Filo spinato attorno al cuore

di varietyofdreams
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Respirando a malapena ***
Capitolo 2: *** Colpevole ***
Capitolo 3: *** Dio è buono e giusto ***
Capitolo 4: *** Hai tempo per le persone che ami? ***
Capitolo 5: *** Dolore ***
Capitolo 6: *** Quasi la fine ***
Capitolo 7: *** Il rumore di un bacio ***
Capitolo 8: *** Correre controtempo ***
Capitolo 9: *** Soffrire il freddo ***
Capitolo 10: *** Ricordi ***



Capitolo 1
*** Respirando a malapena ***


Marzo 1942

La lingua si appiccica al palato.
Il sudore freddo scende lungo la schiena e mi provoca prurito, ma non posso grattarmi: ogni movimento potrebbe rivelare la mia presenza ai tedeschi.
Sono sotto le assi del pavimento di legno della mia camera.
Respiro a malapena. Se sentissero il minimo scricchiolio, comincerebbero a crivellare il pavimento con i loro fucili e allora sarei spacciato. Maledetti tedeschi.
 
Non sono un ebreo, tantomeno uno zingaro. Sono polacco.
La mia colpa è l’essere omosessuale.
 
Il mio compagno è tedesco.
 
E quando hanno scoperto che era omosessuale, i suoi connazionali gli hanno puntato una pistola alla testa. L’unico modo per aver salva la vita era confessare dove abitavo.
Hans (così si chiama il mio compagno) mi aveva già preparato a un’eventualità del genere. E’ così che ho preparato questo nascondiglio. Ha detto tutto: città, via, numero civico.
Così, adesso, eccomi qui. Sotto un pavimento, a cercare di sopravvivere.
Attaccato alla vita solo con il sottile pensiero che fra pochi secondi sarà tutto finito. Io cambierò città, cambierò identità. Nessuno conoscerà mai più Dawid Dzeiwski.
Questo pensiero mi riporta alla realtà. Se anche riuscissi a sopravvivere, è lampante come morirei comunque al pensiero che non potrò mai più vedere Hans. Sarebbe una morte lenta. Quel genere di dolore ha delle dita fatte di carta vetrata: accarezzandoti, ti consuma a poco a poco, aprendo vecchie cicatrici, creando nuovi graffi e ferite, scavando dove già la pelle è debole e lacerata.
Trasportato dai miei pensieri, momentaneamente dimentico della mia situazione. Cerco una posizione più comoda e sospiro.
 
E poi realizzo cosa ho fatto.
 
Il rumore degli spari mi gela il sangue nelle vene.
Subito dopo un fuoco fa sciogliere quel ghiaccio e lo sostituisce con il dolore fisico.
L’origine di quel falò che mi brucia le carni è il mio avambraccio sinistro. Riluttante, con le lacrime agli occhi, guardo la ferita. La carne viva sfrigola intorno al buco da cui si intravede il proiettile. Mi viene la nausea e vengo distratto da quel pensiero solo dallo smuoversi delle assi sopra la mia testa. E’ la mia fine, la sento avvicinarsi, posso respirarla. Brucia a contatto con la mia pelle, brucia come le lacrime che stanno scendendo sulle mie guance. Non ce l’ho fatta, nonostante gli avessi promesso che ci saremmo rivisti.

«Scusami, Hans.»

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Capitolo 2
*** Colpevole ***


Mi rigiro nel letto, tirandomi le coperte fin sopra i capelli. Provo a fare una smorfia per fermare le lacrime in arrivo ma non ci riesco. La pelle del viso tira come se fossi appena uscito da un bagno in mare lungo ore.
Non so quanto tempo sia passato da quando mi hanno fatto rivelare l’indirizzo di Dawid. So solo che da allora mi sembra che il cuore si sia fermato. Ogni tanto mi accorgo che non sto respirando e allora mi convinco di dover fare un sospiro profondo. Devo sopravvivere, per rivederlo, prima o poi.
Sempre che non sia già morto.
Dio, Dio, no. Non può essere morto. Come potrei vivere senza di lui? E’ del tutto assurdo.
Mi rigiro di nuovo. Non ce la faccio. Mi fa male lo stomaco, non riesco a prendere sonno. Nelle storie d’amore che si leggono nei libri non succede così. Uno dei due amanti si sacrifica per l’altro, per salvargli la vita. Io non ho avuto questo coraggio. Perché?
Sono anni ormai che sto insieme a lui. E sono diversi mesi che so che prima o poi, sarebbe finita così. Ma nel mio ideale, lui sopravvive perché io riesco a salvare entrambi. E invece eccomi qui, a cercare di cambiare un destino ormai segnato.
Mi mordo un labbro, cercando di non scoppiare in singhiozzi. Ogni sforzo è vano: come un bambino, mi rannicchio sotto le coperte e piango a calde lacrime, singhiozzando forte.
Se ci fosse Dawid mi abbraccerebbe, dicendomi che finirà tutto, che fra noi è un ‘per sempre’. Non ci saranno più tedeschi cattivi. E io appoggerei la testa nell’incavo del suo collo, accarezzando i suoi capelli lunghi e scuri, e lascerei il tempo mi faccia passare lo sconforto. Ci stenderemmo sul divano, abbracciati e ci addormenteremmo sicuri della presenza dell’altro.
Ma Dawid non è qui.
E io sono solo, stringendo al petto il cuscino ancora impregnato dell’odore del suo dopobarba.
Mi metto supino, allargo le braccia e lascio il cuscino di Dawid sul mio petto. Non c’è niente da dire, il countdown è terminato e il missile a cui è legato il filo che intreccia il destino di Dawid al mio è partito, lontano. Sta srotolando tutta la treccia. Ma si fermerà prima o poi, al nodo iniziale.
 
«Scusami, Dawid... per tutto.»

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Capitolo 3
*** Dio è buono e giusto ***


Il dolore al braccio è lancinante, ma questa gente sembra non capirlo. Mi hanno spinto su un vagone di un treno.
All’inizio la gente urlava, si dimenava, batteva contro gli sportelli. “Fateci uscire!”, “Siamo in troppi!” e “Moriremo soffocati!” erano le tre cose che si sentivano di più. Sovrastavano le preghiere, i pianti dei bambini e delle donne e perfino gli insulti.
Dopo poco hanno capito che non dovevano continuare a fare così, avrebbero solo peggiorato le cose. Alla partenza del treno, si sono augurati che il viaggio durasse poco e si sono messi al loro posto, rassegnati. O forse si stavano solo riposando per riprendere il loro attacco più tardi. Ho paura che ci sparino, se continuando ad urlare come facevano prima.
Intorno a me solo facce spaurite, confuse: forse sono l’unico a sapere cosa sta per accaderci. Al contrario di quanto queste persone pensano, non stiamo affatto cambiando residenza; o meglio, la stiamo cambiando ma non in meglio.
Saremo almeno cinquanta in questo vagone che a malapena conterrebbe due puledri. Non so quanto tempo sia passato da quando ci hanno stipato qua dentro, ma so che l’odore di orina e sudore ha raggiunto livelli insopportabili. La gente ha fame, alcuni malati hanno bisogno di essere curati.
 
