al mondo Erwin Smith, di sottecchi. Non c’era nulla da dire, era di un’avvenenza indiscutibile nonostante l’età; vestiva bene, a dispetto del ceto sociale medio a cui apparteneva. Levi avrebbe potuto anche scambiarla per una nobile se l’avesse vista per la prima volta o se non ne conoscesse la famiglia. Il viso era solcato da rughe, certo, ma le vadano un aspetto elegante, raffinato, non la abbattevano affatto. I capelli biondi, striati da stille grigie qua e la, erano acconciati nel migliore dei modi in una crocchia sulla nuca, tenuta insieme da decine di forcine brillanti. Il vestito, di un pallido verde, sembrava aver visto tempi migliori, ma era indiscutibilmente di ottima fattura. In totale contrasto con la figlia che vestiva un paio di braghe nere sotto agli stivali militari e una camicetta marrone smanicata, che lasciava ben visibili le bende che le fasciavano la spalla sinistra e parte del braccio. Nina non s’era ancora ripresa, andava detto; era pallida e le occhiaie che le cerchiavano gli occhi unici erano evidenti; eppure, anche con i capelli un po’ sfatti a causa della calura, rimaneva comunque la sola persona che il moro non riusciva a non guardare, per quanto si sforzasse.

Se non aveva ancora zittito in malo modo Adelaide, era solo perché la figlia ci pensava da sola.

Era strano vederla così, in ogni caso. Nina di solito era sorridente, non sembrava abbattersi mai. Lui stesso la portava sempre più al limite, insultandola o schernendola per spronarla, ma lei non sembrava esserne toccava.

Si sa però, i genitori hanno un effetto diverso su un figlio.

Levi poteva ricordare ogni epiteto che l’uomo che l’aveva cresciuto gli aveva affibbiato, senza però rimanerne minimamente toccato. Eppure, nel momento in cui era stata Gretha a rimproverarlo, l’aveva ferito più di uno schiaffo.

“Il giovane Bender ha una bellissima casa al lago, lo sapevi Nina? In questo periodo deve essere incantevole.”

Ci risiamo.

“Cosa me ne farei mai di una casa al lago, se venissi mangiata da un gigante?” chiese retorica la ragazza, rallentando il passo per affiancarsi del tutto a Levi e prendere dalla cesta una mantella nera. Questi la lasciò fare, scambiando con lei un semplice sguardo di intesa.

“Mi aspetterei che, una volta preso marito, tu decida di chiedere di essere inviata di istanza ad oriente” proseguiva intanto Adelaide, prendendo in mano una mela dall’aspetto succoso che certamente avrebbe fatto bene alla figlia provata “Magari potresti addirittura chiedere di essere spostata nella guarnigione di Stohess insieme a Rielke, portando avanti la tradizione dei Müller, che sono sempre stati una famiglia di stazionari. Come tuo padre prima che s’ammalasse al-”

Non terminò nemmeno il discorso.

Piegò semplicemente le labbra in una smorfia di disapprovazione, guardando il punto in cui fino a qualche secondo prima, sua figlia e quello strano uomo dall’aria tetra sostavano in piedi.

Erano spariti nel nulla.

Di nuovo.

 

“Non metterti in quella posizione ridicola, non funzionerebbe in ogni caso; rilassa le spalle e alza il mento, piuttosto”

Nina abbassò le mani, portando istintivamente la destra alla spalla sinistra lesa, sentendo la pelle tirare ad ogni movimento. Levi le fu dietro in un attimo, appoggiando le mani sui suoi fianchi e facendole ruotare il bacino. Portando avanti il piede destro, Nina gli lanciò un’occhiata veloce “Sono mancina. Non posso attaccare usando la mano destra, sarebbe inutile.”

Come ricompensa, ricevette una pacca sulla testa che la zittì “Puoi anche essere mancina, ma devi proteggere la parte che hai ferita. Meglio ancora, non devi mostrare la tua debolezza al nemico. Dobbiamo cambiare questa cosa, non puoi avere una parte del corpo più debole dell’altra.”

La piazzola della caserma della Legione nella Capitale era, come al solito deserta. Il luogo adatto per diventare lo scenario dei loro incontri e degli addestramenti. Rispetto alle sedie della Gendarmeria e della Guarnigione, che erano degli autentici palazzi con tanto di corte e numerosi dormitori, quello della ricognitiva altri non era che una piccola casa privata adibita a uso militare. La motivazione era ovvia, dopotutto; non c’erano molti Legionari in Capitale e i pochi che di lì passavano erano spesso ufficiali con una residenza donata dalla corona o comprata con gli stipendi più alti. Nonostante tutto, a Nina piaceva.

L’edera che cresceva sulla facciata bassa sino al tetto spiovente le dava un’aria vissuta, quasi bucolica.

Ed il cortile era, per l’appunto, immenso e nascosto da un’alta siepe. Nessuno l’avrebbe vista fare la figura della scema.

Quando Levi le fu di nuovo di fianco portò le mani sotto al mento della ragazza, alzandoglielo “Devi sempre guardarli negli occhi, quei maiali. Prima ancora delle mani, sono essi a rivelarti le intenzioni di un uomo. Non solo, però. Spesso basta uno sguardo deciso che non ammette repliche per vincere uno scontro, non arrivando nemmeno alle mani.”

“Ti sembro una persona che possa incutere tanto timore?”

“Lo diventerai.” L’uomo incrociò le braccia sul petto, guardandola. Poi, per giusta misura, le tirò i capelli.

“Levi!”

“Devi legarli” fu la sola cosa che le disse, non ammettendo repliche.

Con uno sbuffò risentito, Nina slacciò la strisciolina di cuoio che teneva sempre al polso, sollevando poi i capelli e arrotolandoli in modo da creare un concio un po’ storto ma funzionale sulla cima del capo “Potresti chiedere senza farmi del male, non pensi?”

“Voglio che arrivi il concetto. Se durante il combattimento ti avessi affettata per i capelli e tirata a terra, avrebbe fatto molto più male di così.” Questo doveva concederglielo. Con un altro sospiro, Nina si rimise in posizione. Lui le fu addosso di nuovo “Non stare rigida, le braccia tienile morbide. Se i muscoli sono tesi, il movimento risulta meno rapido e tu non devi nemmeno pensarci. Deve essere l’istinto a dirti dove parare e dove colpire.”

“Devo aspettare che mi vengano addosso?”

“Non attaccare mai per prima, studia il nemico” le girò attorno come un avvoltoio “Non hanno senso le posizioni statiche a meno che non ti sia stata insegnata una disciplina in particolare. Anche in quel caso, comunque, devi padroneggiarla molto bene o rischi di concentrarti troppo sui tuoi colpi e non su quelli che ti vengono dati.”

Nina prese appunto mentale di ogni singola parola, annuendo “Devo aspettare, non attaccare per prima. Un piede avanti per la stabilità, ricordandomi di proteggermi se ho delle ferite, senza però darlo a vedere. Sguardo fisso e braccia morbide. Registrato.”

Fu il turno di Levi, di sbuffare “Non ti dimentichi proprio nulla, vero?”

Lei sorrise, allegra “Questa è una cosa di famiglia. Il bisnonno lo diceva sempre: Un Müller non può dimenticare.”

Levi scosse piano il capo, prima di prendere un respiro e riempire i polmoni “Va bene, attaccami.”

Nina sgranò gli occhi, guardandolo prendere posizione di fronte a lei. Lo guardò come avrebbe guardato un geco parlante, tanto era stupita e sopraffatta dalla richiesta. Non poteva essere serio “Ammesso e non concesso che mi hai appena detto che non dovrei mai attaccare per prima…” lasciò cadere la frase, sottolineandone l’incoerenza “Sono ferita, Levi. Cosa potrei mai farti?”

“Io non ti colpirò di rimando. Mi limiterò a schivare. Voglio vedere quanto sei lenta. Puoi usare i calci se credi che la tua mano destra non sia abbastanza forte.”

Lei non sembrava volerci credere, ma quando lo vide portare avanti il piede sinistro e fissarla intensamente negli occhi con espressione seria, comprese il motivo per cui le stava spiegando tutte quelle cose sull’atteggiamento da tenere. Nessuno, sano di mente, avrebbe mai attaccato un uomo con quello sguardo.

A Nina faceva già male tutto solo a guardarlo.

“Non fare quella faccia. Se parti già scoraggiata, allora tornatene a casa” la riproverò con tono duro, “Non ho né la voglia né il tempo di aspettarti, ragazzina. Fa la tua mossa e mettici un po’ di impegno.”

“E va bene, proviamoci.”

Nina portò una ciocca di capelli dietro all’orecchio, prima di mettersi in posizione nuovamente. Lo guardò, studiandolo un istante e cercando di capire dove colpirlo. Alla fine scattò in avanti, colpendolo con un pugno nello stomaco.

Levi non si spostò di un centimetro, non sembrò nemmeno sentirlo, mentre a Nina sembrò di aver tirato un pugno al terreno. Strinse il polso che si era storto con la mano sinistra, soffocando un’imprecazione con un ringhio.

“Quello cos’era?” domandò apatico Levi, “Sei più debole di quello che pensavo.”

Il bello di Nina era proprio la tenacia. Se sbagliava o falliva, provava e riprovava sino a che non riusciva. Per questo iniziò ad inveire, lasciando perdere l’intorpidimento al polso e cercando di colpirlo con un calcio.

Non le sembrava di essere lenta, ma non riusciva nemmeno a raggiungerlo nonostante le gambe molto più lunghe di quelle dell’uomo. Schivava ogni singolo colpo senza nemmeno scomporsi, mentre lei iniziava a barcollare con la stessa grazia di un ubriaco.

Alla fine, dopo quelle che parevano ore, ma che furono di fatto pochi minuti, cadde a sedere a terra col fiato corto.

“Cosa ti fa male?” le domandò l’uomo, che non aveva risentito di niente.

“Tutto” ammise lei, appoggiando la schiena al terreno per stenderla, mentre portava il braccio sano sulla fronte per asciugarla dal sudore. Faceva anche caldo e non aiutava “Mi fanno male le gambe e gli addominali.”

“Questo perché non sei allenata.”

“Sono un medico, Levi. Ho fatto l’addestramento come tutti, ma non con la stessa intensità.”

L’uomo si domandò come avesse fatto ad uccidere quel gigante di fronte ai suoi occhi, alla sua prima uscita. In quel momento sembrava fatta di burro, ma forse la settimana passata a letto aveva fatto qualche danno.

“Quando tornerò dovrai avere messo su un po’ di muscoli o possiamo anche finirla qui ora.”

Nina aprì il braccio destro a stella, tenendo gli occhi sul cielo azzurro “Va bene” gli disse, “Dimmi cosa devo fare.”

“Corri” le rispose, sedendosi accanto a lei, appoggiando i gomiti sulle ginocchia mentre la guardava. Se Nina non stava sbagliando, gli sembrava annoiato dalla situazione “Flessioni, addominali…. Hai fatto l’addestramento, hai detto, no? Fai gli esercizi, ma questa volta senza pensare che dovrai segare ossa o fare qualche saltello su un gigante. Pensa che devi correre da Shigashina a Briemer senza fermarti.”

La bionda si tirò seduta, ignorando la camicia che si era sporcata. Ci pensò Levi a farglielo pesare, battendogli la mano sulla schiena, ma questa volta senza farle male “Sarebbe una bella maratona.” Lei glielo aveva chiesto, dopotutto. Doveva seguire quelle indicazioni alla lettera “Lo farò” disse di fatto, abbracciandosi le gambe con il braccio sano “Mi insegnerai anche a uccidere i giganti come fai tu?”

“Ora non mettere il carro davanti ai buoi, ragazzina. Impara a tirare un pugno senza ferirti, prima.”

Incrociando le gambe, Nina si mise diritta con la schiena. L’affanno era già passato e poteva riprovarci, ma Levi non sembrava della stessa idea “A cosa pensi?”

Lui scosse il capo, una volta sola “Che devi allenarti intensamente, perché ho intenzione di portarti nel ghetto, quando farò ritorno dalla missione” gli occhi della ragazza si sgranarono dallo stupore “Lì sotto ti insegnerò quello che è stato insegnato a me.”

Lei gli sorrise, sporgendosi per appoggiare il mento alla sua spalla.

Lo sentì irrigidirsi, cosa che fece solo alzare maggiormente i lati della sua bocca “Levi…

“Cosa c’è, adesso?”

Facendo perno sul braccio, Nina si alzò. Fece un piccolo saltello sul posto, prima di colpirlo piano con la punta dello stivale sulla coscia, facendogli segno di imitarla “Riproviamo. Sento che posso colpirti se mi impegno di più.”

Levi non disse nulla, in un primo momento.

La guardò dal basso, appoggiando poi le mani a terra per alzarsi. Prese uno straccio dalla tasca posteriore delle braghe nere, pulendosi i palmi, prima di guardarla “Molto bene, attaccami.”

Nina si rimise in posizione, convincendosi che poteva fare paura, se voleva.

Lo guardò seria, prima di buttarsi di nuovo contro di lui.

Una, due, cento volte. Cadeva in ginocchio, scivolava, sentiva i punti alla spalla tirare e iniziare a cedere, ma riprovava ancora.

Sotto allo sguardo di Erwin, che li guardava dalla finestra con pacato compiacimento, andarono avanti fino a sera.

 

I pochi membri della Legione rimasti, sotto gli ordini del Capitano Smith, partirono dalla Capitale l’ultimo giorno del mese di luglio, ben dieci giorni dopo esservi arrivati.

Erwin aveva portato avanti un po’ di impegni burocratici che Shadis aveva troppo a lungo rimandato, poi era rimasto per impedire alla madre di uccidere la sorella o viceversa. La missione oltre le mura era stata rimandata di un mese, per la fine di agosto.

Levi sarebbe ritornato in Capitale, in licenza, per la metà di settembre, se non dopo.

Nina aveva molto tempo per rinforzarsi e guarire,  non avrebbe perso tempo.

 

Si era allenata strenuamente, continuando a studiare e a frequentare i corsi per le abilitazioni che avrebbe dovuto dare entro la fine di novembre, arrivando alla sera così stanca da trascinarsi a mala pena a letto.

Fritz, che era ripartito per Renìn, aveva espresso più di una preoccupazione, ma non aveva mai aiutato Nina nell’allenamento per paura di finire pestato nel suo stesso giardino di casa. Il signor Meier, al contrario, sembrava incoraggiarla.

Jara si asteneva in modo molto democratico, ma doveva ammettere che i segni del duro impegno iniziavano a manifestarsi.

“Sembri più sana ogni giorno che passa” continuava a ripeterle, mentre la guardava annodare i lacci dei calzari che le arrivavano poco sopra alla caviglia e con i quali Nina andava a correre ancor prima che salisse l’alba, “Se continui così arriverai a stenderlo, il tuo Levi.”

Inutile dire che Jara era stata un vero incubo per tutto il tempo che l’uomo si era intrattenuto nella caserma della Capitale.

E le cose sembravano essere prossime a degenerare, visto che Levi aveva richiesto una licenza prolungata di un paio di mesi per ‘questioni famigliari’.  Avrebbe soggiornato dai Meier su invito stesso del padrone di casa, per la gioia di Fritz che sarebbe dovuto tornare entro gli inizi di ottobre. Più che gelosia, quella che Fritz provava nei confronti del moro era una sana inquietudine.

I modi gentili del giovane cerusico comunque nascondevano egregiamente quel sentimento.

Levi sarebbe quindi tornato in Capitale per rimanere fin quasi all’anno nuovo. Forse Nina l’avrebbe addirittura convinto ad andare a Stohess con lei ed Erwin.

C’era però un’altra incombenza nella quale le sarebbe piaciuto coinvolgerlo ed essa capitava, guarda caso, proprio nei giorni in cui sarebbe dovuto tornare. Ogni anno, il terzo giorno di ottobre, il Comandante Dot Pixis della Guarnigione teneva un magnifico ricevimento nella casa che il Re in persona aveva donato al recante di quel titolo, nelle campagne attorno alla Capitale. Non era una data casuale, ma l’anniversario di nascita dell’unico figlio che l’uomo aveva avuto e che purtroppo era venuto a mancare in tenera età.  Pixis comunque, come si sapeva bene, preferiva aprire le sue porte ad ogni membro del corpo militare che potesse raggiungere la sua casa, piuttosto che chiudersi in quel lutto ormai lontano.

Nina aveva partecipato per la prima volta a un ricevimento di quella portata a soli quattordici anni, come accompagnatrice di suo fratello maggiore Friedelhm e non aveva mai acquistato un solo abito dalla prima volta, perché aveva sempre provveduto Nora Kessler a fargliene avere uno dismesso da lei o da sua figlia Kara. In ogni caso, Nina non se lo saprebbe mai potuto permettere di così bello nuovo.

Ogni anno, dopo il promo, ci andava accompagnata Fritz e Leopold e ogni anno conosceva le persone più disparate o salutava vecchie conoscenze.

Quell’anno non faceva eccezione, anche se qualche novità c’era.

 

“Secondo me dovresti smetterla. Inizi a essere un po’ patetico, visto che si è capito che aria tira.”

Fritz alzò gli occhi dalla camicia bianca fresca di inamidatura, che aveva indossato sotto al pastrano elegante per le grandi occasioni. Leopold, che indossava la medesima giubba ma che, al posto delle Ali della Libertà impresse sulla schiena, recava l’unicorno dei gendarmi, lo spiava con un certo disappunto. Sembrava fermo su ciò che aveva appena detto, ma l’amico non aveva inteso.

“Puoi per favore inserire un soggetto e un verbo principale nella frase? Perché non è molto chiara così” lo rimbeccò, andando a raddrizzare il colletto della camicia color panna dell’amico.

Leo sbuffò “Nina” disse come se fosse la cosa più ovvia del mondo, alzando il mento per lasciarlo fare “Tu che vai al ballo con Nina.”

“Cosa che faccio da anni” gli ricordò il dottorino, facendo poi scivolare le mani nelle tasche ed estraendo due siringhe, un ricambio di garza e qualche cerotto. Come diavolo c’erano finiti nella giacca di gala? “Non capisco quale sia il tuo problema.”

“Te lo dirò molto chiaro, quindi sarò un po’ brusco: Nina viene al ballo con te perché quello non ha intenzione di venire.”

Più che brusco, l’effetto che le parole del rosso ebbero su Meier furono paragonabili a una pioggia gelata lungo la schiena. Senza nemmeno curarsi troppo di non esser visto, Fritz si voltò verso la porta a vetrate che conduceva nel salotto in cui, seduto su quella che solitamente era la sua poltrona, c’era Levi.

Trovarlo lì al suo arrivo, che era avvenuto solo due giorni prima, non era stato esattamente esaltante, ma dopotutto era stato suo padre ad offrirgli come alloggio la loro mansarda per quella che sembrava una licenza insolitamente lunga e generosamente concessa. Fritz studiò il profilo netto dell’uomo, facendo davvero fatica ad attribuirgli un’età precisa. Sicuramente era un uomo maturo e fatto rispetto a lui, ma datarlo era complesso. Poteva vagamente intuire il perché Nina fosse così affascinata da lui, però-

“Lo ama follemente” di nuovo, Leopold partì all’attacco “Lo guarda come se fosse il suo eroe. Lo ammira più di quanto ammira Erwin e ho detto tutto con questo.”

Questo l’hai deciso tu.”

“No, l’ho visto. Nina è trasparente come l’acqua di sorgente; quello che pensa glielo si legge in faccia.”

Per puro istinto di sopravvivenza- ci teneva a mantenersi sano mentalmente- Fritz smise di prestagli attenzione. Controllo che gli stivali nuovi fossero lucidi e si specchiò nelle vetrate per verificare che non gli fosse rimasto del prezzemolo fra i denti, dopo la cena. Ma questo avrebbe mai potuto fermare Leopold Schitz? Naturalmente no.

“Ti tratta come un povero ritardato per non ferirti” proseguì nella sua orazione, sinceramente dispiaciuto per essere lui la persona designata per quell’infame compito “Anche se dovesse dirti che sarebbe venuta al ballo con te a prescindere dalla presenza o meno di quel nano inquietante, sarebbe una menzogna. E tu lo sai. Lo sanno tutti. Se ci fosse qui Rielke, ti prenderebbe a schiaffi.”

“Se Rielke non si fosse preso mille permessi prima, sarebbe qui a farlo o meno.”

“Non cercare di distrarmi parlando di Rielke” fu la ribeccata che Meier ricevette, con tanto di alzata di indice e pacca sul braccio degna di una vera damina “Dovresti svegliarti adesso e trovarti una donna che ti ami. Che ti voglia davvero. Se conosco abbastanza bene sia te che Nina, so già che finireste infelici e compiacervi a vicenda per non ferirvi.”

“Per te è così difficile credere che uno come me possa rendere felice una donna come Nina?”

Ci sarebbero stati tanti, mille modi in cui Leopold avrebbe voluto rispondere. Scelse il peggiore, ma anche il più incisivo di tutti.

“No, sono certo che tu potresti renderla la donna più felice del mondo. Solo che lei non vuole te.”

Il silenzio che venne a crearsi non piacque al rosso malpelo, ma non si incolpava di nulla se non di essere stato un poco pesante. Lo faceva per Fritz, perché era da tempo che avrebbe dovuto svegliarsi. Perché amava così tanto Nina da non vedere nient’altro e da esserne del tutto schiacciato. E questo non andava bene per nessuno.

Non sapevano cosa dire, nessuno dei due, per riprendere a parlare dopo quel bagno di realtà poco gradevole da entrambe le parti. Come una salvatrice, fu la voce tonante e per niente aggraziata di Jara a interrompere ogni diatriba.

“Possiamo avere un po’ di attenzione?”

“Stanno scendendo” Leo si sporse nel salotto, attirando l’attenzione del signor Meier e di Levi, che si alzarono insieme, appoggiando i libri che tenevano fra le mani e di cui stavano disquisendo ormai dalla fine del pasto.

“Pensavo fossero morte, lassù” disse l’ospite più recente, incrociando le braccia e fissando il suo solito cipiglio severo su per le scale, dalle quali però ancora nessuno s’era affacciato.

“Non conoscete le donne, Levi?” chiese con un poco di baldanza Fritz, quasi compiaciuto perché a quanto pareva, lui le conosceva eccome. Almeno dall’espressione che aveva pareva convinto “Se s’hanno da prepararsi, allora ti fanno aspettare tutta la notte.”

“Tanto quella festa, se ben ricordo, non ha orari” si permise di intervenire Franz, battendo una mano sulle spalle di Leo, che gli sorrise divertito.

“Perché non venite anche voi, signor Meier?” domandò proprio questi, incrociando le braccia mentre un ticchettio di tacchetti iniziava a farsi sentire “Ci sarà da divertirsi.”

“Di feste di Dot Pixis ne ho viste tante nella mia vita. Ormai non ho più l’età! Oh, ma guardate che splendore di figlia che ho!”

Dalle scale si stava affacciando proprio la figlia del padrone di casa, avvolta in un abito dei colori dell’autunno, che nonostante i fondi non le mancassero, aveva provveduto a cucirsi da sola scegliendo con cura ogni stoffa e ogni merletto.

Fritz guardò divertito Leopold, che pareva aver perso il dono della parola di fronte all’immagine della donna che tanto bramava.

E che tanto lo ignorava.

Deciso a fare il degno fratello minore, parlò da screanzato “Strano che non si sia ancora maritata, vero?” domandò retorico, sporgendosi in avanti col busto quanto lei gli fu di fronte “Saranno i modi più virili dei miei, magari?”

La ricompensa fu uno schiaffo sulla nuca “Ci vuol poco ad essere più virile di te, Lotto! Taci o ti pianto di testa nel porta ombrelli!” lo ammonì severa la valchiria, che lo superava anche in altezza. Sistemandosi un poco i capelli acconciati, Jara si voltò di nuovo verso le scale, non prestando di un solo sguardo a Leopold, che era dopotutto il suo accompagnatore ufficiale  “Preparatevi per Nina. L’abito di quest’anno è meraviglioso?”

“Più bello di quello verde?” domandò Fritz, già in un brodo di giuggiole.

“Di gran lunga. Nina! Andiamo! Se il seno non rimane nello scollo ora, non lo farà nemmeno dopo!”

Improvvisamente, l’attenzione generale si acutizzò. “Arrivo, arrivo!” fu il debole lamento della bionda “Il problema è la gonna!”

“Un po’ ingombrante” li mise al corrente Jara, incrociando le mani sul ventre, in attesa come gli altri.

Nina si fece pregare ancora un po’, prima di iniziare a scendere la scalinata. Da prima non si vide molto, se non un oceano di tulle e organza azzurra, sorretto dalle mani sottili di Nina. Gli stivaletti neri fecero gracchiare le assi delle scale, mentre un po’ precaria, la giovane scendeva i primi gradini. Quando lasciò cadere la gonna, mostrando il volto, calò il silenzio.

Dei quattro uomini presenti, nessuno riuscì a rimanere indifferente. Nemmeno e – soprattutto- Levi.

Nina, così come ogni membro della famiglia Müller, era bella; non in via soggettiva, assolutamente. Nina era una ragazza incredibilmente bella. Il vestito, come anticipato da Jara scollato, lasciava scoperte le spalle e un po’ il petto, sorretto dal bustino intrecciato. Un mare di lentiggini come quelle che portava sulle guance e sulle tempie le inondavano la pelle chiara fino alle mani e nonostante la spalla ancora fasciata –  anche se era guarita, la cicatrice ancora fresca non era bella da vedere- e il livido sotto all’occhio frutto dei primi allentamenti dall’arrivo di Levi, era comunque incantevole.

“Sembri un sogno” fu il primo commento che arrivò da coloro che la attendevano, precisamente dal signor Meier, che le si rivolse incoraggiante. Lei sorrise raggiante, spostando gli occhi su ciascuno di loro e arrossendo lievemente, solo un poco, quando incontrò quelli chiari di Levi.

Lei, che non si imbarazzava mai, si trovò un po’ in difficoltà nel non riuscire a decifrare la sua espressione, così si limitò ad abbassare gli occhi, deconcentrandosi. Pestò il tulle della gonna a ruota e lei sentì qualcosa strapparsi là sotto. Perse l’equilibrio mentre scendeva il penultimo gradino, cadendo sul sedere, sepolta nella stoffa.

E rompendo l’incanto.

“Non importa” disse diplomatico Leopold, mentre lui e Fritz accorrevano in suo soccorso, per tirarla su “Ci hai provato, Nina. Peccato che tu sia la donna meno femminile che conosco.”

“Guarda che conosci Jara” gli fece presente l’altro, rischiando un altro schiaffo. Nina si sistemò a sua volta i capelli, nello stesso modo in cui l’aveva fatto l’amica, mentre lui la guardava da vicino. Molto vicino “Sei… Non so nemmeno come descriverti.”

Lei gli sorride, battendogli una mano sul petto “Ti passerò un dizionario” lo prese in giro, lisciando il tessuto azzurro della gonna per poi passare le mani sul corpetto lavorato “Bellissimo vero? Più di quello verde.”

“Per me quello verde rimane imbattibile” protestò Leo, prima di voltarsi verso la sua accompagnatrice per complimentarsi.

“Il Comandante Kessler si è superata questa volta, anche se addosso a lei non me lo figuro.”

“Questo era della figlia, Kara” lo informò la ragazza, prima di passare le mani sulla sua giacca per lisciarla “Siete splendidi.”

“Tutti gli uomini vestiti uguali, sai che originalità” fu la lamentela di Jara, che già aveva aperto la porta, mentre ancora si allacciava la mantella sulle spalle. Il vento di ottobre entrò nella casa, facendo rabbrividire Nina, la quale venne prontamente coperta col il suo mantello da Friederich.

“A me piace la giacca della divisa da gala” si difese Nina, guardando verso la carrozza che già li stava aspettando. Per quanto preferisse cavalcare, sarebbe stato complesso con quell’abito addosso.

Mentre il signor Meier si raccomandava ai figli di non fare gli stupidi, Nina si accostò a Levi. Con quegli stivaletti, ai quindici centimetri che aveva in più dell’uomo, ne poteva aggiungere almeno altri cinque. Per questo lo guardò divertita, appoggiandogli le mani sulle spalle “Sto bene?” domandò un po’ civettuola, guardandolo negli occhi.

“Non sei da buttar via” fu la risposta laconica di Levi, che passò gli occhi dalla spalla fasciata allo scollo molto rapidamente, per poi ripuntarli nelle iridi eterocrome della giovane donna “Non fare tardi, domani abbiamo gli allenamenti.”

“Non lo farò” rispose lei velocemente, come per rendere chiaro che non sarebbe mancata. Non si scostò ancora da lui “Sei certo di non voler venire? Nella carrozza c’è ancora posto….”

Levi non rispose subito. Lanciò uno sguardo verso Jara che stava montandovi, rifiutando l’aiuto del cocchiere, fino a Fritz che aspettava sulla porta con la stessa fedeltà di un cane in attesa.

Nina decise di lasciar perdere. Lasciò cadere le braccia lontane da lui, fino alla gonna, che strinse appena “Sai, l’avrei voluto viola” disse, alludendo all’abito con un sorrisetto un po’ pallido rispetto ai precedenti “Si sarebbe abbinato bene all’occhio pesto, così.”

Gli fece l’occhiolino, prima di voltarsi e andare alla porta. Non prima, però, di essersi chinata per lasciargli un bacio sulla guancia con la stessa innocente sfacciataggine di una bambina. La porta si chiuse e il signor Meier lo invitò a tornare a leggere senza nascondere un sorrisetto lungimirante. La proposta venne accettata di buon grado.

Prima, però, si perse in un pensiero.

Come aveva potuto non accorgersene mai?

Nina profumava di fiori di lavanda e liquerizia.

 

La villa di campagna del Comandante Pixis brulicava delle più disparate personalità quando arrivarono, dopo quasi un’ora di carrozza per la zona rurale attorno alla Capitale. Erwin era già lì ad aspettarli insieme a un uomo bello come ve ne erano assai pochi, alto e con le spalle non troppo larghe, soprattutto se paragonato a Smith.

Friedelhm Müller  non era solo avvenente come la sorella, aveva anche qualcosa di unico che non condivideva con nessun altro della famiglia ad eccezione del padre Wilhelm; un occhio era azzurro come il cielo d’estate senza una nuvola, mentre l’altro era marrone scuro, così tanto sa sembrare nero sotto alle luci delle lampade ad olio che illuminavano la serata. Appena aveva visto Nina se l’era coccolata bene, non perdendo però di vista il resto delle persone che accalcavano il salone dei ricevimenti. C’erano solo due cose che il Capitano di Gendarmeria Müller proprio non riusciva a ignorare: il buon vino e le belle donne. Gusti che l’avevano fatto entrare di prepotenza nella rosa di simpatie del Comandante Pixis, ma che avevano reso sua moglie Marika un po’ infelice.

In quel tipo di eventi lui ci sguazzava bene come una trota nel fiume; ovunque c’erano persone divertite, belle donne agghindate e soldati pronti a complimentarsi con lui per la gestione della polizia militare nel distretto di Stohess, di cui era Capitano Esecutivo.

Schultz?” chiamò  l’amico, indicando poco distante qualcosa, mentre Nina stretta al suo braccio parlava con Mike Zacharius “La vedi anche tu quella bella mora insieme al Capitano Erik  Schmidt di Briemer?”

Il moro allampanato al suo fianco si voltò, tenendo in mano il bicchiere di fronte a sé, nel tentativo di prendere un sorso “Sì.”

“Andiamo a conoscerla” con un sorriso smaliziato, fece cenno che era pronto a iniziare la caccia “Ci vediamo dopo sorellina, non fare strage di cuori e trova marito, così che tua madre la smetta di assillare anche me”disse a Nina, baciandole la fronte e lasciandola lì con Fritz e Leo. Persino Jara si era buttata nella mischia a far conoscenze, abbandonandoli.

“Non cambierà mai. E parlo di lui, non di mia madre, che nemmeno me lo chiedo se mai smetterà di essere così assillante con qualsiasi persona” sussurrò la biondina rassegnata , rendendosi conto che Fried le aveva pure rifilato in mano il bicchiere vuoto.

“Si gode la vita” rispose Leo, prima di sistemarsi la giacca “Vado a cercare di farmi notare da Jara. A dopo”

“In bocca al lupo” fu il commento divertito di Fritz, mentre con finta non cura prendeva la mano di Nina tra le pieghe del tessuto azzurro, sentendo la stretta ricambiata senza indugio.

Però non lo guardava, rivolta a Mike “Nababa e Thoma?”

Lui alzò le spalle, infastidito dall’essere costretto nella giacca elegante “Sono rimasti a Trost. Qualcuno doveva pur rimanere lì.”

“Anche Hanji?” si informò ancora quella. Era strano, solitamente la Zoë non perdeva occasione di partecipare a frivolezze come quelle. Diceva che la metteva di buon umore un alto concentrato di essere umani tutti nella stessa stanza.

“Lei è venuta con noi, ma l’abbiamo persa in Capitale.”

Quella frase, soprattutto riferita a un tipetto come Hanji, era quasi inquietante. Nina non ebbe però il tempo di rispondere, perché Erwin entrò nel suo campo visivo in tutta la sua mastodontica presenza “Te la rubo per un ballo, dottore” disse amabile a Fritz, che si ritrovò un po’ spiazzato quando Nina venne portava verso la pista da ballo dal fratello maggiore.

Il giovane medico non avrebbe mai detto nulla a Erwin, soprattutto in virtù del fatto che poco prima gli aveva domandato un enorme favore. Fritz aveva fatto richiesta per essere riassegnato. Sperava di venire spostato da Renin a Trost, così da poter andare laddove c’era davvero bisogno di azione e insieme a Nina e il resto della loro compagnia di vecchi amici. Senza una spinta del Capitano sarebbe stato difficile finire assegnato nel meridione e non voleva rischiare di finire a Nedlay.

Nina sapeva che intanto il fratello se ne sarebbe dimenticato. Gli avrebbe lasciato qualche nota qua e la nello studio.

“Cosa succede?” domandò proprio la ragazza in questione a mezza voce, prima di capirlo “No, non dirmi che lo sta facendo di nuovo..”

Fratello e sorella si guardarono complici, mentre, poco distanti da dove Erwin l’aveva condotta, il Capitano Schäfer della ricognitiva, di istanza a Shigashina, parlava fitto con Shadis.

“Se ci fossero delle premiazioni speciali per chi sa leccare bene il culo, lui sarebbe il campione incontrastato.”

“Passare del tempo con Levi non ti fa bene.”

Nina sbuffò, tirandolo poco più avanti “Almeno balliamo, ora. Poi andremo da Shadis e gli ricorderemo chi sarà il futuro Comandante della Legione.”

Erwin rise, appoggiando una mano sul fianco della sorella e l’altre contro la sua, palmo contro palmo, iniziando poi a girare su se stesso non appena anche Nina ebbe trovato  il suo fianco opposto “Forse lui è meglio di me.”

“Non lo pensi davvero” lo corresse subito lei, anche se sapendo come era Erwin, si considerava probabilmente il più qualificato anche se il meno adatto. O forse il contrario, chi poteva dirlo. Il punto però rimaneva, Schäfer non le piaceva, non le era mai piaciuto, con quel cipiglio di superiorità nonostante la stazione della Legione di Shigashina fosse vassalla della sede centrale del meridione, che era la loro di Trost. Come Briemer e Nedlay, per intenderci.

“Una cosa però è certa” Erwin le parlò direttamente nell’orecchio, così da non farsi sentire “Shadis vorrebbe essere ovunque, se non qui. Forse anche in mezzo a dei giganti.”

Per buona misura, Nina scoppiò a ridere, attirando su di sé più di uno sguardo.

 

Levi si domandò perché si era lasciato convincere da Hanji ad arrivare fino a lì.

La giacca che la donna gli aveva prestato era bella, non si capiva che non fosse da uomo ma della donna, peccato però che stringesse troppo sulle spalle e gli stesse lunga nelle maniche.

Non era la sola cosa ad irritarlo a morte, però.

C’erano troppe persone, che lo guardavano incuriosite. Levi era stato vittima di quello che poteva tranquillamente essere definito come un sequestro di persona; Hanji si era presentata a casa dei Meier con un bislacco abito pervinca dall’aria vissuta, iniziando a riempirgli la testa di domande sul perché non volesse andarci e cazzate, trovando anche supporto nel padrone di casa nel momento in cui l’aveva invitato a starsene zitto e salire a cavallo. Persino quando Levi le aveva detto, senza giri di parole, “Non mi ero accorto tu fossi una donna prima di averti visto ora con una gonna” lei non si era scoraggiata.

Alla fine, aveva vinto tirando fuori la peggiore delle argomentazioni: a Nina farebbe così tanto piacere se tu venissi.

Lui aveva inizialmente risposto con un gigantesco chi se ne frega, prima di cedere alle insistenze di non una, ma di ben due persone. Non poteva nascondere che non fosse lì per Nina, perché anche se era solo una ragazzina, era gentile e aiutava sempre chiunque ne avesse bisogno e Hanji aveva più e più volte rimarcato proprio su quel fattore.

“Lei è persa di te e tu sei la sua ombra, Levi. Accettalo e metti questa giacca.”

Arrivato alla festa, però, non poteva crederci di avere davvero accettato, sembrava uno scherzo. Ormai però era lì e quindi dopo aver rubato un bicchiere di vino per stemperare l’atmosfera, aveva cercato la ragazzina fra la folla. L’aveva trovata a ballare insieme a Fritz, sorridente e divertita, saltellando qua e la come un passerotto avvolto in una balla di tulle celestino. Lei non si era accorta di lui per due balli interi, ma poi, la sorte ci aveva messo del suo. Fritz si era scostato per tirare una spintarella a Leopold e lei l’aveva scorto oltre la spalla del suo compagno di danze. Nell’esatto momento in cui i loro occhi si erano trovati, Levi aveva provato un sensazione strana, che l’aveva portato a muovere qualche passo verso di lei.

Da parte sua, Nina non aveva esitato. “Scusami” aveva sussurrato a Fritz, scostandosi dalla sua presa e camminando a sua volta verso l’uomo. Lei, nel momento in cui i loro sguardi si erano incontrati a metà strada sulla pista da ballo, si era sentita come se in quella stanza non ci fosse stato nessun altro se non loro. “Sono allibita” fu la prima cosa che gli disse, sorridendo, quando se lo trovò di fronte “Non mi aspettavo che alla fine saresti venuto.”

Hanji” fu la sola cosa che sputò fuori quello, non nascondendo la seccatura.

Hanji” ripeté Nina con una certa consapevolezza nella voce, mista al divertimento “Sono felice che tu sia qui però…” gli alzò il braccio, guardando il modo in cui la giacca cadeva sul polso e sulla mano “Questa non è della tua misura.”

“Non mi hanno consegnato nessuna giubba elegante quando mi hanno arruolato a forza, scusami” rispose ancor più piccato il moro, prima di guardarla con un sopracciglio alzato “Allora, come funziona?” domandò ammorbidendo il tono “Dovremmo ballare, oppure che ne so-”

“Nina?” una voce li interruppe, scocciando non poco Levi che scoccò un’occhiata poco gentile al nuovo venuto.

“Capitano  Schmidt” lo salutò cordiale Nina, allungando la mano per stringergliela “Ancora non ci siamo salutati.”

“E abbiamo rischiato di non farlo, perché io me ne sto andando. Non è cosa per me.” Ridacchiando, il biondone si grattò la nuca, dopo aver ritratto la mano, “Tuo fratello l’ha combinata nuovamente.”

“Non devo nemmeno chiederti di quale fratello parli” gli disse lei, arrendevole “Fried è…. Unico. Dimmi che la mora non era tua moglie, almeno.”

La bella mora in abito rosso provocante che per tutta la sera aveva goduto della compagnia di suo fratello maggiore – e che con lui si era allontanata non molto tempo prima- era arrivata proprio insieme a Schmidt.  Nina ci aveva scambiato un paio di parole, con quella bella mora, mentre lei e Fritz salutavano le vecchie conoscenze della Legione del nord.

“No, Lottie è la mia seconda in comando” rispose lui “Speravo di farla mettere insieme a Schultz Smeltzer, ma tuo fratello è stato più veloce di lui.”

“Come al solito” rilanciò Nina, prima di realizzare che nonostante Levi fosse silenzioso, non era trasparente “Come sono sciocca, non ho fatto le presentazioni” appoggiando una mano sulla spalla del moro, lo sospinse appena in avanti “Lui è il Capitano Erik Schmidt della ricognitiva” iniziò a dire mentre i due si stringevano la mano “Coordina l’avamposto settentrionale di Briemer. Lui invece è Levi e basta, la nostra nuova arma di distruzione totale.”

Un leggero vociare si diffuse attorno a loro, anche in virtù del fatto che la musica aveva cessato di suonare proprio nel momento della presentazione per rallegrarsi in un motivetto più incalzante. Ironico. Levi si guardò attorno, non conscio della popolarità che iniziava già ad acquisire nonostante fosse arrivato da pochi mesi.

I soldati della Legione parlavano, a casa e in osteria, dell’uomo che da solo aveva ucciso cinque gigante e fatto breccia nelle preferenze del Capitano Smith.

“Un onore conoscere un uomo con una fama così grande” fu il solo commento di Erik “Al nord ci farebbe comodo una persona come te, Levi.”

“Fidati” gli fece eco Nina, intenzionata a non spostare la mano dalla spalla del moro “A sud ne abbiamo molto più bisogno.”

Come chiamato dal cielo, anche Erwin arrivò da loro, facendo sciogliere un po’ le persone che attorno ai tre parlavano guardando Levi. Tornarono tutti a ballare, forse per non sfigurare di fronte al promettente Capitano, che invece guardò il moretto senza velare nemmeno minimamente il suo divertito “Erik” disse però, salutando l’amico e stringendogli la mano “Sono felice di vederti. Fa freddo al nord?”

Quella domanda gliela rivolgeva sempre, ogni volta che lo vedeva. Erik infatti ruggì una risata, dandogli un leggero colpetto con il gomito nelle costole “Così tanto che i giganti non si fanno vedere tanto spesso! Come non capirli però, si sa che problema hanno.”

“Sono nudi, dopotutto” lo assecondò Erwin, facendo alzare gli occhi a Nina.

“Il discorso non assumerà un tono migliore” fece sapere a Levi, prendendogli il polso e tirandolo verso la pista “Divertitevi!”

“Spero di rivederti presto, Nina!” Erik li guardò passare in mezzo alle persone, fino a trovarsi un posto loro.

Anche Erwin non li perse di vista, incrociando le braccia sul petto “Sai” disse al suo interlocutore, attirando la sua attenzione “Non so se dispiacermi di più per Levi che è costretto a sopportare le angherie di mia sorella…” fece una breve pausa, notando il modo in cui Levi cercava di copiare i passi degli altri uomini, mentre Nina lo rimproverava apertamente del fatto che non le stesse dando retta e che era meglio se conduceva lei “Oppure per il dottor Meier che l’ha accompagnata.”

“Ah, l’amore giovane” fu il solo commento di Erik, mentre prendeva un bel respiro “Ti fa dimenticare anche i giganti.”

 

Levi si era seriamente pentito di essere andato lì quando Erwin l’aveva placcato durante la fuga dalla pista da ballo, iniziando a presentarlo a destra e a manca come il suo uomo migliore. Si era dovuto sorbire le occhiate incuriosite del Comandante Pixis, i sorrisi divertiti di chi sa qualcosa di troppo di Nora Kessler, le occhiate perplesse e non troppo convinte di Nile Doak e le domande stupide di così tante persone da aver perso il conto. L’argomento principale era la sua vita nel ghetto. Per quegli ufficiali, abituati da sempre o da troppo tempo alla Capitale, il mondo al di sotto dei loro agi sembrava lontano e irraggiungibile, anche se ci camminavano letteralmente sopra. Levi rispondeva a mezza bocca, iniziando ad indisporsi via via che le conoscenze aumentavano. Alla fine, Erwin lo fece allontanare, dedicandosi a Nile e iniziando a parlare di una certa Marie, di cui Levi non voleva sapere niente. Basta persone che parlano di altre che lui non conosceva e che non voleva conoscere. Non era lì per quello.

Certo di non voler parlare con Hanji, che lo salutava da ritta accanto a Zacharius, si diresse verso il primo volto conosciuto “Oi” tuonò facendo sobbalzare le spalle di Leo, impegnato in una conversazione con altri quattro gendarmi “Hai visto Nina?” domandò schietto, attendendo una risposta con una certa impazienza nello sguardo.

Il rosso lo guardò sbrigativo, prima di indicare una porta a vetri ampia e alta “L’ho vista uscire in giardino poco fa.”

Levi non si prese il disturbo di ringraziare. Gli riservò un cenno con il capo, stanco di tutta quella confusione e deciso a costringere la bionda a portarlo a casa dei Meier prima di subito, nonostante la festa paresse lontana dal terminare.

Aveva addirittura sentito qualcuno dire che si sarebbe protratta fino all’alba e gli venivano i brividi solo al pensiero.

La trovò insieme a Jara e a un’altra donna dal caschetto moro, tutte e tre sedute sulla fontana e con i piedi in ammollo nonostante fosse iniziato ottobre.

Un ottimo modo per beccarsi una polmonite, e pensare che due su tre erano persino laureate in medicina. Come non detto, non era un pezzo di carta a far di una persona furba. Si avvicinò e loro lo videro avanzare sin da subito. Manco avesse la peste, vide Jara balzare in piedi insieme all’altra donna e con una scusa banale sparire verso la sala con ancora le scarpe in mano.

“Le hai spaventate” gli disse Nina mentre cercava di trovare un senso in tutta la stoffa che le componeva il vestito.

Tch.” Come se quella potesse definirsi paura “Se volevano lasciarci soli, potevi dire loro che passiamo già un significativo lasso di tempo insieme, durante la giornata.”

A Levi non sfuggì il leggero rossore che colorò le orecchie di Nina in quel momento, ma non commentò. Aveva detto anche troppo. Lei alzò un piede, appoggiandolo sul bordo della fontana “In effetti ultimamente passi più tempo a picchiare me che a fare qualsiasi altra cosa” gli fece notare con tono leggero, mentre spingeva via il tulle con poca grazia.

“Fammi vedere, avanti.” L’uomo sedette accanto a lei, attendendo che Nina allungasse la gamba. Quando ebbe appoggiato il polpaccio asciutto sui pantaloni neri dell’uomo, Levi poté notare tutte le vesciche che si erano formate sul piede della giovane, alcune delle quali sanguinava “Voi donne siete tutte matte” ammise, scuotendo il capo e facendosi passare le garze che Nina si era preventivamente portata da casa, nascondendole nel sottogonna “Se ti facevano male, perché li hai messi?”

“Perché non potevo mettere quelli militari sotto a un abito così.”

“Che sciocchezze. Ammalarti non ti esonererà dalla levata, domani. ”

Nina non disse altro. Lo guardò avvolgere il collo del piede fino al tallone nella garza bianca, prima di aiutarla a rimettere le calze bianche ora macchiate di rosso vermiglio e ripetere il procedimento con l’altro piede. C’era qualcosa di aggraziato nei movimenti di Levi, quasi dolce. Nina lo vedeva come un uomo spaccato in due, due diverse personalità che condividevano la stessa incredibile mente. Da un lato c’era il soldato, sembrava essere nato per indossare le Ali della Libertà; dall’altro c’era Levi. Solo Levi.

Forse la persona più buona e gentile che Nina avesse mai incontrato.

Incredibilmente, anche la più sboccata.

Le due cose convivevano perfettamente, anche se sembrava un ossimoro.

Nina lasciò le gambe su quelle dell’uomo, mentre il vento autunnale le faceva accapponare la pelle delle spalle. Nonostante questo, però stava bene, perché in quei mesi lontano, Levi le era mancato. Nonostante fossero silenzio, era perfetto così.

Le loro giornate insieme erano alternate da lunghi silenzi che però non pesavano. Erano rincuoranti sotto diversi punti di vista. La faceva sentire bene il pensiero di trovarsi così a suo agio con una persona da non doverle nemmeno rivolgere la parola. Non c’era imbarazzo, iniziavano a capirsi a vicenda anche con solo uno sguardo.

E lei, giorno dopo giorno, silenzio dopo silenzio, si innamorava sempre di più di lui.

Forse era un sentimento unilaterale, dal suo punto di vista lo era, ma lui la riusciva a far sentire bene anche con solo la sua presenza. Allungò una mano, senza esitazione scostandogli i capelli mori dal viso e parandoli indietro per guardarlo. Anche il modo in cui lui si lasciava toccare, non sembrava urtarlo. Addirittura, Levi socchiuse leggermente gli occhi, come un gatto “Almeno un po’ ti stai divertendo?” gli domandò, arricciando le labbra in un sorrisetto.

“No.”

“Lo sapevo.”

Si scambiarono uno sguardo e quando Nina puntò il suo nuovamente verso la porta finestra che dava sul giardino curato, ci trovò Fritz. Il ragazzo stava tentando di tornare dentro, ma quando lei lo chiamò con voce squillante, comprese di non aver scelta se non andare verso di loro con le mani in tasca e una muta rassegnazione.

Levi lo guardò, chiedendosi quanto si dovesse essere innamorati prima di urlarlo apertamente al culmine della frustrazione.

Non era un idiota, aveva capito cosa stava succedendo.

“Chiedimelo.”

La voce di Nina lo fece voltare di nuovo verso di lei, mentre il dottore compiva a piccoli passi la distanza fra lui e la coppia seduta sulla fontana “Prego?”

“Quello che sei venuto a chiedermi” lo incalzò lei, allungando le mani per sfiorarsi la punta dei piedi e stirarsi “Chiedimelo.”

“Voglio lasciare questa merdosa festa, possiamo andare?”

Nina rise “Va a dire a Leopold che è ora, quindi” gli rispose, spostando i piedi di nuovo sull’erba e recuperando gli stivaletti.

“Ti lascio col tuo fidanzato” le rispose lui per vendetta, sussurrandoglielo sulla spalla e facendola rabbrividire di nuovo, prima di alzarsi per allontanarsi.

