Oh keep the Cat far hence, that's foe to men

di Milla Chan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** ‘Tis the eye of childhood that fears a painted devil ***
Capitolo 2: *** Sotto l'ali dormono i nidi, come occhi sotto le ciglia ***
Capitolo 3: *** Full many a flower is born to blush unseen ***
Capitolo 4: *** Anthem for Doomed Youth ***
Capitolo 5: *** In girum imus nocte et consumimur igni ***
Capitolo 6: *** Mellitos verborum globulos ***
Capitolo 7: *** My hands are of your colour, but I shame to wear a heart so white ***
Capitolo 8: *** And, though I was a soul in pain, my pain I could not feel ***
Capitolo 9: *** Nuit de juin! Dix-sept ans!– On se laisse griser ***
Capitolo 10: *** I would but find what's there to find, love or deceit ***
Capitolo 11: *** Purpureus veluti cum flos succisus aratro languescit moriens ***
Capitolo 12: *** Ma quel pensiero di te che vivi, mi consola di tutto ***
Capitolo 13: *** Between melting and freezing, the soul’s sap quivers ***
Capitolo 14: *** Sois sage, ô ma Douleur, et tiens-toi plus tranquille ***



Capitolo 1
*** ‘Tis the eye of childhood that fears a painted devil ***


"Mischiati a noi umani, in questo mondo, vivono i ghoul.
I ghoul sono molto simili agli umani. Il loro aspetto fisico e capacità intellettive sono praticamente uguali. Cambia la loro dieta, la loro mentalità e la biologia interiore.
I ghoul possono nutrirsi solo di carne umana. Non possono digerire altri cibi a causa di un particolare enzima che produce il loro corpo. Anche se non possono mangiare i cibi considerati normali, possono bere il caffè e l’acqua.
I ghoul hanno grandi capacità rigenerative e un corpo molto resistente. L’origine della biologia dei ghoul e dei ghoul stessi è attualmente ignota, ma si sa che le
cellule Rc hanno un ruolo importante: i ghoul hanno una Fattore Rc dieci volte più alto di quello umano. Sono in possesso di un organo chiamato kakuhou, da cui fuoriescono le cellule Rc che, solidificandosi, creano il kagune, una protuberanza simile a un muscolo che viene usata come arma. A seconda del tipo di kagune e dal tipo di Rc, può assumere diverse forme.
Un altro tratto distintivo dei ghoul è il 
kakugan, che consiste nella manifestazione temporanea di occhi con le pupille rosse e la sclera nera.
I ghoul sono considerati criminali e non hanno alcun diritto. Per questo, durante la caccia, i ghoul tendono a nascondere il volto.
Per contrastare i ghoul e indagare sui loro omicidi, nel 1890 fu fondata la
CCG, la Commissione per le Contromisure ai Ghoul. Gli investigatori di questa agenzia federale, chiamati “colombe” dai ghoul, combattono con l’uso di quinque, armi create dal kakuhou di un ghoul."
[Fonte]

 
‘Tis the eye of childhood that fears a painted devil

Kenma guardava i quadri sulle pareti bianche del corridoio mentre teneva per mano sua madre, con il gatto che li seguiva a passo svelto. Quella mattina in casa si respirava un’atmosfera agitata, quasi preoccupata. Era il suo primo giorno di scuola.
Kenma era un bambino minuto e timido, e preferiva non muoversi troppo. Era sorprendentemente sensibile, pigro e non molto loquace. Per tutti questi fattori, prendersi cura di lui non era così facile come sarebbe potuto sembrare ad una prima occhiata. Ma Kenma era anche un bambino tranquillo, educato e molto intelligente; inoltre, aveva un sesto senso non indifferente, anche se ancora lo usava per scopi all’apparenza futili, o comunque comuni per un bambino di sei anni, come ad esempio trovare i bocconcini che sua madre nascondeva.
I suoi genitori erano soliti parlare di lui come il loro piccolo gioiello e lo presentavano ai loro amici con il petto pieno di orgoglio.
La sua era una famiglia benestante. Vivevano in un grande appartamento a Tokyo ed entrambi i suoi genitori avevano un ottimo lavoro. Benché fossero una famiglia di ghoul, convivevano tranquillamente tra gli umani. Certo, la maggior parte dei loro amici erano ghoul, e spesso organizzavano insieme cene a casa di uno o dell’altro, o andavano in eleganti ristoranti, ma a causa del lavoro avevano continui contatti con gli umani. Avevano imparato a nascondere in modo eccellente la loro vera natura, e in generale non nutrivano alcun odio eccessivo nei confronti degli uomini.
I suoi genitori avevano discusso a lungo se riservargli un’istruzione privata o farlo andare a scuola con gli altri bambini. Avevano già evitato la scuola materna, in quanto non obbligatoria, ma alla fine erano giunti alla conclusione che, per le elementari, fargli frequentare una scuola pubblica e farlo vivere a così stretto contatto con gli umani già da una così tenera età sarebbe stato ottimale per giungere ad una integrazione pressoché totale. La loro scelta era stata influenzata anche dall’indole naturalmente calma del piccolo Kenma e dalla sua riservatezza.
In molti li avrebbero senz’altro additati come pazzi per aver deciso di lasciare da solo loro figlio di soli sei anni, in mezzo a tanti umani. C’era un alto rischio che le sue abilità si manifestassero, anche involontariamente, che il suo istinto prendesse il sopravvento, e se fosse successo le conseguenze sarebbero state catastrofiche per la loro piccola e pacifica famiglia. Ma i genitori di Kenma conoscevano loro figlio e sapevano che non avrebbero dovuto ascoltare quelle voci pessimiste -realiste?-, sapevano che era quella la via giusta per l’integrazione di loro figlio, per fornirgli una vita tranquilla e sapevano che stavano crescendo loro figlio nel modo giusto.

-Cosa devi fare se ti viene fame prima dell’ora di pranzo?- gli chiese la madre. Era da settimane che gli spiegava come comportarsi nelle varie evenienze e Kenma sapeva a memoria tutte le procedure.
-Prendo un respiro profondo e mangio le mie caramelle.- rispose flebilmente, guardandola dal basso.
-Bravo. Mi raccomando, le tue caramelle. Lo sai bene che il cibo degli umani non va assolutamente mangiato. Il cibo nel tuo bento è tuo e basta, così come quello nel bento degli altri è loro e basta. Anche se ti sembra invitante, non lo devi mangiare.-
Kenma annuì. Non faceva altro che ripeterlo e il bambino aveva iniziato a maturare una lieve preoccupazione all’idea di andare in quel luogo misterioso. Sarebbe stato in mezzo a decine di altri umani, sembrava parecchio pericoloso. Lo vedeva alla televisione quanto erano cattivi, gli umani, quanti ghoul cacciavano e uccidevano solo perché non volevano che vivessero. Anche se li aveva già visti tante volte, e ci aveva parlato spesso perché erano colleghi dei suoi genitori, gli mettevano una certa paura.
Ma questo solo perché era ancora troppo piccolo per capire che invece erano gli umani ad aver paura di quelli come lui.

La scuola era composta da un grande edificio bianco e grigio, e fuori dal cancello, proprio come lui, c’erano tanti altri bambini che salutavano i loro genitori tra gli alberi tinti di rosa. Il brusio di così tante persone lo spaventò un po’, e strinse con la mano la gonna di sua madre. Alzò su di lei gli occhi grandi e lucidi, ma la donna si inginocchiò e gli accarezzò i capelli scuri con gentilezza.
-Andrà tutto bene, solo qualche ora e poi torniamo a casa. Sono sicura che ti farai moltissimi nuovi amici e quando ti verrò a prendere, proprio qui, avrai da raccontarmi tantissime cose belle!-
Kenma non era altrettanto ottimista, ma decise di ingoiare il nodo che gli chiudeva la gola e di sorriderle. Non poteva di certo sbagliarsi. Ricevette un grande bacio sulla guancia e si voltò per seguire la fila che entrava a scuola.
Era la prima volta che stava via da casa tutto solo per così tanto tempo. La scuola non sembrava tanto male: bisognava stare in silenzio e ascoltare, e non era necessario che altri bambini lo toccassero, quindi era più che sopportabile. Qualche problema era iniziato a sorgere quando il maestro lo aveva chiamato per nome e gli aveva chiesto di presentarsi, o quando un paio di bambini gli si erano avvicinati per fare amicizia. Gli umani non sembravano così cattivi, anche se il loro cibo aveva un odore che faceva rivoltare lo stomaco.

Sua madre mantenne la promessa: quando la campanella suonò, uscì dalla scuola e la trovò nel punto esatto in cui era quella mattina. La abbracciò e le raccontò la giornata con le guance leggermente più rosate del solito, nonostante di norma non fosse un amante delle novità e non gradisse in modo particolare passare del tempo lontano da casa e dai suoi genitori. Era felice di vedere quello sguardo orgoglioso e sereno negli occhi di sua mamma.
-Visto che sei stato così bravo, io e papà abbiamo una sorpresa per te.- disse la donna non appena rientrarono a casa, tirando fuori un pacchetto dalla sua borsa.
Gli occhi di Kenma iniziarono a brillare. Prese il regalo tra le mani e iniziò timidamente a scartarlo. Trattenne il respiro quando vide la maschera a forma di muso di gatto. La prese tra le mani e alzò la testa su sua madre con un sorriso che le scaldò il cuore.
-È per me?-
Lei rise.
-Certo che lo è. Così puoi venire con noi al ristorante.-
Kenma pensò che quello fosse appena diventato il giorno più bello della sua vita.

Quello stesso giorno, da qualche parte a Tokyo, due bambini sporchi e incredibilmente magri mangiavano voracemente quel che restava di un cadavere in un vicolo buio.
Generalmente, i bambini orfani non avevano una grande aspettativa di vita. La maggioranza moriva presto. Un’esigua parte veniva raccolta da qualche gruppo dalle intenzioni caritatevoli o per aumentare la cerchia di adepti di qualche banda. A Kuroo e Bokuto era capitato la peggior ipotesi nel migliore scenario. La loro casa era uno scantinato ben nascosto, gestito da un vecchio acido che dava un posto per dormire ad una decina di bambini di varie età. Per quale motivo lo facesse, a nessuno era lecito saperlo con certezza. Alcuni dicevano che fosse troppo vecchio per procacciarsi cibo, o addirittura per compiere più di tre passi, e sfruttava i bambini per riuscire a mangiare.
I bambini passavano la maggior parte delle loro giornate per strada, cercando di individuare qualche preda abbastanza debole per venir abbattuta da una manciata di piccoli ghoul. La loro zona era molto limitata- d’altronde, gli altri ghoul non lasciavano certo che venissero invasi i loro territori di caccia. Cacciare da soli era altamente sconsigliato, quasi proibito da una regola non scritta, o forse dal buonsenso. Erano troppo piccoli, troppo inesperti, troppo deboli e magri per affrontare una battaglia al pieno delle forze. Ma insieme erano come uno sciame di cavallette.
Certo, se si fosse riusciti ad uccidere una persona da soli, o al massimo in coppia, sarebbe stata una bella scorpacciata. Era proprio questo ciò che era successo quel giorno a Kuroo e Bokuto. Avevano trovato un senzatetto addormentato tra i bidoni della spazzatura e Bokuto aveva dovuto mordersi il labbro inferiore per non esultare ad alta voce mentre strattonava il braccio di Kuroo.
Nessuno dei loro compagni poteva nominare uno senza citare anche l’altro. Giravano costantemente assieme dal giorno in cui Bokuto era arrivato, due anni prima. Kuroo invece era lì da sempre, a detta dei bambini più grandi.
Entrambi avevano sette anni. Kuroo era un piccoletto dall’aria furba e sorniona, ma costantemente all’erta; l’altro era molto più emotivo e incredibilmente volubile, spesso impulsivo e in costante bisogno di attenzioni. Kuroo non sapeva cosa gli fosse successo prima di venire lì, ma non doveva essere stato qualcosa di piacevole. Nonostante Bokuto fosse più robusto di lui, Kuroo lo vedeva fragile, in qualche modo che non sapeva spiegarsi razionalmente, e ciò a volte lo rendeva insicuro su come comportarsi. Per la maggior parte del tempo, però, Bokuto era il bambino più simpatico che gli fosse mai capitato di conoscere. Si trovava straordinariamente bene con lui, avevano instaurato una complicità rara e problematica per chiunque si imbattesse in loro due. Non erano egoisti, né tantomeno cattivi, ma non resistevano agli scherzi infantili né all’istinto di autoconservazione. Kuroo era sicuro di avere al suo fianco un fratello, forse perché Bokuto glielo ripeteva spesso con un grande sorriso.

I giorni scorrevano, tutti uguali e tutti diversi . C’era chi si concentrava sul vivere in segreto tra gli umani, e c’era chi lottava per sopravvivere, mai in pace, e questa tipologia era di gran lunga la più numerosa.

A undici anni, Kenma aveva perso gran parte del già debole entusiasmo che aveva accumulato il primo giorno di scuola elementare.
Si piegò di nuovo, seduto sulle ginocchia con una mano sulla pancia e l’altra convulsamente aggrappata al gabinetto in cui vomitava per l’ennesima volta. Tossì e cercò di placare il respiro affannoso. Si appoggiò una mano sulla fronte, stravolto, chiedendosi perché l’avesse fatto, e soprattutto come fosse riuscito a trattenersi fino a quel momento. L’odore del cibo degli umani ne rispecchiava perfettamente il gusto, ora ne aveva la conferma definitiva. Per consolarsi, si disse che mangiare i dolcetti che aveva portato la sua compagna di classe per il compleanno era stata, nonostante l’esito, una mossa efficace per sradicare ogni possibile dubbio sulla sua natura. Passare anni a mangiare solo e unicamente dal proprio bento sarebbe potuto risultare sospetto. Oppure, forse, tutte quelle giustificazioni erano solo patetiche scuse per nascondere il fatto che, sì, nonostante la puzza nauseabonda, quei cosi tremendi avevano dei colori bellissimi ed un aspetto terribilmente invitante e, per un attimo, si era davvero convinto di poterli mangiare. Se ne era pentito al primo morso.
Aveva maturato uno strano sentimento nei confronti degli umani. Non c’era più paura, ma non c’era nessuna rabbia, solo un misto di disgusto e indifferenza. Quella situazione, però, non gli pesava quanto i suoi genitori pensavano che avrebbe dovuto; o almeno così sembrava. Kenma passava gran parte delle sue giornate a giocare ai videogiochi, e quando sua madre gli chiedeva se avesse qualcosa da raccontarle, passandogli la mano tra i capelli scuri, lui la guardava con una sorta di senso di colpa negli occhi. Le voleva bene e non avrebbe voluto deluderla, ma sempre più spesso non poteva fare altrimenti: gli importava il modo in cui gli altri lo vedevano, gli importava cosa pensavano di lui. Gli importava ma non riusciva a trovare la forza di cambiare la situazione.
-Stasera- disse quel pomeriggio suo padre, togliendogli la console di mano con un sorriso -Andiamo tutti e tre in un bel ristorante.-
Kenma lo guardò cupo solo per farsi ridare il suo gioco.
-Uno nuovo?-
-Nuovissimo.-
Si sforzò di mostrarsi interessato, ma la sua espressione risultò essere piuttosto la manifestazione di una noia indignata.

-Kuroo! Bokuto!-
Entrambi alzarono la testa e si guardarono con aria stranita. Quel tono di voce non prometteva nulla di buono, pensarono mentre una ragazzina dai capelli scompigliati, più grande di loro di qualche anno, li raggiungeva e si appoggiava al muro del vicolo con una mano per riprendere fiato.
-Iwaizumi non si trova.- disse preoccupata. -L’abbiamo cercato dappertutto, voi l’avete visto?-
Kuroo alzò le spalle e scosse la testa.
-Ma dai, tornerà tra qualche ora.- commentò Bokuto con un sorriso tranquillo, seduto su un cassonetto. Capitava abbastanza spesso che qualcuno sparisse, ma solo raramente non si riusciva più a trovare, e si perdevano del tutto le sue tracce. Iwaizumi non era uno sprovveduto, né uno stupido.
-È meglio se torniamo tutti a casa, Yuki mi ha detto che ha sentito certe voci sulle colombe. Girano in questa zona per qualche gruppo a quanto pare, ma non si può dire che non incontrino qualcuno di noi.-
Il sorriso di Bokuto si congelò e in un attimo fu in piedi, con gli occhi agitati. Kuroo lo guardò preoccupato e decise di non dire niente. Sperava con tutto se stesso che non stesse per fare ciò che temeva.
-Non se ne parla, io lo cerco.- disse con voce ferma, e con un paio di salti sparì sopra un tetto.
-Bokuto!- lo chiamò Kuroo alzando gli occhi al cielo e seguendolo a ruota sotto lo sguardo terrorizzato della ragazzina.
Lo inseguì per qualche minuto, finché non riuscì ad afferrargli malamente il braccio. Bokuto si girò con un’espressione contratta, come se non avesse capito che lo stava seguendo per fermarlo.
-Non puoi fare certe cazzate, bisogna tornare a casa.-
-Ma Iwaizumi non si trova!-
Kuroo alzò le sopracciglia e allargò le braccia magre, incredulo. -Sei tu che hai detto che sarebbe tornato da solo!-
-Sì, perché fa così praticamente sempre, lo sai com’è. Esplora, esplora, esplora! Ma ci sono le colombe!-
-Se hai paura che possa fare una brutta fine, forse ti sarebbe utile pensare che anche noi abbiamo buone possibilità di finire nei guai se non ci mettiamo al sicuro! È troppo pericoloso, siamo esposti e ci stiamo allontanando dal nostro territorio.-
Kuroo guardò con disapprovazione Bokuto mentre metteva il broncio e saltava sull’altro tetto.
-Lo so che anche tu senti questo odore. Torna qui e…-
Non fece in tempo a finire la frase. Qualcosa esplose accanto a Bokuto, lo vide cadere, ma non riuscì a dire niente perché un attimo dopo anche lui stava precipitando in caduta libera. Cercò inutilmente di aggrapparsi a qualcosa con il suo kagune e interruppe la sua caduta contro il cofano di una macchina, la quale frenò bruscamente, facendolo rotolare sulla strada.

Kenma sgranò gli occhi e si artigliò contro il sedile dell’automobile non appena quell’urto improvviso e violento incrinò il vetro. Suo padre inchiodò e il ragazzino non si rese neanche conto della velocità con cui i suoi genitori scesero dalla macchina, lasciandolo congelato sul sedile posteriore.
Si slacciò la cintura e aprì con incertezza la portiera. Sentiva qualcosa che non aveva mai sentito prima e quello lo spaventava. Fu investito dall’aria frizzante di quella sera di aprile e alzò la testa verso il cielo, socchiudendo gli occhi per cercare di vedere meglio tra le luci artificiali.
Delle figure stavano lottando tra i palazzi, le vedeva saltare, vedeva i loro kagune e i pezzi di cemento che si staccavano e cadevano a terra, vicino ai passanti che urlavano. Il traffico si era fermato, la gente scendeva dai veicoli e cercava di capire cosa stesse succedendo, o provava a scappare.
Kenma guardò i suoi genitori mentre si parlavano concitatamente e raccoglievano da terra il corpo che aveva quasi distrutto il loro parabrezza.
-È morto?- chiese con voce malferma, con gli occhi sbarrati e spaventati, fissi su quel corpo pieno di escoriazioni, sangue e graffi.
Sua madre lo afferrò per il braccio e lo spinse in macchina quasi di peso, la faccia scura, serissima mentre stendeva accanto a lui l’altro ragazzino. Kenma si rannicchiò il più possibile lontano da quel corpo magro e spostò più volte lo sguardo da lui ai suoi genitori, che erano risaliti in macchina in tutta fretta.
-No.- rispose finalmente la madre con un sospiro, aggiustandosi i capelli raccolti in una pettinatura elegante che ormai stava cedendo.
-È un umano?- chiese ancora il ragazzino, accoccolato con i piedi sul sedile, contro la portiera.
-Certo che no, se un umano fosse caduto da quell’altezza sarebbe un pasticcio di carne.-
La donna gli rivolse un sorriso nervoso dallo specchietto retrovisore ma Kenma non riusciva davvero a sorridere, aveva il cuore che quasi gli usciva dal petto.
Suo padre ingranò la marcia e in qualche modo riuscì ad uscire da quell’ingorgo.
-Cambio di programma, niente ristorante stasera.-
-Ma va?- mormorò suo figlio con ironia e un velo di inquietudine. Guardò fuori dal finestrino, dietro di sé, per cercare di vedere ancora quello spettacolo che l’aveva scosso così nel profondo, ma ormai erano troppo lontani e sentiva solo le sirene della polizia. Non gli era mai capitato di vedere dal vivo una cosa del genere. -…Cosa facciamo ora?- continuò, un po’ più calmo, con la mano contro il vetro.
-Torniamo a casa. In silenzio. Senza attirare l’attenzione di nessuno.-
-Abbiamo un ragazzino mezzo morto in macchina.- osservò un po’ perplesso. -Perché l’avete preso?-
Sua madre si voltò e lo guardò duramente. -Perché non potevamo lasciarlo lì, è un bambino, sarebbe stato ucciso da qualcuno.-
Kenma socchiuse la bocca e spostò un po’ il volto, quel tanto che bastava per guardare con la coda dell’occhio il viso leggermente incavato che gli stava così vicino, sdraiato sul sedile. Capiva quella logica e non poteva dar loro torto, ma…
-Quindi ora lo teniamo con noi?-
I suoi genitori si guardarono e Kenma capì che neanche loro erano del tutto sicuri di quello che avrebbero fatto. Avevano agito repentinamente, sotto pressione, e, anche se Kenma non se n’era del tutto reso conto, avevano scampato una situazione incredibilmente pericolosa, tenendo conto che anche loro tre erano ghoul. Bastava che qualcuno si accorgesse del loro odore perché tutto degenerasse.
-Troveremo una soluzione.-

Erano ritornati a casa e Kenma se ne stava seduto sul divano a guardare la televisione mentre sua madre, in bagno, riempiva la vasca di acqua calda. Accanto a lui, sdraiato sul divano, c’era il ragazzino ancora privo di sensi. Kenma vide per caso quel kakugan che lo fissava dal basso. Si alzò in piedi con uno scatto e chiamò sua mamma con un grido. Si sentì afferrare il polso e si ritrovò per terra in una frazione di secondo, la gola chiusa per lo spavento.
-Dov’è Bokuto?- disse il ragazzino con voce roca e i denti stretti.
Il padre di Kenma lo sollevò di peso e lo mise di nuovo sul divano. -Ehi, ehi, tranquillo!-
Il ragazzino lo guardò in cagnesco. -Chi siete?- chiese un po’ più calmo, ma anche più confuso, forse perché aveva iniziato a guardarsi in giro dopo quella reazione istintiva.
-Ti abbiamo salvato la vita, sei caduto da un grattacielo durante una lotta tra ghoul e colombe.-
Kenma si stava guardando il polso che gli era stato afferrato con tanta violenza, ma nel sentire quella parola sollevò la testa con la bocca socchiusa. Era convinto che ci fossero solo ghoul.
Suo padre continuò a spiegargli cosa fosse successo e alla domanda “Come ti chiami?”, finalmente fece sentire nuovamente la sua voce.
-Kuroo Tetsurou.- rispose infatti, poco convinto.
Non sapeva davvero se poteva fidarsi o no, gli sembrava incredibilmente strano che dei ghoul avessero avuto l’istinto di salvarlo. Dove l’avevano portato? Quella era la loro casa? Esistevano ghoul che vivevano in quel modo? Forse avrebbe voluto chiederglielo, ma rimanere in silenzio e all’erta sembrava la soluzione migliore, per il momento.
-Tetsurou.- disse la madre di Kenma, apparendo dalla porta del bagno. -Piacere di conoscerti. Lui è mio marito, Kozume Hiroshi, e io sono Mizuki. E lui…-
Si avvicinò a suo figlio e gli appoggiò una mano sulla schiena. -Lui è il nostro bambino, si chiama Kenma. Tu quanti anni hai?-
Kuroo guardò finalmente l’altro ragazzino. Non sembrava molto in vena di parlare o particolarmente entusiasta di averlo lì.
-Dodici.-
-Magnifico, hai solo un anno in più di lui, sembravi più grande! Sono sicura che diventerete amici.-
Kenma la guardò dal basso, un po’ imbronciato. Non era esattamente tra i suoi piani.
-Vuoi venire con me? Ti ho preparato un bagno caldo. Posso chiamarti Tetsu-chan?-
Questa volta fu Kuroo a guardarla con una forte esitazione.
-Se ti lasci lavare, dopo ti do qualcosa di buono da mangiare.- lo tentò, alzandosi in piedi.
Dopo quella rivelazione, Kuroo prese un respiro profondo e si portò le mani allo stomaco.
Era stanco e ferito. Digiunava da settimane e ciò aveva influito sulle sue capacità di rigenerazione. Non aveva ancora ben capito come fosse finito lì, non era sicuro che  ciò che stava facendo quella famiglia di ghoul fosse del tutto disinteressato, ma non poteva che fidarsi di loro. Avrebbe voluto cercare Bokuto, assicurarsi che stesse bene, ma non sapeva dove fosse né da dove iniziare a cercarlo, non sapeva chi avrebbe incontrato nel tentativo di tornare a casa, né se ci fosse arrivato vivo. Quel luogo sembrava piuttosto sicuro e infinitamente più confortevole e pulito dello scantinato in cui aveva sempre vissuto, quindi decise di mettere da parte tutta la sua diffidenza almeno finché non si sarebbe ripreso e seguì Mizuki a passi incerti e un po’ imbarazzati, sotto lo sguardo inespressivo del ragazzino più piccolo.

Kenma guardò con malinconia i peluche che ricoprivano il pavimento della sua cameretta. I suoi genitori gli avevano preso un letto a castello anni prima, forse nella speranza che un giorno avrebbe invitato un amico a dormire da loro. Non era mai successo e il letto superiore si era progressivamente riempito di pupazzi di animali di ogni dimensione. Kenma aveva infatti preferito di gran lunga dormire in basso: si sentiva come se fosse protetto dall’impalcatura del letto e dalle doghe di legno che sostenevano il materasso sopra la sua testa.
Quella sera, il letto in alto fu sgombrato per dare a Kuroo in posto in cui dormire.
Kenma era già sotto le coperte e, avvolto nel buio della camera, cercò di chiudere gli occhi per prendere sonno, nonostante non fosse così facile rilassarsi con uno sconosciuto che dormiva sopra di lui. Socchiuse le palpebre con un sospiro e si tirò a sedere.
Kuroo non era mai stato sdraiato su qualcosa di così morbido e soffice, talmente pulito da profumare di fiori. Anche lui stesso era pulito. E a stomaco pieno. Avrebbe potuto scivolare in un sonno profondo e ristoratore, eppure, per qualche motivo, era un fascio di nervi. Si mordeva il labbro con insistenza e quando si rigirò per l’ennesima volta tra le lenzuola, vide una figura che lo guardava nei buio.
Sobbalzò e si tirò a sedere, ma vide la testa di Kenma abbassarsi e le mani aggrappate al bordo del letto ritirarsi con uno scatto. Forse Kenma si era spaventato più di lui.
Kuroo allungò il collo per ispezionare. Quel ragazzino lo guardava ancora, assonnato ma incuriosito.
-Chi è Bokuto?- chiese poi, aggrappandosi di nuovo al bordo di legno con una mano. Kuroo gli lanciò uno sguardo interrogativo e stupito, per poi ricordarsi che era stata la prima cosa che aveva menzionato non appena aveva ripreso i sensi.
-Il mio migliore amico.- rispose. -Anche lui è stato colpito ed è caduto, spero che stia bene.-
Kenma assunse un’espressione pensosa e un attimo dopo, con un piccolo salto, raggiunse l’altro sul letto. Si sedette ad una certa distanza da lui e incrociò le gambe. Si sentiva come se stesse approcciando un animale selvatico, ma l’interesse vinceva sull’ansia.
-Mi dispiace. Sono sicuro che i miei genitori ti aiuteranno a cercarlo non appena sarà passato il pericolo delle colombe.-
Kuroo fece una smorfia e si portò le ginocchia al petto.-Perché i tuoi genitori sono così gentili?-
-Non lo so, a volte me lo chiedo anche io. Dove sono i tuoi? Probabilmente saranno preoccupati per te.-
-No, non li ho mai conosciuti. Sono abbastanza sicuro che siano morti quando ero piccolo, a dir la verità.-
Kenma chiuse la bocca e si chiese se per caso avesse toccato un argomento che non avrebbe dovuto toccare. Non sembrava essere molto a disagio, però, quindi si schiarì un attimo la voce e continuò timidamente a parlare.
-Mi dispiace. Vivi da solo allora?-
-Con altri ragazzi. C’è un vecchiaccio che in teoria si prende cura di noi, ma in pratica siamo noi a prenderci cura di lui.- raccontò stendendosi di nuovo, con le braccia incrociate dietro la testa. -Perlopiù giriamo nei vicoli tutto il giorno, dormiamo in uno scantinato. È un po’ scomodo e umido, ma almeno non ci piove in testa. Invece voi vivete tra gli umani, quindi?-
-Già.-
-Dev’essere dura.-
-Io credo che sia molto più dura vivere per strada come fai tu.-
Kuroo ridacchiò e Kenma sentì un piccolo moto di felicità per essere riuscito a farlo muovere in quel modo nuovo.
-Non me la passerò benissimo, non avrò una bella casa, ma almeno non devo sempre nascondere la mia natura.-
Kenma sembrò leggermente indispettito da quel commento. -Forse è questione di abitudine.- 

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Note e chiarimenti

Il titolo della storia è un riferimento a The Waste Land di T.S. Eliot, il quale scrive "Oh keep the Dog far hence, that's foe to men", verso a sua volta ripreso dalla tragedia The White Devil di John Webster, che nell'Atto V fa pronunciare a Cornelia queste parole: "But keep the wolf far thence, that's foe to man". Come Eliot, ho voluto cambiare l'animale in questione: l'ho fatto per adattarlo al protagonista della storia, in modo da sottolineare l'ostilità tra i ghoul (rappresentati da Kenma, il gatto, che nel titolo assume quindi un valore paradigmatico) e gli uomini.
Il titolo del capitolo è una citazione di Lady Macbeth da Macbeth di Shakespeare, Atto II: solo i bambini temono un pericolo fasullo, e allo stesso modo il piccolo Kenma teme gli umani più di quanto dovrebbe.
All'inizio ho inserito una piccola introduzione per permettere a chi non segue Tokyo Ghoul di immergersi nell'ambiente e per rinfrescare la memoria a chi invece lo segue. Spero che sia utile, e spero anche che questa storia vi piaccia, perché ci sto mettendo davvero tutto il mio cuore: per favore, fatemi sapere cosa ne pensate. Ve ne sarei davvero molto grata!

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Capitolo 2
*** Sotto l'ali dormono i nidi, come occhi sotto le ciglia ***


Sotto l’ali dormono i nidi, come occhi sotto le ciglia

Kuroo spalancò gli occhi quando sentì qualcosa muoversi sotto di lui.
-Cosa fai?- chiese sporgendosi giù e vedendo che Kenma non era più in pigiama.
-Vado a scuola.- rispose con calma mentre prendeva lo zainetto.
Sgranò gli occhi e balzò giù dal letto per seguirlo fino all’entrata. -Con gli umani?-
Mizuki aprì la porta e rivolse a Kuroo un grande sorriso. -Hiroshi è andato via un’oretta fa per andare a lavoro e io torno tra una ventina di minuti, ti affido casa!-
Kuroo inclinò la testa di lato e aggrottò le sopracciglia. -Ti fidi?- mormorò, sinceramente sorpreso.
La risata cristallina di Mizuki gli entrò nel cuore e Kuroo agitò appena la mano in aria per rispondere al silenzioso saluto di Kenma.
La porta si chiuse ed ebbe un momento di panico nel rendersi conto che era rimasto solo in quella casa. Nonostante il risveglio brusco, o forse proprio per quello, si sentiva pieno di adrenalina ed energia. Doveva tornare a casa e trovare Bokuto e tutti i suoi compagni. Stava già cercando di aprire la finestra della camera da letto di Kenma quando qualcosa lo bloccò.
Dopotutto, nessuno lo stava obbligando a restare, non era logico scappare in quel modo. Si sarebbe sentito vagamente in colpa ad andarsene così: avrebbe potuto aspettare che Mizuki, Hiroshi e Kenma tornassero e ringraziarli per tutto quello che aveva fatto prima di andare via. Sembrava essere il piano migliore, quindi decise di stendersi di nuovo su quel letto incredibilmente morbido e di aspettare. Sentì uno zampettio leggero e un attimo dopo un gatto saltò accanto a lui. Si sedette in tutta calma e lo guardò con sufficienza mentre si inumidiva una zampa.
Kuroo alzò le sopracciglia sorpreso e si girò su un lato. Avevano un gatto? Anche lui, a giudicare dalla stazza, sembrava passarsela piuttosto bene.
Allungò una mano e appoggiò le nocche contro la sua testolina, contento che non sembrasse infastidito e non avesse intenzione di soffiare o graffiarlo. Accarezzò il pelo morbido e chiuse gli occhi quando iniziò a sentire le sue fusa.
 
Kenma era piuttosto felice di non sentire il bisogno di raccontare a tutti ciò che gli era successo la sera precedente. A scuola non si parlava d’altro, tutti erano pieni di paura ma anche eccitazione, perché era stato catturato un grandissimo numero di ghoul, la maggior parte di essi ricercati, nomi conosciuti, a capo di gruppi tanto celebri quanto pericolosi. Si diceva che fosse stato inferto un duro colpo alle fondamenta di quella società -una comunità di mostri mangia uomini, niente di più, niente di meno, e Kenma si era sentito profondamente offeso da quelle parole.
-Riusciremo a farli estinguere, prima o poi!- diceva qualcuno durante la pausa, con gli occhi che brillavano di speranza. - Non riesco a credere che esistano creature del genere e che vivano in mezzo a noi, l’idea mi terrorizza!-
-Ci vorrebbero controlli rigidissimi, a mio parere!-
Kenma non si era mai sentito così tanto a disagio in vita sua. Sentiva le mani gelide e le dita tremare e voleva soltanto tornare a casa, o trovare un modo per non ascoltare nessuno. Ma ogni volta che qualcuno apriva bocca, non passavano molti secondi prima che iniziasse a parlare di quell’argomento.
Molte volte quasi non si ricordava di essere un ghoul in mezzo a centinaia di umani, ma giorni come quelli glielo facevano ricordare in modo spregevole, come se lo stessero sbattendo contro un muro.
Uscì da scuola dopo quella che sembrava un’eternità. Era sollevato di non dover avere più a che fare con nessun umano, quel giorno: ne aveva avuto abbastanza e la sua testa era piena delle loro parole.
-Oh, abbiamo la divisa della stessa scuola!- esclamò ad un certo punto una voce alle sue spalle, mentre camminava verso la fermata della metropolitana
Kenma chiuse gli occhi e prese un profondo respiro per mantenere la calma. Si voltò e fu colpito dall’intenso color rame di una testolina scombinata.
-Piacere, io sono Hinata Shouyou, sono al quinto anno!- continuò con un veloce inchino e un grande sorriso.
-Kozume Kenma.- rispose l’altro, con molto meno trasporto. -Sesto anno.-
-Ooh, sei all’ultimo, che bello!-
Kenma stirò appena le labbra e tornò a scendere le scale.
-Vivo a Tokyo solo da qualche giorno, dove abitavo io andavo a scuola in bicicletta.-
-Bello.-
Arrivarono alla banchina giusto in tempo: il treno era appena arrivato e Kenma si affrettò a salire, seguito a ruota da Hinata.
Avrebbe preferito che smettesse di parlare, ma era evidente che non fosse nelle sue intenzioni. Raccontò della sua famiglia, di sua sorella, di com’era la sua vecchia casa, di com’era la sua nuova casa; Kenma aveva ascoltato tutto con insolita curiosità, nonostante l’iniziale diffidenza. Forse era il suo tono di voce, forse la luce che sembrava emanare e lo attirava naturalmente. Poi, ecco, l’argomento che sperava non arrivasse mai.
-Hai sentito cosa è successo ieri sera? Lo sai che io ero lì?-
Kenma lo guardò fulmineo con la coda dell’occhio.
-Anche io.- disse, come se non ci fosse niente di speciale. Si pentì immediatamente delle sue parole.
La bocca di Hinata si aprì per la sorpresa e sgranò gli occhi, incredulo.
-Davvero!? E dimmi, li hai visti quelli che combattevano sul tetto, eh? Li hai visti anche tu?-
Kenma si aggiustò i capelli dietro l’orecchio con un gesto nervoso e corrucciò le sopracciglia. -No, sono andato via subito. Non ho visto niente.-
-Beh, è comprensibile, era molto pericoloso restare! Anche io sono scappato via.- commentò Hinata, annuendo con veemenza.
-Com’è essere all’ultimo anno?-
Kenma aggrottò ancora di più le sopracciglia, confuso da quel repentino cambio di argomento. Davvero si era concluso lì? Non aveva odio da spalare su di loro? L’aveva colto di sorpresa, e ci mise qualche attimo in più per elaborare una risposta.
-Credo… normale. Non lo so, la scuola è appena iniziata.- azzardò. Non ci aveva mai pensato, e sinceramente non sapeva dove volesse andare a parare. Sospettava che stesse aspettando il momento giusto per dire qualcosa, invece Hinata continuò a parlare per tutto il viaggio, finché Kenma non dovette scendere. Lo salutò agitando la mano. Dopo quell’esperienza, Kenma si ritrovò a camminare verso casa spaesato, ma anche inaspettatamente sollevato e sereno. Hinata sembrava essere la prima persona simpatica che incontrava in vita sua.
 
-Kuroo?-
La voce delicata di Kenma lo fece lentamente riemergere dal torpore. Emise un verso basso e si girò verso di lui. Si era addormentato? Come? Dannati materassi troppo comodi.
-Dormi da un sacco di tempo, temevo fossi morto.-
Kuroo sbatté le palpebre un paio di volte. -Che ore sono?-
-Le cinque e mezza.-
Si alzò così velocemente che Kenma indietreggiò e rischiò di inciampare tra i peluche.
-Di pomeriggio? Perché nessuno mi ha svegliato?-
Kenma alzò le spalle. -Mamma mi ha scritto un messaggio dicendomi che dopo avermi portato a scuola è tornata a casa e ha visto che dormivi, allora ti ha lasciato dormire ed è andata a lavoro. Io sono tornato adesso e mi sembrava strano che fossi ancora addormentato. Ti ha chiamato “Tetsu-chan” e ci ho messo un attimo a capire che parlava di te.-
Kuroo lo guardò agitato, e parecchio imbarazzato per il nomignolo, ma decise di glissare. -Sei tornato adesso? Ma quanto dura la scuola?-
-Un po’…-
-Dev’essere palloso.- commentò aprendo la finestra sotto lo sguardo confuso di Kenma.
-Cosa fai?- chiese, vagamente allarmato nel vederlo salire in piedi sul davanzale.
-Ascolta.- disse con un sospiro. -Ho già perso un sacco di tempo, molto più di quanto avrei voluto. Grazie mille per la vostra ospitalità. Siete stati davvero gentili, ma ora devo cercare la mia famiglia.-
Kuroo stava per saltare quando Kenma gli afferrò il bordo della felpa e lo guardò come se fosse pazzo.
-Ti vuoi buttare da qui? Siamo al terzo piano, esiste una porta!-
-Ho saltato da più in alto.- rispose con un sorriso storto che per qualche motivo lasciò un attimo Kenma senza parole.
-L’ultima volta non è andata molto bene.-
Kuroo si accovacciò per riuscire a guardarlo in faccia e sporse leggermente il labbro inferiore. -L’ultima volta non sono saltato, sono caduto.-
-Comunque ripeto, c’è la porta, non capisco perché dovresti…-
-Da qui è più divertente!- lo interruppe Kuroo, come se fosse una cosa ovvia, e gli afferrò l’avambraccio per tirarlo verso di sé. Kenma strabuzzò gli occhi vedendo il vuoto sotto di sé. -Ti va di venire con me? Posso farti conoscere Bokuto e gli altri, e poi ti riportiamo qui.-
-No, io… Non penso che mia mamma mi lascerebbe.- mormorò flebilmente, il cuore che batteva all’impazzata. -E poi non l’ho mai fatto, sembra piuttosto pericoloso.-
Kuroo lo guardò sconcertato e un po’ incredulo. -…Kenma, è ovvio che tu ci riesca.-
Allungò un braccio per indicare un lampione qualche metro sotto di loro e chiuse un occhio, come se stesse prendendo la mira. -Ora saltiamo lì sopra. Questa è una via secondaria, quindi non c’è il rischio che qualcuno di veda, non preoccuparti. Attento a non farti male alle gambe però.-
Il più piccolo si aggrappò al muro, ma inutilmente, perché un attimo dopo Kuroo l’aveva afferrato saldamente per la vita ed era saltato nel vuoto senza preavviso, portandoselo dietro.
Kenma era sicuro di aver sentito l’anima uscirgli dal corpo in quel secondo in cui volò nel vuoto. La voce l’aveva completamente abbandonato, non riuscì proprio ad urlare. Ricominciò a respirare solo quando Kuroo atterrò sul lampione con un rumore metallico, e si accorse di stargli piantando le unghie nelle spalle.
Prima lo guardò come se fosse appena stato rapito da un pazzo, ipotesi che tra l’altro non si sentiva neanche di escludere del tutto, poi spostò lo sguardo verso l’alto per vedere la finestra aperta di camera sua. Era stato strano, l’aveva visto fare solo nei film, ma sembrava… abbastanza divertente.
-Kenma, forse ho capito perché sembri così smorto.- disse Kuroo ridendo e cercando di afferrarlo meglio, perché stava iniziando a scivolargli dalle braccia.
Kenma si sentiva come se stesse per esplodere, una sensazione prepotente, ma esternata solo dalla fronte leggermente corrugata.
-Davvero non hai mai fatto niente del genere? Mai mai mai?-
Kenma scrollò la testa con fare nervoso e si aggiustò i capelli leggermente troppo lunghi dietro l’orecchio.
-Ho capito come farti passare il pomeriggio allora.- rispose Kuroo saltando verso un condominio relativamente basso. Voltò il viso verso di lui per quell’attimo in cui si trovarono per aria e fu piacevolmente stupito di vedere i suoi occhi spalancati e attenti.
 
Ci andò quasi un’ora perché Kuroo trovasse la sua casa. Si guardava intorno e più sentiva di avvicinarsi, più una leggera ansia gli stringeva lo stomaco. Avevano iniziato a camminare per strada, tra gli umani, sperando di confondersi e di non incontrare altri ghoul. Kenma si stava rendendo conto di quanto fosse pericoloso girare per Tokyo da soli nella loro condizione e stava sinceramente rimpiangendo di averlo seguito.
-Ci siamo quasi!- disse Kuroo con un ampio sorriso. Svoltò in un viottolo secondario, poi in un altro, e un altro ancora, ma il passo accelerato e l’entusiasmo andarono scemando. Kenma lo seguiva e aveva come l’impressione di star capendo quello che gli passava nella testa. Non percepiva la presenza di nessuno.
Arrivarono davanti a una porta di metallo arrugginito. Kuroo vide che era socchiusa e il suo sorriso si spense definitivamente. Sentì il cuore stringersi in una morsa mentre appoggiava su di essa il palmo della mano e spingeva per aprirla.
-Aspetta qui.- mormorò con la gola secca.
Mosse un paio di passi nella stanza buia e distolse velocemente lo sguardo dalle macchie di sangue che ricoprivano il pavimento di cemento, fingendo di non vederle. Corse ad aprire un’altra porta e scese velocemente le scale, implorando che ci fosse qualcuno, chiunque, anche solo il vecchio.
I suoi passi rimbombarono nello scantinato vuoto. Guardò le coperte buttate alla rinfusa per terra e le crepe sui muri insanguinati. Una ventola dell’impianto di aerazione girava incessantemente. Il vecchio c’era. Morto. Anche altri, ma non ebbe il coraggio di guardarli in faccia.
Appoggiò una spalla contro il muro e strinse i denti, la vista offuscata dalle lacrime.
 
Kenma indietreggiò di un paio di passi quando lo sentì tornare. Gli passò davanti a testa bassa, ma riuscì a vedere i suoi occhi arrossati.
-Bokuto dev’essere qui da qualche parte.- mormorò Kuroo dopo qualche attimo di esitazione. Kenma provò a non dar peso a quella voce flebile e spezzata mentre cercava di stare dietro al suo passo svelto. Lo seguì in silenzio, comprensivo della sua angoscia, finché non si ritrovarono nell’esatto punto in cui Kuroo era caduto, la sera prima.
-Dev’essere scappato.-, diceva Kuroo, guardandosi attorno, gli occhi bene aperti, tanto che Kenma non sapeva se fosse per il panico o perché voleva essere più attento che poteva. Camminarono in tondo per minuti lunghissimi, ma c’erano solo cassonetti accartocciati, polizia che isolava la zona, un sacco di persone impegnate a ripulire le strade dalle macerie, e sangue che ormai era diventato marrone.
-Dev’essere andato da qualche altra parte.-
-Da chi?-
Kenma si pentì quasi subito di aver posto quella domanda. Kuroo aprì e chiuse la bocca più volte, le braccia che cercavano di indicare una direzione. Non avrebbe voluto vedere la speranza spegnersi in quel modo, gli occhi svuotarsi e farsi lucidi mentre alzava lo sguardo sul maxischermo di un palazzo lì vicino, su cui stavano passando le immagini della notte precedente, e di tutta la devastazione. Sembrava tutto molto più reale. Kenma riuscì a leggere velocemente un titolo che diceva qualcosa riguardo a una carneficina, e non vedeva l’ora di poter tornare a casa per sentire di più riguardo alla notizia: non doveva essere stato un attacco comune.
-Mi dispiace.- mormorò Kenma, sinceramente addolorato, fissando la sua schiena.
Kuroo non mosse un muscolo mentre Kenma gli si avvicinava e gli appoggiava incerto una mano sulla spalla.
-Puoi… tornare a casa con noi.- aggiunse, dopo un tempo che parve infinito.
L’altro annuì e si sfregò gli occhi con i polsini della felpa. Si incamminarono con lentezza verso la metropolitana, e Kenma quasi sobbalzò quando sentì le dita di Kuroo stringersi attorno al suo palmo. Alzò gli occhi per guardarlo in faccia, ma non riuscì a incrociare i suoi occhi, fissi sull’asfalto sotto i loro piedi. Non riuscì a dire niente e continuò a camminare.

Mizuki si diresse a passo di carica verso la porta non appena la sentì aprirsi.
-Dove siete…- iniziò irosa, per poi fermarsi e rimanere senza parole per una manciata di secondi. La sua espressione si addolcì e riuscì a finire la frase. -…stati?-
Kenma abbassò il capo con aria colpevole e lasciò che Kuroo slacciasse finalmente le loro mani per dirigersi silenziosamente nella cameretta.
Mizuki guardò Kenma portandosi le mani sui fianchi. Era visibilmente confusa ed era chiaro che esigesse delle risposte.
-Non c’è più nessuno.- disse Kenma a bassa voce, e la madre capì.
 
Raramente Kenma aveva sentito i suoi genitori parlare in modo così fitto, così concentrato, seduti al tavolo della cucina con una tazza di caffè davanti a loro. Origliava da dietro il muro, ma dentro di sé credeva di sapere già quale sarebbe stato l’esito.
Non potevano fare altro che tenerlo, come se fosse un cucciolo trovato per strada. Con che coraggio lo si abbandona di nuovo? Lo si dà in adozione a qualcuno, magari?
Kenma aveva ragione: non era stato uno scontro come tanti. Tutti i telegiornali parlavano di quell’episodio come la “Notte di Sangue”. Era stato un attacco su larga scala da parte degli agenti della CCG, si era creato il panico e moltissimi ghoul avevano approfittato della confusione generale per attaccare altri ghoul, bande rivali, roccaforti scomode. Era stata una reazione a catena, un vero e proprio campo di battaglia. Colombe, ghoul, civili: il numero dei morti lo aveva fatto rabbrividire e Kuroo aveva ascoltato la televisione completamente rapito. Aveva sgranato gli occhi sentendo come era stata rinominata la notte e Kenma intuì che non sapesse leggere, visto che era scritto nei titoli, ed era apparso anche quel pomeriggio sul maxischermo.
Smise di perdersi tra i suoi pensieri quando il suo gatto si fermò davanti a lui ed emise un debole miagolio per reclamare la sua attenzione.
-Niku, non ora.- lo richiamò sottovoce con un indice davanti alla bocca, prima di sollevarlo da terra, nonostante fosse un po’ sovrappeso. Accarezzò lentamente il pelo bianco e grigio e tornò ad ascoltare i suoi genitori, ma non passarono trenta secondi che Niku miagolò di nuovo. Ciò costrinse Kenma ad allontanarsi dalla sua postazione con grande disappunto.
Entrò nella sua stanza e lasciò il gatto sul suo letto. -Hai già mangiato, Niku, basta miagolare.- gli ricordò con fare serio prima di sedersi accanto all’animale.
-Si chiama Niku, eh?- disse la voce divertita di Kuroo.
Kenma alzò la testa sulle doghe sopra di sé. -Sì, rispecchia bene i gusti di tutta la famiglia.-
Ascoltò la sua risata fiacca con le orecchie tese, per cercare di recepire ogni minimo movimento.
-Stamattina si è lasciato accarezzare nonostante non l’avessi mai visto. Siete tutti così buoni in questa casa.-
C’era qualcosa di strano in quella affermazione, ma Kenma non riuscì a capire se quella sbavatura nell’intonazione fosse dispiacere o paura.
-Credo che i miei siano indecisi sul da farsi perché non sanno se tu vuoi restare qui o no.-
I capelli neri di Kuroo sbucarono dall’alto, e poco dopo anche i suoi occhi e il suo naso. -Davvero credi che sia così?-
Kenma annuì, continuando ad accarezzare il gatto spalmato sulla coperta.
-Non avrei motivi per rifiutare, anzi, a dir la verità, non saprei davvero come sdebitarmi.-
Kenma non vedeva la bocca di Kuroo, ma era sicuro che si fosse appena increspata in una smorfia, a giudicare dalle rughe che gli apparvero sulla fronte.
-Non ho nessun posto in cui andare.-
Kenma smise di coccolare Niku e questi alzò con pigrizia la testa per capire cosa avesse interrotto la sua sessione di massaggi.
-Credo che dovresti dire queste cose a loro.-
Il ragazzino fissò Kuroo dritto degli occhi e non poteva neanche lontanamente immaginare quanto la sua vita sarebbe cambiata dopo quel suggerimento spassionato.

Kuroo non aveva guadagnato solo un tetto sopra le testa e un letto in cui dormire. Hiroshi e Mizuki si impegnavano al massimo per farlo sentire parte della loro famiglia. Era passato da ospite a membro effettivo del nucleo: non solo avevano cercato di farlo sentire a proprio agio in quella casa, ma gli insegnavano tutto il possibile, lo riprendevano quando sbagliava, lo lodavano quando faceva il suo dovere. Erano giusti ed equi, con lui così come con Kenma, tanto che a volte si sentiva come se fosse loro figlio.
Kuroo faceva spesso incubi. Molti, e chiamava sempre Bokuto, con borbottii sommessi e agitati. Kenma a volte lo sentiva soffocare i singhiozzi contro il cuscino e provava una sorta di senso di colpa che non riusciva a individuare chiaramente. Non lo disse mai né a lui né ai suoi genitori, e fu come se, nello stare in silenzio, lasciasse a Kuroo il suo spazio privato.
All’inizio era stato molto difficile tenerlo fermo: Kuroo non poteva entrare e uscire di casa come voleva ed era evidente quanto soffrisse per ciò, abituato com’era a passare le giornate in strada. A volte spariva per qualche ora, e puntualmente al suo ritorno lo aspettava un’accorata ramanzina. Kenma lo sapeva che cercava Bokuto. Aveva paura che qualche giorno non sarebbe più tornato, ma non poteva dirgli di smetterla, perché avrebbe avuto lo stesso significato di dirgli di abbandonare ogni speranza, e non voleva che succedesse, anche se dentro di sé credeva che non lo avrebbe mai incontrato davvero, quel famoso Bokuto, e avrebbe continuato a vivere soltanto nei racconti del suo amico.
A Kuroo ci era voluto tempo per capire che, uscendo di casa senza dire nulla a nessuno e nei momenti più disparati, creava possibili minacce non solo per se stesso, ma anche per l’intera famiglia: voleva trovare Bokuto a tutti i costi, ma non poteva mettere a rischio tutto quello che gli avevano offerto, anche se era doloroso farsene una ragione.
Non volevano attirare troppa attenzione o destare curiosità, e l’improvvisa apparizione di un ragazzino che entrava e usciva così spesso dall’appartamento non era proprio il modo migliore per tenere un profilo basso. Hiroshi e Mizuki non capivano quanto fosse profondo quel disagio: era chiaro che non fosse abituato a stare in casa tutto il giorno, si annoiava, si agitava e di certo non gli faceva bene, perciò decisero che ogni giorno dopo cena avrebbero fatto una bella passeggiata tutti e quattro insieme. Kuroo aveva apprezzato quel gesto premuroso e si godeva quella mezz’oretta come meglio poteva. Kenma invece non era stato particolarmente entusiasta di quella nuova abitudine e spesso diceva di non stare molto bene o fingeva di essersi già addormentato per poter stare a casa e giocare ancora un po’ ai videogiochi. Quando poi tornavano a casa, Kuroo gli tirava amichevolmente i capelli. “Lo so che fai finta” gli sussurrava con una vaghissima nota di dispiacere, mentre saliva nel suo letto.
Kuroo aveva sviluppato un naturale affetto nei confronti di Kenma, non solo perché ormai era l’unico ragazzo della sua età con cui aveva dei contatti, ma anche perché sapeva che lui lo sentiva davvero, quanto fosse inquieto, e sapeva che se si svegliava a notte fonda con il cuore in gola, magari con un piccolo grido, anche Kenma si svegliava e restava con le orecchie tese finché non era sicuro che si fosse riaddormentato.
Anche se a volte si comportava in modo strano, non era male stare in sua compagnia, anzi, spesso riusciva a trovarlo piacevole. Era un ragazzino tranquillo ma perspicace; all’inizio i suoi soventi silenzi lo avevano esasperato, ma era riuscito a capire che aveva le sue ragioni che un giorno, forse, avrebbe compreso appieno.

