New Moon

di Suicide Crown
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** La Calma e la Tempesta. ***
Capitolo 3: *** L'aggressore. ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


New Moon





"Mi ricordo ancora l'ultima volta che ti vidi, che riuscii ad intravedere i tuoi occhi.

Eri seduto esattamente nello stesso posto in cui noi due ci incontrammo, per la prima volta.

Agli inizi, ti comportavi stranamente.

Eri freddo, acido, a volte odioso. Cercavi di incutermi timore, anche solo con una semplice occhiata.

Tutti i tuoi metodi, però, non ebbero effetto su di me.

Non appena tu te ne accorgesti, cambiasti tattica.

Un sorriso divertito andò ad incurvarti quelle magnifiche labbra, in cui potevo perdermici anche solo sfiorandole.

Mi ricordo ancora il tuo viso confuso, quando non mi vidi spaventata o intimorita dal tuo modo di fare.

Poi, infine, il tuo divertimento sfociò in imbarazzo.

Iniziammo a frequentarci.

Un'amicizia come tante, che infine diventò qualcosa in più.

I nostri sguardi si incontravano sempre.

Succedeva spesso e per puro caso, anche se a volte arrossivamo entrambi.

Adesso sento solo il calore delle tue pallide dita intrecciate alle mie, come un vago ricordo di una vita passata.

Pochi mesi più tardi, ci dammo il primo bacio.

La morbidezza delle tue labbra posate sulle mie mi fece ricredere.

Era come se, con quel semplice ma importante gesto, avessi fatto diventare le Tenebre più temute in un Paradiso.

Il nostro Paradiso.

Il nostro mondo, solo io e te.

Mi avevi detto che non mi avresti mai lasciata.

Che avrei continuato a sentire il calore della tua anima ed i tuoi battiti vicini.

E, invece, il tuo cuore smise di battere.

Inalasti l'ultimo respiro, prima di sprofondare nel tuo letto di morte.

Quei dolci e bellissimi ricordi di noi due sfociarono in lacrime e singulti violenti, che ogni giorno e ad ogni ora non esitavano ad arrivare.

Nonostante tu, però, non riuscisti a mantenere la promessa di starmi accanto, io decisi di continuarla.

Ti vengo a trovare ogni giorno, sai...?

Porto sempre con me un mazzo di rose bianche, il tuo fiore preferito.

Ormai sono qui presente.

Rimango seduta per giorni accanto alla tua lapide, a parlarti di cose che ci sussurravamo un tempo, come se sperassi che tu sia solo vittima di un coma farmacologico.

E che, fra non molto, ti risveglierai.

E invece no.

Il mondo è fuor dai cardini.

Ha ucciso te e, di conseguenza, anche me.

Non esisterà più un 'noi'.

Non esisteranno più le tue risate ed i tuoi sorrisi, ora sono solamente un vago ricordo di quella vita fatta di noi due."

 

                                                                        ^_^_^_^_^_^_^

 

"Signorina Wood?"

Una voce femminile, forse fin troppo smielata, mi condusse bruscamente alla realtà.

Riaprì gli occhi e mi sistemai meglio nella scomoda sedia di metallo, su cui vi ero seduta da almeno un'ora.

I miei occhi vagarono lungo la stanza grigia e monotona in cui mi trovavo, per poi concentrarmi sulla figura davanti a me.

Già, ora ricordo.

Sono qui, per volere dei miei genitori.

Mi trovavo nella sala d'attesa di uno studio psichiatrico.

Durante tutto il mio silenzio, mi misi ad esaminare la donna: meno di cinquant'anni, sicuramente. Il suo bel visino ancora giovane, segnato da qualche piccola rughetta lungo i contorni morbidi del suo viso, sembrava tranquillo.

Grandi ed espressivi occhi del colore della speranza, il verde, mi stavano osservando attentamente, come se intendessero attirare la mia attenzione, mentre i capelli castani, raccolti in una crocchia ben ordinata, le scoprivano un paio di orecchini perlati che indossava elegantemente alle orecchie.

Vestiva di una semplice camicia bianca, abbinata ad una gonna bluastra e stretta, che le fasciava le curve sinuose. Il tutto, veniva abbinato a delle scarpe laccate e nere, con un tacco abbastanza vertiginoso.

Mi sorrideva.

Un sorriso gentile e dolce, ma...incredibilmente falso.

Ed io, personalmente, odiavo le persone che nascondevano una maschera dietro la maschera del proprio volto.

Era odioso.

Mugolai flebilmente un "sì..?", sperando che la donna si accontentasse solamente di questo.

Sapevo già che, arrivata al suo studio, mi avrebbe tempestata di domande,  parlandomi come se avesse a che fare con una non proprio sana di mente.

"E' il suo turno, la stavo aspettando, sa?" chiese lei, raddrizzando la schiena.

Mi limitai ad annuire.

Non amavo particolarmente socializzare, anche se un tempo adoravo farlo.

Già, un tempo.

Ora era tutto svanito. Nel nulla.

Mi alzai contrariamente dalla sedia e decisi di passarle con noncuranza davanti, avviandomi verso il corridoio che, di lì a poco, mi avrebbe condotta al solito studio, cioè il complice dei miei segreti più intimi.

La donna, un po' attonita, decise solamente di seguirmi, senza dire una parola. Stringeva una cartella nera al petto, tenendola ben salda con le braccia.

In realtà, non comprendevo il motivo per cui mi trovavo qui.

Per i miei genitori, era meglio per me che seguissi queste sedute.

Causa? La morte del mio fidanzato, Simon.

Un nodo in gola mi costrinse ad ansimare sottovoce, in cerca d'aria.

Dopo poco, però, tutto ritornò alla normalità.

Pensavano che la sua decessione mi avesse disorientata e sconvolta, a tal punto da perdere la ragione.

Ero diventata..pazza?

Sapevo che, in fondo al mio cuore, non avrei mai dimenticato quello che successe un anno fa.

Scossi il capo e la donna si accostò davanti ad una porta dai tratti marmorei. Estrasse dalla borsetta in cuoio nera una chiave argentata e fece scattare la serratura, spalancando successivamente l'entrata.

