Corte Sconta, Corte Arcana

di Francine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il respiro della notte ***
Capitolo 2: *** Come lacrime, la pioggia ***
Capitolo 3: *** Athena. Saori. O tutt'e due ***
Capitolo 4: *** Quando piovono le stelle ***
Capitolo 5: *** Polsi di pietra e cuore alato ***
Capitolo 6: *** Alla fine della strada ***
Capitolo 7: *** La partenza come senza ritorno ***
Capitolo 8: *** L'eternità, in un battito di ciglia ***
Capitolo 9: *** La ragazza col vestito a fiori ***
Capitolo 10: *** Seguendo il soffio del vento ***
Capitolo 11: *** Palpitare lontano di scaglie di mare ***
Capitolo 12: *** Quella strada nel bosco ***
Capitolo 13: *** Decanter ***
Capitolo 14: *** Corte Sconta, Corte Arcana ***



Capitolo 1
*** Il respiro della notte ***


Ci sono storie che nascono da sole, mentre tu stai facendo qualcos’altro. Succede all’improvviso: il tuo cervello segue un pensiero  e tu ti ritrovi a rincorrerlo come il gabbiano che si alza in volo perché ha visto un pesce guizzare argentino tra le onde del mare.
Ci sono storie che non sono buone per farci il brodo, e dare sapore ad una zuppa già avviata. Storie che stanno bene da sole, sì; ma se le metti in girotondo con le altre si divertono di più. E splendono di più. Come un filo di perle al collo di una ragazza. Storie che ti vengono in mente voltando le carte sul tavolo. Storie che ho raccolto in questo mazzetto di tarocchi, in maniera casuale, nella speranza di farvi piacere.

 
 
#1 Il respiro della notte
Lama XVIII – La Luna
Personaggi: Cancer Death Mask
 



Se pensi che le notti siano tutte uguali, sei in errore.
Ci sono notti che puzzano di avventura, di orrore e di mistero. Di morti che sventrano i propri sepolcri e di creature innominabili che respirano tra le pieghe delle ombre, in attesa di qualcosa. Che i minuti passino, o che tu inciampi in loro, come la lepre nella tagliola. Per errore, certo. O per tragica fatalità. Ché preda e cacciatore sanno quanto quel sorriso d’argento sia seducente e terribile allo stesso tempo.
E poi ci sono notti che sanno di lenzuola sfatte, di parole irripetibili sussurrate tra gemiti e sospiri e di sete di labbra sulla pelle. Di carezze e palpiti, e preghiere trattenute tra i denti come bestemmie.
E notti indecifrabili. Che profumano di tutto e di niente. Che non promettono nulla, ma sanno regalarti un brivido in più. Un attimo. Un pensiero. Un refolo di luce stellare sulla pelle. E sono quelle le notti che lui preferisce conoscere, assaporare, esplorare. Come se fossero le labbra di una bella donna incontrata al tavolino di un bar o in un giorno di pioggia.

Da quando è tornato, fatica a dormire. Fatica ad addormentarsi, e non per una banale questione d’insonnia. Gli sembra uno spreco dormire quando attorno a lui c’è così tanta vita. Così tanta luce. Come quella della luna, che filtra dalle finestre spalancate e gli inonda la stanza. E sembra quasi che lo chiami, come fanno i bambini lanciando dei sassolini alle finestre dei compagni per invitarli a giocare. E lui ci sta, ché la Luna sa essere una compagna perfetta, se la sai prendere. Se le sfili accanto, come un sogno concatenato o una gatta randagia, e non cerchi d’imbrigliarla tra le dita. Perché allora la luna ti sfugge, ti graffia le dita e ti lascia da solo. Volgendo altrove il suo sguardo purissimo e luminoso.
Così lui esce. Non avvisa Francesca, ché quando arriva la sera lei crolla esausta e non la svegli nemmeno con le cannonate fino al mattino seguente. S’infila i calzoni. Una camicia. Prende la giacca – a volte nemmeno quella – e le scarpe ed esce incontro a quella luce d’argento che buca il silenzio della notte con discrezione. Rientrerà solo quando l’alba scaccerà la notte, e l’orizzonte prenderà a colorarsi di violetto, rosso e rosa. Quando il giorno nascerà, e tutto ricomincerà daccapo.

«Rientriamo», gli dice uno dei suoi compagni alla fine di una serata come tante, giù alla taverna. Una manciata di ore di libertà, le spalle leggere e la testa imbottita di vino e di donne e di chiacchiere senza peso. «Tu non vieni?»
E per fare che?, vorrebbe chiedergli. Non sa chi abbia parlato, lui gli tiene le spalle, il viso rivolto al cielo ingemmato di stelle, le mani nelle tasche dei calzoni.  «No», gli dice, mentre si accende una sigaretta. «Con una luna come questa sarebbe un delitto.»
E se ne va, una mano alzata per saluto mentre gli altri faticano a far stare dritto sulle gambe lo Scorpione per guadagnare la strada di casa.
Sì, dormire quando in cielo splende una luna così grande e vicina che se allunghi la mano hai l’impressione di potertela mettere in tasca, è un delitto. Altro che i suoi. Athena lo sa. È per questo che ha chiuso un occhio, ché quando nelle tue fila hai un cacciatore – un predatore – certi incidenti sono prevedibili come la pioggia di Novembre o le stelle cadenti di Agosto. E questa notte chiama. Non canta il respiro delle prede, la loro paura o il richiamo del sangue, no. Questa notte è più pericolosa. Questa notte è in continuo movimento. Una moneta che ruota sulla zigrinatura, che non sai se cadrà dalla parte della testa o da quella del cuore.  E lui accetta la scommessa, dirigendo i passi senza avere una meta precisa. Seguendo l’istinto. O il profumo della notte.

Sotto di lui, Atene.
Sotto di lui, un milione di vite, speranze, sogni e decisioni da prendere. Di svolte. Di monete che girano sul rilievo lasciandoti col fiato sospeso. Energia. Pure e semplice e grezza. E dolce come il frutto più proibito e aspra come il succo dei limoni. Ché non tutti i sogni si avverano. E questa notte profuma anche di questo. Delusioni. Pianti. Bestemmie. Separazioni. Vagabondaggi in solitaria, la luce d’argento della luna come compagnia.
Perché la notte è un attimo di sospensione. Uno scrigno pieno di promesse, di possibilità, di eventi tutti da vivere. Alcuni non vedranno mai la luce della realtà. Altri, invece, covano, come galline sulla paglia, strette strette le une alle altre, ché se la volpe arriva magari prende la tua compagna e lascia te. E il tuo uovo. Che non è poi tanto diverso dagli altri; ma è il tuo. Ed è questo a renderlo speciale. Oltre ogni misura.
La Luna lo sa. Ecco perché ogni sera si affaccia dal suo davanzale di nuvole e getta uno sguardo sul mondo. Perché la Luna, lassù, si sente meno sola a farsi gli affari della gente. A vedere cosa accade sul quel puntolino azzurro. Un po’ come se le nostre vite fossero un programma televisivo. Uno di quelli trasmessi in notturna, dove si parla, si sussurra, si immagina, si ipotizza la vita, con le sue mille contraddizioni e miserie e glorie e sfumature e complessità. E la Luna ha sempre avuto – e sempre avrà – un posto in prima fila.
Altro che Sanremo, si dice. Sedendosi su una roccia ad ascoltare, le gambe a ciondoloni nel vuoto, un ciuffo di erba a bucare di verde quella palettata di marrone e grigio su cui sorge Rodrio. Sotto di lui, Atene e le sue luci. Alle sue spalle, la quiete del Santuario. E sopra la testa quella luna d’argento che imbroglia cani e naviganti, ma non lui. Che la osserva. Che dialoga, quasi, con lei. E che trova sollievo nel sentirsi il suo sguardo freddo e luminoso sulla schiena. Come le braccia di un’amica attorno alle spalle.
 

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Capitolo 2
*** Come lacrime, la pioggia ***


#2 Come lacrime, la pioggia
Lama XIII
Personaggi: Scorpio Milo



 
Il mare è una chiazza nera all’orizzonte. La sabbia è umida sotto le scarpe. Il vento è una ninna nanna gentile che si diverte ad accarezzargli i capelli. Milo non lo sente. È alla ricerca di risposte che forse potrà dargli quell’incessante vai e vieni di acqua che lambisce la riva e torna indietro, qualcosa che non è riuscito a trovare altrove, né nella bottiglia stretta tra le dita, né conversando con Athena.
Ha delle ferite aperte, Milo. Ferite che sanguinano lente, ruscellando lungo il suo corpo, formando chiazze al suo passaggio, indurendogli il cuore. Ha i polsi fasciati. Serve del sangue per riparare un’armatura, e quella di Hyoga era ridotta ad un ammasso di scaglie bianche.
«Togli quella dannata paperetta dal diadema», avrebbe voluto chiedere a Mu, ma le sue labbra si sono serrate in una linea dura. «Buon lavoro», gli ha detto, invece, scendendo ad Atene ed entrando dritto di filato nel locale di suo zio.
Il vino fa sangue, giusto? Così si è scolato una, due, tre, quattro bottiglie. Non da solo, ché il vino da solo mette in cuore pensieri tristi e cupi. Ha offerto da bere a tutte le belle ragazze che gli sono capitate a tiro – due: Dorcas e Kalomira, ed ha quasi scalato il loro balcone per convincerle a scendere – ma adesso, che tutti sono rientrati a casa e che le bottiglie sono vuote, Milo è di nuovo da solo. Con se stesso. E non avendo ancora sonno – ché nel sonno i brutti pensieri arrivano come una marea impetuosa – Milo s’è fatto una passeggiata.
«Vado a smaltire la sbornia», ha bofonchiato, scendendo per la stradina tortuosa sotto lo sguardo preoccupato di suo zio Kostas; ma non l’hanno fermato. Non gli hanno detto: «Dove vai, non vedi che non ti reggi in piedi?!» e l’hanno spedito nella stanzetta che occupava da bambino, nossignore.  Lo hanno lasciato andare. Perché ci sono sentieri più tortuosi di quelli che calpestiamo coi nostri passi, e sono quelli che si annidano nel cuore, ammassandosi come rovi intricati da cui possiamo uscire solo con gran fatica. Versando un po’ di lacrime. E qualche stilla di sangue.
 
«Vuoi sapere perché non ho salvato Camus?»
Athena osserva la lapide dell’Acquario. I capelli sciolti oltre le spalle, lo sguardo perso sulle lettere del nome di Camus, le braccia raccolte dietro le ginocchia. Gliel’ha chiesto in un sospiro. Congelandolo sul posto. Affondando un pugnale ancora più in profondità, per poi estrarlo in un gesto fluido.
«Sì…», soffia fuori lui, il possente Scorpione, l’Assassino del Grande Tempio. «Sì, vorrei saperlo. Vorrei
capire. Perché io… perché io, mia Signora, non riesco a spiegarmelo. E…»
Athena gli posa lo sguardo addosso. E nei suoi occhi di stella Milo
vede. Tutti loro sono stati toccati dalla mano del destino. Uno ad uno. La verità costa cara, ma a volte non siamo davvero disposti a pagare il prezzo richiesto. L’innocenza. La libertà. Un amico. Un fratello. Un sogno. Tutti loro hanno perso qualcosa, quel giorno maledetto. Tutti loro. Anche lui. Anche Athena.
«Non so se tu possa accettarlo», mormora lei. Come parlando con se stessa, seguendo il filo di un ragionamento già avviato.
«Mia Signora…», le dice, il cuore pesante del naufrago che vede il relitto allontanarsi per un capriccio della corrente, «mia Signora, io vi seguirò. Non vi abbandonerò. Ma ho bisogno di
sapere. Di capire
«Ma tra sapere, capire ed accettare c’è un abisso, Milo. Sei sicuro di volerti sporgere ad osservare?»
Lui annuisce. E lei, con un sospiro, fa cadere il velo davanti ai suoi occhi.

 
«Ho bevuto troppo», si dice Milo, prima di crollare seduto sulla spiaggia. È umida. Umidissima. Gli risale lungo la spina dorsale. La rena sotto le dita assomiglia a cenere. Abbandona la bottiglia accanto a sé, la lancia del guerriero conficcata a terra. In attesa. Che questo momento di scoramento passi, e lui riprenda a bere. Scolandosi il vino fino in fondo. Milo tira sul col naso, lo iodio che gli riempie i polmoni e la salsedine che gli si attacca alle lacrime. Il mare chiama, ma lui non lo vede. C’è solo una macchia scura, davanti a lui, una macchia scura in movimento. Che sembra sussurrare il suo nome. E volerlo cullare, come faceva sua nonna quando aveva quattro anni e si svegliava piangendo nel cuore della notte.
Ma Milo ha vent’anni. Milo è un uomo. Ed un uomo non dovrebbe lasciarsi andare così. Non dovrebbe commuoversi fino a farsi sfocare la vista dalle lacrime. Dovrebbe reagire. Sopportare. Capire. Ma l’unica cosa che Milo vede, adesso, è quella chiazza scura e densa che lo accetta per quello che è. Un essere umano ferito, tradito e deluso dal suo migliore amico.
 
«Io ti seguirò!»
Il viso di Camus ha un’espressione serissima mentre il sole tramonta alle sue spalle e gli riempie i capelli di un riflesso di fuoco.
«Sembri un fiammifero ambulante», gli dice, le mani in tasca e l’aria imperturbabile che stride con i graffi sul viso e il fondo dei calzoni bagnato. Zuppo. Un bagno fuori programma non è mai piacevole. Anche a Luglio. Specie quando sei vestito.
«Io ti seguirò», gli ripete Camus. Convinto che lui non abbia capito. Che non l’abbia sentito. Che non l’abbia voluto sentire.
«Non è colpa tua se la missiva è caduta in acqua», gli dice Milo, tagliando corto.
«No», ribatte l’Acquario. Serio. Serissimo. Milo vorrebbe tenergli la testa sott’acqua fino a quando non… «Non è colpa mia. Ma sono
corresponsabile di quello che è successo.»
Lo Scorpione lo fissa basito. Camus lo guarda, aspettando una sua risposta. Corresponsabilità. È così che parla un adulto. E lui non può certo dimostrarsi infantile e ribattere che sì, se la missiva del Sacerdote è caduta in acqua è stata perché stavano litigando, e che se stavano litigando è per colpa sua, dell’Acquario, che con quell'espressione imperturbabile gli tira via gli schiaffi dalle mani.
«Fai come ti pare», gli dice, stringendosi nelle spalle. E mostrandogli il rotolo di pergamena zuppo.



L’acqua è fredda.
Gli lambisce le dita dei piedi, delicatamente, come le mani di una donna. E poi gli incatena le caviglie, come un’amante possessiva e gelosa. Com’era Vasilikê, che ad entrambi lasciava i segni delle unghie sulla schiena e aloni rossastri sulle vene del collo. Che li voleva tutti per sé. Tutti e due, mentre lei apparteneva solo a se stessa e al vento. Anche le mani di Vasilikê erano sempre fredde, di questa stagione. Fredde, morbide e delicate. Si sono presi a pugni, per le sue mani. Si sono saltati al collo, alla gola, per il suo sorriso. Ma poi, quando le spalle si sono fatte stanche e le dita hanno protestato per tutti quei pugni rabbiosi e ciechi, si sono guardati. Hanno sorriso. Ed hanno entrambi rovesciato la testa all’indietro, a riempire il silenzio della notte e lo stupore di Vasilikê con una risata. E se ne sono andati fianco a fianco, un braccio sulle spalle e gli occhi pesti e lividi, ma il cuore leggero.
Quello di Milo è un blocco di metallo pesantissimo mentre avanza nel mare. L’acqua gli è arrivata a metà polpaccio. Fa freddo, adesso, ma non importa. Nuoterà, alla luce della luna. Per questo ha lasciato i vestiti sulla rena, accanto alla bottiglia vuota. Nuoterà, si scalderà e si chiarirà le idee. O forse anche no. Ma adesso Milo ha bisogno di eliminare tutto l’alcol che ha in corpo. Pisciare sulla sabbia non l’ha aiutato.
«I brutti pensieri si eliminano facendo qualcos’altro», diceva Aristoteles, il suo maestro – suo padre. E un bagno a mezzanotte non si rifiuta mai. Nemmeno ad Ottobre.
Così Milo avanza. Un passo dopo l’altro, l’acqua che gli abbraccia le cosce, il pube, i fianchi ed il busto.
Coraggio, si dice. Prendendo fiato. Ed immergendosi.
 
«A Camus non interssava più vivere.»
La voce di Athena è carta affilata che gli strazia il cuore.
«Lui era già andato oltre, quando sono arrivata all’Undicesima Casa. Non era più lì, capisci?»
Milo annuisce, ma no, non capisce. La sua testa va su e giù, ma non è sicuro di quello che Athena gli sta dicendo.
«Camus era un maestro. E un maestro può dirsi soddisfatto quando il suo allievo si spinge un passo oltre. Prosegue. Cammina sulle proprie gambe. I maestri tracciano la via. Gli allievi la seguono. Arrivando lì dove i loro maestri non hanno saputo giungere. Colmando i loro vuoti. Capisci?»
Ma no, Milo non lo capisce. Non lo capisce perché lui non è stato un maestro, certo; ma lo Scorpione sente che la soluzione ai suoi crucci non è solo questo.
«E?», le chiede. Incalzandola. Non sono più Athena e un suo Santo, adesso. Sono un ragazzo ed una ragazzina che conversano davanti ad una lapide, alla luce delle stelle.
«Camus era felice. Soddisfatto. Appagato. Si è avvicinato al confine della vita con l’animo sereno.» Silenzio. Il vento gioca con i lunghissimi capelli di Saori – di Athena – e le increspa la pelle di velluto. «Non me la sono sentita di richiamarlo indietro, Milo. Non odiare Hyoga, non odiare Camus. Se devi odiare qualcuno, odia me.»

 
L’acqua è freddissima.
Le sue gambe si muovono in automatico, spingendo via la massa liquida, creandosi un varco, incuneandosi nel mare. Con bracciate via via più forti. Più rabbiose. Più disperate. Milo avanza verso l’orizzonte, dritto davanti a sé. Non pensa più ad Athena, ai vestiti abbandonati, alle scarpe lasciate sulla rena, a suo zio che lo starà aspettando mentre rigoverna la cucina, ad Antares che brilla rossa, ad Athena che starà riposando nelle sue stanze al Tredicesimo Tempio.
Odiare lei. Non si può. Non ce la fa. Perché la verità, quella che lo Scorpione non è riuscito a rivelare davanti ad Athena è che lei, in questa storia maledetta, non c’entra. Non c’entra così come non c’entrava Vasilikê allora. La questione non riguarda nessuno oltre lui e Camus. Nemmeno Hyoga. Ma Milo. E Camus. Che se n’è andato via. Che l’ha lasciato solo. Che ha rotto una promessa.
Io ti seguirò un cazzo!, pensa lo Scorpione, mentre nuota e piange e batte le gambe e quasi grida il suo dolore, la sua rabbia, la sua impotenza. Bracciata dopo bracciata. Metro dopo metro. Fino a non sentire più le spalle. Fino a non avere più fiato in corpo. Fino a lasciarsi andare. A farsi inghiottire da tutto quel dolore. A lasciar morire la sua amicizia nel ventre scuro del mare di Ottobre.


Il cielo si è annuvolato.
Le barche dei pescatori non usciranno nemmeno oggi.
Il mare è una distesa d’acciaio liquido che va e viene, che viene e che va lasciando sulla riva conchiglie, piccoli granchi, relitti, pezzi di legno. A volte l’uomo, nella sua infinita follia, lascia cadere qualcosa in acqua, convinto che il mare lo farà sparire. Che ci penserà lui. Ma l’acqua, no, non nasconde. L’acqua ricorda. Rammenta. Rivive. Con dolorosa precisione, come quella profonda e sotterranea  che guida lo Scorpione. Che lo ributta a riva, delle alghe incollate ai capelli e la rena sotto le unghie. Stanco. Mezzo morto. Svuotato. Come una bottiglia scolata fino in fondo. Come chi ha perso qualcosa, in mare – un braccio, una gamba, un dito – e che deve imparare a farne a meno. Riaprire gli occhi alla luce che li ferisce impietosa, ed andare avanti. Passo dopo passo. Metro dopo metro. Bracciata dopo bracciata. Nascondendo le lacrime tra le gocce della pioggia.

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Capitolo 3
*** Athena. Saori. O tutt'e due ***


#3 Athena. Saori. O tutt'e due
Lama VI – L’Innamorato
Personaggi: Pisces Aphrodite



 
Quando lei gli porge la mano, lui non le chiede perché. Si limita ad osservare quelle cinque dita. Dita sottili. Da pianista. Con le unghie di un delicato rosa pesca e la lunetta appena accennata. Lei non parla. Athena. Saori. O tutt'e due. Lo guarda, come a dire: «Adesso sta a te, Aphrodite». E lui capisce. Che lei gli sta dando una possibilità. Un nuovo inizio. Una nuova vita. Una pagina bianca su cui scrivere un’altra storia. Una storia diversa, per un uomo diverso.
«Perché?», le chiedono i suoi occhi. Occhi chiari, di mare al mattino, quando il vento soffia e la nebbia arriva dal porto. Occhi in cui lei si specchia, occhi incastonati in due file di ciglia nerissime come acquemarine in una corona di spine. Non è forse questo il nobile Aphrodite dei Pesci, la rosa più bella del giardino di Athena? E ogni rosa che si rispetti non protegge il proprio fiore con spine acuminate?

Sì.

Ma adesso che questa ragazzina gli sta porgendo la mano, è Aphrodite a sentirsi un bruco davanti al gambo della rosa. Quella mano candida è irta di spine. Non si vedono, ma questo non le rende inesistenti. E lui sa che più sono piccole e più ti si conficcano bene sottopelle. Ed estrarle è difficilissimo.
Ma la mano è sempre lì, dritta davanti a lui. Bianca. Delicata. Calda. Invitante. Pericolosa, come una tagliola che brilla nel buio, come il sorriso di Giuda.
Lui non sa cosa faranno gli altri. La sua anima è sola, adesso; sola davanti a lei, Lei. Una ragazza, certo. Una ragazzina. Eppure… eppure è capace di congelargli le viscere con la sua sola presenza. Con il suo solo sguardo. Azzurro, come il cozzare dell’acciaio e il riverbero del sole sulle corazze.

«Perché?! Di’ qualcosa, in nome del Cielo!»

