A thousand times over;

di Kary91
(/viewuser.php?uid=29001)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Per te... ***
Capitolo 2: *** ... Un milione di volte; ***



Capitolo 1
*** Per te... ***


Premessa: Questa storia è ambientata durante l’infanzia di Alec e Jace, quando i due hanno rispettivamente 13 e 11 anni. È stata scritta per l’event di Luglio del gruppo We are out of Prompts (i prompts e i credits sono al fondo del capitolo). I passaggi in corsivo, così come il titolo, sono tratti dal libro “Il Cacciatore di Aquiloni” di Khaled Hosseini.

 

 

«Il nonno mi compra un falco. Un falco per me. Lo accarezzai piano e sentii il suo cuore, a grancassa come il mio. Capii che era lui e nessun altro. Era nato per me, per me era sul tavolo di quella cucina, familiare come se ci avessi abitato da mille anni. L’ho chiamato Piccolo, perché essere piccoli non è mica un difetto.»

Io e il Falco. Cristina Bellemo

 

A thousand times over;

 

In cielo due aquiloni rossi con lunghe code azzurre volavano sopra i mulini a vento, fianco a fianco, come occhi che osservassero dall'alto San Francisco, la mia città d'adozione. Improvvisamente sentii la voce di Hassan che mi sussurrava: per te qualsiasi cosa.

 

Jace arrivò al fondo della pagina e chiuse il libro, prima di spostare la sua attenzione verso Alec.

“Hodge questa mattina non può allenarci” stava spiegando suo fratello, mentre faceva riscaldamento. “Ha della roba da sbrigare per il Conclave.”

“Aveva promesso che ci saremmo allenati con le travi” si lamentò Jace, incominciando a sua volta gli esercizi per scaldare i muscoli. “È da un pezzo che gli chiediamo di farlo.”

Alzò la testa: una serie di travi di legno era sospesa a diversi metri di altezza. Gli Shadowhunters più esperti erano soliti camminarci sopra per dare prova di equilibrio e flessibilità. Di solito distavano cinque o sei metri dal pavimento, ma Hodge aveva trovato il modo di abbassarle per i tre Lightwood. Da un paio di giorni, Jace aveva incominciato a percorrerle da sotto, aggrappandosi al legno e passando di trave in trave. Hodge l’aveva lasciato fare, ma Jace aveva dovuto promettere che non ci avrebbe mai provato in sua assenza.

“Ci alleneremo questo pomeriggio” propose Alec, con una scrollata di spalle: l’idea di percorrere la palestra passando di trave in trave non lo faceva impazzire. Era più grande di Jace, ma aveva meno resistenza e sospettava che non sarebbe mai riuscito a fare più di due o tre passaggi.

Jace fece roteare il collo, visibilmente spazientito.

“Non voglio aspettare il pomeriggio” replicò, esaminando con attenzione le travi. Un sorriso obliquo gli accarezzò le labbra. “Scommettiamo che riesco ad arrivare almeno a metà sala?”

Alec gli scoccò un’occhiata di ammonimento.

“Niente travi” si oppose, scuotendo la testa. “Le ultime volte che ti sei messo in testa di fare lo scavezzacollo ho passato la giornata a farti da infermiere: ormai abbiamo praticamente finito i cerotti.”

Jace roteò gli occhi.

“Sai sempre come uccidere il divertimento” osservò, arrampicandosi su una spalliera. Allungò il braccio per toccare la prima trave, come se volesse saggiarne il legno. “Comincio da questa” decise infine, sorridendo spavaldo.

Alec sospirò.

“Perché devi sempre fare lo spaccone?” domandò, guardandolo molleggiare prima di darsi la spinta. “Guarda che non devi dimostrare niente a nessuno.”

Jace si aggrappò alla prima trave; qualcosa delle parole di Alec l’aveva infastidito a punto da spingerlo ulteriormente verso quell’impresa.

“Non voglio dimostrare nulla” ribatté, rinsaldando la presa sulla trave. “So che posso farlo, quindi perché non farlo?”

