Il pianista senza colori

di EsseTi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue: Come sono i colori ***
Capitolo 2: *** 1st; Il gatto blu sulle tende ***
Capitolo 3: *** 2nd: Intorno è tutto nero ***
Capitolo 4: *** 3rd: Secondo me sono gli angeli ***
Capitolo 5: *** 4th: Cioccolata calda ***
Capitolo 6: *** 5th: Umori ballerini ***
Capitolo 7: *** 6th: Vuol dire che siamo diversi? ***
Capitolo 8: *** 7th: E questa è la mia cucina! ***
Capitolo 9: *** 8th: Quinta sinfonia ***
Capitolo 10: *** 9th: Perchè mi piaci più di tutti ***
Capitolo 11: *** 10th: Il calore di sentirsi un po' più a casa ***
Capitolo 12: *** 11st: Direi che possiamo definirci amici ***
Capitolo 13: *** 12nd: Solo un po' più piccolo ***
Capitolo 14: *** 13rd: Lasciami andare ***
Capitolo 15: *** 14th: Ti bacio io ***
Capitolo 16: *** 15th: In the edge of forever ***
Capitolo 17: *** 16th: Prendi me, scegli me, ama me ***
Capitolo 18: *** 17th: E con le mani, amore ***
Capitolo 19: *** 18th: 1334 ***
Capitolo 20: *** 19th: Chi ama, baci ***
Capitolo 21: *** 20th: Mentre il mondo cade a pezzi ***
Capitolo 22: *** 21st: La forza di ritorno elastico ***
Capitolo 23: *** 22nd: Come si cambia per non morire ***
Capitolo 24: *** 23rd: Porto solo il freddo, come l'inverno ***
Capitolo 25: *** Stralcio I: Natale con i tuoi ***
Capitolo 26: *** 24th: Praga- Milano - Palermo ***
Capitolo 27: *** 25th (I): Portami ovunque, portami al mare ***
Capitolo 28: *** 25th (II): Rubo l'amore in Piazza Grande ***
Capitolo 29: *** 26th: Ràno ***
Capitolo 30: *** 27th: Il tuo sorriso dolce è così trasparente che dopo non c'è niente ***
Capitolo 31: *** 28th: Io ho bisogno di... ***
Capitolo 32: *** 29th: Ritorno a casa ***
Capitolo 33: *** 30th: Promise me ***
Capitolo 34: *** Stralcio II: Siamo vivi, domani chi lo sa? ***
Capitolo 35: *** 31st: Compulsione ***
Capitolo 36: *** 32nd: Cose speciali come dicono ***
Capitolo 37: *** 33rd: L'acqua che lava via tutte le colpe ***
Capitolo 38: *** Stralcio III: Mattia sente i pezzi del mondo ***
Capitolo 39: *** 34th: Mai fare scelte guidati dalla paura ***
Capitolo 40: *** 35th: Il coraggio è per i deboli ***
Capitolo 41: *** 36th: Evoluzione ***
Capitolo 42: *** 37th: Perdere gli equilibri ***
Capitolo 43: *** 38th: Esprimi un desiderio ***
Capitolo 44: *** 39th: Le persone aiutano le persone ***
Capitolo 45: *** 40th: Io bacio anche le tue domande ***
Capitolo 46: *** Stralcio IV: Verità ***
Capitolo 47: *** 41st: Šťastného Valentýna ***
Capitolo 48: *** Chapter 42nd: Codardo ***
Capitolo 49: *** 43rd: E pensare a quanto tradirono tutti quei baci… ***



Capitolo 1
*** Prologue: Come sono i colori ***


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Trailer on Youtubehttp://www.youtube.com/watch?v=PlHD9wiQsZM
Più che un trailer è una specie di "visione corporea" di quello che immagino per questa storia.
Per questo, la visione è consigliata solo dopo aver letto almeno i primi capitoli.


A chi ama.
A chi ha paura.
Ai miei vecchi insegnanti di clarinetto.
A tutti quelli che credono nella semplicità delle cose.


 

Il pianista senza colori
di EsseTi

  La musica esprime ciò che non può essere detto e su cui è impossibile rimanere in silenzio.

Victor HugoCanti del crepuscolo, 1835
 


http://www.youtube.com/watch?v=A14w6qz6hKg&feature=related

 

La musica era come una tela piena di colori.
Era il sole, l’arcobaleno, l’azzurro del cielo, il verde scuro del mare in tempesta, il rosso delle ciliegie, il verde delle chiome folte degli alberi, il marrone della terra.
La musica gli restituiva tutti i colori che la vita non aveva voluto dargli.
Dovevano essere belli come le note, forse di più. 
Dovevano far venire nello stomaco le farfalle, e far battere il cuore forte, come quando poggiava le mani sui tasti del pianoforte.

I tasti che suonava erano bianchi e neri, glielo aveva insegnato sua madre. Questi grandi, Dominik, sono bianchi. Questi piccoli sono neri, gli spiegava, poggiandogli le dita sul materiale freddo che conosceva tanto bene. Il bianco è bello, splende; è come quando tu mi abbracci e io ti bacio il naso. Ti sembra tutto bello dentro, ti fa sorridere. Anche il nero è bello, lo sai Dominik? E’ il colore che mi piace di più, perché puoi vederlo anche tu.
La mamma gli aveva spiegato tutti i colori.
Così l’azzurro era diventato l’odore pungente della pioggia d’estate, il giallo il calore del sole, il verde la sensazione fresca dell’acqua sulla pelle. A lui piaceva l’arancione; la mamma diceva sempre che era un po’ come il calore delle coperte d’inverno, quando fuori faceva freddo e si mettevano a dormire insieme.

La mamma i colori li vedeva, ma aveva imparato a mostrarli anche a lui.
Da quando aveva quattro anni e se ne andavano in giro per Praga, lei, ogni giorno,  gli mostrava il mondo: gli aveva spiegato com’erano fatte le macchine,
 i palazzi, le piazze. A otto anni aveva provato ad insegnargli ad andare in bicicletta, ma aveva smesso quando, all’ennesimo tentativo, era caduto, battendo la testa nel marciapiede. Aveva pianto tanto quando erano usciti dall’ospedale. Dominik le aveva chiesto se piangesse perché lui fosse diventato brutto, senza i capelli che gli avevano tagliato perché gli avevano cucito la testa. La mamma aveva riso, ma a casa aveva pianto ancora: non sopportava, capì anni dopo, che il suo bambino non avesse una vita come tutti gli altri, solo perché non ci vedeva.
P
oi era arrivato il pianoforte, la musica, e la musica aveva portato i colori.
Gli avevano insegnato le note, l’adagio, il notturno. Gli avevano insegnato Mozart, Chopin, Bach.
Nessuno, però, gli aveva insegnato di quanto fosse bello il calore di un bacio. 
Quello, doveva essere il rosso.












Note:
Nuova storia, diversissima da tutto il resto che ho scritto e che sto scrivendo.
Come avete letto dalla presentazione della storia, il protagonista è un ragazzo cieco dalla nascita, Dominik, che cerca i colori e la loro bellezza nella musica.
Non so da dove mi sia venuta esattamente l'idea, ma non ho resistito alla tentazione di mettere tutto su carta e dare vita a Dominik. Sarà un personaggio particolare, quasi fuori dal mondo.
Chissà, se a qualcuno piacerà e se qualcuno si fermerà a leggere, magari a recensire.
Io ci spero in qualche vostro parere.
Il primo capitolo lo posterò presto! ^_^
Esse

 

 

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Capitolo 2
*** 1st; Il gatto blu sulle tende ***




Dove c'è molta luce, l'ombra è più nera.
Johann Wolfgang GoetheGötz von Berlichingen, 1773

 

Chapter 1st:  Il gatto blu sulle tende
 
Il numero civico sul palazzo era un 11 di un bianco sporco su uno sfondo scuro un po’ arrugginito.
Su ciascun lato del pesante portone di legno c’erano delle curatissime aiuole delimitate da una ringhiera di ferro rovinata dal tempo.
Tutto l’insieme rendeva quel palazzo di quattro piani simile a un castello, o ad un’opera d’arte del periodo barocco.
Federico strinse la mano intorno al manico del trolley.
Immaginare quel condominio come la sua nuova casa era difficile: non somigliava per niente alla vecchia villetta a due piani dove era nato e cresciuto, alla periferia di Palermo.
Ma, probabilmente, nulla sarebbe più stato come prima, come tutto quello cui si era abituato in venticinque anni: il caos cittadino, il sole caldissimo anche in pieno inverno, le urla degli ambulanti e il continuo e assordante rincorrersi dei clacson delle automobili.
Via Passione, nel centro di Milano, sembrava una via tranquilla, come quei quartieri residenziali dove viveva solo la gente per bene, come si vedeva nei film. In uno dei condomini di quella via, Federico aveva preso in affitto una stanza in un appartamento al piano terra.
Aveva visto delle foto su internet, e quando aveva contattato la proprietaria, si erano accordati su un prezzo ragionevole, pur essendo, quello,  un appartamento ristrutturato e praticamente nel centro di Milano. Anche se avrebbe potuto cercare una sistemazione più economica, Federico aveva scelto comunque quello: si trovava vicinissimo alla facoltà di Scienze Politiche, che rappresentava il motivo principale per cui aveva lasciato Palermo e si era trasferito nella grande metropoli lombarda.
L’altro motivo per il quale aveva preferito quell’appartamento era, invece, il fatto che ci fosse già un inquilino; in questo modo avrebbe avuto qualcuno a fargli compagnia, e ad aiutarlo ad affrontare, almeno all’inizio, quell’insieme di novità che pareva volergli piombare addosso come una valanga.
Perché la verità, alla fine, era che Federico se la stava facendo sotto.
Era terrorizzato all’idea di ritrovarsi per la prima volta, completamente solo, in una città nuova, totalmente diversa dalla sua, e a centinaia di kilometri da casa.
A centinaia di kilometri dalla persona che lo aveva sempre aiutato ad affrontare qualsiasi cosa.
La stessa persona che rappresentava il vero motivo per cui aveva lasciato Palermo senza voltarsi indietro.
Federico trovò il cognome che cercava tra quelli sul citofono: Gigliotti.
Quando ci premette sopra il dito, si sentì come un condannato a morte in piedi di fronte alla forca.
- Si? – rispose una voce maschile, dopo quella che gli parve un’eternità.
Era una voce calda, soffice, non troppo grave.
- Sono Federico, il nuovo inquilino – disse.
Il portone d’ingresso scatto immediatamente, e quel suono fu abbastanza per immobilizzarlo sulla soglia, con il suo trolley e i suoi borsoni di fianco alle gambe.
Avrebbe ancora potuto cambiare idea: riprendere le sue cose, scappare di lì, tornare a casa. Non avrebbe mai saputo cosa si sarebbe perso, cosa ci sarebbe stato dietro quel portone di legno scuro, cosa avrebbe trovato a casa, chi avrebbe conosciuto.
Federico si era chiesto spesso come sarebbe stata la sua prima notte a Milano, se avrebbe trovato una festa in corso al suo arrivo o se quel sabato sera lo avrebbe passato in giro per locali con il suo nuovo coinquilino.
Fu quell’interrogativo a spingerlo a prendere una decisione: tese la mano in avanti, spinse il portone, trascinò le sue cose dentro.
Non doveva tornare a casa.
Avrebbe dovuto affrontare quello che il destino gli stava offrendo.
Avrebbe conosciuto persone nuove, si sarebbe costruito una vita diversa, lontano da Palermo.
Una vita vera.
Quando si trovò dentro, si prese qualche secondo per guardarsi intorno.
L’ingresso era nello stesso stile del portone: ampio, con le pareti di un opprimente ocra, e sulla sinistra le scale che portavano ai piani superiori, con un corrimano di freddo ferro finemente lavorato.
La porta del suo appartamento si trovava sulla destra, ed era già aperta.
Dall’interno giungeva un fascio di luce.
Federico prese le sue cose, facendosi strada verso l’appartamento: sembrava tutto tranquillo e silenzioso, dentro doveva esserci soltanto il ragazzo che aveva risposo al citofono, magari in compagnia di qualche amico.
Prima di entrare, guardò il proprio riflesso sullo specchio nell’androne, vicino alla gabbiola del portiere: aveva i capelli completamente spettinati, il viso pallido e un po’ di occhiaie, a causa del viaggio. Si augurò di fare almeno una buona impressione.
Quando entrò nell’appartamento, quello che si trovò davanti lo sorprese; tutto, dall’arredamento agli accessori, stonava completamente con lo stile del palazzo.
Era moderno: l’ambiente unico che si trovò davanti aveva le pareti di un caldo salmone.
C’era una rientranza, a sinistra, chiusa da una penisola con due sgabelli, a delimitare una zona cottura con una cucina dalle ante di un rosso acceso. Sulla destra, invece, c’era un divano imbottito con vicino un bel tavolo quadrato e un mobiletto con una tv a schermo piatto. C’era anche una poltrona che aderiva alla parete.
Nella parete di fronte a lui stavano le tre porte che dovevano portare al bagno e alle due camere da letto; una aveva un nastro rosso sulla maniglia.
La cosa che lo stupì maggiormente, però, fu l’enorme pianoforte nell’angolo più lontano dalla porta d’ingresso, nero, maestoso e lucente.
Non ne aveva mai visto uno da vicino.
Sembrava enorme in quell’ambiente occupato da mobili non troppo ingombranti.
Strumenti come quelli li aveva visti solo nei film che piacevano a sua madre, quelli ambientati nell’800 e fatti di amori tra conti e serve e di faide familiari.
Era abituato a vederli in quelle stanze enormi, vuote.
Lì, in quella casa moderna e un po’ piccola, sembrava quasi fuori posto.
Dietro al tavolo da pranzo, vicino alla penisola della cucina, seduto a fissare una serie di fogli, c’era un ragazzo che gli dava quasi le spalle: non poteva vederlo in viso, ma solo scorgerne i capelli biondi, che con qualche ciocca gli finivano sul viso.
Non lo aveva notato subito, concentrato com’era ad ammirare il resto dell’appartamento: e quello, congelato nel suo silenzio, sembrava invisibile.
Federico rimase a fissargli la schiena per un po’.
Credeva che, prima o poi, si sarebbe voltato almeno per salutarlo. Ma quello, ostinatamente, pareva far finta di non essersi nemmeno accorto di lui: era rimasto sulla sua sedia, una gamba prigioniera sotto il corpo e un gomito puntellato sul tavolo, mentre con la mano libera sfiorava la superficie dei fogli che aveva di fronte. Così, deluso, Federico trascinò le sue cose dentro, chiudendo la porta.
Il silenzio che regnava in quella casa era opprimente: la tv era spenta, lo stereo anche, e le finestre chiuse schermavano i rumori provenienti dall’esterno.
Federico si guardò intorno un altro po’, e rimase particolarmente colpito dall’ordine quasi asettico che regnava in quell’appartamento. Lui era sempre stato un tipo disordinato fino allo stremo, e sperava che le sue cattivi abitudini non sarebbero state un problema.
A giudicare dall’accoglienza, il suo nuovo coinquilino non era felice di averlo lì già in partenza.
- Ciao eh? – salutò alla fine. Si sentiva trasparente, e la cosa lo irritava non poco.
- Ciao – lo sentì sussurrare, senza nemmeno alzare il capo. Aveva parlato così piano che se non ci fosse stato quel silenzio probabilmente non lo avrebbe nemmeno sentito: ostinatamente, tra l’altro, lo sconosciuto continuava a restare immobile.
- Io sono Federico. Tu? – insisté.
Il ragazzo non sembrò infastidito dalla sua ostinazione, ma continuò a non muoversi.
- Ti chiami come Chopin – gli rispose.
Federico sollevò le sopracciglia, portando le braccia sui fianchi.
- E tu invece, come ti chiami? – gli domandò di nuovo.
- Dominik. Sono cieco. –
Federico scosse le spalle.
Il suo nuovo coinquilino si chiamava Dominik ed era straniero. Poteva essere quello il motivo per cui non era stato tanto accogliente: forse non parlava bene l’italiano. Aveva, in effetti, un accento particolare, però aveva parlato velocemente, senza quel modo strano di arrotondare le lettere che avevano gli stranieri.
Si guardò intorno per qualche altro istante, cogliendo degli altri particolari del suo nuovo appartamento: c’era un forno a microonde sulla cucina, e la lavatrice sulla sinistra, sotto il piano in muratura.
C’erano delle letterine colorate attaccate, la rendevano quasi infantile.
- Beh, e…di dove sei esattamente? – pensò di chiedergli, per rompere il ghiaccio.
- Praga –
-  Bella, ci sono stato in gita in quinta liceo!  - gli disse, il tono di voce un po’ più alto per l’entusiasmo. Di Praga si ricordava soprattutto le strade illuminate e trafficate anche durante la notte, e soprattutto lo straordinario ordine che si ritrovava dappertutto. Guardando bene quel ragazzo, non era difficile immaginarselo dentro quel mondo. - E cosa fai qui a Milano? - 
- Studio la musica. Al Conservatorio. - 
- Ah, sì! Wow, dev'essere proprio figo! - esclamò. Prima di arrivare a casa, a bordo del taxi che lo aveva accompagnato, era passato proprio di fronte ad un edificio maestoso, con di fronte una piazzetta dalla quale partiva proprio Via Passione. Il tassista, un tipo simpatico e incline a fare conversazione, glielo aveva presentato come "il conservatorio Verdi, dove studiano musica i figli dei ricchi". - Io sono qui per studiare Scienze Politiche. Lavorerò anche  in un bar, sai, per non chiedere sempre soldi ai miei. Domani devo andare a conoscere i proprietari, iniziò lunedì. Magari vieni con me domani? – gli propose.
Gli sarebbe piaciuto avere un compagno con cui girovagare per le vie di Milano, nel suo primo giorno lì. Ma dall’altra parte proveniva solo silenzio. Probabilmente era prerogativa della gente dell’est essere così antipatica e chiusa, ma non gli piaceva per nulla.
Era partito da Palermo carico di aspettative: aveva sperato di farsi una vita nuova, divertente, in una città immensa come Milano, conoscere persone magari bizzarre e avere episodi divertenti da raccontare a casa quando fosse tornato per Natale.
Invece si trovava di fronte un tipo che non aveva alcuna intenzione neppure di fare conversazione.
- Qual’è la mia stanza? – chiese alla fine.
- La porta a sinistra, senza il nastro – lo sentì mormorare.
Federico prese le sue cose per portarle nella sua stanza, e come prima Dominik non mosse un solo muscolo per aiutarlo.
Quando si chiuse la porta alle spalle, si lasciò cadere sul letto, a occhi chiusi;: avrebbe dovuto svuotare la valigia e i borsoni, controllare che tutto fosse a posto, sistemare le sue cose per iniziare le lezioni in università, il lunedì successivo.
Ma non gli andava di far altro che crollare sul quel morbido materasso.
Il letto era matrimoniale, lo aveva chiesto apposta; odiava dormire troppo stretto, e se avesse voluto portare qualcuno non avrebbe potuto farlo dormire sul divano.
No, lo avrebbe fatto dormire nel proprio letto, come si era ripromesso.
Avrebbe potuto fare qualsiasi cosa avesse voluto, senza preoccuparsi che i suoi genitori potessero scoprire la verità.
Avrebbe potuto aprire la porta di casa e portarsi dietro un bel ragazzo conosciuto al bar.
Avrebbe potuto dormirci insieme senza subire le conseguenze che un’azione come quella avrebbe potuto portare in famiglia.
Avrebbe potuto dire: sì, sono gay e faccio quello che mi pare.
Federico si stropicciò gli occhi, espirando.
Non era ancora il caso di confessare al suo coinquilino di essere gay, non dopo averlo conosciuto da appena venti minuti,. Si sarebbe preso qualche giorno, ci avrebbe fatto amicizia, e avrebbe cercato di scoprire cosa ne pensasse della sessualità delle gente e se fosse o meno un omofobo del cazzo.
In ogni caso, quella era casa sua, ed era libero di fare quello che gli pareva.
Aveva lasciato Palermo, si era gettato il passato alle spalle.
O almeno, avrebbe dovuto gettare il passato alle spalle.
- Che vuol dire che te ne vai? –
- Me ne vado. Mi trasferisco a Milano, vado a studiare lì. –
- Non dire cazzate, Federico, dai. Smettila.  –
- No, Manfredi, smettila tu. Io me ne vado. Quando troverai il coraggio di dire ai tuoi che sei gay e che stiamo insieme…beh, mi trovi lì. –
Federico chiuse gli occhi.
Il passato era già alle sue spalle.
Manfredi lo aveva lasciato andare.
Non sarebbe venuto.
 

§ § §

 
La porta si era chiusa, in casa era tornato il silenzio.
Dalla stanza di Federico giungeva il rumore soffocato del suo armeggiare.
Aveva una bella voce, calda: l’avrebbe paragonata a un colore come il corallo. Caldo e brillante.
Dominik moriva dalla voglia di toccarlo, di scoprire  come fosse: poteva avere gli occhi grandi o piccoli, il naso aquilino o all’insù, i capelli lunghi o corti, forse i riccioli, o magari i rasta.
E le labbra: poteva scommetterci che fossero piene. Doveva essere alto, se lo immaginava così.
Chissà come aveva le mani: le immaginava grandi, forse un po’ ruvide.
Gli ispirava sicurezza, una musica calma, con note lunghe, i tasti da premere con forza, a lungo, ma con un movimento morbido come una carezza.
Come la sonata 14 di Beethoven.
Dominik si alzò, raggiungendo il suo pianoforte.
Conosceva benissimo la strada: nei cinque anni che aveva trascorso in quella casa non aveva mai spostato niente. Si era creato un’immagine nella sua testa, e la seguiva; non aveva mai urtato nessun mobile.
Si sedette sulla panca, adagiando le mani sui tasti freddi, e fu come ritornare a casa dopo un viaggio lungo e poco piacevole. Iniziò a improvvisare una melodia lenta, malinconica, che lo faceva pensare al mare in tempesta. Federico doveva essere un po’ come il mare agitato.
C’era il verde, l’azzurro, c’erano le nuvole. Dovevano essere così belle le nuvole.
Le persone erano tutte una musica; c’erano quelle forti, quelle dolci, quelle tenere.
Ognuno aveva una melodia.
La mamma era  il notturno di Chopin, dall’opera numero 9, il suo preferito. Era il preferito anche della mamma, lo suonava sempre quando era a casa, e lei sorrideva sempre: lo sentiva dai suoi zigomi sollevati, che toccava con la punta delle dita.
Ogni tanto, quando suonava, la mamma piangeva, però poi sorrideva; gli diceva sempre di volergli bene, che era bravo, però piangeva. Non si era mai spiegato il perché.
Le lacrime della mamma erano come il celeste, chiaro e impalpabile.
Federico non era ancora una musica; avrebbe dovuto toccarlo, sentire il suo profumo, ascoltare la sua voce, prima di scoprire la sua musica. Non doveva sceglierla, era la musica a scegliere, la musica sceglieva sempre.
Però Federico sembrava buono, non aveva detto niente quando gli aveva confessato di essere cieco; non lo aveva trattato diversamente, non aveva mostrato pietà per lui.
Quando aveva parlato, la sua voce era passata da una tonalità all’altra; prima irritata, poi si era sciolta nell’entusiasmo quando aveva parlato di Praga, poi era tornata a spegnersi.
Gli sarebbe piaciuto entrare nella sua stanza, toccare le sue cose; dal modo in cui veniva arredata una stanza si capiva molto delle persone.
Lui la sua stanza la teneva quasi vuota: un piccolo lettino singolo, un mobile con uno stereo e al fianco una pila di cd di musica classica, e un armadio. Non gli serviva altro per vivere, oltre quello: il mobile era pieno di spartiti in braille, posti alla rinfusa, la sua unica ragione di vita.
Non passava molto tempo in quella stanza; tutta la sua giornata la viveva al  Conservatorio. C’era una signora che andava a prenderlo e lo riportava a casa alla fine delle sue lezioni, tutti i giorni; una volta lì si rintanava sulla sua poltrona, cercando rifugio nella bellezza del suo pianoforte.
Il Conservatorio era la sua casa, quella dove andava a dormire era solo una stanza dove dover passare la notte prima di rintanarsi di nuovo nella sua musica.
La musica al conservatorio era diversa: tutto lì dentro era musica, persino le pareti, seguendole con le dita, sembravano mormorargli una melodia.
Si respirava musica lì, e a nessuno importava che lui non vedesse dalla nascita.
La musica era l’unica cosa al mondo che poteva fare senza che gli altri lo trattassero con pietà.
A volte era contento di non aver mai visto niente, se non altro non poteva conoscere gli sguardi della gente, quella che lo trattava come un martire. Sapeva che lo guardavano in quel modo, lo sentiva dal cambiamento della voce della mamma quando si fermava a parlare con qualcuno e loro lo vedevano. La mamma si arrabbiava sempre e con il tempo Dominik aveva imparato ad associare la rabbia della mamma con la pietà della gente per lui.
Si chiedeva spesso perché suscitasse quella sensazione nelle persone.
Lui non era triste, era sempre felice.
Era felice di non vedere: se avesse visto i colori, le cose, le persone, non avrebbe imparato a suonare in quel modo, a disegnare da sé i colori e le cose, anche le persone, nella sua mente, con una melodia.
Prima di dormire, si raccontava anche una favola.
La mamma gliela raccontava sempre una favola prima di andare a letto: metteva su una canzone rilassante, di Mozart, il suo preferito, e gli raccontava la favola.
Ogni favola aveva la sua musica, e in quella lui si perdeva, immaginando scene e paesaggi nel buio dei suoi occhi chiusi.
Lo faceva ancora: suonava, immaginandosi un paesaggio da portare con sé nel sonno.
Le note che stava improvvisando sul pianoforte erano scivolate pian piano verso la sonata 14 di Beethoven; gli era venuta in mente pensando a Federico, ma non era quella la sua musica.
La sua musica doveva ancora arrivare.
- Complimenti. Sei davvero bravo. –
Le dita si  schiacciarono sui tasti: stava per lanciarsi in un virtuosismo che l’avrebbe condotto in paradiso, e Federico l’aveva interrotto.
Nessuno lo interrompeva mai. Non lo aveva nemmeno sentito arrivare, era così preso dal mare che stava creando da essersi estraniato da tutto il resto.
Si alzò, senza rispondergli, cercando rifugio nella sua poltrona.
- Senti, ma…io non ho fatto la spesa, abbiamo qualcosa? O prendiamo una pizza? –
- In frigo c’è tutto. –
Lo sentì, mentre apriva il frigo: nel buio poteva quasi immaginare quello che doveva sentire lui.
Il freddo del portellone, poi l’aria fresca sulle braccia, l’odore del cibo. Lui non ci faceva sicuramente caso, come tutte le persone  che vedevano.
Loro usavano solo gli occhi, non vedevano davvero.
Loro non si preoccupavano delle inflessioni della voce, dell’odore di sudore che precedeva uno scatto nervoso, del profumo. Guardavano e basta, senza vedere davvero.
- Ehm, ma…c’è solo questo? – gli chiese.
La sua voce veniva da lontano, doveva essere ancora davanti al frigo.
Dominik non gli rispose; era così bello restare raggomitolati sulla poltrona, con il capo affondato nel tessuto. Le immagini che aveva evocato con la musica non se ne erano ancora andate, gli sembrava di sentire il rumore del mare nelle orecchie. Poteva sentire persino l’odore, era come quello che aveva sentito l’unica volta che era riuscito ad andare al mare, con la mamma, d’estate. Sapeva di buono.
Alle orecchie gli giunse il rumore della busta dell’insalata che veniva strappata.
Quel ragazzo era divertente, lo trattava davvero come se fosse una persona come tante; si era chiesto persino se ci fosse solo quello. Cosa poteva mangiare un cieco che viveva da solo se non insalata già pronta, in busta, e alimenti precotti da infilare nel microonde? Sì, era divertente.
Doveva essere anche bello.
L’idea di non sapere come fosse fatto iniziava a tormentarlo. Sarebbe bastato così poco per toccargli il viso e vederlo.
- Hai una bella voce – gli disse alla fine. Sentì di averlo imbarazzato, aveva smesso di mangiare; il rumore dei suoi denti che sgranocchiavano l’insalata era cessato.   
- Grazie…e… -
- E’ calda. Somiglia al mi, sul pianoforte –
- Suoni da molto? –
- Da sempre – Da quando era nato non ricordava altro che la musica.
- E qui? Da quanto vivi qui? - gli domandò ancora. Dominik si sentì lievemente infastidito, perchè avrebbe voluto suonare ancora senza rispondere a una sfilza di domanda.
- Cinque anni. Sono arrivato che ne avevo quattordici. - 
Ripensare ai cinque anni precedenti, a quando era arrivato a Milano la prima volta, era strano.
- Stamin...! - soffiò lui, schiarendosi la voce subito dopo, imbarazzato, senza finire di parlare. - Cioè, ehm...scusa, sì... - Dominik ridacchiò, divertito da quellao strano fiume in piena, senza argini, che era quel ragazzo. - E...devi studiare ancora molto? - 
- Quest'anno finisco il terzo pre-accademico. A giugno prendo la maturità da privatista, e con il diploma potrò fare gli esami d'ammissione per il Triennio - gli spiegò, e Federico non disse altro. Dominik si chiese se fosse perchè non avesse davvero nulla da dire, o perchè non avesse capito niente di quello che gli aveva detto. - Però non voglio restare qui, voglio arrivare all’Accademia. Hai mai sentito parlare di Santa Cecilia? – 
Il silenzio fu abbastanza eloquente, non aveva idea di cosa stessero parlando.
Dominik si chiedeva spesso come fosse possibile che la gente sapesse così poco di musica, che amasse solo quelle urla sregolate di cantanti da quattro soldi quando le mura di ogni monumento di una città come Milano avevano respirato per secoli le note meravigliose di Beethoven, Chopin, Vivaldi. 
- E la sera, cosa fai? Esci con gli amici?  - Dominik fece una smorfia, stringendosi le ginocchia al petto. – Non ti va? – continuò il ragazzo, con la sua voce calda.
- Non mi importa –
- Come non ti importa? Scusa ma quanti anni hai detto che hai? –
- Diciotto - 
- E di cosa ti importa, dall’alto dei tuoi diciotto anni? –
- Musica – gli disse semplicemente, era una cosa ovvia.
Federico sgranocchiò un altro po’ di insalata, senza preoccuparsi di non fare rumore.
Domink sorrise: forse non se ne rendeva nemmeno conto, forse era lui che percepiva i rumori meglio di un gatto. La mamma gli aveva detto che i gatti, quando avvertivano un rumore, muovevano le orecchie, per sentirli ancora meglio. A lui i gatti piacevano, ma la mamma non ne aveva mai voluto uno. Ne avevano avuto uno, prima che lui nascesse; poi lui era nato cieco, e la mamma lo aveva dato via. Era tutto bianco e con il pelo lungo, gli sarebbe tanto piaciuto toccarlo, ma quando era nato, il gatto non c’era già più.
Il rumore dell’acqua che usciva dal rubinetto gli fece dimenticare il gatto, ma lo fece sorridere. Si perdeva sempre nella sua mente, a rincorrere un pensiero. La mamma glielo diceva sempre, ma più cercava di fare attenzione, più il mondo intorno lo distraeva.
Come quel profumo, adesso. Nella stanza c’era un profumo nuovo, doveva essere quello di Federico; odorava di muschio, e di borotalco, e di qualcosa di forte che non sapeva ancora definire. Doveva essere quello il suo profumo, e da vicino doveva essere ancora più buono. Riempiva l’aria, rendendola densa come il miele. Gli piaceva tanto il miele.
  - Se continui a pensarla così sarai sempre solo… - Dominik si mise dritto sulla schiena, agitando una mano in aria come se volesse scacciare una mosca fastidiosa.
In realtà, quello era un pensiero; nella sua mente, i pensieri cattivi erano dei puntini più neri del nero a cui era abituato, e bastava alzare la mano per scacciarli. Anche quello glielo aveva insegnato la mamma  
- Tu non capisci cosa è la musica vera. La musica è compagnia, è l’unica cosa per cui vale la pena vivere. La musica ti fa vedere il mondo, ti fa immaginare i posti che non vedrai mai, ti tiene compagnia quando nessuno è disposto a restare. La musica vale più delle persone. –
Federico rimase in silenzio, ma stava camminando; i suoi passi si infrangevano sul parquet del pavimento. A giudicare dalla distanza tra un passo e l’altro, stava camminando piano, con passi lunghi. Si stava avvicinando a lui, il rumore diventava sempre più forte. Alla fine si arrestò, e fu seguito da uno sfregare di tessuto. Federico si era seduto sul divano.
- Non vuoi suonare ancora? – gli domandò. Che domande, suonare era tutta la sua vita, il suo mondo.
- Io suono sempre –
- Per…per farmi sentire, intendo. –
- La musica è sempre musica, non è solo per farla sentire a qualcuno. La musica è vita –  Quel ragazzo non capiva cosa significasse. Non si suonava a richiesta, ma perché la musica sceglieva di uscire, all’improvviso, e tu non potevi fermarla. Le richieste erano solo per le lezioni al conservatorio, o per i concerti; tutto il resto era pura vita che usciva dal corpo, dal cuore, gli  passava nelle vene. Si chiedeva spesso cosa sarebbe stato di lui se non avesse avuto la musica; probabilmente sarebbe morto nel buio che gli stava intorno. 
- Insomma, posso ascoltarti o no? –
- No. –
- Perché no? –
- Non mi va. –
Federico sbuffò, e Dominik venne da sorridere.
Il respiro delle persone era come l’indaco, che quando si appesantiva diventava blu.
In quel momento Federico era blu.
Il biondo si alzò, preso all’improvviso dalla smania.
Quel blu stava diventando un gatto, un gatto blu che saltava tra i mobili di casa sua, e che gli si accoccolava addosso, accarezzandolo con il suo morbido pelo. Poi tornava a saltare, ad arrampicarsi sulle tende.
Dominik si sedette dietro al suo piano, premendo le mani sui tasti; nella sonata numero 16 di Mozart, vedeva i colori, il gatto, le tende. il gatto blu lo faceva sorridere.
Federico era in silenzio; avrebbe voluto vedere il suo viso, se stesse sorridendo, o se fosse triste, o arrabbiato.
Gli aveva detto di no, che non avrebbe suonato, ma non aveva resistito. Federico gli faceva venir voglia di suonare, avrebbe potuto farlo per ore intere, non gli importava che lui potesse ascoltarlo o meno.
Eppure avrebbe tanto voluto mostrargli i colori che vedeva lui, gli sarebbero piaciuti. Gli avrebbe mostrato il suo gatto blu che saltava sulle tende. Forse avrebbe sorriso.
Forse sarebbe stato bravo come la mamma.
La mamma gli aveva insegnato a vedere i colori come li vedeva lei.
Dominik avrebbe insegnato a Federico a vedere i colori a modo suo.

 








(*) Nota del 12/01/2014: Capitolo totalmente revisionato

Nota al capitolo 1
Oddio, sono sorpresa, e contenta! Questa storia ha già delle recensioni e diverse persone che la seguono, più di quanto mi aspettassi!
Alle recensioni risponderò personalmente entro oggi, ma intanto ne approfitto per ringraziare qui, anche chi ha aggiunto alle seguite e ai preferiti.
Questa storia mi mette un po' sotto pressione, è difficile rendere appieno un carattere come quello di Dominik, e le sensazioni che prova.
E' quasi come un bambino che si è costruito intorno un mondo tutto suo, perchè quello vero non lo vede.
Da qui l'idea del gatto blu: è un'idea che verrebbe solo a un bambino, o a lui, che un gatto non l'ha mai visto. Dominik è una sorta di simbolo, una figura che mostra al mondo quanto è diverso il modo di agire quando non ci sono gli occhi a farci vedere la realtà.
Nel prossimo capitolo Federico cercherà di far vedere a Dominik il suo mondo.
Spero che non vi deluda, sono un po' sotto pressione xD Tengo molto a questa storia.
Ancora un grazie a tutti! ^_^

 

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Capitolo 3
*** 2nd: Intorno è tutto nero ***




Ma procediamo con disordine. Il disordine dà qualche speranza. L'ordine nessuna. Niente è più ordinato del vuoto.
Marcello MarchesiIl malloppo, 1971

 
 

Chapter 2nd: Intorno è tutto nero  

Federico si era svegliato con una canzoncina in testa.
Una di quelle perfettamente idiote che risuonano nelle orecchie per tutto il giorno, inspiegabilmente.
Mentre faceva scorrere il rasoio sulla pelle, tendendo la mandibola in avanti, lo specchio gli rimandò indietro l’immagine dei suoi capelli neri spettinati e degli occhi neri puntati sul viso, attento a non tagliarsi.
Anche quel mattino, il silenzio che lo circondava era opprimente: a casa, a Palermo, tutte le mattine, mentre faceva la doccia, metteva la musica alta per riempire il silenzio dell’abitazione vuota. Quel giorno non ci aveva pensato, perché il silenzio era parso la naturale estensione della sensazione di vuoto  e smarrimento che si sentiva dentro.
Solo dopo aveva pensato che, se avesse acceso la radio, avrebbe svegliato Dominik.
Abituarsi a quella nuova realtà, ad avere un estraneo in casa, era strano.
Quando era uscito dalla sua stanza per prepararsi un caffè, non lo aveva visto da nessuna parte: aveva pensato, allora, che probabilmente stesse ancora dormendo.
Sarebbe potuto anche essere uscito, ma non sembrava uno che usciva la domenica mattina.
Anche mentre era in bagno, Federico non sentiva nessun rumore giungere dal salotto o dalla stanza di Dominik, ma non avrebbe potuto giurare che il ragazzo non fosse già per casa.
Si muoveva silenziosamente come un gatto, faceva quasi paura.
Ed era bello. Non solo bello di una bellezza fisica e carnale, ma per quella strana aura che aveva intorno: doveva essere il fascino del musicista.
Quando lo aveva visto suonare il pianoforte da solo, la sera prima, era rimasto ipnotizzato dai suoi movimenti, dalle sue mani e da quelle note, anche dal suo viso.
Sembrava in estasi, come un angelo, che però al posto dell’arpa aveva il pianoforte.
I capelli biondi cadevano con qualche ciocca sul viso, i cui lineamenti sembravano disegnati da Michelangelo. Aveva le labbra così carnose che sembravano quasi finte: dovevano essere anche terribilmente morbide. Cozzavano un po’ con la linea spigolosa della mandibola squadrata.
Avrebbe voluto continuare a guardarlo e ad ascoltarlo per ore, ma si era fatto sfuggire quel complimento, e lui era scappato.
Come un gatto.
Era terribilmente irritante, e quasi arrogante. Pretendeva di decidere tutto, come quando gli aveva  negato una sola canzone e poi si era alzato, solo per poter dire di aver deciso da solo di suonare.
Ci aveva pensato tutta la notte, a quelle note: le aveva sentire nella testa, prima di addormentarsi, ed erano così chiare che aveva dovuto alzarsi e andare in soggiorno per rendersi conto che Dominik non stesse suonando davvero.
Vederlo di nuovo con il suo pianoforte gli avrebbe fatto uno strano effetto.
Quello era un ragazzo strano, però, fin troppo.
Un tonfo dall’esterno lo fece sussultare: qualcuno aveva imprecato, ma in una lingua che non conosceva. Dominik doveva essersi svegliato.
Federico poggiò il rasoio sul bordo del lavandino, passandosi un asciugamano sul viso.
Quando aprì la porta del bagno, quello che vide lo fece sorridere.
Dominik si stava rialzando dal pavimento, dopo essere inciampato sulla sua borsa.
Non ricordava di averla lasciata lì la sera prima, prima di andare a letto.
- Ma che hai fatto? – gli chiese, cercando di trattenere le risate.
- Secondo te? Sono caduto – sibilò il ragazzo, rialzandosi e sistemando quello che doveva essere il suo pigiama, e che in realtà era una vecchia tuta tutta lacera.
- Scusa, ho dimenticato di portarla in camera. Però se avessi fatto un po’ di attenzione potevi evitarla! –
- Mi prendi per il culo?! –
Federico arretrò di un passo, colpito da tanta acidità.
Credeva di non aver detto nulla di tanto grave: gli dispiaceva che fosse scivolato per colpa della sua borsa, e gli dispiaceva di averla lasciata in giro, ma non pensava di meritare una risposta come quella dopo sole dodici ore che si conoscevano.
Mentre lui se ne stava zitto, a bocca aperta, sulla soglia del bagno, Dominik, che si era alzato in piedi, cercò di superarlo, spingendolo per la spalla.
Il tocco della sua mano, all’altezza della clavicola, lo fece sussultare: era così fredda che l’aveva sentita benissimo persino attraverso il tessuto della maglietta. Ma non sussultò per quell’improvviso cambio di temperatura, quanto per l’irritazione: uno sconosciuto lo stava spintonando a casa sua.
Federico oppose resistenza a quel gesto di arrogante supremazia: aveva improvvisamente voglia di prenderlo a cazzotti, uno così.
- Non ti prendo per il culo, ti sto solo dicendo che se avessi guardato dove andavi non saresti caduto, semplice! – gli rispose allora a tono, stizzito. Dominik lo lasciò andare.
- Vaffanculo – soffiò.
Allora lo spinse ancora, per superarlo, ma ci mise meno forza di prima.
Sembrava deluso, aveva le spalle curve in avanti, e il capo chino.
Federico era sempre stato un tipo fin troppo impulsivo e privo di freni: per questo, tutti i sentimenti lo avvolgevano, lo coglievano sempre all’improvviso, strappandogli anche l’anima. Altrettanto velocemente, poi, andavano via, come l’onda del mare che, esaurendosi, spariva via liberando la battigia.
Per questo, la stessa rabbia che lo aveva colto quando la fisicità di Dominik aveva provato a sovrastarlo, si trasformò subito in senso di colpa quando si trovò di fronte la sua delusione.
Lo stava facendo sentire una merda.
Federico sbuffò.
- Ok, scusa, davvero, non volevo, però pensavo che avresti guardato e… - iniziò alla fine.
Istintivamente, preda della fisicità un po’ meridionale che lo contraddistingueva, aveva teso la mano e preso Dominik per un braccio, per farlo voltare: allora, altrettanto istintivamente, lui aveva sollevato il viso.
Successe nel giro di sette secondi netti: avrebbe potuto contarli.
Dominik sollevava il viso, Federico si scontrava con le sue palpebre socchiuse, prima che lui le serrasse: e nell’arco di quei sette secondi, aveva potuto vedere il tutto, e il nulla.
Il motivo per il quale era scivolato sulla sua borsa.
Il motivo per il quale lo aveva ignorato la sera prima, per il quale non l’aveva aspettato sulla porta o aiutato con i bagagli.
– Oh – riuscì solo a dire. Si sentiva un perfetto idiota, adesso: idiota per non aver dato il giusto peso alle sue parole, per non essersi accorto della verità, e per essersi comportato come un vero pezzo di merda. – Tu sei… -
Dominik. Sono cieco.
Era cieco.
Dominik era cieco, e lui era stato tanto idiota da non accorgersene.
Si chiese quante persone al mondo si sarebbero potute trovare in una situazione come quella, e quante di queste avrebbero commesso il suo stesso errore.
Non accorgersi di trovarsi nella stessa stanza con un ragazzo non vedente, avrebbe potuto giurare che non fosse facile: insomma, i non vedenti…non ci vedevano.
Avevano un cane, gli occhiali da sole, qualcuno a casa ad aiutarli e una serie di costosi macchinari per rendere loro la vita più semplice.
Dominik, invece, per tutta la sera gli era sembrato un ragazzo normale: si era mosso in casa come se vedesse benissimo tutti gli ostacoli, si era seduto dietro al suo pianoforte, aveva suonato una melodia complessa. Quando si era chiuso in camera sua prima di cena, borbottando di aver già cenato prima del suo arrivo, aveva raggiunto la porta senza alcun problema.
Ma ora che ci pensava, per tutto il tempo era stato attento ad evitare la vicinanza con lui il più possibile. E lui era stato idiota.
- Cieco. Te lo avevo detto. Ieri – soffiò Dominik, strattonando il braccio che lui aveva stretto tra le dita. Federico si riscosse in seguito a quel movimento, e per alcuni istanti non riuscì a far altro che stare in silenzio, osservando il suo corpo aggrapparsi al divano, per raggiungere poi la cucina.
- Io ho pensato…insomma…tu vieni da Praga – farfugliò. - Sono stato un idiota, non ho capito nulla. –
Dominik aveva raggiunto la cucina: con noncuranza, aveva preso un bicchiere dal pensile sopra il lavello, lo aveva portato sotto al rubinetto e aveva aperto l’acqua.
Si muoveva con mani esperte, era impossibile immaginare che fosse…insomma, cieco.
- Si, sono ceco. Ma sono anche cieco – precisò, calcando la i sull’ultima parola. - Non ci vedo. –
Federico rimase a guardarlo con le braccia abbandonate lungo i fianchi. Ci sarebbero state tante cose carine da dire, tante scuse da fare, eppure non aveva idea di quali parole usare per chiedere scusa.
Si trovava a  Milano da dodici ore e aveva già scambiato un ragazzo cieco per un vedente, lo aveva messo in imbarazzo e aveva lasciato la sua borsa per casa lasciando che ci inciampasse.
Espirò, frustrato.
- Cavolo, scusami. Sono un cretino! E’ solo che…non pensavo…non sembra…ti muovi bene.. – iniziò a dire, e più cercava di trovare nuove parole per elaborare una frase di senso compiuto, più non faceva che farfugliare e dire scemenze.
Dominik buttò giù tutta l’acqua in pochi sorsi, poggiando il bicchiere dentro al lavello della cucina.
Mosse la mano libera in aria, come a voler chiudere lì la conversazione.
- Vivo in questa casa da cinque anni. Conosco tutto a memoria, non mi serve la vista.  –
Parlava con tono calmo, eppure si respirava tra loro una certa tensione: era una sorta di velo trasparente, denso come il miele, attraverso il quale poteva vederlo, ma non completamente.
- Sei  arrabbiato? Io davvero, non volevo… -
- No – rispose Dominik immediatamente, senza lasciarlo finire. - Ma non guardarmi in quel modo. – lo rimproverò. Federico assunse un’espressione interdetta: si stava chiedendo, infatti, come potesse, da cieco, a sapere in che modo lo stesse guardando. Ma rimase in silenzio, perché se avesse parlato avrebbe iniziato di nuovo a farfugliare una serie di scuse. Dominik si appoggiò con un fianco alla penisola della cucina, quasi sulla soglia: si strinse nelle spalle, come se quella conversazione non lo stesse riguardando direttamente. - Mi guardano tutti come se fossi un povero martire da santificare. Me l’ha confessato la mamma, quando ho insistito per sapere perché si arrabbiasse tanto quando incontravamo qualcuno per strada. E adesso lo stai facendo anche tu, immagino. Quindi smettila. -  
Federico rimase a fissarlo, anche mentre lui tornava in cucina e lo superava per andare a sedersi sulla poltrona vicino alla parete. Era vecchia, dal tessuto un po’ stinto, e così consunta da dare l’idea di poter sprofondare fino al pavimento non appena ci si fosse seduti sopra.
Ma Dominik ci si lasciò cadere con una fiabesca leggerezza.
Sarebbe potuto passare per un bambino imbronciato con un pigiama troppo grande, se non avesse avuto le spalle tanto larghe e le gambe tanto lunghe.
Gli venne da sorridere, ma Dominik sollevò la mano in aria.
- Hai aperto la finestra? –
- Si…hai freddo? – Dominik fece cenno di no con il capo, ma si raggomitolò sulla poltrona.
- No…hai aperto anche le persiane? –
- Si.  –
- Allora c’è la luce. Io non le apro mai, solo d’estate, quando fa caldo, per far entrare l’aria. –
Federico si ritrovò ad annuire, muovendosi verso il divano.
- Sto…sto per sedermi sul divano.. - gli mormorò, imbarazzato, non sapendo bene cosa dire.
Dominik sbuffò, spazientito.
- Lo so. Non devi dirmi quello che fai. Sono cieco, non sono scemo. –
Quando lo guardò, Federico vide che stava sorridendo appena, solo con le labbra un po’ distese.
- Scusa – mormorò, abbassando il capo per fissarsi la punta delle ciabatte blu e celesti. 
Si sentiva a disagio nella stessa stanza con lui.
Aveva riversato tante aspettative in quel viaggio, sull’università e su una nuova vita con dei ragazzi della sua età, invece non si stava realizzando niente.
Aveva immaginato che si sarebbe svegliato quella mattina dopo aver trascorso una notte in giro con i suoi nuovi amici, che avrebbe chiamato sua madre dicendole di stare benissimo, che si sarebbe sentito leggero in quella casa.
Invece aveva trascorso l’intera notte a rigirarsi tra le coperte, fissando continuamente il cellulare e sperando che il mattino arrivasse il prima possibile. Nei rari momenti di sonno tranquillo, i suoi sogni erano stati popolati dalla costante sensazione di star scappando da qualcosa, con un nodo in gola che gli faceva mancare l’aria, e le lacrime pronte a venir fuori. Quando poi spalancava gli occhi sulla stanza ancora vuota e ordinata, si rendeva conto di aver vissuto solo un sogno: ma quella brutta sensazione continuava a circondarlo come avrebbe fatto un boa.
E adesso si trovava sul divano, in una casa silenziosa, con un coinquilino cieco che gli rivolgeva a malapena la parola, mentre tutti i sogni di feste, cene e sesso bruciavano davanti ai suoi occhi, tramutandosi in cenere.
Dominik apparteneva ad un altro mondo.
Il suo era lo strano ed etereo mondo dei musicisti, quei tipi enormemente strani che portavano avanti sempre discorsi filosofici, che guardavano tutti dall’alto in basso, circondati costantemente da un’aura di irraggiungibile fascino.
Lo faceva sentire a disagio.
Tutti i suoi tentativi di parlare, di fare amicizia, cozzavano contro quel velo di miele che lo circondava: e sarebbe successo continuamente, perché non avrebbero avuto nessun argomento in comune e lui sarebbe sempre rimasto fuori dal brillante mondo del Conservatorio.
E, come se non bastasse, aveva fatto la gaffe peggiore del mondo a non accorgersi che fosse cieco.
Dominik si alzò all’improvviso, muovendosi verso il suo pianoforte.
Teneva le  mani solo un po’ sollevate, tese in aria, pronte a incontrare il lucido legno dello strumento. Quando lo toccarono, il ragazzo si sedette sulla panca con tanta indifferenza che sembrava averla vista, dietro di sé.
Federico chiuse gli occhi.
Voleva tentare, ingenuamente, di fare come lui, di muoversi a occhi chiusi.
Dopo appena pochi secondi iniziò a sentirsi oppresso da tutto quel buio, e dovette riaprirli: vedere di nuovo il mondo era una bella sensazione.
Vivere come Dominik doveva essere insopportabile, opprimente.
Ritrovarsi improvvisamente nel buio più totale, continuo.
Come poteva vivere senza mai riuscire a distinguere il giorno e la notte?
Era sempre notte, per lui.
- Lo  sai, ieri sera eri molto meglio – si sentì apostrofare.
Da uno come quello, con la sua immagine, come un angelo dietro al pianoforte, si sarebbe aspettato una voce un po’ acuta, un richiamo simile ad un trillo. Invece, la voce di Dominik risuonò nel silenzio in un tono morbido, ma grave.
- Eh? – Lo sentì ridere, mentre le dita si muovevano sul pianoforte descrivendo una breve melodia, probabilmente una scala di note, per riscaldarsi. Anche la sua risata non era cristallina, bensì quasi roca, paragonabile ad una grande mano da uomo che si piega su un bambino per fargli una carezza.
- Ieri, quando sei arrivato. Mi trattavi come una persona normale. Credevo fossi diverso da tutti gli altri, invece no – gli spiegò, in un sospiro. Federico si mise immediatamente sulla difensiva.
- Ma guarda che io non ho niente contro di te, anzi! E’ da ieri che cerco di esserti simpatico! –
- No, non c’entra. Non ho detto che mi tratti male perché sono cieco. Ho detto che mi tratti da diverso. Io posso fare tutto quello che fai tu. E non voglio che mi tratti come un disabile, so fare tutto. –
Federico rimase con gli occhi fissi sulla punta delle proprie scarpe.
- Scusa. –
- E non chiedermi sempre scusa – gli disse ancora, e questa volta, per l’irritazione, la sua voce salì di un’ottava, acquisendo un po’ del suono musicale che aveva immaginato avrebbe dovuto avere.
Si era alzato dalla sua panca, abbandonando l’idea di continuare a suonare.
Federico lo seguì con lo sguardo mentre tornava a sedersi sulla sua poltrona, incrociando le gambe e iniziando a giocherellare con i laccetti troppo lunghi della felpa che indossava.
- Ti piacciono i colori, Federico? – gli chiese poi, a bruciapelo.
- I colori? –
- Si. A me piace l’arancione. –
- Davvero? A me…a me piace il blu. – Dominik annuì, muovendo appena il capo. – L’arancione no, dai. Io odio l’arancione – gli confessò poi, in una mezza risata.
- Perché? –
Federico si strinse nelle spalle.
- Non c’è un motivo, non mi è mai piaciuto. –
Dominik rimase in silenzio per qualche istante, sempre fermo sulla solita poltrona sfondata: in effetti, come si immaginava, ci sprofondava un po’ dentro, mentre si premeva le gambe sul petto. Solo allora Federico notò come i piedi di Dominik fossero nudi: erano ossuti, lunghi e sottili.
- Non mi sono mai fermato a pensare veramente a come fosse il blu – disse alla fine, riemergendo dai suoi pensieri. – Potrebbe essere simile al nero, o splendere come il bianco? –
Federico rimase a fissarlo con un’espressione interrogativa sul volto, e non sapeva se lui si aspettasse veramente una risposta, o se stesse semplicemente blaterando con se stesso.
Il disagio che sentiva non faceva che crescere: si trovava sul divano del suo nuovo appartamento con uno sconosciuto che, invece di parlare di calcio e motociclette, gli faceva domande sui colori.
Più passava il tempo, più si convinceva che non sarebbe mai riuscito nemmeno ad avvicinarsi al mondo di Dominik: il mondo dei musicisti era strano. Loro erano strani.
- Io non vedo i colori come li vedi tu, Federico. Non li ho mai visti. Sono nato cieco. Ma questo non vuol dire che io non li veda. – Fece un’altra pausa, durante la quale Federico si rese conto di avergli sentito pronunciare il suo nome: era strano, e Dominik lo caricava di una strana inflessione sulla r, che gli conferiva un suono più musicale. Aveva notato, inoltre, come ci mettesse sempre un po’ a parlare, quasi come se dovesse prima trovare le parole tra una miriade di pensieri che gli frullavano per la testa. – I colori non sono quelli che vedete voi con gli occhi. I colori esistono per rendere il mondo più bello, ed esistono per il mondo di tutti. Per voi, colorano le cose che vedete con gli occhi. Per me colorano le cose nella mia mente. I colori sono sensazioni: sono profumi, parole, risate. Tutto è colore, anche la musica. La musica ha tutti i colori del mondo. Io quando suono costruisco palazzi, paesaggi, animali. Anche le persone. E sono tutte molto più belle di quelle che vedete voi. – gli spiegò.
Federico rimase ancora a guardarlo, non sapendo bene cosa sarebbe stato meglio dire: Dominik sembrava la persona più tranquilla del mondo, come se l’essere cieco non lo turbasse minimamente, non lo riguardasse.
Non ci vedeva da quando era nato, ma parlava con aria sognante di palazzi, e colori, e persone.
E gli stava raccontando la sua visione del mondo come se lo conoscesse da sempre.
Federico fu raggiunto dalla consapevolezza solo in quel momento: da quando aveva iniziato a parlare, aveva avuto la sensazione di conoscere qualcosa al mondo che potesse essere assimilabile al ragazzo che aveva di fronte, e finalmente era riuscito a ricordare cosa fosse.
Era l’infanzia.
Solo i bambini avevano una leggerezza di questo tipo.
- Quando suono disegno le cose. Ieri, quando ho suonato Mozart, davanti a te, ho disegnato un gatto. Era blu, e a ogni nota saltava, distruggendo la casa. Era bello. –
- Un gatto blu? – Federico ridacchiò, senza riuscire a trattenersi, e Dominik rispose stizzito ma allo stesso tempo sorpreso.
- Perché? Non va bene? –
- No, è che…non esistono i gatti blu. –
- E chi te lo dice? – ribatté.
Federico spalancò la bocca.
Stava per rispondergli “perché io ci vedo”, ma si tappò subito la bocca.
- Beh… - farfugliò, alla ricerca di una frase che non lo offendesse, ma lui lo sorprese.
- Perché tu ci vedi. Ma chi ti dice che il tuo blu e il mio siano la stessa cosa? – Dominik fece una pausa, passandosi una mano sul viso per stropicciarsi gli occhi.
Quando il suo cellulare squillò, nella tasca, la suoneria spezzò quel momento di silenzio.
Federico lo prese, e lesse un sms del gestore del bar dove avrebbe lavorato: si chiamava Roberto, e aveva una voce calda e sensuale, con la quale avrebbe potuto benissimo doppiare un film.
Lo aspettava già al locale, prima dell’apertura, alle quattro del pomeriggio: ne avrebbe approfittato per spiegargli un po’ di cose sul suo ruolo, su dove trovare le cose, e avrebbe conosciuto qualche nuovo collega.
Anche per quel lavoro covava tante aspettative: aveva già lavorato come cameriere, quando era ancora a Palermo, in un ristorante e due bar. Il lavoro in sé, quindi, non lo spaventava.
Solo che, a Palermo, alla fine del suo turno poteva togliere il grembiule scuro, chiudersi la porta alle spalle e buttarsi dentro la vita: la sua famiglia, la sua casa, i suoi amici. Manfredi.
Cancellò l’immagine di Manfredi dalla mente con una smorfia del viso e uno sbuffo, come se quel live spostamento d’aria potesse liberarlo dalla sua ingombrante presenza.
- Dominik, io devo uscire. Sai, te l’ho detto ieri sera, del bar dove inizio a lavorare domani – gli disse. Quando il ragazzo non diede segno di averlo sentito, continuò a parlare. – Beh, sto andando lì per farmi spiegare un po’ di cose e conoscere qualcuno. Ti va di venire? – 
Non si aspettava un sì.
Ragazzi come quello non si mescolavano alla gente comune, e nessuno li avrebbe mai visti in un bar, con la tv sintonizzata su una stazione musicale e gente di tutti i tipi impegnata a chiacchierare e consumare aperitivi e cocktail dai colori sgargianti.
Ragazzi come quello si vedevano solo nei film, o nei ristoranti di lusso: al massimo, in un bar ci si sarebbero potuti trovare per sbaglio. E non in un bar normale: in uno speciale, come loro.
Magari una cioccolateria, un bar di lusso con le sedie tutte bianche, o un pub in cui si esibiva gente come loro: sassofonisti, chitarristi, musicisti sporchi, lontani dal Conservatorio, ma comunque vittime della stessa musica.
Il bar dove avrebbe lavorato lui, invece, non era altro che un locale come tanti, con l’unica eccezione di essere gay friendly: Roberto, il proprietario, gli aveva detto proprio così, la prima volta che ci aveva parlato al telefono, dopo aver letto l’annuncio su un sito internet.
Gay friendly.
Aveva in mente di chiedergli esattamente cosa significasse quell’espressione.
Mentre si alzava per andare a farsi una doccia, Federico ebbe la conferma che in effetti si aspettava: Dominik scosse il capo più volte, lasciando che i capelli gli ricadessero dolcemente sul viso.
Federico non si spiegava bene il perché, ma si sentiva sollevato.
Aveva bisogno di trovarsi di nuovo circondato dal mondo che conosceva, lontano da quello di Dominik.
– Sicuro? – gli chiese di nuovo, suo malgrado.
- Voglio suonare. –
- D’accordo – disse alla fine. - Beh, credo che starò fuori tutto il giorno. Ti va se quando torno porto una pizza? Domani possiamo andare a fare la spesa. –
- Come vuoi, io non ho fame – lo liquidò il ragazzo, alzandosi in piedi anche lui.
Con le braccia abbandonate lungo i fianchi, le dita di Dominik si muovevano in aria, quasi stiracchiandosi. Federico rimase a guardarlo solo per qualche secondo, prima di sistemarsi la maglia del pigiama sui fianchi.
- Beh…ok, allora…vado a farmi una doccia – bofonchiò, dandogli subito le spalle per raggiungere il bagno.
Quando Federico si chiuse la porta alle spalle, Dominik si era seduto dietro al suo pianoforte.
 
§ § §
 
Fuori faceva freddo, e aveva iniziato a piovere.
Lo sentiva dal ticchettio sulla finestra: quando aveva aperto un infisso, nonostante l’aria pungente, si era crogiolato nell’odore meraviglioso della pioggia.
Tutto era diventato azzurro come la pioggia, ma dentro era tutto nero.
In casa c’era silenzio da ore, e la sua sveglia vocale lo aveva informato che fosse già sera.
Le persone, fuori, dovevano essere tornate tutte a casa, e dovevano aver acceso le loro luci.
Dominik si allontanò dalla finestra, raggiungendo l’interruttore della luce del soggiorno.
Non lo aveva mai usato, non di sua spontanea volontà: lo aveva sentito scattare migliaia di volte da quando, a quattordici anni, si era trasferito in Italia e sua madre aveva pagato una signora per prendersi cura di lui. Lei arrivava tutte le sere alle otto e un quarto, preparava la cena, e quando lui andava a letto tornava a casa sua: due volte la settimana passava a casa anche al mattino o nel primo pomeriggio, mentre lui era al Conservatorio, per fare le pulizie e il bucato.
Il sabato e la domenica, quando non aveva lezione, la signora arrivava alle dieci del mattino e andava via sempre alla sera, prima che lui andasse a letto.
Quando aveva compiuto diciotto anni, a febbraio, aveva detto a sua madre di non aver più bisogno di nessuno: da quel giorno, la signora passava da casa solo al mattino, per le pulizie.
Lui non aveva bisogno di nessuno.
La chiamava ancora la signora: in realtà, lei si chiamava Daiva, era arrivata in Italia dalla Lituania quattro anni prima di lui e parlava malissimo l’italiano. Però le piaceva ascoltare la sua musica: gli chiedeva sempre di suonare, quando erano in casa da soli, e mentre cucinava canticchiava sulla melodia che lui suonava. Gli aveva insegnato una vecchia canzone della sua infanzia, e allora, tutte le domeniche, mentre lei preparava il pranzo, a lui piaceva suonarla per lei al pianoforte.
Con un gesto rapido, Dominik fece scattare l’interruttore.
Adesso, il salotto doveva essere pieno di luce.
A Federico avrebbe fatto piacere tornare a casa e non trovare il buio.
Federico era tenero.
Era azzurro, come la pioggia, fresco e pungente. Ed era divertente: come aveva fatto a non accorgersi per una sera intera di avere accanto un ragazzo cieco?
Quando lo aveva capito, quella mattina, doveva aver messo su un’espressione buffa, se la immaginava.
Avrebbe tanto voluto toccarlo e sapere come fosse: quando non conosceva cosa o chi avesse di fronte, come quella volta, il nero diventava più nero, lo opprimeva. Poi pensava alla mamma, al suono che faceva il suo sorriso quando gli diceva che niente al mondo lo avrebbe vinto, che il potere dell’immaginazione era più forte della realtà: allora tutto passava.
Però, Federico, avrebbe davvero voluto toccarlo, era curioso.
Era sempre curioso con le persone, ma non sapeva come avrebbe reagito lui alla richiesta di toccarlo. La mamma glielo ripeteva sempre che non gli sconosciuti non doveva comportarsi come con lei, perché la gente, davanti a certe cose, aveva sempre paura.
Non lo aveva mai capito, però. Perché la gente doveva aver paura di lui, solo perché non ci vedeva? Non era contagioso, voleva solo sentire come fossero fatti, conoscere chi avesse davanti. Loro potevano guardarlo, perché lui non poteva farlo con loro?
Forse la mamma esagerava, era lei ad avere paura delle persone. Ma la mamma non doveva mai avere paura.
A Federico però non aveva voluto chiedere nulla. Si era a malapena accorto che fosse cieco, non faceva che chiedergli scusa per tutto, era in imbarazzo; non era affatto il caso di chiedergli di toccarlo.
Se lo immaginava bello, però, come un quadro.
Le persone con una voce bella erano sempre belle, e anche quelle come Federico, che non lo trattavano male, non lo evitavano. Federico parlava tanto. Sì, doveva essere sicuramente bello.
Era alto, questo lo sapeva: quando si era poggiato a lui, per spingerlo via dopo essere caduto sulla sua borsa, la sua spalla era poco più alta della sua. E lui era alto, glielo diceva sempre la mamma. Sei alto un metro e settantadue, Dominik.  Era fiera quando glielo diceva, come quando gli ripeteva di essere bellissimo come un quadro di quelli che dipingevano le persone famose, come Van Gogh. Alla mamma piaceva tanto Van Gogh.
Dominik si sedette dietro al pianoforte.
Van Gogh era un tipo strano, come Beethoven.
Si era tagliato un orecchio, e Beethoven era sordo.
Loro rappresentavano le orecchie, e le orecchie erano belle, perché tutto il mondo era suono. Anche la musica. Loro erano viola, il viola era un bel colore.
Il viola era Beethoven, era la risata di Jana quando le faceva il solletico sulla pancia.
Le mani sul piano seguirono la sonata numero 14 di Beethoven. Era sempre così: prima lui la sentiva nella testa, poi le mani   la suonavano al pianoforte.
Il pianoforte era un mezzo per fare diventare reali le cose nella testa.
A papà non piaceva Beethoven, diceva che suonasse cose tristi.
Nessuno poteva capire Beethoven, erano uguali, loro due. Lui non vedeva, Ludwing non sentiva. Forse anche lui lo trattavano come uno diverso, ma aveva continuato a suonare.
Per Beethoven doveva essere stato più brutto: da giovane aveva sentito tutti i suoni del mondo, poi era arrivato il silenzio. Il silenzio era opprimente, c’era sempre qualche rumore al mondo. Il ronzio di una mosca, il chiacchiericcio lontano di qualcuno, il fruscio del vento.
Per lui invece no: lui era nato nel buio, i colori non li aveva mai visti. Lo diceva sempre alla mamma che era stato meglio così; se li avesse visti, e gli fossero piaciuti troppo, come avrebbe fatto a rinunciarci? Come avrebbe fatto a suonare dentro la musica come faceva adesso?
Il rumore della porta lo fece fermare: sentì il rumore di due passi, lo scatto della porta che si chiudeva. E poi il profumo.
- Federico. Hai portato la pizza. –
Si alzò in piedi, ma rimase fermo.
La stanza si era riempita di un rumore di passi, un po’ attutito dal tappeto del salotto.
Poi giunse la sua voce.
- Te l’avevo detto che la portavo. Muoio di fame! – La voce calda, quasi divertita, allegra ed entusiasta. Doveva aver passato una bella giornata, in quel bar: forse aveva conosciuto delle persone simpatiche, aveva riso e aveva parlato con loro di quello di cui non era riuscito a parlare con lui.
Non si sentiva in colpa.
Non gli piaceva parlare, non trovava argomenti abbastanza interessanti da poter essere discussi all’infinito: e poi la gente parlava troppo, parlava continuamente, perché era spaventata dal silenzio, e riempiva la città di luci e di insegne colorate perché aveva paura del buio.
Ecco perché li trattavano diversamente, quelli come lui, o le persone sorde.
Perché avevano paura.
Perché sarebbe potuto toccare a loro, e avevano paura che non sarebbero sopravvissuti.
- Allora, dove mangiamo? Tavolo o divano? – lo richiamò di nuovo la voce del suo nuovo coinquilino.
Dominik si strinse nelle spalle. Quando stava a casa con Daiva, prima, lei lo faceva cenare sempre a tavola, con le posate, e il tovagliolo, e i piatti. Solo qualche volta gli aveva permesso di restarsene sulla sua poltrona, gli spartiti sulle ginocchia: ma era successo solo poche volte, in prossimità di un esame importante, quando lo aveva visto così nervoso da non sopportare nessuna imposizione.
Era sempre stata buona con lui, Daiva.
Forse gli sarebbe mancata, un giorno.
- Tu dove vuoi? – sussurrò, rivolto a Federico.
- Di solito la pizza la mangio sul divano – gli rispose lui.
La voce giungeva più lontana, adesso: doveva essere andato in cucina.
L’idea di mangiare la pizza sul divano era affascinante: i piedi contro il tessuto soffice, le gambe incrociate, il cibo caldo tra le mani e poi la morbidezza della mozzarella sulla lingua.
Aveva l’acquolina in bocca.
- Allora ok, va bene il divano – gli disse.
Fu il primo a sedersi, nell’angolo a sinistra, il corpo completamente incastrato tra lo schienale e il bracciolo, prigioniero di quell’abbraccio virtuale e inanimato.
Gli piaceva, quel tipo di calore. Gli ricordava le sere d’inverno a casa sua, a Praga.
Dominik sentì il rumore dei passi di Federico che lo raggiungevano, fino a quando il divano non si piegò sotto il peso di lui, e alle orecchie non gli giunse il rumore del cartone che veniva strappato sul tavolo basso di fronte a loro.
- Io... – biascicò Federico, un tono di voce imbarazzato. Dominik rimase fermo, paziente, ad ascoltare. – L’ho fatta tagliare. A spicchi, sai. Ma se vuoi posso prendere… -
- Va bene così. Grazie – gli rispose subito, portando la mano avanti per incontrare il cartone caldo. – Ce la faccio – aggiunse poi, con un tono più morbido, davanti al suo silenzio.
Stringere le dita intorno al cartone, e poi sfiorare il bordo tiepido e rugoso della pizza, fu parecchio strano. Non ne mangiava una da molto tempo: non ricordava più nemmeno quanto ne fosse passato veramente. Portando il primo spicchio alla bocca, la mozzarella bollente, fusa, sulla lingua, risvegliò tutte le papille gustative sulla lingua. Non si era accorto di avere così tanta fame fino a quando non aveva mandato giù il primo boccone: si rese conto, così, che avrebbe potuto mangiarne una intera nel giro di dieci minuti.
- Posso…accendere la tv? – Dominik avrebbe sorriso, se non avesse avuto la bocca piena e non fosse stato così concentrato sulla sua pizza.
Federico era tenero, imbarazzato e anche tremendamente irritante, con quel modo anche aveva di chiedergli continuamente scusa, o il permesso di fare qualsiasi cosa.
- Perché non dovresti? –
- Nulla, io… -
Alzò la mano: avrebbe voluto toccargli il braccio,  ma alla fine la riabbassò sul proprio ginocchio.
- Non devi chiedermi il permesso solo perché non posso vederla. La sento. –
- Ah, io…ok – lo sentì farfugliare.
Alla fine, si zittì, perché aveva iniziato a mangiare la sua pizza. Prima che il suono acuto di una musichetta idiota lo raggiungesse, Dominik fece in tempo ad avvertire il movimento di Federico e a sentire il rumore dei suoi denti che masticavano il bordo croccante della pizza.
Dalla tv adesso giungevano delle voci: c’era il tono implorante di una voce femminile, che forse stava piangendo, e poi delle urla maschili. Dominik corrugò la fronte.
- Che palle, fanno un film d’amore! – lo sentì borbottare, con la bocca ancora piena. - O un film d’azione! Ah, no, l’ho visto al cinema. –
Il cinema era un posto in cui era stato solo una volta, quando aveva quattro anni, solo che non se ne ricordava: la mamma gli aveva raccontato di avercelo portato a vedere un cartone animato che parlava di un cani e animali, ma lui non ne aveva nessun ricordo. Così, a chiunque gli avesse chiesto se fosse mai andato al cinema, Dominik aveva sempre risposto di no.
In fondo, il cinema per uno cieco era perfettamente inutile. La gente faceva finta di niente, diceva che non fosse vero, che si sarebbe potuto divertire, ma era certo che non facessero che parlare a quel modo per fare i moralisti e in comprensivi. Ed era una cosa stupida.
Andare al cinema ed essere cieco era per lui una cosa stupida.
E avrebbero fatto bene ad accettarlo, a farsene una ragione.
E poi, lui al cinema non avrebbe avuto con chi andare. Lo aveva detto la nonna.
- Ci sei andato con la tua fidanzata? – esordì, addentando un altro pezzo di pizza.
- Eh? – Federico iniziò a tossire, come se gli fosse andato un boccone di traverso.
- Al cinema – precisò. -  Ci si va con le fidanzate. L’ha detto la nonna lo scorso natale, quando mia sorella Aneta è uscita con Roman, il figlio del proprietario del negozio di scarpe, e sono andati al cinema. Tu ci sei andato con la tua fidanzata? –
Federico si prese qualche istante prima di rispondere, probabilmente per mandare giù un boccone.
- Io…no. Ci sono andato con i miei amici. – gli disse.
Dominik annuì, ma continuò a  mordicchiarsi il labbro. Si chiedeva perché  la nonna avesse dato per scontato che Aneta e Roman fossero fidanzati: sarebbero anche potuti essere amici, e andare al cinema insieme lo stesso. 
- Non capisco… -
- Cosa, esattamente? –
- Perché allora Aneta e Roman sono fidanzati? Non potevano essere amici? –
- Perché no? Non è detto che se un ragazzo e una ragazza escono insieme siano fidanzati. –
- Mh… - biascicò, dando un altro morso alla pizza. Se la nonna aveva detto che Aneta e Roman fossero fidanzati, doveva essere vero. La nonna non diceva mai bugie. -  Tu ce l’hai la fidanzata? –
- No, io…no, non ce l’ho. Ce l’avevo, ma ora voglio stare solo –  gli rispose Federico. Dominik ignorò il tono frettoloso con cui lo sentì parlare. Se ci fosse stata la mamma, probabilmente gli avrebbe detto di tacere, che non si doveva insistere con le domande personali alla gente che non aveva voglia di parlarne, ma lui era soltanto curioso.
- Perché? –
- Perché voglio un po’ di tempo per me. –
- No. Perché non hai una fidanzata. -
- Come perché? –
- Sei una brava persona, lo sento. Devi averla una fidanzata. –
Federico rise. Aveva una bella risata, profonda e coinvolgente; gli faceva venir voglia di sorridere, e l’avrebbe anche fatto se non fosse stato tanto preso dalla curiosità di sapere cosa l’avesse fatto ridere tanto.
- Non basta essere una bella persona per essere amati. L’amore è…diverso. L’amore è sofferenza, ogni tanto, ed è bello anche per questo. –  Stava mentendo, non era vero. L’amore era come diceva la mamma, Federico non capiva proprio niente.
- Non è vero. La mamma dice che l’amore è come la musica, e la musica non è mai sofferenza. L’amore deve essere sempre bello, come la musica. –
Federico rimase in silenzio; non si muoveva, quasi non respirava.
Era difficile così capire cosa stesse facendo. Avrebbe voluto toccarlo   per vedere la sua espressione, ma si limitò a mandar giù un altro boccone di pizza.
- Perché tua madre è felice, per lei l’amore è stato sempre bello, e anche per te. Per me non tanto. – lo sentì dire alla fine.
La mamma era stata sempre felice con papà, questo era vero, ma tutte le cose che gli aveva insegnato sul mondo erano state imparziali, e sincere: e se la mamma aveva detto che l’amore fosse una bella cosa, avrebbe dovuto esserlo per tutti, come tutte le altre cose che gli aveva insegnato.
- A me non interessa nulla dell’amore. Amore vuol dire dipendere da un’altra persona. Io ho la musica, l’amore non è nemmeno paragonabile alla musica – disse alla fine, con noncuranza.
Alla fine, tutto sommato, non gli importava poi tanto.
- Oh, davvero? Allora perché la gente si innamora? – lo pungolò Federico, saccente e ironico.
- Perché non conosce la musica vera, e allora preferisce starsi a sbaciucchiare tutto il giorno e a mormorarsi paroline dolci che non pensa davvero. Io invece la conosco la musica, non esiste niente di meglio al mondo. La musica è tutto il mondo; è dentro il mondo, è fuori, è tutto intorno. Non esiste niente oltre la musica. No, io non mi innamorerò mai, non mi importa. Le mie giornate non saranno mai così vuote da farmele passare a baciare una ragazzina che non sa niente di musica. Io voglio stare più in alto. –
Federico non gli rispose; Dominik sentì il suo corpo tendersi in avanti, probabilmente per prendere un altro pezzo di pizza, o forse il telecomando. Doveva essere il telecomando, le voci che venivano dalla televisione erano cambiate.
Dominik ingoiò un altro boccone di pizza. Era buona, eccome. Si sentiva bene.
Stare lì, sul divano a mangiare una pizza, con Federico, mentre fuori pioveva, era arancione.


 





2 marzo 2014: capitolo revisionato

Nota al capitolo 2
Sono in brodo di giuggiole! *___*
Partiamo dal fatto che io amo Dominik, ed è una cosa strana perchè essendo un mio personaggio è normale che dovrei amarlo, ma in realtà a volte alcuni miei personaggi li odio, mentre alcuni li prendo a cuore più di altri.
Ecco, Dominik è al primo posto su tutti.
Intanto le due immagini che avete visto a inizio capitolo sono Dominik (capitolo 1) e Federico (capitolo 2). Dominik ha il volto del modello russo Vladimir Ivanov, mentre Federico è Milo Ventimiglia. Non sono proprio uguali uguali, ma questi due ragazzi si avvicinano all'idea che ho dei due personaggi.
Dopo di che voglio ringraziare tuttu tutti tutti quelli che stanno seguendo questa storia; a chi ha recensito ho risposto personalmente, ai lettori silenziosi non ho potuto quindi vi ringrazio comunque qui! ^_^
Questo capitolo non era così, alle origini, ma poi sarebbe venuto troppo lungo e ho dovuto tagliare.
Naturalmente sempre ben accetti commenti positivi e negativi!
Infine, se volete, potete ascoltare Moonlight Sonata numero 14 di Beethoven, perchè veramente meravigliosa! E' la canzone che suona Dominik prima dell'arrivo di Federico con la pizza.
Vi lascio il link: http://www.youtube.com/watch?v=4Tr0otuiQuU&feature=related
Al prossimo aggiornamento
Esse
 
 

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Capitolo 4
*** 3rd: Secondo me sono gli angeli ***


All'uomo, un uomo è ancora più caro di un angelo.

Gotthold Ephraim LessingNathan il saggio, 1779



Chapter 3: Secondo me sono gli angeli
 
Inspirò. C’era odore di musica.
- Dominik –
Le dita si staccarono dalla parete fredda. Avevano seguito ogni linea del decoro fatto di marmo.
Era una sensazione sempre strana sentire quel materiale sotto i polpastrelli.
- Hai finito i tuoi esercizi? –
- Si. Sono buoni. Adesso posso suonare Chopin? -  
- Prima voglio sentirli. Dopo potrai suonare –
Dominik andò di nuovo a sedersi, procedendo con attenzione verso il suo strumento. Non aveva confidenza con quel pianoforte, non era suo.
Suonare al conservatorio non era come farlo a casa, e poi a casa poteva suonare quello che voleva, lì no. La sua maestra insisteva sempre perché facesse i suoi esercizi: ubbidiva sempre, ma si sentiva soffocare. Era vero che per diventare un bravo pianista doveva esercitarsi sempre, ma la musica doveva poter fluire libera, verso il cielo.
La maestra imprigionava tutti i colori. Anche a lei però piaceva sentirlo suonare. Gli diceva sempre di essere come un angelo che le portava la luce.
La maestra era grigia. La mamma diceva che il grigio era l’unico colore triste tra tutti i colori al  mondo, perché non era bianco e non era nero. Non sapeva bene come essere.
La maestra era un po’ così; era un po’ cattiva, e poi un po’ buona. Lo obbligava a suonare e suonare solo una scala, imprigionando la sua musica, e poi lo liberava dalle catene. Lo trattava come tutti i suoi studenti, e poi si lasciava scappare un sospiro quando lo vedeva alzare il viso, alla ricerca, ingenuamente, della luce che vedeva lei. Ma la maestra era anche bella; gli aveva permesso di toccarla solo una volta. Era alta, aveva il viso sottile e allungato, il naso lungo, gli zigomi poco sporgenti e le labbra sottili; le mani, erano la parte più bella. Erano lunghe, e quando suonava andavano velocissime. Sperava tanto di diventare bravo come lei un giorno, per questo doveva esercitarsi.
Di lì a due settimane ci sarebbe stato il concerto di inizio anno. La mamma non sarebbe venuta, non poteva lasciare il lavoro proprio in quel momento, e per Jana  quello era il primo anno di scuola elementare. Lui avrebbe fatto tantissimi concerti, ma Jana sarebbe stata bambina una volta sola, non poteva essere tanto egoista. E poi, voleva chiedere a Federico di andare a vederlo; lo vedeva suonare tutti i giorni in fondo, e la musica classica sembrava non piacergli troppo, però lo avrebbe invitato lo stesso. Sarebbe stato bello se avesse deciso di venire: l’avrebbe visto con indosso lo smoking che gli faceva mettere la maestra, e con i capelli ben sistemati con il gel. Lo avrebbe visto suonare davvero; quando suonava a casa, Dominik lo faceva soltanto per se stesso, perché ne aveva bisogno. Quello era il suo mondo, soltanto suo; Federico si ritrovava semplicemente a sbirciare dal buco della serratura. Ma quando sentiva il mormorio che  precedeva un concerto, quando gli dicevano di essere sul palco, allora lì apriva completamente le porte del suo mondo, e faceva vedere a tutti i disegni che aveva fatto con i colori.
A Federico sarebbero piaciuti, ne era certo.
- Dominik –
Una voce di donna, un tono di rimprovero. Sapeva perfettamente il perché: non aveva rispettato lo spartito che gli aveva fatto imparare, e aveva sostituito una semiminima con un virtuosismo.
- Hai sbagliato. A cosa pensi? –
-  Alla musica. –
- No. Non ti stai concentrando – lo rimproverò. Si era distratto, era vero, ma non aveva sbagliato. Si era liberato in un virtuosismo. Federico lo faceva pensare ai virtuosismi.
- Non è vero, io mi concentro sempre quando suono. –
- Allora perché non hai rispettato lo spartito? Te l’ho detto mille volte! –
Dominik si trattenne dallo sbuffare, limitandosi a iniziare di nuovo a suonare, ma la mano dell’insegnante si posò sul suo braccio, interrompendolo.
- Non importa, continueremo domani, e stasera ti eserciterai. – 
Dominik pose le mani sul ventre, tormentando il bordo del maglione che indossava. 
- Posso suonare Chopin, adesso? – le chiese alla fine. La maestra sospirò, ma se l’avesse toccata era certo che l’avrebbe vista sorridere. Non gli servì una sua parola, o un suo tocco; era certo che fosse un si.
Finivano tutte così le loro lezioni, con lui che la pregava di poter suonare; un giorno era Chopin, poi Bach, Mozart, Beethoven. Altre volte erano semplicemente note che seguivano gli spartiti della sua mente, disegnando nuovi mondi.
Lei lo salutava, dicendogli che si sarebbero visti l’indomani, e che quando avesse finito avrebbe dovuto raggiungere il portiere all’ingresso, che sarebbero andati a prenderlo per accompagnarlo a casa. Ma lui lo sapeva che non andava via davvero; restava sul ciglio della porta, a sentirlo suonare. Le piaceva dirgli che se ne andasse, perché da solo suonava meglio.
Ma una volta l’aveva sentita; era stato un attimo, una pausa di note, e l’aveva sentita respirare. Se non fosse stato tanto attento, o con un udito così sviluppato, non sarebbe mai successo.
Aveva sorriso, e aveva continuato a suonare. Non le aveva detto la verità, aveva fatto finta di niente; il fatto che lo ascoltasse suonare lo faceva sentire bene. La maestra vedeva i suoi colori, e le piacevano.
- Dominik? – La voce della maestra lo chiamò di nuovo, quando stava per iniziare a suonare;  veniva da lontano, doveva essere già vicina alla porta.
- Si? –
- Il ragazzo di cui mi parlavi, il nuovo coinquilino, poi è venuto? –
- Si,  la scorsa settimana. Si chiama Federico. –
- Ti permette di suonare? Non voglio che ti disturbi, sai che devi chiamarmi se lo fa.  –
- Suono tutte le sere. Dopo cena lui va nella sua stanza a vedere la televisione, e io ho il salotto tutto per me. Suono tutta la sera. Ogni tanto parliamo, anche di musica. E’ bello parlare di musica con qualcuno. Gli ho raccontato di Mozart – Dominik aveva assunto un tono lievemente acido; perché parlava di Federico così? Lui era buono, non si lamentava mai.
- Oh, davvero? E cosa potrebbe mai aver capito un estraneo di Mozart? – Fece una smorfia; non gli piaceva il tono con cui aveva parlato di lui. Federico lo aveva ascoltato tutto il tempo quando aveva parlato di Mozart, gli era piaciuto.
- Ha detto che era davvero un grande. Come Grosso ai mondiali del 2006, ha detto. – le rispose, ridacchiando. Aveva riso anche quando Federico gliel’aveva detto: aveva dovuto farsi spiegare chi fosse Grosso prima, lui i mondiali non li aveva seguiti per nulla. Federico si era infervorato subito quando aveva nominato i mondiali; gli aveva spiegato che Grosso era stato l’uomo che a Berlino aveva coronato il sogno di tutti gli italiani, segnando il rigore contro la Francia che aveva decretato la vittoria italiana. Lo aveva chiamato l’uomo con il piede santo, lo aveva fatto ridere, e poi aveva riso anche lui. Avevano trovato qualcosa di cui parlare, quella sera; Dominik era rimasto affascinato dall’entusiasmo con cui Federico gli spiegava le regole del calcio, gli equilibri delle squadre. Lui tifava rigorosamente Palermo, la città dove era nato.
Per Federico il calcio era il verde, fresco e bello, ne era sicuro.
 

§ § §

 
La zuppa di verdure non gli era mai venuta così buona.
Non che fosse un cuoco provetto, a casa aveva sempre cucinato sua madre, ma si era fatto spiegare qualcosina, se non voleva morire di fame a Milano o diventare un barile a furia di mangiare al McDonald’s.
Federico si alzò, riponendo il piatto nel lavello; non gli andava di lavare i piatti, l’avrebbe fatto l’indomani mattina, prima di andare a lavoro.
Non avrebbe avuto lezione all’università, era una facoltà che lo lasciava parecchio libero la sua; lezione tre volte la settimana, per poche ore. Non poteva chiedere di meglio, e a dire il vero non gli piaceva poi così tanto. Doveva ammetterlo a se stesso: si era iscritto a scienze politiche solo per allontanarsi da casa, per vivere e non doversi nascondere.
E per allontanarsi da  Manfredi, dai suoi occhi verdi e dalle sue labbra.
- Era buona. Con cosa l’hai fatta? –
La voce di Dominik lo richiamava sempre quando stava per perdersi nei ricordi, in se stesso. Sembrava quasi che Dio gli avesse mandato un angelo che lo tenesse lontano dal buio.
Dominik non conosceva la sofferenza, e non conosceva l’amore; per questo si era arrabbiato tanto quando avevano toccato l’argomento. Non poteva contemplare che una cosa come l’amore, che tutti lodavano, fosse tanto legata alla sofferenza. Nel suo mondo la sofferenza non esisteva, non aveva usato nessun colore per crearla. Se solo avesse saputo la verità, avrebbe capito.
Sospirò, passandosi una mano sul viso.
- Verdure: carote, zucchine, fagioli…cose così- Ti è piaciuta? –
- Molto. – Lo vide alzarsi con il suo piatto in mano; avrebbe voluto prenderlo, e posarlo lui, ma se l’avesse fatto Dominik avrebbe sbuffato. Lo aveva fatto la prima volta che ci aveva provato, perché aveva creduto lo avesse fatto per pietà, e sapeva farlo da solo. Da quel giorno non si era più azzardato nemmeno ad avvicinarlo quando aveva qualcosa in mano.
In compenso, quella sensazione di disagio che provava quando era con lui si era lievemente attenuata; non era sparita, ma andava molto meglio. Passava meno tempo in casa, per altro; quando finiva le lezioni all’università scappava subito al bar, a lavorare, e poi restava lì quando poteva, fino all’ora di cena; una volta, poi, aveva dovuto fare il turno serale, e non era tornato a casa prima delle due del mattino. Il sabato precedente era uscito con i ragazzi del bar, ma Dominik non era andato con loro, aveva preferito restare in casa a suonare. Si vedevano poco, alla fine: Dominik stava fuori tutto il giorno, al conservatorio, e dopo cena si metteva a suonare. Federico se ne andava nella sua stanza, per non disturbarlo con la tv, ma si sentiva isolato.
Solo una sera erano rimasti a parlare un po’, una volta finita la cena; Dominik era rimasto seduto al tavolo, e lui si era messo a lavare i piatti. Il biondo gli aveva parlato di musica, e senza rendersene conto erano finiti a parlare di calcio. Quella sera era stato bene, per la prima volta si era sentito in compagnia, in quella casa. Ma la sera dopo tutto era tornato come prima.
- Beh, io vado a letto. Buonanotte.. – Lo salutò, come le sere precedenti, ma quella sera Dominik non si era ancora seduto dietro il suo pianoforte.
- Aspetta – Si fermò, sulla soglia della porta della sua stanza. Il ragazzino aveva la mano tesa nella sua direzione, doveva averlo sentito camminare, o forse si era orientato con la voce. – Non guardi la tv, oggi? –
- Si, adesso la guardo. –
- Posso guardarla con te sul divano? –
- Oh. Non vuoi suonare? –
- Oggi voglio guardare la televisione – si impuntò.
Lo vide girare intorno al tavolo, sedendosi sul divano; si mise in un angolo, portandosi le ginocchia al petto. Sembrava piccolissimo in quell’insieme di tessuto e cuscini. Federico rimase sulla soglia della porta ancora un po’. Dominik era davvero, davvero strano. Che motivo poteva avere per comportarsi in quel modo? Guardare la tv insieme. Lui non la vedeva neanche, se ne stava lì ad ascoltare, magari a fargli qualche domanda nelle parti senza dialoghi o commento. Non preferiva mettersi a suonare, eppure prima del suo arrivo sembrava non aver mai fatto altro.
Abbandonò la posizione per raggiungerlo sul divano; si sedette dal lato opposto a Dominik, non lo sfiorava nemmeno. Lui era in attesa, probabilmente di avvertire il suono delle voci che provenivano dalla tv.
Quando accese, il  programma che vide non lo entusiasmò affatto, ma sempre meglio di niente, sarebbe bastato per trascorrere un po’ la serata prima di andare a letto.
Dominik era ancora in silenzio, il capo poggiato sullo schienale del divano; aveva il capo voltato verso di lui, l’orecchio teso verso la tv. Con gli occhi chiusi, sembrava che dormisse.
Quante volte aveva desiderato trovarsi su un divano, in quel modo, a guardare un film, con Manfredi?  Non avevano mai potuto farlo, non abbracciati almeno. Il massimo che si erano concessi era stato guardare la partita in salotto, davanti ai genitori. Non avevano mai trovato il coraggio di confessare che stessero insieme; per tutti, erano solo buoni amici che passavano il loro tempo insieme
- Sei arrabbiato? – gli chiese all’improvviso il ragazzo, accanto a lui.
- Io? No…no, non sono arrabbiato. Non parlavo perché guardavo la tv  – mentì.
- Perché ti muovevi? –
Non si era mosso, ad eccezione della mano che aveva iniziato a tamburellare sulla stoffa, inconsciamente. Lo faceva sempre quando era nervoso, oppure si metteva ad agitare la gamba. Suo padre odiava quando lo faceva, e anche Manfredi. Dominik era stato così attento da avvertire anche quel piccolo movimento.
- Lo faccio quando sono nervoso, ma non è niente. –
- Allora sei nervoso? –
- Un po’. Brutti pensieri, cose del passato sai. –
- Perché non suoni? Io lo faccio sempre quando ho i brutti pensieri. –
- Ma io non so suonare. –
- Non importa, puoi fare le note a caso. L’ho insegnato a mia sorella, lo fa sempre pure lei. –
Federico sorrise; la leggerezza e l’ingenuità di quel ragazzino erano sorprendenti. Avrebbe voluto anche lui che funzionasse; suonare per scacciare un brutto pensiero, allontanare tutto solo con la forza delle note. Doveva essere un mondo bellissimo quello.
- No, Dominik, non mi va di suonare. –
Il ragazzo non aggiunse altro, restando nella sua posizione; si mosse solo per fare spallucce, e stringersi su se stesso ancora di più. Ci mancava solo che si mettesse a succhiarsi il pollice e sarebbe davvero parso un bambino: un bambino troppo cresciuto, a dire il vero.
Dominik mostrava una strana fragilità, ma il suo corpo non era piccolo: era alto quasi quanto lui, aveva le spalle larghe, era solo un po’ troppo magro. Eppure sembrava un bambino.
Vivere nel suo mondo doveva essere bello; poteva decidere tutto, lasciare solo le cose belle e schiacciare nel buio quelle brutte.
- Tu…non hai mai visto proprio niente? Nemmeno le ombre? – gli chiese all’improvviso.
Non voleva essere indiscreto, ma era curioso; non aveva mai conosciuto gente che non vedesse, o che non avesse mai visto niente in vita sua, come Dominik. Si chiedeva come doveva essere la sua vita, se qualcuno gli avesse mai spiegato come andasse veramente il mondo, le regole per vivere, se qualcuno gli avesse mai raccontato che, nel mondo reale, le persone si facevano male, si uccidevano, si perseguitavano.
Dominik alla sua domanda alzò appena il viso, adagiandolo meglio sul cuscino del divano.
- No. Mi ricordo solo il buio. Ogni tanto vedo dei puntini più neri del nero. Mamma dice che sono i brutti pensieri, e che devo cacciarli con la mano, come con le mosche. Poi altre volte, mentre sto per addormentarmi o mi sono appena svegliato, vedo delle macchie chiare; la mamma dice che quello è il bianco, e che sono gli angeli che vengono a mostrarmi i loro colori. Il dottore invece ha parlato di nervi, impulsi e non ricordo cos’altro. Secondo te cosa sono? –
A Federico venne di nuovo da sorridere, ma non per lui. Pensava a quella madre che aveva lottato perché suo figlio avesse una vita normale, perché fosse felice. Doveva essere la madre migliore del mondo se non si era fermata davanti a niente, se Dominik era cresciuto in quel modo. Pensò alla sua, di madre, che non avrebbe mai accettato di avere un figlio omosessuale; se l’avesse saputo –e prima o poi avrebbe dovuto dirglielo- era certo che avrebbe preferito che fosse nato cieco, pur di non affrontare quella vergogna. Faceva male, dannatamente.
Dominik cose come quelle non le sapeva; non poteva conoscere il senso di inadeguatezza che provava, il timore di essere cacciato dalla casa dove era cresciuto, di essere odiato dalla gente che lo aveva messo al mondo. Non conosceva i mali del mondo, nemmeno la realtà, e di certo non glielo avrebbe insegnato lui. 
- Gli angeli. Secondo me sono gli angeli -  gli disse.
Dominik sorrise, come se fosse soddisfatto; aveva trovato qualcuno che la pensava come lui, che lo capiva. Avrebbe tanto voluto pensarla come lui.
All’improvviso lo vide raddrizzarsi sulla schiena, come se avesse appena scoperto qualcosa; quando Einstein aveva messo a punto la formula che lo aveva reso famoso doveva avere più o meno quella faccia.
- Secondo te come sono fatti gli angeli? –
- Non lo so – borbottò, passandosi una mano tra i capelli.
Non si rendeva perfettamente conto di essere sul divano a parlare con uno sconosciuto di angeli. Di solito con la gente si parlava del tempo, dell’ultima partita del Palermo, del lavoro o dello studio, non di angeli! Quel ragazzino doveva essere fuori di testa: bravissimo a suonare il piano, intelligente, magari ogni tanto anche simpatico, ma decisamente fuori di testa.
- Secondo me sono un po’ come te, gli angeli. Me li immagino che scelgono le cose buone al supermercato perché io non posso leggere le etichette, che portano i sacchetti più pesanti facendo finta di niente, che preparano la zuppa di verdure e si siedono a guardare la televisione, mi ascoltano quando parlo di Mozart, o suono, si entusiasmano quando si parla di qualcosa che gli piace. – Federico aveva la gola secca; improvvisamente gli era venuta voglia di uscire da quella casa e respirare l’aria di Milano, anche con tutto il suo smog, pur di prendere aria. - Però ogni tanto sbroccano e dicono le parolacce perché non trovano qualcosa in cucina o si è rotto lo sportello del bagno. – Dominik ridacchiò, e anche lui si fece scappare un sorriso. Quel ragazzino lo vedeva quasi come un angelo, ma lui non aveva fatto proprio niente; anzi, aveva fatto più danni che altro. Si stiracchiò sul divano, stendendo le gambe avanti.
- Dovresti dirlo a mia madre, soprattutto quando si lamenta del disordine a casa! –
- Quello lo dicono tutte le mamme! –
Risero entrambi, e per la prima volta, in quel momento, Federico si sentì a casa. Durò poco, il tempo di un sorriso, ma quando i suoi occhi si posarono di nuovo su Dominik sentì la nuvoletta grigia che lo accompagnava ripiombargli sulla testa. Non lo capiva, era impossibile. Cercava di farsi coraggio, ricordando che fosse passata solo una settimana, ma era davvero difficile; il tempo sembrava condensato, non passava mai.   
- E comunque gli angeli sono molto di più. Io non mi ci avvicino per niente. –
- Ti sbagli – lo rimproverò, cocciuto. – Tu sei buono, è bello stare con te. –
- Io non ho fatto niente per essere buono! –
- Appunto. Sei buono e basta, ho ragione io. –
Federico sbuffò, facendosi scappare un sorriso. Cocciuto e insopportabile.
Si sentiva il re del suo mondo, con una bella corona in testa, ma non poteva avere sempre ragione. Se avesse conosciuto il mondo reale sarebbe caduto dal suo piedistallo con un equilibrista dal filo. Avrebbe fatto un bel tonfo.
- Senti, sabato devi suonare? –
- Io suono sempre –
- Al conservatorio, intendo. O hai la giornata libera? –
- No, il sabato e la domenica il conservatorio non fa lezione. –
- Allora sabato ti faccio vedere Milano. –
- Vuoi dire….uscire? –
- Si. Andiamo al Duomo, e alla  Galleria. –
Dominik scosse all’improvviso il capo, raggomitolandosi e stringendo le ginocchia al petto.
- No, non mi va. –
- Non vuoi venire? Io non li ho mai visti, non ti va di venire con me? –
- Non mi va di uscire. Io non ci vedo. –
Federico rimase interdetto; improvvisamente, il fatto di essere cieco gli importava eccome.
- L’hai detto tu di non trattarti come un disabile, quindi puoi uscire. –
- No. Io esco solo se c’è la mamma. Lei sa come fare…con la gente. –
- Ci sono io, no? –
Dominik si trincerò nel suo mutismo, senza muovere più un muscolo; evidentemente la conversazione era finita. Aveva pensato di fargli un piacere, e invece gli si rivoltava contro.
- Io vado a letto, comunque, eh? Buonanotte. –
Si alzò, sospirando. Era davvero esasperante il modo in cui quel ragazzino cocciuto si ostinava a dirgli continuamente di no, no, no, su qualsiasi cosa. Prima di parlava di angeli e di Mozart come se fosse il suo migliore amico, e alla fine si comportava in quel modo.
Lui tappato in casa non voleva restarci, sarebbe uscito comunque; peggio per lui se non voleva venire, sarebbe andato con i ragazzi del bar. Samuele era un bel ragazzo, oltretutto, non gli sarebbe dispiaciuto affatto invitarlo.
Prima di chiudersi la porta della stanza alle spalle, gettò un’ultima occhiata su Dominik. Era ancora immobile come lo aveva lasciato.
- E comunque io non ci vengo – 




Nota al capitolo 3:
Arrivo un po' in ritardo, ma stasera il server di efp è un po' in paranoia, quindi scriverò in fretta e vedrò di postare!
Ho risposto a tutte le recensioni personalmente, ma ne approfitto per ringraziare tutti ancora una volta anche qui, e anche chi ha aggiunto alle seguite e ai preferiti. Credetemi, siete già tantissimi per soli tre capitoli! *___*
Il prossimo capitolo e in fase di scrittura, quindi se finisco posterò entro sabato, perchè lunedì ho un esame. Se entro sabato non dovessi aver postato, allora aspettatemi non prima di mercoledì! ^_^ In ogni caso d'ora in poi scriverò sulla mia pagina autore le date degli aggiornamenti, quindi tenetela d'occhio! ^_^
Ora scappo, sperando che il server mi faccia accedere!
Alla prossima, un bacione! 

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Capitolo 5
*** 4th: Cioccolata calda ***


Il vero contatto fra gli esseri si stabilisce solo con la presenza muta, con l'apparente non-comunicazione, con lo scambio misterioso e senza parole che assomiglia alla preghiera interiore.