Aphrodite vorrebbe gridare. Vorrebbe che la sua voce rimbalzasse per il soffitto dell’Ade. Per sentirsi meno fragile, meno vulnerabile davanti a lei. E provare ad atterrirla. Con un tono di voce aggressivo. Mostrando i denti, come fanno i lupi con le prede. Ma Aphrodite non ha più una voce, perché Aphrodite non ha più un corpo. E se anche le sue corde vocali potessero vibrare un’ultima volta, è certo che la sua voce sarebbe incrinata. Dalla paura. Il belato dell’agnello che prega il lupo di non mangiarlo. E si è mai sentito di un lupo che s’impietosisce davanti al collo caldo e soffice di una preda?

No.

Athena non si fermerà. Athena ha deciso. Athena lo rivuole al suo fianco. Athena. Saori. O tutt'e due. E allora perché glielo sta chiedendo?
Perché qualsiasi altra divinità lo avrebbe strappato da quel sacello senza tanti complimenti, e lei - e loro -invece no?
«Perché?», riesce a dire – a chiedere – con uno sforzo sovrumano. Il suo Cosmo risponde a quello della dea. Brilla, una fiammella dorata in quel buio; ben misera cosa rispetto allo sfolgorante scintillio del cosmo di Athena. Saori. O tutt'e due
Athena - Saori? - sorride.
«Perché voglio darti una nuova possibilità, Aphrodite.»
«Perché!», e stavolta il cosmo dorato brilla più disperato. «Perché io? Perché proprio me? Perché non Saga, perché non Aiolos, perché non Shura?»
«Perché adesso sto parlando con te.»
Le labbra della ragazza non si sono mosse, le labbra della ragazza sono sempre arcuate in un sorriso. Calmo. Atarassico. Accattivante. E Aphrodite trema.
«Se mi vuoi, Athena… se mi vuoi, ordinamelo
La sta sfidando. Non è mai stato un tipo facile, Aphrodite dei Pesci. Uno che cala la testa. Uno che obbedisce supino.
La ragazza scuote la testa. «No, Aphrodite.» Il suo cosmo è vasto e potente e smarginato. Caldo. Come l’abbraccio di una madre o una coperta sulle spalle. Come il fuoco nel camino o la fisksoppa nella zuppiera. «Voglio che tu mi segua per scelta, non per obbligo. Voglio che tu accetti la mia visione delle cose. Voglio che tu creda in me.»

Credere.

Certo. Ovvio. Con gli dei è sempre questa, la questione. Il motivo che li spinge a rivolgersi ai mortali. Vampiri, questo sono gli dei. Vampiri che si nutrono della fede degli umani, ma non concedono loro che un briciolo del loro potere. Della loro forza.
«Io sono un soldato, Athena. Cosa ne ricaverò, seguendoti? Cosa avrò in cambio, credendo in te?»
«Una nuova vita», risponde Athena, e nella maggioranza dei casi questo già basterebbe. Una nuova vita. Un’elettrizzante prospettiva. Una possibilità inaspettata e, proprio per questo, preziosissima. Ché quando sei morto – ed Aphrodite lo è da un pezzo, ormai – daresti qualsiasi cosa per altri cinque minuti di vita. Per vedere ancora una volta il sole. Il vento sull’erba. Un gatto che ronfa. La luce dei lampioni che si riflette sull’asfalto bagnato. Il mare che batte e leva contro gli scogli.
Ma per Aphrodite, no; per Aphrodite questo non basta. Perché Aphrodite è un soldato, e se togli la guerra ad un soldato, gli togli la vita. Perché Aphrodite è un’esteta, e se togli ad un esteta la bellezza – e la battaglia non è forse l’apoteosi della bellezza? – togli tutto. E Athena, questo, lo sa. Lo sa benissimo. Ecco perché aggiunge: «Una vita da soldato. Nuove battaglie. Nuovi scontri. Nuova bellezza.».
Un sorriso amaro incurva le belle labbra di Aphrodite. Scuote la testa e abbassa gli occhi. «I miei compagni… i miei compagni lo sanno?»
«Sto parlando con te, adesso, Yngve.»
«Perché sono l’unico a cogliere una rosa malata fra mille…»
Il sorriso di Athena si fa più comprensivo. Più caldo. Più complice.
«Lo sapevo. C’era la fregatura…», mormora Aphrodite, prima di rilasciare indietro la testa e liberare una risata di pancia, di cuore, di anima ed afferrare quelle cinque dita. Sono fredde. Ti ho fatto perdere tempo, Athena?
Lo sguardo azzurro non risponde.
«Farà male? Tornare indietro, dico…»
«È stato doloroso morire?»
Tu che dici?, dardeggiano gli occhi di mare al mattino di Aphrodite.
«Andiamo, Yngve. Torniamo a casa», gli dice Athena – gli dice Saori – prima che tutto diventi bianco e che lui torni indietro. Ancora una volta. Per servire lei. Athena. Saori. O tutt'e due

 

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Capitolo 4
*** Quando piovono le stelle ***


#4 – Quando piovono le stelle
Lama XVII – La Stella
Personaggi: Sagittarius Aiolos



 
Le cose semplici sono una piccola magia che ti sorprende all’improvviso, come un refolo di vento o i fiori che spuntano ai cigli delle strade. O le stelle cadenti che rischiarano la notte violando un cielo nero e sconfinato. Attraversandolo, di fretta, come solo sanno fare loro. E allargando la loro coda, per regalare un brivido di luce alle notti estive o un luccichio nuovo agli occhi di una ragazza. O per premiarla di aver resistito col naso all’insù, in attesa della primadonna.
Le cose semplici accadono. E lui sapeva che la magia sarebbe accaduta di nuovo. Con semplicità. Con naturalezza, ché quando una cosa ti viene bene, ti viene naturale, non stai lì a pensarci sopra. La fai. E basta.

Quando erano più giovani, la scusa per restare alzati era quella di inculcare a suo fratello le costellazioni. Mostrandogliele. Una per una. E Aiolia gradiva quel tempo rubato in cui Aiolos tornava ad essere solo suo, in cui sulla sua spalla si posava la mano del fratello maggiore, e non quella del Santo del Sagittario.
Quando Saga era una gradita compagnia, ché quando hai quattordici anni parlare con un tuo coetaneo è una boccata di aria fresca. Ché Saga sapeva, nelle ossa e nelle vene, quanto pesasse il loro compito. Osservando le stelle, Saga capiva quello che Aiolia poteva solo immaginare, intuire, ipotizzare.
Quando Shura era un ragazzino pelle e ossa, troppo smarrito per farsi degli amici, troppo piccolo per comprendere i compagni più anziani, e troppo grande per rapportarsi con Aiolia.
«Vuoi sapere se succederà di nuovo? Se le stelle saranno ancora allineate?», gli ha chiesto la dea. E quando lui ha annuito, lei, con un sorriso, gli ha risposto:«Sì, accadrà. Accadrà se è questo quello che vuoi».

Aiolia ha ripreso ad affacciarsi alla Nona Casa quando sorge Venere. È apparso una sera. Senza un motivo. Senza un reale bisogno. Solo per il gusto di stare assieme, il naso all’insù e una bottiglia di vino ghiacciato a portata di mano.
Shura si è presentato la sera successiva, con delle arance rosse e una richiesta di perdono stretta in gola.
Saga è arrivato il giorno dopo, con qualche bottiglia di ouzo tra le braccia. Dicendo: «In ricordo dei vecchi tempi», ed  infilando le bottiglie nel ghiaccio tritato.
Poi è arrivato anche suo fratello, Kanon, le mani nelle tasche e l’aria di chi si sente spaesato. Come un cactus al polo nord.
Anche il Santo dei Pesci s’è incuriosito di tutto quel trambusto, ed è sceso a vedere cosa stesse succedendo.
«Perché non l’avessero invitato, semmai», ha detto il Cancro comparendo da non si sa dove, reggendo tra le mani due tegami di caponata che non chiedeva che di essere gustata alla luce delle stelle.
«Hai delle sedie per tutti, sì?», gli ha chiesto il Cancro, con un guizzo nello sguardo azzurro. E Aiolos sì è grattato la testa. Ed ha risposto:«Temo di no. Dovremo accontentarci dei gradini», indicando la scalinata che portava alla Decima Casa.
Athena è stata munifica. Sono arrivati tutti. Il Toro e l’Ariete e la Vergine. E Scorpione ed Acquario. E tutti gli altri Santi. Facce nuove e vecchie conoscenze, riuniti per osservare Venere spuntare nel cielo vespertino, e le stelle rischiarare la notte di fine Luglio. O per passare una serata in compagnia. Come quando erano bambini ed il mondo era più facile, più semplice e faceva meno paura.


«Tu… tu lo sapevi?», gli ha chiesto Saga. Fissando qualcosa all’orizzonte. Un sogno, un miraggio, la scia di una cometa, forse. «Che stasera ti avremmo invaso il piazzale posteriore della Nona Casa, dico…»
Lui si stringe nelle spalle.
«Sì e no», risponde, sentendo lo sguardo azzurro del compagno – dell’amico – posarsi su di lui con aria interrogativa. «Ho espresso un desiderio. A volte si avverano, sai?»
«Un… desiderio
«L’ho chiesto alla stella più splendente.»
«Questo è barare…»
«Sai qual è il tuo problema, Saga?», e il viso del Santo dei Gemelli s’è fatto cereo, «Non sei affatto ottimista, tu».
«Sono realista. Ottimista e Pessimista hanno entrambi torto.»
«Sicuro. Ma l’ottimista si diverte di più!»
Saga non ha replicato. Ha solo mormorato:«Un rovo secco non si può cambiare…», alzando il proprio bicchiere ed unendosi alla risata di Aiolos. Una risata argentina, fresca solare. Un trillo di luce che ha svegliato le stelle. E le ha fatte scendere in picchiata sul mantello della notte a rischiarare un’amicizia, un legame che si rinsalda. Nella luce. Con la luce. Per la luce. In silenzio. Quando piovono le stelle.

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Capitolo 5
*** Polsi di pietra e cuore alato ***


#5 – Polsi di pietra e cuore alato
Lama I – Il Bagatto
Personaggi: Aries Mu



 
Lo chiamano Il Mago e puoi trovarlo nella sua torre in cima ad un cucuzzolo solitario che domina la vallata. È un artigiano che ripara armature, così si definisce lui stesso, ma in realtà nessuno sa cosa realmente faccia, lassù. Da solo. Con il vento e un piccolo apprendista dai capelli rossi a gironzolare per casa come unica compagnia.
Gli abitanti del villaggio evitano con attenzione di ficcare il naso nei suoi affari. Di calpestare la sua stessa ombra. Non ne hanno paura, no. Il Mago è gentile. Premuroso. Riflessivo. Non vogliono disturbarlo, dicono, ché i lavori di artigianato sono affari da portare avanti con calma, solitudine e concentrazione. Per questo gli recapitano un cesto di provviste ogni settimana, cosicché lui non scenda al villaggio – sì, ok. Un po’ lo temono, ma lo temereste anche voi se sapeste cosa è davvero in grado di fare il Mago.
Lo lasciano all’inizio del ponte, ché non vogliono rischiare di cadere nel baratro sotto il peso delle ceste e restare infilzati nei pilastri di roccia sbozzata che si allungano verso il cielo come i chiodi del letto di un fachiro. Chiodi grandi. Enormi. Sbeccati. Arrugginiti. E che devono fare un male cane quando ti trapassano le carni senza chiedere permesso. Perché dovrebbero, poi? Sei tu che sei caduto su di loro, non il contrario. Ma non si muore subito, no. Anzi. Si crepa dopo un’agonia atroce. Dopo che hai riempito l’aria dei tuoi lamenti, delle tue bestemmie e delle tue lacrime.
Dopo che nessuno – mosso a pietà dal tuo dolore o estenuato dalle tue grida non importa – è apparso per aiutarti. Ficcandoti in testa una pallottola, o trapassandoti il cuore con una freccia, una lancia, qualcosa.
Lo sanno bene i poveri diavoli che hanno avuto la sfortuna di cadervi sopra, i cui cadaveri sono tuttora appesi, come macabri stendardi. È successo tanto, tanto tempo fa, quando quelle erano terre libere e fiere; eppure al villaggio, quando i bambini non vogliono andare a dormire, gli anziani raccontano ancora le storie su quei poveri disgraziati. Di quanto sia durato il loro tormento. La loro agonia. Di come il vento abbia raccolto le loro voci e le abbia portate in giro per quelle gole desolate e strette, gonfiandole, prolungandole, ghiacciandole. E facendo rizzare i capelli in testa agli sventurati che le sentivano rimbalzare di roccia in roccia nella notte senza stelle. Quando il Jamir fa ancora più paura.
 
 
 
Mu è solo un bambino raffreddato che si aggrappa alle sottane di sua madre per non cadere. E che la segue, ciabattandole dietro passo passo come un cagnolino premuroso. Non si può lasciare sola la mamma. Poi chi le tiene compagnia mentre il papà è in viaggio? E stamattina, mentre Mu mangiava il suo riso – ed un chicco dispettoso si ancorava alla sua guancia destra – è apparso un uomo alla porta di casa sua. Il Mago, come lo chiamano tutti al villaggio. Oppure Sion, come bisbiglia qualcuno di più coraggioso, per il puro gusto di scandalizzare le orecchie del prossimo e solo quando è certo che lui o un anziano non sia nei paraggi. Il Mago. Il Santo di Athena. Sion dell’Ariete. Che quella mattina si è presentato all’uscio di casa sua con un mantello bianco che gli danzava sulle spalle ed un elmo rosso lacca. E una maschera– blu cobalto – a coprirgli il viso. Ha parlato con sua madre, perché suo padre è in viaggio. Suo padre è un guaritore ed è andato a visitare gli ammalati nei villaggi vicini, dall’altra parte delle montagne. Ha parlato a lungo, il Mago. Poi sua madre ha annuito e si è alzata, portandoselo dietro. Gli ha detto che il destino gli ha concesso un grandissimo onore. Andare dal Mago. Diventare il suo apprendista. Oh, Mu deve accettare con cuore grato quella benedizione. Ma lui non capisce perché sua madre pianga mentre apre i cassetti e riempie una sacca da viaggio con le sue cose. Calze pesanti. Abiti estivi. Un amuleto. Un pettine d’osso. Una sciarpa rossa. 
C’è una gigantesca nuvola scura che galleggia nella mente di sua madre. Mu non riesce  a leggerle nel cuore. Ha troppa paura. C’è troppa confusione. Troppi sentimenti contrastanti. Troppo dolore. E a lui viene istintivo incupirsi. Stringersi a lei. Ma quando le abbraccia la gamba sotto la stoffa cucita a mano, la nuvola  peggiora. Si ingrossa. Si riempie di lampi di luce. Come quella volta in cui si sono chiusi tutti in cantina ed hanno atteso che il cielo cambiasse colore. E tornasse azzurro, da nero che era diventato.

 
 
 
Le corazze sono in pessime condizioni. Una cosa morta. Inerte. Non le sente respirare. Kiki lo guarda da sotto in su, per capire se le sue impressioni sono giuste. Mu scuote la testa.
«Non posso fare nulla. Mi dispiace», ed è sincero, e Kiki lo sa, ma a volte la sincerità non basta. Non ripara i cuori. Anzi. È un affondare di lama in una ferita aperta e sanguinante.
«Non è possibile!»
Il ragazzo lo guarda con un’espressione disperata. Ha fatto tanta strada. Con due scrigni sulle spalle. Ha affrontato le montagne. Gli spettri. Se stesso. La fame e la sete. Mu lo sa perché gli è andato incontro. In silenzio. Senza che se ne accorgesse. Ha camminato con lui sui sentieri sdrucciolevoli del Jamir, tre passi alle sue spalle. Perché non si smarrisse. Per cortesia, nei confronti del Venerabile Libra. Eppure, non è bastato.
«Queste armature sono morte», gli spiega, voltando le spalle alle corazze e al suo ospite. Ha un lavoro da finire, Mu. Delle vestigia da riparare. Piccole scalfitture. Un colpo di scalpello, una spolverata di oricalco e via. Bagattelle in confronto a quello che gli sta chiedendo il giovane Drago. Lo chiameranno anche Il Mago, ma quello che sta dovrebbe compiere per il Drago è un miracolo, altroché!
«Morte?!»
È disperazione quella che sente galleggiare nella sua voce?
«Anche le armature hanno un’anima. Una vita. Non è possibile resuscitarle, quando sono passate oltre il velo. Capisci?», gli dice, ma il giovane Drago ha tutta l’aria di chi no, non ha capito, non vuole capire e si ostina a non provarci nemmeno.
«A me servono queste armature!», protesta. Come chiunque altro si affaccia da lui e pretende di risolvere le cose con uno schiocco di dita. «È una questione di vita o di morte!»
È sempre una questione di vita o di morte, ragazzino, pensa Mu, prima di voltarsi. E di leggere la verità negli occhi del Drago.
«Ho promesso ad un amico che gli avrei riportato l’armatura intatta.»
«Mi dispiace, ma non dovresti promettere cose che non sei in grado di mantenere…»
«Hai ragione. Ma io devo la vita a questo amico. E abbiamo un bisogno disperato delle nostre corazze. Dobbiamo combattere i cavalieri neri e…»
Mu alza la mano. Un gesto secco, che stride con la gentilezza del suo animo.
«Cosa sei disposto a fare, perché io salvi la tua armatura?», gli chiede. Fissando i suoi occhi verde smeraldo. 
Il ragazzo serra pugni e mascella.
«È una questione di prezzo?»
«In un certo senso», ribatte Mu.
«Maestro…», prova ad intromettersi Kiki, ma basta che Mu abbassi lo sguardo sul suo allievo per farlo tacere.
«Ok. Cosa vuoi?»
«Quello che mi chiedi è un miracolo, ragazzo. Io, al massimo, faccio incantesimi. E gli incantesimi hanno un costo elevato. Per gli ingredienti che si utilizzano.»
«Devo raccogliere un’erba che cresce su uno strapiombo inaccessibile o roba simile?»
Mu sorride. Questo ragazzo lo diverte. E vuole vedere fino a dove è disposto a spingersi per salvare le due corazze.
«Niente di così teatrale», gli dice. Abbozzando un sorriso.
«E allora cosa vuoi?»
«La tua vita, ragazzo.»
 
 
 
La mano di Sion è enorme. Rugosa. Dura. Per un momento Mu è tentato di tirarla via. Di aggrapparsi alla gonna colorata di sua madre con tutta la forza e la testardaggine dei suoi quattro anni. Ma poi il vecchio fa qualcosa. Gli parla. Direttamente nel cervello. Con una voce fresca. Una voce giovane. Calda di luce dorata, quando il sole scende a colorare le rocce di ocra e oro. Gli dice: Vieni, Mu. E basta. E Mu è come attratto da quella voce. Da quella luce. Da quella magia. Com’è possibile che un uomo tanto vecchio – non ha visto, forse, le sue mani? Non ha sentito, forse, la sua voce mentre parlava con sua madre? – abbia un timbro così fresco? Adulto, certo. Ma più giovane di quello di suo padre. Lo stesso di Tokusa, che suo padre chiama ancora ragazzo, ma che il mese prossimo sposerà una coetanea di un villaggio vicino. Ora, come può il Venerabile Shion, che profuma di antico più della nonnina, avere una voce leggera come quella di Tokusa?

Tokusa… Conoscevo anche io un ragazzo di nome Tokusa…
Davvero?

Sion gli sta leggendo nella mente. Stanno parlando col pensiero. E a Mu non dispiace. Non si sente né fragile, né intimorito. Si sente capito. Compreso. Non c’è bisogna di dare fiato alle parole che pensa. La nonnina dice che è perché è pigro, perché no, non si parla con la mente. Non si fa. Non è educato. E noi non vogliamo essere scortesi, vero?
Mu percepisce Sion sorridere da sotto il cobalto della maschera.

Sì, Mu. Conoscevo un ragazzo di nome Tokusa, ma è stato tanto, tanto tempo fa…
E che tipo era?
Un tipetto… particolare.
Davvero?
Davvero!
E che faceva di tanto particolare?
Te lo racconterò, Mu. Quando sarai più grande. Prima, però, abbiamo altre cose di cui occuparci.

E Mu non si è accorto che si sono lasciati il Jamir, la mamma e la casa con le finestre tonde alle spalle e che la luce, adesso, è diversa. L’aria è diversa. Il cielo e la terra sono diversi. Hanno colori sgargianti. Sfacciati. Pieni di vita.

Questo è il Santuario di Athena, Mu. Qui è dove diventerai il mio discepolo.
Mi insegnerai ad essere un mago?
Il Sommo Sion ride, un rumore secco e rauco che gli sale dal cuore.
Sì, Mu. Diventerai un mago, in un certo senso…
Davvero?
Certo che sì. Ma prima devi imparare ad avere i polsi di pietra ed il cuore alato.
E come si fa?
Non preoccuparti. Te lo insegnerò io. 
 
E Mu segue il vecchio Sion. Passo dopo Passo. Ascoltando le sue parole con le orecchie ben aperte e l’anima spalancata.


 
Ogni tanto qualcuno si avventura lungo quel ponte periglioso e affilato come una spada. I colleghi di Mu. I suoi pari. Altri maghi come lui. Gente che sa fendere in due le rocce. Spaccare il cielo. Rivoltare la terra. Stralunare la luna. Persino loro si recano dal sommo Mu solo quando è strettamente necessario. Quando non possono farne a meno. Nessuno sa cosa succeda quando gli stranieri, con i loro scrigni sulle spalle, varcano la soglia dell’abitazione del Sommo Mu. Il cielo resta azzurro e limpido, ma qualcosa increspa lo spirito di quel luogo. Qualcosa di poco piacevole, come morire e rinascere nello stesso tempo.
Il sangue è ovunque. Cola su Pegaso. Cola sul Drago. Caldo. Rosso. Viscoso. Vivo.
«Quanto sangue…», geme Kiki, pulendo i polsi del Drago con una pezzuola d’acqua fredda. Shiryu è bianco come un lenzuolo. Meglio che dorma, adesso. Meglio che non veda cosa sta per fare alla sua armatura.
Mu si siede sui talloni, davanti a quelle corazze, in cerca di concentrazione. È una pazzia, si dice, mentre sente l’energia fremere sotto la pelle dei polpastrelli. Eppure sa che è una pazzia che deve fare. Che ogni tanto, solo ogni tanto, è bello seguire il cuore. Volare sulle sue ali. Non è questo quello che Mu fa ogni qualvolta prende in mano il suo scalpello? Non lascia che il suo cuore entri in risonanza con l’armatura e che la mano cali lì dove ce n’è bisogno, dove la corazza gli chiede di colpire?
Oh, sì che lo fa. E le sente quasi cantare, queste corazze, sull’aria che lui suona colpendole, sfiorandole, smerigliandole, lucidandole. E lui s’accoda a loro, seguendo la melodia coi battiti del suo cuore. La sessione ritmica, direbbe qualcuno che di musica ne capisce, ce la mette lui. Il resto, è tutta magia. Pura e semplice polvere di stelle che brilla alla luce dell’infinito. E c’è voluto un ragazzino che ancora puzza di latte perché Mu ricordasse che le melodie più belle –così come gli incantesimi – sono quelle nuove. Quelle che non si conoscono ancora. Che si dipanano sotto le nostre dita, piano piano, nota dopo nota. Strada facendo. Che non leggiamo sullo spartito, ma che eseguiamo attraverso la bacchetta del direttore d’orchestra. O tramite il bastone del mago. O sotto un colpo di scalpello.
«Oricalco e polvere di stelle. Subito», dice. Come un chirurgo che chiede i ferri in sala operatoria. O uno stregone che segue per filo e per segno l’incantesimo trascritto sul suo grimorio. Mu si concede un sorriso. Poi inspira. Espira. E prende il mano i suoi attrezzi. Ed è adesso, che comincia la magia.