Non so bene cosa ci sia all’arrivo ad aspettarci, so solo quello che mi ha detto Hans. E non è affatto bello.
 
Ci tratteranno come cani, lavoreremo in condizioni peggiori delle bestie da soma, con il freddo, con il caldo, con le membra stanche o con le vesciche ai piedi e alle mani. E, prima che siano passati tre mesi, se qualcuno non verrà a liberarci, moriremo. In modi orribili, che Hans non ha voluto sapere.
Non voglio fare quella fine. Inoltre, non sapere che genere di posto mi aspetta una volta sceso da qui – se uscirò da qui – mi terrorizza.
                                                                                                      
Non ci si può nemmeno addormentare, da come siamo appiccicati gli uni agli altri. Solo ai bambini è concesso dormire, ma a turni, perché non se ne può stendere più di uno alla volta.
La gente piange, prega e si lamenta. Non so più cosa fare, mi scoppia la testa.
Un vecchio accanto a me mormora una litania incomprensibile. Mi metto a guardarlo. Alla sua età, ha ancora il coraggio di chinare il capo e sommettersi ad un’autorità come Dio, anche in una situazione come quella.
Sembra impossibile. Io non credo in Dio né nella vita dopo la morte. Però, adesso, vorrei poterci credere, solo per raccomandare l’anima a qualcuno. E raccomandargli anche l’anima di Hans.
Perso nei miei pensieri, non mi accorgo che il vecchio sta ricambiando il mio sguardo. Scuoto la testa e chiedo scusa.
 
«E di cosa, figliolo?»
 
Già, di cosa? Di uno sguardo troppo insistente?
 
«Cosa stavate facendo?»
 
«Pregavo. Tu credi in Dio, ragazzo?»
 
Scuoto la testa per quanto mi è possibile. «No. Mi rifiuto di credere in un Dio che non mi accetta, perché per lui sono come un prodotto difettato di una produzione in serie.»
 
Il vecchio parve contrariato. «Perché pensi che Lui ti reputi così?»
 
«Sono omosessuale.» Arrossisco violentemente, per la mia indole di passivo. «Dio non accetta gli omosessuali come suoi figli, no?»
 
«Questo lo pensi tu. TUTTI, siamo figli di Dio. Poi ci sono quelli che si smarriscono sulla strada. Ma Dio continua ad amarli e non li disprezza o li rifiuta se loro non tornano da lui. Come può non approvare le scelte di uno dei suoi figlioli?»
 
Rimango in silenzio a riflettere per qualche minuto.
 
«Quindi lei crede che mi perdonerebbe per averlo rinnegato, se io mi presentassi da Lui e gli chiedessi scusa con una confessione?»
 
«Certamente.»
 
Mi viene un nodo alla gola. Butto la testa all’indietro e mormoro: «Ormai è troppo tardi. Siamo qui e stiamo andando a morire. Nessun parroco potrà mai pulirmi dai miei peccati, d’ora in avanti.»
 
«Figliolo,» dice il vecchio «forse hai ragione. Ma ci sono tanti modi per riscattarsi. Aiutare il prossimo, per esempio. Anche pregare, può aiutare.»
 
«Non mi ricordo nemmeno come si fa il segno della croce…» le lacrime lottano per fuoriuscire dai miei occhi, ma impongo loro di rimanere al loro posto.
 
«Ti insegno io, figliolo. Nel nome del Padre…»
 
Porta una mano alla fronte e lo imito.
 
«Del Figlio…»
 
Fa scendere la mano verso il petto.
 
«E dello Spirito Santo.»
 
Porta la mano dal petto alla spalla sinistra e poi alla destra. Quindi congiunge le mani e mormora: «Amen.»
Il vecchio muove le labbra, ma non esce alcun suono. Poi chiude gli occhi. Sembra molto intento in una sua preghiera personale.
Riapre gli occhi e mi guarda per qualche secondo. Su quegli occhi azzurri e stanchi è passato un velo bianco sopra. Mi guarda senza vedermi. Una lacrima scende sulla sua guancia destra, cristallina come la rugiada.
L’uomo riversa la testa all’indietro e lì, davanti ai miei occhi, esala il suo ultimo respiro.
 
Adesso ho paura. Ho paura di nuovo di restare solo.
Dio non mi può aiutare. Ha appena permesso a uno dei suoi amati figli di morire mentre questi invocava il Suo nome. Come può allora aiutare me, figlio smarrito?

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Capitolo 4
*** Hai tempo per le persone che ami? ***