Kuroo aveva anche cercato di capire più a fondo le dinamiche del loro stile di vita, soprattutto come facessero a convivere a contatto così stretto con gli umani. Non aveva mai pensato a loro come qualcos’altro oltre che cibo, e sapeva che per la maggior parte dei ghoul era così. Provava disprezzo e ripugnanza nei loro confronti, nei confronti della CCG e del loro sistema che si ostinava a raffigurarli come bestie senza sentimenti. Forse alcuni lo erano, e di certo erano i più spietati e pericolosi, ma anche tra gli uomini era sicuro che si nascondessero persone del genere. Kenma aveva ascoltato il suo punto di vista con interesse, con le ginocchia strette al petto, e non aveva espresso il suo finché Kuroo non gliel’aveva esplicitamente chiesto. Era rimasto piuttosto sorpreso nel sentirsi dire che non aveva una vera e propria opinione in merito ed era perlopiù indifferente nei confronti degli umani, e che quando era più piccolo il sentimento predominante era la paura. Kuroo aveva pensato che per Kenma fosse così perché non aveva mai patito la fame. Ecco, quella era un’altra cosa strana, ma di certo non in negativo: non arrivava più a livelli di fame in cui credeva che avrebbe perso il controllo del suo corpo. Il cibo in casa c’era sempre, nel congelatore. A volte se lo procuravano con le loro mani, a volte lo portavano a casa da chissà dove. Kuroo pensava che lo comprassero, e non aveva la minima idea che ci fosse un business per la carne umana.
I ghoul non mangiano con la stessa frequenza degli umani. Un buon pasto poteva bastare per un paio di settimane, e mangiare due o tre volte alla settimana era uno sfizio che si potevano permettere solo due categorie di persone: gli sconsiderati voraci e gli amanti della cucina raffinata. I genitori di Kenma appartenevano sicuramente alla seconda categoria, visto che erano anche assidui frequentatori di ristoranti.

Un’altra questione che aveva attirato la sua attenzione era quella famigerata scuola. I primi tempi, forse anche per colpa della descrizione poco attraente di Kenma, l’aveva giudicata in modo perlopiù negativo.
Eppure, passare i pomeriggi a guardare Kenma chino su libri che lui non riusciva a leggere aveva iniziato ad irritarlo, fino a farlo sentire una macchietta inadeguata in un bell’appartamento pulito.
Un giorno gli chiese di insegnarli, e Kenma  lo guardò con uno stupore candido e sincero, quasi tenero. Gli diede un foglio e una matita e fu così che tutta la famiglia Kozume scoprì quanto fosse grande il potenziale di Kuroo.
Si esercitava spesso, si sforzava moltissimo e, anche se non era facile, sembrava piacergli. Iniziò a studiare sui vecchi libri di Kenma e a volte gli chiedeva di spiegargli qualcosa che proprio non riusciva a capire. Imparava in fretta, recepiva, elaborava e assimilava velocemente le informazioni. Imparò a leggere in modo più che soddisfacente in poco tempo, e imparò quasi senza sforzo un notevole numero di kanji. Era affascinato dalla quantità di nozioni che si potevano conoscere. Aveva cominciato a provare una flebile invidia nei confronti di Kenma e l’idea di frequentare una scuola, anche se circondato da umani, in qualche modo era diventata un’aspirazione.
Era sicuramente già emerso in molte altre situazioni quanto fosse brillante, ma Mizuki e Hiroshi si sentirono in qualche modo profondamente dispiaciuti nel pensare che Kuroo fosse un possibile talento accademico sprecato: ne avevano parlato con il diretto interessato ed erano giunti alla conclusione che, una volta che sarebbe riuscito a mettersi in pari, avrebbero potuto iscriverlo a scuola.
Recuperare sei anni di scuola non sarebbe di certo stato semplice, ma Kuroo promise di impegnarsi più che poteva.


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Note e chiarimenti
Il titolo di questo capitolo è formato dagli ultimi due versi della seconda strofa della poesia Il gelsomino notturno di Pascoli: sotto le ali degli uccelli dormono i loro uccellini, come gli occhi sotto le palpebre chiuse. Con questa scelta ho voluto sottolineare il calore, l'affetto e la tranquillità che Kuroo finalmente riesce a trovare nella famiglia Kozume, e spero di essere riuscita a trasmetterne l'intimità.
Ringrazio chi ha messo la storia tra le preferite/seguite/ricordate e vorrei mostrarvi due disegni bellissimi fatti dalla mia beta nonché, da questo momento, mia illustratrice ufficiale: uno è questo e l'altro questo qui. Seguitela sul suo tumblr!
Teoricamente aggiornerò questa fic ogni due o tre settimane. Spero che continuiate a seguirla!

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Capitolo 3
*** Full many a flower is born to blush unseen ***


Full many a flower is born to blush unseen
 
Tooru sembrava completamente immerso nel fissare una coccinella che camminava lungo una foglia delle piante tra cui era immerso. Allungò l’indice, lo appoggiò con delicatezza davanti al piccolo animaletto zampettante e aspettò che salisse.
Iwaizumi era incantato da quell’atmosfera: la stanza profumava in maniera incredibile e gli piaceva, gli sembrava di essere in una piccola e delicata foresta, e Tooru incastonato tra quei petali e gli steli che sembravano sbucare da ogni direzione era come un’opera d’arte. Aveva la stessa grazia e la stessa bellezza che aleggiava tra i capelli mossi e castani, dentro gli occhi che avevano lo stesso colore e le stesse striature delle cortecce degli alberi.
Prima che tutti si svegliassero, Tooru scendeva nel negozio ancora chiuso, si sedeva e diventava foglie e corolle.
Iwaizumi Hajime aveva tredici anni, quasi quattordici. Viveva lì da quasi un anno ormai, ma solo da poco si era accorto che l’altro ragazzo si alzava così presto dal letto nell’appartamento al piano di sopra. Aveva iniziato a seguirlo a passo felpato e guardava incantato quel ragazzino insopportabile, suo coetaneo, godersi il suo momento di intima tranquillità. Il silenzio che imbottiva la stanza e i raggi di luce che filtravano dalle tapparelle chiuse lo facevano sembrare una creatura magica, uno spirito, e ad ogni respiro profondo che prendeva, Iwaizumi aveva quasi paura di vederlo dissolversi nell’aria.
Si era sentito un ladro perché rubava quei momenti privati. Si era sentito così finché un mattino Tooru si era girato verso di lui e, senza grandi sorprese dipinte sul suo volto disteso, gli aveva scherzosamente sussurrato che era un guardone. Si era voltato di nuovo prima di aggiungere che se avesse fatto silenzio avrebbe potuto stare a guardarlo tutto il tempo che voleva.
Hajime l’aveva fatto. E quel giorno Tooru gli parlò.
-Vengo qui da un sacco di tempo.-
Gli dava la schiena e per Iwaizumi fu strano sentirlo serio, per una volta, e così chiaramente sincero.
-È silenzioso e tranquillo, e mi rilassa. È come se scacciasse via i brutti pensieri.-
Iwaizumi abbassò gli occhi verdi, come se si sentisse in colpa. Non si era chiesto neanche per un attimo quali fossero quei “brutti pensieri”, pronunciati in maniera così infantile.

L’immagine della Notte di Sangue dell’anno precedente era impressa a fuoco nella sua memoria, e sapeva che per Tooru era lo stesso, perché i suoi genitori erano stati uccisi davanti ai suoi occhi.
Iwaizumi era stato il fatale spettatore di quella scena macabra.
Si era allontanato dallo scantinato al tramonto e, quando il sole calò del tutto, iniziò la tragedia.
Aveva sentito grida e boati di ogni sorta, aveva corso più che poteva per tornare indietro, ma ogni strada, ogni via era bloccata e potenzialmente letale. Aveva appena svoltato un angolo quando, per caso, il suo sguardo cadde su di un ragazzino. Era riverso su un cumulo di vetri rotti che gli tagliavano la pelle, ansante per le ferite. Eppure lo guardava fisso negli occhi, il sangue che colava lungo la faccia, i denti stretti. Sembrava che gli stesse urlando di salvarlo.
Iwaizumi aveva agito d’istinto: l’aveva trascinato via da lì.
Avrebbe voluto non sentire i lunghi lamenti stanchi che emetteva ad ogni singolo e sofferto movimento, quasi sull’orlo dell’incoscienza, e aveva provato ad aiutarlo, a togliere come poteva i frammenti delle vetrine che gli si erano conficcati nella carne.
Quando la notte finì e i danni furono ben visibili alla luce del sole, ammutolirono davanti al disastro e quel ragazzino pianse fino a non avere più lacrime né voce.
Oltre alle vetrine del negozio disintegrate e le finestre dell’appartamento al piano di sopra distrutte, le stanze erano completamente a soqquadro, le piante vittime innocenti di una lotta sanguinosa e, come loro, sua madre e suo padre, o perlomeno ciò che ne era rimasto.
Iwaizumi ricordava di avere distolto velocemente lo sguardo da quell’immagine raccapricciante, in un moto di repulsione, non appena si era reso conto che quelli che stava guardando erano solo i resti di corpi di ghoul. Li avevano mangiati.
Tooru -così si chiamava- non aveva spostato lo sguardo, invece. Si era congelato, gli occhi spalancati davanti ai brandelli di carne e ai fiori insanguinati, e Iwaizumi aveva dovuto prendergli il viso ferito tra le mani e costringerlo a voltarsi per fermarlo dal vedere quell’orrore.
-Non guardare.- gli aveva detto, reprimendo la nausea e fissandolo in quegli occhi in subbuglio, straripanti di panico, odio, dolore e lacrime.
Iwaizumi non era mai più tornato in quel vecchio scantinato, forse per paura che avessero pensato che in un momento tanto delicato e pericoloso avesse preferito abbandonarli piuttosto che tornare da loro, e di non essere quindi più il benvenuto.
Lo zio di Tooru, un uomo di mezza età, non aveva esitato a prendere con sé il nipote e quel ragazzino senza famiglia. Decise di continuare l’attività del fratello defunto, soprattutto perché quello non era un semplice negozio di fiori, ma un luogo di incontro per ghoul, dove si snodavano informazioni di ogni sorta.
Le colombe lo avevano distrutto e altri ghoul si erano intromessi, concludendo definitivamente l’opera, ed era stato necessario abbandonare quel luogo che a Tooru era tanto caro: l’avevano ricostruito, con tanta fatica, da cima a fondo. Un nuovo nome, una nuova località. Tessere nuovamente la rete di conoscenze fu forse il compito più arduo. Da allora, la prudenza non fu mai troppa.
Mai Iwaizumi avrebbe pensato che un giorno avrebbe trovato dei ghoul che possedevano un negozio di fiori. Non ce l’aveva fatta ad andare via.
Aveva presto scoperto quanto Oikawa Tooru fosse un ragazzino vanitoso, appiccicoso, egocentrico, insostenibile, volubile e viziato, e più di una volta aveva pensato di accantonare tutta la sua pietà e di andarsene. Eppure non lo fece mai, non solo perché non aveva il coraggio di tornare da quel vecchio, ma semplicemente e soprattutto perché ciò che provava nei confronti di Tooru non era pietà, ma affetto.
Non gli voleva bene per una predisposizione naturale, ma perché aveva imparato a volergliene, e i suoi capricci, le loro discussioni, i loro abbracci, divennero le sue giornate. Quella pelle chiara accanto alla propria, più olivastra, diventò qualcosa di rassicurante. I sorrisi sinceri di Tooru, più rari di ciò che si potrebbe immaginare, divennero la sua speranza più grande.

-… I brutti pensieri.- mormorò Iwaizumi, e dare voce a quelle parole lo risvegliò da quel lungo viaggio nel passato.
Oikawa si voltò e un raggio di sole attraverso le tapparelle gli colpì direttamente un occhio, illuminandolo e mostrando tutta la bellezza delle venature di quel marrone, e parte della guancia, dove l’unica cicatrice rimasta dalla Notte attirò tutta l’attenzione di Iwaizumi.
Oikawa possedeva un kagune rinkaku e forse era stato proprio grazie alle eccezionali capacità rigenerative offerte dalle sue cellule Rc che l’unico segno visibile fosse una singola linea bianca di due o tre di centimetri.
Spesso Iwaizumi, prima di addormentarsi, malediceva il suo cervello perché, per qualche motivo, gli mostrava di nuovo quel viso pieno di lacrime e sangue e frammenti di vetro. L’immagine lo scuoteva, lo turbava, e lo faceva pensare a lungo perché era sicuro che sarebbe bastato avere un altro tipo di kagune perché quel volto tanto delicato rimanesse sfigurato per sempre.
-Anche Iwa-chan scaccia i brutti pensieri.- disse Tooru con leggerezza, rivolgendogli un sorriso abbastanza rilassato.
Iwaizumi si trovò a scuotere la testa senza accorgersene.
-Non scaccio via un bel niente.- borbottò, gli occhi che si erano spostati sulle piastrelle ruvide.
Oikawa non gli ripeteva ogni giorno quanto gli volesse bene, ma glielo dimostrava ogni volta che ne era possibile. A volte, anche con i gesti più piccoli, con un movimento della mano o uno sguardo, lo cercava, o gli mostrava le sue debolezze. Ad Hajime, il sapere di averlo tra le sue mani nella sua forma più pura dava una responsabilità che, forse, non sentiva di meritare a pieno.
-Sì invece. Se non ci fossi stato tu quella notte, io ora non avrei brutti pensieri da scacciare, o bei pensieri da ricordare. Non avrei niente. Non sarei qui e basta.-
Di salvezza, Iwaizumi non ne sapeva niente. Non si vedeva come un eroe e non era vero che Tooru sarebbe morto se non ci fosse stato lui: si sarebbe salvato da solo, Iwaizumi ne era… sicuro?
Quella era la sua verità, e se fosse reale o solo costruita dalla sua coscienza, non poteva saperlo. La storia era andata in quel modo.
Gli passò l’indice sulla cicatrice, quasi difficile da vedere, tanto era chiara la sua pelle. Oikawa si alzò prendendo un respiro profondo e si portò le mani sui fianchi.
-Non fare quel faccino triste, Iwa-chan! Oggi arriva il furgone, e noi dobbiamo essere belli e freschi come i fiori nuovi! Capisco che per te sia difficile, ma vedi di sforzarti. Non tutti hanno il mio talento dopotutto, non credi anche tu?-
Eccolo. La corrente aveva cambiato verso, improvvisamente, come sempre. La carezza di Iwaizumi si trasformò in una mano premuta in faccia per allontanarlo.

Verso la fine di quello stesso giorno, il cielo era totalmente sgombro, tendente all’arancione del tramonto. In un appartamento in un’altra zona di Tokyo, la luce passava attraverso i vetri delle ampie finestre del soggiorno e invadeva la stanza rivolta ad ovest. Kuroo guardava fuori dalla finestra con fare malinconico, seduto sulla sedia con il mento sul palmo della mano. Sentiva solo la matita di Kenma che si muoveva sulla carta. Tirò un lungo sospiro e Kenma alzò la testa per guardarlo.
-Tutto a posto?-
-Non ti viene mai voglia di cacciare? Correre un po’?-
Kenma appoggiò la matita sul tavolo e lo guardò con la testa leggermente inclinata di lato.
-Non ho mai cacciato.-
Kuroo sgranò gli occhi e si passò una mano tra i capelli. -Non hai mai ucciso nessuno?-
Vide la fronte del più piccolo contrarsi per un attimo. -No.-
Una pausa.
-Avrei dovuto intuirlo.- commentò poi Kuroo, tornando ad abbassare la testa sul libro. -Non lo fai perché hai paura di non saperlo fare?-
-Perché non ne ho bisogno.- rispose con naturalezza Kenma.
Il silenzio che cadde nella stanza gli diede una brutta sensazione.
Kuroo aveva alzato lentamente il capo e aveva fissato le pupille nelle sue, gelido.
-Non ne hai bisogno?-
Ripeté le sue parole con un’intonazione beffarda e un’espressione incredula. A Kenma generalmente piaceva il sorriso di Kuroo, ma quello che c’era in quel momento sulla sua faccia non lo rese affatto tranquillo.
-Pensi che ci sarà sempre qualcuno a darti tutto quanto?-
Kenma ritrasse le mani dal tavolo e le appoggiò sulle cosce. Avrebbe voluto scappare ma il suo sguardo lo teneva incatenato alla sedia e gli stringeva lo stomaco.
-Forse credi anche che a furia di vivere con gli umani, un giorno diventerai come loro?-
Avrebbe voluto aprire la bocca e rispondere, dire qualcosa, ma il suo cervello era vuoto e lavorava troppo lentamente per stare dietro al ritmo incalzante di Kuroo. Lo vide alzarsi e sporgersi verso di lui, i gomiti appoggiati sul tavolo.
-Ti svelo un segreto.- disse a denti stretti il più grande, sottovoce. -Tu sai fare cose che gli umani non sanno fare, in parte le fai già, e in parte le farai, non perché è un tuo dovere, ma perché è la tua natura. Non puoi scappare, pensare che non succederà. Perché succederà. Puoi intorpidire l’istinto quanto vuoi, ma lui c’è. Esiste, e si farà sentire. Magari ora ti spaventa, ma quando succederà ti sembrerà di non essere nato per altro. Sei abituato ad una casetta candida, ordinata e pulita, ma il mondo fuori da qui non è così, specialmente per noi. Specialmente tra di noi.-
Kenma sentì la gola secca nel vedere i suoi occhi farsi neri come la notte e rossi come il sangue, e fissarsi nei propri con tanta intensità che gli sembrò che volessero trapassarlo.
-Non possiamo vivere una vita normale. Siamo mostri e non abbiamo una scelta.-
-Basta.-
Il più piccolo si alzò dalla sedia con un gesto secco.
-Credi davvero che non lo sappia? Non hai capito niente.- soffiò Kenma con un filo di voce.
Si voltò immediatamente e si incamminò a passo svelto e nervoso verso camera sua, chiudendo la porta dietro di sé.
Kuroo cercò di placare il cuore che aveva iniziato a battere troppo forte e si risedette composto sulla sedia. Sentiva un formicolio di irritazione diffondersi nel petto e lungo le braccia, fino alla punta delle dita.
Aveva visto qualcosa che non aveva mai visto sulla faccia di Kenma. Non era propriamente paura, né angoscia. Era più un’indignazione accusatoria che lo fece sentire come se non fosse stato lui quello che aveva pronunciato quelle parole aspre, ma quello che le aveva dovute subire.
Inspirò profondamente e tornò a guardare il libro, senza riuscire a leggerne neanche una parola. Non passò neanche un minuto che lo chiuse con violenza.

Kenma si era rannicchiato sul letto e, con la faccia affondata nel cuscino stretto tra le braccia, aveva cercato invano di svuotarsi la testa. Avrebbe voluto non pensarci, non agitarsi, dimenticarsi quello che aveva detto, ma le tempie che gli facevano male dimostravano che non ce la stava facendo.
Lo sapeva. Sapeva cos’era e cosa facevano quelli come lui, non ne aveva timore: piuttosto, era l’idea del caos a disturbarlo. Avrebbe solo voluto vivere una vita tranquilla, senza doversi muovere troppo, senza alcun rumore che gli perforasse le orecchie all’infuori di un ventilatore d’estate e le fusa del suo gatto.
Invece no, era stato condannato dalla natura a combattere contro pulsioni omicide in modo da trascorrere una vita relativamente serena, costretto a vivere di bugie da cui dipendevano la sua vita e la sua morte, obbligato a raccontarle a persone con cui non era riuscito a instaurare alcun tipo di legame significativo. Tranne nel caso di Shouyou. Ma anche a lui aveva mentito.
Come pensò il suo nome, lo schermo del telefono si illuminò e Kenma poté confermare a se stesso, con un piccolo e amaro sorriso, quanto quel ragazzino fosse tremendo. Prese il cellulare con un sospiro e aprì la mail di Shouyou.
Kenma aveva dodici anni e mancava poco più di un mese alla fine delle elementari e all’inizio della primavera. Da quando aveva conosciuto Shouyou, aveva sempre fatto la strada assieme a lui, all’uscita da scuola, e aveva preso con lui la metropolitana. Era piacevole stare in sua compagnia, ogni giorno aveva qualcosa di divertente da raccontare riguardo a qualcosa che gli era successo a casa o in classe. Kenma non sapeva come facesse ad essere sempre così allegro, o perché avesse un sorriso costantemente stampato in faccia, ma non lo infastidiva: anzi, al contrario, gli piaceva, lo faceva sentire un po’ più leggero, perché ormai quelli erano i suoi venti minuti di svago.
Ogni volta che riceveva una sua mail lo ringraziava mentalmente, perché i suoi messaggi lunghissimi e pieni di punti esclamativi sembravano avere il potere di fargli dimenticare cosa stesse facendo, e gli faceva sentire nel petto una sensazione familiare, come se fosse seduto affianco a lui sul treno della metropolitana.
Rivolse un piccolo sorriso allo schermo e trovò la forza di scrivere una breve risposta, per niente degna, rispetto al papiro che aveva ricevuto.
Fortunatamente le future scuole medie di Kenma non sarebbero state molto distanti dalla scuola elementare, e sarebbe riuscito ancora ad incrociare Shouyou e a sedersi vicino a lui sul treno per tutto il viaggio di ritorno. Kenma ne era felice, perché sapeva che finalmente aveva trovato un amico, e non avrebbe voluto che Shouyou si dimenticasse di lui, né che lui stesso lo lasciasse da solo.
Aveva passato i suoi primi anni a scuola convinto che non avrebbe mai trovato una persona a cui affezionarsi, e non poteva negare che gli dispiacesse, ma non perché si sentisse invidioso nel vedere gruppetti di bambini che ridevano con la pancia in mano e stavano sempre insieme. No, in realtà Kenma si preoccupava di cosa avrebbero pensato gli altri di lui, di come lo avrebbero considerato.
La sua situazione, però, ormai sembrava essere un po’ cambiata: ora aveva Shouyou, aveva Kuroo…
Ah, Kuroo.
Il suo cervello aveva deciso di tornare su di lui, come un cerchio che si chiudeva e dal quale non poteva sfuggire, e tutti i suoi pensieri tornarono a rivolgersi verso ciò che era successo poco prima.
Accettare l’arrivo di Kuroo era stato difficile, all’inizio. Aveva totalmente scombussolato la sua vita e quella dei suoi genitori, e dover cambiare routine era stata la cosa più fastidiosa che gli fosse mai capitata. Però si era affezionato a lui. Era stato inevitabile, condividevano la casa e buona parte della giornata, era un ragazzino simpatico, furbo, buono, ma anche attivo e pieno di energia e Kenma aveva costantemente paura che i suoi genitori potessero spronarlo a prenderlo come modello di riferimento, e lui non voleva.
Non era arrabbiato con lui, ma quando discutevano -e succedeva abbastanza spesso, forse perché erano del tutto divergenti- si sentiva come se Kuroo non sapesse con chi stava parlando.

Quando Kuroo aprì piano la porta, qualche ora dopo, e sbirciò dentro la camera, vide la schiena di Kenma alzarsi e abbassarsi ritmicamente e capì che si era addormentato. Entrò e si sedette sul materasso. Allungò il collo e vide i suoi capelli scuri e un po’ troppo lunghi sparsi sulla coperta e la faccia nascosta contro il cuscino che stringeva tra le braccia.
Sembrava ancora più piccolo, così accoccolato. Era visibilmente più minuto di lui, e il pensiero che avessero appena un anno di differenza era strano. Quando viveva per strada, non era di certo un anno a fare la differenza.
Aveva pensato tutto il pomeriggio a quello che era successo e la conclusione a cui era giunto era una sola: non aveva ancora capito come trattare quel ragazzino.
Avevano vissuto due vite completamente diverse fin dalla nascita, col senno di poi era abbastanza logico che non potesse pretendere che i suoi metodi funzionassero su una creatura così delicata. Forse, appunto, troppo delicata: era di questo che voleva avvisarlo. Avrebbe voluto scuotergli via di dosso quel velo di nivea leggerezza, perché non ci sarebbe stato posto per quella nel mondo. Kenma doveva sbarazzarsene per continuare a vivere. Voleva solo che Kenma sapesse come comportarsi in futuro, evitargli brutte sorprese.
Evidentemente, era stato troppo brusco nel farlo, forse quel velo non era qualcosa che si poteva togliere a comando, e se ci avesse provato sarebbe stato come strappare la pelle dalla carne viva. Doveva trovare la calibratura giusta, imparare a gestire i propri atteggiamenti perché, dopotutto, non poteva pretendere di integrarsi in una nuova società senza sforzo.
Non era una bestia selvatica, aggressiva e senza cuore, ma fino a quel momento si era abituato a coltivare quel lato di sé, anche se non era quello dominante per natura, e ogni volta che vedeva il disagio farsi strada sul volto di Kenma imparava dove fosse il limite.
Kenma sentì delle braccia avvolgerlo e si svegliò con un sussulto. Abbassò gli occhi e vide le mani di Kuroo attorno al suo petto.
-Scusami se sbaglio.- lo sentì sussurrare. -Non so ancora come, ma farò tutto il possibile per farti stare bene.-
Kenma fissò il muro con gli occhi spalancati e sorpresi. Non capiva come gli fossero venute in mente quelle parole.
Non era la prima volta che l’atteggiamento di Kuroo lo disturbava, ma dopo un po’ in genere si riappacificavano grazie alla buona volontà del più grande: Kenma sarebbe potuto rimanere in silenzio per giorni interi, ed era anche abbastanza sicuro che qualsiasi altra persona lo avrebbe lasciato lì sul letto a marcire. Kuroo invece no, Kuroo voleva parlare, mettere a posto le cose, stirare tutte le pieghe di quel lenzuolo raggrinzito, scavare a fondo.
Quel giorno però disse qualcosa di nuovo, e fu proprio quello a stupire Kenma. Farlo star bene? Era quello il suo scopo? Non riusciva a crederci, sembravano solo parole buttate all’aria.
-Io non sono come Bokuto.- fu l’unica cosa che riuscì a dire dopo un lungo silenzio, a voce bassa. Rimase a fissare il muro, perché la forza di muoversi davvero non la trovava.
Kuroo aveva capito cosa intendeva.
-No, non lo sei.-
Strinse le labbra ma non allentò l’abbraccio e Kenma fu sicuro di essere riuscito a recepire tutta la tristezza di quelle parole.
-Perché lo fai allora?- continuò il più piccolo, riprendendo il discorso.
-Perché non devi sostituire nessuno. Voglio essere tuo amico.-
A Kenma sembrò strano sentire quella parola riferita a lui, e il blocco duro e gelido nel suo petto si sciolse come se fosse stato esposto al sole. Era suo amico.
Deglutì e si allontanò quel tanto che bastava per rigirarsi su se stesso, guardarlo negli occhi e parlare.
-Insegnami qualcosa di nuovo. Qualcosa che facevi prima di venire qui.-

Kuroo non se l’era fatto ripetere due volte.
Qualche giorno dopo quella discussione avevano preso la metro ed erano scesi in una zona periferica, poco trafficata e parecchio grigia.
-Tokyo ha molta più superficie di quanto credi.- spiegò Kuroo sfiorando il muro con una mano mentre camminava. -È come se fosse costruito tutto su livelli. Basta guardare bene e abituarsi a vedere punti a cui aggrapparsi e su cui saltare. Ci sono davanzali, sbarre, tetti, sporgenze, lampioni, impalcature…-
Kenma ascoltava con un’espressione non proprio sicura. Era già caduto un paio di volte ed era pronto a tornare a casa, ma Kuroo l’aveva spronato ad essere più risoluto e a non mollare, e l’aveva costretto a restare lì nonostante le ginocchia sbucciate e la stanchezza.
-Mi senti? Mi hai chiesto di insegnarti qualcosa, ma mi sembra che tu non ci stia neanche provando!-
Kenma gli rispose con un verso basso e infastidito, qualche metro più in alto di lui, seduto nella nicchia di una finestra. -Tu lo facevi sembrare più facile.-
-Ma è facile! Basta allenarsi un pochino!-
-… Gatto.-
L’espressione di Kuroo passò da amareggiata a confusa e seguì con gli occhi lo sguardo di Kenma, che a sua volta era diventato incredibilmente attento. Vide un gatto camminare velocemente sul bordo del marciapiede dall’altra parte della strada e, voltando di nuovo il capo verso Kenma, gli mostrò un sorriso ambiguo.
-Se riesci a prendere quel gatto, per oggi non ti faccio fare più niente.-
Kenma lo fissò negli occhi, come per capire se stesse scherzando.
-Serio?-
Kuroo alzò le mani in segno di resa. -Tu mi porti il gatto, io ti riporto a casa.-
Il più piccolo saltò giù e, dopo essersi silenziosamente accucciato per terra, cercò di attirare l’attenzione del gatto dall’altra parte della strada con un debole schiocco delle dita.
-Ehi.- chiamò sottovoce, con un braccio teso.
Il gatto lo ignorò bellamente, continuando a leccarsi il pelo, e il sorriso di Kuroo si fece ancora più ampio, gli occhi ancora più socchiusi.
Kenma attraversò la strada e, non appena l’animale lo percepì, drizzò le orecchie e zampettò via.
-Ti prego non farmi correre.- lo implorò con voce flebile, sperando che Kuroo non lo sentisse, mentre lo seguiva con una camminata veloce all’interno di un viottolo chiuso nel fondo da una rete metallica.
Il gatto si nascose velocemente sotto un cassonetto e Kenma dovette inginocchiarsi di nuovo per terra. Vide le sue pupille dilatate e ritrasse la testa e le mani quando lo sentì soffiare. Guardò sconsolato Kuroo, ma quello non faceva una piega.
-Tu gatto a me, io casa a te.- ripeté come una cantilena, le mani in tasca.
Kenma si imbronciò e si alzò stringendo i pugni.
-Posso tornarci anche da solo, a casa.- borbottò, già incamminatosi verso la metropolitana.
Kuroo lo afferrò per un braccio, poi per le spalle e invertì la sua direzione.
-Guarda, il micio è uscito da là sotto!- esclamò entusiasta e beffardo, indicandogli il gatto che ora se ne stava sul cassonetto, il muso rivolto in alto. -Ce la puoi fare, Ken!-
L’animaletto saltò agilmente sulla rete, la scavalcò e atterrò dall’altra parte senza fare rumore.
I due ragazzi rimasero qualche secondo a guardarlo in silenzio prima che Kenma sospirasse pesantemente.
-Oh, che seccatura.-
Kuroo  lo sentì scivolargli via dalle mani e quasi non poté crederci quando lo vide correre, saltare contro il muro, sul cassonetto, e atterrare dall’altra parte della rete per poi continuare a inseguire il gatto in fuga.

Mezz’ora dopo, Kuroo e Kenma camminavano verso la fermata della metropolitana, quest’ultimo strusciando i piedi per terra e con una palla di pelo tra le braccia.
-Mi hai sorpreso.-
Kuroo sorrideva soddisfatto. L’aveva seguito e l’aveva osservato attentamente mentre correva e saltava da un muretto all’altro, mentre cercava scorciatoie per arrivare al gatto il più velocemente possibile e intrappolarlo in qualche angolo.
-Sei veloce nel pensare a cosa fare, potresti essere molto pericoloso.- aggiunse con una risata bassa.
Kenma non aveva più fiato.
-Odio sudare.- commentò con la minima quantità di voce possibile.
Lasciò il gatto a terra prima di scendere le scale della metropolitana e quello lo salutò strusciandosi contro le sue gambe e miagolando piano.
-Riesci anche a farti amare dai gatti randagi! Basta, me ne vado, sei troppo.- strepitò Kuroo agitando le mani per aria.
Kenma scese i gradini a due a due per raggiungerlo.
-Sei esagerato, ma grazie comunque.- disse, sincero, mentre arrivava il treno e Kuroo gli circondava le spalle con un braccio.
Erano due poli opposti, erano il nord e il sud, ma erano riusciti a toccarsi, in qualche modo, e il sorriso che piegava le labbra di entrambi suggeriva che, da quel momento, dividerli sarebbe stato impensabile.


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Note e chiarimenti
Il titolo di questo capitolo è un verso di Elegy Written in a Country Churchyard di Thomas Gray: molti fiori nascono per sbocciare senza essere visti da nessuno. Ho scelto questo verso per ricollegarmi ovviamente ai fiori del negozio di Tooru e Hajime, ma anche perché credo che Kenma, se non avesse mai conosciuto Kuroo, sarebbe stato proprio come un fiore (dal grande potenziale) nascosto, sarebbe sbocciato senza essere visto, e nemmeno lui stesso sarebbe stato in grado di apprezzarsi.
Ringrazio tutti quelli che hanno inserito la storia nelle preferite/ricordate/seguite e spero che continuerete a leggerla. Il capitolo quattro arriva tra tre settimane!

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Capitolo 4
*** Anthem for Doomed Youth ***


Anthem for Doomed Youth

Esattamente un mese e un giorno dopo il quindicesimo compleanno di Kenma, bisognava festeggiare il sedicesimo di Kuroo.
Kenma non ricordava il momento in cui aveva dovuto iniziare ad alzare così tanto la testa per guardarlo in faccia. Anche lui era cresciuto, certo, ora era poco sotto il metro e settanta, ma Kuroo era sempre stato più alto di lui. Nei tre anni e mezzo che erano passati da quando Kuroo gli aveva quasi sfondato il parabrezza della macchina, la differenza di altezza tra loro due era diventata di più di dieci centimetri ed era molto più evidente. Ciò non era tuttavia fonte di disappunto per Kenma: era bello salire sul letto superiore e farsi abbracciare da lui. Gli dava un senso di tranquillità che non era mai riuscito a trovare da nessun’altra parte.
Quel vizio era iniziato in una notte estiva, quando il tuono di un temporale lo aveva svegliato nel bel mezzo di un incubo. Il cuore aveva iniziato a battergli così forte che pensava che sarebbe uscito dal petto. Kuroo doveva aver sentito il muoversi agitato delle lenzuola e il suo respiro pesante, perché lasciò penzolare un braccio giù dal letto e Kenma aveva afferrato la sua mano senza pensarci due volte.
-Vieni qui.- gli aveva detto Kuroo sentendo le sue dita gelide e tremanti. Si era riaddormentando con la schiena appoggiata al suo petto. Il giorno dopo si era sentito un po’ in imbarazzo per essersi fatto abbracciare per qualcosa di così stupido, ma più di una volta era tornato in quel letto quando qualcosa non andava.
Kuroo aveva anche iniziato a dormire in una posizione piuttosto strana, ma a suo dire incredibilmente comoda: l’unica pecca era che i suoi capelli avevano ormai preso una piega terribilmente innaturale ed inspiegabilmente indomabile. Non c’era stato verso di farli rimanere al proprio posto, e tutti si erano arresi e avevano riconosciuto la vittoria di quella testa scombinata. A Kenma però piaceva passargli le mani tra i capelli quando se li trovava davanti, magari mentre Kuroo era seduto al tavolo a studiare. Cercava di farglieli restare giù premendo a lungo coi palmi delle mani: sapeva che era tutto inutile, ma continuava a farlo.

Quando Kenma aprì la porta per uscire dalla classe, una voce in particolare attirò la sua attenzione: era squillante e determinata, inconfondibile, e Kenma non poté non voltare la testa per vedere la faccia radiosa di Shouyou. Anche lui era cresciuto, ma non troppo. Il viso non era più tondo come prima, le guance erano meno piene, i lineamenti da bambino se ne stavano andando: faceva seconda media, e ancora una volta frequentava la stessa scuola di Kenma.
Il ragazzino dai capelli rossi e disordinati ravvivava con il suo entusiasmo quell’angolo di corridoio, circondato da persone molto più alte di lui e dall’aria parecchio scettica. Kenma pensò che fosse proprio rumoroso, ma nonostante ciò era pronto ad andargli incontro: i suoi piedi si stavano già muovendo, un piccolo sorriso era già comparso sul suo volto, ma una frase in particolare lo fece bloccare.
-Gente come te alla CCG non sopravvive una settimana.- aveva detto un biondino annoiato sul suonare della campanella.
Hinata gonfiò le guance e il petto. -Vedremo!- rispose con un grande broncio, prima di entrare in classe a passo di marcia.
Kenma guardò la finestra accanto alla quale, fino a poco prima, c’era Shouyou. Era rimasto stordito, agitato, scosso. Si sentiva come se l’avessero pugnalato alle spalle e una parte di sé gli stava dicendo che, no, aveva solamente capito male, aveva frainteso.
Tornò in classe e chiuse la porta.

Come sempre, si ritrovò affianco a lui ad aspettare un treno che sembrava non arrivare mai e, come aveva sempre fatto in tutti quegli anni, Hinata parlava senza fermarsi.
-Kenma, stai bene?- chiese a un certo punto, nel vedere il suo sguardo basso e perso. -Cioè, sei sempre silenzioso, ma oggi… Boh, è successo qualcosa?-
Il treno arrivò ed entrambi salirono. Kenma si sedette e scrollò le spalle.
-... Oggi mi è sembrato di sentirti parlare della CCG, in corridoio.- riuscì a dire. -Potrei essermi sbagliato, però.- aggiunse dopo una pausa di qualche secondo.
Il volto di Shouyou si illuminò aprendosi in un grande sorriso. -Davvero non te l’ho detto!? Cavolo, ma di cosa parlo allora? Allora, ok, inizio un discorso: sul serio, ma ci pensi a che lavoro fanno gli investigatori della CCG? Sono in grado di combattere creature pericolose come i ghoul!-
Per la prima volta da quando quella conversazione era cominciata, Kenma lo guardò dritto in faccia. Hinata si bloccò per un secondo quando se ne rese conto, colto di sorpresa e vagamente inquietato da quello sguardo fermo.
-Li ammiri?- chiese Kenma. -Le colombe, dico.-
-Certo che sì!- rispose immediatamente. -Tengono la città al sicuro, senza di loro ci sarebbe il caos totale, saremmo in balia di… mostri! E invece loro hanno sviluppato tecnologie che gli permettono di tener testa a esseri con poteri sovrannaturali! Mi piacerebbe moltissimo far parte della CCG, e visto che l’anno prossimo compirò quindici anni e poi finirò le medie, potrò provare ad iscrivermi all’Accademia. L’essere piccolo non mi fermerà di certo! Sono così emozionato!-
Kenma si sentì congelare il sangue nelle vene. Sentì un brivido, e lo stomaco gli si attorcigliò fino a fargli male.
-Uccideresti qualcun altro, una persona con una famiglia e degli amici, solo perché mangia carne umana?-
Hinata lo guardò come se stesse delirando. -Kenma, non puoi pensarlo sul serio, i ghoul ci uccidono! In modi terribili! Ci mangiano! Non sono neanche sicuro che ce l’abbiano, famiglia e amici!-
Cercò disperatamente di non dare a vedere quanto gli fecero male quelle parole.
-Anche gli altri umani uccidono. E per di più, senza scopo.-
Il sorriso del più piccolo si stava spegnendo. Assunse un’aria pensosa e stette zitto per una manciata di secondi.
-Sì, ma le probabilità di essere uccisi da un ghoul sono sicuramente maggiori!-
Kenma deglutì e abbassò la testa, scuotendola in modo quasi impercettibile. L’occhio cadde casualmente sul telefono che teneva tra le mani: Kuroo gli aveva scritto di scendere due fermate prima del solito. Corrucciò le sopracciglia e si alzò in piedi.
-Oh?-
-Oggi devo scendere qui.- si limitò a spiegare Kenma.
-Ah, ok! Comunque ho capito perché ti comporti così: non devi avere paura per me, Kenma! C’è un lungo corso per prepararci, non ci lanciano certo sul campo di battaglia così! Sono destinato a un grande futuro, lo so, sarò fighissimo nel tenere la città al sicuro!-
-Non lo metto in dubbio.-
Le porte si aprirono e Kenma scese, le braccia senza forza lungo i fianchi. Non si soffermò a guardare la faccia dispiaciuta e smarrita di Shouyou.

Poco alla volta Kuroo aveva imparato, con molto impegno e non poche difficoltà, a decifrare gli strani comportamenti di Kenma. Non gli piaceva parlare né avere a che fare con le persone, non gli piaceva impegnarsi, eppure ogni volta, in qualche modo, lo stupiva e gli insegnava indirettamente a fidarsi di lui, perché era in grado di risolvere intricati ragionamenti apparentemente senza sforzo. Il fatto era che a Kenma non importava di eccellere o di sentirsi bravo. Lui faceva e basta. La parola chiave era attenzione, e Kuroo pensava che il suo atteggiamento distaccato fosse una protezione per evitare spiacevoli e inattesi turbamenti. Grazie alla sua capacità di non farsi trasportare troppo dagli eventi -era qualcosa che aveva affinato con gli anni, Kuroo ne era sicuro, perché Kenma era incredibilmente sensibile-, riusciva a mantenere una flemma e un’oggettività ammirevole.
Quel giorno, Kuroo si sentì incredibilmente fiero di essere riuscito a far apparire quell’espressione sorpresa, quel barlume negli occhi di Kenma. Lo aspettava appena fuori dalla metro, le mani nelle tasche del giubbotto.
-Kuro.-
Kenma aveva iniziato a chiamarlo così. Una semplicissima e quasi impercettibile abbreviazione del suo cognome, ma che in qualche modo suonava più familiare e intimo del suo stesso nome.
-Cosa fai qui?- proseguì Kenma con la testa appena inclinata. -Perché mi hai fatto scendere prima?-
Kuroo alzò le spalle e gli sorrise. -Torni sempre a casa da solo e ho pensato fosse carino farti una sorpresa!-
-È il tuo compleanno, sarei io a doverti fare una sorpresa…-
L’altro scosse la testa e continuò, fingendo di non ascoltarlo. -In più avevo voglia di uscire.-
-Possiamo fare una passeggiata, se ti va.-
Questa volta fu Kuroo ad essere sorpreso. Kenma che non chiedeva di tornare a casa? Cos’altro, il giorno dopo avrebbe iniziato a snobbare i gatti? Lo osservò dall’alto per qualche secondo, la bocca ridotta a un piccolo cerchio. -…Aspetta, è questo il mio regalo?-
Kenma fece una smorfia e roteò gli occhi, per poi voltarsi e iniziare a camminare. Kuroo rise e gli fu accanto con due ampie falcate.
Era novembre e il cielo era velato, l’aria frizzante faceva pizzicare il naso, ma era comunque piacevole, in qualche modo. Kenma fu obbligato a raccontargli nei dettagli cosa era successo a scuola, fu attento a sorvolare sulla questione di Shouyou e, non sapeva perché, ma la città gli sembrava un po’ più bella. Kuroo gli disse che anche quella mattina era uscito e si era trovato davanti ad un bel negozio in cui doveva assolutamente portarlo.
-Oggi è la seconda volta che passi di qui.-
Una voce allegra catturò la loro attenzione e entrambi alzarono la testa. Seduto in cima ad un muro, un ragazzino dai capelli castani e mossi li guardava con un sorriso che non aveva nulla di gentile.
-Hai qualche brutta intenzione?- continuò reclinando il capo sulla spalla e chiudendo gli occhi.
-Se andare a comprare beni quasi certamente superflui lo consideri avere brutte intenzioni...- disse Kuroo alzando le spalle.
Il ragazzo saltò giù e atterrò davanti a lui. Lo fissò attentamente con il naso arricciato in un’espressione infastidita, i kakugan che lo scrutavano in modo inquietante.
-Fai il simpatico?-
-Non lo sono?-
Kenma pensò che quello non fosse affatto l’atteggiamento giusto da avere con un ghoul che non si stava dimostrando accondiscendente, e gli inviò quel messaggio tirandogli leggermente la manica.
Kuroo passava intere mattinate a gironzolare per strada. Era un periodo pacifico, la situazione generale sembrava piuttosto distesa: non si sentiva parlare di colombe da un pezzo, e anche la televisione non passava più notizie di grande rilievo riguardo ai ghoul. Aveva imparato a camminare tranquillamente e a lungo tra gli umani senza essere pervaso da una sensazione di incontenibile disagio o nervosismo, e dall’istinto di saltar loro addosso. Ora che ne era capace, era strano pensare come, nonostante fosse cresciuto per strada, non avesse mai avuto davvero a che fare con gli umani prima di allora: conosceva molti ghoul, ma agli umani non si era mai avvicinato se non per mangiarli.
Kuroo fiutava e identificava spesso altri ghoul durante le sue camminate, ma praticamente nessuno gli rivolgeva più di un’occhiata, e quasi tutti gli camminavano vicino senza dimostrarsi aggressivi. Quel ragazzo poco più basso di lui, dai lineamenti armoniosi ed eleganti, sembrava invece essere piuttosto suscettibile.
-Dovete andarvene.- disse scocciato.
-Sei tu che ci hai fermato, noi stavamo passando di qui per caso.-
Kuroo quasi non finì la frase. Fu tutto incredibilmente veloce e Kenma, per un attimo, pensò che non fosse reale. Vide il kagune dell’altro ragazzo fendere l’aria e venire subito contrastato da quello di Kuroo.
Non aveva mai visto il kagune di Kuroo e il rosso acceso di quel bikaku gli strinse il petto, assieme alla consapevolezza di essere finito in una brutta situazione.
-Non so quanto ti convenga.- gli consigliò Kuroo, sottovoce ma con un sorriso, fissando i tentacoli che uscivano dalla schiena del ragazzo. -Un rinkaku non è l’ideale, vero?-
Si fissarono negli occhi per un lungo momento, in silenzio, mentre ciascuno ritirava il proprio kagune.
Kenma li osservava con occhi attenti e i sensi all’erta come un animale selvatico. Qualcosa tremò dentro di lui, afferrò Kuroo per la giacca e lo strattonò così improvvisamente che gli fece perdere l’equilibrio, ma almeno gli permise di evitare il pugno in arrivo.
Guardò Kuroo in ginocchio davanti a sé per una frazione di secondo, giusto il tempo di rendersi conto di quanto il proprio cuore battesse velocemente, poi il respiro gli mancò del tutto, perché la mano di quel ragazzo gli strinse la gola e quasi lo sollevò da terra.
Kuroo si alzò tirandogli una gomitata nello stomaco, lo fece cadere a terra e gli fu subito sopra, bloccandogli le braccia con le ginocchia.
-Non lo devi toccare.-
Kenma si portò istintivamente una mano al collo, il fiato corto e lo sguardo turbato. Sentì, in quella intonazione, una violenza che non aveva mai visto in lui; la vide nella sua bocca digrignata, e nei due colpi secchi che sferrò al suo volto.
Non erano così gli allenamenti che Kuroo faceva con lui, in nessuno degli esercizi che gli aveva insegnato c’era qualcosa della brutalità e della durezza che esplodeva negli occhi dei due ragazzi a terra.
-Tooru!-
Un altro giovane atterrò sulla strada, dopo essere saltato giù dal muro. Kuroo non riuscì ad evitare il calcio che lo colpì in pieno volto e cadde di lato. Oikawa fu afferrato per il braccio e scansato dalla parte opposta.
-Tu non sei così stupido.- disse quel ragazzo dagli occhi verdi, con un tono assertivo ma deluso. Oikawa lo guardò, seduto sull’asfalto, il kakugan che spariva. Nessuno avrebbe attaccato da solo due ghoul, lo sapeva, sarebbe stato da sconsiderati ed era a quello che si riferiva Iwaizumi.
-Eppure ora sei qui anche tu, Iwa-chan!- gli fece notare con una risatina blanda, tornando in piedi e contrastando un capogiro mentre si massaggiava la mascella dolorante.
Iwaizumi aggrottò le sopracciglia e lo fulminò con un’espressione tagliente. L’aveva fatto solo perché sapeva che sarebbe corso in suo aiuto? Per qualche motivo, temeva che sarebbe stato davvero in grado di iniziare uno scontro da solo, visto il suo orgoglio spropositato.
Scosse la testa e si voltò verso gli altri due con le braccia incrociate al petto.
-Questo è il nostro territorio.- disse minaccioso.
Anche grazie all’aiuto di Kenma, Kuroo era tornato in piedi, benché barcollante. Non appena incrociò gli occhi coi suoi, gli sembrò che il mondo si fosse congelato.
-Hajime?- mormorò con voce stralunata, una mano davanti al naso sanguinante.
L’altro socchiuse le labbra.
-Tetsurou…!- esclamò con un’espressione incredula.
Kuroo prese un respiro profondo e sgranò gli occhi. -Sei vivo.- mormorò stupefatto.
Oikawa strusciò i piedi e si affiancò ad Iwaizumi, guardando gli altri due in cagnesco. -Chi sono?-
Kuroo sentiva ancora l’adrenalina in corpo e più guardava quel Tooru e più il sangue gli ribolliva. Era una sensazione strana perché una parte di sé avrebbe anche voluto abbracciare Iwaizumi, ma non sapeva quanto né in cosa fosse cambiato, che tipo di persona fosse diventato e chi fosse il suo amico. Erano passati tre anni, dopotutto.
Si girò verso Kenma e quello gli rivolse uno sguardo incerto e diffidente, a distanza di sicurezza da quelle due persone di cui sapeva soltanto che erano potenziali assassini.
Kuroo si passò il dorso della mano sopra il labbro per ripulirsi dal sangue. -… Mi hai quasi rotto il naso e il tuo amico ci voleva ammazzare. Non siamo qui per il territorio, stavamo solo passando per caso.-
-Mi dispiace. E mi dispiace non essere tornato allo scantinato quella notte.- disse Iwaizumi, incredibilmente serio e con voce ferma. -Per favore, ho bisogno di sapere come state tu e gli altri.-
Kuroo lo guardò con un misto di nostalgia, compassione e sorpresa. Non lo sapeva.
Iwaizumi gli rivolse in risposta un’espressione preoccupata e confusa.
-Ci aspetta un lungo pomeriggio, vero?- commentò Oikawa a denti stretti.

Quando rientrarono quella sera, Mizuki aveva l’aria di qualcuno che avrebbe volentieri preso uno per battere l’altro.
-Mi avete fatta preoccupare!- disse a voce troppo alta, vibrante di agitazione. -Tetsu, ma guardati, cos’hai combinato!? La rissa di compleanno? Sei tremendo!-
Kuroo evitò il suo sguardo a spalle basse. Sotto gli occhi si era formato un livido scuro e aveva tutta la faccia indolenzita. Anche se era evidente che non avesse una bella cera, non se la sentiva di raccontare i dettagli.
-Mi farete impazzire, voi due. Avete un cellulare, potreste usarlo ogni tanto. Soprattutto tu, Kenma, ci stai attaccato tutto il giorno!- Mizuki fece un verso spazientito e scosse il capo. -Guardate, non voglio neanche sapere, finché non vi fate uccidere fate quello che volete. Ora però andate in cucina, io vado a prendere del ghiaccio per il signorino attaccabrighe.-

Il volto di Kuroo si illuminò quando vide sul tavolo svariati pacchetti regalo e qualcosa in tutto e per tutto simile ad un muffin, ma chiaramente di carne, con due candeline sulla sommità che componevano il numero 16. Con tutto quello che era successo quel giorno, quasi si era dimenticato che era il suo compleanno. Si ritrovò con una borsa del ghiaccio in mano e un ridicolo cappellino da festa in testa.
Guardò Hiroshi e Mizuki e non poté non sorridere, un po’ sghembo e acciaccato. Mizuki aveva le braccia incrociate, l’espressione rassegnata ma piena d’amore.
-Buon compleanno Tetsu-chan!- dissero in coro, mentre Kenma applaudiva di sottofondo. Kuroo si appoggiò la borsa del ghiaccio sul naso e soffiò sulle candeline prima di abbracciarli tutti e tre col cuore colmo di gioia.

