Nove pillole di Sherlock

di wrjms
(/viewuser.php?uid=107749)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il ballo, gli indovinelli, il violino ***
Capitolo 2: *** Le sigarette, gli stupidi, il suo cappotto ***
Capitolo 3: *** Le api, i deerstalker, John Watson ***



Capitolo 1
*** Il ballo, gli indovinelli, il violino ***


1 – Ballo

Il consulente investigativo preme il tasto centrale del piccolo lettore e, immediatamente, le note del celebre rondò iniziano ad echeggiare fra le pareti della stanza. Il salotto è vuoto: Sherlock lo ha liberato da ogni intralcio. Entrambe le poltrone sono scomparse dalla stanza; il tavolo è stato spinto da un lato; il pavimento, solitamente caotico e disseminato di documenti, è ora vuoto e lucido come una distesa di ghiaccio.
Adatto a delle prove di ballo.
«Chopin?», mormora John, in un angolo della stanza; è teso, si gratta la nuca mentre si guarda intorno.
«Mmh». I movimenti di Sherlock sono lenti. Ha una mano dietro la propria schiena; mentre si avvicina, tende con lentezza l'altra, la sinistra, verso John, a palmo aperto. «Opera sessantaquattro, numero due». John guarda la mano con circospezione.
«Perché ho acconsentito a tutto questo?», mormora, a voce bassa, quasi fra sé e sé; ma poi si avvicina. Sa benissimo la motivazione per cui lo ha fatto: mancano meno di sette giorni al matrimonio e lui, rigido come un pezzo di legno per via delle sue abitudini militari, non ha mai imparato a ballare. Mary, al contrario, è una discreta ballerina, e Sherlock ha insistito ad aiutarlo affinché non sfigurasse davanti a lei e agli invitati.
Sherlock prende la sua mano con dolcezza e la dirige verso il punto corretto della propria schiena; sente le dita di John stringersi rigidamente contro il tessuto della sua giacca. «Piede sinistro, John», sussurra, mentre la destra si intreccia alla sua. Ha gli occhi puntati su di lui, le pupille dilatate, le labbra leggermente dischiuse.
John si muove. E, lentamente, iniziano a ballare.

2- Indovinelli

«Mi annoio».
John non si muove di un millimetro. È seduto al tavolo del salotto e batte furiosamente sulla tastiera del suo portatile. Sherlock si volta per osservarlo dalla propria poltrona. Pensa: scrive con più di un dito alla volta. Nella maggior parte dei casi, John batte come un ottantenne di fronte al proprio primo computer. Evidente segno d'irritazione. Non sta scrivendo un caso: sta rispondendo a dei commenti. Evidentemente, non troppo positivi.
«Intraprendere discussioni con sconosciuti è indice di insoddisfazione personale», mormora, portando le mani congiunte al suo viso; John si volta per un attimo come per chiedere spiegazioni della sua deduzione, poi ci ripensa, sbuffando, e torna al suo portatile.
«È il tuo blog», spiega. «Qualcuno sta mandando insulti belli e buoni a... Aspetta. Cos'è questo?».
Un click, il cambiamento della luce sul volto di John. Le rughe sulla fronte del medico si fanno più profonde.
«Cosa?», chiede Sherlock, muovendosi impercettibilmente.
«Un... indovinello?». Click. «Un indovinello per Sherlock Holmes. Qual è l'animale che la mattina ha quattro zampe, il pomeriggio due e...». Una risata soffocata. «Davvero? L'indovinello della Sfinge? A Sherlock Holmes? Pensa di beffarti con un semplicissimo--», ridacchia, ma si interrompe all'improvviso quando, giratosi, scorge l'espressione totalmente persa di Sherlock. È immobile, non fosse per i suoi occhi: sotto le palpebre, essi si muovono velocissimi, come tentando di risolvere un enigma complicato.
«Sherlock?», lo chiama. Niente. Silenzio. Sherlock inizia ad agitarsi e a cambiare posizione sulla poltrona, tenendo i propri occhi chiusi. «Sherlock, è impossibile che tu non lo conosca... sono cose delle elementari. Anche i bambini sanno-».
«Rimosso». Sherlock apre improvvisamente gli occhi.
«Cosa? Ma se vai matto per...».
«Gli enigmi. Gli enigmi, John. Ma gli indovinelli...». Una espressione di disgusto si pianta sulla sua faccia. «Non mi piacciono gli indovinelli», sputa fra i denti.
Sherlock se ne va dalla stanza, facendo volteggiare la sua vestaglia. John rimane a bocca aperta, confuso, a fissare il vuoto.
 

 