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Capitolo 6
*** Alla fine della strada ***


#6 – Alla fine della strada
Lama XI – La Forza
Personaggi: Leo Aiolia
 





Tu credi che la forza sia spalancare le fauci dei leoni – e tenerle aperte per capriccio – oppure sollevare un armadio pieno zeppo di vestiti. O magari spaccare una roccia a  mani nude, piegare il ferro e scaricare addosso al nemico la potenza devastante del fulmine, giusto?
Allora sei in errore, ragazzo.
La forza è sì questo; ma è anche – e soprattutto – altro.

La forza ha molti nomi, molte sfaccettature come un diamante trafitto da un raggio di luce che brilla nel buio più cupo.
Puoi chiamarla amore, quando rovesci il cielo per difendere le persone a cui tieni.
Si colora del coraggio, quando compiamo imprese impossibili, roba che la storia del cammello e della cruna – erano una gomena e una cruna, ma non stiamo a cavillare, adesso – è un passatempo da bambini.
Si tempra al fuoco della perseveranza, quando sopportiamo, con pazienza e tenacia, le prove che il destino ci mette davanti. La forza è qualcosa di sicuro come le montagne ma impalpabile come la nebbia.  O inafferabile, come il vento.
Detta così è molto facile, vero? Facile ed anche un po’ altisonante, come le parole di certi poeti che riempiono cuori ed orecchie di soffice bambagia. Ma il trucco è che non c’è trucco. La verità nascosta in bella vista. E se non credi a me, ragazzo, allora chiedi a lui. Chiedi ad Aiolia del Leone.

Si dice che ogni mattina, in Africa, una gazzella sa che dovrà essere più agile del leone, se vuole continuare a vivere. E un leone sa che dovrà essere più veloce della gazzella, se vuole fare altrettanto. Vivere. Andare avanti. Attraversare questa vita a testa alta. Come fa Aiolia, quando dischiude le palpebre che è ancora buio.
Gli piace vedere sorgere il sole. Gli piace sentire i suoi raggi scaldargli a poco a poco la pelle, come le carezze di una madre. Ma, soprattutto, gli piace rivivere, anche solo per un attimo, la quiete delle notti del Santuario, quando persino il vento si insinuava tra le fronde degli alberi come una carezza leggera per paura di disturbare il sonno di Athena. Quando Aiolos era ancora vivo, lassù, alla Nona Casa; vivo. Ed eroe. E non il traditore che tutti affermano di vedere sul suo viso quando passa per le strade di Rodrio o tra i vicoli del Santuario. Quando lo additano alle sue spalle, convinto che lui non li veda. E invece Aiolia li vede, i loro ghigni. Le loro espressioni scandalizzate. Dai novizi e a gli aspiranti Santi, tutti vedono in lui il ritratto di suo fratello. Anche chi, all’epoca non era neppure nella mente di Dio.

Eppure, Aiolia procede a testa alta.
Perché rinasce ogni giorno, assieme al sole. Perché ogni mattina Aiolia sa che per sopravvivere dovrà essere non più veloce, né più agile, ma più forte. Dei suoi compagni. Dei suoi nemici. Dei suoi detrattori. Per portare avanti il proprio nome a testa alta e ripulire, vivendo, la reputazione del fratello.
Questa è la forza, ragazzo. Quella vera. Che ti fa chiudere le orecchie alle maldicenze e sgranare bene gli occhi. E sopportare. E andare avanti. Passo dopo passo. Perché non ci si può fermare ad ogni ciottolo, ad ogni radice che spunta dal terreno; ma si deve proseguire. A testa alta. Con un piede nel passato – quando tutto era più facile, più bello, più splendente – e il cuore saldo. Per poter dire, alla fine della strada, «Sì. Ho vissuto.».

 

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Capitolo 7
*** La partenza come senza ritorno ***


#7 – La partenza come senza ritorno
Lama X – La Ruota della Fortuna
Personaggi: Virgo Shaka
 
 
 
 
 
Cosa resta delle illusioni, alla fine del giorno?
Sabbia che scivola tra le dita, vento che si insinua tra i capelli e cattivi pensieri che sedimentano nell’anima. Come le colonie dei coralli, o il muschio sulla corteccia degli alberi. Leggere, impalpabili, seducenti, come la voce di una donna o una promessa sussurrata all’orecchio mentre la neve cade o i fiori sbocciano o le perle tintinnano sul terreno.
Eppure, l’uomo le rincorre, con bramosia sempre più crescente.

Perché l’uomo ha fame.
È il desiderio a muovere i suoi ciechi passi, a farlo annaspare in acque sempre più limacciose, a farlo avanzare lungo il cammino, in cerca di cosa, neppure lui lo sa; ché se fosse un bisogno naturale, il suo – come la fame, la sete o il sonno – una volta soddisfatto, questo svanirebbe. Invece no. Invece i desideri sono come giocatori di poker che vanno al rialzo. Per arrivare sempre un po’ più in là. Desiderando, bramando, concupendo qualcosa sempre di più grande. Di più luccicante. Di più seducente. Di più effimero. Qualcosa che non basta mai. Qualcosa che svanisce nell’istante stesso in cui le tue dita lo sfiorano. Una stella che muore non appena i tuoi occhi si fanno più acuti da scorgerla nel mare capovolto che appare in cielo quando il sole scivola oltre i tetti del mondo. Quando l’illusione cade. E vediamo cosa c’è davvero sopra le nostre teste. Un’altra miriade di stelle e pianeti. Vicini, eppur così lontani.

Eppure l’uomo ha smesso di guardare al cielo da tanto, troppo tempo.
L’uomo corre. Si getta a capofitto in libertà che elude e in schiavitù che sceglie, in percorsi viepiù frenetici, senza accorgersi, lo stolto, di stare avviluppando il proprio karma. Di stare appesantendolo, scivolando sempre più basso. Gravandolo di nuove catene e nuovi legacci che nemmeno la Morte potrà sciogliere. Ma che anzi, stringerà sempre di più. Ancora e ancora e ancora. Soffiando appena su quella piccola fiammella che sono le illusioni. Sussurrando quelle parole che il cuore vuole sentire. Risvegliando il desiderio che sonnecchia sotto la brace. Perché la Morte sa come funziona il cuore dell’uomo. Tutti, nessuno escluso, tendono ad aggiungere nuovi anelli alla propria catena, senza rompere i precedenti. Le zavorre. Il passato. Questo grava il cuore dell’uomo. Che non capisce, no, che la morte non è la fine, ma un altro passaggio. Una nuova trasformazione. Un altro giro della ruota.

Ecco perché a lui non interessa sapere chi sia stato, nelle sue precedenti incarnazioni. Il passato è passato. È andato. Conta solo come memento, come insegnamento da cui trarre profitto per il futuro. Il passato non può tornare. Non deve. E quando tornerà – perché stiamo parlando di uomini, purtroppo; nobili paladini di Athena che hanno ceduto al samsàra, che vogliono e pretendono un altro giro di giostra, come se questo fosse poi possibile! – sarà compito del saggio ricacciarlo indietro. Spezzando gli anelli del karma. Scuotendo dal torpore la propria coscienza, fino a raggiungere quel risveglio che sì, farà cadere tutte le catene. Ma per farlo, c’è bisogno di meditare. Di sgranare il rosario. E ricordare. Che la morte non è la fine. È una nuova trasformazione. Verso qualcosa di più nobile. L’addio al samsàra. Il passo di chi sta partendo e che sa che non farà ritorno.
La domanda è se i suoi ex compagni saranno disposti a fare quel viaggio assieme a lui. Se avranno abbastanza coraggio. Se Athena sarà disposta a fare quel viaggio assieme a lui.

Fin dove ti spingerai, Atritonia?
Un altro grano che scorre sul filo. Un'altra vita che ritorna nel regno di Ade. Un altro minuto che scivola nella clessidra. Chi la capovolgerà, questa volta?

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Capitolo 8
*** L'eternità, in un battito di ciglia ***


#8 – L'eternità, in un battito di ciglia 
Lama VIII – La Giustizia
Personaggi: Capricornus Shura



«Portami via.»
Lei ti ha guardato con quei suoi occhi impossibili, il chitone come una nuvola di cotone bianchissimo su cui spiccavano i suoi lunghi capelli di seta, sciolti oltre le spalle.
«Portami via», ti ha detto – ti ha sussurrato – apparendo ai piedi del tuo letto questa mattina, mentre il cielo si faceva azzurro ed il sole saliva oltre l’orizzonte ad accarezzare il mondo coi suoi raggi dorati; e hai sentito le stelle ruggire dentro di te. Certo che l’avresti portata via. L’avresti portata lontano, fin dove lei avesse voluto. Anche in capo al mondo, o sulla luna. Non aveva che da chiedertelo.
«Dove?», infatti le hai domandato. Con quella tua voce un po’ bassa, di chi è abituato a parlare poco e ad ascoltare molto.
«Non importa», ti ha detto lei, avvicinandosi al tuo capezzale e sedendosi sulle lenzuola accanto a te. Mirto selvatico e alloro e limone. Macchia mediterranea ed edera. «Voglio cambiare aria per una manciata di ore. Fino a stasera. Vuoi farmi compagnia, Shura?»
Non te la sei sentita di dirle di no, non mentre lei ti guardava con quell’espressione così fragile ed innocente e fiduciosa. E poi, cambiare aria poteva essere una buona idea anche per te. E lasciare i tuoi demoni in fondo all’armadio, per una giornata soltanto, non ti è sembrata una richiesta eccessiva.

Così hai annuito. Lei si è voltata e tu ti sei alzato. Hai indossato una camicia pulita ed un paio di pantaloni neri e ti sei fatto più vicino. L’hai presa in braccio, con un gesto fluido e delicato, come se fosse fatta di piume di cristallo. E specchiandoti nei suoi occhi del colore dell’acciaio, le hai detto – le hai sussurrato: «Si tenga stretta a me, Mia Signora…», prima di compiere il primo di una lunga serie di passi.

Dodici ore dopo, lei sta ancora giocando con l’acqua che le lambisce pigra le caviglie, mentre il sole al tramonto le bacia ancora la pelle e le incendia il vestito. Si tiene la gonna raccolta all’altezza delle ginocchia, per infilarci delle conchiglie da portare indietro, al Santuario.
«Come ricordo di questa bella giornata», ti ha detto, lasciandoti a riposare sulla battigia. E tu vorresti che il tempo si fermasse in quest'istante eterno. E ti viene voglia di restare fuori, per cena. In uno di quei ristorantini affacciati sull’acqua. Solo tu e lei. Ne hai visto un paio, lungo la strada. Costruzioni su palafitte, che non sono né sull'acqua, né sulla terra, ma su tutte e due assieme. Un po’ come sei tu, in fondo. E ti chiedi, in un angolo della tua mente, se a lei andrebbe di farti compagnia per un’altra manciata di ore.

Si volta verso di te, come se avesse sentito il tuo pensiero. Ti sorride. Comprensiva. Materna, quasi, nonostante l’aspetto fragile. Da bambina. E se ne resta a pochi passi da te, sul bagnasciuga, la marea che torna e leva. Ed è a quel sorriso, a quell’attimo di eternità, che tu cedi e la maschera di serietà che ti contraddistingue si spezza. Esplode. Come una granata nel cuore.

«Io non so cosa fare, mia Signora…»
Le confessioni sono fatte così. Ti scappano dalle labbra senza che nemmeno tu te ne accorga. E prima che l’eco delle tue parole si disperda nell’aria che sa di sale, tu realizzi l’enormità di quello che hai appena detto. Che hai appena ammesso.
Lei ti osserva, con l’espressione di chi sa che qualcosa bolliva in pentola ma che, allo stesso tempo, attende che sia il coperchio a sollevarsi da sé e a far uscire fuori la schiuma. Quanto basta per infilarvi il mestolo e vedere quanto dell'arrosto sia rimasto attaccato sul fondo.
«Raccontami tutto», ti dice. Lasciando la gonna all’abbraccio dell’acqua e le conchiglie cadere a pioggia nel mare; e porgendoti una mano che, stavolta, non puoi permetterti di rifiutare. Lei non te lo concede.
E tu ti alzi, la rena che cade distratta dai pantaloni neri. Abbandoni scarpe e calze, ti arrotoli l’orlo dei calzoni e la raggiungi. E le tieni la mano, mentre il sole si inabissa oltre l’orizzonte. Ma non subito, no. Prima, si concede il lusso di osservarvi per benino, un cavaliere in nero e una damigella in bianco ritti come due statuine tra sabbia e mare.
Lei tace. La brezza spira dal mare, accarezzandoti la fronte ed i capelli, scivolando sulla tua camicia nera, soffiandoti nel cuore una nuova speranza.
Un sospiro, un alito di fiato che sa di sale e lacrime e dolore, e poi parli. Vuoti il sacco. Metti a nudo il tuo cuore – la tua anima – con Athena ed i gabbiani spettatori silenziosi del tuo monologo. Della tua confessione.

 
Certi pensieri – certe fissazioni, direbbe Jorge – sono come quelle canzonette estive che ti entrano in testa grazie ad un giro di basso azzeccato e ti restano dentro. Ti piantano le radici. E ti ritrovi a canticchiarle, improvvisando dei dun-dan-dan senza quasi accorgertene. Ti fanno compagnia. Per anni e anni e anni. Saltando fuori dai recessi dell’anima quando uno meno se l’aspetta. Oppure, no; oppure la verità è che saltano fuori quando abbassiamo la guardia, come fanno i mostri che si nascondono nel buio, in attesa del nostro passaggio. Perché la lingua batte dove il dente duole. Perché la mente è come una sirena capricciosa che si diverte a far girare i mulinelli dei pescatori per far credere loro che il pesce sta scappando via con la preda.
Allora il pescatore afferra la manovella e la ruota. In direzione contraria, sperando di non spezzare il braccio di supporto. È una questione di volontà, la pesca. Volontà e caparbietà. O testardaggine. A volte vince il pescatore, e porterà in tavola una bella orata oppure due lucci o un persico o una gustosa trota salmonata. Ma a volte vince anche il pesce. Che spezza la lenza e se ne va, sano e salvo, con un grosso verme nella pancia, lasciando a bocca asciutta il pescatore.
Ma altre volte, la battaglia tra pesce e pescatore dura a lungo. Molto a lungo. Così a lungo che l’altro non chiude la partita per non far dispetto all’avversario. Che oramai è quasi come un vecchio amico. Ci si conosce. Ci si saluta. E si comincia a giocare. Perché non è vero che un bel gioco dura poco. Anzi. Certi giochi sono così belli che a volte non ce la si fa proprio, a concluderli. Per abitudine, certo; ché quando entri in un pensiero circolare è come cadere in un gorgo schiumoso e rabbioso – o tra le braccia della sirena – dal quale non esci se non ti aggrappi a qualcosa. O al braccio di qualcuno che si sporge, dalla riva, e ti tende la mano perché tu l’afferri. E ti porti in salvo.
A volte, però, tu non vuoi essere tratto in salvo. Non la vuoi afferrare, quella mano che si sporge verso di te, col rischio che anche il tuo salvatore cada in acqua e ti faccia compagnia annaspando. Perché? Oh, per tutta una serie di ragioni. Perché credi di non meritarti la salvezza. Perché credi di essertela andata a cercare, quella situazione disperata, quell’impiccio, quel guaio. Avresti potuto prestare più attenzione ai tuoi passi e guardare il terreno prima di mettervi il piede sopra, invece di inseguire stelle cadenti o chissà quale castello in aria. Tutte sciocchezze, ché le disavventure capitano e capitano a tutti, in maniera democratica e, soprattutto, imprevista. Eppure ti dici che no, tu quella mano non la stringerai né l’afferrerai. Perché non te lo meriti. Perché uno stupido come te deve starsene nel gorgo ad affogare.



«Io non ti ho resuscitato perché tu soffrissi.»
Athena fissa le nuvole all’orizzonte, sbuffi di panna montata colo oro sopra un cielo tra il rosa ed il viola. Venere sta brillando sopra le vostre teste, ma tu non le badi. Fissi l’acqua ai tuoi piedi, la spuma bianca che sale a giocherellare con le tue caviglie e che ti fa il solletico quando si ritrae e trascina via della rena da sotto le dita dei piedi.
«Perché continui a punirti, Aigokeros
Il tono è quello di una madre delusa. Lo stesso che ha usato da Lupe quando ha scoperto cosa facevi tutto quel tempo chiuso in bagno. Nel bagno della sagrestia, per altro! Athena non ti dice – non ti promette – che diventerai cieco, se continui per quella strada. Athena ti dice – ti assicura – che lo sei già. Che non riesci a vedere. Cosa?, ti chiedi, ma lei – che sente i tuoi pensieri, che sa quale maelstrom attraversi la tua anima da quando Aiolos ti ha detto quel semplice «Non fa niente!» assieme al migliore dei suoi sorrisi, che ti conosce forse meglio di quanto tu possa solo sperare di conoscere te stesso – lei tace. E fissa l’orizzonte, come se vedesse qualcosa oltre quelle nuvole impalpabili.
«Perché devi essere sempre così severo con te stesso? Perché dovete essere così testardi?»
Dovete?, ti chiedi, e vinci l’impulso di girarti per controllare che vi sia qualcun altro, oltre a voi due.
Athena rilascia un sospiro e abbassa le ciglia. Raccoglie una conchiglia, un piccolo torciglione bianco dai riflessi di madreperla e se la porta all’orecchio.
«Tu sei fatto così», ti dice, avvicinandoti la conchiglia. Tu apri la mano e lei ve la lascia cadere. «Circonvoluto. Chiuso in te stesso. Riflessivo. Severo.»
E questo è un male?, le chiedono i tuoi occhi, incontrando il suo sguardo d’acciaio.
«No, non lo è. Non lo è fino a quando non diventa autocompiacimento.» Il vento le gonfia la gonna, che si allarga alle sue spalle come lo strascico di una sposa. «Crono sa essere un padre molto severo, Shura. Non lasciarti indurire il cuore.»
Scuoti la testa.
«Mia Signora… voi mi avete fatto dono di Excalibur», dici, osservandoti la mano destra. «Come posso non essere rigido quando nel mio stesso braccio riposa la vostra spada?!»
«Quella spada serve ad amministrare la giustizia, Ruy», e ti senti vibrare l’anima quando lei pronuncia il tuo nome, quello vero. «La giustizia non può essere cieca. La giustizia deve essere equa. Capisci?»
Equa. Ma tu ti chiedi come si faccia, come si possa essere equi, quando si è dalla parte dell’errore. E glielo dici. Glielo chiedi. Ti confidi con lei. Le palesi i tuoi dubbi, le tue perplessità. A cuore aperto. Mentre la marea monta e il cielo si tinge di indaco, blu, nero.
E le stelle vi guardano, curiose.
E il mondo stesso sembra trattenere il fiato, assieme a te mentre attendete la risposta di Athena.
«Come posso essere equo se io stesso sono in errore?!»


Puoi andartene lontano, i tuoi demoni te li porti dentro. Fanno parte di te, come i capelli, il sangue, la pelle e le ossa. Spuntano fuori dalle ombre, cogliendoti di sorpresa. Perché i demoni fanno paura, tanta, troppa, anche se sono i nostri, anche se siamo noi che li abbiamo generati. E allora, scegliamo di non guardare. Di non vedere i mostri. Perché dovremmo? Se volgiamo lo sguardo altrove – su qualcosa di più bello, ad esempio – forse i mostri se ne andranno. Si dissolveranno, come la nebbia quando incontra un raggio di sole.
Peccato che non funzioni così.
Peccato che i mostri non battano mai in ritirata, ma che ci concedano una tregua. Un attimo di requie, di respiro, prima di tornare alla carica, più forti di prima. I mostri, i demoni, i fantasmi del passato fanno parte di noi. Siamo noi. Che questo ci piaccia oppure no. Noi fingiamo di non avere nulla a che fare con loro. Siamo bravissimi, in questo. Dei maestri. Ma la verità sa essere paziente, come e più dei ragni. Perché prima o poi, avremo finito i nascondigli in cui rifugiarci, saremo stanchi di correre, e non potremo fare altro che fermarci. E guardare l’abisso faccia a faccia. Il demone che ci portiamo nel cuore. E che, drammaticamente, è la nostra ombra riflessa sul volto d’argento della luna. O sulla lama affilata di una spada.
C’è stato un momento in cui avresti dato qualsiasi cosa per poter parlare con Aiolos. Per poterti chiarire con lui. Per dirgli che ti dispiaceva, oh se ti dispiaceva!, di aver levato Excalibur contro un amico. Un amico innocente, per di più.
Ma quando Aiolos ti ha detto che non nutriva alcun rancore nei tuoi confronti, che capiva la tua posizione, che per lui c’era nessun problema, che era acqua passata e che bisognava guardare avanti e non lasciarsi piombare i piedi dagli errori del passato, qualcosa dentro di te ha iniziato a girare a vuoto, con lo stesso suono del meccanismo di riavvolgimento della pellicola fotografica quando il rullino ha esaurito tutte le pose. Perché tu non te l’aspettavi quel «Non fa niente!» - a dir la verità, sì te l’aspettavi, ché stiamo pur sempre parlando di Aiolos e tu sai bene quanto sappia essere grande e comprensivo il cuore del Sagittario. Non ti aspettavi che facesse così male. Che il suo perdono ti lasciasse insoddisfatto.
Questo è quello che ti fa male. Che non ti lascia requie. Tu speravi, con tutto te stesso, che quel «Ti perdono» così sospirato potesse ricucire insieme i pezzi della tua anima. Non volevi sentire che quelle parole dall’istante in cui il Drago ti ha mostrato la verità. Ti ha dimostrato che sì, Aiolos era nel giusto. E tu non gli hai creduto.
Ma è davvero il perdono di Aiolos, quello che volevi, Ruy? Sì? E allora perché adesso che l’hai ottenuto – e che anche Aiolia ti ha proposto di metterci una pietra sopra – non sei soddisfatto? Perché senti che manca comunque qualcosa al puzzle della tua anima spezzata, la tessera che chiude il disegno?