Qualche ora dopo si buttò nel letto con un sospiro stanco, rigirandosi a pancia in su.
-Mi sono rifatto l’armadio.- commentò, in riferimento alla spropositata quantità di vestiti che gli erano stati regalati.
-Ci credo.- disse la voce di Kenma, proveniente dal basso. Stava frugando da qualche parte, ma Kuroo non aveva abbastanza forza per sporgersi e guardare.
-Se la smettessi di crescere a questa velocità, magari ti andrebbe ancora bene qualcosa…-
Kenma lo raggiunse sul letto e si inginocchiò, porgendogli un pacchetto rosso. Kuroo lo guardò confuso e sorpreso.
-È il mio regalo.- spiegò aggiustandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. -Ho voluto dartelo in privato perché… Non so, preferisco così.-
Kuroo si tirò a sedere e ruppe la carta rossa fino a trovarsi in mano un bento nero a forma di gatto, con tanto di occhietti gialli e musetto carino. Alzò il volto di scatto e lo guardò con le sopracciglia che formavano due archi perfetti, la mascella che sarebbe volentieri caduta a terra. Aveva il labbro un po’ gonfio e gli occhi socchiusi e Kenma si sentì un infame a pensare che, in qualche modo, quei dettagli dessero un effetto ancora più comico alla sua espressione.
-Ho pensato che quando inizierai ad andare a scuola avrai bisogno di qualcosa in cui tenere il cibo, quindi…-
-È bellissimo.-
Kuroo non lo lasciò finire e lo abbracciò. Kenma si sentì tremare, forse per l’imbarazzo, o la felicità di aver trovato qualcosa che gli piacesse.
-Un’altra cosa…- iniziò il più piccolo, dopo aver deglutito a vuoto, ancora aggrappato alle sue spalle. Il tono di voce era chiaramente più grave di prima. Pronunciare quelle parole era faticoso, ma, senza doverlo guardare negli occhi, era perlomeno possibile. -…Scusami se oggi non ti ho aiutato.-
Kuroo si allontanò e gli rivolse uno sguardo come per spronarlo a continuare a parlare.
-Intendo… Con Oikawa.- esalò a fatica mentre allungava una mano per prendere la borsa del ghiaccio e appoggiargliela in faccia, forse anche nel tentativo di evitare di avere i suoi occhi addosso. Kuroo gli spostò il braccio e tornò a rivolgergli gli occhi dal contorno violaceo.
-Cosa!? Certo che mi hai aiutato. Se non ci fossi stato tu mi avrebbe steso con un pugno.-
Kenma strinse le labbra e sentì un crampo allo stomaco, una sorta di odioso senso di colpa e impotenza che gli fecero abbassare il capo.
-Ti hanno steso comunque.-
-Hey.-
Una mano si appoggiò sulla sua guancia e lo invitò ad alzare lo sguardo. Kenma fece un verso basso e infastidito e si lasciò cadere in avanti, mettendo definitivamente le radici nel materasso, la faccia affondata nel piumone, impedendo così a Kuroo qualsiasi altro tentativo di muoverlo e facendolo ridere.
-Poteva andarmi peggio, perlomeno abbiamo trovato un mio vecchio amico e sappiamo che sta bene! È stato bello chiacchierare con quei due tutto il pomeriggio, no?-
Un verso ovattato dalla trapunta gli suggerì che la risposta di Kenma era stato un brontolio non troppo convinto. Kuroo sospirò e si rimise il ghiaccio in faccia con una mano, mentre con l’altra dava piccole pacche alla schiena di Kenma. Poco sopra, i suoi capelli scuri ricadevano ai lati della nuca e gli coprivano le orecchie, e Kuroo dovette lottare contro l’impulso di  accarezzarglieli.
-Certo, all’inizio è stato un po’ imbarazzante perché, insomma, avevamo appena finito di…-
-Non avevo mai visto il tuo kagune.-
La voce smorzata e sottile di Kenma gli arrivò alle orecchie come se fosse stata lontana.
-Neanche io ho mai visto il tuo.- Kuroo sorrise, anche se l’altro non lo poteva vedere. -Magari neanche tu hai mai visto il tuo.- aggiunse con ironia, tirandogli appena una ciocca di capelli scuri.
Kenma si spostò quel tanto che bastava per mostrargli quanto il suo sguardo fosse infastidito.
-…Anche il mio è un bikaku.-
Kuroo sembrò sinceramente sorpreso. Si stese affianco a lui e appoggiò un gomito al materasso per sostenere la testa.
-Lo sai perché entrambi i tuoi genitori hanno un bikaku, o…-
-No, l’ho scoperto qualche anno fa. A scuola.-
Quando fu a corto d’aria, alzò finalmente la testa e Kuroo rise perché era diventato rosso.
-Sei ancora vivo per parlarne, quindi devi essere riuscito a scamparla in qualche modo.-
Kenma annuì e si stiracchiò un poco. -Ero da solo, perché mi ero nascosto in bagno. Perché, mh.- fece una pausa si rigirò su se stesso, forse per prendere tempo. -Dei bambini mi avevano preso in giro, non ricordo neanche più per cosa. Ed ero triste e arrabbiato, ma non volevo piangere davanti a tutti.-
Fissava il soffitto, le mani intrecciate sullo stomaco. Gli dava una strana sensazione ripensarci, e ancora di più parlarne. Ricordava di essersi appoggiato al muro, i denti stretti tanto forte da fargli male, di aver sentito il respiro pesante e la testa leggera e, all’improvviso, una sensazione nuova, come se il suo corpo si fosse improvvisamente rinvigorito. Aveva alzato gli occhi sugli specchi e da quel giorno andare a scuola era diventata un’ulteriore e terribile lotta contro nuove pulsioni.
-Non sei cambiato per niente, allora.-
Kenma lo guardò con la coda dell’occhio e Kuroo gli rivolse un gran ghigno storto.
-Posso dormire qui?-
L’altro sospirò. -Va bene, ma solo perché stasera fa freddo.-
-È che non ho voglia di andare nel mio letto.- borbottò Kenma, in una specie di giustificazione poco credibile mentre Kuroo tirava il piumone sotto di lui.
-Kenma, il tuo letto è letteralmente un metro sotto il mio.-
-Se vuoi vado.-
Il più grande sporse il capo per guardarlo in faccia e si imbronciò quando vide un piccolo sorriso aleggiare sulle sue labbra.
-Nah.- rispose vago, come se non gli importasse poi così tanto, mentre si infilava sotto le coperte e copriva anche l’altro.
Kenma gli diede la schiena e lui colse l’invito ad abbracciarlo come faceva la maggior parte delle volte che decidevano di condividere quel letto, che finiva col diventare insopportabilmente piccolo per entrambi.
-Dopo quello che ho sentito raccontare oggi da Hajime e dopo la festa che mi avete fatto…- disse Kuroo chiudendo gli occhi e stringendolo contro di sé, sinceramente felice di riuscire a sentire così chiaramente il suo battito del cuore e il profumo dei suoi capelli. -…Mi sono chiesto cosa ho fatto per meritarmi te e i tuoi genitori e questa nuova vita. Mi sono chiesto perché il destino abbia deciso di ripagarmi con tanta fortuna e felicità.-

Tanta fortuna e felicità.

Fu quello il ricordo che gli sembrò di rivivere, con una chiarezza impressionante; furono quelle le parole che risentì quando, esattamente un anno e mezzo dopo, si congelò accanto a Kenma, all’angolo della strada davanti al loro condominio.
Dopo quella corsa disperata, accecati da un sesto senso terribile, ora non riuscivano a far altro che restare immobili, la faccia rivolta verso l’alto, a guardare l’impenetrabile fumo nero e le fiamme sempre più alte che avvolgevano l’edificio. Un’immagine irreale, stampata su un cielo dai colori strani, sfumature viola e arancioni che tendevano al tramonto, mischiate da nuvole immobili.
Kenma non sentiva nessun suono. Fino a quel momento aveva ascoltato la sirena dei pompieri, lontana e angosciante, farsi sempre più vicina, sperando invano che non stesse andando dove credeva. Presto sarebbero arrivati lì, ma lui ormai non la sentiva più. Non sentiva niente, tranne in rombare del sangue nelle orecchie.
-Kenma, no, fermo!-
Due passi e qualche salto, e fu lontano da lui. Kuroo lo guardò terrorizzato mentre entrava da una delle finestre al terzo piano.

Casa sua era piena di fumo. Kenma socchiuse gli occhi e si portò la manica della felpa davanti alla bocca, ulteriormente innervosito e impanicato per gli insopportabili e penetranti trilli di tutti gli allarmi antincendio e l’odore pungente. Andò in soggiorno, lottando contro il caldo insopportabile che lo faceva sentire come se si stesse sciogliendo, le fiamme che avvolgevano i mobili e il divano e si piegavano contro il soffitto annerito, instancabili, voraci, frenetiche.
Si sentì prendere per il braccio e sussultò prima di vedere che era Kuroo.
-Dobbiamo andare via.- gli disse serio il più grande, tirandolo verso la finestra da cui era entrato.
Kenma si svincolò dalla presa senza pensarci e gli mostrò gli occhi neri e cremisi. Le labbra erano talmente strette da tremare e Kuroo cercò di farlo ragionare.
-Kenma, i kakugan non ci salveranno dal finire bruciati vivi!-
-Dobbiamo trovare mamma e papà, lo sai che sono a casa.-
Entrò in cucina, cercando di passare dove le fiamme erano meno fitte, ignorando quanto bruciasse, quanto sentisse il fuoco accerchiarlo e mangiarlo. Riaprì gli occhi e tra le lacrime e il fumo vide qualcuno in piedi vicino alla finestra, in fondo alla stanza, girato di spalle.
Qualcosa gli afferrò debolmente la caviglia e Kenma sentì il proprio corpo diventare di pietra  nell’attimo stesso in cui abbassò lo sguardo.
-Kenma!- sentì chiamare Kuroo, dietro di sé.
La figura offuscata di sua madre lo guardava dal basso, gli occhi vuoti, i lunghi capelli sparsi sul viso insanguinato. Poco dietro, suo padre riverso a terra non si muoveva.
-Scappa.- mimò la donna con le labbra spaccate, dalle quale non sembrava voler uscire più nessun filo di voce, nessun respiro.
Gli sembrò di non avere più forze, tutt’a un tratto.
Kuroo riuscì a raggiungerlo. Sbarrò gli occhi, per quanto possibile, e ci mise un attimo più del previsto a organizzare i pensieri.
-Mizuki.- mormorò incredulo, confuso, terrorizzato.
-Scappa.- sibilò di nuovo la donna, con tutta la forza che aveva in corpo, ma immobile, la voce graffiante e bassa, impercettibile tra gli scoppiettii del fuoco, le sirene e gli allarmi.
La sagoma in fondo alla stanza si accorse di loro. Si voltò, e quando iniziò a dirigersi verso di loro, non ci fu più tempo.
-Kenma, fuori, fuori!- gridò Kuroo, subito, distogliendo a fatica lo sguardo dai due corpi esanimi e bruciati sul pavimento, tra il sangue e i vetri rotti.
-Mamma!-
Kuroo lo trascinò quasi di peso mentre tornava sui suoi passi, più veloce che poteva tra le macerie, la casa che iniziava a crollare e il fuoco insopportabile.
-Mamma!-
Kenma ansimava, col fiato corto, la vista quasi completamente offuscata, le dita di Kuroo strette saldamente attorno al suo gomito. Calpestò qualcosa e lo spezzò, si voltò indietro giusto in tempo per vedere la sua maschera in frantumi, per sentire un miagolio debole provenire da chissà dove, tra le fiamme. Poi dovette lanciarsi nel vuoto.
L’atterraggio fu uno dei peggiori della sua vita.
L’asfalto era più duro e ruvido di quanto ricordasse, le gambe sembravano non volerlo più reggere. Rotolò malamente per terra e si rialzò a fatica, la gola chiusa che faceva passare solo un filo d’aria. Kuroo non aveva ancora lasciato la presa e continuò a farlo correre, e correre ancora, per le strade intricate che si stavano affollando di persone spaventate e curiose, tra le svariate sirene che facevano capire loro che quello che stava succedendo non era normale, non era un episodio marginale, non era qualcosa successo per caso. Corsero, e corsero, e continuarono a correre finché non ce la fecero più, finché i polmoni non bruciarono e dovettero rallentare il passo per non accasciarsi a terra.
Si infilarono in un vicolo e si abbandonarono contro il muro, cercando ossigeno.
Si guardarono finalmente in faccia e Kuroo sentì una fitta al cuore nel vedere Kenma ridotto in quello stato, i vestiti bruciacchiati e in parte fusi con la pelle, gli occhi gonfi e rossi, le ustioni e la parte destra del corpo piena di escoriazioni dovute alla caduta.
I respiri pesanti di Kenma gradualmente si mischiarono a singhiozzi convulsi. Kuroo provò a dire qualcosa per cercare di tranquillizzarlo, qualsiasi cosa, ma la testa gli girava ancora troppo, e, soprattutto, non aveva parole di conforto. Dovette restare in silenzio.
Avvolse entrambe le braccia attorno alle sue spalle e lo strinse contro di sé con delicatezza, per non fargli male, stando attento a non toccarlo dove la stoffa si era sciolta. Il suo petto tremò e affondò i denti nel labbro inferiore per non piangere a propria volta, ma invano.
Sentire Kenma gemere in quel modo gli fece più male di tutte le bruciature che sentiva addosso.


___________________________

Note e chiarimenti
Mi dispiace, cominciamo a entrare nell'angst. 
Il titolo del capitolo è lo stesso di una poesia di Wilfred Owen e probabilmente si commenta da solo: trovo che un inno alla gioventù dannata sia abbastanza azzeccato, a questo punto. Come ha detto Kuroo nel capitolo precedente, non possono scappare da quello che sono e da tutto ciò che la situazione comporta.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che continuerete a seguire la storia.

Grazie a tutte le persone che hanno recensito e/o messo la fanfiction tra le preferite/seguite/ricordate!
Ci vediamo tra tre settimane.

 

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Capitolo 5
*** In girum imus nocte et consumimur igni ***


In girum imus nocte et consumimur igni
 
Era un tiepido pomeriggio di maggio. Oikawa abbassò lentamente gli occhiali da sole per tenere meglio sott’occhio i due individui che attraversavano la strada.
Era seduto ad un tavolino, all’esterno di un bar vicino alla stazione di Shibuya. Strinse tra i denti la cannuccia colorata e alzò le sopracciglia.
-Eccoli lì.- sussurrò, diretto al ragazzo con le braccia incrociate davanti a lui.
Iwaizumi girò distrattamente la testa per poi voltarsi di nuovo verso Oikawa.
-Sicuro che siano della CCG?-
-Cosa vuoi di più, andare a chiederglielo?-
-Non so, non hanno le valigette e mi sembrano… troppo piccoli.-
-Piccoli? Iwa-chan…- Oikawa rise piano, e congelò il sorriso mentre spostava lo sguardo sul suo volto. -Ovvio che siano piccoli, stanno ancora imparando nella loro scuola speciale, è per quello che non hanno le valigette. Non possono mollare un’arma in mano a un quindicenne e dire “molto bene, vai a suicidarti”.-
-Pedinare dei ragazzini non ha alcun senso.-
-Avrà più senso quando tra qualche anno quei ragazzini ti taglieranno la gola, ma non è forse meglio evitare questo spiacevole scenario togliendoseli di mezzo subito?-
Iwaizumi appoggiò i gomiti sul tavolino e, fulminandolo con lo sguardo, gli fece segno di abbassare la voce. Se avessero dovuto attuare quella politica per ogni futuro investigatore di ghoul, avrebbero dovuto iniziare a sterminare decine di studenti giapponesi. C’era qualcosa che gli sfuggiva, in quel ragionamento, ma capirlo sembrava impossibile.
Oikawa strinse le labbra attorno alla cannuccia e aspirò energicamente il fondo del caffè freddo.
-Ad ogni modo…- continuò, appoggiando il bicchiere vuoto sul tavolino e facendo vibrare il vetro. -…Hai visto quello con i capelli neri?-
Vide Iwaizumi annuire e prese un respiro profondo, mettendosi comodo sulla sedia. Alzò gli occhiali e se li appoggiò tra i capelli ondosi, gli occhi fissi sulle due figure ormai lontane che svoltavano la strada.
-Io quello lo conosco, e tutto quello che mi è successo nella Notte di Sangue è merito suo.-
Iwaizumi aggrottò le sopracciglia. Avrebbe voluto chiedergli cosa cavolo stesse blaterando, se avesse per caso sbattuto la testa da qualche parte, ma notò come i suoi occhi si fossero improvvisamente induriti, e preferì non contraddirlo troppo aspramente, per una volta.
-Sarà stato un bambino, all’epoca…- azzardò, non molto persuaso, e stranamente irritato nel rendersi conto che non sapeva nulla di quella storia, ma che il qualcosa che gli sfuggiva giaceva proprio lì.
-Aveva dieci anni.- confermò l’altro con tono malinconico, alzandosi.
Iwaizumi lo seguì, incuriosito e confuso, e insieme uscirono dal bar, facendosi largo tra la calca che affollava Shibuya, nella stessa direzione in cui erano andati i due ragazzi di prima. Scesero nella metropolitana e affrettarono il passo per non perdere il treno.

Oikawa aveva frequentato una scuola pubblica per tutti i sei anni di elementari. Ricordava bene quel bambino dal capelli corvini, più piccolo di lui di due anni. Facevano spesso un pezzo di strada assieme e Oikawa lo sopportava solo perché lo compiaceva venir guardato come se fosse stato un dio. Sapeva che quel bambino era un umano, ma c’era qualcosa di anomalo, nel suo modo di fare. Avrebbe dovuto rendersene conto prima di portarlo in negozio con sé e per fargli vedere tutte le piantine di cui era orgoglioso, in particolare i semini sul davanzale di camera sua che stavano germogliando.
-Quanto sei cresciuto, Tobio-chan.- cinguettò nostalgico quando vide la sua testa di capelli scuri svettare tra le altre, gli occhi concentrati mentre camminava lungo il vagone in movimento e sentiva le dita tremargli per l’impazienza.
I suoi genitori avevano avuto un brutto presentimento che li aveva spinti a ritirare loro figlio dalla scuola pubblica per impartirgli, con l’inizio delle scuole medie, un’educazione privata. Educazione che Oikawa aveva ricevuto per esattamente due sole settimane. Poi, i sospetti dei suoi genitori furono confermati nel peggiore dei modi dalla Notte di Sangue: tutti i membri della famiglia di Tobio-chan erano colombe, e lui era forse la più piccola spia che avesse mai lavorato per la CCG.
Erano passati poco più di cinque anni e Tobio sembrava essere scomparso da Tokyo, nessuno l’aveva visto, non risultava essere iscritto a nessuna scuola, ma Oikawa conosceva troppe persone ed era troppo testardo per passare oltre. I suoi sforzi erano stati ripagati, e finalmente l’aveva trovato.
Dopo essere scesi dalla metro, Oikawa e Iwaizumi risalirono le scale fino all’uscita, cercando di non perderli di vista, ma quando sentirono il rumore di una sirena si guardarono confusi. Si girarono lentamente verso il profilo della città e videro del fumo nero in lontananza, vari investigatori e possibili agenti in incognito della CCG che si dirigevano in quella direzione.
-Forse non è il momento giusto.- sussurrò Iwaizumi a denti stretti e occhi sgranati, avvicinandosi con nonchalance al muro dell’edificio accanto alle scale. Vi si appoggiò con la schiena per non intralciare il passaggio ed evitare di dare nell’occhio, mentre i loro due bersagli sfrecciavano loro davanti, qualche metro più il là.
-Un incendio?-
Oikawa assunse un’espressione delusa e infastidita e continuò a guardare quel fumo nero, cercando di capire il nesso con tutte quelle colombe che si muovevano concitatamente in una sola direzione con le loro valigette in mano.
-Potrebbe essere un’operazione esageratamente invasiva. Oppure i ghoul che dovevano abbattere si sono rivelati più problematici di quanto pensassero. Peccato, iniziavo ad essere impaziente.-

Kuroo non seppe mai per quanto tempo rimasero in quel vicolo a fissare il vuoto, seduti per terra, increduli, doloranti.
La rigenerazione sembrava eterna: si guardò le mani coperte di vesciche che, nel guarire, sembravano ribollire; sentiva la pelle del viso tirare, le gambe bollenti.
-Ti fa tanto male?- fu la prima cosa che riuscì a dire, rivolto a Kenma, quando il suo sangue tornò ad essere normalmente ossigenato e il suo cervello fu di nuovo in grado di funzionare correttamente, nonostante il cuore che esplodeva per la rabbia e l’angoscia.
Alzò la testa vide Kenma con la faccia ancora affondata tra le ginocchia piegate e le mani tra i capelli. Con le braccia cercava di coprirsi il capo, sparire, proteggersi dal mondo, come se gli stesse crollando addosso. La manica della felpa era un tutt’uno col braccio.
-Kenma?-
-No.- mentì, con fatica, ma non solo per il dolore fisico.
Hiroshi e Mizuki erano morti.
Li avevano visti coi loro occhi, tra il fumo e le fiamme. Erano stati uccisi e non sapevano da chi, né perché. La loro famiglia, la loro casa, le loro cose erano andate distrutte.
Kuroo si chiese quanto avrebbero dovuto aspettare per una rigenerazione decente, e se davvero fossero conciati così male. Forse, lo shock acuiva il dolore. C’era qualche prova scientifica che ciò influisse sulle cellule Rc? Ah, Kenma aveva uno zainetto. Magari aveva un kit di primo soccorso, lì dentro? Non sapeva quanto avrebbe potuto essere utile, comunque. Loro non li avevano neanche, i kit di primo soccorso. Che ragionamento inconcludente.
Kuroo si impose di combattere la sua condizione di smarrimento.
Dove andare? Dove andare, dove andare. Doveva pensare in fretta, non potevano passare la notte lì, non poteva lasciarsi divorare dal panico e dalla disperazione.
-Kenma, sanno che siamo qui, dobbiamo muoverci e andarcene.-
Si alzò in piedi e gli strinse il braccio sano per aiutarlo ad alzarsi.
-Non era un ghoul.- disse Kenma.
Non era una domanda, e Kuroo dovette confermare quell’asserzione inquietante con un cenno del capo mentre si addentrava più a fondo nel vicolo. Era chiaramente una colomba, quella che era in piedi davanti ai corpi dei genitori di Kenma, avvolta dal fumo denso.
-Cosa voleva?- continuò il più piccolo, gli occhi fissi a terra.
-Non lo so. I tuoi genitori avevano dei bikaku, no? Sono i kagune più usati per le quinque, magari è per quello.-
A Kuroo fece incredibilmente male dire quelle parole. Non avrebbe mai voluto ridurre la morte di Hiroshi e Mizuki ad una mera questione pratica, ma doveva trovare una motivazione razionale per quel fatto tragico, o non sarebbe mai riuscito a passarci sopra.
-Hanno dato fuoco ad un’intera palazzina.- fece notare l’altro, a voce più bassa.
Aveva ragione. Non era logico mettere a rischio così tante persone, mobilitare anche i pompieri, creare così tanti disagi solo per due possibili quinque. C’era qualcosa che non tornava, qualcosa di cui non erano al corrente.
-Ad ogni modo, hanno visto che siamo scappati. Non siamo ghoul ricercati e non so quanto ci abbia visto bene in faccia, ma è comunque meglio sparire per un po’ da questa zona.-
Era preoccupato. Kenma non lo capiva solo dal suo tono di voce, ma anche dal modo in cui si muoveva, in cui cercava disperatamente di dimostrare di avere tutto sotto controllo, quando invece erano entrambi in balia degli eventi.
-Dobbiamo riuscire ad arrivare da Iwaizumi e Oikawa.- disse poi il più grande, come colto da un’illuminazione. -La situazione non sembra calma, però. Dobbiamo stare attenti, va bene?-
La sola idea di dover continuare a camminare in quello stato rendeva le gambe di Kenma pesanti come macigni; avrebbe voluto lasciarsi cadere per terra e mettere le radici nell’asfalto, non dover pensare più. Tutta l’adrenalina gli era scivolata via dal corpo e ora si sentiva come un guscio vuoto e confuso, come se tutto si stesse muovendo troppo velocemente e lui non riuscisse a capire, né a pensare, né a processare quello che era successo.
Lo guardò smarrito e Kuroo gli diede due deboli pacche sulle spalle, tenendo poi la sua mano ben salda contro la sua schiena per aiutarlo ad avanzare. -Facciamo questo sforzo.-

Il sole calava velocemente. Il cielo abbandonava le sfumature calde e si faceva più scuro, di un azzurro intenso. Arrivarono alla metropolitana più vicina, scesero le scale e salirono sul treno.
Due fermate dopo, Kenma voltò la testa coperta dal cappuccio per guardare al di là del vetro mentre la metro rallentava. Aggrottò le sopracciglia e chiamò Kuroo appoggiandogli due dita sul braccio. Gli indicò con un cenno due persone in piedi sulla banchina.

Oikawa doveva essersi sentito osservato, perché non appena salì sul vagone, assieme a Iwaizumi e ad una piccola folla di persone, girò istintivamente il capo e incrociò gli occhi sorpresi di Kuroo, in piedi a qualche metro da loro: stava per rivolgergli un sorriso non troppo sincero, ma capì subito che c’era qualcosa che non andava.
Si fecero lentamente largo tra le persone che avevano affollato il vagone e solo quando gli furono vicini si resero conto che c’era anche Kenma, seduto, quasi nascosto dietro di lui.
-Cosa ti è successo?- mormorò Iwaizumi, turbato, non appena vide la pelle rossa e irritata e i vestiti bruciacchiati.
-Te lo spiego quando scendiamo da qui. Cosa fate qui? Stavamo venendo da voi.- rispose Kuroo, sempre a bassa voce.
-Lunga storia.- tagliò corto l’altro, scrollando le spalle.
-Abbiamo visto del fumo nero.- commentò Oikawa, dopo aver passato lunghi secondi a fissare un Kenma che proprio non ne voleva sapere di alzare gli occhi. -Aveva qualcosa a che fare con voi?-
Kuroo strinse le labbra e lanciò un’occhiata veloce attorno a sé. -Tutto bruciato.-
Stettero in silenzio fino alla loro fermata. Scesero tutti e quattro e Iwaizumi spalancò gli occhi per la sorpresa quando finalmente poté vedere come era ridotto Kenma.
Kuroo raccontò ciò che era successo mentre si dirigevano verso la loro casa, e Oikawa annuiva, pensoso e corrucciato: da una parte, non poteva fare a meno di pensare che ci fosse qualcosa di strano, nel metodo che avevano utilizzato le colombe; dall’altra, stava già pensando a cosa fare per aiutarli. Aveva già un paio di persone in mente: aveva contatti con vari gruppi, tutti che vivevano in condizioni più che dignitose e la cui identità da umani ruotava attorno a piccoli negozi e, soprattutto, café. C’era bisogno di qualcuno non eccessivamente violento, ma che fornisse una base solida.
Conosceva Kuroo e Kenma ormai da più di un anno, non si vedevano spesso, ma erano comunque conoscenze, e se c’era qualcosa che la vita gli aveva insegnato, era che le conoscenze tornano sempre utili. Non li considerava come veri e propri amici, eppure gli dispiaceva che non avessero nessun posto dove andare, o qualcun altro a cui chiedere aiuto. Ma, in ogni caso, lui era sicuramente la persona più adatta a cui rivolgersi.
Oikawa non era una persona straordinariamente generosa, né provava un particolare affetto per quei due ragazzi: il fatto era che Kuroo era un amico di infanzia di Iwaizumi, e nei confronti dell’altro ragazzino, sinceramente, provava solo una qualche sottospecie di triste compassione. In quel momento, vedeva in lui una sorta di specchio nel quale si rifletteva la sua immagine, vagamente offuscata, emersa da un tempo lontano.
Un tempo in cui anche lui era rimasto fisicamente e mentalmente ferito dopo essere stato privato delle sue due colonne portanti, della sua casa, della sua quotidianità, tutto in un lasso di tempo troppo breve: un orfanello dallo sguardo vuoto. Troppo familiare per non fargli nessun effetto.

-Prima cosa.- disse non appena furono entrati in casa, indicando Kenma con l’indice di una mano e appoggiando il mazzo di chiavi su un tavolino con l’altra. -Toglietegli la felpa di dosso, la pelle si sta rigenerando sulla stoffa e deve fargli un male terribile.-
Kenma si guardò il braccio e provò una sconcertante sensazione di nausea. Oikawa aveva ragione. Quasi tutte le abrasioni e le escoriazioni si erano per lo più rimarginate, le scottature bruciavano, ma ora non erano altro che pelle arrossata. Il vero problema era la stoffa fusa alla pelle.
Iwaizumi aiutò Kenma a togliersi lo zainetto e lo invitò a seguire gli altri al piano di sopra.
-Come gliela togliamo?- chiese Kuroo, chiaramente nervoso, salendo le scale.
Oikawa si fermò con un piede sull’ultimo gradino e si girò per guardarlo dall’alto, oltre la spalla.
-La strappi.-
Kuroo lo guardò così duramente che Oikawa gli rise in faccia.
-Preferisci andare in ospedale e far scoprire a tutti che è un ghoul? Mi spiace, non ci sono altri modi. La pelle si riformerà normalmente, forse gli rimarrà il segno, ma sarà comunque meglio di ora. Più aspetti, più è peggio.-
Finì di salire le scale e svoltò a destra, accese la luce della camera di Iwaizumi e la indicò a Kenma.
-Puoi sederti alla sedia della scrivania. Se non riesci a togliertela da solo puoi chiedere aiuto al tuo amico. Dopo che mi ha quasi rotto il naso al nostro primo incontro, io preferisco non toccarti.-
Kuroo e Kenma si guardarono un attimo, incerti, ma poi il più piccolo andò a sedersi con un sospiro sulla sedia e chiuse gli occhi, sotto lo sguardo agitato dell’altro.
-Che kagune hai?- chiese Iwaizumi liberando la scrivania così che Kenma potesse appoggiarci il braccio, anche se con qualche difficoltà.
-Bikaku.-
Oikawa teneva un quadernetto pieno di numeri di telefono in una mano e il cellulare nell’altra. Iniziò a comporre un numero, ma sentendo quella risposta alzò un attimo la testa.
-Oh, niente rinkaku? Allora sì, rimarrà decisamente il segno, mi dispiace molto.- commentò con un tono davvero troppo frivolo, tornando ad abbassare gli occhi sul display, per poi voltarsi e uscire dalla stanza sotto lo sguardo truce di Iwaizumi.
-Se mi cercate, sono a prenderlo a calci.- disse uscendo dalla stanza.
Kenma sentiva il cuore battere forte e il braccio pungere sempre di più, come se decine di aghi lo stessero trapassando dall’interno.
Vide il volto di Kuroo contratto e percepì della rabbia nella sua espressione, nel modo in cui guardava Oikawa, o perlomeno il punto in cui si trovava fino a qualche attimo prima.
-Fallo tu, da solo non riesco.- mormorò atono, attirando la sua attenzione. -L’ha detto anche lui che più aspetto più è peggio.-
Kuroo strinse le labbra e cercò di addolcire un’espressione che sapeva essere terrorizzata.
-Ti farà male.- disse, come se non fosse abbastanza ovvio, come se credesse che Kenma non lo avesse capito. Non vedeva paura nei suoi occhi, ma solo una sorta di rinuncia che, in qualche modo, lo faceva preoccupare.
-Lo so. Non importa.-

Oikawa teneva il telefono premuto contro l’orecchio e guardava distrattamente il vaso con la piccola pianta posato sul comodino.
Iwaizumi entrò a passo spedito in quella stanza, la camera di Oikawa, e si sedette sul letto affianco a lui.
-Potevi chiedermelo prima di portarli in camera mia. E poi Kenma ha appena perso i suoi genitori, non potresti avere un atteggiamento un po’ meno irritante? Mi fai venire voglia di prenderti a sberle.- ringhiò guardandolo dritto in faccia.
Oikawa gli posò un indice sulla bocca mentre rispondeva al telefono, radioso come sempre, e non fece neanche caso alla faccia incredula che fece l’altro, o al gesto indispettito con cui lo allontanò.
-Ah, signor Nekomata? Mi scusi se la disturbo a quest’ora, ma è davvero, davvero importante…-
 Un urlo proveniente dalla stanza accanto squarciò il silenzio della casa e Oikawa socchiuse gli occhi con una smorfia. Iwaizumi si alzò immediatamente in piedi con uno scatto e corse da Kuroo e Kenma.
-Sì, ha a che fare con questo…-
Kenma teneva la faccia premuta con forza contro il petto di Kuroo, gli occhi strizzati, e il respiro affannoso. Lo stava stringendo, Kuroo, attento a non sfiorare il braccio sinistro, rosso come il fuoco, sul quale la pelle sembrava riformarsi a vista d’occhio, e la mano sinistra di Kenma era aggrappata alla sua maglia con una forza tale che quasi si sentiva strozzare.
Aveva strappato quel groviglio di pelle e stoffa sciolta con un gesto secco. Poi, con gli occhi umidi e spalancati per la consapevolezza di essere stato la causa di quell’urlo terribile, aveva perso il conto delle volte che gli aveva sussurrato scusa tra i capelli scuri, quasi in trance.
Non aveva mai sentito la voce di Kenma in quel modo, men che meno l’aveva sentito urlare di dolore, e sentire quel suono solitamente pacato diventare all’improvviso prepotente e lacerante lo aveva profondamente sconvolto.
Vide Iwaizumi entrare in tutta fretta, salvo poi calmarsi vedendo che nulla era andato storto.
-Vedi? Si rigenera molto più facilmente senza corpi estranei a fare da ostacolo.-
Kenma riaprì gli occhi, ora neri e rossi, e fissò Iwaizumi coi denti digrignati e la fronte sudata.
-Deve aver fatto parecchio male, eh?- disse avvicinandosi e studiando la porzione di carne viva sul suo avambraccio. -Ma presto starai meglio, sicuro.-
Kenma si allontanò da Kuroo e cercò di calmarsi, perché sentiva il cuore in gola, e aveva paura che sarebbe esploso.
-Mi dispiace per la felpa, posso darti una maglia di Tooru. Ti starà un po’ grande, ma è meglio di niente… Se vuoi ti do anche una felpa, potresti avere freddo. Non metterla subito però, aspetta che si riformi la pelle.-
-Buone notizie!- lo interruppe Oikawa con tono trionfante e soddisfatto mentre metteva piede in camera. -Avete un posto dove dormire stanotte e, quasi sicuramente, per molte altre notti.-
I tre ragazzi lo guardarono, in parte meravigliati, in parte interrogativi. Oikawa mostrò loro un sorriso compiaciuto ma delicato e iniziò a frugare nell’armadio di Iwaizumi.
Kuroo afferrò al volo la maglietta e la felpa che gli lanciò per Kenma e abbozzò un sorriso nel vedere l’ex proprietario di quegli indumenti tirare un pugno sui reni a Oikawa, apostrofandolo con parole poco carine.
-Alzatevi, su, non c’è tempo da perdere! Si va a Akihabara!- esclamò poi Oikawa, massaggiandosi la schiena dolorante, ma senza perdere il suo sorriso, tanto lucente quanto tirato.
Kuroo aiutò Kenma a infilarsi la maglietta, stando attento a non toccare la carne viva. Il più piccolo fece due respiri profondi e cercò di non pensare al dolore, di distaccarlo da sé, esattamente come nelle ore precedenti. Non aveva tempo di pensare, dovevano solo fare: non sapeva perché fossero diretti in un quartiere così celebre e frequentato e decisamente particolare, ma non era quello il momento delle domande.
In metropolitana, Oikawa spiegò che aveva parlato con un certo signor Nekomata, un anziano che, a quanto pareva, possedeva un intero palazzo ad Akihabara, e aveva da sempre rapporti piuttosto stretti con la famiglia di Oikawa.
-Il signor Nekomata esercita influenza su un territorio piuttosto ampio e ha parecchi seguaci, dovete ritenervi fortunati di star entrando direttamente in quello che potrebbe essere, insomma… Sì, il quartier generale!-
Il cielo era ormai di un nero intenso, ma le luci colorate di Akihabara illuminavano le strade come se fosse giorno e Kuroo si ritrovò a guardarsi intorno a bocca aperta non appena risalì dalle scale della metro.
-Da questa parte.- disse Oikawa, attraversando le strisce pedonali. -E, Kuroo, togliti quell’espressione dalla faccia: non è il tipo di “vecchio ghoul” a cui tu e Iwa-chan siete stati abituati da piccoli, è una persona molto rispettabile, te lo assicuro.-
Kuroo guardò Iwaizumi con un piccolo broncio e quello annuì: anche se dover dare ragione a Oikawa era sempre difficile, aveva incontrato più volte il signor Nekomata in quegli anni e poteva confermare che effettivamente era una persona affidabile e giudiziosa.
Si fermarono davanti ad una palazzina di cinque o sei piani, con una grossa insegna colorata sulla quale si leggeva, a caratteri tondeggianti, la scritta “Nekoma” compresa tra due impronte di gatto.
Kenma aggrottò appena la fronte e stava per chiedere cosa fosse, ma una voce pacata e tremolante lo anticipò.
-Tooru, Hajime! Ma quanto siete cresciuti, come passa il tempo… Come sta tuo zio, Tooru? Non lo sento da una settimana, ho bisogno di nuovi fiori.-
Un vecchietto rugoso e zoppicante uscì lentamente dalla porta, avvicinandosi a loro con le braccia dietro la schiena.
Iwaizumi guardò con la coda dell’occhio e una nota di disappunto il sorriso stucchevole di Oikawa.
-Dirò a mio zio di chiamarla, allora!- cinguettò inclinando la testa.
-E voi due dovete essere Kuroo e Kozume, Oikawa mi ha spiegato brevemente cosa vi è successo oggi… È un peccato, un vero peccato.- disse scuotendo la testa, mentre i due diretti interessati lo salutavano con un inchino. -Mi fido della famiglia Oikawa, e non ho problemi a dire che non avrei mai preso una decisione del genere tanto velocemente se me l’avesse chiesto qualcun altro… Ma non perdiamo tempo, avete sicuramente bisogno di riposare dopo una giornata del genere, venite con me.-
Oikawa e Iwaizumi si congedarono e Kenma e Kuroo seguirono l’anziano signore dentro il palazzo silenzioso.
-In questa palazzina ci sono per lo più appartamenti. Tutti miei, tutti abitati da ghoul fedeli a me e al gruppo di Nekoma.- spiegò mentre salivano le scale. -So che non avete nessuno a cui appoggiarvi, né un posto dove andare, giovani come siete... Quindi, io vi offro l’opportunità di entrare a far parte di questa comunità.-
Kenma rallentò e alzò la testa, il braccio appoggiato al corrimano.
-Oh, ma non preoccupatevi, non mi dovete dare una risposta subito! Avete passato una brutta giornata: per questa notte, dormite e riposatevi, senza preoccupazioni. Domani avrò tempo di spiegarvi molte più cose su come funziona questo posto.-
Arrivarono al secondo piano e Nekomata tirò fuori una chiave, per poi aprire una porta e invitarli ad entrare.
-Prego, prego, fate come se foste a casa vostra! Dovrebbe esserci tutto il necessario, ecco, e questa è la chiave. Se avete qualche problema, mi trovate nell’appartamento al piano terra.-
Kuroo prese la chiave e assieme a Kenma ringraziò di cuore quel piccolo e sorridente signore dall’aria rilassata e disponibile.
-Buonanotte!- li salutò richiudendo la porta mentre agitava la mano.
L’appartamento era abbastanza grande, e sembrava che non mancasse nulla. La camera da letto comprendeva un armadio, accanto al quale stava un tavolo con una sedia, e dall’altra parte della stanza c’erano due letti singoli divisi da un comodino sul quale era posata una abât-jour. Si trascinarono sui letti, sfiniti, e si godettero un quarto d’ora di meritato silenzio e pace.
Kenma sentì le membra rilassarsi sempre di più, un nodo al centro del petto che non si era davvero accorto di avere si stava sciogliendo alla luce calda e soffusa della lampada.
-Dovevano iscriverti a scuola.- disse con voce talmente flebile che per un attimo Kuroo pensò di essersela immaginata.
-Ma non l’hanno mai fatto.- continuò, come in uno stato di incoscienza. -E non possono più farlo.-
Kuroo si accigliò e aprì la bocca, ma sentì un singhiozzo soffocato, e poi altri, che si fecero a poco a poco più rumorosi.
Finalmente piangeva. Si voltò e vide che gli dava la schiena, scossa dai fremiti. Era giusto che piangesse, che lasciasse che tutta la tensione gli uscisse dal corpo: aveva pianto, preso dal panico, dopo la fuga disperata di quel pomeriggio, ma Kuroo aveva visto che non era finita, che si era bloccato, pietrificato. Aveva cercato di lasciare fuori tutto, la morte dei suoi genitori, il dolore, la paura, ma non erano cose che avrebbe potuto isolare, perché non erano esterne, ma dentro di lui. Ma ora, senza più nessuno attorno a lui tranne Kuroo, tutte quelle emozioni avevano ripreso a traboccare come l’acqua da una fonte.
Kuroo si alzò, si sedette sul suo materasso e, non appena Kenma si voltò istintivamente verso di lui, gli prese la testa con entrambe le mani. La sollevò piano per guardarlo negli occhi.
-Voi avete salvato me.- disse con un tono dolcissimo, alla vista di quegli occhi lucidi e arrossati. -Ora credo di dover essere io a salvare te.-
Kenma strizzò gli occhi e strinse i denti. Avrebbe voluto scuotere la testa, o tornare a nasconderla, ma le mani di Kuroo glielo impedivano.
-Ho sentito Niku che miagolava.- mormorò mentre due grosse lacrime gli rigavano le guance, con una smorfia che fece accartocciare il cuore al più grande.
-È inutile pensarci. Troveremo un modo per…-
-Non voglio una nuova vita, Kuro. Voglio la mia.- lo interruppe, con voce graffiante e umida.
Kuroo non poté ribattere e abbassò lo sguardo. Si stese accanto a lui e lo abbracciò, lo tenne stretto. Voleva dimostrargli che era forte, solido, senza paura. Eppure la stanchezza e l’angoscia lo opprimevano e il pianto di Kenma era insopportabile, sentì gli occhi farsi lucidi e il petto sempre più pesante e non sapeva più cosa fare per trattenersi, perché si sentiva perso, distrutto.
Gli accarezzò la schiena mentre strizzava gli occhi e si scioglieva in pesanti singhiozzi, che andarono a mischiarsi a quelli di Kenma. Appoggiò la fronte contro la sua, la mascella contratta, il bisogno di farsi minuscolo e venire inglobato dal vuoto, perché lì non voleva più starci, non ne aveva alcuna forza.
Kuroo continuò a passare la mano sulla sua schiena finché i singhiozzi di entrambi si affievolirono e il respiro di Kenma si fece regolare contro il suo collo, finché gli occhi arrossati non si chiusero piano e le piccole carezze si fecero più lente e leggere. La tensione si sciolse sulle guance bagnate, sul collo rilassato. Loro respiravano e i cuori battevano, e quello era un sollievo.


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Note e chiarimenti
Il titolo del capitolo è un celebre palindromo latino che mi ha sempre affascinata tantissimo. Significa "Giriamo attorno di notte e siamo consumati dal fuoco", e si riferisce forse alle falene. Io comunque ho voluto usarlo come descrizione di quello che accade in questo capitolo: Kenma e Kuroo passano una notte movimentata e, tristemente, sono consumati dal fuoco. L'idea di "consumarsi" per il fuoco potrebbe essere anche riferita a Oikawa che si logora nel ricordo di Tobio. La struttura circolare del titolo inoltre si ricollega inoltre alla frase detta da Kuroo: Kenma e la sua famiglia l'hanno salvato, e ora tocca a lui salvare Kenma, come se ci dovesse essere una circolarità, come se tutto tornasse al punto di partenza.
Ringrazio tutti quelli che hanno recensito e/o che hanno messo la storia tra le preferite/seguite/ricordate.
Spero che continui a piacervi; capitolo 6 tra tre settimane!

 

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Capitolo 6
*** Mellitos verborum globulos ***


Mellitos verborum globulos

Kuroo si svegliò quando la luce che filtrava attraverso le tapparelle colpì le sue palpebre chiuse. Si sentiva come se avesse dormito per giorni interi.
Gli ci vollero dieci secondi perché il suo cervello iniziasse a funzionare, a ricordare. Subito fu invaso da un’insopportabile nostalgia e la tristezza crollò sul suo petto come un enorme macigno. Tante immagini confuse gli affollarono la mente, sovrapponendosi e accavallandosi, agitate e struggenti. Una in particolare gli fece aprire gli occhi, nella vana speranza che quelle sensazioni fossero illusorie, solo brutti sogni: il sorriso di Mizuki, i suoi capelli liscissimi, la frangetta nera. Una figura che sembrava essere per qualche motivo irraggiungibile, per quanto minuta. Lei, e con lei Hiroshi -una pietra, silenzioso ma sempre presente, solido, deciso-, che avevano deciso di aprire la loro casa per lui, riporre in lui la loro fiducia, il loro amore, trattarlo come un figlio.
Kuroo non ricordava i suoi veri genitori, ma poteva affermare con sicurezza che Hiroshi e Mizuki erano stati la sua seconda possibilità. L’aveva vissuta per cinque anni. Vi si era immerso, si era lasciato illudere dal destino, si era fatto intrappolare da qualcosa che sapeva di dover guardare con sospetto, forse addirittura evitare. Si era ritrovato immerso tra gli affetti e la dolcezza di una famiglia, tra la tranquillità e il candore.
Si era ritrovato invischiato, e vederli morti lo aveva sconvolto, inaridito, distrutto; avrebbe voluto dimenticarsi di tutto e scappare, annientare quell’umanità che era diventata parte di lui: aveva perso Bokuto, aveva perso la sua casa, aveva perso i suoi genitori, e più si sforzava di incastrarsi nel mondo, più questo sembrava volergli portare via ciò che conquistava.
Voltò la testa: Kenma era in piedi in fondo alla stanza. Vederlo bastò.
Era vero che si era ritrovato invischiato in tutto quello, e rendersene conto nel dormiveglia lo aveva intimorito, ma amava troppo per tirarsi indietro.
 
Kenma teneva lo zainetto aperto appoggiato su una sedia. Lo stava svuotando, e appoggiava il contenuto sul tavolino lì affianco.
-Kenma.-
Quello si girò, e a Kuroo sembrò di vedere qualcosa di diverso nei suoi occhi, qualcosa di triste e vuoto.
-Come va il braccio?- continuò assonnato.
-Bene.- mormorò, tornando a dargli la schiena.
Kuroo si alzò a fatica e gli si avvicinò curioso. La maglietta di Hajime era esageratamente grande su di lui, sarebbe dovuta essere a maniche corte ma la stoffa gli arrivava quasi al gomito. Gli guardò il braccio destro e vide che la pelle si era completamente riformata, sebbene fosse più lucida e chiara del normale, e un po’ in rilievo. Tutte le altre ustioni si erano rimarginate.
Spostò poi lo sguardo sul tavolo, e passò in rassegna le uniche cose che gli erano rimaste. Oltre ai loro due cellulari, tutto quello che avevano era un nintendo, un paio di cuffiette, un astuccio, un block notes, un carica batterie per il telefono, un portafoglio con mille yen e una bottiglietta d’acqua mezza vuota. Non erano oggetti particolarmente rincuoranti.
Appoggiò una mano sulla spalla del più piccolo e quello voltò la testa per guardarlo ancora una volta.
-Dovremmo andare a parlare col signor Nekomata.- disse Kuroo, e la smorfia che apparve sulla faccia di Kenma gli fece capire che avrebbe voluto evitare quel discorso.
-Sì.- disse freddamente, tenendo gli occhi bassi sul suo zaino.
-Io credo che non sarebbe male, stare qui.-
Kenma lo fulminò con lo sguardo e Kuroo si affrettò a spiegare il suo punto di vista.
-Non dico che dobbiamo per forza dirgli di sì, insomma, ci deve ancora spiegare come funziona e… Allora, ascolta. Premetto che Oikawa non è una persona che mi va completamente a genio e devo ancora inquadrarlo per bene, ma non è cattivo e in più io so che Hajime è una persona coscienziosa e se sta sempre così vicino a Oikawa avrà i suoi motivi, presumo, anche se io non li afferro. Detto questo, mi fido abbastanza di loro da credere che non sia nelle loro intenzioni metterci nelle mani di qualche individuo strano o pericoloso. Quindi penso che se ci hanno portati dal signor Nekomata è perché sanno che è una persona affidabile.-
Kenma alzò le sopracciglia e scrollò le spalle. Non sembrava ancora del tutto convinto, ma se da un lato Kuroo capiva le sue preoccupazioni, dall’altro aveva la sensazione che Kenma lo stesse facendo apposta, che quell’atteggiamento fosse una specie di capriccio, che si opponesse a prescindere, perché era impossibile che non fosse consapevole di che cosa avrebbe comportato quella situazione. Strinse le labbra e piantò le pupille nelle sue.
-Kenma, non voglio tornare a vivere per strada. Non voglio che tu viva per strada. E lo sai benissimo che non avremmo alternativa.- disse con fermezza.
Kenma sembrò scuotersi nel sentire quelle parole dure, ma non abbassò lo sguardo. Fece una pausa di qualche secondo prima di parlare.
-Io mi sono fatto una doccia. Falla anche tu e poi andiamo dal signor Nekomata.- disse collegando il cellulare alla presa per caricarlo e decidendo, con un tuffo al cuore, di ignorare le mail di Shouyou.
 