3-Violino

«Come hai cominciato?».
È gennaio e sono su un taxi, in tarda serata, diretti a Scotland Yard su richiesta di Lestrade. Quando sente le parole di John, Sherlock s'irrigidisce: non sono abituati a chiacchierare mentre sono impegnati in un caso; John stesso sa bene che, per il bene dell'investigazione, è importante lasciare a Sherlock il silenzio che necessita.
Sherlock non risponde. Porta una mano al mento e guarda fuori dal finestrino.
«Il violino, Sherlock».
«John...», lo ammonisce lui, già pronto a tagliare corto; i tuoi disperati tentativi di fare conversazione mi distraggono. Se avessi voluto chiacchierare del tempo, mi sarei trasferito con Mike Stamford.
«Ho osservato il tuo violino, prima. Scusa– non volevo frugare nella tua roba, ma era proprio lì, vicino al portatile, e non ho potuto fare a meno di notarlo».
Sherlock sta iniziando ad irritarsi. «John».
Nulla: John respira profondamente e lo ignora, continuando a parlare con il capo chino. È come se fosse intimidito, o si vergognasse: si guarda le mani, incrociate sul proprio ventre, e tentenna. Ha la voce flebile come quella volta che, in quel vagone pieno di bombe, aveva creduto di morire. «Insomma... È bellissimo. Non l'ho mai guardato molto attentamente. Eppure, ieri le ho notate: quelle linee sottili sul ponticello e sulla cordiera, rette; e poi, sulla cavicchiera, qualche segno di sfregamento, quasi impossibile da notare. Ho pensato che dovevi aver cambiato le corde più volte. Ma quelle scanalature sul ponticello– sembra che i crini siano saltati». Si ferma un attimo e sogghigna, come incredulo davanti alla propria stessa affermazione. Non nota che, tutto ad un tratto, il consulente investigativo s'è fatto silenzioso ed immobile; i suoi occhi cristallini lo osservano tramite il riflesso sul finestrino. «Non ti ho mai visto trattare il tuo violino in modo incurante. Riuscivo a spiegarmelo solo pensando che fosse molto vecchio, e che si fosse rovinato quando avevi appena iniziato a suonare... magari, da piccolo».
Sherlock si volta.
John non lo ha mai visto così sorpreso. Ha gli occhi spalancati, le pupille dilatate nella luce soffusa del taxi; eppure, al di là dei suoi occhi, mantiene la sua compostezza. Nessuna piega sul suo abito firmato. Il bavero del suo cappotto, immacolato, a celargli le labbra, solo leggermente dischiuse. Ma gli occhi no, no: le sue iridi fremono, impercettibilmente, mentre lo osservano; sotto alle sopracciglia, leggermente sollevate, le palpebre battono velocemente.
Sherlock Holmes cerca di risolvere il suo più complicato enigma.
«Scusa», sussurra John, dopo un lungo silenzio. Si accinge a guardare altrove per lasciargli il silenzio di cui ha bisogno.
Sherlock china il capo. «Hai ragione», conferma, e la sua voce è appena un sussurro sfuggito alle sue labbra, tremanti, nascoste, nervose mentre pronunciano parole proibite. «Ho iniziato da bambino. È stato un regalo di mio fratello. Avevo sette anni». Il capo di Sherlock si inclina da un lato, sfugge allo sguardo di John. Le palpebre si richiudono, dolorosamente, strizzando gli occhi, cercando di scacciare una brutta immagine.
«Mycroft. Non lo facevo un tipo da regali». John tenta di immaginarsi Mycroft, quattordicenne, che lascia un violino e un archetto nelle manine di un piccolo Sherlock; è troppo grande, per lui– Sherlock è sottopeso, un bambino magrolino, le sue dita a malapena si stringono attorno alla tastiera.
Ci si affeziona subito. A trent'anni, ancora lo suona; quando le corde iniziano a rovinarsi, lui le cambia, fa di tutto per mantenerlo en santé.
Sherlock non parlava di Mycroft, ma non si preoccupa di correggerlo. Sarebbe troppo complicato parlare di lui; descrivere il suo aspetto, la sua personalità, la sua storia. Sherrinford Holmes. Il nome torna a galla da un cassetto celato del suo palazzo mentale e Sherlock, chiudendo gli occhi di nuovo, fa di tutto per scacciarlo.
Non parla. Invece, inspira profondamente; porta le mani congiunte al mento, come è solito fare.
Non pensa al caso. Non pensa al violino, né a Sherrinford. Sherlock Holmes pensa a John Watson, seduto a poche spanne di distanza da lui. Una riflessione accurata, complessa, svolta unicamente per il fine di comprendermi meglio. Una briciola d'orgoglio per l'amico gli si insinua fra le labbra, lo fa sorridere; mentre ripensa alla sua accuratissima deduzione, cerca di ricordare, con estrema difficoltà, l'ultima volta in cui si era sentito così amato.

Campagna di Promozione Sociale - Messaggio No Profit:
Dona l’8‰ del tuo tempo alla causa pro recensioni. Farai felici migliaia di scrittori.
(Chiunque voglia aderire al messaggio, può copia-incollarlo dove meglio crede)

Angolo Autrice

Mishamigos!
Rieccomi, Sherlockians, con nove piccole shottine sul nostro carissimo duo. Per questa fic ho spudoratamente riutilizzato il format di una mia vecchia Ten x Rose; la fic-ina, però, mi è venuta troppo lunga, quindi ho deciso di tagliarla in tre parti.
Una piccola nota su Sherrinford: personaggio un po' sconosciuto, menzionato da Mycroft una sola volta in tre stagioni - "you know what happened to the other one" - che, come anticipato da Moffat e Gatiss stesso, sarà fondamentale per la nuova stagione. Con tutto l'angst che già abbiamo ricevuto, un'altra buona dose anche per il terzo Holmes mi pare ovvia. щ(ಥДಥщ)
A presto per i prossimi due capitoli.
Enjoy!
WJ

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Le sigarette, gli stupidi, il suo cappotto ***


4- Sigarette

Sono passati centoventicinque giorni dall'ultima volta che Sherlock ha fumato una sigaretta. Se chiude gli occhi, se la ricorda ancora bene: lunga, sottile, la superficie liscia e tondeggiante sotto ai polpastrelli, il fumo che lo inebriava. Dilata le narici, inconsapevolmente, e inspira una lunga zaffata d'aria.
Il pacchetto. Il suo ultimo pacchetto. Un ricordo un po' più lontano, ma Sherlock riesce a riportare alla mente anche quello: comprato fuori città, a Edimburgo. Una piccola confezione di Lucky Strike, scarlatta, tenuta nascosta in una tasca interna del suo cappotto sino a quando John non s'era allontanato; poi le aveva fumate tutte, una ad una, mentre pensava.
Una faccenda di poco più di mezza giornata. Se solo potesse fumare, ora...
Sherlock chiude gli occhi. È difficile concentrarsi su altro, quando si è in astinenza. È difficile anche solo pensare. Strizza le palpebre, borbotta fra sé: «John», lo richiama, mugulando, chiedendo aiuto.


