Kiss kiss, Baby 4

di Sarah M Gloomy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***
Capitolo 6: *** 6 ***
Capitolo 7: *** 7 ***
Capitolo 8: *** 8 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


1
L’appartamento 9
 
Paul. L’inizio di tutto e la mia fine.
Mi ero appena svegliata da una tremenda post sbornia e della sera prima ricordavo solo la presenza di alcol. Molto alcol. Ero appena uscita da una relazione burrascosa, durata l’arco della mia vita, in cui avevo messo anima e corpo per farla funzionare. E come tutte le cose importanti era andata dritta nel cesso, con lui che mi diceva che ha bisogno di tempo, di riflettere e di intruppare le mani in qualcos’altro che non ero io. La mia distruzione. Tutto ruotava intorno a lui, dalle amicizie ai luoghi di incontri. In comune avevamo anche l’appartamento, che logicamente da bravo cavaliere si era ripreso per fare le sue orge.
Alexia, la mia migliore amica dai tempi del liceo, mi aveva gentilmente ospitato nel suo appartamento, ma sia i suoi ritmi di vita sia l’ambiente ristretto non collimava con l’idea di avere una mia identità. Mi ero piazzata sul divano e la prima settimana l’avevo passata tra lavoro e crisi isteriche, piangendo anche di fronte allo sturacessi che aveva la sua pettinatura appena sveglio. E giuro, in quei momenti ero lucida!
Poi la brillante idea di Ale di imbucarsi ad una festa. Niente male, fantastico, ormai avevo toccato il fondo della depressione, perché non annegare in stuzzichini e alcol? Non ricordo neppure la festa, o la casa, né tanto meno gli stuzzichini. Mi ero piazzata vicino alla tinozza arancione più grande che avessi mai visto, solo il miasma mi aveva steso ma non avevo mollato e avevo tracannato bicchiere su bicchiere.
Per esperienze precedenti so che sono una pessima ubriaca. Tendenzialmente inizio a deprimermi, a piangere, a singhiozzare e al peggio prendo a sberle qualcuno. Direi, a rigor di logica, che le possibilità di aver fatto qualcosa di folle sono molto minime. Sottoterra.
Mi alzai dal divano, rantolando e con il sapore acido che lasciava una bella vomitata mi diressi verso il bagno. Sperando di non rimettere di nuovo, sentii le fusa di Ale nella sua camera da letto. Di certo il suo risveglio sarebbe stato migliore del mio.
Orribile. Il mio doppione allo specchio faceva schifo. I capelli erano impastati di non so che cosa e avevo un mega rasta al posto della frangetta. Il sospetto era di essermi pure vomitata sui capelli. Dopo una bella doccia il mio aspetto rimaneva schifoso, con i capelli nocciola che si schiaffano sulla guancia, le occhiaia nere sotto gli occhi verdi e le palpebre pesanti. Mi infilai un paio di pantaloni larghi, maglia poco sexy, i capelli raccolti in una coda, occhiali e mi piazzai depressa sul divano, con il computer sulle ginocchia.
Ora, sveglia, mi era impossibile non sentire i guaiti degli altri nella camera da letto, quindi mi infilai le cuffie e misi la musica a tutto volume.
Volevo bene a Ale, ma i suoi ritmi erano molto diversi dai miei. Come me lavorava e la sera era sempre fuori, cercando di convincermi ad uscire in qualche sua scorribanda. Era un tipetto un po’ libertino, disprezzava le storie lunghe ed era più “da una botta e via”. L’opposto di me, che al principio avevo interpretato il suo motto come un ottimo smacchiante per capi difficili.
Ritornare dai miei era fuori questione, sia per il lavoro che avevo in città sia per il fatto che si tornava a vivere con i miei! L’unica chance che mi rimaneva era trovarmi un appartamento, possibilmente da condividere con qualche ragazza come me e buttarmi Paul alle spalle. Se lui mi avesse visto sul divano avrebbe riso e mi avrebbe accarezzato i capelli. Paul!
Con stizza, cambiai musica perché era la nostra canzone, ma se hai avuto una relazione con un tipo da quando avevi quattordici anni fino ai venticinque, direi che un po’ tutto te lo ricorda!
Il giorno prima avevo scovato in internet un appartamento, con tre inquiline e avevo chiesto la disponibilità per un colloquio con loro nel pomeriggio. Mi erano sembrate simpatiche, anche se avevo solo letto il loro messaggio e i nostri discorsi erano solo per mezzo di chat. Si erano firmate Charlie, Kit e Sam. Avevamo già un tono colloquiale, come vecchie amiche!
Mi avevano scritto se era possibile incontrarci a mezzogiorno anziché alle quindici, perché Kit aveva dei problemi per quell’ora. Mah, nessuna difficoltà.
Alzai gli occhi vedendo un’ombra che si allungava dalla porta, seguita da un’altra più minuta. Ale aveva accalappiato un bel maschione, muscoloso, in canottiera e con i capelli lunghi per potersi attaccare in momenti di intimità. Visto il cespuglio arruffato che aveva, ero certa che Ale l’avesse usato come corda. Per educazione mi tolsi le cuffiette, aspettando una qualche mossa. È difficile sapere come comportarsi! È un momento intimo, quindi la terza incomoda che allunga la mano e si presenta è poco opportuno; rimanere piazzata sul divano e fare la spettatrice era da voyeur; stare sul divano, fingere di non averli visti era da maleducati. Mi limitai a fissarli a intermittenza, così se Ale avesse voluto presentarmi sarei stata pronta.
   «Ti chiamo, allora.»
   «Okay.» Ale lo accompagnò alla porta come una gatta in calore, strusciandosi e con molta grazia facendolo uscire. Un modo per dirgli «Vattene» senza farglielo capire.
La mia amica si afflosciò sul divano, con un sorriso e lo sguardo lucido di chi vuole che gli si chieda della serata. E la conoscevo da troppo tempo per cascarci. Anche lei sapeva giocare. «Com’è andata la serata?»
Mi limitai a mugugnare qualcosa, obbligandola a chiamarmi dolcemente. «Robin??»
   «Sì, lo so Ale! Mai avuto una serata migliore. Mister Muscolo è stato fantastico, mai fatto un sesso migliore ma possiamo non parlare di me? Ho ancora i postumi di una sbornia che non ricordo, ho l’incontro con le ragazze per l’appartamento a mezzogiorno. E mi sembra di sclerare di brutto, stavo per piangere nuovamente per Paul e …»
   «Sei logorroica!»
   «Lo so! Sai che sono a ruota libera. Io parlo, parlo e poi qualche volta penso.» Fissai Ale che mi sorrideva. Di risposta mi passai il dito sulle labbra, facendo segno di chiudere la serratura. «Capito.»
   «Mister Muscolo, però, non era così bravo a letto. Ho finto un po’. Sai, se non li gasi i ragazzi si deprimono facilmente. Baciava come se volesse mordermi! Voglio dire, capisco giocare con le labbra ma usare i denti è un po’ eccessivo.»
Sospirai. «Lo rivedrai?»
Come immaginavo, Ale scosse la testa. «Direi proprio di no. Lui è un tipo da una botta e via, bellezza. Cosa pensavi di metterti per il colloquio?»
Alzai le spalle. «Pensavo un paio di jeans e una maglietta.»
   «Non stai andando a fare il bucato.»
   «Ale, devo solo incontrare delle ragazze, presentarmi, stringere la mano e parlare se possiamo convivere! Mica devo essere sexy per loro!»
   «E se ci fossero altre possibili coinquiline?»
   «No, sono l’unica. Hanno detto che tutti gli altri non andavano bene.»
   «Magari sono stati snobbati perché sono andate là in jeans e maglietta.»
Sospirai. «Tirami fuori un vestito da mettermi e facciamola finita. Tanto ho capito che o si fa come vuoi tu o non si fa niente. E lo so da tanto, ma ancora aspetto che cambi!»
 
            Nuovamente guardai l’indirizzo e la porta di quello che poteva essere l’edificio del nuovo appartamento. Bel quartiere, curato, con un parco per fare jogging alla mattina. Semmai prendessi un colpo alla testa e volessi farlo, il parco è lì. Mi piaceva che fosse in un viale illuminato, non molto trafficato dalle auto e c’era la fermata dell’autobus a non più di trenta metri dall’entrata del palazzo.
L’appartamento era al terzo piano, con ascensore e scale pulite. Ad ogni pianerottolo c’erano delle piante e uno sciame di mosche e zanzare per l’acqua stagnata. Non si può avere tutto dalla vita. Feci le scale di corsa, bloccandomi per cinque minuti buoni davanti all’appartamento 9 per riprendere fiato: non sono brava a correre con le scarpe con il tacco e, anche se ne fossi in grado, non sono sportiva!
Bussai alla porta, accorgendomi all’ultimo che lì, vicino, c’era il campanello. Dall’altra parte c’era un tramestio, quindi evitai di suonare.
Mi aprì la porta una bella ragazza dai tratti un po’ androgini. Capelli corti fino alle spalle neri, gli occhi acquosi dello stesso colore, pelle quasi diafana, il mento leggermente quadrato. Ero ancora insicura sul sesso quando miagolò un «Ciao» che mi lasciò senza fiato. Fissai il traballante pomo di Adamo e guardai il pezzo di carta che mi ero portata appresso. Indicai la ragazza davanti a me, impacciata. «Io sono Robin.»
Si lasciò sfuggire una risata. «Oh cielo, scusami! Che figura! Io sono Charlie, entra pure. Ci siamo sentite per chat. Hai sempre parlato con me. Non entri?»
   «Oh, certo.»
Con un po’ di imbarazzo entrai. Mi guardai intorno. Appartamento grande, davanti al divano c’era una grande televisione, vicino alla quale una credenza con qualche libro, un lettore dvd e un registratore vecchio modello, una cucina dall’aspetto curato, un tavolo per quattro e un’ampia terrazza che potevo vedere sin dall’entrata.
Charlie continuava a parlare. «Devi scusarmi, ma ogni tanto i miei amici organizzano degli incontri al buio e pensavo fossi uno di quelli. In effetti, di solito mi avvisano!» Si lasciò sfuggire un’altra risata. Ero ancora indecisa se fosse un lui o una lei. Puntavo di più su un cinquanta e cinquanta. «Mi hai sorpreso. Ero convinta che Robin fosse un nome da uomo.»
Nella stanza non era l’unica ad essere sorpresa. Però Charlie era, con i suoi modi colloquiali, molto affabile. Non mi sorprendevo che mi fosse piaciuta subito. «Siediti pure.»
Mi accomodai sul divano, mentre Charlie si raggomitolava cordiale sui suoi pantaloni jeans. Quanto avrei voluto che Ale non mi avesse obbligato a mettere una gonna! «Mi perdoni, sono un po’ spiazzata. Sa … dal fatto che … che ha detto che credeva che Robin fosse un nome da uomo, credo che …»
Sorrise. «Kit e Sam? Uomini. Li ho soprannominati io così, ma devo dire che potrebbe essere frainteso. Se avessi scritto Keith e Samuel sarebbe stato più chiaro.»
   «Un po’.» Lasciai scivolare l’agitazione con una risata, che piacque a Charlie. «Visto? Non faccio del male quindi possiamo anche parlare.»
   «Scusa … posso darti del “tu”? Credo che siamo quasi coetanee. Sai … esco da una relazione di undici anni con un ragazzo e ritrovarmi circondata da uomini non è quello che mi aspettavo. Praticamente mi sto rendendo conto che non so nulla della vita, non so come si fa amicizia con gli uomini e, orrore, non so neppure cavarmela da sola! Intanto volevo provare a fare amicizia di nuovo con altre ragazze, che non fosse un incontro per lavoro o una che ti chiede dei gettoni per fare i lavaggi.» Mi sentivo come dal dottore, a parlare con un perfetto sconosciuto dei fatti miei e pure incapace di bloccarmi!
   «Undici anni di relazione? È un record!»
Ridacchiai, alzando le spalle. «O uno schifo. Primo e unico ragazzo.»
   «Un po’ ti invidio. Non sono mai riuscita ad avere relazioni serie. Arrivano fino ad un certo punto, poi quando si è all’apice se ne escono fuori con un “non sapevo che l’avessi”. Cioè, ho visto la tua espressione e ti è subito venuto un mezzo sospetto, no?»
   «Ti assicuro che se non fosse per il pomo di Adamo avrei detto che eri una donna al cento per cento.»
Sorrise, e non mi pentii di averglielo detto. Sembrava una donna, anche con quel pomo d’Adamo ballonzolante. Beh … qualche sospetto mi sarebbe venuto lo stesso anche se non glielo avessi visto, però meglio non marcare quel fatto. Si avvicinò con fare complice, bisbigliando. «Grazie e mi piaci. Non nel senso che ti porterei a letto, ma come possibile amica non sei male.»
   «Grazie, anch’io non mi trovo male. E complimenti per l’appartamento, è stupendo.»
   «No, non dire così. Ti faccio vedere le stanze prima che arrivino Kit e Sam. Loro non vogliono che nessuno le veda. Così ti fai un po’ l’idea degli uomini con cui sono costretta a vivere!»
Con fare confabulatorio, Charlie mi fece strada, aprendo la prima stanza del corridoio. Bagno. Niente di speciale, carino con le mattonelle blu acqua, la doccia con il vetro opaco, water, bidè e un grande lavandino con due specchi. Come in una famiglia, sotto c’erano i bicchieri con i nomi dei rispettivi proprietari. Vista la scelta dei nomi, sospettai che ci fosse lo zampino di Charlie.
   «Attenta, fino adesso hai visto le stanze in comune. Da qui in poi non sarò responsabile di quello che vedrai.»
   «Del tipo “ci sono cose che voi umani non potete neanche immaginare”?»
Ridemmo entrambe, aprendo la prima porta. La stanza odorava di chiuso e, quando Charlie accese la luce, mi accorsi della montagna di indumenti piazzati sulla sedia. Il letto era sfatto, mostrando le lenzuola di Star Wars. Come era riuscito a trovarle quel tipo di lenzuola per un letto a due piazze? Sulla credenza erano stipati la più alta collezione di Dvd e libri che avessi mai visto. Accompagnata a intermittenza da qualche giocattolo da collezione. Charlie alzò le sopracciglia, chiudendo la porta con aria plateale. «Questo è Sam.»
Aprì quella di fianco di Sam, dove un’altra stanza, altrettanto grande, mostrava la presenza esplosiva di Charlie. Tappezzati sulla parete c’erano poster attori e cantanti, maschi e femmine e, appoggiato vicino al letto, una chitarra elettrica. La sua camera era pulita, arieggiata e ogni cosa, dalla collezione di peluche ai cuscini era posizionata perfettamente. Il mio ego femminile si risvegliò da qualche parte, scuotendo la testa in segno di disapprovazione per la mia persona. Ammisi a malincuore. «Hai un tocco più femminile del mio.»
   «Grazie. E ora Kit. Non scandalizzarti.»
Era la stanza davanti a quella di Charlie. Era più pulita di quella di Sam, ma abbastanza inquietante. Come Charlie aveva poster su una parete, soprattutto di donne svestite su auto. Sulla scrivania aveva una teca con un serpente piuttosto grande e, vicino alla porta, un’altra teca dove un ragno delle dimensioni della mia mano dormicchiava. Per lo meno il letto era fatto, anche se non mi sfuggì la confezione di preservativi attaccata alla parete con scritto, lì vicino, “Grande Bro”.
Charlie chiuse la porta, osservando la mia reazione. «Sinceramente sono più scandalizzata dalla montagna di biancheria nella stanza di Sam! Ma come fa?»
   «Ho una teoria. Secondo me Sam si sveglia alla mattina, farfuglia sulla sedia qualche imprecazione e il primo indumento che si ritrova tra le mani se lo mette. Questa è l’ultima stanza.»
L’aprì. Era vuota, se non fosse per il letto piazzato in mezzo e l’armadio aperto. La finestra spalancata la illuminava. «Immagino che non siamo esattamente quelli che aspettavi, ma mi piacerebbe che tu fossi la nostra coinquilina.»
Era la cosa più carina che qualcuno mi avesse detto. Con gli occhi lucidi mi girai verso Charlie e l’abbracciai. Al diavolo se non era quello che mi aspettavo, se dovevo convivere con degli uomini. Meglio cambiare la vita dalla radice, e quale modo migliore di farlo con altre persone? Forse andava anche meglio: ero convinta che in un gruppo di ragazze mi sarei trovata a fare alla sera le solite cose! «Oh, mi piacerebbe un sacco.»
Lei ricambiò, saltellando sul posto. «Sì!»
   «Charlie, hai lasciato di nuovo la porta aperta! Devi chiuderla a chiave, se no a che serve?»
Io e Charlie ci sciogliemmo dall’abbraccio. Mister Muscolo accompagnato da un altro ragazzo sconosciuto ci osservavano.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