Emil CioranL'inconveniente di essere nati, 1973



Capitolo 4:  Cioccolata calda
 
- Please don’t let me be misunderstood! na na na na na naaaa! -
- Cantante da quattro soldi me lo porti ai clienti questo crodino? –
- Agli ordini! –
Federico caricò il vassoio con due bicchieri pesanti e una scodella di patatine, diretto al tavolo dove due ragazzi aspettavano il loro aperitivo. Erano due tipi…particolari; almeno uno, con i capelli tinti di viola e il fard rosso sugli zigomi, lo era parecchio. Lui non avrebbe mai sognato di vestirsi in quel modo; certo, lavorando in un bar gay era sempre possibile incontrare tipi con uno stile diverso dal solito, ma conciarsi in quel modo era come gridare al mondo di essere uno psicopatico, più che un gay.
Lasciò l’ordine sul tavolo, prendendo la banconota che uno dei due ragazzi gli porgeva, e tornando vicino al bancone.
A quell’ora c’era molta gente, il chiacchiericcio incessante era confortante, lo faceva sentire vivo; la radio a tutto volume, in diffusione, accompagnava i momenti di serenità della gente.
Gli piaceva lavorare in quel bar; nonostante fosse trascorsa solo una settimana, aveva legato più o meno con tutti. Roberto, il gestore, si vedeva spesso; era un tipo bizzarro, con i capelli brizzolati da quarant’enne, lunghi e tutti legati in treccine che sembravano dei vermi che gli venivano fuori dalla testa: già il fatto che avesse aperto un bar dichiaratamente gay a Milano lasciava immaginare quanto se ne fregasse altamente dell’opinione del mondo. C’era sua sorella, Francesca, che si faceva chiamare Checca fino a quando non si era accorta che usare quel nome al locale le avrebbe rimediato non poche occhiate gelide, magari da quello stesso tipo con i capelli viola che stava al tavolo a sgranocchiare patatine; alla fine, aveva ripiegato su Chicca, che a lui sembrava più il nome di un cane. Sua zia aveva un cane con quel nome.
Poi c’erano Jacopo, Giulio, Simone, Samuele.
All’inizio non aveva pensato che sarebbe stato tanto facile: non aveva mai lavorato in vita sua, e inserirsi in un gruppo consolidato di colleghi di lavoro doveva essere difficile. Invece lo avevano accettato subito tutti, facendolo sentire a casa; più di quanto si sentisse a casa sua, almeno.
Ogni tanto si chiedeva se fosse peggio la casa dei suoi genitori a Palermo, dove doveva continuamente cercare una scusa per giustificare l’assenza di donne nella sua vita, o quella che da una settimana divideva con Dominik; fino a quel momento, Dominik aveva un larghissimo vantaggio.
Scosse il capo, distogliendo l’attenzione da quei pensieri; era ritornato alla sua postazione, abbandonando il vassoio vuoto sul bancone. Subito dietro a questo, intento a sistemare le bottiglie sulle mensole, c’era Samuele.
- Crodino a destinazione! E non dirmi che sono stonato, ho un senso dell’arte sviluppatissimo! –
Il ragazzo scoppiò a ridere, girando su se stessa una bottiglia di vodka affinchè fosse visibile la marca sul davanti; quando si voltò, poggiando i gomiti  sul bancone e spingendo il busto in avanti, Federico se lo trovò vicinissimo, con un sorrisino strafottente sulla faccia. Odorava di dopobarba, e di gin.
- Tu sei stonato eccome, ma hai un accento terribilmente sexy. –
Stava per rispondergli a tono quando una voce all’altra estremità del bancone richiamò la loro attenzione.
-Samuele! E’ finita la birra! –
Samuele si mise dritto sulla schiena, facendogli l’occhiolino, prima di rispondere al richiamo con un cenno della mano e sparire dietro le ante scorrevoli in legno che l’avrebbero condotto al magazzino. Federico stava ancora sorridendo, divertito.
Quell’uomo era letteralmente uno spasso, e nonostante lo conoscesse da appena una settimana gli stava già simpatico. Lavorava lì da due anni, era stato uno dei primi acquisti di Roberto, il gestore, e quando dietro al bancone c’era lui, al bar si respirava sempre vita; non soltanto perché fosse un figo pazzesco, ma perché preparava i cocktail migliori di tutta Milano.  
Era uno di quelli che, se li avessi visti fuori da una discoteca, lo avresti scambiato per un buttafuori. La prima cosa che aveva pensato quando lo aveva visto era stata se sbaglio un ordine questo qui mi fa fuori schiacciandomi tra pollice e indice. Invece si era rivelato la persona più buona del mondo. Aveva quasi 40 anni, ma a guardarlo, tutto muscoli, abbronzatura e tatuaggi, non ne dimostrava più di trenta. Da cinque anni aveva un compagno, Riccardo, se così si poteva definire: era un avvocato di dieci anni più grande di lui, rigorosamente sposatissimo. Con una donna.
Quando glielo aveva detto, con una mezza risata, Federico era rimasto a bocca aperta. Cosa c’era da ridere in un uomo che la notte spesso dormiva con te e alle cene di Natale portava a casa della famiglia sua moglie?
Gli aveva raccontato di avere con il fantomatico tizio una di quelle che si definivano “relazioni aperte”; a lui quella definizione era sempre sembrato un modo gentile per dire che si cornificavano a vicenda, ma Samuele aveva gli occhi buoni, non poteva sostenere una vita come quella. Lo faceva per amore del suo uomo; un avvocato non poteva permettersi di far sapere al mondo che fosse gay, e a sua moglie andava benissimo tenersi la sua bella casa e il suo buon nome purchè il marito facesse quello che voleva di nascosto al mondo. Oltretutto, quell’uomo aveva un figlio, che sicuramente non avrebbe preso bene la notizia.
A Federico tutto quello metteva tristezza; credeva di avere una situazione complicata a casa solo perché i suoi genitori non sapevano che fosse gay, ma la vita di Samuele era pesante sul serio. Non poteva nemmeno farsi vedere in giro con il suo  compagno, neppure per bere semplicemente una birra insieme, da amici.
Come avrebbero spiegato al mondo un’amicizia tra un avvocato della “Milano bene” e un barista palestrato?
Ma Samuele rideva sempre, prendeva tutto alla leggera, tra pacche sulle spalle e battutine maliziose. Da quando aveva iniziato a lavorare lì non facevano che punzecchiarsi tutto il tempo.
- Allora, ragazzino, ti sei incantato? –
Federico sobbalzò a quella voce, prima ancora che la mano grande gli si poggiasse sulla spalla dandogli una pacca. Samuele era tornato con una cassetta di legno piena di birre, per sistemarle nel frigo.
- Vieni e dammi una mano, ho due cocktail da preparare da minimo dieci minuti! –
- Attento a non lavorare troppo, potrebbero sciuparti! – L’uomo  rise di nuovo, una risata calda e profonda, sembrava provenire dal centro della terra; poi gli porse due birre da sistemare.
- Il lavoro fortifica, non lo sai? Ammettilo che ti eri incantato a guardarmi il culo, per questo eri sulle nuvole! –
- Passo le mie giornate qui a guardarti il culo, non te ne sei accorto? – gli rispose a tono, facendolo ridere ancora. Sembrava un gigante buono quando rideva. Federico osservò la schiena tendersi sotto la maglietta bianca che indossava, troppo stretta per contenerlo tutto; come facesse a essere così grande sarebbe rimasto sempre un mistero per lui. Lo vide ancora sistemare altre due bottiglie, passandogliene una per porla nel ripiano più alto.
- Allora, a casa come ti va? Hai già incontrato degli psicopatici in giro? –
- Nah, non ancora. Aspetto con ansia quel momento, solo allora potrò dire di trovarmi a Milano! –Risero entrambi, mentre l’uomo gli passò una mano tra i capelli, scompigliandoli. – A parte questo, tutto ok. In uni non si fa mai niente, ma lavorare qua mi piace! –
- E il tizio con cui dividi la casa? Non hai detto di avere un coinquilino? –
Federico sbuffò, ripensando ancora alla sua ultima conversazione con Dominik.
- Un tipo strano, parecchio. Mi sembra di stare in una di quelle sit- com di seconda categoria ambientate sempre in un bell’appartamento. Sai, tipo La   vita secondo Jim. E’ sempre tappato in casa, e le volte in cui lo incontro si lascia andare a discorsi trascendentali senza precedenti! – Samuele scoppiò a ridere; in effetti, aveva fatto sembrare Dominik un malato di mente, quando era solo…strano. L’unico aggettivo che gli veniva in mente pensando a lui era quello.
Era fissato con la musica, con quel suo piccolo mondo, e credeva che chiunque dovesse essere interessato alle stesse cose che piacevano a lui; probabilmente era cresciuto così, a casa sua, non aveva molti amici. Non che gli importasse molto, ci aveva anche provato a coinvolgerlo un po’, ma non aveva voluto saperne. Con un altro sbuffo, Federico sistemò l’ultima bottiglia nel frigo, chiudendo lo sportello.
- Vieni da me no? Il mio appartamento non è vicino all’università come il tuo, ma è in centro. E poi ho la macchina, possiamo farci mettere gli stessi turni e veniamo insieme al locale! –
- E Riccardo? –
- Viene a casa mia qualche sera, ma non resta a dormire. Non ti dà fastidio se passa no? –
- No, figurati! – fece una pausa, tormentandosi il labbro. C’era una pellicina che lo infastidiva da un sacco. – Ma credo che resterò un altro po’, magari migliora! – aggiunse alla fine.
Dominik meritava un’altra possibilità: era solo un ragazzino che, se fosse stato come tutti gli altri, avrebbe preparato la maturità nel giugno successivo e avrebbe passato i weekend con gli amici. Invece gli interessava solo la musica.
- Se cambi idea, l’offerta è sempre valida! – gli rispose il compagno, afferrando uno strofinaccio per togliere della macchie dal tavolo. - Che dici, sabato ci facciamo una birretta fuori? –
- Sabato?  Questo sabato? –
- No, a Natale. Certo che è questo sabato! –
Federico si morse il labbro. Dominik. Gli aveva detto che sarebbero andati a vedere Milano, nonostante dopo due giorni non fosse ancora riuscito a convincerlo ad andare con lui.
Ragazzino impossibile. E ora si trovava davanti la possibilità di farsi una birra con Samuele, uscire da quella casa opprimente per mezza giornata e non dover pregare un ragazzino di uscire con lui come se lo stesse portando a farsi il vaccino.
Eppure gli dispiaceva; aveva accarezzato per giorni l’idea di quella giornata a Milano, di vedere la Galleria, il Duomo, e di farli vedere anche a Dominik, in qualche modo. Voleva portarlo fuori, farlo sciogliere e renderlo più umano, quando meno. Ma Dominik non voleva essere ammorbidito.
Per un attimo fu tentato di rifiutare l’invito; avrebbe convinto Dominik, sarebbero usciti e si sarebbero divertiti. Ma  quando Samuele si voltò, guardandolo interrogativo, si costrinse ad ammettere la realtà: lui e Dominik non sarebbero mai stati amici, e non avrebbe perso la possibilità di farsi un amico per correre dietro alle sue gonnelle.
- Mh, si va bene. Basta che non mi tocchi il pacco in macchina! –
Samuele rise di nuovo, gli occhi verdi si accesero di una luce divertita.
 

§ § §

 
C’era freddo lì dentro. E c’era troppo chiasso.
Era possibile che la gente riuscisse a fare tanto rumore?
A Praga c’era sempre silenzio, le persone camminavano tutte zitte, non si fermavano mai quando usciva con la mamma. A Milano, invece, non faceva che passare accanto a gente ferma a chiacchierare della scuola, dei figli, e del lavoro che non andava.
Si lamentavano sempre tutti: se avessero imparato a suonare,  a estraniare tutto il male nelle note, a vederlo volare in alto, lontano, sarebbero stati tutti più felici.
- Dominik? –
Sobbalzò, stringendosi nelle spalle. Fu istintivo aggrapparsi al braccio di Federico, accanto a lui, ma quel movimento improvviso sorprese anche lui. Doveva essergli sembrato un vero scemo a reagire in quel modo a lui che lo chiamava, ma quando si trovava fuori casa non si sentiva mai al sicuro.
Era come il vecchio criceto di sua sorella, che tutte le volte che veniva spostato per dieci minuti per pulire la gabbietta iniziava ad agitarsi. Si sentiva un po’ in quel modo, come un criceto che veniva strappato al suo ambiente naturale.
Si sentiva veramente al sicuro soltanto a casa, o al conservatorio; ma Federico aveva insistito tanto perché lo accompagnasse al supermercato. Di solito andavano insieme a fare la spesa il lunedì, oppure ci andava Federico, da solo; quel pomeriggio gli era venuto in mente di cucinare qualcosa di particolare, e l’aveva trascinato al supermercato, per avere un po’ di compagnia.
Federico non si mosse, quando lui si aggrappò al suo braccio; Dominik alleggerì la presa dopo qualche secondo, ma continuò a restare chiuso in se stesso, come pronto ad un attacco.
Il supermercato era nero, non gli piaceva per nulla.
- Ti piace la bresaola? – gli chiese poi, richiamandolo di nuovo alla realtà.
- Cos’è? –
- Una specie di prosciutto diciamo…non so come spiegartelo, ma è buona. Vuoi provarla? –
Fece una smorfia, poi fece spallucce.
- Non mi va. E poi hai detto che volevi preparare l’insalata con il tonno, e il formaggio fritto. – Non aveva mai assaggiato il formaggio fritto, ma Federico aveva giurato che fosse buonissimo, più buono del cioccolato. Non ci credeva molto, era impossibile che esistesse veramente qualcosa di più buono della cioccolata, ma valeva la pena provare; e voleva provarlo quella sera, non accettava altro, al costo di impuntarsi su una scemenza.
- Lo so, e facciamo quelli. Però la bresaola potremmo prenderla comunque…Facciamo così, lunedì decideremo. Se stasera ti piace il formaggio la prossima settimana ti faccio provare la mia piadina speciale! – Era così allegro mentre parlava, Federico.
Era tornato già dal lavoro stranamente allegro, doveva aver passato una bella giornata.
La sua era stata letteralmente disastrosa; la maestra lo aveva rimproverato perché ancora una volta non aveva rispettato lo spartito, e lo aveva persino minacciato che se l’avesse fatto durante il concerto non l’avrebbe più fatto suonare fino alla fine dell’anno accademico. E come se non bastasse sentiva di avere un principio di raffreddore, che per lui rappresentava una vera tragedia; l’olfatto, oltre al tatto, era il mezzo indispensabile cui si affidava per muoversi nel mondo.
Mentre si muoveva tra gli scaffali, immerso nei suoi pensieri, si sentì urtare così forte che se non si fosse aggrappato al carrello che Federico guidava sarebbe finito per terra. Era letteralmente impreparato a quel colpo, e chi lo aveva urtato non doveva proprio averlo visto.
Era stata una donna, e quando si scusò, non ebbe difficoltà a comprendere, dal tono, che si fosse accorta di aver urtato un ragazzo cieco. Erano così chiari i toni di voce degli uomini e delle donne, con quel misto di tenerezza, pietà e di sollievo, perché, in fondo, non era capitato a loro, e appena usciti da quel supermercato se ne sarebbero dimenticati facilmente. Lui il buio non lo poteva mai dimenticare, era il suo compagno di vita da diciotto anni, e tutte le volte che qualcuno lo guardava o gli si rivolgeva in quel modo, tutto il buio diventava ancora più buio. Le persone erano stupide, era arrivato a quella conclusione: non era come diceva la mamma, non avevano paura. Erano semplicemente stupide.
Federico no, però: Federico era imbarazzato, a disagio, a volte forse preoccupato, magari di fare una cattiva impressione, ma non era stupido. Fu proprio Federico ad afferrarlo con delicatezza per il polso, proprio dove la manica del maglione, leggermente sollevata, lasciava libera una striscia di pelle. La mano di Federico era caldissima, contrariamente alle sue.
- E’ meglio se ti appoggi a me, se becchi un altro colpo da una come quella finisci al tappeto! – gli disse, con una mezza risata. Dominik non rise, ma fece come gli aveva suggerito. lasciò che la mano scivolasse lungo il braccio del compagno, fino alla spalla. Federico indossava un giubbotto poco imbottito, liscio, con una tasca in corrispondenza della manica destra, e sulla spalla c’era un bottone, con un’applicazione. Gli aderiva alla spalla, probabilmente se fosse stato di una taglia più grande gli sarebbe risultato più comodo. Era caldo anche lì, sulla spalla; si sentiva anche attraverso il tessuto dei vestiti.
Camminare per gli scaffali del supermercato con lui accanto, aggrappato a lui, era diverso. Era come se, in quel modo, nessuno avrebbe mai potuto fargli del male. Era una sensazione strana, non era cambiato niente dai minuti precedenti; era solo a contatto con il suo corpo, ma si sentiva stranamente sicuro. Non si era mai sentito meno degli altri solo perché cieco, e aggrapparsi a Federico in quel momento era come ammettere di aver bisogno di qualcuno. Fino ad allora, aveva avuto la forza di ammetterlo solo con la mamma, solo a lei era permesso guidarlo in giro per Praga, o anche per Milano. Ma Federico era buono, poteva forse non permetterlo a lui?
Era sempre stato buono: comprava sempre cose gustose, cucinava cibo sano, gli spiegava le scene dei film alla televisione, gli aveva persino insegnato la posizione dei tasti sul telecomando, così avrebbe potuto guardare la televisione, come i canali di musica, senza aver bisogno di lui.
- Ti piacerebbe la cioccolata calda? La prendiamo? –
- Cioccolata? – Era bastata solo quella parola per rapirlo da tutti i suoi pensieri e riportarlo tra le file affollate di quel supermercato di Milano. Dominik adorava la cioccolata, in tutte le sue forme e varianti; si sarebbe accontentato persino di quella del supermercato, pur di averne. Lui, però, non aveva mai potuto prepararla quando viveva da solo: se per sbaglio si fosse bruciato, o avesse mandato a fuoco la casa? Aveva promesso alla mamma che non avrebbe fatto danni e che sarebbe stato attento. Ma adesso c’era Federico, con lui avrebbe potuto letteralmente affondare nella cioccolata! – Si prendiamola! E stasera ne facciamo milioni di tazze! – Federico rise, ancora accanto a lui.
- Addirittura milioni! Pensavo che facesse troppo caldo per la cioccolata. –
- Io la berrei anche ad agosto, non fa troppo caldo! E non ci sono i marshmellows? La mamma li mette sempre! –
- Vedremo, le caramelle sono alla cassa. Allora ne prendiamo due scatole per adesso, ok? Possono bastare? –
Il biondo annuì, ma era già più avanti, con il pensiero. Stava pensando a lui e Federico, insieme, sul divano, a bere la cioccolata calda, quella con i marshmellows; dolce, terribilmente.  
Tutto quel parlare di cioccolata lo aveva persino distratto dal pensiero di trovarsi in un supermercato, in mezzo alla gente. Con Federico era facile distrarsi, sentirsi al sicuro. Era sempre così buono. E lui che faceva? Si comportava male, come un bambino cocciuto. Ma cosa poteva saperne lui di cosa significasse sentirsi osservato dalle persone? Cosa poteva saperne di che inferno fosse trascorrere una giornata fuori, alle mercé degli sguardi delle persone? Solo la mamma sapeva come fare, come distrarlo da tutti. Federico no.
- Federico? –
- Mh? –
- Grazie, per poco fa… - Dall’altra parte ci fu un minuto di silenzio, durante il quale sentì la spalla del ragazzo, cui si era appoggiato,  sollevarsi in un gesto di indifferenza.
- E di che? –
- Allora sabato andiamo a vedere Milano? –
Non sarebbe stata una tragedia. Avrebbe voluto dire di averci pensato parecchio, nei due giorni precedenti, di aver riflettuto, di essersi reso conto di essere stato troppo precipitoso, e che in fondo in un’uscita non c’era niente di male. Ma non era vero; nei due giorni che erano trascorsi non aveva affatto cambiato idea, i dubbi e le paure c’erano tutti e non si erano mossi dalla loro sede. Solo che, in quei pochi minuti al supermercato, con la cioccolata, la signora che lo aveva urtato, la bresaola, si era  spostato lui dalla sua posizione, portandosi dietro le sue paure.
Federico era buono, non sarebbe successo nulla. Poi, una volta a casa, avrebbe chiamato la mamma per raccontarle tutto, e avrebbe suonato. Era certo che la sua musica sarebbe stata bellissima dopo aver assorbito la magnificenza di Milano.
Il fatto che Federico non aveva risposto subito, però, lo preoccupava. Ci mise qualche minuto prima di parlare.
- Questo sabato? Credevo non volessi uscire. –
- Ho cambiato idea. Non vuoi? –
- No, è che… - Un’altra pausa.  Federico doveva essere ancora arrabbiato con lui; avrebbe dato qualsiasi cosa pur di poterlo toccare, di poter vedere la sua espressione. Anche la cioccolata. Alla fine Federico sospirò. – Certo che andiamo a vedere Milano  – sussurrò, prima di affrettarsi a cambiare discorso concentrandosi sulle mele da comprare.
Dominik non disse altro, non c’era niente da dire.
Certo, però, che Federico era proprio strano.




Nota al capitolo 4:
Rieccomi!
Ho postato con un giorno di ritardo perchè questi giorni sono così di totale relax che non faccio che dormire!
L'esame è andato benissimo, sono tornata a casa con un bel 30! E finalmente ritorno ai miei Dominik e Federico!
Inizio con il dirvi che ho nella mia testa praticamente una ventina di capitoli, ma per arrivarci devo scriverne ancora qualcuno!xD Questo è un capitolo di passaggio, dove ho voluto mostrare Federico in un luogo diverso da casa sua, e senza Dominik. E poi un'altra parte  dal punto di vista di Dominik: alla fine devo dire che in questo capitolo non succede un bel niente, ma nel prossimo capitolo vedremo finalmente Federico tirar fuori una parte della sua vera personalità.
Conto di aggiornare presto, e spero di leggere i vostri commenti! ^_^
Spero che non restiate delusi, ma questo capitolo era di fatto necessario! Alla prossima, un bacio!

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Capitolo 6
*** 5th: Umori ballerini ***



Umore instabile ed incoerenza sono le maggiori debolezze della natura umana. 
Joseph Addison, su The Spectator, 1711/12
 



Chapter 5th: Umori ballerini
 
Si era svegliato di ottimo umore, non gli capitava da un sacco.
Si era alzato in fretta, aveva fatto una doccia e si era vestito di tutto punto; era riuscito persino a trovare il coraggio di mettere quella camicia dal taglio orribile che aveva comprato sua madre, sostenendo che gli stesse benissimo. si sentiva pronto ad affrontare Milano.
O meglio, ad affrontare Dominik a Milano.
Quando gli aveva chiesto se sarebbero usciti insieme, al supermercato, si era sentito il cervello quasi  scoppiare. Come poteva quel ragazzino comportarsi in quel modo, trattarlo come una bambola di pezza? No, Federico, si Federico, adesso ho cambiato idea.
E lui, come un idiota, lasciava che lo facesse; in fondo era un ragazzo sfortunato, viveva da solo lontano da casa, era continuamente sotto pressione, ci stava che fosse un pochino stronzo.
Così aveva chiamato Samuele e annullato la loro uscita; non aveva mentito, non ne avrebbe avuto motivo. Gli aveva semplicemente detto la verità, che il suo coinquilino aveva accettato di uscire e che pensava di andare con lui, per tentare di instaurare un rapporto. Samuele aveva capito, e avrebbero avuto tempo un’altra volta per farsi una birra.
Usci dalla sua stanza, perfettamente pronto: aveva bisogno di farsi un caffè prima di uscire.
In salotto era tutto buio come lo aveva lasciato la sera prima: quando accese la luce, Dominik era seduto sulla poltrona, con in mano dei fogli che percorreva con le dita.
- Buongiorno! – lo salutò, gioviale. Il biondo borbottò una risposta, ma tornò ben presto a concentrarsi sui suoi preziosissimi fogli. La giornata iniziava proprio bene.
Federico accese il fuoco sotto la caffettiera che aveva preparato la sera prima, spostandosi verso le finestre per aprire le imposte. Dominik, contrariamente al solito, non seguì i suoi movimenti: sembrava quasi non sentire nemmeno che fosse presente. Se ne stava fermo in quella poltrona, ad accarezzare dei fogli bianchi pieni di puntini sopraelevati: quello doveva essere il braille, non aveva mai visto dal vivo fogli scritti in quel modo. Si era sempre chiesto come facessero quei puntini e quei trattini a rappresentare delle parole: forse un giorno avrebbe potuto chiedere a Dominik di insegnarglielo.
- Stai studiando? – gli domandò, tornando di nuovo nell’angolo cottura per controllare il suo caffè.
- Bach – rispose semplicemente il biondo, stringendosi ulteriormente nelle spalle.
Federico lo vide solo in quel momento, indossava un maglione pesante, blu scuro, che sembrava troppo grande; aveva tutti i capelli scompigliati, il viso rosso, come se avesse trascorso la notte a lottare con un procione. E il procione doveva aver vinto.
Lo studiò in silenzio, guardandolo con la coda dell’occhio, cullato dal gorgoglio del caffè che iniziava a fuoriuscire. Era bello, con quel maglione.
- Magari più tardi mi fai sentire? –
- Forse – lo sentì borbottare. Federico si trattenne dallo sbuffare; la giornata era appena iniziata, e si sentiva già stremato dall’atteggiamento del suo coinquilino. Si chiedeva come avrebbe fatto a trascorrere tutta la giornata con lui, in una città che non conosceva, quando non faceva nemmeno un tentativo di conversazione. Iniziava a rimpiangere di aver rinviato quella birra con Samuele.
Spense il fuoco, versando il caffè nella tazzina e rovistando tra i barattoli per cercare quello contenente lo zucchero.
- Ho fatto il caffè. Ne vuoi? -   
- Lo sento. No. –
- D’accordo, d’accordo. Finisco di bere e andiamo. –
- Dove? –  Il moro mandò giù il caffè in un sorso: sentiva qualcosa, dentro, che lo rendeva inquieto. Dominik sapeva benissimo dove stavano andando, ne avevano parlato fino alla sera prima, sul divano. Il ragazzo era entusiasta all’idea di una giornata fuori. Perché gli stava chiedendo, allora, dove dovessero andare?
- Come…dove? E’ sabato, dovevamo andare in giro, te ne sei dimenticato? Sei stato tu a ricordarmelo, fino a ieri sera. –
- No. Io non vengo. –
- Cosa? – Era stato come sentire qualcosa dentro spezzarsi, nello stomaco. Forse erano le aspettative. Dovevano essere quelle.
- Non vengo. -
Federico lasciò cadere la tazzina nel lavello con più forza del previsto. Stava per dare di matto.
Si voltò di scatto, lanciandogli una delle sue peggiori occhiate: era così arrabbiato da essersi persino dimenticato che lui non avrebbe potuto vederlo.
Come poteva comportarsi in quel modo? Era la persona più antipatica, cattiva e idiota che avesse mai conosciuto.
Abbandonò l’angolo cottura, portandosi accanto al divano; sentiva il profumo del suo bagnoschiuma nell’aria. Doveva aver fatto la doccia prima di lui quel mattino.
- Non fare l’idiota, alzati e andiamo. –
- Ho detto che non vengo. –
- Per quale motivo, di grazia?! –
- Non voglio venire. –
L’avrebbe ammazzato. Se fosse stato legale, se avesse avuto un coltello a portata di mano, l’avrebbe ammazzato. Doveva uscire da quella casa, o l’avrebbe preso a pugni, gli avrebbe spaccato quel bel faccino angelico che si ritrovava.
- Ma vaffanculo! – gli sibilò contro. Cercò freneticamente le chiavi, nel cestino poggiato sul mobiletto della tv. Doveva uscire. Doveva andarsene. Iniziava a vedere tutto rosso, e non voleva litigare con Dominik. Nutriva il desiderio di fargli male, ma non doveva litigare.
Le chiavi tintinnarono nella sua mano quando le sollevò, portandosi verso la porta. 
- Sei arrabbiato? –
La sua voce lo raggiunse prima che potesse poggiare la mano sulla maniglia della porta d’ingresso. Gli chiedeva persino se fosse arrabbiato, come se non ne avesse motivo, come se fosse un pazzo che stava sbraitando così, perché si annoiava e voleva trovare un modo per passare il tempo. Dominik non si rendeva conto di quello che aveva fatto. Per lui era una mancanza di rispetto colossale, non si sarebbe mai sognato di comportarsi in quel modo, né con un amico nè con un conoscente. Nemmeno con uno sconosciuto, cavolo! E lui non capiva un bel niente!
- Secondo te sono arrabbiato?! – Dall’altra parte giunse il silenzio; Dominik non rispose, rimase semplicemente seduto, il viso volto verso di lui, le labbra socchiuse come se volesse parlare. Ma c’era solo il silenzio. – Sei uno stronzo, è semplice! Sono giorni che cerco di far funzionare questa convivenza, e sono solo io a farlo!! Dovrei fregarmene altamente, io ce li ho gli amici! Per uscire con te, oggi, ho annullato un appuntamento con un amico, e tutto perché mi piacerebbe vivere a casa con qualcuno che quanto meno mi parli!! Invece tu non fai niente, niente!! Impara una cosa, Dominik, che forse nessuno ti ha mai insegnato. Qui non siamo nel tuo bel mondo fatto di musica, non siamo al conservatorio o su una nuvoletta rosa. Questo è il mondo reale, e la gente non sta alle tue dipendenze. IO non sto alle tue dipendenze, non sono un giocattolo che non vale niente! Non puoi dirmi prima no, poi si, poi di nuovo no. Anche io ho una vita!! E la sai una cosa? Ho deciso che non mi importa più! Viviti la tua e non mi rompere il cazzo! –
Dominik non rispose. Federico attese, per minuti interminabili, immobile, con il fiato corto, che lui facesse qualcosa; che urlasse, lo insultasse, gli rispondesse a tono, lo picchiasse. Qualsiasi cosa. Invece Dominik rimase immobile sulla sua poltrona, in silenzio.
Era finita, basta.
Federico uscì, chiudendosi la porta alle spalle.
 

§ § §

 
Se ne era andato. Aveva anche sbattuto la porta.
Ma non era colpa sua, non voleva farlo arrabbiare.
Voleva davvero uscire con lui. Avrebbero potuto mangiare la cioccolata davanti al Duomo. Sarebbe stato bellissimo.
Dominik si mosse, scavandosi un cantuccio più profondo nella poltrona.
Non si era alzato da quando Federico se ne era andato. Non sapeva quanto tempo  fosse passato, non gli importava.
Lì, in quella poltrona, aveva tutto quello che gli serviva: la musica. Era tutta dentro la sua testa. Aveva suonato Bach, Mozart, Beethoven. Non aveva suonato Chopin. Chopin lo faceva pensare a Federico, e quando ci pensava gli faceva male la pancia. Era brutto avere il mal di pancia, non passava mai.
Federico gli aveva detto delle cose cattive, ed era tutta colpa sua; lui non era cattivo, era stata colpa sua se lo aveva spinto a dire quelle cose. Era ferito, credeva di non stargli simpatico.
Com’era possibile pensare una cosa del genere? Federico era la persona più buona che avesse conosciuto negli ultimi anni, era naturale che gli stesse simpatico. Forse non se ne rendeva conto, forse anche lui, come tutte le persone che vedevano, aveva bisogno di sentirsi dire le cose. La mamma lo diceva sempre che le persone percepivano le cose diversamente da lui.
A lui faceva tanto male. Pensava alle cose cattive che Federico aveva detto, e a quello che si era perso a non uscire con lui. Ma aveva avuto paura, Federico non poteva capire.
Aveva fatto un brutto sogno.
Era andato a dormire allegro, con mille aspettative per il giorno successivo. E poi aveva fatto quel sogno.  Era a Milano, ma era solo; eppure Federico doveva esserci, non l’avrebbe mai lasciato solo. In quel momento non c’era, ma c’erano tante persone, e urlavano: più che urlare, ridevano. Ridevano di lui, sentiva le loro risa nel buio, e non poteva fare niente. Tendeva le mani in avanti, per toccarle, vedere quante fossero, dove fossero, se tra loro ci fosse Federico: ma era impotente, non riusciva a toccare niente. E loro ridevano. Quelle risate erano insopportabili, lo graffiavano dentro.
Quando si era svegliato aveva pianto. Sentiva qualcosa, nella gola, di molto caldo: ma le lacrime lo alleviavano. Non sapeva se fosse ancora notte fonda o mattino, ma si era alzato dal letto; aveva fatto la doccia e si era chiuso nella sua poltrona, con i suoi spariti.
Non riusciva a suonare, sentiva ancora nella testa le risate di quelle persone; non riusciva neppure a fare come aveva detto la mamma, perché i puntini più neri del nero erano troppi, non andavano via.
Non poteva uscire, non voleva. Se avessero riso tutti di lui e Federico non ci fosse stato?
Si sentiva solo. Non si sentiva mai solo; anche quando Federico non c’era, era come se ci fosse, perché sapeva che sarebbe tornato. Avrebbe cucinato delle cose buone, avrebbero guardato la televisione o lo avrebbe sentito suonare, e poi sarebbero andati a dormire.
Adesso no. Se Federico non fosse più tornato? Se se ne fosse andato per sempre, lasciandolo solo?
Era stato così cattivo?
Avrebbe dovuto raccontarlo, a Federico, del suo sogno; lui era buono, avrebbe capito, avrebbero rimandato la loro uscita e avrebbero pranzato a casa insieme, con tante cose buone. Il sabato pomeriggio facevano sempre dei bei film alla televisione, gliel’aveva detto Federico; avrebbero potuto vederli insieme, e poi avrebbe suonato.
Invece non gli era uscita la voce; aveva avuto paura anche di Federico.  Nessuno alzava mai la voce con lui, sentirlo fare a lui l’aveva bloccato; le parole gli erano rimaste bloccate in gola, e Federico se n’era andato.
Gli aveva detto delle cose veramente cattive. Lui non voleva usarlo come un giocattolo, non credeva che fosse alle sue dipendenze, non lo faceva apposta! Non lo faceva con lui, non lo faceva con nessuno. Era così strano avere vicino un’altra persona, era difficile. Perché Federico non lo capiva? Non sapeva come comportarsi, era difficile anche per lui, ma credeva di essere bravo. Passava sempre il tempo con lui, gli faceva i complimenti, gli faceva sentire i suoi esercizi, gli confidava i suoi pensieri. Non lo faceva con nessuno, a nessuno interessava di lui; ma a Federico si.
Si sentiva una cosa strana, dentro la pancia. Era una cosa calda, che pungeva; voleva che se ne andasse, faceva male. La cosa calda non ne voleva sapere di andare via, anzi continuava a pungere, e saliva verso il petto, lo soffocava. Forse sarebbe morto. Sarebbe morto senza chiedere scusa a Federico, senza salutare la mamma. Improvvisamente, l’idea di morire gli faceva paura.
Si sentiva mancare il fiato, voleva che finisse, che andasse tutto via: premeva sulla gola, sulle guance, sugli occhi. Senza rendersene conto, singhiozzò. Un singhiozzo solo, nel buio, nel silenzio.
Era una persona cattiva, nessuno gli avrebbe mai voluto bene, solo la mamma, ma lei, in un certo senso, era obbligata. Lui era solo cattivo, e basta. Non era degno nemmeno della bellezza della musica. Era cieco, e quel buio lo stava sommergendo, lo avrebbe schiacciato. Aveva perso tutti i suoi colori. Singhiozzò ancora,  e non riuscì più a fermarsi.
Gli faceva male tutto: la pancia, il petto, la gola, gli occhi, le braccia. Stava forse morendo?
Eppure la cosa calda sembrava sciogliersi, sembrava diventare piacevole come il miele nel latte caldo. Erano le lacrime che la scioglievano?
Dominik si passò le mani sulle guance; era bello piangere, sentire il sapore salato sulle labbra, il fresco delle lacrime sul viso. Ma soprattutto era bello perché faceva passare il mal di pancia,  anche se solo un po’. Non sapeva da quanto tempo stava piangendo, non se ne ricordava; sapeva solo che era bello stare in quell’angolino morbido, al buio, a piangere.
Si sentiva triste. Federico si era arrabbiato.
 

§ § § 

 
Era incazzato nero. Non credeva fosse possibile arrabbiarsi tanto. Con uno come Dominik poi.
Dominik era uno di quelli che, quando lo vedevi per strada, ti veniva da pensare che fosse un ragazzo perfetto, il sogno di ogni madre. Poi lo conoscevi, e scoprivi invece che non era altro che il più grande scassacazzi d’Italia. Forse d’Europa.
Non si spiegava perché si fosse arrabbiato tanto; alla fine era solo un ragazzino che aveva declinato il suo invito, chi se ne fregava? Lo infastidiva essere trattato in quel modo, essere sballottato come una bambolina di pezza a seconda dei suoi porci comodi. Certo, a volte lo avevano fatto i suoi amici, declinare degli inviti; ma Dominik era diverso. Lui lo faceva sempre, e poi non erano amici, avrebbe potuto fare uno sforzo e comportarsi meglio!
O forse aveva ragione Samuele, si stava comportando da ragazzino. In realtà, lui aveva usato l’espressione checca isterica
Sbuffò, passandosi una mano tra i capelli.
Quando se ne era andato da casa, furioso, aveva chiamato Samuele, chiedendogli se fosse ancora libero per quella birra, solo per dieci minuti.
Lo stava distruggendo da dodici ore. E le birre erano diventate cinque.
Erano stati al locale, nonostante fosse un giorno libero per entrambi. Erano entrati con il sole, e ne erano usciti con il buio. Avevano fatto tardi, e l’indomani dovevano lavorare.
Era stato bello passare la giornata con Samuele; sembrava sapere benissimo cosa dire e cosa fare per fargli passare l’incazzatura. Ed era parecchia, se n’era accorto anche lui quando l’aveva visto.
Federico guardò l’orologio: erano le due del mattino.
- Hai detto che abiti qui, vero?  -
Sollevò il capo, guardando fuori dal finestrino dell’automobile. Erano  arrivati sotto il palazzo antico dove viveva; il suo inferno personale. L’amico lo aveva accompagnato con la sua automobile, evitandogli di andare a piedi. Sospirò, biascicando un assenso.
- L’offerta di restare a dormire da me è valida, eh? –
- Grazie, Samuele, ma domani dobbiamo lavorare, voglio rilassarmi un po’. Ci vediamo domani a lavoro. Grazie di tutto. –
- E di che? Fatti passare st’incazzatura, sei molto più sexy quando sorridi! E non fare la checca! –
Risero entrambi, e quando Federico scese dalla macchina vide l’amico rivolgergli un ultimo cenno prima di ripartire.
Non voleva tornare a casa, avrebbe dovuto accettare l’invito di Samuele di restare a dormire sul suo divano. Ma era da immaturi. Era  ancora arrabbiato, ma lui aveva ragione, si stava comportando da idiota; stava permettendo ad un ragazzino di gestire la sua vita. Chi era Dominik per privarlo della sua casa e della sua vita? Lui lì ci avrebbe vissuto e basta, sarebbe andato a lezione in facoltà, avrebbe incontrato i suoi amici a lavoro e sarebbe uscito con loro. Dominik era solo una presenza che doveva sopportare, e poi a casa non ci stava tutto il giorno. Avrebbe aspettato fino a giugno, alla scadenza del contratto, poi si sarebbe trovato un altro appartamento: il suo collega Fabrizio  gli aveva detto di avere una stanza libera nell’appartamento che condivideva con un altro tizio, e poi c’era sempre Samuele.
E vaffanculo a Dominik.
Infilò la chiave nella toppa del portone, entrando; come si aspettava, l’androne era vuoto. Girò a destra, fino alla porta di casa; quando la aprì ed entrò, il salotto era nella penombra. Le luci erano spente, ma all’interno filtravano i fasci dei lampioni esterni, dalle imposte che aveva lasciato aperte quando se ne era andato di corsa.
Accese la luce, facendo scattare l’interruttore. Era esausto.
- Federico, sei tu? –
Non poteva crederci. Entrando non l’aveva visto, credendo che fosse già andato a letto, e invece Dominik era ancora in piedi, sulla sua poltrona, come quando l’aveva lasciato.
Fece un respiro profondo, lanciando le chiavi di casa nel cestino e sfilandosi il giubbotto.
- Si. Vai a letto, è tardi –
- Non pranziamo? – Si fermò al centro della stanza, voltandosi verso di lui. Se aveva voglia di scherzare, stava sbagliando momento.
- Mi prendi per il culo?! – Dominik si raggomitolò sulla sua poltrona, affondando il capo tra le ginocchia.
- No, io…se vuoi pranzare da solo va bene, mangerò dopo. –
- Sono le due del mattino, smettila! –
Non sapeva se la reazione fosse dovuta alle sue parole o al tono di voce alto, ma Dominik si mise immediatamente ritto sulla poltrona.
- Le…le due del mattino? Cioè…è notte? –
- Si, è notte. – Fece una pausa, guardandosi intorno. La casa era perfettamente pulita, intatta; sembrava non fosse stato toccato nulla da quando era uscito quella mattina. – Mi stai dicendo che non te ne sei accorto? –
- Non pensavo fosse passato tutto questo tempo… - Federico sospirò, passandosi entrambe le mani tra i capelli.
Era impossibile essere veramente arrabbiati con lui. Era incazzato nero prima di entrare in casa, poi se lo ritrovava sulla poltrona, con lo sguardo da cucciolo bastonato, a dirgli di non essersi accorto che fosse passata un’intera giornata. Non aveva mangiato, probabilmente non si era nemmeno alzato da quella stupidissima poltrona. Quel ragazzino si sarebbe lasciato morire, come poteva sua madre lasciarlo vivere da solo?
Federico si spostò verso la cucina, aprendo tutti gli sportelli; dovevano avere del pane bianco da qualche parte, lo aveva comprato per spalmarci la nutella.
- Mi sembra strano che non ti sia accorto che sia passato tutto questo tempo. Non avevi fame? Sete? Non hai controllato la sveglia? – Si aspettava una risposta lunga, invece Dominik borbottò semplicemente un no. Era ancora arrabbiato con lui, teneva tutto nello stomaco: sarebbe andato a dormire, e l’indomani gli sarebbe passata. Un po’. Forse.
Finalmente trovò il pane bianco; prese del prosciutto dal frigorifero. Cercava di convincersi che lo stesse facendo solo perché non voleva che quell’ingrato andasse a letto senza aver mangiato nulla, non riusciva a trovare un altro motivo. Ma aveva solo il desiderio di lasciarsi cadere a letto, completamente vestito.
- Ti ho fatto un panino, vieni. –
- No –
Il desiderio di spaccargli la faccia ritornò prepotentemente a galla. Espirò sonoramente, raccogliendo tutto il buon senso; Dominik era affamato, forse arrabbiato con lui, doveva essere responsabile, non doveva fare il ragazzino. Maturità, Federico, su, si disse.
Si mosse verso la poltrona dove Dominik era rimasto seduto: indossava ancora lo stesso maglione, le maniche troppo lunghe gli finivano sulle mani, ma con un gesto stizzito il ragazzo le riportò su. Federico ne approfittò, intercettando il suo polso e bloccandolo a mezz’aria: Dominik sobbalzò, evidentemente non era abituato a contatti come quello, o forse era solo spaventato, in fondo, non poteva vederlo. A volte tendeva a dimenticarlo.
- Tieni, mangia. – Avvicinò il piccolo tramezzino alla mano del ragazzo: era grande, con le dita sottilissime, e nonostante un iniziale moto d’orgoglio, dopo pochi secondi si chiusero intorno al pane soffice. Il moro si allontanò subito, lasciandosi cadere sul divano.
Sarebbe andato a letto subito, giusto il tempo di riposare gli occhi. Si, solo due minuti. Intanto poteva togliersi le scarpe.
Dominik non parlò più; nel buio degli occhi chiusi, Federico poteva sentire il suo mugugnare. Alla fine aveva ceduto, stava mangiando. Sorrise a occhi chiusi, stendendo le gambe sul divano: aspettava da ore quel momento in cui si sarebbe lasciato cadere su una superficie morbida e avrebbe chiuso gli occhi. Era bello tutto quel buio.
Se non fosse stato per il silenzio opprimente, si sarebbe sentito in paradiso.  Odiava il silenzio: persino la notte, non riusciva a dormire senza il ticchettio dell’orologio. Era convinto che solo i morti potessero sopportare l’assoluto silenzio. Vivere con Dominik, da quel punto di vista, era come essere morti; era sempre in silenzio. Sbuffò, stropicciandosi gli occhi con le mani, ma continuando a tenerli chiusi. Non aveva più neppure la forza di aprirli.
- Perché sbuffi? –
- Sono stanco.  E’ tardi -  borbottò. – Avresti dovuto mangiare, almeno. –
- Non ci ho pensato. Ero triste. –
Era triste. E in due secondi era passato dal farlo diventare l’incredibile Hulk incazzato a farlo sentire una cacchetta di mosca. Una merda, suonava molto meglio.
Era triste, dopo aver provocato lui stesso tutto quello. Non poteva farlo sentire in quel modo, non era giusto!
- Quanto mi dispiace – sibilò, con tono volutamente ironico. Se credeva che stesse scherzando, che avesse fatto tutto quel casino per attirare l’attenzione, sbagliava di grosso. Non lo sopportava, desiderava mollargli un pugno: solo uno, poi si sarebbe messo il cuore in pace.
Dominik non rispose, si limitò a sospirare. Erano a un punto morto.
Federico si mise seduto sul divano, aprendo gli occhi. Il ragazzo biondo era sempre nella stessa posizione, aveva finito il tramezzino; stava giocherellando con il bordo del suo maglione, con il capo abbandonato sulla poltrona. Se ne accorse solo in quel momento: aveva sul viso i segni delle lacrime, e le unghie mangiucchiate.
Adesso si che si sentiva una vera merda. Aveva sbraitato contro un ragazzino, stronzo certamente, solo perché il suo orgoglio di uomo si era sentito ferito. Meritava il premio per peggiore persona del mondo.
- Dominik, senti…mi dispiace, davvero. Non volevo essere cattivo, ma…sono molto impulsivo, non rifletto prima di parlare. Mi girano, inizio a urlare, ma poi sto da solo per un po’ e mi passa… - Si fermò, prendendo fiato. – Il punto è che mi sono arrabbiato, ma non senza motivo. Cerca di capirmi…vivo qui con te, senza conoscerti. Ho una vita completamente diversa dalla tua, è difficile capirti, e tu non fai niente per capire me. Mi organizzo per accontentarti, per uscire insieme, e tu cambi idea. E non è solo questo, succede sempre così, cambi sempre idea, come se io, la mia opinione, non contasse niente.  Mi dà fastidio, lo capisci? –
Non era stato difficile da dire, in fondo. Dominik non l’aveva nemmeno interrotto, e non che si aspettasse il contrario. Era rimasto fermo tutto il tempo, seduto a gambe incrociate su quella caspiterina di poltrona: prima o poi l’avrebbe data alle fiamme, magari l’avrebbe strappato a quell’apatia.
Si lasciò cadere di nuovo sul divano. Avrebbe gradito almeno un grazie, gli aveva appena chiesto scusa; invece niente. E poi gli chiedeva se fosse arrabbiato. Come avrebbe fatto a non arrabbiarsi?
- Ma tu non parli mai? – sbottò ad un tratto.
- Ti ho ascoltato. –
- Avresti potuto rispondere. –
- Non ce n’è bisogno. Io non sono arrabbiato con te…e sono contento che tu non lo sei con me. –
- Bah. –
- Tu non lo capisci il silenzio, Federico? – Il moro sbuffò, passandosi una mano tra i capelli fino a lasciar penzolare il braccio dal divano.
- Non mi piace il silenzio. E’ opprimente. –
- Invece no. Il silenzio è bello, lo puoi riempire con qualsiasi cosa vuoi. – Una pausa, poi Dominik espirò, con un mezzo sorriso. – A me piace quando lo riempi respirando. Hai un respiro molto bello. –
- E’ la cosa più strana che mi abbiano mai detto – ammise, sinceramente. Era stranito. Era uscito di casa pieno di rabbia ed era finito  sul divano a parlare con Dominik di cose strane. Di nuovo.
- Per me non è strano. Nel silenzio, io creo la musica. Da quando sei qui con me, il silenzio è più bello. Anche il buio. Perché poi so che tornerai a casa, e riempirai il silenzio e il buio. Non succedeva, prima. – Fu la volta di Federico di restare in silenzio; non sapeva cosa dire, ma c’era qualcosa di caldo che gli si agitava dentro. Era una bella sensazione sapere di avere un ruolo in quella casa; credeva di non contare niente per Dominik, di valere poco più di un pesce rosso che se ne stava lì solo perché c’era, a boccheggiare nella sua palla di vetro. Invece rappresentava qualcosa per lui. - Tu mi stai simpatico, Federico. Non te l’ho detto, ma è così. E non mi piace quando ti arrabbi. Mi fa male la pancia. –
Gli venne da sorridere; quel suo parlare in quel modo, gli ispirava tenerezza. Sembrava di parlare con un bambino cui avessero appena restituito le caramelle che gli avevano rubato. Gli faceva uno strano effetto. Si era scoperto più volte a fissarlo come in trance; Dominik era bello, non poteva negarlo. Se la situazione fosse stata diversa, forse si sarebbe fatto scappare anche un bacio.  Ma Dominik era come un altare sacro, un angelo, nessuno l’avrebbe mai profanato.
- Oggi volevo uscire con te. Ma ho avuto paura. Ho paura delle persone, quando non c’è la mamma. Lei sa come fare con le persone. – sussurrò.
Era come vederlo per la prima volta davvero. Dominik si era sempre mostrato come un ragazzo forte, che non si curava apparentemente di essere cieco, come se fosse davvero felice. Invece anche lui aveva paura, come tutti, anche lui sapeva cosa significasse sentirsi prendere in giro. Un po’, alla fine, erano uguali. Lui era gay, Dominik era cieco. Erano diversi. Avevano paura. Era stato così stupido da non arrivarci; come aveva fatto a non pensare che quel ragazzo potesse sentirsi in quel modo. Gli aveva urlato contro, era stato un insensibile. Avrebbe tanto voluto reagire diversamente; non urlare, chiedergli spiegazioni, fare qualcosa per lui. Era un buono a  nulla.
- Non…non devi avere paura – cercò di dirgli, ma l’altro non rispose. Federico non aprì gli occhi, non voleva vederlo. – Dominik, qual è il colore che ti piace di meno? Quello che proprio non sopporti, che non vuoi vedere mai? –
- Il senape – rispose sicuro, immediatamente.
- Ecco, la paura è il senape. Non devi disegnarla mai, e quando vedi che lei compare, ci colori sopra. –
Non sapeva perché gli stava dicendo quelle cose. Lui non se ne intendeva di quelle cose, non conosceva il mondo di Dominik, non era come sua madre, o come lui. Ma gli era venuto naturale parlare in quel modo.
Espirò, abbandonandosi al calore del divano; era così confortevole, non riusciva a trovare la forza di alzarsi e mettersi a letto. C’era tutto quel silenzio, e c’era il respiro di Dominik. Aveva ragione, in quel momento il silenzio era bello, perché loro ci respiravano dentro; era soffice, dolce, quasi denso. Faceva venir voglia di dormire. E di toccarlo. Voleva solo toccargli le labbra, dovevano essere soffici come quel respiro. Solo quello, non voleva fargli altro. Era uno stronzo, antipatico, ma aveva le labbra più belle che avesse mai visto.   
- Dominik? –
- Mh? –
- Ogni tanto hai ragione, il silenzio è bello –
- Io ho sempre ragione –
Sorrise, premendosi il braccio sul viso.
Se avesse dovuto scegliere come morire, un giorno, avrebbe voluto che fosse così bello.  




Nota al capitolo 5:
Finalmente il nuovo capitolo, è stato un parto! 
Come vedete dall'aforisma sotto l'immagine (quello è il mio Dominik! *__* ) e dal titolo del capitolo, il tema conduttore del capitolo è lo "sbalzo d'umore" che si vede soprattutto in Federico. Nel flusso dei suoi pensieri, passa non solo da un pensiero ad un altro, ma anche da un sentimento ad un altro. La rabbia, l'attrazione, la tenerezza, l'irritazione, la tranquillità. Tutte sensazioni che si susseguono nei suoi discorsi con Dominik.
Dominik, invece, è un po' più coerente, ma anche lui passa dall'estrema tristezza, alla felicità, ma in modo molto meno marcato.
Quindi non sono pazza a scrivere cose senza un filo logico, ma sono i miei personaggi a essere due scemi indecisi!xD
Lunedì inizia l'università, quindi spero di poter postare un altro capitolo entro domenica! Ci provo!
Oggi stesso risponderò alle recensioni! Ringrazio tutti i lettori silenziosi e chi recensisce e mi lascia i suoi pareri!
Un bacio a tutti! 

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Capitolo 7
*** 6th: Vuol dire che siamo diversi? ***




Non siamo mai tanto diversi dagli altri quanto crediamo o dovremmo.

Ivy Compton-BurnettMadre e figlio, 1955



Chapter 6th: Vuol dire che siamo diversi?
 
C’era profumo di muschio. Era il profumo di Federico.
E c’era silenzio; però c’era il respiro di Federico.
Era regolare, stava ancora dormendo.
Dominik stese le gambe, gli faceva male la schiena. Si era addormentato sulla poltrona, senza rendersene conto; si era sentito rilassato, forse era per quello.
Federico si era addormentato prima di lui, sul divano; era stato quel respiro a cullarlo, come una ninna nanna. Era come una sonata di Chopin.
Era stato bello parlare con lui. Finalmente gliel’aveva detto, e aveva avuto ragione, Federico avrebbe capito. Forse, un giorno, sarebbero davvero usciti insieme.
Nel buio, quel buio che lo accompagnava, vedeva le farfalle; erano belle, glielo aveva detto la mamma, ed erano colorate.
Aveva ancora sonno, probabilmente era ancora notte, aveva la sensazione di aver dormito pochissimo. Se si fosse alzato, il suono della sua sveglia vocale avrebbe svegliato Federico.
Si sistemò meglio sulla poltrona, stringendosi nel suo maglione. Avrebbe dormito ancora un po’, come Federico, poi si sarebbero svegliati insieme e avrebbero fatto colazione; non avrebbero più litigato, era così brutto litigare con lui.
Federico era così vicino, lo sentiva.
Stese un braccio in avanti, incontrando l’estremità del bracciolo del divano. In quella posizione, il fiato caldo di Federico gli sfiorava la mano. Sarebbe stato così bello toccarlo. Seguì il profilo del bracciolo, fino alla seduta; lì, incontrò il suo polso. Era scoperto, poteva sentire il bordo della magliettina che indossava. Doveva essere di cotone. Aveva la pelle calda; Federico era sempre caldo. Aveva la pelle liscissima in quel punto; forse anche le ali delle farfalle erano così lisce, ma mai nessuno era riuscito ad afferrare davvero una farfalla e ad accarezzarla senza farle del male. Lui non voleva fare del male alle farfalle. Nemmeno a Federico.
Nel silenzio della stanza, Dominik accarezzò quel polso; c’era una vena che pulsava, proprio lì, al ritmo con il suo cuore. Era ancora più calda del resto della pelle.
Poi incontrò il palmo della mano, il profilo delle dita; le seguì tutte con i polpastrelli, incrociandole con le sue. Sentì la ruvidezza del palmo della sua mano contro il proprio, delle dita intorno alle sue.
Era bello lasciare che la mano venisse avvolta da quel calore. Era come quello delle coperte, quando dormiva con la mamma e fuori pioveva.
Chiuse gli occhi. Era tutto arancione.
 

§ § §

 
Il calore del sole sulla pelle era magico; amava quella sensazione, come l’odore del mare.
Il mare era la cosa più bella che Dio avesse creato sulla Terra; la tranquillità, la calma, il silenzio.
Anche il calore intorno alla mano; l’aveva immersa nella sabbia, si sentiva avvolgere completamente. Era una bella sensazione.
Se  solo non ci fosse stato quel vicino di ombrellone con il suo irritantissimo cellulare. Si voltò di lato, ma non c’era nessuno. Cos’ era quel suono insistente? E perché sentiva qualcosa sulla gamba?
Federico spalancò gli occhi, e la luce forte lo accecò per un momento; qualcosa vibrava e suonava nella tasca destra dei suoi pantaloni. La toccò, alla ricerca del suono, ma, piegandosi troppo a sinistra, rovinò sul pavimento freddo. Una fitta al ginocchio gli fece stringere i denti, mentre riusciva a recuperare dalla tasca quello che, aveva ormai capito, era il suo cellulare.
- Ahia! Porca… – imprecò a denti stretti. - Pronto? –
- Finalmente! Ma mica dormivi? –
- Ma chi è? – bofonchiò, stropicciandosi gli occhi. La luce era ancora così forte da non permettergli di aprirli completamente, ma sicuramente quella non era la spiaggia.  Aveva la mano sudata, doveva averla tenuta sotto il corpo, forse? Non se ne ricordava.
- Sono Samuele! Stai così rincoglionito che non mi riconosci? –  Lo scassacazzi d’Europa dell’anno 2011, come avrebbe potuto non immaginarlo?
- Mh, no…mi sono appena svegliato…ma che vuoi a quest’ora? –
- Sono fuori da casa tua, se mi dici dove devo bussare, ti ho portato il pranzo! –
- Pranzo? Che ora è, scusa? –
- L’una e un quarto! –
- Porca paletta, l’una e un quarto! – quasi urlò. Aprì gli occhi, finalmente, mettendo a fuoco il salotto di casa sua; si era addormentato sul divano, come un idiota. Sulla poltrona, Dominik stava ritto sulla schiena: tutto quel trambusto aveva svegliato anche lui. – Devi suonare Gigliotti. Entri, a piano terra sulla destra c’è la mia porta – disse soltanto, chiudendo il telefono. Samuele non se la sarebbe presa, faceva sempre così, con lui.
Si lasciò cadere sul divano, passandosi una mano tra i capelli. Gli faceva male la testa, non si ricordava praticamente niente; come aveva fatto ad addormentarsi sul divano? Sembrava quasi si fosse appena ripreso da una sbornia. In effetti, pensando alla quantità di birre che aveva bevuto con Samuele, non doveva essere poi tanto lontano dalla verità. Si voltò verso il suo coinquilino, che si era alzato in piedi.
- Buongiorno – borbottò, guardandolo superare il divano, con le mani tese, per raggiungere il bagno.
- ‘giorno – gli rispose il biondo, chiudendosi la porta del bagno alle spalle.
Dopo appena pochi secondi, il suono del citofono lo fece alzare in piedi. Lo scassacazzi era arrivato, ma almeno aveva portato il pranzo. Non si sentiva affatto in vena di cucinare nulla, e le buste di insalata pre-confezionata di Dominik non erano mai state tanto attraenti.
Premette il tasto sul citofono, facendo poi scattare la maniglia della porta; Samuele percorse l’ingresso in pochi secondi, piantandosi davanti a lui con una busta di carta in braccio. Stava sorridendo, sembrava sveglissimo; lo invidiava da matti, avrebbe voluto avere un minimo di  quel buonumore.
- Buongiorno dormiglione! Che faccia che hai! – lo chiamò, facendosi strada all’interno. – Bello  qui, fa tanto Steve Jobs! Dove posso lasciare la busta? La lascio qua. – Stava facendo tutto lui, si era fermato di fronte alla penisola della zona cottura, tirando fuori il contenuto della sua busta, come se fosse a casa sua: un contenitore pieno di qualcosa che somigliava a maionese, una bottiglia di vino, un contenitore chiaro. Federico lo guardò mentre chiudeva la porta d’ingresso, perdendosi nel dettaglio dei muscoli delle spalle, così delineati persino sotto la stoffa del maglioncino.
In pochi secondi il caos si era impadronito di quella che una volta era un’ordinatissima cucina. Era più forte di  lui, Samuele non riusciva a fare nulla con ordine; persino quando preparava i cocktail, al locale, dietro il bancone si consumava una vera e propria tragedia. Chiunque avesse il turno subito dopo il suo, ci metteva almeno mezz’ora a ripristinare una parvenza di ordine; però, a modo suo, Samuele trovava sempre tutto. In quello erano molto simili, anche lui era un disordinato cronico, ma, vivendo con Dominik, aveva dovuto imparare a non lasciare la sua roba in giro, e a sistemare sempre tutto nella stessa posizione, affinché lui non avesse noie.
Stava per aprire bocca, per rispondere a tono all’uomo che gli stava distruggendo la cucina, e che di lì a poco gli avrebbe sicuramente distrutto casa, quando un tonfo, alle sue spalle, lo fece voltare di scatto. E scoprì di essere in un mare di guai.
- Kurva! – sentì sibilare, vicino al divano. Questa volta l’avrebbe ammazzato.
- Dominik! Scusa, ho… -
- Lasciato la borsa in giro. Te l’ho detto milioni di volte. -   
Il capo biondo emerse da dietro il divano, circondando un viso dall’espressione terribilmente stizzita. Era comunque sempre il solito, la litigata del giorno prima non aveva cambiato le cose. Lo vide alzarsi in piedi, tendendo le mani in avanti; sapeva che fosse arrivato qualcuno, doveva averlo sentito, ma non sembrava intenzionato a fare conversazione. Samuele, però, non era disposto a farsi ignorare.
- Tu devi essere il coinquilino di Federico! Io sono Samuele, un amico, oggi  pranzo con voi. Non ti dispiace vero? – Dominik rimase fermo per qualche secondo. Federico pensò che sarebbe stato divertente sentirgli dire si, mi dispiace eccome, e godere della faccia di Samuele. Ma Dominik non disse nulla, l’orecchio teso verso lo sconosciuto che gli stava parlando; poi si voltò del tutto, avanzando verso di lui, con le mani tese. Quando gliele poggiò sul viso, a sorpresa, sia Samuele che Federico erano imbarazzati, mentre il ragazzino sembrava perfettamente a suo agio.
Era un’immagine strana; Samuele, così alto, con le spalle larghe, un uomo, se ne stava in balia del tocco di un ragazzino dall’aspetto di un angelo. Faceva effetto trovarseli davanti così. Le dita sottili di Dominik seguirono il profilo di Samuele, la mandibola, il collo, le spalle; lui deglutì, lasciandosi toccare. Alla fine, il ragazzino lo lasciò andare, facendo un passo indietro.
- Sei alto, e grande. Io sono Dominik – gli disse soltanto, lasciandolo in piedi per raggiungere la cucina e riempire un bicchiere d’acqua.
Federico sentiva una fitta strana allo stomaco; Dominik aveva toccato Samuele così, senza conoscerlo nemmeno, per capire come fosse fatto. Dopo due settimane insieme, invece, non aveva neppure mostrato la minima intenzione di sfiorare lui. Non che gli importasse essere toccato, ma iniziava a pensare che la causa dei loro problemi non fosse Dominik, ma lui; forse, se Samuele era riuscito in un minuto netto a spezzare quella corazza, era lui ad avere qualcosa che non andava.
-  Visto, lui si che è simpatico! Tu me ne fai mai di complimenti così? – Samuele gli diede una pacca sulla spalla, facendolo ritornare alla realtà.
- Che ne dici di pranzare, invece di dire cazzate? Dominik, prendi una tovaglia, per favore.  –
- La prendo io, dai. Dimmi dov’è -  si mise in mezzo Samuele, ma lo scatto del cassetto della cucina lo zittì. Il biondo teneva in mano il suo trofeo, una tovaglia bianca a fiori blu.
- Sono cieco, ma so dove stanno le cose in casa mia – lo rimproverò.
Quella fu la prima volta, da che lo conosceva, che vide Samuele in completo silenzio. Non rispose, non disse nulla: rimase zitto, in piedi al centro della sala, a fissare il corpo sottile di quel ragazzino biondo che stendeva con cura la tovaglia sul tavolo, come se la vedesse. Federico ridacchiò, passandosi una mano tra i capelli; avrebbe tanto voluto fargli una foto, non avrebbe mai più visto quell’espressione. Dominik doveva fare quell’effetto a tutti, o almeno lo avrebbe fatto, se avesse permesso a qualcuno di avvicinarglisi abbastanza da notarlo.
- Vado a cambiarmi, Federico. –
- D’accordo, fai in fretta - 
Non sentì nessuna risposta, se non quella della porta della stanza di Dominik che si chiudeva. Avrebbe potuto essere un po’ più gentile nei toni, ma il fatto che avesse parlato rappresentava un passo avanti; di solito, andava via in silenzio. Era come se l’arrivo di Samuele avesse  spezzato un equilibrio esistente tra loro; erano così abituati a quel silenzio, all’ignorarsi quasi. Poi arrivava quell’omone dalla risata facile, e rovesciava tutte le regole; spezzava il silenzio di Dominik, e zittiva lui.
- Senti, ma se me lo faccio ti dispiace? – gli chiese poi l’uomo, dandogli una pacca sulla spalla. Si sarebbe strozzato, ne era certo, ma non sapeva se per la sorpresa o per l’istinto di ridere. Si immaginava un possibile contatto tra Dominik e Samuele.  Era inverosimile immaginare qualsiasi contatto di Dominik con il mondo intero, figurarsi con uno come lui…anche se, la reazione del ragazzo all’arrivo di Samuele era stata strana. Forse, era uno di quei casi strani, quelli che si leggono nei libri d’amore, o che si vedono nei film: due anime gemelle si riconoscono in un attimo, trovandosi nella stessa stanza, solo dai brividi. Sarebbe stato un lieto fine perfetto: Samuele avrebbe lasciato Riccardo, avrebbe trovato un ragazzo che potesse amarlo davvero, e Dominik avrebbe trovato l’unica persona che avrebbe spezzato il suo muro di ghiaccio. L’unico inconveniente sarebbe stato ritrovarsi Samuele in casa continuamente.
No, non sarebbe successo: Dominik non era gay, non sapeva neppure che lo fosse lui. E poi, dell’amore non gli importava nulla, lui aveva la sua musica, aveva detto di voler stare più in alto.
Ma cosa avrebbe potuto farlo stare più in alto dell’amore? La musica, certo; ma la musica non ti abbracciava la notte, non ti baciava, non ti accarezzava, non ti accompagnava dal dentista quando avevi una fifa boia. L’amore per la musica era qualcosa di trascendentale, ma a tutti serviva qualcosa cui aggrapparsi per restare sulla terra. E Samuele non poteva essere quel qualcosa per Dominik. Dominik era diverso.
Non fece in tempo a rispondere che la porta della stanzetta si aprì, e il ragazzo tornò nel salotto. Federico rimase in silenzio; non sapeva cosa dire. Avrebbe dovuto dire a Samuele che no, non gli importava nulla, che facesse quello che voleva, ma non ci riusciva. Non riusciva a dirglielo, nella mente si affollavano milioni di parole; come spiegargli la visione che Dominik aveva del mondo? I suoi colori, la sua passione per la musica, la sua concezione dell’amore.
Era troppo in alto perché uno come Samuele potesse anche solo sfiorarlo. Perché chiunque al mondo potesse avvicinarlo.
- Cosa hai cucinato, oggi? –
Sobbalzò. Dominik era troppo vicino, la sua voce era giunta diretta all’orecchio, accompagnata da quel profumo di acqua di colonia da bambino. Non l’aveva sentito arrivare, si muoveva in quella casa come un gatto. Si sentiva il cuore in gola.
- Samuele ha portato il pranzo, è tardi per cucinare. –
- Oh. Va bene. –
- Il mio pranzo non ti piace, Dominik? – intervenne Samuele. Il ragazzo rimase fermo di fianco a Federico, seguendo il profilo del ripiano della cucina.
- Mi piacciono le cose che cucina Federico. – disse, come se fosse la cosa più normale del mondo. 
Rimasero in silenzio per alcuni minuti, mentre Federico apparecchiava e Samuele sistemava il pranzo sul tavolo; aveva portato quella che aveva definito una sua creazione, l’insalata russa con in mezzo del pollo fritto. Sembrava buona; aveva portato anche la macedonia, e naturalmente aprì il vino prima ancora di sedersi a tavola. Dominik si sedette al suo posto, lisciando continuamente la tovaglia, come se fosse in imbarazzo; eppure, a parte quel gesto ripetuto, il suo corpo non tradiva alcun sentimento. 
- Allora, Dominik, più tardi io e Federico andiamo a lavoro. Perché non vieni con noi? – esordì Samuele.
Non sarebbe venuto, ne era certo; non aveva voluto uscire con lui, aveva avuto paura, non avrebbe mai accettato di mettere il naso fuori di casa. Conosceva benissimo quell’espressione stizzita, con il naso arricciato all’insù, che precedeva sempre un secco no. L’idea di  portarlo al locale, con lui e Samuele, poi, lo atterriva: non aveva ancora avuto il coraggio di confessargli di essere gay, e portarlo in un locale gay non era decisamente il miglior modo di farglielo capire. Il loro rapporto era già abbastanza in bilico per aggiungere anche quello; non sembrava un tipo pesante come i suoi genitori, ma non sapeva esattamente come avrebbe reagito a una notizia del genere.
In ogni caso, non dovette porsi il problema: come si aspettava, Dominik rispose con un netto cenno di diniego.
- No. –
- Dai, ci divertiremo! –
- No, non mi va –
- Ma poi.. – iniziò Samuele, ma Federico poggiò con un colpo secco la bottiglia d’acqua sul tavolo.
- Ha detto no, Samuele. Non insistere. – gli disse. Quando l’uomo sollevò il capo, stupito, il ragazzo fece roteare il dito indice in  aria, in una silenziosa richiesta di rimandare il discorso a quando fossero stati soli. Quando Dominik diceva di no, era no; era impossibile convincerlo a cambiare idea, a meno che non fosse lui a decidere di farlo. A volte, come il giorno  precedente, non era una garanzia neppure quella. In fondo, in parte aveva imparato a conoscerlo in quei giorni, e non tutto quello che aveva visto gli era piaciuto. Forse solo il 5%. O lo 0,1.
Samuele rimase zitto solo per pochi secondi prima di lanciarsi in una eccitata conversazione sul Milan, sui suoi dirigenti, e sulle partite di serie A. Federico sorrise; non c’era modo migliore al mondo, per sciogliere il ghiaccio di un’atmosfera tesa, che parlare di calcio.
- Federico? – li interruppe Dominik in una pausa di silenzio, come se fosse appena sceso dalle nuvole. – Oggi torni presto dal lavoro? –
- Non lo so, ma dovrei tornare per cena. –
- Allora la prepariamo la cioccolata? – Sorrise, passandosi una mano tra i capelli. Dominik pensava alla cioccolata; mentre loro parlavano di calcio,  di scommesse, di cocktail e  di soldi, lui se ne usciva in quel modo.
- Si, quando sarò a casa la faremo - 
 

§ § §

 
Federico aveva mantenuto la promessa.
La cioccolata era buonissima, ci avevano messo anche i marshmellows che avevano comprato l’ultima volta al supermercato. Era bello mangiare la cioccolata sul divano, con la coperta sulle gambe; c’era silenzio, ma a lui non pesava. Federico era seduto al tavolo, stava studiando; lo sentiva respirare più profondamente ogni tanto, percepiva il fruscio delle pagine, il battere della penna sul legno. Doveva essere stanco, dopo tutto quel tempo; era tornato in tempo per cena, e avevano mangiato una tazza di latte con i biscotti. Era stato bello; con la mamma non l’aveva mai fatto, al papà non piaceva cenare in quel modo, ma Federico gli aveva raccontato di averlo sempre fatto spesso insieme a sua madre. I biscotti con le gocce di  cioccolato poi, i preferiti di Federico, erano buonissimi. Poi avevano fatto la cioccolata; quella era più che buonissima, era magica.
Era come suonare Chopin mentre fuori pioveva.
Chopin lo aveva suonato tutto il pomeriggio; avrebbe dovuto fare i suoi esercizi, come gli aveva ordinato la maestra, ma non aveva toccato gli spariti nemmeno una volta dal venerdì precedente. Aveva preferito suonare le sue melodie preferite, lasciarsi prendere dai colori; era stato triste tutto il tempo, aveva intrappolato i colori in tutto quel nero, e non doveva. I colori non meritavano di essere intrappolati.
Un po’, quella mattina, erano venuti fuori: Federico sembrava allegro quando era arrivato il suo amico. Samuele era altissimo e aveva delle spalle larghe, sembrava una montagna. Se avesse dovuto scegliere un colore per lui, sarebbe stato il giallo, perché la sua risata era calda come il sole. Federico invece non aveva ancora un colore; ogni tanto era azzurro e gentile, poi diventava arancione come le coperte di casa sua, poi ancora verde  e fresco.
Samuele gli piaceva, perché faceva sorridere Federico, e quando sorrideva, Federico era più giallo del giallo, era giallissimo.  Samuele lo faceva sorridere, molto più di quanto facesse lui; lo aveva sentito il cambiamento, quando era entrato in casa con il pranzo. Aveva sentito la tensione, tra di loro, e allo stesso tempo il calore della confidenza che li univa; non credeva che due persone estranee potessero avere un rapporto di confidenza come quello, vicino a quello che lo univa alla mamma. Aveva avuto subito la curiosità di toccarlo, di sentire cosa avesse di speciale; erano i suoi lineamenti, il suo sorriso, la linea del suo collo, ma soprattutto era quello che aveva sotto la pelle.
Tutte le persone avevano qualcosa di speciale dentro; una linea della pelle, un muscolo contratto, una smorfia. Samuele aveva il volto rilassato, ma la fronte corrugata, come se qualche pensiero lo tormentasse continuamente. Lui le sentiva quelle cose, per questo aveva voluto toccarlo. Era buono anche lui, doveva esserlo, o Federico non lo avrebbe mai avvicinato.
Solo dopo si era reso conto che toccare Samuele non era stata una buona idea: quel contatto gli aveva messo addosso un prurito strano, aveva risvegliato la voglia di toccare Federico, di sapere come fosse. L’aveva seppellita in un cassetto quella curiosità, l’aveva messa da parte per godere soltanto della sua voce, del suo respiro, del suo modo di parlare; quando Federico parlava, la sua voce veniva dal buio. Non era come con le altre persone, che immaginava con i loro lineamenti, e pieni di colore; Federico era nascosto nel buio, era un respiro, una voce calda, un colpo di tosse, una risata. Ma era tutto buio intorno, e non gli piaceva. Federico doveva essere pieno di colori. Non aveva mai avuto il coraggio di chiedergli di toccarlo, ed erano passate due settimane; ma l’arrivo di Samuele gli aveva scatenato di nuovo dentro tutto.
Un rumore più forte lo distrasse dai suoi pensieri, accompagnato da uno sbuffo; Federico doveva aver chiuso il suo libro, e aveva fatto scorrere la tazza sul legno del tavolo. Era un rumore sordo, quasi confortante; sapeva di inverno, di bevande calde e di coperte profumate.
- Hai finito di studiare? – gli sussurrò, stringendo la tazza tra le mani.
- Per oggi si, sono stanco. Volevo guardare un po’ la tv. – Dominik si leccò le labbra, rubando le ultime tracce di cioccolata. Era così buona.
Sentì i passi di Federico sul parquet, prima di avvertire il fruscio dei suoi vestiti che sfregavano contro il tessuto del divano. Non ci fu nessun rumore di ceramica contro legno; la tazza doveva averla lasciata sul tavolo.
- Domani hai lezione? –
- Si, solo di mattina. Tu? –
- Tutto il giorno, come sempre. Dopo andiamo al supermercato? E’ lunedì. –
- Si, devo comprare i cereali. –
Dominik bevve gli ultimi sorsi della cioccolata, mentre la stanza si riempiva delle voci che provenivano dalla televisione. Federico respirava regolarmente, cambiando continuamente canale: alla fine, si fermò su quello che doveva essere un film. Rimasero in silenzio, fino a che il biondo non si mise ritto sulla schiena, tendendo le mani avanti. Voleva posare la tazza sul mobiletto della tv, e sperava davvero che Federico  non avesse lasciato di nuovo la sua roba in giro. Era straordinario come riuscisse sempre a dimenticare qualcosa da qualche parte; non faceva che ripeterglielo, ricordarglielo, ma niente, continuava sempre a dimenticare la sua roba in giro per casa. In fondo, però, era anche divertente il modo in cui poi gli chiedeva scusa, affrettandosi ad aiutarlo; era sbadato, non lo faceva di proposito.
Si alzò in piedi, con le mani tese, ma venne intercettato.
- Aspetta, la porto in cucina –
Sentì il calore della sua mano sulla propria prima ancora della sua voce; era caldissimo come quella notte in cui aveva cercato la sua mano, in cui si era addormentato con quel calore. In un’altra occasione, forse, avrebbe risposto a tono, l’avrebbe scostato e avrebbe fatto tutto da sé: odiava che la gente lo considerasse incapace solo perché era cieco. Invece, non riuscì a fare niente; lasciò che la tazza fredda gli scivolasse dalle mani senza dire niente, senza fiatare. Federico non lo stava facendo con cattiveria, voleva solo fargli un piacere; l’avrebbe fatto con chiunque, cieco o non cieco, ne era certo, perché era fatto così, non faceva altro che mettersi in mezzo per aiutare gli altri. Forse  se lo stava solo immaginando, in fondo non lo conosceva affatto, ma non era possibile; lui le sentiva certe cose, e Federico era buono davvero. Si sedette di nuovo, e il ragazzo fece la stessa cosa. Lo sentiva così lontano; lui si era raggomitolato sulla sua poltrona, con le ginocchia strette al petto, mentre Federico era rimasto sul divano.
Iniziò a tormentare il l’orlo dei pantaloni, alla caviglia, con le dita gli bruciavano i polpastrelli  per la voglia di toccare Federico, solo per un attimo, per sapere come fosse. Averlo sfiorato, per caso, aveva peggiorato la situazione. Lui respirava piano, sul divano, probabilmente annoiato, forse valutando la possibilità di andare a letto e riposare dopo la brusca sveglia di quella mattina.
Se fosse andato a dormire, non avrebbe avuto il coraggio di fermarlo. Non avrebbe dormito tutta la notte.
- Federico? –
- Mh? –
- Posso toccarti? –
- Eh? –
Non si mosse, restando raggomitolato sulla sua poltrona. Gliel’aveva detto, era stato facile, e Federico non l’aveva presa nemmeno tanto male. Non era scappato urlando, non lo aveva insultato come diceva la mamma.
- Voglio vedere come sei, la tua faccia. –
- Oh…beh…certo, che…certo che puoi… - farfugliò, visibilmente in imbarazzo. Forse la mamma in parte aveva ragione, lo aveva imbarazzato, non  avrebbe dovuto; eppure non c’era niente di male, non voleva fare nulla, solo toccarlo un attimo per potergli dare un volto.
Si alzò subito, raggiungendolo su l divano; Federico si era seduto, poteva sfioragli le ginocchia con le sue. Non erano ossute come le sue, erano più grosse, dovevano esserlo anche le gambe. Si scostò di pochi centimetri, non gli piaceva sentire le persone così vicine. Sollevò le mani; sentiva il calore del suo petto, a distanza, i soffi del suo respiro sul viso. Erano alti quasi uguali, ma Federico lo era un po’ di più. Il profumo di muschio era più forte da così vicino, era buono.
Sentiva una strana tensione; Federico era immobile, teso, come se avesse paura, ma non voleva fargli niente. Allo stesso tempo, era come se una calamita attirasse le sue mani verso quel viso sconosciuto; non si mosse velocemente, perché voleva godere di quel momento. Erano gli ultimi istanti in cui non avrebbe dato un volto alla voce calda di Federico, alla sua risata, al suo profumo, al suo modo di fare e alle sue abitudini; avrebbe smesso di immaginarlo, avrebbe distrutto per sempre l’immagine che si era fatto di lui. Forse non lo avrebbe più visto come lo vedeva prima, e aveva paura che non gli sarebbe piaciuto.
Federico espirò. Era come sentire le note finali di una melodia conosciuta prima di gettarsi nel vuoto.
 

§ § §

 
Credeva di aver aspettato per giorni quel momento, invece non era mai stato tanto impreparato; si sentiva teso come una corda di violino, prossimo a spezzarsi.
Quando Dominik gli aveva chiesto di toccarlo, era stato così improvviso che gli aveva persino risposto in modo sorpreso; non poteva aver davvero pensato che volesse fargli chissà cosa, non lui! Sapeva di cosa stesse parlando, ma era sorpreso comunque.
Trovarselo così vicino, dopo quel continuo tira e molla, era strano; faceva un altro effetto da lì.
Poteva vedere come la sua  pelle fosse liscia e pallida, senza ancora neppure un accenno di barba; aveva poche lentiggini, chiarissime, sul naso, e i capelli sulla fronte e sulle tempie erano così chiari e così sottili da risultare quasi invisibili; sulla tempia destra, poi, una ciocca di capelli formava un ricciolo. Poi c’erano le labbra; non aveva mai visto labbra carnose, chiare e morbide come quelle, non in un uomo almeno. Erano le labbra più belle che avesse mai visto, non era la prima volta che si soffermava a fissarle, ma non le aveva mai avute così vicine da poter fare un passo avanti per catturarle. Sapeva che non lo avrebbe mai fatto; non era mai stato un conquistatore o uno fissato con il sesso, né tanto meno un uomo a cui nessuno sapeva resistere. Si lasciava attrarre da tante cose, ma finiva sempre per ammirarle da lontano. Succedeva così anche con Dominik; lo ascoltava suonare, lo guardava da lontano, ne studiava i lineamenti così perfetti, e ogni tanto si chiedeva anche come sarebbe stato somigliargli almeno un po’, avere la sua stessa passione per la musica, la sua aria disincantata, la sua visione del mondo così ingenua e pulita.
Dominik lo affascinava, era quello il punto: vivere in casa con lui era come trovarsi in un mondo parallelo, davanti ad una creatura mitologica, a guardarla muoversi da vicino.
Si sentiva un po’ come Piero Angela quando scopriva i resti di una nuova città Maya. Non riusciva a staccargli gli occhi di dosso, teneva sulla punta della lingua mille domande, che avrebbe voluto fargli, alle quali avrebbe voluto una risposta. Invece restava in silenzio ad ammirarlo da lontano. Poi Dominik scappava, come un gatto, e allora era sempre meglio tenerlo lontano.
Come in quel momento; gli aveva chiesto di toccarlo, si era seduto vicino a lui, aveva già le mani tese, eppure non lo toccava. Era come se avesse cambiato idea. Non era come con Samuele, lui l’aveva sfiorato subito, prima di allontanarsi. Stava esitando, e non ne conosceva il motivo. Vivevano insieme, cucinava per lui, lo accompagnava al supermercato, ma non avevano ancora la confidenza necessaria per sfiorarsi?
Come se avesse sentito i suoi pensieri, Dominik tornò a muoversi; prima sospirò e il suo fiato caldo si infranse contro il viso di Federico. Odorava di cioccolata, di marshmellows, dei biscotti che aveva mangiato; era tremendamente dolce. Poi, inaspettatamente, poggiò i palmi delle mani sui suoi zigomi; erano fredde, grandi, e gli circondarono il viso completamente.
Trattenne il fiato, studiando la sua espressione; teneva gli occhi bassi, le labbra dischiuse. Sembrava una statua, immobile; l’unica cosa che si muoveva, erano le sue mani. In quel momento, erano i suoi occhi, ed erano l’unica parte del corpo completamente concentrata a studiarlo. Rimasero lì, quelle mani, ai lati del suo viso, fino a quando tornò a respirare, poi proseguirono in alto, lungo il naso, le palpebre, la fronte, i capelli, e poi in basso lungo la mandibola.
Infine gli sfiorò le labbra, con il solo polpastrello del dito indice della mano sinistra.
 

§§§

 
Era bello. Meglio di quanto avrebbe mai potuto immaginare.
Quello era il volto di una persona buona.
Aveva i capelli corti, lisci e morbidi; quando ci aveva passato la mano era stato come accarezzare la seta. Erano profumati, odoravano di dolce, di qualcosa che non riusciva a definire. era così diverso da lui; aveva il naso più lungo, il viso ruvido per la barba che ricresceva, gli zigomi meno spigolosi dei suoi e il viso ovale. Era un bel viso, lo sentiva sotto le mani. Anche le labbra erano belle; il labbro superiore era sottile, molto più di quello inferiore, ma le labbra erano lunghe, quando sorrideva doveva essere davvero bello. Sotto la pelle, Federico aveva tutti i muscoli tesi, come quelli di una statua realizzata con cura; ma le labbra, quelle erano morbidissime.
Quello era Federico; emergeva dal buio, e tutto si faceva arancione, e verde, e azzurro, e corallo. Soprattutto corallo, splendeva dovunque. Sarebbe rimasto lì, con le mani sul suo viso per tutta la notte; ora che aveva avuto il coraggio di vederlo,  voleva scoprirne ogni particolare, ogni neo, per dare a quel viso un’immagine che fosse sua e solo sua. Sarebbe stato anche una sonata, una bella melodia da suonare con calma, godendo del contrasto della sensazione dei tasti freddi sulle dita e del ricordo dei suoi lineamenti caldi.
Invece lo lasciò andare. Staccò le dita dal suo viso, lasciandosele ricadere sulle ginocchia; quando sentì sotto i polpastrelli il tessuto dei propri pantaloni, aveva ancora nella mente il viso di Federico. Ci sarebbe voluto qualche altro secondo  prima che le nuove sensazioni, i rumori, gli odori, lo scalzassero via. Prima che la musica, che aveva iniziato a suonargli nella testa, lo riempisse completamente, chiedendogli di uscire.
- Ti immaginavo quasi così, sai? – gli disse soltanto, rompendo quel silenzio. Federico all’inizio non disse nulla, ma lo sentì muoversi sul divano; si stava allontanando di qualche centimetro, e aveva sollevato una gamba sul divano, come a creare un muro che li dividesse. Non gli importava molto, quello che lo univa a Federico non era l’essere seduto sullo stesso divano, o il vivere nella stessa casa; erano i gesti che gli rivolgeva, era il cenare insieme, era il guardare lo stesso film alla televisione pur essendo seduti a un metro di distanza. Era quello che univa le persone, era la musica; tra lui e Federico si respirava sempre la musica. Federico la ascoltava con le orecchie Fquando lui suonava al pianoforte, ma lui era in grado di sentire, con la testa, la musica che Federico   emanava. Tutte le persone emanavano musica. Forse era un po’ anche per quello che aveva resistito tanto a lungo senza sapere come fosse fatto; sapeva come fosse dentro, e quello bastava.
- Così come? – Il ragazzo interruppe il flusso dei suoi pensieri, costringendolo a ritornare con i piedi per terra.
- Così. Così come sei, non si può spiegare. -  Fece una pausa, poi parlò ancora. – E gli occhi? Che colore sono? – Federico sembrò prendersi un minuto per pensare, ed era strano, perché doveva sapere come fossero i suoi occhi.
- Neri.  Ho anche i capelli neri. –
Nero.  Nel buio, l’immagine di Federico si completò; il nero era l’unico colore che conoscesse anche lui, e finalmente poteva vedere Federico davvero, sapere come fosse realmente.
- Io sono biondo, me l’ha detto la mamma, e mi ha detto che il biondo è diverso dal nero, è più vicino al bianco, sembra splendere. Vuol dire che noi siamo diversi? – gli chiese.
L’idea di essere tanto diverso da Federico lo infastidiva; lui era buono, bello, sempre gentile anche quando lo faceva arrabbiare, e divertente. Avrebbe tanto voluto somigliargli almeno un po’, anche solo fisicamente.
- Tutti sono diversi al mondo, solo i gemelli sono identici, e nemmeno tutti poi. E’ una bella cosa. –
Dominik fece una smorfia, infastidito. Federico non capiva, aveva ragione lui, dovevano somigliarsi almeno un po’. Decise di lasciar perdere, all’improvviso gli era venuta in mente una cosa molto più importante.
- Sabato c’è il concerto di inizio anno al Conservatorio. Suonerò Mozart, e Chopin. Verrai a sentirmi? –
Ci teneva tanto che Federico venisse; lo aveva sentito esercitarsi per giorni, ma non aveva mai visto realmente la sua musica, perché la mostrava solo in occasioni rare, come i concerti. E Federico doveva sentire la musica davvero, così forse avrebbe capito veramente quanto fosse bella, quanto fosse totalizzante.
- Sabato? Beh… - Una pausa troppo lunga. Ecco, non sarebbe venuto; avrebbe trovato una scusa, o avrebbe disdetto all’ultimo momento, inventandosi un impegno, o forse gli avrebbe detto chiaramente di no. Era ancora arrabbiato con lui, non c’erano altre spiegazioni. Dominik chinò il capo, stringendosi nelle spalle. Stava per dirgli di non preoccuparsi, che non era poi così importante, ma Federico lo precedette. – Si, verrò a vederti. A che ora? -  Dominik si illuminò, raddrizzando la schiena e smettendo di tormentarsi le mani.
- Alle  cinque! –
- Alle cinque…d’accordo. Vado a fare una doccia, e vado a letto, comunque. A domani. –
- Buonanotte Federico. –
Lo sentì chiudersi la porta del bagno alle spalle. Federico sarebbe venuto, era una bella notizia.
Si alzò, dirigendosi al pianoforte.
Chopin sarebbe dovuto essere perfetto. Federico sarebbe venuto.



Nota al capitolo 6:
Finalmente eccomi qui!
Riconosco che l'attesa è stata lunga, ma tengo molto a questo capitolo, e volevo che fosse ben scritto, che trasmettesse i pensieri dei miei personaggi, e trasparisse qualcosa che raggiungesse tutti.
Finalmente, il tanto atteso capitolo in cui Dominik tocca Federico; una parentesi che vorrei aprire, è l'invitarvi a non scambiare questa sorta di "attrazione" di cui parla Federico, con l'amore. Dominik e Federico si attraggono come calamite perchè sono estremamente diversi, vedono ciascuno nell'altro quello che vorrebbero essere, un ideale di perfezione al quale avvicinarsi; l'amore è ancora cosa lontana, o forse, senza saperlo, sta già gettando le sue radici in questo rapporto complesso che stanno sviluppando. Da qui l'esempio di Piero Angela, dello scienziato; lo scienziato è affascinato da ciò che ha intorno, dalla natura, dalla vita, ma non ne è veramente innamorato. Ne è attratto come una calamita, che è quello che succede ai nostri due protagonisti.
Samuele ha fatto la sua comparsata, ma non odiatelo per quella frase su Dominik, avrà anche lei la sua spiegazione.
Spero di poter aggiornare molto prima questa volta, perchè ho maggior tempo a disposizione per scrivere, anche se il fine settimana mi terrà totalmente lontana dal pc e dai miei adorati.
Ringrazio come sempre tutti, ho risposto alle vostre recensioni personalmente, quindi vi ho detto già tutto, non posso che divi ancora grazie! :D
Spero di leggere presto le vostre impressioni sul capitolo, e un grazie va ai lettori silenziosi ma che seguono comunque con affetto!
Un bacio! 

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Capitolo 8
*** 7th: E questa è la mia cucina! ***




Cucinare è come amare... o ci si abbandona completamente o si rinuncia.

Harriet Van Horne



Chapter 7th: E questa è la mia cucina!
 
Si era cacciato in un bel casino.
Come faceva a essere così scemo?
Faceva promesse che non poteva mantenere,  e poi si mangiava le mani. Ma come avrebbe potuto dirgli no, Dominik, sabato devo lavorare? Ci pensava da due giorni, da quando aveva fatto la cazzata di dirgli di si.
Ma insomma, dirgli di no sarebbe stato come rifiutare una carezza a un cucciolo che ti fissava con gli occhi spalancati.
Anche se Dominik non spalancava mai gli occhi, Federico li immaginava, grandi, allungati, e azzurri. Un giorno, per caso, il ragazzino gli aveva mostrato una sua vecchia fotografia insieme alla madre; non poteva avere più di sette anni, indossava un giubbotto troppo grande e stava ridendo. A colpirlo maggiormente, però, fu il viso di quella donna; era giovane, si vedeva, e aveva gli occhi più belli che avesse mai visto; erano di un azzurro disarmante, enormi, e sembravano potergli scavare dentro.
Da quel giorno, gli occhi che avrebbe dovuto avere Dominik, se  non fosse stato cieco, se li immaginava così; perché quel bambino biondo tutto infagottato era letteralmente identico alla donna che lo stava abbracciando. Lei era bella, bellissima, una bellezza angelica e disarmante: Federico era gay, ma non poteva negare l’evidenza quando si trovava davanti una donna meravigliosa. Quell’immagine lo aveva tormentato per giorni. Poi aveva pensato al sorriso di Dominik quando l’aveva rimessa a posto, sul comodino.
- La tengo con me, anche se non la vedo, perché la mamma ha detto che è un modo per sentirsi più vicini; dicono tutti che è una bella foto, che la mamma e io siamo bellissimi. Non poterla vedere è l’unico male dell’essere cieco –gli aveva detto. Tra tutte le cose che avrebbe potuto trovare insopportabili dell’essere cieco, aveva scelto quella apparentemente meno importante; non poter vedere le fotografie. Ma forse, era quella la cosa peggiore per lui; avere sua madre lontana, e non poter nemmeno vedere il suo viso, doverla tirar fuori dai ricordi, dalle sensazioni dei suoi lineamenti sotto la pelle.
Quando Dominik toccava, era peggio che trovarsi in una stanza sotto gli occhi di centinaia di persone.
La pelle del viso, dove lui aveva sfiorato la sera prima, bruciava ancora.
Chissà cosa doveva aver pensato di lui, come lo stava vedendo; non sarebbe mai stato uguale alla realtà. O forse si? Alcuni dicevano che l’uomo, quando si guardava allo specchio, non riusciva mai a essere obiettivo, si vedeva sempre più bello o più brutto del normale, distorto. Forse solo Dominik poteva vedere davvero le persone, incluso se stesso. Si rendeva conto di quanto fosse disarmante la sua sola presenza?
- Buonasera! –
Sobbalzò, mettendo a fuoco l’origine di quel saluto. La vide subito, poi, la signora Livolsi, quella del primo piano, che viveva lì da 30 anni e si era ormai abituata al pianoforte di Dominik. La prima volta l’aveva incontrata nello stesso punto, mentre innaffiava le piante dell’ingresso del palazzo, e lei non aveva fatto altro che parlare di quel caro ragazzo che suonava così bene e che rianimava le sue serate silenziose con quella bella musica.
- Buonasera, signora Livolsi – la salutò anche lui, chiudendosi il portone d’ingresso alle spalle. La signora era lì di nuovo a mettere l’acqua alle piante; con tutta quell’acqua, prima o poi sarebbero morte. Lei lo seguì con lo sguardo, fino a quando non raggiunse la sua porta. Infilò le chiavi nella toppa, ma era chiusa dall’interno; Dominik doveva aver messo il chiavistello.
Suonò il campanello, battendo poi con i pugni sulla porta, non troppo forte.
- Dominik, mi apri? – lo chiamò.
- Sei rimasto chiuso fuori? – gli chiese poi la vicina. Ogni tanto  gli veniva da chiedersi se quella fosse puramente curiosità, o vera gentilezza.
- No, signora, il mio coinquilino ha la mania di chiudersi dentro. Sa, sicurezza. –
Il rumore del chiavistello che girava lo salvò da ulteriori conversazioni; Dominik, però, non aprì la porta, non lo faceva mai. Lo costrinse a infilare di nuovo la chiave nella toppa, facendola girare. La porta si aprì. – Ancora buonasera! – salutò in fretta, prima di entrare in casa, chiudendosi la porta alle spalle prima ancora di accendere la luce.
- Con chi parlavi? –
La voce di  Dominik lo raggiunse mentre era tutto ancora al buio; era quasi inquietante, e in un attimo Federico fece scattare l’interruttore. La casa era perfettamente in ordine come quando era uscito, quella mattina; era straordinario come facesse Dominik a tenere quell’ordine, sembrava quasi che in casa non ci fosse, che fosse un fantasma. Quando ci stava lui, anche solo per dieci minuti, non si capiva più nulla.
- Con la signora Livolsi, quella del primo piano – gli disse, sfilandosi la borsa dalla spalla e lanciandola sul divano. Quello era già il primo segno del disordine che si sarebbe abbattuto su quell’appartamento; e c’era anche Dominik a limitarlo, tra l’altro. Poi si tolse il giubbotto, appendendolo all’ingresso. Dominik era in piedi, vicino al piano della cucina.
Era ormai ora di cena, aveva finito tardissimo a lavoro, ma aveva dovuto aspettare che arrivasse Fabrizio prima di andare via.
- Hai fame? – gli chiese. Lo vide annuire, spostandosi di lato per permettere a lui di raggiungere la cucina. Dall’ultima volta, in cui lo aveva toccato per vederne il viso, Dominik non gli si era più avvicinato; avevano continuato a parlare come prima, ma le cose non erano cambiate di molto.
Lo faceva sentire quasi a disagio, come se si fosse pentito e volesse allontanarlo.
Federico ricacciò indietro quei pensieri, limitandosi a raggiungere la cucina.
Di solito, Dominik si sedeva sulla sua poltrona, o si metteva a suonare qualcosa in attesa che fosse pronto in tavola. Quella sera, però, lo sentì alle sue spalle, stranamente silenzioso.
- Com’è andata oggi? – gli domandò per spezzare il silenzio, aprendo il frigo. Non aveva idea di cosa cucinare, ma stava letteralmente morendo di fame. Avrebbe potuto fare una frittata, magari, ma sentiva di dover mangiare minimo dieci uova per riempire il buco nello stomaco.
- Bene. La maestra mi ha detto che sono migliorato rispetto allo scorso anno, ma che non devo fare di testa mia quando devo svolgere un esercizio. – Seguiva il bordo del ripiano della cucina, con le dita, come se fosse in attesa di qualcosa. Poi alla fine parlò. – Cosa cucini oggi? –
- Non ho ancora deciso sai? Ho una fame! –
- Mi insegni a cucinare? – gli disse alla fine.  Federico raddrizzò la schiena, senza chiudere la porta del frigorifero; il suo sguardo era improvvisamente concentrato su Dominik, e nonostante lui non potesse vederlo, aveva capito di essere osservato. Aveva fatto un passo indietro, chinando ulteriormente il capo e stringendosi nelle spalle.
- A cucinare? – Dominik fece spallucce. Le unghie delle mani percorrevano il bordo del ripiano della cucina, come se fosse in imbarazzo.
- Si. Sei bravo a cucinare, e io voglio provare -   gli disse, con fare sicuro, in netto contrasto con l’atteggiamento del suo corpo.
Federico si passò una mano tra i capelli, imprigionando delle ciocche tra le dita. Si sentiva strano; tra tutte le cose che avrebbe mai potuto immaginare di sentirsi dire dal suo coinquilino, quella era l’ultima. Cucinare era una cosa così…terrena, che risultava quasi strano immaginarsi Dominik dietro i fornelli. Senza contare che…beh, Dominik era cieco. Non poteva cucinare.
Alzò di nuovo lo sguardo, chiudendo definitivamente la porta del frigorifero. I suoi occhi si posarono di nuovo sul ragazzo di fronte a lui; aveva  il viso abbassato, le mani ancora saldamente ancorate al ripiano della cucina. Per la prima volta, lo sentiva più vicino.
- E…perché no? Cosa vuoi cucinare? –
- Non lo so, scegli tu – borbottò, ma il cambiamento fu notevole.
Dominik si staccò dalla cucina, mettendosi in piedi con la schiena dritta e le braccia lungo i fianchi. sembrava essersi illuminato.
Cosa potesse fargli cucinare, era ancora un mistero. In verità, quando era arrivato a casa, non aveva avuto parecchia voglia di cucinare; sperava di fare qualcosa di veloce, di riempirsi lo stomaco e di lasciarsi cadere sul divano. Ma Dominik gli aveva chiesto di cucinare in un modo così tenero, quasi, da non lasciargli altra scelta. Lo aveva sentito più vicino, più vero, più vivo; per giorni aveva aspettato che facesse un passo verso di lui, non si sarebbe tirato indietro per nulla al mondo.  
- Beh, vediamo… - iniziò. Doveva pensare, scegliere di insegnarli qualcosa che potesse fare con relativa autonomia, che non fosse troppo difficile. Non avrebbe mai potuto cucinare da solo, ma non voleva neppure che fosse un semplice spettatore. Doveva esserci qualcosa di semplice realizzazione. Poi, aprendo il frigorifero nuovamente, i suoi occhi si posarono su una busta nel ripiano laterale. – Ti va la pasta con il salmone? –
- E’ buono il salmone. Si. Come si fa? –
Sembrava improvvisamente entusiasta, e allo stesso tempo sempre algido: non si era più mosso dalla posizione in cui stava, ma sorrideva. Federico si prese qualche minuto per guardarlo, prima di estrarre la busta dal frigo.
- Per prima cosa, mettiamo su l’acqua per la pasta, che dici? –  Lo vide fare spallucce, mentre si tormentava le mani. – Che dici di prendere una pentola e riempirla d’acqua? –
Dominik annuì, affrettandosi a dargli le spalle. Federico non riuscì a togliergli gli occhi di dosso mentre lo vedeva estrarre una pentola lucida e dirigersi al lavandino; era affascinante quel modo di muoversi, quel contrasto tra l’attenzione che metteva nel seguire i profili delle stoviglie e la sicurezza con cui si muoveva. Solo quando il rubinetto si chiuse e lui parlò, riuscì a   tornare alla realtà.
- Adesso cosa devo fare? –
- Eh? Ah, adesso…dai a me, dobbiamo riscaldare l’acqua.. – Gli prese la pentola dalle mani, adagiandola sul fornello e accendendo la fiamma. Dominik rimase fermo dov’era, in attesa, cercando di captare, dai rumori, i movimenti del suo coinquilino.
Federico ne approfittò per estrarre tutti gli ingredienti e prepararli sul piano della cucina; il burro, la cipolla, il salmone, il prezzemolo. L’acqua, nella pentola, era ancora uno specchio immobile. Espirò, cercando di richiamare le idee: era strano avere Dominik lì, si sentiva quasi il suo fiato sul collo.
- Adesso cosa facciamo? –
- Dobbiamo…tagliare la cipolla e metterla in padella con il burro e il salmone. –
- Ma non ci sta la cipolla con il salmone! – lo sentì lamentarsi. Sorrise, divertito.
- Si che ci sta, è il mio ingrediente segreto! E questa è la mia ricetta speciale! –
- Ma…intera? – chiese Dominik, con una smorfia poco convinta. Federico scoppiò a ridere. Non era  carino farlo, di fronte alla sua espressione stranita e convinta, ma non era riuscito a trattenersi. Solo uno come lui poteva immaginarsi di mangiare la pasta con dentro una cipolla intera! Cercò di ritornare serio, ma quando parlò stava ancora ridacchiando.
- No, che intera…dobbiamo tagliarla. –
- Voglio farlo io. – Improvvisamente anche Federico tornò serio. No, non poteva dirlo davvero.
- Lo faccio io, non preoccuparti. Tu metterai il salmone. –
- Voglio farlo io, posso farlo! – Era serio, convinto. Aveva battuto il piede sul pavimento, cocciuto.
Era cieco, diamine, non poteva affettarsi un dito!  Federico espirò di nuovo, questa volta frustrato.
- Tu non ci vedi! Se ti affetti un dito e devo portarti in ospedale?! Non fare lo stupido!! –
Dominik arretrò di un passo, deglutendo in silenzio. Il tono di voce che aveva usato, improvvisamente, sembrò troppo alto. Aveva urlato, lo aveva colpito come se lo avesse schiaffeggiato. Con una frase, una sola, aveva appena mandato al diavolo diciotto anni di lavoro di sua madre per non farlo sentire diverso dal mondo. Era davvero una merda, nel vero senso della parola. Il ragazzino non parlò, non disse altro: si limitò a fare un solo sospiro, stringendosi nelle spalle.
- Io…volevo solo provare… - bisbigliò, tormentandosi un labbro con i denti.
- Scusa, io…non volevo dire che…è solo…ho paura che ti faccia male. – Fece una pausa, rendendosi conto di non aver, di fatto, detto niente. Nella pentola, l’acqua iniziava a gorgogliare. – Posso aiutarti io, però, se vuoi. – Lui non gli rispose. Non che si aspettasse il contrario, era troppo orgoglioso per cedere, ma se non altro poteva provare. Aprì lo sportello sotto il lavello, estraendo due paia di guanti e porgendogliene uno. – Prendi i guanti – gli disse solo, facendo in modo che gli sfiorassero le dita. Dominik li strinse all’istante, armeggiando per sistemarli sulle mani, e Federico ne approfittò per sistemare una cipolla sul tagliere di legno e prendere un coltello con il manico rosso. Come avrebbe potuto aiutarlo a tagliare la cipolla senza che si affettasse un dito, o peggio, tutta la mano?
- Dominik? Vieni qui. Hai messo i guanti? - Lo vide annuire, e tendere le mani in avanti, cercandolo. dire ad un ragazzo cieco “vieni qui” non era decisamente il massimo dell’intelligenza. Con un gesto delicato, Federico gli strinse il polso: la plastica del guanto che indossava era insopportabile, gli impediva di sentire la pelle chiara del ragazzo sotto i polpastrelli. Lo guidò davanti a sì, fino a trovarsi davanti la sua schiena, mentre lui era rivolto al ripiano della cucina: si chiuse a cucchiaio intorno a lui, curandosi di non toccarlo. L’unica vicinanza che poteva concedersi era il proprio respiro che si infrangeva sulla sua nuca.
Federico, rigido, strinse la cipolla che avrebbero dovuto tagliare, cercando le mani di Dominik, protette dai guanti.
- Ecco allora…la cipolla si taglia così…la stringi, qui, a metà…lo senti? –
- Si. E’ rotonda. - 
- Ecco, adesso quando senti il bordo, è lì che devi tagliare, a fettine sottili. –
Il giorno del giudizio, la sua fine. Stava stringendo una cipolla, un coltello, e la mano di Dominik: sperava di non tagliare qualcosa per errore. Poi, sentì la lieve resistenza della cipolla, e quando guardò in basso, le loro mani avevano tagliato delle fettine sottili. Battè le palpebre qualche volta, per allontanare il bruciore agli occhi; stavano per lacrimare, lo sentiva. Era quello il motivo per cui odiava avere a che fare con le cipolle. Si concentrò su Dominik: aveva ancora le mani nelle sue, e il coltello saldamente stretto tra le dita.
- Fatto, visto? –
Avrebbe dovuto vederlo trionfante, quantomeno sorridente, invece il viso di Dominik era contratto in una smorfia, e con un gesto repentino stava lasciando cadere il coltello per portarsi le mani al viso.
- Brucia – mormorò.
- No! Non toccare! I guanti sono sporchi! – lo rimproverò, afferrandogli i polsi prima che raggiungessero il loro obiettivo.  
- Ma brucia -  lo pregò, con tono lamentoso. Aveva le labbra umide, così come la pelle intorno agli occhi: stava lacrimando.
- Aspetta, aspetta… - Si tolse in fretta i guanti, gettandoli nel lavello, poi gli si avvicinò con cautela.
Era indeciso, temeva che, se lo avesse toccato, Dominik avrebbe fatto un passo indietro, sfuggendogli del tutto, e i loro progressi sarebbero andati perduti. Ma lui lo stava pregando, con il capo volto in alto, le palpebre dischiuse, gli occhi lacrimanti.
 