Qualcuno bussa alla porta e mi sveglia.
«HANS! Ti sei addormentato di nuovo sulla scrivania? Per Dio, vieni a rispondermi! E’ urgente!»
La voce di mia sorella.
Scendo dal letto, inciampo nel cuscino che ho buttato giù durante la notte e, riabbottonandomi la camicia, vado ad aprire. Mi riavvio i capelli mentre apro la porta.
La chioma bionda e morbida di Angela mi dà il buongiorno. I suoi occhi verdi mi sorridono e così pure le sue labbra, tinte di un rosso acceso.
«A-Angela…» la voce mi esce roca. Me la schiarisco. «Angela, sorella mia adorata. Entra pure.» Le faccio cenno di entrare. Lei entra ma continua a fissarmi, anche mentre chiudo la porta. La sua espressione felice si tramuta in una smorfia preoccupata.
«Hans. Ancora-»
«Stanotte ho dormito di più» la interrompo. «Cinque ore. A poco a poco sto recuperando. Tè?»
Lei annuisce e si siede al tavolino del soggiorno. «Sono venuta a parlarti di Dawid.»
Mi fermo di colpo. Rimango in silenzio e le faccio cenno di continuare mentre riprendo le mie attività. Ancora non posso sopportare il dolore del ricordo legato a lui.
Eravamo due fiori di campo, sbocciati da poco, con un brillante futuro davanti a noi. Potevamo anche imporci per i nostri diritti, nessuno ci avrebbe fermato. E poi sono arrivati i tedeschi. La grandine sui nostri teneri steli, ancora morbidi, freschi. I nostri gambi si intrecciavano alla luce della luna e cantavano delle canzoni d’amore di giorno. Eravamo felici…
«Il convoglio è arrivato ieri mattina. Il mio informatore ci ha messo un po’ a tornare indietro. Hans era vivo quando il messaggero è partito. Era in coda alla visita medica quando l’ha visto l’ultima volta. Ha una brutta ferita d’arma da fuoco sul braccio sinistro, è infetta, ma comunque dovrebbero farlo medicare e mandarlo a lavorare già da oggi pomeriggio.»
Chiudo gli occhi e appoggio la zuccheriera sul tavolo. Lacrime cominciano a scorrermi copiose sulle guance, sul naso e sulle labbra. Entrano nelle narici e nella bocca, salate.
«E’… vivo. E’ vivo. Dawid è… vivo.»
E’ vero, forse non è una buona cosa, sapendo ciò che lo aspetta. Però, non riesco a non essere contento sapendo che è ancora in vita.
«Puoi salvarlo, se vuoi. Adesso entrambi abbiamo degli agganci con le SS, una bugia ed è fatta. Se glielo dici te, non andranno a ricontrollare… credo. Oppure basta dire qualcosa che non faccia destare sospetti…»
«Sh, basta, basta. Non ne voglio sapere. Non solo farei morire lui, ma anche noi due. Una vita in pericolo basta e avanza. Guarda te se mia sorella se ne deve uscire con queste idee---»
«HANS! Non credere che le mie idee siano del tutto assurde. Se vuoi salvarlo, devi sbrigarti. Se la ferità è troppo grave, lo faranno fuori in due, tre giorni…»
«Anche se fosse, come ci arrivo con mezzi miei nei pressi di Cracovia in pochi giorni? Ci sono posti di blocco ovunque…»
Angela abbassa gli occhi sulla sua tazza di tè. «E io che credevo che tu lo amassi veramente.» Si alza dalla sedia e va verso la porta. «Sono stata una sciocca a disturbarti a quest’ora. Ci vediamo, Hans.»
La seguo, sbigottito, fino alla porta. «Angela, dove pensi di andare?! E certo che amo Dawid! Lo sai che non avrei esitato a mettermi su quel treno al posto suo!»
«E perché non l’hai fatto, allora?»
«CI AVREBBERO UCCISI ENTRAMBI!»
«Be’, avresti potuto vederlo fino all’ultimo! Questo è l’amore, Hans! E’ questo che Dawid provava per te! Come hai fatto a non accorgertene? Sei cieco, fratello mio, completamente cieco. Dio mio, si vedeva da come ti guardava quando eravate in pubblico. Eri tutto ciò di cui aveva bisogno per non morire. Adesso che non ci sei più, si lascerà andare. No, Hans, tu non hai mai saputo cos’è l’amore; e lui non ha fatto in tempo a dimostrartelo.»
Una lacrima di rabbia comincia a brillare sulle sue ciglia, ma lei ci passa una mano sopra, sbavando il trucco. Provo ad avvicinare una mano al suo occhio per pulirlo. Ma lei la allontana con un gesto secco e fa un passo indietro. «La verità fa male, Hans…?»
La fisso per un po’, prima di rispondere. «Forse hai ragione, Angela. Ma ormai non c’è più modo per saperlo.»
«Se ci tieni veramente a lui, amalo fino in fondo: salvalo. Fregatene del tempo, consuma tutte le tue energie per trovarlo e portarlo al sicuro. E se ce la fai a riottenerlo, tienilo stretto a te fino a che la megera con la falce in mano non viene a mietervi l’anima. Ma se non lo ami, allora vivi la tua vita pigramente e senza significato.
Si trova sempre tempo per le persone che si amano, ricordatelo.» Detto questo, esce da casa mia chiudendo la porta dietro di sé. Mi passo una mano fra i capelli corti e biondi. Lascio che li miei occhi si chiudano lentamente.
Sicuramente, a quest’ora, l’avranno rasato. I suoi capelli lunghi... No, non posso permettere che muoia. Per di più, con un aspetto orribile. Se proprio deve morire, deve farlo con dignità, nel massimo della sua bellezza. E quindi, devo riportarlo a casa.
Apro gli occhi e vado verso il telefono.
Compongo un numero.
 
«Pronto, Piotr? Ho bisogno di un favore. … No, no, niente del genere, non stavolta. Ho bisogno che tu mi faccia passare per un deportato. … Fallo per me, Piotr. E’ di vitale importanza. E fai in modo che arrivino a destinazione anche i miei vestiti di SS. … Grazie mille, so che lo puoi fare. … Ciao.»

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Capitolo 5
*** Dolore ***


Quando sento il treno fermarsi, mi sveglio. Non so quanto ho dormito, ma la prima cosa di cui mi accorgo è che ho fame. Per la prima volta nella mia vita, sento male allo stomaco per la fame. E sono debole per la mancanza di cibo. Inoltre, ho le labbra secche e la vescica gonfia. Mi sono rifiutato di fare i miei bisogni qui dentro.
Dove arriveremo, ci sarà di sicuro un bagno.
Dopo parecchi minuti, si sentono le urla dei soldati tedeschi che ordinano a quelli sul treno di scendere. Vengono ad aprirci il vagone e ci scaraventano giù. Un soldato mi afferra per il braccio ferito e, istintivamente, mando un gemito un po’ troppo forte.
Lui mi continua a stringere e fissa la ferita. Voglio solo andarmene. Se mi lasci andare vado a curarmi, idiota.
Sembra impressionato. Si volta verso un suo compare, anche lui allibito dalla mia ferita. Parlano in tedesco per qualche istante, poi ridono.
So un po’ di tedesco perché mi ha insegnato qualcosa Hans, ma non riesco comunque a capirli. Ci sono altre priorità fisiche, adesso.
Mi lasciano andare in malo modo, provocando un’altra fitta. Prima di farmi salire su quel treno, mi hanno dato una stoffa per fasciarmi alla bell’e meglio, ma era una striscia troppo sottile e ha a malapena fermato il sangue.
Il proiettile è ancora dentro al mio braccio e sono sicuro che siamo stati sul quel treno abbastanza a lungo da permettere alla mia ferita di infettarsi. Non ho nemmeno il coraggio di guardarla.
Mi avvio con gli altri. Siamo dentro a un perimetro quadrato che sembra avere più di un chilometro per lato. Non so dove sono e cosa ci faranno fare qui.
Un tedesco arriva, accompagnato da un interprete polacco. Grazie al cielo, qualcuno che potrà spiegarci cosa succederà.
«Ben arrivati alla vostra nuova casa. Potrete rientrare nella vostra città una volta che saranno finiti i lavori di ristrutturazione dei ghetti a cui eravate confinati.»
Già, ghetti. Io non ci ero andato. In fondo, bastava fare finta di non essere omosessuale. E poi i ghetti erano per gli ebrei, anche se avevano creato qualche zona per gli omosessuali. Non m’interessava, vivere confinato in quel poco spazio. Non che vivere da polacco ‘libero’ fosse meglio. I tedeschi ci reputavano quasi al pari degli ebrei. Inferiori.
Hans mi ha spiegato che per loro l’unica razza degna di sopravvivere è la loro, quella che loro chiamano la razza ariana. Persone con capelli, occhi e carnagione chiara. Il resto, deve morire. Ed è per questo che ci portano in posti come questo. Per ucciderci, per eliminarci. Ma che follia.
Noto che non sono impaurito. Infatti, non riesco ad esserlo. Ci sono altre cose che sovrastano la paura, in questo momento. Riporto la mia attenzione al tedesco. «Adesso vi dividerete, maschi e femmine, e andrete a fare la doccia, a gruppi. Mettetevi in fila.» Il tedesco passa attraverso le due file che si formano, dividendo le madri che continuano a stringere i loro bambini, senza voler lasciarli.
Una donna, una giovane mamma ebrea, stringe al petto il figlioletto di appena un anno. I suoi occhi grandi e scuri esprimono la paura di abbandonare il figlio. Il tedesco lotta con lei, ma lei non lascia il bimbo. Urla, urla. Devo voltarmi per non vedere più quella scena penosa. Ma, nonostante questo sento distintamente lo sparo. Mi volto, d’istinto, ma sarebbe stato meglio se non l’avessi fatto. La madre giace al suolo, con un buco aperto in fronte, da cui fuoriesce a fiotti il sangue. Il bimbo piange, a terra. Il tedesco lo prende per un polso, in malo modo, e lo spinge verso la fila maschile. Un uomo lo prende con sé, fissando con sdegno e paura il tedesco.
Le altre donne lasciano il figlio subito, vista la scena, gemendo e piangendo.
Guardo verso il cielo e prego di morire per cause naturali e non fra le mani di quei mostri.
 