Mi invitò ad entrare, poggiandomi una mano sulla schiena, ma io mi allontanai bruscamente.

L'occhiata torva che le rivolsi la fece ammutolire, costringendola ad abbassare il capo.

Lasciai che sprofondassi nella poltrona di pelle, proprio davanti alla cattedra su cui si sarebbe seduta, di lì a poco, la mia 'consulente'.

Ed, infatti, dopo poco...lei fu esattamente davanti a me.

Dispose sul tavolo alcune carte, dovevano essere probabilmente i miei documenti e gli esami.

"Sembra che le carte non coincidano con quello che dice, signorina, ehm..."

"Vanille." Mormorai, inarcando un sopracciglio.

"Giusto, Vanille!" Esclamò la donna, stavolta non lasciandosi intimidire dalla mia espressione. Infine, cautamente, sporse il busto verso di me, continuando.

"Insomma, come posso spiegarle..lei è..in una situazione difficile, e posso capirla."

Cosa..?

Capirmi?

Sbuffai una risata. Le sue parole ebbero l'effetto contrario, mi fecero davvero alterare.

Strinsi con maggiore forza i pugni, fin quasi a far sbiancare le nocche.

Nessuno poteva capirmi. Non era questione di vittimismo, a nessuno avrei augurato di passare quello che era accaduto a me.

Dio, a nessuno.

"Capirmi? Capirmi!? Non stiamo parlando di oggetti!" Sbattei i palmi delle mani sulla cattedra, digrignando i denti. La donna, intimorita, rimase a fissarmi, come se avesse paura di un mio altro possibile movimento.

Senza dire più niente, uscii dallo studio e, successivamente, dall'edificio.

Arrivata fuori, respirai a pieni polmoni l'aria fresca di quella gelida sera.

Sentii il mio stomaco brontolare, ma non avevo il bisogno di mangiare qualcosa.

Percorsi qualche kilometro e mi sedetti sulle scale che, se scese, conducevano alla metropolitana.

Mi lasciai avvolgere dai rumori frastornanti della città, nel più totale silenzio.

Perchè...non riuscivo a capire più nulla? Perchè non pensavo a niente?

"Cos'ho che non va..?" Mormorai, senza neanche accorgermene.

Una violenta spallata mi fece trasalire e, successivamente, sbilanciare. La testa mi girava vorticosamente, per cui facevo fatica a reggermi in piedi. Puntai lo sguardo sulla figura che mi aveva urtata: si trattava di un ragazzo, poteva avere non più di vent'anni. 

"Guarda dove vai, coglione.." Mormorai acidamente, trattenendomi dall'imprecare ripetutamente.

Lui si girò a guardarmi.

Un pesante brivido mi costrinse a stringermi nelle spalle, dando l'impressione che io stessi provando timore. Ma io sapevo che non era così.

Feci scorrere lo sguardo su ogni pearcing che portava al labbro, alle orecchie ed al naso. Erano davvero tanti, e ciò gli conferiva un aspetto non proprio tranquillo.

"...Ah?" Simulò semplicemente lui, utilizzando una voce graffiante. Con uno scatto veloce ed abbastanza violento mi afferrò per il collo della felpa, sollevandomi di qualche centimetro da terra. Sentivo il cuore palpitarmi in gola. Non era paura, ma bensì la consapevolezza che, in quelle condizioni, non mi era possibile difendermi. 

Tentai inutilmente di liberarmi dalla sua  presa, mentre sentivo le forze scivolarmi da dosso.

Socchiusi le palpebre, emettendo un piccolo ringhio soffocato. Rimasi in silenzio, senza più dire niente. Era inutile parlare in quelle condizioni, avrei solo potuto peggiorare la situazione.

Solo dopo che egli mi assestò un pugno nello stomaco, io riuscì a liberarmi con una piccola spinta contro il suo torace che, visibilmente, era molto più ampio del mio.

Barcollai all'indietro, prima di passarmi distrattamente una mano lungo il mio stomaco, simulando qualche piccolo colpo di tosse.

Infine, posai il mio sguardo su di lui. Rispetto a prima, sul viso giovane portava un piccolo sorrisetto che, dapprima, mi sembrava quasi malizioso.

Iniziò ad avvicinarsi, mentre i suoi occhi davano l'impressione di volermi indurre a pensare che, molto probabilmente, non aveva delle belle intenzioni. 

Decisi di prendere le mie iniziative ed allontanarmi, ritornando sui miei passi.

Non mi girai per contemplare la sua reazione, com'era mio solito fare. Desideravo solamente allontanarmi al più presto da quel traffico caotico e dai rompipalle che ti rompono in ogni momento della giornata.

Finalmente, dopo una mezz'oretta, riuscì a sviare in uno stretto vicolo buio, il sentiero che, successivamente, mi avrebbe portata verso casa.

Non era esattamente la mia intenzione quella di rincasare così presto, ma non avevo scelta.

Non volevo incontrare altri scocciatori in giro. Dopo poco, intravidi da lontano il monovano in cui avevo deciso di abitare, dopo la geniale idea dei miei genitori di trasferirsi in Canada.

Estrassi dalla tasca della giacca il mio cellulare ed accesi velocemente il display, per poi leggere l'orario.  Erano le 3:04. E non avevo sonno.

Mi guardai per alcuni minuti intorno, notando con dispiacere che quel luogo si stava affollando di gente poco raccomandabile che, con delle bottiglie di Jack Daniels in mano, barcollavano da un marciapiede all'altro, in cerca di qualche probabile passatempo.

Decisi al più presto di avvicinarmi all'ingresso della mia "tana", aprendola subito dopo. Entrando, mi chiusi la porta alle spalle, provocando un piccolo stridio.

Tirai un lieve sospiro ed accesi la luce nel corridoio. Nel mentre che camminavo verso la mia camera, diedi una fugace occhiata disinteressata alla cucina. Era tutto perfettamente in ordine. Le stoviglie, utilizzate sì e no due o tre volte, erano lucidate e poste dentro il proprio spazio. 