Alec lo fissò per qualche istante, scetticismo e preoccupazione a contendergli lo sguardo. I suoi occhi azzurri studiarono le braccia magre, da undicenne, di Jace prima di soffermarsi sulla sua espressione determinata.

“D’accordo” dichiarò infine, sorprendendo Jace. Percorse a grandi falcate la palestra, in direzione opposta a lui. “Ci incontriamo a metà strada.”

Jace sgranò gli occhi, allibito.

“Alec, no” si oppose, tornando sulla spalliera. “L’hai detto tu che le travi ti mettono i brividi.”

“Sono uno Shadowhunter, no?” replicò il fratellastro, arrampicandosi sulla dorsale opposta a quella che aveva scalato Jace. “Non posso avere sempre paura.”

Jace non seppe come ribattere; quando l’aveva conosciuto, un anno prima, Alec non aveva molta forza nelle braccia, ma con il tempo era migliorato visibilmente. Si allenava di continuo, deciso a stargli al passo, e quella determinazione stava dando i suoi frutti. L’attraversamento delle travi era una sfida pesante, ma non suicida. Poteva farcela e di certo non sarebbe stato lui a scoraggiare i suoi tentativi di perfezionarsi.

“D’accordo” acconsentì con un sorriso complice, dandosi lo slancio. “A metà strada.”

Alec annuì. La tensione era evidente nel suo sguardo, ma i suoi occhi azzurri rilucevano di determinazione.

Si diede lo slancio, aggrappandosi alla prima trave. Vacillò un po’, ma rinsaldò la presa e si sporse per passare alla seconda, mentre il fratello raggiungeva la sua terza.

Jace si sforzò di concentrarsi su ciò che stava facendo, ma continuava a spostare lo sguardo verso Alec: comportarsi da incosciente era più difficile, quando non era solo lui a rischiare di farsi male.

Proseguì comunque, fermandosi quando – a fatica – riuscì a raggiungere una delle due travi centrali. Avrebbe potuto proseguire oltre o balzare a terra, ma rimase fermo, dondolandosi avanti e indietro: a metà strada, si erano promessi lui e suo fratello.

E a metà strada s’incontrarono, un paio di minuti dopo.

“Ci… Ci sono…” mormorò Alec, il fiato grosso e i capelli imperlati di sudore. Aveva l’espressione stupita che lo catturava ogni volta che riusciva in qualcosa di difficile. Alec era sempre stato bravissimo nell’ individuare i punti di forza nei suoi fratelli, ma spesso faticava a riconoscere di essere a sua volta in gamba.

“Ce l’ho fatta” ripeté con un sorriso cercando di riprendere fiato.

“Certo che l’hai fatta” replicò Jace, ignorando il dolore alle braccia. Erano entrambi stravolti e le loro mani lottavano con furia per rimanere aggrappate alle travi, ma nessuno dei due mollò la presa. “Perché non avresti dovuto? Sei veloce, sei tenace: stai anche diventando più resistente.”

Un sorriso accarezzò timido le labbra di Alec.

“Sto avendo un buon insegnante” si giustificò, dandosi la spinta per arrampicarsi sulla trave.

Jace lo imitò.

“Hai ragione” si trovò costretto ad ammettere, facendo oscillare le gambe nel vuoto. “Hodge sa il fatto suo.”

“Non parlavo di Hodge…” rivelò Alec, mettendosi a cavalcioni dell’asse; le sue guance, generalmente nivee, erano rosse per lo sforzo. “… Ma di te. Allenarci assieme mi sta aiutando molto,” ammise, facendo spallucce. “Mi motiva. Ho sempre voglia di migliorarmi, di mettermi alla prova. Non ho scelta, se devo starti dietro” aggiunse, passandosi una mano fra i capelli umidi. “Controllare che tu non ti faccia male è un lavoro a tempo pieno.”