“Levi non-sei uno stronzo!” non si risparmiò di urlargli dietro Nina, tirando i lacci del primo stivale mentre Fritz la raggiungeva con un’espressione indecifrabile “Mi facevano male i piedi” lo mise al corrente con un tono un po’ da bambina, allungando la mano per tirargli il giaccone “Mi porti in braccio?”

Fritz sbuffò una risata, sedendosi con lei.

Ci fu di nuovo silenzio, ma quello non fu rincuorante e famigliare. Non fu complice.

C’era imbarazzo e Nina sapeva che avrebbe dovuto lasciarlo parlare.

Lui doveva dirle qualcosa, doveva darle la cosa che lei sapeva aveva sempre con sé in tasca e doveva sentirsi dire di no.

Invece, di nuovo, decise di proteggerlo “Sarei venuta con te a questo ballo, Fritz” gli disse con tono dolce “In ogni caso. Anche se avessi ricevuto un’altra proposta mentre stavo salendo sulla carrozza.”

Lui si sporse, baciandola sulla guancia mentre le avvolgeva le spalle col braccio per schermarla dal vento “Lo so.”

Lo sapeva e non che lei sarebbe comunque andata con lui.

Sapeva quello che Leopold aveva detto a inizio serata, prima ancora di lasciare casa.

Non importava, però.

Avrebbe continuato a fare finta di niente fino a che l’avesse fatto Nina. Come un cane che si morde la coda, avrebbe finto.

La strinse a sé, abbracciandola più stretta.

E pensò che era davvero una bellissima bugiarda a cui però avrebbe sempre votato il suo cuore.

In quel momento, ne era certo.

 

 

 

Nda.

Lo so, ci ho messo una VITA a pubblicare. A mia discolpa ero al mare e sto scrivendo una long AU insieme a RLandH molto carina, sempre in questo fandom.

Non mi dilungherò nelle note perché non ho voglia.

Sì, l’ho scritto davvero, con spietata sincerità.

 

Anche questo è un capitolo solo al passato, perché certe cose non posso proprio scartarle e le parti presenti ormai sono tutte decise. Prendetelo come un respiro profondo prima del grande salto, perché fra due capitoli si inizia davvero a ballare.

Ci sarà così tanto ANGST che rimpiangeremo tutti le feste di Pixis.

 

Erik e Lottie non mi appartengono.

Anche loro sono di RLandH e ricordate l’hastah #postaLunaposta se volete conoscerli meglio.

Ne vale davvero la pena.

Nemmeno Gretha è mia e so che la sua citazione ha portato più di una domanda…. Ehehehe.

Friedelhm…. No lui è mio e si vede.

Che bel cazzone.

 

I Müller sono adorabili.

 

Ringrazio Shige per avermi commentata, come sempre sei dolcissima **

Ringrazio anche solo chi legge e chi mi segue.

Siete bellissimi.

 

Un abbraccio e a presto,

C.L.

 

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Capitolo 10
*** Capitolo Nono ***


11

 

Wenn die Sterne leuchten.

 

 

 

 

 

Capitolo Nono.

 

 

 

All the writers keep writing what they write 
Somewhere another pretty vein just dies 
I've got the scars from tomorrow and I wish you could see 
That you're the antidote to everything except for me 
A constellation of tears on your lashes burn everything you love 

Then burn the ashes  in the end everything collides
 
https://www.youtube.com/watch?v=5NEDjQPq6so

 

 

 

 

Anno 846

                                                                              Nei territori invasi di Maria.

 

 

 

Nina si ritrovò a pensare stupidamente che era assurdo vivere tutta quell’avventura senza ricordare nemmeno una volta Ilse Langnar. Le era tornata alla mente mentre stava riparando l’orologio da taschino che, precedentemente, era appartenuto a Fritz Meier. Nina lo aveva rotto in modo stupido, poco dopo averlo ricevuto in dono dal padre dell’amico, ma non aveva mai smesso di portarlo con sé, dentro alla saccoccia di cuoio che le pendeva sempre dal fianco, come un porta fortuna.

Aveva avuto la fortuna di trovarne uno simile in un cassetto, in una delle stanze al piano di sopra. Stava cercando fogli su cui annotare gli scarsi progressi fatti nella trascrizione dei libri in lingua comune – non era così stupida da farlo sul suo taccuino, che sapeva le sarebbe stato requisito non appena messo di nuovo piede nelle Mura Rose- quando fra le mani le era finito quell’oggetto dall’aria vissuta, nascosto dietro a qualche scatolina vuota, sicuramente ficcato là dentro nel tentativo di tenerlo nascosto. Chiunque volesse tenerlo al sicuro ci era riuscito, perché se la giovane non avesse frugato in ogni angolo della casa, allora non avrebbe mai notato quel vecchio scrittoio, semi nascosto dietro a una porta.  Nonostante le lancette ferme, la bionda si convinse che se anche le batterie si fossero scaricate, gli ingranaggi potevano essere ancora utilizzabili. Avrebbe quindi potuto cambiare un paio di meccaniche da quello di Fritz, che Mike le aveva detto si dovevano essere rotte in seguito a una caduta e poi, settando l’orologio quando il sole si sarebbe trovato al centro preciso del cielo a segnare l’inizio del meriggio, avrebbe avuto un orario approssimativo. Avere qualche certezza l’avrebbe punto di riferimento a non perdere la testa.

Aveva quindi portato l’oggetto nella cucina e prima di iniziare lo scempio e la mutilazione di quest’ultimo, lo aveva osservato per bene. Il caso volle che, incise sull’argento dello sportellino, spiccassero le iniziali I.L., in una sorta di stramba coincidenza che però la fece riflettere. Non erano passati molti mesi da quando avevano ritrovato il corpo della compagna d’armi, intatto ad eccezione del capo che le era stato staccato dal collo. Non era quello però ad aver lasciato il segno, ma ciò che la ragazza aveva coraggiosamente riportato nelle pagine di un diario. Quando era capitato fra le mani di Nina, due secondi dopo che Levi l’aveva trovato fra i fili d’erba, la ragazza aveva compreso che non era cosa da poco. L’aveva letto per bene, una volta fatto ritorno a Trost e si era anche ritrovata a immedesimarsi nel terrore che la giovane aveva provato e che aveva reso la scrittura sempre più veloce e tremolante fino al peggiore degli epiloghi.

Ironicamente, però, Nina non aveva pensato a cosa avrebbe fatto lei al posto di Ilse. Si era adagiata sugli allori, da quando aveva cambiato squadra e si era ritrovata gomito a gomito con Levi. Pur essendo costantemente in prima linea, Nina non era mai sola e aveva le spalle coperte dal guerriero più forte dell’umanità. Un bel vantaggio.

Eppure, ripensandoci, si chiese se quella sua esperienza non potesse anche far luce sul mistero di Ilse. Forse avrebbe incontrato anche lei un gigante parlante? O magari, nella più torbida delle ipotesi, sarebbe anche lei andata incontro alla pazzia? Perché anche di questo si era discusso; forse la poverina era impazzita, da sola e spaventata.

Nina non ci aveva creduto, mentre suo fratello lo ipotizzava, perché era fermamente convinta che ci fosse della lucidità in quelle parole. Eppure, mentre guardava le lancette rianimate nel quadrante dorato, il medico si ritrovò a pensare che forse non era così assurdo.

Forse Ilse era davvero impazzita, nella solitudine dei territori di Maria.

Forse sarebbe impazzita anche lei, se non si fosse data da fare.

Con uno scatto, Nina chiuse lo sportellino, infilando l’orologio nella tasca dei pantaloni bianchi. Si mise seduta sul letto, recuperando uno dei libri che giacevano impilati a terra per riprendere il lavoro.

Li stava accumulando a poco a poco.

 

Non aveva del sapone con sé, ma la vita con Levi aveva dato i suoi frutti.

Lavare i vestiti nel torrente usando solo della cenere, per esempio, era qualcosa che era stato lui ad insegnarle. A dirla tutta, era una donnina di casa molto più brava di Nina che, al contrario, sapeva fare poco o niente. Non sapeva nemmeno cucinare e i pochi tentativi fatti si erano sempre rivelati un disastro. Per non parlare poi del modo in cui rammendava; era un asso nei punti di sutura, ma nel punto croce mancava di tecnica.

Era un po’ incosciente da parte sua uscire durante il pomeriggio, ma non ce la faceva più a vivere da reclusa dentro quelle quattro mura sino al calare del sole. Si era armata per bene, per poi strisciare verso lo scorrere del fiumiciattolo, non incontrando ostacoli.

I giganti si tenevano lontani dalla borgata ogni giorno di più, come se un solo essere umano non fosse sufficiente per attirarli. Dalla prima notte aveva notato che il loro numero e le loro visite erano calate esponenzialmente, nonostante però ne avvistasse spesso aggirarsi nel bosco che in quel momento era pericolosamente vicino.

Sperò di avere il tempo di nascondersi sfruttando le rocce attorno a lei, nel caso in cui ne fosse apparso uno. Quando meno l’avrebbe sentito. Ogni passo rimbombava con la potenza di un tuono per tutta la vallata attorno al borgo.

Erano passati sette giorni da quanto era arrivata lì, un’intera settimana a parlare solo con se stessa e Nina stava iniziando a farci l’abitudine. Per quanto questa realtà fosse triste, in un certo senso, andava bene così. Avere tutti i sensi perennemente in allerta era stancante, i nervi a fior di pelle non mancavano mai e non poteva vivere così. Per questo osava.

Se avesse vissuto ogni secondo con il terrore di morire, allora avrebbe commesso un errore idiota e sarebbe morta davvero.

Lavò i pantaloni bianchi della divisa, sospirando per la sensazione poco gradevole che quelli che aveva addosso, un pantalone nero che aveva trovato in cassetto, le dava. Era larghi sulle gambe e le cinghie dell’equipaggiamento vestivano male.

Aveva avuto il tempo di frugare nelle case per fare incetta di abiti, è vero, ma i libri l’avevano distratta.

Passò quindi alla camicetta smanicata che indossava il primo giorno, madida del sangue essiccato di Sankov e prese a strofinare così forte da pensare che avrebbe perso le dita. Per quanto la cenere fosse efficace, però, non poté molto e dei tristi aloni giallognoli rimasero ad impregnare il tessuto candido.

“Levi non ne sarebbe felice” soppesò, buttando l’indumento in una cesta di vimini, prima di passare ad altro. Fu allora che sentì un rumore.

Il sangue le si gelò nelle vene e gli occhi si sbarrarono, ma fu abbastanza veloce da ritrovarsi con le lame sguainate in un battuto di ciglia. Rimase ferma, china sul corso d’acqua con un piede dentro al fiume nel tentativo di rimanere bilanciata, sicura di essere nascosta da due speroni rocciosi. Rimase in ascolto per qualche minuto, chiedendosi se l’avesse o meno immaginato, ma quando sentì di nuovo qualcosa realizzò non solo che non era ancora impazzita, ma che quello non sembrava un gigante.

Affatto.

Rinfoderò le lame senza sganciarle dalle meccaniche, così da poterle afferrare velocemente, prima di girare attorno alla roccia.

A pochi metri da lei, incurante e pacifico, c’era un cavallo.

Tutto intento a brucare l’erba non si accorse inizialmente della presenza della giovane, che lo fissava come se avesse appena visto un’apparizione mistica.

Quello era un cavallo.

Un cavallo che poteva portarla a Trost, per essere precisi.

Sul muso lungo aveva ancora una testiera, anche se rotta e che pendeva strappata di lato, segno però che non era selvatico. Quel cavallo era appartenuto a qualcuno, probabilmente della ricognitiva.

Istintivamente, Nina si guardò attorno, prima di portare le dita alle labbra e fischiare.

Spero di non doverlo rifare, ma se quel cavallo era stato addestrato dal loro corpo militare, allora sarebbe corso subito da lei.

Cosa che non accadde.

L’animale alzò solo il muso, continuando a brucare imperterrito l’erba, guardandola con quella che Nina scambiò per supponenza.

Non s’era mai visto un cavallo supponente e per ovvie ragioni, ma il modo in cui questo tornò a mangiare le fece capire che forse la stava prendendo in giro.

Con un sospiro rassegnato – nemmeno una poteva andarle bene- avanzò di qualche passo, catturando di nuovo l’attenzione dell’animale.

Ora che lo guardava bene, doveva ammettere che quella bestia aveva qualcosa di strano. Non aveva mai visto un cavallo così.

Tanto per iniziare, sembrava più piccolo di quelli che venivano allevati dentro alle Mura Rose. Il muso era lungo, così come le zampe, sottili. Persino il colore era molto particolare, non tanto per il fatto che fosse bianco, ma per le screziature marroncine, dello stesso colore del crine, che aveva alla base della schiena, proprio sull’attaccatura della coda e sulle anche.

Non ne aveva mai visto uno così, ma infondo non ne sapeva proprio niente di veterinaria.

L’animale le permise di arrivargli vicino, ma nel momento esatto in cui Nina allungò una mano per afferrare l’imbragatura della testiera, per quanto fu delicata nei modi, questi nitrì, allontanandosi in fretta.

“No, ti prego!” disse lei, abbassando il braccio di corso e improvvisando una corsetta.

Ora che il costato sembrava esserle guarito poteva anche provarci, ma non poteva di sicuro battere un cavallo.

Lo guardò allontanarsi per la piana velocemente e lei rimase lì, come una cretina, con il cappuccio della mantella calato a metà della nuca e l’espressione più sconsolata che il suo viso potesse esprimere.

Non c’era molto da fare a quel punto, se non tornare indietro a recuperare i vestiti per poi tornare al sicuro.

Si era attardata anche troppo e il vento era cambiato, soffiandole contro.

Sarebbe stato stupido rischiare di farsi fiutare.

 

Il taccuino era ormai arrivato a segnare la metà delle pagine scritte, quando Nina prese il coltellino per affilare la punta della matita di grafite. Non aveva ancora finito di appuntare qualche impressione su quella giornata che poteva definirsi fiacca e che quindi non avrebbe occupato poi tutto quello spazio. Aveva però deciso di essere il più precisa possibile, perché laddove Ilse non aveva avuto tempo, lei ne aveva sin troppo.

Magari, un giorno, qualcuno avrebbe tratto importanti dati da eventi a detta sua inutili, poi non è che avesse chissà quale impegno.

Poteva perderci ancora qualche minuto.

Dopotutto erano sette giorni che non faceva altro se non camminare in tondo in quel borgo e annotare dati sensibili.

Prese un pezzo di pane abbrustolito, l’ultimo per la precisione, ficcandolo dentro alla ciotola contenente una misera quantità di farinata d’avena. Il solo pensiero che dal giorno successivo avrebbe dovuto ingurgitare quello schifo senza nient’altro a contornarlo le fece salire un brivido, ma la sopravvivenza veniva prima dei gusti.

Forse poteva trovare un modo sicuro per andare a caccia. In quei giorni aveva notato come un gigante potesse arrivare a percepire la sua presenza semplicemente dall’odore, anche da distanza considerevole. Aveva passato qualche ora su un tetto, nascosta dentro a un comignolo, a causa di quell’imprevisto. Se avesse trovato il modo di celare il suo odore, allora forse non l’avrebbero nemmeno riconosciuta in quanto essere umano.

Era una teoria interessante che meritava una possibilità per essere testata.

Era un mistero il modo in cui i giganti percepissero ciò che andava divorato da ciò che invece non era di loro ‘gusto’; per un essere istintivo come quello, era più probabile che a influenzarne il giudizio fosse l’olfatto più che la vista.

Segno ogni singolo pensiero, promettendo ad un lettore immaginario, che aveva il volto di suo fratello, degli esperimenti in merito. Allungò la mano sul tavolo per cercare la scatola stantia di fiammiferi rovinati dall’umidità di un sottoscala, ma essa si strinse attorno a un pacchetto rettangolare ben più grande. Prese una delle sigarette in esso contenuto e la portò alle labbra, spostando la ciotola ora vuota e sporca di residui di avena.

La sigaretta dopo cena.

Stava pensando a Fritz troppo spesso nell’ultimo periodo. Forse l’olezzo della morte la faceva diventare più che mai paranoica e nostalgica, ma le dava una certa sensazione di pace il sentire l’odore del tabacco attorno a sé. Dopo la morte dell’amico aveva smesso con quella tradizione, che aveva tristemente perso di significato e la portava a ricordare momenti che non sarebbero mai più tornati, ma aveva sempre portato con sé un pacchetto di sigarette, ora disperse insieme al suo kit medico primario, da qualche parte la fuori insieme ai corpi dei suoi compagni. Quello era il risultato dei suoi tanti saccheggi, contenuto nelle tasche di un pastrano lungo che aveva portato via e che sembrava perfetto per essere utilizzato nel suo prossimo esperimento, che avrebbe per altro compreso della fanga puzzolente. Si alzò portando con sé la candela per accendere il tubicino di tabacco, la quale poi venne appoggiata su una sedia, mentre Nina prendeva posto sul materasso. Prese uno dei libri, convinta che intanto non avrebbe cavato un ragno dal buco, ma magari c’erano altre immagini con altre didascalie comprensibili e quindi valeva la pena provare.

Appoggiò per bene il capo sul cuscino, inspirando il fumo piano e chiudendo gli occhi stanchi. Dormiva a strappi, svegliandosi spesso all’improvviso con una brutta sensazione alla bocca dello stomaco. Le illusioni che si era creata da sola nella sua mente andavano dallo scalpitare degli zoccoli di cavalli immaginari a il crepitare delle pareti che venivano sradicate da un gigante. Nel primo caso si ritrovava delusa quando comprendeva che era solo un sogno e che ancora nessuno era arrivato, mentre nel secondo dopo esser rimasta paralizzata nel letto, sentiva un discreto sollievo.

Si sarebbero dovuti impegnare parecchio per buttar giù quella casa, sembrava un tutt’uno con la pieve.

Prese un piccolo respiro, lanciando uno sguardo alla candela e rimanendo un attimo incantata a fissarne la fiammella che danzava.

Era in quegli attimi di silenzio prima di dormire che la mancanza di Levi si faceva davvero sentire. Così tanto da sentire le lacrime pizzicarle i lati degli occhi, ma non avrebbe permesso a nessuna, nemmeno una, di scivolarle lungo la guancia. Le mancava parlargli, guardarlo…

Cazzo, le mancava anche litigarci e quando discutevano era un vero incubo. Per entrambi.

Lasciò il libro che teneva stretto al petto sul materasso, portando entrambe le mani a stropicciarsi gli occhi, mentre un mugolio basso nasceva dal fondo della sua gola, spargendosi nell’aeree statico. Ogni giorno le sembrava sempre più futile il motivo dell’ultimo litigio, così come la grande idea di lasciare la sua squadra per unirsi ad un’altra. Ci aveva fatto la figura della ragazzina – di nuovo –e non solo con lui, ma anche con Erwin.

“Questo non è decisamente il mio mese” mormorò a mezza bocca, allungando le braccia dietro al capo e tenendo la sigaretta fra le labbra, mentre pensava ancora a come doveva essere la situazione attuale a Trost. Non riusciva davvero ad immaginarsela. Chiuse un istante le palpebre, appoggiando il braccio sugli occhi così da coprirli, immaginando il moro steso sul letto della caserma, con lo sguardo fisso puntato sul soffitto, in una stanza buia e silenziosa.

Chissà se aveva piovuto anche in città, quella sera. Chissà se l’aria odorava di acqua e fogliame con quella della stanza in cui lei si ritrovava supina. La sola cosa di cui era certa, era che anche lui stava facendosi quelle domande. Perché lo conosceva e nonostante avesse dubitato un po’ nello sconforto dei primi giorni, la certezza che lui si stesse struggendo nell’impossibilità di fare qualcosa s’era fatta forte.

Lo conosceva e bastava.

Basta.

Prese un bel respiro, sentendo la cenere cadere di lato sul cuscino e abbassò il braccio, afferrando  poi il libro con decisione. Doveva tenere la mente impegnata, quei pensieri non le facevano bene.

Si sarebbe persa a pensarlo e si sarebbe addormentata con il cuore pesante.  Il giorno dopo aveva dei progetti, non poteva permettersi di essere assonnata o debole.

Fece per aprire il volume, ma non ci riuscì.

Aveva due dorsi e nessun punto in cui poterlo aprire.

Presa in contropiede, Nina fissò l’oggetto che a quel punto non poteva più dirsi un libro e si mise lentamente seduta, spegnendo il mozzicone sulle mattonelle della pavimentazione. Che scherzo era quello? Se lo passò fra le mani, battendoci il pugno sopra e costatando che dentro pareva cavo, per poi decidersi a tentare un esperimento. Sicuramente doveva contenere qualcosa e non si sa chi si doveva essere parecchio ingegnato per celarvi allo sguardo qualsivoglia segreto all’interno. Prese il coltello dal fodero nascosto nello stivale che giaceva a terra e incise una delle due parti, facendo attenzione a non rompere niente. Quando riuscì a tagliare dalla base alla cima vi scrutò dentro.

Rimosse integralmente uno dei due dorsi e nella sua mano cadde un libro più piccolo, ma dalla copertina intatta e preziosa.

Il titolo e il nome dell’autore erano scritti in lingua comune con raffinate lettere stampate in dorato e lei finalmente si ritrovò a leggere qualcosa che poteva capire senza dover ricorrere a bislacchi tentativi di trasposizione.

“Daniele Vita… Vitalevi” lesse lentamente, trovando il suono di quel nome buffo alle orecchie. Non aveva mai sentito niente del genere “Saggio sulla lingua Tedesca e la  nascita della fonetica della Comune, dalle origini alla fine del Secondo Orizzonte Libero.”

…. Oh.

“Cosa cavolo-tedesca?” Nina alzò sopracciglio, domandandosi dove fosse la Tedeschia e se magari fosse una zona interna alle mura con un dialetto proprio, se esistesse o se fosse un modo per chiamare la lingua di un luogo così come loro avevano sempre chiamato la loro ‘comune’. Ma poi… Secondo Orizzonte Libero? Libero da cosa?

Dai giganti. Libero dai giganti?

Le mani le tremarono mentre arrivava a comprendere che cosa poteva rappresentare quel testo per il mondo. Tra le mani aveva forse qualcosa di assolutamente inestimabile. Sentì la salivazione azzerarsi consapevole che quello che c’era scritto fra quelle pagine, forse, avrebbe svelato qualcosa sui giganti e sulla loro origine.

Forse sul mondo prima della loro venuta.

Forse avrebbe addirittura cambiato la sua vita per sempre.

Non era pronta per una cosa del genere, per il suo mondo che veniva sconvolto, ma prima ancora di accorgersene, stava già leggendo la seconda di copertina. Era una dedica.

‘Ben poche sono le cose a questo mondo senza le quali non possiamo vivere: l’ossigeno, l’acqua, il nutrimento e l’amore. Al mio unico e vero dedico questo mio modesto componimento, nella speranza che l’apprezzi. Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris. Nescio, sed fieri sentio et excrucior.’

“Carme 85 dal Liber di Gaio…” Quei nomi erano davvero complessi da pronunciare “Gaio Vale…Valerio? Catullo? Va bene questo è davvero assurdo.”

C’era da dire che quelle parole suonavano in modo molto simile ai nomi delle piante che aveva blandamente tradotto dal libro dell’erborista. La buona notizia era che c’era la traduzione sotto.

“Odio e amo” iniziò la giovane con tono incerto, incrociando le gambe incurvandosi in avanti così da permettere alla luce della candela di bagnare la pagina e mettere in risalto le parole “Forse ti chiederai per quale motivo io lo faccia? Non lo so, ma sento che accade e mi tormento.”

Doveva essere stata una storia d’amore molto tormentata quella dell’autore e questa D.A, le cui iniziali erano state scribacchiate a mano in basso alla copertina insieme a un’ulteriore dedica, stavolta personale.

Voltò nuovamente pagina e di nuovo, di lato a destra, c’erano segnate solo una manciata di righe.

‘Inoltre, vorrei ringraziare anche i miei buoni amici Theresa e Harold che mi sono stati vicini durante le fasi di elaborazione di questa nuova lingua. Il lavoro è stato complesso e a tratti quasi impossibile, ma l’essere circondato da così brillanti menti mi ha stimolato ad andare avanti.’

Nina si rese conto che ciò che stava leggendo era forse il primo manuale scritto in lingua Comune e che Daniele Vitalevi aveva appena detto di esserne lui il creatore. Nina non era una linguista, non ne sapeva molto di lettere e di studi filologici, ma era abbastanza sicura che una persona non potesse svegliarsi una mattina e, semplicemente, creare una lingua.

Parlata in un territorio così ampio, poi.

Doveva leggere tutto il manuale prima di poterne essere sicura.

Chiunque l’avesse custodito così segretamente era a conoscenza che non doveva essere trovato dalla Gendarmeria. Chissà quante cose avrebbe scoperto anche solo su degli studi linguistici.

Forse quell’esilio oltre le mura del Muro Rose non era altro che un segno della sorte.

Forse era destinata a ritrovarsi lì, raccolta in quell’istante.

Si apprestò a voltare pagina, leccando dell’indice per far presa sulla carta lucida, ritrovandosi a fissare qualcosa che non si aspettava ma che, in fin dei conti, le aveva appena spalancato le porte del mondo.

Un sillabario dal tedesco alla lingua comune e, nella pagina accanto, un titolo pragmatico.

L’inizio delle guerre Germanico-Iberiche, la creazione degli stati liberi Franchi e l’adesione all’Impero Tedesco dei territori dell’Antico Ducato d’Italia.

 

 

 

Be careful making wishes in the dark
Can't be sure when they've hit their mark
And besides in the meantime I'm just dreaming of tearing you apart
I'm in the details with the devil

 

 

 

Anno 844

                                                   Il ghetto nella Città Sotterranea e l’arrivo dell’inverno nella Capitale.

 

 

La prima volta che Nina era scesa nel ghetto, si era chiesta come fosse possibile per il Re dormire serenamente la notte, consapevole che non occorreva morire per arrivare all’Inferno; bastava scendere una ripida scalinata verso un abisso senza colore.

Aveva solo successivamente compreso quanto ingenuo fosse quel pensiero. Cosa poteva mai importare al Re degli esuli della Città Sotterranea, che si ergeva instabile su fondamenta di lerciume e malattia?

L’aria era irrespirabile, in alcune zone. In altre sembrava andare un po’ meglio, ma l’assenza di luce era opprimente in ogni angolo.

In quel luogo i bambini nascevano, crescevano e morivano troppo presto, senza avere mai la possibilità di sentire il calore del sole sulle guance o la pioggia battente a bagnare i loro capelli.

Levi l’aveva portata un po’ in giro, fra le stradine che si snodavano in un dedalo di viuzze sconnesse simili a un labirinto, lanciandole dritte di ogni tipo su come campare in un posto del genere; in particolare continuava ad addestrarla alla lotta corpo a corpo.

Non le aveva risparmiato nulla, nemmeno quelle otto serie da venti addominali la sera precedente – che facevano ancora gridare i suoi muscoli resi deboli dalla convalescenza a letto di qualche settimana prima- però non sembrava voler calcare troppo la mano.

Non la voleva mettere in pericolo. Forse.

“Ricordi come arrivare alla piazza del pozzo?” le chiese Levi stufo, frugando nella saccoccia di cuoio di Nina per prendere qualcosa dal fondo. Se n’era rimasto sempre alle sue spalle, fin dal primo minuto in quel posto impresso in modo indelebile nella sua memoria, attendendo che lo seguisse affrettando il passo. Non era saggio indugiare troppo in quella zona che, anche quando là sotto lui ci viveva, non era mai stata parte del suo territorio di controllo. Peccato che lei non paresse aver compreso l’impellenza di camminare con una certa premura.

La giovane, che s’era chinata su un pover’uomo semi incosciente, steso sulla pavimentazione fredda, l’aveva a mala pena sentito “Quella vicina al luogo in cui ci siamo fermati l’ultima volta?” aveva di fatto domandato mentre armeggiava con la sacchetta che piccola che le pendeva dal fianco, contenente tutto il necessario per il primo soccorso. Per natura, un medico non può passare per quelle strade senza fermarsi e Nina non faceva eccezione. Non avrebbe negato un aiuto a chiunque ne avesse necessitato, anche a costo di fare cinque passi all’ora.

Levi non sembrava dalla stessa opinione però. “Esatto.” rispose sbrigativo, sempre frugando con foga.

La dottoressa  ci pensò su, usando la sola mano libera per allentare le bende che si snodavano lungo l’arto del vagabondo per controllare lo stato della gamba. Un tanfo di marcio le fece intendere che, a pensar male si pensa sempre bene, soprattutto in un luogo del genere. Si passò il dorso della mano sotto al naso due o tre volte, cercando di discernere gli odori cattivi della città da quelli della carne malata.

“Almeno mi pare” aggiunse infine, senza guardare il compagno che l’accompagnava “Sempre a nord, o sbaglio?”

Aveva in mente quel posto, però non era poi così certa di poterci arrivare. Quella era solo la seconda volta che aveva la fortuna di camminare per quelle strade virtualmente inaccessibili alle persone della superficie. Ora capiva anche il motivo per cui nessuno scendeva mai la sotto di sua iniziativa e perché i gendarmi facessero così tante storie quando venivano stanziati nel ghetto; la situazione era tragica oltre ogni logica.

Levi fece un passo indietro, guardandosi attorno prima di parlare nuovamente, lapidario “Brava. Ci vediamo là.”

Lanciò ai piedi della bionda un coltello, prima di prendere la sacca e sparire nel nulla. Nina alzò gli occhi stupefatta dal paziente per cercarlo, ma nemmeno una manciata di secondi dopo quell’assurda provocazione  di lui non  vi era più traccia.

“Mi prende in giro” disse a se stessa, finendo di assicurare i bendaggi e alzandosi in piedi col coltello in mano. Prese quindi a guardandosi attorno, un po’ tentennante “Sicuramente ora uscirà dicendomi che è uno scherzo di pessimo gusto” proseguì ancora, mentre gli occhi saettavano su ogni punto cieco e angolo di strada che la  circondavano.

C’erano delle persone, un gruppetto di bambini dall’aria poco raccomandabile nonostante l’età e qualche altro corpo steso a terra con magari un alito di vita in corpo. Ma di Levi, però, non era rimasto nemmeno il profumo.

“Lo odio così tanto.”

 

Stava girando in tondo.

Ormai si era arresa a quella scomoda verità, soprattutto dopo aver visto per la quarta volta la stessa precaria tenda verde marcio usata a mo’ di porta, in una vecchia catapecchia dall’aria instabile.

Perdersi non era in programma, in particolare in un luogo così pericoloso, ma lei non si lasciò prendere dallo sconforto; non sarebbe stato sedendosi in un angolino che avrebbe ritrovato la via. Di chiedere in giro non vi era la possibilità. Anche se avesse incontrato qualcuno di bene intenzionato – c’erano anche persone normali là sotto, grazie al Cielo- non ne si sarebbe sentita compiaciuta nel trovare un riscontro da qualcun altro. Sapeva che poteva farcela da sola a trovare quella piazza, era lì da qualche parte e se solo avesse avuto l’attrezzatura, salendo su uno dei tetti, l’avrebbe senza dubbio raggiunta in un battito di ciglia.

Sistemò una ciocca di capelli sfuggita al concio senza abbassare il cappuccio del mantello nero, prima di tornare sui suoi passi, decidendo di voltare a destra ad un bivio. Camminò a capo diritto, lasciando che il cappuccio potesse celarle il viso ma non lo sguardo determinato, riconoscendo una bottega che aveva notato con Levi quasi una settimana prima. Girò attorno al modesto stabile, scendendo una scalinata composta da lunghi gradini bassi e scomodi, arrivando alla fine a destinazione dopo aver girato un angolo cieco.

Di fronte a lei si ergeva una piccola corte con case a più piani, disposte a ferro di cavallo che attorniavano un pozzo. Le facciate, che sembravano essere state costruite con un disegno geometrico rettangolare preciso, si alternavano da un piano all’altro in un armonioso gioco, e anche i tetti rossi sembravano quasi essere fuori posto.

Un luogo così bello, seppur così in rovina, nella Città Sotterranea.

Nina si guardò attorno, notando le scalinate che conducevano alle case sopraelevate e spiando un po’ tutto attorno. Levi non sembrava esserci, ma quello era senza ombra di dubbio il posto giusto. Si appoggiò con i fianchi al polso, tirando le braccia sotto alla mantella nera per incrociarle sul petto. Rimase ferma, in attesa, osservando attorno a sé il silenzio e il buio di quel luogo.

Alzando gli occhi verso l’alto non vide niente, se non le rientranze degli speroni rocciosi e della cupola di terra. Che vi fosse il sole o la luna, non faceva differenza; si sentiva come cullata da una notte perenne, il cui silenzio feriva le orecchie, mentre gli occhi si facevano pesanti.

Soffocò uno sbadiglio, rizzandosi con le spalle quando avvertì dei rumori. Delle risa, per lo più, seguite da imprecazioni colorite e voci concitate.

Nel giro di pochi minuti, man mano che il tono cresceva, Nina poteva benissimo comprendere che non sarebbe rimasta sola ancora a lungo. Sfilò il coltello dalla cintola, stringendolo bene l’impugnatura con le dita sottili, ma per il resto non si mosse di un centimetro. Non voleva dare nell’occhio.

Sei uomini entrarono nella corte, sicuramente ebbri di vino. Non parvero notarla all’inizio, tanto che un paio di loro si erano già apprestati a salire le scalinate di quello che, a giudicare dai tendaggi rossi e dalle voci che provenivano dalle finestre aperte, doveva essere un bordello. Fu un ometto basso, più di Levi probabilmente, che la vide. Si fermò, assottigliando lo sguardo come per metterla bene a fuoco, prima di tirare una gomitata al suo degno compare, un uomo ben piazzato e col viso schiacciato coperto di cicatrici.

“Guarda, Chuck. Abbiamo ospiti.”

Bene. Molto bene.

Il tono ostile non era stato minimamente celato, tanto che il resto della compagnia aveva arrestato la marcia verso il luogo del piacere per potersi voltare nella sua direzione. Mentre la schernivano, chiamandola ‘ragazzo’ e domandandole perché si trovasse lì, Nina si fece un appunto mentale. Sei uomini ubriachi non dovevano essere poi così difficili da buttar giù. Levi sosteneva che il suo addestramento era ancora alla fase iniziale, ma Nina l’aveva sentito il cambiamento. Si sentiva più in forze, sapeva che tutte quelle corse e quei pugni dati all’aria dovevano essere serviti a qualcosa.

Guardò l’ometto avvicinarsi baldanzoso, sicura che presto l’avrebbe verificato. “Allora, ragazzo? Non conosci le buone maniere?” le disse ancora, facendo ridacchiare come ebeti un paio dei suoi amici, mentre quello che apriva il gruppo e che forse ne era il capo la guardava con annoiato disinteresse “Sei molto lontano da casa, ragazzo. Dobbiamo insegnarti un po’ di educazione?”

Nina staccò i fianchi dal pozzo, portando le mani al cappuccio per calarlo. La reazione dei suoi avversari non tardò ad arrivare, in particolare di colui che la stava provocando. Egli infatti non mascherò per niente l’ilarità “Ma cosa abbiamo qui? Che bel visetto! Scommetto  che costi cara.”

“Ti sembro una che lavora nel bordello?” chiese lei con tono leggerlo, alzando un sopracciglio leggermente divertita “Dispiaciuta di deludere tale aspettativa. Va detto, però, che sino a che è la bellezza della donna a piazzare il prezzo a uno come te va bene. Se dipendesse dalla bruttezza dell’uomo, anche la più brutta delle puttane sarebbe comunque troppo cara per te.”

Più di una risata si levò nell’aria densa, mentre l’ometto stringeva i denti, non più divertito ma ora offeso nell’orgoglio “Troia” mugolò, prendendo un coltellaccio dalla cintola e puntandoglielo contro “Adesso ti taglio quella lingua.”

Lei lo lasciò avvicinare. Non attaccare mai per prima, studia il nemico, le aveva detto Levi. Devi sempre guardarli negli occhi, quei maiali.

A dispetto di ogni aspettativa, quella tattica parve funzionare. Una stilla gelida percorse le iridi eterocrome della giovane e l’uomo parve indugiare, come colto da un’improvvisa indecisione.

“Cosa di prende Piex? Hai paura di una ragazzina?” lo spronò quel suo amico, battendosi una mano sulla coscia. “Codardo!”

Nina lo aspettò, perché sapeva che un uomo con l’orgoglio virile ferito avrebbe compiuto qualche passo in fallo. Infatti, non appena lui le si buttò contro, lei non perse nemmeno un attimo. Ruotò i fianchi per schivare il coltello e, alzando una gamba, colpì l’ometto con una ginocchiata in pieno viso, sporto in avanti nel momento in cui lui si era stupidamente sbilanciato. Cadde, perdendo l’arma e conducendo una mano al naso che ora perdeva sangue. Nina lo scavalcò, andando verso gli uomini “Signori” disse con tatto alzando una mano, quella libera dal suo coltello, oltre il bordo della mantella nera lunga “Non c’è motivo per finire tutti con la faccia nella terra” proseguì sicura, guardandoli uno ad uno “Sono certa che questa incresciosa situazione si possa risolvere con-”

Non riuscì a finire perché fu il turno dell’uomo piazzato di lanciarsi su di lei, forse per vendicare l’onta subita dall’amico. Anche lui finì a gambe all’aria per lo stesso errore. Si era sbilanciato così tanto che Nina non aveva nemmeno avuto bisogno di alzare una gamba: con una gomitata fra capo e  collo l’aveva spedito a farsi un pisolino. Poi la attaccarono in coppia e lei – che nemmeno sapeva come aveva fatto, riuscì a evitare anche le loro armi, spazzando via i loro piedi dopo essersi appoggiata con una mano a terra. Un calcio in viso a testa li aveva resi inoffensivi. Il quinto uomo non parve volersi muovere dalla sua posizione ritta accanto al capo, il quale invece scese i gradini fronteggiandola. Nelle iridi praticamente nere dell’uomo Nina lesse qualcosa. Non sarebbe stato semplice come gli altri. Per questo fece uscire la mano da sotto la stoffa nera, mostrando la lama lucida.

Non aveva ancora avuto l’occasione di provare a usare un’arma da taglio, mentre invece le mani le aveva già menate un paio di volte.

Levi però le aveva spiegato bene come muoversi anche in quella circostanza e l’aveva fatto la prima volta che l’aveva portata nel ghetto.

La lama è un prolungamento del tuo braccio, aveva spiegato con pazienza, mostrandole come impugnarla in modo che il filo da taglio rimanesse esterno al suo corpo, con la punta rivolta verso la giovane che l’aveva quindi impugnato a rovescio. Ricorda che se decidi di attaccare per prima per necessità, non devi guardare il tuo coltello, ma quello del tuo avversario. Il tuo devi sentirlo parte di te, come se invece di un oggetto, tu fossi in procinto di attaccare con le unghie. Pensa sempre molto bene prima di farlo, però. Portare via la vita di un uomo non è come farlo con un gigante; starà poi a te dormirci la notte.

Nina non voleva uccidere proprio nessuno, se mai difendersi.

Attese quindi di vedere mostrate le intenzioni del capo, ma a rovinare tutto ci pensò quell’insulto ometto. Nina si sentì incredibilmente stupida quando la afferrò per le spalle, puntandole il coltellaccio alla gola. Si era già ritrovata in quella situazione e non le era piaciuto la prima volta. La seconda non fu comunque da meno.

“Lascia il coltello. Ora!”

Non se lo fece ripetere, aprendo le dita e lasciando cadere l’arma sul terreno.

Capiterà ancora che tu venga minacciata. Il segreto è mantenere la calma, non mostrare la tua debolezza. Aspetta l’occasione giusta.

Il fiato corto le si stabilizzò, così come il viso. Stese le labbra in un piccolo sorriso,  prima di parlare “Attaccare alle spalle è proprio da codardi” iniziò con tono soffice, inclinando di lato il collo e cercando di capire come uscirne “Non che mi aspetti altro da uno come te.”

“Stai zitta!” le strillò Piex nelle orecchie, graffiandole la pelle delicata del collo con la punta del coltello. Nina deglutì, ma si mantenne fredda, cercando di capire quando sarebbe stato davvero il momento giusto. “Ti aprirò la gola da un orecchio all’altro e così imparerai a portare rispetto.”

“Deve esserci poca gente a rispettarti se è questo il metodo.”

“Cosa hai detto!?”

Ora. Nina portò una mano sul suo stesso collo per difenderlo, mentre con l’altra assestava all’uomo un bel cazzotto in mezzo agli occhi. Un altro che s’era alzato la afferrò le la camicia strappandola sul fianco nel tentativo di tenerla a sé, ma Nina l’aveva già colpito con un calcio in pieno viso.

Seppur circondata dagli altri quattro, era libera. Ruotò su se stessa per guardarlo, mentre estraevano le armi e commentavano volgari il modo in cui si sarebbero divertiti con lei prima di ucciderla.

Quattro erano un po’ troppi, ecco. Uno alla volta poteva provare a gestirlo, soprattutto se così incompetente, ma quattro…

La sicurezza le venne meno, ma la vera sciocchezza fu scordarsi che non era sola.

Oi, stronzi.” La voce di Levi li investì con la sua pacatezza, ma mentre Nina lo guardava rassicurata, gli uomini sbiancarono. Anche il capo del branco, che fino a quel momento s’era dimostrato altero e fiero, vacillò. “Pensate di levare le tende o devo spaccarvi la testa uno ad uno?”

Piex alzò il capo da terra, sgranando gli occhi fin quasi a rischiare di perderli. Poi, lentamente, alzò un braccio e puntò l’indice verso Levi, che lo fissava freddo come il ghiaccio “Il Demone” sussurrò con tono tremolante, “Il Demone è tornato!” gridò infine, mentre i suoi amici si sbrigavano a correre via. Venne aiutato da Chuck e insieme a lui sparì sotto all’arcata di accesso alla corte, più veloci del pronunciare la parola ‘codardi’.

“Per davvero? Demone?” Nina raccolse il coltello, andandogli incontro, e sistemandolo nella cinta “Hai una bella reputazione, devo ammettere.”

“Era un po’ che nessuno mi chiamava così” rispose lui, apparentemente senza emozioni particolari in merito, scostandole il mantello da davanti per  guardare che non fosse ferita. Passò anche le dita sulla pelle esposta del fianco, laddove si era strappata la camicia, facendola rabbrividire “Sei stata imbarazzante.”

La bionda tornò in sé, cercando di dimenticare quella carezza “Perdonami?” chiese con tono perplesso “Sono stata bravissima” si disse infine da sola, sistemandosi di nuovo il cappuccio e seguendolo “Non hai visto come li ho atterrati?”

“Hai permesso a quel patetico scherzo della natura di afferrarti alle spalle. Mi aspetto molto di più da te.”

Nina si morse la lingua, consapevole che Levi aveva ragione. Appoggiò una mano sul fianco, chinandosi alla sua altezza per spiarlo “Ammetterai però che sono migliorata” gli disse cauta, giusto per non calcare la mano “Una cosa del genere non me la sarei mai sognata fino a qualche mese fa.”

“Non ho intenzione di gratificarti fino a che non farai tutto come si deve” le spense l’entusiasmo Levi, prima però di sospirare “E comunque” proseguì quindi “Anche un idiota sarebbe migliorato arrivati a questo punto.”

Lei gli sorrise, tornando a mettersi diritta. Scelse di smettere di insistere “Cosa facciamo, ora?”

L’uomo si guardò attorno, come indeciso. Lei lo percepì, infatti parlò di nuovo “Questo posto è speciale? Mi ci hai portata anche l’altra volta.”

Lui parve un po’ riottoso all’inizio, ma poi con un cenno del mento indicò una delle case “Ho vissuto qui tutta la mia vita” le fece sapere, stupendola con dei dettagli sul suo passato. Solitamente lui non raccontava niente “Era la casa di mia madre, poi mia e di Farlan.”

Lei guardò quella porta intensamente, come se cercasse la risposta alle mille domande che giravano attorno alla figura misteriosa di Levi “Deve essere stata dura” disse infine, “Crescere in un luogo del genere, pieno di farabutti e puttane.”

Per un istante, Nina notò un’ombra attraversare il volto dell’uomo “Sei così superficiale” le disse tagliente, facendole incassare il capo fra le spalle per il tono che aveva usato “Per voi della superficie è facile: vedete questo posto e pensate di conoscerne gli abitanti. Ti rivelerò un segreto, Nina, quindi ascolta molto bene perché potresti anche imparare qualcosa” fece un passo verso di lei, fronteggiandola nonostante i quindici centimetri che la elevavano rispetto a lui. Nonostante ciò, Nina si sentiva microscopica sotto quello sguardo freddo “Qui sotto sarà tutta merda e puttane, come dici tu, ma almeno lo puoi vedere. Hai tutto sotto al naso e sai cosa ti aspetta. Lassù, invece, i ladri e le troie vanno in giro vestiti di tutto punto, acclamati e amati, mentre il popolo muore di fame, di pestilenza e di stenti. Preferisco mille volte un mondo sincero ma che puzza di fogna, di uno che è imbellettato ma marcio fino alle fondamenta.” Non staccò gli occhi dal viso lentigginoso della giovane per tutta la sfuriata soffiata a un palmo dal naso, prima di socchiudere ancor di più gli occhi, girandole attorno “Andiamo adesso, inizia a farsi tardi e dobbiamo arrivare per cena.”

Lei non gli permise di allontanarsi. Lo trattenne per un polso, abbassando il capo e lasciando che il cappuccio le nascondesse il viso pentito.

“Perdonami” sussurrò con tono piccolo, come una bambina. Lui non si mosse dal suo fianco “Sono stata una stupida, non intendevo offenderti, ma so di averlo fatto. Non so niente di questo posto, quindi scusami.”

Levi chiuse un attimo gli occhi.

Le abbassò il cappuccio, accarezzandole i capelli sul capo “Sei una cretina” disse spicciolo, mentre lei lo guardava con i grandi occhi scintillanti piegati dal pentimento “Ora smettila e andiamo.”

Dannata ragazzina.

 

Ad aspettarli in cima alla quarta scala che conduceva fuori dal ghetto non c’era il sole al tramonto, ma una pioggia battente.

Arrivarono a casa bagnati fradici, tanto che Jara ironizzò chiedendo se avevano deciso di farsi una nuotata nel pomeriggio. Erano stati spinti quasi a forza nella toletta dalla ragazza corpulenta, che aveva piazzato nelle loro mani tutto l’occorrente per asciugarsi mentre preparava un bagno caldo.

Levi era stato così galante da far andare Nina per prima, soprattutto in virtù del fatto che aveva già preso a starnutire.

Lui sconfisse il freddo di metà ottobre sedendosi sul bordo del camino del soggiorno, avvolto in una coperta spessa di lana, in attesa del suo turno.

Alla fine, Nina ci aveva messo così tanto che si erano ritrovati a dover cenare prima ancora di permettere al soldato di lavarsi. Lei si era scusata, mentre Franz continuava a ripetere che non cambiava proprio mai. Quella parentesi però permise a Jara di cambiare l’acqua, sostituendola con dell’altra più calda.

Quando aveva potuto trovare ristoro nell’acqua calda e profumata di sapone, Levi era rinato. Si era concesso qualche minuto in silenzio, con la nuca appoggiata sul bordo di ceramica della vasca dai piedi leonini e gli occhi chiusi. Aveva ascoltato la voce della figlia del dottore chiamare il fratello, la risposta seccata di Fritz e i passi frettolosi per la stanza. Così come anche Levi, pure il ragazzo era di partenza. Sarebbero usciti la mattina successiva insieme alla volta del nord. Mentre Levi aveva da assolvere qualche incombenza per conto di Erwin e del Comandante nei distretti del Muro Rose e del Muro Maria, Fritz aveva trovato la sua collocazione definitiva nel distretto di Nedlay.

Inutile dire che lui si era ritrovato sconfortato alla notizia, mentre Nina aveva scritto furiosa a Erwin, che doveva essersi scordato di raccomandarlo. Levi, d’altro canto, non sapeva perché si sentiva quasi sollevato all’idea di non averlo attorno a sé a Trost. Rifiutandosi di credere che fosse geloso, aveva attribuito quel sentimento al fatto che Fritz, per quanto così accomodante, non gli piaceva un gran che. Non sembrava figlio di suo padre, alle volte lo trovava insulso, così succube.

Era definitivamente geloso, anche se piuttosto che dimostrarlo, si sarebbe annegato da solo in quello stesso momento.

Attese fino a che l’acqua si fu fatta anche troppo fredda, prima di avvolgersi in un asciugamano, uscendo dalla toletta per dirigersi nella mansarda in cui dormiva, ma solo dopo aver sfiatato la vasca che riversò l’acqua lentamente in una canaletta di scolo che portava all’esterno.

Quando arrivò nella sua stanza, dopo aver salito almeno una ventina di ripidi gradini, non la trovò vuota. Con il naso ficcato in un libro spesso come la sua testa, c’era Nina. Se ne stava stesa sul letto, a pancia sotto, con il tono enorme appoggiato a un cuscino. Gli lanciò una veloce occhiata quando lo vide entrare, ma non disse nulla, limitandosi a inumidirsi il pollice con la lingua per poi appoggiarlo sull’angolo della pagina.

“Che ci fai qui?” domandò lui.

Nina voltò pagina “Sono in fermento per la partenza di Fritz, di sotto” rispose, interrompendosi a causa di uno sbadiglio “Ho bisogno di silenzio per studiare e dove posso trovarne se non qui?”

La studiò, lasciando scivolare lo sguardo lungo il suo profilo, fino alle spalle coperte da una pesante sciarpa verde e al vestito da casa grigio che la copriva fino alle caviglie, cadendole addosso senza una forma precisa. Poteva nuotarci dentro a quell’ammasso di stoffa.

Nina gli faceva un po’ pena, con gli occhi a mezz’asta per la stanchezza che pretendevano di rimanere concentrati. Era distrutta. “Dovresti dormire” le disse, notando che fra le dita reggeva un rametto di lavanda secca che, di tanto in tanto, accostava al naso.