"Già, si vede che non mangio da un po'..." Mormorai senza pensarci, tra me e me.

Spalancai la porta della mia stanza con un piccolo calcetto e rimasi a fissarla per alcuni istanti. 

Era tutto così...monotono.

Non potendo permettermi di ripitturare e decorarla, i colori erano rimasti gli stessi dello studio che prima abitava qui, al posto della mia attuale camera: bianco, con qualche lieve tocco nero e floreale agli angoli del perimetro.

Senza pensarci su due volte, mi buttai sul letto circolare, quest'ultimo ricoperto da un morbido e nero lenzuolo di seta, e socchiusi le palpebre.

Avevo perso..del tutto le forze.

Dopo la sfuriata nello studio della psicologa ed il piccolo 'litigio' tra me ed un ragazzo che aveva, oltretutto, messo a dura prova la mia pazienza, mi sentivo davvero esausta.

Lentamente, la mia vista sembrò appannarsi.

Probabilmente, era la stanchezza.

Così, senza pensarci, mi abbandonai tra le braccia di Morfeo.


Angolo Autrice:


Buonsalve!

Io sono _sacrificie anonymous_, ma potete benissimo chiamarmi Vanille!
Questo è il primo capitolo di una storia che ho scritto un po' di tempo fa, in una monotona giornata d'autunno.
Ero indecisa se pubblicarla o meno, ma poi mi sono decisa. <3

Vi pregherei di farmi sapere cosa ne pensate, mi aiuterebbero davvero tanto le vostre critiche. <3

Un bacio.

Anonymous.

 

 

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Capitolo 2
*** La Calma e la Tempesta. ***


2.

 

 

 

 

Arricciai il naso in una piccola smorfia, non appena un timido raggio di sole illuminò il mio viso, facendomi aprire lentamente gli occhi, quest'ultimi ancora impastati dal sonno.

Mi grattai distrattamente uno zigomo con la punta dell'indice, nell'intento di scostarmi una piccola ciocca di capelli che, per via della costante umidità, si era incollata sulla mia guancia, provocandomi un leggero solletico. E, dato che io soffrivo abbastanza il solletico... mi incazzai con me stessa, per via dei miei ricci ribelli. Aprii una palpebra, poi l'altra, lottando contro la luce del giorno, in cerca di riacquistare visibilità. Mi morsi il labbro inferiore e soffocai uno sbadiglio, prima di trascinarmi fuori dal letto, manco avessi novant'anni.

Scostai le tende dalla finestra ed emisi un piccolo suono, simile ad un biascicato lamento, per via della abbagliante luce che penetrò in un attimo nella piccola camera. Per degli occhi abituati all'oscurità, il sole è il nemico più temibile, pensai, ravvivandomi i capelli con le dita affusolate. Staccai il suono della sveglia, che ancora continuava incessantemente a sfondarmi i timpani, e girai la maniglia della porta. Ma, non appena la aprii, subito cacciai un urletto di sorpresa e balzai all'indietro, tanto da perdere l'equilibrio. Fortunatamente, riuscii ad aggrapparmi all'anta dell'armadio, altrimenti sarei caduta.

Good morning, sorellina!” Mio fratello, con l'accento straniero che aveva preso in America, ora era lì, davanti a me, appoggiato allo stipite della porta. Spalancai la bocca, ma poi la richiusi, incapace di dire nulla. Rimasi semplicemente immobile a fissarlo, pur mantenendo il mio sorriso colmo di ironia e strafottenza.

La maschera che porto per anni, pensai.

Drake Wood, mio fratello maggiore, mi somigliava molto. Eccezion fatta per i capelli, d'un colore nero corvino. Nonostante sia stato sempre al mare, non aveva preso neanche un minimo di colorito. Difatti era pallido, proprio come me. Disponevamo di poca melanina, per permettere alla nostra carnagione di abbronzarsi. Lui, non notando alcuna mia reazione, ma solo quel sorrisetto sul volto, decise semplicemente di imitarmi, cosa che mi spinse inevitabilmente a parlare.

“Sparisci di qui, Drake.” Ordinai, inarcando un sopracciglio. Ma egli non sembrò ascoltarmi. Difatti, senza alcuna vergogna, oltrepassò la porta e posò il pesante borsone a tracolla sulle lenzuola sfatte del mio letto. Mi rivolse un sorriso innocente e si passò una mano tra i capelli ondulati, scostandosi il ciuffo dall'occhio sinistro, che bloccava la vista di quella penetrante e adulatoria iride verde. Roteai gli occhi e mi avvicinai a grandi passi a lui, fino ad arrivargli davanti. Rimasi sorpresa, dalla sua altezza. Rispetto a prima, adesso ero io la più bassa, tra i due.

“Mamma mi ha detto di rimanere qui a tenerti compagnia. Sai com'è, il lavoro le sta dando molto da fare, ed è dovuta partire.” Aggiunse lui, sfiorandomi con il polpastrello del pollice il piearcing che portavo al labbro. Trasalii, al suo gesto, e mi scostai istintivamente. Ma lui si avvicinò ancor più a me e, piegandosi lievemente in avanti, mi scoccò un bacio sulla guancia.

Mi sforzai di non arrossire per l'imbarazzo, anche se era ormai diventato inevitabile, dato che sentivo i suoi occhi socchiusi e divertiti puntati sul mio viso. Sbottai un “'Fanculo.”, prima di ritrarmi nuovamente ed aprire il primo cassettone dell'armadio, nel tentativo di cercare qualcosa da indossare. Non avevo il desiderio di rimanere nuda, sotto i suoi occhi. Avrebbe avuto sicuramente qualcosa da dire sul mio seno, quest'ultimo a dir poco piatto.

Lo sentii solo sbuffare una risata, per poi uscire dalla camera, con la solita tranquillità di uno che dorme.

Mi affrettai a scendere le scale ed entrai in cucina, dove lì venni accolta da un profumo invitante di frittelle dolci. Feci per inumidirmi le labbra, ma la voce di mio fratello interruppe quel momento.

