Arthur Kirkland il diabolico cuoco di Fleet Street

di LB Shadow
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** No place like London ***
Capitolo 2: *** Cucine da Incubo ***
Capitolo 3: *** Scelte Rischiose ***
Capitolo 4: *** Long Time No See (part 1) ***
Capitolo 5: *** Long Time No See (part 2) ***
Capitolo 6: *** Un Nuovo Segreto ***



Capitolo 1
*** No place like London ***


No Place Like London
 
I


 
 
Il buio li accolse nella nuova città. 
Una pioggerellina fitta asfissiava il bus avvolgendolo nel suo opaco velo. Gli edifici si erano trasformati in fantasmi che sbucavano all’improvviso durante il percorso, ghermendo passanti ignari.
Al di fuori del finestrino, il mondo andava a rallentatore in quella serata di autunno inoltrato.
Nonostante le palpebre si fossero fatte terribilmente pesanti nelle ultime ore, una mancanza di riposo dovuta tutt’al più al jet lag, l’eccitazione impediva a Toris di abbandonarsi al sonno lì sul sedile. Staccò le dita dal vetro, lasciando i segni circolari dei polpastrelli impressi nell’alone di umidità prodotto dal suo respiro. Li rimirò. Pure quelle impronte avevano assunto il fascino della novità, ora che era giunto sul suolo inglese. Sospirò, felice.
− Non può immaginare quanto le sia grato che si sia offerto di ospitarmi qua a Londra. Ѐ stato un rischio decidere di venire qua, lo so, ma non m’importa.− Spiò di sfuggita il suo compagno per vedere la sua reazione, prima di aggiungere in un apice di gioia − Ho scelto tra un sacco di luoghi dove trascorrere l’Erasmus, dai freddi Paesi del Nord a quelli mediterranei, ma nessun posto è come Londra!
− No, nessun posto è come Londra.
− Mr Kirkland?
Arthur si girò verso il ragazzo, le folte sopracciglia corrucciate tracciavano un’ombra sugli occhi verdi.
− Tu sei giovane. Finora la vita ti ha sorriso... ma imparerai.
Toris era perplesso. Come non comprenderlo? Era puro come un filo d’erba spuntato grazie a poche gocce di rugiada la mattina stessa, privo di qualsiasi veleno che lo proteggesse dagli artigli del mondo. Il tipo di persona che si fida ancora del prossimo. Era così diverso da lui...
Prima che gli venisse domandata l’origine di quella frase così drammatica, Arthur continuò il suo discorso guardando davanti a sé, la voce bassa e tagliente come quella di un rasoio: − ... che esiste un grande pozzo nero abitato dalla feccia del mondo, la cui morale non vale lo sputo di un maiale, questo posto si chiama Londra. In cima al pozzo vive un pugno di privilegiati, si fanno beffe della feccia di sotto e trasformano la bellezza in lordura e ingordigia. Anch’io ho visto il mondo e le sue meraviglie, sai? – si girò nuovamente verso l’altro, un sorriso piegava le labbra sottili – Decisamente più di te che le hai viste solo dal pc, mio caro, – sospirò al ricordo, un attimo di dolcezza prima di tornare al tono avvelenato – la crudeltà dell’uomo è raggelante come i ghiacci del Nord, ma nessun posto è come Londra!
Strinse i pugni nel pronunciare quell’ultima affermazione, sotto lo sguardo preoccupato di Toris che lo stava squadrando come se fosse stato un animale pericoloso, in procinto di mordere chiunque si fosse avvicinato troppo. Forse aveva esagerato un tantino. Arthur rilassò i lineamenti tesi del volto, senza riuscire a togliersi di dosso quell’ombra che gli oscurava le iridi, facendolo apparire più vecchio. Spiragli nel suo cuore lasciavano intravedere piccole ma essenziali tracce dell’alterazione avvenuta.
− Tutto bene, Mr Kirkland? – domandò Toris, evidentemente spaventato da quelle parole. Intorno a loro, sul bus, nessuno si era accorto del loro discorso, poiché in altre faccende affaccendati, ma l’impressione era comunque che la coppia fosse al centro dei loro sguardi giudicanti. Sciocchezze, certo, ma Arthur non la pensava allo stesso modo e se in qualsiasi momento uno di quei passeggeri gli avesse puntato il dito contro urlando “Ehi, guardate chi è tornato! Sì, è proprio lui!” non ne sarebbe rimasto sorpreso. Sarebbe stata una punizione meritata per quell’atto sfacciato che era tornare sul suolo londinese dopo ciò che era successo. La parte di sé ancora legata alla vita precedente scalpitava, lo invocava di fermarsi prima che l’irreparabile avesse luogo e la via del ritorno gli fosse negata per sempre. Le Tenebre si erano insinuate nel regno dove non tramontava mai il sole.
Bentornato a casa.
Arthur si strinse il ponte tra i due occhi con l’indice e il pollice, sospirando pesantemente. Ancora quella dannata voce.
− Imploro, la tua indulgenza, Toris. La mia mente è nient’affatto serena. In queste strade, un tempo familiari, io avverto... Ombre.
− Ombre, dite?
− Spettri.
Il ragazzo rimase in silenzio, giocherellando con la cerniera della valigia che teneva tra le gambe. Si sentiva a disagio. Sapeva che il suo ospite era un tipo particolare, strano a volte, ma aveva sempre pensato fosse un tratto interessante del suo carattere. Non era arrivato al punto di voler disdire l’accordo che aveva con l’uomo, in cui in cambio di una somma mensile gli sarebbero stati offerti vitto e alloggio nella sua casa, ma vi era vicino. Forse, le case per studenti non erano così male... Scrollò la testa quando vide l’espressione sconsolata dell’altro, preda di un acuto senso di compassione. Doveva essere davvero difficile per lui tornare a casa dopo così tanto tempo. A proposito, come mai aveva lasciato la città? Come per rispondere alla sua muta domanda o forse per togliersi un peso che lo tormentava da tempo, Arthur ricominciò a parlare: in una cantilena malinconica, raccontò la sua storia.
− C’era una volta un giovane cuoco con il suo bel ristorante. Un povero idiota pieno di ambizioni. Il ristorante era la sua unica ragione di vita, ma evidentemente lui non era all’altezza di questo luogo, tanto era ingenuo da essere convinto di saper effettivamente cucinare. Come poteva solo pensare una cosa del genere? Solo perché la sua gente apparentemente apprezzava i suoi piatti? Illuso! Un altro uomo notò il bel ristorante, uno di quegli arroganti giudici culinari che si divertono a commentare i piatti altrui come se fossero rifiuti biologici. Un viscido smorfiosetto abituato all’arrosto di colibrì, che con la sua lingua biforcuta sentenziò il suo giudizio negativo sul lavoro del cuoco e poi non ci fu altro da fare che aspettare! Che tutto crollasse, che tutti scoprissero improvvisamente che quello che avevano mangiato per tanto tempo e apprezzato, dannazione!, non li soddisfacesse più. −
Fece una pausa. Voleva evitare il rischio di mettersi a urlare in mezzo alla gente, ciononostante avrebbe giurato che tra i volti presenti ce ne fossero anche di suoi ex-clienti ipocriti. Il piano stava funzionando: Toris aveva smesso di tormentare il bagaglio e lo guardava con la bocca aperta. Sporgeva con il torso verso il sedile dell’altro come per raccogliere le parole direttamente dalle sue labbra.
− E poi? Il ristorante ha dovuto chiudere?
Arthur abbassò il capo, cercando di nascondere la voce incrinata quando rispose: − Ѐ successo tanto tempo fa. Dubito che a qualcuno sia importato qualcosa allora, figuriamoci adesso.
Toris tornò composto sul suo sedile, emotivamente demoralizzato. L’eccitazione che lo aveva pervaso fino a pochi minuti prima era stata sostituita da un istintivo compatimento per quello che sarebbe diventato il suo ospite nel paese straniero. Come doveva aver sofferto! Chissà se quella ferita si era rimarginata oppure bruciava ancora?
Gettò di nuovo un’occhiata all’inglese e lo trovò a guardarlo con occhi stanchi, esausto dal peso di un passato schiacciante. Il messaggio muto che passava era uno e uno solo: “Perdonami”. Per cosa, ancora non era dato sapere. Ma il ragazzo era troppo buono per non rispondere positivamente. Stolto, forse. Come un bambino che tende la mano all’uomo nero, vedendo in lui ciò che la gente non riesce o non vuole riconoscere. Se fosse la scelta giusta, solo il tempo l’avrebbe detto.
Il bus cominciò a rallentare per una nuova fermata e Arthur fece segno di prepararsi per scendere. Erano giunti in una strada meno frequentata del centro vero e proprio, ma comunque il flusso di gente era apprezzabile. I marciapiedi umidi riflettevano la luce dei lampioni nelle pozzanghere, visibili fino in lontananza. Un bambino si divertiva a saltarci dentro, ridendo quando i cerchi gialli si spezzavano in piccole onde che si spostavano oltre i limiti della conca, allargandosi e schizzando qualche goccia di fanghiglia sulle scarpine da ginnastica bianche. Sua madre lo richiamò prima che riuscisse a insozzarle del tutto e lui dovette interrompere il gioco con suo sommo disappunto. Sorrise a Toris quando notò che il trolley della sua valigia lanciava anch’esso dei minuscoli schizzi quando inceppava nelle pozzanghere, ma non ebbe l’occasione di coinvolgerlo nell’attività perché la madre lo afferrò per il polso e lo trascinò via, tra strilli e piagnucolii. Toris gli fece ciao ciao con la mano libera, prima di girarsi verso Arthur. Quest’ultimo aveva recuperato un’espressione serena e lo guardava sorridente. Si avviarono lentamente verso la casa di Arthur, godendosi la brezza serale che accarezzava il loro volto ancora accaldato dall’interno del bus.
− Devo ringraziarti, Toris. Se non fosse stato per te, chissà dove sarei ora. – disse Arthur – Chissà, chissà, forse addirittura all’inferno tra i miei simili −. Scoppiò a ridere.
Toris scosse la testa e replicò, ignorando la sua macabra battuta: − Oh, non dica così! Avrebbe comunque trovato un’altra occasione per tornare. Sbrighiamoci ad arrivare a casa, piuttosto, vedo che è stanco quanto me.
 
Arrivarono dalla fermata del bus all’abitazione che il cielo andava scurendosi, lasciando posto a una notte serena. Nonostante l’abitazione fosse piuttosto appartata dalle altre, c’erano comunque un paio di lucerne all’esterno che aiutavano a sconfiggere il buio. La casa era una villetta protetta da un cancello chiuso da un lucchetto, oltre ad esso, tra le sbarre che terminavano appuntite, s’intravedeva un sentiero asfaltato che si stendeva tra la ghiaia più chiara. Toris non badò troppo quando Arthur tirò fuori una piccola chiave per consentire loro di entrare: avrebbe potuto anche aprire un varco spazio-temporale attraverso le sbarre di ferro e lui non se ne sarebbe curato, rimpiangeva il sonnellino che non si era concesso e tutto intorno a lui cominciava ad assumere le somiglianze di un sogno. Toris non smetteva di guardarsi intorno, cercando punti di riferimento sia dentro che fuori la dimora, continuando a sforzarsi per imprimere particolari nella mente; d’altronde, quella sarebbe stata casa sua per i mesi successivi e prima si fosse abituato meglio sarebbe stato. Forse a causa del sonno, la dimora gli sembrava una di quelle case nel bosco protetta da un incantesimo contro sguardi indiscreti. Da vicino aveva un aspetto molto più rassicurante che dalla strada, nonostante le ombre di alberi lì accanto formassero inquietanti forme sulle finestre e piante rampicanti avessero cominciato la loro conquista dei muri. Stavolta anche Toris percepì quel bisbiglio flebile, che si confondeva con i suoi pensieri annebbiati.
Bentornato a casa.
Ce n’è voluto di tempo, uh?
Rabbrividì. Liquidò all’istante la sensazione che ci fosse effettivamente qualcosa laggiù, incolpando l’allucinazione uditiva alla stanchezza. Dovette farlo. Non osò neppure domandare ad Arthur se avesse sentito anche lui quelle parole, forse perché, in fondo, aveva paura della sua risposta e in quel momento la sua mente era troppo indebolita per sentire storie dell’orrore, anche se tutto un tratto il sonno era scivolato via.
Arthur aiutò Toris a portare dentro i bagagli, nonostante le proteste di quest’ultimo che sosteneva di esserne capace da solo. Inutile, era sveglio sì, ma la forza fisica gli si era abbassata a livello ottantenne e Arthur lo sapeva. Alla fine l’uomo dovette togliergli la valigia dalle mani (era abbastanza ingombrante ma niente di esagerato) e portarlo con sé all’interno, con sollievo dell’altro che non si era ancora ripreso dalla strana voce sentita poco prima. Era come se avesse previsto tutto.
Arthur premette come per un riflesso automatico l’interruttore della luce, per un secondo il timore che avessero tolto l’elettricità gli invase il cervello ma subito fu confortato dalla lampadina che, seppure con uno sfarfallio, illuminò tutt’intorno.
L’impatto non fu terribile come pensava: le cose erano lì, tutte lì. L’ingresso era lo stesso come ricordava di averlo lasciato e così sarebbero state tutte le altre stanze, tutte identiche a come le aveva viste poche ore prima, quando aveva fatto il primo ritorno. Era stato come se avesse svolto tutto in trance: il rifornimento di alimentari in dispensa, il controllo dei servizi energetici che funzionassero, la pulizia della camera degli ospiti. Aveva avuto l’impressione che fosse stata un’altra persona a fare tutto questo e solo ora, con Toris, il vero sé fosse entrato nella casa, in un vortice di emozioni tale da fargli girare la testa.
L’occhio cadde sullo stampo di una cornice rimasto sulla parete dove era stato appesa e poi tolta. Ricordava che la cornice in questione conteneva una foto che lo ritraeva. Ricordava anche il sentimento di rabbia, disgusto e tristezza che aveva provato rimuovendo la foto. Era un suo ritratto vestito da chef, felice, mentre mostrava al fotografo una teglia di scones appena sfornati. Il fotografo aveva gentilmente declinato la proposta di assaggiarne uno. Ora sapeva il perché. Maledetto ipocrita, perché non mi hai detto sin da subito cosa pensassi davvero, io che ti offro il frutto dei miei sforzi e tu celi dietro alla tua gentilezza solo marcio e ingiuria...
− Mr Kirkland?
Toris l’aveva superato, la sua voce arrivava dal soggiorno poco più in là.
−  Perdonami, mi ero perso nei miei ricordi – tagliò corto l’altro quando lo raggiunse, − ora seguimi, ti mostro un po’ la casa e dov’è la tua camera. L’ho sistemata in modo che tu la possa utilizzare da subito. −
Il tour fu molto svelto, c’erano due piani: piano terra cucina, sala da pranzo e salotto e un minuscolo bagno con la lavatrice; piano superiore le due camere e un bagno più grande, con la doccia. Lo accompagnò nella sua stanza, gli indicò dove fosse il bagno dove poteva lavarsi e rinfrescarsi dopo il lungo viaggio e lo lasciò da solo che si arrangiasse. Lui invece si rintanò in cucina. Aveva un disperato bisogno di farsi una tazza di tè, dopo tutto lo stress accumulato in quella giornata che fino a quel momento se n’era rimasto nascosto ma ora lo stava buttando a terra. In dispensa erano accumulate minimo una ventina di varietà di miscele, separate in base ai gusti e al momento in cui erano più adatte.
Scelse un Pure Darjeeling Tea: mise a scaldare l’acqua a 95 gradi aiutandosi con un termometro, preparò la teiera in porcellana e vi aggiunse l’infusore con le foglie, dopodiché vi verso l’acqua bollente con una delicatezza infinita. Aveva impostato il timer d’infusione su quattro minuti. Quel rito aveva qualcosa di rilassante nel suo insieme, come ce lo hanno tutte le cose quotidiane che non stufano mai, non importa si eseguano ogni giorno da anni. Era grato a quella normalità ritrovata.
Decise che avrebbe bevuto nella sala da pranzo, Si servì il tè nella tazza preferita, un mug bianco decorato con una rosa, gratificato sia nella vista sia nel profumo delicato della bevanda cui non aveva aggiunto né zucchero né latte per non alterarne il sapore. Portò il tutto alle labbra, assaporando il silenzio che lo circondava, le palpebre serrate.
Non vide la piccola ombra che entrava.
− Mr Kirkland?
Arthur aprì un occhio: sulla porta stava affacciato Toris, indeciso se entrare o meno nella stanza. Era ancora vestito, non aveva neppure accennato ad andare a letto.
− Le dispiace se resto un po’ qui con lei, signore?
− Figurati. Siediti pure. – gli indicò la sedia al lato opposto del tavolo. Toris si abbandonò su di essa, appoggiando i gomiti sulla superficie legnosa del tavolo. Tirò un sospiro.
− Non riesco a dormire – confessò, arrossendo leggermente come se fosse una colpa.
− Posso capirlo, sei agitato al pensiero di dormire in un posto nuovo.
− Sì... deve essere così...
Toris non sembrava molto convinto. Arthur lo fissò con un occhio solo aperto, sorseggiò il suo tè e posò il mug, tornando a guardarlo come se stesse cercando di leggergli nella mente. Si schiarì la voce. – Ti va una tazza? Ѐ molto buono, ne ho fatto un po’ in più nel caso. Ti calmerebbe un po’.
− Molte grazie, ho proprio bisogno di qualcosa di caldo e dolce.
Arthur andò a recuperare un’altra tazza per il ragazzo. Era consapevole di cosa lo stesse tenendo sveglio, ma non aveva intenzione di parlarne ad alta voce: ci sono cose di cui è meglio non parlare, altrimenti si rischia di peggiorare la situazione. Parlare di certe cose con uno studente universitario, una persona che deve fare della razionalità se non del metodo scientifico il suo pane quotidiano, è da suicidi. Come avrebbe potuto spiegargli di cosa vedeva lui ogni giorno? Degli unicorni, del coniglietto verde alato, delle fate e via dicendo?
Lo avrebbe preso per matto.
O forse no?
Sapeva solo che in sua compagnia la voce aspra che si era infiltrata nel suo animo appariva più flebile. Come se il di lui barlume dell’innocenza potesse sconfiggere l’immensa oscurità dell’Odio, seppure quella forza benigna apparisse debole davanti a un simile mostro. Un alibi, ecco cos’era il ragazzo: niente di più. Glielo aveva raccomandato la voce di procurarsene uno, per non finire in guai seri una volta che...
Arthur tornò con la tazza e servì anche il giovane ospite. Silenzio, solo il suono fluido accompagnato dalle mosse posate dell’inglese, un rito quasi magico nel suo insieme mentre sollevava la teiera e ne faceva fuoriuscire il liquido ambrato ancora bollente.
Toris assaggiò il tè al naturale ma non sembrò gradirlo granché, poiché fece una piccola smorfia e agguantò la zuccheriera li accantò, scusandosi: − M-mi dispiace, non riesco a berlo così. –
Forse intimorito da quel silenzio innaturale, forse dall’occhiata di rimprovero dell’inglese nel vederlo alterare così il pregiato tè, cercò qualcosa di cui parlare per spezzare la tensione. Si guardò intorno e rimase stupito di notare solo ora di come fosse tutto straordinariamente in ordine, sebbene con un visibile strato di polvere sopra.
− Questa casa è davvero bella. Cioè, voglio dire... mi aspettavo fosse in uno stato pietoso dopo più di un anno di abbandono... davvero è tornato solo oggi?
Arthur annuì: − Ho solo controllato fosse tutto a posto. Durante la mia assenza l’avevo messa in affitto, così ci sono state altre famiglie che se ne sono presi cura al posto mio. La cosa un po’ triste era che restassero tutte per poco.
Toris per poco non si strozzò con il tè andato di traverso: – Come mai? −
Arthur ridacchiò. Si sporse leggermente oltre il tavolo, un sorriso misterioso sulle labbra.
− Molti credevano che questa casa fosse stregata – bisbigliò.
Toris spalancò gli occhi, le mani entrambe strette attorno alla tazza come se volesse romperla, il respiro azzerato.
Poi scoppiò a ridere.
− Stregata? Oh, ma andiamo! Dove siamo, in una puntata di Scooby-Doo?
Anche Arthur rise, anche se la sua risata suonò forzata: – Come dar loro torto? Questo posto ha molti anni sulle spalle. Forse lo spirito delle persone che hanno vissuto qui prima di me ha impregnato le mura, e ora l’intera casa ne è infestata... fatto sta che dopo due mesi al massimo levavano le tende. So che esiste questa diceria da prima che abbandonassi Londra. –
Sorrise dolcemente, gli occhi sognanti al ricordo. – I ragazzini dei quartieri vicini spesso utilizzavano questo posto nelle loro prove di coraggio: solitamente di notte o sera tardi, dovevano scavalcare il cancello, arrivare fino al portone e poi suonare il campanello o bussare, prima di scappare a nascondersi. Piuttosto patetica come cosa, no? E allora ho voluto aiutarli: per dimostrare il mio incredibile senso altruistico non solo li lasciavo scavalcare il cancello, ma tenevo anche socchiusa la porta perché potessero entrare. Anzi, ero così generoso che ho fatto anche di più, spendendo di tasca mia per comprare dei mostri finti, cd con rumori agghiaccianti e altre amenità. Poi bastava che chiudessi la porta principale a chiave e, zac! Avevano la prova di coraggio che tanto desideravano! –
Arthur sghignazzò al ricordo. − Ah, che bei tempi... c’erano volte in cui io stesso producevo i rumori o le voci demoniache per un effetto più realistico. Non puoi immaginare le loro facce quando accendevo la luce e loro, invece di scusarsi vedendo il padrone di casa, si mettevano a strillare cose come “Signore, signore, c’è un mostro qui, lo abbiamo visto!” e io li buttavo fuori di casa rispondendo che i mostri non esistono. Che dici, ragazzo, non è davvero strano che si sia diffusa la leggenda che questa casa fosse infestata?
− Davvero. – replicò Toris con un sorriso divertito. – Io non potrei mai spaventarmi per simili sciocchezze.
− Ah sì? E com’è che ne sei così sicuro?
− La realtà è quello che è e appare. I mostri, i fantasmi non fanno parte della realtà, non possono farti del male.
Arthur annuì, pensieroso. Avrebbe voluto aggiungere che ci sono cose più spaventose di quelle partorite dall’immaginazione, cose reali con l’aspetto di agnelli ma con il cuore di pietra. Gli venne in mente una persona che corrispondeva alla descrizione, ma prima di potervi accennare fu distratto da Toris che raccoglieva le tazze. Lo guardò interrogativo.
− Vado in cucina a lavarle, così non deve farlo lei – spiegò lui – Per toglierle il disturbo.
− A... aspetta! Prima che mi dimentichi, ti devo informare di una regola della casa.
− Uh? Sarebbe?
Arthur arrossì al pensiero che la cosa suonasse ridicola, però dai! Era o no il padrone lì? In ogni caso, questo paletto avrebbe potuto scongiurare molte conseguenze in futuro... e in quel momento non immaginava neppure quante. Non avrebbe mai potuto.
Forse, se avesse saputo prima cosa sarebbe successo, non sarebbe mai neppure tornato in quella casa, ma così è la vita e non sempre le scelte che si fanno sono le più felici.
La sua voce risultò ferma e decisa quando, fissando il ragazzo direttamente negli occhi, disse: − Ti chiedo di non andare mai, dico mai in cucina se non sotto il mio controllo. Devo esserci lì anch’io e vedere quello che combini. Non m’importa se ci vai per aprire il frigo e prenderti uno spuntino, o per sistemare le cibarie dopo la spesa: non ci vai da solo, per nessunissimo motivo. Sono stato chiaro? 
Toris restò un attimo interdetto, le tazze che ciondolavano appese alle dita a sottolineare la pausa nelle sue azioni. Certo, come richiesta era un po’ insolita... ma Kirkland era stato uno chef, giusto? Certe manie dovevano essergli rimaste attaccate, pensò.
− D’accordo, signore. Allora io lavo le tazze, lei si occuperà della teiera – rispose, alzando le spalle e riavvicinandosi alla porta della cucina.
Arthur, che si era aspettato una serie di domande inquisitorie o almeno un’opposizione, rimase vagamente stupito dalla tranquillità con cui l’altro aveva aderito alla sua pretesa. Forse il ragazzo era fin troppo manipolabile, meglio così, no? Un leggero senso di colpa lo punse al petto, ma lo scacciò subito. Bisognava ignorare qualsiasi distrazione che lo allontanasse dal piano, ogni ostacolo andava prontamente eliminato. Non poteva permettersi che sospettasse nulla.
Si avviarono entrambi in cucina, l’unico rumore che si sentiva era quello dei loro passi sulle piastrelle poiché nessuno dei due aprì più bocca.
Toris poteva essere sorpreso, perfino sconcertato dal comportamento bizzarro del suo ospite, ma l’idea che egli potesse avere una seconda vita, una di cui non sapeva nulla, non gli passò mai per la mente. Non in quel momento.
 
*  *  *
 
I giorni che seguirono furono decisamente vivaci. Toris dovette adeguarsi al ritmo frenetico della grande città e Arthur riprese posto dietro ai fornelli domestici. Non che ci stesse poi così tanto, però, perché Toris, dopo aver assaggiato uno dei suoi piatti, si era sempre offerto di aiutarlo anche nella sua postazione ed era così insistente che non se la sentiva di allontanarlo. Il ragazzo apprezzava quello che preparava l’inglese, ma doveva ancora “abituarsi a cibi diversi da quelli di casa”, o almeno così affermava.
Ogni tanto Arthur gli chiedeva se non lo stesse sfruttando troppo, ma quello rispondeva sempre con un sorriso che era un piacere dare una mano in casa. In pochissimo tempo l’abitazione riacquistò vita grazie al lavoro di entrambi.
Man mano che i giorni passavano la voce perdeva un po’ del suo potere, senza mai però sparire del tutto. Ricordava costantemente il piano e quanto fosse necessario che Arthur non si affezionasse troppo al giovane. L’inglese obbediva, ignorava la luce emanata dal ragazzetto e si rifugiava sempre più nell’oscurità, nonostante di tanto in tanto il vecchio sé cercasse di intromettersi. Era difficile resistere alla tentazione di mollare tutto, avrebbe sicuramente sciolto il macigno che portava dentro lasciarsi andare e dimenticare. Ricominciare da capo. Approfittare dell’occasione per iniziare una nuova vita.
Ma la luce del bene emanata da Toris era davvero troppo fragile per combattere contro tenebre ben più profonde di quanto un comune mortale potesse immaginare. Essa, però, continuava a brillare senza che il proprietario ne fosse cosciente e Arthur gliene era, sacrilegio!, grato.
− Sei una manna dal cielo. – ripeteva.
− Faccio quello che posso, signore. Finché non trovo un lavoro con cui pagarle l’affitto, questo mi pare il minimo. – rispondeva con modestia Toris, mentre curava il giardino o toglieva le ragnatele dal soffitto del soggiorno o preparava la colazione, sempre con un sorriso gentile sulle labbra. Non sembrava mai stanco.
Una sera, dopo l’ultima giornata di peripezie varie, anche il ragazzo cedette; sprofondò nel piccolo divano posto nel soggiorno, annunciando di essere sfinito. Arthur era appena tornato dal piccolo bagno, dopo essersi lavato le mani. Lo guardò, quasi sorpreso di vederlo così spossato, e sorrise intenerito.
− Ci credo, con tutto quello che abbiamo fatto oggi! Meriti di riposare, anzi: adesso ti preparo una cenetta squisita per premiarti.
− A-aspetti! L’aiuto io... – Toris tentò di alzarsi dal divano ma i suoi muscoli non erano d’accordo. Guardò supplichevole Arthur, in un messaggio silenzioso che doveva significare “No, tutto ma una cena preparata da lei no!”. Era troppo stanco per trovare qualcosa di più gentile per distoglierlo dalla cucina e non poteva utilizzare la scusa dell’aiuto ai fornelli per prepararsi da sé il pasto. Forse doveva rassegnarsi alla cena fatta dallo chef.
− Non sei nelle condizioni adatte, Toris. Però, adesso che mi ci fai pensare... – Arthur posò l’indice sul labbro. Toris tornò speranzoso. Un’ombra scura calò sul volto dell’inglese, ma si sforzò lo stesso di sorridere.
− ... sai, neppure io ho tanta voglia di cucinare. Che dici se prendo qualcosa d’asporto? Non mi sembra che ti vada neppure di uscire, giusto?
Toris scosse la testa. Aveva caldo, sentiva la testa pulsare, ciocche di capelli si erano appiccicate sulla fronte e guance sudaticci. Non era proprio al massimo.
− Allora tu sta qua, riposati prima di beccarti la febbre che io vado. Torno tra circa mezz’ora.
− Sissignore.
Toris chiuse gli occhi, il respiro si acquietò poco a poco. Arthur lo guardò addormentarsi, il viso di pietra. Da quando era tornato egli non aveva mai accennato a uscire per mangiare fuori, principalmente a causa della mole di lavoro che aveva tenuto occupati entrambi.
Ora però non poteva più rimandare. Stava per compiere qualcosa di più rilevante delle faccende domestiche, qualcosa di legato saldamente al suo passato che lo riempiva di angoscia; prima tappa era stato rincasare a Londra.
La seconda sarebbe stato tornare in Fleet Street.
Infilò la giacca verde, mani in tasca, testa china e uscì, il cuore che batteva impazzito, diretto verso l’ignoto. O quasi.
 
*  *  *
 
Se lo era immaginato più volte ma vederlo di persona lo scosse ugualmente.
Aveva appena girato l’angolo che l’evidenza gli era stata schiaffata in faccia, senza se e senza ma, come un cerotto tolto in un colpo solo: il suo vecchio ristorante era stato deturpato. Imbambolato, Arthur squadrò da cima in fondo la sua facciata che non era cambiata poi molto e nello stesso tempo si era trasformata. Trattenne un conato mascherato da singhiozzo.
Da luogo dove gustare piatti squisitamente inglesi, il locale era divenuto una versione tarocca del McDonald. L’insegna non era più la splendida, classica “Arthur’s kitchen”, eleganti caratteri giallo chiaro su uno sfondo in legno; al suo posto vi era una pacchiana scritta formata da tubi al neon colorati che si accendevano e spegnevano a intermittenza, visibili anche attraverso la più fitta delle nebbie londinesi: “THE EAGLE”. L’aquila. Nella mente malata del nuovo proprietario quella parola doveva esprimere l’essenza intrinseca del locale, ma il nome ricordava più una discoteca anni ’80 che un fast-food.
Ridicolo, semplicemente ridicolo.
Nonostante il ribrezzo istintivo, Arthur non riuscì a trattenere la curiosità e si avvicinò, ripetendo a se stesso che nessuno lo obbligava a restare lì e che la sua era una scelta consapevole. C’erano vari locali aperti a quell’ora che gli avrebbero servito volentieri due porzioni d’asporto, locali che non portavano nomi di bestie alate o terrestri, eppure una forza invisibile lo spinse lì ugualmente. Aveva rimandato fin troppo quella decisione.
Il secondo shock avvenne quando osò sbirciare attraverso il vetro delle ampie finestre, l’unica cosa rimasta al suo posto. No, quello non poteva essere il luogo che aveva lasciato a malincuore. “Ѐ uno scherzo?” pensò.
Entrò cautamente, facendo trillare un campanello posto sullo stipite.
Era tutto dannatamente reale: le luci accese illuminavano tavoli e sedie di alluminio e divanetti in finta pelle; appesi alla parete c’erano enormi poster di supereroi dei fumetti, giocatori di baseball e football, cantanti anni ‘60 e vari logo, tra cui ne riconobbe solo uno gigante della Coca Cola. In fondo alla sala troneggiava un lungo bancone attorniato da seggiole colorate, che terminava con la cassa dove, però, non c’era nessuno ad accoglierlo. Il locale era completamente deserto.
Posò la punta delle dita su una seggiola con il sedile arancio fluo. Mentre accarezzava quell’arredamento di dubbio gusto, domandandosi dove fossero finiti i mobili che c’erano prima e maledicendo tra sé chiunque avesse osato alterare così il suo nido, una voce allegra lo fece sobbalzare: − Hello!
Alzò lo sguardo fingendo di stare rimuovendo un granello di polvere. Dall’altra parte del balcone lo osservava sorridente un giovane uomo con un paio di occhiali che facevano da contorno a due vispi occhietti azzurri. “Allora sarebbe lui l’artefice di tutto questo?” pensò esterrefatto Arthur. Non aveva mai incontrato di persona il nuovo proprietario, sapeva solo che fosse americano. Pensava sarebbe stato troppo doloroso e ora rimpiangeva la sua scelta. Retrocesse istintivamente verso la porta da dove era entrato, ma era troppo tardi. 
− Un cliente! Fermo, perché tanta fretta? Mi avete spaventato, la credevo un fantasma. Sedetevi, un attimo solo, non vedevo un cliente da settimane! Ѐ qui per mangiare un hamburger? Mi perdoni se ho la testa un po’ altrove. Che bello, questi inglesi di solito sono troppo fighetti per venire qua, l’Inghilterra è la madrepatria degli snob. – Il ragazzo uscì irruentemente dal balcone e in un lampo lo raggiunse. Lo prese con forza per un braccio e lo fece sedere su una sedia che traballò sotto il suo peso, mentre lui ritornava alla sua postazione. Arthur lo fissò con uno sopracciglio alzato, cercando di raccapezzarsi.
– Sembrerebbe che abbiamo la peste da come la gente continua a evitarci, ma qui non entra nessuno, neanche a dare un’annusata. Allora, vuole un sorso di Cola? Mi creda, li biasimo. Questi sono probabilmente i migliori hamburger di Londra! E allora perché nessuno li compra? Del resto sono io che li preparo. Sono buoni? Sì! I migliori hamburger di Londra! E non è neanche un giudizio generoso, se non ci crede dia un morso. Cosa le porto? – esclamò il ragazzo con entusiasmo sopra le righe. Arthur sentì il sangue salirgli alla testa mentre decodificava quella raffica di parole e ne coglieva il poco velato insulto rivolto alla sua gente. Riuscì, però, in qualche modo a mantenere la calma e non mollare un cazzotto in faccia a quello spudorato: era un gentleman, dopotutto, altro che snob.
Si schiarì la voce, facendo una fulminea carrellata con lo sguardo lungo la lista di panini illustrati sul muro, splendide bombe di calorie e grassi saturi. – Salve. Vorrei due menù da portar via, più una lattina di Coca. Anzi no, due lattine... uhm, Toris ha detto di aver fame, magari gli porto un menù sostanzioso... –
Studiò più attentamente le foto e si sentì mancare. Dio, quanta roba. Sentiva di poter diventare obeso con il solo contatto visivo. Il giovane seguì i suoi occhi e sorrise soddisfatto: − Abbiamo l’imbarazzo della scelta, qui. Ha già qualcosa in mente?
− Pensavo a qualcosa di semp-
− Ho questo che le consiglio – e indicò una foto in particolare, raffigurante un allettante panino iperfarcito di hamburger, prosciutto, formaggio, funghi e salse.
– Si chiama “Supreme”. Una squisitezza!
Arthur impallidì e si schiarì la voce. Forse l’altro non aveva sentito bene. − Ehm, il “Supreme” dice? N-non fa per me, sorry.
− Ah, capisco... beh, allora quello con salsiccia, bacon, angus,  pomodoro, crauti, cipolla, peperoni e patatine? Come si chiama... il “Monster”? Eh? Non le viene l’acquolina in bocca? − Il ragazzo fece il gesto di massaggiarsi la pancia.
− Lasci perdere. Non fa per me... per noi.
Il ragazzo sembrò deluso.
− Ok... allora punto sul light. Doppio cheeseburger con cheddar, bacon croccante, fettina di pomodoro e fogliolina d’insalata? Le verdure sono importanti.
− Neanche. Oh, ma insomma!
Arthur era confuso e irritato: c’erano più di trenta tipi di piatti elencati sul menù attaccato alla parete, per non parlare di quelli stampati sul menù cartaceo. Possibile che tra questi non avessero niente di quello che volesse lui? Qualcosa con meno di ottomila calorie a morso, possibilmente. Decise di ritentare.
− Potrebbe farmi un paio di porzioni di “fish&chips”? Una con molto aceto, grazie.
Il ragazzo da deluso divenne letteralmente furente, ma la sua posizione non gli consentiva di manifestarlo in maniera esplicita. Non che non si notasse il suo mugugno a denti stretti quando rispose: − Non si fanno “fish&chips” qui. Si fanno hamburger. Prendere o lasciare.
Arthur aggrottò le sopracciglia: − E allora vada per degli hamburger. Normali, però, non quei cosi enormi, mi raccomando. Ne faccia due, patatine a parte.
− Certo, certo – ringhiò l’altro. Ma che aveva da essere così scorbutico? Il cliente non aveva sempre ragione? Il ragazzo sparì in cucina lasciandone aperta la porta, abbandonando Arthur in compagnia di quell’ambiente così pieno di ricordi e allo stesso tempo così estraneo. Chissà quanto ci era voluto per trasformarlo, per sostituire il mobilio classico con quello moderno, per personalizzare tutto e dare un’impronta nuova al tutto. L’attenzione tornò ai panini del menù: anche per escogitare certe ricette così complesse probabilmente erano stati impiegati tempo e fatica. Vuoi vedere che il mocciosetto s’era offeso perché non aveva onorato i suoi sforzi? In effetti anche quando lui stesso lavorava come cuoco era molto suscettibile riguardo alla questione, tanto che diventò il motivo per cui si trovò senza ristorante e una fedina macchiata. Si sentì un pochino in colpa.
− Comunque, anche se non prendo nessuno di quei cosi, le rendo merito per la fantasia – disse ad alta voce, quasi senza pensarci. Dalla porta girevole sbucò fuori la testolina bionda.
− Dice sul serio? – domandò. Accidenti, l’aveva sentito?!
− ...ugh. Sì, dai, anche se non so chi prenda simili panini in questo quartiere. Non ci sono molti giovani dallo stomaco forte, qui, è più che altro abitato da avvocati e giudici. L’ho scoperto quando anch’io lavoravo come cuoco.
− Me ne sono accorto, signore −. Il nuovo proprietario, un filo imbarazzato, spiegò: − Vede, non abbiamo... non sempre ho abbastanza clientela per permettermi tutti gli ingredienti di questi panini. E nonostante abbia il necessario, rischiano di andare a male perché i pochi clienti che vengono qui non prendono nulla di speciale. Ah, signore, sono tempi duri! Chissà se uscirò mai da questa fase... – Il ragazzo s’illuminò. – Ehi, ma anche lei è del mestiere! Ha qualche consiglio per me?
− Mollare questo lavoro se non lo si sa fare, lasciandolo a chi è più competente, sarebbe una buona scelta. Su, torni in cucina che avrei fame. – tagliò corto l’altro. − Devo tornare presto a casa, anche un santo come Toris si potrebbe domandare se mi sia perso per strada andando a prendere la cena.
Il ragazzo sbuffò e obbedì controvoglia. Nonostante il tono brusco della risposta, Arthur era rimasto talmente spiazzato che non poté far altro che scrollare la testa. Cavoli, il moccioso era messo così male? La situazione gli ricordava gli ultimi giorni di vita dell’Arthur’s Kitchen, con la differenza che quel tizio non sembrava così preoccupato, anzi, continuava a sorridere come se il locale fosse stato colmo. Mentre lo sentiva grigliare i due hamburger e friggere le patatine nella cucina adiacente, provò a indagare su di lui.
– Ѐ da tanto che lavora qua? – domandò, simulando noncuranza.
− Da quando ho acquistato il locale, più o meno dieci mesi fa. L’ho un po’ rinnovato, prima era una specie di tavola calda.
− Non... non era un ristorante questo? Anche abbastanza di classe, se vogliamo aggiungere...
− Tavola calda, ristorante, fatto sta che il proprietario ha fallito e ha dovuto vendere tutto. Dicono che sia pure scappato dalla città per la vergogna. Poveraccio!
− E sa anche per quale motivo abbia chiuso?
La voce del ragazzo si abbassò improvvisamente, rendendosi quasi inudibile da oltre la porta: − Ѐ stata per colpa di quel critico culinario di cui tutti hanno timore. Ha presente, quel tipo di persona che riesce a farti avere successo o farti andare in rovina solo scrivendo una recensione su quei stupidi giornaletti per la gente in. Ѐ venuto nel ristorante che c’era prima, non gli è piaciuto e...
− E...?
Il ragazzo si allontanò un attimo dal cibo sfrigolante e tornò dietro il bancone. Avvicinò il volto a quello di Arthur, tanto che questi arretrò leggermente. Il suo tono era basso, come quello di un cospiratore.
− Dicono che i due abbiano litigato di brutto. Alcuni dicono che stessero per venire alle mani ma ci sono alcuni che sono sicuri di aver veramente visto volare qualche cazzotto, o peggio addirittura. I giornali hanno ingigantito non poco la faccenda, ho letto gli articoli, uno scandalo in piena regola. Quell’uomo... Kirkland, credo si chiamasse, non accettava il giudizio del critico. Capirà, quest’altro è subito andato a scriverlo sulla sua rivista e pochi giorni dopo, puff! Chiusa la baracca!
Per enfatizzare il suo discorso allargò le braccia, compreso quello che impugnava la paletta, facendo schizzare un po’di unto sul pavimento. Il suo sguardo infiammato si dissolse in un’espressione di rammarico: − Credo però che il motivo per cui abbia chiuso è perché è dovuta intervenire la polizia, tanto è stato il casino. Quel critico stava per recensire anche me una volta, ma avevo aperto da poco, quindi mi ha detto che sarebbe ripassato. Ho un po’ paura di cosa possa scrivere su di me, ma dubito possa andarmi peggio che a quell’altro.
Arthur tremava. Si alzò dal suo posto e si avvicinò fino ad appoggiarsi al bancone.
– Quando ha detto che sarebbe venuto qui? – disse, con le guance arrossate e gli occhi verdi diventati improvvisamente più grandi. L’altro ci pensò un po’ su.
− Vediamo... è stato circa sei mesi fa. Ha detto “Tra un anno, Alfred, tieniti pronto!” e si è messo a ridere. Non so se fosse divertito dal fatto che, probabilmente, avrebbe fatto chiudere due volte lo stesso locale ma io l’ho comunque rassicurato che non avrei fatto la stessa fine del proprietario precedente, allora lui ha detto “Sarebbe difficile ripetere un simile disastro!” e ha riso di nuovo. Ha una risata strana, ricorda un caval-
− NOOO! QUELL’IDIOTA! −. Arthur sbatté una mano sul bancone, facendo sobbalzare Alfred. Nei suoi occhi vibrava una fiamma viva, le labbra tremavano. – Quell’imbecille non aveva diritto di dire certe cose! E per di più si è messo a RIDERE DI ME! Ah, ma se prova a rimettere piede sul suolo di questa parte della città, giuro che gli strappo tutti i peli della barba!
Alfred lo guardò per qualche secondo, ammutolito. Poi capì tutto.
− Aspetta, aspetta... Non sarà mica lei quel Kirkland?! – domandò con un filo di voce.
Arthur si lasciò cadere su una seggiola verde acido lì accanto. Annuì mestamente, senza avere il coraggio di alzare gli occhi e incontrare lo sguardo incredulo di quel ragazzo. Cosa gli era saltato in mente, lasciarsi scoprire così, come uno sciocco?
Il silenzio lo costrinse comunque a sollevare il volto: lo conosceva da appena un quarto d’ora ma era sicuro che Alfred non fosse il tipo da rimanere spesso a corto di parole. Lo ritrovò con gli occhioni azzurri spalancati, ma la sua espressione non era né di timore né di disapprovazione. Brillava in essi invece una certa eccitazione, come se gli avesse rivelato di essere una spia in incognito.
− Lei è davvero... Arthur Kirkland? Wow!
Wow?
− Ehi, se me lo diceva subito...  no, non ci avrei creduto lo stesso. Ha troppo l’aria da vecchio signorotto rachitico. Com’è possibile che uno come lei sia andato in escandescenze in quel modo? Avrei giurato che l’offesa massima per lei fosse schiaffeggiare qualcuno con un guanto bianco e sfidarlo a duello. Sul serio ha alzato le mani? − Scrollava la testa, scettico.
Arthur era veramente sul punto di scavalcare il bancone e fargliela vedere a quello sbruffone, ma si trattenne, seppure con immane fatica. – Se proprio non ci credi, posso mostrartelo ora – sibilò fra i denti. Alfred ghignò, soddisfatto. Evidentemente traeva una gran soddisfazione nell’infastidirlo. Come Francis, d’altronde.
Anche quel ghigno, però, si spense quando entrambi si accorsero della puzza di bruciato proveniente dalla griglia, mentre un allarme suonava a intervalli regolari.
− Gli hamburgeeer! Cavolo, me ne ero dimenticato!
Troppo tardi. Erano andati, carbonizzati su un lato e crudi dall’altro, immangiabili. Le patatine, invece, si riuscirono a salvare.
− Cazzo – sbottò Alfred restando fermo sulla porta della cucina, esibendo i due “cadaveri” in bilico su una spatola. – Mi dispiace un casino, ero tutto preso dalla storia e non mi sono accorto che qua la roba andava avanti a cucinare. Manco il timer ho sentito, mannaggia! −. Tornò alla sua postazione. – Le offro gli altri due hamburger gratis per il disturbo, ok?
Arthur agitò la mano davanti al volto.
− Ma si figuri, non ce n’è bisogno. Piuttosto, come ex proprietario, posso farle qualche altra domanda? Non so molto di lei, se non che ha acquistato il locale per ridurlo a una bettola... volevo dire, un fast-food, come ce ne sono tanti in giro.
Alfred se offeso dalla definizione di “bettola” non lo diede a vedere. Il suo tono quando rispose, però, non risultò entusiasta come prima.
− Prima di tutto, questo non è un fast-food come tanti. Ѐ il mio. Ѐ solo questione di tempo prima che faccia furore in questo paese, non c’è alcun dubbio a riguardo. Io vengo dagli USA, di certe cose ce ne intendiamo! Per l’appunto, sono arrivato all’incirca l’anno scorso in Inghilterra. Non so perché abbia deciso di venir qua, forse sentivo che era il mio destino preparare squisiti panini per il vecchio continente. Oh beh. Ci sono miei coetanei che lavorano al McDonald, io invece sono in proprio! Sono un self-made man, l’eroe del sogno americano! −
Scoppiò in una vivace risata. Il suono riempì l’ambiente, saturandolo al punto che sembrò non ci fosse più posto se non per esso. “Perché fa così? Ѐ impazzito?” pensò Arthur.
Non riusciva a capire. Quel ragazzetto era venuto da oltre oceano con la speranza di sfondare, si era trovato a tirare avanti un locale in cui entrava un cliente ogni morte di Papa e comunque si metteva a ridere? Alfred era così bizzarro. Forse era proprio questa caratteristica che non lo aveva fatto mollare e dopo mesi probabilmente durissimi ancora resisteva con il sorriso sulle labbra e l’autostima a mille. In fin dei conti non era malaccio. Arthur provò un certo orgoglio nel vedere che fosse stato qualcuno di così tenace a occupare il suo posto; forse questa volta sarebbe riuscito a fargliela a vedere al mangia-lumache...
Un brivido lo scosse, quando l’idea assurda apparve per la prima volta nella sua mente.
No, non poteva farlo.
O forse sì? Chissà. Prima di metterla in pratica ci avrebbe dormito sopra: era un progetto troppo azzardato per metterne subito al corrente anche Alfred. Però, magari...
− Ehi.
− Sì? – rispose l’altro dalla cucina.
− Non è che le serve aiuto per gestire l’Eagle?
Dall’altra stanza arrivò una sonora risata di scherno.
− Perché mai? Ho pochissimi clienti che posso gestire tranquillamente da solo.
− Appunto perché ha pochi clienti. Non è che magari il motivo è che non sa gestire un locale?
L’americano si allontanò per la seconda volta dai fornelli, stavolta con un’espressione poco rassicurante sul volto.
− Vorrebbe forse insinuare che sono un incapace?
Arthur balzò all’indietro, intimorito da quel repentino cambio d’umore. Avrebbe dovuto stare più attento con le parole. Si morse la lingua.
− Certo che no! Quello che voglio dire è... – fece una pausa, indeciso se continuare o meno – Quello che voglio dire è che se avesse bisogno di qualcuno con più esperienza, non che lei non sia stato bravissimo fino ad adesso, eh!, io sarei disponibile.
Alfred tornò calmo, fissandolo diretto negli occhi. Un ghigno arricciò le sue labbra.
 – Guardi che ho capito.
− Cos’avrebbe capito?!
− Ho capito il suo piano. Lei vuole rubarmi il posto. S’infiltra qui, impara le mie ricette e dopo un po’apre un nuovo locale tutto suo con i miei piatti. Non mi frega, sa? Nel mio paese esiste un reality che si chiama “Mistery Dinners” dove quelli come lei li sgamano subito: piazzano un sacco di telecamere e, dopo averli colti sul fatto, li acciuffano e per loro non c’è quasi mai più futuro nel campo della ristorazione. Quindi occhio!
− C-cosa?! Che le salta in mente? Non ho la minima intenzione di imbrogliarla! In realtà... – Arthur si bloccò di nuovo, accorgendosi con orrore che cominciava a perdere il controllo delle sue emozioni – ...a me manca questo posto. Mi manca cucinare. Hai idea di cosa significhi girovagare per il Paese senza sapere che fine ha fatto il luogo cui hai dedicato anima e corpo? Senza sapere se ci tornerai mai, perché la vergogna ti tiene lontano? Hai idea di cosa vuol dire sentirti rivelare che il tuo unico talento probabilmente non è che una grande menzogna? Anzi, senza il “probabilmente”. Francis ha detto chiaramente che il mio cibo era orribile. Non ho intenzione di dar credito a un simile essere ma questa cosa mi ha fatto molto male. Io sono bravo a cucinare, lo so. Ѐ lui che non l’ha capito! Lui che ha sbagliato! −. Stavolta un paio di lacrime erano riuscite a sfuggire al suo controllo e gli avevano inumidito gli occhi, la voce diventata roca graffiava nella sua gola. Il petto si alzava e si abbassava a intervalli irregolari, come un mantice che esalava aria infuocata. Fece fatica a riconquistare un minimo di sangue freddo. Si pulì il viso in fiamme con una salvietta presa da un tavolino vicino, ridacchiando nervosamente: − Devo essere un disastro, eh?
Alfred annuì, allungandogli un panno carta. Fatto questo, si dileguò in cucina a recuperare il cibo prima che andasse di nuovo bruciato.
Arthur era preda dell’imbarazzo: si era lasciato andare così, senza pudore e ora se ne pentiva amaramente. Ma come gli era saltato in mente? Avrebbe dovuto trattenersi, come aveva fatto sempre più spesso negli ultimi tempi. Abbassò lo sguardo sulle sue mani e non si stupì di vedere incisi sui palmi gli stampi delle unghie: la rabbia esplosiva che covava fin dal giorno fatidico premeva ancora forte sottopelle, era magma che aspetta di inondare le pendici di un vulcano. Sarebbe dovuto andare via subito, fuggire da quel luogo pieno di ricordi ora occupato da uno sconosciuto. Scappare prima che fosse troppo tardi, prima che quel ragazzo si convincesse quanto patetico lui fosse, non poteva fare una figura simile, doveva evitare il peggio anche se forse il peggio era già avvenuto. In alternativa poteva ucciderlo e nascondere il cadavere, così non ci sarebbero stati testimoni. Era un’idea valida.
Che cosa strana, però: se con Toris aveva esternato il suo tormento per irretirlo, stavolta le parole erano uscite come un fiume di spilli dalla sua gola, partendo direttamente dallo squarcio dentro il cuore. Era come se avesse azionato un interruttore e le difese si fossero di colpo abbassate.
Notò un’altra cosa, ancora più bizzarra: in quel locale la voce maligna che bisbigliava sempre nella sua testa, che lo aveva consigliato sulle mosse da eseguire per portare a termine il piano, si era zittita. La risata prorompente del moccioso l’aveva soffocata togliendole lo spazio vitale dove agire.
Il rumore dei passi interruppe il corso dei suoi pensieri: Alfred era tornato con i panini, stavolta ben cotti e sistemati dentro a due scatoline insieme alle patate e a delle monoporzioni di ketchup e maionese. Si sentì morire.
− Scusami per la scenata che ho fatto. Giuro, non so che mi sia preso – si giustificò.
Alfred annuì, assorto nell’erogazione dello scontrino.
− Figurati. Dude,finalmente hai perso quell’aria da damerino inglese e hai cominciato a rivolgerti a me normalmente, senza il “lei”! Non sono ancora abituato a certe formalità coi clienti e non mi aspetto che loro le usino con me. Cavoli, però, devi avercela proprio a morte con quel tipo! −. Ridacchiò. – Ti sei arrabbiato in un modo tale che ho pensato ti saresti trasformato in Hulk con le sopracciglia folte. Sarebbe stato divertente. Ehi, dimenticavo, sono ventisette sterline e ottantotto pence, prego –
Arthur tirò fuori i soldi, borbottando piano. Da una parte si sentiva sollevato, dall’altra ancora il sapore amaro del rancore lo tormentava. E poi, quasi trenta sterline per due menù con patatine? Che prezzi folli c’erano lì?
L’altro sembrò notare il suo disappunto e gli porse lo scontrino, quasi offeso. Arthur lo controllò: lattine di Coca 3,68£, le patatine 1,84£, quattro hamburger 22,36£...
− Ehi, perché mi hai contato quattro hamburger? Sono due! – protestò.
− Sì, ma ci sono quelli che ho buttato. Quattro in tutto.
− Avevi detto che me li offrivi, dal momento che è stata colpa tua se sono andati in malora!
− E tu mi hai detto “Si figuri, non c’è ne bisogno”, perciò li paghi.
Alfred aveva il talento innato di far saltare i nervi. Arthur tirò fuori di malavoglia le undici sterline e diciotto e li lanciò sul bancone, dove furono subito presi e messi in sicuro in cassa. – Ladro che non sei altro... – sibilò. L’altro per tutta risposta rise.
− Prendilo come un prestito, Kirkland. Ti verrà restituito con gli interessi quando prenderai il primo stipendio.
Arthur lo fissò con gli occhi spalancati. − Come? Stipendio?
− Eh già! Sei assunto! Da domani puoi venire a lavorare di nuovo qui, con me, non sei contento?
Arthur spalancò la bocca, esterrefatto. Cosa diavolo stava dicendo? Aveva preso una tale decisione così, su due piedi? Che razza di bambino impulsivo era quel tipo?
− Ma... insomma... – non trovò neppure le parole poiché le emozioni si accavallavano troppo veloci nella sua mente.
− Hai già un lavoro? Perché se non ce l’hai dovresti trovartelo in fretta, qua nessuno ti regala niente e i soldi se non ce li hai sei finito. − fece Alfred con l’aria di chi sa già tutto prima di sentire la risposta.
− Sono disoccupato, effettivamente, ma non ho problemi di denaro. Non ancora, per lo meno... Ma assumermi così, dalla sera alla mattina, mi pare un po’ azzardato!
− Allora è deciso! Domani torni qua e ne parliamo con più calma, ok? Farai un periodo di prova, ma tanto ho già stabilito tutto, quindi non cambia −. Gli fece un occhiolino sornione.
− Parola di Alfred F. Jones, e se lo dico io puoi contarci! Ah ah ah! −
Sì, quel moccioso decisamente sapeva come innervosire il prossimo, ma per quella volta Arthur lo avrebbe perdonato; diciamo che non sapeva se strozzarlo o abbracciarlo per la gratitudine.
Prese il sacchetto e ci inserì i panini, un gesto con le mani che tremavano tanto era inquieto e rischiò di rovesciare il contenuto delle scatoline. Alfred fu costretto ad aiutarlo, prima che combinasse un macello. Quando arrivò alla porta e l’aprì, facendo trillare il campanello, Arthur si girò verso il bancone come per avere la conferma definitiva. Alfred alzò il pollice nella sua direzione, strizzandogli l’occhio.
Era fatta, era fatta davvero.
Fu così che alle otto di sera Kirkland uscì dal The Eagle con la cena e un nuovo lavoro nel suo vecchio locale. Più ci pensava e più ne era elettrizzato, nonostante all’inizio non volesse ammetterlo: era la sua occasione per vendicarsi e non ce ne sarebbero state altre.
Probabilmente non era stato un caso, probabilmente (anzi, sicuramente!) era tutto già predisposto nel piano e anche Alfred era una pedina preposta al solo scopo della sua realizzazione. Era la sola spiegazione logica a un evento così fortuito: doveva essere tutta opera sua.
– Mmmhhhahahaha! Preparati, Bonnefoy... – rise tra sé, tirando fuori dal portafogli un articolo di  giornale ormai spiegazzato dall’usura e osservando dolorosamente la foto raffigurata. Ogni volta che la guardava una fitta lo colpiva al cuore, ricordi di tempi migliori in cui mai si sarebbe sognato di arrivare a tanto gli instillavano dubbi pungenti. Perché doveva andare a finire così? Il sapore salato delle lacrime e l'amaro della bile si mescolarono sulla sua lingua.
NO! Una decisione era stata presa. Non sarebbe tornato indietro, aveva oltrepassato il limite e ora si trovava avvolto dalle calde tenebre della vendetta. I patti con il Diavolo non si sciolgono così facilmente.
– Questa volta i miei piatti saranno buoni da morire – sussurrò.
 
*  *  *

Tornato a casa trovò Toris addormentato sul divano davanti alla tivù spenta. La testa era caduta sulla spalla sinistra e le mani posate in grembo gli davano l’aspetto di una bambola abbandonata. Arthur quasi si era dimenticato di avere un inquilino, tanto il ritorno nel passato lo aveva preso nel profondo, facendogli scordare che non era più da solo. Guardandolo così quieto, così diverso dal moccioso che gli aveva fatto saltare i nervi poco prima, gli si strinse il cuore. Lo svegliò scuotendolo leggermente e gli piazzò davanti il panino e le patatine quando ancora non aveva aperto completamente le palpebre.
– Oh, ha preso qualcosa di buono? – domandò il ragazzo, stropicciandosi gli occhi. Sorrise incerto quando vide il contenuto dei pacchetti, non perché non gli andasse il cibo, ma perché incuriosito dall’inglese: gli occhi dell’uomo brillavano in un modo assai bizzarro.
− Ho comprato tutto al fast-food che ha sostituito il mio ristorante – annunciò Arthur aprendo le lattine sul tavolo da pranzo, Toris seduto al suo posto in procinto di assaggiare la cena. – Dimmi se ti piace, così posso andare a dirglielo al proprietario.
Toris per poco non si soffocò con il primo morso, tentando di rispondere con la bocca piena. Allora era per questo che era così felice! Era tornato al suo vecchio posto  di lavoro. Beh, in ogni caso il cibo era buono, sì, ma non tutto questo granché: un semplice hamburger acquistabile in qualsiasi McDonald con delle patatine strafritte. L’altro invece sembrava sinceramente apprezzarlo ma non c’era da fidarsi delle sue preferenze in fatto di cibo... Non voleva negare che l’inglese fosse colmo di ottime qualità, ma non riusciva neppure a distinguere un anello di cipolla fritto da un peperone.
Il lato positivo erano le dimensioni decisamente apprezzabili del panino: avevano tenuto in conto che con quel coso, in teoria, bisognava farci un pasto intero e non sporcarsi semplicemente lo stomaco. Appena ebbe ingoiato metà del boccone aprì la bocca per riferirlo, ma Arthur lo anticipò sul tempo: − Non fa mica parte delle solite catene. Lo gestisce un ragazzo giovane ma molto intraprendente, si chiama Alfred, avrà forse la tua età. Poveraccio, non ha quasi clienti ma non importa perché da domani lavorerò con lui e forse con la guida di un esperto riuscirà a risollevarsi. −
Per la seconda volta Toris rischiò di strozzarsi, stavolta perché si voleva complimentare con l’amico. Buttò giù un sorso di Coca cola. – Sono davvero contento per lei – farfugliò tra i colpi di tosse.
− Grazie, grazie. Ehi, come diavolo fai a bere questa roba? Non so cosa darei per una Ale – Arthur fece una smorfia, allontanando da sé la lattina da cui aveva appena bevuto. Aveva sempre detestato la Coca cola ma aveva pensato che, dopo tanti anni, potesse aver cambiato gusti. Invece no.
− Forse ne è rimasta una bottiglia nel frigo in cucina, signore. – accennò Toris, intingendo una patatina nel ketchup. Arthur si alzò dal suo posto, lasciando tre quarti della cena sul piatto e si avviò verso la sua “tana”. Toris lo ignorò continuando a servirsi di patatine. Si era abituato che ogni tanto l’uomo sparisse in cucina, anche senza una motivazione precisa.
Superata la porta e lasciato il mondo fuori, Arthur si passò la mano sul volto in segno di disapprovazione. Quel ragazzo sembrava non intuire di nulla: era davvero così ingenuo? O forse era il suo comportamento ad essere convincente, le sue paranoie inutili? Beh, almeno non avrebbe sospettato di lui facilmente in futuro.
Rise tra sé, il solito senso di colpa ancora lieve che gli pungeva nel petto, mentre nella mano tintinnò un oggetto ben più prezioso di qualsiasi gioiello presente in casa. Quando sentì che al di là della porta, in salotto, Toris aveva acceso la tivù, si permise di ridere più forte. Rise tanto da provare un lancinante dolore all’addome ma non importava, non più, perché era tornato a casa e ogni tassello stava andando uno alla volta al proprio posto e nessuno sarebbe riuscito a fermarlo. Se qualcuno avesse avuto dei dubbi poteva sempre utilizzare il ragazzo come scusa. Geniale. Doveva aspettare solo fino all’indomani.
Nel frattempo impugnò la chiave dorata nascosta nel palmo e aprì la porticina nascosta dietro a una delle credenze, il vero motivo per cui non avrebbe mai permesso a nessuno di entrare in cucina da solo, con il rischio che la scoprisse. Quella era la vera “stanza X”.
La sua risata si dilagò nell’antro scuro mentre la porticina si chiudeva dietro di lui, leggera come il passaggio di uno spettro, e venne risucchiata in un vortice di aria infernale.
 
*  *  *
 
Salve a tutti, qui è L.B. Shadow che parla!
Mamma mia quanto ci ho messo per decidere di pubblicare... questa è la mia prima fic, e non solo nel fandom Hetalia ma in generale. Spero che possiate capire il mio nervosismo...
Mi auguro che il primo capitolo vi sia piaciuto, i consigli sono sempre graditi!
Alla prossima!
 
*Aggiornamento luglio 2017*
Ho pubblicato il primo capitolo di questa fic circa un anno fa, ho pensato avesse bisogno di una revisione ed eccola qua. Ho apportato qualche modifica, se avete qualcosa da commentare fatelo pure! Per esempio ho iniziato la storia shippando delle coppie in particolare, ora come ora sono “pace e amore per ogni ship” (anche se la Gerita continua a far rima con “vita”) (scusate, sto divagando)
Ringrazio tutti quelli che mi hanno accompagnato in questo primo anno da “fanfictioner”, spero di non deludervi. :D
A presto!
Vostra L.B. Shadow

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Capitolo 2
*** Cucine da Incubo ***


Cucine da Incubo
 
II
 

 
 
Arthur si svegliò in un bagno di sudore, dopo una notte di sogni confusi che lo avevano fatto penare, ricordi riaffiorati quando lo avevano scoperto più vulnerabile. Le lenzuola si erano aggrovigliate attorno alle gambe, ai fianchi e al torso imprigionandolo come fosse stato una mosca. I denti gli facevano male: li aveva digrignati forte nel sonno, poteva sentire un leggero sapore di sangue posato sulla lingua arida. Sbatté le palpebre, pugnalate dai fasci di luce bianca che filtravano dalle persiane. Cavoli, era come essere reduci di un dopo-sbornia.
− Devo smetterla di andare nel mio antro prima di andare a dormire, mi succede sempre così – borbottò, girando il fianco. Non aveva nessuna voglia di alzarsi.
A convincerlo fu il bussare alla porta della sua camera.
− Mr Kirkland? Mr Kirkland? Si svegli sono già le otto! – lo incitò Toris da fuori.
Arthur soffocò una bestemmia nel cuscino.
− Lasciami ancora cinque minuti... – borbottò, alzando il volto quel tanto che bastava per farsi sentire.
“La sera leoni, la mattina coglioni” pensò Toris, prima di ritentare.
− Se mi accompagna in cucina le preparo una colazione fantastica!
Nessuna risposta. Si passa al piano B.
− Ok, vuol dire che mi arrangerò da solo...
Come il ragazzo si era aspettato, non fece ora a finire la frase che si sentì un gran rumore da dentro la stanza, come un sacco di patate che cade, e in pochi secondi Arthur aveva aperto la porta, esibendosi in tutto il suo splendore mattutino: canottiera, boxer e capelli ancora più scompigliati del solito. Il suo sguardo era così torvo che si sarebbe potuto utilizzare come meme al posto del Grumpy Cat.
− Non osare – sibilò, indirizzando il suo dito indice al naso di Toris – entrare in cucina senza di me.
− Nossignore.
Arthur passò una mano tra i capelli, sbadigliando apertamente: non era ancora abbastanza sveglio per ricordarsi le buone maniere. – Ok, allora, andiamo a preparare questa colazione fantastica, ne ho proprio bisogno...
− Ehm, signore?
− Che c’è?
Toris abbassò lo sguardo a indicare l’abbigliamento non proprio consono dell’uomo. L’altro fece lo stesso e, rosso come un bus, tornò in camera a vestirsi.
“Cavoli, che tipo...” pensò il ragazzo, scuotendo forte la testa in un sospiro tra il divertito e il rassegnato. − L’aspetto davanti alla cucina, d’accordo? – disse alla porta prima di andarsene.
 
La colazione non fu fantastica come promesso da Toris, poiché le scorte in dispensa erano quasi esaurite. Si limitarono a tè Ceylon con gli ultimi biscotti rimasti, degli shortbread per la precisione, consumati sempre nella sala da pranzo.
Arthur girava il cucchiaino nel suo tè in un moto irrequieto, non si sapeva se fosse nervoso per la mancanza di cibo o se per essere stato scoperto non proprio nella sua forma migliore. Fatto sta che Toris cercò di non farsi notare mentre lo osservava al di sopra della tazza, incerto se parlagli di una certa cosa o meno.  
− Dovremmo fare la spesa – borbottò Arthur, stufo di giochicchiare.
− La faccio io, se vuole.
Arthur lo guardò storto − Ma tu non stavi male ieri per il troppo lavoro? Lascia stare, non voglio che ti affatichi troppo.
− Ma oggi sto meglio! – protestò Toris – E poi lei non doveva andare da quel... Alfred, si chiama?
Arthur raggelò: si era completamente dimenticato di Alfred e dell’appuntamento per quella mattina. Di colpo si ricordò che aveva anche un lavoro, perbacco.
− Forse hai ragione, Toris. Ti faccio la lista della spesa, così non avrai problemi.
Il ragazzo mugugnò una risposta affermativa, agitando il cucchiaino a mezz’aria e osservando i riflessi del sole che riuscivano a raggiungerlo dalla finestra nel salotto attiguo. In sala da pranzo non c’erano finestre, erano immersi in una strana penombra mattutina dovuta al fatto che nessuno si era curato di accendere la luce. Pareva di stare in una grotta.
Alla fine si decise a sputare il rospo: − Signore... stava scherzando ieri quando diceva che avrebbe cominciato a lavorare con il nuovo proprietario? Insomma, non vorrà dirmi sul serio che è andato per prendere un paio di panini ed è stato assunto su due piedi così?
Arthur lo guardò, pensoso: in effetti la situazione era alquanto fuori dal comune.
− No, non stavo scherzando. Si tratta di un moccioso estremamente impulsivo, ha deciso che da oggi sarei andato là a parlarne e iniziare un periodo “in prova”.
Toris fece una piccola smorfia infastidita che lo incuriosì. Alzò un sopracciglio, severo.
− Che c’è, non ti va che ritorni al mio vecchio posto di lavoro?
− N-no! Anzi... – si scusò subito Toris, scattando sulla sedia – Ѐ solo che... che mi sento a disagio, dal momento che dovrei essere io a trovarmi in fretta un lavoro, sa, per poterle pagare la permanenza. Invece è già una settimana che sono qui e ancora sono inoccupato. Ok che c’è la crisi eccetera, ma ho tanta buona volontà! – Il suo tono era talmente disperato che Arthur si impietosì.
− Hai provato a cercare sul giornale?
− Certo che sì, anche su internet, ho mandato curriculum a destra e manca ma non sono l’unico che vuole un lavoro part-time e con un buon stipendio, quando io tra poco dovrei iniziare l’università. – gemette. – Ѐ stato anche per questo che ieri ero così stanco. Di tutte le e-mail che ho mandato, delle telefonate che ho fatto, niente! Neppure una risposta! – si mise la testa castana tra le mani, le ciocche s’infilarono tra le dita. Sospirò. − Forse dovrei accontentarmi di più lavoretti da poco conto, farmi le ossa e poco alla volta dovrei riuscire a ottenere denaro a sufficienza
− Di certo non si può fare gli schizzinosi.
− Non lo sono di certo. Mi adeguo, sa? Sono disposto a tutto!
La voce di Toris era aumentata di volume. Era incredibile che un ragazzo di solito così introverso sapesse mostrasse tanta determinazione. Arthur nascose un sorriso dietro alla tazza di tè portata alle labbra proprio in quel momento.
− Sei un ragazzo maturo e di buona volontà, vedrai che ce la farai. – lo rassicurò.
Toris sorrise, malinconico. Ah, se la sua tenacia fosse bastata per pagare le spese...
Ma da qualche parte il sole doveva pur brillare sopra il cielo grigio di Londra.
 
Quando quella mattina Arthur arrivò al The Eagle, lo aveva trovato chiuso. Erano circa le 9.15. Aveva aspettato mezz’ora abbondante prima che Toris lo chiamasse al cellulare:  voleva sapere la marca dei prodotti da acquistare.
− Ci sono decine e decine di biscotti diversi, quali prendo? E il curry? Lo prendo della “Sharwoods” o della “Dunns River”? – chiese agitato.
− Ti raggiungo subito – aveva risposto, stufo di guardare la porta serrata del locale; insieme ci avrebbero messo circa un’ora, senza contare il trasporto della spesa a casa. Chissà se in quel lasso di tempo si sarebbe deciso ad aprire
Al super, Arthur gettava i prodotti nel carrello con un po’ troppa energia. Toris accennò alla sua meraviglia, per il fatto che fosse tornato così presto: pensava dovesse avere una specie di colloquio con Alfred.
− A dire il vero −, disse Arthur scattando in avanti alla ricerca di un altro prodotto, stridendo le suole contro il pavimento liscio – lo pensavo anch’io, ma lui non c’era. La porta del locale era chiusa, dentro era tutto buio. Mi ha dato buca. – Ringhiò.
Toris sistemò il contenuto del carrello in modo che arrivasse integro perlomeno alla cassa.
− Signore, sono le nove e mezza di mattina, a quest’ora tutti i locali sono chiusi... tranne i bar e dove servono le colazioni...
− Ma lui mi aveva detto di trovarci oggi! E poi dovrà pure arrivare prima per preparare la roba, per pulire il salone, no?
Stava urlando. Toris si guardò intorno, imbarazzato, pregando che nessuno lo notasse.
− Signore, si calmi, la prego. – sibilò – Evidentemente è arrivato un po’ in anticipo.
− Non sono io in anticipo, è lui che è in ritardo.
− Per che ora avevate deciso di incontrarvi?
Arthur si girò, nel suo volto il completo smarrimento come se Toris avesse di punto in bianco domandato “perché i dinosauri si sono estinti?”.
− Ehm... ora? Non ha specificato, ha detto di venire oggi...
Ora era il momento di Toris per essere confuso.
− Vuol dire che non sa neanche se con “oggi”intendesse mattina o pomeriggio?
− Ehm... no.
Toris resistette alla tentazione di darsi una sberla in faccia, tanto per non offendere l’altro.
− Almeno ce l’ha il suo numero di telefono?
Arthur era diventato un pomodoro maturo. – No.
Toris prese un profondo respiro, espirò, ripeté l’operazione un altro paio di volte tanto per essere sicuro. Dopodiché estrasse dalla tasca del giubbino un foglietto spiegazzato.
− Ah, se non ci fossi qua io...
Il foglietto era lo scontrino dalla cena d’asporto della sera prima: sopra c’era scritto il nome del locale (“The Eagle” di Alfred F. Jones), l’indirizzo e anche il numero. Lo porse ad Arthur.
− Adesso lo chiami. Almeno il cellulare ce l’ha, siamo a un buon punto. – disse con un sorriso paziente. Arthur prese lo scontrino, borbottò un grazie domandandosi cosa pensasse realmente di lui quel ragazzo sotto quell’aria benevola e si allontanò mugugnando imprecazioni.
Premette i numeri sul display, quando, sul punto di premere il pulsante di chiamata, fu percorso da mille dubbi. E se quello di ieri sera fosse stata tutta una burla? E se non l’avesse trovato anche al telefono? E se avesse risposto, cosa avrebbe dovuto dirgli? Forse avrebbe dovuto far fare a Toris questo lavoro sporco, che lui era tanto bravo e premuroso e, oh guarda si è ricordato lo scontrino, ma sai ora dove lo avrebbe voluto ficcare lui quel dannato scontrino con lo stupido numero che lo avrebbe fatto parlare con quell’idiota divenuto proprietario del suo ristorante e lo aveva trasformato in un ammasso di roba yankee-kitch, quell’idiota con la risata assordante, e oh al diavolo.
Premette il pulsante della cornetta. Quello verde.
Il cellulare iniziò con il suo lento tu-tuu che risuonava come una presa in giro. Aspetta un altro po’, hai già aspettato un anno, che ti costa?
Arthur si portò le unghie alla bocca, mordendole, rompendole, resistendo alla tentazione di sputarle sul pavimento lucido davanti allo scaffale dei prodotti per animali. “Quanto ci metti, razza di moccioso?”pensò, girandosi nervosamente indietro. Toris stava continuando la spesa ma notò il suo movimento e fece segno come per dire “ha già risposto?”. Arthur alzò il palmo della mano. No che non aveva risposto. L’attesa cominciava a dargli addirittura malessere fisico.
Rispondi, porca miseria.
− Pronto? Chi è che rompe a quest’ora? – parlò d’un tratto una voce assonnata.
Arthur lasciò andare un respiro che non si era reso conto di aver trattenuto.
− Pronto? Alfred? Sono Arthur!
− Chiii?
E già qui... “Ricordati che sei un gentleman, non un bifolco qualsiasi, mantieni la calma”
− Arthur Kirkland, quello di ieri sera, quello che avresti dovuto incontrare oggi per iniziare quel periodo di prova. Non ricordi?
Silenzio. Poi, l’illuminazione.
− Ahhh, il vecchio pazzoide che cerca vendetta! Scusa se non ti ho riconosciuto, mi sono appena svegliato. Come stai?
Arthur si passò le dita tra le palpebre, sentendo tutta la stanchezza di una notte travagliata premergli da dentro il cranio.
− Così così, stanotte ho dormito mal... ehi, un attimo, che c’entra adesso come sto? – ma che diavolo gli prende, deve proprio avere sonno! − Bando alle ciance, prima sono venuto all’Eagle per parlare con te e l’ho trovato chiuso. Se vengo ora ci sei, giusto? Ci metto una quindicina di minuti ad arrivare lì, aspettami.
Dall’altro capo del telefono si sentì uno strano rumore, poi nuovamente il silenzio. Quando tornò alla cornetta, la voce di Alfred era cambiata, si era fatta stridula.
− Ah eh, no, ecco, fa con calma, tra quindici minuti, oddio, no, facciamo tra mezz’ora, ok?  Con calma, niente fretta – il tono era improvvisamente allarmato, la parlata a scatti. “Allora anche questo tizio sa cos’è il panico, uh?” pensò Arthur. Però che strano che non volesse riceverlo subito. Oh beh, pazienza. Avrebbe finito la spesa e si sarebbe avviato subito dopo.
− E vada, tra mezz’ora sarò lì. Ci vediamo.
Spense il cellulare. Sospirò, il cuore gli batteva a una velocità superiore alla norma. Anche le mani tremavano e stringevano l’apparecchio con troppa forza.
− Allora? – fece Toris quando tornò da lui, – Siete giunti a un accordo?
− Diciamo di sì. Tra mezz’ora, ha detto. – rispose Arthur con il tono più distaccato che gli fosse possibile. Vacillava da un piede all’altro, incapace di trovare un baricentro stabile, come se nelle sue gambe si stesse scatenando un piccolo sisma. Le guance erano rosa, gli occhi luccicavano, mentre la bocca faceva il possibile per rimanere un’impassibile linea dritta ma tendeva inevitabilmente a curvarsi verso l’alto.
Toris non poté evitare di notare tutte queste cose: − Ѐ emozionato all’idea, non è così?
Arthur raggelò per un attimo. – In che senso?
− Nel senso che è da ieri che vedo nei suoi occhi la felicità di ritornare a lavorare in quel posto. Deve avere molta nostalgia, e dopo così tanto tempo avere la possibilità di riscattarsi è un’occasione unica.
Arthur non poté fare a meno di annuire, vedendosi così scoperto. Negare sarebbe stato non solo inutile, ma anche deleterio. Lui era felice perché tornava al suo vecchio ristorante, mica per altro come progettare una vendetta, no no.
− E poi mi sembra alquanto contento di rivedere il signor Jones, no?
Arthur stavolta non raggelò, si trasformò direttamente in una statua di sale.
Cosa?
− Ehm, non mi fraintenda, ma mi è parso di capire che sia una persona simpatica, no? O perlomeno molto generosa, dal momento che l’ha assunta...
− Ecco, la sua generosità si è esaurita nell’assumermi. – Arthur lo interruppe, scrollando la testa con disprezzo – Quella sanguisuga mi ha fatto pagare due panini bruciati, ieri. Ѐ solo perché sono un gentiluomo che non gli abbia rotto le ossa!
Quell’ultima frase la disse abbastanza forte che una signora di mezz’età, passando lì accanto, sobbalzò. Lanciò un’occhiata di fuoco ai due e passò oltre, mento alto e dimenando il corpo infagottato da più strati di vestiti. Mentre Toris era imbarazzato da morire, Arthur si limitò a un’alzata di spalle, come se le vecchie che lo guardavano male fossero una cosa di tutti i giorni.
A dire la verità, se questa cosa fosse successa solo un anno prima anche lui avrebbe desiderato sprofondare nel pavimento, ma in quel momento, semplicemente, non gli importava più dell’opinione altrui. Gli importava solo di fare una buona impressione a Toris e a quelli che lo avrebbero aiutato a raggiungere il suo scopo, gli altri potevano indignarsi quanto volevano. Niente sarebbe stato più bruciante dell’umiliazione inflitta dopo la visita di Francis.
− Che dici, finiamo la spesa? Se facciamo presto ti posso aiutare a trasportarla a casa.
− Sissignore.
 