“Non posso” fu la risposta della ragazza “Se non finisco almeno questa parte entro dopodomani, non andrà molto bene all’esame di chirurgia.”

Il moro non replicò oltre. Si sfilò l’asciugamano da attorno alla vita, appoggiandolo contro la testiera del letto per farlo asciugare. Nonostante la totale nudità non parve essere a disagio, così come Nina non si fece poi molti scrupoli a guardarlo. Quando i loro occhi però si incontrarono, entrambi ripresero a fare ciò che dovevano. Lei girò nuovamente la pagina, vagamente soddisfatta, mentre lui iniziava a vestirsi con i capi comodi che usava per dormire. Si sedette sul letto, sfregandosi bene i capelli e solo allora, mentre teneva le braccia sollevate al capo, Nina notò qualcosa.

“Perché hai un braccio bendato?” Lui parve irrigidirsi appena e subito si sbrigò ad abbassare la manica della maglia nera. Lei però fu più veloce e dopo essersi messa seduta, lo prese per il polso “Ti sei ferito oggi?” chiese stranita, tirandolo verso di sé così che potesse voltarsi verso di lei.

Levi non strappò via il braccio dalla sua presa, però le prese a sua volta il polso, per far sì che lei lo lasciasse “No” rispose senza particolare interesse, permettendole di stringergli piano la mano quando le abbassarono sul materasso “Questo è una sorta di…. Non saprei come definirlo. Diciamo che è una cosa di famiglia.”

Nina piegò di lato il capo. “Come un marchio?” domandò e lui annuì lieve. “Deve essere una cosa segreta se lo tieni coperto con una benda.”

“Lo è.”

“Quindi non posso vederlo?”

“No.”

Nina gli lasciò la mano, tornando a buttarsi stesa sul letto, incassandosi fra i tanti cuscini che Jara aveva lì posizionato quando aveva preparato la stanza al loro ospite. Lui lo sapeva benissimo quando la biondina poteva essere curiosa e nonostante ciò non si curava minimamente della cosa. Forse ci godeva addirittura nel darle informazioni scarne a mezza bocca circa il suo passato.

“Mi chiedo se un giorno potrò dirti di conoscerti, Levi e basta.”

Lui parve quasi divertito dall’affermazione, poiché un lato delle sue labbra si incurvò appena verso l’alto “Cosa c’è che vorresti sapere?”

Recuperò il libro, Nina, prima di mettersi a pensare a una domanda diretta che non gli desse motivo per svicolare il discorso come era solito fare.

C’era così tanto che voleva sapere, a partire dal suo cognome o da che fine avesse atto la sua famiglia.

“Perché ti sei proposto volontario per andare a Briemer?” chiese infine, postando tre cuscini dietro alla schiena per starsene sollevata.

Intanto, il moro aveva preso a sistemare una sacca per il viaggio. Infilò al suo interno qualche vestito e dei grossi calzettoni di lana che avevano comprato un paio di giorni prima al mercato. A Briemer a fine ottobre faceva già più freddo che a Trost in pieno inverno.

“Perché Erwin mi ha detto che questo tipo di ordini diretti vanno portati in fretta” fu la risposta tattica dell’uomo.

Nina lo guardò con un sopracciglio alzato, “Come no” rispose sardonica, aprendo il libro e guardando il disegno della sezione anatomica di un polmone, prima di proseguire “Nessuno va a Briemer per fare un favore a qualcun altro. Nemmeno tu. Quel posto dicono sia virtualmente impossibile da raggiungere, soprattutto in inverno. Mi stai davvero dicendo che preferisci rischiare di rimanere bloccato la per mesi solo perché vuoi portare le rassegnazioni di Shadis al Capitano Schimdt?”

“Non credi che lo farei?”

“Non lo faresti mai, Levi.”

L’uomo le lanciò un’occhiataccia, chiudendo la sacca e appoggiandola a terra. Girò quindi attorno al letto, iniziando a sistemare con precisione le cinghie dell’attrezzatura sul baule ai piedi del materasso, “Sei fastidiosa come una talpa che prova a spiantare una rapa.”

Nina rise, sedendosi con le gambe incrociate mentre lo guardava impegnato in quel lavoro certosino.

“Mai pensato di scrivere poesie?” lui non si degnò di replicare quell’ennesima provocazione, così lei si sporse in avanti, appoggiandosi con i gomiti proprio laddove il materasso terminava. Gli sorrise un po’ civettuola “Ti prego” pigolò “Dimmi perché sei così interessato a Briemer. Lo so che hai fatto delle domande al dottor Meier su quel posto. L’abbiamo capito tutti  che hai interessi là.”

Messo con le spalle al muro e certo che non se la sarebbe cavata semplicemente mandandola al diavolo, Levi appoggiò le mani sulle gambe. Rimase inginocchiato accanto al baule, mentre con il tono più acido che riusciva ad avere sputava una sola frase.

“Sto cercando una donna e un bambino.”

Forse fu il modo vagamente allusivo o forse solo lo sguardo che le riservò, ma Nina perse del tutto il sorriso e anche un po’ di colore sulle guance. Levi non seppe dire se l’ombra che le passò nello sguardo fosse solo un po’ di rabbia, ma non disse altro. Tornò a sedersi contro i cuscini e riaprì il libro, immergendosi nella lettura.

L’aveva combinata grossa.

Con un sospiro rumoroso che parve più un ringhio, Levi si alzò in piedi e andò verso la piccola scrivania incastonata sotto al lucernaio della mansarda. Almeno aveva smesso di fare domande.

Prese posto sulla sedia e prese a visionare la documentazione che Erwin aveva spedito qualche giorno prima da Trost. Un po’ di roba andava lasciata a Nedlay, ma il grosso – comprese una sorta di norme comportamentali strane che Levi non indagò oltre- doveva arrivare direttamente al distretto più a Nord delle Mura Maria. Lesse sbrigativo qualche passo, per lo più c’erano le rassegnazioni alle squadra e l’approvazione o meno di richieste. Levi era rimasto un po’ sorpreso quando erano arrivate anche le loro, di rassegnazioni. Erwin lo aveva preteso nella sua squadra, la centrale di comando dell’avanguardia. Nina invece era finita nelle retrovie, nella squadra di Hanji, visto che il Caposquadra Ness avrebbe preso come di ruotine le reclute dell’anno, alternandosi a Thoma.

Erano ai lati opposti della formazione, il che era strano visto che sembrava che il Capitano Smith avrebbe chiesto di avere la sorella con sé, una volta slegata dal primo gruppo di difesa carri. Invece era finita con un paio di amici nella squadra dei ‘matti’ della Zoë.

Forse perché era il gruppo che maggiormente si avvicinava ad una unità medica e scientifica.

Levi si alzò nuovamente, andando a ficcare tutti quei fogli nella sacca. Una volta al letto, Nina gli parlò nuovamente.

“Dovresti tenere i permessi per passare le porte in cima o a Nedlay dovrai perdere parecchio tempo.”

Levi notò che, in primo luogo, era davvero arrabbiata. Aveva usato un tono piatto e dimesso e non l’aveva guardato manco per sbaglio, rifiutandosi di staccare le iridi eterocrome dalle pagine. Secondariamente, aveva parlato di qualcosa che lui non possedeva affatto.

“Permessi?”

“Sì. I fogli firmati da Erwin o da Shadis che ti permettono di spostarti delle terre di Sina verso il nord” non ricevendo risposta, Nina alzò lo sguardo sul volto di Levi. E capì “Erwin si è dimenticato di farti i permessi, vero?”

Quello era un bel problema.

La memoria di suo fratello ogni tanto perdeva dei punti. Oppure sapeva che sua sorella avrebbe rimediato ogni cazzata fatta, anche a livello burocratico.

“Dovrai rimandare la partenza” snocciolò però la bionda, tornando ai suoi studi.

Lui non smise di fissarla “Oppure?”

“Oppure cosa?”

Il moro si stizzì, “Senti, cretina, o hai una soluzione per questa stronzata che il tuo amato fratello ha fatto, oppure ti mando a Trost a calci in culo per farmi fare i permessi.”

“Guarda che tu non sei nessuno” rilanciò subito lei, a sua volta irritata, guardandolo negli occhi “Io sono un tuo ufficiale superiore, soldato semplice Levi e basta.” Il moro incrociò  le braccia sul petto, senza smettere di aspettare la soluzione a quel casino. Alla fine, Nina cedette. Si mise seduta, chiudendo il libro dopo aver appoggiato fra le pagine il rametto di lavanda “Prendi fogli e calamaio.”

Le porse quanto richiesto, sedendosi sul letto per reggere la boccetta di inchiostro, mentre lei appoggiava le pagine immacolate sulla copertina del libro. La guardò intingere la punta del pennino dentro all’inchiostro nero, attenta a non macchiare le coperte “Non credevo che tu avessi l’autorità per autorizzarmi ad andare a nord.”

“Infatti non ce l’ho” rispose Nina, ora attenta e concentrata sulla scrittura.

Lei rimase di sasso a quelle parole “Quindi cosa pensi di fare? Sei inutile.”

“Stai zitto?”

Per circa dieci minuti nella stanza non volò una mosca. Nina scrisse, inclinando di lato il capo quando terminò e si perse a leggere da capo tutto. Alla fine lasciò una firma svolazzante in fondo e portò il foglio al viso, soffiando piano sull’inchiostro per farlo asciugare più in fretta. Quando lo passò a Levi, questi rimase senza parole.

Non era possibile dimostrare che quello era un falso  in mezzo a tutte le carte che Erwin gli aveva fornito. La scrittura era pressoché identica e anche la firma pareva autentica.

“Hai falsificato la firma di tuo fratello?” chiese quindi, controllando che l’inchiostro fosse asciutto per poi piegare in quattro il foglio e ficcarlo nella tasca della giacca beige d’ordinanza.

“Lo faccio sempre” gli rispose lei con tono non curante, grattandosi il mento che sporcò di nero. Doveva esserle rimasta un po’ di china sulle dita e lei non parve accorgersene “Erwin ha tanto per la testa e per quanto sia zelante, capita spesso che dimentichi qualcosa. Diciamo che ho un’autorizzazione ufficiosa a compilare qualche modulo se lui ha dato il suo consenso.”

“Come hai imparato a farlo?”

Ora era lui a fare delle domande e lei per un attimo penso che, per giustizia, avrebbe dovuto non rispondere affatto. Alla fine, però, decise di lasciar stare. Lo guardò tornare verso la scrivania, dove iniziò a sua volta a scrivere qualcosa “Non lo so” fu la risposta sincera della bionda, mentre passava le dita sul dorso del tomo di medicina, guardandone la copertina di pelle color terra bruciata “Fin da quando sono piccola ho sempre avuto una buona memoria; mi basta leggere una cosa o sentire una canzone per non dimenticarla mai. Vale anche per le strade, per le poesie e per i nomi. Se vedo il volto di un uomo anche una sola volta, allora lo riconoscerò in mezzo a cento. Così come il tuo braccio, anche la mia famiglia ha un marchio, che però non è visibile.”

Il moro si ricordò di una frase detta della bionda “I Müller non dimenticano” citò, senza smettere di scrivere.

“Allora ogni tanto mi ascolti.”

La conversazione cadde lì, poiché Levi era troppo impegnato per continuare il circolo vizioso di provocazioni che sarebbe nato in breve tempo. Al contrario di Nina non era molto bravo a scrivere lettere e rapporti, quindi doveva concentrarsi e prestare attenzione. La persona che aveva insegnato a leggere e a scrivere a Levi non era di certo erudita, quindi nemmeno lui vantava un gran repertorio lessicale, anche se aveva sempre letto in un modo o nell’altro, quando riusciva a procurarsi dei libri nella Città Sotterranea.

Ci provò a concentrarsi, ma sentiva che c’era qualcosa di irrisolto. Sbuffò, scocciato dal fatto che Nina si fosse offesa prima. Oppure non voleva lasciarla in una tale incertezza alla vigilia di una partenza? Levi non sapeva dirlo.

Si appoggiò con la schiena alla sedia, portando una mano agli occhi che la debole luce della candela stava stancando. Alla fine si decise a rompere il silenzio, giusto per dar pace a se stesso.

Non lo stava facendo per lei, nella sua ottica.

O almeno di questo si stava convincendo.

“La donna si chiama Gretha” iniziò quasi con titubanza, appoggiando il pennino nella boccetta “Mentre il bambino è-”

Non serviva terminare la frase, perché Nina s’era addormentata. Il libro appoggiato al petto, con le mani incrociate su di esso e l’espressione un po’ tesa persino nel placido sonno. Il capo era leggermente inclinato verso di lui, sui cuscini e le labbra si erano schiuse. Levi rimase a fissarla per qualche minuto, prima di alzarsi per toglierle il tomo di dosso. Le alzò piano le gambe, coprendola con le coperte pesanti di lana e lei, nel sonno, si spostò disturbata, mettendosi sul fianco, ancor di più rivolta verso di lui.

“Cosa dovrei farci con una cretina come te?” domandò sottovoce, spostandole i capelli che le erano finiti sul volto indietro, sulla nuca, prima di leccarsi il pollice per levarle l’inchiostro dal mento. Era crollata, spossata dagli allenamenti e dalla visita nel ghetto e forse anche dall’estenuante conversazione che avevano avuto. Levi non era il massimo dell’arte oratoria, certo, ma il provocarla non era stato gentile da parte sua.

Soprattutto perché lui aveva da tempo capito i sentimenti di quella giovane sempre sorridente.

Bussarono alla porta mentre Levi stava tornando alla scrivania e, sullo stipite, apparve Fritz. Il ragazzo lo guardò, prima di spostare lo sguardo su Nina addormentata. Fece un paio di passi nella stanza, guardandola con un sorriso dolce sulle labbra “La stavo cercando” ammise, sistemandole le coperte sulle spalle mentre Levi incrociava le braccia sul petto “Volevo augurarle la buonanotte, ma doveva essere davvero stanca.”

Fritz adocchiò il libro nelle mani di Levi, che non commentò nemmeno una parola che gli era stata rivolta.

Meier portò invece le mani nelle tasche dei pantaloni, guardandosi attorno giusto per non essere costretto a spiare le iridi fredde del moro “Se non è un problema la lascio qui” disse, sempre parlando piano “Mi dispiacerebbe spostarla. Difficilmente si addormenta senza bere la valeriana.”

Quella era una cosa che Levi non sapeva.

Non dimostrò sorpresa, ma ciò non significava che non ci fosse rimasto di sasso. Nina, che sembrava prendere sempre tutto alla leggera, non era poi così diversa da lui che dormiva tre ore a notte quando andava bene.

“Puoi lasciarla lì. Non credo dormirò molto, non mi infastidirà.”

Fritz annuì veloce, iniziando già ad avviarsi alla porta “Dovresti, Nedlay è lontana da qui e la cavalcata sarà lunga. Ci vediamo domani mattina.”

Levi gli dedicò un cenno, facendo per voltarsi.

L’altro non pareva aver finito, però “Volevo dirti grazie” disse a sorpresa, facendo tornare l’uomo a voltarsi verso di lui “Per quello che fai per lei” proseguì il dottore, un po’ impacciato. Sembrava gli costasse qualcosa dirlo, ma il sorriso che gli rivolse non fu per questo falso “Grazie.”

La porta si chiuse, lasciando interdetto il moro.

“Sono tutti dei pazzi in questa casa” fu il solo commento che gli venne in mente, soprattutto pensando all’infatuazione del giovane per la ragazza che ora gli dormiva nel letto. Invece di prenderlo a pugni preferiva ringraziarlo perché si prendeva cura di Nina, come lui non era autorizzato a fare? Che sciocchezza. Levi non le avrebbe mai capite quelle maniere.

Decretò che la giornata poteva anche finire così. Spense una candela e andò con l’altra verso il letto.

La spense solo quando si fu steso accanto a Nina, che dormiva beata. Inizialmente si stese col volto verso il tetto, ma poi si mise su un fianco per guardarla in viso. Alzò una mano, premendo l’indice fra i suoi occhi, laddove le sopracciglia arrivavano a toccarsi tanto la fronte era corrugata. Dopo qualche secondo Nina mugolò infastidita, muovendo una mano e afferrandogli il polso nel sonno “Rielke…” sussurrò con tono scocciato senza destarsi, rimanendo poi con la mano dell’uomo nella sua.

Era la seconda volta che succedeva quel giorno? Forse la terza. Di nuovo, Levi non interruppe il contatto.

Rimase lì a guardarla, nel momento in cui i suoi occhi si abituarono all’oscurità, sentendosi investito dal profumo di lavanda che sembrava emanare.

Iniziava a diventare un bel problema, quell’attaccamento che provava per lei.

Non lo voleva.

Però non poteva nemmeno decidere di non provare nulla.

 

Quando scesero a mangiare qualcosa prima della partenza, la mattina era ancora lontana. Fuori il cielo era ancora color pece e l’aria era parecchio fredda.

“Deve aver nevicato al nord” disse il dottor Meier mentre richiudeva la porta, andando ad appoggiare sul tavolo qualche pagnotta ancora calda che aveva preso dal panettiere all’angolo.

Nina sbadigliò rumorosamente, mentre accanto a lei Fritz imprecava a denti stretti, pensando a quanto sarebbe stato ‘divertente’ trovarsi a Nedlay di lì in avanti “Non fare così” gli disse la bionda, accarezzandogli il braccio “Il soggiorno a Nedlay è temporaneo no? Non ti hanno ancora riassegnato in via ufficiale. Chiederò a Erwin ogni giorno di insistere con Shadis e in primavera saremo di nuovo insieme.”

A quelle parole, gli occhi di Fritz si illuminarono, mentre di fronte a lui Levi mangiava pane e beveva latte come se tutto il resto non fosse importante “A Trost?”
Nina annuì, sorridendogli “A Trost.”

“Intanto ci rivediamo per i Fuochi di Stohess, no?” chiese Leopold, che era arrivato da cinque minuti per salutare il caro amico e aveva la faccia di qualcuno che non si era nemmeno coricato per dormire “Non starai lontano molto dalla tua Nina.”

Il diretto interessato arrossì, mentre la giovane ridacchiava piano “Avrò si e no tre giorni di licenza, a dicembre” commentò amareggiato Meier.

“Giusti per la fine dell’anno” ricantò Jara, servendogli il the.

“Siamo stati tutta l’estate in Capitale” gli ricordò Nina, rubando un biscotto “Fino alla fine della prossima primavera non avremo licenze per forza.”

“Vorrà dire che verrò a trovarvi io” si intromise il rosso gendarme, appoggiando le braccia al tavolo e affondandovi il viso “Preferisco andare a sud però, che a nord!”

“A nessuno piace il nord” confermò Fritz, “Voglio dire…. A oriente tira sempre in vento. A Renin piove e basta. A Nedlay invece nevica solo, quindi non usciremo da Briemer perché quando il tempo è brutto non si fanno missioni. Cosa faremo tutto l’inverno?”

“Se ti consola a Shigashina non succede mai niente” lo informò Nina “Sono settanta anni che non c’è  niente di noto, ma almeno il clima è buono.”

Il padrone di casa ascoltò i giovani parlare, guardando di tanto in tanto Levi. Alla fine si rivolse a lui mentre questi porgeva la ciotola vuota a Jara e si alzava per infilare la giacca e la mantella. Era ora di andare “Tornerai o andrai direttamente a Trost, Levi?”

Il moro guardò verso Nina, non rispondendo subito “Non guardare me” disse lei “Io sono qui fino al dieci di novembre, non posso aspettarti, riprendo servizio il dodici e anche io ho quattro giorni di licenza per l’ultimo dell’anno.”

“Dovrei tornare prima.”

“Se non nevica” gli ricordò Leopold, tenendo affondate le mani nelle tasche del cappotto di ordinanza, mentre usciva insieme a un Fritz ormai rassegnato al suo destino.

Nina abbracciò l’amico, raccomandandogli di scrivere, mentre accanto a lei Jara sellava il cavallo e parlava al fratello come se fosse scemo. Leopold gli concesse un paio di pacche sulle spalle, ricordandogli che a nord le puttane costano meno, “Anche se ti conviene tenertelo nei pantaloni, o potrebbe caderti col freddo!”

Tutti risero, eccetto Levi che sembrava preso dal sistemare la sua sacca sulla sella di Meruka.

“Vorrei avere un piano B” disse Fritz, appoggiando una mano sul fianco di Nina e l’altra sulla spalla del migliore amico.

“Il nostro piano B di solito è un piano Birra” gli fece sapere Leo, suscitando di nuovo qualche risata “Il che è anche un ottimo consiglio: affoga i dispiaceri nell’alcool e lo vedi come passa in fretta il tempo”.

Nina ne approfittò per allontanarsi verso l’altro uomo. Si piazzò accanto a lui, tenendo le braccia incrociate sotto al seno visto il freddo che faceva. Lo guardò sistemare un paio di cinghie prima di voltarsi verso di lei “Possiamo andare o i tuoi amici hanno intenzione di sparare stronzate da mocciosi ancora per molto?”

Nina sbuffò divertita, roteando gli occhi alle sue parole “Sempre il solito” disse, prima di alzare le mani mezze nascoste dalle maniche del vestito grigio per sistemargli la mantella sulle spalle. Alla fine lisciò il tessuto verde sul petto, guardandolo negli occhi “Scrivimi” lo ammonì “Fammi sapere che sei arrivato vivo a Briemer e se hai trovato la tua donna e il tuo bambino.”

Un sentimento contrastante nacque nel petto di Levi, che si sentì combattuto fra il prenderla a schiaffi e il baciarla.

Alla fine optò per una via intermedia. Appoggiò la mano su quella della ragazza, “Starò benissimo senza di te che mi aliti sul collo tutto il giorno.”

Nina scosse piano il capo, non riuscendo però a non sorridergli. Si guardarono per diversi secondi, mentre l’aria si faceva elettrica ed entrambi non potevano non pensare a quanto l’altro fosse vicino.

Alla fine, però, Nina spezzò quel gioco. Si tolse la sciarpa, avvolgendogliela attorno al collo “Così magari non ti verrà a fare male la schiena” lo prese in giro a sua volta “Senza il mio fiato sul collo” rimarcò, “Hai una certa età dopotutto.”

“Nina lascialo andare o partiranno per pranzo!” la voce di Leopold la fece tornare in sé e soprattutto conscia che non erano soli. Fece un passo indietro e lui con un saltello agile montò a cavallo. Appoggiò una mano sul suo stivale, sul ginocchio “Buon viaggio”

Levi la guardò affiancarsi a Jara, che appoggiò sulle sue spalle la coperta che stava avvolgendo anche lei.

A fatica, il moro staccò gli occhi da quelli magnetici del sergente, lanciando uno sguardo a Fritz che, per primo, si lanciò nella notte.

Eh sì. Stava decisamente diventando un problema.

 

 

 

 

… Naturalmente Levi rimase bloccato dalla neve a Briemer e tornò dopo quasi un mese e mezzo.

Per lo meno, però, le scrisse una lettera.

 

 

 

 

 

Nda:

 

Lo so, sono in ritardo, però questo capitolo è davvero lungo e serve a farmi perdonare :DDD

Un paio di appunti veloci che la tesi mi aspetta.

 

Ho trasposto Ilse perché, nonostante gli AOV spefichino che la sua vicenda si è svolta nel 850, nel manga non è segnata nessuna data. Ho preferito seguire il manga per molti aspetti, compreso il fatto che il corpo non lo trovano nell’albero ma a terra.

Ci sarà un capitolo intero su questa vicenda che è molto importante ai fini della trama e del sequel futuro quindi non mi dilungo oltre.

Ho trovato le canzoni suonate solo a violino e quindi niente. Nuova era di accompagnamento ai capitoli.

 

Un altro paio di utili info e poi la smetto.

 

Punto prima, se avete letto il capitolo 85 saprete il ‘problema legato alle foto’ e quindi niente, ho modificato il mio capitolo 5 per eliminarle e sostituirle con dei ritratti.

Isayama cavolo non traviarci.

 

Punto secondo, la mia cara amica RLandH ha finalmente postato!

Come ho già detto, le nostre storie sono intrecciate e nella sua scoprirete, prima o poi, che cavolo è andato a fare Levi a Briemer.

Eccovi il Link, per intenderci: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3529133&i=1

 

Ok basta, devo essere produttiva accademicamente.

Grazie a chi legge, seguendomi in silenzio, ma in particolare a quei cupcake di Shige e Auriga che mi tengono compagnia e mi seguono.

 

….E si anche a te, Luna, ma scrivi v.v

 

Alla prossima!

C.L.

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Capitolo 11
*** Capitolo Decimo ***


11

 

Wenn die Sterne leuchten.

 

 

 

 

 

Capitolo Decimo.

 

 

 

Where the lost are the heroes
And the thieves are left to drown
But everyone knows by now
Fairy tales are not found
They're written in the walls

https://www.youtube.com/watch?v=O1asGKxmS34

 

 

 

Anno 846

Distretto di Stohess.

 

 

 

A svegliarlo fu, almeno inizialmente, la sensazione fastidiosa delle lenzuola a contatto con la schiena sudata, seguita poi da una voce che, ai piedi delle scale stava chiamando con una certa insistenza Friedhelm.

Seppur con riluttanza, il giovane ragazzo si mise seduto, passandosi una mano fra i capelli umidi, prima di allungare un occhio per la stanza avvolta dalla penombra degli scuri ancora chiusi. Rielke, alla sua destra, dormiva profondamente col il viso rivolto al muro e nascosto da una mano. Era un bene, visto che da quando Erwin era arrivato cinque giorni prima a Stohess, l’amico non aveva fatto altro se non piangere o chiudersi in un mutismo che non lo rappresentava affatto.

Il solo pensarci gli chiuse lo stomaco che, fino a un secondo prima, reclamava cibo. Non si sarebbe mai abituato a perdere le persone che amava, non aveva quindi l’autorità di chiedere a Rielke di farlo al posto suo. Non poteva accettarlo, non così, vedendo partire un amico con addosso quella mantella verde piena di significati futili e belle speranze verso un luogo in cui lui non poteva andare.

Buon senso o codardia, non aveva importanza. Lui era vivo e doveva rimanere tale per seppellirli tutti? Quale ingiustizia. Perché così si sentiva, destinato a vivere una vita all’insegna dei lutti; prima o poi il suo cuore sarebbe diventato di pietra, abituandosi.  

Si alzò perché ormai non avrebbe più ripreso sonno, prendendo una camicia nera pulita dalla sua sacca, insieme ad un paio di pantaloni del medesimo colore. A Stohess era tradizione portare avanti il lutto per soli sette giorni, nel quale la famiglia del deceduto si impegnava a vestire di colori scuri e a intonare lamenti al crepuscolo, non andando a lavorare né prestando servizio militare. Ancora due giorni e poi sarebbero stati tutti costretti ad andare avanti, riprendere le loro vite e soprattutto accettare quel che era successo.

“Se la morte di un legionario fermasse il mondo, allora esso sarebbe finito da cent’anni”, questa era stata la frase che aveva sentito da un vicino di casa alla fine della commemorazione alla memoria di Nina. Più di uno di loro si era ritrovato a pensare a quanto poco rispettoso sarebbe stato spaccare la faccia di un vecchio proprio durante la Settimana dei Lamenti, ma Fried aveva risolto in fretta la questione sbattendolo fuori dalla corte interna della casa.

“Buongiorno, Leo.”

Fu proprio lui che si ritrovò di fronte una volta messo il naso fuori dalla camera di Rielke. Il biondo statuario le stava salendo, anche lui vestito con un paio di pantaloni scuri e una camicia di un blu così cupo da sembrare nera stinta. Il rosso rispose al saluto, coprendosi la bocca con la mano, mentre si esibiva in un rumoroso sbadiglio “Siamo i soli svegli?”

Fried gli si fermò di fronte, scuotendo piano il capo “Alma sta cucinando delle uova e io sto andando a svegliare Marika e i bambini. Sarò anche in licenza e il forno ora è chiuso, ma dormire fino all’ora di pranzo non è salutare. Rielke?”

“Lascialo stare” Leopold iniziò a scendere le scale, con le mani ben piantate nelle tasche dei calzoni “Meglio vederlo dormire che piangere.” Non credeva che l’amico si sarebbe mai ripreso dalla morte della cugina. L’aveva visto disperato alla commemorazione per Fritz, ma a quella di Nina non si reggeva in piedi da solo. Di tutti loro, era certamente quello che l’aveva presa peggio, perché sembrava che ingenuamente non se lo aspettasse. Lui e il signor Müller erano diventati come due spettri, intenti ad aleggiare per la casa nella negazione più assoluta.

Passando di fronte al salotto, Leo vide con la coda dell’occhio la padrona di casa che stava lavorando a maglia nonostante fosse ancora abbastanza presto. Ne osservò il profilo senza però fermarsi sull’uscio, provando un moto di fastidio. Adelaide non pareva per niente toccata dalla perdita della figlia. A stento sembrava essersene accorta nel momento in cui Erwin era arrivato, appoggiando la giacca sporca di sangue della ragazza sulle braccia di Wilhelm Müller, riuscendo chissà come a snocciolare le classiche parole di compianto, seppur con un tono diverso. Non aveva reagito, quella donna di ghiaccio, limitandosi a guardare il marito piangere come un bambino fra le braccia dei figli maggiori, non facendo nulla per consolarlo o cercar consolazione a sua volta.

Leopold non era ancora arrivato, ma c’era chi non si era risparmiato di raccontargli che scena patetica era seguita. Adelaide aveva osservato il marito inchiodare quell’indumento grottesco sul camino, sostenendo che avrebbe turbato gli ospiti. Come se invece la mantella di Flagon Turret, li accanto, non potesse essere altrettanto grottesca, così come il vaso contenenti le ceneri di Ewald.

Con l’arrivo di Mieke, giunta a Stohess un paio di ore dopo il rosso, erano esposi i fuochi artificiali; la più piccola della famiglia aveva litigato con la madre e da allora non le parlava. L’intera famiglia aveva un po’ isolato Adelaide, seppur Leo credesse che c’era chi non l’avesse fatto di proposito. Nessuno, eccetto Alma, che quella che chiamava donna orribile non l’aveva mai potuta soffrire, da quando aveva messo piede per la prima volta in casa. Allora Alma aveva sedici anni ed era abituata ad accudire il padre e Fried da sola. Si era vista portata via la direzione della casa. Se prima non tirava una buona aria, poiché la pace era sorretta dalla fragile scusa che quella donna aveva messo al mondo un paio di creature, a seguito di quel pesante lutto era difficile camminare per casa schivando occhiatacce e frecciatine.

Persino quando mise piede in cucina, Leo rischiò di prendere una padella in faccia.

“Scusami” aveva prontamente detto Alma, abbassando le braccia “Stavo per urlare alla megera di venire a mangiare, ma infondo preferisco che le abbia tu, le uova. Almeno la tua vita ha senso” senza replicare, il rosso si sedette al tavolo, prendendo di buon grado il piatto pieno di uova saltate con quella che sembrava erba cipollina e un bicchiere di acqua fresca dal pozzo “Hector è morto” proseguì Alma, parando via dal volto i capelli che erano sfuggiti al concio malmesso sul capo “Flagon è morto. Ewald è morto. Nina è morta. Eppure lei, quella stronza che a stento posso definire una persona, ancora infesta questo mondo con la sua sciagurata presenza. Questa…. Questa è ingiustizia.”

Alma…” il fratello entrò in quel disastro che poteva definirsi in qualche modo cucina, andando verso la maggiore e appoggiandole entrambe le mani sulle spalle mentre Leo mangiava, grato all’uomo di averlo salvato dal dover dire qualcosa di consolante. Non era proprio in grado, in quel momento, di esternare un sentimento che non fosse l’amarezza o la tristezza. “Non vale la pena di rovinarsi la salute per lei. Smettila e mangia con noi, avanti.”

“Non è giusto Fried.” Avvolgendo le braccia attorno al busto del fratello, Alma si strinse a lui.

Leopold si ritrovò a pensare a quanto straziante fosse quella situazione, sentendo come se non avesse il diritto di lamentarsi e stare male se confrontato a loro. Abbassò gli occhi sul piatto, portando le mani al capo.

“Amico, muoviti o si freddano” Fried gli battè una mano sulla spalla così forte da spingerlo contro al tavolo, mentre si sedeva accanto a lui.

“Questo è troppo” Leo rialzò il viso, prendendo riprendendo respiro mentre sentiva il sangue gelarsi nelle vene “Non lo sopporto.”

“Senti la mancanza di Jara?” Alma si asciugò una lacrima al lato dell’occhio, allungando al fratello un piatto e un bicchiere pulito proprio mentre Fried si stava avvicinando la brocca “Le ho chiesto di rimanere, ma capisco il motivo per cui è partita subito dopo la cerimonia.”

“Odia i lutti, ancora non ha superato quello del fratello” fu il commento del maggiore, che si strusciò l’occhio marrone, spiando con l’azzurro prima il ragazzo accanto a lui e poi la sorella “Se continuiamo a questo ritmo, a seppellirne uno ad anno, non andrà molto avanti la famiglia.”

Leopold sorrise, seppur pallidamente, quando l’uomo contò Fritz come parte di quella famiglia. Forse anche per lui c’era posto, dopo tutto quel tempo “Serve del tempo a tutti” si permise di aggiungere, trovando un appoggio in Fried mentre Alma si esibiva in un’espressione alquanto scettica sul volto privo di colore. Fu l’arrivo dei figli della donna, Anneke e Heiner, a far cessare ogni discussione. I bambini, di sei e otto anni, si sedettero al tavolo, pretendendo di avere il latte con i biscotti secchi.

“Dopo aver mangiato, prendiamo Weike e andiamo al mercato, va bene?” disse Fried, spettinando la zazzera bionda del nipotino, che lo guardo con un occhio azzurro e uno giallo da gatto, proprio come quello del defunto padre.

“Io voglio le caramelle al miele” snocciolò Anneke, mentre Leopold si sforzava di finire le uova che non volevano saperne di andar giù “ Sono giorni che la mamma promette che le compra, ma ancora non le ho avute.”

“Non fino alla fine del lutto.” Fu il puntualizzare di Alma che mise un freno alle richieste. La piccola prese la treccia che le pendeva sulla spalla fra le mani, tirandola piano, come a soffocare un capriccio, forse consapevole di cosa fosse successo oltre le mura alla giovane zia.

Leo non si permise di dire nulla, perché non era padre.

Però sapeva che Fried, quelle caramelle, le avrebbe comprate e avrebbe fatto sì che i bambini le finissero prima del ritorno a casa.

Perché era giusto, almeno per loro, non essere così tristi.

Stavano piangendo a sufficienza gli adulti, anche per i bambini.  

 

Seduto sul patio con un bicchierino di liquore di anice in mano, Erwin sembrava aspettare qualcosa.

Alzò lo sguardo oltre la corte della palazzina, verso il cielo, dove grazie alle lunghe giornate estive, nonostante fossero passate le nove di sera, l’aeree era dipinto di rosato e rosso e rendeva ancora possibile vedere senza  dover accendere le lampade ad olio.

Era uscito per permettere alle donne di casa di sistemare dopo la cena, cacciato come sempre da tutte loro nel momento in cui s’era alzato con un piatto in mano per aiutare. Iniziava a credere che ciò che il signor Müller, ovvero che ogni donna è la signora della propria cucina, fosse vero. Abituato com’era alla vita in caserma, gli dispiaceva starsene così in panciolle. Era un Comandante che non aveva paura di sporcarsi le mani di olio e sugo, dopotutto.   

A fargli compagnia ci pensò Friedhelm, che andò a prendere posto sulla sedia di legno accanto alla sua, tenendo in mano anche lui un bicchierino, ma avendo anche l’indecenza di portarsi dietro l’intera bottiglia. La appoggiò fra loro, allungando le gambe per incrociare le caviglie davanti a sé. Alzò il bicchiere, guardando verso Erwin, che avvicinò il suo facendo tintinnare piano il vetro.

“A Nina?”

“A Nina.”

Buttarono giù tutto il contenuto e, prima ancora di pensarci, Müller stava riempiendo nuovamente. Dalla porta lasciata socchiusa potevano sentire le stoviglie ticchettare, le donne di casa parlare, ad eccezione di Adelaide che come ogni sera s’era ritira nella sua stanza a pregare le dee Maria, Rose e Sina. Di cosa, era un bel mistero.

I bambini giocavano nella corte, tutti insieme in un angolo del cortile, poco lontano dalla stalla, ad eccezione di Henke che dormiva placidamente nella culla accanto al caminetto spento, nel salotto, troppo piccolo per partecipare con i cugini e il fratello maggiore. Fried puntò gli occhi proprio sui tre, passandosi poi la mano sul mento per grattarlo. Suo figlio Weike stava brandendo un bastoncino come una spada e la cosa lo preoccupava un po’; nonostante avesse solo quattro anni, avrebbe potuto sviluppare anche lui quel senso di dovere che seppur non rimproverava a Erwin così come non aveva rimproverato a Ewald e a Nina, sarebbe diventato un bel peso sul cuore di un padre.

“Sai, stavo pensando al giorno in cui Nina si è arruolata” Erwin interruppe quel suo ciclo di pensieri catastrofisti, accostando il gomito alla sedia per potersi appoggiare col capo al polso “Te lo ricordi?”

Fried ridacchiò sotto ai baffi, girandosi col busto per guardarlo “Tua madre era così incazzata…” iniziò con una certa soddisfazione “Nina le aveva giurato sulle Mura che avrebbe scelto la Gendarmeria se fosse rientrata fra i primi dieci.  Come se poi gliene fosse mai importato qualcosa del Credo. Infatti, non solo si è sforzata tanto per arrivare terza, ma ha comunque deciso di entrare in Legione. Pensavo che l’avrebbe uccisa con le sue stesse mani quando è tornata a casa alla prima licenza.”

Erano volati piatti quel giorno e anche improperi degni di un’osteria del ghetto. Erano volati insulti e previsioni catastrofiche, ma Nina non aveva dato nemmeno un minimo cenno di preoccupazione. Come avrebbe potuto, dopotutto? Era dove era sempre voluta essere.

La porta alle loro spalle si aprì e eleganti nelle loro divise d’ordinanza, un gendarme e uno stazionario uscirono nel cortile. Rielke era pallido come un morto, tanto che le lentiggini risaltavano ancora di più sotto agli occhi acquosi. Leopold invece sembrava solo stanco, come se avesse corso tutto il perimetro delle mura Sina in un giorno “Sono riuscito a farlo vestire decentemente” disse però con un certo orgoglio, facendo sorridere pallidamente l’amico, “Andiamo a bere qualcosa. Vi unite?”

“No grazie, sono decisamente troppo grande per le osterie di lunedì” Fried guardò il cugino un po’ sollevato, allungando anche il piede per tirargli un calcetto giocoso che questi evitò con un saltello “Noi vecchiacci beviamo del liquore e poi andiamo a dormire con le galline.”

“Attenti a non vivere una vita troppo eccitante” li riprese di nuovo Schitz, prima di avviarsi per primo con Rielke alle calcagne.

Il Capitano Müller sospirò pesante “Spero che gli concedano di andare in Capitale con Leo per un po’, altrimenti tra un po’ seppelliamo anche Rielke.” Erwin non si sentì di dire nulla in proposito. Prese un altro sorso dal bicchiere ancora pieno di quella sostanza trasparente, sentendola bruciare mentre scendeva lungo la gola “Guardaci, comunque. Senza una divisa addosso cosa siamo? Una famiglia di militari, ecco cosa siamo. Era molto meglio cinquant’anni fa, quando se nascevi Müller nascevi con addosso ricamate le Rose della Guarnigione. Poi cosa è successo? Abbiamo iniziato a perderci. Gritte non s’è nemmeno arruolata, mentre Thomas è entrato insieme a suo fratello in Guarnigione. Sono i soli però. Loro fratello maggiore Ewald è morto oltre le mura che tu eri una recluta, causando un dolore tale nel cuore della zia che è sbiancata di capelli. Io sono un gendarme e Mieke…. Chi prendiamo in giro? Nina è morta e Mieke vorrà il suo lascito.” Fece una pausa, Friedhelm, stringendo il pugno della mano libera. Si rilassò quando Weike si avvicinò, porgendogli una foglia di castagno, che lui prese prima di tirarsi il bambino sulle ginocchia. Poi fece una domanda che l’altro non si sarebbe mai aspettato “Quanti ne avete persi da gennaio?”

Erwin prese un sorso generoso prima di rispondere. Non aveva bisogno di chiedere a cosa si riferisse. “Settanta due, ma solo cinquanta sei per colpa dei giganti” fece una pausa, mentre il fratellastro sistemava sulla gamba il figlio, che aveva preso a giocare con il bordo dello stivale “Dieci sono morti per incidenti vari, dalle esercitazioni, all’addestramento, fino a tragedie durante le spedizioni.”

“Tipo cadute da cavallo?”

“Anche.” Fried lo guardò come per dire che trovava quelle morti stupide, ma il loro peso non annullava comunque il fatto che erano avvenute.

“Le altre?”

“Quattro persone sono morte per complicanze dovute a vaccini o trattamenti medici, poi ci sono stati due suicidi.” Fece una pausa, il comandante dell’esplorativa, prima di parlare nuovamente “Con la squadra di Sankov, di cui non abbiamo trovato un solo superstite, siamo saliti a ottantuno. Nove morti tutti insieme, è un bel numero anche per noi, per una singola azione sul campo. Nina era fra loro.”

“Sai che non è colpa tua, vero?” di nuovo, Erwin non gli rispose. Fried scosse piano il capo, accarezzando la nuca del bambino “Lei non avrebbe mai lasciato. Aveva scelto molto prima di prendere le Ali al posto delle Rose.”

Smith si lasciò sfuggire un sospiro “Non avrebbe mai lasciato la Legione.”

“No. Non avrebbe mai lasciato te.”

Calò un silenzio strano, improvvisamente teso. Entrambi erano consci del fatto che le parole del Capitano non erano vane. Nina aveva preteso di studiare medicina e ci era riuscita solo perché Erwin aveva convinto Adelaide a lasciarla andare dai Meier. E perché Nina aveva scelto di diventare un medico? Perché voleva potere esserci quando e se suo fratello, il suo eroe, avesse avuto bisogno di lei. Voleva essere fondamentale nella causa, voleva avere un ruolo importante e lo voleva perché Erwin non pensasse mai che sarebbe potuta rivelarsi inutile. Si era allenata con Levi notte e giorno, persino lì a Stohess nelle licenze, per diventare forte abbastanza da non essere un peso per lui e alla fine era morta nell’osservanza degli ordini da lui sempre impartiti.

Per questo Erwin si sentiva in colpa. Perché inconsciamente era stato il motore che aveva portato a quegli eventi.

“Credi che se io non-”

“Levi non è venuto alla cerimonia. Non me lo aspettavo di lui, sembrava sinceramente preso da nostra sorella.”

Nel voler evitare qualsiasi discorso ricolmo di dubbi, Fried aveva comunque fatto un danno. Parlare di Levi non era molto saggio, soprattutto perché la sua assenza s’era sentita più di quanto avrebbe potuto immaginare chiunque, in quella casa. Leopold era stato il primo a notarlo, con una punta di amarezza assai poco velata, il giorno in cui avevano alzato i tendaggi neri nella corte e avevano invitato amici e vicini al loro cordoglio.

Erwin prese le sue difese, come aveva fatto ogni qualvolta qualcuno chiedeva “Levi non ha accettato ciò che è successo” disse di fatto il Comandante, tirando diritta la schiena sulla sedia, mentre anche il secondo bicchiere  si ritrovò svuotato. Allungò la mano alla ricerca della bottiglia, che poi alzò per rimboccare al goccio l’oggetto che pareva ormai un’ancora “Insiste nel negarlo e quindi non ha ritenuto necessaria la sua partecipazione.”

“Capisco. Deve essere dura per lui, tanto forte da sembrare il protagonista di una leggenda, ma incapace di proteggere coloro che ama.”

“Non essere così duro, Fried.” Il signor Müller uscì nella corte, riprendendo il figlio seppur debolmente. Erwin gli cedette subito la sedia, facendolo ridacchiare “Rimani, figliolo” gli disse, nonostante questi fosse già in piedi “Rimani seduto. Sei fin troppo gentile al contrario di questa carogna.”

“Ho in braccio il bambino” fece notare Fried al suo vecchio, che prese posto nella sedia ora libera, tenendosi la gamba “Parlavamo di Levi” gli fece infine sapere, mentre Erwin si appoggiava con la schiena al legno della colonna del patio, che sorreggeva la tettoia sopra di loro “Tu cosa ne pensi?”

“Che ognuno vive il lutto come lo preferisce” fu la risposta saggia dell’uomo, che incrociò le mani sulla pancia sporgente. Prese quindi un respiro profondo, puntando gli occhi verso le stelle, sempre le stelle, che iniziavano a puntellare di luci il cielo sempre più buio “Che sia qui o a Trost, l’importante è ricordarsi di lei. Spero solo di rivederlo, prima o poi. Mi sta simpatico quel ragazzo.”

“Fra tre giorni sarebbe stato il suo compleanno. Di Nina, intendo.” Wieke pretese di essere rimesso a terra, seppur non consapevole di quei discorsi fra adulti, e i tre uomini lo guardarono tornare verso i cugini che s’erano seduti per terra e parlottavano sottovoce “Solo io mi aspettavo che lei aspettasse di compiere vent’anni prima di sposare Levi e iniziare a sfornare mocciosi?”

Quella frase, che mise addosso a Erwin una melanconia pesante, fece ridere di cuore Wilhelm, i cui occhi però si velarono appena di lacrime “Ah, l’avrebbe anche fatto, la mia Nina. Ce li saremmo trovati tutti qui, conoscendola! Non avrebbe mai appeso la mantella al chiodo!”.

Quel discorso venne accolto con un mezzo sorriso e un’altra bevuta. Se avesse potuto, se il suo cuore l’avesse permesso, anche Wilhelm avrebbe approfittato del liquore per celare la sua debolezza. Era certo che però anche per gli uomini fosse inutile per nascondere a sé stessi la verità.

“Ogni mattina è sempre peggio; è come se nel sonno fosse semplice dimenticarsi di cosa è successo. Ogni mattina è come risvegliarsi senza memoria, almeno sino a che l’impietosa consapevolezza non riporta alla mente ogni ricordo, con tutto il dolore al seguito. Allora, solo allora, mi viene in mente che la mia bambina non c’è più e che non rivedrò mai più il suo sorriso. Non ho mai seppellito un figlio prima, non dovrebbe succedere. Doveva essere lei a seppellire me, insieme a voi due e ad Alma. Avrebbe dovuto avere una bella vita, la mia Nina. Se la meritava.”

Quindi è questo il rumore di un cuore che si spezza? Il dolore di un padre?

Nessuno dei due disse nulla, perché non c’era nulla da dire.

La sofferenza in quelle parole era troppo, quasi insostenibile. Erwin staccò la schiena dalla colonna, appoggiando una mano sulla spalla di Fried “Rientro, il liquore mi ha dato alla testa” sussurrò, così da non disturbare i pensieri del signor Müller, che intanto si era preso il viso fra le mani e se ne stava in silenzio. Il fratellastro gli fece cenno con la testa di andare e mentre Erwin valicava l’uscio, lo vide appoggiare un braccio sulle spalle del padre, scosse da un singhiozzo. Chiuse la porta dietro di sé appoggiandosi poi ad essa con la fronte.

Chiuse gli occhi e prese un respiro, ricercando la sua misurata compostezza, sempre più vicina a crollare.

Si voltò per salire le scale, con il chiaro intento di sparire nella sua stanza e leggere qualche notifica di rapporto o a scrivere una lettera a Mike per sapere come procedevano le cose al quartier generale, ma venne distratto da una figura adagiata morbidamente sul divano. Con il naso ficcato in un libro c’era Mieke.

Le si avvicinò, controllando la copertina verde spento, mentre sentiva le labbra incurvarsi in un sorrisetto istintivo “i diari del Comandate Carlo Piquet?” le chiese, sedendosi sul bracciolo pur tenendo un piede ben piantato sulle mattonelle.

Lei alzò gli occhi azzurri di sfumature diverse su di lui, senza abbassare il tomo “Già. Non sapevo cosa leggere. Se temi che io possa unirmi alla Legione, però, ti tranquillizzo subito; non è mia intenzione unirmi a coloro che vanno a morire.”

Erwin le appoggiò una mano sul capo, conscio del caratterino della più piccola dei Müller, ma anche un po’ sollevato da quella dichiarazione non richiesta “Ho regalato io questo libro a tua sorella” le fece sapere, incrociando poi le braccia sul petto ampio “Molto tempo fa.”

“Me lo ricordo. Nina l’avrà letto almeno una ventina di volte.” Notando che Erwin non intendeva andarsene, Mieke si arrese appoggiandosi il diario sul petto e ricambiando lo sguardo. Lei e Nina si somigliavano molto nell’aspetto fisico, ma non sarebbero potute essere più differenti di carattere; il carisma di Erwin non sortiva nessun effetto su Mieke che lo vedeva esattamente come vedeva Friedhelm o Rielke.“Posso fare qualcosa per te?”

“Mi chiedevo se volessi parlare” iniziò Erwin, senza spostare gli occhi zaffirini dal volto della sorellina “Sono giorni che parli con noi.”

Lei alzò le spalle con totale non curanza, passando una mano fra i capelli corti ritti sul capo per grattare un prurito “Non c’è molto da dire, non pensi?”

“No, non c’è molto da dire. Ma tenerti le cose dentro non ti farà bene.”

Erwin era solo l’ultimo di tanti avventurosi che avevano provato a cavar fuori qualcosa dalla ragazzina, senza risultati. Laddove Adelaide era fredda e distaccata, la più piccola dei fratelli Müller sembrava non essere stata toccata da quel lutto. Infatti, per l’ennesima volta, nascose il viso dietro al libro “Non mi tengo niente proprio nulla. Nina è viva e quando tornerà ci sarà da divertirsi.”

Il Comandante non si aspettava una risposta di quel livello. Guardò sorpreso Mieke, prima di toglierle il libro dalle male “Cosa intendi?”

“Lei è viva” insistette, incrociando le gambe sul divano e guardandolo decisa “Io lo sento.”