«Riconoscere di essere in errore è il primo passo, Ruy», e la sua voce ti arriva come un balsamo alle orecchie. Come l’olio tiepido che Lupe versava su un batuffolo d’ovatta prima di infilartelo nelle orecchie quando l’otite non ti faceva dormire.
«Tu non sei in pena perché in passato hai commesso uno sbaglio verso Aiolos. Lo sbaglio lo hai commesso verso te stesso. È questo il tuo problema, Ruy. Tu non hai tradito la fiducia di Aiolos, quella di Aiolia o la mia. Tu hai tradito te stesso. È questo a non darti pace.»
La sua mano si posa sulla tua camicia. All’altezza del cuore. Senti il suo cosmo inondarti l’anima, piano piano. Con dolcezza. Come la marea. O l'affetto di una madre.
«Devi imparare a perdonare te stesso, Ruy. Nessun altro potrà farlo al posto tuo. E non hai bisogno di altro perdono, se non del tuo. Smetti di soffrire. Smetti di macerarti in questo modo. Ti stai uccidendo, Ruy. Stai soffrendo per delle catene che tu stesso ti sei messo al collo.»
«La giustizia deve essere imparziale…», insisti.
Niente, non molli la presa. Forse Aiolia aveva ragione. Forse ti trovi bene a recitare la parte dell’eroe da tragedia greca consumato dal rimorso. Ti sei cucito addosso quella parte come un costume così aderente da essere diventato una seconda pelle. E adesso non riesci più a cavartelo via. E adesso hai quasi paura a togliertelo, ché le coperte di Linus ci aiutano e ci danno sicurezza, anche quando ci spacchiamo il cuore con le nostre stesse mani.
«La giustizia, Ruy, la giustizia. Tu sei solo un uomo.»
La tua mano sinistra sale ad abbracciare la sua. A stringertela contro il petto, la testa china e lo sguardo perso nell’acqua che oramai si sta facendo fredda. Sai che dovreste uscire. Sai che dovresti portarla fuori dall’acqua, prima che le prenda un raffreddore. Ma non vuoi. I tuoi piedi sembrano radici lunghe e profonde e ramificate, che si insinuano sotto la sabbia, sotto l’acqua, sotto la crosta terrestre. Muoversi è impossibile.
«Niente è impossibile, per un Santo di Athena, Ruy.»
Lei sorride. Lo sai, senza bisogno di alzare la testa. Lo senti. Nel cuore, nell’anima, nel sangue che ti romba nelle vene. Athena sorride, con la stessa pazienza che si dimostra verso un figlio testardo e caparbio e sì, anche un po’ cocciuto. Lei sa di starti chiedendo molto. Perdonare se stessi. Una bella montagna da scalare. A mani nude. Senza chiodi, né ganci né compagni di cordata. Senza scorciatoie. Senza astuzie. Com’è che diceva sempre Jorge? Per aspera ad astra. E il Capricorno non guarda forse alle stelle, mentre si allontana dall’acqua del mare?
«Gnothi sautòn, Ruy.»
«Giusto…», le dici, soffiando via quella parola come se fossero una liberazione. E strappandole un sorriso divertito, che le colora le guance di rosso. «Mēdèn ágān. Grazie, mia Signora…»
«Grazie a te della magnifica giornata», ti risponde, mentre la sua pelle s’increspa al passaggio del vento. «Peccato sia finita.»
«E chi l’ha detto che deve finire?»
Lei ti guarda come se ti fosse spuntata una seconda testa.
«Il santuario non scappa. Potremmo mangiare un boccone, prima di tornare indietro.» Assomiglia più ad una richiesta, che ad un invito, ma pazienza. Athena non sembra farci molto caso. Ti sorride, la sua testa va su e giù un paio di volte e dice: «Affare fatto. Ma adesso usciamo. Qui inizia a fare freddo.».
 
Il cameriere se ne è andato a guardare la partita in televisione lasciandovi un piatto di moscardini con delle patate arrosto. Qualche fetta di limone, la feta fritta in pastella e una melitzano salata che non chiede che di essere spalmata sulle fette di pita ancora calde. Il mare, sotto la balconata di legno bianco, batte e leva contro le palizzate che sostengono il ristorantino affacciato sul mare. Il torciglione bianco vi fa compagnia sulla tovaglia fresca di bucato.
«Posso chiedervi una cosa?», le dici, prima di attaccare la moussakà fumante che hai davanti.
«Prego», ti risponde lei, guardandoti con curiosità.
«Prima… prima avete detto che siamo così testardi. E io mi chiedevo a chi vi steste riferendo.» Il suo sguardo si fa attento. Serio. «Parlavate di noi uomini oppure…»
«Oppure», risponde lei, interrompendoli. «Oppure, Shura. Se c’è una certezza, vita dopo vita, è il ritrovarci sempre tutti insieme. Diversi. Diversissimi. Eppure uguali.»
Annuisci, ma non riesci ad impedirti di domandarle: «Che tipo ero… l’ultima volta?».
«Te stesso», risponde, con una semplicità che ti spiazza. «Tu sei tu, Aigokeros. Puoi sceglierti nomi diversi, di volta in volta. Ma sei, e sempre sarai, tu. Tu, e nessun altro.»
Il cameriere ritorna, lascia due bottiglie di acqua minerale e ciabatta in cucina indaffaratissimo, come se il Panathinakos non potesse segnare senza di lui a vegliare sulla partita. Il vento sembra quasi ridacchiare mentre increspa le onde. O è il mare a ridacchiare per il solletico?
Guardi il riflesso della luna sull’acqua scura, e giocherelli distratto con un pezzo di melanzana.
«Avete freddo, mia Signora?»
«No», risponde lei. «Sto benissimo», aggiunge. E sorride. Ha visto qualcosa in te, Athena. Qualcosa di familiare. Un riflesso, un fantasma, un’ombra di un altro dove e di un altro quando. La tua. Quando ti facevi chiamare El Cid, e Santiago prima ancora, e...
Voci, facce e storie che si affastellano l’una sull’altra, come pagine di un diario. Come fotografie saltate fuori da un cassetto, che profumano di lavanda e talco e di zucchero e vaniglia. O come il suono dell'estate nascosta nella pancia di un piccolo torciglione bianco.
L'eternità, in un battito di ciglia.
 

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Capitolo 9
*** La ragazza col vestito a fiori ***


#9 – La ragazza col vestito a fiori
Lama VII – Il Carro
Personaggi: Taurus Aldebaran



La ragazza col vestito a fiori lo aspetta alla fine della strada, lì dove la sabbia si confonde col selciato sconnesso dell’asfalto spaccato dal sole di Gennaio. Sorride, un lampo di rossetto scuro sotto una montagna di riccioli bruni, la borsa a tracolla e le scarpette col tacco.
«Sei bellissima», le dice – le ripete – osservando la sua figura sottile nel cono di luce.
Lei ammicca, consapevole di essere uno schianto e degli sguardi degli altri uomini che le scivolano addosso.
«Ovvio. Esco con te, bellezza», gli dice ruotando su se stessa per farsi ammirare. «E poi, questo corpo è un tuo regalo. Il minimo che potessi fare era lasciarmi ammirare, non credi?»
«Sei stanca?», le chiede Adriano, una camicia di lino chiara che spicca sui pantaloni scuri. Torreggia su di lei, così piccola ed esile, con quelle spallucce da uccellino che profumano di cocco e agave. Le porge un braccio, forte e robusto, cui lei si aggrappa con grazia, come se fosse un monile, una decorazione da sfoggiare passeggiando per il corso.
«Non preoccuparti», gli dice, le unghie laccate che spiccano sul bianco delle maniche arrotolate. «Guardavo il mare.»
«Passeggiamo?»
Lei annuisce, e insieme si incamminano lungo la strada male illuminata dai lampioni e rischiarata dalle stelle.
Ha sempre avuto delle belle gambe, Zuleika.
Lisce e snelle, dai polpacci simili a mandorle appena spellate che la stoffa del vestito – una fantasia a fiori su fondo scuro – accarezza ad ogni passo, suggerendoti se, per puro caso, non ti andrebbe di sfiorare quella pelle morbida e serica che vedi di sfuggita, mentre attraversi i viali, la sera, in cerca di qualcosa. Come un gatto randagio che si fa ammirare, steso a prendere il sole, mentre il mondo va avanti senza fretta.
Zuleika lo sa. Ecco perché sorride sempre, le labbra rosse come una melograna matura e sincera. E si avvicina al finestrino abbassato, sporgendosi curiosa. Non ancheggia, lei, ché ancheggiano solo le persone insicure. Quelle che hanno bisogno di mostrare la mercanzia. Lei può concedersi il lusso di brillare sotto al lampione, la borsa che sbatte dolcemente contro il fianco magro. E nel guardarla ti chiedi se, per caso, lei non sia una qualche sacerdotessa di un culto ancestrale, quello del femminile, che con testarda convinzione cerca di far sopravvivere agli angoli delle strade, la sera, mentre il mondo corre frenetico incontro ad un futuro sempre più incerto e sempre meno seducente.

Adriano  la spiava, da bambino, da dietro lo stripite sbeccato della camera da letto. Gli piaceva il suo profumo inebriante, i suoi capelli sempre pettinati, la sua pelle morbida. E sentiva che c’era qualcosa di unico in lei, nella sottoveste nera che spuntava sotto alla vestaglietta scura, nella retina rosa – che era vecchia prima ancora che lui nascesse – stretta attorno ai bigodini spaiati. Nello smalto sulle unghie, nell’andirivieni pigro del ventaglio nelle sere calde e umide di Gennaio, nel talco alla violetta che lei custodiva gelosamente sul canterano, accanto allo specchio e alla spazzola d’argento. Quando le chiedeva cos’avessero di così importante, lei sorrideva, gli sfiorava il naso e gli diceva che erano un regalo.
«Un regalo di Cesar», aggiungeva, quasi gli stesse sussurrando il più importante dei segreti. Come se quel nome fosse la chiave di tutti i misteri. Cesar. Quell'uomo che appariva ogni tanto, quando poteva, e di cui Zuleika aspettava il ritorno con lo stesso virginale ardore della sposa nel talamo nuziale. Quell'uomo che la gente delle case accanto chiamava Il Santo, come il protagonista della serie televisiva che Zuleika sbocconcellava a casa di Soraya, tra una chiacchiera e l’altra, prima di prepararsi per andare a lavorare, una sigaretta accesa per ammazzare il tempo, la noia e l’assenza di Cesar.
Come una rondine che torna al nido, Cesar appariva ad intervalli regolari di difficile interpretazione. Dopo due o tre mesi, a volte prima, a volte anche di più, a seconda di quanto forte la saudade stringesse i denti, di quanto sapesse essere dolorosa, di quanto sapesse avvelenargli l’animo e segnendo le belle giornate di sole quando le fronde degli ulivi cantavano la più triste delle canzoni, quel richiamo struggente che spinge a partire col cuore gonfio del gabbiano che prende il mare.
Cesar partiva; ma tornava sempre al nido. Da Zuleika. Che smetteva di lavorare, quando c’era lui. Che smetteva di fumare, quando c’era lui. E che sorrideva sempre, quando c’era lui – nascondendo la tristezza e i crucci e i problemi dietro ad una curva di rossetto scuro.

«Perché non gli dici mai quanto ti manca?», le chiedeva Adriano, una mano a tirarle la gonna, quando vedeva un luccicore triste riempirle gli occhi. Lei sobbalzava, nemmeno il vento dispettoso le avesse alzato la sottana, e si asciugava gli occhi con il dorso della mano.
«Perché quando lui è qui, sono felice», rispondeva. Come se Adriano potesse capire le complicazioni degli adulti. Ma lui non le capiva. Non capiva perché rientrasse a casa all’alba, stanca morta, le scarpe nelle mani e i piedi liberi di muoversi sulla strada. Se la giornata era stata proficua, Zuleika ballava, accennando dei piccoli passi di samba lungo le stradine sgangherate di Paraisopolis. Altrimenti, si concedeva il lusso di osservare il sole sorgere seduta su una panchina, prima di tornare a casa e crollare sulle lenzuola accanto a lui. E accarezzargli i capelli, sincronizzando il proprio respiro col suo, un braccio attorno alle spalle, come a volerlo stringere, trattenere, proteggere. Come se quel bambino grande e grosso potesse scivolarle via di mano, come una saponetta dispettosa.
Quando Adriano le chiedeva se dovesse proprio uscire – magari nelle sere in cui non stava bene, o in cui anche lui sentiva la nostalgia di Cesar stringergli la gola come una morsa d’acciaio – lei sorrideva. Ma non s’impietosiva.
«Servono soldi per campare, menino», diceva – sospirava – ciabattando pigra come una gatta che è sopravvissuta a stento ad un pomeriggio passato a sonnecchiare al sole. Si affacciava allo specchio sul canterano, dove faceva capolino una fotografia di Cesar, e prendeva le sue reliquie. Via la retina, via i bigodini, spazzola e rossetto. E Zuleika usciva, affidandolo alle cure di Adriana. «Torno appena possibile», le diceva, ignorando l’occhiataccia che lei le lanciava e salutando con la mano fino a quando non spariva dietro la curva, giù per la stradina stortignaccola, piena di case ammassate le une alle altre come colonie di funghi spuntati fuori dopo la pioggia.

«Ti sei divertita?», le chiede, il passo più lento per accordarsi al tac tac tac delle scarpette di lei.
Zuleika annuisce, i riccioli che gli accarezzano la stoffa leggera della camicia. Lei va matta per il Carnevale. Da bambina sognava di ballare sui carri, agitando anima e corpo al ritmo di samba, ma come diceva nonna Adriana ci sono sogni che si avverano, e sogni che non si possono avverare. E che restano lì, a scintillare nel buio come quelle pietre preziose che non avresti mai e poi mai il coraggio di indossare. Perché è una vita dura, quella della ballerina di samba, fatta di sacrifici e rinunce. E serve il fisico e la forza d’animo e la determinazione per ballare durante il Carnevale. E Zuleika avrebbe lavorato sodo, pur di realizzare quel sogno; ma Zuleika è diventata donna troppo tardi, quando il tempo ed il lavoro le avevano già rovinato la pelle, i muscoli, il cuore. Quando è diventato impensabile investire tempo e fatica e rinunce e sacrifici in un anno intero di lavoro che acquista un senso per una sola sera all’anno, quando la tua scuola può sfilare nel Sambodromo, e sulle tue spalle, sulle tue anche e sui tuoi piedi si rovesciano le speranze e la gioia di chi ti sta osservando, lassù, sugli Arquibancadas e dalle Camarotes, in quella macchia di colore pronta ad esplodere per bucare la luna ed andare oltre. Che il mondo veda che cos’è la vera allegria, che provi il gusto dolce amaro che accompagna e arrotonda la gioia e la festa. Ché domani è tutto finito. Ché domani è un altro giorno. Ma è questa certezza – questa consapevolezza –a rendere così speciale e così concreto il Carnevale. Così filosofico e superficiale allo stesso tempo.

«E tu?», gli chiede Zuleika. Guardandolo da sotto in su con i suoi grandi occhioni scuri.
Adriano annuisce. «Mi sono divertito da matti.»
«Bugiardo», gli dice lei. «So che ti sei annoiato a morte, invece…»
«No», le assicura, posandole una mano sulla sua, a proteggere quelle dita sottili e morbide. «Il Carnevale è il Carnevale, dopo tutto…»
Zuleika non sembra molto convinta delle sue parole, ma si fa bastare quella spiegazione.  
«Grazie per avermi portata qui, stasera», gli sussurra, appoggiando dolcemente la testa sul suo braccio.
«Te l’avevo promesso, no? E io mantengo sempre le promesse», le dice lui, guardando davanti a sé. Il lungomare non è un posto dove passeggiare dopo il tramonto. Un posto da evitare, anche quando sei un Santo di Athena. Ma Adriano ha imparato che in quella terra ricca di contraddizioni che è casa sua – anche se Rio de Janeiro non è proprio casa sua – la bellezza si nasconde nei posti più impensabili. Nel ribollio della feijoada. Nella ninnananna della pioggia sul tetto di lamiera. Nell’azzurro dell’Oceano, che spunta fuori da dietro le curve accecandoti senza chiedere permesso. Nella risata di un bambino che rincorre i suoi amici. Nel mistero di una creatura che è donna, ma nel corpo sbagliato.
Le stelle brillano lontane, mentre il mare sciaborda a pochi passi da loro.
«Così questa è Ipanema», dice Zuleika fermandosi ad osservare la luna d’argento sulla superficie scura dell’Oceano. E slacciandosi i sandali. Adriano la guarda perplesso. «Dai, camminiamo sulla spiaggia. Devo dirti una cosa…»

E Adriano obbedisce. E Adriano si toglie scarpe e calze. E Adriano la segue sulla sabbia umida. E Adriano si siede a pochi metri dal bagnasciuga, dove Zuleika gioca con le onde che vanno e vengono e le baciano i piedi e le accarezzano la pelle. È bellissima, stasera. Così bella da sembrare una stella che è scesa sulla terra per passare una serata diversa. Per vedere coi suoi occhi scintillanti quella gran confusione di anime e luci e suoni e colori che è il Carnevale a Rio. Un’enorme fiammata coloratissima pronta a schizzare contro il cielo scurissimo, un’esplosione di balli e canti che accendono gli occhi di Zuleika di una gioia fanciullesca che le regala un delizioso rossore sulle gote. Adriano l’ha guardata sorridere accanto a sé, piccolina nel suo vestito rosso scuro con dei piccoli fiori bianchi. Una rosa selvatica, questo è per lui Zuleika, con le sue innocenti civetterie, i riccioli bruni e quel modo tutto suo di accavallare le gambe, un gesto fluido e naturale che raccoglie in sé tutta la sacralità dei misteri legati al pianeta donna. Quelli che lui cercava di capire, respirandoli nell’ombra della camera da letto, in quel microcosmo fatto di talco e lacca per capelli e profumo e silenzio in cui Zuleika dormiva, stesa sulle lenzuola nella sua sottoveste nera, la vestaglia a tenerle in caldo i piedi stanchi. Ma Zuleika è un mistero. E un mistero non lo puoi afferrare, come fosse un bicchiere, una spazzola o qualcosa di reale e tangibile, no. Un mistero è qualcosa in cui credere, in religioso silenzio e discreta solitudine. Qualcosa su cui meditare. Qualcosa da tenere celato nel cuore. Fin nei recessi dell’anima. Un mistero puoi solo capirlo. Comprenderlo. E a volte nemmeno questo.
«Mi sposo, Adriano», gli dice. Sedendosi accanto a lui ad osservare il vai e vieni dell’acqua, il vento che si diverte ad accarezzarle la testa e le guance, la rena sottile e bianchissima che le si affastella sulla pelle.
«Con chi?», vorrebbe chiederle lui; ma tace. Fissa la sabbia ai suoi piedi e pensa. Pensa che una parte del suo cuore è felice – è contento – per lei. Ché magari adesso la finirà con quella vita. La finirà di lavorare di notte, come le lucciole, e metterà su famiglia. In un modo o nell’altro. Ma un’altra parte di Adriano, quella che è rimasta un bambino grande e grosso dall’espressione timida e gentile, vorrebbe gridare. Vorrebbe dirle che no, non può. Che come farà quando –se – Cesar tornerà a casa? Che gli dirà, allora? «Scusa, mi ero stancata di aspettare?»
«E Cesar?», vorrebbe chiederle, affondandole quel pugnale dritto nel cuore con la meschina crudeltà che è propria di tutti i bambini. Ma è lei che lo precede.
«Sai perché Cesar ha scelto proprio me?»
Lui la guarda sbattendo le palpebre. Silenzio.
«Perché ero femmina, ha detto proprio così. Femmina. Non donna, no. Femmina.» Zuleika allunga i piedi sotto la sabbia. «È arrivato una mattina. Tu eri piccolissimo. Io avevo appena staccato. Sai com’è, i soldi non bastano mai, meninho, e allora la cifra che mi serviva era un’enormità sconsiderata.»
E Adriano sa che sì, è vero. Che i soldi servono prima di tutto per campare e poi per realizzare i sogni. E lui lo sa bene. Non le ha forse regalato – «Prestato», come ha messo bene in chiaro Zuleika. «Te li ridarò tutti. Dal primo all’ultimo», ha detto, e tutti e due hanno saputo che si trattava di una pietosa bugia – una parte di quella cifra astronomica per realizzare il suo sogno più grande?
Adriano tace. Lei riordina idee e pensieri, poi aggiunge: «Mi ha detto che ero l’unica di cui potesse fidarsi. L’unica adatta a crescere te.» Ride. «Gli avrei cavato gli occhi, ma da una parte potevo capirlo. Per quanto potessi essere femmina, io non potevo dargli un marmocchio… e a volte gli uomini sanno essere dei veri e propri stronzi, sai?»
«E mia madre?», vorrebbe chiederle Adriano, ma teme di fare anche lui la figura dello stronzo. Che non importa se sei un Santo di Athena che riveste una delle corazze più prestigiose; quando gli occhi di Zuleika dardeggiano di sdegno torni ad essere piccolo e nudo ed insignificante come un verme appena uscito dalla terra. Santo o non Santo. Corazza o non corazza.
«Non so chi fosse tua madre», gli dice lei, tagliando quel ramo del discorso con grazia e spietatezza. «So solo che Cesar mi stava chiedendo un favore. E tu eri così piccolo. Ed io non ho saputo dirgli di no.»
«Mi…»
«Non azzardarti a dire che ti dispiace», lo interrompe Zuleika.
Adriano alza le mani, come a dire: «Ok, mi arrendo.».
«Ma?», le chiede. Perché c’è un ma che galleggia nella voce di quella vecchia ragazza con qualche filo grigio nei capelli – uno o due appena – e quell’assurda predilezione per le stampe a fiori.
Zuleika sospira. «Ma Cesar è stato un sogno. O uno scherzo del saci, chi può dirlo? Solo che io non voglio vivere in un sogno o in uno scherzo, ma andare avanti. Sai come si dice. La giovane vive di speranze, la vecchia di memorie.»
Il tono è quello grave e profondo della Pizia, di chi vede le miserie e le gioie e le lordure delle vite umane, quelle che le persone si sforzano di tenere nascoste sotto al cappotto o nello stanzino delle scope.
«Quando?», le chiede.
Lei si stringe nelle spalle.
«Appena ottenuti i documenti», risponde Zuleika. «Sai, per il cambio del nome e tutte quelle cose lì.»
Adriano annuisce.
«Lui com’è?», le chiede. Con lo stesso tono di un figlio preoccupato. Lei ride, un suono argentino che le riempie la gola e le fa brillare gli occhi.
«Una brava persona», risponde. E nulla più. Non è come Cesar, ché di Cesar ce n’è stato uno solo e non sarebbe giusto per nessuno perdersi in simile e stupidi paragoni. E Adriano sa che dovrà farsi bastare quell’unica informazione. Per il momento, almeno.
«All’altare ti accompagno io.» Non è una richiesta. Lei gli si appoggia contro il braccio, sorridendo.
«Ovvio», risponde, accoccolando le gambe sotto di sé. «Restiamo ancora un po’, vuoi?», gli chiede, con un tono da bambina che le esce dalla gola. «Non fumerò. Promesso.»
Lui le cinge le spalle con un braccio.
«D’accordo. Restiamo.»
La sabbia si sta facendo troppo umida per entrambi, e domani le ossa protesteranno con dolore, ma Zuleika vuole che quella serata duri ancora un po’. Qualche minuto. Una mezz’ora appena. Solo lei, il suo piccolo menino ed il fantasma di Cesar. Domani è un altro giorno. Domani andranno avanti, e chiuderanno Cesar in un cassetto dalla chiave spezzata. Ma stasera, no. Stasera madre e figlio – Zuleika ed Adriano – vogliono gustarsi quegli attimi di completa felicità e tenerli lì, al sicuro, nel palmo della mano. Anche a costo di scottarsi le dita.
«Ho realizzato il mio sogno. Grazie», gli sussurra con la testa poggiata sul suo petto.
«Adesso ti manca diventare una ballerina di samba», la rintuzza lui.
«È troppo tardi.»
«Non è mai troppo tardi», replica Adriano. «È troppo tardi solo se lo decidi tu.»
«L’ho deciso io.»
«O forse ti manca il fiato…»
«Mi stai provocando, menino?», gli chiede lei, guardandolo da sotto in su, gli occhi che brillano come due mezzelune pericolose.
«Balla per me», le chiede. Con quello sguardo tenero che scioglierebbe anche il ghiacciaio più vecchio e testardo dell’intero Polo Sud. «Balla con me, Mamãe.»
Il viso di Zuleika risplende. Le guance si colorano di una sfumatura rossa, come una mela matura. Gli occhi scintillano nel buio. Sorride. E si alza in piedi. E gli porge una mano. E gli dice:«D’accordo, Adri. Ma se mi richiami mamma, ti affogo.».
Adriano ride. Ride mentre si alza e le prende la mano e le dice: «Affare fatto.».
E la ragazza col vestito a fiori tira fuori le unghie. E balla, incerta sulla sabbia, affondando ad ogni passo, ma non le importa. Adriano è lì, con lei, e lui la segue, lì sulla sabbia bianchissima di Ipanema, canticchiando le parole di Aquarela do Brasil, lasciando scorrere via le tristezze, le preoccupazioni, gli affanni e la saudade, nascondendo la tristezza e i crucci e i problemi dietro ad una curva di rossetto scuro.