“Accidentalmente, ho cucinato qualche frittella in più. Vuoi?” Chiese, sporgendosi appena verso di me. Ed io, in tutta risposta, delineai le labbra in un piccolo sorriso ed annuii, abbozzando una risata strafottente. Come sarebbe a dire che le aveva fatte “accidentalmente” in più?, pensai. Mi scostai i capelli da una spalla e li raccolsi sull'altra, per poi aprire il frigo ed afferrare una bottiglia ancora intatta di liquore. Me la rigirai tra le mani, inarcando appena le sopracciglia.

Mi morsi il labbro. “E questo? Prima non c'era.”

“Regalino. So che a te piace bere.” Disse, prima di spegnere il fornello e posizionare le frittelle sul piattino di ceramica. Serrai le labbra e, con ancora quella strafottenza sul mio viso, annuii lentamente, quasi sorpresa dal suo gesto. Posai la bottiglia e chiusi il frigo, per poi allontanarmi da esso, volendo resistere alla tentazione di aprire quel dannato tappo e scolarmi il contenuto, tutto d'un fiato, ora che mamma non c'era. Ma non lo feci, e, dopo essermi seduta al tavolo della cucina, in contemporanea si accomodò anche lui.

Iniziammo a mangiare. Accompagnato al sapore delle frittelle, aggiunsi dello sciroppo d'acero e, nel giro di qualche minuto, le avevamo già finite tutte. Non appena alzai lo sguardo verso Drake, lui stava bevendo un bicchiere d'acqua, e solo allora notai che stava indossando la sua maglia preferita: si trattava di un semplice capo nero, dove, dietro la schiena, vi erano disegnate due maestose ali bianche. Anche a me piaceva, ecco perchè ne avevo una simile.

Distolsi lo sguardo ed iniziai a torturarmi il piearcing. Sentivo ancora il sapore della sua pelle, sull'anellino che portavo al labbro.

“Allora.. hai già finito gli studi?” Trattenni una risata. Come se fosse possibile. Mi rimaneva ancora un intero anno per completare le superiori, e quelle dannate sedute psicologiche rubavano tutto il mio tempo, come se fosse inutile il fatto che dovevo recuperare un bel po' di materie. Ma questo era solo colpa mia.

“No. Mi manca ancora un anno, se non vengo rimandata.” Mormorai sommessamente, prima di impilare i piatti sporchi e depositarli dentro il lavabo. Aprii l'acqua e, nel mentre che si riscaldava, mi avvicinai di soppiatto a lui e gli afferrai con delicatezza i capelli, costringendolo a piegare il capo all'indietro per guardarmi.

“Sai, Drake...? Non mi importa più un cazzo della scuola. Che senso ha studiare, se poi vieni considerata 'la squilibrata' della classe e ti sottovalutano al punto da non considerarti né in campo scolastico né in campo sociale?” Sussurrai tutto d'un fiato, guardandolo in quegli occhi, così simili ai miei. Lui accennò un sorriso e, a sua volta, fece scorrere le sue dita sulla mia nuca, per poi afferrarmi alcune ciocche scarlatte, tirandomi ancor più verso di lui.

“Sorellina, ascoltami: delle volte, essere diversi al resto del mondo non è considerato come un fatto sfigurativo o denigratorio. Se la gente è ignorante e tutta uguale, non è mica colpa tua.” Sussurrò flebilmente, con la sua voce roca e calda, tipica del suo atteggiamento frizzante, seppur protettivo e gentile. Di una cosa ero certa: non mi avrebbe mai fatto del male. Ma la mia diffidenza non mi permetteva di fidarmi di nessuno.

Distolsi lentamente lo sguardo e le nostre prese, contemporaneamente, si sciolsero, lasciandomi un leggero rossore sui pallidi zigomi. Mi morsi il labbro e mi girai di schiena, iniziando a passare le mie mani sotto il getto d'acqua, quest'ultimo divenuto di una temperatura ormai calda. Quel contatto bollente con la mia pelle sempre fredda mi rese piacere, tanto che il mio viso si arrossò ancor di più, per via del calore che esso provocava.

Dopo quella conversazione, tra me e Drake calò il silenzio più profondo. Ma non era tensione, bensì intesa. Era quell'intesa tra fratelli, che molti non possedevano.

Dopo aver finito di lavare ed asciugare i piatti, allargai l'elastico nero che portavo sempre al polso e mi legai i capelli in uno chignon, da cui ricaddero successivamente alcune ciocche ondulate ai lati del viso. Drake era uscito: diceva che doveva vedersi con alcuni suoi amici per fare un giro, e mi aveva chiesto se volevo accompagnarlo. Ma io mentii, dicendogli che dovevo fare ancora delle cose. Non avevo mai avuto un buon rapporto con quei ragazzi, quindi avevo preferito rimanere a casa, per evitarmi possibili scocciature. Alzai lo sguardo sull'orologio della cucina, che segnava le 20:00. Inoltre, tra poco dovevo andare allo studio psichiatrico. Salii le scale ed entrai in camera, per poi sfilarmi i vestiti sporchi ed indossare quello che mi capitava a tiro: una maglietta bordeaux a maniche scollate e un paio di skinny-jeans neri, con lo strappo al ginocchio. Mi infilai le Vans scure ai piedi ed, infine, mi coprii le spalle con una giacchetta dello stesso colore dei jeans, solo leggermente più chiara. Mi coprii la testa con il cappuccio e, dopo aver preso il piccolo zaino di pelle nera in spalla, scesi le scale ed aprii la porta di casa, per poi richiuderla alle mie spalle. Arrivata fuori, l'aria gelida e puntigliosa dell'inverno mi colpii in pieno, facendomi stringere la giacchetta sul busto, nel tentativo di trovare un po' di calore, per potermi così riscaldare. Iniziai a camminare, diretta alla fermata della metropolitana.

Come ogni giorno, ero costretta a percorrere la stessa strada e a vedere la stessa gente che, come se fossi malata, non osava neanche guardarmi, per il timore di prendere qualche strana malattia.