La sera prima, il signor Nekomata aveva detto che in quella palazzina vivevano solamente ghoul. Eppure, quando uscirono sul pianerottolo, si irrigidirono nel vedere un gruppetto di tre o quattro ragazze sorridenti passare davanti a loro e salire le scale. Kuroo e Kenma si guardarono e capirono che avevano pensato la stessa identica cosa: quelle ragazze erano umane, quell’odore era inconfondibile.
Kuroo appoggiò le mani sul parapetto e guardò giù, lungo la tromba delle scale. Come se sapesse di essere cercato, due piani più in basso, il signor Nekomata li guardava con la testa rivolta verso l’alto. Con un sorriso e gli occhi socchiusi, fece loro gesto di non muoversi e iniziò a salire con lentezza le scale.
-Avete dormito bene, ragazzi?- chiese cordialmente quando li raggiunse. -Pronti ad immagazzinare tante belle informazioni?-
-Lei qui è il capo, dico bene?- chiese Kuroo, tagliando corto. -Tutti dipendono da lei…-
-Sì, io offro a persone come voi una casa, un impiego, e le spalle coperte.-
Kenma assottigliò gli occhi e inclinò appena la testa. -E cosa chiede in cambio?-
L’anziano signore aprì leggermente gli occhi, sorpreso. -Cosa chiedo? Non chiedo nulla, semplicemente ci guadagno tanto quanto voi: ho un gruppo coeso di persone affidabili su cui posso contare in momenti difficili. È rassicurante sapere di avere il sostegno e la fiducia di qualche decina di ghoul con cui condividi idee e stili di vita, perché non è facile trovarne, specialmente di questi tempi.-
Kuroo si appoggiò con una spalla al muro, interessato. -E quale sarebbe, il vostro stile di vita?-
-Prima di tutto, lasciatemi dire che noi non siamo quel genere di ghoul sconvenientemente violenti. Tranne in alcuni casi in cui è necessario lavorare in gruppo, qui ognuno vive la sua vita da ghoul. Né più né meno dell’equilibrio imposto da una morale sana. Per questo, vi prego, se avete una passione per gli omicidi compiuti più per divertimento che per altro, non siete i benvenuti qui. Allo stesso modo, non vi troverete bene se cercate un approccio troppo pacifista, perché qui c’è da sporcarsi le mani. Mi spiego?-
Kenma guardò Kuroo con la coda dell’occhio. Sembrava che non si fosse sbagliato, forse aveva avuto ragione quando aveva detto che Oikawa non li aveva messi tra le mani di qualche pazzo.
-Poco fa ha detto che offre ai suoi seguaci alloggio e impiego. Cosa intendeva?- chiese Kuroo.
-Poco fa abbiamo visto delle umane salire le scale- si intromise Kenma, ricordando l’insegna colorata che c’era all’esterno dell’edificio.. -Erano… clienti?-
Cercò uno sguardo di conferma da parte del signor Nekomata, e l’anziano ridacchiò e annuì con gioia.
-Esattamente, Kenma. Come ho detto ieri, tutti quelli che abitano qui sono ghoul. Ma questo non significa che possiate fare ciò che volete: siamo in un quartiere affollato, nessuno si aspetterebbe di trovare dei ghoul qui ed è questa la nostra protezione migliore, ma solo se tutti collaboriamo a rendere il luogo sicuro. Perciò non voglio vedere cadaveri per le scale, niente sangue, niente odori o rumori sospetti. Ci copriamo costantemente l’un l’altro, e bisogna stare sempre all’erta, perché se resterete vedrete moltissimi altri clienti, moltissimi altri umani salire e scendere di qui per tutto il giorno, tutti i giorni.-
Kenma pensò a quale negozio potesse esserci ai piani alti di un palazzo residenziale, e non riuscì a darsi una risposta prima che Nekomata tornasse a parlare.
-Immagino siate curiosi di vedere cosa ci sia al piano di sopra. Seguitemi, ragazzi.-

Kuroo trattenne il respiro quando giunse sul pianerottolo alla fine delle scale e sentì il cuore saltare sentendo il verso di sorpresa che si lasciò sfuggire Kenma.
-È un…- cominciò Kuroo incredulo, l’espressione tra l’incantato e il dubbioso.
Su quel piano c’era una sola porta, più grande del normale, fatta di legno e vetro. Una grossa insegna colorata, uguale a quella posta all’esterno, era affissa al muro assieme ad alcune sagome stilizzate di gatti.
Nekomata spinse la porta e Kenma fu certo che, se per caso avesse avuto ancora dei dubbi sul rimanere o no, sarebbero stati di certo spazzati via.
-…Neko cafè?- mormorò Kenma, concludendo la frase di Kuroo e guardandosi attorno con sguardo completamente perso. C’erano poltrone, tavolini, divanetti, cuscini, grattatoi e una quantità spropositata di gatti dai colori più disparati.
Kuroo scoppiò a ridere e si girò verso Nekomata. Un ambiente così moderno, luminoso e fresco in qualche modo cozzava con la figura di quell’anziano e rugoso signore.
-È uno scherzo? Un Neko Cafè?- chiese chinandosi verso di lui e abbassando la voce. -Voi mantenete un’intera banda di ghoul con un bar pieno di gatti? Senza offesa, ma è… ridicolo.-
-Funziona parecchio bene, invece. Ovvio, non lavorano tutti qui, ma pago loro lo stipendio e trattengo i soldi dell’affitto.-
Quando Kuroo si voltò di nuovo, Kenma era qualche metro più in là, accovacciato a terra ad accarezzare un gatto nero e bianco. Come se si sentisse osservato, il ragazzino girò la testa per guardarlo e Nekomata iniziò a ridacchiare nel vedere quegli occhi grandi e supplicanti.
-Gli piace?-
Kuroo si passò una mano tra i capelli e sospirò. -Come faceva Oikawa a sapere…?-
-Oh, non devi farti domande su Tooru.- iniziò l’anziano col tono di uno che la sa lunga. -Lui conosce molte più cose di quanto dia a vedere, accettalo e basta.-

I tre presero posto ad un tavolo, e Kuroo si ritrovò con un gatto sulle ginocchia e un Kenma seduto accanto a lui intento ad accarezzarlo.
-È un posto carino, vero? Siamo al terzo piano per restare il più lontano possibile dal caos della strada, è come un’oasi di pace.-
-Mi interessa.- Kenma annuì e finalmente riuscì a spostare lo sguardo dall’animale in braccio a Kuroo. -Intendo… non solo perché ci sono i gatti. Ho valutato davvero la proposta, e in tutta sincerità non sembra tanto… male. Avevo dei dubbi, ma al momento mi sembra la scelta migliore.-
Kuroo lo guardò sorpreso. Non capitava spesso sentire Kenma prendere la parola e esprimere la propria opinione in maniera tanto convinta, e aveva capito che la sua decisione era stata influenzata dalla presenza dei felini solo fino a un certo punto, perché non era certo così frivolo.
Era vero, la proposta era allettante, e in più non avevano nulla da perdere -anche se sperava di non star trascurando qualche aspetto fondamentale.
-Sono felice di sentirtelo dire. Io sarei molto contento di potervi aiutare. Non è facile essere soli quando si è così giovani… A proposito quanti anni avete? Oikawa me lo aveva detto, ma la mia memoria non è più delle migliori.-
-Io diciassette.- rispose Kuroo. -Lui sedici.-
-Ooh, che bella la gioventù! Potrei assumervi, sapete, siete abbastanza grandi…-
Kenma fece una faccia abbastanza allarmata da far bloccare Nekomata nel mezzo della frase.
-Non penso di essere molto portato per, uh, fare qualcosa di così… sociale.- lo interruppe Kenma con voce flebile, scuotendo piano la testa. -E poi c’è la scuola, non so se…-
-Io non vado a scuola, posso lavorare.- si affrettò invece a spiegare Kuroo. Kenma lo guardò smarrito e agitato; sentendosi anche in colpa, forse.
Nekomata intrecciò le dita delle mani davanti a sé, appoggiando i gomiti sul tavolino e scrutandolo, e Kenma sentì un brivido percorrergli la schiena nonostante l’anziano signore stesse continuando a sorridere in una maniera che sarebbe dovuta risultare rassicurante.
-Kenma, credo di capire le tue motivazioni e apprezzo la tua sincerità: se non hai il carattere giusto per questo lavoro, preferisco non assumerti, non mi va di perdere clienti.-
Kenma si toccò nervosamente le dita, a disagio: quella era la realtà e la conosceva, ma nessuno lo aveva mai messo di fronte ad essa così duramente, senza attutire l’urto, e sorridendo nel farlo, come se fosse la cosa più normale del mondo. Effettivamente, se il mondo si basava su un sistema di lavoro e guadagno, non poteva biasimare il signor Nekomata per quelle parole cristalline.
-E se vuoi davvero continuare la scuola, potremmo sforzarci di trovare un modo per fartelo fare, però devi renderti conto che ci sarebbero diverse complicazioni perché... Dunque, volevo tenere il discorso per più tardi, ma a questo punto non ha senso rimandarlo: ho parlato con un po’ di persone nelle ultime ore e, anche se la situazione non è ancora chiara, sono abbastanza sicuro che la tua famiglia fosse coinvolta in qualcosa di grosso. Ci sono grandi possibilità che le colombe sappiano che i ghoul che hanno ucciso ieri avessero un figlio. Eppure, in nessun giornale o telegiornale hanno rivelato i nomi dei tuoi genitori: qualcuno alla CCG sta facendo pressione per tenere tutto segreto, ed è molto interessante perché è controproducente, per loro. Insomma, in questo modo la cronaca si sta concentrando molto di più sul fatto che è andato a fuoco un condominio piuttosto che sull’operazione in sé: l’opinione pubblica vede solo i civili morti o feriti nell’incendio e trascura completamente l’eliminazione di pericolosi ghoul. Assurdo, vorrei davvero essere una mosca negli uffici della CCG per vedere cosa li sta spingendo ad assumere questo comportamento autodistruttivo. Avranno delle belle grane, nei prossimi giorni. Comunque, Kenma, scusa per la divagazione: il succo del discorso è che,  se io fossi in te, avrei un po’ di paura per la mia sicurezza. O meglio, non sottovaluterei la situazione, ecco.-
Kuroo sentì il cuore sprofondare sotto i piedi e voltò meccanicamente il viso verso il ragazzo seduto accanto a sé. Era un po’ pallido, ma la preoccupazione traspariva solamente da una piccola ruga sulla fronte.
-Ma! C’è un ma.- riprese l’anziano. -Il fatto che ora tu sia così lontano da casa è un grande vantaggio: quelli della CCG non si metteranno a cercare un ghoul che non è notoriamente pericoloso, sarebbe un’inutile perdita di tempo per loro: cercare foto, iniziare ricerche, insomma, non ne varrebbe la pena per qualcuno di sconosciuto. So che sembra strano, ma è così. Queste sono cose che si fanno per i pesci grossi, e ai piani alti della CCG interessano solo i casi rilevanti. Quindi, ripeto, non credo proprio che approfondiranno le indagini per trovarti, a meno che qualcuno si assuma personalmente il tuo caso. Dobbiamo far sì che si dimentichino di te, quindi non attirare l’attenzione e magari, non so, cambia qualcosa…-
-Cosa, signore?-
-Che ne dici di tingerti i capelli? So che non è un granché, ma d’altronde più di tanto non si può fare.-
Kuroo sarebbe scoppiato a ridere se quel discorso non avesse riguardato l’incolumità di Kenma. Lo guardò con la coda dell’occhio per studiarne le reazioni, ma non vide lo sbigottimento che si sarebbe aspettato. Sembrava più pensoso, immobile, indifferente.
-Non ti sto dicendo di rinchiuderti qua dentro, ma almeno per i primi tempi, stai attento. Avete delle maschere?- continuò Nekomata.
-Non più.- mormorò Kenma, anticipando Kuroo di un decimo di secondo.
-Capisco. Chiederò a un ragazzo di portarvi a farne delle nuove, stanotte.-

-Terribile incendio scoppiato ieri nel tardo pomeriggio in circostanze ancora da chiarire, in seguito ad un intervento della CCG all’interno di appartamento del quartiere di Toshima. Almeno sei le vittime, i cui nomi non sono ancora stati rivelati per motivi di sicurezza. Ecco il servizio.-
Shouyou guardò per l’ennesima volta il telefono. Il broncio sulla sua faccia si stava trasformando in un’espressione preoccupata ad ogni minuto che passava senza ricevere una risposta da Kenma. Gli sarebbe andato bene anche un semplice “Ciao”, un semplice “Sto bene”. Non pretendeva molto, voleva solo sentirlo.
Alzò la testa per seguire meglio le notizie che passavano in televisione. Sapeva che Kenma abitava in uno dei condomini di quella zona, ma non sapeva esattamente dove, e non poteva assicurarsi che stesse bene.
-L’incendio non è stato assolutamente causato dai nostri agenti.- ripeteva la voce del direttore della CCG dentro il televisore. Era il terzo telegiornale in cui diceva quelle parole, ma a tutti sembrava solo una scusa per non screditare gli investigatori e l’intera associazione.

Dopo le medie, Shouyou si era iscritto all’Accademia per Investigatori di Ghoul: era lì da appena un mese, e il programma era intenso e difficile, ma gli offrivano un alloggio comodo e le tasse erano sorprendentemente basse. Avrebbe dovuto passare anni faticosi, lo sapeva, ma era disposto a fare tutti i sacrifici che sarebbero stati necessari.
Il giorno prima era accorso sul luogo dell’incidente assieme ad un suo compagno di corso. Si chiamava Kageyama Tobio, e per molti versi faticava a sopportarlo: aveva la sua stessa età, ma era molto più esperto di qualunque loro coetaneo e, in molti casi, anche di quelli più grandi. E ne era consapevole. Forse la sua spaventosa conoscenza di quel mondo derivava dal fatto che aveva frequentato l’Accademia Elementare della CCG, o forse anche perché anche i suoi genitori erano membri della CCG, pezzi grossi, investigatori di rango elevato. Era letteralmente nato e cresciuto in un contesto puramente rivolto a investigare e cacciare i ghoul che si macchiavano di omicidio -quindi, tutti quanti.
Nonostante si fossero precipitati sul posto dopo le insistenti richieste di Shouyou, non avevano trovato niente, anzi, erano stati fermati da altri agenti e invitati ad andarsene.
Shouyou allontanò il pacchetto di ramen istantaneo con un sospiro e incrociò le braccia sul tavolo, gli occhi ancora fissi sul televisore. Un po’ lo disturbava l’idea che l’operazione del giorno precedente avesse messo a rischio le vite di decine di umani, tra cui probabilmente anche quella del suo amico. L’aveva colpito rendersi conto che anche loro commettevano errori.
Shouyou e gli altri allievi non avevano il diritto di sapere niente riguardo a quello che era successo. Non sapeva chi avesse condotto l’operazione, secondo quali criteri, o chi fosse il ghoul che era stato ucciso.
Da un lato, era strano che trapelassero così poche informazioni, anche Kageyama l’aveva detto, ma d’altra parte era ovvio che la CCG cercasse in ogni modo di coprire ciò che era successo per farlo dimenticare al più presto, visti i risvolti tragici sui civili. Anche se la politica che stavano adottando sembrava suscitare l’effetto contrario visto che non si parlava d’altro, e tutti si chiedevano cosa ci fosse di tanto misterioso.
Hinata non vedeva l’ora di poter tenere tra le mani una quinque e poter fare qualcosa di concreto. Kageyama aveva detto di avere già fatto qualche esperienza con le quinque e Hinata si era sentito visceralmente invidioso: sembrava avere tutte le fortune e sembrava essere nato per diventare un Investigatore, viste le sue doti fisiche. Lui, invece, era ancora impacciato e maldestro…
Come se fosse stato invocato, improvvisamente qualcuno bussò con violenza alla porta del suo alloggio. Il ragazzino sobbalzò, per poi precipitarsi ad aprire.
-So cosa cercavano!- esclamò Kegayama con il fiato corto e gli occhi illuminati, sulla soglia della porta.
Shouyou lo guardò a metà tra il terrorizzato e il sorpreso: non l’aveva mai visto così, e si scansò appena in tempo per non essere travolto mentre entrava nella stanza.
-Dicono la verità, non sono stati gli agenti della CCG ad appiccare l’incendio.- continuò concitato, appoggiando dei documenti sul tavolo e facendoglieli vedere. Shouyou aprì la bocca per ribattere, ma quello lo anticipò.
-Il verbale dice che non era un solo ghoul, erano due, ed erano in possesso di informazioni sulla CCG.-
-Hai rubato il verbale!?- gridò Shouyou, incredulo, gli occhi che uscivano dalle orbite. -Ci butteranno fuori dall’Accademia a calci! No, io non ne voglio sapere niente!-
-Non urlare, stupido!- lo richiamò Kageyama con un ringhio, afferrandolo per la maglietta e costringendolo a sedersi. -E poi non ho rubato un bel niente. L’ho preso solo per guardarlo, una volta finito lo rimetterò a posto. In qualche modo. E poi non l’ho preso neanche tutto, è solo qualche foglio…-
-Ma è illegale!-
Fu fulminato dal suo sguardo duro, tradito dalla bocca vagamente tremolante, e Shouyou si limitò a guardare il suo broncio. Kageyama non doveva avere molti amici se era corso direttamente da lui non appena era venuto in possesso di quelle informazioni. Era strano come gli ripetesse che era un incapace, insopportabile e irritante ragazzino, ma puntualmente gli parlasse e lo cercasse. Non lo evitava in alcun modo, anzi.
-Uno dei due ghoul deve aver appiccato il fuoco col chiaro intento di distruggere completamente i documenti non appena gli agenti hanno fatto irruzione, mentre l’altro cercava di fermarli. L’incendio è dilagato nell’appartamento e su tutto il piano, è stato un disastro. Non sappiamo di quali informazioni fossero in possesso, né quanti ne siano a conoscenza ora.-
Shouyou lo guardò con la fronte contratta.
 -Come facevano ad avere informazioni riservate?-
-E chi lo sa. Spie, magari.-
Il rosso rigirò il foglio tra le mani con una certa fretta. -Non c’è scritto che appartamento è! Né come si chiamavano i ghoul, neanche il nome in codice!-
-Dev’essere in uno dei fogli che non ho preso.- rispose l’altro, alzando le spalle.
Shouyou emise un verso esasperato e reclinò la testa indietro. -Cavolo, Kageyama!-
-Sì, sì, il tuo amico! Non lo so, nessuno lo sa! Ringrazia che almeno abbiamo qualche informazione in più di quelle che ci dà la televisione.-
Era chiaro quanto pesasse a Kageyama non poter essere a conoscenza di tutti i dettagli di quell’intervento. Era abituato a vedere le cose dall’interno, non a essere un passivo spettatore come un cittadino comune.
-Beh, sono comunque dati importanti. Insomma, meglio di niente.- sospirò Shouyou, incrociando le braccia al petto con fare pensoso.
Kageyama annuì concentrato e appoggiò il mento contro il pugno chiuso.
-Eppure c’è davvero qualcosa che non torna.-
-Intanto tra dieci minuti iniziano le lezioni pomeridiane e io non ho finito di pranzare per colpa tua…- borbottò Shouyou, sottovoce ma polemico.
Kageyama prese il ramen istantaneo con una mano, glielo mise davanti con poca grazia e ritirò i documenti nella borsa.
-Allora sbrigati.- disse serio prima di congedarsi e uscire dalla porta.
 
Il primo anno, a tutti gli studenti dell’Accademia era riservato lo stesso insegnamento. Solo in seguito i corsi si diversificavano: si poteva scegliere se intraprendere la strada per diventare Investigatori di Ghoul o Investigatori di Dipartimento. Kageyama aveva sempre pensato che quei due tipi di persone si potessero riconoscere a vista d’occhio, nei corridoi. Quando conobbe Shouyou, si rese conto che non era affatto così.
Si era arrabbiato, all’inizio, quando aveva scoperto che non aveva intenzione di diventare Investigatore di Dipartimento. Pensava che sarebbe stato uno spreco di tempo per la CCG, allenare qualcuno che molto probabilmente sarebbe morto al primo scontro diretto con un ghoul in carne ed ossa. Credeva che Hinata fosse ancora troppo bambino per prendere una decisione importante come quella di scegliere un futuro in cui avrebbe messo costantemente a rischio la propria vita. Eppure si era dovuto ricredere, almeno in parte: quel ragazzino era pessimo nel coordinarsi, ma possedeva dei riflessi incredibili e una velocità che poteva renderlo promettente, se avesse continuato ad impegnarsi duramente.
Anche se Hinata aveva la sua stessa età, sembrava che i due avessero vissuto in due mondi totalmente diversi per tutta la vita. Tobio sapeva di conoscere davvero ciò che lo aspettava, sapeva come funzionava e che non c’era spazio per emotività inutile o superflua. Bisognava essere in qualche modo mostri per riuscire a combattere altri mostri, e aveva paura che Hinata avrebbe impiegato molto tempo per rendersene conto.
Se Hinata avesse continuato a lasciarsi guidare solo dall’ideale, e non dalla verità, non sarebbe mai stato in grado di uccidere nessuno.
 
Kuroo guardava fuori dalla finestra della loro camera, che dava sulla strada. Avrebbe voluto passare tutto il giorno a camminare per Akihabara, esplorare: c’erano nuovi suoni, nuovi odori, colori, strade, negozi strani. Dovevano abituarsi, integrarsi, sentire loro quell’ambiente coloratissimo e talmente affollato da sembrare invivibile. Ma Kenma non si muoveva dal letto. Il discorso di quella mattina con il signor Nekomata sembrava averlo pietrificato.
Aveva pensato di uscire da solo, ma non se la sentiva di lasciare Kenma senza nessuno. Benché lui stesso gli avesse detto che non importava, che poteva benissimo andare, per qualche motivo Kuroo sentiva di dover fare il contrario.
Era strano, Kenma. Sembrava più silenzioso del solito, aveva gli occhi stanchi e una tristezza velata nel modo in cui appoggia le mani sul cuscino, davanti alla sua faccia. Kuroo non poteva biasimarlo, sapeva benissimo che quel comportamento era dovuto a tutti gli avvenimenti che erano successi nelle ultime ventiquattro ore. Se Kuroo, però, riusciva a contrastarli, anche se con difficoltà, era chiaro che per Kenma fosse molto più faticoso.
Kuroo gli tirò piano il bordo della maglietta e lo guardò dall’alto.
-Non devi rinchiuderti in casa.-
-Lo so.- rispose svogliato l’altro, senza guardarlo.
Kuroo fece una smorfia.
-Che ne pensi di quello che ha detto Nekomata? Dico, sul tingerti i capelli.-
Kenma rivolse uno sguardo giudicante al suo sorrisino.
-… Penso che lo farò.-
Aveva appena finito di pronunciare quella frase che Kuroo lo afferrò per il braccio e quasi lo trascinò giù dal materasso.
-Allora andiamo subito!-
-Kuro, non abbiamo soldi…-
-Allora andiamo a vedere se ci sono persone che regalano coupon!-
Kenma aggrottò la fronte e strinse le labbra.
-Ti ho già detto di andare, se vuoi andare. Io non vengo.-
-Perché no?-
Kuroo si sedette sul bordo del materasso e appoggiò le braccia al lati della sua testa. Kenma non se lo aspettava. Sobbalzò leggermente e lo guardò con disappunto.
-Dai, perché no? Ti prego! Fuori ci sono un sacco di cose belle e colorate, non è noioso come il vecchio quartiere.- chiese supplicante il più grande, con gli occhi socchiusi e un sorrisetto a denti stretti.
Kenma rimase un attimo in silenzio e sgranò gli occhi. Quell’espressione gli aveva fatto stringere il cuore, per qualche motivo inspiegabile, e fu strano rendersene conto. Deglutì e sporse il labbro inferiore, riprendendo il discorso.
-Perché non voglio.-
-Kenmaa…- mormorò Kuroo in tono strascicato, la voce roca. Kenma sapeva che quell’intonazione significava solo una cosa, l’ultima arma, quella estrema: il solletico imminente, che infinite volte l’aveva costretto a fare cose che non avrebbe voluto e assecondare le volontà di Kuroo.
Non era pronto a sopportarlo. Girò appena la testa per non guardarlo in faccia e gli premette una mano contro il petto per allontanarlo.
-Non siamo più bambini.- lo ammonì Kenma a voce bassa, sentendo il cuore di Kuroo battere sotto il suo palmo. Guardò le sue dita e si ritrovò ad essere genuinamente felice per quel suono.
Il sorriso di Kuroo si spense un poco e inclinò il capo di lato. -Intendi dire che non posso più farti il solletico? Perché in questo caso devo contraddirti, lo farò per sempre.-
-… Intendo che sei troppo molesto. Non farlo. Mi alzo.- borbottò l’altro a denti stretti, intercettando le sue mani.
Kuroo aveva vissuto quella situazione abbastanza volte da capire che aveva vinto. Rise di gusto e Kenma gli tirò un debole calcio sulla schiena mentre si alzava per uscire dall’appartamento.


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Note e chiarimenti
Chiedo scusa per l'immenso ritardo nell'aggiornamento, ma l'università mi ha letteralmente sequestrata e la mancanza di feedback non ha contribuito ad aumentare la mia voglia di pubblicare... Quindi devo ringraziare tantissimo Nanas e le sue recensioni che mi hanno letteralmente dato vita.
Il titolo del capitolo è una delle mie frasi preferite in assoluto, è tratto dal "Satyricon" di Petronio e significa "bolle di parole in salsa di miele", ovvero parole addolcite, perché è prettamente di questo che tratta il capitolo: le parole di Nekomata, le sue spiegazioni per l'assestamento, per la loro vita futura.
Grazie a chi ha messo la storia nelle preferite/seguite/ricordate, e siate consapevoli che anche un piccolo commento è in grado di rendermi felice, di farmi capire che non scrivo invano e di spronarmi a pubblicare per rendere felice la gente.
Spero di aggiornare presto, state all'erta!

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Capitolo 7
*** My hands are of your colour, but I shame to wear a heart so white ***


My hands are of your colour, but I shame to wear a heart so white
 
Kuroo aveva cominciato a lavorare al Nekoma da poco più di una settimana. Si svegliava presto, si preparava e usciva dall’appartamento senza far rumore per non svegliare Kenma.
All’inizio era stato strano, per il più piccolo, svegliarsi e rendersi conto di essere completamente solo. Si sentiva un po’ in colpa, un po’ inutile, forse. Pervaso da una nostalgia sconfortante, si faceva una lunga doccia durante la quale, puntualmente, finiva per perdersi nei suoi pensieri e fissare il vuoto.
Quando saliva poi al piano di sopra più in fretta che poteva ed entrava nel Café, si sedeva in un angolo e si lasciava circondare dai gatti. Un po’ lo tranquillizzava guardare Kuroo fare su e giù tra il bancone e i tavoli, e salutarlo di tanto in tanto. Erano nella stessa stanza, sapere che lui era lì era rassicurante, poteva giocare tutto il giorno al Nintendo e lasciarsi scivolare tra i cuscini mentre un paio di gatti strusciavano la testa contro il suo braccio, senza dover per forza pensare ad altro.
Avrebbe potuto dire che quello era il paradiso, ma non ce la faceva. Non riusciva ad ignorare il peso che gli comprimeva il petto, non riusciva a strapparsi via dagli occhi l’immagine dei suoi genitori riversi a terra.
Faticava a dormire, perché non appena le barriere della coscienza si abbassavano per lasciarlo scivolare nel sonno, subito nella sua mente prendeva luogo una dettagliata rievocazione di tutto ciò che era stato costretto a vedere e rivivere le stesse sensazioni, con la stessa intensità, era insopportabile.
Pensava che avrebbe potuto comportarsi diversamente, che se magari fosse tornato a casa prima non sarebbe successo, per qualche motivo che non sapeva spiegare neanche lui. Lo distruggeva risentire la voce di sua mamma nel dormiveglia e a volte gli sembrava di provare ancora quel calore infernale, in realtà dovuto alle troppe coperte con cui cercava di dormire. Gli sbriciolava il cuore rendersi conto che non ricordava l’ultima volta che aveva detto ai suoi genitori che voleva loro bene.
Si sentiva come se dovesse costantemente tornare a casa, ma casa sua non c’era più e non avere un luogo a cui appartenere e sentirsi così perso era destabilizzante.
Erano passati solo dieci giorni dall’ultima volta che aveva mangiato e aveva paura di quando, da lì a qualche settimana, si sarebbe stufato di bere solo caffè e avrebbe iniziato a sentire il bisogno di mangiare. Pensare a quel giorno gli metteva una certa paura, perché non aveva mai provato quella sensazione, abituato com’era alla sua vecchia vita. L'idea di dover cacciare lo spaventava.
Lui e Kuroo avevano delle maschere, ora: erano stati accompagnati da un uomo sulla trentina, in piena notte, in una specie di strana sartoria. Era stato suggestivo entrare in quella stanza dall’aria pesante e nella quale aleggiava un pungente odore di pelle e di resina, farsi prendere le misure, decidere il design. Un po’ per abitudine, un po’ per dimostrare gratitudine al Nekoma, sia Kenma che Kuroo avevano deciso di attenersi al tema del gatto.
Appena vide la sua nuova maschera, appena la ebbe tra le mani, a Kenma piacque subito. Ciò lo sorprese, perché non pensava che sarebbe mai riuscito a trovare qualcosa che potesse superare quella vecchia. Aveva fatto realizzare un ovale bianco per coprire completamente il viso, sul quale spiccavano tre occhi gialli, felini, posti in verticale, e in alto sbucavano un paio di orecchie di gatto, grigie e appuntite. Quella di Kuroo, invece, era nera, e ricordava nella forma le maschere tradizionali delle kitsune. Aveva dei ricami rossi che ricordavano degli squarci sulla parte destra, dove ricadeva il suo ciuffo di capelli, mentre a sinistra era stato dipinto un grande occhio giallo.
Sapere che presto avrebbe dovuto iniziare ad usarla davvero, e non solo per bellezza, non per andare in un costoso ristorante, aveva un che di angosciante.
A quel punto c’erano davvero troppi fattori che disturbavano Kenma e lo rendevano inquieto.

Quella mattina si era svegliato con la gola chiusa dall’ansia. Non riusciva a muoversi, né a deglutire, e lo stomaco sembrava essersi fatto di pietra. Davanti ai suoi occhi, l’altro letto, quello di Kuroo, sfatto e vuoto.
Non seppe come riuscì a scendere dal suo materasso, gli sembrava di non potersi reggere in piedi, ma quando dopo due passi si stese e si avvolse tra le lenzuola di Kuroo, provò una sensazione di sollievo che non credeva possibile. In quello stato letargico, gli sembrò di essere sprofondato in un nido accogliente, una culla salvifica. Riuscì a inspirare e, come quel profumo familiare gli entrò nei polmoni, tornò a chiudere gli occhi. Si rannicchiò più che poté, la faccia quasi completamente affondata nel cuscino morbidissimo e il lenzuolo tirato fin sopra la testa. Era un bozzolo incredibilmente piacevole, tiepido e profumato.
Si era riaddormentato, e si era svegliato che era ormai pomeriggio. Si era stropicciato gli occhi e aveva tenuto le mani premute sulla sua faccia per qualche secondo, come se avesse voluto nascondersi, provando una sorta di vergogna nel rendersi conto che si era infilato nel letto di Kuroo.
Si era alzato, si era lavato, aveva frugato nel cassetto per prendere quello che era avanzato dei soldi che Nekomata aveva anticipato per permettere loro di acquistare il minimo indispensabile, ed aveva sceso le scale senza esitazioni, con il cappuccio alzato e le mani nelle tasche dell’enorme felpa di Hajime mentre camminava per le vie di Akihabara.

Il Nekoma era tranquillo e silenzioso, ma ben presto Kuroo si era trovato ad invidiare i gatti stesi sul parquet a godersi uno squarcio di sole che entrava dalla finestra, a rotolarsi sui tappeti o tra i cuscini.
Non era facile riuscire a stare dietro a tutto. Lavorava otto ore, fino alle quattro di pomeriggio, e c’erano sempre cose da fare e controllare, una certa qualità da mantenere per rendere quell’ambiente accogliente e rilassante per i clienti. Maneggiare il cibo degli umani era forse la cosa più rivoltante che avesse mai dovuto fare e sforzarsi di non assumere espressioni disgustate era una vera impresa. Gli altri camerieri sembravano esserci abituati e gli ripetevano che un giorno anche lui avrebbe fatto tutto con facilità, ma Kuroo non era stato del tutto persuaso da quelle parole e preferiva rimanere appiccicato alla macchinetta del caffè.
Ormai erano quasi le tre e Kenma non si era ancora visto, e una parte di Kuroo aveva iniziato a preoccuparsi, salvo poi essere sovrastata dalla mole di lavoro che doveva svolgere e dall’idea che, probabilmente, stava ancora dormendo, considerato fino a che ora indecente era rimasto sveglio la notte precedente per giocare.
 
Kuroo sentì la porta del Café aprirsi e, come sempre, si girò istintivamente per vedere il cliente, questa volta però sperando intimamente che si trattasse di Kenma. Smise di asciugare il bicchiere che aveva in mano e dovette sbattere gli occhi un paio di volte.
Una creatura dai capelli mossi e neri come il carbone e l’espressione neutra sembrava aver fermato il mondo per qualche secondo.
Appoggiò il bicchiere accanto agli altri e continuò a guardare quel ragazzo mentre prendeva posto ad un tavolino e appoggiava la tracolla sulla sedia accanto a sé con un sospiro stanco.
Kuroo si asciugò le mani nel grembiule dopo averlo cercato a tentoni e si stupì nel rendersi conto quanto fosse difficile smettere di guardarlo.
Aspettò qualche minuto prima di raggiungerlo per chiedergli cosa avrebbe voluto ordinare.
-Solo un caffè.- disse quello, tenendo gli occhi fissi su un quaderno pieno di appunti.
Kuroo strinse appena le labbra e ripose il taccuino nella tasca senza appuntarsi niente. Inspirò e fece una breve pausa prima di provare ad attaccare bottone.
-Vieni spesso qui? Sai, io sono stato assunto da poco.-
-Ogni tanto.- rispose l’altro senza particolare sforzo, alzando le spalle e sfogliando una pagina.
Avrebbe voluto guardarlo in faccia, più per curiosità che per altro, e gli dava fastidio la sua immobilità.
-Mi chiamo Kuroo, se hai bisogno di me sono dietro il bancone. Il caffè arriva subito.- disse, internamente scoraggiato, voltando la schiena per tornare indietro.
-Kuroo.- disse l’altro e, sentendosi chiamare, Kuroo si voltò.
Finalmente aveva alzato la testa, e vedere così da vicino l’armonia di quel viso e la forma allungata dei suoi occhi l’aveva ammutolito. Era la prima volta che non trovava ripugnante un essere umano. Anzi, lo trovava decisamente piacevole alla vista, tanto che più di una volta si chiese se i suoi sensi lo stessero tradendo: era un umano, davvero?
-Io mi chiamo Akaashi.- concluse prima tornare a leggere, mentre un gatto saltava con leggerezza accanto a lui e si accoccolava vicino alla sua borsa.
 
Akaashi mise via il quaderno solo quando Kuroo gli portò il caffè.
-Sembri preoccupato, tutto a posto?- chiese il cameriere.
L’altro alzò gli occhi su di lui, chiaramente riluttante a parlare.
-Sì.- mentì istintivamente, mentre avvicinava la tazzina a sé. Sembrò poi pensarci su, e Kuroo decise di aspettare. -… Credo sia solo un po’ di agitazione.- pensò a voce alta.
-Sei preoccupato allora, ho visto bene!- esclamò Kuroo ridacchiando e incrociando le braccia al petto. -Per cosa?-
Akaashi gli rivolse uno sguardo di disappunto e sorseggiò il caffè. -Non sono preoccupato, ho solo detto che… No, in tutta sincerità non ho alcuna voglia di parlarne con un estraneo.-
-Ascolta, non voglio farmi gli affari tuoi, ma questo è il posto giusto per rilassarsi: sei circondato da gatti, qui non si sente neanche tutto il rumore della folla, prendi un bel respiro e ricaricati.-
-Sono venuto qui perché l’intento era quello…-
-Qualsiasi cosa tu debba fare, andrà benissimo.-
Akaashi appoggiò un gomito al tavolo e posò le dita contro la tempia, abbassando gli occhi in silenzio. Kuroo non poté fare a meno di chiedersi a cosa stesse pensando.
-Quanti anni hai? Ho visto che leggevi degli appunti, se è qualcosa che riguarda la scuola, allora davvero non devi preoccuparti così tanto!-
-Sedici.- rispose Akaashi, lapidario e conciso, prima di tornare a bere il caffé. -Se la tua prossima mossa è chiedermi il numero di telefono, puoi anche tornare a servire gli altri clienti.-
-Cosa!?- gracchiò Kuroo con una smorfia, allontanandosi di mezzo passo: non voleva dare quell’impressione, e chiedergli il numero non era nelle sue intenzioni. -Stavo solo cercando di essere gentile! E per tua informazione, ce l’ho già una ragazza.-
Solo la seconda parte della frase era una bugia, ma sperò che non se ne accorgesse. Notò il vago sorriso che era apparso sulla faccia di Akaashi e il suo broncio si affievolì un poco, contento di essere riuscito a scalfire il suo nervosismo.
-Ad ogni modo, per oggi il caffè te lo offro io.- continuò Kuroo con un sospiro. -Sempre che il gesto non ti metta a disagio.-
-E tu non ci staresti provando.- asserì sarcastico Akaashi con un sopracciglio alzato.
-No. Sei carino, ma la mia è pura benevolenza.- rispose l’altro a denti stretti, schietto, chinandosi appena in avanti con gli occhi socchiusi.
Akaashi lo guardò per qualche secondo prima di scuotere la testa e ridacchiare sommessamente, coprendosi la bocca con le dita. Appoggiò la tazza vuota nel piattino e prese un lungo respiro.
-Spero solo che tu non faccia così con tutti i clienti.- commentò chiudendo la borsa e alzandosi in piedi.
-Eh? Te ne vai di già?-
-Sono in ritardo.-
Kuroo lo guardò con un velo di dispiacere mentre si avvicinava all’uscita.
-Buona fortuna!-
Akaashi stava per chiudere la porta dietro di sé, ma si fermò e indietreggiò quel tanto che bastava per guardarlo in faccia.
-Grazie.- disse con un’espressione tranquilla, prima di sparire.
 
-Hai già la ragazza, mh?- disse una voce con una nota di scherno.
Kuroo si voltò e vide Yaku che ridacchiava sotto i baffi mentre liberava il tavolo a cui fino a poco prima era seduto Akaashi. -E chi sarebbe?-
Kuroo si imbronciò e assottigliò lo sguardo per guardarlo in cagnesco. -Non sono affari tuoi!- strepitò afferrando uno straccio e iniziando a pulire il bancone con energia.
Yaku era suo coetaneo e, assieme a lui, era il cameriere più giovane del Nekoma. Era un ragazzino biondo e minuto, molto caparbio, ma spesso con idee totalmente contrapposte alle sue: da come fare il caffè a come prendere gli ordini, non sembrava che ci fosse qualcosa su cui andassero veramente d’accordo. Nonostante ciò, Kuroo non poteva affatto dire che gli stesse antipatico. Non aveva una brutta personalità, e sentiva che il conflitto tra loro  non era altro che un modo scherzoso di vivere una convivenza forzata.
-Non sarà mica il tuo amico silenzioso?- chiese con una cantilena, avvicinandosi a lui e rimboccandosi le maniche per sciacquare le stoviglie.
Kuroo si bloccò e lo guardò di sfuggita. -Chi? Kenma?- ridacchiò nervosamente, per poi tornare al lavoro. -Cosa te lo fa pensare?-
-Insomma, non sono qui per giudicarti, ma dal modo in cui lo guardi tutto il giorno, quando è qui, mi ha fatto pensare che magari… Non so, in tutta sincerità ho l’impressione che lo metteresti in una campana di vetro, se potessi.-
-Lo tengo solo d’occhio.- borbottò l’altro, sulla difensiva. -Siamo cresciuti insieme…-
-Kuroo.- Yaku sospirò sconfortato e continuò a tenere gli occhi fissi sulle tazzine che stava pulendo. -Non ci crede nessuno alla storia del “fratellone”.-
 
Akaashi Keiji era al secondo anno dell’Accademia per Investigatori di Ghoul. Camminava lungo la strada, verso la stazione, a passo spedito, ora con un po’ più di coraggio nel cuore.
Quel giorno era stata fissata per gli studenti del suo corso una visita speciale nella Sede Centrale della CCG. Il professore gli aveva spiegato cosa avrebbero fatto e visto, e Akaashi era rimasto a bocca aperta. Studiava per diventare Investigatore di Dipartimento, per lavorare negli uffici, non per avere contatti diretti con i ghoul.
Per quello, ciò che lo aspettava lo intimoriva.
 
“Io sono Bokuto Koutarou.”
Lo pensò chiaramente, scandendo le parole nella sua testa, la schiena appoggiata al pavimento duro e le palpebre chiuse. Le aprì, e l’accecante luce al neon gli fece restringere le pupille.
Sapeva contare solo fino a venti, ed erano trascorsi troppi anni perché riuscisse a tenere il conto dei giorni che aveva passato in quella gabbia: il tempo non era più una certezza. Giorno o notte, non lo sapeva. Non c’erano finestre, in quella grande stanza bianca piena di macchinari. Aveva contato fino a venti molte, molte, molte volte.
“Sono Bokuto Koutarou. Sono un ghoul. Se io sono un mostro…”
La sua unica certezza era il suo nome, e se lo ripeteva ogni giorno, perché sapeva che non doveva dimenticare, non doveva perdersi, non doveva annullarsi.
“… Gli umani allora sono mostri peggiori.”
Si mise a sedere e guardò senza emozione la griglia della gabbia che lo circondava da tutti e quattro i lati.
“Cose che sono: Bokuto Koutarou.”
Si sentiva pietrificato, cementato in un eterno incubo.
“Cose che non sono: esemplare 150410.”
 
-Gli è stato assegnato il numero 150410 perché non è altro che la data del suo ritrovamento. Qualcuno sa dirmi cosa è successo il 15 aprile 2010?-
-La Notte di Sangue.- risposero quasi in coro gran parte degli studenti.
Akaashi era agitato mentre camminava lungo il corridoio con i suoi compagni, il professore e alcuni Investigatori della CCG, diretto verso il laboratorio in cui veniva custodito e studiato quell’esemplare di ghoul.
-È importante che sappiate che una volta diventati Investigatori di Dipartimento, non vi occuperete solo della parte burocratica, ma anche di progetti come questi. Sono molte le informazioni che possiamo ricavare dallo studio di esemplari di ghoul vivi, ma riuscire a catturarne uno è un’impresa più unica che rara.-
Le porte di spalancarono e Akaashi entrò a passo sicuro, pervaso da una certa impazienza, con il quaderno e la biro in mano, pronto a segnare ogni appunto, mentre il professore invitava gli studenti a contenere il brusio che si stava facendo un po’ troppo forte. Davanti a lui c’era ancora troppa gente perché potesse vedere con chiarezza cosa ci fosse nella stanza.
-Questo è l’esemplare 150410. Non lasciatevi intimorire, la gabbia è stata costruita con una lega speciale in modo da impedire che il ghoul, con la sua forza, possa abbatterla. Resiste anche al suo kagune, ma spesso non ha abbastanza forza per usarlo.- spiegò un Investigatore che non rientrava nel campo visivo di Akaashi.
La ressa davanti a sé ancora gli impediva di vedere il ghoul, ma intravedeva una porzione di gabbia. All’improvviso, quella si mosse con un rumore metallico, e un ringhio fece indietreggiare tutti gli studenti con un verso di spavento e sorpresa.
-Ecco, questa è una reazione istintiva: alla vista degli umani, il suo impulso è quello di attaccare. Dal momento che i ghoul possono mangiare solo carne umana, e il loro corpo rigetta qualsiasi altro sostituto, è stato deciso e approvato di dargli in pasto i cadaveri non identificati degli obitori ogni tre mesi.-
Akaashi aggrottò le sopracciglia e alzò la mano per fare una domanda.
-Ogni tre mesi? Non è un periodo di digiuno un po’ troppo lungo?- chiese alzandosi sulle punte per cercare di stabilire un contatto visivo con l'interlocutore. Il capitolo sull’alimentazione dei ghoul era ancora ben chiaro nella sua testa.
-Come ben sapete, i ghoul possono sopravvivere anche fino a due mesi senza mangiare. Il nostro obiettivo è di mantenerlo in vita, certo, ma anche di non fornirgli troppe energie, onde evitare spiacevoli ripercussioni.-
I suoi compagni di corso riuscirono pian piano a disporsi circolarmente attorno alla gabbia e Akaashi sgranò gli occhi quando, finalmente, riuscì a vedere quello spettacolo che il suo cervello registrò automaticamente come raccapricciante. Sentì tutta la fibrillazione sparire, tutta l’emozione scivolargli sotto i piedi.
Forse avrebbe potuto immaginarlo, ma vederlo con i suoi occhi era tutta un’altra cosa.
Non si aspettava un ragazzo come lui, seduto in un angolo, con la schiena appoggiata alla gabbia e i gomiti sulle ginocchia piegate. Non si aspettava che quegli occhi tinti di nero e di rosso, quel respiro affannoso e quella smorfia che mostrava i denti digrignati potessero lasciar trasparire paura, piuttosto che incuterne.
Tutt’a un tratto, si sentiva come uno spettatore allo zoo.
-Purtroppo il cibarlo poco e a distanza di molto tempo può portare a comportamenti autodistruttivi per il ghoul, che talvolta potrebbe tentare di praticare autocannibalismo. Per contrastare questa evenienza, gli è stato messo un collare che rilascia scariche elettriche su comando.-
Akaashi non aveva staccato gli occhi da lui neanche per un attimo. Sentiva la gola secca e una sensazione di incredulità gli arpionava il petto. Non riusciva a vedere solo un mostro, una cavia. Certo, sapeva che i ghoul avevano capacità di sopportazione superiori a quelle degli umani, ma pensare che era sopravvissuto per cinque anni in quelle condizioni, in quella gabbia completamente vuota, gli sembrava impossibile.
-Perché ha i capelli grigi?- chiese, forse a voce troppo bassa, quasi in trance, continuando a fissarlo.
Qualche ragazzo si girò verso di lui per fissarlo e assicurarsi che stesse bene, oppure chiedendosi il perché di quella domanda inusuale.
Uno degli investigatori si aggiustò gli occhiali sul naso.
-Domanda interessante. Ti dirò la verità, le teorie sono contrastanti. Alcuni di noi credono che sia una condizione dovuta ad un disturbo post-traumatico da stress. Io, personalmente, assieme a molti altri, sono scettico riguardo a questa decisione di proiettare disagi psicologici umani sui ghoul. Stiamo studiando anche questo. Ora, ragazzi, continuiamo con il nostro percorso. Da questa parte, prego.-
Ad Akaashi sfuggivano alcune cose. Non capiva, in primis, perché si riferissero a lui come se non fosse lì, come se non fosse anche lui una creatura degna di considerazione. Era un ghoul, era ovvio che avesse una componente estremamente pericolosa, ma i ghoul vivevano a stretto contatto con gli umani, spesso avevano gli stessi loro stili di vita, allora perché avevano deciso di riservagli quel trattamento disumano, come se fosse una bestia?
Akaashi seguì con titubanza la folla, che si spostava verso un’altra stanza. Provava vergogna.
Fu uno degli ultimi ad uscire, e prima di farlo si voltò a guardarlo. Anche il ghoul lo guardava, sempre con quella sua espressione all’erta e i kakugan attivi.
Deglutì e affrettò il passo per andarsene.
-Per la prima volta, quest’anno l’Accademia mette a disposizione la possibilità di collaborare al Progetto 150410, quindi se siete interessati potrete passare in segreteria a ritirare i moduli per l’iscrizione al test: le persone col punteggio più alto saranno selezionate per lavorare con noi.-
Akaashi alzò la testa e strinse le labbra, mentre il suo cervello iniziava a lavorare.
 
Quando Kuroo sentì la porta dell’appartamento aprirsi, balzò in piedi e corse verso l’entrata.
-Kenma!- gridò sollevato. -Ho finito il turno ma quando sono tornato qui non c’eri, non mi hai scritto niente ero preoccupat…-
Si bloccò quando se lo ritrovò davanti. Kenma abbassò il cappuccio della felpa e lo guardò in faccia con le guance tinte di un lieve rossore.
-…Oh.-
I capelli che incorniciavano i suoi occhi dorati non erano più scuri, ma biondi.
-Ero ispirato.- si giustificò Kenma, togliendosi le scarpe. -Ho preso i soldi dal cassetto.-
-Stai benissimo…- mormorò Kuroo incredulo, seguendolo con lo sguardo.
La faccia di Kenma si fece un po’ più rossa.
-Grazie.- disse, non proprio convinto. In realtà, ne aveva disperatamente bisogno: appena uscito dal parrucchiere, era stato colto da una sorta di panico. Non era sicuro che avesse fatto la scelta giusta, anzi, se ne era pentito non appena si era visto riflesso in una vetrina. Sentire quel complimento da parte di Kuroo gli aveva fatto tremare leggermente il cuore.
-Siete tutti così carini!- si lamentò Kuroo con un lungo sospiro, reclinando il capo all’indietro, sconsolato.
Kenma lo guardò interrogativo.
-Intendo… Oggi è venuto un cliente che aveva la tua età e… sembrava finto? Insomma, sembrava tipo una bambola, hai presente la pelle delle bambole? Sai quelle persone perfette, così tanto che un po’ fanno paura? Ecco, così. E ora tu ti presenti a casa così e sei davvero carino e…- Kuroo gesticolò e aprì e richiuse un paio di volte la bocca, rendendosi conto di essersi impegolato in un discorso che non aveva ne capo né coda. Andò in salotto, seguito da Kenma, e si sedette sul divano sbuffando.
-Ah! Per non parlare di Oikawa poi. Ma dico, l’hai visto? I suoi denti perfetti me li posso solo sognare.-
-A me piacciono i tuoi canini sporgenti…- commentò Kenma con semplicità, accendendo la tv.
-Eh?- Kuroo lo guardò come se avesse appena detto chissà quale mostruosità.
-Sono carini.- annuì l’altro, mostrandogli i denti e imitando con le mani due piccole zanne. -Ti fanno assomigliare a un gatto, e direi che così è perfetto.-
Kuroo rise perché quel gesto, che celava qualcosa di infantile e tenero, cozzava in modo quasi esilarante con lo sguardo socchiuso e un po’ distante di Kenma.
Kenma si circondò le ginocchia con le braccia e sorrise a sua volta nel sentire la sua risata.
-Sarà strano doversi abituare ai tuoi capelli biondi. Non te li sei fatti tagliare, già che c’eri? Arrivano quasi alle spalle…-
-Mi piacciono di questa lunghezza. Me li hanno solo spuntati un po’.-
Kuroo appoggiò una mano sul suo capo e lo spettinò per bene. -Sono rimasti morbidi. Meno male, se te li avessero rovinati non li avrei mai perdonati.-
Kenma chiuse gli occhi e si appoggiò contro la sua spalla, mentre un calore ormai familiare si irradiava nel suo petto.
Kuroo gli passò con delicatezza un braccio attorno al collo e pensò che lo trovava davvero bello. Non riusciva a compararlo ad Akaashi o Oikawa: quella di Kenma era una bellezza che non avrebbe saputo spiegare, forse anche perché dipendeva indissolubilmente dal loro legame, e pensava che niente e nessuno sarebbe mai riuscito ad eguagliarlo.
Forse Kenma non era canonicamente perfetto, non aveva le labbra di Akaashi, o la forma dei suoi occhi, né il sorriso splendete o gli zigomi di Oikawa, ma Kuroo trovava bellissimo ogni dettaglio che gli appartenesse. Gli piaceva seguire con l’indice la curva del suo naso, e avrebbe pagato tutto l’oro del mondo per vederlo sorridere o per sfiorargli le labbra. Sussultò e quasi si strozzò col nulla quando si accorse di aver pensato quelle parole.
-Stai bene?- chiese Kenma, vedendo la sua faccia che andava a fuoco.
-Sì.- Kuroo lo guardò tra un colpo di tosse e l’altro. -No.-
-Non hai mangiato il cibo degli umani, vero?- chiese Kenma, preoccupato per quel comportamento strano e temendo forse qualche strana forma di avvelenamento.
-No!- si affrettò a dire. -Non è niente, mi stavo solo… non lo so.-
Kenma emise un verso non troppo convinto, ma tornò a guardare la televisione senza porre altre domande. Era in momenti come quelli che Kuroo ringraziava che Kenma non fosse una persona insistente.
Yaku aveva ragione. Erano cresciuti insieme, ma Kuroo non percepiva Kenma come un fratello. Kenma apparteneva a quel periodo che aveva segnato la sua rinascita, la sua fioritura, e a un certo punto non era più riuscito a farlo rientrare né nelle amicizie, né nelle parentele.
Kuroo gli aveva insegnato tanto e, allo stesso modo, aveva imparato tanto da lui.
Gli sarebbe piaciuto ringraziarlo senza sembrare stupido, imbarazzante o fuori luogo, perché in quel momento Kenma incarnava tutto ciò che voleva proteggere, e ciò in cui aveva riposto tutte le sue speranze.
Dirgli grazie non sembrava davvero essere abbastanza. 

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Note e chiarimenti

Eccomi arrivata col settimo capitolo! Quando mi sono accorta che in questo capitolo sarebbe apparso Akaashi e sopratutto Bokuto, mi sono un po' pentita di non aver aggiornato prima, perché so che tutte voi bruciavate dalla voglia di rivederlo, povero piccolo.
Il titolo è, come quello del primo capitolo, una battuta di Lady Machbeth da Macbeth di Shakespeare, Atto II: sia gli umani che i ghoul si macchiano di omicidi (hanno le mani dello stesso colore, rosse di sangue), ma Akaashi si rende conto che gli umani non hanno alcun diritto di farsi portatori di un "cuore puro", come se i loro fossero gli unici valori validi, come se la distinzione tra giusto e sbagliato fosse così netta, e se ne vergogna.
In tutto questo, Kenma ora è biondo Kuroo si rende conto in modo molto poco lowkey di essere parecchio gay: informazioni rilevanti, ma che comunque passano in secondo piano in confronto al resto, presumo.
Vi lascio con le bellissime fanart che mi ha fatto Vittoria (seguitela sul suo art blog di tumblr!): una scena dal tremendo capitolo 5 e le nuove maschere di Kenma e Kuroo!
Ringrazio tutte le persone che leggono, seguono la storia e la recensiscono.
Non posso assicurarvi che sarò puntuale con gli aggiornamenti, quindi mi raccomando state sempre pronte!
A presto!

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Capitolo 8
*** And, though I was a soul in pain, my pain I could not feel ***


And, though I was a soul in pain, my pain I could not feel

Era passato un mese da quando Akaashi aveva visitato con l’Accademia la sede della CCG in cui veniva tenuto l’esemplare di ghoul che l’aveva spinto a concorrere per ottenere quel posto.
Qualche giorno prima, Akaashi aveva ricevuto la lettera che lo informava che il punteggio ottenuto era abbastanza alto da permettergli di partecipare al Progetto 150410. Mentre la leggeva, aveva sentito ripagati tutti gli sforzi di quel mese d’inferno.
Non sapeva con esattezza perché l’avesse fatto: quando aveva iniziato l’Accademia, avere contatti diretti con i ghoul non rientrava nelle sue aspirazioni. Eppure, da quando aveva visto quel ghoul in gabbia, in quel pomeriggio di maggio, una curiosità incontenibile si era impossessata di lui. Voleva sapere di più, conoscere, capire.
Aveva sperato fino all’ultimo di essere selezionato per quella collaborazione. Aveva aspettato a lungo di avere l’occasione di rivedere quel ghoul che tanto l’aveva colpito e turbato.
Quando lo avevano riportato in quella stanza, un piano sottoterra, assieme agli altri tre vincitori, nulla sembrava essere cambiato. Il tempo sembrava non scorrere, lì dentro. L’esemplare 150410 se ne stava seduto al centro della gabbia vuota, con addosso un completo grigio e un po’ rovinato. Non gli aveva rivolto più uno sguardo.
Avevano spiegato ad Akaashi il funzionamento dei macchinari in modo più approfondito rispetto a quando aveva visitato la struttura con l’Accademia. C’erano quattro telecamere a sorvegliare la gabbia: negli uffici al piano di sopra si controllava la situazione su degli schermi, e se il ghoul aveva comportamenti troppo violenti o si dimostrava particolarmente ostinato o non collaborativo, rilasciavano scariche elettriche tramite il collare.
Andare lì dopo la mattina in Accademia era stancate e faticoso, ma anche interessante, e gli permetteva di vedere più da vicino ciò che avrebbe dovuto fare una volta ottenuto il diploma.
-Presto inizieremo una serie di esperimenti per testare come le cellule Rc reagiscono a determinate sostanze. Il vostro compito sarà solamente di assistere gli scienziati, ma credo che sarà un’esperienza formativa molto importante, anche per la vostra carriera futura. Complimenti per essere arrivati fin qui.- gli avevano detto, stringendogli la mano con entusiasmo.