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Capitolo 10
*** Seguendo il soffio del vento ***


#10 – Seguendo il soffio del vento
Lama XVI– La Torre
Personaggi: Gemini Saga



 
Solitudine. Di questo lui ha bisogno. Solitudine e silenzio.
Una stanza tutta per sé, avrebbe detto qualcuno. Un posto in cui rimettere assieme i cocci di una vita. Immaginata. Sognata. Costruita. E che qualcuno – il Fato capriccioso – ha spazzato via, fracassandola in migliaia di frammenti. Luccicanti. Come le schegge di vetro colorato che adornano i rosoni delle chiese con figure scintillanti. Tessere che lui si è ripromesso di sistemare, una ad una. Spolverandole, come si fa con i reperti archeologici. Mettendole da una parte, in attesa di una catalogazione che non arriverà mai. Lo sanno entrambi. Lui e loro, quelle piccole schegge di vetro che lo aspettano, pazienti, sul fondo della sua anima. Perché è a lui che appartengono. E non hanno un altro posto dove andare.
 
È da quasi tre mesi che si è ritirato lassù.
Lui e suo fratello lo chiamavano semplicemente Il Faro, quando vivevano a Salonicco e lo scorrere del tempo era scandito da mattinate e pomeriggi passati a giocare per le strade, sulla spiaggia e all’ombra della Torre Bianca, tra coppie avvinghiate come l’edera ad un amore fresco e giovane, di quelli che toglie il respiro e rompe il cuore, e vecchietti assonnati ai tavoli delle ouzerie, le mani ricurve sul bastone di bambù e il cappello in testa.
Il bianco del faro è uno scoglio sbeccato che ha tutta l’aria di stare per cadere da un momento all’altro. Al minimo soffio del vento. Un posto da cui stare ben lontani, insomma, ma Vasilios non la pensa così. Quel posto gli ricorda un altro tempo, quando la sera era fatta di ore silenziose. Ore in cui le storie su Ade, Poseidone, Athena erano solo alcune delle tante strampalate fantasie di Fotinê. Una storia come tante altre, che quella ragazza dagli occhi di mare e i capelli del colore del sole raccontava loro alla luce delle stelle che filtrava dalle imposte accostate. Quando lei, prima di accarezzare i loro capelli che spiccavano sulle federe bianchissime, affidava con un bacio sulla fronte Vasilios alle cure di Athena e Viktoras a quelle di Poseidone. E se anche loro si scambiavano di posto, nel letto, lei riusciva sempre a distinguerli. Senza battere ciglio.
 
Il Faro era un vecchio faro dismesso, troppo lontano dal porto di Salonicco perché potesse essere di una qualche utilità, e troppo piccolo perché la sua luce riuscisse a galleggiare nel buio scintillante del panorama e ad illuminare la via ai naviganti. Augurando loro buon viaggio. Ricordando alle barche dove fosse la linea della costa. Un punto di riferimento per i coraggiosi che solcavano il mare, di notte. Quando per Vasilios quella massa mugghiante all’orizzonte diventava qualcosa di cui diffidare. Da cui tenersi lontano. Di cui avere paura. Ma per Viktoras, no. Viktoras era attratto dal mare in maniera quasi dolorosa. Parlavano, loro due, quando suo fratello osservava assorto il luccichio del sole sulle onde che andavano e venivano. Erano gli unici momenti, quelli, in cui lui si sentiva escluso dalla vita di suo fratello, in cui solo Viktoras riusciva a sentire la voce del mare. Il suo richiamo, pericoloso come il canto di una sirena.
A Vasilios non piaceva il suono della risacca, quell’incessante sciabordio senza requie, come la richiesta insoddisfatta di un eterno assetato. Quando tutta l’acqua del mondo non basta a placare l’arsura che hai in gola, nelle vene, nel cuore. E all’interno del Faro, la cui porta di ruggine su fondo verde bottiglia era aperta quanto bastava perché un gattino o un bambino vi si infilassero dentro, il canto del mare aumentava d’intensità. Il potere dell’eco, certo. L’incantesimo della sirena che accresce a dismisura il suo potere. E rischia di farti impazzire, perché tu no, non vuoi seguire la sua voce e scivolare tra le onde. Perché il tuo cuore sa che non sopravvivresti al suo abbraccio. Che non tornerai indietro, sulla spiaggia, a respirare aria che sa di squame di pesce, di nafta e di salsedine. Che il mare ti riempirà i polmoni fino a farteli scoppiare, prima di trascinarti giù, tra i sogni delle sirene e i relitti delle navi affondate. Dove la luce non arriva.
 
Il gattino aveva la coda a strisce. Grigia, con quattro o cinque anelli color ferrovecchio. La teneva sempre ritta a pennacchio, quando vedeva lui. E gli andava incontro, miagolando. Un’espressione indecifrabile. Voleva cibo, diceva il vecchio Ioannis, prima di fare rumore e spaventarlo. Senza un reale motivo. Solo perché così avevano fatto suo padre e suo nonno, prima di lui. Ma il gattino non demordeva. E tornava, quando Ioannis se ne andava all’ouzeria a spendere lo stipendio, le mani nelle tasche dei calzoni e la pelle che profumava di sale e reti trascinate in spalla. Il gattino tornava in cerca dei suoi simili. Dei suoi sodali, ché tra cuccioli ci si capisce, anche se si parlano lingue differenti.
Ma un giorno qualcuno aveva nascosto il gattino dentro al Faro, per evitare che Ioannis gli legasse un sasso al collo e lo gettasse in mare. O almeno, queste erano le intenzioni di Vasilios. Che non se l’era sentita di abbandonare quel gattino in quell’antro che sapeva di rena bagnata, salsedine e umidità. Così era rimasto con lui, sulle scale sdrucciolevoli, a farsi coraggio a vicenda, fino al mattino. Per sopravvivere al richiamo del mare. Per dimostrare qualcosa, a se stesso. Di potercela fare, da solo. Senza Viktoras. Di avere la forza sufficiente per ribellarsi a Ioannis, che rientrava a casa quando il peschereccio attraccava al porto e salpava assieme alle correnti dei pesci. E pretendere di tenere il gattino con loro.
Li aveva trovati Viktoras, la mattina presto. Fuori non era ancora sorto il sole. C’era buio, ma un sottile filo rosato divideva la cappa scura del cielo dal mare. Non c’era stato bisogno di parlare. Viktoras si era tolto la giacca, gli si era seduto accanto ed aveva coperto entrambi.
«Fotinê l’ha cacciato di casa», gli aveva detto. «Dormi un poco, adesso», e lui era crollato, esausto, sulla spalla del fratello, il gattino dalla coda a strisce accoccolato sulle ginocchia. Ci avrebbe pensato suo fratello, ad ascoltare il mare e le sue confessioni infinite ed incessanti contro gli scogli, mentre l’alba si stropicciava gli occhi assonnati.
 
 
Non gli dice «Sapevo di trovarti qui.». Non ce n’è bisogno. Resta a fissarlo, le mani nelle tasche dei pantaloni bianchi. Come a chiedergli il permesso di entrare nella sua vita. Nella sua solitudine.
È buffo, a pensarci. Non che sia stato lui a venirlo a cercare – ma non c’era dubbio alcuno che lui l’avrebbe fatto – ma che dopo una vita passata spalla a spalla, l’uno nell’ombra dell’altro, adesso cerchino, anelino, abbisognino di un po’ di solitudine. Di un posto tutto per loro. Dove rintanarsi, come un animale spaventato. O dove mettere mano a quella collezione di cocci di vetro che aspetta, paziente, sul fondo dell’anima, che inizi quel  lavoro che non vedrà mai la luce.
Si scosta, lasciandogli la porta aperta, e sale le scale. Sente che suo fratello lo segue per i gradini rovinati dal tempo, mettendo i piedi dove li mette lui. Né un centimetro oltre, né un centimetro indietro. Quando arrivano in cima la teiera sta fischiando. Suo fratello si guarda attorno. Non vede il sacco a pelo, i pochi vestiti, la sedia rimediata e il fornello da campo, oppure i libri, accatastati in piccole colonne; ma la vetrata. E lui si chiede cosa potrà mai cambiare nel vedere il mare da lassù. Non è sempre azzurro? Non c’è sempre il sole a luccicare sulle onde smosse dal vento gentile? Cosa diamine c’è di diverso?

Sente suo fratello calpestare il pavimento, che produce un sinistro scricchiolio. Lui non cammina molto. Se ne resta a guardare il mare. Per cercare di capire. Se stesso. Suo fratello. Il mondo che ha attorno. E che credeva di potersi legare al dito, come fosse un palloncino.  Adesso cede, pensa –teme – immaginandosi di dovere estrarre suo fratello da là sotto. Quasi quasi ce lo lascio, pensa, sapendo che comunque scenderà per togliere suo fratello dal guaio in cui s’è andato a cacciare – in cui io l’ho cacciato. Come sempre. Ed è con un’espressione preoccupata ed un occhio alle assi di legno che Viktoras lo becca, voltandosi. No, il pavimento non è crollato. E quel sorriso smarginato sul viso di suo fratello lo spaventa.
«C’è un altro piano?», chiede. Indicando una porta. Bianchissima, nel bianco della stanza ovale, oltre il sacco a pelo.
«Pensò di sì. Perché?»
Viktoras sorride, di più, allargando gli occhi ed il cuore e marcia di gran carriera verso la porta. La apre – la spalanca – e lo sente salire per gli appigli di ferro abbrutito dal tempo che fiancheggiano il retro del faro.
«Vieni! È bellissimo!», lo sente gridare.  
«Scendi di lì! È pericoloso!», si sente ribattere. Ma poi sale anche lui, con pochi spiccioli di pazienza nelle tasche. Per afferrarlo e portarlo giù. Come si fa coi gatti che si sono arrampicati sui tetti e che miagolano fino a restare senza voce ché qualcuno salga a prenderli, ché loro non ce la fanno a scendere, no.
E gradino dopo gradino, appiglio dopo appiglio, la paura di perdere la presa o che il soffitto crolli svanisce, cancellata dall’abbraccio azzurro e limpido dell’Egeo, che scintilla sotto al sole e si fonde, all’orizzonte, col perfetto indaco del cielo terso. Che è la stessa, identica vista che aveva da terra; ma che lassù, col vento gentile che gli accarezza i capelli, gioca con la giacca e con l’orlo dei calzoni non più immacolati, lassù è come affacciarsi su un altro mondo, su un’altra strada, su un’altra vita. Un volo a planare.

«Allora?», gli chiede Viktoras, dandogli una pacca col dorso della mano sulla spalla destra, un sorriso scintillante e gli occhi fissi a contemplare l’andirivieni dell’acqua sulla battigia. «Non è bellissimo il mare, visto da quassù?»
Lui vorrebbe ribattere qualcosa, tanto per tenere il punto, ma Viktoras ha quell’espressione assorta che gli scopriva sul viso quando passeggiavano tra le barche a pancia all’aria della darsena e i barattoli di pece e le reti stese ad asciugare. L’espressione di chi dialoga col mare, in un gioco di silenzi e sciabordii in cui lui, Vasilios, e sempre stato il terzo incomodo. Come adesso, che se ne resta in silenzio, Viktoras accanto, ad osservare il panorama. Senza rancore, ché suo fratello è nato per stare nell’acqua, come una di quelle creature nate dalla spuma del mare in una notte di luna piena e che salgono a riva attirate dalla luce delle lampare.
Forse nostra madre ti ha davvero affidato a Poseidone, pensa Vasilios. Fotinê non ha mai fatto mistero del paese da cui provenisse. O che loro due fossero frutto di un piccolo miracolo, di una magia vecchia quanto il mondo, un incantesimo praticato in riva al mare, sotto un cielo di marmo rosso in un agosto che sapeva di vino, uva fragola e fuoco. Ma suo fratello ha qualcosa di più di questo. Il mare nelle vene. Senza dubbio alcuno.
«È un bel volo, da quassù», mormora Viktoras, le mani in tasca, negli occhi il pensiero di chi sta pensando di cavarsi le scarpe e tuffarsi. Fa caldo, in questo Maggio che profuma di estate. La scogliera sovrasta il mare azzurro e spumeggiante.
Vasilios lo osserva con la coda dell’occhio.
«Non vorrai…»
«Certo che sì.»
Appunto.
«Da quassù?! Vuoi romperti l’osso del collo?»
«Ti piacerebbe», sorride Viktoras. «Ma no. Non da quassù. Da lì», dice. Indicandogli il perfetto emiciclo degli scogli artificiali. «Qui il fondale è troppo basso. E ci sono gli scogli. Quelli veri.»
«Figurati se non ci saranno anche le tracine e i ricci…»
«Può essere», gli concede, stringendosi nelle spalle. Come se stessero parlando del più e del meno. Come se gli aculei di quelle bestie non facessero un male cane dentro la carne morbida dei piedi.  «Ma è proprio questo il bello.»
«Le tracine?»
«Il rischio. È il sale della vita. O almeno, così dicono.»
Vasilios non raccoglie. Lancia un’occhiata fino ad abbracciare con lo sguardo la Torre Bianca, in lontananza, che sembra quasi sfidare il mare a farsi avanti, e a provarci a buttarla giù con le sue onde.

«Ti ricordi?», si sente chiedere. E lui sì, che se li ricorda quei giorni, quando il sole aveva un altro calore, l’aria un altro profumo e il tempo scorreva in maniera diversa. Lentissimo, come stille d’acqua dentro una clessidra dal foro d’uscita strettissimo, mentre le lancette sbucciavano minuti con flemma ed indolenza.
«Non ti facevo un tipo nostalgico.»
«Il problema non è la nostalgia.»
«No?»
No, gli dice, scuotendo la testa, gli occhi fissi ai suoi piedi. Perché il discorso è ben più prosaico. Si tratta della sopravvivenza, quella che hanno messo in atto per metà della loro vita. Forse anche di più. Due predatori, questo sono, due predatori che hanno dovuto adattarsi. E plasmare il mondo attorno a loro a propria immagine, cosicché non facesse più così paura. Cosicché fossero loro, quelli in cima alla piramide alimentare.
«Parli come se fossi uno squalo», gli dice, accovacciandosi con prudenza. Per evitare di caderci lui, dentro il faro, portandosi appresso il tetto. Viktoras non l’aiuterebbe. Rimarrebbe a fissarlo e a ridere fino a strozzarsi. O a cadere a sua volta nel buco. Franandogli addosso. Rompendosi le corna e l’osso del collo.
«In un certo senso…», si sente rispondere.
«E adesso? Adesso com’è?»
Viktoras si stringe nelle spalle.
«Adesso? Adesso è troppo tardi per ricominciare daccapo. Sono staco. Il mondo ha smesso di essere un territorio di caccia.»
«E che cos’è diventato?»
La luce del mattino illumina i lineamenti di Vasilios. Ci sono lievi segni, piccole rughe attorno agli occhi e alla bocca, accentuate da un sorriso. Complice.
«Il mondo.»
«Tutto qui?»
«Tutto qui.»

Restano in silenzio, la brezza leggera che attraversa la chiome dei pini marittimi, lassù, correndo con grazia verso la collina alle loro spalle, punteggiata di case per le vacanze ancora chiuse che macchiano il panorama di colori improbabili. Ocra, rosa, verde, celeste.
«Quanti anni sono passati?»
«Tanti», dice Viktoras. «Troppi, mio Dio, troppi…»
«Sei un po’ ingrassato.»
«Dici?»
«Ti ricordavo più magro. Più… slanciato
«Ti sarebbe bastato specchiarti.»
«Già.»
«Non avevi specchi?»
«Lasciamo perdere, vuoi?»
Viktoras alza una mano, come a dire di sì.
«Com’era? Reggere il Santuario, dico.»
«Com’era reggere Atlantide, suppongo», risponde Vasilios, mettendo la gamba destra a penzolare nell’aria, distratta. Una solitudine infinita. Un peso incidibile. Non c’eri tu, vorrebbe dirgli, ma sarebbe superfluo, perché anche Viktoras deve aver sentito la mancanza del suo gemello. Della sua ombra accanto. Del suo doppio con cui affrontare la vita. Spalla a spalla. Quando il mondo sa far tremare davvero i polsi e il cuore.

«Ero un uomo senza ombra», questo riesce a dirgli. E Viktoras annuisce. Convinto. Come se se le aspettasse quelle parole – quella confessione. «Hai… avuto figli?»
«No. Non che io sappia, almeno. Tu?»
«Non che io sappia.»
«Fa caldo, vero?»
«Vero.»
«Che ore saranno?»
«Non saprei», dice Vasilios scoccando uno sguardo al cielo. «Le dieci, come le undici e mezzo. Perché?»
«Perché a quest’ora ci starebbe bene una nuotata…»
Vasilios sospira.
«È per questo che sei venuto? Per nuotare?», gli chiede, fissando l’andirivieni frenetico dei ragnetti rossi, quelli che corrono sui terrazzi quando arriva la primavera e l’aria si fa mite.
«No. Sono venuto perché dobbiamo parlare.»
«Parlare di che?», domanda. Come se non lo sapesse.
«Di noi. Ma adesso scendiamo. Abbiamo tutto il tempo del mondo…»
«Non abbiamo il costume», protesta Vasilios. E se li beccassero in tenuta adamitica sarebbe un guaio davvero serio, altroché!
«Non dirmi che ti vergogni di farti vedere nudo dal tuo stesso gemello…», lo sfotte Viktoras. «E poi è una spiaggia per nudisti, questa qui sotto.»
«Così vicina alle case?», ribatte Vasilios, indicando con un gesto le ville alle loro spalle. Che sì, la stagione è ancora agli albori, ma fa abbastanza caldo perché qualcuno decida di fare una gita fuori città. Salonicco è ad un tiro di schioppo, dopotutto.
«Ti fidi di me?»
«No.»
«E quando mai?», ribatte, stringendosi nelle spalle.
«Perché sei qui?», gli chiede. Di nuovo.
«Perché da qualche parte dovremo pur ricominciare. Non credi?»
Vasilios abbassa la testa.
«Con una nuotata?»
«Perché no?», e gli porge la mano. Per aiutarlo ad alzarsi. «Abbiamo due strade. Parlarne. Fino a non poterne più, ma sappiamo entrambi che nessuno di noi crederebbe all’altro. Siamo bravi ad intortare il prossimo, ma tra di noi non funziona…»
«Oppure nuotiamo?»
«Oppure  tiriamo fuori il coraggio di prendere la vita per come viene. Giorno dopo giorno. Orzando.»
«Orzando?»
«Seguendo il soffio del vento.»
«Come siamo saggi…»
«Il maggiore sono io, dopotutto. Anche se vai a dire in giro il contrario.»
«Il mondo è cambiato. Lo hai detto tu, ricordi?»
«Certo che lo ricordo. » Pausa. «Tutto cambia. In continuazione. O ti evolvi, o muori. E Vasilios e Viktoras sono morti. Tempo fa. Adesso ci siamo noi. Saga e Kanon. Santi di Athena.»
«Un’armatura in due?»
«Faremo i turni.»
Vasilios scuote la testa. «E tu pensi che ce la faremo?»
«Basta solo volerlo.» Viktoras si passa una mano sotto al mento rasato di fresco e socchiude gli occhi. «Avanti. Non ti sto chiedendo la luna. Solo una nuotata. Come quando eravamo ragazzini. Fino al centro della baia e ritorno. Niente più.»
La mano di Viktoras è sempre tesa, davanti a lui. Le dita, identiche alle sue, dalle unghie morse a pelle, i polpastrelli screpolati ed una vecchia ferita, lungo l’indice destro.
«Quella, come te la sei procurata?» Giocherellando col tridente di Poseidone?
«Questa? Oh, questa. È una lunga storia», e Vasilios sa che suo fratello sta mentendo. Che sta imbastendo adesso, nel suo cervello, una storia inventata di sana pianta con cui allettarlo. Qualcosa di epico – la lotta col Kraaken, tipo – ma non troppo. Qualcosa che lo invogli a sentire quale sia stata la vita del Generale degli Abissi, prima di indurlo a raccontargli i tredici, lunghi anni di silenzi e menzogne che ha passato seduto sul trono di Athena. Iniziando a mettere assieme quel mosaico di frammenti di vetro che lo aspetta. Paziente.
«Abbiamo tutto il tempo del mondo», risponde, deciso a vedere cos’abbia in mano suo fratello, se una coppia a mala pena vestita, un clamoroso bluff o una scala reale massima servita.
Kanon sorride. Si siede di nuovo accanto a suo fratello, lo sguardo fisso al mare. E comincia a raccontare.
«Era una notte buia e tempestosa…»

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Capitolo 11
*** Palpitare lontano di scaglie di mare ***


#11 – Palpitare lontano di scaglie di mare
Lama XV– Il Diavolo
Personaggi: Gemini Kanon



 
Il mare in autunno ha il suo fascino deliziosamente nostalgico. Le onde sembrano chiamarti mentre battono contro gli scogli, ancora e ancora e ancora. Non si sgolano, no; ma insistono, convinte che, prima o poi, tu cederai. Abbandonerai scarpe e calze, ti arrotolerai il fondo dei calzoni ed entrerai in acqua. E poco importa se il solo pensiero, adesso, ti fa accapponare la pelle. È questione di un attimo, uno solo. E poi farai tutto da te. Avanzerai. Un passo alla volta. Fino a farti abbracciare da quelle gigantesche mani di ossigeno ed idrogeno.