Alla cima della fila, c’è un dottore. Ci controlla e ci dice se andare alla sua destra o alla sua sinistra. Alla sinistra, si passa verso l’infermeria. Alla destra, si va direttamente alle docce.
Inoltre, ti fa delle domande.
Arriva il mio turno.
L’uomo mi squadra da capo a piedi. Un interprete polacco mi traduce le sue parole. «Hai una ferita al braccio. Come te la sei fatta?»
Regola numero uno, insegnatami da Hans: mai contraddire i tedeschi oppure parlar male di loro.
«Mi hanno colpito per farmi uscire dal mio nascondiglio.»
«Hanno fatto bene. Togliti la camicia. Come ti chiami?»
I suoni duri della lingua tedesca vengono addolciti dalla pronuncia polacca. E’ così strano. Sembra che stiano indorando la pillola con questo sistema. «Dawid Dzeiwski.»
La camicia mi si è attaccata alla ferita. Fisso il dottore. Lui fa un cenno a un tedesco al lato della fila. Questo mi strappa con un colpo deciso, camicia e pelle. Urlo, forte come non ho mai fatto prima. Il dolore mi prende nella sua morsa d’acciaio e mi indebolisce. Rilascio la vescica.
Il dottore fa una smorfia e mi fa cenno di avvicinarmi. Mentre studia la ferita con aria schifata, continua a farmi domande. «Polacco..? Come mai sei qui?»
«Sono omosessuale.»
«Bestia immonda. All’infermeria.» Mi fa cenno di andare verso la sinistra.
 
L’infermeria è un posto scuro, non sterile e, soprattutto, vuoto. Non capisco come mai, ma ci siamo solo noi che siamo arrivati adesso.
«Dzeiwski? Il signor Dzeiw-»
«Eccomi.»
Sto tremando. Non riesco a non lamentarmi per il freddo. Un vecchio uomo barbuto studia la mia ferita attentamente.
«Dobbiamo estrarre il proiettile.» Mormora, in polacco.
«D’accordo.»
Lui mi fissa con il suo sguardo penetrante e sconcertato. «Signore, qui bisogna fare cose lunghe in tempi rapidi. Non abbiamo anestesia. Come fa a dire ‘D’accordo’?»
Niente anestesia.
«Perfetto.» Mormoro sarcasticamente.
«Vuoi qualcosa da mettere in bocca per non…»
Aspetto che finisca la frase, senza guardarlo. Non credo che la finirà, ma non credo nemmeno che questa scelta sia dovuta dalla compassione. Piuttosto, da un’amnesia sul vocabolo da usare.
«Per non urlare, dice?» rispondo, tranquillamente. «No, non ce n’è bisogno. Però vorrei farle delle domande, se il dolore mi da tregua.»
Lui abbassa frettolosamente il capo in una specie di scusa, andando a prendere gli strumenti. Quando si riavvicina, con una pizza non sterilizzata in mano, rabbrividisco.
«Quel… coso, mi farà più male che bene, se me lo infila nel braccio.»
«So quel che faccio.» risponde acidamente lui, colpito nell’orgoglio. Alzo la testa per riavviarmi i capelli e mi preparo a soffrire. Sento il ferro freddo che si appoggia sul mio braccio gonfio e dolorante. Mentre la pinza scende nella ferita, irrigidisco tutti i muscoli tranne quello del braccio fuori uso. «P-Perché… fanno… ques-!» Mi mordo le labbra a sangue senza riuscire a finire la domanda. No, il dolore è veramente insopportabile.
«Ti faranno tagliare questa tua bella chioma.» risponde lui con tono sadico. Sembra che provi piacere nel fare quel che fa. La sua voce trema per l’eccitazione mentre fa scendere la pinza ancora più in profondità. Boccheggio, stringendo i denti.
«E poi ti faranno spalare la merda dei tuoi amici, se ti andrà bene. Altrimenti, ti ritroverai a costruire baracche per i prossimi tre mesi fino a quando…» Da’ uno scossone all’attrezzo e dal movimento che segue, capisco che è riuscito a prendere il proiettile.
Dio, fa che tiri via rapidamente, ti prego, ti prego, se ci sei…
Un movimento veloce e un’ultima fitta più forte delle altre, mi annuncia che ha estratto il proiettile. Rilascio andare il respiro piano, e rilasso in muscoli a poco a poco. Mi volto verso quello che dovrebbe essere un dottore. Sta fissando compiaciuto il proiettile fra le pinze. Tiene l’attrezzo sollevato in modo che la luce gli permetta di vedere la sua opera d’arte.
«Sembra… contento.» sussurro, rocamente e con la voce ancora più stridula di quanto non l’avessi già.
Lui non risponde subito. Alla fine della sua analisi, si volta verso di me e mi dice. «Credi che mi piaccia fare questo lavoro?»
Annuisco.
«Mi hanno obbligato a farlo. Vuoi un consiglio, amico? Vedi di farti piacere la tua mansione qui dentro, altrimenti ti mandano a farti una doccia. E quando ti dicono di andare a fare la doccia, è finita. Morirai.»
Rabbrividisco ma non dico niente né faccio alcun gesto. Aspetto che il vecchio mi fasci con un pezzo di lenzuolo e poi esco da quella baracca, sperando di non doverci tornare mai più.

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Capitolo 6
*** Quasi la fine ***


Mi caricano su uno di quei vagoni, con metodi rozzi. Se penso che questi sono miei connazionali, mi viene la nausea.
Non so stimare quanti siamo in questo spazio angusto, ma so che più ce ne entrano e meglio è per loro.
Spero che il viaggio non duri tanto.
Chiudono il portellone.
Il treno parte.
 