….Mieke, hai parlato con Levi?”

Con la sua miglior faccia da carte, la biondina scrollò le spalle “Perché avrei dovuto parlare con Levi? Sono venuta direttamente qui.”

“Lui è venuto da te?” Alla fine, Erwin realizzò. E si sentì come colpito da un fulmine, “Levi è venuto a parlare con Shadis?”

“Perché? È così difficile per te pensare che più di una persona sia convinta che non cercarla e tornare alle mura senza nessuna prova della sua morte se non un giacchetto pregno di sangue, sia stata una mossa stupida?”

Erwin si sentì ancor più stanco, come se un carico da novanta gli fosse appena stato scaricato sulle spalle di colpo “Mieke…

“Lo so cosa succede oltre le mura” insistette la giovane ragazza, impuntandosi “Non c’è bisogno di uscire con la Legione per saperlo: morte, urla, sangue e tutte quelle altre cose di cui i racconti sono pieni. Intere squadre che vengono annientate in un soffio, errori grossolani che portano un Capitano a dare la propria compagnia in pasto ai mostri. Io lo capisco, Erwin, ma la cosa che ci differenzia dai giganti è proprio il fatto di avere una mente che pensa” si fermò solo il tempo di portarsi in ginocchio accanto a lui. Gli prese il volto fra le mani e lo guardò negli occhi, fissa, cercando di seminare il dubbio nella sua mente. Ciò che lesse nelle iridi però le fece capire che quel dubbio c’era già “Perché non ti sei fidato di lei? Non è la ragazza più sveglia che esista, anzi è abbastanza sciocca, è vero, fa parecchie cose stupide... Ma è brava, lo sai che è brava, lo è diventata! Nina farebbe qualsiasi cosa per tornare a casa…. Tu hai fatto qualsiasi cosa per assicurarti che non c’era speranza?” Era una mossa crudele da parte sua, ma andava fatto. Lo aveva promesso a Levi e lei non voleva che tutto finisse così. Non voleva arrendersi alla morte di Nina, non voleva arrendersi e basta. “Perché hai preferito lasciarti andare invece di fidarti dei tuoi uomini? Come fai ad essere vivo se non credi in loro?”

Erano tante le argomentazioni che Erwin avrebbe potuto usare in quel momento, affidandosi alla sua esperienza e al suo sesto senso, maturato in tanti anni di fedele servizio nella Legione. Avrebbe potuto rimetterla al suo posto con severità o con gentile pena nell’accorgersi che Mieke, esattamente come Levi, preferiva pensare che sua sorella era rimasta sola la fuori, invece che saperla divorata. Avrebbe anche potuto dirle che se Nina fosse anche sopravvissuta all’attacco, non c’erano possibilità che una settimana da sola nelle terre perse di Maria avessero potuto risparmiarla.

Era brava? Non bastava essere bravi per sopravvivere o tanti suoi commilitoni non si sarebbero ritrovato divorati o mutilati nell’arco di quegli anni.

Non lo disse. Si limitò ad abbracciarla in silenzio, sentendo la stretta ricambiata con intensità “Nella vita è meglio avere rimorsi che rimpianti” gli diede il colpo di grazia, “Dall’alto dei miei dodici anni non posso dirti cosa fare, perché non lo so forse, ma almeno ascolta chi hai attorno e sa cosa si prova.”

“Avrai anche dodici anni, ma hai più giudizio di me e persuasione di Levi” Erwin si separò da lei, accarezzandole i capelli. Avrebbe voluto dirle che qualsiasi cosa sarebbe successa, avrebbe fatto di tutto per non lasciare mai indietro di nessuno e che per questo non credeva di aver lasciato indietro proprio sua sorella, ma un urlo dal cortile li fece trasalire entrambi.

“Alma! Aiuto!”

Scattarono in piedi, arrivando all’uscio dopo Alma, che per un attimo nascose loro la vista. Solo quando si fu chinata accanto al fratello, entrambi poterono vedere a chi apparteneva il braccio steso sul terreno. Ci furono urla, lacrime. Fu chiamato anche un medico, che arrivò celermente seguendo Marika che tremava spaventata, ma nemmeno lui fu in grado di svegliare Wilhelm Müller, né di farlo alzare dal terreno polveroso della corte.

 

 

 

 Nothing could ever stop us
From stealing our own place in the sun
We will face the odds against us
And run into the fear we run from

 

 

 

Anno 844

I Fuochi di Stohess e il saluto all’anno che nessuno potrà mai dimenticare.

 

 

Levi arrivò a Stohess insieme ad Erwin che Nina era giunta ormai da due giorni.

Tutto ciò che fece, una volta messo piede nelle corte interna alla palazzina di proprietà dei Müller, fu guardarsi attorno interessato e consegnare una lettera a Friedhelm, che odorava di profumo femminile un po’ dozzinale. Nina non l’aveva ancora perdonato per l’aver regalato la sua sciarpa verde a un barbone, ma soprattutto per come si era procurato una sciarpa vermiglia dall’aria più vissuta.

“Me l’ha regalata una prostituta quindicenne.”

Questa pragmatica frase si era guadagnata, di nuovo, lunghi silenzi e, in aggiunta, Nina aveva anche preso ad ignorarlo, tanto da decidere di partire per la Capitale con un giorno di anticipo, dove si era riunita a Leopold, Fritz e uno strano amico di quest’ultimo, che come ogni anno si sarebbero goduti insieme all’amica i Fuochi di Stohess.

Levi, a cui una volta arrivato era stata data la camera di Rielke - che lui aveva provveduto a ripulire da cima a fondo con una certa cura- fingeva di non essere toccato dal comportamento immaturo della bionda, preferendo concentrarsi sulla sua permanenza distretto di Stohess, che così come Nina stessa aveva detto quella mattina al mercato di Trost, era più vivace e colorato. I tetti delle case risplendevano di rosso e oro, mentre la chiesa del Culto che faceva bella mostra di sé nel centro cittadino, affacciata sulla Pizza della Mercanzia, brillava come un diamante in mezzo all’oro.

Se poi si fosse stufato di mirare la città, avrebbe avuto il caos che impregnava quelle mura a tenergli compagnia. Il fatto che sotto quel tetto convivessero ben quindici persone di norma (diciassette con Nina e Erwin a casa), lo lasciava basito. Era una palazzina piuttosto grande, in effetti, ma fra i membri della famiglia e i ben quattro ospiti venivano sforati i venti abitanti. La confusione era inevitabile e gli adulti ne facevano di più dei bambini.

La signora Adelaide non sembrava per niente felice all’idea di ospitarlo. L’aveva guardato male già durante la sua permanenza a Trost, ma averlo addirittura lì sembrava quasi un affronto, per il quale non aveva fatto altro che litigare con la figlia maggiore. Levi non si era per niente pentito di aver mandato all’aria un’incontro organizzato fra Nina e il figlio del notaio Bender la prima sera, distraendola con una sessione estrema di allenamenti e sapeva che Nina l’aveva mentalmente ringraziato per averle evitato quell’ennesimo strazio. Di tutt’altro avviso parevano gli altri Müller, in particolare la sorella maggiore, Alma; Levi aveva notato quando lei, Mieke e Nina si somigliassero, ma c’era qualcosa di particolare in quella che poteva essere etichettata sin da subito come la vera padrona di casa. Non era alta come le sorelle, ne magra come loro. Il suo corpo aveva visto due gravidanze e ben due mariti morti, insieme al duro lavoro al forno di famiglia, mentre i suoi occhi, che non deludevano le aspettative, brillavano di due tonalità diverse di blu. Una intensa come l’acqua di un lago profondo, l’altra violetta, come le prime luci dell’alba in inverno. Sembrava più vecchia dei suoi trentadue anni, sicuramente a causa della vita passata per lo più a lavorare per prendersi cura di un padre vedovo e di un fratello con grandi aspettative di carriera nell’esercito. Gli ricordò un po’ la storia di Jara, seppur con diversa sotto molti punti di vista. Alma aveva avuto due mariti, anche se di loro non si parlava. Era stato Erwin a rivelargli, mentre si stavano dirigendo a Stohess a cavallo, che Alma era la vedova di Flagon Turret, il primo capo squadra che il biondo aveva avuto appena messo piede in Legione. Lui ricordava molto bene anche come l’avevano trovato, sul campo di battaglia che era diventato lo scenario della morte di Isabel e Farlan. Anche Hector, il primo marito della donna, era morto nell’esplorativa ed era stato proprio Turret a portarle il lutto a casa si un’incombenza di Erwin. Strano come il destino operi, ad Alma aveva dato e tolto costantemente, non piegandola però, ma temprandola.  

Seppur sia la famiglia di Fried che i genitori di Rielke  si dimostrarono gentili con Levi, Alma era stata la sola a trattarlo così come Levi si aspettava da una sconosciuta. L’aveva guardato con l’aria di chi la sapeva lunga, seppur senza ombra di supponenza, poi a bruciapelo aveva chiesto se era stato lui ad allenare Nina sino a quel momento. Quando Levi aveva confermato con un cenno,Alma aveva lanciato un’occhiata alla sorella, che sedeva in salotto insieme a Leo, Fritz e Friederich Engel. Alla fine aveva sorriso, abbassando gli occhi e pronunciando una sola frase.

“Sì, vai bene. Mi piaci.”

 

La cena era il momento peggiore della giornata, in termini di chiasso.

Se a pranzo non si trovava mai la famiglia riunita, tra soldati in servizio e Alma, Marika e il signor Albert che aiutavano il padrone di casa con il lavoro al forno, a cena c’era la banda al completo. La tavola dove veniva consumato il pasto era lunga, laccata e piena di graffi, a testimonianza del passaggio di molti bambini. Levi si ritrovava schiacciato con una spalla contro quella imponente di Erwin, mentre l’altra era più libera visto che doveva dividere lo spazio con Alma, che sulla panca sedeva poco perché assieme alla moglie del fratello serviva tutti e aveva giusti un paio di minuti per mangiare a sua volta. Di fronte a lui, Nina e Fritz davano il meglio di loro con Rielke e Leopold e anche il nuovo arrivato, quel Engel non era di certo da meno. Levi l’aveva guardato a lungo, chiedendosi se l’avesse visto nel suo passaggio a Nedlay di un mese prima. Sicuramente, quel giovane del nord dai capelli corvini che per coincidenza si chiamava a sua volta Friederich, s’era ambientato bene.

Facevano una confusione infernale.

Levi sospirò piano, appoggiando il gomito al tavolo una volta passato il piatto ora vuoto a Marika, che sorrise ringraziando mentre teneva una pila con una mano e l’altra sul pancione. Anche volendolo, non sarebbe stato in grado di alzarsi e farsi strada fino alla cucina, più per assicurarsi che i piatti venissero ben lavati che per buon cuore. L’avrebbe fatto anche solo per liberarsi di quel chiacchiericcio insistente, ma era virtualmente relegato al suo posto dalla marea di persone al tavolo. Spostò lo sguardo su Nina, che sedeva proprio di fronte a lui, con una benda sull’occhio destro che aveva battuto quello stesso pomeriggio. Che aveva battuto sul pugno di Levi, per essere precisi, ma nemmeno lui si era aspettato di vederla venir avanti col viso. Se l’era praticamente dato da sola quel pugno, ma abituata com’era al combattimento corpo a corpo con lui non aveva fatto la piega. Si era portata la mano al sopracciglio che perdendo sangue le impediva di vedere bene e aveva chiesto una breve pausa per fasciarsi.

Poi avevano ripreso da lì.

Non frignava più, anche se infondo dire che aveva frignato in passato sarebbe stato ingiusto; fra i suoi difetti non c’era quel tipo di debolezza. Lei, che aveva chiesto di essere addestrata, non s’era mai tirata indietro.

Lo sguardo del moro si scontrò con l’occhio sano della bionda, che gli lanciò un veloce sorrisetto, prima di ridere, portando una mano alla bocca per chissà quale cavolata lanciata da Rielke.

Non sembravano soldati. A partire dai cinque seduti di fronte a lui, fino a Erwin, che parlava concitato con Friedhelm di donne. Era qualcosa di più raro di una mosca bianca, vedere il Capitano Smith lasciarsi andare in certe frivolezze, ma gli dava anche una certa sicurezza scoprirlo umano. C’erano stati momenti in cui non l’aveva creduto tale. Poco più avanti, a capo tavola, Wilhelm Müller era la vera anima della festa. Apriva bottiglie di vino, proponeva brindisi a Erwin o alla figlia, ai grandi legionari del nord e a nuovo ospite Levi che, se avesse potuto, avrebbe anche fatto a meno di quelle attenzioni.

Avrebbe mentito, però, dicendo apertamente che quell’atmosfera lo infastidiva. Certo, facevano un casino del demonio, tanto da fargli battere le tempie fino al momento del riposo, ma vivere tutta la vita in una fogna silenziosa come una tomba l’aveva portato ad apprezzare un sorriso sincero quando lo vedeva. Non occorreva dirlo però. Gli bastava alzare ogni volta il suo bicchiere, picchiettando il vetro contro quello dei vicini e continuando a bere vino fino a capir meno discorsi che di senso ne avevano già poco.

“Il Caporale Schwarz è la donna più bella che io abbia mai visto” stava dicendo proprio Engel, gesticolando frenetico alla volta di Fritz, che aveva roteato gli occhi senza però celare un sorriso divertito “Non ti azzardare a far quella faccia, tu. Che quando parli di-”

“Ho capito il concetto”  replicò sbrigativo Meier, prima di notare che Levi stava seguendo il discorso “Tu l’hai incontrata mentre eri a Breimer, vero?”

Levi annuì, appoggiando entrambi i gomiti al tavolo e sporgendosi leggermente in avanti, fiacco “Sì. Mi ha anche regalato la sua mantella.”

A quella parole, Nina lo guardò alzando un sopracciglio, mentre Engel si sporgeva verso di lui stralunato “Davvero? Ah! Che cuore ha!”

“Parlate della donna in rosso, no?” chiese a quel punto Nina, prendendo in mano il bicchiere e sorseggiando l’ultimo goccio di vino che conteneva, prima di proseguire “La donna che Fried si è portato a letto?”

“Sii più specifica, che se dobbiamo fare una cernita ne passano due di Yula” le disse Rielke con tono cospiratorio, ma solo dopo aver controllato di non avere l’interessato o peggio, sua moglie, alle spalle.

“Al ricevimento di Pixis” aggiunse quindi la giovane, mentre accanto a lei Mieke ascoltava interessata “La mora che accompagnava Schimdt.”

“La ricordo appena” convenne Fritz, inclinando di lato il capo “Ancora devo andarci a Briemer, quindi mi riservo dal dare giudizi.”

“Non che ci sia molto da dire, se è una delle donne di Fried.” Il commento un po’ malevolo di Leopold attirò su di lui lo sguardo di Engel, che si ottenebrò appena “Amico, non è colpa mia se attira solo un tipo di donna, quello.”

“Uno solo? Parli per invidia?” lo stesso Friedhelm, che s’era avvicinato silenzioso, battè una mano sulla spalla del rosso e una su quella del cugino, facendoli sussultare “Non vi è tipo di donna che mi resista. Se volete imparare qualcosa, domani vi porto in osteria.”

“Domani è festa e va passata in famiglia” gli fece presente con tono bonario Erwin, che pareva improvvisamente partecipe di quella delirante conversazione. Guardò il fratellastro con sguardo ammonitorio, prima di sorridere rallegrato “Non rovinare tutto come l’anno scorso.”

“L’anno scorso è stato tutto un equivoco. Oh! A proposito di equivoci! È arrivato Doak!”

Levi voltò il capo verso l’ingresso così come il resto dei compagni di pasto, notando che ora, a parlare con Alma e il signor Müller, c’era anche un uomo alto con addosso l’uniforme della Gendarmeria, poco visibile sotto al pastrano invernale che lo difendeva dal freddo. Per mano teneva una bambina dai capelli selvatici, tenuti insieme da un paio di codine, mentre una donna dal seno abbondante e i fianchi tondi reggeva fra le braccia un bambino ancora in fasce.

Sia Erwin che Nina si alzarono, andando a salutare l’uomo insieme a Friedhelm. Erwin pareva conoscerlo bene, tanto che se lo tirò da parte per parlargli come si deve. Nina invece prese a vezzeggiare il neonato insieme a Alma, prendendolo anche in braccio mentre sorrideva a Marie, parlando del più e del meno.

“Tu non vai a salutare?” di nuovo, la voce di Fritz lo portò a guardare i ragazzi di fronte a lui. Stava parlando con Rielke, mentre Leopold stesso di alzava per andare a portare i suoi saluti e i suoi auguri all’ufficiale del suo stesso corpo militare.

Il biondino lentigginoso sbuffò “Non mi è mai stato molto simpatico e poi dobbiamo ancora mangiare i biscotti coi canditi.”

“A me dispiace per lui. Sua moglie è innamorata di Erwin.”

“Chi non lo è?”

“Chi è innamorata di Friedhelm.”

Levi sentì il bisogno di manifestare il suo pensiero per la portata della conversazione cavandosi un occhio con la fochetta, anche se però stava avendo un po’ un’idea di come funzionassero le cose lì “Mocciosi” disse, attirando la loro attenzione mentre Rielke si sporgeva per recuperare la bottiglia di vino; rimase gelato sul tavolo, in attesa “Chi è quello?”

Fu Fritz a rispondere, perché a quanto sembrava ne sapeva parecchio degli affari che giravano in quella casa. “Nile Doak” rispose “Un Capitano decorato della Gendarmeria. Lui e Erwin sono cresciuti insieme e hanno fatto l’addestramento insieme.”

Fried dice che anche lui sarebbe dovuto entrare in Legione” disse Rielke, versando a tutti, compreso Levi, mentre Engel seguiva quei pettegolezzi con aria sinceramente interessata “Però all’ultimo ha deciso che avrebbe preferito fare il marito e il padre al farsi divorare dai giganti. È molto simile a Leopold…

“Questa leggenda che si muore e basta, in Legione…

“Stai zitto, Fritz. Non è una leggenda.” Rielke guardò l’amico, prima di sporgersi in avanti sul tavolo, parlando piano mentre teneva puntati gli occhi in quelli affilati di Levi “La donna con lui è sua moglie, Marie. Quando erano dei cadetti, passava da Nile a Erwin e alla fine pare che lui sia rimasto con lei perché lei glielo ha chiesto. Noi pensiamo che l’abbia chiesto prima a Erwin e che lui abbia detto di no.”

“Siete malevoli” Nina sai sedette affianco a Levi, tenendo un pacchettino in mano “Perché non dovrebbe aver scelto Nile?”

“Parla piano” la riproverò Fritz, prima di notare il pacchettino.

“Perché c’è chi sceglierebbe il  CapitanNoia-mortale-sono-un-rigoroso-genderme sopra a Erwin?” chiese Leopold, ritornando al suo posto a sua volta. Ora che la famigliola se n’era andata e che Fried aveva portato Erwin a scegliere il liquore da aprire per dar degna compagnia al vino, erano più liberi di far le comare. Non che si fossero molto trattenuti, prima “Tuo fratello avrà dei difetti, tra cui l’aver sempre addosso una e una sola espressione e in bocca uno e un solo discorso, ma almeno non è Nile Doak.”

“Il bue che dice cornuto all’asino! Voi gendarmi siete tutti uguali!”

“Stai zitto Rielke, sei nella Guarnigione, ovvero quelli più inutili!”

“Che cos’hai lì, Nina?” Fritz li fece smettere di battibecchiare, riportando l’attenzione sulla bionda.

“Un regalo del Comandante Kessler” rispose, riaprendo il pacchettino già sfatto e mostrando a tutti un bel fermacapelli d’argento a forma di rosa.

“Te l’ha mandato tramite Nile?”

La giovane annuì, “Quella donna è sempre così gentile con me” soppesò, girandosi l’oggetto fra le mani, prima di girare il capo verso Levi, sventolandola sotto al suo naso nel tentativo di porgergliela “Ti dispiace?”

I quattro ragazzi seguirono la scena sino a che Levi non prese fra le mani il fermaglio, poi tornarono a ciarlare concitati fra loro.

Nina diede le spalle al moro, incrociando le gambe sulla panca per quando la gonna lunga dell’abito che indossava glielo permettesse. Lui passò il fermaglio sulle ciocche color grano della ragazza,tirandole indietro sul capo e fermandole e fissandole sulla nuca.

Lei portò una mano a verificare che fosse ben messo, prima di tornare a mettersi diritta, guardando l’uomo “Allora? Quanto ci stai odiando per tutto questo chiasso?”

Lui sbuffò, allungando una mano per prendere il bicchiere. Nina osservò quel suo modo buffo che aveva di fare ogni volta che doveva bere, prima di aprire la bocca per parlare di nuovo. Lui però la interruppe “Non è male.”

E lei capì che si sentiva più a suo agio di quanto sembrasse.

 

La festa di Yula dell’ultimo giorno dell’anno era forse la ricorrenza più importante all’interno delle Mura, seguita dalla Festa delle Messi o Luginaza in estate, dalla Settimana della Vendemmia, – alla fine della quale, nel giorno delle grandi celebrazioni di Maben, chi camminava diritto non era degno di essere definito uomo- il Giorno di Eosteria in primavera conosciuto anche come la Festa della Luce e il primo giorno del mese di maggio, Beletane.

Ogni distretto aveva tradizioni proprie e particolari usanze, anche se era noto che nei distretti dell’est, Yula venisse festeggiata in modo particolarmente fastoso. Stohess, in quanto il più ricco distretto dell’est e del Muro Sina, era sicuramente il luogo migliore in cui perdersi nei festeggiamenti.

Essi erano iniziati già la sera precedente, come da tradizione, con il banchetto famigliare. Fritz aveva poi insistito per portare Engel a fare un giro delle taverne, finendo per far rincasare tutti che l’alba iniziava già ad affacciarsi oltre le mura. Nina e Leo l’avevano guardata con gli occhi socchiusi dalla stanchezza, con una sigaretta e pendere dalle labbra e la consapevolezza che sarebbe stata una lunga, lunga giornata. Avevano dormito come la sera precedente, ammassati nella camera che la bionda divideva con la sorella minore. Il letto di Nina e quello di Mieke erano stati uniti e mentre la prima s’era presa Fritz, con il quale era riuscita a dormire almeno sei ore prima dell’entrata in scena di un’Adelaide particolarmente arrabbiata per l’ora tarda in cui ancora stavano dormendo, Leo e Rielke si erano litigati le coperte con Mieke per ore, riuscendo forse a riposare la metà degli amici e riuscendo anche nell’intendo di disturbare la ragazzina che così gentilmente li aveva ospitati sul suo materasso. Ad Engel era andata la branda in fondo alla stanza, in quanto ospite.

“Se Levi fosse andato a dormire con Erwin, come era stato deciso in partenza,  noi uomini saremmo potuti rimanere in camera di Rielke,  risultando così tutti più comodi.” Si stava di fatti lamentando il rosso, mentre infilava gli abiti tipici dell’est, non poi così pronto a far festa.

Schiacciato contro il muro, Fritz stava permettendo a Nina di sonnecchiare ancora un poco, col viso nascosto contro il suo petto e l’espressione disturbata sul viso. Le accarezzò la guancia fino al bendaggio sull’occhio, prima di guardare il migliore amico con divertimento “L’hai detto anche ieri. Smettila di fare il brontolone della situazione, che pari un vecchio!”

“Se fossi tu a svegliarti col culo sul pavimento non parleresti così! I due materassi vanno alla deriva, durante la notte.” Cercando di spostarsi per lo spazio saturo della piccola stanza, Leo prese ad allacciarsi la camicia, prima di alzare le bretelle sul petto, controllando in uno specchio che il colletto bianco fosse in ordine “Che poi parli tu, che non fai altro che dire quanto ti faccia schifo Nedlay?”

“Il nord è un luogo meraviglioso e incompreso” fu il solo commento che arrivò dall’angolo in cui Engel ancora doveva trovare la forza di alzarsi.

“Il nord non è incompreso” rilanciò subito Meier, facendo ridacchiare piano Nina che ormai si era arresa al fatto che non sarebbe riuscita a dormire nemmeno un’ora in più “Freddo, sì. Triste? Anche. Le case sono meno accoglienti e le donne più brutte. La sola cosa migliore è il cibo.”

“Le donne del nord sono vere donne” lo corresse Engel, prima di sbadigliare “Ma cosa sto a parlare con un ignorante come te? Caprone.”

“Siete così fastidiosi!” Mieke fece il suo ingresso con addosso l’abito per la festa, lanciando sul letto di Nina quello della sorella “Non vedo l’ora che sia domani per aver di nuovo il silenzio che merito.”

“Ci siamo svegliati col piede sbagliato?” Leopold le tirò la guancia, mentre Fritz e Nina si alzavano, ridendo di fronte al tentativo fallito di Mieke di smollare al rosso un calcio, ostacolata dalla gonna a ruota.

Alla fine riuscirono a scendere per l’ora di pranzo. La prima cosa che Nina aveva notato era che stava nevicando, seppur piano. La seconda era Levi che, con addosso gli abiti tradizionali di Stohess per la festa era…. Strano. Strano a dir poco. Il calzoni corti gli arrivavano sotto al ginocchio, anche se avrebbero dovuto fermarsi al di sopra; nessun uomo di quella casa aveva una taglia che potesse stargli e quelli, che erano appartenuti a Rielke qualche anno fa, risultavano comunque troppo lunghi. Non potevano accomodarli, però, perché tagliandoli avrebbero tolto anche i ricami sulla stoffa ruvida grigia. Nina non seppe dire però se era poi strano con i polpacci muscolosi in vista o con il cappello pieno di piume sui capelli neri. Forse era l’espressione per niente convinta. Non riuscì a non ridere, mentre si avvicinava tenendo in mano un sacchettino di seta blu.

Lui lo adocchiò subito e la guardò male farsi sempre più vicina “Non ci pensare.”

“Questa è la tradizione” rispose lei, tirando i fili per aprire il sacchetto. Immerse due dita all’interno del pigmento di un magenta acceso, andando poi a disegnarli due linee parallele per tutta la fronte “Le donne colorano gli uomini, che fanno loro un complimento” attese qualche secondo, chinandosi anche alla sua altezza visto che lui era seduto. Capendo che ci sarebbe voluto un po’, Nina si mise in ginocchio sul pavimento, appoggiando o gomiti alle ginocchia di Levi “Io non ho fretta.”

Lui sbuffò sonoramente “Sei una stupida ragazzina.”

“Un complimento, ovvero il contrario di quello che hai appena detto.”

Poteva farcela, Nina se lo sentiva. Lo guardò sempre in attesa, tenendo in mano il sacchettino e ponderando che se avesse continuato su quella linea, lei avrebbe potuto accidentalmente far cadere la polverina su quella bella camicia bianca. Non ce ne fu bisogno “Hai dei bei capelli” disse infine, sbrigandosi poi ad aggiungere frettoloso un “Ma non sono funzionali. Tagliali.”

Nina si ritenne soddisfatta, tanto che si alzò, compiendo a saltelli la distanza tra lei, il cugino e Fritz, piantando una bella manata di magenta sul viso di entrambi prima di iniziare a correre dietro a Schitz che si stava rifiutando di collaborare alle tradizioni ‘barbare’ del distretto. “Ho già messo i pantaloncini, Nina! Non esagerare!”

Levi la guardò rincorrere l’amico attorno al tavolo, constatando che per quanto quella scena fosse stupida, gli aveva dato modo di notare come si fosse effettivamente conciata la giovane. L’abito da festa delle donne non era altro se non un vestito scuro, formato da una gonna molto ampia che lasciava scoperte le caviglie e una porzione del polpaccio e un bustino rigido tenuto insieme da nastri di seta colorata. Sotto, tutte le donne portavano una camicetta con le maniche che arrivano si e no al gomito. Era la gonna però a nascondere un segreto. Ogni volta che Nina si girava, essa si apriva e nelle pieghe, Levi poté contare almeno una dozzina di pezzi di stoffa cuciti insieme a quella dell’abito di altrettanti colori diversi. Fu Alma poi a spiegargli che quelle stoffe venivano da vecchi abiti dimessi, cuciti dalle donne di casa sull’abito da festa. Era un modo per portare il vecchio insieme al nuovo, un po’ un vade mecum per l’anno nuovo.

Quando si misero a tavola per pranzare con i due dolci tradizionali, lo Zelten e lo Stollen, c’erano pigmenti di colore più o meno ovunque e quelli più provati e colorati erano Erwin e Fried che si erano messi anche a tirarseli a vicenda fin nei capelli, incuranti del fatto che non erano donne.

Erwin non sembrava nemmeno lui e forse la colpa era anche un po’ di tutto quell’alcool che stavano bevendo in quei giorni e che stavano avendo effetto su tutti, eccetto Levi.

Vederlo a quel modo era strano, certo, ma la complicità col fratellastro e l’allegria della festa convinsero il moro che non c’erano doveri che tenevano, di fronte alla famiglia. Nemmeno per il Comandante Smith.

 

Erwin aveva trascinato Levi per bancarelle per tutto il pomeriggio, costringendolo a sfilare per la città con quei ridicoli calzoni che, tra l’altro, non avevano fatto niente se non gelargli le gambe. Non importava se tutti erano vestiti a quel modo, iniziava a non sentirsi più molto a suo agio.

Fried si era lanciato in un’importante dibattito sulla guerra della birra fra i distretti, sostenendo che per lui la più buona rimaneva quella al malto di Briemer, mentre Erwin era un fermo sostenitore della rossa di Stohess. Alla fine al dibattito si era aggiunta anche Nina, difendendo la bionda di Trost, nel momento in cui avevano incontrato il gruppo di giovani amici a Piazza della Mercanzia, di fronte al grande falò che bruciava dalla mezzanotte precedente e sarebbe stato alimentato fino alla fine della festa di quella notte. Guardò Nina e Fritz buttarci dentro un’agenda, Mentre Leopold provvedeva a disfarsi di qualche lettera e Rielke di un plico di fogli bello grande.

“Si brucia la vecchia” gli spiegò il Capitano Smith quando il moro gli rivolse uno sguardo perplesso “Documenti o oggetti che sono serviti nell’anno appena trascorso e che in quello nuovo non saranno più di alcuna utilità. Tu non hai niente da bruciare?”

“Vorrei poterti dire che voglio buttarci Hanji” gli rispose, facendolo sospirare rassegnato, seppur divertito “Ma lei non è qui e poi non è stata utile nemmeno per quest’anno. Quindi perderebbe un po’ del suo significato.”

Levi venne scaricato al termine della frase. Erwin era sparito fra la folla con il fratellastro e un paio di amici di vecchia data, lasciandolo con i giovincelli. Visto che non aveva avuto diritto di scelta, Levi si accodò a questi giusto per non tornare a casa a leggere. Ebbe modo di capire perché a pranzo avevano avuto solo dei dolci; non fecero altro che mangiare, tutto il pomeriggio. Piatti tipici della zona, di altre zone, addirittura di distretti opposti a Stohess. Mangiarono così tanto che Levi iniziò a sentirsi nauseato.

Poi venne il momento in cui iniziarono a perdersi. Il primo a sparire fu Rielke che, adocchiata una bella ragazza, non si era fatto scrupoli a seguirla senza quasi avvisare. Poi la folla aveva inghiottito anche Fritz e Leopold e lui e Nina si erano ritrovati a girare per la città fino al punto in cui Levi aveva iniziato a non farcela più. Ormai il cielo era parecchio buio e a illuminare tutto c’erano le luci artificiali dei lampioni a olio, quando lui iniziò ad arrendersi. Troppe persone tutte insieme, la confusione e un altro insieme di fattori l’avevano fatto chiudere in un mutismo un po’ teso, mentre Nina continuava a spiegargli di tradizioni e a snocciolare nomi strani di luoghi e pietanze che un sorcio del ghetto come lui non s’era mai nemmeno immaginato.

“Sei stanco?” gli chiese, accostandosi per farsi sentire sul brusio della folla. Non attese nemmeno la risposta, gli prese il polso e andò verso una bancarella, pagando in fretta un sacchettino bianco sigillato “Ho avuto un idea” gli disse nell’orecchio, facendogli poi segno di seguirla.

Con sollievo, Levi notò che stavano tornando verso casa.

Una volta lì, però, Nina sembrava intenzionata a far qualcosa.

“Saliamo sul tetto” gli disse, mentre con l’occhio libero spiava le lancette della pendola “Intanto non troveremo mai gli altri in tempo per mezzanotte, manca poco meno di mezzora.”

“Sul tetto?”

“Capirai quando sarà mezzanotte il perché.”

Levi non fece altre domande, decidendo di assecondarla ancora una volta. Si impresse nelle mente che mancava poco a mezzanotte e che quindi poi sarebbe potuto andare a dormire, lasciando perdere tutti quei deliri. Non c’erano feste nel ghetto, non così tanto chiassose. Cosa avrebbero dovuto festeggiare, dopotutto? A mala pena sapevano che giorno dell’anno era e nemmeno per i matrimoni c’era più di un suonatore e qualche ospite sbronzo.

Il tetto era stranamente asciutto, complice il fatto che la leggera nevicata del pomeriggio era poi stata sostituita da un bel sole. Attenta a non scivolare a causa delle scarpe di vernice, Nina si tirò su dal lucernaio della sua stanza, andando a sedersi su una trave di raccordo fra le tegole. Levi la raggiunse e lei, stringendosi addosso il mantello, attese che lui si fu seduto per guardarlo “Devi ordiarci parecchio” iniziò, aprendo il sacchettino e iniziando ad appoggiare accanto a sé alcuni oggetti che Levi non poteva vedere. “Tutta questa confusione, per qualcuno di tranquillo come te, deve essere un incubo.”

“Non è poi così male” replicò spicciolo Levi, guardandola mentre apriva quello che sembrava un grosso rettangolo di carta bianco “Cosa diavolo è quello?”

“Una lanterna” rispose lei, sfilandosi una matita dal concio che aveva sul capo. In una cascata dorata, i capelli tenuti insieme da tante treccioline e nastrini colorati ricaddero sulla schiena e sul viso. Nina prese un foglietto, iniziando a scribacchiare qualcosa. Quando Levi si sporse per leggere, lei si ritrasse.

“Non leggere” gli disse, battendogli piano la matita sul naso e facendolo così allontanare “Questo è il mio desiderio.”

“Desiderio?”

“Sì, devi scriverne uno e attaccarlo alla lanterna. Se sei fortunato e la lanterna arriva oltre le mura, si esaudisce.”

“Che stronzata.”

Lei non rispose, finendo di scrivere prima di chiudere in quattro il foglietto “Quindi tu non vuoi scriverne uno?” lui la guardò semplicemente e lei capì. Per quieto vivere, Nina riprese a montare la lanterna. Nonostante sembrasse tutto normale, fu proprio da quel suo modo di lasciar perdere che Levi capì che le cose fra loro erano ben lontane dall’essersi sistemate. Conoscendola, la ragazza avrebbe insistito fino allo sfinimento per farglielo fare. Il fatto che avesse ceduto facilmente era un chiaro sintomo che era ancora arrabbiata per tutte quelle cose non dette e quelle infantili provocazioni lanciate del moro.

Levi decise di mettere un freno a quella situazione ridicola “A Briemer fa molto più freddo che qui” iniziò dal niente, attirando l’attenzione della ragazza che stava annusando una piccola candela bianca “Se l’avessi saputo, non sarei andato a cercare la donna che mi ha cresciuto. Mi sono gelate le palle lungo la strada del ritorno, in quel cesso di paesello chiamato Gershinka.”

Ora lei pendeva dalle sue labbra, quasi incredula per quella rivelazione spontanea “La donna che ti ha cresciuto?”

Lui annuì “Gretha” le disse, appoggiando le braccia sulle ginocchia e alzando il viso verso il cielo “Vive lì insieme al figlio bastardo dell’uomo che mi ha salvato la vita quando ero bambino. Prima che me lo chiedi, no. Non ho idea di chi cazzo sia, so solo che si chiama Kenny. È lui che cerco da quando sono venuto in superficie” fece una piccola pausa, prima di tornare a guardarla inclinando il capo “Speravo che Gretha sapesse darmi un’indicazione che valesse di più di qualche leggenda metropolitana, ma Kenny sembra essere sparito nel nulla e forse è meglio così. Tutto quello che so di lui è che è un grande stronzo e che viene da fuori del ghetto.”

Senza quasi accorgersene, Nina si appoggiò con la spalla a quella del moro, abbassando gli occhi sulla strada sotto di sé e verso la piazza gremita poco distante. Mancava poco, tante luci iniziavano ad accendersi, così anche lei posizionò la candela nella lanterna di carta “Tua madre?”

Lui abbassò un attimo gli occhi, prima di rispondere “È morta quando ero piccolo. Sono rimasto solo e questo tizio inquietante e fuori di testa mi ha sfamato e insegnato a usare un coltello.”  

“E ora lo vuoi ritrovare…. Cosa gli chiederai quando l’avrai trovato?”

“Tu non vorresti chiedere alla persona che ti ha salvato e insegnato a sopravvivere perché lo ha fatto? Per quello che ne so lui potrebbe anche essere…

“Tuo padre?” domandò lei senza nessuna inflessione particolare nella voce, mentre ponderava il fatto che forse a Briemer, Levi poteva avere un fratello. Lui si limitò a annuire brevemente, guardandola sfilarsi il bendaggio sull’occhio. Era rimasta solo una piccola crosta al limitare delle sopracciglia bionde, e un discreto livido attorno, ma nel complesso stava bene e voleva guardarlo come si doveva “Le Mura non sono poi così grandi” gli disse con un sorriso “Lo troveremo.”

Si scambiarono un’occhiata e lui parve quasi riconoscente.

Mentre si guardavano,  di fronte a loro sul profilo della città, qualche lanterna iniziava a librarsi in volo, seguita da tante altre “Mezzanotte!” strillò la giovane, prendendo un fiammifero dalla scatolina che teneva nella tasca interna al mantello, mentre passava a Levi la lanterna affinché la reggesse. Attenta a non bruciare la carta, Nina accese la candela, appoggiando sotto di essa il suo fogliettino. “Lasciala andare” disse quindi all’uomo che, dopo una lieve esitazione, lo fece rimanendo sorpreso nel vederla sollevarsi lentamente. Seguirono la rotta di quella lanterna fino a vederla congiungersi con centinaia di altre simili, fino a creare un fiume di luci che iniziarono a danzare, trasportate dal vento, illuminando la notte e accendendola di rosso “I Fuochi di Stohess” sussurrò Nina con tono quasi sognante “Li vedo ogni anno, ma non smettono mai di essere bellissimi.”

“Fanno concorrenza alle stelle” aggiunse Levi, per una volta, genuinamente stupito. “Ne è valsa la pena.”

“La nostra vita è così breve, che vedere questi spettacoli mi fa sentire meglio” sussurrò lei, prima di voltare il capo per guardarlo. Sorprendentemente, quello di Levi era già rivolto verso di lei “Grazie per avermi parlato di te, prima. Vorrei sapere tutto sulla tua vita.”

“Non c’è molto da dire, su di me.”

“Ne sei proprio convinto?”

Di nuovo, così come quella mattina alla partenza di Levi e Fritz, l’aria si accese, improvvisamente elettrica. La vicinanza, forse mescolata al coraggio infuso dalla birra e dall’ambiente famigliare, fecero balenare nella mente di Nina un’idea peregrina.

L’aver sprecato un’occasione un po’ le era pesato, a posteriori, seduta sul letto della mansarda vuoto. Sentiva dentro al suo cuore che se si fosse lasciata sfuggire anche quella possibilità, allora sarebbe stato come chiudere una porta che difficilmente sarebbe riuscita a riaprire. Levi non sembrava intenzionato a far nulla, le guardava il viso, gli occhi, le labbra, le mani che stringevano al petto le ginocchia, ma non faceva nulla se non pensare forse a quelle stesse considerazioni.

Nina, che s’era sempre sentita coraggiosa, ora improvvisamente timorosa come una bambina, fece la sua mossa.

Allungò piano la mano, passando le dita lunghe e belle sullo zigomo del moro, fino ad accarezzargli la guancia col palmo, cancellando qualche traccia residua di pigmento dal suo volto. Alla fine, ipnotizzata da quello sguardo quasi metallico, ma non freddo nonostante le iridi di ghiaccio, si sporse verso di lui, lasciando scontrare le loro labbra.

È fatta.

Il punto di non ritorno.

Sospirò contro la pelle dell’altro che, inaspettatamente, fece scivolare il braccio dietro alle sue spalle, facendola sbilanciare ancora di più verso il suo corpo.

Fu solo quando il bacio prese vita in un accarezzarsi di labbra e lingue, che Nina realizzò che era come se entrambi non stessero aspettando altro. La mano che s’era abbassata tornò ad alzarsi sulla nuca del moro, accarezzandone i capelli rasi fino a quelli più lunghi e sottili, che strinse senza forza. Quella libera di Levi, invece, andò ad appoggiarsi sul suo ginocchio, scivolando poi sotto alla mantella verde fino al fianco della ragazza, dove trovò il suo appoggio.

Il bacio accrebbe di intensità, per poi tornare a stabilizzarsi in un sensuale movimento reciproco di bocche. Quando si staccarono, perché Nina aveva bisogno di prendere aria, si guardarono semplicemente negli occhi.

Lei sospirò, sentendo le labbra pulsare dalla voglia di ritrovare quelle dell’altro “Levi io-”

“Taci.” Lapidario, fu il moro a cercare il contatto, tirandola di nuovo a sé col braccio attorno alle sue spalle.

Decisamente, è fatta.

Nina non represse un moto di pura euforia, lanciando entrambe le braccia attorno al collo del moro. Stava già pensando di proporre a Levi di spostarsi nella stanza di Rielke, ben conscia che nessuno dei due era alle prime esperienze e che quindi avrebbe avuto delle remore a concludere la giornata di festeggiamenti col botto. Stava solo pensando a come mettere giù la frase senza far capire che non aspettava altro se non darsi completamente a lui, quando una grossa mano le batté sulla spalla, facendola sussultare.

Si staccò di colpo, conscia che avrebbe urlato se le sue labbra non si fossero trovate così occupate.

“Cazzo!” Levi invece non si trattenne, colto di sorpresa per la prima volta da quando si conoscevano, a causa della gemella di quella mano  che s’era abbattuta anche sulla sua schiena. Quando entrambi alzarono il capo sul volto sorridente di Erwin che li sovrastava, s’ammutolirono. Levi fu bravo a mascherare  il palese imbarazzo con la solita stizza apatica “Arrivare alle spalle in questo modo è pericoloso. Sei fortunato che io non abbia un coltello con me.”

Nina, invece, non replicò, scivolò solo di lato quando il fratello mostrò la sua intenzione di sedere fra i due e prese il bicchierino fra le mani quando Erwin glielo porse. Uno a uno, i tre bicchieri vennero riempiti da un liquore che odorava di limoni “Vi cercavo per augurarvi buon anno” fu la risposta candida del Capitano, mentre riponeva la bottiglia “Se avessi saputo a che portata si erano estesi i festeggiamenti su questo tetto, non sarei venuto.”

“Erwin, ti supplico” Nina portò una mano al volto, lasciando ai capelli il compito di nascondere il rossore delle gote. Stava andando a fuoco.

Il biondone fece loro la grazia, poiché si limitò a sorridere rivolto verso il cielo, reprimendo il desiderio impellente di dire altro. Poi alzò il bicchiere verso le stelle, come a voler brindare con esse “Quest’anno sarà diverso, lo sento” iniziò, attirando l’attenzione degli altri due che stavano guardando ovunque se non lui o l’altro “Avremo una svolta” proseguì “Questo sarà l’anno in cui la ricognitiva avrà il posto che le spetta.”

Anche Nina alzò il bicchiere, imitata poco dopo da Levi “Alla Legione. Che durante questo 845 non provino a sopprimere il corpo. Di nuovo” disse la giovane, battendo piano il bicchiere verso quello degli altri due, per poi buttar giù il liquido forte.

Non potevano sapere a che tipo di svolta stavano andando incontro, ma ciò non gli impedì di passare il resto della notte a sognare un mondo in cui il loro lavoro avrebbe dato così tanti frutti, da non aver più bisogno di una Legione esplorativa.

Ne di quattro Mura a chiudere gli orizzonti.

 

L’alba stava tingendo di rosa e arancio il cielo e Fritz si apprestava a partire.

La bella nottata che si era figurato con Nina, a ballare e ridere insieme non si era potuta realizzare, contando che aveva recuperato la compagnia della giovane solo una volta tornato a casa con gli altri. Leopold e Rielke l’avevano salutato alla meno peggio, prima di ritirarsi a dormire mezzi ubriachi e stanchi morti. Il rosso, che si era rifiutato di tornare a cavallo con lui e Engel quella stessa mattina, gli aveva battuto incoraggiante una mano sulla sua spalla.

“Io la licenza me la sono tenuta” aveva detto con impertinenza tipica di lui “Se tu non sai far piani, è affar tuo! Buon ritorno a Nedlay!”

La prospettiva del nord non lo animava, ma almeno sarebbe passato da casa a dormire prima di avviarsi il giorno successivo.

Engel era già seduto sul cavallo, occhi chiusi e mento appoggiato al petto, nascosto dalla pensante mantella.

Gli parve addormentato.

“Siete sicuri di voler andar via così?”

Fritz si voltò verso Nina, che con gli occhi appesantiti dalla stanchezza non si era comunque tirata indietro e aveva deciso di salutarlo per bene. Sistemò l’ultima cinghia della sella, prima di fronteggiarla, appoggiandole le mani sulle guance “Non ho il tempo per dormire, ora” le fece sapere, prima di sospirare grave “Ci rivedremo alla fine della primavera, temo.”

“Pregherò mio fratello per farti assegnare a Trost, in qualche modo” Nina lo abbracciò per i fianchi, appoggiando l’orecchio sul petto del ragazzo e godendosi i battiti del suo cuore, un poco accelerati dalla sua vicinanza “Un giorno lavoreremo gomito a gomito, io e te.”

“Sono anni che me lo auguro.”

Si abbracciarono il più a lungo possibile e poi Meier, costretto, si staccò per guardarla. Come ogni volta, si chinò su di lei per baciarla, ma lei glielo impedì, tirandolo a sé e appoggiando le labbra sulla sua fronte.

Qualcosa era cambiato irrimediabilmente.

“Fa attenzione lassù, va bene? E scrivimi ogni settimana.”

Un po’ deluso dal bacio mancato, ma con un sorriso dolce sulle labbra sottili, il dottore la lasciò andare “Come sempre.” Salì sul cavallo con un saltello fiacco, sistemandosi la mantella mentre Nina si stringeva addosso una coperta di lana  bianca intrecciata “Riguardati, Nina.”

Lei alzò una mano, in segno di saluto “Anche tu. Sappi che sei sempre nei miei pensieri.”

“Nina, io ti-”

“Allora andiamo?” Engel, che pareva essersi destato all’improvviso, si rese conto di aver interrotto qualcosa, ma non ne poteva più “Voglio andare a dormire e siamo a due ore e mezzo dalla Capitale.”

“Andiamo, andiamo!” sbuffò Meier, prima di guardare di nuovo la donna di cui era tanto preso “Ci vediamo tra qualche mese!”

I due cavalli si avviarono sul ciottolato e Nina non attese di vederli sparire oltre la via per rientrare, così stanca da riuscire a mala pena ad infilarsi nel letto di Rielke, accanto a Levi, prima di addormentarsi contro il suo petto, senza esitazione alcuna.

 

Se avesse saputo che quella sarebbe stata l’ultima volta il suo sguardo si sarebbe posato sul sorriso dolce di Fritz, allora non l’avrebbe lasciato partire.

 

 

 

Nda.

 

So che sono sempre più in ritardo, ma tra l’esame finale della mia carriera da triennale e la tesi ho sempre meno tempo e riempio i buchi notturni con la scrittura.

Questo capitolo trasuda tutto il mio percorso di studi in Antropologia: feste,  che richiamano i nomi delle festività pagane, usi e costumi strani e addirittura abitudini alimentari!

Mi sono proprio divertita.

 

Spero piacerà anche a voi, grazie a chi legge e in particolare a chi mi recensirà.

Grazie alla dolce pulzella che ha lasciato un commentino all’ultimo capitolo e a chi segue e basta.

 

Alla prossima!

C.L.

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Capitolo 12
*** Capitolo Undicesimo ***


11

 

Wenn die Sterne leuchten.

 

 

 

 

 

Capitolo Undicesimo.

 

 

 

There's something inside me that pulls beneath the surface consuming,
Confusing what is real.
This lack of self-control I fear is never ending controlling,
Confusing what is real.

https://www.youtube.com/watch?v=oRJiYlJNWps

 

 

                  Anno 846

Nelle terre perdute di Maria.

 

 

 

 

Nina li aveva visti arrivare dalla cima di un tetto. Un corteo di cavalli in marcia che recavano sul dorso altrettanti soldati dalle insigne alate.

S’era scapicollata a scendere sul selciato usando l’attrezzatura, cercando di raggiungerli prima ancora di vederli entrare nel borgo.

Erano venuti a prenderla, finalmente. Non le pareva quasi vero che di quella solitudine opprimente sarebbe rimasto presto solo il ricordo lontano.

Non portavano con loro nessun carro, segno che non avevano intenzione di rimanere fuori molto. Levi doveva esserci riuscito, infine: aveva mantenuto la promessa, era tornato per lei. Nina aveva cercato di incontrare lo sguardo criptico del moro, mentre la Legione entrava nella piazzola e si disponeva ordinatamente per disporre dei turni di vedetta e di difesa. Non le era sfuggita un’occhiata forse un po’ cupa di Mike, ma non vi aveva inizialmente dato troppo peso, tanta era l’euforia di essere arrivata fino a vedere di nuovo quei volti.

Erwin era arrivato quasi per ultimo, come a chiudere il gruppo che si era apprestato a radunarsi attorno a lei, improvvisamente non curante e indaffarato. L’aveva visto scendere da cavallo e non aveva atteso nemmeno prima di correre da lui, circondandogli il busto con le braccia e affondando il viso contro al suo petto ampio. Aveva inalato quel profumo di casa, di sicurezza, concedendosi qualche istante prima di staccarsi per quel poco che le serviva per alzare il viso e guardarlo.