Mentre camminavo, notai che il mondo stava cadendo in rovina. Nello scorrere lento dei pendolari, nessuno osava guardarsi o scambiare una parola, e chi lo faceva veniva considerato fuori di testa. Molta gente moriva di Overdose, negli ultimi anni l'inquinamento del Sistema portò molte malattie, tra cui alcune venivano considerate fatali, per il debole e limitato organismo umano. Ovunque ti girassi, trovavi sempre persone che, prive di soldi per sfamare i propri figli, rimanevano sedute sul logoro marciapiede, nel disperato tentativo di fare compassione per ricavare qualche soldo.

Distogliendo lo sguardo da tutta quella merda, feci cadere dieci euro sulle mani di un vecchietto accovacciato sul marciapiede e ritornai sui miei passi, decisa ad arrivare il più in fretta possibile alla metropolitana, dove lì si sarebbe sicuramente ripresentato tutto questo. Ma, ormai, era un dato di fatto. La vita era così. E nessuno poteva o, quantomeno, voleva, fare qualcosa per cambiarla.

Arrivata a destinazione, il treno non era ancora ritornato.

Oh, Cristo.

Sarei arrrivata in ritardo e mi sarei subìta le lamentele da parte della Dottoressa, sia per la mia maleducazione nell'arrivare tardi all'appuntamento, che per la sfuriata della volta scorsa, nel suo studio.

Mi passai una mano sul viso e mi appoggiai al muretto grigio, ricoperto interamente di scritte, per lasciar passare i pendolari che, come un numeroso fiume in piena, scorrevano uno dopo l'altro su quello sporco marciapiede, rivolgendo di tanto in tanto occhiate indignate a chi stava lì, in disparte, senza far niente, come se si sentissero importanti e considerassero l'altra gente mosche da schiacciare.

Finalmente, con tre quarti d'ora di ritardo, il treno arrivò. Mi feci spazio tra la gente che, come se volessero bloccarmi, si stringevano a me, lasciandomi quasi senza fiato.

“Sei in ritardo!” Esclamò la Dottoressa, proprio come previsto, non appena arrivai nel suo studio. Avevo un aspetto orribile: lo chignon si era sciolto, lasciando il posto ad una massa di riccioli rossi e ribelli, mentre i miei vestiti erano completamente stropicciati, ridotti a poco più di stracci. Sbuffai sonoramente ed ella allargò le braccia, spazientita.

“Mi segua, non ho molto tempo da perdere con lei.” Così, subito dopo, mi condusse nel solito studio e mi fece sedere sulla poltrona a rotelle. Quel luogo odorava di alcool e medicinali, ne avevo ormai la nausea. Volevo uscire una volta per tutte da qui, non sopportavo più il falso sorriso di tutta questa gente, che crede che io non abbia tutte le rotelle al proprio posto. Mi morsi il labbro e, dopo che anche lei si sedette, iniziai a guardarla fissa negli occhi, torva. Odiavo tutto di lei, perchè dovevano esistere gli psicologi? Secondo la Teoria di Darwin, nessun individuo umano è del tutto sano di mente, quindi perchè si facevano tutti questi problemi?

“Durante questo lasso di tempo in cui noi, signorina Wood, non ci siamo viste, le sono mancata?” Ed ecco che ritorna quel dannato sorriso falso, pensai. Delineai le labbra in un sorrisetto alquanto strafottente ed afferrai il labbro inferiore tra pollice ed indice, iniziando a tirarlo delicatamente.

“Oh, l'ho pensata moltissimo in ogni momento, quando verrà investita da un camion e mi lascerà in pace.” Le riferii io, prima di trattenere una piccola risata divertita, nel vedere l'espressione a dir poco allibita della Dottoressa. Ella scosse appena la testa e si schiarì debolmente la voce, per poi iniziare ad esaminare la mia cartella clinica.

“Allora, vediamo un po': i battiti cardiaci sembrano regolari, non vi è alcun problema interno. Lei è solo stressata, probabilmente. Potrebbe avere solo una lieve forma di bipolarità, o potrebbe soffrire di personalità Bordeline. Ma sono cose che non si possono curare, e..” Soffocai un lamento disperato e sbattei il piede per terra, provocando un rumore secco.

“Finita la diagnosi?” Chiesi, inarcando un sopracciglio. La donna mi guardò, trattenendo il respiro, incapace di proferire parole. Rimase immobile, senza dire nulla, così optai per andarmene. Mi alzai dalla poltrona, mi sistemai la maglietta bordeaux sui fianchi e raggiunsi la porta, fermandomi poi sull'uscio. “...Arrivederci.”, mormorai, prima di uscire dallo studio, sotto lo sguardo indignato della Dottoressa.

Scesi dalla metropolitana, dopo aver fatto una mezz'oretta di viaggio. Alzai lentamente lo sguardo verso il cielo, ed il riflesso dei nuvoloni carichi di pioggia arrivarono alle mie iridi, quindi era il momento di muovere il deretano. La passeggiata pigra del tragitto verso casa, si trasformò ben presto in una corsa sfrenata, non appena le prime fredde gocce di pioggia caddero sul suolo ed il cielo iniziò a tuonare.

Incespicai più volte in alcune pozzanghere, ma alla fine riuscii ad arrivare a casa, sana e salva. Forse, un po' fradicia. Prima di varcare l'uscio del portone, mi strizzai il più possibile i vestiti, lasciando che l'acqua accumulata nelle vesti cada al suolo, provocando un piccolo “splash”.

Chiusi a chiave la serratura ed asciugai la suola delle scarpe sul tappetino nero.

“Drake?” Chiamai, ma non ottenni nessuna risposta. Evidentemente, non era ancora tornato. Così, dopo aver appeso la giacchetta nera nell'appendiabiti, sciolsi lo chignon ormai disordinato e decisi di farmi una doccia, tanto per rinfrescarmi le idee. Salii di sopra ed entrai in bagno, richiudendomi poi la porta alle spalle. Portando lo sguardo davanti a me, mi ritrovai riflessa nello specchio, e solo allora notai le visibili scure occhiaie che contornavano i miei occhi. Mi morsi apppena il labbro ed iniziai a spogliarmi, constatando di avere un aspetto a dir poco orribile. Il mio corpo, privo di alcuna curva, lo odiavo. Avrei voluto cambiare, avrei desiderato che persino la mia vita cambiasse. Ma non eravamo in un film. Questa era la vita vera. E la vita, si sa, è ingiusta.