*  *  *.
 
Ore 10.15 a.m.
Arthur si trovava per la seconda volta davanti alla parodia del suo locale, stavolta però non era esitante sul cosa fare. Avrebbe rimandato giù i conati, nel caso, alla vista di quell’obbrobrio di arredamento. Prese una forte boccata d’aria ed entrò.
Niente, non riusciva proprio a sopportarlo.
− Buongiorno! – salutò Alfred, uscendo dalla cucina – Che bello un clie... ah no, sei tu. –
Fece una faccia delusa.
− Anch’io non scoppio dalla felicità alla tua vista, ma non per questo lo faccio pesare – replicò Arthur, un filino offeso. – Certo che il locale è sempre un pugno nell’occhio.
− Pensi che un folletto sia entrato stanotte a cambiare i mobili? Ѐ ovvio che da ieri sera non sia cambiato! E poi non ne avrebbe bisogno, è bellissimo così.
− Se lo dici tu.
− Sei entrato solo per criticare o cosa?
Arthur tornò serio, tutto a un tratto. Una folata d’aria gelida entrò dalla porta lasciata aperta alle sue spalle, gli scosse i capelli biondi e lo fece tremare. Ingoiò un po’ di saliva per bagnare la gola secca, vecchio leone senza coraggio. 
− Oh, e adesso che ti prende? – domandò Alfred, irritato.
− Ti prego, comprendimi. Ѐ un anno che aspetto questo momento, un anno passato a sognare, a progettare... portami laggiù. – mormorò Arthur.
− Laggiù...?
Alfred lo fissò perplesso, senza comprendere, per qualche secondo. Poi afferrò. C’era qualcosa in quegli occhi verdi che comunicava molto più delle parole e sebbene lui non fosse il tipo da decifrare messaggi corporei subliminali, quella richiesta risuonò come un urlo silenzioso. In qualche modo se l’era aspettato questo momento, forse anche temuto. Il Re esiliato era tornato nella sua patria e voleva rivedere il trono da dove era stato scalzato.
− Intendi la...?
− Esatto.
− E va bene, vieni con me.
Fece segno ad Arthur di seguirlo e aprì una porticina a lato del bancone per farlo passare.
Arthur aveva il cuore in gola.
Alfred entrò per primo, spalancando la porta della cucina baldanzoso come al solito. Si girò verso l’altro e lo vide tentennante sul ciglio, come se non osasse varcare un luogo sacro.
− Entra. Non c’è nulla da temere. – lo incitò. Arthur entrò anche lui, lo sguardo allucinato che esplorava quel territorio così familiare e allo stesso tempo così diverso. La cucina era stata trasformata, non radicalmente come il resto del locale, però era diversa. Era come entrare nella propria vecchia scuola elementare e pretendere che i cartelloni nelle classi siano rimasti gli stessi. Buona parte dei fornelli era al suo posto, per non parlare del piano da lavoro, anche se erano state aggiunte delle friggitrici, delle griglie e molti timer sopra di essi. Il frigorifero era ancora lì. Arthur vi si avvicinò, tentennante, e lo aprì con uno scatto violento: dentro era pieno di carne. Blocchi di carne intera o macinata, bacon, salsicce, cotolette, carne fredda che in quel momento non aveva odore né sapore, come fosse stata di plastica. Un po’ nascoste c’erano le salse e le uova, nello scomparto più basso c’erano le verdure. Arthur restò qualche secondo a fissarla, imbambolato. I ricordi pungevano, senza misericordia. Ricordi di una vita passata che tentava di resuscitare. Accanto al frigo notò una scatola di cartoncino che riconobbe anche attraverso la nebbia che offuscava la sua mente, sorrise nel vederla perché sapeva cosa significasse quel tipo di scatola in quel luogo, specialmente in quel momento. Ora, però, non era tempo di chiedere spiegazioni: c’era altro a cui pensare.
− Ehi, vieni un po’ qua .
Fu scosso dal suo torpore da Alfred che lo chiamava, inginocchiato dall’altra parte della cucina, vicino a un grosso cassetto aperto per metà. I suoi occhi brillavano. Stava indicandone il contenuto con uno sguardo cospiratore.
Arthur richiuse il frigo e si avvicinò, il cuore che aumentava il suo battito mano a mano che percepiva cosa stesse per mostrargli il ragazzo.
− Li ho tenuti apposta per te, perché in fondo sapevo che un giorno saresti tornato. Ci avevo visto bene, eh? Ora sei qui, infatti. – disse Alfred, orgoglioso.
Dentro al cassetto c’era un set completo di stoviglie dall’aspetto più che professionale, quasi aristocratico nelle loro forme definite: palette, coltelli di svariate misure, mestoli, una mannaia, spatole, tutti di metallo splendente. Arthur posò delicatamente le dita su ognuno di essi, accarezzandoli piano, mormorando qualcosa d’incomprensibile.
− Si vede che è roba professionale. Avrei potuto venderla, non l’ho fatto. – Alfred alzò le spalle, arrossendo quando si rese conto di quanto suonasse ingenuo con quella frase – Ѐ acciaio inox, quello?− Acciaio. Sì. – bisbigliò Arthur. Prese una spatola, la girò tra le dita. Sorrise.
− Questi sono i miei amici – mormorò – Guarda come luccicano... guarda come brilla, come sorride alla luce! Amico mio, mio fedele amico!
Il suo sguardo si era fatto strano.
− Parlami, amico – sibilò, le labbra che sfioravano il metallo come per baciarlo – Sussurra, io ti ascolterò. – Si alzò dalla sua postazione e prese a girare per la stanza, come in un valzer. Alfred lo fissava mentre un brivido gli correva giù per la schiena: la scena era surreale, in un certo senso terrificante. Arthur non sembrava in sé. Continuava a parlare alla spatola.
− Lo so, lo so. Ti hanno rinchiuso, nascosto alla vista per tutto questo tempo, come me, amico mio! Ma ora sono tornato a casa... −
Adesso basta. Alfred si alzò anche lui, deciso a mettere fine a quel monologo pazzesco, si avvicinò alle sue spalle senza però avere il coraggio di sfiorarlo. Aveva paura della sua reazione. Arthur, se si era accorto della sua presenza, non lo diede a vedere.
− ... e vi ho trovati ad aspettarmi, a casa... ora siamo insieme e faremo meraviglie, non è vero? – Arthur tremava. Arthur era diventato pallido come un morto. Arthur sorrideva.
E l’intera composizione era fuori da questo universo.
Alfred si decise ad avvicinarsi ulteriormente alle spalle dell’altro: notò che lo superava in altezza di almeno mezza testa e l’inglese era molto più gracile rispetto a lui. Se avesse dato di matto avrebbe potuto fermarlo senza difficoltà... giusto? Ma è proprio questa la cosa brutta dei matti, che non esiste preavviso o legge del più forte, esiste solo l’istinto e ora l’istinto diceva ad Alfred che in quel determinato momento, in una colluttazione, avrebbe potuto avere la peggio sebbene le premesse in generale dicessero il contrario.
Posò delicatamente le mani sulle braccia di Arthur, pronto a bloccarle nel caso ma senza voler dare l’impressione di imprigionarlo. Arthur lo ignorò anche in quel momento, anche se una piccola smorfia di fastidio gli increspò le labbra.
− Ehi, anch’io ti sono amico, non solo questi pezzi di plastica e ferro – tentò di dirgli Alfred, ma l’altro era perso nel suo mondo, gli occhi solo per i suoi attrezzi ritrovati. Si sentì male. Non era abituato a essere ignorato. Non era abituato a qualcosa di così affascinante e mostruoso come l’uscita di senno di un uomo davanti alla felicità più pura, di essere tornato dai suoi “amici”. – Ma che cazzo, non sono esseri umani, non ti rispondono mica, lo vuoi capire? – urlò, in preda all’esasperazione.
Arthur si girò finalmente, il volto stravolto da un sentimento che non avrebbe compreso nessuno se non lui, gli occhi di brace. − Lasciami – ringhiò.
Alfred indietreggiò di un passo. Arhur tornò al cassetto e si abbassò per riporre la spatola. – Ora riposa, amico mio. Presto vi farò uscire di qui. Presto conoscerete splendori mai sognati in tutta la vita, miei fortunati amici.
− Ora noi due siamo amici. – mormorò Alfred.
− Fino ad ora il vostro luccicare era semplice acciaio – disse Arthur, rivolto al set di coltelli, afferrandone il più lungo. – Gronderete rubini, amici... presto gronderete preziosi rubini... −
Alfred rimase muto. Arthur si rialzò con il coltello in mano, osservandolo con la stessa ammirazione che si ha per un figlio appena nato.
Sollevò il braccio che maneggiava l’arnese e lo alzò verso la luce che entrava da una finestrella in alto, in fondo alla stanza, facendolo brillare. Esplose in una risata.
Finalmente – urlò – il mio braccio è di nuovo intero!
Restò per una decina di secondi a fissare la lama splendente in una sorta di trance divinatoria. Poco alla volta la luce malata nei suoi occhi si acquietò e il braccio si abbassò lentamente, come il suo capo. Quando lo risollevò, la sua espressione era di completo disorientamento.
− Perché ho fatto tutta questa manfrina? – domandò.
− E lo domandi a me, vecchio bislacco? – sbraitò Alfred, senza riuscire a credere a ciò che stava vedendo. Arthur fissò il coltello e lo ripose in fretta nel cassetto insieme agli altri, come se si rendesse conto solo in quel momento di averlo tenuto in mano. Sembrava uscito da un sonno profondo.
− Scusami, ti ho spaventato? – chiese, usando un tono insolitamente dolce. – Mi sono fatto prendere dall’emozione... come il primo giorno in cui sono tornato, già. – Ridacchiò senza allegria. – Ho fatto una scenata simile anche con Toris e anche lui aveva la tua stessa espressione, come se fossi appena uscito dal manicomio. Deve essere per colpa di questo improvviso ritorno... mi ha come scombussolato il cervello. Eh eh.
− Ci credo – borbottò – A proposito... mi pare che tu abbia nominato anche ieri questo Toris. Scusa se mi impiccio, ma chi è? Un tuo familiare?
− Ѐ uno studente che vive con me durante l’Erasmus. – Arthur sorrise orgoglioso, come un talent scout che abbia trovato una possibile futura star. − Ѐ davvero un bravo ragazzo, proviene dalla Lituania ma il suo inglese è eccellente. Adesso sta cercando un lavoretto per pagarmi l’affitto e nel frattempo mi dà una mano. Davvero, davvero un bravo ragazzo.
Annuì, tanto per riconfermare la sua affermazione. Alfred lo guardò storto, le sopracciglia corrucciate in un’espressione dubbia.
− E gli avresti fatto una scena simile? Com’è che non ha ancora levato le tende?
Il volto di Arthur s’infiammò di rabbia e lui ringhiò, stringendo entrambi i pugni all’altezza dei fianchi: − Come ti permetti...
Alfred rise. Non voleva ammetterlo, ma era sollevato: Arthur era tornato quello di prima, irascibile, certo, ma almeno non pazzo. Di instabili mentalmente ne conosceva anche lui un esemplare, quindi ormai si riteneva un po’ esperto in merito. Specie nel riconoscere un lato folle dietro un sorriso dolcissimo, avrebbero potuto dargli un attestato.
Intanto Arthur aveva riacquistato un ghigno cinico che gli curvava le labbra.
− Lo sai perché non ha levato le tende? Perché non ha nessuno posto dove andare in alternativa.
− Aaah, poveraccio, non vorrei essere nei suoi panni, dover pagare per vivere con te! Beh, d’altro canto, i soldi non crescono sugli alberi e se c’è qualcuno che può permettersi di fare la carità questo sei tu, non io. Come si dice? Noblesse oblige.
Ora era davvero troppo. Era arrivato il momento di dare una lezione a quel ragazzino impertinente.
− Già. In effetti, da bravo “nobile”, come definisci, ho già adempiuto al mio dovere. Ho dato un posto dove vivere a te – replicò Arthur. Il ghigno affondò nelle sue guance, trasmise un lampo smeraldino agli occhi.
− Eeeeeh? Che intendi? – faceva il finto tonto, quel bastardo.
Arthur guardò lo dritto negli occhi cerulei: − Toris desidera ricevere uno stipendio per poter pagarmi l’affitto. Tu, invece, – puntò l’indice sulla maglietta dell’altro, – non devi pagare niente a nessuno, vero? Hai un bel posticino tutto tuo, dimmi se mi sbaglio.
Alfred raggelò, per poi smorzare la rigidità con una nuova risata, meno sicura del solito.
− C-certo! A-altrimenti come potrei venire qua tutti i giorni... se intendi che con questo fast-food sono riuscito a procurami un tetto sulla testa, non posso darti torto, ah ah! Ehm...
Indietreggiò di rimando quando Arthur gli si avvicinò, gli occhi verdi splendenti come quelli di un predatore.
− Non fare il furbo con me, ragazzino – lo ammonì – Conosco il tuo piccolo segreto.
E Alfred capì di essere stato messo con le spalle al muro.
Abbassò leggermente la testa, senza rompere però il contatto visivo: aveva intuito che cosa stesse insinuando l’altro. Arthur sapeva e non valeva la pena raccontargli frottole se non per aggravare una situazione già abbastanza delicata.
Aveva fatto l’incredibile (e fortuita) scoperta un anno prima, una vita prima.
Da quando aveva preso in carico il locale, Alfred era incappato in una piccola porta nascosta in fondo alla cucina, dipinta di bianco come le pareti e perfettamente mimetizzata. Lui, spirito avventuriero, non ebbe alcuno scrupolo: la curiosità aveva la meglio su ogni altra logica.
Aperta la porta, si scopriva una lunga e stretta scala di legno, senza corrimano, racchiusa tra due muri illuminata solo da una piccola lampadina penzolante sul primo scalino. La luce non raggiungeva la fine della scala, lasciandola in ombra. Da bravo esploratore qual era non aveva aspettato due secondi a percorrerla, rischiando di rompersi l’osso del collo quando la lampadina pensò bene di esplodere e lasciarlo nel buio completo a metà percorso. Dovette affidarsi al senso del tatto e moderare la velocità, suo malgrado.
Arrivato all’ultimo scalino, raggiunse una seconda porta (se ne accorse perché andò a sbatterci contro il naso, non c’era un pianerottolo). Tastando con le mani trovò la maniglia e legata ad essa una busta di carta. La porta era chiusa a chiave.
Aveva preso la busta e, con non poca fatica, l’aveva portata giù da basso, dove l’avrebbe potuta aprire con calma. Dentro c’era un messaggio.
Complimenti a chiunque sia riuscito a scovare il passaggio segreto, vuol dire che l’attività è stata ceduta e con essa il locale che si trova nascosto. Ricorda, caro successore: solamente chi sarà in grado di trovare la chiave di questa porta e quindi aprirla, diverrà proprietario di ciò che si trova al di là di essa”. La chiave, ovviamente, si trovava da qualche parte nell’ex ristorante. Preso da un’indicibile foga, Alfred la cercò dappertutto, ma nonostante avesse messo a soqquadro lo stabile non la trovava.
“... solamente chi sarà in grado di trovare la chiave di questa porta e quindi aprirla, diverrà proprietario di ciò che si trova al di là di essa...” e la pazienza di Al s’esauriva a vista d’occhio.
A un certo punto si ruppe i coglioni e mandò al diavolo la chiave scegliendo la via più semplice: sfondò la porta con un calcio.
Per essere aperta era aperta, ora.
L’americano lanciò un’occhiata all’interno, aspettandosi forse di trovare la grotta di Alibabà. Esso invece nascondeva un minuscolo appartamento, una dimora composta da tre stanze: camera da letto, bagno con doccia e la zona giorno con un divanetto e tv. Il tutto molto spartano, ma niente male per qualcuno che si deve arrabattare per trovare un posto dove dormire che non gli prosciughi i guadagni solo per pagarne l’affitto. Fu così che Alfred decise di trasferirsi lì.
Il giovane i giorni successivi ebbe il suo bel daffare nell’arredare il posto secondo i suoi gusti, gusti discutibili certo, ma non pensava che nessuno lo avrebbe scoperto. Fino a quel giorno.
− Vivi nel monolocale al piano di sopra, vero? L’ho fatto fare apposta per me quando c’era bisogno del mio intervento fin dalle prime ore del mattino al ristorante, un rifugio d’emergenza. Hai trovato la chiave per aprirlo, bravo. – Arthur batté lentamente le mani in un gesto più scettico che ammirato.
Veramente Alfred la chiave l’aveva trovata due mesi dopo, nascosta nel reparto verdure sott’olio della dispensa dell’ex-ristorante. Nel frattempo aveva dovuto far riparare la porta, ma preferì limitarsi ad annuire per non fare imbestialire ulteriormente l’inglesino.
− Come hai fatto a capire che vivo qua? – domandò, incrociando sospettoso le braccia.
− Oggi quando ti ho chiamato avevi il tono di chi è appena sceso dal letto, erano le nove e mezza e stavi rispondendo dal numero del locale. – Arthur teneva il conto sulle dita degli “indizi”. − Hai chiesto che venissi mezz’ora dopo invece di un quarto d’ora, per poterti rendere presentabile e magari mettere qualcosa sotto i denti. Visto il tuo fisico si può dedurre che sei uno che non salterebbe un pasto neanche se dovesse arrivare in ritardo all’appuntamento della vita.
− Ok, Sherlock Holmes, ma questo non significa nien...
−... oh, e poi ho trovato una scatola aperta di Lucky Charms vicino al frigo. Dubito siano l’ingrediente segreto della salsa speciale, eh, razza d’ingordo!
Alfred arrossì. Maledizione, galeotti furono i cereali. – Ok, mi hai sgamato. Hai intenzione di punirmi per questo?
− Certo che no, idiota! – Arthur agitò la mano davanti al volto, come se lo perdonasse dall’alto della sua posizione. Va in pace, giovane, un Padre Nostro e dieci Ave Maria sono sufficienti per redimerti della tua imbecillità. − Altrimenti non avrei lasciato quel messaggio, no? Solo dovresti, magari, essere un po’ più ordinato con le tue cose. Anzi, senza il magari. Devi essere più ordinato.
Alfred mise il broncio, portando le mani sui fianchi e voltandosi verso il cassetto di prima.
− Io sono stra-ordinato! Solo con alcune cose, ma lo sono! Non mi hai neppure ringraziato per aver tenuto la tua roba da parte, ben in ordine vorrei aggiungere.
Indicò il cassetto e poi Arthur, quindi di nuovo il cassetto: − Tutto quello che hai fatto è stato vaneggiare su quanto quei cosi siano tuoi cari amici e quando mi sono avvicinato mi hai scacciato come un cane rabbioso. Bella gratitudine!
Stavolta fu Arthur ad arrossire, ricordando la strana sensazione di trance provata quando aveva ripreso in mano i vecchi strumenti, così simile a quando era tornato a casa. Solo che stavolta le circostanze avevano una persona in più coinvolta e questo rendeva le cose più complicate. Non era abituato... anche se la sensazione non era così spiacevole. Quando si passa la maggior parte della propria vita da soli o impegnati in litigi con gli altri, ci si scordava cosa volesse dire avere un rapporto non bellicoso con un altro essere umano. Toris non c’entrava. Toris era solo l’alibi dove si nascondeva il vero motivo del suo ritorno a Londra.
− Io... perdonami. Per me è strano definire una persona “amico”.
− Penso che questo valga anche per le altre persone con te, col caratteraccio che ti ritrovi.
Arthur ingoiò un po’ di bile che era risalita su per la gola e lo ignorò.
− Volevo dire che... se tu vuoi un amico... ecco... non so come dirlo... posso esserlo io. – mormorò, cercando di apparire più distaccato possibile. Non suonò molto credibile.
Alfred lo fissò per qualche secondo, come se stesse cercando di capire se scherzasse o meno. Arthur si domandò se non avesse fatto la figuraccia del secolo.
Quegli attimi di tensione furono spezzati dalla fragorosa risata di Alfred.
− Ma per carità! Chi è che vorrebbe essere amico di un bisbetico tuo pari? – lo canzonò, asciugandosi una lacrima da dietro gli occhiali.
− Va al diavolo, idiota di uno yankee. – ribatté Arthur, fingendosi offeso ma sorridendo anche lui. Alfred scosse la testa, ridacchiando. − A parte gli scherzi, negli affari non esistono amici, soltanto soci. Comunque, che ne dici allora? Diventiamo soci?
− Ma allora sei proprio un moccioso avventato! Già ieri mi hai assunto senza pensarci un attimo, ora mi proponi di diventare questa cosa? Non sai neanche come me la cavo, in cucina! Se continui così finirà che chiuderai entro un paio di mesi.
Non l’avesse detto.
Prima che se ne fosse reso conto, Alfred lo aveva preso per un braccio e lo trascinava con la delicatezza di un orso grizzly davanti ai fornelli, neanche camminando decentemente ma saltellando. ­ ­‒ Va bene, allora, vediamo cosa sai fare! Stupiscimi, lasciami a bocca aperta, Mr K! – strillò entusiasta – Sono curioso di sentire la cucina del famoso chef!
Arthur lo guardò, poi guardò i vari fuochi, il frigorifero, il piano da lavoro per metà occupato da strani aggeggi e tutto un tratto si sentì come davanti a un esame. Era un misto di nervosismo ed eccitazione, voleva farsi valere.
– D’accordo! Lasciami la cucina a disposizione e avrai un piatto degno di un re!
Alfred annuì, soddisfatto. – Io resto qua a vedere cosa combini.
– Uhm, no, meglio se aspetti di là, sai, sennò mi metti ansia...
Alfred gonfiò le guance come un bambino capriccioso. – Ma così mi annoio!
– Oh, ma ci metto poco, tranquillo. Sono uno chef, io.
Così Alfred acconsentì con uno sbuffo e lo lasciò da solo.
Passarono dieci minuti. Passò un quarto d’ora. Venti minuti. Mezz’ora. Un’ora.
Niente usciva dalla maledetta cucina.
Alfred, che in genere non avrebbe aspettato neanche dieci minuti, abituato com’era al “cibo veloce”, irruppe come un toro sbraitando: – Allora! Ti sei messo a stagionare il formaggio? A frollare la carne sotto la sella di un cavallo come gli antichi Unni? Perché diavolo ci stai mettendo così tanto?
– Calma, calma, ho quasi fatto – rispose Arthur con una tranquillità esasperante, chino su un piatto colmo di roba. – Un ultimo pizzico di sale... Vai! Finito!
Si girò esultante verso Alfred, esibendo un piatto di carne e verdura immersa in un sugo rossiccio. Alfred lo osservò, incuriosito. – Cosa sarebbe? – domandò.
– Stufato con patate arrosto e verdure saltate. Assaggia, ti prego. – Gli occhi gli brillavano come stelle: se non fosse stato la versione bionda del Grinch avrebbe potuto anche ispirare tenerezza. Andarono nel salone; Arthur sistemò il piatto con la forchetta e un tovagliolo di plastica su uno dei tavoli e fece accomodare l’altro.
“È così gentile, improvvisamente, non sembra neanche l’essere pieno di rabbia che è venuto ieri sera. Non so se la cosa sia buona o no” pensò il ragazzo con un pizzico di cinismo, agguantando la forchetta e gettando un ultimo sguardo verso il cuoco, per poi partire col primo boccone.
La carne unta aveva un sapore dolciastro e metallico come fegato. Le patate erano mezze crude, difficilissime da masticare, alcune terribilmente salate e altre insipide. Le verdure, non meglio specificate, non sapevano di nulla ed erano mollicce come cibo per vecchi senza denti. Rimase con la bocca piena, gli occhi spalancati e il cervello che aveva preferito mettersi in stand-by per qualche secondo pur di non comandare ai suoi muscoli di rigettare tutto. Dopo qualche secondo di pausa riuscì a trovare il coraggio di masticare il composto e mandarlo giù. Dio che fatica. Quell’inglese maledetto non aveva messo neanche una lattina di soda per cancellare il saporaccio dalla bocca, l’aveva previsto, eh? Dannato. Forse voleva vendicarsi per gli hamburger di ieri e questo era una specie di scherzo.
Alzò nuovamente lo sguardo verso Arthur, pronto a riempirlo d’insulti ma si bloccò.
Arthur lo stava fissando già da un po’, lo sguardo talmente languido da poter essere facilmente frainteso a uno sguardo esterno. – Allora? Ti piace? – chiese dolcemente.
Alfred rimase muto. Se avesse detto la verità, ovvero che il suo piatto faceva assolutamente schifo, probabilmente gli avrebbe riversato una caterva d’insulti. E con questo? Non era una femminuccia, avrebbe risposto a tono.
Quello che lo tratteneva era il ricordo del discorso della sera prima, quando, in lacrime, Arthur gli aveva confessato la sua umiliazione, di come si era sentito ferito nel profondo. La rivelazione di non essere bravo in cucina era arrivata per lui come lo strappo improvviso di un cerotto, senza preavviso, senza neppure la consolazione di un amico che smorzasse il dolore. No, quel tizio non aveva amici, lo si poteva vedere a colpo d’occhio, ma forse in quel momento anche la minima parola di conforto sarebbe stata utile. Invece era arrivata un’ulteriore umiliazione, ovvero il fallimento di quello che era il suo ristorante, ulteriore prova della sua incapacità. Tutto era accaduto così in fretta... qualcosa di cui non si sarebbe mai aspettato. E allora era successo qualcosa che aveva visto in tanti film horror, quella cosa psicologica in cui si dimenticano i traumi o i ricordi troppo brutti, salvo ripristinarli con conseguenze terribili in seguito a certe situazioni, come si chiamava? Negazione? Rimozione? Ma Arthur non era il cattivo di un film horror. No, poteva sembrare un po’ tocco ma non sarebbe andato a recuperare il coltellaccio nel cassetto in cucina se gli avesse detto la verità. Giusto?
Doveva ignorare quello sguardo, lo metteva a disagio per più di un motivo.
Ingoiò un po’ di saliva, disgustato nel costatare che aveva il sapore dello stufato e si decise.
– Senti, te lo devo dire, sarò sincero. Questa è la cosa più schi...
Fu interrotto dallo squillo del cellulare. Sia lui che Arthur guardarono verso la tasca di quest’ultimo.
– Chi è a quest’ora? – domandò Alfred. Si sentiva stranamente sollevato da quell’imprevisto.
– Non saprei... ah, è Toris! Ma che vorrà? Pronto, Toris!
Alfred, approfittando della distrazione di Arthur che parlava al telefono, prese il piatto e si diresse verso la cucina, intenzionato a buttarlo nella spazzatura prima che lui lo vedesse. Non ci riuscì.
– Dove vai? Ah, bravo lo vuoi mettere in frigo per mangiarlo dopo? Ricordati di ricoprirlo con la carta stagnola, sennò l’odore si mescola a quello degli altri alimenti! – disse Arthur, tenendo scostato l’apparecchio dal volto e guardandolo mentre lui si era bloccato a mezzo passo dalla porta della cucina. Ancora quello sguardo smielato. Un brivido corse lungo la schiena di Al nel riconoscere che quando non era incazzato l’inglese facesse addirittura tenerezza. Il pensiero, comunque, ebbe la durata di un battito di ciglia.
– In frigo? Ah, c-certo! Proprio quello che avevo intenzione di fare... – rispose con un sarcasmo che l’altro non percepì. Era tornato a parlare con Toris.
– Pronto? Sei ancora lì? No, è che stavo parlando con... sì, sì. Gli ho preparato qualcosina per testare le mie capacità... ma è ovvio che gli sia piaciuto! Almeno credo... Alfred?
Ma lui era già scomparso.
– Niente, va là, comunque stava per dirmelo quando mi hai telefonato. È rimasto mezzo minuto buono a gustarselo, quindi ho fatto colpo! Mi sei sembrato tu la prima volta che ti ho preparato la cena! A proposito, tra poco è ora di pranzo, che dici di venire qua? Siamo in Fleet Street. Ah, hai ancora lo scontrino, bene, comunque se vedi una scritta al neon “The Eagle” bella grande al di sopra della porta del locale, ecco, è quello. Lo so che abbiamo appena fatto la spesa, ma penso tireremo per le lunghe e sai che non voglio che tu vada in cucina senza di me. – Ridacchiò, l’animo leggero come quello di una ragazzina. – Chissà, magari convinco Alfred a offrirti un panino gratis! Ciao, ci vediamo tra poco allora. –
Come richiamato da un radar, Alfred riapparve nel salone a velocità incredibile, un luccichio sinistro negli occhi azzurri amplificato dagli occhiali.
– Ehi, ehi. Cos’è che hai detto? – sibilò tra i denti – La parola gratis qui non esiste neanche per scherzo. Neanche per i poveri studentelli che non hanno i soldini, perché io per primo non ho soldi per certi favori. Digli di farsi un uovo sodo se ha fame.
Arthur rimise il cellulare in tasca, scuotendo il capo. – Non può.
– Perché? È così negato da non riuscire neanche...
Arthur lo interruppe, la voce ferma e lucida di chi dice cose assurde credendoci nel profondo. – Non può perché gli ho vietato di entrare in cucina da solo. Devo esserci io a controllarlo che non faccia danni.
Alfred rimase muto, con la bocca spalancata, a fissarlo. O Toris era un caso peggiore di Arthur ai fornelli, cosa umanamente poco credibile, oppure quell’uomo era davvero pazzo.
E dopo quella giornata sapeva cosa scegliere tra le due opzioni.
– Danni tipo cosa? Tipo trovare una porta segreta nascosta nel muro che conduce a un appartamento nell’appartamento, come è successo con quella del ristorante? Andiamo!
Arthur divenne rosso come un peperone ma si contenne; quel moccioso ci andava quasi vicino, senza saperlo. Prese una forte boccata d’aria e raddrizzò le spalle: – No, brutto idiota, tipo rovinare le pentole cercando di fare qualche piatto esotico. Non che finora sia successo, ma non si sa mai, chiamala paranoia, io la chiamo prudenza. Potrei dire che fa da aiuto-chef.
Alfred scosse la testa. Quindi quel povero ragazzetto doveva sorbirsi ogni volta i suoi piatti, e se erano tutti come quello che aveva appena assaggiato... Rabbrividì al pensiero.
– Comunque volevo specificare una cosa, Kirkland.
– Dimmi.
– Prima hai voluto farmi quello stufato per provare che sei il meglio del meglio della cucina inglese e ok. Ma qua si fanno hamburger. Splendidi, favolosi, succulenti hamburger. O impari a farli o qua non ci resti se non per pulire i pavimenti e i tavoli, d’accordo?
Era serio e il non sentire la sua risata, seppure fastidiosa. dava un certo disagio.
– Va bene... – rispose Arthur, pensando che per una volta poteva abbassarsi a fare quello che gli chiedeva. Col tempo avrebbe ripreso le redini, ma ora il capo era l’americano.
Alfred allora tornò al suo smagliante sorrisone e annunciò, tornando verso la cucina: – Stupendo! Allora s’inizia a lavorare insieme, mia cara spalla!
Arthur sussultò, irato: – Ehi, un momento, spalla a chi? Chi ti credi di essere, un supereroe dei fumetti?! Rispondi, razza d’idiota!
Ed entrambi sparirono in cucina.
 
*  *  *
 
– Bel locale. Molto... scenografico, non c’è che dire – commentò Toris, prima di bere un sorso di Seven-up. Alfred annuì, Arthur sbuffò.
 
Toris era appena entrato nel locale quando Alfred gli si era quasi buttato addosso, facendolo sedere a una delle seggiole e tuonando: –  Ciao, benvenuto al “The Eagle”, il fast food più stelle e strisce della City! Io sono Alfred! Che ti porto di buono? Vuoi qualcosa da bere? Ti porto una Coca, va bene? Abbiamo una vasta scelta di panini, come vedi... ehi!
– Piantala, imbecille, o penserà che lavoro con un maniaco. – gli bisbigliò Arthur, trascinandolo via dallo spiazzato ma piuttosto divertito Toris. Alfred lo fulminò con lo sguardo. – Pensa per te, che lo controlli manco fosse un moccioso di due anni!
– Invece tu ti comporti come un moccioso di due anni!
– E tu come un vecchio di settanta!
Stavano litigando sottovoce quando una voce dolce li zittì.
– Sa-salve! Lei è Mr Jones, giusto? Ѐ un piacere conoscerla, il mio nome è Toris. Mr Kirkland mi ha parlato di lei, è molto contento di essere stato assunto.
Sia Alfred che Arthur si girarono verso Toris, come se si fossero appena ricordati della sua presenza. Ad Alfred passò una lama di luce sugli occhiali.
– Piacere mio. Comunque... – alzò un sopracciglio, un mezzo sorriso gli increspò le labbra. – Cosa avrebbe detto Mr Kirkland di me?
Il ragazzo arrossì leggermente, come colto in fallo. – Beh, ha detto che era giovane... e intraprendente... e che voleva sapere la mia opinione sui panini per riferirglielo oggi. A proposito, erano buoni.
Alfred ridacchiò, un’ombra rosata gli aveva colorato le guance. – Oh, grazie mille. Se ne vuoi uno te lo preparo in un batter d’occhio. Tu, Arthur, rimani pure qua, torno subito.
Quando se ne fu andato, Toris rilassò il corpo teso come una fune.
– Mi sembra una persona onesta. Sono davvero felice per lei, signore. E riguardo la cosa per cui l’ho chiamata poco fa...
– Sì, stavo appunto per domandarti. – Arthur si sedette al tavolo del ragazzo, un sorriso paterno gli curvò le labbra. − Allora, hai detto che qualcuno ha risposto alla tua offerta di lavoro?
– Sì! Mi ha mandato un’e-mail un’ora fa. Sta cercando un tuttofare che lavori in casa sua, ha fissato un colloquio per le tre, in Snow Hill 10. Ho controllato, non è lontano da qua né da casa! Nel caso ottenessi il posto non avrei problemi di trasporti, perché ci arriverei a piedi! Molto comodo, non crede? – A Toris brillavano gli occhi, sembravano due gemme verd-azzurre. – Anche se lo stipendio non mi aspetto sia granché, sono pazzo di gioia all’idea di aver trovato finalmente un lavoro!
– Stupendo. Te l’avevo detto che ci saresti riuscito, sono fiero di te.
Alfred tornò dalla cucina con due mega panini, una lattina di Seven-Up (la Coca era al momento terminata) e un bicchierone di granita celeste con inserita una cannuccia. Sul bicchiere c’era scritto “Jolly rancher”.
What’s up, men? – domandò.
– Toris ha trovato lavoro. – disse Arthur, battendo il palmo della mano sulla spalla del ragazzo.
– Beh, a dire il vero è tutto ancora da decidere... devo ancora fare il colloquio. – replicò timidamente lui.
– Oh che bello! Auguri, Toris! Questo merita un brindisi – e Alfred alzò il suo bicchiere di granita come se fosse stato una coppa di spumante.
– Certo che avresti potuto portare qualcosa anche a me, costava tanto? – borbottò Arthur. Al prese una rumorosa sorsata e replicò: – Puoi andare a farti un panino anche adesso, se vuoi, intanto io e Toris facciamo due chiacchiere. – Strizzò l’occhio all’altro, le cui guance tornarono rosee di timidezza. Arthur sbuffò, alzandosi dal suo posto.
– E sia. Occhio, che non ti stanchi troppo tu a star lì seduto, eh.
– Tu invece non metterci di nuovo mezz’ora per cucinare un semplice hamburger.
Arthur si allontanò mugugnando tra sé e i due rimasero soli. Alfred mordicchiò la cannuccia, imprecando sottovoce contro quell’essere impossibile. Alzò gli occhi verso il ragazzo con i capelli castani e gli venne da sorridere notando quanto il suo sguardo fosse limpido. Aveva ragione il vecchiaccio a definirlo un “bravo ragazzo”, dava proprio questa impressione. “Fortunato chi se lo piglia” pensò, prima di cominciare a chiacchierare.
– Allora, come si sta a vivere con quel vecchio orso? So che siete coinquilini. Non t’invidio per niente.
Toris si strinse riluttante la testa tra le spalle, le gote rosse come pomodori. – Non è male, cioè... – il rossore si accentuò – Bisogna sapere come prenderlo. In fondo è una brava persona, anche piuttosto interessante direi. Certo, ha le sue manie...
– Come quella della cucina in cui non puoi andare da solo? L’ho appena saputo, poco assurda come cosa, eh.
Toris sospirò. – L’importante è che lui non ci vada da solo.
Alfred prese un altro sorso di granita, annuendo. – Povero... posso capirti, oggi mi ha fatto assaggiare uno stufato che neanche i cani avrebbero mangiato.
– Oddio... quello di poco fa? E gli ha detto che non le piaceva? – Toris sbiancò. Alfred scosse la testa.
– Stavo per dirgli che faceva schifo ma è arrivata la tua telefonata sul più bello.
Toris si lasciò andare sulla seggiola, evidentemente sollevato. – Meno male, quell’uomo è di una permalosità incredibile, chissà come avrebbe reagito. Non vorrei essere stato nei panni di quel giudice culinario che lo ha criticato.
– Ah? Ti ha parlato di Francis?
Toris annuì, la voce abbassata come se Arthur potesse sentirli. – Non mi ha mai detto il suo nome, ma è chiaro che ci riferiamo alla stessa persona. Lo ha definito “un viscido smorfiosetto abituato all’arrosto di colibrì”, ma non ne so granché perché ogni volta che vado anche solo vicino all’argomento, lui diventa scuro in viso e mi dice “lascia perdere”. A parte questo, vedo che ci mette tutto l’impegno di questo mondo nel cucinare, anche se i risultati sono mediocri. Di questo gli devo rendere merito. Ha sofferto molto quando ha dovuto lasciare questo posto, tornarci per lui è un miracolo.
– Lo so. Ma non dovremmo dirgli la verità, anche se dolorosa? Si rischia di prolungare semplicemente qualcosa di già segnato. Dirgli che il suo cibo è buono anche se non lo è, non fa di noi degli ipocriti?
Noi. Anche Alfred aveva dei dubbi su come comportarsi a riguardo, a quanto pare.
– Ipocriti... non la vedrei così. Sempre meglio di dire a bruciapelo cose che lo farebbero solo star male, no? – Toris alzò i palmi delle mani al soffitto, come se la risposta potesse scendere dall’alto. − Di certo questa tattica non ha funzionato, un anno fa. Proviamo con l’incoraggiarlo, magari se ne renderà conto da solo, un giorno. Mi dispiacerebbe vederlo soffrire, fosse anche per essere stati troppo sinceri.
Entrambi sospirarono, sconfortati.
– Toris?
– Sì, Mr Jones?
– Non parliamone più. Mi è quasi passata la fame.
 
In cucina, intanto, Arthur stava parlando con uno gnomo.
– Chi ben comincia è alla metà dell’opera, quindi posso definirmi più che soddisfatto di come stanno andando le cose! – annunciò l’inglese, schiacciando un grosso pezzo di macinato parzialmente surgelato con le piccole asperità del pesta carne – Se continuo così, potrò fargliela a pagare a Francis prima di quanto se lo aspetti!
Lo gnomo annuì di rimando. – E dopo esserti vendicato cosa farai?
– Non lo so. Intanto devo stare attento a non farmi beccare.
– Ce l’hai davvero così tanto con lui?
Arthur si bloccò. Il respiro si fece più rauco, la voce si abbassò. – Sì. È tutta la vita che mi sfotte, per un motivo o per l’altro. Ha superato il limite.
– Saresti capace di fare qualcosa di estremo? Potresti arrivare ad ucciderlo?
Arthur respirò a fondo. Quella domanda aveva fatto riacceso le fiamme nel suo cuore, attanagliandolo, strangolandolo. Riuscì a bisbigliare con un filo di voce sottile come la lama più tagliente: – Sì. Credo... credo di sì. È un anno che ho in mente questa cosa, come un tarlo che mi rode il cervello giorno e notte – un colpo sulla carne, – Quel bastardo deve pagare – un colpo più forte, – Pagare definitivamente.
– Non crucciarti troppo! L’importante è la tua serenità. Intanto hai di nuovo il tuo lavoro, nel tuo ristorante... anche se adesso ha una nuova forma, diciamo. E addirittura i tuoi arnesi! Per il momento puoi definirti felice, no? – disse una delicata voce femminile. Una splendida fatina stava parlando seduta vicino al frigorifero, le gambine nude dal ginocchio in giù si muovevano a scatti.
– Lo sono. Felice come un bambino a Natale.
La fatina lanciò uno sguardo perplesso al frigo accanto a lei.
– Il tuo stufato è quasi intatto. Sicuro che sia piaciuto?
Arthur spiaccicò la polpetta sulla piastra. – Eccome. Alfred è troppo disinibito per non dirmi se non fosse stato di suo gradimento.
– E se te lo avesse detto, avresti ucciso anche lui? No, vero? Perché lui è tuo amico. E anche per questo ha preferito non dirti che non gli è piaciuto – il tono della fatina si era fatto per quanto possibile severo. Un tocco amaro aleggiava nelle sue parole.
Arthur sospirò pesantemente. – Non è un “amico”. È un socio. Un alibi, come Toris. Non avrebbe avuto motivo di non dirmi in faccia una cosa simile.
Guardò con astio l’hamburger mezzo cotto. Lo girò. Si voltò e raggiunse il frigorifero in quattro passi netti, aprendolo di scatto ed estraendo il piatto avvolto dall’alluminio. Agguantò la prima posata che gli capitò a tiro, un cucchiaio di legno.
– Adesso lo assaggio io, vediamo chi ha ragione. – Si mise in bocca un bel boccone.
Fuck.
– A quanto pare faccio ancora schifo in cucina – mormorò con le lacrime agli occhi, rimuovendo l’hamburger dalla piastra e inserendolo tra due fette di pane, lo stufato che aveva fatto un volo sola andata nella pattumiera. Questo voleva dire solo una cosa.
Si sarebbe impegnato ancora di più, avrebbe imparato a cucinare piatti favolosi, ne avrebbe fatto mangiare uno a Francis, l’avrebbe costretto a dire che, una volta tanto, l’aveva superato
(fargli il culo era l’espressione che gli era venuta in mente per prima ma non era molto in sintonia col suo essere gentleman)
e allora, solo allora!, lo avrebbe ucciso. Dopo aver sentito da quelle labbra un apprezzamento sincero per una cosa in cui Francis era da sempre migliore di lui.
Dio, quanto lo desiderava.
 
Erano tutti e tre allo stesso tavolo e stavano mangiando i loro panini e chiacchierando.
Geez, Arthur, per forza si così magrolino! Guarda che panino smilzo ti sei fatto! – lo rimbrottò Alfred. Arthur squadrò il suo doppio cheeseburger-bacon-cipolla-cheddar-occhio di bue-altri ingredienti che non riuscì a riconoscere e ribatté: – Almeno io non rischio di prendere un infarto ogni volta che addento il mio pranzo. E poi, non so che diavolo ci fosse in quel frappé ma ti ha colorato la lingua di blu. È disgustoso.
Si girò verso Toris. – Tu hai l’appuntamento alle tre, giusto? Vuoi che ti accompagni?
– No, grazie, dovrei farcela anche da solo. Ma non è un po’ rischioso pranzare adesso? Metti che arrivi qualche cliente...
Alfred per poco non soffocò per le risate, un boccone gli era andato di traverso. Si batté sul petto per riprendere il fiato. – Mangia in pace, non c’è pericolo. Anzi, quel panino è gratis e pure la bibita.
– Davvero? Grazie, Mr Jones! Troppo gentile!
Arthur si avvicinò all’orecchio di Alfred e bisbigliò: – Scusa, ma non avevi detto che la parola “gratis” qua non esisteva?
– Sì, solo che lui mi sta simpatico e il suo pranzo lo scalo dal tuo stipendio, infatti. Non eri tu quello che voleva offrirglielo? – rispose sottovoce l’altro. Dannazione, quando si trattava di fregare la gente aveva la memoria di un elefante. Toris, intanto, aveva finito il panino e si era alzato.
– Scusatemi – disse, abbassando la testa come per un piccolo inchino e lasciando che le ciocche scure gli nascondessero gli occhi. – Vorrei andare a casa e prepararmi, tra poco devo vedermi per il nuovo lavoro. Ci vediamo, Mr Jones! A dopo, Mr Kirkland!
– Ciao, Toris! – lo salutarono i due. Sorrisero, vedendolo uscire tutto eccitato.
Alfred divorò quel che restava del panino, e si pulì accuratamente le dita sporche di salsa.
– Sembrerebbe proprio un tipetto a posto, eh? – commentò, unendo i suoi rifiuti con quelli del ragazzo.
– Assolutamente. È serio, intelligente e un aiuto valido.
Alfred guardò Arthur negli occhi: non stava ridendo, né appariva serioso. Era qualcos’altro.
– “Intraprendente” – mormorò – È così che mi hai descritto a lui. Ti ringrazio di avermi definito così: ero convinto mi considerassi un idiota.
Arthur sentì le guance avvampare per la stizza. − Oh andiamo, non ce l’avrai ancora con me per prima!
Ma Alfred non ce l’aveva con lui: i suoi occhi erano luminosi come il cielo, le labbra tirate in un sorriso di gratitudine. – Grazie. – ripeté.
Arthur si voltò, pur di non incontrare quello sguardo strano.
– Ho solo detto quello che pensavo di te. Vedi di non smentirmi. – mugugnò.
Si alzò anche lui per portar via i piatti, quando Alfred gli domandò: – Toris ti ha detto chi gli ha offerto il lavoro?
Effettivamente, a pensarci bene, non l’aveva fatto. Arthur ricordava che gli avesse detto l’indirizzo, ma non il nome. “Snow Hill 10”. Qualcosa gli diceva che quella via non gli era nuova, ma non riusciva a collegarci alcun volto, soltanto un piccolo brivido, un segnale corporeo privo di consistenza.
– No, ma non credo sia importante. Su, puliamo ‘sto macello prima che arrivi veramente un cliente.
 
*  *  *
 
Erano le tre del pomeriggio. Toris era in perfetto orario per  l’appuntamento con il nuovo datore di lavoro. Davanti a quel palazzo che lo sovrastava si sentì un attimo impaurito, lo stesso timore che aveva avuto quando era arrivato davanti alla casa di Kirkland e aveva sentito quella strana vocina nella testa. Ora per fortuna non c’erano vocine, ma un vecchio, tetro edificio che sembrava volesse inglobare le case accanto tanto era grosso, imponente, un po’ malandato. Sarebbe stato da restaurare, pensò Toris. Qualche vaso di fiori qua e là sui balconi ne smorzavano appena l’aspetto.
Quarto piano, gli aveva detto nel messaggio di risposta. Ovviamente aveva anche indicato il nome. Toris si avvicinò per suonare il campanello, quando alzò lo sguardo...
... e vide la persona destinata a cambiare la sua vita.
 
*  *  *
 
 
Buongiornissimooo!
Mi scuso per il ritardo (avevo intenzione di aggiornare domenica, oggi è mercoledì) ma è stato un capitolo difficile e sono stata via e il computer ha fatto le bizze e Toni l’alieno rompipalle mi ha impedito di farlo prima. Insomma, sono giustificata nel caso qualcuno stesse agognando il secondo chap. Come no, ma si sogna.
GRAZIE A CHI HA RECENSITO. Non avete idea del sostegno morale/spirituale/anche un po’ fisico che mi date, fisico perché scrivo più volentieri so che almeno a qualcuno ‘sta storia interessa.
Ci vediamo tra una decina di giorni!
L.B. Shadow
 
P.S.: ho trovato la casa di Kirkland
E per chi non avesse visto il film, questa è la scena in cui Sweeney Todd/Arthur impugna il rasoio/la paletta e urla la fatidica frase.
Ah, e il frappé di Alfie esiste davvero

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Capitolo 3
*** Scelte Rischiose ***


Scelte rischiose
 
III

 
 
Basta uno sguardo, a volte. Questione di un attimo, fugace come lampo e potente come tuono, e si rimane folgorati, neanche il tempo di rendersene conto.
Toris si era innamorato a prima vista.
Il cielo era plumbeo, quel pomeriggio, minacciava pioggia a breve. Nell’aria aleggiava l’odore dell’umidità mista alla polvere, allo scarico delle auto delle auto che passavano rapide distanti l’una dall’altra. Il vento sollevò alcune foglie secche sfuggite dal parco pubblico di fronte all’edificio, facendole volare sul marciapiede antistante.
C’era una panchina vuota, lì: Toris pensò bene di sedercisi per tirare il fiato e posare l’ombrello, osservando i passanti che camminavano accelerando il passo sotto le nuvole minacciose. Completamente preso dai suoi pensieri, dall’ansia che gli divorava i nervi, Toris stava pensando che finalmente avrebbe potuto mettersi l’animo un po’ in pace e che almeno una delle sue preoccupazioni sarebbe stata finalmente risolta con il lavoro appena trovato, quando alzò gli occhi e improvvisamente al mondo non ci fu che lei.
Lunghi, luminosi capelli biondi che incorniciavano il viso diafano. Labbra imbronciate appoggiate al palmo della mano, mentre osservava distrattamente il mondo al di fuori dalla finestra aperta con occhi che parevano zaffiri, tanto erano blu e profondi. Toris sentì il cuore mancare un colpo. Si fermò a guardarla, lo sguardo inceppato su di lei, certo di non aver mai visto nessuna ragazza altrettanto meravigliosa, il petto pieno di farfalle e lo stomaco stretto dall’onnipresente ansia. Si era preso una cotta peggio di un moccioso delle medie.
La ragazza sbuffò da quelle splendide labbra rosee e il ragazzo sentì le ginocchia liquefarsi come cubetti di ghiaccio in mezzo al Sahara. May day, may day, lo stiamo perdendo.
Aaaaah, doveva assolutamente sapere chi fosse, assolutamente sì, ma come? Era così bella e lui non aveva idea di cosa dirle... Per alcuni secondi si dimenticò pure il motivo per cui si trovava lì.
Quasi senza pensarci si alzò dalla panchina e si diresse sulla strada davanti al palazzo, implorando il fato che gli desse una mano, finché la misteriosa fanciulla non guardò giù e i loro sguardi s’incontrarono.
Toris si portò una mano al colletto della camicia, aprendoselo un po’ e lasciando che l’aria fresca ci passasse attraverso. Le guance che in un batter d’occhio erano avvampate facevano capire al mondo intero quanto la sua temperatura corporea fosse salita a livelli insostenibili, e tutto per via di una bella ragazza. Quanto doveva sembrare patetico! Ma in quel momento non ci pensò. Non pensò a nulla.
Lei sollevò un sopracciglio sul viso di porcellana, il broncio continuò a sostare a contatto con le nocche. Lo fissava interrogativa. Toris mosse timidamente una mano nella sua direzione in segno di saluto, ma non ottenne risposta alcuna.
Improvvisamente, la ragazza si voltò all’indietro verso l’interno della stanza dove stava e finalmente la sua espressione mutò.
Tornò a guardare verso Toris. Gli occhioni blu lo squadrarono da testa a piedi, quindi fece un piccolo ghigno che forse nascondeva un sorriso e si girò nuovamente verso l’interno della stanza. Infine si alzò e chiuse la finestra, lasciando il ragazzo un po’ interdetto in mezzo alla strada.
− Dio... – riuscì solamente a sospirare Toris. E per un momento sembrò fosse stata appunto la mano di Dio a prenderlo per la spalla e tirarlo con forza all’indietro, sul ciglio della strada, prima che una macchina arrivasse su strombazzando. Lui non si era neanche accorto del pericolo incombente.
− Tipo, ma sei fuori di testa? Stava per prenderti sotto! – sbraitò una voce alle sue spalle. Toris si girò, ancora mezzo intontito, e vide quello che lo aveva appena salvato dall’incidente.− Sta più attento!
Era un ragazzetto quello che gli stava urlando contro, uno di quelli che non incutono timore neanche da infuriati e in quel caso non era infuriato, solo incredibilmente spaventato, come se fosse stato lui a rischiare grosso. Lo sconosciuto lo guardò storto, come aspettandosi una spiegazione a quel comportamento così incosciente.
− Scusa... – tentò di dire Toris, venendo interrotto da un gesto impaziente dell’altro: − Seh, vabbè. Lascia perdere, si vede che eri totalmente su un altro pianeta. –. Scosse violentemente la testa, muovendo un caschetto di capelli biondi che attentava alla sua mascolinità, già di per sé poco evidente. Che tipetto. Forse, però...
Accennò ad andarsene, ma Toris lo bloccò prendendolo per un braccio: − Aspetta! Per caso mi potresti dare un’informazione?
Il ragazzo raggelò. Si voltò più spaurito di prima, animaletto braccato: − Che vuoi? Non mi piacciono gli sconosciuti. Non sono neanche di qui, lasciami stare. Non so niente, non ho visto niente, io.
Toris mollò la presa, deluso. – Ok, perdonami, allora.
L’altro si sistemò la manica sgualcita e Toris ne approfittò per aggiungere: − Immagino tu non sappia chi fosse la ragazza che stava poco fa alla finestra, giusto?
Il ragazzo aggrottò le sopracciglia e incrociò le braccia, fissandolo con uno sguardo tra il severo e il beffardo. – Ah, quella... la tizia per cui poco fa non ti sei fatto investire? Cioè, sì, la conosco di vista. Ѐ Natalia, la sorellina del giudice Braginski.
Toris sentì il cuore allargarsi: – Sorella? Vuol dire che vivono insieme?
− Ah-a, sì. Ma che ti serve saperlo? – il ragazzetto lo squadrò da capo a piedi e fece un passo indietro, portandosi orripilato una mano alla bocca. − Cioè, non vorrai mica salire e presentarti? Sei pazzo? Non te lo consiglio. Non lo consiglierei, tipo, a... boh, nessuno.
− E come mai?
L’altro alzò le spalle, senza rispondergli se non lanciando uno sguardo accusatorio alla finestra ora vuota. Toris respirò a fondo: non voleva arrabbiarsi per così poco.
− Non importa, io là sopra ci devo andare comunque. − disse, fingendo assoluta indifferenza − Ho un colloquio di lavoro con il giudice, sai.
Il ragazzo sorrise malizioso: – Buona fortuna, allora. Non è problema mio quello che fai della tua vita.
− Che intendi dire?
− Ѐ troppo presto per dirtelo. Voglio godermi lo spettacolo.
E lo sconosciuto lo guardò negli occhi, ogni traccia di timidezza andata perduta. Sembrava avesse un segreto nascosto in quegli occhi, che Toris notò somigliassero incredibilmente a quelli dei gatti, verdi come smeraldi. Sembrava fosse indeciso se svelargli
(che cosa, accidenti, se hai qualcosa da dirmi dimmela in faccia)
il segreto e evitare conseguenze oppure sfidare il destino. Sapeva qualcosa riguardo il giudice Braginski e la sua magnifica sorella, questo era sicuro, ma non aveva intenzione di dirglielo. Oh, al diavolo!
− Devo andare... – disse, allontanandosi da quello strano tizio, prima di arrivare in ritardo e fare brutta figura il primo giorno. Raggiunse l’altro lato della strada, quando l’altro gli urlò: − Feliks.
Toris si girò, come punto da uno spillo. − Come?
− Il mio nome è Feliks. – spiegò Occhi Verdi.
− Ah – Toris restò a guardarlo per un altro paio di secondi – Il mio nome invece è...
− Lascia stare – lo interruppe Feliks. – Me lo dirai quando uscirai da lì.
Sorrideva. Toris si sentì incoraggiato. – A dopo, allora! – salutò e suonò il citofono al nome di “Ivan Braginski”. Non udì il flebile, aspro sussurro: − Se uscirai da lì. Te lo auguro.
Appena gli fu aperto Toris balzò nell’atrio, gli occhi ansiosi che saettavano qua e là alla ricerca della graziosa figura di prima, le orecchie tese nella speranza di udire la sua voce nonostante non l’avesse mai sentita. Un lieve profumo nell’aria: che fosse il suo? No, accidenti, era semplicemente deodorante per ambienti. Ma cosa importava, tra poco l’avrebbe vista!
Andò dritto verso l’ascensore, un modello vecchiotto ben riconducibile all’edificio, per subito trattenere un’imprecazione: “GUASTO” segnava un minuscolo cartello sul battente. Vedi te la sfiga.
D’accordo, avrebbe salito tutti e quattro i piani per le scale, non era forse Shakespeare che aveva descritto le ali dell’amore, cui nessun limite di pietra può chiudere la via della passione? Beh, forse i limiti di pietra no, ma il sudore sì. Sugli ultimi scalini si pulì la fronte con un fazzoletto e pregò di non avere imbarazzanti tracce altrove. Aveva praticamente saltellato diviso tra l’euforia e la sua ansia perenne, giungendo al piano senza quasi accorgersene. Non avrebbe dovuto correre in quel modo, ma l’impazienza di rivederla era troppa... e se avesse aperto lei la porta? No, era solo una vana speranza. Queste cose succedevano solo nelle commediole romantiche. La realtà... la realtà è un’altra cosa.
Si mise in bocca una caramella alla menta mentre bussava alla porta con la dicitura “Braginski” sul campanello, e per poco non si strozzò quando ad aprire fu effettivamente lei. La principessa prigioniera e annoiata.
Non l’aveva notato prima, ma aveva un delizioso fiocco indaco che le adornava i capelli. Portava un vestito lungo, indaco anch’esso con inserti bianchi, con una gonna a campana che evidenziava la vita sottile, un figurino femminile e romantico.
Era semplicemente stupenda. Una bambola, quasi.
Quasi, perché le bambole di solito non ti puntano un coltello a serramanico alla gola.
− Eeerrr... – gracchiò Toris, mentre la lama gli solleticava la pelle.
− Che vuoi? – ringhiò Natalia. – Sei quello che ha accettato il lavoro?
Toris deglutì, il pomo d’Adamo sfiorò pericolosamente l’acciaio freddo. Sibilò un “sì” incerto e finalmente il coltello fu ritirato dalla sua postazione. La ragazza lo squadrò, sprezzante.
− C-ciao, tu sei Natalia, giusto? Io sono Toris, piacere di conoscerti... – si presentò, pregando di fare una buona impressione. Sentiva le gambe molli e sudore gelido gli scendeva lungo la spina dorsale. Lei per tutta risposta schioccò la lingua. Con un gesto secco della mano lo invitò nell’ingresso dell’appartamento e lo precedette dandogli le spalle.
Il soffitto era molto alto, di un bianco accecante come le pareti. L’illuminazione era fredda, rendeva l’ambiente simile a quello degli ospedali. Mobili scuri di legno pregiato si susseguivano intorno ben disposti, sopra di essi erano posti ninnoli e qualche foto, forse di famiglia: vi erano sempre raffigurate tre persone, un uomo e due ragazze.
− Ѐ stato mio fratello a dirti come mi chiamo? – chiese Natalia, prendendo la giacca e l’ombrello di Toris e riponendoli su un attaccapanni. Il suo tono di voce si era incredibilmente addolcito rispetto a soli pochi secondi fa.
− Ehm, no, è stato quel ragazzo qui fuori, Feliks. A dire la verità non avevo idea che il giudice avesse una sorella... – rispose Toris ma non riuscì a continuare perché l’occhiataccia di Natalia lo zittì: sembrava irritata dal fatto che non fosse stato Ivan a presentarla. Accidenti, ma come faceva a rovinare sempre tutto ancor prima di cominciare?
− Ma chissà... magari non voleva condizionare la mia scelta? Sì, insomma, la presenza di una ragazza tanto carina potrebbe, che so, influenzare la proposta di lavoro. – tentò di rimediare, maledicendosi perché non riusciva a trovare niente di più sensato. Ma forse a lei andò bene così, perché sul visetto si dipinse un minuscolo sorriso (quella sua caratteristica parodia di sorriso) e replicò: − Sì, probabilmente è così. Comunque non stare troppo a sentire Feliks, è un tipo che dà aria alla bocca per nulla −. Toris annuì, chiedendosi se ci fossero ostilità tra i due.
− Ti ha detto qualcosa anche sul fratellone? – domandò improvvisamente Natalia.
− Eh? No, no. Cioè, voleva dissuadermi nel presentarmi al colloquio, ma non ha detto il motivo.
La ragazza si avvicinò pericolosamente al volto di lui, una luce tagliente nelle iridi che rifletté il sibilo della sua voce. – Te lo do io un consiglio: evita di ascoltare quel piccolo demente, non sa quello che dice.
− O-ok... – Toris senza accorgersene era sbiancato come un lenzuolo davanti a quell’avviso autoritario, quasi avesse nuovamente la lama puntata alla carotide. Aveva persino alzato le mani in segno di resa.
Natalia annuì soddisfatta. Quel tipo non le sembrava degno del fratellone, ma d’altronde nessuno lo era, tranne lei ovviamente. Avrebbe dovuto adattarsi comunque, perché quella era la decisione dell’amato fratellone. Sospirò.
Toris subito si preoccupò: − Tutto bene?
− Sì. Ora muoviti, siamo già in ritardo. Ti porto nel suo studio.
Come il pifferaio della favola con un topolino sperduto, lo attirò in un intrico di corridoi che portavano verso l’interno della casa.
 