Il sorriso rassicurante di Erwin non c’era, però. La guardava serio, con quel cipiglio di pura disapprovazione che raramente aveva riservato a lei. Poi le aveva appoggiato le mani sulle spalle, per farla scostare da sé.

“Erwin..?”

“Venire a riprenderti ci è costato molto, Nina. Credevo che avessi detto che non saresti più stata un peso per me e la Legione, ma ti sei rivelata di nuovo la bambina bisognosa di attenzioni che sei in realtà.”

La ragazza sentì il respiro mozzarsi in gola mentre il desiderio di sprofondare nel terreno diventava più impellente del sollievo di sentirsi al sicuro.

M-mi dispiace” sussurrò, contrita “Io volevo tornare e-”

“Dovevi rimanere in un posto dove potevamo trovarti.” Erwin calcò nuovamente sulle sue colpe, facendola sentire piccola e insignificante “Abbiamo perso degli uomini per venire a prenderti. Molto uomini. La loro morte è stata inutile.”

Nina abbassò il capo, lasciando scivolare in avanti i capelli sfuggiti alla treccia, che andarono a coprire il volto. Una mano si alzò, aggrappandosi al mantello del fratello, così come avrebbe fatto una bambina. Proprio una bambina, così come aveva detto lui.

Sentì il peso di quella consapevolezza schiacciarla, mentre l’altro non faceva nulla per confortarla.

“Dov’è Levi?” chiese quindi, intimidita da quell’uomo che hai suoi occhi era perfetto. Un eroe.

Mentre lei era solo Nina, la sorella minore. Il peso.

“Ancora non l’hai capito?” domandò freddamente il biondo, mentre una brutta sensazione iniziava a farsi strada nel petto pesante della giovane donna.

…Cosa?”

“È successo mentre venivamo qui. Levi è-”

 

Un boato la fece scattare seduta sul materasso, svegliandola di soprassalto. Nina portò una mano alla fronte, realizzando che quel brutto sogno non era reale, che nessuno era venuto a salvarla e – cosa ancor più importante- che nessuno era morto per lei. Portò una mano sul petto, sentendolo sormontato da un peso enorme. Altri tonfi forti le fecero capire cosa stava succedendo. A destarla era stato un gigante.

Scocciata e ancora provata, la ragazza si stese sul materasso, tirando la coperta fin sopra al capo e mugolando piano.

Durante la sua permanenza lì aveva notato che anche se erano molti i giganti che ogni tanto camminavano per la piana attorno a lei, solamente tre sembravano non allontanarsi mai troppo, nemmeno si sentissero in qualche modo a casa. Li aveva nominati campioni di riferimento Eins, Zwei e Drei,  ed erano rispettivamente un classe sei metri, un classe dieci metri e un classe quattro. Erano i giganti su cui stava ‘lavorando’, dei quali annotava i comportamenti e le abitudini. Zwei raramente si avvicinava alla borgata, preferendo costeggiare il limitare del bosco in un perenne avanti e indietro di fronte ai tronchi degli alberi. Appariva solitamente verso la metà del pomeriggio e tornava a sparire appena calava il sole. Nina si era anche chiesta dove andasse, magari l’avrebbe seguito uno di quei giorni.

I numeri Eins e Drei erano tutta un’altra storia invece. 

Drei rimaneva immobile anche per giornate intere nello stesso punto, in mezzo alla piana circostante la borgata, fisso col volto rivolto verso il bosco. Eins preferiva esplorare il villaggio nei momenti meno opportuni e più di una volta avevo costretto Nina a salire su un tetto e rimanere li per ore intere, in attesa di vederlo spostarsi.

Era anche il simpatico artefice delle sue sveglie mattutine. Nina aveva pensato di ucciderlo, ma aveva sempre preferito rimandare per non buttare all’aria i dati delle sue osservazioni. Arrivata a quel punto, però, non ne poteva più. Ogni giorno era una pena venir destata a quel modo; le veniva la nausea e sentiva il cuore in gola. Senza contare che era pericoloso, oltre che avvilente. Magari riusciva in qualche modo a fiutarla, al contrario degli altri due, per questo era così tanto interessato alla borgata. Se si fosse distratta anche una volta sola? Se non avesse controllato bene ogni angolo?

Non valeva la pena rischiare.

Avrebbe messo Eins a dormire per sempre e l’avrebbe fatto quella sera stessa.

 

Si era appostata su un albero di pesco, proprio al limitare della stradina che conduceva dentro al paesello, e poi aveva atteso. Eins non ci aveva messo molto ad arrivare, forse attratto dal suo profumo. Nina si era fatta un bagno per l’occasione, usando una vecchia saponetta al limone, certa che avrebbe ottenuto i risultati sperati. Le fronde dell’albero l’avevano comunque protetta a sufficienza alla vista, tanto che il gigante l’aveva raggiunta e superata, camminando verso le case con il passo strascicato di un ubriaco.

La ragazza aveva atteso di vedergli bene la nuca, adocchiando gli altri due giganti e giudicandoli sufficientemente distanti per tentare l’impresa. In una condizione normale, non si sarebbe posta tutti quei problemi. Aveva letteralmente camminato fra i giganti quando il muro Maria era crollato, circondata da una folla isterica in fuga e da quei bestioni che tentavano in ogni modo di afferrare quante più persone possibile.

Eppure così lontano da casa, da sola, impossibilita a ricevere soccorso, aveva preferito seguire una linea di basso profilo.

Solo quando si era sentita sicura, aveva ancorato il cavo di acciaio all’attaccatura dei capelli del mostro, dandosi subito dopo lo slancio sufficiente.

La collottola del gigante era venuta via con un singolo movimento pulito, così preciso da non rovinare nemmeno le preziose lame.

Nina era caduta insieme alla carcassa immobile, scendendo con un salto agile dalla nuca, mentre ancora teneva in mano entrambe le spade. Alle sue spalle sentì dei passi veloci far tremare il terreno, segno che era arrivato il momento di correre. Non attese di certo di scoprire chi dei due giganti rimanenti avesse deciso di caricarla, strinse nelle mani i comandi del modulo e puntò alla prima casa che sorgeva sul borgo, usando più gas di quanto avrebbe voluto e riavvolgendo rapidamente i cavi metallici.

Era ancora in volo quando non sentì più il gigante correre.

Attese comunque di sentirsi al sicuro sul tetto alto, prima di voltarsi.

Proprio mentre volgeva lo sguardo indietro, un urlo straziante squarciò il silenzio della campagna al tramonto.

Inginocchiato accanto al corpo fumante del suo simile, Drei stava ancora urlando. Nina lo osservò, cercando di comprenderne il comportamento, mentre oltre il bosco, la testa di Zwei iniziava a sparire oltre le corolle degli alberi, così come ogni sera.

Poi il quattro metri fece qualcosa di ancor più assurdo.

Lanciando ancora qualche grido, seppur più flebile, portò le mani al terreno, iniziando a strappare grandi porzioni di terra, scavandola via con le unghie fino a disintegrarsi le mani, che presero a fumare.

Nina era così sconvolta da quella vista da non riuscire a far nulla se non tremare.

Sembrava provare dolore.

Sembrava provare dei sentimenti veri.

E lei non poteva accettarlo.

 

 

 

 

 To find myself again
My walls are closing in
I've felt this way before
So insecure

 

 

 

Anno 845

Tempo di cambiamenti.

 

 

…Ragion per cui, qualora fossi io venir scelto per ricoprire la carica di Comandante della Legione Esplorativa, toglierei la metà dei fondi alle zone interne di Trost e Nedlay, in favore dei distretti di Shigashina e Briemer. Per quasi un secolo, queste località sono state messe in secondo piano, ma ora basta! I distretti esterni sono il cuore della Legione, il luogo da cui noi usciamo, che nulla mancano rispetto alle sedi principali, se non nella cura delle caserme e nel numero dei soldati. Non ci saranno più quartieri generali di serie A e B, ma solo un unico, grande organico paritario.”

La fine del discorso di Schäfer venne accolta con uno scrosciare di applausi più o meno convinti. Nina lo fece giusto per educazione, mentre i suoi occhi indugiavano sulla figura di Erwin, seduto in prima fila, a qualche metro da lei. Erano quasi sei ore che se ne stavano seduti su quelle sedie e ormai non le doleva solamente il sedere. Le faceva anche male la testa.

Non ne poteva più di discorsi, tattiche, pratiche burocratiche e altisonanti puntualizzazioni.

Ormai tutti avevano capito l’aria che tirava e continuare su quella linea sembrava quasi un insulto all’intelligenza collettiva.

Shadis lasciava la Legione e aveva designato un successore che non tutti approvavano.

Non c’era altro da sapere.

I soldati di Trost l’avevano saputo al ritorno da Yule, mentre fuori imperversava una tormenta di neve che nascondeva la vista del cielo e delle campagne attorno a Irsee. Il Comandante dell’esplorativa aveva detto tante parole belle infiocchettate, ma il succo era uno solo: non si sentiva di continuare e aveva chiesto un preavviso di quattro mesi in cui sarebbe stato nominato il suo successore.

Erwin, per la precisione.

Quell’impegno enorme era piombato sulle spalle del biondo un po’ prima di quanto l’uomo aveva previsto, ma non si sarebbe tirato indietro. Non una volta arrivato così vicino a vedere esaudite le sue speranze. Aveva grandi piani, aveva dei sogni e non si sarebbe fermato, non dopo aver lavorato così tanto per arrivarci. Nina glielo leggeva in faccia che, nonostante la sorpresa, Erwin non aspettava altro.

Zackley, che fra tutti pareva il più annoiato e stanco da quella situazione pesante, guardò il Capitano Schäfer tornare al suo posto, tenendo fra le mani i fogli su cui aveva annotato pochi dettagli circa il discorso appena concluso.  Per anzianità, il posto di Comandante sarebbe dovuto andare a Katz, sovraintendente di Renin, che aveva terminato l’accademia addirittura prima di Shadis. Non era stato però nemmeno preso in considerazione, così come nessuno proveniente dalle zone dell’est. La vera guerra si combatteva fra Trost e Shigashina, visto che persino Erik Schmitd aveva ritirato la candidatura che i suoi uomini avevano portato avanti, sostenendo che anche Briemer avrebbe appoggiato Smith, se Nora Kessler non fosse tornata in Legione, lasciando la Gendarmeria per governarli.

Nina lanciò uno sguardo proprio a Schmitd, mentre Erwin si alzava, sistemandosi la giacca e salendo sul gradino per fare a sua volta un discorso.

“Che noia” fu il solo commento divertito dell’uomo del nord, mentre alla sua destra il Caporale Scwartz e il Capitano Jürgen commentavano quel discorso sottovoce, la prima felice della proposta in quanto stanziata a Briemer e il secondo, di Nedlay, un po’ meno allegro “Ci vorrà ancora molto? Mangerei un cinghiale intero.”

La dottoressa, che di quelle lunghe e deleterie riunioni non ne aveva mai viste prima (e per questo quasi rimpiangeva la promozione), portò una mano a nascondere le labbra piegate in un sorriso, mentre rispondeva “Anche io. Tra poco la mia pancia parlerà per me.”

“Infondo è una farsa” proseguì Mike, seduto alla sinistra di Nina. Anche lui era stato proposto, visto che era addirittura più grande di Erwin di qualche anno, ma velocemente Zacharius si era tirato indietro, sostenendo di aver fiutato più lati negativi che positivi in una tale promozione “Schäfer più chiedere tutte le votazioni che vuole, ma il successore viene stabilito dal Comandante in carica da sempre. Se Shadis vuole Erwin, lo avrà.”

La bionda annuì piano. Sapeva che suo fratello sarebbe stato giudicato il più idoneo anche solo per le sue competenze, oltre al fatto che tutti avrebbero votato per lui. Prima fra tutte il Comandante Kessler, che lo stava guardando proprio in quel momento mentre Erwin si preparava a parlare, senza nemmeno aver annotato una parola preliminare. Dietro alla bella donna, Friedelhm fece l’occhiolino a Nina, sporgendosi poi verso Doak per dirgli qualcosa che fece sghignazzare sotto i baffi l’uomo.

Il discorso del Capitano Smith iniziò.

“Sono tanti gli aspetti dell’attuale gestione che cambierei e, per la maggior parte, non mi sento di imputare colpe al Comandante Shadis.”

Tutti lo stavano guardando in silenzio, fremendo per ciò che l’uomo aveva da dire. La sua reputazione lo precedeva, senza contare che era il pupillo di non uno, ma di due Comandanti con una certa levatura. Tutti si aspettavano grandi cose da lui e Erwin non aveva intenzione di deludere le aspettative di nessuno. “Lo spreco di risorse a nord è la mia principale preoccupazione.” Accanto a sé, Nina poté sentire Erik rizzare la schiena a quelle parole, mentre qualche sedile più in là, il Caporale Scwartz e il Capitano Jurgen smettevano definitivamente di parlare sotto voce. La questione del nord, come la chiamavano coloro che vivevano sotto Nedlay, era delicata e Nina non si era di certo stupita quando suo fratello aveva iniziato da lì “Il Capitano Schäfer ha parlato di dar più fondi ai distretti esterni, di dare finanziamenti laddove c’è bisogno per le uscite e levarne alle città dell’interno. La mia domanda è: di quali soldi parliamo? Tutti sappiamo che di soldi non ce ne sono.” Ancora, silenzio. Aveva toccato il punto critico, quello che nessuno voleva mai affrontare, ma che era tristemente alla base di ogni problema dell’esplorativa: il costante bisogno di fondi che non arrivavano. O mangiavano o compravano attrezzature di qualità, pagavano i soldati e mantenevano i loro quartier generali. I soldi erano la loro principale preoccupazione.

Non i giganti. 

“Tutti sappiamo che la Legione spende più di un terzo delle tasse complessive dei cittadini  delle Mura nell’arco di sedici mesi.  In molti si chiedono se sia possibile chiedere più stanziamenti, pagare allo stesso modo i soldati del nord e quelli del sud, delle sedi principali e le succursali esterne. Quello che mi chiedo io è invece se abbiamo davvero bisogno di tutte queste caserme.” Fece una pausa, spiando la platea senza davvero guardare nessuno, anche se ogni singolo partecipante alla riunione si sentì trafitto dal suo sguardo penetrante “Se sarò io a prendere il posto del comandante Shadis mi impegnerò al fine di creare soli due nuclei primari. Sopprimerò non solo le caserme ad ovest e est, dove non possiamo mantenere dieci o quindici uomini in panciolle tutto l’anno. Prenderò anche un provvedimento per quel che riguarda Briemer e Shigashina, spostando i soldati di istanza lì nelle caserme militari di Trost e Nedlay, chiudendo anche il quartier generale di Irsee, poiché le caserme della Guarnigione sono anche a disposizione dell’esplorativa e vanno benissimo per alloggiarvi gli uomini. Non possiamo permetterci un tale dispendio di moneta. I soldi che verranno stanziati andranno solo a sfamare e allenare i soldati, ottenendo così molti più fondi per le spedizioni che sono e sempre saranno la nostra priorità. Non sono d’accordo con il Capitano Schäfer. La Legione esplorativa ha come unico compito quello di andare oltre le Mura e indagare la natura dei giganti, non di far  vivere una bella vita ai suoi uomini sulle spalle dei cittadini. Le basi di Hanneke e di Irsee sono superflue, così come avere sei nuclei diversi di soldati. Saranno solo due, quello del sud guidato da me e quello del nord guidato da Erik Schmidt che avrà la delega non solo di Capitano decorato del nord, ma anche di secondo in carica al Comandante che poteri quasi uguali.”

Appena Erwin smise di parlare ci fu silenzio, che però venne presto squarciato dal malcontento di coloro che si vedevano privati di posizioni e basi. Erwin non gli diede peso e in ogni caso, bastò una mano alzata di Zackley per porre fine a ogni diatriba “Credi sia possibile realizzare un simile progetto,Smith?” chiese il Comandante Supremo dell’esercito, incrociando le mani sulla scrivania.

“Non solo lo credo possibile, sono pronto anche a portarlo avanti e realizzarlo nel giro di massimo tre anni.”

Fu il turno di Pixis di parlare, questa volta “In tre anni riformeresti completamente la Legione esplorativa? Non sono mai stati effettuati dei cambiamenti così radicali in nessuna branca dell’esercito. Credi davvero di riuscirci, ragazzo?”

Erwin lo guardò, portando le braccia dietro alla schiena “Non lo credo. Ne sono certo. Possiamo fare il doppio delle uscite e avere anche delle attrezzature e dei ranci degni di questo nome. Non ho paura di pestare qualche piede per garantire ai miei uomini il meglio. Al nord non è possibile effettuare delle uscite oltre le Mura  in inverno, ciò significa che manteniamo dei soldati a far nulla per quanti? Almeno sei mesi? Lassù il clima è rigido per molto tempo. Possono uscire da Renin o da Pereta, nel frattempo. Se sono di istanza a Nedlay, poi, sarà molto più semplice per tutti comunicare evitando i passi di montagna impervi. Uno dei miei uomini è rimasto bloccato a Briemer quando ha portato le disposizioni di Shadis, lo scorso novembre. Queste cose non possono e non devono succedere. L’efficienza sarà la mia priorità.”

Pixis l’aveva guardato con una strana luce negli occhi, mentre il Comandante Kessler, che pareva compiaciuta, aveva lanciando un’occhiata a Zackley “Abbiamo bisogno di parlarne ancora per molto? Ho delle questioni da sbrigare poi Shadis, con  buonsenso, ha già scelto il Capitano Smith.”

Nina guardò nuovamente verso Erik e gli uomini del nord, che si erano fatti assai seri. In caso di una votazione per alzata di mano, forse non sarebbero stati più così entusiasti di votare per suo fratello.

“Non è buona la situazione, vero?”

Nina si era sporta verso Mike e Hanji, i cui occhi saettavano da una parte all’altra della stanza “Non lo so. In realtà potrebbe esserlo ma…. Non credo che i valenti uomini del nord o i soldati del sud siamo molto felici, al momento.”

“Quel che dirà Erwin sarà legge” decretò secco Mike “Chi non ascolterà, potrà andare alla forca.”

“Ho solo un’altra domanda” Zackley guardò verso Erwin, accavallando le gambe sotto al tavolo e sporgendosi verso lo schienale, mentre ormai tutti arrivavano a capire perfettamente l’aria che tirava. Anche un tardo ci sarebbe arrivato, soprattutto perché a Schäfer non era stata chiesta nemmeno una delucidazione, come se le sue parole non avessero avuto alcun peso. “Come regoleresti il nord, se è così tanto complesso da tenere in riga? Che compiti affideresti al Capitano Schmidt?”

Erwin si umettò le labbra, guardando proprio verso il vecchio amico e leggendoci la disapprovazione velata che sapeva avrebbe albergato la sua espressione “Con stessi poteri, o quasi, intendo dire che a Erik Schmidt andrà la discrezione per le uscite, se il Comandante Supremo Zackley approverà la mia proposta. Il nord e il sud saranno due poli indipendenti, evitando così attese e scartoffie. Inoltre, la paga sarà la medesima, a costo di scalare un po’ di monete dai soldati di Trost. Siamo tutti legionari allo stesso modo e un Caporale del nord vale tanto quanto uno del sud.”

Non ci furono altri discorsi, ne altre domande.

Zackley alzò gli occhi sul volto di Erwin, sfilandosi gli occhiali come per guardarlo senza filtri “Non so se sto per fare la cosa giusta. Il tuo ardore…. Mi spaventa, Smith” attese ancora un attimo, prima di incrociare le mani sotto al mento “Nonostante questo mio pensiero personale, rispetterò il volere del Comandante in carica come è sempre stato. Erwin Smith, a quattro mesi da oggi subentrerai al Comandante Shadis e allora disporrai questi cambiamenti. La seduta è tolta, andate a mangiare.”

“Che bella notizia!” E Pixis fu il primo a saltare in piedi.

Friedhelm, si alzò lentamente, stirando le gambe mentre con lo sguardo cercava gli occhi della sorella, seduta fra i legionari. Quando li incontrò le fece segno di raggiungerlo e a quel punto, Nina si alzò a sua volta. Non ne poteva più. Non credeva che diventare il Primo Ufficiale Medico di Trost avrebbe comportato anche quel genere di noiosissime incombenze.

“Ci vediamo dopo.”

“Non ubriacarti senza di me! Ordine del tuo caposquadra, Nina!”

Il Sergente Müller sorrise ad Hanji, prima di sfilare fra le sedie, appoggiando anche una mano sulla spalla di Erik che a sua volta stava cercando di liberarsi per raggiungere Erwin. Era arrivato il momento non solo delle congratulazioni, ma anche di parlare per bene dei piani non decisi in comunione.

“Quell’idiota di Smith. Pensa di appiopparmi gli uomini di Briemer? Gliela farò vedere io!”

Passando, Nina colse questa frase. Riconobbe subito chi l’aveva pronunciata, anche se nessuno li aveva mai presentati  “Capitano Jürgen di Nedlay?” questo si era voltato, guardando la giovane dottoressa un po’ spiazzato. Sapeva benissimo chi le fosse e forse temeva che l’avesse sentito parlare così del fratello. Peccato che alla ragazza poco importasse di quella faccenda ancora così astratta“Sono Nina Müller” aveva quindi porto la mano, sorridendogli e attendendo di sentirgliela stringere “Mi dispiace disturbarla, ma mi chiedevo se potesse portare i miei saluti a Friederich Meier. Lo conosco da molto tempo e un saluto è più veloce di una lettera. Ora, con permesso” passò fra lui e il Caporale Schwarz , sorridendo delicatamente anche alla donna, infilando poi le mani nel cappotto lungo marrone con le insigne della Legione e del suo grado, prima di affiancarsi a Fried che la guardava in attesa “Possiamo andare”

“Gli permetti di parlare così di Erwin?”

“Chi sono io? La sua balia? Erwin è abbastanza grosso da capire che non può far contenti tutti.” Lo guardò vagamente divertita, prima di prenderlo a braccetto, andando proprio verso il Capitano Smith, che ancora non pareva aver a fondo realizzato cosa stesse succedendo. Forse erano le mani di Nora Kessler, appoggiate alle sue guance, a distrarlo.

 

“Quindi è andata male?”

“No, è andata bene, ma sei ore di riunione, a sentir parlare un po’ tutti gli alti ufficiali dell’esercito, sono state dure. Ti ho pensato parecchio: sicuramente ti saresti alzato e te ne saresti andato a metà del discorso di Shadis, visto che è durato un’ora e un quarto.”

Levi aveva alzato gli occhi dalla mela che stava tagliando a spicchi, portandoli sulla figura di Nina, in piedi a pochi metri a lui. Avevano trascorso quella domenica mattina di riposo ad allenarsi con il modulo per lo spostamento tridimensionale e la bionda stava ancora cercando di capire come utilizzarne i comandi adoperando l’anulare e il mignolo, tenendo così la lama sinistra al contrario, come faceva sempre Levi quando si dava lo slancio per affettare per bene il collo di un gigante. “Quindi presto tuo fratello sarà il grande capo? Speriamo di avere dei vantaggi e un aumento di stipendio.”

“Erwin farà un buon lavoro, maledetto opportunista.”

Il moro la guardò quasi annoiato e Nina non seppe dire se stava o meno scherzando. Si limitò ad abbassare il braccio, portando la mano libera alla spalla e massaggiandola piano. Sentiva tutti i nervi tesi e nel profondo del cuore sapeva che non sarebbe mai guarita del tutto. La polvere da sparo ha di per sé un impatto terribile sulla carne, i pallettoni poi…

Doveva ringraziare Hans Lobov e sperare che, ovunque l’avessero rinchiuso, gliela stessero facendo un po’ pagare.

“Ti fa male la schiena?”

Nina alzò gli occhi chiari sull’uomo che ancora sedeva sul tronco sdraiato a terra di una betulla, guardandolo portarsi uno spicchio alle labbra. “Quest’inverno è stato più duro per le artriti che per gli allenamenti” disse divertita, con tono ironico, mentre avanzava verso di lui, rinfoderando la lama per potersi sfilare il modulo da attorno ai fianchi. Quando si sedette accanto a lui, Levi le passò metà del frutto, finendo di masticare velocemente mentre le faceva segno di voltarsi in modo da fargli vedere la parte lesa “Guarda che sono io il medico.”

“Stai zitta e girati” fu la sola risposta che ottenne e, facendo un conto veloce degli insulti coloriti che Levi di solito riusciva ad inventarsi, era stato quasi gentile. Non se lo fece comunque ripetere, spostando la treccia sull’altra spalla mentre sganciava la mantella verde. Sotto di essa non indossava la divisa di servizio, ma un maglione nero e un paio di braghe color crema, oltre ovviamente all’imbragatura. Aprì la fibbia al centro del petto per sfilarsi quando possibile la parte superiore, abbassando le cinghie mentre Levi spostava il maglione di lana grezza dalla spalla, portando la mano fredda sulla zona ferita e causandole un brivido, oltre che un immediato sollievo.

Faceva ancora freddo, nonostante fosse il primo giorno di marzo. La neve si era sciolta e il cielo era più limpido del solido, ma l’aria attorno a loro odorava ancora di un inverno che non sembrava intenzionato a cedere campo molto preso alla primavera. Lasciò che l’uomo lavorasse sulla sua spalla, cercando di scioglierle i muscoli,  seppur i suoi modi fossero un po’ bruschi, Nina si sentì subito meglio. Inclinò di lato il capo così da dargli più accesso alla zona interessata, mentre finiva quella metà di mela, guardando verso il limitare del bosco, fra le fronde, la figura del Quartier Generale che si stagliava innanzi a loro. Non era nemmeno mezzogiorno e non si vedeva nessuno lì attorno, eccetto i poveri cadetti di ronda sulle mura. Gli ufficiali, i quali potevano godersi la domenica come giorno di libertà, difficilmente si sarebbero visti in giro prima del pasto.

“Vuoi allenarti un po’ nel corpo a corpo?” chiese lei quando le mani dell’uomo si abbassarono, dopo averle sistemato il maglione e sollevato nuovamente il supporto di cuoio delle spalle, collegato al solito labirinto di cinghie e fibbie.

…No.” La risposta ci aveva messo un po’ ad arrivare. Levi aveva appoggiato la fronte sulla schiena di Nina, al centro esatto, poco sotto all’attaccatura del collo. Lei era rimasta ferma, con un sorrisetto sulle labbra e la mantella in  una mano, mentre l’altra andava ad appoggiarsi sul ginocchio dell’altro.

A un occhio esterno, le dinamiche tra loro non dovevano sembrare cambiate. In realtà, da quella notte sul tetto di casa Müller a Stohess, tutto era cambiato.

Ad iniziare da piccoli, insignificanti dettagli come quel contatto fisico che Levi sembrava non voler mai richiedere, ma di cui aveva bisogno, seppur nascondesse ogni richiesta in una muta presa di posizione. Nina, dal canto suo, si era sempre sentita brava a  capire le persone; non l’avrebbe forzato a darle più di quanto lui voleva ed erano quei momenti di solitudine che le facevano capire che ciò che lui aveva intenzione di darle, era esattamente quello che lei in fondo avrebbe chiesto.

Si era riscoperta innamorata di ogni aspetto del carattere difficile di quell’uomo strano, a tratti incomprensibile. Aveva capito che sotto ad un primo strato di ghiaccio, nel quale aveva rinchiuso il suo cuore molto tempo prima di crescere e diventare ciò che era, c’era forse l’uomo più buono e gentile che aveva mai incontrato. Perché questo era Levi, una persona buona. Lo vedeva prima di tutto nel suo modo di rapportarsi con lei, nel suo modo di confrontarsi con gli altri, facendo ogni giorno sempre più passi avanti verso l’integrazione in quella comunità che infondo gli era stata imposta.

Levi non sarebbe mai stato un uomo da grandi dimostrazioni d’amore o discorsi impegnati.

Rimanevano però quei loro momenti di intimo silenzio, seduti su un tronco, nascosti dalle fronde degli alberi.

Lentamente si sporse in avanti per farlo scostare, prima di sollevarsi quel tanto che bastava per voltarsi e fronteggiarlo, andando ad appoggiare le gambe sulle cosce dell’uomo. Scivolò in avanti, appoggiandogli le mani sulle spalle, mentre i loro sguardi si allacciavano. Poi, quando lui le concesse di baciarlo, quasi come se ogni volta Nina dovesse chiedere il permesso, portò un braccio sulle sue spalle, chiudendosi ancora di più contro di lui.

“Allora torniamo a letto” sussurrò quindi sulle sue labbra, soffiandoci sopra quelle parole solo una volta che il bacio venne interrotto, “Ce lo meritiamo.”

Eccome. Erano in piedi dall’alba, quasi come se quello fosse un giorno come ogni altro e non una pausa dalle incombenze militari. Si alzarono insieme e Nina allacciò il bottone della mantella, battendola sul naso di Levi mentre la appoggiava sulle spalle. Ridacchiò di fronte alla sua espressione per niente divertita, imitandolo nell’indossare nuovamente il modulo. Uscirono dal bosco ripassando gli schemi che avevano studiato quella mattina, così come le regole base che Levi si era dato per l’abbattimento dei giganti.

Anche se facevano parte di due diverse squadre – Levi era finito, come previsione, nel gruppo di comando del Capitano Smith  insieme ai migliori mentre Nina era stata destinata alla squadra scientifica di Hanji- gli allenamenti continui li avevano portati a impararsi qualche tattica di attacco in coppia. Levi poi sembrava particolarmente portato nell’inventare complicate sequenze, amante come era della ‘pulizia’ di movimento. Stavano attraversando un pezzo di campo quando, in arrivo dalla strada principale che conduceva Trost, videro avanzare un carro carico di oggetti, anche di grandi dimensioni. Esso non prese il bivio che conduceva verso il villaggio di Irsee, procedendo molto lentamente verso il castello della Legione.

“Chi viene a rompere i coglioni di domenica?” chiese Levi con tono piatto, mentre Nina portava una mano sugli occhi per schermarli dal sole.

“Che sia un mendicante? Se vende stoffe dovremmo prenderne un po’ per rifare le tende degli alloggi degli ufficiali.”

Tch, sempre a pensare ai vostri comodi, maledetti graduati.”

“….Levi anche tu dormi nell’alloggio di un ufficiale. Nel mio, per la precisione.”

E andava anche detto che quella stanza non aveva mai brillato così tanto come da quando Levi aveva deciso di trasferirsi lì, abbandonando definitivamente il rumoroso e caotico dormitorio dei soldati semplici.  E non gliene fregava niente del fatto che fosse contro ogni regolamento interno.

Il cigolio che caratterizzava l’avanzare del carro si fece via via sempre più nitido, mentre i due procedevano allo stesso modo verso il castello. Solo quando furono vicini abbastanza da poter distinguere la figura alla guida del mezzo trainato da due asini dall’aria stanca e malandata, Nina esplose in un grido “Non posso crederci!” esalò semplicemente, prima di iniziare a correre in quella direzione, lasciando lì senza una spiegazione il povero Levi.

“Esaltata” fu di fatti il commento del moro, mentre la seguiva a passo sostenuto, senza però agitarsi troppo. Vide il carro fermarsi e una piccola figura, che da quella distanza gli parve di un bambino, scendere con un saltello. In meno di un battito di ciglia lui e Nina erano abbracciati.

Ci mise il suo tempo a raggiungerli e solo quando fu proprio accanto a loro, pronto a urlare qualcosa per coprire il loro chiacchiericcio insopportabile, noto che quello non era affatto un bambino, ma un uomo sorprendentemente basso. Persino più  basso di lui.

Non riuscì ad attribuirgli un’età precisa, perché quel volto dai tratti sottili e dai grandi occhi color pervinca, parzialmente nascosti sotto ai capelli che parevano tantissimi fili lisci e lucidi d’argento, sembrava avvolto da un’aurea misteriosa. Sorrideva pacatamente, guardandolo incuriosito mentre Nina lo metteva al corrente di ciò che stava succedendo.

“Sono tornato dalla mia licenza anche per questo motivo. Volevo vedere cosa sarebbe successo ora che Shadis ha intenzione di ritirarsi. È così eccitante, ci saranno sicuramente intrighi politici!”

Quando parlò, la voce squillante non tradì però una sfumatura prettamente maschile. Levi aveva quasi pensato che quella potesse essere una donna in effetti, forse a causa della corporatura magra, così esile e filiforme che secondo una stima approssimativa del moro, non avrebbe mai potuto reggere la forza applicata dalle cinghie del movimento tridimensionale. Non era un soldato, quindi?

“Questo curioso essere umano chi è?” chiese proprio il nuovo arrivato, sporgendosi verso Levi per guardargli bene il viso “Ah, riconoscerei quegli occhi ovunque…. Sei un Ack-

“Chi cazzo è questo tizio?”

Il modo sbrigativo con cui Levi aveva interrotto l’altro aveva fatto intuire a Nina che, come sempre, il piccolo inventore non s’era smentito. Sorrise divertita, sapendo che era meglio non chiedere “Levi, ti presento il Tenente Pascal von Pedrick, il nostro Primo Ufficiale Ingegneristico. Pascal, questo è Levi e basta, è con noi dalla scorsa primavera.”

Nessuna mano venne porta a Levi, che ovviamente non la richiese. Si sentiva troppo sotto esame per essere anche solo vagamente a suo agio con quella macchietta degli occhi improbabilmente vacui e il sorrisetto sornione.

“ Ah, e basta eh? Ho capito, ho capito. Come darti torto, nemmeno io esibirei troppo le mie ‘referenze’ se fossi in te.” Con un saltello un po’ goffo, Pascal salì nuovamente sulla carrozza, invitando gli altri a fare lo stesso “Andiamo, andiamo! Devi proporre al Comandante la mia nuova invenzione!”

 

Pascal era in assoluto il meno probabile dei soldati della Legione. Minuto, tanto da parer quasi rachitico, con i capelli grigi lucenti,  perennemente spettinati e la camicia violetta allacciata alla meno peggio, avvolte saltando un passante o due.

Sembrava anche il meno probabile delle personalità pubbliche, ma quel suo modo d’essere sciroccato tradiva un nobile retaggio.

Egli era, di fatto, l’ultimo figlio maschio in vita della famiglia Von Pedrick, baroni e conti al servizio del re da secoli. Di casta antica, era membro di una delle casate più rispettate all’interno delle Mura, sebbene sarebbe stato quasi sicuramente l’ultimo rappresentante di essa. Aveva, in verità, una sorella maggiore, Ermenegarda. Lei, che sapeva ben discernere fra vita pubblica e necessità belliche, si era ben tenuta lontana dalla corte reale, dove la famiglia Von Pedrick aveva sempre avuto un poggio fra i consiglieri del re, e curava gli interessi terrieri della famiglia da sola, da quando Pascal aveva deciso di entrare nell’esercito e prendere le Ali.

Come già detto, era il meno probabile dei soldati, ma era un genio tale da far impallidire chiunque. Se avessero conosciuto Leonardo da Vinci all’interno delle Mura, sicuramente l’avrebbero paragonato a Pascal. Era brillante nell’osservare e nel creare. Sembrava nato per indagare la natura delle cose e la fisica. Un autentico luminare, che aveva venduto tutte le terre che gli erano state donate in eredità – la maggior parte alla sua stessa sorella – per avere soldi per potersi finanziare da solo ogni progetto. Era entrato in Legione per non avere vincoli verso nessuno e un vasto, sconfinato mondo all’esterno da conoscere ed esplorare. Perché lui faceva questo: viveva per la sete di conoscenza.

Non era portato per fare il militare, va bene, ma era portato per cambiare il mondo. A iniziare da tutte le modifiche effettuate alla motoretta per lo spostamento tridimensionale, fino alla valvola per lo sfiato delle bombole per evitare lo spreco di gas, progetto che fra l’altro aveva portato avanti e concluso facendo lavorare il team ingegneristico prima di sparire per la licenza.

Appena arrivato aveva esposto a Shadis un nuovo progetto davvero ambizioso: una serie di canne di legno per poter fare il bagno in piedi, dentro a delle piccole cabine, così da risparmiare tempo e acqua. Non aveva ancora trovato un nome adeguato per quella straordinaria idea, ma avrebbe dovuto attendere per poterla realizzare, poiché l’aver inventato la doccia non lo salvò dall’addestramento tattico organizzato per il giorno successivo al suo rientro da quella ‘licenza indeterminata’. Che aveva richiesto qualcosa come due anni prima.

Nina lo sentì starnutire mentre, tutto impettito, guardava un albero alto dalle snodature contorte. La ragazza lo guardò con dolcezza, chiedendosi cosa potesse mai vederci. Gli sistemò la mantella sulle spalle, mentre si guardava attorno, cercando uno ad uno gli altri membri della sua squadra.

“Lo sapevo” stava esalando con un tono sconsolato degno di nota Moblit, tenendo una mano al cappuccio, mentre le prime gocce di pioggia iniziavano a cadere “Ci siamo persi.”

“Non essere così negativo” lo riprese la dottoressa con tono divertito, lasciando lì impalato lo scienziato per avvicinarsi “Abbiamo ancora un giorno e una notte per arrivare al punto di ritrovo tattico, possiamo farcela.”

Il biondino la guardò scettico, prima di voltarsi verso Goggles e Keiji, che stavano spiando la sola mappa che il Comandante aveva concesso loro, sotto le fronte di un salice, per salvarla dalla pioggia.

Lo scopo di quell’addestramento era quello di verificare se ogni squadra aveva i requisiti per potersi definire tale e per poter sopravvivere all’esterno nel caso di un distaccamento dal corpo principale. Dovevano semplicemente camminare per boschi e raggiungere il luogo in cui  Shadis aveva installato un campo base e poi tornare indietro. Senza cibo, acqua o brande per dormire. Avevano a disposizione quarantotto ore per farlo e la partenza, la sera precedente così per andare incontro alla notte, era andata bene.

Ma poi la squadra quattro, chiamata anche la squadra di Hanji o la squadra dei matti, si era irrimediabilmente persa.

Nina non voleva dirlo ad alta voce, ma era d’accordo con Moblit. Era sicura di aver visto l’albero che tanto interessava Pascal almeno quattro volte nell’arco di due ore di cammino. Stavano girando intorno.

“Se ci avessero lasciato una bussola…” sussurrò amareggiato Moblit, con la mano sul viso, mentre il capo squadra spariva fra le fronte insieme a Nifa con la scusa di dover ottemperare a un bisogno fisiologico.

“Sei sempre così negativo, novellino” lo prese in giro Goggles, mentre il compare tracciava con un dito il percorso assegnato loro dal Comandante.

Andava detto che Moblit Berner non brillava di ottimismo, ma forse perché dopo soli due anni dal suo arrivo in Legione, ne aveva viste di cotte e di crude e un animo particolarmente sensibile come il suo un po’ ne risentiva. Non solo: era ancora un cadetto e come di tradizione, se si arriva a vivere abbastanza da vedere finita la propria prima missione oltre le mura,  ci si sente un vincitore o comunque uno sconfitto.

Lui si sentiva così, schiacciato, soprattutto dal numero di incombenze che Hanji gli riversava addosso. Nina, che era stata nominata seconda in comando della squadra, pensava seriamente che avrebbe dovuto cedergli il posto. Se anche Erwin la sfruttava come attendente personale, quanto meno non la costringeva a badarlo come in infante. Perché questo faceva Hanji, si comportava da bambina e Moblit doveva perennemente rincorrerla. Era arrivato anche a regolarle la vita in modo da renderla degna di essere vissuta, costringendola a non fare la notte sui libri e a farsi un bagno almeno una volta a settimana. Era stato acclamato dalla folla per quest’ultima presa di posizione.

Della sua stessa opinione, seppur non la esprimesse a parole per timidezza, c’era Alana Klein. Lei, che era ancora praticamente una recluta, visto che non aveva terminato l’anno di addestramento interno prima delle uscite, non faceva altro che tirarsi una delle due treccioline brune che le scendevano morbide fino al seno, guardandosi attorno. Alana aveva addosso due grandi responsabilità, insormontabili ai suoi occhi: prima di tutto aveva ben deciso di diventare un ufficiale medico senza aver mai seguito corsi sanitari, se non quello di primo soccorso durante l’addestramento. Nina aveva accettato di prenderla come apprendista- la sua prima apprendista, come lei lo era stata di Renson- nonostante questa lacuna, ma l’aveva riempita di libri e saggi di ogni tipo, riducendole così le ore di sonno, ma facendole spesso compagnia fino a tarda notte all’interno dell’infermeria. Secondariamente, Alana era la sorellina di Mira Klein, una delle più grandi promesse della Legione esplorativa. Eguagliare la sorella, fra i primi in combattimento e resistenza fisica e mentale, non sarebbe stato semplice e forse non ci avrebbe nemmeno provato. Non era invidiosa di lei, voleva molto bene a sua sorella, ma quell’eredità era pesante e scomoda.

Accanto a lei c’era poi Nicholas Ravenstein, che così come Nina, era stato spostato nel team scientifico per le sue conoscenze e la sua utilità. Nick era un eccellente inventore e costruttore, e per quanto si sentisse felice di poter lavorare nuovamente insieme al tenente Von Pedrick, come lui non era particolarmente amante delle scampagnate montanare.

La pioggia, che prese a battere insistente sui loro capi, raffreddando l’aria già di per sé gelida di marzo, scoraggiò ancora di più queste tre anime in pena, ma non Nina. Uno dei tanti vantaggi di avere Levi come maestro di vita era che la pioggia diventava il minore dei problemi, così come il freddo.

“Cosa sono questi musi lunghi?” domando all’improvviso il biondo con gli occhiali, sollevando il capo dalla mappa con un sorrisetto divertito. Mike Goggles, chiamato solo per cognome per evitare di confonderlo con Zacharius, faceva parte dei quattro veterani che componevano la squadra di Hanji. Portava sempre una barbetta incolta a sporcargli il viso se no eccessivamente immaturo per un uomo della sua età e gli occhi da felino, schermati dalle lenti, sembravano nascondere un perenne divertimento per il comportamento abbattuto delle reclute.

“Lasciali in pace” lo riprese subito Keiji Rotten, tirandogli una gomitata ben assestata sul costato che lo fece chinare in avanti con un leggero colpo di tosse, prima di alzarsi in piedi con la mappa arrotolata sotto al braccio “Stiamo sbagliato percorso” decretò infine, guardandoli tutti, in particolare il sergente Müller, “Se proseguiamo lungo questo sentiero ci ritroveremo a incrociare il percorso della squadra uno, Nina.”

“Così potresti salutare tuo fratello” commentò Moblit, saltellando da un piede all’altro in un patetico tentativo di scaldarsi.

“Qualcuno ha visto il capo squadra?” domandò leggermente stizzito Goggles, alzandosi in piedi e tirando una pacca sulla schiena dell’amico per vendetta, ma questi non parve nemmeno essersene reso conto.

A parlare fu una voce sottile, armoniosa “Sono andate a fare un bisogno, torneranno presto.”

Persino parlando di deiezioni, Fabian Hilger riusciva a suonare delicato e poetico. Anche lui era un veterano, poiché contava sette anni di onorato servizio in Legione senza averci rimesso nemmeno un arto. Il suo aspetto tradiva una certa forza, così come il suo modo di porsi: era alto, una pertica, con il viso dai tratti femminei e una lunga treccia di capelli color carota che scendeva quasi fino alla cintola. Capelli che le ragazze gli invidiavano. Alle spade preferiva la penna, poiché amava scrivere poesie d’amore e delicate descrizioni di paesaggi quasi onirici, ma era piuttosto abile anche nell’uccidere i giganti. Nulla pareva scalfirlo, né le missioni all’esterno, né i commenti alle volte crudeli dei commilitoni. Non si vergognava di chi era, perché avrebbe dovuto? Non aveva studiato le scienze, ma era stato giudicato sufficientemente intelligente per potersi integrare all’interno di un gruppo così specializzato. Era laureato in letteratura, prediligeva la compagnia di un buon libro a quella dei compagni in osteria. Anche lui era figlio di buona famiglia, ma non della Capitale. Veniva da Stohess, anche se lui e Nina non si erano mai incontrati prima dell’ingresso della ragazza nel corpo dell’esercito, figlio di uno dei capi della gilda dei mercanti. Francis Hilger vendeva sale, estratto dalle miniere a est di Pereta, ovunque all’interno delle Mura, rifornendo personalmente ogni distretto. Non riteneva Fabian degno di prendere il suo posto come il figlio minore e l’aveva messo di fronte a una scelta, una volta compiuti i dodici anni: la Legione esplorativa o un’accetta in mezzo agli occhi.

Un uomo che non ammetteva mezze misure.

Fabian aveva sofferto di quel distacco imposto col pugno di ferro e poca diplomazia, ma aveva scoperto cosa significasse avere una casa e una famiglia solo dopo essersi unito all’esercito.

Fin dal suo primo giorno di accademia si era legato a Nifa Hertz, anche lei veterana della quarta squadra. Esuberante e brillante, Nifa era l’anima ottimista del gruppo, quanto meno quella parte lucida e razionale che Hanji non poteva ricoprire a causa del suo carattere. Aveva molti bei vestiti, Nifa, che metteva nei momenti di licenza. Le piaceva acconciare il caschetto asimmetrico moro e compiere tutti quei gesti femminili che sembravano superflui per un soldato del suo rango, ma che la contraddistinguevano in mezzo agli altri.

C’era dell’estro in quel gruppo un po’ disomogeneo, Nina doveva riconoscerlo, ma fra loro si sentiva bene. Erano i meno seri della Legione, quelli perennemente sotto torchio perché in ritardo o fuori formazione, ma c’era già del cameratismo fra loro la prima volta che avevano cenato tutti insieme, prima ancora che Pascal si riunisse a loro dopo la sua latitanza.

Sinceramente, non si sarebbe aspettata una squadra migliore.

Erano nove individui insoliti, con punti di forza e debolezze differenti. Si compensavano bene.

Ma condividevano lo stesso pessimo senso dell’orientamento.

Avevano atteso il ritorno di Hanji prima di riprendere la marcia, scoraggiati dalla pioggia che non faceva altro che aumentare rendendo difficile il guardarsi attorno, con Nick che a un certo punto si era addirittura offerto di portare Pascal sulla schiena.

Quando avevano trovato un sentiero si erano imbattuti, come da previsione, nella squadra uno, chiamata anche la squadra di comando, con a capo il Capitano Smith.

Erano decisamente fuori rotta se erano arrivati a incrociare il percorso degli altri, ma Nina lo sapeva che Hanji l’aveva fatto a posta per farsi far strada.

Per niente scema.

“Andiamo Erwin, hai visto che tempaccio? Che importerà da che parte arriviamo, se arriviamo?”

Il biondo si era lasciato coinvolgere, sospirando divertito prima di far cenno alla squadra quattro di unirsi a loro.

Nina si era ritrovata a camminare affianco a Levi, senza quasi accorgersene “Siete patetici” aveva commentato senza colore il moro, guardandola da sotto il bordo del cappuccio verde, che gocciolava fradicio di pioggia “Questa scampagnata, per voi, deve sembrare la scalata di un monte.”

“Sei uno stronzo.”

La bionda aveva preso a raccontagli di come si fossero persi, tanto per ricalcare ancor di più la pessima figura, quasi andasse orgogliosa di quel gruppo disarmoneo di menti in continuo moto .

Il mal tempo però ci aveva messo del suo e la nebbia aveva reso difficile il lavoro anche per l’efficientissima squadra uno.

I suo membri erano ben diversi da quelli della quattro, Hanji li avrebbe definiti così zelanti da essere noiosi: allo scadere del mandato di Capitano di Erwin, in virtù della promozione a capo del corpo, sarebbero diventati quasi tutti capi squadra. Era logico pensarlo perché laddove Levi era quasi un novizio, gli altri erano tutti nell’esercito da almeno quattro anni. Le sole eccezioni erano Eld, dell’anno di Nina e una giovane recluta di nome Gunther Schultz, così meritevole da essersi fatta solamente tre mesi di addestramento supplementare, invece dei canonici dodici. Lars Faust era una leggenda, oltre che un uomo molto bello. Quando lui e Mira erano diventati Caporali, dopo aver concluso insieme l’accademia ed essere entrati in Legione, si erano sposati. Avevano una bambina, Johanna, che nel 845 aveva tre anni e viveva a Trost con i nonni materni. Erano entrambi degli assi del combattimento corpo a corpo e si erano guadagnati la nomea degli Sposi Sterminatori, per il numero elevato di giganti che avevano fatto fuori. Non potevano nemmeno sperare di competere con Levi, ma tra il divino e il normale, si erano guadagnati una buona posizione mezzana.

“Zoppichi, ti sei fatto male?”

Levi alzò gli occhi su Nina, scuotendo poi il capo “Quella brava persona di Helga Bohm mi ha buttato dalle scale quando ero piccolo e nessuno mi ha curato come si deve la caviglia.” Levi sbuffò, prima di concludere con una lapidaria sentenza sulla sorella della donna che l’aveva cresciuto, e di cui a Nina aveva già parlato in precedenza “Puttana di nome e di fatto, è riuscita a lasciarmi un ricordo di sé.”

Non c’era bisogno di spiegare che tutta l’umidità accumulata nelle ossa iniziava a farsi sentire negli acciacchi, perché la spalla di Nina faceva male da ancor prima di mettersi in marcia.

“Arrivato al campo base potrai sederti un po’, nonnino.”

“Vorrei tanto sapere perché ancora non ti hanno ammazzata.”

Non che lo pensasse davvero, ma Nina era sadica nell’infierire con gusto.

Particolarmente in quelle situazioni.

 

Il clima prese finalmente a migliorare solo dalla metà di aprile in poi. A quel punto, fu più semplice alzarsi la domenica mattina per addestrarsi. La bella stagione sembrava voler portar con sé un’aria diversa, ma era difficile dire se questo cambiamento sarebbe stato in positivo o meno.