Inutile. John è fuori città e torna dopo diverse ore, a notte fonda, avendo passato la settimana da Harriet. Si tira dietro un borsone colmo di camicie; quando lo appoggia davanti alla porta, cercando le chiavi, il parquet cigola in protesta.
La prima cosa di cui s'accorge è un mugolio che proviene dal salotto, basso e incostante, attutito come se qualcuno stesse tentando di nasconderlo. «Sherl?», sussurra, a bassa voce, perché non vuole svegliare Mrs. Hudson; armeggia con le sue chiavi ed apre la porta dell'appartamento, camminando a tentoni nel buio, cercando di vedere.
È lì. Lo scorge, un po' lontano, illuminato solo dalla luce della luna che penetra dai grossi finestroni: Sherlock è rannicchiato sulla propria poltrona, con le gambe piegate contro il petto e la testa fra le ginocchia. Sta ondeggiando, lentamente, avanti e indietro, e con le mani stringe il tessuto dei propri pantaloni a tal punto da avere le nocche biancastre. John si avvicina con circospezione. Mentre cammina, nota che la schiena sta sussultando un po', aritmicamente; lo guarda bene e giurerebbe, giurerebbe che...
«Sherlock?», lo chiama, allarmato. Questa volta alza un poco la voce, poiché crede che la prima non lo abbia sentito. «Sherl, stai piangendo?».
E la testa corvina del consulente investigativo si scuote un po', lentamente, come a voler negare l'ovvio. Ma John ha già visto. Si avvicina, silenzioso, e gli poggia una mano sulla spalla, mentre nella sua mente torna a galla un ricordo: quello di un commilitone, molti anni prima, trovato da lui lontano dalle brande, di notte, a piangere.
«Non ce la faccio, John», mugugna, fra un singhiozzo attutito e l'altro; e il suo respiro è velocissimo, come se stesse avendo un attacco di panico. «Non sono forte abbastanza».
John non capisce. Carezza con la mano la sua schiena. «Cosa?».
«Le sigarette, John».
Sospira. «Sherlock, stai andando benissimo...».
«Troppo in fretta, John», mormora, senza mostrare il proprio viso, «È stato troppo repentino. Non ce la faccio. Avrei dovuto smettere gradualmente... con più lentezza».
John tace per un attimo, ponderando. Guarda un attimo Sherlock, le sue spalle scosse dai singhiozzi; sta male, malissimo, pensa, e analizza le possibilità. Il suo lato medico lo sta frenando; ma d'altra parte, Sherlock ha ragione. La procedura è stata troppo repentina; il suo corpo non ha avuto tempo di abituarsi alla mancanza.
Una sola non farà troppo male, no?
John si alza, camminando lentamente verso la propria poltrona, piegandosi per prendere il pacchetto di sigarette nascosto sotto alla federa. Non fa in tempo ad afferrarlo, tuttavia, che un'altra mano, più pallida ed emaciata, si è tesa per fare lo stesso.
«Grazie, John», esclama Sherlock, la voce calda e tonante, perfettamente stabile, senza traccia di stress. John si volta. Non c'è una lacrima, sul suo volto; non è nemmeno arrossato, o stanco, anzi, si direbbe più in forma del solito. Ha un ghigno beffardo stampato in faccia. «È sempre un piacere vederti cascare così». Ha già l'accendino in mano; teatralmente, estrae tre sigarette dal pacchetto, se le infila in bocca, le accende tutte nello stesso momento. «Au revoir», bofonchia, spalancando leggermente gli occhi. Poi scompare giù dalle scale.
John sta immobile per un momento. Poi si passa una mano sul viso.
Il piccolo stronzetto manipolativo.

 

5- Stupidi

Scotland Yard è insolitamente deserta. John non può che pensarlo mentre, nel bel mezzo della notte, lui e Sherlock attraversano i corridoi bui della centrale. Solo una grande oscurità e tavoli sgombri e porte chiuse. Poi, più in fondo, lo vede: uno spiraglio di luce che proviene da una delle stanze adibite all'interrogatorio. Lestrade li sta aspettando lì fuori, in piedi, con le maniche della camicia arrotolate e delle grosse occhiaie violacee sul volto.
«Grazie per essere venuti», mormora, come temendo di alzare troppo la voce. «So che non è il vostro genere di cose, ma stiamo impazzendo».
John gli rivolge un breve cenno del capo; Sherlock, al contrario, non dice una parola ed entra nella stanza.
Ha sempre avuto a cuore i bambini.
La ragazzina è minuta, scura di capelli e con la pelle diafana, puntellata qua e la da qualche neo. Avrà otto anni, forse uno di meno o di più. La chioma corvina e scompigliata le nasconde gran parte del viso e gli occhi, gonfi e turchesi, si alzano di scatto non appena il consulente siede di fronte a lei. Stringe fra le braccia un orsacchiotto di pezza.
«Ciao», mormora lui, la voce un po' tentennante. John lo osserva dal fondo della stanza.
Silenzio.
«Potresti dirmi il tuo nome?».
La bambina scuote la testa.
Sherlock non batte ciglio. La sua voce risuona di nuovo, calda, stranamente rassicurante, all'interno della piccola stanzetta. «Quello dei tuoi amici?».
Di nuovo, un cenno del capo della bambina.
Sherlock abbassa gli occhi e stringe le mani davanti a sé, sul tavolo. Con la testa china, riflette; chiude le palpebre, respira un soffio d'aria fredda, rovista fra una pila di vecchi ricordi.
Ecco.
«Il tuo orsacchiotto», mormora poi, e quasi sente lo sguardo di John trafiggere la propria schiena. «Mi sai dire come si chiama?».
Questa volta c'è uno sguardo un po' sorpreso. La bambina abbassa il volto per osservare l'orsacchiotto che, quasi inconsapevolmente, ha stritolato fino a quel momento: sembra quasi che si sia accorta ora della sua presenza. Ancora, poi, sopraggiunge quello: il cenno di diniego del capo. In fondo alla stanza, Anderson e Donovan emettono dei sospiri seccati.
«È inutile, strambo», si lamenta il primo, con la voce un po' troppo alta per i gusti del consulente. «Ci abbiamo già provato noi per tutto il giorno. Quella non fa altro che tacere. Alla maledetta bambina non importa niente di farsi salvare la pelle». E poi, in un sussurro più basso, non necessariamente tentando di non farsi sentire: «stupida».
Silenzio. Di nuovo. Poi il suono di una sedia che, delicatamente, scivola sul pavimento. Sherlock Holmes si alza e, lentamente, cammina verso l'esperto forense, fermandosi a venti centimetri di distanza dal suo viso.
«Segni di abuso su varie parti del corpo. Punti dove i capelli sono più corti, perché le sono stati strappati. Lividi sul collo e sulle mani». Pausa. Nessuno sta fiatando. «La bambina non ha taciuto, ha detto esattamente la verità: non ci può dire niente, perché non ricorda niente».
Sherlock Holmes si volta per parlare a Lestrade, in piedi sul ciglio della porta. «Fuga psicogena. Un disturbo dissociativo che porta vittime di abusi, specialmente infanti, a dimenticare temporaneamente la propria identità come meccanismo di auto-protezione». Abbassa lo sguardo. Qualcosa, dal retro della sua mente, lo sta punzecchiando; un vecchio ricordo di tanto, tantissimo tempo fa. Via. Vai via. Dentro la sua testa si sta agitando come per scacciare un insetto fastidioso. Via! Ma quel ricordo resta: quasi trent'anni prima, in una stanza molto simile a quella; e Sherlock Holmes bambino, raggomitolato su una sedia, in preda alla confusione. Mycroft lo aveva trovato dopo un paio d'ore e aveva fissato i lividi sulle sue braccia e sulle sue gambe.
«Sono io, Sherlock», aveva sussurrato, dolcemente. «Mi chiamo Mycroft. Sono tuo fratello. Ora ti porto a casa».
Via!
Il ricordo scompare in una nuvola e Sherlock impiega qualche secondo per convincersene: è lì, con Lestrade e la bambina e John, e ora è diverso, non è più come prima, lui è al sicuro. Batte velocemente le ciglia. «Entro un paio di ore dovrebbe riuscire a ricordare tutto».
Un attimo ancora di silenzio; poi Sherlock si volta verso Anderson, lo guarda dritto negli occhi. «Stupido», sussurra, senza mai abbandonare il suo sguardo; poi lascia la stanza, facendo ondeggiare il cappotto dietro di sé.
 