Jace fece per ribattere, ma qualcosa nello sguardo di Alec glielo impedì. Rimase in silenzio, compiacendosi dell’aria di trionfo nello sguardo di suo fratello, ammirando il suo sorriso fiducioso.

Era la prima volta che Alec lo guardava così; la prima volta che gli sorrideva in quel modo – l’affetto incondizionato di un fratello a illuminargli gli occhi. Era lo sguardo di chi sceglieva di riporre la propria fiducia in qualcun altro, lo sguardo di chi aveva scelto di lasciarsi addomesticare.

È proprio come il mio falco, si disse, ricordando la prima volta che il rapace si era posato sul suo braccio. Allora aveva avvertito la stessa sensazione di trionfo, lo stesso compiacimento che stava provando in quel momento.

Mi vuole bene, ed io ne voglio a lui.

Uno schiocco secco echeggiò nella sua testa, facendolo trasalire: tutto a un tratto ricordò il corpo inerme del falco abbandonato sul pavimento e ammonimenti di suo padre.

La paura gli attanagliò il corpo, facendolo irrigidire.

Amare vuol dire distruggere, pensò, aggrappandosi alla trave.

Ci aveva provato a non affezionarsi ai Lightwood, a mantenere le distanze con la sua nuova famiglia, ma gli occhi azzurri di Alec non gli avevano dato scampo. L’avevano vegliato con costanza fin dal primo giorno, proteggendolo e rassicurandolo senza mai chiedere nulla in cambio. Alla fine si era arreso, abbandonandosi alle premure fraterne di quel ragazzino poco più grande di lui. Alec si fidava di lui, gli voleva bene, e Jace si era aggrappato a quell’affetto proprio come aveva fatto un tempo il falco con lui, artigliandogli il braccio.

“Jace?”

Alec lo stava fissando con le sopracciglia aggrottate, la preoccupazione a contrarre i suoi lineamenti.

“Ho detto qualcosa di sbagliato?”

Jace si riscosse da quei pensieri.

“Affatto” lo rassicurò, facendo forza sulle braccia per alzarsi in piedi.

“Stavo solo pensando che…”

Non riuscì a completare la frase. La scarpa, posizionata male sulla trave, slittò in avanti e il ragazzino perse l’equilibrio.

“Jace!”

Una mano si aggrappò alla sua maglietta una frazione di secondo prima che incominciasse a precipitare.

Jace cercò di raggomitolarsi, ma non ebbe il tempo di organizzarsi per cadere nel modo giusto.

L’impatto con il pavimento gli spezzò il fiato e, quasi immediatamente, giunse il dolore.

Si accorse subito che c’era qualcosa di strano nel modo in cui era atterrato: la caduta, per quanto dolorosa, era stata più dolce del previsto.

Fu il gemito di dolore di Alec a riscuoterlo dal momento di stordimento.

Jace si affrettò di alzarsi, liberando il corpo del fratello sotto di lui.

Alec socchiuse gli occhi, digrignando i denti per il dolore: la sua mano era ancora avvolta attorno a un lembo della maglietta di Jace.

 

***

“Come ti senti?”

Jace era appollaiato sul davanzale della finestra, in infermeria.

Alec era sdraiato sul letto più vicino e stava cercando di tirarsi su a sedere.

“Poteva andare peggio” commentò il ragazzo, con una smorfia di dolore. “Non ho nulla di rotto, quindi posso considerarmi fortunato.”

“Ti sei slogato di tutto…” ribatté il fratello minore, balzando giù dal davanzale. “E hai una costola incrinata.”

“Nulla che un buon iratze non possa curare” lo rassicurò Alec, mostrandogli una runa sull’avambraccio. “Papà me ne ha fatto uno: è leggero e funziona lentamente, ma mi sento già meglio.”

Jace distolse lo sguardo dalla runa di guarigione; avrebbe voluto disegnargliela lui, ma Robert si era opposto. Il suo gesto l’aveva infastidito parecchio: in fondo era colpa sua se Alec era scivolato dalla trave. Toccava a lui prendersi cura di suo fratello.