Nina perse l’equilibrio, portando la mano al naso che sanguinava copiosamente e non riuscendo a cadere in ginocchio, nonostante la stilla di dolore che avvertì propagarsi da quel punto, solo perché ormai si era abituata a sopportarlo. Alzò lo sguardo verso Levi, schivando un calcio con una mezza capriola all’indietro che di aggraziato ed elegante non aveva nulla, per poi ritirarsi in piedi e fare qualche passo verso il bosco per guadagnare spazio.

“Sanguino” fu il suo solo commento, abbastanza neutrale, mentre guardava le dita sporche di liquido vermiglio.

“Lo vedo” rispose sagace l’uomo, sistemando le maniche arrotolate della camicia attorno al gomito, prima di attaccare di nuovo, deciso, notando che almeno era diventata brava a schivare “Smettila di scappare, rincretinita! Ce la fai o no a fare un attacco decente che sia uno? Vuoi dimostrarmi che non abbiamo buttato nella latrina sei mesi di allenamento?!”

“Mi stai uccidendo, Levi!” si lamentò lei, smettendo di tenersi il naso per potersi difendere, anche a parole “Non mi dai il tempo di attaccare!”

“Devi trovarlo il tempo di attaccare, Nina! Nessuno ti regalerà occasioni!”

Quasi non terminò la frase che ci riprovò di nuovo e stavolta il pugno andò a segno. Nina riuscì a deviarlo, tanto che al posto di colpirle lo stomaco le prese il fianco, facendole male, ma non così tanto. Fu solo a quel punto che mossa dalla rabbia e dalla frustrazione per quell’addestramento (Levi non era mai stato così cattivo prima, solitamente la lasciava provare senza attaccarla direttamente), che decise di rendergli pan per focaccia.

A condizioni normali non avrebbe giocato sporco, ma si sentì braccata e agì di istinto.

Gli tirò un pestone deciso sulla caviglia che sapeva essere più debole dell’altra, facendogli scappare un mezzo gemito di dolore per la prima volta da quando avevano iniziato a combattere nel corpo a corpo, l’estate precedente.

Poi lo afferrò per le spalle, tirandogli una ginocchiata nella pancia e riuscendo, non si sa bene come, a farlo cadere.

Aveva ufficialmente steso Levi, ma non contenta, si mise su di lui bloccandogli il braccio col ginocchio e tenendogli l’altro mentre con la mancina gli tirava il pugno più forte che avesse mai tirato in vita sua.

S’era fatta male, certo.

Ma lui di più.

Ancora ansante per i movimenti veloci, lo guardò voltare il capo di lato e sputare un po’ di saliva mista a sangue, prima di tornare a osservarla, impassibile.

Nina aveva ancora il pugno alzato quando realizzò.

“Ho vinto” decretò senza nemmeno provare a mascherare la soddisfazione.

“Una vittoria su un centinaio di sconfitte. Ti do atto, però, che hai saputo fare bene stronza.”

Nina sollevò il ginocchio, permettendogli di spostare il braccio. Levi portò entrambe le mani sui fianchi della giovane, spingendola con forza per ribaltare le loro posizioni e mettersi sopra di lei.

Lei lo lasciò fare, continuando a sorridere tra il compiacimento e lo smaliziato, con le braccia appoggiate sull’erba che ancora odorava di rugiada, mentre lo guardava negli occhi “Deve bruciare parecchio per uno come te perdere, vero?”

“Non che mi importi un granché, soprattutto se a battermi è una mocciosa con il labbro ancora sporco di latte a cui nessuno crederebbe.”

“Pensi già a come ti rovinerò la reputazione? Sei patetico.”

Levi si lasciò cadere al fianco della giovane compagna, portando le mani incrociate sul ventre mentre spiava il cielo sopra di sé.

Lei gli tirò una pacca giocosa sulla coscia con la mano aperta, prima di andare ad appoggiare il capo sulla spalla, anche lei con gli occhi ben puntati verso l’alto. Si sentiva davvero fiera di sé, ma non continuò ad infierire, preferendo altri modi per infastidirlo.

Come le così definite dall’uomo ‘chiacchiere senza capo né coda’, per esempio.

Girò il capo e lo morse sulla guancia, attirandosi uno sguardo ben poco soddisfatto “Quando ero piccola giocavo sempre con Erwin a trovare delle forme nelle nuvole.”

“Intellettuale” la prese in giro, guadagnandosi una pacca sullo stomaco. Le bloccò il braccio per impedirle di rifarlo “Non ho mai sentito una cosa così tanto stupida e tu ne dici parecchie nell’arco di una giornata.”

“Sei noioso, è divertente notare come ogni persona veda cose differenti all’interno del medesimo contesto” proseguì lei, imperterrita, prima di alzare la mano libera per puntare l’indice verso un punto preciso “Quella nuvola, per esempio, non ti sembra un cane?”

“Nina sei completamente pazza. Già prima non stavi bene per niente, ma ora che stai in squadra con quella folle quattrocchi ogni speranza di normalità è andata a fanculo.”

“Puoi provare, almeno per una volta, a farmi contenta?”

Di nuovo, Levi la guardò male. Poi, passando la mano sull’avambraccio della bionda, in quella che aveva tutta l’aria di essere una carezza, alzò lo sguardo verso il punto indicato “Oltre che pazza sei anche cieca. Quella è palesemente una stella.”

“Una stella?” insistette lei, socchiudendo le labbra per niente convinta “Ma dove la vedi, una stella? Guarda bene: ci sono le quattro gambe e la testa. Si vede persino il muso!”

“No” anche Levi alzò la mano, tratteggiando nell’aria una forma ben definita “Ci sono tutte le punte, Nina. Cinque punte, una fottutissima stella.”

“I tuoi occhi sono rotti.”

“Cretina.”

La bionda ridacchiò, sospirando piano mentre chiudeva gli occhi.

Il naso le faceva un po’ male, lo sentiva battere doloroso dove la botta era arrivata forte e chiara. Anche le gambe erano un po’ pesanti, perché nonostante le avesse rinforzate correndo e correndo durante l’allenamento, ancora faticava ad abituarsi agli scatti repentini che ogni buon lottatore doveva eseguire per evitare di farsi colpire e per ripagare a sua volta a suon di cazzotti l’avversario.

Come diceva sempre Erwin, non si fa un guerriero in un anno.

Nemmeno in cinque, in realtà.

Quel percorso era ancora ben lontano dall’essere giunto alla sua fine, ma quella piccola seppur memorabile vittoria le fecero capire che poteva anche lei fare qualcosa di grande. Se poteva buttar giù Levi, allora poteva fare tutto nella vita.

“Ti fa male la caviglia?” domandò, senza aprire gli occhi. Un’ombra ottenebrò il sole e lei se ne accorse nonostante aveva ancora le palpebre calate per il cambio di luce. Avvertì il respiro caldo dell’uomo sul volto, così socchiuse gli occhi dalle iridi irregolari, per guardarlo mentre troneggiava sopra di lei.  

Le mani di Nina andarono ad accarezzargli il viso, percorrendolo dagli zigomi fino alle labbra, passando col pollice sul taglio che ancora sanguinava, seppur appena. Lo tirò verso di sé, iniziando sin da subito a duellare con lui in un bacio mordace, sentendo il sapore ferroso della bocca dell’altro sulla lingua mentre Levi non perdeva tempo in convenevoli inutili e andava ad aprire la  prima fibbia dell’imbragatura di Nina.

Lei non oppose resistenza quando la sentì aprirsi sul petto, andando a fare lo stesso con quella dell’uomo, mentre questi si metteva in ginocchio fra le sue gambe e lei lo seguiva, sedendosi. Da lì iniziò l’intera operazione di svestizione, resa non poco difficoltosa dall’attrezzatura. Nina si sbarazzò della parte di tutte le cinghie in fretta, mentre Levi le apriva le fibbie sulle cosce e la cintura, andando poi a sfilarle rapido gli stivali. Con sapiente conoscenza, le mani ruvide del moro le accarezzarono la pelle tesa degli addominali e del ventre, quando lei si fu liberata anche della camicetta bianca, che andò a far compagnia al resto degli indumenti sull’erba.

Levi la spinse stesa con un altro bacio, mentre le sfilava i pantaloni della divisa insieme all’intimo, decidendo di farle la grazia di non sciogliere le bende elastiche che le tenevano costretti i seni. Fu Nina a liberarsene senza eleganza, sfilando la spilla da balia che andò a buttare dentro a uno degli stivali, non controllando nemmeno a chi dei due appartenesse. Ci avrebbe rimesso il suo tempo a vestirsi in ogni caso.

Quando si ritrovò totalmente nuda, esposta sotto lo sguardo dell’altro, non si sentì a disagio, così come non si era sentita così la prima volta che l’aveva spogliata e fatta sua. Al contrario del loro primo bacio, che aveva avuto la valenza e la grazia di una promessa d’onore da parte di entrambi, la prima volta che avevano fatto sesso non era stata così importante. Era stata la prima di molte, molte volte dopotutto. Memorabile e attesa da entrambe le parti, Nina non s’era nemmeno trattenuta dall’ammettere che vi aveva fantasticato su più e più volte, ma non era stata importante.

Nessuno dei due vedeva il sesso come un atto sul quale costruire intenti.

Nina aveva avuto già un altro prima di lui e Levi…. Non aveva detto il numero preciso di amanti che aveva avuto in vita, ma la giovane stentava di credere che un uomo così sicuro di sé, oltre che affascinante, si fosse risparmiato qualche avventura.

Per questo avevano giusto atteso di andarsene da Stohess, così da non rischiare di attirare ancora di più su di loro le ire di donna Adelaide, per potersi lasciare andare anche all’amore fisico. Era successo e basta, la prima sera appena tornati a Trost, dopo aver saputo che avrebbero presto servito un altro Comandante e con una tempesta di neve come non se ne vedevano da anni a far da sfondo.

Era stato naturale per loro capirsi, da uno sguardo, senza parlarne. Lei lo aveva invitato nella sua stanza e alla fine, quel letto, Levi non l’aveva più lasciato.

Nina però era consapevole che non era paragonabile a ciò che avevano condiviso su quel tetto, perché da quel singolo primo bacio, quasi casto rispetto al resto delle attività che potevano fare insieme e da soli, come in quel momento nel bosco, Levi aveva aperto una porta che non sembrava intenzionato a chiudere.

Giorno dopo giorno, Nina scopriva altri pezzi del passato di Levi, cose su Kenny, Helga, Gretha e la loro famiglia. Sentiva racconti su di lui e Farlan che crescevano insieme, di come avevano preso con loro Isabel, di come il loro mondo andasse avanti più lentamente e di nascosto, ma proseguisse. Fino all’arrivo di Erwin, in cui aveva avuto una battuta di arresto e aveva iniziato a girare in direzione opposta.

E ogni confessione arrivava sempre, fra un bacio e l’altro, dopo quegli attimi di cocente passione.

Senza esitazione, Nina aprì la cintura di Levi, andando anche a sbottonargli i pantaloni, mentre questi portava una mano al suo capo, slacciando il cordoncino di cuoio e lasciando cadere in una cascata dorata, i capelli della giovane sulla schiena nuda.

La tirò quindi sul suo bacino, aiutandosi con una mano e infine scivolando dentro di lei e dandole il ritmo per muoversi.

La testa di Nina divenne leggera, mentre i baci si facevano più confusi e voraci. Il piacere la consumò per prima e buttò il capo all’indietro, gemendo quasi disperatamente mentre il moro le baciava la pelle tempestata di lentiggini dello scollo.

“Levi” lo chiamò con tono ebbro, mentre un sorrisetto le nasceva sulle labbra “Mi fai sentire le campane…

Fece in tempo a finire di parlare, lasciando per altro cadere la frase che suonò come incompiuta, che l’altro le bloccò i fianchi, spingendoli verso il basso.

Nina tirò su il capo, guardandolo sorpresa da quella interruzione. Non fece però in tempo a parlare che udì qualcosa, in lontananza.

Istintivamente portò una mano ai capelli, passandovi le dita in mezzo per pararli indietro.

…Queste sono…” soppesò, prima di realizzare la gravità della situazione.

La Campana della Libertà non suonava mai a Trost, poiché il suo scopo era quello di avvisare dell’apertura delle mura sull’esterno e quindi su una potenziale situazione di pericolo. Se suonavano fin lì, all’interno, poteva esserci un solo significato.

“Deve essere successo di orribile a Shigashina” Nina non si diede il tempo di pensare ad altro. Si alzò dal ventre di Levi premendo le mani sulle sue spalle, mentre lui la guardava un po’ allucinato con i capelli spettinati sul capo e il petto visibile dalla camicia aperta imperlato di sudore così come la fronte “Se suonano le campane, la procedura vuole che corriamo immediatamente al quartier generale. Noi dobbiamo andare-”

“Nina!” La ragazza era in piedi, con in mano i pantaloni, nel panico. Si alzò a sua volta, cercando di ricomporsi, allacciandosi i pantaloni e la cintura “Devi calmarti. Non combinerai niente saltellando qua e la come una gallina senza la testa.”

Lei parve non sentirlo “Erwin è a Shigashina.”

“Lo so. Per questo devi calmarti.”

Annuì lentamente, cercando di stabilizzare il respiro mentre appoggiava la fronte sulla spalla dell’altro, chiudendo un attimo gli occhi. Per iniziare, doveva vestirsi. Poi avrebbero fatto ritorno e avrebbero domandato come era successo.

Infilò infimo e i pantaloni lasciando perdere le bende e allacciandosi la camicetta mentre Levi, che aveva giusto dovuto sistemarsi un po’ perché non s’era spogliato, iniziava ad assicurarle i primi pezzi delle cinghie alle cosce.

“Cosa pensi che potrebbe essere successo?” le domandò, con la calma nella voce, mentre le dava una pacca sul polpaccio per farle alzare il piede e passarle l’elastico della metà inferiore delle cinture.

“Un gigante potrebbe essere entrato nel muro di coda alla Legione” pensò lei, mentre infilava prima un braccio e poi l’altro sulla parte dorsale, allacciando le cinghie sotto alle braccia e sul petto. Il fatto di doversi bardare così ogni giorno le aveva fatto assumere una certa dimestichezza, ma era comunque un processo lento. Quando le rimasero solo gli stivali, prese la spilla da balia e se la ficcò in tasca, sedendosi poi a terra per infilarli “Una cosa simile è successa sessantacinque anni fa, ma quella volta un gigante fu fatto entrare intenzionalmente.”

Il moro annuì, passandole la giacca e prendendo la sua, insieme alle mantelle. Arrotolò su tutto, ficcandoselo sotto al braccio, mentre iniziavano a camminare in fretta verso casa “Fu quando misero al bando quella stronzata della religione sui giganti, no?”

“Sì, esatto, ma pensandoci bene potrebbe anche essere scoppiato un incendio nelle campagne. Non è necessario che sia successo qualcosa a Shigashina, no?”

 

All’interno della cinta muraria del castello di Irsee regnava il caos.

Soldati che correvano, sellavano cavalli, parlavano fra loro o fissavano impietriti verso il muro Rose, che si stagliava visibile a chilometri di distanza, oltre le fronte degli alberi.

Moblit!” Nina vide il compagno di squadra camminare con passo deciso verso di lei, pallido come un morto, “Moblit cosa-”

“Dobbiamo prepararci, Nina.” La sua voce tremava, mentre le parlava. Persino la mano che si appoggiò sulla spalla della ragazza non riusciva a non tradire una paura cieca, che negli occhi gialli del giovane si rifletteva nella sua paurosa interezza.

“Si può sapere cosa è successo??” chiese Levi, adocchiando Hanji che si dirigeva nella sua direzione insieme a Mike, il quale aveva il comando del quartier generale come membro più anziano presente.

Erwin e Shadis, per acquetare gli animi, si erano diretti a Shigashina dieci giorni prima per organizzare un’uscita con i soli uomini lì stanziati, per rifornire di provviste un avamposto nelle terre dei giganti e favorire un po’ il  nuovo Comandante Smith, che fra quelle persone non trovava favore.

“La situazione è grave” iniziò Zacharius, guardandoli serio come mai, mentre accanto a lui Hanji fissava la pavimentazione ciottolata, con il viso adombrato da un’espressione cupa.

Se persino lei aveva perso le parole, allora doveva essere davvero grave.

“Cosa è successo?” domandò Nina, sentendo che qualcosa doveva essere successo a Erwin.

Era il ventisette di aprile e lui era il Comandante della Legione solamente da cinque giorni.

Che le campane suonassero per lui? Era caduto combattendo? O forse era morto il re in persona?

Quel che disse Mike però fu centinaia di volte peggio di qualsiasi supposizione Nina e Levi potevano aver fatto.

Si prese un attimo, come per cercare di acconciare quelle parole, realizzando poi che non vi era modo di rendere meno nefasta quella notizia. Quindi parlò.

“I giganti sono penetrati nelle mura Maria attraverso il distretto di Shigashina. Le Mura sono state sfondate.”

 

Il mondo era già cambiato e l’aveva fatto silenzioso alle loro orecchie.

Il mondo era cambiato e l’aveva fatto per sempre.

 

 

 

Nda.

Non morta anche se ho postato un mese fa.

Lo so, sono in ritardo, ma tra una cosa e l’altra- e un esame dall’esito catastrofico- non ero in me per poter scrivere.

Finalmente, però, sono tornata e non intendo cedere terreno di nuovo.

 

….anche se ora sono in piena preparazione per il Lucca Comics quindi non vogliatemene se arriverò un po’ in ritardo di nuovo.

Mai così tanto però!

 

Questo capitolo è fondamentale per tre motivi: ciò che Nina vede nella prima parte, l’introduzione alla squadra nella seconda e beh…

La fine.

Il mondo che cambia e non torna più lo stesso.

D’ora in poi è bratta nera, signore e signori.

 

Non mi dilungo, penso sia meglio continuare a scusarmi per il ritardo.

Ringrazio che mi legge e chi mi recensisce, in particolare quelle dolcissime caramelline di Shinge e Auriga.

Grazie per tutto.

Ah si, e grazie anche a Luna per essere seduta di fronte a me, sul mio letto, nel tentativo di finire a sua volta il suo capitolo.

Che bello quando postiamo sincronizzate.

 

(muovi il culetto e scrivi susu).

 

Se qualcuno pensa di andare al Lucca Comics che mi faccia sapere, anche in privato.

Mi piace conoscere gente nuova v.v

Vi linko la mia pagina di FB, che mi sono resa conto non ho mai messo in questa storia, giusto per scrupolo:

https://www.facebook.com/chemicallady/

 

Detto questo vi auguro una buona giornata/buona notte in base all’ora in cui leggerete questo mio piccolo strazio.

A presto!

C.L.

 

Ps. Che schifo di note finali, scusatemi davvero.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 13
*** Capitolo Dodicesimo ***


11

 

Wenn die Sterne leuchten.

 

 

 

 

 

Capitolo Dodicesimo.

 

 

 

In these coming years
Many things will change
But the way I feel
Will remain the same

https://www.youtube.com/watch?v=YSWIfX_MNCY

 

 

Anno 846

Territori di Maria.

 

 

Quando era una bambina, Nina passava le sue giornate ad esplorare ogni singolo anfratto della corte di casa. Crescendo, iniziò a percepire soffocanti quelle pareti domestiche, al punto che prese ad avventurarsi di qualche passo- sempre uno in più- lungo la via che conduceva verso il forno di suo padre. Non era mai sola però; Rielke non abbandonava mai il suo fianco e, essendole coetaneo ma di qualche mese più giovane, le si aggrappava al braccio destro piagnucolante, sostenendo ogni volta che avrebbero pagato le conseguenze di quella fuga una volta fatto ritorno.

E succedeva. Ogni volta.

Non vi era avventura che non veniva sventata da sua madre o da Alma. I due bambini venivano puntualmente puniti, messi in castigo nelle loro stanze, rimproverati perché era un mondo pericoloso, quello che si ergeva al di là del loro giardino. Quel cancello nero in ferro battuto, per Nina, aveva rappresentato la prima barriera, seguita poi dalle Mura, ed esso pareva esser stato posto ad hoc per nasconderle la vista del mondo. Quel muro, alto circa due metri e mezzo in mattoni rossi e calce era una sfida di fronte alla quale, quella bambina dagli occhi grandi e liquidi e i capelli perennemente arruffati, non aveva intenzione di chinare il capo.

Adelaide, infatti, non era mai riuscita a scoraggiarla, mentre suo padre aveva sempre commentato con un certo divertimento che Nina era sufficientemente furba da farla franca con sua madre, di conseguenza lo era anche abbastanza per tornare a casa.

Quando si sentì grande a sufficienza, Nina iniziò a percorrere il marciapiede in senso opposto, sempre più lontano dal forno e dalla palazzina dei Müller, lontano dal centro del distretto e verso i cancelli che conducevano all’interno del muro Sina.

Lì, al limitare del terreno edificato, sorgeva un piccolo cimitero dalle cappelle fatiscenti. Sarebbe potuto sembrare abbandonato, un po’ per le date incise sulle lapidi rovinate dalle intemperie, un po’ per il contesto grigio che l’avvolgeva, se non fosse stato per la cura con cui veniva trattato. Artefice di quel lavoro era un uomo, cieco da un occhio, che spaventava i bambini curiosi che si accalcavano attorno al cancelletto arrugginito o cercavano di spiare, oltre il limitare della siepe bassa, quello che ormai era divenuto il protagonista di racconti e prove di coraggio.

Tutti lo temevano, eccetto Nina.

Lei l’aveva avvicinato incuriosita e dal loro primo incontro, lui le aveva sempre regalato qualcosa. Non di materiale, no.

Storie, racconti di paesi lontani, dalla parte opposta delle mura e viaggi lunghi e straordinari, da nord a sud.

Aveva vissuto una vita piena, quell’uomo che mai aveva rivelato il suo nome, eppur si sentiva così solo da cercare un po’ di consolazione nelle sue conversazioni con una bambina di otto anni.

Una volta, mentre raccoglieva insieme a lui le foglie cadute dei faggi, poco prima di veder arrivare sua madre con un diavolo per capello, lui le disse una frase che sarebbe rimasta per sempre indelebile nella sua memoria. Essa fu una risposta semplice, eppur efficace, al perché lavorasse come becchino dopo tutte le cose che aveva visto.

“Gli esseri umani si distinguono dagli animali per la cura con la quale seppelliscono i loro morti, giovane signorina. L’aver un cuore porta ognuno di noi a riservare un trattamento speciale a questi involucri vuoti e insensibili. Perché lo facciamo? Perché abbiamo amato e non possiamo smettere di farlo anche quando tutto è finito.”

Non aveva più incontrato quell’uomo, né aveva avuto modo di sapere la sua sorte.

Quell’insegnamento, però, se lo sarebbe portato con sé per sempre.

 

Un insegnamento che, alla luce di ciò che aveva visto, non poteva che tornarle alla mente.

Non poteva smettere di riflettere sul fatto che, meccanicamente, Drei stesse cercando di dare una degna sepoltura a Eins. Aveva continuato a solcare il terreno fino a distruggersi le mani, sotto agli occhi attoniti della legionaria, emettendo versi disumani e colmi di dolore, fino a che del mostro riverso al suo fianco non era rimasto più nulla.

A quel punto si era immobilizzato, senza dar segno di voler esternare alcuna emozione e s’era alzato, barcollando per la piana come un’anima in cerca di una compagnia affine, costringendo Nina a scendere da quel tetto e tornare in sé.

Non aveva riportato nemmeno una riga dell’accaduto sul suo quaderno.

Non avrebbe saputo come farlo e poi, senza dubbio, non avrebbe cancellato dalla mente nemmeno un dettaglio dell’accaduto. Era quindi superfluo.

Cosa avrebbe dovuto pensare? Che conclusioni trarne?

Drei non era un anomalo, anzi. I suoi atteggiamenti erano sempre rientrati nei parametri di norma che aveva studiato in accademia e poi osservato sul campo; non era particolarmente curioso, né si avventurava troppo vicino alla borgata.

Quindi? Cosa pensare?

Nina non poteva pensare che ciò che aveva visto fosse l’esternazione di un sentimento forte quale il dolore. Non poteva farlo perché ciò avrebbe indicato che i giganti potevano provare dei sentimenti. Ciò avrebbe comportato una serie di complicazioni e domande sul piano morale, alle quali lei non voleva pensare nemmeno per un istante.

I giganti sono mostri.

I giganti mangiano le persone.

E loro dovevano capire la loro origine per poterli annientare tutti.

 

Se da una parte c’erano questi pensieri a levarle il sonno, dall’altra c’era invece la testimonianza di Daniele Vitalevi. Non c’era molto da dire, perché lei non era una linguista e la maggior parte del trattato era pieno di tecnicismi filologici che lei poteva capire solo parzialmente. Sul piano storico, invece, era tutta un’altra musica.

Qualche paragrafo illustrava la condizione di quello che Vitalevi chiamavano l’Impero Germanico durante una serie di guerre di conquista lunghe e deterioranti contro gli Stati Iberici e Franchi Uniti. Parlava della vittoria del medesimo sul Regno d’Italia e della sua annessione all’Impero. L’esigenza di una lingua comune – quella parlata all’interno delle Mura, la loro lingua- era diventata impellente proprio per permettere a coloro che vivevano sui terrori occupati di comprendere il volere dei nuovi dominatori. 

Nell’ultimo capitolo c’era una sorta di premonizione dell’autore circa le battaglie in corso a lui contemporanee con il Regno Unito, nella quale Vitalevi spiegava il grande contributo che i territori britannici avrebbero portato all’Impero, soprattutto in vista dell’epilogo della guerra. Nel brano si parlava anche di un progetto scientifico portato avanti per l’utilizzo di nuove armi e attrezzature belliche, ma il tutto era stato velatamente celato dietro a frasi vaghe.

Purtroppo, lo scrittore per quanto zelante, dava tutto per scontato, come se il lettore avesse già di per sé un quadro storico completo e quel trattato dovesse solo spiegare i motivi per cui si era vista necessaria una lingua e, in modo particolare, come essa era stata creata. Nina era arrivata alla conclusione che quelle dovevano essere le civiltà a loro precedenti; prima delle Mura e della venuta dei giganti esistevano tanti popoli in guerra fra loro e quello era un dato di fatto.

Come poteva dirlo? Le Mura non erano mai citate. Nemmeno una volta.

Non vi era menzione nemmeno dei giganti. Si parlava di armi, soldati e stanziamenti.

Porzioni di mondo così ampie da sembrare sconfinate.

Un mondo libero da ogni barriera, eppure grigio e distrutto dalle guerre logoranti.

Un Paradiso.

Quando arrivò all’ultima pagina, Nina lesse che essa si concludeva con la citazione di una poesia di un tale Ilya Welleröither, in una sorta di augurio alla pace, in mezzo a così tante considerazioni sulla guerra;

 

‘La vita è oggi, la sola vita di cui noi possiamo essere certi.

Vivi cercando di goderne al massimo delle tue possibilità’.

 

Seduta sulla solita staccionata, con il modulo ancorato ai fianchi e una mela nella mano, Nina guardava il sole tramontare lontano riflettendo su quella frase che, ad un occhio superficiale, sembrava quasi inopportuna.

Un saggio così elaborato non avrebbe dovuto lasciarsi andare a certi sentimentalismi, ma nelle note scritte qua e là a mano fra le pagine – che lei aveva intuito essere dell’autore stesso- le avevano fatto comprendere che dietro a tanto lavoro c’era anche l’esigenza di appartenere a qualcosa.

Lei aveva sentito quel bisogno spesso, nella sua vita. Daniele non doveva essere da meno.

Staccò con un morso un pezzo del frutto, sgranocchiandolo pensierosa, prima di notare con la coda dell’occhio che non era più sola. Con passo un po’ tentennante e per niente fiducioso, il cavallo che tanto le aveva dato pena nei giorni precedenti le si era accostato, annusandole rumorosamente i capelli e la spalla, attirato probabilmente dall’odore del frutto.

Lei lo guardò quasi divertita girarle attorno, allontanandosi solo per sorpassare la recinzione che si apriva qualche metro alla sua destra, notando anche che era una cavalla.

“Non mi dirai che dopo avermi presa in giro, vuoi anche da mangiare” le disse, spostando la mano che reggeva l’oggetto di interesse, facendo sbuffare l’equino che alzò di poco il capo, tirando indietro le orecchie. A Nina sfuggì una leggera risata di fronte a un nitrito risentito, forse sentendo addirittura il bisogno concreto di avere attorno un essere vivo che potesse a modo suo comunicarle qualcosa.

Qualsiasi cosa.

Era troppo tempo che se ne stava lì fuori da sola.

“D’accordo, hai vinto” disse alla cavalla, avvicinandole la mela e lasciando che lei iniziasse a morderla avidamente, ma senza strappargliela dal palmo. La giovane alzò una mano, accarezzandole il crine biondo annodato sulla fronte, prima di appoggiare si afferrare la testiera rotta, sfilandogliela dal muso per liberarla.

Quando finì di mangiare, la bestia non diede più nessun segno di interesse e si allontanò con pacata indifferenza, brucando un po’ l’erba di fronte a Nina, quasi come se anche lei cercasse un poco di compagnia.

Per poco, perché poi fu presa da un guizzo di vitalità che la portò a correre via, verso il campo.

Nina sorrise a quella scena, che rievocava in lei l’immagine più pura della libertà.

Forse era giusto che quella cavalla rimanesse libera, chissà quante cose orribili aveva visto servendo per la Legione. Meritava quei pascoli e quel silenzio. 

Con un saltello, scese dalla staccionata, tenendo in mano la testiera. Decisa a buttarla dietro a un cespuglio, le dedicò un’occhiata rapida. Doveva essere viola, un tempo, ma ormai era sbiadita. Nonostante ciò notò qualcosa nel rivestimento interno.

Ricamato in modo goffo, con i punti storti e irregolari di un giallo paglierino appena visibile, c’era un nome.

Lola.

Possibile che fosse il nome del cavallo?

“Questo sì che è strano…

Da quando era costume fra i soldati ricamare le testiere?

E se non fosse stata un cavallo della Legione? Impossibile.

Da quale altro luogo sarebbe potuta venire, se non dalle Mura?

 

Domande.

Solo domande a causarle una brutta emicrania e così tanti dubbi da levarle il sonno per mesi.

Si sentiva frustrata dall’assenza di risposte.

Ogni giorno un nuovo mistero si palesava.

Fino che punto sarebbe arrivata a confondersi?

 

 

 

Whether near or far
I am always yours
Any change in time
We are young again

Lay us down
We're in love

 

 

Anno 845

Giorni immediatamente successivi alla più grande sconfitta che l’umanità ha subito.
Il crollo del Muro Maria e la perdita delle terre interne alla prima cerchia.

 

 

 

Le grida, le lacrime e il panico lo investirono intaccando i suoi nervi messi già a dura prova, mentre con le mani tremolanti cercava di tener stretti i comandi del modulo per lo spostamento tridimensionale. I civili correvano persi attorno a lui, cercando di raggiungere il più velocemente possibile le porte di Trost, a qualche miglia verso nord rispetto al punto in cui lui e i pochi cadetti rimasti si trovavano.

Non era pronto a tutto ciò.

Doveva ancora completare il terzo anno di accademia, mancavano ancora un paio di settimane, eppure quel battesimo del fuoco gli era stato imposto impietosamente dalla Sorte e lui non aveva avuto modo di sottrarsi agli ordini diretti dei capitani della Guarnigione. Il muro Maria era caduto ormai da un giorno e mezzo, eppure l’opera di sgombro delle terre perdute non era ancora terminata ma anzi, procedeva sempre più a rilento. I villaggi posti a distanza rispetto i distretti erano ancora in parte popolati da coloro che, seppur spaventati, faticavano ad entrare nell’ottica che quelle case ora non gli appartenevano più.

Erano dei giganti e nessuno poteva porvi rimedio, nemmeno l’esercito intero o il re in persona.

Il pensiero di dover rinunciare alla propria vita, di doversi piegare di nuovo alla differenza schiacciante di forza che quei mostri avevano rispetto al genere umano era di certo la realizzazione più terrificante.

Impotenti, gli uomini non potevano far nulla se non scappare e cercare di sopravvivere, braccati come animali.

I soldati non riuscivano a contenere il panico che serpeggiava fra le loro file, figurarsi quello lacerante della popolazione civile. Gli ordini arrivavano frammentari, poiché chi doveva detenere il potere non riusciva a far fronte a quel gran dispiegamento di risorse umane. Il territorio su cui erano distribuiti era troppo ampio e ciò rendeva ancor più artificiose le comunicazioni. La Guarnigione e la Legione si alternavano in un costante avanzamento verso l’area da cui tutto aveva avuto origine, ovvero il distretto di Shigashina.

A quanto dicevano le voci, un solo gruppo però era riuscito ad arrivare abbastanza avanti da sparire completamente dal raggio di diffusione delle notizie: la Squadra Uno della Legione esplorativa, sotto le direttive di un soldato semplice di nome Levi, noto fra i militari perché aveva la fama d’essere invincibile già a quel tempo.

Loro non potevano ambire a così tanto.

Sarebbero stati fortunati a tornare a casa a fine giornata.

“Dobbiamo muoverci, rimanere fermi qui è un suicidio.”

Kaithen era atterrato a pochi metri da lui, sistemando i comandi del movimento nelle fondine, con lo sguardo perso di chi non sa cosa fare, ma allo stesso tempo è consapevole di non poter rimanere fermo con le mani in mano.

Lui l’aveva guardato in tralice, “Lutz e Claymore?” chiese con tono basso e dimesso, tenendo già la risposta. Essa non arrivò, sostituita da una negazione fatta col capo e gli occhi ben piantati sul pavimento.

Erano rimasti in due su una squadra di dodici reclute. Il loro leader era stato il primo a morire, divorato. Degli altri quattro, lui non sapeva nulla, solo che erano caduti per combattere una guerra che nemmeno gli esperti sapevano come vincere. “Ripieghiamo, allora.”

Non avevano più i cavalli.

Avevano peccato di presunzione, attaccando due giganti che incombevano su un gruppo di civili in fuga e non solo ci avevano rimesso in vite dei compagni, ma non s’erano nemmeno curati delle loro cavalcature, probabilmente rubate da qualche persona disperata in cerca di una fuga più veloce, o magari scappati a causa della gran confusione attorno a loro.

Nemmeno il destriero più addestrato poteva far fronte a quel caos. Persino loro, che di raziocinio dovevano averne per forza, non potevano impedire alle loro ginocchia di tremare e tremare ancora.

L’odore della paura era così intenso da coprire quello del sangue e loro ne erano impregnati.

Avevano chinato il capo, iniziando la loro lunga marcia verso nord, al seguito dei carri e dei civili che in massa muovevano verso la salvezza delle Mura. Lui, in prima persona, si era sentito impotente di fronte a quei volti sconsolati, atterriti quanto il suo. Si era sentito inutile, come se quegli anni in accademia non l’avessero preparato abbastanza per poter essere utile.

Si era ritrovato catapultato in quel mondo all’improvviso, si sentiva intorpidito e incredulo, come dopo il brusco risveglio da un incubo. Quello però non era un sogno e, se lo fosse stato, si sarebbe ritrovato ancora lontano dal poter riaprire gli occhi.

“Un gigante! Corre verso di no!”

“Moriremo!”

Le persone ripresero a correre spaventate attorno a lui, scansandolo e urtandolo, facendo ricadere sulle  sue spalle l’onere di dover fare il suo dovere, seppur con meno gas che esperienza. Strinse i comandi fra le mani e gliene sfuggì uno mentre accanto a sé sentiva Kaithen pregare le Dee delle Mura di risparmiarli.

Forse dovevano averli ascoltati perché, mentre lui stava ancora raccogliendo goffamente il comando, una figura si contrappose al sole, arrivando da non si sa dove e abbattendo quel gigante con un unico taglio netto alla collottola. Il tonfo fu forte e la polvere che si sollevò gli impedì di vedere bene per qualche interminabile secondo.

Quando il polverone si diradò, in piedi accanto a quella carcassa che stava man mano svanendo in un intenso fumo grigio, c’era una figura magra, aggraziata. Stava sistemando le lame al loro posto, senza staccarle dal comando direzionale mentre, sulle sue spalle sventolava una mantella. Le Ali della Libertà.

“La Legione” sussurrò con un fil di voce Kaithen, “Siamo salvi! Per le Mura, siamo salvi!”

Lui però non aveva nemmeno un fiato da esalare. Pietrificato, mise meglio a fuoco la salvezza, notando una treccia di lunghi capelli biondi caderle sulla schiena. Lo scalpitio dei cavalli arrivò alle sue orecchie immediatamente dopo e nel suo campo visivo apparvero altri legionari.

Una donna si avvicinò alla giovane che aveva schiantato il gigante, porgendole le briglie di un destriero dal manto marroncino, mentre un altro dai lunghi capelli rossi conduceva un carretto sul quale sedeva un quarto uomo dai capelli argentati e gli occhi pervinca.

“Il campo base è stato spostato oltre la collina.”

“Lo so, Nifa. Andate là e dite ad Hanji che io ho scelto di avanzare. Devo provare a raggiungere Levi, è partito da un paio di ore e non possono essere andati molto lontani.”

L’uomo sul carro prese la parola “Non puoi andare da sola” pregò la bionda con tono supplice, mentre questa prendeva due bombole che l’ometto argentato le stava porgendo senza opporsi, contrariamente ai colleghi.

Lei le sostituì, notando solo in quel momento le due reclute “Non andrò sola” concluse, facendosi lasciare altro gas. “Ora andate, il paese di Pertz è qui vicino e a quanto ho sentito dire dall’avanguardia della Guarnigione non hanno ancora iniziato le evacuazioni. Ci sarà bisogno di tutti i legionari possibili. Io starò bene, lasciatemi un cavallo in più e farò tutto ciò che devo per trovare mio fratello.”

“Pascal, dille qualcosa tu.” La piccola donna che si chiamava Nifa non scese da cavallo, limitandosi a guardare la collega contrita.

L’uomo sul retro del carro parve pensarci “Considerando la capacità tecnica di Nina e la sua resistenza fisica, ha circa il quarantacinque per cento di possibilità di arrivare viva a Shigashina. È comunque il doppio rispetto alle nostre aspettative di sopravvivere alla fine della giornata.”

“Consolante.”

Fabian, Nifa. Starò bene. Ho bisogno però che voi andiate ora, riportate ad Hanji ciò che vi ho detto.” Non attese di vederli rimettersi in marcia. Prese le quattro bombole legate fra loro con una mano e le briglie delle due bestie con l’altra e si avviò verso le due reclute, portando gli oggetti senza la minima fatica. “State bene?” domandò, guardandoli scattare entrambi sull’attenti, come risvegliati da un torpore all’improvviso. Depose le bombole di fronte ai due giovani.

Kaithen Hess, ottava squadra del  novantanovesimo corpo di addestramento reclute” recitò il morettino dalla pelle olivastra, sciorinando quelle parole con lo sguardo falsamente sicuro e la mano ben stretta  a pugno sul petto. Non sentendo la voce del compagno, si affrettò di aggiungere “Lui è Oluo Bossard.”

L’ufficiale li guardò attentamente, prima di far segno loro di mettersi a riposo “Io sono il sergente Nina Müller della Legione esplorativa e sto per farvi una domanda molto semplice” passò lo sguardo nel loro. Oluo notò subito che aveva gli occhi diversi e, non appena lo realizzò, avvampò, scostando subito i suoi sul manto erboso. “Sto andando a sud e avere un paio di mani in più potrebbe servirmi. Non vi costringerò a farlo, quindi scegliete se tornare indietro con questo cavallo o avanzare con me.”

I due giovani si scambiarono uno sguardo.

Poteva sembrare un azzardo, ma anche rischiare di tornare e abbandonare un ufficiale non era saggio.

Si  munirono così di coraggio, afferrando le briglie del cavallo subito dopo aver sostituito le bombole con quelle piene.

 

Oluo non riusciva a muoversi né a parlare. Tutto ciò che poteva fare era fissare con gli occhi spiritati quel poco che rimaneva di Kaithen, un braccio e una porzione di spalla, caduti dalle fauci del gigante che ora stava dissolvendosi a pochi metri da lui.

Di tanto in tanto alternava quella macabra visione a quella del sergente Müller, seduta su una radice d’albero e circondata da garze sporche del suo stesso sangue, mentre cercava inutilmente di medicarsi la gamba solcata da un lungo taglio.

Era successo tutto così in fretta da rendergli impossibile la comprensione di come erano arrivati a quel punto, soli in mezzo al nulla, con un solo cavallo e con il soldato più abile fra i due ora privo dell’attrezzatura per combattere.

Non era andata bene per niente.

Avevano compiuto poche miglia quando due di quei mostri erano apparsi sulla loro strada, sbucando dal bosco e cogliendoli impreparati. Il più rapido aveva afferrato il cavallo del sergente nel tentativo di divorare la donna e uccidendo sul colpo l’animale, prima di venire abbattuto dalla bionda che s’era alzata a mezz’aria appena in tempo per schivare l’enorme mano. L’altro, invece, era stata premura dei due cadetti. Oluo era riuscito a scendere da cavallo, trovando appoggio su un albero alto, mentre l’amico si batteva, colpendo la collottola del mostro ma non riuscendo a reciderla. Il sergente, venuta in soccorso del ragazzo, si era scontrata con lui e Kaithen, che brandiva in modo errato le lame, l’aveva ferita, aprendole il taglio sulla coscia.

Mosso da qualche strano istinto di sopravvivenza, Oluo aveva agito. Aveva abbattuto il gigante con un colpo secco, pulito, come mai era riuscito a fare con i fantocci durante l’addestramento.

A grandi linee, questo era ciò che il ragazzo riusciva a ricordare, ma fra un’immagine e l’altra intercorreva un oceano di domande. Come ci era riuscito? Ad esempio.

“Ti devo la vita.”

Oluo la guardò, come se l’ufficiale avesse appena detto di aver visto piovere rane poco più a nord “…Cosa?”

“Mi hai salvata, Bossard” ricantò lei, prendendo la borraccia e versandovi dentro delle erbe triturate, depurative, al fine di disinfettare il taglio “Se non ci fossi stato tu a prendermi, sarei sicuramente morta nella caduta.”

Aveva fatto anche questo?

“Non so cosa sto facendo” la voce uscì più alta di qualche ottava, seppur appena sussurrata. Negli occhi aveva ancora lo stesso terrore di prima, come se quella miserabile vittoria personale si fosse rivelata del tutto ininfluente per lui “Non so cosa fare, sono morti tutti. Sono morti tutti.”

Nina abbassò lo sguardo sull’arto leso, prima di sospirare piano. Cosa bisogna dire ai cadetti che vedono per la prima volta la morte negli occhi?

“Il tuo amico non era pronto” iniziò, cercando di mantenere un tono morbido, da madre, mentre versava un po’ di liquido su una garza. Prese a tamponare piano la linea lunga della ferita, che arrivava sin quasi all’attaccatura della gamba col busto, estendendosi da pochi centimetri sopra al ginocchio. Fortuna che non era profonda o l’avrebbe uccisa “Era determinato, magari. Però non era pronto. Non sapeva impugnare bene le lame e ora io ho le cinghie rotte e non posso più usare il modulo per lo spostamento e quindi combattere. Tu, invece, non sei determinato affatto, ma quel colpo non è stato niente male” gli sorrise, un po’ pallidamente a causa del male e della ben poco consolante situazione nella quale si trovavano, ma riuscendo a farlo sentire un po’ meglio “La paura ti tiene vivo, Bossard. In qualsiasi corpo finirai - perché oggi tu tornerai a casa-  ricordati sempre di cosa è successo qui fuori. Non sottovalutare le tue potenzialità, sei una recluta, sai cosa fare in situazioni di pericolo molto meglio di me, che dell’addestramento ricordo poco o nulla.”

Una folata di vento spettinò i capelli riccioluti di Oluo, spostandoli sulle spalle. Quella donna era forse la persona più forte che avesse mai incontrato. Aveva detto di essere la sorella del nuovo Comandante della ricognitiva e che stava cercando in ogni modo di raggiungerlo. La paura e l’orrore dovevano paralizzarla nel saperla lontana da lui, senza sue notizie dal crollo del Muro Maria, eppure manteneva la calma e il sangue freddo. Perdeva addirittura del tempo a consolare un miserabile come lui.

Doveva rimettere insieme se stesso e aiutarla, perché lei poteva anche essere stata salvata da lui, ma Oluo grazie a lei aveva forse compreso quale sarebbe dovuto essere il suo posto.

“Cosa posso fare per essere utile?”

Nina ci pensò su, guardandosi attorno per capire le poche risorse che avevano con loro. Appoggiò l’ennesima garza inutilizzabile a terra, adocchiando il boschetto alla sua destra. Per quanto quel piano non le piacesse per niente, non aveva alternative.

“Non possiamo rimanere fermi allo scoperto” gli disse infine, “Tu devi prendere il cavallo e andartene. Presto, coloro che sono stati sfollati dai villaggi ad est passeranno di qua e io posso chiedere un passaggio su un carro.”

“Lasciarla qui, sergente?” lui non parve affatto convinto “Non posso. Possiamo salire sul cavallo insieme.”

Se aveva retto lui e Kaithen, poteva anche reggere la figura sottile della giovane donna.

“Non posso né cavalcare né camminare” rispose subito lei, non curante, prendendo in mano un coltello e recidendo le cinghie che penzolavano rotte sul fianco. Tagliò anche il pantalone attorno alla ferita, buttando a terra la stoffa bianca impregnata di sangue e terra, “In queste condizioni, posso solo nascondermi. Non sarò un peso per te, devi tornare immediatamente in città, ma prima aiutami a mettermi fra quelle fronde.”

“Allora porterò dei soccorsi.”

Il bosco l’avrebbe protetta alla vista dei giganti, ma sarebbe stata comunque in grado di uscirvi da sola una volta applicati dei punti di sutura. Oluo la depose contro a una quercia, andando poi a prendere il modulo e le provviste mediche per appoggiarle accanto a lei.

“Fa attenzione” gli disse Nina, appoggiandogli una mano sulla spalla mentre lui si inginocchiava di fronte a lei, promettendole nuovamente che sarebbe tornato con qualcuno “Non sprecar tempo a combattere, cerca di seminarli. Nel caso dovesse succedere, però, cerca di rimanere vicino agli alberi, non cavalcare nelle piane a meno che non sia strettamente necessario. Prendi le mie lame e i razzi di segnalazione. Cerca di riunirti a un’unità.”

Oluo fece come gli venne detto, guardando il volto del sergente un’ultima volta prima di alzarsi, marciando verso il cavallo. Nina lo guardò andar via, prima di appoggiare pesantemente il capo contro la corteccia dell’albero. Chiuse gli occhi, portando una mano alla tempia e lasciando andare quel ringhio di frustrazione e disperazione che aveva incamerato dentro al petto sino al quel momento.

Poi disse la sola cosa che, ne era certa, le avrebbe detto anche Levi.

“Merda. Sono fottuta.”

 

Applicarsi così tanti punti da sola aveva richiesto un impegno non indifferente. Il dolore era forte e Nina sapeva di non potersi permettere il lusso di un anestetico, in primo luogo perché non avrebbe portato a termine il lavoro e poi perché doveva rimanere lucida e presente.

Quelle ora erano le terre dei giganti. Non era al sicuro, nemmeno un po’.

La buona volontà però venne meno quando, una volta fasciata con le poche bende che le erano rimaste la gamba, si sentì intorpidita dal dolore. Fu come se tanti piccoli aghi si fossero annidati sotto pelle, ferendola ad ogni movimento, mentre le palpebre, troppo pesanti per rimanere aperte minacciavano di farla cadere addormentata.

Visse per tanto in uno stato di dormiveglia, perennemente in allerta, ma non lucida, per diverse ore.

Il sole si era spostato parecchio in cielo quando riuscì a ritornare padrona del suo corpo. Spiò la luce oltre le frasche degli alberi, chiedendosi perché non era ancora passato nessuno o perché Oluo non era ancora tornato. Forse l’avevano trattenuto alle Mura Rose, avevano chiuso le porte e quindi ormai il problema era solo suo.

Per quanto potesse essere deprimente, quella era una constatazione ovvia. Logica.

Si mise seduta diritta, avvertendo uno spostamento attorno a sé. Qualcuno si stava addentrando nel boschetto, seguito da sonori passi che rimbombavano per la piana, facendo tremare la terra.

Nina aveva già preso in mano la spada del modulo che le giaceva accanto, quando da dietro un rovo di bacche di rosa canina, graffiato sul viso e sulle braccia dalle spine, apparve un bambino. Lui non si aspettava di trovare qualcuno sul suo cammino e la sorpresa fu tanto grande che, una volta incontrato lo sguardo di Nina, cadde a carponi sull’erba, mettendo un piede in fallo. Nina sentì un tuffo al cuore quando i suoi occhi affondarono in quelli del piccolo; all’interno di quelle iridi castane, calde, non c’era nulla se non l’orrore a cui essi dovevano aver assistito. La paura. L’abbandono.

I passi, però, non cessarono di riecheggiare.

La giovane donna spiò attraverso i rami, constatando che sì, c’era un gigante, ma se fossero rimasti in silenzio sarebbe andato tutto bene. La vegetazione era fitta a sufficienza da nasconderli. Per scrupolo, si schiacciò di più contro il tronco dell’albero, laddove esso incontrava un cespuglio di ginepro. L’odore delle bacche mature li avrebbe coperti.

Allungò una mano verso il bambino, sollevando l’altra per appoggiare un dito alle labbra, chiedendogli di rimanere in silenzio. Lui tentennò poi, a fatica, si alzò sulle gambe tremolanti. Si strinse al petto di Nina, mozzandole il fiato in gola quando le si sedette di peso sulla gamba ferita. Lo strinse a sé ugualmente, appoggiandogli sulle spalle la mantella verde e nascondendogli così la vista del gigante, che ora si vedeva ancor meglio fra capolino in alto, sui loro capi. Alzò il cappuccio sulla testa castana del bambino, appoggiandovi poi sopra la mano e attendendo.

Qualcosa attirò l’attenzione del mostro dopo diversi minuti di atmosfera tesa, perché questi si voltò rapidamente, allontanandosi da loro. Quando i passi furono sufficientemente lontani, Nina sospirò, rilassando le spalle.