*  *  *
 
− Secondo te come se la caverà? – disse Arthur, passando lo straccio sui tavoli. Mancavano circa dieci minuti alle due del pomeriggio. Le prime nuvole cominciavano a scurire il cielo.
− Chi? – rispose Alfred, spazzando il salone al ritmo di una canzone pop che passava alla radio. Perché avesse bisogno della musica mentre faceva le pulizie, l’inglese non ne aveva idea: lo distraeva e faceva rallentare entrambi. Senza contare che aveva scelto una stazione orrenda, in cui uscivano ogni due per tre canzonette cantate da e per adolescenti brufolosi.
− Come chi, Toris ovviamente. Ѐ il suo primo lavoro quaggiù.
− Se non s’impappina con la lingua farà sicuramente una bella figura. Cioè, mica deve candidarsi come presidente, deve solo fare un colloquio per un lavoretto.
− Sarà... io sono preoccupato.
Alfred interruppe un attimo il suo lavoro, per la decima volta in un’ora a dire la verità (le altre volte erano state per alzare il volume e mettersi a ballare con lo spazzolone), e si avvicinò ad Arthur. Gli prese il volto tra le mani, costringendolo a guardarlo negli occhi.
− Oh, vecchiaccio – lo intimò, le iridi limpide come brandelli di cielo montano, – don’t worry: ricordi cosa ti ho detto poco fa?
− Di non trattarlo come un bambino di due anni.
− Bravo, si vede che non ti è ancora venuto l’Alzheimer – gli diede un buffetto sulla guancia e tornò a lavorare. Arthur rimase lì a rimuginare tra sé: c’era comunque qualcosa che gli puzzava. Dubbi laceranti. Ricordi. A forza di scavare negli stessi pensieri gli venne in mente un’altra questione, di tutt’altro genere.
− Yo, Alfred. – lo chiamò a un certo punto. Alfred si girò dalla sua postazione.
− Sì?
Arthur posò il mento sulle mani intrecciate, simulando indifferenza: − Tu com’è che sei venuto qua a lavorare in Inghilterra? Non si stava bene in America?
Alfred raggelò. La sua usuale espressione entusiasta si deformò, trasformandosi in malinconia. Durò tutto pochi attimi, perché esplose subito con la sua risata squillante.
− Ahahaha! Che ti devo dire? C’era bisogno di me nel vecchio continente, così non ho potuto resistere! Ora come farebbe la gente senza i miei favolosi panini?
Ma i suoi occhi azzurri non brillavano come prima, se ne accorse Arthur e se n’era accorto anche lui. Lasciò andare un sospiro arrendendosi all’evidenza.
− Sul serio, Kirkland, non mi va di parlarne. Un altro giorno, ok? Prometto che in futuro te lo dirò, ma non mi pare questo il momento – sussurrò, un sorriso terribilmente melanconico rannuvolò il suo volto. L’oscurità della memoria aveva momentaneamente preso possesso del suo cuore.
Che giaccia nell’ombra dove nessuno può vederlo, nessuno deve ricordare il passato prima che venga l’ora legittima, altrimenti s’infrangerà l’equilibrio su cui si basa quest’effimera felicità.
Arthur annuì. Comprendeva quando era meglio non insistere, e questo era il momento. Si tirò nuovamente su le maniche della camicia che ricadevano sempre sui polsi rischiando di bagnarsi. Il gesto venne notato da Alfred che lo rimbrottò: − Senti un po’, capisco che vuoi fare la figura da professorino, ma anche a casa le pulizie le fai in giacca e cravatta?
− Eh? No... cioè, è ovvio che sono un’altra tenuta. Cosa intendi dire con ciò?
Alfred mollò lo spazzolone, stavolta definitivamente perché tanto sapeva che di questo passo non sarebbe durato a lungo comunque, e afferrò per un braccio Arthur.
− Che ti prende? Dove mi porti? – domandò lui. Era un tantino spaventato dall’aria risoluta di Alfred, che lo stava trascinando come nulla fosse verso la cucina.
− Adesso vedi. I tuoi vecchi attrezzi non saranno l’unico regalino che ti faccio oggi!
− Che vuoi dire? Ehi, non tirare troppo o mi rovini la camicia!
Arrivarono nel retro della cucina, dove si trovava un piccolo sgabuzzino. Alfred lasciò il braccio dell’altro, vi entrò e riemerse qualche secondo più tardi con qualcosa di rosso in mano.
− Ecco qua. Mettiteli. – gli porse un fagotto. Arthur lo esaminò e gli sfuggì un versetto sorpreso: erano un cappellino da baseball e un grembiule entrambi rossi e con la scritta “The Eagle”. Il grembiule aveva pure disegnata un’aquila testa bianca sotto il nome.
− Scusa? Indossare questa... questa roba? Non che non mi piaccia, ma la trovo, ecco, inutile adesso che non ci sono clienti – protestò, la bocca storta in una smorfia. Quel vestiario gl’ispirava un senso istintivo di ribrezzo, però il suo senso di buona educazione gli impossibilitava il dirglielo in faccia.
− Devo ricordarti chi è il capo? Questo è il mio locale e le regole le decido io, quindi zitto. Ora cambiati, su! – rispose stizzito Alfred, indicando la camicia immacolata e la cravatta verde scuro del socio; avrebbe avuto anche una giacca, ma lui se l’era tolta prima di cucinare e no, lo stufato non aveva avuto il coraggio d’intaccare l’abbigliamento di un gentiluomo suo pari, grembiule o meno. Arthur suo malgrado dovette cedere. Fece il gesto d’indossare l’uniforme sopra ciò che aveva già addosso ma Alfred scosse la testa. − Devi spogliarti, prima – spiegò.
Il volto dell’inglese divenne più rosso del corredo.
− Cosa? Devo proprio? Non posso mica metterli sopra?
Alfred lo guardò come se fosse impazzito. – Senti, non so come siete abituati voi inglesi, ma nel mio Paese non ci facciamo tante seghe mentali. Se resti coi tuoi vestiti, t’avviso, tornerai a casa stasera che puzzerai come se avessi fatto un bagno nella friggitoria.
− Tzè, come se dovessi cucinare per un esercito. L’esercito di fantasmi della Rivoluzione Americana, ecco chi ci viene qui!
Non l’avesse mai detto. Il volto di Alfred divenne livido e la voce gli salì di un’ottava (rabbia o paura?). − Non azzardarti ad insinuare simili fandonie in mia presenza! – urlò − E ora muoviti, donnetta isterica. Ti do una t-shirt da mettere sotto se non hai nient’altro, da domani te la porti da casa.
Alfred rientrò nello sgabuzzino, mentre l’altro si spogliava tra i mugugni d’insofferenza. Rimasto a torso scoperto, Arthur sbuffò, stringendosi come se una folata gelida lo avesse avvolto e gli pungesse le ossa. Si sentì terribilmente a disagio, tremava come se gli avessero tolto i vestiti con la forza, lasciandolo nudo davanti a una folla schiamazzante. Non aveva problemi con il suo corpo, ciò che gli causava tanto fastidio era il doversi spogliare davanti a uno del suo stesso sesso. Esporsi. Mostrare la sua debolezza, ogni copertura caduta letteralmente a terra. Come se senza abiti la sua stessa anima fosse denudata e l’altro potesse rimanere sconvolto
(disgustato)
da ciò che vi nascondeva. “Lui” era sempre riuscito a leggere nell’anima di Arthur, “lui”, che lo conosceva da quando era un bambino e che sin da allora aveva continuato a distruggere ogni suo tentativo di celarne i pensieri, corazza d’acciaio divenuta cristallo. “Lui”, la persona cui cercava in tutti i modi di scordare il nome o perlomeno associarlo esclusivamente al sapore amaro che sentiva in bocca, al veleno che gli veniva istillato nel cuore giorno dopo giorno.
Quando Arthur tornò a guardare verso la stanzetta trovò Alfred con una maglietta in mano, fermo in piedi davanti alla porta: lo stava studiando come si fa con un animale mai visto prima d’ora. Non si riusciva a capirne il giudizio.
− Ho trovato questa, forse ti starà un po’ larga. Provatela. − Gli tese la maglietta; l’altro la prese, ringraziandolo sottovoce. – Chill out, dude. Non ti facevo così timido. Manco ti avessi fatto chissà quale proposta sconcia!
Arthur sogghignò, iniziando a sbottonarsi la camicia dandogli le spalle: − Sono restio a cambiarmi in presenza di altri, tutto qua.
− A me invece non fa né caldo né freddo, perché in America facevo parte del gruppo sportivo della scuola e ci cambiavamo sempre insieme nello spogliatoio. Dopo un po’ ti abitui a tutto.
“Anche a essere fissato da decine di occhi? Anche a tuoi compagni che, davanti alla tua reticenza, vengono lì e ti costringono a spogliarti? E se quei compagni fossero uno, una sola persona a cui sei legato nonostante tutto a doppio filo e ciò rendesse la cosa ancora più penosa perché non sai se morire di vergogna o se quel brivido che scende per la schiena, che t’immobilizza come un pezzo di marmo, è dovuto a quel tocco così insolito, curioso, e sentissi il cuore che esplode nel petto mentre la testa piomba nel caos più totale? Ti ci abitui a negare qualcosa che nel profondo riconosci benissimo ma che nessuno, nessuno!, mai capirà? Eh, Alfred? Te lo hanno insegnato questo in America?”
Arthur si girò lentamente, stringendo tra le dita il cotone della t-shirt; Alfred era a petto nudo, anche lui si stava apprestando a cambiarsi. Arthur restò un attimo a bocca aperta per la sorpresa: non si aspettava la procedura funzionasse anche per l’altro.
Vedere un altro uomo semi nudo destava un fascino bizzarro, in particolar modo ora che notava quanto i loro corpi fossero diametralmente diversi: Arthur era snello, quasi smilzo, muscoli sottili e proporzionati; Alfred sembrava avere la consistenza di un quarto di manzo, come se non avesse ossa ma solo un unico blocco di carne. Era robusto, spalle larghe, i muscoli delle braccia ben definiti, il tipico fisico di un giocatore di football americano. Non era difficile immaginarlo mentre si scagliava contro altri giocatori inseguendo la palla, ciononostante il suo corpo contrastava con il volto che conservava tracce infantili nella sua morbidezza, quasi dolcezza. Era un bambino evoluto troppo in fretta nel corpo di un adulto.
− ‘Mbe? Tanti problemi e poi sei tu quello che rimane imbambolato ad osservarmi! – lo prese in giro Alfred. Arthur voltò immediatamente lo sguardo da un’altra parte, ormai troppo tardi. Il volto gli si era infiammato come se fosse scoppiato un incendio sotto pelle.
Perché non aveva costruito una botola sotto il pavimento per situazioni simili, in modo da poter sprofondare e non riemergere più?
− Scusa, è che... – che cosa, accidenti?! − ... siamo così diversi.
L’altro annuì, indicando il torace dell’amico come un medico indica un osso rotto sulla lastra. − Su questo ti do pienamente ragione. Dovresti mettere su un po’ di ciccia su quelle costole o rischi di non superare l’inverno.
− Ma sentilo!
Alfred scoppiò a ridere e indossò anche lui una maglietta, blu elettrico però. A lui stava quasi attillata, nonostante fosse della stessa misura di quella che aveva dato ad Arthur. – Coraggio, di cos’hai paura?
“Di rivedere lui nei tuoi occhi” pensò Arthur, ricordi gelidi di rimorso.
− Arrivo. Però non guardare.
− Agli ordini, chiudo gli occhi e conto fino a cento. Uno, due...
− Smettila, ho fatto.
Arthur aveva la maglietta addosso, che, sorpresa sorpresa!, gli cadeva spiovente sul busto sottile. Alfred lo squadrò. – Non stai male, adesso ti passo l’uniforme. Ricorda di tenertela tutto il giorno, eh! Che se arriva qualcuno sappia che sei un dipendente a tutti gli effetti.
Con grembiule e cappellino ben schiacciato in testa, la trasformazione era avvenuta: da persona adulta e rispettabile, Kirkland era divenuto un arcigno sbarbatello pronto a segnare sul conto un McMenù con bibita, la vuole la sorpresina in omaggio?
Alfred dovette tapparsi la bocca per non sghignazzargli in faccia, ma le guance erano comunque rosse e gonfie come se stessero per scoppiare.
− Sono ridicolo, vero? – chiese Arthur, conoscendo già la risposta. Gli sembrava di vivere la scena in Pulp Fiction dove John Travolta e Samuel Lee Jackson furono costretti a indossare nuovi abiti da yankee ritardato, dopo che i loro si erano ricoperti di sangue.
“Cazzoni” era la parola che era stata utilizzata per descriverli e in tal modo si sentiva lui stesso.
− N-no, figurati, stai da... pffffft, non posso, ahahahahahahahahaha! – Alfred cadde letteralmente a terra dalle risate. – Cavoli, sembri un’altra persona! Pari uscito da un telefilm di Disney Channel! Ahahahaha!
− Ottimo, dì pure addio a questa tenuta. – Arthur fece per togliersela ma Alfred lo bloccò, le lacrime agli occhi.
− No, aspetta... non sei ridicolo. Basta farci l’abitudine, sai, come con le scarpe nuove. Sei quasi carino, ora che ti guardo bene. – gli punzecchiò una guancia con l’indice, ricevendo in cambio uno sguardo truce. – Forse se sorridessi, che dici? Sai come si fa a sorridere? Ti do un consiglio, dì “Cheese!”e verrà naturale.
− Toccami un’altra volta e ti toccherò io. Con un calcio. Su una parte del tuo corpo che ti lascio immaginare. Poi vediamo se verrà a te da sorridere.
− Suvvia! – Alfred si allontanò comunque di un saltello all’indietro. – Ti ho detto che sei carino, che vuoi di più?
Arthur sentì l’ira crescere nelle vene, come braci che incendiavano ad una foresta.
− Non insistere, altrimenti il peso piuma qui presente ti stenderà al tappeto in un attimo. Piuttosto, ieri sera sono venuto io e non avevi questa roba addosso. Mi sapresti dire il perché dovrei indossarla io? – notò, con il tono di chi ha messo all’angolo il suo avversario. Ma il bastardo aveva la risposta pronta come suo solito.
− Ieri mi hai colto di sorpresa! Non ho avuto il tempo di cambiarmi. A dire il vero, pensavo di chiudere prima e andare a guardarmi un po’ di tv, ma poi sei arrivato e... beh, ho chiuso praticamente quando sei uscito.
Una delle vene scoppiò sulla fronte dell’inglese, ormai sul punto di non ritorno.
− Comunque di berretti ne ho solo uno, è meglio se lo tieni tu, ok? A me basta il grembiule. E poi diciamocelo, sarei ridicolo con quel coso addosso.
Niente, quel moccioso era davvero insopportabile.
Arthur inspirò a fondo, cercando di ritrovare la calma, di non compiere macelli. La mente cominciò a viaggiare per conto suo nei meandri della memoria, trascinandolo in quesiti che riportavano sempre a quella persona in particolare, come se i tentativi di sopprimere il suo ricordo avessero l’effetto opposto di richiamarlo.
Quand’era stato l’ultima volta che qualcuno gli aveva detto come vestirsi? Chi l’aveva fatto? Il suo nome riecheggiava nel cervello. Shhh, si disse, è tutto nel passato. Un passato in cui lui e la persona in questione non erano certamente in buoni rapporti, ma almeno qualcosa c’era, qualcosa che era andato distrutto quel fatidico giorno.
Si conoscevano fin da bambini, Arthur e Francis. Rivalità innata la loro, Francis che doveva sempre dimostrare di essere il più grande di età ed esperienza: “Fratellone Francis” gli piaceva farsi chiamare nonostante fosse figlio unico, mentre Arthur era il bimbetto che osservava con un pizzico d’invidia quel piccolo straniero, proveniente da un Paese così vicino all’Inghilterra eppure esotico agli occhi di un bambino. Sembrava che Francis non avesse difetti e questo lo urtava da morire. Capelli biondi e setosi, occhi azzurri, tratti delicati, vestiva sempre l’ultima moda; qualche volta, specie durante l’adolescenza, Arthur si era scoperto affascinato suo malgrado di colui che chiamava sprezzantemente “ranocchio”. Francis avrebbe potuto tranquillamente interpretare il Dorian Gray di Oscar Wilde, ma solo per l’apparenza. Non era abbastanza scaltro per imitarne la condotta dissoluta senza venire sgamato.
Arthur invece sì. E questo lo fece sorridere.
− Bene, vedo che sei partito per la tangente e ora non ce l’hai più con me, vero? Bravo Mr K, così mi piaci. Con la testa per aria ma col sorriso sulle labbra – Alfred batté le mani come in un piccolo applauso.
Era davvero deciso a farlo infuriare.
− D’accordo, piccolo impiastro. Ora che abbiamo finito la sfilata di moda, passiamo alle cose serie, ti va? – Arthur gli indicò l’uscita dalla cucina, verso il salone. − Vorrei controllare una cosa, adesso che siamo soci.
− Cose serie? Prevedo già che sarà noioso. – si lagnò Alfred, seguendolo fuori. Arthur aveva riacquistato la sua aura di adulto affidabile e ligio al dovere.
− Lo so, mio caro, ma è una cosa che dobbiamo fare lo stesso. Non ci si può sempre divertire a lavoro!
Era arrivato il momento “della verità”, come l’aveva sempre chiamato il più anziano: in poche parole, l’esame del bilancio; Arthur era curioso di sapere come se la stesse cavando il suo “socio” ad amministrare da solo un intero locale. Per Alfred fu come una doccia fredda.
Si trasferirono su un tavolo del salone. Il registro dove si annotavano entrate e uscite era coperto di polvere, tanto per dimostrare la cura con cui il ragazzo lo teneva e soprattutto quanto gradisse riesumarlo dal suo cassetto. Per lui fu come far esaminare la pagella al genitore e, dall’espressione dell’altro che si faceva via via più scandalizzata, non stava andando affatto bene.
− Ma sei impazzito?! – urlò a un certo punto Arthur, indicando i numeri esorbitanti elencati – Ti rendi conto che spendi centinaia di sterline per carne e ingredienti vari ogni dannata settimana, quando qua i clienti si vedono col binocolo? A che ti serve tutta ‘sta roba? Per non parlare dell’elettricità che consumi per conservarla! Non hai il minimo senso della realtà!
Alfred arrossì, punto nel vivo. Come un bambino di quattro anni, arricciò il labbro e voltò il capo, cercando una spiegazione logica alle sue scelte di consumo. Non trovandone, decise che la colpa era dell’altro: Arthur stava evidentemente vendicandosi per essere stato costretto a indossare quell’orribile divisa, prendendosela quindi con le sue scelte “idiote”. Ma non erano affatto idiote!
– Ho solo un modo di fare diverso dal tuo! Il mio motto è: sempre di più, sempre più grande! – tentò di spiegare, allargando le braccia per descrivere la dimensione immaginaria di un mega-panino.
Arthur sentì la rabbia risalire fino alla testa. Perché doveva essere così stupidamente avventato? Perché prendeva tutto così alla leggera, come se il futuro fosse pronto a regalargli solo rose? Non lo sapeva che il mondo intero si accanisce contro chi non si guarda le spalle, colpendolo quando meno se lo aspetta? Si stava alzando per strozzare quel ragazzino irresponsabile, già gli prudevano le mani, quando un pensiero gli passò per la testa come un lampo, bloccandolo a metà gesto.
E se quella produzione sconsiderata di cibo fosse stata connessa al passato di Al? Chissà, magari aveva avuto un’infanzia difficile in America? Ce n’erano tanti di poveri laggiù, il Paese era enorme. Aveva letto da qualche parte che coloro che avevano un passato di indigenza finivano per riempirsi di cianfrusaglie non appena guadagnavano qualcosina. Una specie di accumulo per i periodi di magra. Forse... forse gli era successo qualcosa di simile. Anche Arthur aveva conosciuto momenti difficili, sapeva cosa si provasse: una sensazione opprimente d’inadeguatezza, promesse non sempre mantenute di risalire la china e non ricadere più. Ebbe un moto di compassione.
− Va bene, fai quanta roba ti pare. Tieni, prendi un po’ di cioccolata. – gli disse, porgendo una tavoletta presa dallo scaffale alle loro spalle. Alfred lo guardò perplesso.
− Che ti prende tutto d’un tratto? Sul serio, non riesco a starti dietro. – mormorò, più confuso che mai. Comunque accettò la cioccolata.
Arthur tornò col naso sul registro, la visiera del berretto che sfiorava le pagine. Era un registro cartaceo, dal momento che tutti i soldi diretti all’Eagle erano spesi o per idiozie o per il cibo, non per attrezzatura tecnologica.
− Ora come ora abbiamo bisogno di denaro, ci sono debiti da saldare. Però non possiamo negare che l’elemento fondamentale per ottenere denaro sia gente che mangi qua,
attualmente assente. Come hai fatto a restare aperto fino ad ora?
Alfred si batté una mano sul petto all’altezza del cuore:− Io sono un eroe! E la gente ha bisogno degli eroi. Diciamo che di tanto in tanto chiedevo una ricompensa materiale quando facevo una buona azione.
− Ma sei una persona orribile.
Alfred scrollò la testa. – Non andavo mica a derubare vecchiette. Chiedevo solamente alle persone che potevano darmi qualcosa, prendere ai ricchi per dare ai poveri, o qualcosa di simile. – si portò un indice alle labbra, pensieroso. − C’era uno in particolare disposto a darmi una mano, in cambio della mia riconoscenza, a detta sua. Un pezzo grosso. Un giudice.
− Un giudice? – Arthur sentì gocce di sudore freddo imperlarsi sulla spina dorsale.
− Già. Un tizio russo un poco strano ma parecchio potente. Come si dice, quando la grana sostituisce la sanità mentale, ahahaha!
− Stai parlando di Braginski?
Alfred smise di ridere. – Lo conosci?
− Fin troppo...
(e lui conosce me, maledizione)
La sensazione viscida che il passato tornasse a braccarlo scivolò lungo la spina dorsale dell’inglese. Tutto torna, come in un enorme cerchio, allo scopo di farti pagare ogni conto insoluto aggiungendovi gli interessi.
− Dimmi, Alfred, il giudice abita ancora a Sno...− Arthur s’interruppe d’un tratto. Una fatina, non più grande dell’unghia del pollice, gli stava svolazzando vicino all’orecchio.
− Ehi! – bisbigliò l’esserino – Sta arrivando qualcuno. Sbrigatevi a mettere via quella roba e accoglietelo, credo sia un cliente.
Arthur non se lo fece ripetere, sotto lo sguardo sbigottito di Alfred. – Che fai? – gli domandò, vedendolo riporre in tutta fretta il registro al suo posto e pulire le tracce di polvere lasciate.
− Cliente in arrivo, prepararsi all’impatto.
− Cos... un cliente? Adesso? Come fai a saperlo, non ho sentito nessuno!
Arthur gli rispose imperturbabile: − Me l’ha appena detto una fatina.
− EEEHHH?!
Inutile perdere tempo con dei miscredenti.
In ogni caso, fatina o meno, anche Alfred recepì presto la presenza di qualcuno che stava per arrivare, una specie d’istinto di predatore. Lo si poteva capire dalla sua improvvisa sollecitudine nel mettere a posto i per fortuna pochi elementi in disordine. La presenza si faceva sempre più forte, come un’aura che rendeva l’atmosfera elettrica, come una musichetta inquietante in un film dell’orrore, come la presenza di detective Conan in un luogo dove ancora non è accaduto alcun omicidio. Sarebbe successo qualcosa, e non qualcosa di bello.
Un minuto dopo, appena il tempo di rimettere a posto il tavolo e le seggiole, un uomo entrò effettivamente nel locale, facendo tintinnare il campanello sulla porta e portando con sé una folata di profumo come se ci avesse fatto il bagno.
− Eccolo, è lui – bisbigliò Alfred, manco avesse davanti a sé Obama. – Sbrigati ad andare in cucina ad accendere i fornelli, io resto qua.
Arthur obbedì e sparì in cucina; Alfred si posizionò dietro il bancone per accogliere lo sconosciuto con il suo entusiasmo innato, nutrito dall’emozione di avere soldi pronti in cassa.
Alto, allampanato, completo da uomo d’affari e un paio di odiosi baffetti sottilissimi sul labbro superiore, lo sconosciuto fece la sua comparsa senza salutare o altro. Oh beh, la mamma diceva che non bisogna mai giudicare dall’aspetto... Raggiunse il bancone con passo di marcia. Alfred esordì con il suo consueto saluto.
− Buongiorno! Come posso servirl...
− Un panino, rapido. – lo interruppe l’uomo, indicando l’ orologio dorato al suo polso. – Ho molto da fare, io. Voglio essere servito subito.
Alfred restò ammutolito per un attimo, raggelato dalla scortesia del cliente.
− Ok, signore – respira profondo, Al, respira profondo – Che cosa desidera?
Il signore lo fissò come se fosse deficiente.
− Non è ovvio? Vorrei un panino. Ѐ o non è un fast food questo?
Alfred si girò e indicò il vasto assortimento di panini alle sue spalle.
− Mi perdoni se glielo ripeto, ma cosa desidera? Un panino con la carne, col pesce, vegetariano, singolo, doppio, col formaggio, con le verdure...? Abbiamo un’ampia scel-
− Ѐ proprio vero che voi giovani siete degli incompetenti. Ѐ ovvio, no? Un hamburger, con l’insalata e il pomodoro!
Respira profondo, Al, respira.
− Vuole anche patatine insieme? – domandò, il sorriso che mostrava i primi segni di cedimento.
− Ѐ ovvio! Come fai a non capirlo? – sputò il tizio, battendo le dita sul bancone come a incitarlo a fare più in fretta. Intanto nella mano destra era spuntato uno smartphone nuovo di pacca, al quale lui diede tutta la sua attenzione digitandogli sopra come un ossesso.
“Ѐ ovvio solo che sei un gran maleducato, ecco cosa” pensò Alfred, prima di procedere.
− Da bere?
Il cliente sbuffò, distratto dal cellulare.
− Voglio una Seltz. Fredda eh, che non me la porti calda e il panino tiepido.
− Una... Seltz? Mi dispiace, signore, ma qui non ne abbiamo.
Cosa diavolo era una Seltz?
− Che manica d’incapaci... – borbottò l’essere. – Manco la Seltz... vabbè dai, portami una Diet Coke. Almeno questa ce l’avrai, no?
“Certo, ho anche l’acido muriatico, che assieme al suo panino s’accompagna che è una meraviglia” pensò Alfred, il sorriso fasullo stampato sulla faccia di cera.
− Ma ceeerto, signore, ce l’abbiamo sì... Porta via o mangia qua?
− Il prezzo cambia?
Alfred avrebbe voluto rispondere “è ovvio!” ma si morse la lingua.
− Leggermente, signore, per via del coperto.
L’uomo storse il naso. Il suo stipendio non avrebbe sicuramente risentito di poche sterline in più o in meno, in ogni caso, ma a quanto pare per lui era una questione di vitale importanza. Ci mise il suo tempo prima di decidersi, dimostrandosi comunque alterato quando rispose: − Porto via. Ora si sbrighi, ho un sacco di lavoro, io!
Detto questo cominciò a mugugnare tra sé e battere il dito sull’orologio. Alfred era indeciso se mettersi a ridere come suo solito o compiere un omicidio, tutto pur di sfogare la collera che sentiva crescere dentro. Come si permetteva a trattarlo come una pezza da piedi, solo perché evidentemente aveva qualche migliaio di sterline in più sul conto corrente? Si mise a compilare lo scontrino, i denti serrati in un ringhio. Non era la prima volta che aveva a che fare con individui simili: quando ancora non conosceva bene il lavoro, li aveva semplicemente mandati a quel paese. Solo negli ultimi tempi si era ravveduto, anche se ormai era troppo tardi. Ora si ritrovava ingabbiato in una cella senza uscita: non poteva rispondere per le rime, o il cliente si sarebbe offeso e addio soldi; d’altro canto non poteva sopportare tutto questo per molto altro tempo ancora, non senza cadere in nevrosi. E poi non aveva voglia di fare brutte figure con Arthur... meglio stringere i denti.
Doveva pensare che quello era il lavoro dei suoi sogni, che presto o tardi si sarebbe fatto le ossa forti, che i clienti così erano delle eccezioni e non la regola. Come quando era piccolo, entrò nel suo mondo interiore e personale, dove lui era una specie di Superman alle prese con il cattivo di turno, fosse esso il bulletto della scuola o l’adulto più straccia coglioni dei dintorni. Si vide non più dietro al bancone del fastfood, ma sulla terra desolata di un lontano pianeta, dove il duello avrebbe avuto luogo senza impicci, tra Alfred e il super cattivo. Doveva vincere. L’universo intero contava su di lui.
− Allora, abbiamo detto: hamburger semplice con insalata e pomodoro, patatine e Diet Coke, tutto d’asporto. – spiegò ad alta voce, mentre digitava gli ultimi tasti . − Sono 8 sterlin...
− E il formaggio filante non lo conti?
Alfred interruppe la sua compilazione: − Uh? Ma allora voleva un cheese-burger?
− Che hamburger è senza formaggio filante? Sei un tale incapace da non conoscere neppure una cosa tanto elementare! Che diamine, spero ti licenzino!– strillò l’uomo, agitando le mani per aria con quel suo fare spocchioso.
Il ragazzo prese un profondo respiro, cercando di mandare giù il groppo amaro che sentiva in gola. Non poteva cedere. Lui era l’eroe. Gli eroi non fuggono mai davanti al nemico. Alfred aveva i poteri per sconfiggere chiunque l’avesse sfidato, per poi riportare la pace sul pianeta; in quello scontro, però, tra Super Al e Mr Ugly Moustache, era quest’ultimo ad avere la meglio. Era come se l’intero locale avesse le pareti ricoperte da kriptonite e ora il paladino fosse in ginocchio, mentre l’altro rideva sguaiatamente. Quella battaglia l’avrebbe vinta il cattivo? Era la fine, doveva arrendersi? Che fare per non esplodere? Il suo orgoglio pretendeva giustizia!
Alfred alzò gli occhi al cielo ed esclamò con tono drammatico: − Aiutami, Obi-One Kenobi, sei la mia unica speranza!
− Lascia perdere Star Wars, ci sono qua io per te.
Alfred si girò: come illuminato da una luce soprannaturale, il suo alleato Arthur era lì, al suo fianco, sorriso sicuro sulle labbra e divisa ridicola addosso. Al lo fissò come se fosse giunto direttamente dal cielo per aiutarlo nel far trionfare il bene. Gli occhi cominciarono addirittura a luccicargli. – Mr K... sei arrivato...
 – Vai in cucina, al signor cliente ci penso io. – disse l’inglese, prendendo il suo posto dietro al bancone. Di nascosto gli fece l’occhiolino.
− Arthur... grazie. – Alfred era quasi commosso. Si rinchiuse in cucina senza voltarsi indietro, mentre l’altro si apprestava ad affrontare Darth Vader...pardon, il signor cliente.
− Prego, signore, diceva? Un cheese-burger, patatine e lattina. Sono 10 sterline e quaranta. – ripeté, un sorrisetto falso sulle labbra.
− Non cheese-burger, hamburger normale col formaggio filante. – lo corresse Mr Ugly Moustache.
− Sempre 10 sterline e quaranta sono, signore.
Ugly Moustache sbuffò e tirò fuori una banconota. – Il suo collega è davvero inetto. – borbottò. – Quanto ci mette ora per fare uno stupido panino? Ho fretta.
− Un famoso scienziato, tale Albert Einstein disse che il tempo è relativo. – commentò Arthur con la consueta calma, − Disse anche che l’universo e la stupidità umana sono infiniti, ma non era sicuro del primo.
L’altro non sembrò cogliere la provocazione e proseguì con la sua lagna: − Che poi, perché non c’è nessuno qui? Sono l’unico cliente. Magari il cibo fa schifo?
Arthur ghignò, mantenendo però un tono estremamente cortese: − Oh, ma in realtà questo è un locale molto esclusivo, invisibile ai vili babbani. In questo mondo privo della magia è sempre più difficile trovare clienti degni, deve esserne onorato. A questo proposito, però devo avvisarla che non serviamo burrobirra, essendo il titolare contrario alla vendita di alcolici, ma disponiamo di molte altre bibite dissetanti.
Stavolta il cliente sbuffò come un toro infastidito. Ovviamente aveva capito si è no un decimo del discorso di Kirkland. − Non dica stupidaggini. Sul serio, quel tizio ci sta mettendo un secolo. Io ho fretta!
Arthur sospirò, ormai stanco di quella nenia incessante. Disse: − Avevamo a disposizione dei clienti più frettolosi una Giratempo, in modo che potessero gustare il loro pranzo il prima possibile. Poi però ci fu un incidente e uno di loro finì intrappolato nel Paleozoico, e da quel giorno abbiamo restituito lo strumento ad Hogwarts. Figuri che non ci ha neppure pagato il conto!
Le guance del cliente erano diventate livide. Bum, i buoni stavano riguadagnando terreno! Il cattivo non si aspettava che l’eroe avesse un compagno pronto a dargli man forte, men che meno con armi così subdole dalle quali era difficilissimo contrattaccare. Ringhiò: − Come si permette! Lei è malvagio!
− Prego?
− Malvagio! Quando uno non si comporta bene è malvagio!
Ma vedi te il colmo, ora era Arthur il “malvagio”. Era quasi divertente come cosa.
L’inglese aggrottò la fronte, perplesso: − Voleva forse dire “maleducato”? Ma se stiamo cercando di servirla con il massimo riguardo che un signore come lei merita!
− Ѐ lo stesso! Io sono cliente e pretendo rispetto.
Arthur annuì, trovandosi finalmente d’accordo. – Cosa buona e giusta, pretendere rispetto. Bisogna anche esserne degno, però.
− E allora?
− Allora cosa?
− Allora dove diavolo è il mio panino?! – sbraitò il cliente, con ormai la bava alla bocca: ci mancava poco che si trasformasse in licantropo. Alla buon’ora Alfred sbucò dalla cucina, hamburger e patatine ancora sfrigolanti alla mano. Fece una corsetta esasperatamente lenta verso il bancone, come se stesse saltando su braci ardenti, irritando ulteriormente l’uomo.
− Ecco a lei signore. Buon appetito. – disse, porgendogli finalmente il cibo. Trattenne a stento una risata, non riuscendo però a nascondere le labbra che tremavano.
L’essere afferrò brusco i pacchetti, paonazzo. − Vi metterò un pallino solo su TripAdvisor! – urlò − Dirò a tutti quanti che siete maleducati! Vedrete!
E il rompiscatole finalmente scomparve indispettito col suo pranzo, ancora acciaccato dai colpi dei buoni, giurando vendetta col volto nascosto nel suo ipotetico mantello nero. L’unione aveva fatto la forza. Alfred e Arthur lo guardarono uscire, lasciando andare un sospiro di sollievo quando l’ingresso si chiuse dietro di lui. Era fatta. Avevano vinto loro.
Geez, nel mio Paese un essere simile l’avrebbe spedito in una di quelle graziose case con le stanze imbottite e gentili uomini in camice bianco. Odio gli inglesi – dichiarò Alfred, e aggiunse lesto rivolto ad Arthur, una manata amichevole sulla spalla – ma forse, e ripeto forse!, per te potrei farla un’eccezione!
L’altro si grattò la nuca, a disagio per quell’improvviso complimento. La mano di Alfred rilasciava un piacevole tepore che si propagò fino al petto, riempiendolo di gioia.
− Ti ringrazio, però vorrei specificare che quel tizio non fosse inglese. – specificò, le gote tinte di rosa nel cercare di sottrarsi allo sguardo dell’altro − Non sapeva parlare bene, inoltre noi saremmo anche snob ma il “per favore” e il “grazie” perlomeno li utilizziamo. Sarà uno dei tanti che vengono qui per affari. Aveva un accento bizzarro, non trovi?
− Chissà, comunque volevo farti i complimenti.
Arthur arrossì ulteriormente, il piacevole calore scese e gli riempì la pancia. – Per cosa?
− Se fossi rimasto lì per altri dieci secondi a sentirlo berciare, sarei esploso come una bomba. L’avrei ricoperto d’insulti che nemmeno immagini! Ma sei arrivato in tempo tu e, non usando neanche una parolaccia, l’hai rimesso al suo posto e lui non ha avuto niente con cui replicare. L’hai blastato come un tornado! Sei stato un mito!
Arthur agitò la mano davanti al volto, come se non sentisse di meritare tale elogio.
− Si chiama sarcasmo, amico mio, e non ho neppure utilizzato tutto il mio potere.
Alfred rise, passandogli un braccio attorno alle spalle in confidenza. − Senti un po’, Freezer, che dici se restassi tu la prossima volta al banco? Ci sai fare coi clienti difficili.
Arthur s’irrigidì. Non pensava di potersi rapportare con le persone, avendo passato anni e anni da solo. La prospettiva gli metteva paura.
− Non serve che tu sia latte e miele con tutti, anzi, suoneresti falso. Devi capire che una lingua pungente ormai attrae anche più di una che lecca fondoschiena, basta che tu sappia utilizzarla come si deve, e soprattutto solo con chi se lo merita. E cavoli se lo sai fare! – osservò Alfred. Beh, specificare che Kirkland non dovesse essere sdolcinato era come ordinare un bicchiere d’acqua e chiarire di volerla umida. Arthur, però, sembrava a disagio.
− Ma io... e se combinassi qualche guaio? Non sarebbe meglio che lavorassi in cucina?
− Ugh! – Alfred incrociò le braccia, terrorizzato all’idea, – Fidati, stai meglio qua. E poi, sono io l’esperto di fast-food, no?
− “Fast” un corno, il rompiballe ha sbraitato tutto il tempo che aveva fretta e tu non uscivi!
Eccolo, l’alleato cominciava a rompere a sua volta. Oh beh, ne valeva la pena, viste le sue capacità dialettali dimostratesi molto utili.
− Vuoi controllare l’ora? Ci ho messo cinque minuti d’orologio, e solo perché l’olio non era abbastanza caldo per le patatine! Se lui aveva “tanta fretta” perché non è andato in una catena famosa? Oh, aspetta – e prese il cellulare da sotto il bancone. Arthur lo guardò incuriosito.
− Che fai? – domandò.
− Voglio vedere se ha lasciato veramente la recensione su TripAdvisor. Eccolo! – esultò. La recensione riportava:
“ - MALVAGI! –
Partendo col fatto l’arredamento fa venire l’epilessia, ma non importa perché è una cosa da giovani, almeno penso. Sono stato “accolto” da un ragazzino con una gentilezza falsissima, smascherata dopo pochissimo. Alla faccia dell’onestà! Dopo un po’ è arrivato un tipo che sembrava handicappato mentale che lo ha sostituito. Il tutto solo per consegnarmi un panino, una bibita e delle patatine!
 Non sanno prendere decentemente le ordinazioni, sono lenti (ben DIECI minuti ho dovuto aspettare! Quando ho esplicitamente detto che ero di fretta!), e soprattutto molto MALVAGI: quello più vecchio e dall’aria stupida mi ha deriso, approfittando di alcune mie lacune nella lingua del posto per insultare la mia persona atteggiandosi da presuntuoso. Il cibo era decente, se non altro, ma vorrei aggiungere che non hanno la Seltz.
Ridicoli.
Restarono a fissare la scritta per un po’, prima di mettersi a gridare contemporaneamente.
− Un tipo che sembra handicappato?! Si riferiva a me?
− Che significa non sanno prendere le ordinazioni? Ho fatto il possibile ma non sono un chiaroveggente!
− Ma soprattutto... “malvagi”?
Si guardarono negli occhi e scoppiarono a ridere in simultanea.
− Effettivamente, Arthur, un po’ tocco lo sembri con quel cappellino schiacciato sulla fronte e i mega sopracciglioni che spuntano sotto la visiera.
− Colpa tua, sei tu che hai insistito che lo mettessi. Come diceva il nostro amico, “è ovvio!” che sembro un idiota. E poi, chi dice che non si riferisse a te?!
− Ok, ok, non ti scaldare. L’arredamento da “gggiovani” la dice lunga sui suoi gusti estetici. Ma il “malvagi” qua? Scritto addirittura in maiuscolo?
Era davvero scritto “Evil”, malvagio, al posto di “Rude”, maleducato.
− Te l’ho detto che non sapeva parlare – disse Arthur, − Guarda il suo nome: “M. Galbani”. Un italiano. Me li ricordavo più cordiali, i mangia pasta a tradimento, ma evidentemente i rompiballe non hanno nazionalità.
Ma non era la provenienza del baffetto o le elucubrazioni antropologiche di Arthur  che interessavano ad Alfred. I suoi occhi brillavano.
− Mr K – mormorò – che ne dici di passare alla parte oscura?
− Eh?
− Accontentare questo essere e diventare effettivamente “malvagio”! Sarebbe una pubblicità perfetta per il locale: le persone adorano lo scontro bene/male. Io mi sono sempre reputato uno dei buoni, ma tu... tu potresti essere il cattivo! – Alfred batté le mani come un bambino eccitato. Sembrava avesse appena trovato la soluzione a tutti i loro problemi.
− Ma che idiozie vai cianciando? E poi, io non dovevo essere la spalla? – obiettò Arthur, dubbioso. Il suo sesto senso urlava che non ci sarebbe stato nulla di buono in quella scelta.
− Beh, puoi essere entrambi, no? Ѐ come in un fumetto – lo sguardo di Alfred si fece sognante – Il cattivo redento, tu, si mette dalla parte dei buoni e diventa l’aiutante del supereroe, ovvero il sottoscritto. Ogni tanto, però, la parte oscura cerca di riemergere... che figata! – batté nuovamente le mani. – Il terribile chef che un anno fa fece tanto scalpore per aver aggredito il critico culinario, torna ora a lavorare nello stesso posto al fianco di un giovane intraprendente self-made man americano! Sembra davvero cambiato, ma il suo sarcasmo pungente sembra dire il contrario! E se un giorno tornasse sulla brutta strada? Se volete sapere cosa succederà venite a mangiare un hamburger al “The Eagle” in Fleet Street!
Arthur rabbrividì. La situazione era più simile alla realtà di quanto quel marmocchio immaginasse, salvo il fatto che lui non era affatto “redento” e la parte oscura era già bella pronta all’uso, altro che soppressa in fondo all’animo. Ma finché lui non sospettava nulla, era al sicuro. Un po’ come per Toris... a proposito come sarebbe andato il suo colloquio?
Ebbe una stretta al cuore. Un presentimento, la sensazione che qualcosa sarebbe successo.
Sì, ma cosa?
 
*  *  *
 
− Tu resta qui e aspettalo – gli aveva detto Natalia, abbandonandolo nell’immenso studio. E così Toris ora si trovava solo in quella stanza, di nuovo preda del nervosismo. “Sta calmo” si ripeté sottovoce. Per rilassarsi cominciò a guardarsi in giro.
Lo studio era molto più bello dell’ingresso, più accogliente, più caldo. Non solo in termini di atmosfera, ma anche di temperatura: dovevano esserci almeno 25 gradi lì. Le pareti erano di un tenue color lilla, occupate per la maggior parte da una gigantesca libreria. Nella parte opposta della stanza rispetto a dove si trovava lui, un orologio a pendolo scandiva i secondi.
Clic-cloc-clic-cloc. Il pendolo si muoveva con una lentezza estenuante, rilasciando riflessi dorati dalla sua superficie in ottone. Dava una certa tensione e Toris preferì voltare lo sguardo. A sinistra c’era una finestra che dava sul parco, da cui la luce dei lampi ogni tanto illuminava la stanza. Vicino all’orologio era posizionata una cassetta piena di bottiglie di vetro, contenenti tutte un liquido trasparente: le targhe che le ricoprivano suggerivano si trattasse di liquori di buona marca. Al centro lo spazio era riempito da un tavolo in noce, ricoperto da svariati fascicoli e documenti e al centro di esso faceva la sua bella figura un vaso contenente girasoli. Sembrava che il vaso stesso fosse più importante dei documenti, dal momento che, a differenza di essi, occupava proprio il centro del tavolo in modo che fosse impossibile non vederlo. Chissà, forse era stata proprio Natalia a posizionarlo lì, dando il tocco femminile alla stanza? Toris sorrise al pensiero. Accanto al tavolo c’era una sedia rossa dallo schienale alto e imbottito, con i braccioli anch’essi rossi. Sembrava vecchiotta, infatti era leggermente scolorita ma aveva il fascino del “vintage”.
La tentazione sarebbe stata quella di sedercisi sopra, invece Toris si avvicinò alla libreria, affascinato dalla quantità dei volumi. Erano probabilmente tutti riguardanti Diritto e Legge.
Ne estrasse un paio a caso e ne lesse i titoli.
Voglia di ammazzare. Analisi di una pulsione
Storia della tortura
Il respiro gli morì in gola. Ma che diavolo era quella roba? Sfogliò le pagine del primo libro: sembrava un trattato di psichiatria criminale. Parlava della figura dell’assassino in maniera pratica, razionale, riportando eventi storici e spiegazioni dei vari comportamenti. Niente di preoccupante, insomma, forse l’argomento era un po’ controverso ma non era quello che gli raggelò il sangue: le pagine del libro avevano un odore particolare. Ricordavano a Toris la festa per i suoi diciotto anni, in cui lui e amici si erano scolati della...
− Vodka. – mormorò. Sì, qualcuno, presumibilmente il giudice Braginski, aveva letto quel libro più e più volte bevendo vodka. Il pensiero che, sotto gli effetti dell’alcol, avesse travisato quelle parole, specialmente gli spezzoni tratti da fatti accaduti realmente, bussò alla porta del suo cervello, ma non fece capolino del tutto. Era qualcosa che lo spaventava in un modo che non riusciva a spiegare. Rimise il primo libro al suo posto.
Il secondo libro fu peggiore, non solo per l’argomento, ma anche perché l’odore della vodka impregnato nella carta era più forte e soprattutto perché alcune parti erano sottolineate.
In quel volume, “Storia della tortura”, non c’era altrettanta spiegazione razionale del fenomeno, che se nell’altro libro aveva funzionato come scongiuro, qui veniva riassunta alla cultura del tempo. Medioevo, periodo buio, senza cultura, assediato dalla paura dell’invisibile... ma non finiva lì. Negli ultimi capitoli si chiariva la tortura svolta nei “tempi moderni” durante la guerra e nei periodi di pace, da associazioni come i servizi segreti finanziati dal governo. Erano soprattutto queste le pagine sottolineate a matita o a pennarello. E poi i disegni degli strumenti di tortura, marchingegni creati per far soffrire il più possibile la gente, che illustravano senza riguardi come quelle diavolerie, una volta, esistessero davvero e ci fosse gente che li utilizzasse. Magari con un certo gusto.
BASTA.
Toris mise via anche il secondo volume, il respiro azzerato per quello che aveva appena letto, cercando di ricordare a sé stesso che erano soltanto libri, libri, libri... e i libri sono oggetti innocui, privi di vita e del potere di toglierla. Erano come i fantasmi. Come aveva detto ad Arthur la prima sera? Ah sì. “La realtà è quello che è e appare. I mostri, i fantasmi non fanno parte della realtà, non possono farti del male.” L’aveva detto più che altro per negare alla parte razionale del suo cervello che aveva sentito qualcosa, lì fuori dalla casa, e non era un trucco da quattro soldi comprato per spaventare dei mocciosi.
Lo stesso stava accadendo ora. Sentiva qualcosa. Solo che stavolta era una sensazione molto più animale, che mai avrebbe associato al paranormale ma piuttosto all’istinto primordiale. L’intera stanza sembrava essere impregnata di un’aura inquietante, di cui solo ora si rendeva conto dato che prima era troppo intontito dal fascino di Natalia. Cercò di scrollarsi di dosso quell’impressione e ci riuscì: erano tutte superstizioni, paure inutili, le sue.
– Salve. – disse una voce alle sue spalle.
Toris sobbalzò, sentendo il cuore che saltava un battito per lo spavento. Si girò.
Davanti a lui stava un uomo alto, ampio come un armadio, talmente grosso che lo oscurava con la sua ombra. Sorrideva. – Salve – ripeté.
− Buon... buongiorno signor... Mr Braginski?
Il grosso uomo amplificò ulteriormente il suo sorriso e annuì. – Tu devi essere Toris. Perdona il mio ritardo, spero che mia sorella non ti abbia dato fastidio durante l’attesa, diventa particolarmente seccante quando ci sono visite.
− Oh no, assolutamente!
Braginski annuì nuovamente e indicò la poltrona davanti al tavolino. – Siediti, che facciamo quattro chiacchiere. – disse, la voce incredibilmente vellutata per uno della sua stazza.
Toris obbedì, mentre l’altro restò in piedi davanti alla libreria.
− Vedo che hai notato i miei libri.
− Sissignore.
Braginski sfiorò le copertine, fino ad arrivare ai volumi che Toris aveva rimesso al loro posto. Fece una piccola smorfia, accorgendosi che erano stati manipolati.
− Ti piace leggere, Toris?
Toris annuì. – Sì, signore. Sono uno studente, tra poco inizierò anche l’università.
− Sì, l’avevi scritto nella tua e-mail. – ricominciò ad accarezzare i libri – Studente... però non sei del luogo, giusto? Non sei inglese.
− No, signore, provengo dalla Lituania.
− Oh, ma allora siamo vicini di casa! Io sono nato in Russia. Dunque, tu sei uno straniero quaggiù... piccolo e sperduto in una grande città come Londra... senza lavoro, senza denaro...− Si allontanò dalla libreria, verso una piccola cassetta contenente bottiglie. – Ce l’hai almeno un alloggio per studenti?
− Vivo in affitto, signore, qua vicino.
− Quindi hai bisogno di soldi per pagare dove stare. – estrasse una bottiglia contenente un liquido trasparente. Vodka. Vicino alla cassetta c’era un armadietto e da quello prese un grosso bicchiere che riempì a tre quarti. – Ti va di lavorare per me, Toris?
Toris lo guardò tracannare d’un fiato il liquore come se fosse stata acqua. Annuì, perplesso.
− Te la cavi con i lavori di casa? Saresti in grado di organizzare dei documenti, se dovessi farlo? – domandò Braginski, girando tra le dita il bicchiere vuoto, come se meravigliato di quanto fosse stato veloce a scivolare nella sua gola.
− Penso di sì, in ogni caso sono veloce nell’imparare. Nelle faccende domestiche sono molto bravo, lo può confermare anche il mio ospite.
Il giudice sorrise, versandosi un altro bicchiere. Aveva i capelli argentati ma nessuna ruga, il viso adulto ma paffuto; la sua età era indecifrabile. Sopra a un maglione grigio scuro portava una lunga sciarpa bianca, nonostante nella stanza facesse già caldo.
− Chi è che ti ospita, a proposito? – chiese.
− Il signor Arthur Kirkland, signore.
Lo sguardo di Ivan s’illuminò come se un lampo l’avesse attraversato. – Arthur è tornato a Londra?
− Lo conosce, signore?
− Eccome! – Ivan scoppiò a ridere. Non sapeva il perché, ma a Toris quella risata mise i brividi. – Questo semplifica molto le cose.
− In che modo, signore?
Ma Braginski non gli rispose. Si posizionò davanti alla sedia dove aveva fatto sedere Toris, sorridendo mellifluo, le braccia incrociate dietro la schiena.  − Bene, ragazzo, allora ti spiego un po’: dovrai fare le pulizie di casa, farmi da segretario, tenere in ordine i miei documenti, diventare mio amico e giurarmi eterna fedeltà. Chiaro? – il sorriso s’ingrandì, amplificando anche i suoi occhi viola – Ogni giorno ripeterai che io sono il tuo migliore amico e non potresti avere nessuno al tuo fianco migliore di me −. Mentre parlava il suo volto si era fatto sempre più allegro. C’era da chiedersi se fosse merito della vodka, che fosse così felice e dicesse simili cose. Toris decise che era questo il motivo. Ivan non poteva essere serio.
− D’accordo, signore – disse, ridacchiando perché se quello era uno scherzo era abbastanza divertente – ma l’orario?
− Tempo pieno, devi essere disponibile in qualsiasi momento.
− Tempo... tempo pieno? Che intende?
− 24 ore su 24, sette giorni su sette, è ovvio – rispose l’altro, il sorriso che non abbandonava mai le sue labbra. Toris sentì la pelle accapponarsi quando un pensiero terribile gli passò per la testa: e se non stesse scherzando? Ma vaaa.
− Ma signore – la risatina si fece più forzata – come potrei? Io devo studiare all’università...
− Puoi tornare qui non appena i corsi sono terminati, ma dovresti fare attenzione a non tardare, altrimenti mi arrabbio e ti spezzo le ossa. Ho contatti tra i rettori, non puoi imbrogliarmi. Ah, non ti farei pagare nulla per cibo e alloggio, basta che tu resti qui a lavorare per me...
− Signore! – stavolta il suo fu quasi un urlo – Vorrebbe dire che dovrei venire a vivere qui?
Il giudice attenuò il suo sorriso, senza farlo sparire del tutto. – L’hai capito, finalmente.
Toris si sentì come Cappuccetto Rosso quando scopre che la cara nonnina ha qualcosa di strano. Ma lui l’aveva scoperto in tempo, non si sarebbe fatto divorare dal lupo anche se in questo momento aveva ancora le vesti di una vecchina. Giusto? O era solo paranoia la sua? Cavoli, non riusciva a capire se quell’uomo fosse serio o no, neppure adesso. Decise che la strategia migliore era far finta di nulla, continuare ad essere gentile.
− Senta, signor Braginski... – il panico nascente rendeva il solo parlare doloroso come se avesse una lametta incastrata in gola; ma Braginski non aveva troppa intenzione di ascoltarlo, comunque. Continuò come se nulla fosse con quel discorso privo di logica.
− Tranquillo, se si tratta di Kirkland ci parlo io; ha qualche piccolo conto in sospeso con me, non so se capisci. Potresti trasferirti da me a partire da domani, non sarebbe meraviglioso?
No, decisamente non poteva continuare a lungo a fingere di stare al gioco. La situazione si stava facendo inquietante e il giudice non sembrava scherzare, non l’aveva mai fatto da quando era entrato in quella dannata stanza. Toris ricordò con un brivido i libri puzzolenti di vodka e il suo sguardo cadde sulla bottiglia già mezza vuota sul tavolo. Quell’uomo aveva ingerito una quantità enorme di alcol, ma restava comunque lucido, era follia cosciente la sua. Ivan si allontanò di un passo. Era il momento di chiarirsi, altrimenti dopo sarebbe stato troppo tardi.
− Mr Braginski... io le devo dire una cosa. – sputò a fatica Toris. Un lampo illuminò la stanza, incendiando l’ambiente con una fiamma bianca.
− Sì, caro? Vado a prendere il contratto, così lo firmi e inizi a lavorare da me. – Ivan si stava dirigendo verso un fascicolo di documenti posizionato dall’altra parte del tavolino.
− Ѐ proprio questo il problema. Io... non credo di essere adatto per lavorare con lei.
Il tuono risuonò come un colpo di fucile, come per sottolineare le sue parole. I movimenti di Ivan si congelarono sul momento. Aveva il foglio in una mano e nell’altra una stilografica nera, ed era girato di spalle rispetto a Toris che quindi non riusciva a vedere la sua espressione. Posò entrambi gli oggetti e girò lentamente la testa.
− Come hai detto? – domandò. Il sorriso non era mutato ma le sue iridi brillavano come se il lampo di prima vi fosse rimasto intrappolato.
− Ho... ho detto che non credo di poter accettare questo lavoro. Mi dispiace.
Toris aveva deciso che non avrebbe accettato neanche se le premesse fossero state eccellenti. Quell’uomo gli metteva paura. Seriamente paura. Anche se non voleva ammetterlo, era terrorizzato.
Con quella frase pensò di essersi messo a posto, ma si sbagliava. Ivan non sorrideva più.
Come hai detto? – ripeté il giudice. Non era una domanda, o almeno non suonava come tale: gli stava dando l’occasione di rimangiarsi quello che aveva appena detto, ecco cosa.
− Mi ha sentito. Non me lo faccia ridire un’altra volta. – Toris non aveva idea da dove venisse questa sfacciataggine, né se avrebbe risolto o aggravato la situazione. Sapeva solo che aveva urgenza di andarsene, come se la stanza avesse cominciato a farsi crescere invisibili zanne con il quale sbranarlo.
− E così vorresti rifiutare un lavoro con il quale staresti sicuro fino alla fine della tua permanenza quaggiù? – Braginski scrollò la testa deluso, le dita stropicciarono leggermente i documenti che aveva in mano. – Pensavo che avremmo risolto la faccenda in pochi minuti. Perché vuoi complicare le cose?
− Ho cambiato idea, signore, ecco tutto.
Un altro lampo illuminò il volto di Ivan. Toris urlò. Il suo sorriso era ridotto a una sottilissima curva simbolica, gli occhi immensi lo squadravano con una luce malsana. Omicida.
Si avvicinò alla sedia rossa dove Toris era ancora seduto: non riuscendo a muovere un solo muscolo, non si era mai neppure alzato e ora lo fissava terrorizzato incombere su di lui. Attorno ad Ivan si era formata un’aura violacea fatta di elettricità e qualcos’altro. Non riuscì a domandarsi cosa diavolo fosse perché le mani di Ivan si strinsero sui braccioli della poltrona, imprigionandolo. Il volto dell’uomo si accostò talmente vicino a quello di Toris che per poco non si sfiorarono. Il contatto occhio-occhio era inevitabile. Il fiato di Ivan cadeva sulle labbra e sulle narici di Toris, sapeva di marcio. Giudice, perché hai una bocca così grande? Per mangiarti meglio, bambino caro!
− Tu non puoi cambiare idea così, Toris – sibilò l’uomo, lama di rasoio nascosta dal velluto − Hai idea di quanto possa essere dura la vita a Londra per un moscerino come te? Hai bisogno di pararti le spalle, altrimenti i pesci grossi ti mangeranno. Io lo so, finché non diventi grande e potente nessuno ha pietà di te, cercheranno tutti di sfruttarti, di metterti al muro. Sarai solo davanti a uno stuolo di esseri famelici pronti a tutto –. Il volume della sua voce crebbe fino a superare i tuoni all'esterno, il miele di prima era andato a male. – Devi credermi, fa freddo qua fuori. C’è la neve che sovrasta e ghiaccia tutto, anche il tuo cuore. E allora tornerai, tornerai strisciando, non c’è nessuno che abbia compassione quando non sei che un verme indifeso.
Toris lo fissò negli occhi, all’improvviso una scintilla di coraggio lo infiammò.− No! – urlò.
Ivan sussultò, allontanandosi leggermente. Le mani lasciarono i braccioli, rimasero sospese a mezz’aria.
– No! Perché mi dice queste cose? Proprio lei, che dovrebbe essere testimone vivente della giustizia! E la giustizia insegna che non importa se sei pesce grande o piccolo, hai lo stesso valore di qualunque altro!
Ivan scoppiò a ridere, una risata sguaiata. − Cavoli, quanto sei ingenuo! – disse, appena si fu calmato. Lo sguardo si era fatto spento, malinconico. Gli occhi erano lucidi. Sospirò. – Sono tutte stupidaggini che ti propinano quando sei marmocchio. Quanti anni hai? Diciannove, giusto? Non hai ancora imparato che questo mondo si basa sulla menzogna? Crediamo di sapere tante cose, noi, crediamo nell’esistenza della bontà del prossimo, mentre invece quello pensa solo a metterci in trappola come topolini. Il nostro cuore batte forte mentre lottiamo per liberarci, ma non si può. Siamo topolini con la schiena spezzata. Anche se sopravvivessimo, la nostra vita è pressoché inutile, perciò perché non arrendersi all’evidenza e basta? I deboli muoiono, non c’è alternativa, e perciò metterti al fianco di qualcuno che da “debole” è divenuto “forte”, dannatamente forte!, è la tua unica chance. Non sprecarla così.
Toris ingoiò un grumo di bile; stava per vomitare letteralmente il panico. Con uno sforzo incredibile riuscì a bofonchiare: − Si sbaglia, Mr Braginski! Io lo so!
Il rimasuglio di sorriso sul volto dell’uomo scomparve definitivamente, insieme a ogni dolcezza nella sua voce. Toris trattenne un grido di dolore quando le sue forti mani gli si strinsero sulle braccia, appena sotto le spalle, forti come tenaglie.
− Lo sai? Allora spiegami perché un piccolo, spocchioso inglese che è tornato quaggiù dopo aver quasi strangolato un altro uomo, rischiando per un pelo la galera per tentato omicidio, ha voluto ospitarti in casa sua! Credi forse che l’abbia fatto per il suo buon cuore? Spiegami perché la sua casa è avvolta dal mistero! Spiegami perché – e qua fece una risatina – c’è un posto in quella casa in cui non vuole assolutamente che tu vada! Perché c’è un posto simile, no? Il lupo perde il pelo ma non il vizio. – Scosse la testa, in un’espressione di completo disgusto, come se lui stesso non riuscisse a credere alla situazione. − Arthur rimarrà sempre un tale figlio di puttana che in confronto Barbablù e la stanza con le mogli assassinate è un marito devoto! Ma in ogni caso, chi è il pazzoide della situazione? Io, sempre io! E perché? Perché voglio un amico!
Ivan delirava. Aveva finalmente lasciato la presa su Toris, che stava già pensando al momento in cui i muscoli sarebbero esplosi sotto la sua forza, e ora muoveva l’immenso corpo come preso da una scossa elettrica, stagliandosi contro la luce del lampadario, dei lampi, gettando ombre da incubo sulle pareti circostanti. Sembrava stesse avendo un esaurimento nervoso. Berciava in russo rivolto al soffitto, al cielo, all’inferno, discorsi senza senso sbraitati con una furia tale che li rendevano intraducibili. Toris restò immobilizzato dal terrore sulla poltrona, sprofondato come se volesse nascondersi nel velluto rosso (rosso sangue) mentre il gigante ululava teorie distopiche sulla natura dell’essere umano.
Scappa disse a un tratto la parte razionale del suo cervello. Scappa, finché è preso da qust’attacco di psicosi, scappa, non vedi che la tempesta si sta già placando? E quando tornerà in sé per te non ci sarà scampo, ti ucciderà perché hai offeso il suo orgoglio.
E allora con uno scatto che non credeva possibile dal suo corpo, non in quelle condizioni almeno, Toris si alzò e fuggì.
 
Quel posto era un dannato labirinto.
Toris guardò le svariate porte distribuite nel corridoio, il primo in cui si era infilato non appena era uscito. Dove doveva andare? Non ricordava nulla del percorso fatto con Natalia.
Spinse una porta a caso, entrando e chiudendola con uno scatto secco.
− Diamine – imprecò disperato. Un altro corridoio. Si mise a correre, il cuore che minacciava di saltare fuori dalla gola, il fianco sinistro che cominciava a dolere. Le braccia, porca miseria, quelle sì che facevano male, ma non aveva tempo per pensarci. Aveva paura, una paura fottuta. Continuò a correre, finché non trovo un’altra porta chiusa. Bloccata.
− Merda! – urlò. Non c’erano altre porte. Dovette tornare al primo corridoio, con la sensazione pungente di trovare Braginski proprio là, con i suoi occhi viola e la sciarpa che avvolgeva il suo collo come un serpente addormentato. Invece no.
Avrebbe voluto mettersi a piangere, fingere che quello fosse un incubo e che presto si sarebbe svegliato guardando l’orologio e avrebbe scoperto che era in ritardo per il colloquio di lavoro, avrebbe voluto che fosse tutto uno scherzo. Oh, come sarebbe stato bello!
Stavolta prese la penultima porta, chiudendosela alle spalle. Era immerso nel buio, l’unica luce fioca proveniva da una finestra sul fondo. Tastò alla ricerca di un interruttore, protendendo le dita tremanti contro le pareti fredde della stanza. Mani invisibili si posarono sulle sue. Toris urlò, mentre le dita venivano schiacciate, stritolate, spezzate.
− Zitto, cretino – disse una voce familiare.
− Cosa... Natalia?!
La ragazza strinse la presa, facendolo gemere nuovamente. – Ti ho detto di star zitto, sei sordo? – bisbigliò incollerita.
− Ma... ma come...
− Il temporale ha fatto saltare la lampadina, è inutile che tenti di accendere la luce. Questa è la mia camera da letto.
− Oh... – Toris arrossì, al pensiero di loro due da soli proprio lì, ma il pensiero così dolce fu sostituito da una nuova ondata di dolore.
− Ho sentito mio fratello urlare fin da qua. Che diavolo è successo? – sibilò lei, senza allentare la presa.
− Mi dispiace, ma non voglio lavorare per lui! Non posso! Gliel’ho detto e lui è come impazzito e ora mi starà dando la caccia per la casa, oddio, ho paura! – la voce gli usciva acuta come quella di un bambino ma non era il momento di vergognarsene, neppure adesso che la ragazza lo stava fissando schifata.
− Puoi scommetterci che non puoi lavorare per lui, razza d’idiota. Non so come ti sia venuta in mente una cosa così stupida come il fratellone che insegua un moccioso come te, come se valessi la pena di sprecare il suo tempo! – ruggì Natalia, finendo la frase stringendo ulteriormente come a dare conferma delle sue parole. Il dolore scacciava il terrore.
In effetti aveva ragione, pensò Toris tornando lucido. Era tutta paranoia, mania di persecuzione. Ivan ora si stava sicuramente domandando perché quel ragazzino fosse fuggito in quel modo, senza un motivo valido tranne un paio di libri al profumo di vodka e un piccolo scatto d’ira da parte sua. Non era forse “disposto a tutto” pur di avere un lavoro e uno stipendio? E allora perché si comportava così? Schizzinoso!
− Cielo, mi sono comportato da idiota – sussurrò. Improvvisamente i suoi occhi abituati al buio, furono trafitti da una lama di luce: Natalia aveva aperto la porta.
− Muoviti – lo esortò. – Dubito davvero ti stia cercando, ma nel caso non mi va lo stesso tu rimanga qui come un coniglietto spaurito. Fai pena.
– O-ok... forse siamo ancora in tempo per fargli cambiare idea sul mio conto?
Natalia fece una smorfia. – Sei un caso disperato. Non so perché dovrebbe assumere qualcuno come te, davvero non ne ho idea.
Scivolarono entrambi nel corridoio principale.
− Forse è andato nel salotto – commentò la ragazza. – Vieni con me che...
E fu allora che sentirono i passi pesanti di Ivan provenire dall’inizio del corridoio.
− Toris? Toooris? Dove sei, caro? – cinguettava l’uomo, il buon umore riacquistato in toto. I suoi occhi d’ametista splendevano di quell’aura folle di poco prima, il sorriso mostrava i denti come nel ringhio famelico di un orso.
In un batter d’occhio i due ragazzi erano rientrati in camera, fulminei e silenziosi come lucertole. Toris si guardò le braccia e si rese conto che gli si era accapponata la pelle e non per il freddo. Anche Natalia aveva paura, lo si poteva vedere dalle orbite spalancate.
− Cazzo. – ansimò lei – Forse avevi ragione, prima.
− Prego?
− Tieni la bocca chiusa se vuoi rimanere in vita – e per qualche secondo fu il silenzio assoluto. Poi la voce di Ivan risuonò nuovamente, vicina. Troppo vicina.
− Ehi, Toris? Noi non li vogliamo bambini che non sanno giocare bene, giusto? E tu sei un bravo bambino, Toris, lo so io e lo sai anche tu, quindi perché non esci fuori e diventiamo amici?
Ivan era entrato in paio di stanze più in là.
− Apri bene le orecchie, adesso – bisbigliò Natalia, guardando l’altro con i suoi occhi ingigantiti. – A quanto pare lo hai fatto incazzare, non credo di averlo mai visto così... e se fosse già successo, dubito avrei voluto essere nei panni della sua preda. Prendi la terza porta sulla sinistra, attraversa il corridoio, la porta sul fondo. Fai presto!
− Come? Vorresti aiutarmi a fuggire? – Toris sentì il cuore sciogliersi e fece per abbracciarla. − Grazie, ti devo la vi...
− Muoviti, idiota! – urlò Natalia, spingendolo bruscamente contro la porta.
Se ne pentì subito. Da fuori Ivan li aveva sentiti.
− Sorellina, sei tu? Dove sei?
Toris tremò, pazzo di terrore. Guardò un’ultima volta gli occhi della ragazza e si accorse solo allora che non erano dilatati a causa della paura, ma a causa della collera. Ce l’aveva con lui. Questo fu la sua ultima riflessione prima di udire Ivan dirigersi verso la camera.
− C’è Toris con te, Nat? – chiese mentre si avvicinava, anche se sapeva già la risposta.
Toris serrò gli occhi, ormai in lacrime, non voleva vedere più niente ma fu come se da dietro le palpebre scorresse un film con protagonista Ivan che lo veniva a prendere: quel sorriso eccitato da bimbo, gli occhi ingranditi e vacui, sognanti, così terribilmente dolce con la sua voce di zucchero filato, il grosso lupo vestito da nonna, l’aura violacea che lo contornava e quel libro sulla tortura debitamente sottolineato... Senti il cigolare della porta mentre si apriva. Pure con gli occhi chiusi vide la luce che sostituì le tenebre nella stanza.
− Oddio, oddio – pianse. Lo aveva raggiunto. Aveva aperto, no, spalancato la porta e ora lo avrebbe prelevato di peso. Trascinatolo in una delle decine di stanze di quella casa maledetta, si sarebbe vendicato di quel affronto. E poi lo avrebbe ucciso.
Non successe niente di tutto ciò.
Toris aprì gli occhi. La luce che aveva visto non era altro che un lampo dalla finestra; la porta era ancora chiusa. Meglio, era socchiusa. Un tuono scoppiò nel cielo facendo tremare il mondo.
Natalia l’aprì senza far rumore e diede un’occhiata fuori, Toris l’imitò standole alle spalle sfiorando la sua schiena con il petto. Poteva sentire il suo calore attraverso il tessuto, ma non ne poté gioire perché la paura aveva il controllo ora. Ivan era per metà dentro la stanza proprio oltre la loro, l’ultima. Teneva la testa oltre la porta guardando all’interno, le braccia incrociate dietro la schiena. Le mani nascondevano qualcosa a chiunque fosse all’interno della stanza, come se stringesse un mazzo di fiori; Toris aguzzò gli occhi per vedere cos’era.
Un tubo metallico.
− Toris! TOOORIS! Esci fuori che t’ho portato un regalino! – urlò Ivan − UN REGALO SPECIALE PER IL MIO AMICO SPECIALE!
Ed entrò nell’ultima camera brandendo l’arnese.
Era il momento giusto: con uno scatto, Natalia buttò Toris nel corridoio, facendolo cadere per la spinta. Fece rumore. Ivan l’aveva sicuramente sentito, anche se era nell’altra stanza.
Toris si mise a correre. Era una corsa a rallentatore, come negli incubi, attraverso quel corridoio alto e freddo. I suoi passi producevano un “tump-tump” a ritmo con il suo cuore a mille, irregolari, frenetici. “Mi verrà un infarto prima di uscire da qui” pensò, prima d’imboccare la terza porta a destra. Si guardò intorno.
“Ma che diavolo... dove sono finito?” pensò, osservando spaesato quello che sembrava un ripostiglio. Non era il corridoio dove l’aveva indirizzato Natalia. Oh no. Aveva sbagliato strada.
“Merda! Cosa aveva detto?” cercò di ricordare, il panico che cercava di trascinarlo giù con sé nell’oblio. A cosa serve scappare?, domandava una voce suadente nei recessi della sua mente. Mettiti il cuore in pace, questa è casa sua e tu non sei che un verme indifeso, un moscerino, un topolino in trappola, non ricordi? Arrenditi, non hai scampo.
“Terza porta a destra e poi la stanza in fondo al corridoio” rammentò improvvisamente. Tornò all’uscio, in fretta, mentre la voce suadente veniva strozzata sul più bello.
Nel corridoio principale, davanti alla camera di Natalia, c’era Ivan. Toris si bloccò, persino il suo cuore smise per dei lunghi attimi di battere.
− Eccoti qua! – esultò gioioso Ivan, alzando in aria il tubo metallico mentre il sorriso si allargava su tutto il volto.
Ti ho trovato e adesso non mi scappi più.
Per un attimo Toris rimase dov’era, immobile, come se tutti i muscoli del corpo si fossero paralizzati nel momento in cui l’uomo cominciò a camminare verso di lui, passi pesanti e marziali; lo scosse solo vedere l’espressione truce della ragazza di cui s’era invaghito proprio lì, dietro di lui, che lo fissava. “Giuro che un giorno scapperò con te, Nat, non oggi ma un giorno sì” pensò febbrilmente mentre si girò e prese a correre verso la direzione giusta.
La testa si svuotò, solo le indicazioni del cervello alle gambe funzionavano. Non c’era più il batticuore, la voce che gli intimava di arrendersi, i tuoni al di fuori del palazzo o i passi del gigante armato di un tubo metallico. C’era solo una possibilità di fuggire.
La terza porta a destra. Il corridoio secondario che non sembrava finire più. La porta in fondo. Quando Toris finalmente l’aprì, si trovò in un luogo che aveva del famigliare: soffitto alto, bianco accecante, freddo e asettico come un ospedale... era l’ingresso!
Fu come una ventata d’aria fresca dopo un’eternità passata tra le fiamme infernali. Un gelo bianco che raffreddava il suo corpo incendiato dalla corsa, diametralmente diverso dalla canicola dello studio del giudice... ma allora non ci fece caso.
Dievas būti giriamas – gracchiò, stupidamente felice – Dio sia lodato.
Non si era mai definito particolarmente religioso, ma in quel momento sarebbe stato grato a qualunque forza divina lo avesse condotto fuori di lì sano e salvo. Il suo breve momento di sollievo venne rapidamente sostituito dalla porta da cui era appena entrato che si apriva. Una zaffata di odore alcolico entrò ancor prima dell‘uomo che l’emanava.
Toris scattò verso l‘uscio, senza voltarsi indietro, ogni pensiero coerente spazzato via da una paura che aveva dell‘assurdo, qualcosa che non aveva mai sperimentato prima d‘ora. Era la sicurezza che se Ivan l‘avesse preso ora, non avrebbe più rivisto la luce del sole.
Aprì la grossa porta di legno, pesante tra le mani tremanti e in un attimo fu fuori.
“Le scale. Oh, quattro piani di scale, li ho fatti prima e li faccio adesso, se l‘amore ti dà le ali, il terrore cosa mi darà?“ pensò, imboccando i primi scalini, il brivido che il pensiero di rotolare giù per quella rampa gli provocava attraversava l‘intero corpo.
Era la sua unica possibilità. Scese un intero piano con gli occhi piantati sui piedi, in modo da non fare alcun passo falso, finché come attratto da un magnete il suo sguardo non tornò da dove era partito e il fiato gli si mozzò in gola. Lo vide.
Ivan stava sul pianerottolo, le mani strette sul corrimano fino a far emergere i tendini. Lo stava fissando con sommo disprezzo. Non fu né il suo sguardo, seppure minaccioso, né le sue mani o i muscoli delle braccia tesi come se volesse staccare l‘asse, che gli azzerarono il respiro. Fu quel suono. Ivan emise un verso che Toris non aveva mai udito da nessun‘altra parte eppure gli provocò dei brividi che lo scossero fino alle ossa.
Kolkolkolkolkolkolkolkolkolkolkolkolkolkolkolkol.
Toris non aveva idea di cosa diavolo fosse, ma sicuramente niente di buono. Era il verso di un pazzo.
I seguenti tre piani li superò in un lampo, inseguito dall‘orribile kolkolkolkol di Ivan. Riuscì a raggiungerlo perfino fuori dal cancello, uncinato al suo dorso, tanto che il ragazzo si girò indietro aspettandosi di trovare il gigante alle sue spalle con il tubo di metallo in mano, sorridente mentre diceva “Diventiamo amici? A tutti i miei amici faccio un bel regalino”. Un solo colpo e il buio eterno, accompagnato da quel kolkolkolkolkolkolkolkolkolkol.
No, non c‘era nessuno. C‘era la pioggia, questo sì, ancora bella battente e Toris non aveva avuto il tempo di recuperare l‘ombrello o la giacca. Ora tremava di freddo e paura e le gocce di pioggia sostituivano le lacrime sul suo volto. L’acqua gelida proveniente dal cielo penetrò velocemente nei suoi abiti, impregnandoli. Liberandoli dall’innaturale calore dello studio del giudice come in un bagno purificatore.
Toris raggiunse un minuscolo spazio asciutto sotto una tettoia, a pochi metri dal vecchio edificio da incubo e lì tirò un po’ il fiato. Era vivo. Di nuovo si domandò se tutto quel trambusto non fosse effetto di delirio da persecuzione ma ora il dubbio non aveva più ragione di esistere. L’aveva vista la follia negli occhi di quell’uomo, così come l’aveva vista Natalia. L’aveva persino udita in quell’ultimo verso. Braginski era pazzo. Ogni cosa uscita dalla sua bocca doveva esserlo... non fece ora a terminare questo pensiero che una figura gli si piazzò davanti, coperta da un ombrello con il bordo in pizzo di plastica così che all’inizio gli fu difficile riconoscerla.
− Fe... Feliks?
Una testolina sbucò fuori dall’ombra, un sardonico sorrisetto sulle labbra.
− Yo, già qui? Non ti piaceva la casa del giudice? – domandò il ragazzo, ridacchiando sotto l’ombrellino fru-fru. – E mi pari anche meno vestito di prima. Non mi pare tanto intelligente, ti prenderai un malanno.
Toris non sapeva cosa rispondere. Questione di pochi secondi stupefatti e subentrò una furia pazzesca che riempì il suo corpo di calore.
− TU! – urlò – Tu sapevi che il giudice era uno psicopatico, non è così? Perché non me l’hai detto?
Feliks alzò le spalle. – Non volevo farti spoiler. E poi hai una faccia così buffa proprio adesso che, tipo, non avrei voluto perdermela assolutamente! – e si mise una mano davanti alla bocca, scoppiando a ridere. La risata scosse il corpicino e l’ombrello, che schizzò a terra gocce di pioggia. Toris sentì il corpo riempirsi di calda furia che arrivò si fermò come un bolo di lava nella gola, strozzandolo. – Buffa, dici?! – era talmente arrabbiato che aveva addirittura difficoltà a parlare. O forse era solo un raffreddore incipiente. − Ma hai idea di cos’ho passato là dentro?
− Certo che sì. Ma, tipo, tu non mi avresti ascoltato lo stesso perché eri troppo cotto della Nat. Quando ti avevo detto che non avrei consigliato a nessuno a salire là sopra non stavo scherzando, sai. Diciamo che è stata anche colpa tua.
Toris digrignò i denti, i pugni stretti ai fianchi e le guance ardenti che facevano evaporare la pioggia posatavi sopra. Si trattenne dal non affogare occhi-da-gatto in una delle pozzanghere. – Bastardo – mugugnò – Sei un... essere spregevole. Vai al diavolo. –
Feliks inclinò la testa sulla spalla, guardandolo di traverso. Tornò a sorridere, intenerito come se stesse guardando un bimbetto che faceva i capricci. − Tipo, non me ne frega niente di quello che pensi di me – disse dolcemente – Anche perché ciò non cambia che tu mi stia simpatico, sai?
Simpatico? Ma se l’aveva praticamente mandato al patibolo!
Feliks fece un passo in avanti, ondeggiando come una ballerina. − A proposito, devi ancora dirmi come ti chiami. – disse, come se la questione fosse terminata.
− Il mio nome è Toris. Ma cosa t’importa? Se sono fortunato non ti vedrò mai più. – Toris girò lo sguardo da un’altra parte, braccia incrociate, simulando un broncio che tanto stonava con il suo carattere: non era intenzionato a dargliela vinta.
− E vabbè, allora ti saluto. Stammi bene! – Feliks si girò con una piroetta verso la strada, pronto ad andarsene e scomparire per sempre nella pioggia. L’ombrello aveva di nuovo coperto la sua figura minuta mentre si accingeva a uscire dalla sua visuale.
Toris restò per un attimo a bocca aperta, guardandolo allontanarsi nell’oscurità grigia del temporale. Se ne stava davvero andando?
− Aspetta! – urlò, allungando una mano verso di lui, come per riprenderlo e riportarlo accanto a sé, come se fossero gli ultimi due esseri umani rimasti in quella landa desolata.
− Oh? – Feliks si girò. Gli occhi da gatto brillarono nonostante l’ombra della sua posizione.
− Sei... sei davvero insensibile a... aaah-etciù!... ad andartene così. Hai intenzione di lasciarmi qui da... sniff... solo? – la voce di Toris non era più così dura: aveva troppo freddo per rimanere col broncio, senza contare che ci sono momenti in cui l’orgoglio è addirittura lesivo. Quello era uno di quei momenti.
Feliks sorrise, tornando verso di lui. Arrivatogli davanti gli tese la mano, lo sguardo che aveva perso la sua irriverenza e si rivelava già più gentile: − Certo che no. Saresti capace di rimanere qui fino a quando non ti si ghiaccia il sederino.
Ok, forse aveva un modo un po’ strano di essere gentile, ma Toris apprezzò comunque lo sforzo: tutto, pur di raccattare quel minimo di dolcezza che lo salvasse dall’angoscia i cui tentacoli lo stavano ancora avvolgendo, appiccicosi residui di terrore. Le parole di Braginski risuonavano come sussurri spettrali nella sua testa, tormentandolo.
Gli prese la mano.
Il contatto con quella pelle calda, morbida, rasserenò un pochino il suo cuore. Il calore attraversò il palmo e si trasmise al volto, trasformatosi nel frattempo in un pezzo di ghiaccio, facendolo sorridere piano a sua volta.
– Per favore, mi accompagneresti a casa? Anzi no... portami in Fleet Street. Non è lontano da qui.
 
Per arrivare laggiù dovettero riattraversare il pezzo davanti al parco proprio dove Toris aveva avvistato per la prima volta Natalia. La loro camminata era fondamentalmente opposta: Feliks era disinvolto, dalla camminata saltellante sotto la pioggia e rideva, appropriatosi dell’80% della copertura dell’ombrello; l’altro, quasi interamente inerme al cadere dell’acqua e del tutto zuppo, continuava a tenere la testa bassa temendo che da un momento all’altro potesse accadere qualcosa, sebbene ora fosse improbabile.
− Su, ma che hai? – chiese Feliks, dandogli una spintarella scherzosa fuori dall’asciutto.
− Umpf. Niente, solo non mi sono ancora ripreso da prima. – Toris cercò di tornare sotto l’ombrello, anche solo per non sentire la pioggia minacciare di sfondargli il cranio un po’ alla volta. Inutile.
− Ci riuscirai. – Feliks era già un passo avanti a lui. − Tutti ci riescono.
Toris sbuffò davanti a quella minimizzazione del suo stato. Feliks continuò, schizzando acqua da una pozzanghera come i bambini: − Vedi, quello è tanto strambo ma non pericoloso! Non è... – e improvvisamente tacque, guardando verso il palazzo del giudice. D’un tratto era divenuto pallido come un cencio, la sua anima aveva abbandonato il corpo lasciando una scorza bianca e rigida. Non respirava neppure.
− Feliks? Che succe... – chiese allarmato Toris e si voltò anche lui verso la stessa direzione.
Ivan era alla stessa finestra in cui era Natalia prima.
Sorrideva. Sul volto era aperto un crepaccio celato dalla neve, pericoloso, letale se ci cascavi dentro, specie se lo guardavi in quei occhi luminosi d’ametista, meravigliose pietre dure.
Li salutò entrambi con la mano.
Era un semplice movimento da destra a sinistra, un “ciao ciao” che avrebbe potuto fare chiunque, anche un bambino, e proprio a un bambino lui assomigliava nella sua fredda purezza. Il fantasma di un bimbo morto in una tempesta di ghiaccio e alberi ululanti, vittima del terribile inverno russo e della crudeltà che gli aveva congelato poco alla volta l’anima.
Le sue labbra pronunciarono lentamente, in modo che si potessero leggere anche da lontano, attraverso la pioggia: “Das vidanya~”.
Ci rivedremo.
Entrambi i ragazzi fuggirono via, sotto la pioggia e i fulmini, intuendo che quella terribile giornata non fosse che l’inizio di un incubo.
 
− Dico, quel Braginski ce l’ha totalmente con te! – strillò Feliks non appena trovarono una fermata del bus coperta dove tirare il fiato per la corsa. Si erano seduti, il respiro mozzato e il cuore che sembrava scoppiare per la paura, la gola seccata dall’aria gelida.
− Che... che ti avevo detto? Lui è... pazzo... da legare. – rispose a frammenti Toris, indispettito per l’ovvietà della cosa. Feliks scrollò la testa, schizzando qualche goccia che aveva impregnato i suoi capelli. Si strinse le braccia e arricciò il labbro, incredulo di non aver avuto ragione per una volta.
− Sì, ma quando ero andato io per l’annuncio, non era così. Cioè, era tipo tutto strambo e se l’è presa anche un po’ quando ho cambiato idea, ma non mi sembra che... o forse sì? – si portò l’indice al labbro, pensieroso. − Boh, non ricordo.
Toris lo fissò a bocca aperta.
− Co...come? Anche tu saresti voluto andare a lavorare per quel tizio? E sei pure entrato in casa sua?
Feliks allungò le braccia dietro la nuca, guardandolo impassibile. I muscoli emisero degli schiocchi delicati. − Ehi bello, la somma che ti danno per l’Erasmus finisce subito in una città come Londra! Non sono, tipo, un Rothschild o simili.
Toris lo guardò con un misto di sorpresa e gioia.
− Ma non mi dire, anche tu qua per l’Erasmus? – chiese, felice di poter pensare a qualcos’altro. – Di dove sei? Io vengo dalla Lituania.
Feliks sorrise con quel suo sorriso malizioso da sberle in faccia. – Lituano, eh? Io dalla meravigliosa, unica, inimitabile, motherfucker Polonia! Yuhuuu! La meglio!
Alzò le braccia con i pugnetti chiusi in un moto di patriottismo sfegatato. Toris cercò di precisare che “motherfucker” non fosse esattamente un complimento, ma Feliks lo rimbrottò con tono saccente: − Negli USA sì, però. Si usa quando qualcosa o qualcuno è badass. Lo so perché questo termine su internet lo usano, tipo, tutti quanti. Dev’essere slang o qualcosa del genere, perché, cioè, non lo utilizzerebbero se fosse una parolaccia, no? Un po’ come da me con “Kurwa”, fa parte del lessico comune.
Ok, meglio rinunciare nel continuare , preferendo domandare delucidazioni in merito a un madrelingua come Alfred. A proposito, doveva tornare al fast food! Chissà che ora era.
Per fortuna il cellulare era rimasto nella tasca dei pantaloni... e lì era morto a causa dell’acqua.
− Merda. – imprecò, cercando di accenderlo, le dita che gli facevano un male boia dopo che la dolce Natalia gliele aveva stritolate. Feliks lo guardò interrogativo. Si allungò e notò anche lui la dipartita dell’apparecchio.
− Che c’è? Devi avvisare qualcuno? Adesso ti porto io in Frit Street, non preoccupati.
− Fleet Street, non “Frit”...
Feliks ritornò a braccia conserte, il volto offeso. − Lo so, non sono mica stupido sai? Cercavo solo di tirarti su di morale.
Ma la battuta alquanto stupida non ebbe l’effetto sperato: Toris chinò il capo incassandolo tra le spalle, i capelli grondanti pioggia gocciolarono sulla maglia già fradicia. Il volto era nascosto dalle ciocche castane divenute più scure per l’acqua che le impregnavano. I tuoni che li circondavano, sebbene ormai soffusi, sembravano colpirlo come frustate, piccolo agnello sacrificale con la mannaia tesa sopra al collo.
Feliks l’osservò senza dire nulla e restarono un po’ avvolti da quell’atmosfera liquida e grigia. Alzò quindi una mano, lento e cauto come se avesse avuto paura di romperlo, e tolse una ciocca di capelli dal viso dell’altro, svelandoglielo. I polpastrelli gli sfiorarono la guancia, tiepidi come raggi di sole. Il volto del polacco si avvicinò a quello del lituano, in un tentativo timido di rincuorarlo, di vedere se fosse ancora vivo o avesse ceduto al freddo la sua anima. Gli occhi smeraldini di Feliks incontrarono quelli di giada di Toris e per un attimo i due si guardarono e senza parole si compresero.
Erano abbastanza vicini da poter sentire l’uno l’odore dell’altro, come due bestiole che si annusano per stabilire una volta per tutte se fosse saggio instaurare un rapporto. Feliks riusciva a intravedere il leggero tremolio delle pupille di Toris, il luccichio delle iridi lucide, il solco di preoccupazione che già cominciava a lasciare il segno sulla pelle ancora giovane e fresca. Il volto pallido di paura e stanchezza. Il labbro inferiore tirato indietro, come a impedirsi di parlare. Il profumo della pioggia e delle foglie marce che si mescolava alla sua essenza trasformandosi in un tutt’uno di malinconia e disperazione.
Ecco! La ruga che deturpava la fronte del ragazzo s’attenuò, i denti lasciarono in pace le labbra che furono quindi libere di distendersi e piegarsi dolcemente verso l’alto, gli occhi lasciarono andare quella scintilla di panico, liberandola nell’aria della sera. Feliks ammirò quella trasformazione dimentico di ogni riserbo lo bloccasse. Sentiva un calore strano divampargli nel petto, ma non aveva idea di cosa potesse mai essere.
Poi l’incantesimo che segnò l’alba di una nuova amicizia svanì com’era apparso ed egli si allontanò di scatto, le guance rosa di timidezza. Toris sorrise. Aveva riacquistato quel pizzico di calore necessario perché l’animo sciogliesse il ghiaccio formatisi durante la fuga, perché una cosa vera l’aveva detta il folle giudice: la paura ti rende insensibile alla tenerezza, ti mette in costante guardia, rigido come una stalattite eterna. Solo l’amore e l’amicizia salvano. Poteva considerare amico quel strano ragazzo dagli occhi felini? Dal canto suo, Feliks sentiva ancora un bizzarro tumulto all’altezza del cuore. Non osava rincontrare gli occhi dell’altro, aveva paura di rimanere sopraffatto dalla sensazione di meraviglia che lo aveva colto quando l’aveva visto sorridere per la prima volta. Poteva considerare amico quel tizio che profumava di pioggia?
Fu Toris a rompere il silenzio. – Grazie – disse. Feliks non aveva neppure motivo di domandargliene il motivo. Sapeva a cosa si rivolgeva. Si limitò ad alzare le spalle, le guance divenute senza volerlo ancor più prossime al ciclamino.
− Forse è ora che andiamo a casa, non trovi? Non dovevi andare in quella via stramba... Fleet Street? – insinuò, fingendo distacco. Toris annuì.
− Sai dov’è il fast-food “The Eagle”? Fa niente, ti dico io la strada.
 