§§§

 
Bruciava tutto. Era insopportabile.
Se avesse  potuto si sarebbe strappato gli occhi, il naso, si sarebbe allontanato da lì.
Era stata la cipolla? Quando la mamma cucinava la zuppa, non gli faceva mai quell’effetto.
Voleva e doveva fare qualcosa, ma Federico gli aveva detto di aspettare, e lui si fidava di Federico.
Federico sapeva cosa fare, gli avrebbe insegnato tutto quello che sapeva, sarebbe stato un bravo maestro. Era vicino, lo sentiva dal respiro, davanti al viso.
Poi, a sorpresa, sentì il calore delle sue mani sul viso. Odoravano di plastica, della polverina dei guanti, di lattice, e di sapone per i piatti. Erano morbide, e bagnate.
- Aspetta, vieni… - gli mormorò, a voce bassissima. Perché parlava così piano?
Non gli rispose, non ne avrebbe avuto la  forza. Sentì solo il sollievo che gli procuravano le dita sugli occhi. Non bruciava più, era come l’acqua che spegneva il fuoco.
Pizzicava tutto, però: dove Federico toccava, pizzicava. Pungeva. Sbattè le palpebre, e nel buio vide comparire quei puntini bianchi che gli mandavano gli angeli, come diceva la mamma. Lui lo sapeva che quelli non erano gli angeli, glielo aveva spiegato il dottore: erano delle immagini che i suoi nervi proiettavano, per cercare la luce, la vita. Ma alla mamma faceva pensare che credesse a lei, che fossero gli angeli; anche Federico lo aveva detto, perché forse anche Federico voleva far contenta la mamma. L’avrebbe detto, a lei, che anche Federico credeva agli angeli, che anche lui era bravo e buono. Non le avrebbe detto che stavano cucinando insieme, però: a Natale le avrebbe fatto una sorpresa. Però la cipolla no, quella non l’avrebbe tagliata.
Federico staccò le mani dal suo viso all’improvviso, come se si fosse appena ricordato di dover fare qualcosa; si allontanò, il suo calore vicino non c’era più. Stava armeggiando con qualcosa, e quando sentì il caratteristico rumore quasi metallico, capì che aveva appena versato la pasta nell’acqua bollente. L’acqua era bollente, ne sentiva il gorgoglio, e anche nell’aria c’era quella pesantezza che solo il vapore della cucina poteva suscitare.
Federico rimase lontano, lasciandolo dov’era.
- Posso togliermi i guanti? –
- Si, lasciali nel lavello. – borbottò. In silenzio, Dominik fece come gli aveva detto, ma stava pensando al suo tono di voce; perché all’improvviso era così silenzioso? Era  arrabbiato con lui? Non gli aveva fatto niente di male.
- Cosa dobbiamo fare adesso? – gli chiese allora, cercando di avvicinarsi a lui.
- Adesso facciamo il soffritto. Ho messo il burro nella padella con la cipolla. Dobbiamo aggiungere il salmone. Vieni. – Il salmone era buono, faceva profumo.
Federico doveva aver aperto la busta, il profumo si stava diffondendo.
- Posso metterlo io? – gli chiese, con entusiasmo. Tese le mani in avanti, scontrandosi contro il braccio di Federico. Lo sentì ridere piano, ma poi gli strinse il polso, guidandolo in basso.
- Prendi una striscetta, piano…così, bravo.., -
Sentiva sotto le dita la consistenza viscida del salmone; non era così bello toccarlo. Gli ricordava l’ultima volta che, da bambino, aveva avuto un pesce rosso; una volta la mamma gli aveva permesso di aiutarla a cambiare l’acqua della boccia, e avevano trasferito per un po’ il pesciolino nel lavandino del bagno. Lì aveva potuto toccarlo, per un istante; era viscido e freddo. Non gli erano mai piaciuti i pesci rossi, ma quello glielo aveva  regalato la nonna, ci sarebbe rimasta male se lo avesse rifiutato. Persino quando era finito per sbaglio giù per lo scarico le avevano detto che fosse morto di vecchiaia.
All’improvviso, la mano bruciò; qualcosa, nella mano, bruciava. La ritrasse subito, con un lamento, portandola alle labbra. Federico gli si avvicinò subito, prendendogli il polso con una mano. Non si sarebbe fatto prendere, non avrebbe tolto la mano dalla bocca, bruciava! Ma  federico strattonò più forte, e dovette cedere.
- Ti sei bruciato? –
- Non lo so - si lamentò.    
- Ti è schizzato un po’ di burro. Metti la mano sotto l’acqua fredda. – gli ordinò. Obbedì senza protestare, bruciava troppo. Stava cucinando da dieci minuti e si era già fatto male due volte; prima la cipolla gli aveva bruciato tutti gli occhi, adesso il burro. Non pensava che cucinare fosse tanto brutto, Federico lo faceva continuamente, e anche la mamma.
Il contatto con l’acqua fredda era confortante, e poco distante il burro stava ancora scoppiettando. Se ne stava occupando Federico.
- Ma come hai fatto a bruciarti, a che pensavi? –
- Al pesce rosso che mi aveva regalato la nonna – borbottò, sinceramente. Federico scoppiò a ridere, e Dominik si trovò indeciso tra la possibilità di arrabbiarsi, perché si stava prendendo gioco di lui, o quella di ridere insieme. Federico aveva una bella risata, e in fondo era stato tanto paziente con lui negli ultimi giorni. Si era anche lasciato toccare, immobile e tranquillo, mentre lo studiava; lo aveva trovato bellissimo.
Chiuse l’acqua con uno scatto, asciugandosi le mani prima di avvicinarsi di nuovo a Federico; rimase alle sue spalle, non voleva bruciarsi di nuovo. Il suo coinquilino si muoveva in giro, tra lo scoppiettare della padella e il gorgogliare della pasta, e lui non riusciva a fare niente. Era davvero un disastro, ma rimpiangeva le sue buste di insalata e i suoi cordon bleu da scaldare al microonde. Non si era mai bruciato con quelli. La cucina era cattiva. Non era come il suo pianoforte, quello non bruciava. La cucina era cattiva, ma era anche buona, quando ne uscivano i piatti buoni di Federico. Era attiva, viva. Era come Beethoven.
 

§§§

 
- Finisco io, che dici? – Era stanco di stare il silenzio: se fosse stato ancora in silenzio, avrebbe mangiato il ripiano della cucina, solo per mettere qualcosa sotto i denti, oppure avrebbe riso di nuovo. Dominik in cucina era uno spasso, a dir poco: non faceva che muoversi, agitarsi, e si perdeva sempre nei suoi pensieri.
Dominik era in silenzio, ma quando si voltò per guardarlo vide che stava annuendo; aveva un’espressione stizzita, ma se ne stava appoggiato al muro, come se non volesse fare altro nella vita.
- Posso restare qui? – gli chiese all’improvviso.
- Se vuoi –
- C’è un buon profumo. –
- Ti piace il salmone? –
- Si. E’ buono, anche se è viscido da toccare. –  Era viscido anche da mangiare, eccome. Però era buono, e con quel profumo che emanava stava per afferrarlo dalla padella e mangiarlo così, senza aspettare. Mescolò di nuovo la pasta con il mestolo di legno, tirando fuori una farfalla per assaggiarla: era quasi pronta, era ora di versare la panna della padella prima di mettere anche la pasta.
- Ne è rimasto un po’, di salmone. Ne vuoi? – disse alla fine al ragazzino, che se ne stava in piedi alle sue spalle. si sentiva a disagio lì, in silenzio; odiava essere osservato, e nonostante Dominik non potesse vederlo, lo metteva in soggezione comunque.
- Davvero? – Dominik si avvicinò senza esitare, fino a fermarsi al suo fianco. Era straordinario come diamine facesse a muoversi in quel modo; conosceva la casa, d’accordo, ma sembrava conoscere benissimo anche il modo in cui lui si muovesse all’interno di quella casa.
Strinse l’ultimo ritaglio di salmone tra le dita, avvicinandolo  a Dominik; lui se ne stava in piedi, con le labbra dischiuse le mani lungo i fianchi. Un momento…voleva davvero che lo imboccasse? lo credeva davvero? Rimase qualche istante così, con il salmone tra due dita e Dominik in attesa; nessuno si muoveva, gli unici rumori venivano solo dalla cucina. Alla fine, prendendo coraggio, spinse il salmone vicino alle labbra di Dominik, fino a sfiorare il labbro inferiore. Lui le aprì subito, circondandolo, fino alle dita. Il contatto delle labbra intorno alle dita fu disarmante, e terribilmente erotico; stava offrendo del salmone a un ragazzino. E quel ragazzino gli stava succhiando le dita! Non si rendeva conto di quello che faceva, ne era certo, ma il modo in cui lo stava facendo, quelle labbra così morbide e carnose. Nemmeno Manfredi aveva mai avuto labbra belle come quelle.
Si scostò di scatto, cercando di prendere fiato. Era impossibile non pensarci; era come per un etero trovarsi davanti Megan Fox in topless e continuare a pensare alla partita di scacchi. Era assurdo!
Con la sola differenza che Dominik non si rendeva conto di quello che faceva.
Federico infilò le mani sotto il getto freddo dell’acqua del lavello; nonostante fosse fredda, le dita bruciavano.
- E’ pronta la pasta? –
La pasta!! Lasciò tutto com’era, affrettandosi a togliere la pasta dall’acqua per lasciarla cuocere infine in padella.
- Eh…quasi…si, quasi pronta! – Doveva tornare normale. Si, l’avrebbe fatto, si sarebbe scordato di quello che stava facendo Dominik. Era solo un bambino, alla fine. Si, ovvio, certamente.
L’aroma della pasta si stava liberando per la cucina. Spense tutto, preparando le porzioni nei piatti; erano parecchio abbondanti, ma non aveva dubbi che  l’avrebbe mangiata tutta in un sol boccone. Li sistemò a tavola, invitando anche Dominik; si sedette lui per primo, mentre il ragazzino si prese qualche minuto. Alla fine, si accomodò con cura sulla sedia, prendendo la forchetta tra le mani.-
- Buon appetito. –
- Anche a te…Federico? –
- Mh? – Voleva mangiare, solo mangiare. Stava per morire di fame.
- Qualche altra volta cuciniamo insieme? Un dolce, però. Con il  cioccolato! –
- Se prometti di non bruciarti, magari! – gli disse, ridendo ancora, con una farfalla imprigionata in bocca. Dominik fece una smorfia, un misto tra l’offeso e il divertito.
- E tu prometti che andiamo a Milano. – Lo prese alla sprovvista. Non avevano più parlato di quello che era successo l’ultima volta, e non aveva tanta voglia di parlarne, a dire il vero. Perché Dominik doveva essere così impossibile, e tirare fuori certi discorsi proprio nei momenti più sereni?
Federico infilzò una farfalla, facendo una smorfia.
- Poi ne parliamo, adesso mangia. – Sentì il tintinnio prima ancora di alzare il capo; Dominik aveva lasciato cadere la forchetta e incrociato le braccia al petto.
- No. Prometti. – Sbuffò, ingoiando un altro boccone.
- D’accordo, d’accordo. Mangia. –
- Sei come le sonate di Beethoven, sai? Prima tranquillo e morbido, poi scorbutico e allegro, poi di nuovo andante. Se fossi una melodia, sarebbe bello suonarti –
Sembrava parlare da solo. Succedeva sempre così quando parlava di musica, ma non aveva mai parlato di lui e di musica insieme. Era affascinante vederlo parlare di musica, entrava in un mondo tutto suo,  e si poteva solo  sbirciarlo, come una famigliola felice spiata dalle finestre la notte di Natale. Guardarlo da così vicino, a volte, era insopportabile. Federico infilò altre due farfalle.
- Mangia. -  
 


Nota al capitolo 7:
 Ritardissimo, imperdonabile. Ma il mio pc mi odia, perdonatemi, e odiate lui.
Questo capitolo non doveva esserci all'inizio, però mi è piaciuta, come parentesi simpatica prima del prossimo capitolo, più netto e di rilievo, senza dubbio. E non dimenticate il concerto di Dominik! *___*
Scappo di corsa, perchè nel pomeriggio ho lezione all'università!
Ringrazio sempre tutti, e ringrazierò tutti personalmente per le recensioni!
Alla prossima, un bacio!

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Capitolo 9
*** 8th: Quinta sinfonia ***



Impara tutto sulla musica e sul tuo strumento, poi dimentica tutto sia sulla musica 
che sullo strumento e suona come ti detta il tuo animo.
Charlie Parker

 

 


Chapter 8th: Quinta sinfonia
 
- Lo sai, c’è una cosa che mi chiedo da quando ho capito di essere gay. Da tutta la vita praticamente. –
La bolla che lo circondava scoppiò.
Federico battè le palpebre qualche volta, prima di rimettere a fuoco la stanza. I rumori tornarono alle orecchie, la stanza divenne nuovamente quella di un locale gay poco affollato alle quattro del pomeriggio.  C’era anche Samuele, in un punto imprecisato della stanza; o almeno, era stata la sua voce a parlare e, incurante della mancata risposta ricevuta, stava proseguendo senza problemi. – Per quale motivo YMCA dovrebbe rappresentarmi? E perché la Carrà è considerata un’icona gay? Con tutto il rispetto per la Carrà, ma non mi sognerei mai di mettermi uno dei suoi vestitini aderenti tutti lustrini e ballare il tuca tuca! E’…cazzo, mi sento disprezzato! –
Federico sorrise. Era tipico di Samuele mettersi a fare discorsi seri nei momenti meno probabili. In quel momento stava preparando un cocktail, lanciando sorrisini e ammiccamenti ai clienti e canticchiando sulla base della canzone dei Coldplay in diffusione alla radio, e gli veniva in mente la Carrà. Lui, invece, si stava godendo un momento di pausa prima di ritornare al lavoro: alla fine del suo turno mancavano ancora due ore, e una volta tornato a casa avrebbe dovuto studiare qualcosa, se voleva sperare di sostenere almeno un esame nella sessione invernale. Ci avrebbe pensato una volta a casa, quello non era il momento. Non doveva essere una buona giornata nemmeno per Samuele.
- Siamo in vena di discorsi seri. Quindi o hai litigato con Riccardo, o ieri sera hai visto un programma della d’Urso e simili dove si fingono tutti gay friendly e invece sono una massa di omofobi ipocriti. – Samuele fece cadere il coltello con cui stava tagliando un limone sul bancone, prendendo uno straccio per asciugarsi le mani. Aveva l’espressione scazzata, il che poteva indicare solo una cosa; aveva litigato con Riccardo, l’avvocato stronzo.
- Ieri sera è venuto da me. Si è presentato alle dodici e mezzo, quando io lo aspettavo per cena, con la scusa che suo figlio aveva voglia di vedere un film insieme e aveva dovuto aspettare che andasse a dormire. Ha diciassette anni, cazzo, mica cinque! E come se non bastasse, dopo essersi guadagnato una bella scopata, se ne è venuto fuori con un impegno improvviso, un battesimo questa domenica, per cui il nostro fine settimana fuori, progettato nei minimi dettagli, se ne va a fanculo! – Stava sbraitando. Samuele non alzava mai la voce, nemmeno quando lo facevano innervosire; al massimo scrollava le spalle, o rispondeva con un vaffanculo sibilato. Riccardo, però, era un punto debole. E uno stronzo, ma non aveva mai osato dirlo davanti a lui; odiava quando qualcuno glielo ricordava, nonostante, ogni tanto, fosse lui stesso a dirlo. Federico, così, decise di mantenersi neutro; non disse nulla, sapendo che sarebbe stato lui stesso a continuare. Difatti, dopo qualche minuti di pausa, Samuele alzò di nuovo il capo. – Cioè, sia chiaro, io conoscevo la situazione, l’ho accettata, sono dieci anni che la accetto. Però mi piacerebbe che almeno una volta, che sia una, facesse qualcosa per me. Non gli ho mai chiesto di venire allo scoperto, di lasciare sua moglie, di rinunciare alla sua vita. Ma se ti chiedo di venire a cena da me, una sera, dopo due mesi in cui non ti ho mai chiesto niente, cosa ti costa dire a tuo figlio che lavori fino a tardi  e muovere il culo fino a casa mia? – Lo sentì sospirare, passandosi poi una mano tra i capelli. – Mi fa girare le palle. E me le faccio girare anche io che a 40 anni mi comporto come se ne avessi 20 e fossi una ragazzina suscettibile. –
- Non c’entra l’essere suscettibili, è perfettamente normale! Cazzo, girerebbero anche a me se mi trovassi in una situazione del genere! – gli disse, serio. Samuele, a sorpresa, sorrise. Riusciva a cambiare umore più velocemente di una donna con il ciclo.
- A te le fa girare qualsiasi cosa, persino quel povero ragazzo che hai a casa! –
- Prova a viverci due giorni e vedremo! E’ insopportabile! –
- Ti sbagli, Fede. E’ solo diverso, e a te le cose diverse ti fanno girare le palle. –
- Del tipo, scusa? –
- Del tipo che se non va tutto esattamente come hai programmato, succede un casino. Prendi l‘altro giorno. Ti ha detto che non sarebbe più uscito, e ti sei incazzato come se ti avesse dato fuoco ai vestiti. Che ti fregava, saranno stati fatti suoi,  tu saresti uscito comunque. –
- Non mi sono incazzato perché non è andata come avevo programmato! –
- Allora te la sei presa perché volevi uscire con lui e non hai sopportato che ti avesse dato buca. Perché evidentemente non ti è così indifferente. – Quella era la scemenza più colossale che avesse mai sentito. Nella lista delle idiozie veniva subito dopo la possibilità di scegliere il sesso dei figli mangiando limoni. Dominik non gli interessava, non gli interessava nessuno; dopo Manfredi, voleva starsene da solo, godersi la sua vita, e lo stava facendo. Dominik era solo insopportabile, punto. Certo, quando gli aveva succhiato le dita, la sera prima…non doveva pensarci.
- Oggi dici più stronzate del solito, sai? Cos’è, hai il ciclo? –
Samuele scoppiò a ridere, lasciandosi cadere sulla sedia che aveva sistemato dietro il bancone per riposarsi nei momenti di calma. Il locale era abbastanza silenzioso e vuoto da lasciare un attimo di pausa a entrambi; anche Federico lasciò il vassoio sul bancone, sedendosi su uno sgabello.
- Si, forse hai ragione tu, altrimenti quando ti ho chiesto se potevo farmelo avresti iniziato a sbraitare come un pazzo! – Federico rimase il silenzio, giocherellando con il bordo del vassoio. Preferì non parlare di quella strana sensazione che lo aveva preso allo stomaco in quell’occasione, Samuele avrebbe frainteso; quella non era gelosia, era semplice spirito d’osservazione. Uno come Samuele, con uno come Dominik, non aveva possibilità. E sarebbe anche stato malissimo. – E per inciso, stavo scherzando. Non riuscirei mai a tradire Riccardo, anche se nel suo vocabolario la parola tradimento non esiste. Per lui potrei scoparmi qualcuno di diverso tutte le sere, purché tornassi sempre da lui. Per me è diverso, gli altri non mi interessano. Ma lui ha una moglie, un’ingombrante, petulante e stronzissima moglie di nome Priscilla. –
- Come fai, Samuele? Non ti viene  mai voglia di andare sotto casa sua, farti aprire la porta, e metterti a urlare per tutto il condominio? –
Samuele sorrise, a capo chino; aveva estratto il cellulare dalla tasca, aveva premuto un tasto, ma non era rimasto troppo deluso dallo scoprire che Riccardo  non lo aveva cercato. Lui non avrebbe mai potuto sostenere una situazione del genere, avrebbe spaccato la faccia a uno come quello, oppure lo avrebbe lasciato e avrebbe passato il resto della vita a desiderarlo e rimpiangerlo. Samuele, invece, aveva scelto la via di mezzo, quella più brutta.
- Una volta l’ho fatto, sai? Stavamo insieme da un anno, e da poco mi aveva chiesto di vivere in questo modo. Gli avevo detto di si, che andava bene, ma ero più giovane, meno riflessivo, e innamorato come un folle. Volevo che trascorresse un pomeriggio con me, in giro, alla Galleria, al Duomo, in un bar. In pubblico, insomma. Adesso, quando ho voglia di vederlo, così tanta che vorrei strapparmi la pelle, vengo qui, e trovo Fabrizio, Simone, Giulio, magari anche Chicca, e passo il resto della giornata qui con loro. La notte sembra più breve quando torni a casa mezzo ubriaco e ancora in preda alle risate per le storielle di Chicca. Ma allora era solo pazzo, e sono andato a casa sua; ho citofonato, perché non mi rispondeva al telefono. Ha risposto sua moglie, e stranamente, quando le ho detto il mio nome, ha fatto scattare il portone; ci ha messo qualche minuto, ma ha aperto. Ero tutto euforico, pieno di aspettative, pensavo che avrei salito le scale, sarei entrato in casa sua, avrei visto la cucina dove pranzava e cenava, magari avrei bevuto il caffè con lui. Invece l’ho trovato nell’ingresso ad aspettarmi, furioso e con le braccia incrociate. Non mi sono mai più sentito tanto piccolo come in quel momento. Mi ha preso, mi ha strattonato dentro l’ascensore, e ha premuto il tasto del quinto piano; mi ha detto che se fossi tornato a casa sua, se ci fossi passato anche solo per caso, non avrebbe più potuto vedermi. Me lo disse quasi pregandomi, te ne rendi conto? Come se io lo stessi obbligando a quella vita. Mi ricordo solo che poi ha premuto il tasto di stop dell’ascensore, e abbiamo fatto l’amore lì. Quando ci hanno tirato fuori, lui era l’avvocato che stava cercando di tornare a casa dopo aver comprato le sigarette, mentre io ero un tizio che stava cercando un collega nel condominio sbagliato. Ma ha salutato con un: deve andare al numero 56, questo è il 54, e buona giornata! Da quel giorno ho deciso di non andare più a casa sua, di non fare più nulla. Ti giuro, Fede, è molto meglio starsene a casa  a mangiarsi le mani, che non essere salutati in quel modo, come un estraneo. –
Avrebbe ammazzato Riccardo Mancini a colpi di spranga. Come poteva comportarsi in quel modo con un uomo che lo amava tanto da accettare qualsiasi cosa?
- Io non capisco come tu faccia a sopportare una cosa del genere! – sibilò. Non era la frase giusta da dire, ma lui era fatto così, era diretto, non conosceva mezze misure. A volte, lo accusavano di avere poco tatto, ma Samuele era uno che non andava troppo per il sottile, e che avrebbe preferito quel tono scontroso a un fintissimo “vedrai che presto le cose miglioreranno, si renderà conto di amare te e lascerà sua moglie”.
- Ti è mai capitato di sentire la persona che ami dirti che sei uno stupido perché, che so, gli hai dato un pizzicotto troppo forte, e sapere che tanto poi avreste fatto pace con un bacio? –
- Beh, capita a tutti. Io odio essere insultato, ma quando capitava, ci passavo sopra a volte… -
- Ecco, di lì ad accettare qualsiasi cosa il passo è breve. Inizi ad accettare i suoi “oggi non posso”, i suoi malumori, persino le richieste di non vedervi più, accettandolo tutte le volte che ritorna. Poi scopri che è sposato, e che non ha intenzione di lasciare sua moglie, e allora è tardi per tornare indietro. – Fece una pausa, ma all’improvviso alzò il capo e sollevò un braccio. Raggiunse Federico con uno scatto fulmineo, intrappolandolo con un braccio e scompigliandogli i capelli. -  Tu, ragazzino, vedi di non cacciarti nei guai! E ora fila, quei due cercano di ordinare da venti minuti! –
Quando lo lasciò andare, Federico si raddrizzò, cercando di sistemarsi i capelli. Samuele stava sorridendo, chiaro segno che la conversazione, e la confessione, erano finite. Se avesse anche solo tentato di riprendere il discorso, sarebbe stato fulminato all’istante e liquidato con una battuta.
- Sei mai stato ad un concerto di musica classica? –
- Ad un cosa?! – Samuele lo fissava come se gli avesse appena detto di aver fatto sesso con una donna.
- Dominik suona, questo sabato. –
- Mi staresti invitando? –
- No, tu devi venire qui a lavorare al posto mio! – Samuele scoppiò a ridere, lanciandogli uno strofinaccio mentre si allontanava per raggiungere il tavolo con i due tipi parecchio nervosi che lo aspettavano.
- Certo che se proprio stronzo! –
 

§ § §

 
Beethoven riempiva la stanza.
Sentire le dita premere sui tasti con forza, e poi accarezzarli, era già, in parte, lasciarsi cadere nella bellezza della musica. La pressione era blu, le carezze erano arancioni; in alcuni tratti si fondevano, litigavano, si vincevano. Non c’era solo armonia nella musica, c’era anche la lotta interiore. Erano le note, che litigavano tra di loro, e alla fine, in tutto quel caos, veniva fuori l’armonia della musica.
Chi ascoltava con le orecchie riusciva a cogliere quella dolcezza, ma chi la creava, chi la viveva da dentro, come lui, restava affascinato da quella lotta.
Era la lotta a rendere bella la musica, non l’armonia. Anche con le persone era così: le persone erano belle perché lottavano con se stesse, come la mamma. La mamma lottava sempre, tra il giorno e la notte; di giorno era una guerriera, quella che gli preparava la merenda con la nutella, e la spremuta d’arancia, ma di notte la mamma piangeva. Lui non lo diceva mai alla mamma di aver capito che stesse piangendo, perché la mamma sarebbe stata triste; non piangeva mai quando era con lui, ma la voce tremante e il continuo tirar su con il naso la tradivano sempre. Anche Federico era una lotta: all’esterno era paziente, buono, disponibile, e rideva sempre, ma a volte si arrabbiava, o i suoi muscoli si irrigidivano tutti,  senza motivo.
Il più affascinante, però, era Samuele; lo aveva conosciuto per poco tempo, solo una volta, ma l’aveva stregato così. Si era presentato ridendo, facendo delle battute, prendendoli anche in giro; ma quando lo aveva toccato, lo aveva sentito.  Il suo cuore batteva regolarmente, il suo respiro era profondo, e aveva un graffio ruvido dietro l’orecchio destro, come se si fosse grattato ripetutamente. Lo faceva anche lui, quando era nervoso. Samuele doveva essere nervoso, e triste; quando gli aveva poggiato le mani sul viso, lui si era irrigidito, come se fosse infastidito da quel tocco. Era affascinante, Samuele. Se fosse stato una melodia, sarebbe stato la quinta sinfonia  di Beethoven, quella che stava suonando. Era l’emblema della lotta. Gli sarebbe tanto piaciuto vederlo ancora.
Il trillo del campanello fermò le sue note. Da dietro la porta giunse la voce di Federico che gli chiedeva di aprire. Dovevano essere passate le sei.
Dominik si alzò, facendo scivolare le dita sui tasti ormai caldi. Era una sensazione quasi dolorosa staccarsi da lì, come quando da bambino attaccava le dita sulla superficie ghiacciata della macchina del papà e quando le staccava bruciava tutto.
Raggiunse la porta, facendo scorrere il chiavistello per liberare la porta; contrariamente al solito, però, rimase lì davanti, fino a quando non sentì il rumore delle chiavi che giravano nella serratura e della porta che si apriva.
-          Dominik! Non ti avevo visto, stavo per finirti addosso! –
Federico fece scattare l’interruttore della luce; adesso doveva essere tutto vivo, e lui non poteva vederlo. Si fece da parte, mentre il ragazzo si toglieva il giubbotto e lo appendeva all’ingresso.
-          Sono le sei? – gli chiese.
-          Le sei e mezzo. Ho fatto un po’ tardi al locale e ho perso la metro. Non hai fame, tu? –
Scosse il capo, tornando al suo pianoforte e poggiando le dita sui tasti. Non si mosse, non voleva suonare; voleva sentire ancora per un po’ i movimenti di Federico. C’era sempre silenzio quando lui non era in casa, e quando tornava era bello ascoltarlo per un po’. Era come guardare la televisione. Sorrise tra sé, passandosi una mano sulla fronte per togliere una ciocca di capelli che gli faceva il solletico. Federico stava armeggiando in cucina, apriva gli sportelli e poi li richiudeva. Alla fine, sentì il caratteristico rumore di una bustina di plastica che veniva aperta, e dei piedi di Federico che raggiungevano il divano, vicino al suo pianoforte.
-          Vuoi un wafer? – gli chiese. Wafer al cioccolato, erano così buoni. Quelli che aveva
 comprato Federico al supermercato, poi, erano anche tutti ricoperti di cioccolato; gli aveva detto che sarebbero costati un po’ di più, ma che erano molto più buoni, ed era vero.
Dominik annuì, tendendo la mano nella sua direzione: dopo pochi secondi, sentì il cioccolato sotto le dita. Strinse, portandolo alla bocca. Erano così buoni.
-          Sono buoni –
-          Da morire. Stavi suonando, quando sono arrivato. Ti ho disturbato? –
-          Non potevo lasciarti fuori – Lo sentì sorridere. 
-          No, non potevi. Suonerai questa canzone sabato? – Canzone. Per lui quella era una
canzone da paragonare a quei successini commerciali che passavano alla radio. Fece una smorfia.
-          E’ una sinfonia, non una canzone. –
Federico rimase in silenzio qualche secondo, alla fine sbuffò, piano, perché lui non lo sentisse, ma l’avrebbe sentito comunque. Lo fece sorridere.
-          La suonerai sabato, comunque? –
-          Si. E’ Beethoven. –
Calò di nuovo il silenzio, che Dominik occupò facendo scorrere le dita sui tasti, in silenzio. Si erano raffreddati, era stato lontano da loro per troppo tempo.
- E’ molto bella. –
- Sarà la mia prima esibizione. Poi Chopin, e Mozart. Poi Vivaldi, in ensemble. –
Federico non disse nulla, sgranocchiando un altro wafer con lentezza esasperante. Dominik aveva già finito il suo in due soli morsi; sorrise, perché immaginava l’espressione di Federico in quel momento. Stava sicuramente cercando di capire cosa fosse un ensemble.
- Ce n’è un altro? –
Il ragazzo non gli rispose, ma si alzò dal divano velocemente; forse stava prendendo un altro pacchetto. Dominik tese istintivamente le mani; Federico aveva la straordinaria capacità di muoversi in fretta, e ogni volta che vedeva le sue mani tese le riempiva.
Quella volta, però, lo raggiunse alle spalle. Non gli piaceva avere qualcuno alle spalle, lo faceva sentire inerme. Si irrigidì, sulla panca del pianoforte, ma sentì accanto all’orecchio il rumore del pacchetto dei wafer. Portò d’istinto la mano indietro, stringendo il piccolo pacchetto.
- Posso provare a suonare? – gli chiese poi Federico.
- Sai suonare il pianoforte? –
- Non proprio. Ho suonato il clarinetto per anni, conosco le note. Potresti spiegarmi dove sono, con i tasti. –
Federico voleva suonare il suo pianoforte, toccarlo. Federico sapeva suonare. Conosceva benissimo il suono caldo e accogliente del clarinetto, le sue note lunghe e armoniose, quasi soffocanti; era uno strumento che stava bene con lui, era caldo, e morbido. Il clarinetto era bello, soprattutto quando suonava la Primavera di Vivaldi. E Federico che suonava il clarinetto doveva essere bello.
- Possiamo suonare insieme, allora. – Lo sentì ridacchiare e, a giudicare dallo spostamento d’aria vicino al suo orecchio, sollevare una mano, probabilmente per portarla tra i capelli.
- Non sono bravo come te, Dominik. Ho preso qualche lezione a nove anni, più per volere di mia madre che per vera passione. Poi alla scuola media ho continuato perché c’erano tutti i miei amici nell’ensemble della scuola. Ero bravo, me la cavavo, ma non come te. Prima del liceo ho smesso, non era la mia strada. –
Dominik fece una smorfia. Sentire parlare della musica in quel modo era brutto. La musica era vita, passione, gioia, non erano solo delle lezioni da prendere perché la mamma lo ordinava, o perché lo facevano gli amici. Le persone erano i peggiori nemici della musica. E Federico non la amava davvero, la musica, o non sarebbe mai riuscito a lasciarla.
- E qual è la tua strada? – Federico si prese qualche minuto per pensarci, durante il quale il ragazzo biondo fece scorrere le dita sui tasti bianchi del pianoforte; erano quelli che gli piacevano di più, quelli neri avevano un suono strano, quasi stonato, se ascoltati da soli. E poi il nero non gli piaceva per nulla.
- Non credo di averla ancora trovata… -
- Come fai a non saperlo? Non ti piace avere un obiettivo quando ti svegli la mattina? –
- Mah, vedi, per me è diverso. Tu sai che vuoi essere un musicista, che vuoi vivere per suonare, e ti svegli tutte le mattine sapendo di avere tutto sotto controllo, e un obiettivo alla fine dei binari. Io invece mi sveglio, e ogni giorno mi chiedo cosa mi succederà. Per ora mi piace lavorare al bar, penso che potrei farlo per sempre: mi piace incontrare le persone, partecipare alle serate a tema, chiacchierare con i miei nuovi amici, lì. Magari domattina mi sveglierò e desidererò iscrivermi a un corso di fotografia, o fare il Magistrato, o mettermi a studiare Medicina. Sono fatto così. –
Dominik fece un’altra smorfia. Non riusciva a capire come potesse pensare al futuro senza sapere cosa aspettarsi, cosa fare. Era impensabile, per lui, anche solo credere di svegliarsi una mattina e non sapere cosa fare, cosa aspettarsi, non trovare la sua casa, il suo pianoforte, persino la sua maestra.
- Però hai detto che studiavi il clarinetto perché c’erano i tuoi amici. –
- Ci divertivamo, a suonare insieme. –
- E’ sbagliato. La musica deve stare da sola, tante persone, insieme, la distruggono. La fanno in tanti pezzettini, e non si concentrano su quello che la musica è veramente. –
- Tu la vedi come la tua vita, io no. Per me era una piacevole parentesi della giornata, in cui prendevo il clarinetto, e sentivo le note, e mi rilassavo. Mi dimenticavo dei compiti in classe, dei problemi di soldi, delle litigate. Era bello. E io penso che farebbe bene anche a te, ogni tanto, vederla così. –
- La musica non è solo una parentesi!! – Dominik si mise dritto sulla schiena, schiacciando, senza accorgersene, le dita sul pianoforte; le note scoordinate, profonde, riempirono la stanza, ma nel silenzio che seguì, potè sentire il lieve soffio di Federico, quello che faceva sempre con il naso quando sorrideva.
- Io dico che farebbe bene alla tua musica. Fammi posto. –
Lo spinse delicatamente di lato, e le dita scivolarono sulle gambe. Dopo pochi secondi, sentì le note; non era una sinfonia conosciuta, non era niente. Era un’accozzaglia di note senza un ordine preciso, e passavano dall’andante all’allegro, poi al minuetto. In fondo, erano belle; gli ricordavano il profumo della pianta preferita di mamma, quella che teneva in balcone quando arrivava la primavera, e l’odore dei cornetti che veniva fuori tutte le mattine dal bar davanti la scuola. Alla fine, tutto tornò a perdersi nel silenzio.
- Se per una volta, anche solo dieci minuti al giorno, dimenticassi i tuoi esercizi, le sonate, la maestra, e smettessi di suonare solo per te stesso, alla tua musica farebbe bene. Tutti hanno bisogno di staccare la spina ogni tanto, no? A me piaceva suonare per questo, e anche se siamo così diversi credo che farebbe bene anche a te. Pensaci. – Lo sentì alzarsi, schiarendosi la voce.
Quando scivolò di nuovo sulla panca, il posto che aveva occupato Federico era caldo e confortevole. Poggiò le dita sui tasti; anche quelli erano caldi dove lui aveva toccato, senza nessun ordine. Fece una smorfia.
- No. Io dico di no. –
- Vado a studiare un po’ nella mia stanza. Suona pure, fino all’ora di cena. –
Annuì. Non si mosse mentre Federico prendeva un bicchiere d’acqua e si rintanava nella sua stanza; la porta fece uno scatto, e tornò il silenzio.
Federico si sbagliava, la musica era musica perché aveva le sue regole, e anche quando usciva fuori dai binari, lo faceva per arricchirsi. Come quando, al posto di una minima, metteva un virtuosismo, facendo infuriare la maestra; usciva dai binari, ma ritornava subito, ed era solo un arricchimento.
La musica era controllo assoluto, anche quando di controllo non ce n’era. Era un terreno conosciuto, dove l’essere cieco non l’avrebbe mai messo in pericolo.
Accarezzò i tasti, erano ancora così caldi.
Iniziò a suonare.



Nota al capitolo 8:
Questo è un capitolo un tantino più breve, ma fa nulla. 
Il prossimo sarà quello che attendo con maggiore ansia: il concerto di Dominik.
Ci tenevo, qui, a farvi conoscere in parte Samuele, un personaggio a cui sono molto affezionata.
E poi, volevo mostrarvi la differente idea che Dominik e Federico hanno della musica; il primo la vede come qualcosa di assoluto e trascendentale, il secondo invece, come qualcosa di bello e armonico, ma estremamente umano. Alla fine, Dominik è convinto di aver capito la vera essenza della musica, e forse in parte è così, ma non la conoscerà veramente bene fino a quando non capirà come anche quello che dice Federico è vero, che la musica deve essere umana per raggiungere gli uomini.
Vi consiglio di ascoltarla la quinta sinfonia di Beethoven, perchè è estremamente bella.
Vi lascio con un enorme grazie, risponderò alle recensioni spero entro oggi, al massimo domani, ma il mio grazie vi raggiunge comunque! 
Al prossimo aggiornamento!
Esse


 

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Capitolo 10
*** 9th: Perchè mi piaci più di tutti ***


Si è sempre affascinati dal vuoto. Più è fondo, più è buio, più esso ci attrae: un misterioso richiamo d'amore.

Oriana FallaciSe il sole muore, 1965



Chapter 9th:  Perché mi piaci più di tutti
 
Federico trattenne il fiato.
Si sentiva soffocare. Era tutto così grande, così ampio, ma allo stesso tempo opprimente. Il chiacchiericcio, le mura spesse, le sedie, e tutti quegli sguardi che si sentiva addosso.
Sistemò la giacca sui fianchi per l’ennesima volta, strattonandola.
Quello non era il suo mondo, per nulla: tutte quelle pellicce, quello sfarzo, quella classe, non facevano per lui. Lui era quello che passava la domenica sul divano a guardare la partita e mangiare patatine, e il sabato pomeriggio a fare il cazzone in piazza Politeama con gli amici.
E con Manfredi.  Quando ci ripensava, Manfredi era un dolce dolore in qualche parte imprecisata del petto, ed era confortante trovarlo sempre lì, tutte le volte che lo richiamava. Aveva sempre pensato che loro due non si sarebbero mai allontanati, qualsiasi cosa fosse successa, e invece si trovava a Milano, a lavorare in un bar, e il suo migliore amico, nonché ex ragazzo, era rimasto a Palermo a continuare la sua vita di sempre.           
Espirò, l’aria gli mancava del tutto. Sbottonò la giacca, pensando che, forse, sarebbe stato d’aiuto. Non serviva.
Non avrebbe mai dovuto accettare di andare a quel concerto. Stava trascorrendo il suo sabato pomeriggio in giacca e camicia, in un conservatorio che sembrava una prigione dorata, a sentire una massa di sconosciuti suonare brani di musica classica che di solito gli propinavano solo a scuola.
E tutto perché Dominik gliel’aveva chiesto come se gli stesse domandando di salvare il mondo.
Si osservò nel riflesso di una delle porte a vetri: sembrava un becchino, tutto vestito di nero. Non aveva idea di come si andasse vestiti ad un concerto in un conservatorio, e la giacca gli era sembrata un buon compromesso fino a quando non si era reso conto di non avere una camicia adatta.
Alla fine, mettendo da parte quella bianca che l’avrebbe fatto sembrare un cameriere, aveva indossato quella nera. Non aveva messo la cravatta, non era davvero il suo genere, ma mentre si guardava intorno, pensò che indossarla non sarebbe stata una cattiva idea.
Sollevò lo sguardo, e nello specchio vide riflesso il resto della sala.  Da quando era entrato, più di mezz’ora prima, non si era soffermato veramente a guardarla: si, aveva visto come fosse immensa, e come lo soffocasse. Aveva visto la gente a chiacchierare in capannelli, le sedie imbottite rivestite di grigio, il palco immenso con tutto intorno quelle che sembravano migliaia di canne d’organo.
Ma tutto il resto era passato in secondo piano. Adesso, vedeva tutto.
Vedeva la moltitudine di posti a sedere, tutti sotto il palco, e quelle pareti spesse, bianche o forse avorio, le colonnine di marmo, e poi la galleria. Quella era la parte che l’aveva colpito di più: se ne stava là, in alto, circondata da quella ringhiera in ferro tutta lavorata.   Da lassù poteva quasi sembrare di governare il mondo.
A lui, Dominik aveva riservato un posto in terza fila, sotto il palco, in qualità di ospite; da là sotto, quel palco rivestito di legno sembrava ancora più grande.
L’improvviso movimento di gente verso i loro posti lo distrasse; il concerto doveva essere pronto a iniziare. Erano tutte persone distinte, uomini in smoking e donne con costosissimi soprabiti: con uno di quello, avrebbe potuto pagare un anno di affitto. Si sentiva abbastanza a disagio, ma aveva fatto una promessa a Dominik, e poi era curioso di vederlo suonare; non lo aveva mai sentito fuori dalle mura della loro casa, e non aveva mai partecipato a un concerto d’alto livello come quello. E poi, aveva chiesto a Samuele di sostituirlo: se non fosse andato, l’amico l’avrebbe inseguito e preso a colpi di spranga.
Si mosse verso il suo posto, scansando una signora in sovrappeso con un cappello piumato. Quando si sedette, e si sentì sprofondare nella sedia, circondato da un opprimente silenzio, si sentì prendere dal panico. Voleva andare a casa, o andare a lavoro, ma comunque andarsene da lì dentro. Quel soffitto altissimo gli dava la sensazione   che sarebbe rovinato sulla sua testa da un momento all’altro, mentre era distratto.
Finalmente, dopo un interminabile silenzio, venne annunciato il primo allievo; si trattava di una ragazza italiana, suonava il violoncello. Era alta e allampanata, e indossava un vestito di velluto verde particolarmente somigliante alle tende del salotto di sua nonna. Però era brava, eccome se lo era: sembrava indemoniata, muoveva le dita, e il braccio, come se non facessero parte del suo corpo, perché il viso era impassibile, senza nessuna traccia di fatica o di concentrazione. Teneva le palpebre abbassate, come se fosse quasi annoiata.
Dopo di lei, un ragazzo al violino, un altro all’organo, e una al clarinetto. Federico la osservò bene; aveva uno strumento lucidissimo, forse nuovo, o ben tenuto. Doveva essere di ottima marca, molto diverso da quello che aveva comprato lui per le lezioni private e che teneva chiuso da qualche parte in fondo all’armadio. Non era più nemmeno sicuro di saperlo suonare.
Quando anche la ragazza ebbe finito  -e ormai era trascorsa un’ora senza che Dominik apparisse- venne annunciato un altro ragazzo, al violino nuovamente: era straniero, aveva un cognome stranissimo, ma doveva essere dell’est anche lui, forse russo. Si posizionò al centro del palco, sollevando il violino sulla spalla, e per un attimo, il gemello che portava al polso sinistro brillò, colpito dalla luce. Doveva averlo fatto apposta. Prima di suonare, sollevò gli occhi, e fissò un punto vicino alla sua spalla. Sorrise, e la musica più dolce che avesse mai sentito si diffuse nella sala. Forse era dolce perché lo era lui. Era bello come un sogno: aveva i capelli di un castano scuro, che ad ogni movimento si agitavano e gli finivano sul viso. E il viso, non ne aveva mai visto uno così: era come quello di un gatto, straordinariamente attraente e sensuale. Mentre suonava, a intervalli quasi regolari, faceva scivolare i denti sul labbro inferiore, mordendolo come per dare un tono più incisivo a quello che stava suonando.   Bellezze così non avrebbero dovuto farle circolare in giro senza avvisare. Era da stupro.
- Lui è mio fratello. –
Una voce melodiosa, come un tintinnio di campane, femminile. Proveniva dalla sua sinistra, accompagnata da un profumo di donna particolarmente dolce.
Federico si voltò di lato, e vide una donna che gli stava sorridendo, e lo fissava con un paio di occhi verdi che sembravano volergli scavare dentro. Tendevano quasi all’azzurro, o al grigio; gli ricordavano molto quelli di Manfredi.
- Non è bravissimo? – continuò la ragazza. Preso in contropiede, Federico annuì: non era neppure  una bugia, era davvero bravo,  ma avrebbe preferito esaltare le sue doti estetiche, oltretutto.
- Io sono Szilvia. E quello è mio fratello Rafael. – Gli tese la mano, ma non aspettò che lui la stringesse; dopo un breve contatto, fece scivolare la mano sul bracciolo, poi la sollevò, per poggiarci il mento.
- Io…Federico – disse solo.
- Chi c’è qui? –
- Qui dove? – La ragazza sorrise, divertita: ogni tanto faceva ruotare gli occhi verso il fratello, ma sembrava sentirne più la presenza solo con la musica, che con lo sguardo. La melodia dolce del violino era diventata più aggressiva, colpiva dentro al petto, e poi tornava lenta, solo per un attimo. Szilvia lo stava ancora fissando.
- Qui a suonare. Le prime cinque file sono per gli accompagnatori dei musicisti. –
Ne sapeva davvero parecchio, doveva essere stata a manifestazioni del genere parecchie volte.
- Oh! Si, scusa. C’è un…un mio amico, suona il piano. –
- Davvero? Adoro il piano! E chi è? –
- Si chiama Dominik –
- Oh, Dominik…Marek, vero? Il ragazzo cieco.. –
- Si, lui. –
- E’ bravissimo, non ho mai sentito nessuno suonare così. Non sai quanto mi piacerebbe sentire un duetto tra lui e mio fratello…Sarebbe la fine del mondo! –
- Io l’ho sentito provare a casa, è bravo.. –
- Ma non è la stessa cosa! Quando suonano a casa non esce davvero fuori la musica. Aspetta di sentirlo qui! –
- E insomma, silenzio! Andate a parlare fuori!! –
Szilvia aveva alzato troppo la voce, infastidendo il tizio davanti a loro. In effetti, sembravano tutti infastiditi, ma lei non ci fece molto caso. Si limitò a fare spallucce, accavallando le gambe. Poi gli poggiò una mano sul ginocchio.
- Parliamo dopo – gli disse solo.
Federico annuì, distogliendo lo sguardo. Di cosa avrebbero dovuto parlare dopo? Non si conoscevano nemmeno, si erano incontrati per caso, scambiandosi quelle chiacchiere da vicini di posto annoiati. Lei, però, non sembrava annoiata, anzi, pareva non aver mai perso una sola nota del violino che il fratello stringeva tra le mani. Lui, al contrario, non si ricordava più nemmeno quanto tempo fosse passato. Adesso che ce l’aveva così vicina e se ne rendeva conto, il suo profumo   era troppo dolciastro, e i continui movimenti del suo dito nell’aria, come a delineare una melodia, lo infastidiva.
Finalmente, il giovane, che di nome evidentemente faceva Rafael, depose il violino, inchinandosi davanti al suo pubblico. Szilvia applaudiva con foga, sorridendo; il fratello le fece un sorriso e un occhiolino, prima di allontanarsi dal palco. Alle sue spalle, tre uomini vestiti di scuro fecero entrare un pianoforte, sistemandolo al centro. Era nero e lucido, sembrava più grande di quello che avevano in casa.
- Beethoven, quinta sinfonia. Al pianoforte Marek Dominik. –
- E’ il tuo amico! – lo chiamò Szilvia. Federico riuscì solo ad annuire, perché la sua attenzione era già stata catturata dalla figuretta sottile e allampanata che stava percorrendo il palco, entrando dalla porta di destra.
Dominik era vestito in maniera impeccabile; era lontanissimo dal ragazzino in jeans e maglione che aveva visto uscire quella mattina per le prove generali. Gli avevano fatto indossare uno smoking nero, con la cravatta, e avevano cercato di sistemare quell’indomabile chioma bionda sempre scompigliata. Sembrava un manichino artificiale così, però stava  bene.
Quando entrò lui, in sala calò un silenzio ancora più opprimente. Le vide, sui visi di quella gente ipocrita, le espressioni di smarrimento e di pietà. Se le avesse viste anche Dominik, si sarebbe infuriato. Ma lui, lì, non si rendeva conto di nulla: camminava fiero, a testa alta, con le braccia lungo i fianchi. Quando toccò il pianoforte con una mano, rallentò, fino a superarlo  e accomodarsi sulla panca, tastandola. Le dita si posarono subito sui tasti, senza fare alcuna pressione, come se avesse bisogno solo di toccarli per ritrovare il suo equilibrio. Poi, suonò.
Quella musica doveva venire dal cielo, o dall’inferno, o forse da entrambi e si stavano incontrando lì per puro caso.  La quinta sinfonia di Beethoven la conoscevano tutti, persino lui che di musica non ne capiva granchè; eppure, tutta quella gente lì, che di brani del genere doveva averne ascoltati fino alla nausea, stava trattenendo il fiato. Dominik stava suonando, e dentro quella musica stava riversando tutto se stesso: lo vedeva dal mondo in cui premeva sui tasti quasi con furia, per poi accarezzarli, come a chiedere scusa, come se quello fosse troppo. Muoveva le mani, le spalle, anche il capo, tanto che il gel che gli bloccava i capelli aveva iniziato a cedere, e due ciocche di capelli erano ricadute ai lati del viso.
Federico sorrise; era così che aveva imparato a conoscere Dominik, con i capelli scompigliati, le mani sul pianoforte e la musica nella testa.
- Bravo, eh? – lo richiamò di nuovo Szilvia, bisbigliando. Annuì, senza staccare gli occhi dal ragazzino che suonava.
Era la cosa più erotica che avesse mai visto: gli ritornò alla mente quella sera che avevano cucinato insieme la pasta, quando le labbra di Dominik si erano chiuse intorno alle sue dita e gli avevano bloccato del tutto la circolazione sanguigna fino al cervello. Sembravano passati mesi, eppure non erano trascorsi più di pochi giorni. Dominik quando suonava era erotico; era poetico, certo, quasi angelico e incantatore, ma soprattutto era erotico.
Era erotico e non se ne rendeva minimamente conto.
Suonava, e basta. 

§ § §

 Beethoven stava suonando.
Era lì, seduto a pochi metri da lui, emergeva dal buio. Erano le sue mani, insieme alle proprie, e stavano componendo la quinta sinfonia.
Tutte le volte che suonava qualcosa, pur avendo provato milioni e milioni di volte sempre lo stesso spartito, era come se lo stesse componendo per la prima volta, era una sorpresa.
La musica non era mai uguale: potevano esserlo le note, gli spartiti, i tempi, ma la musica no. C’era tutte le volte qualcosa di diverso da dire, un virtuosismo differente, dei colori che prendevano la loro forma in un modo nuovo.
Quel giorno, la quinta sinfonia di Beethoven era il fuoco: era un fuoco in un camino, caldo e accogliente, soffice come le coperte, ed era tutto arancione, e lui lo  guidava verso il suo pubblico, dove c’era anche Federico. Federico l’avrebbe visto eccome che la sua  musica non era vuota, che c’era tutto di lui. Avrebbe capito finalmente.
Federico non era stupido, era solo un po’ cieco. Quando ci pensava, gli veniva da sorridere. Tra loro due, quello considerato era lui, ma nessuno al mondo capiva veramente come vedere.  Ma Federico l’avrebbe capito, glielo avrebbe insegnato lui. Quel pomeriggio gli avrebbe mostrato la musica vera, poi, a casa, gli avrebbe insegnato tutto, e magari quella sera avrebbero mangiato la pizza sul divano mentre guardavano la televisione.
Premette di nuovo sui tasti, per le ultime note, e convogliò tutto il colore, tutto il fuoco, verso Federico.  Forse lui stava sorridendo. Avrebbe tanto voluto vederlo sorridere.
Quando calò il silenzio, trascorse qualche secondo prima che partisse un applauso. Dominik sapeva che non si trattava di incertezza o di una sua cattiva esecuzione, bensì di quel momento che seguiva tutte le esecuzioni, quello in cui gli intenditori si godevano le ultime note che si spegnevano e tutto intorno calava il silenzio. Erano i secondi più belli di tutto il brano, quelli: non c’era più la tensione che precedeva l’esecuzione, ma allo stesso tempo la magia non si era ancora spenta. E ciascuno di quei secondi era sempre terribilmente diverso dall’altro.
Accompagnato dallo scrosciare degli applausi, Dominik abbandonò la sala, uscendo dalla porta sulla sinistra, simmetrica a quella da cui era entrato: conducevano entrambi dietro le quinte, nello spazio riservato agli artisti.
Il concerto era quasi finito; non tutti gli allievi avevano avuto il permesso di partecipare al concerto di inizio anno. Era un privilegio concesso solo ai migliori, a coloro i quali trascorrevano tutta l’estate a suonare, quelli per cui la musica rappresentava la vita; gli altri, che tornavano a suonare dopo un’estate di baldoria e feste, non erano pronti, e venivano relegati solo al concerto di fine anno. Dominik invece suonava sempre, anche se la maestra lo minacciava tutti gli anni dicendogli che avrebbe dovuto impegnarsi di più se voleva suonare a quel concerto. Lo sapeva anche lei quanto fosse bravo, come Giulia, e come Lorenzo, Hugo, Monica, e Rafael.
Dominik si sedette al posto che gli avevano riservato, nell’attesa che il concerto finisse; doveva essere quasi ora di cena, lo stomaco gli brontolava, e non vedeva l’ora di togliere quei pantaloni che gli solleticavano la pelle. Federico l’avrebbe aspettato all’uscita una volta che il concerto fosse finito, l’avrebbe accompagnato la maestra, e poi sarebbero andati a cena insieme. Gli avrebbe chiesto di prendere la pizza, ci aveva pensato bene; anche Federico doveva essere stanco per cucinare. Le note di Strauss al violino si spensero, seguite da uno scrosciare di applausi.
Era la fine, doveva aver suonato Miguel: lui suonava solo Strauss.
Si alzò in piedi, in attesa che la maestra lo accompagnasse: avrebbe voluto andare da solo, ma temeva che la folla lo urtasse e lo spingesse chissà dove. Era insopportabile essere costretti ad aspettare qualcuno, era la cosa che odiava più al mondo. Quando c’era la mamma non gli pesava così tanto, ma con la maestra era   diverso. Anche con Federico non pesava quando lo accompagnava a fare la spesa, e anche se non era mai molto utile, Federico lo interpellava sempre.
Sceglievano insieme il formaggio, il prosciutto, soprattutto il cioccolato, ma anche la frutta. Alla fine, era Federico a fare la scelta finale, ma gli piaceva avere voce in capitolo.
- Dominik! –
Sollevò il capo, stizzito. Quella era la voce di Federico, ma non avrebbe dovuto essere lì.
- Dominik! – lo chiamò ancora. Quando sentì il tocco sul braccio si irrigidì, ma era il tocco di Federico.
- Dovevamo vederci all’uscita. –
- Si, lo so, ma ero seduto di fianco ad una ragazza che ha insistito per venire da suo fratello, e sono venuto anch’io! Sei stato davvero bravo, ammazza! –
- Grazie – borbottò. Federico aveva fatto amicizia con una ragazza. Si sentiva infastidito, perché lei lo aveva distratto, e adesso avrebbero perso tempo per ritornare a casa, e lui aveva fame. Federico sembrò non accorgersi del suo fastidio, perché, continuando a tenerlo per il braccio, parlò ancora. Era un tocco leggero, caldo, amichevole, come fosse un invito a restare lì a parlare con lui.
- Si chiama Szilvia, suo fratello è Rafael, il ragazzo che suona il violino! –
Szilvia era lì, la sentiva nella moltitudine di parenti impegnati a complimentarsi con i propri ragazzi, lei era lì voltata verso di loro; respirava, guardava, forse sorrideva.
- Ciao Dominik! – si presentò. Aveva una voce squillante, ma melodiosa come quella del fratello. Rafael era uno che parlava poco, era fatto soprattutto di sguardi, di tocchi, e di musica. Lo dicevano tutti, ma lui non lo conosceva bene. Dicevano tutti che fosse un tipo strano, ma in fondo “quelli del conservatorio”, come li chiamavano, erano tutti strani. Borbottò un saluto strascicato, iniziando a tormentarsi le mani: il suo pianoforte gli mancava già.
- Oh, ecco mio  fratello!  Aspetta, te lo presento! Raf!! Raf, sunt aici (1)!  – gridò. Szilvia e Rafael erano rumeni, vivevano in Italia da diversi anni, ma non avevano perso l’accento né l’abitudine di parlare nella loro lingua d’origine.
Rafael li raggiunse subito, percepì la variazione; Federico si mosse di pochi centimetri, e gli lasciò il braccio. Rimase il contatto tra le loro spalle e le braccia abbandonate lungo i fianchi.
- Ai fost prea bun (2)! Oh, lui è Federico, è un amico di Dominik! –
Federico e Rafael si presentarono, probabilmente scambiandosi una stretta di mano, poi il rumeno salutò anche lui, che rispose borbottando. Rafael, tutto sommato, gli piaceva: era un ottimo musicista, suonava benissimo il violino, e non parlava mai troppo. Però aveva la sensazione che non vivesse del tutto per la musica, non come faceva lui; era come se volesse vivere in un altro mondo, sulle nuvole, con la sua musica, ma la sorella lo trascinasse sempre giù. Parlava sempre di Szilvia, per quel che ne sapeva, e spesso la sera lavorava suonando la tastiera ai matrimoni e agli adii al celibato per portare dei soldi a casa anche per lei, che lavorando come barista non guadagnava certo una fortuna. Dominik sapeva molte cose di Rafael, perché sapeva ascoltare, ma non lo conosceva veramente.
Con Federico era il contrario; lo stava conoscendo bene, ascoltandolo camminare, guardare la tv, parlare al telefono, ma non sapeva quasi nulla di lui.
- Avete già impegni? Che ne dite se andiamo a mangiare qualcosa tutti e quattro insieme? Eh, Federico? –
La voce di Szilvia era troppo acuta e irritante, e il modo in cui si rivolgeva continuamente a Federico rendeva chiare le sue intenzioni. Era come quando Roman telefonava sempre a casa sua; la nonna faceva sempre battutine ad Aneta, e Szilvia si stava comportando proprio come Roman.
Forse Federico le avrebbe detto di no, e avrebbero passato la serata a casa.
- Io…non lo so…Dominik, tu che dici? –
Aveva sempre trovato gentile il suo modo di interpellarlo sempre, ma in quel momento non sapeva cosa dire. O meglio, avrebbe voluto dire di no, che voleva solo tornare a casa, togliersi quei vestiti e mettersi a suonare, e poi guardare la tv con lui. Ma forse Federico si sarebbe arrabbiato come quella volta che si era rifiutato di uscire con lui, e non voleva che Federico si arrabbiasse, o una volta a casa non avrebbero guardato la tv insieme. Il sabato era bello guardare la tv con Federico, perché l’indomani era domenica e potevano stare svegli fino a tardi sul divano.
Alla fine  fece spallucce, con espressione indifferente; non gli importava poi molto.
- Dai venite! Giuro che non faremo troppo tardi! –
- Allora va bene, verremo! –
- Fantastic! Andiamo in macchina! Raf, andiamo! –
Dominik rimase fermo per qualche secondo, mentre la voce di Szilvia si allontanava, probabilmente alla ricerca del fratello. Dal chiacchiericcio intorno poteva intuire come la folla presente non si fosse ancora allontanata; c‘era odore di fiori, probabilmente portati da qualche ammiratore a una delle ragazze, ma c’era anche quello che lui chiamava l’odore della gente, quella costante sensazione di pesantezza alle narici, di aliti che respiravano, di pelli che si incontravano.
Poi, in tutto quel buio e in quell’odore soffocante, Federico gli poggiò la mano sulla schiena, dove la spina dorsale si curvava indietro e si creava una fossetta.
- Ti va di andarci, no? Se vuoi posso accompagnarti a casa. Avevo anche promesso a Samuele di passare al locale. – Dominik scosse il capo.  
- Voglio andarci. Ho fame. –
In realtà non era vero. Si, aveva fame, ma non aveva nessuna voglia di chiudersi in un locale affollato. Ma tra la prospettiva di andare con loro e quella di restare a casa senza Federico, mentre lui andava a lavorare, preferiva di gran lunga il locale affollato. Accennò un sorriso, ma non seppe se Federico lo stesse ancora guardando, se se ne sarebbe accorto. Forse stava già cercando Szilvia. Ma si meritava un sorriso, perchè era sempre gentile con lui. Più tardi, a casa, gli avrebbe chiesto  se aveva capito il senso della sua musica, quella sera.
- Devo prendere il cappotto, l’ho lasciato alla maestra –
- Vado a prendertelo. Dov’è? –
- No. Lei adesso viene qui. – gli spiegò soltanto. Federico non aggiunse altro, ma non staccò la mano dalla sua schiena: si stava creando un delizioso calore dove lui toccava, e una volta che avesse tolto la mano ci sarebbe stato freddo.
- Sei stato davvero bravo oggi – ruppe poi il silenzio lui. Dominik avrebbe voluto restare in silenzio, parlare con lui della musica da soli, a casa, nel silenzio e nel tepore del divano, ma si sentiva troppo entusiasta di quello che aveva fatto sul palco per poter tacere. Non vedeva l’ora di telefonare alla mamma per raccontarle tutto; lei doveva essere in apprensione, sapeva che a quell’ora dovevano già aver finito. Ma c’era Federico a cui raccontare per primo.
- Hai sentito come cresceva la musica? E tutte le biscrome, le ho unite tutte,  anche se la maestra diceva di no, ma la musica mi ha detto di fare così! E hai sentito dopo, il silenzio? Non è stato bellissimo? – Parlava a ruota libera, agitando le mani, ma Federico era in silenzio. Poteva giurare, però, di averlo sentito respirare. Così, istintivamente, gli poggiò le mani sul volto; aveva gli zigomi sollevati di chi stava sorridendo, e anche sotto gli occhi si erano formate le borse come in tutti quelli che si aprivano in un sorriso. Quando lo aveva toccato, però, tutto in lui si era irrigidito per un secondo, prima che la sua espressione tornasse seria. Dominik staccò le mani; era contento che Federico avesse sorriso, voleva dire che aveva capito, che aveva sentito dentro la forza della musica, che condivideva il suo stesso entusiasmo.
- Dominik! Andiamo? – La voce della maestra lo raggiunse alle spalle. Lei non lo toccava mai, neppure per sbaglio; si limitava a parlare, e ogni tanto, nelle pause di silenzio, respirava più profondamente oppure si schiariva la voce, per fargli capire che c’era. Le uniche volte che restava completamente in silenzio, attenta quasi a non respirare, era quando lui suonava; allora sapeva benissimo che lei non si sarebbe mai mossa dalla sua sedia, neppure se fosse crollato il tetto.
Si voltò verso la direzione da cui proveniva la voce, appoggiandosi al braccio di Federico.
- Grazie, ma il mio coinquilino è venuto a prendermi. –
- Salve, signora – si presentò goffamente. La maestra espirò sonoramente, ma non disse nulla; doveva avergli rivolto un cenno stizzito del capo che lui non aveva potuto vedere. Era troppo educata per far finta di nulla, pur non avendo particolarmente in simpatia gli accompagnatori dei suoi musicisti. Diceva sempre che la gente distraeva dalla musica. Dominik la pensava esattamente come lei, ma lui era diverso, non avrebbe mai permesso a nessuno di distrarlo. E poi Federico era bravo.
- Ottimo. Ci vediamo lunedì. Raccomando la massima puntualità. –
Quello era un congedo, come sempre. Avvertì solo il rumore dei suoi tacchi che si allontanavano, fino a quando non venne del tutto coperto dal chiacchiericcio della folla.
- Simpatica, eh? – osservò Federico, ironicamente. Quella frase lo fece sorridere, soprattutto per il tono che Federico aveva usato: lo immaginava corrugare la fronte, e magari sorridere di nuovo. La mamma lo faceva sempre quando battibeccava con il papà e finivano per scoppiare a ridere entrambi. – Dai, andiamo, muoio di fame! Ho preso io la tua roba, ma dovresti mettere il cappotto. –
Il ragazzino fece una smorfia: il capotto con quella giacca era terribilmente scomodo, e poi lui non era uno che soffriva il freddo, si sarebbe abituato a star fuori anche con la giacca.
- No, è scomodo. Vado con la giacca. –
- Ma sei scemo?! – lo apostrofò Federico, trattenendolo per il braccio. Dominik sbuffò: voleva andare a casa, e prima fossero usciti di lì, prima avrebbero finito di mangiare e sarebbero potuti tornare a casa. – Togliti la giacca e metti il cappotto allora! –
Ubbidì in silenzio, sfilandosi la giacca e prendendo il capotto pesante che Federico gli porgeva. Poi sentì il tocco delle sue mani sul collo, per qualche minuto, infine tra i capelli. La sua mano si mosse veloce, scompigliandoglieli tutti e rovinando il duro lavoro che la maestra gli aveva imposto prima di entrare in scena. Si portò una mano sul collo: non aveva più il papillon, e i primi due bottoni della camicia erano aperti.
- Almeno sei più casual adesso! –
Non gli chiese  cosa significasse casual, non gli importava. Lo seguì semplicemente, mentre con la mano di nuovo dietro la schiena lo guidava verso una direzione ben precisa. Forse c’era Szilvia di là, o forse gli aveva dato appuntamento nel parcheggio: c’era più gente nel punto in cui stavano andando, doveva essere l’uscita.
- Comunque, sono davvero contento di essere venuto, oggi – gli disse alla fine, affrettandosi a tossicchiare per schiarirsi la voce.
Dominik sorrise. Federico aveva davvero capito la musica. 

§ § §

 Non avrebbe mai creduto di poterlo pensare, eppure stava davvero desiderando di ritornare in quella sala concerti e lasciarsi avvolgere da quella poltrona comoda e dal silenzio che c’era.
Adesso, invece, era seduto su uno sgabello di legno scomodissimo, troppo alto, con una musica spaccatimpani che gli impediva persino di sentire cosa Szilvia, accanto a lui, stesse blaterando.
Dopo il concerto si erano incontrati nel parcheggio, e a bordo di una vecchia macchina scura si erano diretti verso un locale: Szilvia aveva insistito perché si sedessero nei sedili posteriori, lasciando a Dominik quello anteriore, e anche al tavolo si era premurata di occupare la sedia di fianco alla sua.
Il locale dove li avevano portati si era rivelato un semplice pub, parecchio piacevole all’inizio: era arredato con uno strano stile orientale, ma i tavoli avevano un taglio molto più moderno. Erano alti, di forma quadrata, con intorno quattro sgabelli. Stonavano parecchio con il resto dell’arredamento e con il bancone di legno scuro che sembrava simile ad un tronco d’albero malamente intagliato da qualche indiano. Anche le maschere appese al muro avevano un non so che di inquietante. Poi, dopo circa mezz’ora, il volume della musica era cresciuto: erano passati da un sobrio rock a un pesantissimo metal che gli aveva procurato un mal di testa senza precedenti.
Se non altro, però, il cibo era buono: avevano ordinato delle patatine fritte, e dei panini. A Federico era sembrata la scelta migliore, così Dominik non si sarebbe sentito in imbarazzo: un panino era semplice da mangiare. Da quando si erano seduti, aveva cercato di non guardarlo: era alla sua destra, rannicchiato sullo sgabello, e stava tenendo il broncio. Non era difficile capire che quel tipo di serata non fosse certo la sua opzione preferita, ma non si stava lamentando, non ad alta voce almeno. In ogni caso,  si stava concentrando per non guardarlo, e per non guardare neppure Rafael: era difficile dire chi dei due fosse più attraente. Dominik aveva l’aria di un angelo che si era perso all’inferno, così in contrasto con quello che lo circondava, con i capelli scompigliati e la camicia sbottonata che lo facevano sembrare quasi appena sveglio. Rafael invece era più vicino a un demonio, o forse a un gatto, che era più o meno come dire la stessa cosa: teneva sempre il capo leggermente chino, e alzava solo gli occhi per osservare chi aveva intorno. Anche lui aveva passato una mano tra i capelli per ravvivarli, ma li portava più corto di Dominik; se ne stava seduto fermo come una statua, semplicemente osservando ciò che lo circondava, ma quello di Federico non era l’unico sguardo che aveva attratto.
Szilvia, invece, non faceva altro che parlare; gli aveva raccontato della loro vita in Romania, del suo arrivo in Italia con Rafael tre anni prima, degli studi di suo fratello al conservatorio, del proprio lavoro come barista, della piccola casa in cui vivevano e di cui potevano a malapena pagare l’affitto. Gli parlò del loro sogno di andare in America, ma gli disse anche che Rafael desiderava restare in Europa, perché tutti i grandi della musica avevano vissuto lì, e lì si respirava l’arte. A lei dell’arte non importava parecchio, ma non voleva tornare in Romania, così come non aveva intenzione di fare la badante a qualche vecchio che vuole solo palparti il culo, aveva aggiunto. Lei, da parte sua, gli palpava la coscia da dieci minuti.
Era abbastanza imbarazzante trovarsi lì così, con lei che lo palpava, e lui che non faceva altro che fissare suo fratello; fratello che, tra l’altro, sembrava più interessato alle sue mani che non al resto del gruppo.
- Raf, perché sei così silenzioso? – lo interpellò la sorella. Il ragazzo sorrise, prima di alzare gli occhi; probabilmente, di solito non parlava molto di più di adesso, ma Szilvia voleva evitare pause di silenzio.
- Parli come se la vita a Oradea fosse un inferno. – La voce di Rafael era stranamente calda, in netto contrasto con quella della sorella, ma aveva lo stesso accento forte che su di lui risultava terribilmente sensuale. Nonostante venisse anche lui dall’est, come Dominik, il loro accento era completamente diverso; quello di Rafael sembrava poter fendere l’acciaio, mentre quello di Dominik era meno aggressivo. Probabilmente lo doveva anche al fatto che il suo coinquilino viveva in Italia da molto più tempo. Szilvia raddrizzò la schiena, colpita dalle parole del fratello.
- Lo dicevi anche tu che lì la vita finiva in un vicolo cieco! –
- E’ vero. Ma la musica apre tutte le porte. Dovevo per forza andare via. –
- Non vi manca niente della vostra terra? – chiese poi Federico. Era preso dalla smania di sentirlo parlare ancora. Fu Szilvia però  a scoppiare a ridere, seguita a ruota dal ragazzo accanto a lei. Era terribilmente bello anche quando rideva.
- Oh, a Raf mancano da morire le ragazze! Dice sempre che in Italia non ne fanno belle come in Romania! –
Federico si sentì sprofondare. Avrebbe dovuto immaginarlo che uno così bello dovesse essere etero, sarebbe stato troppo bello per essere vero! Prima che potesse lasciarsi andare alla depressione, Szilvia lo chiamò di nuovo.
- E tu, piuttosto? Non hai una ragazza, vero? – Il luccichio nei suoi occhi non nascondeva una vena di malizia. Era straordinario quanto fosse diretta quella ragazza. Cosa avrebbe dovuto dirle? No, guarda, in realtà sono gay, mi piace da matti tuo fratello, però sono uscito da poco dalla storia della mia vita con il mio migliore amico, e non mi va di impegnarmi? Si schiarì la voce, imbarazzato, ma entrambi i ragazzi lo stavano fissando, in attesa di una risposta.
- Oh, no, per carità! Sono uscito da poco da una storia molto importante, ho bisogno di staccare. – Non era propriamente una bugia, non aveva specificato che quella storia fosse stata con un ragazzo. Szilvia si rilassò sullo sgabello. Era seduta di fronte a Dominik, ma sembrò notarlo solo in quel momento.
- E tu, Dominik? Non hai una ragazza? –
- No – rispose lui semplicemente. Sembrò lievemente sgarbato, ma Federico lo conosceva ormai abbastanza per capire come non fosse rimasto veramente infastidito dalla domanda, ma la reputava semplicemente troppo inutile per rispondere adeguatamente.
- Dominik non si interessa affatto di ragazze, gli importa solo della musica. Fagli una domanda su quella, e resterebbe a parlare per ore. –
Non voleva proprio giustificarlo, ma non gli piaceva che Szilvia e Rafael si facessero un’idea sbagliata di lui. In fondo, non era cattivo, era solo…particolare. Szilvia preferì non insistere, concentrandosi sulla sua coca cola. Federico avrebbe potuto giurare che ci fosse un velo non troppo celato di malizia nel modo in cui strinse le labbra intorno alla cannuccia e se la lasciò sfuggire quasi per caso, per poi riprenderla con la lingua.
Guardò l’orologio al polso: non era ancora tardi, ma la situazione si stava complicando. Szilvia non faceva che avvicinarlo con spudorate moine, Dominik si era fatto troppo silenzioso persino per i suoi standard, e Rafael era dichiaratamente etero. Una  serata di merda.
Propose di andare via, senza porre troppa attenzione su Szilvia, e stranamente la ragazza non protestò quando si offrì di sedere dietro insieme a Domini e lasciarle il posto accanto al fratello.
In macchina, fu abbastanza silenziosa, ma non appena giunti sotto casa, si voltò subito, con un sorriso stampato in faccia.
- Grazie del passaggio – mormorò lui, affrettandosi ad aprire la portiera e girare intorno all’auto per aiutare Dominik a scendere. La ragazza abbassò il finestrino.
- Possiamo passare a trovarvi, qualche volta? –
- Perché no? – le rispose, con un lieve sorriso. Sapeva che Rafael non sarebbe mai venuto, o almeno, lei non glielo avrebbe mai permesso.
L’automobile attese che  lui aprisse il portone d’ingresso, e quando se lo chiuse alle spalle avvertì il rumore del motore che ripartiva.
- A Szilvia piaci. – Dominik non aveva parlato per tutta la sera, e la prima frase che aveva detto era stata proprio quella. Possibile che fosse tanto evidente?  - Però a te lei non piace – aggiunse.
- Come fai a dirlo? –
- Sei troppo gentile quando parli con lei. – Federico aggrottò la fronte, guidandolo verso la porta d’ingresso del loro appartamento.
- Di solito non si è gentili con chi ci piace? –
- Tu no. Tu parli tanto con chi ti piace, lo contraddici, ci ragioni. Lo fai con Samuele, lo fai al telefono con tua madre. Lo fai anche con me. –
- Se è per questo, con te ci discuto quasi sempre! – Dominik sorrise, coinvolgendo anche lui. Mentre apriva la porta e faceva scattare l’interruttore, il ragazzino era già dentro e si era lasciato cadere sulla sua poltrona con ancora indosso il cappotto.
- Perché ti piaccio più di tutti. – gli disse con semplicità. Era una teoria interessante, ma non rispose: sistemò il giubbotto all’ingresso, e si tolse la giacca, lasciandosi cadere sul divano.
- Parli così perché fai così anche tu? – Lo vide scuotere il capo.
- No. Io con chi non mi piace non ci parlo proprio. –
- Con me parli tanto, per i tuoi standard. –
- Perché mi piaci più di tutti.  – Federico inclinò il capo indietro, chiudendo gli occhi; la luce iniziava a dargli fastidio.  – Tu ascolti la mia musica per davvero. Non mi dici bravo solo perché mi farebbe piacere. Se qualcosa non ti piace, me lo dici. Come quella volta che mi hai detto che alla mia musica farebbe bene se io staccassi la spina ogni tanto. Anche se ti ho detto di no, tu hai insistito. –
- Alla fine avevo ragione? –
- No. – Federico sorrise. Ovviamente. Come avrebbe potuto anche solo pensare di avere ragione su quel ragazzino? – Però hai insistito contro di me, perché pensi che così potrei essere più bravo di come sono. E questo mi piace. –
Era un bel modo di pensare. Per uno come lui doveva essere strano sentirsi dire di essere bravo e non sapere se crederci, se stessero dicendo sul serio o se lo facessero solo per fargli piacere, perché era un ragazzino cieco e meritava di sentirsi fare qualche complimento.
- Io non ne capisco quanto te di musica, ma per me sei bravo sul serio. –
- Tu dici sempre la verità, visto? E’ per questo che mi piaci. –
Federico abbassò il capo. Dominik gli parlava di sincerità, eppure sulla cosa più importante stava mentendo. Cosa avrebbe detto Dominik di lui se avesse saputo che gli stava nascondendo di essere gay? L’avrebbe odiato, l’avrebbe cacciato di casa? Non sembrava cattivo, sembrava quasi non potesse essere cattivo con le persone: ma lo conosceva abbastanza per poter dire una cosa del genere? Mentirgli iniziava a pesargli; Dominik era così pulito, tranquillo, anche buono, con lui, e la ricompensa che ne riceveva era una bugia. Eppure sentiva di non conoscerlo ancora abbastanza per confessargli una cosa del genere; non poteva sapere come avrebbe reagito, sarebbe stato il caso di aspettare.
- Non sono un santo, e non dico sempre la verità. –
- Non importa. Con me sei buono. –
Calò il silenzio, ma non c’era imbarazzo. Erano stanchi entrambi, ma nessuno dei due aveva intenzione di alzarsi dal divano o dalla poltrona.
- Federico? –
- Mh? –
- Andremo a Milano qualche volta, vero? –
- Certo. –
Dominik non disse altro, limitandosi a stringersi sulla sua poltrona, in quella posizione con le gambe al petto che gli piaceva tanto. Avrebbe dovuto dirgli di togliersi il cappotto, cambiarsi, e avrebbe dovuto farlo anche lui. Solo che non ne aveva alcuna voglia: aveva l’impressione che, se si fossero alzati da lì, quella complicità che si era creata sarebbe andata distrutta. Così prese il telecomando, stendendo i piedi sul divano.
- Guardiamo la tv? –
Dominik annuì, poggiando il capo sulla poltrona.
Lo schermo della televisione si illuminò, Federico sorrise.
Come trasformare una serata di merda in una da favola.


(1) Sono qui.
(2) Sei stato troppo bravo.
[Rumeno]



Note al capitolo 9:
Devo dire che sono peggio che in ritardo, ma ieri e oggi mi sono messa a scrivere perchè dovevo aggiornare, dopo più di un mese. Questo capitolo è rimasto a prendere polvere per un mese prima di essere ultimato, e nella mia testa per molto più tempo; devo confessare che non è stato uno di quei capitoli in cui non sapevo cosa scrivere o cose del genere. Era tutto chiaro, sapevo benissimo come sarebbero andate le cose, ma le parole non venivano, non quelle giuste, e da qui il ritardo colossale.
Adesso che le lezioni in università sono finite, ho più tempo per scrivere, dopo lo studio, quindi gli aggiornamenti arriveranno prima senza dubbio! Ringrazio tutti coloro che hanno recensito e seguito con tanta pazienza, mentre io ho un sacco di risposte arretrate! provvederò entro oggi! Ne approfitto qui per ringraziare tutti e spero che questo capitolo possa piacervi ed esprimervi quello che io ho provato scrivendolo.
Poi vi lascio due immagini per favi vedere Szilvia e Rafael.
Qui c'è Szilvia: http://img260.imageshack.us/img260/3251/alexina1rf4.jpg
Qui Rafael, di fianco a Dominik: http://24.media.tumblr.com/tumblr_m4xrggbsZ51r0hbwko1_1280.jpg
Naturalmente potrete immaginarli come preferite, ma questa è la mia idea di loro.
La sala concerti del Conservatorio, invece, è qui:
http://www.museotorino.it/images/6c/95/17/d6/6c9517d6d3ea4239a761894cc2e8e213-1.jpg?VSCL=100
http://www.museotorino.it/images/61/40/2c/a2/61402ca255a44c19868f69cd67bed187-1.jpg?VSCL=100
http://www.mitosettembremusica.it/sites/mitosettembremusica.it/files/07.jpg?1242723412
Detto questo, vi lascio e spero di poter aggiornare presto, sicuramente nel giro di una settimana al massimo!
Spero di ritrovare i miei vecchi lettori, e un saluto anche a quelli silenziosi.
A presto,
Esse 


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Capitolo 11
*** 10th: Il calore di sentirsi un po' più a casa ***


In una carezza, in un abbraccio, in una stretta di mano a volte c'è più sensualità
che nel vero e proprio atto d'amore.

Dacia MarainiDentro le parole, 2006



Capter 10th: Il calore di sentirsi un po’ più a casa
 
Federico aveva una gran voglia di dormire.
Si sentiva distrutto, le palpebre pesanti e le gambe che non rispondevano più agli ordini.
Ma il suo turno non era ancora finito.
Alzarsi presto la domenica mattina non gli era mai risultato facile, ma come se non bastasse, la sera prima aveva fatto tardi; era rimasto sul divano a guardare la tv con Dominik fino alle due del mattino, e quando aveva trovato il coraggio di alzarsi per andare a letto, non si era ancora tolto il vestito elegante che aveva indossato per il concerto. Il risultato era stato che quando la sveglia aveva suonato alle sette e mezzo, il mondo era esploso.
Diede uno sguardo al locale intorno a lui, e notò che anche i suoi colleghi non stavano messi meglio: Simone aveva le occhiaie scure sotto gli occhi, Lorenzo si massaggiava le tempie dall’inizio del turno e Gianluca non faceva che sbuffare. Solo Samuele sembrava sprizzare energia da quando era arrivato, nonostante fosse stato l’unico a lavorare il pomeriggio precedente, per sostituire Federico.
- Ma come cazzo fai a essere così arzillo di prima mattina? – borbottò Lorenzo, lasciandosi cadere su uno sgabello e facendo scivolare il vassoio vuoto lungo il bancone.
Samuele  sembrò non essere particolarmente colpito dall’espressione colorita, limitandosi  a sciacquare le tazzine di caffè e prendendosi qualche minuto per rispondere, ché tanto il collega, nervoso com’era, non se la sarebbe presa.
La domenica mattina la gente non si presentava mai troppo presto, ma ormai quello era l’orario in cui il locale si riempiva di gente che chiedeva caffè e aperitivi. Solitamente, la mattina il locale era chiuso: apriva i battenti intorno alle quattro del pomeriggio, per chiudere poi a tarda notte. La domenica rappresentava un’eccezione; Roberto, il proprietario, aveva deciso di tenere aperto per tutta la domenica, perché anche i ragazzi e le ragazze gay avessero un luogo dove trascorrere quel giorno di riposo senza doversi fingere etero in uno qualsiasi dei bar di Milano. Allora Samuele o Simone, i baristi, si improvvisavano artisti del caffè e si mettevano ad armeggiare con la macchinetta in acciaio satinato nuova fiammante che Roberto aveva voluto spruzzare di lustrini dorati, tanto per creare un po’ d’atmosfera.
Federico fissò l’orologio che segnava l’una e dieci; mancavano due ore alla fine del suo turno, e finalmente sarebbe tornato a casa. Dominik gli aveva detto che lo avrebbe aspettato per pranzo; magari gli avrebbe portato qualche dolcetto, doveva esserci qualche bar ancora aperto.
Quasi quasi, non gli veniva neppure da pensare alla fame; aveva solo voglia di affondare sul divano del salotto davanti alla tv. Era così stanco che si sarebbe addormentato persino mentre Dominik suonava al suo pianoforte. cercò di farsi coraggio, pensando che due ore sarebbero trascorse in fretta; e poi, in fondo, c’era chi stava messo peggio di lui.
Come Simone, stava cercando di preparare due caffè senza distruggere il macchinario nuovo di zecca, mentre Samuele riponeva le tazzine pulite in colonna per un prossimo utilizzo. Stava sorridendo all’indirizzo di Lorenzo, e gli occhi verdi brillarono nell’ambiente luminoso del locale.
- Io ho dormito stanotte, a differenza tua, casanova! – Lorenzo sbuffò, portandosi di nuovo la mano alla testa. Portava i capelli così lunghi sulla fronte che dovette fare un ampio gesto per superare quella barriera e raggiungere la pelle.
- Perché io ci credo, secondo te? –
- Puoi crederci eccome! Ieri sera c’era una bella cena di ricconi in via della Spiga. Riccardo non poteva certo mancare di trascinarci il culo enorme di sua moglie. –
Samuele finse di rovistare tra i piattini nella lavastoviglie, ma a nessuno sfuggì il tono astioso con cui aveva pronunciato quella frase, tanto più che, di solito, evitava di parlare di Priscilla, come se non farlo potesse farla sparire dalla vita di Riccardo.
- Oh, il quadrilatero della moda! Ovviamente nessuno si perderebbe una così bella festa! –
Federico rise insieme agli altri ragazzi di fronte a quello che era chiaramente un tono ironico, ma non potè trattenersi oltre, perché un gruppetto di ragazze aspettava degli aperitivi ad un tavolo vicino la finestra.
Quel giorno  di fine ottobre faceva parecchio freddo a Milano, anche se c’era il sole. Quando c’erano giornate come quelle, si ritrovava a rimpiangere Palermo; in quel periodo doveva fare ancora caldo, la gente doveva starsene sulle panchine di Piazza Politeama in maniche corte, a prendere il sole. Quella mattina, la sensazione di malinconia si faceva sentire più forte.
Manfredi gli aveva mandato un messaggio; quando il telefono aveva squillato, intorno alle undici, gli era parso di aver letto male, non poteva essere il suo nome. Poi aveva aperto il messaggio, aveva letto quel testo leggero e canzonatorio, ma il cuore gli si era stretto in una morsa di fronte a quel mi manchi, Fede. Ci sentiamo. Lo aveva riletto almeno un centinaio di volte, a intervalli regolari, per assicurarsi di non averlo sognato. Ma era tutto vero, il messaggio era lì, e lui non gli aveva ancora risposto.
Da quando si erano lasciati, Manfredi aveva evitato di farsi vedere o sentire. L’ultima volta che l’aveva sentito, era stato lo stesso Federico a chiamarlo per dirgli che andava a Milano a studiare.
Quante volte avevano parlato della possibilità di trasferirsi lì, trovare un lavoro, anche misero, ma vivere felici e senza nascondersi? Poi Manfredi si era rifiutato di dire ai suoi la verità, di essere gay.
Non dirò ai miei di essere gay, Fede. E poi stiamo così bene così, cosa ti cambia? Era stata quell’ultima frase a spezzargli definitivamente il cuore. Non riusciva a capire come facesse lui, che per anni era stato il suo migliore amico, che lo conosceva meglio di chiunque, a non capire. Non condivideva lo stesso struggente tormento del doversi fingere amici come prima ai genitori, l’irritazione di non potersi nemmeno sfiorare in pubblico e di dover sfogare la frustrazione a casa, quando i genitori di Federico erano fuori per lavoro, come se fossero due ragazzini e non due uomini di venticinque anni. Rinunciare a lui era stato quasi distruttivo.  
Si ricordava benissimo di tutto quell’amore, e di tutta l’amicizia che c’era stata prima, quel rapporto quasi di simbiosi, morboso, che solo dopo anni si era rivelato veramente per quello che era; un amore passionale, totalizzante, che quasi lo bruciava. Un amore meraviglioso. Ma si ricordava anche di tutte le volte in cui aveva dovuto farsi da parte, in cui aveva dovuto fingere di essere solo un suo amico.
Aveva passato così sette anni della sua vita. Poi, una mattina, si era guardato allo specchio, e si era reso conto di non aver concluso nulla nei suoi 25 anni di vita; non aveva un lavoro vero, non studiava, non aveva un futuro con l’uomo che amava. Allora se ne era andato; aveva lasciato Manfredi, si era spezzato dentro, ed era andato via. Ma era stato tanto codardo ma non riuscire a dire la verità ai suoi genitori.
Aveva immaginato tante volte di prendere quell’aereo per Milano, ma nelle sue fantasie, lui sarebbe stato insieme a Manfredi, e non avrebbe rimpianto la sua casa in Sicilia, perché lì ci sarebbero stati i suoi genitori, con quello sguardo sprezzante, a urlargli di non farsi vedere mai più. La realtà era stata completamente diversa: era partito da solo, e ad aspettarlo a casa c’era sua madre, che tutta orgogliosa parlava alle amiche di quel figlio volenteroso che era andato a studiare e lavorare a Milano.  Sarebbe stata ancora così orgogliosa se avesse saputo che quel figlio
che tanto amava era gay?
Con un sospiro frustrato, riportò in vassoio e i soldi al bancone, dove Samuele aveva appena servito due macchiati a una coppia di ragazzi che si scambiavano uno sguardo innamorato. Quante volte Manfredi lo aveva guardato in quel modo, quando erano soli a casa e avevano appena fatto l’amore? C’erano ancora delle mattine in cui si svegliava e pensava che gli sarebbe piaciuto averlo accanto, anche solo per un giorno, e poter godere di nuovo di quel suo sorriso splendente. Costringersi a non prendere un areo per tornare a casa era come infliggersi una coltellata.
Poi andava in cucina a prendersi un caffè, e trovava Dominik all’ingresso, con il cappotto indosso, a canticchiare nell’attesa che la donna incaricata di accompagnarlo al conservatorio passasse a prenderlo. Allora si dava dell’idiota, perché stava lì a compiangersi per amore quando a pochi passi da lui un ragazzino aveva trascorso la vita lontano da casa, senza mai aver visto il mondo, e trovava la forza di canticchiare al mattino solo perché lo aspettava una giornata a suonare il pianoforte in un posto che aveva assorbito tutta la musica del mondo.
Lo salutava, lo vedeva uscire, e trovava il coraggio di affrontare la giornata. Era patetico affidarsi alla presenza di un ragazzino per non correre di nuovo tra le gonnelle della mamma, ma in quei certi giorni si convinceva di aver già lottato troppo, per sette anni, per avere la forza di combattere ancora da solo.
Un tintinnare troppo forte di tazzine lo distrasse.
- Ma vaffanculo tu e i pedofili che tieni sotto le gonne! – Samuele stava urlando all’indirizzo della tv all’angolo, ma alla fine abbassò la voce borbottando una serie di epiteti che Federico preferì non ascoltare.
Quando alzò lo sguardo, Federico scoprì la causa di tanta furia: un primo piano del Papa, che, dalla sua finestra su San Pietro, si lanciava, con voce tremolante, all’attacco degli omosessuali e della loro richiesta di vedersi riconosciuti dei diritti come il resto della popolazione.
Distolse l’attenzione, abbassando lo sguardo; non gli andava di ascoltare quelle parole, di sentirsi disprezzato per una colpa che non aveva. Succedeva sempre, credeva che prima o poi ci avrebbe fatto l’abitudine, ma non era successo. Faceva sempre dannatamente male dentro.
Non aveva mai fatto nulla di male a nessuno; andava a messa quasi tutte le domeniche, passava sempre i compiti in classe ai compagni, sistemava la sua stanza tutti i giorni, non aveva mai rubato o fatto del male a qualcuno, e aveva sempre fatto il possibile per aiutare un amico. Eppure, tutta la sua vita non valeva niente, solo perché si era innamorato di un ragazzo.
Allora aveva smesso di andare in chiesa, di guardare la tv quando c’era il Papa, ma non aveva rinunciato a essere la brava persona che tutti conoscevano. Anche Samuele non era insensibile all’argomento, ma lui, più che cedere allo sconforto, si arrabbiava, come in quel momento.
Lo raggiunse lasciando il vassoio vuoto sul bancone
- Non ascoltarlo. Serve solo a farti venire su la bile. –
- Io lo ascolto, invece, lui e le sue cazzate! Mi fa…mi fa incazzare, lo capisci? Perché io sono una persona migliore di lui!! Per colpa sua e di tutti loro , ho la nausea persino a passare di fronte ad una chiesa! –
- Io non vado in chiesa da sette anni. Da quando ho scoperto di esse gay. –
- Credi che non sia lo stesso per me, Fede? Ma non è giusto. Non è giusto che io non possa andare in chiesa perché mi sentirei i loro sguardi di disprezzo addosso. Anche se loro non lo sanno che sono gay, anche se fossero le persone più cordiali del mondo, sarebbe falso, perché io saprei la verità. Mi verrebbe la nausea a stare lì, e non è giusto. Perché io credo profondamente in Dio, da sempre. Prego tutte le sere, chiedo perdono per i peccati che come uomo posso commettere ogni giorno, e chiedo conforto. Lo faccio con Dio, perché di fronte a un prete non ci riuscirei. E non è giusto!! –
Federico osservò Samuele per un attimo, si perse nei suoi occhi verdi circondati da quelle piccole rughe poco profonde. Vi lesse dentro tutto lo smarrimento e la confusione, la solitudine delle notti da solo, la rabbia soffocata. Non era giusto che gli fosse riservato tutto quello: Samuele era un uomo estremamente buono, che lavorava sodo, che amava con tutto se stesso, che aveva costruito la vita che aveva lavorando, che non si lamentava mai. Non meritava di essere trattato come una seconda scelta dall’uomo che amava, né di essere disprezzato dal mondo solo perché veniva reputato diverso: se ci fossero state, al mondo, più persone come lui, probabilmente non ci sarebbero mai state neppure delle guerre.
Invece poteva solo trovarselo davanti, perdersi nei suoi occhi verdi, senza sapere cosa dire, lasciandosi avvolgere da quella tempesta. C’era dentro tutto Samuele, in quello sguardo,  ma bastò un secondo per mandarlo via. La voce di Roberto, che al locale passava sempre, li raggiunse forte alle spalle.
- Togliamo queste cazzate e mettiamo un po’ di musica, ché la musica dà un po’ d’amore a tutti eh? –
Fece l’occhiolino a Federico, allontanandosi per tornare di nuovo sul retro, dove gli scatoloni di merce giunta il giorno prima aspettavano ancora di essere messi in ordine. Quando si voltò di nuovo verso Samuele, lui stava già sorridendo.
- Che dici, li vai a prendere gli ordini da quei due o aspetti che quello grosso venga qui a batterti sulla spalla? –
- Credo che ci andrò subito! – borbottò, incamminandosi verso il tavolo.
Il tizio grosso, poi, si rivelò la persona più buona del mondo; aveva la voce profonda, ma si muoveva lentamente, come se dovesse prendere le misure del mondo che lo circondava. Era del tutto ammaliato dal ragazzo accanto a lui, anche lui abbastanza robusto e largo di spalle, ma più aggraziato. Ordinarono due caffè con panna, e lo ricompensarono con un sorriso: raramente se ne trovavano di così cordiali, clienti.
Mentre tornava al bancone, Federico ripensò a Samuele, al suo sguardo smarrito, e poi al suo sorriso. E pensò che lo attendeva un pomeriggio di studio, se voleva davvero laurearsi prima o poi, e una serata davanti la tv, perché l’indomani ci sarebbe stata lezione in università, e si rese conto di non voler restare da solo. C’era Dominik, certo, ma non sarebbe bastato a scacciare via la malinconica  immagine di Manfredi; oltretutto, non gli andava di lasciare l’amico in casa da solo ad aspettare una telefonata di Riccardo che magari non sarebbe mai arrivata.
Tornò al bancone; Samuele gli sorrise di nuovo, ma non era lo stesso sorriso caldo che aveva sempre. Le parole che aveva sentito in tv dovevano bruciargli ancora dentro.
- Senti, hai da fare stasera? –
- Non credo. –
- Ho scaricato Sherlock Holmes 2. Vieni da me e lo vediamo? – Samuele fece una smorfia.
- Non mi piace molto il genere, ma vengo lo stesso volentieri! –
- Ottimo! Anche perché non ho scaricato niente, l’ho detto solo per farti venire! –
Samuele rise, scuotendo il capo, e Federico si affrettò a defilarsi con i caffè che aveva preparato Simone. Stava ancora ridendo quando consegnò i caffè e sentì la voce di Samuele urlargli dietro.
- Sei un ragazzino impossibile! -

 § § §

 
C’era un buonissimo odore che veniva fuori dal forno. Federico aveva detto che erano le patate, una nuova ricetta che faceva sempre sua madre e che gli era venuta in mente. Le aveva tagliate, immerse nell’olio, e poi nel pan grattato e nel formaggio, alla fine le aveva messe nel forno.
Dovevano essere buonissime, e l’odore riempiva tutto il salotto.
Mentre suonava il pianoforte, gli riempiva le narici. Era un profumo così buono, gli faceva venire in mente la primavera di Vivaldi.
Vivaldi non gli era mai piaciuto molto; era bravo, ma sembrava quasi che gli mancasse quella magia che animava Chopin, o Mozart, o Beethoven, o anche Bach. Tutti i compositori avevano una loro magia, ma Vivaldi sembrava quasi chiuso in se stesso. Forse erano gli italiani a essere così, ma era difficile da credere; Verdi aveva composto delle così belle cose, e Federico non nascondeva mai la gentilezza che c’era in lui.
- Dominik? –  Proprio Federico lo stava chiamando. Raddrizzò la schiena, e la sinfonia di Vivaldi che stava suonando declinò verso delle note lente, fino a spegnersi nel silenzio.
- Mh? –
- Non volevo interromperti, scusa. Ma stasera viene a cena Samuele. Non ti dispiace vero? –
- Samuele può venire. –
Avrebbe rivisto Samuele. Tutto sarebbe diventato giallo.
Poggiò le dita sul pianoforte, e iniziò a suonare il gran valzer di Verdi. Era uno dei suoi brani preferiti, da cui traspariva la vita di quello che Verdi componeva. E poi era così adatta a Samuele, era gialla anche lei.
Federico lo lasciò suonare senza dir nulla; Dominik sentiva il fruscio delle pagine del libro che stava studiando, seduto al tavolo, intervallato dal rumore della sedia che si spostava tutte le volte che si alzava per controllare le patate nel forno.
Suonò, fino a quando le note non finirono e la sinfonia declinò verso un virtuosismo prima di spegnersi e far piombare la stanza nel silenzio.
Dominik si alzò. Non voleva smettere così presto di suonare , ma nella stanza c’era un insolito trambusto: non si sentiva più il suono delle pagine del libro di Federico, ma i suoi passi in giro per la stanza e un rumore di sportelli dalla cucina.
Lo raggiunse mentre ne chiudeva uno con un tonfo.
- Hai finito di studiare? –
- Sto preparando la tavola. Ho fatto degli stuzzichini da mangiare prima di cena. –
- Cosa sono? –
- Sono fatti con il prosciutto, il formaggio, e la maionese. Abbiamo dell’aranciata, può andar bene quella per un aperitivo, che dici? –
- Mh. –
Non aveva idea di cosa fosse un aperitivo, ma il formaggio che comprava Federico era sempre buonissimo.
- Cosa hai cucinato? –
- Pollo. E le patate con la ricetta di mia madre. Sono sicuro che ti piaceranno! –
- Mi piacciono sempre le cose che cucini tu – mormorò. L’odore delle patate gli suscitava l’acquolina in bocca.
Poi, Federico fece qualcosa che non si aspettava; gli poggiò una mano sulla spalla, facendola scivolare lungo il suo braccio in una lieve carezza. Doveva essere il suo modo per dire grazie;  lo faceva sempre anche la mamma, però lei gli accarezzava la guancia.
Quando Federico si comportava così, lui si sentiva sempre un po’ più a casa.
- Qual è l’ultima cosa che hai suonato? – La voce di Federico giunse di nuovo lontana; doveva essere davanti al forno. Dominik fece una smorfia di fronte alla parola cosa, ma non lo rimproverò.
-  E’ il gran valzer di Giuseppe Verdi. E’ una delle colonne sonore del Gattopardo. Sai, quel film italiano. –
- Mh. Non l’ho visto, però è davvero una bella musica. –
Avrebbe voluto dire che gli ricordava Samuele, che avrebbe voluto che anche lui la ascoltasse, ma alla fine decise di non dirlo a Federico. L’avrebbe detto solo a Samuele, magari, e forse lui avrebbe sorriso. A Federico l’avrebbe detto quando avrebbe trovato un’opera anche per lui, una unica e perfetta, che lo descrivesse completamente.
Il trillo  del campanello li richiamò entrambi; Federico si affrettò ad aprire, allontanandosi da lui.
Sul braccio, dove lui l’aveva toccato, faceva improvvisamente freddo. Ripensò a quella notte che si era addormentato stringendogli la mano calda; con quella stessa mano Federico gli aveva toccato il braccio, e adesso faceva freddo. Ma Federico doveva aprire la porta.
Lui rimase qualche secondo fermo. Non aveva idea di dove avrebbe dovuto aspettare l’ospite.
Normalmente, non gli piaceva affatto ricevere ospiti in casa, ma Samuele era una buona presenza, e Federico era sempre contento di averlo intorno. Quel pomeriggio, Federico era stato zitto e triste per tutto il tempo; aveva parlato poco, era rimasto tutto il tempo seduto a studiare, chiuso nella sua stanza prima, e poi in salotto. Per un attimo si chiese se fosse arrabbiato con lui, ma nel tardo pomeriggio gli parlò normalmente. Dominik ipotizzò che fosse successo qualcosa, ma non ebbe il coraggio di chiedergli cosa, se lui non voleva dirglielo; e forse, allora, Samuele sarebbe riuscito a farlo sorridere di nuovo. Per questo Samuele poteva entrare sempre a casa loro, perché faceva sorridere Federico. Szilvia invece non gli era piaciuta; aveva un non so che di subdolo che gli aveva provocato la pelle d’oca. Come quando aveva chiesto se potesse passare a trovarli; avrebbe voluto dirle di no, ma Federico lo aveva anticipato, e non voleva contraddirlo. Ma se Szilvia si fosse presentata quando in casa c’era solo lui, non le avrebbe neppure risposto al citofono.
- Ciao Dominik! Come stai? E’ un sacco che non ci vediamo! – La voce squillante di Samuele lo salutò con la solita cordialità, e tutta la stanza si riempì di giallo. – Ho portato una torta. Ti piace il cioccolato vero? –
- Si! – esclamò con un sorriso. Samuele aveva portato la torta al cioccolato!
- Allora ho fatto bene visto? –
Un tocco sulla spalla; era una mano grande, più di quella di Federico, e fredda, ma aveva una presa più salda quando si strinse su di lui. Doveva essere quella di Federico. Il tocco si esaurì in un istante, in quello che doveva essere un saluto amichevole.
- Non puoi comprarlo con il cioccolato! –
- Ma se sono molto più simpatico di te! –
- Ma io cucino meglio! –
Le loro risate riempirono il salotto, e all’improvviso tutto il silenzio del pomeriggio se ne era andato. Faceva anche meno freddo, come se Samuele avesse portato il sole.
Di sicuro, lo aveva portato a Federico, che adesso rideva e si affaccendava in cucina. Anche Samuele si era allontanato, doveva essere da qualche parte, mentre Dominik era rimasto in piedi dov’era. Non sapeva cosa fare: aveva voglia di suonare ancora, ma avrebbe significato interrompere la conversazione di Samuele e Federico, e gli piaceva tanto sentirli parlare.
- Dominik! Com’è stato il concerto? – gli parlò all’improvviso Samuele. Aveva un tono di voce strano, probabilmente stava masticando qualcosa. Si diresse verso di lui, cercando la sua sedia; era vuota, Federico doveva avergli detto di non sedersi lì, perché quello era il suo posto. Gli venne istintivamente da sorridere, ma non sapeva se per Federico o per Samuele.
- Ho interpretato Beethoven, la quinta sinfonia! C’era silenzio, e poi tutta la musica, e alla fine quel momento finale in cui la musica non è ancora finita e la gente non ha ancora iniziato a parlare di nuovo. Quando ho suonato c’era la neve. Io amo la neve! C’era la neve che cadeva, prima a fiocchi, poi diventava una tormenta che prendeva tutti, e la gente indossava i cappotti e i cappelli.  E c’era una nave che passava accanto a loro e li prendeva tutti, e ondeggiava, e tutto diventava arancione perché qualcuno accendeva il fuoco e prendeva le coperte!  -
Era bello spiegare la musica a Samuele, perché lo ascoltava senza interromperlo, come faceva Federico, solo che Federico gli diceva anche di vivere la musica in un altro modo, e lui questo non voleva ascoltarlo.
- E’ interessante, vista da questo punto. A te è piaciuto, Fede? –
- Molto. Dominik è bravissimo, dovresti ascoltarlo! –
- Davvero? Perché non mi fai sentire qualcosa prima di cenare? – gli chiese poi Samuele.
Dominik si mordicchiò il labbro, indeciso. L’idea di suonare per Samuele gli piaceva: avrebbe potuto fargli sentire il gran valzer di Verdi, disegnargli quello che immaginava, e gli sarebbe piaciuto come era piaciuto a Federico. Si alzò, dirigendosi verso il suo pianoforte; immaginava già il contatto con i tasti freddi, e le note profonde che riempivano il salotto, nel silenzio sceso all’improvviso tra i due ragazzi presenti. Ma prima ancora che toccasse la panca, fu Federico a spezzare quel silenzio.
- Scusa, suoni per lui, e se te lo chiedo io no? –
- Samuele mi piace – gli disse con semplicità. Suonare per Samuele era come farlo per la mamma, o per Aneta, o per la nonna; non c’era neppure bisogno che lo chiedessero, perché avrebbe suonato per loro in ogni caso. Arrivava sempre quel momento in cui i mondi che aveva creato dovevano venir fuori ed essere raccontati, e voleva mostrarli a Samuele.
- Ti piacevo io o sbaglio? – lo incalzò Federico. Aveva la voce squillante, e stava ridendo; lo capiva dal suo tono. Forse aveva ancora quel sorriso sul volto, chè se l’avesse toccato avrebbe sentito gli zigomi sollevati e le piccole rughe d’espressione intorno agli occhi. Si sedette sulla panca, poggiando le dita sui tasti.
- Tu mi piaci più di tutti. –
Schiacciò i tasti.
Il gran valzer riempì la stanza.