Solo allora si rese conto che quel bambino non solo stringeva le mani piccole attorno alla sua giacca di rappresentanza come se temesse che venir portato via dal vento. Aveva iniziato a piangere silenziosamente, con gli occhi sgranati piantati sul manto erboso.

 

Nina cercò di non essere opprimente mentre faceva delle domande a quel bambino, venuto da chissà dove, ma insistette abbastanza da strappargli il suo nome: Mathias.

Non disse molto altro, ma fece intendere che la sua famiglia non c’era più. Ogni volta che lei chiedeva se fosse sopravvissuto qualcuno, nel suo villaggio, lui scuoteva il capo, stringendo le ginocchia contro il petto e rimanendo sprofondato in quel silenzio dettato dal trauma subito. Alla ragazza non ci volle molto per capire cosa doveva essere successo: il suo villaggio era stato spazzato via per interno e lui aveva visto la sua famiglia morire.

“Quanti anni hai, piccolo?”

Con la mano, Nina andò a parare via un ricciolo castano che gli ricadeva sulla fronte mollemente, ottenendo come solo risultato quello di farsi nuovamente abbracciare. Lei non si tirò indietro, sorridendogli con calore, per cercare di metterlo a suo agio. Di farlo sentire sicuro.

“Puoi parlare con me. Non permetterò ai mostri di farti male.”

“Nove.”

Sarebbe cresciuto con il peso di essere sopravvissuto alle persone che amava. Con quelle immagini negli occhi…

Passò il braccio attorno alle sue spalle, stringendolo piano a sé “Sai, tu mi ricordi tanto un mio amico.”

Fu solo al termine della frase che Nina realizzò.

Fritz era a Briemer.

Rimase ammutolita, prima di ricordare che, se tutto era andato come le aveva raccontato nell’ultima lettera che si erano scambiati, un mese prima, l’amico di infanzia aveva fatto già il suo ritorno a Nedlay. Confondeva le date, in quel momento la sua provvidenziale memoria faceva un po’ acqua, ma aveva come il sentore che stava tralasciando qualcosa.

In ogni caso, anche se si fosse trovato a Briemer, Nina era certa che tutti i distretti erano in fase di evacuazione così come i villaggi.

“Il signor Herikson era della Legione.” La voce del bambino la riportò alla realtà, sottraendola a quella preoccupazioni asfissianti. Abbassò gli occhi e vide che Mathias stava guardando con determinazioni le Ali della Libertà, cucite sul taschino della giacca, “Ha cercato di salvare la mia mamma e mia sorella.”

L’epilogo della storia non doveva essere positivo, se il bambino era giunto fino a lei da solo. lo strinse meglio, baciandolo sui capelli “Dobbiamo tornare alle Mura” sussurrò poi “Sento delle voci, qualcuno si avvicina.”

Ed era così. Mathias uscì dal boschetto circospetto, per poi tornare da lei dicendole che una carovana di persone stava attraversando la campagna, verso nord. La aiutò come poteva, prima di uscire dalla vegetazione andando incontro a quel gruppo di indigenti dai volti stanchi e spaventati.

Una volta al limitare del bosco, Nina si appoggiò a un albero, “Non lasciare la mia mano.”

Lui annuì velocemente, stringendosi addosso la mantella e chiudendo la mano piccola attorno alle dita lunghe del soldato.

L’avrebbe portato in città, ma poi?

Guardare quella folla incidere verso Trost, appesantita dalla paura e dalla consapevolezza che avevano perso tutto le fece comprendere che, per Mathias così come per lei, forse non esisteva un futuro.

Era caduto con Maria.

 

La pioggia aveva preso a cadere fina, imperlandole i capelli e decorandoli con lucenti goccioline di condensa, che riflettevano la luce del cielo alla volta del tramonto.

S’era messa seduta sul carretto, ringraziando nuovamente con un sorriso una bella donna di mezza età che, dopo aver pregato il marito di aiutare lei e Mathias, aveva fatto spazio fra i loro pochi averi per offrire loro un passaggio fino a Trost. Il bambino seduto accanto a lei fissava con gli occhi sgranati le assi di legno, immobile, di nuovo chiuso nel suo mutismo. Pareva che non respirasse nemmeno. Il solo momento in cui lo vide alzare gli occhi fu quando, finalmente, attraversarono la galleria di accesso della saracinesca, ritornando al sicuro, nelle Mura Rose. Vennero fatti sistemare di lato al grande spiazzo che dava sulla via fluviale. Nina aveva atteso che il carro arrestasse il suo lento andare, prima di farsi forza, alzandosi in ginocchio e poi in piedi, saltando giù da quel mezzo di fortuna, ma solo dopo essersi guardava bene attorno, nella moltitudine degli esuli.

Accalcati e relegati fuori dalle file delle vie che si perdevano in un dedalo difficile da districare all’interno dell’intera cittadina, coloro che avevano perso tutto non avevano avuto nemmeno la premura di un alloggio di fortuna. Sedevano in terra, appoggiati ai loro carri e stretti alle loro famiglie.

Ormai tutto ciò che rimaneva a quelle persone era la vita stessa, infame e crudele, così come il Fato l’aveva destinata loro.

C’erano soldati e civili feriti ovunque, come tanti garofani in fiore, sbocciavano rossi sul corpo o sul capo. Aveva continuato a cercare un volto amico, fino a che il suo sguardo non s’era incatenato ad un paio di iridi di un verde smeraldino così preziose da parer finte. Seduto fra due coetanei, un bambino la fissava in muto silenzio. L’aveva già visto altre volte, spesso ad accogliere la Legione decimata al ritorno alle porte di Shigashina, ma in quel momento il suo sguardo non brillava.

Negli occhi portava la morte e sul pallido volto una richiesta.

Che giustizia venisse fatta.

“Rimani con me” sussurrò a Mathias, tendendogli la mano per farlo scendere dal carro, decisa a non  lasciarlo solo con gli altri orfani. Lui non si fece pregare, trovando nel sergente Müller qualcuno a cui aggrapparsi. Qualcuno che avrebbe potuto badare a lui, almeno in quel momento di dolore.

Sfilarono insieme fra le file di miserabili e Nina di tanto in tanto si fermava, sentendo il polso di qualche ferito grave e decretando il decesso di qualche meno fortunato.

“I morti vanno portati via subito o si scateneranno delle pandemie” aveva detto a Ian Deitrich, uno dei Capitani della Guarnigione della città, quando l’aveva incontrato al limitare della zona abitata “In più, occorre disporre con rapidità di un’infermeria. Queste persone stanno male, vanno aiutati o la conta dei decessi accrescerà.”

Lui annuì grave, tenendo le braccia incrociate sul petto e gli occhi sulla folla “Farò quanto in mio potere, sergente. C’è un forno, in fondo alla via. Chiederò di farlo sgomberare e poi ci arrangeremo con qualche tenda.”

“Grazie, Ian.”

Concluse le trattative con la Guarnigione, a furia di vagare, riuscì anche ad incontrare un paio di volti amici.

“Come sei arrivata fin qua?”

Mike la prese sotto braccio, facendo sì che non si sforzasse nel camminare, mentre Nababa lanciavano uno sguardo veloce al bambino che seguiva il medico. Appoggiò una mano sul capo del piccolo, che però si ritrasse, schiacciandosi contro il fianco del sergente  “Levi si incazzerà” proferì la donna alta, non riferendosi al piccolo, ma alla situazione.

“Levi si incazza sempre” reggendosi all’amico, Nina alzò lo sguardo incontrando la pioggia, che ormai cadeva più decisa, non può solleticando il loro volti, ma pronta a trasformarsi in un acquazzone. Persino la natura era contro di loro “Stanno sgomberando una bottega, poco più avanti. Aiutami a raggruppare coloro che necessitano di cure mediche.”

Per prima cosa doveva trovare un antidolorifico e poi sistemare Mathias su un letto caldo.

Non avrebbe permesso di vederlo andare via, in mezzo agli altri orfani, ad appesantirsi il cuore di tristezza. Avrebbe fatto il possibile per tenerlo con sé, fin tanto che poteva. Per cui gli porse la mano nuovamente, come aveva fatto sul limitare di quel bosco, guardandolo afferrarla in fretta, senza esitazione.

Aggrappandosi ad essa e sperando. Quel bambino le dava forza di guardare avanti e non fermarsi. Gliene diede molta anche quando, entrando nella bottega del panettiere dove avrebbero allestito il campo medico, adocchiò un gruppetto di legionari, seduti a qualche metro, sull’erba di una aiola.

Erano Schäfer e i suoi uomini, da Shigashina.

Fra loro non vide Shadis o i pochi uomini di Trost che avevano accettato di accompagnarli nella prima missione del nuovo Comandante.  

Cosa più importante, non c’era nemmeno Erwin, né tanto meno Levi.

 

La pioggia aveva reso scivoloso quel tetto, ma infondo Erwin non dava segno di volersi muovere.

I capelli, appiattiti sulla fronte e sul capo a causa del violento acquazzone di cui era stato testimone poco prima iniziavano già da asciugarsi, scaldati dagli ultimi raggi del sole morente. Esso stava per scomparire, oltre le Mura, alle sue spalle.

Erwin non riusciva a vedere altro se non la breccia di otto metri che apriva il loro mondo all’orrore della morte. Non vedeva niente se non l’impronta marcata di quello che sentiva già come un suo fallimento personale. Erano dentro al distretto di Shigashina mentre l’inferno si riversava in terra, ma anche se si fossero trovati altrove, non avrebbe fatto alcuna differenza. A nulla erano valsi i loro sforzi; i giganti avevano preso possesso della città e ora vagavano liberi di seminare distruzione nelle terre di Maria.

Quella consapevolezza lo teneva paralizzato lì, a quello che era diventato nient’altro che un altro terreno in cui guardarsi le spalle, incredulo. L’osteria del Gallo d’Oro dove andavano a bere prima di uscire in missione all’esterno, l’officina del fabbro Helchin dove facevano scorta di lame, la tessitoria nella quale compravano metri e metri di stoffa per i teli che poi avrebbero riportato i loro caduti…

Era tutto finito.

La città era vuota, non si udiva più nulla, se non il rombo dei passi dei giganti e qualche grido in lontananza.

Forse Erwin se le stava immaginando, quelle urla. Forse gli erano rimaste impresse a fuoco nella mente e nelle orecchie, per quante ne aveva sentite in quei due giorni.

In un breve sprazzo di lucidità si domandò dove erano finiti gli altri. Che fossero morti tutti?

La cosa più sensata da pensare, seppur di logico non vi fosse nulla in tutto ciò che era accaduto nelle ultime ore, era che forse erano tornati a nord. Lui aveva esitato, era rimasto indietro e aveva perso tempo. E loro lo avevano lasciato lì perché aveva iniziato a fissare una voragine di otto metri chiedendosi come poterla chiudere.

Un modo doveva pur esserci, forse Pascal poteva…

“Erwin! Dannazione!”

Uno strattone forte al braccio gli fece perdere l’equilibrio e per poco cadde riverso sulle tegole di mattone cotto. Di fronte a lui, bagnato da capo a piedi e con l’espressione più esasperata che avesse mai visto, c’era Levi.

Non riuscì a dirgli nulla, incrementando la sua irritazione “Sono cinque minuti che ti sto chiamando!” proseguì, ingigantendo il tempo “Dobbiamo andarcene tutti e quattro! Adesso smettila di fare l’incantato e muovi quel culo, mi sta venendo un giramento di palle da sentire la nausea!”

Lo chiamò assente, il Comandante, assaporando il suo nome contro il palato come se non credesse davvero di averlo di fronte agli occhi e notando solo dopo che, alle spalle del moro, c’erano altre due persone, che incidevano con passo stanco, malfermo, lungo quello scivoloso cammino.

Lars e Mira avevano faticato parecchio a tenere il passo di Levi, ma se c’era qualcuno che poteva provarci, erano senza dubbio loro due. Facevano parte della squadra di Smith, avrebbero fatto qualsiasi cosa per lui.

Anche rischiare la vita per riportarlo a casa.

“Non posso andarmene” sussurrò ancora il biondo, riportando gli occhi verso la breccia nelle Mura.

L’altro lo guardò, esternando per una volta tutto ciò che pensava in un’espressione di profonda perplessità, mista a un certo sgomento. “Non puoi?” chiese, in un soffio, mentre sentiva la collera ribollirgli nelle vene. Fece un passo verso il superiore, zoppicando sulla caviglia dolorante, con fare minaccioso “Permetti allora che io ti faccia un quadro della situazione, uhm? Siamo circondati dai giganti, siamo in quattro contro chissà quanti di quei mostri, a una mezza giornata di cavallo dal primo luogo sicuro. E siamo senza cavalli!”

Di partenza li avevano, ma a un certo punto combattere era diventata la priorità e li avevano persi.

Entrati nel distretto, si erano ritrovati con poco gas alla ricerca di ciò che rimaneva del Comandante. L’averlo trovato vivo era un autentico miracolo, ma non risolveva la situazione. In qualche modo dovevano tornare e la situazione sembrava parecchio disperata.

“Erwin, non possiamo chiudere quel buco. È troppo grande. Questi terreni sono persi.”

La drammatica realtà dei fatti. Levi non si sarebbe risparmiato nemmeno un commento in merito, se ciò serviva a spronarlo. Aveva promesso a Nina che l’avrebbe riportato, anche a costo di stordirlo e tentare di caricarselo sulle spalle.

Non riusciva però a non pensare che gli facesse una certa pena, con quello sguardo smarrito che non lo rappresentava affatto. Era abituato a vederlo sprezzante, sempre sicuro di sé. Erwin aveva un piano –morale o meno che fosse- per tutto.

Era stato preso in contropiede e non sarebbe stato semplice riprendersi a quel punto. Doveva scendere a compromessi con il fatto che non avrebbe potuto farci niente.

“Levi, perché sei qui?”

Il moro sbuffò. Stavano perdendo tempo a parlare con un uomo poco cosciente. Lanciò un veloce sguardo a Lars, che ricambiò con una certa rassegnazione, prima di rispondere “Per te” gli disse sicuro, prendendogli il polso e tirandolo con forza verso di sé “Sono qui per te, grosso stronzo. Ora muoviti. Fissare quel buco per tutto il cazzo di giorno non servirà a un bel niente e io inizio ad avere fame.”

“Sta per fare buio, possiamo sfruttare a nostro vantaggio la notte e spostarci più a nord possibile” si intromise Mira, stringendo meglio la valvola del gas come per assicurarsi di non avere perdite. Nella sua voce non c’era l’urgenza di Levi, ma più una nota dolce e quasi materna. Si avvicinò, appoggiando una mano sulla spalla del Comandante “Ci hai portati avanti per tanti anni, Erwin. Non abbandonarci ora che abbiamo bisogno più che mai di te.”

A quel momento si unì anche Lars, afferrando la mano della moglie e guardandolo supplice “Dobbiamo riorganizzarci ora, studiare un piano, o non torneremo a Trost.”

“Io a casa non ci torno senza di te, idiota” aggiunse infine Levi, stringendo di più la presa attorno al polso massiccio dell’altro e cercando di guardarlo negli occhi. Ci riuscì, per la prima volta da quando l’avevano ritrovato “Nina mi uccide se non ti riporto. Andiamo, sei troppo pesante per essere portato in spalla e io sono già stanco di queste stronzate.”

Complice quel contatto, che lo univa ai suoi compagni, Erwin rinsavì e lo fece di colpo. Boccheggiò appena, guardandosi attorno e puntando lo sguardo alla breccia per l’ultima volta.

 “Verrò ricordato per sempre come il Comandante che ha perso il Muro Maria” sussurrò con tono spento, ma più netto di quanto avesse fatto in quel momento.

“Allora vorrà dire che correggeremo questa definizione” lo rassicurò Mira con un sorriso sghembo.

“Se vuoi diventare il Comandante che ha preso a calci in culo i giganti fuori da casa nostra, però, devi prima tornare vivo al quartier generale. Non vorrai cedere il posto a Schäfer, vero?”

Un piccolo sorriso, timido, nacque sulle labbra di Smith, mentre Levi finiva il suo discorso non troppo motivazionale “No, decisamente no. Troviamo delle torce, cammineremo tutta la notte verso casa.”

Avevano ragione loro.

Doveva sopravvivere e poi, un giorno, sarebbe tornato.

E si sarebbe ripreso ciò che appartiene di diritto all’Umanità.

 

 

All’alba del terzo giorno dalla caduta del Muro Maria, la città di Trost era al collasso.

Le milizie cittadine della Guarnigione non riuscivano a far fronte al grande affollamento di esuli, che erano arrivati ad invadere le stradine della città come tante formichine. Lo spiazzo di fronte alla porta del Muro Rose era così pieno da riuscire a stento ad oltrepassarlo a piedi e lungo tutta la via fluviale erano sbocciate delle piccole costruzioni di fortuna, per lo più consistenti in bastoni e tende regalate dai cittadini della città.

Rheva era arrivata la sera precedente, rispondendo all’appello dei legionari di Irsee, suo paese natale, che domandavano aiuti per spostare le persone e occuparsi dei tanti, troppi feriti.

L’aveva fatto con un sacco pieno zeppo di farinata d’avena e un altro con delle ciotole di zucca essiccata che sapeva non avrebbe più rivisto. Suo zio, Peter, era rimasto a casa, perché l’età e l’anca non avevano permesso di andare a sua volta a dar una mano.

Non importava, perché Rheva valeva per dieci, quando si impegnava.

Con un gesto secco si sistemò gli occhiali sull’attaccatura del naso, camminando rapida verso l’infermeria improvvisata.

Aveva giusto preparato un pentolone di farinata e sapeva benissimo chi non aveva ancora mangiato niente di decente.

La prima persona che incontrò sul suo cammino fu Hanji. Dopo averla rimpinzata come si doveva  -doveva tenerli d’occhio, quegli stacanovisti, o non avrebbero mangiato nulla per proseguire il lavoro- andò avanti, lungo le fila di tavoli pieni zeppi di oggetti medici dall’aria ben poco rassicurante e feriti.

Trovò la persona che stava cercando ferma in un corridoio di tavolate, con lo sguardo stanco, perso per chissà quale parto mentale. Le si avvicinò urtando il legno di uno spigolo con i fianchi ampi, non era magra come quella ragazza Rheva e non avrebbe voluto esserlo, chiamandola un paio di volte a gran voce.

Quando si accorse di non essere stata udita, passò all’azione diretta. Le ficcò con prepotenza il cucchiaio contro il fianco, sul costato, facendola praticamente saltare sul posto.

“Nina, sveglia! Sono qui perché- quello è un braccio?”

Il medico la guardò stupita, non si aspettandosi di trovarla lì attorno. Poi abbassò gli occhi sull’avambraccio che reggeva nella mano libera, alzandolo e mostrandolo alla donna, che storse il naso disgustata, ma ben poco impressionata “Gangrena” le fece sapere, buttando l’arto sul tavolino alla sua sinistra e lavandosi poi le mani vermiglie di sangue in un catino “Rheva cosa ci fai qui? È l’inferno.”

“Lo vedo bene” la ripresa la donna più matura, scrollando il capo dei liscissimi capelli di grano,  diversi dai boccoli lucidi di Nina. Le due donne non sarebbero potute parere più diverse, visto che la sola cosa che parevano avere in comune era l’altezza. Rheva non era bella nel significato più puro del termine; era provocante, osava con corsetti che le mettevano in mostra il seno prosperoso e truccava gli occhi verde bottiglia per farli sembrare più grandi e meno allungati. Persino in quella situazione tragica, manteneva una certa compostezza, al contrario della giovane donna che aveva di fronte. Nina era spenta. Sicuramente, si disse Rheva, doveva sentirsi distrutta. Chissà da quanto non dormiva o non mangiava decentemente.

Per ottemperare almeno a quel danno le ficcò fra le mani ancora umide una ciotola di farinata. Nina la guardò spiritata, sgranando gli occhi solcati da pesanti occhiaie nere “No, ti prego” le disse fiacca “Il solo odore mi mette la nausea. Non hai idea di quanta ne ho mangiata durante gli allenamenti con Levi.”

“Poco mi importa.” Rheva era irremovibile. Puntò l’indice contro di lei minacciosamente e l’altra non potè far nulla se non chinare il capo,  sedersi sulla tavolata, portando al contempo il primo cucchiaio di quella sbobba alle labbra “La odio” fu la sola cosa che disse, dopo aver ingoiato il boccone, consapevole però che aveva bisogno delle poche energie che quel misero pasto le avrebbe offerto. Poi non voleva contraddire l’amica, né fare la schizzinosa in un momento così drammatico.

Aveva visto Rheva molte volte, nell’osteria di suo zio Peter dove lavorava ogni sera, prendere a pedate chiunque provasse ad alzare le mani verso il suo seno prosperoso e in bella mostra. Soprattutto se soldati.

Nina aveva più e più volte pensato che calciasse più forte di Levi.

Un’ombra le passò sul viso, tanto che lo abbassò, tenendo il cucchiaio di legno fra le labbra.

Ah, dannazione…

“Che stai pensando, zucchetta?” le chiese subito l’altra, non perdendo di vista la ciotola ancora per lo più piena.

“Levi e Erwin non sono ancora tornati. Sono passati tre giorni, Rheva.”

Lei non seppe che dirle. In tanti, troppi non avevano fatto ritorno. Mike stava facendo la conta dei caduti, fuori dalla tenda, ma non era nemmeno paragonabile a quella dei dispersi. La Legione, da sola, contava come scomparse ben quattro unità. Intere.

Quattro squadre scomparse nel nulla.

“Se sono morti…. Se non dovessero tornare, io come faccio?”

Il cucchiaio cadde nella ciotola con un piccolo tonfo umido, mentre il medico portava la mano chiusa a pugno sulla bocca per soffocare un singhiozzo. Strinse gli occhi, Nina, lasciando scivolare in avanti i capelli per coprirsi il viso.

Era stanca e spaventata. Andava tutto bene, mentre si occupava dei feriti: lavorava, rimaneva concentrata sul suo lavoro e in qualche modo accantonava le preoccupazioni. Quando però si fermava, anche solo un istante, si sentiva sopraffatta.

Rheva le si avvicinò, prendendole la ciotola e appoggiandola sul tavolo accanto a sé. Poi portò la mano sulla nuca della ragazza, facendole appoggiare il viso sulla sua spalla. Nina la abbracciò scoppiando a piangere.

“Brava, zucchetta, sfogati. Quando ti sarà passata potrai tornare a segare le ossa. Ti piace tanto, no?”

A Nina sfuggì una piccola risata fra le lacrime. Quella donna, che non era poi di molto più grande di lei, le stava ridando un poco di allegria senza nemmeno darsi troppa pena nel riuscirci.

Fece come le venne detto, si sfogò un po’ prima di rimettersi seduta diritta, con gli occhi arrossati e il mal di testa. Accettò di buon grado il fazzoletto di cotone grezzo che le venne porto, andando ad asciugarsi così le guance “Grazie. Ne avevo bisogno. Sarei esplosa.”

“Eccome se saresti esplosa” Rheva si riprese il fazzoletto, mettendole fra le mani la ciotola di farinata e facendole quindi presente che sì, l’avrebbe terminata.

Nina scosse piano il capo, vagamente divertita nonostante la situazione e l’assenza di sonno e mandò giù altre tre cucchiate, rendendo il contenitore ripulito per bene all’amica “Portane un po’ a Pascal. Sta aiutando a costruire delle tende qua fuori e non mette qualcosa di decente nello stomaco da due giorni.”

“Sarà fatto” Accettò di buon grado la carezza che Nina le fece sul braccio, dentro alla quale c’era tutto il riconoscimento del medico nei suoi confronti. Non aveva però ancora finito con lei “Zucchetta?” attirò la sua attenzione mentre questa stava già per tornare dai suoi pazienti. Attese di vederla voltarsi verso di lei, parlando “Ti conosco dal tuo primo giorno di leva, sei cresciuta parecchio e velocemente, Nina. Sei una donna forte, non ti serve un uomo, che sia  un fratello o un amante. Troverai un modo per far quadrare tutto e andare avanti, se fossi costretta a farlo.”

Nina la ringraziò con un cenno del capo, poiché il magone le impediva di proferire parola.

Rimasta di nuovo sola, prese in mano la sega chirurgica, asciugandola dal disinfettante con uno straccio bianco.

Nel mentre, rimuginava su quanto le era stato appena detto e cercava in ogni modo di credere che ci sarebbe riuscita per davvero.

 

Le ore passavano, i pazienti aumentavano e i medici diminuivano.

Nina conosceva qualcuno a Trost e qualcuno di Shigashina. Tutti coloro a cui venne chiesto aiuto si prodigarono per aiutarla, ma verso il meriggio del terzo giorno erano tutti molto stanchi. Per di più, alcuni dottori come Paul Karson e Grisha Jaeger, entrambi del distretto caduto, erano segnati nella lista dei civili dispersi, lasciando un enorme vuoto.

Qualcuno con la loro esperienza sarebbe servito in quella situazione.

Stremata, Nina aveva provato a dormire un po’, mettendosi nel letto nel quale aveva sistemato Mathias il giorno prima e crollando non appena chiusi gli occhi. Era stata però destata di soprassalto da Moblit, a causa di un’emergenza. Una donna incinta, ferita a una gamba, che perdeva molto sangue.

Inutile dire che lei non era un’ostetrica, non ne aveva le conoscenze e alla fine dell’interno, aveva perso sia la madre che il figlio.Nessuno la incolpava, l’emorragia era in fase troppo avanzata e lo shock per l’enorme perdita ematica, misto anche allo stress di quei giorni, erano stati elementi determinanti.

Con le braccia sporche di sangue fino al gomito, Nina cadde seduta su i gradini di accesso al forno. Prese con la mano tremolante e sporca di umori una sigaretta dalla custodia di latta, ficcandosela fra le labbra.

“Cadetto?” chiamò uno dei giovani appollaiati sul muretto li fuori. Questi la guardò e non ebbe bisogno di sapere altro, visto che le si avvicinò, usando un fiammifero per accenderle la sigaretta. Nina sbuffò il fumo dalle narici, ringraziandolo, prima di ricadere nel mutismo. Appoggiò la tempia al cemento freddo della soglia, chiudendo un istante gli occhi. Solo quando qualcuno le si sedette di fronte, togliendole la sigaretta delle labbra e spegnendola sul gradino, tornò cosciente. “Moblit” lo chiamò stancamente, mentre lo guardava immergere un panno nel catino che recava con sé, per poi strizzarlo “Non farmi questo, ne ho bisogno per andare avanti.”

“Quella di fumare è una pessima abitudine” la riprese lui subito, con il solito tono da mamma chioccia, mentre senza chiederle il permesso prendeva con delicatezza la sua mano, iniziando a lavarle il braccio. L’acqua del catino si tinse in fretta di un color rosato.

“Perché lo fai?” chiese di punto in bianco Nina, guardandolo con riconoscenza e curiosità attraverso gli occhi vitrei.

Lui abbozzò un sorrisetto, prima di ricambiare lo sguardo, che pareva altrettanto stremato “Mia madre era molto malata” le disse, strizzando lo straccio per la terza volta e passando a pulire lo spazio di pelle fra le dita del medico “Eravamo soli, noi due e mi sono sempre preso cura di lei da quando ho otto anni. Una volta che è morta, cinque anni fa, io mi sono ritrovato solo, così mi sono arruolato. Mi viene spontaneo dare una mano, occuparmi delle persone.”

“Sei troppo buono per questo mondo, Moblit.”

“Ah, smettila Nina.”

Una volta terminato, passò un panno asciutto sulle braccia della ragazza, sistemando poi tutto e ripiegando le stoffe con precisione certosina. Una volta fatto, si sporse, baciandola sulla fronte “Porto dentro il catino e torno a prenderti, devi dormire.”

“Posso camminare” lo informò lei, ma il compagno di squadra non le diede segno di aver sentito.

Nina tornò ad appoggiarsi con la tempia al muro freddo, trovandolo ristorante. Nonostante il brusio di sottofondo, sentiva che sarebbe potuta cadere addormentata così, semplicemente.

Uno scossone la fece riprendere all’improvviso e, aperti gli occhi, trovò Mike chino su di lei.

“Cosa-”

“Sono tornati.”

Non le servì altro per schizzare in piedi, avvertendo una fitta ai punti freschi sulla coscia. Non le importava.

“Dove sono?”

“Stanno arrivando dalla piazza.” Mike si offrì di aiutarla, ma lei non ebbe il cuore di attendere. Partì di gran carriera, zoppicando e trascinandosi dietro la gamba ancora sofferente, uscendo dal corridoio di tende che dall’ingresso del forno portava all’esterno, fra le file di brande occupate. Si affacciò, appoggiandosi a una delle travi di sostegno della precaria struttura, portando una mano alla fronte per schermarsi dai raggi del sole del mezzogiorno.

La prima cosa che vide fu Erwin, che camminava stanco accanto a Nababa e a Fabian. Dietro di lui c’erano Lars, che teneva in mano due moduli per lo spostamento tridimensionale e, a qualche passo, Hanji e Alana che sostenevano Mira.

Solo dopo aver mosso un paio di passi verso di loro, Nina vide che sulle spalle Erwin portava Levi.

Non si diede il tempo di formulare ipotesi alcuna. Si mosse velocemente, sentendo la presenza di Mike accanto, pronto a tirarla su nel caso in cui fosse caduta in quel patetico tentativo di corsetta che stava facendo.

Arrivò dinnanzi a Erwin, leggendo il sollievo sul volto distrutto dalla lunga marcia del fratello e gli buttò le braccia al collo, aggrappandosi alla sua nuca con una mano e stringendo forte la camicia sulla spalla di Levi con l’altra, prima di scoppiare in un nuovo pianto liberatorio.

Nina…” la chiamò piano il Comandante, appoggiando il capo nell’incavo del collo della sorella, mentre la mano di Levi si alzava fino ai capelli della giovane, passandovi le dita attraverso in un gesto lento, nel quale probabilmente raccolse tutte le ultime forze che gli erano rimaste.

Erano vivi ed erano di nuovo con lei.

Tutto il resto si poteva aggiustare.

 

“Ho incontrato il Capitano Schimdt mentre portavo le notifiche degli ordini di Zacharius a nord. Lui ha detto che stava venendo qui per parlare con te, ma ha subito fatto marcia indietro.”

“Grazie per esserti preso a carico di questo viaggio, Fabian.”

Il rosso batté il pugno sul petto, facendo il saluto formale al Comandante, prima di allontanarsi per lasciarlo solo insieme a Mike, che non attese di vederlo sparire per prendere la parola “Abbiamo fatto gioco di squadra” informò l’amico, seduto su una sedia, nel vorace tentativo di terminare tutta la zuppa. Erwin non mangiava da due giorni e mezzo, e aveva anche preso in considerazione l’idea di sbranare una mucca durante il viaggio di ritorno, tanto forti erano i crampi “Io, Hanji e Gustav abbiamo pensato che fosse intelligente ordinare la ritirata generale. Il soccorso ai civili e l’appoggio alla Guarnigione però avevano la priorità e gli uomini della Legione di Renìn non hanno rispettato questo ordine. Non credo dovresti punirli, ma ho pensato fosse giusto che tu lo sapessi.”

“Hanno abbandonato la popolazione?”

“Erano di stazione nel paese di Kanaise, lontani dal distretto e non l’hanno raggiunto, preferendo tornare al Muro Rose.”

Erwin sapeva che non poteva punirli, ma avevano abbandonato la popolazione. Cosa fare? “Ci penseremo. Notizie da est e da nord?”

“Niente da Pereta” lo informò il suo secondo, passandogli un bicchiere di vino per buttar giù la sbobba. Erwin lo prese, sistemando con la mano libera la coperta che teneva sulle spalle “Dal nord sappiamo solo che stanno lavorando insieme agli stazionari per recuperare quante più persone possibili. Ho paura che Erik uscirà per cercare di raggiungere i suoi a Briemer.”

“Ho paura anche io di questo, ma non possiamo impedirglielo, se lo vorrà fare. Sono i suoi uomini. Le liste delle perdite?”

“Abbiamo quelle di Renìn e Trost. Non ti voglio rovinare la sorpresa, ma abbiamo perso quasi il quaranta per cento degli uomini, la maggior parte dispersa senza lasciar traccia. Di questo si sono occupati Nina, Pascal e Nababa.”

A quella notizia, il Comandante svuotò il bicchiere di vino con un sorso unico. Passò la mano sul viso stanco, pensando.

“Devo andare in Capitale a prendere ordini diretti dalla corte e da Zackley. I nostri protocolli non sono abbastanza aggiornati per far fronte a una simile emergenza.”

Mike tirò su col naso, non abbandonando la sua compostezza “Scordatelo, tu ora ti metterai in un maledetto letto e lo farai senza far storie da signorina. Non puoi andare proprio da nessuna parte con quella faccia.”

“Dormirò in carrozza.”

“Devo chiamare tua sorella?”

Quella sì che era una minaccia, ma sarebbe dovuto andare lui stesso da Nina. Il conteggio delle vittime aveva la precedenza, soprattutto perché doveva stilare un rapporto accurato sulle loro risorse, se sperava di ricevere ordini diretti su come agire.

E sperava di riceverli, perché per la prima volta nella sua vita, si sentiva totalmente disarmato.

Incapace di studiare un piano.

Forse aveva ragione Mike, doveva dormire.

Si alzò, sentendo la schiena dolergli e le articolazioni faticare ad ingranare i movimenti “Parlo con Nina e poi mi riposerò qualche ora, contento?”

“Tu dovresti esserlo, non io. Non sono tua madre, Smith.”

Passando, Erwin gli lasciò una pacca riconoscente sulla spalle, entrando nel forno senza abbandonare la coperta calda che lo avvolgeva. Tra una affare e l’altro si era fatta di nuovo sera e le candele illuminavano il corridoio fra le brande piene di bisognosi e malati. Molti di loro sembravano paralizzati dall’orrore, altri, non coscienti, forse non avrebbero visto una nuova alba.

Erwin non si sentiva di compatirli.

Morire in un letto, arrabattato alle meno peggio ma comodo abbastanza da dormirci, non sembrava una così brutta opzione giunti a quel punto.

Trovò sua sorella seduta su una di quelle brande improvvisate, china su Levi che dormiva così profondamente da sembrare morto. Erwin si chinò a sua volta su di lui, dall’altra parte della branda, appoggiandosi alla pavimentazione a mattonelle grezze con le ginocchia. Notò che il moro dormiva su dei sacchi e, dopo un esame più attento, il biondo dedusse che dovevano essere pieni di piume. Una fuoriusciva dalla legatura, così la prese fra pollice e indice, soffiandola via.  

“Era così stanco da essere crollato mentre gli applicavo i punti di sutura sul braccio” gli rivelò la bionda, mentre passava i polpastrelli sulla mano dell’amato, accarezzandola “Non l’ho mai visto così, è a pezzi.”

“Se non ci fosse stato lui,  saremmo finiti noi a pezzi.” Erwin appoggiò una mano sulla schiena della sorella, sussurrando per non disturbare il sonno dell’altro “Non è solo rimasto sveglio tutto il tempo, ha anche combattuto da solo. Io e Lars siamo crollati fisicamente a nemmeno metà del tragitto e Mira si è fatta male al fianco, non riuscendo più a usare il modulo. Lui è andato avanti, proteggendoci e usando le nostre bombole.”

Aveva continuato a farsi strada per tre giorni, da Trost a Shigashina e ritorno, senza nutrirsi né dormire. Nina era stupita dal fatto che non si fosse arreso prima, ma ogni tanto anche loro dimenticavano che Levi era soltanto un essere umano fatto di carne e sangue. Esattamente come ogni altro soldato.

Solo più resistente.

“Non avevate mangiato niente” riprese il medico, guardandolo per fargli capire che non era colpa sua se non era riuscito a parare le spalle di Levi “Quindi era normale, per voi, rimanere senza energie. Gli uomini grandi e grossi, poi, hanno bisogno di un sacco di cibo. Forse è per quello che Levi invece va avanti, perché è un nanerottolo.”

“Vi sento, stronzi.” La voce uscì debole e roca dalle labbra del moro, ma perfettamente udibile. Nina rise, portando una mano alle labbra per non disturbare gli indigenti attorno a loro e quando Levi spiò con un occhio solo la sua espressione, lei gli appoggiò una mano sulla guancia per sentire se avesse ancora la febbre “Non parlate come se io non fossi qui.”

“Ovviamente sei qui” lo prese in giro il biondo, dandogli una leggera pacca sulla spalla “Ti sono debitore per le vita.”

“Non vedo la novità. Lo eri anche prima.”

“Dormi, così magari il tuo umore migliorerà” proseguì Nina, sempre a sfottò, cercando lo sguardo complice del fratello.

Per risposta, il moro sfilò la mano da quella della ragazza, girandosi del tutto verso di lei e mettendosi sul fianco per nascondere il viso contro le sue gambe, lontano dalla luce “La faccia di merda deve essere un carattere ereditario, nella vostra famiglia.” furono le sue ultime, nobili parole.

Nina infilò una mano fra i suoi capelli, laddove essi erano più corti, sospirando rumorosamente. Poi tornò seria, lasciando scivolare il sorriso via dalle sua labbra “Cosa facciamo, ora?”

“Non lo so.”

“Queste persone cosa faranno?”

“Non so nemmeno questo.”

La conversazione cadde così, in un silenzio consapevole, poiché di risposte non ve ne erano.

Erwin rimase immobile a guardare Levi che dormiva, profondamente per una volta, chiedendosi cosa poteva fare. Cosa gli avrebbero detto di fare, una volta arrivato a Mitras? Sarebbe stato in grado di farlo?

“Ho paura” Nina parlò di nuovo e lui tornò a guardarla. Lei, però, non stava ricambiando lo sguardo, fisso invece sul profilo di Levi. Scostò una ciocca nera dalla sua guancia, prima di proseguire “Tutte queste persone in un solo luogo, affollato…. Per non parlare della scarsità di viveri. Come minimo inizieranno le epidemie, poi cosa faremo quando il cibo sarà terminato? Non esistono abbastanza campi agricoli nel Muro Rose per sfamare tutta questa gente.”

Erwin portò una mano sul suo mento, costringendola a incontrare le sue iridi chiare, di nuovo decise “Lo supereremo.  Sarà dura, sarà difficile, ma lo supereremo e lo faremo insieme.” Si sfilò la coperta dalle spalle, appoggiandola sul corpo di Levi, che ora gli pareva ancora più piccolo e, per la prima volta, indifeso come quello di un bambino. Poi si alzò “Sistemerò ogni cosa. Tu rimani qui.”

Nina annuì, mentre lui si allontanava ad ampi passi.

Mandò al diavolo ogni progetto di riposo e tornò al piano originale.

Si sarebbe vestito come si confaceva a un Comandante e avrebbe riposato in carrozza, durante il viaggio per la Capitale.

Quella non era la loro fine.

L’Umanità aveva incassato una pesante sconfitta perdendo quella battaglia, ma la guerra era ancora lunga da combattere.

Erwin, questo, lo sentiva.

E lui sarebbe stato uno dei protagonisti di quel conflitto.

 

 

 

Nda.

Lo so, sono ancora in ritardo, ma fra me e word si è messo il Lucca Comics. Dopo cinque giorni di fiera, dove ho portato i cosplay, non ce la potevo fare a scrivere.

Ho dormito senza dignità fino a tardi, rallentandomi.

 

Ora però sono tornata e, prima di salutarvi, vi lascio le solite due o tre noticine finali.

 

Il primo pezzo contiene, al suo interno, uno spoiler ben nascosto dei capitoli del manga che sono usciti negli ultimi due mesi. Per chi non fosse in pari, non c’è problema: a meno che non sappiate di cosa si parla in quei capitoli, non lo troverete mai. Per chi è in pari, invece, vi propongo una sfida.

Trovate il riferimento!

 

La frase di Ilya non è mia, ma è la rivisitazione di Today is life, the only life we’re sure of. Take the most of today, frase conclusiva dell’ultima puntata dell’ultima stagione di CSI New York.

So che non c’entra una rabazza di niente, ma ho sempre amato tantissimo questa citazione ed è molto incalzante per la situazione.

E anche per un evento futuro che non vi spoilero ora, ma che sicuramente vi ricorderete se continuerete a seguirmi.

 

Ho introdotto altri personaggi nuovi.

Lo so, iniziate ad odiarmi, vero?

Mathias è un mio parto mentale, un personaggio che per questa storia ha concluso la sua utilità ma che tornerà nel sequel e anche nella storia che spero di scrivere primo o poi insieme a RLandH. Sua è invece la bella d’osteria, Rheva. Come solito, introduco io i personaggi di Luna (la sua storia la trovate Qui  e vi consiglio di leggerla perché è intramata con la mia in modo inscindibile) e ormai tutti ci abbiamo fatto l’abitudine.

Tranne Luna, mi sa.

 

Posto questo capitolo anche se, devo dirlo, non mi fa impazzire. Non lo trovo con ‘mordente’, diciamo.

Nonostante le mie paturnie, però è indispensabile perché è cambiato tutto.

Ma tutto tutto.

 

La parte che ho preferito scrivere è quella di Levi che va a recuperare Erwin.

Io non shippo Eruri, ma mi è un po’ presa la mano.

Scusatemi.

Riferimenti casuali di slash nelle het.

Sono una persona terribile.

 

Ringrazio le quattro fanciulle che mi hanno commentato come sempre, mando loro baci e abbracci.

Ringrazio anche chi, silenzioso, legge e basta. Ho raggiunto una ventina di persone, che mi hanno inserita fra le seguite e le preferite e a loro vorrei sinceramente chiedere un parere.

Odio chi lesina recensioni, lo trovo molto triste, ma sono curiosa di avere un opinione quindi sentitevi liberi di scrivermi anche un mp!

Mi piace conoscere persone e chiacchierare.

 

Al prossimo capitolo.

Un bacio colossale.

C.L.  

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 14
*** Capitolo Tredicesimo, parte Prima. ***


11

 

Wenn die Sterne leuchten.

 

 

 

 

 

Capitolo Tredicesimo, parte Prima.

 

 

 

Boku wa kodoku sa  douka sono mama de 
Kimi ga warau tabi ni  naku naru hazu mo nai no ni 
Kizu kara me wo sorasanai you ni 
Nikushimi yo soba ni ite  kimi wo koroshitai kara
https://www.youtube.com/watch?v=uNjKYBnRbdE

 

 

Anno 846

Irsee, ad un’ora di marcia verso nord dal distretto di Trost.

 

 

 

Il sole era tramontato da un paio di ore quando Levi fece ritorno ad Irsee.

Non si recò immediatamente al quartier generale della Legione, prediligendo al solito pasto frugale, una cena degna di questo nome, in compagnia di colei che l’aveva accompagnato per tutta quella strada.

Non era strano vedere Jara Meier cavalcare verso Trost, specialmente da quando suo padre aveva deciso d’esser troppo anziano per presiedere ad ogni raduno della Gilda dei Medici.

“Sarà presente per il comizio di fine semestre, fra poco più di una settimana; per questo ha deciso di mandare me a portare questa documentazione urgente” è stata la sola cosa che la bionda valchiria aveva detto al soldato quando si erano rimessi in marcia subito dopo la fine della celebrazione per le esequie di Wilhelm Müller. Il funerale si era svolto nel primo pomeriggio, ma Levi si era rifiutato categoricamente di rimanere per la notte a Stohess, nonostante gli fosse stata offerta ospitalità con una cortesia un po’ fredda, ma sentita. L’atmosfera in quella casa era irrespirabile. A stento aveva scambiato due parole con Erwin, il quale aveva trascorso gran parte del tempo con la madre. Levi si era sorpreso di vederla esprimere una qualche sorta di emozione, ma il passare dalla totale noncuranza all’isteria l’avevano parecchio stupito. A sentir Friedelhm, che persino nel lutto pareva comunque non perdere quella sottile quanto sarcastica vena critica, a stento si era resa conto di aver perso una figlia. Al contrario, di fronte alla consapevolezza di essere vedova per la seconda volta, aveva perso la testa. Alla fine, dopo l’ennesimo litigio con Alma, al termine del quale erano volate parole davvero forti, era stata accompagnata dallo stesso figlio nella sua stanza, dove Franz Meier l’aveva sedata affinché potesse dormire.

Al culmine di quella pietosa scena quasi tutti si erano dileguati. Il dottor Meier aveva preso con sé sia Leopold che Rielke ed era tornato a Mitras, raccomandandosi con Jara di portare quei documenti. Levi li aveva visti partire rimanendo in piedi al fianco della biondona, a pochi passi dalla carrozza. Rielke era così pallido da far luce, mentre Leopold pareva così stanco da sembrare sveglio da mesi.

In conclusione, anche loro avevano lasciato Stohess e lui non aveva nemmeno avuto il tempo e la voglia di salutare il suo Comandante.

 

Ci stava ripensando in quel momento, alle urla di Alma e all’espressione sul viso di Erwin, di fronte a una tazza di the nero e un piatto pieno di carne, nella taverna di Rheva. Ora che la padrona di casa aveva trovato un compagno di vita, suo zio Peter le aveva ceduto del tutto l’attività e lei, che ben sapeva intrattenere gli ospiti, zampettava qua e la con caraffe ricolme di birra, che offriva agli attendenti dell’osteria per festeggiare il suo fidanzamento.

“Un gran lutto per ogni legionario” fu il commento di Jara, che fece ridere l’altra donna, mentre le riempiva il boccale sino al bordo “Ora che tu ti sposi non avranno più un motivo per tornare dall’esterno.”

“Rammaricata per loro” le rispose la bella donna, mostrando loro l’anello un po’ pacchiano, con un brillante al centro di una raffinata montatura d’argento. Doveva essere costato parecchio. “Qui però non c’è spazio per queste constatazioni. Continueremo a bere tutta la notte.”

“Finirai in banca rotta!” Jara rise mentre spergiurava quel monito, guardando Rheva tornare dietro al bancone per prender qualche ordinazione da un gruppo di viandanti appena arrivati “Sono queste le cose che amo, appena tornata da un funerale: ottima birra e buona cucina.”

“Mi sto chiedendo chi glielo dirà.”

Jara si voltò verso Levi, che stava parlando assorto, forse più a se stesso che a lei. Sbuffò una mezza risata, picchiettandogli il gomito nelle costole “Dire a Rheva che non dovrebbe regalare la birra? Sono anni che ci proviamo. Come era la sua filosofia? I legionari pagano la metà e i gendarmi il doppio?”

“Chi dirà a Nina che suo padre è morto, quando sarà tornata.”

Quella riflessione ebbe un effetto mortificante su Jara, sul cui viso non vi era più posto per il solito sorriso sornione. Esso di fatti morì, sparendo dalle labbra rosse, sostituito da un’espressione ben lontana dall’esser divertita “Hai rovinato l’atmosfera” gli rispose senza pietà, tagliando un pezzetto dalla bistecca un po’ asciutta e portandoselo alla bocca. Poteva però condividere la sua frustrazione. Nina voleva molto bene a suo padre, era più legata a lui che alla madre e, certamente, al suo ritorno le si sarebbe spezzato il cuore. Perché Jara era certa che Nina fosse viva esattamente come suo fratello Fritz. Dopo più di un anno dalla perdita delle terre di Maria, lei ancora aspettava, ogni giorno, che tornasse a casa. Non chiudeva mai la porta di ingresso con il catenaccio, né spegneva la lanterna appesa fuori dall’arcata di siepe ed edera del cortile. Fritz era da qualche parte là fuori, perso nelle terre dei giganti e sarebbe tornato, un giorno.

Così come sarebbe tornata anche Nina.

“Forse dovrebbe dirglielo Mieke” osservò pensieroso Levi, rivelando che quella fonte di preoccupazione stava davvero ammorbando la sua mente, come un tarlo “O magari Rielke. Sono sempre stati molto attaccati, quei due. Non credo che io o Erwin saremmo in grado di darle una notizia del genere come si deve. Erwin soprattutto, visto che non ha pazienza. Non ha nemmeno atteso il quarantesimo giorno per portare la notizia della morte di sua sorella a casa.”

“Nina ti ha mai parlato dello studio per l’elaborato finale dell’università ?”

Levi alzò gli occhi dalla tazza, spostandoli in quelli di un celeste statico della donna. Scosse il capo, chiedendosi cosa mai potesse c’entrare con la loro discussione e perché avesse chiesto una cosa del genere così, a bruciapelo.

Lei sorrise soddisfatta, prendendo un sorso generoso dal boccale di birra, senza preoccuparsi di pulire il labbro superiore dalla schiuma “Non c’erano i soldi per farle frequentare i corsi. A dire il vero c’erano, ma i signori Müller non avrebbero mai lasciato che mio padre facesse di loro figlia un debito. Lui, però, ha fatto di meglio: l’ha presa con sé ogni giorno, in ospedale, e ha fatto di lei un medico. Quando è stato il momento di scegliere in che branca della medicina specializzarsi, Nina ha scelto quella con la quale ha finito con l’averci a che fare di più: la chirurgia.”

Egli si appoggiò con il mento al pugno chiuso, passando gli occhi sui piatti della casa. A un occhio inesperto pareva quasi che non stesse ascoltando nemmeno una parola, mentre, al contrario, aveva registrato ogni informazione. “Un chirurgo da campo.”

“Un chirurgo. Che poi lavori su un bel tavolo di ferro sterilizzato o sotto la pioggia, in mezzo al fango, poca differenza fa. Per i metodi, si intende, perché per il paziente la differenza la fa eccome.” Jara si concesse una breve risata, scansando la lunga treccia bionda dalla spalla senza cura, mentre beveva ancora “Io le ho consigliato una tesi sulle infezioni post operatorie. Lei ha deciso invece di imbarcarsi in un lavoro puramente empirico che tutti noi, mio fratello e mio padre compresi, abbiamo cercato di sconsigliarle in ogni modo.”

“Parla semplice, Jara. Io, la laurea, non ce l’ho.”

