Buffet

di Mikaeru
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** .01 ***
Capitolo 2: *** 02. All the pins and pricks ***
Capitolo 3: *** 03. She opened up her eyes and thought, Oh what a morning ***
Capitolo 4: *** 04. I'll let you whip me if I misbehave ***
Capitolo 5: *** 05. Mrs. & Mrs., dreamed of a willow, carving their names, into their willow ***
Capitolo 6: *** 06. Into the woods ***



Capitolo 1
*** .01 ***


Salve! Questa sarà una raccoltina di robine di vario genere, accumunate solo dal fatto di essere fill del kinkmeme di http://hannibal-ita.livejournal.com e/o scritte per challenge varie e non abbastanza degne e corpose per meritarsi di stare da sole. Spero vi piacciano :3

01. fem!Hannibal & fem!Will

La dottoressa Annabelle Lecter cucina con i tacchi e un grembiule bianco semplicissimo sul tailleur firmato - non saprebbe da quale grande nome perché quello che ha indossato di più costoso nella sua vita era una felpa di una sua cugina di primo grado, pagata cinquanta dollari. Non che venga da una famiglia povera, ma spendere soldi per vestiti non le è mai piaciuto, considerando che poteva averli gratis dai parenti, e così non se n'è mai interessata. Sa solo che la dottoressa è sempre attenta ad essere impeccabile, sempre perfettamente truccata e con un profumo lieve, ma dolcissimo. Willhelmina pensa che potrebbe sentirlo più forte nella piega del collo.
È in mutande e canottiera, i calzini spaiati con cui si è addormentata, sullo stipite della cucina. Non riesce neppure a pensare di mettersi qualcosa di più complicato degli occhiali, non capisce come Annabelle possa essersi vestita così bene. Non le si avvicina, non vuole rompere quello che crede un momento di perfezione assoluta. Da un punto di vista meramente artistico, perché il cielo fuori è azzurro ma non limpido – le nuvole sono grosse, come fatte di lana bianchissima – e dalle tapparelle abbassate per metà entra una luce splendida. Le spalle strette tese sotto la camicia. L’odore di uova e carne – sta cominciando a notare troppi particolari. Sposta il peso da un piede all’altro, nervosa, perché i pensieri comincino a ciondolare dentro di lei e confondersi tra loro così che non possa riconoscerli.
"Signorina Graham, la colazione è pronta."
"Will.", la corregge sbuffando, irritata da quella sua ostinazione a chiamarla in quel modo. Non stava friggendo le uova due secondi fa? Ha di nuovo perso il conto del tempo?
“Posso comprendere il non voler usare il tuo nome di battesimo, considerando che lo odi, ma non scenderò a patti con un nome da maschio, quindi ciò che mi rimane è il cognome. Quindi, signorina Graham, vatti a mettere qualcosa, e poi vieni a tavola.”
Ostinata in un capriccio infantile, Will non si mette nulla addosso e addirittura incrocia le gambe sulla sedia, consapevole del fastidio che le procurerà. Ovviamente Annabelle non raccoglie la provocazione, e a Will viene voglia di mettersi a gambe larghe sul tavolo davanti a lei per riuscire a distruggerle quell’espressione di porcellana dal viso affilato, che a volte la irrita così profondamente che vorrebbe graffiarla fino a strapparle quello primo strato di pelle e scoprire quello vero, sotto gli zigomi e sotto le ossa.
Le viene d’improvviso un’ansia enorme, pesantissima, e per tapparla si avventa sul cibo – ma con educazione, ché non è stata cresciuta da selvaggi. Annabelle sorride appena, sottile.
“Spero tu sia riuscita a dormire.”, le dice, tagliando un pezzo di salsiccia. A Will questa donna dà sempre l’impressione di essere una nobildonna tedesca, o di discendere da qualche stirpe di regnanti. Le salsicce sono uno dei cibi meno eleganti del mondo, eppure lei la taglia e la mangia come se si trattasse di qualche raffinato cibo francese.
“Un po’.”, borbotta. Si infila un pezzo di uovo in bocca cercando di imitare il suo portamento elegante.
C’è solo il tintinnio dei piatti, ora, a riempire delicatamente l’aria. Will, imbarazzata, scioglie le gambe e si siede composta, la schiena dritta. Vorrebbe andarci a mettere i pantaloni, adesso, ma sarebbe ancora più imbarazzante doversi alzare, quindi rimane seduta.
“… grazie.”, comincia a mormorare, “Per avermi lasciato dormire qui.”
“Dovere, signorina Graham.”
“No, davvero, io non – non saprei dove – non sei obbligata.”
“Lo so. Lo faccio perché voglio.”
Per quanto Will non riesca a guardarla negli occhi, sa perfettamente che la dottoressa Lecter non ha alzato gli occhi dal piatto, perché non sente il suo sguardo sulla nuca. Lo avvertirebbe perfettamente, altrimenti, come avverte tutto quello che è Annabelle Lecter, come se fossero legati da un filo tesissimo. Se l’è sentito attorno al polso dalla prima colazione che lei le ha portato – se n’è resa conto solo da pochissimi giorni, ma è certa che esista da quel giorno.
Annabelle l’ha trovata che vagava per strada, a pochi chilometri da casa sua. L’ha accompagnata a casa, le ha preso il cambio per il giorno dopo, e se l’è portata a casa propria come uno dei randagi di Will. Non le ha chiesto cosa ci facesse da quelle parti, ma non le interessa. Ricorda vagamente Annabelle che l’aiuta a spogliarsi, che le mette la coperta addosso. Si è svegliata in posizione fetale, appena circondata da una sensazione tiepida, poco più solida della nebbia.
“Potresti prendere in considerazione l’idea di venire a vivere qua.”
La forchetta le si ferma a mezz’aria. Ora è costretta ad alzare la testa su un’Annabelle che si pulisce la bocca con un fazzoletto immacolato, educata e signorile come nei film in bianco e nero.
“… cosa?”
“Potrebbe essere più facile per me tenerti d’occhio.”
Tenerti d’occhio. C’è qualcosa che non le piace di quella frase, e qualcosa che contemporaneamente l’attira da morire. Ma dopo Alan Bloom ha capito che deve stare lontana da quello che la attrae, perché solitamente nasconde il fuoco e le fiamme che l’avvolgeranno come se fosse cosparsa di benzina.
“… non lo so. Devo pensarci.”
Abbassando gli occhi sul piatto si rende conto di aver mangiato solo un angolo di salsiccia e metà di un uovo fritto. Sul suo piatto ce ne sono ancora due, e un'altra salsiccia, e in mezzo alla tavola c’è della frutta che Annabelle si aspetta che lei mangi. Cos’ha mangiato, allora, finora? Ha mangiato davvero?
“Come preferisci. Intanto finisci la tua colazione, non puoi andare a lavorare a stomaco vuoto.”
L’idea di dover mangiare le sembra d’improvviso impossibile, un’impresa erculea. Allontana impercettibilmente il piatto, abbastanza per non sentirne più l’odore ma non troppo perché Annabelle la sgridi. Tutto dentro di lei si chiude con uno scatto rumoroso. “… non credo andrò a lavorare oggi. Non mi sento bene. Posso rimanere qui? Solo per questa mattina, poi me ne vado, davvero.”
“Come preferisci, signorina Graham, ti ho appena proposto di vivere con me, non credo che la mia opinione cambierà molto presto. Ciò non toglie che devi finire la tua colazione.”
“… per forza?”, le domanda sentendosi una bambina.
“Per forza. E sarebbe cortese se tu facessi presto, non manca molto al mio primo appuntamento.”
Sospira, abbassando le spalle, e cominciando a tagliuzzare tutto in bocconi piccolissimi, sperando che così possa essere più facile da ingoiare.
Non nota il sorriso sottile di Annabelle, da cacciatrice. “Su, su, non vorrai metterci tutta la mattinata.”