Arrivarono finalmente al locale che il temporale era finito. L’aria fredda penetrava nel tessuto bagnato dei vestiti di Toris, facendolo rabbrividire; si domandò se potessero venirgli i reumatismi a diciannove anni. Feliks guardò l’interno del locale.
− Bel posto, non c’è che dire – commentò. − Ora devo andare, ci vediamo!
− Eh? Ma non entri?
Feliks si allontanò dicendo qualcosa sugli sconosciuti che gli mettevano terrore. Toris sospirò: conosceva quel tipo da pochissimo e già nutriva dubbi se potesse considerarlo un amico oppure no. Entrò tentennante nel locale, sobbalzando nel sentire il campanello che segnalava il suo arrivo.
− Toris! Ben tornato! Oh, ma sei zuppo come un pulcino... – lo accolse Alfred, notando con piccolo disappunto la scia d’acqua che lasciava l’altro dietro di sé. Il ragazzo si abbandonò su uno dei divanetti, resosi improvvisamente conto di essere sfinito e con parecchi muscoli doloranti. – Ciao a tutti – mormorò.
− Com’è andata il colloquio? – chiese Alfred, prendendo uno straccio. A quella domanda Toris emise un gemito disperato, ricordando che era supposto avesse un lavoro adesso.
− Non tanto bene – ammise – non sono stato assunto.
− Oh, mi dispiace – commentò Alfred pulendo le tracce lasciate sul pavimento.
− Ma forse è colpa mia. Il giudice Braginski non m’ispirava fiducia, diciamo.
− Il giudice... – l’americano interruppe il suo lavoro, guardandolo a bocca aperta − ...Braginski?! Per forza sei ridotto così, aspetta che ti porto qualcosa per ristorarti. Non sono sicuro di avere qualcosa di caldo in dispensa da bere... lo vuoi un caffè? Oppure una cioccolata? E devi anche cambiarti, o prenderai un raffreddore.
In quel momento dalla cucina uscì Arthur, con la sua bella divisa cappellino compreso.
− Ѐ arrivato un altro cliente, Al? Oh, ciao Toris.
Alfred gli fece segno di tacere, mentre lo raggiungeva sulla porta. Arthur alzò un sopracciglio: − Che c’è? Non posso neanche salutarlo, adesso?
− Sta buono, non vedi che brutta cera ha? Fallo riposare un attimo.
− Il colloquio a quanto pare non è andato alla grande, eh?
− Puoi scommetterci le sopracciglia. Il suo datore di lavoro altri non era che il nostro caro Braginski. – spiegò Alfred e Arthur sbiancò.
− Cavoli... – riuscì solamente a dire. Avrebbe dovuto sospettarlo. Ivan non si era trasferito, era sempre rimasto lì, a Snow Hill, e lui avrebbe dovuto aspettarselo, chissà cosa gli aveva rivelato sul suo conto, chissà cosa pensava adesso Toris del suo ospite... anche se c’era la possibilità che il ragazzo avesse tenuto la bocca chiusa e Ivan non sapesse niente del suo ritorno a Londra. Sarebbe stata la situazione migliore anche se illusoria. Arthur lanciò un’occhiata a Toris. Nonostante la stanchezza, il ragazzo rispose allo sguardo. Quello che vide non doveva piacergli granché, poiché gli occhi d’un tratto si allargarono e la bocca si aprì leggermente. – Mr Kirkland...? – mormorò.
Arthur iniziò sudare freddo. Ecco, dannazione, chissà che domande aveva in riserbo per lui, altro che gentleman, Toris ora doveva pensare che fosse una specie di assassino... o peggio. Ivan sapeva molte cose sul suo conto e non aveva paura di divulgarle. Si preparò mentalmente all’interrogatorio.
E invece Toris scoppiò a ridere.
Arthur restò per un attimo basito davanti a quella risata inaspettata, senza capire cosa ci fosse di tanto divertente.
 – Mr... mr Kirkland, come diavolo è vestito? – sghignazzò Toris. La sua risata aveva un suono anormale ma in quel momento nessuno lo notò.
− Ѐ la mia divisa, perché me lo domandi?
− Mi perdoni, signore, ma è davvero esilarante vestito così!
E Toris continuò a ridere, contagiando anche Alfred. Arthur li fulminò entrambi.
− Smettetela! Non sono così ridicolo! Almeno credo...
− Sul serio, signore! Così di rosso vestito assomiglia a uno degli Angry Birds! – e a questa risposta Alfred gli diede il cinque, scompisciandosi ulteriormente.
− Toris, guarda che stanotte tu dormi qua – lo minacciò Arthur.
− Suvvia, non prendertela! Un po’ di sarcasmo non ha mai ucciso nessuno, o no? – disse Alfred, facendogli l’occhiolino. – Piuttosto, dagli la tua giacca prima che muoia di ipotermia. Guardalo, è fradicio! Ah, Toris, ti devo raccontare cos’è successo prima: abbiamo avuto un cliente che, guarda, un tipo simile spero gli sia andato il panino per traverso! −. E giù a descrivere l’accaduto, arricchendolo di qualche piccolo dettaglio per renderlo simile allo sceneggiato di un film piuttosto che a un frammento di vita reale.
Arthur invece andò a prendere la giacca. Possibile che dopo più d’una settimana passata sul suolo inglese, quel ragazzino fosse stato tanto sprovveduto da andarsene in giro in maniche di camicia e senza ombrello? No, non era concepibile. Toris era tutto, meno che uno sbadato. Qualcosa gli aveva impedito di recuperare il resto del vestiario con cui coprirsi sotto quel tempaccio, e aveva la netta certezza che quella cosa fosse proprio Ivan. Toris era uscito dalla sua casa senza curarsi di altro, voleva forse dire che era fuggito? Se sì, che motivo aveva di farlo? Che domanda inutile! Quel giudice non aveva tutte le rotelle a posto, se n’era accorto anche Alfred.
Arthur sentì il cuore stringersi per qualcosa che credeva fosse ormai morto: un sentimento di pietà. Il ragazzo aveva fatto di tutto per racimolare uno stipendio con cui pagarlo, nonostante al pagamento dell’affitto mancasse ancora un bel po’, e pensava di trovarlo a casa di quello psicotico. Probabilmente ora si sentiva in colpa perché aveva perso quell’occasione, perché Toris era quel tipo di persona che non voleva avere debiti con nessuno, Toris era un bravo ragazzo.
Se ora stava soffrendo per qualsiasi cosa fosse avvenuta in quella casa, Arthur ne era la causa primaria. “Non merita di essere trattato male... è vero, mi serve semplicemente come copertura, ma è anche solo un ragazzo la cui unica colpa è stata fidarsi di me...” pensò, mentre quello strano dolore al cuore si acuiva.
− Ohibò, ci diamo ai sentimentalismi adesso? – disse una vocina accanto a lui – Credevo fossi diventato Mr Cuore di Pietra dopo lo scontro con Francis.
− Taci. Non sono un sentimentale, non lo sono mai stato! Ho avuto un piccolo attimo di debolezza, nient’altro. Tutto deve andare secondo i piani e Ivan potrebbe essermi d’intralcio, per questo m’interessa la questione. – ringhiò in risposta, mentre la vocina scompariva ridacchiando piano.
Arthur si diresse di fretta nel salone, dove Alfred stava cercando di rianimare il cellulare di Toris. – Niente! – si lamentò. – Ha preso troppa acqua. Comunque ti posso far leggere la recensione sul mio.
E gli mostrò cosa Signor Brutti Baffi aveva scritto su TripAdvisor.
− Malvagi! Ecco cosa siamo diventati! E allora ho detto ad Arthur... oh, eccoti! Vieni qui con noi! Dicevo, ho detto ad Arthur “Facciamo che io sono l’eroe e tu sei il malvagio, potrebbe essere una bella pubblicità!” dal momento che quaggiù è relativamente famoso dopo lo scontro con Bonnefoy. Te che ne dici?
Toris annuì, prendendo la giacca dalle mani di Arthur. – Grazie – mormorò.
Arthur era così gentile... come avrebbe potuto fare la parte del cattivo? Certo, spesso aveva la lingua tagliente e gli piaceva fare parlare di cose macabre per il solo gusto di vedere la reazione nelle persone, ma non era davvero cattivo. Le parole di Braginski gli risuonarono nella testa e lui cercò di scacciarle. Ha quasi ucciso un uomo, aveva detto, e su questo non aveva prove... più o meno. Ce le aveva? Che diavolo era successo un anno prima?
E poi il fatto che sapesse del mistero che avvolgeva la casa, mistero che Kirkland adduceva a congegni per spaventare gli intrusi. Ma soprattutto... come faceva a sapere che la casa aveva una stanza proibita? “Il lupo perde il pelo ma non il vizio”, cosa significava?
Oh, per l’amor del cielo, perché doveva ripensare alle parole di un pazzoide? Erano soltanto coincidenze. Braginski conosceva da tempo Kirkland, poco ma sicuro, e aveva utilizzato quelle conoscenze per convincerlo a lavorare per lui. Non c’era dubbio.
Per quel giorno non voleva pensarci più.
− Ho conosciuto una ragazza, la sorella del giudice. – dichiarò – Ѐ incredibilmente carina.
− Oh, parli di Natalia? Sì sì, la conosco. Un tipetto tosto. – replicò Alfred.
− E anche un altro ragazzo, anche lui sta facendo l’Erasmus. Si chiama Feliks. Potrei invitarlo a mangiare qui, così diverrebbe vostro cliente e farebbe pubblicità, no?
− Bell’idea! Gli studenti sono clienti migliori, hanno lo stomaco più forte degli adulti di mezz’età. Potresti aiutarci molto sai? – disse Alfred. Toris arrossì di gioia. Arthur annuì.
− Sono davvero felice che tu sia qui. Perdona il mio egoismo, ma non credo avrei sopportato sapere che lavoravi per il giudice. Non mi piace granché quell’uomo. – ammise.
− Non si preoccupi, comunque da domani ricomincia la mia ricerca.
− Senza fretta, caro.
Toris sorrise di nuovo. No, Kirkland non era cattivo, assolutamente. Impossibile.
 
*  *  *
 
Subito dopo la fuga di Toris, Ivan Braginski era infuriato. Triste e infuriato. E meditava.
− Perché... perché deve sempre finire così? – mormorò rauco. Era nel suo studio, seduto sulla sedia rossa, tracannando liquore come se non ci fosse un domani.
− Ho fatto così tanti sforzi per arrivare in alto, per ottenere il potere, ma non basta a quanto pare. La gente mi odia comunque. Perché non possiamo essere amici? Cosa c’è che non va in me? − La sua voce si rompeva sempre più. Strinse tra le mani il bicchiere, come se volesse frantumarlo tra le dita. – Sorellina, tu lo sai?
Un’ombra si alzò dall’angolo della stanza e si avvicinò alla sedia. Natalia posò la testa sulla spalla di Ivan, sussurrando: − Non c’è niente che non vada in te. Sono gli altri che non lo capiscono.
− Allora cosa posso fare per farmi amare?
− Lascia perdere quegli sciocchi, non ti meritano − Natalia accostò il suo viso a quello del fratello. – Basto io per te.
− Fosse stato l’unico, almeno! Ci sono stati anche quei due, prima di Toris. Eduard è stato quello più astuto, è riuscito a sgusciare via senza quasi farmene accorgere. Feliks, al contrario, era un ribelle, dubito sarei riuscito a farmi obbedire decentemente neanche se fossi riuscito a tenerlo qui.
− Stai dimenticando il piccolo Raivis.
− Piccolo, appunto. Troppo giovane. Peccato, però, era il più facile da sottomettere, ma la legge vale anche per me e tenerlo qua avrebbe comportato delle rogne non da poco.
Ivan sospirò. – Se almeno ci fosse la sorellona... ma ci ha lasciati anche lei, preferendo il mondo esterno alla famiglia. Vorrei portarle rancore e invece devo ammettere che mi manca. Come mi mancano tutti quelli che avrei potuto avere come amici.
− Ci sono io qui, non scordartelo –. La guancia di Natalia stava toccando quella di Ivan, trasmettendole il suo calore – Io non ti abbandonerò mai, anzi, starò sempre al tuo fianco. Lo sai che ti voglio tanto bene, fratellone –. Gli schioccò un bacio sulla guancia e lui si ritrasse, infastidito. Nat era tanto affettuosa, fin troppo: delle volte quel suo attaccamento gli metteva i brividi.
− Ѐ uno strazio sapere che Toris preferisce Arthur a me. A proposito, lo sai che è tornato a Londra e lo sta ospitando? Dico io, non so cos’abbia in mente quell’essere!
− Ѐ stato lui che ti ha regalato questa sedia, vero?
− Già. Ricordo che le prime volte in cui mi ci sono seduto si è rotta. Ho dovuto farla riparare da lui stesso, perché a detta sua era l’unico che potesse farlo.
Accarezzò i braccioli. Anche Toris si era seduto lì, mentre sosteneva il colloquio e poi era fuggito. Letteralmente fuggito. Ah, se solo avesse usato un po’ più di giudizio! Lo sanno tutti che la fuga eccita l’istinto a cacciare. Beh, a lui aveva semplicemente fatto parecchio incazzare: era un atto completamente fuori luogo, maleducato e fatto senza pensarci due volte. E questo per cosa? Per aver detto una sacrosanta verità? Per avergli proposto l’affare della vita? Fuggire non era la soluzione. I topolini nella trappola non possono scappare e, se ci riescono, vuol solo dire che il gatto sta giocando con loro, la loro fine è segnata lo stesso.
− Nat, tu hai fatto in modo che riuscisse a svignarsela – l’accusò con uno sguardo di rimprovero. La ragazza non ne fu colpita.
− Era un idiota, fratellone. Non ti meritava affatto – disse, sorridendo. – Credo che Feliks gli abbia detto qualcosa su di te che l’ha convinto a rifiutare il lavoro. Quando l’ho visto la prima volta, sembrava anche convinto. Poi è venuto qua e boh, ha cambiato idea. Ma la colpa non è mia, anzi, forse potrei anche convincerlo a tornare.
Ivan sospirò, guardando verso la libreria. – Forse sono stati alcuni miei libri “controversi” a farlo desistere. Sai, quello sulla tortura specialmente. Credo ne abbia sfogliati alcuni prima che lo raggiungessi, li ho trovati fuori posto.
La ragazza si diresse verso lo scaffale e individuò il libro incriminato. Lo sfogliò, storse la bocca e disse: − Certo che è proprio pauroso quel tizio. Queste sono solo immagini, inchiostro su carta. Vorrei vedere se questa roba fosse ancora legale! Tu, come giudice, avresti tutto il diritto di metterla in atto per ottenere ciò che vuoi.
Ivan alzò gli occhi dal suo bicchiere ormai vuoto, fissando la sorella con uno sguardo allucinato: − Che hai detto, scusa?
− Ho detto che avresti potuto utilizzare questa roba per far fare agli altri quello che ti pareva, tanto chi ti poteva fermare? Tu sei il giudice, tuo è il potere, se gli altri non son d’accordo marciscano in prigione.
Le guance di Ivan, già rosse a causa dell’alcol, si scurirono ulteriormente.
− Mia cara sorellina – disse – Hai avuto un’idea geniale.
− Cosa? Vorresti torturare Toris? Guarda che se ti beccano sono cazzi amari, Arthur è scampato alla gattabuia per un miracolo.
Ivan scrollò la testa, ridacchiando:− Non serve utilizzare quel tipo di tortura. – e indicò l’orologio a pendolo. – Esistono cose che non ti feriscono fisicamente ma ti distruggono mentalmente. La paura, ad esempio. L’angoscia di essere braccati giorno per giorno e ogni attimo che passa la situazione non faccia che peggiorare. Un po’ come la tortura del pendolo: devi sapere che, nell’esecuzione della stessa, i condannati cedevano molto prima che la lama oscillante arrivasse a sfiorarli. Ma non voglio torturare, voglio solo persuadere, se acconsentirà con le buone allora tanto meglio. Ho intenzione di utilizzare il mio potere e le mie conoscenze per riprendere il bimbo smarrito con me. – Si massaggiò il mento, fiero della scelta geniale. − Stavolta non potrà dirmi di no. Sempre meglio in mia compagnia che con quel folle di Kirkland, dopotutto.
Ivan sorrise e si abbandonò nella voluttuosa imbottitura della poltrona, che scricchiolò sotto il suo peso. Un’idea assolutamente splendida, per di più a fin di bene. Avrebbe salvato il ragazzino dai piani oscuri dell’inglese e ottenuto un amico tutto per sé.
Natalia guardò fuori dalla finestra. – Yo, ci sono Toris e Feliks di sotto – disse.
Ivan si alzò. – Lascia che saluti i miei due amici. Tanto ci rivedremo presto.
 
*  *  *
 
Era ormai sera. Bisognava preparare il servizio per eventuali clienti che sarebbero venuti (poco probabile ma la speranza non costava nulla) e sia Arthur che Alfred si stavano prodigando nel farlo. Toris si era addormentato su uno dei divanetti, loro non osavano disturbarlo.
− Che tenero che è quando dorme, eh? – commentò Alfred, lanciandogli un’occhiata colma d’affetto. Arthur gli tirò uno spintone: − Smettila. Pensa a scaldare l’olio delle patatine, piuttosto, non voglio scenate come quelle di oggi.
− Uuuh, sei geloso, per caso?
− Non dire cavolate!
Alfred rise. – Ѐ un bravo ragazzo. Non oso pensare a come sarebbe finita se Braginski l’avesse preso con lui.
− Lo so.
− Vuole farci conoscere tra i giovani. Speriamo! Gli adulti sono così arroganti, i miei coetanei sono più bocca buona. Solo che non hanno mai abbastanza soldi dietro...
− Anche tu commetti certi errori imperdonabili, però. Non puoi dare del coglione o simili a un uomo d’affari e pretendere che ritorni qua dentro, anche se ha soldi da spendere. Bisogna mascherarle, le critiche.
− Che ci posso fare? Vieni qui dentro, c’è la più splendida abbondanza di hamburger che tu possa immaginare e tutto quello che la gente ordina è un hamburger semplice con patatine! A un certo punto io mi sento offeso!
− I gusti sono gusti, Al. Vorresti forse imporre un panino a quattro piani ad un uomo che rischia l’infarto solo mangiando bacon e uova a colazione? E poi anche gli adolescenti sono permalosi, non dimenticarlo.
Alfred sbuffò. – Forse. Intanto tra poco inizieranno i corsi universitari e ricominceranno le pause pranzo dei lavoratori. Sai cosa significa?
Arthur finse di pensarci su. – Significa che l’estate è finita?
− Quello è ovvio, scemo. Significa tanta gente che deve mangiare. Ma dove vanno tutti a mangiare, dal momento che qua è vuoto come il deserto dell’Arizona?
− Forse sono risucchiati da un vortice spazio-temporale che li trasporta in qualche locale decente e con personale dotato di cervello.
Alfred gli allungò un calcio d’avvertimento, che l’altro schivò prontamente.
− Bravo, bravo, utilizza il tuo sarcasmo con me, ma se io non ho clienti neppure tu ne hai.
Arthur incrociò le braccia. – E quindi, Mr Mi-sono-fatto-da-solo-come-sono-bravo?
− Quindi domani si va a caccia.
− Scusa? Puoi ripetere, a caccia?
Alfred annuì, eccitato. – Domani andremo in giro per vedere chi sono i nostri concorrenti. Ce n’è uno che m’interessa particolarmente, un giorno alla settimana va in giro a fare street-food, mentre il resto del tempo lavora nel suo ristorante.
Arthur si portò la mano alla testa e si tolse il cappellino: − Questo, però, domani non lo metto. Ѐ il motivo principale per cui vengo scambiato per imbecille.
− Tranquillo, domani saremo in borghese. E poi dai, non stai così male.
Arthur diede un altro spintone ad Alfred, più leggero stavolta, e sorrise. Per un attimo era sereno; per un attimo non voleva sapere cosa gli riservasse il futuro.
Forse perché sapeva già che stava per succedere qualcosa che avrebbe sconvolto tutto.
* * *

*Sbircia da dietro la porta* Saaalve...?
Sì, lo so. Sono in ritardo. DI NUOVO.
Per farmi perdonare questo capitolo è decisamente più lungo degli altri e ci ho aggiunto il 30% di amore in più gratis. Mamma mia se è stata una faticaccia...
Posso dirlo, anche se forse lo avete già intuito? Adoro Russia/Ivan Braginski: insieme al sopracciglione, è il mio personaggio preferito :3 Quindi sono felice che finalmente sia entrato nella storia! Spero non mi linciate, avevo promesso il capitolo per sabato (come l’altra volta) e invece... chiedo di nuovo scusa.
GRAZIE DI TUTTO CUORE a chi ha recensito il secondo capitolo, a chi segue, a chi legge e a chi lo farà. Siete la spinta più importante, specie in questo periodo un po’ bruttino.
Ci vediamo presto (spero) con il quarto capitolo. Per chi avesse visto il film, sa un pochino cosa lo aspetta, ma neanche tanto perché il fato è imprevedibile e non bisogna saltare a conclusioni affrettate.
L.B. Shadow
P.S.: mi sono accorta a circa metà capitolo che la sedia di Ivan altro non era che la Busby Chair. Spero che Toris non si sia beccato la maledizione, ora.

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Capitolo 4
*** Long Time No See (part 1) ***


 

 Long Time No See

 

IV.I

 

Sbagliato, sbagliato. Se Arthur in futuro avesse dovuto decidere il giorno in cui tutto iniziò ad andare storto, avrebbe scelto quello in cui lui e Alfred erano andati a combinare quella specie di ronda. “Controllare la concorrenza”, così l’aveva definito l’idiota. Se non l’avessero fatto, chissà? Magari le cose sarebbero potute andare in modo diverso.
Non il giorno in cui era tornato a casa e la prima cosa che aveva fatto era andato nel suo antro per cercare un incontro con “quello”. Non quando aveva accettato il lavoro in quell’orribile posto, con quell’orribile deficiente. Non quando si era reso conto di voler effettivamente la morte di Francis Bonnefoy. No, nessuno di quei giorni era stato quello decisivo. Sbagliato, sbagliato, era tutto sbagliato, persino l’acqua con cui aveva fatto il tè in quella mattina di settembre doveva essere inquinata, il pane avvelenato, la frutta gonfia di vermi, ma niente di tutto ciò lo era e quindi chi poteva immaginare che quello fosse il giorno della sua caduta?
Era anche una giornata serena, uno di quei giorni di sole che t’illudono sia ancora estate. Le nuvole erano candide e soffici, come batuffoli di cotone nell’azzurro così inconsueto nella capitale inglese. La pioggia del giorno prima evaporava dal cemento, lavando gli odori della città e sollevando un venticello fresco che ti coglieva inaspettato, facendoti rabbrividire improvvisamente. Era un bene che non facesse troppo caldo: la luce che lo accoglieva non appena metteva piede in strada, stordiva la mente già colpita di Arthur. Il calore lo avrebbe intontito al punto da renderlo uno zombie, ma il fresco lo rendeva abbastanza lucido da percepire tutto quello che accadeva. Forse sarebbe stato meglio di no, meglio l’incoscienza a quella sensazione, come se ogni entrata in un nuovo locale gli riempisse sempre più lo stomaco di catrame nero e appiccicoso.
Era invidia, quella sensazione orribile, la riconosceva suo malgrado: in ogni volto estraneo gli pareva di scorgere freddezza, senso di superiorità, addirittura disprezzo. Lui non era che un fallito, dicevano quegli sguardi altezzosi, in compagnia di un altro fallito. Avrebbe voluto urlare, ma non poteva. Buffo che avesse pensato all’indossare un cappello ben calcato in testa, tanto per non farsi riconoscere subito a chi lo aveva già visto in volto. Nascondendogli le sopracciglia, elemento particolare del suo volto, eseguiva un ottimo lavoro e gli dava un’aria molto più anziana dei suoi ventitré anni, come se già non fosse regolarmente scambiato per un signore di mezz’età. Anche Francis lo prendeva spesso in giro per il suo stile “antico”, lui che cercava di farsi notare ad ogni costo seguendo esclusivamente l’ultima moda. Quante volte avevano litigato per simili inezie? Tante. Facevano parte del passato, ormai. Ora non poteva più tornare indietro, perché aveva fatto un patto.
Alla fine non poté fare altro che rifugiarsi in altri pensieri, qualcosa che non coinvolgesse quella sensazione di soffocamento dall’interno. Si mise a pensare alla sera prima.
Alfred dimostrava il suo entusiasmo in maniera fin troppo esuberante come suo solito; anzi, oggi anche di più perché aveva avuto l’occasione di uscire all’aperto, assaporare un po’ di libertà fuori dal suo mondo a parte: sembrava un cane liberato del suo guinzaglio. Arthur era restio nel venire contagiato dalla sua energia: tra le altre cose, era ancora scosso per Toris. Non sapeva nulla di cosa fosse successo al colloquio, ma già si immaginava il peggio.
Ivan poteva aver detto di tutto. Fatto di tutto. Ivan era imprevedibile. Toris si era rifiutato di parlarne, segno che i timori di Arthur fossero fondati, che qualcosa fosse necessariamente accaduto per renderlo così chiuso.
Toris non era il massimo della chiacchiera, certo, era il classico tipo tranquillo, ma non fino a questo punto. E poi c’era quello sguardo nei suoi occhi, come se stesse ancora cercando di metabolizzare un’esperienza penosa. L’unica cosa su cui aveva aperto bocca volentieri (fin troppo) era della sorella del giudice, la giovane Natalya: e quanto è bella, e quanto è dolce, e quanto è sfortunata a vivere sola soletta in un grande palazzo come quello con la sola compagnia del fratello, e il fatto che lo avesse aiutato a uscire.
(un attimo, l’ha aiutato a uscire? O aveva detto “scappare”? Erano entrambi stanchi morti quando erano tornati a casa, o meglio Arthur era stanco e Toris alternava sovreccitazione a mutismo assoluto)
− ...rthur? Arthur? Terra chiama Arthur, rispondi, passo!
Alfred lo stava scuotendo per un braccio. Arthur lo guardò confuso, tornando lentamente alla realtà. – Eh? Che c’è?
Alfred lo guardò incuriosito, come se gli avesse rubato la domanda di bocca.
− Boh, ma sembri preoccupato per qualcosa e volevo sapere cos’hai.
− Non è niente... −
( per non ricordare quanto sono patetico, pensavo a Toris, sai, il ragazzo di cui in teoria dovrei prendermi cura finché è qui a Londra e invece lo mando in pasto agli orsi. Ieri non mi ha voluto raccontare cosa fosse successo a casa di Braginski. Ha solo parlato a vanvera di Natalya, credo si sia preso una cotta per lei, ma in forse ha semplicemente paura di confidarsi con me perché Ivan... può avergli detto qualcosa su di me? Non oso pensarci. Meglio cambiare argomento, tanto questo moccioso non capirebbe comunque)
− Adesso dove andiamo? – domandò, assumendo l’espressione più indifferente che gli fosse possibile. Alfred tirò fuori dalla tasca una lista di indirizzi.
− Siamo già andati al ristorante cinese, vero?
− Sì. E anche a quello specializzato in tacos.
− Uuuh, quello era bello.
− Non ci serve sapere se fosse “bello”, ci serve sapere cos’aveva più del tuo locale, del perché loro hanno clienti e tu no.
Alfred sorrise: − Allora non sono l’unico a dovermici abituare.
− A cosa, scusa?
− Il locale non è più “mio” o “tuo”. Siamo soci ora, è “nostro”.
Sospirò, colto da un’improvvisa vena sentimentale. – Ah, adesso dobbiamo occuparcene in due, come dei bravi genitori! Ѐ una gran scocciatura, però, condividerlo con un rompiscatole antiquato come te.
Arthur ridacchiò, sarcastico: − Lo dici a me, folle yankee? Se potessi me lo riprenderei seduta stante. Non conosci affatto il valore della tradizione: ogni volta che ci entro mi viene un attacco epilettico, tanto è assurdo come il modo in cui l’hai arredato!
Il commento sembrò urtare particolarmente il più giovane: − Ma lo sai di cosa parli? Ignorante, si chiama arte moderna questa. A New York questo stile fa furore.
− Arte?! Ѐ solo un ammasso di cianfrusaglie colorate e loghi attaccati alle pareti!
− Non dire così! Sempre meglio di prima, non sembrava un ristorante, sembrava un pub per senzatetto!
− A proposito di pub – Arthur si leccò le labbra, sbirciando sul foglietto – Ce ne sono quattro soltanto in questa via. Facciamo un salto, ti va?
Alfred lo scacciò rabbiosamente, allontanando la lista a distanza di sicurezza: − Scordatelo. Non voglio portare in giro un ubriacone molesto, c’è troppo da fare oggi e ho bisogno del tuo aiuto da sobrio. Prima ci siamo passati e non ripeterò questo errore. Ci mancava poco che mettessi le radici lì!
− Ma... ma...
− No, non puoi più utilizzare la scusa che t’interessa l’arredamento, non ci casco due volte! E poi, che pretesto è? Ѐ come sposare un’ereditiera e pretendere di esserti innamorato per il suo carattere! Ѐ stupido, cavolo!
Arthur incrociò le braccia, risentito nel venire smascherato in tal modo. Come diavolo facesse quel ragazzino a scovare il punto debole altrui con una tale facilità, era un mistero.
– Smettila di dire che sono vecchio, non lo sono! E poi... – voltò lo sguardo verso un’altra direzione, consapevole di sparare una frottola gigante, – Non mi ubriaco spesso. Cioè, diciamo il 30... o 40% delle volte, non di più, e di sicuro non con un paio di birre medie!
Come doveva aspettarsi, Alfred non cedette. Il ragazzo guardò invece i nomi rimasti sulla lista. Erano ormai agli sgoccioli. Il loro piano consisteva nell’andare nei vari ristoranti, bar, pub o dovunque servissero del cibo e cercare le caratteristiche che contraddistinguevano quelli di successo da quelli meno popolari; il loro sopralluogo, per non risultare sospetto dal momento che non consumavano quasi mai nulla, era accompagnato da banali scuse, incetta di bigliettini da visita e promesse di ritornare in futuro. Inutile dirlo, anche il meno affollato di questi locali aveva comunque più clientela dell’Eagle.
Alfred guardò l’ora e storse la bocca, irritato. – Siamo in ritardo, non credo ce la possiamo fare a finire il giro.
− Ah no?
− Dobbiamo per forza andare, però, dal cuoco ambulante di cui ti ho parlato ieri sera, è la nostra ultima occasione. E mangiamo là!
Arthur aggrottò le sopracciglia, guardandolo male: − Come mai lui sì e tutti questi che abbiamo passato no?
− Te lo dico quando arriviamo. – Alfred lo prese per il polso e lo trascinò per una viuzza laterale: sembrava sicuro di quello che stesse facendo, quando invece era il solito atto impulsivo. Arthur scosse la testa, ormai rassegnato ad avere un moccioso come socio.
Il cuoco in questione aveva la sua postazione vicino alla chiesa di St Dunstain e quel giorno era mercato: c’erano bancarelle di vari tipi e anche diversi venditori di cibo. Arthur ne indicò uno, domandando se magari fosse quello l’uomo che cercavano. Alfred dissentì. Il tipo vendeva rosticceria: prodotti buoni, sì, ma il “loro” cuoco era a un livello più alto, disse.
− Ѐ il migliore in circolazione nel suo genere, una stella nascente! Te l’ho detto, ha un suo ristorante vero e proprio, ma viene qui in settimana a farsi pubblicità al mercato. Dal momento che ho sentito che si trasferisce e che quindi non verrà più quaggiù, non voglio perdermelo assolutamente.
Arthur sentì una stretta allo stomaco. Il migliore, eh? Chissà se lui sarebbe mai arrivato a un risultato quantomeno simile. Tempo prima era sicuro di essere, se non il migliore, almeno bravo nella sua professione. Adesso constatava con i suoi occhi quanto si fosse illuso. Era difficile da accettare. Un calore infuocato gli riempì il cuore e le guance, avvolgendoli come una carezza infernale.
(Come sarebbe bello schiacciare tutti i concorrenti sotto un grande masso, su cui lui, come un Dio crudele, avrebbe posto la mano e spinto, spinto, finché non fossero scomparsi tutti. Anzi no: sarebbe stato più gratificante tagliare loro la gola, sgozzarli come maiali da macello, tanto, tanto, taaanto sangue che inondava tutto... e alla fine, chi sarebbe stato il migliore? CHI?)
( LUI SAREBBE STATO! Per sempre e per sempre...)
Arthur si bloccò in mezzo alla strada con gli occhi sbarrati, il respiro azzerato. Oh, che pensiero orribile, gratificante nella sua brutalità gli era apparso davanti! E agghiacciante, soprattutto. Il calore era scomparso improvvisamente assieme al ritorno alla realtà, lasciandolo raggelato e confuso. Quei pensieri eludevano il suo controllo, apparendo come fulmini in una tempesta. Lo facevano stare ancora peggio, trafiggendo la sua mente come lame di rasoio uscite dal nulla, ad opera di un entità nascosta nel buio che si tornava a nascondersi dopo averlo colpito. Una fatina luccicante svolazzò davanti al suo naso, con l’aria preoccupata. – Stai bene? – domandò, − Ancora quelle brutte cose che ti tormentano?
Arthur annuì senza farsi notare. Alfred a quanto pare era troppo impegnato a cercare tra gli ambulanti il loro obiettivo per badare a lei e ai suoi amici invisibili.
− Non puoi parlare? Mi dispiace così tanto... sappiamo cosa provi e vogliamo solo aiutarti, ricordatelo. − e la fata se ne andò, più affranta di prima. Arthur avrebbe voluto salutarla, almeno, ma, come non aveva avuto il coraggio di sfogarsi con l’esserino, nello stesso modo era meglio astenersi anche nel dirgli ciao. Brutta cosa avere amici magici che puoi vedere solo tu. Ovvio che non potesse dire queste cose a voce alta, già si era fatto una brutta reputazione, rischiava di essere preso per malato di mente oltre che violento. Forse Alfred si sarebbe messo a ridere, ma solo lui. Ormai aveva paura anche della reazione di Toris, per questo non l’aveva avvisato che per quel giorno l’ “Eagle” sarebbe rimasto chiuso in favore a quell’attività che sapeva di spionaggio. Aveva lasciato il ragazzo solo a casa, sommerso dai libri che gli sarebbero serviti all’università e dai curriculum da inviare, nella speranza di trovare un dannato lavoro in cui non fossero coinvolti giudici pazzoidi. O perlomeno, non Braginski.
Pazzoide o meno, il lato peggiore di Ivan era che sapesse troppe cose su Arthur.
Arrivati quasi al termine di quel lato di mercato, Alfred indicò un casotto bianco su cui era stato dipinto a mano un paesaggio, decorato qua e là con varie bandierine e con il nome ben posizionato sopra la finestra che comunicava al pubblico. Davanti a sé era circondato a destra e sinistra da tavoli lunghi plasticati e panchine pieghevoli, come un qualsiasi stand da fiera. – Eccolo lì! Alta cucina in cinque metri quadrati! Adesso andiamo e impariamo tutto sul come fare clienti, ma soprattutto mangiamo perché ho fame.
− Caspita. Rustico questo grande chef, specie nelle decorazioni. Ora so perché ti piace.
Alfred si strinse nelle spalle, insofferente. – Non ti va mai bene niente, eh?
Si avvicinarono. I posti erano quasi tutti occupati e la maggior parte della gente prendeva il proprio pranzo d’asporto da una finestrella a lato del baracchino. Vicino ad esso c’era un cartello posizionato per terra, con attaccato il foglio del menù e una foto pubblicitaria ritraente quello che si supponeva essere il cuoco. Arthur la osservò alzando un sopracciglio, indeciso se mettersi a ridere o domandarsi per l’ennesima volta in quella giornata cos’avessero gli altri in più di lui. Di sicuro, in questo caso non era la dignità.
La foto in questione era la figura di un ragazzetto super sorridente, di massimo vent’anni: era vestito di una maglia a righe bianche e blu, una fascia rossa aderente in vita e un cappellino di paglia contornato di un nastro, anch’esso rosso. Capelli castani spuntavano ribelli al di sotto di esso, in particolar modo un lungo ciuffo riccioluto che si allungava alla sinistra del capo. La mano destra faceva il segno dell’ “OK”, mentre la mano sinistra reggeva un piatto fumante di spaghetti al sugo di pomodoro. Per completare il tutto, il ragazzo aveva sotto il naso dei grossi baffi neri a manubrio. Lo sfondo era formato da tre strisce di uguale larghezza, verde bianco e rosso.
Arthur commentò: − Ho come la vaga impressione che sia italiano.
Alfred annuì. – Indovinato, Sherlock.
− E cos’avrebbe di tanto speciale, questo mangia-spaghetti?
− Non saprei. Ѐ un punto di riferimento per i suoi connazionali e se lo dicono loro che cucini bene, c’è da fidarsi, non trovi?
Arthur guardò il nome posto sulla facciata della casupola e sul cartello: “Vargas Macaroni Brothers”.
“Qui di Vargas ne vedo solo uno. In quanti saranno?” pensò, quando un pallone, compiendo una mirabolante movimento ascendente, decise di terminare anticipatamente il suo tragitto tentando di sfondargli il cranio.
– Ahiaaa, porca miseriaaa! – urlò. Il cappello era volato via per il colpo, e ora Arthur stava tenendosi la testa pulsante di dolore con entrambe le mani, come se gliel’avessero effettivamente spaccata e ora rischiasse di andare in mille pezzi. Alfred si era piegato in tempo e aveva schivato la traiettoria. La palla rimbalzò a pochi metri dai loro piedi e fu subito recuperata dall’infortunato, deciso a trovare un qualsiasi oggetto contundente e bucarla. Con un gesto stizzito raccolse anche il cappello e se lo calcò per bene, sopprimendo un gemito quando la stoffa dura sfiorò il bernoccolo. Ah, ma si sarebbe vendicato!
− Scusi, signore! – trillò una vocetta acuta. Un bambino stava correndo verso di loro, affannato. Era un quasi teen-ager, di quelli alle soglie dell’adolescenza ma ancora ben ancorati nel mondo dell’infanzia: aveva i capelli biondi, sbarazzini, e gli occhi azzurri. Indossava una maglietta blu da calciatore, riportante una piccola bandiera italiana, ormai sudata: chissà da quante ore stava giocando.
Arthur lo fulminò con lo sguardo. Il bambino non ne rimase minimamente turbato.
− Signore, deve ridarmi il pallone. – disse, esibendo un’esemplare espressione da ragazzino viziato. Non si poteva dire fosse pentito del suo atto. Alfred, dal canto suo, se la stava ridendo e il bambino guardò entrambi confuso. Si rivolse al tizio di prima.
– Oh, ma parla inglese, almeno? Ѐ un turista? Tu parla italiano?
− Certo che parlo inglese, moccioso! – ringhiò Arthur, mentre controllava delicatamente il bernoccolo semi-nascosto tastandolo con una mano e teneva ben stretta la palla con l’altra.
− Meno male – disse sollevato il bambino – Conosco quattro parole in croce di italiano.
− Davvero? Pensavo il contrario, visto la maglietta – Alfred indicò la bandierina cucita sul tessuto. L’altro scosse la testa.
− Questa? Bella, vero? Ѐ un regalo. Feliciano... il signor Vargas me l’ha data per quando giochiamo insieme a calcio. Ora lui però è occupato a servire i clienti. Un attimo! – i suoi occhi lampeggiarono nel panico, − Anche voi siete clienti?
Arthur anticipò Alfred e gli rispose acidamente: − No, stavamo prendendo il sole davanti al cartello del menù. Ѐ ovvio, accidenti! Non so chi sia questo Vargas, ma dubito sia contento che un moccioso cerchi di ammazzare i suoi avventori.
Le guance del bambino avvamparono per l’offesa. − Non sono un moccioso! Io lavoro qui!
− Ma fammi il piacere. Lavorare? Tu? Quanti anni hai, piccoletto?
Il bambino mise il broncio, ma non riuscì a sostenere il suo sguardo mentre ammetteva: − Ho dodici anni, compiuti all’inizio del mese! E con questo?
Arthur ridacchiò. – Non puoi lavorare a dodici anni, sei troppo giovane. Come minimo devi averne tredici, e non potresti comunque fare tempo pieno. Ѐ la legge.
Il broncio del bambino si accentuò: − Aaah, la legge, la legge... è quello che cerca di dirmi anche Feliciano, ma suo fratello dice che se voglio sono libero di farlo, anzi è meglio. La mamma vuole che non disturbi loro due, ma se posso dare una mano è ok. Che male c’è nel voler aiutare?
Alfred interruppe il battibecco tra i due. Si rivolse al bambino.
− Senti un po’, se proprio vuoi aiutare, cosa ci consigli da mettere sotto ai denti?
Il bambino gonfiò il petto e indicò l’intero menù con un gesto della mano, orgoglioso.
− Ѐ tutto buonissimo! Parola mia!
− Ho chiesto cosa ordinare, non la tua parola.
− Beh... il pesce è fresco ed è un mio zio che glielo procura, quindi ne sono stra-sicuro. Ci sono alcune cose un po’ strane, tipo le sarde con l’uva passa, ma vi assicuro io che è tutto squisito. Può bastare?
− Ahaha! Cavoli, come agente pubblicitario lasci a desiderare, però ci fidiamo. Vero, Arthur?
− Certo, certo. – Arthur stava ancora esaminando il menù. Come diavolo facevano a essere famosi in tutto il mondo per la cucina e mangiare quella roba? Sperò che la traduzione di certi ingredienti fosse semplicemente errata, perché non era possibile. Al super aveva spesso visto cibo italiano in scatola, ma molto diverso da come lo vedeva descritto. Gli venne il dubbio che una delle due parti non producesse roba autentica. Lì era tutto così... semplice. Niente di troppo elaborato, tranne appunto alcuni piatti che però dal nome stesso non sembravano italiani. Dov’erano, ad esempio, le “fettuccine Alfredo”? C’erano nomi dal suono straniero, forse di qualche Paese limitrofo. No, una volta aveva sentito questa storia che l’Italia era piena di piatti tipici di singole regioni, doveva trattarsi di questo. In ogni caso, il profumo che aleggiava lì intorno gli stava facendo venire l’acquolina in bocca e contemporaneamente gli torceva lo stomaco dalla rabbia.
(Immagina il baracchino esplodere con l’italiano all’interno, lui e tutti i suoi commensali, una gigantesca esplosione da film d’azione che spazzi via tutto e tutti, anche Alfred e il moccioso)
Il cuore batté più veloce. Le mani si serrarono in due pugni. Dovette stringere i denti per non mettersi a urlare. No, non era ira questa volta, però: era terrore. Di colpo aveva davanti agli occhi la certezza di non riuscire a farcela, di fallire nuovamente se solo ci avesse riprovato. Arrenditi, Arthur. Ci sono persone dotate, tu non lo sei e invece questo tizio sbucato dal nulla lo è. Tu sei fuggito, lui è venuto alla luce. Inchinati davanti al nuovo Re.
− Che problemi ha? – bisbigliò il bambino, guardando le guance di Arthur diventare via via più scure, gli occhi accendersi. Alfred scosse la testa, puntando un dito alla tempia.
− Lascialo perdere. Ha un po’ di problemi riguardo il mondo della cucina in generale.
− Mi stai dando per pazzoide, forse?
Alfred si girò: Arthur era tornato in sé, scocciato da morire ma lucido.
− Muoviamoci a trovare un posto a sedere, piuttosto che parlare a vanvera. E tu – disse, rivolto al piccoletto porgendogli il pallone sequestrato – Portaci un paio di menù. Ho fame.
 
A quanto pare il travestimento da gondoliere del cuoco nella foto non era scelto a caso: oltre a piatti comuni, come la pasta al pomodoro, ce n’erano alcuni che avrebbero potuto mangiare in un ristorante sulla laguna veneziana o almeno così credevano i due.
− Voglio mangiare le sarde con l’uva passa – annunciò Alfred.
− Se poi fanno schifo non te le finisco io, sia chiaro. – replicò Arthur, scettico.
− Secondo me sono buone. Solo che... dove sono?
− Idiota, guarda gli ingredienti. – Arthur indicò un nome scritto in rosso sul menù. – Ecco qua, vedi? Si chiamano “Sarde in saòr”. Oltre all’uva passa ci sono cipolla, pinoli, aceto e... zucchero?! Bah. 9 sterline piene per un piatto simile, spero per te li valga.
− Che nomi strani, però, non trovi? Avrebbero dovuto tradurli in inglese. – commentò Alfred, senza staccare gli occhi dal menù. Arthur si trattenne dallo schiaffeggiarsi da solo, davanti a tanto egocentrismo americano: − Idiota, come potrebbero? Ti sfido a tradurre “pizza” in inglese.
Alfred si arrabbiò. – Cosa c’entra? – strillò − Guarda che la pizza c’è anche nel mio Paese e si dice allo stesso modo! E la nostra è anche più buona!
Un commensale da un altro tavolo, si girò per tre quarti e lanciò loro un’occhiataccia. “Non so se sia italiano anche lui o sia semplicemente sconvolto dalla sua stupidità” pensò Arthur, nascondendo il volto tra le pagine del menù, che erano solo un paio. Fu Arthur a ordinare per entrambi: per lui chiese un paio di piatti, per Alfred quattro; da bere, una birra per uno e una Coca-cola per l’altro. Una cinquantina di sterline nel conto totale.
− Non ti sembra di esagerare? – commentò acido Arthur, quando tornò al tavolo.
− Scherzi? Con tutta la roba buona che c’è, questo mi sembra il minimo.
− Però la paghi tu.
Alfred lo guardò sconvolto, come un bambino che avesse appena sentito che il viaggio a Disneyland programmato da mesi fosse stato annullato all’ultimo minuto.
− Co...come? Non siamo soci? Non si fa “fifty-fifty”?
Arthur gli mollò un calcio da sotto il tavolo. – Scordatelo, mi hai già fregato abbastanza in soli due giorni. D’accordo lo spirito imprenditoriale, ma tu esageri!
Alfred rise ma non risparmiò di dare anche lui un calcio in risposta. – D’accordo, ho perso il mio pollo da spennare. Certo però che anche tu, cascarci ogni volta così...
− Non dare la colpa a me, adesso! Tu e la tua mania di sfruttare il prossimo, deve essere intrinseco alla tua cultura.
Invece di offendersi, Alfred scoppiò a ridere. – Lo dici come se fosse un difetto! – esclamò.
 Arthur digrignò i denti, irritato. − E poi, Al, dovresti stare attento: sei già sovrappeso, contieniti! Con tutti quegli hamburgers e schifezze che ingurgiti rischi di diventare una botte! –, gli diede un altro calcio. Stavolta Alfred non rise.
− Non chiamarmi sovrappeso! Non l’accetto, non da te! Se tu sei magro è perché cucini solo spazzatura spacciandola per cibo tradizionale! Io ho le ossa grosse, ecco tutto. – Ennesimo calcio, stavolta più forte. Se il tono della loro voce era tutto sommato contenuto, per non dare nell’occhio, sotto il tavolo si stava scatenando la vera guerra.
− Spazzatura?! Ma senti questo! – sibilò tra i denti Arthur, sentendo la temperatura corporea alzarsi pericolosamente. Lo stinco doleva dopo l’ultimo colpo ricevuto.
– Se non fossi un gentleman non ti starei neppure aiutando, in questo momento! E mi ripaghi così?
− E se io non fossi un “eroe” che aiuta i deboli, adesso non staresti neppure lavorando! Dovresti essere tu quello in debito!
Avrebbero volentieri continuato per mezz’ora quando una vocina familiare li interruppe.
− Ehm-ehm! – fece il bambino di prima, tutto bello ripulito, con un grembiulino bianco e i piatti richiesti posti su un vassoio, un sorriso ampio quanto falso sul volto – I signori hanno ordinato? – domandò gentilmente, come se pochi minuti prima non avesse tirato una pallonata in testa a uno dei due.
− Sei il moccioso di prima? – domandò Arthur, squadrandolo – Come mai ci servi tu? Gli altri tavoli hanno cameriere graziose, a noi ci tocca lo scarto. Tipico.
Il sorriso del bambino vacillò, ma a quanto pareva era determinato a fare buona impressione. Se non su loro due, almeno sul suo pseudo-datore di lavoro.
− Il mio nome è Peter – ringhiò, sempre con gli angoli delle labbra rivolti innaturalmente all’insù – E spero vivamente che ti vada di traverso il pranzo, imbecille.
Alfred per poco non cadde dalla panchina dalla sorpresa. – Wohooo, piccoletto! – esclamò – hai la lingua tagliente per essere uno studente delle medie! Ti ha insegnato tuo padre a parlare così?
− Mio padre non parla – rispose Peter, prelevando il vassoio – E comunque non mi pare di aver detto chissà che. − Se ne andò a passi corti e strascinati, arresosi nel tentativo di dimostrarsi cordiale nel giro di un minuto e diciotto secondi. Oh, ma a chi importava? Feliciano avrebbe capito, lo avrebbe perdonato e avrebbe anche apprezzato il suo sforzo di dimostrarsi amabile a quei due coglioni. Un giorno avrebbe lavorato per lui in piena regola, non appena sarebbe stato un adulto riconosciuto dalla società. In cuor suo sperò che quel giorno arrivasse il prima possibile.
Alfred esaminò i piatti arrivati: c’era un pasticcio di carne e besciamella, spaghetti con sugo di carne che però erano più grossi di quelli che vedeva in America e senza “meatballs”, risotto ai funghi... oltre alle posate erano state portate un paio di pagnotte. Tra i presenti, un piatto in particolare lo incuriosì.
− Che roba è? – lo indicò. Lo aveva ordinato Arthur: era un piccolo ammasso biancastro dall’odore di pesce, con accanto una crema granulosa e gialla. Arthur sbuffò, come se fosse stato ovvio. Inclinò il piatto in modo che Alfred lo vedesse per bene.
− “Pregiato stoccafisso artico mantecato attraverso cinque ore di lenta cottura nell’olio d’oliva rigorosamente extravergine spremuto a mano da vecchie signore toscane. Il merluzzo in questione è apparso ne ‘Lo Squalo 8’ e nel nuovo film d’animazione ‘Alla ricerca di Dory’ nel ruolo di co-protagonista. Come accompagnamento una crema di mais biologico accuratamente selezionato tra migliaia di pannocchie, scelte personalmente da un talent scout dei cereali per soddisfare i requisiti richiesti”. C’era scritto sul menù. – spiegò all’altro. Alfred inarcò entrambe le sopracciglia, ammirato: − Accipicchia! Perché io non l’ho visto?
− Perché in realtà c’era scritto “Polenta e baccalà”,  ma mi sembrava più allettante come l’ho esposto io.
− Ah. Ok. – La delusione s’impadronì della voce di Alfred. − Beh, ora come ora non sembra allettante neppure con la tua descrizione – commentò, storcendo la bocca. Aveva qualche perplessità a riguardo al cibo italiano. A Manhattan c’erano molti italo-americani, ma non ricordava di aver visto piatti simili... o sì? Ricordava della pasta con uova, bacon e panna che un giorno aveva provato a cucinarsi, ma i suoi tentativi di addentrarsi nella cucina straniera erano stati velocemente sostituiti nel frequentare qualche locale. Oh, e c’erano anche i tutorial su come riprodurre perfettamente specialità, ma nuovamente non ricordava di aver visto piatti simili tra di essi. Ora aveva sotto il naso le famose sarde che lo avevano incuriosito e pensò di aver fatto comunque una scelta migliore dell’amico.
− Buon appetito! – esultò. Addentò un pescetto, sentì la lisca scricchiolare e spezzarsi sotto i denti. Era dolce ma non come le caramelle, leggermente salato e anche acidulo, poteva sentire la cipolla tagliata fina fina e pressoché invisibile  scivolare sul palato. Un’esplosione di sapori, insomma. Alfred non era mai stato un buongustaio, per lui il McDonald era pari alla Nouvelle cuisine, se non superiore (perlomeno lo saziava di più), eppure sentiva che c’era qualcosa di speciale in quello che stava mangiando. Una volta tanto cercò di trattenersi e assaporare almeno per pochi attimi quello che aveva in bocca, invece di trangugiare tutto come suo solito. Arthur cincischiava con un piatto di gnocchi al pomodoro e basilico.
− Se non ti sbrighi mangio anche le tue porzioni. – lo minacciò, ma l’inglese era perso nel suo mondo. – Ohi, mi senti? Sul serio, adesso che hai?
− Niente. Cioè...
Arthur fece uno sforzo. Doveva liberarsi almeno di una parte del peso che sentiva dentro.
− Secondo te, cos’è successo ieri a Toris? Ho passato la serata cercando di sapere qualcosa ma niente, non si cava un ragno dal buco. Ho paura per lui, sai Braginski...
Alfred lo guardò stupito, ingoiando l’ultimo boccone prima di parlare.
− Come, non si è confidato con te?
− No, niente. Muto come le tue stupidissime sarde.
− Allora vuol dire che non c’è niente di cui preoccuparsi, no?
Arthur batté i pugni sul tavolo, facendolo sobbalzare. – Lo hai visto anche tu in che condizioni è arrivato al locale! Come puoi dire che non c’è nulla di cui preoccuparsi?
Alfred si pulì la bocca con il tovagliolo di carta. Assunse un’aria seria così poco usuale che dava spavento: − Senti, Art. Lo so che tieni a quel ragazzo, lo hai preso sotto la tua ala protettiva e posso capirti, perché è questo il compito dei buoni. Noi due siamo buoni. Solo che mi spieghi come facciamo a combattere il cattivo, se non sappiamo chi è?
− Ma noi lo sappiamo! Ѐ Ivan...
Alfred scosse la testa. Alzò il dito indice e lo puntò verso Arthur. – Tu sei sicuro che il cattivo sia Ivan. E se non fosse così? Se incolpassimo un innocente? E di cosa, poi? Lo sappiamo entrambi che Ivan non è il massimo della sanità mentale, anzi, se lo vedessi in una camera imbottita con una di quelle “camicie abbracciose”, starei molto più tranquillo. Però in questo caso non c’è alcuna sicurezza e quindi non possiamo fare niente.
Arthur era sul punto di rispondere, quando cambiò idea: Alfred aveva ragione. Non aveva prove che Ivan avesse fatto del male a Toris. D’altro canto, Ivan aveva prove del suo passato, informazioni importanti che lo macchiavano come inchiostro, e se fossero uscite alla luce allora sarebbe diventato lui il cattivo della situazione! E non solo per la questione di Francis.
Come se richiamato dal suo pensiero, notò una figura maschile alta e snella in fondo al mucchio di panchine e tavoli che si stava dirigendo verso il baracchino. Aveva un passo sicuro ed elegante. Da quella distanza non riusciva a distinguerne bene i tratti, ma era sicuro si trattasse di un uomo attraente perché più di una ragazza presente si voltò a guardarlo e lui stesso s’intratteneva e flirtava con loro durante il percorso, nessuna fretta.
Arthur tornò al suo piatto di gnocchi, mugugnando tra sé e sé che ormai aveva perso l’appetito. Ne mise in bocca un paio: erano deliziosi, fatti in casa con vere patate e non quelli industriali comprati al supermercato, ma non riusciva ad assaporarli appieno, la bocca guastata dal sapore amaro della bile.
Quando rialzò lo sguardo l’uomo era più vicino e notò di sfuggita che effettivamente aveva un bell’aspetto: i capelli biondi e mossi gli danzavano nell’aria, come fili d’oro. Avrebbe dovuto tagliarli, pensò di sfuggita, se non voleva che lo prendessero per effeminato. Con la coda nell’occhio lo guardò per un attimo e notò che, anche volendo, non lo si sarebbe potuto scambiare per una donna: oltre a un’aura indiscutibilmente virile, aveva una leggera barba che gli ricopriva il mento.
− Tsk, il solito belloccio – mormorò tra sé.
− Uh? Hai detto qualcosa?
− Là vicino al baracchino, c’è un tizio che ha fatto strage di cuori soltanto con un paio di occhiolini. Che boriosa esposizione di sé. – rispose Arthur, tornato a mangiare ciò che gli rimaneva, lo sguardo basso sulle pareti del piatto bianco sporche di salsa. Sembrava che fosse avvenuto un omicidio in miniatura, lì dentro. Le ripulì con uno dei gnocchi rimasti.
− Ahahahaha, hai ragione, lo vedo, adesso sta chiacchierando con delle cameriere, ahah...
La risata morì di colpo. Arthur rialzò gli occhi: Alfred era come congelato, lo sguardo fisso sull’uomo appena arrivato. Doveva aver notato che l’amico lo stesse osservando stranito, perché si voltò di colpo.
− Non. Guardare. Quel tizio. Mi hai capito? – bisbigliò, gli occhi ingigantiti dietro le lenti. Tremava e se proprio c’è una cosa che stimola la mente umana, questa è la reazione degli altri a fenomeni estranei: Alfred aveva visto qualcosa di davvero eccezionale e Arthur era intenzionato a sapere cosa fosse, nonostante l’altro insistesse nel non volerglielo permettere. Si girò immediatamente verso il baracchino, fissando più accuratamente l’uomo misterioso.
E capì perché Alfred avesse fatto quella faccia.
Il cuore saltò un battito, quindi si mise a battere più velocemente, il respiro accelerò e il suo petto diventò come un mantice che si alzava e scendeva ritmicamente. Le labbra gli si erano ridotte a linee che lasciavano passare appena il fiato, sibilando come se l’aria non facesse neppure in tempo ad arrivare ai polmoni che bisognasse richiederne altra. Il volto aveva perso il suo colore, tranne due grosse chiazze rosse sulle guance.
Alfred ci mise una frazione di secondo per analizzare la situazione.
− Arthur – disse – se tu ora ti alzi, se soltanto ci provi, sappi che ti spezzo le gambe come due grissini. Quindi sta’ buono e non fare scherzi.
Alfreeeeed – mormorò Arthur, un filo di voce roca venuta dall’oltretomba – Quello è Franciiiiis.
− Sì, è lui. – gli pose la mano, forte e decisa, sul polso – Ma non ci ha visti. Ѐ lì per i cavoli suoi, noi non lo disturberemo, chiaro? Continuiamo a mangiare come se niente fosse.
Ma Arthur era ancora lì, imbambolato a fissare l’uomo che gli aveva pressoché stravolto la vita. Sentì ogni energia scivolare fuori dal suo corpo, come risucchiata, lasciando al suo posto non qualcosa di vivo ma una carcassa. Francis era lì. Non se lo era aspettato, non così presto dal suo ritorno a Londra, perlomeno. Avrebbe dovuto? Cosa doveva fare?
− Al, aiutami. – bisbigliò con le ultime forze.
Alfred non se lo fece ripetere: era o no un eroe? E gli eroi salvano le persone... anche con metodi inusuali. Si allungò oltre il tavolo, avvicinandosi al volto di Arthur: questo era ancora rivolto alla sua destra. Lo riportò con delicatezza alla posizione frontale, in modo che quegli occhi spenti incontrassero i suoi e un minuscolo luccichio li illuminasse. Aveva un che di toccante, che scioglieva il cuore. Alfred l’osservò per un secondo, lasciandosi sfuggire una espressione intenerita nel sentirlo così vulnerabile. Per un attimo era libero della sua scorza coriacea di uomo adulto, delicato come un bambino sotto le sue dita. Era abbastanza vicino da notare quanto lunghe fossero le sue ciglia, di un verde straordinario le sue iridi. Prese un piccolo respiro per farsi coraggio, mentre le guance si coloravano di rosa per l’emozione. Era più o meno da quando l’aveva visto per la prima volta che desiderava farlo.
Gli mollò uno schiaffo in pieno volto.
Ora, mettiamo in chiaro alcune cose: il corpo umano ci mette meno di un secondo per tradurre i messaggi non verbali e per recepire il dolore. Questo processo è caratterizzato dalla funzione dell’amigdala, il piccolo organo la cui funzione originale è preservare l’organismo dal pericolo. Quando percepiamo uno stimolo con i sensi, tale stimolo per prima cosa passa attraverso il talamo, una sorta di smistamento dei messaggi; lì, a seconda del tipo di segnale sensoriale, il messaggio viene dirottato alla regione competente. Ma per prima cosa il talamo sottopone il messaggio all’amigdala, attraverso un  circuito monosinaptico, una specie di filo diretto. Se l’amigdala, nel suo processo sommario, trova che lo stimolo abbia “qualcosa a che fare” con un evento o un oggetto minaccioso, scatena immediatamente una reazione che coinvolge altre strutture cerebrali e ghiandolari, oltre muscoli, cuore, intestino e così via. In un secondo momento, attraverso un circuito polisinaptico, il talamo rinvia lo stesso messaggio alla corteccia prefrontale e, se quest’ultima giudica che la reazione sia adeguata, dà il permesso di rispondere.
E dopo questo excursus così forbito di neuroscienze non ci si riesce a spiegare, però, perché Arthur ci mise cinque secondi abbondanti a fissare Alfred, con la guancia sinistra in fiamme e senza reagire, prima di esplodere in un urlo: − MA SEI SCEMO?!
Alfred, tanto per cambiare, si mise a ridere.
− Andiamo! – esclamò – Ho, come dire, usato “tatto”.
− Te lo do io il tatto! – gridò l’altro, tentando di pugnalarlo con la forchetta di plastica. Alfred si difese parandosi il volto con le mani, senza smettere di ridere.
− Almeno sei tornato quello di prima, fai paura quando ti prendono queste... trance.
− I-idiota. – mormorò Arthur – Non farlo più. Ero solo sorpreso di rivedere lui.
Alfred allungò la forchetta e gli rubò uno gnocco. – Mmmh. Lascialo perdere.
− Pensi forse che sarei andato da lui e gli avrei fatto una scenata, così dal nulla?
− Esatto.
− Ti sbagli – Arthur lanciò di nuovo un’occhiata di sfuggita al baracchino, dove Francis si era fermato a parlare con qualcuno al suo interno, forse uno dei fratelli Vargas, − Non avrei mai osato. A dire il vero, non ho nessuna voglia di avere nuovamente un confronto diretto con lui, non in questo momento almeno. La sua repentina apparizione mi ha lasciato basito.
− Mmmmmmmmmmmhhhhhh. – Alfred rispose con la bocca piena, quindi non si riuscì bene a capire cosa avesse detto, ma sembrava d’accordo. Aveva rubato gli ultimi gnocchi rimasti nel piatto, lasciando il piatto coperto di pomodoro; Arthur lo allontanò, sbuffando sul fatto che fosse un mangione.
− Ohi, non avrai mica intenzione di buttar via tutto quel sughetto rimasto? – domandò Alfred. – Ѐ un insulto per gli italiani, sai? Conosci il detto “o mangi la minestra o salti dalla finestra”?
− Primo, dubito che il detto si possa attribuire a queste situazioni. Secondo, cosa dovrei farci? Ho finito gli gnocchi.
Alfred prese una delle due pagnotte, ne staccò un pezzo e con quello ripulì il piatto. Poi se lo mangiò, sotto lo sguardo contrariato del gentleman.
− Che diavolo fai? – bisbigliò Arthur.
− In Italia la chiamano “fare scarpetta”, è un usanza comune a quanto ne so.
− D’accordo, ma primo, ti ricordo che qui non siamo in Italia; secondo, non dovrebbe essere un po’ più raffinata la cucina? Geez, per fortuna che hanno anche un ristorante!
Alfred fece girare lo sguardo sugli altri commensali, che erano tutto meno che raffinati: uomini, donne, gente del posto e stranieri che erano venuti lì per mangiare genuina cucina italiana, non per prendere il tè con la regina, obiettò.
Arthur digrignò i denti, senza farsi notare. “Davvero io sarei meno bravo di gentaglia che non sa neanche le basi del decoro?”, pensò. Alta cucina, aveva detto Alfred, e ora si trovavano a mangiare in piatti di plastica, su tovaglie cerate e fogli di carta a fare da ulteriore copertura, seduti su panchine in plastica senza schienale. E tutto questo era apprezzato maggiormente dei suoi sforzi di creare un ambiente di classe, fatica inutile dal momento che era andato tutto perduto, ma tanto non sarebbe interessato a nessuno.
Di nuovo quella sensazione, la voglia di distruggere tutto. Doveva calmarsi. Senza rendersene neppure conto, elaborò un piano.
− Pfff. – soffiò, derisorio – Ho capito. Senti, mangiati pure tu il resto del pranzo.
− Non hai più fame? – chiese Alfred, afferrando il piatto di merluzzo mantecato con una velocità sorprendente, prima che l’altro cambiasse idea. Ma ad Arthur non interessava più mangiare: sul suo volto era apparso un sorriso terribile, folle.
− Non è questo il punto. Ѐ che sono sicuro di poter fare di meglio di questi Vargas, e voglio dimostrarlo. E lo farò ora.
 

* * *

 
− Allora, come va il mio piccolo Feli? – domandò l’uomo, spalmandosi sul bancone che collegava al cucinino. Il cuoco all’interno, indaffaratissimo tra una decina di piatti diversi, rispose allegro: − Alla grandissima! Mi trovo bene qua, si lavora a pieno ritmo come vedi e in più vengono spesso un sacco di ragazze carine! Ma questo è l’ultimo giorno. Ho intenzione di fare una pausa e tornare in Italia per un po’, quindi non potrò più starci dietro. Sarà un periodo di ferie per me e Lovi, che bello!
− Oh, très bien! Sono contento per te! Avevo appunto sentito che questo baracchino ha le ore contate, quindi volevo venirti a trovare prima che lo chiudessi. Certo non credevo saresti davvero riuscito a metterti in proprio, in così poco tempo poi...
− Ѐ stato anche grazie a te se ci siamo decisi a farlo, ti ringrazio vivamente per questo.
Francis agitò la mano davanti al viso, modesto: − Figurati, è un piacere aiutare gli amici. E tuo fratello? Si trova nella postazione principale, immagino –, sbirciò all’interno della cucina: nessuna traccia del maggiore. Chissà perché non ne era sorpreso?
− Lovino non vuole mai venire a lavorare quaggiù, dice che stare così a contatto diretto con gli inglesi gli dà fastidio.
L’uomo inarcò un sopracciglio. – Conoscendolo avrà usato dei termini un po’ più triviali, giusto?
− Esatto, Francis. Che ci vuoi fare... piuttosto, hai assaggiato i miei piatti? Che te ne pare? Sono buoni?
Francis annuì, lanciando uno sguardo intorno a sé. − Certo che sì. Non preoccuparti per quello, pensa piuttosto a questa location. Ѐ un pugno in faccia al buon gusto! Non c’è la minima classe, il minimo charme neppure nei piatti così sempliciotti... – si portò il dorso della mano, fingendo di svenire, − Oh sacré bleu, il mio povero senso estetico! Poi, quando ho visto la tua foto sul volantino, così acconciato da gondoliere! Credevo di morire!
Feliciano scoppiò a ridere: − Dai, Francis! Parli proprio tu, che di travestimenti assurdi sei esperto? Almeno io nella foto sono vestito.
Francis finse di offendersi: − Pffft, sei troppo giovane per conoscere i costumi dell’amore, Feli, ma un giorno capirai e ti ricorderai di me come un tuo valido maestro. La nudità è bellezza, arte, poesia!
− Spero solo che per allora non mi abbiano già arrestato per atti osceni in luogo pubblico.
− Questa gentaglia non capisce nulla dell’arte della seduzione, è per questo che mi hanno chiamato in caserma!
Feliciano rise ancora, una risata cristallina. Francis sorrise, deliziato: quel ragazzo era così carino, persino adesso che gli dava le spalle lo trovava adorabile! Così giovane e ingenuo, fresco come una rosa in procinto di sbocciare... non poteva negare di averci fatto un pensierino.
Si ravvivò la massa dorata che gli cadeva sulle spalle, tornando parzialmente serio.
− Però, tornando al tuo lavoro dietro ai fornelli, devo dire che hai talento. Non mi stupisce che anche a quest’ora tu sia pieno di gente, pur lavorando al mercato. Spero vivamente che il ristorante sia più raffinato, sì? Perché davvero, anche il menù è turistico, quaggiù, non solo per i prezzi, ma per la varietà. So che puoi fare di meglio.
 Feliciano, nonostante tutto, apprezzò quel giudizio: − Grazie mille, conoscendoti lo prendo come un complimento! Lovino sarà così contento! Tu invece? Trovato qualcuno di valido?
Francis si accarezzò la barba. – Qua i ristoranti saltano fuori come conigli, diventa difficile starci dietro. Sì, non mancano le stelle in questo firmamento, ma in un certo senso è anche rischioso delle volte, sai, se i ristoratori non gradiscono la presenza di qualcuno che giudichi il loro operato...
Feliciano interruppe per mezzo secondo la mescolatura della zuppa di pesce e verdure dentro la pentola. Fu un solo istante, quindi Francis non se ne accorse.
− Ma tu sei una voce tra tante, Fratellone Francis. Perché dovrebbero offendersi per te e non per un qualsiasi altro cliente che esprime il suo parere?
L’uomo biondo si staccò dal bancone, visibilmente scandalizzato. – Ohi, Feli! – esclamò – Io non sono il primo tizio venuto direttamente dalla strada che non sa la differenza tra un brodo e un consommé! Se do un giudizio, seppure negativo, è perché so quello che faccio!
Feliciano si voltò, la faccia preoccupata, stanca e sudata per il vapore, il sorriso tremante. Era da ore in piedi, non aveva le forze per discutere e neppure la voglia. – D’accordo, n-non ti arrabbiare. Non volevo mettere in dubbio la tua... ehm, alta cultura culinaria. In caso di bisogno, però, puoi adottare il mio metodo infallibile per non entrare in contrasto con gli altri!
− Oh? E sarebbe?
Feliciano prese da un angolo della credenza uno stecchino lungo una trentina di centimetri, a cui era stato legato con lo scotch la metà di un tovagliolo di carta. Lo sventolò soddisfatto.
− Ta-daaah! Bandiera bianca pronta all’uso, così se qualcuno la vede sa già che non voglio rogne! Fantastico, no? – e lo rimise a posto – Ne ho fatti una ventina uguali a questi, te ne regalo volentieri uno! −.
Francis ridacchiò, spostandosi una ciocca dorata da davanti agli occhi.
− Sei sempre il solito, Feli, non ti piace combattere. Forse è meglio così... l’amore, di cui la mia patria è la fiera testimone, è una risposta più che valida all’odio e cos’è la pace se non il frutto dell’amore? A volte però, arrendersi subito è segno di codardia. – il suo tono si fece più amaro – Non trovi? Cosa fai se un cliente si lamenta? Non gli rispondi per le rime? Preferisci sempre cento giorni da pecora piuttosto che un giorno da leone?
− Cento giorni? Ahaha! Cento anni! – Feliciano servì la zuppa in un piatto fondo con un mestolo, stando attento a mettere sia pezzi di pesce che verdura nella dose adatta. – Prima di tutto, nessuno è mai venuto a lamentarsi, sono sempre tutti entusiasti di ciò che cucino, ma penso che in ogni caso ingoierei il rospo. Le sfide comportano conseguenze che non posso permettermi. E poi Lovino mi ha detto di tenermi alla larga dei guai.
− Oooh, fa la parte del fratello protettivo, adesso?
Feliciano si posò sul piano di lavoro, tenendo la schiena china come dopo una corsa sfiancante. – Più che altro non si fida di me. Essere il più piccolo è una gran scocciatura – mormorò a denti stretti. Francis sorrise, appoggiandosi il mento su una mano.
− Ti vuole bene, lo sai. Non vuole che ti faccia del male.
− Sono sicuro che sia così. Oh, Louise! Aspetta, porta questo al tavolo quattro, quello con la signora anziana. Hai capito quale? Brava tosa, vai.
Una giovane cameriera lì vicino annuì e portò via la zuppa, mentre Francis si scansava per lasciarle lo spazio per passare comodamente. Feliciano allargò la bocca in un sorriso soddisfatto. – Sono contento, davvero. Ѐ da un anno e mezzo che lavoro... lavoriamo autonomamente. Certo è stancante, ma ci sono anche i lati positivi.
− Come avere al proprio servizio delle cameriere carine che ti guardano come se fossi un esemplare esotico mentre dai loro una scodella di bouillabaisse, spacciandola per veneziana?
Feliciano ridacchiò, arrossendo sia per il leggero imbarazzo, sia per l’insinuazione di aver copiato un piatto francese. – Non è bouillabaisse, è una ricetta che ho fatto io. E non è colpa mia se piaccio alle ragazze, sarà per il mio indiscutibile fascino italiano, chissà?
− Ehi, rubacuori, c’è qualcuno che sta venendo qui e credo sia interessato a te, ma dubito sia per il tuo fascino, dato che è incredibilmente giovane e soprattutto maschio.
Francis indicò il ragazzino biondo che stava correndo verso di loro. Peter era incredibilmente agitato, come se non stesse nella pelle di annunciare qualcosa. Feliciano sentì un minuscolo brivido attraversargli la spina dorsale, ma non ci fece caso.
Continuò a lavorare sui suoi piatti, gli ultimi rimasti, dopodiché avrebbe potuto pulire tutto, smontare il baracchino e dire addio a quel piccolo subalterno del ristorante. Erano ormai le tre, l’ora della siesta. Avrebbe dormito, poi avrebbe fatto una partita di calcio con Peter e Lovino, se il fratello fosse stato d’accordo. Avrebbe finito le valigie e il giorno dopo sarebbe partito per l’Italia, diretto a Venezia. Prima, però, doveva sentire cos’aveva da dire il ragazzino.
− Felic... Signor Vargas! Messaggio importantissimo super mega urgente! – strillò Peter. Sembrava avesse le formiche nei pantaloni, tanto si muoveva. Si accorse a malapena della terza persona presente. – Un tizio là, no, due tizi, ma soprattutto uno, hanno detto cose orribili su quello che hai cucinato per loro! Li ho sentiti perché parlavano a voce alta, anche gli altri li avranno sentiti! Ho provato a zittirli, niente! Vogliono assolutamente parlare con te.
Feliciano interruppe immediatamente le sue attività, i suoi pensieri riguardo la siesta, tutto. Fissò Peter, quindi Francis, di nuovo Peter. – Come hai detto? – domandò, togliendosi i guanti e asciugandosi le mani sudate in uno strofinaccio. Francis ghignò: − Ti avevo avvisato che ci sarebbe stato qualcuno che si lamenta, prima o poi. C’è sempre.
− Shhh, Francis. Dimmi, chi sarebbero questi due? E cos’hanno detto, di preciso?
Peter alzò le spalle. – Sono due nuovi, mai visti prima. Non sono italiani, se è questo che t’interessa.
Ve, strano, di solito sono loro che rompono per ogni cosa, ma qua vengono solo turisti.
− Uno è inglese, dall’accento, l’altro non saprei. Hanno detto che potrebbero cucinare cento volte meglio simili schifezze, cito testualmente, e che avrebbero dovuto andare al McDonald qui all’angolo, almeno avrebbero mangiato di più. E queste sono le cose meno offensive! Ti prego, fai qualcosa!
Feli aveva affermato che avrebbe ingoiato il rospo nel caso, che battersi in scontri non era consigliato nel manuale del buon cittadino, tante belle promesse che ora riemergevano mentre sentiva lo stomaco contrarsi per il disagio. Avrebbe dovuto ignorare quei due strani tipi? Sarebbe stata la scelta migliore, ma a quanto pareva le loro parole potevano essere sentite anche dagli altri. Se solo Lovino fosse stato lì! Sarebbe andato da loro e li avrebbe cacciati a calci nel sedere, condendo il tutto con un meraviglioso mix di parolacce. Feliciano non ne era capace. Una decisione doveva essere presa alla svelta, altrimenti la situazione sarebbe precipitata... oh, ma perché doveva accadere tutto adesso, pochi minuti prima della fine del turno? Che palle!
Francis lo osservava intrigato, domandandosi quale sarebbe stata la prossima mossa del giovane.
− Al diavolo. – Feliciano spense gli ultimi fornelli. – Qua la roba è pronta, ci penserà Louise o Cassie o una di loro a distribuirla al posto mio, per dieci minuti si può anche fare, tanto le ordinazioni sono terminate. Non ridere, Francis! Voglio solo sapere come adeguare il mio servizio anche ai clienti più reticenti, non fare a botte. Faremo quattro chiacchiere.
Si armò del suo sorriso più convincente e seguì Peter.
 