Fino a quel momento non aveva ancora avuto l’occasione di stare da solo con l’esemplare 150410. Passavano lunghi pomeriggi nei laboratori, o davanti ad un computer, o a calibrare apparecchi strani e di tempo libero per sgattaiolare dove volevano ce n’era ben poco. Akaashi iniziò a pensare di essersi costruito aspettative troppo alte, di aver fantasticato troppo.
Poi, un giorno, successe.
-Akaashi, per favore, scendi nella Stanza 3 e portami i fogli dei parametri che ho mandato in stampa.- disse un Investigatore a cui Akaashi era stato affidato, seduto alla scrivania, lo sguardo concentrato su una tabella sullo schermo del computer.
La gabbia del ghoul si trovava proprio nella Stanza 3. Akaashi ci mise qualche secondo per realizzarlo, e subito una sorta di agitazione gli avvinghiò lo stomaco.
Esitò per un attimo prima di alzarsi e scendere le scale con una certa fretta: era da un mese che sperava accadesse.
Scese un’altra rampa di scale. Sentiva il cuore in gola e i suoi passi rimbombare nel corridoio deserto.
Aprì la porta della Stanza 3 come se stesse aprendo uno scrigno. L’unico rumore che sentiva era quello meccanico delle apparecchiature alte quasi come tutta la parete. Il ghoul gli dava la spalle, accovacciato a terra.
Deglutì e si avvicinò per prendere i fogli appena usciti da una delle stampanti. Inspirò a fondo e si voltò verso di lui.
Gli dava sempre una strana sensazione di tristezza.
-Come ti chiami?- chiese Akaashi dopo che lo ebbe fissato per qualche secondo, prendendo coraggio.
L’espressione del ghoul cambiò immediatamente. Sembrò illuminarsi, risvegliarsi: spalancò gli occhi e lo guardò incredulo, come se si fosse appena immaginato quelle parole. Rimase in silenzio per qualche secondo, completamente immobile.
-Io?- mormorò con voce roca, le sopracciglia corrugate.
Akaashi si chiese se stesse bene, perché gli sembrava che i suoi occhi fossero lucidi. Annuì lentamente e si avvicinò un po’ alla gabbia, senza movimenti bruschi.
-Qual è il tuo nome?-
Il ghoul continuò a fissarlo con la bocca socchiusa.
-Io sono… Bokuto Koutarou.- sussurrò, come se stesse svelando un segreto.
-Ti hanno portato da mangiare?- chiese Akaashi, vedendo le vecchie ossa lasciate in un angolo della gabbia.
Bokuto era ancora seduto. Scosse la testa, continuando a guardarlo come fosse la creatura più meravigliosa sulla faccia della Terra.
La distanza tra i due era minima. Akaashi sentiva il cuore battere così forte che temeva che sarebbe potuto uscire dal petto. Aveva paura. La sentiva scorrergli addosso e gli rendeva difficili i movimenti, ma non c’era solo quella: c’era anche stupore, nel sentirlo così umano e simile a sé. C’era curiosità e passione.
C’era un’atmosfera irreale, in quella stanza.
Bokuto fu scosso da un singhiozzo, ma sembrava che stesse sorridendo. Abbassò la testa e si sfregò gli occhi col dorso della mano.
-Perché piangi?- chiese subito Akaashi, appoggiando una mano alle fitte griglie di metallo che costituivano  la gabbia. I buchi che formavano erano talmente piccoli che a malapena ci sarebbe passato un dito.
-Stai parlando con me…- mormorò quello, andando lentamente carponi verso Akaashi. Appoggiò le mani sulla gabbia, vicino a quelle del ragazzo, fissandole con un’espressione concentrata, come a voler carpirne i segreti più oscuri. Non era mai stato così vicino alla pelle di un essere umano senza sentirsi in bisogno di attaccarlo o difendersi.
-Non parli mai con gli investigatori? O gli scienziati?-
Bokuto scosse la testa, le labbra strette forte per non farle tremare.
-Perché?- chiese Akaashi.
Bokuto non ricordava l’ultima volta che aveva usato la voce per articolare parole vere, parole che non fossero rivolte solo a se stesso. Non c’era qualcuno con cui parlare: le uniche volte che vedeva delle persone era quando svolgevano esperimenti su di lui. Aveva smesso di provare a parlare con loro molto tempo prima, quando si era reso conto che era inutile, che non lo ascoltavano, che la sua voce non aveva alcun valore, non innescava nessuna reazione in quelli che lo circondavano.
Parlava con se stesso, però. Lo faceva tutti i giorni. La maggior parte delle volte, nella sua mente.
Non ricordava che qualcuno gli avesse mai davvero rivolto parola, da quando era lì.
Era strano avere qualcuno a cui indirizzare la sua voce senza che la sua gola emettesse grida o ringhi.
Si sentì incredibilmente frustrato nel rendersi conto che non sapeva come spiegarglielo: aveva una gran voglia di parlare, di fare un lungo, lunghissimo discorso, di esprimere la sua felicità. Eppure, era come se il suo cervello non riuscisse ad elaborare una risposta abbastanza in fretta, o con le giuste parole. Fissò un punto indefinito nel vuoto e appoggiò la fronte contro la gabbia.
Akaashi si inginocchiò per guardarlo in faccia.
Non voleva giungere a conclusioni affrettate, ma aveva dei forti dubbi sul metodo utilizzato dagli studiosi che seguivano il Progetto 150410. Era un progetto prettamente scientifico, certo, ma ad Akaashi sembrava inconcepibile trascurare l’aspetto sociale, considerato che era una creatura molto più simile agli umani di quanto volessero far credere.
-Mi dispiace per tutto quello che ti hanno fatto…- disse con sincerità e una nota di colpevolezza. -Bokuto, ora devo andare, mi hanno mandato qui solo per prendere dei fogli.- continuò, gli occhi fissi su di lui. -Probabilmente si stanno chiedendo dove io sia finito.-
Bokuto alzò di poco il capo, le labbra che tremavano e l’espressione di chi non vuole essere abbandonato.
-Io mi chiamo Akaashi.-
-Akaashi.- ripeté il nome di quel ragazzo in tono quasi sognante, distante, per imprimerselo nella mente. -Ti piace parlare con me?-
Il ragazzo rimase un attimo spiazzato nel vedere quella faccia piena di speranza. Aprì e richiuse la bocca più volte, incerto su cosa dire. Non aveva esattamente avuto una vera conversazione con lui, ma sembrava essere così importante, per lui, perciò...
-Per favore torna.- disse Bokuto prima che Akaashi potesse rispondere.
L’altro gli rispose con un debole sorriso infelice.
-Certo.-
Fece fatica ad andarsene da quella stanza. Soprattutto, non aveva idea di come avrebbe fatto a guardarlo in faccia i giorni successivi, quando avrebbe iniziato ad assistere agli esperimenti.

Kuroo non aveva mai tenuto in mano tanti soldi e più li ricontava, più la sua risata si faceva accesa e squillante. Avrebbe voluto lanciare le banconote in aria, addosso a Kenma, girare su se stesso sotto una pioggia di denaro.
-Il mio primo stipendio!- disse con un sospiro liberatorio, sollevando la mazzetta in aria con entrambe le mani.
Era da tanto che Kenma non vedeva Kuroo con un sorriso del genere.
Quel mese, il primo mese in cui aveva vissuto da solo assieme a Kuroo, sembrava essere volato. Non era successo molto: aveva fatto più o meno amicizia con gli altri camerieri del Nekoma, Yaku aveva insegnato loro come funzionava la lavatrice e aveva spiegato senza girarci troppo attorno che il loro appartamento, fino a qualche tempo prima, apparteneva ad un altro ghoul che aveva fatto una brutta fine. Non era stata un’informazione molto gradita, soprattutto per Kuroo, che aveva passato qualche giorno nell’autosuggestione, immaginandosi inquietanti rumori notturni presumibilmente emessi da un’entità sovrannaturale. Kenma aveva finito due volte il suo gioco sul Nintendo, aveva rotto uno dei bicchieri nella credenza del loro appartamento e aveva cercato di insegnare ad uno dei gatti del Nekoma a rotolare su se stesso a comando: aveva, insomma, cercato di abituarsi alla sua nuova vita cercando di immergervisi il più possibile, senza pensare ad altro, anche se in certi momenti era stato quasi impossibile, soprattutto perché la fame iniziava veramente a farsi sentire.
Come se non bastasse, Shouyou continuava a scrivergli. Con il passare delle settimane, aveva iniziato a mandargli solo una mail al giorno -prima, nei giorni immediatamente successivi all’incendio, erano molte di più, insistenti, allarmate, malinconiche. Kenma leggeva tutto quello che gli mandava e la tentazione di rispondergli lo tormentava ogni giorno, tanto che più di una volta aveva premuto l’opzione “Rispondi”, per poi tornare immediatamente indietro, senza scrivere nulla.
La televisione non aveva mai rivelato i nomi delle vittime dell’incendio e il caso di cronaca era stato superato. A volte Kenma si ritrovava con gli occhi lucidi senza accorgersene perché, da quello che gli scriveva Shouyou, aveva capito che dava per scontato che fosse morto, e allora si chiedeva perché si ostinasse a mandargli quei messaggi sempre più corti in cui gli raccontava cose stupide, o gli diceva che gli mancava. Lo faceva arrabbiare, in qualche modo, ma non riusciva a cancellare neanche una mail.
Avrebbe voluto dirgli che stava bene, era vivo, ma non avrebbe potuto spiegargli tutto, considerando anche che ormai faceva parte della CCG ed era troppo pericoloso.

-Te lo sei meritato.- commentò Kenma, riportando la mente al tempo presente e spegnendo il fornello sul quale la caffettiera aveva iniziato a borbottare, per poi voltarsi verso Kuroo.
-Sì!- esclamò il più grande, appoggiando i soldi e la busta sul tavolo della cucina per poi stringere le guance di Kenma tra le mani con trasporto. -Avremo dei vestiti decenti, finalmente!-
-… Non dobbiamo più alternare quelle due brutte magliette da 400 yen.- realizzò Kenma, spalancando gli occhi.
Kuroo rise per il suo sguardo, improvvisamente luminoso, continuando a tenergli il viso come se fosse un oggetto prezioso. Sembrava che la consapevolezza lo avesse appena colpito in faccia.
-Compreremo il miglior caffè in circolazione!- continuò giulivo Kuroo, scuotendolo un poco.
-Compreremo degli asciugamani degni di questo nome…?- aggiunse Kenma, con una chiara felicità in volto, come se fosse una liberazione.
-Compreremo un intero camion di asciugamani!-
-Niente più conbini…?-
-Mai più conbini, Kenma!- rise Kuroo, annuendo con veemenza, mentre lo scuoteva con un po’ più di forza per sottolineare il concetto. -E ora fammi versare il caffè in quei contenitori da freezer e facciamo i ghiaccioli al caffè più buoni che si siano mai visti!-

Quel delirio di onnipotenza durò molto poco. Scontrarsi con la realtà fu come andare a sbattere contro un muro.
Dovettero mettere da parte i soldi per pagare l’elettricità, l’acqua e il gas: si chiesero come facessero gli umani, che dovevano anche far fronte a delle spese non indifferenti per quanto riguardava il cibo. Non era così facile gestire i propri risparmi.
Alla fine, i soldi avanzati per le loro fantasie non erano poi molti e il conbini era rimasto ancora la loro prima opzione, ma almeno i ghiaccioli fatti di caffè si erano rivelati un rimedio decisamente efficace contro il caldo di giugno.
Ad ogni modo, riuscirono davvero a recuperare dei nuovi vestiti e decisero che avrebbero riportato al più presto la felpa e la t-shirt ad Iwaizumi.
 
Kenma ci mise un po’ a ritrovare il negozio di fiori in cui, il mese prima, era stato contemporaneamente salvato e mutilato. Kuroo non aveva potuto accompagnarlo a causa del turno di lavoro, e Kenma aveva impiegato qualche ora per trovare la forza di andare da solo.
Entrò a passo felpato e un campanello risuonò nella stanza piena di verde e di macchie di altri colori brillanti. Sentì dei rumori nel retro del negozio e pochi secondi dopo, la tenda dietro il bancone fu scostata e apparve Oikawa.
-Ma chi si vede!- esclamò stupito, dopo aver sbattuto le palpebre un paio di volte. -Ci penso io, zio!- disse, dopo essersi voltato indietro un attimo, rivolto ad un interlocutore che Kenma non poteva vedere.
Oikawa ridacchiò e appoggiò entrambi i gomiti al bancone. -Quindi Kenma-chan è diventato biondo? Questa sì che è una sorpresa.-
Kenma ignorò le sue parole e gli porse frettolosamente una borsa. -Sono venuto a riportare i vestiti che Iwaizumi mi aveva prestato…-
-Che carino, grazie!- cinguettò l’altro rivolgendogli un sorriso cordiale. In una frazione di secondo, però, la sua espressione cambiò e iniziò ad osservarlo con attenzione.
-Come vi trovate al Nekoma?- chiese, lanciando una veloce occhiata alla pelle lucida e in rilievo sul suo braccio.
-Bene, credo…- Kenma abbassò un attimo il capo, per poi guardare il ragazzo direttamente negli occhi. Sette in silenzio qualche secondo prima di riuscire a parlare. -Ah, dovrei chiederti un favore, Tooru…-
La faccia di Oikawa era sorpresa e interessata. Assottigliò gli occhi e si chinò verso di lui, il mento tra le dita.
-Vorrei scoprire cosa è successo davvero ai miei genitori.-
Il sorriso che si aprì sulle labbra di Oikawa sbilanciò l’armonia del suo volto. Kenma cercò di sostenere il suo sguardo e stinse le labbra, perché era una faccenda importante, sulla quale aveva pensato a lungo durante quei trenta giorni.
-Piacerebbe saperlo anche a me, perché è interessante e inusuale.- sussurrò Oikawa con aria persa, continuando a penetrarlo con gli occhi marroni. -Ci pensavo già e, ti dirò un segreto: ho bisogno di Iwa-chan per scoprirlo.-
Kenma ascoltava i suoi mormorii con le orecchie tese e si chiese il perché di quell’espressione addolorata.
-Ma lui non sa ancora nulla, quindi non voglio sentire uscire neanche una parola da quelle tue belle labbra, intesi?- esclamò con un’intonazione stranamente allegra, facendolo  sussultare e portandosi un indice davanti alla bocca mentre gli faceva l’occhiolino.
Quel velo di colpevolezza era sparita nel nulla senza lasciare traccia.
Oikawa Tooru era come l’acqua di uno stagno, calma in superficie, ma anche torbida e illeggibile, e lo terrorizzava.
 
Oikawa sapeva di dovere tutto ad Hajime da quando era stato raccolto mentre si sentiva scivolare nel buio della morte, rassegnato, arreso, quasi, al freddo vetro che gli riempiva la carne. Erano passati più di cinque anni da allora, e Oikawa si era reso conto che il tempo li aveva cuciti l’uno all’altro con un doppio filo, lentamente, senza farsi scoprire. Non si ricordava il momento in cui si era accorto di non potersi più immaginare senza di lui.
-Iwa-chan!- chiamò Oikawa con una voce svenevole, entrando nella camera buia del ragazzo, chiedendosi perché tenesse le imposte chiuse. -Basta dormire!-
-Non sto dormendo.- lo avvisò Iwaizumi, rigirandosi nel letto per guardarlo storto. -Mi sto godendo il silenzio. Stavo.-
-Allora dovresti goderti la mia compagnia, ora.- Oikawa alzò le sopracciglia e si sedette sul bordo del letto con un sospiro. -Indovina chi è passato a trovarci? Kenma-chan! Ma tu sei troppo maleducato per scendere a salutare...-
-Come facevo a saperlo…!- ringhiò l’altro, ma Oikawa non si lasciò interrompere.
-Ti ha riportato i vestiti che gli avevi prestato. Lui e Kuroo stanno bene, sono sollevato.-
Iwaizumi inizialmente spalancò gli occhi, poi lo guardò il suo sorriso poco convinto, con una smorfia.
-Sei davvero contento.-
Non era una domanda, ma un’affermazione: l’aveva capito, e lo sorprendeva che non l’avesse detto solo per fare conversazione.
-Certo che lo sono!- strepitò Oikawa, portandosi una mano al petto. -Avevi dubbi? Mi ritengo personalmente offeso!-
-Non sembrava interessarti poi molto, di loro.- osservò il ragazzo sdraiato.
Oikawa sospirò e iniziò a passargli distrattamente una mano tra i capelli neri.
-Sono io che li ho messi nelle mani di Nekomata.- iniziò, un po’ più serio, mentre inclinava appena la testa e lo guardava incantato nella penombra. -Tra meno di due mesi avrò diciotto anni. Voglio diventare il perno attorno a cui girano tutti i territori con cui abbiamo contatti e per essere a capo di qualcosa bisogna fare buone decisioni, e far sì che la gente ti conosca e ti rispetti. E ti tema.-
Iwaizumi guardava il soffitto ma lo ascoltava attentamente, anche se senza alcuna espressione sorpresa in viso, perché già lo sapeva. Erano anni che Tooru, con suo zio, si dava da fare per ricreare quella rete di favori e conoscenze che apparteneva ai suoi genitori. Suo zio diventava sempre più vecchio e presto sarebbe stato Tooru il centro nevralgico di tutto, l’erede di quello che sembrava essere un piccolo impero invisibile. Non era certo di dove lo avrebbe portato tutto ciò, vista la sua tendenza a voler superare i propri limiti, ma sapeva che non avrebbe mai potuto lasciare il suo fianco. Era però anche pronto anche a tenerlo a freno, se fosse stato necessario e se fosse diventato un pericolo per se stesso.
Appoggiò la mano sulla sua, sovrappensiero. Oikawa guardò sorridente le sue dita che giocherellavano con le proprie; sollevò la mano a mezz’aria e le loro dita si intrecciarono con delicatezza.
-A proposito di futuri diciott’anni, Iwa-chan…-
Iwaizumi spostò gli occhi su di lui per guardarlo, interrogativo.
-Devi scusarmi per quello che farò.- confessò Oikawa sottovoce, il volto immobile e la mano libera che continuavano a lasciare carezze sulla sua testa, sulle sue tempie, sulla pelle di quella tonalità che creava un piacevole contrasto con la propria.
Iwaizumi non capiva il perché di quello sguardo pieno di dolcezza e malinconia. Non capiva neanche il senso di quelle parole. Aggrottò le sopracciglia e aprì la bocca per dire il suo nome, ma Tooru lo fermò premendo la bocca sulla sua con uno schiocco leggero, le mani che tenevano fermo il suo capo.
Tutto si fermò. Il tempo sembrò congelarsi per una manciata di secondi prima che Oikawa si allontanasse dolcemente.
-Volevo che fosse il tuo regalo di compleanno.- mormorò a fior di labbra, gli occhi chiusi, con una risata debole. -Ma non potevo aspettare una settimana.-
Iwaizumi stette in silenzio, il cuore in gola, gli occhi che fissavano quelle palpebre serrate. Deglutì e alzò piano le braccia, appoggiandone una sulla sua schiena.
-Che regalo penoso, Tooru.- sussurrò poi, portando l’altra mano tra i suoi capelli morbidi per riavvicinarlo a sé con un mezzo sorriso sulle labbra.
Oikawa trattenne il respiro e sentì il petto riempirsi di una sensazione densa e invadente. Avrebbe voluto identificarla come pura e semplice felicità, ma in realtà sapeva che era mischiata ad altro, sapeva che le scuse di poco prima non erano solo per avergli finalmente dato il bacio che entrambi aspettavano da anni, perché sapevano di appartenersi da molto tempo addietro.
Quello che provava per Hajime non aveva niente a che fare con gli inganni e l’eterna lotta tra ghoul e umani. Hajime per lui era solo luce. Se chiudeva gli occhi e si lasciava abbandonare al torpore, Oikawa si sentiva come se fosse dentro il bocciolo di un fiore, morbido e vellutato: nel bocciolo, rinchiusi dentro, al sicuro e in silenzio, solo lui con Hajime, a sfiorarsi il cuore.
Si vergognava di aver scelto di baciarlo proprio in quel momento, perché non era nei suoi piani, ma non era riuscito a trattenersi. Avrebbe dovuto solo parlargli, iniziare un discorso che in quel momento non sapeva come riprendere senza sembrare inopportuno.
 
-Devo chiederti un favore.- disse infatti, quasi un’ora dopo, ancora steso nel letto accanto a lui e il suo braccio dietro il collo. Avevano parlato, riso, scherzato: il tempo assieme volava, non c’era niente da fare, era sempre stato così.
Si girò quel tanto che bastava per guardarlo negli occhi, serio, ma con una strana sensazione a chiudergli la gola.
-Fatti amico Tobio-chan.- disse, senza mezzi termini, e quelle parole stonarono in modo terribile con l’atmosfera che si era venuta a creare.
Iwaizumi aspettò un po’. Poi si mise a sedere e lo guardò dall’alto con un’espressione a metà tra l’infastidito e il divertito, come se gli stesse facendo uno scherzo, visibilmente confuso da quella richiesta insolita e improvvisa. -Cosa? Perché dovrei?-
-Perché alla CCG sta succedendo qualcosa di strano e voglio sapere cosa. L’intera famiglia di Tobio ne fa parte, è impossibile che non sappia.-
Iwaizumi lo fissò per capire se lo stesse prendendo in giro, poi sbuffò e si sdraiò di nuovo, incrociando le braccia dietro la testa. -Ci sono decine di persone che possono farlo al posto mio.-
-Ho bisogno che lo faccia tu.- disse subito Oikawa, toccandogli il braccio per attirare di nuovo la sua attenzione. -Perché so che tu sei il tipo di persona che può tenergli testa, caratterialmente parlando. E poi devo sapere tutto quello che Tobio dice e fa, non un riassunto veloce, per quanto dettagliato. Io voglio ogni parola e tu sei la persona di cui mi fido di più.-
-Mi stai chiedendo di fare amicizia con un umano che per di più ha stretti legami con la CCG?- chiese con calma e lentezza analitica, come a riassumere in un’unica frase tutte le richieste assurde che gli aveva fatto in meno di un minuto. -Vuoi farmi ammazzare, Tooru?-
Oikawa corrugò la fronte e scosse la testa, deciso. Ci aveva pensato a lungo, sapeva quello che stava dicendo e c’era un senso nelle sue parole. Non era solo un capriccio, non del tutto almeno, e avrebbe voluto spiegarglielo con calma, senza che lo incalzasse in quel modo.
-Ascolta, Tobio sarà anche un piccolo prodigio, ma è pieno di orgoglio e ingenuo come un bambino e questo binomio lo rende un soggetto facile da abbindolare, più facile di quel che sembra e di quel che credi.-
Iwaizumi lo guardò con una serietà tale da farlo rabbrividire.
-Credi che io ti dirò di sì perché mi hai baciato, vero?-
Oikawa sentì il cuore contrarsi a quelle parole e tenne per qualche secondo gli occhi congelati nei suoi, verdi e duri e in cerca di una risposta che non arrivò in tempo. Con lo stomaco stretto in una morsa, Oikawa guardò Iwaizumi mentre si alzava seccato, e ascoltò impotente i suoi passi che scendevano le scale.
Non era quello che voleva. Non voleva essere frainteso. Non voleva che il suo gesto venisse interpretato in quel modo e si diede dello stupido per aver avuto tanta fretta. Strinse i denti e alzò gli occhi al soffitto mordendosi le labbra e con il petto dolorante.
Aveva sbagliato e non lo sopportava.
 
Akaashi cercava di non prestare attenzione alle dita di Bokuto aggrappate alla gabbia, fingere di non vedere che tremavano per la paura, o per il dolore, o per la rabbia, o per tutte e tre le cose.
Distolse lo sguardo. Erano giorni che gli esperimenti andavano avanti. Teneva in mano un foglio con l’elenco delle sostanze iniettate e svariati numeri e segni quasi indecifrabili appuntati velocemente, nella speranza che tutto finisse presto.
Sentiva lo sguardo di Bokuto gravargli addosso e non sopportava che potesse pensare che lo avesse tradito.
 
Qualche ora dopo, durante una pausa, Akaashi riuscì a sgusciare silenziosamente in quella stanza vuota e illuminata solo dalle luci artificiali. Aggirò a passo sicuro la gabbia per poterlo guardare in faccia.
Bokuto era seduto per terra, praticamente attaccato alla gabbia, le spalle un po’ in avanti e la testa china: sembrava non essersi accorto di lui, ma Akaashi sapeva che non era possibile.
-Sono io.- disse piano e cauto, stando a distanza di sicurezza.
Bokuto prese un lungo respiro e alzò le mani. Le appoggiò alla gabbia, tenendo le palpebre chiuse, tremanti. Contrasse le dita per un attimo, prima di tirare una forte testata contro la griglia della gabbia, con un grido che riempì la stanza e la testa dell’altro ragazzo.
Akaashi indietreggiò istintivamente e sgranò gli occhi.
-Bokuto.- disse preoccupato, prendendo coraggio e decidendo di avvicinarsi di nuovo. -Le telecamere non hanno microfoni, non possono sentire che parliamo, probabilmente non ci stanno neanche guardando, ma non ti devi agitare o attirerai l’attenzione e faranno partire l’elettroshock.-
Il ghoul aprì gli occhi con respiro affannoso e Akaashi rabbrividì nel vedere le piccole pupille rosse proprio al centro degli occhi neri, che lo fissavano con bramosia.
-Ho fame.- disse il ghoul con la voce spezzata e i denti stretti. -Stai più lontano.-
Akaashi lo guardò smarrito.
-Ti prego Akaashi stai più lontano.-
Akaashi aveva sempre considerato i ghoul come mostri mangiauomini, cosa che effettivamente erano, ma non solo. Non sapeva spiegarselo: c’era troppa umanità in quel mostro, e troppa mostruosità negli umani. Il confine tra il bene e il male non gli era mai sembrato tanto labile.
Il ragazzo dall’altra parte della gabbia metallica continuava a sbattere la fronte contro di essa e teneva gli occhi chiusi, strizzati forte, i capelli grigi che ricadevano sulla fronte sudata e le dita rosicchiate che cercavano di stringersi attorno all’inferriata.
Akaashi inorridì e si chiese come si potesse trattare una creatura in quel modo.
-Scusami.- sussurrò cupo, senza riuscire a staccargli gli occhi di dosso e con l’impressione di star provando un dolore molto simile al suo. -Ho scelto di voler collaborare al Progetto 150410 perché volevo sapere di più su di te, direttamente da te. Io non voglio farti male. Non pensavo che avrei dovuto assistere a delle torture e…-
-Non voglio mangiarti!- lo interruppe il ghoul con un urlo tremendo, portandosi le mani tra i capelli e fissando il pavimento mentre scoppiava a piangere.
L’aveva gridato a se stesso, più forte che poteva. Per sovrastare i propri pensieri, perché non sentiva altro.
Akaashi serrò la bocca. Non poteva parlargli in quelle condizioni e averne la conferma in quel modo fu più sgradevole di quanto potesse immaginare: la sua presenza e il suo odore non facevano altro che peggiorare la sua fame e doveva ancora smaltire le sostanze che gli erano state somministrate.
Guardò la sua schiena tremante, poi il pavimento piastrellato, e infine si voltò per uscire, pieno di rabbia.
Non riusciva a trovare una soluzione eticamente corretta nella dicotomia che governava il mondo.


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Note e chiarimenti
Innanzi tutto chiedo scusa per il ritardo! Non ho avuto internet da pc per parecchio e per revisionare i capitoli ci metto un po'... Grazie per essere così pazienti.
Eccoci quindi con l'ottavo capitolo: le cose si stanno veramente scaldando e non  avete idea di cosa vi aspetta nei prossimi capitoli. L'unico modo per saperlo, è continuare a seguirmi nonostante i miei ritmi ubriachi.
Il titolo del capitolo è tratto da "The Ballad of Reading Gaol" di Oscar Wilde, un'opera che mi uccide ogni volta. La frase si riferisce sia al nostro povero Akaashi che al nostro poverissimo Bokuto.
Akaashi poiché, conscio della propria situazione, si è riscoperto a soffrire per un ghoul- ma sa anche che deve reprimere questa sensazione, che forse non può permettersi di essere triste per un mostro ma non può farne a meno.
Bokuto perché, completamente estraniato e lontano dal mondo esterno, finisce col diventare un opaco riflesso di se stesso, senza sapere più cosa sia davvero reale e cosa no.
Potrebbe anche riferirsi ad Oikawa e alle sue sofferenze profonde e nascoste, che in qualche modo rifiuta di guardare direttamente in faccia. Spero che il capitolo vi sia piaciuto! Fatemi sapere-
Alla prossima!

 

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Capitolo 9
*** Nuit de juin! Dix-sept ans!– On se laisse griser ***


Nuit de juin! Dix-sept ans! - On se laisse griser.
 
Kenma inspirò profondamente mentre indossava la sua maschera, sul tetto di quell’alto edificio, sotto il cielo nero e limpidissimo di una tiepida notte di fine giugno. Kuroo era in piedi poco più avanti di lui, e guardava la strada illuminata a giorno da mille colori vivaci e gremita di persone.
Era arrivato il giorno in cui la sopportazione aveva raggiunto il suo limite.
-Sono davvero alti i grattacieli di Akihabara.- commentò Kuroo, guardandosi attorno. La sua voce suonava strana, ovattata dalla maschera. -Dobbiamo spostarci saltando sui tetti. Qui in alto è buio, da terra non ci vedranno con tutte quelle luci.-
-Come facciamo a cacciare con così tanta gente e così tanta luce?- chiese Kenma, ora accanto a lui, coi piedi sul bordo del palazzo, i capelli chiari mossi da un leggero vento.
Kuroo scrollò le spalle. -Il territorio è grande, diamo un’occhiata.- disse impaziente, un attimo prima di saltare verso l’edificio accanto. Kenma lo seguì senza esitare.
A Kuroo era mancato spostarsi liberamente in quel modo: i suoi movimenti erano ampi e agili, liberatori, disinvolti, atterrava piegando le gambe fino ad accucciarsi a terra e godendosi la sensazione dei muscoli che si distendevano e si contraevano. Kenma, invece, aveva imparato a minimizzare i movimenti, ad evitare gesti superflui, e preferiva di gran lunga spostarsi in quel modo leggiadro e silenzioso, quasi invisibile, flettendo appena le ginocchia e sentendo le giunture formicolare appena nell’attutire gli impatti, ma sempre senza sbilanciarsi, con un equilibrio incredibile.
Fu lui a fermare Kuroo dopo circa una ventina di minuti, posandogli una mano sulla spalla quando furono abbastanza lontani dalle zone più trafficate e affollate. Kuroo lo guardò e Kenma non disse nulla: fece un paio di passi indietro, si voltò e saltò nel vuoto, giù dal palazzo.
Kuroo si sporse per osservare la scena: Kenma era arrivato a terra senza emettere il minimo rumore, perfettamente in piedi, nell’ombra del vicolo lungo il quale camminava una persona, solitaria e ignara.
Kuroo sentì un brivido attraversarlo, ed era abbastanza sicuro che la brezza notturna non ne fosse la responsabile.
-Buon appetito.- mormorò atono Kenma, rivelando così la sua presenza e facendo voltare l’uomo che stava qualche metro davanti a lui. Allungò una mano e gli afferrò la faccia, coprendogli la bocca, l’urlo che non poteva emettere stampato negli occhi.
Kenma si era sempre considerato, oggettivamente, una persona debole. In effetti, in confronto alla maggior parte dei ghoul lo era, ma quella fame crudele gli stava dimostrando tante cose.
Gli stava dimostrando che aveva molta più forza di quella che pensava di avere e, soprattutto, che non era vero che non sarebbe mai stato in grado di far del male ad un umano.
La fame gli aveva detto che non c’era nulla di cui aver paura, tranne che della fame stessa: la voglia di mangiare aveva spazzato via ogni incertezza come se fosse stata solo un leggero strato di polvere. Nessun dubbio era fondato, erano solo futili condizionamenti.
Sollevò appena la maschera per scoprire la bocca e affondò i denti tra la spalla e il collo, la mano libera che si conficcava e si faceva spazio nello stomaco e nel ventre di quell’umano senza identità che, a poco a poco, smetteva di dimenarsi.
Non si era mai reso conto di quanto la carne fosse facile da squarciare, quanto fosse morbida e tenera, quanto fosse semplice affondarci le unghie, le dita, le mani, lacerarla, farla a pezzi.
Sentiva il sangue caldo colargli lungo il mento e il morso che aveva preso improvvisamente sembrò il boccone più buono che avesse mai avuto il piacere di assaggiare. Quella carne viva e cruda era migliore di qualsiasi raffinato trancio avesse mai mangiato in un ristorante.
Il battito del proprio cuore stava accelerando.
Kuroo lo raggiunse con un paio di salti, aggrappandosi al cornicione di qualche finestra per attutire l’impatto col terreno.
Kenma era inginocchiato a terra davanti al cadavere smembrato. Notò la sua schiena che si alzava e si abbassava velocemente e capì che aveva il respiro affannato. Lo vide togliersi definitivamente la maschera con le mani insanguinate e voltare il viso verso di lui. Lo guardò con gli occhi spalancati, la piccola pupilla rossa che sembrava tremare, le labbra imbrattate di sangue.
-Kuro.- chiamò il suo nome con voce flebile, alzandosi in piedi sulle gambe malferme.
Kenma provava una sensazione di appagamento inspiegabile nel sentire i propri polmoni riempirsi completamente d’aria, l’adrenalina scorrergli nelle vene.
Anche Kuroo si tolse la maschera, guardandolo incantato e sorpreso mentre gli si avvicinava. Non lo aveva mai visto così, non aveva neanche mai avuto il coraggio di immaginarselo e, in tutta sincerità, in quel momento era grato di non averlo mai fatto, perché sapeva che non sarebbe mai stato in grado di aggiungere dettagli apparentemente insignificanti, ma che in realtà lo lasciavano incapace di commentare, come il sangue cremisi che gli gocciolava lungo le mani, tra le dita sottili, e picchiettava per terra.
Kenma aveva vissuto tutta la sua vita a mangiare regolarmente, senza attendere che l’appetito diventasse feroce, e Kuroo poteva solo fantasticare su come fosse provare per la prima volta quella sensazione a quasi diciassette anni. Sapeva solo che era affascinante e tremendo, vederlo così.
Allargò le braccia in modo istintivo per abbracciarlo mentre gli si avvicinava e non riuscì ad elaborare razionalmente cosa successe dopo.
La mano di Kenma gli accarezzò la guancia, sporcandogliela di sangue, e scivolò tra i capelli neri e scombinati per tirarlo piano verso di sé, tendendo il collo verso di lui.
Kuroo si chinò e fece scontrare le labbra con le sue, gli occhi chiusi, il respiro che improvvisamente veniva a mancare e il cuore che si riempiva. Si incastrò tutto come un meccanismo perfetto.
Sentì le braccia di Kenma stringersi attorno alle sue spalle con un verso soddisfatto, ma le sue mani non stavano ferme, si aggrappavano alla stoffa, scivolavano sul suo collo, sulle sue guance, di nuovo sulla sua nuca.
Kuroo lo avvicinò al muro del vicolo prendendogli il viso tra le mani, senza smettere di baciarlo, col fiato corto e un terribile e prepotente bisogno di stargli il più vicino possibile. Passò lentamente la lingua sulle sue labbra per assaporare il sangue fresco, e quel gusto intenso, assieme a quel gesto che tanto aveva desiderato, gli fece sentire un tuffo al cuore.
Kenma sospirò, le palpebre abbassate e tremanti, una mano che si era spostata sul polso di Kuroo, vicino alla propria mandibola. Sentiva ogni sua singola vena sotto i polpastrelli, ogni singola piega della sua pelle.
Aveva una gran confusione in testa, ma i suoi sensi sembravano essersi amplificati ed era assolutamente convinto di voler sentire quelle sensazioni altre mille volte. Aprì la bocca e lo cercò di nuovo, con più urgenza, più incredulo e sconvolto, forse, per quello che aveva fatto e stava facendo, ma anche spaventosamente soddisfatto e felice, in un modo che lo faceva sentire la persona più potente del mondo.
Non pensava che si sarebbe mai sentito trasportare da quella smania che proprio non sembrava appartenergli, che non sembrava essere reale, eppure esisteva, in quel momento, e lo smuoveva nel profondo.
Kuroo aprì gli occhi, di un rosso e un nero intensi e densi. Si allontanò solo quando, a causa dell’odore di tutto quel sangue e di quella carne, il bisogno di mangiare superò quello di continuare a sentire le labbra morbide di Kenma sulle sue. Ma si promise con un sorriso obliquo e pungente che sarebbe stata una lontananza solo temporanea.

Le stelle di quella notte rinfrescata da una piacevole brezza sfumarono in un’alba chiara e dai colori caldi.
Il sole era sorto da poco più di un’ora e Kageyama correva a ritmo sostenuto per la strada praticamente deserta. Aveva appena svoltato l’angolo quando sbatté contro qualcuno.
-Oi!- esclamò sul subito, chiudendo e riaprendo un paio di volte le palpebre per capire cosa stesse succedendo e mettere a fuoco chi gli era apparso davanti.
-Scusami, non ti ho visto!- disse con un sorriso risoluto quel ragazzo dai capelli corti e scuri, gli occhi verdi che lo colpirono come un pugno.
-N-no! Insomma, scusami tu.-  rispose subito Kageyama, con un veloce inchino.
-Nessun problema. Anche tu corri al mattino presto?-
Kageyama annuì velocemente, asciugandosi il sudore sulla fronte col dorso della mano, e iniziò a parlare, non proprio sicuro. -Lo faccio sempre prima delle lezioni…-
-Ah, ti tieni in forma? -
Kageyama avrebbe davvero voluto andarsene, ma per qualche motivo non riusciva a trovare il modo di congedarsi, e gli era impossibile smettere di parlare senza risultare troppo maleducato.
-…In realtà, a tutti i membri dell’Accademia è richiesta una forma fisica ottimale, quindi...- iniziò, cercando di restare vago.
Il ragazzo gli mostrò un’espressione sorpresa. -Accademia? Non dirmi che frequenti l’Accademia della CCG!-
-Già.- rispose subito, con un piccolo sorriso, intimamente orgoglioso di poterlo finalmente affermare.
-Wow! Anche io avrei voluto andarci, ma i miei genitori mi hanno sempre ripetuto che era troppo pericoloso.-
-È un peccato, avresti davvero il fisico adatto…-
Il ragazzo rise e incrociò le braccia muscolose al petto. -Ti ringrazio! Senti, non vedo molte persone andare a correre così presto in questa zona, che ne dici di fare un po’ di strada insieme? Non fa male stare in compagnia.-
Kageyama fu colto alla sprovvista. Normalmente, avrebbe trovato il modo di rifiutare, ma quel ragazzo sembrava una persona interessante e energica, e la sua espressione decisa, anche se un po’ burbera, gli dava sicurezza, e in qualche modo sentiva che non l’avrebbe rallentato, ma che anzi lo avrebbe spronato a dare il meglio di sé nella corsa.
-Io… credo vada bene?- borbottò con un velo di imbarazzo. -Piacere, io sono Kageyama Tobio.-
-Perfetto.- disse quello con un sorriso. Gli diede una pacca sulla spalla, gli occhi verdi improvvisamente più brillanti. -Piacere di conoscerti, io mi chiamo Iwaizumi.-

Da quel giorno di fine giugno, gli ingranaggi iniziarono a girare in modo diverso: i cambiamenti furono graduali e impercettibili, come piccoli passi silenziosi nel buio, ma inesorabili.

Un giorno di luglio, Kenma stava accarezzando uno dei gatti del Café quando entrò un ragazzo dai capelli neri e gli occhi di un colore indistinguibile: ad un primo colpo d’occhio gli erano sembrati scuri, ma più lo guardava, più notava che la sua iride era di un blu strano, tendente al grigio scuro, e non aveva mai visto una sfumatura del genere. Kuroo l’aveva salutato chiamandolo Akaashi, e Kenma pensò che fosse quel cliente dal viso perfetto che gli aveva accennato una volta e di cui, per qualche motivo, si ricordava bene.
Kenma aveva continuato a guardarlo e ad accarezzare il gatto finché l’animale, stufo, non aveva deciso di andarsene.
Kuroo aveva ragione. Akaashi era bello, e nell’ammetterlo sentì lo stomaco stringersi.

Nelle settimane successive Akaashi era tornato spesso al Nekoma, e ogni volta il cuore di Kenma si era affossato un po’ di più nel vedere Kuroo parlare con lui, non sapeva se per gelosia o invidia.
Uno dei primi pensieri di Kenma fu che assomigliasse ad un angelo, ma se lo fosse stato davvero allora non lo avrebbe fatto sentire così in soggezione solo rimanendo nella sua stessa stanza. Quindi Kenma giunse alla conclusione che fosse un’altra creatura sovrannaturale, un demone, magari, di quelli splendidi, che ti trascinano nel baratro più oscuro e, con la loro bellezza a fare da esca, ti risucchiano in una sorta di buco nero. Ogni volta che Kuroo gli si accostava, Kenma, nella sua mente, lo richiamava, intimandogli di non avvicinarsi troppo, di non muovere un altro passo.
Avrebbe voluto prendersi la testa tra le mani e dirsi chiaramente di smetterla quando si rese conto quanto fossero stupidi, imbarazzanti ed esagerati quei pensieri.

Verso la fine del mese, però, Nekomata fece chiamare Kenma per parlargli in privato. Da allora, non era più potuto stare nel Café a lungo come prima, e non aveva più avuto occasione di vedere il suo demone.
Non si conoscevano molti dettagli, ma a quanto pareva Nekomata lo aveva fatto avvicinare a delle questioni amministrative di cui pochissimi altri membri del Nekoma erano a conoscenza, e nessuno di loro era giovane quanto lui. Aveva riconosciuto in Kenma capacità notevoli per quanto riguardava l’osservazione e l’analisi di determinate situazioni.
Kuroo era felice di vedere quanta importanza gli stesse riservando Nekomata, e quanto gran parte del Nekoma stesse iniziando a riconoscere il valore di Kenma nonostante il suo carattere introspettivo e taciturno: tutti, chi più chi meno, sembravano esserglisi affezionati, e in questo modo si esaudiva uno dei più grandi desideri di Kuroo.

Kenma e Kuroo mangiarono altre due volte, tra l’estate e l’autunno: non era la stessa fame che li aveva mossi la prima volta e Kenma non era particolarmente entusiasta di cacciare, ma sapeva che evitare di scadere nella fame più profonda era senz’altro la soluzione migliore. Entrambe le volte era stato Kuroo a uccidere gli umani, ma semplicemente perché Kenma non ne aveva voglia.
Una delle due vittime era una ragazzina in divisa scolastica che avevano avvicinato senza indossare la maschera. Kenma si era sentito in imbarazzo ad usare quel metodo di approccio, ma doveva ammettere che avevano impiegato veramente poco tempo per portarla in un luogo isolato e concludere ciò che dovevano fare senza dare nell’occhio.
Fino a qualche mese prima, Kenma pensava che non avrebbe sopportato lo sguardo di terrore che sarebbe apparso sul volto degli umani nel rendersi conto che stavano per morire per mano sua, e scoprire che non era così l’aveva sorpreso, non era sicuro se in maniera positiva o meno. Semplicemente, in quei momenti non sentiva niente se non un viscerale appagamento. Oltre alla sensazione di pienezza, gli piaceva, in particolare, vedere i rivoli di sangue che scorrevano ai lati della bocca di Kuroo e che la tingevano.
Kenma non avrebbe mai voluto smettere di passare il pollice sulla sua pelle e la lingua sugli angoli delle sue labbra, gli occhi chiusi per non sprofondare nell’imbarazzo nel rendersi conto di essere osservato, a godersi i mugolii soffocati che Kuroo sembrava emettere solo per procurargli brividi intensi lungo la colonna vertebrale.
Non avevano finto che non fosse successo nulla, dopo il loro primo bacio. Entrambi sapevano che quello che era successo in quella notte di giugno era stato dettato dall’enfasi del momento, dall’adrenalina, che forse era stato un po’ frettoloso, ma che tutto era stato meno che un errore.
C’erano stati tanti altri baci, anche molto meno feroci, e Kenma si era sentito morire ogni volta, che fosse stato nel mezzo di una strada buia con un cadavere ai piedi e l’invitante odore di carne a riempirgli le narici, o con la schiena affondata nel materasso, sul lenzuolo stropicciato, e con il peso di Kuroo sul petto.
Era l’unica cosa che sembrava avere il potere di svuotargli completamente la mente.
Kuroo si sentiva leggero come una piuma ogni volta che Kenma entrava nella stanza e si dirigeva verso di lui con lo sguardo basso ma il passo svelto. Gli piaceva quell’affetto quotidiano e straordinariamente tenero, sbocciato da una situazione dalle sfumature cruente ma nato molto tempo prima.
Sorrideva quando Kenma si sedeva in braccio a lui senza dire una parola e appoggiava la fronte contro la sua spalla nel tentativo di nasconderci il viso, o quando tendeva il collo a reclamare baci nel modo più silenzioso possibile, l’espressione un po’ contrariata se ci impiegava più del previsto a raggiungerlo.
A Kuroo piaceva passare le mani sulla sua schiena, vederlo sciogliersi fino quasi ad addormentarsi, gli piaceva anche protestare quando si accorgeva che Kenma gli stava mordicchiando il collo della maglietta per dispetto.
Sarebbe stato ore ad ascoltare la sua voce calma, sentire le carezze di Kenma tra i capelli e le sue dita che vagavano delicate e senza meta sul suo viso, come a disegnarlo.
Spesso Kuroo si sdraiava e appoggiava la testa sulle sue cosce, e osservava Kenma col collo inclinato in avanti, i capelli chiari che ricadevano ai lati del viso e i grandi occhi d’ambra che parlavano molto più di quanto potesse sembrare.
C’era sempre un velo di malinconia a ricoprire le loro gioie e le risate leggere che appartenevano solamente a loro due, chiuse in quell’appartamento quando ormai la pioggia di metà novembre bagnava i vetri delle finestre.

Quell’estate, Iwaizumi aveva approcciato Kageyama senza dire nulla a Oikawa.
Quando era rientrato a casa aveva fatto solamente in tempo a togliersi le scarpe e a salire le scale prima che le mani di Oikawa gli afferrassero il colletto della maglia e lo sbattessero contro il muro. Oikawa gli aveva urlato in faccia, con gli occhi lucidi; gli aveva urlato che non sapeva dov’era andato e che si era preoccupato perché non avevano mai più riesumato quella questione di Tobio, dopo quel giorno in cui lo aveva baciato, e non aveva minimamente pensato che l’avrebbe fatto davvero. Gli aveva detto che era un’idiota e che avrebbe dovuto parlarne con lui, prima, perché era pericoloso e se gli fosse successo qualcosa non se lo sarebbe mai perdonato.
Iwaizumi sapeva benissimo che avrebbe scoperto quello che aveva fatto in tempi più che rapidi, ma non si aspettava che avrebbe reagito in quel modo.
Lo aveva guardato con gli occhi sgranati mentre cercava di allontanare le sue mani da sé, ma Oikawa si era rifiutato di lasciarlo andare, stringendolo piuttosto contro il suo petto, le braccia attorno al suo busto e la testa appoggiata alla sua tempia.
Iwaizumi aveva ascoltato il battito accelerato del suo cuore e gli aveva detto che andava tutto bene, stava bene, non aveva corso alcun pericolo.
-Non è successo niente.- gli aveva detto, con una lieve confusione, mentre gli passava una mano sulla schiena. Quando Oikawa era tornato a guardarlo, aveva un broncio esilarante dipinto in volto.
L’aveva fatto per lui e non sapeva con esattezza cosa l’avesse spinto a farlo: ci aveva pensato a lungo, ed era giunto alla conclusione che, sì, era pericoloso, ma fattibile.
Se farlo poteva davvero aiutare Oikawa a diventare ciò che voleva, allora non c’era dubbio: lo avrebbe fatto.

Iwaizumi aveva continuato per mesi ad andare a correre con Kageyama, e ogni volta raccontava a Oikawa tutto quello che era successo.
Da parte sua, Iwaizumi, dopo i primi giorni di difficoltà, aveva iniziato a trovare stranamente interessante passare del tempo con Tobio. Sotto quell’apparenza seria e orgogliosa si nascondeva un ragazzino un po’ sempliciotto e con qualche difficoltà a socializzare ed era divertente studiare le sue reazioni.
Tooru aveva ragione: da un punto di vista caratteriale non era facile tener testa a Tobio. Era una di quelle persone che disdegnava facilmente chiunque reputasse un peso inutile o che non riuscisse a stare al suo passo. Ma, in presenza di una persona più grande e fisicamente più capace di lui, non poteva fare a meno di provare ammirazione e rispetto, come se nella sua testa costruisse una sorta di piramide gerarchica da rispettare in modo ferreo. Iwaizumi pensava che quella fosse proprio una mentalità militare, e gli aveva fatto capire molte cose sul tipo di ambiente in cui Kageyama doveva essere cresciuto.
Ad ogni modo, Iwaizumi soddisfaceva alla perfezione tutti i requisiti per occupare uno dei posti più alti nella piramide immaginaria di Tobio e, per di più, possedeva una particolare aura autoritaria, un carisma naturale profondamente diverso da quello di Oikawa, ma per molti versi altrettanto efficace e, nel caso di Tobio, anche di più.
Tobio gli aveva raccontato molte cose, in quei mesi. Anche Hajime l’aveva fatto, ma le sue erano tutte bugie. Non credeva davvero di poter essere un tale bugiardo.
Tobio si fidava di lui. Hajime lo sapeva e, anche se non avrebbe voluto ammetterlo, più il tempo passava più non riusciva a non sentirsi in colpa per questo, ma non lo avrebbe mai detto a Tooru. Doveva solo pensare che era a causa sua che i genitori di Tooru erano stati uccisi, e che nel giro di qualche anno sarebbe diventato a tutti gli effetti un membro della CCG -e quindi, un nemico giurato.

-Fa sempre più freddo.- si lamentò Kageyama, accanto ad Iwaizumi. -Ed è sempre più buio, al mattino.-
-Già. Vuoi fermarti? Possiamo andare a bere qualcosa di caldo.-
-No!- si affrettò a dire il più piccolo. -No, era solo un’affermazione.-
-Come preferisci.-
Kageyama guardò con la coda dell’occhio Iwaizumi correre al suo fianco, il respirò freddo che usciva dalle sue labbra sottili. Sembrava veramente instancabile, in ogni condizione meteorologica.
-Allora, come va in Accademia?- chiese, e Kageyama si riscosse dai suoi pensieri.
-Mmh…-
Iwaizumi rallentò il passo e si fermò per guardarlo interrogativo.
-Te ne ho già parlato. non sono poi molto bravo a…- iniziò Kageyama una volta fermatosi, l’espressione corrucciata. -…a studiare, ecco.-
Iwaizumi alzò gli occhi al cielo. -Tobio, hai davvero una testa dura.- lo riprese, premendogli una mano sui capelli neri e liscissimi. Era un discorso che avevano affrontato svariate volte in quei mesi, e Hajime era diventato sempre più bravo a immergersi in quella bugia, tanto che ormai temeva di starsi veramente preoccupando per lui.
-Devi impegnarti, o il tuo punteggio complessivo sarà basso per colpa della teoria e alla fine ti farà passare come un neo-investigatore di merda.-
-Ma io sono ottimo nello scontro fisico. I miei genitori mi hanno allenato fin da piccolo, sono il migliore della mia...-
-Ma mi ascolti?-
Tobio abbassò lo sguardo, imbronciato e leggermente rosso in faccia. Sperò che Iwaizumi pensasse che fosse colpa del freddo.
-Che poi cosa c’è da studiare, di teoria? A che ti serve?-
-Studiamo la struttura biologica dei ghoul, i vari tipi di kagune, come funzionano le quinque…-
Iwaizumi alzò le sopracciglia, colpito. -Woah, le quinque.-
-Già. Sembra interessante, ma ci chiedono veramente di ricordare dettagli tecnici impossibili, è davvero difficile.-
Iwaizumi era stupito di sentirlo parlare così, perché non era da lui aprirsi in quel modo e ammettere di non essere bravo in qualcosa.
-Parlate anche di attualità, vero? Tipo, gli incidenti che succedono, cose così…-
-Sì, parecchio, ma è più una cosa tra di noi, non è una materia del corso di studio.-
-No, certo.- annuì Iwaizumi, pensoso, tornando a correre a passo sostenuto. -Senti, ti ricordi qualche mese fa, quell’incendio in quell’appartamento da ricchi? In televisione non hanno mai detto granché e mi hanno lasciato, come dire, con una certa curiosità…-
-Toshima? Ah, lascia perdere.- lo interruppe Kageyama, accigliato. -È in assoluto una delle cose che mi fanno incavolare di più, nessuno è riuscito a sapere niente.-
Iwaizumi lo guardò in silenzio, gli occhi attenti e le labbra dischiuse.
-Niente?-
-Niente.-
Ormai era metà novembre e non sembrava che fosse riuscito a estrapolargli informazioni particolarmente utili, non perché non fosse in grado di toccare gli argomenti, ma perché tutto quello che Tobio diceva era già giunto, in qualche modo, alle orecchie di Tooru.
Oikawa pensava che ci fossero solo due possibilità: o Tobio era molto più prudente e intelligente di quello che pensavano, o non sapeva davvero nulla.
Iwaizumi temeva che, dopotutto, Kageyama non fosse altro che un ragazzino ignaro.