2
Frigole
 
Charlie mi sorrise, indicandoli. Mister Muscolo era Kit, mentre il ragazzo meno appariscente e più normale era lo sfaticato Sam. Devo dire che è piuttosto inquietante essere in appartamento con una persona che è stato con la tua migliore amica, e che sai non essere bravo a letto. O con uno che ha come tana un groviglio di abiti sporchi.
Io venni presentata come “la nuova inquilina”. Se a Kit la cosa era indifferente, dubitai pure che alla mattina mi avesse riconosciuta stesa sul divano, mimetizzata con la tappezzeria, Sam replicò duramente. «No, non voglio donne nell’appartamento.»
   «Ci sono io!» Miagolò Charlie e Sam alzò le mani al cielo. «No, Charlie. Tu sei un uomo. Lei è una donna al cento per cento. Le donne fanno casino, le donne hanno crisi per qualunque cosa, le donne distruggono l’amicizia. Se c’è una donna in mezzo, stai pur sicuro che ci saranno disordini.»
Charlie decise di prendere il problema dal verso opposto, con le votazioni. «Kit?»
Mister Muscolo alzò le spalle. «Per me può rimanere.»
Charlie mi fissò, annuendo decisa. «Perfetto: due contro uno. Da oggi sei la nostra nuova inquilina. Se Sam ti dà fastidio dimmelo, che lo mettiamo KO. Ci siamo già detti tutto, giusto?»
   «Sì, per chat, non ti preoccupare. Lavoro, quindi pago sempre.»
Sam incrociò le braccia, con fare indisponente. «Ricordatevi: le donne portano guai.»
Charlie fece finta di non aver sentito. «Ti trasferisci subito? È una palla avere Sam tutto il giorno che borbotta. E Kit il più delle volte è fuori casa!»
   «Domani chiamo la ditta per portare qui la mia roba. Non è molta, quindi credo che con un giro posso sistemare tutto.»
Kit scosse la testa. «Perché una ditta? Ho il furgone del lavoro e possiamo farti il lavoro gratis.»
   «Così risparmi e faremo amicizia tra commilitoni. Mi piace! E devi venire anche tu, Sam. Non provare a tirarti indietro.» Lo rimbeccò Charlie. Poi si rivolse a me. «Facciamo domani alle 10:00. Tanto la domenica mattina, a parte dormire, noi non facciamo nulla.»
 
            Avevo salutato Ale prima che uscisse per incontrarsi con delle amiche, nascondendo il fatto che andavo a vivere con due uomini e … Charlie! La cosa mi entusiasmava parecchio. Avevo capito che Kit era un po’ come Ale, quindi non l’avrebbe chiamata ed era possibile che entrambi si fossero dimenticati l’uno dell’altra. Un giorno o l’altro si sarebbero incontrati e allora lì sarebbero stati solo problemi miei. O forse no: in fondo io non ero andata a letto con nessuno!
Sam bofonchiò quando prese le valigie dal mio appartamento, mentre Kit rimase nel furgone in moto perché non c’era posto da parcheggiare. Charlie svolazzò come un uccellino per la casa, agguantò quanti più scatoloni poteva e, quasi saltellando, tornò da Kit.
Con due giri avevamo preso tutto quello che avevo: vestiti, computer, stereo e qualche stoviglie che ero riuscita a riprendermi da Paul. Mi sembrava che in quegli scatoloni ci fosse tutta la mia vita. Ci fermammo a prendere il colore per la stanza. Nuova inquilina, nuovo look. Nessuno parlava del precedente, ma capii che ormai era da un po’ che quella stanza era libera. Presi un bel viola acceso e, appena entrai nell’appartamento, corsi nella mia stanza con il barattolo.
Con entusiasmo io e Charlie iniziammo a pitturarla un po’ a casaccio, riprese da Sam che, con l’aiuto di Kit, stese i giornali per terra e iniziò a impartirci le nozioni basilari della tintura. «Dall’alto al basso, no da destra a sinistra!»
A Sam mancava quello che gli umani dovrebbero avere: la gentilezza! Con un po’ di colore, il computer sulla scrivania, tutti i vestiti nell’armadio e il letto fatto, la stanza sembrò prendere vita. Mancava uno specchio a parete, che avrei preso il prima possibile, una piccola mensola per mettere qualche cosuccia che avrei trovato e dovevo appendere i souvenir dei vari viaggi fatti. Sì. Poi la stanza sarebbe stata mia.
Avevo visto in fondo alla strada un emporio, così decisi di fare un po’ di spesa. Kit si offrì di accompagnarmi, capendo forse che il mio carattere era un po’ troppo a “facciamo casino” piuttosto che stilare un piano dettagliato. Prese tutto per appendere i quadri e la mensola, sventolandomi davanti agli occhi un sacchetto con dentro stelle e luna da appendere al soffitto. Sì, ero già stata definita la “baby” di casa, quindi non mi costava molto giocare su quel ruolo. Tanto più che io volevo quelle stelle sulla parete!
Pranzammo e cenammo nello stesso momento, visto che eravamo stati troppo indaffarati per toccare cibo a mezzogiorno. Alle diciassette, Charlie aveva preparato un piatto di pasta e delle bistecche stavano cuocendo sulla piastra. Mi sentii un po’ in imbarazzo a dover ammettere, vista la fatica fatta, che ero vegetariana.
   «Non mangi carne?» Mi chiese Kit per la settima volta.
Scossi la testa, piluccando qualche foglia scondita di insalata. «No, niente carne o uova. Però mangio pesce. E bevo solo latte di soia.» Ad essere sincera, se non trovavo altro non disdegnavo latte animale. Mah … forse sono una vegetariana un po’ particolare.
Charlie annuì. «Ecco perché sei così magra.»
Sollevai un sopracciglio. «Beh … può essere.»
   «Perché?» Chiese Kit, sconvolto dalla notizia.
   «Non mi piace pensare di mangiare cadaveri. È inquietante. Mia mamma è una cuoca e mio padre, come te, è un grande mangiatore di carne. A suo dire mangio come le mucche … e a lui piacciono le mucche. Non ho mai capito se dovevo interpretarlo come un complimento o un’offesa.»
Sam sbuffò, mentre Kit e Charlie risero. Sparecchiammo la tavola e riposi gli avanzi in frigo. Socchiusi gli occhi, girandomi a fissare i ragazzi. «Cosa sono le frigole
Kit alzò le spalle. «Sarebbero le regole appese nel frigorifero, ma a Charlie non piaceva il nome e quindi le ha chiamate frigole. Sono le regole della casa.»
   «Ci sono delle regole?»
Scorsi le frigole, accorgendomi che ero stata nominata anch’io. La cosa mi piaceva un sacco … ed è piuttosto facile sorprendermi o farmi piacere un qualcosa! Con il promettente titolo “Le frigole di Charlie, Kit, Sam e Robin”, venivano anche numerate:
 
1. Non avere rapporti affettivi/amorosi di nessun tipo con gli inquilini (divieto di scopanza);
2. Non girare nudi o con indumenti poco consoni per gli spazi in comune;
3. Rispettare la presenza di altri nel bagno, non indurre gli altri a cedere il posto, non occupare il luogo per troppo tempo a scapito degli altri;
4. I luoghi in comune devono essere puliti ciclicamente da tutti i membri (ciclo di una settimana);
5. Se qualcuno deve essere invitato in casa, chiedere il permesso agli altri coinquilini.
 
   «Mi sembrano delle buone regole.» Mormorai tra me. Dubitavo di desiderare andare a letto con qualcuno della casa, ma non si poteva mai dire. Per il resto mi sembravano buone norme di convivenza. E c’era lo spazio per aggiungerne delle altre qualora lo ritenessimo opportuno.
Mi sedetti sul divano, raggomitolandomi in un angolino che sapevo sarebbe diventato mio.
Charlie arrivò tutta in tiro, con un top succinto che non si sarebbe mai detto imbottito, una gonna con calze a rete e super truccata. Portava al collo un foulard e tra i capelli un cerchiello con una rosa nera. Fece la giravolta e sorrisi. «Sei stupenda.»
   «Questi sono complimenti, Robin! Kit e Sam si limitano a dire di offrirgli da bere al bar. Questi sfaticati.»
   «Lavori in un bar?»
Annuì. «Lavoro in un bar quattro sere, durante la settimana faccio la cameriera in una tavola calda e qualche volta la cubista per una disco.»
Una donna super impegnata. Dopo il lavoro era già tanto trascinarmi sul divano. Sospirò e ci guardò. «Non mi fido lasciarvi a casa da soli.»
Kit, che aveva il monopolio del telecomando, cambiò canale. «Tra poco esco con degli amici. Si rimorchia facile stasera.»
   «Io sto qui, spaparanzata sul divano e non mi muovo.»
Sam bofonchiò un «Esco».
   «Robin, sicura di non voler uscire? Credo che ti divertiresti.»
  «Tranquilla, Charlie. Buon lavoro.»
Non molto serena, Charlie ci lasciò guardare la televisione. Forse avevo sbagliato a raccontarle la mia situazione sentimentale la prima volta che l’avevo incontrata: le avevo fatto credere di essere un cucciolo! C’era un po’ di tensione. Kit non parve accorgersene, ma nell’angolo di Sam sentivo parecchie energie negative che spiravano nella mia direzione. Proprio non gli piacevo!
Dopo una ventina di minuti, Kit mi lanciò il telecomando, che presi come fosse una bomba. Allungai la mano per cederlo a Sam, che di risposta si alzò. Vicino alla televisione c’era un piccolo specchio, così colsi l’occasione per fissare meglio Sam. Era un bel ragazzo, niente in confronto con l’apparente mascolinità di Kit. Vicino a lui, probabilmente, sfigurava un sacco. Aveva corti capelli nocciola, occhi cupi e un’ispida barba che lo rendeva più grande di tutti i miei inquilini. Non sapevo ancora le loro età! Sorseggiò un bicchiere d’acqua e guardò nella mia direzione. Stupida, pensando che mi potesse vedere dallo specchio, cambiai canale e mi concentrai sulla televisione. Non facevano nulla di interessante. Feci zapping per un po’, fermandomi a tratti per vedere o qualche cartone animato che all’inizio prometteva bene e poi si rovinava con una storia troppo demenziale anche per me, o qualche spezzone di film che me lo faceva odiare senza conoscerne la trama.
Kit uscì dalla sua stanza. Inondò la casa con un profumo così forte che quasi persi conoscenza. Aveva una canottiera super stretta che mostravano i muscoli, i capelli sciolti lunghi quasi quanto quelli di Charlie e dei jeans attillati e rattoppati più che mai. «Buona notte, ragazzi.»
   «’Notte.»
   «Buona serata.»
Il pensare di essere in una stanza con me, o il fatto che avesse effettivamente qualcos’altro da fare, indusse Sam ad andarsene. «Benvenuta nella nuova casa, Robin.» Biascicai alla televisione, sollevando il telecomando a mo’ di drink.
Presi il cellulare, rigirandomelo tra le mani. Potevo metterlo via, sarebbe stata la cosa più giusta da fare … e invece l’averlo tra le mani e sentirmi ancora sola mi fece fare una delle cazzate più grandi della mia vita.