 § § §

 
- Questo ragazzino è uno spasso! –
Samuele infilò in bocca un cioccolatino, mandandolo giù in un solo boccone.
Nella stanza era tornato il silenzio, dopo che avevano cenato e Dominik si era chiuso in bagno per fare una doccia veloce. Samuele si era offerto di dargli una mano con i piatti, e Federico gli aveva dato uno strofinaccio.
Nelle orecchie gli risuonavano ancora le risposte del ragazzino quando aveva suonato il suo valzer; Samuele lo trovava divertente, ma c’era anche qualcosa di insopportabilmente irritante nel modo in cui si comportava.
Era bastata una semplice richiesta da parte di Samuele, e si era subito messo al pianoforte; l’ultima volta che l’aveva fatto lui si era sentito rispondere con un secco no, senza altre spiegazioni. Sembrava quasi che Dominik si divertisse a irritarlo. Per tutta la durata della cena però era stato abbastanza silenzioso. Di solito, non mangiava mai in silenzio; ogni due o tre bocconi parlava sempre, quasi come se volesse assicurarsi che lui non si fosse mosso e lo avesse lasciato lì da solo.
- E poi suona davvero bene! Credevo che esagerassi, quando parlavi di lui come una specie di divinità! –
- Non ho mai detto che è una divinità! –
- Ho fatto un riassunto, è quello che intendi! E’ bravo e basta!  -
Federico gli passò i piatti puliti, e Samuele ne prese uno passandoci su lo strofinaccio. Era strano trovarsi lì con lui, di solito i piatti li lavava sempre da solo, e  senza dubbio non si sarebbe mai immaginato di trovarsi lì il suo amico. Quel giorno, poi, Samuele sembrava ancora più imponente; indossava un paio di jeans scuri, e un maglione nero a collo alto che faceva sembrare le sue spalle ancora più larghe; il viso, però, era quello buono di sempre.
- Com’è vivere con un ragazzo cieco? – gli chiese poi. Federico insaponò una delle due teglie che aveva usato; era la prima persona che gli aveva rivolto quella domanda, e non aveva idea di cosa rispondere. Si disse che doveva essere quello il motivo per cui non aveva detto a nessuno, nemmeno alla sua famiglia, di dividere la casa con un ragazzo cieco; perché tutti gli avrebbero fatto quella domanda, e non avrebbe avuto idea di cosa dire. Dominik non era un ragazzo come tutti gli altri, ma non perché fosse cieco: c’era qualcosa, dentro di lui, che lo poneva su un piano diverso dal resto del mondo, che l’avrebbe sempre tenuto lontano da lui, persino se fossero divenuti amici per la pelle, se fosse stato possibile. Dominik sarebbe sempre rimasto nel suo mondo, e non avrebbe mai capito se fosse perché la cecità lo avesse influenzato, o semplicemente perché fosse nato così, un personaggio delle favole leggero come un angelo. Fece una smorfia, cercando le parole giuste, ma non era facile parlarne.
- E’…non lo so, è strano. Vivere con Dominik è strano. Ma non so se perché sia cieco, o perché è lui e basta. –
- In che senso? –
- Lui parla e vede il mondo in modo diverso. Pensa che tutti siano buoni, che il mondo risponda all’immagine che si è creato lui, e allo stesso tempo lo tiene lontano, il mondo e le persone. Non gli importa di cosa succede al di fuori delle mura del conservatorio, e nemmeno di cosa succede alle persone che incrociano la sua strada, se mai ce ne sono state. Lui si sente… - Fece una pausa, ripensando a una delle loro prime chiacchierate.  – Una volta mi ha detto che lui vuole stare più in alto. Quindi non è che non vuoi essere amico di uno così…è che proprio non puoi! –
Samuele lo fissò per qualche minuto, valutando il peso delle sue parole. Aveva appena fatto un discorso che non aveva un grosso senso logico, ma neppure Dominik ne aveva uno, in fondo. Era coerente. Alla fine, l’uomo sistemò il piatto nella credenza, poggiandosi con la schiena contro il piano della cucina.
- Io penso che uno così debba solo essere capito. Non è poi così strano. –
- Non lo conosci, per questo parli così. –
- No. Io credo di avere ragione. Dominik è una di quelle persone che puoi capire solo se non le conosci, o se le conosci abbastanza bene. In mezzo, c’è quello stadio intermedio in cui due persone sanno qualcosa l’uno dell’altro, ma non tutto. E’ lo stadio in cui siete voi, e a questo punto, forse lo conosco meglio io di te. Guardalo bene; non è strano, è solo diverso. Vuole avere l’ultima parola su tutto, ma se vuoi conoscerlo davvero, non devi dargliela. Quando sono arrivato qui, oggi, ho iniziato subito a parlare con lui, non gli ho dato il tempo nemmeno di tirarsi indietro. Ed è andata bene, no? –
- Ma io ci vivo, è diverso. Tu l’hai visto solo due volte, è l’idea che ti sei fatto di lui. L’ultima volta che abbiamo parlato di musica mi stava quasi azzannando per avergli detto di prenderla un po’ più alla leggera! – Samuele scoppiò a ridere per quella battuta, ma quando parlò il sorriso non gli era ancora scomparso dal viso.
- Non lo so Fede, so solo che preferirei mille volte aver a che fare con una persona buona come lui piuttosto che con un pezzo di merda come Riccardo. Che poi, Dominik se lo farebbe chiunque! –
- E’ bello, si. Ha quello strano fascino che trovi nella gente dell’est, tipo nei russi. Sarà che se ne vedono pochi così. – 
Seguirono lunghissimi minuti di pausa; Federico si sentiva gli occhi dell’amico addosso, come se gli stesse scavando dentro. Si limitò a finire di lavare le due teglie, e le posate, poi sciacquò tutto e lo sistemò sul lavello, dove l’amico lì asciugò con calma.
C’era silenzio, perché non avevano pensato di accendere la tv, ma si avvertiva chiaro lo scrosciare dell’acqua nella doccia dove Dominik si stava ancora lavando.
- Ma non ti è mai venuta voglia anche solo di baciarlo? – esordì poi Samuele. Federico lasciò cadere lo straccio con cui stava asciugando il piano della cucina, fissando l’amico con gli occhi spalancati.
- Ma che domande mi fai?! Non abbiamo quel tipo di rapporto io e lui! –
- Non ti ho chiesto se state insieme, Fede! Sto parlando di voglia! Non ha niente a che fare con l’anima, quella. Per esempio, io ho pensato mille volte di baciarti. –
Federico quasi si soffocò. Samuele non aveva mai mostrato atteggiamenti di quel tipo nei suoi confronti, e adesso se ne usciva con frasi come quella. Arrossì, sentendo fin troppo caldo. Trovarsi insieme a lui stava diventando terribilmente imbarazzante, ma l’uomo si affrettò a chiarire il malinteso, accompagnandolo con un sorriso.
- Mica ho detto che lo farei! Però ne ho avuto voglia. A te non è mai capitato? –
- Io…non lo so…credo di no, no. Non riesco a vedere Dominik in quel modo, e.. –
- E insiste! Non sto parlando di due ragazzi che si mettono insieme, ma di corpi che si attraggono! –
- E io ti dico ancora di no! Per me Dominik non è un ragazzo come quelli che incontri al bar e dici: cazzo, che figo! E ti inchiodi a fissarli. Dominik è un ragazzino, e ragiona come un bambino che scopre tutto per la prima volta! Non ti può venire voglia di baciare un bambino! E poi non sa nemmeno che sono gay, e figurati se lui lo è! – gli spiegò, ma si sentì subito un bugiardo.
Un istinto fisico verso il suo coinquilino l’aveva provato eccome, quella volta che avevano cucinato e lo aveva imboccato con le dita. Ma quello non aveva alcun valore, era stato soltanto un attimo di stupore perché contatti di quel tipo non se ne erano mai riservati loro due.
L’attrazione era un’altra cosa, era quella che aveva sempre provato per Manfredi, o quella che lo aveva spinto a fissare tutta la sera Rafael, senza sapere altro che il suo nome. Quella era vera attrazione.
Samuele fece per parlare, ma lo scatto della porta del bagno che si apriva li fece voltare entrambi. Dominik ne uscì con indosso un paio di pantaloni tutti sdruciti e quell’enorme maglione blu che gli aveva visto indosso una volta; aveva i capelli ancora lievemente umidi, e le guance arrossate per il piacevole calore che si era formato nel bagno. Teneva come sempre gli occhi chiusi, ma camminava come se ci vedesse.
Federico rivolse uno sguardo a Samuele, sfidandolo a tornare sullo stesso argomento, ma l’amico non aggiunse altro. Si limitò piuttosto ad appendere lo straccio sul sostegno a forma di goccia, fissando Dominik che si avvicinava a loro.
In quel momento, sembrava tutto tranne che un bambino: il maglione che indossava, senza nulla sotto, lasciava intravedere la pelle nei punti in cui i lembi del tessuto, tra un bottone e l’altro, si allargavano.  La pelle era chiarissima, glabra, deliziosamente rosea per l’acqua troppo calda con cui faceva sempre la doccia. Aveva portato in salotto un delizioso aroma di pesca; era quello che sentiva in bagno tutti i giorni, doveva essere il suo bagnoschiuma.
Si fermò in salotto, poggiando una mano sulla spalliera del divano.
- Non guardi la tv oggi? – gli chiese. Federico sistemò lo straccio sotto il lavello della cucina.
- Si, abbiamo lavato i piatti, ma adesso andiamo in salotto. –
Dominik annuì, anticipandoli e accomodandosi nella sua poltrona, con le ginocchia al petto. Federico si era sempre chiesto come facesse a entrarci tutto; era alto, seppur magrissimo, ma riusciva a incastrarsi fino ad affondare del tutto nel tessuto giallo scuro della vecchia poltrona, che stonava tanto con quello verde del divano. Un giorno gli aveva confessato di non aver permesso alla padrona di casa di rivestire la poltrona, così come fatto con il divano, perché quella portava l’odore di sua madre, che rinnovava tutte le volte che andava a trovarlo. Se ne stava sempre lì, quando non era al pianoforte; metteva gli spartiti in grembo e li studiava per ore intere.
Federico lo osservò stringersi sulla poltrona, poi si voltò verso Samuele.
- Tv? E’ il massimo che posso offrirti. Domani ho lezione e non posso fare tardi. – Ma Samuele gli sorrise, come se gli avesse appena proposti di lanciarsi da un aereo nel Pacifico.
- Guardo sempre la tv da solo. Per me oggi è praticamente Natale! –
Si lasciò precedere fino al divano, dove Samuele si accomodò nell’estremità più lontana dalla poltrona, lasciando a lui quella più vicina. Di solito lui si sedeva dall’altra parte, si metteva sdraiato, in modo da tenere sempre d’occhio Dominik, ma quello non si muoveva quasi mai.
Si sedette, prendendo il telecomando, ma lo lanciò a Samuele; non aveva intenzione di fare zapping per cercare qualcosa di decente, che se la godesse lui. Dominik aveva assunto la sua solita posizione, ma teneva la schiena più dritta.
- Domani tu non lavori, vero? –
- No, domani giorno libero.  –
- Che palle, io ho il turno serale! –
- Io ti devo un turno, tra l’altro! Fammi sapere quando! Domani no, lo sai che quello serale è un po’ scomodo. –
- Mercoledì ho il pomeriggio, ti va bene? –
- Mh, si, direi di si. Faccio martedì e mercoledì pomeriggio. Ma giovedì mi tocca il serale! –
- Ci sto anch’io giovedì. –
Ritornarono in silenzio a guardare la tv. Durante quel loro scambio di battute, Dominik era rimasto in silenzio ad ascoltare. Aveva poggiato le mani sulle ginocchia, con quelle dita lunghe e sottili che sfioravano il tessuto, dalle unghie rotonde, e solo per un attimo ne aveva sollevato uno per togliere una ciocca di capelli biondissimi che gli disturbava un occhio.
Federico ripensò alle teorie di Samuele sull’attrazione, a quello che gli si era agitato dentro quando le labbra di Dominik si erano chiuse intorno alle sue mani. Non era stata vera attrazione, più che altro, forse frustrazione fisica; non stava con qualcuno da quando aveva lasciato Manfredi, durante quell’estate, e l’astinenza iniziava a farsi sentire. Poi ripensò a quando Samuele aveva confessato di aver avuto voglia di baciarlo, più di una volta; non gli sarebbe dispiaciuto cedere alle attenzioni di lui. Samuele doveva essere uno che amava con tutto se stesso, anche quando faceva l’amore, e sarebbe stato bello cedere così.  Farsi abbracciare, farsi stringere, farsi prendere fin dentro nelle viscere; doveva essere come lasciarsi coccolare dalla mamma quando avevi la febbre. Ma l’attrazione vera, quella forte, l’aveva nutrita per Rafael, la sera prima, per il suo profumo, per poi accettare che fosse rigorosamente etero.
Ma per Dominik no, non era vera attrazione. Erano quasi amici, se così poteva dirlo, anche se, tutte le volte che sembravano fare dei passi avanti, Dominik finiva per fare qualcosa che li riportava al punto di partenza.
- Cosa vi va di vedere? – chiese Samuele, strappandolo al suo torpore. Fece una smorfia, passandosi una mano tra i capelli e sul viso. Aveva un’assurda voglia di dormire, acuita dalla morbidezza del divano su cui si era lasciato cadere e dal piacevole calore che gli regalava il contatto con il corpo di Samuele.
- Magari fanno quel programma comico, come si chiama…su Italia uno! –
- Ah si! Si, c’è questo qua, vi va bene? –
- Per me si. – Dominik non rispose nemmeno, limitandosi a sistemarsi meglio sulla poltrona, in un gesto che doveva essere di assenso. Si era raggomitolato come se avesse freddo, ma aveva ancora le guance rosee, come se fosse accaldato; lo era tutte le sere quando Federico faceva partire il riscaldamento e in casa si diffondeva un calore delizioso.
Anche Samuele aveva le guance rosse e il corpo caldo; anche lui, come Dominik, non soffriva particolarmente il freddo. Fissava la televisione con aria quasi annoiata, e stiracchiandosi si lasciò andare ad uno sbadiglio, stendendo le braccia in alto; quando le riabbassò, uno si chiuse sulle sue spalle, spingendolo ad avvicinarsi fino a poggiare la testa sul suo petto caldo.
Era confortevole starsene lì, abbandonato contro il corpo di Samuele, come se fosse la cosa più normale del mondo; non aveva mai avuto un contatto come quello. Con Manfredi non poteva mai starsene sul divano così, e quando riuscivano a starsene un po’ da soli, l’ultima cosa a cui avrebbero pensato sarebbe stata addormentarsi sul divano, anche abbracciati. Con Samuele era diverso, era come godersi del calore umano sapendo che, almeno un po’, nulla   sarebbe potuto andare male. Chiuse gli occhi, crogiolandosi in tutto quel calore. Quando la mano di Samuele gli sfiorò delicatamente il viso, fu come sentirsi percorrere la pelle da un panno di seta.
- Hai una faccia distrutta da tutto il giorno. –
- Ieri abbiamo fatto tardi davanti alla tv. E stamattina si lavorava – bofonchiò, nel bel mezzo di uno sbadiglio.
- Perché qualche sera non venite a cena da me? Non vi faccio fare neppure tardi, Riccardo non può fingere di essere in ufficio fino alle due del mattino. Poi vi riaccompagno a casa io. –
- Con…Riccardo? –
- Mi piacerebbe farvelo conoscere. Sai, non è cattivo. E’ solo codardo, ma…non ti è mai capitato di amare qualcuno che non lo meritava? – Gli era capitato eccome, si ritrovò a pensare, solo che l’idea di trovarsi a cena con Riccardo lo metteva in ansia. Quell’uomo mentiva alla moglie, stava con Samuele quando gli faceva comodo, ma non potevano sapere se trovarsi davanti loro potesse imbarazzarlo tanto da farlo infuriare.
- Non lo so, Samuele…e se… -
- Lo chiedo a lui prima. Se dirà di no, verrete comunque, se siamo solo noi no? –
- Mi piacerebbe,  si – borbottò, chiudendo di nuovo gli occhi e lasciandosi cullare dal suo respiro.
- Verrai anche tu, naturalmente, vero? – aggiunse, rivolto a Dominik. Nel buio degli occhi chiusi, Federico non riuscì a comprendere la risposta del ragazzo, ma a giudicare dal silenzio di entrambe le parti, la risposta doveva essere stato un cenno affermativo con il capo. Si sentiva così intorpidito da non avere la forza di aprire gli occhi; voleva solo starsene lì, con il braccio di Samuele intorno al corpo e la testa sul suo petto. Però, dentro, pungeva la spina dell’irritazione. Samuele riusciva a far fare a Dominik quello che voleva; ogni sua domanda riceveva una risposta affermativa. Se fosse stato lui a invitare Dominik a uscire, o ad andare da qualche parte, avrebbe ricevuto un no secco.
Non riusciva a capire perché si comportasse in quel modo con lui, perché dovesse irritarlo tanto.
Era forse lui ad avere qualcosa che non andava, a non riuscire a capirlo. Ripensò alle teorie di Samuele, alle sue parole su Dominik; lo conosceva bene come sosteneva, proprio perché non lo conosceva? Sembrava solo un gioco di parole, eppure, realmente, Samuele riusciva a muovere Dominik come la pedina degli scacchi. Era brutto da dire, lui non voleva muoverlo così: voleva solo che si comportasse più normalmente.  
Nel buio, il telefono squillò. Non era il trillo breve di un sms, ma quello estremamente lungo e irritante di una chiamata. Aprì gli occhi, sbuffando.
- E’ il tuo? – gli chiese Samuele.
- Si – borbottò. Lo teneva in tasca, e dovette muoversi poco per prenderlo. A quell’ora poteva essere solo sua madre a rompere le scatole.
Fissò il display. Compariva solo un nome: Manfredi. Lo stava chiamando; il telefono squillava per causa sua, lui era all’altro capo, e sarebbe stata la sua voce che avrebbe sentito se avesse risposto.
Si chiese cosa avesse da dirgli, perché si fosse ostinato a cercarlo tutto il giorno.
Invece, schiacciò il tasto rosso, e calò il silenzio. Amato, confortante silenzio. Non ce l’avrebbe fatta a parlare con lui, non quando aveva respirato la serenità e il calore del corpo di un’altra persona che semplicemente lo stava abbracciando. Lo avrebbe fatto domani, si sarebbe fatto forza l’indomani. Quella sera c’erano le braccia di Samuele.
- Devi chiamare? – lo chiamò l’amico, sollevando appena il braccio. Ma Federico lo afferrò per il polso, schiacciandosi su di lui.
- No. Tu resta qui e abbracciami –



Nota al capitolo 10
Eccomi qui!
In questo capitolo, c'è soprattutto Samuele. C'è Samuele da solo, Samuele con Federico, e poi con Dominik. C'è la sua influenza su di loro, e nel rapporto che loro hanno l'uno con l'altro.
Come potete comprendere, l'uomo nell'immagine di copertina del capitolo è il volto che io immagino per Samuele: è Mark Valley, per chi se lo stesse chiedendo. 
Io, avrete capito, amo quest'uomo! E anche se in questo capitolo c'è poca interazione tra i nostri due protagonisti, quello che succede in questo capitolo è indispensabile perchè avrà ricadute sul prossimo.
Postare questo capitolo sarà un parto, perchè efp non va proprio oggi, e ci mette cinque minuti di orologio per aprire una pagina, ma spero ce la faccia! Il mondo è ancora intatto, dalla Nuova Zelanda ci dicono che va tutto bene, quindi credo proprio che tornerò! xD
Risponderò alle recensioni domani pomeriggio, perchè oggi non credo proprio che il sito me lo permetterà, ma ringrazio comunque tutti!
Vi mando un bacio e vi faccio tantissimi auguri di Buon Natale, perchè non posterò prima di martedì, e ve li faccio anche di Buon Anno, non si sa mai non riesca a postare nemmeno entro la fine del 2012.
Alla prossima, Esse!

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Capitolo 12
*** 11st: Direi che possiamo definirci amici ***



Quello che conta tra amici non è ciò che si dice, ma quello che non occorre dire.
Albert Camus



Chapter 11: Direi che possiamo definirci amici
 
Tu resta qui e abbracciami. 
Gli frullavano nella testa, quelle parole.
Le aveva dette Federico a Samuele, quella sera che lui era rimasto a cena da loro e avevano guardato la tv tutti insieme. Erano passati tre giorni.
Che Samuele e Federico fossero vicini lo aveva capito dal fruscio dei loro vestiti, e dal tono delle loro voci, così basso. Però sentire Federico chiedere di essere abbracciato era strano.
Lui Federico lo aveva sempre visto come una persona forte, che poteva avere quello che voleva, senza aver alcun bisogno di chiedere un abbraccio. Invece lo aveva fatto.
A Federico Samuele piaceva, sicuramente più di Szilvia. Gli piaceva averlo intorno, sentirlo ridere. Anche a lui piaceva Samuele, perché era tutto giallo. Però gli piaceva di più Federico, e anche a Federico lui piaceva di più, perché litigavano sempre, e Federico litigava con tutti quelli che gli piacevano.
Però quel giorno non voleva litigare con lui, per questo aveva chiesto a Janette, quando era andata a prenderlo al conservatorio, di accompagnarlo in una pasticceria per comprare qualcosa per Federico. Avevano scelto una torta di mele, perché a Federico piaceva tantissimo. E poi aveva comprato dei dolcetti al pistacchio, che quelli piacevano a entrambi. Poi si era fatto accompagnare a casa e aveva messo la torta sul tavolo, aspettando che Federico tornasse.
Quel giorno lavorava tutto il pomeriggio, ma sarebbe tornato a casa per le otto e mezzo; avrebbero cenato più tardi, ma sarebbe stato contento di trovare la torta di mele.
Lo avrebbe aspettato suonando.
Da qualche giorno, pensare a Federico lo faceva pensare a Mozart. Le sonate di Mozart, quando componeva l’allegro, erano uguali a Federico, solo che non lo descrivevano totalmente, perché Federico era anche la voce struggente con cui aveva chiesto a Samuele di abbracciarlo.
Dopo tanto tempo, iniziava a pensare che non esistesse una musica per Federico, che Dio l’avesse creato perché fosse lui stesso ad ispirare qualcuno a scrivere una musica più bella di tutte. E avrebbe voluto essere lui a toccare il viso di Federico, a sentirlo parlare, e comporre qualcosa pensando a lui; diventare come Mozart, che scriveva sempre, che aveva la musica nelle vene. Ed essere ricordato per aver scritto la musica più bella del mondo, per Federico.
Tutto quello che aveva scritto fino ad allora, poche note, non e lo aveva mai convinto abbastanza da poter dire “voglio suonarlo davanti al mondo”, quindi faceva schifo: la musica che componeva era così,  o tutto o nulla, o era il paradiso o era il nulla, o era bianca e brillava su tutto il suo mondo, oppure era nera e si perdeva nel buio che lo circondava tutti i giorni.
 La musica del mondo, invece, era diversa: per quella esistevano tutte le sfumature di colore del mondo.
- Dominik? Sono tornato. –
Premette con forza le mani sui tasti del pianoforte, facendo leva sulle braccia per mettersi in piedi. Federico era tornato: stava sicuramente poggiando il giubbotto sull’appendiabiti, poi sarebbe andato in cucina a prendersi un bicchiere d’acqua, poi in bagno a lavarsi le mani e infine sarebbe tornato in cucina per iniziare a cucinare. Una volta in cucina avrebbe visto la torta di mele che aveva comprato, e magari avrebbe sorriso. Ecco, se avesse davvero composto una musica per lui, lo avrebbe fatto pensando a tutte le volte che rideva.
I passi del ragazzo seguirono il solito itinerario fino alla cucina: Dominik lo seguì, attento a ogni singolo rumore. Aspettava il suono del suo respiro trattenuto per qualche secondo, per la sorpresa. Invece, forse preso dall’entusiasmo, sentì solo le parole che vennero dopo.
- Chi ha fatto questa torta? –
- L’ho comprata io. So che ti piace la torta di mele. –
Allora Federico sorrise, poi ridacchiò, ed era il suono più musicale del mondo.
- Ma non dovevi, non ce n’era di bisogno! – Dominik corrugò la fronte, stringendo le labbra.
- Tu cucini sempre per me. Io non posso cucinare, ma posso comprare la torta. –
- Beh…grazie, allora. Dopo cena ne mangiamo una bella fetta? –
Annuì vigorosamente, appoggiandosi al piano d’appoggio della cucina. I vestiti di Federico profumavano di pulito, dell’ammorbidente che comprava sempre al supermercato; era lo stesso profumo che si spandeva per la casa quando metteva i vestiti ad asciugare sullo stendino o sui termosifoni.
- Com’è andata oggi? – gli chiese poi, armeggiando con qualche padella.
- La maestra mi ha detto che sto migliorando, ma non mi dice mai che sono bravo. Io so che lo pensa, però. –
- Vuole spronarti, è normale. Lo fanno tutti i bravi insegnanti. – Dominik fece una smorfia, portandosi una mano sul capo per giocherellare con una corta ciocca di capelli che ricadeva sulla fronte.
- Lei è grigia. Non sa mai cosa vuole davvero. Pensa che sono bravo ma non me lo vuole dire. Lo fa apposta – borbottò. Federico ridacchiò, e quando la sua risata si spense la stanza si riempì dello scatto dell’accendino. Il ragazzino inspirò, cercando di capire cosa stesse cucinando, ma non riuscì a distinguere un odore particolare.
- Cosa cucini? –
- Spiedini di carne ripieni di prosciutto e mozzarella. Li abbiamo presi lunedì, non ti ricordi? –
Annuì, incrociando le braccia sul petto. Dovevano essere buonissimi quegli spiedini, ci aveva pensato per tutta la sera lunedì, ma Federico non aveva voluto cucinarli perché in frigorifero c’erano la mozzarella e le uova che sarebbero potute andare a male. Ma finalmente avrebbero mangiato gli spiedini caldi: forse Federico avrebbe preso quella salsa che aveva tirato fuori la sera prima. L’aveva chiamata “salsa tonnata”, però non gli era sembrato mica che somigliasse tanto al tonno. A lui poi, il pesce nemmeno piaceva.
- Comunque davvero grazie per la torta. Come facevi a ricordartelo? Te l’avrò detto una volta sola una vita fa! –
- Ascolto tutto, mi piace. E poi mi ricordo le cose. Hai detto che tua nonna la cucina sempre, e che la mangiavi quando tornavi da scuola con il tuo migliore amico. –
Federico lasciò cadere la forchetta. Non seppe se fosse stato un incidente, o semplicemente non volesse toccare l’argomento. L’ultima volta che ne avevano parlato, aveva subito cambiato argomento parlando delle lasagne che cucinava sempre sua madre. Forse sua nonna era morta e non gli piaceva ricordarlo. Poi, però, Federico borbottò qualcosa.
- Che memoria che hai. –
- Esercizio. Imparo a memoria gli spartiti. Ma è buona la torta di mele? –
- Non l’hai mai mangiata? –
- No… -
- Ma non dovevi comprare qualcosa che non ti piace! Sarebbe andata bene anche una crostata qualsiasi! –
- Ma io volevo provarla! Tu hai detto che ti piace tantissimo, e anche al tuo amico piaceva. Se piace a tutti e due deve essere buona. – Federico rise di nuovo, di quella sua risata calda che scaldava tutta la stanza.
- Lui lo diceva apposta, solo per farmi piacere… -
- Perché? Gli avresti voluto meno bene se non gli fosse piaciuta la torta di mele? – Quella possibilità gli faceva paura, temeva che, se non gli fosse piaciuta la torta, Federico potesse arrabbiarsi. Era un pensiero stupido, ma non lo conosceva abbastanza per poter dire il contrario. Questa volta Federico non rise, rimase solo in silenzio per qualche minuto, e il silenzio tra loro venne riempito soltanto dallo sfrigolare degli spiedini sul fuoco.
- E’ che, delle volte, quando si vogliono troppo bene, le persone fanno delle cose stupide. -
La voce di Federico era diventata diversa; più roca, morbida e soffice come il pane appena uscito dal forno. Voleva bene al suo migliore amico, voleva bene a Samuele, forse voleva bene anche a lui: Federico voleva bene a tutti, forse per questo diceva che aveva fatto migliaia di cose stupide.
- Lui ti vuole davvero bene allora. Fare finta che gli piacesse la torta di mele è una cosa davvero stupida. –
Federico rise ancora, e Dominik sentì il rumore dell’acqua che usciva dal rubinetto e cadeva sull’acciaio del lavello: Federico si stava lavando le mani. Lo sentì camminare nel ristretto spazio della cucina, asciugarsi le mani e poggiare lo strofinaccio sul piano della cucina.
- Tu hai mai fatto delle cose stupide, Dom? – A Dominik si agitò qualcosa nello stomaco quando sentì la sua voce chiamarlo con quel nome; la mamma lo chiamava sempre con il suo nome intero, perché diceva che le piaceva troppo per abbreviarlo, ma quando aveva fretta lo chiama Didì. Dom invece era…bello. Scosse il capo, stringendosi nelle spalle: le cose stupide non andavano fatte perché erano…stupide. Era una cosa scontata, e l’ultima cosa che voleva era essere stupido.
Federico armeggiò in cucina, ma lo sentiva ridacchiare.
- Allora vieni! –
Lo prese per un braccio, trascinandolo fuori dalla cucina. Le dita di Federico si erano strette sul polso proprio sulla pelle, e quasi lo bruciavano.
- Dove? –
- A fare una cosa stupida! –
Lo trascinò in salotto, porgendogli il giaccone che teneva sempre all’ingresso.
- Ma che fai? –
- Mettilo! – gli ordinò. Dominik ubbidì, chiudendo il giaccone sul petto; aveva preso il profumo di Federico, perché il suo giubbotto lo lasciava sempre lì sopra. Non sapeva cosa volesse fare Federico, ma di certo stavano uscendo: uscire non era una cosa stupida. Forse voleva portarlo a vedere Milano come gli aveva promesso, e pensava che fosse una cosa stupida perché era sera ormai, e fuori pioveva. Ma se avessero preso l’ombrello non sarebbe stata tanto stupida. E poi lui le cose stupide non le voleva fare, erano inutili.
Lo scatto della porta, poi la voce di Federico.
- Dominik! Dai, vieni! –
- Non voglio uscire – borbottò, e si rese conto che fosse abbastanza stupido dirlo adesso, quando aveva già messo il giaccone e se ne stava impalato di fronte alla porta.
Federico lo prese per il braccio, all’altezza del gomito, stringendolo appena: non lo strattonò, bastò il semplice contatto con la sua mano per spingerlo a fare un passo in avanti. Dalla sua posizione poteva già sentire l’aria fresca dell’androne del palazzo. Fuori doveva fare ancora più freddo.
- Vieni, dai! – lo incitò ancora Federico.
Percorse l’androne insieme a lui, con la sua mano avvolta intorno al braccio, e quando lui aprì il portone, la prima cosa che lo colpì fu il fortissimo odore di pioggia che veniva da fuori. Tutto si era colorato di azzurro.  Ma c’era anche l’aria fresca che lo colpiva in viso e lo faceva sentire vivo. Federico, accanto a lui, tremava.
- Ammazza, che freddo! –
- Non è freddo questo. Praga è peggio. –
- Non importa. Andiamo dai! –
- Ma sta piovendo. –
- Appunto. Stiamo facendo una cosa stupida no? –
Lo prese di nuovo per il braccio, questa volta più in basso, vicino al polso, spingendolo in avanti. E Dominik scese il gradino.
La prima goccia di pioggia lo colpì sulla fronte, la seconda sulla guancia. Non pioveva più molto forte, ma le strade erano bagnate; c’era odore di pioggia dovunque, e Federico continuava a guidarlo, con la pioggia che li colpiva. Lo faceva camminare veloce, quasi a zig zag, per seguire i balconi e cercare di ripararsi dalla pioggia.
Lui avrebbe voluto restarci sotto, farsi avvolgere dall’acqua e sentire i capelli banati che si schiacciavano sulla fronte.
- Dove andiamo? –
- Sorpresa! – annunciò Federico, spingendolo in un rapido cambio di direzione, probabilmente per attraversare la strada.
La sorpresa, poi , si rivelò essere un gelato al cioccolato della gelateria all’angolo, che Federico comprò per tutti e due; anche se faceva freddo, e le mani di Federico erano ghiacciate, il gelato era buonissimo, e lui rideva come non aveva mai fatto, almeno davanti a lui.
Si ritrovarono a correre di nuovo per strada, con il gelato in mano, mentre qualche goccia li raggiungeva ogni tanto: non pioveva più, ma il freddo era ancora pungente, e Federico tremava.
- Perché hai comprato il gelato se hai così freddo? –
- Per fare una cosa stupida – gli rispose quello. Ce l’aveva così vicino che poteva sentire i fremiti del suo corpo e i suoi denti che ogni tanto battevano; anche il suo profumo, che con la pioggia sembrava accentuarsi. Gli era venuta voglia di toccarlo, per vedere se stesse ridendo, ma quando la sollevò gli urtò la spalla, e il contraccolpo fece ondeggiare la mano che stringeva il cono gelato, facendogli finire il naso dentro la pallina di cioccolato. Era freddo, e il profumo diretto sul naso era troppo forte. Solo che, non sapeva perché, forse per la pioggia che stava iniziando a cadere di nuovo, forse per il trovarsi fuori di casa con lui per la prima volta, o solo perché aveva fatto una cosa davvero stupida, gli venne da ridere.
E rise, cercando di ripulirsi il naso alla bell’e meglio, e anche Federico rideva; ridevano insieme, nella via silenziosa, e si chiese se qualcuno li stesse osservando, e se eventualmente anche loro vedessero tutto arancione e azzurro come lo vedeva lui, e anche giallo per la risata di Federico che lo faceva pensare a Strauss, e per la propria di risata, che così cristallina non l’aveva sentita mai.
- Sei un disastro, Dom! – ridacchiò Federico, passandogli qualcosa di morbido sul naso che odorava di miele, e che doveva essere un fazzolettino profumato. Fece una smorfia, perché quei cosi li odiava, ma lo lasciò fare; e a furia di ridere gli faceva male la pancia e il gelato era diventato troppo, e la pioggia cadeva così forte che adesso gli stava inzuppando i capelli e i vestiti per davvero. Federico rideva ancora quando gli prese la mano: lo fece istintivamente, e Dominik pensò che non ci fosse nulla di più naturale al mondo che farsi guidare da lui così, come faceva la mamma quando andavano in giro per Praga. – Andiamo, o ci prendiamo la polmonite! – lo incitò. Iniziarono a correre, i gelati abbandonati in un cestino di passaggio, e la pioggia cadeva più forte, così tanto che adesso il ticchettio delle gocce sui tetti delle macchine sovrastava quasi le loro voci, e le gocce fredde gli facevano tremare le mani, mentre la corsa gli faceva sentire caldo dentro il giaccone.
Poi, come se il mondo fosse ritornato a posto, si sentì circondato dal silenzio e dal calore. Erano a casa, la porta si chiuse alle sue spalle, poi sentì il tonfo del corpo di Federico che si appoggiava al muro. Lo sentì sospirare, con quel suono caratteristico che faceva l’aria passando attraverso le sue narici sospirando. Dominik si tolse il giaccone, facendolo scivolare sul pavimento.
- Dovresti asciugarti, sei tutto bagnato. –
- Anche tu. –
Pochi istanti di silenzio, poi scoppiarono di nuovo a ridere entrambi.
- Siamo due idioti! –
- Parla per te – borbottò Dominik in risposta. Il fruscio dei vestiti di Federico indicava che si era alzato in piedi. Solo dopo sentì il tocco delle sue mani tra i capelli bagnati.
- Cadi sempre in piedi, eh? -
- Avevi detto che qualche giorno saremo andati a vedere Milano – cambiò argomento. Quei dieci minuti fuori con lui, sotto la pioggia, gli avevano lasciato addosso l’aspettativa, come quando la mamma faceva la crostata e gli faceva assaggiare prima di cena solo un pezzetto di pesca sciroppata.
- Il prossimo fine settimana. Promesso. –
 

§§§

 
Il fine settimana era passato, così come quello dopo, e quello dopo ancora, e loro non erano riusciti ad andare a fare un giro per Milano.  Così ottobre era finito, e Novembre si era portato via le maschere di Halloween e il compleanno di Manfredi.
Era stata tutta colpa sua, che un giorno libero non l’aveva più avuto, o quando ne aveva uno, si trattava di un giorno infrasettimanale, in cui Dominik aveva lezione al conservatorio.
Dopo la loro bravata, Federico si era beccato un raffreddore che lo aveva tormentato per quasi due settimane, sacrificando l’unico giorno libero nel fine settimana che era riuscito ad avere.
Per questo, quando ormai Novembre volgeva al termine e Samuele gli aveva chiesto di sostituirlo per sabato successivo, ché Riccardo aveva trovato una scusa per andare fuori città per il weekend, aveva ceduto quel sabato stesso all’amico, ottenendo un giorno libero.
Si sentiva parecchio elettrizzato.
In quel mese, le cose con Dominik non avevano fatto che migliorare. Ormai cenavano insieme tutte le sere, e se ne restavano a guardare la tv, oppure lui restava davanti alla tv mentre Dominik si esercitava, soprattutto quando la maestra aveva quei giorni in cui si svegliava sempre d’umore nero.
Una sera, tornando dal lavoro, aveva comprato un paio di cuffie, con un filo lunghissimo e due copriorecchie enormi, per guardare la tv in salotto mentre Dominik suonava, perché una sera gli aveva confessato che quando suonava e lui se ne stava lì ad ascoltarlo, la maestra l’indomani gli faceva sempre i complimenti perché suonava bene. Era diventato una sorta di medaglione portafortuna. A Dominik le cuffie erano piaciute davvero molto, e a lui faceva piacere starsene lì a sentirlo suonare: a volte, quando invece degli esercizi si metteva a suonare Chopin, metteva le cuffie ma teneva il volume al minimo per ascoltarlo.
Altre volte, Dominik rinunciava al pianoforte per guardare la tv insieme a lui sul divano.
Una volta avevano provato a cucinare di nuovo insieme, ma si erano lanciati su qualcosa di più semplice dell’ultima volta: carne impanata e fritta con sopra prosciutto e gorgonzola.
Dominik si era vantato per giorni, persino al telefono con sua madre, di averla impanata lui e di averci messo il prosciutto e che Federico l’ha solo fritta, ho fatto tutto io.
Un’altra sera, poi, si era presentata Szilvia a casa: erano sul divano a guardare la tv, a luci spente, e il campanello aveva suonato. Federico si era alzato, dirigendosi alla porta, ma quando aveva spiato dallo spioncino aveva distinto quella chioma rossa: forse, in un altro momento della giornata le avrebbe anche aperto, avrebbe finto di voler fare conversazione, ma allora no. Così si erano rintanati sul divano, avevano abbassato il volume della tv e avevano fatto finta di non essere in casa. Szilvia aveva bussato altre due volte, poi si era arresa ed era andata via. E loro avevano riso per più di mezz’ora.
Quando lo vedeva così spensierato tendeva a dimenticarsi dei primi tempi in cui l’aveva conosciuto, quando non sopportava neppure di averlo in casa o di rivolgergli la parola. Poi, Dominik si premurava di ricordarglielo: rifiutava ogni invito a uscire la sera,  o di farsi sentire mentre suonava, e si infuriava ancora se cercava di fare qualcosa per lui, per pura gentilezza.
Federico, però, non si arrabbiava più: ci aveva fatto l’abitudine, e i momenti di simpatia, seppur più rari e più brevi di quelli di pura ostilità, bastavano a mantenerlo allegro. C’era Samuele, e i ragazzi del locale, a tenerlo sempre su di morale, e quando Dominik si svegliava di buonumore passava anche più tempo a casa.
Quel giorno, per esempio, si era svegliato di ottimo umore: aveva persino voluto fare colazione con pane bianco e Nutella, e quando era tornato dal lavoro lo aveva trovato dietro il pianoforte a suonare un motivetto che aveva scoperto essere un allegro di Mozart. Aveva voluto la piadina con il prosciutto cotto per cena, e si era messo a sedere sul divano con il suo maglione preferito e il telecomando in mano. Per i suoi standard, quello doveva essere il giorno di Natale.
- Cosa vediamo oggi? – gli chiese, con la voce melodiosa simile ad un trillo. Aveva le gambe incrociate e le mani nascoste dalle maniche del maglione.
- Fanno un programma di musica, ci sono dei bambini che cantano. Ti va? C’è un ragazzino della mia città. – Lo vide annuire, lo prese come un si. Gli si sedette accanto, cambiando canale e fissando il volume ad un livello non troppo alto: si sentiva così stanco che si sarebbe addormentato sul divano, o sarebbe andato subito a letto se Dominik non avesse insistito con l’idea di guardare la tv insieme.
I bambini, tutto sommato, non erano poi così noiosi: erano bravi, e facevano passare il tempo, almeno fino a quando non avessero deciso di andarsene a letto, perché non voleva uscire troppo tardi l’indomani.
- Allora domani usciamo? – gli chiese. Si sentiva un leggero nodo alla gola ripensando a quello che era accaduto la volta precedente, quando lo aveva visto annuire fino alla sera prima e rifiutare poi categoricamente di mettere il naso fuori di casa la mattina dopo. Dominik annuì vigorosamente, con le ciocche di capelli che presero a danzargli sulla fronte. – Sicuro? Non è che poi domani cambi di nuovo idea come l’ultima volta? – Il capo biondo si mosse in segno di diniego, e le labbra carnose si aprirono in un sorriso.
- No, ci vengo – mormorò, con un mezzo sbadiglio, stiracchiando le braccia in alto.
A Federico venne da sorridere di fronte al contrasto tra quel gesto puramente infantile e il corpo ormai da adulto che lo stava compiendo, fatta eccezione per il viso, che tutte le volte veniva da chiedersi quanti anni avesse davvero. Quel viso dalla pelle chiara e liscia sembrava a tratti quello di un bambino, ma aveva i lineamenti squadrati di un adulto, con la mascella squadrata che si continuava nel collo e nel petto, sul torace, l’addome, fino alle gambe lunghe che nascondeva sempre dentro un paio di pantaloni larghi e sdruciti, e ai piedi, sempre nudi, anche quando fuori pioveva e non  c’erano più di dieci gradi, come quella sera.
- Ma non hai freddo? –
- A Praga fa più freddo. Qui no – gli rispose, scuotendo il capo. Eppure teneva le gambe incrociate e le maniche del maglione a coprirgli persino le mani. Con il passare del tempo, era arrivato a concludere che non si comportasse così per il freddo, ma per abitudine, perché sedersi in quel modo lo faceva sentire meglio. D’altronde, già il fatto che avesse preso a sedersi accanto a lui sul divano, piuttosto che restare rintanato nella sua poltrona, era un segno che qualcosa doveva pur essere cambiato.
- A Palermo non fa così freddo, invece. Fino a Natale non ho mai messo un maglione, pensa un po’! –
- Palermo dev’essere davvero bella. Hai detto che c’è sempre il sole, e la gente che cammina per strada si ferma a salutare, non come qui. E poi a Palermo c’è il mare. Mi piacerebbe tanto vedere il mare. –
- L’hai mai visto? –
- Due volte. Mi ci ha portato la mamma, ma siamo potuti restare soltanto due giorni. Io invece vorrei sedermi davanti alle onde e sentire il rumore, e il profumo. –
- Il mare di Palermo è bellissimo… - soffiò, con un filo di voce perché era tornata prepotentemente alla mente l’ultima volta che c’era stato con Manfredi, quando aveva pensato di lasciarlo ma lui gli aveva organizzato un pic nic e poi avevano fatto il bagno nell’acqua troppo fredda. Scosse il capo, perché Dominik era completamente concentrato su di lui, e non voleva che intuisse qualcosa e iniziasse a fare domande come faceva di solito. – Se qualche volta ti trovi a passare da Palermo dimmelo, puoi stare da me. C’è la stanza di mia sorella, che adesso si è sposata e vive per conto suo. – Era una frase senza senso quella: Dominik non si sarebbe mai trovato per caso a passare da Palermo, ma non ci aveva pensato subito. Si era trovato impegnato a immaginare Dominik lì, tra i mobili dal taglio antico di casa sua, in salotto con sua madre, o in piazza Politeama, o ancora davanti la Cattedrale: sarebbe stato come una stonatura su una tela perfetta, perché uno come lui non poteva trovarsi lì, dove niente parlava della magia che si portava dentro. Invece Dominik sorrise, passandosi una mano sugli occhi chiusi.
- Me lo lasci un pezzo di coperta? – gli chiese, spezzando quelle immagini e sporgendosi con una mano in avanti, verso le sue ginocchia coperte da un plaid blu elettrico. Federico si affrettò a scostarla, concedendogliene metà, ma il ragazzino si limitò a nasconderci dentro solo i piedi.
- Potevi dirmelo che avevi freddo! –
- Non ho freddo. Solo che, a furia di stare fermo, mi prende il freddo ai piedi. E mi fa male la testa – borbottò, stringendo le ginocchia al petto. Federico lo scrutò bene, il modo in cui si strinse su se stesso, spingendo le maniche ad allungarsi ulteriormente sopra le dita, ma non si aspettava che lui si piegasse di lato fino a poggiare il capo sulla sua spalla. Fu un contatto lievissimo, eppure strano nella sua novità: era il gesto più intimo che si fossero concessi da quando si conoscevano. Dominik mugolò, il viso contratto in una smorfia, stringendosi ulteriormente nella coperta.
- Non è che hai la febbre? –
- No. E’ che quando suono tanto, o sto tanto a leggere gli spartiti e mi concentro così, poi la sera mi viene il mal di testa, e non mi passa fino a quando non vado a dormire. Ma io non voglio andare a dormire – mugolò ancora, come un gattino infastidito da qualcosa.
Federico, però, non era molto convinto: aveva le guance rosee, più del solito, eppure non sembrava tremare per il freddo. Sollevò una mano per toccargli la fronte, facendo scivolare il braccio dietro la sua schiena: ma prima che potesse raggiungere la pelle con le dita, il corpo di Dominik aveva approfittato del cambiamento di posizione per abbandonarsi contro di lui. Il viso di Dominik sul petto, nonostante il maglione a separarli, era fresco. Il ragazzo lasciò cadere il braccio lungo la spalla del biondo, non sapendo bene cosa fare; non voleva scostarlo, ma neppure imporgli un’intimità che probabilmente non desiderava. In un abbraccio come quello non c’era nulla di male, ma Dominik era uno che rifuggiva anche il minimo contatto fisico, con l’unica eccezione dei visi, che amava studiare e percorrere con le dita. Allora se ne rimase lì, con simulata indifferenza, mentre dentro quel contatto gli riscaldava il petto.
Dominik era soffice. Ma non nel senso fisico del termine. Era soffice il modo in cui respirava regolarmente e le sue spalle si sollevavano e si abbassavano. Erano soffici le sue mani abbandonate una accanto all’altra, a contatto casuale con la sua gamba, completamente coperte dalle maniche di quel maglione blu che adorava e che metteva sempre. Era soffice il modo in cui muoveva il capo, ogni tanto, come per cercare una posizione più comoda. Era soffice, persino, il semplice modo in cui se ne stava lì, appoggiato a lui, come se stesse guardando per davvero la televisione, dove un bambino di non più di sette anni cantava Dieci ragazze per me.
Poi, nel buio della stanza, lo sentì sorridere, lo zigomo che si premeva con più forza sul suo petto.
- Avevi ragione – lo sentì sussurrare, probabilmente troppo dolorante per imporsi un tono di voce più alto che gli avrebbe spaccato la testa in tre parti. Federico sorrise, perché sentire un’ammissione del genere da lui era come ricevere un miracolo da qualche santo, ma non aveva la minima idea di cosa stesse parlando.
- Su cosa? –
- Quando hai detto a Samuele di abbracciarti. E’ caldo. – Gli mancò il fiato, ripensando a quella sera. Con Samuele non ne avevano più parlato, perché non c’era niente di cui parlare, ma se la ricordava ancora la sensazione di benessere che lo aveva riempito per giorni, dopo quella sera. Era passato quasi un mese, eppure Dominik se ne ricordava. L’aveva sentito, non aveva detto nulla, però se ne ricordava, e l’aveva analizzata a modo suo. Si chiese se quel contatto, quella sera, fosse stato casuale, o se fosse dovuto a qualche conclusione che aveva tratto dai suoi ragionamenti: vederla da quel punto di vista lo lasciava inquieto. Aveva creduto che quella sera, loro due, avessero superato una barriera che fino a pochi giorni prima era praticamente invalicabile, invece Dominik aveva visto tutto nella sua testa, lo aveva fatto apposta. Abbassò gli occhi per guardarlo, e il suo sguardo si infranse contro la testa bionda coperta da capelli sottilissimi che gli nascondevano il viso, ad accezione del profilo dello zigomo e della punta del naso; pensò che un viso come quello non potesse essere in grado di agire così. Si, doveva averci pensato, forse per giorni, ma se aveva abbattuto quella piccola porzione di muro, lo doveva solo a loro due, e non ai giochi della sua mente. – Tu e Samuele siete amici? – tornò a chiedergli, con la voce questa volta un po’ più chiara.
- Certamente. –
- Perché fate cose stupide insieme, e parlate, e vi abbracciate, e stato tanto insieme… -
- Si, direi di si. –
- Anche noi lo facciamo – osservò, una punta di impazienza nella voce che lo fece sorridere, perché doveva aspettarsi qualche cosa da parte sua, un’ammissione, o una domanda.
Federico fece scorrere la mano lungo il suo braccio, fino alla spalla, poi di nuovo giù fino al gomito, e la lasciò lì, con i polpastrelli a contatto con il maglione che copriva quella pelle calda, e il braccio che circondava quel corpo che non gli era mai sembrato così forte.
- Mah, io direi che possiamo definirci amici – concluse alla fine. Dominik posse appena il capo, cercando di sistemarsi meglio sul suo corpo, e tirò la coperta fino alle spalle, coprendo se stesso e il braccio di Federico abbandonato su di lui.
Non disse nulla, ma quel gesto valeva più di un assenso.




Nota al capitolo 11:
Torno prima del nuovo anno perchè ci tenevo ad aggiornare prima della pausa in cui sarò sballottata tra parenti, decisamente troppi!
In questo capitolo 11 abbiamo fatto un passo avanti: adesso, se non altro, Federico e Dominik possono definirsi amici.
Samuele in questo capitolo non c'è, e con vostra (e mia) somma gioia, neppure Szilvia, a parte un semplice accenno.

Come avrete letto, c'è stato un salto di tre settimane tra un paragrafo e l'altro. Comunque siamo a metà-fine novembre, più o meno, intorno al 20 di Novembre.
Nel prossimo capitolo, posso darvi un'anticipazione, finalmente i nostri due ragazzi andranno in giro per Milano! E, a fine capitolo, una bella sorpresa, che però non vi anticipo!
Ringrazio tutti per le vostre recensioni, per le vostre letture, e per la vostra presenza, ma alle recensioni risponderò personalmente sfruttando questi ultimi due giorni di pace prima del Capodanno.
Ne approfitto per farvi i miei più cari e sinceri auguri per un buon 2013, sereno, che sia sempre migliore degli anni passati. Come direbbero i latini: Ad maiora!
Vi lascio un ultimo annuncio, che non c'entra niente. Sto lavorando ad un'altra storia, o meglio ci ho lavorato tempo fa e adesso la sto revisionando e pubblicando. Il titolo è E io avrò cura di te e ha compe protagonisti dei ragazzi diciamo "difficili": è una storia originale, nella categoria romantico, chi volesse può darle un'occhiata e magari farmi sapere cosa ne pensa. Ho postato solo il primo capitolo per adesso, il secondo è in corso di revisione ma se ne parlerà sempre dopo Capodanno.
Un bacio a tutti, e alla prossima!


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Capitolo 13
*** 12nd: Solo un po' più piccolo ***


Non preoccuparti del futuro. Oppure preoccupati, ma sapendo che questo ti aiuta quanto masticare un chewing-gum per risolvere un’equazione algebrica. I veri problemi della vita saranno sicuramente cose che non ti erano mai passate per la mente. Di quelle che ti pigliano di sorpresa alle quattro di un pigro martedì pomeriggio.

Mary SchmichUsa la crema solare, 1997

 

Chapter 12th: Solo un po’ più piccolo
 
Quando si era svegliato, quella mattina, era tutto arancione. E giallo. E azzurro. E sì, anche un po’ verde. Era tutto colorato. Forse perché Federico, nel bagno mentre si faceva la barba, canticchiava sempre una canzone diversa.
In quel momento, però, era tutto marrone.
- Siamo arrivati? Mi fanno male i piedi! –
- Ci siamo quasi, porta pazienza! –
- Ma stiamo camminando da mezz’ora! –
- Esagerato,  non saranno nemmeno venti minuti! Dai, che ti piacerà! –
- Ma dove stiamo andando? –
- Volevi andare a vedere Milano no? –
- Ma hai detto che non stiamo andando al Duomo. –
- Milano non è solo il Duomo. Al Duomo ci andremo dopo, adesso ho una sorpresa! Dai, che stiamo arrivando. –
Dominik sbuffò, ma continuò a camminare. Federico poteva dire quello che voleva, ma secondo lui stavano camminando da almeno un’ora, andando dritto, a sinistra e destra, poi ancora dritto, e i piedi gli facevano un male cane. Faceva freddo, oltretutto, ma almeno non pioveva: poteva sentirlo nelle narici il profumo del brutto tempo. A suo padre erano  parse stupidaggini, ma la mamma gli aveva sempre creduto: loro, con quegli occhi con cui potevano vedere, non si fermavano mai a sentire bene, eppure le nuvole e il sole avevano due profumi diversi. Il sole profumava di qualcosa di lievemente acre, che riscaldava le narici, e quasi bruciava contro le mucose; e profumava di tutto il mondo, perché quando i suoi raggi toccavano la terra facevano sprigionare gli odori da tutti gli oggetti.  I nuvoloni neri invece profumavano di qualcosa di dolce, ma che non era come la pioggia: era un odore dolce e allo stesso tempo pesante, che schiacciava la trachea quando si respirava, e c’era solo lui, perché il resto del mondo era triste per la brutta giornata e non c’era nessun altro odore.
Ecco, quel giorno c’era profumo di nuvoloni neri. Quando lo aveva chiesto a Federico, che tempo ci fosse, lui gli aveva detto che il cielo era scuro, ma che non avrebbe piovuto secondo il meteo; lui, però, non gli aveva raccontato delle sue teorie sui profumi del mondo, perché forse non le avrebbe capite neppure lui, e non voleva litigare proprio quel giorno che stavano andando a Milano. Si era svegliato presto apposta, e aveva preso il pane bianco e la  Nutella, per farli trovare pronti a Federico quando si fosse alzato: lui, quando li aveva visti, aveva sorriso, ne era sicuro, perché quando aveva parlato il suo tono di voce era come quello di tutte le volte che sorrideva.
Si erano fatti una doccia, e vestiti in fretta, perché Federico gli aveva detto di sbrigarsi, ché non potevano fare troppo tardi perché aveva una sorpresa.
Ci aveva pensato tutto il tempo a cosa potesse essere, ma non avrebbe mai immaginato che ci fosse da camminare tanto. Non gli era mai piaciuto camminare.
- Ma non potevamo prendere il tram? –
- Ci voleva più tempo per raggiungere la fermata che per arrivare. Non fare il piagnone! –
Avrebbe voluto dirgli che lui non faceva proprio il piagnone,  ma lasciò perdere, con una smorfia. Intorno a lui il rumore del clacson delle auto, del chiacchiericcio dei passanti, e del rombo dei motori lo irritava non poco. Solo che starsene aggrappati al braccio di Federico era bello.
Non conoscendo affatto la strada, e ripudiando anche solo la possibilità di comprare uno di quei bastoni che usavano sempre i ciechi, Federico era rimasto la sua unica possibilità di orientamento. Era insopportabile dover dipendere tanto da qualcuno, ma in giro per Milano da solo non ci sarebbe proprio potuto andare; anche a Praga, pur lasciandogli libertà di movimento, sua madre voleva sempre guidarlo. Lo prendeva sottobraccio, con la scusa di aggrapparsi a lui per sostenersi, perché ormai stava diventando vecchia, ma poi ridevano tutti e due, perché la mamma non aveva ancora più di quarant’anni. Solo che dopo la risata, lei la mano non la toglieva mai.
Con Federico era diverso. Era lui che poteva aggrapparsi. Più che aggrapparsi, amava pensare che lo stesse soltanto toccando, come per una casualità. Poggiava la mano sulla sua spalla, e la seguiva, come se fosse la sua bussola, mentre Federico non gli intimava mai alcun movimento.
Camminare così era bello…ma camminare per mezz’ora comunque no.
Quando stava di nuovo per sbuffare, Federico si fermò, e Dominik sentì sotto la mano il suo braccio che si sollevava.
- Eccoci arrivati! –
- Dove? –
- Pazienta ancora un secondo – lo ammonì. Era stanco di pazientare, odiava non sapere le cose, e Federico se ne stava approfittando.
- Dimmelo. Tu fai così perché sono cieco! – lo accusò, ma non era veramente arrabbiato. Voleva solo ottenere una risposta, e Federico era troppo sensibile sull’argomento per negarglielo.
Sentì il clic caratteristico di una macchina fotografica, poi Federico tornò ad abbassare il braccio, ma inaspettatamente rise.
- Affatto, mio caro. Se non lo fossi stato ti avrei fatto venire qui con una benda sugli occhi. –
- Sei proprio impossibile – borbottò il ragazzino, stizzito. La risata di Federico sovrastò di nuovo i rumori cittadini.
- Io? – disse solo, poi lo guidò giù da un gradino. Camminava in fretta, e a giudicare dal rumore stavano attraversando una strada.
Quando alla fine Federico si fermò, Dominik quasi cadde all’indietro, perché il ragazzo aveva aperto le braccia in un gesto teatrale.
- Dom, siamo praticamente di fronte la Scala! –
Il Teatro alla Scala. Dove avevano camminato Verdi, Toscanini, Puccini.
Lui era lì davanti. Non poteva vederla, ma era lì, sapeva che c’era, e avrebbe tanto voluto toccarne anche solo una colonna. Sapeva com’era fatta, perché la mamma gliel’aveva descritta da una foto: gli aveva promesso che, in una delle sue visite a Milano, ce l’avrebbe portato, ma non l’aveva mai fatto, perché il tempo non era mai stato abbastanza. Ma adesso era lì davanti, e non potè far altro che aprire la bocca, perché non c’era nulla da dire.
- Piaciuta la sorpresa? –
Il tono di Federico era lo stesso che, se Babbo Natale fosse esistito, avrebbe avuto la mattina del 25 Dicembre. Stava sicuramente sorridendo, e forse si muoveva scaricando il peso da una gamba all’altro, perché quando aveva parlato, la sua voce si era mossa.
Come poteva chiedergli se gli fosse piaciuto, quando lo aveva portato di fronte alle porte del Paradiso?
-  Posso toccarla? –
- Certo che si! Però sbrigati, che sono già le dieci e mezzo e facciamo tardi! –
Non gli chiese per cosa fosse tardi, perché aveva già le mai tese e tutti i sensi all’erta per quello che avrebbe fatto. Era nel teatro migliore del mondo, il più famoso, dove la musica aveva superato tutti i confini, e stava per toccarne i muri.
Tese ancora le dita, e finalmente lo sentì sotto i polpastrelli.
Era un muro come tanti altri, freddo e ruvido, con i mattoni sottili e lunghi, disposti in orizzontale, con degli spazi profondi tra l’uno e l’altro, ma dentro scorreva la musica. Sotto la pelle, il materiale graffiava. Poteva quasi sentirla pulsare, lì sotto, con le sue note. Sorrise, facendo scivolare la mano e interrompendo quel contatto.
- Vieni, così entriamo. –
- Possiamo entrare? – soffiò, sorpreso.
- Ovviamente. Ci fanno visitare il museo, ma in sala non si può entrare, nemmeno guardarla da lontano, perché stanno provando. –
- Non importa – gli rispose. Gli sarebbe piaciuto entrare nella sala, ma giunti a quel punto gli importava soltanto di entrare lì e sentire la musica che fluiva nei muri.
Federico lo guidò ancora, lo sentì chiedere due biglietti, e poi la voce imbarazzata di un uomo che borbottava qualcosa; alla fine, di nuovo la voce di Federico, stizzita.
- No, non voglio il biglietto ridotto. Siamo due adulti. –
- Si, ma…il ragazzo…io lo dico per lei. –
- Al ragazzo ci penso io. Mi dia due biglietti interi. –
Il discorso si chiuse lì, perché Federico lo guidò oltre senza dire nulla.
Dominik sentiva qualcosa di caldo dentro al petto, piacevole, perché Federico lo aveva difeso. Lo aveva sentito nella voce, l’imbarazzo di quell’uomo quando lo aveva visto: doveva essersi chiesto cosa ci facesse un cieco in un museo, e forse essersi offerto di far loro uno sconto doveva essergli parso un gesto gentile. Federico avrebbe potuto accettare, risparmiare dei soldi, e invece aveva deciso di pagare a prezzo intero, perché anche lui doveva pensarlo che sulla dignità non si facevano sconti.
Sorrise, seguendo Federico: raggiunsero una sala che doveva essere grande, perché quando parlò la sua voce subì un lieve rimbombo.
- Questa è la prima sala. Ci sono un sacco di strumenti musicali antichi…e poi c’è un busto. Aspetta chi è questo…ah è Verdi! C’è un busto di Verdi. E poi un ritratto di…Giuseppe Pier…Piermarini. –
Dominik ridacchiò. Federico era divertente. Non aveva idea del perché si trovasse lì dentro, però c’era: se tutte le guide di museo fossero state come lui, i ragazzini in gita si sarebbero divertiti da morire.
- Giuseppe Piermarini. E’ l’architetto del Teatro -  gli spiegò con una mezza risata.
- Ah, ecco perché tanta importanza. –
- Parlami ancora degli strumenti –
- Si, allora…sono tutti antichi, e sono conservati in una teca, quindi non possiamo toccarli. C’è un liuto, un...salterio, credo, c’è scritto così. Oh, ancora liuti. Poi qui, a destra, c'è una specie di pianoforte, grande, di legno, ma dalla forma diversa. Si chiama fortepiano, c’è scritto qui. Certo che ci vuole una fantasia! … E c’è scritto anche che è appartenuto a Giuseppe Verdi. –
Dominik tese subito la mano, perché voleva toccarlo, e Federico lo guidò con la sua mano per fargli toccare il legno. Dominik sussultò, e un’ondata di emozione gli invase il petto: era legno liscio, come tutti gli altri, ma pulsava della musica che Verdi aveva composto, laddove lui aveva toccato.
Fece scivolare la mano sulla superficie fresca, poi si voltò verso Federico, perché aveva iniziato a parlare.
Nei minuti che seguirono, Federico si comportò come un vero cicerone. Gli spiegò tutto di ogni sala, lesse ogni singola didascalia, anche quando gli si seccò la gola e si mise a tossire per quasi due minuti, prima di riuscire a parlare di nuovo. Così scoprì che era pieno di ceramiche e di dipinti, uno dei quali raffigurava una serie di strumenti su un tavolo; poi c’era esposta una spinetta con una scritta in latino, probabilmente appartenuta ad una donna, e scoprì anche che Federico il latino lo aveva studiato al liceo e non gli era piaciuto per nulla.
Poi Federico lo fece salire al secondo piano, dove c’era un ritorno al passato della storia della Scala, con disegni e bozzetti, e dipinti, e a Dominik sembrò quasi di poter respirare tutta quella storia. Federico, però, era rimasto quasi senza voce, e lo stomaco, a lui, brontolava: doveva essere quasi ora di pranzo.
- Hai fame? – gli chiese Federico, udendo i gorgoglii nel silenzio della stanza.
- Un po’. –
- Possiamo andare a mangiare allora. Qui abbiamo già visto tutto. Ti è piaciuto? –
Annuì vigorosamente, per quanto il termine “piaciuto” non fosse abbastanza. Era estasiato da tutto quello con cui era entrato in contatto, e Federico era stato così prolisso che gli pareva quasi di averle viste le cose che gli aveva descritto.
- Ci ho pensato ieri sera, prima di dormire,  e mi sono informato un po’ su internet. So che…insomma, visitare un museo non è certo la tua attività preferita, però credo che questo sia uno dei pochi posti al mondo dove basta entrare ad occhi chiusi per respirare la musica. –
Dominik si morse il labbro, e la fitta allo stomaco, come quella che l’aveva preso quando aveva toccato il fortepiano di Verdi, lo colpì di nuovo. Era il tono dolce della voce di Federico che come un pugno si era abbattuto su di lui. Perché forse, anche Federico iniziava a vedere, a capire le cose.
Si chiese di nuovo perché non avesse una fidanzata: chiunque avrebbe voluto stare con un ragazzo buono come lui, perché capiva le cose, e le persone. Poi pensò a Szilvia, che Federico non lo lasciava mai in pace, e si rese conto che, probabilmente, era lui a voler restare davvero solo come aveva detto. Però non era giusto, perché tutta quella vita, lui, doveva dividerla con qualcuno.
- E’ bellissimo. -
- A me sarebbe piaciuto vedere il palco e la sala, però. Ma poco male, quando sarai famoso e verrai a suonare qui mi procurerai un invito, vero? – gli disse subito, dandogli un colpetto sul fianco.
Dominik gli rispose con un pizzicotto sulla pancia.
 
§§§
 
La bocca gli stava andando a fuoco, e Dominik rideva.
Rideva come un pazzo almeno da dieci minuti; solo per poco cercava di ritornare serio, ma dopo un po’ scoppiava ancora.
Questo perché, al bar in cui si erano fermati per pranzare, aveva avuto la grande idea di ordinare un panino con il salame piccante che si era rivelato decisamente troppo, troppo piccante. Dopo un’intera bottiglietta d’acqua non si sentiva ancora la lingua. E Dominik, che aveva scelto una piadina, di cui andava ghiotto, non ne voleva proprio sapere di smettere di ridere.
- Falla finita! Sto soffrendo! – lo rimproverò, ma il ragazzino non lo ascoltò proprio.
Sembrava che dopo quel pranzo arrangiato si fosse ripreso; non si era più lamentato nemmeno del dolore ai piedi, nonostante non gli avesse concesso neppure un secondo di sosta. Voleva arrivare al Duomo e restarci un po’ prima che facesse buio.
- Gradino – borbottò, per avvisare il suo compagno che, con un passo più lungo degli altri, superò l’ostacolo e continuò a camminare accanto a lui, con la mano sulla sua spalla.
Si stava divertendo. Nonostante avesse quasi perso la voce quella mattina, nonostante la lingua stesse andando a fuoco, il freddo gli stesse mandando in ipotermia le mani, e i piedi fossero ormai pieni di vesciche, si stava divertendo. Forse loro due insieme non si erano mai divertiti tanto.
Si stavano comportando come due amici normali, come se si conoscessero da anni; era quello il Dominik che preferiva, contrariamente a quello che di solito si chiudeva nel suo mutismo dietro ad un pianoforte. Quel Dominik sorrideva e rideva, si lamentava ma rispondeva a tono ad ogni battuta, e mangiava, e beveva, e mostrava impazienza perché Milano era troppo grande per visitarla in un solo giorno ma troppo bella per poter aspettare un altro giorno libero.
- Andiamo al Duomo adesso? –
- Si. Però ci andiamo passando dalla Galleria Vittorio Emanuele. Voglio fare un sacco di foto da mandare a mia madre. Puoi farle vedere alla tua, magari. Sono certo che le piaceranno! –
Lo vide annuire, ancora aggrappato alla sua spalla, ma camminava più velocemente, segno di impazienza.
- Com’è fatta la galleria? Passano le macchine? –
- No. Ha due bracci, a forma di croce, e unisce con il braccio lungo Piazza della Scala a Piazza del Duomo. Ha il tetto a cupola, fatto di vetro, con delle travi di ferro, e poi ai lati è pieno di negozi di quelli che vendono tutte quelle cose carissime, come Prada, o Louis Vitton. E poi il pavimento è fatto di piastrelle decorate. Al centro, nell’incrocio dei bracci, c’è raffigurato un toro – gli spiegò.
Gli venne da ridere, ricordando quella leggenda secondo cui fare un giro completo sopra i testicoli del toro porterebbe fortuna. Lui non aveva mai creduto tanto, ma gli sarebbe piaciuto farlo. Si immaginò Dominik, lì sopra, a girare, e non riuscì a trattenere un sorriso.
Quando ci entrarono dentro, il cambiamento fu netto: faceva ancora freddo, ma non quanto fuori, e il chiacchiericcio che normalmente animava le strade di Milano, lì dentro era compresso e amplificato: c’era una confusione bestiale in quel sabato pomeriggio, e Federico sollevò il braccio stringendo la mano intorno al gomito di Dominik, perché avrebbe potuto perderlo. Non gli sfuggì la smorfia di disappunto sul suo viso, ma quando, dopo pochi secondi, una donna lo colpì con una spallata, spingendolo indietro, il biondino tacque, e Federico, soddisfatto di averla avuta vinta almeno una volta, sorrise tra sé.
Dominik sapeva essere insopportabile praticamente sempre, ma soprattutto quando si impuntava nel non voler essere neppure aiutato; come se lui lo facesse perché gli faceva pena! Non riusciva a capire che, ogni tanto, potesse avere ragione se faceva qualcosa che lo coinvolgeva. Era solo un ragazzino, e lui era un uomo.
Quando lo contraddiceva, gli veniva l’istinto di soffocarlo con un cuscino.
Quel giorno, però, si era mostrato meno insopportabile del solito. Forse quell’abbraccio che si erano scambiati la sera prima, sul divano, lo aveva addolcito.  Alla fine erano rimasti ore intere in quella posizione; anche quando gli si era addormentato una gamba, Federico non lo aveva mosso. Si stava riposando, respirava regolarmente: era come aver piantato i semi di una pianta e tenerla al caldo per vederla crescere. Lui era il calore che era servito per farla crescere, e qualche progresso lo avevano fatto.
- Siamo già dentro, vero? C’è confusione. –
- Si, siamo qui. Ci sono un sacco di negozi, ma stiamo arrivando al centro. Vieni! –
Lo guidò, tirandolo per il braccio, fino al centro della galleria; c’era un gruppo di persone, tre coppie da quello che poteva dedurne, che ridacchiando come scemi stava girando sul toro ad occhi chiusi e braccia tese. Mentre osservava il sorriso di una delle donne, Federico pensò che gli sarebbe piaciuto avere un sorriso spensierato come quello.
- Ti va di fare una cosa? – chiese poi al ragazzo. Dominik inclinò il capo da un lato, e una ciocca di capelli scese a sfiorargli uno zigomo.
- Cosa? –
- C’è una leggenda qui. Dicono che, se si mette un piede su…insomma, sui testicoli del toro, e si gira su se stessi di 360 gradi, porti fortuna. Perché non lo facciamo? –
- No. Io non ci credo.  – Federico fece spallucce.
- Nemmeno io ci credo, però sarà divertente. – Vide l’indecisione sul suo volto, così pensò di incitarlo.  – Dai, sarà forte! Come quella volta che siamo usciti con la pioggia!  -
- Per fare una cosa stupida? –
- Si! Non farti pregare sempre! –
Dominik fece un’altra smorfia, e Federico pensò che, da quel momento, la giornata fosse rovinata. Invece, il ragazzino tese il braccio avanti per farsi guidare, e lui lo prese trionfante. Quando le coppie si allontanarono ridendo, lo guidò sul torno, spingendogli il piede destro in direzione dei testicoli azzurri di quel tono bianco, mosaico su sfondo blu.
- Adesso solleva l’altro piede e gira!  -
Dominik sollevò le braccia per tenersi in equilibrio, e fece un giro. Il cappotto aperto si sollevò ai lati, girando intorno a lui, e il movimento gli agitò anche i capelli. Fu come vedere una creatura soprannaturale, con il viso di un angelo e il corpo di un modello d’altri tempi, di quelli che Michelangelo avrebbe preso a esempio per uno dei suoi lavori.
Era bello, a vederlo in quel modo. Stonava con la realtà troppo terrena che lo circondava.
Poi Dominik si fermò, ondeggiando sulle gambe perché la testa doveva girargli.
Scoppiò a ridere, a ridere davvero: rideva, con il cappotto aperto sul petto e le braccia abbandonate lungo i fianchi, ma rideva divertito. Sorrise anche lui, avvicinandoglisi piano.
Quella l’avrebbe ricordata sempre come una giornata memorabile. Era riuscito persino a farlo ridere.
- Te l’avevo detto che sarebbe stato divertente. –
- Sembravo uno stupido, vero? – gli chiese, ma ancora rideva.
Il maglione chiaro che indossava sopra al cappotto esaltava la tonalità chiara della sua pelle, ma quel giro sopra al toro gli aveva mosso il cappotto, e il colletto si era rigirato su un lato.
Gli si avvicinò, sfiorandogli piano una spalla con la mano, per non spaventarlo.
Fece presa sul colletto del cappotto, sistemandoglielo sul collo. Dominik smise di ridere, passandosi una mano tra i capelli. Quando parlò, Federico aveva ancora le mani strette intorno alla stoffa.
- Fallo anche tu! – lo incitò, e Federico non potè dirgli di no.
Fece scorrere le mani sulla stoffa di quel cappotto fresco, e si allontanò. Poggiò il piede sul toro, sollevò l’altro, stese le braccia….e chiuse gli occhi. Girò in fretta, come aveva fatto Dominik, e fu come sentire il mondo che gli rigirava intorno e lo rivoltava come un calzino, e poi si rivide, con gli occhi della gente, come un idiota a girare in tondo. Gli venne da ridere, e capì perché anche Dominik lo avesse fatto.
Quando riaprì gli occhi, il mondo girava ancora, ma forse era lui a girare.
Batté le palpebre qualche volta, e tutto tornò a posto.
Anche Dominik che lo fissava in piedi, con un sorriso ancora sulla faccia.
- E’ stato divertente! Ma adesso voglio vedere il Duomo! –
- E allora vieni, è qui a due passi! –
Non erano esattamente due passi. Quando si affacciarono sulla piazza, Dominik aveva già iniziato a lamentarsi di nuovo del male ai piedi, ma Federico non ci fece quasi caso.
Era rimasto estasiato: era la cosa più bella che avesse mai visto. Era…enorme. Tutto era enorme. La piazza, e il Duomo a sinistra. Gli mancava quasi il fiato. Persino il sole, che ancora non era tramontato del tutto, sembrava essersi messo d’accordo con la città per regalargli lo spettacolo più stupefacente al quale avesse mai assistito.
Accanto a lui, Dominik si strinse nel suo cappotto.
- Siamo arrivati vero? –
- Si… - riuscì solo a soffiare.
- Com’è? –
- Meraviglioso… - disse all’inizio, perdendosi ancora con lo sguardo. Non credeva che potesse essere così bello. Il Duomo era enorme, e perfetto in ogni suo particolare, come se fosse un modellino che qualche collezionista aveva realizzato con le pinzette, il legno, e una cura maniacale. Invece era una struttura vera, e si chiese come avessero fatto a suo tempo a costruirlo in modo così impeccabile
Sembrava finto.
Poi, come all’improvviso, si ricordò di Dominik, che non poteva vedere nulla e se ne stava lì in silenzio. Fece qualche passo avanti, portandolo con sé.
- La piazza è grandissima, enorme. Alla nostra destra c’è una statua, su un piedistallo a forma di parallelepipedo. E’ Re Vittorio Emanuele II a cavallo, con il cavallo, ovviamente. E’ un piedistallo altissimo, e la statua è scura, quasi nera. Sotto al marmo che sorregge il re ci sono delle piccole statue di uomini, forse sono soldati o sudditi, qualcosa del genere. E sotto ancora ci sono due leoni, uno addirittura ruggisce. Somiglia tanto a mia zia quando urla contro mio cugino Rosario – azzardò, prima di rendersi conto che Dominik non sapeva affatto chi fosse il cugino Rosario, e nemmeno la zia Augusta. Il ragazzino, però, ridacchiò. Federico notò che aveva la punta del naso rossa per il freddo; visto così sembrava davvero un russo in Siberia in pieno inverno. – Comnque a sinistra invece c’è il Duomo. E’ la cosa più bella che io abbia mai visto. –
- Descrivimelo – lo incitò, e nella sua voce c’era una vena d’impazienza. Non gli aveva detto praticamente nulla, eppure non riusciva a trovare le parole; sembrava impossibile poter descrivere a parole la magnificenza di quella struttura, tutta quella lavorazione, le punte, gli ingressi.
Tutte le parole che gli venivano in mente erano terribilmente noiose, e la facevano sembrare una specie di normalissimo palazzo un po’ lavorato. Invece, messo lì, sul quella piazza, con il sole, quel colore, e la cura che ci avevano messo per erigerlo, sembrava un castello magico.
Forse non era stata una buona idea portare Dominik lì: dopo tutti i progressi che avevano fatto, stando lì così gli avrebbe solo fatto pesare il suo essere cieco, e avrebbe rovinato tutto.
Aprì la bocca, non sapendo bene cosa dire, ma poi gli venne in mente un’idea, per puro caso.
Lo guidò in avanti, verso la piazza, e lo lasciò andare. Dominik alzò istintivamente le braccia per raggiungerlo, ma lui sfuggì a quel tocco.
- Resta qui un attimo. Devo fare una cosa. – Potè vederla benissimo l’espressione di panico sul suo viso, prima ancora di sentirle la sfumatura nella voce.
- No. Dove vai? Federico! – Dominik si sporse di scatto in avanti, aggrappandosi al suo giubbotto con forza. Gli ricordava un bambino che non voleva essere lasciato all’asilo, la sensazione doveva essere più o meno quella, e non era affatto piacevole. Solo che non aveva cinque anni, ma diciotto, e poteva benissimo starsene due minuti fermo senza farsi venire un attacco isterico. Gli poggiò le mani sulle spalle, per rassicurarlo. Non sarebbe mancato più di pochi minuti.
- Devo fare una cosa importante. Tu resta qui solo due minuti, non ti perderò d’occhio un secondo. –
- No…no, no! Non qua da solo! – Adesso, nella sua voce c’era esasperazione, e panico. Poteva quasi sentirlo, ma voleva solo fare una cosa per lui, non spaventarlo!
- Fidati di me per una volta. Sarò qui, a due passi. Tu respira, e ascolta. Puoi sentirlo quanto è grande questa piazza? –
Lo vide annuire, facendo scorrere le braccia fino a cadere abbandonate lungo i fianchi, come una resa. Solo allora, quando lo vide concentrato, con le labbra dischiuse e gli occhi chiusi, lo lasciò andare. Iniziò a correre, perché davvero non voleva assentarsi troppo a lungo. Per lui, cieco, da solo in mezzo alla piazza enorme di una grande città, non doveva essere facile: forse, al suo posto si sarebbe fatto prendere dal panico anche lui. Di certo, si sentiva in colpa: gli aveva promesso che ci sarebbe stato, che non l’avrebbe lasciato un solo secondo, che tutto sarebbe andato bene, e invece stava correndo il più lontano possibile da lui.
Ma se si fosse fidato, dopo l’avrebbe fatto sorridere, ne era certo.
Corse, e quando tornò da lui, Dominik stava ancora respirando regolarmente.
- Dom? – lo chiamò. Lui sobbalzò, e tese subito la mano per afferrargli un braccio, imprigionandolo in una stretta.
- Avevi promesso che ci saresti stato tu se fossimo usciti. Invece te ne sei andato!! – urlò.
Federico rimase interdetto, cercando di fare un passo indietro, ma la stretta di Dominik lo imprigionava. Era davvero arrabbiato, o forse era la paura a farlo parlare così. Probabilmente non era stata affatto una buona idea, ma si augurò di sbagliarsi. Prese fiato, infilandosi la mano in tasca.
- Io…è che ti ho preso una cosa. Per farti vedere il Duomo – gli disse semplicemente, e nella mano gli lasciò quello che aveva comprato.
Era una semplice statuetta scura, una miniatura del Duomo in ogni suo piccolo particolare.
 Ci aveva pensato non appena aveva visto la bancarella: in quel modo, anche senza bisogno della sua descrizione, Dominik avrebbe potuto vedere il  Duomo.
Lo vide stringere la statuetta tra le mani, sorpreso.
- Cos’è? –
- Il Duomo. Solo un po’ più piccolo. Così potrai vederlo anche tu. –
- L’hai preso per me? Adesso? –
- Beh, evidentemente – borbottò, in imbarazzo. Detto così, la faceva sembrare più importante di quanto non fosse stato. Insomma, si era fermato a una bancarella e aveva comprato una statuetta da 5 euro. Non aveva mica salvato la vita al Papa! Eppure Dominik sorrise come se lo avesse fatto.
Prese a scorrere le mani su quella piccola statuetta, indugiando su ogni punta, sui rilievi corrispondenti alle porte, sui bordi. Era attratto soprattutto dai particolari alle finestre superiori, e da quelli sulle punte: certo, forse non erano fatti con la stessa cura dell’originale, ma bastava a dargli una traccia.
- Grazie – soffiò con un filo di voce. – E’ davvero bellissimo. –
Federico sorrise. Nessuno lo aveva mai ringraziato in quel modo. Perché non aveva solo comprato una statuetta come tante, ma gli aveva regalato la vista, anche solo per qualche ora.
E pensò che quel sorriso se lo meritava proprio.
- Vieni, avviciniamoci così lo possiamo toccare! –
- Dobbiamo camminare ancora tanto? – si lamentò il ragazzino, ma stava sorridendo, e aveva già iniziato a camminare davanti, come se volesse arrivare prima di lui.
- Dai che dopo prendiamo il tram, piagnone! –
 
§§§
 
Era tornato a casa ridendo, perché Samuele non aveva fatto altro che raccontargli delle manie della sua vecchia zia, durante il viaggio in macchina con cui lo aveva accompagnato a casa dopo il turno di lavoro.
In macchina, erano passati davanti alla gelateria dove, un mese prima, erano corsi lui e Dominik, sotto la pioggia, quando avevano fatto gli idioti.
Così aveva comprato due brioche cioccolato e nocciola con un’aggiunta di panna, tanto per farlo contento. Quando era entrato in casa, esausto per la fine di quella settimana, il suo coinquilino aveva riconosciuto subito l’odore di qualcosa di buono, alzandosi in piedi per raggiungerlo e chiedergli cosa avesse portato, come se fosse stato la Befana che aveva riempito la calza.
Gli aveva lasciato la brioche, sul tavolo, e lui ci si era fiondato subito.
Federico aveva preferito prendersela comoda: si era sciacquato la faccia e aveva indossato una tuta comoda. Aveva pensato anche di accendere il riscaldamento, e quando era tornato in salotto, le guance di Dominik erano già rosse, ma non sapeva se per il caldo o per l’entusiasmo. Probabilmente, però, era dovuto alla brioche, dato che aveva il naso completamente ricoperto di panna.
- Dom! Sembri un dolcetto! – Lui fece una smorfia, perché non doveva averlo capito. Gli si avvicinò, porgendogli un fazzoletto che aveva strappato dal rotolo sulla cucina. – Hai il naso tutto pieno di panna! –
Dominik si ripulì, mentre Federico addentava la sua brioche. Non aveva molto senso mangiare un gelato e poi accendere il riscaldamento, ma il gelato era buono da pazzi, e sapeva che Dominik sarebbe stato contento. Da quando erano usciti insieme, quel sabato, il ragazzino sorrideva sempre; aveva parlato per giorni di quanto fosse bello il Teatro alla Scala, e del toro della Galleria, e del Duomo, della confusione di gente. Quando ne parlava, le guance gli diventavano tutte rosse.
L’occhio gli cadde sul mobiletto che sosteneva la tv, dove faceva bella mostra di sé la statuetta del Duomo chegli  aveva comprato quel giorno, quando lo aveva visto sorridere tanto in un sol giorno, che neppure in tutte le settimane che avevano trascorso insieme.
Si era pentito di non avergli fatto una foto quando aveva fatto il giro sopra il mosaico del toro, ma almeno aveva fatto foto a qualsiasi cosa avessero visto quel giorno: sua madre sarebbe stata entusiasta, e avrebbe avuto qualcosa con cui impegnare amici e parenti il giorno di Natale.
Poi, si erano fatti anche una foto insieme, davanti al Duomo: se l’era fatta fare da un passante, che ora che ci pensava aveva gli occhi troppo a mandorla per essere Italiano, ma l’aveva capito subito quando gli aveva chiesto una foto. Si erano messi vicini,  gli aveva passato un braccio sulla spalla, invitandolo a sorridere; Dominik aveva sollevato il braccio, e lo aveva stretto intorno al suo fianco, poggiando la testa sulla sua spalla. Il sorriso che aveva fatto in quella foto, Federico, era più che reale.
Quando si era ripreso la macchina per vederla, l’aveva scoperta una foto normalissima. Si era dato dello stupido per aver creduto che potesse venir fuori come quelle belle foto dei servizi fotografici, in cui magari un soffio di vento gli avesse scompigliato un ciuffo di capelli o avesse sollevato un lembo del cappotto di Dominik. Invece no, loro se ne stavano così, in piedi, stretti in un goffo abbraccio, con lo sfondo del Duomo. Anche quello sembrava aver perso la sua magia, intrappolato in una foto, come loro.
Finì la sua brioche proprio mentre Dominik si alzava per gettare i tovaglioli sporchi di cioccolato nel cestino. Era in cucina anche lui, per gettare il suo, di tovagliolo. Lo sfiorò, petto contro petto, ma il ragazzino lo superò, tornando in salotto e lasciandosi cadere sul divano, sdraiato per lungo, con la testa abbandonata sul bracciolo.
- Sei stanco? – gli chiese, stiracchiando le gambe.
- Ho i piedi distrutti a furia di girare con il vassoio in mano, però mi sono divertito. Tu al Conservatorio? –
-Bene, la maestra mi ha detto che miglioro sempre. Le ho raccontato che sono stato alla Scala e mi ha ascoltato senza nemmeno interrompermi! Non lo fa mai! Però sono contento che oggi è venerdì, così domani sarò a casa tutto il giorno e potrò suonare quello che dico io. – Federico sorrise; quella faccia stizzita che Dominik metteva sempre quando la sua maestra lo contraddiceva era meravigliosa. Si lamentava sempre, perché lei lo costringeva a suonare sempre quelli che lui chiamava esercizi del cavolo, con un delizioso accento dell’est, però, quando gli faceva i complimenti, si ritrovava sempre in brodo di giuggiole.  
Fissò l’orologio; erano le sette di sera, e non aveva voglia di fare nulla. Forse non era stata una buona idea comprare quella brioche.
- Suppongo che non avrai fame per cena dopo questa brioche enorme. –
Dominik scosse il capo, reclinando il capo indietro sul bracciolo del divano, ad occhi chiusi. In quella posizione, il pomo d’Adamo guizzò sulla sua gola, prominente per la magrezza del suo corpo.
- Non ho fame. Però se mi viene fame prima di andare a letto mangerò un po’ di pane e Nutella. –
- Propria a dieta eh? – lo prese in giro. – Che dici, ci guardiamo un quiz in tv? Poi voglio fare la doccia. –
Dominik tolse le gambe dal divano, per fargli posto, e il movimento lo portò a raddrizzarsi, nascondendo il collo.  La pelle, in quel punto, doveva averla caldissima, con quel profumo di pesca che aveva il bagnoschiuma che usava.
Prima che potesse raggiungerlo sul divano, però, suonarono al campanello.
Federico si maledì mentalmente per aver detto a Szilvia che sarebbe potuto passare quando voleva. Era già la seconda volta che si presentava a casa sua, e aveva tutta l’intenzione di lasciarla di nuovo fuori come la volta precedente. Si diresse alla porta, fissando fuori dallo spioncino.
Dominik rimase in silenzio, perché doveva aver immaginato che potesse essere gente non gradita.
Se anche avesse chiesto chi fosse, però, Federico non gli avrebbe risposto.
L’ospite misterioso non aveva i capelli rossi, e neppure lunghi.
E lui aveva già aperto la porta.
- Manfredi. - 






Nota al capitolo 12
Partiamo dal fatto che EFP trama contro di me.
Il capitolo è pronto praticamente da ieri sera. Dopo aver finito di scrivere ho risposto alle recensioni, quindi avevo finito abbastanza presto.
Solo che ero stanca, e mi sono detta: "Ma dai, domani diamo una bella lettura, non si sa mai mi è sfuggito qualcosa, e posterò nel primo pomeriggio." E invece ogg EFP decide di morire. -.-
Ad ogni modo, piano piano, pagina dopo pagina, sono riuscita a postare.
Non so quando riuscirete a leggere, e forse è meglio il più tardi possibile, almeno prolungerò la mia vita!xD
Io avevo parlato, alla fine dello scorso capitolo, di una "bella" sorpresa...ma il "bella" era solo per prendere spazio, non sarebbe stata affatto bella! O almeno, dipende dai punti di vista...io amo Manfredi, per me è una bella sorpresa...anche se credo che qualcuno (una a caso, eh..so benissimo chi!) mi ucciderà.
Ma è stata una bella vita, si! xD
Ad ogni modo, ci tengo a sottolineare che spero di non aver sparato delle emerite boiate, perchè a Milano non ci sono mai stata. Ma Google
mi ha aiutato molto. Ad ogni modo, se ho scritto boiate, fatemelo sapere e provvederò a correggere!
Spero che questo capitolo vi abbia lasciato dolci come una scorpacciata di zucchero filato...a me si! *___*
Conto di postare presto, anche se, tra lo studio e gli aggiornamenti di 1823, che ormai è alla fine e voglio concludere senza perdere troppo tempo, credo che almeno un cinque-sei giorni me li porterò dietro.
Magari anche prima, chissà.
In attesa delle vostre recensioni e delle vostre letture, un bacione!
Esse

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Capitolo 14
*** 13rd: Lasciami andare ***


La grande questione nella vita è il dolore che causiamo agli altri, e la metafisica più ingegnosa non giustifica l'uomo che ha lacerato il cuore che l'amava.

Frédéric BeigbederL'amore dura tre anni, 1997

 


Chapter 13th: Lasciami andare
 
- Ciao Fede. –
Se a qualcuno, un giorno, fosse venuto in mente di chiedergli quale fosse stato il giorno più bello della sua vita, avrebbe scelto quello. Avrebbe rivisto quel momento, con il corpo di Manfredi sul ciglio della porta, il suo viso rosso, i suoi occhi lucidi, e il suo sorriso.
Avrebbe ucciso ancora per quel sorriso.
Non era cambiato per nulla,  e pensò che fosse stupido pensarlo: non lo vedeva solo da poco più di due mesi, che cambiamenti avrebbe mai potuto attraversare? I capelli forse, quelli avevano delle sfumature più chiare sulle punte, doveva essersi fatto i colpi di sole: erano anni che non li faceva più, da quando, a diciotto anni, gli aveva confessato di adorare il suo naturale castano chiaro  a cui d’estate il sole regalava riflessi dorati. Allora erano ancora ragazzini, e Manfredi aveva quell’irritante abitudine di passarsi sempre una mano tra i capelli: adesso, poco più corti dell’adolescenza, li portava con la riga di lato, sistemati con cura con il gel. Dovevano essere la gioia di sua madre, che quei ciuffi ribelli non li aveva mai sopportati.
Federico strinse la mano sulla porta, fino a farsi diventare le nocche bianche.
Il cuore gli sarebbe uscito dal petto se non l’avesse abbracciato subito.
Solo che, per quanto fosse felice, per quanto il cuore gli battesse furiosamente nel petto, non riusciva a dirlo. Non riusciva a fare niente se non starsene con la mano attaccata alla maniglia della porta e lo sguardo da idiota.
- Che…che ci fai qui? –
- Ti ho fatto una sorpresa! E’ un mese che provo a chiamarti per avvisarti e non mi rispondi mai. Poi tua madre mi ha dato il tuo indirizzo, ho preso l’aereo e sono venuto qui. Che poi, tra l’altro, questi tassisti sono dei ladri. – Parlava a raffica, come faceva sempre quando era nervoso, ma i suoi occhi non gli si erano staccati dal viso. Lo sentiva pungere sulle labbra, quello sguardo.
- Come hai fatto a entrare? –
- Non sapevo il nome sul citofono a dire il vero, ma ho bussato al primo piano. Mi ha risposto una signora simpatica, e quando le ho detto che cercavo un ragazzo che stava qui da poco mi ha detto di suonare qui e mi ha aperto il portone. –
La signora Livolsi, non poteva essere che lei. Quella donna sarebbe stata in grado di farsi derubare da un ragazzino di sette anni continuando a quel modo.
Manfredi batté le ciglia, nascondendo per un attimo la meraviglia dei suoi occhi verdi.
Nei mesi passati si era preparato al momento in cui l’avrebbe rivisto, convinto che, sicuramente, quando fosse tornato a Palermo l’avrebbe incrociato per la strada. Si era preparato magari ad ignorarlo, o a parlargli come prima, forse a rinfacciargli tutto quello che non aveva fatto per lui.
Invece, era felice e basta.
Perché nonostante tutto quello che avevano passato, nonostante la sofferenza, le urla, i pugni, Manfredi restava sempre lo stesso bambino che aveva conosciuto all’asilo e che gli aveva prestato il suo pupazzo a forma di drago, e che a sette anni lo faceva giocare con i suoi amici a pallone anche se loro lo odiavano perché viveva in una casa più grande della loro. Era anche lo stesso ragazzo con cui era andato a ballare in discoteca, con cui correva sul motorino, con cui era uscito da scuola dopo l’orale alla maturità ed era andato a lanciarsi tra le acque del mare di Mondello. Era il suo migliore amico, prima del suo ex ragazzo.
- Entra – lo invitò, facendosi da parte.
Manfredi entrò tirandosi dietro un piccolo trolley. Gli chiuse la porta alle spalle, e quando si voltò notò subito il viso di Dominik che sporgeva dietro la spalliera del divano.
- Dom, è venuto a trovarmi un mio amico da Palermo. Si chiama Manfredi. Manfredi, lui è Dominik, il mio coinquilino. –
- Ciao, è un piacere conoscerti – lo salutò, fermandosi al centro del salotto. Dominik fece una smorfia, stando ben attento a non sollevare neppure lo sguardo, per non mostrare gli occhi vitrei.
- Ciao – borbottò, tornando a sedersi composto.
Manfredi lo guardò per qualche secondo, poi si voltò verso di lui. A Federico venne da ridere: Manfredi non sopportava da sempre la gente che classificava come snob, e il comportamento di Dominik in quel momento lo faceva entrare di diritto nella prima posizione della personale classifica nera di Manfredi. Ce lo aveva messo anche lui, la prima volta che aveva messo piede in quella casa. A guardarlo adesso parevano passati anni, invece che mesi.
Inaspettatamente, Dominik si alzò.
- Devo fare la doccia –
- Fai con calma –
Lo sentì chiudersi la porta alle spalle, e nello stesso momento udì il soffice tonfo del giubbotto di Manfredi che cadeva sul bracciolo del divano.
- Simpatico, eh? – Federico ridacchiò.
- E’ un po’ particolare, basta solo prenderlo per il verso giusto…il più delle volte – aggiunse. Manfredi fece spallucce, facendo qualche passo e girando su se stesso per guardarsi intorno.
- E’ bello qui. Mi aspettavo una di quelle case diroccate e vuote che affittano agli studenti a Palermo, ma questa è davvero carina. –
- Dominik vive qui da cinque anni, l’ha arredata nel corso del tempo, credo. L’ho trovata così quando sono arrivato – gli spiegò, dandosi da fare per tentare di dare una sistemata alla cucina. Quando era uscito, dopo pranzo, aveva lasciato un po’ di caos. Manfredi non si sarebbe certo scandalizzato, ma voleva avere qualcosa da fare, perché all’improvviso si sentiva a disagio.
- Mh. Carino, comunque. –
- E’ ben arredata, si. –
- Io parlavo del ragazzo. –
Federico chiuse lo sportello della cucina, dopo averci riposto i piatti puliti che aveva lasciato a sgocciolare. Quando si voltò, Manfredi era entrato in cucina, e se ne stava poggiato con un fianco all’isola dove la mattina facevano colazione.
Sorrise.
- Non ci ho fatto niente. Siamo a malapena amici –
- E chi ha detto niente? – si difese quello, ma stava già sorridendo, come tutte le volte che si pizzicavano in quel modo. Sorrise anche lui.
- Manfredi? –
- Che c’è? –
Lo fece prima di pentirsene, e prima che il cuore gli uscisse dal petto.
Gli strinse le braccia intorno alle spalle, in un abbraccio che gli permise di nascondere il viso sul suo collo e respirare finalmente quel profumo lievemente piccante che aveva imparato ad associare a quel corpo. Quando le braccia di Manfredi si strinsero intorno ai suoi fianchi e le mani gli si premettero sulla schiena, fu come ritornare a casa.
Era una dimostrazione, quello, che tutto ciò in cui avevano creduto per anni, un’amicizia incrollabile, non era stata una bugia. Loro si appartenevano, fin al giorno in cui si erano incontrati, e il mondo avrebbe continuato a girare nel modo giusto solo se loro avessero avuto sempre la possibilità di scambiarsi uno sguardo e scoppiare a ridere come due idioti. Con Manfredi, anche il mondo diventava più leggero, perché la vita non si poteva mettere da parte così.
Manfredi gli pulsava ancora nelle vene ad ogni respiro, ad ogni soffio del suo fiato sulla pelle, ad ogni stretta delle sue braccia, ad ogni graffio sulla schiena.
Non aveva capito quanto gli fosse mancato fino al momento in cui se lo era trovato fuori dalla porta di casa.
- Mi sei mancato – gli mormorò, e la voce gli uscì soffocata, perché aveva la bocca premuta contro il suo stesso braccio, nell’incavo del gomito.
- Anche tu – rispose quello, e il suo fiato caldo gli accarezzò il lobo dell’orecchio come un guanto di seta.
 