“Un lavoro d’osservazione” semplificò quindi, mettendo entrambe le mani sul tavolo, sotto al naso piccolo dell’uomo, come per spiegargli ancor più chiaramente il concetto “Molti interventi, sopratutto i più invasivi, non vanno a buon fine. Che sia in ospedale o oltre le Mura, ogni chirurgo sa che alla base della medicina ci sono tante teorie che spesso, nella pratica, non funzionano. Le persone muoiono, non importa quanto il medico sia bravo o competente; anche la più piccola infezione può uccidere. E poi, cosa succede? Nina una volta mi ha guardato, con quei suoi irrazionali occhi chiari, e mi ha detto: il morto è morto. Poco importa ormai, ma chi rimane? Cosa succede a chi rimane? Così ha scritto di questo. Per pagine e pagine di elucubrazioni mentali tra le più disparate, riportando tanti esempi, tanti casi.” Fece una pausa, incrociando le mani sotto al mento e socchiudendo gli occhi, mentre spiava assorta la luce della candela posta al centro del tavolo “Alla fine di questo ambizioso progetto, Nina ha teorizzato tre fasi di passaggio che ciascuno di noi prova quando un nostro caro viene meno: lo shock della perdita, la negazione della realtà e  la rabbia. Solo così si giunge, in fine, all’accettazione del dolore. Ognuno ha i suoi tempi, certo, però tutti noi proviamo queste forti emozioni. Io, per esempio, secondo mio padre non ho ancora superato la fase della negazione per ciò che è successo a Fritz.” Fece una pausa, perché affrontare quel discorso non era mai semplice e, per quanto determinata, era scoraggiante pensare che forse non sarebbe mai tornato sul serio, che magari stava aspettando una persona ormai morta da oltre un anno. “Il punto è uno solo: Nina è pronta. È sempre stata pronta. Da quando è entrata nella Legione è cambiata, non è più la ragazzina pigra, ma ambiziosa che è cresciuta a casa nostra, imparando a mettere i punti da sutura cucendo il retro del divano del salotto insieme a Friederich. Non dovresti preoccuparti di questo, ma piuttosto di andarla a riprendere.”

“Ci stiamo lavorando” fu il commento secco dell’uomo, appoggiandosi con il mento al pugno chiuso, mentre allontanava il piatto ormai vuoto da sotto il naso “Hanji e un altro paio di commilitoni stanno cercando di convincere Zackley proprio in questi giorni.”

“Capisco” sospirò, la dottoressa Meier, girandosi quel boccale fra le mani e omettendo, per una volta, di guardare il suo interlocutore, forse temendo di vederlo chiudersi a riccio da un minuto all’altro. Non avevano finito. “Hai pensato come farai a chiarire con Nina?”

Lesti, gli occhi affilati di Levi scandagliarono il volto di Jara. Lei era una delle pochissime persone al mondo che non provavano soggezione di fronte a quello sguardo di ghiaccio, infatti non tardò ad incontrarlo.

“Cosa ti fa pensare che devo chiarire con lei?”

“Ho imparato a conoscerti. Avanti, Levi, smettila di fare il difficile e dimmi cosa è successo.”

Lui parve parecchio restio a parlarne, ma Jara aveva ragione quando aveva affermato con così tanta caparbia di aver imparato a conoscerlo. Cosa più importante, lui ormai sapeva di che pasta era fatta quella donna e sapeva che non avrebbe ceduto facilmente. Prese un respiro, reprimendo un’imprecazione e poi parlò “Un’incomprensione. Non è successo niente se non un’incomprensione. Nessuno dei due ha saputo far fronte alla cosa e ci siamo ritrovati a non parlarci come due mocciosi. Alla fine, per colpa della mia cocciutaggine e del suo orgoglio, siamo andati avanti per più di un mese ai ferri corti e quando Erwin ha fatto le squadre per la missione, lei ha chiesto il trasferimento in quella di un altro superiore. E si è ritrovata là fuori da sola. Questa è la storia.”

Jara annuì, “Capisco. È tutto?” chiese quindi, certa che pretendere di sapere il motivo di quell’incomprensione fosse eccessivamente indelicato anche per una ficcanaso di prima categoria come lei. La risposta di Levi rischiò di farle andare di traverso la birra.

“A dire il vero no. Lei è andata a letto con un altro uomo e di questo dobbiamo ancora parlarne come si deve.”

Portando il tovagliolo alle labbra, decisa ora a levare la schiuma e quel poco di birra che le era colato sul mento, Jara lo guardò sorpresa “E tu lo conosci, questo uomo?”

“Certo, anche lui fa parte della Legione di Trost.” Non sapeva esattamente cosa lo portasse ad essere così tanto loquace. Forse perché sopportava Jara nonostante chiedesse più di quanto le spettasse sapere o forse perché si era tenuto tutto per sé in una situazione così delicata, eppure Levi non pareva intenzionato a mandarla al diavolo e dirle di farsi gli affari suoi. Al contrario, proseguì nel parlare “Le ultime cose che ci siamo detti, eccetto questa bella rivelazione, sono state da veri stronzi. Da entrambe le parti, abbiamo giocato sporco. Quando io le avevo detto che poteva avere uomini migliori di me, lei mi ha risposto che ne aveva già trovato uno e che io ho rovinato tutto. Credo stesse parlando di tuo fratello.”

“Ci siete andati parecchio pesanti.” Jara scostò i capelli dal viso, sentendosi improvvisamente accaldata. Forse non era tutta colpa della bevanda. “Quando tornerà, gliene parlerai. Per quanto io voglia bene a mio fratello e lo ritenga una persona meravigliosa, una delle migliori che abbia mai conosciuto, non esiste uomo che possa concorrere con te, per il cuore di quella stupida ragazzina.”

“No, non hai capito” Levi la interruppe, con una determinazione nuova della voce che lo infiammava, facendolo uscire dall’apatia nella quale solitamente rimaneva immerso “Non c’è proprio niente da dire. Non mi importa chi si sia scopata o cosa l’abbia spinta a farlo. Dal mio punto di vista, considerata la situazione di merda, ha fatto quasi bene. Non glielo rimprovero, a me non interessa. Voglio solo che torni, perché una persona viva può riscattarsi molto meglio di una persona morta.”

 

Per il resto della serata, si concessero di parlare di argomenti meno impegnati o dolorosi. Jara declinò l’invito di dormire al quartier generale, preferendo la stanza che Rheva poteva metterle a disposizione.

Quando si separarono, la dottoressa pagò il conto per entrambi.

“Il prossimo giro lo offrirai tu, Caporale.”

Si salutarono, con una stretta di mano e la promessa di passare più spesso per la Capitale da parte del legionario, contornata da qualche parola di circostanza di Jara. Era più fiduciosa lei, in quella brutta situazione, di chiunque altro.

Quando a Levi non rimase altra scelta se non fare ritorno al castello, preferì condurre Meruka per le redini piuttosto che montarle sul groppone. Si godette tutto di quella passeggiata, dalla luce delle stelle e della luna che rendevano il sentiero pienamente visibile, fino alla brezza leggermente fresca di quella notte estiva.

Ad attenderlo non trovò ovviamente nessuno. Sistemò al meglio la sua cavalcatura nella stalla, prendendosi il tempo di sbrigliarla e passarle sul pelo irto del groppone a causa del panno una spazzola dalle setole rigide.

L’atrio del castello era deserto quando vi entrò e le lampade ad olio quasi tutte spente. Levi si fece strada a memoria, salendo la prima rampa verso gli alloggi femminili degli ufficiali. Non aveva più dormito in camera di Nina, dopo il loro primo litigio, ma dopo la missione all’esterno vi era tornato. Solo a quel punto, mentre girava l’angolo verso il lungo corridoio delle camerata, trovò una luce ad attenderlo.

Flebile e pallida, ma calda, c’era una candela accesa fra le mani di Petra Ral. Cosa lei ci facesse lì era un bel mistero, visto che gli alloggi delle reclute erano al quarto piano.

Levi comunque non lo chiese, limitandosi a guardare con espressione criptica la giovane, quasi come se attendesse di vederla spostarsi per poter passare. Lei, d’altro canto, trasalì alla sua presenza lì e si immobilizzò.

“Sono venuta a cercare il caposquadra Zöe” si giustificò anche se non interpellata lei, tirando il bordo della vestaglia bianca con la mano libera per coprirsi meglio il petto “A cena non c’era e-”

Hanji è partita stamattina alla volta del distretto di Utopia. Non tornerà prima di qualche giorno dalla Capitale” fu il commento laconico dell’uomo, che le girò attorno quando capì che lei non si sarebbe spostata nemmeno di mezzo centimetro.

“Caporale!”

Petra realizzò che aveva alzato la voce nell’esatto istante in cui ormai, l’aveva fatto. Semplicemente, non voleva che lui andasse via, non in quel momento. Il moro percepì qualcosa nella sua voce, forse un’urgenza o comunque una qualche sorta di malessere, quindi per giusta misura si voltò nuovamente verso di lei. Dopotutto era un superiore e lei era fuori dalle brande dopo il coprifuoco. Non voleva scocciature di sorte, quella specifica sera.

Ral.” La chiamò stanco, quasi pregandola, ma lei proseguì.

“Possiamo parlare?” lo chiese con la voce piccola, quasi infantile. E maledettamente bisognosa.

Lui, però, non volle sentire ragioni “Non fai parte della mia squadra” replicò secco, come se non volesse sentire nessun’altra replica “Dovresti cercare il tuo diretto superiore e-”

Sankov” In un impeto di coraggio, Petra lo interruppe “Sankov era il mio superiore.”

A quel punto, non c’era molto altro da dire. Levi capì anche esattamente di cosa la ragazza volesse parlargli. Sbuffò, irritato, perché non voleva sentir storie. Non di quel tipo, quanto meno “Se ti senti in colpa, se pensi che avresti dovuto trovarti tu là fuori al posto di Nina, allora mettiti l’anima in pace e va’ da Rosemberg a farti prescrivere qualcosa per farti dormire.”

Aveva fatto un danno. Un altro.

Petra era sbiancata, perché persino alla pallida luce della candela poteva notarsi la sua espressione presa in contropiede “Io non- volevo solo dire che la mia intera squadra è morta mentre io ero stata riassegnata ma…. Caporale ha ragione, avrei dovuto trovarmi io là fuori al posto del Sergente. Mi dispiace.”

Levi si portò la mano al volto, prendendosi il naso fra pollice e indice. Maledetto lui “Dimentica ciò che ho detto” la liquidò, senza mezzi termini, dandole le spalle. Non era fatto per quel lavoro “Ti ripeto che Hanji tornerà a giorni, ma se vuoi parlare ci sono altre donne nel nostro corpo. Parla con la Klein, con sua sorella o con Nababa. Buonanotte.”

Si chiuse nella camera del Sergente, sfuggendo al guaio combinato come lo stronzo codardo che era. Non aveva il cuore o la testa per prendersi cura anche di un’altra persona. Parlarne con Jara era un conto, ma Petra Ral?

Nemmeno la conosceva. A mala pena ricordava il nome e solo perché l’avevano assegnata alla sua squadra provvisoria. Non gli dispiaceva nemmeno di non poterle essere di aiuto, perché lui non era la persona giusta con cui poter parlare. Lui stesso avrebbe avuto bisogno di essere consolato o ascoltato in qualche modo e, per quanto si fosse sfogato con una persona fidata per tutto il pasto, non era bastato.

Peccato che non fosse rimasto nessuno in quel castello con la confidenza giusta per costringerlo a riversare i fiumi di merda che aveva nella testa in quel momento.

I rintocchi della campana del villaggio gli ricordarono perché non aveva la testa per altro, riportandolo bruscamente alla realtà. Era scoccata la mezzanotte ed era ufficialmente il compleanno di Nina.

“Un anno vieni rapita” commentò a voce alta, lasciandosi cadere sul letto, con le gambe a penzoloni, senza nemmeno prendersi la briga di spogliarsi delle cinghie dell’attrezzatura “Un anno vieni rapita, un anno ti prendi cura di un malato e quest'anno ti sei persa tra le terre dei giganti. Prima o poi riusciremo a festeggiare senza tragedie, ragazzina.”

 

 

 

 

 

Kako wo mitashiteiru tsumi ga tsukutta boku de aru tame ni 
Eiensei no NAIFU de kioku no Signal  kizamareteru no ni 
Itami sae keshisatte shimau kizuna no Spiral 
Mayoikonda boku wa boku ni kiekakureteiku

 

 

Anno 845

La grande epidemia di Trost.

 

 

 

-Il regolamento del Corpo di Ricerca afferma che, qualora vi fosse un disperso, è necessario attendere trentanove giorni prima di comunicare alla famiglia il suo decesso. Allo scadere del periodo di attesa, ovvero il quarantesimo giorno, il fascicolo in questione viene bollato dal segretario del corpo, da in servizio a disperso in azione. -

La tradizione voleva, invece, che si attendesse fino all’alba del quarantunesimo prima di cambiare quello status, da vivo a morto.

 

Un po’ per scaramanzia, un po’ per speranza.

 

Nina aveva atteso quaranta giorni precisi prima di salire a cavallo, recandosi senza fretta, verso il distretto di Utopia. Voleva essere presente, il giorno successivo o quello dopo ancora, nel momento in cui il Capitano di Nedlay si fosse presentato all’uscio dei Meier per potare loro la notizia che Fritz non sarebbe mai più tornato a casa.

Alle sue spalle aveva lasciato una Trost al collasso, perché dopo un mese e dieci giorni dal crollo di Maria, non vi erano stati miglioramenti. Nessun intervento straordinario, disposizione dalla corona o da Zackley stesso, che pareva essersi chiuso in un mutismo meditativo che non lo rappresentava per niente. Né serviva a molto. Una buona parte degli esuli era stata allontanata dalla città per paura dello scoppiare di una pandemia o di lotte per i pochi viveri a disposizione. Nonostante ciò, più della metà risiedeva ancora nel distretto e la medesima situazione si presentava anche a Karenese, Nedlay e Clorba. Nel castello della Legione di Irsee erano state ospitate quante più persone possibili, per garantire loro un tetto sulla testa e un letto – nel migliore dei casi – ma la mancanza di cibo aveva reso il clima ancor più teso.

Nonostante il pessimo umore, andavano avanti, cercando di far fronte anche alle continue incomprensioni con i pochi sopravvissuti della Legione di Shigashina. Ai comandi del Capitano Schäfer erano rimaste poco più di venti anime, quasi tutte poco avvezze al pensiero di dover rispondere al nuovo Comandante.

La carne, la cioccolata,  i limoni, il the e molte altri generi alimentari, coltivati o allevati nelle terre di Maria, erano divenuti ormai una rarità e ai tre ranci giornalieri se ne erano sostituiti due assai magri, spesso o quasi sempre privi di carne, a base di legumi, fatti di zuppe annacquate e pane raffermo che Nina era certa contenesse più segatura che farina.

 

 

A prescindere dal clima burrascoso che si respirava fra le pareti di solida roccia del castello – non mangiare e dormir poco rendeva gli uomini inquieti – la dottoressa era partita lo stesso. Levi non l’aveva accompagnata, per quanto la cosa gli potesse rincrescere. I Meier erano sempre stati molto gentili nei suoi riguardi e avrebbe voluto sostenere Nina in quel momento doloroso, ma lei stessa aveva compreso che in condizioni così tese, non poteva chiedergli di lasciare solo Erwin.

Aveva portato con sé, però, un altro compagno di viaggio. Mathias aveva cavalcato con lei, perché Nina era decisa a dare una vita migliore almeno a lui. L’aveva sentito piangere ogni notte, da quando erano tornati insieme al quartier generale, dalla brandina ai piedi del letto che divideva con un Levi sempre più stanco e irritato, nella sua stanza da ufficiale. Erano state quelle lacrime a farle pensare che un buon orfanotrofio in Capitale sarebbe stato meglio di un covo di pulci a Trost. O peggio ancora, della strada.

Non c’era stato più bisogno di preoccuparsi per lui, una volta arrivati a destinazione.

Dal primo istante in cui gli occhi di Franz Meier avevano incontrato quelli spenti del piccolo, mentre questi sedeva ancora sulla sella del cavallo del sergente Müller, aveva decretato che l’avrebbero tenuto con loro.

Jara non era d’accordo inizialmente, ma poi l’aveva visto mangiare voracemente un pezzo di pane, come un cucciolo randagio, e aveva capito che meritava quella possibilità. L’avrebbe cresciuto lei, fra quelle mura, come aveva fatto con suo fratello. Era stata però maledettamente chiara sulle condizioni.

“Non tornerai in questa casa fra tre anni per riprendertelo, Nina. Questo bambino non diventerà mai un soldato, né prenderà mai le Ali. Queste sono le mie condizioni.”

Non le avrebbe prese, lo stesso Matthias l’aveva promesso, spaventato al solo pensiero di dover tornare nelle terre che gli avevano rubato l’amore di una madre e l’affetto di una sorella maggiore, che ora vedeva proiettato nella figura imponente di Jara. La dottoressa aveva compiuto un vero e proprio miracolo, perché sin dal loro primo incontro, quel bambino magro come un sacco di ossa e diffidente, le aveva sorriso. Seppur intimidito.

L’avrebbe fatto diventare un medico come ogni bambino cresciuto sotto quel tetto, dandogli l’istruzione migliore possibile.

Non avrebbe mai preso, per lei, il posto di quel fratello, perché non ve ne era bisogno. Per Jara, Fritz non era morto, continuava a ripetere a se stessa e agli altri, e presto o tardi l’avrebbe rivisto. Che era solo disperso.

Che sarebbe tornato.

 

Le ingenti perdite avevano messo in ginocchio la Legione esplorativa, in particolare al nord, dove rimanevano solo una manciata di soldati sotto le direttive di Erik Schmitd e Garlef Jürgen. Mentre il secondo citato aveva perso meno di una dozzina di uomini, poco più del trenta per cento degli effettivi, le perdite di Schmitd erano pari al cento per cento. Nessuno, da Briemer, era tornato al Muro Rose in quei quarantuno giorni. Nemmeno uno.

Per Jürgen, invece, era diverso. Otto uomini si erano sacrificati di loro iniziativa, decisi a portare più persone al sicuro entro le Mura, divorati o calpestati dalla foga dei giganti. Tre, invece, li aveva lasciati indietro lui al termine della missione che s’era conclusa qualche giorno prima della caduta di Maria, perché feriti.

Fra quei tre, tristemente, c’era anche Fritz. In quanto medico, non aveva abbandonato i suoi compagni.

Uno smacco che bruciava la coscienza di Jürgen e che mai gli avrebbe permesso di dimenticare quei tre uomini.

Il Capitano s’era recato stanco alla casa dei Meier il quaranteduesimo giorno, poco prima di pranzo.

Ad accoglierlo aveva trovato un bambino dai capelli castani e un paio di occhi caldi, vibranti come non lo erano da settimane. Seduto sul gradino con in mano una palla di cuoio marrone, Mati l’aveva visto arrivare da lontano. Non aveva atteso nemmeno un istante, però. S’era infilato in casa, chiudendosi la porta alle spalle, prima ancora che questi avesse percorso l’arcata di siepe che disegnava l’ingresso al cortile interno della casa.

“C’è un soldato fuori” aveva detto veloce, guardando solo Nina, la quale aveva perso la concentrazione, versando il the che stava servendo al loro ospite senza nemmeno accorgersene tant’era pietrificata. Leopold si era affrettato ad appoggiare sull’acqua bollente un panno, facendo poi  per alzarsi. La giovane donna, però, l’aveva preceduto. Era qualcosa che doveva fare lei, in mancanza di Franz e Jara.

“Nina Müller” era stata la sola cosa che Jürgen era riuscito a dirle, nel pieno della sorpresa, quando lei aveva accostato l’uscio per permettergli di entrare. Aveva preso il suo mantello estivo, pregandolo di unirsi a loro per un the mentre Leopold s’alzava in piedi a sua volta, salutando formalmente il nuovo venuto e presentandosi a lui come il Caporale Schitz della Polizia Militare.

Non avevano nominato Fritz per tutto il tempo in cui erano rimasti soli, loro tre. Avevano parlato dell’abbandono dei distretti esterni di Pereta, Renìn e Briemer, di come la corona non avesse voluto investire nei piani di evacuazione studiati dalla Legione di Trost, considerandola un’azione militare che sarebbe costata troppe vite in modo inutile. Avevano parlato di come le loro vite erano cambiate in quelle cinque settimane, mentre si alternavano i racconti delle veglie notturne del nord e delle operazioni di sfollamento del sud, intervallate da Leo che non aveva peli sulla lingua nell’affermare di come in Capitale, nessuno se ne fosse curato.

“ Non sono nemmeno suonate le campane. A noi della Gendarmeria è stato detto la sera, durante il cambio di turno, con lo stesso tono di chi ti sta dicendo che ha visto cadere una vecchietta dalle scale.”

“Non curanza?”

“Patetico quanto falso buonismo, misto a una certa ironia.”

A nessuno, a Mitras, era importato nulla di più del capire se vi fosse abbastanza cibo per le loro grasse pance. Nessun esule sarebbe stato ospitato nel distretto di Utopia o nessuno nei distretti del Sina. Erano stati ritirati quasi tutti i permessi di accesso entro le mura più interne, ad eccezione dei permessi militari e le missive, così come le transizioni economiche, s’erano arenate. Per quattro settimane tutto aveva cessato di funzionare, per poi riprendere in un traballante cigolio, misero. 

Jara era rincasata proprio mentre la conservazione iniziava a farsi stentata, stiracchiata. Jürgen s’era sbrigato a porgere le sue più sentite condoglianze, ma non c’era stato verso di quietare la donna, che aveva preso ad urlare come una pazza, inveendo contro l’uomo che aveva lasciato indietro suo fratello. Il Capitano aveva preso ogni singolo urlo, ogni insulto, ogni frase accusatoria, mentre Leopold cercava inutilmente di domarla. Alla fine c’era riuscito e l’aveva accompagnata in stanza, a stendersi.

Nina non aveva mai visto Jara così sconvolta.

Tutt’altra era stata la reazione di Franz Meier. Accompagnato dal figlio di primo letto, Fabian, aveva ringraziato pacatamente il Capitano Jürgen per aver personalmente riportato quella infausta notizia ed egli non si era risparmiato di versare  una qualche lacrima discreta mentre chiedeva il perdono dell’uomo a cui sentiva di aver portato via un figlio.

“Non siete stato voi a portarmelo via, Capitano, ma il destino. Contro di lui non possiamo combattere e se ho insegnato qualcosa a quel ragazzo, allora avrà venduto cara la pelle.”

Prima di andarsene, spezzato, Jürgen gli aveva consegnato un sacchetto di carta. Dentro di esso, lucido d’argento, c’era l’orologio che Franz aveva regalato al figlio il giorno in cui era diventato un dottore in medicina a tutti gli effetti. L’aveva dimenticato a Nedlay alla partenza per Briemer, come se infondo avesse dovuto lasciarsi per forza qualcosa alle spalle. Franz l’aveva aperto, leggendo l’incisione, prima di voltarsi verso Nina, prendendole la mano e piazzando l’oggetto al centro del palmo, donandolo a lei che era esplosa in un pianto inconsolabile.

Non avrebbe tenuto niente vicino che avrebbe riportato alla mente dei ricordi così belli, ma così strazianti.

 

Alla commemorazione per le esequie di Friederich Meier c’erano tantissime persone, molte delle quali giovani amici e compagni di studio, oltre che fratelli d’armi. C’era anche Moblit, che con Fritz aveva condiviso i tre anni d’accademia, stringendo quella che era diventato una solida amicizia. Era nata per forza, quella loro intesa, poiché erano soli in mezzo alle reclute dodicenni. Loro, che ormai avevano quasi diciotto anni, avevano unito le forze in mezzo a tutti quei ragazzini e alla fine s’erano trovati.

Berner era comunque rimasto in disparte, in un angolo del giardino insieme a Reynolds e a Ravenstein, con gli occhi piantati su un ritratto ancora fresco del ragazzo in abiti eleganti, civili. Aveva guardato Jara scappare in casa a metà del discorso del padre, seguita da Matthias, che sembrava a disagio tanto quanto lei. Aveva quindi spostato gli occhi su un piccolo gruppetto di persone, sedute in prima fila. La testa rossa di Leopold spiccava, poiché i capelli di quel ramato naturale unico brillavano baciati dal sole. Alla sua destra c’era Rielke, giunto fin lì per l’ultimo addio al caro amico, distrutto dal peso del dolore, in lacrime, scomposto sulla sedia col capo tra le mani e le spalle che, di tanto in tanto, venivano scosse da un tremolio. Leo gli teneva una mano sulle spalle, mentre l’altro braccio era stretto attorno alle spalle di Nina.

Moblit non credeva di averla mai vista così, completamente annientata e impotente. Vestiva con un abito nero, per rispetto al lutto, con i capelli legati in uno stretto concio sul capo. Sembrava invecchiata di dieci anni, in quel frangente.

Vennero rispettate un po’ tutte le tradizioni. Moblit, che rimase a dormire a casa Meier quella sera e le tre che seguirono il funerale, spiegò che a Trost era consuetudine in tempi più antichi tenere il corpo in casa almeno due notti e il parente più prossimo doveva dormire con lui, nello stesso letto. Ormai quella pratica era stata quasi del tutto abbandonata, per questo si passava quasi subito alla cerimonia della pira, dove il corpo veniva bruciato e le ceneri raccolte in vasi colorati o lavorati. A Stohess e a Mitras, dove invece solitamente erano consentiti più sfarzi a causa del migliore stile di vita, il corpo veniva tumulato. Mentre a Stohess il lutto solitamente era scandito dalla Settimana dei Lamenti, dove per sette giorni si piangeva il morto prima del riprendere dello scorrere normale della vita, a Mitras non esisteva una vera e propria tradizione. Solitamente, si attendevano due giorni e poi il corpo veniva seppellito, posteriormente a una cerimonia sbrigativa con i parenti e gli amici. Di rado venivano svolte celebrazioni pubbliche per le persone normali. Fritz avrebbe avuto una bella lapide, all’interno della cappella della famiglia Meier, ma non c’era nessun corpo da porvi al suo interno.

Per quattro notti, tutti insieme, sedevano nella mansarda, cercando di ricordare al meglio Fritz. Leo, Nina e Rielke raccontavano di ogni singola volta in cui lo avevano trascinato nei guai, perché dei quattro, Fritz era sicuramente il più moderato. O il più spaventato delle conseguenze delle loro azioni. Da parte sua Moblit s’era divertito a raccontare ogni singola cosa di rilievo successe nel loro ultimo anno d’accademia, mentre loro s’erano già avveduti di unirsi ai corpi militari di scelta.

Avevano bevuto, riso e pianto insieme. Poi, ogni notte, quando tutta la casa si era addormentata, Nina e Leopold s’erano recati nella stanza di Fritz, avevano dormito nel suo letto e, in silenzio, lo avevano pianto un po’ di più.

Perché sentivano che il vuoto nei loro petti era incolmabile.

 

Quando la polvere della saracinesca abbattuta del Muro Maria si era posata e le urla erano cessate, non era stato solo il nord a fare i conti con le ingenti perdite. Nedlay e Briemer erano piccoli stanziamenti con al massimo venti, forse trenta uomini per ciascuna sede. A sud, dove erano destinati più del doppio dei legionari, c’era stato anche il doppio dei decessi. Quando fu ordinato loro di ripiegare, il Corpo di Ricerca aveva perso inutilmente trentatré persone, per lo più dispersi o trovati a pezzi così piccoli da non poter essere identificati.

La conta dei morti, quell’anno, era però ben lontana dall’essere terminata.

 

Il quinto giorno dopo i funerali di Fritz, Nina si affrancò dalla famiglia Meier, salutando Matthias, certa che quel bambino sarebbe stato trattato bene. Con lei, sulla via del ritorno, c’era anche Moblit che si era intrattenuto per qualche giorno bisognoso di prendersi una pausa, Pascal che aveva sentito il bisogno di rivedere la sorella dopo tanta fatica e tanti sacrifici e Hanji, che era arrivata fino alla corte per poter proporre un piano di contenimento strutturale per la costruzione di alcune case nel distretto di Trost dove poter ospitare gli esuli. Richiesta che venne ignorata. Non c’erano i soldi nemmeno per sfamare le persone, non potevano esserci per ergere edifici.

Cavalcarono dimessi, parlando solo all’occorrenza, ancora turbati dai fatti recenti, dalla perdita dei territori di Maria e dei tanti amici che avevano dato la loro vita per proteggere la popolazione evacuata fino alle poche risorse di cui ora potevano disporre per il corpo. Come sarebbero sopravvissuti, a pane vecchio e zuppe annacquate?

Fu quindi l’ennesima batosta, quella che li attendeva una volta arrivati allo snodo che portava dal sentiero principale a Trost, seguendo il corso del fiume a sud oppure a Irsee, più a occidente.

Un posto di blocco della Guarnigione era stato arrabattato alla meno peggio e lì, seduti su due sedie di fronte a una piccola tenda color terra, due guardie stazionarie parevano attenderli.

“Non è possibile proseguire, signora” dissero rivolti a Hanji, la prima della piccola fila. Nina scambiò uno sguardo con Moblit, mentre Pascal ondeggiava il capo, ribaltandolo all’indietro, perso nel rimirare il cielo con una canzoncina serrata fra le labbra.

“Come mai?” chiese col solito tono gioviale il caposquadra, mentre la sua seconda si accostava col cavallo “Siamo di istanza da Irsee. Il nostro Comandante potrebbe non essere d’accordo con questa interruzione di viaggio.”

La guardia più vicina le rispose teso “Penso capirebbe, se non tornaste.”

“Una brutta epidemia” fece sapere il collega, con tono mesto “Il vostro quartier generale potrebbe essere silenzioso come un cimitero, al momento. Abbiamo sentito che ad Irsee, il villaggio ha preso le distanze dal castello per contenere il contagio arrivato dalla città.”

“Una epidemia?!” a parlare, questa volta, fu Nina. Era successo esattamente ciò che avevano temuto per tutto quel tempo e lei non riuscì a non sentirsi un’inutile voce inascoltata “Di che natura?”

“A quanto ne sappiamo, è esplosa tre giorni fa e ancora nessun dottore ha inviato il dispaccio per far sapere di che male si tratti.”

Tre giorni erano un significativo periodo di tempo in quelle circostanze. Tristemente, poteva essere determinante.

“Andiamo” Nina girò il cavallo, pronta a correre lì, ma nel momento in cui venne trattenuta nuovamente, ci pensò Moblit ad acquietare gli animi con un’insolita decisione.

“Secondo il decreto otto delle linee della condotta militare” disse con tono pretorio, spingendo avanti il cavallo fino a scansare senza mezzi termini lo stazionario d’intralcio “Il primo ufficiale medico ha autorità assoluta nelle situazioni di pericolo sanitario. Nina” guardò l’amica “Se dirai che dobbiamo andare, andremo.”

Lei non aveva dubbi “Io devo andare e devo farlo subito.” Tirò le redini, impaziente di ripartire “Voi però non siete obbligati a seguirmi. Tornate indietro, mandate antibiotici e state al sicuro.”

A porre fine ad ogni diatriba, ci pensò Hanji. Sorrise per dar conforto alla giovane donna, appoggiandole una mano sulla spalla mentre si sporgeva verso il suo cavallo “Andremo tutti. Ci sarà bisogno di una mano. Penseremo alle provviste mediche quando avrai identificato ciò con cui abbiamo a che fare.”

 

La visione più catastrofista che ognuno di loro quattro poteva aver anche solo immaginato, non era comunque paragonabile a quello che trovarono di fronte una volta sorpassato l’ingresso di quella che era sempre stata la loro casa. Aveva avuto ragione quello stazionario: in quel frangente, assomigliava di più ad un cimitero.

Così tante persone in uno spazio così delimitato potevano portare a un epilogo orribile. Nina appoggiò la mano sulla mascherina che aveva appoggiata sulla bocca e sul naso, respirando il profumo della menta fresca. Si erano fermati lungo la via, utilizzando fazzoletti e lembi di stoffa per schermarsi dal morbo, infilando qualche foglia di quella pianta fra le pieghe. Nina era una ferma sostenitrice della teoria secondo la quale, alla base di un contagio epidemico, vi fossero gli odori.

La puzza, per essere precisi.

E la pila di cadaveri che giacevano poco fuori dalla base della Legione, accatastati con poco riguardo sotto al sole di maggio, erano un vero e proprio focolaio infettivo.

“Questi vanno bruciati subito” Moblit parve leggerle nel pensiero, mentre anch’egli osservava l’orribile visione. La mascherina non ovattava affatto il tono raccapricciato “Potrebbero infettare l’acqua del pozzo.”

“Mi chiedo perché non lo abbiano ancora fatto” Nina lasciò i cavalli proprio al biondo e a Pascal, rifiutandosi di cercare fra i morti qualche volto amico ed entrando trafelata insieme al superiore. La corte interna e il salone d’ingresso erano deserti.

Ad attenderle trovarono una piccola folla stipata in quella che era la mensa. La dottoressa si guardò attorno, cercando con gli occhi Levi o Erwin, ma trovando solamente Mike, chino su qualcun altro “Questo non va bene. troppe persone in  un luogo chiuso.”

“Cerco qualcuno che mi aiuti ad aprire tutte le finestre” sbrigativa, Hanji le girò attorno, lasciandola lì ad esaminare la scena. Non sapeva da che parte iniziare, il medico. Attorno a lei, civili e soldati, dividevano le medesime sofferenze e lei non era un epidemiologa. Era un chirurgo.

Si diede comunque da fare, perché per quanto ne sapeva, era il medico più navigato in quella bolgia.

Non toccò nessuno prima di aver infilato un paio di guanti di cuoio scuri, passando poi in rassegna una donna con il figlio, i più vicini a dove si trovava lei. Il giovane, che pareva avere quattordici anni, scottava di febbre e aveva le ghiandole della gola infiammate, eppure se ne stava chino sulla madre che, stesa sulla tavolata di legno con una giacca arrotolata sotto al capo a ‘mo di cuscino, sembrava essere in punto di morte. Era fredda come il ghiaccio, però.

“Una febbre fredda” soppesò la dottoressa, sentendole le pulsazioni e constatando quanto debole fosse il battito “Una infezione di qualche tipo che ha preso le ghiandole, ma che da febbre fredda?”

“Nina!” La voce di Erwin le fece alzare di botto il capo. La raggiunse in due rapide falcate, spostando senza troppe cerimonie un uomo che lo ostacolava.

“Come ti senti?” domandò a bruciapelo, notando il colorito della pelle dell’uomo e le borse sotto agli occhi arrossati. Non gli diede il tempo di rispondere, ad ogni modo. Appoggiò il polso scoperto alla fronte, tirandoselo più vicino “Scotti da morire” fu la sola cosa che commentò amaramente, guardandosi attorno per cercare un posto in cui farlo sedere.

Lui però le prese il viso fra le mani, mantenendo però una certa distanza per non infettarla “Levi sta molto peggio di me” le fece sapere senza tatto, spicciolo, riuscendo a farle tremare la terra sotto alle suole “Da stamattina” aggiunse quindi, cercando di essere più specifico “Non è debole come molti altri, ma è bollente e ha i tremori. Ah! E dice di avere molto male alla schiena.”

“Dov’è?” chiese la sorella, stringendogli i polsi con le mani.

Troppe cose da fare e c’era solo lei. Dov’era Alana?

“Non ne ho idea. Era qui poco fa, credo sia andato a prendere qualcosa in infermeria. Si è ben guardato dal darmi retta quando l’ho spedito a letto, in ogni caso.”

“Così come hai fatto anche tu” la dottoressa allontanò le sue mani, mortalmente seria “Sei il Comandante dell’esplorativa e questa malattia potrebbe essere potenzialmente mortale. Devi andare via di qui, ora. Va’ nei tuoi alloggi e rimani lì. Verrò a visitarti tra poco.”

Lo sguardo di Erwin si irrigidì “Non abbandono i miei uomini.”

Nina lo sapeva che avrebbe risposto a quel modo, ma doveva trovare un modo per convincerlo a non rimanere lì in mezzo a tutti quei malati. “Devi farlo ora!”

“Non puoi darmi ordini, Nina! Visita queste persone e scopri di cosa si tratta, invece!”

Attorno a loro, commilitoni e civili osservavano la scena, un po’ col fiato teso. Erwin sembrava arrabbiato o in qualche modo ferito dal pensiero di andarsene di lì, come un codardo, che fosse per ordine medico o meno. Quel lungo scambio di sguardi proseguì per quello che parve un momento sospeso, poi la voce di Hanji li costrinse a voltare lo sguardo nella sua direzione.

Moblit, cos’è che hai detto mentre eravamo per strada? Quella roba sul decreto otto?”

Il povero ragazzo, sentendosi colto in contropiede nel venir tirato in causa avvampò, guardando quasi spaventato il Comandante che adesso pareva indirizzare tutta la sua ira su di lui “Ecco” sussurrò, incerto “In caso di pericolo sanitario, il primo ufficiale medico ha autorità assoluta.”

“Anche sul Comandante” gli diede inaspettatamente man forte Nababa, che contrariamente a lui, non temeva che Erwin potesse avercela o meno con lei “Non c’è da scherzare con la salute.”

“No, infatti” Nina sospirò, un po’ nervosa. Andava fatto quel che era giusto “Comandante Erwin Smith, mi appello al decreto otto delle linee di condotta militare, ordinando che lei si ritiri nei suoi alloggi immediatamente.”

Non ci fu niente da fare. Erwin resse quello sguardo incredibilmente risoluto, almeno quanto il suo, prima di sospirare facendosi piccolo all’improvviso “ Va bene” esalò in fine, alzando una mano in segno di resa “Ti lascio il comando.”

Quelle parole furono più terrificanti di qualsiasi altra cosa Nina avesse mai sentito in tutta la sua vita.

“No, un attimo.” Lo fermò, tirandolo per una delle cinghie un po’ lente, sulla schiena “In che senso il comando? Io ho autorità solo sulle faccende di ordine medico.”

“Rileggi un po’ meglio il regolamento interno. Con ‘autorità assoluta’ si intende esattamente questo.”

Ella deglutì a vuoto, sentendo improvvisamente come quell’incombenza le avesse asciugato la bocca. “Posso gestirlo” esalò alla fine, ma quella frase aveva lo stesso peso di una domanda stentata “Lagnar” chiamò infine, risvegliando una giovane ragazza dal volto coperto di lentiggini scure, la quale faceva parte della ormai dipartita legione di Shigashina “Va con lui e occupati dei suoi bisogni. Nel caso in cui dovesse avere bisogno di un dottore, chiamami.”

“Sì, signora.” La moretta si battè la mano sul petto, seguendo il comandante fuori dalla stanza. Nonostante la mensa fosse piena di persone, non volava più nemmeno una mosca.

Nina sgranò gli occhi sul pavimento, parendo intenzionata a permanere nel mutismo.

Fu Sankov a risvegliarla da ogni voce malevola che le tormentava i pensieri, guardandola dall’alto verso il basso attraverso il suo sguardo composto “Ora che hai mandato a letto il Comandante del corpo di ricerca come un lattante, quali sono i tuoi ordini, Comandante provvisorio Müller?”

Suonava così strano da farle effetto, ma Sankov aveva ragione. Il tempo stringeva “Per prima cosa, vanno bruciati i morti” disse meditativa, portando la mano al collo, come se sentisse effettivamente il peso di quelle decisioni. Se prendeva quelle sbagliate e lasciava morire delle persone, sarebbe stata solo colpa sua. “Sankov, organizza una squadra di uomini forti, anche civili, che ti dia una mano a farlo. Tieni due registri separati, segnando i nomi dei morti, dividendo i soldati dagli altri.”

“Agli ordini” l’uomo si voltò subito, iniziando a chiamare in fretta qualche nome e a indicare chi l’avrebbe aiutato.

Nababa, Mike, Ness e Thoma” proseguì quindi la dottoressa, riuscendo finalmente ad adocchiare anche Alana e sentendosi incredibilmente grata di averla lì. Ogni medico sarebbe stato prezioso “Voi occupatevi delle persone in questa stanza. Gli ufficiali nelle loro stanze private, i soldati nei dormitori. Qui voglio solo i civili e che ci siano almeno un paio di metri di distanza tra uno e l’altro o sarà impossibile girare fra le persone per prestare le cure mediche. Bossard!” la recluta sobbalzò. Oluo guardò verso il sergente con gli occhi sgranati, in attesa di ordini “Va al villaggio di Irsee, alla locanda di Rheva. Dille che c’è bisogno di qualcuno che cucini delle zuppe. Procurati anche delle galline per il brodo, senza della carne, qui non guarirà proprio nessuno.”

“Non troverai mai nessuno disposto a venderti delle galline” le fece sapere poco speranzosa il Caporale Marlene.

“Lo so” rispose Nina, “Vai con lui e porta qualcuno dei tuoi uomini. Rubatele se necessario.” Nemmeno si preoccupò di abbassare il tono, a quel punto. Avrebbero pagato ogni cosa alla conclusione di quel tremendo momento “Il team medico e quello scientifico devono preparare l’infermeria e lì spostare i più gravi. Moblit, occupati di questo”.

“Lo farò subito” le fece sapere il castano, guardandola allontanarsi “Tu che farai?”

“Devo trovare Levi. Vi raggiungerò in infermeria prima di quanto pensi” rispose, non voltandosi ma alzando semplicemente la voce. Fece sedere una donna, mentre si allontanava “Prendete ogni libro di medicina che ho e iniziate a sfogliarlo. Dobbiamo capire con cosa abbiamo a che fare!”

 

Aveva trovato Levi sulle scale, piegato su se stesso, contro al muro.

Non era mai arrivato in infermeria, colto probabilmente dalla spossatezza del morbo.

Appena Nina l’aveva toccato, s’era accorta che bruciava di febbre.

L’aveva aiutato ad arrivare fino alla camera, liberandolo delle cinghie dell’attrezzatura che erano state montate alla meno peggio dalle mani tremanti dell’uomo che non faceva altro che offendersi da solo e offendere qualsiasi cosa gli venisse in mente, lucido nonostante la malattia e frustrato dal sentirsi così debilitato.

L’aveva visitato a dovere, era stato il primo su cui si era concentrata, segnandosi ogni minimo sintomo: l’uomo aveva la gola infiammata, la sentiva ‘grattare’ ogni volta che deglutiva e, a parte la febbre alta con conseguente dolore alle articolazioni, non sembrava soffrire di null’altro. Forse una leggera tachicardia, ma Nina non poteva escludere che fosse data dal suo caratterino così tanto accomodante.

Erwin era tutt’altra storia.

Sudava moltissimo e, nonostante la febbre fosse molto più bassa di quella di Levi, sosteneva di vederci doppio.

Il terzo a sentirsi male e ad essere costretto a letto fu Mike. Nina stava uscendo dalla stanza del fratello quando Gelbert corse a chiamarla per avvertirla di ciò che era successo. Aveva avuto un giramento di testa mentre faceva spostare un paio di reclute dalla mensa al dormitorio del terzo piano ed era andato lungo e disteso in terra creando anche un certo boato.

“Più sono grossi più fanno rumore quando cadono” aveva sdrammatizzato mentre Nina lo visitava, non riuscendo a farla ridere.

I suoi sintomi erano ancora diversi. Aveva mal di gola come Levi e la vista sdoppiata come Erwin, ma era freddo come un morto. Faticava addirittura a parlare senza balbettare in modo strano.

Confrontando queste analisi con quelle fatte sommariamente a tanti altri pazienti, Nina si ritrovò a pensare che poteva essere davvero qualsiasi cosa.

“Forse potrebbe essere labirintite.”

Dopo più di due ore e mezzo sui libri, iniziarono quasi a tirare ad indovinare.

Nina non poteva biasimare nessuno per questo, nemmeno Alana, che si era sbilanciata e aveva buttato la prima cosa che le era venuta in mente. La giovane Klein però non era un dottore e quella ne era la prova.

“La labirintite non fa salire la febbre” le rispose Nina, continuando a camminare avanti e indietro per l’infermeria. Era la sola a non aver sotto un manuale, perché tutto ciò che c’era bisogno di sapere lo conservava bene in una scatola nella mente, “Senza contare che ho le orecchie a tutti e tre e non hanno infiammazioni. Se fosse labirintite, l’avrei notato così.”

Hanji sospirò, greve “Pensiamo a tutte le malattie che possiamo escludere, allora” propose iniziando ad alzare le dita “Non è Morbo Nero, né polmonare né bubbonico o lo avremmo trovato visitando i malati. Non è nemmeno febbre tifoide o avremmo notato delle macchie sulla pelle.”

“Non è nemmeno febbre emorragica” proseguì per lei Moblit, passandosi le mani sugli occhi che bruciavano per lo sforzo, mentre accanto a lui Pascal prendeva nota di le Mura solo sanno cosa “Nemmeno colera. Forse le prime fasi della lebbra?”

“Il Male degli Indigenti è diverso” gli rispose Alana, appoggiandosi con le braccia incrociate al libro e guardandolo “Ci vogliono anche cinque anni perché i sintomi si manifestino, il decorso della malattia è troppo lungo.”

“Dobbiamo stringere il campo a qualcosa che abbia bisogno di un periodo di tempo di incubazione molto breve” esordì a quel punto Pascal, parlando velocemente, senza smettere di scrivere ma riuscendo comunque ad alzare i grandi occhi pervinca per guardare verso la dottoressa. Il risultato fu inquietante “Siamo partiti meno di dieci giorni fa per Mitras e stavano tutti bene.”

“Pensavo alla meningite” soppesò Nina, scambiando con lui uno sguardo “richiede dai tre ai dieci giorni e come sintomo comune c’è il mal di testa, che provano sia Levi che Erwin. Mike, però, no.”

“Sarebbe coerente però con la differente temperatura dei soggetti” Alana, sfogliò rapida il libro, leggendo qualche riga “Non è necessaria la presenza di febbre, ma è ricorrente.”

“Molti non hanno né febbre né dolore alla testa” disse Nina, appoggiandosi alla finestra “Senza contare che gli altri sintomi principali non sono compatibili con la maggior parte dei pazienti.”

“Quali sono questi sintomi?” chiese Moblit.

Alana li lesse a voce alta “Irritabilità, dolore articolare, letargia, eruzioni cutanee e convulsioni.”

“Per l’irritabilità non possiamo usare Levi come campione di riferimento” ridacchiò sotto i baffi Hanji, decisa a non farsi abbattere dalle circostanze “Il vaiolo e l’impetigine?”

“Il vaiolo ci mette quattro settimane a manifestarsi” le disse Nina, “L’impetigine non porta febbre.”

“Magari ha iniziato ad incubare un mese fa?”

Nina scosse piano il capo “Difficile, il muro Maria è crollato appena sei settimane e mezzo fa. Non c’è possibilità che le condizioni igieniche abbiamo portato a un’epidemia così tanto rapida di qualcosa come il vaiolo, a mio parere. Poi, se fosse davvero questo, avrebbero tutti le bocche piene di ulcere, noi compresi che non stiamo male perché non eravamo qui in questi ultimi dieci giorni.”

“Non fa una piega” Moblit suonò più amareggiato di quanto volesse, ma aveva una paura del demonio di ciò che stava succedendo e non stavano arrivando da nessuna parte. Era frustrante. “Possiamo escludere anche pertosse, morbillo, sifilide e tigna.”

“Anche la rosolia” Pascal chiuse il libro che stava tenendo sotto, prendendo quello che Moblit fiocamente aveva sfogliato fino a quel momento per rivederlo per bene, strappandogli un’occhiataccia “Che cosa c’è?” gli chiese, innocentemente sorpreso. Pascal non si sarebbe mai accorto di parere sgarbato o meno “Voglio rivedere il tuo lavoro perché tu sei distratto.”

“Scusa se ho paura di morire” gli soffiò in faccia Berner, ferito dal compagno di squadra.

Lui, di rimando, gli sorrise “Il corpo è debole, è vero. Ma la mente è forte” concluse pragmatico, fermandosi su una pagina in particolare che aveva catalizzato la sua attenzione “Io non voglio ammalarmi e non mi ammalerò.”

“Fosse così semplice, Von Pedrick.”

“Bambini basta” li riprese Hanji, prima di guardare Nina. Trovò la dottoressa a fissare fuori dalla finestra, laddove sapere si intravedeva la colonna di fumo della pira che Sankov stava coordinando. Non andava affatto bene “Cosa ci rimane, quindi?” incalzò il caposquadra, alzandosi per accostarsi a lei.

Nina, però, non rispose subito. Si concesse un istante di puro sconforto, nel quale porto una mano alla bocca.

Poi ingoiando il magone, esternò la sua debolezza.

“Non so cosa sta succedendo.”

 

 

 

Nda.

 

Sono viva! Non sono morta!

Ancora non ci credo che FINALMENTE sono riuscita ad aggiornare.

Per cause di forza maggiore – ovviamente l’università –non sono riuscita a finire questo capitolo prima e mi scuso tantissimo con i pochi ma buoni lettori che ancora mi seguono.

 

Per prima cosa a parte ringraziare voi per la vostra pazienza, è doveroso citare Shige, che non ha solo betato questo capitolo, ma mi ha anche dato tanti preziosi consigli.

Oltre, ovviamente, a sparare un sacco di cazzate con me su WhatApp.

Quindi grazie grazie grazie!

Se non la conoscete, vi lascio il link della sua storia –che deve continuare *tono minaccioso*- proprio qui:

http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3416535&i=1

Sta scrivendo anche due week: una su Erwin e una natalizia.

Passate, ne vale la pena. Scrittrici brave, in questo fandom, purtroppo ne abbiamo poche.

 

Secondariamente, vi ricordo la storia della nostra RLandH, che scrive parallelamente a me.

I suoi personaggi sono miei, i miei suoi.

Sempre quella storia insomma, solo spostata geograficamente un po’ più a nord: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3529133&i=1

Scrivi Luna. Hai preso ventinove a medievale, ore scrivi o Arima discenderà per picchiarti con l’ombrello.

 

Vi faccio gli auguri di buon natale, visto che anche quest’anno è finalmente arrivato.

Vi penserò mentre leggete e io sto pulendo la casa perché mia mamma a Levi gli fa na…. Carezza.

Diciamo carezza per non essere volgari.

 

Jingle bells a presto con la parte due di questo never a joy!

Un bastoncino zuccherato natalizio,

 

CL.

 

 

 

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