Sì, il mare canta, e la sua voce diventa più struggente in autunno, quando la spiaggia si svuota dei bagnanti e del loro chiasso e resta solo il vento a farle compagnia. Un controcanto di aria e salsedine che ti accarezza il mento, gioca coi tuoi capelli e ti sussurra dolci promesse all’orecchio. Sai che c’è un regno, sotto l’azzurra cupola del Tirreno? Un regno perduto e dimenticato che aspetta il suo re, con svettanti palazzi di calcedonio e corniola, rigogliose foreste di alghe ed attinie, e coralli lungo i viali lastricati di marmi dalle venature dorate?

Viktoras sa che è tutto vero. Lo sa perché ha visto coi suoi occhi quel mondo. Ci ha vissuto. Lo ha retto in nome di Poseidone, per tredici, lunghi anni. Ed ha atteso, con pazienza, che i tempi fossero maturi. Viktoras lo conosce. Saprebbe come tornarci in un batter d’occhio. Dovrebbe immergersi. E ritrovare il passaggio per la Colonna dell’Atlantico Settentrionale. La sua colonna. Sarebbe un po’ come tornare a casa, in un certo senso. Ma Viktoras sa bene quanto certi ritorni possano essere pericolosi. Possono piombarti le gambe ed il cuore. Ed impedirti di andartene. Ti aspettano, come le esche che un cacciatore esperto piazza per attirare le sue prede in trappola. Ti illudi che basti essere veloci. Veloci e delicati e oplà, l’esca sparisce nella bocca della preda senza che il meccanismo scatti. Ma che succede quando la tua mano – il tuo cuore – indugia troppo a lungo su quel boccone succulento – che sarebbe davvero un delitto lasciarlo lì! –? Succede che la trappola fa il suo lavoro. Sarebbe un peccato lasciar andare una preda così ghiotta, giusto?

No, Viktoras non cederà a quel richiamo. Viktoras resisterà. Se ne resterà seduto sul muretto, i piedi a penzolare sopra la rena umida, ad osservare le onde brillare d’argento sotto il sole del primo pomeriggio, mentre il vento gli fa il solletico e gioca con il bavero della sua giacca di velluto. Viktoras la odia. La trova scomoda, ma in certe occasioni l’abito fa il monaco. Soprattutto nelle missioni diplomatiche.
La prima impressione è quella che conta, e anche se questa mattina a Viktoras è sembrato di vedere un leone inguainato in un vestito da clown dall’altra parte dello specchio, Viktoras è entrato in quella trattoria sul lungomare armato del migliore dei suoi sorrisi e delle peggiori intenzioni possibili.

Il mare insiste con il suo richiamo, ma oggi non è aria. Viktoras ha troppe cose di cui occuparsi, mentre la moglie di Salvucci spazza la terrazza e sua figlia sistema delle tovaglie pulite in attesa di clienti che non verranno. Digerire il banchetto luculliano a cui è sopravvissuto – e lode, lode, lode alle linguine allo scoglio della signora Lucilla e a quel vinello bianco che scendeva in gola come fosse ambrosia – inquadrare la Corte di Pyrgi – amici o minaccia? – pensare all’incolumità di Saori – Athena – ed evitare che Julian – Poseidone – la rapisca di nuovo. O le chieda di sposarlo, ché, si sa, con questa brezza frizzantina che spira da Ponente e questa luna che si affaccia timida e bianca nel cielo terso, tutto è possibile. Specie se a tavola hai alzato il gomito.

Eppure, il mare insiste a corteggiarlo. Anche se lo sa che no, lui non verrà, che no, lui se ne resterà con le chiappe ben incollate a quel muricciolo scaldato dal sole di mezzogiorno, che no, per oggi non se ne parla proprio di un tuffo fuori programma. Dove l’acqua è più blu, come canta la voce da gatto castrato che esce dalla radio accesa. Eppure, il Tirreno si balocca con un motivetto a fior di labbra, che il vento ripete con la precisione di un sensale scrupoloso. Canta e va per la sua strada. Anche se entrambi sanno benissimo che si tratta di una canzone da sirena, buona per irretire quei marinai che sono stanchi e vogliono riposare un po’, anche se solo per cinque minuti, anche se solo su uno scoglio piatto in mezzo al mare.

Ma Kanon non è stanco. Viktoras? Viktoras, forse. Ma Kanon, no. Kanon sa che lo aspettano altri legni, altri approdi, altre traversate. Ed entrambi – e Kanon, e Viktoras - sanno che non si può tornare indietro. Perché è pericoloso. Perché quello che ci siamo lasciati alle spalle non esiste più. Perché il passato è una chimera fatta di cocci di bottiglia, luccicanti se il sole vi passa attraverso, ma taglienti a maneggiarli con poca attenzione. Cenere. Detriti. Scaglie di mare. Lische levigate. Questo troverebbe. Su questo, regnerebbe. Un mucchietto di sabbia colorata. E allora, no, grazie, ma no, grazie.
Meglio restarsene all’asciutto, i piedi a dondolare e il vento tra  capelli, ad ascoltare una canzone che si conosce a menadito – pause, intonazioni e ritmo – per portare vivido il ricordo di quelle scaglie di mare che luccicano laggiù, all’orizzonte, nella quiete irreale del primo pomeriggio.

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Capitolo 12
*** Quella strada nel bosco ***


#12 – Quella strada nel bosco
Lama IX– L'Eremita
Personaggi: Libra Doko



 
C’è una strada che s’inoltra nel bosco ed arriva fino su, in cima alla Cascata del Drago.
La Cascata si sente da circa metà percorso, un fracasso che serpeggia tra le fronde degli alberi e il martellare dei picchi. Un posto suggestivo, invero, ma ai bambini del villaggio è vietato oltrepassare la casa del taglialegna. «Il Drago che dorme nella cascata potrebbe arrabbiarsi», dicono gli adulti, nella speranza che i bambini restino a distanza di sicurezza dalla cascata. È un bel salto, da lassù, fatto di acqua rombante e vapori scroscianti. E a valle ti attende un fondale basso, di ciottoli levigati, sempre ammesso che tu non ti sia sfracellato strada facendo.

Ding conosce la leggenda del Drago che dorme sotto le acque della Cascata, ma non ne ha mai avuto paura. Anzi, ha sempre voluto incontrarlo per chiedergli di esaudire un suo desiderio. I draghi devono farlo. Per contratto. In tutte le storie è così. Quindi, perché il Drago della Montagna avrebbe dovuto sdirazzare?
Perché il Drago della Montagna non esiste, ovvio. È solo uno spauracchio inventato per i bambini, anche se sua nonna gliene ha sempre parlato come se si trattasse di una persona in carne ed ossa. Qualcuno che, stando ai suoi racconti, dovrebbe avere più di cent’anni. Forse anche duecento. E mentre Ding avanza tra gli alberi, spera con tutta se stessa che sua nonna abbia ragione.

Il sentiero si perde nel bosco alle spalle della casa della nonna di Ding, l’ultima del villaggio. Avanza tra gli alberi e si perde dopo una quindicina di passi. Bisogna fare attenzione – ché se si sbaglia strada ci si ritrova al punto di partenza – e svoltare ad un certo punto, evitando i calappi per i conigli e le tagliole per le volpi – ché se la volpe arriva e si pappa il coniglio appena catturato, ci sarà una volpe colla pancia piena ed un cacciatore a bocca asciutta.
Ding conosce la strada, perché da piccola si divertiva a passeggiare nel bosco. Sempre da sola, ché non ha mai legato molto coi bambini del villaggio. La vedevano come una bestia strana, lei che appariva per un mese solo, d’estate, come fosse un fantasma o un tasso dispettoso, e non appena aveva rotto il ghiaccio s'era fatta l'ora di tornare in città. Così Ding andava in esplorazione solitaria, spingendosi ogni giorno un po’ più in là, fino alla casa del taglialegna, ché oltre non si fidava ad avventurarsi. Non era sicura di riuscire a trovare la strada del ritorno. E se poi gli adulti avessero dovuto cercarla, non le avrebbero più permesso di andare nel bosco a caccia di fiori, fragole e farfalle dalle ali colorate.

«Non fare tardi», si è raccomandata zia Xiaoyu.
Il suo treno parte alle sette, e Ding sa che dovrà salire in carrozza da sola. Sua madre è stata chiara al riguardo. «Non azzardarti a tornare a casa con quella cosa», le ha detto – le ha sibilato – al telefono ieri sera, mentre Ding singhiozzava e l’implorava di ripensarci. «Avresti dovuto pensarci prima. Adesso arrangiati!», e ha riattaccato, lasciandola a fissare una cornetta che le riproponeva uno stizzito tututututututu.
Non c’è un’altra soluzione, no, si ripete Ding mentre avanza, lo sguardo fisso all’orizzonte a lasciar vagare la mente e i suoi crucci. La bambina dorme. La bambina è tranquilla. Ma Ding non può tenerla. Nossignore. E vorrebbe tanto che ci fosse un altro modo, un’altra via. Solo che Ding non sa dove cercarla, quest’altra strada, ché i suoi occhi sono fissi sulla voragine che le si apre davanti. Se è andata da sua nonna, l’ha fatto per aiutarla. Ché è tanto malata, la povera vecchina. Non può certo tornare indietro con un fagottino. Che direbbe, alla gente? L’ho trovata sotto ad un cavolo? L’hanno portata gli dei della fortuna?

Ding sospira. Se solo non fossi sola, pensa. Se solo Fulang mi avesse creduto.
Ma Fulang non c’è. Fulang le ha intimato di smetterla, con quelle sciocchezze, ché quel figlio non poteva essere suo, nossignore, perché lui aveva preso tutti i provvedimenti necessari a non farsi incastrare. «E quali?!», avrebbe voluto gridargli dietro lei; invece Ding era rimasta in silenzio, a sentire il suo sguardo di rimprovero e biasimo passarla da parte a parte. Certo, avrebbe potuto parlarne a suo fratello, o a suo padre, e avrebbero potuto costringere Fulang ad assumersi le sue responsabilità; ma mentre lui le intimava di non farsi vedere mai più, pulendosi le unghie con la lama di un coltellino, e di andare a bussare alla porta di chi l’aveva messa in quella condizione – ammesso che si ricordasse chi fosse stato – Ding era stata presa da un’ondata di nausea così travolgente da decidere che avrebbe fatto a meno di lui. Non lo voleva più. Le faceva schifo. Per questo non aveva rivelato il suo nome a suo padre e aveva accettato di andare in campagna. Avrebbe partorito laggiù, e la levatrice avrebbe pensato al bambino. Sarebbe tornata a casa e nessuno avrebbe mai sospettato niente.
«Una via d’uscita facile e pulita», le ha detto sua madre, riempiendole la valigia; ma nove mesi dopo, Ding la pensa diversamente. Nove mesi dopo non c’è nulla di facile e pulito, in quella situazione, ché la levatrice è stata chiara: certe cose non si fanno più. Non alla luce del sole, ovviamente, ché se sai ungere i cardini giusti, ti si spalancano tutte le porte. Ma lei non aveva l’olio giusto, o meglio: non ne aveva abbastanza. Così la levatrice ha fatto il suo dovere e se n’è andata, lasciandole l’indirizzo di un orfanotrofio che avrebbe risolto la sua situazione. Ma Ding ha commesso l’errore di guardare sua figlia, di tenerla in braccio ed attaccarla al seno. E adesso le si spezza il cuore anche solo all’idea di doversi separare da lei. Ma sua madre è stata molto, molto chiara, ieri sera, al telefono.
E così adesso Ding è disperata come un’animale braccato, una volpe che non riesce a trovare la forza di amputarsi una zampa a morsi, pur di salvarsi dalla tagliola in cui è inciampata.
Il suo treno parte stasera alle sette. E per quell’ora, Ding dovrà aver risolto la questione. Sua zia le ha consigliato di sbrigare tutto alla vecchia maniera, ché gli orfanotrofi sono al collasso, e rischia che le sbattano tutte le porte in faccia. E poi, dove andrà? Che farà? Che s’inventerà?
«Tua madre ha ragione. Devi farti coraggio», le ha detto la zia, aiutandola a preparare le sue cose. «Ormai è tardi. Adesso, escine a testa alta.»
Ding ha le vertigini. Ma come si fa?, si chiede. Come posso

Shunrei dorme. Tranquilla e beata, ignara del fatto che sua madre voglia disfarsi di lei come se fosse un sacco di calzini maleodoranti. Così, quando arriva alla casa del taglialegna, oramai disabitata, Ding si fa forza, si stringe la bambina al petto e si lascia quella casupola dal tetto di paglia alle spalle. Il rombo della Cascata si sente in lontananza. Una specie di ruggito fragoroso dell’acqua che l’attira. Non l’ho mai vista, si dice, dirigendo i passi verso quel richiamo liquido.
Il rumore aumenta a poco a poco. L’aria stessa diventa più umida. Fa freddo, lassù. Come se l’inverno non se ne fosse ancora andato. E io dovrei lasciarti qui?, pensa, stringendosi contro quel fagottino rosa. Ding avanza, oramai gli alberi sono più radi. Forse è questa la radura di cui parla il marito della zia Xiaoyu, quella dove lui lascia le provviste per il Drago della Montagna. Perché non si sa mai, dice lui. Dovessi fare brutti incontri, dice, infischiandone di quello che pensa la suocera.

Ancora pochi passi, e gli alberi si diradano, lasciando il posto ad una vista mozzafiato.
L’acqua della cascata scroscia a valle, illuminata dal sole al tramonto. Ding si trova a metà altezza, il vertice è ad un centinaio di metri più in alto. Qui c’è solo il fragore dell’acqua e qualche albero e uno spiazzo erboso. Sarebbe perfetto per un picnic estivo, pensa Ding, avvicinandosi al bordo del crepaccio. L’acqua scende tumultuosa. La potenza del Drago che sembra quasi volersi mostrare in tutto il suo fulgore liquido. E sembra quasi volerla abbracciare. E dirle che va tutto bene. Che non farà male, mentre le rocce aguzze, poco oltre il crinale, suggeriscono tutt’altro.
Ding si leva le scarpe. Le sfila, lasciandole l’una accanto all’altra, a poca distanza dal dirupo. La bambina si agita. Apre gli occhi. Piange. Tutto quel fracasso deve averla svegliata, si dice Ding, accarezzando la schiena di sua figlia.
«Tra poco sarà tutto finito», le sussurra, sperando di calmarla. Ma sua figlia deve avere fame – o il pannolino bagnato – ché no, non si calma. E se per un attimo Ding pensa di allattarla – ché se devono andare all’altro mondo, tanto vale farlo con la pancia piena – desiste, perché teme che, dopo, non avrebbe più la forza necessaria per spiccare il salto e farla finita.
Ma anche volendo, come farei?, si chiede. Le gambe le fanno un male del diavolo. Colpa delle proteine, dice sua zia. E intanto Ding ha i polpacci più grossi di quelli di un calciatore. Avrebbe bisogno di una seduta di agopuntura. O di un bel bagno caldo. Uno di quelli in cui sprofondare senza pensieri, un piede a sgocciolare sul pavimento e una musica rilassante di sottofondo.
Ding ride. Tra poco avrò tutta l'acqua di questo mondo, pensa. E ridacchia ancora. Più forte. Mentre sua figlia piange, le lacrime le rigano il viso e l'orlo del crepaccio si avvicina sempre di più, sempre di più, sempre di più...

«Fossi in te, farei un passo indietro.»
La voce assomiglia ad un fruscio di carta ingiallita dal tempo. Un crepitare di foglie secche nel fuoco. Eppure, riesce a sentirla nonostante il rombo assordante della cascata. Ding si volta, il mascara che cola lungo le guance e le colora di un alone scuro il contorno degli occhi stanchi. C’è una figura, a pochi passi da lei. L’ha scambiata per delle rocce ammonticchiate l’una sull’altra, tanto era immobile. Invece, quella roccia ha parlato. E adesso la sta fissando con il più dolce dei sorrisi.
«I…»
«Eh», dice la roccia. Poi si muove. Recupera un bastone accanto a sé, si puntella e si solleva dal sasso piatto e largo che usa come sedile. E non è una roccia, no. È un uomo. Un vecchio incurvato dall’età, le sopracciglia bianchissime e cespugliose che sbucano sotto ad un cappello di bambù. «Scusami, ma con gli anni, i miei acciacchi si fanno sempre più sentire…», dice. E si avvicina.
Ding si stringe la bambina al petto. «Chi… chi sei?!» Non si accorge di aver gridato.
«Da dove vieni?», le chiede lui. Ha la pelle di un colore improbabile. Piena di rughe come un albero è ricco di venature. È la persona più vecchia che Ding abbia mai visto.
«Dal… villaggio», risponde lei. Come se lui le avesse chiesto l’ovvio.
«Non ti ho mai vista», insiste lui.
«È la prima volta che vengo quassù», ed è la verità. «Ai bambini è vietato superare la casa del taglialegna. E non tornavo al villaggio da molto tempo.»
«Capisco», mormora il vecchio. Avvicinandosi. «È un bel salto, eh?», le dice. Indicandole il fondo della cascata col bastone.
Lei annuisce.
«Forse un po’ troppo azzardato per una mamma ed una neonata. Non credi?»
Ding si morde le labbra. Trema. La sua bambina piange disperata. E qualcosa dentro di lei, alla fine, si spezza, e si lascia scivolare a terra, l’erba umida è fredda sulle calze.
«Non ho altra scelta» mormora, stringendosi al petto la sua bambina, come se da quel fagottino dipendesse la coesione stessa dei suoi atomi.
«Avanti, avanti. C’è una soluzione per tutto, nella vita», le dice il vecchio, poggiandole una mano sulla spalla. «Come si chiama questa bella bambina?»
«Shu… Shunrei. Si scrive con gli ideogrammi di Luna e Primavera.»
Al vecchio sembra piacere, quel nome. «Molto appropriato. Molto femminile.» E annuisce, soddisfatto. «Ha fame, eh?»
«Oh, lei ha sempre fame», replica Ding.
«I neonati sono così», commenta il vecchio. «Un buon appetito indica una persona forte e vivace.» Pausa. «Tu come ti chiami?»
«Ding. Come giada
«Ding», ed il vecchio sembra voler assaporare quel nome in punta di lingua. «Facciamo così, Ding. Io adesso mi siedo alle tue spalle. Perché intanto non mi racconti la tua storia, mentre allatti la tua bambina? Magari, in due, troviamo una soluzione, che ne pensi?»
«Ma tu chi sei?», gli chiede Ding, la bambina stretta al petto che strilla come un’ossessa, riempiendo l’aria di vagiti, quasi a voler zittire la cascata con la sua voce.
«Tua nonna mi conosce come Doko, ma giù al villaggio mi chiamano in molti modi.»
«Quali modi?»
«Vediamo… Il vecchio della Montagna. Il drago della Montagna. L’eremita della Cascata del Drago.» Pausa. «Sono chi vuoi che tu sia.»
«Voglio che tu sia il Drago. Quello delle fiabe. Quello che esaudisce i desideri!», ribatte Ding, nemmeno avesse di nuovo sette anni e le ginocchia sbucciate.
«Mmmmh», mormora il vecchio. «Io non sono il Drago, mi dispiace per te. Lui è troppo potente, per abitare questo povero corpo vecchio e stanco», e libera nell’aria una risata di cuore, forte e chiara come quella di un ragazzo di vent’anni.
«Allora non mi resta che la cascata», replica Ding. Serissima.
«Davvero?», chiede il vecchio. E quando lei annuisce con vigore, lui aggiunge: «Se è davvero così che la pensi, accomodati. Ma lascia la bambina.».
«No, lei viene con me.»
«Nossignore.»
Come? «Nossignore un corno!», replica Ding. «Lei è mia!»
«Lei non è tua.» La voce del vecchio è pacata come lo scorrere della sabbia in una clessidra. «Nessuno appartiene a nessuno, se non a se stesso. Lei è tua figlia, ma non ti appartiene.»
«Non mi appartiene? Mi ha sconvolto la vita e nemmeno mi appartiene? Nemmeno questo?»
«No. Nemmeno questo.»
«Non è giusto!»
«Sì che lo è», replica il vecchio, una scintilla paterna negli occhi scuri e dolci. «Tu le hai dato la vita. Tu hai scelto di darle la vita. Hai scelto di tenerla in vita. Perché arrenderti adesso?»
«Perché non posso.»
«Perché hai scelto di non potere.»
Ding lo fissa come se gli fosse spuntata una seconda testa. «Come?!»
«La vita è una questione di scelte. Non scegliamo di nascere, ma scegliamo di continuare a vivere. Giorno dopo giorno. Respiro dopo respiro. E a volte c’è chi sceglie di arrendersi. Tutto qui.»
«Tutto qui?!»
«Sì, ragazza mia. Tutto qui», ribatte il vecchio Doko.
«La vita non è mica così facile.»
«Non è facile infatti. Né facile, né difficile. Soltanto semplice.» Pausa. «Avanti, Ding. Tua figlia ha fame e io sono curioso di sentire la tua storia.»