§§§

 
- Io ancora non ho capito perché ha detto a tutti di essere Iron Man alla fine del primo film! Si sarebbe risparmiato un sacco di cose! –
- Tu non li capisci mai i film, Fede, lascia perdere! –
- Ma perchè tu l’hai capito, scusa? –
- Ovvio, ho la mente artistica io! -
Una lieve carezza sulla gamba, fino al ginocchio, che gli fece venire la pelle d’oca. Manfredi aveva sempre le mani morbidissime. Gli venne da chiedersi se anche le sue labbra fossero morbide come le ricordava.
Federico abbandonò il capo indietro, con la spalliera del divano: era stanco, e aveva così sonno che si sarebbe addormentato lì. Era stata una giornata estenuante, con la lezione in università di prima mattina e il turno al locale perché aveva delle ore da recuperare. E poi era arrivato Manfredi. Quella era stata la parte più spossante di tutta la sua giornata.
Seduto lì con lui, però, a occhi chiusi, poteva immaginare di avere ancora diciotto anni e di essere sul divano di casa sua, con il suo migliore amico, a guardare un vecchio film dopo un giorno di scuola. Sfortunatamente aprì gli occhi, e si ritrovò intorno l’ambiente della sua casa a Milano, la tv scura lievemente impolverata, e l’amara realtà di non avere più diciotto anni.
Si stiracchiò, urtando per sbaglio la spalla di Manfredi con il gomito. Attirato dal movimento, il ragazzo si voltò, inchiodandolo con quegli occhi verdi che lo lasciavano sempre senza fiato.
- Sonno? –
- Un po’ – borbottò, liberandosi poi in uno sbadiglio.
Dominik era andato a letto da più di mezz’ora, quando il film che stavano guardando si era chiuso con una serie di lunghissimi titoli di coda e Federico aveva ripiegato su un programma comico in seconda serata. Era stato zitto per tutta la cena, se una scorpacciata di patatine fritte si poteva definire cena, e quando si era messi a vedere la tv, nonostante ci fosse spazio nel loro divano a tre posti, era tornato a rintanarsi nella sua poltrona.
La presenza di Manfredi aveva rotto l’equilibrio del suo mondo, quello a cui si erano abituati. Non era facile per lui accettare la presenza di persone estranee, se non, alle volte, quella di Samuele, e Manfredi era arrivato come un fulmine a ciel sereno, sconvolgendogli la vita.
Se lo chiedeva ancora, il perché si trovasse lì, ma non aveva avuto il coraggio di domandarglielo una seconda volta, dopo che si era sentito rispondere, la prima, che aveva voglia di vederlo.
Perché una persona normale, quando sente la mancanza qualcuno, nell’era dei telefoni e di Skype, sale su un aereo e attraversa tutta l’Italia, è una cosa normale, pensò.
Manfredi non aveva mai fatto una cosa così importante per lui quando stavano insieme, e adesso che aveva trovato il coraggio di lasciarlo si presentava lì, con bagagli incorporati. Eppure, non sembrava essere lì per riconquistarlo. SI stava comportando come l’amico che era sempre stato.
Il braccio di Manfredi gli circondò a sorpresa le spalle, avvicinandolo a sé, fino a quando il suo viso non si trovò a contatto con il suo petto.
- Vai a letto se sei stanco. –
- Tu domenica parti. Non voglio perdermi nemmeno un istante. – Lo sentì sorridere, e la sua mano si strinse appena sul suo braccio.
- Così domani ti svegli alle tre del pomeriggio e perdiamo tutta la mattinata! Fila a letto, ho sonno anch’io, e se non ti alzi da questo divano posso dormire sul tappeto! –
Federico si staccò appena, raddrizzando la schiena per stiracchiarsi.
- Ma sei scemo, ti faccio dormire sul divano? – Manfredi non nascose un’espressione sorpresa.
- Dove dovrei dormire, scusa? Non ho portato il sacco a pelo. –
- Dormi con me – disse tutto d’un fiato, perché se non l’avesse fatto, probabilmente non ne avrebbe avuto più il coraggio. – Ho un letto enorme, a due piazze, starai comodissimo. -
Manfredi continuava a fissarlo stranito, le labbra dischiuse, con quella tipica espressione di quando doveva prendere una decisione e non aveva la minima idea di cosa fare. Gli diede una gomitata, ridendo. – Dai, mica ti scandalizzi? Abbiamo fatto di peggio! Alzati, dai, sto morendo di sonno! –
Si alzò, precedendolo, e quando entrò nella sua stanza lasciò la porta aperta; non sapeva se volesse passare dal bagno, o se non volesse ancora andare a letto. Manfredi, però, lo seguì in silenzio, chiudendosi la porta alle spalle. Lo scatto, nel silenzio della stanza, sembrò forte come un tuono, o forse fu perché era amplificato da un tonfo del suo cuore.
Federico si lasciò cadere sul letto tutto vestito, sopra le coperte, con le braccia tese di lato e gli occhi chiusi. Era una sensazione meravigliosa quella delle gambe che si rilassavano dopo una giornata disastrosa.
Alla sua sinistra, il materasso si abbassò sotto il peso del corpo di Manfredi. Si era sdraiato anche lui sopra le coperte, su un fianco, perché Federico avvertì il soffio del suo respiro vicino all’orecchio.
Aprì gli occhi, voltandosi sul fianco anche lui: se lo trovò davanti così, con l’espressione di un cerbiatto spaventato, le mani abbandonate vicino al viso, e i piedi che sfioravano i suoi. Gli sarebbe bastato spostare la mano di pochi centimetri per toccare la sua, ma era ipnotizzato dai suoi occhi. Erano sgranati, quasi spaventati, e le pupille erano tanto dilatate che l’iride non era altro che una sottile striscia quasi invisibile.
- Federico – soffiò lui, con una voce così dolce che gli provocò una stretta allo stomaco. Perché doveva essere così dannatamente dolce in ogni minima cosa che faceva?
Deglutì, in un battito di palpebre, senza dirgli nulla. Non aveva davvero qualcosa da dirgli, semplicemente aveva mormorato il suo nome per avere qualcosa cui aggrapparsi, perché gli sembrava di stare sprofondando nelle sabbie mobili. Era la stessa sensazione che aveva lui, e l’aria era così densa che i polmoni non riuscivano più a spingerla dentro al corpo.
Si chiese se fare l’amore con lui, solo per quella sera, sarebbe stato poi tanto sbagliato.
Si rispose che si, lo sarebbe stato.
Suo malgrado, tese una mano in avanti per poggiargliela sul viso: aveva la pelle così calda che sembrava avere la febbre. La fece scorrere sul suo zigomo, indietro verso l’orecchio, ma prima che riuscisse a sfiorargli i capelli un rumore li fece sobbalzare.
Al piano di sopra doveva essere caduto qualcuno: magari, pensò Federico, quel ciccione del marito che non faceva che urlare e trascinare il divano tutto il giorno.
Scoppiarono a ridere, perché si sentirono due idioti che si facevano spaventare da un rumore, e l’aria tornò un po’ meno viscosa, libera di fluire nel polmoni. Federico si mise seduto.
- Mettiti il pigiama e andiamo a letto. –
Manfredi  gli lanciò un cuscino che li colpì in piena faccia, facendolo ridere.
- Va bene, mamma! –
 

§§§

 
- Non capisco perché non sei voluto andare al Duomo! –
- Perchè ci sono stato da piccolo con i miei e non volevo tornarci! Basta con ‘sto Duomo, sembri un gatto attaccato alle palle! –
Federico gli diede una gomitata su un fianco, spostando poi la mano per pizzicargli la pancia, perché sapeva da sempre che odiava essere toccato lì, gli provocava una bruttissima sensazione di solletico. Manfredi rise, afferrandolo per un braccio e stringendolo in un abbraccio che gli permise di respirare il suo profumo di muschio. In fondo, era stata tutta una scusa per averlo così vicino.
- La gente ci guarda – lo sentì borbottare, la faccia schiacciata con il suo petto e le mani sui suoi fianchi, indecise se respingerlo via o stringerlo ancora.
- E tu lasciala guardare, che t’importa? – gli soffiò su un orecchio.
- Sei tu quello a cui importa che la gente sappia che è gay – gli rispose quello a tono.
Manfredi soffocò la stretta allo stomaco per quella stoccata a sorpresa. A Federico non sarebbe mai andata giù la sua decisione di negare fino all’ultimo, di nascondere quello che era realmente.
Lui non poteva capire: non era solo per i suoi genitori, per gli amici, era per la gente. Non voleva che la gente sapesse la verità, che lo etichettasse come gay, in una città come Palermo o in un’altra città del mondo. Voleva essere Manfredi e basta, lavorare, essere una persona normale, e il mondo non era ancora pronto ad associare la parola gay a quella normale.
Solo che, quel weekend, il mondo si era capovolto. Aveva preso un aereo ed era volato a Milano, per rivedere la persona più importante della sua vita. Federico non gli rispondeva al telefono da quando si erano lasciati, nonostante gli avesse promesso che ci sarebbe stato, e di giorno in giorno l’angoscia di averlo perso per sempre lo aveva sommerso. Così aveva lasciato tutto, ed era partito.
Quando aveva rivisto i suoi, si era lasciato cadere in quelle pozze nere, aveva sorriso, perché aveva ritrovato, nonostante tutto, il suo Federico. Non lo aveva perso. E voleva che quei giorni insieme fossero per lui meravigliosi, che gli lasciassero un buon ricordo di lui, qualcosa a cui aggrapparsi per trovare la forza di rispondergli a telefono, e di essere ancora amici.
Perché amori come il loro, quelli che distruggono, si portano via tutto: si era portato via la loro essenza, quello che erano da sempre, prima di essere amanti. Erano amici. E Federico meritava d essere felice. Così, almeno per un giorno, tra le strade affollate di Milano, non gli sarebbe importato di essere gay.
- E tu sei sempre quello saccente. Mamma come sei palloso! –
Lo allontanò appena con una risata, e vide il suo volto illuminarsi per un sorriso divertito.
Come poteva essere sempre così dannatamente bello?
O forse era lui ad esserne così assuefatto da vederlo meraviglioso quando in realtà era solo uno come tanti?
L’amico gli passò una mano davanti al viso, come a volerlo richiamare, e quando Manfredi sussultò, Federico scoppiò a ridere, gli occhi neri accesi di una luce nuova.
- Oggi vieni con me al locale no? Devo andare a lavoro per forza. –
- Certo che vengo. Non vorrai lasciarmi a casa con quel tizio, vero? –
Dominik non gli piaceva, aveva l’aria di uno di quei principini saccenti e snob che pullulavano a scuola, e che si sentiva un Dio sceso in terra solo perché era bravo a suonare il pianoforte e studiava al Conservatorio. Gli dispiaceva per lui, solo perché era cieco, ma anche se non lo fosse stato, sarebbe stato la persona più antipatica che avesse mai conosciuto.
La sera prima non aveva praticamente detto una sola parola, e quella mattina, quando erano usciti, si era piantato dietro al pianoforte e li aveva salutati solo con una smorfia.
Quando aveva chiesto a Federico come facesse a sopportarlo, lui aveva risposto con una smorfia e un’alzata di spalle, mormorando che non era sempre così, e che l’avere estranei in casa lo agitava. Aveva la sensazione che Dominik, a lui, invece piacesse,  almeno gli stesse simpatico. Federico non sarebbe mai potuto stare con uno come lui: lui e Dominik erano completamente diversi, e se Federico aveva amato lui, non si sarebbe neppure potuto avvicinare a Dominik. E poi, tra l’altro, non era neppure questo granché; era troppo…bianco, quasi insipido.
- Dominik sa essere simpatico quando vuole. Volevo presentarti Samuele, però, peccato. E’ un mio collega, ed è uno spasso! Solo che questo fine settimana è via per un weekend con il suo compagno. –
Federico parlava a raffica, ed era difficile persino stargli dietro, soprattutto quando le vetrine di Milano erano così tremendamente attraenti. Peccato che, per comprare uno spillo, dovesse rimetterci tre stipendi.
Quando era andato a Milano con i suoi, da bambino, suo padre li aveva trascinati in giro per “opere di straordinaria bellezza”, e Via Monte Napoleone non aveva voluto neppure vederla da lontano. Adesso, finalmente, con Federico poteva vederla.
Erano usciti insieme, quel sabato mattina, a piedi, per godersi la città, e nonostante il cielo fosse scuro, privo del bel sole caldo della loro Palermo, non pioveva, se non lievi sprazzi ogni tanto.
Federico abitava praticamente quasi in centro, vicino sì alla facoltà di scienze politiche, che gli aveva fatto vedere lungo la strada, e al Conservatorio, ma anche al Duomo e alle vie più in di Milano, alle quali, si era affrettato a dirgli, non aveva neppure osato avvicinarsi.
Avrebbe tanto voluto comprargli qualcosa, anche una scemenza, purchè si ricordasse di lui e di quei loro giorni insieme a Milano. Solo che, evidentemente, aveva scelto la via sbagliata, perché la maggior parte delle cose esposte in vetrina non se le sarebbe potuto permettere neppure dopo tre anni di lavoro. Federico, però, sembrava felice. Sorrideva, rideva, si stringeva nel suo cappotto perché per lui, quella temperatura era troppo fredda. Quando parlava, dalla sua bocca si sollevavano nuvolette di fumo, di fronte alle quali il suo viso si illuminava come quello di un bambino anziché di un uomo di venticinque anni.
Preso da uno strano istinto, mentre Federico sollevava il braccio destro per mostrargli una vetrina particolarmente sfarzosa e un’altra nuvoletta di fumo vorticava davanti al suo viso, Manfredi gli prese la mano sinistra, intrecciando le dita con le sue. Nessuno dei due aveva pensato di indossare i guanti,  potè sentire sotto i polpastrelli la pelle freddissima di Federico e i suoi muscoli contratti.
Lo vide sussultare, voltandosi stupito verso di lui, e una strana emozione lo colse all’altezza dello stomaco. Gli occhi di Federico erano sgranati, e le sue labbra dischiuse erano screpolate per il freddo. Pensò che, se le avesse baciate in quel momento, non avrebbero avuto la loro solita morbidezza.
- Che c’è? – gli chiese invece, come se quel gesto non avesse lasciato stupito anche lui.
- Niente –
- E allora perché mi guardi così? – Federico assunse un’espressione colpevole, perché, inconsciamente, lo aveva appena rimproverato. Si stava comportando da stupido, però voleva solo che lui stesse bene. Gli sorrise appena. – Ti dà fastidio se ti tengo la mano in pubblico? –
- Potrebbe dare fastidio a te – rispose lui. Manfredi fece spallucce.
- No, non mi importa. –
- Perché siamo a Milano, e qui non ti conosce nessuno. Pensa se fossimo a Palermo . – Federico fece per ritrarre la mano, sulla difensiva, ma lui la strinse più forte, impedendogli di sfilarla. Si voltò appena per guardarlo meglio in volto, e quelle iridi nere parvero sommergerlo. Come poteva spiegargli quel tumulto che aveva dentro? Che non lo stava facendo perché tanto di Milano chi se ne frega, ma per avere un giorno solo per loro? Espirò, e una nuvoletta di vapore uscì anche dalle sue labbra.
- No, è che…Sono venuto a Milano per vedere te, e voglio passare un giorno con te. Uno di quelli veri. Forse è vero, è codardo da parte mia comportarmi così qui e non a Palermo, però io un giorno così libero con te non l’ho mai vissuto. Lo so che è colpa mia, che è troppo tardi, eccetera eccetera, però mi piacerebbe e basta – si ritrovò a farfugliare.
Federico inspirò profondamente, le sue spalle si sollevarono sotto il cappotto. Aveva ancora la mano intrecciata alla sua, ma erano gli occhi principalmente quelli che non l’avevano lasciati.
Per una volta, Manfredi smise di pensare alle persone che avevano intorno, a quello che avrebbero potuto pensare o dire, ai loro insulti, e si ritrovò immerso solo nelle iridi di Federico.
Pensò a cosa sarebbe successo se l’avesse fatto prima, se avesse vissuto tutto quello prima, e si disse, con una stretta allo stomaco, che non sarebbe cambiato nulla. Lui non avrebbe mai accettato di essere gay davanti al mondo.
Federico, però, sorrise, e gli strinse la mano. Quando iniziò a camminare, lo strattonò per la mano, indicando un’altra vetrina.
- Vieni a vedere questa! Qui mi sa che si paga già solo per guardarla! –
Risero entrambi, e Manfredi si rese conto di non essersi mai sentito tanto leggero.
Sarebbero andati a pranzo, e poi al locale dove lavorava Federico: aveva scoperto che fosse un locale gay, che lì nessuno l’avrebbe giudicato per quello che era. Peccato che non ci sarebbe stato nulla da giudicare, perché l’unica persona che avrebbe avuto voglia di baciare, non aveva la minima intenzione di baciare lui. Ed era meglio così.
Federico guardava le vetrine, ed era strano vedersi riflessi nel vetro così, due uomini che si stringevano la mano quando non erano più che semplici amici, mentre non avevano avuto il coraggio di farlo quando c’era tutto quell’amore a strappar loro anche la vita.
Si diceva che la vita desse sempre una seconda occasione.
Loro, però, le avevano già bruciate tutte.
 

§§§

 
Stavano ridendo.
Stavano ridendo perché erano un po’ ubriachi, perché faceva un freddo boia, perché avevano cantato tutto il tempo in macchina quella canzone che per tutta l’estate li aveva tartassati, perché pioveva forte, e perché erano insieme.
- Grazie Lorenzo!! –
Federico chiuse lo sportello della macchina iniziando a correre verso il portone del palazzo, contro il quale Manfredi si era già lasciato cadere, con il capo reclinato indietro e una risata sul viso.
Aveva il cappotto umido, e i capelli quasi completamente bagnati.
Federico si appoggiò al portone, finalmente al riparo dalla pioggia, e scoppiò in un’altra risata che cercò di sedare da solo, perché qualcuno del palazzo, a quell’ora della notte, avrebbe potuto lamentarsi per il rumore. Solo che non si sentiva così sereno e felice da troppo tempo.
Era stata una giornata meravigliosa, e per quanto fosse distrutto e non vedesse l’ora di lasciarsi cadere in un letto caldo e morbido, l’avrebbe rifatto altre mille volte.
Si era svegliato, quella mattina, con il viso si Manfredi così vicino che il suo profumo quasi lo aveva stordito: aveva sorriso, lasciandolo dormire solo un altro po’, e poi lo aveva portato fuori, in giro per Milano. La pelle della mano bruciava ancora, dove lui l’aveva tenuta stretta, guidandolo per le vie affollate senza curarsi, per la prima volta, di quello che pensava la gente. E l’aveva abbracciato, l’aveva guardato in un modo che gli aveva riscaldato il cuore, e si era sentito felice, perché un giorno così lo aspettava da sette anni. Quando era andato a lavoro, al locale gli aveva presentato tutti, e aveva subito fatto amicizia, perché Manfredi era uno di quelli che piacevano subito a tutti.
Dopo la fine del suo turno, alle sette, erano rimasti lì perché ci sarebbe stato un bel gruppo a suonare: avevano cenato a un tavolo con gli stuzzichini rimasti dell’aperitivo, e avevano bevuto un cocktail che lui stesso aveva insistito per preparare e che gli aveva insegnato Samuele. Ovviamente, era venuto fuori una vera merda, e avevano riso ancora di più.
Avevano riso anche quando Manfredi lo aveva trascinato a ballare con qualche coppia che se ne stava in giro tra i tavoli, perché una pista da ballo al locale non c’era. Aveva smesso di ridere quando aveva incontrato quegli occhi verdi e gli era venuta l’irresistibile voglia di baciarlo, dentro lo stomaco, e si era strappato il cuore per impedirsi di farlo quando lo aveva visto ridere e reclinare il capo indietro, mostrando la pelle chiara del collo.
Avevano riso ancora quando Lorenzo si era offerto di accompagnarli lui, per non farli andare a casa a piedi, e si erano messi a cantare con la musica alta in macchina, che cantavano ancora quando si erano fermati ad un bar e si erano ingozzati di cornetti.
E ridere ancora, con Manfredi contro il portone, alle quattro e mezzo del mattino, sembrava una cosa veramente stupida. Forse per questo rideva tanto.
- Fede! Cazzo, muoio di freddo! Apri! –
Infilò le chiavi nella toppa, cercando di fare il prima possibile, e si ritrovò nell’androne, dove, ancora ridendo, si aggrappò all’amico per tappargli la bocca, ché la signora del primo piano, la moglie del ciccione, sarebbe potuta scendere con il battitappeto da un momento all’altro.
Federico aprì la porta di casa, entrando nel soggiorno immerso nel buio. Dominik doveva essere andato a letto, ma chissà da quanto. Si sentiva un po’ in colpa per non aver cenato con lui, ma Manfredi era venuto solo una volta, loro avrebbero potuto cenare insieme tutte le sere.
Il pianoforte aveva i tasti scoperti, Dominik non aveva abbassato la copertura di legno, né messo il panno rosso che usava per coprirli; doveva essere rimasto sveglio fino a quando il sonno non era stato tanto da spingerlo a crollare sulle coperte. Forse aspettava che tornassero prima, e gli si strinse il cuore quando pensò a quel ragazzino seduto da solo in attesa di qualcuno che non era arrivato.
Un colpo lo riscosse, e quando si voltò vide Manfredi che si teneva un piede, con una mano sulla bocca per evitare di imprecare. O di ridere forse. Era una scena quasi comica.
- Porca…! – imprecò, e Federico scoppiò a ridere.
Lo superò, entrando nella camera da letto e accendendo la luce che quasi lo accecò. Era distrutto, aveva freddo e gli facevano male le gambe, e i piedi, ma aveva solo voglia di starsene sul letto e ridere ancora un po’. Manfredi entrò dopo di lui, chiudendo la porta e passandosi una mano sul viso.
- Cazzo, che serata! Da quanto non lo facevamo? –
- Una vita! –
Federico si lasciò cadere sul letto, sbuffando al sol pensiero di dover rialzare per togliersi quei vestiti umidi e indossare il pigiama, senza dubbio più comodo e caldo. Manfredi, invece, crollò direttamente contro la porta, privo di energie.
- Sai che se non ti alzi adesso non lo farai più vero? Vuoi dormire contro la porta? –
- Dormire, si! Domani ho l’aereo alle due. –
- Così presto? – soffiò Federico, con una smorfia sul viso, la rappresentazione esteriore di un colpo al cuore contro al petto. Sembrava impossibile che dopo una giornata così bella Manfredi dovesse già andare via, come portato via da un soffio di vento.
Sentì i suoi passi, fino al bordo del letto. Allora si raddrizzò, mettendosi seduto. Manfredi lo stava fissando dall’alto con un sorriso.
- Non vuoi che me ne vada? – sibilò, con un sorriso che ricordava tanto una presa in giro.
Lo spinse indietro, e risero entrambi. Federico si diresse verso l’armadio, tirando fuori la vecchia tuta felpata che indossava per dormire. Sembrava così calda e morbida in confronto ai suoi vestiti bagnati.
Si tolse il maglione, tirandolo per bordo inferiore, e la sensazione di freddo che lo colse gli provocò la pelle d’oca nella porzione del braccio che le maniche corte della t-shirt che portava sotto lasciavano scoperta.
- Ti ricordi quella volta che ho dormito da te, durante le vacanze di Pasqua? –
- Come potrei dimenticarla? – borbottò. Avevano fatto l’amore sul suo letto, senza fiato, con un misto di desiderio e terrore, perché i suoi genitori dormivano poche stanze più in là e loro non avevano chiuso la porta a chiave.
 - La migliore scopata della mia vita! –
- Sei sempre fine eh? – lo prese in giro, cercando di trovare il verso giusto per infilare la felpa dalla testa, senza riuscirci. Manfredi rise, perché se lo ricordava benissimo quel vizio che aveva il suo migliore amico di  togliersi i vestiti in fretta e infilarli nell’armadio come delle palline di tessuto, salvo poi non riuscire a sbrogliarli. Si alzò dal letto, tendendo le mani in avanti per strappargli la felpa di mano.
- Rende meglio il concetto. Non hai idea di quanto fossi…straordinariamente arrapante quella sera, con quella magliettina tutta aderente che ti eri messo – gli ricordò, mentre raddrizzava le maniche della felpa e gliela porgeva. Gli sfiorò la mano per caso, e sollevò d’istinto gli occhi, per vedere se dentro ci avrebbe trovato lo stesso smarrimento che c’era nei propri quando aveva pensato di nuovo a quella sera. Sul viso di Manfredi c’era una risata ancora a metà, ma gli occhi erano gli stessi della sera prima, quando il verde era scomparso e tutto era diventato nero come la sua pupilla. L’aria si era condensata di nuovo, e Federico pensò che non potesse essere altrimenti.
Poi, Manfredi gli poggiò una mano rovente sulla nuca, sotto l’attaccatura dei capelli,  ed era così calda che gli rubò persino il fiato.
- Cazzo quanto sei bello – gli soffiò sulle labbra, e non aveva nemmeno finito di dirlo che gli si era avventato sulle labbra.
Quel contatto di labbra fu come ricevere una scossa elettrica, ed entrambi le dischiusero immediatamente, perdendosi in un bacio che avrebbe strappato loro tutte le energie. Manfredi gli portò anche l’altra mano sulla nuca, come se volesse impedirgli di fuggire, e gli ricordò quella volta in cui si erano baciati davvero per la prima volta, spinti dalla curiosità, e Manfredi aveva fatto la stessa cosa, inchiodandogli il viso, e con quel bacio il cuore.
Ed era stanco di lasciare che il cervello decidesse cosa fosse meglio e cosa peggio, che il corpo si tendesse per la paura d soffrire, perché, loro malgrado, si appartenevano, e nulla sarebbe riuscito a scacciare quella nuvola di tensione che si creava sempre tra di loro dal momento in cui si erano lasciati. Federico gli accarezzò il petto, il collo, il viso, inclinando il capo in direzione opposta alla sua, come se potesse, in questo modo, entrargli dentro e divorarlo. Non gli bastava, non gli bastava più niente.
Gli si aggrappò alle spalle, ai fianchi, artigliando insieme il suo maglione e la maglia che portava sotto, tirando verso l’alto per spogliarlo. Manfredi aveva sempre lo stesso corpo, quello che aveva imparato a conoscere in ogni suo minimo particolare. E lo baciò sul collo, lungo la linea della clavicola, sullo sterno, percorrendogli i fianchi e le linee delle coste che sporgevano quando inspirava profondamente e si perdeva di nuovo nella sua bocca.
Voleva memorizzare tutto di lui, il sapore dolciastro delle sue labbra, quello che sapeva di alcol della sua saliva, il profumo piccante del suo dopobarba, la morbidezza dei suoi capelli, le linee del suo corpo definito.
Quando Manfredi gli tolse la t-shirt, con tanta foga da storcergli quasi un braccio, avvertì le sue unghie sulla schiena, i suoi denti sul collo, e reclinò il capo, spingendolo per le spalle contro il letto.
Finì sotto di lui, come sempre, e si perse nel candore di quegli occhi verdi che quando facevano l’amore diventavano quasi liquidi e parevano due pozze d’acqua in quel viso rosso, dove le labbra erano gonfie per i baci.
Sollevò il capo, artigliandogli la nuca, e si perse in un bacio languido.
C’era di male, a far l’amore con lui, che gli sarebbe scoppiato il cuore per quanto batteva.
 

§§§

 
- Allora….io vado. –
No. Avrebbe solo voluto dirgli di no, senza altre spiegazioni.
Dal piano di sopra, una canzone di Tiziano Ferro riempiva l’androne.
Qualcuno avrebbe dovuto dirlo a Tiziano Ferro che no, l’amore non era una cosa semplice.
Federico non aveva idea di che rapporti avesse conosciuto lui, però, se era giunto a quella conclusione, lo invidiava. L’amore non era una cosa semplice, non lo era mai stato: fare una frittata era una cosa semplice, fare le divisioni a una cifra era una cosa semplice, colorare con le tempere una cosa semplice. L’amore no, l’amore era per chi si svegliava in piena notte e stendeva la mano di lato nell’inutile speranza di trovarci accanto qualcuno; l’amore era andare a letto controllando che la batteria del cellulare fosse carica e la suoneria e la vibrazione fossero inserite, che se il tuo amore ti avesse chiamato in piena notte lo avresti sentito; l’amore era inviare un sms e iniziare a contare i secondi prima che arrivasse la risposta, e pensare già che, se non avesse risposto, non l’avresti più cercato.
L’amore era un costante senso di dolcissima angoscia dentro lo stomaco.
Era fare l’amore e ritrovarsi l’indomani mattina a salutarsi sul ciglio della porta.
Federico strinse con forza le dita intorno alla porta, fino a farsi diventare le nocche bianche. Era quasi comico vedere se stesso nella stessa posizione di quando, appena due giorni prima, si era ritrovato Manfredi a casa. Solo, con una predisposizione d’animo diversa.
Adesso, a guardalo come un cucciolo smarrito, Manfredi era la cosa più dolce che avesse mai visto.
- Vuoi che ti accompagni? –
- Così poi devi ripagare il taxi per tornare qui? No, Fede. Va bene così. –
Federico annuì, pronto a salutarlo, allora. In casa erano soli. Quasi avesse capito l’importanza di quel momento, Dominik si era chiuso nella sua stanza per studiare, diceva lui, ma Federico aveva sorriso, memorizzando che avrebbe dovuto ringraziarlo per la pazienza che aveva mostrato quel fine settimana, rinunciando alle loro abitudini solo perché era arrivato uno sconosciuto che, per lui, era molto importante.
- Ci vediamo per Natale, no? Scenderò a Palermo. –
- Certo che ci vediamo – rispose il ragazzo, con gli occhi verdi che brillavano e la mano più stretta intorno al maniglione del trolley scuro.
- Allora…ciao, Manfredi – lo salutò. Aprì le braccia, perché non voleva che andasse via senza abbracciarlo. Aveva ancora addosso il suo odore, quello della notte che avevano trascorso insieme, distruggendosi e curandosi un po’ a vicenda, fino a quando erano crollati addormentati e si erano svegliati poi stanchi, ma con le gambe intrecciate e i visi vicini.
- Dimmi solo di sì, e io resto – esordì poi Manfredi, ed erano parole così inverosimili che gli parve di averle sognate.  Invece Manfredi era perfettamente serio, e aveva lasciato il trolley sul pavimento.
- Come? –
- Dimmi che vuoi, e io resto. Dico a mio padre che ho trovato un lavoro qui, e ti giuro che lo cercherò, anche se magari all’inizio non  sarà facile e dovrai aiutarmi un po’ tu, ma ti giuro che farò economia. Per Natale torneremo a Palermo e prenderò tutte le mie cose, i soldi che ho messo da parte e potremo tornare qui e restare a vivere insieme. Possiamo trovare un appartamento vicino al locale, se vuoi, e prenderci un’auto che ci farebbe sempre comodo. Potremo invitare le persone che vuoi a casa, oppure uscire, o restarcene solo sul divano a guardare la tv. E ogni tanto torneremo a Palermo per salutare i nostri genitori, ma se non vorrai non ci andremo nemmeno. Faremo quello che vuoi. – Parlava così veloce da fargli girare la testa e battere il cuore come un forsennato. Quando gli poggiò le mani sulla nuca, perforandolo con il suo sguardo, si sentì cedere le gambe. – Ci possiamo provare, ma questa volta davvero. Dimmi solo di sì. –
La stanza aveva preso a girare, gli mancava l’aria, non riusciva più a metterlo a fuoco. Avrebbe ucciso per sentirsi pronunciare quelle parole, e finalmente Manfredi le aveva dette, le aveva scandite davanti a lui, e lo stava quasi implorando, con quello sguardo liquido.
Se fosse stato più giovane, se non avesse vissuto sette anni d’amore con lui, e venti di salda amicizia, se non avesse saputo leggergli negli occhi, gli avrebbe detto di sì. Solo che, negli occhi di Manfredi, c’erano ancora tutte le ragioni per cui lo aveva lasciato.
- Vuoi venire a vivere qui, insieme a me, a Milano. Ma a Palermo non saprà mai nessuno di noi, è vero? – Lo sputò, quasi, ma era tutto lì, quel rancore, che gli premeva sul cuore, e se non l’avesse buttato fuori avrebbe finito per inquinare i ricordi bellissimi che aveva di lui, e della notte che avevano appena trascorso insieme. Manfredi non abbassò lo sguardo, ma il suo silenzio e il mutamento nei suoi occhi furono abbastanza eloquenti. Nonostante quello, Federico pensò di cedere. Pensò che vivere a Milano con lui, poter essere veri almeno lì, fosse un compresso accettabile per essere felici, e chi se ne fregava di Palermo.
Poi gli venne in mente Samuele, che da anni lottava contro se stesso e contro la vita per tenersi stretto Riccardo; pensò a sua madre, che per tutta la vita lo avrebbe guardato orgogliosa senza mai sapere la verità, e magari non si sarebbe mai spiegata  perché quel figlio che tanto amava non fosse mai riuscito a trovare l’amore e ad essere felice; pensò a se stesso, e a quanto fosse stato sereno in quelle settimane a Milano. Pensò anche a Dominik, a quel ragazzino che era nato cieco ma non sopportava di essere aiutato da nessuno, che pretendeva sempre l’ultima parola su tutto e che aveva lottato contro il mondo per arrivare a Milano e fare quello che gli riusciva meglio: suonare. E si sentì un verme, perché sentiva di valere meno di lui.
Era come se tutta quella bontà e quell’ostinazione che Dominik metteva nel voler cambiare il mondo, lui la stesse cancellando così, perché stava cedendo ad una cosa che non aveva futuro, stava cedendo alle ragioni che per primo si era imposto diversi mesi prima.
- Io… - parlò poi Manfredi. – Io non sono come te, Fede. Io ti amo, ma non voglio essere fissato dalla gente, non voglio che il mondo rovini quello che prova per te. Perché il mondo non è ancora pronto a quello che siamo, lo capisci? –
Federico sollevò una mano, accarezzandogli il viso.
- Il mondo non è pronto per tante cose, Manfredi. Solo che queste cose non smettono di esserci perché il mondo non le vuole – gli mormorò, con un lieve sorriso. – E io sono felice, perché questa è stata una delle notti più belle della mia vita. E mi ha permesso di capire una cosa: io non ti avevo mai davvero lasciato. Ho permesso alla paura di decidere per me, alla razionalità, a tutto quello che vuoi. Ti ho lasciato, ma non ho mai rotto quel filo che ci univa, perché dentro avevo quella speranza cieca che qualcosa cambiasse, che tu venissi qui con un aereo e una valigia a dirmi che mi ami, che vuoi vivere con me, che saremo felici. Solo che, nel mio sogno, dicevamo la verità a tutti, e a Palermo potevamo camminare mano nella mano, come a Milano. Invece tu sei venuto qui, mi hai detto che mi ami, che vuoi vivere con me, che potremmo essere felici. Ma che non vuoi dire la verità a nessuno. Io adesso posso accettarlo in pace, capisci? Adesso so per certo che le cose non posso cambiare più di cosi, e posso rompere quel filo – gli mormorò.
Sembrava così sensato a dirlo, che si chiese come avesse fatto a non rendersi conto prima di quella speranza struggente che lo consumava, e che adesso non c’era. Anche il cuore sembrava più leggero, e per quanto Manfredi fosse sempre lì, con quello sguardo liquido, adesso era solo Manfredi, il suo migliore amico, la persona più importante della sua vita. Ma non anche in quel senso.  Si sentiva libero.
- Fede, io… - stava per dire, ma lui lo fermò. Gli gettò le braccia al collo, stringendolo con forza e spingendo il suo viso contro la propria spalla, e sentiva un magone, alla gola, che non lo faceva respirare. Perché avrebbe voluto che le cose andassero diversamente, che loro due potessero davvero essere felici. Solo che non era andata,  e non avrebbe potuto far niente per cambiare le cose.
- Sei la persona più importante che ho al mondo, lo sai vero? Non ti lascerò solo, te lo prometto. Ci sarò sempre, scalerò le montagne, prenderò tutti gli aerei del mondo per te. Solo che adesso dobbiamo lasciarci andare, Manfredi. – Lui si staccò, e il nero die suoi occhi era così nero che il verde non c’era davvero più. Aveva le labbra dischiuse, gli occhi lucidi, e se l’avesse visto piangere, si sarebbe spaccato in mille piccoli pezzi. Gli prese il viso tra le mani, schiacciando la fronte contro la sua. – Lasciami – gli mormorò, sulle labbra.
E mentre lui lo lasciava andare, Manfredi si abbandonò sulle gambe, espirando a occhi chiusi. Si prese la testa tra le mani, come se temesse che stesse per rompersi e che potesse perdere tutti i pezzi. Quando aprì gli occhi, dentro c’era un buco nero.
- Sarai sempre la persona che ho amato di più al mondo, lo sai vero? –
- Anche tu – gli rispose. Era come dirsi ti amo, solo per l’ultima volta.
Lo vide andarsene, voltandogli le spalle senza dire altro, e Federico chiuse la porta prima ancora che l’amico potesse voltarsi o anche solo uscire dal portone. Espirò.
Si sentiva libero, con il cuore più leggero, come se gli avessero tolto un peso alla gola. Adesso, pensare a Manfredi era solo bello, e dolce. Non l’avrebbe mai dimenticato, né lasciato. Ma era il momento di fare un passo indietro, e tornare a quando avevano diciassette anni e giocavano insieme alla playstation. A quando erano solo amici.
Richiamato dal rumore, Dominik uscì dalla sua stanza, entrando in salotto. Aveva il capo sollevato, ma non voltato verso di lui, segno che non aveva idea di dove fosse.
Rimase qualche istante così, a guardarlo, con il pigiama blu scuro che gli ricadeva largo sul corpo, i capelli stropicciati e il viso stanco di chi aveva dormito poco. Sembrava così fragile, eppure era la persona più forte e indipendente che avesse mai conosciuto nella vita.
- Dominik? – lo chiamò poi. Lui si riscosse, voltando il capo verso di lui. Aveva un lieve sorriso sulle labbra.
- Che c’è? –
- Grazie –  gli mormorò. Stava sorridendo anche lui.
- Per cosa? –
- Per avermi insegnato tante cose sulla vita. -





Nota al capitolo 13
Capitolo lunghissimo, e un tantino melodrammatico. Dovrei spiegare il perchè.
Intanto, il ragazzo in copertina (Alex Pettyfer) presta il volto a Manfredi.
Sul melodrammatico, colpa mia, ma ogni tanto mi faccio prendere la mano, e poi, tra Manfredi e Federico non poteva che essere così.
Quanto alla lunghezza, la verità è che queato capitolo non sarebbe dovuto esserci, all'inizio, e poi invece c'è stato, perchè era indispensabile.
Perchè, direte voi, ci hai fracassato i maroni per un capitolo intero con Manfredi?
Perchè Federico non lo aveva ancora lasciato veramente. C'era sempre qualcosa, tra loro, ad un unirli, e a bloccare Federico in quello che faceva; quando Samuele l'ha abbracciato, sul divano, Federico non ha pensato solo a Samuele, ma ha pensato a Manfredi e alle volte che non l'ha abbracciato. Quando vede gli occhi chiari di qualcuno, pensa a quanto siano simili a gli occhi di Manfredi.
Ecco, era necessario che Federico rompesse questo "cordone ombelicale" prima di poter vedere realmente la vita.
E, alla fine, c'è un piccolo contributo a Dominik, perchè, anche se per tutto il capitolo non si è visto (c'era a dire il vero un paragrafo su di lui, ma poi ho dovuto tagliarlo perchè stava venendo fuori un papiro egizio), la fine di questo capitolo la dobbiamo all'influenza che la sua figura ha su Federico. Come sono sdolcinata! *___*
Quanto alla lunghezza, poi voglio aggiungere, e qui mi amerete, l'ho fatto così lungo perchè le cose da dire erano queste, ma non volevo frammentarle in due capitoli, e farvi attendere ancora: così, chi ha pensato di uccidermi (che mi perdoni la terribile gaffe che ho fatto!) adesso mi amerà, perchè ho fatto praticamente apparire e sparire Manfredi in un solo capitolo. xD
Adesso vi lascio, vado a studiare (si lo so, di domenica pomeriggio non so dove troverò la forza), e spero che il capitolo vi piaccia.
Nel prossimo, ovviamente, torna Dominik che (piccolo spoiler) non è che abbia gradito tanto questa visitina, eh?
Vi lascio con due righe tratte dal prossimo capitolo:

Dominik prese a mordicchiare il bastoncino del lecca-lecca.
- Pensavo che non saresti tornato. - 
- Perchè non avrei dovuto? - 
- Perchè c'era Manfredi. Magari tornavi a Palermo. Con lui. -
Federico abbassò lo sguardo, e ingraziò il cielo che Dominik non potesse vederlo. Era stato così vicino a restare con Manfredi, solo che, in quel caso, sarebbe stato lui a trasferirsi a Milano.
Federico si chiese come avrebbe reagito Dominik se avesse saputo che si trasferiva con Manfredi e lo lasciava da solo.
Forse non gli sarebbe importato.
- Poi invece ho sentito rumore e ho capito che eri tornato, e che c'era pure Manfredi. Ma non avevate sonno? Perchè vi siete messi a giocare? - 
- A giocare? - Dominik doveva aver sognato qualcosa. Che diamine di gioco avrebbero mai potuto fare alle quattro del mattino.
Quando fissò lo sguardo sull'espressione stizzita di Dominik, perchè si era sentito contraddire da lui, il cuore gli mancò un battito e sentì l'irrefrenabile voglia di sprofondare nel pavimento.
- Si! Stavate saltando sul letto. Mi avete svegliato. - 


Alla prossima,
Esse


 

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Capitolo 15
*** 14th: Ti bacio io ***



Si finisce sempre per dare il bacio del buongiorno alla persona sbagliata.

[modificato, di Arthur Bloch, La legge di Murphy sull'Amore, 1993]



Chapter 14th: Ti bacio io
 
Quel Manfredi non gli piaceva.
Era il ragazzo della torta di mele, ne era sicuro.
E non gli piaceva, perché quando parlava di lui, Federico diventava sempre triste.
Dominik aveva imparato subito a riconoscere la sua voce, e anche il suono del suo respiro.
Aveva una voce stranamente calda, ma con un tono più elevato di quello di Federico:  si era domandato come fosse fisicamente, ma non gli aveva chiesto di toccarlo. Forse, prima o poi, avrebbe domandato a Federico di descriverglielo, o magari, per non renderlo triste, avrebbe fatto finta di niente.
Dalla voce, se lo era immaginato come un principe cattivo, alto e con le spalle larghe, con i capelli lunghi, biondi come i suoi, ma con gli occhi scuri. E come un principe cattivo, doveva avere una spada, con la quale aveva fatto del male a Federico per renderlo così infelice, ma doveva tenerla ben nascosta.
Poteva essere qualsiasi cosa. Forse aveva parlato male di lui e lo aveva offeso, o forse avevano fatto a pugni. Forse lo aveva colpito con una spada vera.
Federico non doveva essere triste, dovevano saperlo tutti, e se quel Manfredi era suo amico doveva saperlo.
Però, non sembrava cattivo. Si chiese cosa avesse fatto per rendere tanto triste Federico.
Lui con gli amici era sempre felice. Con Samuele, e pure con lui.
Manfredi doveva avergli fatto qualcosa.
Strinse le dita intorno a una patatina, infilandola in bocca.
Era stata un’idea di Federico quella di cucinare le patatine fritte, e adesso la casa era piena dell’odore acre e delizioso della frittura.
Federico faceva sempre delle fritture quando era di cattivo umore, o era triste, e lui la poteva quasi respirare la sua tristezza. Profumava come la pioggia, però era più pesante.
E quella domenica Federico era davvero triste. Forse perché Manfredi era appena andato via.
Per tutto il tempo che Manfredi era stato in casa con loro, Dominik aveva evitato di farsi vedere in giro. Era rimasto solo venerdì sera, quando avevano cenato insieme e Federico aveva fatto la piadina perché Manfredi non aveva cenato, anche se loro avevano la pancia piena per via delle brioche. Ed era stato gentile, aveva scelto proprio la piadina perché sapeva che lui, anche con la pancia piena, l’avrebbe mangiata ugualmente.
Era rimasto a tavola ad ascoltare le loro chiacchiere, e poi sulla sua poltrona.
Era stato bello sentire le loro voci mentre parlavano, scherzavano, e ricordavano le vecchie cose che avevano fatto insieme. Era quasi come quando lui e Federico si mettevano la sera sul divano a guardare un film e ascoltava le voci che uscivano dalla televisione per capirci qualcosa. Solo che dal vivo era più bello, perché poteva sentirli respirare, e poteva avvertire i loro profumi fondersi e litigare nell’aria. Quello piccante di Manfredi, quello leggero e muschiato di Federico: lui preferiva quello di Federico, ma l’aria no. Da quei due profumi ne era venuto fuori uno strano, come di una campagna di primo mattino in cui qualcuno avesse portato il bucato appena lavato con un ammorbidente troppo forte, come quelli che usava sempre la nonna.
Quando ci aveva pensato, aveva storto il naso, ricordando quando avevano vissuto un anno da lei, mentre la casa era in ristrutturazione, e aveva nascosto tutti i suoi vestiti sotto il letto perché non voleva che li lavasse lei. Federico se ne era accorto e gli aveva chiesto se andasse tutto bene, e lui aveva risposto solo annuendo, perchè non gli andava di raccontare della nonna davanti a Manfredi: se fossero stati solo lui e Federico si sarebbero fatti due risate, ma con Manfredi lì no.
Poi, quando il film era finito, si era alzato per andare a letto; avrebbe tanto voluto suonare, ed era certo che se glielo avesse chiesto, a Federico avrebbe fatto piacere.
Invece era andato a letto, perchè aveva voluto lasciarli soli per un po’: l’aveva sentita la differenza, quando Manfredi era entrato in quella casa. Aveva portato dentro una strana magia che si era condensata tutta sopra Federico, e lui aveva preso a ridere, a sorridere, a scherzare, a parlare di sé.
Non era stato geloso di quella nuvola di magia: era come quando suonava e si creava la sua nuvola, Federico non ne era certo geloso. Lui e Federico possedevano una nuvola tutta per loro nella quale si trovavano la sera, quando guardavano la televisione insieme.
Adesso poteva capirlo perché Manfredi avesse detto una bugia sulla torta di mele: se era servito a rendere Federico così  felice di vederlo, aveva fatto bene. Anche se era una cosa stupida. Era proprio vero che quando le persone si vogliono bene fanno delle cose stupide.
Le aveva fatte anche lui, per la mamma, come quella volta che aveva rubato un disegno a un compagno di classe e glielo aveva mostrato dicendo che fosse suo, perché così avrebbe pensato che anche lui era bravo a disegnare come gli altri bambini, anche se non ci vedeva, e la mamma avrebbe smesso di piangere sempre di nascosto.
La mamma, quando entrava in casa, portava una nuvola di magia, come quella che aveva portato Manfredi; e lui non voleva stare lì a interferire, perché Federico se la meritava tutta.
Però, quando si era chiuso la porta alle spalle per andare a letto, aveva pensato che, qualsiasi cosa stupida avesse fatto lui con Federico, non sarebbe mai stato come Manfredi.
- Dom? Ti sei incantato? –
- Eh? – si riscosse. Si rese conto di essere rimasto con una patatina sospesa tra le dita.
- La vuoi la salsa o no? –
- No – rispose subito, perché a lui le patatine piacevano senza niente, con il sale che si attaccava tutto alle dita. La pancia gli stava scoppiando, perché Federico gli aveva fatto un piatto enorme, ma era troppo goloso per rinunciarci. Quando aveva vissuto con Olga, la donna che badava a lui, le patatine non poteva mangiarle quasi mai, perché lei cucinava sempre verdure e strane zuppe che non erano minimamente paragonabili a quelle che preparava Federico. Poi, nei due mesi che aveva vissuto da solo, quando finalmente a maggio aveva compiuto diciotto anni, non era stato in grado di prepararsele, con il rischio di bruciarsi con l’olio bollente.
Federico invece lo accontentava in tutto, e quel giorno aveva detto che, cucinando le patatine, poteva farsi perdonare per non esserci stato tutto il fine settimana e per non aver preparato nulla di buono, che di solito la domenica faceva sempre un primo più elaborato.
Federico non doveva scusarsi per quello. C’era Manfredi, e in fondo era normale che stesse fuori tutto il giorno. E lui a casa insieme a Manfredi non sarebbe certo voluto restare.
Ora, però, erano rimasti di nuovo da soli, e stavano mangiando le patatine. Anche se Federico continuava ad essere triste.
- A me va la maionese – mormorò, forse tanto per dire qualcosa che per informarlo realmente.
Dominik si limitò ad annuire, infilandosi in bocca un’altra patatina. Quel silenzio era opprimente, anche se Federico aveva acceso la televisione su uno di quei programmi di intrattenimento che facevano la domenica. Di solito non la guardavano mai la tv la domenica a pranzo, perché ne approfittavano per parlare: Federico gli raccontava cosa aveva fatto a lavoro il giorno precedente, perché il sabato lavorava quasi sempre e poi restava al locale fino a tardi, e lui gli raccontava dei suoi progressi con il pianoforte, e gli faceva sempre sentire qualcosa, di solito di Chopin, perché Federico diceva che era dolce.
- Toh, fanno un film troppo divertente! Ti va di vederlo? – gli chiese poi, accompagnato dal rumore della plastica del telecomando che urtava il legno del tavolo. Annuì di nuovo, perché in fondo non gli importava tanto cosa avessero visto, l’importante era starsene sul divano.
Però c’era una domanda che gli stava rodendo lo stomaco.
- Federico, tu vuoi bene a Manfredi? – gli chiese poi. Il ragazzo non rispose subito: lo sentì poggiare la forchetta sul tavolo, espirare, e poi prendersi qualche altro istante. Alla fine gli rispose.
- Si, moltissimo – confessò, e Dominik sentì di nuovo quella stretta al cuore.
- Anche se ti rende triste? –
- Chi te l’ha detto questo? –
- Si sente. Lo sentirebbero tutti. Come fai a volere bene a qualcuno che ti rende triste? – gli chiese ancora, insistendo. Era seriamente curioso, perché non lo capiva.
Non riusciva a spiegarsi perché Federico si fosse ostinato ad ospitare Manfredi quando lo faceva stare male, del perché gli volesse bene quando lui lo faceva soffrire, del perché lo considerasse un suo amico. Anche questa volta, Federico si prese qualche minuto, tanto che Dominik riuscì a finire le sue patatine e a bere un intero bicchiere d’acqua. Poi, in attesa, rimase seduto con la schiena dritta e le mani poggiate sul tavolo. Per questo, probabilmente, sussultò sorpreso quando sentì il calore della pelle di Federico sulla mano: stava percorrendo il profilo delle sue nocche, e poi delle dita, con il polpastrello di un dito. Aveva la mano un po’ fredda.
- Vedi, i rapporti tra le persone sono complessi. Non c’è soltanto il voler bene o il voler male, ma ci sono le sfumature. Ci sono certi rapporti in cui ci si vuole bene da tanto tempo, e così tanto che non ti importa se poi l’altra persona fa qualcosa di sbagliato, perché gli vuoi così bene che pensi che tu potresti aiutarlo, in ogni caso. E’ un po’ come la musica, possiamo dire. Le note sono solo sette, però pensa a tutta la varietà di sinfonie che hanno scritto Chopin, Strauss o Mozart. –
Il paragone era buono, su quello aveva ragione; con sole sette note, tutti i grandi artisti erano riusciti a esprimere le proprie emozioni, e pure lui, quando sentiva il mondo costruirsi nella testa, usava quelle sette note e costruiva tante città tutte diverse, e tanti visi, e tante spiagge e boschi. – E poi non è vero che mi rende triste. Siamo amici da tanto tempo, gli voglio bene. Tutti possiamo sbagliare, Dom – aggiunse poi. Dominik, però, era convinto che, con le persone, anche ammesso che fosse così, doveva pur esserci un limite, e per renderlo così triste, Manfredi doveva averlo superato.
- Che ti ha fatto Manfredi? – soffiò poi. Federico staccò il dito dalla sua pelle, rimanendo inizialmente in silenzio.
- Niente. Vediamo la vita in modo diverso. –
- In che senso? –
- Basta, Dom. Non ne voglio parlare – esplose poi Federico, e Dominik si zittì all’istante.
Lo sentì alzarsi da tavola, prendendo i piatti, e non osò fiatare quando lo sentì prendere anche il suo, che di solito, quando lo faceva, si arrabbiava sempre.  Si portò le ginocchia al petto, raggomitolandosi sulla sedia.  Avrebbe voluto dirglielo che non era giusto, che gli aveva solo fatto una domanda, che voleva capire questa complessità di rapporti umani che descriveva, perché non ne aveva mai visti così da vicino. Cercava solo di capire, perché quello che Federico si portava dietro era come un gomitolo di lana tutto ingarbugliato del quale non riusciva a trovare il capo: si era legato a Samuele, a Manfredi, forse un po’ anche a lui, però non si capiva mai cosa lo legasse veramente a loro, se qualcuno fosse più amico di altri.  Lui e Federico facevano insieme tante cose stupide, ma lui non sarebbe mai stato come Manfredi.  Solo che non voleva farlo arrabbiare, allora rimase in silenzio. Poi la voce di Federico lo raggiunse ovattata, più dolce, accompagnata da una sua mano sulla spalla. – Vieni a vedere la tv? –
Si alzò in silenzio, dirigendosi verso il divano, e si lasciò cadere all’angolo, con le ginocchia contro il petto. Sentì i cuscini sprofondare sotto il peso del corpo di Federico accanto al suo, e poi le voci che venivano dalla tv uscire più forte: Federico aveva aumentato il volume. Non aveva idea di che film fosse, e non aveva intenzione di chiederglielo. Gli piaceva solo stare lì, in silenzio con lui, prima che se ne andasse per andare a lavorare.
Poi, a sorpresa, sentì la mano di Federico sulla sommità del suo ginocchio, e sobbalzò, ritraendosi di scatto. La mano di Federico scivolò fino al divano.
- Te la sei presa? – gli chiese, con un tono evidentemente ferito, perché evidentemente doveva aver frainteso la velocità con la quale si era allontanato. Non si era scostato per quel contatto, perché fosse arrabbiato con lui o cose del genere; era semplicemente sorpreso, perché tutto quel contatto fisico gli faceva paura, non ci era proprio abituato. Federico non si era mai comportato così, non gli aveva mai sfiorato la mano quando rispondeva a qualche sua domanda, non gli aveva mai toccato la spalla, o il ginocchio, in quel modo, ed era strano. Era come se la partenza di Manfredi avesse abbattuto una specie di muro che li separava, e lui non si sentiva ancora pronto ad averlo tanto vicino da soffocare il suo spazio.
Scosse il capo, in silenzio, e udì Federico sospirare.
In televisione un tizio dalla voce calda aveva appena fatto una battuta, che si era conclusa con una serie di rumori che non era riuscito a capire. Federico era sempre seduto tranquillo, ogni tanto tamburellava con dita sul bracciolo, provocando un rumore soffocato udibile solo nelle scene silenziose del film.
Dominik affondò il viso sulle ginocchia, stringendole ulteriormente contro il petto. Si sentiva in colpa, con una strana sensazione di vortice dentro lo stomaco. Non voleva che Federico si arrabbiasse, ma quel lieve contatto lo aveva spaventato; dall’altro lato, voleva che lo toccasse ancora, lì sul ginocchio, perché la prima volta che l’aveva fatto si era spaventato tanto da non essersi concentrato sulle sensazioni. Si ricordava di aver provato una sensazione di freddo, quando la mano di Federico era scivolata via.
Allora si spostò, di poco forse, ma gli parvero chilometri. Fece scivolare le gambe in avanti, oltre il divano, ed era ormai troppo alto perché restassero penzoloni; i piedi nudi toccarono il pavimento freddo, mentre la mano scivolò lungo il tessuto ruvido del divano, spostandosi a destra, alla ricerca del corpo di Federico. Lo sentì appena , vicino la mano, e allora sollevò le gambe e le incrociò, lasciando che il capo si poggiasse sulla spalla di Federico,  come aveva fatto una sera, prima che Manfredi venisse a sconvolgere i loro equilibri. Il corpo di Federico era sempre caldo, come se fosse più caldo del suo, eppure, quando gli poggiò una mano sul polso scoperto, la pelle parve della stessa temperatura della sua. Federico, sul momento, rimase fermo, senza far nulla, e a lui bastava così. Il movimento della sua spalla lo informava che il suo respiro fosse regolare, e che qualche scena, di quel film, lo facesse ridere. Quando Federico rideva, sorrideva anche lui.
Gli venne in mente Chopin, e la dolcezza struggente del suo notturno.
Era come il profumo di Federico, dolce e fresco allo stesso tempo.
- Io e Manfredi siamo amici da quando abbiamo quattro anni e ci siamo contesi un vecchio dinosauro tra i banchi dell’asilo – iniziò poi a raccontare. Dominik rimase immobile, eppure avrebbe voluto dirgli che non ce n’era bisogno, che non era arrabbiato, che se non voleva raccontarglielo poteva pur restare una cosa tra lui e Manfredi. Invece rimase in silenzio ad ascoltare, perché c’era una strana curiosità che lo stava consumando dal momento in cui Manfredi aveva messo piede in casa loro e Federico aveva trattenuto il fiato. Aveva capito subito che, nonostante fosse amico di Federico, non era un amico normale, come Samuele. La voce calda di Federico continuò a parlare, e sotto l’orecchio Dominik avvertì il fremito del suo corpo. – Siamo cresciuti insieme, sempre nella stessa classe a scuola, sempre con lo stesso gruppo di amici. Abbiamo affrontato tutto insieme: i primi anni di liceo, la morte di sua nonna, alla quale teneva da morire, le notti fuori con la scuola, che sembravano tanto strane a noi ragazzini di quindici anni, l’esame di maturità, i mondiali del 2006 e i giorni di scuola persi per scappare a Mondello. Anche le ragazze. Mi ricordo quando Manfredi, durante il liceo, stava con una ragazza molto bella, ma altrettanto scassacazzi. Si chiamava Bianca, e mi odiava perché le portavo sempre via Manfredi, come se fosse stato un giocattolo. – Federico fece una pausa, durante la quale la sua risata si spense, ma quando parlò non era più triste come prima. – E io gli voglio bene, Dominik, e penso che sia la persona più buona, meravigliosa, del mondo. Lo diresti anche tu se lo conoscessi meglio. Solo che credo che si sia aggrappato troppo a me, e io a lui. E se io adesso ho imparato a cavarmela da solo, lui ha bisogno di un po’ più di tempo, e rifiuteresti mai l’aiuto ad un amico? –
- A te no – rispose prontamente lui, e Federico sorrise.
- Quindi, quando ti dico che vediamo la vita in modo diverso, non posso spiegartelo in quale senso, è così e basta. Anche io e te vediamo la vita diversamente. Mi piacerebbe vederla come la vedi tu. –
- Perché? – gli domandò incuriosito.
- Perché nel tuo mondo i rapporti sono semplici, le decisioni nette. Sai quello che vuoi. E credo che da quando vivo con te tu mi stia influenzando – gli confessò, e stava ridendo, di una risata leggera che erano giorni che non gliele sentiva fare una. Dominik sorrise, perché quella risata alleggeriva anche lui.
- Perché siamo amici, e mia sorella dice che gli amici si influenzano sempre un po’. –
- Io non ti sto influenzando proprio! – ribatté quello, quasi scocciato, ma dal tono della sua voce Dominik capì che non lo era davvero. Allora si strinse nelle spalle, perché era difficile da spiegare, però anche tanto semplice, a farci attenzioni.
- Invece si. Mi hai fatto andare al Duomo, e a teatro. Mi hai fatto incontrare Samuele.  Mi fai venire voglia, la sera, di restare sul divano con te davanti alla televisione invece di suonare – gli ricordò, e avrebbe voluto che lui capisse quando fossero tragiche quelle rivelazioni.
Non c’era mai stato nulla al mondo in grado di superare la voglia di suonare, anche quando la mamma voleva portarlo a pattinare con le sue sorelle, lui diceva di no, perché se aveva voglia di suonare voleva restare da solo con il suo pianoforte. E non gli importava di conoscere nessuno, e non voleva uscire senza la mamma. Federico lo aveva influenzato ben più di quanto avesse fatto Dominik con lui. Anzi, sentiva di non averlo influenzato proprio, perché lui era così diverso, e già così buono, che non ce n’era motivo: però non glielo disse, perché Federico aveva sollevato il braccio sul quale lui era appoggiato e glielo aveva passato dietro le spalle, come aveva fatto quella sera.
- Detto così, mi fai sembrare un supereroe – borbottò, con una mezza risata.
Dominik sorrise.
Lo stava immaginando con indosso un mantello e una maschera con le orecchie a punta, come quelle del modellino di Batman che aveva da bambino. 

§§§

 
Lo sfrigolare della carne nel forno era un rumore regolare, che ispirava quasi tranquillità.
Dalla televisione giungeva la voce ovattata di un inviato che su canale cinque scopriva una fattoria dove gli animali venivano trattati come bestie.
Federico tamburellò sul piano della cucina.
Il rumore regolare dei denti di Dominik gli provocava la pelle d’oca, come quando qualcuno strofinava i denti sulle posate. Stava finendo di mangiare il lecca lecca alla cola che gli aveva portato dal locale, chè Roberto aveva avuto l’idea di offrirne uno come omaggio ai clienti per ogni ordine. A furia di vedere uomini che leccavano avidamente quei bastoncini, Federico era tornato a casa con la maglietta zuppa di sudore freddo. Gli dispiaceva solo che Samuele non avesse potuto assistere alla scena: doveva essere già tornato dal suo weekend con Riccardo, a quell’ora, avrebbe potuto chiamarlo.
Certo che, anche a casa, quando aveva visto le labbra carnose di Dominik chiudersi intorno a quella pallina piena di zucchero, Federico aveva sentito una voragine aprirsi nello stomaco.
Perché diamine doveva fargli quell’effetto? Aveva pensato che fosse l’astinenza, all’inizio, ma si era reso conto che, cavolo, aveva fatto sesso fino alla sera prima, non poteva essere astinenza!
Solo che, più fissava quelle labbra, più la voragine si allargava. E non bastava concentrarsi sul resto del corpo di Dominik, che a vederlo in quel modo era la cosa più lontana al mondo dal corpo di un bambino che aveva sempre immaginato di vedere.
Fermo lì in quel modo, in cucina con lui, con una mano poggiata sull’isola e il peso del corpo tutto su quel braccio, le labbra che mordicchiavano il bastoncino, era l’immagine più erotica che si fosse mai trovato davanti.
Si schiarì la voce tossicchiando, fingendo di dover controllare il forno, e fu felice che Dominik non potesse vederlo mentre se ne stava a fissarlo come un idiota.
- Cosa cucini? –
- Carne – borbottò, e una smorfia si disegnò sul viso del ragazzino. Era assurdo come desiderasse sempre mangiare dolci e fritture e storcesse il naso davanti a qualsiasi cosa. – E’ buona, Dom. L’ho impanata e ci ho messo sopra il formaggio e la salsa. Non puoi mangiare sempre schifezze! –
- Ieri ho mangiato schifezze. –
- Perché io non c’ero – si affrettò a ricordargli. Si sentiva ancora in colpa, ma Dominik  non glielo aveva fatto pesare. Si era limitato a scrollare le spalle e imbottirsi di patatine fritte.
Dominik prese a mordicchiare di nuovo il bastoncino del lecca-lecca.
- Pensavo che non saresti tornato. - 
- Perchè non avrei dovuto? - 
- Perchè c'era Manfredi. Magari tornavi a Palermo. Con lui. -
Federico abbassò lo sguardo, e ringraziò il cielo che Dominik non potesse vederlo. Era stato così vicino a restare con Manfredi, solo che, in quel caso, sarebbe stato lui a trasferirsi a Milano.
Federico si chiese come avrebbe reagito Dominik se avesse saputo che si trasferiva con Manfredi e lo lasciava da solo.
Forse non gli sarebbe importato.
- Poi invece ho sentito rumore e ho capito che eri tornato, e che c'era pure Manfredi. Ma non avevate sonno? Perchè vi siete messi a giocare? - 
- A giocare? - Dominik doveva aver sognato qualcosa. Che diamine di gioco avrebbero mai potuto fare alle quattro del mattino.
Quando fissò lo sguardo sull'espressione stizzita di Dominik, perchè si era sentito contraddire da lui, il cuore gli mancò un battito e sentì l'irrefrenabile voglia di sprofondare nel pavimento.
- Si! Stavate saltando sul letto. Mi avete svegliato. – 
Adesso voleva sul serio sprofondare nel pavimento, o scoppiare a ridere, in alternativa.
Dominik pensava che loro stessero giocando. Avevano fatto selvaggiamente sesso tutta la notte, e lui credeva che avessero giocato. Se lo avesse raccontato a qualcuno, non gli avrebbero creduto, gli avrebbero detto di star esagerando. Trattenne una risata, perché il divertimento vinceva sulla vergogna: ma, diamine, se avesse riso Dominik lo avrebbe ucciso con una sola parola tagliente.
Per un attimo, pensò addirittura di dirgli la verità; era così ingenuo, quel ragazzino, che non riusciva a credere che potesse arrabbiarsi, che potesse giudicarlo male perché era gay. Sarebbe stato anche più facile condividere la casa con lui se avesse saputo la verità.
Solo che poi gli guardò per caso la mano, mentre si sfiorava appena il collo, dove una ciocca di capelli gli stava procurando fastidio, e pensò che non fosse ancora il momento di lanciargli quella zavorra sulle spalle, non quando erano ancora in equilibrio così precario. Si scandalizzava persino se lo sfiorava per sbaglio, cosa avrebbe pensato se avesse saputo che era gay? Avrebbe iniziato a credere che lo avesse fatto apposta, che volesse avvicinarlo per approfittarsi di lui, ed era così testardo che non avrebbe neppure cambiato idea se gli avesse spiegato la verità, che non voleva fargli assolutamente nulla. Forse sarebbe rimasto anche schifato non appena fosse arrivato a comprendere la verità, che lui e Manfredi avevano fatto l’amore nella stanza accanto a quella in cui lui dormiva.
Così si schiacciò il cuore, soffocandone le proteste, e rifuggendo anche il terribile pensiero che, suo malgrado, si stava comportando esattamente come aveva sempre rimproverato di fare a Manfredi.
- Oh, scusa. Stavamo…ci stavamo divertendo. Non volevo svegliarti. - farfugliò. Insomma, era la cosa più simile alla verità che gli era venuta in mente. Dominik fece una smorfia, e finalmente lasciò andare quel bastoncino, poggiandolo sul ripiano dell’isola al centro della cucina.
- Non ti preoccupare,  a volte capita anche a casa, perché i muri sono un po’ sottili. Mia sorella Aneta dice che sono la mamma e il papà che fanno l’amore. Secondo me ha ragione lei. –
Voleva morire, magari soffocato con quel bastoncino che Dominik aveva abbandonato. Come gli veniva in mente di parlare in quel modo?
Probabilmente, però, era più scioccato per aver sentito le parole che fanno l’amore uscire dalle sue labbra. Va bene che Dominik  aveva diciotto anni e certe cose doveva pur saperle, ma non si aspettava che parlasse in quel modo. E se era arrivato a quella conclusione con i suoi genitori, perché non aveva pensato che fosse lo stesso per lui e Manfredi?
Rimase senza parole per qualche istante, e quando trovò il coraggio di parlare la mente di Dominik poteva anche aver raggiunto altri lidi.
- E va beh, è una cosa normale no? – Dominik non rispose, perché la sua mente, come sospettava, era già andata oltre.
Invece, mentre Federico si riempiva un bicchiere d’acqua per rinfrescarsi la gola, lo sorprese di nuovo.
- Tu l’hai mai fatto l’amore, Federico? –
Federico ebbe l’istinto di sputare l’acqua nel lavello della cucina, ma riuscì a trattenersi, soffocando la tosse che l’aveva preso. Dominik lo stava fissando serio, come se gli avesse appena chiesto che tempo ci sarebbe stato l’indomani. Aveva incrociato le braccia sul petto, in attesa di una risposta, e Federico ebbe la consapevolezza che non avrebbe ceduto tanto presto.
Quando gli prendevano quei cinque minuti, e si intestardiva su qualcosa, sembrava un allievo indisponente. Eppure lo faceva spesso, si metteva sul divano, o seduto a tavola, e iniziava a fargli domande su qualcosa che aveva sentito dire in tv la sera prima, o su qualche dettaglio che gli aveva raccontato e del quale gli sfuggiva la risposta. Altre volte, si interrogava sui particolari delle relazioni tra le persone, altre volte sul passato, sulla scuola, sulle amicizie.
Lo stordiva, quasi, con tutte quelle domande, e Federico capiva quanto fosse stato veramente solo quel ragazzino. Non aveva frequentato una scuola superiore come tutti, ma se ne era andato a Milano a suonare il pianoforte; si era perso le gite con i compagni di classe, le mattinate a scuola a fare gli scemi, i pomeriggi a giocare alla playstation, le goliardate e le idiozie. Si era perso molte cose, e sembrava non essersene reso conto, e adesso che ne aveva la possibilità riempiva lui di domande per recuperare il tempo perso.
Evidentemente, anche il sesso doveva essere un dubbio che non aveva ancora risolto. D’altronde, quando guardavano la tv, a volte c’erano delle scene silenziose, e gli chiedeva cosa stessero facendo; allora era costretto a dirgli la verità, che i protagonisti erano a letto insieme, ma era sempre finita lì. Federico sospettava che quel ragazzino non avesse idea di come si facesse sesso con una donna; un porno, sicuramente, non lo aveva mai potuto vedere, ovviamente. Di amici con cui scoprire i dettagli non ne aveva avuti, e neppure di ragazzine con cui fare le prime esperienze.
Forse, tutto quello che sapeva lo doveva a lui, o magari a qualcosa letta in giro o sentita in tv.
Ed era strano come gli stesse venendo in mente proprio in quel momento.
- Federico – lo chiamò di nuovo, temendo che non l’avesse ascoltato, ma l’aveva sentito eccome.
- Si. L’ho fatto l’amore  -   confessò. Dominik rimase in silenzio qualche istante, e si augurò che non gli avrebbe chiesto con chi: certo, avrebbe potuto citare le prime esperienze con Giulia, a sedici anni, piuttosto che le notti di passione con Manfredi.  Dominik, però, non fece altre domande, anche se la sua espressione era quella di chi non aveva ancora chiaro qualcosa; difatti, dopo ancora pochi secondi, riprese il suo bastoncino, infilandolo in bocca e tirando con i denti. Federico si aggrappò alla cucina, cercando un argomento di conversazione, fino a finire, come un imbecille, a fare l’unica domanda che non avrebbe dovuto fare. -  Tu l’hai mai fatto? –
Dominik scosse il capo, e gli occhi di Federico seguirono il bastoncino che si muoveva in aria.
- No. Non ho mai nemmeno baciato nessuno – soffiò.
Ti bacio io.
Federico si maledì mentalmente; era il momento della giornata in cui iniziava a dire una marea di cazzate, ma se non altro il suo cervello era stato abbastanza intelligente da evitare di farglielo dire ad alta voce. Come gli veniva in mente una cosa del genere? Quel ragazzino, come minimo, l’avrebbe fulminato.
Solo che era curioso. Dominik non aveva mai baciato nessuno, e lui si chiedeva da una vita se le sue labbra fossero morbide come pensava, se avessero un sapore dolce, persino se fosse uno che baciava bene, con un talento naturale, o una frana. La curiosità gli stava rodendo il fegato, e quel diavolo di bastoncino se lo stava rigirando così tanto da fargli mancare il fiato nei polmoni.
- E non sei curioso? –
- No. Non mi importa – gli rispose, facendo spallucce.
Era assurdo, a dir poco. Aveva diciotto anni, doveva avere gli ormoni a mille. Come faceva a non importargli? Per cose come quella non era necessaria la vista, era una cosa che nasceva da dentro.
- Non ti importa come non ti importava di avere degli amici? – lo provocò, riprendendo un vecchio discorso che risaliva ai primi tempi in cui si erano conosciuti, quando gli aveva chiesto se avesse degli amici con cui uscire e si era sentito rispondere che non gli importava.
Federico fece un passo avanti verso di lui, fino a trovarglisi così vicino da accorgersi che aveva qualche lentiggine sul naso, appena qualcuna, poco visibile. Profumava dannatamente di pesca.
Dominik fece per arretrare, ma l’isola, dietro di lui, lo bloccò. Teneva la testa alta, ed era tremendamente divertente, perché fingeva di essere tanto forte ma in realtà se la stava facendo sotto: aveva la mandibola contratta, le mani strette sul bordo del ripiano, respirava piano, e aveva le guance terribilmente rosse.
- Non mi importa di avere degli amici. –
- E io cosa sono allora? –
- Tu sei diverso. Sei al di là di quello. –
Federico annuì, come se lui potesse vederlo.
Poi, con uno scatto così veloce che quasi non lo vide, Dominik alzò una mano e gliela poggiò sul collo, nella fossa delimitata dalla clavicola, dove la giugulare pulsava così forte che poteva sentirla persino lui. Una leggera pressione di quella mano sul petto: era fredda, rispetto al suo corpo, era grande, con le dita lunghe. Dominik fece più forza,  artigliandogli la pelle, e lo spinse indietro di un passo. Fu come sentirsi schiaffeggiare.
Solo che non si mosse, e la sentì ancora, quella pelle contro la propria, il freddo contro il caldo, il bianco latteo di Dominik  a contrasto con il tono più scuro della sua pelle.
La mano di Dominik salì fino alla mandibola, poi sullo zigomo, sul naso, intorno agli occhi. Quando il suo dito indice gli percorse il labbro, Federico dischiuse le labbra per baciarlo, o forse morderlo, e strapparlo da quel suo mondo da sognatore per riportarlo sulla terra.
Invece, lasciò che il suo dito superasse le labbra, scendesse verso il collo, fino a quando la sua mano non si staccò del tutto da lui.
Il timer del forno lo informò con un trillo che la loro cena era pronta.
Dominik sobbalzò, scostandosi di lato. Poi sorrise.
- Venerdì la maestra mi ha assegnato un nuovo esercizio che mi riesce bene. Volevo fartelo sentire, ma ieri non c’eri. Posso farlo prima di cena? –
- Se vuoi – riuscì solo a borbottare.
Dominik saettò verso il pianoforte, poggiando subito le mani sui tasti per iniziare a suonare, solo che lui non lo stava ascoltando.
Lui era al di là di quello. Era un amico, e poi non lo era. Era incomprensibile quel ragazzino.
Era un angelo, e poi non lo era.
Era freddo, e poi diventava inspiegabilmente caldo, con quel modo che aveva di percorrere tutto con le dita e di mordersi le labbra quando qualcosa lo irritava.
Di sicuro, però, in quella stanza faceva troppo, troppo caldo.






Nota al capitolo 14:
Capitolo in anticipo colossale, e vado di corsa perchè so che state aspettando prima di spegnere i vostri pc.
Quindi non perso altro tempo, e dico solo che avevo promesso un cambiamento della storia che, impercettibile, ma c'è.
Non vi aspettavate mica che andassero a letto insieme, vero?
Però, c'è più fisicità, più pensieri, e i discorsi di Dominik si fanno sempre più sconclusionati.
Ho letto che lo spoiler era troppo "ingenuo" e non ho potuto rispondere lì, o vi avrei praticamente anticipato tutto questo capitolo. Però spero che si sia capito: Dminik non sa niente sul sesso. Molti di noi, ho ragione di credere, quello che sanno sul sesso lo devono alla tv, che ci bombarda in continuazione, e alle chiacchiere con amici e amiche, forse anche i giornaletti tipo Cioè e simili. Ebbene, a Dominik nessuno lo ha mai spiegato. Quel poco che sa, lo ha sentito in tv, o da sua sorella, che a 14 non è che ne sappia poi molto. Di amici con cui parlarne non ne ha mai avuti, di ragazze idem. A 13 anni si è trasferito a Milano e si chiuso in conservatorio. Sa che le persone fanno sesso, ma non ne conosce la dinamica, perchè in tv non l'ha mai vista. E il fatto che, è essendo Federico il suo unico amico, le cose che sa sull'amicizia le sta imparando tutte adesso, e, oltretutto, non è che è semplice ingenuità. E' che lui, al fatto che Federico e Manfredi potessero aver fatto sesso, non ci pensa. Potrebbe pensare qualsiasi cosa, ma non quello, perchè crede che Manfredi sia solo un amico per Federico, come lui, e lui sesso con Federico non lo farebbe di certo.
E' tremendamente ingenuo, ahimè. Ma Federico, d'altronde, che ci sta a fare?
Vi lascio, e appuntamento a presto!

P.S. Io scrivo questa storia perché mi fa sentire bene. Perché mi fa immaginare, fa sognare me e chi la legge, e anche perché mi fa sentire bene rispetto al mondo che mi circonda.
Perché io, davvero, certe cose non posso leggerle.
E ne ho lette tante cose brutte.
Lo so che vi scoccerà, però mi piacerebbe se deste un’occhiata qui: http://www.facebook.com/photo.php?fbid=443991268998996&set=a.421902861207837.98160.142586469139479&type=1&theater
Questa foto, quando l’ho vista, mi ha spiazzata nella sua semplicità.
Dentro c’è tutto quello che io vedo nell’amore, e attenzione, ho detto solo amore, non importa tra chi. Amore e basta. Questo è quell’amore forte che voglio per Dominik e Federico, così forte da farti scoppiare il cuore.
E la poesia che c’è di fianco, che uno dei due ha scritto come dedica, mi ha lasciato dentro una sensazione dolcissima.
Poi ho letto alcuni commenti, di fianco, e mi sono letteralmente cascate le braccia.
Questa, ecco, è la gente che odio io. E’ quella che, se me la trovassi davanti, le sputerei in un occhio. Ma per fortuna sono solo gocce nell’oceano di altri commenti dolcissimi.
E io spero davvero che, un giorno, il mondo sia pronto a togliere dal dizionario la parola “diverso”.

 

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Capitolo 16
*** 15th: In the edge of forever ***


Attraversare il mondo in consapevole leggerezza.

Giovanni SorianoFinché c'è vita non c'è speranza, 2010




Chapter 15: In the edge of forever
 
- Che palle! -
Federico lanciò la matita sul tavolo, lasciandola cadere sul pavimento con un rumore simile a un tintinnio. La televisione accesa con il volume a minimo era una buona compagnia.
Dicembre era iniziato con la prima pubblicità in stile natalizio, una di quelle che mandavano in onda da quasi cinquant’anni, e che avrebbero fracassato i maroni a tutti fino al 31 gennaio, ad andar bene.
Era iniziato con la solitudine che si sentiva dentro, come se gli mancasse un pezzo di cuore, un pezzo di sé; aveva lasciato andare Manfredi, ed era stato come sentirsi sfuggire tra le mani la sua mano sudata e non poterla trattenere. Poi aveva scoperto che, in realtà, Manfredi era sempre lì, sotto la pelle, solo che era diverso. Non era più l’amico con cui avere un rapporto morboso, da distruggere e da cui farsi distruggere, l’amore che gli aveva strappato il cuore.
Era un pezzo di sé che teneva conservato sotto la pelle, e aveva iniziato a non pensarci più, come quando ti vesti al mattino e dopo qualche ora ti dimentichi di averlo fatto, perché sentirsi i vestiti addosso è una cosa naturale. Ecco, anche con Manfredi era così. Era naturale averlo sotto la pelle.
Solo che non lo aveva più chiamato, e lui aveva fatto lo stesso.
Ci voleva ancora un po’, forse, per consolidare quella nuova consapevolezza.
Intanto i giorni passavano, il freddo si faceva pungente e la città si illuminava delle prime luci natalizie di cui si addobbavano i negozi. Qualcuno, addirittura, aspettava la neve. E gli esami crescevano.
Federico fissò i caratteri minuti del libro con una smorfia. Non aveva ancora deciso cosa fare. Nelle ultime settimane, era stato tormentato dall’idea di lasciare l’università e restare a vivere e lavorare a Milano, in quel locale per tutta la vita, un po’ come aveva fatto Samuele, che per anni non aveva fatto che girare da un bar all’altro fino a quando non aveva conosciuto Roberto e aveva iniziato a lavorare per lui.
Solo che, dentro, aveva il terrore di sentirsi inadeguato come gli anni precedenti: dopo la maturità, i suoi l’avevano assillato per due anni con l’idea di frequentare l’università come aveva fatto Manfredi, che della facoltà di Economia aveva sempre parlato.
Durante gli anni di scuola, Federico aveva accarezzato l’idea di studiare architettura, ma, quando si era diplomato, l’idea era scemata nella mente. Aveva trascorso anni a far nulla, se non qualche lavoretto ogni tanto,  fino a quando il mondo non era crollato insieme a Manfredi.
Allora, l’idea di frequentare l’università e di avere un’ottima scusa per lasciare Palermo aveva preso corpo: si era iscritto a scienze politiche perché gli piaceva anche, ben sapendo che trovare lavoro una volta laureato sarebbe stato quasi impossibile.
Solo che adesso che c’era dentro, che avrebbe dovuto frequentare le lezioni e preparare gli esami, si stava rendendo conto che non faceva proprio per lui. Alla sessione d’esame mancavano due mesi, e lui non aveva aperto libro. Quel pomeriggio, in cui aveva il giorno libero e avrebbe potuto utilizzarlo interamente per studiare, non aveva fatto praticamente nulla: si era svegliato presto, pochi minuti dopo aver sentito Dominik chiudersi in bagno per prepararsi per la giornata.
Aveva  scaldato il latte per entrambi e imburrato del pane, e quando il suo coinquilino era andato via per la sua giornata in conservatorio, ne aveva approfittato per dedicarsi alle pulizie, che quando c’era Dominik in giro non ne aveva mai voglia. Aveva lavato il pavimento, spolverato dappertutto, e si era messo persino a stirare qualche vestito, che la montagna di roba aveva raggiunto quasi l’altezza del divano. Quando aveva finito, l’ora di pranzo era passata da un pezzo: aveva mandato giù un uovo e un’insalata, e si era sistemato al tavolo del soggiorno, con l’intento di studiare.
Non era andata molto bene.
Sorrise. Ok, aveva fatto schifo.
Aveva letto si e no tre pagine, delle quali non ricordava niente, negli intervalli tra un caffè, una mezz’oretta su Facebook e qualche telefonata con gli amici.
In particolare, lo aveva chiamato Lorenzo, il suo collega del locale, per invitarlo a uscire con degli amici suoi quel sabato sera, dopo la fine del turno al locale. Aveva accettato subito.
Su Facebook ci aveva passato quasi un’ora, praticamente a far nulla.
Guardando i propri amici, Federico si era reso conto di conosceva anche delle persone che non erano gay, al di là degli amici che aveva a Palermo.
Solo che non ci pensava mai.
Erano i ragazzi dell’università, e nonostante li vedesse pochissimo, con alcuni si trovava anche bene. Proprio quel pomeriggio, su Facebook, lo aveva contattato Marco, un ragazzo che parlava continuamente e faceva sempre polemica. Conoscendolo bene non era risultato antipatico come alla prima impressione. Marco gli aveva chiesto se avesse notizie per un esame a gennaio, e alla fine lo aveva invitato a studiare in biblioteca con lui e altri due tizi, il pomeriggio successivo.
Federico aveva dovuto rifiutare, perché il giorno dopo avrebbe lavorato, ma pensava che studiare con qualcuno non sarebbe stato poi tanto male.
Quella giornata era stata un disastro.
E oramai, che l’orologio segnava quasi le sei e venti, sembrava troppo tardi per poter recuperare. Chiuse il libro, stiracchiandosi con la schiena contro la spalliera della sedia e le braccia in alto.
Poi si passò le mani sul viso, stropicciandosi gli occhi.
Si stava annoiando da morire. Aumentò il volume della tv: MTV stava trasmettendo una canzone dei Take That niente male. Fuori pioveva non troppo forte, una sorta di pioggerellina impalpabile e fastidiosa.
Poi, come la scena di uno dei miglioro film di Natale, la porta si aprì, e nella penombra della stanza comparve la figura alta e sottile di Dominik. Sembrava venuto fuori da uno di quegli spot pubblicitari sulla cioccolata, o sulle medicine per l’influenza: chiuse la porta con un colpo del braccio, agitando il capo per scrollare le goccioline dai capelli. Non aveva aperto l’ombrello, nonostante dovesse averlo avuto in borsa; se avesse guardato fuori dalla finestra, Federico avrebbe visto allontanarsi la figura della ragazza che andava a prenderlo e lo accompagnava tutti i giorni.
- Federico? Sei a casa? –
- Si – gli rispose, asciutto.
Gli piaceva sempre guardarlo quando era carico di quella noncuranza e si muoveva così, come il meraviglioso personaggio di una favola. Lo vide sfilarsi la borsa a tracolla e il cappotto, e appoggiarlo all’ingresso, dopo aver tastato l’appendiabiti con la mano sinistra. La stessa mano, poi, salì tra i capelli, a togliere delle ciocche umide dalla fronte. Sotto il cappotto, Dominik portava un paio di pantaloni marroni e un maglione beige; gli donavano, ma non quanto il blu. Quando si vestiva di blu, Dominik sembrava davvero uscito da un catalogo di moda. Quel beige sembrava spegnere un po’ la sua luce.
Con passo sicuro e la testa alta, Dominik si mosse verso la cucina, prendendo il suo bicchiere dal solito posto sopra il frigorifero e riempiendolo d’acqua fino all’orlo: la trangugiò con foga, come se non bevesse da giorni. Mentre beveva, con il capo sollevato verso l’alto, il pomo d’Adamo scattava ad ogni sorso. Poi, con noncuranza, lasciò il bicchiere nel lavello, voltandosi verso il salotto, dove aveva intuito che si trovasse lui. Federico rimase seduto al suo posto, accavallando le gambe.
- Che facevi? – gli chiese.
- Ho provato un po’ a studiare, ma niente di che. – Dominik fece una smorfia, inclinando il capo da un lato.
- Non ti piace tanto studiare. Ti piace andare a lavoro, però – osservò.  Federico sorrise, divertito: quel ragazzino era qualcosa di stranissimo. Poi, come se una nuvola fosse passata all’improvviso ad allontanare quei pensieri, si voltò verso gli sportelli della cucina. – Ho fame – soffiò.
- In quello sportello, a destra, ci sono delle merendine al cioccolato – gli disse subito, mentre le dita di Dominik scorrevano lungo l’orlo dello sportello.
Federico seguì i profili di quelle dita che risalivano a toccare la plastica, provocando quel rumore di plastica che gli ricordava tanto le domeniche d’infanzia dalla nonna; poi, con una cura straordinaria, quasi stesse maneggiando cristallo, Dominik tirò fuori una merendina, dopo avergli chiesto se ne voleva anche lui. Federico rifiutò, stiracchiando la schiena sulla sedia: Quando riportò lo sguardo sul ragazzo, quello stava lasciando la cucina per raggiungere la sua poltrona.
Quando gli passò accanto, lasciò dietro di sé una scia che profumava di pioggia.
Lo vide sedersi sulla poltrona, infastidito perché le scarpe che indossava gli impedivano di incrociare le gambe. Portò la merendina alla bocca, e più che dalle sue labbra, l’attenzione di Federico venne attirata dalle sue dita: stringevano quella morbidezza al cioccolato come se fosse un bicchiere di cristallo. Erano straordinariamente lunghe, pallide. Sembravano quei particolari di marmo finemente lavorate delle statue dei grandi scultori del quattrocento.
- Com’è andata oggi? – gli chiese poi, distogliendo lo sguardo per riportarlo sulla tv.
Sarebbe potuto restare lì a fissarlo per ore, meglio di un film: più che altro, era come guardare un documentario di Piero Angela ambientato in un museo pieno di statue quasi magiche.
Dominik finì di mangiare, accartocciando la bustina di plastica tra le dita.
- La maestra mi ha assegnato un nuovo esercizio, più difficile degli altri. Lei ha detto che è più difficile, a me sembra solo un po’ più ricco degli altri. Mi ha detto di portarlo perfetto per lunedì. Vuole che lo suono tutto il fine settimana. Domani invece suoneremo i vecchi esercizi, e poi Chopin, per la verifica prima di Natale. –
- Verifica? –
- Si. C’è una verifica, poi iniziano le vacanze di Natale. Chi ha un’insufficienza nella verifica, a Gennaio dovrà fare gli esami di recupero, e se non li passa non può andare avanti. Io non li ho mai fatti –  gli spiegò, tutto compiaciuto, con un leggero sorriso su quelle labbra carnose.
- Quindi avete le vacanze anche voi, come a scuola? – Lo vide annuire.
- Quasi. A Gennaio ci sono gli esami. Torniamo a studiare il 21 di Gennaio. Io torno da Praga sempre prima, però, perché la maestra mi permette di suonare con lei qualche giorno. Tu non hai le vacanze? –
- Ah, sapessi, le mie sono lunghissime! Non inizio prima di marzo, perché ci sono gli esami. –
- Quindi vai giù in Sicilia per tutto questo tempo? –
C’era qualcosa di stranamente dolce e implorante nel tono di voce che aveva usato, che lo fece sorridere. Pensò che, se non fosse stato cieco, lo avrebbe guardato come un cucciolo quando vedeva il padrone uscire di casa.
- Non posso permettermelo. Ho chiesto le ferie al mio capo, per tornare a casa, ma a inizio gennaio dovrò tornare a lavoro. E poi mi piace stare qui, in Sicilia mi annoierei. –
- Allora staremo insieme, quando torno anche io da Praga – osservò Dominik, e questa volta sorrise.
Probabilmente non si accorse nemmeno di averlo fatto, perché in un secondo di alzò, percorrendo il salotto per gettare la carta che aveva conservato nel cestino, per poi andare a sistemarsi dietro il suo pianoforte. Ci passò le dita sopra con uno strano amore viscerale, come se lo stesse contemplando, ma non suono. Federico pensò, stupidamente, che quel pianoforte avrebbe potuto essere una specie di passaggio spazio-temporale, l’unica cosa in grado di tenere Dominik ancorato alla terra e  impedirgli di tornare nel suo mondo di fate.
Poi Dominik fece una smorfia, premendo un tasto con il dito indice, come se fosse infastidito da qualcosa. Si passò una mano sugli occhi, stropicciandoli.
Sembrava quasi che una mosca lo stesse infastidendo girandogli intorno al naso.
Ci mise un attimo, quel ragazzino,  a poggiare di nuovo le dita sul pianoforte.
- Che c’è? – gli venne istintivo chiedergli. Dominik fece un’altra smorfia.
- Sono i puntini neri. Sono fastidiosi – si lamentò.
Gli venne da sorridere, pensando che, quelli, potevano essere i brutti pensieri. Se la ricordava ancora bene quella volta in cui gli aveva parlato di sé, di quello che vedeva ogni tanto stagliarsi nel buio al quale era abituato. Per Dominik, i puntini neri erano i brutti pensieri, mentre la luce, che ogni tanto vedeva, erano gli angeli.
Gli sarebbe piaciuto sapere realmente il perché, a cosa fossero dovuti quei cambiamenti di luminosità che percepiva, ma avrebbe significato togliere a Dominik la sua leggerezza. Altre volte, prima di dormire, si chiedeva se, con tutti i progressi della medicina, non sarebbe stato possibile fare qualcosa per lui, per restituirgli la vista: pensare a Dominik, oramai, significava vederlo così, cieco. Ma meritava anche lui di vedere il mondo.
- Te la posso fare una domanda, Dom? –  Nello stesso istante in cui glielo chiese, se ne era già pentito: avrebbe significato superare un altro limite invalicabile, una linea immaginaria che nessuno dei due era ancora stato in grado di superare. Ma Dominik aveva già sollevato il capo, curioso,  e non poteva più tirarsi indietro, o l’avrebbe martellato di domande fino a farlo confessare.
- Quale? –
- Sei mai stato da un medico? Per…per vedere se…cioè, per chiedere.. – Stava farfugliando come un idiota. Si sentiva, più o meno, un idiota. Dominik inclinò il capo da un lato, interrompendolo.
- Per poter vedere? – sussurrò. Federico soffiò un si, e quando Dominik rimase in silenzio per diversi istanti si convinse di averlo offeso. la curiosità, però, lo stava divorando. Contrariamente a quanto pensava, Dominik  rispose con un tono di voce stranamente calmo, come se non si stesse nemmeno parlando di lui.
- La mamma mi ha portato da molti dottori. Sapessi quanti ne ho conosciuti da bambino! Qualcuno me lo ricordo ancora, perché erano gentili, e a volte mi davano la cioccolata o una caramella all’arancia. Siamo stati a Praga, a Berlino, anche a Londra, una volta, con i soldi che la mamma aveva messo da parte. Mi hanno fatto prendere milioni di medicine, una più brutta dell’altra. Una volta, avevo sette anni, un dottore mi parlò di intervento, senza nemmeno toccarmi. Poi, nemmeno pochi mesi dopo, un altro dottore ci disse che fare un intervento sarebbe stato complicato, e forse non avrebbe avuto nemmeno tanto successo, e che sui bambini si usavano solo le medicine. Forse, disse,quando avrà trent’anni si potrà tentare, ma ho poche speranze signora.  – Imitò un tono di voce pomposo che non gli apparteneva, e alla fine sorrise. – E’ stato più o meno in quel periodo che ho iniziato a scoprire la musica. Mi è sempre piaciuta, me ne stavo ore e ore davanti alla radio, e pregavo sempre papà di mettere uno dei suoi cd nel giradischi. A papà è sempre piaciuto Paganini. Allora ho pregato la mamma di farmi prendere lezioni. – Sorrise di nuovo, accarezzando i tasti del pianoforte. – E’ stato così che ho riacquistato la vista. Quindi, non c’è nessun bisogno di andare da un dottore per avere una cosa che già ho. –
- Hai detto che non ci vedi da quando sei nato? – Lo vide annuire, con ancora sul viso quell’espressione sognante che aveva sempre quando stava vicino al pianoforte.
- Si. La mamma ha avuto una malattia, così mi hanno detto. Le hanno fatto prendere delle medicine, e hanno funzionato. Sarei potuto nascere con un ritardo mentale, o paralizzato, e invece sono soltanto cieco.  –
Sono soltanto cieco. Chiunque, al mondo, avrebbe chiesto a Dio perché una simile disgrazia fosse toccata a lui. Dominik, invece, sorrideva come se fosse appena uscito miracolato da un incidente mortale. Anche il modo in cui aveva detto non c’è nessun bisogno di andare da un dottore per avere una cosa che già ho gli aveva lasciato addosso un’amarezza che sentiva persino sulla lingua.
Lui non se lo meritava. Meritava di vedere il mondo, di vedere il mare che gli piaceva tanto, la lucentezza del pianoforte che suonava, i colori che arricchiva di mille sfumature. Invece non aveva mai potuto vederlo.
Federico, prima di conoscere lui, non si era mai soffermato a pensare a quanto la vista fosse importante. Era una di quelle cose che aveva dato sempre per scontate.
Solo adesso, a furia di guardare Dominik, si rendeva conto di quanto fosse difficile per lui anche fare le cose più semplici, come scaldare un bicchiere di latte o farsi la doccia.
E non era giusto così.
- Lo so cosa stai pensando, sai? Che parlo così perché voglio fare quello coraggioso, perché non so quanto sia bello il mondo. Io non sono coraggioso. Mi sento a mio agio quando conosco un posto, perché ho la sua immagine nella testa, ed è come vederci. Stare fuori, dove non conosco niente, mi mette a disagio. E’ per questo che non voglio mai uscire. E poi…io ho paura di vedere, Federico. Perché la musica è così bella e così dolce, così fuori dal mondo, che se avessi nella mente i disegni del mondo, ho paura che non sarebbe più così bella. E’ come quando le persone leggono un libro dal quale poi fanno un film: se vedono prima il film, finiscono per farsi influenzare dai visi degli attori. Se invece prima leggono il libro, si creano le loro immagini nella mente. Ecco, la musica è bella perché è fuori dal mondo, e io sono così fortunato da poterla vedere per quella che è, senza subire quello che gli occhi mi fanno vedere. Se potessi vedere, e perdessi la bellezza della musica così com’è…penso che non lo sopporterei – gli spiegò. Federico faceva fatica a stargli dietro, anche quando finì di parlare e sorrise, ma un sorriso così strano e così perso che non riuscì a spiegarselo. Sembrava che stesse sorridendo a qualcosa che aveva visto in quel suo buio, qualcosa che allo stesso tempo lo spaventata. – Ogni tanto penso che mi piacerebbe vedere. Come quando siamo andati a Milano. Avrei tanto voluto vedere come te, ed esserti di compagnia, e vederti ridere quando alla Galleria hai fatto il giro sul toro, perché l’ho sentito che ridevi. Poi però penso che il prezzo sarebbe troppo alto. E va bene così. Ho la musica, la cosa più importante. E per quella non importa vedere o no. –
Era la prima volta che lo sentiva parlare tanto, gli girava quasi la testa. Però gli piaceva, perché la voce di Dominik era un po’ soffice e un po’ spigolosa, come olio profumato che accarezzava la nuca. E anche il modo in cui vedeva il mondo, per quanto non lo comprendesse, lo lasciava vuoto, come dopo un’onda che gli aveva spazzato tutto da dentro.
Se avesse sentito parlare in quel modo chiunque altro, magari in tv, avrebbe pensato che fosse uno di quei moralisti e benpensanti, di quelli che lo irritavano fino alle viscere. Detto da Dominik, però, assumeva un suono diverso: quando parlava era come se fosse un ragazzino perso in un bosco immenso, con una paura matta del buio, che aspettava il mattino per tirare fuori tutto il coraggio. Il sole, per Dominik, sorgeva quando iniziava a suonare: quando smetteva e calava di nuovo la notte, tornava cieco, vittima di quel buio che lo attanagliava. Ed era impossibile pensarlo a vederlo così, ma ce l’aveva scritto nelle labbra dischiuse, nel modo nervoso con cui seguiva il profilo dei tasti del pianoforte, in quel modo soffice che aveva di inclinare il capo come se cercasse un braccio, da qualche parte, pronto a proteggerlo.
- Federico! -  lo richiamò poi all’improvviso, facendolo sobbalzare.
Era in piedi, a pochi passi da lei, le braccia abbandonate lungo i fianchi.
- Cosa? –
- Sta piovendo più forte – soffiò, come se fosse stata la scoperta più sensazionale del mondo. Ed era vero, lo scrosciare della pioggia si era fatto intenso e filtrava nell’appartamento nonostante le finestre chiuse. Era un suono morbido come quello di una ninna nanna. E Dominik sorrideva.
- Quando piove si mangia la cioccolata! – insistette ancora.
Federico scoppiò a ridere. Quel ragazzino era ingenuo sì, ma sapeva essere furbo come un serial killer.
- Era tutta una scusa per farmi preparare la cioccolata? Dominik, sei uno stronzo! Hai parlato per mezz’ora per fottermi così? – lo richiamò a voce alta, ma stava ridendo, e si sentiva addosso un’euforia strana che salì nel petto mentre Dominik faceva qualche passo avanti, con una mezza risata sul volto.
- Allora la prepari? – gli disse di nuovo, e aveva in viso quell’espressione furbetta che tirava sempre fuori quando lo prendeva in giro. Lo stava facendo apposta, a pizzicarlo così, perché quel discorso ormai finito gli aveva lasciato addosso l’amarezza e aveva voglia di ridere.
- Ma guarda tu questo tiranno! -
Lo prese alle spalle a tradimento, solleticandogli un fianco, e il solletico Dominik lo soffriva eccome. Lo capì dal modo in cui il suo viso si aprì in una risata e il suo corpo si piegò: ma non era infastidito, perché se lo fosse stato si sarebbe scostato in avanti, lontano da lui. Invece Dominik si inclinò indietro, quasi accovacciandosi, e la sua schiena gli aderì al petto con un sussulto, mentre ancora rideva. Quando gli poggiò una mano sul polso, Federico lo pizzicò ancora, spingendolo in avanti fino a quando finirono sul divano.
Ci fu un momento, mentre Dominik cadeva indietro, in cui a Federico mancò il fiato.
Sul viso di Dominik era ancora impressa una risata, e si stava fondendo con lo smarrimento del trovarsi in bilico, con il rischio di cadere e farsi male, e la fiducia con la quale gli si aggrappò alle spalle, come consapevole che non l’avrebbe fatto cadere. E durò solo un istante, oltre il quale la sua schiena toccò il divano e un’altra risata gli illuminò il volto.
Non era come il solletico ad un bambino, quel gesto leggero in cui una risata ti scioglieva dentro una leggerezza strana. Era più la sensazione di avere addosso qualcosa di caldo, come una goccia di cera bollente che scendeva lungo la spina dorsale e che parve quasi ustionarlo quando, per sbaglio, la mano finì sotto il maglione del ragazzo, a contatto con la sua pelle nuda.
Anche quella durò solo un istante, vinta dalla leggerezza che la sua risata gli stava stendendo sulla schiena come una coperta calda.
 