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Capitolo 3
*** 3 ***


3
Amici?
 
            Scorsi i numeri della rubrica, pensando ai miei amici. Ale era di sicuro fuori e la maggior parte dei numeri che avevo erano amici in comune con Paul. Paul. Avevo ancora il suo numero di telefono anche perché, forse, ancora ci speravo di tornare insieme. Una storia di undici anni non si può buttare via così, magari aveva solo bisogno di una pausa ed io ero stata così tanto maliziosa da crederlo con un’altra. Forse.
Con coraggio premetti il tasto di chiamata e aspettai. Non mi chiesi neppure se era una cosa giusta o sbagliata da fare. Potevo sempre dirgli che volevo sentirlo … no, troppo da ragazza disperata. Volevo chiedergli come stava … sì, era la scusa migliore e quella che si avvicinava meglio alla realtà. Poi sono sempre stata brava a chiacchierare, qualcosa lo avrei inventato sul momento. Qualcuno rispose, avevo quasi sillabato mezza parola ma la voce di donna mi bloccò. «Pronto, chi è?»
Quesito numero uno: avevo chiamato al suo cellulare e aveva risposto una donna. Perché?
Quesito numero due: sapevo per certo che Paul si era salvato il mio numero di telefono, quindi chiunque avrebbe letto il nome Robin sul display. Perché la donna me lo aveva chiesto? Forse Paul aveva cancellato il mio numero e questo mi poneva al quesito numero tre: che cosa dovevo fare?
Buttai giù il ricevitore, con il respiro mozzo e la certezza di aver fatto una grande cazzata. Mi guardai in giro, alla ricerca di qualche aiuto ma l’unica cosa che mi veniva in mente era gettare il cellulare nel water, tirare lo sciacquone e lasciare che i coccodrilli nelle fogne, sperando nella loro esistenza, facessero qualcosa.
Il telefonino squillò e il nome di Paul fece la sua comparsa. Porca! Se rispondevo avrebbe saputo che ero a casa da sola e che mi mancava. E se era con un’altra era il modo peggiore di saperlo. Se quella era una sua amica … macché amica! Eravamo stati insieme undici anni e ancora non potevo guardare il suo cellulare! Per di più rispondere era sempre stato quasi da suicidio. I litigi più grandi erano stati perché avevo risposto al suo cellulare e, non per dire, c’era solo scritto “mamma”!
Ciabattai per la casa, sfondando con un pugno la porta di Sam. «Sam, scusa scusa scusa scusa scusa scusa!»
Il ragazzo aprì la porta con un cipiglio tra lo scazzato e l’incazzato, guardandomi dall’alto in basso con i capelli arruffati ma lo sguardo pienamente lucido. Gli mostrai il cellulare che continuava a squillare quella cacchio di musica che avevo messo. Per evidenziare l’evento indicai il telefono con l’altra mano, scuotendo la testa. «Cavolata … cavolata.»
   «Fai una frase di senso compiuto.»
   «Ho chiamato il mio ex, Paul, per sentire come stava e mi ha risposto un’altra. Ho messo giù e ora lui mi sta chiamando. Cazzata … cazzata.»
   «Rispondigli, allora.»
   «Ma se gli rispondo crederà che sono depressa perché lui mi ha piantato.»
   «E tu come sei?»
   «Ovviamente depressa perché lui mi ha piantato e quella che stavamo facendo non era una pausa di riflessione, ma lui non lo deve sapere. È per quello che è una cazzata!»
Mi prese il cellulare con uno sbuffo, girandomi le spalle e accucciandosi sotto alla scrivania. Pensai volesse annusare la pila di biancheria, un momento strano per pazzie del genere, poi capii che sotto doveva esserci uno stereo che fece partire la musica a tutto volume. Si portò il ricevitore all’orecchio, urlando in quel frastuono. «Pronto?»
Mi avvicinai a Sam per poter sentire cosa diceva, la mano al petto. Il cuore mi stava sfuggendo dalle dita. «Chi parla? Ahn, sì, ho sentito parlare di te. No, Robin è in bagno. Sì? Devo aver fatto partire la chiamata per sbaglio. Devo farti richiamare? Okay, ciao.»
Mi lanciò il telefono, spegnendo la musica. Biascicai piano. «Grazie.»
   «Cancella il numero del tuo ex.»
Scossi la testa piano, portandomi il cellulare al petto. «No.»
   «Lui è passato oltre. Fallo anche tu.»
   «No.»
   «E cazzo, cosa sei? Una ragazzina che va dietro al suo amore anche quando è finita da anni?»
   «Ci siamo lasciati da due settimane e stavamo insieme da undici anni!» Sentivo che urlavo, ma non potevo farci nulla. Ero ferita, incazzata e avevo bisogno di sfogarmi con qualcuno. Casualmente quella persona era Sam, che mi detestava già per qualche suo oscuro motivo, e non mi importava farmi odiare ancora di più da lui. Lo detestavo per avermi chiamata ragazzina, per avermi detto di troncare con Paul perché lui era andato oltre … lui non conosceva neppure Paul! Poteva essere burbero, qualche volta comportarsi un po’ da stronzo, ma sotto sotto era un bravo ragazzo e io lo conoscevo bene. All’opposto, uno sfaticato come lui non sarebbe mai riuscito a comprendere ciò che ci aveva legato. «Io non riesco a dimenticarlo così, come se non fosse successo nulla. Undici anni è quasi metà della mia vita! Fino a due mesi fa si parlava di matrimonio e … e poi salta fuori questa pausa di riflessione e anche se sapevo che una pausa in un momento del genere era perché c’era un’altra, io volevo crederci. Volevo credere che lui almeno un po’ mi amasse ancora e ho sentito la voce della tipa, l’ho sentita bene e credo anche di conoscerla. E voglio continuare a credere che un giorno si ricordi di noi e che torni da me, perché mi manca! È … e tu sei uno stronzo!»
Uscii dalla sua stanza con le lacrime agli occhi, chiedendomi perché avessi dato dello stronzo a Sam quando l’unico colpevole era Paul. Lo so. Una parte di me aveva già capito che cosa era la pausa di riflessione, altrimenti non avrei preso tutta la mia roba e non mi sarei trasferita prima da Ale e poi all’appartamento 9. Ero davvero una ragazzina. Mi gettai nel mio letto. La stanza profumava ancora di colore e sarei morta asfissiata se non avessi aperto un poco la finestra. Ma ero troppo debole, troppo arrabbiata per poter fare qualcosa. Quel lurido bastardo di Paul. Perché diavolo mi ero innamorata di uno del genere? Sam bussò alla porta per poi aprirla. Sentii i suoi passi, la finestra che veniva aperta e la brezza calda che entrava. Il letto si abbassò un poco per accogliere un altro corpo e una mano calda mi sfiorò la spalla. Biascicai tra le coperte. «Lui … stronzo. Non tu.»
   «Ho capito il senso. Ora fammi posto.»
Si stese vicino a me, prendendomi il cellulare dalle mani. Mi obbligò a guardarlo, mentre con calma scorreva i numeri in rubrica fino ad arrivare a Paul. Emisi un flebile gemito. Sam mi fissò. «Robin, o cancelli il suo numero o non andrai mai avanti. Quindi, cosa vuoi che faccia?»
Annuii, bisbigliando. «Via. Cancella.»
Contatto cancellato. Era tutto finito? Se era così semplice, perché mi sembrava che oltre a un nome dovesse essere cancellata parte della mia vita?
   «Molto bene. Ora, la cura migliore per queste situazioni è affogare nel gelato che non credo che abbiamo in casa, perché Charlie è goloso e non vuole ingrassare. Quindi ti asciughi gli occhi, andiamo nella gelateria qua vicino, prendiamo i gusti che ti piacciono di più, ci spaparanziamo sul divano e ci guardiamo un horror, che mi sembra molto opportuno. Okay?»
   «Scusa.»
   «Sono stato un po’ stronzo e avermelo detto non ti farà andare all’inferno. Dai. Alzati e andiamo. Tu scegli i gusti e io pago. Mi sembra un buon lavoro di gruppo.»
Mi accorsi che avevo una tuta e le pantofole quando Sam aveva già chiuso la porta di casa, e rispose solo con un laconico «Ho visto di peggio».
Come da programma, andammo nella gelateria … che non era proprio dietro l’angolo. Mi sentivo osservata, ma forse non era tanto come ero vestita, tanto per i due quintali di lacrime che mi erano rimasti incastrati tra le ciglia. Prendemmo una maxi vaschetta di gelato, che Sam pagò anche contro la mia volontà e, come da programma, ci piazzammo sul divano, con il cibo in mezzo e due cucchiai come armi.
   «Questa cura farà ingrassare un sacco.» Biascicai, asciugando una guancia con il dorso della mano.
Sam si alzò, tornando con una bottiglia di un liquido bianco che dubitai fosse acqua. «Quello che non ci distrugge ci fortifica. Ora, smettila di piangere e butta giù una bella sorsata. È qualche intruglio che ha fatto Charlie per il lavoro, credo. O dell’acido che Kit usa per pulire il motore delle auto, non so. Andrà bene lo stesso.»
Come mi aveva detto il dottore, chiusi gli occhi e tracannai una bella sorsata. Prima l’alcol mi andò su per il naso, facendomi mancare il respiro. Nello stesso momento dell’acido sembrò scorrermi lungo la gola per poi risalirmi su guance e occhi. «Yuuu!»
Scossi la testa come un cane, strabuzzando gli occhi. «Qualunque cosa sia, niente male.»
Lo passai a Sam che diede due belle sorsate, appoggiando la bottiglia nel tavolino. «Abbiamo da bere, cibo e film. Ricordati: se ci chiedono cosa abbiamo fatto stasera abbiamo solo guardato un film.»
   «Nasconderò la vaschetta in camera mia e la proteggerò a costo della mia vita. E tu quella sbobba. Pronta per il film.»
Presi una buona dose di gelato, inclinando la testa per vedere il titolo del film. «Già visto?» Mi chiese il ragazzo vicino a me, sorseggiando un altro po’ di quella bevanda come fosse acqua.
Scossi la testa, malinconica. «No. Non ... non guardavamo molti film. Eravamo più tipi da serate con amici, uscite, discoteca, … mai visto un film seduti a casa come persone normali.»
Già. Anche il fatto di rimanere da soli, solo noi due, era una cosa sperimentata solo con la convivenza, e pure lì Paul aveva detto che dovevamo prenderci delle pause durante la settimana per uscire con gli amici. Dubitai perfino che fosse uscito con i suoi amici ogni volta che me lo diceva. Non mi ero mai reputata una fidanzata troppo pressante: era per quello che era stato facile per lui lasciarmi indietro? Era per rabbia e delusione nei suoi confronti che dubitavo di ogni sua carezza? Perché avevo fatto il suo numero, quando il risultato mi aveva distrutto? Mi andava bene chiamare qualunque mio amico. E forse era quello il problema: avrebbero chiesto come stavo e a mentire, davvero, facevo schifo. Leccai il gelato nel cucchiaio, mentre Sam attaccava la vaschetta. «Nuova casa, nuova vita.»
   «Già. Comunque noi non ci siamo mai presentati.» Allungai una mano per stringerla. «Piacere, Robin Youth.»
   «Sei già ubriaca?»
   «Dai, assecondami che dopo bevo ancora di quella roba.»
Lui sorrise, stringendomi la mano. «Piacere, Samuel Dror.»

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Capitolo 4
*** 4 ***


4
Oddio: un topo!
 
              Sentivo un martello pneumatico che batteva sulla mia testa e dopo un po’ mi accorsi che altro non era che la mia sveglia. La spensi, mormorando un «Cattiva», alzandomi dolorante. Sospettai di aver avuto una seconda sbornia nel giro di poco tempo e, con passo malfermo, uscii dalla stanza. Della sera prima ricordavo solo l’inizio della serata, con Sam che si presentava e poi mi passava la bottiglia. La bottiglia! Chissà che diavolo avevo bevuto la sera prima, per avere quel maxi cerchio alla testa. C’era silenzio in casa, quindi entrai in bagno, feci la pipì e mi guardai la faccia dopo essermela lavata. Beh, per lo meno stavo migliorando nel reggere l’alcol: niente vomito tra i capelli. Potevo erigere un monumento per essere uscita vittoriosa da quella chiamata sbagliata. Con passo traballante mi avvicinai alla porta, che fu aperta da Sam.
   «’Giorno.»
   «Ciao. Faccio del caffè, tu che vuoi?»
   «Tutto il caffè che riesci a mettere in una tazza.» Mi disse, reprimendo a stento uno sbadiglio e chiudendo la porta del bagno mentre uscivo.
Ero in condizioni disgustose, con i capelli arruffati e gli occhi gonfi di sonno e, ovviamente, il pigiama più infantile che il mio repertorio potesse offrire. Pensai alle frigole, e in effetti in una situazione del genere ero meno appetibile che mai! Misi la moca nel fornello, fissandola e invitandola a sbuffare velocemente. Poi mi accorsi che mancava tutto il resto quindi, ripromettendomi di fare la spesa e di contribuire anch’io alla casa, aprii tutte le ante fino a trovare due tazze, delle fette biscottate, una confezione di marmellata in frigo, dei biscotti e del latte, che annusai prima di pensare di berlo o meno.
Sam uscì dal bagno quando il caffè borbottò e io ne versai un po’ nella mia tazza, svuotando il resto nella sua. Ci sedemmo, non particolarmente svegli. Mi guardai in giro, chiedendomi perché Kit e Charlie dormissero. Sam trattenne uno sbadiglio. «Kit si sveglia più tardi. La sua autofficina è a cinque minuti a piedi da qui. E Charlie va a lavoro a orario pranzo.»
Versai del latte nella tazza, borbottando. «Beati loro. Tanto tanto sonno.»
   «Che lavoro fai?»
   «Sono una segretaria per una compagnia che fa pubblicità. Non è molto conosciuta, è la SkyAd.»
   «Stai scherzando?»
Scossi la testa. «Mai la mattina così presto e con poche ore di sonno. Perché?»
   «Lavoro nel piano superiore, alle assicurazioni Hunt.»
   «Con orario dalle 08:00 alle 16:00?»
   «Tutti i giorni, da lunedì a venerdì.»
Ridacchiai. «Non so se trovarlo inquietante. E non ci siamo mai beccati? Stesso palazzo, stessi orari.»
   «Parcheggi l’auto nei sotterranei?»
   «No, prendo l’autobus, quindi ecco perché non ci siamo mai visti. Tu prendi l’ascensore tre, mentre io l’uno. Peccato. Era divertente. Poi se noti la somma dei nostri nomi e cognomi è uguale a dieci.»
   «Non mi dire che sei una che è fissata con i numeri!»
   «No, non con i numeri. Con i tarocchi, le coincidenze, le targhe, … ho tanti interessi. Non disprezzo mai nulla. Mi piace vedere i film, giocare con i bambini, fare congetture sulle persone che non ho mai visto, …. Okay, ci stavamo conoscendo e questo ti sta terrorizzando un po’. Che cosa facciamo? Insomma, entrambi dobbiamo andare in bagno, abbiamo gli stessi orari, … come ci organizziamo con il bagno?»
   «Ce lo giochiamo.»
Sam si alzò all’improvviso e io ero ancora impegnata a districare la gambe dalla sedia quando lo sentii chiudere la porta del bagno. «Dannazione!» Sparecchiai la tavola, guardando torva la porta e chiedendomi se avrei perso l’autobus. Mah. Con passi strascicati mi diressi verso la mia stanza e Sam aprì la porta del bagno. Aveva lo spazzolino in bocca e mi invitò ad entrare. Saltellando, mi diressi verso il mio bicchiere, dove Charlie aveva già scritto Robin, mettendo il dentifricio sullo spazzolino.
   «Comunque grazie.» Gli dissi prima di lavarmi i denti e di aver la bocca impastata di dentifricio.
Uscimmo in bagno insieme, dirigendoci alle rispettive stanze. Dopo l’opera di restaurazione in camera, fui pronta per andare a lavoro. Accorgendomi del ritardo, uscii dall’appartamento e mi catapultai giù per le scale.
Sfrecciai con il fiatone lungo la strada, ringraziando le ballerine che avevo deciso di mettermi e mi sbracciai verso l’autobus che, come niente fosse, se ne andava dalla fermata. Mi misi a camminare, cercando di recuperare il fiato e guardando torva l’autista. Mi aveva visto, cosa gli costava stare fermo un minuto in più per farmi salire? Oggi l’autobus 11 aveva tutte le mie maledizioni.
Una Chevrolet nera mi suonò, attirando il mio sguardo cupo. Si accostò, tirando giù il finestrino. Sam scosse la testa, sospirando. «Sali.»
   «Grazie!» Urlai, mentre attraversavo la strada.
Salii in auto, mentre Sam si dilungava. «L’avevo detto che le donne portano solo guai e fanno casini. Tu, per di più, sei anche bambina. Vero, Baby?»
 