6 – Cappotto

Il suo cappotto. Dov'era finito il suo cappotto? Mycroft gliene aveva dato uno, quando era tornato a Londra dopo la sua presunta morte; eppure era un cappotto nuovo, identico al suo, sì, ma comunque diverso.
È passato un mese dalla vicenda della metropolitana quando glielo chiede. Lo fa improvvisamente, dal nulla, mentre bevono tea nel loro salotto e aspettano per un appuntamento con Lestrade. John è seduto sulla propria poltrona e legge il Telegraph; Sherlock siede di fronte a lui e lo osserva.
«Cosa ne hai fatto?».
«Mmh?».
«Del mio cappotto».
John alza lo sguardo dalla pagina e lo guarda negli occhi.
«Insomma, dopo che... che...». Per una volta, Sherlock è in difficoltà; gesticola con la mano destra e guarda altrove. «L'avete bruciato con il... corpo?».
John non risponde e Sherlock lo prende come un sì. Prova ad immaginarsi un corpo sconosciuto, simile al suo, vestito del suo cappotto; e poi s'immagina John che appoggia la mano tremante – di nuovo, come ai vecchi tempi – sulla bara scura, cosparsa di fiori, prima di dare il cenno decisivo con il capo. E la bara viene gentilmente mossa verso l'inceneritore. Immagina John che distoglie lo sguardo mentre le fiamme ingolfano quel corpo, quel corpo che non era il suo, con un cappotto che avrebbe dovuto indossare lui solo e lui soltanto. Vicino ad un soldato che doveva stare con nessun'altro che lui. Le labbra di Sherlock si storcono in una smorfia.
E poi John, improvvisamente, si alza dalla sua poltrona, riportandolo alla realtà. Non parla, ma gli fa un cenno del capo come per dire: vieni. Sherlock lo segue mentre sale su per le scale, i passi estremamente calcolati e lenti, i gradini di legno che scricchiolano, crick, ecco che sono in cima. John entra nella sua stanza. Sherlock ci entra raramente: strano ma vero, è particolarmente rispettoso degli spazi del suo amico, e restringe la sua curiosità limitandosi a rubare il suo laptop quando ne necessita.
Ancora qualche passo: John si ferma davanti al suo armadio e si siede sul letto. Apre il cassetto più basso.
È lì.
Perfetto, immacolato, identico a come l'aveva lasciato. Il suo cappotto occupa tutto il cassetto perché è disteso per la lunga, piegato, orizzontalmente, una volta sola. Attaccata al colletto, una piccola etichetta targata 8 Giugno 2011: lavanderia, registra Sherlock. Ovviamente avrebbe avuto bisogno di un lavaggio; il cappotto era pieno di sangue e di terra. Gli sembra quasi di sentirselo ancora addosso.
Ma non è quello di cui si cura.
«Lo hai... tenuto?», chiede in un mormorio contenuto, un po' tremante, sedendosi al suo fianco sul letto. John estrae il cappotto con cautela e se lo depone sulle ginocchia.
«Certo che lo ho tenuto», risponde. La sua voce è flebile, ma decisa. Lo dice come se fosse un'ovvietà. Come se per lui non ci sarebbe potuta essere nessun'altra possibilità.
Per qualche secondo non dicono nulla, poi John sposta il cappotto sulle gambe di Sherlock.
«Tieni», dice, lo sguardo fisso sul cappotto. Non incontra mai il suo.
Sherlock carezza il bavero con il pollice. «Mi aiuti?».
«Certo».
Si alzano entrambi lentamente, come se niente al mondo gli potesse mettere fretta. Sherlock si mette di schiena e allarga le braccia; John, più basso, si alza sulle punte dei piedi per aiutare l'amico ad infilare le braccia nelle maniche del cappotto, una alla volta, girandogli poi intorno per aiutarlo a chiuderlo.
Abbassa lo sguardo e fa un passo indietro, perché inconsapevolmente si è avvicinato troppo. Sherlock sorride e alza il bavero del cappotto.
Come ai vecchi tempi.

Angolo Autrice
Hola, Sherlockians!
Welcome al secondo capitolo di questa storiella. Devo ammetterlo, Sigarette non è affatto tra i miei preferiti, anzi; in compenso, sono affezionatissima a Cappotto, per cui spero che piaccia anche a voi.
[Ogni riferimento a scene Destiel è puramente casuale.]
Grazie per tutte le bellissime recensioni. Alla prossima!
WJ

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Le api, i deerstalker, John Watson ***


 

7- Api

John Watson odia le api. Sono imprevedibili, aggressive e fanno un male cane quando ti pungono. «Non pungono se non le infastidisci!», diceva sempre Harry, quando loro erano più piccoli; eppure, John non le ha mai dato retta.
Dannate api. Le creature del demonio.
È mezzogiorno, una calda giornata di Luglio. Il sole a picco gli impedisce di non strizzare gli occhi mentre cammina. John si mette una mano davanti agli occhi; controlla il proprio cellulare per rileggere il messaggio inviatogli da Lestrade.
 

Due ragazzini hanno trovato dei resti umani a Battersea, nella centrale abbandonata. Venite a dare un'occhiata?
- GL
PS. Sherlock non risponde. Come al solito.