* * *
 
Se Alfred fosse stata una persona matura avrebbe fermato Arthur, ma non lo era e quindi il più vecchio attuò senza resistenze quello che sembrava un piano “geniale”.
− Cavoli, questa roba sarebbe commestibile? Scherziamo? – disse ad alta voce, in modo che lo sentissero in più persone. – Sembra di mangiare chewing-gum! E questa pasta? Ѐ talmente dura che potrei slogarmi la mascella! Il pesce, poi! Che poltiglia insapore!
Alfred lo fissò come se fosse impazzito, per poi bisbigliare, notando che in parecchi si erano voltati verso di loro: – Dico, che ti prende? Non ne so granché ma non mi sembra tanto male. Sì, la pasta forse potevano cucinarla un po’ di più, però insomma...
Arthur gli rifilò un calcio. – Zitto idiota, e reggimi il gioco. – sibilò. Poi ricominciò.
− Oh, spero di non svegliarmi con il mal di pancia domani! Siamo sicuri sia roba fresca? Mah! –. Il suo tono era drammatico ma realistico, e più persone cominciarono a guardare sospettosamente i loro piatti, come se d’improvviso dovessero uscirne fuori scarafaggi. Centro!, pensò Arthur. In lontananza avvistò il moccioso di prima, che li stava occhieggiando minaccioso. Un piccolo sforzo, dai.
− Ha davvero senso spendere venti sterline a testa per così poco? A questo punto preferisco mangiarmi un hamburger, almeno sono pieno a poco prezzo! −. Adesso anche Alfred si era unito alla lagna fasulla. Arthur lo guardò riconoscente, sussurrando – Grazie, amico.
− Di niente, sono o no l’eroe? E gli eroi aiutano. – sussurrò in risposta l’altro, prima di esplodere a volume altissimo – Se l’Italia è la Patria del buon cibo? Ahahaha! Forse, ma il vino deve aver dato alla testa al cuoco, perché non è possibile considerare questo buon cibo!
Continuarono così per qualche minuto, inventandosi di sana pianta le lamentele più irritanti pur di attirare l’attenzione delle persone attorno; Alfred ci aveva preso gusto e ne tirava fuori di diverse, sbalordendo l’amico per la sua particolare capacità. Non ci volle molto che l’obiettivo fosse raggiunto.
− Ok, ok, adesso calmati. Hai fatto un buon lavoro – bisbigliò Arthur, sbirciando alle sue spalle le mosse del “nemico”. Il piccolo Peter era a pochi passi diretto da loro, arrabbiatissimo. – Avete qualche problema? – domandò, i pugnetti chiusi sui fianchi e gli occhi azzurri che mandavano lampi.
− Perché lo domandi? – fece Arthur, facendo finta di nulla. Peter batté i piedi stizzito.
− Perché continuate a urlare cose inammissibili! Come vi permettete? –, era diventato paonazzo, − Nessuno si è mai lamentato, cosa avete al posto della lingua, una lastra di marmo?
Alfred dovette trattenersi dallo scoppiare a ridere. Arthur mantenne il sangue freddo.
− Prima di tutto, quello che non si deve permettere sei tu. Non lavori neanche qua, quindi non potrebbero licenziarti, ma in ogni caso resta al tuo posto, ragazzino. –
Peter ammutolì tremante di rabbia, folgorandolo con la peggiore occhiataccia che gli fosse possibile, ma restò zitto. Arthur sospirò, socchiudendo le palpebre e guardandolo di traforo.
− Secondo, vogliamo parlare con il proprietario della baracca. Il cuoco, insomma. Ci faresti la grazia di condurci al suo cospetto?
Peter restò li a guardarli per qualche attimo, mordendosi l’interno delle guance. Aveva paura della reazione di Feliciano, se avesse scoperto che non era neppure riuscito a tener testa a due idioti simili. Poi si decise.
− Vado a parlargli, vedremo cosa vuole fare. Voi non vi muovete. – disse e si girò per tornare quasi di corsa al baracchino.
− Complimenti, genio del male. Era questo il tuo progetto? Fare incazzare l’italiano? Penso che tu ci sia riuscito. – fece Alfred quando il ragazzino fu abbastanza lontano. Arthur scosse la testa, ghignando subdolamente.
− No, tonto, questa non è che la prima parte del piano. Ora viene il bello e, ah! Non serve più il tuo aiuto, non necessariamente. D’ora in poi posso arrangiarmi da solo.
− Che hai intenzione di fare? – domandò Alfred, ma l’altro non poté rispondergli perché stava ritornando Peter, con Feliciano a seguito. Con sua sorpresa, era lo stesso tizio nella foto, anche se privo di baffoni e divisa da gondoliere: solo un grembiule sporco di farina e salsa e grumi di impasto sopra degli ordinari maglietta e jeans. Ne fu un po’ deluso.
Il sorriso del giovane non era esagerato come nell’immagine, anche se era comunque presente, e gli occhi erano pressoché chiusi in confronto. Mentre camminava salutava i vari commensali, prendendosi il suo tempo. Arrivò al tavolo dei due dopo Peter, che tremava di rabbia repressa. – Sono loro – sibilò. Finalmente avrebbero avuto ciò che si meritavano!
Buongiorno signori – disse in italiano il ragazzo, il sorriso che non lasciò le sue labbra neanche a pagare – Il mio nome è Feliciano Vargas, sono il cuoco e proprietario di questo umile stand. Ho sentito che il pranzo non è stato di vostro gradimento. Ora, per evitare futuri incidenti di questo genere, potrei sapere esattamente cos’è che non andava?
Alfred lasciò la parola ad Arthur, che la prese immediatamente. Si portò un dito alle labbra, portando gli occhi verso il soffitto: − Cosa non andava? Uhm. Varie cose, diciamo... tutto. Il mio stomaco si rifiutava di ingerire simili intrugli.
Feliciano gettò un’occhiata significativa ai vari piatti ripuliti per benino presenti sul tavolo.
− Lascia perdere quelli, ha mangiato tutto lui. Ѐ un bidone della spazzatura vivente. – Arthur indicò Alfred, che tentò di difendersi con un – Ehi, non è vero!
− Almeno c’è qualcuno qui che ama la buona cucina. – disse Feliciano con un sorriso più ampio. Alfred scosse il capo. – A dire il vero, era troppo... semplice. A me piacciono i sapori forti – dichiarò – Tipo, a questa cosa qua, come si chiamava... ah, il “baccalà”, avrei aggiunto un po’ di “parmesan”! Sarebbe stato mooolto più buono!
Feliciano impallidì, per poco non svenne, mormorò un flebile “Il pesce con il formajo, nooo!” ma si riprese quasi subito, replicando pazientemente: − Questi sono perlopiù piatti tipici veneziani e del Nord Italia in genere. Permettetemi di dire che le vostre lamentele sono infondate... per non dire che sono enormi cazzate.
Arthur arricciò il naso, nascondendo la soddisfazione di come la conversazione stesse proseguendo. Ancora uno sforzo, dai. Diede la stoccata finale: – In ogni caso, piatti tipici o meno, io sono uno chef di professione, e sono sicuro che cucinerei uno qualunque di questi piatti molto meglio di qualsiasi... – guardò Feliciano dritto negli occhi −  ... ciarlatano da marciapiede.
Feliciano non rispose subito all’insulto. Ingoiò un bolo di saliva, si torturò le mani sfregandosele con forza, sempre zitto e con il respiro divenuto affannoso. Non si riusciva a capire se fosse arrabbiato, sul punto di piangere o cos’altro, sicuro era che il suo volto non appariva più così affabile.
−  Non credo proprio, sa signore? – disse dopo una pausa, la voce stridente. Non era mai stato insultato in questo modo e faceva male, male davvero.
− Mr Vargas, che ne dice di una sfida? – riprese Arthur, ignorando deliberatamente lo sguardo sempre più terrorizzato di Alfred, che ormai aveva mangiato la foglia e prevedeva un disastro totale. – Può decidere lei chi farà da giudice, ma ho notato la presenza di un noto estimatore del buon cibo proprio qui, se non sbaglio stava parlando con lei poco fa. −
Ok, Alfred non l’avrebbe dovuto bloccare, prima, se magari l’avesse lasciato andare ora non starebbe proponendo uno scontro ai fornelli con un italiano migliore a prescindere di lui.
− Vuole sfidarmi? Qui? Ora? – domandò stupefatto Feliciano.
− Esatto.
“Ti prego, fa che dica che è una cazzata, che non si può fare, che le norme igieniche lo sconsigliano, qualsiasi cosa ma NON FAR CUCINARE ARTHUR”.
− Per me va bene. Avviso subito Francis... il signor Bonnefoy. Peter, potresti dirgli che ho bisogno di lui? Spiegagli la situazione.
“Merda”.
I due concorrenti si allontanarono verso il baracchino, Peter che li precedette con il suo passo svelto. Alfred si prese la testa tra le mani, mormorando varie bestemmie all’indirizzo del suo socio, maledicendo il momento in cui aveva deciso di aiutarlo. Lo aspettava la figuraccia del secolo, poco ma sicuro.
 
Al baracchino Francis non c’era, comunque; Peter scattò subito nella ricerca, ansioso di mostrarsi utile e soprattutto volendo allontanarsi da quell’essere odioso con cui aveva litigato prima.
– Sarà andato a sedersi? – si chiese Feliciano. Forse si sarebbe potuto risparmiare la seccatura di quella stupida sfida, se lui non ci fosse stato. Però la briciola di orgoglio che nascondeva nel profondo non gli permise di lasciare andare la questione così facilmente, facendogli scegliere un’alternativa inusuale alla sua attitudine: – Non importa, mi segua dentro – e invitò Arthur all’interno della postazione. L’uomo lasciò andare un respiro che non ricordava di aver trattenuto, pieno di sollievo. Era vergognosamente felice di non dover guardare di nuovo negli occhi Francis, tutto il coraggio avventato che lo aveva colto era sfumato nelle sue vene come un’ubriacatura. Quando ispirò nuovamente, riconobbe nell’aria un profumo che non era di cibo: una fragranza maschile, famigliare, la stessa che emanava da anni lui... aveva lasciato la sua impronta, nonostante fosse assente. Il cuore di Arthur si strinse, facendogli domandare il perché fosse lì, il motivo di tutta quella messinscena. E tutto a causa di uno stupido errore, della sua rabbia e di un patto che ora doveva rispettare ma della cui importanza ancora non si rendeva conto. Dov’era il tasto reset nella vita reale?
Feliciano porse un grembiule all’altro, il sorriso ricomparso sul suo viso come se non fosse mai svanito. − Non mi ha ancora detto il suo nome! Ѐ uno chef anche lei, però. Dove lavora? Immagino in un ristorante, magari uno di quelli di nicchia, piacciono tanto anche a Francis! –. Era velocissimo a dimenticare i rancori, a quanto pare. L’insulto di pochi secondi fa già era scomparso dai suoi ricordi.
− Kirkland, mi chiami così. Lavoro in Fleet Street, non lontano da qui e, no, purtroppo non lavoro in un ristorante... diciamo che è un locale, “The Eagle”. Ma è solo questione di tempo, prima che torni a lavorare in un posto serio.
− Fleet Street? Oh, conosco, sì sì. − Feliciano annuì vigorosamente, mentre l’altro controllava l’attrezzatura disponibile. – Che bel nome per un locale, però! L’ha scelto lei?
− NO. Parliamo d’altro, per favore, le dispiace?
Feliciano si voltò verso l’uomo, confuso per il suo tono irritato. Aveva detto qualcosa che non andava? Doveva tirare fuori le bandierine bianche? No, non ce n’era bisogno. Notò, però, qualcosa che lo fece sorridere sul viso dell’altro.
– Ok! Mi dica... – indicò con un ghigno la guancia di Arthur, sulla quale spiccava ancora lo stampo rosso di una mano. – Quella è frutto di un qualche “piccolo incidente”? Non si preoccupi, sono italiano, cose simili sono normali dalle mie parti, sa?
Arthur si toccò istintivamente il volto, avvampando per l’imbarazzo: − N-no. – rispose, girandosi dall’altra parte – Cioè, diciamo che è stato un malinteso. Credeva stessi male e per farmi rinsavire mi ha mollato una sberla in piena faccia. L’avesse fatto in modo normale, almeno! No, prima mi guarda negli occhi, sorride, e poi mi colpisce!
− Aaah, queste ragazze! Sembrano fiorellini, ma sono piuttosto manesche, uh?
− Veramente è stato un uomo.
Feliciano sgranò gli occhi. – Eh?
− Ma sì, il signore con cui stavo mangiando poco fa...
Gli occhi del ragazzo si allargarono ancora di più: − Ah. Caaapisco.
Arthur annuì, borbottando “Stupido idiota di un Alfred”, quando intuì l’equivoco in cui era incappato.
− U-un attimo! Non è come sembra... cioè, Alfred è il mio socio... siamo venuti qui per una specie di, ehm, pranzo di lavoro.
Feliciano annuì, soffocando un risolino. – Non si preoccupi. Sono soltanto sorpreso che una persona come lei abbia un amico simile.
− A-amico...? In che senso, scusi?!
Feliciano agitò una mano davanti al volto, consapevole del doppio senso in cui era incappato e deciso a spiegarsi: − Vede, anch’io molto spesso mi ritrovo in situazioni critiche e allora ho questo mio amico che mi salva sempre non appena chiedo aiuto. Ѐ tanto gentile! Solo che mi ci sono ritrovato tante volte in momenti come quelli che è diventato quasi prevenuto sul mio comportamento, come se sapesse già che mi trovo in qualche guaio non appena lo chiamo! Ahaha! Ma lei mi pare un signore tanto coscienzioso, non sapevo che persone come lei avessero bisogno di amici del genere.
− Veramente – mormorò Arthur, accendendo il fornello e ponendovi sopra una pentola – Non avevo neppure idea di aver bisogno di un amico fino a pochi giorni fa.
− Signor Kirkland?
− Ah?
− Cos’ha intenzione di cucinare? – Feliciano batté le mani, entusiasta. – Sono curioso di vedere cosa sa fare! E ovviamente avremo anche il giudizio di Francis, no volevo dire il signor Bonnefoy! Mi dispiace non sia qui a vederci, a lei dispiace?
− Un po’. Era per la sua presenza, più che altro, che volevo sfidarla.
− Oh? Allora ha detto tutte quelle brutte cose sul mio cibo solo per questo? Voleva che lo notassi?
Dannazione, l’aveva scoperto. Era così facile da decifrare?
− Ecco... alcune critiche ammetto di averle esagerate...
Feliciano spalancò la bocca per la sorpresa, poi corrucciò le sopracciglia in quello che doveva essere uno sguardo di rimprovero e lo rimbrottò, portandosi la mano destra sul cuore: − Signore, mi ha fatto venire un infarto! Pensavo di aver combinato chissà cosa! Beh, meglio così, basta che non lo ripeta mai più: sa, gli altri clienti sono suscettibili a queste cose, potrebbero condizionarli!
“Tranquillo, io ne so qualcosa di pareri di persone ignoranti influenzati da giudici altrettanto ignoranti” pensò Arthur, stringendo piano la mascella.
− Mi perdoni, sono stato un essere ignobile a esprimermi in una maniera così sgarbata senza motivo apparente. Spero lei mi possa comprendere.
Feliciano alzò un sopracciglio. Il tipo sapeva il fatto suo in merito alle buone maniere, almeno paragonandolo alle poche persone che conosceva personalmente lì a Londra. Decise di lasciar correre per il momento.
− D’accordo, signore... beh, quello che rimane del cibo fresco è lì nel frigo, mi fido e le lascio per un po’ il mio posto. Tanto lei è uno chef, no? Come Gordon Ramsay!
Arthur sogghignò, estraendo gli ingredienti che gli erano necessari da un piccolo frigorifero nell’angolo. – Tranquillo, si fidi di me. Si leccherà i baffi.
Bastò un quarto d’ora.
Le urla disperate di Feliciano, mentre le fiamme venivano spente prima che distruggessero l’intero baracchino, si sentirono sotto il rumore dell’estintore in azione.
− Cosa cazzo ho combinato... – sussurrò Arthur, mentre il getto si estingueva pian piano. Le pareti erano annerite così come il frigo e buona parte dei fornelli. Feliciano osservava il tutto con le mani immerse tra i capelli, mormorando qualcosa in italiano, gli occhi nocciola spalancati diretti sul disastro mancato. I passanti che cercavano di sbirciare e capire cosa fosse successo, anche le cameriere, venivano puntualmente mandati via da quest’ultimo, minimizzando il tutto come un “piccolo incidente” detto a fil di voce.
Mamma mia – esclamò, appena si fu ripreso. – Ci è mancato un pelo! Lovino mi farà la pelle appena lo scoprirà... Oh, signore? Sta bene? Abbiamo rischiato grosso! Per fortuna avevo l’estintore sul retro, altrimenti sarebbe stato un macello!
− Direi di sì... sono terribilmente spiacente.
Arthur arrossì: aveva pressoché incendiato il piccolo stand, dimostrando quanto fosse inetto e il ragazzo si chiedeva come stesse. Era un filo commosso.
− Spero solo che l’assicurazione paghi i danni. Lovino non voleva farla l’assicurazione, diceva che era un ennesimo spreco di denaro, ma io l’ho fatta lo stesso. Oh, se non mi risarciscono loro, vengo a pretendere i danni da lei, sia chiaro.
Commosso un piffero. L’italiano bastardo non era tanto diverso da Alfred.
− Sono sicuro che troveremo un modo per conciliare le due parti – promise Arthur, mentre l’altro lo guardava storto. Feliciano sospirò. Arthur si allontanò di un passo, raddrizzando la schiena e assumendo una posa dignitosa, arrivando togliere il cappello bruciacchiato sui bordi pur di apparire meritevole. Era sicuro di aver cucinato bene, stavolta, e se non fosse stato per il piccolo incendio, avrebbe fatto un figurone anche con Francis. Non sarebbe accaduto come il giorno prima con Alfred, assolutamente. Arthur avvertì una presenza sulla spalla: una fatina stava osservando come lui la situazione; le fece l’occhiolino, consigliandole in un bisbiglio di stare a vedere.
− E va bene. Quello finisce nella spazzatura, però mi dispiace tanto! – decise Feliciano, sconsolato: era sempre curioso di assaggiare sapori nuovi e aveva perso quell’occasione. – Senta signore, questo incidente è stato incredibilmente stupido da parte di un professionista, ma... – i suoi occhi si aprirono luccicanti – Ho capito. Lei aveva difficoltà a cucinare in uno spazio così angusto, giusto?
Arthur rialzò lo sguardo, improvvisamente speranzoso. Il ragazzo aveva ragione: non era lui incapace, era l’ambiente che non gli permetteva di esprimersi!
− Ehm... sì, certo. – Cazzate, lo sapeva anche lui che erano cazzate, ma aveva una dignità da difendere, anche a costo di mentire.
− Peccato, allora. La nostra sfida termina qui, mi dispiace solo che Francis non abbia potuto dire la sua. Ѐ raro che non dica la sua su praticamente tutto, proprio stavolta... eh, peccato.
Arthur sentì il petto riempirsi di calore, nel sentire della possibilità di rincontrare Francis. Non gli interessava più della sua opinione, voleva solo rivederlo in faccia, non era neppure importante se avessero litigato di nuovo. Sentiva in cuor suo che se gli avesse di nuovo rivolto la parola sarebbe stato sufficiente per lenire quell’orribile peso che portava da un anno nel cuore. Impossibile. Occasione persa. − Già –.
Feliciano lo stava scrutando, facendolo sentire un po’ a disagio. Si schiarì la gola.
− Allora, come si fa? Devo intervenire anch’io per l’assicurazione, dal momento che ho fatto io il danno? Spero di non aver causato troppo disagio, insomma, è stato un incidente, lo ha detto anche lei...
Feliciano scosse la testa, sorridente: − Non si preoccupi, mi arrangio io. Adesso, se non le dispiace, potrebbe lasciarmi pulire questo disastro? Sono già passate le tre e io vorrei fare la mia siesta, ma non prima di aver messo a posto –. Rise.
− Faccia pure. E buona fortuna per il suo lavoro di cuoco, è un mondo difficile questo.
− Che il Signore vi sorrida! – lo salutò quando Arthur uscì. – Finché non ci rivedremo. – aggiunse, lasciando andare un sospiro. Guardò nuovamente verso il cucinino annerito dal fumo e per poco non si lasciò scappare un urletto. – Ehi! Signor Kirkland... – ma l’altro se n’era già andato. Feliciano alzò le spalle e tornò ai fornelli, precisamente alla pentola in cui stava cucinando l’altro prima del disastro. Un sorriso estasiato gli si aprì in faccia.
− Non ho idea di cosa stesse cucinando prima quel tizio, ma credo che qualcosa si sia salvato. Almeno spero. – mormorò tra sé.
Avvicinò il volto all’ impasto. Effettivamente il piatto era tre quarti carbonizzato, ma un quarto era perfettamente integro. Un boccone sufficiente per assaggiare come fosse venuto fuori. − Mi sa che Francis non vorrebbe mangiare questa cosa e mi dispiace, sapendo quanto ci teneva quel tizio −. Una lampadina gli si accese in testa. – E se lo assaggio e gli dico la mia opinione? – esclamò il ragazzo – Non sono un critico, anzi, sono una “bocca buona” ma lui è stato quello che ha disapprovato i miei piatti come se fossero mer... ehm, schifezze, voglio proprio assaggiare un piatto da chef. Non è stato neppure intaccato dall’estintore!
Feliciano prese una forchetta, separò il cibo commestibile da quello andato in fumo, domandandosi che diavolo avesse cucinato l’altro: aveva preparato gli ingredienti cercando di nascondere le proprie azioni, neanche avesse paura che gli copiassero la ricetta, ma l’altro era riuscito a sbirciare le sue mosse. Ciononostante, il preparato finale era tutto meno che riconoscibile. “Sarà una qualche ricetta inglese” pensò. E ne mise in bocca un boccone.
L’urlo che seguì fece sembrare la reazione di prima un sussurro nel vento. Feliciano stava addirittura piangendo da quanto quello che aveva in bocca gli faceva schifo.
− Che è sta robaaa?! Ѐ la cosa più disgustosa che abbia mai mangiato, sa d’immondizia, mi viene voglia di morireee! – e giù singhiozzi. S’interruppe solo perché delle ragazze si erano voltate verso di lui, la lagna stava minacciando la sua fama di latin lover.
“Seriamente, che è ‘sta schifezza?” sputò il bolo in un pezzo di carta asciuga tutto. “E sarebbe uno chef, questo qua? In quale universo lo si potrebbe definire tale?”. Il suo volto raggelò per un secondo. Si voltò verso i tavoli, dove l’altro si era diretto. Una strana luce nei suoi occhi: non era l’espressione esageratamente gioiosa della foto nella pubblicità, neppure quella più quieta e gentile di prima, era una luce diversa da qualsiasi altra fosse passata sul volto del giovane da un bel po’ di tempo a questa parte e per questo era indecifrabile. Non c’erano fatine a fare la spia, questa volta, però.
 
Alfred tamburellò nervoso il tavolo. Non era abituato a essere lasciato così, da solo, e trovava la sensazione alquanto scocciante. Bevve l’ultimo sorso della Coca, pregando qualsiasi divinità che il vecchio bastardo non combinasse pasticci. Prima la cosa non aveva funzionato, ma la speranza era l’ultima a morire, no? Arthur aveva un piano. Non si sa cosa girasse per la sua testa bacata, ma cazzo, avere un piano è sinonimo di successo assicurato, giusto? Alfred maledì la sua decisione di non averlo colpito più forte, magari lo avrebbe fatto svenire e quindi portare al pronto soccorso, e invece no. Ora stava cucinando. La cosa lo rendeva a ragione in preda al panico.
Si lasciò andare sulla panchina, rischiando di fare un capitombolo dal momento che si era dimenticato che mancassero gli schienali.
− Dannazione, voglio tornare a casa. Da quando Art si è accorto che c’è anche il francese quaggiù, è diventato più strambo del solito – mugugnò. Guardò la gente attorno a sé, famigliole allegre in maggioranza, e decise che era stufo di rimanere lì da solo come un idiota. Si alzò dal suo posto e andò sul confine dell’area governata dallo stand, sgranchendosi le gambe addormentate. Le lenti dei suoi occhiali riflessero la luce del sole, costringendolo a toglierseli per un attimo.
− Che scocciatura gli occhiali, eh? Certe volte ti rendono più cieco di quanto tu non sia senza. – constatò una voce dietro di lui. Si girò e, anche con la vista annebbiata, riuscì a riconoscere la persona che gli stava rivolgendo la parola. “Ma non era andato a giudicare i piatti dello scorbutico?”
− Mr Bonnefoy! – esclamò, in un tono che cercava di apparire sorpreso – Anche lei qui?
L’altro lo squadrò intrigato, togliendosi un ciuffo ribelle da davanti il viso: − Bonjour. Ci siamo già presentati?
Alfred si sistemò gli occhiali: − Sono Alfred F. Jones, il proprietario dell’Eagle. Sa, quello che ha preso il posto dell’ Arthur’s Kitchen, in Fleet Street.
Il volto di Francis s’illuminò: − Oh, Alfred, già! Ora rammento, il giovane americano dalle grandi speranze! −. Ridacchiò al ricordo della sua visita. − Il tuo locale è riuscito ad affermarsi? Era una specie di fast-food, giusto?
− Beh, non è ancora decollato, ma ci sto lavorando sodo. Ho addirittura assunto un nuovo socio!
Francis alzò un sopracciglio, perplesso: − Davvero? E avete i clienti per riuscire a pagarvi entrambi lo stipendio? Non che dubiti le capacità di un giovane ambizioso come te, sia chiaro.
− Il mio socio è molto, molto motivato e non certo dal denaro. Potremmo dire che... si tratta di una persona speciale.
Francis annuì, muovendo la testa e agitando i capelli biondi davanti al viso. Aveva assunto un’espressione malinconica. – Speciale, ah?
− Esatto. Non si ferma davanti a niente e nessuno.
− Mi ricorda tanto una persona che conoscevo. – Francis sospirò. – Mi piacerebbe conoscerlo, questo socio speciale.
− Il mio fast-food non si è mosso dall’ultima volta in cui sei entrato, è sempre là. – Alfred avrebbe dovuto avere un linguaggio più garbato, probabilmente, ma la sua totale noncuranza a riguardo fece ridere il noto critico.
− Dovrei prenderlo come un invito a mangiare da te? – domandò, un sorriso malizioso gli increspò le labbra. Alfred si sentì a disagio sotto quegli occhi penetranti, ma non durò a lungo.
−  Sono tutti i benvenuti nel mio splendido locale! Basta che non siano inglesi, quelli mi stanno antipatici. Troppo snob.
Francis scoppiò a ridere: − Cher, tu non eri al banco poco fa e non sai cos’è successo!
− Cosa, cosa, dai, sono curioso!
Francis ne approfittò per avvicinarsi al volto di Alfred,  parandosi la bocca con la mano come se si trattasse dell’ultimo gossip: − A quanto pare due clienti si sono messi a sparare sentenze contro quello che stavano mangiando, lagne assolutamente patetiche tra l’altro. Ora, la cucina francese è nettamente superiore a quella italiana, non so se capisci tu che vieni dall’altra parte dell’oceano, ma comunque erano esagerati... insomma, la cosa divertente di tutto ciò è che non si sapeva chi fossero i due, ma era sicuro che uno fosse inglese. Chi è che rompe le scatole? Un inglese. Tipico, no? Deve essere nel loro DNA. Ah ah ah!
Alfred non sapeva se ridere o offendersi per la cosa. Dal momento che mostrarsi infuriato avrebbe significato essere scoperti all’istante, decise di sorvolare.
− E l’altro? Non era della stessa nazionalità? – chiese, facendo finta di non sapere.
− No, a quanto pare, però sai, l’accento varia nelle varie parti dell’Inghilterra. Magari uno era londinese e l’altro di Birmingham.
− Ah, questi inglesi. – sentenziò Alfred, scuotendo la testa – Sempre a criticare. Sapessero almeno di cosa parlano!
− Suvvia, Jones! Non essere così duro con loro. Magari un giorno, chissà? Ti troverai una bella fidanzata quaggiù, una british girl che ti farà cambiare idea.
No way! – Alfred incrociò le braccia. – Mi tocca già lavorare con un ingl... volevo dire, non ho bisogno di una ragazza, ho troppo lavoro da fare! L’amore può aspettare.
Francis sorrise, come se sapesse qualcosa che lui non sapeva.
− Se lo dici tu. Comunque adesso mi hai incuriosito con la storia del nuovo socio. Ѐ un bel tipo?
Ci volle un po’ perché Alfred capisse che Francis intendeva l’aspetto fisico, più che il carattere. Alzò le spalle. – Ѐ un tipo. Non saprei spiegarti.
− Alto, basso, biondo, moro...?
Alfred mosse gli occhi da destra a sinistra, sbuffando. Gli dava un certo fastidio parlare di Arthur, dal momento che il rischio di far saltare la copertura incombeva come una spada di Damocle.
− Perché dovrei dirtelo io? Vieni al mio locale, così lo vedi con i tuoi occhi! – disse, quasi senza pensarci (come la maggior parte delle cose che diceva, d’altronde),  rendendosi conto delle sue parole sono quando l’altro rispose: − Uhm, perché no? Sono curioso di vedere i tuoi progressi... e conoscere questo misterioso signore. Penso di riuscire a venire entro la fine della settimana, ti va bene?
Alfred spalancò la bocca tentando di ribattere qualcosa, ma Francis lo interruppe con un buffetto sulla guancia.
− Devo andare, perdonami: mi sono intrattenuto anche troppo con te. Ci vediamo, allora!
E se ne andò, senza dargli neppure il tempo di salutarlo.
 
La prima cosa da fare era avvisare Arthur, e fu quello che Alfred fece. La reazione del primo fu molto contenuta. – Ah sì? Va bene. – fu tutto quello che disse.
− Potresti anche mostrarti un po’ più entusiasta! O incazzato, che ne so! Che risposta è questa? – sbottò Alfred, rimasto frustratissimo da tale freddezza. Stavano tornando verso l’ Eagle, attorno a loro sfilavano i negozi luccicanti della via principale. Il rumore del traffico copriva i loro discorsi.
− Ѐ la mia risposta: va bene così.
− Sarà che non riesco a recepire bene i messaggi subliminali, ma non mi pare che tu mi abbia detto tutto. Insomma...
− Stai tranquillo, non c’è nulla di cui preoccuparsi. – lo rassicurò Arthur, posandogli una mano sulla spalla. Il ragazzo si calmò un poco, senza però togliergli quello sguardo sospettoso di dosso. “Fai bene a preoccuparti, invece” pensò Arthur, “Non ho idea di cosa succederà. Già ero sollevato del fatto che Francis se ne fosse andato quando sono arrivato al baracchino, ora è sicuro che lo rincontrerò e... non ho la più pallida idea di come reagire. Di cosa gli dirò quando lo vedrò o di cosa dirà lui vedendomi, perché non ha idea che sia io quello che lavora con te. Ho paura, sai? Ho paura di dimostrarmi per l’ennesima volta imbranato ai suoi occhi. Non posso permetterlo. Ho paura di perdere nuovamente il controllo”.
Non riuscì a sopportare a lungo quegli occhi azzurri addosso e voltò la testa, insofferente: − Devi ancora chiedermi come sia andata la mia sfida culinaria contro il cuoco italiano.
− Non sono in vena di storie dell’orrore.
Arthur minacciò con il linguaggio non verbale di buttarlo sotto un bus.
− In realtà, brutto rompiscatole, sono andato abbastanza bene – alzò il mento, fiero. – C’è stato un minuscolo incendio, ma nulla di più. Credo di aver superato me stesso oggi.
− C...COSA? Un incendio? Avevi intenzione di distruggergli la postazione, era questo il tuo piano meraviglioso? – Alfred lo prese per le spalle, urlandogli in faccia: – E se ci chiedono i danni, dove li troviamo i soldi? Imbecille!
Arthur se lo scrollò di dosso, risistemandosi la giacca (che solo in quel momento Alfred notò aver tracce di bruciato sulla stoffa) sdegnato.
− Posseggono un’assicurazione contro gli infortuni, me l’ha detto lui stesso! Non ci faranno causa... spero.
− Se però viene fuori il contrario, stai certo che non ti farò pagare nulla: ti spezzo tutte le ossa, ma non ti faccio pagare nulla.
− Che gentile che sei, proprio il comportamento adatto a un eroe! Quanto vorrei fossi tu a ricevere il prossimo premio Nobel per la Pace: dopo Vladimir Putin mi sembri il candidato più adatto.
Alfred sogghignò al pensiero: − Se lo vincessi io al posto suo, sarebbe l’ennesima prova della superiorità americana sulla Russia.
Arthur sorrise, ma non rispose. Quelle punzecchiature erano riuscite per un po’ a fargli dimenticare i pensieri ossessivi che lo tormentavano e gliene era grato, ma ora l’ombra scura che lo perseguitava stava riguadagnando terreno. Le labbra si strinsero, gli angoli scesero verso il basso. La tregua non sarebbe durata a lungo.
Arrivarono al locale che Alfred stava ancora chiacchierando allegro, mentre Arthur alzava un muro fatto di pensieri sempre più difficili da controllare, ognuno in un mondo a sé in cui l’altro non era che un interlocutore, quindi non notarono a prima vista la figura che li stava aspettando davanti all’entrata.
− Mr Kirkland! Mr Jones! Salve! Ho visto la scritta “chiuso”, ma non sapevo foste effettivamente usciti... sono arrivato giusto in tempo!
− Perdonaci Toris. Ѐ da tanto che aspetti? – lo salutò Arthur riemergendo dal suo silenzio, mentre l’altro sventolava la mano come se non lo vedesse da secoli
− No... anzi, devo proprio dirvi cosa è successo poco fa, devo fare presto perché un amico mi aspetta! – Toris sembrava non stare più nella sua stessa pelle. Alfred gli rivolse un sorriso smagliante, estraendo dalla tasca la chiave per aprire il locale..
− Ora ci racconti tutto, ma preferisco farlo davanti a un hamburger. Ho una fame da lupi, ahahaha!
 

Long Time No See
 
IV.I


 
 
Sbagliato, sbagliato. Se Arthur in futuro avesse dovuto decidere il giorno in cui tutto iniziò ad andare storto, avrebbe scelto quello in cui lui e Alfred erano andati a combinare quella specie di ronda. “Controllare la concorrenza”, così l’aveva definita l’idiota. Se non l’avessero fatto, chissà? Magari le cose sarebbero potute andare in modo diverso.
Non il giorno in cui era tornato a casa e per prima cosa si era introdotto nel suo antro per ricercare un incontro con “quello”. Non quando aveva accettato il lavoro in quell’orribile posto, con quell’orribile deficiente. Non quando si era reso conto di voler effettivamente la morte di Francis Bonnefoy. No, nessuno di quei giorni era stato quello decisivo.
Sbagliato, sbagliato, era tutto sbagliato, persino l’acqua con cui aveva fatto il tè in quella mattina di settembre doveva essere inquinata, il pane avvelenato, la frutta gonfia di vermi, ma niente di tutto ciò s’era manifestato ai suoi occhi e quindi chi poteva immaginare che quello fosse il giorno della sua caduta?
Era anche una giornata serena, uno di quei giorni di sole che t’illudono sia ancora estate. Le nuvole erano candide e soffici, come batuffoli di cotone nell’azzurro così inconsueto nella capitale inglese. La pioggia del giorno prima evaporava dal cemento, lavando gli odori della città e sollevando un venticello fresco che ti coglieva inaspettato, facendoti rabbrividire improvvisamente. Era un bene che non facesse troppo caldo: la luce che lo accoglieva non appena metteva piede in strada, stordiva la mente già colpita di Arthur. Il calore lo avrebbe intontito al punto da renderlo uno zombie, ma il fresco lo rendeva abbastanza lucido da percepire tutto quello che accadeva. Forse sarebbe stato meglio di no. Meglio l’incoscienza a quella sensazione, come se ogni entrata in un nuovo locale gli riempisse sempre più lo stomaco di catrame nero e appiccicoso.
Era invidia, quella sensazione orribile, la riconosceva suo malgrado: in ogni volto estraneo gli pareva di scorgere freddezza, senso di superiorità, addirittura disprezzo.
Lui non era che un fallito, dicevano quegli sguardi altezzosi, in compagnia di un altro fallito. Avrebbe voluto urlare, ma non poteva. Labbra serrate per non fare uscire il mostro, respiri difficili, una maschera di carne ed ossa per simulare la normalità. Finzione.
Per completare la farsa indossava un cappello ben calcato in testa, tanto per non farsi riconoscere subito da chi lo aveva già visto in volto. Nascondendogli le sopracciglia, elemento particolare del suo volto, eseguiva di suo un ottimo lavoro e gli infondeva un’aria molto più anziana dei suoi ventitré anni, come se già non fosse regolarmente scambiato per un signore di mezz’età. Ironico come persino dettagli così idioti riesumassero la memoria.
Anche Francis lo prendeva spesso in giro per il suo stile “antico”, lui che cercava di farsi notare ad ogni costo seguendo esclusivamente l’ultima moda. Quante volte avevano litigato per simili inezie? Tante. Facevano parte del passato, ormai. Ora non poteva più tornare indietro, perché aveva fatto un patto.
Alla fine non poté fare altro che rifugiarsi in altri pensieri, qualcosa che non coinvolgesse quella sensazione di soffocamento dall’interno. Si mise a pensare alla sera prima.
Alfred, intanto, manifestava il suo entusiasmo in maniera fin troppo animata. Oggi si dimostrava ancora più eccitato del solito poiché aveva avuto l’occasione di uscire all’aperto, assaporare un po’ di libertà fuori dal suo mondo a parte: sembrava un cane liberato del suo guinzaglio, avvolto da nuovi profumi e colori. Arthur era restio nel venire contagiato dalla sua energia; tra le altre cose, era ancora scosso per Toris. Non sapeva nulla di cosa fosse successo al colloquio, ma già s’immaginava il peggio.
Ivan poteva aver detto di tutto. Fatto di tutto. Ivan era imprevedibile. Toris si era rifiutato di parlarne, segno che i timori di Arthur fossero fondati, che qualcosa fosse necessariamente accaduto per renderlo così chiuso.
Toris non era il massimo della chiacchiera, certo, era il classico tipo tranquillo, ma non fino a questo punto. E poi c’era quello sguardo nei suoi occhi, come se stesse ancora cercando di metabolizzare un’esperienza penosa. L’unica cosa su cui aveva aperto bocca volentieri (fin troppo) riguardava la sorella del giudice, la giovane Natalia: e quanto è bella, e quanto è dolce, e quanto è sfortunata a vivere sola soletta in un grande palazzo come quello con la sola compagnia del fratello, e il fatto che lo avesse aiutato ad uscire.
(un attimo, aiutato ad uscire? Oppure aveva detto “scappare”?)
Erano entrambi stanchi morti quando erano tornati a casa, o meglio Arthur era stanco e Toris alternava sovreccitazione a mutismo assoluto
(scappare, scappare via dalla casa infestata, l’orco gli ha preso la parola e la bella gli ha rubato il cuore)
per cui non s’era riuscito a scoprire molto riguardo e Arthur aveva avuto paura ad indagare più a fondo
(fuggire prima che l’ombra nascosta nel buco spezzi il filo e gli divori l’anima)
− ...rthur? Arthur? Terra chiama Arthur, rispondi, passo!
Alfred lo stava scuotendo per un braccio. Arthur alzò confuso gli occhi, tornando lentamente alla realtà. – Eh? Che c’è?
Alfred lo guardò incuriosito, come se gli avesse tolto la domanda di bocca.
− Boh, ma sembri preoccupato per qualcosa e volevo sapere cos’hai.
− Non è niente...
“Per non ricordare quanto sono patetico pensavo a Toris, sai, il ragazzo di cui in teoria dovrei prendermi cura finché è qui a Londra e invece mando in pasto agli orsi. Ieri non mi ha voluto raccontare cosa fosse successo a casa di Braginski. Ha solo parlato a vanvera di Natalia, credo si sia preso una cotta per lei, ma forse aveva semplicemente paura di confidarsi con me perché Ivan... può avergli svelato qualcosa sul mio conto? Non oso pensarci. Meglio cambiare argomento, tanto non capirebbe comunque”
− Adesso dove andiamo? – domandò, assumendo l’espressione più indifferente che gli fosse possibile. Alfred tirò fuori dalla tasca una lista di indirizzi.
− Siamo già andati al ristorante cinese, vero?
− Sì. E anche a quello specializzato in tacos.
− Uuuh, quello era bello.
− Non ci serve sapere se fosse “bello”, ci serve sapere cos’aveva più del tuo locale, del perché loro hanno clienti e tu no.
Alfred sorrise: − Allora non sono l’unico a dovermi abituare.
− A cosa, scusa?
− Il locale non è più “mio” o “tuo”. Siamo soci ora, è “nostro”.
Oh giusto, era il “loro” locale adesso, come il bimbo conteso tra le due madri davanti a Re Salomone. Invece di tagliarlo a metà avevano deciso di occuparsene congiuntamente, anche se entrambi erano ancora sicuri, in fondo al cuore, che l’altro non fosse che un intruso provvisorio. Astio ben mascherato, comunque, da pungolamenti innocui.
Alfred sospirò, colto da un’improvvisa vena sentimentale. – Ah, adesso dobbiamo occuparcene in due, come dei bravi genitori! Ѐ una gran scocciatura, però, condividerlo con un rompiscatole antiquato come te.
Arthur ridacchiò sarcastico: − Lo dici a me, folle yankee? Se potessi me lo riprenderei seduta stante. Non conosci affatto il valore della tradizione, hai ammassato delle cianfrusaglie in giro e pretendi di vendere panini alti quanto il Big Ben, scordandoti che qua non abbiamo il culto del cibo spazzatura come nel tuo Paese!
Il commento sembrò urtare particolarmente il più giovane: − Ma lo sai di cosa parli? Ignorante, si chiama arte moderna questa. A New York questo stile fa furore! E poi buona parte dei miei panini sono sani, c’è anche la verdura dentro.
− Arte?! Chiami arte robaccia in plastica colorata e logo attaccati alle pareti?
− Taci, sempre meglio di prima! Non sembrava un ristorante, sembrava un pub per senzatetto!
− A proposito di pub – Arthur si leccò le labbra, allungando il collo e sbirciando sul foglietto, – Ce ne sono quattro soltanto in questa via. Facciamo un salto, ti va?
Alfred lo scacciò rabbiosamente, allontanando la lista a distanza di sicurezza: − Scordatelo. Non ho voglia di portare in giro un ubriacone molesto, c’è troppo da fare oggi e c’è bisogno del tuo aiuto da sobrio. Non ripeterò l’errore di prima. Ci mancava poco che mettessi le radici lì!
− Ma... ma...
− No, non puoi più utilizzare la scusa che ti piace la loro mobilia, non ci casco due volte! E poi, che pretesto è? Sarebbe come sposare un’ereditiera e pretendere di essertene innamorato per il carattere! Non sono così stupido!
Arthur incrociò le braccia, risentito nel venire smascherato in tal modo. Come diavolo facesse quel ragazzino a scovare il punto debole altrui con una tale facilità, era un mistero.
– Smettila di dire che sono vecchio, non lo sono! E poi... – voltò lo sguardo verso un’altra direzione, consapevole di sparare una frottola gigante, – Non mi ubriaco spesso. Cioè, diciamo il 30... o 40% delle volte, non di più, e di sicuro non con due birre medie!
Peccato che solo una decina di minuti prima l’americano avesse dovuto prenderlo di peso, davanti ad altri clienti col ghigno sotto i baffi, per portarlo fuori da uno splendido pub con un’ancor più splendida scelta di birre artigianali. Altro che un paio di pinte, se le sarebbe scolate tutte quelle delizie. Almeno avrebbero zittito quell’orribile voce che risuonava nella testa in un turbinio al sapore di malto.
Come doveva aspettarsi, Alfred non cedette. Il ragazzo guardò invece i nomi rimasti sulla lista. Erano ormai agli sgoccioli.
Il loro piano consisteva nell’andare nei vari ristoranti, bar, pub o dovunque servissero del cibo e cercare le caratteristiche che contraddistinguevano quelli di successo da quelli meno popolari; il loro sopralluogo, per non risultare sospetto dal momento che non consumavano quasi mai nulla, era accompagnato da banali scuse, incetta di bigliettini da visita e promesse di ritornare in futuro. Inutile dirlo, anche il meno affollato di questi locali aveva comunque più clientela dell’Eagle.
Alfred guardò l’ora e storse la bocca, irritato. – Siamo in ritardo, non credo ce la possiamo fare a finire il giro.
− Ah no?
− Dobbiamo per forza andare, però, dal cuoco ambulante di cui ti ho parlato ieri sera, è la nostra ultima occasione. E mangiamo là!
Arthur aggrottò le sopracciglia, guardandolo male: − Come mai lui sì e tutti questi che abbiamo passato no?
− Te lo dico quando arriviamo. – Alfred lo prese per il polso e lo trascinò per una viuzza laterale: sembrava sicuro di quello che stesse facendo, quando invece era il solito atto impulsivo. Arthur scosse la testa, ormai rassegnato ad avere un bambino troppo cresciuto come socio.
Il cuoco in questione aveva la sua postazione vicino alla chiesa di St Dunstain e quel giorno c’era mercato: vi erano appostate bancarelle di diversi tipi e anche svariati venditori di cibo. Arthur ne indicò uno, domandando se magari fosse quello l’uomo che cercavano. Alfred dissentì. Quel tipo vendeva rosticceria: prodotti buoni, sì, ma il “loro” cuoco era a un livello più alto, disse.
− Ѐ il migliore in circolazione nel suo genere, una stella nascente! Te l’ho detto, ha un suo ristorante vero e proprio, ma viene qui due volte al mese per farsi pubblicità al mercato. Dal momento che ho sentito che si trasferisce e che quindi non verrà più quaggiù, non voglio perdermelo assolutamente.
Arthur sentì una stretta allo stomaco. Il migliore, eh? Chissà se lui sarebbe mai arrivato a un risultato quantomeno simile. Tempo prima era sicuro di essere, se non il migliore, almeno bravo nella sua professione. Adesso constatava con i suoi occhi quanto si fosse illuso. Era difficile da accettare. Un calore infuocato gli riempì il cuore e le guance, avvolgendoli come una carezza infernale.
(Come sarebbe bello schiacciare tutti i concorrenti sotto un grande masso, su cui lui, come un Dio crudele, avrebbe posto la mano e spinto, spinto, finché non fossero scomparsi tutti. Anzi no: sarebbe stato più gratificante tagliare loro la gola, sgozzarli come maiali da macello, tanto, tanto, taaanto sangue che inondava tutto... e alla fine, chi sarebbe stato il migliore? CHI?)
( LUI SAREBBE STATO! Per sempre e per sempre...)
Arthur si bloccò in mezzo alla strada con gli occhi sbarrati, il respiro azzerato. Oh, che pensiero orribile, gratificante nella sua brutalità gli era apparso davanti! E agghiacciante, soprattutto. Il calore era scomparso improvvisamente assieme al ritorno alla realtà, lasciandolo raggelato e confuso. Quei pensieri eludevano il suo controllo, apparendo come fulmini in una tempesta. Lo facevano stare ancora peggio, trafiggendo la sua mente come lame di rasoio uscite dal nulla, ad opera di un entità nascosta nel buio che si tornava a nascondersi dopo averlo colpito.
Una fatina luccicante svolazzò davanti al suo naso, con l’aria preoccupata. – Stai bene? – domandò, − Ancora quelle brutte cose che ti tormentano?
Arthur annuì senza farsi notare. Alfred a quanto pare era troppo impegnato a cercare tra gli ambulanti il loro obiettivo per badare a lei e ai suoi amici invisibili.
− Non puoi parlare? Mi dispiace così tanto... sappiamo cosa provi e vogliamo solo aiutarti, ricordatelo. Non ti abbandoneremo.
La fata se ne andò, più affranta di prima. Arthur avrebbe voluto salutarla, almeno, ma, come non aveva avuto il coraggio di sfogarsi con l’esserino, nello stesso modo era meglio astenersi anche nel dirle ciao.
Brutta cosa avere amici magici che puoi vedere solo tu. Ovvio che non potesse dire queste cose a voce alta, già si era fatto una brutta reputazione, rischiava di essere preso per malato di mente oltre che violento. Forse Alfred si sarebbe messo a ridere, ma solo lui. Ormai aveva paura anche della reazione di Toris, per questo non l’aveva avvisato che per quel giorno l’ “Eagle” sarebbe rimasto chiuso in favore a quell’attività che sapeva di spionaggio. Aveva lasciato il ragazzo da solo a casa, sommerso dai libri che gli sarebbero serviti all’università e dai curriculum da inviare, nella speranza di trovare un dannato lavoro in cui non fossero coinvolti giudici pazzoidi. O perlomeno, non Braginski.
Pazzoide o meno, il lato peggiore di Ivan era che sapesse troppe cose su Arthur.
 
La gente, fantocci senza volto, passeggiava vociante per la strada godendosi i preziosi raggi del sole, come irrequiete lucertole bipedi, incrociando talvolta il percorso dei due. Erano grigi, senza anima, senza scopo, mere comparse uguali gli uni agli altri, non godevano più dello status di esseri umani. Tutti così inutili, tutti così sacrificabili. I loro sorrisi erano falsi. I loro dolori insignificanti. La sola vita che aveva valore in quel momento era quella di Arthur, e lui l’aveva venduta per pochi spiccioli.
Arrivati quasi al termine di quel lato di mercato, Alfred indicò un casotto bianco su cui era stato dipinto a mano un paesaggio, decorato qua e là con varie bandierine e con il nome ben posizionato sopra la finestra che comunicava al pubblico. Davanti a sé era circondato a destra e sinistra da tavoli lunghi e panchine pieghevoli, come un qualsiasi stand da fiera. Non c’erano tovagliette se non rettangoli di carta posti su rivestimenti in plastica a scacchi rossi e bianchi.
– Eccolo lì! – esclamò − Alta cucina in cinque metri quadrati! Adesso andiamo e impariamo tutto sul come fare clienti, ma soprattutto si mangia perché ho fame.
− Caspita. Rustico questo grande chef, specie nelle decorazioni. Ora so perché ti piace.
Alfred si strinse nelle spalle, insofferente. – Non ti va mai bene niente, eh?
Si avvicinarono. I posti erano quasi tutti occupati e la maggior parte delle persone prendeva il proprio pranzo d’asporto da una finestrella a lato del baracchino. Vicino ad esso c’era un cartello posizionato per terra, con attaccato il foglio del menù e una foto pubblicitaria ritraente quello che si supponeva essere il cuoco. Arthur la osservò alzando un sopracciglio, indeciso se mettersi a ridere o domandarsi per l’ennesima volta in quella giornata cos’avessero gli altri in più di lui. Di sicuro, in questo caso non era la dignità.
La foto in questione era la figura di un ragazzetto super sorridente, di massimo vent’anni: era vestito di una maglia a righe bianche e blu, una fascia rossa aderente in vita e un cappellino di paglia contornato di un nastro, anch’esso rosso. Capelli castani spuntavano ribelli al di sotto di esso, in particolar modo un lungo ciuffo riccioluto che si allungava alla sinistra del capo. La mano destra faceva il segno dell’ “OK”, mentre la mano sinistra reggeva un piatto fumante di pasta al sugo di pomodoro. Per completare l’immagine già abbastanza caricaturale di per sé, il ragazzo aveva sotto il naso dei grossi baffi neri a manubrio. Lo sfondo era formato da tre strisce di uguale larghezza: verde, bianco e rosso.
Arthur commentò: − Ho come la vaga impressione che sia italiano.
Alfred annuì. – Indovinato, Sherlock.
− E cos’avrebbe di tanto speciale, questo mangia-spaghetti?
− Non saprei. Ѐ un punto di riferimento per i suoi simili e se lo dicono loro che cucini bene, c’è da fidarsi, non trovi?
Arthur guardò il nome posto sulla facciata della casupola e sul cartello: “Vargas Macaroni Brothers”.
“Qui di Vargas ne vedo solo uno. In quanti saranno?” pensò, quando un pallone, compiendo una mirabolante movimento discendente, decise di terminare anticipatamente il suo tragitto tentando di sfondargli il cranio.
– Ahiaaa, porca miseriaaa! – urlò. Il cappello era volato via per il colpo, e ora Arthur stava tenendosi la testa pulsante di dolore con entrambe le mani, come se gliel’avessero effettivamente spaccata e ora rischiasse di andare in mille pezzi. Alfred si era abbassato in tempo e aveva schivato la traiettoria. La palla rimbalzò a pochi metri dai loro piedi e fu subito recuperata dall’infortunato, deciso a trovare un qualsiasi oggetto contundente e bucarla. Con un gesto stizzito raccolse anche il cappello e se lo calcò per bene, sopprimendo un gemito quando la stoffa dura sfiorò il bernoccolo. Ah, ma si sarebbe vendicato!
− Scusi, signore! – trillò una vocetta acuta. Un bambino stava correndo verso di loro, affannato, proveniente da uno spiazzo verde distante una ventina di metri da loro. Era un quasi teen-ager, di quelli alle soglie dell’adolescenza ma ancora ben ancorati nel mondo dell’infanzia: aveva i capelli biondi, sbarazzini, e vivaci occhi azzurri. Indossava una maglietta blu da calciatore, riportante una piccola bandiera italiana, ormai sudata: chissà da quante ore stava giocando.
Arthur lo fulminò con lo sguardo. Il bambino non ne rimase minimamente turbato.
− Signore, deve ridarmi il pallone. – disse, esibendo un’esemplare espressione da ragazzino viziato. Non si poteva dire fosse pentito del suo atto. Alfred, dal canto suo, se la stava ridendo e il bambino guardò entrambi confuso. Si rivolse al tizio di prima.
– Oh, ma parla inglese, almeno? Ѐ un turista? Tu parla italiano?
− Certo che parlo inglese, moccioso! – ringhiò Arthur, mentre controllava delicatamente il bernoccolo semi-nascosto tastandolo con una mano e teneva ben stretta la palla con l’altra.
− Meno male – disse sollevato il bambino – Conosco quattro parole in croce di italiano.
− Davvero? Pensavo il contrario, visto la maglietta – Alfred indicò la bandierina cucita sul tessuto. L’altro scosse la testa, tendendosi i lembi della maglia per esporla maggiormente.
− Questa? Bella, vero? Ѐ un regalo! Feliciano... il signor Vargas me l’ha data per quando giochiamo insieme a calcio. Ora lui però è occupato a servire i clienti. Un attimo! – i suoi occhi lampeggiarono nel panico − Anche voi siete clienti?
Arthur anticipò Alfred e gli rispose acidamente: − No, stavamo prendendo il sole davanti al cartello del menù. Che idiozie, è ovvio, accidenti!
Incrociò le braccia, solo vagamente conscio che si stesse comportando in modo ugualmente insopportabile al cliente maleducato del giorno prima. L’amaro che aveva in bocca e il dolore alla testa urlavano più forte.
− Non conosco questo Vargas, − continuò, il labbro storto in una smorfia sprezzante − ma dubito sia contento che un moccioso cerchi di ammazzare i suoi avventori.
Le guance del bambino avvamparono per l’offesa. − Non sono un moccioso! Io lavoro qui!
− Ma fammi il piacere. Lavorare? Tu? Quanti anni hai, piccoletto?
Il bambino mise il broncio, ma non riuscì a sostenere il suo sguardo mentre ammetteva: − Ho dodici anni, compiuti all’inizio del mese! E con questo? Solo perché ho fatto una piccola pausa non vuol dire che non m’impegno!
Arthur ridacchiò aspro. – Guarda qui che marmocchio impertinente... a dodici anni sei troppo giovane per lavorare. Come minimo dovresti averne tredici, e ti sarebbe comunque negato fare tempo pieno. Ѐ la legge che lo dice. Vuoi forse che il tuo capo finisca in galera?
La stizza del bambino si accentuò, riflettendosi come lampi nelle iridi cerulee: − Aaah, la legge, la legge... è quello che cerca di dirmi anche Feliciano, ma suo fratello dice che se voglio sono libero di farlo, anzi è meglio. Mamma non vuole che li disturbi, ma se posso dar loro una mano è ok. Che male c’è nel voler aiutare?
Per fortuna l’intervento di Alfred interruppe il battibecco tra i due, altrimenti avrebbero continuato fino a sera. Si rivolse al bambino. − Senti un po’, se proprio vuoi aiutare, che ci consiglieresti da mettere sotto ai denti? – chiese posizionandosi proprio davanti ad Arthur, il quale schiumava già dalla collera.
Il bambino gonfiò il petto e indicò l’intero menù con un gesto della mano, orgoglioso come se l’avesse scritto lui.
− Ѐ tutto buonissimo! Parola mia!
− Ehi, campione, ho chiesto cosa ordinare, mica la tua parola.
Il bambino controllò con la coda dell’occhio la lista dei piatti, fronte aggrottata, un indice posato sulle labbra mentre si concentrava. − Beh... il pesce è fresco ed è un mio zio che glielo procura, quindi ne sono stra-sicuro. Ci sono alcune cose un po’ strane, tipo le sarde con l’uva passa, ma vi assicuro io che è tutto squisito. Può bastare?
Alfred scoppiò a ridere, intenerito − Ahahaha! Cavoli, come agente pubblicitario lasci a desiderare, però ci fidiamo. Vero, Arthur?
− Certo, certo. – Arthur si era messo ad esaminare il menù. Come diavolo facevano a essere famosi in tutto il mondo per la cucina e mangiare quella roba? Sperò che la traduzione di certi ingredienti fosse semplicemente errata, perché non era possibile. Al super aveva spesso visto cibo italiano in scatola, ma molto diverso da come lo vedeva descritto. Gli venne il dubbio che una delle due parti non producesse roba autentica. Lì era tutto così... semplice. Niente di troppo elaborato, tranne appunto alcuni piatti che però dal nome stesso non sembravano italiani. Dov’erano, ad esempio, le “fettuccine Alfredo”? C’erano nomi dal suono straniero, forse di qualche Paese limitrofo. No, una volta aveva sentito questa storia che l’Italia era piena di piatti tipici di singole regioni, doveva trattarsi di questo. In ogni caso, il profumo che aleggiava lì intorno gli stava facendo venire l’acquolina in bocca e contemporaneamente gli torceva lo stomaco dalla rabbia.
(Immagina il baracchino esplodere con l’italiano all’interno, lui e tutti i suoi commensali, una gigantesca esplosione da film d’azione che spazzi via tutto e tutti, anche Alfred e il moccioso, lascia che domini la Morte e tu il solo Signore delle Tenebre...)
Il cuore batté più veloce. Le mani si serrarono in due pugni. Dovette stringere i denti per non mettersi a urlare. No, non era ira questa volta, però: era terrore. Di colpo aveva davanti agli occhi la certezza di non riuscire a farcela, di fallire nuovamente se solo ci avesse riprovato. Arrenditi, Arthur. Ci sono persone dotate, tu non lo sei e invece questo tizio sbucato dal nulla lo è. Tu sei fuggito, lui è venuto alla luce. Inchinati davanti al nuovo Re.
− Che problemi ha? – bisbigliò il bambino, guardando le guance di Arthur diventare via via più scure, gli occhi accendersi. Alfred scosse la testa, puntando un dito alla tempia.
− Lascialo perdere. Ha un po’ di problemi riguardo il mondo della cucina in generale, gli fa venire in mente roba stramba.
− Mi stai dando per pazzoide, forse?
Alfred si girò: Arthur era tornato in sé, scocciato da morire ma lucido.
− Muoviamoci a trovare un posto a sedere, piuttosto che parlare a vanvera. E tu – disse, rivolto al piccoletto porgendogli il pallone sequestrato – Portaci un paio di menù. Ho fame.
 
A quanto pare il travestimento da gondoliere del cuoco nella foto non era scelto a caso: oltre a piatti comuni, come la pasta al pomodoro, ce n’erano alcuni che avrebbero potuto mangiare in un ristorante sulla laguna veneziana o almeno così credevano i due.
− Voglio mangiare le sarde con l’uva passa – annunciò Alfred.
− Se poi fanno schifo non te le finisco io, sia chiaro. – replicò Arthur, scettico.
− Secondo me sono buone. Solo che... dove sono?
− Idiota, guarda gli ingredienti. – Arthur indicò un nome scritto in rosso sul menù. – Ecco qua, vedi? “Sardines in saor”. Oltre all’uva passa ci sono cipolla, pinoli, aceto e... zucchero?! Bah. 9 sterline piene per un piatto simile, spero per te li valga.
− Che nomi strani, però, non trovi? Avrebbero dovuto tradurli in inglese. – commentò Alfred, senza staccare gli occhi dal menù. Arthur si trattenne dallo schiaffeggiarsi da solo, davanti a tanto egocentrismo: − Idiota, come potrebbero? Ti sfido a tradurre “pizza”. Il cibo fa parte dell’identità di un popolo, non puoi sempre violentare la cultura altrui con il suprematismo americano.
Alfred si arrabbiò, come punto sul vivo. – Cosa c’entra? – strillò − Guarda che la pizza c’è anche nel mio Paese e si dice allo stesso modo! E la nostra è anche più buona!
Un commensale da un altro tavolo, si girò per tre quarti e lanciò loro un’occhiataccia. “Non so se sia italiano anche lui o sia semplicemente sconvolto dalla sua stupidità” pensò l’inglese, nascondendo il volto tra le pagine del menù, che erano solo un paio.
Fu Arthur a ordinare per entrambi: per lui chiese un paio di piatti, per Alfred quattro; da bere, una Guinness per uno e una Coca-cola per l’altro. Una cinquantina di sterline nel conto totale.
− Non ti sembra di esagerare? – commentò acido, quando tornò al tavolo.
− Scherzi? Con tutta la roba buona che c’è, questo mi sembra il minimo.
− Però la paghi tu.
Alfred lo guardò sconvolto, come un bambino che avesse appena sentito che il viaggio a Disneyland programmato da mesi fosse stato annullato all’ultimo minuto.
− Co...come? Non siamo soci? Non si fa “fifty-fifty”?
Arthur gli mollò un calcio da sotto il tavolo. – Scordatelo, mi hai già fregato abbastanza soldi in soli due giorni. D’accordo lo spirito imprenditoriale, ma tu mi sembri Scrooge McDuck!
Alfred rise ma non risparmiò di dare anche lui un calcio in risposta. – D’accordo, ho perso il mio pollo da spennare. Certo però che anche tu, cascarci ogni volta così...
− Non dare la colpa a me, adesso! Tu e la tua mania di sfruttare il prossimo, proprio intrinseco alla tua cultura.
Invece di offendersi, Alfred scoppiò a ridere. – Lo dici come se fosse un difetto! – esclamò.
Arthur digrignò i denti, irritato. Decise di colpire basso. − E poi, Jones, dovresti stare attento: sei già sovrappeso, contieniti! Con tutti quegli hamburgers e schifezze che ingurgiti diventerai una botte di lardo! – gli rifilò un altro calcio. Stavolta Alfred non rise.
− Non chiamarmi sovrappeso! Non l’accetto, non da te! Se tu sei magro è perché cucini solo spazzatura spacciandola per cibo tradizionale! Io ho le ossa grosse, ecco tutto.
Ennesimo calcio, stavolta più forte. Se il tono della loro voce era tutto sommato contenuto, per non dare nell’occhio, sotto il tavolo si stava scatenando la vera guerra.
− Spazzatura?! Ma senti questo! – sibilò tra i denti Arthur, sentendo la temperatura corporea alzarsi pericolosamente. Lo stinco doleva dopo l’ultimo colpo ricevuto.
– Se non fossi un gentleman non ti starei neppure aiutando, in questo momento! E mi ripaghi così?
− E se io non fossi un “eroe” che aiuta i deboli, adesso non staresti neppure lavorando! Dovresti essere tu quello in debito!
Avrebbero volentieri continuato per mezz’ora quando una vocina familiare li interruppe.
− Ehm-ehm! – fece il bambino di prima, tutto bello ripulito, con un grembiulino bianco e i piatti richiesti posti su un vassoio, un sorriso ampio quanto finto sul volto. – I signori hanno ordinato? – domandò gentilmente, come se pochi minuti prima non avesse tirato una pallonata in testa a uno dei due.
− Sei il moccioso di prima? – domandò Arthur, squadrandolo – Come mai ci servi tu? Gli altri tavoli hanno cameriere graziose, a noi ci tocca lo scarto. Tipico.
Il sorriso del bambino vacillò, ma a quanto pareva era determinato a fare buona impressione. Se non su loro due, almeno sul suo pseudo-datore di lavoro.
− Il mio nome è Peter – ringhiò, sempre con gli angoli delle labbra rivolti innaturalmente all’insù. – E spero vivamente che ti vada di traverso il pranzo, imbecille.
Alfred per poco non cadde dalla panchina dalla sorpresa. – Wohooo, piccoletto! – esclamò – Hai la lingua tagliente per essere uno studente delle medie! Ti ha insegnato tuo padre a parlare così?
− Mio padre non parla – rispose Peter, prelevando il vassoio – E comunque non mi pare di aver detto chissà che.
Se ne andò a passi corti e strascinati, arresosi nel tentativo di dimostrarsi cordiale nel giro di un minuto e diciotto secondi. Oh, ma a chi importava? Feliciano avrebbe capito, lo avrebbe perdonato e avrebbe anche apprezzato il suo sforzo di dimostrarsi amabile a quei due coglioni. Un giorno avrebbe lavorato per lui in piena regola, non appena sarebbe stato un adulto riconosciuto dalla società. In cuor suo sperò che quel giorno arrivasse il prima possibile.
Alfred esaminò i piatti arrivati: c’erano tagliolini ai gamberi e zucchine, degli spaghetti con sugo di carne che però erano più grossi di quelli che vedeva in America e senza “meatballs”, del fritto misto... oltre alle posate erano state portate un paio di pagnotte. Tra i presenti, un piatto in particolare lo incuriosì.
− Che roba è? – lo indicò. Lo aveva ordinato Arthur: era un piccolo ammasso biancastro dall’odore di pesce, con accanto una crema granulosa e gialla. Arthur sbuffò, come se fosse stato ovvio. Inclinò il piatto in modo che Alfred lo vedesse per bene.
− “Pregiato stoccafisso artico mantecato attraverso cinque ore di lenta cottura nell’olio d’oliva rigorosamente extravergine spremuto a mano da vecchie signore toscane. Il merluzzo in questione è apparso ne ‘Lo Squalo 8’ e nel nuovo film d’animazione ‘Alla ricerca di Dory’ nel ruolo di co-protagonista. Come accompagnamento, una crema di mais biologico accuratamente selezionato tra migliaia di pannocchie, scelte personalmente da un talent scout dei cereali per soddisfare i requisiti richiesti”. C’era scritto sul menù. – spiegò all’altro. Alfred inarcò entrambe le sopracciglia, ammirato: − Accipicchia! Perché io non l’ho visto?
− Perché in realtà c’era scritto “Salt codfish creamed and polenta”, baccalà mantecato e polenta, ma mi sembrava più allettante come l’ho esposto io.
− Ah. Ok. – La delusione s’impadronì della voce di Alfred. − Beh, ora come ora non sembra allettante neppure con la tua descrizione – commentò, storcendo la bocca.
Aveva qualche perplessità a riguardo al cibo italiano. A Manhattan c’erano molti italo-americani, ma non ricordava di aver visto piatti simili... o sì? Ricordava della pasta con uova, bacon e panna che un giorno aveva provato a cucinarsi, ma i suoi tentativi di addentrarsi nella cucina straniera erano stati velocemente sostituiti nel frequentare qualche locale. Oh, e c’erano anche i tutorial su come riprodurre perfettamente specialità, ma nuovamente non ricordava di aver visto piatti simili tra di essi. Ora aveva sotto il naso le famose sarde che lo avevano incuriosito e pensò di aver fatto comunque una scelta migliore dell’amico.
− Buon appetito! – esultò. Addentò un pescetto, sentì la lisca scricchiolare e spezzarsi sotto i denti. Era dolce ma non come le caramelle, leggermente salato e anche acidulo, poteva sentire la cipolla tagliata fina fina e pressoché invisibile  scivolare sul palato. Un’esplosione di sapori, insomma. Alfred non era mai stato un buongustaio, per lui il McDonald era pari alla Nouvelle cuisine, se non superiore (perlomeno lo saziava di più), eppure sentiva che c’era qualcosa di speciale in quello che stava mangiando. Una volta tanto cercò di trattenersi e assaporare almeno per pochi attimi quello che aveva in bocca, invece di trangugiare tutto come suo solito. Arthur cincischiava con un piatto di gnocchi al pomodoro e basilico.
− Se non ti sbrighi mangio anche le tue porzioni. – lo minacciò, ma l’inglese era perso nel suo mondo. – Ohi, mi senti? Sul serio, adesso che hai?
− Niente. Cioè...
Arthur fece uno sforzo. Doveva liberarsi almeno di una parte del peso che sentiva dentro.
− Secondo te, cos’è successo ieri a Toris? Ho passato la serata cercando di sapere qualcosa ma niente, non si cava un ragno dal buco. Ho paura per lui, sai Braginski...
Alfred lo guardò stupito, ingoiando l’ultimo boccone prima di parlare.
− Come, non si è confidato con te?
− No, niente. Muto come le tue stupidissime sarde.
− Allora vuol dire che non c’è niente di cui preoccuparsi, no?
Arthur batté i pugni sul tavolo, facendolo sobbalzare. – Lo hai visto anche tu in che condizioni è arrivato al locale! Come puoi dire che non c’è nulla di cui preoccuparsi?
Alfred si pulì la bocca con il tovagliolo di carta. Assunse un’aria seria così poco usuale che dava spavento: − Senti, Artie. Lo so che tieni a quel ragazzo, lo hai preso sotto la tua ala protettiva e posso capirti, perché è questo il compito dei buoni. Noi due siamo buoni. Solo che mi spieghi come facciamo a combattere il cattivo, se non sappiamo chi è?
− Ma noi lo sappiamo! Ѐ Ivan...
Alfred scosse la testa. Alzò il dito indice e lo puntò verso Arthur. – Tu sei sicuro che il cattivo sia Ivan. E se non fosse così? Se incolpassimo un innocente? E di cosa, poi? Lo sappiamo entrambi che Ivan non è il massimo della sanità mentale, anzi, se lo vedessi in una camera imbottita con una di quelle “camicie abbracciose”, starei molto più tranquillo. Però in questo caso non c’è alcuna sicurezza e quindi non possiamo fare niente.
Era una sincera vena altruistica a indurlo a pensarla così, o cercava di cambiare argomento solo per non perdere un’importante fonte di denaro alla bisogna? Il suo tono di voce era piatto, privo dello squillo acuto che lo caratterizzava. Orribilmente adulto. Cinico. La voce di chi venderebbe l’amico più fidato pur di liquidare i propri debiti, la voce di chi non crede più in nessun valore che non sia materiale. Non più Superman ma Lex Luthor.
Arthur era sul punto di rispondergli, quando cambiò idea: Alfred aveva ragione. Non aveva alcuna prova che Ivan avesse fatto del male a Toris. D’altro canto, Ivan aveva invece prove del suo passato, informazioni importanti che lo macchiavano come inchiostro, e se fossero uscite alla luce allora sarebbe diventato lui il cattivo della situazione! E non solo per la questione di Francis.
Come richiamato dal suo pensiero, Arthur notò una figura maschile alta e snella in fondo al mucchio di panchine e tavoli che si stava dirigendo verso il baracchino. Aveva un passo sicuro ed elegante. Da quella distanza non si riusciva a distinguerne bene i tratti, ma era sicuro si trattasse di un uomo attraente perché più di una ragazza presente si voltò a guardarlo e lui stesso s’intratteneva e flirtava con loro durante il percorso, nessuna fretta.
Arthur tornò al suo piatto di gnocchi, mugugnando tra sé e sé che ormai aveva perso l’appetito. Ne mise in bocca un paio: erano deliziosi, fatti in casa con vere patate e non quelli industriali comprati al supermercato, ma non riusciva ad assaporarli appieno, la bocca guastata dal sapore amaro della bile.
Quando rialzò lo sguardo l’uomo era più vicino e notò di sfuggita che effettivamente aveva un bell’aspetto: i capelli biondi e mossi gli danzavano nell’aria, come fili d’oro. Avrebbe dovuto tagliarli, pensò di sfuggita, se non voleva che lo prendessero per effeminato. Con la coda nell’occhio lo guardò per un attimo e notò che, anche volendo, non lo si sarebbe potuto scambiare per una donna: oltre a un’aura indiscutibilmente virile, aveva una leggera barba che gli ricopriva il mento.
− Tsk, il solito belloccio – mormorò tra sé.
− Uh? Hai detto qualcosa?
− Là vicino al baracchino, c’è un tizio che ha fatto strage di cuori soltanto con un paio di occhiolini. Che boriosa esposizione di sé. – rispose Arthur, tornato a mangiare ciò che gli rimaneva, lo sguardo basso sulle pareti del piatto bianco sporche di salsa. Sembrava che fosse avvenuto un omicidio in miniatura, lì dentro. Le ripulì con uno dei gnocchi rimasti.
− Ahahahaha, hai ragione, lo vedo, adesso sta chiacchierando con delle cameriere, ahah...
La risata morì di colpo. Arthur rialzò gli occhi: Alfred era come congelato, lo sguardo fisso sull’uomo appena arrivato. Doveva aver notato che l’amico lo stesse osservando stranito, perché si voltò di colpo.
− Non. Guardare. Quel tizio. Mi hai capito? – bisbigliò, gli occhi ingigantiti dietro le lenti. Tremava e se proprio c’è una cosa che stimola la mente umana, questa è la reazione degli altri a fenomeni estranei: Alfred aveva visto qualcosa di davvero eccezionale e Arthur era intenzionato a sapere cosa fosse, nonostante l’altro insistesse nel non volerglielo permettere. Si girò immediatamente verso il baracchino, fissando più accuratamente l’uomo misterioso.
E capì perché Alfred avesse fatto quella faccia.
Il cuore saltò un battito, quindi si mise a battere più velocemente, il respiro accelerò e il suo petto diventò come un mantice che si alzava e scendeva ritmicamente. Le labbra gli si erano ridotte a linee che lasciavano passare appena il fiato, sibilando come se l’aria non facesse neppure in tempo ad arrivare ai polmoni che bisognasse richiederne altra. Il volto aveva perso il suo colore, tranne per due grosse chiazze rosse sulle guance.
Alfred ci mise una frazione di secondo per analizzare la situazione.
− Arthur – disse – se tu ora ti alzi, se soltanto ci provi, sappi che ti spezzo le gambe come due grissini. Quindi sta’ buono e non fare scherzi.
Alfreeeeed – mormorò Arthur, un filo di voce roca venuta dall’oltretomba – Quello è Franciiiiis.
− Sì, è lui. – gli pose la mano, forte e decisa, sul polso – Ma non ci ha visti. Ѐ lì per i cavoli suoi, noi non lo disturberemo, chiaro? Continuiamo a mangiare come se niente fosse.
Ma Arthur era ancora lì, imbambolato a fissare l’uomo che gli aveva pressoché stravolto la vita. Sentì ogni energia scivolare fuori dal suo corpo, come risucchiata, lasciando al suo posto non qualcosa di vivo, ma una carcassa.
Francis era lì. Non se lo era aspettato, non così presto dal suo ritorno a Londra, perlomeno. Avrebbe dovuto? Cosa doveva fare?
− Al, aiutami. – bisbigliò con le ultime forze rimastegli.
Alfred non se lo fece ripetere: era o no un eroe? E gli eroi salvano le persone... anche con metodi inusuali.
Si allungò oltre il tavolo, avvicinandosi al volto di Arthur: questo era ancora rivolto alla sua destra. Lo riportò con delicatezza alla posizione frontale, in modo che quegli occhi spenti incontrassero i suoi e un minuscolo luccichio li illuminasse. Aveva un che di toccante, che scioglieva il cuore. Alfred l’osservò per un secondo, lasciandosi sfuggire una espressione intenerita nel sentirlo così vulnerabile sotto le sue dita: per un attimo lo scopriva libero della sua scorza coriacea di uomo adulto, delicato come un bimbo. Alfred era abbastanza vicino da notare quanto lunghe fossero le sue ciglia, di un verde straordinario le sue iridi. Prese un piccolo respiro per farsi coraggio, mentre le guance si coloravano di rosa per l’emozione. Era più o meno da quando l’aveva visto per la prima volta che desiderava farlo.
Gli mollò uno schiaffo in pieno volto.
Ora, mettiamo in chiaro alcune cose: il corpo umano ci mette meno di un secondo per tradurre i messaggi non verbali e per recepire il dolore. Questo processo è caratterizzato dalla funzione dell’amigdala, il piccolo organo la cui funzione originale è preservare l’organismo dal pericolo. Quando percepiamo uno stimolo con i sensi, tale stimolo per prima cosa passa attraverso il talamo, una sorta di smistamento dei messaggi; lì, a seconda del tipo di segnale sensoriale, il messaggio viene dirottato alla regione competente. Ma per prima cosa il talamo sottopone il messaggio all’amigdala, attraverso un  circuito monosinaptico, una specie di filo diretto. Se l’amigdala, nel suo processo sommario, trova che lo stimolo abbia “qualcosa a che fare” con un evento o un oggetto minaccioso, scatena immediatamente una reazione che coinvolge altre strutture cerebrali e ghiandolari, oltre muscoli, cuore, intestino e così via. In un secondo momento, attraverso un circuito polisinaptico, il talamo rinvia lo stesso messaggio alla corteccia prefrontale e, se quest’ultima giudica che la reazione sia adeguata, dà il permesso di rispondere.
E dopo questo excursus così forbito di neuroscienze non ci si riesce però a spiegare perché Arthur ci mise cinque secondi abbondanti a fissare Alfred, con la guancia sinistra in fiamme e senza reagire, prima di esplodere in un urlo: − MA SEI SCEMO?!
Alfred, tanto per cambiare, si mise a ridere.
− Andiamo! – esclamò – Ho, come dire, usato “tatto”.
− Te lo do io il tatto! – gridò l’altro, tentando di pugnalarlo con la forchetta di plastica. Alfred si difese parandosi il volto con le mani, senza smettere di ridere.
− Almeno sei tornato quello di prima, fai paura quando ti prendono queste... trance.
− I-idiota. – mormorò Arthur – Non farlo più. Ero solo sorpreso di rivedere lui.
Alfred allungò la forchetta e gli rubò uno gnocco. – Mmmh. Lascialo perdere.
− Pensi forse che sarei andato da lui e gli avrei fatto una scenata, così dal nulla?
− Esatto.
− Ti sbagli – Arthur lanciò di nuovo un’occhiata di sfuggita al baracchino, dove Francis si era fermato a parlare con qualcuno al suo interno, forse uno dei fratelli Vargas, − Non avrei mai osato. A dire il vero, non ho nessuna voglia di avere nuovamente un confronto diretto con lui, non in questo momento almeno. La sua repentina apparizione mi ha lasciato basito.
− Mmmmmmmmmmhhhhh. – Alfred rispose con la bocca piena, quindi non si riuscì bene a capire cosa avesse detto, ma sembrava d’accordo. Aveva rubato gli ultimi gnocchi rimasti nel piatto, lasciando il piatto coperto di salsa di pomodoro; Arthur lo allontanò, sbuffando sul fatto che fosse un mangione.
− Ohi, non avrai mica intenzione di buttar via tutto quel sughetto rimasto? – domandò Alfred. – Ѐ un insulto per gli italiani, sai? Lo conosci il detto “o mangi la minestra o salti dalla finestra”?
− Primo, dubito che il detto si possa attribuire a queste situazioni. Secondo, cosa dovrei farci? Ho finito gli gnocchi.
Alfred prese una delle due pagnotte, ne staccò un pezzo e con quello ripulì il piatto. Poi se lo mangiò, sotto lo sguardo contrariato del gentleman.
− Che diavolo fai? – bisbigliò Arthur.
− In Italia la chiamano “fare scarpetta”, è un usanza comune a quanto ne so.
− D’accordo, ma primo, ti ricordo che qui non siamo in Italia; secondo, non dovrebbe essere un po’ più raffinata la cucina? Geez, per fortuna che possiedono anche un ristorante!
Alfred fece girare lo sguardo sugli altri commensali, che erano tutto meno che raffinati: uomini, donne, gente del posto e stranieri che erano venuti lì per mangiare genuina cucina italiana, non per prendere il tè con la regina, obiettò.
Arthur digrignò i denti, senza farsi notare. “Davvero io sarei meno bravo di gentaglia che non sa neanche le basi del decoro?”, pensò.
Alta cucina, aveva detto Alfred, e ora si trovavano a mangiare in piatti di plastica, su tovaglie cerate e fogli di carta a fare da ulteriore copertura, seduti su panchine in plastica senza schienale. E tutto questo era apprezzato maggiormente dei suoi sforzi di creare un ambiente di classe, fatica inutile dal momento che era andato tutto perduto, ma tanto non sarebbe interessato a nessuno.
Di nuovo quella sensazione, la voglia di distruggere tutto. Doveva calmarsi. Senza rendersene neppure conto, elaborò un piano.
− Pfff. – soffiò, derisorio – Ho capito. Senti, mangiati pure tu il resto del pranzo.
− Non hai più fame? – chiese Alfred, afferrando il piatto di stoccafisso mantecato con una velocità sorprendente, prima che l’altro cambiasse idea. Ma ad Arthur non interessava più mangiare: sul suo volto era apparso un sorriso terribile, folle.
− Non è questo il punto. Ѐ che sono sicuro di poter fare di meglio di questi Vargas, e voglio dimostrarlo. E lo farò ora.
 