            La giornata non era stata male. A dispetto di quello che dimostro, a lavoro sono molto ordinata e seria. Sistemo carte, faccio fotocopie, o almeno tento, presiedo alle riunioni, scrivo tutto quello che dicono e poi alzo la testa e annuisco, come se avessi capito qualcosa. Ma, logicamente, fuori dal lavoro le cose sono diverse. Sam, ormai, mi aveva già inquadrata e per lui ero solo baby, quella che ha perso l’autobus, che la sera prima ha chiamato il suo ex e ha avuto una crisi isterica davanti a lui.
Mi aveva anche accompagnato a casa e, sia all’andata sia al ritorno, eravamo stati in silenzio. Avrei voluto fare meno figuracce, ma era contro la mia natura. Già il starmene tutto il giorno in ufficio mi faceva impazzire, figuriamoci se avevo il coraggio di essere perfezionista anche a casa. In ogni modo, mi sembrava che il nostro rapporto stesse per lo meno migliorando. Quella maledetta chiamata qualche risultato positivo l’aveva dato! Sam aprì la porta, corrucciandosi. Inginocchiata per terra c’era Charlie, intenta a guardare sotto al divano. Chiusi la porta e mi accucciai per vedere cosa guardava. «Cosa cerchi?»
   «A Kit è scappato il pranzo del serpente.»
Annuii. «Mi sono sempre chiesta cosa mangiano i serpenti in cattività.»
   «Kit gli prende un topo vivo e lo mette nella teca. Un suo amico, credo, ha un allevamento di topi.»
Mi immobilizzai. «C’è un topo vivo in casa?»
   «Sì.»
Feci un salto, correndo verso la sedia e salendoci in piedi. «Oddio, c’è un topo in casa. Oddio, che schifo!»
Charlie mi sorrise, mentre Sam corrucciò ancora di più la fronte. «Robin, è solo un topo! È piccolo, e non ti fa niente!»
   «No, no! La maggior parte delle malattie vengono trasmesse dai topi, sono molto intelligenti e lo so che quel topo ci sta osservando e sta trovando i nostri punti deboli. E lo sai i tempi di riproduzione dei topi? Se trovano l’ambiente ideale sei rovinato. Nel giro di un anno trovi la casa infestata. Topi ovunque. Maturano molto velocemente.»
   «Robin …» Cercò di calmarmi Charlie, continuando a guardare sotto il divano e parlando come se avesse a che fare con una persona molto tarda. «… abbiamo un topo, non una coppia.»
   «Mi puoi assicurare che è un topo e non una topa? E se fosse già incinta e si fosse nascosta per fare nascere i cuccioli? Cosa mi dici?»
   «Una topa.» Riuscì a dire Sam, trattenendo il riso.
   «Ho paura dei topi. Non mi piacciono, con i loro occhietti acquosi, quella coda lunga che … a che gli serve, poi? E le manine piccole che si passano tra il muso.» Imitai il verso che avevo visto fare dai criceti, scuotendo la testa. «Mi fanno schifo. Mi sembra che qualcosa mi corre lungo la schiena. Bleah.»
Charlie si alzò. «Al momento non trovo il topo, quando torna Kit continuerà a cercarlo. Ora, Robin, puoi scendere dalla sedia?»
   «No.»
Sospirò. «Oh, Robin, non fare la ridicola! Abbiamo sempre ritrovato i topi, non vedo perché tutte queste storie.»
   «Paura.» Dissi, digrignando i denti. Allungavo il collo per vedere se quell’esserino dalla coda lunga si fosse presentato e avesse tentato di attaccarmi. Non era una reazione esagerata. Avevo veramente così tanta paura dei topi. Ragni, serpenti, insetti, … mi erano indifferenti, ma tutto quello che aveva anche solamente a che fare con i topi mi terrorizzava.
   «Come fa a farti paura un topo? È piccolo!»
   «Tempo fa ho fatto un viaggio in Italia con i miei, e ho visto un topo che lottava contro un gatto. E il gatto era piccolo a confronto! E so che era un topo perché … perché assomigliava a un topo, ma era grande. Un topo gigante, tipo il topastro di quel cartone animato.»
Sam scosse la testa. «L’unica persona al mondo terrorizzata dal Maestro Splinter
Stronzo. Le paure delle persone sono loro, nessuno deve giudicarle. Charlie, per quanto divertita, cercò di mantenere la conversazione su un piano più pratico. «Hai intenzione di rimanere lì finché non troviamo il topo?»
   «Sì. Non metto i piedi per terra.»
Charlie sospinse Sam verso di me, muovendo le mani. «Su, dai! Aiutala! Non può rimanere lì!»
   «E che devo fare? Prenderla in braccio e portarla in camera?»
   «Questo è il modo di aiutare i compagni! Su! Vai.»
Con la faccia di qualcuno che sta facendo qualcosa di particolarmente sgradito, Sam mi porse la sua schiena, a cui mi aggrappai con un «Scusa». Scosse la testa. «Quando avevo detto che le donne portano guai, mi aspettavo qualcosa di più umano! Tu sei una catastrofe fatta donna.»
Mi lasciò sul letto della camera e, dopo averlo convinto con la faccia più dolce che aveva il mio repertorio di aprire l’armadio e di prendermi una tuta, uscì dalla stanza.
Mi accorsi che aveva lasciato la porta aperta e, indecisa sul da fare, guardai con desolazione la tuta. Avrei voluto cambiarmi e mi importava poco che mi vedessero in intimo. Potevo sempre considerarlo come un estensione del costume da bagno! Quello che mi creava problemi era infrangere le frigole. Urlai. «Sentite, mi dispiace ma mi cambio con la porta aperta!»
   «Fa pure.» Urlò di rimando Charlie. Immaginai che Sam stesse sospirando. Ogni volta che sembrava che potessimo fare amicizia, facevo un qualcosa che mandava in malora tutto quanto! Fortunatamente non c’era Kit, altrimenti avrei perso un altro punto a mio favore. Mi infilai i pantaloncini della tuta e metà della maglia quanto Charlie venne a controllare. Scosse la testa, divertita. «E se il topo fosse entrato in camera tua?»
   «Charlie, ti sto odiando!» Di risposta, però, controllai che non ci fossero esserini zampettanti sotto il letto, prima di pensare che i miei capelli potessero essere usati come liane per attaccarmi. «Anche mia sorella mi prendeva in giro quando vivevamo insieme, finché non l’ho minacciata con uno scarafaggio. E quelli sono più facili da recuperare, credimi.»
Rise, scuotendo la testa e incrociando le braccia. «Poveri i tuoi genitori!»
Guardai la ragazza davanti a me. Anche se aveva un corpo da maschio, in realtà era molto magra. Supposi che non potesse essere molto forte. Però rimaneva un uomo e io non ero poi tanto pesante. Almeno Sam non avrebbe protestato più di tanto nel trasportarmi! «Dai, Charlie … per piacere … mi puoi portare in salotto? Mi metto buona sul divano e non mi muovo più.»
La ragazza di fronte a me urlò. «Sam, puoi portare Robin in salotto?»
   «No, perché Sam? Già mi odia.» Biascicai piano.
   «Dai! È solo un modo per fare amicizia. Io e te lo siamo già, ora devi stringerla con lui.»
   «Credo di avere più speranze con Kit!»
Rise. «Forse.»
Sam entrò nella stanza guardando con sguardo funereo. «Baby, evita di chiamarmi ancora. Ti porto in salotto ma, per oggi, io non esisto più.»

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Capitolo 5
*** 5 ***


5
Insieme
 
    Mi ero mossa per il letto per una buona oretta, poi avevo guardato la luce verde della sveglia e mi ero rigirata per altri dieci minuti. Ogni volta che chiudevo gli occhi sentivo dei piccoli suoni, quasi lo sgranocchiare di qualcuno. Supposi fosse autosuggestione, ma cavolo, se funzionava bene! La porta della mia stanza era chiusa, quindi se il topo c’era non aveva modo di uscire. Ma d’altra parte, se aprivo la porta per far uscire il topo e magari lui non era neppure lì, avrei solo peggiorato la situazione. Mi girai ancora tra le coperte, sobbalzando quando, probabilmente un rumore causato da me, produsse un zampettio.
Mi misi a sedere. Di norma avrei voluto chiamare Charlie, ma significava aprire la porta della mia stanza, uscire, voltare a sinistra, fare il corridoio, bussare a destra. E volevo evitare il più possibile il contatto con il pavimento. Con Kit la situazione era pressappoco simile, visto che la sua stanza era di fronte a quella della ragazza. E non era proprio il caso di sfondare il muro con dei pugni vigorosi! L’unica altra scelta che avevo era Sam. Pensando che l’ira di Sam fosse niente in confronto a un topo per la stanza, accesi la luce sul comodino e, con un profondo respiro, scesi dal letto, sfrecciai verso la porta, l’aprii e sfondai con un pugno quella della stanza di Sam. Sgattaiolai nella mia stanza, sperando di averlo svegliato. Mi misi in ginocchio sul materasso, guardando il buio che invadeva il corridoio. Sibilai al nulla. «Sam … Sam!»
Sentii una porta aprirsi e un’ombra si allungò nella mia stanza. Aveva i capelli arruffati, gli occhi gonfi di sonno e se ne stanza in piedi con il pigiama di Star Trek. Sul taschino della maglia aveva la faccia di Spock che mi osservava, pieno di disapprovazione. «Che c’è?»
   «Ho paura che ci sia il topo nella stanza.»
Si portò una mano sugli occhi. «Baby, sono le tre di mattina!»
   «Non abbiamo trovato il topo e Charlie mi ha fatto venire il sospetto che il topo sia entrato in camera. Se non c’è e lascio la porta aperta è probabile che entra … ma se c’è e io lascio la porta chiusa non può uscire. Ho paura.»
Si avvicinò a me, torreggiandomi con occhi scuri. Socchiuse gli occhi, bisbigliando. «Non stai scherzando, vero?»
E chi aveva mai scherzato? Mi sedette vicino a me, prendendomi la mano. Solo il contatto con la sua ferma mi fece capire che stavo tremando come una foglia. Sospirò. «Rimani qui.»
   «No.» Mi avvinghiai al suo braccio, tenendolo ancorato a me. «Non lasciarmi sola, per piacere.»
   «Arrivo subito, devo solo chiamare Charlie e Kit. Lasciami il braccio.»
   «Sicuro che non mi lasci da sola e te ne torni a dormire come nulla fosse?»
   «Credi che sia così meschino?» Sospirò. «Va bene, non rispondere. Fidati. Torno qui tra un minuto. Se non sono qui hai il permesso di urlare e di svegliare il condominio.»
Con non molta fiducia gli lasciai il braccio. Sam uscì dalla stanza e lo sentii picchiettare piano nelle stanze vicine. Avevo le orecchie tese e scambiai il bisbigliare per lo zampettare di qualcuno. Charlie entrò nella stanza. Fino a quel momento avevo sempre pensato che fosse solo una donna con tratti maschili. Non mi era neppure passato per la testa che, in realtà, era l’esatto opposto. Indossava un pigiama composto da pantaloncini corti e da una maglia un po’ attillata, che mostrava la piattezza del suo seno. Anche il viso, ora senza la consueta dose di trucco, era quello di un giovane ragazzo. Bofonchiò qualcosa, sedendosi nel letto vicino a me. «Dormo con te.»
Annuii, mentre anche Kit faceva la sua comparsa, reggendo il serpente in mano e adagiandolo per terra. Si mosse come una canna d’acqua, sgusciando tra il pavimento. A mio dire, quell’animale era meno infido del topo. Aveva una sua logica e, se lasciato stare, non creava nessun tipo di problema.
Charlie borbottò. «Oddio, Kit! Quello non è il modo di presentarsi negli spazi in comune!»
Infatti, il ragazzo era a petto nudo e indossava solo un paio di boxer nero. Per essere un palestrato, aveva le gambe pelose di una scimmia accompagnate dal petto muscoloso e liscio di una statua di marmo. I capelli erano arruffati come la prima volta che l’avevo visto e Sam, alle sue spalle, ci fissava. «Risolto il problema? Se c’è un topo nella tua stanza, il serpente lo cattura. Se non c’è esce e va in cerca per il resto della casa.»
Guardai Sam, annuendo, mentre Kit reprimeva a stento uno sbadiglio. «Bene. Io vado a letto.»
   «E ci lasciate così? Visto che siamo tutti svegli potremmo fare un Pigiama Party
Sam sospirò. «Prima cosa: tutti domani mattina lavoriamo, quindi una qualsiasi festa è da scartare. A maggior ragione se è una festa pre-adolescenziale. Seconda cosa: se anche fossi d’accordo a farla, non entrerei mai in una stanza dove tu e Robin vi state facendo le treccine. E terza, non ultima ragione: Charlie, hai trentadue anni!»
Charlie alzò un sopracciglio. «Molto maleducato, da parte tua, ricordare quanti anni ho! E cosa fate? Lasciate me e Robin da sole? Non ci vedi terrorizzate?»
   «Robin forse. Tu più che altro ti stai divertendo!»
Kit si sedette sul letto, a occhi socchiusi. Si lasciò scivolare sul materasso, bofonchiando. «Piantala, Sam. È cocciuto. Io rimango qui.»
Sam rimase indeciso sulla porta, fissando noi tre. Io ero raggomitolata in un piccolo spazio di letto, Charlie mi era seduta vicino, con la mano appoggiata alla spalla, mentre Kit era ai piedi del letto, steso e mezzo addormentato. Charlie picchiettò piano vicino a me, come ad invitare un cane un po’ viziatello a fare quello che non voleva. La similitudine era particolarmente calzante.
Ringhiò. «E va bene!»
Sam si sedette sul letto, contrariato, invitando me e Charlie a metterci di traverso, così da poter dormire lì tutti e quattro comodamente. Mentre mi stendevo pensavo che erano gentili, quei ragazzi. Non ci conoscevamo da così tanto, eppure avevano acconsentito a dormire con me, per farmi sentire almeno un po’ tranquilla. In quella casa, con quei tre ragazzi a loro modo un po’ eccentrici, mi sentivo proprio in famiglia. Era un po’ come stare con Ale, nonostante li conoscessi da meno tempo.
Kit e Charlie mi proteggevano ai lati, allungando la mano potevo sentire il calore di Sam. I loro respiri erano flebili, profondi. Ora non mi importava dello sgusciare del serpente sul pavimento, se mi fosse stato possibile sentirlo, o lo zampettio di un topo. Sfiorai con la mano la testa di, almeno sospettai, Sam, bisbigliando al nulla «Grazie». Sì. Con loro stavo molto bene.
Qualcuno mi scuoteva, prima piano, poi mi pizzicò leggermente le guance per appoggiare una mano sulla mia bocca. Aprii gli occhi sonnacchiosa, mentre Sam si portava il dito dell’altra mano alla bocca, per intimarmi il silenzio. Charlie dormiva in modo assurdo. Aveva invaso quasi tutto il letto e, me ne rendevo conto ora, una sua gamba bloccava le mie e parte della gamba di Kit. Mi alzai leggermente, mentre Sam mi aiutava a sedermi, intimandomi a gesti di fare piano e silenzio. Agguantai dei vestiti dalla sedia, mentre Sam vicino alla porta mi chiamava battendo sul ginocchio. Zampettai con le punta dei piedi, bloccandomi quando vidi una gomma immobile in mezzo al corridoio. Il serpente aveva catturato e ora stava digerendo il topo. Quel piccolo esserino aveva tentato di entrare pure nella mia stanza!
Sam mi indicò il bagno, cedendomi il posto. Mi sbrigai appena mi resi conto che ero in ritardo e che anche saltando la colazione avrei potuto appena arrivare in tempo.
Avevo appena infilato la camicia e stavo chiudendola quando Sam aprì la porta. Gli voltai le spalle all’improvviso, mentre si sistemava i capelli, anche lui evidentemente in ritardo. «Tu e il tuo stupido terrore dei topi.»
   «Scusa!» Bisbigliai. Dubitavo, però, che mi avesse ascoltato. Il sentimento era genuino, ma ero più che convinta che in una situazione simile in futuro mi sarei comportata nella stessa maniera.
   «Sì … come no. E adesso dove vai?»
Scivolai verso la porta. «Ho una corriera da prendere!»
   «Ti porto io.»
   «Ma …»
   «Abbiamo la stessa strada da fare … e portare una o due persone in più non mi cambia.»
Uscii dal bagno, chiedendomi quante volte potevo infastidire una persona in un giorno. Mi misi le scarpe, giochicchiando poi con la cerniera della borsa. Stavo creando un po’ troppi di problemi a Sam. E quello non mi aiutava a cancellare il suo detto per cui ogni donna è portatrice di guai.
Sospirò passandomi vicino. Mi imbronciai. Già: non ci facevo gran figura come membro del genere femminile! Salii nella sua auto senza che parlassimo, e guardai fuori ancora prima di mettermi le cinture di sicurezza.
   «Senti, Sam, mi …» Mi zittii. Dubitai che avesse sentito il mio mugugnare flebile, visto che era stato parzialmente coperto dall’accensione dell’auto. Per avvalorare la mia tesi, Sam chiese. «Hai detto qualcosa?»
   «No». Niente che valesse la pena di dire. “Mi dispiace” lo avevo già detto e entrambi sapevamo che avrei ripetuto la stessa scenata in una situazione simile. Avevo paura dei topi. Mai avevo desiderato affrontarla come in quel momento.
Guardai distrattamente il display del telefonino, chiedendomi quanti altri modi avrei potuto creare per farli pentire di aver accettato una coinquilina femmina. Per lo meno era improbabile che qualcuno mi vedesse sotto una luce sexy. Beh … forse potevo avere ancora qualche speranza con Charlie, ma ero certa che il nostro rapporto sarebbe potuto essere quello di due amiche, piuttosto che di due che si frequentavano.
Kit aveva aspettative diverse, per quanto riguardava le relazioni …. Ed ero certa che Sam mi aveva già inquadrato in un modo che difficilmente sarei riuscita a modificare. La prima regola delle frigole era al sicuro!
Ancora con quel silenzio snervante salimmo nell’ascensore e, prima di scendere, bisbigliai piano «Scusa».