Sospiro e mi passo una mano sulla barba ispida. Nella confusione di questo vagone ho perso Piotr, ma non dev’essere tanto lontano. E’ voluto venire anche lui, nonostante abbia cercato in più modi di farlo ragionare. Non andiamo certo in un bel posto. Per qualche motivo un uomo sano di mente vorrebbe andare dove stiamo andando noi? Per di più in queste condizioni?
«Piotr!» chiamo.
Mi rispondono almeno in cinque. Dovevo pensarci: Piotr è un nome molto diffuso qui.
Fra tutte, una voce risuona poderosa come sempre. «Hans! Sei tu…?»
«Buon Dio, certo che sono io. Dove sei?» Mi guardo intorno, mentre la gente continua a chiacchierare dei fatti loro.
«Troppo lontano perché tu possa vedermi. Non riesco a passarti i vestiti, adesso.»
Impreco. L’unico modo è imporre la mia autorità a questa brava gente, in modo da convincerla a collaborare. In fondo, potrei salvare qualcuno di loro, se tutto va come deve andare.
Mi schiarisco la voce e, per attrarre la loro attenzione, parlo in tedesco. Il trucco sembra funzionare: la gente impallidisce e si volta verso di me. Sorrido cordialmente. «Scusate il metodo forse inappropriato di richiamare l’attenzione ma volevo solo chiedervi una piccola collaborazione. Io sono un tedesco. No, non vi spaventate, sono imbarcato qui perché sto andando a salvare una persona cara dal posto dove vi porteranno adesso.»
«Ci hanno detto che andiamo ad abitare altrove perché…»
«Mentono. Loro mentono continuamente, ancora non ve ne siete accorti? Comunque sia, non è molto bello il posto dove stiamo andando. Adesso, io potrei trovare il modo di portarvi tutti fuori di lì in meno di un giorno…»
Un suono strozzato. Piotr è allibito per le bugie che sto dicendo.
Sì, forse sono come loro. Mentire dev’essere una cosa che noi tedeschi sappiamo fare molto meglio di chiunque altro. Mi faccio ribrezzo da solo, pensando che tutte queste promesse che sto facendo adesso non cambieranno affatto il loro destino. Perché sono solo parole, misere parole che si perderanno nel vento della cattiva stagione non appena verrà aperto il portellone del vagone.
«Dicevo, posso portarvi fuori di lì in meno di un giorno, però devo rivestirmi da SS. E lo devo fare adesso. I vestiti, ce li ha addosso il mio amico Piotr, laggiù… alza la mano, Piotr, su… ecco, quell’ometto laggiù. Non tutti possono vederlo, chiaramente, ma i più vicini potrebbero dargli una mano a togliersi i vestiti da SS che ha sotto i vestiti civili. Così poi potreste passarli a me e potrei rivestirmi. Bene, grazie signori.»
 
Quando scendiamo da quel vagone, mi gira la testa per la mancanza d’aria. Mi vergogno di questo fatto però, lì sul treno, anche io ho fatto i miei bisogni. Senza, ovviamente, sporcare la divisa. Mi sono calato i pantaloni, perbene.
Ma non avevo previsto che ad accoglierci all’uscita dal vagone ci sarebbero stati altri agenti.
Impreco sottovoce. Quando mi vedono arrivare, mi riconoscono addirittura. Il mondo gira velocemente e mi viene la nausea, ma non perdo il sangue freddo.
«HANS?! COSA CI FACEVI SU QUEL VAGONE?!» mi chiedono allibiti quei mostri. Intanto, vedo Piotr passare con tutti gli altri deportati. E’ in buona salute, la farà franca. E poi, è troppo furbo per essere ucciso, quello. Riporto la mia attenzione sui miei connazionali.
«Stupidi, cretini, infami, mi ci avete chiuso voi lì dentro! Stavo spingendo la gente su e voi avete spinto quelli dietro di me, così io sono rimasto là sopra per tutto questo tempo!»
Ribadisco: noi tedeschi, sappiamo mentire veramente bene.
«CIELO! Scusaci, Hans… ti abbiamo lasciato con quella gentaglia… E MUOVITI TE!» tira uno spintone a un ragazzino dal viso sporco e l’aria indifesa e spaurita.
«Ormai è fatta, no? Piuttosto, procuratemi una divisa pulita… quella gentaglia me l’ha impregnata del loro odore.»
«Che schifo Hans.»
«Così è, per colpa vostra. Andiamo.»
 
Ancora non posso credere di averla fatta franca. Certo, quando non mi troveranno più in città sarò nei guai. Ma solo allora. Devo portare via Dawid di qui, in fretta…
Abbasso lo sguardo sulla minestra di patate. Non che abbia molta fame, ma mi devo fare forza per mangiarla. Non posso farmi trovare debole nel momento in cui mi serviranno tutte le mie forze per correre e scappare.
«Ehi, checca». E’ la voce di Aaron, mi pare. Non rispondo.
«Dai, Hans, scusami. E’ che… nessuno di noi si sarebbe mai aspettato capisci che… tu…» Mi fissa con sguardo eloquente. Lascio cadere il cucchiaio nel piatto e ricambio il suo sguardo, incrociando le braccia e appoggiandole sul tavolo. Grugnisco e gli faccio cenno di continuare, se ne ha il coraggio.
Non ne ha.
Infatti scrolla testa e spalle e fa un cenno come per dire ‘lascia perdere’. Interviene allora Adelwin.
«Lo sai che il tipo… sì, andiamo quel ragazzo che stava con te… Il polacco…»
«Dawid» rispondo più veloce e affettuosamente di quanto non vorrei.
«Sì, lui.» Risatine da tutto il tavolo. «Be’, l’hanno deportato qui. In questo campo.»
Faccio una faccia stupita. «Davvero…?»
Annuiscono. «Non ti verrebbe voglia di prenderlo e riportartelo in patria?»
Ammutolisco. Eccome, se vorrei. Ma il punto è, brutti stronzi, che lo farò e ancora voi non lo sapete. Quanto godo nel sapere qualcosa che loro non sanno.
Eludo la domanda e rispondo con un’esclamazione: «A proposito di riportare! Non vi ho ancora detto perché sono qui.»
Tutti scuotono la testa e si sente qualche ‘già’ qua e là per la tavolata. Fra poco finirà la pausa, devo sbrigarmi.
«Mi hanno ordinato di riportare un po’ di gente di là. Sapete, per la solita fabbrica di quello… come si chiama? Schindler, mi sembra.»
Questa volta sono loro che ammutoliscono e mi fissano perplessi. So che non è una novità per loro che della gente venga fatta riportare in città, però c’è qualcosa che non va.
«Ma l’ultima sessione di ri-portati, è partita ieri l’altro. Perché ancora?»
Diamine. «Sono pochi, veramente pochi. Tipo due o tre. Gente che è utile di là. Ve ne manderanno altrettanti in più, naturalmente, con il prossimo carico.»
«Hai i nominativi?» Chiede Axel, un giovane dai capelli rossicci e gli occhi verdi. E’ alto ed estremamente magro. Peraltro, un tipo pieno di sé e non molto simpatico al resto della compagnia da quanto ho capito. Però, quando parla o quando ordina qualcosa, tutti gli obbediscono perché pare che abbia degli agganci molto –forse troppo- in alto.
«Sì, sigillati in questa busta» rispondo, cavando fuori di tasca una busta sigillata. «Naturalmente, non so di chi siano i nomi. Non l’ho aperta, come potete vedere. Però, dentro c’è scritto tutte le motivazioni. Ah, e mi hanno detto di dirvi che stavolta non chiamiate per fare storie del tipo ‘Non vogliamo far rientrare Tizio, ci fa troppo divertire!’.»
Qualcuno grugnisce e capisco che si arrenderanno a malavoglia a quelle disposizioni. Forse.
Forse non Axel.
Lui apre la busta.
Il mio cuore comincia ad accelerare.
Axel tira fuori il foglio e legge i nomi e le motivazioni. Dopo un po’, sgrana gli occhi e un sorriso di disgusto passa sulle sue labbra. Schiaffa il foglio in mano ad Aaron e gli ordina: «All’appello, chiamali fuori dalla riga. Avranno un pretesto per sparar loro, almeno non li dovremo rimandare. Gli diciamo che li avevamo fatti fuori nei giorni scorsi, non è una cosa nuova, del resto.»
Il mio cuore sprofonda, sempre più giù. Se scoprono l’inganno, sicuramente io farò la stessa fine di Dawid e degli altri sulla lista. Non avrò concluso niente. E Angela non avrà una tomba su cui piangere.