*  *  *

− Allora, come va il mio piccolo Feli? – domandò l’uomo, spalmandosi sul bancone che collegava al cucinino. Il cuoco all’interno, indaffaratissimo tra una decina di piatti diversi, rispose allegro: − Alla grandissima! Mi trovo bene qua, si lavora a pieno ritmo come vedi e in più vengono spesso un sacco di ragazze carine! Questo è l’ultimo giorno, però. Ho intenzione di fare una pausa e tornare in Italia per un po’, quindi non potrò più starci dietro. Sarà un periodo di ferie sia per me che Lovi, sono tanto felice!
L’uomo batté un paio di volte le mani, mostrando una fila di denti candidi nel suo sorriso sincero. Era realmente affezionato al ragazzo, anche se certi maldicenti potevano insinuare che tale sentimento non fosse propriamente “platonico”.
− Oh, très bien! Sono contento per te! Avevo appunto sentito che questo baracchino avesse le ore contate, quindi volevo venirti a trovare prima che lo chiudessi. Certo non credevo saresti davvero riuscito a metterti in proprio, in così poco tempo poi...
− Ѐ stato anche grazie a te se ci siamo decisi a farlo, ti ringrazio vivamente per questo.
Francis agitò la mano davanti al viso, modesto: − Figurati, è un piacere aiutare gli amici. E tuo fratello? Si trova nella postazione principale, immagino –. Sbirciò all’interno del cucinotto: nessuna traccia del maggiore. Chissà perché non ne era sorpreso?
− Lovino non vuole mai venire a lavorare quaggiù, dice che stare così a contatto diretto con gli inglesi gli dà fastidio.
Francis inarcò un sopracciglio. – Conoscendolo avrà usato dei termini un po’ più triviali, giusto?
− Esatto, ha detto cose che preferisco non ripetere. Che ci vuoi fare, è fatto così, bisogna portare pazienza... sono anni che porto pazienza... Piuttosto, hai assaggiato i miei piatti? Che te ne pare? Sono buoni?
Aveva cambiato completamente discorso. Francis annuì, lanciando uno sguardo intorno a sé. − Certo che sì. Non preoccuparti per quello, pensa piuttosto a questa casupola in cui lavori. Ѐ un pugno in faccia al buon gusto! Non c’è la minima classe, il minimo charme neppure nei piatti, così sempliciotti... – si portò il dorso della mano sulla fronte, fingendo di svenire come un’attrice consumata, − Oh sacré bleu, il mio povero senso estetico! Cosa dire, poi, della tua foto sul volantino, così acconciato da gondoliere? Credevo di morire quando l’ho vista!
Feliciano scoppiò a ridere davanti a tanta esagerazione: − Dai, Francis! Parli proprio tu, che di travestimenti assurdi sei un esperto? Almeno io nella foto sono vestito.
Francis finse di offendersi: − Pffft, sei troppo giovane per conoscere i costumi dell’amore, mon petit Feli, ma un giorno capirai e ti ricorderai di me come un tuo valido maestro. La nudità è bellezza, arte, poesia!
− Spero solo che per allora non mi abbiano già arrestato per atti osceni in luogo pubblico.
− Questi barbari non capiscono nulla dell’arte della seduzione, è per questo che mi hanno chiamato in caserma!
Feliciano rise ancora, una risata cristallina. Francis sorrise, deliziato: quel ragazzo era così carino, persino adesso che gli dava le spalle lo trovava adorabile! Così giovane e ingenuo, fresco come una rosa in procinto di sbocciare... non poteva negare di averci fatto un pensierino.
Si ravvivò la massa dorata che gli cadeva sulle spalle, tornando parzialmente serio.
− Però, tornando al tuo lavoro dietro ai fornelli, devo ammettere che hai talento, e non lo dico proprio a tutti, sai? Non mi stupisce che anche a quest’ora tu sia pieno di gente, pur lavorando al mercato. Spero vivamente che il ristorante sia più raffinato, sì? Perché davvero, anche il menù è turistico, quaggiù, non solo per i prezzi, ma per la varietà. So che puoi fare di meglio.
Feliciano, nonostante tutto, apprezzò quel giudizio: − Grazie mille, conoscendoti lo prendo come un complimento! Ricorda che ti aspetto anche nella sede principale, là ti potrò fare dei super manicaretti. Tu, invece? Trovato qualcun altro di valido in giro per la città?
Francis si accarezzò la barbetta. – Qua i ristoranti saltano fuori come conigli, diventa difficile starci dietro. Sì, non mancano le stelle in questo firmamento, ma in un certo senso è anche rischioso delle volte, sai, se i ristoratori non gradiscono la presenza di qualcuno che giudichi il loro operato...
Feliciano interruppe per mezzo secondo la mescolatura della zuppa di pesce e verdure dentro la pentola. Fu un solo istante, quindi Francis non se ne accorse.
− Ma tu sei una voce tra tante, Fratellone Francis. Perché dovrebbero offendersi per te e non per un qualsiasi altro cliente che esprime il suo parere?
L’uomo biondo si staccò dal bancone, visibilmente scandalizzato. – Ohi, Feli! – esclamò – Io non sono il primo tizio venuto direttamente dalla strada che non sa la differenza tra un brodo e un consommé! Se do un giudizio, seppure negativo, è perché so quello che faccio!
Feliciano si voltò, la faccia preoccupata, stanca e sudata per il vapore, il sorriso tremante. Era da ore in piedi, non aveva le forze per discutere e neppure la voglia. – D’accordo, n-non ti arrabbiare. Non volevo mettere in dubbio la tua... ehm, alta cultura culinaria. In caso di bisogno, però, puoi adottare il mio metodo infallibile per non entrare in contrasto con gli altri!
− Oh? E sarebbe?
Feliciano prese da un angolo della credenza uno stecchino lungo una trentina di centimetri, a cui era stato legato con lo scotch la metà di un tovagliolo di carta. Lo sventolò soddisfatto.
− Ta-daaah! Bandiera bianca pronta all’uso, così se qualcuno la vede sa già che non voglio rogne! Fantastico, no? – e lo rimise a posto – Ne ho fatti una ventina uguali a questi, te ne regalo volentieri uno! – abbassò sensibilmente la voce, divenendo quasi inudibile − In situazioni critiche puoi sempre infilare lo stecchino nell’occhio del tuo nemico, così da accecarlo. Non vincerai ma almeno guadagnerai tempo.
Francis ridacchiò, spostandosi una ciocca dorata da davanti agli occhi.
− Sei sempre il solito, Feli, non ti piace combattere. Forse è meglio così... l’amore, di cui la mia patria è la fiera testimone, è una risposta più che valida all’odio, e cos’è la pace se non frutto dell’amore? A volte però, arrendersi subito è segno di codardia. – il suo tono si fece più amaro – Non trovi? Cosa fai se un cliente si lamenta? Non gli rispondi per le rime? Preferiresti cento giorni da pecora piuttosto che un giorno da leone?
− Cento giorni? Ahaha! Cento anni! – Feliciano servì la zuppa in un piatto fondo con un mestolo, stando attento a mettere sia pezzi di pesce che verdura nella dose adatta. – Prima di tutto, nessuno è mai venuto a lamentarsi, sono sempre tutti entusiasti di ciò che cucino, ma penso che in ogni caso ingoierei il rospo. Le sfide comportano conseguenze che non posso permettermi. E poi Lovino mi ha detto di tenermi alla larga dei guai.
− Oooh, fa la parte del fratello protettivo, adesso?
Feliciano si posò sul piano di lavoro, tenendo la schiena china come dopo una corsa sfiancante. – Più che altro non si fida di me. Essere il più piccolo è una gran scocciatura – mormorò a denti stretti. Francis sorrise, appoggiandosi il mento su una mano.
− Ti vuole bene, lo sai. Non vuole che ti faccia del male.
− Sono sicuro che sia così. – tagliò corto, quindi si rivolse a qualcuno vicino che in quel momento stava trotterellando dietro a Francis. − Oh, Louise! Aspetta, porta questo al tavolo quattro, quello con la signora anziana. Hai capito quale? Brava tosa, vai.
La giovane cameriera lì vicino annuì e portò via la zuppa su di un vassoio che teneva in mano, mentre Francis si scansava per lasciarle lo spazio per passare comodamente. Feliciano allargò la bocca in un sorriso soddisfatto. – Sono contento, davvero. Ѐ da un anno e mezzo che lavoro... lavoriamo autonomamente. Certo è stancante, ma ci sono anche i lati positivi.
− Come avere al proprio servizio delle cameriere carine che ti guardano come se fossi un esemplare esotico mentre porgi loro una scodella di bouillabaisse, spacciandola per veneziana?
Feliciano ridacchiò, arrossendo sia per il leggero imbarazzo, sia per l’insinuazione di aver copiato un piatto straniero. – Non è bouillabaisse, è una ricetta che ho fatto io, la mia versione del caciucco. Mi dispiace, Italia batte Francia uno a zero. E non è colpa mia se piaccio alle ragazze, sarà per il mio indiscutibile fascino latino, chissà?
− Ehi, rubacuori, c’è qualcuno che sta venendo qui e credo sia interessato a te, ma dubito sia per il tuo fascino, dato che è incredibilmente giovane e soprattutto maschio.
Francis indicò il ragazzino biondo che stava correndo verso di loro. Peter era incredibilmente agitato, come se non stesse nella pelle di annunciare qualcosa. Feliciano sentì un minuscolo brivido attraversargli la spina dorsale, ma non ci fece caso.
Continuò a lavorare sui suoi piatti, gli ultimi rimasti, dopodiché avrebbe potuto pulire tutto, smontare il baracchino e dire addio a quel piccolo subalterno del ristorante. Erano ormai le tre, l’ora della siesta. Avrebbe dormito, poi avrebbe fatto una partita di calcio con Peter e Lovino, se il fratello fosse stato d’accordo. Avrebbe finito le valigie e il giorno dopo sarebbe partito per l’Italia, diretto a Venezia. Prima, però, doveva sentire cos’aveva da dire il ragazzino.
− Felic... Signor Vargas! Messaggio importantissimo super mega urgente! – strillò Peter. Sembrava avesse granchi nei pantaloni, tanto si muoveva. Si accorse a malapena della terza persona presente. – Un tizio là, no, due tizi, ma soprattutto uno, hanno detto cose orribili su quello che hai cucinato per loro! Li ho sentiti perché parlavano a voce alta, anche gli altri li avranno sentiti! Ho provato a zittirli, niente! Vogliono assolutamente parlare con te.
Feliciano interruppe immediatamente le sue attività, i suoi pensieri riguardo la siesta, tutto. Fissò Peter, quindi Francis, di nuovo Peter.
– Come hai detto? – domandò, togliendosi i guanti e asciugandosi le mani sudate in uno strofinaccio. Francis ghignò: − Ti avevo avvisato che ci sarebbe stato qualcuno che si lamenta, prima o poi. C’è sempre.
− Shhh, Francis. Dimmi, chi sarebbero questi due? E cos’hanno detto, di preciso?
Peter alzò le spalle. – Sono due nuovi, mai visti prima. Non sono italiani, se è questo che t’interessa.
Veee, strano, di solito sono loro che rompono per ogni cosa, ma qua vengono solo turisti. Adesso sono i forestieri che vogliono insegnarmi come fare il mio lavoro? Che pazzo mondo!
Ma Peter non lo stava ascoltando, preda di una strana foga.
− Uno è inglese, dall’accento, l’altro non saprei. Hanno detto che potrebbero cucinare cento volte meglio simili schifezze, cito testualmente, e che avrebbero dovuto andare al McDonald qui all’angolo, almeno avrebbero mangiato di più. E queste sono le cose meno offensive! Ti prego, fai qualcosa!
Feli aveva affermato che avrebbe ingoiato il rospo nel caso, che battersi in scontri non era consigliato nel manuale del buon cittadino, tante belle promesse che ora riemergevano mentre sentiva lo stomaco contrarsi per il disagio.
Avrebbe dovuto ignorare quei due strani tipi? Sarebbe stata la scelta migliore, ma a quanto pareva le loro parole potevano essere sentite anche dagli altri. Se solo Lovino fosse stato lì! Sarebbe andato da loro e li avrebbe cacciati a calci nel sedere, condendo il tutto con un meraviglioso mix di parolacce in dialetto terrone. Feliciano non ne era capace.
Una decisione doveva essere presa alla svelta, altrimenti la situazione sarebbe precipitata... oh, ma perché doveva accadere tutto adesso, pochi minuti prima della fine del turno? Che palle!
Francis lo osservava intrigato, domandandosi quale sarebbe stata la prossima mossa del giovane.
− Al diavolo. – Feliciano spense gli ultimi fornelli. – Qua la roba è pronta, ci penserà Louise o Cassie o una di loro a distribuirla al posto mio, per dieci minuti si può anche fare, tanto le ordinazioni sono terminate. Non ridere, Francis! Voglio solo sapere come adeguare il mio servizio anche ai clienti più reticenti, non fare a botte. Faremo quattro chiacchiere.
Si armò del suo sorriso più convincente e seguì Peter.
 
*  *  *
 
Se Alfred fosse stata una persona matura avrebbe fermato Arthur in tempo, ma non lo era e quindi il più vecchio attuò senza resistenze quello che sembrava un piano “geniale”.
− Cavoli, questa roba sarebbe commestibile? Scherziamo? – disse ad alta voce, in modo che lo sentissero in più persone. – Sembra di mangiare chewing-gum! E questa pasta? Ѐ talmente dura che potrei slogarmi la mascella! Il pesce, poi! Che poltiglia insapore!
Alfred lo fissò come se fosse impazzito, per poi bisbigliare, notando che in parecchi si erano voltati verso di loro: – Dico, che ti prende? Non ne so granché, ma non mi sembra tanto male. Sì, la pasta forse potevano cucinarla un po’ di più, però insomma...
Arthur gli rifilò un calcio. – Zitto, idiota, e reggimi il gioco. – sibilò. Poi ricominciò.
− Oh, spero di non svegliarmi con il mal di pancia domani! Siamo sicuri sia roba fresca? Mah!
Il suo tono era drammatico ma realistico, e più persone cominciarono a guardare sospettosamente i loro piatti, come se d’improvviso dovessero uscirne fuori scarafaggi. Centro!, pensò Arthur. In lontananza avvistò il moccioso di prima, che li stava occhieggiando minaccioso. Un piccolo sforzo, dai.
− Ha davvero senso spendere venti sterline a testa per così poco? A questo punto preferisco mangiarmi un hamburger, almeno sono pieno a poco prezzo!
Adesso anche Alfred si era unito alla lagna fasulla. Arthur lo guardò riconoscente, sussurrando – Grazie, amico.
− Di niente, sono o no l’eroe? E gli eroi aiutano. – sussurrò in risposta l’altro, prima di esplodere a volume altissimo – Se l’Italia è la Patria del buon cibo? Ahahaha! Forse, ma il vino deve aver dato alla testa al cuoco, perché non è possibile considerare questo buon cibo!
Continuarono così per qualche minuto, inventandosi di sana pianta le lamentele più irritanti pur di attirare l’attenzione delle persone attorno; Alfred ci aveva preso gusto e ne tirava fuori di diverse, sbalordendo l’amico per la sua particolare capacità. Non ci volle molto che l’obiettivo fosse raggiunto.
− Ok, ok, adesso calmati. Hai fatto un buon lavoro – bisbigliò Arthur, sbirciando alle sue spalle le mosse del “nemico”. Il piccolo Peter era a pochi passi diretto da loro, arrabbiatissimo.
– Avete qualche problema? – domandò, i pugnetti chiusi sui fianchi e gli occhi azzurri che mandavano lampi.
− Perché lo domandi? – fece Arthur, facendo finta di nulla. Peter batté i piedi stizzito.
− Perché continuate a urlare cose inammissibili! Come vi permettete? –, era diventato paonazzo, − Nessuno si è mai lamentato, cosa avete al posto della lingua, una lastra di marmo?
Alfred dovette trattenersi dallo scoppiare a ridere. Arthur mantenne il sangue freddo.
− Prima di tutto, quello che non si deve permettere sei tu. Non lavori neanche qua, quindi non potrebbero licenziarti, ma in ogni caso resta al tuo posto, ragazzino.
Peter ammutolì tremante di rabbia, folgorandolo con la peggiore occhiataccia che gli fosse possibile, ma restò zitto. Arthur sospirò, socchiudendo le palpebre e guardandolo di traforo.
− Secondo, vogliamo parlare con il proprietario della baracca. Il cuoco, insomma. Ci faresti la grazia di condurci al suo cospetto?
Peter restò li a guardarli per qualche attimo, mordendosi l’interno delle guance. Aveva paura della reazione di Feliciano, se avesse scoperto che non era neppure riuscito a tener testa a due idioti simili. Poi si decise.
− Vado a parlargli, vedremo cosa vuole fare. Voi non vi muovete. – disse e si girò per tornare quasi di corsa al baracchino.
− Complimenti, genio del male. Era questo il tuo progetto? Fare incazzare l’italiano? Penso che tu ci sia riuscito. – fece Alfred quando il ragazzino fu abbastanza lontano. Arthur scosse la testa, ghignando subdolamente.
− No, tonto, questa non è che la prima parte del piano. Ora viene il bello e, ah! Non serve più il tuo aiuto, non necessariamente. D’ora in poi posso arrangiarmi da solo.
− Che hai intenzione di fare? – domandò Alfred, ma l’altro non poté rispondergli perché stava ritornando Peter, con Feliciano a seguito. Con sua sorpresa, era lo stesso tizio nella foto, anche se privo di baffoni e divisa da gondoliere: solo un grembiule sporco di farina e salsa e grumi di impasto sopra degli ordinari maglietta e jeans. Ne rimase un po’ deluso.
Il sorriso del giovane non era esagerato come nell’immagine, anche se era comunque presente, e gli occhi erano pressoché chiusi in confronto. Mentre camminava salutava i vari commensali, prendendosi il suo tempo. Arrivò al tavolo dei due dopo Peter, che tremava di rabbia repressa.
– Sono loro – sibilò il bambino. Finalmente avrebbero avuto ciò che si meritavano!
Buongiorno signori – disse in italiano il ragazzo, il sorriso che non lasciò le sue labbra neanche a pagare – Il mio nome è Feliciano Vargas, sono il cuoco e proprietario di questo umile stand. Ho sentito che il pranzo non è stato di vostro gradimento. Ora, per evitare futuri incidenti di questo genere, potrei sapere esattamente cos’è che non andava?
Alfred lasciò la parola ad Arthur, che la prese immediatamente. Si portò un dito alle labbra, portando gli occhi verso il soffitto: − Cosa non andava? Uhm. Varie cose, diciamo... tutto. Il mio stomaco si rifiutava di ingerire simili intrugli.
Feliciano gettò un’occhiata significativa ai vari piatti ripuliti per benino presenti sul tavolo.
− Lascia perdere quelli, ha mangiato tutto lui. Ѐ un bidone della spazzatura vivente. – Arthur indicò Alfred, che tentò di difendersi con un – Ehi, non è vero!
− Almeno c’è qualcuno qui che ama la buona cucina. – commentò Feliciano con un sorriso più ampio.
Alfred scosse il capo. – A dire il vero, era troppo... semplice. A me piacciono i sapori forti – dichiarò – Tipo, a questa cosa qua, come si chiamava... ah, il “baccalà”, avrei aggiunto un po’ di parmesan! Sarebbe stato mooolto più buono!
Feliciano impallidì, per poco non svenne, mormorò un flebile “Il pesce con il formajo, nooo!” ma si riprese quasi subito, replicando pazientemente: − Questi sono perlopiù piatti tipici veneziani e del Nord Italia in genere. Permettetemi di dire che le vostre lamentele sono infondate... per non dire che sono enormi cazzate.
Arthur arricciò il naso, nascondendo la soddisfazione di come la conversazione stesse proseguendo. Ancora uno sforzo, dai. Diede la stoccata finale: – In ogni caso, piatti tipici o meno, io sono uno chef di professione, e sono sicuro che cucinerei uno qualunque di questi piatti molto meglio di qualsiasi... – guardò Feliciano dritto negli occhi −  ... ciarlatano da marciapiede.
Feliciano non rispose subito all’insulto. Ingoiò un bolo di saliva, si torturò le mani sfregandosele con forza, sempre zitto e con il respiro divenuto affannoso. Non si riusciva a capire se fosse arrabbiato, sul punto di piangere o cos’altro, sicuro era che il suo volto non appariva più così affabile.
−  Non credo proprio, sa signore? – disse dopo una pausa, la voce stridente. Non era mai stato insultato in questo modo e faceva male, male davvero.
− Mr Vargas, che ne dice di una sfida? – riprese Arthur, ignorando deliberatamente lo sguardo sempre più terrorizzato di Alfred, che ormai aveva mangiato la foglia e prevedeva un disastro totale. – Può decidere lei chi farà da giudice, ma ho notato la presenza di un noto estimatore del buon cibo proprio qui, se non sbaglio stava parlando con lei poco fa.
Ok, Alfred non l’avrebbe dovuto bloccare, prima, se magari l’avesse lasciato andare ora non starebbe proponendo uno scontro ai fornelli con un italiano migliore a prescindere di lui.
− Vuole sfidarmi? Qui? Ora? – domandò stupefatto Feliciano.
− Esatto.
“Ti prego, fa che dica che è una cazzata, che non si può fare, che le norme igieniche lo sconsigliano, qualsiasi cosa ma NON FAR CUCINARE ARTHUR” pensò Alfred, il sudore freddo che colava lungo la schiena.
− Per me va bene. Avviso subito Francis... il signor Bonnefoy. Peter, potresti dirgli che ho bisogno di lui? Spiegagli la situazione.
“Merda”.
I due concorrenti si allontanarono verso il baracchino, Peter che li precedette con il suo passo svelto. Alfred si prese la testa tra le mani, mormorando varie bestemmie all’indirizzo del suo socio, maledicendo il momento in cui aveva deciso di aiutarlo. Lo aspettava la figuraccia del secolo, poco ma sicuro.
 
Al baracchino Francis non c’era, comunque; Peter scattò subito nella ricerca, ansioso di mostrarsi utile e soprattutto volendo allontanarsi da quell’essere odioso con cui aveva litigato prima.
– Sarà andato a sedersi? – si chiese Feliciano. Forse si sarebbe potuto risparmiare la seccatura di quella stupida sfida, se lui non ci fosse stato. Però la briciola di orgoglio che nascondeva nel profondo non gli permise di lasciare andare la questione così facilmente, facendogli scegliere un’alternativa inusuale alla sua attitudine: – Non importa, mi segua dentro – e invitò Arthur all’interno della postazione. L’uomo lasciò andare un respiro che non ricordava di aver trattenuto, pieno di sollievo.
Era vergognosamente felice di non dover guardare di nuovo negli occhi Francis, tutto il coraggio avventato che lo aveva colto era sfumato nelle sue vene come un’ubriacatura. Quando ispirò nuovamente, riconobbe nell’aria un profumo che non era di cibo: una fragranza maschile, familiare, la stessa che emanava da anni lui... aveva lasciato la sua impronta, nonostante fosse assente. Il cuore di Arthur si strinse, facendogli domandare il perché fosse lì, il motivo di tutta quella messinscena. E tutto a causa di un errore mostruoso, della sua rabbia e di un patto che ora doveva rispettare ma della cui importanza ancora non si rendeva conto. Dov’era il tasto “reset” nella vita reale?
Feliciano porse un grembiule all’altro, il sorriso ricomparso sul suo viso come se non fosse mai svanito. − Non mi ha ancora detto il suo nome! Ѐ uno chef anche lei, però. Dove lavora? Immagino in un ristorante, magari uno di quelli di nicchia, piacciono tanto anche a Francis!
Era velocissimo a dimenticare i rancori, a quanto pare. L’insulto di pochi secondi fa già era scomparso dai suoi ricordi.
− Kirkland, mi chiami così. Lavoro in Fleet Street, non lontano da qui e, no, purtroppo non lavoro in un ristorante... diciamo che è un locale, “The Eagle”. Ma è solo questione di tempo, prima che torni a lavorare in un posto serio.
− Fleet Street? Oh, conosco, sì sì. − Feliciano annuì vigorosamente, mentre l’altro controllava l’attrezzatura disponibile. – Che bel nome per un locale, però! L’ha scelto lei?
− NO. Parliamo d’altro, per favore, le dispiace?
Feliciano si voltò verso l’uomo, confuso per il suo tono irritato. Aveva detto qualcosa che non andava? Doveva tirare fuori le bandierine bianche? No, non ce n’era bisogno. Notò, però, qualcosa che lo fece sorridere sul viso dell’altro.
– Ok! Mi dica... – indicò con un ghigno la guancia di Arthur, sulla quale spiccava ancora lo stampo rosso di una mano. – Quella è frutto di un qualche “piccolo incidente”? Non si preoccupi, sono italiano, cose simili sono normali dalle mie parti, sa?
Arthur si toccò istintivamente il volto, avvampando per l’imbarazzo: − N-no. – rispose, girandosi dall’altra parte – Cioè, diciamo che è stato un malinteso. Credeva stessi male e per farmi rinsavire mi ha mollato una sberla in piena faccia. L’avesse fatto in modo normale, almeno! No, prima mi guarda negli occhi, sorride, e poi mi colpisce!
− Aaah, queste ragazze! Sembrano fiorellini, ma sono piuttosto manesche, sì?
− Veramente è stato un uomo.
Feliciano si girò verso l’altro, sgranando gli occhi nocciola. – Eh?
− Ma sì, il signore con cui stavo mangiando poco fa...
Gli occhi del ragazzo si allargarono ancora di più: − Ah. Caaapisco.
Arthur annuì, borbottando “Stupido idiota di un Alfred”, quando intuì l’equivoco in cui era incappato.
− U-un attimo! Non è come sembra... cioè, Alfred è il mio socio... siamo venuti qui per una specie di, ehm, pranzo di lavoro. – balbettò, il viso che assumeva un colorito porporino.
Feliciano annuì, soffocando un risolino. – Non si preoccupi. Sono soltanto sorpreso che una persona come lei abbia un amico simile.
− A-amico...? In che senso, scusi?!
Feliciano agitò una mano davanti al volto, consapevole a sua volta dell’involontario doppio senso e deciso a spiegarsi: − Vede, anch’io molto spesso mi ritrovo in situazioni critiche e allora ho questo mio amico che mi salva sempre non appena chiedo aiuto. Ѐ tanto gentile! Solo che mi ci sono ritrovato tante volte in momenti come quelli che è diventato quasi prevenuto sul mio comportamento, come se sapesse già che mi trovo in qualche guaio non appena lo chiamo! Ahaha! Ma lei mi pare un signore tanto coscienzioso, non sapevo che persone come lei avessero bisogno di amici del genere.
− Veramente – mormorò Arthur, accendendo il fornello e ponendovi sopra una pentola – Non avevo neppure idea di aver bisogno di un amico fino a pochi giorni fa.
− Signor Kirkland?
− Ah?
− Cos’ha intenzione di cucinare? – Feliciano batté le mani, entusiasta. – Sono curioso di vedere cosa sa fare! Sarà una specie di “Prova del cuoco” e ovviamente avremo anche il giudizio di Francis, no, volevo dire il signor Bonnefoy! Basta che arrivi, però... mi dispiace non sia qui a vederci, a lei dispiace?
− Un po’. Era per la sua presenza, più che altro, che volevo sfidarla.
− Oh? Ma allora ha detto tutte quelle brutte cose sul mio cibo solo per questo? Perché voleva che lo notassi?
Dannazione, l’aveva scoperto! Era così facile da decifrare? O forse era stato lui ad atteggiarsi nel modo errato. Beh, oramai negare era inutile.
− Ecco... alcune critiche ammetto di averle esagerate...
Feliciano spalancò la bocca per la sorpresa, poi corrucciò le sopracciglia in quello che doveva essere uno sguardo di rimprovero e lo rimbrottò, portandosi la mano destra sul cuore: − Signore, mi ha fatto venire un infarto! Pensavo di aver combinato chissà cosa! Beh, meglio così, basta che non lo ripeta mai più: sa, gli altri clienti sono suscettibili a queste cose, potrebbero condizionarli!
“Tranquillo, io ne so qualcosa di pareri di persone ignoranti influenzati da giudici altrettanto ignoranti” pensò Arthur, stringendo piano la mascella, i denti scricchiolarono.
− Mi perdoni, sono stato un essere ignobile a esprimermi in una maniera così sgarbata senza motivo apparente. Spero lei mi possa comprendere, non ho scusanti. – dichiarò, capo leggermente chino e dimesso.
Feliciano alzò un sopracciglio. Il tipo sapeva il fatto suo in merito alle buone maniere, almeno paragonandolo alle poche persone che conosceva personalmente lì a Londra. Decise di lasciar correre per il momento.
− D’accordo, signore... beh, quello che rimane del cibo fresco è lì nel frigo, mi fido e le lascio per un po’ il mio posto. Tanto lei è uno chef, no? Come Gordon Ramsay!
Arthur sogghignò, estraendo gli ingredienti che gli erano necessari da un piccolo frigorifero nell’angolo. – Tranquillo, si fidi di me. Si leccherà i baffi.
Bastò un quarto d’ora.
Le urla disperate di Feliciano, mentre le fiamme venivano spente prima che distruggessero l’intero baracchino, si sentirono sotto il rumore dell’estintore in azione.
− Cosa cazzo ho combinato... – sussurrò Arthur, mentre il getto si estingueva pian piano. La parete di fondo era annerita così come buona parte dei fornelli e un pezzetto di frigo. Feliciano osservava il tutto con le mani immerse tra i capelli, mormorando qualcosa in italiano, gli occhi nocciola spalancati diretti sul disastro mancato. I passanti che cercavano di sbirciare e capire cosa fosse successo, anche le cameriere, venivano puntualmente mandati via da quest’ultimo, minimizzando il tutto come un “piccolo incidente” detto a fil di voce.
Mamma mia – esclamò, appena si fu ripreso. – Ci è mancato un pelo! Lovino mi farà la pelle appena lo scoprirà... Oh, signore? Sta bene? Abbiamo rischiato grosso! Per fortuna avevo l’estintore sul retro, altrimenti sarebbe stato un macello!
− Direi di sì... sono terribilmente spiacente.
Arthur arrossì: aveva pressoché incendiato il piccolo stand, dimostrando quanto fosse inetto e il ragazzo si chiedeva come stesse. Era un filo commosso.
− Spero solo che l’assicurazione paghi i danni. Lovino non voleva farla l’assicurazione, diceva che era un ennesimo spreco di denaro, ma io l’ho fatta lo stesso. Oh, se non mi risarciscono loro, vengo a pretendere i danni da lei, sia chiaro.
Commosso un piffero. L’italiano bastardo non era tanto diverso da Alfred.
− Sono sicuro che troveremo un modo per conciliare le due parti – promise Arthur, mentre l’altro lo guardava storto. Feliciano sospirò. Arthur si allontanò di un passo, raddrizzando la schiena e assumendo una posa dignitosa, arrivando togliere il cappello bruciacchiato sui bordi pur di apparire meritevole. Era sicuro di aver cucinato bene, stavolta, e se non fosse stato per il piccolo incendio, avrebbe fatto un figurone anche con Francis. Non sarebbe accaduto come il giorno prima con Alfred, assolutamente. Arthur avvertì una presenza sulla spalla: una fatina stava osservando come lui la situazione; le fece l’occhiolino, consigliandole in un bisbiglio di stare a vedere.
− E va bene. Quello finisce nella spazzatura, però mi dispiace tanto! – decise Feliciano, sconsolato: era sempre curioso di assaggiare sapori nuovi e aveva perso quell’occasione. – Senta signore, questo incidente è stato incredibilmente maldestro da parte di un professionista, ma... – i suoi occhi si aprirono luccicanti – Ho capito. Lei aveva difficoltà a cucinare in uno spazio così angusto, giusto?
Arthur rialzò lo sguardo, improvvisamente speranzoso. Il ragazzo aveva ragione: non era lui incapace, era l’ambiente che non gli permetteva di esprimersi!
− Ehm... sì, certo. – Cazzate, lo sapeva anche lui che erano cazzate, ma aveva una dignità da difendere, anche a costo di mentire.
− Peccato, allora. La nostra sfida termina qui, mi dispiace solo che Francis non abbia potuto dire la sua. Ѐ raro che non s’intrometta su praticamente ogni cosa, proprio stavolta... eh, peccato.
Arthur sentì il petto riempirsi di calore, nel sentire della possibilità di rincontrare Francis. Non gli interessava più della sua opinione, voleva solo rivederlo in faccia, non era neppure importante se avessero litigato di nuovo. Sentiva in cuor suo che se gli avesse di nuovo rivolto la parola sarebbe stato sufficiente per lenire quell’orribile peso che portava da un anno nel cuore. Impossibile. Occasione persa. – Già.
Feliciano lo stava scrutando, facendolo sentire un po’ a disagio. Si schiarì la gola.
− Allora, come si fa? Devo intervenire anch’io per l’assicurazione, dal momento che ho fatto io il danno? Spero di non aver causato troppo disagio, insomma, è stato un incidente, lo ha detto anche lei...
Feliciano scosse la testa, sorridente: − Non si preoccupi, mi arrangio io. Adesso, se non le dispiace, potrebbe lasciarmi pulire questo disastro? Sono già passate le tre e io vorrei fare la mia siesta, ma non prima di aver messo a posto.
Rise, un suono argentino anche se fievole, colmo di luce. Arthur ne rimase piacevolmente colpito.
− Faccia pure. E buona fortuna per il suo lavoro di cuoco, è un mondo difficile questo.
− Che il Signore vi sorrida! – lo salutò quando Arthur uscì. – Finché non ci rivedremo... – aggiunse, lasciando andare un sospiro.
Guardò nuovamente verso il cucinino annerito dal fumo e per poco non si lasciò scappare un urletto. – Ehi! Signor Kirkland? – ma l’altro se n’era già andato. Feliciano alzò le spalle e tornò ai fornelli, precisamente alla pentola in cui stava cucinando l’altro prima del disastro. Un sorriso estasiato gli si aprì in faccia.
− Non ho idea di cosa stesse cucinando prima quel tizio, ma credo che qualcosa si sia salvato. Almeno spero. – mormorò tra sé.
Avvicinò il volto all’ impasto. Effettivamente il piatto era tre quarti carbonizzato, ma un quarto era perfettamente integro. Un boccone sufficiente per assaggiare come fosse venuto fuori. − Mi sa che Francis non vorrebbe mangiare questa cosa e mi dispiace, sapendo quanto ci teneva quel tizio – mormorò.
Una lampadina gli si accese in testa. – E se lo assaggio e gli dico la mia opinione? – esclamò ad alta voce, tra sé e sé. – Non sono un critico, anzi, sono una “bocca buona” ma lui è stato quello che ha disapprovato i miei piatti come se fossero mer... ehm, schifezze, voglio proprio assaggiare un piatto da chef. Non è stato neppure intaccato dall’estintore!
Feliciano prese una forchetta, separò il cibo commestibile da quello andato in fumo, domandandosi che diavolo avesse cucinato l’altro: aveva preparato gli ingredienti cercando di nascondere le proprie azioni, neanche avesse paura che gli copiassero la ricetta, ma l’altro era riuscito a sbirciare le sue mosse. Ciononostante, il preparato finale era tutto meno che riconoscibile. “Sarà una qualche ricetta inglese” pensò.
Ne mise in bocca un boccone.
L’urlo che seguì fece sembrare la reazione di prima un sussurro nel vento. Feliciano stava addirittura piangendo da quanto quello che aveva in bocca gli faceva schifo.
− Che è sta robaaa?! Ѐ la cosa più disgustosa che abbia mai mangiato, sa d’immondizia, mi viene voglia di morireee! – e giù singhiozzi. S’interruppe solo perché delle ragazze si erano voltate verso di lui, la lagna stava minacciando la sua fama di latin lover.
“Seriamente, che è ‘sta schifezza?” sputò il bolo in un pezzo di carta asciuga tutto. “E sarebbe uno chef, questo qua? In quale universo lo si potrebbe definire tale?”
Il suo volto raggelò per un secondo. Si voltò verso i tavoli, dove l’altro si era diretto.
Una strana luce nei suoi occhi: non era l’espressione esageratamente gioiosa della foto nella pubblicità, neppure quella più quieta e gentile di prima, era una luce diversa da qualsiasi altra fosse passata sul volto del giovane da un bel po’ di tempo a questa parte e per tale motivo era indecifrabile. Questa volta non c’erano fatine a fare la spia, però.

Alfred tamburellò nervoso il tavolo. Non era abituato a essere lasciato così, da solo, e trovava la sensazione alquanto scocciante. Bevve l’ultimo sorso della Coca, pregando qualsiasi divinità esistente che il vecchio bastardo non combinasse pasticci. Prima la cosa non aveva funzionato, ma la speranza era l’ultima a morire, no? Arthur aveva un piano. Non si sa cosa girasse per la sua testa bacata, ma cazzo, avere un piano è sinonimo di successo assicurato, giusto?
Alfred maledì la sua decisione di non averlo colpito più forte, magari lo avrebbe fatto svenire e quindi portare al pronto soccorso, e invece no. Ora stava cucinando. La cosa lo rendeva a ragione in preda al panico.
Si lasciò andare sulla panchina, rischiando di fare un capitombolo dal momento che si era dimenticato che mancassero gli schienali.
− Dannazione, voglio tornare a casa. Da quando Kirkland si è accorto che c’è anche il francese quaggiù, è diventato più strambo del solito – mugugnò. Guardò la gente attorno a sé, famigliole allegre in maggioranza, e decise che era stufo di rimanere lì da solo come un idiota. Si alzò dal suo posto e andò sul confine dell’area governata dallo stand, sgranchendosi le gambe addormentate. Le lenti dei suoi occhiali riflessero la luce del sole, costringendolo a toglierseli per un attimo.
− Povera creatura, accecato dall’astro guidato da Apollo. Giornate così non si vedono spesso quaggiù, siamo poco abituati a tale splendore. – constatò una voce maschile dietro di lui. Si girò e, anche con la vista annebbiata, riuscì a riconoscere la persona che gli stava rivolgendo la parola.
“Ma non era andato a giudicare i piatti dello scorbutico?”
− Mr Bonnefoy! – esclamò Alfred, in un tono che cercava di apparire sorpreso. Si sistemò gli occhiali: sì, era proprio lui. – Anche tu qui?
L’altro lo squadrò intrigato, togliendosi un ciuffo ribelle da davanti il viso: − Bonjour. Ci siamo già presentati?
− Sono Alfred F. Jones, il proprietario dell’Eagle. Sai, quello che ha preso il posto dell’ Arthur’s Kitchen, in Fleet Street.
Il volto di Francis s’illuminò: − Oh, Alfred, già! Ora rammento, il giovane americano dalle grandi speranze! –. Ridacchiò al ricordo della sua visita. – Ѐ un piacere rivederti in giro. Come va? Il tuo locale è riuscito ad affermarsi? Era una specie di fast-food, giusto?
− Esattamente. Beh, non è ancora decollato, ma ci sto lavorando sodo! Ho addirittura assunto un nuovo socio che mi aiuti!
Francis alzò un sopracciglio, perplesso: − Davvero? E avete i clienti per riuscire a pagarvi entrambi lo stipendio? Non che dubiti le capacità di un giovane ambizioso come te, sia chiaro, ma sai bene che spesso i soldi logorano anche i rapporti più stabili.
Alfred si grattò il gomito, senza sapere bene cosa rispondere, il labbro inferiore morso dagli incisivi: − Il mio socio è molto, molto motivato... e non certo dal denaro. Potremmo dire che, come dire? Si tratta di una persona speciale.
Francis annuì, muovendo la testa e agitando i capelli biondi davanti al viso. Aveva assunto un’espressione malinconica. – Speciale, ah?
− Esatto. Una testa dura come il cemento, tenace al massimo, non si ferma davanti a niente e nessuno.
− Una testa dura... mi ricorda tanto una persona che conoscevo. – Francis sospirò. – Mi piacerebbe conoscerlo, questo socio speciale.
Il nervosismo del ragazzo era scomparso, sostituito dalla sua proverbiale fierezza. Si mise le mani sui fianchi, schiena dritta e sguardo altero. – Puoi venire quando vuoi! Il mio fast-food non si è mosso dall’ultima volta in cui sei entrato, è sempre là.
Alfred avrebbe dovuto avere un linguaggio più garbato, probabilmente, ma la sua totale noncuranza a riguardo fece ridere il noto critico.
− Dovrei prenderlo come un invito a mangiare da te? – domandò, un sorriso malizioso gli increspò le labbra. Alfred si sentì a disagio sotto quegli occhi penetranti, ma non durò a lungo.
−  Sono tutti i benvenuti nel mio splendido locale! Basta che non siano inglesi, quelli mi stanno antipatici. Troppo snob.
Francis scoppiò a ridere: − Mon cher, tu non eri al banco poco fa e non sai cos’è successo!
− Cosa, cosa, dai, sono curioso!
Francis ne approfittò per avvicinarsi al volto di Alfred,  parandosi la bocca con la mano come se si trattasse dell’ultimo gossip: − A quanto pare due clienti si sono messi a sparare sentenze contro quello che stavano mangiando, lagne assolutamente patetiche tra l’altro. Ora, la cucina francese è nettamente superiore a quella italiana, non so se capisci tu che vieni dall’altra parte dell’oceano, ma comunque erano esagerati... insomma, la cosa divertente di tutto ciò è che non si sapeva chi fossero i due, ma era sicuro che uno fosse inglese. Chi è che rompe le scatole? Un inglese. Tipico, no? Deve essere nel loro DNA. Ah ah ah!
Alfred non sapeva se ridere od offendersi per la cosa. Dal momento che mostrarsi infuriato avrebbe significato essere scoperti all’istante, decise di sorvolare.
− E l’altro? Non era della stessa nazionalità? – chiese, facendo finta di non sapere.
− No, a quanto pare, però sai, l’accento varia nelle varie parti dell’Inghilterra. Magari uno era londinese e l’altro di Birmingham.
− Ah, questi inglesi. – sentenziò Alfred, scuotendo la testa – Sempre a criticare. Sapessero almeno di cosa parlano!
− Suvvia, Jones! Non essere così duro con loro. Magari un giorno, chissà? Ti troverai una bella fidanzata quaggiù, una british girl che ti farà cambiare idea.
No way! – Alfred incrociò le braccia davanti al petto a mo’ di scudo. – Mi tocca già lavorare con un ingl... volevo dire, non ho bisogno di una ragazza, ho troppo lavoro da fare! L’amore può aspettare.
Francis sorrise, come se sapesse qualcosa che lui non sapeva.
− Che brutta cosa, sacrificare i sentimenti per la carriera... Comunque adesso mi hai incuriosito con la storia del nuovo socio. Ѐ un bel tipo?
Ci volle un po’ perché Alfred afferrasse ciò che Francis intendeva dire. Alzò le spalle. – Ecco... Beh, diciamo che è un tipo. Non ti saprei spiegare.
− Alto, basso, biondo, moro...?
Alfred mosse gli occhi da destra a sinistra, sbuffando. Gli dava un certo fastidio parlare di Arthur, dal momento che il rischio di far saltare la copertura incombeva come una spada di Damocle.
− Perché dovrei dirtelo io? Vieni nel mio fast-food, così lo vedrai con i tuoi occhi! – esclamò, quasi senza pensarci (come la maggior parte delle cose che diceva, d’altronde), rendendosi conto delle sue parole sono quando l’altro rispose: − Uhm, perché no? Sono curioso di vedere i tuoi progressi... e conoscere questo misterioso signore. Anche se non servi proprio il tipo di piatti che preferisco, farò uno sforzo. Penso di riuscire a venire entro la fine della settimana, ti va bene?
Alfred spalancò la bocca tentando di ribattere qualcosa, ma Francis lo interruppe con un buffetto sulla guancia.
Cher Alfred, devo andare, perdonami: mi sono intrattenuto anche troppo con te. Ci vediamo, allora!
E se ne andò, senza dargli neppure il tempo di salutarlo.
 
La prima cosa da fare era avvisare Arthur, e fu quello che Alfred fece. La reazione del primo fu molto contenuta. – Ah sì? Va bene. – fu tutto quello che disse.
− Potresti anche mostrarti un po’ più entusiasta! O incazzato, che ne so! Che risposta è questa? – sbottò Alfred, rimasto delusissimo da tale freddezza. Stavano tornando verso l’ Eagle, attorno a loro sfilavano i negozi luccicanti della via principale. Il rumore del traffico copriva i loro discorsi.
− Ѐ la mia risposta: va bene così.
− Sarà che non riesco a recepire bene i messaggi subliminali, ma non mi pare che tu mi abbia detto tutto. Insomma...
− Stai tranquillo, non c’è nulla di cui preoccuparsi. – lo rassicurò Arthur, posandogli una mano sulla spalla. Il ragazzo si calmò un poco, senza però togliergli quello sguardo sospettoso di dosso.
“Fai bene a preoccuparti, invece” pensò Arthur, “Non ho idea di cosa succederà. Già ero sollevato del fatto che Francis se ne fosse andato quando sono arrivato al baracchino, ora è sicuro che lo rincontrerò e... non ho la più pallida idea di come reagire. Di cosa gli dirò quando lo vedrò o di cosa dirà lui vedendomi, perché non ha idea che sia io quello che lavora con te. Ho paura, sai? Ho paura di mostrarmi per l’ennesima volta imbranato ai suoi occhi. Non posso permetterlo. Ho paura di perdere nuovamente il controllo”.
Non riuscì a sopportare a lungo quegli occhi azzurri addosso e voltò la testa, insofferente: − Devi ancora chiedermi come sia andata la mia sfida culinaria contro il cuoco italiano.
− Non sono in vena di storie dell’orrore.
Arthur minacciò con il linguaggio non verbale di buttarlo sotto un bus.
− In realtà, brutto diffidente, sono andato abbastanza bene – alzò il mento, fiero. – C’è stato un minuscolo incendio, ma nulla di più. Credo di aver superato me stesso oggi.
Alfred si bloccò in mezzo al marciapiede, gli occhi e la bocca spalancati per lo shock.
− C...COSA? Un incendio? Avevi intenzione di distruggergli la postazione, era questo il tuo piano meraviglioso? – Alfred lo raggiunse con due falcate, lo prese per le spalle urlandogli in faccia: – E se ci chiedono i danni, dove li troviamo i soldi? Imbecille!
Arthur se lo scrollò di dosso, risistemandosi la giacca (che solo in quel momento Alfred notò aver tracce di bruciato sulla stoffa) sdegnato.
− Posseggono un’assicurazione contro gli infortuni, me l’ha detto lui stesso! Non ci faranno causa... spero.
− Se però viene fuori il contrario, stai certo che non ti farò pagare nulla: ti spezzo tutte le ossa, ma non ti faccio pagare nulla. – la minaccia fu accompagnata da un terribile movimento dell’indice verso la sua direzione e un’occhiata che avrebbe incenerito molto più del fuoco divampatosi dai fornelli.
− Che gentile che sei, proprio il comportamento adatto a un eroe! – sputò Arthur, deridendolo con un sorrisetto cinico. − Quanto vorrei fossi tu a ricevere il prossimo premio Nobel per la Pace: dopo Vladimir Putin mi sembri il candidato più adatto.
Alfred sogghignò al pensiero: − Magari! Se lo vincessi io al posto suo, sarebbe l’ennesima prova della superiorità americana sulla Russia.
Arthur sorrise, ma non rispose. Quelle punzecchiature erano riuscite per un po’ a fargli dimenticare i pensieri ossessivi che lo tormentavano e gliene era grato, ma ora l’ombra scura che lo perseguitava stava riguadagnando terreno. Le labbra si strinsero, gli angoli scesero verso il basso. La tregua non sarebbe durata a lungo.
Arrivarono al locale che Alfred stava ancora chiacchierando allegro, dimentico dell’incidente, mentre Arthur alzava un muro fatto di pensieri sempre più difficili da controllare, ognuno in un mondo a sé in cui l’altro non era che un interlocutore.
Non notarono a prima vista la figura che li stava aspettando davanti all’entrata.
− Mr Kirkland! Mr Jones! Salve! Ho visto la scritta “chiuso”, ma non sapevo foste effettivamente usciti... sono arrivato giusto in tempo!
− Perdonaci Toris. Ѐ da tanto che aspetti? – lo salutò Arthur riemergendo dal suo silenzio, mentre l’altro sventolava la mano come se non lo vedesse da secoli
− No... anzi, devo proprio dirvi cosa è successo poco fa, devo fare presto perché un amico mi aspetta! – Toris sembrava non stare più nella sua stessa pelle. Alfred gli rivolse un sorriso smagliante, estraendo dalla tasca la chiave per aprire il locale..
− Ora ci racconti tutto, ma preferisco farlo davanti a un hamburger. Ho una fame da lupi, ahahaha!


 

* * *

Guess who’s back.
Prima che mi venisse un esaurimento nervoso e spaccassi il pc, ho deciso di spezzare il capitolo in due parti e offrirlo ai miei discepol-, wait no. Dicevo.
Questa è la prima parte del capitolo, poiché è DAVVERO lungo stavolta *trattiene gli spoiler*
Domanda alle veterane, scrivere la prima fic è sempre così, ovvero un misto tra tormento e delizia? In questo caso molto tormento. Taglio corto.
GRAZIE MILLE A CHI LEGGE E/O RECENSISCE *spedisce tonnellate di ringraziamenti ciascuno/a*, spero di non deludervi. Nel caso, informatemi.
Grazie anche all’admin Ita-chan che mi ha permesso di pubblicare nella sua pagina un mio disegno di Feliciano qui cuoco-gondoliere improbabile. Forse è meglio se mi rimetto a scrivere.
A presto!
L.B. Shadow

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Capitolo 5
*** Long Time No See (part 2) ***


Long Time No See
 
IV.II

 
 

Un piccione stava becchettando briciole invisibili sul davanzale al di fuori della finestra. Natalia l’osservò, senza tentare di spaventarlo battendo sul vetro. Dopotutto, non le copriva la visuale.
Natalia era irrequieta. Si sentiva in trappola in quella stanzetta dove si era rintanata, condizione di auto reclusa che sentiva di meritare, ma solo a metà. Esiliata in casa propria. E per cosa, poi? Perché aveva fatto la cosa che sentiva più giusta, che era stata anche quella più errata. Mannaggia a lei e a al suo animo troppo tenero. Oh, ma sapeva cosa avrebbe fatto non appena fosse riuscita a liberarsi: fargliela pagare al moccioso che tanto stava facendo soffrire il suo amato fratello, fregandosene delle circostanze che al momento le erano sembrate inusuali e quindi degne di un’eccezione.
Era da ieri che il fratellone non faceva che pensare a quell’ “amico” mancato. La ragazza non aveva idea di cos’avesse più degli altri, ma a quanto pare lui era speciale; Ivan era addirittura disposto a rischiare la sua posizione di giudice, oltrepassando la sottile linea che separa la legalità dalla giustizia umana. Dovunque lui sarebbe andato, però, lei lo avrebbe seguito, come era sempre successo in quegli anni. Se lui voleva avere il ragazzo con sé, che autorità aveva lei per impedirglielo?
Guardò fuori dalla finestra del suo studio personale, lo sguardo diretto sul panorama che le si offriva, con la piccola speranza che l’assassino tornasse come sempre sul luogo del delitto. Glielo aveva ricordato il fratellone questo proverbio, l’aveva ringhiato ieri sera parlando dell’uomo che ospitava il suo “amico” a Londra; era offeso perché a quanto pare l’interessato aveva combinato un grosso pasticcio ed era pressoché scomparso dalla città, per poi tornare come se niente fosse successo. Sembrava inoltre che avesse tenuto nascoste alcune cosine, poiché il ragazzo che stava accogliendo non sospettava nulla del suo passato.
“Lurido ipocrita” lo aveva definito, sputando l’insulto come veleno.
Il fratellone si stava struggendo dai dubbi sul perché il ragazzo fosse scappato il giorno prima: le aveva domandato se avesse esagerato, se la sua scenata con il tubo di ferro fosse stata la goccia che aveva convinto Toris a tagliare la corda. Quando lei aveva confermato l’ipotesi, lui si era preso la testa tra le mani.
– Perché? Mi sono semplicemente arrabbiato perché è fuggito quando gli ho detto la verità riguardo Kirkland. Non è giusto! Che ho fatto di male? − le aveva chiesto con la voce rotta dal pianto. – Così non ho potuto fare altro che prendere il tubo di metallo e dargli una lezione, perché è così che si fa con i bambini che non sanno giocare bene, vero? Ѐ quello che ci hanno insegnato. Ѐ quella la maniera giusta. Non l’ho neppure sfiorato, non ho fatto nulla di male, volevo solo fargli un po’ paura −, e lei non aveva potuto far altro che annuire e abbracciarlo, sentirlo irrigidirsi sotto il suo tocco e stringere di più, perché non sfuggisse al suo affetto. Voleva consolarlo. Voleva più che mai il suo bene, anche se questo avesse significato doverlo condividere con un’altra persona non degna.
E ora Ivan aspettava il momento giusto, come lei.
Gli occhi puntarono in basso e lo vide. Anzi, li vide.
 
La tensione scuoteva il suo corpo come una foglia, trasmettendo dolorose vibrazioni alle dita spezzate. Toris era ansioso, felice, spaventato ed emozionato; aveva poche idee sul cosa fare, ma era abbastanza sicuro delle sue azioni. Camminava a scatti, come se le sue gambe volessero disobbedire al cervello e bloccarsi sul posto, ma fossero obbligate a percorrere quel tragitto. Il piccolo tic passò completamente ignorato.
L’unica cosa che stonava apertamente in quel quadretto era la presenza del nuovo amico, Feliks, che lo guardava come a domandargli “Sei certo che ne varrà la pena?”, infondendogli pericolosi dubbi. Feliks, però, non osava aprire bocca: si limitava a fissarlo con quello sguardo perplesso, tenendosi a un paio di passi di distanza da lui come un’ombra.
Aveva proposto Toris stesso di farsi accompagnare davanti al palazzo del giudice, dopo aver incontrato l’altro quella mattina e averci pranzato insieme. C’era il mercato poco distante, con baracchini che vendevano cibo: incredibilmente, Feliks aveva acconsentito a fermarsi ad uno di essi, contravvenendo alla sua fobia per gli estranei sebbene ci fosse un mucchio di gente e fosse l’ora di punta. Sorpresa delle sorprese, sembrava che addirittura fosse amico del cuoco ambulante, uno simpatico italiano, poiché i due si salutarono e scambiarono i convenevoli come niente fosse, lasciando Toris basito. Evidentemente Feliks aveva dei lati sconosciuti nel suo carattere.
La giornata era stata incredibilmente piacevole, i due avevano avuto modo di fare quattro chiacchiere e approfondire la loro conoscenza, fino a che, nel pomeriggio, a Toris non era venuta la favolosa idea e l’aveva proposta a Feliks. L’altro aveva accettato, anche se la cosa aveva raggelato le loro interazioni. Da allora non avevano chiacchierato più di tanto, limitandosi a brevi monologhi separati l’uno dall’altro; sembravano due attori che recitassero diversi copioni e facessero fatica a trovare un equilibrio. A ogni commento di Toris su Natalia e alla speranza di rivederla, Feliks rispondeva con un’alzata di sopracciglio e guardava con un’occhiata significativa le sue dita arrossate dove erano lese. Era fastidiosa, questa cosa. Non era Nat il problema, ma il fratello...
Arrivarono davanti al parco dove il giorno prima si erano incontrati. Si sedettero sulla panchina, rabbrividendo quando il legno umido si fece sentire attraverso la stoffa dei pantaloni. − E ora? – domandò Feliks, sbadigliando. – Hai, tipo, una vaga idea di cosa fare adesso?
− N-no... tu hai qualche idea? La conosci più di me, d’altronde.
− E che ne so io? Uhm. Se le cantassi, tipo, una serenata da quaggiù?
− Pensi che possa servire?
− Se vuoi farti trovare stasera dalla polizia appeso a un albero per il collo, sì. Cavoli, se non hai idea neppure tu di cosa fare, che sei tipo il suo ammiratore, mi chiedo cosa ci facciamo qua... Questo posto dà i brividi.
Feliks aveva abbassato il volume della voce fino a quasi farla sparire, così  Toris fu in grado di staccarsi da quella realtà e immergersi completamente nei suoi pensieri.
Inspirò una grossa boccata d’aria fresca, tossendo per lo smog che vi era mescolato. Aveva bisogno di ritrovare la calma, ma il palazzo davanti a lui lo stava riempiendo nuovamente di terrore.
Dopo la sua fuga era naturale fosse così, eppure stavolta c’era qualcos’altro: non l’impressione che l’edificio emanasse un’aura negativa, ma la certezza. Poteva percepire un lieve bisbiglio, simile a una risata maligna, tutt’intorno, riconducibile al rumore delle foglie calpestate nel parco vicino, ma no, ne era convinto, sebbene la parte razionale di lui tentasse di negarlo, quella era la “voce” del palazzo. Esattamente come era accaduto con la casa di Arthur la prima sera.
Strinse i denti in una smorfia. Voleva ricacciare in un angolo buio della sua mente le folli insinuazioni di Braginski. Esse pungevano, riemergevano, prepotenti e innegabili, nonostante i suoi sforzi gli era impossibile considerarle coincidenze.
Stanze proibite. Atteggiamenti sospetti. Un improvviso rimpatrio dopo un’esperienza avvolta per la maggior parte dal silenzio. E lui si trovava in mezzo a tutto ciò, pedina inconsapevole in un contesto che sembrava architettato a tavolino.
Quando la sera precedente era tornato a casa, non aveva fatto parola di tutto ciò. Non era nemmeno riuscito a guardare Arthur negli occhi, certo che avrebbe subito capito cosa non andasse.
Ma l’uomo aveva afferrato ugualmente. Cercando di non sembrare invadente, aveva cercato di penetrare quel muro di silenzio; inutili erano stati i tentativi di Toris per sviarlo parlando d’altro.
Alla fine Arthur si era arreso e lui aveva passato la notte senza chiudere occhio. Aveva dormito sì e no un paio d’ore, sonno agitato di cui non serbava alcun ricordo se non una sensazione di calore insopportabile, come se fosse stato avvolto dalle fiamme degl’Inferi. Quando si era svegliato, Arthur era già partito: sul tavolo un thermos di tè caldo già dolcificato e un piatto di biscotti fatti in casa, piccoli doni dettati da una sincera generosità. Toris aveva assaggiato entrambi. I biscotti non erano neanche male rispetto a ciò che cucinava solitamente l’uomo, e se ne era portato qualcuno via.
Un piccolo amuleto per ricordare che Kirkland fosse una brava persona.
Sentì qualcosa battere contro la sua spalla e riemerse dai suoi pensieri. Si girò alla sua sinistra: Feliks, con il braccio teso verso di lui, stava cercando di attrarre la sua attenzione picchiettandolo. Solo in quel momento si accorse che il biondino si era rannicchiato nella parte più esterna della panchina, come per tenersi a distanza.
− Ehi, tu. – disse Feliks, indicandolo col mento.
− Il mio nome è Toris. – rispose lui, il respiro esalato tra i denti serrati. L’altro fece spallucce.
− Ok, Toris. Giulietta si è affacciata al bancone, se vuoi procedere...
− Quale Giulietta?
Feliks sbuffò, mentre le guance si tingevano di rosso, borbottando qualcosa come “ignorante, non capisce neanche, tipo, le citazioni più ovvie”. – Alza gli occhi. Non siamo venuti qui per lei?
Toris alzò lo sguardo verso la finestra del quarto piano, con il cuore in gola. Eccola! Proprio come la prima volta. Dio, com’era carina... e stava guardando verso di lui! Lo stava aspettando? La vide alzare una mano, lo sguardo glaciale da bambola di porcellana sempre presente. Che lo stesse salutando? Toris agitò la mano per salutarla in risposta.
− Che combini? – chiese Feliks, notando i suoi movimenti.
− Beh, mi pare ovvio, no? Cerco di farmi riconoscere.
− Ehm, coso... Toris... non per rovinare quel bel sorriso che ti è spuntato sulla faccia, sei anche tanto carino così felice, ma credo l’abbia già capito chi sei.
− E come fai a esserne così sicuro?
– Guarda bene. − Feliks indicò la finestra,  − Ci sta facendo il dito medio.
Era vero. Con una compostezza degna di una giovane dama, Natalia li stava mandando a fanculo. Il volto di Toris divenne incandescente per l’imbarazzo.
− Oh. Ehm... – si schiarì la voce, tentando di ripristinare un po’ di contegno. – Scusa, non... non me n’ero accorto. Secondo te lo fa per scherzare o è seria?
Feliks gli lanciò un’occhiata più che sprezzante, cosa che lo fece arrossire ulteriormente, quindi si rivolse alla finestra e sollevò entrambe le mani alzato il terzo dito, accompagnando il tutto con una linguaccia.
Toris sbarrò gli occhi, scandalizzato. − Fe... Feliks! Che diavolo combini?! Ѐ una ragazza, non si fanno queste cose! Non vorremmo fare la figura dei cafoni, spero!
Feliks era sul punto di perdere la pazienza. Se le femmine ti rimbecillivano così, pensò, era cosa buona e giusta che non si fosse ancora innamorato.
– Vuole la guerra? – annunciò, la determinazione brillante negli occhi smeraldini, – E che guerra sia, allora! Non si offenderà di certo per così poco, la conosco totalmente più di te!
Ma non ci fu nessuna guerra.
 
Nella stanza era entrato anche Ivan; in mano aveva l’onnipresente bottiglia di vodka ed un bicchiere pieno per un quarto, tenuto saldamente tra le dita. Si muoveva con passo felpato, senza fare il minimo rumore ma facendo avanzare la sua enorme ombra, come un gigante. Come l’inverno.
Natalia si girò appena quando si accorse della sua presenza. − Fratelloneee~  – cinguettò.
Ivan trasalì, vedendosi scoperto. Finse indifferenza, avvicinandosi alla scrivania senza variare il suo andamento flemmatico.
− Tranquilla, sono venuto solo per prendere dei documenti che ho dimenticato sulla tua scrivania, nient’altro –. Le labbra si piegarono in un sorrisetto tenero: − Certo che potresti tornare a farti vedere in casa, nessuno ti costringe a stare qui tutta sola, sai? Non sono arrabbiato con te, non come ieri perlomeno.
Natalia sorvolò l’invito, staccandosi dal vetro e dirigendo lo sguardo direttamente su di lui. – Fratellone? Prova a indovinare chi c’è qua sotto, proprio dall’altra parte della strada?
Il giudice si bloccò, intenzionato a non entrare nel raggio di visualizzazione della finestra, o comunque a star lontano dalla sorellina. Si limitò a domandare, come se non immaginasse la risposta: − Non saprei. Chi c’è?
− Un idiota e un imbecille. Feliks e quell’altro, Toris.
La bocca di Ivan si aprì assumendo la forma di una mezzaluna, mentre gli occhi s’illuminavano estasiati; congiunse le mani e si mise a saltellare per la contentezza, facendo tremare leggermente le piastrelle sotto il suo peso, incapace di trattenersi. Era la grottesca imitazione di un bambino troppo cresciuto.
Il liquido dentro il bicchiere schizzò qualche goccia sulla scrivania lì accanto, rischiando di macchiare i documenti citati.
− Lo sapevo! – mugolava felice Ivan – Lo sapevo! Ѐ tornato da me! Vuole essere mio amico!
D’un tratto interruppe la piccola danza e restò in equilibrio su un piede solo, prima di posarlo delicatamente a terra. Calò la testa di lato, aggrottando le sopracciglia interrogativo: – Aspetta. Ѐ qui anche Feliks?
− Bah, a quanto pare vale la regola che i coglioni debbano andare in coppia.
− Oooh. Sono così felice! Però smettila di insultarli, rischi di sembrare maleducata. Ti sta così antipatico il piccolo polacco? Al piccolo lituano lui piace, se ci gira insieme.
Si avvicinò prudentemente alla finestra. Il sorriso si smorzò leggermente.
− Probabile che Toris non sia tornato perché sentiva la mia mancanza, da? Che peccato. L’importante, però, è che sia qui.
Tornò a muovere i piedi ritmicamente, canticchiando una melodia a caso interrotta di tanto in tanto da un sorso dal bicchiere, mentre si apprestava a cercare qualcosa tra i cassetti e la scrivania davanti a lui.
Natalia si girò verso il fratello: − Sento che vuoi fare qualcosa, ma non so cosa.
Ivan sorrise, dolce come una zolletta di zucchero. Non sembrava cattivo quando sorrideva in quel modo, ma nessuno riusciva mai a capire cosa pensasse davvero dietro a quegli occhioni.
− Naaat ~ − disse Ivan – Potresti farmi un favore grande grande? Eh? Per piacere?
Gli occhi di Natalia s’illuminarono di speranza e affetto. Forse il fratellone l’aveva perdonata per la faccenda di aver aiutato Toris a trovare l’uscita.
Si allontanò momentaneamente dalla sua postazione, mentre Ivan recuperava un foglio di carta e una penna da un cassetto lì accanto; quella stanza era una specie di studiolo appartenente alla ragazza, contenente i suoi libri e le sue cose, ma il fratello ne aveva libero accesso. A dire la verità, quella condizione gli dava dei svantaggi: la maggior parte delle volte era lui stesso ad avere l’arduo dovere di ritrovare gli oggetti quando venivano smarriti lì dentro, anche se era stata la sorella a perderli.
Ivan scrisse qualcosa sul foglio, una sequenza di numeri che in un primo momento Natalia non riconobbe. Quando capì di cosa si trattava, la ragazza sentì il sangue salire alla testa: − Ma quello è il mio numero di cellulare!
Ivan chiuse un occhio e congiunse la mani come in preghiera, le labbra strette in un sorriso accattivante.
− Ti prego sorellina! Non mi dici sempre che vuoi aiutarmi?
− Ce-certo... però...
L’uomo appallottolò il foglio fino a ridurlo a una piccola massa tondeggiante e glielo porse, sempre il sorriso sulle labbra che però ora tremava leggermente. C’era il rischio che rifiutasse di assecondarlo.
− Mi è venuta un’idea... tu buttaglielo dalla finestra. Fidati di me.
Natalia raccolse la pallottola e la guardò un attimo, prima di tornare al fratello.
− Ma perché il mio numero, poi? Non credo di aver capito...
Ivan sospirò: − Ti sarai accorta che tu gli piaci.
− Sai che mi importa.
− A me importa. Ѐ per questo motivo che ho scritto il tuo numero: voglio che te ne occupi tu.
− ...io?
Natalia abbassò lo sguardo, iniziando finalmente a comprendere come stessero le cose. Prese la palla di carta in mano, giochicchiandoci un po’, respirando profondamente nel tentativo di fare chiarezza nella sua mente. Solitamente avrebbe acconsentito senza pensarci troppo, in nome del’amore che provava per suo fratello, ma stavolta era arrivato al limite. Che diavolo c’entrava lei in quella storia? Perché doveva essere utilizzata come una mera esca? Soprattutto, sarebbe riuscita a dire di no, nel caso?
Ivan era tornato al suo usuale sorriso calmo e melanconico.
− Voglio solo un amico tutto per me, nient’altro. – disse, bevendo l’ultimo sorso di vodka rimasto nel bicchiere. Che questo amico fosse simultaneamente un suo subordinato o che lo avesse davvero irritato scappando come una lepre impaurita, mentre l’altro voleva semplicemente fare quattro chiacchiere, beh, erano solo fatalità. Ivan ci avrebbe lavorato sopra a tempo debito, quando sarebbe tornato da lui.
Tutti tornano, quando sono piccoli e deboli.
Natalia non rispose. Tornò semplicemente alla finestra e l’aprì sporgendosi con il busto verso l’esterno, sotto lo sguardo interrogativo del fratellone. Senza dire una parola, lanciò la palla verso il marciapiede dove stavano i due ragazzi, ritirandosi in un attimo.
− Ecco fatto, contento ora? – chiese con un sibilo.
− Oh, sorellina, grazie mille! – Ivan era semplicemente commosso, – Forse non te lo dico abbastanza spesso, ma sappi che ti voglio bene. Ora più che mai.
Natalia a quelle parole dimenticò tutto il resto.
 
La pallina di carta cadde sulla strada, proprio sull’asfalto e rimbalzando verso la zona dove passavano le auto. Approfittando di un attimo di quiete del traffico, fu Feliks a raggiungerla per primo; un brivido lo attraversò quando un’auto sfrecciò proprio nella corsia opposta, schizzandogli minuscoli sassolini sulle caviglie. Si sistemò al sicuro sul marciapiede antistante all’edificio. La minima ricompensa che poteva avere in quel gesto altruistico era leggere cosa ci fosse scritto.
Toris lo raggiunse in un lampo, controllando prima che non ci fossero macchine che passassero. Gli strappò praticamente il foglio di mano. – Cos’è?
Feliks aggrottò le sopracciglia: − Un numero di cellulare, credo.
− Ommiodio. – Toris sentì le guance avvampare dall’emozione – Ѐ il suo!
Fece un salto esultante sull’asfalto, incapace di controllare la sua gioia. Feliks continuava a studiare il foglietto con gli occhi socchiusi: c’era qualcosa che suonava storto in quella faccenda, se lo sentiva. La nebbia serale aveva cominciato il suo cammino per la città. appannando il paesaggio circostante e rendendo i dettagli gradualmente più confusi.
− Ma sei totalmente sicuro che sia il suo?
− E di chi potrebbe essere, altrimenti?
Feliks soffiò tra i denti sperando che quella storia finisse presto, dondolante sui talloni. Lanciò un’occhiata distratta al quarto piano. Dalla finestra una testa bionda li stava osservando, ma scomparve subito all’interno. “Cioè, questa cosa puzza di bruciato. Che diavolo sta succedendo?” si chiese, ma venne interrotto prima di poter approfondire il quesito. Tempo dopo, questo pensiero sarebbe riaffiorato di nuovo nella sua mente, ma ora era troppo presto per capirne la gravità.
– Grazie per avermi accompagnato quaggiù. – disse Toris, piegando il foglietto e infilandoselo in tasca.  – Ora possiamo andare.
− Qua abbiamo finito, allora?
− Sì. Perdonami se ti ho fatto venire qui solo per farmi un piacere...
Feliks scosse la testa, le guance pallide divenute rosa: Toris aveva capito quanto la storia di Natalia fosse una scocciatura per lui, era già qualcosa di cui essere soddisfatti. – Seh, seh, vabbè! Piuttosto, che si fa adesso? Ho voglia di fare un giro in centro, fare quattro compere.
Toris rise. – Certo! Magari mi compro anch’io un ombrellino grazioso come ce l’avevi tu ieri, per le giornate di pioggia, che dici? Il mio non ce l’ho più.
Lo sguardo di Feliks s’illuminò. Iniziò a blaterare spedito come una macchinetta: − Oh, allora ti piaceva il mio ombrello? Lo dicevo io che era super carino, anche se la commessa mi ha guardato male, se vuoi ti porto in quel negozio, ci sono un sacco di belle cosine, tutte a una, due sterline, un affare, sì, sono tipo cianfrusaglie perlopiù ma sono tanto carine... – e Toris fu costretto a mettergli una mano davanti alla bocca per zittirlo, ottenendo in risposta uno sguardo scocciato dal biondino interrotto.
Senza accorgersene doveva aver premuto qualche strano bottone che da timido lo aveva reso logorroico. Quella capacità di sparare cinquanta parole in quindici secondi si doveva considerare un bene o un male? Anche se a malincuore, Toris propendeva decisamente per la seconda.
− Va bene, va bene! Buono! – esclamò – Ci andiamo, non ti preoccupare! Basta che poi mi lasci salutare un paio di miei amici, questione di cinque minuti e sono a posto. Ok? −.
Feliks allungò le labbra nel suo consueto ghigno. – Per me va bene. Solo, tipo... scusami se ho tanta fretta di andarmene, so che rimarresti qua tutto il giorno se potessi.
Toris sorrise di rimando. – Nessun problema.
− Non è questo il punto.
− Eh?
− Insomma... – Feliks si arricciò una ciocca bionda attorno alle dita, nervoso, − Questo posto mi mette totalmente a disagio. Dà una sensazione negativa, mi viene il mal di pancia solo a guardare quel maledetto edificio. – Ridacchiò, − Boh, probabilmente ho questa sensazione solo perché ci abita l’orco russo, lascia perdere.
Toris lo fissò per un attimo, senza dire una parola. Poi volse lo sguardo all’asfalto e sussurrò: − Tranquillo, non sei l’unico a pensarla così. Anche tu hai sentito la risata?
− Quale risata?
Toris agitò la mano. – Nulla, era soltanto una mia impressione. – disse. – Andiamocene e basta.
E si avviarono, con il sollievo silenzioso di lasciare quel luogo che li riempiva man mano Snow Hill si allontanava.
 
Ivan si ritirò con uno scatto dalla finestra. − Non mi ha visto. – ansimò. − Però ho rischiato di farmi scoprire.
− Fratellone?
− Allora stanno così le cose –. Il sorriso di Ivan era scomparso, il tono si era fatto mesto. – Dovevo immaginarmelo.
− Che cosa, accidenti?
− Feliks – bastò quel nome come risposta. Natalia strinse i pugni sui fianchi, ringhiando: – Feliks? Cos’ha combinato il piccolo demente?
− Sono amici. – mormorò Ivan. Natalia assunse un’aria perplessa, senza però rilassare la sua espressione: non capiva perché, tra tanti motivi, quello doveva essere quello che avrebbe rovinato il piano.
− Quei due escono insieme, sono diventati amici! – ripeté Ivan, tentando di mantenere la calma. La voce soffice si era abbassata, somigliando molto di più a quella di un uomo adulto. C’era qualcosa che non andava, in ciò.
− E... allora? Sei geloso?
− Sì... cioè, non è propriamente questo che intendo dire.– Ivan afferrò nuovamente il bicchiere vuoto, portandoselo alla bocca e notando all’ultimo, con disappunto, di ingurgitare solo aria. Si affrettò a riempirlo, senza rovesciare una sola goccia malgrado tremasse. L’acqua di fuoco gli attraversò la gola, riscaldandolo. Inspirò. L’affanno era passato.
Continuò: − Ho l’impressione che la responsabilità della fuga di ieri sia d’attribuirsi al giovane polacco.
Natalia spalancò gli occhi, scettica: − Ma il libri che aveva trovato in libreria? I tuoi discorsi urlati che sono riuscita a udire pure io, nell’altra stanza? Non erano stati quelli a spaventarlo come una bimbetta?
Ivan scosse il capo. Le labbra si erano deformate in un ghigno beffardo. − Toris non è una bimbetta. Ѐ abbastanza intelligente da capire che un giudice come me debba interessarsi anche ai campi più estremi della legalità, e abbastanza fiducioso nella bontà del prossimo da raccontarsi favolette pur di non accettare che questo non è il migliore dei mondi possibile. Ѐ stato Feliks a scuotere queste convinzioni.
Ivan prese un altro sorso di vodka, i denti tintinnarono contro il vetro. Natalia lanciò uno sguardo oltre la finestra. I due se n’erano andati.
− Feliks sembra un idiota, si comporta come tale, parla come tale ma... forse nasconde un buon intuito. Certo è che, se si è messo in testa che io sia una specie di cattivo Disney, non lo possa contraddire, tempo sprecato.
− Il problema è che adesso vuole convincere anche il nuovo arrivato della cosa. Ho capito bene?
− Esatto, sorellina. Credo stia proprio così la questione.
Natalia scrollò la testa, la boccuccia storta in una smorfia sprezzante. − Te l’ho detto e te lo ripeto finché non capisci: Toris deve essere proprio un farlocco per abboccare a queste cazzate.
Ivan annuì piano, impensierito. Il calore aveva invaso il suo corpo dall’interno, un caldo diverso da quello che sentiva nel suo studio. Chissà se anche Toris aveva sentito quello strano cambio di temperatura, l’altro giorno. Sarebbe rimasto sorpreso nel sapere che il riscaldamento in quella stanza fosse spento.
− Ha creduto subito a Kirkland. – rifletté – Senza fare una piega. Quando ho accennato a una stanza in cui non può accedere, lui ha sbarrato gli occhi. Ho visto giusto: Kirkland non gli permette di andare da qualche parte della casa, lui non sa perché ma accetta le condizioni perché sì. Perché è un bravo bambino che sa giocare bene. Meglio stare zitti e andare avanti, anche se quando posi la testa sul cuscino, la notte, ti possono assalire i dubbi. Perché è durante la notte che dalle stanze proibite si aprono silenziose le porte, un piccolo spiraglio, tanto per farci uscire i mostri...
Natalia rise a un pensiero così assurdo. Sembrava il trailer di un film horror.
− Beh, lui ha qualcosa da perdere. Sai quanto si sarà fatto il mazzo per trovare un posto decente dove stare qua a Londra, con un affitto che non lo dissangui? Senza contare che dovrà trovarsi al più presto un lavoro, dopo che ha rifiutato questo.
− Già... qualcosa da perdere...
− Comunque è davvero ridicolo vedere come preferisca stare agli ordini di uno praticamente sconosciuto, piuttosto che fare domande inopportune. Che pecorone!
− Ѐ manipolabile... Arthur è riuscito a guadagnarsi la sua completa fiducia – mormorò Ivan. D’un tratto gli occhi gli s’illuminarono di quella strana luce di chi è brillo e si convince di saper volare. – Nat? Ho avuto un’idea. Fufufufufufu! Oh, che bella, meravigliosa idea! Ti chiedo solo di farmi un secondo favore, niente di più.
− Eh? Aspetta, che succede? Di che idea stai parlando?
− Forse è meglio non ti riveli niente riguardo. Non offenderti, ma potresti essermi d’intralcio.
Ivan posò le grandi mani sulle guance di Natalia, imprigionandone il viso. Sorrideva. Il suo corpo era fin troppo caldo. La ragazza per un attimo pensò che quello che le stava davanti non fosse suo fratello, ma uno sconosciuto che ne aveva preso le sembianze.
− Avvisami ogni qualvolta qualcuno dovesse telefonarti o mandarti un messaggio, tanto ad avere il tuo numero al momento siamo solo io e lui, giusto? Faresti questa cosuccia per me, sì? Per favore? – sussurrò. La voce era più soffice che mai, procurò un brivido lungo la schiena della ragazza. Gli occhi erano socchiusi, la fissavano penetranti. Natalia sentì le gambe farsi più deboli, succube di quella strana malia che non riusciva a spiegarsi e che le intorpidiva i sensi; riuscì a malapena a mormorare un “Sì” in risposta.
Ivan sorrise, scoprendo i denti e allontanò il volto da quello di lei.  
− Grazie sorellina – disse, le iridi viola luccicanti e il tono tornato normale: la malia era scomparsa così rapidamente da dare l’impressione di non essere mai avvenuta.
Natalia aggrottò le sopracciglia, guardandolo dritto negli occhi. Un dubbio si era insinuato nella sua mente.
− Fratellone? Posso farti una domanda che non c’entra nulla con quello di cui abbiamo parlato finora?
− Dimmi.
− Secondo te, cosa c’è nella stanza misteriosa di Kirkland? Perché tu lo sai, vero?
Il sorriso di Ivan cambiò forma, divenendo un ghigno malinconico.
− Qualcosa che un ragazzino non dovrebbe vedere mai.
I pollici rotearono gentili sulle gote della ragazza: – Non preoccuparti, non c’è di che averne paura. Credo sia la stessa cosa che tiene caldo nel mio studio quando ti chiedo di non entrare. Solo molto peggio, temo. Non importa, i bambini che seguono le regole non corrono pericoli e tu... sei una brava bambina, vero?
Per la prima volta in vita sua, Natalia nel guardare l’amato fratello provò puro terrore.
 