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Capitolo 2
*** 02. All the pins and pricks ***


[warning: rough!sex, indi per cui, ehr, violenza generalizzata? e ambientata dopo The wrath of the lamb, quando vivono assieme and stuff]

Entrando nello studio di Hannibal, Will sbatte la porta dietro di sé, e il rumore rimbomba contro le pareti, contro il soffitto altissimo.
“Non hai una cazzo di idea di quanto cazzo io ti odi.”
Hannibal tira su gli occhi dagli appunti che stava rileggendo.
“Non c’è nessun bisogno di essere così volgari nell’esprimere il tuo disappunto.”
Disappunto? Non parlare come se fosse una stronzata, perché non lo è.”
Hannibal sospira, sistema i fogli alla perfezione una sopra l’altro (non un singolo millimetro fuori linea) e li posiziona paralleli al bordo della scrivania.  
“Cosa avrei fatto per meritarmi le tue grida?”
Will abbaia una risata breve e nervosa, e si avvicina alla sua scrivania, su cui sbatte entrambe le mani, e avvicina la testa al viso di Hannibal.
“Ti ho detto di stare lontano dalla mia cazzo di camera, quello è il mio spazio, non tuo, e lo gestisco come voglio io, se voglio tenere i libri sul letto o i vestiti sulla sedia sono affari. Miei. Non. Tuoi.”
“Pensavo di –”
“Non iniziare neppure a dire che pensavi di farmi un favore, sono manipolazioni da quindicenne che non voglio sentir uscire dalla tua bocca. Non hai nessun cazzo di problema di memoria, lo hai fatto deliberatamente, e io mi sono rotto il cazzo di parlare e non essere ascoltato –”
“Smettila di parlare in questo modo, Will, lo sai cosa ne penso –”
“Sai che in questo momento non me può fottere di meno?”
“Non interrompermi.”
“Perché dovrei ascoltarti quando tu non riesci a rispettare la più piccola cosa che ti chiedo? Sono scappato con te e –”
“Non ricominciare –”
“Oh tu riesci ad essere molto più melodrammatico –”
“Io non tiro fuori sempre la stessa storia ogni volta che qualcosa mi dà fastidio –”
“Smettila di parlare come se i miei fossero sempre e solo capricci del cazzo –”
“Ti ho detto di smetterla di parlare in questo modo, William –”
“Sono William, ora? Dovrei sentirmi minacciato? Mi sculaccerai come un bambino cattivo?”
“Forse è l’unico modo per farti ragionare –”
“Non sono un ragazzino Hannibal, smettila di pensare che due schiaffi mi faranno calmare –”
“Più di due, allora, se lo desideri.”
“Piantala!”
Will, prima che Hannibal possa accorgersene, prende il plico di fogli in mano e lo getta sul pavimento.
“Se fossi in te la smetterei adesso, William.”
“Non ho ancora iniziato,” e si dirige verso la libreria. Hannibal si alza di scatto.
“Non iniziare,” gli sibila sul viso, e Will si limita a sorridere e ad accarezzare il dorso di un volume; lo fa cadere con un dito. “William, raccoglilo.”
“Smettila di chiamarmi William,” ringhia, prima di farne cadere un altro. “Come ci si sente quando non si viene ascoltati?”
“Disse l’uomo che mi ha lasciato marcire in prigione tre anni.”
“La tua prigione era meglio di molte case in cui ho vissuto, pomposa testa di cazzo.”
“Il succo del discorso rimane.”
“Oh poverino, tre anni da solo a leggere e prendere per il culo la gente, proprio per nessun cazzo di motivo al mondo, mh?”
Quando Will fa cadere il terzo volume, lo schiaffo di Hannibal è abbastanza forte da fargli girare la testa. Appoggia la mano sulla guancia bollente e lo guarda con espressione oltraggiata, che si trasforma in rabbiosa quando gli tira un pugno che gli fa sanguinare la bocca.
“Oh, ti sei morso la lingua, tesoro?”
La rabbia del cacciatore ferito trasforma il viso di Hannibal, che prende Will per la maglietta e lo spinge fino alla parete, dove sbatte con un verso roco di dolore.
“Hai ancora una possibilità per smetterla con tutta questa insoffribile insolenza, William.”
“Ooh, ora mi sento veramente minacciato. Cazzo, che paura che ho, dottor Lecter. Oh, no, aspetta, non è vero.”
Will lo spinge via con forza, tanto che quasi Hannibal perde l’equilibrio, ma quando gli è di nuovo addosso lo è con più peso di prima; lo gira con la testa contro il muro, gli blocca le mani dietro la schiena.
“Chiedimi scusa.”
“Spero tu stia scherzando.”
“Assolutamente no. Quello che hai fatto è più grave di quanto abbia fatto io.”
“Come sempre, del resto.”
Will riesce a liberarsi della presa; un altro pugno lo fa cadere, e Will gli è sopra prima che possa tirarsi su, con le ginocchia puntate sul pavimento e tutto il suo peso concentrato sulla sua vita, come una pietra sullo stomaco.
“Sei l’essere umano più infuriante che io abbia mai conosciuto, Hannibal.”
“Eppure mi dici sempre che non sono umano.”
Il sangue scende dall’angolo della bocca di Hannibal lungo la guancia e Will ne lecca il percorso fino ad arrivare alle labbra, che bacia con l’intenzione di ferirle. Fa scivolare una mano tra le gambe, stringendolo da sopra i pantaloni.
“Sei eccitato,” gli geme, roco, sul collo, mentre continua a morderlo, lasciando segni rossi. “Sei disgustoso.”
Hannibal riesce a ribaltarlo, gli tiene le cosce aperte con un ginocchio. “Sei disgustoso quanto me,” sibila, cercando di slacciargli i pantaloni, ma Will gli blocca le mani e, ancora una volta, gli è sopra. Gli inchioda i polsi a terra con una mano, assicurandosi di bruciargli la pelle muovendoli sul tappeto.
“Non ci provare neanche,” ringhia. Si abbassa i pantaloni quel che basta perché possa costringere Hannibal a prenderglielo in bocca. “Non provare a mordere, puttana, o ti faccio saltare i denti.”
Hannibal comincia a succhiare il più lentamente possibile, fino a quando Will non si spinge fino in fondo alla gola, fino a farlo tossire. Un ghigno soddisfatto gli si apre sul volto, poco prima di venire.
“Ingoia tutto, da bravo,” e Hannibal lo fa, e dopo averlo fatto ribalta Will ancora una volta. Gli afferra le cosce, gliele apre, ma Will riesce a riprendere possesso di una gamba il tempo sufficiente per calciare Hannibal. Riesce a metterlo in ginocchio, comincia a strusciarsi lungo il solco delle natiche nude mentre gli morde le spalle, il collo, mentre gli passa i denti lungo la spina dorsale.
“Non ti ribelli più, mh? Ti piace, puttana?”
Hannibal si limita a grugnire, la guancia che sfrega contro il tappeto. Will gli entra dentro brutalmente, dopo averlo preparato la metà del tempo che di solito gli serve. Spinge con forza, premendo le unghie contro i fianchi, tenendogli la mano sul collo. Gli tira su la testa per i capelli, costringendolo a baci che ancora una volta sono morsi. Will di nuovo lecca le gocce di sangue che gli fioriscono dalle labbra e quando sente il sapore del ferro spinge di più dentro Hannibal, uscendo per un attimo e poi penetrandolo di nuovo con rinnovata forza, come se non gli avesse fatto ancora abbastanza male. Lo gira sulla schiena, lo sente sibilare quando lo spinge contro il pavimento; gli afferra le cosce ora nude, gliele alza e lo penetra di nuovo. Hannibal si aggrappa a lui con le unghie, graffiandogli la schiena. Viene facendolo sanguinare; Will ama quanto sporchi e rovinati siano i suoi vestiti ora
Will si sdraia su di lui, dopo essere venuto a sua volta. Continua a mordicchiargli la spalla. Hannibal gli accarezza la schiena, premendo col dito sui graffi, ma solo lievemente.
“… penso che entrerò nella tua camera privata molto più spesso, Will.”