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Capitolo 7
*** Il rumore di un bacio ***


Vorrei poter dire quanti giorni sono passati da quando sono entrati qui, ma ho perso il conto. Qui è sempre tutto uguale e a volte ti sembra di aver vissuto una vita nel giro di ventiquattro ore.
Ci sono volte in cui mi ripeto che prima o poi anche le SS si stancheranno di trattarci così.
Altre volte, forse più razionalmente, mi dico che non ci sarà mai una fine, se qualcuno non interverrà.
Sono disteso sul mio giaciglio. Siamo tutti appiccicati in questa capanna, su giacigli di paglia stesi per terra. Mi sono svegliato a causa di un impellente bisogno fisico: devo orinare.
Purtroppo, non posso alzarmi perché non appena lo farò, qualcuno mi ruberà il posto. Quindi, ho deciso di aspettare sveglio fino a poche ore prima del risveglio, così da essere il primo ad andare alle latrine. Abbiamo un’ora di tempo per renderci ‘presentabili’ per il lavoro: ormai ci limitiamo a fare i nostri bisogni, senza lavarci né altro. Qualcuno è morto per infezioni gravi ma io, nonostante la ferita, sto ancora bene.
Mi cambio la fasciatura ogni giorno. Un uomo dell’infermeria viene a portarmela di nascosto all’ora di dormire.
Riesco a mantenermi abbastanza pulito perché piove continuamente in questo posto, e io sono addetto ad interprete. Qualche volta mi hanno fatto fare anche dei lavori pesanti, tipo di carpenteria: quando non ci sono nuovi arrivi e nessuno con cui parlare. Infatti, gli interpreti precedenti sono stati tutti uccisi per aver tentato di ingannare i tedeschi a vantaggio dei connazionali.
Fucilati.
Gli altri deportati mi hanno parlato di un cosiddetto ‘Stammlager’, un ‘Campo madre’, nel quale esiste un muro dove i deportati vengono messi in fila e poi vengono uccisi a fucilate.
Questo muro si trova fra due baracche: le finestre che danno sullo spiazzo delle esecuzioni, sono sigillate perché i prigionieri non possono vedere, ma devono sentire.
Riguardo allo Stammlager, non hanno saputo dirmi molto. Solo che è parecchio distante e molto, molto più piccolo.
Senza volerlo, mi riaddormento e mi risveglio con tutti gli altri prigionieri. Anche stavolta, mi toccherà sbrigarmi a fare i miei bisogni.
Veloci come fulmini, ci dirigiamo verso le baracche-latrine. Noi della baracca 12 siamo arrivati prima degli altri e ci mettiamo a sedere, per liberare vesciche e intestini. Le SS a guardia, bacchettano chiunque si intrattenga per più di cinque secondi e, se non ti togli quando lo decidono loro, rischi di venire picchiato o, peggio, fucilato per insubordinazione.
Dopo i cinque secondi a disposizione, mi viene dato l’ordine di togliermi. Oramai riesco anche a capire un po’ la lingua tedesca o almeno ad intuire i discorsi.
Ubbidisco ed esco rapidamente dalla baracca, in fila indiana dietro agli altri. Non ci è concesso rientrare alle baracche. Adesso dovremmo fare colazione ma la maggior parte di noi non la farà. A volte i tedeschi avvelenano il cibo ed è troppo rischioso.
Un pasto al giorno è sufficiente, ed è il pranzo.
Quindi, aspettiamo che, di lì a pochi minuti, venga dato il segnale di adunata. Ci riuniamo tutti in uno spiazzo dietro alle baracche più isolate per l’appello.
Chi non risponde, va cercato.
Se non risponde perché non ha sentito il suo nome, allora verrà fucilato.
Se viene trovato dopo che ha cercato di scappare, verrà fucilato lo stesso.
Se esci dalla riga, muori.
Ogni pretesto per loro è buono per uccidere. Non so come riescano a farlo con tanta facilità. Mi chiedo se, in città, anche Hans sia costretto ad uccidere così le persone. Se c’è un Dio, lassù, come sosteneva mia madre, allora spero che stia vegliando sopra di lui, in modo che non faccia sciocchezze.
Mentre mi dirigo allo spiazzo dell’appello, mi guardo intorno. Inizialmente non vedo niente di interessante. Dopo, una figura di SS si para sul nostro cammino, affiancato dal solito Aaron, un tipo che sembra compassionevole ma di cui comunque non c’è da fidarsi.
Mano a mano che si avvicinano, si guardando e parlottano fra loro.
Guardo davanti a me, per non dargli un motivo per uccidermi. Infatti, ci sono dei prigionieri che sono stati uccisi per aver guardato negli occhi un ufficiale tedesco.
Quando passano davanti a me, sento che l’SS che non conosco si ferma. Io continuo a camminare accanto agli altri. Dopo qualche passo, mi sento chiamare da una voce inconfondibile.
«DAWID DZEIWSKI!»
Mi volto. Il cuore si ferma per qualche secondo, non so se per paura o per l’emozione.
Davanti a me, a qualche metro di distanza, c’è Hans. Aaron, accanto a lui, sembra imbarazzato e preoccupato e continua a guardarsi intorno.
«Hans.» Gli altri prigionieri mi urtano, continuando a camminare.
Lui si avvicina. Il suo volto. Quanto mi è mancato. La sua voce calda e melodiosa.
Il colore dei suoi occhi.
La linea delle sue labbra.
Il colore dei suoi capelli.
«Hans» ripeto, come se così potessi farlo rimanere con me per sempre. Lui sorride. Adesso è vicinissimo a me.
Aaron si schiarisce la voce. «Ragazzi, seguitemi svelti dietro a quella baracca. Non vi vedrà nessuno e potrete conversare tranquillamente. Ma per poco: se Dawid non verrà trovato all’appello, verrà cercato e ucciso.»
Hans, che mi ha appoggiato una mano sulla guancia, trema. Lacrime di gioia cominciano a scendere sul mio volto. Lui invece comincia a piangere, ma ogni cosa di lui esprime la tristezza che lo inonda come un fiume in piena.
 
Quando Aaron ci lascia soli dietro alla baracca, lui mi prende la testa fra le mani e schiaccia il naso contro il mio. Io poso lentamente una mano sul suo fianco, come se, solo toccandolo, potessi farlo svanire. Invece no, Hans è davvero qui. Non riesco a crederci. Lui mi bacia dolcemente e, sono sicuro, nella nostra storia non ci sarà un bacio migliore.
E’ il bacio di un uomo che ritrova il suo amante dopo aver passato giorni con la paura di non rivederlo.
Un bacio da brivido.
Io mi sento schiacciare contro la baracca. Non so dopo quanto tempo ci stacchiamo, ma mi rendo conto di essere avvinghiato a lui con tutte le mie forze.
Non ti perderò di nuovo, Hans.
Mi bacia di nuovo, poi mi respinge, improvvisamente.
«Va’.» Mi ordina. «Ci vediamo dopo. Ti porterò fuori di qui, fosse l’ultima cosa che faccio.» Mi spinge verso gli altri che marciano per recarsi al luogo dell’appello. Entrambi abbiamo la vista annebbiata dalle lacrime. «Dawid!» mi volto, prima di essere troppo vicino alla fila per potermelo permettere.
«Ti amo. Davvero tanto.»
Io sorrido e riprendo a marciare a testa bassa, senza osare voltarmi.