Hinata cadde a terra per l’ennesima volta sul pavimento leggermente imbottito. Kageyama lo guardava dall’alto, una mano stretta al colletto della sua maglietta e la fronte imperlata di sudore. Ricambiò lo sguardo con gli occhi sgranati e il respiro affannato.
-Ancora!- disse il ragazzino dai capelli rossi e scombinati con una nota arrabbiata, rialzandosi in piedi con un balzo e massaggiandosi appena il gomito dolorante.
Kageyama bevve un sorso d’acqua dalla bottiglietta appoggiata su un tavolino vicino al tappeto su cui stavano facendo allenamento.
-Un ghoul ti avrebbe già mangiato. Tre volte.-
Hinata emise un verso nervoso. -È per questo che ci stiamo allenando!-
-Hinata, non puoi buttarti su di lui senza pensare.- lo riprese uno dei ragazzi più grandi intenti a guardarli.
-Suga-san, so cosa devo fare ma è come se... Non lo so, come se il mio corpo si muovesse d'istinto!-
Sugawara sospirò pazientemente e gli si avvicinò per l'ennesima volta, prendendogli gli avambracci e spiegandogli in tono calmo ma deciso il movimento corretto da compiere, ripetendolo a rallentatore e invitandolo a fare lo stesso con un sorriso gentile.
Quell'ambiente era stato completamente adibito a palestra, con vari tappeti su cui gli studenti dell'Accademia potevano allenarsi tra di loro anche nei momenti liberi tra una lezione e l'altra, e non era raro che gli studenti più grandi tenessero d'occhio gli altri e che dessero loro consigli quando i professori non erano nei paraggi.
Kageyama era bravo. Moltissimo.
Solitamente non ci metteva più di trenta secondi ad atterrare Hinata: anche se quello era parecchio veloce e spesso riusciva a sfuggirgli, non appena veniva bloccato, sembrava andare in panico e si muoveva senza pensare.
Hinata dal canto suo non lo aveva mai visto combattere sul tappeto con qualcun'altro, non con i propri occhi, perlomeno. Tra quelli del primo anno aveva tuttavia sentito parecchie voci non esattamente benigne sul suo comportamento: qualcuno diceva che aveva rotto il naso a un paio di studenti, negli anni precedenti. Forse non accidentalmente, dicevano.
Hinata non credeva solo all'ultima parte. Kageyama era stupido, aveva un carattere insopportabile, arrogante, superbo, ed era bravo nello scontro corpo a corpo, ma fare realmente del male a qualcuno non rientrava certo nei suoi interessi.
Anche lui si era procurato per colpa sua qualche occhio nero, ma continuava ad essere fermamente convinto che Tobio fosse una persona buona. Non lo faceva apposta ed era normale ritrovarsi con svariati lividi dopo quel genere di allenamenti.
Le malelingue si erano scatenate solo perché Kageyama era un po' troppo introverso e decisamente pieno di sé: un connubio strano e, a tratti, inquietante. Si era isolato, richiudendosi in se stesso e pensando di non aver bisogno di nessuno, di essere il migliore, e per questo la sua bravura risultava essere del tutto inutile, perché in quell'ambiente la collaborazione era fondamentale.
La prima volta che aveva sfidato Kageyama, i suoi occhi si erano fatti grandi per la sorpresa e Hinata era rimasto inizialmente confuso da quella reazione, salvo poi aprirsi in un grande sorriso.
Hinata aveva conosciuto tante persone, in quella palestra. C'erano decine di studenti più grandi che aveva sempre e solo visto nei corridoi e con cui non aveva mai avuto modo di parlare, ma che si avvicinavano ad assistere ai combattimenti con quel famigerato ragazzino prodigio, anche se il vincitore era scontato.
Hinata e Kageyama presero un respiro profondo e tornarono sul tappeto. Il rosso schivò un paio di volte i suoi colpi e, poi, qualcosa successe. Hinata riuscì ad afferrargli il polso. Non avrebbe mai saputo spiegarlo, ma vide come a rallentatore Kageyama sgranare gli occhi, ruotare su se stesso per evitare un suo calcio e cadere rovinosamente ai suoi piedi. Attorno a loro calò il silenzio.
Guardò gli occhi blu del ragazzo sotto di sé, non appena si rese conto di cosa aveva fatto e riuscì a prendere fiato, buttò la testa indietro e alzò le mani al cielo con un urlo.
-Ti ho battuto!- gridò, mentre i primi curiosi iniziavano ad avvicinarsi.
-È stata solo fortuna!- ringhiò Kageyama, liberandosi dalla sua presa e mettendosi a sedere.
-Ma ti ho battuto comunque!-

Akaashi alzò la testa, attirato dal frastuono che proveniva dall'angolo opposto della palestra. Decise di avvicinarsi e quando vide un piccoletto dai capelli rossi saltare per aria con tanta gioia dipinta sul volto, aggrottò la fronte con confusione.
-Che succede?- chiese a Sugawara, accanto a lui. -Chi sono?-
-Due di cui sentirai parecchio parlare nei prossimi anni, temo.- Sugawara rise e si appoggiò le mani sui fianchi. -Shouyou, Tobio, venite un attimo!-
Quei due smisero di litigare e ubbidirono al ragazzo più grande.
-Voglio presentarvi un nuovo senpai! Si chiama Akaashi, è stato selezionato per la collaborazione al Progetto 150410 nonostante sia solo al secondo anno.-
La bocca di Shouyou si spalancò e i suoi occhi si fecero luminosi.
-Piacere di conoscerti!- esclamò a voce un po' troppo alta, facendo un inchino veloce ma energico, subito seguito da Kageyama, altrettanto agitato, ma molto meno espansivo.
-Il Progetto 150410!? È quello col ghoul? Cosa fate?- chiese Hinata con trasporto. Quasi tutti nell'Accademia avevano sentito parlare di quel progetto: sapevano che in una nelle sedi della CCG veniva tenuto e studiato un ghoul vivo, ma niente di più.
-Come hai fatto a essere selezionato?- aggiunse Kageyama, le guance un po' rosse per l'emozione.
-C'è stato un concorso per quelli dal secondo anno in poi, ma solo per l'indirizzo di Investigatori di Dipartimento.- rispose con calma, toccandosi distrattamente le dita. -Facciamo... esperimenti, per lo più.-
-E com'è?- commentò Kageyama, la bocca ridotta a una linea sottile e tremolante, invidioso e meravigliato.
Akaashi evitò di guardarlo negli occhi e cercò le parole giuste.
-È...- iniziò, con una nota di disappunto nella voce. -...Davvero, davvero impressionante.-


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Note e chiarimenti
Come posso farmi perdonare? Giuro che non sono sparita nel nulla, e chiedo scusa se pensavate che io avessi abbandonato questa fanfiction, che in realtà è il lavoro a cui sono più affezionata in assoluto! So che probabilmente avete dovuto rileggervi velocemente cosa è successo nei capitoli precedenti, perché purtroppo dimenticare, specialmente i dettagli, è fin troppo facile.
Il titolo del capitolo è un verso di "Roman", una poesia di Arthur Rimbaud, che spiega esattamente la situazione attuale: tutto inizia in una notte di giugno, i nostri protagonisti si aggirano attorno ai diciassette anni. E si lasciano inebriare. Da cibo, amore, speranze: è un'immersione totale. Spero che il capitolo vi sia piaciuto e vi abbia lasciato qualcosa, spero di aggiornare con più frequenza!
Un bacio a tutte e grazie per la pazienza

 

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Capitolo 10
*** I would but find what's there to find, love or deceit ***


I would but find what's there to find, love or deceit
 
Tooru tagliava gli steli dei narcisi autunnali e canticchiava a bocca chiusa. Iwaizumi era seduto a qualche metro da lui, il gomito sul bancone di marmo e la mano chiusa a pugno a sorreggergli la guancia.
L’inverno era alle porte. Era una giornata tranquilla ed entrambi erano rilassati, in quel freddo pomeriggio di dicembre.
Hajime lo guardava e aspettava che finisse, perché subito dopo l’avrebbe trascinato sul divano e si sarebbero avvolti entrambi in una coperta. Sapeva già cosa sarebbe successo: Tooru si sarebbe lamentato di avere i piedi scoperti, Hajime si sarebbe rifiutato di cedergli anche solo un centimetro in più di coperta, e Tooru avrebbe cominciato a lagnarsi ad alta voce strusciando la testa contro la sua spalla e punendolo appoggiandogli i piedi gelidi sulle gambe. In un certo senso, Hajime non vedeva l’ora. Gli piaceva passare insieme a lui momenti del genere, in cui si godeva la bellezza della quotidianità, dello stare al caldo con l’unica persona capace di farlo parlare per ore senza che se ne accorgesse e con la quale stare in silenzio non provocava alcun tipo di imbarazzo.
Inspirò e assottigliò lo sguardo: in quel momento avrebbe voluto dire a Tooru di smetterla di fare quella faccia scema, ma non ne aveva il coraggio, perché in realtà gli piaceva. I suoi occhi marroni brillavano di riguardo per quei fiori pallidi, le dita si muovevano attente e placide. Hajime si chiese con imbarazzo quale fosse stato il punto esatto della sua esistenza in cui aveva iniziato a guardarlo con quel filtro così sdolcinatamente romantico, quando i suoi pensieri avessero iniziato a farsi melensi e, forse, a volte, sconvenienti.

-Mi passeresti il telefono?- gli chiese Oikawa, un attimo prima di posare le cesoie e pulirsi la mano sul grembiule.
L’altro ragazzo si riscosse, fece scivolare il cellulare sul marmo e Oikawa lo afferrò al volo. Iwaizumi tornò a fissare il negozio davanti a sé, una mano davanti alla bocca.
I colori dei preziosi fiori che sbocciavano col freddo erano tenui e le foglie che scendevano dai vasi appesi al soffitto ricordavano le farfalle che si intrufolavano nel negozio di primavera.
Iwaizumi non si era mai interessato ai fiori prima dell’incontro con Oikawa e non gli era mai capitato di ritrovarsi ad ammirarne la bellezza. Dopo così tanti anni in quell’ambiente, però, ci si era affezionato, aveva imparato tante cose: quando fioriva una certa pianta, come trattarla per farla crescere bene, e Oikawa diceva che era divertente vedere un bruto come lui maneggiare con tanta cura creature delicate come i fiori.
Tooru invece, lui no, lui era fatto di fiori, di gigli candidi, di petali morbidi, e si muoveva come loro, eleganti nella brezza, senza piegarsi mai.
Iwaizumi, però, si era ritrovato a provare una tenerezza particolare nei confronti dei fiori più piccoli, soprattutto di quelli rossi. Amava specialmente le kalanchoe, in tutta la loro semplicità, e ne aveva un piccolo vaso in camera, sul davanzale della finestra. Gli trasmetteva una sensazione piacevole vedere qualcosa di così piccolo brillare di rosso fuoco, bruciare in quel colore intenso e vibrante, come se il fiore, dischiudendo i petali, sfidasse la natura con tutta la sua forza.
-Nekomata-san, riguardo a quel favore, è tutto a posto, vero?-
La voce di Oikawa al telefono lo distrasse nuovamente dai suoi pensieri e si girò a guardarlo con un cipiglio.
-Sì, ero sicuro che non ci sarebbero stati problemi a mandare qualche ragazzo.-
Pronunciò quella frase con un’intonazione melliflua e inquietante sotto gli occhi confusi di Iwaizumi.
Non capitava praticamente mai che Oikawa lo tenesse all’oscuro di qualcosa. Hajime non sopportava quella sensazione di non sapere cosa stesse succedendo.
Le richieste di Oikawa assomigliavano più a degli ordini: erano tutti favori restituiti, contattava persone che sapeva non essere nella posizione di poter dire di no, per un motivo o per l’altro. Iniziava a tirare i fili dell’intricata rete che aveva creato con tanta pazienza e zelo, e tutto si muoveva alla perfezione.
Hajime guardò intensamente il ragazzo dai capelli castani, che ora sorrideva con gli occhi socchiusi, il cellulare premuto tra l’orecchio e la spalla mentre continuava ad accorciare gli steli dei narcisi. Non rispose al suo sguardo e quel particolare gli diede un gran fastidio.
-Sì, stazione di Yushima, ricorda bene. Sì, magari anche un po’ prima? Il sole tramonta presto ormai! Ecco, perfetto.- ridacchiò limpido e rassicurante, agitando le cesoie per aria come per scacciare un insetto. -Mi raccomando, che non entri nessuna colomba: solo questo, davvero.-
Stette in silenzio per qualche secondo, ascoltando l’interlocutore, per poi alzare gli occhi al cielo e assumere un’espressione scocciata. -Sì, lo chiami “fare il palo”, lo chiami come vuole. Certo! Grazie mille.-
Iwaizumi guardò la sua mano mentre prendeva il telefono e schiacciava la cornetta rossa.
-Hai bisogno anche di me?- chiese Hajime con una nota amara, pur non sapendo di cosa stesse parlando.
Oikawa appoggiò sul marmo, accanto agli altri, il fiore che aveva in mano.
-Ma io ho sempre bisogno di te, Iwa-chan.- disse con leggerezza, slegandosi il grembiule dietro la schiena e scostando la tenda per entrare nel retro del negozio.
Hajime fece una smorfia e lo seguì, infastidito. -Cosa devi fare?-
Oikawa si arrestò. Si tolse il grembiule, lo appese e si voltò verso l’altro ragazzo con un sospiro paziente. Appoggiò le mani sulle sue braccia e gli lasciò un veloce bacio sulla fronte. Iwaizumi era più basso di lui ci circa cinque centimetri, e spesso Oikawa lo prendeva amorevolmente in giro per questo, ma i suoi muscoli erano decisamente più definiti e non si lasciava mai sfuggire l’occasione di toccarli con un sorriso allusivo, sordo alle proteste di Iwaizumi.
-Grazie per quello che hai fatto in questi mesi con Tobio.- si limitò a dirgli, la voce stranamente profonda, mentre un brivido percorreva la spina dorsale di Hajime. -Ma ora ci penso io.-
Iwaizumi strizzò gli occhi quando ricevette quel debole buffetto sulla guancia, ma non riuscì a compiere nessun altro movimento. Guardò Tooru che si allontanava e saliva le scale per andare, forse, in camera sua, o in bagno a lavarsi.
Hajime non ci mise molto a capire. Non avrebbe dovuto stupirsi.
Tobio doveva morire.
Lo sapeva da tempo, era chiaro. Eppure un bruciore insopportabile e per nulla piacevole gli si diffuse nel petto e gli rese difficile respirare per qualche secondo.
Doveva cercare di essere razionale. Era stato come affezionarsi ad un animale da macello: era lui ad essere stato stupido. Con quel “ci penso io”, Tooru gli aveva chiaramente detto di starne fuori, perché era qualcosa che doveva fare da solo, per una questione di principio, di vendetta personale.
Sperò che quel nodo alla gola gli si sciogliesse presto, ma sapeva che era una speranza vana.

Akaashi camminava lungo uno dei corridoi della sede principale della CCG e si assicurò che nessuno gli stesse prestando troppa attenzione. Aveva sceso le scale con aria indifferente, aveva risposto a un paio di sorrisi delle persone che lavoravano lì e che ormai lo conoscevano, per poi indossare il suo cappotto di feltro nero.
Su quello stesso piano si trovavano diversi laboratori per la produzione e la sperimentazione delle quinque. Akaashi non sapeva esattamente nei dettagli come funzionassero, sapeva solo che era necessario il kakuhou di un ghoul e che il tipo di cellule Rc più indicato era quello che produceva un kagune bikaku, in quanto era il più equilibrato per quanto riguardava attacco e difesa.
Entrò in uno dei laboratori vuoti dopo essersi guardato attorno di sfuggita. Camminò di soppiatto tra i tavoli e si avvicinò ad una pistola posata su una di quelle superfici lucide.
La maggior parte dei ragazzi che iniziavano a frequentare l’Accademia rimanevano molto delusi nello scoprire che solo gli investigatori dei ranghi più alti potevano possedere delle quinque. Agli Investigatori di Dipartimento, invece delle quinque, venivano fornite pistole con proiettili speciali, proiettili Q. Erano decisamente meno validi di una quinque, ma comunque in grado di ferire i ghoul, dal momento che qualsiasi altra arma -da fuoco o da taglio che fosse- risultava pressoché inefficace, viste le loro capacità di rigenerazione.
Si guardò alle spalle e prese la pistola e un paio di manciate di proiettili Q, mettendoli nella tracolla e chiudendola in tutta fretta, per poi uscire come se nulla fosse successo e con il cuore in gola.

Era quasi metà dicembre. Erano stati i mesi più intensi della sua vita: gli esperimenti su Bokuto erano continuati senza sosta, ma non stavano dando gli esiti sperati e gran parte degli scienziati e degli investigatori non era di buon umore. Akaashi non condivideva la loro politica, era fortemente scettico e non credeva che insistere avrebbe portato a dei risultati rilevanti. Dosi più potenti, elettroshock più potente, aumentare il limite, ogni volta un po’ di più: probabilmente non era così che avrebbero trovato risposte, ma era così che stavano lavorando.
Aveva pensato di abbandonare quel progetto perché non era più in grado di sopportare il sangue che usciva dalla bocca di Bokuto, o le sue mani che tremavano incontrollabilmente, e le sue lacrime, soprattutto, perché quelle sembravano non avere davvero mai fine.
Andava spesso nella Stanza 3 per parlargli. A volte era impossibile avere una conversazione con lui, altre volte invece gli parlava quasi con tranquillità per qualche minuto, prima che Bokuto iniziasse ad essere nervoso e a dire cose totalmente casuali, di cui Akaashi non riusciva a capire il filo logico. Ogni volta, però, ad Akaashi sembrava di capirlo sempre un po’ di più, e il suo grande e tremante sorriso, così sincero, gli faceva pensare che non fosse affatto tempo sprecato.
C’erano stati momenti orribili. Momenti in cui Bokuto non voleva più rivolgergli la parola: dopotutto, Akaashi era uno di loro. Era con loro, quando gli facevano del male. Era in combutta con loro, non è vero? Faceva il loro gioco. Non li fermava- non poteva! Così gli aveva risposto Akaashi, cercando disperatamente di fargli capire che non era come credeva lui, che voleva aiutarlo in ogni modo gli fosse possibile. Nonostante gli sforzi per fargli capire la sua posizione, Akaashi non poteva tuttavia biasimarlo. Era più che comprensibile che la pensasse così.
Forse diventare un investigatore non era la sua strada. Aveva pensato a lungo sul da farsi, e la conclusione a cui era giunto risultava, ad un primo impatto, folle e illogica. Akaashi, però, non era una persona incosciente: non era il capriccio di un bambino, il suo, e ciò che lo avrebbe spinto a fare quello che doveva fare aveva più valore di qualsiasi risposta razionale.
 
Scese un’altra rampa di scale e saltò gli ultimi due gradini. Camminò nei corridoi fino a spalancare le porte della Stanza 3.
Bokuto si voltò con uno scatto e lo guardò sorpreso. Aprì la bocca per dire il suo nome ma si bloccò quando vide la pistola nella sua mano.
Akaashi non lo degnò di uno sguardo. Aggiustò il silenziatore, mirò ad una delle quattro telecamere e sparò con una freddezza tale da lasciare Bokuto a bocca aperta, smarrito e spaventato mentre qualche scintilla cadeva dal soffitto. Seguirono altri tre spari, uno ad ogni telecamera. Dopo l’ultimo sparo, Akaashi si accorse che le mani gli tremavano.
Prese un respiro veloce e frugò nella tracolla, estraendone qualche chiave e iniziando a trafficare con uno dei macchinari attaccati alla parete della stanza, infilandole e girandole una ad una.
-Akaashi?- gridò Bokuto, più di una volta, confuso e bisognoso di attenzioni e spiegazioni.
Akaashi inizialmente lo ignorò, poi si girò verso di lui con un gesto improvviso e, spazientito, si appoggiò alla gabbia con entrambe le mani.
-Cosa vuoi fare una volta uscito di qui?- gli chiese Akaashi con la voce bassa, guardandolo dritto in faccia.
Bokuto ricambiò lo sguardo, immobile per qualche secondo, finché il suo cervello non capì cosa stesse facendo. I suoi occhi si fecero grandi e lucidi e il suo volto si accartocciò come un foglio di carta.
-Io voglio solo… trovare il mio amico.- gemette affranto.
Akaashi strinse le labbra e si voltò nuovamente, continuando a maneggiare con impazienza tra pulsanti, password e chiavi. Era stata dura recuperarle tutte, soprattutto perché aveva dovuto farlo il giorno stesso per far sì che i proprietari se ne accorgessero il più tardi possibile. Non gli sembrava vero di avercela fatta.
-Preparati a correre.- lo avvisò con un debole sorriso quando sentì un breve segnale sonoro provenire dal collare di Bokuto. Un paio di luci gialle diventarono verdi e, non appena la gabbia iniziò ad alzarsi, una sensazione di sollievo gli pervase il petto.
Deglutì quando vide Bokuto davanti a sé, senza alcuna barriera a dividerli, ma non era quello il momento di avere paura, o sensi di colpa. Si avvicinò con passi sicuri e afferrò saldamente il suo collare, ormai disattivato, tra i versi spauriti e emozionati del ghoul. Riuscì a toglierglielo dopo qualche imprecazione. Lo lanciò a terra, strinse il polso di Bokuto e si diresse a passo affrettato verso la porta, senza dire altro.
Akaashi mise un piede fuori dalla porta e subito alcuni uomini in fondo al corridoio gli intimarono di fermarsi immediatamente. Non poteva essere altrimenti.
Svoltò senza esitare nel corridoio laterale opposto e iniziò a correre, trascinandosi dietro un Bokuto assolutamente incredulo, tra lo spaventato e il confuso.
Aveva passato sei mesi a guardarlo da oltre la griglia di quella gabbia e, in quel momento, toccarlo davvero gli trasmetteva una strana sensazione: la sua pelle era un po’ ruvida, sentiva chiaramente l’osso del polso sotto le sue dita e più di una volta si voltò a guardarlo e a guardare quell’espressione persa, forse sull’orlo delle lacrime, dalla cui bocca continuava a uscire il suo nome, pronunciato con inclinazioni diverse.
Spalancò una delle porte alla sua sinistra e mezza dozzina di persone in camice bianco si voltarono a guardarlo prima di capire la situazione e iniziare ad urlare frasi sconnesse riguardanti l’esemplare  150410.
Akaashi sapeva di dover passare da lì. Lo sapeva perché dall’altra parte della stanza c’era un’altra porta che dava sul corridoio parallelo ed era la via più veloce per arrivare alle scale. Ma quando vide alcuni investigatori scagliarsi verso di loro, serrò immediatamente la porta. Avrebbero fatto il giro lungo.

Bokuto si sentiva come se un orologio che era stato fermo per anni fosse tornato a funzionare. Il tempo scorreva, lo spazio mutava e le sue gambe si muovevano, anche se le sentiva un po’ intorpidite, ma il cuore batteva così veloce che pensava che non avrebbe mai più voluto smettere di correre.
Quel posto era un labirinto. Non sapeva come Akaashi facesse ad orientarsi, a svoltare in maniera così decisa, a ricalcolare il percorso ogni volta che qualcuno tentava di bloccare loro la strada.
Stavano ancora correndo verso le scale quando una delle porte laterali si aprì. Uscì un uomo e sbatté contro Akaashi, che finì col rotolare per terra.
La prima espressione che assunse quell’uomo fu di sincera confusione. Poi, in una frazione di secondo, sul suo volto calò il terrore.
Akaashi trattenne il respiro e si sollevò sulle braccia. Era l’investigatore a cui era stato affidato. Faceva parte dell’équipe.
Akaahi guardò Bokuto, davanti a sé.
-Bokuto, no.- mormorò vedendo i suoi occhi farsi grandi e tingersi di rosso e nero. Ma sarebbe stato come tentare di tenere a bada un animale selvatico.
Bokuto riconobbe quell’uomo: c’era sempre, durante gli esperimenti. Associò istantaneamente quel volto a siringhe e iniezioni, e un fischio acuto iniziò a perforargli le orecchie, tanto che dovette strizzare gli occhi per evitare che la testa gli esplodesse.
-Bokuto!- lo richiamò Akaashi, ascoltando con attenzione e paura uno scricchiolio inquietante provenire dalla schiena del ghoul.
Vide la kagune crescere oltre le sue spalle come i rami di un albero. Sembravano ali, ali coperte di piume di cristalli rossi.
L’Investigatore estrasse da sotto il camice una pistola come quella di Akaashi, e il ragazzo smise di respirare per un secondo, giusto il tempo di alzarsi in fretta e furia e assestargli un pugno in pieno viso per poi strappargli la pistola di mano, riponendola poi velocemente nella tasca del proprio cappotto.
L’uomo cadde coprendosi la faccia con un lungo lamento e Akaashi non ebbe il tempo di fermare Bokuto quando questi afferrò il suo supervisore per il collo.
Prima che potesse sollevarlo da terra, Akaashi sussultò e prese saldamente il viso di Bokuto tra le sue mani. Si assicurò di avere tutta la sua attenzione.
-Bokuto, fermati.- lo implorò, le pupille fisse nelle sue, rosse e piccole in mezzo alla sclera nera. -Dobbiamo andarcene, il più velocemente possibile. Subito. Non c’è tempo.-
Akaashi quasi non credeva di essere tanto vicino a un ghoul, al suo viso, alla sua bocca. Avrebbe potuto staccargli una mano con un morso, se avesse voluto. Avrebbe potuto azzannargli la faccia e ucciderlo.
Ma Bokuto non lo fece.
-Tu devi solo seguirmi e correre, correre, correre. Non ti fermare. Non… lasciarti andare.- continuò Akaashi, anche se la voce gli tremava, accarezzando lentamente i suoi zigomi con l’intento di tranquillizzarlo.
A quel punto tutta la sede della CCG probabilmente stava venendo a catturarli, ma Akaashi sapeva che quello era un momento delicato e se avesse sbagliato non ne sarebbero mai usciti vivi. Non poteva semplicemente strattonare Bokuto e obbligarlo ad andare avanti: prima di tutto, doveva farlo calmare. Akaashi non voleva che succedesse nulla di male. Fu lieto di vedere il kagune che si ritirava.
-Va tutto bene. Andiamo.- lo incitò con voce calma, tirandolo piano verso di lui.
Fortunatamente, sembrò funzionare. Bokuto tornò in sé dopo pochi secondi: doveva affidarsi completamente a lui se voleva uscire di lì, anche se sentiva addosso un’irrefrenabile voglia di esplodere. Non sapeva definirla in nessun altro modo.
Lasciò andare il supervisore, sull’orlo dell’incoscienza, e seguì Akaashi.
Gli strinse la mano più forte di prima, guardandosi attorno con aria smarrita e ansiosa. Notare come tutto quanto attorno a lui si muovesse gli faceva uno strano effetto e salire i gradini era terribilmente difficile, tanto che rischiò di inciampare un paio di volte.
Una sirena iniziò a risuonare nell’edificio quando giunsero a metà della rampa di scale. Akaashi sobbalzò e accelerò il passo, un improvviso terrore che gli attanagliava lo stomaco. Il piano terra si stava avvicinando, ma aumentavano anche i rumori, le urla severe, i passi svelti: il caos dilagava nell’edificio, ora poteva sentirlo con chiarezza.
-Veloce.- lo sollecitò col cuore in gola una volta giunti in cima alla scale, correndo a perdifiato lungo l’ultimo corridoio e infine attraverso il salone, verso il portone di ingresso che in quel momento sembrava tanto la porta del paradiso. Sentì il fischio di alcuni proiettili, sparati da troppo lontano per essere precisi. Gli ultimi metri furono interminabili. I polmoni bruciavano e il cuore sembrava sull’orlo del collasso.
Sentì delle voci concitate e sempre più vicine: non importava quanto veloce corressero, da lì a poco li avrebbero raggiunti.
Lasciò andare Bokuto e lo spinse fuori dal portone mentre afferrava la pistola con l’altra mano e si voltava indietro, la mascella contratta, rendendosi conto fin troppo bene di ciò che stava per fare. Non c’era altro modo.
Chiuse un occhio e si sentì gelare il sangue nelle vene mentre sparava ai due uomini armati che stavano correndo verso di loro, ed erano ormai troppo vicini per non costituire un pericolo.
Ferì il braccio di uno e la gamba dell’altro e, prima che quest’ultimo cadesse a terra, Akaashi era già uscito dall’edificio.
L’aria fredda di dicembre investì Bokuto e gli fece mancare il respiro. La luce naturale lo abbagliò, ma non poté soffermarsi ad ammirare lo splendore del sole già basso perché Akaashi continuò a farlo correre subito dopo avergli riafferrato il braccio, trascinandolo lungo la strada.
Bokuto spostò lo sguardo dalla sua mano ai suoi capelli neri e un po’ scombinati. Nel petto gli stava germogliano una sensazione che avrebbe potuto elaborare solo con lucidità e calma, e non era quello il momento. Provava una felicità strana, ancora da definire e raffinare, perché ancora non era del tutto conscio del fatto che era davvero libero, e non sarebbe dovuto tornare in nessuna gabbia. Avrebbe voluto sorridere, ma i muscoli della sua faccia sembravano non voler far altro che piegarsi in una smorfia per farlo piangere.
Akaashi lo fece svoltare nella prima curva che trovarono e tirò fuori dalla sua tracolla una felpa appallottolata. Gliela lanciò mentre continuava ad avanzare e Bokuto la afferrò al volo.
Il ragazzo dai capelli grigi prese la mano di Akaashi e fermò la sua corsa.
-Mettila.- disse Akaashi voltandosi verso di lui, probabilmente chiedendosi come facesse Bokuto, vestito con una misera maglietta grigia a maniche corte, a non capire cosa fare con una calda felpa in dicembre.
I suoi pensieri acidi furono spezzati dall’abbraccio che ricevette subito dopo. Spalancò gli occhi e le sue braccia rimasero alzate a mezz’aria per qualche secondo prima di posarsi sulla schiena di Bokuto e stringere tra le dita la stoffa della sua maglia. Akaashi non poteva avere idea di quanto quel gesto significasse per il ghoul.
Per la prima volta dopo cinque anni, Bokuto sperimentava il contatto fisico. Era iniziato quando Akaashi lo aveva preso per il polso per portarlo via. Gli aveva preso la mano. Gli aveva accarezzato il volto. Bokuto si era quasi dimenticato di come fosse, sentire il tocco gentile di qualcuno, un’altra pelle sulla propria. Gli scaldava il cuore, perché gli era mancato, e averlo ritrovato in quel modo era stato sorprendente. Abbracciarlo fu bellissimo e devastante, e si sentiva tremare, e avrebbe voluto piangere tanto era confortante, tiepido e gentile.

Erano due i motivi che avevano spinto Akaashi a compiere quell’azione che, ora che era stata davvero eseguita, gli sembrava ancora più folle: i valori personali, e quel ragazzo. Un ghoul. Un mostro che, con grandi probabilità, lo avrebbe divorato se avesse avuto fame. Ma in quel caso, avrebbe avuto una pistola -anzi, due, no? Non era del tutto in balia di un predatore. Un terribile predatore. Un terribile predatore carnivoro che stava singhiozzando ringraziamenti senza fine con il viso appoggiato contro la sua spalla, come se avesse voluto farsi minuscolo e sparire dentro il suo abbraccio.
Aveva liberato un ghoul che era stato oggetto di cinque anni di studi ininterrotti. Lo pensò chiaramente, i polmoni in fiamme la corsa.
La gola gli si chiuse per l’ansia e si allontanò lentamente da Bokuto, tenendo le mani sulle sue braccia e guardandolo con aria preoccupata.
-Devi andare.- gli disse serio, prendendo la felpa e aiutandolo ad infilarla.
-Dove?-
Akaashi fissò lo sguardo nel suo.
-Ti ricordi dove abitavi prima che ti prendessero?-
Bokuto si aprì in un ampio sorriso e annuì.
Akaashi rispose debolmente al sorriso e un piccolo batuffolo di fumo uscì dalla sua bocca per il freddo. Non poté fare a meno di pensare che, anche se forse era da masochisti, ne era valsa la pena.
-Tornaci.- gli disse spostandogli un paio di ciocche da davanti agli occhi. Erano di un colore denso e caldo, ambrati, le pagliuzze dorate che sembravano quasi splendere.
Bokuto aggrottò le sopracciglia. -Non vieni anche tu?-
-Tra altri ghoul? Sarebbe un suicidio.- gli spiegò, cercando di non cedere davanti a quello sguardo triste e ignorando che il solo fatto di aver ferito due agenti della CCG era già di per sé una sorta di suicidio.
-Ma tu...?-
Akaashi lo interruppe con decisione.
-Io so cosa fare.- mentì mentre, forse senza accorgersene, faceva scivolare le mani dai capelli alle guance, prendendogli così nuovamente il viso tra le mani. -Ascolta, in questo momento mi sto davvero chiedendo perché ti ho liberato. C'è un ghoul in più in circolazione, ora: non farmene pentire e sparisci prima che io cambi idea.-
Cercò di essere il più duro possibile. Non credeva a una sola parola di quelle che aveva detto, ma Bokuto sì, e lo guardò sconsolato e spaventato.
-Io non pensavo che gli umani potessero essere brave persone.- pensò a voce alta il ragazzo dai capelli grigi. -… Quindi grazie.-
Akaashi strinse le labbra e cercò di mantenere un atteggiamento ferreo. -Vai via.- rispose. -Fallo in fretta e stai attento a non farti prendere.-
Bokuto aprì le labbra e le richiuse, abbacchiato. -Grazie.- ripeté abbassando lo sguardo, come se avesse paura che Akaashi non lo avesse sentito, poco prima. Le mani dell’altro scivolavano via dalle sue guance.
Bokuto pensò di impuntarsi e di restare con lui, ma lo sguardo tagliente di Akaashi sembrava non voler accettare compromessi. Così il ghoul indietreggiò, anche se con fatica, per poi voltargli del tutto la schiena.

Il piano di Akaashi era stato concepito fino a quel punto: le loro strade che si separavano. Era così che doveva essere, tra un ghoul e un umano, per il quieto vivere di entrambi.
Oltre, era il nulla. Aveva organizzato la fuga di Bokuto in ogni minimo dettaglio, ma per qualche motivo aveva deciso che dopo di essa avrebbe improvvisato, forse perché era convinto che non sarebbero sopravvissuti fino a quel punto, e probabilmente era stato un enorme errore.
Ogni opzione che la sua mente partoriva, dal tornare a casa dai suoi genitori fino al consegnarsi spontaneamente alle forze dell’ordine, confluiva inevitabilmente in un unico esito: la reclusione, o qualcosa di ancora peggiore.
Quando Bokuto finalmente sparì dalla sua vista, Akaashi si sentì perso. Si voltò anche lui e iniziò a camminare rapido, stringendo forte la cinghia della tracolla tra le mani, senza destinazione ma col petto in subbuglio.
Dopo qualche passo germogliarono i primi piccoli dubbi, e gli sussurrarono all’orecchio parole maligne. Dopo qualche minuto, Akaashi si accorse di stare annegando tra le urla nel suo cervello, che si accavallavano e si sovrapponevano confusionarie come onde in un mare mosso.
Aveva sabotato un progetto della CCG. Come aveva potuto farlo? Con quale coraggio? Aveva diciassette anni, come aveva fatto a scagliarsi contro un’agenzia federale in quel modo, come faceva ad essere ancora vivo? Lasciare Bokuto da solo era stata la scelta giusta? Non stava bene, non era stabile, né mentalmente né fisicamente. Era sicuro lasciarlo girare così? No che non era sicuro. Né per lui né per gli altri. Era stata una pessima scelta e si chiese cosa l’avesse spinto a prendere una decisione così stupida e pericolosa.
Si bloccò e si voltò indietro, ma ormai era tardi, ormai era lontano, ormai era fatta.
Si portò una mano in faccia, appoggiandosi al muro, e dovette prendere un respiro profondo per ripulire la propria mente da tutti i pensieri catastrofici che lo stavano assalendo.
Alzò lo sguardo per capire dove fosse e fare mente locale. Il sole stava tramontando. La metro di Yushima era vicina.
 
Una volta arrivato il weekend, gran parte degli allievi dell’Accademia a cui era stato assegnato un alloggio, finalmente tornava a casa sua, dalla propria famiglia -soprattutto i ragazzi più giovani.
Era venerdì sera e, poiché ormai era dicembre inoltrato, il cielo si scuriva presto, e andare in metropolitana da soli col buio non era proprio ciò che ogni genitore desiderava per il proprio figlio.
Kageyama si ripeteva questa scusa mentre aspettava che la metro si fermasse, seduto accanto a Hinata. Sarebbero scesi a Yushima insieme, come ormai facevano da mesi, e da lì ognuno sarebbe andato per la sua strada.
Kageyama non parlava molto, ma ci pensava Shouyou a riempire i silenzi imbarazzanti: la sua compagnia sapeva essere anche divertente, oltre che sfiancante.
-Non vedo l’ora che arrivino le vacanze natalizie!- sospirò il ragazzino rosso, appoggiando la testa al vetro dietro di sé e chiudendo gli occhi.
-Ancora una settimana.- commentò Kageyama mentre spostava annoiato lo sguardo sulla folla stipata nel vagone. Alcune persone avevano lo sguardo perso nel vuoto buio oltre i finestrini, altre si fissavano i piedi come se fossero qualcosa di incredibilmente interessante, altri ancora parlavano quietamente tra di loro.
Kageyama tornò guardare davanti a sé, svogliato, ma un attimo dopo si riscosse e si voltò di nuovo verso lo stesso punto di pochi secondi prima. Gli era parso di intravedere qualcosa, tra tutta quella gente. Un movimento strano, un viso strano.
Assottigliò lo sguardo e si sporse un poco in avanti. C’era qualcuno, seduto proprio in fondo al vagone.
Aveva un cappotto marrone scuro, e il cappuccio della felpa che indossava sotto di esso gli copriva la testa. Teneva le gambe incrociate e il viso voltato di lato, come se stesse guardando le rotaie che la metropolitana si lasciava dietro di sé, dal momento che la parte finale del vagone era completamente trasparente. In molti lo facevano, e non ci sarebbe stato nulla di strano, se non fosse stato per il riflesso che Kageyama vide nel vetro, sullo sfondo scuro di quella galleria infinita.
Indossava una maschera. Lasciava scoperta solo la bocca. Nel breve lasso di tempo in cui Kageyama se ne accorse, quelle labbra si erano increspate in un piccolo sorriso.


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Note e chiarimenti
Dopo quasi due mesi, ecco il decimo capitolo -che tra l'altro è un capitolone, sia come contenuto che come lunghezza. Credo sia molto difficile per voi seguire la storia, con questi tempi, quindi mi scuso enormemente per l'ennesima volta!
Il titolo del capitolo sono due versi della poesia "The Mask" di Yeats: la volontà del poeta è quella di scoprire cosa si cela dietro la maschera dorata di una donna, se nasconde amore o inganno, e allo stesso modo i protagonisti del capitolo hanno a che fare con questo metaforico oggetto. Iwaizumi, con Tobio, ha indossato questa maschera per mesi per amore di Tooru, e Bokuto cerca di capire cosa si cela dietro la maschera di Akaashi, ma anche Akaashi cerca di smascherare se stesso, e non è così facile. Infine, la maschera da metafora passa a oggetto concreto: il ghoul mascherato è sul vagone della metropolitana.
Cosa succederà? Vi assicuro che i prossimi capitoli non saranno delle camomille.
Alla prossima e grazie a tutte di continuare a seguire la storia!

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Capitolo 11
*** Purpureus veluti cum flos succisus aratro languescit moriens ***


Purpureus veluti cum flos succisus aratro languescit moriens
 
Kageyama sentì il sangue congelarsi nel vedere quel sorriso riflesso nel vetro. Sgranò gli occhi e si impose di rimanere immobile e lucido. Allungò lentamente una mano verso Hinata, come se il minimo gesto potesse far scoppiare una bomba, e afferrò piano il suo polso per attirare la sua attenzione.
-Alzati lentamente.- gli sussurrò, cercando di muovere la bocca il meno possibile e tenendo lo sguardo fisso in quel riflesso inquietante. -…E allontanati.-
Hinata guardò confuso le mani che si stringevano corrugò le sopracciglia, un lieve rossore e a colorargli le guance. -Che!?-
-Alzati.- ripeté l’altro, più spazientito e allarmato. Shouyou si alzò in piedi, incerto, e Kageyama fece lo stesso.
-C’è un ghoul seduto là in fondo.- gli mormorò vicino all’orecchio, la voce ferma.
Hinata voltò la testa verso di lui, un’espressione incredula sul suo volto improvvisamente pallido.
-Prossima fermata: Yushima.- disse una voce meccanica, mentre il vagone oscillava appena.
Kageyama posò una mano sulla schiena di Hinata.
- Ti copro, tu chiama qualcuno. Ora. Non possiamo fare nient...-
Le urla acute di una donna fecero voltare tutto il vagone, e il panico si scatenò. Il ghoul aveva rivelato la propria presenza alzandosi in piedi con una calma innaturale.
I passeggeri iniziarono a gridare e correre, tragicamente consci del fatto di essere bloccati lì dentro, e un attimo dopo un’enorme kagune formata da sei escrescenze rosse squarciò il soffitto del vagone.
Hinata sentì le mani di Kageyama spingerlo via, facendolo quasi cadere per terra. Abbassò istintivamente la testa con un grido sentendo il fragore assordante che fece tremare l’intera carrozza.
Quando tornò a guardare in avanti, Tobio non c’era più.
In fondo al vagone, il grande vetro era scomparso. Al suo posto, il nulla. Il metallo del vagone era stato strappato come se fosse stato preso a morsi.
L’aria gelida lo investì e si sentì risucchiare verso quella voragine aperta sulle rotaie buie, sulle quali poteva vedere le figure del ghoul e di quello che capì essere Kageyama, disteso ai suoi piedi in una posizione innaturale, allontanarsi sempre di più. Si aggrappò a una delle sbarre per non cadere, con gli occhi spalancati e increduli.
Pochi secondi dopo, la metro si fermò alla stazione di Yushima e la folla si riversò al di fuori delle porte urlando disperata, fuggendo impetuosa come un fiume in piena, e anche Hinata, contro la sua volontà, fu trascinato sulla banchina da quell’ondata incontenibile.
La metropolitana era automatica, non aveva un conducente: le porte si chiusero di nuovo, senza che nessuno fosse salito a bordo, e ripartì con un cigolio inquietante, completamente vuota, continuando la sua corsa come se nulla fosse successo.
Shouyou guardò agghiacciato il fondo dilaniato dell’ultimo vagone mentre gli passava davanti. Si voltò indietro e si irrigidì quando notò che sulle scale c’erano altri ghoul, i volti coperti da maschere. Aggrottò la fronte nel vedere che rimanevano immobili, le mani in tasca e le schiene appoggiate ai muri. Non si curavano delle persone impanicate e urlanti che passavano loro accanto quasi senza accorgersene e riuscivano a salire le scale e uscire in superficie incolumi.
Indietreggiò di qualche passo, il panico e la confusione che gli attanagliavano lo stomaco. C’era qualcosa di incredibilmente sbagliato in tutto quello che stava succedendo: gli avevano insegnato che i ghoul cacciavano con le maschere, ma quelli non si muovevano nonostante fossero circondati da umani. Era come se dei pesci stessero direttamente saltando nella rete dei pescatori, ma questi ne fossero indifferenti e, anzi, li liberassero di nuovo in mare.
Si voltò di nuovo indietro e cercò allora di risalire la corrente, urtando persone, borse, zaini; doveva tornare da Tobio, aiutarlo, fare in fretta, al diavolo qualsiasi altra cosa.
Saltò giù dalla banchina e iniziò a correre a perdifiato lungo le rotaie, nella direzione da cui era appena arrivato, verso Tobio, verso quel ghoul, la mente annebbiata e le lacrime agli occhi.

Tobio sentiva un dolore insopportabile e acuto diffuso nel costato, lungo la schiena, sul viso, in tutto il corpo. Era stato afferrato dalla kagune di quel ghoul e scaraventato giù dalla metropolitana in corsa. L’impatto col terreno gli aveva fatto mancare il fiato assieme a una fitta simile a una pugnalata, era rotolato per qualche metro sulle rotaie dure e affilate, e si era procurato non poche ferite.
Aprì gli occhi con fatica e le rade luci di emergenza nella galleria gli permisero di distinguere il ghoul in piedi davanti a sé, le mani conserte dietro la schiena, composto e in attesa.

Il ghoul si abbassò il cappuccio, rivelando i capelli mossi e castani attorno alla maschera dalla linea semplice, di un colore tenue ma poco definibile sotto quelle luci blande.
Sembrava che stesse osservando il volto insanguinato di Kageyama con attenzione e interesse.
-Allora?- chiese con una nota di impazienza, chinandosi verso di lui. Lo sollevò da terra per lanciarlo qualche metro più in là, oltre il fondo accartocciato che aveva appena staccato dall’ultimo vagone, forse più per provocazione che per altro.
Kageyama sopportò nuovamente l’impatto col terreno con un verso sommesso e dolorante. Non riuscì a rispondere, le fitte che gli accoltellavano il petto ad ogni respiro.
-Non fai niente?- continuò il ghoul un attimo prima di alzare un piede per muovergli appena il braccio. -Davvero?-
Kageyama aggrottò la fronte e deglutì, sollevandosi con fatica e dolore sui gomiti e trascinandosi indietro per quanto riuscì, nonostante la schiena lo stesse uccidendo.
-Chi era il ragazzino coi capelli rossi? È tuo amico? Sono contento di vedere che sei riuscito a farti degli amici, eri tanto problematico da piccolo.-
-Chi sei?- chiese l’altro con un rantolio mentre si passava il dorso di una mano sul viso nel tentativo di pulirsi dal sangue che gli rendeva impossibile respirare dal naso.
Il ghoul si aprì in sorriso dalla vena malinconica e si accovacciò accanto a lui.
-Io sono il Grande Re.- gli sussurrò stringendogli le guance con una mano. -E a dir la verità sono molto deluso che tu non mi riconosca, Tobio-chan.-
Tobio lo guardò con terrore mentre il ghoul si portava la mano libera alla maschera e se la toglieva. Le sue pupille si dilatarono, nere e profonde come due grandi buchi neri, lo sguardo di chi ha appena visto un fantasma.
Mosse le labbra per mimare il suo nome, senza voce, la gola asciutta, le mani ora aggrappate alla sua, che nel frattempo era scesa sul collo.
-Credevo che…-
-Che fossi morto? Lo credevano in tanti, visto quello che è successo ai miei genitori grazie a te. Come stanno i tuoi? Sai, ogni tanto mi sembra di ricordare la voce di tua mamma che ti riprende e ti dice di essere più educato. Ce l’hai fatta? Sei diventato il loro orgoglio, finalmente?-
Oikawa parlava con gli occhi spalancati, la bocca che compiva i minimi movimenti per far uscire le parole, come se il suo intero corpo fosse un fascio di muscoli in tensione, le dita che si stringevano un po’ di più attorno alla sua gola mentre Kageyama tentava di liberarsi.
-Tu te li ricordi, i miei genitori? Sei fortunato a non aver visto come li hai ridotti, la Notte di Sangue, perché io ormai li ricordo solo così.-
Oikawa si prese un momento per sorridergli, prima di continuare.
-Cosa direbbero i tuoi, nel vederti in quello stesso stato?-
Kageyama tentò di sferrare un debole pugno nella sua direzione, nonostante la crescente mancanza di ossigeno.
-Mi aspettavo di più da te. Mi aspettavo molto di più in generale. Davvero, ti ho sopravvalutato?- commentò Oikawa con sincero sconforto, afferrando il suo pugno con il palmo libero. -Non eri il prodigio della CCG? Forse essere lanciato giù dalla metropolitana non ti permette di essere in condizioni ottimali? Così non è affatto giusto, però. Non puoi dimostrarmi davvero niente.-

-Tooru.-

Una terza voce interruppe il suo discorso e fece allentare la sua presa attorno alla gola di Kageyama, che annaspò nell’aria. Entrambi voltarono la testa verso il lato destro della galleria: seduto sul rialzo di cemento c’era un altro ragazzo, anch’egli con una maschera, le mani intrecciate tra le ginocchia divaricate. Non si erano accorti del suo silenzioso arrivo, immersi in quella situazione.
Oikawa riconobbe la maschera di Iwaizumi. L’espressione che assunse nel guardarlo era totalmente differente rispetto a quella che aveva indossato fino a pochi secondi prima.
-Quello che è successo ai tuoi genitori non è colpa sua.- disse Iwaizumi, gelido mentre si alzava in piedi. -Non ha scelto lui di essere usato come spia.-
Sul viso di Oikawa scese un’ombra contrariata. Si alzò in silenzio e, dopo aver afferrato Tobio per il giubbotto, lo lanciò ai piedi di Iwaizumi. Kageyama si rannicchiò, una mano sulle costole, e Iwaizumi rimase per qualche attimo senza parole. Non aveva il coraggio di toccarlo.
Oikawa attraversò a passi lenti le rotaie, salì sul rialzo e raggiunse l’altro ghoul. Lo guardò dritto in faccia, i kakugan che sembravano quasi brillare nel buio.
Iwaizumi aggrottò la fronte, improvvisamente allarmato e stranamente impaurito da quella reazione.
-Ti sei affezionato a Tobio?- chiese Oikawa, lapidario.
-No, lui… Ha solo quindici anni!- disse Iwaizumi con enfasi, sviando il discorso. La sua voce rimbombò nella galleria.
Sapeva che non era una buona idea opporsi ad Oikawa in quel modo, ma qualcosa dentro di sé gli stava dicendo che avrebbe dovuto farlo, che c’era qualcosa di logicamente sbagliato. Doveva esserci, perché non poteva dare tutta la colpa di quel comportamento all’affetto che aveva maturato nei confronti di Tobio.

-Dai, salvalo.- disse Oikawa, indicando il ragazzino con la mano, spazientito. -Rendi tutto inutile. Avanti.- continuò, più aspro, gli occhi spalancati mentre afferrava il braccio di Hajime e lo faceva avvicinare al ragazzo contro la sua volontà.
-Non sei venuto per questo? Fallo.- infierì, a voce sempre più alta ma un po’ instabile.
Iwaizumi si liberò dalla sua presa e abbassò lo sguardo. Oikawa lo guardava indignato.
-Dio, Hajime.- commentò a cuore aperto. Tobio alzò appena la testa sentendo quel nome.
-Lui non sa niente.- riuscì a dire l’altro ghoul, il cuore che si era stretto nel sentirsi chiamare col proprio nome. -Non ha senso tutto questo.-
Gli occhi di Oikawa erano sconvolti.
-È proprio perché non mi serve che deve finire qui! Non si lascia crescere l’erbaccia tra i fiori!-
Iwaizumi strinse le labbra e arricciò il naso.
-Non è erbaccia. È solo un ragazzino…-
-Sì che è erbaccia!- lo interruppe Oikawa gridando con astio, il volto increspato, incredulo del fatto che Hajime, quella persona, proprio non lo capisse, non l’avesse mai capito.
-È un umano ed è lui che hanno usato per uccidere la mia famiglia, per uccidere me, la persona che tu hai salvato quella notte, te lo ricordi? Ti ricordi com’eravamo?-
La sua voce amara riecheggiava nel cuore e nel cervello di Iwaizumi. Gli sembrò di rivedere davanti a sé gli stessi occhi di quel ragazzino riverso tra i vetri rotti.
-Diventerà un investigatore, come i suoi genitori, e bisogna evitarlo prima che sia troppo tardi. Cosa credi che farebbe, se scoprisse chi sei? Che gliene importerebbe qualcosa della vostra “amicizia”? Perché non ti togli la maschera e gli fai vedere la tua faccia, visto che ci tieni così tanto a lui? Pensi che sarebbe una bella mossa, per te?-
Iwaizumi rimase un attimo pietrificato. Non voleva dare a Oikawa la soddisfazione di vederlo scuotere la testa e dargli ragione, né voleva vedere la delusione farsi strada sul volto gonfio e sanguinante di Tobio se avesse rivelato la sua identità.
-Lo sapevi benissimo che sarebbe finita così.- sussurrò infine Oikawa, la voce che finalmente si era placata, chinandosi per prendere la faccia di Kageyama tra le mani e sollevarlo da terra.
-Tooru, aspetta…- disse la voce supplicante e flebile di Hajime, troppo debole per essere davvero ascoltata.