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Capitolo 6
*** 6 ***


6
L’anniversario
 
              Ogni anno, nella data del nostro anniversario, ci prendevamo un giorno di ferie e passavamo la giornata insieme. Anche durante la convivenza era rimasto questo piccolo modo di dirci che ci volevamo bene. Undici anni prima, il venti luglio, io e Paul avevamo deciso di stare insieme. Nel presente, non eravamo più una coppia. Forse se me lo avessero detto quel giorno non ci avrei creduto neppure io che saremo resistiti tanto … ma dopo undici anni avrei sperato che la storia durasse più a lungo.
Avevo detto ai miei coinquilini che mi ero presa un giorno di ferie, senza specificare quanto mi facesse male guardare il calendario e sapere che data era.
Mi ero ripromessa di passarla nel migliore dei modi, quindi mi alzai di buonora e salutai con un sorriso falso Charlie, l’unica che fosse in casa: Sam e Kit erano già a lavoro. Stava mangiucchiando una barretta dietetica, sfogliando un giornale. «Oggi cosa hai intenzione di fare?»
Storsi la bocca. Avevo riflettuto su un sacco di cose, e ogni piano mi sembrava più assurdo dell’altro. Non avevo motivo di festeggiare: sinceramente non ne avevo emotivamente la forza. «Beh, volevo ringraziarvi per … per l’altra sera. Sai … per la questione del topo. Avevo pensato di andare a fare la spesa e di preparare qualcosa da mangiare, poi sistemare la casa e …» Tentennai, guardando Charlie. Ero certa che lei non si sarebbe arrabbiata, ma non la conoscevo ancora così bene da riuscire a prevedere una sua reazione. Corrucciò la fronte con un sorriso, obbligandomi a finire con un bisbiglio. «… e pulire le vostre stanze.»
   «Pulire le nostre stanze?»
La mia voce si stava affievolendo ogni secondo di più. «Per lo meno quella indecente di Sam, ma non dirglielo che l’ho pensato! Anche quella di Kit, in ogni modo, non mi sembra profumare …»
La ragazza ridacchiò, girando pagina e fingendo di essere interessata a un articolo. «Paura di farli arrabbiare? Se ti può essere d’aiuto, Kit sarebbe felicissimo che qualcuno gli sistemi la stanza, tanto meglio se donna … e a dirla tutta, approvo una pulizia radicale alla stanza di Sam. È disgustosa, e sapere che ha un solo muro che la divide dalla mia mi fa approvare il tuo modo di ringraziarci.»
Felice e rassicurata, trascrissi gli ingredienti che mi servivano per un piatto di pasta che avevo intenzione di preparare alla sera. Avendo origini italiane mi sembrava utile far conoscere parte della mia cucina. In più era l’unico cibo che mi veniva in mente cui potevo tirarmene via un po’ prima di condirlo con della carne.
   «Spero solo di non far arrabbiare di più Sam. Già mi odia.»
   «Sam non ti odia.»
Annuii, convinta. «Sì, invece.»
   «No.» Charlie chiuse la rivista con uno scatto indispettito, prima di fissarmi scuotendo la testa. «Sam non odia te, è solo deluso dal genere femmine. Quando l’ho conosciuto era un ragazzo molto dolce che viveva in questo appartamento con Kit e quella che allora era la sua ragazza. Credimi quando ti dico che lui non ti odia.»
Lei continuò. «Sono venuta in questo appartamento proprio perché lui e Jodie si stavano per sposare e occorreva un nuovo coinquilino … e aiutava il fatto che fossi amica di Kit. Dopo quello che gli è successo credo che sia normale provare sfiducia e rabbia nei confronti del mondo.»
   «Cosa è successo?»
Sospirò, combattendo tra l’amicizia nei confronti di Sam e la necessità di farmi capire il suo comportamento. «Jodie e Sam si dovevano sposare. Ero diventata loro amica poco prima delle nozze, così rimasi sorpresa che mi invitassero ma quel Sam era molto allegro ed era innamorato della sua ragazza. Il giorno del matrimonio, però, Sam trovò Jodie e suo fratello a letto insieme.»
   «Suo fratello? Il fratello di Sam?»
Annuì. «Già. Mark e Jodie, a quanto sembrava, avevano una storia da un po’ di tempo e Sam lo scoprì nel modo peggiore. Essendo Mark più piccolo di Sam, o forse perché già la famiglia sospettava qualcosa, o non so che altro, la scoperta della loro relazione non fu scandalosa. Questo è successo due anni fa e da allora non parla con nessuno della sua famiglia. In ogni modo, al danno è seguita la beffa, perché Jodie e Mark hanno invitato Sam al loro matrimonio poco dopo il fatto.»
   «Che …»
   «Non è tutto.» Ogni parola che diceva Charlie mi faceva sempre più capire l’atteggiamento cupo di Sam. Iniziavo a disprezzarmi per non averlo capito, anche se ogni sua parola urlava che non ce l’aveva propriamente con me, ma c’era qualcos’altro sotto. «La madre di Sam lo chiama, una volta ogni tanto, per dirgli di Mark e Jodie. Da qualche urlo che si è lasciato scappare Sam, sembra che la madre lo incolpi di essere troppo crudele con il fratello. Capirai, quindi, che non ti odia. Cerca di non giudicarlo troppo male. Ne ha passate abbastanza. È disgustato da tutto quello che può essere legato all’universo femminile non meno di quanto è disgustato da se stesso. Non essere troppo crudele con lui.»
   «Grazie.» Bisbigliai. «Grazie.»
Charlie mi sorrise gentilmente, prima di dirigersi verso la sua stanza.
Le confessioni non mi avevano fatto dimenticare il mio piano. Anzi. Ero convinta di aver una ragione in più per ringraziarli e per far capire a Sam che non tutte le donne erano così. E lo diceva una che, con molta probabilità, era stata pure tradita. Ero l’opposto della sua ex. L’obiettivo di quel giorno, che poteva essermi utile per farmi dimenticare la data, era di aiutare qualcuno. Per prima cosa andai a fare la spesa e, anche se mi ero ripromessa dopo l’ultimo fiasco di non cimentarmi più nella preparazione di un dolce, decisi che qualcosa di calorico e zuccherino fosse d’obbligo per la sera. Presi tutti gli ingredienti e tornai a casa alleggerita ma battagliera.
Poi decisi di combattere contro la casa. L’appartamento era spazioso e in quattro convivevamo piuttosto bene. Quindi non mi aspettavo di metterci poco. Iniziai dalla mia camera, che supposi a ragione di metterci poco. Poi combattei contro quella di Charlie, seguita da quella di Kit. Lasciai quella di Sam per ultima. La sistemai meglio che potei, spolverando anche cose che non capivo e sistemando lo stereo sulla scrivania, invece del terreno. Buttai a lavare gli indumenti sporchi e piegai riponendoli nel cassetto quelli puliti. Aprii le finestre, eliminando quell’odore da chiuso che aleggiava come un miasma fastidioso. Infine pulii gli spazi in comune. Bevvi un succo per ricaricarmi di energie, preparandomi a cucinare. Prima che Charlie tornasse a casa, una torta con un aspetto malfermo e poco invitante si cucinava nel forno, mentre un profumino di carne friggeva vicino a una pentola già salata. Preparai la tavola più accuratamente di quanto avrei fatto, mettendo i sottobicchieri e i portatovaglioli trovati dentro un cassetto per rendere il clima più da festa. Accesi lo stereo, mettendo della musica classica di sottofondo.
Colsi il tempo che mi restava per farmi una veloce doccia, tornando di nuovo nel salotto – cucina. Sfornai la torta: l’aspetto non era dei migliori ma assaggiai un pezzettino che si era staccato e ritenni che, almeno, questa volta assomigliava a una torta. Colta da un lampo di genio, presi dei calici e li misi vicino ai bicchieri. Soddisfatta guardai il risultato.
Charlie entrò per prima, con un sorriso, sollevando i pollici in segno di approvazione. Dopo neanche un minuto entrò Sam, che non guardò neppure la tavola, dirigendosi sbuffando nella sua camera. Uscì un secondo dopo, livido di rabbia. «Sei entrata nella mia camera?»
   «Sam …»
   «Non sto parlando con te, Charlie. Sei entrata nella mia camera?»
La sorpresa che volevo fare era sfumata. Non solo lo avevo infastidito violando nuovamente la sua stanza, ma lo avevo fatto arrabbiare più del solito. Mi rannicchiai in un angolo. «Sì.»
   «Chi ti ha dato il permesso di entrare?»
Non sapevo cosa dire. Abbassai la testa, con gli occhi lucidi. Avevo sbagliato di nuovo. Per aiutarli e ringraziarli non avevo fatto altro che peggiorare la situazione. Se fosse rincasato Kit, anche lui si sarebbe arrabbiato con me. Una lacrima bollente mi scese lungo la guancia. «Ovviamente lo ha fatto per ringraziarci, Sam!»
   «Io non le ho dato il permesso …»
Uscii dall’appartamento sbattendo la porta. Scesi le scale di corsa, la vista annebbiata dalle lacrime. Sapevo che quel giorno sarebbe stato pessimo. Già il fatto che era la data dell’anniversario mio e di Paul me lo doveva confermare. E con che pretese avevo voluto aiutarli? Chi ero io per violare la loro privacy solo per ringraziarli? Scivolai dalle scale a causa delle ciabatte, sbattendo il sedere dolorosamente. «Robin, stai bene?»
Kit mi aiutò ad alzarmi, preoccupato, ma sgusciai di fianco a lui, abbandonando le ciabatte ai suoi piedi e uscendo scalza dall’edificio. Non sapevo dove andare, se non che volevo essere lontana da lì. Ero in buonafede quando ero entrata nelle loro stanze. Lo avevo fatto per fargli piacere quando mi ero messa a cucinare. Attraversai la strada, entrando nel parco e nascondendomi in mezzo a un cespuglio. Mi rannicchiai, prendendomi la testa tra le mani. Stavo piangendo. Non volevo farli arrabbiare, non volevo violare la loro intimità, non volevo far infuriare Sam. Volevo che quel giorno fosse perfetto.
Singhiozzai piano, tirando su con il naso. Per ringraziare Sam, ora lo sapevo, sarei dovuta andarmene, lasciare l’appartamento e fingere di non averlo mai conosciuto. La delusione che aveva avuto dal genere femminile non poteva essere superata entrando nella sua stanza e pulendo. Non so quanto rimasi lì, in mezzo al cespuglio ronzante di insetti, in una posizione scomoda e con il telefonino che pulsava nella tasca dei pantaloncini. Quando iniziò a squillare tirai su con il naso, vedendo nel display il numero che avevo salvato prima di sapere che sarei andata a vivere lì. Lo strinsi in mano, depressa.
   «Entra dentro. Charlie e Kit vogliono mangiare.»
Mi raggomitolai di più, affondando la testa tra le ginocchia. «Me ne vado.»
Sam mi aveva trovato seguendo la suoneria: dubito ci fossero altre persone raggomitolate in un cespuglio! Sentii che si inginocchiava vicino a me. «Entra dentro.»
   «No. Tu sei arrabbiato.»
   «Io … io non sono arrabbiato. Entra dentro, Baby. Charlie ha detto che hai lavorato tutto il giorno solo per ringraziarci, quindi il minimo è mangiare insieme. Mi puoi guardare? Detesto parlare con i capelli delle persone!» Scossi la testa, stringendo di più le gambe. Sospirò. «Anche se me la sono presa … grazie per aver sistemato la stanza. Ora puoi entrare in casa?»
   «No. Domani me ne vado.»
   «E te ne vai perché lo vuoi tu e perché credi che lo voglio io?»
Singhiozzai. «Perché lo vuoi tu.»
   «Io non l’ho mai detto.»
   «Ti arrabbi sempre con me.»
   «Non sono arrabbiato.»
   «E poi sono una ragazza e tu le odi.» Nascosi la testa sotto il braccio. «Charlie mi ha detto quello che ti è successo …»
Mi prese la mano, tirandomi su di peso. Ero rimasta raggomitolata per troppo, tanto che l’intero corpo era preso da piccole scosse ed era percorso da una famiglia di formiche che sembravano solleticarmi ogni nervo. Mi sollevò il mento, parlando piano e più dolcemente di quanto avesse fatto fino ad allora. «Andiamo a casa e non occorre che te ne vada.»
Mi asciugò le lacrime con il suo fazzoletto, abbozzando un preludio di sorriso, il primo che gli avessi visto fare. «Sei un disastro, Baby. Hai gli occhi rossi.»
Cercai di girarmi parte, ma lui mi strinse in un tenero abbraccio con la sola forza di un braccio. Avevo bisogno di un po’ di tenerezza, di un po’ di affetto. Avevo bisogno di sentire il calore di qualcuno che non avesse doppi fini, che voleva stringermi a sé solo per rassicurarmi e tranquillizzarmi.
Il cellulare suonò di nuovo, e Sam bisbigliò piano. «Ti conviene rispondere. Credo che sia Charlie. Era preoccupato per te.»
Avevo ancora il telefonino stretto in mano, quindi mi bastò passarmi una mano sugli occhi per cancellare la patina di lacrime e vedere che Ale mi chiamava. Mille pensieri mi passarono in testa: le era successo qualcosa, era capitato qualcosa ai miei che, non riuscendo a contattarmi, l’avevano chiamata. Poi, ripensandoci, mi resi conto che quella chiamata era solo per me. Anche lei sapeva che non avrei passato bene quel giorno.
   «Ciao Ale.» Allungai la mano, prendendo la maglia di Sam per non farlo andare via. Il fatto che si fosse dimostrato più umano e clemente nei miei confronti mi faceva supporre che, una volta rincontrati, mi avrebbe trattato come sempre.
   «Ehi, Robin. Tutto bene?»
   «Sì, sto bene.»
Ale rimase un attimo in silenzio, e fummo sorprese entrambe che non avessi nulla da dire quando in condizioni normali non stavo un attimo zitta. «Ti ha chiamata? Per chiederti come stai …»
   «No. Non mi aspetto più chiamate da Paul.»
Ero sincera. Forse mi faceva tanto male sapere che era il venti luglio proprio perché non avevo alcuna aspettativa di ricevere una sua chiamata. Ormai non mi aspettavo più una riappacificazione. Potevo essere ingenua, ma avevo ormai raggiunto il limite. «Ale, ti richiamo io.»
   «Sei con le tue coinquiline?»
Non le avevo ancora detto che erano maschi. «Sì.»
   «Cerca di tirarti su.»
   «Okay.» Mi conosceva troppo bene. Sapeva che ero giù di morale. Interruppi la chiamata, cercando di trattenere i piccoli singhiozzi. Nuovamente mi passai la mano sugli occhi. Guardai per terra. Mi faceva meno male che guardare Sam negli occhi.
   «Mi dispiace avervi creato tanti fastidi, così oggi volevo ringraziarvi cucinando per voi e sistemando la casa. Però l’ho fatto anche per un motivo più egoistico. Oggi … oggi era l’anniversario mio e di Paul … e avevo bisogno di fare qualcosa per dimenticare il motivo per cui mi ero presa questo giorno di ferie. Mi dispiace averti fatto arrabbiare e ti capisco se mi dirai che vuoi che lascio l’appartamento.»
   «Non mi piacciono questi discorsi deprimenti. Andiamo a casa.»