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Capitolo 3
*** 03. She opened up her eyes and thought, Oh what a morning ***


Abigail ha gli occhi più belli che abbia mai visto; così grandi, così limpidi, circondati da ciglia lunghissime, curve e così nere. Ha cercato di contarle, una volta che dormiva, ma erano troppe, allora ha contato le lentiggini; una decina sulla fronte e ottantacinque quelle sulla schiena, sulle ossa del bacino, sulla caviglia sinistra. Ha le caviglie più belle che abbia mai visto – questo è un pensiero piuttosto strano da avere, e ha sempre avuto il difetto di lasciar uscire le cose più strane, soprattutto quando si trova in situazioni di imbarazzo, o in cui si agita. Hai le ossa di un cerbiatto, le ha detto, mentre si malediceva per essere un tale disastro, e il viso di un angelo. Conosceva Abigail da un paio di giorni ed erano andati assieme ad una festa; forse aveva bevuto un paio di birre, forse no. Conoscendosi, alcool o no non sarebbe cambiato molto. Abigail ha riso – quella sua risata dolcissima, trillante come campanellini, le labbra che scoprono appena i denti bianchissimi. Ha ricevuto un bacio sulla guancia in premio per la sua sincerità, poi uno sulle labbra, “perché sai bene quanto i complimenti piacciano alle ragazze.”
Abigail ha sempre un così buon odore, anche quando non indossa nessun profumo – perché lei non lo mette e basta, lo indossa come un vestito. Non saprebbe spiegare bene, ma quando se ne spruzza un pochino addosso è come se diventasse un lungo abito invisibile, margherite cucite con lillà cuciti con rose cucite con girasoli.
Abigail è così brillante, così intelligente, così curiosa e assetata di sapere. In aula ha sempre la mano alzata e la risposta pronta, nessuno prende gli appunti velocemente come lei. Non è come tanti altri compagni che conosce, che frequentano l’università per volere dei genitori ma senza un reale interesse, solo perché se lo possono permettere, perché vogliono rimandare il più possibile il dovere di un lavoro. Lei è così piena di passione che è commovente guardarla, come le stelle in montagna, che sono così tante e così splendenti.
Abigail ha una lunga cicatrice sul collo che non fa mai vedere a nessuno; l’ha potuta vedere una sera che avevano fatto l’amore, e Abigail ha permesso di essere ammirata nella sua candida interezza. Ha passato delicatamente la punta delle dita sulla pelle tirata, ma non ha domandato; se Abigail gliene vorrà parlare, un giorno lo farà.
Ancora una volta sono a letto nella camera di Abigail, che non ha compagne di stanza. Il padre ha pagato perché potesse dormire da sola. (“È stato un miracolo riuscire a convincerlo a lasciarmi andare via di casa, con la promessa che tornassi ogni weekend, ma non avrebbe mai sopportato l’idea che dovessi condividere i miei spazi con un’estranea. È un uomo strano, mio padre. Te lo farò conoscere, un giorno, tesoro.” Oh, tesoro.) Abigail si è rannicchiata nelle sue braccia, e si lascia accarezzare i capelli. Ne sente il cuore battere, ma al confronto del suo è il battito di un elefante.
“Ehi, tutto bene?”, domanda Abigail con un sorriso dolce, un bacio sotto il mento.
“Ti-ti amo,” balbetta, tirando fuori tutto il coraggio di cui è capace, cercando di guardarla il più possibile dritta negli occhi, quei suoi occhi bellissimi che ora sono spalancati.
“Oh. Non credi sia un po’ presto? Ci conosciamo solo da due mesi, in fondo…”
“Lo-lo so che è poco, ma – ma lo so, lo so per certo, ti amo.”
Abigail sbatte le ciglia un paio di volte, poi sorride. “Beh, peccato. Speravo di poterti tenere ancora un pochino. C’est la vie, suppongo.”
Sorride, la bellissima Abigail, quando tira fuori un coltello dal comodino dove tiene le penne dal tappo mangiucchiato e una vecchia copia di Bonjour Tristesse piena di orecchie.