*  *  *
 
Al posto degli hamburger, Alfred si stava accingendo a ingurgitare cucchiaiate di gelato. Sul tavolino era posta anche una brocca di caffè appena fatto, più un paio di bicchieri di carta in cui berlo. Toris ne aveva accettato solamente un goccio di caffè ma aveva gentilmente rifiutato il gelato, perciò ora l’altro si godeva tutto da solo il dolce refrigerio. Arthur tamburellava le dita sul tavolino, nervoso, le folte sopracciglia gettavano un’ombra su tutto il volto. Sembrava non ascoltasse neppure cos’avesse da dire il giovane, notava solo il suo volume incontrollato e altalenante, così inusuale. Tracciava ogni tratto del suo viso alla ricerca di particolari che potessero chiarire la sua situazione e da ciò che ne ricavava l’inquietudine aumentò. Borse sotto gli occhi. Volto pallido. Pupille ristrette. Gesti a scatti. Non poteva nascondere tutto con un sorriso, quel ragazzo.
Cosa diavolo era successo per ridurlo così?
− E, morale della favola, adesso ho il numero di Natalia! – esultò Toris alla fine del suo racconto. Alfred annuì compiaciuto, come se fosse merito suo quel successo; tentò di congratularsi, ma aveva la bocca piena e un rivolo di gelato gli scese dal labbro, macchiandogli il mento.
Arthur prese un tovagliolino e lo ripulì all’istante, emettendo uno sbuffo scocciato. Il suo gesto appariva meccanico come quello di un automa, non aveva nulla di affettuoso.
− Sei proprio un bambinone – mormorò, – Non ti hanno mai insegnato che non si parla mentre si mangia? Guarda che macello...
Alfred lo fulminò con lo sguardo, ma non gli rispose. − Potrei vedere un attimo quel numero, per favore? – tese invece la mano a Toris. Il ragazzo gli diede il foglietto e lui lo esaminò. La scrittura era sbrigativa, non certo aggraziata come ci si aspetterebbe da una ragazza. Era stata usata una comune penna a sfera. Anche la carta era semplice, strappata da un quaderno per gli appunti.
Si presumeva che l’avesse scritta davvero Natalia, magari di nascosto da Ivan. Che fosse la volta buona che quella ragazzina avesse messo veramente la testa a posto? Che si fosse presa una cotta come tutte quelle della sua età e non risultasse più così morbosamente attaccata al fratello? Sarebbe stato meraviglioso. Arthur lanciò anche lui un’occhiata svelta al numero, alzò un sopracciglio ma non commentò.
Nell’estrarre il foglietto dalla tasca, il sacchetto dei biscotti si era sfilato dalla sua postazione. Un improvviso movimento di Toris lo fece cadere a terra. – Oh!
Alfred si abbassò sotto il tavolo. – Cos’è? Ehi, biscotti! Ne posso avere uno? Non puoi negare del cibo a un poveraccio che sta morendo di fame, se hai un cuore!
Si stava già fiondando verso l’oggetto recuperato da terra e ora nelle mani dell’altro, sorvolando il tavolo con il busto e rovesciando tutto ciò che vi era posizionato sopra, intenzionato a arraffarlo a prescindere dalla sua risposta.
− Ehm... sì, certo, prenda pure... −. Toris gli porse il sacchetto prima che peggiorasse la situazione. A quel punto si pentiva di non averne portati di più, mentre in realtà alcuni di quei biscotti li aveva sbriciolati e lanciati ai piccioni nei dintorni del parco. Pensò di evitare quel particolare.
− Mi dispiace se si sono un po’ rovinati, colpa dell’umidità – spiegò, mentre Alfred ne addentava uno, soddisfatto.
− Ti sei portato da casa gli scones che ti ho preparato?
Toris si voltò verso Arthur. Lo stava fissando con i suoi pungenti occhi verdi, le palpebre socchiuse che lasciavano intravedere solo due tagli.
Toris si sentì intrappolato dal suo sguardo. Forse era solo un’illusione data da quelle luci artificiali, dai colori del locale troppo accesi che si scontravano con l’abbigliamento austero dell’uomo, dalle poche ore di sonno che gli annebbiavano la mente, eppure il ragazzo provò un disagio asfissiante.
− Sì, ne ho avanzati un po’ per mangiarli durante il pomeriggio. N-non le dispiace, vero? – domandò con voce sottile.
Arthur scosse la testa; l’espressione affilata non aveva ancora lasciato il suo volto. Toris non conosceva il motivo, ma aveva l’impressione che, qualunque cosa avesse detto in quel momento, la risposta sarebbe suonata sbagliata ai suoi orecchi. Possibile? Kirkland era così gentile. Non l’avrebbe mai redarguito per una cosa così sciocca come portarsi in giro per la città un sacchetto di biscotti della colazione. Quel giorno, però, sembrava diverso: e se si fosse offeso? Permaloso com’era, c’era la possibilità che lo tenesse in mente e gli tenesse rancore in silenzio.
Le parole di Braginski presero improvvisamente forma sopra Arthur, simili a un’invisibile spada di Damocle, più forti e taglienti che mai, come se fosse Ivan stesso a pronunciarle nascosto in un angolo del locale. Alcune erano più visibili, altre erano ricoperte di una patina rossa, indecifrabili davanti agli occhi della memoria. Kirkland sembrava cosciente di quel peso incombente sopra la sua testa, come se non stesse aspettando altro che Toris lo lasciasse cadere, uccidendolo, rivelando un passato che non andava neppure nominato. Polvere sotto il tappeto e scheletri nascosti nel fondo dell’armadio, per sempre. Stai zitto, fai il bravo bambino, così non succederà nulla e vivrai felice nell’incoscienza i tuoi prossimi mesi sotto il cielo inglese. Ciò che succede nell’oscurità non è di tua competenza.
Toris strizzò gli occhi e quando li riaprì la spada fatta di parole fantasma si era dissolta, così come la stretta che provava al cuore. Lasciò andare un muto sospiro.
Oh, ma perché doveva farsi sempre così tante paranoie per ogni minima cosa? Per dei stupidi biscotti, poi!
(un piccolo amuleto per ricordare che Kirkland fosse una brava persona)
Come un valoroso cavaliere, il giovane scelse di tentare lo stesso la sua impresa: inconsciamente, decise utilizzare il suo “amuleto” come scudo contro gli spettri del passato. Guardò Arthur dritto negli occhi, sostenendo quel contatto con forza.
− Sa, Mr Kirkland... questi scones sono anche più buoni del solito. – disse, utilizzando con cura le parole e la tonalità con cui pronunciarle. Non suonava affatto come una bugia. E perché avrebbe dovuto? Stava dicendo la verità: di solito ogni cosa che gli preparava era immangiabile, ma in quel caso aveva gradito il piccolo dono che gli aveva offerto quella mattina. Anche il sapore era apparso addirittura piacevole.
Arthur sbarrò gli occhi, come se quelle parole fossero state pronunciate in una lingua straniera. – Ti sono piaciuti? – mormorò stupefatto.
− Oh, eccome! Ecco... – Toris cercò i termini più adatti, − ... si sente che ci ha messo cura e impegno. Anche per questo sono “speciali”, no?
Sì, era la pura verità quella che stava uscendo dalle sue labbra, facendogliele curvare nel suo consueto dolcissimo sorriso, donandogli il coraggio di guardare il drago nelle sue pupille di piombo.
E allora accadde: il volto di Arthur si trasformò. Una luce particolare tolse ogni oscurità dai suoi occhi, illuminandolo per intero. Le labbra tremarono leggermente.
− Esatto, sono speciali perché li ho fatti apposta per te. Sono contento che li apprezzi, sei un ragazzo riconoscente degli sforzi altrui. – borbottò, cercando di mantenere un tono austero, ma senza riuscire a nascondere una certa emozione nella voce.
Gli erano piaciuti!
Toris mantenne la sua espressione serena, mentre Alfred storceva la bocca disgustato: i biscotti erano bruciacchiati sul fondo e avevano troppo poco zucchero per il suo palato guastato da anni di merendine industriali. Come si poteva affermare che fossero buoni? Bah!
Toris notò la sua smorfia e, con un gesto fulmineo, gli fece segno di star zitto e non dire nulla di negativo. Alfred mimò con le labbra “Perché?” e il ragazzo sbuffò, mimando a sua volta “Non farlo e basta”. Fortunatamente Alfred restò zitto e Arthur non notò nulla, rimanendo con quel sorriso orgoglioso sul viso come se gli si fosse appena consegnato il premio del secolo. La voce maligna era scomparsa dalla sua testa, così come i pensieri violenti. Si sentiva bene come non gli succedeva da molto, molto tempo.
E tutto grazie a un complimento.
A un certo punto il ragazzo guardò l’orologio e si batté il palmo della mano sulla fronte.
− Ragazzi, sono spiacente ma non posso dilungarmi troppo: Feliks mi sta aspettando. Mr Jones, potrei comprare qualche dolciume qui, nel caso volessi condividerne e avessi finito i biscotti? Vedo che ha una buona scorta là dietro.
− Certo! Ehi, come mai il tuo amichetto non è entrato con te? – chiese Alfred mentre si alzava e raccoglieva qualche barretta di cioccolato dallo scaffale degli snack. Toris ridacchiò imbarazzato, passandosi una mano tra i capelli castani. Quando aveva proposto a Feliks di accompagnarlo all’interno, per poco non aveva piantato una crisi isterica e allora ci aveva rinunciato.
− Lasci stare, è un campione di timidezza. Non si fida assolutamente degli estranei... anche se forse qualche eccezione la potrebbe fare anche lui.
− E allora portalo la prossima volta, ci farebbe comodo un cliente in più. Siamo un fast-food, accidenti, non la tana del lupo mannaro! Quando lo capirete, malfidenti?
Alfred agitò le mani in aria, esasperando la sua domanda. Toris rise: − Ahaha, d’accordo, farò il possibile. Quanto le devo?
Mentre i due chiacchieravano, Arthur ne approfittò per chiudere gli occhi; la testa cedette sotto al suo stesso peso, appoggiata sulle braccia incrociate sul tavolo e facendolo sembrare addormentato. Invisibile al resto del mondo, il coniglietto verde gli svolazzò davanti al viso, sedendosi sulle zampine proprio di fronte a lui. Con il musetto gli scosse la frangia caduta sugli occhi, scoprendoglieli. Alle spalle dell’inglese, un vecchio dalla lunga barba l’osservava angosciato. – Cos’è successo? – chiese l’anziana creatura, mentre un gruppetto di fate volarono in cerchio sopra di loro.
Arthur alzò leggermente lo sguardo, scrutando la combriccola di esseri fantastici che andava formandosi intorno a lui. S’accigliò quando notò che erano pressoché tutti ansiosi come il vecchio.
− Perché quelle facce da funerale, ragazzi? Non so voi, ma qua la situazione è sorprendentemente calma.− bisbigliò.
− Pensavamo a quello che è accaduto oggi, per questo siamo preoccupati! Temevamo il peggio... Che potessi cedere ai tuoi pensieri e combinare qualche atto sconsiderato. Non sei ancora pronto per attuare il patto. – borbottò il fantasma di un pirata, grattandosi una vecchia cicatrice sul volto con l’uncino.
Oh. Allora era quello il problema. Quei discorsi bruciavano come sale nella piaga ancora aperta.
− Tranquilli, ragazzi, è tutto a posto. Voltiamo pagina e non pensiamoci più, ok?
− Lo sappiamo che quello avrebbe preferito altro, ma va meglio così. Non sei d’accordo anche tu?– dichiarò il vecchio barbuto, ignorandolo.
Stavolta dalle labbra di Arthur uscì un impercettibile mugugno irritato. – Possiamo parlare d’altro che non sia Francis, quello, oppure i miei errori? Ѐ da un po’ che mi sembrate un disco rotto. Lasciatemi in pace! Da quando ho deciso di tornare a Londra vi siete messi a giudicare il mio operato e i miei pensieri...
Il vecchio, sordo alla richiesta, continuò il suo discorso: − Sembravi posseduto da qualcosa di estraneo, oggi, mentre facevate zig zag tra i ristoranti, non negarlo! C’era odio nei tuoi occhi. Un mondo da incubo dove regnava la violenza e il terrore! –
Parlando si agitò, rischiando di coinvolgere il coniglio alato nei suoi movimenti bruschi. Una fatina dalle ali purpuree s’intromise: –  Arthur, ritorna in te! Cosa ti sta succedendo? Non ti riconosciamo più! Vogliamo tornare a giocare con te, non vederti ridotto così!
Arthur strizzò gli occhi, mentre la voce piagnucolosa dell’invisibile amica gli penetrava nel cervello invocando il vecchio sé. Sospirò. Lo avevano interrotto nel suo discorso. – Potete stare tranquilli. I pensieri che mi attanagliano sono opera sua, però sono sicuro di poterli controllare. Lui è potente, ma non abbastanza da soggiogarmi.
Alzò lo sguardo sugli amici che ora lo circondavano. C’era anche il suo amato unicorno, posizionato in modo che non intralciasse il percorso tra seggiole e tavoli, che sbatteva spazientito lo zoccolo destro a terra, sbuffando. Sorrise, intenerito.
– Vi ringrazio per il vostro sostegno, per tutto l’affetto che mi date. So quanto vi manca il vecchio Artie dal cuore puro e dalle buone intenzioni, perciò voglio darvi una bella notizia.
− Cosa, Artie, cosa? – domandò una seconda fatina, chiamata Brownie per il colore bronzeo del vestitino, agitando eccitata le minuscole ali. Arthur allargò il proprio sorriso. Il suo cuore era incredibilmente sereno, ogni traccia di violenza era sciolta come neve al sole, lasciando il posto a una forza benevola e vitale. Uno stato di grazia dalla durata imprevedibile.
− Quaggiù, non so per quale motivo, quello ha molto meno potere. Chissà, forse perché è lo stesso luogo dove è avvenuto lo scontro con Francis? Comunque, qui non c’è pericolo.
− Vuoi dire che...?
Il sorriso di Arthur si allargò ulteriormente.
− Ho intenzione di fargliela vedere a Francis...
Mormorio di disapprovazione.
− ... ma senza l’aiuto di quello. Posso farcela anche da solo, con le mie sole forze. Insomma, ho deciso che romperò il patto!
Il gruppo invisibile scoppiò in un grido di esultanza. Uno gnomo domandò, appena ebbe finito di battere le mani: − Ѐ per via dell’energia positiva accumulata grazie ai tuoi successi, vero?
− Probabile! Una cosa è sicura: stavolta ce la posso fare!
− Sì! Ce la puoi fare! Stavolta farai un figurone, ne siamo sicuri, e senza l’aiuto di quello!
L’entusiasmo era contagioso, non fosse che il fantasma di prima non l’interruppe, scettico.
− Siamo sicuri che quello accetterà di buon grado la rottura del patto? Insomma, sappiamo che è un tipo difficile con cui contrattare.
− Difficile o meno, sono io il magista, io che decido.
Arthur batté il pugno sul tavolino, senza accorgersi che dava un filino nell’occhio tra le persone “reali”. Alfred soprattutto lo stava osservando confuso, mentre Toris lo ignorava garbatamente, ormai abituato a quelle piccole stranezze come l’abitudine al parlare da solo di Kirkland.
Arthur uscì dal suo mondo fantastico piuttosto bruscamente, quando una voce lo raggiunse al di fuori di esso.
− Mr Kirkland? Io vado, ci vediamo a casa! Ah, e grazie ancora per i biscotti!
Toris era ormai sull’uscio con un sacchetto in mano e lo stava salutando, cordiale come sempre. Provò una fitta al cuore: se la meritava tutta quella gentilezza? Toris era puro, troppo puro per stare con lui. Sentì che aveva fatto un terribile errore a coinvolgerlo in una faccenda così grande, ma una parte di lui ribatté che sarebbe andato tutto per il meglio. Sì, se il suo piano fosse andato a buon fine, neppure Toris avrebbe sofferto poi molto. Forse un pochino. Il minimo inevitabile. Bastava che non ci fossero imprevisti e sarebbe arrivato anche il lieto fine.
Giusto? Giusto.
Alfred nel frattempo era tornato al tavolo e si era seduto davanti ad Arthur nella stessa posa, mento appoggiato sulle braccia piegate. Lo stava fissando.
− Che succede, amico? – domandò, addentando uno snack al cocco.
− Nulla.
− Sei arrabbiato con me? Ce l’hai perché non ti ho fatto andare al pub? L’ho fatto per il tuo bene, sai?
− No.
− Magari perché ti ho dato quello schiaffetto per farti uscire dalla catalessi?
Arthur corrugò la fronte al ricordo del colpo infertogli. – No, anche se dovresti controllare quella forza bruta che ti ritrovi o cercare metodi meno violenti di fare le cose. – borbottò. Alfred scoppiò a ridere. La sua risata suonava meno fastidiosa del solito.
− Credi forse che avrei sprecato la mia bibita per buttartela in faccia? O che avrei utilizzato la tua preziosa birra? Almeno avessimo avuto dell’acqua! – esclamò. Arthur non poté che annuire in silenzio, con sua grande soddisfazione.
− Ѐ stata una giornata molto buona per noi, sei d’accordo? Non c’è nulla di cui preoccuparsi! Ѐ tuuuuutto sotto controllo! – Alfred tenne il conto con le dita, − Francis verrà a mangiare qui, non so quando ma lo farà e tu potrai, per modo di dire s’intende, fargli il culo. Toris non è mentalmente traumatizzato da Ivan, per cui credo che tutte le tue paure siano infondate, anzi, come vedi forse si è guadagnato le grazie di Natalia. Contento lui, contenti tutti, visto che il cellulare non mi sembrava in grandissime condizioni e non so a cosa gli possa servire il numero, ma è un problema suo. La sfida con l’italiano... beh, poteva finire peggio. E abbiamo guadagnato ben 5.45£! Non è fantastico? Su con la vita!
Arthur accennò a un sorriso. – I miei scones sono piaciuti. – disse.
Alfred non capiva cosa c’entrassero adesso gli scones con il suo discorso: − A quanto pare. Ma anche per le altre cose, è andato tutto be-
− Vuol dire che ce la posso fare, non è vero? Rispondimi, da bravo socio. Ce la posso fare a riconquistare la dignità di cuoco?
Alfred rilassò il volto in un’espressione fiduciosa. Gli mise una mano sulla spalla, incoraggiante. – Certo – lo rassicurò – te lo dico da socio e come amico.
Arthur storse la bocca in una smorfia e si tolse, delicato ma fermo, la mano di dosso.
−Amico? Pfff – lasciò andare un risolino amaro. − Lascia stare la parola “amico” – disse, − Tutti quelli che si definiscono così dopo fanno una brutta fine.
− Cosa intendi con brutta fine?
− Che non sono destinati a durare: gli amici accadono e come tutto svaniscono. Non tentare il destino, te ne prego. Ѐ più bastardo di quanto tu sia convinto non sia.
Alfred portò in fuori il labbro inferiore, mettendo il broncio. – Ma io considero tutti quanti miei amici! Perché escludere te, dal momento che dovremo lavorare fianco a fianco?
− Sai come dice il detto, Al? “Amici di tutti, amici di nessuno”. Includere tra i tuoi amici cani e porci è paragonabile all’essere da soli, perché non sai di chi fidarti. Scommetto che consideri tuo amico anche Braginski... a proposito! – Arthur si ricordò improvvisamente di una cosa. − Il numero della ragazzina è rimasto qua, Toris se l’è dimenticato.−
Indicò il foglietto accartocciato abbandonato su un angolo del tavolo. – Tu mi capisci se ho qualche dubbio riguardo a questa cosa? Conosci la sorella di Braginski, giusto? Ѐ normale che compia un’azione simile oppure...?
Alfred si accarezzò il mento, riflettendo sulle occasioni con il quale si era ritrovato suo malgrado da solo con Natalia.  – Normale... no, assolutamente. Ѐ una ragazza dal carattere sociopatico come il fratello, se non di più. Però può darsi che sia cambiata, no? Magari... magari si è finalmente innamorata.
− Al, non dire cazzate. Non ci credi minimamente neppure tu.
L’americano scosse la testa, desolato. – Cosa dovrei credere, allora?
− Io penso che questo in realtà sia il numero di Ivan, e che stia tendendo una trappola a Toris.
Alfred guardò Arthur dritto negli occhi, una lama di luce passò sopra gli occhiali. – Dici sul serio? Perché dovrebbe?
− Che ne so? Ѐ lui il pazzo, non io!
Alfred ridacchiò a questa affermazione. Arthur gli lanciò un’occhiata di fuoco, prima di continuare, serio: − Però mi è già capitato che Ivan mi chiamasse e non mi pare utilizzasse questo numero. Tu ne sai qualcosa?
− Anch’io sono perplesso a riguardo. Beh, in ogni caso c’è solo un modo per scoprirlo...
Le labbra del ragazzo si piegarono in un ghigno. Raccolse il foglietto e si avviò nel retro del balcone. Vicino alla cassa era posizionato un cordless nero.
− E ora, ladies and gentlemen, è ora che l’eroe entri in azione per smascherare il piano malvagio! Rullo di tamburi, prego! – annunciò a un pubblico immaginario e, prima che l’amico lo potesse fermare, aveva già digitato sulla tastiera il numero. Portò la cornetta all’orecchio, l’indice posato sulle labbra per intimare il silenzio. Dopo un’intensa attesa durata una ventina di secondi, in cui Alfred si tormentò il labbro inferiore coi denti fino a fargli stillare una goccia di sangue, qualcuno rispose. Il volto del ragazzo s’illuminò.
− Prooonto? – strillò. – Qui è l’Eagle, il fast food più stelle a strisce della city! Il mio nome è Alfred F. Jones, al vostro servizio! Con chi ho il piacere di parlare?
Restò per un paio di secondi zitto, annuendo con la testa mentre alzava il pollice rivolto al socio. − Lo so, è una domanda bizzarra, ma sa... questa voce, però, mi è familiare. Sei tu, Nat? Oh, lo sapevo! Cioè, no, non ne avevo idea... Come? Questo è il tuo numero di cellulare, dici? Ah, sì? Uhm...
Con un gesto della mano chiese aiuto ad Arthur, il quale si schiaffeggiò da solo la fronte. Che tipo, prendeva iniziative d’impulso e poi non riusciva a gestirle, da bravo incosciente! Ma Alfred fu veloce a recuperare il controllo.
– Un cliente mi ha dato questo recapito, ma forse ho sbagliato a scrivere una o due cifre... volevo informarmi quando veniva a prendersi la sua cena, ahahaha... come? Sono solo le cinque? Oh, si vede che lui aveva fame in anticipo! Ahahahaha!
Alfred sudava, gli occhiali gli si erano appannati e scivolati sul naso, la sua risata era più falsa di una moneta di cartone. In un modo o nell’altro, però, riusciva a trovare delle scuse pronte per sorvolare le dinamiche di quella telefonata sospetta: Arthur ne rimase impressionato. Forse sarebbe riuscito a scamparla.
− Beh, come stai, cara? E tuo fratello? No grazie, non passarmelo, era tanto per sapere. Oh, scusa, è appena entrato un cliente, mi dispiace ma devo riattaccare! Ci sentiamo!
Premette il pulsante della cornetta abbassata, cliccando più volte per essere assolutamente sicuro di aver riattaccato. Si accasciò sul bancone e lasciò andare un lungo respiro, finalmente rilassato.
− Allora? Era lei? – volle sapere Arthur. Alfred si tolse il sudore dalla fronte con la manica sinistra della maglia, mentre posava la cornetta sul bancone a faccia in giù.
− No, era Wonderwoman. Ma non mi hai sentito?
− Scemo, non avevi messo il vivavoce! Comunque... a quanto pare ci siamo dati pensiero per nulla.
Alfred raddrizzò la schiena e allungò le braccia verso il soffitto, emettendo un piccolo schiocco. – Esatto. Quindi ora possiamo metterci comodi e aspettare invano un cliente, come fa ormai ogni giorno il sottoscritto...
Sospirò. – Peccato, però, un filino ci speravo... – mormorò – almeno avrei avuto l’occasione di combattere il male... invece di star qui a far la polvere...
Appoggiò i gomiti al bancone, girovagando lo sguardo senza meta tra i logo attaccati in giro, senza emettere suono. Sospirò nuovamente, quindi non aggiunse altro.
Il silenzio, insolito ospite, piombò nel salone avvolgendoli.
(the quiet scares me cause it screams the truth)
Arthur strinse le dita attorno allo sgabellino della seggiola su cui era seduto, abbastanza forte da far delineare i tendini sui polsi. Le labbra gli si erano ridotte a una linea sottile, gli angoli rivolti verso il basso.
− Quando viene qui Francis? – domandò d’un tratto con voce gracchiante.
− Francis? – Alfred si scosse dal suo torpore e lo guardò confuso. L’ombra aveva ricominciato a scurire il volto di Arthur.
− Aveva detto prima della fine della settimana. Perché non è ancora qui? – sibilò.
− Ma la settimana non è finita. Siamo soltanto a giovedì.
Arthur si alzò bruscamente dal suo posto e cominciò a girovagare come un lupo in gabbia in giro tra i tavoli. Alfred l’osservò, sentendo un sottile senso di ansia crescere nel petto.
Che gli era preso tutto d’un tratto? Odiava quando l’altro si comportava così: era come se sentisse che qualcosa sarebbe potuto sfuggire al suo controllo da un momento all’altro. Gli eroi, invece, hanno potere su ogni situazione. Gli unici momenti in cui allentano la presa, BAM!, arriva il cattivo e se ne approfitta. Alfred non voleva che succedesse, voleva mantenere la giustizia. In quel caso, giustizia equivaleva a un Arthur sano di mente la cui rabbia repressa si fosse potuta incanalare in attività produttive, una specie di mostro al suo servizio. I mostri se vengono lasciati liberi combinano guai. Bisogna addomesticarli, renderli docili.
Per poi lanciarli all’attacco nel momento del bisogno.
− Calmati, Arthur, – disse dolcemente, come se stesse parlando a un cavallo imbizzarrito, − non stare in pena, perché tanta fretta? Pensa a cose belle. Pensa agli scones, pensa alla giornata di sole. Aspetta.
Arthur lo guardò insofferente, ma almeno rallentò il passo. Alfred gli chiese mentalmente perdono, sapeva anche lui cosa significasse la tortura dell’attesa. Continuò: − Calmati e rifletti. Il tempo a disposizione servirà a ottimizzare le nostre condizioni, è un vantaggio non da poco!
Arthur gli voltò le spalle; evidentemente di tempo ne aveva già avuto abbastanza per “ottimizzarsi”. Alfred sospirò e cambiò argomento: − Pensavo di cambiare un po’ il locale, renderlo un po’ più moderno, eh? Metterci una radio che diffonda musica pop, sistemare l’insegna... magari tinteggiare le pareti, per dare luce alla sala. Lo lascio scegliere a te il colore, così la smetti di scassare perché non ti piace come arredo. Pensi possa servire?
Nessuna risposta. La cosa stava cominciando a essere fastidiosa.
− Oh, ti ho detto di aspettare. Buona parte del divertimento sta nel progettare il piano! T’immagini la faccia di Francis quando assaggerà uno dei tuoi piatti e sarà costretto a complimentarsi con te? – bugie, bugie, sarebbe finito all’inferno per le cazzate che stava sparando, ma le raccontava a fin di bene, quindi era nel giusto. – Guarda, un attimo è già passato e un altro ancora, e ancora. Non è così difficile aspettare.
Sorrisone americano a 32 denti.
Niente, a dispetto dei suoi sforzi Arthur era sempre più ombroso. Che strazio. Alfred si portò le mani alla testa, lasciando andare un verso di sconforto: − Aaaaah, non sai fare altro che rimuginare su torti subiti Dio solo sa quanti secoli fa.
− Un anno fa.
− Per uno che vive nel presente, questa è già acqua passata.
Incrociò le braccia sul petto, sul volto il tipico broncio infantile. Non poteva capire, un ragazzino simile, cosa stesse provando in quel momento Arthur.
Aspettare sì, ma cos’avrebbe fatto una volta che Francis fosse tornato in quel luogo? Sarebbe rimasto congelato dalle troppe emozioni che avrebbero pervaso la sua mente, come era successo quel giorno? Sarebbe esploso? Avrebbe vanificato tutti quei mesi passati a progettare la sua vendetta? Tanto lo sapeva che, anche nei migliori dei casi, il loro rapporto non sarebbe tornato com’era prima dell’aggressione.
E se avesse domandato aiuto a quello, per ristabilire le cose?
Come una carezza, il sublime richiamo della bontà fece capolino nel suo cuore martoriato dai dubbi.
Gli tornò in mente Toris, gli scones che gli aveva preparato con cura. Il suo volto innocente. No, quello non poteva essere la soluzione, non se voleva mantenere al sicuro quel povero giovane colpevole solo di essersi fidato della persona sbagliata. Avrebbe riguadagnato la posizione con le sue sole forze. Ce la poteva fare.
Arthur si avviò verso la cucina. L’ombra si era dissolta in un tiepido sorriso.
− Che fai? – domandò Alfred, allarmato dal suo ennesimo improvviso cambio d’umore.
− Sono le cinque, vado a prepararmi un tè. – Arthur si girò verso di lui, ruotando il polso con un che di snob. − Sai, i gentleman bevono il tè ogni giorno alla stessa ora, dovresti farlo anche tu. Chissà che non impari un po’ di maniere.
L’altro scosse la testa. – No, grazie. Preferisco il caffè. – replicò con un sorrisetto di sfida.
Arthur storse la bocca; ti pareva che a un incivile simile non piacesse il caffè.
− Ѐ perché sei un moccioso senza esperienza. Quando sarai finalmente adulto, capirai il piacere di una buona tazza di tè.
− Nei tuoi sogni, vecchiaccio. Sparisci, prima che non mi prendano i cinque minuti e ti americanizzi contro la tua volontà.
Arthur sbuffò una risatina sarcastica e fece per dileguarsi in cucina, quando un rumore improvviso li fece voltare entrambi.
Il campanello aveva trillato, la porta dell’ingresso si era aperta. Due individui emersero dalla foschia dell’esterno, rivelando le loro fattezze sotto le lampadine al neon.
− Ma guarda chi c’è. – commentò Alfred, mentre la porta si chiudeva e la coppia fu dentro al locale. – Benvenuti! Posso fare qualcosa per voi?
Arthur non disse nulla, ma un brivido gli attraversò comunque la spina dorsale nel vedere i “clienti”.
Buonasera, signori – salutò Feliciano, facendo una piccola riverenza alla loro direzione. Peter al suo fianco rimase zitto. Feliciano gli diede una piccola spinta sulla spalla.
– Avanti – lo incitò – non fare il maleducato, saluta.
− Ciao, bastardi. – mugugnò il ragazzino. Feliciano raggelò, domandandosi nel fondo del suo cuore perché i bambini dovessero essere così privi di peli sulla lingua. O forse era lui che era incapace di tenerlo a bada.
− Perdonatelo – si scusò – Di solito è più educato, ma oggi è di malumore. Sarà il tempo...
Si voltò verso Peter, lanciandogli quella che doveva sembrare un’occhiata severa.
− Ti pare il caso di essere così insolente? – bisbigliò.
− Non ci posso fare niente, mi stanno antipatici!
− Cielo, mi sembra di essermi portato appresso Lovino...
Feliciano tornò a guardare i titolari. C’erano il cuoco che lo aveva sfidato e colui che si presumeva essere suo socio, lo fissavano come se avesse interrotto qualcosa con il suo arrivo improvviso.
− Buona sera, Mr Vargas – salutò con educato distacco Arthur.
− Salve, Mr Kirkland – rispose con un sorriso malfermo Feliciano. Tremava nel suo cappotto scuro, sebbene non facesse poi così freddo; la voce era sottile e fragile come un foglio di carta. Se ne rese conto anche lui, perché cercò di darsi un tono schiarendosi la gola.
Alfred si fece avanti, baldanzoso. – Ehi – fece – qual buon vento vi porta qui? Forse il delizioso profumo dei miei hamburger?
Con un rapido gesto spinse Feliciano e lo fece sedere su una seggiola, senza dargli il tempo di rispondere.
– La cucina al momento non è in funzione, ma se avete un attimo di pazienza vi posso fare un paio di panini al volo!
Alfred strizzò l’occhio e indicò le foto del menù attaccate al muro, affascinanti macrobombe di colesterolo: – Scegliete quello che preferite! Abbiamo inoltre una vasta scelta di bibite e nel caso disponiamo anche di snack di ogni tipo! Yahooo!
Feliciano tentò di protestare: − Beh, io sarei venuto per...
– ... variare, vero? Fa male mangiare solo pizza e pasta tutti i giorni! Ci vuole carne rossa, specialmente hamburger, Eagle naturalmente! Non si cresce grandi e forti come il sottoscritto con i soli carboidrati! Si guardi, è pelle e ossa!
Alfred indicò accusatorio la pancia più piatta dell’italiano, come l’ essere magro fosse stata una colpa. Arthur lo scansò con un gesto brusco, allontanandolo da Feliciano e dal suo sguardo disorientato.
− Che cazzo. Stai. Facendo. – ringhiò appena furono a distanza di sicurezza. Alfred alzò le spalle.
− Perché, c’è qualcosa che non va? – gli rispose candidamente.
− Devi proprio essere così te stesso a ogni ora del giorno? Non potresti prenderti una pausa e comportarti come un essere civile, almeno quando c’è un cliente?
− Senti, Mr Gentleman, non credo sia tu a poter venire a insegnare le buone maniere a me, dal momento che ogni due parole tiri fuori una frecciata velenosa! Almeno io cerco di mettere a suo agio la gente!
− Come no, si vede! Il ragazzino almeno ha avuto il buon senso di scappare dalle tue grinfie! – indicò Peter, che era andato dall’altra parte del salone a osservare i poster. Continuò bisbigliando, concitato: – Hai intenzione di farli fuggire a gambe levate? Che poi ho paura non siano venuti qui per mangiare un boccone...
Un piccolo colpo di tosse interruppe il battibecco sul nascere. I due litiganti si riavvicinarono a Feliciano, sorridenti come se non fosse successo nulla.
− Mi dispiace, Mr Jones. – disse Feliciano, ricambiando educatamente il sorriso, il capo chino, – Ma non sono qui per mangiare, tanto più non è neppure ora di cena e io di solito ceno presto. Sono qui perché devo parlare con Mr Kirkland, posso?
Arthur e Alfred rabbrividirono simultaneamente: la sensazione che la visita dell’italiano fosse foriera di cattive notizie era ormai certa. Alfred lanciò un’occhiataccia di sottecchi al socio, mentre l’altro si preparava mentalmente alla batosta.
− Certamente. Stavo andando di là a preparare del tè, se ha un po’ di pazienza potremmo parlare davanti a una tazza. – replicò Arthur, nascondendo l’ansia con il suo consueto tono pacato.
Feliciano annuì, sereno. Non sembrava in vena di attaccar briga, questo allentava la tensione, ma Alfred era lo stesso nervoso; aveva visto troppe scene del genere nei film, non se la beveva. Forse quella tranquillità era solo di facciata. E se magari nel momento in cui avessero abbassato la guardia avesse preteso, che so, i soldi per riparare il baracchino semidistrutto? Era possibile, se non certo. Dannazione, era tutta colpa di Arthur!
Cosa avrebbero potuto fare per guadagnare tempo? Di solito, a mali estremi corrispondono rimedi estremi, improvvisati e geniali. Beh, più o meno geniali.
Per fortuna c’era l’eroe a salvare la situazione! THE HERO!
− Mr Vargas, anch’io volevo farle una domanda, se non le dispiace. Riguarda il pranzo che ci ha servito oggi. – disse, assumendo improvvisamente uno sguardo serio. Feliciano inclinò la testa, sinceramente preoccupato: – O-oh, capisco. Sì? Qualcosa non andava?
− Ma è vero che ha utilizzato il co-protagonista del film “Alla ricerca di Dory” come baccalà mantecato?
− EEEEEHHH?!
Feliciano sbarrò gli occhi a quella domanda assurda, mentre il suono della mano di Arthur che sbatteva contro la sua stessa faccia risuonò per il salone. Alfred si avvicinò nuovamente a Feliciano, puntandogli un indice contro con fare accusatorio.
− Lo ammetta: lei ha servito un pesce star del cinema per i suoi piatti! Non c’è altra spiegazione per cui potessero costare così tanto!
− Ma... ma io...
− Risponda! E non è forse vero che ha sottoposto delle pannocchie a una selezione accurata per fare... come si chiama... la polenta? Eh? Secondo quali requisiti? La bellezza della pannocchia? Ma lo sa che migliaia di pannocchie vanno in terapia ogni anno perché hanno complessi d’inferiorità? E si riducono a fare pop-corn, invece ad ambire a qualcosa di più elevato? Non si sente in colpa per questo?
Mentre Arthur stava per esplodere dall’imbarazzo, mormorando disperato “Ma cosa vai berciando, razza d’imbecille? Non avrai mica creduto alla mia stupida pantomima che ti ho fatto a tavola vero? Ti stavo prendendo in giro!”, Feliciano sembrò invece trovare un filo logico in quel discorso assolutamente nonsense.
Infatti si offese.
− Come si permette! – strillò a sua volta – Ѐ ovvio che io scelga prodotti di qualità per i miei piatti, è il mio dovere! Costi quel che costi! Però c’è qualcosa che non quadra. Il baccalà co-protagonista de “Alla ricerca di Dory”? Ma siamo fuori? –
“Ecco, l’ha capito persino lui quanto sia insensata questa faccenda” pensò Arthur, guardandoli con un occhio solo scostando appena la mano dal viso.
− Il film si chiama “Alla ricerca di Nemo”! Non Dory! Dory è la pesciolina che aiuta a cercare Nemo! – puntualizzò Feliciano, serissimo.
La mano ricoprì nuovamente il volto dell’inglese, il quale si domandò inoltre quale fosse la maniera più veloce per togliersi da quel mondo di pazzi.
− No, amico, quello è il primo film! Adesso c’è il sequel, “Alla ricerca di Dory” appunto. – lo corresse Alfred. Feliciano inarcò le sopracciglia e spalancò la bocca in una forma ad “O”.
− Ma saranno passati dieci anni dal primo cartone... dopo tutto questo tempo?
− Sempre. – rispose in automatico Arthur, arrossendo come un semaforo quando i due si voltarono verso di lui.
− Ehi, non badate a me! Tornate al vostro film Pixar. – li rimbrottò aspramente. Feliciano allora si girò verso Peter, che stava ascoltando in silenzio la discussione.
– Tu lo sapevi? – gli domandò.
− Sì, l’ho sentito su internet, ma è una cosa talmente... infantile. – rispose il ragazzino, grattandosi imbarazzato un orecchio – E poi, per la precisione, il co-protagonista non è un merluzzo, quindi è impossibile che tu lo abbia servito come baccalà.
− Che sollievo! Allora non c’è possibilità che lo abbia cucinato. Mi sarei sentito in colpa al sapere di aver messo in pentola un personaggio dei cartoni animati.
− A dire la verità, è un polpo.
− Oh. Come non detto, allora l’ho sicuramente cucinato. Che dici, andiamo a vedercelo al cinema quando esce? O magari vai a vedertelo con i tuoi, non so se torno in tempo dall’Italia...
Approfittando della sua distrazione, Alfred strizzò l’occhio ad Arthur, sorridendo soddisfatto. Il piano di sviare l’italiano dal suo “discorsetto” stava andando alla grande. Arthur si avvicinò al socio e gli domandò sottovoce: − Al, perché diamine hai messo su tutta questa scenetta assurda?
L’altro rise, rispondendogli: − Dude, rilassati! Sparare la prima cazzata che ti viene in mente è sempre efficace per distrarre la gente, sia a scuola sia nella vita reale! Non vedi che adesso non ha più in mente di parlare con te? Ci siamo risparmiati la grana dell’incidente di oggi! Sicuramente se n’è pure dimentica-
Ve, l’incidente di oggi? – Feliciano si girò all’improvviso, interrompendo le sue chiacchiere con Peter. – Intendete l’incendio durante la sfida culinaria?
Maledizione, li aveva sentiti.
− Tranquilli, ho già spiegato a Mr Kirkland che paga tutto l’assicurazione. Non c’è problema! Ve! Eravate così preoccupati per questo?
Il suo tono era cordiale e gentile. I due titolari si sentirono incredibilmente stupidi.
− Ecco... allora, se non era questo, di cosa voleva parlare con Ar... Mr Kirkland? – chiese Alfred. Feliciano sorrise ma la voce si fece ferma: − Mi dispiace tanto, ma vorrei che questa cosa rimanesse tra noi due. Ѐ una faccenda privata, mi spiego?
Una faccenda privata. Alfred sentì lo stomaco chiudersi per l’offesa di non essere coinvolto, essendo lui l’attuale proprietario del locale aveva la responsabilità di tutto ciò che accadeva lì dentro. Arthur, invece, accettò di buon grado la cosa.
− Alfred? Dai qualcosa da mettere sotto ai denti al ragazzino e tienilo a bada, mentre io e Mr Vargas andiamo a parlare in cucina. −. Si rivolse a Feliciano – Non le dispiace parlare di là, vero? Se non è di disturbo preparo anche il tè.
− Nessun problema.
I due si avviarono verso la cucina. Alfred dovette arrendersi all’evidenza: non lo volevano tra i piedi.
− Yo, Mr-non ricordo come ti chiami, ce l’hai qualche dolcetto per me?
Peter lo stava chiamando, indicando con desiderio lo scaffale degli snack. Alfred lo guardò rassegnato. Doveva fare da tata a un moccioso. Raggiunse la scorta strascicando i piedi, mugugnando imprecazioni verso Arthur e l’ingratitudine verso gli eroi in generale, e selezionò qualcosa tra le marche disponibili. – Sì. Ti vanno bene le barrette di cioccolata? Comunque puoi chiamarmi Mr Jones.
− Alla grande! Ehi, Mr Jones, tu hai idea di cosa vogliano discutere quei due da soli?
Alfred sospirò, stizzito: − Per niente, però mi basta che, quando torna qua il tuo baby-sitter, paghi quello che mangi. Un cliente è sempre un cliente.
 
Arthur tenne aperta la porta per far entrare Feliciano, poi la richiuse con un colpo secco che riecheggiò nell’ambiente candido della cucina. Feliciano si guardò tutt’intorno, studiando le attrezzature del fast-food, mentre l’altro si dirigeva verso una credenza contenente le stoviglie di tutti i giorni di Alfred; quella mattina aveva aggiunto un bollitore e una teiera all’insieme, per evenienze come quella, ignorando le proteste dell’americano. Era la sua cucina, prima di tutto, nonostante ora fosse un altro a utilizzarla. Aveva nascosto anche una serie di bustine di tè, messe in modo che l’altro non potesse scoprirle, pena un rifacimento del “Boston Tea Party” versione contemporanea. Dio solo sapeva cosa potesse combinare quel moccioso in nome dei suoi principi di libertà e indipendenza.
− Simpatico quel tipo – commentò Feliciano. – Leggermente fuori di testa, ma simpatico.
− Alfred? Oh, sì, concordo.
Il ragazzo sospirò, appoggiandosi con un fianco al bancone. L’idea che tra un paio d’ore avrebbe preso l’aereo per tornarsene in patria, lontano dal suolo inglese, gli riempì lo stomaco di un calore che sciolse la paura.
Doveva farlo prima di andarsene, altrimenti sarebbe stato troppo tardi.
Feliciano aveva ricominciato a tremare, gli occhi erano divenuti lucidi. Fissò Arthur per qualche secondo senza dir nulla, prima di prendere una grossa boccata d’aria e dire, la voce flebile come quella di un uccellino: – Mai fuori di testa come te, però.
Arthur si bloccò, il bollitore pieno d’acqua appena posizionato sul fornello acceso.
− Scusi, Mr Vargas? Può ripetere?
L’italiano lasciò andare una risatina stridula. Ormai il dado era tratto, non poteva tirarsi indietro. – Chiamami Feliciano, ti prego. Sono Feliciano quando non lavoro −. Si sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, ben attento a non toccare il ricciolo ribelle che svettava sulla sinistra del capo. Sorrideva.
Long time no see. Da quanto tempo che non ti si vedeva in giro. – rise di nuovo – Non ti ricordi di me, Arthur?
 
Peter stava mangiucchiando soddisfatto la sua terza barretta di Twix, alternandosi di tanto in tanto con un sorso di soda. Alfred l’osservava affascinato. – Non hai paura che ti vengano i brufoli? O ingrassare? – gli chiese. Peter scrollò la testolina, mandando giù un boccone appicicoso.
− Naaah. E poi c’è tempo per preoccuparsi di simili cose – e tornò a sgranocchiare il miscuglio ipercalorico di cioccolato e caramello. Alfred sospirò.
− Com’è che sei finito a lavorare per l’italiano? – domandò, tanto per fare conversazione.
− Mio zio conosce tipi che vendono pesce di buona qualità, così fa da tramite tra Feli e suo fratello e loro. Quando i miei hanno cercato qualcuno che mi tenesse mentre erano a lavoro, Feliciano si è offerto di tenermi con lui. In cambio gli fanno gli sconti all’Ikea. Mio padre lavora là.
− Quindi tu lo aiuti solo per un accordo coi tuoi.
− Diciamo di sì. Però sono tanto felice! Lui mi chiama “el me bòcia”, credo sia il suo modo di dire “il mio aiutante”. Mi rende orgoglioso perché anch’io lavoro come un adulto! Lovino invece mi chiama in modo diverso, “o’ scugnizzo” perché, pur essendo fratelli, loro due vengono da parti diverse dell’Italia, con diversi dialetti.
− Ah sì?
Gli occhi azzurri del ragazzino s’illuminarono, prendendolo come un incentivo a mostrare le sue abilità: − Mi hanno pure insegnato qualche frase in italiano, vuoi sentire?
− E va bene, spara...
Peter cominciò a sciorinare qualche breve frase con accento distorto e un gran movimento di mani, come aveva sempre visto fare ai fratelli Vargas: − Conosco “Buongiorno signore” o “signora”, poi “Arrivederci a presto” e una frase che gli sento spesso dire è “Signorina, lei è davvero bella” quando parlano con le ragazze, ma solo con quelle madrelingua inglese, per fare colpo. Mi dispiace perché da domani loro tornano in Italia per un periodo di ferie. Partono stasera, anzi, Lovino è già partito e Feli ha portato le sue valigie al deposito bagagli...
Alfred lo ascoltava tenendo la testa appoggiata sulla mano, il gomito puntato sul bancone.
Chissà di cosa stavano parlando gli altri due in cucina. Di ciò che accadeva là dentro, non si sentiva assolutamente niente.
 
Arthur guardò negli occhi Feliciano, incrociando le braccia con fare perentorio.
− Si può sapere di cosa va blaterando? – domandò, senza riuscire a coprire del tutto un senso di panico nascente.
− Non ti ricordi di me? – il sorriso non stava lasciando le labbra di Feliciano, ma era un sorriso ben diverso da quello che aveva esibito poco fa in compagnia di Alfred e Peter, o durante il suo lavoro qualche ora prima. Era un sorriso che non aveva mai trovato posto sul suo volto, a dire la verità. – Beh, posso capirlo, un idiota come il sottoscritto è facile da dimenticare. – lasciò andare un soffio tremulo. – Un poveraccio che non sa difendersi. Che si arrende non appena un suo superiore alza la voce... non che sia cambiato di molto durante questo tempo.
La voce gli s’incrinò. Feliciano dovette prendere un altro profondo respiro prima di ripristinare la calma. Dagli occhi era scivolata una piccola lacrima, che asciugò in fretta prima di continuare con voce ferma.
− Ero solo l’ennesimo straniero alla ricerca di un lavoro che avevi preso per un po’ come aiuto-cuoco nel tuo ristorante. Ma io non mi sono dimenticato il sapore dei tuoi piatti. E come avrei potuto? La tua faccia mi è sembrata familiare fin dall’inizio, ma non ho collegato subito. Ѐ stato quando ho assaggiato un rimasuglio rimasto integro del cibo che andavi cucinando che le cose sono diventate chiare come la neve.
Passò una mano sull’acciaio del bancone, gli occhi si velarono di nostalgia: − Me ne stavo qui, mi ricordo, a sognare il giorno in cui avrei avuto un ristorante tutto mio, mentre tu cucinavi le tue schifezze. Potrei dire che tu mi sia stato d’ispirazione. Della serie, chi ha fame non ha pane, chi ha pane non ha denti, giusto Arthur? E a me o allo sciagurato di turno toccava correggere come poteva i tuoi intrugli. Non che si potessero fare miracoli, ma gli inglesi hanno il senso del gusto estirpato alla nascita, perciò a loro andava bene anche così.
Tornò a guardare negli occhi Arthur, rimasto immobile come una statua di marmo.
– Sbaglio, forse? Ci sono sempre stati dei clienti anche dopo che mi sono finalmente licenziato, nel bene o nel male qualcuno c’era... – il suo sorriso scomparve, la voce divenne greve come non ci si sarebbe mai aspettato da lui. – ...fino a quel giorno maledetto. Dopo quel giorno, i clienti sono diminuiti fino a scomparire del tutto, sì?
Il suo sguardo aveva una luce distorta. Arthur non riusciva a distogliersene.
− Sai di quale giorno sto parlando, vero? Era pure scritto sul giornale, nero su bianco! Di quando hai tentato di uccidere il Fratellone Francis! – quello di Feliciano fu quasi un urlo.
− Non avevo intenzione di ucciderlo. – mormorò Arthur – Ѐ stato... un incidente.
− Un incidente? UN INCIDENTE? Per te tutto è un incidente! – stavolta Feliciano stava effettivamente urlando, una furia estranea al suo essere lo pervadeva completamente.
Sì, era stato un incidente, nonostante la stampa, i testimoni, la polizia affermassero il contrario. Arthur se lo ricordava come se fosse accaduto il giorno prima.
L’annuncio che il celebre critico culinario, ma soprattutto rivale sin dall’infanzia, Francis Bonnefoy sarebbe venuto a recensire il ristorante. L’ansia e l’eccitazione che gli avevano riscaldato il sangue nelle vene e gli avevano tolto il sonno i giorni antecedenti. L’immenso impegno che ci aveva messo nel preparare ogni singolo piatto, tutto con le sue mani. La faccia felice, fiera di quando glieli aveva portati personalmente al tavolo, e lì aveva aspettato che li assaggiasse, che li giudicasse.
Che ammettesse che, una volta tanto, anche lui poteva superarlo.
Ricordava che Francis aveva preso un boccone da ogni portata, facendo una smorfia a ogni imboccata ma senza commentare. Alla fine aveva dichiarato la sua sentenza ad alta voce, così che tutti, anche negli altri tavoli, lo sentissero chiaramente: − Non credo di aver mai mangiato qualcosa di così disgustoso in vita mia. Cos’è, una candid camera? Uno scherzo di cattivo gusto? Seriamente, ma cosa pensavi quando mi hai messo davanti questa poltiglia oscena? Dovevi essere totalmente fuori di testa se pensavi che potesse piacermi! −. Mentre lo scherniva senza pietà, mentre il resto dei commensali assisteva alla scena come a teatro, il sorriso di Arthur si era spento pian piano fino a scomparire.
− Ma io ho fatto tutto questo per te. Davvero non è buono? – aveva mormorato con un filo di voce. Francis lo aveva fissato come se avesse appena dichiarato che la Terra è piatta.
− Sei sordo? – disse, − O semplicemente stupido? Arthur, ti conosco da anni ormai, ma questo è il tuo flop peggiore. Fammi un favore, anzi fallo al mondo, butta tutto nell’immondizia che solo la vista mi fa venire la nausea. Non sei portato per la cucina, arrenditi.
− Co... come osi? – aveva strillato Arthur, − Sei solo invidioso e non vuoi ammetterlo! TI ODIO!
Francis per tutta risposta era scoppiato a ridere: − Io? Invidioso di te? Ma fammi il piacere! Quando mai lo sono stato? Ahahahahahahaha!
E Arthur aveva visto la bocca del francese allargarsi in quella risata cattiva, la stessa bocca che pochi secondi prima aveva assaporato gli sforzi di ore di lavoro, di progetti, di speranze, e li aveva denigrati senza pensarci due volte, distruggendolo. Sotto a quella bocca rosa spalancata ci stava il mento e la barba ben curata. Sotto ancora c’era il collo, lungo e affusolato, da cigno.
Con un gesto che sembrò girato al rallentatore, Arthur aveva avvolto entrambe le mani attorno quel collo magnifico. Non era la prima volta che lo faceva, non era la prima volta che litigavano in quel modo. Di solito si limitava a scuoterlo, seppure violentemente.
Stavolta, però, nella mente di Arthur scattò qualcosa di diverso dal solito.
Le dita si posizionarono attorno alla laringe ancora tremante in preda della propria ilarità e cominciarono a stringere.
All’inizio nessuno dei due si rese conto della situazione, tanto era familiare quel gesto di norma innocuo, e Arthur rafforzò la sua presa come una morsa e Francis continuò a emettere risolino finché non gli restò più ossigeno da esalare. Fu allora che cadde nel panico.
Emise un gorgoglio assurdo
(come una rana)
mentre le sue guance da rosse viravano sempre più verso il blu, e quel gorgoglio non servì che ad accentuare la forza con cui le mani si stringevano sempre più.
(Se continuo così  non riuscirai più a parlare e starai zitto e non dirai quelle brutte cose, ma perché dovevi disprezzare così il mio lavoro, rana bastarda questo è stato il tuo ultimo pasto, ORA MUORI)
Arthur continuava a stringere, senza rendersi conto delle sue azioni o del mondo intorno, senza sentire il terrore che serpeggiava tra i commensali davanti alla scena, chi chiamava aiuto, chi non riusciva a capire se fosse una sceneggiata, troppo sconvolto per credere fosse tutto vero. Poi, con le ultime tracce di ossigeno rimaste nel cervello, Francis aveva alzato con una fatica immane le proprie mani e a posarle sulle braccia tese di Arthur, anche se era certo che non sarebbe mai riuscito a togliersele di dosso con le sole forze rimaste.
Bastò quel tocco. Arthur era tornato alla realtà come un elastico portato al sua massima estensione ritorna alla posizione iniziale. Staccò immediatamente le mani dal collo, lasciando sulla pelle candida dei segni rossi destinati a vedersi per ancora del tempo.
Non era ancora pienamente conscio di cosa avesse appena fatto. Francis, al contrario, lo era eccome. Non appena era riuscito a ingurgitare sufficiente ossigeno per riprendersi, si era messo a urlare. Francis non urlava mai. Francis aveva una voce calda, lenta e armoniosa, una voce adatta a sedurre donne e uomini, ma stavolta stava urlando.
− Sei impazzito?! Ti rendi conto che MI HAI QUASI UCCISO! – gridava con un’ira mai sperimentata prima e soprattutto sorpresa. Perché Francis era sorpreso. Malgrado la loro inimicizia, non si era mai aspettato che l’altro potesse giungere a tanto. Ora che lo aveva scoperto, si sentiva tradito.
Ma l’avrebbe pagata. Oh, se l’avrebbe pagata.
I ricordi di Arthur dopo quel momento erano a sprazzi. Ricordava i poliziotti che lo avevano portato in caserma, tra cui quello che lo aveva ammanettato: alto, biondo, ben messo a muscoli e due occhi azzurri freddi come ghiaccio. Mai come gli occhi di Francis dopo quello scontro, comunque.
Ricordava il suo primo incontro con quello.
Ricordava anche il processo: Francis, ovviamente gli aveva fatto causa. Ricordava il giudice. Sorriso dolce, voce soffice, sguardo impenetrabile che aveva incontrato il suo, mentre venivano dichiarate le accuse. Ivan Braginski.
Il russo aveva liquidato il processo in una maniera straordinariamente sbrigativa per il caso, sfruttando lo choc delle due parti non ancora ben superato per proporre una soluzione alternativa al carcere.
Arthur se ne sarebbe dovuto andare da Londra per almeno un anno.
La pena non aveva neppure effetto immediato, ma Braginski sapeva non ce ne fosse bisogno. Le voci giravano. In poco tempo i clienti sparirono dal ristorante e il rancore, durante quei giorni eterni, sempre peggiori, crebbe fino a diventare insopportabile. Alla fine Arthur dovette chiudere il ristorante e venderlo. Poi sparì, per un anno.
Ma ora era tornato e chiedeva vendetta.
Feliciano l’osservava con gli occhi scuri in fiamme. – Perché sei qui? – domandò con un ringhio. Non aspettò neppure la risposta. – Io lo so! Vuoi finire il tuo lavoro! Vuoi... vuoi  ammazzare Fratellone Francis perché ti ha fatto chiudere! Ammettilo! – strillò, l’emozione storpiava la sua voce rendendola acuta come quella di un adolescente. In un altro momento si sarebbe messo probabilmente messo a piangere per la tensione insopportabile, ma non ora. Aveva bisogno di tutto il suo orgoglio per stare in piedi.
Arthur non disse una parola, limitandosi a guardarlo. Il ragazzino urlante assomigliava terribilmente a qualcuno di ben preciso, che però rifiutava di apparire alla mente conscia.
“Se me l’avessi detta ieri, una cosa simile” pensò “ti avrei dato ragione. Oggi, però, che mi sento tanto felice, perché dovete ricordarmi tutti il mio progetto iniziale? Non sono più sicuro di volerlo attuare. Vi dà tanto fastidio questa realtà, volete davvero che lo faccia fuori?”
− Parli a vanvera – disse, tono piatto. – Sei ubriaco?
− No. Ho solo bevuto un paio di bicchieri di vino in più del solito per trovare il coraggio di venire a parlare con te, ma sono perfettamente lucido. Senti? Non biascico neanche. Neppure da sobrio sono così spedito.
L’animo dell’italiano, allora, era infiammato dall’alcol, seppure poco. Ora si spiegavano alcune cose.
Incapace di rimanere immobile, Arthur si allontanò dal fornello con il bollitore, dando le spalle al suo interlocutore e avvicinandosi alla sua credenza speciale con tutti i suoi arnesi. Dentro di essa c’era anche il suo set di coltelli.
− Quando hai voluto sfidarmi e avere Francis come giudice... non so in che modo, ma doveva c’entrare con il tuo piano. Eh? Sbaglio forse?
− Cosa vuoi? – domandò Arthur, voltandosi verso Feliciano. Il ragazzo riacquistò il sorriso aspro. Era il sorriso di chi sa che, una volta tanto nella vita, ha il coltello dalla parte del manico e non è abituato a questo potere. La stupida arroganza di chi vuole stare dalla parte del bene ma non ha idea da che parte iniziare.
− Voglio che... – Feliciano deglutì, – voglio che tu sparisca e non ti faccia più rivedere quaggiù. Non voglio che Francis corra di nuovo il rischio di finire ucciso.
− Tutto qua?
Le guance di Feliciano s’imporporarono: − Sì! Tutto qua! Non è abbastanza? – urlò.
− E se non obbedisco, che fai?
Il sorriso del ragazzo si trasformò in un ghigno grottesco. Davvero, quell’espressione era così estranea al suo volto da trasformarlo in una caricatura mostruosa di sé stesso.
− Se non lo fai... – la sua voce aveva assunto un volume più contenuto ma il tono era isterico, stridente come un’unghia sul vetro,  − ... ecco, se non lo fai vado a dirlo al mio amico, l’agente Beilschmidt! Ricordi, quello che ti ha portato via in manette! Stavolta, però, se ti arrestano non credere di cavartela così! Ti sbatteranno in prigione e butteranno la chiave!
Arthur avanzò verso Feliciano, portandosi vicino ai fornelli, il cuore gli batteva nel petto tanto forte da fare male. Lo guardò nuovamente negli occhi, trovando in essi ciò che la bocca non aveva detto, discorsi rimasti muti nel cuore perché non trovavano le parole adatte.
In quelle iridi castane vi trovò la paura. Paura di perdere un amico per mano di un essere spregevole riapparso dalle tenebre dove era precipitato. Vi trovò anche fierezza e orgoglio. Feliciano stava sfidando i propri limiti, le raccomandazioni inferte da chi gli stava accanto e gli diceva “Non rischiare, non sei abbastanza forte per resistere. Lascia perdere”. Ma in quel momento Feliciano non avrebbe lasciato perdere. Avrebbe combattuto fino in fondo e avrebbe sconfitto il mostro.
Era Arthur il mostro? Quando era avvenuta la metamorfosi?
Ma Feliciano, dopo tutto, non era che un povero sciocco.
− Che cos’hai da dire ora, mio caro Mr Kirkland? – domandò con tono di scherno, l’alcol ingerito che cancellava ogni prudenza. Il bollitore iniziò a fischiare.
Ora Arthur poté riconoscere in quell’espressione, in quell’atteggiamento, persino nella voce la stessa di Francis quel giorno. Come se in Feliciano e Francis corresse lo stesso sangue, come se fossero figli di uno stesso padre. No, per essere più precisi come se fossero nipoti di uno stesso avo, troppe le differenze che ancora incorrevano tra i due nonostante tutto.
Non disse nulla.
Feliciano resosi finalmente conto di avere in mano il potere più totale, in preda alla frenesia non poté trattenersi dall’esplodere in una risata beffarda.
Fu allora che accadde.
Qualcosa scattò nella mente di Arthur e fu nuovamente il buio della ragione.
(Tic-toc, tempo scaduto, lo stato di grazia garantito dai biscotti-amuleto non c’è più)
Afferrò il manico del bollitore alla sua destra, un movimento rapido quanto inaspettato, e colpì con tutta la sua forza il volto di Feliciano. Questi, colto di sorpresa, indietreggiò quasi inciampando sui propri piedi. Allora Arthur vibrò il colpo di nuovo, ancora, e ancora e ancora, non fermandosi quando il ragazzo cadde a terra, picchiando ripetutamente alla testa, ciecamente, guidato solo dall’istinto, da una violenza brutale.
 
Fuori dalla cucina si sentì il tonfo del corpo che cadeva.
Peter alzò lo sguardo verso la porta, interrogativo. Alfred, capendo che quel rumore non aveva nulla di buono in sé, batté una mano sul bancone per dissimularne il suono. – Ehm! Scusa se faccio rumore – si giustificò – Sai, volevo verificare la robustezza del bancone, ahahahaha! Nel caso, hai detto che tuo padre lavora all’Ikea?
 
E nel frattempo Arthur continuava a riversarsi su Feliciano,
(colpisci, colpisci, colpisci)
(fallo tacere una volta per tutte)
ignorando i suoi lamenti, ignorando i suoi tentativi di coprirsi la testa, ignorando il sangue che a un certo punto cominciò ad uscire
(sangue, da dove viene? Chi è che lo sta perdendo?)
perché fermarsi prima del necessario, secondo un folle senso che in quel momento parve dannatamente logico, sarebbe significato ammettere che Arthur fosse il mostro, il cattivo, e invece non era lui. Cattivo lo era Ivan che aveva senz’ombra di dubbio fatto del male a Toris, lo era Francis che aveva denigrato i suoi sforzi culinari, lo era Feliciano che non voleva il suo riscatto.
Con il cuore sul punto di scoppiare, Arthur a un certo punto si bloccò, il braccio ancora in alto pronto a vibrare l’ennesima mazzata. Sotto di lui, a terra, giaceva immobile il corpo di Feliciano.
Arthur abbassò lentamente il braccio e lasciò cadere a terra il bollitore, che sparse in giro l’acqua rimanente. I suoi occhi avevano una patina opaca, nessuna espressione. La sua mente era sgombra. Silenzio totale.
− Feliciano? – domandò al corpo muto. – Ehi, Feli?
S’inchinò a terra su un ginocchio. Feliciano non rispondeva ai suoi richiami. Arthur allungò una mano e accarezzò il viso del ragazzo, come se volesse risvegliarlo da un sonnellino. I capelli castani erano impiastrati di sangue, così come la sua fronte. Le palpebre erano chiuse.
Arthur non riusciva a capire. Perché non apriva gli occhi?
− Smettila di fare il pigrone, non è ora di dormire – lo rimproverò bonariamente, come avrebbe fatto con un bambino capriccioso. La sua mente era ancora avvolta in una nube rossa, i pensieri razionali non riuscivano a valicarla.
Restò a guardare il corpo supino ancora per un tempo incalcolabile, prima alzare lo sguardo al soffitto.
Alla cucina vuota dedicò il suo sussurro: − Mio Dio, cos’ho fatto?

 
*  *  *
 
Ehilà. Tutto a posto? Quaggiù si fa quel che si può.
GRAZIE a chi recensisce, chi legge, chi dà consigli, vi auguro tutto il bene possibile.
Spero di aggiornare quanto prima, ma questo è periodo di verifiche, chi vivrà vedrà.
A presto.
L.B. Shadow
 
Aggiornamento post revisione: mi manca da revisionare solo un capitolo, poi farò in modo di aggiornare con più regolarità. Un bacione.
L.B. Shadow

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Capitolo 6
*** Un Nuovo Segreto ***


 
Un Nuovo Segreto
 
V

 
 
Bisogna fare attenzione quando si esprimono desideri rivolgendosi alle tenebre, perché non si può mai sapere come e quando essi verranno esauditi.
Arthur si era dimenticato questa regola fondamentale e ora ne avrebbe pagato le conseguenze.
 
Bip-bip-bip-bip-bip... il segnale acustico dell’orologio sorprese sia Peter che Alfred. Il ragazzino lo spense con un piccolo tocco.
– Ѐ uno di quelli che suona ogni ora. Guarda che bello! Me l’hanno regalato al mio compleanno! – spiegò, tornando ad appoggiare i gomiti sul bancone, un’espressione di infantile orgoglio mentre mostrava l’orologio elettronico. Roba di poche sterline, ma ai suoi occhi di bimbo doveva valere più di un Rolex. Alfred sorrise: durante la loro chiacchierata l’animo impertinente del piccolo si era placato, lasciando il posto a un’indole vivace che inteneriva l’americano.
− Fico – commentò, − Occhio, però, rischi che si sporchi adesso che hai le dita appiccicose. Prenditi un tovagliolino, da bravo.
Peter si pulì le mani, obbediente. Raccolse comunque l’occasione per ricominciare a cicalare: – Anche i miei mi dicono sempre di pulirmi dopo che ho mangiato dolci, altrimenti Hanatamago vuole leccarmi le mani e il cioccolato può farle male. Hana è la nostra cagnolina, sai? Ѐ piccola e dolcissima e... oddio!
Peter sobbalzò sulla seggiola, guardando nuovamente l’ora con gli occhioni azzurri spalancati. – Non me n’ero accorto! Ѐ tardissimo! Feliciano deve andare all’aeroporto, il suo volo parte tra poco!
− Eeeeeh?
Alfred guardò verso la cucina: − Ma è ancora dentro là che parla con Kirkland! Non si è accorto di essere in ritardo?
− Ca... cavolacci, sarebbe proprio da lui! Presto, presto! – Peter si alzò e girare intorno al bancone, avanti e indietro, alla ricerca di un passaggio per superarlo e arrivare ad avvisare Feliciano. Non riuscendolo a trovare, si disperò ulteriormente. Si bloccò davanti ad Alfred: − Per favore, potresti dirgli tu di sbrigarsi? – lo supplicò.
− Vieni, ti lascio passare io. Lascia che ti aiuti −. Alfred fece scavalcare Peter, prendendolo sotto le ascelle e sollevandolo al di là del bancone. – Oplà!
Fece atterrare il ragazzino, ma lo trattenne per un paio di secondi fermo tra le mani, come se non volesse lasciarlo sfuggire, come se avesse all’ultimo cambiato idea e gli chiedesse di non oltrepassare quella porta. Il suo sguardo tornò alla cucina. Il respiro si fece più pesante. I peli biondi sulle braccia gli si rizzarono mentre un brivido di sconforto lo attraversava.
Lasciò andare Peter pur di non palesare quel sentimento.
Voleva nascondere, Alfred, a se stesso per primo, un presagio angosciante; che quella situazione puzzasse di bruciato. Che i semi del dubbio si fossero infiltrati persino nella sua testaccia ottimista da “everything’s gonna be ok”, mettendogli addosso una sottile paura senza nome, una paura che neppure gli eroi più gloriosi avrebbero saputo sconfiggere perché subdola e viscida annientava la ragione. E senza la ragione non c’è che il caos.
Che se fosse stato un film, in quel momento una musica inquietante avrebbe accompagnato le loro azioni, interrompendosi nell’istante in cui avrebbero aperto la porta. Ma lì non si era in un film: lì c’era solo un tizio che era stato intrattenuto un po’ troppo in una discussione che si era voluta tenere riservata. Discussione? Conversazione.
Tra Arthur e Feliciano non c’erano sembrati essere asti di alcun tipo, anzi, prima avevano dimostrato di saper tenere un rapporto più civile che tra i due stessi soci. Poi erano entrati là dentro e di loro non si era più saputo nulla.
Era inutile preoccuparsi. Sicuramente si erano semplicemente dimenticati di guardare l’ora.
Eppure...
Il cuore nel petto batteva forte; Alfred prese un respiro profondo, cercando di ritrovare la serenità perduta. Lui era l’Eroe. Lui non avrebbe mai permesso che qualcosa di brutto accadesse nel suo locale, specie ora ch’era presente un così giovane spettatore, il quale avrebbe dovuto affidarsi comunque a qualcuno più forte per essere protetto dai mali del mondo. Lui era quel Qualcuno. Lui avrebbe sconfitto il cattivo, chiunque egli fosse stato.
La sensazione opprimente si sciolse all’istante e lui lasciò uscire una risata rauca.
− Ah... aha ahahahaha! Ehm. – si schiarì la voce, come se niente fosse, − Spero solo che Kirkland non gli abbia chiesto qualche sorta di rivincita ai fornelli, altrimenti rischiano di far notte!
Peter, con la mano già sulla porta, si girò a guardarlo, perplesso; i suoi occhi erano privi di quel presentimento che attanagliava Alfred. Peter si sforzò di sorridere alla battuta idiota, sebbene il volto improvvisamente del più grande non lo facesse affatto ridere e gli trasmettesse una strana sensazione, nulla di buono. − Già. – disse semplicemente.
Già.
“Arthur, se hai fatto qualche cazzata” pensò Alfred ricambiando il sorriso, “giuro che te la faccio pagare. E stavolta dico sul serio”
La piccola mano spinse con forza. La porta si aprì senza far storie a quel movimento brusco. Peter si avventò nell’ingresso della cucina, Alfred alle sue spalle, chiamando a gran voce il nome del suo amico: − Signor Vargas! Deve prendere il suo volo...
Lo sguardo attraversò la lunga stanza. Bianco. Acciaio. Una figura in piedi, scura in contrasto.
Arthur Kirkland si stava versando una tazza di tè.
Peter lo fissò, ammutolito. Ogni traccia di spavalderia era scomparsa, la gola si era seccata. Arthur ricambiò lo sguardo, ghignando gentile. Posò la tazza, dopo averne un bevuto un sorso, sulla credenza e parlò, tranquillo come se fosse rimasto lì ad aspettarlo: − Mr Vargas è dovuto andare via. Ti conviene rincorrerlo.
Peter scosse la testa: − No, signore, devo restare qui... il signor Vargas avrebbe dovuto accompagnarmi a New St. Square prima di andare all’aeroporto... e papà mi sarebbe venuto a prendere là −. Peter si accostò piano all’uomo, cercando di ripristinare la sua sicurezza, − Davvero il signor Vargas è già partito? Io non posso andare a New St. Square da solo, specie con questo tempo. Papà si arrabbierebbe con entrambi. –
Mentre parlava, si avvicinava pericolosamente allo sgabuzzino. Arthur s’irrigidì come pietrificato quando il ragazzino arrivò proprio alla porticina del suddetto. Nei suoi occhi verdi le pupille si restrinsero, mentre le labbra si tiravano in una linea sottile.
− Alfred? – il suo sguardo incontrò quello del socio, che li osservava senza commentare, − Hai dato qualcosa da mangiare al nostro piccolo ospite?
− Oh? Sì – Alfred sembrava cadere dalle nuvole. – Si è rimpinzato di snack.
− Ѐ stato molto gentile – aggiunse Peter, in uno slancio di cortesia. Arthur annuì, ancora visibilmente teso nonostante un tentato sorriso: Peter era davanti alla porticina dello sgabuzzino, in quel momento socchiusa. Si avvicinò al ragazzino e gli cinse le spalle, spingendolo con garbo ma fermamente verso Alfred.
− Certo che lo è. Però, se conosco i giovanotti come te, c’è ancora spazio per qualcos’altro, giusto? – disse, la sua gentilezza sempre più affettata. Peter scrollò la testa.
− Sarebbe meglio di no. E comunque dovrei andare a casa, ma se non c’è Feliciano che mi accompagna...
Arthur sospirò. – Allora facciamo così. Alfred ti accompagna fino a New St. Square, tanto è vicino. Ѐ inopportuno che un ragazzino se ne vada da solo per le strade di
Londra con questa nebbia. Potresti perderti... o incontrare brutte persone.
Peter alzò lo sguardo verso l’americano, quindi tornò a guardare Arthur, sempre incerto.
− Senti – la curva delle labbra dell’inglese si fece più distinta, senza però passare la sua allegria agli occhi, − Tu portati qualcosa a tua scelta a casa, te la regalo io. Va bene?
Peter s’illuminò: − Posso prendere le barrette di cioccolato “Rocky Road”, che mi piacciono tanto?
− Certamente.
− Quelle con la confezione rossa, con i marshmallow e le noccioline e il cioccolato al latte...
− Ho detto di sì.
− E poi ci sarebbero quelle altre ai quattro gusti, con il caramello dentro e la crema di fragole... ah, dimenticavo quelle...
Arthur si passò una mano sul volto, al limite della pazienza. Digrignò i denti in una smorfia animalesca, riproduzione orribile di un sorriso.
− Senti, marmocchio, prenditi pure la tavoletta Wonka con il biglietto d’oro, basta che ti spicci – sibilò.
Il volto di Peter fu invaso da un immenso sorriso. Qualunque paura fosse passata per il suo cervello, fosse anche solo per un attimo, era stata spazzata via dall’idea di riempirsi le tasche di leccornie.
− Ok! Grazie mille, forse sei meno bacucco di come credevo! –. Scattò all’istante all’esterno della cucina, mentre Alfred rimase sulla porta; Peter, non vedendolo arrivare, riemerse dietro di lui, in attesa. Alfred era rigido, le braccia incrociate sul petto come se avesse freddo, ma il suo perenne buon umore era sempre lì che illuminava gli occhi dietro le lenti. Certo, era un buon umore un po’ finto, ma nessuno ci fece caso.
− Scusami, Arthur, un’ultima cosa prima che andiamo. – disse, indicando in fondo la stanza, − Mr Vargas è uscito dall’uscita di servizio, giusto?
Arthur alzò le spalle: − Esatto. Sai, era molto di fretta, si è accorto all’ultimo secondo di dover andare via per qualcosa che assomigliava a un appuntamento importante e gli ho consigliato la via più veloce.
− Oooh. Capisco, ecco perché non l’abbiamo visto! Ahahaha! E io che ero convinto fosse rimasto qua a discutere con te... Va bene, allora! –, si rivolse a Peter − Beh, è meglio se io e il campione di calcio quaggiù ci avviamo, prima di fare arrabbiare papà, eh? Dopo che me lo hai descritto, ho un tantino d’ansia a incontrarlo.
− Anche la mamma non scherza, credimi. A volte fa anche più paura.
Alfred scompigliò la zazzera bionda del ragazzino, prima di rivolgersi ad Arthur: − Allora ci vediamo dopo, eh? Mi aspetti qua?
− Dove dovrei andare altrimenti?
Il sorriso di Alfred si allargò, sbuffando un risolino: − Chissà. Potresti approfittare della mia assenza per fuggire.
− Non sono un codardo. – Arthur allargò le braccia, aggiungendo: − E poi, che motivo avrei di abbandonare il mio fidato socio?
− Ottimo, allora. Vieni, Peter! Hai già preso la giacca?
I due uscirono e la porta della cucina si chiuse definitivamente, lasciando Arthur in piedi in mezzo alla stanza circondato solo da una fredda luce artificiale.
 