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Capitolo 7
*** 7 ***


7
Amiche
 
                        Era il nostro primo sabato insieme. La sera prima mi avevano tirato su il morale e Sam, senza dare spiegazioni, aveva chiesto a Charlie di dormire con me. In effetti non me la sarei sentita dormire da sola, così alla mattina mi svegliai riposata e, anche se non felice, per lo meno serena. Inoltre un bel ematoma al fianco, nel punto in cui Charlie mi aveva colpito, pulsava e mi ricordava che lì io stavo bene. Beh, più o meno. Avevo delle persone che tenevano a me. Avrei voluto far loro conoscere Ale, ma includeva far incontrare nuovamente lei e Kit. Conoscevo abbastanza bene lei e iniziavo a capire che Kit era simile su molti frangenti: farli incontrare era come dar avvio a una battaglia.
Mi ero vestita con abiti comodi, che includeva un paio di pantaloni di una tuta e una maglia larga, legata i capelli in una coda piuttosto alta e avevo indossato gli occhiali. Il mio mise era classico per stare un giorno davanti al computer e, vista la mole di e-mail che mi ritrovai davanti, di certo avrei passato parecchio tempo prima di vedere la luce di quel sabato.
Ero seduta sul letto e stavo picchiettando la tastiera con un ritmo continuo, obbligando Charlie a sporgere la testa dalla mia porta per vedere se stavo bene. Alzò un sopracciglio. Al contrario di me, si era truccata e indossava dei pantaloni jeans stretti e una maglia larga che mostrava la spallina del reggiseno nero. «Tutto bene?»
   «Sì. Ho solo un sacco di posta elettronica. Devo prendere l’abitudine a controllare il computer più di una volta alla settimana!» Appoggiai le mani sul cuscino appoggiato alle ginocchia che usavo per tenere il computer leggermente sollevato. «Stai andando da qualche parte?»
   «Mm. Volevo convincere Sam ad accompagnarmi a fare la spesa. Ti va di venire?»
Mi mordicchiai le labbra. Da una parte dovevo occuparmi della mia vita, magari c’erano delle e-mail importanti, ma dall’altra avevo bisogno di fare amicizia con i miei coinquilini. Spensi il computer, alzando le spalle. Al diavolo. Non avevo voglia di stare seduta in casa quando fuori una bella giornata di luglio chiedeva di essere vissuta. Mi cambiai, optando per un paio di pantaloncini corti jeans e una maglia molto simile a quella che indossava Charlie. Appoggiai gli occhiali sul comodino, saltellando per raggiungere i miei compagni. La ragazza stava ancora finendo di prepararsi, e per quanto riguardava quello la sua femminilità era superiore alla mia, mentre Sam era seduto sul divano e guardava la televisione senza molto entusiasmo.
   «Ciao.» Salutai, ricevendo una semplice alzata di mano. Ero leggermente in imbarazzo dal mio comportamento della sera prima. A mente lucida, senza la valanga di emozioni che mi avevano devastato, decisamente ero stata indecente. Mi sedetti sul divano, guardando la porta del bagno in attesa che Charlie ci raggiungesse.
   «Stai bene?»
Guardai Sam, che ricambiava il mio interesse. Sia lui sia Charlie mi avevano fatto la stessa domanda: forse passare un po’ più di tempo davanti allo specchio non mi avrebbe di certo fatto del male. Abbozzai un sorriso. «Sì, sto bene. È … è passata. Mi dispiace crearvi tutti questi problemi, ed ero seria ieri sera quando ti ho chiesto …»
   «Una volta imparato a conoscerti non sei male, Baby. Puoi rimanere in questa casa, se è quello che vuoi.»
   «Non ti creo problemi?»
Alzò le spalle, cambiando distrattamente canale alla televisione. «Nessun problema. Te l’ho già detto.»
Charlie aveva finito di prepararsi, inondando la stanza con un forte profumo. Per quanto fosse gradevole, faceva girare addirittura la testa e intorpidiva la mente. Sam si grattò il naso, stiracchiandosi le braccia. «Hai finito? Vorrei tornare a casa prima della fine del mondo.»
   «Che spiritoso. Comunque ho finito. Allora, questa è la lista delle cose da prendere per Kit … dovremmo fermarci anche in lavanderia, ho degli abiti da ritirare e tu, Robin, hai commissioni particolari? Ti conviene cogliere l’occasione, perché non avremmo spesso Sam che ci scarrozza da una parte all’altra.»
Scossi la testa, sorridendo all’espressione gelida di Sam. «Nessuna commissione particolare.»
La mattina fu un po’ impegnata. Mi ero infilata nei sedili posteriori e poco dopo Charlie aveva infilato gli indumenti ritirati vicino a me. C’eravamo presi un caffè in un bar e poi avevamo continuato il nostro pellegrinaggio.
Al supermercato passammo molto tempo. Il grande magazzino era gonfio di visitatori, trafelati e con i carrelli stracolmi di cibo. Molti, per lo più uomini accompagnati dalle compagne, si appoggiavano agli scaffali e annuivano con sempre meno interesse alle elucubrazioni sugli sconti in corso. Charlie era scomparsa non appena avevamo varcato le porte automatiche, inghiottita da non si sa quali offerte. Sam si faceva trascinare dal carrello, gettando dentro alimenti senza molta attenzione. Io mi immobilizzai davanti alle offerte sulla vendita del pesce, mordicchiandomi le labbra indecisa. Sam mi affiancò, con un sospiro carico di perché. «Ti piace il pesce?»
Il ragazzo sollevò le spalle. «Il pesce fritto è buono.»
Presi in mano una confezione di tranci di salmone, soppesandoli e guardando il prezzo. In effetti avevo voglia di mangiare del pesce e avrei potuto cucinare qualcosa per loro a mezzogiorno. Con la coda dell’occhio vidi Sam mettersi a braccia conserte. «Se vuoi mangiare pesce prenditelo. Non pensare a noi.»
   «Sono stata abituata dai miei a mangiare sempre insieme, quindi preferirei prendere qualcosa che piace anche a voi, così lo mangiate senza problemi.» Appoggiai indecisa la confezione sul ripiano, ma Sam me la prese di mano infilandola nel carrello. Sospirò. «Vuoi altro?»
Presi delle vongole per fare degli spaghetti e, nel reparto frutta e verdura, aglio, cipolla e prezzemolo. Avrei fatto degli spaghetti con le vongole a mezzogiorno e poi come assaggio dei tranci di salmone. Abbozzai un sorriso a Sam che, stranamente, ricambiò. Quel suo gesto mi indusse a prendere una decisione. «Mi piacerebbe farvi conoscere una mia amica. Si chiama Ale.»
   «Va bene.»
 