“Abigail! Cos’è questo disastro nel mio ingresso?”
“Ho portato la cena, papà.”
“E non hai pensato di usare un sacco da cui non gocciolasse il sangue?”
“Non ne avevo uno con me, non programmavo di cacciare oggi.”
Hannibal sospira, lanciando un’occhiataccia al sacco nero che straborda dal lavandino. Abigail è seduta sul tavolo della cucina e gli sorride, orgogliosa di se stessa.
“Ma questo non è un coniglio che hai trovato nel bosco, te lo sei scelto per bene. Dovresti essere sempre pronta con gli strumenti giusti.”
“Sto imparando, non essere così duro,” si imbroncia, “Will è in casa? Volevo che vedesse anche lui.”
“Sta dormendo. Non si è addormentato prima delle cinque. E poi sai che lui non approva… questi metodi.”
“Però non ha problemi a mangiare la carne che prepari.”
“È diverso, perché non ne vede la fonte. Lo sai, demonietto.”
Sbuffa, si appoggia un gomito sulla coscia e il mento sulla mano. “Lo so, lo so, lo trovo un po’ assurdo.”
“Ognuno ha i suoi tempi di adattamento, mia streghetta. Intanto che penso come cucinare il tuo coniglio, perché non ti concedi un bel bagno? Ho comprato quelle… bombe da Lush che desideravi.”
Abigail si drizza con la schiena e strizza gli occhi con fare sospettoso. Hannibal le sta dando la schiena, ha aperto il sacco e ha tirato fuori un braccio; schiocca la lingua in un suono a metà tra la disapprovazione e il disgusto.
“Guardian of the forest e Butterball?”
“Certo.”
“E Twilight e Dragon’s Egg? E The Experimenter?”
“Tutte.”
“Oh, allora penso che andrò a farmi il bagno. Ti ho già detto che sei il padre migliore del mondo?”
“Sì, e sempre con questa totale e assoluta sincerità disinteressata. Un’ultima cosa, bambina. Hai ucciso come ti ho insegnato, vero?”
“Nel pieno della fioritura, papà, come mi hai sempre detto di fare,” gli sorride, e il viso le si illumina di gioia quando Hannibal ricambia. Le si avvicina e le accarezza la testa.
“Brava ragazza. Ora, non accendere la musica in bagno, a meno che tu non abbia voglia di violino.”
“Il silenzio andrà bene, così il sonno di tuo marito è al sicuro.”
“Non capisco perché tu sia così restia a considerarlo il tuo secondo genitore.”
Abigail si stringe nelle spalle. “Ognuno ha i suoi tempi, lo hai detto tu. Magari un giorno mi adatterò.”
Hannibal l’aiuta a scendere dal tavolo, benché non ne abbia bisogno. Abigail lo bacia sulla guancia, si dirige verso le scale. Passa davanti alla camera da letto del padre; la apre appena per vedere Will, che dorme rannicchiato sul fianco, ma ha il respiro regolare. Sbuffa e si chiude a chiave in bagno. Rimane nell’acqua tiepida per più di un’ora, in completa pace con se stessa e il mondo esterno.

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Capitolo 4
*** 04. I'll let you whip me if I misbehave ***


[WARNINGS VARI: rough!sex, consensual non-con (sembra uno stupro ma non lo è serve a darti -- no ho sbagliato fandom)]