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Capitolo 8
*** Correre controtempo ***


Il suo odore mi era mancato. Odore di casa, di desiderio, di paura anche. E’ l’odore di chi non riesce a mettere in ordine le proprie emozioni.
Posso sentirlo ancora sulle mie dita, sui miei vestiti. Lo respiro a pieni polmoni prima di uscire dal mio ‘nascondiglio’. Non incontro nessuno, per fortuna, e vado dritto all’appello senza che nessuno mi riprenda.
Per fortuna, quando arrivo, Dawid non è stato ancora chiamato.
I nomi scorrono lenti e inesorabili. So che nessuno ha ancora cambiato idea riguardo alla sorte di Dawid e degli altri sulla lista. Saranno fucilati quando verranno chiamati fuori dalla fila.
Ho un’illuminazione: se comunque sono destinato a perdere Dawid per un colpo di fucile, allora perché non salutarlo dignitosamente? Quando lui finirà di respirare, tutto il mio mondo avrebbe perso colore, gioia e significato.
«Axel..?»
Mentre Aaron continuava a ripetere nomi uno dopo l’altro, con tono perentorio e omicida, Axel si volta verso di me e mi fissa con aria di sufficienza. «Cosa vuoi?»
Gli faccio cenno di avvicinarsi. Quando è abbastanza vicino, gli sussurro all’orecchio il mio piano. Lui ci pensa un po’ su e poi annuisce. «Va bene. Se ti vuoi umiliare così…»
 
«Braginski, Dabrowski, Dzeiwski.»
Eccoli i loro nomi. Dopo un attimo di silenzio e di esitazione, i tre escono dalla fila ordinata.
Il mio cuore accelera quando i cecchini impugnano il fucile e lo caricano.
Posso vedere da qui una lacrima scintillare sul volto di Dawid. Non si piange per la morte, si piange per la sofferenza, ricordatelo.
Axel fa un cenno ai cecchini di aspettare. Un sorriso soddisfatto passa sul suo volto. «Da oggi, tornate in città, a Cracovia. Per lavorare nella fabbrica dell’illustre signor Schindler. Siete liberi di andarvene, sotto la scorta del nostro qui presente collega, Hans.»
Nessuno fiata. Gli occhi di Dawid sono pieni di stupore, adesso. Sposta lo sguardo da Axel a me e poi di nuovo ad Axel.
Quest’ultimo mi guarda e mi fa un cenno con la testa. Scendo dal piccolo ‘podio’ sul quale usano sedersi i tedeschi quando fanno l’appello, e mi dirigo verso di lui.
Sento il mio cuore rimbombare nelle orecchie. E nel petto. E nelle mani. E nello stomaco.
Quando mi trovo di fronte a lui, non riesco a fare di meglio che commuovermi e abbracciarlo.
Non sa cosa gli accadrà. No, non lo sa. E finché non lo lascio, non lo saprà.
«Non lasciarmi, stringimi forte.»

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Capitolo 9
*** Soffrire il freddo ***


So benissimo cosa succede a quelli che escono dalla fila.
E il rumore dei fucili che vengono caricati, conferma la mia idea. Una lacrima scende silenziosa. Per un attimo, cerco lo sguardo Hans che è colpevole, triste, disperato. Una volta, lui mi aveva detto: Si piange per la morte, non per la sofferenza. E come posso chiamare una morte come questa, se non ‘sofferenza’?
Ci ha provato a salvarmi, ci ha provato e non ci è riuscito. Non m’importa. Il solo gesto di avermi voluto portare via di lì, è stato eroico.
Il capo dei tedeschi comincia il suo discorso, dopo aver fatto cenno ai cecchini di aspettare. No, vi prego. Così prolungate l’ansia.
Già dalle prime parole, avverto la sensazione si sollievo che si prova quando si esce da un grande pericolo. Non può essere vero. Non è possibile che ci riportino a casa… Hans non può esserci riuscito.
Perdo il senso del tempo, mi gira la testa ma non barcollo. Ogni singolo movimento potrebbe causare la mia morte a un passo dalla salvezza. Poi, Hans scende dalla piattaforma che funge da ‘podio’.
Si avvicina a me. Proprio a me.
E mi stringe in un abbraccio. Sta piangendo, lo sento. Ma non capisco perché mi abbracci.
«Non lasciarmi, stringimi forte.»
Obbedisco. Poi lui scosta la testa. Perché nessuno sta mormorando? Perché gli SS non sparano? Tutto questo non dovrebbe essere permesso…
Mi bacia. E, anche senza parole, capisco che devo godermelo questo momento, perché non ce ne saranno mai più.
Non so quanto tempo passa, ma poi il rumore è inequivocabile. Uno sparo. E poi un altro. Ma siamo ancora insieme e nessuno dei due ha perso i sensi.
Siamo ancora vivi, non hanno sparato a noi.
Scosse e brividi.
Magia e lacrime.
Un altro sparo, ma restiamo saldi. Eppure, stavolta, c’è qualcosa che non mi torna. Hans smette di reagire al mio bacio, seppure aumenti la stretta delle sue mani sui miei fianchi.
E poi capisco qual è il problema: il sapore di sangue nella mia bocca. Sangue che viene dalla bocca di Hans.
Lo stacco da me, tenendolo per le spalle. «HANS!»
I suoi occhi sono spalancati e la sua bocca ancora aperta, piena di sangue che scende sui vestiti, sulla sua pelle candida. Sui quei luridi vestiti e su quella pelle perfetta.
«Hans… no!» Lo scuoto e lui si accascia senza sensi ai miei piedi. Mi inginocchio accanto a lui, piangendo.
«D-Daw… Ho fre-freddo… f-fa tanto f-freddo…»
Non so descrivere il dolore che provo. E’ come una spina conficcata nello stomaco che risale fino al cuore e lo blocca. Un conato di vomito scioglie il nodo che ho in gola, e scoppio in lacrime, reprimendo la voglia di rimettere.
Ho le mani interamente sporche del suo sangue. Lui apre gli occhi appena, tanto da farmi sperare. «Hans, Hans, non addormentarti. Mi servi, devi rimanere con me. Ti amo, ti prego, ti amo…»
Continuo ad implorarlo. Non mi curo nemmeno che la mia voce sia gracchiante a causa delle lacrime che mi scendono in gola. Mi fermo solamente quando Hans riapre di nuovo la bocca e, con fatica, mi dice: «Ho… ho f-freddo.» Fa una smorfia, forse di dolore, mentre allunga una mano verso la mia guancia, accarezzandola. «S-Scu…sa.» Poi il suo braccio ricade pesante sul suo petto e Hans rantola. Due, tre volte. Poi, gli occhi fissi nei miei, smette di respirare.
Non so cosa fare. Non so cosa provo, di nuovo. E’ rabbia…? Incredulità…? Tristezza…? Forse è tutto questo messo insieme. Chiamo il suo nome sussurrandolo e avvicino le mie labbra alle sue. «Ti… Ti amo.»
Non so dopo quanto tempo realizzo cosa realmente è successo, ma quando succede, non riesco a far altro che a urlare e inveire contro i tedeschi. Perché l’hanno ucciso? Perché non hanno ucciso me? Me lo meritavo molto di più. «PERCHE’?!» Abbraccio il corpo senza vita di Hans e me lo stringo al petto. Non voglio credere che sia morto, non lui, non la persona che ha provato a portarmi via di lì… i suoi sforzi non possono essere stati vani.
Vorrei prendere una pietra e conficcarmela in corpo, ma non ce ne sono di abbastanza appuntite intorno a me.
Provo a sbattere la testa sulla terra, ma non ho la forza di farmi del male abbastanza da morire.
Il mondo crolla, si sgretola, gira intorno a me. Non so più cosa sta succedendo. Perdo i sensi e mi accascio su di lui.
L’ultima cosa a cui penso, è la speranza di star morendo.