“Me la levi una curiosità?”

Alec sembrava tranquillo, nonostante il suo corpo fosse un agglomerato di ematomi e fasciature.

“Come hai fatto a scivolare in quel modo?”

Jace si strinse nelle spalle.

“Ero distratto, credo” ammise, ripensando al momento in cui aveva cercato di alzarsi in piedi sulla trave. Il ricordo del falco tornò a infastidirlo proprio come poco prima, così decise di lasciar perdere.

“Stai sanguinando” osservò invece, toccandogli il braccio destro: aveva una piccola abrasione sotto il gomito.

Alec diede un’occhiata; tutto a un tratto, abbozzò un sorriso.

“È la tua influenza” commentò, arruffando i capelli del fratello minore. “L’ho detto che ero stufo di doverti sempre medicare.”

Jace ricambiò il sorriso.

“Aspetta, prendo un cerotto.”

Si procurò bende e disinfettanti e si sedette accanto a lui per medicarlo. Era la prima volta che si ritrovava a dovergli mettere un cerotto e fu felice di quell’inversione di ruoli. Incominciava ad apprezzare le premure di Alec nei suoi confronti, ma non voleva che fosse una cosa a senso unico.

Un sorriso obliquo gli arricciò le labbra, mentre applicava il cerotto.

“E poi sarei io l’incosciente…” lo stuzzicò, esaminando con occhio critico i vari danni che si era procurato.

Alec lo guardò storto.

“Beh, in fondo l’idea è stata tua.”

“Potevi non seguirmi” ribatté Jace, facendo dondolare la sedia. “Potevi lasciarmi cadere: sai che avrei potuto rannicchiarmi e rotolare, come ci ha insegnato Hodge. Perché mi hai preso per la maglietta?”

“È stato istintivo” ammise Alec, passandosi le dita sul cerotto. “Non stavo pensando in quel momento.”

“Già, non pensi mai quando si tratta di me” ribatté Jace, tradendo una punta di risentimento. O di Izzy, o di Max, aggiunse mentalmente. Non sapeva perché la sua voce si fosse indurita in quel modo.

Forse era semplicemente stufo di vederlo finire nei guai per causa loro. O forse era solo spaventato per quello che era successo.

La reazione di Alec alla sua caduta era solo l’ennesima conferma degli insegnamenti di suo padre: l’affetto non era altro che una distrazione e poteva danneggiare quanto un arma.

Era successo a lui, quando era scivolato pensando ad Alec. Ed era capitato anche a suo fratello, che non aveva esitato a fargli da scudo mentre cadevano, a costo di farsi davvero male.

Incrociò lo sguardo di Alec che lo stava fissando con intensità, come se potesse leggergli dentro.

“Io penso sempre quando si tratta di te” disse, il tono di voce insolitamente asciutto. “Penso a come proteggerti, a come cercare di tenerti fuori dai guai senza starti troppo addosso.”

“Non voglio che tu ti faccia male per colpa mia” ribatté Jace, squadrandolo con durezza. “Ne abbiamo già parlato.”

“Infatti, ne abbiamo già parlato” replicò Alec. E nel suo volto, Jace si scontrò con una determinazione nuova, non diversa da quella che cerchiava i suoi occhi. “Sono tuo fratello maggiore. Tuo, di Izzy e di Max. Tenervi d’occhio è il mio compito, che lo vogliate o meno.”

Si guardarono ancora, la sfida che rimbalzava fra l’azzurro e l’oro dei loro occhi: nessuno dei due voleva distogliere lo sguardo, perché avrebbe significato arrendersi.

“Fa’ come ti pare” sbuffò infine Jace, incrociando le braccia sul petto. Aveva i piedi appoggiati sul letto e la sedia in bilico sulle gambe posteriori. “Vorrà dire che farò lo stesso.”

Alec gli sorrise.

Ancora una volta Jace avvertì il miscuglio di paura e trionfo che aveva provato sulla trave, ma si sforzò di ignorarlo.