§§§
 
 
Federico gli aveva fatto il solletico.
E poi aveva preparato la cioccolata.
Mentre affondava il viso nella tazza, Dominik si sentiva stranamente vittorioso. E leggero.
- Perché ridi? –
Federico si accorgeva sempre di tutto. A volte si chiedeva se avesse gli occhi anche dietro la testa, o se stesse sempre a fissarlo. Forse, invece, semplicemente se ne accorgeva e basta. Era un po’ come quando lo sentiva rientrare a casa dal lavoro e dal modo in cui respirava capiva se la giornata era andata bene o no. Era tutta una questione di quello che c’era dentro.
- Perché la cioccolata è buona –
- E tu sei un piccolo tiranno. –
Federico aveva preparato la cioccolata anche per sé, e quando gli aveva fatto notare che non avrebbe dovuto berla, si era giustificando, con una risata, dicendo che fargli il solletico gli aveva  provocato un calo di zuccheri. Quando Federico era stato così vicino, Dominik si era accorto di quanto non fosse poi così più grande di lui: era solo un po’ più alto, ma neppure di tanto. Solo che tutte le volte che pensava a lui, Dominik lo immaginava come un ragazzo grande e grosso, come Samuele, che avrebbe potuto coprirlo solo con un braccio. Invece, facendosi il solletico, gli aveva tenuto testa bene.
Sorrise di nuovo, ma questa volta Federico non disse nulla.
Dominik stese le gambe sul divano, fino a incontrare con le dita la gamba di Federico: piegò le ginocchia, infilando i piedi nudi sotto la gamba di Federico, per cercare un po’ di calore.
La tv era spenta, perché Federico aveva voluto accendere la radio: c’era una bella canzone che gli ricordava il rumore della pioggia. Fuori non pioveva più.
Federico stava leggendo una rivista che aveva comprato il giorno prima: gli aveva detto che pubblicizzavano le automobili, che lui voleva comprarne una se l’avesse trovata a buon prezzo, anche se probabilmente avrebbe portato la sua macchina da Palermo, se non fosse servita a sua madre. Sarebbe stato bello se Federico avesse avuto la macchina: sarebbero potuti andare in giro per Milano, magari anche con Samuele, e si sarebbe sentito più sicuro dentro un’automobile, piuttosto che per la strada.
Sorseggiò ancora cioccolata, passandosi la lingua sulle labbra per raccogliere i residui. Era così buona la cioccolata calda! Federico espirò, e il suo corpo si mosse: vicino alla gamba, Dominik sentì il fresco della rivista.
- Non hai trovato niente? –
- Nessuna occasione buona. Porterò la mia, mi sa, tanto mia madre non la usa mai. – Sembrava stanco. Dominik si mise dritto, per poggiare la tazza vuota sul mobiletto davanti al divano, ma Federico lo intercettò. - Faccio io, dai, sei così comodo tu. Basta che non ti arrabbi, eh!  - lo rimproverò quasi.
Dominik lo lasciò fare; sfiorò le sue dita calde, poi si tirò indietro, poggiando la schiena contro il bracciolo e incrociando le braccia sul petto. Federico, un po’, aveva ragione, ogni tanto si arrabbiava, quando voleva aiutarlo: tutti volevano prestargli aiuto sempre perché credevano che lui non fosse in grado di fare le cose. All’inizio aveva creduto che anche Federico fosse così, ma era bastato poco per ricredersi. Federico era gentile e basta, non lo faceva per pena.
Avrebbe potuto fare qualsiasi cosa, e non si sarebbe arrabbiato mai con lui.
Anche perché Federico faceva la cioccolata.
- Io mi arrabbio con quelli a cui faccio pena. Come quelli dell’Istituto dei Ciechi – borbottò.
- Quelli di che cosa? –
- L’Istituto dei Ciechi. E’ qui a Milano. Quando sono arrivato, e la mamma si è informata per cercare una casa e qualcuno che badasse a me, le hanno consigliato quel posto. E’ squallido.
Trattano le persone….da ciechi. E io non lo sopporto. Io so fare tutte cose da solo: so leggere il Braille, so camminare da solo, non voglio bastoni o cani. Pretendevano di insegnarmi a fare queste cose, perché secondo loro, anche se non l’hanno detto, non sarei stato in grado di diventare bravo. Io ero già bravo quando sono arrivato qui, o non mi avrebbero mai preso al Conservatorio. E ora sono bravissimo. Alla faccia loro. –
Federico rise, passandogli una mano sul ginocchio in una lieve carezza mista a un pizzicotto.
- Tu potresti pure scalare una montagna, se volessi, Dom. –
Dominik sorrise, portandosi le ginocchia al petto.
I piedi, adesso totalmente scoperti, furono presi da un soffio di freddo.
Si portò le mani sulle guance.
Era strano quanto fossero calde in confronto alle punte dei piedi intirizzite.
La mano di Federico gli sfiorò un piede, delicato come una carezza a un fiore raro.  Essere toccato così da Federico lo metteva sempre a disagio, ma non si scostava mai, perché non voleva che ci restasse male: era un gesto semplice per lui, forse intimo, come faceva con Manfredi, o con Samuele, e non c’era niente di male. Solo che, tutte le volte che Federico lo toccava, la musica che lui stava costruendo nella testa andava in confusione, come quando un soffio di vento sollevava un tappeto di foglie d’autunno. Ci metteva qualche minuto a catturarla di nuovo, perché quella andava subito a Chopin, che gli ricordava tanto Federico.
Era contento, però, di portare Chopin alla verifica, di lì a due settimane.
- Perché non metti un paio di calze invece di morire di freddo? – gli chiese poi Federico. Dominik si strinse nelle spalle.
- Sono fastidiose, non riesco a tenerle. Ma che ora è, Federico? –
- Le sette. Hai fame? – Scosse il capo, poi lo inclinò, poggiandolo sulla spalliera del divano; era morbida e calda, soffice. – Ti vanno le bruschette stasera? –
- Sono quelle di pane con il pomodoro? –
- Si possono fare in tanti modi, anche con il prosciutto, o con il formaggio. –
- Le voglio! – Lo stomaco gli brontolava già, nonostante fosse ancora pieno di cioccolata. Le cose che cucinava Federico erano sempre così buone che le avrebbe mangiate all’infinito.
Lo sentì ridere, e la sua risata sovrastò appena la musica dance che proveniva dalla radio. Ecco, quella musica non gli piaceva tanto, ma Federico pareva conoscerla, perché la sua mano tamburellava a ritmo sul divano.
- Ah, Dom, sabato sera esco con Lorenzo, un mio collega, e degli amici suoi. Andiamo a mangiare una pizza e poi in discoteca. Ci vieni? –
Anche quello non gli piaceva.
Era contento di essere invitato da Federico, ma con i suoi amici, in pizzeria e in discoteca, non voleva proprio andarci. Non gli piaceva, e non gli importava.
Era come aveva detto a Federico quando lo aveva accusato di non curarsi di avere degli amici. Era vero, non gli importava, perché quella gente, al giorno d’oggi, era così lontana da quello che cercava lui, da non riuscire ad avvicinarla: pensavano alla discoteca, alle ragazze, all’alcol, e non conoscevano Chopin, Mozart, Strauss. Federico era un po’ come loro, ma allo stesso tempo era diverso: era come cera malleabile che si plasmava a tutto, che conosceva tutto, ed era così buono che sarebbe stato perfetto in tutti i contesti. Forse per questo faceva amicizia così presto.
A lui invece non importava tanto, e aver permesso a Federico tutta quella confidenza era già abbastanza strano.
- Non mi va, Federico. Devo suonare – sibilò. Federico, che di solito accettava i rifiuti in silenzio, come se fossero ormai una prassi impossibile da cambiare, quella volta parlò.
- Non facciamo troppo tardi, puoi suonare tutto il pomeriggio. Dai, la pizza ti piace! –
- Non c’è un limite di tempo per il pianoforte! – Perché Federico non lo capiva? Perché c’era quel costante contrasto tra le volte che lo sentiva così vicino da pensare di esserci cresciuto insieme, e quando, invece, si rendeva conto di essere lontano da lui come la terra dal sole?
- Oh, non ti incazzare! – lo riprese quello, e Dominik sentì le parole soffocare in gola. Non gli piaceva sentirlo urlare, eppure sentiva anche l’irritazione crescergli dentro, perché non voleva essere sgridato come un bambino da lui.
- Io suono quando voglio. E con gli amici tuoi non ci esco. –
Federico sbuffò, e Dominik si rintanò nel suo angolo, il più lontano possibile da lui. Era sempre così quando si arrabbiava, voleva stargli lontano, anche solo per pochi minuti, per ritrovare se stesso e la musica. Quando Federico parlò, però, la sua voce era suadente come la cioccolata calda.
- A me non piace uscire e lasciarti  a casa da solo – gli confessò. Fu un po’ come quando di notte gli capitava di trovarsi in quello stato di dormiveglia e sognare di cadere improvvisamente nel vuoto, senza avere nulla a cui aggrapparsi. La voce di Federico gli fece quell’effetto; perché era sempre buono, a modo suo, e allo stesso tempo lo faceva arrabbiare perché non capiva. Non capiva che per lui la solitudine non era mai vera, perché dentro c’era sempre la musica, e che restare a casa da solo gli piaceva, perché la musica era più vera così. Non capiva che non gli importava fare le cose che piacevano a lui, e che non doveva dispiacersi. Stese di nuovo le gambe, cercando le sue con i piedi. Le incontrò dove le aveva lasciate.
- Non ti devi preoccupare. A me piace stare da solo. –
- E’ brutto lasciarti qua, mentre io vado fuori a divertirmi. –
- Invece no. A me non piacciono le stesse cose che piacciono a te. A me piace restare a casa a suonare, aspettando che tu torni per farmi raccontare le cose che hai visto del mondo, e raccontare a te quelle che ho visto io. E se tu mi porti in giro con i tuoi amici, a me non piace. Proverei le stesse cose che proveresti tu se io uscissi e ti lasciassi a casa da solo. Sono…siamo due cose diverse, lo capisci? –
Era difficile da spiegare, eppure Federico sembrava aver capito, perché soffiò un prima di sistemarsi meglio sul divano. Poi diede un colpetto con la mano sulla sua gamba.
- Allora, le facciamo queste bruschette o no? –
Dominik si alzò all’istante sorridendo.
- Però ti aiuto! -






(1) Il titolo è tratto dalla canzone The Floor, dei Take That, la stessa che Federico ascolta all'inizio del capitolo. 
Nota al capitolo 15:
Capitolo postato, e sono molto, molto soddisfatta.
A parte che sono di corsa,  e spero che EFP non si impalli proprio ora che devo aggiornare io, come ogni lunedì sera!
Non ho molto da dire su questo capitolo, o almeno non me lo ricordo!xD
E' un capitolo che vuole essere leggero, come dice l'aforisma sotto l'immagine, perchè un po' di leggerezza ce la meritiamo!
E' nato per studiare un po' di più i nostri personaggi, quello che pensano, che vivono, e per sapere qualche cosa in più su Dominik.
E come avrete letto, è iniziato dicembre, e si avvicinano le vacanze, la prima volta in cui Federico e Dominik staranno lontani da quando si conoscono. 
Adesso scappo, è ora di cena, io ho ancora la febbre, ma risponderò alle recensioni se non stasera, sicuramente domani nel primo pomeriggio!
Ma io vi amo, ve l'ho sempre detto, e ve l'ho scritto anche nella mia pagina autore, dove ci sono i miei improperi. xD
Vi invito a visitarla, però, perchè, sotto alla presentazione e alle varie informazioni sulle mie storie, c'è lo spazio sulle note, dove scrivo quando sono attesi gli aggiornamenti! Questa volta non l'ho scritto perchè il capitolo è venuto fuori tutto insieme, stamattina non c'era neppure un rigo, ma di solito comunque lo scrivo, soprattutto quando prevedo ritardi!
Date un'occhiata lì, nel caso in cui sparisco per troppo tempo.
Ora un bacio a tutti, mille ringraziamenti per voi, che vi amo, e a prestissimo!

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Capitolo 17
*** 16th: Prendi me, scegli me, ama me ***



Ho mentito, non sono fuori dal nostro rapporto, anzi ci sono talmente dentro che sono qui a supplicarti.
Ma io ti aspetto, cerco di farmi piacere i tuoi gusti musicali, ti lascio l'ultimo pezzo di torta, potrei saltare dalla montagna più alta se me lo chiedessi perciò... prendi me, scegli me, ama me.
Grey’s Anatomy, 2x05

 

Chapter 16th: “Prendi me, scegli me, ama me”
 
Federico infilò le mani in tasca. Stava congelando. Tutte le volte che respirava, gli si formava una nuvoletta di vapore davanti al viso.
- Oh, comunque grazie del passaggio, e di essere venuto.  –
- Detto così sembra che tu mi abbia obbligato! –
Samuele rise. Era straordinario come quell’uomo che aveva di fianco non sentisse affatto freddo, quando non c’erano più di cinque gradi. Se ne stava a passeggiare accanto a lui con indosso un giubbotto aperto sul petto e una sciarpa leggera annodata intorno al collo.
Stava sorridendo. Ultimamente sorrideva sempre, da quando era tornato dal suo viaggio con Riccardo. Quando si era presentato a lavoro, il primo giorno, era così di buonumore da aver offerto da bere alle dodici persone che se ne stavano al bancone, tutto a sue spese.
Tutto perché Riccardo era stato meraviglioso, romantico, passionale e mi ha promesso che la prossima estate ci faremo un viaggio io e lui di almeno tre settimane, a Dubai! Parole sue.
Federico non aveva avuto il coraggio di dirgli che, a dire il vero, non ci credesse molto a quelle promesse campate in aria, e d’altronde, poco dopo, era stato lo stesso Samuele a raffreddare il proprio entusiasmo, borbottando che, come tutti gli anni, alla fine avrebbe trovato una scusa e non se ne sarebbe fatto niente.
Quel pomeriggio gli aveva chiesto di accompagnarlo a fare spese da qualche parte perché avrebbe dovuto comprare un regalo: non aveva avuto il coraggio di confessargli che fosse per Manfredi, che aveva fatto il compleanno e lui non gli aveva preso niente. A Samuele non aveva raccontato niente nemmeno della visita a sorpresa che gli aveva fatto il suo migliore amico ed ex fidanzato: in realtà, forse un po’ si vergognava, perché a Samuele non sarebbe andato giù. Non aveva fatto che complimentarsi con lui, adularlo, per il coraggio che aveva mostrato nella relazione con Manfredi: temeva che, se gli avesse detto di averlo ospitato, di averci fatto l’amore, Samuele non l’avrebbe più considerato come prima. Era infantile, ma Samuele era un uomo rispetto a lui, e al suo giudizio teneva eccome.
- Allora, cos’è che vuoi comprare di preciso? – lo richiamò poi, facendolo sobbalzare.
Si rese conto, poi, in quel momento, di non averne la benchè minima idea. Voleva prendergli qualcosa di bello, che gli piacesse, ma che fosse anche significativo e non banale, e allo stesso tempo non troppo impegnativo perché in fondo, ormai, non stavano più insieme.
Probabilmente non esisteva qualcosa che rispecchiasse tutte quelle caratteristiche. Si strinse nelle spalle, continuando a camminare.
- Mh, non lo so ancora, non ho deciso. Qualcosa di particolare, direi. –
- E per chi sarebbe questo regalo? –
- Un amico – disse solo, simulando un’indifferenza che non possedeva. Si concentrò sulle vetrine: negozi di abbigliamento, gioiellerie, negozi per la casa. Era una via di Milano che non aveva mai visitato, quella, ma Samuele gli aveva assicurato che ci fossero parecchi negozi nei quali comprare belle cose, e che lui ci aveva fatto tanti regali.
- Mh, capisco. Quindi non ha niente a che fare con un certo figaccione con cui ho saputo che ti sei presentato qualche sabato fa al locale? E che ho saputo chiamarsi Manfredi? –  Oh. Oh. Se avesse potuto si sarebbe sotterrato. Non aveva il coraggio di alzare la testa verso Samuele, perché sentiva già il suo sguardo bruciante sul collo. Era così stranamente viva quella sensazione che sentiva l’impulso fisico di portarsi la mano sulla pelle per scacciarla.– Che cazzo stai facendo, Federico? -  
Non era arrabbiato, almeno non pareva. Quando Federico alzò il viso, incrociando i suoi occhi, vi trovò dentro una strana curiosità mista a qualcosa di simile all’apprensione.
Che cazzo stava facendo? Era buffo dirlo adesso, perché erano giorni che non pensava più a quella sera con Manfredi, e adesso Samuele tornava a sbatterglielo in faccia. Per quale motivo avesse fatto passare tanto tempo poi, sarebbe rimasto sempre un mistero. Erano trascorse due settimane dalla visita di Manfredi, e trovava difficile pensare che gli avessero raccontato della loro serata al locale soltanto adesso; eppure lui lo tirava fuori in quel momento, approfittando della situazione.
Si mise stranamente sulla difensiva, stringendo le mani nelle tasche.
- Non saltare a conclusioni affrettate. Non l’ho invitato io. Si è presentato a casa mia con il trolley di venerdì sera. Cosa avrei dovuto fare, cacciarlo? –  Samuele fece una smorfia. – E poi è mio amico, mi ha fatto piacere rivederlo! Ed è stato anche chiarificatore! – continuò, con una strana ostinazione, come se volesse convincersi della propria buona fede.  Il giudizio di Samuele lo metteva in soggezione: era preso dalla strana smania di sentirsi dire da lui che aveva fatto bene, di sentirsi apprezzare.
Continuarono a camminare in silenzio per qualche minuto, osservando le vetrine: Samuele si era chiuso il giubbotto per riparare il petto dai soffi di vento. Forse avrebbe presto iniziato a piovere. Federico le vetrine non le stava nemmeno guardando, non si sentiva più dell’umore, e non aveva nessuna idea su cosa avrebbe comprato.
- Dominik che ha detto? -  gli chiese poi il compagno, prendendolo alla sprovvista. Tra tutte le cose che avrebbe potuto chiedergli, gli era venuto in mente proprio Dominik. Si mise sulla difensiva, fissandolo di sbieco.
- Cosa avrebbe dovuto dire, scusa? Per lui Manfredi è un mio amico, ed è anche casa mia, posso ospitare chi voglio. –
- Oh, Fede, quel ragazzo è troppo sensibile per farsi sfuggire certe cose. Perché non glielo dici e basta, che sei gay? –  Federico si strinse nelle spalle. Quella era una domanda alla quale avrebbe tanto voluto rispondere, solo che non lo sapeva neppure lui.
Dominik non avrebbe reagito male alla notizia, se lo sentiva, solo che gli mancava il coraggio di affrontarlo: forse temeva che avrebbe preso a fare troppe domande, che lo avrebbe giudicato, che si sarebbe messo a studiarlo. Forse non ne aveva il coraggio e basta, perché era vigliacco.
- Non voglio che la prenda male. Mi sopporta a malapena così. –
- Sei incoerente, però – gli mormorò l’amico. - Hai detto che hai lasciato Manfredi perché lui non voleva dire la verità ai suoi genitori, e adesso che si presenta a casa tua come il migliore degli innamorati, lo cacci. –
- Non voleva dire la verità comunque. All’inizio credevo fosse venuto solo per farmi visita e basta. Poi mi ha detto che voleva venire a vivere qui, stare con me, ma senza dire niente a nessuno a casa. Fingerci amici davanti ai nostri genitori. – Samuele contrasse il viso in una smorfia.
- Fammi finire. Va bene, è come dici tu. Ma a me non importa niente della vita di questo Manfredi. Mi importa della tua, e ti dico solo che, dopo che gli rimproveri queste cose, tu stai facendo lo stesso con Dominik. Ti stai nascondendo, e senza motivo. Quel ragazzo è un angelo. Capirebbe. –
Federico soffocò uno sbuffo esasperato, perché la consapevolezza che Samuele avesse ragione, e lui torto, unita all’impotenza che si sentiva addosso perché non riusciva a parlare davvero con Dominik, lo irritava. Si sentiva un vigliacco, un codardo, macchiato delle stesse accuse che aveva sempre mosso a Manfredi. Chiunque, al mondo, avrebbe detto che Dominik avrebbe capito.
Perchè si sentiva addosso quella frustrazione allora? Forse lui, dentro, sentiva che, se avesse detto la verità al suo coinquilino, quell’equilibrio che li univa sarebbe cambiato: non necessariamente si sarebbe rotto, ma sarebbe mutato, e si sentiva così fragile ancora da non poter sopportare nemmeno quello.
Federico si fermò di fronte ad una vetrina; era un negozio particolare, che vendeva degli strani oggetti dal taglio orientale. A Manfredi erano sempre piaciute cose come quelle, in fondo.
- Comunque, com’è che è stato un incontro chiarificatore? – tornò a chiedergli Samuele, risparmiandogli, se non altro, l’ammissione di avere tragicamente torto.
Federico riprese a camminare, perché quegli oggetti esposti non erano abbastanza per Manfredi.
- E’ come aver rotto un cordone ombelicale. Ho capito che noi siamo sempre stati amici, e che ci saremo sempre l’uno per l’altro, per tutta la vita, qualsiasi cosa accada. Solo che le cose non sarebbero cambiate. E…mi sento quasi felice, lo sai? Mi sento leggero. –
Samuele sorrise. Era bello vederlo sorridere: quando lo faceva, pareva che potesse superare le nubi che Riccardo gli schiacciava sempre sulla faccia, ed emergere quasi accecante per quanto era bello. Pensò a Dominik, che proprio due sere prima, dopo aver chiuso con un virtuosismo quella che aveva scoperto essere una sonata di Mozart, gli aveva confessato che Samuele, lui, lo vedeva giallo: perché portava sempre allegria, illuminava le cose e quando rideva riscaldava come il sole.
E stranamente, Federico non aveva avuto nulla da dire in contrario, perché se avesse dovuto davvero scegliere un colore per descrivere Samuele, sarebbe stato il giallo.
- Sono felice, comunque, che ti sei scrollato quella situazione dalle spalle. Sarebbe stata una cazzata vederti ridotto come me - gli confessò, con una strana amarezza. Federico gli diede una pacca sul braccio, perché voleva solo che sorridesse e che non si facesse oscurare da quell’uomo che gli mangiava l’anima.
 - Più ne parli più mi ci fai pensare, sai? –
- Seh, vorresti dire che non ci hai pensato in questi giorni? –
- No – rispose subito, con uno strano candore, così strano che fece sollevare gli occhi a Samuele. Più ci pensava, più si rendeva conto che era la verità: ci aveva pensato i primi due giorni, poi, con il passare del tempo, Manfredi era diventato un pensiero che occupava una parte sempre minore della giornata, fino a trasformarsi semplicemente in un pensiero che lo carezzava ogni tanto, come quando si chiedeva che cosa stesse facendo sua sorella e se il matrimonio la rendesse felice come aveva sempre sperato. -  Non ci ho pensato in questi giorni. -
- Non ci credo, Federico. Mi prendi per il culo. –
- E’ la verità. E non dico che sia perché a Manfredi non ci tengo o cose del genere, perché, te lo giuro, sarà sempre la persona più importante della mia vita. Solo che adesso lo è in senso buono, non solo in senso morboso. Lui c’è comunque sempre, capisci? E’ come se fosse sotto la pelle, e le parti del tuo corpo tu ce le hai sempre in mente, no? Io so che c’è, e va bene così. –
Samuele abbassò il capo, facendo qualche smorfia con le labbra, come se stesse riflettendo su qualcosa. Continuava a camminargli accanto, con le mani in tasca e il naso lievemente arrossato per il freddo pungente, nonostante non tradisse in alcun modo di poter essere infreddolito. Non quando lui, almeno, che camminava quasi gobbo per quanto freddo sentiva. Poi Samuele sorrise.
-  Siete carini, comunque. C’è una passione nelle cose che fate…che mi fa sentire più vivo! Ah, l’amore, l’amore! Come puoi dire di no all’amore, cantava Tenco! –
A Federico venne da sorridere. Samuele era ritornato di ottimo umore: camminava più velocemente, e si voltava spesso di lui, anche solo per una carezza sulla spalla o una stretta al braccio. Quando parlava, a volte, agitava le mani in aria, gesticolando.
- Non hai conosciuto nessuno che ti piace? Qualcuno al locale magari? –
- Mh, no, niente di che. Sono uscito con Lorenzo, sabato, e c’era un suo amico carino. Credo volesse portarmi a letto, tra parentesi. – Scoppiarono a ridere mentre superavano una coppia di anziani che parlottavano a voce bassa, e quando tornarono vicini Samuele gli diede una gomitata scherzosa.
- Dominik non te lo sei portato? –
- Non ha voluto. L’ho quasi pregato, fino a sabato mattina, ma lui niente! Lo sai quanto sa essere testardo, e io non volevo litigare, quindi sono uscito e pace all’anima sua! –
- Ragazzino strano, quello. Però è simpatico! –
- Quando vuole – borbottò Federico, con una smorfia. - Oh, guarda, entriamo là! Questo mi sembra il negozio giusto! –
Non era il negozio giusto. Non lo erano nemmeno il negozio dopo, e quello successivo, e quello dopo ancora. Al dodicesimo negozio, Samuele inspirò frustrato.
- Non credo di aver mai fatto un regalo tanto complicato! –
- Manfredi è un po’ particolare, si… -
- No, Fede, sei tu quello complicato! Questo no perché è troppo impersonale, questo è troppo intimo, quello è sdolcinato, quello è da stronzi…e che palle! –
Federico rise dell’espressione affranta di Samuele. In realtà era stanco anche lui, ma non voleva tornare a casa senza aver comprato nulla. Indicò un altro negozio, con un’espressione da cucciolo bastonato.
- Ok, giuro che questo è l’ultimo! Se non trovo niente qui ti autorizzo a lasciarmi a me stesso!
Samuele sbuffò, ma lo prese alle spalle a tradimento, prendendo a scompigliargli tutti i capelli. Non gli sfuggì lo sguardo di rimproverò di due donne che stavano passando, ma non gli importava. Aveva deciso che non gli sarebbe più importato di nulla e  vaffanculo al mondo!
Trascinò Samuele dentro il negozio: era un ambiente strano, pieno zeppo di roba ma senza nessun nesso logico. C’erano dolcetti, barattoli di marmellata, caramelle, e appena due passi più in là piatti e servizi da the, o portafoto. In fondo a un corridoio gli parve addirittura di vedere qualcosa di simile ad un trapano. Davvero, davvero bizzarro.
- Allora, cosa compriamo? –
- Non ne ho idea. Aspetto l’illuminazione – ridacchiò.
E l’illuminazione giunse così tempestiva da stordirlo. Peccato fosse l’illuminazione sbagliata.
Si avvicinò come ipnotizzato allo scomparto, fissando quello che aveva visto. Era…perfetto.
Sarebbe stato un regalo bellissimo per Dominik, avrebbe fatto i salti di gioia non appena l’avesse visto.
- Trovato qualcosa che ti piace? – Annuì alla domanda di Samuele, tendendo la mano per chiuderla intorno all’oggetto, con tanta cautela che pareva quasi fosse fatto di cristallo. Samuele fissò le sue mani, con una smorfia.
- Sei sicuro? A me sembra più un genere da… -
- Dominik E’ per Dominik – soffiò. La consapevolezza lo aveva colpito nello stesso istante in cui aveva posato gli occhi su quella mensola: si immaginava già il sorriso che avrebbe fatto quando lo avrebbe portato a casa, quel regalo.
Non ne avrebbe trovato uno migliore nemmeno se avesse girato tutta Milano, tutta Palermo e magari anche tutta Praga.
- Fa il compleanno anche lui? –
Federico scostò lo sguardo fino a posarlo sul suo amico: aveva in viso un’espressione divertita, incredula e saccente allo stesso tempo. Era impossibile riassumere tanti sentimenti in un unico volto, ma in quel caso ci vedeva dentro tutto quello. Forse era soltanto paranoico. Sbuffò.
- No. – Ora che ci pensava non aveva idea di quanto fosse il compleanno di quel ragazzino. – Lo prendo lo stesso, tanto tra un po’ è Natale! –
Samuele annuì appena, mentre lui dava un’altra occhiata in giro. Non c’era nulla che gli piacesse; quasi quasi, sarebbe tornato in quella vecchia gioielleria dove erano entrati quasi mezz’ora prima e gli avrebbe preso un’altra medaglietta da inserire alla catenina che gli aveva regalato sua madre per la cresima. Dietro avrebbe fatto incidere la data in cui si erano conosciuti, il primo giorno dell’ultimo anno di asilo: Manfredi  se ne sarebbe certamente ricordato, e poi amava gesti di quel genere. Si, si sentiva convinto. – Va beh, paghiamo e andiamo, ho deciso cosa prendere a Manfredi! –
Samuele lo seguì in silenzio fino alla cassa, con le mani in tasca. Era troppo silenzioso, tanto che non disse una sola parola mentre lui pagava e si faceva incartare ciò che aveva comprato: l’avrebbe dato a Dominik prima che partisse per le vacanze di Natale. Era certo che gli sarebbe piaciuto!
Uscirono dal negozio diretti alla gioielleria, ma Samuele era ancora stranamente silenzioso. Stava sorridendo però. Quando si voltò a guardarlo, il sorriso si aprì ulteriormente: lo guardava con negli occhi qualcosa di simile alla tenerezza. Gli ricordava tanto sua madre in quel momento.
- Sei proprio tenero, lo sai? –
- Sei ubriaco? – Lo sentì ridere, scuotendo il capo.
- Mi sto ubriacando con tutta la tua dolcezza! – lo prese in giro, passandogli un braccio intorno alle spalle. Federico era alto, ma quando si trovava in quel modo tra le braccia di Samuele, si sentiva stranamente piccolo, come un bambino che andava a fare la spesa con il papà. Se lo scrollò di dosso con una risata.
- Credo che sia stato un misto di gin e vodka, più che altro! –
- Affatto! Avresti dovuto vedere la tua faccia quando hai visto quella cosa! Si, questo è per Dominik – trillò, con una voce troppo squillante per essere quella reale. Quando riportò gli occhi su di lui, Federico lo stava trapassando con un’occhiata furente. – Oh, e dai, che se permaloso! Solo perchè ti ho detto che sembravi una dolcissima innamorata per san valentino, ti offendi? –
Federico spalancò la bocca.
- Io non sono una dolcissima innamorata, e non lo sembro! E’ solo un banalissimo e inutilissimo regalo di natale per il ragazzino che divide la casa con me da mesi! E’ gentilezza! –
- Chiamala come vuoi, Sandy. A me sembra un pegno d’amore. –
- E a me tu sembri uno stronzo! –
Samuele scoppiò a ridere, affrettandosi a cambiare argomento, perché Federico si era infastidito.
Finse che si fosse trattato di uno scherzo, di una battuta.
Ma non aveva cambiato idea.

 §§§

 

  
- Prendi me, scegli me, ama me. –
Dominik si strinse nelle spalle, coprendosi fino al mento.
Federico stava respirando più pesantemente del solito, sul divano. Forse aveva freddo, o era stanco. Era stata una giornata lunga, in fondo. Era uscito con Samuele, ed era ritornato a casa quando lui era già tornato dal conservatorio da più di due ore. Con una fame da lupi.
- Io non capisco – mormorò.
- Cosa? – La voce di Federico era calma come sempre, curiosa per quella domanda.
Stavano guardando un telefilm in televisione, uno ambientato in un ospedale dove c’erano un sacco di malati e i medici sembravano messi peggio dei loro pazienti: a Federico non piaceva molto, aveva detto che ce ne fosse uno più bello, un certo Dottor Hom, o una cosa del genere, però quella sera non facevano nulla di meglio e si era messo a guardare quello.
A lui bastava semplicemente stare sul divano insieme, però qualcosa la sentiva, ogni tanto.
E non aveva capito quel piccolo passaggio.
- Perché lei gli dice così? –
- Perché lui ha una moglie. Le altre puntate non le hai viste, ma in pratica loro due si innamorano, ma lei non sa che lui è sposato, anche se le cose non vanno bene. Poi, quando lo scopre, lo allontana, ma lui insiste a cercarla. E alla fine lei gli sta chiedendo di sceglierla e divorziare da sua moglie. –
- No, non questo. –
- E cosa? –
- Perché glielo chiede così? Come se lo stesse pregando… -  
Non riusciva a capire il perché di quelle parole. L’amore era una cosa bella come la musica, e alla musica non si doveva mai chiedere niente, perché lei arrivava e ti prendeva. Non potevi dire alla musica scegli me. E nemmeno all’amore, no.
- Per dichiararsi, credo – soffiò Federico.
- Ma non può. Non può dirgli di sceglierla. Non deve scegliere solo lui. Le persone che si amano si scelgono. –
- Si, lo penso anch’io… -
La voce di Federico era diventata improvvisamente malinconica, come capitava sempre quando stava pensando qualcosa e lui lo interrompeva con qualche domanda. Non gli piaceva quando Federico si metteva a pensare, perché a volte diventava triste, e non gli voleva mai confessare il perché. Odiava non sapere cosa gli passasse per la testa. Federico era sempre stato come uno specchio, un libro aperto, ed era sempre bello perdersi un po’ nella sua vita: certe volte, però, soprattutto ultimamente, non parlava più tanto come prima. E odiava se stesso per quella curiosità ossessiva, come se l’umore di Federico potesse in qualche modo condizionarlo.
La verità era che Federico lo stava condizionando. Sembrava impercettibile, una cosa da niente, ma lo stava facendo. Lo faceva tutte le volte che Samuele si presentava a casa e lui lo accoglieva con un sorriso, smettendo di suonare per restarsene sul divano a sentirli parlare. Lo faceva quando cucinava qualcosa per lui, o preparava la cioccolata, e Dominik se ne restava in silenzio ad ascoltarne i movimenti. Lo faceva anche quando lo portava a pensare che vorrebbe tanto non essere cieco, solo per vederlo sorridere. Erano cose da niente, per tutti, ma non per lui: lui viveva per la musica, con la musica, e non c’era spazio anche per Federico. Se Federico si prendeva un poco di cuore, con la sua amicizia, la sua gentilezza, la sua bontà, era un poco di cuore che rubava alla musica, e nessuno doveva rubare niente alla sua musica, o non sarebbe stata più perfetta.
Per questo, a volte, cercava di mantenere le distanze, rifiutava di uscire con lui o di scherzare un po’di più: si fidava di lui, così tanto che sarebbe uscito tutte le volte che glielo avesse chiesto, e sarebbe stato certo che non sarebbe accaduto nulla di male, come quando stava con la mamma. Ma se glielo avesse permesso, Federico si sarebbe presto tutto.
Lo faceva con ogni sorriso, con ogni battuta, con ogni frase con cui cercava di rispondere alle sue domande sui rapporti tra le persone. Federico era bravo, con le persone, le conosceva bene, non come lui. Federico sembrava conoscere tutto il mondo, averlo vissuto, e ascoltarlo era come vivere le stesse cose che aveva vissuto lui, con un po’ dello stesso dolore, e della stessa gioia. Quei sentimenti di cui Federico raccontava, a lui coloravano un po’di più la musica.
E Federico era diventato questo ormai un contrasto tra quello che gli permetteva di prendere di sé, e quello che gli avrebbe lasciato prendere senza opporre resistenza, per lasciarlo colorare della sua vita.
Dominik si scoprì, mettendosi seduto con la schiena dritta e avvicinandosi a lui: gli urtò la gamba con il ginocchio, per caso, ma Federico sobbalzò ugualmente.
- Che significa che lo pensi anche tu? –
Federico rimase in silenzio.
Dimmelo. Dimmelo. Dimmelo. Cosa te lo ha fatto pensare? Cos’è che non mi dici?
Avrebbe voluto scuoterlo, ma se lo avesse fatto si sarebbe arrabbiato, e non gli avrebbe detto più niente. E lui voleva saperlo a tutti i costi.
Poi Federico espirò, e quando parlò non c’era più traccia di malinconia nella sua voce, ma piuttosto una traccia di curioso spirito d’osservazione.
- Che le persone si scelgono. Anche se non sembra, anche se a volte è il destino che decide, io credo che nei rapporti più importanti le persone si scelgano – gli spiegò. Dominik avvertì una piacevole stretta al cuore: anche loro si erano scelti, a modo loro. Lui almeno lo aveva scelto. Perché Federico era tutto quello che lui avrebbe scelto nella vita. – Però penso che quella scena di poco fa abbia un suo senso – aggiunse.
- Perché? Hai detto che le persone si scelgono. Perché ha senso? – gli chiese ancora.
Adesso non capiva davvero. Si strinse nelle spalle, mettendosi più comodo. La gamba di Federico, contro il suo ginocchio, si mosse appena: si era voltato verso di lui, ma non parlava. Respirava in modo poco regolare, però. Forse stava cercando le parole per spiegargli bene cosa pensava.
- Perché quei due si erano persi, e quando succede è necessario che uno dei due prenda in mano la situazione. Quella non era proprio una preghiera, non come intendi tu almeno. Era un modo per dire ti prego, non lasciarmi andare, tra tutte le scelte che potresti fare scegli me, scegli di stare con me e sarai la persona più felice del mondo. – Parlava di nuovo con fare malinconico, e gli stava accendendo dentro quella curiosità che nasceva sempre quando lo sentiva parlare così. Ogni volta che lo faceva, chissà perché, gli veniva in mente Manfredi, e moriva dalla voglia di strappargli fuori quello che era successo tra loro, il motivo per cui diventava sempre così triste quando c’era di mezzo lui. Era sicuro che, se avesse insistito, Federico alla fine gli avrebbe raccontato tutto.
Ma non lo aveva mai fatto. Forse, in una parte remota della mente, aveva paura di saperlo. Aveva paura di scoprire che, per Federico, lui non fosse suo amico tanto quanto Manfredi. Non voleva sentirlo, anche se in realtà lo sapeva. Non sarebbe mai stato come Manfredi. Solo che sentirlo dire dalla voce di Federico sarebbe stato più brutto. – Solo che non sempre funziona – continuò poi.
- Perché no? -
- A volte, anche se capiscono di essersi scelte, le persone si perdono, perché pensano troppo. –
- Anche tu pensi troppo? –
- Ogni tanto – confessò, ridacchiando appena, e il suono della risata di Federico era tremendamente dolce. Federico pensava sempre, solo che non doveva mai perdere niente.
- Non devi pensare troppo, allora! –
- Se non pensassi abbastanza avrei fatto una marea di cazzate. –
- Non è vero. Non puoi farle tu. Tu sei buono. –
- No, fidati. Se non pensassi abbastanza, adesso farei una cazzata colossale – ammise.
Dominik inclinò il capo di lato. Ce l’aveva sulla punta della lingua. Cosa? Cosa faresti? Ma non disse nulla. Eppure moriva dalla voglia di fare una cosa stupida con lui, come quella volta che erano usciti a prendere il gelato. Solo che questa volta doveva essere una cosa stupidissimissimissima, se Federico la definiva una cazzata colossale.
- E cosa? – Eccola, la curiosità morbosa. Non era riuscito a trattenersi.
Federico rise, portandogli una mano sul capo per spettinarlo tutto. Gli piaceva quando lo faceva, c’era dentro un affetto che non avrebbe trovato nemmeno negli abbracci più stretti. Gli faceva venir voglia di poggiargli il capo sul petto, come quelle sere in cui guardavano la tv. Federico non l’avrebbe cacciato.
- Non lo sai che la curiosità uccise il gatto? – lo provocò, ridendo.
Dominik fece una smorfia, tornando a sprofondare nel divano, incrociando le braccia contro il petto. Federico non voleva dirglielo, e ora che ci pensava non gli importava poi tanto, perché stava sorridendo. Si mise di nuovo dritto,  facendo un cerchio in aria con le braccia fino a farle ricadere sul divano.
- Ma la soddisfazione lo riportò in vita! Tu non lo sai?! –
- E tu come la sapresti questa? – gli chiese Federico, con tono incredulo.
- Maddalena, la signora che stava qui con me anni fa, diceva sempre un sacco di proverbi. Rispondeva sempre alle mie domande perché diceva che la curiosità uccise il gatto, ma la soddisfazione lo riportò in vita. –
- In questo caso ti lascerò morire, allora – ridacchiò ancora il ragazzo.
Dominik si lasciò cadere definitivamente sul divano, tirandosi la coperta fin sopra la testa. Respirare l’aria calda dentro quel bozzolo era piacevole. Si sentiva stranamente al sicuro lì dentro.
Però Federico non voleva parlare, ed era insopportabile: era come avere di fronte una tavolozza piena di colori, mettersi a disegnare un bel paesaggio, un bosco pieno di animali, con il sole, e poi, sul più bello, scoprire che mancava un colore per completare tutto. Federico aveva quel colore e non voleva darglielo, e la musica, e il paesaggio, non sarebbero mai stati completi. E poi c’era quella piccola cosa che pungeva, dentro al petto, vicino al cuore: era fastidiosa. Non lo sopportava, non tollerava che Federico non gli parlasse, che non gli raccontasse nulla, e che quel qualcosa, ne era certo, riguardasse Manfredi. Manfredi, da quando era piombato in casa loro, era diventato una presenza sempre più ingombrante che lo infastidiva. Federico non ne aveva più nemmeno fatto il nome, ma Dominik lo aveva in testa, perché Federico non gli aveva detto proprio tutto, e lo sentiva. E più se ne rendeva conto, più Manfredi gli ingombrava i pensieri.
- A te qualcuno l’ha mai detto? – esordì poi, con voce bassa. Per un attimo, Dominik desiderò che Federico non l’avesse sentito. Ma lo sentì ridere piano. Aveva sentito.
- Che la curiosità uccise il gatto? – Dominik sorrise, togliendosi la coperta dal viso e rimettendosi seduto. Tese la mano in avanti, toccando il braccio di Federico per assicurarsi che fosse ancora accanto a lui.
- No! Prendi me, scegli me, ama me – gli mormorò. Federico rimase in silenzio per qualche minuto, poi sentì i muscoli del suo braccio che si rilassavano.
- Si, una volta. –
- E…? – Lo sentì sospirare divertito.
- E ho scelto di restare da solo perché non ne valeva la pena. E prima che tu me lo chieda, perché so che lo farai, non ne valeva la pena perché sarebbe stata una relazione segreta, che nessuno avrebbe dovuto conoscere. E ho deciso che non mi stava bene, tutto qui. Soddisfatto? -
Annuì, stringendosi nelle spalle. Si chiedeva quale ragazza fosse stata così stupida da proporre a Federico una relazione segreta: lui era buono, gentile, era giusto che fosse felice davanti a tutti.
- Ma perché sei così curioso oggi? –
Perché voglio sapere le cose che non mi dici, perché io ti dico tutto e tu no, e non va bene, perché hai detto che siamo amici, che facciamo cose stupide, ma io voglio che mi parli. Voglio che parli con me delle tue cose importanti, come io ti parlo della musica, che sta sopra tutte le cose del mondo.
Ma non glielo disse. Si morse la lingua, ma non gli avrebbe mai confessato quella piccola debolezza. Qualcuno l’avrebbe chiamata gelosia, ma non lo era. La gelosia era una cosa morbosa, senza spiegazione, senza fondamento, un sentimento furioso. Quello che provava lui era ordinato, e poggiava sopra una base solida: voleva essere importante e rilevante, per il suo nuovo amico, quanto Federico lo era per lui. Non stava chiedendo tanto, solo quello. A Federico stava affidando tutta la sua musica, la cosa più importante che avesse, e stava affidando se stesso, quando gli permetteva di essere i suoi occhi: voleva avere quella stessa importanza che gli dava lui.
Non rispose alla sua domanda, ma decise di cambiare argomento, di dire qualcosa per spezzare il silenzio.
- Io penso che l’amore sia come la musica, nei sentimenti. Cioè, ti porta via qualche cosa tutte le volte. Però la musica è molto meglio, perché dentro ci sono tutti i sentimenti del mondo, e quello che toglie a te lo diffonde a tutti quelli che ti ascoltano, e ai muri, così anche dopo secoli si può respirare la tua musica. La musica ti sceglie sempre, ti colora la vita, e puoi decidere tu per tutto e tutti. –
- Con l’amore no, è vero? Devi sottostare ad un’altra persona. –
- Non è amore se devi sottostare – osservò. Non sapeva nulla dell’amore, ma pensava alla mamma e al papà, a lei che sorrideva sempre, che lo baciava, che gli faceva qualche carezza e che, anche se era stanchissima, la sera prendeva a stirargli le camicie perché voleva che l’indomani mattina lui le avesse tutte pulite, per scegliere la sua preferita. Era quello l’amore, nella sua semplicità, e qualsiasi cosa fosse capitata a Federico, qualsiasi cosa gli avesse detto, non avrebbe mai creduto che l’amore fosse una cosa che faceva soffrire.
- Sottostare non è una brutta parola. Se fossi innamorato lo capiresti, che cosa vuol dire. Lo faresti senza rendertene conto, solo per fare felice la persona che ami. E saresti felice anche tu. –
Non era vero, sottostare era una brutta parola. Significava farsi comandare, farsi guidare, far decidere a qualcun altro come condurre la propria vita. Non sarebbe stata vita, quella.
E non era giusto che Federico dovesse sottostare a chiunque, anche se innamorato. Lui doveva essere libero, come la musica.
- Molto meglio la musica – borbottò.
Federico rise.

 §§§

 
- Se non pensassi abbastanza, adesso farei una cazzata colossale.-
- E cosa? -
Baciarti e chiuderti quella  bocca curiosa, per esempio.
Dio, se si sentiva stanco. Dominik lo sfiancava. Era una continua domanda, ed era anche piacevole all’inizio. Solo che poi iniziava a scavare, a tirar fuori gli altarini che non voleva confessargli.
Forse perché tutti gli altarini, alla fine, portavano a Manfredi, e di Manfredi non voleva parlare.
O forse perché quando si metteva a scavare in quel modo pareva volesse rubargli l’anima.
Prendi me, scegli me, ama me.
Cazzo, se gli era mancato il fiato quando lo aveva detto.
Per un attimo aveva creduto che lo stesse dicendo, che lo stesse pregando.
Samuele doveva avergli fritto il cervello.
Non è amore se devi sottostare.
Come fargli capire che “sottostare” significava anche guardarsi negli occhi e lasciarsi distruggere il cuore solo per vedere sorridere chi ami? Che, allo stesso tempo, chi ti amava sarebbe stato disposto anche a scalare le montagne per te?
Molto meglio la musica.
Gli scoppiava la testa. Si alzò dal divano, passandosi una mano sul viso.
In casa c’era silenzio; Dominik era appena andato a letto, forse, nella stanza accanto, si stava ancora cambiando. Chissà che corpo doveva avere sotto quei vestiti. Se fosse stato bello come quelle dannatissime labbra ipnotiche, sarebbe morto.
L’aveva avuto eccome l’istinto di baciarlo, ma era tutta colpa di Samuele e delle sue parole da stronzo. Una dolcissima innamorata. Non si era affatto comportato così, come un idiota: aveva semplicemente visto qualcosa che sarebbe stato un ottimo regalo per Dominik, e lo aveva comprato. A parte che Natale si avvicinava, ma se anche avesse voluto comprarlo così, senza motivo, non ci sarebbe stato nulla di male. Era un regalo perfetto, e non c’era nulla di male nel comprarlo. Samuele aveva fatto lo stronzo solo per divertirsi alle sue spalle, e non aveva senso adesso che lui si mettesse a pensare alle labbra di Dominik.
Io penso che l’amore sia come la musica, nei sentimenti. Cioè, ti porta via qualche cosa tutte le volte.
Aveva capito una cosa sola dell’amore, quel ragazzino, ed era quella. L’amore ti porta via qualcosa tutte le volte. E gli era sempre andato bene così, farsi portare via qualcosa da Manfredi, o da qualche ragazzo carino in discoteca che poi non se l’era nemmeno filato, ma adesso iniziava a stargli stretto. Dominik non si sarebbe mai innamorato, se la pensava così: non avrebbe mai permesso a nessuno di portargli via qualcosa. Era lui che si portava via pezzi di anima con quella musica che suonava, che tutte le volte che restava ad ascoltarlo più di qualche minuto gli veniva voglia di strapparsi il cuore, se fosse servito a renderla ancora più perfetta.
Avrebbe voluto anche lui essere così, avere qualcosa, e non qualcuno, da amare fino a struggersi ogni singolo giorno, come Dominik con la sua musica: significava trovare un equilibrio, inseguire la felicità con le note di un pianoforte, senza dare importanza a nessuno.
Ecco, aveva bisogno di quello: non are più importanza a nessuno. Fregarsene di tutti, delle amicizie, dell’amore, anche delle minime gentilezze, e prendere ad inseguire un unico sogno.
Sarebbe stato così facile.
Poi Dominik usciva dalla sua stanza, si stropicciava gli occhi, accarezzava il suo pianoforte…e lui gli preparava la colazione come se fosse sua madre.
Si fregava sempre da solo.
Prendi me, scegli me, ama me.
Lo aveva detto Manfredi, e lui si era tirato indietro. Sarebbe stato bello avere qualcuno a cui dire Si, scelgo te, e so che sarò felice. Avere una storia d’amore normale doveva essere bello: forse per quello, Dominik aveva un’idea tanto buona dell’amore. Era un’idea che nella realtà non  sarebbe esistita neppure per un secondo. Ma nel suo mondo sì, e non sarebbe stato certo lui  a fargli cambiare idea.
Federico rivolse uno sguardo alla porta della sua stanza. Il regalo di Dominik era al sicuro dentro l’armadio: glielo avrebbe dato prima di Natale, gli avrebbe fatto piacere.
Non gli importava che lui non avesse regalato niente, e che non l’avrebbe mai fatto, probabilmente, perché veramente amici di un ragazzino come quello non si poteva certo essere.
Voleva solo vederlo sorridere realmente per un attimo.
Voleva portargli via un pezzetto, solo uno.
Un sorriso.





(1) La citazione iniziale è tratta dal telefim Grey's Anatomy, puntata 2x05.
Questa volta nessun aforisma famoso.
(2) Dottor Hom sarebbe Dottor House, nella rivisitazione di Dominik.

Nota al capitolo 16:
Di questo capitolo non ci ho capito niente, posso dirlo? xD
Si è scritto da solo, i personaggi hanno parlato da soli, e io non ci ho capito praticamente niente!xD
Cerchiamo di andarci con ordine: sia Federico che Dominik pensano cose senza capo nè coda.
Tutto parte dalla frase di un telefilm, come avrete letto: Prendi me, scegli me, ama me.
E da lì parte il delirio. Vi giuro, non ho capito cosa ho scritto.xD
Di certo, Dominik è diverso da quello che abbiamo conosciuto: è gelosia, in parte, e in parte possessività, perchè Federico è la prima persona che sente veramente vicina, e non sopporta di doverla dividere con qualcuno, o con i suoi pensieri e ricordi. Proietta su di lui quello che è il proprio rapporto con la musica: la musica non la divide con nessuno, quindi nemmeno Federico va diviso con nessuno. Federico, però, ha anche qualcosa di diverso dalla musica, che lui non riesce a capire.
Insomma, diciamo che, alla fine del capito, abbiamo fatto un passo avanti. Badate bene, questo non è amore, nemmeno confusione pre-amore, o cose del genere. Sono deliri di due ragazzi che si stanno conoscendo. 
Federico, da parte sua, è rimasto colpito dall'"accusa" di Samuele, perchè Dominik non gli è indifferente e teme di sembrare un innamorato davanti a tutti, come a Samuele; e considerate, poi, che lui al giudizio di Samuele tiene da morire, come detto all'inizio del capitolo. E' attratto, in parte, dal corpo di Dominik, dal suo carattere particolare, ma allo stesso tempo lo tiene lontano perchè è troppo distante dal suo mondo. Dominik, invece, non capisce una cippa di quello che pensa, e io con lui. xD
Se dovessi dire una cosa, una conclusione di fine capitolo, posso dirvi che non lo so, non ho idea di cosa sia venuto fuori da questo capitolo e di cosa verrà fuori dai prossimi: questi due hanno preso il controllo abusivo della mia mente e sanno solo loro cosa faranno!
Ora scappo a studiare, mando un bacio a tutti e risponderò alle recensioni prestissimo!
Un grazie enorme a tutti coloro che mi seguono, e che so che ci sono anche se non commentano, e a chi mi segue sempre con affetto!
Un bacio!

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Capitolo 18
*** 17th: E con le mani, amore ***



In questo lasciare e prendere, fuggire e ricercarsi, sembra davvero di vedere una determinazione superiore: si dà atto a tali esseri di una sorta di volontà e capacità di scelta, e si trova del tutto legittimo un termine tecnico come affinità elettive.

Johann Wolfgang Goethe, Le affinità elettive, 1809




Chapter 17th: E con le mani, amore
 
Nel muretto fuori dalla finestra Lilly e Mony sarebbero state amiche per sempre.
Sotto c’era una data che risaliva a due anni prima.
Chissà se Lilly e Mony si rivolgevano ancora la parola o se si erano perse come fanno tante ragazze al mondo.
In televisione, un tizio si stava giocando ventimila euro.
Samuele ripose la caffettiera nello sportello della cucina. Si stava annoiando da morire: quando il pomeriggio non lavorava, le giornate non passavano mai. Si svegliava presto tutte le mattine, per andare in palestra, ma oltre quel piccolo sfizio, non si concedeva poi tanto.
Andare a lavoro era un modo per occupare la giornata. Cercava sempre di farsi dare il turno del pomeriggio, e quando finiva non andava quasi  mai a casa, ma restava a dare una mano, perché in quella casa vuota non voleva passarci troppo tempo.
Sembrava anche troppo grande. Viveva lì da quindici anni, quasi: quando l’aveva presa in affitto aveva iniziato da poco a lavorare in un bar come tanti, dove lo avevano lasciato lavorare solo perché non sapevano che fosse gay. Era così pieno di sogni, allora, a venticinque anni, che quando l’aveva vista gli era parsa perfetta, in confronto alle case che aveva diviso con studenti e lavoratori negli anni precedenti. Quell’appartamento al terzo piano di uno stabile tranquillo, con quella cucina ampia con gli sportelli in legno chiaro, lo aveva affascinato subito.
Si era immaginato già viverci dentro, con l’uomo di cui si sarebbe innamorato: si sarebbero svegliati insieme, preparando il caffè e facendo colazione in quella cucina piccola. Nel salotto dal perimetro quadrato avrebbero messo una tv a schermo piatto enorme, e un divano comodissimo, per guardare la tv insieme, anche addormentandosi lì, purchè fossero abbracciati. Per la camera da letto avrebbero scelto un letto grandissimo, con la testata imbottita e rivestita di un bel colore vivace, e avrebbero tinteggiato una parete da soli, magari con qualche stampa, oppure con un quadro enorme. E ci avrebbe messo una televisione anche lì, che non riusciva ad addormentarsi senza, anche se la compagnia lo avrebbe sicuramente tenuto impegnato.
E poi avrebbero riso, e cucinato insieme, e fatto la doccia in quella vasca, nel bagno.
Era stato anche per quella che l’aveva presa in affitto: voleva una vasca da bagno, anche piccola, in cui potersi trovare insieme.
Il suo cellulare vibrò solo per un attimo. Un sms.
Sto venendo da te.
Riccardo stava andando a casa sua. Era strano, dato l’orario, ma Samuele si affrettò ad affacciarsi alla finestra. Quando arrivava, Riccardo odiava dover aspettare: voleva solo entrare nel portone e correre su per le scale, senza farsi vedere da nessuno. Lui lo accontentava anche in quello.
Lo accontentava in tutto. Dormiva da solo tutte le notti, il caffè se lo preparava per conto suo, la vasca da bagno era rimasta un sogno nel cassetto. Tutto per Riccardo.
Anche se lui gli diceva che potesse anche trascorrere delle notti con qualcun altro, che non doveva sacrificarsi per lui, Samuele faceva finta di non sentire. Riccardo non andava con altri uomini, perché lui era sempre lì. Ma c’era Priscilla, sua moglie. E quando i sensi di colpa lo prendevano con troppa forza, allora lo pregava di stare con qualcun altro, la notte, ma solo di non lasciarlo mai.
Come se potesse mai essere possibile una cosa del genere.
Lui non era niente senza Riccardo. Quell’uomo distinto rappresentava la sua ancora di salvezza, l’unica cosa che rendesse buona la giornata. Per questo, per tutta questa sofferenza, Samuele non voleva che Federico si riducesse come lui.
Gliela leggeva negli occhi, la sofferenza, quando parlava di Manfredi. Era cambiato, dopo l’ultima volta che l’aveva visto, certo, aveva rotto il cordone ombelicale, come diceva lui, ma c’era sempre qualcosa. Quella di Manfredi e Federico doveva essere una di quelle amicizie strane, morbose, così radicate nel petto da non poterle mai staccare davvero. Solo, non voleva che soffrisse come lui.
Era un ragazzino, in fondo, e lo considerava un po’ come un fratellino minore di cui prendersi cura. Solo un po’ complicato e rompipalle, e terribilmente stupido quando si trattava di Dominik.
Lo avrebbe visto anche un cieco che non gli era indifferente.
Una berlina scura, lucidissima, si fermò dalla parte opposta della strada. Mentre andava ad aprire la porta, Samuele sorrise, perché aveva pensato una cosa idiota, ma sicuramente pertinente. Pur essendo cieco, se ne sarebbe accorto anche Dominik, prima o poi. Se avesse smesso almeno un po’ di essere stronzo.
I passi affrettati sulle scale lo riportarono alla realtà. Il cuore gli iniziava a battere nel petto con quella forza strana che precedeva sempre l’arrivo di Riccardo.
Così, per darsi un contegno, abbandonò l’ingresso e andò in cucina, fingendosi impegnato in qualcosa. Però abbassò il volume della tv, perché Riccardo odiava quando la trovava a volume troppo alto. Lui arrivò subito, quasi trafelato, con il cappotto aperto sopra il vestito scuro e i polsi che sporgevano dalle maniche.
Di Riccardo, a Samuele erano sempre piaciuti i polsi, e le mani.
Aveva i polsi lunghi e sottili, che quando ci chiudeva intorno una mano parevano pronti a spezzarsi. E le mani, ah le mani di Riccardo e quello che gli facevano! Erano magre e lunghe, così come le dita sottili, con la pelle morbida, senza nemmeno una ruga. Profumavano sempre di quel vago aroma di penna biro e carta che si creava sulla pelle di chi stava sempre con carta e penna in mano a scrivere.
- Ciao – lo salutò, con il fiato un po’ corto e quella voce morbidissima.
Aveva sempre pensato che uno come Riccardo, nella vita, non avrebbe potuto far altro che l’avvocato: ogni sua parola, ogni suo gesto, avrebbero convinto chiunque a fare qualsiasi cosa.
Lui, ovviamente, era quello che ne risentiva di più.
Gli sorrise, avvicinandosi per salutarlo. Un lieve bacio sulle labbra, poi le mani corsero al capotto, per sfilarglielo e appenderlo all’ingresso. Dargli il benvenuto così, quando andava a trovarlo, era un po’ come fingere di essere il compagno che aveva aspettato a casa che tornasse dal lavoro, preparandogli magari la cena e aspettando il momento in cui sarebbero andati a letto.
Riccardo, non appena lo vide appendere il cappotto e voltarsi verso di lui, gli afferrò il viso con entrambe le mani, baciandolo di scatto, come se non avesse aspettato altro per mesi.
Non si vedevano da quattro giorni, ma si erano sentiti tutte le mattine.
In quei giorni, Riccardo doveva essere andato dal barbiere. Aveva i capelli più in ordine, per quanto la differenza rispetto al solito fosse irrilevante. I suoi capelli erano sempre perfettamente pettinati: brizzolati, ormai quasi bianchi, ma ancora folti come quando era più giovane, li portava con una riga nel mezzo, e pettinati indietro. Quel pomeriggio erano lievemente più corti, ma spettinati, come quando era nervoso e ci passava insistentemente le mani.
Gli accarezzò il viso con entrambe le mani. Possibile che si sentisse sempre un ragazzino quando si trovava vicino a lui? Aveva quarant’anni, eppure tornava adolescente, in tutti quei minuti rubati.
E Riccardo sorrise. Era sempre bello quando sorrideva, così tanto che valeva la pena anche soffrire, pur di poter godere di quel sorriso.
A tutti quelli che non lo capivano, Samuele non rispondeva mai davvero. Non avrebbero mai capito ugualmente quello che li univa, nonostante Riccardo fosse uno stronzo insensibile che non aveva il coraggio di lasciare sua moglie. Loro non lo conoscevano come lo conosceva lui, non avevano visto le sue lacrime di fronte alla propria impotenza, di fronte a quel matrimonio che gli stava stretto, a quel figlio che amava e che non voleva destabilizzare  proprio durante l‘ultimo anno di scuola, a quel lavoro dove l’apparenza rappresentava tutto. Solo Federico, alla fine, aveva capito: gli era bastato guardarlo negli occhi, e aveva capito.
Erano un po’ uguali, loro due. Manfredi era quasi come Riccardo: non voleva dire la verità a nessuno, voleva vivere nell’ombra, nella clandestinità.
Erano così uguali, che non voleva che Federico passasse quello che aveva passato lui.
Il tocco della mano di Riccardo sul fianco lo fece atterrare di nuovo all’ingresso del suo piccolo appartamento. Gli sorrise.
- Sono riuscito a uscire prima dallo studio, oggi. Dovrei lavorare su un caso, a dire il vero, ma ho bisogno di vederti, di un po’ di tempo con te. Sapevo che non lavoravi oggi…e quindi sono passato. –
Era sempre tremendamente dolce il modo in cui cercava quasi di giustificarsi per le sue assenze, e anche per le sue presenze.
- Hai fatto benissimo. Puoi restare per cena? – Ci sperava, che gli dicesse di si, ma quando vide la smorfia sul suo viso si pentì di avergli fatto quella domanda. Gli sorrise, allora, come a voler scacciare tutto. – Ti faccio un caffè? –
Riccardo aveva una passione morbosa per il caffè. Lo vide annuire, e si staccò da lui per dirigersi in cucina. Non lo raggiunse subito, ma rimase all’ingresso. Dal borbottare sommesso che udiva, intuì che stesse parlando a telefono. Forse stava chiedendo il permesso alla mogliettina.
Doveva preparare il caffè, ecco cosa doveva fare. Era un ottimo modo per distrarsi dal peso che si sentiva nel petto al pensiero che non potesse godersi nemmeno una cosa semplice come una cena a casa con lui. Doveva stare tranquillo, doveva respirare e godersi quelle ore insieme a lui.
Preparò la caffettiera, facendo attenzione a non far cadere il caffè sul ripiano della cucina. Quando la prese tra le mani per stringerla, sentì il calore delle mani di Riccardo sui fianchi, sotto il maglione, e avvertì un suo bacio sul collo, al punto di congiunzione con la spalla.
Sorrise istintivamente, spingendo la schiena verso il suo torace.
- Cosa mi prepari per cena? – gli mormorò ad un orecchio.
Samuele si voltò subito, incurante della caffettiera che scivolava sul ripiano e cadeva dentro il lavello con un rumore metallico assordante.
- Resti? – Lo vide annuire, e non gli fece altre domande. – Ho giusto un pollo in frigo che aspetta solo di essere messo in forno. –
Riccardo lo baciò a tradimento, spingendolo contro la cucina, per impedirgli ogni movimento. Come se avesse mai potuto pensare di spostarsi da lì. Gli passò una mano tra i capelli, scompigliandoli ulteriormente, per bloccargli il viso e poter godere ancora di quel bacio.
Era sempre straordinario baciare Riccardo. Era come se non fosse nato per altro che per baciare lui, come se tutti i giorni che passava a lavoro o a casa con sua moglie lo spegnessero, per poi riaccenderlo solo quando era con lui. Si accendeva nel tocco delle mani sulla schiena, sulla pancia, sui fianchi, nel bacio delle sue labbra e nei giochi della sua lingua, nella passione di ragazzino che ci metteva anche se i sogni giovanili, per entrambi, erano finiti da un pezzo.
Riccardo si staccò così, come un soffio di vento, e andò a sedersi al tavolo della cucina, sempre nella stessa sedia, quella che occupava tutte le volte. Quando era solo, Samuele non si sedeva mai lì; sarebbe stato come accettare che da quel momento la sua vita potesse andare avanti anche senza di lui. Riccardo lo guardava dolcemente, con quello sguardo scuro come la notte, il mento poggiato su una mano sottile.
- Questo caffè, Samuele? – lo provocò, con un mezzo sorriso.
Samuele sbuffò, recuperando la caffettiera dal lavello e stringendola con forza nelle mani. Non voleva che il caffè uscisse dal bordo e sporcasse tutta la cucina. Accese il fornello, concentrandosi un attimo sul danzare lieve della fiamma sotto la caffettiera. Quando si voltò, Riccardo aveva steso le braccia sul tavolo e si tormentava le mani. Sembrava stesse pensando a qualcosa.
Samuele avrebbe voluto raggiungerlo alle spalle, passarci le mani e rilassarlo con un massaggio, ma lo sguardo di Riccardo lo inchiodò che era ancora vicino ai fornelli. C’era dentro qualcosa di simile all’aspettativa e alla speranza.
- Sai, Samuele, quest’anno vado in montagna per Capodanno. Luciano ci tiene tanto. – Luciano era suo figlio, quel ragazzino diciottenne che rappresentava una delle cause per le quali Riccardo non avrebbe mai confessato di essere gay. Faceva male pensarci, ma dovette trattenere la battutina acida che gli era salita alle labbra. Per distrarsi, aprì lo sportello in alto a destra, per prendere due tazzine e la zuccheriera. – Pensavo potessi venire anche tu. –
La presa sulla tazzina venne a mancare, e quella cozzò contro il piattino su cui era poggiata. Non cadde a terra per miracolo, ma d’altronde Samuele si era già voltato verso il suo compagno, con il cuore che gli batteva forte come non era mai accaduto. Riccardo lo stava invitando in montagna per capodanno. Con suo figlio.
- Io? Venire con te? –
- Si. Pagherò tutto io, non devi farti problemi. Pensavo che…potrei prenotarti un piccolo chalet, o una stanza in albergo, o qualsiasi cosa vuoi. Mio figlio starà fuori spesso, e mia moglie non verrà. Potrei presentarti come il figlio di un collega, o un amico, e potremmo andare a sciare insieme, o a fare qualche escursione. Potremmo stare un po’ insieme io e te. –
Era troppo bello per essere vero. Ed era stato stupido pensare che Riccardo potesse invitarlo come suo compagno, presentarlo a suo figlio, uscire allo scoperto così, a Capodanno. Era stato stupido però ci aveva sperato lo stesso, che dopo tanti anni qualcosa potesse pur cambiare, come se quella piccola conquista di averlo a cena quella sera fosse  l’anticipazione di qualcosa di più grande.  Non riuscì a trattenere una smorfia, e avrebbe tanto voluto che Riccardo facesse finta di nulla: invece lui parlò, pur restando seduto. L’aroma del caffè, intanto, si stava diffondendo per la piccola cucina.
- Samuele – lo chiamò. Lui gli diede le spalle, armeggiando con la caffettiera. – Non fare quella faccia. –
- Quale faccia? –
- Quella faccia. Come se io fossi uno stronzo –
Tu sei uno stronzo, pensò, perché non hai il coraggio di prendere una cazzo di decisione e dirmi di andarmene a fanculo che non ce la fai più, o chiedermi finalmente di andare in montagna io e te come coppia, e ti comporti come un ragazzino anche se hai cinquant’anni. Ma non lo disse. Si limitò a sospirare, e Riccardo si alzò in piedi, per raggiungerlo. Gli poggiò le mani sulle spalle, avvicinando il viso al suo.
- Lo so, Samuele, lo so. Ma non posso, non ancora. Luciano è all’ultimo anno di scuola, e ho per le mani un caso penale che mi porterà un sacco di soldi, e a cui tengo da morire. Adesso non posso permettermelo. Ma…ti amo, Dio mio! E vorrei che venissi in montagna con me, che passassi l’ultimo dell’anno insieme a me. –
Non si poteva dire di no a quelle parole, a quegli occhi scuri disperati, a quel tocco caldo delle mani sulla pelle, sul collo, sul viso. Avrebbe voluto dirgli che lo sapeva benissimo che non l’avrebbe mai fatto, che non sarebbe mai riuscito a uscirne, che quel non ancora sarebbe stato sospeso tra di loro per sempre, ma non lo fece. Anche se si sentiva il cuore pesante come un macigno, con una crepa al centro profonda come un burrone, non lo fece. Si limitò a sorridere con tutta la dolcezza che aveva dentro, lasciando che le mani di Riccardo risalissero ad accarezzargli uno zigomo. Lo baciò piano, in uno sfiorarsi di labbra che gli accese dentro una scintilla d’eccitazione. Finiva sempre così tra loro: si incontravano, si prendevano un caffè come due amici, e poi si consumavano.
- Il caffè si fredda – soffiò, sulle sue labbra. Riccardo sorrise.
- Lo riscalderemo nel microonde. –
- Devo preparare la cena. –
- La preparerai dopo. Abbiamo tutta la sera. –
Abbiamo tutta la sera. Si sentiva dannatamente bene, adesso.
Chiuse gli occhi, dischiuse le labbra.
In fondo, avevano tutta la sera.
 

§§§

 
- Che c’è scritto qua? –
- Pertanto, Marco! Pertanto! –
Federico poggiò la bottiglietta sul banco, passandosi una mano tra i capelli.
Era stanco, e faceva dannatamente caldo in quell’aula.
Guardò l’orologio: erano passate da poco le sei e mezzo. Dominik doveva essere già tornato a casa.
- Federico, mi passi quella penna? –
Battè le palpebre, mettendo a fuoco una penna nera sul banco. La prese, porgendola alla sua destra.
Quel pomeriggio era andato in facoltà a studiare con Marco e gli altri ragazzi dell’università: con loro due c’erano Greta, una ragazzina con una marea di capelli ricci in testa, ed Enrico, un tizio con la puzza sotto il naso ma che quando si scioglieva un po’ diventava meno insopportabile. Lui lì c’era andato solo perché Marco l’aveva invitato, e perché quel lunedì non lavorava: era riuscito a recuperare un sacco di appunti delle lezioni che si era perso, e aveva trovato un filo conduttore su quello che avrebbe dovuto studiare per la sessione d’esame.
Enrico era uno di quelli tutti perfettini che non faceva che studiare tutto il giorno, lamentandosi puntualmente di quanto fosse stanco e di quanto si stesse facendo il culo per studiare: aveva già pronta una materia per la prima metà di gennaio, e un’altra per metà febbraio. Greta, invece, era un tipo più tranquillo, che si faceva prendere subito dall’ansia: aveva in mente di sostenere un esame a gennaio, ma iniziava a cambiare idea e borbottare che forse sarebbe stato meglio farla a febbraio. Federico e Marco, invece, erano le persone più tranquille del mondo: il primo, perché non gliele importava poi molto, il secondo, invece, perché era una di quelle persone naturalmente intelligenti, che pure se iniziava a studiare due settimane prima dell’esame, finiva per presentarsi pienamente preparato e portarsi a casa un bel 30.
Marco, che aveva appena finito di copiare due fogli di appunti di Greta, stese le braccia in alto, per stiracchiarsi, con uno sbadiglio.
- Ammazza, non mi sento più la mano! – si lamentò.
Federico chiuse la penna.
- Basta! Io mi arrendo! –
- Oh, Greta, lascia perdere pure tu, tra poco ci cacciano tra l’altro! –
La facoltà chiudeva alle sette in punto, e chi si faceva trovare lì a quell’orario non veniva trattato molto gentilmente da chi si occupava della struttura. Federico non vedeva l’ora di tornare a casa, tra l’altro: aveva bisogno di farsi una doccia, e doveva preparare la cena.
Magari avrebbe trovato Dominik intento a suonare, come faceva di solito.
- Fede, domani tu ci sei? – lo chiamò Marco. Federico scosse il capo.
- No, domani pomeriggio lavoro, e di mattina vorrei studiare qualche cosa. –
A loro aveva raccontato una piccola bugia. Aveva detto di star lavorando in una struttura privata, come segretario di un libero professionista, perché se avesse detto di fare il barista, gli avrebbero chiesto dove lavorasse. Nessuno dei tre ragazzi era originario di Milano: Marco veniva da Pavia, Greta da Brescia, mentre Enrico da Opera, un paesino in provincia di Milano. Ma non voleva rischiare inventando il nome di un bar in una zona sconosciuta, perché avrebbe dovuto trovare una scusa se fosse venuto loro in mente di andare a trovarlo.
Si era trovato bene, quel pomeriggio: rapportarsi con dei ragazzi così, con vite prive del timore che attanagliava lui di non essere più amato dai suoi genitori perché era gay, era strano. Nelle ultime settimane era stato solo al locale, o era uscito con Lorenzo, i cui amici erano praticamente tutti gay. A lui la gente etero piaceva: aveva quel non so che di diverso, di nascosto, come se celasse nel petto sempre un segreto inconfessabile. I suoi amici, a Palermo, erano tutti etero, e non si trovava mai a disagio con loro. Certo, quando parlavano di tette e cose del genere non si appassionava tanto, ma Marco ed Enrico non ne parlavano molto. Enrico, soprattutto, probabilmente non vedeva una donna da mesi. E Marco, quando parlava di qualche donna, non annoiava mai troppo, perché, dopo due minuti, capiva che era il caso di cambiare argomento e ripiegava su qualcos’altro, data la scarsa partecipazione.
- Potete venire da me, se vi va, domani mattina. Il mio coinquilino non c’è, possiamo studiare tranquillamente – propose. Era un ottimo modo per mettersi a studiare, quello, evitando di passare la mattina a girovagare per il soggiorno in pigiama o pensare a Manfredi.
Marco accettò subito, semplicemente annuendo. Greta ci mise qualche minuto, arrossendo un po’, ma alla fine mormorò un . Enrico, ovviamente, borbottò che non poteva, perché aveva ancora un sacco da studiare e doveva stare da solo.  Era uno di quegli stronzi che si lamentava sempre di non sapere niente e poi prendeva trenta e lode. Come potesse, un tipo come quello, frequentare uno come Marco, sarebbe rimasto sempre un mistero che Federico non avrebbe voluto approfondire. In fondo, ogni tanto Enrico sapeva essere quasi simpatico.
- Fa l’università, il tuo coinquilino? – gli chiese poi Greta. Scosse il capo.
- No, studia pianoforte al conservatorio. –
- Figo! – la sentì soffiare. A loro non aveva detto che Dominik fosse cieco.
Non perché ci fosse qualcosa di male, ma semplicemente non ce n’era motivo.
Non è amore se devi sottostare. Le parole di Dominik di pochi giorni prima gli ronzavano ancora nel cervello. Perchè quella stessa notte, poi, aveva sognato Manfredi: il sogno era ambientato a Palermo, a casa sua, in uno dei pomeriggi che passavano chiusi in casa a baciarsi approfittando del fatto che i suoi genitori fossero a lavoro fino alle cinque e mezzo. C’era stata quella volta in cui Manfredi si era allontanato da lui, perché quei baci, quelle tenerezze che si scambiavano, erano troppo per entrambi. Non mi asfissiare, Federico. Glielo aveva mormorato una mattina a scuola, e in quel sogno glielo stava urlando. E, quella volta, sette anni prima, era stato lui a cercarlo, a chiamarlo, quasi a pregarlo, come sempre, per strapparlo alle sue parole e averlo finalmente tutto per sè. Sottostava sempre, pur di vederlo felice. Non è amore se devi sottostare.
Però a Manfredi ci pensava sempre lo stesso. Nonostante lo avesse detto a Samuele, che Manfredi era ormai qualcosa che aveva sotto la pelle, continuava ad essere un pensiero fisso.
E a Samuele non aveva neppure confessato che avessero fatto l’amore.
Non avevano mai fatto l’amore così, loro due, o forse si, e non se ne ricordava perché tutto il dolore, e il rancore, gli offuscavano i pensieri.
Però Manfredi c’era sempre e comunque, nella mente.
Solo che, ogni giorno che passava, c’era sempre un po’ di meno.
Sarebbe stata una differenza impercettibile per chiunque, però c’era. Manfredi non se ne sarebbe mai andato, ma aveva bisogno che si allontanasse ancora, solo un altro po’.
E ogni giorno, impercettibile anche questo, notava qualcosa in più di Dominik.
Un modo particolare di togliersi i capelli da viso, di sollevare le maniche del maglione per scoprire le mani, un accento diverso nel modo di dire qualche parola, o un modo diverso di inclinare il capo quando suonava.
Era bello scoprire quei piccoli dettagli; era come sentire che quel muro che li divideva diventava sempre più sottile, come pensare di poterlo catturare senza vederselo poi scivolare come l’acqua quando tentavi di intrappolarla tra le dita. Di Dominik gli piacevano le mani: non ne aveva mai viste così belle.
Ogni giorno scopriva poi anche qualcosa in più di Samuele: uno sguardo triste, una risata, un tralcio di passato, una paura nuova, e un affetto sconosciuto.
Era impossibile. Impossibile avere un cuore abbastanza grande per metterci dentro tutti quei tipi d’amore.
 

§§§

 
Il 101 era pieno a tappo come sempre.
Manfredi sbuffò, infilando le mani nelle tasche del giubbotto.
Non era stata un’idea intelligente andare in centro con i mezzi pubblici.
Avrebbe dovuto andare alla stazione a piedi, adesso, per sperare di tornare a casa prima dell’alba.
Solo che non aveva voluto prendere la macchina.
La macchina, per andare in centro, la prendeva sempre quando era con Federico, perché gli piaceva vederlo insistere che avrebbero fatto meglio a prendere l’autobus, che non avrebbero avuto dove parcheggiare quel catorcio, e poi vederlo sorridere quando si lasciava sfuggire che gli piaceva la macchina perché così poteva tenerlo per mano.
Federico se ne era andato.
Non se ne era andato solo con il corpo, ma anche con l’anima, e lui si sentiva dentro quella sensazione di vuoto e di affanno che lo aveva preso quando, a diciotto anni, dopo il loro primo bacio, per gioco, Federico lo aveva allontanato per il terrore di tutto quello che stava provando.
Allora l’aveva fermato: lo aveva afferrato per il viso, e l’aveva baciato. Le mani di Federico lo avevano respinto, poi lo avevano stretto più forte, e gli avevano toccato la pelle, brucianti.
Le mani di Federico erano sempre caldissime, e morbide.
Adesso no. Non l’aveva fermato. E se anche l’avesse fatto, Federico sarebbe comunque scivolato via.
Era Milano, ormai, il suo mondo. Milano, il suo lavoro, i suoi amici che non si erano vergognati di confessare quello che erano, e che gli stavano dando coraggio: prima o poi Federico avrebbe detto la verità, ne era certo. Magari non subito, perché non ce ne sarebbe stato motivo. Ma un giorno si sarebbe innamorato ancora, e allora avrebbe avuto di nuovo quel sentimento ad animarlo, e avrebbe detto la verità ai suoi genitori. E lui sarebbe rimasto fuori da quel cerchio, a guardare inerme, e forse, allora, non ci sarebbe nemmeno stato.
Lui che aveva promesso che ci sarebbe stato sempre, che lo avrebbe aiutato, che non gli avrebbe permesso di farsi del male, o di farsene fare dagli altri, forse non ci sarebbe stato.
Perché Federico se ne era andato.
Se ne era andato con una risata al suo amico cameriere al locale.
Se ne era andato con uno sguardo dal basso, più duro e freddo di quelli che gli rivolgeva di solito, che non si era nemmeno accorto del cambiamento.
Se ne era andato con un racconto di quel suo amico Samuele, che era un uomo magnifico e che lo faceva sentire sempre forte, che gli dava buoni consigli anche se aveva un compagno in segreto, e che non voleva finire come lui.
Se ne era andato con un sorriso silenzioso a Dominik, mentre lo vedeva apparecchiare la tavola e inciampare, perché era troppo cocciuto per lasciar fare a lui che poteva vedere dove metteva i piedi.
Se ne era andato, Federico, senza nemmeno una telefonata.
Sei la persona più importante che ho al mondo, lo sai vero? Non ti lascerò solo, te lo prometto. Ci sarò sempre, scalerò le montagne, prenderò tutti gli aerei del mondo per te. Solo che adesso dobbiamo lasciarci andare, Manfredi.
L’aveva lasciato andare così, senza nemmeno una lacrima.
E non gli importava che ci sarebbe stato, che sarebbe stato pronto a prendere un aereo e tornare subito a Palermo se glielo avesse chiesto, perché lo avrebbe fatto, ne era sicuro. Ma non gli importava perché Federico, per un pezzo, non c’era già più, e lui lo voleva tutto.
Era giusto, doveva lasciarlo andare.
Dovevano farlo, strappare quel filo di carne che li teneva uniti così e che li avrebbe distrutti.
Era giusto, per Federico.
 

§§§

 
- Federico! –
Stava ridendo. E lo aveva pizzicato. Lui lo aveva pizzicato prima. E Federico prima ancora. E lui ancora prima.
Aveva iniziato lui a pizzicarlo, perché Federico si era lasciato cadere sul divano con tanta forza che per il contraccolpo Dominik era quasi caduto dal divano. E allora lo aveva pizzicato. E avevano preso a pizzicarsi a vicenda.
- Me lo fai sentire o no questo esercizio? –
- No! –
Federico era tornato allegro quel pomeriggio. Era arrivato ridendo, e in bagno, mentre faceva la doccia, aveva canticchiato. Aveva preparato l’insalata, e il formaggio, e il prosciutto, chiedendogli di raccontare come fosse andata la giornata, e cosa avesse fatto.
Lui si era lasciato sfuggire che la maestra gli aveva assegnato un nuovo esercizio difficile, ma che era riuscito quasi a padroneggiarlo nel giro di una giornata: da allora, Federico aveva iniziato a tormentarlo per sentire quell’esercizio. Non voleva farglielo sentire: gli esercizi non costruivano niente, mentre Federico doveva vedere i palazzi, le macchine, i boschi, gli animali, le persone.
Federico lo pizzicò di nuovo, questa volta sul piede nudo.
- E dai, Dom! Non fare il rompipalle! –
Dominik fece una smorfia, per nascondere un  sorriso divertito. Quando Federico usava quel tono, quella voce alta, quasi in falsetto, ma lievemente roca, significava che fosse davvero esasperato.
Ed era divertente.
Ma la risposta era comunque no.
- No. –
- Ti faccio la cioccolata se me lo fai sentire! –
Ricattatore. Dominik sbuffò. Si alzò in piedi.
Era diventato magicamente un sì.
Ma solo per la cioccolata.
Si sedette dietro al pianoforte, schivando la borsa di Federico. Avevano raggiunto un accordo, dato che il suo coinquilino non riusciva a mantenere una parvenza di ordine. Aveva il permesso di lasciare la sua borsa in giro, ma sempre nello stesso punto, di fianco al divano. Così la scansava sempre. Si sedette dietro al pianoforte ancora aperto dal pomeriggio, poggiando le dita sui tasti. Se lo ricordava bene, nonostante avrebbe fatto bene a studiarlo ancora.
Federico era sul divano.
E andava bene, che forse non stava suonando poi solo per la cioccolata.
Iniziò a suonare; era un esercizio allegro, rapido, fatto tutto di crome e di biscrome, che permetteva a malapena di pensare, e faceva quasi male alle dita. Era per la verifica. Se lo farai come sono certa che puoi fare, Dominik, avrai un voto ottimo, gli aveva detto la maestra.
Ovviamente, l’avrebbe svolto meglio di quanto lei si aspettasse.
Era così concentrato che non sentì la presenza di Federico alle spalle fino a quando non lo udì parlare, ed era così sorpreso, per quel gesto improvviso, che finì per premere con forza le mani sui tasti, sobbalzando.
- Cosa sono, crome? –
- E biscrome – borbottò. Odiava che Federico lo raggiungesse alle spalle, e lui lo sapeva bene; solo che quella sera sembrava aver deciso di dimenticare qualsiasi cosa e fare quello che gli pareva.
Era come se fosse stranamente leggero.
Lo udì fischiare, un fischio lungo e prolungato, lievemente acuto.
- Alla faccia! Io odiavo le crome, figurati le biscrome! Mi veniva da piangere quando mi capitavano in un esercizio! – Dominik fece una smorfia. A lui piacevano tanto le biscrome, e glielo avrebbe anche detto, se Federico non gli si fosse seduto di fianco così rapidamente da fargli girare la testa. Era strano, quella sera, ma non riusciva ad arrabbiarsi con lui. Lo aveva avuto troppo vicino, e troppo repentinamente, ma Federico non la smetteva di parlare. – Insegnami un po’ questi tasti! –
- Quali? –
- Quelli del pianoforte, quali! –
- Ma non puoi impararli così, ci vuole concentrazione e… -
- E, e, sempre e! Dai, dimmelo! –
Dominik represse un sorriso, seguendo il profilo dei tasti con la punta delle dita.
C’era sempre una strana magia reverenziale nei tasti del pianoforte, in quell’ordine perfetto di suoni, nella corrispondenza straordinaria di linee.
Sfiorò per caso il braccio di Federico: era scoperto, doveva aver sollevato le maniche del maglione.  I tasti erano lisci, ma qualcuno era caldo: Federico doveva averlo sfiorato, e toccare quei tasti adesso era un po’ come toccare le sue mani morbide, con le dita un po’ grosse, dai mignoli un po’ storti. Erano belle le mani di Federico, rassicuranti. Premette un tasto freddo. Federico non aveva toccato lì.
- Questo è il do – iniziò a spiegargli.
Era un po’ come spiegare a qualcuno che già sapeva quelle cose, ma che le aveva dimenticate per uno scherzo del destino. Federico conosceva le note, e i diesis, i bemolle, e voleva solo sapere dove fossero collocati in quel pianoforte. Gli spiegò come usare i pedali, e i trucchi per modulare quel suono morbido e grave. Gli pareva di parlare da ore, e Federico lo ascoltava in silenzio, premendo qualche tasto ogni tanto. Era bello parlare di musica così, con lui. Era come ritrovare un vecchio amico. E quando smise di parlare gli parve di aver detto tutto, eppure di avere ancora tante cose da dirgli sulla musica, ma Federico era già oltre, con la mente.
- Il clarinetto sembra più facile! Ne hai mai toccato uno? Lo sai suonare? –
Scosse il capo. Lo aveva toccato una sola volta, quando la maestra gli aveva parlato degli strumenti musicali e gli aveva permesso di sfiorarne uno per capire come fosse fatto. Legno caldo e metallo, tanto metallo. Sembrava uno strumento di tortura.
- E’ più facile, davvero! Se qualche volta vieni a Palermo ti faccio vedere il mio, puoi provarlo! Ma ci vuole un fiato maledetto! Guarda, ti faccio vedere! –
Era una sensazione strana quella che sentiva nello stomaco quando Federico parlava di Palermo e ipotizzava che lui andasse a trovarlo: non era un invito vuoto, tanto per dire, ma parlava sul serio. Era come sentirsi avvolgere da un suo braccio e rifugiarsi in tutto quel calore
Prima di capire dove diamine fosse e cosa stesse succedendo, però, Federico era alle sua spalle. Non stava parlando, ma aveva respirato, e il suo fiato caldo lo aveva colpito vicinissimo sul collo. Era troppo vicino, ed era improvviso.
Federico respirava al suo stesso ritmo, e ogni soffio sul collo gli provocava una sensazione strana nello stomaco.
Ma Federico era dietro di lui, lo aveva circondato con le braccia e gli aveva preso le mani nelle sue, stringendole come a formare un becco, come se stesse tenendo un bastone con le dita.
E le muoveva, come un burattinaio con le marionette.
- Ecco, guarda, le dita di mettono sui tasti tranne i mignoli, che servono per le leve. Con il mignolo destro e quello sinistro si toccano due leve per fare il do, una sola per il re, e poi con le dita il mi, il fa e il sol e…no aspetta, il mi si faceva con le leve, e allora il fa, il sol e il la e poi il si…bah, comunque! Con la mano sinistra si fa il do, e vai sulla leva, e poi il re, il mi, il fa con questa levetta…o forse, no…aspetta, per il si si premeva dietro e…Oddio, ci credi che non mi ricordo più come si suona? –
Ridevano entrambi adesso. Dominik stava ridacchiando da un po’, mentre Federico gli muoveva le mani e gli agitava le dita, percorrendo una scia di ricordi in dissolvenza. Si immaginava con un clarinetto in mano, a suonare anche lui qualcosa, e a soffiare in quello strumento, perché il clarinetto era uno strumento a fiato. E anche se Federico aveva smesso di muovergli le dita per imitare i movimenti sui tasti del clarinetto, teneva le mani ancora intorno alle sue, caldissime contro la sua pelle fresca, e alle sue spalle rideva, come ubriaco d’eccitazione. Doveva essere davvero di buonumore.
- Ti piaceva suonare? –
- Si, credo di si. Per carità, non era proprio come per te, che ti alzi ogni giorno e non desideri fare altro. A me piaceva, mi rilassava, ma ogni tanto mi seccava da morire…però mi piaceva, si. –
Dominik inclinò la testa di lato. In quel momento, Federico gli lasciò le mani, e i suoi passi sul pavimento si allontanarono fino a esaurirsi nel silenzio all’altezza del divano.
Non si spiegava come potesse essersi stancato della musica, come potesse addirittura esserne seccato. La musica era sempre qualcosa di diverso, non annoiava mai.
- Perché ti seccava? –
- Perché, te l’ho detto, io non sono come te.  Suonare mi piaceva, ma dovevo farlo solo per me, quando volevo io, senza sottostare a giorni di lezioni settimanali e ore di prove. –
- Ma la musica è anche questo, ed è bella proprio per questo, perché ogni singolo istante, anche di prove o di esercizi, è comunque una scusa per suonare – cercò di spiegargli.
Questa volta era tranquillo, non si arrabbiava più con Federico.
Loro due erano completamente diversi, e se Federico aveva imparato ad accettare il fatto che lui non volesse uscire, non sarebbe stato per lui tanto difficile accettare che Federico avesse della musica un’immagine diversa dalla sua. Però continuava a non comprenderlo, quel suo modo di vedere. Federico si mosse sul divano, e il fruscio dei suoi vestiti sulla stoffa riempì la stanza.
- Credo di non essere fatto per la musica. Io sono per le emozioni forti, Dom, per quei momenti che ti tolgono completamente il fiato e in cui perdi del tutto il controllo. Con la musica non puoi farlo: devi stare sempre attento alle regole, alle note, al solfeggio, ai movimenti, altrimenti lei perde il suo equilibrio con se stessa e con quella che suonano gli altri. E’ per questo che per te è così bella. Tu vuoi avere sempre tutto sotto controllo, in equilibrio. Hai paura delle emozioni forti che piacciono a me. –
- Non è vero! –
- Si che è vero. Non vuoi uscire con me perché non ti piace, e non ti piace perché in fondo hai paura di avere a che fare con qualcuno o qualcosa che esca fuori dai tuoi schermi. Perché le persone sono imprevedibili, non puoi controllarle come fai con le tue note, e non ti va bene. Hai paura di non avere tutto sotto controllo. E la sai una cosa? Puoi anche dire che non ti importa, che stai bene così, che hai tutto quello che cerchi, ma la verità è che ti fa paura essere cieco. –
Fu come ricevere un pugno nello stomaco. Uno di quelli forti, con il dolore che non arrivava subito, ma pochi secondi dopo l’urto: solo che, quando arrivava, si portava via tutte cose come una marea.
Ti fa paura essere cieco.
Tutto quello che aveva costruito ed eretto, in diciotto anni, stava venendo giù come una casa dopo un terremoto. Non aveva paura, non era vero. Non era paura quella sensazione di soffocamento che lo prendeva la notte dopo un brutto sogno in cui i rumori diventavano assordanti e il buio era sempre buio. Non erano paura le lacrime di un bambino di sette anni perché non poteva giocare a pallone con gli altri bambini. Non era paura quel pensiero di sentirsi morire tutte le volte che Federico gli chiedeva di uscire e lui rispondeva di no.
Non era più paura.
Non era più paura da quando non ci piangeva sopra, da quando la musica era diventata un rifugio sicuro e niente, oltre quella, sarebbe mai potuta essere un mondo per lui.
Si alzò in piedi, abbandonando il pianoforte. Aveva voglia di andare a dormire per non pensarci più. Non era arrabbiato con Federico, ma doveva metabolizzare quello che gli aveva detto, quello che realmente pensasse di lui, che era un codardo.
- Aspetta, dove vai? –
- A dormire. –
- Ti sei arrabbiato? – Federico si era alzato in piedi, ed era più vicino, perché subito sentì il tocco caldo della mano di Federico sul braccio, al di sopra del maglione. Si voltò, con una mano tesa per sfiorargli il petto e poter capire di essere di fronte al suo viso.
- No – confessò, stranamente sincero. La mano di Federico allentò la presa.
- Non ti voglio criticare, ma voglio solo farti capire che secondo me sbagli, che…cioè, voglio capirti. Siamo amici, no? E vorrei capire se ti comporti così perché davvero lo vuoi o perché hai paura e non lo vuoi ammettere. –
- Perché lo vuoi sapere? –
- Perché…perché è così. Tu non sei sempre insopportabile. Ok, il più delle volte lo sei, ma non sempre, e sei un bravo ragazzo. Hai diciotto anni e non voglio che ti privi di fare qualcosa perché hai paura che qualcosa possa andare male, perché ci sarebbero tante persone pronte ad aiutarti. E accettare l’aiuto altri non è una cosa sbagliata. Poi, se davvero ti piace vivere così va bene, ti lascerò in pace. Ma secondo me non è così, altrimenti non ti saresti divertito quella volta che siamo usciti, e non sorrideresti o scherzeresti con me a casa. Come lo fai a casa, potresti farlo fuori. Non devi avere paura. –
Federico non era mai stato tanto diretto con lui, né tanto dannatamente sincero. Era dolce il modo in cui parlava, in cui la sua voce si piegava, quasi, per seguire il filo de suoi pensieri e dei suoi sentimenti, e il modo in cui cercava di comprendere quello che pensava. Nonostante tutti i suoi sforzi, non avrebbe mai potuto davvero capire cosa significasse essere cieco.
Però era tenero, perché ci provava davvero, e non solo per quel moralismo fasullo.
Dominik fece scivolare la mano fino al braccio, incontrando la mano di Federico e sfiorandola appena; poi infilò il pollice sotto il suo palmo, spingendolo a lasciarlo. Federico reagì irrigidendosi, perché probabilmente credeva che fosse arrabbiato. Ma non era arrabbiato, voleva solo incontrare il calore della sua pelle. Per questo fece scivolare le dita intorno alla sua mano, stringendola appena e percependone il calore bollente.
- Tu non sai cosa significa. Non è paura. Avevo paura quando ero bambino, del buio, delle persone. Adesso no. E’ solo che la musica è un terreno familiare, dove sono io che decido tutto quello che succede, ma non solo. A volte è la musica che decide, ed è imprevedibile. Forse è come dici tu, non sono fatto per le emozioni forti, ma non è vero che ho sempre tutto sotto controllo. –
Lasciò andare la sua mano quando lo udì sospirare appena.
- E pure tu hai paura, cosa credi? Hai paura di qualcosa, quando sei da solo e resti a pensare, anche se non ho ancora capito cosa. –
Federico rimase in silenzio. Era di fronte a lui, con il respiro che gli soffiava sul viso, ma non lo stava più toccando dopo che lui gli aveva lasciato la mano. Dominik sentiva le mani sudate: forse Federico si sarebbe arrabbiato, o gli avrebbe chiesto spiegazioni, e lui non sapeva cosa dirgli, perché era solo una sensazione la sua, come se Federico, ogni tanto, avesse a che fare con dei fantasmi. Non sapeva come avessero fatto a passare dalla leggerezza degli scherzi dietro al pianoforte a quelle confessioni sussurrate.
- Touchè – mormorò invece Federico, e gli parve di capire che stesse almeno sorridendo. Non si era arrabbiato. – Ma me lo dici allora se ti piacerebbe uscire qualche altra volta? Io, te e Samuele. Samuele va bene, no? –
- Samuele è ok – borbottò. L’idea di uscire con Federico non era tanto cattiva, l’ultima volta le cose erano andate bene, si erano divertiti, e Milano era ancora una citta grandissima per vederla tutta in un solo giorno. – Però adesso devo studiare per la verifica, e poi torno a Praga. –
- Dopo Natale, allora? –
- Mh. Dopo Natale. –
- Non ti sto obbligando, va bene? Se non vuoi, se davvero non ti importa, puoi restartene a casa. Non è un mio problema. –
Dominik fece una smorfia, perché non sopportava quando lui perdeva la pazienza e parlava così. Però in fondo aveva ragione, non aveva mostrato tanto entusiasmo, non tutto quello che si sentiva dentro, almeno. Solo che l’entusiasmo poi andava a cozzare con la sensazione di inadeguatezza per il trovarsi in un mondo così estraneo. A lui piaceva anche stare a casa, con Federico. Era un po’ la stessa cosa, in fondo, se erano insieme: sul divano o in giro per Milano cosa importava?
- No, voglio uscire, se ci sei tu. Va bene – ammise alla fine. – Però non ho paura. –
Invece aveva una paura boia.
Paura di quello che non vedeva, di quello che la gente faceva senza che lui potesse accorgersene, della macchine, degli animali, delle banconote.
Aveva paura anche delle emozioni forti.
Aveva paura del respiro di Federico quando era così vicino, delle sue mani quando lo toccava, delle sue parole quando decideva di essere così sincero. Aveva paura della sua paura, quando era da solo e si metteva a pensare, e lui aveva la sensazione di non poter fare niente per strapparlo  a quei fantasmi.
Però iniziava ad avere anche meno paura.
Federico, nel suo mondo, era un’emozione forte, e non aveva paura di lui.





(1) Il titolo del capitolo è un verso della canzone La donna cannone di De Gregori.
Nota al capitolo 17
Eccomi qui! 
Avrei dovuto postare domani, ma dato che non posso, ho anticipato.
E' un capitolo particolare e volutamente diverso: ho voluto mostrare un po' di Samuele e Riccardo, perchè lui era una presenza ancora sfocata, e volevo che si vedesse qualcosa di lui, per comprendere meglio Samuele. Poi c'è stata una parentesi su Federico con i ragazzi dell'università, perchp voglio "ghettizzare" questa storia al solo mondo del locale dove lavora.
Un piccolo stralcio di Manfredi, per capire come è finita quella parte della storia, e infine Dominik.
Federico non è impazzito per dirgli quelle cose, credetemi. xD Nel prossimo capitolo ci sarà il suo punto di vista dove si chiarirà perchè si è comportato in modo così espansivo per poi colpirlo così all'improvviso.
Però c'è un grande passo avanti in questo capitolo, e spero che possa colpirvi come ha colpito me, nella sua semplicità.
Stanno cambiando entrambi, anche se non se ne rendono poi conto davvero.
Ringrazio tutti coloro che stanno seguendo questa storia con passione, che mi scrivono delle recensioni meravigliose, o dei messaggi in privato, o semplicemente ci sono, con il loro silenzio, ma ci sono.
Vi ringrazio tutti, e vi mando un bacio, sperando che questo capitolo possa piacervi, perchè ci tengo davvero molto.
Esse

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Capitolo 19
*** 18th: 1334 ***



Non si è mai lontani abbastanza per trovarsi.