John sospira e alza lo sguardo. La centrale di Battersea è imponente, visibile da mezzo miglio di distanza, alta e tesa fino a toccare il cielo. John l'ha visitata solo una volta, da piccolo, accompagnato dalla sorella mentre compiva l'ennesima ragazzata. Il ricordo sfocato del loro cammino lo guida lungo il corretto percorso. «Ci siamo», mormora, sebbene Sherlock sia davanti a lui e sappia dove sta andando anche meglio di un navigatore. «L'entrata dovrebbe essere proprio...».
Silenzio, all'improvviso. John Watson tace e lascia la frase a metà.
«John?», lo chiama Sherlock, fermandosi per guardarlo. Il medico, senza alcun preavviso, s'è fermato in mezzo alla strada, con lo sguardo vitreo e la testa inclinata da un lato. Non risponde.
«John, il cadavere è già in fase di decomposizione. Vorrei arrivare prima che si trasformi completamente in...».
«Ssh». John alza una mano, concentrato su qualcosa.
«... humus».
John lo ignora. C'è qualcosa che non va; qualcosa che stuzzica il retro della sua nuca, insinuandosi prepotentemente attraverso il suo timpano. «Lo senti anche tu?».
«Sentire cosa?». Poi anche Sherlock lo nota.
È un ronzio basso, costante, che non si interrompe mai. In altre circostanze, John lo troverebbe senza dubbio rilassante: gli ricorderebbe il vibrare degli altoparlanti della sua prima auto, oppure il russare lento del cucciolo che aveva quando era bambino.
Ora no.
John è il primo a muoversi. Muove qualche passo cauto verso la fonte del ronzio; ma è solo quando lo vede che, inorridito, si accorge che il rumore proviene dall'entrata della centrale.
È lì.
Uno sciame gigantesco di api che si stringe e si allarga attorno ad un cumulo gigantesco di materia scura, proprio , tra una trave e l'altra, sull'unico accesso di quel gigantesco edificio che lui aveva accettato di visitare. Sono centinaia, migliaia, si muovono alla rinfusa; eppure il gruppo è estremamente compatto, si aggroviglia e si annoda come un lungo nastro di seta nera, puntinata, più snello di qua e più largo dall'altra parte. Ronzano, ronzano, ronzano. Alcune si appoggiano sulle finestre della centrale. Altre oltrepassano l'entrata, libera da porte, e volano in piccoli sciami sull'ingresso dell'edificio, come in delle nuvolette scure e compatte.
John Watson osserva con orrore mentre un paio di api gli svolazzano davanti al naso.
«Santissimi numi», balbetta, la bocca spalancata.
«Straordinariamente incantevole», risponde Sherlock, con la medesima espressione.
John ci mette qualche secondo a reagire. «Cosa?», esclama, sconvolto; e se ne sta un po' lì fermo e un po' a muovere qualche passettino incerto, tentando sì e no di raggiungere il detective che, senza esitazione, s'è mosso alla volta della centrale. «“Incantevole”? C'è un migliaio... un milione di api lì davanti a te e tu vuoi semplicemente camminarci in mezzo?».
«Oh, non dire sciocchezze, John», risponde Sherlock, armeggiando con la camicia per abbassare sino ai polsi le maniche arrotolate. «Saranno trentamila al massimo».
«Gesù. Sherlock...».
«E sono imenotteri, John, non api».
«Ah, sì?», grugnisce, con finto interesse.
Sherlock si liscia, con nonchalance, il tessuto della camicia, tentando di rimuovere le pieghe. «Certo. Molto più pericolosi».
John non risponde. Mormora un'imprecazione, massaggiandosi la faccia con la mano sinistra; prende un respiro, poi guarda Sherlock dritto negli occhi. «Io là dentro non ci vado».
Lo sguardo del consulente abbandona la camicia e lo fissa. «Che problema c'è?», dice Sherlock; è forse un po' irritato, sì, e la sua voce è densa di sarcasmo; eppure, sul suo volto, John non può che notare una punta di preoccupazione.
«Odio le api, Sherlock», ammette il medico. Sherlock fa per dire qualcosa, ma lui lo interrompe. «Gli imenotteri... qualsiasi cosa siano. Li ho sempre odiati».
«Vuoi dire che hai paura».
«Non ho paura».
Sherlock ridacchia e si volta.
«Sono un soldato, Sherlock!».
«Non ti pungeranno, John», ripete lui; nelle sue parole echeggia la ramanzina di Harry. «O forse sì. Ma è un calcolo di probabilità; se cammini lentamente hai una possibilità su dodici di...».
«Per l'amor del cielo, Sherlock!».
«Va bene. Va bene». E improvvisamente la sua schiena si fa meno tesa, i suoi occhi si addolciscono, la sua espressione diventa, poco caratteristicamente, quasi gentile. John non la vede, ha girato la schiena e si sta dondolando sui talloni in cerca di una soluzione; ma, quando Sherlock parla, non può non notare la delicatezza con cui sceglie le sue parole.
«Manuale pratico della cultura dell'ape, con alcune osservazioni sulla segregazione della regina», mormora il detective; e lo fa quasi tutto d'un fiato, mangiandosi le parole, ripetendo la frase come una cantilena imparata da bambino. John giurerebbe di vederlo imbarazzato. «È il titolo di un...», scuote la testa e pronuncia la parola come se fosse una barzelletta, «libro che ho scritto da bambino. La mia prima ricerca. Passavo giornate intere a guardare l'alveare che c'era in giardino: studiavo i comportamenti delle api, li analizzavo, facevo esperimenti per farle proliferare. Ma non era solo una questione scientifica – le api mi piacevano, erano cooperative, perseguivano tutte il medesimo scopo. Mi liberavano dalla noia e...». Qualunque cosa Sherlock stesse per dire, la cancella brevemente; dopo una pausa, riprende a parlare. «Ho piantato dozzine di fiori in giardino solo per non farle viaggiare troppo lontano... e dopo una lunga pioggia, contavo quelle che trovavo morte». Un sospiro. «Quando la colonia è diventata troppo numerosa e i disinfestatori sono intervenuti, non sono uscito da camera mia per una settimana». L'ombra di un sorriso tirato gli attraversa il volto.
«Fidati quanto ti dico che non ti pungeranno. Solo... restami vicino. E non fare movimenti bruschi».
Sherlock inizia a incamminarsi verso l'ingresso; John, mentre lo segue, lo immagina bambino, con le gambe magroline e, forse, il volto un po' più paffuto. Lontano da tutti gli altri ragazzini, Sherlock se ne stava isolato nel proprio giardino, a guardare le api che gli ronzavano attorno. Magari ignorava i bubboni spuntati, qualche giorno prima, sulle sue gambe, quando non aveva prestato troppa attenzione.
Le mani sporche di terra, il giardino pieno di fiori. E le api che, al sicuro dentro il suo giardino, non se ne andavano mai, rimanevano sempre con lui.
John si lascia trasportare dall'immagine, così paradossalmente distante da quella dello Sherlock che conosce ora ma, allo stesso tempo, così familiare e reale. Non si rende conto nemmeno di aver attraversato l'ingresso incolume e di aver seguito Sherlock, inconsapevolmente, su per le scale.