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Capitolo 10
*** Ricordi ***


Il treno è comodo, in confronto a quello con cui ho fatto l’andata. Ma rifarei lo stesso viaggio due volte, se mi riportasse a casa.
Sono ancora sotto shock. Mi hanno tenuto in isolamento per due giorni e oggi mi hanno messo su un treno diretto a Cracovia.
Hanno bruciato Hans, nei loro forni. Non posso sopportare l’idea. Provo a non pensarci, ma il dolore è grande tanto quanto la felicità di lasciare quel luogo di morte.
Non so perché abbiano deciso di rilasciarmi. Ma l’importante è che l’abbiano fatto.
Non so nemmeno quanto durerà il viaggio di ritorno. Decido di addormentarmi, non m’interessa se non scendo alla fermata giusta: non ho più nessuno che mi aspetti a casa. E non ho più nemmeno Hans.
Nel sangue che fluiva dai suoi vestiti, scorreva la mia vita, non solo quella sua e io sono morto con lui due giorni fa. Esiste il mio corpo, ma non esiste niente all’interno di esso; nemmeno le lacrime escono più. Le ho piante tutte nelle ultime quarantotto ore. Ho pianto, mi sono disperato, mi sono autolesionato di fronte ai tedeschi affinché mi uccidessero come avevano ucciso lui. Ho chiesto loro di bruciarmi con lui, di mandarmi nelle camere a gas, di impiccarmi; ho commesso ogni genere di scorrettezze in questi ultimi giorni e mi sono tolto la voce a furia di gridare e piangere. Ma loro non mi hanno accontentato.
Mi accorgo di non riuscire a dormire. Alla prima fermata del treno, scendo.
Mi siedo su una panchina e guardo il treno che se ne va. Un’ora passa, poi un’altra e un’altra ancora. Continuo a fissare davanti a me, senza vedere. Le immagini che mi passano davanti agli occhi sono quelle della mia memoria che vuole dimenticare.
 
Camminava per i corridoi della biblioteca senza far rumore.
Indossava una divisa militare e aveva un’espressione assorta. I capelli biondi ricadevano sulla sua fronte a ciuffi ribelli, sfuggiti alla presa della cera. I suoi occhi erano fissi sulla copertina del libro che aveva scelto.
O no, sono i libri che scelgono gli uomini.
Ma non ha importanza. L’avevo guardato avvicinarsi al bancone, senza riuscire a staccare gli occhi da lui.
Quando fu abbastanza vicino al bancone, mi fissò. «Buongiorno.»
Avrei dovuto rispondere, da bravo commesso, invece cosa feci? Continuai a guardarlo, inebetito.
«Buongiorno.» Ripeté lui, stupefatto dal mio comportamento.
Mi riscossi e ripresi la mia normale attività. Era solo un cliente qualunque. Quanti ne passavano di ragazzi belli?
Non avrei mai immaginato che sarebbe stato lui a cambiarmi la vita e a ridurmi così.
 
Sento il peso dei ricordi che mi opprime il cuore. Un dolore fisico che non si può allontanare, che spesso viene definito anche ‘angoscia’. Provo a deglutire, ma non ho salivazione. Le lacrime cercano di nuovo di farsi strada, ma non sono abbastanza da permettermi di perdere la concezione del mondo.
Mi distendo sulla panchina e provo a scacciare tutti quei pensieri. Sono solo fantasmi del passato. Riprenderò il mio lavoro senza che niente cambi la situazione di prima.
Quante volte sono stato deluso da altri uomini! Come può la morte di Hans mettere a repentaglio il mio futuro, la mia vecchiaia? Non può. Non deve.
Ma non ce la faccio.
 
«V-Vado subito a prenderle il libro in magazzino.»
La mia voce tradiva la mia emozione. Da molte settimane ormai vedevo quel tedesco, Hans, girare nella biblioteca. Non prendeva in prestito nessun libro né tantomeno comprava qualcosa. Faceva un giro fra gli scaffali e poi veniva al bancone.
Dopo la terza volta d’imbarazzo, avevamo cominciato a chiacchierare. Non sapevo se avesse notato qualcosa, ma so che quella volta, mi chiese di poter prendere in prestito un libro. Mi aveva anche sorriso. E mi ero praticamente sciolto.
«Posso venire con lei, o non è permesso ai clienti accedere ai magazzini?»
Mi bloccai. Tecnicamente era vietato accedere ai magazzini, ma lui era un tedesco. Non potevo dirgli di no, se ci tenevo alla vita. Sapevo che persone come me erano state fatte fuori per molto meno. Deglutii.
«Certamente, mi segua.»
 
Quando avevo chiuso la porta del magazzino alle mie spalle e stavo per mettere mano all’interruttore della luce, lui mi aveva fermato, impedendomi di illuminare il luogo.
«C-Cosa…?!»
Lui mi aveva fatto cenno di stare in silenzio e poi mi aveva spinto contro il muro, baciandomi.
Una volta usciti da quel magazzino, non ci eravamo più parlati per qualche giorno.
So solo che un giorno rientrò in biblioteca. Io, per istinto, arrossii e distolsi lo sguardo. Ma lui si fermò subito al bancone. Era quasi ora di chiusura, non c’era nessuno.
«Tieni la bocca chiusa su quello che è successo l’altro giorno.»
Avevo annuito, senza guardarlo negli occhi. Lui si era guardato intorno, per assicurarsi che nessuno avesse sentito la conversazione. Poi mi aveva preso per il mento, mi aveva alzato il volto e mi aveva baciato –di nuovo.
«Non credo che sia un comportamento regolare…»
«Mi piaci, Dawid.»
«…C-Come fa a sapere il mio nome?»
«Il cartellino sul petto. Sei un commesso, ricordi?»
Aveva ridacchiato. Io ero arrossito. «Anche lei, soldato, mi-» La voce mi era morta in gola. Lui mi aveva porto la mano. «Hans. Chiamami Hans.»
 
 
Poche ore dopo, sono oltre la linea gialla. Ma proprio oltre, capite? Sulle rotaie, sì.
Non ho molto tempo.
Il diretto per Varsavia passerà fra pochi minuti e con lui arriverà anche la pace della mia anima.

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