“Com’è il dolore?” chiese invece, smettendo di dondolarsi.

Alec fece spallucce.

“Quasi andato via” mentì, sforzando di mostrarsi rilassato: Jace non ci cascò.

“Hodge è tornato poco fa” rivelò ancora Alec, abbozzando un sorriso. “Ti aspetta in palestra. Ma non penso che ci farà tornare sulle travi per un bel pezzo.”

Jace sorrise malandrino.

“Non ho voglia di allenarmi” ammise, recuperando il libro che aveva appoggiato sul comodino.

Alec inarcò un sopracciglio.

“Tu che non hai voglia di allenarti?” ripeté, fissandolo scettico. “Sei sicuro di non aver battuto la testa, cadendo?”

Jace tornò a posare i piedi sul materasso, incrociandoli all’altezza delle caviglie.

“Zitto e riposa” ordinò, allargando il sorriso.

Aprì il libro al capitolo in cui aveva inserito il segnalibro e riprese a leggere, ignorando il borbottio di protesta di Alec.

 

Quello fu il momento più felice dei miei dodici anni di vita. Mio padre finalmente era orgoglioso di me.

 

La parola padre, così vicina al termine orgoglioso, lo fece esitare per un istante. L’immagine del falco morto tornò a tormentarlo, accompagnata dalle parole fredde dell’uomo che gli aveva spezzato il collo.

«Ti avevo detto di insegnargli a obbedire.»

Jace scosse la testa e riprese a leggere ad alta voce, incoraggiato dal silenzio di Alec.

 

Poi mi resi conto che ci faceva dei cenni convulsi. Capii immediatamente.

«Hassan, noi…»

«Lo so» disse, sciogliendosi dall’abbraccio. «Inshallah, festeggeremo dopo. Ora do la caccia all’aquilone azzurro per te.»

Lasciò cadere il rocchetto e schizzò via come un razzo, trascinando nella neve l'orlo del suo chapan verde.

«Hassan» urlai. «Torna con l'aquilone azzurro!»

 

Jace si fermò ancora, questa volta per controllare Alec: sembrava tranquillo, gli occhi socchiusi e un sorriso leggero a incurvargli le labbra.

Sorrise anche lui, mentre i suoi occhi tornavano a rincorrere le parole in fondo alla pagina.

 

Arrivato in fondo alla strada si fermò e con le mani attorno alla bocca mi gridò: «Per te questo e altro».

 

________________________________

Note Finali.

Questa storia si basa sui seguenti prompts: “Quando Alec gli sorride per la prima volta, Jace si sente vittorioso come quando il falco si è posato sul suo braccio. E ha paura.” (di Chara) 2.Jace aveva tutta l'intenzione di non affezionarsi a nessuno in quella nuova famiglia, questo però prima di perdersi negli occhi più azzurri che avesse mai visto.” (di Mafiaromano) 3.Era la prima volta che Jace si ritrovava a dover mettere un cerotto a qualcun altro.” (di Mafiaromano)

 

 Dopo “The Forging of a Bond” sono tornata a scrivere qualcos’altro sull’infanzia di Jace e Alec, perché – credo che ormai si sia capito! – amo tantissimo fantasticare sul loro rapporto. Questa storia è composta da due capitoli e in un certo senso può venire considerata il seguito della prima mini-long (The Forging of a Bond), visto che anche in questa seconda storia si ripetono dinamiche simili e ci sono situazioni che aiutano a rinsaldare il legame tra i due ragazzini. L’idea di inserire nella storia i passaggi del Cacciatore di Aquiloni l’ho avuta principalmente per due motivi; da un lato non riesco a non immaginare un piccolo Jace che mette il naso in tutti i libri che trova in giro – anche quelli Mondani – e mi piace immaginarlo mentre legge per Alec. Dall’altro, ho sempre trovato meravigliosa la lealtà di Hassan nei confronti di Amir e mi piaceva l’idea di un parallelismo con il Jalec.

Spero tanto che questo capitolo possa esservi piaciuto!  A presto con il secondo e ultimo capitolo!  