E Ding obbedisce. E racconta tutto. Di sé. Di Fulang. Della gravidanza. Di sua madre, di sua zia, di sua nonna. Parla a ruota libera, fino a quando la gola non le fa male e non ha più parole nella testa. Poi scende il silenzio, nella radura, riempito solo dal rombo della cascata. Shunrei mangia, Ding fissa qualcosa oltre l’acqua che scende a valle illuminata dai raggi del sole, Doko medita, le palpebre socchiuse e il cappello calato sul viso.
«Prima mi hai detto che la vita è semplice. Ma che cos’è la semplicità, maestro?», chiede Ding, cullando la sua bambina tra le braccia.
«Seguire il soffio del vento», ribatte lui.
«Io non lo so mica, dov’è che soffia il vento, adesso…»
«A volte devi solo fermarti. Fermarti e ascoltare.»
«Ma se mi fermo, ho la testa piena di… pensieri…»
«Allora devi allontanarti un po'. E vedere se quei pensieri sono poi così brutti e cupi come credi.»
«E come faccio?»
«Lasciali a me», le dice lui. Con una tranquillità ed una sicurezza da farle pensare Perché no? «Credi che io non sappia prendermi cura di una neonata?»
«No, ma… Come l’allatterai?»
Lui sorride. «Quando scenderai, dirai che il Vecchio della Montagna vuole del latte fresco. Tutti i giorni. Vedrai che arriverà puntuale.»
«E se non dovessi tornare? Che ne sarà della mia bambina?»
«A te cosa importa?», e quella domanda brucia, come se le avesse assestato uno schiaffo a mano aperta sulla guancia.
«È mia figlia!», protesta Ding.
«Stavi per gettarla via, o sbaglio?» Lei abbassa lo sguardo. Colpevole. Si sente così piccola. Così misera. Così… «… fragile.»
«Come, scusa?» Adesso leggi pure nel pensiero?!
«Ho detto che sei fragile. Sei presa tra due fuochi. Non hai sufficiente chiarezza per scegliere una strada o l’altra. Devi allontanarti dal tuo problema e valutarlo. Con calma e pazienza. Se sceglierai di non poterla crescere, saprai che qui con me è al sicuro. Altrimenti, la tua bambina sarà sempre qui. E potrai venire a riprenderla quando vorrai. Quando ti sentirai pronta.»
«Dov’è la fregatura?»
«Nessuna fregatura», replica il vecchio. Sorridendo, gli occhi dolci e scuri che brillano sotto le sopracciglia bianchissime. «Pensaci, Ding. Pensaci e prenditi tutto il tempo che ritieni più opportuno.»
«Ho il treno alle sette», ribatte lei.
«Ce ne sarà un altro, prima o poi.»
«E che dirò a casa?»
«Che il panorama è incantevole, in questa stagione», ridacchia il vecchio. «Anzi, a tal proposito. Guarda, è sorta la luna….»
 
 

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Capitolo 13
*** Decanter ***


#13 – Decanter
Lama XIV– La Temperanza
Personaggi: Aquarius Camus



 
Le guglie della chiesa di Saint Jean-Baptiste si stagliano aguzze contro il cielo come a voler punzecchiare le chiappe delle nuvole, o un bel palloncino rosso, di quelli che le bambine portano legato al polso, e che i fratellini godono nel farli esplodere. Possibilmente, con un gran bel botto, uno di quelli che fanno BOOM, lasciando assordati i presenti.
Maman Louise è già alla finestra, ad osservare Belleville stropicciarsi gli occhi e poi riprendersi dai bagordi della Festa Nazionale. La sigaretta, la prima di una lunga serie, accesa nel bocchino di bachelite d’ordinanza, è a metà corsa.
«Buongiorno, tesoro. Dormito bene?», ti chiede, scrollando la cenere nel vuoto, in una cacofonia di pendagli che le tintinnano dai polsi. «La colazione è pronta.»
«Gli altri?», chiedi, scostando la sedia ed accomodandoti al posto che occupava sempre Rémy.
Maman Louise si stringe nelle spalle.
«Tua madre è andata a messa. Tua sorella e quell’altro sono in giro per la città. Notre Dame, la Conciergerie, le Sacré-Coeur. Il solito giro da piccioncini
Decapiti un croissant. «E tu?»
«Io... Conosco questa città come le mie tasche», ed un altro po’ di cenere cade sui gerani di Madame Cousteau, due piani più in basso, «e la domenica mattina non ricevo, lo sai. Così mi godo il silenzio della mia vecchia casa, quando quella sciroccata di mia sorella se ne sta tranquilla…».
Ti versi il caffè nella tazzinaa. Buono. «Programmi, per oggi?», chiedi.
«Il solito. Un buon pranzo in famiglia, i piatti da lavare, una passeggiata verso le cinque…»
Controlli l’orologio da parete. Le dieci e mezzo. Ed è in quel momento che i tuoi occhi si soffermano sugli stipiti dipinti di bianco, sopra al frigorifero. «Quello?», chiedi.
«Ah», e Maman Louise si stacca dal davanzale e ciabatta fino al tavolo, scosta una sedia e vi si lascia cadere nel tintinnio dei suoi braccialetti. «L’ho fatto fare dai muratori, quando ho affittato l’appartamento qui sotto. Non sapevo dove mettere alcune cose… personali di tua madre e di Rémy.»
La osservi. E ti sembra più piccola che mai. Una statuina, di quelle che si mettono nei presepi. La venditrice di pesci, ma taci, ché se Maman Louise lo sentisse prima ti prenderebbe a padellate sulla testa e poi ti chiederebbe se s’è mai vista una venditrice di pesci di colore.
«Che c’è? Il gatto t’ha mangiato la lingua?»
«Che genere di cose?», chiedi.
Lei sbatte le palpebre, poi si stringe nelle spalle e dice: «Non saprei. Gli scatoloni li ha riempiti tua madre…».
«Hai una scala, da qualche parte?»
 

La domenica ha una sua sacralità anche in un paese laico per costituzione, come la Francia. Anzi. Le tradizioni non hanno una bandiera religiosa, o politica. Civile, forse. Ed era in un’ottica civile che Rémy Arnoul viveva le domeniche. La colazione tutti insieme, la passeggiata a metà mattina, il pranzo, e sonnecchiare tutto il pomeriggio, una lama di luce che filtrava dalle imposte accostate. Ed era del pranzo che s'occupava Rémy, ma non di cucinare, nossignore; lui non andava oltre un uovo al tegamino.  
Così, mentre Maman spignattava ai fornelli e tu l’aiutavi ad apparecchiare la tavola, Rémy si premurava di scegliere il vino. Rosso. Robusto. Corposo. Selezionava la bottiglia giusta dopo aver letto l’etichetta ed osservato il liquido in controluce, attraverso il vetro scuro. Poi la posava sul tavolo, agguantava il cavatappi e faceva saltare il sigillo con un colpo di coltello.
«Il segreto per gustare al meglio il vino rosso è uno solo. Lasciargli prendere aria.»
Quando Rémy parlava di vini assumeva un’aria seria, da professore, che strideva con la sua scanzonata allegria da canaglia in libera uscita.
A Rémy piaceva scherzare. Troppo, forse; ma quando Maman glielo rimproverava – con un’occhiataccia, un finto colpo di tosse o la punta del piede che pestava ritmicamente il pavimento – lui faceva spallucce.
«La vita è troppo breve, no?», le diceva, col suo sorriso sghembo che faceva sciogliere le donne come ghiaccioli lasciati al sole. Ma Maman no, non si lasciava incantare. Lo liquidava con un sospiro, la testa che andava da destra a sinistra, e la questione finiva lì.
Sì, a Rémy piaceva scherzare. Ma sul vino, no. Sul vino diventava serissimo, come un prete durante la quaresima, uno di quelli dallo sguardo arcigno e severo, pronto a minacciarti con una pioggia di fuoco e zolfo, nemmeno la tenesse pronta all’uso nella tasca della tonaca.
«C’è gente, a questo mondo», diceva, una nota di disgusto misto a perplessità a colorargli la voce, «che posa questo splendore in frigorifero!». E poi accarezzava la curva della bottiglia, nemmeno fossero le spalle di una bella donna da consolare.
«Il vino è un amico fedele, ragazzo. Tu non tradire lui e lui non tradirà te.»
E poi metteva in scena la liturgia del vino. La sua. Quella di cui Rémy Arnoul era unico ed indiscusso ministro, nel silenzio del mistero della penombra della cucina.
 

La vernice bianca s’è ingiallita, il legno è gonfio d’umidità – chissà da quant’è che non lo aprono! – e queste ante hanno tutta l’intenzione di restarsene così come sono. Chiuse. La scala a pioli – quella che hai chiesto in prestito a Madame Cousteau, di legno liscio e scivoloso con qualche foro qua e là, ricordo del passaggio di qualche tarlo – è appoggiata contro la parete della cucina, sì, ma non ti offre l’appoggio necessario. Sdrucciola. E hai la certezza che, se continuerai a forzare quelle ante cocciute, finirai a gambe all’aria, magari scassandoti le corna e qualcos’altro. Per non parlare dei rimbrotti di Maman Louise, che, a quel punto, non avrebbe più nessuna remora per sfondarti la testa a colpi di ventaglio. Quello giallo, dalle stecche lunghe e dalla vernice un po’ sbeccata agli angoli, lo stesso che appare nelle sue grosse mani verso metà maggio – giorno più, giorno meno – per tornare nell’armadio verso la fine di settembre; lo stesso che sta tenendo il ritmo dei tuoi sforzi, mentre ancora insisti a forzare quelle dannatissime ante, chiedendoti se, per caso, Maman non le abbia fatte murare, e non ti abbia avvisato per dispetto.
Sbuffi aria dal naso. No, così non va. Forse, se congelassi appena i cardini, potresti farli saltare e via. Ma poi Maman Louise me li farebbe ingoiare, pensi, prima che quei pezzi di ferro abbiano pietà di te e ruotino sul proprio asse, facendo aprire le ante.
«Era ora», quasi esclami, asciugandoti il sudore sulla fronte. Spalanchi le due antine e sbirci dentro. Un mare di scatoloni, di varie forme e dimensioni, che contenevano vari generi alimentari. Riso, frutta, sale, bottiglie di succhi di frutta.
Il soppalco corre lungo tutto il corridoio, ad occhio e croce. E nessuno s’è preso la briga di segnare all’esterno cosa contengano, tutte quelle scatole.
Afferri la prima e te l’avvicini.
«Mi passi un coltello?», chiedi.
«Si può sapere che diamine stai cercando?»
Il ventaglio di Maman Louise viaggia a velocità forsennata, in un ticchettio di stecche di legno sbiadito dal tempo e dall’uso.  Senti i suoi occhi bucarti le gambe e le chiappe mentre, in bilico sulla scala a pioli, te ne stai a rovistare dentro al soppalco, immerso fino alla vita tra vecchi scatoloni e ragnatele abbandonate.
«La mia eredità», rispondi laconico, spostando una cassetta di legno che contiene vecchi giornali e guide dei programmi televisivi. Oggetti personali un corno.
«E la cerchi nella mia cucina?», insiste Maman Louise, sbuffando. I pesanti cerchi che le pendono dalle orecchie, tintinnano.
«Certo che sì», rispondi, scivolando ancora più in fondo, in punta di piedi sui pioli sbeccati della scala. I piedi sdrucciolano e riacquisti l’equilibrio puntellandoti coi gomiti sul fondo del soppalco.
«Attento!»
La voce di Maman Louise è un suono strozzato. Senti le sue dita che corrono a tenerti la scala contro la parete.
«Vedi non spaccarti la testa in casa mia, vuoi?», ribatte. «Che c’è, hai così tanta nostalgia dell’altro mondo che non vedi l’ora di tornarci?»
Esagerata, pensi. Ma te lo tieni per te, ché quella testona sarebbe capace di berciare per tutto il giorno, e sprecare una domenica mattina è un delitto che non intendi commettere. Così scivoli dentro al soppalco, strusciando sul fondo coperto da un velo di calce e polvere. Provi a metterti in ginocchio. Sbatti la testa. Trattieni un’imprecazione tra i denti.
«Tutto bene?»
«Stavo meglio prima», ribatti, massaggiandoti la testa e tornando ad accovacciarti.
La senti borbottare, dabbasso, chiedendosi se, per caso, tu non abbia perso un venerdì, andando e venendo dal regno dei morti. Eppure, sei sano di mente. Sanissimo. Più che mai. E se sei salito sul soppalco della cucina di Maman Louise non l’hai fatto per movimentare la mattinata, ma perché stai cercando qualcosa che apparteneva a Rémy. E che ti sarà di fondamentale importanza per risolvere la rogna che ti aspetta, nel dopo pranzo. Una rogna alta un metro e ottantacinque e che pesa quasi novanta chili, ti dici, spostando l’ennesimo scatolone ed allungando le dita per continuare la tua personalissima ricerca.
 

Il decanter e la caraffa erano un regalo di Maman. Glieli aveva comperati per Natale, trascinandoti per gli scaffali di Le Printemps e controllando quasi ad ogni passo che la tua mano non lasciasse mai le sue dita. La commessa aveva impacchettato il set controvoglia, ma a Maman era piaciuto lo stesso, ché lei non era mai stata brava, in quelle cose. Così, eravate tornati a casa un po’ più poveri, dopo una camminata lungo Rue de la Fayette fino all'incrocio con Boulevard di Belleville, per risparmiare i soldi del biglietto della metro, immaginando la faccia che avrebbe fatto Rémy scartando quel pacchetto.
Il regalo dalla coccarda rossa era rimasto ad aspettare paziente sul fondo dell'armadio fino a quando Rémy s’era affacciato alla porta una domenica mattina di marzo, con un sorriso sghembo ed un mazzo di fiori di campo dall’aria più stazzonata del suo impermeabile.
Maman gli aveva gettato le braccia al collo, se l’era stretto forte, fino quasi a soffocarlo, ed erano rimasti abbracciati sulla soglia, fino a quando lei non aveva smesso di piangere.
«Ancora un po’ e te lo davo a Pasqua!», aveva protestato lei, tirando su col naso e nascondendo un fazzoletto nella tasca del grembiale.
Lui aveva scartato la carta, gettato via la coccarda rossa ed era rimasto senza fiato trovandosi la valigetta di finta pelle nera. «Ma quanto t’è costato?», le avevano chiesto i suoi occhi.
Lei aveva sorriso, piegando la testa di lato. «Etienne mi ha aiutato a scegliere», aveva aggiunto, e Rémy vi aveva abbracciato, tutti e due, tenendovi stretti al suo petto. E tu avevi aspirato il suo aroma. Tabacco e cuoio vissuto. E il profumo del dopobarba che ancora aleggiava sulla barba di qualche giorno.
Rémy lo chiamava il suo tesoro. E nessuno, tranne lui, era autorizzato a maneggiarli. Lui li toglieva dalla scatola, lui li lavava, li asciugava e li lasciava in attesa, a testa all’ingiù su di uno strofinaccio pulito steso sul tavolo.
Poi era il turno del vino.
Via il sigillo, l’uncino del cavatappi bucava il sughero e si avvitava sempre più a fondo, fino alla fine della corsa. La ballerina alzava le braccia sopra alla testa e Rémy ti lanciava uno sguardo complice, assieme al suo sorriso sghembo.
«Ci siamo!», dicevano le sue sopracciglia, arcuate verso l’alto. Poi abbassava di colpo le braccia del cavatappi e il sughero veniva via, con uno SBOPP stizzito.
Rémy annusava il tappo, arricciava il naso e te lo passava.
«Fai attenzione», ti diceva, prendendo una salvietta pulita e versando il vino nel decanter. Puliva il collo, posava la bottiglia su un piatto e si sedeva ad osservare il vino, come se in quel liquido rosso fossero custoditi chissà quali e chissà quanti segreti.
«E adesso?», chiedevi, il cavatappi tenuto con tutte e due le mani, gli occhi fissi sulle bollicine che increspavano il pelo del vino.
«Aspettiamo», rispondeva Rémy, un gomito sullo schienale della sedia e le gambe accavallate, mentre l’orologio sbucciava i minuti, l’arrosto si cuoceva nel forno e fuori Parigi si preparava a gustare il pranzo della domenica.

 
Strisci più a fondo. Sposti un paio di scatoloni, e poi la vedi. La valigetta in finta pelle nera dalle chiusure dorate. Sorridi. Eccola, ti dici, allungando le dita fino a sfiorarla. Non ci arrivi. Ti dai una spinta, e senti la scala scivolare all’indietro, e afferri la valigetta proprio mentre senti Maman Louise gridare.
Oddio!, pensi, temendo le sia caduta la scala in testa. Stringi la valigetta e strisci all’indietro, i piedi che sgambettano nel vuoto.
«Maman!», chiami. «Maman, tutto bene?!»
«Sta bene, sta bene.» Milo. Sospiri. Fortuna che c’era lui, pensi. Ma poi ti chiedi che ore si siano fatte. «Si può sapere che stai facendo, appeso lassù?», ti senti chiedere.
«Appoggia la scala al muro, ché scendo.»
Senti un po’ di tramestio, il rumore del legno che si posa contro la parete e poi qualcuno che sale sui pioli.
«Che stai facendo?», ripete Milo, alle tue spalle – o dovremmo dire meglio: alle tue chiappe. Ti volti, come un lombrico che si contorce per rientrare nella terra umida e gli lanci uno sguardo da sopra la spalla.
«Ho trovato una cosa», e mi sono infarinato come una sogliola. «Adesso scendo, se mi fai spazio…»
Ti regala uno sguardo scettico, poi lo vedi stringersi nelle spalle e sparire oltre il bordo del soppalco. «Ti tengo la scala», ti dice. E tu strisci all’indietro, sicuro che le sue dita afferreranno la tua caviglia e l’accompagneranno sui pioli della scala.
Quando scendi, trovi quattro facce incredule – tua madre, Maman Louise, Milo, Coco – che ti osservano come se ti fosse spuntata una seconda testa.
«Cosa stavi…», facendo? Ma Maman non termina la sua domanda. I suoi occhi sono scesi ad osservare il pacchetto che stringi tra le braccia. Riconoscendolo.
«Oh», dice, e allunga le mani verso di te. Le affidi la valigetta e lei la maneggia con cura. Nemmeno fosse un neonato da cullare. «Quanto tempo. Occorrerà dargli una bella lavata, prima di usarlo, no?»
«E ne servirà una anche a me», dici, spolverandoti la polvere dalle ginocchia.
«E alla mia cucina chi ci pensa?», borbotta Maman Louise, la sigaretta accesa e il ventaglio che indica, in ordine: il muro sporco, il pavimento impolverato e la tavola ancora da sparecchiare.
Solidarietà maschile. La cerchi nello sguardo di Milo, ma tutto quello che ottieni è un sorriso sornione, quello di chi non ti aiuterà a venire fuori dai pasticci in cui sei finito, nossignore; e che anzi, si divertirà un mondo a vederti annaspare, prima che il fango si richiuda sopra la tua testa e le tue dita scompaiano sotto il limaccio puzzolente.
Bastardo, dardeggiano i tuoi occhi. E poi vedi una luce, nello sguardo di Milo. Una luce che significa guai.
«L’aiutiamo noi, signora», dice, l’azzurro oltremare che fa cadere le donne a terra come pere mature – Maman Louise inclusa – che splende sotto le ciglia nere. Me ne devi una, ti dice il suo sguardo.
«Figuriamoci. Tu non sapresti nemmeno da che parte incominciare, ragazzotto», ribatte Maman Louise. «Riporta la scala a quella rompiscatole di Madame Cousteau, fammi il piacere. E tu, fila a lavarti, ché si pranza tra poco.»

 
Da dove cominci a raccontare una crisi?
Dall’inizio, come per tutte le cose. Ma è questo il punto. Trovare l’inizio, il bandolo della proverbiale matassa. E una volta che l’hai trovato, che ci fai con quel pezzo di filo? Tiri? Ma non rischi di stringere ancora di più il groviglio che ti ritrovi tra le mani? E allora, che fai? Lasci perdere? Ma allora quell’accozzaglia di lana azzurra non avrà soluzione.
Quindi, tornando indietro di un passo: da dove cominci a raccontare una crisi?
E che cos’è una crisi, dopo tutto?
Una piegolina, un’increspatura nel mare della vita. Senza, non si può navigare, ché sono le crisi a dare sale alla vita. Ed è buffo, a pensarci, ché quando il nostro orizzonte è una calma piatta ed irreale, ci annoiamo. Vogliamo qualcosa. Delle novità. E allora, le aspettiamo. E allora, le cerchiamo. Perché sono belle, le novità. Danno la scossa ad un’esistenza piatta, allontanano la monotonia con un goccio di brio.
Ma le novità hanno un brutto vizio. Non sempre sono piacevoli.
Oh, certo. Noi ce le immaginiamo così, delle ginevrine da sciogliere in punta di lingua, o delle mentine da rigirarci tra i denti, resistendo all’impulso di mordere l’involucro di zucchero. Ovvio. Mica siamo scemi, no?

No, non lo siamo. Siamo solo stupidi, ché uno scemo, poveretto, non ci arriva, no; lo stupido, invece, sa distinguere cos’è bene e cos’è male, ma ha anche lui un brutto vizio: quello di spegnere il cervello, scollegarsi dalla realtà e viverne un’altra su binari paralleli. Che spesso, però, si trovano a collidere con quelli su cui scivola il mondo. E allora è un attimo, e l’increspatura si trasforma nell’onda perfetta che farà colare a picco te e la tua barchetta senza tante cerimonie, prima di tornare ad essere mare e a luccicare argentea sotto i raggi del sole.
Il bandolo della matassa è stretto tra le tue dita. Non comprendi ancora come usarlo, ma non lo lasci andare. Cosa dovrei farci?, ti chiedi, fissandolo. È quasi sfilacciato, nemmeno fosse stato reciso con un colpo veloce di rasoio. Uno di quelli che usava Rémy per tagliare la corrispondenza. Ma adesso non cincischiare. Bandolo, lui è Etienne, Etienne, lui è Bandolo. Così abbiamo fatto le presentazioni. Ma ancora non sai cosa devi farci, con quel pezzetto di lana azzurra. Né, a dirla tutta, hai ben chiaro cosa devi farne di quel groviglio che Athena insiste a chiamare matassa, e che ti ha messo in mano, sorridendo, prima di riportarti di qua.