Alessandro BariccoOceano mare, 1993

 

Chapter 18th:  1334
 
- E ti ho mandato una sorpresa tesoro, dovrebbe arrivare presto! –
- Si, mamma, grazie! –
- E stai attento, non farmi stare in pensiero! –
- D’accordo, si, va bene, ciao! –
Federico chiuse la chiamata con uno sbuffo, lasciandosi cadere sul letto.
Dal soggiorno arrivavano le note di una sonata triste, una delle preferite di Dominik, visto che la suonava praticamente sempre.
Si era svegliato presto, nonostante non avesse lezione in Conservatorio: gli insegnanti avevano deciso di sospendere le lezioni per permettere ai ragazzi di studiare bene per le verifiche che si sarebbero tenute da lunedì 17 fino a venerdì 21 dicembre. Dopodiché, vacanze di natale per tutti.
Quella sarebbe stata, di conseguenza, una settimana strana.
Non era mai capitato che Dominik si trovasse in casa tutto il giorno: erano solo due giorni che succedeva, e non ne poteva già più. Da quando avevano avuto quella piccola e insignificante discussione, il lunedì precedente, Dominik era tornato esattamente quello che era prima. Un po’ scassacazzi, sicuramente insopportabile e lievemente stronzo. Poco lievemente.
Ma a Federico non importava: anche se non l’avrebbe mai ammesso, Dominik si comportava così perché era in ansia per la verifica. E avrebbe potuto giustificarsi per un giorno intero, professare la propria bravura e ciarlare di quanto fosse preparato e magnificamente pronto…ma aveva fifa.
Una fifa assurda. Trasudava nello strano modo nervoso che aveva di farsi sfuggire i fogli di mano, o di sfruttare ogni secondo possibile per studiare, rinunciando anche a quella piccola routine di guardare la tv insieme.
Era la sera, il momento della giornata in cui tornava più sopportabile.
La sera suonava un po’, dopo cena, ma quando vedeva che lui stava per andare a letto, si metteva seduto per qualche minuto nella sua poltrona, parlandogli di una cosa qualsiasi o chiedendogli come fosse andata la giornata e cosa avesse fatto. Si rilassava, la sera, perché sentiva che la giornata era andata bene, non era stata infruttuosa, e lo aveva portato esattamente dove voleva essere. Era quando restava troppo da solo che diventava insopportabile
Se c’era una cosa che aveva imparato di Dominik, in quelle ultime settimane, era che non si doveva mai dargli il tempo di pensare, perché quando pensava diventava uno scassacazzi senza limiti. Quando veniva travolto da qualcosa, dalle emozioni, dalle sensazioni, allora diventava una persona normale con i piedi per terra. Per questo Samuele era riuscito a fargli dire di sì a qualsiasi cosa, quando lo aveva conosciuto, perché aveva iniziato a parlare a raffica, senza dargli tempo di rimettere in ordine le idee.
Aveva fatto così anche lui tre sere prima. Non gli aveva dato tempo di arrabbiarsi, di pensare, di lamentarsi.
Lo aveva travolto di richieste, di parole, di risate, e Dominik era emerso per quello che era: un ragazzino che sapeva ridere, scherzare, persino parlare di cose normali.
Per questo non aveva reagito male quando gli aveva spiattellato in faccia la verità, perché quella era la verità eccome. Poteva essere stato duro, senza cuore o cose del genere, ma quella era la verità.
Dominik era una persona normale, e come tutte le persone normali aveva paura di quello che gli avrebbe riservato la vita, a maggior ragione perché era un ragazzino cieco in un mondo di sciacalli approfittatori. Quello che voleva fargli capire, per una volta, era che chiedere aiuto, o accettarlo, non sarebbe stato male, e gli avrebbe permesso di vivere più tranquillamente, e di fare tutte le cose che facevano i ragazzi della sua età. Da bambino aveva avuto un’infanzia normale perché c’era stata sua madre, che l’aveva aiutato; adesso, da adolescente, si stava perdendo un sacco di cose perché non voleva l’aiuto di nessuno, ed era un peccato.
Per carità, sempre fondamentalmente uno scassacazzi restava, eh.
Il suono del citofono lo fece sobbalzare. A quell’ora di mattina, poteva essere solo Samuele che passava da lì tornando dalla palestra, magari per farsi invitare a pranzo.
Si alzò, lasciando la sua stanza per attraversare il soggiorno. Dominik aveva smesso di suonare.
- Chi è? – gli chiese.
- Samuele, credo – rispose semplicemente. Alzò la cornetta, con un lieve sbuffo. – Si? –
- Posta! – rispose una voce melodiosa ma lievemente roca.
Premette il tasto per aprire il portone senza nemmeno rispondere, chiudendo di scatto.
- Era il postino – borbottò. Per quale diavolo di motivo suonavano sempre da lui, poi? Almeno cinque giorni su sette. Forse gli altri due giorni toccava alla signora Livolsi, o magari al ciccione del piano di sopra.
Probabilmente, anzi, da lui non provavano nemmeno, perché era così grasso da doverci mettere mesi prima di alzarsi dal divano e rispondere al citofono.
Solo che poi suonarono alla porta.
Federico fissò l’uscio stranito, come se uno sguardo potesse fargli scoprire chi ci fosse dietro. Era a dir poco bizzarro.
- Chi è? – chiese, da dietro la porta. Il diretto interessato, intelligentemente, aveva messo il dito davanti lo spioncino, impedendogli di vedere qualsiasi cosa.
Poteva essere solo una persona.
E ti ho mandato una sorpresa tesoro, dovrebbe arrivare presto.
- Sorpresa! –
Federico aprì la porta prima ancora di sentire la voce.
Oh Santa Madre, perché?!
Due braccia sottili gli si artigliarono al collo con tanta forza da farlo  quasi cadere all’indietro.
- Sono così contenta di vederti, fatti abbracciare! – gli urlò praticamente in un orecchio, incurante del fatto che lo stesse già stritolando, lasciandolo senza fiato.
- Ma chi è, Federico? –
La voce di Dominik sembrò una corda provvidenziale per ritornare alla realtà. Era stranita, ma aveva intuito che non doveva trattarsi del postino. Aveva smesso di suonare, ma non aveva staccato le mani dal pianoforte, quasi fosse un modo per sentirsi più al sicuro.
Federico sospirò, stringendo le braccia intorno a quel corpo femminile.
- Nulla, Dom. E’ solo mia sorella. –
Non vedeva Milena da  quando era partito per Milano, e prima ancora era stata lei a partire per una vacanza con il suo nuovo maritino. Era sempre la stessa, però: lo stesso modo di vestire, la stessa voce melodiosa, lo stesso vizio di mettere il dito sullo spioncino e di salutare con un abbraccio. Anche se aveva ventotto anni, era sempre uguale alla ragazzina che era a diciassette.
Non si somigliavano per nulla, in quello. L’unica cosa che avevano in comune era l’impulsività: solo che Milena era molto peggio. L’ultima cosa che aveva combinato era stata iscriversi all’università a Parma, in Medicina, e poi chiedere trasferimento a Palermo ad un anno dalla laurea, quando le mancavano solo quattro esami, ed elemosinare un qualche professore libero che la aiutasse con la tesi. Così si era laureata con un anno di ritardo, e aveva intrapreso la specializzazione in Medicina Legale. Era al primo anno, e nel marzo di quello stesso anno si era sposata con Michele, un ragazzo che conosceva da meno di un anno e che amava alla follia, dopo aver lasciato in tronco Piero, con cui era fidanzata da quando aveva sedici anni.
Milena era così. Non solo non pensava prima di fare le cose, ma neppure dopo che le aveva fatte.
Però era felice, adesso, con il marito e con la specializzazione che voleva.
- Solo tua sorella? Io sono la tua adorata sorella maggiore!! Ed esigo che mi presenti il tuo coinquilino come si deve! –
Federico scoppiò a ridere di fronte all’esuberanza di sua sorella.
Sarebbe dovuta essere cresciuta, matura, posata: aveva sposato un tizio che era l’opposto di lei, sempre in camicia e giacca, che lavorava come impiegato al comune e che pareva noiosissimo. Lei, però, si era affrettata  a precisargli che fosse una cosa meravigliosa a letto, e che la facesse ridere.
Milena aveva sempre bisogno di qualcuno che la facesse ridere e Piero, il ragazzo con cui stava prima, non faceva per lei, perché stava troppo zitto, e poi era troppo impulsivo, come lei.
La vide entrare in casa, trascinandosi dietro un trolley di un fucsia acceso, completo di beauty-case intonato, che stonava parecchio con il resto del look: un paio di pantaloni scuri a vita alta, una camicetta beige, una sciarpa dello stesso colore e un cappottino che doveva esserle costato un occhio della testa. Portava i capelli raccolti in uno chignon che la faceva sembrare addirittura più grande.
- Ma com’è che sei qua tu? – le chiese, sistemandosi la tuta sulle spalle. Milena si guardò intorno, posando lo sguardo su Dominik, che era rimasto seduto al pianoforte a studiare gli spartiti, a testa bassa. Poi lo sguardo verde scuro di sua sorella si posò di nuovo su di lui.
- Devo incontrare il professor Alberti al San Raffale, e ho pensato quale occasione migliore per venire a trovare il mio fratellino che non mi fa mai nemmeno una telefonata? –
- Oh, non fare la melodrammatica che ti riesce malissimo! – la prese in giro. Poi il suo sguardo andò al ragazzino. Non stava studiando, Dominik, perché non teneva le dita sugli spartiti: li stava fissando, ovviamente senza vederli, troppo concentrato su quello che gli stava accadendo intorno, e cercando di capire chi fosse quella strana donna.
- Dominik, lei è mia sorella Milena, che, ci tengo a sottolineare, non mi somiglia affatto. Lui è Dominik – snocciolò in fretta. Temeva il momento in cui Milena avrebbe scoperto di Dominik: non aveva detto nemmeno a sua madre che il ragazzo con cui divideva la casa fosse cieco, perché lei avrebbe iniziato a farsi mille paranoie, a telefonare sempre, a chiedergli come stesse il caro e sfortunato ragazzo, e l’ultima cosa che voleva era far pensare a Dominik di essere trattato come un disabile.
- Certo che non ci somigliamo, te l’ho sempre detto che te ti hanno adottato! Comunque non ascoltarlo, Dominik, sono molto meglio di lui! E’ un piacere conoscerti! –
Milena si avvicinò al ragazzino, con una mano tesa, e lui sollevò il capo, drizzando le orecchie al pari di un gatto. Voltò anche il viso verso di lei, come se potesse vederla, e tese una mano in avanti, sperando di incontrare la sua. Milena lo vide subito. Lo lesse, Federico, lo stupore sul suo sguardo, ma non si scompose. Si limitò a modificare la traiettoria della mano fino a incontrare quella di Dominik, stringendola tranquillamente.
- Suoni il pianoforte? –
- Si, studio al Conservatorio. –
- Wow, che bello. Anch’io ho studiato pianoforte da bambina, però poi ho smesso perché ho iniziato a giocare a pallavolo. Federico è stato scemo, suonava il clarinetto ed era bravissimo, te l’ha detto? Gliel’hai detto, vero? –
Federico provò un profondo affetto per sua sorella, in quel momento.
Non aveva fatto una piega, neppure il minimo stupore, nessuna variazione nel tono di voce o nei movimenti, che Dominik avrebbe percepito anche quello. Per una come lei, per un medico, quel tatto doveva essere alla base di tutto. E anche se era logorroica, un po’ irritante, impulsiva e priva di ogni regola, Milena era un medico con i controcazzi. E per Dominik quello era importante, trovarsi di fronte ad una persona che non lo trattasse diversamente da come avrebbe fatto se lui non fosse stato cieco. Stava sorridendo lievemente, infatti, e aveva messo da parte i suoi spartiti.
- Si, me lo ha detto. Mi sarebbe piaciuto sentirlo. –
- Oh, non c’è problema, a casa abbiamo tutti i filmini, mio padre non si è perso un solo saggio! Quando torno a Palermo lo spedisco a Federico via mail, così ti fa sentire! –
Dominik sorrise di nuovo.
- Comunque non è vero che non vi somigliate. –
Quella era la cazzata delle undici e mezzo. Lui e Milena erano i due punti opposti dell’universo, era impossibile immaginare che fossero cresciuti nella stessa casa e nati dagli stessi genitori.
Anche fisicamente non si somigliavano molto. Lei aveva preso tutto dalla madre; era piccolina, con un corpo esile e il viso rotondo, la pelle un po’ olivastra e gli occhi verde scuro. Lui era l’opposto, alto, pallidissimo come una mozzarella e con gli occhi nerissimi della famiglia di suo padre. Da quando poi, a sedici anni, a Milena era presa la mania di tingere i capelli neri di biondo, la differenza era stata ancora più marcata. Anche quando sorrideva, Milena era più dolce di lui.
Ma Dominik sembrava fermamente convinto di quello che stava dicendo, anche quando Federico borbottò.
- Siamo due mondi opposti, Dominik! –
- Non è vero. Io e te siamo due mondi opposti. Tu e Manfredi, tu e Samuele. Voi due no…non proprio. E’ la voce forse. Avete la voce buona, tutti e due. –
Federico avrebbe voluto prendergli il viso tra le mani e baciarlo.
Baciarlo e basta, senza malizia, senza sensualità.
Baciarlo solo perché c’era una semplicità, nel modo in cui parlava, che gli faceva venir voglia di fare qualsiasi cosa per spegnere il calore nel petto.
L’acqua fresca venne da Milena, che stava sorridendo.
- Quanto è tenero questo ragazzetto? Finalmente qualcuno che non ne abbia mezzo in quel posto, come Piattolino! –
Piattolino, ovviamente, era il nome con cui Milena aveva ribattezzato Manfredi; era successo dopo che, a diciassette anni, aveva infilato la lingua in bocca a lui che ne aveva appena quattordici, dopo che aveva passato un pomeriggio intero a lamentarsi che Giulia Nicolosi della I E baciava da schifo.
Forse era diventato gay per il trauma, Manfredi.
Da allora, Milena lo chiamava Piattolino, perché a suo parere Manfredi stava troppo appiccicato a lui e gli rubava la vita e le ragazze, peggio di una cozza. Se solo avesse saputo quello che gli aveva rubato sul letto dove dormiva, Manfredi, avrebbe iniziato a usare un soprannome diverso.
A Milena non aveva detto nemmeno di essere gay. Un po’ perché non sarebbe riuscita a tenere il segreto nemmeno per due ore, e un po’ perché non aveva idea di come l’avrebbe presa. Era sempre stata dolce, e quando parlavano dei gay in televisione si incazzava come una matta se qualcuno della famiglia osava dire qualcosa contro l’omosessualità. Ma un conto era difendere degli sconosciuti, un altro trovarsi il fratellino omosessuale in casa. Quando lui aveva scoperto di essere gay, a diciotto anni, Milena viveva già a Parma, per l’università, e tornava solo per Natale, per Pasqua, per le vacanze estive e, se necessario, per qualche occasione importante.
Se fosse stata a casa, probabilmente avrebbe scoperto tutto. Era sempre stata terribilmente curiosa, e peggio di 007.
- Fino a quando resti?  - le chiese poi.
- Due giorni, ho un bel po’ di cose da fare! Riparto sabato, non posso stare troppo tempo lontana dal mio Giorgi! – Giorgi era il soprannome toccato a Michele, pover’uomo, ma per quel che ne sapeva non si lamentava troppo. – E voglio andare a fare shopping almeno un giorno, con te! E vedere l’università, e anche dove lavori! Voglio sapere tutto, Fede! –
Quello sarebbe stato un problema. Un enorme, terribile, disastroso problema. Tirò fuori tutta la calma possibile.
- Ovviamente, quando vuoi. –
Non l’avrebbe portata al locale. Avrebbe fatto in modo di tenerla impegnata, e poi le avrebbe ricordato, giusto pochi minuti prima di andar via, di essere stato così sbadato da non averle fatto vedere dove lavorasse, ma che non sarebbe mancata occasione. Poteva cavarsela.
- Però ora devo proprio scappare, ho appuntamento tra quarantacinque minuti con il professore e non posso far tardi! Spero di finire per l’ora di cena! Ma domani dobbiamo assolutamente andare a fare shopping! A proposito, dov’è che dormo io? Con te, vero? La mamma mi ha detto che hai un letto matrimoniale, non vorrai farmi dormire sul divano! –
Federico rise, dandole una leggera pacca sulla spalla.
- Vai, Milena, o farai tardi! –
- Come sei noioso! Ci vediamo stasera! Ciao, Dominik! –
La vide uscire così, correndo, dopo avergli stampato un bacio appiccicoso di rossetto sulla guancia. Aveva lasciato il trolley al centro del salotto, e il suo profumo floreale aveva riempito tutta la stanza. Dominik stava ancora sorridendo.
- Parla sempre così tanto? –
- Potrebbe parlare per ore senza prendere fiato – gli rispose.
Era strano parlare così con lui, era…normale.
- E non riesce mai a rispettare un impegno, tra l’altro. Credo che oggi ceneremo intorno a mezzanotte! –
 

§§§

 
Contrariamente alle previsioni di Federico, Milena era tornata a casa in perfetto orario.
Federico era appena tornato dal locale, Dominik aveva chiuso il suo pianoforte, e Milena si era precipitata dentro, trillando che aveva avuto una splendida giornata e che avrebbe raccontato tutto durante la cena, ma che non avrebbe cucinato perché voleva mettere alla prova il suo adorato fratello.
A Dominik Milena faceva sorridere.
Si ricordava, quando la sentiva parlare, che una delle prime volte  che aveva pensato a Federico, il suo colore era stato corallo splendente. Poi quel colore per Federico non era andato più bene, perché lui era anche qualcosa di estremamente malinconico, e morbido, e spigoloso allo stesso tempo. Però, ecco, Milena era il corallo, era quella parte di Federico che veniva prepotentemente fuori quando i pensieri lo abbandonavano e gli veniva da sorridere.
Dicevano di non somigliarsi affatto, ma Dominik non aveva mai conosciuto due anime così affini. Si completavano a vicenda, e se Milena sprizzava fuori tutta quella spontaneità che Federico tendeva a volte a soffocare sotto qualcosa di più grande, quest’ultimo, da parte sua, quando parlava o mormorava qualcosa scopriva quella nuvoletta di malinconia che Milena soffiava ad ogni sospiro.
L’aveva toccata, Milena: mentre Federico stava preparando la cena, era stata lei a tempestarlo di domande sul conservatorio, sulla musica, sulla vita a Praga, sulla sua famiglia, e poi ancora su come vivesse lì a Milano insieme a suo fratello, che aveva definito un disordinato cronico.
Dominik aveva sorriso, perché quello era vero: Federico era tremendamente disordinato.
Poi Milena si era mossa sul divano, e Dominik le aveva chiesto se fisicamente almeno somigliasse a Federico. Lei, per tutta risposta, gli aveva detto tranquillamente che poteva constatarlo da solo, con un semplice tocco. Dominik era rimasto immobile, all’inizio, però poi aveva sentito Federico sospirare.
Allora, le sue parole sulla paura gli erano tornate nelle orecchie, insieme al desiderio di dimostrargli che no, lui non aveva paura di niente, nemmeno di toccare sua sorella.
Allora aveva steso le mani.
Milena era carina, ma non era bella come Federico.
Aveva il viso troppo rotondo, gli zigomi troppo pronunciati e il naso corto e un po’ a patata, così diverso da quello allungato e sottile di Federico. Però doveva avere gli occhi belli, perchè sotto le dita avevano un taglio a mandorla molto regolare. Non le aveva toccato le labbra, perché probabilmente portava il rossetto, ma dai bordi, sul mento e sulle guance, aveva sentito che avessero un tratto a forma di cuore, probabilmente più carnose di Federico.
Più pensava a lei, più diventava corallo.
Perchè Federico non aveva ancora un colore, allora? Quando cercava di dargliene finalmente uno, qualche sfumatura del suo carattere lo cancellava, e portava un altro colore, che però non era tutto Federico.
- Ahi! –
Dominik lasciò cadere il coltello che stava tenendo tra le mani fino a pochi minuti prima: dopo cena, mentre Federico aveva sparecchiato e Milena aveva borbottato che aveva bisogno di farsi una doccia, lui era rimasto a tavola a canticchiare, giocherellando con la buccia della mela che aveva mangiato e che gli aveva sbucciato Federico. Non aveva mai avuto problemi con i coltelli, bastava sempre seguirne il profilo con il dito per non tagliarsi.
Solo che pensare a Federico e a Milena lo aveva distratto, e la lama affilata gli aveva percorso il polpastrello del pollice. Bruciava da morire.
Dominik si portò istintivamente il dito alle labbra, avvertendo sulla lingua il sapore del sangue. Lo odiava, quel sapore, era bruttissimo, e non voleva perdere sangue così. Non poteva neppure capire quanto fosse profonda o ampia la ferita, perché faceva terribilmente male, e lui era cieco.
- Dominik, che hai fatto?! –
- Mi sono tagliato. –
I passi di Federico si avvicinarono così velocemente che gli parve quasi che invece che camminare avesse volato. Arrivò il suo profumo di muschio, e poi la forza della sua mano sul polso che lo strattonava, per esporre il dito al suo sguardo. Uno strattone deciso, ma allo stesso tempo pieno della delicatezza dei suoi polpastrelli che gli sfioravano la pelle.
Bruciava ancora di più. Bruciava sempre quando Federico lo guardava. E bruciava perché era una ferita, e lui odiava le ferite e odiava farsi male.
- Te l’ho detto mille volte di non giocare con i coltelli! Vieni. –
Non era un vero tono di rimprovero; lo era in parte, ma c’era anche una leggera apprensione, e forse un velo di divertimento. Come avesse fatto a sentire il suo lamento, poi, era un mistero: la televisione era spenta, certo, ma il rumore dei piatti che stava lavando avrebbe dovuto superare il suo lieve gemito soffocato.
Forse la voce gli era uscita più forte del normale, perché era tanto intento a pensare che il dolore lo aveva colto di sorpresa.
Lo guidò verso la cucina, a passi lenti. Gli stava tenendo ancora la mano, per impedirgli di sporcarsi con il sangue. E camminare così, con un braccio teso in avanti, era parecchio scomodo.
Fecero solo pochi passi, però, perché superarono subito l’arco che portava al piccolo ambiente della cucina. C’era silenzio, si avvertiva solo lo scrosciare dell’acqua nella doccia che proveniva dal bagno. Federico si fermò, aprendo il rubinetto e tirando la sua mano in avanti verso il lavello.
- Mia sorella dice che non bisogna mettere le ferite a contatto con l’acqua, ma è una cosa da niente questa, non è tanto profonda. Questi medici sanno solo dire no, no no! .... Lasciala qua che prendo un fazzoletto. –
Dominik ubbidì in silenzio, arrendevole. Gli piaceva sempre avere le attenzioni di Federico in quel modo, quando si preoccupava per lui. Forse in un'altra occasione avrebbe sbuffato, borbottando che poteva fare da solo, che non era uno scemo o un invalido incapace di badare a se stesso, ma quella sera no, e non con Federico.
Così non si mosse, mentre l’acqua fresca gli congelava il dito, che quasi non lo sentiva più.
Poi l’acqua smise di scrosciare, e il calore di Federico fu di nuovo accanto a lui, e la sua mano intorno al polso prima, al dito poi. Gli teneva il palmo sollevato verso l’alto, due dita strette alla base del pollice, le altre a sfiorargli il dorso della mano.
Un fazzoletto di tessuto leggero gli si poggiò sul dito, e contrariamente al solito, Dominik non si scostò per fare da solo, ma lo lasciò fare.
Si sentiva stranamente rilassato, dopo quella che gli pareva un’eternità.
Erano giorni terribili quelli: il pensiero della verifica non lo faceva dormire la notte, e anche se sapeva di essere bravo, che non avrebbe avuto problemi, lui voleva essere perfetto.
Però da quando era arrivata Milena si sentiva un po’ più tranquillo, perché lei lo faceva divertire, e splendeva, e faceva sorridere anche Federico. Aveva portato un vento allegro, Milena.
Aveva anche un bel nome musicale. Mi-le-na.
Trillava come una campana, come la sua bellissima risata.
Le dita di Federico si strinsero intorno al suo, da sopra il tessuto del fazzoletto.
- Non è tanto profonda, tra un po’ passa. Vuoi che ci mettiamo un cerotto? – Annuì, ma Federico mugugnò. – Però forse ti verrebbe male a suonare, con il cerotto. Possiamo lasciarla libera per stanotte, e domani diamo un’occhiata, che dici? – Annuì di nuovo. Gli importava solo di poter suonare, nient’altro, e Federico lo sapeva.
Lo sentiva canticchiare un motivetto che mandavano sempre in onda in televisione, con uno spot pubblicitario. Era una canzoncina quasi irritante, però canticchiata da lui pareva dolce.
Sorrise, senza muoversi. Se ne rimase solo in piedi, così, ad avvertire il calore del respiro di Federico e quello del suo corpo, che doveva essere vicinissimo, anche se l’unico punto di contatto tra loro era quel tocco sulla mano, filtrato dal tessuto.
- Comunque non devi avere fifa -  mormorò poi. Dominik sobbalzò.
- Mh? –
- La verifica andrà benissimo. Tu sei bravo, e andrai più che benissimo. E non lo dico per consolarti, ma perché lo penso davvero, e hai studiato tanto, e chi studia ha sempre ottimi risultati, anche se adesso non ne sei convinto magari. Però, nonostante questo, avere fifa è normale. Ce l’hanno tutti. –
Gli mancava l’aria. Federico doveva smetterla di studiarlo così, di rovinarlo da dentro, di cacciargli fuori tutto quello che voleva tenere chiuso in un cassetto della sua mente, perchè sensazioni come quella  – la paura – non era in grado di gestirle. Gli mancava l’aria, e quella poca che c’era era calda e saturata dalla presenza di Federico, che avrebbe tanto voluto poggiargli una mano sul petto e spingerla indietro, ma sapeva che se l’avesse fatto sarebbe rimasto così, a sentire i profili del suo corpo sotto le dita, mentre respirava.
Federico era musicale mentre respirava, era una sonata tranquilla e regolare, che riempiva l’aria.
- Io non ho paura. – Lo sentì sorridere, e nel buio il sorriso di Federico illuminava tutto.
- Si che ce l’hai. Non saresti normale se non l’avessi. Tutti hanno fifa, Dom, quando devono fare un esame, conoscere qualcuno di nuovo, o sottoporsi a un giudizio. E possiamo avere tutte le sicurezze del mondo, ma avremo sempre fifa dell’imprevedibile. E questa è una cosa bellissima. –
Era un controsenso, quello che stava dicendo. Avere paura non era una bella cosa, e l’imprevedibile era un punto nero, una macchia, in una tela piena di colori. Federico non poteva dire davvero.
- Come bellissima? –
- Si, bellissima! E’ la costante variabile, quella che anche in una vita piena di progetti ti sconvolge la giornata e ti fa pensare che la vita non è poi così noiosa! Come posso spiegarti… - Stava spiegando Federico, però non se ne accorgeva che gli teneva ancora stretta la mano, che ormai l’emorragia doveva essersi fermata, e che gli si stava bloccando anche la circolazione. Parlava, preso dai suoi pensieri, e non si accorgeva che quella vicinanza lo destabilizzava: non aveva nemmeno il coraggio di alzare lo sguardo, o di muoversi, ma solo di restarsene lì, con la mano in quella di Federico, in piedi davanti a lui a parlare come se in realtà fossero sul divano. – Ecco, prendi per esempio noi. Facciamo le stesse cose tutti i giorni: tu vai al conservatorio, suoni, io vado a lezione, vado al lavoro, la sera guardiamo la tv. Tutto una routine. Però, ogni giorno succede qualcosa. Ogni giorno tu insegui un’idea diversa, con il tuo pianoforte, e io incontro qualcuno di nuovo al locale, oppure quel tornado di mia sorella si presenta a casa mia a sorpresa, o ancora decidiamo di uscire a prendere un gelato quando piove. – Dominik sorrise istintivamente ripensando alla bellissima sensazione di libertà di quella sera. Si, lo capiva cosa pensava Federico, ma quelle erano pur sempre paure diverse. Un conto era avere paura della verifica, un altro conto era la costante paura dell’ignoto, di quello che potrebbe accadere. La verifica era una sicurezza, mica l’ignoto.
- Quindi devo avere paura? – cercò di trarre come conclusione, e Federico rise.
- No, Dom, no! Non dico che devi avere paura…perché tu ce l’hai. Devi solo accettarla. E sapere che comunque io sono sicuro che andrai benissimo, e lo sai che quando parlo io ho quasi sempre ragione. –
- Quasi. –
- Ero certo che lo avresti sottolineato. –
- Mi conosci… - soffiò, sorridendo.
Poi, Dominik  alzò appena il viso.
Lo fece come risposta riflessa, perché Federico, in risposta alle sue parole,  aveva mosso la mano, accarezzando il dorso della sua con due dita, e aveva sospirato appena. In risposta a quel sospiro, Dominik aveva alzato la testa, per inseguire il soffio di quel fiato caldo. C’era come una strana corda che lo attraeva verso Federico, nel desiderio di sentirlo parlare ancora, di qualsiasi cosa, anche delle più banali, ma di ascoltarlo ancora, perché quando parlava la sua voce era la cosa più morbida e bella che avesse mai sentito.
Però Federico non parlò più e non lo toccò più, perché la porta del bagno si era aperta, e Federico era scattato indietro con tanta forza da urtare qualcosa di metallico sopra la cucina, probabilmente una padella messa lì a gocciolare.
Dominik si chiese perché lo avesse fatto, perché avesse reagito così, perché lo avesse lasciato lì in quel modo così repentinamente. Gli aveva sottratto l’aria calda, e il suono della sua voce, e il contatto morbido sulla mano.
- Che è successo? – trillò la voce di Milena.
Dominik si rese conto solo in quel momento, concentrandosi sulle sensazioni al di là di quelle che gli aveva provocato Federico, che avesse ancora la mano tesa con il fazzoletto intorno al dito e che, probabilmente, quello doveva essere pieno di sangue, a giudicare dai passi affrettati di Milena e dal suo tono un po’ apprensivo. Anche in quello era uguale a Federico, in quella costante smania di essere aiuto agli altri.
Dominik abbassò la mano, stringendo il fazzoletto. Era ancora caldo della pelle di Federico.
- Niente, mi sono tagliato – borbottò.
- Vieni qui, fammi vedere, che mio fratello combina sempre guai! –
Si lasciò fare anche quello, Dominik, nelle mani di Milena.
Pensava solo che Federico era ancora fermo vicino alla cucina, troppo lontano.
 

§§§

 
- Spiegami ancora perché hai addosso questa…cosa. –
- Quanto sei stronzo, Fede? –
Una gomitata di Milena colpì Federico in pieno stomaco, costringendolo a rotolare sul letto per sfuggire alla sua furia, perché stava già iniziando a prenderlo a calci sotto le coperte.
Il punto era che Federico stava ridendo praticamente da mezz’ora, e stava ridendo di lei.
Ma credeva di essere giustificato, dato che sua sorella si era messa addosso un pigiama che doveva risalire a dieci anni prima, con le maniche troppo corte e di un osceno rosa acceso con stampata una sottospecie di mucca ammiccante con le labbra rifatte.
Milena evidentemente non la pensava allo stesso modo.
- Ahi, ahi! Ma sei scema, mi rompi un braccio! –
- Almeno la finisci di dire minchiate! –
Però stava ridendo anche lei, leggera.
C’era sempre da stare leggeri con Milena. Quando c’era lei tutti i problemi sembravano svanire, e non restava altro che sorridere. Succedeva anche quando lui era ancora a casa, a Palermo: lei tornava, con un sorriso splendente, e gli faceva dimenticare i brutti voti a scuola, i problemi con Manfredi, la mancanza di un lavoro, quella sensazione soffocante di trovarsi in uno spazio troppo stretto. Lo stava facendo anche lì, a Milano: aveva portato una spensieratezza strana, una leggerezza che in quella casa non c’era mai stata. Dominik aveva sorriso, riso, aveva affrontato un po’ se stesso e ammesso di  essere un po’ umano anche lui, che un po’ di fifa non fa mai male averla. Dominik si era lasciato aiutare, e quando gli aveva mormorato che non c’era bisogno di avere paura, ma che ne aveva eccome, non aveva messo il broncio, non si era impuntato sul fatto che non fosse vero, ma lo aveva ascoltato. Lo aveva ascoltato davvero, da vicino, e lui si era messo lì d’impegno a spiegargli tutto quello che pensava, ma a modo suo, perché anche lui potesse capirlo, con la sua visione diversa dal mondo. Lo stava condizionando, con il suo modo di pensare e di agire, tanto che adesso gli faceva quasi paura tutta quella vicinanza.
Si era lasciato controllare, curare, persino stringere la mano anche quando non ce n’era più bisogno. E a Federico si era aperta una voragine nello stomaco.
Mi conosci. Era troppo confidenziale, per loro, quella frase, e quel tono, e la dolcezza di quella mano poggiata sulla sua con un abbandono tale da fargli pensare che avrebbe potuto fare di lui qualsiasi cosa avesse voluto.
Era come se non gli appartenesse, come se fosse troppo lontana.
Lo conosceva davvero, era vero? Come poteva conoscerlo, se lo sentiva allo stesso tempo così lontano, così in alto? Non era cambiato molto nel loro modo di fare da quando si erano conosciuti, eppure, da un punto di vista più profondo, era come se fosse davvero diverso.
Non riusciva a spiegarselo.
E non si riusciva a spiegare quella confusione in testa, quel desiderio di essere gentile, di proteggerlo, e insieme quel vuoto che gli si apriva nello stomaco quando se lo trovava troppo vicino, perché, cavolo, fisicamente sarebbe stato una calamita per chiunque.
E doveva smetterla di pensare a cose del genere, perché Dominik era un ragazzino che non voleva nessuno, e oltretutto, oltre a non volere nessuno, non era nemmeno gay.
O almeno, visto che non voleva nessuno, sicuramente non si era nemmeno posto il problema di essere etero o gay.
Federico avvertì un piacevole solletico sul collo, dove Milena si era appoggiata, circondandogli la vita con il braccio. Era strano trovarsi una ragazza così vicina: non succedeva da anni, dagli ultimi tentativi di baciare Ilaria, la biondina della sua classe al liceo. Poi c’era stato solo Manfredi, Manfredi e le fantasie sui ragazzi che passavano per strada. In Milena, poi c’era quella strana tenerezza che si configurava solo tra fratelli. Sollevò una mano per accarezzarle i capelli: sarebbe stato bello dirle la verità, liberarsi finalmente con qualcuno e non dover fingere almeno per un po’.
Sarebbe stato bello raccontarle di Manfredi, e della sua partenza per Milano, e di Dominik.
Ma che speranze aveva, se non riusciva a dire la verità nemmeno al suo coinquilino?
In quanto a fifa, lui, non era da meno di Dominik.
- A cosa pensi? – Una carezza leggera sul viso, che gli fece chiudere gli occhi, il tocco delicato di una mano femminile lungo la mandibola.
- Mah, un po’ a tante cose. A febbraio devo dare almeno un esame. – Milena sbuffò.
- Non ho ancora capito che cavolo ci sei venuto a fare all’università. Non fa per te dovertene restare così fermo a studiare, lo sai benissimo, Fede. E non devi farlo nemmeno per far contenti mamma e papà, che alla fine non gliene importerà troppo se non hai una laurea. –
- Avevo bisogno di staccare la spina, Mile. Non l’hai fatto anche tu, andando a Parma? –
Milena si strinse su se stessa, coprendosi quasi completamente il viso, stesa sulla schiena: i suoi capelli biondi si aprirono a ventaglio sul cuscino. Poi sorrise.
- L’ho sempre saputo che te ne eri andato da casa per un ragazza – mormorò poi. Federico sentì un peso doloroso all’altezza del petto, ma non era ancora il momento di dirle la verità.
- Non ho detto questo, io. –
- Si capisce. Che credi, che non ti conosco? Sono stata lontana, siamo diversi, ma sono sempre sua sorella. Tu sei uno che non si fa mettere i piedi in testa da nessuno, per nessuna ragione. Tranne che dai sentimenti. I sentimenti troppo forti ti mettono al tappeto. – Federico rimase in silenzio, fissando il soffitto. – Anche io sono così, per questo prendo sempre le cose alla leggera, e per questo posso dirti che ti capisco. Ti ricordi quando è morto il nonno? –
- Certo che me lo ricordo. Ma sono passati dieci anni, Milena. –
- Lo so. Però noi non abbiamo pianto, te lo ricordi? Restavamo lì, a guardare le persone che piangevano, ma non abbiamo pianto. Emozioni così forti ci fanno un po’ paura. Però tu, due anni prima, eri andato da Manfredi, perché era morta sua nonna. Non ti ho mai visto, mai più Federico, piangere così tanto, e non era tua nonna, era la nonna di Manfredi. Credo che Manfredi sia la differenza più grande tra noi: quando c’era Manfredi, tu permettevi ai sentimenti forti di vincere, perché tanto sapevi che c’era qualcuno a raccoglierti. – Federico sentiva qualcosa di caldo, all’altezza del petto, che si stava manifestando in una strana tenerezza, nell’insana voglia di abbracciare sua sorella e premerle il viso nell’incavo del collo, lasciandosi abbracciare dal buio.
Aveva ragione lei, in tutto. Loro adoravano le emozioni potenti, quelle che strappavano l’anima ma lasciavano dentro una strana euforia. Le amavano tanto da andarle sempre a cercare. Però, non permettevano mai a quelle emozioni di scavare troppo dentro, perché ne avevano paura. Con Manfredi era stato diverso: lui era stata l’emozione forte che gli aveva scavato dentro lo stomaco, e allo stesso tempo la spalla cui sorreggersi.
La mano di Milena gli sfiorò il braccio. Si era voltata su un fianco, e stava sorridendo.
- Quindi è scontato che te ne sia andato per una ragazza. Cuore spezzato? – Sorrise anche lui. Non era il caso di specificare che la “ragazza” in realtà fosse un ragazzo. Sempre di cuore spezzato si stava parlando.
- Più o meno – borbottò, facendo spallucce.
- Troverai qualcuno di meglio, Fede, ne sono sempre stata sicura. Quelli come te sono fatti per essere amati. – La vide sorridere ancora. Senza trucco sembrava più giovane di almeno dieci anni, una ragazzina. -  E Dominik? Ce l’ha la ragazza? –
A Federico venne da ridere per l’assurdità di quella prospettiva, però allo stesso tempo lo raggiunse una punta di fastidio. Era certo che nessuna ragazzina sarebbe mai stata in grado di cogliere davvero quello che lui era, tutte le sue sfumature, il suo modo di vedere il mondo. Nessuna si sarebbe davvero presa cura di lui, perché le ragazze erano un po’ così, amavano essere coccolate, e un ragazzo cieco sarebbe stato un bel peso. Ma se anche qualcuna se ne fosse innamorata, non l’avrebbe amato totalmente, con lo stesso abbandono e la stessa passione travolgente che meritava, e che lui riversava nella musica. E, probabilmente, non c’era spazio nel cuore di Dominik per una ragazza, perché tutto era stato dato alla musica.
Milena, fraintendendo la sua ilarità, lo guardò male.
- Mica siccome è cieco non può avere la ragazza, Fede! –
- Non ti scaldare, mica ridevo per quello! Lo so che è cieco, e non è questo il motivo per cui non avrà mai una ragazza. – Fece una pausa, ragionandoci bene su. Si, gli veniva ancora da sorridere. – Dominik è la persona più esasperante, rompipalle e incostante che esista sulla faccia della terra. Riesce a farti girare le scatole nel giro di due secondi. E non ha nessuna intenzione di avere una ragazza, vuole vivere solo della sua musica e diventare il re del mondo. –
Milena scoppiò a ridere divertita, con una risata sonora e cristallina. Rideva così tanto che dovette premersi una mano sulla pancia per quanto le dolevano gli addominali. Federico non ti trovava proprio niente da ridere.
- Oddio, che paraculo! Uno spasso! –
- Non sto scherzando, Milena! –
- Oh, lo so, ma io dicevo per lui! Uno così è solo un grandissimo paraculo! Lascia che una ragazza gli infili una mano nei pantaloni e poi vedi se non gli interessa! –
- Tu non lo conosci, lui…non ragiona così. –
- Oh, eccome. Tutti ragioniamo così Fede, e quel ragazzino non è da meno, non è un angelo sceso in terra. Questa è l’immagine che ti sei fatto tu di lui. Può credere fermamente in quello che dice, nella musica e cose varie, può pensare di essere un santo sceso in terra per portare il piacere delle sonate classiche in tutto il mondo. Ma quando incontrerà qualcuno in grado di fargli battere il cuore, la musica non sarà più una priorità assoluta. E la persona che riuscirà a catturare tanto genio e tanta bellezza sarà la persona più fortunata del mondo! Ascolta me, che sono grande e vaccinata! –
- E spari ancora minchiate come quando avevi quindici anni! –
Scoppiarono a ridere come due bambini, e a Federico vennero in mente tutte quelle volte in cui, da bambini, finivano sul suo letto a mangiare il cioccolato che la mamma prendeva dal suo nascondiglio preferito. Loro lo avevano scoperto subito, che fosse il ripiano in fondo a destra del mobile del salotto, però non glielo avevano mai detto, per non perdere la magia di ricevere i dolci da lei. A volte poi, quando i genitori uscivano e li lasciavano a casa da soli, un cioccolatino ciascuno lo prendevano di nascosto. Ed era un po’ così adesso, con lei, però senza cioccolato.
Milena gli si avvicinò di nuovo, a letto, stringendoglisi addosso con quel pigiama osceno che gli solleticava il collo, quando lei si muoveva.
- A me quell’amicizia con Manfredi ha sempre un po’ fatto paura. –
Federico si irrigidì. Pesante, come un colpo allo stomaco, arrivò la consapevolezza che tutto quel discorso, e tutto quello che c’era stato tra loro negli anni precedenti, fosse accaduto per portare a quello. Per confessarsi qualcosa, per scoprire il motivo per cui erano tanto diversi e tanto uguali, per cui Milena guardava Manfredi sempre con la coda dell’occhio. Deglutì, fingendosi indifferente anche se lei, con il capo poggiato sul suo petto, doveva sentirgli il cuore battere furiosamente.
- In che senso? –
- Non lo so. Mi faceva paura. Come se…come se tu non potessi esistere senza di lui, e lui senza di te. – Un secondo di pausa, poi Milena sorrise. – Come sono melodrammatica, eh? Però davvero, adesso tu sei qui, e lui no. Davvero, non me lo sarei mai aspettato! –
- Mi manca ogni singolo secondo. –
Era semplice. Semplice da dire, da sussurrare, da confessare.
E Milena non ne rimase stupita, anche se quella frase era piena di equivoci.
In quel momento, Federico non stava parlando da amante, ma da amico distrutto. Per questo, quando voltò il capo a sinistra, Milena gli accolse il viso nell’incavo del suo collo, scivolandogli addosso, e con una mano gli percorse la nuca, in una carezza che prometteva sicurezza.
Si sentiva leggero, non ci pensava tanto, si sentiva con la coscienza a posto, e pulita.
Però Manfredi gli mancava, e gli sarebbe mancato probabilmente per tutta la vita.
Non poteva farci nulla. Non poteva tornare indietro, ma neppure andare avanti senza voltarsi ogni tanto a guardare indietro.
Sarebbe stato sempre così.
Ogni tanto, nei momenti peggiori, si sarebbe voltato indietro a cercarlo, e avrebbe lasciato che qualcuno, sua sorella, o Samuele o chiunque, lo abbracciasse solo per un attimo, per ricordargli quanto fosse riuscito a fare da solo.
- Lo so. Lui è a Palermo, Fede, non dall’altra parte del mondo. C’è il telefono, le e-mail, e skype. –
Però lo sapeva anche lei, che non era lo stesso, che la presenza fisica, il tocco di una mano, un sorriso reale, sarebbero sempre stati diversi.
Solo che Milena non poteva sapere che per loro non c’erano più nemmeno il telefono, o skype.
Perché era meglio così, perché Manfredi non sarebbe stato pronto, e lui doveva accettarlo.
E poi Natale era vicino. A Natale lo avrebbe riabbracciato.
Si girò dall’altro lato, chiudendo gli occhi per cercare di dormire, e Milena non disse altro. Si raggomitolò su se stessa, come faceva sempre per dormire, ma prima gli lasciò un bacio sulla schiena, sopra il tessuto del pigiama che indossava. Un bacio tenero, morbido, carico di tenerezza.
Un bacio nel punto più debole del corpo, tra le scapole, dove era più facile colpire e far male.
Si addormentò subito, mentre lui si rigirava tra le coperte, preso da un’inquietudine che lo soffocava e che non riusciva a spiegarsi. Chiudeva gli occhi, si girava su un fianco, respirava regolarmente, ma il cervello era troppo sveglio, tutto concentrato a inseguire un pensiero che aveva sull’orlo della coscienza, ma che non riusciva ad afferrare, una consapevolezza forte, nel petto, che non riusciva a tramutare in pensiero, ma che non gli faceva chiudere occhio.
Solo un attimo prima di addormentarsi, quando la sveglia segnava quasi le tre del mattino, si rese conto che quella sensazione di soffocamento fosse dovuta alla consapevolezza che il Natale fosse tanto vicino, e Praga tanto lontana.





(1) Milena ha il volto di Hayden Panettiere.
(2) Il titolo "1334" indica i kilometri che, in linea d'aria, separano Praga da Palermo.
Nota al capitolo 18
Come promesso, il capitolo è stato postato oggi, in anticipo di quasi un'ora rispetto ai programmi!
E come promesso, la 100esima recensione ha avuto in premio uno spoiler di questo capitolo.
Il nuovo personaggio che avevo annunciato, avrete capito, è Milena, la sorella maggiore di Federico. Per me è un po' un terremoto, e se Samuele fosse stato etero sarebbe stata la sua donna ideale! Sempre come annunciato, il titolo è 1334, che riprende l'ultimo rigo del capitolo, la conclusione di Federico che Praga, una volta che Dominik fosse partito per Natale, sarebbe stata lontanissima. 1334 km in linea d'aria.
Per chi non avesse capito niente di quello che ho detto, le mie "promesse" e i miei "annunci" sono stati fatti sulla mia pagina facebook, dove ho inserito anche un piccolo missing moment e delle foto di questa e delle mie altre storie!
Qui: http://www.facebook.com/pages/100-sbavature-di-Esse/509052772480144
Questo capitolo a me piace molto, e spero che piaccia anche a voi! ^_^
Un bacio a tutti, e spero di aggiornare presto. Passate dalla mia pagina per avere sempre aggiornamenti su come procede! ^_^
Esse

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Capitolo 20
*** 19th: Chi ama, baci ***


Si è sempre affascinati dal vuoto. Più è fondo, più è buio, più esso ci attrae: un misterioso richiamo d'amore.

Oriana FallaciSe il sole muore, 1965





http://www.youtube.com/watch?v=CJJYmCdr0us


Chapter 19th:  Chi ama, baci
 
Si era svegliato credendo che ci fosse un terremoto.
E da che ricordava, di terremoti a Milano non ce n’erano mai stati.
Poi, dopo pochi minuti, si era reso conto che non fosse un terremoto.
Era soltanto Milena, la sorella di Federico, che urlava dal bagno.
- Fede!! Dove hai detto che tieni il deodorante? –
La risposta di Federico, per quel che sentì, fu un borbottio confuso, e Milena decise di non insistere.
Dominik si rigirò nel letto, premendosi le coperte sulla faccia. C’era addosso il profumo del detersivo che usavano in lavanderia. Aveva sonno, ma doveva essere tardi, se Federico e Milena erano già in piedi, soprattutto Federico che era un gran dormiglione.
Tutte le volte che usciva per andare al Conservatorio lo lasciava addormentato nella sua stanza.
Ma quel giorno no, doveva studiare.
Era già venerdì, e il lunedì successivo avrebbe avuto inizio la verifica di fine quadrimestre, e tutto doveva essere perfetto, ogni singola nota e ogni singolo esercizio.
Aveva una fifa boia, aveva ragione Federico. O meglio, doveva essere fifa quella sensazione strana alla gola e al petto, quando si metteva a letto la sera e aveva la sensazione di star inseguendo qualcosa che non riusciva a raggiungere, come la perfezione che agognava tanto.
Doveva raggiungerla, per forza, o non sarebbe mai stato pienamente soddisfatto.
Si mise in piedi, passandosi una mano sugli occhi. Se li sentiva sempre intorpiditi di prima mattina, e li stropicciava come se pensasse che, riaprendoli, potesse essere investito dalla luce.
Da diciotto anni, invece, c’era comunque il buio.
Lasciò la sua stanza, entrando nel salotto a passi strascicati.
- Buongiorno, Dom – lo raggiunse la voce di Federico.
Allora era sveglio, era vero.
- Buongiorno – mormorò.
- Hai visto, Milena? Hai svegliato Dominik a furia di fare casino! –
Stava per parlare, per dire che non era colpa sua, che non importava, perché Milena era tanto gentile. Ma non fece in tempo, che lei era già piombata in salotto: gli era passata accanto velocemente, sollevando un soffio di aria che gli passò sul collo nudo.
- Oh, scusa, caro, ma sono in ritardissimo per il mio appuntamento con il professore! – trillò la sua voce. C’era uno strano profumo dolciastro nell’aria, simile a quello che indossava sempre la maestra. Stava coprendo tutto il profumo di Federico. – Io scappo, eh? Torno nel primo pomeriggio, e pretendo di uscire, Fede, non mi mollare! Ciao Dominik, buona giornata! –
Un rumore di tacchi, poi la porta che si chiudeva, e il silenzio. Il sospiro di Federico, un incrocio tra il sollevato e il divertito. Dominik scivolò nella stanza: il profumo dolce di Milena era ancora tutto intorno, ma più si avvicinava alla cucina, più quello di Federico lottava con quello della sorella, senza riuscire a prevalere. Avrebbe dovuto avvicinarsi molto di più per poterlo distinguere nettamente.
- Che ore sono, Federico? –
- Le nove e venti. –
- Così tardi? – Fece una smorfia. Era tardissimo, davvero, ma la sera prima erano rimasti a parlare a lungo, e anche dopo che erano andati a letto, Dominik si era fatto cullare dalle voci di Federico e Milena che provenivano dalla stanza accanto. Anche se non era riuscito a capire cosa si stessero dicendo, le loro risate calde lo avevano rilassato. Erano state come l’incipit di una musica che lo aveva accompagnato nei sogni: aveva anche sognato quella notte, un sogno strano. C’era un dolore alla mano, e il profumo di Federico, e dei rumori tutto intorno che lo avevano fatto svegliare inquieto  e non lo avevano fatto riaddormentare per quelle che gli erano parse ore. Forse per quello si era svegliato così tardi.
- Come va il dito? –
- Mh? –
- Il dito che ti sei tagliato ieri sera. –
Oh, il dito. Il dolore che aveva ricordato di notte, insieme al tocco gentile di Federico. Se ne era quasi dimenticato. Scosse la mano, poi il capo.
- Non fa male, è passato come hai detto tu. – Federico aveva sempre ragione.
- Visto? Vieni dai, ti preparo la colazione. –
- Devo suonare, è tardi. –
- Puoi perdere dieci minuti per fare colazione. Non farmela fare da solo. –
Non avrebbe potuto dirgli di no. Non ne aveva voglia neppure prima, quando la voce di Federico aveva detto ti preparo la colazione. Era dolce e soffice come una coperta calda, come il sentirsi protetti da qualcosa e sapere di non avere niente di cui preoccuparsi all’infuori della musica. Poteva pensare solo a quella.
E a fare colazione con Federico.
Iniziò a camminare verso la cucina, verso lo sgabello intorno all’isola, prima ancora di rendersi conto che voleva davvero fare colazione con lui. Ci si lasciò cadere sopra, e quello si mosse leggermente, ruotando. Gli piacevano quegli sgabelli, era divertente ruotarci sopra. Fece un giro completo, e ripensò a quella volta con Federico, quando avevano seguito la leggenda e si erano ritrovati a girare sopra il toro alla Galleria.
- Come mai così allegro di prima mattina? Pensi a qualcosa di divertente? – lo richiamò la voce di Federico. Fece spallucce.
- Più o meno – mormorò. Gli sportelli della cucina batterono tra di loro, accompagnati da un fruscio di plastica e carta.
- Cosa ti va oggi? Pane bianco e nutella, menù fisso? –
- Burro e marmellata! –
- Ah, oggi cambi? – Federico stava ridacchiando.
- Si. Però anche una fetta con la nutella, magari. –
Gli piaceva quando Federico gli preparava la colazione.
Lo faceva sempre. Ogni sera, prima di andare a letto, Federico riempiva una tazza di latte e la conservava nel frigorifero, sempre nello stesso ripiano: poi preparava un piattino con dei biscotti, o dei dolcetti, o con il pane bianco e la nutella, e li lasciava sul tavolo coperti da un tovagliolo. Così, quando la mattina si svegliava, Dominik doveva solo prendere la tazza, infilarla nel microonde, e scaldare il latte, mentre il resto della colazione era già pronta. E Federico poteva restare a dormire.
Ora che ci pensava, non l’aveva mai ringraziato davvero, ma da quando c’era, Federico, cercava sempre di rendergli la vita un po’ più facile. Gli sbucciava la mela, a pranzo, quando invece lui l’aveva sempre mangiata con la buccia, anche se non gli piaceva tanto: gli preparava la colazione che gli piaceva, e gli stirava i vestiti, invece di portarli in lavanderia; gli sistemava gli spartiti in ordine, se li lasciava in giro, perché così avrebbe potuto trovarli sempre in ordine senza dover perdere tempo a riordinarli. Nessuno glielo imponeva, ma lui lo faceva lo stesso perché era buono.
Era come avere un angelo custode.
- Ti va un po’ di cappuccino? – gli chiese poi Federico.
- E’ quella cosa che fai con quella specie di polvere? –
- Proprio quella…ti va? –
- Si. – Era buono quel cappuccino, lo aveva assaggiato una domenica mattina dalla tazza di Federico, e si era riempito tutta la faccia di schiuma. Però era buono.
Federico armeggiò con qualcosa, e Dominik sentì un rumore di pentolini e posate. Poi Federico sospirò.
- Dominik, senti…io…ti ho preso una cosa…è una specie di regalo di Natale, e avrei dovuto dartelo a Natale, prima che partissi, ma poi non te lo saresti goduto, quindi…aspettami qui, eh? –
Sarebbe rimasto ad aspettarlo lì anche se non gliel’avesse chiesto lui. Federico gli aveva comprato un regalo di Natale, ma Dominik non aveva preso niente per lui, e si sentiva in imbarazzo. E poi nessuno gli aveva mai fatto un regalo di Natale, oltre ai suoi genitori e alla nonna, ed era strano. Federico era già così buono, non poteva fare anche quello.
Lo sentì armeggiare con qualcosa in lontananza, forse in bagno, o nella sua stanza, e poi i suoi passi ritornarono sul pavimento, sempre più vicini. Dominik girò sullo sgabello, tenendosi al piano dell’isola, nella direzione da cui provenivano i passi di Federico.
- E’ una cosa da nulla, però ho pensato che ti sarebbe piaciuta. –
- Non dovevi comprarmi niente. Io non ho niente per te – soffiò, ma Federico rise.
- E chi se ne frega, dai! L’ho vista e mi è piaciuta. Non avrei dovuto prenderla perché avrei dovuto pensare se mi avessi preso qualcosa tu? Non fare lo scemo e aprila! –
Gli infilò in fretta un pacchetto tra le mani. Era una scatola a forma di parallelepipedo, rivestita da una carta liscia e setosa. Dominik si rigirò la scatola tra le mani, indeciso.
- Dai Dom! –
Gli piaceva anche quando lo chiamava così, sapeva tanto di…affetto.
Infilò un dito sotto un lembo, tirando per strapparla, e si trovò sotto le dita la superficie ruvida del cartone, con quel profumo di carta terribilmente penetrante. Alzò il coperchio: era uno di quelli semplici, con un lembo che si infilava nella fessura, senza cose complicate.
Gli venne da sorridere, mentre infilava la mano dentro e toccava qualcosa di simile alla carta. Ci strinse le dita intorno, tirando fuori quella che sembrava una palla di carta. Doveva esserci incartato dentro qualcosa. Federico gli tolse la scatola di mano velocemente, e il suo profumo, che finalmente aveva superato quello di sua sorella, lo colpì forte.
- Scartala, ma fai attenzione… -
Era sempre più curioso. Gli erano sempre piaciuti i regali, e sua madre non gliene faceva mai mancare per Natale e per il compleanno. Però riceverne uno da Federico era strano.
Tolse la carta, sciogliendo quella specie di palla.
Le sue mani si chiusero intorno a qualcosa di freddo e liscio, le dita scivolarono con una lieve resistenza sul profilo quasi cilindrico di quella struttura.
- E’ una tazza? – soffiò. Doveva essere una tazza: era quasi cilindrica, sviluppata più in lunghezza che in larghezza, con la base più stretta del bordo superiore. Era una ceramica spessa, e sulla superficie esterna c’erano dei piccoli rilievi.
- Si. Però guarda il manico…è quello che mi è piaciuto! –
Però guarda il manico. Solo Federico avrebbe potuto dirlo con tanta semplicità, senza perdersi in frasi lunghe con un riferimento al fatto che lui non potesse vedere. Era così semplice Federico, quando faceva così, però sapeva essere anche terribilmente complicato.
Dominik fece scorrere le dita lungo il manico, incontrando dei bordi curvi e lavorati, liscissimi e dall’aria stranamente curata. Sorrise.
- E’ una chiave. E’ una chiave di violino vero? –
- Si! E sulla tazza è stampato un pentagramma con delle note. E’ bianca e nera, così…puoi vederla anche tu, più o meno. –
Non riusciva a fare a meno di sorridere. Federico gli aveva comprato il sorriso, non una tazza.
Gli aveva comprato una piccola attenzione, un gesto gentile. Nessuno gli aveva mai comprato una cosa del genere, e nessuno forse lo avrebbe mai fatto. Perché a Federico era venuto in mente così, una cosa semplice, che avrebbe potuto averne milioni e trovarne altrettante nelle bancarelle di Praga, però non ne avrebbe trovate mai così. Era…era una cosa che sembrava fatta per lui, creata solo perché lui potesse averla. E avrebbe voluto dirgli milioni di cose, magari abbracciarlo, non smettere di ringraziarlo e dirgli tutto quello che pensava. Magari poggiare le labbra sulla guancia di Federico, per un bacio lieve, come quelli che gli dava suo padre prima di andare a letto. Anche Federico doveva avere la pelle un po’ ruvida per la barba, ma il suo profumo era diverso, e anche le sensazioni dovevano essere diverse. Federico non era suo padre, era Federico.
Le labbra sulla sua guancia sarebbero state diverse.
E chissà come dovevano essere le labbra di Federico. Se lo chiedeva, da quando aveva confessato a Federico di non aver mai baciato nessuno, mentre lui aveva pure già fatto l’amore, come dovesse essere baciare qualcuno. Era sicuro, però, che le labbra di Federico sarebbero state morbide come le aveva sentite sotto le dita.
E doveva ringraziarlo anche per quello.
Invece sorrise. E basta.
- Ti piace? – gli chiese Federico, la voce stranamente roca.
- Si. E’ bellissima. Non ne ho mai vista una. –
- Nemmeno io. L’ho vista qualche giorno fa, mentre ero fuori con Samuele. Non ho potuto che pensare a te! –
Dominik sorrise ancora, rigirandosi la tazza tra le dita. Percorse ancora il profilo del manico con il polpastrello dell’indice, memorizzando la sensazione che ne riceveva, qualcosa di liscio, tutto curve, che poi di univa al complesso principale di quella tazza. Poteva una cosa così semplice sembrare tanto bella?
- Che dici, facciamo colazione? – lo interruppe Federico.
Annuì porgendogli la tazza, fino a quando non la lasciò tra le mani dell’amico, che tornò ad armeggiare per preparare la colazione. Lo sentì aprire il rubinetto, probabilmente per sciacquare la sua nuova tazza da colazione, e poi accendere il fuoco, e muovere qualcosa sul ripiano davanti a lui. C’era un ticchettio confortante, quello dell’orologio, e il tintinnare del coltello sul piattino mentre Federico stava probabilmente imburrando il pane o stendendo la nutella.
Sapeva di casa. La colazione sul tavolo, il tepore che proveniva dalle stanze, quella sensazione di avere i muscoli intorpiditi e di desiderare di tornare a letto, e allo stesso tempo di percepire quella magia che gli faceva venir voglia di suonare.
Faceva tanto casa.
- Oggi devi andare a lavorare? –
- Mh, no, oggi no. Mi faccio cambiare il turno da Claudio. Milena vuole fare un giro, e avrai capito com’è, non le si può dire di no! – Dominik si ritrovò a sorridere, giocherellando con un tovagliolo, rigirandolo tra le dita.
- Anche mia sorella Aneta è così. Però è anche capricciosa e astuta. Milena invece è buona. –
- Sa essere astuta anche lei quando vuole qualcosa, credimi! –
Lo sentì ridere, prima di muoversi più vicino a lui. Il suo braccio gli sfiorò una spalla mentre gli poggiava davanti qualcosa di caldo; quando ci strinse intorno le mani, scoprì essere la sua tazza nuova piena di cappuccino caldo, il cui fumo saliva a sfiorargli il mento e il collo. Era un tepore piacevole. Vicino a sé, poi, sentì il corpo di Federico che occupava lo sgabello, roteando due volte.
- Ah, queste sorelle! Ma sono sicuro che quello più insopportabile in famiglia sei tu! Oppure fai lo stronzetto solo con me? –
Dominik portò una mano avanti, chiudendola intorno a una fetta di pane bianco. Federico gli parlava sempre in quel modo, ormai, era diventato una sorta di gioco, perché lo sapevano entrambi che ormai, lui, non era più poi stronzo come prima, anche se ogni tanto le diversità tra loro emergevano sempre così tanto che li portavano a stridere, come i bordi delle posate su un piatto. Era bello quando Federico era così spensierato, anche se per pochi minuti, perchè poi  i suoi pensieri tornavano a riprenderlo. Ecco, se avesse dovuto scegliere lui un regalo per Federico, avrebbe chiesto a uno scienziato di inventare un “acchiappa-pensieri” , simile a un’aspirapolvere, che con un risucchio strappasse dalla testa di Federico tutti i pensieri. Non l’avevano ancora inventata una cosa del genere.
- E’ Aneta quella impossibile, io sono un angioletto. –
- In effetti, hai un po’ la faccia da angelo! –
- E poi si, sono stronzo solo con te. A casa suono e basta. Qua ci sei tu. –
- Vuol dire che ti distraggo? –
Federico gli rubò sotto il naso una fetta di pane bianco che stava per prendere tra le dita, e gli scivolò via sotto i polpastrelli, accompagnata da una risatina del ragazzo. Dominik gli mollò una gomitata sul fianco, sorridendo.
- Io mi faccio distrarre. Mi piace – confessò, stringendosi nelle spalle.
Gli piaceva trascorrere la serata sul divano con Federico, invece di suonare, e fare colazione con lui, anche se avrebbe significato perdere mezz’ora della sua giornata, che avrebbe invece potuto impiegare suonando. Ma stava bene e basta, che importava?
Federico rimase un po’ a giocherellare con il coltello che aveva usato per imburrare il pane.
Ecco, i pensieri erano tornati a riprenderselo. Dominik diede un colpetto sul piano con due dita.
- A cosa pensi? –
- Mh? –
- Pensi a qualcosa. Ti lasci distrarre.  –
- Anche tu hai detto che ti lasci distrarre. –
- Ma io mi lascio distrarre da te. Tu no – gli mormorò, con un borbottio. Lui si faceva distrarre dai pensieri tristi, non andava bene per niente. Non poteva. Dentro quella casa, quando c’era Federico, non dovevano esserci pensieri tristi. Ecco, doveva tornare Milena, perchè quando c’era lei Federico era sempre così impegnato che non aveva il tempo di essere triste.
- Quindi? Ti da fastidio che non mi lascio distrarre da te? –
- Si. No…si. -  Scosse il capo, per riacciuffare il discorso che aveva perso quando il corpo di Federico si era avvicinato un po’ e il soffio del suo respiro lo aveva raggiunto sul collo. – Tu fai brutti pensieri. E non mi piace. –
Federico gli passò una mano tra i capelli, a tradimento, scompigliandoli tutti. Poi si alzò in piedi con uno scatto, quasi saltando.
- Fai colazione, Dom. Oggi devi suonare. –
Dominik si infilò malamente una fetta di pane bianco in bocca.
Federico doveva smetterla di cambiare sempre discorso quando non voleva rispondergli.
 
 

§§§

 
Si era rotto il cazzo.
Aveva cercato un modo gentile per pensarlo: dire di essere nervoso, che la giornata fosse andata male, che da giorni, se non da anni, le cose erano sempre uguali, però non rendeva bene l’idea.
Si era rotto il cazzo.
In quel modo rendeva perfettamente.
Samuele passò con forza il panno umido su bancone.
Non aveva niente da fare, non c’era troppa gente, e non aveva nemmeno Federico a cui rompere per un po’ d’attenzione. Aveva chiamato quel pomeriggio dicendo di avere un imprevisto, e che sarebbe andato Claudio al posto suo, che ci aveva già parlato. Così, la sua idea di tormentarlo per un po’ con i suoi problemi con Riccardo, giusto per sentirgli dire ma certo che è proprio stronzo, era andata in fumo.
Non aveva ancora deciso se andare in montagna con Riccardo.
O meglio, non aveva ancora deciso se farsi calpestare e cedere, perché il suo cuore aveva già deciso di andare. Solo che voleva sentirsi forte ancora per un po’, cullarsi nell’illusione che no, non avrebbe ceduto, che le cose sarebbero cambiate.
Andava avanti da sei anni, quasi. E non era cambiato niente.
Era cambiato lui, in parte. Era diventato più scorbutico, meno paziente e tollerante, meno permissivo, più frustrato. Ma Riccardo era sempre lì, con quella strana dolcezza mista a disperazione, alla preghiera di non essere lasciato.
Ma cosa gli stava chiedendo, di fingere per il resto della vita?
Di continuare a vivere accanto a sua moglie, e magari quando, dopo quarant’anni, fosse morto, non potersi presentare nemmeno a piangere sulla sua tomba, ed essere scacciato da quella donna senza cuore, che non l’aveva mai amato? Riccardo preferiva lo sdegno e la frustrazione di una donna che non lo tollerava nemmeno, all’amore incondizionato di un uomo che avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui, anche morire. Ma era questa la verità: quella era una donna, lui un uomo.
E questo la poneva automaticamente una spanna sopra di lui.
- Senti, per avere qualcosa da bere ci pensi tu o faccio il giro e me la preparo io? –
Samuele alzò il viso stizzito, puntandolo sul disturbatore.
Classico.
Bella faccia da stronzo e sorrisino impertinente.
Da spaccargli proprio la faccia, se non avesse avuto quei due begli occhi azzurri.
Anzi, no, da spaccargli la faccia proprio, perché quegli occhi azzurri erano da stronzo.
- Quali sono le paroline magiche? – lo provocò, con un sorriso falsissimo.
Quello, in tutta risposta, allargò ulteriormente il sorriso sul volto.
- Te lo succhio? – gli rispose, candidamente, poggiando il capo una mano e fissandolo in un battito di ciglia ironicamente effeminato. Era più che ironico, perché quell’uomo era la cosa meno effeminata che avesse mai visto nella sua vita. – Ops, volevi forse dire “per favore”, vero? Accidenti, sbaglio sempre! – Si morse il labbro inferiore, come a volersi scusare di quell’ingenuità che probabilmente non possedeva nemmeno ai tempi in cui dormiva nella culla. Poi fece un altro sorriso.
Allora Samuele scoppiò a ridere, abbandonando lo strofinaccio sul bancone.
Era comico, a dir poco. Un incrocio tra il demonio e un pulcino tutto arruffato, con quegli occhi azzurri stranamente candidi e quel corpo che gridava in ogni sua parte prendetemi a schiaffi.
E il modo in cui parlava, oh se era divertente, quello! Samuele non riusciva a capire se lo facesse apposta, per atteggiarsi a macho, o se davvero possedesse quella strana ironia che avrebbe spiazzato tutti.
- Oddio, divertente, davvero! Che cosa vuoi, ragazzino? –
- Un prosecco e ananas, offerto dalla casa ovviamente. –  Samuele sorrise con uno sbuffo, chinandosi a prendere un bicchiere pulito. – E non sono una ragazzino. Quanti anni credi che abbia? –
- Bah…venticinque? E mi sto allargando! –
Il ragazzo scoppiò a ridere, artigliando le mani sul bancone per fare un giro completo sullo sgabello girevole. Nel movimento, il giubbotto imbottito che indossava si allargò sul corpo.
Aveva la spalle larghe, ma il resto del corpo non sembrava troppo pompato.
Poi si fermò, bloccando i gomiti sul bancone e puntandogli quegli occhi azzurri addosso.
C’era qualcosa di stranamente magnetico in quelle iridi. Samuele aveva conosciuto diverse persone con gli occhi azzurri: il suo ex, Massimo, e diversi parenti, e anche Dominik, che gli occhi avrebbe dovuto averli azzurri. Ma in nessun paio di occhi aveva visto quel non so che di quasi animalesco che c’era in quelli che lo stavano fissando: era un azzurro scuro, profondo, tagliente come una lama fatta di ghiaccio. E c’era una luce di divertimento costante, dentro, come se il proprietario fosse stato uno sbruffone patentato. Sicuramente non tanto da mettere sotto lui.
- Sbagliato. Ne ho trentaquattro. Trentaquattro a febbraio, a dire il vero. Peccato, hai sbagliato! E per pagare pegno, offri quel prosecco. –  Samuele sorrise, divertito. Aveva la faccia tosta quel tipo, e non gli importava che stesse mentendo o meno sulla sua età. Era divertente e basta. Federico avrebbe dovuto esserci, si sarebbe fatto proprio quattro risate. O forse gli avrebbe tirato un pugno: era sempre troppo impulsivo quel ragazzino.
-  Sei venuto qua per farti offrire da bere, per caso? – Il ragazzo fece una smorfia, passandosi le dita sotto al mento: aveva la barba di qualche giorno. Samuele odiava la gente che non si faceva la barba: tollerava solo Federico, perché al massimo dopo due giorni la toglieva. Ma gli altri no, men che meno a quello strano tipo.
- Mh. Beh, sai com’è, quel tizio che avevo puntato è sparito nel bagno con un tipetto biondo, uno di quei passivi storici, e il mio piano è sfumato. Mah, bisogna pure sapersi adattare, no? –  Samuele sollevò un sopracciglio, facendo spallucce mentre si voltava a prendere la bottiglia di prosecco e quella di succo d’ananas per preparargli il suo diamine di aperitivo. Una persona che facesse un aperitivo alcolico a quell’ora, poi, alle quattro e mezzo del pomeriggio, doveva essere parecchio strana. La sua voce lo raggiunse alle spalle. – Nah, comunque stavo scherzando, però quando si può scroccare da bere a qualcuno si fa quel che si può. Ti stavo guardando il culo, comunque. – Samuele trattenne una risata, tornando a voltarsi. Era più che uno spasso, quel tipo, era quasi comico. No, era decisamente comica quell’aria convinta che aveva. Samuele versò il prosecco nel bicchiere, facendo ondeggiare la bottiglia in cerchio.
- Qui tutti mi guardano il culo, sai? –
- Nah, non credo. Tutti ti guardano il pacco. Il resto è per intenditori. –
- Oh, e tu saresti un intenditore? – lo provocò, poggiando la bottiglia sul bancone con troppa energia, facendola roteare. Adorava quella bottiglia di forma allungata, girava che era una meraviglia. L’uomo, di fronte a lui, annuì con una smorfia convinta.
Samuele rimase in silenzio per qualche minuto, mentre versava il succo d’ananas e tagliava una fetta di limone dallo spessore perfettamente regolare.
- Come hai detto che ti chiami? –
- Mattia. –
Mattia. Stonava un po’ con quell’atteggiamento da idiota, ma non troppo con quegli occhi che, alla fine, non sembravano poi troppo cattivi. Si sgranavano, ogni tanto, in risposta ad un movimento particolare o forse a qualche pensiero, e poi ritornavano ad accendersi di quella luce ogni volta che lui sorrideva. Aveva le labbra abbastanza sottili, e quando sorrideva il labbro superiore spariva quasi del tutto. Samuele passò il succo di limone sul bordo del bicchiere, prima di tempestarlo di zucchero.
- Mattia, un nome tenero! – Gli passò il bicchiere spingendolo in avanti con due dita, e quello lo prese a tradimento, facendolo sfuggire al suo tocco per portarlo alle labbra. Quando lo zucchero raggiunse la lingua, insieme al limone, Mattia fece una smorfia.
- Chi ti dice che io non sia tenero? –
- Da come ti poni non si direbbe. –
- Mai giudicare un libro dalla copertina, te l’hanno insegnato? Posso anche fare l’idiota, e si, un po’ lo stronzo, un po’ l’ironico, però con le persone di cui mi importa sono uno a posto. Un po’ cazzone, ma a posto – confessò, con un altro sorriso.
Questo era più ampio, meno costruito. Era più vero.
Samuele si appoggiò al bancone con i gomiti.
- E tu, Samuele? Sei lo stronzo o l’angioletto? – lo chiamò. Samuele battè le palpebre, stupito di essersi sentito chiamare per nome, e il ragazzo fece spallucce. - Sono un tizio che viene spesso, sai com’è. E le voci corrono –  rispose alla sua domanda silenziosa. Conosceva il suo nome. Lo conosceva tutti, in quel locale, non era difficile da scoprire: lavorava lì da due anni, e i clienti più affezionati conosceva addirittura già Federico, che lavorava lì da solo due mesi.
Gli avrebbe ance risposto a tono, se non ci fosse stata quella terribile sensazione.
Il suo cellulare, nella tasca, aveva vibrato. A lungo. Stava vibrando. Una chiamata.
Lasciò il bancone, sparendo sul retro, senza dire nulla. Era Riccardo.
- Si? –
- Sei a lavoro, Samuele? –
- Si. Perché? –
- Pensavo di passare da te, avevo un’ora libera.  –
- Puoi passare stasera.. – mormorò, speranzoso. Ma Riccardo sospirò.
- Non posso, Samuele. Stasera ho quella cena con…con i miei suoceri, ti ricordi? –
- Si. Ti chiamo domani, allora. –
- Samuele, io.. –
Gli chiuse in faccia. Erano poche le soddisfazioni che riusciva a prendersi, e attaccargli in faccia era una di quelle. Era troppo impulsivo, per riuscire a contenersi, e non voleva litigare con lui, urlargli in faccia tutto il dolore che gli stava schiacciando addosso. E allora era meglio restare in silenzio, giusto il tempo di calmarsi.
Quando tornò in sala, c’erano due persone che cercavano di chiedere un caffè. E poi il ragazzo strano, che stava finendo il suo prosecco. Guardava l’orologio.
- Beh, io me ne vado, eh? –
Aveva lasciato una banconota e delle monete sul tavolo.
- Credevo avessi detto che offriva la casa. –
- La prossima volta lo pretendo! –
Lo salutò con un cenno, mentre lo vedeva sparire oltre la porta.
Allora si mise a preparare i caffè, con il cellulare che pesava maledettamente in tasca.
Riccardo aveva una cena con i suoi suoceri, con i genitori di Priscilla, sua moglie, i nonni di suo figlio. Lui non c’entrava niente con loro. Era solo, come sempre, solo con se stesso e con i suoi ricordi, con l’immagine di Riccardo che lo tormentava, con la morbidezza delle sue mani e con il sapore dolce delle sue labbra. Perché doveva tormentarlo così?
Il cellulare vibrò ancora.
Un sms.
Stanotte dormo da te.
Samuele sorrise, ma dentro, nel petto, qualcosa si stava spezzando.
Di nuovo.
Riccardo e quella sua straordinaria capacità di sorprenderlo proprio quando gli mancavano le forze.
 

§§§

 
 
Stava camminando sul filo del rasoio.
Solo un piccolo imprevisto, ed era fottuto.
- E questa cos’è, Fede? Eh? –
- Non lo so, Milena, sarà una casa come tante! Quando saremo arrivati te lo dirò! –
Aveva saputo sin dal primo momento che non era stata affatto una buona idea, da quando Milena era tornata a casa dal suo appuntamento con il professore, entusiasta, non aveva fatto altro che ciarlare che era stanca, ma che non voleva starsene tappata in casa, che voleva vedere un po’ Milano prima di partire l’indomani, e che voleva andare a cena fuori e magari a ballare.
Alla fine, Federico era riuscito a venirne fuori cedendo, come sempre. Ma al sorriso di sua sorella non riusciva a resistere. Se non altro aveva ottenuto di risparmiarsi la cena fuori: avrebbero ordinato una pizza, e dopo sarebbero usciti e sarebbero andati a ballare. Federico aveva contattato Marco, quel collega dell’università, per uscire insieme a lui e al suo gruppo di amici: Samuele aveva intenzione di vedere Riccardo, e di uscire con gli altri ragazzi del locale, con quelli liberi almeno, era fuori discussione. Milena avrebbe scoperto tutto nel giro di due minuti, e non era ancora pronto per reggere il colpo. In verità, non voleva che lo sapesse Dominik, non così.
Glielo avrebbe detto lui, non appena avesse trovato il coraggio, e non lo avrebbe certo saputo dalle chiacchiere di sua sorella che, quando voleva, aveva una boccaccia larghissima.
Se lo rimproverava sempre anche da sola.
Solo che, per quel pomeriggio, non aveva potuto risparmiarsi l’uscita con la sorellina in giro per la città. Con un po’ di fortuna, forse, sarebbe riuscito a evitare di parlare del locale: in caso di emergenza, le avrebbe promesso di portarla l’indomani. Poi, avrebbe finto di dimenticarsene.
Solo con un po’ di fortuna.
Intanto era abbastanza impegnata a fissare le strade: non era mai stata a Milano, e le aveva promesso di portarla a vedere la facoltà, le vie intorno a casa e il Conservatorio dove studiava Dominik.
Dominik che stava diventando sempre più un enigma.
Quando lo aveva conosciuto aveva creduto di essersi trovato davanti un caso clinico, un enigma cronico, ma adesso le cose erano diverse. Dominik era un po’ più vicino, ma era ugualmente difficile comprendere certe sue uscite, certi sorrisi, certi atteggiamenti. Non sarebbe dovuto essere così, adesso che lo conosceva meglio, ma ugualmente, spesso, Dominik lo spiazzava. Come quel mattino, mentre facevano colazione insieme.
Ma io mi lascio distrarre da te. Tu no.
Non l’aveva capito. Aveva cercato di non capirlo.
Poi aveva confessato che gli desse fastidio che non fosse lui a distrarlo, ma si era confuso, aveva iniziato a farfugliare, e poi se ne era uscito che non doveva lasciarsi distrarre dai brutti pensieri.
Non aveva capito neppure lui, probabilmente, quello che voleva. E poi i suoi non erano proprio cattivi pensieri: pensava a Manfredi. Succedeva ogni giorno, però sempre per poco tempo: non era colpa sua se Dominik si fossilizzava solo su quei momenti. Lui a Manfredi doveva pensarci, perché lo faceva sentire un po’ meglio: gli piaceva tornare indietro, a quando avevano diciotto anni, stavano insieme da poco, ed erano felici e pieni di illusioni.
Lui era colmo dell’illusione di poter, un giorno, vivere insieme al ragazzo che amava.
Poi era andato tutto in fumo.
Non erano cattivi pensieri. Doveva ricordarsele quelle cose, per non cascare mai più in una storia come quella, con nessuno. Non l’avrebbe sopportato.
Ma Dominik diventava un enigma perché usciva fuori dai confini in cui lui lo aveva inserito. Come quel pomeriggio. Gli aveva detto che quando fosse tornata Milena sarebbero usciti per fare un giro, ma che sarebbero tornati per cena con delle pizze per tutti; gli aveva chiesto se volesse venire, come faceva sempre, ma non stava nemmeno ascoltando la risposta, consapevole che sarebbe stata un no. Per questo, quando aveva sentito distintamente un sì, nel silenzio che aveva lasciato tra una nota e l’altra dei suoi esercizi al pianoforte, si era quasi soffocato con il chewing gum che masticava da mezz’ora.
E non era stato un sogno, come aveva immaginato per i minuti seguenti. Perché Dominik era lì, con la mano poggiata sulla sua spalla, leggera come la carezza di una farfalla, a seguirlo in silenzio, così diversa dalla mano di Milena letteralmente aggrappata al suo braccio.
- Siamo arrivati? –
- Quasi. –
Milena sapeva essere più irritante di un bambino, quando ci si metteva, e lo faceva apposta per farlo innervosire.
- Ma fai tutta questa strada la mattina per venire a lezione? –
- Sono cinquecento metri, si e no! Se tu non ti fossi lamentata ad ogni passo, non sarebbe sembrato così eterno! –  Milena scoppiò a ridere, e anche Dominik sorrise, sempre in silenzio. Non aveva detto una sola parola da quando erano usciti di casa, però sembrava tranquillo.
- Come sei palloso! –
- E tu sei lamentosa! Io e Dominik siamo arrivati a piedi fino alla Scala e poi al Duomo…e tu ti lamenti per due passi! Diglielo anche tu, Dom! –  Dominik si strinse appena nelle spalle.
Era un’immagine strana, visto in quel modo, con il cappotto aperto sul petto che contrastava con la pelle pallida del viso. Sembrava un po’ intimorito dal fatto di essere fuori di casa, però continuava a camminare, e il suo respiro era regolare. Non doveva essere facile per lui, conoscendolo, e si stupiva ancora, Federico, del fatto che avesse detto di si così, senza quasi pensarci. Con la mano destra, Federico gli accarezzò lievemente il fianco, da sopra il cappotto: non gli sfuggì, però, di quanto fosse magro il corpo del ragazzino, anche da sopra i vestiti.
- A me facevano male i piedi – mormorò, facendo spallucce, e aveva un sorrisino lieve sul volto, quasi che sapesse di essergli appena andato contro e di esserne di fatto divertito.
- Visto? Dominik la pensa come me! –
- Ottimo. Sono finito in minoranza! –
Milena rise, con quella risata che trillava come una campana, e anche Dominik sorrise.
C’era uno strano equilibrio in quei due sorrisi, che gli fece venir voglia di sorridere.
Strattonò il braccio della sorella.
- Guarda, Milena! Questa è la facoltà! –
Le indicò il palazzo che aveva imparato a conoscere, con la sua bella targa e i suoi studenti: a quell’ora non c’era ormai nessuno, e il cancello d’ingresso era chiuso, però c’era ugualmente quella strana aura di “giovani tutto intorno” che lo faceva sentire quasi nel pieno della sua mattinata universitaria.
Milena sfuggì, allontanandosi da lui e avanzando verso il cancello. Era sempre stata affascinata dalle facoltà universitarie, quasi come fosse una fissazione: diceva che le piacessero i palazzi antichi che respiravano storia e cultura, accanto ai quali sentirsi piccolissimi non solo fisicamente ma anche moralmente. Per questo avanzò per avvicinarsi e sfiorare il muro freddo con una mano.
Quando sollevò il braccio, il cappottino scuro che indossava, tutto svasato sul corpo, si sollevò, facendola sembrare, da lontano, simile a una bambina che esplorava il mondo.
Accanto a lui, dopo un soffio di vento, Dominik rabbrividì.
Federico si voltò. Aveva il viso arrossato per il freddo, e le labbra, solitamente così lisce, erano screpolate: le stava umettando con la lingua, arrossandole ulteriormente.
- Hai freddo? –
- Un po’ – lo sentì soffiare. Avrebbe dovuto essere dannatamente tenero, invece era solo terribilmente affascinante: il viso arrossato era più quello di uno strano personaggio delle fiabe, piuttosto che quello di un bambino; la sciarpa che indossava, semplicemente poggiata addosso, un tono più nero del nero del cappotto, gli scivolava addosso come una nota di colore su uno spartito grigio, e lo illuminava; e quelle labbra, adesso così screpolate, erano un tocco di disordine nel mondo patinato e perfetto che Dominik rappresentava.
Sfuggì al tocco della sua mano sulla spalla, parandoglisi davanti: non lo sentì sussultare, non doveva essere sorpreso. Con una mano, Federico prese la punta della sciarpa, sollevandola e rigirandogliela intorno due volte, fino a creare una specie di collare morbido intorno al suo collo, e davanti alle labbra. Poi, strinse le dita intorno al primo bottone in alto del cappotto.
- Ti vesti pesante e poi metti le cose così aperte. Che senso ha? –
Chiuse il primo bottone, poi il secondo. Mentre chiudeva il terzo, Dominik sorrise.
C’era una strana intimità in quel gesto, nel modo in cui Dominik se ne stava pazientemente fermo, senza quasi respirare, e in quello in cui lui sfiorava i bottoni del suo cappotto scuro.
- Non mi andava di perdere tempo -  disse semplicemente.
Federico scosse il capo, incredulo. Si sarebbe accontentato di stare lì a morire di freddo pur di non perdere due minuti ad abbottonarsi il cappotto.
Chiuse il quarto bottone. La pancia di Dominik.
Il quinto bottone. Il bassoventre.
Il sesto bottone. L’inguine.
La fine dei bottoni. I lembi del cappotto che ricadevano sulle gambe.
La mano di Dominik in aria, a cercare la sua.
- Bello, qui, però non lo so, mi sa che gli manca qualcosa! E il Conservatorio sarà molto più magico, vero Dominik? –
Federico scivolò oltre con uno scatto, e la mano di Dominik si poggiò sul suo gomito, risalendo fino alla spalla per ritrovare un appoggio a cui ancorarsi. Gli aveva semplicemente chiuso il cappotto, un gesto da amici: non aveva indugiato su niente, era stato solo un gesto gentile.
Dominik palrò, in risposta a Milena.
- Al Conservatorio si respira la musica. –
- Allora andiamoci! –
- Come desidera, signorina. Quando hai detto che te ne vai, scusa? – la provocò poi Federico.
Milena lo colpì a sorpresa sulla nuca, dandogli un pizzicotto sul collo, e risero entrambi. Anche Dominik rise, coinvolto dall’atmosfera, e anche se la sciarpa gli nascondeva in parte il viso, Federico potè vederlo ugualmente.
Rifecero la strada indietro, verso casa, deviando per il Conservatorio. Più si avvicinavano, più sentiva Dominik vibrare, quasi come se riconoscesse la vicinanza a quel posto che per lui rappresentava più del paradiso. Quando erano quasi arrivati, però, Milena lo strattonò ancora.
- Guarda, Fede, hanno le caldarroste! Le prendiamo? –
- Le caldarroste a dicembre? –
- Questi tizi le vendono anche ad agosto, lo sai! Dai, dai, io ne prendo un pacchetto! –
Era già corsa via prima che riuscisse a fermarla, e si costrinse a seguirla, trascinando i piedi, con uno sbuffo. Era stancante inseguire così Milena, e a lui le caldarroste nemmeno piacevano; ne mangiava una e già non ne poteva più. Però Milena non passava mai tanto tempo con lui, e doveva avere pazienza. Doveva. Pazienza.
Si voltò verso Dominik, mentre sua sorella contrattava sul prezzo di un pacchetto  di caldarroste.
- Ti piacciono le caldarroste? –
- La mamma e le fa sempre – mormorò, annuendo.
Milena si voltò, trionfante, con un pacchetto in una mano e sette euro in meno nel portafoglio.
Però le caldarroste, in fondo, erano buone. Federico ne mangiò ben tre, prima di ritrovarsi addosso quella sensazione di pienezza che non gli permetteva mai di mangiarne altre. Ne prese una, allora, e la sbucciò per Dominik, porgendogliela che ancora scottava sulle dita.
Milena si stava ingozzando, mentre gli camminava accanto.
Si infilò in bocca una caldarrosta intera, finendo per prendere a sbuffare con gli occhi che lacrimavano.
- Mh, le adofo! – Deglutì in fretta, ustionandosi tutta la gola, e Federico represse una risata. – Mi piace Milano, sai? Qui si può fare tutto ed essere tutto, senza che nessuno ti rompa le palle! – Fece una pausa, e Federico avrebbe tanto voluto dirle che no, non era proprio così, che in nessun posto al mondo ci sarebbe stata la possibilità di essere qualsiasi cosa, perché a casa ci sarebbe stato sempre qualcuno a cui rendere conto delle proprie scelte. Come capitava a lui. Però non disse niente, e lei continuò a parlare. Federico sbucciò un’altra caldarrosta, e quando la passò a Dominik incrociò le sue dita fredde, rabbrividendo per il contrasto tra il calore bruciante della caldarrosta e il fresco delle dita di Dominik. Però poi Milena scoppiò a ridere, senza nessun motivo apparente, e Federico ritrasse di scatto la mano, ringraziando la prontezza di riflessi di Dominik che lo aveva spinto a stringere le dita. Il cuore gli batteva a mille, preso dall’ansia che Milena stesse ridendo per lui, per quella piccola confidenza, e che avesse capito tutto senza nemmeno chiedere nulla. Sarebbe stato un casino. Ma quando si voltò a guardarla, Milena aveva gli occhi lucidi persi nei ricordi.
- Oddio, stavo pensando a quella volta che ti ho fatto quello scherzo in bagno, ti ricordi? –
- Me ne ricorderei se fosse stato l’unico. Tu eri una rottura continua, Milena! – La sentì ridere ancora, agitando le mani in aria.
- Questa devo proprio raccontartela, Dominik! Una volta, Federico poteva avere tredici anni e io sedici, ero in bagno, e lui non faceva che bussare alla porta e urlare che mi dovevo sbrigare che non ce la faceva più. Allora mi sono innervosita, perché mi stavo rasando le gambe, sai, e ci vuole parecchia cura. E insomma, allora gli ho aperto la porta, e mi sono seduta sul bordo della vasca. Quando lui è entrato in bagno e mi ha borbottato che dovevo uscire, io ho preso e ho aperto il rubinetto, e con il doccino l’ho bagnato completamente! – Federico scosse il capo.
- Ti rendi conto che non fa ridere, vero? – Milena mise il broncio, ma ritornò subito a sorridere, dandogli un colpetto sul braccio.
- Non sono brava a raccontare le cose, ma ti assicuro che la tua faccia faceva ridere eccome! –
- Divertente come un calcio nelle palle! –
Milena si allontanò per gettare il pacchetto vuoto in un cestino, sollevando poi il volto per ammirare i profili degli alti palazzi stagliarsi contro il cielo grigio di Milano. Era bella quando faceva così, quando perdeva quella vena costante di divertimento e si fermava ad osservare il mondo senza sovrastarlo: diventavano più simili in quei momenti. Ma non duravano mai troppo.
Milena finiva per rimettersi su quel bel sorriso luminoso, e i suoi occhi brillavano di nuovo. Tornò da lui, prendendolo a braccetto.
- Con chi hai perso la verginità, Fede? –
- Ma ti sembrano domande da fare? Come ti vengono in mente? – Lei si strinse nelle spalle.
- Non lo so. La conversazione era scemata e mi è venuto in mente – confessò, con una semplicità disarmante. – Dai, me lo dici? Io ti dico il mio! –
- Come se fosse un segreto! Lo sanno tutti che l’hai fatto con Pietro! –
- Io non l’ho fatto con Pietro la prima volta. Ma tu non dirglielo! Dai, dimmelo, e io ti dico con chi! –
Federico scosse il capo, con una mezza risata. La mano di Dominik sulla spalla, nonostante fosse sempre la stessa, sembrava diventata pesante come il piombo adesso: non gli andava di parlare di cose così davanti a lui, era come...sporcarlo, quasi. Si doveva parlare di musica, di angeli, di amore sacro e platonico, con uno come lui. Ripensò per un attimo alle parole di Milena, appena la notte prima. Può credere fermamente in quello che dice, nella musica e cose varie, può pensare di essere un santo sceso in terra per portare il piacere delle sonate classiche in tutto il mondo. Ma quando incontrerà qualcuno in grado di fargli battere il cuore, la musica non sarà più una priorità assoluta.
No, Dominik era diverso.
E lui invece era curioso. Curioso marcio come una scimmia all’idea che sua sorella non avesse fatto sesso la prima volta con Pietro, il fidanzato storico, ma con un altro. E con chi? Forse poteva anche cedere, in fondo non le avrebbe mentito. Aveva davvero fatto sesso con una ragazza, prima di scoprire Manfredi.
- Si chiamava Giulia, era nel mio gruppo di amici. E, prima che tu me lo chieda, perché lo farai, avevo sedici anni. E no, non ti dirò come è stato, né nient’altro. – Milena sbuffò, aggrappandosi più forte al suo braccio.
- Come sei noioso! Però bravo fratellino, credevo ci avessi messo più tempo! –
- Ma smettila! E ora parla, forza! – Milena strinse le labbra, mordicchiandosi quello inferiore per tirare fuori quasi un’espressione infantile: lo faceva sempre quando pensava a qualcosa che nella sua mente era totalmente in disordine, e che doveva essere risistemato.
- Sono stata con Andrea. –
- Con Andrea?!! –
Sconvolto. Questa sarebbe stata l’espressione adatta.
Andrea era il migliore amico di sua sorella praticamente dalla culla: stavano sempre insieme, e Federico aveva sempre avuto la netta sensazione che lui fosse innamorato di sua sorella, ma avevano sempre negato entrambi un qualsiasi coinvolgimento sentimentale al di fuori dell’amicizia. Federico li aveva sempre paragonati un po’ a lui e Manfredi, con quell’amicizia incrollabile e straordinaria, bellissima e dolce, che li univa con un solo sguardo. Ed era stato così, fino a quando Milena non si era fidanzata con Pietro: poi le aveva iniziato a uscire solo con lui, a fare progetti, e aveva perso di vista Andrea. Alla fine, aveva perso di vista anche Pietro, e si era sposata con Michele. Ma mai, mai nella vita, Federico avrebbe potuto immaginare che sua sorella avesse fatto sesso con il suo migliore amico. Oddio, certo che erano proprio fratelli: anche lui aveva fatto sesso con il suo migliore amico. Tante volte. Parecchie.
- Si. Era il mio migliore amico, e il ragazzo migliore del mondo. E io volevo che fosse bello. Con lui lo sarebbe stato, perché mi conosceva meglio di chiunque altro, sapeva come prendermi, e come la pensavo. Ed era anche un figo pazzesco, oltretutto. Ed è successo. E, credimi, non me ne sono proprio pentita. Non c’è mai stata volta migliore di quella, anche se Michele ci si avvicina molto…Andrea era…porca paletta! – soffiò, con un’aria estasiata.
- No, fammi capire, tu vai a letto con il tuo migliore amico…e basta? –
- E basta. – Milena si perse a guardare un punto lontano, più lontano del vuoto. – Lui era innamorato di me. Ed io no. Quando mi sono messa con Pietro, Andrea ha deciso che non mi voleva più vedere che era meglio così. – La vide tornare al presente, con un sorriso tirato, per scacciare i ricordi. – Adesso ce l’ho su facebook, ogni tanto parliamo. E’ andato a studiare Ingegneria e qualche cosa a Milano, si è laureato e lavora in un centro tutto tecnologico di cui non ricordo il nome. Sapevo che avrebbe fatto strada! Ma, comunque…e tu Dominik? Hai mai fatto sesso con qualcuno? –
Di Milena, Federico aveva sempre pensato, sorprendeva la straordinaria capacità di cambiare discorso nel giro di tre secondi. Ma, in quel caso, era parecchio più sorpreso dalla domanda che aveva fatto a Dominik. Come fai a chiedere una cosa così a uno sconosciuto?
Era straordinariamente senza pudore, sua sorella.
Dominik non fece una piega però, limitandosi a stringersi nelle spalle.
- No – soffiò.
- Fai bene! Queste cose portano solo guai! –
Federico pensò che avesse ragione, che il sesso portasse solo guai. Tra lei e Andrea, tra lui e  Manfredi, tra Samuele e Riccardo, persino tra gli sconosciuti che si incontravano al bar. Il sesso portava sempre problemi. E Dominik, che non se ne interessava proprio, aveva quell’idea così pulita dell’amore proprio perché non aveva conosciuto la forza con cui il sesso riusciva a spazzare via ogni altro sentimento buono. Non erano certo animali, ma non potevano negare che fosse così, che l’amicizia, la tolleranza, l’amore, potessero ruotare tutti intorno a quel perno avvelenato che era il sesso.
- Lo pensi anche tu? – gli chiese d’un tratto la voce di Dominik vicino all’orecchio, mentre Milena si fermava qualche passo indietro a rovistare nella borsa alla ricerca del cellulare che squillava.
- Cosa? –
- Che queste cose portano solo guai. –
- Perché me lo chiedi? – Dominik sorrise. Lo aveva incastrato, aveva imparato che quando si metteva a fare delle domande, aveva sempre un fine, una domanda più grande da fare che inglobava tutte quelle che aveva fatto prima.
- Perché non credo che tu lo pensi. – Fece una pausa, facendo scivolare la mano oltre la sua spalla, e interrompendo il contatto fisico. – Quando ti ho chiesto se avevi mai fatto l’amore, e mi hai detto di si, avevi la voce di uno che pensa a delle cose belle, non di uno che pensa che queste cose portano solo guai – snocciolò, veloce come uno scioglilingua.
- Mh, niente male. Diciamo che…ci sono cose belle che portano anche guai, ecco. –
Dominik prese quella risposta per buona, però non sembrava comunque contento.
- Quindi se tu baci una persona è bello, però porta anche guai? –
- A volte, si… -
Di solito succedeva, almeno nella sua vita, ma a volte no. E non era il caso di dirlo a Dominik: sarebbe stato meglio che lui vivesse con l’immagine rosa pastello che si era creata nella sua mente. Magari, un giorno, sarebbe sceso dalla sua montagna, avrebbe abbandonato quelle vesti di eremita, e avrebbe baciato una ragazza: allora sarebbe stato lui a scoprire se davvero queste cose portassero guai, e quanto, e sarebbe stata una scoperta tutta per lui.
Fino a quel giorno, gli avrebbe lasciato credere che tutto fosse come immaginava lui.
Il ragazzino si strinse nella spalle, nascondendo il viso dietro la sciarpa.
- Come mai questa domanda? –
Dominik piegò ulteriormente il capo in avanti, infilandosi le mani in tasca.
- Niente. - 






(1) Il titolo è tratto dallo spot della Perugina.
Nota al capitolo 19:
Finalmente il mio adorato capitolo vede la luce!
Ho voluto fare in modo di aggiornare oggi, altrimenti sarebbe slittato a sabato e non sarebbe andato affatto bene!
Devo dire che mi è venuto fuori bene, e spero che vi piacerà! C'è il nuovo personaggio che avevo annunciato: e alla fine è un uomo. xD
Il nome, come emerso dal piccolo sondaggio che abbiamo fatto, è Mattia. Ero indecisa tra Mattia e Nicola, devo dirvelo, però Mattia ha un suo fascino. Aspettato di introdurre mattia da diciotto capitoli, e non ho idea di come ho fatto a trattenermi dal dirvelo.
Il volto di Mattia, direttamente dalla serie tv Lost, è Ian Somerhalder.
http://t0.gstatic.com/images?q=tbn:ANd9GcQ4C94IIGaoVnBlkB0cSfdkklz8adHQuID5_rDvk-yJI9Ub8ivhVA
Sembra uno stronzetto, ma in realtà non lo è, come ha detto lui stesso: gli piace solo fare lo spaccone. ma vedrete più avanti!
Il regalo di Federico per Dominik, che lo aspettiamo da parecchio: eccolo qui!
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L'ho amata dal primo momento che l'ho vista, la vorrei anche io ma non so dove trovarla, davvero.
Vi lascio con i miei migliori auguri a tutti per San Valentino, approfittatene per fare scorte di cioccolato, come farò io. xD
Un bacio a tutti, e il link alla mia pagina facebook, dove troverete sempre spoiler, novità sugli aggiornamenti, e piccoli sondaggi e domande sulla storia! ^_^
http://www.facebook.com/pages/100-sbavature-di-Esse/509052772480144

Vi ringrazio tutti per l'affetto, il sostegno e la pazienza, e mi state accompagnando nella dura lotta contro il mio esame. Mancano dieci giorni, e tutto va male. D: Però, grazie, a tutti. Risponderò personalmente alle recensioni domani, ma ringrazio tutti, anche i miei lettori silenziosi!
Spero che il capitolo vi piacerà, e un enorme bacio a tutti!

Esse

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Capitolo 21
*** 20th: Mentre il mondo cade a pezzi ***




Succede ai baci come alle confidenze: uno tira l'altro, e viva via si fanno più vicini e caldi.
Vivant DenonPoint de lendemain, 1777


 
 

Chapter 20th: Mentre il mondo cade a pezzi
 
- Comunque sei una merda, Federico! –
Il bicchiere vuoto ondeggiò pericolosamente mentre poggiava il vassoio sul bancone.
Samuele aveva tirato fuori una delle sue migliori facce offese, ma stava trattenendo una risata.
Era di ottimo umore quel giorno: la notte precedente Riccardo aveva dormito da lui, erano rimasti a letto fino a tardi, perché quel giorno era sabato e l’avvocato non doveva lavorare, e aveva finto con suo figlio un viaggio di lavoro improvviso, così avrebbe trascorso tutto il giorno con Samuele.
E lo avevano fatto eccome: si era alzati tardissimo, avevano preparato una colazione che era quasi un pranzo, e poi erano rimasti ad oziare sul divano parlando di scemenze, fino a quando, alle quattro, a Samuele non era toccato andare a lavoro. Aveva proposto a Riccardo di raggiungerlo, ma, ovviamente, la risposta era stata negativa: un avvocato rispettabile, con moglie e figlio, non avrebbe certo potuto farsi vedere in un locale gay. Si sarebbero rivisti a casa e avrebbero dormito insieme, nulla di più. Gli aveva lasciato molto da leggere, e un programma alla tv che lo attraeva parecchio.
E gli andava bene, nonostante tutto, perché si stava godendo quei due giorni di strana intimità domestica. Federico aveva pensato di fargli notare che quella non fosse proprio intimità, ma clausura forzata, però alla fine aveva deciso di lasciar perdere e fargli godere quei due giorni di pace, che se li meritava.
Tra l’altro, non era poi di ottimo umore: dopo l’estenuante nottata in discoteca, lui e Milena si erano svegliati tardi, così aveva dovuto letteralmente correre in giro per portarla in centro a comprare qualcosa prima che lei andasse in aeroporto e lui corresse a lavoro per il turno pomeridiano del sabato. Aveva lasciato Dominik a casa, quella mattina, che era tutto un sorriso, perché la sua musica stava raggiungendo la perfezione, e alla verifica mancavano meno di due giorni.
- Cioè, viene tua sorella e nemmeno me la presenti! A me! –
- Ma ci avevo davvero pensato, sai? Però ero indeciso…avrei dovuto farlo prima o dopo che avesse scoperto che sono gay? –
- E quanto sei palloso, Fede! –
Un’altra risata, fino a un sorriso morbido di quelli che riusciva a fare Samuele solo quando era particolarmente felice.  Anche a Federico venne da sorridere.
A guardarlo, sembrava ogni giorno uguale, Samuele: sempre quella maglietta aderente, ogni volta di colori diversi, quei jeans scuri, quel viso liscio e quegli occhi luminosi, quelle piccole rughe intorno agli occhi e quell’aria che era un misto tra la stanchezza e la voglia di vivere. Però era ogni giorno sempre diverso: c’era qualcosa di nuovo, ogni singolo istante, nel modo in cui protendeva il braccio per prendere un bicchiere, o nel modo in cui sorrideva, o ti dava un colpetto sul braccio dopo una battuta che ti aveva fatto sorridere.
Ecco, quel giorno c’era una sorta di strana esaltazione, una novità che prima non c’era.
Doveva essere l’influenza di Riccardo.
Lui, invece, dentro si sentiva solo un vuoto, una sensazione stranissima che lo aveva colto non appena si era chiuso la porta di casa alle spalle, quel mattino, e che l’aveva accompagnato per tutto il tempo in cui era andato avanti e indietro con Milena. Eppure non era successo niente in quelle poche ore che potesse giustificare quella sensazione: era quasi un presagio, o la manifestazione di un attacco di panico, con una mano che gli serrava la gola.
Se la sentiva addosso, dentro il corpo, sulla pelle, e desiderava soltanto sparire sotto una coperta e non vedere più nulla, almeno fino a quando non gli fosse passata. Gli serviva una di quelle sinfonie che Dominik si metteva a suonare la sera, facendo scorrere morbidamente le dita sui tasti del pianoforte.
Era Chopin. Dominik suonava sempre Chopin prima di andare a letto.
E tutte le volte, Federico pensava che, probabilmente, neppure Chopin stesso sarebbe riuscito a suonare con tanta dolcezza.
- Federico? Toh, porta sti tre bicchieri a quei tizi laggiù! –
Federico sussultò, lasciando cadere la penna con la quale stava giocherellando.
Si chinò a raccoglierla, poi arraffò il vassoio, chiudendo appena gli occhi e vestendosi della sua migliore aria sorridente.
Con un po’ di fortuna non si sarebbe accorto nessuno che quel sorriso era la cosa più finta al mondo dopo le labbra di Nina Moric.
Buon’umore. Doveva pensare solo a quello.
Lasciò i bicchieri ai tre uomini al tavolo, con un sorriso, prima di voltarsi per ritornare al bancone, ma fu intercettato da due ragazze che volevano ordinare. Erano strane, tutte e due.
Una sembrava una principessa uscita da qualche libro di fiabe, con una marea di capelli biondi lunghi fino alla vita che le scendevano sulle braccia come una coperta. L’altra, invece, aveva i capelli corti a spazzola, e un rossetto viola scuro sulle labbra, come una di quelle compagnie poco raccomandabili. Però sorrideva affabile, e quando parlò per ordinare due drink, la sua voce era stranamente morbida e carezzevole come quella di una dea. Stavano insieme, quelle due, perché non appena lui si congedò, si strinsero una mano, scambiandosi un altro sorriso.
Erano completamente diverse, due mondi opposti, eppure stavano insieme. E lui e Manfredi, così stranamente vicini, non avevano fatto altro che collidere continuamente fino a quando le loro traiettorie non si erano allontanate.
Manfredi. Veniva sempre fuori così, quasi a sorpresa, tutte le volte che il vuoto lo avvolgeva.
Faceva ancora stranamente male pensare a Manfredi. A volte si chiedeva se sarebbe stato così per sempre, se anche a cinquant’anni, magari felice con un compagno che lo amasse, avrebbe continuato a fare così male, con quella dolcezza strana, se davvero Manfredi lo avesse avvelenato a tal punto da rendergli impossibile persino la vita, senza di lui.
Forse, alla fine, sarebbe tornato da lui, e Manfredi lo avrebbe aspettato, con un sorriso, consapevole da sempre che sarebbe tornato.
O forse, pensava subito dopo, aveva bisogno anche lui di qualcuno di così diverso, come quelle due ragazze al tavolo sedici, da attrarlo come un satellite.
Solo che, ogni volta che vedeva scene del genere, lo prendeva una stretta al cuore: non aveva mai avuto qualcuno che lo guardasse in quel modo in pubblico, che avesse il coraggio di stringergli la mano, un gesto semplicissimo carico di intimità.
Federico avvicinò il vassoio ad un fianco, per passare tra due sedie troppo vicine e ritornare al bancone, ma quando alzò il viso vide qualcosa di davvero particolare.
Samuele stava sorridendo. Con quella strana esaltazione che gli aveva visto negli occhi.
Stava sorridendo a lui, poi gli fece un occhiolino, e come un soffio di vento tornò a concentrarsi sui bigliettini con gli ordini di drink che gli erano arrivati.
Era quando Samuele gli sorrideva in quel modo incoraggiante, che Federico si sentiva meglio.
L’amico non se ne accorgeva, ma gli dava coraggio: non cedere alle preghiere di Manfredi, farsi una vita, cercare di essere felice così e di accettarsi…era tutto merito loro.
Di Samuele, di Lorenzo, di Roberto, persino di Chicca. E di Dominik.
Era tutto merito loro, che gli mostravano, semplicemente sorridendo, quanto potesse essere bella la vita, quanto con un poco di coraggio la felicità sarebbe arrivata: magari prima ci sarebbe stata ancora sofferenza, ma ne sarebbe valsa la pena.
Samuele era quello che gli dava più coraggio di tutti, perché erano uguali loro due, persi in un amore senza uscita e senza gratificazione: lui era riuscito a uscirne, Samuele no. Però, quest’ultimo lo incoraggiava sempre, non faceva che ripetergli di essere stato forte, e che gli sarebbe piaciuto davvero avere una forza come la sua. Ma soprattutto, Samuele lo incoraggiava quando gli sorrideva in quel modo carico d’orgoglio e di approvazione che gli scaldava il cuore e gli faceva pensare che, nonostante tutte le cose che sarebbero potute andare male, una, almeno, sarebbe andata bene: loro due, lui e Samuele, in un modo o nell’altro.
Era come avere un fratello maggiore.
Gli sorrise anche lui, da lontano, ma Samuele si era già chinato, troppo in fretta per poterlo vedere. Lo avrebbe avvicinato per una battuta, anche, se il suo cellulare non avesse preso a vibrare nella tasca. E se il vuoto non gli fosse esploso dentro, al centro del petto.
Federico sparì sul retro, prima che Samuele potesse intercettarlo: c’era Lorenzo ai tavoli, e non c’era troppa confusione da non potersi assentare per dieci minuti.
Solo dieci. Giusto il tempo di morire.
- Pronto? –
- Ciao Fede. –
Ciao Fede.Parole semplicissime, quasi atone, quasi prive di significato.
Però gli stavano scavando dentro.
- Ehi, Manfredi. Come stai? –
- Bene…tu? –
- Al solito. –
Era la prima volta che si rivolgevano la parola da quando Manfredi aveva lasciato Milano e si erano lasciati andare un po’. Un po’ troppo.
Stavano parlando come due estranei, e non doveva essere così: sarebbero dovuti restare amici, come a diciotto anni, quando quell’amicizia dolce era naufragata in un amore distruttivo.
Ecco, il livello perfetto era quello, quella tensione che si era stabilita prima che scoprissero la verità, quella che li univa come le due facce di una medaglia senza però consumarli.
Invece avevano perso anche quella. Erano solo due persone che si conoscevano adesso, ed era colpa sua, era stato lui a volerlo. Sarebbe stato meglio restare a consumarsi ancora un po’, pur di non perderlo.
Nel silenzio, Federico avvertì il rumore di un clacson all’altro capo del telefono, poi il lieve sospiro di Manfredi. Se non si fosse concentrato tanto su quel suono acustico, forse non lo avrebbe neppure sentito, perché fu così lieve da sembrare quasi un soffio leggero, e perché, dopo, la voce di Manfredi era quella allegra che aveva sempre.
- Ho pensato di chiamarti, è un sacco che non ci sentiamo. Che fai, sei a casa? –
- No, sono a lavoro. Mi sono allontanato cinque minuti. Tu sei fuori? –
- Sono a casa, in balcone. C’era un sole meraviglioso oggi a Palermo. Anche adesso, figurati, ci saranno minimo venti gradi! –
A Federico venne da sorridere, ripensando a tutte le volte in cui, in quel periodo di dicembre, a scuola si faceva autogestione e loro due andavano sempre in giro in motorino, in maniche corte sfidando la temperatura non poi così calda, e a Mondello finivano a rotolarsi sulla sabbia e a inzupparsi le gambe correndo in acqua con i pantaloni tirati su fino alle ginocchia.
- Che fai stasera? –
- Solite cose, Fede. Vado un po’ in giro con Giuseppe e gli altri a fare il cazzone e poi andiamo a ballare. Te che fai? –
- Oh, io un bel niente! Lavoro fino alle otto, e sono distrutto. L’unica persona con cui mi andrebbe di uscire sarà a casa a rotolarsi sul letto, e vorrei evitare di assistere! –
Manfredi rise e Federico si lasciò travolgere da quella risata, aprendosi anche lui. Si sentiva sempre leggero quando parlava con Manfredi, come se lui riuscisse a cancellare tutti i problemi e a riempire tutto il vuoto. Il problema nasceva sempre dopo, quando Manfredi si allontanava e lui si ritrovava con un vuoto ancora più grande, perché anche Manfredi si era messo a scavare dentro di lui. E non gli importava, tutte le volte.
E mentre ancora Manfredi rideva, lui sentiva quell’inquietudine che tornava.
Manfredi non parlava, nel silenzio Federico ascoltava la musica jazz che gli giungeva all’orecchio libero, ovattata, da dietro la porta che lo separava dalla sala principale del locale.
Manfredi sospirava, e se lo immaginava a passarsi una mano sul viso, e poi tra i capelli, come faceva sempre.
- Sai, Fede…non sono più stato con nessuno dopo di te – gli confessò poi.
- Nemmeno io. – Che motivo c’era di mentire su una cosa come quella? Se anche lui si fosse illuso, se si fossero fatti un po’ più male, cosa ci avrebbero guadagnato o perso? Nulla più di quello che avevano già fatto.
- Ho paura di non riuscire più a stare con nessuno, Federico. Tutte le volte, io…penso a te. –
- Non devi! Manfredi, ascoltami…non devi, hai capito? Noi…siamo…siamo amici, adesso. Basta. Dobbiamo andare avanti. Non devi pensare che sarebbe come tradirmi, io potrei esserne solo felice. –
Che bugia, Federico. Sapere che Manfredi fosse felice con un altro uomo sarebbe stata una coltellata. Avrebbe significato accettare che loro due, in fondo, non erano stati poi niente di tanto speciale, se lo aveva rimpiazzato così presto. Avrebbe significato vedersi sbattere in faccia che era stata colpa sua, che vivere con Manfredi nella menzogna fosse possibile, che lui era stato troppo debole e troppo egoista da essersi convinto che dovessero dire per forza la verità per essere felici.
Sarebbe stato peggio di una coltellata. Ma era inevitabile che accadesse.
- Non è solo per questo, non è solo perché sono ancora così legato a te, che sarebbe davvero come tradirti. Questo passerà, prima o poi. Io ho paura di un’altra cosa, che magari non se ne andrà mai. E’ che…sento ancora il tuo sapore, e mi immagino le tue mani. Se io permettessi a qualcuno di baciarmi, di toccarmi…si porterebbero via te. E io non voglio rinunciare a quest’ultima cosa che mi resta. –
Federico avrebbe voluto dirgli che quella voragine dentro se l’era sentita anche lui. Era una sensazione strana, di dipendenza. Non era per Manfredi, era per se stesso; non si era sentito pronto a perdere il ricordo delle mani di Manfredi addosso, delle sue labbra, dei suoi occhi quando lo guardavano in quel modo carico di desiderio e di speranza.
E forse era vero che non se ne sarebbe andato mai completamente, che sarebbe rimasto lì, quel desiderio, a renderli schiavi, per il resto della vita, perché erano intrecciati in modo troppo stretto.
- Lo so, Manfredi. Lo so, ci penso sempre anche io. E non dobbiamo farlo adesso. Nessuno ha detto che dobbiamo uscire, stasera, e baciare qualcuno, o andarci a letto. Nessuno ha detto che accadrà domani, o il mese prossimo. Però succederà, e non ce ne accorgeremo nemmeno. –
- Non ne sembri così sicuro. –
- Non lo sono, infatti. Però ci spero. –
- Ci speri perché hai già iniziato ad accettarlo. Hai già iniziato a tenermi lontano, ad accettare che qualcun altro ti toccasse, ti stringesse. Tu ti sei già liberato di me, Federico. -
Manfredi fece una pausa, un altro sospiro.
Quanto tempo era passato? Cinque minuti, mezz’ora? Da quanto era chiuso nel retro insieme alle bottiglie di birra e a quel telefono che scottava all’orecchio?
- Scusa, comunque. Non avrei dovuto chiamarti per lagnarmi, ma…sei l’unica persona che ho al mondo, e avevo bisogno di parlarne con te. –
Un’altra pausa di silenzio, il nodo alla gola che cresceva e lo soffocava.
- Devo tornare a lavoro, Manfredi. Mi richiami? –
- Si, certo. Ciao Federico. –
- Ciao. –
Chiuse la chiamata. Gli venne quasi da sorridere.
Tu ti sei già liberato di me, Federico.
Era vero, in parte. Era vero quando permetteva a Samuele di abbracciarlo, quando si sorprendeva a guardare due ragazzi baciarsi e desiderava trovarsi anche lui in una situazione come quella, quando usciva con Lorenzo e  accettava che il suo amico Michele ci provasse con lui e gli offrisse da bere. Era vero anche quando gli veniva voglia di baciare Dominik perché era la cosa più diversa da Manfredi che esistesse al mondo.
Solo che bastava ancora una cosa piccola come una chiamata, o un paio di occhi verdi troppo simili ai suoi, per fargli tornare dentro quella brutta sensazione di vuoto, almeno per cinque minuti.
 