Hannibal cercò di fare meno rumore possibile quando si infilò nel letto, ma Will se ne accorse comunque. Si voltò verso di lui, allacciandogli un braccio attorno alla vita, mormorò qualcosa senza un senso specifico, sillabe scoordinate e borbottii. Hannibal gli prese la mano, cominciando a baciarla. Will, con un suono basso e vibrante, gli si strinse più vicino, cominciando a baciargli la spalla, baci brevi e distratti, impastati di sonno.
“Perdonami per averti svegliato,” mormorò, voltandosi verso di lui per baciarlo sulle labbra.
“Mh, no, tranquillo… non è che stessi dormendo bene per la prima volta in giorni o qualcosa del genere.”
Hannibal ridacchiò contro il suo collo, il fiato tiepido lo solleticò. “Se fosse vero non ti saresti svegliato,” lo baciò vicino all’orecchio, scese fino alla spalla. “Conosco il tuo sonno ristoratore, non ti sveglierebbe neppure una guerra.”
“Allora non chiedere scusa solo per fare bella figura…”, Will gli mordicchiò la spalla, spingendosi contro di lui fino a quando non aderì completamente al suo petto.
“Fare bella figura è tutto ciò che mi è rimasto, non puoi togliermi anche questo.”
“Certo che posso, il cacciatore non è particolarmente affezionato alla dignità della propria cena…”, sbadigliò.
“Parli molto, per uno che dormiva fino a tre minuti fa.”
“Mh-mh…”
Will infilò una gamba tra le sue cosce, si alzò appena per poter raggiungere meglio il collo, per baciarlo e succhiarlo. “Sai di buono…”
“C’è una sorpresa per colazione.”
“Mmh, bravo cannibale…”, continuò a baciarlo – il collo, la curva della spalla – e vibrò quando Hannibal cominciò a ricambiare, tenendogli una mano sul fianco. Quando cercò di infilargli una mano sotto la maglietta, Will gli fermò il polso.
“Mh, no,” gli soffiò sulle labbra, leccandole.
“No?”
“Non ho davvero voglia, era solo che – mh, volevo solo questo…”
“Stuzzicarmi e poi lasciarmi languire?”
“Io avrei detto fartelo venire duro e poi non dartelo, ma sei tu il poeta della coppia,” se lo tirò addosso, così da avere un suo braccio attorno alla vita. “E poi ho troppo sonno.”
“E allora perché –”
“Mi tieni caldo e mi piace avere qualcosa da stringere quando dormo.”
Will si girò sul fianco, Hannibal stretto contro di lui.
“No, non credo.”
“Mh?”
Hannibal lo girò sulla schiena, gli aprì le gambe per imporsi tra loro, stringendogli forte le cosce.
“Ti ho detto che non ho voglia, Hannibal,” ringhiò, ancora immobile per la sorpresa. Hannibal gli intrappolò i polsi sopra la testa.
“Non è necessario che tu ne abbia, caro.”
 Con la mano libera cerco di abbassargli le mutande, gliele fece scorrere lungo una coscia; quando si trovò impossibilitato a sfilarle senza cambiare posizione, le strappò. Will tentò di calciarlo ma lo bloccò, tentò di colpirlo con l’altra gamba ma Hannibal gli portò una mano al collo, spingendolo contro il materasso.
“Non costringermi a bloccarti completamente, tesoro.”
“Quale sarebbe la differenza?”, raspò Will, cercando di scalciare come un cavallo. Hannibal strinse di più la presa, sorridendo.
“Non sarebbe altrettanto divertente, e visto che ormai siamo qui tanto vale divertirsi a pieno, non trovi?”
Hannibal si tolse le mutande, cominciò a strusciare il membro eretto contro quello di Will. “Ti piace credere di avermi addomesticato, vero?”
“Smettila –”
“Smetterò solo quando ne avrò voglia, Will.”
Gli leccò il collo, lo morse fino a farlo urlare, lasciò lividi violacei succhiando forte la pelle chiara. Will lo graffiò in volto e Hannibal lo schiaffeggiò abbastanza forte da fargli mordere il labbro; Hannibal si abbassò per leccare il sangue che scese fino al petto, dove gli morse i capezzoli fino a spaccarli.
Lo penetrò con pochissima preparazione (“Un dito per te dovrebbe bastare, mh?”) e Will urlò e urlò e urlò, fino a quando le sue urla non sfumarono in gemiti rochi, bocca aperta e occhi chiusi. Gli avvolse il collo con le braccia, costringendolo ad abbassarsi per baciarlo. Non cercò di morderlo, come Hannibal si sarebbe aspettato, ma lo baciò profondamente, interrompendosi solo per gemere più forte quando Hannibal gli prese le cosce, portandosele sulle spalle, per penetrarlo più a fondo.
“Sei spaventoso,” ringhiò Hannibal sul suo collo, grattando più forte coi canini sui punti sensibili che aveva già ferito.
“Io, mh?”, gemette Will, leccandogli le labbra, “Non tu, che volevi approfittarti di un uomo addormentato? Non tu che ti sei eccitato terribilmente quando sembravo indifeso, incapace di lottare per salvarmi?”
“Eri terribilmente bello con gli occhi pieni di paura. Dovresti averli più spesso così, potrei impazzire.”
“Scommetto che lo hai detto a tutte le tue vittime, prima di ucciderle.”
“No,” uscì solo per rientrare dentro di lui con maggiore forza, con un dolore che lo fece urlare, “riservo le mie parti migliori solo per te, amore mio.”
Will lo ribaltò sulla schiena, gli salì addosso. Hannibal gli strinse i fianchi, osservandolo mentre si posizionava perfettamente su di lui.
“È stato il tuo piano sin dall’inizio?”
“No,” gemette Will, alzando il bacino e scendendo pianissimo su di lui, “ma mi piace che tu riesca ancora a stupirmi.”
Hannibal, stanco di aspettare, mosse il bacino contro di lui, mozzandogli il fiato. “Nato per servire.”
Will si spinse contro di lui fino a strappargli un orgasmo violento, che lo fece tremare. Hannibal lo sdraiò di nuovo sulla schiena, masturbandolo velocemente. Will gli si aggrappò con forza e violenza, baciandolo ovunque.
“Sei mostruoso.”
“Oh, sì, mi piace quando mi parli sporco.”
Will venne graffiandogli la schiena a sangue. Hannibal aspettò che riprendesse fiato e lo coprì col lenzuolo, sdraiandosi dietro di lui. Lo abbracciò in vita, e Will si girò per poterlo vedere in viso. Riprese a baciarlo ancora più dolcemente di prima.
“Hai intenzione di vivere per farmi del male?”, gli domandò, spezzando la domanda in bocconi piccolissimi. Hannibal rise, premendo il dito su un livido del collo vicino alla mascella.
“Oh, Will, ci siamo giurati male eterno entrambi.”
Will, apparentemente soddisfatto dalla risposta, gli si appallottolò contro, come una volpe che cerca rifugio contro il freddo e i cacciatori.
“Mi fa piacere sapere di essere all’inferno in buona compagnia.”

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Capitolo 5
*** 05. Mrs. & Mrs., dreamed of a willow, carving their names, into their willow ***