 

8- Deerstalker

La tomba di Sherlock.
Un soggetto abbastanza macabro, per essere sinceri. Anche dopo il ritorno del giovane Holmes, John Watson continua a intravedere nella lapide di lucida pietra nera la rappresentazione dei suoi peggiori dolori, delle sue amarezze, di tutte le sue insicurezze passate e presenti. Per tal motivo, dopo la vicenda de Il Carro Vuoto, John smette totalmente di visitarla, anche solo per farla rimuovere. Mycroft Holmes non ha fra le sue più pressanti preoccupazioni quella di dissotterrare l'urna delle presunte ceneri del fratello; la lapide e i suddetti resti, per cui, rimangono dove erano stati piazzati, a mo' di emblema allegorico dell'accaduto.
A Sherlock, d'altra parte, i cimiteri piacciono fin troppo.
È passato quasi un mese dagli avvenimenti della metropolitana e il consulente investigativo decide di visitare la propria tomba. Non c'è alcuna grande motivazione dietro questa scelta: Sherlock ha bisogno di tranquillità e sa di poterla trovare lì, nel cimitero. I cimiteri hanno un'atmosfera stimolante: sono silenziosi, pacifici e, soprattutto, poca gente ci mette piede – se non dentro una bara, s'intende.
Mentre cammina fra le lapidi e le statue di marmo, Sherlock si guarda attorno e tenta di dedurre la vita delle persone dalle loro tombe. 19-05-1925 / 10-09-1943. Maschio. Morto in guerra. Appena arruolato. La tomba è a malapena leggibile; quella del padre, a fianco, è curata alla perfezione.
Figlio non voluto. I genitori devono averlo spedito in guerra alla prima possibilità--

L'attenzione di Sherlock è improvvisamente strappata dalla lapide. Là in fondo, ecco, la vede: la propria tomba, immacolata nonostante non sia stata visitata da più di un mese. Sherlock arriccia il naso. Come è possibile? La lapide giace sotto a un gigantesco platano; ha piovuto – concentrati, Sherlock – tre, sette e quindici giorni fa. Tutti e tre dei temporali devastanti. Ci sono ancora foglie e rami sparsi ai margini del cimitero, li vede bene; eppure la sua tomba è immacolata. Pulitissima. Brilla anche sotto la luce offuscata dalle nubi londinesi.
Sherlock si avvicina, velocemente, irritato perché non riesce a capire. John, Lestrade, Mrs. Hudson, Mycroft – pft, Mycroft! - sicuramente non sono passati a pulire; e allora chi?
Poi lo nota.
Quella che pensava fosse una macchia di erba troppo cresciuta, ai fianchi della propria tomba: non era erba. Uno, due, tre, quattro deerstalker, abbandonati ai piedi della lapide; e poi, distese sull'erba, poco visibili se non da distanza ravvicinata, piccole buste, portachiavi lasciati nell'erba, fogli appiccicati all'interno dei cappelli.
Cappello di pessima fattura, apostrofa Sherlock; strappa il biglietto che v'è attaccato, lo apre per leggerlo.

#SHERLOCKVIVE !! Eroe di Reichenbach < 333 3.11.14 → Noi ci crediamo!! W gli Sherlockians

Sherlock si passa una mano sul volto, accartocciando il biglietto. Prende il cappello fra le mani: perché il cappello?, si chiede; perché il simbolo di questi seguaci da quattro soldi dovrebbe essere un cappello e non, per dire, l'utilizzo di materia grigia superiore a quello della media?
Sherlock guarda ancora quella massa di lettere, cappelli, dichiarazioni d'amore senza senso e pupazzetti per bambini.
Si rigira il brutto deerstalker fra le mani.
Al diavolo.
Ringrazia di aver portato un accendino, quel giorno. Il cotone brucia eccezionalmente bene.
 

 

9- John Watson
È straordinariamente incredibile che il più grande genio di Londra non se ne sia reso conto. Ha la fama di conoscere tutto ciò che è utile, ciò che è inutile di cancellarlo, ciò che ancora non sa di dedurlo nel giro di pochi secondi. Conosce benissimo il mondo, le persone, se stesso: a undici anni, nel suo primo piccolo palazzo mentale – fantasioso, colorato, con le stanze che si ingrandiscono e rimpiccioliscono come in Alice nel paese delle Meraviglie – crea una parete interamente fatta di sughero e ci incolla una sua sagoma. Annota voglie, nei, cicatrici; ricostruisce alla perfezione quella che è la propria persona. Poi, di fianco, lascia un'etichetta e scrive:

Nome: Sherlock Holmes. Sesso: Maschile.
Età: 11. Professione: pirata.
Cosa non gli piace: gli indovinelli, gli stupidi, le verdure.
Cosa gli piace: il ballo, il violino, le api, i pirati, Redbeard.

Il suo palazzo mentale, nel corso degli anni, cambia. Da un piccolo appartamento si trasforma in una villa, poi in un palazzo; le stanze assumono aspetto e dimensioni fisse; nozioni vengono ordinate, memorizzate, dimenticate.
La parete di sughero rimane sempre lì. Con il tempo, la sua sagoma cresce e subisce l'aggiunta di nuove cicatrici; quando Sherlock ha dodici anni, Redbeard viene soppresso, e lui cancella il suo nome con una matita colorata.
A quindici anni, è cresciuto. I pirati sono per bambini. Con la matita sostituisce la sua professione in studente; qualche anno dopo, in consulente investigativo. Anche verdure scompare: è cresciuto abbastanza da mangiare decentemente. Al suo posto, scrive: cappelli.
Diciassette anni. Sherlock compra un cappotto nero, Belstaff, di ottima fattura. Se ne innamora. Lo aggiunge alla lista.

Nome: Sherlock Holmes. Sesso: Maschile.
Età: 17. Professione: consulente investigativo.
Cosa non gli piace: gli indovinelli, gli stupidi, i cappelli.
Cosa gli piace: il ballo, il violino, il suo cappotto, le api.