            Avevo pianificato l’incontro con Ale. Le avevo mandato un messaggio e c’eravamo messe d’accordo di incontrarci proprio quella sera. Le avevo detto che volevo farle conoscere delle persone, senza specificare che le mie coinquiline erano uomini. Sapevo che o mi avrebbe disapprovato o sarebbe stata fin troppo comprensiva. In entrambi i casi non mi sarebbe piaciuto. L’avrebbe visto come una fuga dal mio essere sola e come un modo di discostarmi dalla ragazza di Paul. E questo, sorpresa, era la verità!
Mentre mangiavamo avevo detto a tutti che volevo far conoscere loro una mia amica e, osservando Kit, seppi che non si ricordava di avermi già visto, quindi era improbabile che mi associasse a Ale. Ci saremmo viste al Nice, un locale che mi aveva fatto conoscere Ale e che a lei piaceva molto. La musica alta e le luci intermittenti avrebbero in ogni modo potuto giocare a mio favore, impedendole di fare commenti a riguardo dei ragazzi!
Destino voleva che Charlie avesse il suo giorno libero proprio la data dell’incontro. Iniziavo a essere loro amica, ma con la ragazza avevo stretto un legame più profondo di semplice coinquilina.
Stavo lavando i piatti sul lavandino, passandoli proprio a lei perché li asciugasse. «Da quanto conosci la tua amica?»
   «Ale? Da un sacco. Andavamo alla scuola materna quando abbiamo fatto amicizia. Veniamo dallo stesso paese e abitiamo a una decina di minuti l’una dall’altra. È stata la prima del mio gruppo di amici ad andarsene da casa. Sai, fa la fotografa.»
   «Fotografa? Di cosa?»
   «Al principio per ogni tipo di giornale. Ogni tanto compariva il suo nome sotto anche alle testate nazionali, come quando c’è stato quella manifestazione alla metropolitana. Ecco, lei ha scattato qualche foto e le ha vendute a un giornale. Poi l’hanno assunta per fare la fotografa per una compagnia. Va alle sfilate, fa le foto delle pubblicità e robe del genere.»
Charlie stava strofinando uno stesso piatto con il canovaccio umido, con gli occhi sbarrati e la bocca leggermente aperta. Le ficcai il secondo piatto in mano, e quello parve risvegliarla un pochino. «Wow. È una fotografa professionista!»
   «Lei continua a dire che è sotto contratto e la stanno ancora addestrando, quindi evita di dirglielo. È molto suscettibile quando si parla del lavoro.»
Il telefono sul tavolo suonò, facendoci sobbalzare. Mi asciugai le mani ancora insaponate, saltellando su un piede e l’altro come se quello potesse velocizzare l’atto. «Pronto.»
   «Hei, Robin …. Scusa!!!»
Mi mordicchiai le labbra, appoggiandomi con il sedere al tavolo. Charlie continuava a scrutarmi, come se per me il telefono fosse diventato un terribile nemico. Sospirai piano, scotendo la testa. Charlie appoggiò il piatto. Bisbigliai. «Non puoi venire.»
Dall’altra parte sentivo il rumore di passi frettolosi: Ale doveva essere in movimento. «Mi hanno incastrato con un nuovo servizio. Credimi, era del tutto inaspettato. Forse riesco a liberarmi, per una certa ora, ma non garantisco niente.»
   «Sì, non ti preoccupare.» Mentii sfacciatamente. Ero delusa. Non le avevo detto espressamente che ci tenevo, però … era in qualche modo importante. Ale aveva da sempre fatto parte della mia vita e ora a lei si stavano aggiungendo altre persone. Volevo che si conoscessero. «Non ti preoccupare, il lavoro viene prima di tutto. Ci troveremo insieme un’altra volta.»
   «Contaci. Saluta le ragazze da parte mia e dì loro che mi dispiace. Devo scappare. Ci sentiamo.»
   «Sì, ciao.» Riattaccai il telefono, guardandolo truce. «Ale deve lavorare stasera e non sa se si libera. Ha detto che le dispiace e che ci troveremo insieme un’altra volta.»
Charlie appoggiò lo straccio sulla ventosa attaccata alla parete di ceramica, annendo un poco. «Ne vuoi parlare? Sembra che questo incontro fosse per te molto importante.»
   «No, è solo … solo che voi, ecco …»
La ragazza mi sorrise incoraggiante. «Noi siamo i tuoi primi amici da quando ti sei lasciata con il tuo ragazzo?» La fissai, sillabando la parola amici piano, come se fosse un qualcosa non del tutto certo. «Sì, amici, Robin. Dobbiamo dare il nome giusto alle cose. Possiamo non conoscerti da tanto, ma ormai noi siamo amici. Anzi, siamo una famiglia.»
Indicò le frigole. Da quando erano state attaccate, Kit e Sam avevano tentato due volte di toglierle e ora giacevano di nuovo al loro posto, un po’ più vissute del normale. Il bordo riattaccato più volte era stato sistemato con uno skotch, una macchia di caffè sostava tra la regola 4 e 5 come un monito. Abbozzai un sorriso, mentre la mia nuova e meritata amica continuava. «Sai che ti dico? Noi al Nice ci andiamo lo stesso. È la mia serata libera e non ho proprio l’intenzione di passarla a casa. E i ragazzi verranno con noi. In fondo siamo delle indifese donzelle che hanno bisogno di due prodi cavalieri.»
Feci una faccia strana, probabilmente al pensiero dei ragazzi con una divisa militare medievale. Se Kit, nella mia mente, poteva anche essere un prode amazzadraghi, dall’altra parte Sam stonava parecchio. Lo avrei visto più a suo agio con una divisa di Star Trek!
Alle 22:00 eravamo al Nice. Il locale era un discopub, con la musica alta e le luci soffuse. Aveva la particolarità di avere tutta la mobilia e le pareti che andavano dall’azzurro al bianco, così da sembrare di essere immersi in una grotta in Antartide. Come ricordavo da precedenti esperienze, c’era un sacco di gente e fui allontanata dal gruppo da un’onda di persone. Una mano mi trasse in salvo, facendomi avvicinare a lui. Sam scosse la testa piano, usando il suo corpo come scudo per impedire di essere allontanati di nuovo. La sua mano era un po’ sudaticcia e mi stringeva forte. Una persona che ebbe l’ardire di volerci dividere fu letteralmente obbligata a fare una capriola su di noi.
Sam mi appoggiò una mano sulla spalla, mentre Charlie urlava. «Vado a prendere da bere!»
Kit scosse la testa, confuso, così da obbligare la ragazza a imitare la bevuta di un drink. Prima di andare ci fissò un attimo, scotendo la testa. Di sicuro avrebbe voluto chiederci cosa volevamo bere, ma non era il caso di dilungarci in conversazioni troppo complicate. Kit si rivolse a me e a Sam, ma se il ragazzo capì, io brancolavo in un luogo di urla e di chiasso. Sapevo solo che nella domanda doveva esserci qualche riferimento a Kit che si allontanava, lasciandoci da soli.
Guardai Sam e la mia tacita domanda si doveva leggere negli occhi, perché mi sorrise, appoggiandomi la mano sulla testa. Un’altra onda di persone che volevano andare sulla pista da ballo ci travolse e io fui sollevata e portata in salvo. Sam mi cinse i fianchi, guidandomi lungo un percorso tortuoso dove rischiai più di qualche volta di essere atterrata da qualche gomitata di persone agitate. Finalmente vidi dove stavamo puntando. Kit, facendosi largo tra la folla, ci faceva cenno con le braccia di raggiungerlo. Vidi i capelli neri di Charlie illuminarsi con le luci psichedeliche e dirigersi verso il biondo adone.
Arrivati, mi accorsi che Kit aveva preso un privè. Non era la prima volta che andavo in quel locale e non avevo mai saputo che esistevano lì dentro luoghi del genere! Seconda, ma non meno importante: come diavolo aveva fatto a prenderne uno solo per noi?
Entrammo, chiudendoci le porte di vetro alle spalle. Il rumore, il caos, la folla, la musica e tutto quello che non era dentro ai tre muri di cemento e allo specchio di vetro rimase fuori. Magicamente, le mie orecchie sentirono qualcosa di diverso dalla musica sparata a tutto volume. Certo, al momento era un semplice brusio, ma contavo in qualcosa di più profondo e interessante.
Sam si sedette in una poltroncina dello stesso colore del ghiaccio. Indossava dei semplici jeans e una maglietta, in aperta opposizione a Kit che aveva una camicia stretta cui i muscoli ne uscivano decisamente strizzati, e dei pantaloni neri aderenti, che lasciavano poco o niente all’immaginazione. Charlie si sedette vicino a Kit, lasciando a me la poltroncina di fronte a Sam e vicino alla porta. Mi sorpresi di lei: era riuscita a trasportare per tutto il locale affollato quattro birre medie, senza versarne una goccia. Me ne porse una, accavvallando le gambe e osservando con occhi da fiera come Sam si prendesse quella che ne aveva di più.
   «Sei il solito ingordo.» Rimbeccò acida, parlando più forte del normale.
Sam, di risposta, alzò una spalla. «Io reggo l’alcol, tu no.»
Sorseggiai la birra. Mi sentivo come un animale allo zoo. Le persone fuori parlavano; alcune, a dire la verità molto maleducate, ci additavano, altre ci salutavano con la mano. Una cosa, però, era certa: si sarebbero ricordati di noi. Mi girai a fissare Kit, curiosa. «Così, tanto per sapere: come sei riuscito a ottenere questo?»
   «Con i soldi si ottiene tutto.» Rise alla mia faccia sbigottita. «Scherzo. Non è la prima volta che vengo al Nice e ho un amico che mi doveva un favore.»
Che razza di favore gli doveva? Ero l’unica che otteneva, come massimo ringraziamento, un abbraccio o al massimo una tazza di caffè? I miei amici, adesso ne avevo conferma, erano tutti tirchi. Fissai Sam, che alzò le sopracciaglia. Ero certa che anche lui non avesse amici che gli dovevano favori così cospicui.
 La mia borsa vibrò appena. Estrassi il cellulare, vedendo che Ale aveva cercato di mettersi in contatto con me ma, causa poca linea, non ce l’aveva fatta. In effetti, il cellulare dava e perdeva il segnale con particolare facilità. Scrissi a Ale che c’era poca linea perché eravamo al Nice ed eravamo in un privè. Le feci una faccina felice, per farle capire che non ce l’avevo con lei e che al tempo stesso mi stavo divertendo. Provai a inviarglielo, appoggiando il cellulare al mio seno. Guardai la linea pian piano farsi più sicura, mentre la mia io interiore esultava.
   «Che cosa stai facendo?»
Guardai Sam, che mi fissava con la fronte corrucciata. Abbassai la mia attenzione, vedendo il confortante “Messaggio inviato” che segnava un punto a mio favore. Infilai il cellulare in tasca. «Stavo inviando un messaggino a Ale.»
   «Hai uno strano modo di inviare i messaggi.»
Scossi la testa. «Ma no! Quando c’è poca linea mi è stato detto che basta appoggiare il cellulare al seno, e magicamente si prende la linea. Credo sia perché il seno è un ottimo ricevitore. O perché alcuni reggiseni hanno il ferretto.»
Kit ebbe l’impellente desiderio di appoggiare la birra al tavolino, mentre Charlie prese il suo cellulare per vedere se valeva la stessa cosa. Sam, dall’altra parte del tavolo, scuoteva la testa. Sospirò. «Di certo con te non ci annoieremo mai eh, Baby?»
Alzai le spalle con un gesto non compromettente, sentendo infine Charlie biascicare piano. «No, non funziona con me.»
Sam e Kit ridacchiarono allo stesso momento, mentre io accavvallavo le gambe e sorseggiavo un altro po’ di birra. Sentivamo appena i rumori fuori di noi, come se fossimo rinchiusi dentro un guscio fatto di sola aria. Dopo un po’ di silenzio, Charlie iniziò a citare una serie di anedotti che mi strapparono qualche risata. Conosceva Kit da sempre, o almeno da quando lei si era trasferita nella scuola del ragazzo. Ammise, snobbando le continue suppliche di Kit, che al principio lei si era avvicinata a lui per dichiarargli il suo amore ma, conosciuto meglio, aveva alzato bandiera bianca e lo aveva adottato come amico. Mentre parlava lanciai uno sguardo a Sam, che aveva appoggiato la testa sulla mano e un sorriso triste gli solcava il viso. Charlie mi aveva detto che la prima volta che si erano incontrati, lui era insieme a Jodie.
Sam si accorse del mio sguardo, obbligandomi a distogliere l’attenzione all’istante. Dalla marea di gente vidi piano formarsi la figura di Ale. Alzò un braccio in mia direzione e, incurante di trovarmi al centro dell’attenzione, mi alzai in piedi, urlando. «Ehi!»
Sam girò appena la testa, alzandosi in piedi per aprire la porta a Ale. La mia amica era appena uscita dal lavoro e lo si vedeva perché gli abiti, di solito impeccabili, avevano l’aria di essere stati un intera giornata sotto i riflettori. Abbracciai Ale, stringendola forte come se fosse da una vita che non ci vedessimo.
   «Quanto entusiasmo, Robin.»
Sentii la birra che mi veniva portata via dalle mani e fissai Sam perplessa, mentre chiudeva la porta con l’altra mano libera. «Basta alcol, Baby. Non ti voglio portare a casa in braccio.»
Ale si immobilizzò e, per la prima volta, appoggiò lo sguardo sui miei compagni. Prima fissò Sam, poi Charlie che felicemente si era alzata, e infine Kit, seduto sulla poltroncina a tracannare birra come se nulla fosse. Strinsi la mano alla mia amica, indicando i ragazzi. «Ale, loro sono Sam, Kit e Charlie. Loro sono i miei coinquilini.»
Ale abbozzò un sorriso e, quando mi fissò, un guizzo divertito e complice le illuminava il volto magro.

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Capitolo 8
*** 8 ***


8
Ora insieme.
 
          Mi alzai dal letto, certa di aver dormito meno di quello che il mio corpo aveva bisogno. Con un enorme sbadiglio mi diressi in cucina, ciabattando un po’ rintronata. Preparai il caffè, sistemando sulla tavola due tazze e il resto delle provvigioni. Mi stiracchiai, sentendo un altro mattiniero che era contrario nel svegliarsi. Come me, aveva i capelli arruffati e il pigiama un po’ storto.
   «Buongiorno.» Repressi a stento uno sbadiglio.
Sam si sedette a tavola, portandosi una mano alla testa, arruffando ancora di più i capelli. «’Giorno.»
Spensi il fuoco e portai il caffè in tavola. Me ne versai un sorso, svuotando il resto nella tazza di Sam. Aggiunsi nella mia un po’ di latte di soia. Mi sedetti, prendendo due fette biscottate, che cosparsi con una generosa dose di marmellata. Addentai con un morso, soddisfatta, vedendo che Sam mi fissava. Mi portai una mano alla bocca. Essendo la marmellata una mia accanita avversaria, sapevo che dovevo avere qualche residuo appiccicoso in volto. Il ragazzo sorrise, scuotendo la testa. «Sei proprio una bambina.»
Agguantai una salvietta, pulendomi il viso. Tuttavia, non c’erano residui bellici. «Che cosa ho fatto?»
   «Non sei in ritardo per l’autobus?»
Scossi la testa. «Non ancora, ma conto sul fatto che oggi mi lascerai usare per prima il bagno, così evito di perdere la corriera. Sono veloce, quindi perderesti solo cinque minuti, che comunque riguadagneresti subito, visto che vai a lavoro in auto.»
Imprecai appena: un pezzo suicida di fetta biscottata si era schiantato, come è ovvio che sia, con la parte appiccicosa sul tavolo. «Ho un altro patto da proporti. Entrambi andiamo allo stesso edificio, lavoriamo a qualche piano di distanza quindi possiamo andare a lavoro insieme.»
Fissai Sam, in parte sconvolta da quella notizia. Dove era andato il ragazzo burbero che non mi voleva come conquilina? Attesi, aspettando il “ma” del patto. «In cambio, quando ce ne sarà bisogno, mi aiuterai in certe faccende.»
   «In cosa, di preciso?» Il tovagliolo cercò di risolvere, senza successo, lo striscio di marmellata nella tovaglietta. Niente: avrei dovuto lavarla.
   «Dipende. E niente di quello che stai pensando!» Mi rimbeccò, avendo visto che mi allontanavo appena dalla sedia. «Il più delle volte sono cavolate … Charlie è un casinista almeno quanto te. Ogni tanto mi capita di doverlo tirare su di morale.»
Socchiusi gli occhi. «E Kit? Anche Kit aiuta.»
Scosse la testa, arricciando il naso. Sembrava un gattino che aveva una palla di pelo in gola. «Come capirai a tue spese, Kit non è decisamente un tipo affidabile in certe situazioni. Comunque, ti va un patto del genere?»
Allungò la mano, scostando il sacchetto dei biscotti. Storsi la bocca, ma in fondo mi guadagnavo un trasporto sicuro a lavoro tutte le mattine, ripagandolo con un qualcosa che avrei fatto in ogni caso. Sorrisi, stringendogli la mano. Lo tenni stretto e gli occhi di Sam si assottigliarono quanto i miei. «E per il bagno? Dobbiamo usarlo entrambi e, logicamente, dobbiamo organizzarci su chi ha la priorità. Facciamo un giorno a testa?»
Sam mi fissò, scotendo un po’ la testa a destra e sinistra, come per soppesare le cose. «L’abbiamo già fatto … non sembrano esserci problemi, quindi … possiamo usare il bagno insieme, se a te va.»
   «Affare fatto, a patto che tu non mi guarda mentre mi cambio. E io farò altrettanto con te.»
Sam rise, sciogliendosi dalla presa e bevendo l’ultimo sorso di caffè. Sistemammo le tazze sul lavandino, dirigendoci in bagno come dei bravi coinquilini. Ci lavammo i denti, ci pettinammo e poi andammo nelle rispettive stanze a cambiarci. Il tutto con una dose di indifferenza esemplare. Ognuno compiva i suoi atti senza sentirsi in imbarazzo o senza dar troppo peso alla presenza dell’altro. Di certo, questo nuovo Sam era molto più socievole rispetto a quello che avevo conosciuto.
Mi misi una gonna a tubino e una camicia, accompagnata da una giacca grigia. Mi sembrava di essere un po’ retrò, ma quel giorno avevamo una riunione, quindi era meglio optare per qualcosa di più classico. Salii in macchina con Sam, allacciandomi le cinture mentre lui aspettava che si scaldasse un po’ il motore. Iniziò a giochicchiare con la radio. «Hai preferenze di musica?»
   «Mm? Oh, no. Nessuna preferenza. Beh, a meno che non mi metti musica corale … e rap. Non mi piace molto il rap. E niente canzoni con parole volgari. Oh, però ora che ci penso oggi non mi sento in giornata rock.»
Abbozzando un sorriso, mise in una stazione in cui trasmettevano solo musica pop. Mi guardai intorno. La macchina era pulita e non mostrava segni tipici. Nessun dado sullo specchietto, nessun adesivo divertente, nessun pupazzoo di una qualche ex. No, quest’ultima parte era meglio cancellarla dal tutto. Finalmente ci mettemmo in movimento, così potei concentrarmi in altro. «Cosa stai guardando che non ti convince?»
   «Oh, niente. Guardavo la tua auto. Non ti sono mai piaciuti quei grandi dadoni che si mettono sullo specchietto? Quelli tutti colorati?»
   «Perché dovrei metterli? Che utilità hanno?»
   «Nessuna utilità, sono divertenti. Avevo un amico che ha attaccato su tutta una fiancata dell’auto degli adesivi e alcuni erano divertenti. Non avevano nessuna utilità, ma danno un segno di riconoscimento. Dicono un po’ di te.»
Sam rifletté un secondo, oppure si concentrò sul traffico mattutino. «Come mai hai detto “avevo un amico”?»
   «Beh … era un mio vecchio compagno di classe ma ha preso una brutta strada. Gli adesivi erano anche parecchi offensivi nei confronti dei carabinieri, che non hanno apprezzato il suo comportamento.»
   «Addirittura! E cosa gli hanno fatto?»
   «Suo padre è un carabiniere e quando ha visto la fiancata lo ha obbligato a fare servizio militare. L’ultima volta che l’ho visto era impaurito, rasato e l’ombra di se stesso. Poverino. Con i dadi, però, vai sul sicuro. Sono divertenti e non fai arrabbiare nessuno.»
Sam continuò a venir dietro ai discorsi di una che ha dormito poco. Non molto dissimili dei miei con le ore di sonno adeguate, ad essere sinceri. «E che cosa possono dire i dadi di me? Che sono un baro?»
   «O che sei un tipo divertente, che gli piace giocare. Potrebbero essere anche segno di grande personalità, perché bisogna avere gran coraggio ad andare in giro con due dadoni giganti verde acido.»
Il ragazzo scosse la testa, fermando l’auto dietro alla coda che si era appena formata. Davanti a noi, a una decina di macchine di distanza, il semaforo rosso stava formando un bel ingorgo mattutino. Dall’incrocio, autisti adirati suonavano la loro rabbia e il nervosismo. Sam picchiettò due dita sul volante, visibilmente rilassato. «Quando ero piccolo mio padre aveva attaccato sul vetro del parabrezza due manine, che dondolavano quando la macchina si muoveva. Erano stupide, ma quando ero piccolo facevo a botte con mio fratello per sedermi davanti e vedere queste mani che si muovevano.»
Deglutii piano, al pensiero che stesse parlando di suo fratello, dopo quello che era successo tra di loro. Mi fissò. «Credi che io sia il tipo da dadi?»
Un colpo di clacson dalle macchine davanti a noi fece muovere uno dei primi della coda, avviando la catena che ci avrebbe portato fuori dal traffico. «Noo … tu sembri più il tipo da spade laser e Morte Nera. O da adesivo sulla fiancata che dice “La Forza è potente in quest’uomo”.»
   «Conosci Star Wars
   «Ovvio che sì, è un classico. Ho visto tutta la saga, più di una volta, ad essere sincera. Posso non avere la stanza tappezzata da poster, ma mi reputo orgogliosamente una loro fan.»
   «Mi sorprendi, Baby. Mi sembravi più tipo da film di aninazione.»
Beh, oddio. Ero anche di quel genere. Non disdegnavo nulla. Però, il modo in cui parlavamo, il fatto che mi avesse accennato al suo passato senza che io ne facessi domanda mi faceva sperare. Sì, mi faceva vedere un futuro nel quale, forse, io e Sam saremmo diventati buoni amici. E mentre mi augurava buon lavoro, io a questo ci speravo davvero.
 