“Winston, torna qui! Winston, maledizione, torna subito qui!”
Willow maledì di aver deciso di portare a spasso il cane senza guinzaglio. Cinque minuti prima uno stupido gatto si era messo a guardare Winston da un muretto e lei, che aveva sentito odore di guai, aveva cercato di cambiare strada, ma Winston non sembrava riconoscerla più come padrona; per cui, quando il gatto era saltato giù e lo aveva graffiato, si era messo ad inseguirlo, e Willow con loro, finendo a sembrare l’illustrazione di una filastrocca per bambini – la donna che insegue il cane che insegue il gatto. Ringraziò solo che non fosse una giornata estiva particolarmente calda.
Il gatto si infilò dentro un buco nel terreno sotto un muro abbastanza grande perché anche Winston ci si infilasse, ma non abbastanza perché Willow potesse strisciarvi dentro, per cui lei si arrampicò rapida come uno scoiattolo, usando i rampicanti, dal fusto robusto, come levatura. Fece capolino nel giardino di una villa fiabesca, un contrasto così forte col resto del vicinato che quasi le fecero male gli occhi. Si domandò come non l’avesse mai vista prima – e si rese conto di averlo fatto ad alta voce, perché una voce rispose: “Forse era troppo immersa nei suoi pensieri, signorina Raperonzolo.”
La donna che aveva parlato le stava sorridendo come se non avesse importanza avere un’estranea seduta sul muretto del giardino.
“Io – stavo inseguendo il mio cane – che –”
“Ho visto, signorina, non c’è assolutamente nessun bisogno di scusarsi, non è così inusuale assistere a certi episodi coi propri animali domestici, soprattutto nel caso di un cane” le tese una mano per aiutarla a scendere, “gradisce un tè? Ne ho una teiera fresca appena fatta.”
“… oh. Sì, certo, mi farebbe piacere.”
Non prese la mano della donna, saltò giù, dritta e sicura sulle gambe. Si fece guidare dentro casa – notò Winston e il gatto giocare sul porticato come se fossero fratelli e scoccò loro un’occhiata di odio.
Era una casa antica, di legno, le ricordò quella di sua nonna – aveva cambiato un numero inverosimile di abitazioni, durante l’infanzia, ma tutte le estati trascorreva un mese in casa della sua nonna paterna, costasse quel che costasse suo padre riusciva a trovare il tempo e i mezzi per rispettare quella tradizione; anche alcuni anni dopo la morte della madre aveva continuato a portarvi Willow, per andare a pescare.
Il pavimento scricchiolava sotto i loro passi, e provò un’intensa nostalgia, dal profumo di gelsomino.
“Ha… una casa meravigliosa, complimenti,” incespicò un attimo sulla propria lingua quando la donna le allungò la sua tazza di tè fumante.”
“La ringrazio,” sorrise lei, uscendo sul porticato, invitandola a sedersi attorno al tavolino bianco immacolato, “quando l’ho acquistata era uno scheletro. Ho impiegato un paio d’anni per arrivare a questo aspetto.”
“Tutto da sola?”
“Mi piace pensare di riuscire a cavarmela da sola laddove mi sia possibile. Fortunatamente non ho dovuto apporre modifiche alla struttura, in quel caso mi sarebbe stato difficile essere indipendente, e mi avrebbe indispettita.”
Aveva un modo particolare di parlare, notò Willow sorseggiando la tazza, gli occhi incollati sull’unica macchia quasi invisibile che aveva notato ora sulla superficie del tavolino – e non era solo il vocabolario ricercato, che raramente le era capitato di incontrare, nonostante i colleghi di facoltà, ma anche il tono calmo, suadente, che le ricordava un fiume d’acqua dolce.
“Non mi capita spesso di passeggiare in questa parte del vicinato, ma sono sicura di esserci passata almeno una volta – ricordo il negozio di oggettistica che c’è qui davanti, Cose Preziose, come quello del romanzo di King.”
“Le posso assicurare che non ha nient’altro in comune, fortunatamente.”
“Oh, allora ci farò un salto, quando non ho i cani con me. Sembra vendere articoli interessanti.”
“Sarò felice di accompagnarla, se vorrà.”
C’era qualcosa, in quel sorriso lieve, che la fece arrossire inspiegabilmente, e si sentì una ragazzina sciocca. Buttò giù metà del suo tè. “Le capita spesso di invitare in casa donne sconosciute quando il loro cane le invade il giardino?”