La didascalia è perfetta; rimane tale e quale per i successivi vent'anni. Sherlock si siede spesso sulla poltrona, in quella stanza, e fissa la parete di sughero: tutto, nella sua mente, è minuziosamente ordinato. Conoscenze, idee, intenzioni; ha fatto di sé una personalità completa, complessa, comprensiva. Sherlock Holmes ha creato se stesso.
È orgoglioso.
Eppure, continua a non rendersene conto.

Deve attendere un'esperienza traumatica per accorgersene. Traumatica per chi dei due, esattamente? Non ne è sicuro.
Accade tutto troppo velocemente perché abbia tempo anche solo di pensare: Sherlock deve spremersi le meningi per riportare alla mente i ricordi della serata. Un caso, un assassino, una pista. Gli episodi della nottata gli tornano in mente distaccati l'uno dagli altri, come dei rapidi flash; non è normale, per lui, pensare per compartimenti stagni, ma la confusione nella sua mente è tale che Sherlock non riesce a riunire i ricordi.
Strizza gli occhi ancora di più. È lì, nella stanza della parete di sughero, che rovescia scaffali e tavoli, rompe finestre, lascia cadere documenti e libri da tutte le parti. Dove ha messo quei maledetti ricordi? Cosa gli sta succedendo? Sherlock non capisce più nulla. Il caos lo avvolge.
Poi, improvvisamente, un altro flash. Avevano seguito una coppia di criminali fino ad un qualche ponte nel Berkshire; ricorda vagamente una chiamata a Scotland Yard e un tassista infuriato. Ma poi... ma poi cosa? Non funziona, non funziona. Sherlock è troppo turbato; non riesce a visualizzare la situazione, a ragionare, a ricordare.
Sherlock si alza di nuovo da terra e ricomincia a rovesciare pile di documenti. Deve averlo lasciato da qualche parte, quel ricordo, deve esserci: ma la verità è che la serata lo ha spossato così tanto da impedirgli di memorizzare gli avvenimenti come suo solito. Di tanto in tanto, qualcosa riemerge; Sherlock inizia a ricordare le sagome dei due criminali; ricorda forse la pistola scarica, l'impossibilità di fuga. Avevano fatto a botte? Sembra di sì, ma Sherlock non ricorda. Confuso... è così confuso...
Poi, come colpito da un fascio di luce, lo vede; un piccolo ricordo un po' annebbiato, sepolto sotto ad una pila di fascicoli e libri. Sherlock, dentro il suo Palazzo, si china a raccoglierlo tentativamente, come intimorito da ciò che sta per vedere.
È come un'immagine in movimento che continua a ripetersi, in loop, finisce, ricomincia, finisce di nuovo e ricomincia all'infinito. Nel ricordo che ha in mano c'è John, con qualche livido sul volto, che si distrae per un momento durante la lotta; manda un sorriso a Sherlock, forse, perché ha sentito la sirena della polizia; hanno vinto.
L'attimo di distrazione permette all'assalitore di avventarsi su di lui. Lo carica, lo spinge contro la ringhiera; la testa di John urta orribilmente la ringhiera del ponte, clang! e poi ciondola inerme sulla sua spalla. Ha perso i sensi.
Infine, l'assalitore lo spinge giù dal ponte.
Il ricordo finisce lì, ma Sherlock non ha difficoltà a ricordare cosa è successo dopo. Ora rimembra bene; ricordi d'ogni tipo aleggiano intorno a lui come nuvole ronzanti e Sherlock si agita per scacciarle, basta, basta! Colpisce un ricordo sonoro con il braccio destro. È la sua voce, quella, che urla il nome di John? Sherlock non ne è più sicuro. L'urlo è mostruoso, colmo di terrore, di orrore, di tensione, ma Sherlock non è mai così teso. Mai.
Scaccia via il ricordo con una mano.
La nuvola non accenna ad andarsene. Eccone un altro, davanti a lui; un ricordo orribile, incomprensibile, offuscato. C'è ancora quell'oscurità, e Sherlock che corre verso la ringhiera, appena in tempo per sentire il crash dello scontro del corpo di John con l'acqua. La vista gli è annebbiata da qualcosa. Perché c'è dell'acqua nei suoi occhi? Sherlock non riesce a vedere bene il ricordo. Non vede...
Ma sente. E ciò che sente è ben delineato, al contrario di tutti gli altri ricordi: il suo cappotto che gli scivola, velocemente, dalle braccia, e cade al suolo. Perché non c'è niente, niente nel suo cappotto, niente nelle api, niente nel violino e nel ballo e dannazione, nemmeno in Redbeard che valga tanto quanto vale John Watson.
Per cui lascia cadere il suo cappotto e salta.
Ora Sherlock cade a terra. Nella stanza caotica del suo palazzo mentale, i muri iniziano a cedere, polvere inizia a cadere dal soffitto. Ci sono tarli, nei mobili caduti ed ammucchiati, che mangiano via i dettagli di ogni suo ricordo più importante.
Sherlock Holmes si accovaccia in posizione fetale. Non vede la propria caduta in un ricordo, come ha fatto con le altre scene, ma la rimembra bene. La caduta dal ponte non è come quella dal Barts; non è una pantomima, una messa un scena, una recita teatrale.
È la verità. E lui ha paura.
Quello che accade dopo è oscurità. Sherlock non tenta nemmeno più di scacciare la nuvola di ricordi che lo assilla; lascia che lo attacchino e basta. Ricorda l'acqua scura e gelida, e la visione del medico che, appesantito dal peso del giaccone, scivolava giù, sempre più giù.
L'aveva afferrato. L'aveva portato sulla riva. Aveva sulle spalle il peso della nottata, dell'acqua, della stanchezza, delle ferite, eppure aveva nuotato, aveva continuato a farlo fino a quando John non era stato al sicuro. E, ancora lì, con il corpo di John Watson inerme fra le braccia, disteso sul pavimento gelido, non si era fermato.
La posa corretta per una manovra di rianimazione: Sherlock la ricordava a malapena, già confuso, già intontito dall'accaduto. Una, due, tre, quattro, e su fino a trenta spinte; poi si era piegato, aveva chinato il capo del medico e aveva soffiato, con tutto il fiato che aveva, sulle labbra aperte del dottore.
Uno, due, tre, quattro... trenta. Non aveva notato il sangue che usciva dalle orecchie di John.
Soffiare.
«Dannazione, John... John! Reagisci, per la miseria, reagisci!».
E le spinte erano diventate scossoni; gli scossoni pugni.
Sherlock scuote la testa e piange. Se piange nel suo palazzo mentale, piangerà anche nella realtà? Sherlock non lo sa. Non ne è sicuro. Non lo vuole nemmeno sapere.
Con la mano sinistra, si massaggia le nocche della destra. Fanno male; le botte hanno lasciato un segno.
L'ultimo ricordo gli sovviene nebuloso.
È breve, dura qualche secondo. C'è John che prende una boccata d'aria improvvisa, sotto alle sue labbra; il petto che si gonfia, l'acqua che viene tossita, faticosamente, fuori dai polmoni.
«Così, John... Così».
In lontananza, altre sirene del 911. Sherlock si strofina la faccia con una mano e respira a sua volta.