Mi infilai nella doccia ed aprii il rubinetto, appoggiando poi la fronte contro le fredde piastrelle beige del muro, lasciando che l'acqua scorresse lungo il mio corpo, bagnandolo. Adoravo la sensazione di quell'acqua bollente sulla mia pelle, ora intorpidita più che mai dal freddo. La doccia, per me, era l'unico luogo in cui potevi “ripulirti” dai tuoi pensieri ed abbandonarti alla piacevole tranquillità che lo scorrere dell'acqua ti dava.

 

 

Buonasera, miei cari lettori e lettrici.

Mi scuso infinitamente per il ritardo, ma Internet non mi facilitava la procedura della storia.

Ebbene sì, questo è il secondo capitolo, e spero con tutto il cuore che vi piaccia.

Sarei grata se lasciaste una recensione, sia positiva che negatica, per sapere cosa ne pensate.

 

Affettuosi saluti,

 

sacrificie anonymous

 

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Capitolo 3
*** L'aggressore. ***


 

Capitolo 3.




Erano ormai le 12:30 di notte, quando mi buttai letteralmente sul comodo divano del salotto, con ancora il pesante accappatoio che mi fasciava il corpo, quest'ultimo ancora parzialmente umido.

Erano le 12:30 e Drake non arrivava. Ero in pensiero, anche se odiavo ammetterlo, ma probabilmente stavo solo esagerando. Non essendo abituata al suo stile di vita, non sapevo come comportarmi. Mi tirai il cappuccio di panno sul capo ed iniziai a strofinarmi i capelli bagnati, facendo al contempo scorrere lo sguardo sullo spesso vetro della finestra. Stava ancora piovendo, sembrava che non avrebbe mai smesso. Come un pesante e monotono giochetto, le fredde gocce cadevano dal cielo, gelando ogni cosa che si trovava sotto di loro, inesorabile. Mi morsi appena il labbro e presi l'anellino con i denti, iniziando a giocherellarci.

Mi sentivo inquieta, senza qualcun altro in casa: strano a dirsi, dato che ero sempre stata sola, ma probabilmente quella situazione mi angosciava. Con uno scatto, afferrai il cellulare tra le mani, come se dapprima mi fossi sforzata di non prenderlo, e composi il numero di mio fratello. Mi portai la cornetta all'orecchio e attesi.

Ma nessuno rispose.

Stranamente sfinita, posai il cellulare sotto il cuscino e mi alzai di scatto dal letto, tanto che ebbi un forte capogiro, costringendomi così a barcollare all'indietro. Mi portai una mano ancora fredda, nonostante la doccia bollente, alla fronte, nel tentativo di fermare quegli incessanti giramenti di testa. Ma, come se avessero ascoltato le mie flebili suppliche, il mio corpo ristabilì un decente equilibrio. Chiusi delicatamente le tendine e lasciai che l'accappatoio scoprisse la mia figura, per poi adagiarsi a terra, con un fruscio provocato dalla stoffa. Dopodichè, mi affrettai ad indossare solamente una felpa bordeaux, con la scritta "Skyline", a carattere nero. Tirai giù l'orlo della stoffa, in modo tale che coprisse le parti interessate, e mi legai i capelli con un mollettone, lasciando che alcune morbide ciocche mi sfiorassero il pallido viso.

Sospirai leggermente ed aprii la finestra, per poi scavalcarla e sedermi esternamente sul gelido cornicione di legno, mentre molteplici gocce di pioggia iniziavano a ticchettarmi sulla pelle, come se quest'ultima fosse fatta di bianca ceramica. Iniziai a dondolare dolcemente le esili ginocchia nel vuoto ed allungai una mano verso il cielo tuonante, sentendo in un attimo le fredde goccioline che, come se volessero appropriarsene, scorrevano lungo il mio esile braccio. Chiusi gli occhi e l'odore umido del temporale mi invase, facendomi scappare un sorriso. Trovavo serenità, con una cosa banale come questa. Che sempliciotta.

Stavo per sporgermi ancor più, per poter intravedere la candida luna, quando due mani forti mi afferrarono per le spalle e mi tirarono indietro, facendomi sbattere l'esile schiena contro un corpo maschile. Per l'agitazione, cacciai un urletto, anche se sapevo che non poteva essere nessun altro, oltre Drake.

Invece mi sbagliavo.

Il mio aggressore mi tappò rudemente la bocca e pressò la mano sul mio stomaco, costringendomi ad avvicinarmi sempre più a lui, come se volesse incatenarmi. Tentai invanamente di liberarmi, ma le mie inutili forze non bastarono per sovrastarlo. Mi sentii afferrare per i capelli e strattonare con foga, tanto che i capogiri non attardarono ad arrivare, e solo allora riuscii ad intravedere il suo viso, per via del riflesso sullo specchio. Iniziai ad esaminare velocemente il suo viso, seppur la mia vista si era ormai appannata per l'indebolimento. Tuttavia, riuscii a constatare più o meno l'eta: sulla ventina d'anni, probabilmente solo più vecchio. L'ultima cosa che, però, riuscii a vedere furono i capelli corti, rasati di lato, di un colore castano dorato. 

Non appena le sue mani iniziarono a sfiorarmi ogni centimetro del collo, un istinto irrefrenabile di protezione mi costrinse a ritornare a lottare, nonostante sapessi che non sarei mai riuscita ad oppormi. Gli tirai un assestato calcio in mezzo alle gambe e lo sentii mugolare di dolore. Sorrisi, soddisfatta: non ero mai riuscita a scalfirlo minimamente, fino ad ora.