Alle sei e mezzo, il campanello dell’ingresso salutò il ritorno di Alfred nel locale. Un brivido lo scosse: quella nebbia terribile non era affatto diminuita da prima e gli era entrata nelle ossa, rendendolo sensibile come un ottantenne con l’artrite. Perlomeno aveva assolto al suo compito, in un modo o nell’altro.
“Cacchio” pensò “Il ragazzino mi aveva avvisato che il padre incuteva un po’ timore, ma vedermelo uscire fuori come un mostro in Silent Hill, beh, questo mi ha fatto decisamente più strizza del previsto. Oh beh, spero non si sia notato, ho una reputazione da difendere io”
Si tolse il cappotto e guardò alla porta chiusa della cucina, oltre il bancone. Gli occhi s’incupirono. Nessun suono, nessun segno di vita nell’Eagle a parte lui.
Si avviò a grandi passi verso la porticina a lato del bancone, la superò e non la richiuse neppure, tanta era la fretta di arrivare al suo obiettivo. Lo raggiunse con il fuoco negli occhi, nello stomaco, nella testa. “Adesso dobbiamo scambiare due paroline, mio caro” pensò, mentre dava una potente spinta alla porta della cucina. Essa non si mosse di un centimetro. Era bloccata. Ciò, lo fece incazzare ancora di più.
ARTHUR! – urlò – Fatti vedere immediatamente! Se non apri subito, giuro che butto giù la porta! −. Batté i pugni sulla superficie in truciolato, facendo saltare qualche scheggia di copertura verniciata di bianco. Avesse avuto un’ascia, avrebbe potuto rielaborare la scena di Shining, con la differenza che lui era il buono. Lui era e sarebbe sempre stato il buono. D’improvviso si sentì terribilmente pentito di aver lasciato Arthur da solo, di non averlo tenuto sotto controllo come si era promesso, che questo errore gli sarebbe costato molto caro... Un altro pugno e dall’altra parte si sentì un rumore. Alfred si bloccò con il braccio alzato, pronto a colpire di nuovo. Tempo due secondi e la porta si aprì, Arthur sulla soglia.
Alfred subito non riuscì a spiccicare parola; pure il pugno ricadde sul fianco, inerte. Arthur lo fissava, senza dir nulla, sul viso un’espressione di assoluto vuoto, in fondo agli occhi gli brillava l’ultima scintilla di un’emozione muta. Sembrava gli avessero risucchiato l’anima.
− Bussate e vi sarà aperto – gracchiò dopo una pausa infinita. – Come vedi, sono rimasto qua.
− Mi prendi in giro? – mormorò Alfred. Arthur gli lasciò lo spazio necessario per entrare, dandogli le spalle. Trascinò i piedi verso la credenza dove la tazza di tè era rimasta abbandonata quasi piena, il liquido divenuto freddo, e se la portò alle labbra tremanti, ma senza berne neppure un sorso. Dopo il tentativo, la svuotò nell’acquaio, sempre con quegli occhi bassi che osavano solo di tanto in tanto alzarsi e incontrare quelli dell’altro.
− Certo che no. – disse.
− Credi... mi credi uno stupido? Ѐ così?
− Assolutamente no. – Arthur scrollò le spalle, un po’ di luce stava tornando finalmente tornando a ravvivargli le iridi. Alfred non riusciva, nonostante le intenzioni iniziali, a urlargli contro, risultando invece triste nella voce. Come se lo avessero pugnalato alla schiena.
− Allora perché...? – sussurrò. L’altro non lo sentì.
− ... anche se dubitavo che mi avresti scoperto così presto, conoscendo la tua scarsa attitudine nel leggere le emozioni altrui. Da cosa hai dedotto che ti stessi nascondendo qualcosa?
− Dal fatto che la porta sul retro è due settimane che è rotta. Non si apre, la serratura è andata. Ѐ impossibile che l’italiano sia uscito per di là, la tua era per forza una scusa per liberarti di me e del ragazzino, giusto?
− Più che altro del ragazzino. – Arthur batté lentamente le mani, un applauso a rallentatore. Un’altra pugnalata alla schiena. − Comunque bravo, complimenti, ci sei arrivato da solo.
Alfred lasciò andare un gemito di rabbia e dolore. – Che diavolo è successo? – domandò – Dov’è Vargas? Se non è ancora uscito, vuol dire che si trova ancora qua. Dov’è? E di che avete parlato tutto questo tempo?
Si avvicinò ad Arthur e lo prese per le spalle, scuotendolo furiosamente: − Ti prego, rispondimi. Io... – non sapeva cosa dire − ... voglio essere tuo amico! Dimmi la verità, Art! Devo saperlo!
 Arthur riabbassò il capo, storcendo la bocca in una smorfia. Si tolse le mani dell’altro di dosso con una calma esasperante e girò la testa verso lo sgabuzzino.
− La risposta alla prima domanda – disse – è più vicina di quanto pensi.
Alfred voltò anche lui la testa nella stessa direzione. Sbiancò. – Non dirmi che... –
Arthur non rispose. La stanza si riempì del loro silenzio, assordante di mille accuse galleggianti nell’aria come bolle di sapone. Finalmente Alfred riuscì a buttare fuori dalla sua bocca una frase comprensibile, che spezzasse quella tensione insopportabile.
− Sei completamente uscito di senno? Cos’hai combinato? Era un povero idiota, non ti ha fatto nulla di male!
− Mi conosceva. Sapeva cos’ho combinato un anno fa e ce l’aveva con me. Pensava volessi ripetere il misfatto.
− Oh.
Arthur si spostò la frangia bionda dalla fronte: sotto di essa, la pelle era pallida come quella di un cadavere. Tremava.
− Voleva denunciarmi – disse – e farmi marcire in prigione al minimo passo falso. Si dà il caso che sia amico dello stesso agente che mi ha arrestato. Dubito che il mio ritorno in tribunale possa essere una gran pubblicità per te, specie ora che mi hai appena assunto, no? Senza contare che c’è una grandissima probabilità che possa venire coinvolto pure tu in un eventuale processo. Ho dovuto farlo, ne andava anche del tuo futuro.
Alfred rilassò un po’ i muscoli, come un palloncino che si stesse sgonfiando piano piano. Anche il suo volto sembrò cedere, cadere verso il basso in una sorta di rassegnazione all’evidenza, ma solo per un nanosecondo perché cercò di ripristinare all’istante la sua solita verve. − Oooh. – disse − Beh, allora la faccenda è diversa... pensavo fossi impazzito del tutto.
Arthur annuì con la testa, muovendola come se fosse agitata da una molla. Seriamente parlando, non aveva la faccia da killer spietato: sembrava che fosse reduce da una crisi di nervi e ora gli mancassero le forze anche solo per difendersi da un eventuale accusa. Faceva pena piuttosto che paura. Sembrava lui stesso la vittima. Solo il suo smisurato orgoglio, di cui serbava ancora traccia nonostante tutto, lo faceva stare in piedi, gli occhi duri come smeraldi lucenti. Un leone ferito a morte ma che respira ancora, seppure a fatica.
Alfred non riusciva a trovare la forza di odiarlo.
Si avvicinò lentamente allo sgabuzzino, notando che, ironia della sorte, era socchiuso. Un piccolo spiraglio che non lasciava intravedere nulla ma faceva immaginare il peggio. Il suo sguardo tornò per un attimo ad Arthur.
− Entra. Non c’è nulla da temere. – disse lui, scimmiottando la stessa frase che aveva pronunciato Alfred quando lo aveva invitato per la prima volta nella sua cucina. Invece di farlo arrabbiare, quella frase lo riscaldò un pochino.
Non c’era nulla da temere perché lui era l’Eroe e gli eroi vincono contro tutti i mostri. Giusto? Giusto. E in ogni caso, lui sarebbe riuscito a sconfiggerli. Al momento decisivo, non si sarebbe lasciato intenerire. Giusto?
Giusto.
Alfred aprì la porticina, facendovi insinuare la luce e rimase lì, sul ciglio, pietrificato davanti a quella visione. Il cervello smise per un attimo di funzionare a mille all’ora, interrompendo la sua attività di colpo; il gelo calò sui nervi elettrizzati, paralizzandoli dall’interno, come una doccia ghiacciata. Non se lo aspettava.
Pensava che avrebbe visto un corpo maciullato, orribili segni di colluttazione, sangue dappertutto. Quello che gli stava davanti era invece il giovane italiano, disteso per terra su di un fianco con le braccia distese davanti a sé, gli occhi chiusi come per un sonno eterno. Effettivamente, dava veramente l’impressione che stesse dormendo: sotto la testa era stato posto il suo cappotto di panno scuro, a mo’ di cuscino, le mani erano poste ai lati dei fianchi. Immobile. L’unica traccia che potesse smentire la situazione era il velo color rame che gli ricopriva irregolarmente la fronte vicino all’attaccatura dei capelli, sporcando anch’essi e lasciando qualche macchia sul cappotto sottostante. Sangue rinsecchito. Ce ne sarebbe stato di più a ricoprire la pelle d’alabastro, ma Arthur si era premurato di ripulirlo, così come aveva avuto cura di togliere ogni segno dal pavimento e sistemarlo in quel modo. Evidentemente, le ferite avevano buttato fuori ancora un po’ di linfa nel frattempo e lui non aveva avuto coraggio di ritoccare quel corpo inerme. In compenso aveva stretto attorno al cranio uno straccio da cucina, come se avesse potuto servire da garza.
No, era qualcosa impossibile da guardare.
Alfred richiuse la porticina quasi con rabbia, trattenendo un singulto. Rimase in silenzio, il suo respiro accelerato, affannoso. Arthur era accanto a lui, inespressivo.
− Mio Dio... – mormorò. Arthur scosse la testa.
− Dio in questo momento dà segnale occupato, riprovare più tardi.
− Ma quindi Vargas è... cioè, tu... lo hai davvero...
Arthur non rispose. Gli indicò semplicemente la porticina, come a invitarlo a riaprirla di nuovo. Chissà se ne sarebbe uscito il Baubau, pronto a sbranarlo.
Alfred, con il cuore in gola, obbedì; il corpo era ancora lì, non si era mosso. E come avrebbe potuto?
− Guardalo – mormorò – Sembra così in pace...
Si avvicinò, cautamente, come se fosse una salma appena riesumata dalla tomba. Lo scrutò, lo esaminò: lo shock si era acquietato e aveva lasciato il posto alla curiosità scientifica. Si sentiva come un archeologo. Si domandò se non fosse il caso di recitare una preghierina per i defunti. Si domandò se non fosse fuori luogo lasciarsi andare a una risata isterica. Nel dubbio stette zitto.
S’inginocchiò vicino al corpo, con la mano gli sfiorò le palpebre chiuse, i capelli impiastricciati. Gli sembrò quasi che avesse conservato il suo calore fino a quel momento. “Ѐ italiano” pensò “è normale che abbia il sangue caldo, persino adesso. Come si dice, sangue latino”. Di nuovo quello stimolo a ridere, tagliente, raschiante nella sua gola. Tossì nel soffocarlo. La mano si alzò dal viso e si abbassò leggera come una piuma. Tanto a cosa sarebbe servito, comunque? Mah. I polpastrelli lambirono il collo del ragazzo e Alfred aggrottò le sopracciglia, una strana sensazione gli attraversò i neuroni rapida come un lampo. Si girò interrogativo verso Arthur. Lo trovò che lo stava fissando, un minuscolo ghigno subito soppresso aveva rotto la sua maschera di creta.
Le sopracciglia dell’americano si inarcarono ulteriormente. La sua mano scese, tentennante, sul torace e vi restò per un paio di secondi, prima di essere ritratta con un urlo.
− Arthur! – gridò – Ma lui è...
Arthur non riuscì più a trattenersi e scoppiò a ridere. Alfred sembrava impazzito.
− Lui... respira! Arthur, lui è ancora VIVO!
Arthur si coprì il volto con la mano, cercando di nascondere la sua ilarità. Alfred abbassò immediatamente il capo sul petto di Feliciano, posando l’orecchio dove avrebbe dovuto trovarsi il muscolo cardiaco. Lanciò un altro urlo.
− Arthuuur! – si rialzò con uno scatto – Il suo cuore! Ho sentito il suo cuore battere ancora! Arthur, smettila immediatamente di ridere come una iena e spiegami perché cazzo questo tizio respira ancora!
Arthur si calmò, continuando però a sorridere sotto i baffi.
Alfred lo raggiunse con un paio di balzi e si trovarono entrambi sul ciglio della porticina, in modo da non avere quel corpo straordinariamente ancora in vita tra i piedi, a fissarsi in attesa di spiegazioni.
Arthur guardò il ragazzo negli occhi, un sorrisetto insolente sulle labbra sigillate: − Surprise, motherfucker. A quanto pare non ho commesso un omicidio di primo grado. Oh, come sono spiacente. −
Alfred lo fissò con fiamme azzurre ardenti dietro gli occhiali, le guance erano ridotte a macchie rosse nella faccia congestionata. Gli soffiò addosso come un drago: − Oh, tu...
− Guarda che faccia che hai. Sembri deluso. Che c’è, speravi che il cattivone avesse adempiuto al suo ruolo, così che tu potessi entrare in azione? Mi dispiace deluderti, eroe, ma io non sono malvagio fino a quel punto, che ti piaccia o no.
Notando l’espressione sbalordita nel volto dell’altro, come se avesse appena involontariamente dato voce ai suoi pensieri, Arthur sentì un colpo allo stomaco. Lui aveva detto tutto ciò con tono sarcastico, dando per scontato di non essere una bestia, ma a quanto pare i suoi timori si erano dimostrati fondati: almeno agli occhi della gente lui era la Bestia. Una rabbia cocente gli salì alla testa e fu costretto a sopprimerla.
Arthur tornò serio, un’ombra scesa sul suo volto e la voce aspra come veleno: − Davvero pensavi che avessi ammazzato quel poveraccio?
Alfred distolse lo sguardo, improvvisamente a disagio. Arthur rincarò: − Pensavi sul serio che potessi fare qualcosa del genere, magari a sangue freddo? Guardami quando ti parlo, dannazione! – gli prese il volto tra le mani e lo costrinse a incontrare i suoi occhi, − Ti sembro un assassino, io?
Alfred deglutì. Non voleva rispondere, ma era costretto.
− Avevo paura che avessi fatto qualcosa di cui ti saresti pentito in futuro.
− Quindi mi credi un criminale...
− Mi ascolti quando parlo, razza d’imbecille? – si tolse rabbiosamente le mani dell’altro dal volto, − Non ho mai detto questo! Non cercare di leggermi nella testa, sei incapace di capire cosa pensano le altre persone quanto me! –. La sua voce s’incrinò nell’ammettere una verità alquanto vergognosa: − Io... mi ero sbagliato.
− Sbagliato?
− Sì! – accidenti, Alfred, contieniti, non sei una donnicciola, − Ero convinto che tu lo avessi ucciso! Come credi che mi sia sentito quando ho visto quel corpo a terra e tu... tu con quella faccia di ghiaccio, come se alla fin fine non te ne importasse nulla? Solo l’idea che mi fossi sbagliato sul tuo conto, che mi fossi fidato e che avessi tradito la mia fiducia approfittandone, ecco, mi ha sconvolto. Ma devo ammetterlo: mi ero sbagliato. E sono dannatamente felice di essere nel torto, perché il fatto che tu abbia cercato di rimediare al tuo colpo di testa, salvando la vita a quel poveraccio, è la prova che non sei un “cattivo”. Ora ne ho la certezza.
Arthur rilassò i muscoli. – No, non sono un cattivo. – mormorò.
Le braccia muscolose di Alfred gli avvolsero il busto in un abbraccio. La testa del ragazzo si appoggiò sulla sua spalla destra, le guance entrarono in contatto, entrambe tiepide come il loro respiro. – Siamo amici, nonostante tu continui a sostenere il contrario – sussurrò Alfred, il fiato spostò una ciocca di capelli di Arthur, − e gli amici non agiscono alle spalle dell’altro, ma si sostengono a vicenda, in ogni situazione.
Ora anche Arthur gli cingeva la schiena godendosi quel gesto di inusuale affetto, il sapore amaro della rabbia scomparso. Una strana sensazione offuscava i suoi sensi, inducendolo a socchiudere gli occhi e non pensare a nulla. Sì, forse era felicità.
“Un amico...” fu il solo pensiero che riuscì a emergere nella sua mente. Il cuore aumentò i suoi battiti, in un impeto di pura felicità. Forse aveva ragione lui. Forse erano davvero amici.
L’abbraccio, però, non era destinato a durare a lungo. Alfred lo sciolse, mentre sul suo viso si dipingeva un’espressione grave. − Vorrei che i nostri problemi ora fossero finiti, ma a quanto pare siamo solo all’inizio −. Indicò lo sgabuzzino e Feliciano svenuto sul pavimento al suo interno, senza che accennasse a nessun segno di vita se non un leggerissimo respiro che, lo si notava solo ora, gli sollevava il torace ritmicamente. – Quello lì tra poco si sveglierà... nella migliore delle ipotesi, altrimenti sono cazzi amari. Dobbiamo trovare il modo di liberarci di lui. Sicuro come l’oro che, se lo lasciassimo a piede libero, ci ritroveremmo entrambi dietro le sbarre per tentato omicidio o chissà cos’altro.
Alfred sospirò, sconsolato. – Forse la soluzione è soltanto una.
− Approfittare della sua incoscienza e ucciderlo?
La proposta di Arthur lo fece scuotere con un brivido. −  Vorrei che ci fosse un’alternativa.
− D’altronde devi salvaguardare il tuo status di “Eroe”.
Alfred sorrise. – Esatto.
Arthur si grattò il mento, pensieroso. Erano finiti in una situazione estremamente rischiosa, da cui non sarebbero usciti se non collaborando.
− Forse è meglio se ci beviamo sopra, che dici? – propose. – Una mente idratata ragiona meglio.
− Sappi che non ho alcolici a disposizione.
− La vuoi piantare? Non sono un alcolizzato, accidenti! Perché ti sei messo in testa che lo sia?
− Perché gli inglesi sono così, sempre con la loro pinta di birra in mano e pronti a festeggiare nel modo più estremo S. Patrizio.
− Smettila di ragionare per stereotipi. E comunque quelli sono gli irlandesi, idiota.
Alfred alzò le spalle. – Stessa razza – commentò. Si beccò un calcio sullo stinco.
Uscirono entrambi dalla cucina, Alfred zoppicante e Arthur con una vena pulsante sulla tempia. – Yankee ignorante che non sei altro. Paragonarmi agli irlandesi... – ringhiava. L’americano si massaggiava la gamba dolorante, lagnandosi sottovoce.
− Ahiahiahi... Forse è una domanda inutile e quasi sicuramente lo è, ma posso saperlo lo stesso? – domandò quando furono nella postazione dietro il bancone.
− Spara.
− Prima, mentre stavi parlando con Vargas, intendo prima che accadesse il casino... si può sapere che è successo?– alzò un sopracciglio, guardandolo storto. − Cioè, ho capito che ti ha riconosciuto e tutto il resto, però come motivo mi pare un po’ debole per scatenare una tale reazione da parte tua. O mi sbaglio? Ha fatto qualcosa di terribile come criticare la tua cucina?
Arthur si grattò una guancia, imbarazzato; era restio a confidare così il suo momento di bestiale debolezza, altezzoso com’era trovava il tutto di una trivialità inaccettabile. Dovette però cedere alla richiesta, parlando con voce bassa quasi inudibile: − Beh... a dire il vero, è stato il suo atteggiamento analogo a quello della rana gourmet a ridurmi a un mostro privo dell’umana compassione e d’intelletto. Forse è stata quella la molla, la scintilla che ha generato il disastro. La sua arroganza intollerabile, come se non fossi degno di ripresentarmi a testa alta, come se dovessi passare il resto della mia vita con il peso della colpa sul cuore... e la sua risata. Proprio come quella di quell’essere. Oh, non sono riuscito a sopportarlo e ho dovuto farlo tacere, fosse pure per sempre.
Alfred si era chinato davanti al frigo delle bibite fresche, sull’atto di sceglierne una tra quelle ammucchiate. Dato che era distratto, ci mise qualche secondo per tradurre il concetto in un linguaggio a lui più familiare e lo riassunse in: − Quindi, l’italiano ti ha ricordato Francis e la cosa ti ha fatto incazzare al punto tale dal stordirlo?
− Ѐ quello che ho detto. L’ho colpito svariate volte con il bollitore del tè, shame on me.
Il ragazzo spalancò gli occhi: − Tu cosa? –. Scrollò la testa, incredulo, senza riuscire a trattenere una risata sguaiata. − Ma davvero! Da un inglese non mi sarei aspettato nulla di diverso! E poi dici che non devo ragionare per stereotipi!
− Se non stai zitto ti cucio la bocca.
Alfred rise nuovamente. – Buono, buono. Non voglio incorrere nella tua ira.
− E fai bene.
− Vai a sederti, piuttosto, che prendo qualcosa anche per te. Ho come l’impressione che tra poco mi cadrai a terra senza sensi pure tu.
Con un grugnito, Arthur superò il bancone e andò verso uno dei divanetti. Si stravaccò, trovandosi improvvisamente stanchissimo. Alfred tirò fuori una lattina e si lamentò ad alta voce, non si sa se rivolto all’altro o solo per dare aria alla bocca: − Dammnit, quel moccioso si è scolato quasi tutta la mia scorta di Mountain Dew Soda. Spero solo non gli faccia male. Bah, e vada per la Seven Up.
Arthur alzò un sopracciglio. – Mi aspettavo una reazione peggiore da parte tua, avido come sei. Qualcosa come “Oddio, chiamerò i suoi genitori perché vengano qui e presenterò loro il conto di tutte le schifezze che ha ingurgitato il loro figlioletto senza pagare”. Dov’è finita la tua mania per il denaro?
Alfred arrossì leggermente: − Ho fatto amicizia con Peter, il ragazzino.
− Amicizia? Con lui? Dì piuttosto che aveva la bocca troppo piena di cioccolata per poterti insultare.
− Non sono tutti acidi come te, Arthur. Mi ha riempito di chiacchiere e aneddoti molto interessanti, in particolar modo sul suo capo.
− Immagino che a lavorare per un italiano ci s’incappi in molte cose divertenti, anche se dubito che un dodicenne possa capirne totalmente il senso. If you know what i mean...
Alfred annuì. Stappò la sua Seven Up, ne bevve una grossa sorsata e fu grato di quel miscuglio zuccherino e frizzante al sapore di limone che gli scese per la gola, solleticandogliela. Emise un “Aaaaahhh” soddisfatto quando finalmente fu completamente giù nel suo stomaco. Fece per offrirne una lattina anche ad Arthur, ma lui declinò gentilmente l’offerta con un gesto della mano. – Non ho sete. – gli spiegò. In quel momento era evidente la sua brutta cera, come se fosse stato malato di un brutto male.
− Non fare il guastafeste. Bevi un goccio, su, che ti fa bene. Così diventi grande e forte come il sottoscritto.
Gli lanciò con una mira straordinaria una seconda lattina, che gli arrivò dritta tra le mani. Con un sospiro, Arthur l’aprì e ne bevve un sorsetto.
− Sai, sembra che Feliciano e il fratello, Lovino mi pare si chiami, in questi ultimi giorni non erano molto affiatati, sia sul luogo di lavoro che in privato. – Alfred aveva cominciato a parlare delle chiacchiere riferitegli dal ragazzino, − Per questo motivo hanno entrambi deciso di tornarsene in Italia in anticipo e in contemporanea. Di solito ci vanno in momenti separati, sai, per mandare avanti la baracca. Mi segui?
− Uh-uhm. Vai avanti. – Arthur centellinava la sua bibita, gli occhi tenuti chiusi, ma nonostante l’apparente noncuranza ascoltava attentamente il discorso.
− Dicevo... Lovino Vargas è già partito. I due fratelli vivono in due parti opposte dell’Italia, uno al Nord e l’altro al Sud, quindi sono entrambi molto indipendenti e autonomi l’uno dall’altro. Feliciano Vargas, come sai, credono tutti che in questo momento sia sull’aereo diretto per il suo paese... e quindi nessuno s’insospettirebbe se non lo vedessero più in giro. Non lo verrebbero neppure a cercare.
− Alfred? Cosa stai cercando di insinuare?
Alfred bevve un’altra sorsata di bibita e schioccò la lingua. La sua voce si fece più bassa, da cospiratore: − Di là abbiamo un giovane uomo cui, se lo lasciassimo andar via, la prima cosa che farebbe è andare dalla polizia, magari proprio dal suo amico agente, a denunciarti di aggressione. Ora, mi dici cosa abbiamo intenzione di fare?
Arthur arricciò la bocca per il retrogusto dolciastro della Seven Up. – Una soluzione sarebbe farlo tacere per sempre. – mormorò, un verso cinico e senza inflessioni. Alfred sospirò, appoggiando il mento sulle mani intrecciate, scrollando leggermente la lattina tra le dita.
− Ah sì. Potremmo anche farlo ma... non mi ci vedo a uccidere gente. Inoltre, dove nasconderemmo il cadavere? Riusciremmo a vivere con un tale peso sulla coscienza? Eccetera.
− Effettivamente non siamo proprio la coppia di assassini per eccellenza. – commentò Arthur, socchiudendo gli occhi.
− Beh, secondo questa logica, neppure Thelma e Louise avrebbero avuto ragione d’esistere, ma non è questo il punto.
− Hai ragione. Scusa, ti ho interrotto.
Alfred mise giù la lattina e superò il bancone, mettendosi a girare per il salone come una trottola rumorosa. Lo zucchero contenuto nella bibita stava cominciando a eccitare i suoi nervi meglio di una droga, trasmettendogli una foga che aumentava il battito del suo cuore. Negli occhi azzurri brillava una luce particolare, che poco aveva di “buono”. Si fermò davanti alla vetrata, guardando qualcosa d’invisibile nella nebbia, mentre un sorrisetto gli iniziò a curvare le labbra.
− In ogni caso, ucciderlo... non trovi anche tu sarebbe un peccato? – anche il suo tono, di solito così stridulo, si era fatto dolce. Parlava a voce bassa ma esaltata, come se stesse ragionando un piano top secret.
− Peccato?
− Sì... – il luccichio aumentò di potenza, − uno spreco. Un ragazzo così giovane e di talento, come se ne trovano pochi... un cuoco provetto... che peccato sarebbe lasciarselo sfuggire...
Alfred posò le mani sul vetro, le unghie ticchettarono sulla superficie. Si girò verso l’altro.
− Se capisci cosa intendo – disse. Un altro sospiro. – Un grosso, grosso spreco.
Allargò le braccia, a indicare tutto il locale. – Tu che hai già lavorato qua, sai quanto costa avere alle proprie dipendenze un lavoratore salariato, specie di questi tempi con lo stipendio minimo e altre minchiate...
Arthur alzò lo sguardo: cominciava a comprendere. Il sorriso di Alfred s’ingrandì.
− Bene, hai capito. Prendi il McDonald dall’altra parte della strada. Ha un enorme successo dal momento che utilizza studenti e disperati al suo servizio, sottopagati e sfruttati come bestie. Ma il Mc non è che una catena, puoi andare dappertutto e trovarne uno, mentre l’Eagle esiste solo qua in Fleet Street... e il nostro lavoro non ha paragoni con il loro...
Ridacchiò. Gli occhiali scesero sul naso e lui lo arricciò per tirarli su. Alfred continuava a parlare, perso nei suoi pensieri che crescevano via via di euforia. Si era fermato tra i tavoli, come se dovesse permettere al concetto di attecchire e il solo modo di farlo fosse bloccare il suo corpo. Il suo sguardo trasmetteva puro fuoco turchino.
−  Sì... agli affari serve una spinta... i debiti vanno sanati al più presto... che poi con le sue qualità potremmo imparare ad attirare più clienti... sarebbe una risorsa impareggiabile −.
Arthur strabuzzò gli occhi, il corpo già teso per l’anticipazione. Aveva capito cos’avesse in mente l’altro.
− Al, se stai pensando quello che penso io... è un’idea splendida! – Arthur si alzò a sua volta in piedi spalancando le braccia. – Sul serio, è un colpo di genio!
Alfred si girò verso l’altro esibendo un sorriso gigantesco: − Lo pensi davvero?
− Assolutamente! Ѐ l’idea più geniale che ho mai sentito uscire da quella tua boccaccia! Oh, sono così fiero di te, come ho fatto tutto questo tempo senza il tuo aiuto?
Alfred, il cuore che batteva feroce nel petto gonfio d’orgoglio, alzò la lattina come per un brindisi. – Yaaahiii! – strillò – Sono così felice! Potremo davvero sfondare ora!
− Sicuro! Voglio proprio vedere chi oserà criticarci se abbiamo tra le fila un cuoco come lui!
Arthur gli fece posare la lattina, lo prese per un braccio e lo portò davanti alla vetrata, indicandogli il paesaggio annebbiato e ormai buio, da dove in teoria si sarebbero dovuti vedere gli altri negozi della via. Radi passanti sbucavano improvvisamente, scomparendo subito, come abitanti di un sogno.
− Li vedi? – domandò.
− Chi?
− L’umanità. – Arthur fece una smorfia sarcastica, − Questa umanità vagante ed effimera, che usa altra umanità a suo piacimento e allo stesso momento è usata lei stessa. Ѐ la catena della vita. Lo senti, lo senti dappertutto questo suono, di piedi che schiacciano teste di altri uomini pur di arrivare più in alto, per arrivare a quello che sembra il cielo ma non è che un’illusione, perché per quanto si tendono non ci riusciranno mai. Eppure è così da sempre. E chi siamo noi per impedire tutto ciò?
Alfred ghignò, non si capiva se fosse maligno o malinconico. – Non siamo peggio di loro.
− Benvenuto nel mondo reale, amico mio.
− Dove i più forti si servono dei più deboli.
− Ma stavolta sarà il contrario e ci serviremo noi dei forti!
Scoppiarono insieme a ridere. Il salone rimbombò delle loro voci, amplificandole.
− Allora lo facciamo? Ci teniamo l’italiano? – domandò Alfred quando si calmarono, per ottenere la conferma definitiva.
− Sì. Ma per farlo, dovremo svegliarlo. Su, andiamo, Mr J!
− Ai suoi ordini, Mr K!
 
* * *  PICCOLA TREGUA  * * *
 
C’è un detto che dice “Chi lascia la strada vecchia per la nuova, sa quel che perde ma non sa quel che trova”. Era proprio il caso di quel disgraziato, che stava abbandonando per il momento ogni obiettivo precedentemente ideato per abbandonarsi all’incognito dell’improvvisazione. Era un’idiozia, non c’è dubbio. Avrebbe potuto fallire, mentre se avesse seguito il piano la vittoria sarebbe stata assicurata, anche se a costo della sua anima.
Però sapeva, sapeva!, di star facendo la cosa giusta.
Forse. O forse no.
Se fosse la scelta che aveva fatto fosse la più appropriata, non lo sapeva lui e non lo sappiamo neppure noi che leggiamo la sua storia.
Tutto quello che possiamo fare è aspettare e tenere incrociate le dita, mentre per il momento la questione resta in sospeso.
 
* * *
 
Lo avevano messo dritto e legato i suoi polsi dietro lo schienale di una sedia. Il suo capo castano era privo di qualsiasi sostegno, chino quasi al punto che il mento toccava lo sterno. Ovviamente era ancora incosciente.
I due neo aguzzini stavano lì davanti a lui, decidendo sul da farsi. Erano ancora nello sgabuzzino, con solo una misera lampadina a schiarire il buio che avanzava e aveva invaso anche il locale.
− Per me è una cazzata – sentenziò Arthur, voltando il volto dall’altra parte. Avendo le braccia ostinatamente incrociate sul petto, era chiaro il suo rifiuto di partecipare a quello che l’altro chiamava “dolce risveglio”.
− Cazzata? Cosa dici, se l’ho visto decine di volte nei cartoni animati!
− Oh bene, da “lo fanno sempre nei film” a “l’ho visto nei cartoni animati”! Di male in peggio...
Alfred sbuffò. Quel tipo era proprio un guastafeste coi fiocchi.
− Ok, se proprio devi farlo spicciati, così la facciamo finita una volta per tutte – sospirò Arthur con le mani alzate in segno di resa. Alfred sorrise, compiaciuto della vittoria. Aveva in mano una bacinella di plastica, utilizzata solitamente per mescolare le spezie con cui condire la carne, piena d’acqua.
− Guarda come si fa! American style! – strillò. Un passo indietro come per un lancio in una partita di baseball, ci fu un rapidissimo guizzo dei muscoli e in meno che non si dica il recipiente fu svuotato del suo contenuto. SPLAAAAASH.
Feliciano fu inondato da mezzo litro d’acqua, infradiciandosi sia la testa che buona parte del torace e dei pantaloni. Ma non si risvegliò.
− Oh, cazzo. – Arthur imprecò notando che il piano non stesse funzionando. – Perché non si sveglia? Che abbia qualche danno al cervello? Oddio! – gli occhi verdi si spalancarono colmi di ansia, − Che gli abbia procurato dei traumi spostandolo? Che sia andato in coma?
Keep calm, old man. Non vedi? Ha fatto una smorfia. Reagisce, anche se non apre gli occhi.
Feliciano aveva infatti arricciato il naso. Pochi secondi dopo starnutì e mosse piano le labbra, mormorando qualcosa: − Gnnn... ancora cinque minuti, Ludwig... Ho sonno...
“Ludwig? Ma non si chiamava Lovino? Oh beh, non importa, forse sta sognando”. Alfred fece l’occhiolino al socio. Arthur di rimando lo guardò storto. Quell’ammiccamento significava “a mali estremi, estremi rimedi” e lui aveva sinceramente timore di cosa potesse uscire da quella testaccia. Di nuovo.
− Eccolo! Ci siamo quasi. Ancora un piccolo sforzo e lo riporteremo nel mondo dei vivi.
− Che hai intenzione di fare adesso?
Alfred rise. “Oh no” pensò Arthur “Me lo sentivo, adesso fa qualche idiozia delle sue”
− Dal momento che la secchiata non è servita, dobbiamo usare un metodo più duro! Diciamo un trattamento d’urto! – annunciò Alfred, schioccando le nocche. Arthur si coprì il volto con le mani, preparandosi psicologicamente all’impatto. L’altro lo fissò perplesso.
− ‘Mbè? Qualche problema?
− Ho seriamente paura che tu possa distruggere la mia cucina nel solo tentativo di svegliarlo.
− Non dire stupidaggini! – Alfred si mostrò offeso come se avesse effettivamente pensato di farlo, ma poi avesse cambiato idea. – Niente di pericoloso. Solo, adesso ti mostro come io conosca la razza italiana meglio di te.
Arthur ridacchiò sarcastico. Si allontanò comunque di qualche passo, tanto per evitare eventuali ripercussioni sulla sua persona. Alla faccia della fiducia.
− Guarda e impara, brit!
Alfred si mise le mani a coppa davanti alla bocca, si avvicinò al volto dell’italiano (non troppo, non voleva assordarlo) e urlò a pieni polmoni: − MA CHE BUONA CHE Ѐ LA PIZZA CON PROSCIUTTO E ANANAS!
ERESIAAAAA!!!
Gli occhi castani dell’italiano si spalancarono in contemporanea con la sua bocca. Si richiusero quasi immediatamente, accecati dalla luce improvvisa, ma continuò a gridare indignato, con la bocca impastata: − Eresia! Chi è quel mona che osa dire una cosa simile... ehi...! – Riaprì piano le palpebre, mettendo a fuoco l’ambiente circostante. Appariva confuso: la testa gli girava come se avesse dormito per troppo e fosse ancora intontito. Provò l’impulso di stropicciarsi gli occhi ma si accorse di non riuscire a muovere le braccia. E neanche le gambe. Cadde nel panico. – Oi! Sa xe suceso?’Ndo sonti finìo? – si agitò violentemente, rischiando di rovinare a terra.
− Ѐ inutile che ci provi. Puoi notare da te che sei legato e che quindi non puoi muoverti, tantomeno scappare.
Feliciano alzò lo sguardo verso l’origine della voce. Strizzò nuovamente gli occhi, cercando di ricordare dove avesse già visto quel tipo che aveva parlato. Lo conosceva? Il volto sorridente, il corpo massiccio, gli erano familiari ma nella testa aleggiava una nebbia che intorpidiva i ricordi.
Vicino alla porta, invece, stava in piedi un’altra persona che gli fu molto più facile da rammentare.
− Signor Kirkland...? – mormorò.
− Ben svegliato, Feliciano. – Arthur si avvicinò, serafico come un gatto. – Come stai? Ti gira la testa?
− Io... sì, mi gira tutto. Signor Kirkland, dove mi trovo?
Alfred s’intromise come suo solito. − Benvenuto al The Eagle, il fast-food più stelle e strisce della City! Il mio nome è Alfred F. Jones, pronto a servire i migliori hamburger di Londra! – Si posizionò davanti a Feliciano, quel suo sorriso largo che gli riempiva la faccia. – Ma non penso che nella condizione in cui sei adesso ti interessi un deliziosissimo hamburger. Mi sbaglio? Devi avere ancora gli uccellini che ti svolazzano intorno, dopo tutti i colpi che ti sei preso.
− Come... cosa? – mormorò Feliciano. La luce traballante della lampadina gettava orribili ombre scure sui volti dei due in piedi, rendendo la situazione ancora più inquietante di quanto non fosse già. Rabbrividì, sia di freddo che di paura.
− Mi sembri un po’ confuso. Ti ricordi cosa è successo prima che perdessi i sensi?
− Ho perso i sensi? Ecco perché mi sento così... –. Chiuse le palpebre, mentre la nausea prodotta dal vino ingerito risaliva per la gola, contemporanea all’emicrania. Gli sembrava che nella testa ticchettasse una bomba pronta a esplodere. − Più o meno... ricordo che volevo parlare da solo con Kirkland e che mi avesse accompagnato in cucina...  
Lo sforzo mentale riportò lenti i ricordi a galla, insieme a un viscido senso di panico che s’impadronì lento del suo corpo. La mente si sdoppiò: una parte ascoltava Alfred F. Jones parlare di cosa era successo dopo l’ennesimo “incidente”, dall’altra i ricordi di quel pomeriggio maledetto, in una fusione priva di ordine logico come nei sogni.
Quel dannato sospetto divenuto in così poco tempo certezza, non appena aveva riconosciuto Arthur lì al mercato. L’inglese era tornato a Londra perché voleva fare del male al Fratellone Francis, voleva terminare quello che non era riuscito a compiere un anno prima. Il solo pensiero aveva riempito Feliciano di rabbia, un sentimento che sovrastava la paura e il suo istinto di vittima. Quando, però, ne aveva parlato a Lovino, il quale era chino sulle sue valigie ormai pronto a partire, si era sentito urlare contro per l’ennesima volta in quella settimana. La scena era vivida come un film proiettato dalla mente, le parole aspre rimbombavano contro di lui con un potere nuovo e amplificato.
Rivide i suoi occhi sprezzanti, il digrigno dei denti quando l’aveva interrotto nelle sue preparazioni. “Che cazzo me ne frega a me?” aveva detto, buttando irosamente una maglietta tra le sue cose. “Quella checca francese può anche andarsene a fare in cu...” “Lovi, ti prego!” l’aveva supplicato lui “So che ti sta antipatico, ma ascoltami! Credo sia una cosa seria!”. Lovino, per tutta risposta, era scoppiato a ridere. “Fratellino mio” gli aveva ribadito con un tono insolitamente quanto falsamente dolce, “Io adesso me ne torno a casa. No me rump o’cazz. Non me ne può fregare di meno se quello stronzo del tuo ex capo vuole ammazzare il lumacone. Faccia pure. Non è problema mio”. Aveva chiuso la valigia con un tonfo secco. “E neanche tuo.” Allora Feliciano aveva deciso che...
− ... non volevamo ucciderti. Perché noi non siamo cattivi, noi siamo i buoni, e che cavolo!  Però se ci fai incazzare potremmo anche cambiare idea, ma sono sicuro che andremo d’accordo. Arthur ha fatto tutto il possibile per tenerti in vita, a partire da... come si chiama? Ah, sì, posizione di sicurezza, che boh, io non sapevo neanche esistesse qualcosa di simile, ahahah, fortuna che c’era lui. All’inizio ero sicurissimo fossi morto, sai, ma poi ti ho visto respirare e ho capito... –
... se una cosa la volevi fatta (e fatta bene!), dovevi fartela da solo. Peccato che Feliciano fosse debole. Non c’era speranza che lui, una sessantina chili per un metro e settantadue, fisico gracile e codardia radicata nel profondo, potesse affrontare a muso duro qualcuno. Non ci volle molto che il bel proposito di proteggere un amico sublimasse in una mera questione di orgoglio. Un riscatto personale, ecco cosa ci voleva. Aveva avuto questi pensieri seduto alla tavola del pranzo, mentre sentiva Lovino cantare, in procinto di andarsene e prendere il suo volo diretto a Napoli. Il musetto corrucciato, così comunque tenero alla vista, appoggiato sulle braccia piegate sulla superficie di legno compensato; davanti agli occhi scintillava di riflessi rubini il bicchiere pieno per metà di vino, mentre di fianco ci stava la bottiglia, ormai vuota. Nessuno l’avrebbe mai appoggiato, né Lovi, né Ludwig, neppure il nonno se fosse stato ancora in vita, nessuno avrebbe mai creduto ai suoi sospetti e tantomeno alla sua impresa. Ma questo, l’inglese non poteva saperlo. Un sorrisone gli era spuntato sulle labbra mentre la mente iniziava la sua discesa verso gli abissi guidato dall’alcol. Era allora che gli era venuto in mente...
− ... sì, insomma, sei un italiano, la buona cucina ce l’hai nel sangue! Però mi sa che dovrò farti da guardiano, perdonami la mia poca fiducia ma sai com’è, ahahahaha! Non vorrei mai che ti venisse in mente di scappare appena giriamo lo sguardo. Con me questo rischio è pari a zero, sono molto abile nel tener d’occhio chi di dovere! E se soltanto ci provassi, beh, ti farei pentire di quest’azzardo. Comprendi dove voglio arrivare, caro il mio Vargas? –
... e quando Lovi era finalmente uscito, aveva telefonato a Tino per avere il suo permesso di portare in giro Peter un’ultima volta.“Sai, stasera devo partire!” gli aveva detto, o qualcosa del genere. Aveva coperto alla grande la sua assunzione forse un po’ troppo eccessiva di alcol, risultando affidabile come suo solito. In piazza New. St Square, poco lontano da dove si trovava la sua ultima tappa, alle sei e un quarto, a prendere il ragazzino sarebbe stato Berwald e non lui, ma pazienza. Aveva tutto il tempo del mondo.
− ... però, sai, Arthur mi ha detto di fare questa cosa e tu d’altronde hai bisogno di un posto decente dove dormire, così sono stato costretto a... –
Dopo avergli tenuto compagnia quell’ultimo pomeriggio, quanto tempo sarà stato? Due ore? Un’oretta e mezza, forse, Peter gli aveva tenuto un po’ il muso perché gli aveva messo fretta per andare a trovare “quei due”. “Tranquillo” lo aveva rassicurato “appena torno in Inghilterra ti porto a fare una super gita!”. Ed erano arrivati al locale. Ricordava la nebbia, peggio di quella sulla laguna in certe giornate invernali, talmente opprimente che aveva paura a respirare, quasi gli entrasse nei polmoni e lo soffocasse. Ricordava che era partito in quarta, chiedendo di parlare con Arthur e quell’altro (si chiamava Alfred, giusto?) gli aveva piantato una scenetta per prendere tempo. Non sembrava avere tutte le rotelle a posto, quel ragazzo e il fatto che avesse il fisico di un giocatore di rugby non aiutava il sottile senso di ansia che lo aveva colto. Si era sbagliato. Era Arthur, il problema maggiore.
− ... Comunque, ah sì! Ti abbiamo legato alla sedia però non avevamo idea di come svegliarti, allora ho deciso di versarti una secchiata d’acqua addosso, come nei cartoni, hai presente? Non... non che io guardi ancora i cartoni. Solo alcuni. Però non ti svegliavi, e Arthur era tutto agitato che fossi in coma. “Non avere paura, ci sono qua io!” gli ho detto, avendo la situazione bene in pugno, e lui ha lasciato il posto all’eroe. Ed eccoti qua, sveglio e pimpante! Allora, hai capito la situazione? −.
Feliciano ricordava il sapore metallico della rabbia che era cresciuta come una marea dentro di lui. Ricordava l’ebbrezza dell’impresa, come se da lui dipendesse tutto. Ricordava quella risata isterica che gli era salita alle labbra come un conato, come se tenendola dentro sarebbe esplosa nelle sue viscere. Ricordava la sorpresa e il dolore dei colpi e le lacrime e quando aveva supplicato perdono per aver superato le colonne d’Ercole e aveva sfidato il mostro, oddio, adesso sarebbe morto, che male che male che maleee...
E aveva sentito un’altra risata, che non era di Arthur, che non era la sua, che non era di nessuno ma era di una bestia immensa che voleva prendersi la sua anima come pegno. Un calore cocente come quello delle fiamme dell’inferno lo aveva avviluppato. Poi, dal buio, quella luce piccolina aveva sconfitto la bestia, che era scivolata nella sua tana, promettendo di tornare un giorno. La lucina era scomparsa. Tutto era tornato nero
Si mise a strillare in una lingua che non capirono, cercando inutilmente di muovere almeno le braccia ma rischiando solo di precipitare sul pavimento.
− Su, su – fece Arthur, bonario – va tutto bene. Non c’è bisogno di urlare in questo modo.
Feliciano serrò forte le labbra, ma la paura non scomparve dal volto pallido. Lo strofinaccio che serviva da garza cadde per metà sul suo occhio destro e Alfred glielo tolse, trattenendo un verso di ribrezzo. Le ferite non sanguinavano più, ma in compenso lo straccio era ormai da buttare.
− Vi prego! – gemette Feliciano, notando le evidenti macchie di sangue presenti sulla stoffa e intuendo che erano uscite da lui, – Vi prego, non fatemi del male! Mi dispiace di essere venuto qua, se mi lasciate vivere non dirò niente a nessuno! Farò qualunque cosa, ma non fatemi del male...
Le lacrime stavano già scorrendo sulle guance arrossate.
“Ѐ davvero lo stesso ragazzo di prima? Quello che mi ha affrontato spudoratamente, che mi ha riso in faccia, che voleva vendicare Francis? Ѐ proprio lui, questo che supplica per avere pietà?” pensò Arthur stupefatto, osservandolo tremare e piagnucolare. Incredibile la psiche umana. Un momento prima sei un gigante e il momento dopo sei tornato formica. Chissà qual era stata la pozione magica che l’aveva trasformato.
Oh, giusto: Feliciano aveva bevuto vino prima di venire. I suoi freni inibitori erano stati allentati, era stato questo a convincerlo a fare quell’azione incosciente. Ora, dopo il risveglio, tutto l’effetto dell’alcol era svanito. Forse, se avesse bevuto un goccio, avrebbe riacquistato quella baldanza... ma non c’era alcol nel locale.
− Senti, non abbiamo alcuna intenzione di infierire su di te. – disse – Ma sento che se continui a frignare ancora, a un certo punto perderò la pazienza e dovrò farti star zitto con la forza. Alfred, per favore, vagli a prendere qualcosa da bere, una delle tue bibite strapiene di caffeina possibilmente. Chissà che non si rimetta in sesto.
Alfred obbedì seppure un po’ malvolentieri; gli era rimasta della diffidenza al lasciarlo da solo, nonostante i suoi sforzi.
Appena fu fuori, Arthur si avvicinò a Feliciano fino a che la distanza non si ridusse a meno di un metro. Gli stava proprio di fronte. Rimasero per un po’ a fissarsi, come due bestie che si studiano a vicenda, cercando di prevedere le mosse dell’altro. Feliciano aveva gli occhi arrossati e tirava su con il naso, senza però accennare ad abbassare lo sguardo. Respirava velocemente. Nelle iridi nocciola brillava palese l’istinto della preda. Un animale braccato che non ha più nulla da perdere, se non la vita.
− Sono stato un idiota – mormorò Feliciano, talmente piano che l’altro lo sentì appena. – Inutile credere di cambiare la realtà dei fatti. Rimango tale anche se cerco di salvare qualcuno, ma adesso è troppo tardi.
− Sei venuto qui perché eri sicuro che la vita di un tuo amico fosse in pericolo a causa mia.
Feliciano annuì. – E ho rischiato di perdere la mia. Un povero, debole idiota...
Arthur annuì. L’animo, intriso di ricordi amari, buttò fuori esso stesso veleno: – Credi forse che ti avrebbero dato una medaglia al valore? O anche solo ringraziato per il tuo sforzo? Per chi ti sei messo in gioco? Hai fatto solo quello che credevi giusto fallendo miseramente, mettendo in rischio sia te che altri. Sì, sei un idiota.
“E tu, Artie? Tu hai fatto quello che ritenevi giusto? Picchiarlo fino a credere che fosse morto, credevi avrebbe sistemato le cose?”
− Eppure... – continuò a voce più bassa. – Mi è impossibile biasimarti del tutto.
Feliciano tirò nuovamente su con il naso. – Dici davvero? – pigolò.
− Sì. Hai avuto un coraggio che molti non hanno mai sperimentato in vita loro.
Un sorriso tiepido condito di lacrime. – Ѐ per questo che hai avuto pietà di me e mi hai risparmiato?
− Semplicemente io non uccido le persone, nonostante si creda il contrario.
− Oh. – Feliciano abbassò nuovamente il capo. Con un filo di voce dolcissima, come se parlasse tra sé, disse – In ogni caso, non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici.
Arthur non se la sentì di chiedere il significato di quella frase dal sapore enigmatico. Vedendo il ragazzo tremare, raccolse da terra il cappotto e glielo poso di traverso sulle spalle, a mo’ di coperta. Pensieri pungenti come spilli traforavano il suo cranio. Aveva sfiorato per un soffio la dannazione eterna e stava incolpando qualcun altro del suo gesto disumano, qualcuno che al contrario di lui dava la motivazione delle sue azioni all’amore supremo, quello che non chiede nulla in cambio. Dare la vita per i propri amici.
 Si allontanò in tempo dal ragazzo prima che Alfred rimbucasse in cucina con una lattina in mano e una cannuccia nell’altra. Al stappò la bibita e v’inserì la cannuccia, prima di farla bere al prigioniero, senza ovviamente accennare al slegarlo. Feliciano aspirò una sorsata e mollò subito la presa. Sembrava un allucinogeno liquido estremamente dolce. – Blaaah! Che roba è? – domandò, disgustato.
− Soda! Credevo che Peter avesse finito tutta la scorta, invece ne è rimasta quest’ultima lattina, che fortuna! Non ti piace?
Feliciano allungò il collo per averne un altro po’: sì, faceva schifo, ma dava anche un’assuefazione immediata. L’effetto eccitante della bibita stimolò a tutta velocità i suoi neuroni, sovrastando istantaneo la paura, e quietò l’emicrania che stava avanzando minacciosa. Un secondo sorso, una seconda smorfia schifata e una seconda ondata di pace chimica. Il sapore zuccherino lasciava presto il posto a un’acidità terribile da sopprimere con altra soda, in un circolo vizioso che in poco tempo gli fece terminare la lattina.
− Peter... – la bocca non era più impastata ma la voce uscì ugualmente flebile. C’era qualcosa d’importante che riguardava sé stesso e il ragazzino, ma si era scordato cosa. – Ehi! Avete dato da bere a una simile porcheria a un dodicenne?! Se i suoi lo vengono a sapere, mi ammazzano! – protestò, prima di rendersi conto di quella cosa di fondamentale importanza.  −  Io ero venuto qua con Peter... dov’è adesso? Oddio, dovevo portarlo in piazza da suo padre! – strillò, in preda a un panico diverso dal precedente, forse addirittura peggiore. Arthur si affrettò a tranquillizzarlo: − Non preoccuparti, ce ne siamo occupati noi. Non sa neanche che ti abbiamo trattenuto, è convinto che tu ora sia sull’aereo diretto in Italia, come sarebbe stato giusto che fosse. Probabile che in questo momento stia cenando davanti alla tivù, a casa sua, come il 90% dei ragazzini a quest’ora.
Feliciano aprì la bocca tremante, ma non riuscì a dire nulla. Caspita, il volo! Sicuramente l’aveva perso. In ogni caso, sarebbe stato impossibile prendere il successivo, in quelle condizioni; la testa gli pulsava debolmente e quei due non sembravano intenzionati a lasciarlo andare via presto. Peter, però, era a casa sua. Toh, una gioia.
Nel frattempo, Alfred si era avvicinato, chinandosi su di lui, le mani congiunte dietro la schiena. La sua enorme ombra copriva la luce già fievole della lampadina, oscurandolo del tutto; l’unica cosa luminosa erano i suoi occhi azzurri.
− Ti starai chiedendo cosa vogliamo da te – disse.
− Effettivamente...
− Ottimo! Adesso te lo spiego io. – Alfred si sfregò le mani, − Tu sai cose che non dovresti sapere. Cose che potrebbero mandare in malora non solo il qui presente Kirkland ma anche me. Capisci cosa intendo?
Feliciano alzò le spalle, deciso a fare un tentativo nonostante non avesse capito affatto. − Cose tipo che la pizza con l’ananas fa cagare?
− Sì, tipo... ehi, no! – Alfred fece un segno di diniego con le braccia. – Cosa diavolo c’entra adesso la pizza?
− Beh, se nel vostro fast-food vendeste pizza con ananas e prosciutto, state sicuri che vi ritrovereste presto una folla di italiani inferociti che pretendono la vostra pelle ad attendervi sulla porta del locale.
O quel ragazzo era estremamente stupido o li stava prendendo per i fondelli; Arthur optò per la seconda ipotesi. Urlò: − Chissene frega! Non era questo che intendeva con “cose che non dovresti sapere”. Non cercare di cambiare discorso!
L’altro lo fissò con quegli occhi grandi e incredibilmente innocenti, senza capire. Evidentemente quei tizi non avevano mai dovuto placare l’ira di un fratello maggiore particolarmente suscettibile alle improbabili variazioni di ricette italiane, a differenza sua.
Arthur si schiaffeggiò la fronte: forse il ragazzo era stupido davvero. Prese una grossa boccata d’aria e spiegò: – Francis Bonnefoy. Mi hai accusato di essere tornato a Londra dopo tutto questo tempo per... per ucciderlo. – cavolo, dirlo ad alta voce era più difficile di quanto pensasse, − Hai minacciato di segnalarmi alle autorità, in particolar modo a un certo agente di tua conoscenza, il quale è stato lo stesso che mi ha arrestato e prelevato dal mio ristorante la prima volta.
− Ludwig?
− Forse era questo il suo nome di battesimo. Fatto sta che... è successa la cosa di cui ormai siamo tutti e tre a conoscenza. E ora tu sei qui, impossibilitato ad andare a spifferare quanto accaduto.
Feliciano aveva gli occhi lucidi di lacrime. – Ma... perché? – domandò, con voce tremula.
− Mi sembra elementare. Ero in preda alla rabbia, ho agito d’impulso.
Feliciano scosse la testa. – No, intendo... ora sono un testimone scomodo. Non sarebbe stato meglio per te se... se non mi fossi risvegliato?
Arthur rabbrividì. Era una domanda assolutamente logica, seppure priva di morale. Ma di quale morale poteva vantarsi lui?
Fu Alfred a rispondere: − Arthur non è un “cattivo”. Ha commesso un errore, ma ha voluto rimediare. – diede una pacca sulla spalla del socio, scuotendolo. – Giusto, Art? E comunque – tornò a rivolgersi al ragazzo davanti a lui – tu ci servi da vivo.
Feliciano piegò la testa da un lato, guardandolo di traverso. Ciò gli dava un’aria particolarmente poco intelligente. Arthur si domandò se quella fosse un’idea davvero valida e se non stessero facendo l’errore del secolo. In ogni caso era troppo tardi.
− Puoi capire da te che non possiamo lasciarti andare a piede libero. – continuò Alfred – Così abbiamo avuto questa idea grandiosa, o perlomeno io l’ho avuta −. Allargò le braccia per aumentare l’enfasi. – Tu resterai qua con noi.
− Eh? – Feliciano aggrottò la fronte. Non capiva.
− Conosciamo tutti la tua abilità tra i fornelli, ne abbiamo avuto prova oggi a pranzo. Quello che ti chiediamo è di rimanere a lavorare per noi, a tempo indeterminato. – spiegò Arthur. Feliciano inarcò le sopracciglia in una splendida imitazione dell’emoticon sorpresa. Perfino il ciuffo arricciato vibrò leggermente.
− Ah, e se dovessi rifiutare la nostra gentilissima offerta... – di nuovo Alfred e quel suo sorriso da pubblicità, solo che adesso aveva tirato fuori da chissà dove uno dei coltelli speciali di Arthur, − c’è sempre la seconda opzione. Capish? −. La lama volò pericolosamente vicina alla gola di Feliciano, facendolo strillare.
− Non credo ci sia bisogno di simili ricatti – lo rimproverò Arthur, affrettandosi a riprendere quell’arma impropria e riporla in un posto più sicuro, − Sono sicuro che il nostro amico qua sappia cos’è meglio per lui.
Feliciano stava già mettendosi a frignare, ma si zittì. Sembrò pensarci un po’ sopra.
− Volete dire che... sarò una specie di aiutante? – domandò.
− Esatto. Però senza stipendio e senza ferie e senza possibilità di farti vedere dal pubblico, altrimenti si scoprirà che ti abbiamo preso noi. E poi non abbiamo abbastanza soldi per un terzo stipendio... – Alfred sospirò, portandosi una mano al volto. Guardò il ragazzo attraverso lo spazio tra le dita, le fiamme azzurre dietro le lenti: – Sia chiaro, ogni tentativo di fuga sarà severamente punito, quindi non fare scherzi o finisci male. Comunque non penso ce ne sarà la possibilità perché ti terremo sempre sott’occhio. Lavorerai quando lavoreremo noi e terminerai quando termineremo noi, a meno che non abbiamo qualcosa da farti fare in surplus. Una sorta di schiavetto.
Feliciano ci ragionò ulteriormente sopra, mugugnando: − Niente stipendio, niente ferie o orari decenti, libertà limitata... caspita, nel mio paese le persone che fanno questa cosa li chiamiamo “stagisti”. Mi sono trasferito in Inghilterra per essere sfruttato come se fossi rimasto in Italia! Ahahahah!
Scoppiò in una risata cristallina, che fece sorridere persino Arthur, nonostante fosse resa agrodolce dai suoi occhi gonfi e ancora lucidi. Era incredibile come quel ragazzo rimanesse mogio solo per pochi secondi, prima di trovare il lato buffo o comunque positivo della situazione: c’era un sole che brillava nel suo spirito e s’intravedeva attraverso quel suono gioioso. Come diavolo faceva?, si domandò l’inglese. Era stato picchiato brutalmente, rapito, imprigionato, obbligato a diventare loro sottoposto... eppure conservava quella sorta di luce interiore. Arthur sentì che una parte dentro di lui stava languendo davanti a questo richiamo del bene, ma fu svelto a soffocarla. Non c’era tempo per le sciocchezze.
Alfred tese una mano verso Feliciano, in segno di amicizia. – Bene, se siamo d’accordo allora ti nomino “stagista” dell’Eagle! Congratulazioni!
Feliciano guardò perplesso la mano. – Devo stringertela?
− In teoria sì, non voglio mica che tu mi ci legga il futuro
Un sorriso dolcemente ironico gli curvò le labbra. Malgrado il cuoricino gli battesse impazzito nel petto, folle di terrore e disperazione, non riusciva a smettere di pensare quanto tutto ciò fosse ridicolo e oltremodo buffo. – Sei divertente. Ma mi dici come posso farlo, se sono legato?
Alfred spalancò la bocca davanti all'evidenza, leggermente imbarazzato. − Oh, hai ragione! Ahahahahah, scusa, provvediamo subito, però parla accidenti, non è che possiamo fare tutto noi, eh! Io mi ero pure dimenticato che fossi legato.
Arthur tolse il cappotto dalle spalle di Feliciano per togliere qualsiasi ostruzione. Alfred invece riprese in mano il coltellaccio e fece per tagliare le corde che imprigionavano i polsi dell’altro con un colpo solo, ma si accorse che la lama non era adatta. – Ma porca miseria, che schifo di arnesi tieni, Kirkland? Non taglia neppure il burro ‘sta roba!
− Vedi che lo utilizzi nel modo sbagliato, lascia fare a me. E non imprecare ad alta voce, Jones, non sei un dannatissimo bifolco, che cazzo! Un po’ di maniere!
Ora sia Alfred che Arthur erano alle spalle di Feliciano, al di fuori della sua vista. Per un attimo il ragazzo ebbe lo spaventoso presentimento che, per liberarlo, Kirkland gli avrebbe mozzato direttamente le mani. Chiuse forte gli occhi per liberarsi da quell’immagine spaventosa e lanciò un urlo mentre sentiva la lama scendere, inclemente.
Invece sentì chiaro il rumore del coltello che veniva nuovamente riposto. Arthur, tirò con decisione una delle corde penzolanti che formavano il nodo ed esso si sciolse come per magia. – Toh. Non era così difficile, come vedi. E smettila di sbuffare, non sei un cavallo!
Lo stesso procedimento fu fatto alle caviglie legate tra loro: ora Feliciano si poteva godere la riconquistata libertà e infatti si mise ad agitare le braccia come se volesse spiccare il volo, mentre riacquistava la sensibilità agli arti addormentati. Un fastidioso formicolio gli attraversava i muscoli e per cancellarlo si mise a fare uno strano balletto, sbattendo i piedi a terra e muovendo le dita convulsamente. Gli altri due lo osservavano l’uno divertito e l’altro perplesso. – Sei così contento di lavorare per noi che ti metti pure a ballare? – lo prese in giro Alfred. Feliciano rise in risposta. – Forse sono solo felice di essere ancora vivo e voglio festeggiare! – disse, a metà tra lo scherzoso e il serio. Aveva ancora una paura folle che gli scorreva nelle vene, dovuta al fatto che non sapeva cosa aspettarsi da quei due pazzoidi, ma la speranza innata che risiedeva in lui gli faceva vedere una luce nell’oscurità. “Non ho idea di come andrà a finire questo pasticcio in cui mi sono cacciato” pensava “quindi può andare malissimo come al contrario potrebbe esserci qualcosa di buono. Punto tutto sul lieto fine, poi staremo a vedere”.
L’accordo era stato stipulato, lo strano duo si era evoluto e trasformato nello strano trio.
Successero altre cose quella sera, cose la cui spiegazione rimanderemo a un futuro prossimo, tra cui una cena disastrosa, equivoci imbarazzanti e battibecchi che, con il nuovo membro, si sommarono a quelli che avvenivano già prima. Tutto normale, insomma, il ragazzo era solo una goccia in quel mare di follia che era l'Eagle. Fatto sta che quando Arthur si avviò finalmente verso casa si erano fatte ormai le dieci di sera.
Il cielo era limpido, la nebbia era scomparsa. Senza tutte le luci della città si sarebbero potute vedere le stelle, le tacite stelle, e Arthur rimpianse la loro mancanza. Nel suo animo aleggiava una strana sensazione, come se quelli fossero gli ultimi istanti di calma prima di un cataclisma. Il suo piano stava prendendo una piega contorta; ora aveva tra le mani non una ma ben due persone da cui tenere lontano ogni sospetto. Due, perché Alfred non lo contava, troppo ottimista per credere nella parte oscura del suo cuore, lo stesso cuore che ringraziava per l’occasione ricevuta di tornare alla Luce, lontano da quello. Era stanco, la testa rimbombava delle voci squillanti dei suoi nuovi colleghi (chissà come sarebbe andata, adesso che li aveva lasciati!) e già sentiva il bisogno di tornare all’Eagle per accertarsi che tutto andasse bene.
Raggiunse finalmente la sua dimora. Aprì la porta d’ingresso con la circospezione di un ladro, chiedendosi se fosse passato solo un giorno da quando aveva lasciato il suo nido. C’era un silenzio che lo accolse come una coperta calda, avvolgendolo gentilmente.
“Toris dovrebbe essere qua. Eppure non lo vedo in giro... forse è già andato a dormire”
− Toooris! Toris, sei nel salotto? – Nessuna risposta. A meno che non fosse andato in cucina... ma lui era un bravo ragazzo, che si atteneva alle regole. Salì le scale aggrappandosi al corrimano, scoprendosi improvvisamente stanchissimo e raggiungendo il piano superiore con il battito accelerato. Arrivò alla stanza di Toris con passo felpato e bussò piano. Non ottenendo risposta, aprì la porta, sempre in silenzio.
Nella penombra poteva vedere il profilo del giovane rannicchiato sotto le coperte che dormiva pacifico. Si avvicinò. I capelli scuri formavano una sorta di aureola sul cuscino, in contrasto con la pelle chiara del volto. Respirava piano. Gli occhioni erano chiusi, coperti da ciocche ribelli. Arthur sorrise e glieli scostò delicato, attento a non svegliarlo; Toris, in quel momento, appariva così innocente... così vulnerabile... se solo Arthur avesse voluto avrebbe potuto fargli mantenere quella dolcezza tipica della gioventù per sempre, congelata in quell’istante di sonno. Sarebbe apparso un gesto quasi affettuoso da parte sua.
Un suono strozzato gli uscì dalle labbra: non voleva più pensare alla morte, per quel giorno ne aveva avuto abbastanza. Quel ragazzo era privo di qualsiasi colpa, era già un delitto approfittarsi di lui quando a sua volta era così buono. Troppo buono, forse. Egli camminava leggero per i sentieri della vita come un Cappuccetto rosso cieco davanti alla meschinità altrui; dalla sua parte aveva l’intelligenza, contro di lui c’era l’inesperienza. Arthur, da parte sua. non era né il lupo cattivo, né la nonna malata, né l’intrepido cacciatore. No, lui era la mamma che manda una mocciosa di cinque anni in giro per il bosco da sola, dandole un compito e delle indicazioni che non avrebbe mai seguito, sapendo che la faccenda non poteva che finire male. Povero stolto di un Arthur.
Rise tra sé.
Toris aveva il sonno fragile e il suono lo svegliò. – Mr Kirkland...? – mormorò, sbattendo le palpebre. – Ѐ già tornato?
Arthur ritrasse la mano con la velocità di un fulmine, grato che il ragazzo non si fosse accorto di nulla e che il buio nascondesse il suo imbarazzo. Si riappropriò della sua maschera impassibile, lo slancio di affetto freddato in un istante.
− Sì. Scusa, adesso me ne vado, non volevo disturbarti.
− Si figuri. – Toris si drizzò sul letto, strofinandosi stancamente gli occhi. – Passata una bella giornata a lavoro? Dopo che sono andato via, intendo.
“Una favola, ragazzo mio, sapessi”
– Niente di speciale, sono tempi duri, pochi clienti...
− Oh. Beh, è un peccato, perché io invece sono stato proprio contento. Le ho già detto del mio nuovo amico, vero?
Amico” – Sì, certo. Feli... Feli-qualcosa, giusto?
− Feliks. Ѐ polacco, anche lui in Erasmus. – Toris accese la lampada sul comò. – Mi ha trascinato in giro per tutto il giorno. Quando vi ho lasciati al locale, mi ha portato in un negozietto di chincaglierie, sa, quelli con roba a poco prezzo. Guardi cosa mi ha obbligato a comprare!
Indicò con un dito un sacchetto posto sulla sedia accanto alla scrivania. Arthur lo prese e ne tirò fuori quello che somigliava a una tovaglia rossa di plastica, coperto di punti neri che però si vedevano poco con la luce scarsa. Lo porse a Toris.
− Ѐ una mantella impermeabile. Feliks ha insistito che ne prendessi una poiché l’ombrello l’ho dimenticato nella casa di Braginski... – sospirò al ricordo, − Ѐ a forma di coccinella e il cappuccio ha persino le antenne, roba che più infantile di così si trova soltanto nei negozi per bambini. Io non volevo prendere una simile idiozia, sarei parso ridicolo, ma lui ha detto “Se hai paura per la tua virilità, immagina che invece di una coccinella sia un Sirbug”. Ha fatto il gioco di parole, quello stupido. − Rise e Arthur rise con lui, seduto sul limitare del letto. Gli occhi stavano chiudendosi nuovamente, parlava senza la sua normale inibizione grazie al sonno.
−  Ѐ un tipo piuttosto strano. Dice di aver paura degli estranei, ma poi dice le cose più assurde al momento sbagliato... lì, al negozio, gli ho detto che al posto della mantella avrei preferito comprarmi qualcos’altro. Mi ha mostrato un ombrello col bordo in plastica tutto traforato, sembrava pizzo, uguale a quello che aveva lui l’altro giorno quando pioveva a dirotto. Ho detto che era davvero grazioso ma che non faceva per me. Gli ho chiesto – s’interruppe un attimo, ridacchiando. Era così raro vederlo ridere... – Gli ho chiesto se non avesse un’ossessione per il pizzo e lui mi fa, sbattendo le palpebre, – sbatté anche lui le palpebre con fare civettuolo e storpiò la voce in un tremendo falsetto – “Cioè, io tipo ho tutto col pizzo, anche la biancheria! Vuoi controllare?”  Lo ha praticamente urlato in mezzo al negozio, sarei sprofondato per la vergogna... 
Toris si accorse in ritardo di cos'avesse appena raccontato e il suo volto divenne color ciliegia. – Scusi, mr Kirkland! Io... oddio devo proprio aver sonno, dico queste idiozie assurde proprio a lei... mi scusi...
− Non preoccuparti. Può succedere a tutti di fare delle figuracce, l’importante è che ti sia divertito.
− Che poi quando siamo usciti Feliks mi ha rivelato che aveva detto quella cosa al solo scopo di mettermi in imbarazzo... cielo, ho un tale idiota come amico. Si è messo pure a ridere quando mi sono arrabbiato.
Arthur sorrise. Erano nella stessa barca. Un pensiero gli passò per la mente, lasciandolo di stucco: Toris a quanto pare conosceva il suo nuovo “amico” ancora da meno tempo di quanto lui conoscesse Alfred, e nonostante tutto l’aveva investito con una simile carica. Ignorando che Toris stesse cadendo di nuovo addormentato, decise di fargli la domanda: − Ehi... amico, hai detto?
− Uh-uh. Qualcosa che non va?
− No, nulla. Solo... ecco, è una parola che ha un suono inusuale ai miei orecchi.
Toris sorrise, gli occhi chiusi, sull’orlo delle tenebre dell’incoscienza. – Oh, ci farà l’abitudine. Però la capisco... gli amici in genere sono così rari che quando ne trovi uno è difficile riconoscerlo per quello che è...
Detto questo, si addormentò definitivamente. Arthur spense la lampada e lasciò la stanza, chiudendone piano la porta. Nel corridoio, ad aspettarlo, c’erano i suoi amici invisibili.
− Hai fatto una scelta estremamente rischiosa, lo sai? – disse il fantasma del pirata, con la sua voce rauca da morto. – Quello non te la farà passare liscia, oh, altro che tempi duri. Ѐ adesso che inizia il bello!
− Infatti ho intenzione di evocarlo ora. Questa storia deve finire al più presto. – rispose Arthur, dirigendosi verso la cucina.
− No, fermo! Ѐ tardi ormai e domani si prospetta giornata piena. Meglio se ti riposi, quello ha più potere se la tua mente non è lucida. – lo bloccò lo gnomo, gli occhi circondati da rughe pieni di apprensione. Arthur si bloccò sul pianerottolo, un piede già sullo scalino che portava al piano terra. Gettò un’occhiata ai suoi amici.
− D’accordo, se lo dite voi... ma secondo me vi preoccupate troppo. Io sono abbastanza forte da fronteggiarlo. Ricordatevi delle mie capacità! – alzò il pugno in aria, fiero.
Gli esseri magici annuirono seppure poco convinti. Arthur sparì in camera sua, seguito dal coniglietto svolazzante che riuscì a infilarsi nella porta prima che la chiudesse.
− Bunny gli farà da custode, stanotte. – disse lo gnomo, sospirando. – Noi invece dovremo controllare che, con il favore delle tenebre, quello non esca fuori senza essere stato evocato.
− Credi che sarebbe capace farlo?
− Ricordatevi che non stiamo parlando di un essere qualsiasi. Oggi Artie ha espresso la volontà di non uccidere più Francis, impedendo perciò l’attuazione del patto secondo cui lui gli avrebbe dato la possibilità di togliere la vita a chiunque senza conseguenze sulla vita terrena. In cambio, però, sapete cos’ha chiesto in cambio...
− Al posto di Francis, ha fatto in modo che uccidesse il giovane italiano?
− Esatto. Ma anche stavolta ha fallito, la luce per questa volta ha trionfato.
Un gruppo di fatine volò in rapido cerchio sul resto delle creature. – Quello non avrà mai l’anima del nostro Arthur! Mai! Non glielo permetteremo!
L’unicorno fece un nitrito di approvazione. Un folletto dalla barbetta rossa, appollaiato sul suo dorso candido, ghignò: − Mie care, siete forse gelose di ciò che credete vostro?
Le fatine lanciarono un’occhiata di fuoco al nanerottolo: − Non dire fandonie, Leprechaun! Ѐ grazie a noi se ha fatto conoscenza del mondo magico, noi che lo abbiamo guidato fin dall’inizio!
− Lo avete plagiato, vorrete dire. L’avete avvicinato che ancora non aveva imparato a scrivere il suo nome, un animo candido a vostra completa disposizione.
− Era un bambino, sì, e allora? Siamo state le sue prime amiche. Con il tempo ha conosciuto anche gli altri, se avesse voluto ci avrebbe abbandonato raggiunta la maturità, ma come vedi gli siamo necessari! Lui non ha amici nel mondo dei mortali.
Il pirata tossì, emettendo una folata evanescente di rum fantasma. – Invece sì. Ora un amico ce l’ha, a quanto pare. Ѐ già qualcosa per fronteggiare il nemico...
Le fatine si zittirono. Lo gnomo rifletté: − L’italiano aveva detto qualcosa riguardo, o sbaglio? Riguardo l’amore e l’amicizia...
Brownie intervenne: − Sì, sì! Il fatto che stesse per perdere la vita per un amico fosse il gesto d’amore più grande possibile. Chissà, forse Francis si merita qualcosa di così grandioso?
− Cosa dici, stupida fata? – urlò il folletto. – Se è stato lui per primo a rovinare il concetto di amicizia, disprezzando gli sforzi che Arthur ha fatto per lui?
− Non mi chiamare stupida! – Brownie si avventò su di lui, stizzita. La dovettero bloccare, prima che gli lanciasse qualche incantesimo. – Francis e Arthur non sono semplici amici. Sono... qualcosa di diverso. E il disastro che è accaduto un anno fa non ha niente a che fare con il loro rapporto! Come se in genere fossero andati d’amore e d’accordo! −. Si tolse un ciuffo che le era caduto sugli occhi, sbuffando. – Francis ha detto quello che pensava, come ha sempre fatto, e Arthur si è arrabbiato, come suo solito. Però qualcosa si è spezzato, perché Artie ha fatto qualcosa che non aveva mai osato in vita sua: ha impiegato le sue energie, i suoi sentimenti, i suoi progetti per qualcuno che non fosse sé stesso. Le sue azioni non sono state comprese e lui si è sentito orribilmente tradito. È andata così.
− Ma l’amicizia non è forse questo? Vivere per qualcun altro oltre che per sé stessi?
Gli esseri magici lasciarono contemporaneamente un sospiro desolato. Arthur si era impantanato in una situazione da cui non sarebbe uscito illeso a meno che non avesse fatto qualcosa di talmente straordinario da risultare impossibile. La discussione era giunta a un punto morto: ora era tutto nelle mani del destino.
− Ho paura... – frignò Brownie, mentre cominciava a svanire in uno spruzzo di luce insieme alle compagne. – Sento che siamo tutti in pericolo. Sia i mortali che noi esseri magici. Cosa succederà, d’ora in poi? Cosa?
Prima di scomparire a loro volta, le creature le diedero una risposta: − Nessuno lo sa, Brownie, ma continuiamo a sperare. Conosci la regola che vige da secoli nel nostro mondo: il bene trionfa sempre sul male. Continuiamo a sperare...
Nel corridoio cadde il silenzio e l’oscurità. Eppure, se qualcuno stava molto attento e con occhi e orecchie ben aperti, era ancora percettibile la presenza benevola delle creature tutt’intorno che sorvegliava la casa, proteggendo il sonno dei suoi abitanti. Una forza oscura, nascosta e ghignante, aspettava intanto la prossima occasione per manifestarsi.
Il bene trionfa sempre sul male... sarà vero?

 
* * *

 
Salve! L’avevo detto che prima o poi aggiornavo, infatti eccomi qua. Non perdete la speranza, ho intenzione di finire questa storia, probabilmente nel 2030 ma la finirò.
Che dire? Sono in questo fandom da un anno e mezzo ormai e posso dire che lo adoro? Fan vecchi, nuovi e che lo hanno abbandonato compresi? Per questo vi prego, se pensate che stia scrivendo cazzate, ditemelo, voglio darvi uno scritto decente (anche se la trama ce l’ho bene in mente e quella no, non ho intenzione di cambiarla, ma se avete critiche sullo stile e grammatica siate spietati).
Più che altro ho una dannata paura di andare OOC, sto cercando di contenermi. Ah, da qui in avanti nei vari capitoli inserirò qualche head canon (i primi due sono che Feliciano sia originario di Venezia e Lovino di Napoli), se ne avete che volete riferirmi fate pure. Come ho già avuto modo di dire in passato, questa non è solo la mia prima long ma anche la prima fan fiction, capitemi se mi trovo in difficoltà.
Spero ci rivedremo presto e... incrociamo le dita.
 
L.B. Shadow

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