Sherlock Holmes è risvegliato dal suo stato di catatonia silenziosa da una mano sulla sua spalla. Avviene come nelle finestre di un computer: prima si chiude il ricordo che stava osservando; poi la stanza del suo palazzo mentale; poi Sherlock torna alla realtà, aprendo gli occhi. È seduto su una sedia del Pronto Soccorso, fuori dalla sala operatoria. Si era addormentato? Non si era accorto di essersi addormentato. Eppure il suo Palazzo Mentale sembra troppo distante.
«Sherlock», lo chiama qualcuno; è Mycroft, in piedi davanti a lui, con il suo cappotto ripiegato sul braccio e una mano poggiata sulla sua spalla.
«Myc...», mormora Sherlock; inavvertitamente usa il soprannome con cui lo chiamava da piccolo. La sua mente confusa non riesce a registrare l'errore.
Mycroft sorride. È... fraterno? Lo guarda con un sorriso rassicurante sul volto e Sherlock giura che, se la situazione non fosse già abbastanza sconvolgente, lo troverebbe nauseante. «John...».
«Le sue condizioni si sono stabilizzate. È stato dimesso dalla terapia intensiva mentre dormivi». E poi, prima che Sherlock possa aggiungere altro: «Non temere, Sherlock. John Watson tornerà presto in forma».
«Devo andare», dice Sherlock, afferrando il proprio cappotto dal braccio di Mycroft; barcolla leggermente, stremato dagli avvenimenti. È ancora bagnato? Non se n'era accorto.
«Sherlock», lo chiama Mycroft, trattenendolo per la spalla. Sherlock gli presta a malapena attenzione. «Torna a Baker Street. Dormi. Indossa degli abiti puliti».
«Non ci penso nemmeno».
«Non gli sarai di alcun uso, in queste condizioni».
«Non m'importa».
Mycroft sospira. «Sono consapevole del fatto che tu mi ritenga estraneo a qualsiasi sentimento umano, Sherlock, ma è mio dovere ricordarti che qualunque cosa ti stia a cuore...». Una pausa. «ha importanza anche per me. Terrò sott'occhio John personalmente».
Sherlock lo fissa ed ha quasi intenzione di sbottargli contro; eppure la stanchezza appesantisce improvvisamente le sue spalle, il freddo inizia a farlo tremare, la tensione e la confusione accumulata dentro al suo Mind Palace gli impediscono di riflettere accuratamente.
«Ti chiamerò se ci sono sviluppi», aggiunge Mycroft, senza spostare la propria mano.
Sherlock storce le labbra. Annuisce. «Due ore». E poi, velocemente, attraversa il corridoio.

Pochi minuti dopo, mentre il taxi lo porta a casa, Sherlock chiude gli occhi e ritorna nella stanza del sughero. È ancora tutto lì: i documenti sparpagliati per terra, i mobili tarlati, i muri in via di cedimento. Con qualche passo frettoloso attraversa la stanza, scavalcando ciò che si frappone fra lui ed il suo obbiettivo; raggiunge la parete di sughero, osservando se stesso.
Poco dopo, con gli occhi lucidi, afferra il pennarello indelebile:

Nome: Sherlock Holmes. Sesso: Maschile.
Età: 38. Professione: consulente investigativo.
Cosa non gli piace: gli indovinelli, gli stupidi, i deerstalker.
Cosa gli piace: il ballo, il violino, il suo cappotto, le api, John Watson.



Angolo Autrice
Miei amati Sherlockians,

ritorno per l'ultimo capitolo di questa raccolta a cui, davvero, mi sono affezionata moltissimo. Capitolo dalla scrittura – e dalle trame – abbastanza trasheggianti, se mi passate il termine, ma spero che questo non vi abbia frenati nella lettura.
Una piccola noticina su Api: prende ispirazione da un'affermazione fatta da Holmes nei racconti stessi di Conan Doyle, che riporto poco sotto. [Aneddoto: la faccenda dell'alveare in sé, invece, è capitata *ahimé* proprio a me, questa primavera. L'edificio in questione era la tomba di Agamennone. La rassicurante puntualizzazione sugli imenotteri e sulla loro pericolosità è arrivata dalla mia professoressa di scienze].
Ah, btw, non mi prendo responsabilità per riferimenti scientifici o geografici poco accurati ;)
Qui sotto troverete tutte le frasi che hanno ispirato questa raccolta. Ci tenevo a menzionarle.
Un grosso grazie a tutti quelli che hanno letto, recensito e seguito la storia: mi avete fatto tornare la voglia di scrivere.
A prestissimo, con tutto il cuore,
WJ

1. Ballo | S. «I love dancing. I've always had. […] Never really comes up in crime work, but, you know, I live in the hope of the right case».
2. Indovinelli | S. «I don't like riddles». M. «Learn to».
3. Violino | S. «I play the violin when I'm thinking and sometimes I don't talk for days on end».
4. Sigarette | S. «Nicotine patch. Helps me think».
5. Stupidi | S. «I dislike being outnumbered. It makes for too much stupid in the room».
6. Cappotto | S. «I take the precaution of a good coat and a short friend».
7. Api | “«Exactly, Watson. Here is the fruit of my leisured ease, the magnum opus of my latter years.» He picked up the volume from the table and read out the whole title, ‘Practical Handbook of Bee Culture, with some Observations upon the Segregation of the Queen.’”
8. Deerstalker | S. «Why is it always the hat photograph?».
9. John Watson | CM. «Very hard to find a pressure point on you, Mr Holmes. But look how you care about John Watson».

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3501895