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** ... Un milione di volte; ***


 

A thousand times over;

(Part 2)

 

 

Stava correndo verso il padre, un sorriso allegro a illuminargli il volto.

Doveva mostrargli qualcosa che l’avrebbe reso orgoglioso, qualcosa che gli faceva battere il cuore a grancassa per la felicità.

“Padre!” esclamò, mostrandogli il braccio. Il falco se ne stava lì appollaiato, fiero e fiducioso: tese la mano per accarezzarlo, e il rapace non si ritrasse. “Padre, guarda: mi vuole bene!”

L’uomo, però, non stava guardando il falco: la delusione nei suoi occhi era rivolta solamente al bambino, all’euforia del suo sguardo, alla tenerezza con cui si rivolgeva al suo nuovo amico.

Un grido riempì l’aria, catturando l’attenzione di Jace: il falco volò via, ma per la prima volta il ragazzino non ci fece nemmeno caso.

Suo padre stava strattonando qualcuno per il braccio, qualcuno con lo stesso sguardo fiducioso del falco: un ragazzino.

 

“Alec!”

Jace aveva gli occhi sgranati per il terrore. Le manine ossute, da bambino di sei anni, tremavano convulsamente.

“Ti avevo detto di insegnargli ad obbedire” tuonò suo padre, afferrando Alec per i capelli. “Tu invece gli hai insegnato ad amarti!”

Jace si fiondò su di lui, ma l’uomo lo afferrò per la collottola e lo scaraventò a terra.

“Lascialo stare!” gridò Alec, divincolandosi dalla sua presa.

Michael Wayland* rivolse al giovane Lightwood un’occhiata di puro disgusto.

“L’hai rovinato” dichiarò con freddezza, voltandosi verso il figlio. “L’hai reso inutile!”

Si udì uno schiocco; il corpo di Alec si afflosciò, pallido ed inerme.

“Alec!”

Rovinò a terra, accartocciato su se stesso come una foglia.

Jace si lasciò cadere al suo fianco, il cuore a grancassa che gli martellava nel petto con violenza e le lacrime che gli appannavano gli occhi

“Alec, svegliati!”

In vita sua non aveva mai gridato così forte, ma non servì a nulla: Alec rimase immobile, gli occhi aperti ma privi di espressione.

Era morto, morto per aver scelto di lasciarsi addomesticare.

Morto per causa sua.

“Alec svegliati, ti prego! Alec!”

 

 

“Jace...”

Una mano lo scosse delicatamente per la spalla.

L’urlo di Jace si ridusse a un sussurro sottile mentre il sogno sfumava, lasciando il posto alla realtà.

Aprì gli occhi, guardandosi attorno disorientato: era ancora buio, ma i riflessi azzurrini di una stregaluce accarezzavano i contorni della persona china su di lui.

Jace riconobbe all’istante l’espressione apprensiva di Alec, il suo pigiama sformato, i capelli neri ancor più arruffati del solito.

Il sollievo s’irradiò in tutto il suo corpo, liberandolo dal terrore che ancora lo braccava.

“Che succede?” mormorò, mettendosi a sedere.

Alec scosse la testa.

“Non lo so: mi stavi chiamando” spiegò, appoggiando la stregaluce sul comodino. “Probabilmente hai avuto un incubo.”

Jace si mosse a disagio nel letto, sforzandosi di scacciare via l’immagine di suo fratello morto.

Si accorse che le sue mani tremavano, così si affrettò a nasconderle sotto il lenzuolo.

“Sto bene” dichiarò, con voce un po’ rauca. “Davvero, era un sogno proprio stupido: volevi buttare il mio giubbotto preferito nel gabinetto per vendicarti dell’incidente della trave.”

Sorrise malandrino, ma Alec non ricambiò: non era stupido.

“Ti spiace se resto qui per un po’?” mormorò poi il fratello, giocherellando con i riflessi della stregaluce. “Non ho un granché sonno.”