“Purtroppo non mi era ancora accaduto un evento così interessante. Il massimo che Tobias mi abbia mai portato erano uccellini morti, non graziose signorine del suo calibro.”
Willow arrossì più violentemente, si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, ripetendo il gesto più volte. “Neppure Winston ha il vizio di entrare nelle proprietà altrui senza permesso, è un cane estremamente educato,” borbottò.
“Oh, ora che sappiamo il nome dei reciproci animali, forse sarebbe opportuno presentarci a vicenda. Artemis Lecter, molto piacere.”
“Oh, Artemis, che bel nome. Particolare.”
“La ringrazio. I miei genitori hanno sempre avuto un forte senso estetico e questo si era naturalmente riflesso anche nella scelta del mio nome.”
“Oh,” ripeté, e poi si affrettò ad aggiungere “io mi chiamo Willow Graham.”
“Ha un nome delizioso. Ricchissimo di significati. I celti utilizzavano il legno del salice per costruire strumenti musicali, lo sapeva?”
Willow si grattò la testa. “No, non ne avevo idea.”
“Lo trovo estremamente adatto a lei.”
Questa volta arrossì violentemente, la consapevolezza dello stato disastroso della sua treccia ormai completamente disfatta e i vestiti completamente inadatti (Artemis portava un abito quasi trasparente, di un materiale che sembrava nevischio tanto appariva leggero ed impalpabile) e il generale disordine della sua persona.
“Le posso offrire altro tè, signorina Graham?”
“Oh, non mi chiami a questo modo, non dopo che le sono piombata in casa così. Mi chiamo Willow.”
“Preferisco i convenevoli fino a quando non saremo più intime nella nostra relazione, le dispiace molto?”
“… oh, no, non troppo, in realtà.”
“Gradisce allora un’altra tazza, signorina Graham?”
“Se non le è di disturbo,” e si domandò perché non fosse già scappata per la vergogna e l’imbarazzo. Si alzò dalla sedia, andò a grattare l’orecchio al suo cane che ora, felice, era acciambellato in un angolo con Tobias che gli dormiva sopra. “Bravo cane, bravo bravissimo cane,” mormorò scuotendogli il muso tra le mani. Winston rispose felicemente leccandole il viso, che Willow si pulì col bordo della maglietta larghissima.
Il tintinnio delle tazze annunciò il ritorno della padrona di casa, che aveva portato anche un piattino di biscotti. “Spero le possano piacere.”
Willow ne addentò uno. “Oh! Sono deliziosi.”
“Li ho fatti stamattina,” sorrise Artemis.
“Lei è una donna piena di talenti.”
“Mai troppi.”
Willow ne inzuppò uno, poi ne mangiò altri due. Artemis scomparve di nuovo dentro casa, le appoggiò un sacchettino di pizzo davanti. “Mi permetto di offrirgliene un po’ da portare a casa, visto che sembrano essere di suo gusto.”
“… oh. Grazie – lei è incredibilmente gentile –”
“Non è niente di che, glielo assicuro. L’educazione verso gli ospiti è uno dei primi doveri dell’essere umano.”
Willow sorrise, imbarazzata ancora una volta. Qualcosa le disse che avrebbe fatto meglio ad andare via, anche solo per evitare che tutto il porticato prendesse fuoco a partire da lei.
“Io – io la ringrazio infinitamente per tutto, soprattutto il non avermi denunciata sul posto, però penso sia ora di andare.”
“Certo, certo,” Artemis si alzò, lisciandosi la gonna, “l’accompagno al cancello, se non preferisce arrampicarsi di nuovo.”
“No, no, penso che uscirò in maniera tradizionale.”
Chiamò Winston con due fischi, e lui si tirò sulle zampe di scatto, facendo cadere Tobias che rispose soffiando ed entrando in casa con aria sdegnata.
“La invito a tornare a trovarmi per esplorare il negozio,” sorrise.
“Oh, sì, certo. Le dovrò anche riportare il fazzoletto.”
“Di quello non si preoccupi, è un dono,” e le prese la mano libera, baciandole le nocche, come il gentiluomo di un film in bianco e nero. “Si senta libera di tornare quando le è più comodo.”
Willow uscì e non si voltò fino a quando non tornò a casa, per evitare di sentirsi andare a fuoco ancora di più. Il rossore non le passò per tutto il pomeriggio.