            Avevo iniziato a togliermi le scarpe già in auto, massaggiandomi i piedi doloranti. Poi avevo camminato a piedi scalza lungo le scale, mentre Sam mi continuava a chiedere perché mi fossi messa le scarpe con il tacco se mal le sopportavo. Per i maschi è semplice essere eleganti: una camicia, un vestito, scarpe comode e via. Per le femmine è un po’ più complicato: non potendo mettere le mie solite ballerine, comode, sicure e al bisogno pure sportive, mi rimaneva solo un tacco dodici e un dolore allucinante a fine giornata.
Reprimendo l’istinto di dirglielo, aprii la porta dell’appartamento. Mi bloccai, scostata da Sam che entrava e si lasciava inondare da una musica così straziante che anche chi avesse avuto una giornata ottima fino a quel momento si sarebbe preso a randellate. Biascicò piano. «No, non di nuovo.»
Chiusi la porta alle spalle, guardando curiosa Sam. Mi si avvicinò, bisbigliando piano. «Ti ricordi il patto di stamattina? Ecco, devi già pagare pegno.» Al mio silenzio, che altro non era un modo per spronare a continuare, Sam abbassò ancora la voce. «Charlie si frequenta con un ragazzo … e questa musica non è mai stato un modo per avvisare gli inquilini che l’appuntamento è andato bene.»
Un po’ mi sorprese che Charlie si vedesse con qualcuno. Forse perché non ero mai stata brava a nascondere qualcosa, per cui di certo non sarei riuscita a tener segreto un’uscita. I biscotti che nascondevo sotto al letto erano recuperati con estrema maestria da mamma e, quando riuscivo a eluderla, non facevo in tempo a gustarmeli perché mia sorella a sua volta li trafugava da me. Di certo, a nascondino ero pessima.
Mi andai a cambiare velocemente in stanza, poi mi unii a Sam che si trovava appoggiato alla porta di Charlie, indeciso se entrare o meno. Bussai piano alla porta, un lungo sospiro mi fece intuire che potevo accedere nella stanza. O che la mia amica avesse esalato l’ultimo respiro.
Aprii ed entrai cauta. Una voce triste cantava la sua tremenda disperazione, mentre stesa sul letto, circondata da cuscini, giaceva Charlie. Aveva appoggiato la testa tra le braccia, così da poter vedere solo i suoi capelli arruffati. Tra le dita stringeva il telecomando dello stereo. Scostai un cane pupazzo, sedendomi vicino a lei. Appoggiai una mano sulla sua testa, accarezzandola piano.
Sam spense lo stereo. La stanza ritornò nella sua quiete calma. Ora, però, i gemiti di Charlie non potevano più essere nascosti. I suoi capelli soffici erano scossi da piccoli singulti e, oltre a quello, davvero non sapevo che fare. Era troppo poco per dirle che le ero vicina. Tuttavia il resto mi sembrava essere troppo fuori della mia portata. Il ragazzo si avvicinò al letto, sospirando piano. «Ehi … ne vuoi parlare?»
   «Mi piaceva.» Biascicò piano, presa da altri singhiozzi.
Charlie alzò appena la testa, appoggiandola sulle mie gambe. I pantaloncini riuscivano a farmi sentire le calde lacrime della ragazza, che scendevano lungo le guance per poi posarsi sulla mia pelle. Di nuovo, le passai la mano tra i capelli scuri, indecisa su come dovevo comportarmi. Guardai Sam, che sospirò alzando gli occhi al cielo. Presi piano coraggio e, con voce debole ottima da usare presso un capezzale, le chiesi. «Cosa è successo?»
   «Ha detto che non ce la faceva più!»
Sam si sedette vicino a entrambe, corrucciando la fronte. «Come non ce la faceva più?»
Charlie si tirò su a sedere. Il trucco era sbavato nei punti in cui le lacrime le erano scese riottose. Le labbra erano incurvate all’ingiù e, se non fosse stata così depressa, avrei detto che assomigliava tanto a una bambina che aveva deciso di mettere il broncio. Dall’altra parte, per quel suo mostrare un lato infantile l’avrei fatta piccola per infilarmela in tasca e proteggerla da tutto quel brutto mondo. Tirò su con il naso. «Lui … lui ha detto che con … con il lavoro che faccio io e con il suo era molto molto difficile vederci. Ha detto … ha detto che era assurdo, che lui non ce la faceva più. Ha detto che non sembrava neppure che stessimo insieme, tanto poco ci vedevamo. E … e poi …»
Mi abbracciò all’improvviso. Le sue braccia, ad una prima apparenza esili, mi strinsero proprio come quelle di un giovane uomo. Affondò la testa sulle mie spalle, parlando al mio orecchio con una nota di panico. «… ha un altro!»
Sam si irrigidì. «Charlie, non puoi voler star con uno che ti ha tradito.»
   «Sì.» Convenni, dandole delle piccole pacche sulla schiena. «Di certo non ti merita. Come si fa a tradire una … una come te.»
Charlie scosse la testa e, essendo così vicina a lei, respirai un po’ di aria che profumava del suo shampoo. «No … io sono un orrore, uno scherzo. Io …»
Questa volta la scostai, un po’ adirata. «No, non sei uno scherzo e di certo non sei un mostro. Il mostro è lui che ti ha tradito, non tu. Ci sono tanti stronzi al mondo, tu sei incappata in uno di quelli. Credimi, Charlie: tu non hai niente che non vada.»
Mi sfiorò il volto con una mano, le sue labbra si incurvarono ancora di più. Continuai, la voce un po’ incrinata e una piccola lacrima che mi solcava il viso. «Tu sei bellissima, e se non l’ha visto ci ha solo rimesso. Ti meriti di meglio.»
Con la stessa espressione sconsolata guardammo Sam, che alzò gli occhi al cielo, biascicando piano. «Oddio … adesso ce ne sono due da consolare!»
Con uno sbuffo, Charlie si alzò dal letto, zigzagando tra me e Sam, vicino a lei. Si avvicinò allo specchio dietro la porta, passandosi gli indici sotto gli occhi. «Ho un aspetto orribile. Questo decisamente non è da me.»
Fissai Sam, che non distoglieva lo sguardo dalla sua amica. Un po’ per le emozioni che mi avevano colpito, un po’ perché Charlie era sempre stata un tipo positivo e tutt’altro che demoralizzato, mi sembrò che Sam non fosse male come coinquilino. Sembrava preoccupato davvero per la ragazza e se mi aveva chiesto aiuto alla mattina sembrava più che altro lo facesse perché sapeva che non poteva aiutarla con i mezzi che aveva. Mi asciugai una lacrima che era scesa a tradimento, tirando su il naso. Mi alzai dal letto, scuotendo gli indumenti stropicciati. Presi il polso del ragazzo, tirandolo su. «Abbiamo bisogno di qualcosa che ci tiri un po’ su di morale.»
   «Un elettroshock?» Fece ironia lui, scrutandomi serio.
Abbozzai un sorriso umido. «Quasi. Ti ricordi quel nostro piccolo segreto? Di quella prima sera?»
Charlie tirò su ancora un po’ con il naso, cancellando con una manata la patina umida sulle guance. «Quale segreto?»
Sam mi sorrise, facenno cenno di seguirlo. Presi a braccetto la ragazza, che tremava appena sotto la patina di tristezza. Le massaggiai la pelle, rassicurante. Sotto lo primo strato, sentivo una ragnatela di vene che spiccavano. Ci sedemmo sul divano.
   «Baby, vai in camera mia e scegli un film da vedere.»
Sbarrai gli occhi, fissando prima la ragazza che sorrise al mio sbigottimento, poi a Sam, che mi scrutava. Avevo sentito bene? Sam mi aveva dato il permesso di entrare in camera sua e di cercare un film tra la sua collezione? In camera sua da sola, nonostante il litigio di pochi giorni prima che mi aveva creato non pochi traumi psicologici? Sam trafficò con una bottiglia, nel tentativo di aprirla. Continuavo a guardarlo, la mano ferma sul braccio di Charlie. «Sì, hai capito bene. Puoi entrare nella mia stanza e scegliere un film.»
   «Davvero?» Chiesi con una vocina piccola piccola.
Sorrise. «Sì, sono serio. Ti conviene muoverti, prima che cambi idea.»
Mi alzai velocemente, entrando nella stanza che avevo pulito con la sua disapprovazione. Prima di essere sommersa dall’infinità di Dvd sentii la voce di Charlie, debole, spirare. «Siete diventati amici?»
La stanza era come l’avevo sistemata. Nonostante la sua ferma opposizione, Sam non aveva provato a ripristinare il clima di disordine e anarchia dei vestiti. Il letto era un po’ sfatto, come se qualcuno avesse deciso di farlo ma non sapesse esattamente come, e gli indumenti della mattina riposavano sulla sedia, altrimenti sgombra. Tuttavia, capii che Sam si stava impegnando a tenerla un po’ ordinata dal fatto che la finestra era aperta e che niente altro sembrava fuori posto. Scrutai velocemente la lista dei film, scegliendo una commedia vecchio stile piuttosto di un film strappalacrime. Di certo avevamo bisogno di risate, non di piagnistei. Tornai trionfante in salotto, dove Charlie reggeva in mano la bottiglia e Sam portava sul tavolino tre bicchieri. La ragazza mi fece cenno di sedermi tra lei e Sam. Infilai il Dvd nel lettore, collocandomi nel posto a me adibito. Charlie appoggiò la sua testa sulla mia spalla, io insinuai la mia mano tra la sua. Il ragazzo spense la luce, sospirando mentre i trailer dei prossimi film in uscita (nel periodo di produzione del film) ballugginavano per la televisione. Visto, visto … nooo, non mi ispira.
Charlie guardò la bottiglia, imbronciata. «Ecco chi beve tutti i miei esperimenti.»
   «Sta zitto e bevi.» Replicò Sam, da un punto non meglio definito alla mia destra.
   «È un po’ triste bere con i nostri bicchieri. Dovremmo prendere quelli da cocktail, così se abbiamo ospiti abbiamo altro che i soliti comuni bicchieri da offrire.»
Vidi distintamente il luccichio degli occhi di Sam puntarsi sulla mia vicina. Non era il caso di litigare per una cosa del genere, non dopo aver visto Charlie piangere per il suo ormai ex ragazzo. Sapevo a mie spese che bastava un niente, un minimo, per scoppiare in un irrefrenabile pianto e il nostro obiettivo era quello di farla sorridere, non di sprofondare in un mare di disperazione. «Possiamo non usare i bicchieri. L’ultima volta abbiamo bevuto direttamente dalla bottiglia.»
Charlie bevve una lunga sorsata, poi mi passò la bottiglia. Il liquido era diverso, ma come la mia precedente esperienza scoprii che era alcol abbastanza arzillo, tale da obbligarmi a scuotere la testa come un cagnolino. Tracannai una seconda sorsata, porgendo infine il tutto a Sam. I titoli di testa erano appena iniziati e, ripassata la bottiglia a Charlie per permettere di affogare meglio il suo ex traditore, appoggiai la testa alla spalla di Sam. 

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