Il tumulto nel cuore di Jace cessò. Così, all’improvviso.

Guardò suo fratello, studiò quegli occhi azzurri troppo grandi, che parlavano con la stessa sincerità del popolo fatato.

Era il suo Alec, quello: Alec che si fingeva debole per stargli accanto, anche quando quello da rassicurare era Jace. Alec che gli leggeva dentro con la stessa facilità con cui Jace leggeva lui. Alec che gli ricordava in continuazione di essere suo fratello, che gli medicava ogni ferita, che cadeva da una trave per proteggerlo.

Le dita di Jace scivolarono fuori dalle coperte, per aggrapparsi al suo polso.

“Nemmeno io ho sonno” ammise, affidandosi al fratello con lo sguardo.

Alec sembrò accorgersene, perché sorrise appena e si fece un po’ di spazio sul materasso, ben attento a non pestare il fratello.

“Posso andare un po’ avanti con questo” propose poi, prendendo Il Cacciatore di Aquiloni dal comodino. “La parte che hai letto oggi mi è piaciuta.”

Jace annuì, incapace di aggiungere anche solo mezza frase; si sentiva svuotato, come se avesse corso per delle ore. Come se avesse pianto – lui che non aveva più versato una lacrima dalla volta del falco.

Alec tolse il segnalibro dalle pagine e incominciò a leggere, la voce un sussurro timido: non era abituato a leggere ad alta voce – di solito era Jace a farlo – ma con il trascorrere dei minuti incominciò ad acquisire scioltezza.

 

A letto, nel buio, la sera della telefonata di Rahim Khan, seguivo con gli occhi le linee parallele di luce d’argento che filtravano attraverso le persiane.

 

“Alec?”

La voce di Jace era insolitamente esitante.

Alec interruppe la lettura per rivolgergli un’occhiata interrogativa.

Jace si strinse nelle spalle.

“Tu lo vorresti un parabatai?” chiese, prendendo in mano la stregaluce.

Alec gli rivolse un’occhiata sorpresa. Per un attimo restò in silenzio, come se stesse riflettendo.

“Chi non lo vorrebbe?” mormorò infine, una luce insolita ad accendergli gli occhi azzurri.

Jace non riusciva a decifrarla: sembrava speranzoso, ma anche preoccupato.

O forse era lui a sentirsi così. Diventare il parabatai di qualcuno non era una cosa da niente. Era l’impegno più grande che uno Shadowhunter potesse prendere, un legame inscindibile che vincolava due guerrieri fino alla morte.

Il loro era un tipo di affetto che non indeboliva. I parabatai traevano forza dal legame che li univa e non si danneggiavano a vicenda, a differenza di quello che era successo a lui e al suo falco.

Se Alec fosse diventato il suo parabatai, se la loro amicizia fosse stata protetta da quel vincolo, allora non avrebbe più dovuto temere per lui.

Sarebbero stati entrambi al sicuro: più forti quando erano insieme.

Avrebbe potuto volergli bene senza riguardi, mettendo a tacere la paura.

Sorrise appena, lasciandosi ricadere sul cuscino.

Alec aveva ricominciato a leggere e la sua voce soffice spense ogni punta di inquietudine che ancora gli ronzava dentro, spingendolo a chiudere gli occhi.

 

Mi addormentai che era quasi l'alba. E sognai Hassan che correva nella neve, l'orlo del suo chapan verde che strisciava dietro di lui, la neve che scricchiolava sotto i suoi stivali di gomma.

 

L’ultima cosa che la sua mente registrò prima di addormentarsi fu il tocco un po’ impacciato di una carezza sulla fronte e il sussurro rassicurante di Alec.

 

Rivolto verso di me gridava: per te questo e altro.

 

Ripeté quelle parole nel dormiveglia, affidandosi alle premure di suo fratello.

E seppe che erano vere.

 

 

 

«Ma adesso ce l’ho, Piccolo, nessuno me lo porta via. Nessuno.»

Io e il Falco. Cristina Bellemo

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3496488