Ma un tremolio irrefrenabile mi percorse l'intero corpo, non appena sentii che le mani dell'aggressore iniziarono a stringermi con più foga, facendomi male. Il mio sorriso soddisfatto svanii troppo presto, lasciando il posto ad un'espressione frustrata. Serrai gli occhi e mi morsi il labbro, nel vano tentativo di tenere a freno gli urli, per via dell'atroce dolore alle ossa fragili delle spalle.

"Sta' ferma, brutta puttana!" Esclamò lui, ringhiando successivamente.

All'appellativo che mi diede, non riuscii a trattenere un'espressione rabbiosa. Strinsi i denti e trattenni un lieve gemito di dolore, nel percepirlo stringere la presa sulle mie spalle. Mi mise un fazzoletto di stoffa davanti alle labbra, ma io, prontamente, smisi di respirare e presi quest'ultimo tra i denti, facendolo successivamente cadere a terra.

"L-lasciami, idiota, chi sei...!?" Chiesi, non riuscendo più a controllare la mia voce tremante. Il mio corpo iniziava a tremare, quasi in preda a vere e proprie convulsioni, e l'aggressore sembrava divertirsi. Alla fine, le mie gambe cedettero e dovetti abbandonarmi tra le luride braccia che mi tenevano stretta. Socchiusi lentamente le palpebre e le sbattei più volte, cercando di riprendere almeno un minimo di lucidità. Invano. Sentivo che le mie iridi di stavano inumidendo, cosa che mi fece letteralmente incazzare. Mi promisi di non piangere davanti a lui, solo per non dargli alcuna soddisfazione.

Egli, però, rispose alla mia domanda con un pugno assestato nelle costole, che mi costrinse a sputare un rivolino di sangue dalla bocca, che percorse lentamente il mento, fino ad arrivare al collo. Ormai in preda al pianto, iniziai a guardarmi furtivamente intorno, nel tentativo di trovare un modo plausibile per fuggire, ma l'aggressore mi afferrò nuovamente per i capelli, portandomi così il capo all'indietro, non permettendomi più la visuale della stanza.

A quel punto trattenni il respiro e spalancai le palpebre, con lo sguardo puntato sul monotono e bianco soffitto. Mi morsi lentamente il labbro ed una lacrima incerta solcò perfettamente i tratti del mio viso; sembrava quasi una perla, al contatto con la mia pelle diafana.

"Tu..hai ucciso mio fratello!" Sbraitò lui, prima di portare entrambe le mani sul mio collo ed iniziare a stringere violentemente. Soffocai un lamento, dovuto probabilmente al dolore e all'impossibilità di respirare decentemente. Le parole dell'uomo continuavano a rimbombarmi nella mente, anche in quella pericolosa situazione. Mi avrebbe uccisa. Ne ero sicura. Un'altra lacrima nera mi rigò una guancia, a causa del connubio con la matita ed il mascara.

E invece, dopo il suono della sirena della polizia, l'aggressore mi lasciò andare immediatamente, scese in tutta fretta le scale e uscii dalla porta sul retro, scomparendo nel buio del vicolo più vicino.

                                                                                          ___

Rimasi lì, immobile per qualche minuto, ad osservare il vuoto davanti a me. Cosa voleva dire quella frase? Varie domande mi percorsero la mente, confusionandomi ancor di più. Mi accasciai a terra, sulle ginocchia ancora tremanti, prima di passarmi una mano su entrambi gli occhi per asciugare le lacrime. Solo che, così facendo, i segni neri del mascara rimasero impressi, facendomi sembrare un mostro con le occhiaie. Tuttavia, mi sarei curata dopo del mio aspetto. Ero talmente disorientata e ancora in preda al panico, che non riuscivo neanche a rimettermi in piedi. il suono freddo del campanello mi ricondusse bruscamente alla realtà.

Deglutii un groppo in gola. No. Fa' che non sia di nuovo lui, pensai. Gattonai lentamente fino al cornicione della finestra e vi poggiai debolmente le esili braccia, per poi sporgermi appena verso l'esterno. Era la polizia. Tirai un flebile sospiro e mi appoggiai di schiena contro la gelida parete, chiudendo gli occhi. Stavolta, però, iniziarono a bussare.

"Vi porgiamo le nostre scuse per il disturbo, ma abbiamo sentito dei rumori simili a delle grida, e provenivano proprio nei dintorni. Potrebbe aprirci?" Mi portai una mano tremante sullo stomaco e lo accarezzai gentilmente, dato che ancora mi doleva parecchio. Mi asciugai il rivolino di sangue con il dorso della mano e, successivamente, nella gamba, avvicinando le ginocchia al petto. Optai per non andare ad aprire. Inoltre, non ci sarei riuscita comunque. Deglutii nuovamente e mi portai una mano alla bocca, simulando un colpo di tosse. Emisi una smorfia di dolore, ma, non appena ritrassi il palmo, quest'ultimo era intriso di altro sangue. Sbuffai amaramente.