Forse dovrei chiedere a lei, pensi, nel canto ossessivo delle cicale. Ma qualcosa ti dice che, fino a quando non avrai le idee chiare sul destino di quel bandolo, neppure Athena potrà aiutarti. E che non avrai tempo ulteriore per traccheggiare, perché la vita è così: noi seguiamo i suoi ritmi, non il contrario. E le dita di Milo stanno tamburellando sul tavolo con una cadenza sempre più ritmata. Tocca a te, dare la stura alla merda che ti sei portato nel cuore. Glielo hai promesso. Tanto tempo fa, durante una giornata infernale che s’è infranta sul Santuario come un’onda di tsunami arrabbiata. E le promesse si onorano. Sempre. Non appena se ne ha la possibilità. E da quanto tempo è, che sei tornato?
Due mesi e mezzo, pensate, tu e lui. E sapete entrambi che fino a quando quel vuoto non sarà colmato – fino a quando tu non colmerai il vuoto che vi divide – non potrete voltare pagina e andare avanti.
Due mesi. Ho perso due mesi, ti dici, specchiandoti nel tuo riflesso distorto, sulla superficie panciuta del decanter. Ti alzi, gli occhi di Milo fissi sulla tua schiena. Afferri una bottiglia di vino. Rosso. Fai saltare via il sigillo, la stappi – e produce un SBOPP sonoro e stizzito – e afferri il decanter e vi versi il vino. Piano piano. Facendolo scivolare lungo il vetro come faceva Rémy, tanti anni prima. Posi decanter e bottiglia, afferri due bicchieri e ti accomodi davanti a Milo.
«Ancora vino?», ti chiede, la testa da una lato.
«Che c’è, hai paura di non reggere?», domandi, un sorriso sornione sulle labbra.
«Io?», e Milo posa entrambi i gomiti sul tavolo.
«Non sono io, quello che si lamenta…»
«E chi si lamenta?», ribatte. «Dico solo che mi hai fatto aspettare anche troppo, non credi? Quando hanno detto che sarebbero rientrate, le donne?»
«Le sei, sei e qualcosa. Quindi torneranno mezz’ora prima. Per vedere se non ci siamo saltati al collo a vicenda e non abbiamo buttato giù il palazzo.»
«Ho promesso a tua sorella che non ti avrei torto un capello», ribatte Milo, mostrandoti i palmi delle mani.
«Ma io no», sibili. Ghignando. E lo sguardo di Milo si allarga. Panico. Ci salteremo davvero al collo? Di nuovo?!, chiedono i suoi occhi. «Ma non preoccuparti. Ci sposteremo altrove, se necessario. Sul balconcino, per le scale che portano al tetto, per strada. N’importe ou. Parleremo fino a farci scoppiare i polmoni, se necessario. Promesso», dici.
«Ok…», ribatte Milo. «Sono tutto orecchie. Dall’inizio. Voglio sentire la tua versione.»
«Ok. Dall’inizio.» Annuisci. Versi il vino. E cominci a raccontare. «Un giorno mi chiamò il Sacerdote…»
 

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Capitolo 14
*** Corte Sconta, Corte Arcana ***


#14 – Corte Sconta, Corte Arcana
Lama III – L'Imperatrice
Personaggi: Saori Kido



 
Venezia è un pesce e il ponte che la collega alla terraferma è la lenza del pescatore. L’ha detto uno scrittore del posto, una volta, ma a sentire i veneziani è piuttosto vero il contrario. Non è Venezia a lasciarsi catturare, ma è lei a prendere all’amo il pescatore. E con lui, la terraferma ed il mondo intero. Ed è un po’ quello che hai provato scendendo dal treno. Un lieve senso di vertigine, come se fossi entrata in un reame di sogno, uno di quelli popolati da maghi, elfi e fate madrine.
Ed è questo, quello che diventa Venezia, quando il sole scorre verso l’entroterra e la luna scintilla argentea sulle acque della laguna. Una succursale del paese delle meraviglie, senza conigli in ritardo, carte da gioco bizzose e melliflui gatti a strisce che ti osservano dall’alto di un ramo, il sorriso come una tagliola che buca l’oscurità della notte.
E a ben cercare, qualcosa si trova sempre, nascosto per i sestieri, tra il frullare delle ali dei colombi e i flash dei turisti. Un angolo ancor più magico, tra le salzade e i sottoporteghi, all’ombra di lenzuola stese ad asciugare, tra le ciacole delle donne che sgranano il rosario con la stessa disinvoltura con cui si separano i fagioli freschi dal loro baccello.
Chi cerca, trova, dice il saggio. Ma non sempre ci capita di trovare quello che vorremmo. Anzi. Piuttosto è vero il contrario. E tu non sai se i tuoi polsi saranno sufficientemente forti, quando si tratterà di voltare l’ultima carta.
 

La corte sonnecchia nella quiete del primo pomeriggio.
Le sedie, addossate al muro di calce rosso mattone, sono spaiate, ma sembrano comodissime alle tue membra stanche. Il bucato spande un delicato profumo di violette, in un gioco di merletti e ombre proiettate sul muro.
Sei arrivata. Ti è bastato chiedere della casa del Maltese, a Castello, ed eccola lì, in un dedalo di rughe e rami a fumare affacciata alla finestra, tra persiane di un verde bottiglia carico, fresche di vernice. Ti sorride, un lampo del colore delle melagrane mature, ma la sua sigaretta non abbandona le labbra.
«Marinaio, abbiamo un’ospite!», dice, senza stornare lo sguardo dalle tue spallucce da uccellino. «Scendi a farla accomodare, prima che ci ripensi e scappi via…»
E a quelle parole, senti le ginocchia tremare. Sono ancora in tempo, ti dici, colta da un irrazionale istinto di sopravvivenza. Eppure, non stai per entrare nelle fauci del lupo. Lei dovrebbe essere dalla tua parte. Ed è quel condizionale a farti tremare le labbra.
Una possibilità, un margine di rischio, è un lusso che non puoi concederti, adesso. Ma quando senti i passi scendere le scale, è troppo tardi per tutto. Quando incontri i suoi occhi – scuri, taglienti, pericolosi, che brillano nella penombra dell’andito assieme al cerchio che gli decora l’orecchio sinistro – le gambe ti diventano di piombo. Puoi andartene, certo. In qualsiasi istante. Sei ancora in tempo. Basta girare sui tacchi e ripercorrere la strada in senso inverso. Non mi correrà certo dietro, giusto?, ti chiedi.
Ma una voce, dentro di te – la voce di Athena – ti chiede se è davvero questo, quello per cui ti sei fatta due ore di volo e altrettante di treno e hai attraversato mezza Venezia a piedi, tra la calca dei turisti ed il frullare delle ali dei colombi.
Arrivare alla sua porta e tornartene indietro come una bambina impaurita? È davvero questo, quello che vuoi?
La senti ridere, come farebbe una madre con una monella capricciosa. E qualcosa, dentro di te, reagisce. Qualcosa, dentro di te, ti impone di dimostrare alla dea quanto coraggio ci sia, in questi polsi di tenera carne e caldo sangue che si stanno colorando sotto il sole italiano. Ma capisci che è tutta una tattica per non farti svicolare oltre. E ci sei cascata in pieno, come il pesce attirato dal luccichio della lenza.
«Buongiorno», ti dice l’uomo.
Camicia bianca, pantaloni in tinta e capelli neri come la notte senza stelle. Voce bassa e suadente, che fa vibrare una corda, dentro di te. Quella del Mi.
«Fatto buon viaggio?», ti chiede, togliendoti di mano la borsa da viaggio. «Da questa parte, prego», e ti senti sospingere da qualcosa di inamovibile e gigantesco, che preme contro la tua schiena con la delicatezza di una piuma e la durezza dell’acciaio. La mano di Athena.

 
Spesso le risposte che cerchiamo sono dentro di noi.
E più spesso ancora, conosciamo le risposte ai quesiti che ci arrovellano l’anima prima ancora di dare loro corpo, sostanza, spessore.
È una questione di istinto, puro e semplice, un’onda che sale dallo stomaco fino in gola, crescendo impetuosa e rapida, come la marea.
Il problema è che non sempre siamo disposti ad ascoltare quello che il nostro sesto senso ci sussurra all’orecchio. Anche se sappiamo che ha ragione.
Lui parla, una voce nel deserto che nessuno vuole ascoltare. Eppure, continua. Stoico. Indefesso. Convinto che, prima o poi, ammaineremo la bandiera della testardaggine ed isseremo quella bianca, arrendendoci a dare retta a quei sussurri incessanti, che battono e levano come il mare contro gli scogli che punteggiano la costa.
È solo dopo, quando abbiamo smesso di remare contro, che si cerca un segno, una controprova. Per esseri sicuri che no, non ci stiamo sbagliando, ché no, non stiamo confondendo lucciole con lanterne, che no, non stiamo vedendo quello che noi ci siamo intestarditi a voler vedere.
E allora, ognuno declina questa necessità secondo il proprio estro. C’è chi parla coi preti, chi scruta il cielo, chi volta le carte disposte sul tavolo. E chi va a trovare una vecchia amica, scovandola tra i vicoli e le case colorate di una città sospesa sull’acqua, ché non è né mare, né terra, ma tutte e due le cose assieme, lì dove l’azzurro e il celeste si danno la mano, sfumando all’orizzonte in una riga di blu.

 
«Io esco, Milou», dice il Maltese, la giacca sulla spalla e il collo della camicia slacciato, affacciandosi dalla porta della piccola cucina.
Lei annuisce, sbaccellando dei fagioli seduta alla finestra.
«Ci vediamo stasera a cena», gli dice, liquidandolo senza alzare gli occhi dal proprio lavoro. «Salutami la Cecca.»
«Riferirò», sorride lui, sardonico, uno scintillio sull’orecchino e cenno del capo come saluto, ed il tintinnio delle chiavi che si perde per le scale, prima, e per la corte, qualche istante dopo.
«Milou?», domandi.
«Marie. Louise. Questo è il mio nome», ti risponde scrollando la cenere dalla sigaretta. «Abbreviato, Milou.»
«Capisco.»
«C’era un po’ di ressa in città, vero?» », dice, nel tintinnare sordo dei braccialetti al suo polso.
«Un po’», replichi, avvicinandoti a lei, il suono dei tuoi passi sul pavimento ad esagoni rossi e neri. Papaveri. Dei giganteschi papaveri che si aprono sotto i tuoi piedi. È un altro segno?, ti chiedi.
Lei annuisce, come riflettendo tra sé e sé, poi ti indica la seggiola accanto alla sua, con un cenno del capo.  
«Dammi una mano, vuoi? In due faremo prima», e, senza nemmeno accorgertene, ti accomodi accanto a lei, prendi un fascio di legumi dalla ciotola di legno e inizi a sbaccellarli, osservando le sue vecchie mani ripetere quel gesto ancora e ancora e ancora, mentre fuori le lenzuola danzano nel vento del primo pomeriggio.

 
C’è chi paragona la lettura dei tarocchi ad una partita a scopa. L’attesa è la stessa. La punta delle dita freme, prima che il polpastrello del pollice volti la carta e sveli la nostra mano. Asso di denari, re di spade, cavallo di bastoni, tre di coppe. Anche loro sono Arcani. Lame Minori, certo. Che aggiustano e puntualizzano e arrotondano alcune questioni che le Lame Maggiori indicano al richiedente. Con una certa dose di intuito, ed uno studio minimo, chiunque può leggere le carte, ché di solito si consultano per questioni banali. Amore, lavoro, studio. Qualche incosciente si azzarda a chiedere lumi sulla salute, invece che consultare un medico. Ma quando sei una dea, pure se il tuo spirito abita in un corpo fatto di carne e sangue, la faccenda cambia. Acquista proporzioni differenti.
Si tratta di un altro campionato, direbbe Seiya, stringendosi nelle spalle. E allora hai bisogno di qualcuno che faccia da mediatore, tra te e Tyche. Per vedere quali e quante probabilità sono dalla tua parte e quante, invece, sono contrarie. Perché nessuno scenderebbe in campo a cuor leggero, come se stesse rincorrendo una farfalla in campo di papaveri e spighe di grano. Potrebbe esserci un pericolo, nascosto sotto quell’erba alta. Un topolino, una lucertola, o qualcosa di ben più sgradevole. Una buca in cui inciampare. Una biscia impaurita. O una vipera, i denti velenosi pronti ad affondare nella carne tenera delle tue caviglie.
Se lo Sconosciuto ti ha parlato, se ti ha mostrato quella via, non l’ha fatto per benevolenza, checché ne dicano lui e il Mare, né per darti una merce di scambio. L’ha fatto per darti un avviso. Sappi che arriverà qualcun altro a reclamare la terra per sé, cara la mia Fanciulla. Questa sola, è la verità, celata sotto ad un velo di merletto di Burano.
Ed è per questo, che Athena è qui, di fronte ad una veggente di colore con il vezzo di fumare Gitanes senza filtro dal bocchino di bachelite in un tintinnio di braccialetti e pendagli portafortuna. Ma Saori? Per quale motivo è arrivata fin qui, Saori? Cosa vuole chiedere, lei, a quelle carte che Maman Louise sta mescolando in attesa che lei le dica di fermarsi?

 
«Accadrà?»
Sai che l’hai offesa, ponendole quella domanda, ché nessuno ha mai chiesto a lei se fosse davvero sicura di ciò che ha visto nelle carte, neppure la dea Athena. Eppure, non sembra darsene pena. Si stringe nelle spalle, poi ti mostra le Lame disposte a croce sul legno sbeccato del tavolo della cucina del Maltese. Le carte ti guardano, impassibili come la Sfinge che sovrasta la Ruota della Fortuna, come a dirti che loro, quello che avevano da dire, l’han detto. Ora, la palla sta a te, per dirla con Seiya.
«Serviamo tutti Athena, in un modo o nell’altro. E abbiamo tutti un ruolo nel grande disegno, mia cara», ti risponde Maman Louise accendendosi l’ennesima sigaretta. Vorresti dirle che troppe le fanno male, ma taci. Lo sa da sé, che qualcosa di poco piacevole si sta scavando un posto, sul fondo dei suoi polmoni. Ma non è questo, l’argomento di cui dovete discutere, adesso.
«Un ruolo nel grande disegno», mormori, abbassando lo sguardo sulle ultime carte che Maman Louise ha estratto dal mazzo. Il Papa. Il Giudizio. L’Appeso. Il Mondo. La Papessa. Il Matto. «Questo lo so.»
«Certo che lo sai. Ma tra sapere, capire ed accettare c’è di mezzo una vita intera. E forse nemmeno basta.» E così dicendo, ti spinge sotto il naso l’ultima carta. L’Imperatrice. Biondi capelli, ali spiegate e sorriso sereno ad incurvarle le labbra.
Un ruolo nel grande disegno. Qual è il mio?, ti domandi, prima che la voce di Athena sussurri alle tue orecchie: «Quello più ingrato, Saori…». E ha ragione lei. Come sempre. Perché il problema non è scendere all’Inferno e rompere a mani nude quella statua maledetta, nossignore. Seiya ti ha dimostrato che è possibile compiere dei miracoli anche quando si abita un corpo di carne e sangue. E la dea della Speranza non può certo arrendersi, quando i suoi Santi sono disposti a rovesciare il cielo e la terra, pur di compiere l’impossibile, per lei. Che esempio darebbe, se si arrendesse ancor prima di combattere?
Il problema è la paura che senti crescerti dentro, come la luna.
E se non volessero più seguirti?
E se ti voltassero le spalle?
Cosa saresti tu, se i tuoi Santi non volessero combattere ancora una volta per te?
Come affronteresti quello che ti aspetta dietro la curva all’orizzonte, e che non ti è dato ancora conoscere?
Avrai ancora Seiya, al tuo fianco. E Shun, e Shiryu e Ikki e Hyoga. E Shaina, e Jabu, e Ichi e. Ma non sono loro, le pedine che vuoi schierare sulla prossima scacchiera, per sbaragliare il nemico. Nossignore. Tu rivuoi la schiera d’Oro, scintillanti nelle loro armature, i mantelli candidi a frapporsi fra te e il prossimo avversario, l’ennesima divinità che si alzerà dal letto col piede sbagliato e penserà che sì, dopotutto la Terra è un grazioso soprammobile da sistemare sulla mensola del camino.
Verseranno ancora sangue e lacrime per te? Soltanto perché tu glielo domanderai sbattendo le ciglia e chiedendo per favore?
, ti risponde Athena, mentre fissi la corona di stelle che ammanta il capo dell’Imperatrice. Perché a chiederglielo sarai tu. Athena.
Ma quanto ti costerà ingoiare quest’ennesimo rospo? Quanto dovranno essere saldi, i tuoi polsi, quando domanderai loro di tornare a vivere, per morire ancora, allettandoli con una moneta di cioccolato che splende più dell’oro nella notte più profonda?
Tanto. Troppo, forse. Ma ognuno di noi ha un ruolo, nel grande disegno che Tyche ha decretato, all’alba dei tempi. Nessuno escluso.
«Ti fermi per cena?», ti chiede Maman Louise, sollevandosi con uno scricchiolio di protesta da parte del legno della sedia.
«Cena?», domandi. Sbattendo le palpebre, confusa.
«Certo. A pancia piena il mondo sembra meno triste, tesoro mio.»
Vorresti protestare che no, non hai fame, che lo stomaco ti si è chiuso e alla sola idea di mettere qualcosa sotto i denti, senti montare un senso di nausea che ti rende proprio impossibile anche solo pensare di cenare assieme a loro e goderti la compagnia di Milou e del Maltese.
«Non vorrei disturbare», vorresti ribattere, declinando l’invito con squisita cortesia. Ma di fronte al sorriso materno di Maman Louise, ti senti dire: «Soltanto se posso darti una mano a cucinare.».
E a pensarci è anche ridicola, come proposta, ché non sai nemmeno preparare un uovo al tegamino, tu. E il Maltese, nonostante sia magro, sembra essere una buona forchetta, almeno a giudicare dalla cantinetta che occupa un lato della piccola cucina dalle tendine spaiate. Eppure, sei seria – serissima – mentre pronunci quella frase. E Maman Louise ti prende in parola.
«D’accordo, allora. Aiutami a togliere di mezzo queste carte, prima», ti dice, ciabattando verso il frigorifero e tirandone fuori un salame ancora da aprire e del formaggio.
Raccogli i Tarocchi, riformando un mazzetto che porgi a Maman Louise, di schiena ad affettare una cipolla rossa.
«Tienilo tu», le senti dire, senza voltarsi. «Potresti averne bisogno, lungo il cammino.»
«E tu?»
«Io ho smesso. Questa era la mia ultima lettura. Da questo momento in poi, sono ufficialmente in pensione, mia cara.» Versa la cipolla in un tegame dai bordi alti, poi versa l’olio ed accende il fuoco. «Quando starai per perdere la speranza, ti basterà voltare la carta, e oplà.»
«Tutto qui?», le chiedi.
«Tutto qui», ti risponde, regalandoti un sorriso stanco.
«La vita è una cosa semplice», aggiunge, con la saggezza di chi ha visto il sole sorgere e tramontare e tornare a splendere ancora. «Adesso, vuoi mettere via quella roba, lavarti le mani e aiutarmi ad apparecchiare la tavola?»
Annuisci, le carte che spariscono nella borsa da viaggio e il profumo della saponetta al muschio che ti avvolge la pelle. Dalla cucina arriva un odore di cipolla soffritta che ti spalanca una voragine, al centro del busto, e che ti fa sembrare meno brutto l’orizzonte su cui andrai ad affacciarti, nell’immediato futuro.
Forse ha ragione Maman Louise. Dopotutto, la vita è una cosa semplice, ti sussurra la voce di Athena.
E ti sembra quasi di sentire le sue mani accarezzarti l’anima, mentre ti asciughi sulla salvietta di lino e raggiungi il donnone in cucina. Il Maltese rincaserà a breve. Meglio sbrigarsi, pensi, stendendo la tovaglia sul legno sbeccato del tavolo, mentre fuori, il rosso e il violetto stanno iniziando a rincorrersi nel cielo di maggio, lì dove l’azzurro e il celeste si danno la mano, sfumando all’orizzonte in una riga di blu.



Note: e infine uscimmo a riveder le stelle!
Si conclude qui questa cavalcata durata più di un anno. Visto che anche io, prima o poi, concludo le storie lasciate in sospeso? Mai dire mai. E adesso, sotto con le note.


Tutta questa raccolta si situa tra Gli Occhi della Madre e Fields of Gold, in cui Athena si reca personalmente all'Inferno per titare fuori i Gold Saint da quella statua pacchiana in cui gli dei dell'Olimpo li hanno rinchiusi.


Venezia è un pesce eccetera eccetera, Tiziano Scarpa, Venezia è un pesce, Feltrinelli, Milano, 2000, edizione aggiornata e riveduta di In gita a Venezia con Tiziano Scarpa, Paravia, Milano, 1998.


La Corte Sconta è il cortile squisitamente veneziano che si apre all'interno dei vicoletti privati (chiamati rami, quelli che portano alle case delle persone). Corte Sconta detta Arcana è una famosissima avventura di Corto Maltese, il cui titolo, modificato, ho usato per questa mia umilissima raccolta. Ogni riferimento a Corto non è puramente casuale. Vi ho avvisato.

Maman Louise fa parte del mio personalissimo headcanon; è il diacono di Francia, uno dei tanti emissari del Santuario che opera nell'Esagono e tiene occhi e orecchie aperte, pronta a riferire. Per arrotondare, leggere le carte a domicilio. L'avete conosciuta nel capitolo precedente, oppure sbirciando il capitolo 12 di Quando Piovono le Stelle.


La playlist che ho realizzato nella stesura di questa storia è la seguente:
Notte di note, Note di notte, Claudio Baglioni, 1985
E ancora la pioggia cadrà, Claudio Baglioni, 1978
I Can’t Decide, The Scissor Sisters, 2006
Starlight, Muse, 2006
Acqua dalla Luna, Claudio Baglioni, 1990
A muso duro, Pierangelo Bertoli, 1979
Crepuscolaria, Otto Ohm, 1998
Estate, Jovanotti, 2013
Aquarela do Brasil, Gal Costa, 1980
La musica che gira intorno, Ivano Fossati, 1983
Octopus’s Garden, The Beatles, 1968
C’è tempo, Ivano Fossati, 2003
One More Time, Daft Punk, 2000
Volta la Carta, Fabrizio de André, 1978


Vorrei ringraziare tutti coloro che si sono affacciati, che hanno letto, commentato, aperto e tirato innanzi, e che non hanno gradito questa mia umile raccolta, ma sono tornati ad affacciarsi per curiosità. Spero vi siate divertiti almeno un quarto di quanto ho amato io mettere assieme queste parole, una dopo l'altra. E se siete arrivati fin qui, vi siete meritati un caffè con tutti i crismi, ché oggi piove che il Cielo la manda giù. Chi mi fa compagnia?

 

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