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Capitolo 6
*** 06. Into the woods ***


Nessuno ne parla ad alta voce, eppure tutti lo sanno fin dalla nascita, come un segreto mescolato al sangue: il bosco è pericoloso. Lo sanno i genitori, lo sanno i figli che lo hanno imparato nei silenzi delle notti e delle mattine degli inverni duri, nelle parole celate delle morti misteriose, delle scomparse mai più discusse. Non si parla del bosco, non si entra nel bosco, non ci si avvicina neppure, perché il bosco potrebbe sentire l’odore di un forestiero e catturarlo, mangiarlo. Il bosco è vivo e non va disturbato.

Si è perso nel bosco. Il bosco che ha un odore profondo, oscuro, che gli riempie i polmoni, che ha un silenzio denso, appiccicoso, ma che non lo soffoca.

Perché vi è entrato? Cosa ci fa lì? Perché ha sfidato il bosco?
(ha sfidato se stesso?)
(pensava di poterne uscire?)
(voleva farlo.)

Tira giù il cappuccio del mantello – rosso rubino, rosso sangue, rosso incubo – per stare più attento ai rumori che potrebbero attaccarlo, ma c’è troppo silenzio – un silenzio innaturale, profondo come un pozzo. Vi potrebbe buttare cento monete d’oro ma non ne udirebbe mai il suono alla fine della caduta – tlic, tlac.
Continua a camminare, continua a sperare perché è tutto ciò che gli è rimasto.

Il lupo è una creatura maestosa, che lo guarda con occhi color rubino, scintillanti sotto i raggi sfilacciati di luce. Si prende il proprio tempo per raggiungerlo. Cappuccetto Rosso è paralizzato, fino a quando non realizza.
Forse il lupo lo ha riconosciuto come proprio e per questo lo ha chiamato. Forse sa che il suo sangue è diverso, che è mescolato ad aghi di pino neri come pupille, pelo di animali selvatici, ululati che spaccano i sogni in due. Forse, forse, forse.
Il tempo, il luogo, tutto attorno a loro si congela, le foglie sotto i piedi del lupo non osano fare rumore quando vengono spezzate. Si avvicina a Cappuccetto Rosso con circospezione, come se fosse lui l’intruso, non il contrario; si avvicina e gli si ferma di fronte, lo osserva con occhi color rubino, scintillanti sotto i raggi sfilacciati di luce. Lo annusa a partire dai piedi, l’incavo delle ginocchia, dei gomiti, le vene verdi del polso. Si ferma, sorride mostrando le zanne, sembra pronto a sbranarlo; invece gli lecca il dorso della mano. Scompare.

Quando lo vede pensa di stare sognando. Il cervo dalle corna di diamante, capaci di aprire il corpo in due. Quando cade, indietreggiando, si ferisce contro un ramo, e il dolore acuto e bruciante gli urla che no, è tutto reale, ma che la realtà potrebbe finire in quel momento. Il terrore lo immobilizza, mentre il cervo si avvicina piano, fremendo di una gioia spaventosa.
Forse va bene così.
In fondo sapeva che il bosco lo avrebbe mangiato. Lo sanno tutti, lo sapeva anche lui.
Allarga le braccia, chiude gli occhi. Si offre completamente, forse sarà meno doloroso.
Sente un urlo infernale, paralizzante; il cervo è stato colpito a morte dal lupo, che adesso gli strappa le corna con le mani. Le offre a Cappuccetto Rosso.
Cappuccetto Rosso allunga una mano tremante; ingoia le corna che gli trafiggono la gola come spilli, ma non lo feriscono. Il lupo, a sua volta, allunga una mano verso di lui, e Cappuccetto Rosso capisce.
È un patto di sangue.
Non è stato il bosco a mangiarlo, ma è stato il lupo.
(forse va bene così?)

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