"Cazzo, che seccatura... " Mi sforzai di mettermi in piedi, ma riuscii solamente a strisciare contro la parete, fino al bagno. Fortunatamente, quest'ultimo era già posto dentro la camera. Scostai la porta di legno socchiusa e mi affrettai ad appoggiarmi sul lavandino, prima di aprire il getto d'acqua fredda. Formai una conca con le mani e la riempii d'acqua, per poi bagnarmi il viso, ripulendomi così dal nero e dal sangue sul mento. Dopodichè, mi asciugai con l'asciugamano e posai lo sguardo sulla mia figura riflessa. Avevo ancora un aspetto a dir poco orribile: gli occhi, gonfi dal pianto, erano anche arrossati, mentre i capelli sembravano peggio di un nido di uccelli. Mi scostai il ciuffo scarlatto dalla fronte e mi massaggiai per brevi attimi entrambe le costole con due dita. Ma, non appena emisi un gridolino soffocato, le ritrassi subito, ritornando così a tremare. Il mio fidanzato deceduto mi diceva sempre che per combattere la paura o l'ansia, bisognava solamente stringere qualcosa di duro e contare fino a venti, fino a quando ti calmi. Altrimenti, mi aveva consigliato le sue coccole. Ed io annuivo sempre, quando me lo diceva. Stare con lui, mi provocava un senso di serenità così forte che non avrei desiderato più nient'altro. Ora, però, quella intensa ed amata medicina era svanita, dissolvendosi con i ricordi. Emisi un piccolo mugolio, mischiato alla rabbia ed allo sgomento. Non riuscivo a farmene una ragione. La mia morte era iniziata con la morte di Simon, ed io non possedevo un telecomando per indietreggiare, fino al passato. L'unica cosa che mi rimaneva da fare era quella di sopravvivere. Perchè gli umani, si sa, non vivono più, ma sopravvivono. E le strade quotidiane ne erano un esempio ben chiaro. Uscii dal bagno e socchiusi le palpebre, per via dell'accecante luce della camera. I miei occhi, ultimamente, erano diventati sensibili alla luminosità. Chissà... probabilmente, avevo bisogno degli occhi. Prima di buttarmi di peso sul morbido materasso del letto, però, emettendo un versetto piacevole, la porta si aprii lentamente. Inevitabilmente, cacciai un urletto, terrorizzata dal fatto che potesse essere nuovamente l'aggressore. Così, in tutta fretta, mi raggomitolai su me stessa e strinsi convulsamente le esili ginocchia al petto, terrorizzata.

"Ehy, principessa, sono io... Calmati." Mormorò una voce ben familiare, prima che un'altra figura maschile, quest'ultima conosciuta, varcasse la soglia e si avvicinasse di qualche passo verso di me. Drake. Tirai un sospiro di sollievo e la mia tensione, velocemente, si allentò, lasciandomi un sorriso ebete stampato sulle labbra.

"Ahn... Drake... " Egli soffocò una risata, divertito dal mio strambo ed insolito comportamento, ed io ricambiai, solo un po' nervosamente. Mi portai lentamente le mani fredde al petto e socchiusi le palpebre, rimanendo a guardarlo, rassicurata dalla sua presenza.

"Chi pensavi che fossi?" Continuò lui, con un sorriso intenerito in volto. Si sedette accanto alla mia tesa figura e mi scostò il ciuffo scarlatto dalla fronte, per poi ritrarre lentamente la mano, quasi contrariamente. Alla sua domanda, io deglutii un groppo in gola. Lasciamo perdere, pensai immediatamente. 

"Mi sei mancato così tanto, Dio... " Dopo le mie parole, io serrai le labbra e mi tappai la bocca con una mano, distogliendo immediatamente lo sguardo dal suo. Come mi era venuto in mente di dire una cosa del genere, a Drake? Imprecai mentalmente e mi affrettai a coprirmi il viso con entrambe le esili braccia, maledicendomi per quel che avevo detto. Tuttavia, era la verità. Se potevo scegliere, non glielo avrei detto così espressamente, o probabilmente non glielo avrei proprio accennato. Ma, dato che le mie azioni se ne sono andate a farsi fottere, il mio volere non aveva più importanza. Scostai lievemente il gomito dal viso, scoprendo appena l'occhio destro, ed osservai il suo viso. Notai subito che le sue guance, seppur fosse quasi invisibile, erano velate da un sottile strato di rossore. Mi morsi il labbro.

Okay, ho detto una cazzata, pensai. Mi misi lentamente a sedere e, timidamente, posai lo sguardo sul suo. Lui, in tutta fretta, si passò una mano sul viso e l'imbarazzo svanii, lasciando il posto ad un sorrisetto divertito.

"Mh... Scommetto che hai approfittato della mia assenza per bere, eh?" Domandò lui, mentre il suo sorriso continuò a farsi ancor più sornione. Aveva cambiato discorso. Meglio così. Bel modo di sviare un argomento imbarazzante, che io stessa, da brava cogliona, avevo creato. Mi morsi il labbro inferiore ed incrociai le esili braccia al petto, mentre un ghigno di sfida mi comparve lentamente sulle labbra.

"Puoi anche andare a vedere, idiota. La bottiglia è sigillata." Lui, in tutta risposta, tirò fuori la lingua, ed io la afferrai tra pollice ed indice, a 'mo di tenaglia. Soffocai una risatina divertita, ma la mia soddisfazione scomparve, non appena egli si avvicinò lentamente al mio viso e posò la punta della lingua su una fossetta che mi si era formata sulla guancia. Sgranai impercettibilmente gli occhi e, in men che non si dica, il mio viso prese lo stesso colore di un pomodoro. Letteralmente. Lo lasciai istintivamente e mi coprii il viso con entrambe le mani, in evidente imbarazzo. Tuttavia, non riuscii a trattenermi dallo scoppiare in una risata cristallina.

"Idiota, non si fa, hai barato!" Esclamai, mordendomi il labbro.

"Non era un gioco, quindi è inutile che ti inventi le scuse!" Ribattè lui, tirando nuovamente fuori la lingua, per simulare una linguaccia.

Continuammo a ridere incessantemente, come non facevamo da molto tempo. Eravamo insieme, e questo mi bastava. L'importante era rimanere uniti. Non importava cosa sarebbe accaduto. Alla fine, se si doveva sopravvivere, preferivo avere qualcuno di fidato al mio fianco.

Dopo qualche minuto, però, le risate di Drake si sfumarono, prima di cessare del tutto, lasciando il posto ad un'espressione strana: era un misto tra malinconia e triste serietà. Anch'io, non appena intravidi il suo viso, mi fermai. Un punto interrogativo mi comparì sul viso, mentre il mio sorriso svanii, insieme alle emozioni.

"Che... che c'è?"

---

"Devo parlarti di una cosa."



 

Angolo Autrice:

 

Ehilà, miei cari lettori e lettrici! <3

Scusate il ritardo nell'aggiornare questa storia, ma spero vivamente che vi piaccia. Ci ho messo tutto il cuore per scrivere questo capitolo.

Recensite e, se vi aggrada, lasciate anche una stellina! >3<

 

Bacioni,

HellMoon.

 

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