Per Kageyama, i suoni erano distanti e le voci confuse, e i discorsi che stavano facendo non sembravano avere alcun senso. Ogni cosa sembrava far pensare che lui conoscesse anche il secondo ghoul, ma nella sua testa c’era un solo Hajime, e non ebbe davvero la forza di credere che fosse lui, di ammetterlo a se stesso. In quel momento, pensare era troppo faticoso e già abbastanza doloroso. Se era così, si disse, allora era stato uno stupido ingenuo.
-Hajime, ti prego, non prenderla sul personale.- tagliò corto Oikawa, inquieto, una smorfia a piegargli la bocca. - Non c’entri niente. Lo sto facendo per me.-

Un rumore in lontananza li avvertì che stava arrivando il prossimo treno. La linea non era stata ancora bloccata: qualcosa probabilmente non aveva funzionato a dovere, o la notizia non era ancora giunta alle autorità competenti.
Nello stesso momento, dalla direzione opposta, si sentirono dei passi distanti e veloci sul cemento, come se qualcuno stesse correndo verso di loro.
-Tobio!- urlò una voce lontana e affranta.
Tobio, nonostante ormai respirare fosse impossibile e la testa gli vorticasse pericolosamente, cercò di guardare tra le fessure delle dita di Oikawa, confuso e affannato. Sembrava la voce di Shouyou, e fu al contempo terrorizzato e felice, in un modo totalmente irrazionale.
Iwaizumi drizzò la testa e voltò il capo in direzione di quella voce. Nel farlo vide che il fondo accartocciato del treno precedente intralciava i binari, qualche metro più avanti: era impossibile che si evitasse l’incidente. Sgranò gli occhi e indietreggiò di qualche passo.

Oikawa tese il braccio verso le rotaie. Le gambe di Kageyama penzolavano come quelle di un burattino.

Iwaizumi avrebbe potuto fare tante cose. Avrebbe potuto colpire Oikawa con la sua kagune, ora che gli dava le spalle. Avrebbe potuto buttarglisi addosso e atterrarlo, prenderlo a pugni mentre gli urlava di non farlo perché, aveva ragione, era venuto lì per quello.
Eppure non lo fece. Non lo fece perché non era vero che poteva farlo. Non poteva e non voleva, perché Tooru valeva più della vita di un essere umano che conosceva da qualche mese. Era la pura e semplice verità: doveva essere schietto con se stesso, a costo di sfogarsi sui muri coi suoi pugni.
Hajime non era affatto il tipo di persona che piegava la testa facilmente, o che si lasciava intimidire. Non sapeva spiegarsi come fosse successo: non appena era arrivato, Oikawa gli si era avvicinato con quello sguardo, e tutte le sue certezze ad un tratto gli erano sembrate stupide e infondate, tutti i suoi propositi gli erano sembrati vani, tutto il coraggio che aveva dimostrato nel presentarsi lì, soffocato come una fiamma sotto una campana di vetro.
Tooru non aveva mai mentito sulle sue intenzioni. Stava proseguendo su una sola strada, un’unica, lunga e ben definita via, e Iwaizumi sapeva fin dall’inizio quale fosse, e non era corretto da parte sua ostacolarlo. Non gli stava accanto per farlo dubitare su questioni che, per loro, per dei ghoul, non avrebbero mai dovuto suscitare controversie di quel genere: uccidere o no un umano? Sciocchezze. Non poteva rimproverarlo di essere incoerente: non lo era. Non poteva rimproverarlo di essere un assassino: tutti lo erano.
Quel momento, però, valeva molto di più per Tooru: era la chiusura di una lunga questione.
Iwaizumi sapeva quanto la morte dei suoi genitori avesse influito su di lui. Non lo conosceva, prima di quella tragica notte, ma aveva visto e continuava a vedere chiaramente come quello fosse diventato il suo pensiero fisso nei momenti più bui. Non si potevano semplicemente “scacciare i brutti pensieri” come credevano da bambini. Non bastava assorbire l’atmosfera calma di un negozio di fiori al mattino, immerso nel silenzio, per esorcizzare il terrore.
Kageyama non era stato l’esecutore materiale di quell’omicidio, ma per Tooru quel ragazzino personificava ogni singola cosa che c’era stata prima della Notte di Sangue, ed era tutto quello che Tooru custodiva gelosamente, tutto quello che voleva e doveva rendere definitivamente suo e solo suo per sempre, rinchiuderlo dentro di sé con un lucchetto per compiere il primo grande passo avanti.

Hajime, con le mani colme del suo frivolo capriccio dal gusto innaturalmente umano, chinò il capo remissivo davanti all’ideale di Tooru, proprio come avrebbe fatto al cospetto di un re, perché lo sarebbe diventato presto, e perché lo era già, ai suoi occhi. Perché lo amava, e non per sua scelta, e non c’erano condizioni, per quanto fosse doloroso.
Chiuse gli occhi mentre Tooru lasciava cadere sulle rotaie il corpo quasi incosciente di Tobio, in pasto all’oblio.

L’urlo atroce della voce di Shouyou, sempre più vicina, squarciò l’aria quasi quanto il treno che passò subito dopo.

Hajime amava i fiori rossi. Le kalanchoe, in particolare, perché erano piccole e gli suscitavano tenerezza. Gli piaceva il connubio che creavano con  il rosso, quel colore forte, vibrante, intenso, acceso: davano speranze, ispirazione, sembravano dire “sono capace di grandi cose!”.
Forse, perché un po’ gli ricordavano Tobio.
Eppure, il rosso del sangue che gli sporcò la maschera e i vestiti l’attimo successivo fu insostenibile, e il cuore sembrò lacerarsi per il dolore.

Kenma era in piedi, accanto dalle scale della stazione di Yushima, assieme ad altri cinque ghoul del Nekoma.
Nekomata aveva detto loro di andare lì e fare attenzione che non entrasse nessuna colomba, ovvero nessuno con una quinque: era un lavoro per Oikawa, aveva detto. Nulla di troppo pericoloso.
Fino a quel momento era andato tutto bene, non avevano dovuto fare niente, ma non sapevano altro di ciò che stava succedendo.
Aveva osservato la folla terrorizzata che si era riversata fuori dalla metropolitana mezza distrutta e che correva in tutte le direzioni, il panico ulteriormente alimentato dalla vista di quel gruppetto di ghoul di guardia alle scale.
Kenma aveva tenuto la testa bassa, sperando di potersene andare presto: non gli piaceva essere in mezzo a così tante persone, soprattutto se gridavano e si dimenavano in modo disordinato e caotico. Il fatto che Kuroo non fosse lì con lui aveva nettamente peggiorato quella sensazione di soffocamento e smarrimento.
Nekomata aveva scelto uno ad uno i ghoul da mandare a Yushima, e aveva preferito che Kuroo restasse a casa per riposarsi dopo il turno di lavoro. Kenma aveva provato a insistere, anche se debolmente, nella speranza che potesse venire anche Kuroo -o, ancora meglio, se fosse potuto restare a casa con lui- ma Nekomata non aveva voluto sentire ragioni e Kenma aveva dovuto ingoiare il nodo che gli stringeva la gola.
L’ansia si era leggermente attenuata solo quando la stazione era tornata ad essere deserta, o quasi: qualche persona ignara ogni tanto scendeva le scale, ma si pietrificava non appena si accorgeva della presenza dei ghoul, e scappava immediatamente.
Però, quando un grido disperato rimbombò nella galleria, Kenma sollevò la testa coperta dalla maschera e da una cuffia di lana. Subito dopo, uno stridio assordante e un boato spaventoso. L’intero luogo tremò come se ci fosse appena stato un terremoto.
Si voltò verso gli altri ghoul e li vide immobili, appoggiati al muro ma chiaramente irrigiditi.
-È deragliata.- disse uno dei più grandi con sicurezza.
Incuriosito e preoccupato, Kenma mosse qualche passo verso i binari e si sporse a guardare. Scese dalla banchina e fissò la galleria nera con il cuore in gola, l’aria gelida e umida che gli entrava sotto la maschera e gli pizzicava la faccia. Sentiva un odore strano e la voce nascosta in quel grido gli aveva fatto accapponare la pelle.
-Kozume, non ci provare!- gli intimò uno dei suoi compagni non appena lo vide muovere qualche passo lungo le rotaie. Kenma sobbalzò e si girò a guardarlo.
-Torna qui.- continuò, anche a costo di risultare eccessivamente duro.
Kenma guardò di nuovo la galleria, come per implorarlo di lasciarlo andare, ma dovette cedere e tornare accanto a lui.
-Sicuramente arriverà qualcuno da un momento all’altro, saliamo in superficie.-
Kenma emise un debole verso di assenso con aria cupa. Era il più giovane di quel gruppo ed era fondamentale che facesse come gli dicessero, perché era così che voleva Nekomata.

Hinata tremava senza controllo. Si toccò la faccia per capire se fosse ancora vivo, integro, e i polpastrelli si bagnarono di lacrime e sangue.
Aveva corso a perdifiato lungo quella galleria, ma era arrivato troppo tardi. Le luci erano rade e le forme poco definite, ma aveva visto con i suoi occhi Tobio inghiottito dal treno, e l’immagine gli si era impressa addosso, marchiata a fuoco negli occhi, il suono nelle orecchie, l’odore nel cervello, nel naso, nella bocca asciutta. Aveva sangue e brandelli di carne addosso. Erano schizzati ovunque. Tobio era morto.
Aveva appena fatto in tempo a rendersene conto che la metropolitana aveva travolto i resti del primo treno: in uno scenario apocalittico, i vagoni si erano ribaltati e accartocciati come se fossero stati di cartone, con un rumore tremendo.
Hinata non seppe per quale miracolo non finì straziato tra il metallo tagliente del treno che ostruiva completamente la galleria. Si era rannicchiato sul cemento accanto al muro, o forse era caduto, non si ricordava cosa avesse fatto. Davanti a sé, a meno di mezzo metro, un pezzo di vagone lacerato, un braccio rosso che penzolava fuori dallo squarcio.
Fu scosso da un singulto e puntò i piedi per terra per indietreggiare. C’erano lamiere ovunque si girasse, lamenti e grida provenivano da ogni direzione, la gente cercava di uscire dai finestrini sbriciolati.
Singhiozzò quando sentì qualcosa muoversi con un rumore metallico e subito dopo, da dietro una lastra ammaccata, uscì uno dei due ghoul che avevano ucciso Tobio.
-Shouyou, corri!- gridò Hajime col fiato corto e un gesto della mano. Aveva riconosciuto il ragazzino di cui Kageyama parlava sempre; era lui, non c’erano dubbi.
Hinata balzò in piedi, sospinto dall’adrenalina, confuso e stupito che quel ghoul conoscesse il suo nome e che lo stesse invitando a scappare, ma non c’era tempo per pensare. Guardò di nuovo davanti a sé e cercò con gli occhi una via di fuga.
Cercò di scavalcare ciò che era rimasto di un vagone e scivolò sulle macerie più volte, emettendo deboli versi quando si feriva le mani o quando si appoggiava ad un pezzo di metallo rovente. Piangeva ma non poteva fermarsi, e quando riuscì a vedere davanti a sé la galleria quasi completamente sgombra, iniziò a correre, anche se le gambe erano deboli e temeva che sarebbero cedute da un momento all’altro. Dovette sorpassare altri cadaveri e persone agonizzanti riverse sulle rotaie, doveva proseguire dritto e uscire da lì il più presto possibile.
Tobio era morto. Era morto. Quei ghoul l’avevano ucciso e basta: non per cibarsi, non per mangiarlo. L’avevano fatto a pezzi senza un motivo apparente.
Nella sua testa si ripeteva insistentemente perché, perché avrebbero dovuto fare una cosa del genere, perché lui, perché in quel modo. Un dolore insopportabile gli stringeva il petto in una morsa e l’aria umida della galleria gli ghiacciava le ossa, gli asciugava il sudore gelido.
Vide la luce intensa della stazione di Yushima avvicinarsi e il cuore sembrò farsi un po’ più leggero, ma non appena cercò di salire sulla banchina qualcosa lo afferrò alla caviglia e lo fece cadere.
Si voltò. Era l’altro ghoul, quello che aveva visto sulla metropolitana. Fissò la sua maschera, di un verde tenue, che gli copriva il naso e gli occhi, e non poté non soffermarsi sulla sua bocca serrata e tesa, ridotta a una linea. Le sei escrescenze rosse che uscivano dalla sua schiena si agitavano nell’aria come enormi nastri carnosi e Hinata riuscì a rialzarsi in piedi giusto in tempo per schivare un suo attacco, anche se in modo grossolano. Inciampò nelle rotaie e mentre crollava a terra senza fiato pensò che, ecco, era finita.
Sentì il ghoul fare un passo avanti e strizzò gli occhi, il respiro trattenuto a un braccio alzato in un debole tentativo di proteggersi.
Non aveva speranze. Tobio era morto e nel giro di attimi sarebbe morto anche lui, e averne la consapevolezza era orribile e gli dilaniava il cuore, lo riempiva di terrore, perché non voleva morire, non voleva, non voleva.
Eppure, nulla lo colpì. Aprì lentamente le palpebre tremanti.
Davanti a lui c’era una persona inginocchiata che gli dava la schiena, dei ciuffi di capelli biondi che spuntavano da sotto una cuffia di lana. Teneva una mano tesa verso Oikawa, e quel semplice gesto sembrava averlo fermato, in qualche modo.
La persona misteriosa si girò verso di lui e Shouyou  smise nuovamente di respirare nel vedere la maschera bianca con tre occhi gialli che lo fissavano come se fossero stati veri.
Indietreggiò strisciando, il cuore in gola, e Oikawa inclinò la testa da un lato.
-Perché oggi mi intralciate tutti?- iniziò scocciato, rivolto all’altro ghoul, con un risata leggera e innervosita.
-Non fargli del male.- disse quello, con una voce che alle orecchie di Shouyou suonò stranamente familiare.

Pochi attimi prima, in superficie, l’attenzione di Kenma era stata attirata da un rumore in fondo alle scale. Aveva girato la testa, e proprio in quel momento uno dei ghoul accanto a lui aveva indossato un sorriso beffardo.
-Arrivano, finalmente.- aveva detto mentre il kagune usciva dalla sua schiena.
-Ce ne hanno messo di tempo.- aveva commentato un altro, stiracchiandosi pigramente.
Kenma si era voltato di nuovo ed era rimasto pietrificato. Delle colombe correvano verso di loro, le valigette in mano.
Sapeva che nella stazione stava succedendo qualcosa, e dentro di sé una voce gli gridava di andare, di sbrigarsi, di tornare sottoterra, non per scappare, ma perché quello era il momento giusto. Aveva stretto i denti ed era corso giù per le scale senza che nessuno se ne accorgesse.
I suoi occhi si erano agganciati all’immagine di Shouyou, solo e sporco di sangue e polvere, steso sui binari, ai piedi di Oikawa.
Tutto il resto era svanito. Non aveva aspettato un secondo di più.


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Note e chiarimenti
Chiedo scusa per l'immenso e imperdonabile ritardo, spero che abbiate trovato comunque la voglia di leggere questo capitolo.
Il titolo è un celebre verso preso dal nono libro dell'Eneide, in particolare dall'episodio della morte del giovane Eurialo. La traduzione è "Come un fiore purpureo quando, reciso dall’aratro, languisce morendo". L'associazione tra i giovani morti prematuramente e i fiori recisi è un'immagine ricorrente nell'epica e ovviamente non potevo lasciarmi scappare l'occasione di proiettarla sulla mia storia, e associare Tobio alle kalanchoe- sì, sono un mostro, la mia coinquilina me l'ha già detto.
Spero che continuerete a seguire questa storia, grazie di aver letto!


 

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Capitolo 12
*** Ma quel pensiero di te che vivi, mi consola di tutto ***


Ma quel pensiero di te che vivi, mi consola di tutto
 
Oikawa e Kenma si fissavano, in silenzio e immobili. Sembravano studiarsi come animali selvatici. La stazione era deserta, deboli lamenti e pianti echeggiavano lontani e flebili nelle profondità della galleria mentre da sopra le scale provenivano i rumori di una battaglia tra ghoul e colombe.
Era come se loro fossero congelati nel tempo, in un luogo senza dimensioni, sotto lo sguardo pietrificato di Hinata.

Oikawa prese un veloce respiro e Kenma si alzò con uno scatto, intuendo ciò che stava per accadere.
Shouyou cacciò un urlo acuto e si coprì con le braccia quando sentì  i kagune scontrarsi con un gesto secco.
Il ghoul che l’aveva salvato parava i colpi forti e insistenti dell’altro, e rispondeva con movimenti minimi ma precisi.
Si muovevano velocemente e Hinata notò come quello con la maschera da gatto sembrasse voler allontanare il più grande da lui, anche a costo di procurarsi qualche ferita minore.
-Non mi intralciare, gattino.- sussurrò Oikawa a denti stretti, a pochi centimetri dal suo viso, poco prima che Kenma gli afferrasse il cappotto con entrambe le mani. Lo spinse indietro e lo fece inciampare sulla sua gamba per scaraventarlo a terra.
-Non chiamarmi così.-
Oikawa rotolò di lato, evitando con un verso sorpreso il bikaku di Kenma che si conficcò nel cemento.
-Fai sul serio?- ansimò mentre si rialzava in piedi più in fretta che poteva e cercava di rompere la guardia dell’altro ghoul. Con una frustata del kagune, Oikawa riuscì a scagliarlo contro la parete della stazione.
Kenma emise un gemito soffocato scontrandosi contro muro, e si accasciò a terra. Si portò una mano al costato, il respiro affannato e irregolare.
Quasi non fece in tempo ad alzare la testa su Oikawa che quello gli sferrò un calcio abbastanza forte da spezzargli il respiro e spostarlo di qualche metro, più vicino a Hinata.
Il ragazzino non poteva fare altro che guardare la scena seduto a terra, tremante e paralizzato dal panico. Non riusciva a scappare.
Shouyou fissò il ghoul steso a faccia in giù davanti a sé, ma subito la sua attenzione si spostò su Oikawa, che si stava di nuovo dirigendo verso di lui, questa volta decisamente esasperato, il kagune rosso fuoco che si contraeva come un muscolo.
-No.- rantolò Kenma, un attimo prima di appoggiare le mani tremanti per terra per tentare di sollevarsi. Si aggrappò al giubbotto di Shouyou con tutta la forza che aveva e quello, con uno squittìo terrorizzato, gli rivolse uno sguardo atterrito.
Sollevò il capo con fatica e Shouyou vide che la sua maschera, crepata e scheggiata, stava cadendo, rivelando una porzione di volto.
Spalancò gli occhi quando si staccò definitivamente e cadde a terra con un rumore sordo.
Sentì il gelo nelle vene, nel polmoni, al posto dell’aria.
Le pupille si agganciarono alle sue, piccole e rosse come gocce di sangue.
-Kenma?- mormorò senza voce, dopo un attimo di silenzio, come se avesse visto un fantasma.
Scivolò indietro, sia perché sospinto dalla debole pressione delle dita del ghoul, sia perché non aveva più alcuna forza per sostenersi. Si trovò con le spalle a terra, mentre Kenma si stringeva a lui e lo copriva col proprio corpo, dando la schiena a Oikawa.
Shouyou sentiva il suo cuore battere forte, tutti quegli odori acri gli riempivano la testa. Era troppo sconvolto per muoversi o parlare. Non riusciva a crederci. Non riusciva a elaborare pensieri logici, dopo aver visto quegli occhi mostruosi e la fronte imperlata di sudore.
-Spostati.- intimò scocciato Oikawa, ormai a un passo da loro.
Kenma si aggrappò al ragazzino con un po’ più di forza.
-Non lui.-
La voce di Kenma rimbombò contro il petto di Shouyou e gli fece venire i brividi, perché quasi l’aveva dimenticata.
-Ti chiedo solo questo. Lui no. Non ti darà fastidio, te lo prometto.-
Oikawa storse la bocca e aggrottò le sopracciglia.
Non voleva uccidere Kenma. Non voleva, non poteva e non doveva, non solo perché aveva sviluppato uno strano e blando affetto e compatimento nei suoi confronti, ma anche perché avrebbe significato distruggere completamente i rapporti, costruiti in tanti anni e con molti sforzi, col Nekoma e tutto il loro grande territorio. Non poteva rischiare di attirare su di sé l’ira di Nekomata facendo fuori una delle menti principali del suo apparato amministrativo.
Strinse i denti e rimase a fissare per qualche secondo quella scena pietosa con fare annoiato, mentre Kenma si rimetteva frettolosamente la maschera.
Si chiese cosa avesse di speciale quel ragazzino umano. Poco prima gli aveva dimostrato di avere buoni riflessi, certo, ma poteva essere stato un colpo di fortuna: perlopiù, sembrava essere piccolo e fragile. Aveva tuttavia assistito -anche se da lontano- all’omicidio di Tobio, e Oikawa non sapeva fino a che punto sarebbe potuto diventare una minaccia, in futuro; se questo fatto lo avrebbe spinto a cercare vendetta o no.
Non era sicuro di potersi fidare delle parole di Kenma, ma ad ogni modo il rischio di perdere una porzione di territorio non indifferente era troppo grande: non ne valeva la pena, su nessun fronte.
-Come desideri allora, gattino. Me ne ricorderò.- disse lentamente, senza alcuna inclinazione particolare. -Quindi ricorda che me l’hai promesso.- concluse, più mellifluo, indietreggiando di un passo e voltandosi.
Il suo volto si fece più rigido e inspirò a fondo. Doveva solo riprendere Hajime e andarsene: forse, per quel giorno aveva fatto fin troppo.

Akaashi sapeva che c’era qualcosa di strano. Le persone camminavano affannate nella direzione opposta alla sua e sentiva delle sirene riecheggiare nell’aria di quella sera fredda.
Accelerò il passo, più curioso che intimorito, ma si arrestò non appena svoltò l’angolo.
Qualche metro più avanti, vicino alle scale che portavano alla metropolitana, cinque ghoul combattevano contro quattro agenti della CCG.
Si nascose dietro il muro, sporgendo appena la testa per poter osservare meglio. Le quinque si scontravano contro i grossi kagune rossi. Gli investigatori sembravano essere in difficoltà.
Sinceramente si aspettava di tutto, ma non dei ghoul. Pensava di averne avuto abbastanza di ghoul, almeno per quel giorno.
Continuando ad osservare quella scena, gli sembrò di captare qualcosa di insolito. I ghoul stavano cercando di allontanarli dalle scale, e ad ogni secondo che passava indietreggiavano sempre di più. Ci doveva essere qualcosa, là sotto. Qualcosa che non doveva essere avvicinabile.
La scelta più logica sarebbe stata andarsene, scappare via. Ma quello che aveva fatto quel giorno non era stato logico, e per qualche motivo decise che avrebbe continuato a non esserlo. A quel punto, dopotutto, non aveva molto altro da perdere.
I ghoul e le colombe erano ormai in mezzo alla strada quando Akaashi decise di uscire dal suo nascondiglio.
Camminò rasente al muro, lontano dai lampioni, attento che non lo vedessero e sperando che lo scontro li tenesse occupati ancora per un po’. Con una mano pronta ad afferrare la pistola, si accovacciò e scese velocemente le scale col cuore in gola, e riuscì ad arrivare incolume nella stazione.
Una volta sottoterra, fu stupito e un po’ deluso nel vedere che la stazione era vuota. Dalla galleria della metropolitana, però, proveniva l’eco di lamenti e pianti, voci concitate. Aggrottò la fronte, confuso, e si avvicinò alle rotaie con sospetto.
Si bloccò non appena vide una testa di capelli scombinati, rosso rame. Riconobbe il ragazzino che aveva incontrato mesi prima in Accademia. Era steso sui binari. Un’altra persona era su di lui, ma non riusciva a vedere il suo volto.
Camminò velocemente nella sua direzione, e più si avvicinava più notava dettagli che non avrebbe voluto vedere: era sporco di sangue, la bocca piegata in una smorfia. Piangeva.
-Hinata!- chiamò preoccupato, e quello aprì lentamente gli occhi con un singhiozzo. Nello stesso momento, la persona che lo stringeva si voltò per guardarlo.
Vide che indossava una maschera, e Akaashi non si fermò a pensare.
Il suo cervello elaborò la soluzione con freddezza e rapidità, quasi come un riflesso automatico. Estrasse la pistola e la alzò davanti a sé, repentino.
Kenma trattenne il respiro e si alzò in piedi giusto in tempo per afferrargli il polso e deviare la traiettoria dello sparo che partì proprio in quel momento.
Avrebbe potuto usare il suo kagune, ma non ci aveva messo più di un secondo a riconoscere Akaashi. Fu inconscio: non poteva ucciderlo.
Se solo avessero saputo quanto, in maniera totalmente opposta e al limite dell’ironico, i loro rispettivi comportamenti influenzati dall’istinto li stessero rendendo simili, forse il loro confronto non sarebbe stato tanto aspro. Forse era quello il problema alla base di tutto, il problema della comunicazione.
-No, no!- urlò Hinata, vedendo Akaashi afferrare a sua volta il braccio di Kenma e ruotarlo, facendolo cadere, ignaro del fatto che Kenma fosse già stremato dallo scontro di pochi attimi prima con Oikawa.
Mentre cadeva, Kenma si arpionò alla sua spalla e lo trascinò a terra con sé, facendolo rotolare sotto il suo corpo, ma Akaashi ribaltò ancora una volta le posizioni.
Il cuore di Kenma stava esplodendo. Non voleva ucciderlo, era vero, ma non poteva lasciarsi uccidere, e se quella era la situazione, allora non aveva molte opzioni.
Gli afferrò il cappotto e, nell’esatto momento in cui stava per attaccarlo, Akaashi puntò la sua pistola contro l’occhio centrale di quella maschera, proprio nel mezzo della fronte di Kenma.
Si congelarono e rimasero per qualche secondo in quel modo, uno seduto sull’altro, i respiri affannati. Nessuno dei due poteva muoversi.

La voce di Hinata era soffocata nella sua gola, la nausea quasi gli impediva di respirare. Non riusciva a smettere di tremare, o fermare le lacrime.
Non sapeva se stesse piangendo per il dolore di aver perso Tobio, la felicità di aver ritrovato Kenma, lo shock di aver scoperto che fosse un ghoul o il panico per la scena che si stava svolgendo davanti ai suoi occhi.
Era letteralmente sommerso da troppe, troppe sensazioni e emozioni e non riusciva a gestirle, e lo stavano divorando vivo.
-Ti prego non fargli male.- pigolò finalmente Shouyou, attirando l’attenzione di Akaashi, che sollevò la testa verso di lui, e Kenma, sfinito, distese lentamente le gambe. Hinata continuò a parlare, anche se era chiaro quanta fatica facesse.
-Mi ha salvato, lui è mio amico, è…!-
Si interruppe con un singulto, sgranando gli occhi, guardando oltre Akaashi e Kenma. I due rimasero a fissare Hinata in attesa e preoccupati, finché un’ombra li sovrastò.
Akaashi non fece in tempo a voltare la testa. Fu troppo veloce, troppo improvviso.
Non ebbe il tempo di reagire, di premere il grilletto. Qualcuno dietro di lui gli afferrò il capo e fu sollevato da terra mentre Kenma gli toglieva la pistola di mano con un gesto rapido.
Un attimo dopo, la faccia di Akaashi si scontrò contro il muro della galleria.
-Dov’è.- chiese un sibilo agghiacciante vicino al suo orecchio.
Akaashi sentiva una mano tra i propri capelli. Gli stringeva la nuca con forza, premendola contro il cemento. L’altra mano era salda sul suo polso, tenuto a forza contro la schiena, e la sua presa era talmente forte che Akaashi pensò con una smorfia che le sue ossa si sarebbero sgretolate da un momento all’altro.
Cercò di divincolarsi, di girarsi, di abbassarsi, ma ogni sforzo era inutile e rimase contro quel muro coi polmoni stritolati e il cervello inibito. Vide una maschera nera con la coda dell’occhio.
-Dov’è!?- ripeté quel ghoul, urlando mentre lo voltava, strattonandolo con una violenza che sembrava ingiustificata, i pugni che stringevano il suo cappotto convulsamente, tanto da tremare.
Kenma si era messo a sedere e guardava la scena con apprensione e il fiato sospeso.
-Kuro.- sussurrò tra sé e sé, sinceramente preoccupato.
Avrebbe dovuto essere lieto del suo arrivo improvviso, ma in realtà il suo comportamento inconsueto e fuori controllo non lo tranquillizzava affatto.
Akaashi guardava il ghoul, sconvolto, il volto insanguinato e dolorante, e le pupille fisse sulla maschera modellata come il muso di un gatto. Non capiva cosa volesse da lui.
-Chi?- riuscì a chiedere con un filo di voce, totalmente smarrito, un rivolo di sangue che scendeva dal naso fino sul labbro spaccato.
Kuroo emise un verso strozzato, come se non riuscisse più a trattenersi, a sopportare quella situazione, come se stesse perdendo tempo prezioso.
Voleva qualcosa, e lo voleva subito, tanto da offuscare la sua lucidità.
Sotto lo sguardo atterrito di Kenma, Kuroo afferrò Akaashi per la gola e lo sollevò finché i suoi piedi non toccarono più terra. La bocca di Akaashi cercò subito aria, disperatamente, gli occhi sgranati.
-Dov’è Bokuto?- mormorò finalmente, dopo un lungo respiro, con tono vacillante, ma chiaro e ben scandito.
Kenma si alzò in piedi e si irrigidì nel sentir pronunciare quel nome.
Akaashi si aggrappò al suo braccio nel tentativo di affievolire la stretta. Sentir pronunciare il nome di Bokuto lo fece rabbrividire, e si sentì come se un’onda di acqua ghiacciata lo avesse appena investito.
Quando lo aveva abbracciato, probabilmente gli aveva lasciato addosso il suo odore. Akaashi sapeva che i ghoul avevano un olfatto incredibilmente sviluppato, ma non aveva idea che fosse un’abilità tale da permettere loro di riconoscere gli odori anche sui corpi di terzi.
-Non so di che parli.- mentì, riuscendo in qualche modo a mantenere il suo autocontrollo nonostante le dita strette attorno al suo collo.
In quel momento, fingere di non avere nulla a che fare con tutto quello gli sembrò l’unico modo per potersi salvare, l’unica opzione che gli avrebbe dato la speranza di essere lasciato andare, oltre che di tenere Bokuto al sicuro.

Kuroo era andato a Yushima perché quell’operazione stava durando più del previsto, e voleva trovare Kenma a tutti i costi, assicurarsi che stesse bene e riportarlo a casa.
Sulla strada aveva visto tre colombe e una quarta era riversa sull’asfalto, probabilmente morta. Combattevano contro cinque ghoul, ma tra loro non c’era Kenma e se da un lato era stato contento di non vederlo lì a rischiare la vita, dall’altro fu allarmato dalla sua assenza.
Aveva deciso di scendere le scale, e sul secondo gradino, ecco. L’aveva sentito. Assieme al profumo di Kenma. L’aveva sentito, leggerissimo ma inconfondibile. Si era fiondato giù per le scale.
Avrebbe riconosciuto quell’odore tra mille. Lo cercava da più di sei anni e per un attimo aveva creduto di esserselo immaginato, ma più si avvicinava e più si faceva forte.
Sentire l’odore di Bokuto e vedere Kenma in pericolo, tutto nello stesso momento, era senz’ombra di dubbio lo scenario peggiore per testare la sua freddezza.
Il suo cervello lavorava così in fretta che non diede importanza al fatto che il ragazzo tra le sue mani fosse Akaashi: dopo essersi assicurato di averlo allontanato da Kenma, tutte le sue energie si erano concentrate su un’unica cosa, ed era l’odore che gli sentiva distintamente addosso, in quel momento più intenso che mai.
Emise un ringhio, le mani che tremavano.
-Ho detto di dirmi…- soffiò, lasciando andare il ragazzo con un’indolenza innaturale mentre il kagune usciva lentamente dalla sua schiena, come una lunga coda che si muoveva agitata.
Akaashi si accasciò a terra a causa di un devastante misto di debolezza e paura, gli occhi attenti ma spaventati e la vista annebbiata.
-…Dov’è Bokuto!- concluse Kuroo in un crescendo graffiante che proveniva dalle sue viscere. Akaashi abbassò il capo e distolse lo sguardo, stringendo la bocca in una smorfia contrariata e inquieta.
-Perché dovrei?-  sussurrò quasi subito col respiro corto e ansante.
Alzò piano la testa coperta di sangue e puntò gli occhi blu su di lui. Non poteva uscirne vivo. Dopo essersene reso conto, la priorità era diventata subito salvare Bokuto.
Doveva tenerlo al sicuro, perché in quel momento, in quella situazione, con tutta quell’adrenalina in corpo, non riusciva davvero a pensare ad un motivo pacifico per cui qualcuno volesse cercarlo.
Se doveva morire, almeno doveva farlo proteggendo qualcuno.

Kuroo strinse i denti, furente, si portò entrambe le mani sulla maschera e con gesto secco se la strappò di dosso, mentre dalle labbra di Kenma usciva un brusco “No!”.
Gli occhi di Akaashi si fecero grandi e la sua bocca si spalancò sempre di più man mano che metteva a fuoco i lineamenti di quel viso che conosceva, ma che ora fremeva, contratto dall’astio.
Si scontrò con quegli occhi inumani, socchiusi, feroci, e la sua mente si svuotò completamente.
-Dimmelo.- chiese ancora Kuroo, la voce meno potente, le lacrime trattenute che gli bagnavano le ciglia. -Ti scongiuro, Akaashi.-
Akaashi rimase a fissarlo senza parole e con il gusto ferroso del sangue in bocca.
Kuroo si sentì afferrare per un braccio e in attimo si ritrovò con il volto premuto contro il collo Kenma. Una sua mano sulla testa lo teneva saldamente per nascondergli la faccia, eppure ormai era tardi: Akaashi lo aveva visto, lo aveva riconosciuto.
Kenma strinse nervosamente le dita contro la sua nuca. Sentì che tentava di allontanarsi premendo con le mani contro il suo petto, ma lo tenne contro di sé e inclinò appena il viso contro i suoi capelli quando sentì le lacrime di Kuro bagnargli il collo.
Teneva l’altro braccio teso davanti a sé con l’aria irremovibile, la pistola di Akaashi puntata contro il suo proprietario.
Era davvero al limite, Kenma. Sentiva un caldo insopportabile. Era triste e arrabbiato. Era triste, perché era costretto a vedere Kuroo ridotto in quello stato, fuori di sé; ed era arrabbiato, perché quel comportamento non era affatto da lui, ed arrivare a togliersi la maschera era pura follia e significava mettere in pericolo tutto il Nekoma.
-È andato dove abitava prima della Notte di Sangue.- mormorò Akaashi, ancora a terra. -Però non so dove sia, non so…-
Non riuscì a finire la frase: i due ghoul sussultarono all’istante. Kenma lasciò finalmente andare Kuroo e si voltò verso di lui con uno scatto.
-Kuro, vai!- lo incitò, una nota particolarmente agitata nella voce.
Kuroo si risvegliò. Fu come se avesse ripreso a respirare dopo una lunghissima apnea. Indietreggiò di due passi e alternò lo sguardo tra Akaashi e Kenma con un’espressione incredula e smarrita, gli occhi che tornavano alla normalità.
-Vai!- ribadì Kenma, spingendolo in modo troppo gentile se paragonato al suo tono.
Kuroo si guardò un attimo attorno, perso, solo una frazione di secondo prima di iniziare a correre fuori dalla stazione, su per le scale, la maschera che era rimasta lì a terra.

Quando Oikawa tornò indietro per recuperare Iwaizumi, lo trovò esattamente dove lo aveva lasciato: incastrato tra le lamiere. Aveva smesso di dimenarsi, però.
Avrebbe potuto uscirne con un minimo sforzo, Oikawa lo sapeva; eppure non lo aveva fatto. Era rimasto lì senza fare niente, come se non ne valesse la pena, come se non avesse avuto più alcun senso inseguirlo.
Hajime aveva alzato la testa verso di lui e, anche se indossava la maschera, Oikawa era sicuro di aver percepito fin troppo bene l’espressione dura scolpita sul suo volto.
Erano tornati a casa in silenzio, camminando nel buio, lontano dai luoghi affollati. Hajime non gli aveva parlato e quando Oikawa aveva allungato la mano per prendere la sua, non si era ritratto, ma non l’aveva neanche stretta. Quella, per Oikawa, era la peggiore delle punizioni. Si era sentito vuoto e senza ossigeno, perso nello spazio aperto, oscuro e gelido.
Richiuse la porta di casa dietro di sé. Alzò la testa per guardare Hajime che saliva le scale in fretta e abbassò le palpebre quando sentì la porta del bagno sbattere con un po’ troppa violenza.
Si tolse le scarpe, salì le scale e rimase qualche minuto a fissare la penombra del piccolo corridoio. Pensò di andare in camera sua e restare lì, lasciare solo Hajime, ma l’idea di non poter risolvere la situazione subito era insopportabile e non riusciva davvero a stare in silenzio, fermo, buono.
Bussò piano alla porta del bagno. Non ottenne risposta, ma abbassò comunque la maniglia ed entrò. L’imbarazzo e la vergogna erano spariti molti anni addietro.
Hajime si stava togliendo i vestiti imbrattati di sangue e li lanciava sopra il cesto dei panni sporchi, lontano da lui, il più lontano possibile.
-Iwa…- mormorò abbacchiato, con le sopracciglia abbassate. Quello entrò in doccia e aprì l’acqua con un gesto secco della mano. Oikawa guardò la figura sfocata di Hajime dietro il vetro opaco: stava immobile, il soffione della doccia che gli bagnava la testa con insistenza e gli appiattiva i capelli.
Si allungò per prendergli l’asciugamano, che nella fretta aveva dimenticato un po’ troppo in là. Stava per sedersi su uno sgabello quando Hajime parlò, cogliendolo di sorpresa.
-Anche tu dovresti darti una lavata.- disse, senza nessuna particolare intonazione. -Vieni.-
Oikawa quasi sobbalzò e raddrizzò la schiena.
Iwaizumi aveva gli occhi chiusi. Prese un respiro profondo, concentrato sullo scrosciare dell’acqua che lavava via il sangue e che sperava lavasse via anche i pensieri. Tenere il broncio a Tooru sarebbe stato stupido e immaturo, anche dopo quello che aveva fatto? Non erano più bambini. Non aveva semplicemente rotto un giocattolo, però.
Schiuse lentamente le palpebre quando sentì le porte della doccia aprirsi e si fece un po’ di lato per fare spazio a Oikawa.
La doccia sembrava essere diventata molto più piccola, rispetto a tanti anni prima; o forse erano loro che erano più grandi. Era da un po’ che non si facevano una doccia insieme, e Oikawa fu assalito dalla malinconia nel ricordarsi di come si riempivano la bocca d’acqua per spruzzarla in faccia all’altro, degli scivoloni che avevano rischiato di fare nel tentativo di scappare in quello spazio ristretto.
Quando Hajime si voltò a guardarlo, la prima cosa che registrò furono le gocce d’acqua che cadevano dalle sue ciglia e pensò che assomigliassero un po’ troppo a delle lacrime. Si chiese se fossero vere o se fosse solo suggestione.
Il marrone degli occhi di Oikawa lo attirava come un buco nero.
Teneva le spalle leggermente curvate in avanti, come se cercasse di sparire in se stesso, e Hajime pensò che quello non fosse affatto un atteggiamento comune per il Tooru che conoscevano tutti. Era uno di quei dettagli che si permetteva di lasciar trasparire solo con lui. Era il suo lato più umano, e per questo quello più fragile e da trattare con più delicatezza.
Vide la mano di Oikawa alzarsi e fermarsi sul suo zigomo: guardava la sua guancia con la mascella leggermente contratta, passava il pollice sulla sua pelle con insistenza per rimuovere il sangue che gli si era seccato addosso, scorreva le dita attorno ai tagli che si rimarginavano pian piano.
-Scusa se ti ho urlato contro.-
Hajime si sentiva sporco, sporco dell’odore di Tobio, e del suo sangue, e della sua morte. Era vero, gli aveva urlato addosso, ma Hajime lo aveva capito. Era vero, quando Oikawa lo aveva guardato negli occhi e lo aveva lasciato volontariamente tra le lamiere della metropolitana deragliata, era rimasto a dir poco allibito, ma l’unica cosa che aveva pensato, una volta riuscito ad uscire da quell’inferno e per tutto il tragitto verso casa, era che avrebbe dovuto assolutamente strapparsi di dosso la sensazione sgradevole che gli era rimasta appiccicata sulla pelle. Per quanto scavasse e per quanto lo trovasse ingiusto, Hajime sapeva che la rabbia che gli riempiva il petto non era nei suoi confronti.
Oikawa stava prestando una particolare attenzione nel liberarlo da quello sporco, come se fosse compito suo, come se lo fosse sempre stato e ne fosse pienamente consapevole.
Hajime sperimentò una sorta di catarsi nel farsi modellare dai suoi polpastrelli, come se fosse suo e solo suo da plasmare. Gli occhi verdi si staccarono dai suoi solo per chiudersi, totalmente abbandonati mentre inclinava la testa per inseguire la sua mano, gran parte del rancore che scivolava via assieme all’acqua sporca.
-Hajime, non lasciarmi da solo.-
Era un sussurro bagnato e tremolante, quello che uscì dalle labbra di Tooru, e Iwaizumi sentì il cuore sprofondare nel petto, fin sotto i piedi, perché nella sua voce sentì la paura più pura e sincera.
Abbassò il capo, perché sapeva che se per caso lo avesse guardato di nuovo negli occhi, lo avrebbe ucciso.
Tooru gli aveva dato tutto. Tooru era tutto quello che aveva, e tutto quello che voleva avere, era la sua meraviglia, il suo stupore, la sua disperazione.
Ad Hajime non interessava nessun potere, nessuna supremazia, nessun controllo territoriale. Voleva solo fare tutto il possibile per permettere ad Oikawa di arrivare là dove era destinato ad arrivare. Tempo prima si era detto che lo avrebbe fermato, se necessario, eppure quello che era successo quel giorno dimostrava che non ne era stato in grado. Si chiese perché, ma la risposta precisa era seppellita così a fondo dentro di lui che sembrava impossibile trovarla.
Sentiva di non sapere molte cose, di far fatica a conoscere se stesso come invece avrebbe dovuto. Sapeva che sarebbe stato sempre al suo fianco, sempre, perché non voleva perderlo, perché altrimenti avrebbe perso tutto, anche se stesso, e perché aveva paura che anche Tooru si sarebbe perso, e se fosse successo non se lo sarebbe mai perdonato.
Se si fossero separati, di loro due non sarebbe rimasto nulla, e non poteva permetterlo.
Non potevano esistere da soli. Entrambi, guardandosi indietro, avrebbero visto una voragine, un burrone, e non poteva accadere, era impensabile e terrificante.
Forse era pericoloso, forse quella reciproca dipendenza non si sarebbe mai dovuta costruire, ma ormai era tardi, ormai non importava, era invisibile ma dura come la roccia.
La loro consapevolezza si sarebbe immediatamente offuscata se mai avesse osato incamminarsi lungo quei pensieri impervi e arroccati nella coscienza di entrambi.
Sarebbe stato sempre al suo fianco: Hajime se lo ripeteva spesso, ma quella volta lo fece in maniera diversa. Più ragionata, forse, più intensa, più vera, mentre sfregava la guancia contro il suo collo bianco, le braccia attorno al suo busto, grato di poter sentire così chiaramente la sua pelle e il battito cardiaco appena sotto di essa.
Tooru era fragile. Le apparenze potevano far supporre il contrario, ma Hajime aveva visto troppe volte, con i suoi occhi, Tooru crollare a pezzi, ed era insopportabile.
Sapeva già che quando sarebbero usciti da lì avrebbero fatto di tutto per fingere che non fosse successo nulla.
Hajime si sarebbe dato dello stupido perché non era passato in camera a prendere dei vestiti puliti, e avrebbe dovuto sopportare stoicamente i brividi di freddo mentre rovistava nell’armadietto accanto al lavandino per trovare un paio di mutande. Tooru probabilmente gli avrebbe fatto notare che razza di impulsivo fosse, forse riferendosi anche a ben altro.
Ma finché erano lì andava bene lasciare che quei sentimenti esplodessero. Non avrebbero parlato delle lacrime che ognuno versava per i propri motivi, anche se si guardavano in faccia.
Andava bene l’acqua, forse un po’ troppo calda e soffocante, che scorreva loro addosso e formava un fitto fumo che avrebbe fatto appannare tutti gli specchi. Andava bene fondersi in quel calore insieme, ripulirsi, metaforicamente o meno, perché dal giorno successivo sarebbe iniziato qualcosa di completamente nuovo.
Andava bene perdonarsi con un bacio, perché se la solitudine è una compagna atroce, un amore solitario lo è ancora di più, e camminare al di fuori di esso è il buttarsi tra le spine.


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Note e chiarimenti
Mi scuso, ancora una volta, per averci messo ben quattro mesi a pubblicare il nuovo capitolo, ma purtroppo l'università mi tiene veramente troppo impegnata. Vi ringrazio di cuore se siete ancora qui a leggere, anche se in realtà penso che ormai io stia pubblicando a vuoto, ahah?
Il titolo del capitolo sono versi tratti dalla poesia "Quando il pensiero", di Saba: anche qui, la frase è applicabile a molti, se non tutti, i personaggi. Si applica a Shouyou nei confronti di Kenma e viceversa, si applica a Kuroo nei confronti di Bokuto, ad Oikawa e Iwaizumi reciprocamente... Insomma, in realtà l'intera poesia sarebbe potuta essere il titolo, ma ho scelto questi versi perché li trovo particolamente intensi e diretti.
Siete morte per bene per la scena finale? Sì? No? Fatemi sapere cosa ne pensate, se avete voglia!
Ma la vera questione su cui concentrarsi adesso è: Kuroo e Bokuto! Il prossimo capitolo è, fidatevi, assolutamente imperdibile.
Grazie ancora di continuare a seguirmi nonostante le attese infinite!

 

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Capitolo 13
*** Between melting and freezing, the soul’s sap quivers ***


Between melting and freezing, the soul's sap quivers
 
Kenma aspettò che Kuroo fosse uscito dalla stazione prima di abbassare la pistola, rendendosi conto che la sua mano tremava troppo per dare l’idea di essere davvero in grado di usare un’arma.
Scrutò attentamente Akaashi dall’alto e vide che aveva un’espressione colpevole e stremata.
Il ghoul si voltò indietro e raggiunse Shouyou. Tese le mani per aiutarlo ad alzarsi e lo abbracciò non appena fu alla sua altezza, stringendolo con un velo di imbarazzo pur di tentare di tranquillizzarlo.
-Stai bene?-
-Sto bene.- affermò quello, anche se con voce vacillante.
Shouyou era lì. Era tremendamente pallido e ferito, ma il cuore gli si riempì di gioia, forse perché gli bastava sapere che era vivo e tra le sue braccia.
Si allontanò dal ragazzino ma tenne le mani sulle sue spalle mentre voltava nuovamente il viso in direzione di Akaashi.
-Hai fatto bene a dirgli dov’era Bokuto.- commentò Kenma con voce modulata.
-Lo ucciderà?- ansimò Akaashi, inquieto, forse parlando più a se stesso che al ghoul.
Kenma aggrottò la fronte, ma la sua faccia era nascosta dalla maschera e agli occhi di Akaashi appariva solo come una statua.
-No.-
Finalmente Kenma parlava al suo demone. Non pensava che l’avrebbe mai fatto, tanto meno in quel frangente.
-Hai deciso di dirglielo perché hai visto chi era?-
L’altro aspettò qualche secondo prima di rispondere.
-…Forse.-
-Sei della CCG, vero?-
Kenma si staccò da Shouyou e guardò dritto verso di lui, la sua arma ancora in mano.
-Come lo sai?-
-Queste sono le loro pistole, no?- disse scrollando le spalle. -… Akaashi, se dici di Kuroo a qualcuno, considerati morto.-
Non c’era rabbia nella voce di Kenma. Quella non era propriamente una minaccia, non voleva essere intimidatorio. Era solo un avvertimento oggettivo: non poteva permettere che qualcuno scoprisse l’identità di Kuroo, tantomeno la CCG, ed era disposto a fare qualsiasi cosa per evitarlo.
Shouyou li guardò preoccupato, ma un attimo dopo sentì la mano di Kenma sulla schiena e fu costretto ad avanzare assieme a lui verso la galleria, nella direzione opposta rispetto a dove era deragliato il treno, senza capire davvero cosa stessero facendo.
Continuava a voltarsi indietro, verso Akaashi, l’espressione di chi ha ancora tanto da fare e da dire ma non riesce a trovare le parole. Zoppicava un po’, ma Kenma l’aveva notato e lo stava aiutando tenendogli un braccio attorno al busto.
-Vieni Shouyou, dobbiamo andarcene, tra poco qui sarà pieno di persone. È più sicuro camminare fino alla prossima stazione piuttosto che uscire qui fuori.-
Akaashi si irrigidì e cercò di alzarsi in piedi nonostante ogni parte del suo corpo facesse di tutto per non collaborare.
Shouyou vide Akaashi ricadere a terra e rivolse a Kenma uno sguardo supplicante.
Il ghoul rimase per qualche attimo interdetto davanti a quegli occhi grandi, ambrati e lucidi.
-Per favore, aiuta anche lui.- gli chiese con un tono che non poté ignorare in alcun modo.
Kenma sospirò e si guardò indietro, incerto sul da farsi. Shouyou era in evidente stato di shock, Akaashi era solamente malconcio e la CCG l’avrebbe portato in salvo non appena sarebbe arrivata, non aveva bisogno del suo aiuto. D’altro canto, però, ora sapeva di Kuroo. Sembrò pensarci su, esitare, prendere coraggio. Poteva tenerlo lontano dalla CCG col pretesto di aiutarlo, evitare che parlasse di ciò che aveva visto. Cambiò idea più volte, ma alla fine invertì la direzione e tornò davanti al ragazzo che avevano lasciato indietro.
-Hai complici qui in giro? Assicurami che non è una trappola.- chiese duramente.
Akaashi alzò la testa, ansante, le mani sulle rotaie e i denti stretti. -No.- deglutì e si affrettò a spiegare. Doveva vivere, doveva scappare e sparire. -Mi stanno cercando.-
Kenma aggrottò per un attimo le sopracciglia, interrogativo.
-Non proverai ad uccidermi?- gli chiese, fermo davanti a lui.
Akaashi avrebbe voluto ridacchiare amaramente, ma il suo volto era come bloccato e riuscì solo a piegare leggermente le labbra verso l’alto.
-Vorrei farti la stessa domanda.-
Kenma roteò gli occhi, un po’ frustrato per quel sorriso minuscolo, ironico e stanco. Sanguinava copiosamente e un po’ lo compativa: era strano vedere quanto gli umani fossero effettivamente fragili.
-Kuro non sarebbe felice di sapere che ti ho fatto del male.- replicò semplicemente. -E non credo di volerlo, comunque. Quindi non mettermi in condizioni di doverlo fare, per favore.-
Akaashi fece una smorfia confusa e dubbiosa. Fino a poco prima, nessuno dei due sembrava tenere particolarmente alla sua vita.
Se la storia con Bokuto non fosse mai successa, Akaashi non si sarebbe mai fidato di un ghoul. Mai in vita sua. Eppure in quei mesi stava scoprendo una realtà nuova, una realtà in cui i ghoul dimostravano un lato sconosciuto a lui e al mondo.
Quel ghoul sembrava essere amico di Hinata, e la situazione gli sembrava irreale e innaturale, ma se Hinata si fidava così tanto di lui da stargli vicino e accodarsi a lui, allora forse avrebbe fatto bene a seguire il suo esempio, soprattutto in quel momento.
-Ti conosco?- chiese incerto, afferrando la mano che Kenma gli porgeva.
Non rispose alla sua domanda.
-Hai detto che ti cercano. Che significa?- ribatté piuttosto Kenma, mentre lo aiutava ad alzarsi.
Akaashi strizzò gli occhi per il dolore. -Ho fatto evadere Bokuto.- disse con voce flebile.
Kenma sbatté un paio di volte gli occhi sotto la maschera, sorpreso. -La CCG lo teneva in custodia?-
-Sì.- asserì l’altro, tenendosi il fianco con una mano e stringendo il braccio di Kenma con l’altra. -Tu… Lo conoscevi?-
-È complicato. Hai un posto dove andare?- domandò il ghoul, sinceramente interessato a quella storia e rendendosi conto della gravità della situazione.
Akaashi lo guardò un attimo, per poi tornare a guardare a terra e scuotere la testa.
Kenma fu colpito da quell’atteggiamento. Non aveva idea che il suo demone fosse uno studente della CCG, né che avesse tanto fegato. A quel punto, però, non stava né dalla parte degli umani, né dalla parte dei ghoul, e provò una forte pietà nei suoi confronti.
Raccolse la maschera di Kuroo, salì sulla banchina per recuperare la tracolla che Akaashi aveva lasciato cadere malamente sul cemento, e insieme raggiunsero Shouyou.
Procedettero lungo la galleria buia, avanzando a passo costante ma lento a causa delle ferite. Entrambi gli umani si aggrappavano a Kenma, che li guidava lungo la galleria. Non parlavano.
Kenma prestava una particolare attenzione a Shouyou, preoccupato per il suo respiro corto, le mani sudate e tremanti. Akaashi, invece, cercava chiaramente di non dare a vedere quanto dolore provasse ad ogni passo, ma il suo viso gonfio e le ferite non mentivano.
Kenma non sapeva come gestire quella situazione e l’unica scelta sensata in quel momento sembrò quella di fermarsi, anche solo un attimo, per far riprendere loro fiato e mettere in chiaro un paio di cose.
Non appena si arrestarono, il ragazzino coi capelli rossi si accovacciò a terra con un sospiro affaticato, fissando il vuoto.
-Shouyou.- chiamò Kenma, inginocchiandosi accanto a lui. -Una volta usciti da qui vuoi che ti riporti a casa? Se preferisci, puoi venire da me, è più vicino.-
Il ragazzino guardò quella maschera bianca per qualche secondo prima di abbassare lo sguardo sulle proprie mani, ferite dalle lamiere della metropolitana deragliata.
Sentiva ancora quell’odore nelle narici. La nausea gli chiudeva ancora la gola, perché i suoi vestiti erano sporchi, insanguinati, aveva Tobio addosso e temeva che, se avesse continuato a pensarlo, avrebbe davvero finito col vomitare.
-Perché non mi hai mai detto che eri un ghoul?- chiese con una forte nota di delusione nella voce.
Kenma rimase fermo qualche attimo, poi si tolse la maschera con un gesto lento e controllato.
Non aveva più alcun senso tenere segreta la propria identità ad Akaashi, visto che non c’era il rischio che informasse la CCG. Inoltre, una volta arrivati nella stazione successiva, avrebbe preferito di gran lunga evitare di far scoppiare il panico.
Shouyou alzò di nuovo gli occhi su di lui, come se avesse bisogno di vederlo ancora in faccia, di assicurarsi ancora una volta che fosse lui, che fosse vivo, che fosse lì, dopo tutti quei mesi in cui era sparito.
-Davvero non è ovvio?- chiese Kenma, vagamente a disagio, accorgendosi che il silenzio si stava protraendo per troppo tempo. 
Le labbra di Hinata tremarono e ricacciò indietro le lacrime.
-Sì.- ammise scuotendo la testa e sbuffando, disorientato, la voce spezzata. -Sì che è ovvio, era una domanda stupida... È che… Non lo so.-
Una domanda stupida, certo, ma non aveva potuto fare a meno di porla, spinto da qualcosa di più grande di lui.
Akaashi nel frattempo guardava di sottecchi, ma con curiosità, il volto di Kenma avvolto dalla penombra.
Aveva un profilo delicato e l’aria tranquilla, e Akaashi dovette ammettere che non se l’era affatto immaginato così, mentre era sul punto di sparargli in testa. Per un attimo, pensò addirittura che fosse una ragazza, forse distratto dai capelli biondi un po’ lunghi e il fisico esile. Gli sembrava di averlo già visto, ma non sapeva dire esattamente dove.
-I miei genitori sarebbero terrorizzati se mi vedessero così.- pensò Shouyou a voce alta, il ritmo che accelerava ad ogni parola. -E non so come arrivare a casa, a quest’ora, perché la linea della metro sicuramente è stata bloccata e casa mia è così lontana e…-
-Te l’ho detto, puoi venire da me. Fatti una doccia e riposati.- lo fermò Kenma, mentre la sua espressione si faceva addolorata nel notare l’agitazione del più piccolo. -Shouyou, respira…-
Sotto la sua pelle bruciava qualcosa, bruciava soprattutto il bisogno di saperlo al sicuro, ma anche di passare del tempo con quel ragazzino che finalmente aveva ritrovato, tempo che aveva dovuto buttare via e che non sarebbe mai più tornato indietro.
-Puoi mandar loro un messaggio e dire che stai bene, e che torni domani.-
Hinata annuì e si asciugò velocemente gli angoli degli occhi con le maniche del giubbotto.
Kenma si alzò in piedi e aiutò Akaashi a fare lo stesso.
-Akaashi.- iniziò, con un tono meno acceso, riponendo la maschera nella grande tasca interna del cappotto. -Anche tu vieni con me, per stasera. Fidati di me.-
-Non ho altre opzioni.-
Kenma assottigliò gli occhi e cercò di capire se considerare quel commento in maniera positiva o negativa, ma non riuscì a venirne a capo, distratto anche dall’idea di far entrare ben due umani in casa.
Era sempre stato restìo all’idea di stare con altre persone, e casa sua era uno spazio speciale ed estremamente privato: si rese conto che non era affatto da lui proporre una cosa del genere, anche se era una situazione di emergenza.
Il discorso non valeva tanto per Shouyou quanto per Akaashi, perché se per il primo aspettava quel momento da fin troppo tempo, per il secondo, invece, era l’esatto opposto. Non sapeva chi fosse davvero, non sapeva nulla di lui e l’unico legame che sentiva con lui era uno strano e sottile filo sbucato dal nulla. Era impossibile fingere che non esistesse.
Ne avrebbe parlato con Kuroo una volta tornato a casa e avrebbero deciso cosa fare. Sperava che stesse bene e che sarebbe tornato presto, senza portare con sé brutte notizie.
Doveva spiegare ad Akaashi quella situazione, doveva spiegargli la storia di Kuroo e Bokuto per fargli capire che tutta quella violenza non era stata altro che frutto della disperazione.
Nel pensarlo, spostò istintivamente gli occhi su di lui e notò quanto fosse silenzioso, e di certo tutto il sangue che aveva perso non aiutava.
Ora che gli era più vicino, Akaashi guardava Kenma con attenzione: cercava di distinguere meglio i suoi lineamenti, capire il colore dei suoi occhi, registrare i dettagli, per quanto possibile sotto le fioche luci della galleria, ma il risultato era solo uno sguardo intenso e concentrato e, forse, un po’ intimidatorio, tanto che Kenma sembrò irrigidirsi appena.
Poi, però, Akaashi chinò il capo con gratitudine e Kenma si sciolse.
Akaashi era più alto di lui di almeno una decina di centimetri, forse anche di più, ma sicuramente meno di Kuroo. Eppure, nonostante ciò, in quel momento gli sembrava la persona più bisognosa di protezione che avesse mai visto.
-Credo che avremo tutti e tre un bel po’ di cose da raccontarci.- commentò sovrappensiero Kenma, prima di rimettersi a camminare, sognando ad occhi aperti il tepore del proprio appartamento.

Nel freddo del dicembre di Tokyo, invece, Kuroo correva, correva più veloce che poteva.
I polmoni bruciavano, le gambe bruciavano, il suo respiro si condensava nell’aria gelida che gli sferzava il volto.
La città, i grattacieli, le luci artificiali. Tutto gli passava accanto e lui cercava una sola cosa, solo la porta arrugginita di quello scantinato che si era ripromesso di non vedere mai più.
Era lontano, lontanissimo, ma non importava, ci sarebbe arrivato, anche se il cuore gli stava esplodendo nel petto, anche a costo di strisciare sull’asfalto.
Non riusciva a crederci, non riusciva a pensare, nella sua testa passava tutto e nulla, si urlava di correre più veloce e si accavallavano immagini indistinte e lontane, riemergevano sensazioni che credeva di aver dimenticato, ma che erano tornate violentemente non appena aveva sentito quell’odore.
A un certo punto avevano iniziato ad assalirlo i dubbi, come se gli fossero letteralmente saltati addosso per rallentare la sua corsa, mentre svoltava nei vicoli sempre più bui, sempre più stretti: non sapeva se l’avrebbe davvero trovato lì, non ne era sicuro, non aveva alcuna certezza.
Non aveva certezze, ma aveva speranze, e non ne aveva mai avute così tante, talmente tante che gli riempivano il petto e gli rendevano difficile respirare.
Spalancò la porticina rugginosa -così piccola, ora- con un gesto secco e si precipitò giù per le scale, le lacrime agli occhi perché l’odore gli sembrava così forte da coprire quello acre e marcio di quell’ambiente abbandonato.
Arrivò all’ultimo gradino e si piegò in avanti, una mano appoggiata al muro e l’altra a stringersi la stoffa al petto, senza più ossigeno, la gola in fiamme.
Un ragazzo stava seduto su una delle coperte ammuffite che erano rimaste lì in tutti quegli anni. Era magro. I capelli un po’ lunghi, grigi. Aveva le gambe incrociate, le spalle abbassate, le mani abbandonate sulle caviglie.
Qualcosa dentro Kuroo si crepò, come un’enorme e pericolosa diga, e un verso strozzato uscì dalla sua gola.
Quel ragazzo alzò la testa e gli occhi grandi, spalancati, d’oro, arrossati per le lacrime, lo colpirono come un pugno nello stomaco. Esplose come una bomba.
Kuroo scoppiò a piangere, e tutto dentro di sé si spaccò definitivamente in mille pezzi, schegge che finirono ovunque, e gli facevano male, un male atroce.
Due passi veloci, poi si lasciò cadere in ginocchio, proprio davanti a lui, e gli prese il viso scavato tra le mani. Mosse le labbra ma non riuscì ad emettere neanche un suono oltre ai singhiozzi che gli scuotevano il corpo.
I suoi occhi non stavano fermi. Vagavano senza fermarsi un attimo sul volto del ragazzo davanti a sé.
Bokuto si perse dentro quelle iridi scure, quelle lacrime trasparenti che brillavano di dolore e felicità e nostalgia.
Non era reale.
Non poteva esserlo.
Aveva fatto fatica ad orientarsi, stare all’aria aperta dopo così tanto tempo gli faceva girare la testa, e trovare la strada per arrivare a quello scantinato era stato più difficile del previsto. Man mano che si avvicinava, aveva visto dettagli che gli dicevano che era sulla strada giusta.
Era arrivato con un sorriso ampio e luminoso, il cuore che batteva fortissimo, ma davanti alla porta quell’emozione si era subito tramutata in terrore, e il terrore in dolore, e il dolore in lacrime amare e arrabbiate e consapevoli di aver perso tutto.
Non era rimasto niente, non era rimasto nessuno. Solo il silenzio, le ossa, l’odore acre e umido.
Aveva chiuso gli occhi con rassegnazione, seduto nell’esatto punto in cui dormiva tanti anni prima.
Poi ecco, il rumore della porta, il profumo, la sua figura, i suoi occhi, le sue mani.
Doveva essere un’allucinazione. Era finto. Era una bugia che il suo cervello gli aveva proiettato davanti perché non c’era niente, assolutamente niente, che avrebbe potuto farlo stare peggio e meglio allo stesso tempo, in quel preciso momento.
-Koutarou.-
Il suo nome, pronunciato con fatica dalla bocca di Kuroo piegata in una smorfia. Quel suono lo fece trasalire, e la sua schiena iniziò a tremare, i denti stretti forte. Era la sua voce, e le sue orecchie la registrarono come se fosse ciò che di più prezioso potesse ottenere.
Si concentrò sulla sensazione dei suoi polpastrelli sulle guance, e su quell’odore che gli pizzicava il naso, e gli sembrò di essersi scordato come respirare e come muoversi.
Non era un’illusione, e la sua testa non gli stava mentendo. Era reale e davanti a lui, e non sapeva come fosse possibile.
Alle lacrime di Kuroo si aggiunsero le sue, e assieme ad esse piccole imprecazioni singhiozzate, perché era terribile, terribile, bellissimo, e avrebbe voluto gridare.
Alzò le braccia e lo avvolse con urgenza, la stoffa stretta convulsamente tra le dita. Si lasciò andare contro di lui, proprio mentre Kuroo faceva scivolare una mano alla sua nuca e se lo portava contro la spalla.
Bokuto tenne gli occhi spalancati per qualche secondo, la guancia che scivolava contro il petto di Kuroo, prima di strizzarli forte, perché non vedeva più nulla. Profumava di casa e quel pianto era così rumoroso e così liberatorio che si sentì come se stesse evaporando, come se tutto il calore che gli si era concentrato in faccia si stesse rilasciando nell’aria.
Kuroo gli accarezzava la schiena, il viso tra i suoi capelli grigi, le palpebre tremanti e serrate, il pianto che si tramutava in risata, e poi di nuovo in pianto, mentre le lacrime scivolavano tra le rughe di quel sorriso impossibile da reprimere.

Era ormai notte fonda quando Kenma aprì frettolosamente la porta del suo appartamento. Fece entrare i due umani e si affrettò a farli sedere sul divano.
-Abbiamo bisogno di disinfettante, garze, ghiaccio…- elencò Akaashi, affaticato, rigirando attentamente le mani di Shouyou tra le proprie per controllare lo stato delle sue ferite.
Kenma sembrò indispettito e lo guardò con un broncio offeso.
-E tu non dovresti sforzarti.- puntualizzò con un borbottio stizzito, salvo poi bloccarsi, perché si rese conto di non avere tutto il necessario in casa. Lui e Kuroo erano ghoul, non servivano a granché cerotti e cose del genere.
-Il ghiaccio è in freezer e…- si arrestò, guardandosi attorno, le mani ferme a mezz’aria. -… Guardo se c’è una farmacia aperta qui vicino. Altrimenti anche al conbini dovrebbe esserci qualcosa. Voi fatevi una doccia, se riuscite.- concluse, sparendo nella camera da letto e tornando con dei vestiti puliti tra le braccia.
Sentiva l’adrenalina scorrergli dentro, era agitato e all’erta, la mente affollata da troppi pensieri. Shouyou e Akaashi erano feriti, erano umani, erano in casa sua, e sapevano cos’erano lui e Kuroo.
Ah, Kuroo. Avrebbe voluto che fosse lì con lui, in quel momento, più di ogni altra cosa. Avrebbe voluto che gli dicesse di fermarsi un attimo e calmarsi, perché sicuramente gli sarebbe bastato guardarlo per capire il disagio e l’ansia che lo stavano assalendo, anche se esternamente non vi era che un viso immobile e serio.
Lasciò i vestiti ai due ragazzi e si portò due dita alle tempie mentre inspirava profondamente.
-Vado.- mormorò afferrando il portafoglio, per poi uscire di nuovo di casa, scivolando attraverso la porta come se non volesse essere visto da nessuno, odiando l’idea di dover rimettere piede fuori di casa.
Shouyou sobbalzò nel sentire la porta chiudersi. Aveva lo sguardo perso, notò Akaashi. I suoi vestiti erano sporchi di schizzi di sangue e di quelli che sembravano essere brandelli di qualcosa, forse carne, ma non voleva trarre conclusioni affrettate. Era pallido e silenzioso e, anche se non lo conosceva bene, era abbastanza sicuro che fosse successo qualcosa di estremamente spiacevole.
Combatté la stanchezza e la sensazione di pesantezza che gli procurava per appoggiare una mano tra i suoi capelli rossi e arruffati e attirare la sua attenzione, in un gesto dal sapore materno.
Shouyou si voltò a guardarlo con gli occhi vuoti e un’espressione che sembrava voler essere interrogativa, ma era chiaramente sovrastata dallo sfinimento.
-Che cosa ci facevi là sotto?- chiese piano Akaashi, con sincera preoccupazione.
Le labbra secche del più piccolo tremarono e dovette inumidirsele prima di riuscire a parlare.
-Stavamo tornando a casa. Tobio è...- annunciò con un sussurro, con voce malferma e una smorfia addolorata.
Akaashi lo guardò con la bocca leggermente aperta, impaziente.
-Kageyama? Cos'è successo, dov'è?-
-Due ghoul. L'hanno... Lui non c'è più.-
Shouyou avrebbe voluto continuare a parlare, ma fu interrotto da un singulto e dovette abbassare la testa, perché dirlo ad alta voce era ancora più terribile di pensarlo, e il cuore sembrava battergli proprio nel centro dello stomaco. Akaashi stette in silenzio, incredulo.
-Non ho potuto fare niente.- continuò Shouyou con un guaito. -L’hanno buttato sotto il treno. Senza motivo. L’ho visto. Era ovunque. Era…-
Si interruppe per deglutire e Akaashi notò la sua fronte sudata, il respiro affannato, le guance bagnate. Voleva dirgli di non parlare, ma non fece in tempo.
-È qui.- gemette il ragazzino toccandosi il giubbotto.
Calò un silenzio opprimente, e un attimo dopo Shouyou scattò in piedi e corse in bagno.
Akaashi lo seguì, nervoso, e si fermò sulla porta, chiudendo gli occhi quando gli giunse alle orecchie il conato di vomito.
Abbassò le spalle e sentì il petto riempirsi di tristezza davanti a quella scena.
Lo aiutò a calmarsi e a farlo respirare, ad andare in doccia e a cambiarsi, a farlo tornare sul divano.
Non aveva granché da dirgli, in realtà, e concretamente non poteva fare molto altro. Anche se avesse potuto, comunque, non ne aveva davvero la forza: gli sembrava che ci fosse qualcuno a martellargli il cervello e le braccia erano pesanti come macigni. Avrebbe voluto solamente stendersi e riposarsi, ma non era quello il momento.
Erano successe troppe cose, quel giorno. Alcune per colpa sua, altre perché vi si era ritrovato crudelmente in mezzo, e a queste ultime doveva ancora trovare un senso.
Kageyama Tobio era un ragazzino. Un ragazzino decisamente bravo, sicuramente sarebbe stato un ottimo investigatore in futuro, ma non aveva ancora compiuto sedici anni.
Quale poteva essere stato il movente del suo omicidio? I suoi genitori erano celebri cacciatori di ghoul, ma uccidere loro figlio -senza mangiarlo, poi- non era affatto un metodo che rientrava nella linea d’azione dei ghoul.
Non osava immaginare cosa sarebbe successo quando la notizia fosse giunta in Accademia.
Alzò il capo per guardare il cielo nero fuori dalla finestra, e alla tristezza si aggiunse una strana inquietudine.

Circa mezz’ora più tardi, Kenma riaprì la porta di casa. Per un attimo rimase colpito dal silenzio. Si tolse le scarpe e seguì l’unica luce accesa dell’appartamento, quella in salotto.
Akaashi si voltò verso di lui e si portò un indice alla bocca. Kenma si rese subito conto che non si era lavato né cambiato, ma che perlomeno aveva preso un colorito più roseo, meno pallido.
Spostò lo sguardo su Hinata e vide che si era addormentato, accovacciato sul divano con la testa su un cuscino e con uno dei suoi pigiami addosso, stremato per quelle ore intense e terribili.
Akaashi si alzò faticosamente in piedi e uscì dalla stanza assieme a Kenma.
-Li conoscevi?- chiese sottovoce Akaashi.
-Chi?-
-I due ghoul che hanno ucciso Kageyama.-
Kenma aggrottò le sopracciglia.
-… Chi?- ripeté, confuso.
Akaashi assottigliò lo sguardo e storse le labbra.
-Era amico di Hinata, era sulla metropolitana con lui. L’hanno ucciso davanti ai suoi occhi e hanno fatto deragliare la metro. Ha raccontato in modo abbastanza confuso, ma credo che basterà accendere la televisione domani per capirci qualcosa.-
Kenma rimase senza parole e, senza distogliere lo sguardo, appoggiò sul tavolo della cucina la borsa con quello che era riuscito a trovare.
Si trattava forse di Oikawa? Era lui che aveva organizzato tutto, quella sera, ed era lui che aveva tentato di uccidere Shouyou. Il solo pensiero bastava a fargli stringere di nuovo lo stomaco per la rabbia e la paura.
-Non credo di conoscerli, no.- mentì con voce atona, voltando la testa verso la borsa di plastica. -Quando tornerà Kuroo potremo parlarne.-
-Kuroo vive qui?- chiese stupito Akaashi. Stare sul divano morbido, in silenzio, e rilassare il corpo contro i cuscini lo aveva aiutato un po’ a riprendersi e a tornare lucido, anche se i capogiri continuavano ad essere frequenti.
-Sì.-
Akaashi era già rimasto a bocca aperta nel vedere che Kenma li aveva portati nello stabile in cui c’era quel Neko Café in cui ogni tanto si fermava, e a quel punto c’erano davvero troppe coincidenze. Troppi ghoul. Davvero troppi ghoul.
-Vivete insieme?- proseguì con voce più profonda e un tono più allusivo di quanto avrebbe voluto.
Il più basso serrò la bocca e lo guardò negli occhi per secondi lunghissimi.
-Vai a farti una doccia, Akaashi. Tutto questo odore di sangue è fastidioso.- sibilò senza alcuna espressione. -Nel modo sbagliato.-
Akaashi trasalì. Si alzò in piedi senza una parola di troppo e si diresse verso il bagno, chiudendo gentilmente la porta dietro di sé.
Kenma si lasciò finalmente cadere su una delle sedie attorno al tavolo.
Voleva capire cosa fosse successo e cosa avrebbe dovuto fare, ma quel puzzle aveva così tanti pezzi che metterli insieme sembrava un’impresa impossibile.
Forse, poco per volta, ogni tassello sarebbe tornato al suo posto senza troppo sforzo.

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Note e chiarimenti
Quanti anni sono passati? C'è ancora qualcuno che legge questa storia? C'è qualcuno che riprenderà a leggerla? Ho ritrovato diversi capitoli già scritti nel mio computer e mi sono ricordata di non aver mai continuato a pubblicarla... Mi piange il cuore, perché ho passato tantissimo tempo a scriverla e orchestrarla, per poi lasciarla marcire in un angolo. Mi sembra doveroso tornare a pubblicarla anche se non sono più nel fandom, sono cresciuta (invecchiata?) e il mio stile di scrittura è cambiato drasticamente. Spero di rendere qualcuno felice.

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Capitolo 14
*** Sois sage, ô ma Douleur, et tiens-toi plus tranquille ***


Sois sage, ô ma Douleur, et tiens-toi plus tranquille
 
Ad un tratto, Kenma sentì la serratura della porta di entrata scattare e la maniglia abbassarsi.
Balzò in piedi senza neanche pensarci. Non appena la porta si aprì del tutto, corse immediatamente ad avvolgere Kuroo tra le sue braccia, il cuore pieno di sollievo e impazienza: voleva essere sicuro che stesse bene, parlargli e, soprattutto, di far finire presto quella giornata.
Inspirò a fondo contro il suo petto. Era a casa, ora, e di certo tutto sarebbe stato più semplice.
-Kenma!- rise il ragazzo ricambiando l’abbraccio, un po’ sorpreso da quello slancio d’affetto inattesso ma decisamente apprezzato.
Kenma fu lieto di sentire quel suono allegro: non poteva significare nulla di male. Si allontanò lentamente e notò che c’era qualcuno, dietro di lui, sul pianerottolo buio.
Kuroo entrò in casa e guardò dietro di sé, poi tese un braccio verso Kenma, come se stesse mostrando qualcosa di incredibilmente prezioso.
-Bokuto, lui è Kenma!- annunciò con un sorriso orgoglioso.
Kenma arretrò di qualche passo e osservò stupefatto l’altro ragazzo varcare la soglia della casa e guardarsi attorno meravigliato, finché non posò lo sguardo su di lui.
Quello era… Bokuto?
Si sentì irrigidire, improvvisamente emozionato di avere davanti a sé una persona che aveva sempre e solo potuto immaginare, ma che in qualche modo aveva sempre avuto un posto nella sua vita, da quando aveva incontrato Kuroo. Era stato prigioniero della CCG per anni, averlo lì in quel momento era una buona idea?
Bokuto sembrava un po’ spaesato, ma c’era anche un’inspiegabile dolcezza sul suo volto. Era poco più basso di Kuroo, i capelli grigi e scombinati, il fisico asciutto. Forse troppo.
-Grazie.- mormorò Bokuto, avvicinandoglisi con le mani sollevate verso di lui e gli occhi spalancati.
Kenma indietreggiò di un altro mezzo passo quando gli fu troppo vicino, ma non poté sfuggire all’abbraccio che lo intrappolò subito dopo.
-Grazie, grazie, grazie.- continuò Bokuto con voce impastata, stringendolo forte.
Kenma guardò Kuroo, allarmato e confuso, sia perché non riusciva a dare un senso a quei ringraziamenti, sia perché quel contatto fisico era del tutto non richiesto ed estraneo -forse avendolo visto abbracciare Kuroo, aveva pensato che fosse lecito?
-Grazie di esserti preso cura di Kuroo in tutti questi anni.- si spiegò l’altro, involontariamente, nella sua cantilena.
Kenma spalancò ancora di più gli occhi e sentì l’aria mancare. Non sapeva se per la presa, inaspettatamente vigorosa vista la sua magrezza, o per cos’altro.
-C’è qualche problema se Bokuto rimane qui per questa notte?- chiese Kuroo, congiungendo le mani davanti al viso con aria supplicante. - Non potevo lasciarlo là… Ti prego.-
Kenma si sentì quasi offeso da quell’atteggiamento e si corrucciò. Credeva forse che non sapesse quanto fosse importante per lui, aver ritrovato Bokuto? Credeva che non capisse che volesse passare del tempo con lui?
Anche se l’appartamento si faceva affollato, non poteva dirgli di no. Aprì la bocca per avvisare della presenza degli altri due ospiti, ma proprio in quel momento la porta del bagno si aprì e sentì, diretta contro il suo timpano, la voce di Bokuto squillare come il trillo di una campana.
-Akaashi!-
Il ragazzo sentì chiamare il suo nome e inchiodò sulla porta, tanto improvvisamente che quasi scivolò indietro, sulle piastrelle.
I suoi occhi caddero su Bokuto e il suo viso si riempì di sincero stupore. Dischiuse le labbra e sollevò le sopracciglia, le guance bianchissime e un occhio nero e gonfio.
-Oh mio dio.- sussurrò, prima di trovarsi stritolato tra le sue braccia. La sua espressione si trasformò in uno strano sorriso incredulo quando fu sollevato da terra.
Kenma tornò a respirare e guardò la scena assieme ad un Kuroo decisamente disorientato, che lanciava occhiate a Kenma in cerca di una spiegazione. Una spiegazione convincente, a giudicare dalla sua faccia.
Kenma prese un lungo respiro stanco. Da dove avrebbe potuto cominciare?
Stava per aprire la bocca e parlare, ma fu anticipato da qualcun altro.
-Kuroo, è lui! È lui il ragazzo che mi ha liberato!- esclamò Bokuto, entusiasta, agitando le braccia, portandosi le mani tra i capelli. -Akaashi, perché sei qui? Come… Cosa? Eh? Non ci credo!-
La mascella di Kuroo cedette. Cercò a tentoni il muro e vi si appoggiò con una mano, portandosi l’altra alla tempia e contemplando il vuoto per qualche secondo. Doveva riorganizzare i pensieri.
Kuroo e Bokuto si erano raccontati -per quanto possibile, con addosso quell’ingombrante sensazione di doversi dire tutto, di doversi ritrovare, di smettere di piangere per articolare un discorso- come avevano passato quegli anni. Dov’erano stati, cosa avevano fatto, cosa era successo. Kuroo aveva sentito il sangue ribollire e lo stomaco bruciare nell’ascoltare cosa gli avevano fatto, dove l’avevano tenuto: avrebbe voluto tornare indietro nel tempo e irrompere in quell’edificio, distruggere tutto quanto.
Effettivamente, gli era sorto il debole dubbio che quel ragazzo, quell’angelo che Bokuto gli aveva descritto con tanta apprensione, potesse essere Akaashi, ma il discorso scorreva così velocemente che era passato oltre e avevano avuto altro a cui pensare. In quel momento, però, averne la conferma fu destabilizzante.
Akaashi. L’aveva visto così spesso, al Nekoma. Lo aveva servito, gli aveva parlato, e non sapeva che facesse parte della CCG, almeno non fino a quella notte. Non sapeva che avesse a che fare con Bokuto così assiduamente. Lo aveva avuto così vicino per così tanto tempo…
-Stai bene?- chiese Akaashi a Bokuto, guardandolo apprensivo, le mani sulle sue braccia, come a volerlo tener fermo per osservarlo meglio.
Il ghoul gli rispose annuendo veementemente, con un sorriso limpido che però si spense un poco non appena si fermò veramente a guardarlo in faccia e si accorse dei lividi sotto gli occhi di Akaashi, di tutte le ferite sul suo viso, della sua aria debole.
-Cosa ti è successo?- chiese preoccupato.
-Niente di grave.- liquidò velocemente la questione l’altro, cambiando immediatamente discorso con aria colpevole. -Bokuto, ascolta… Scusami se ti ho lasciato da solo. Non avrei dovuto. Cinque anni in una gabbia per poi venire sbattuto in mezzo a Tokyo di nuovo, io… Non lo so, credo che sia la cosa peggiore che potessi farti.-
Bokuto scosse lentamente la testa. Lo ascoltava con attenzione e fu difficile trovare una risposta coerente dopo che aveva iniziato a riabituarsi alla sua voce, a immergersi di nuovo nella sensazione di protezione che gli suscitava.
 -Non chiedermi scusa! È andato tutto bene, Kuroo non so come mi ha trovato e ora sono qui e sono… oh, così felice di vederti, Akaashi, credevo che non ti avrei rivisto mai più. Oggi mi sembra tutto così irreale.- rise, tutto tremante per l’emozione e la felicità.
-È grazie ad Akaashi che ti ho trovato.-
Kuroo rivolse ad Akaashi uno sguardo a dir poco abbacchiato, e Akaashi se ne accorse.
Bokuto guardò Kuroo senza capire, ma senza smettere di emanare quell’aura luminosa. -Eh?-
-Mi ha detto lui dov’eri.-
Bokuto continuava a non capire. -Come…? Dove?-
Kuroo si grattò la nuca e distolse lo sguardo, spostando il proprio peso da un piede all’altro.
-Ho sentito il tuo odore addosso a lui.- spiegò cercando di trovare le parole più delicate per dirlo. -Io non…-
Akaashi lo fissava preoccupato e contemporaneamente lapidario, gli occhi attenti e i brividi che gli correvano lungo la spina dorsale, fino alla base del collo. Le ferite pulsavano al ricordo del proprio corpo sulle rotaie, ma non gli sembrava una buona idea annunciarlo a Bokuto.
Bokuto socchiuse gli occhi in uno sforzo per pensare. Guardò Akaashi, poi di nuovo Kuroo, e ancora Akaashi, finché non capì.
-Oh.-
Akaashi, col fiato sospeso, lo scrutò per registrare le sue reazioni.
Bokuto sembrava triste, un po’ deluso, ma non propriamente arrabbiato.
-Kuroo, perch…- iniziò titubante, salvo poi essere subito interrotto
-Akaashi stava cercando di uccidermi.- intervenì Kenma, forse cercando una giustificazione per Kuroo. -Per quello Kuroo si è intromesso.-
Bokuto sussultò, l’espressione degna di un animale selvatico sorpreso in mezzo alla strada dai fari di una macchina.
-Non ci sono motivi validi per voler fare del male a quello scricciolo biondo.- iniziò Kuroo puntando un dito nella direzione di Kenma, che arrossì violentemente. -Tranne per il fatto che è un ghoul, e non voglio sminuire ciò che ha fatto Akaashi ma sono dell’idea che non sia una genialata fidarsi troppo di un umano, figuriamoci tenerlo in casa.- tagliò corto Kuroo, voltando la testa nella direzione indicata dal proprio dito per lanciare uno sguardo leggermente accusatorio a Kenma, la cui bocca tremò di indignazione.
Quasi non riuscì a finire la frase che fu subito incalzato da Akaashi.
-Pensala come vuoi.- asserì infatti quello, deciso, anche se non era del tutto vero. -Ma mi sono mosso solo perché stava facendo del male ad una persona che conosco.-
Kenma assunse un’espressione indignata, ma si ricompose quasi subito.
-Non…- iniziò a parlare, ma la voce assertiva di Kuroo lo sovrastò:
-Ah, quindi è vero che l’hai attaccato perché è un ghoul.-
Akaashi sgranò gli occhi. -E mi biasimeresti?-
Kuroo affilò lo sguardo, e altrettanto fece Akaashi.
-Non gli stavo facendo del male…- continuò Kenma con un mormorio e lo sguardo sfuggente, e Akaashi si sentì in dovere di rispondere per spiegare il proprio punto di vista:
-Hai ragione, scusa, pensavo che stesse facendo del male ad una persona che conosco. Sai, non ispira esattamente fiducia e tranquillità un ghoul seduto su un ragazzo terrorizzato. Ma in realtà sono amici, a quanto pare.-
L’espressione di Bokuto si faceva più confusa ad ogni parola, più contratta e desiderosa di sotterrare tutto quel discorso perché iniziava a non capirci più nulla, i rumori che iniziavano a farsi decisamente troppo insistenti.
-Eh? Aspetta, di chi stai parlando?- chiese Kuroo, allargando le braccia, rendendosi conto di essersi improvvisamente perso. Non aveva prestato attenzione a nessun’altro che non fosse Kenma o Akaashi.
-Eri lì anche tu e non l’hai visto? Eri davvero fuori di te.- sibilò Akaashi con voce sempre più sottile.
-Ma quale amico?- chiese ancora Kuroo, sotto lo sguardo arreso di Kenma.
-Io.-
Tutti e quattro i ragazzi si voltarono in direzione di quella voce e si ritrovarono a fissare il ragazzino dai capelli rossi e scompigliati, fermo contro lo stipite della porta che dava sul salotto.
Hinata aveva ancora gli occhi assonnati e arrossati. Era stato svegliato da tutto quel trambusto e non aveva potuto fare a meno di ascoltare il loro discorso.
Kuroo voltò il capo verso Kenma e abbassò lentamente le palpebre, cercando forse la pace interiore.
-Ci sono altre persone in questa casa di cui non mi hai avvisato, oltre al mio bel cliente che ti stava per sparare il testa e al tuo amico d’infanzia?- chiese sarcastico, con una flemma innaturale.
-Ti ricordi di Shouyou?- Kenma era sinceramente sorpreso e con un’imprevista nota di felicità, ma si limitò a congiungere le mani dietro la schiena ed evitare il suo sguardo. -Comunque, no. Siamo tutti qui.-
Incredibilmente, dopo fu Akaashi il primo a parlare.
-Kenma, hai preso il disinfettante? Questi tagli bruciano un po’. Shouyou, vieni anche tu, già che ti sei svegliato…-
-Sì.- risposero in coro Kenma e Shouyou, ma con toni completamente differenti, seguendolo in cucina sotto gli occhi assorti Bokuto e quelli di Kuroo, più turbati e interrogativi nel vedere Kenma seguire Akaashi in quel modo tranquillo.
-Conoscevi già Akaashi?- chiese Bokuto, incerto, avvicinandosi a lui mentre si toccava nervosamente le dita.
Era davvero strano poter fare domande dopo momenti di confusione. Era strano parlare in generale, esistere, essere in un luogo diverso da una gabbia in una stanza sterile.
Kuroo prese un respiro profondo e si lasciò sciogliere in un sorriso mentre spostava gli occhi su di lui.
-Sì, è una lunga storia.- rispose, facendo scivolare un braccio attorno alle sue spalle mentre lo portava in cucina, assieme agli altri. -Ma c’è tutto il tempo…-

-Shouyou, stai un po’ meglio ora?- chiese Kenma con fare pacato, prima di poggiare il batuffolo di cotone sul palmo della sua mano. Shouyou strizzò gli occhi e strinse i denti, reprimendo un lamento. Annuì e raddrizzò le spalle contro lo schienale della sedia sulla quale era seduto, sperando che non si notassero troppo gli occhi lucidi per il bruciore.
-Kuro.- chiamò poi il ghoul, interrompendo il chiacchierio tra i due ghoul dall’altro lato del tavolo. -Pensavo di andare parlare con Nekomata, domani. Bokuto non ha un posto dove stare, e neanche Akaashi. Forse può aiutarli.-
-Neanche Akaashi?-
Kenma alzò gli occhi su di lui, guardandolo come se stesse scherzando. Forse era solo troppo eccitato di aver ritrovato il suo amico per connettere il cervello. -Bokuto era l’unico ghoul vivo in possesso della CCG, sul quale facevano esperimenti da anni, e lui l’ha fatto evadere.-
-Cosa!?- esclamò Hinata, che si era del tutto perso quel dettaglio. -Lui è il Progetto 150410!?-
-Era.- lo corresse Akaashi.
-Sì, in effetti è piuttosto grave…- rifletté a voce alta Kuroo, impensierito, iniziando anche a pentirsi dell’atteggiamento che gli aveva riservato prima.
decisamente grave. Non sono sicuro che la pena si possa limitare a qualche anno di prigione. Pensa solo alla risonanza mediatica che avrà una notizia del genere.- borbottò Kenma, tutto concentrato col disinfettante, le sopracciglia aggrottate.
Kuroo soppesò le sue parole e sentì il cuore stringersi quando spostò lo sguardo su Akaashi, sui suoi occhi abbassati e un po’ spenti e la sua faccia cupa e contusa, e si ricordò di quanto fosse bello il suo volto quando gli serviva il caffè nei mesi precedenti, pensò che, benché fosse un umano, se in quel momento Bokuto era lì era grazie a lui.
-È una fortuna che non debba andare in ospedale a farsi ricucire la testa.- continuò Kenma a voce bassa, senza alcun tono accusatorio, ma solo per constatare la realtà dei fatti. Guardò la nuca di Akaashi, cercando di capire come fasciarla nel modo giusto.
-Scusami.- mormorò Kuroo a spalle basse. -È che… Ho perso Bokuto cinque anni fa e ho passato così tanto tempo a cercarlo che…-
-Sì, l’ho capito.- lo interruppe gentilmente Akaashi, chiudendo un occhio per lasciarsi tamponare da Kenma l’escoriazione sulla guancia. -Io temevo che Bokuto fosse in pericolo. Devo ammettere che mi sono spaventato quando ho visto che quel ghoul eri… tu.-
-Chiederemo a Nekomata di aiutarvi.- ribadì Kuroo con un cenno del capo.
-E perché il piccoletto è qua?- domandò poi, con tono più acuto, portando una mano a sorreggersi il capo e guardando attentamente Hinata.
-La metro è deragliata, la linea è interrotta e non può tornare a casa. Ha avvisato sua madre che dorme fuori da amici, lo riporteremo a casa domani.- tagliò corto Kenma.
Kuroo assottigliò gli occhi, di nuovo sospettoso, senza distogliere lo sguardo dal ragazzino. Non poteva farci nulla, era così: riporre fiducia negli umani era ai limiti dell’impossibile, e il suo pensiero rispecchiava senza dubbio quello della stragrande maggioranza dei ghoul.
-Non dirò nulla di voi! A nessuno!- esclamò Shouyou, capendo chiaramente i dubbi di Kuroo. -Non potrei mai, davvero. Sono… sono un po’ agitato e, sì, ho paura, ma… Kenma è mio amico e mi fido di lui e se lui è anche vostro amico allora credo di poter stare tranquillo, e forse non mi mangerete. Forse. Per favore. E grazie di avermi salvato da quell’altro ghoul!-
Kuroo stava scherzosamente per rispondergli quanto fosse ingenuo, ma l’ultima frase lo colpì.
-Aspetta, quale altro ghoul?- chiese d’istinto.
-Oikawa.- rispose Kenma, e lo smarrimento di Kuroo divenne stupore.
Kenma aveva affrontato Oikawa? C’erano decisamente troppi fatti che gli sfuggivano, riguardo a quella sera.
-Si può sapere cosa diavolo è successo stanotte?-
-Oikawa ha ucciso un amico di Shouyou, e stava attaccando anche lui quando sono intervenuto.- spiegò Kenma, e Shouyou si rabbuiò immediatamente.
-Allora lo conoscevi.- borbottò Akaashi, e Kenma spostò lo sguardo il più lontano possibile, sentendo un improvviso calore sul viso.
-Comunque sì, sono studenti dell’Accademia della CCG, quindi credo sia legato a quello.- continuò Akaashi, ritornando al discorso con Kuroo.
Shouyou strizzò le labbra, fissando un punto impreciso nello spazio.
Kuroo si allontanò dal tavolo e incrociò le braccia al petto. Aveva tante, troppe domande che gli passavano per la testa, ma vedeva come tutti, compreso lui, fossero troppo stanchi, troppo spossati per affrontare lunghi discorsi in quel momento.
-È tardi, credo sia meglio andare a dormire e riposare.- disse alzandosi in piedi. -Dovremo stringerci un po’, abbiamo solo due letti singoli e un divano.-
-Posso dormire con Kenma?- chiese Shouyou con voce flebile. L’idea di dormire da solo sul divano lo spaventava un po’, dopo tutto quello che era successo quel giorno.
Kenma lo guardò sbalordito, senza capire se ciò che provava fosse disagio o compiacimento.
-A me va bene…- rispose il diretto interessato con falsa indifferenza, ma Kuroo vide bene la felicità mista all’imbarazzo nei suoi occhi.
-Akaashi, preferisci dormire con Bokuto o da solo sul divano? Ti darei anche una terza opzione, ma dubito tu voglia dormire accanto a me.-
-È uguale. Non vuoi stare un po’ con lui?-
Kuroo inclinò appena la testa e gli rivolse un ghigno storto, facendo intuire ad Akaashi che non aveva sbagliato a formulare quel pensiero.
-Mi sembrava maleducato chiederti di andare sul divano, non è molto comodo.-
Akaashi scosse la testa.
-Non importa.- gli disse, intrecciando le dita delle mani. -Grazie di ospitarmi, piuttosto.-
-Se hai freddo ti do il permesso di venire a svegliarmi per chiedere un’altra coperta.- disse girando su se stesso e uscendo dalla stanza.
Akaashi tentò di reprimere un debole sorriso e sentì la garza sulla guancia tendersi.

Bokuto aveva pianto. Aveva pianto perché, affondando le mani nel materasso, non voleva credere che avrebbe dormito su qualcosa di così liscio. Aveva pianto perché le coperte lo tenevano al caldo, ed era tutto così morbido e soffice e accogliente che per un attimo aveva creduto di essere morto, di essere in paradiso. Era la prima volta che si sentiva in quel modo.
Kuroo pensava fossero lacrime di felicità, e forse all’iniziano lo erano davvero, ma dopo pochi minuti il pianto era cambiato: la felicità era diventata in qualche modo senso di colpa. Bokuto aveva detto che non se lo meritava, quel materasso; che gli stavano dando troppo, tutto insieme.
Kuroo era rimasto seduto accanto a lui, a consolarlo con un sorriso malinconico. Gli aveva accarezzato le ciocche grigie e aveva lasciato che Bokuto gli circondasse la vita con un braccio, che affondasse la faccia nel suo fianco con fare infantile finché i singhiozzi non si calmarono e lui non si addormentò, avvolto da un torpore dal quale non poteva sfuggire.
Gli occhi di Kuroo si erano abituati al buio ed era rimasto ad osservare il suo profilo rilassato, le dita tra i suoi capelli. Lo stava toccando, era lì accanto a lui, e il suo profumo gli riempiva i polmoni. L’aveva ritrovato.
Nel silenzio della casa, tra i respiri regolari e leggeri dei ragazzi addormentati, la sua testa esplodeva.
Aveva voltato il capo per essere sicuro che anche Kenma dormisse tranquillamente, ed aveva sorriso nel vedere quel cumulo di coperte che si alzava e si abbassava piano, il viso disteso rivolto verso di lui, quasi completamente nascosto dalle mani appoggiate contro il cuscino.
Kuroo si era poi lasciato scivolare verso il basso, più vicino a Bokuto. Si era chiesto se andasse bene, abbracciarlo e stringerlo. Non c’era mai stata nessuna particolare ricerca di contatto fisico, quando erano bambini, ma in quel momento sembrava una necessità impellente ed era strano ritrovarsi ad avere quel bisogno -e forse, ancor di più, era strano poterlo soddisfare.
Con un sospiro liberatorio, aveva appoggiato la guancia sulla sua testa. Le palpebre si erano fatte pesanti, e lasciarsi abbandonare al sonno non era mai stato così piacevole.

Quella mattina, nastri di luce entravano dalla finestra chiusa.
Bokuto li poteva quasi vedere oltre le palpebre chiuse e sensibili, e sentì le narici pizzicare. Arricciò il naso e strizzò piano gli occhi prima di aprirli: Kuroo era abbandonato contro di lui, scivolato abbastanza in basso da fargli il solletico con i suoi capelli.
Ascoltò i respiri, ascoltò la pace e tutti i suoi muscoli tornarono a rilassarsi dopo un iniziale momento di tensione. Ci aveva messo qualche attimo a capire dove fosse, cosa fosse successo e perché fosse lì.
Le luci non erano artificiali, e lui era così leggero, si sentiva così coccolato e investito da un’onda di sollievo.
Erano passati cinque anni. Era stato Akaashi a dirglielo: là dentro, Bokuto aveva perso la cognizione del tempo. Non credeva di essere cresciuto così tanto, e non riusciva a immaginare quanto fosse cambiato Kuroo.
Kuroo socchiuse le palpebre con un verso basso. Alzò il capo e vide Bokuto rivolgergli un sorriso luminoso e ricambiò con uno simile, solo molto più assonnato.
Si stiracchiò e si rigirò su se stesso per mettersi a fissare il soffitto con un sospiro e un avambraccio sulla fronte.
-Kuroo, è così comodo.- sussurrò Bokuto, ridacchiando entusiasta e avvolgendosi ancora di più tra le coperte, per quanto possibile. -Come si fa a trovare la forza di alzarsi?-
-Quello che avevo nella vecchia casa era ancora più morbido.-
-Non ci credo!-
Kuroo sorrise ancora, sghembo, e si girò su un fianco per guardarlo. Rimase in silenzio qualche attimo, scrutandolo.
-Quand’è stata l’ultima volta che ti hanno dato da mangiare?-
Bokuto non si aspettava quella domanda, non così improvvisamente. Ci pensò su e fissò il vuoto per concentrarsi.
-Non molto, credo... Credo il giorno prima che Akaashi mi liberasse, sì, l’altroieri quindi?-
-Oh.- Kuroo lo scrutò attentamente, assottigliando lo sguardo. In effetti, aveva senso. Probabilmente Akaashi era stato abbastanza intelligente da organizzare la fuga in un momento in cui Bokuto non fosse eccessivamente affamato, onde evitare spiacevoli conclusioni. -Quanto ti lasciavano senza mangiare?-
La risata amara di Bokuto gli suscitò una brutta sensazione al centro del petto.
-Non lo so, ma davvero… tanto. Sembrava un tempo infinito.- mormorò con voce calante e il sorriso che si spegneva. Ripensò a quante volte aveva sentito lo stomaco contrarsi tanto forte da sembrare che si stesse autodigerendo, a quante volte aveva affondato i denti nelle proprie braccia, accecato dalla fame. Quante volte la scossa lo aveva attraversato per fermarlo, e quanto avesse odiato quel dolore, quanto fosse tremendo, quanto lo avesse spaventato ogni volta; ripensò all’acqua ghiacciata che gli veniva buttata addosso per lavarlo.
-Ti sembra di impazzire.- continuò sovrappensiero, la voce flebile.
Kuroo sentiva la rabbia scorrergli addosso. Aveva sentito tante storie su quella fame autodistruttiva, quel limite estremo, e sembravano in tutto e per tutto racconti dell’orrore. Da quando era arrivato nella famiglia Kozume, si era completamente dimenticato di quel tipo di problemi, perché di cibo ce n’era sempre. Nei mesi dopo l’incendio lui e Kenma erano arrivati ad essere parecchio affamati, certo, ma avevano avuto la possibilità di placarla. Bokuto no. Bokuto non aveva potuto.
Già allora, a Kuroo era sembrato insopportabile. Non riusciva ad immaginare qualcosa di peggiore, non riusciva a immaginare come sarebbe potuto essere, stare in una gabbia, confinati, impossibilitati ad uscire e mangiare.
Si alzò in piedi.
-Andiamo a caccia.- asserì scostando le coperte senza delicatezza ma con un grande sorriso. -Non succederà mai più, puoi mangiare quando vuoi. Andiamo a caccia ora!-
Bokuto spalancò gli occhi e lo guardò sorpreso.
-Come facevamo da piccoli.- aggiunse mentre prendeva la testa di Bokuto tra le mani e appoggiava la fronte sulla sua, resistendo all’impulso di stampare un grosso bacio sulla sua guancia. -Voglio vederti mangiare finché non ti senti scoppiare.-
Gli occhi di Bokuto si riempirono di luce e di una felicità spontanea: scoppiò a ridere, e Kuroo dovette tappargli la bocca per evitare che facesse troppo rumore.
Meno mezz’ora dopo, quando chiusero la porta di casa dietro di loro, Kenma poté finalmente aprire gli occhi.
Era già sveglio da un po’. Non aveva potuto fare a meno di origliare il loro discorso, ma di intromettersi non ne aveva avuto proprio il coraggio: sembrava così intimo, così sincero. Così affettuoso.
La sua schiena appoggiava a quella di Shouyou, ancora addormentato, e fece attenzione a non disturbarlo mentre tirava indietro le lenzuola, piano.
Non aveva mai sentito Kuroo parlare così a qualcuno. Non lo intendeva né in senso positivo né in negativo. Semplicemente, era un modo. Un modo speciale, un modo inedito, di un’altra declinazione anche rispetto a quella che usava con lui.
Guardò le lenzuola buttate alla rinfusa sul letto di Kuroo e sentì una debolissima ma fastidiosa sensazione di soffocamento comprimergli i polmoni. Non gli sembrava per niente un bello scenario, quello che si prospettava davanti a loro.
Doveva andare a parlare con Nekomata il prima possibile. Prese un respiro profondo e, con gli occhi ancora socchiusi per il sonno, fece per alzarsi dal materasso, ma si sentì trattenere.
Rimase seduto e guardò dietro di sé: Shouyou, col viso affondato nel cuscino, gli stringeva l’orlo della maglia con la mano chiusa a pugno.
-Non mi mangerete, vero?-
Erano parole ruvide e chiaramente ancora troppo in balia del sonno per essere razionali. Furono così inaspettate e improvvise che Kenma dovette fare mente locale e sforzarsi di far passare in fretta quel rinnovato dolore al petto, perché era come se una freccia gli avesse appena trafitto il cuore. La sua espressione si fece addolorata e si girò fino ad inginocchiarsi davanti a lui.
-Shouyou…- lo chiamò a voce bassa, posandogli incerto una mano sulla spalla per cercare di farlo spostare per guardarlo in faccia. -Come puoi pensarlo?-
Il suo occhio color ambra sbucò dalla stoffa. -È che… Siete ghoul.-
-Sì, ma io…- Kenma lo guardò incredulo. Si chiese da quanto tempo fosse sveglio, forse immobile per la paura.
Deglutì e guardò verso la finestra, la bocca aperta, sconcertato. -Ma io sono tuo amico.-
-Questo ti fermerebbe dal mangiarmi?-
Kenma strabuzzò gli occhi per un breve attimo. Non era sicuro di riuscire ad affrontare una discussione del genere. -Shouyou, hai dormito assieme a me una notte intera e non ti è successo nulla.-
Aveva quasi perso le parole.
-È come… Non lo so, ci sono animali che voi umani non vi sognereste mai di mangiare, e lo stesso vale per me.-
Shouyou si sollevò sugli avambracci e lo guardò turbato.
-Mi consideri come un animale da mangiare o non mangiare?-
-No, non è così che funziona!- si affrettò a rettificare Kenma, portando le mani avanti e cercando le parole giuste per spiegarsi, ma non le trovò in tempo.
-Perché non mi hai chiamato, non mi hai detto che eri vivo?-
-Non potevo spiegarti tutto…-
-I ghoul morti in quell’incendio erano i tuoi genitori, vero?-
Kenma sentì la fitta al petto acuirsi e annuì, la bocca stretta con forza. Lo sguardo di Shouyou si era intristito e calò il silenzio per qualche secondo.
-Credo che abbandonerò la CCG.-
Kenma quasi sussultò.
-Perché?-
I due ragazzi si guardarono dritti in faccia.
-Ho paura, ma non riesco neanche a pensare di uccidere persone come te.- mormorò il più piccolo con voce impastata, abbacchiato.
Kenma emise un sospiro tremante e si guardò attorno mentre si mordeva le labbra. Chiamò ancora il suo nome con tono paziente mentre si chinava ad abbracciarlo, come poteva, da quella posizione.
-Sei troppo buono per questo mondo, Shouyou.-

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Note e chiarimenti
Eccomi! Aggiornamento! Non ho molto da dire se non grazie di leggere ancora questa storia. Spero non ci siano troppi errori, in caso chiedo scusa!

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