§§§

 
Federico era stato triste e zitto per tutta la cena.
Era tornato in perfetto orario, dopo la fine del suo turno di lavoro, e si era messo subito a cucinare, dicendo che ci sarebbe voluto un po’ e che lui poteva continuare a suonare quanto gli pareva.
A Dominik non era importato, perché tanto cenavano sempre tardi loro, però Federico era stato zitto, senza raccontargli nessun particolare divertente della sua giornata, né chiedendogli come fosse andata la sua. E Federico, in quei giorni in cui sapeva quanto fosse nervoso, gli chiedeva sempre come fosse andata, così lui poteva lamentarsi un po’, sfogare la tensione, o, se le cose erano andate bene, fargli ascoltare qualcosa.
Quella sera Federico era zitto. Aveva aperto la bocca solo per dirgli quello: ci metterò un po’ a preparare la cena, tu suona pure quanto vuoi.
 Aveva suonato, alla ricerca della perfezione, però non l’aveva raggiunta.
Non si era arrabbiato, stranamente, perché quella volta era diverso.
Quella sera sapeva di poter raggiungere la perfezione, di averla in mano, di sfiorarla con la punta delle dita alla ricerca della meraviglia del suono. Solo che non faceva il passo avanti per raggiungerla perché pensava alla tristezza di Federico.
Era diverso dalle altre volte, perché era peggio.
Era come se ci fosse un alone tutto nero intorno a Federico, che lo stava soffocando. E non riusciva a scacciarlo, per questo se lo portava dietro inerme, senza riuscire a opporre resistenza.
E Dominik pensava che non fosse giusto così.
Per questo, dopo cena, si era preparato ad affrontarlo.
Federico si era seduto sul divano a guardare uno di quei programmi che facevano il sabato sera, per intrattenere chi se ne restava a casa come loro. Gli si era seduto accanto in silenzio, incrociando le gambe e nascondendo le braccia nell’incavo tra le cosce, premendo la pelle sulla stoffa pesante del divano.
Non gli importava della tv: era concentrato sul suono del respiro di Federico, e sulla propria irritazione, perché il suono di quel respiro, pesante e rumoroso, non gli aveva permesso di concentrarsi. Ce lo aveva dentro le orecchie, anche quando Federico andava in un’altra stanza a lui restava dentro la testa e combatteva con la musica.
Doveva porre fine a tutto quel rumore, e alla tristezza di Federico.
- Oggi ho suonato molto Chopin. Però ho anche fatto tutti gli esercizi per domani. –
- Ti senti preparato per domani? –
Federico aveva parlato tranquillamente, con apparente calma, come se non ci fosse nulla di diverso dal solito, da tutti gli altri giorni che avevano trascorso sul divano davanti alla tv.
Ma lui lo respirava, che c’era qualcosa di diverso.
E gli pesava sulla pancia.
- Si. E’ tutto perfetto – disse con sicurezza, adagiando la schiena sul divano. Federico era immobile, l’unica attività che si stava concedendo era il respiro. Giusto per non morire.
- La perfezione, Dom? Si può raggiungere secondo te? –
- Si, secondo me si. –
Federico sospirò. Nel silenzio e nell’immobilità, si concesse solo un sospiro.
- Io avrei un po’ paura della perfezione. Sarebbe come aver raggiunto un traguardo oltre il quale non c’è niente. Mi stancherei. E il vuoto mi fa un po’ paura. –
Ce l’hai dentro, certo che ti fa paura, è questo.
Dominik si strinse su se stesso, portando le ginocchia al petto e stringendole tra le braccia.
- Con la musica è diverso. La perfezione è un traguardo che porta tutto con sé, e non importa che dopo non ci sia nulla. La musica realizza la perfezione dei colori, del mondo, e quando la raggiungi…è tutto a posto. –
- Per te dev’essere così. Per chi come te vuole diventare un grande, per chi è guidato dall’ambizione, dev’essere così – lo sentì mormorare.
A Dominik venne da sorridere. Era quello che pensava di lui, come la maestra: che volesse diventare un grande pianista, che il suo nome restasse nella storia e venisse tramandato nei libri di musica. Era così chiusa, la loro mente, che non valeva neppure la pena di spiegare.
Però Federico non era come la maestra, lui era diverso, poteva capire.
- Io non sono ambizioso, Federico. Questo è quello che pensa solo la maestra, gli altri maestri no. –
- Hai altri maestri? – Federico sembrava stupito. Eppure era normale che ci fossero altri maestri, così come la maestra aveva altri allievi. Non era certo un’insegnante privata; però, si rese conto, a lui non lo aveva mai detto.
- Si che ho altri maestri. Con la maestra faccio la prima lezione del giorno, e l’ultima. Ma poi ci sono gli altri maestri. Ma loro sono diversi, per questo non ne parlo mai. –
- E loro dicono che non sei ambizioso? –
- Loro lo sanno, lo capiscono. – Si strinse ancora su se stesso, quasi a voler sparire contro il divano. Però Federico doveva capire, ed era bastata quella piccola frase per destarlo: si era mosso, si era incuriosito, era uscito da quel silenzio. Ne valeva davvero la pena, allora. – Io non suono per diventare un grande pianista, girare il mondo ed essere famoso. La maestra dice che ne ho le potenzialità, e che sarebbe un peccato sprecare tanto talento, ma per me non è una priorità. Io voglio solo suonare, e basta. E sì, devo essere bravo, altrimenti la musica, se non è bella e perfetta, non è musica. Ma non voglio essere bravo per emergere, per diventare un grande: devo essere bravo per la musica, per me, lo capisci? – Come poteva capire, lui che vedeva il mondo con quegli occhi? Poteva impegnarsi, perché era buono, e gentile, e ci teneva, ma nonostante tutti gli sforzi non avrebbe mai capito veramente. Dominik si sciolse dalla posizione in cui si era raggomitolato, lasciandosi cadere con la schiena contro lo schienale del divano, le gambe tese in avanti. – La musica è i miei occhi, Federico – gli disse alla fine. – Con la musica io vedo tutto il mondo, tutti i colori, e tutte le cose. E per vederli bene, per lasciarmi avvolgere dalla loro bellezza, devo inseguire la perfezione. E non c’è il vuoto, dietro, perché è come se tu restassi a guardare la cosa più bella del mondo per tutta la vita: non te ne stancheresti mai. A volte, credo di essere come un pittore: anche il pittore insegue la perfezione, e non per essere più grande degli altri, ma per essere se stesso e godere di quella magia. Tutta questa…competizione, questa voglia di emergere che c’è nel mondo della musica, che porta a studiare solo per poter fare un’esecuzione ottima e diventare bravi e vuoti…ecco, questa sta rovinando la musica di Chopin, di Mozart, di Strauss. –
Federico si prese qualche minuto per riordinare le idee, e a Dominik venne da sorridere, immaginando la sua espressione corrucciata in quel momento. Poi, finalmente, parve acquisire un filo conduttore.
- Ma la competizione è sana, Dom. Se tu sei bravo, e sei naturalmente migliore degli altri, perché non impegnarti per emergere? –
- Perché non mi importa. –
- Mi stai dicendo che se dovessi scegliere tra il passare tutta la vita a Milano a suonare solo per te, e prendere a girare il mondo ed essere ammirato da tutti, sceglieresti comunque Milano? –
- No, ma…non lo so, non farebbe differenza per me. Allora la maestra mi consiglierebbe di girare il mondo, e io lo farei. Ma l’Italia, Federico…l’Italia è musica,  tutta. Si respira in ogni angolo. Non pretendo che tu capisca, però mi andava di dirtelo… -
Non era esattamente vero. Aveva sperato che lui capisse, che condividesse quello che pensava, che gli dicesse che era vero, che la musica esisteva al di là degli altri, delle gare, e che l’impegno doveva essere solo per se stessi, senza pensare a esibizioni e competizioni.
Ma Federico vedeva il mondo diversamente, e andava bene lo stesso.
La mano di Federico si poggiò sul suo ginocchio in un tocco caldo e gentile.
- No, io lo capisco. Vuoi suonare perché ti piace. E’ una cosa bella questa, genuina e ammirevole. C’è gente che finisce per perdersi dietro le competizioni e finisce per suonare senza più alcun piacere. Fai bene, Dom. Però se sei bravo dovresti far vedere la tua bravura al mondo, e non per ambizione, ma…per gli altri. A me piacerebbe un mondo dove tu porti la musica. –
Era una confessione quella, un momento di debolezza. Era la crepa che stava aspettando, quella perfetta che non si sarebbe ripresentata mai più.
Dominik portò una mano sopra quella di Federico, imprigionandola in una carezza.
- Perché sei triste, Federico? –
La mano di Federico si mosse, per sfuggire al suo tocco, ma istintivamente Dominik strinse la sua più forte, e le dita di Federico rimasero intrappolate tra le sue, palmo contro dorso. Non se l’era aspettata forse, quella reazione, perché lo vedeva come un ragazzino, ma sapeva essere testardo anche lui, e Federico doveva smetterla di essere triste.
- Io sto benissimo, non sono triste. –
- Non è vero. Sei triste da quando sei tornato, oggi. E ogni tanto sei triste sempre, come se avessi qualche cosa che ti consuma. E io sono stanco, perché tu non te lo meriti, chiunque sia stato. –
La mano di Federico diede un altro strattone, più forte, e Dominik lo lasciò andare.
La sua mano gli scivolò dolcemente sulla pelle come i tasti di un pianoforte quando suonava Beethoven. Rimase in silenzio, Federico, chiuso nel suo angolo sul divano, con le voci che provenivano dalla televisione a fare da sfondo. Aveva tutti i muscoli contratti, tutti.
Pesava sul divano, con le gambe, con il braccio accanto al suo, teso di irritazione.
Respirava, anche, come se fosse teso.
Non era giusto. Federico era delicato come Chopin e spigoloso come Wagner.
Era bello come la musica, e non era giusto.
Si mosse sul divano, con tutto l’intento di pararglisi davanti e scuoterlo, per le spalle; ma quando avvicinò la mano alla spalla di Federico, lui era del tutto rilassato. Ma non rilassato; i suoi muscoli lo erano. Lui era abbandonato sul divano come un uomo sconfitto a una guerra.
- Non ti capita mai di sentirsi angosciato da qualcosa e non sapere cosa? Trovarti nel bel mezzo della giornata e sentirti un vuoto nello stomaco, senza che sia successo niente? –
Aveva una voce soffice, un tono basso e morbido che gli girava intorno come un nastro argentato e lo circondava sempre più stretto, senza fare mai male.
- Si. A volte mi capita di avere qualche cosa qui, sulla pancia, che fa male, e non se ne va via nemmeno se suono. Dura poco, solo un minuto, però non va via con niente. Succede senza motivo, però lo so il perché. E’ che sono cieco, e per me questa è paura, anche se non voglio averla. Tu hai paura di qualcosa, Federico? –
- Ho paura di perdermi – soffiò quello. Dominik inspirò, e al momento in espirare gli mancò l’aria, come il corpo l’avesse assorbita tutta. Federico non si poteva perdere. Se lui si perdeva, era la fine per tutti. – Si tratta di Manfredi. Io…noi non siamo mai stati amici normali, Dom, amici come tutti quelli che vanno a mangiare la pizza, studiano insieme e se ne vanno in giro. Noi siamo sempre stati qualcosa di più, come se una parte della mia vita fosse legata alla sua. E c’è una parte di me che mi dice che devo prendermi cura di lui, capisci? E l’altra parte, invece, mi dice che deve imparare a cavarsela da solo, che devo vivere la mia vita, che siamo due persone che possono vivere da sole. Io non lo so quale parte vince, ma sto bene, di solito. Solo che poi Manfredi ritorna così, con un ricordo, con una telefonata, con una fotografia…e io mi perdo. –
La mano di Federico si poggiò sulla sua spalla, come a volergli prendere un po’ di calore, perché gli sfiorò la nuca, la spigolosità della scapola, il braccio, lasciando una scia fresca. Federico non aveva mai le mani fredde, e non si comportava mai così, con un tocco che pareva volerlo assorbire.
- Tu non ti perdi, Federico. Ci sono tante persone che ti tengono dove sei. –
- Ma se Manfredi si perde, mi perdo anche io. –
- Allora tu pensa a Manfredi. A te ti tengo io. –
- E a te chi ci pensa? –  Stava ridendo adesso, Federico, una risata un po’ simile a un sorriso tirato.
- Tu. –
Sembrava così facile essere arrivati a quella conclusione, che non ci sarebbe stato nemmeno tempo di pensarlo. Non stava pensando più a niente, a dire il vero, perché tutto gli arrivava alla mente veloce come un razzo: ad ogni domanda, ad ogni dubbio di Federico, c’era qualcosa nella sua mente che rispondeva, e che lo strattonava a terra, a Milano, lontano da Manfredi.
Perché non era giusto che Manfredi lo tenesse così, tutto per sé, facendogli solo male.
Federico doveva restare a Milano con lui, con Samuele, e con tutti i suoi amici del locale.
La mano di Federico risalì lungo il suo braccio, di nuovo sulla spalla, e poi sulla nuca.
Si fermò lì, con un tocco leggerissimo di polpastrelli che gli parve quasi di immaginarlo.
Eppure c’era quella piccola pressione fresca, che sembrava quasi il magnete di una calamita che lo attraeva verso il corpo caldo di Federico, come se, inconsciamente, quelle due dita gli stessero chiedendo quel po’ di calore che possedeva.
Allora scivolò, con una mano sulla stoffa del divano, e il capo a un passo dal petto di Federico. Si fermò così, quando incrociò le sue gambe, e adagiò il capo  sul quadricipite sottile di Federico, e la schiena sul divano, i piedi abbandonati contro il bracciolo. Fu tutto naturale, anche la mano di Federico che scendeva a sfiorargli i capelli sulla fronte, che pensò di poter restare così per sempre, a suonare Chopin nella testa.
 

§§§

 
Era tutto caldo.
Caldo e soffice.
Ed era tutto il contrario della realtà.
Nella realtà, Dominik era un corpo spigoloso e freddo, perché si vestiva sempre troppo leggero anche quando fuori c’erano pochi gradi sopra lo zero.
Ma nella sua mente, era tutto caldo e soffice.
La testa di Dominik sulle sue gambe, i suoi capelli tra le dita, il suo respiro regolare che soffiava tra le labbra carnose.
- Allora tu pensa a Manfredi. A te ti tengo io. –
- E a te chi ci pensa? – 
- Tu. –
Gli venne in mente, in quel momento strano, una frase che aveva letto qualche tempo prima su facebook e che aveva condiviso sua sorella.
Non eravamo amici, e nemmeno fidanzati.
Eravamo qualcosa, e quel qualcosa mi piaceva.
Lui e Dominik erano così. Non erano fidanzati, e nemmeno amici: non amici normali, ancora una volta. Erano “qualcosa” che si infrangeva contro le regole del mondo, che li portava a cozzare tra loro, e poi ad avvicinarsi come se fossero i pezzi di un puzzle, e poi a staccarsi di nuovo perché non erano proprio i pezzi giusti.
Però quel qualcosa gli piaceva.
Gli piaceva il modo in cui Dominik si era abbandonato su di lui, il modo in cui a occhi chiusi si lasciava sfiorare la pelle chiara della fronte, e il modo che aveva di adagiare le dita sul bordo del braccio che Federico teneva abbandonato sul divano, quasi a voler mantenere un contatto per assicurarsi che non evaporasse in un istante.
Gli piaceva che, mentre il mondo intorno stava crollando, lui e Dominik erano interi.
Era tutto complicato. Manfredi che lo tirava da una parte, Samuele che lo sollevava, Dominik che lo scuoteva come una nave in mezzo alla tempesta. E non aveva, lui, un cuore abbastanza resistente per tenerci dentro tutto quello.
Tu ti sei già liberato di me, Federico.
Voleva tanto liberarsi, sentirsi privo del peso di quelle catene, strappare quel filo che li univa, che già da una corda spessa si era trasformato in un piccolo filo di lana.
Ci speri perché hai già iniziato ad accettarlo. Hai già iniziato a tenermi lontano, ad accettare che qualcun altro ti toccasse, ti stringesse.
Aveva iniziato ad accettare che Samuele lo abbracciasse,  ma non era quello.
Aveva accettato che Dominik lo sfiorasse, in tutti i modi possibili.
Con le mani, con quel modo delicato di passargli accanto e di poggiare il capo sulla spalla, e con quel sorriso tutte le volte che gli faceva i complimenti per come suonava, o ancora con quell’aria di tacito sollievo quando lo vedeva tornare dal lavoro con un bel sorriso e magari un dolcetto.
Ad ogni passo avanti che aveva concesso a Dominik, ce n’era stato uno indietro di Manfredi.
E non andava bene, non era giusto allontanarsi così, perché Manfredi era parte del suo mondo, una parte che, se stava soffrendo, era solo per colpa sua. O forse no, era colpa di entrambi, ma Manfredi soffriva, e lui no.
Era quello il punto. Manfredi soffriva, e lui no.
Federico soffriva per quello, per quella rabbia che lo prendeva proprio perché non riusciva a vivere la sofferenza che avrebbe dovuto vivere, perché lasciare Manfredi non lo stava distruggendo come avrebbe dovuto, per l’importanza che aveva. Era come se lo stesse rinnegando, e quindi non avesse il diritto neppure di sentirne la mancanza.
Era quella rabbia a farlo soffrire.
Perché, invece, non soffriva in modo sano?
Forse era vero quello che dicevano, che le persone che si hanno intorno finiscono per essere una cura ai nostri mali: e c’era stato Dominik, e Samuele, e Lorenzo, i ragazzi del locale, e un po’ anche Marco e i ragazzi dell’università. C’erano stati tutti, a prendersi, chi più chi meno, parte di quel dolore. Con tutti era riuscito a essere se stesso, a svuotarsi, a purificarsi dalla sofferenza.
Manfredi no. Manfredi non aveva nessuno, se non lui.
Manfredi non poteva parlare con nessuno, perché non avrebbe mai ammesso di essere gay, non avrebbe mai avuto nessuno. Aveva solo lui, e lui non poteva aiutarlo, perché se si fosse avvicinato, solo un po’ di più, di nuovo, si sarebbe fatto risucchiare da lui.
Si sentiva in colpa. Ecco la verità. Senso di colpa.
- Mi sento in colpa, Dom – mormorò.
Era certo che lui lo stesse ascoltando, che la sua attenzione non fosse calata un solo istante.
Aveva ragione, perché gli rispose subito.
- Per cosa? –
- Mi hai chiesto perché sono triste. Sono triste perché mi sento in colpa. – Chiuse gli occhi, alla ricerca di una sensazione di pace che non sarebbe arrivata. – Manfredi sta soffrendo, molto per colpa sua, un po’ per colpa mia. E io…io gli voglio bene, Dom, e per quanto tengo a lui, dovrei soffrire come un pazzo, condividere questo con lui. Invece no. E mi sento in colpa. E quando ci penso, tutta la tristezza di cui parli nasce per questo, perché mi sento in colpa nel non soffrire come lui, come meriterebbe il nostro rapporto! –
Dominik rimase fermo, a occhi chiusi, come un gatto, e accarezzargli i capelli era quasi un gesto serviva a mantenere la calma, in entrambi. Però il cuore li batteva a un ritmo forsennato; lo sentiva sotto la mano, che era scivolata sul suo petto, a cercare un appoggio caldo.
- Non devi sentirti in colpa. La gente soffre sempre. Anche la mamma soffre, perché io sono cieco. E io le voglio bene, Federico, più di ogni altra persona al mondo. Ma non posso soffrire per questo, per lei, anche se le voglio bene. Perché se soffrissi anche io per lei, lei soffrirebbe di più. Non usciremmo mai da questo cerchio. –
- E’ diverso! – La mano scivolò in basso, alla ricerca di quella di lui, stringendola nel pugno come aveva fatto Dominik pochi minuti prima. Sul palmo della mano, Federico avvertì il calore del dorso di quella del ragazzino, tra le dita la morbidezza delle sue. – Lei è tua madre, e non è colpa tua se soffre, non hai deciso tu di nascere cieco. Io ho deciso…io ho preso la decisione che fa soffrire Manfredi. –
- Ma hai detto che molto è colpa sua. Vuol dire che tu hai preso una decisione dopo una cosa brutta che ha fatto lui. E lui lo sa che è colpa sua. –
- Questo non vuol dire che debba soffrire per quanto è colpa sua – insistette.
La mano di Dominik, quella libera, si mosse in alto, e gli si poggiò sulla guancia, inglobandola tutta. Il palmo gli finì vicino alle labbra. Era troppo caldo tutto quel contatto. Era troppo.
- Tu devi smetterla, Federico. Tra tutte le cose buone che fai sempre, non hai tempo per sentirti in colpa! –
Era arrabbiato adesso, stizzito, irritato. La sua mano sinistra, stretta in quella di Federico, tra le sue dita, strinse con forza, quasi a volergli strappare tutto quel senso di colpa a partire dalle stremità dei polpastrelli. E la destra, sul suo viso, premeva contro la pelle: aveva inclinato il capo indietro, con gli occhi verso il suo viso, come se potesse vederlo, come se uno sguardo potesse convincerlo della veridicità delle sue parole. Invece non poteva, ma il suo pomo d’Adamo divenne una sporgenza ancor più ossuta nel collo sottile. L’attenzione di Federico cadde tutta lì, su quella protuberanza.
- Tu non puoi, non è giusto. Se ti senti in colpa tu, vuol dire che il mondo è un posto orribile. –
- Il mondo è un posto orribile, Dom – gli precisò.
- Non è vero. Proprio adesso a me sembra bello – gli mormorò.
La sua mano scese dal viso fino alle labbra, percorrendole con un dito. Avrebbe voluto inchiodarlo con un morso, quel dito, e assaporarlo. Non sapeva che sapore avrebbe avuto, ma qualsiasi fosse stato, l’avrebbe chiamato sapore di pianoforte.
- Dominik? – Non lo chiamava con il nome intero da quella che gli pareva un’eternità. Ma non poteva nemmeno esserne sicuro, perché in quel momento non riusciva a pensare a niente.
Però quello doveva dirglielo, perché sapeva che, come tutte le volte che si avvicinavano un po’, finita quella sera, l’indomani tutto sarebbe tornato come prima: avrebbe perso quel contatto, quell’intimità tale da permettergli di avere le sue risposte, di sentirlo parlare sul serio, di vedersi aperte le porte di quel mondo che Dominik teneva gelosamente chiuse su se stesso.
- Mh? –
- Qualche settimana fa, mi hai detto che non sono un tuo amico, ma che sono al di là di quello. Te lo ricordi? –
- Si. –
- Che cosa vuol dire? –
La mano di Dominik lasciò il suo viso, mentre assumeva un’espressione corrucciata, tipica di tutte le volte in cui stava pensando qualcosa. Poi, Federico gli sfiorò la fronte con un dito, proprio all’attaccatura dei capelli, e vide la sua fronte distendersi appena.
- Non lo so. Io non ho degli amici, non lo so cosa significa, però mi sembra diverso. –
- Perché? –
- Non lo so, Federico! Non lo so proprio. So che mi piace stare qui con te, però, che mi piace quando torni dal lavoro e mi chiedi come è andata e ascolti quello che dico, che mi piace guardare la televisione con te sul divano, e che in quei momenti non penso solo alla musica. E’ una cosa strana, per me. Io penso sempre alla musica, anche quando non sembra, perché lei è i miei occhi, e tu usi sempre gli occhi, vero? E penso che potrei restare così, perché con te è diverso, mentre io odio essere toccato da qualcuno, perché non posso vederlo. Ma con te non sono cieco. E’ come decidere di chiudere volontariamente gli occhi per un po’. – Erano cose dannatamente belle quelle che stava dicendo, e pesanti. Pesanti per lui, per loro, per quello che era successo negli ultimi mesi.
Era arrivato a Milano con un ragazzo solo, ferito da un amore finito e coinquilino di uno stronzetto insopportabile. Adesso, invece, si ritrovava sul divano, con il cuore spaccato ancora a metà e lo stesso ragazzino stronzo sulle gambe, che adesso però sembrava un cucciolo soffice, e che gli
aveva aperto le porte di un mondo nuovo, pulito. E riusciva a pensare solo che non era giusto nascondergli la verità su quello che era, sul suo essere gay, sul fatto che quei tocchi che per Dominik erano così innocenti, a lui lasciavano sulla schiena una sensazione di eccitazione crescente, sporca. E che l’avrebbe baciato adesso, a sorpresa: gli sarebbe bastato chinarsi in avanti e inchiodargli le labbra in un istante, senza che se ne accorgesse.
Dopo, però, avrebbe dovuto affrontare tutto: la sua reazione, la sorpresa, le spiegazioni, e tutto quello che fosse venuto dopo. E pensò che no, non era ancora pronto a farsi spaccare il cuore anche da Dominik. Quella sera no.
Abbassò gli occhi sul suo viso rilassato, poggiato sulle sue gambe. Stava sorridendo.
- Hai detto che tu e Manfredi non eravate amici come tutti gli altri. Ecco…credo che nemmeno io e te siamo amici come tutti gli altri. Quindi sei al di là di quello, sei su un livello più alto. Se tu soffrissi, Federico, e io no…ecco, io mi sentirei in colpa. –
La mano sinistra di Dominik, nella sua, si rilassò, e anche Federico rilassò la sua.
Ma non mosse la mano da lì.
Era come se tutta l’energia del mondo si fosse concentrata in quel semplice incrocio di dita.






(1) Il titolo è una frase della canzone L'essenziale di M. Mengoni.
(2) La frase cui si riferisce Federico "non eravamo amici, nemmeno fidanzati, etc" non è mia. La trovate veramente su Facebook, è di "Quella ragazza stronza, ma dolce"
Nota al capitolo 20
Come promesso, ho postato stasera.
Avevate letto sulla mia pagina facebook che per questa settimana probabilmente non ci sarebbero stati aggiornamenti, ma non dovete mai fidarvi troppo di quello che dico, perchè come vedete tra ieri e oggi ho tirato fuori un capitolo.
E che capitolo, io direi.
D'altronde, come vi ho detto, ho la fissazione per le decine, e il capitolo 20 avrebbe dovuto fare il botto.
Dopo averlo scritto ho pensato in realtà di ampliarlo, di aggiungere qualche altro particolare, solo che se l'avessi fatto, se avessi mosso un solo rigo, avrei rischiato di fare un disastro.
Ve lo aspettavate un bacio, dite la verità! E invece no, oggi no.
Ed è quasi Natale, tra l'altro. Siamo a sabato 15 dicembre, per la cronaca.
Il titolo del capitolo è voluto: "mentre il mondo cade a pezzi".
Per Federico, il mondo sta crollando. E mentre il mondo cade, tutto intorno ci sono Samuele, i suoi amici, e Dominik.
Mentre Manfredi diventa un puntino che non lo fa soffrire, e se la prende con se stesso perchè non sta soffrendo, si sente un egoista insensibile..comprendetelo, il mio cucciolo. *_*
E Dominik fa sempre qualche passo in avanti, anche se, come al solito, i suoi discorsi non hanno un punto e un senso definito. Va soprattutto a sensazioni, a quelle poche esperienze che ha. E, fatemelo dire, in questo capitolo doveva essere dolce, ma terribilmente testardo, come è sempre stato.
Questo potrebbe essere l'ultimo capitolo prima dell'esame, chissà. Ma spero di tornare con buone notizie, se non altro.
Ringrazio tutti, come sempre, chi mi segue con le recensioni, i lettori silenziosi e chi mi fa sentire il suo affetto anche su facebook.
Vi lascio il link della pagina, come sempre (come sono noiosa!): http://www.facebook.com/pages/100-sbavature-di-Esse/509052772480144
Risponderò presto alle recensioni, ma intanto ne approfitto per ringraziare tutti qui, perchè davvero siete meravigliosi!
Un bacio
Esse

 

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Capitolo 22
*** 21st: La forza di ritorno elastico ***


Dimmi quel che mangi e ti dirò chi sei.

Anthelme Brillat-Savarin, Fisiologia del gusto, 1825


 

http://www.youtube.com/watch?v=GkmPl1paIuw


Chapter 21st: La forza di ritorno elastico
 
- Federico! –
La porta di casa si era chiusa con uno scatto, la presenza fresca e leggera di Federico aveva riempito tutto il salotto, insieme al rumore dei suo vestiti che sfregavano sul corpo ad ogni movimento.
Lo stava aspettando seduto dietro al pianoforte, mentre aveva buttato giù qualche nota senza nessun ordine, solo per seguire la musica che suonava nella sua testa.
E finalmente Federico era tornato a casa, portandosi dietro il suo sorriso.
Da quando avevano parlato, quella sera sul divano, Federico aveva sorriso sempre un po’ di più. C’erano sempre, ogni tanto, quei momenti in cui si perdeva in se stesso, ma quando tornava, sorrideva sempre in modo più bello.
Non erano più stati così vicini come quella sera, come se avessero fatto un silenzioso accordo.
Si erano seduti vicini a guardare la televisione, avevano cenato insieme, avevano parlato: gli aveva confessato di quella lieve tensione per i giorni di verifica, dei maestri così esigenti quando lui si sentiva soffocare da tutte quelle regole che stavano costringendo la sua musica dentro una prigione. Federico aveva capito, e non gli aveva consigliato, come facevano tutti quelli che fingevano di interessarsi a lui, di studiare e ascoltare i maestri, che facevano tutto per il suo bene. Federico gli aveva detto semplicemente che sì, era un po’ noioso e soffocante, ma avrebbe dovuto fare un piccolo sacrificio, per un po’, solo qualche giorno, e che poi la sua musica sarebbe tornato a gestirla lui. Lo capiva sempre, Federico, il modo in cui pensava.
Ma anche se non erano più stati così vicini fisicamente, se lo sentiva vicino lo stesso, dentro. Quando suonava e Federico era seduto sul divano, nel buio vedeva i colori animarsi e disegnare la sua immagine, il suo corpo seduto in modo scomposto, le sue dita sul telecomando, il suo viso volto alla tv e le orecchie un po’ concentrate su di lui, che lo sapeva che lo ascoltava sempre di nascosto. E non gli importava, perché Federico non era, in quel momenti, accanto alla musica, ma era dentro la musica, e non lo sentiva mai tanto vicino come quando suonava.
Non importava che lo toccasse con le mani.
Anche se, ogni tanto, Federico lo sfiorava, quasi per caso. Si sporgeva per prendere il suo piatto e gli toccava un braccio, o cercava il telecomando sul divano e gli sfiorava una gamba, o parlava, gli raccontava qualcosa, e la sua mano gli finiva sul polso, come una foglia portava via delicatamente dal vento. Però si allontanava subito, come se avesse paura che, prolungando quel contatto, si potesse rompere qualcosa.
Anche lui aveva quella sensazione, una tensione strana che lo avvicinava a Federico, come una falena attratta dalla fiamma; ma quando la vicinanza diventava troppa, si tendeva come un elastico vicino al punto di rottura, fino a quando Federico non si allontanava, e l’elastico tornava al suo posto. Lui invece se ne restava lì, inerme e ipnotizzato da quella forza strana che gli scorreva nelle vene e che colorava un pezzo di musica in più.
Aveva attribuito tutte quelle sensazioni, quei disturbi degli ultimi tempi, alla verifica.
Adesso però, dopo cinque giorni di tensione, la musica stava scoppiando tutto dentro e tutto fuori da lui. E Federico era tornato dal lavoro.
- Ehi, Dom! –
Si alzò, da dietro il pianoforte, avanzando verso di lui.
Il tintinnio di qualcosa di metallico gli indicò che Federico avesse lasciato cadere le chiavi nella ciotola di vetro sul mobile accanto alla porta.
Lo faceva tutti i giorni.
- Ho finito, Federico! Mi hanno detto che sono stato bravissimo, e mi hanno un voto ottimo! –
- Ma come, hai finito oggi? – La voce di Federico era realmente sorpresa, un tono più basso del normale. Un fruscio. Forse Federico aveva alzato il braccio per portarselo tra i capelli. Lo faceva sempre quando si interrogava su qualcosa.
- Si! –
- Oddio, scusa! Avevo capito finissi domani! –
Era dispiaciuto davvero, per una cosa così piccola? Non si sarebbe arrabbiato per quello, anche se le attenzioni di Federico lo riscaldavano. Gli piaceva quando lo interrogava sulla sua giornata, sulle note, sulle sonate, quando si ritrovavano a parlare di qualcosa che anche Federico aveva suonato, con il suo clarinetto. E gli piaceva quando lo sentiva parlare con quella sua voce morbida, quando gli diceva di essere bravo, che fosse normale avere un po’ di fifa, ma che lo avrebbe aiutato a fare ancora meglio. Gli sarebbe piaciuto anche che Federico gli avesse chiesto lui come fosse andata, ma non importava che lo avesse dimenticato.
Scosse il capo, sollevando le maniche del maglione per scoprire le mani.
- Ho iniziato lunedì, quindi ho finito oggi. Chi ha iniziato martedì finisce domani. –
I passi di Federico si infransero accanto a lui, fino a superarlo e ad arrestarsi nei pressi del divano. Poi il tonfo del corpo di Federico che cadeva sul divano, accompagnato da un suo sbuffo.
- Sono esausto…Però sono contento che sia andata bene, visto? Te lo dicevo io! Sei più tranquillo ora? –
Più tranquillo era un eufemismo. Si sentiva felice, entusiasta, con un palloncino pieno di felicità che gli danzava nel petto. Non capiva se fosse più felice per quella piccola vittoria, per quel bel voto da nulla, o per la musica. Finalmente poteva suonare quello che voleva, poteva svegliarsi al mattino e pensare solo a Strauss, a Wagner, a Beethoven, e non agli spariti con gli esercizi.
La sua musica non aveva più le sbarre della prigione intorno.
Si, era quello il motivo per essere felice.
E anche perché Federico era tornato dal lavoro.
Dominik girò su se stesso, lasciandosi cadere sul divano di fianco a Federico. Aveva un profumo diverso, quell’aroma di gente che si portava sempre dietro quanto tornava a casa dal locale dove lavorava. Era un buon profumo, ma così diverso da quello che possedeva di solito, quando usciva dalla doccia e profumava soltanto di Federico.
- Si…posso suonare quello che voglio e come voglio adesso. I maestri mi hanno fatto i complimenti, ma la maestra mi ha detto che devo comunque continuare a studiare, altrimenti a gennaio non sarò bravo come adesso. Lei pensa che senza fare gli esercizi la musica inizia ad andare male, ma non è così. Se sai suonare davvero non lo dimentichi. E io non voglio fare gli esercizi. Suonerò quello che voglio. – Federico ridacchiò, accanto a lui, le sue spalle si mossero rapidamente insieme al suo petto.
- Sei sempre il solito cocciuto! -  E poi finalmente eccola, la mano di Federico sul capo, tra i capelli, in una carezza leggera: forse avrebbe voluto scompigliarli i capelli, come faceva quando lo prendeva un po’ in giro, ma quella era così tanto simile a una carezza che per istinto inclinò il capo di lato, per raccoglierne ogni minima sfumatura. E, come sempre, la mano di Federico sfuggì prima che l’elastico si rompesse e scattasse in aria. – Quindi, visto che l’esame è andato bene e puoi tornare a suonare quello che vuoi…penso che dovremmo festeggiare! – esordì.
La mano era tornata a poggiarsi sul divano, lontano da lui.
- E come? – Aveva voglia di una pizza. Ecco, quando festeggiavano lui e Federico, o semplicemente a lui non andava di cucinare, ordinavano sempre una pizza e la mangiavano sul divano. Forse avrebbero fatto così.
- Andiamo a cena fuori! –
- No. –
Era stato più forte di lui. Gli aveva detto subito di no. E non ne era pentito.
Non voleva uscire. La giornata era stata così bella che il finale perfetto sarebbe stato restarsene con Federico sul divano a guardare la televisione e mangiare la pizza, e magari addormentarsi così.
Federico era ancora sul divano accanto a lui. Però, anche se il suo corpo non si era mosso, era già più lontano.
- Mica una cena impegnativa. C’è un locale carino qui dietro, un po’ particolare. Ci sono stato con Lorenzo, un mio collega. Cucinano degli stuzzichini in miniatura, con dentro qualsiasi cosa, ed è un po’ rustico. –
Dominik fece una smorfia, passandosi una mano sul viso.
Uscire avrebbe significato stare in un locale pieno di persone, mangiare con loro, sentire i loro occhi addosso, e trovarsi in un posto di cui non sapeva nulla. Avrebbe avuto solo l’aiuto di Federico.
Sarebbe stato cieco.
E non gli piaceva per niente.
- Non mi va, Federico, sul serio. –
- Ok, fa niente…Prendiamo una pizza? –
Avrebbe dovuto dire di si, che gli andava la pizza, quella con i funghi e la pancetta, e che voleva mangiarla sul divano, vicino a lui. Avrebbe voluto dirgli anche che gli sarebbe piaciuto anche mangiare insieme quei biscotti al cioccolato che avevano comprato la settimana prima al supermercato. Avrebbe potuto pregarlo, anche, di riportare quella mano sul divano, vicino alla sua gamba, e di non tenerla così lontana.
Invece non gli disse proprio niente, perché la voce di Federico gli aveva stretto il cuore.
Era deluso. Era deluso da lui, dal fatto che non volesse uscire, dal modo in cui gli aveva risposto. Però aveva fatto finta di niente. Ma nessuno, al mondo, avrebbe mai potuto non notare quella piccola inflessione diversa nella sua voce, che aveva imparato a riconoscere e ad associare a una sola persona. Manfredi. Federico aveva quella voce quando parlava di Manfredi, solo un po’ più accentuata. E lui non voleva essere come Manfredi.
- Si che è vero. Non vuoi uscire con me perché non ti piace, e non ti piace perché in fondo hai paura di avere a che fare con qualcuno o qualcosa che esca fuori dai tuoi schermi. Perché le persone sono imprevedibili, non puoi controllarle come fai con le tue note, e non ti va bene. Hai paura di non avere tutto sotto controllo. E la sai una cosa? Puoi anche dire che non ti importa, che stai bene così, che hai tutto quello che cerchi, ma la verità è che ti fa paura essere cieco.-  
Federico gli rimbombava nella testa. Sembrava passata un’eternità, però non era cambiato niente.
Lo pensava ancora, Federico, che lui avesse paura delle persone? Che avesse paura di essere cieco? Pensava che non si fidasse di lui, ecco la verità.
Poteva pensare che avesse paura anche con lui, ma non era vero. Con Federico non c’era mai da avere paura.
- Però promesso che non facciamo troppo tardi? E che non mi farai fissare dalle persone? –
Federico si mosse sul divano, allontanandosi un po’.
Dominik voleva solo che si avvicinasse, e invece lui andava sempre più lontano. Però, con il ginocchio sfiorava il suo, appena appena.
- Non devi uscire per forza se non vuoi, sarà per un’altra volta. –
- No, io…io voglio uscire con te. Per festeggiare. Però prometti. –
Federico sorrise. Avrebbe voluto tendere la mano per toccarlo, per assicurarsi che quella sensazione di distensione che aveva sentito nell’aria e nel suo corpo fosse davvero quella di un sorriso e non solo una sua immaginazione. Era così difficile comprendere Federico.
- D’accordo, promesso. –
 

§§§

 
Era strano.
Avrebbe potuto utilizzare una serie di termini: bello, sorprendente, accattivante, affascinante.
Ma quello più adatto era sicuramente strano.
Era strana la mano di Dominik attorno al braccio, proprio lì, a livello del gomito, che pure se indossava il capotto la sentiva bruciare contro la pelle. Era strano il suo respiro un po’ più rapido del solito, il suo atteggiamento da gatto spaventato, le sue labbra lievemente screpolate per il freddo. Era strano il rossore che gli aveva colorato le guance per il cambiamento di temperatura quando erano entrati in quel locale dall’aria rustica, ed era strano quel contatto casuale tra i loro gomiti, poggiati sul tavolo.
Ed era anche bello, si.
Quando lo aveva visto raggiungere il salotto dalla sua stanza, prima di uscire, lo aveva trovato uguale a tutte le altre volte. Sempre quel cappotto grigio scuro, e quella sciarpa nera che lasciava cadere intorno al collo, quasi con noncuranza. Però il cappotto era abbottonato.
Fissare quei bottoni gli aveva fatto venire in mente la volta in cui era stato lui a chiuderli, uno a uno. Allora, il corpo di Dominik gli era parso meno sottile e impalpabile del solito.
Poi, però, erano entrati al locale: Federico si era tolto il cappotto, lo aveva appoggiato alla spalliera della sedia vuota, e si era voltato per aiutare Dominik. E lui era già lì, con il cappotto in mano, pronto a porgerglielo, ed era diverso.
Non seppe dire se fosse perché lo avesse visto per la prima volta, davvero, fuori dal contesto della loro casa, o se fosse solo più tranquillo e avesse perso quell’aspetto scontroso delle ultime settimane, o se semplicemente lo stesse guardando diversamente perché davvero, adesso, sembrava un’altra persona. Era semplice, semplice con quella camicia bianca, quel maglioncino di un viola chiarissimo che, a differenza di quei maglioni informi che portava a casa e che gli finivano persino a coprirgli le mani, gli delineava le spalle e le braccia.
Aveva le braccia disegnate benissimo, come un disegno di Leonardo.
- Prego. –
La voce femminile della donna che li aveva accolti e aveva indicato loro un tavolo lo richiamò all’ordine. Aveva portato loro i menù: due, come se Dominik potesse leggerlo.
Ma Federico non disse nulla. La ragazza gli aveva sorriso affabile, prima di allontanarsi. Si chiese se fosse un sorriso vero, o uno di quelli di circostanza che sapeva tirare fuori anche lui quando la giornata era troppo lunga e finiva per non poterne più di vedere gente.
Sarebbe rimasta una domanda senza risposta.
Aprì il menù.
- Allora, Dom, abbiamo un sacco di cose qui. Preferiresti stuzzichini, piadine, focacce…? –
- Scegli tu, Federico. Cucini bene, sceglierai anche bene. –
Dominik era terribilmente nervoso. Tutto il brio, e la luce, che gli aveva visto addosso quando era tornato a casa dal locale, erano spariti, soffocato sotto strati di malumore. Era contento che avesse deciso di uscire, ma era come se lui non ne fosse altrettanto felice; eppure non lo aveva obbligato. No, era più come se avesse obbligato se stesso.
E adesso aveva il capo chino, come se fissasse il tavolo, e giocherellava con un lembo del tovagliolo. Temeva che qualcuno vedesse che fosse cieco.
Federico chiuse i menù, poggiandoli ad un lato del tavolo.
Avrebbe voluto prendergli la mano, così, davanti a tutti. Poggiare la mano sopra la sua, vedergli alzare istintivamente il viso e cercare quella luce che c’era, da qualche parte.
Però non ce la faceva.
Trovarsi lì con lui era strano, e sapeva benissimo il perché.
Gli piaceva stare lì. Per anni aveva desiderato fare una cosa del genere con Manfredi: andare a cena insieme, in un locale tranquillo e un po’ rustico, con il solo pensiero di scegliere cosa ordinare e il modo migliore per stringersi la mano. Però, ovviamente, non era mai stato possibile: erano sempre usciti con gli amici, e non si facevano mai vedere in giro da soli.
Invece adesso era a cena in un bel locale, così simile a quello che aveva sempre immaginato: si era vestito bene, con un bel maglione, ed era in compagnia di un bel ragazzo, nonostante fosse una delle persone più complicate che avesse mai conosciuto nella sua vita.
Eppure c’era quel qualcosa.
Se loro due fossero stati diversi, se lui e Dominik fossero state due persone differenti, gli avrebbe preso la mano. L’avrebbe presa e l’avrebbe stretta tra le dita, infischiandosene di tutto.
Ma lui aveva il cuore spaccato in mille pezzi. Dominik era ossessionato dalla sua musica, non contemplava nient’altro al mondo. E loro due erano già in equilibrio su un filo di lana.
Erano qualcosa. Qualcosa di terribilmente complicato che però aveva un senso.
Era come aver risolto per caso un cubo di Rubik, senza rendersi conto dei movimenti compiuti, e aver timore di fare un qualsiasi movimento per non perdere quel risultato.
Volse lo sguardo verso il ragazzo. Era sempre immobile.
Non sarebbe stato un peccato, poi, toccarlo. Però no, non la mano. Gli toccò il braccio, all’altezza del gomito.
- Come va? E’ così tragico essere fuori di casa? –
- No. Però ho fame – lo sentì dire.
Come si aspettava, quando lo toccò Dominik alzò il viso, e la luce era ancora tutta lì.
Stava anche sorridendo.
- Adesso ordiniamo. Sono veloci, ci serviranno subito. Puoi mangiare dei grissini, ti va? –
- Ci sono i grissini e non mi dici niente? –
Semplice, il sorriso di Dominik era semplice, come la sua voce.
Federico prese un pacchetto di grissini dal cestino al centro del tavolo, aprendolo da una punta e porgendoglielo. Dominik non lo afferrò: prese solo un grissino, stringendolo tra il pollice e l’indice, e portandolo alle labbra. Le chiuse così, con semplicità, intorno al bastoncino, accarezzandolo quasi.
- Volete ordinare? –
Alzò il viso. La ragazza era tornata.
Federico afferrò il menù con una mano. Aveva dimenticato persino quello che aveva scelto, e alla fine, quando si ritrovò a studiare le varie righe, cambiò persino idea. La nuova scelta sarebbe piaciuta di più a Dominik.
- Da bere cosa vi porto? –
- Vino. Vino rosso. E un’acqua naturale, grazie. –
Non beveva vino rosso da una vita. Da sempre, praticamente. Manfredi adorava il vino bianco, e quando andavano tutti a cena fuori con gli amici prendevano sempre quello. Anche adesso, per abitudine, beveva solo vino bianco.
Il vino rosso gli mancava. Gli mancava il colore, il sapore più pesante, persino la sensazione di ipnosi che provocava al solo guardarlo.
Qualcos’altro, dentro, si incrinava, e gli venne da sorridere.
Era come un altro modo, terribilmente inutile, per rompere il filo che lo legava a Manfredi.
- Sabato mattina parto – mormorò poi Dominik. Aveva la voce soffice, quasi soffocata, così bassa rispetto a quella che usava di solito che non parve nemmeno sua.
Sabato mattina parto. Gli premeva sulla gola quella frase, quella consapevolezza.
- Torni a casa per le vacanze? –
Lo vide annuire. A sabato mancava praticamente solo un giorno: di lì a poche ore, il giovedì si sarebbe concluso, e sabato Dominik sarebbe volato via a bordo di un aereo che lo avrebbe riportato a casa sua.
- Voi che ti accompagni in aeroporto? –
- No, viene Jenette con me. Poi salgo sull’aereo e viene a prendermi la mamma. Tu non parti Federico? –
- Domenica mattina. Sabato lavoro e poi non mi andava di prendere un aereo di notte. Magari resto al locale anche dopo il turno. –
- Non sei contento di tornare a casa? – gli chiese.
Era difficile dirlo: era contento di rivedere sua madre, suo padre e il resto della sua famiglia, e sì, anche Milena, nonostante lo avesse letteralmente asfissiato la settimana precedente. Avrebbe rivisto anche Manfredi. Dopo averci fatto l’amore. Dopo averlo distrutto a telefono.
Chissà cosa avrebbe trovato di lui.
L’avrebbe ancora guardato con quegli occhi verdi pieni di affetto, di tutto quello che avevano condiviso? O lo avrebbe odiato? Lo avrebbe forse distrutto?
Forse sarebbe tornato e avrebbe trovato che tutto era cambiato mentre lui non c’era.
- Federico? –
La mano di Dominik si era poggiata sulla sua, in un gesto semplicissimo. Aveva pensato per minuti interi di compierlo, senza riuscirci, e a Dominik era bastato solo un secondo.
- Mh? –
- Perché ti perdi? –
Voce dolce, carezzevole come lo zucchero filato e tagliente come un pugnale nel petto.
Perfino il profumo che aveva lo confondeva.
Il tocco delicato di quella mano sulla pelle era come una carezza. Era la carezza di un uomo, quella di una mano grande, spigolosa, anche se con la pelle morbida di chi non aveva accarezzato mai altro che i tasti di un pianoforte.
Avrebbe voluto dirglielo. Avrebbe dovuto. Era quello il momento di farlo.
Sono gay, Dominik, per questo mi perdo. Perché quello che credi il mio migliore amico è stato il mio ragazzo per sette anni, e sarà l’amore della mia vita fino a quando non morirò, perché ti guardo e ti trovo una meraviglia e spero che troverai una ragazza che sappia scavare in questa corazza che hai, e perché spero di trovare un giorno qualcuno che sia diverso da Manfredi, e anche da me.
Sarebbe stato semplicissimo, perché Dominik era pronto a sentire tutto. E poi sarebbe partito e avrebbe avuto il modo di metabolizzarlo.
Mosse l’altra mano, poggiandola ancora sopra la sua.
- Pensavo che è un sacco che non vedo mia madre, tutto qui. –
Un’altra bugia. Sembrava innocente, ma Dominik fece una smorfia.
Federico allontanò le mani istintivamente: non poteva toccarlo troppo in pubblico, non voleva attirare le attenzioni della gente.
- Anche io. Sono contento di rivederla. Però sarà strano. –
- Che cosa? –
- Che tu non ci sarai. Che non tornerai dal lavoro, non aprirai la porta e non poggerai le chiavi nella ciotola di vetro come fai di solito. Che non cucinerai e non guarderai la televisione sul divano, e che non dirai buonanotte sbadigliando prima di andare a letto. Che la mattina non ci sarà la tazza che mi hai regalato nel frigorifero, o il pane bianco sul tavolo. –
Gli venne da sorridere per tutta quella tenerezza. Non ci aveva pensato veramente, ma Dominik aveva ragione, sarebbe stato strano: si sarebbe trovato di nuovo a casa sua, con l’oppressione della menzogna, e senza dover pensare ai turni di lavoro, alla spesa da fare, alle bollette da pagare, all’università, a cosa cucinare. Non ci sarebbe stato Samuele, né Lorenzo, e neppure le note morbide di Dominik al pianoforte tutte le sere.
Era strano perdere quella routine.
Forse gli sarebbe mancato, Dominik. Gli sarebbe mancato pensare di tornare a casa e trovarlo dietro il pianoforte con quell’aria da personaggio di una bella favola per bambini. Gli sarebbe mancato chiedersi cosa stesse pensando quando si metteva silenzioso a studiare i suoi spariti sulla poltrona. Gli sarebbero potute mancare tante cose.
- Sarà solo qualche settimana, dai. Però sarà strano sul serio! Chi l’avrebbe mai detto? Fino a due mesi fa non ci sopportavamo nemmeno, quasi! –
Dominik sorrise, un sorriso morbido, che dopo qualche istante si spense in una smorfia pensierosa.
- Non è che ti perdi, mentre non ci sono, vero? –
- Non dovrei, no. Posso usare una cartina, se vuoi! –
Dominik sorrise, e in un attimo gli diede un colpetto sul braccio, vicino alla spalla, spingendolo di lato. Avrebbe giurato di averlo sentito borbottare che stupido, mentre stava ancora ridendo.
- Stavo scherzando, dai! Giuro che tornerò esattamente come mi stai lasciando, come se non mi fossi mai mosso da Milano! –
Forse sarebbe stato vero. Forse, davvero, una volta tornato a casa avrebbe trovato tutto diverso, cambiato, e si sarebbe reso conto che stava bene a Milano, che era quello il suo posto, e tutto sarebbe andato bene. Però ne era certo che gli occhi di Manfredi gli avrebbero scavato dentro un’altra voragine.
La ragazza portò una bottiglia d’acqua naturale e una brocca di vino rosso. Era un rosso scurissimo, quasi ipnotico, e quando lo versò nei loro bicchieri si mosse come un’onda.
Come quella che si sentiva dentro, pronto a sommergerlo.
- Hai mai assaggiato il vino, Dom? –
- Si, una volta, a Natale. Ma non è piaciuto. –
- Prova questo. Facciamo un brindisi, no? Al tuo esame andato bene, al mio, che spero di passare a febbraio, ai nostri viaggi a casa, e alle feste di Natale. E, ovviamente, al nostro ritorno a Milano. –
Le dita di Dominik, affusolate e lunghe, si strinsero intorno allo steso sottile del calice, alzandolo appena. Federico mosse la mano, e i due bicchieri tintinnarono.
Fu come se si sfiorassero, prima di passare oltre e scivolare di lato, allontanandosi definitivamente.
Un po’ come facevano loro due.
Portò alle labbra il bicchiere, chiudendo appena gli occhi. Il sapore acre e forte del vino rosso lo colpì alla gola, risvegliando una sensazione viva sulla lingua e sulle labbra.
Era buono. Non era il miglior vino che avesse mai bevuto, ma era buono.
Gli serviva, lo stava riportando alla realtà, e scacciava il torpore che gli provocavano quella strana vicinanza e quel profumo.
Quando punto gli occhi su Dominik, non vide altro che il lieve rossore sulle sue labbra, dove una goccia di vino aveva lasciato il segno. Faceva venir voglia di morderlo, quel labbro, e cacciare via quella traccia. Era la macchia di colore perfetta su un quadro.
- E’ buono. – Le  labbra si mossero, ipnotiche. Distogliere lo sguardo per portarlo sul tavolo e sulle proprie mani intrecciate fu quasi doloroso.
Non aveva mai visto labbra belle come quelle di Dominik, era un dato di fatto.
Anche se quelle di Manfredi erano terribilmente buone.
- Ho fatto una buona scelta. –
- Fai quasi sempre buone scelte. –
- Quasi? –
Dominik sorrise appena, consapevole di quella piccola provocazione, e alzò una mano, poggiandogliela a sorpresa sul viso, con il palmo sopra lo zigomo e le dita che gli solleticavano l’orecchio. Non lo stava guardando, per studiarlo, per capirlo. Lo stava accarezzando.
Pensò che quella mano sarebbe sparita subito, come un sogno, invece rimase lì, mentre si ritrovava a fissare la striscia di pelle lasciata scoperta dalla manica del maglione che si era sollevata quando Dominik aveva teso il braccio.
Non lo avevano mai accarezzato in un modo così…semplice.
Era una carezza che non aveva un motivo, dietro: passione, lussuria, affetto, compassione. Non c’era niente. C’era solo istinto, puro, semplice e ingenuo, come quello che portava quel ragazzino a sedersi dietro un pianoforte e immaginarsi mondi fatti di note.
- E’ quando fai l’elastico che non fai buone scelte –  lo sentì mormorare. Allora la mano scivolò oltre, sul collo, sulla spalla, sul braccio, fino a tornare sul tavolo.
Il colore chiaro della sua pelle sembrò brillare sullo sfondo rosso scuro della tovaglia.
- L’elastico? –
-  Si. Ti avvicini un po’, poi di più, e quando diventa troppo, rimbalzi indietro. –
Rimbalzi indietro.
La mano di Dominik tamburellò due volte sul tavolo, preda di un’inspiegabile irritazione, poi si fermò.
- Non ti seguo… - provò a dire, perché davvero non lo capiva, così strano. E Dominik si era innervosito.
- Non lo capisci, Federico? E’ quando sei vicino, come adesso! Ti avvicini, mi sorridi, mi sfiori per caso, e poi all’improvviso ti allontani. E’ perché sei teso, quando ti avvicini a me, come se fossimo i poli negativi di una calamita, che quando si avvicinano troppo si respingono. E non mi piace… -
Aveva dato un colpetto al tavolo, con due dita, come se fossero stati o tasti di un pianoforte, da trattare con delicatezza e con forza allo stesso tempo.
Dominik se n’era accorto. Si era reso conto di quella tensione che si creava quando erano troppo vicini, ed era colpa sua. Se gli avesse detto la verità, se gli avesse confessato di essere gay, Dominik avrebbe capito che quella tensione era desiderio, desiderio misto alla ragione, alla consapevolezza e alla maturità che stava cercando di mettere in quella convivenza sempre più strana.
Ma Dominik non sapeva la verità.
Prima che potesse rispondergli, però, la ragazza che li stava servendo si avvicinò con i piatti, e Federico tolse i tovaglioli di stoffa dal tavolo.
- Ne parliamo dopo, dai…adesso mangia. Non avevi fame? –
Dominik, suo malgrado, sorrise.

 

§§§

 
- Il mio preferito è stato il dolce! –
- Non avevo dubbi, guarda! Perché, la piadina ti faceva schifo? Io ho mangiato così tanto che non vedo l’ora di essere a casa per sbottonarmi i pantaloni! –
- Io voglio fare una passeggiata. –
Lui voleva fare una passeggiata.
Il pianista con il cappotto grigio voleva passeggiare, con i piedi sul bordo del marciapiede e le braccia tese di lato come un equilibrista, il capo volto verso l’altro, mentre un soffio di vento sollevava i lembi della sua sciarpa scura.
Era tornato leggero, con quella luce che gli aveva visto addosso appena poche ore prima, quando era tornato a casa. Forse quel po’ di vino che aveva bevuto, appena il fondo del bicchiere, l’aveva tirata fuori di nuovo, o forse era vero quello che dicevano sul cibo, che metteva tutti di buon’umore.
Non passava una serata così bella da anni.
Avevano mangiato a ruota continua per quasi due ore, e finito il vino, anche se l’aveva bevuto praticamente tutto lui. Aveva fatto ridere Dominik parlandogli delle vecchie professoresse del liceo, della Murini, quella di storia che metteva sempre quelle gonne aderenti anche se pesava quanto un elefante, e della Carta, quella di latino che si faceva prendere in giro durante tutti i compiti in classe quando le versioni le passavano sotto il naso. Dominik aveva riso mentre mangiava, e beveva, e lo sfiorava appena con qualche piccolo gesto, ma mai fisicamente.
Una volta era un sorriso, un’altra un sospiro, un’altra ancora un gesto del capo che portava più vicino. Non l’aveva più toccato, però, nemmeno con un dito. Ed era stato bello comunque, vederlo con quella leggerezza addosso, anche quando gli aveva chiesto di fare una passeggiata prima di tornare a casa, che non faceva troppo freddo e fuori c’era poca gente, ed era bello camminare e festeggiare.
E mentre camminavano insieme, nelle vie vicino a casa, Dominik seguiva il rumore dei suoi passi sul marciapiede, e camminava proprio sul bordo, pronto a cadere, o forse a volare.
- Federico, adesso me lo dici? –
- Che cosa? –
- Perché fai l’elastico. –
Rieccolo, pungente come un pugnale sulla schiena. Era straordinario il modo in cui quel ragazzino non dimenticava mai niente, quando si fissava su qualcosa. Anche se continuava a camminare, come se non gli importasse, tutto il suo corpo e la sua mente erano tesi, pronti a pungolarlo, se necessario, pur di scoprire la risposta alla sua domanda.
E lui non sapeva cosa dirgli, perché non c’era davvero un motivo.
Forse quella tensione tra loro lo spaventava.
Alzò gli occhi, per guardare la sua immagine stagliarsi nel buio illuminato dai lampioni.
- Faccio l’elastico, secondo te? –
- Mh mh. –
Federico sorrise.
Camminavano così, come due copri divisi e lontani, con le mani nelle tasche e i gomiti appena sporgenti di lato, in viso chino verso il basso. Solo che Dominik nel buio stava immaginando qualcosa, vedendo qualche colore, un pezzo di mondo, mentre lui non vedeva altro che le linee scure della strada scorrergli sotto i piedi.
- Ma lo sai, Federico, adesso mi piacerebbe essere a casa… -
- Vuoi tornare a casa? Avevi detto che volevi fare una passeggiata! –
- Voglio passeggiare. Ma adesso vorrei…non lo so, vorrei avere un pianoforte qua, in mezzo a questo vento, e farti sentire la musica che sento io adesso. –
- Puoi farmela sentire quando saremo a casa… -
Lo vide scuotere il capo, i capelli si mossero sul capo.
- Non è la stessa, suonata a casa. Qui sarebbe più bella. –
Rimase in silenzio, per un po’, giusto il tempo di continuare a camminargli dietro. Federico non aveva idea di quanto tempo sarebbe passato ancora prima che Dominik decidesse di tornare a casa, ma non voleva imporglielo.
Si sentiva leggero, fuori di casa, come se quelle mura potessero soffocarlo.
Lo soffocavano perché comprimevano Dominik, là dentro, e l’aria iniziava a mancare dopo un po’. E lui faceva l’elastico.
Sorrise, e ringraziò che Dominik non potesse vederlo, o avrebbe iniziato a fare domande, e lui non aveva idea del perché stesse sorridendo. Gli andava e basta. Non gli capitava da un sacco.
Non gli capitava nemmeno da una vita di trovarsi fuori di casa e di non dover pensare a chi lo avrebbe guardato, fissato, a che ora tornare a casa o a cosa fare.
Stava passeggiando senza una meta, e ogni tanto il vento diffondeva il profumo di Dominik proprio vicino a lui, come se qualcuno, dal cielo, lo stesse facendo apposta a soffiarglielo in faccia.
Era dolciastro, però aveva anche qualcosa di penetrante, che bruciava le narici e gli soffocava la gola come una mano stretta sulla pelle.
- Domani sera guardiamo la televisione, Federico? –
Si riscosse mentre Dominik sollevava il capo, affondando poi il capo nelle spalle in risposta a un soffio di vento più freddo degli altri.
- Se ti va, perché no? –
- Sabato parto, e voglio guardare la televisione con te prima di partire. –
Tenero. Terribilmente. Faceva venir voglia di prenderlo per le spalle e mordergli quella guancia arrossata per il freddo. Sarebbe stata morbida come lo zucchero filato.
Lo colse di sorpresa, stringendolo per un braccio, all’altezza del gomito, e fermandolo per strada. Quando gli si piantò davanti, lo sentì inspirare, dischiudendo le labbra per la sorpresa. Quelle due morbide sporgenze delimitavano una fessura, rendendo visibili quei due incisivi che Dominik aveva particolarmente grandi. Era caldo, contro il freddo che avevano intorno.
- Fai il sentimentale, Dom? Cos’è, un modo cazzuto e orgoglioso per dire che sentirai la mia mancanza almeno un po’, tra tutta quella musica che hai nel cervello? –
Dominik sollevò la testa, inclinando il capo indietro, come un galletto nel pollaio. Nel movimento, tirò fuori le mani dalle tasche del cappotto.
- Se anche fosse? –
Federico trattenne una risata divertita e, a tradimento, gli afferrò una mano, inchiodandola nella sua. Era fredda, ma terribilmente morbida; persino le dita allungate parevano bastoncino fatti di piume.
- Lo prendo come un sì. Nella tua lingua, se non è no, allora è sì, anche se non sembra. –
Inaspettatamente, Dominik scoppiò a ridere. Leggero.
La mano chiusa nella sua divenne più calda. E Dominik mosse appena il pollice,  abbastanza per lasciargli una piccola carezza sul dorso della mano. Avrebbe dovuto lasciarlo andare, forse, perché qualcuno avrebbe potuto vederli, e perché iniziava ad avvertire quella vicinanza come una tensione: ma lo conosceva, avrebbe preso a fargli domande e ad accusarlo di comportarsi come un elastico. Da dove fosse venuto fuori quel paragone, poi, non ne aveva idea.
Ma non era un elastico. Esserlo avrebbe significato ammettere di temere il contatto con lui, e tra loro due non era certo lui quello che si tirava indietro ad ogni minimo contatto.
Però il dito di Dominik continuava a muoversi sulla sua pelle.
- Lo prendo anche io come un sì, allora. Perché nella tua lingua è sì quando non dici niente. –
Fu lui a lasciarlo. La sua mano scivolò naturalmente via dalla sua mentre si spostava con il sorriso ancora sulle labbra per quella piccola vittoria.
Lo seguì accelerando il passo, che quello era già andato avanti senza di lui, anche se solo di pochi passi.
- Certo che sei proprio assurdo, lo sai? –
Stava ancora sorridendo, poi tornò con le mani nelle tasche, inclinando il capo di lato.
- Avevi ragione, comunque. –
- Questo è ovvio. Ma su cosa? –
Dominik lo colpì con una gomitata, leggera, perché stava ridendo e voleva solo avvicinarsi un po’, per un po’ di calore.
- Una volta mi hai detto che ho paura. E che mi privo di certe cose non perché non voglio farle ma perché ho paura e non voglio accettare l’aiuto degli altri. E mi hai detto anche che accettare l’aiuto degli altri non è sbagliato. –
- Quindi avevo ragione? – lo incalzò.
Dominik si strinse nelle spalle.
- Tutti e due avevamo ragione. Diciamo che è vero che ho un po’ paura, e hai ragione tu. Mi privo di certe cose perché non mi fido delle persone, e delle cose che possono succedere, che possono andare male. Ma oggi mi sono divertito a uscire con te. E qui ho ragione io, perché l’aiuto degli altri non lo voglio. Accetto solo il tuo. –
- E perché solo il mio? –
- Perché… - Fece una pausa, poi una lieve smorfia gli rovinò il viso. – Tutti vogliono aiutarmi perché gli faccio pena, perché vogliono sentirsi buoni, o perché voglio sentirsi dire grazie, o perché faccio tenerezza. Tu no, questo è il bello. Tu fai un sacco di cose per me, ma ho la sensazione che non lo sai nemmeno tu perché lo fai. –
Federico aprì la bocca per controbattere, ma fu costretto a richiuderla.
Perché Dominik aveva terribilmente ragione. Tutto quello che faceva  -preparargli la cena, comprare qualcosa che sapeva gli sarebbe piaciuto, portare i vestiti in lavanderia, aiutarlo a riordinare la sua stanza, o semplicemente starlo ad ascoltare quando parlava e rispondere alle sue domande – non lo faceva per tenerezza, per pietà, o per sentirsi migliore.
Non ne aveva la benchè minima idea. Però lo faceva lo stesso.
Forse lo faceva perché, quando era sereno, Dominik sorrideva in quel modo, a metà tra la tenerezza e la lussuria. Forse lo faceva per vederlo sorridere in quel modo.
Sarebbe decisamente stato meglio pensare di non avere, invece, nessun motivo.







Nota al capitolo 21:
Eccomi qui!
Questo capitolo segna la fine di un'era...no, ok, solo della prima parte della storia. xD
Abbiamo visto per la prima volta davvero fuori di casa Federico e Dominik, e vorrei dire tante cose su questo capitolo, ma penso che se dicessi qualcosa si spezzerebbe una specie di equilibrio, quindi non dirò nulla.
Spero solo che vi abbia trasmesso quelle emozioni che ha trasmesso a me scrivendolo.
La canzone che ho scelto come colonna sonora è quella che vi avevo anticipato sulla pagina facebook: Il futuro che sarà di Chiara.
Mi ispirava molto per l'aria che aveva il locale dove è stata ambientata la serata, e non lo so, mi ispirava qualcosa di "morbido".
Semplicemente ringrazio tutti, e risponderò alle recensioni spero oggi, ma sappiate che ho letto ogni singola recensione e mi ha sciolto il cuore. Vi mando un bacio, perchè devo scappare di corsa.
Vi lascio con il link della mia pagina facebook: http://www.facebook.com/pages/100-sbavature-di-Esse/509052772480144
Un bacione!
Esse

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Capitolo 23
*** 22nd: Come si cambia per non morire ***


Se si vuole davvero cambiare qualcosa, bisogna cominciare a cambiare sé stessi, andare contro sé stessi fino in fondo. Il massimo impegno civile è l'auto-contestazione.

Carmelo Bene, su L'Europeo, 1968


 

Chapter 22nd: Come si cambia per non morire
 
Un vecchio detto palermitano lo aveva sempre fatto sorridere.
S’unceru: ogghiu fitusu e paredda spunnata.
Era un modo poco fine per indicare due persone che si avvicinavano quando entrambe avevano qualcosa che proprio non andava. Come l’olio sporco, usato, e una padella bucata, appunto.
Non aveva idea di chi, tra lui e Dominik, fosse la padella spunnata.
Forse lui. Manfredi lo aveva preso letteralmente a mazzate.
- Federico? – Dominik lo chiamava, con un colpetto sulla gamba.
Era completamente coperto da quell’enorme plaid blu che tenevano sempre sul divano: era così raggomitolato che non riusciva nemmeno a distinguerne i contorni del corpo.
Stava sorridendo, però.
Aveva il volto un po’ stanco, ma luminoso e rilassato, come se non potesse trovarsi in nessun posto migliore al mondo.
- Che c’è? – Lo vide muoversi sul divano, spostandosi dal suo posto per raggiungerlo.
I piedi nudi sporgevano sotto l’orlo della coperta, e li portò lontano, dall’altra parte, mentre il busto si appoggiava a lui. Stese le gambe sul divano, occupandolo completamente, mentre con il busto gli si raggomitolava completamente addosso.
Portava quel solito maglione blu che gli stava troppo largo.
Avrebbe voluto vederlo con addosso di nuovo quel maglione viola che aveva messo la sera prima, quando erano usciti insieme e avevano cenato fuori.
Aveva il corpo stranamente freddo, ma quando respirava soffiava fuori un fiotto d’aria caldissima.
- Senti freddo? –
- Un po’. –
- Stai a piedi nudi, certo che hai freddo! Vieni qua. –
Gli circondò il corpo con il braccio. Lo fece con noncuranza, come se lo facesse tutti i giorni, eppure si sentiva una strana inquietudine dentro il petto, come se ci fosse qualcosa di diverso dal solito.
Dominik si strinse contro di lui, portando le ginocchia al petto, e adagiando il capo sul suo petto.
La sua mano emerse da sotto la coperta, cercando il suo braccio e seguendone il profilo con una lieve carezza, fino alla mano, con una strana curiosità. C’era sempre curiosità in quello che Dominik faceva, quando si rapportava a lui. E da quando avevano cenato insieme, da quando si erano avvicinati su quello stesso divano, sembrava che le cose stessero accelerando ad un ritmo forsennato.
Si sentiva come una piccola pedina con indosso un paio di pattini a rotelle, sulla cima di una salita di quelle che si vedevano nei cartoni animati. E, nel momento in cui Dominik si era disteso su di lui, su quel divano, o quando aveva accettato di uscire con lui, qualcuno lo aveva spinto di sotto.
E adesso stava sfrecciando troppo velocemente, così tanto che avrebbe finito per inciampare in una piccola buca e rotolare, facendosi fin troppo male.
Abbassò il volto. Dominik se ne stava fermo, rannicchiato. Era impossibile anche solo immaginare di provare dolore guardando una creatura così.
Sentendosi osservato, Dominik si riscosse.
Quando alzò il viso verso il suo, soffiò appena vicino al suo mento.
E poi lo baciò. Semplicemente, toccandolo con quelle labbra morbide, calde.
Erano già dischiuse, il sapore della sua saliva era dolciastro.
Allora non solo non riuscì più a inspirare aria, ma quella poca che aveva nei polmoni si attorcigliò in un vortice che gli risucchiò tutto, persino l’energia. Gli mancava l’aria, e gli girava la testa, ma non riusciva a staccarsi.
Fu come una scossa elettrica.
Dominik era così arrendevole. Aveva piegato il capo indietro, si era spinto verso di lui, artigliandogli le mani sulle spalle con una strana morbidezza. Gli mancava quasi l’aria, per il modo in cui lo stava baciando: sembrava nato solo per fare quello, come se non avesse fatto altro che baciare, nella vita. Invece non aveva mai baciato nessuno.
Quell’idea lo elettrizzava, come se fosse un pirata che stesse esplorando un nuovo vascello e avesse appena scoperto il tesoro più enorme che avesse mai visto.
Lo strinse sulla nuca, sentendolo mugolare. Percorse quella pelle con al punta delle dita, come se temesse di romperlo. Scese sulla spalla, sul braccio, sul fianco.
Ad ogni tocco, Dominik vibrava come un corpo che stesse per andare a fuoco, e lui aveva una voglia matta di toccarlo e scoprire se tutto fosse caldo come il suo respiro nella bocca.
Sollevò il bordo del maglione per toccare quella pelle. Doveva essere così liscia…
- Scusi? Siamo arrivati. –
Federico inspirò l’aria fresca.
I polmoni tornarono a riempirsi, il mondo smise di girare.
Spalancò gli occhi.
Gli girava la testa, come se fosse stato in apnea per minuti interi.
Persino la luce sembrava accecarlo. Si toccò istintivamente le labbra, guardandosi intorno. Vide il volto di una donna che lo fissava preoccupata e un po’ stranita.
Il cuore gli batteva all’impazzata dentro il petto, così forte che non riusciva nemmeno a respirare, come se gli avesse otturato le vie aeree dopo quel primo respiro ce gli aveva sparato l’aria in ogni punto del corpo..
Dominik che lo baciava. Ce l’aveva fissa nel cervello quell’immagine. Persino la sensazione delle sue labbra morbide era stata così vera da sembrare reale.
Invece no.
Non era a casa sua, con Dominik. Era sull’aereo. Era appena atterrato a Palermo.
Si era solo addormentato. Aveva solo sognato.
E no, Dominik non l’aveva mai baciato.
Non l’avrebbe mai fatto.
Figurarsi. Non si sarebbe mai comportato in quel modo.
Federico reclinò la testa indietro, poggiandola al sedile e cercando di riprendere fiato.
Stava impazzendo.
Era tutto quel casino che lo stava esasperando.
Era come nel sogno.
Lui in cima a quella salita, con i pattini a rotelle, e tutto stava andando troppo veloce, e lui doveva fermarlo, trovare il modo di frenare, di rallentare, senza farsi male.
Era stato un sogno stupido, una cosa che non sarebbe mai accaduta e…e al diavolo, non aveva mai voluto che accadesse!
Bugia, Federico. Immaginava spesso di baciare Dominik, ma un conto era pensarci così, una volta tanto, un conto era sognarlo.
Lo aveva avvelenato, era quella la verità. Lo aveva trascinato in quel ciclone, e le cose stavano precipitando. Doveva solo stare tranquillo, adesso, ecco.
Chiudere gli occhi, respirare, poi riaprirli e rendersi conto di cosa stesse realmente succedendo.
Doveva rallentare. Doveva frenare quella valanga di emozioni, rimettere la prima e ripartire da capo. Essere di nuovo a Palermo, lontano da Milano, da Dominik, da Samuele e da tutto, quello l’avrebbe aiutato a vedere di nuovo le cose fuori da quella gabbia dorata che Dominik gli aveva costruito intorno.
Al ragazzino, d’altronde, non importava proprio niente di tutta quella situazione.
Era partito, il giorno precedente, con la stessa leggerezza con cui era arrivato.
Lo aveva salutato con un sorriso, sulla soglia della porta, di primo mattino, e se l’era chiusa alle spalle. Non un abbraccio, non un tocco sulla spalla, nemmeno una stretta di mano.
Una stretta al cuore, quella sì, perché se ne era andato come era venuto, come se le settimane precedenti non avessero significato niente e lui stesse ancora solo inseguendo il suo sogno a colori.
Era difficile persino rendersi conto che fosse esistito davvero, e che non l’avesse sognato.
La donna che lo aveva svegliato si era allontanata con aria confusa, seguendo la fila di gente che si
affrettava per scendere dall’aereo.
Federico si alzò, recuperando il proprio bagaglio a mano dallo scomparto sopra al suo posto.
Era lo stesso borsone con cui, appena pochi mesi prima, aveva fatto il viaggio inverso.
Palermo-Milano. Era sembrato l’inizio della fine, quel viaggio, e invece era stato l’inizio dell’inizio.
Se si fosse guardato allo specchio si sarebbe trovato diverso.
Era andato via da Palermo con il cuore spezzato, il vuoto dentro al petto, e la consapevolezza di non avere più nulla da perdere. Adesso tornava con un lieve sorriso, con delle amicizie nuove, con la flebile speranza di ricostruirsi qualcosa intorno.
E con quel sogno insulso.
Come aveva fatto a sognare una cosa del genere? Come aveva potuto anche solo immaginare di baciare Dominik a quel modo?
Era per tutto quello che era successo: quella finta immagine di complicità, di tenerezza, quel sorriso diverso da quello che aveva conosciuto quando era arrivato, e forse anche le parole di Samuele, la sua convinzione che ci fosse qualcosa di buono per tutti al mondo, tranne che per lui, forse.
Voleva sparire. Sotterrarsi magari.
Invece si costrinse a uscire da quell’aereo, percorrere il tunnel che l’avrebbe condotto tra le mura dell’aeroporto, per recuperare la sua valigia.  Camminava come un automa, come un uomo alla ricerca del mondo.
Fermo lì, in aeroporto, era come un uomo morto in Purgatorio: non era né all’Inferno, né in Paradiso. Non era il Federico che c’era a Milano, ma neppure quello che era sempre stato a Palermo. Era cambiato, forse?
Si era chiesto, appena due giorni prima, come sarebbe stato tornare a casa, se tutto sarebbe stato uguale o diverso. Aveva sperato che tutto fosse diverso, che tutto lo spingesse nella direzione che aveva intrapreso.
Invece no. L’aeroporto di Palermo era sempre lo stesso. Anche la voce di suo padre al telefono, e il sole, e la gente, era tutto uguale.
Era lui allora, quello diverso, perché lì dentro non si sentiva come l’uomo che era partito pochi mesi prima.
E allora camminava alla ricerca di se stesso, indeciso su quale sarebbe stata la riva del fiume che avrebbe raggiunto.
Palermo o Milano.
Menzogna o verità.
Manfredi o Dominik.
Non c’era nemmeno motivo di pensarlo, non doveva!
Era stato solo un sogno stupido, spinto dall’esasperazione.
Scosse il capo, poi sollevò lo sguardo su quello che aveva intorno.
A Palermo c’era il sole: i raggi caldi filtravano attraverso i vetri fino all’interno. Era vero che i raggi del sole a Milano non scaldavano quanto quelli di Palermo. E gli venne da sorridere, perché era Manfredi a ripeterlo sempre quando gli proponeva di lasciare tutto e trasferirsi, ai tempi in cui avevano ancora diciotto anni e potevano permettersi di dirlo per scherzo.
Avrebbe rivisto Manfredi, durante le vacanze. Era inevitabile.
Era inevitabile che qualcuno ne parlasse, che lo incontrasse per strada, che lo vedesse sempre con lo stesso gruppo di amici. E a Palermo non poteva essere se stesso: a Palermo non poteva portarlo in un locale a bere birra e guardarlo sorridere con gli occhi di una sogliola appena pescata, non poteva chiedere a nessuno cinque minuti per staccare la spina, che Manfredi era troppo vicino. A Palermo doveva fingere che non fosse cambiato nulla, che fossero uniti da vent’anni di solida amicizia e che non fosse stato almeno in parte proprio Manfredi a spingerlo a lasciare la città.
Era patetico, tra l’altro.
Un coglione che si struggeva e che non aveva nemmeno il coraggio di tornare a casa sua a trovare sua madre perché l’idea di rivedere Manfredi lo terrorizzava. Oh, insomma, si stava comportando come un ragazzino.
Strattonò il borsone sulla spalla, in attesa davanti al rullo che la sua bella valigia blu scuro gli passasse davanti. L’orologio segnava le dodici e trenta: era in perfetto orario. Nessun ritardo, era in tempo persino per pranzo. magari sua madre avrebbe cucinato le lasagne, che sapeva quanto le adorava.
Piacevano anche a Manfredi. Il lunedì, dopo scuola, pranzavano sempre a casa sua, perché la domenica sua madre preparava sempre due porzioni di lasagne in più, perché loro potessero mangiarle e poi mettersi a studiare. Il concetto di studiare, di solito, prevedeva i Simpson, dragonball, una partita a fifa, e magari, se proprio restava tempo, una letturina a due pagine del libro di letteratura.
Federico strinse la mano intorno al maniglione della sua valigia, strappandola a quel flusso di bagagli e allontanandola dalla calca di gente.
Voleva uscire, respirare di nuovo l’aria di Palermo, quell’aria fresca, leggera, che non si attaccava ai polmoni come il petrolio alle penne degli uccelli, come a Milano. Voleva godersi il tepore del sole sulle braccia, togliersi il giubbotto pesante e scoprirsi la pelle.
- Federico! –
Aprì gli occhi. Avrebbe riconosciuto quella voce tra mille. Era la voce roca e bassa di suo padre.
E anche lui era lì, non era solo un sogno.
Era lì, sempre con quegli occhiali troppo grandi dalla montatura antiquata, con quel giubbotto leggero orrendamente marrone e con troppo pochi capelli in testa. E stava sorridendo a lui, andandogli incontro a braccia spalancate. In quel momento, avrebbe tanto voluto poter tornare bambino, come quando lui tornava dal lavoro, nel pomeriggio, e gli correva incontro.
Non perché portasse qualche cosa di particolare, magari un regalo, né per altri motivi particolari. Gli piaceva semplicemente andare alla porta ed essere il primo della famiglia a salutarlo, prima ancora di Milena.
Adesso che era grande, però, poteva solo poggiare il borsone e la valigia sul pavimento e rispondere a quell’abbraccio impacciato, che suo padre non era mai stato particolarmente bravo a mostrare i propri sentimenti.
- Ciao papà – mormorò, con il volto affondato nella sua spalla.
Suo padre gli diede due pacche sulle spalle, prima di allontanarlo appena per guardarlo.
- Come stai, com’è andato il viaggio? Ti trovo bene! – Federico sorrise.
- Anche io, papà, anche se mi sembra di averti visto con più capelli l’ultima volta! – Lo vide ridere, con quel sorriso largo che aveva preso da lui e che a Manfredi era sempre piaciuto da morire.
Era possibile pensare di più a Manfredi, adesso? Era come se trovarsi di nuovo lì lo rendesse più reale. Ma suo padre gli prese il borsone praticamente dalle mani, iniziando a camminare.
- Andiamo, dai. Tua madre non sta più nella pelle, lo sai com’è fatta, e c’è un casino terribile in giro. Ah, e ho portato una sorpresa, non potevo farne a meno! –
Per un attimo, Federico ebbe il terrore che suo padre si riferisse a Manfredi.
Come nei migliori paradossi del destino, suo padre e Manfredi avevano sempre avuto un ottimo rapporto. Tutte le domeniche se ne stavano sul divano a guardare le partite, e ogni scusa era buona per invitarlo a cena. Si era chiesto spesso se tutto quel rispetto e quel benvolere sarebbero svaniti di fronte alla verità, ma oramai non era più il caso di chiederselo, dato come era finite le cose.
Ma giunti fuori, nel parcheggio, di fronte all’automobile, Federico sorrise.
Era incorreggibile. E questa volta, però, volle anticiparla.
La raggiunse alle spalle mentre era tutta concentrata sul suo cellulare, e la strinse in un abbraccio.
- Milena! –
La sua risata cristallina riempì l’ambiente intorno, mentre si voltava per guardarlo. Aveva i capelli sciolti, acconciati in onde che terminavano subito sotto il suo orecchio, dandole un’aria parecchio sofisticata, nonostante quello sguardo da bambina. Lo abbracciò anche lei, una volta riuscita a liberarsi.
- Sono così contenta di vederti! –
- Ma vi siete visti fino alla scorsa settimana! – ribattè suo padre. Milena fece spallucce.
- Una settimana è un tempo lungo! Allora, come stai? E Dominik? Ha fatto l’esame? L’hai lasciato a Milano? –
Federico girò intorno all’automobile, caricando la valigia e il borsone nel cofano, mentre sua sorella lo inseguiva parlando a raffica. Il sorriso di suo padre, che tentava di camuffare, era emblematico. Erano belli i momenti così leggeri: erano quelli che gli facevano mancare il coraggio di dire a tutti la verità. Chiuse il cofano con un colpo secco.
- Si, l’ha fatto l’esame, e ovviamente è andato benissimo. – Salì in macchina, rubando il posto sul sedile anteriore, e Milena fu costretta a sedersi dietro, fissandolo nel riflesso dello specchietto retrovisore. La macchina profumava sempre dello stesso deodorante per auto che suo padre comprava da più di cinque anni. – E’ tornato a casa sua, a Praga. E’ partito ieri mattina -  concluse, ma lei aveva già iniziato a parlare di un altro argomento.
- Mamma ha organizzato tutto a casa nostra quest’anno, per Natale! Saremo tutti lì, e sta cucinando un sacco di cose! Veniamo anche io e Michele, naturalmente. E ci sarà zia Giuliana, cerca di essere gentile! –
- Si, d’accordo – rispose, con uno sbuffo.
- E anche con Giulio e Gabriella, che sono dei cari ragazzi! Forse lei un po’ meno, ma sai che la mamma ci tiene, sono suoi nipoti! E la nonna sarà felicissima di rivederti, le manchi tanto! –
Federico si portò una mano sul viso.
- Dovevi per forza portarla, papà?! – sbuffò poi, esasperato.
Le voleva bene, ma quando iniziava a parlare in quel modo era peggio di una sorellina di sette anni fissata con le Winx. Milena si zittì con uno sbuffo, prendendo a guardare fuori. Suo padre, invece, era concentrato nella guida. Le strade congestionate di Palermo non sembravano adesso tanto diverse da quelle di Milano.
- Allora, Federico, non mi racconti niente? Come vanno le cose a Milano? – gli chiese poi. Nonostante non lo avrebbe mai ammesso, suo padre era fiero di lui; gli mancava, ma era felice di vederlo almeno sistemato, impegnato e indipendente in una città tanto lontana.
- A meraviglia, tutto sommato. All’inizio è stato un po’ difficile, ma adesso va meglio. –
- Hai detto a tua madre che vuoi portare la macchina al tuo ritorno, no? –
- Si. E papà, è comodo! Per adesso non posso fare troppi turni serali, e tutte le volte devo trovare qualcuno che mi accompagni a casa. Mi secca un po’. E poi mamma la macchina non la usa nemmeno! –
Lo vide annuire, pensieroso, ma sapeva che gli stava dando ragione, in verità.
- Milena ci ha raccontato che a casa te la cavi bene, soprattutto a cucinare. Sapessi com’era sorpresa tua madre! E…ci ha detto del tuo coinquilino, che è cieco…come mai non ce l’hai detto? –
Sempre boccaccia larga, Milena. Le lanciò uno sguardo stizzito dallo specchietto, la quale lei rispose con un’alzata di spalle. Poi tornò a guardare fuori, poggiando il capo sulla mano destra.
Non gli andava di parlare di Dominik. Anche solo farne il nome gli faceva tornare alla mente la sensazione bruciante delle sue labbra contro le proprie. Una sensazione inspiegabile, dato che non si era mai verificata.
- Lo sai com’è mamma, se gliel’avessi detto avrebbe iniziato a tartassarmi di telefonate, a compatirlo e a cercare di aiutarlo, e Dominik odia queste cose. E’ un tipo un po’ particolare, e ho faticato parecchio per legarci un po’…se si fosse messa di mezzo mamma sarebbe stato peggio! –
Pensare a Dominik adesso era strano. Parlarne con suo padre era strano.
Quando era partito, aveva pensato che avrebbe lasciato il cassetto Dominik chiuso, pronto a riaprirlo una volta tornato a Milano. Parlarne adesso avrebbe significato portarlo fuori dal mondo ideale che si era creato per lui. Invece il cassetto si era aperto da solo.
- Ah, ha chiamato Manfredi, qualche giorno fa. Voleva sapere quando saresti tornato. Non gliel’avevi detto? – Milena dal sedile posteriore sbuffò. Odiava proprio sentir parlare di Manfredi.
- Eh?...No, io…sarebbe dovuta essere una sorpresa, sai – mentì. Aveva pensato per un attimo di tirar fuori una litigata, magari, ma non sapeva quanto Manfredi avesse detto ai suoi genitori.
Perché chiamare a casa sua, poi? Qual era il motivo?
Loro non si parlavano nemmeno più.
Suo padre svoltò a destra al penultimo semaforo prima di arrivare a casa.
- Comunque gli ho detto che saresti arrivato oggi, che magari poi l’avresti chiamato. Tanto viene a vedere le partite questo pomeriggio, no? –
- Si, certo. Ne abbiamo già parlato, ma oggi gli chiedo conferma – mentì ancora. Non era arrivato nemmeno da mezz’ora e aveva già mentito due volte. Iniziava proprio bene.
- Verrà, verrà! Tua madre ha preparato le sfingi! Lo sai quanto gli piacciono! –
Si, papà, lo so quanto gli piacciono. So quanto gli piacciono le sfingi, e le lasagne di mamma, e quanto gli piaccio anche io. Doveva chiamarlo per forza, invitarlo a casa, a vedere la partita, o qualcuno si sarebbe insospettito. E sarebbe stato meglio d’altronde vederlo così, preparandosi psicologicamente, piuttosto che magari incontrarlo in giro e dover far finta di nulla sentendo il cuore spezzarsi.
Se lo meritavano, loro due, di chiarire una volta per tutte.
 
 

§§§

 
- Adéla, è rimasta dell’insalata? –
- Si, la prendo subito. –
I passi della mamma erano un rumore soffocato sulla moquette della sala da pranzo.
Avevano sempre la stessa cadenza morbida.
Una volta aveva provato a suonarli. Erano un mi profondo e delicato.
Quelli del papà invece erano ancora più gravi, mentre quelli della nonna erano ravvicinati e soffici, a differenza di quelli di Aneta e di Jana, che invece trillavano.
Fece scivolare le mani sul tavolo, scontrandosi con la resistenza della tovaglia da tavola che copriva il legno liscio.
- Dominik, tesoro, vuoi ancora insalata? –
Sollevò il capo, stringendosi nelle spalle.
- No, mamma. –
- Ma non hai mangiato  quasi niente! –
- E dai, Adéla, lascialo stare…Quando avrà fame mangerà. E poi deve lasciare uno spazio per il dolce, vero? –
La nonna era sempre buona. Aveva la voce più roca dell’ultima volta che era stato a Praga.
Era la mamma della mamma, e viveva con loro da sempre, almeno da quando lui era nato, perché la mamma lavorava e aveva bisogno di aiuto con lui che non ci vedeva. Ed era sempre buona, con tutte le rughe e quella pelle morbida: gli era sempre piaciuto averla in salotto mentre suonava, perché lei stava sempre attenta sul serio ad ascoltarlo.
Le piaceva tanto la musica, anche non sapeva suonare nessuno strumento.
Nessuno a casa sapeva suonare, tranne un po’ la mamma, che all’inizio aveva preso lezioni con lui, ma poi aveva lasciato perdere perché sentire lui le piaceva molto di più.
La mano della nonna si poggiò sulla sua, che teneva poggiata sulla coscia. Era calda e morbida, un po’ rugosa e con qualche callo sulle dita, perché la nonna cucina sempre e ogni tanto si pungeva, perché non ci vedeva più tanto bene. Gli piaceva sentirlo suonare anche per quello, perché voleva che le insegnasse a vedere bene i colori e le cose come faceva lui, così quando davvero non avesse visto più niente non sarebbe stata triste, ma avrebbero potuto vedere le cose insieme.
Gli era sempre piaciuto insegnare le cose alla nonna. Imparava subito.
Però l’allievo migliore di sempre era Federico.
Pensare a Federico era strano, gli faceva stringere qualcosa nella pancia.
Cos’è, un modo cazzuto e orgoglioso per dire che sentirai la mia mancanza almeno un po’, tra tutta quella musica che hai nel cervello?Gli venne da sorridere, pensando a Federico, e la nonna lo scambiò per un assenso.
- Visto? Non ti preoccupare sempre, non è più un bambino! Mi farai sentire qualcosa anche oggi, dopo pranzo, vero drahà? –
La nonna lo chiamava sempre così. Tesoro. Diceva che non era solo un modo di dire, ma davvero lui era un tesoro che Dio aveva regalato loro per rendere il loro mondo un posto migliore, fatto di cose buone.
Inclinò il capo da un lato.
- Si. Cosa vuoi sentire, babi? –
- Quello che vuoi, quello che vedi. –
- A me piace tanto Chopin – sentì soffiare la mamma, con quella sua voce soffice che gli faceva venir voglia di sprofondare tra le coperte con lei. Però fece una smorfia.
- Chopin no. –
Non voleva suonare Chopin. Chopin lo faceva pensare a Federico, e non gli andava di suonare pensando a Federico, non per la mamma. Voleva vedere lei, ora che ce l’aveva così vicina che poteva finalmente sentirne il profumo dolce davvero, e non riesumarlo solo dai suoi ricordi.
- Allora suonerai quello che vuoi. Solo dopo il dolce, però! Devi mangiare. –
- Io mangio. –
- Mangi solo schifezze, Dominik! Non hai nemmeno toccato la carne, e di insalata ne hai mangiato si e no una foglia. –
Fece un’altra smorfia. La carne non gli piaceva particolarmente, e anche quando la cucinava Federico faceva sempre storie. Solo che Federico cucinava sempre cose particolari, che non sembrava neppure fosse carne. La mamma faceva solo carne alla griglia, e sapeva troppo di carne.
- Sta lasciando spazio nello stomaco per la cena della vigilia, domani sera, non è vero? E poi non stargli addosso così, è anche un po’ più in carne di quando è partito a settembre! –
La mamma si liberò in un mugugno di protesta, ma non disse altro. Era sempre troppo apprensiva, diceva il papà, ma a lui piaceva ricevere tutte quelle attenzioni da lei. Era così arancione, la mamma.
- Ho mangiato. Federico cucina cose buone. –
- Visto, Adéla? Non devi preoccuparti – chiuse il discorso la nonna.
Di Federico aveva parlato loro in lungo e in largo, non appena aveva messo piede a casa e gli avevano chiesto come stesse. Aveva raccontato del suo arrivo, del piccolo equivoco che c’era stato tra loro, delle cose che Federico cucinava e di tutto quello di cui avevano parlato. Aveva raccontato anche di essere uscito con lui, delle cose che aveva visto in giro per Milano, e di quello che avevano mangiato quella sera a cena fuori. Aveva parlato anche di Samuele e del suo sorriso, ma solo per un attimo, perché poi gli era venuta in mente quella volta che Federico era andato a sentirlo al suo saggio, e dei complimenti che gli aveva fatto.

Aveva parlato letteralmente per ore, per tutto il pranzo, e nel pomeriggio, e anche la sera, e la mamma lo aveva ascoltato tutto il tempo. Era contenta, aveva detto, che avesse trovato un ragazzo tanto gentile che fosse carino con lui e che non si annoiasse ad aiutarlo.
Lui l’aveva detto alla mamma che non ne voleva di aiuto, non lo cercava, ma che Federico era diverso perché era buono, e allora l’aiuto di Federico andava bene.
Avrebbe voluto parlare ancora con la mamma di Federico, ma non era stato possibile: non voleva assillarla, però voleva che capisse davvero come fosse Federico. Solo che uno come lui non lo si poteva capire davvero se non lo si conosceva, se non si sentivano i mutamenti del suo tono di voce, se non si captavano i suoi movimenti e i suoi gesti gentili.
Federico sarebbe rimasto un po’ una di quelle cose che tra lui e la mamma non sarebbero arrivate a essere comprese del tutto.
Si alzò in piedi.
- Vado a suonare. Vuoi venire, babi? –
- Arrivo subito. Dammi il tempo di prendere ago e filo. –
- Vengo anche io, amore – mormorò la mamma, con quel tono di voce morbido che usava sempre, come la principessa di una favola. – Cosa suoni? –
- Chopin – soffiò.
Perché Chopin era come vedere Federico.
 

§§§

 
Palermo – Atalanta 3 a 2, acinque minuti dalla fine.
Molto meglio della sua situazione. Vita di merda – Federico  4 a 0. A minimo cinquant’anni dalla fine.
Quel divano non era mai stato così scomodo.
Forse perché, troppo vicino, c’era seduto lui.
Manfredi era arrivato perfettamente in orario. Non aveva avuto il coraggio di chiamarlo al telefono, così gli aveva inviato un sms. Alle tre a casa mia.
E alle tre meno cinque minuti, come sempre, Manfredi aveva bussato al campanello.
Era andato lui ad aprire, e quando la mano si era poggiata sulla maniglia fredda, era stata come tornare indietro di qualche anno, quando tutto andava a meraviglia e lui aspettava con ansia che arrivasse il momento in cui avrebbe sentito il suono del campanello e avrebbe rivisto i suoi occhi verdi.
Questa volta aveva aperto la porta, se l’era trovato davanti, e gli era mancato il fiato.
Era la cosa più dolce che avesse mai visto, e allo stesso tempo gli stava stritolando il cuore solo con due dita, spremendogli tutto il sangue e tutta la vita.
- Ciao – era solo riuscito a dire, e lo aveva visto sorridere.
- Ciao – aveva mormorato anche lui, restando sulla soglia con le mani in tasca. Aveva scaricato il peso del corpo da un piede all’altro, abbassando appena lo sguardo. Tutte le idee di arrabbiarsi con lui perché aveva chiamato a casa sua, perché tentava di lambirlo così, perché era arrabbiato e basta, vennero meno. Riusciva solo a pensare a quanto fosse dolce il suo sorriso.
- Sei diverso – mormorò poi.
- Anche tu. –
Manfredi era sul serio diverso, però. Aveva il viso liscio, i capelli completamente castani, privi di quei colpi di luce che faceva a volte, e tutti tirati indietro. Era più magro, aveva il volto incavato e delle leggere occhiaie, ma stava sorridendo. Sembrava più maturo e più rilassato dell’ultima volta, come se fosse ormai pronto a tutto e senza più niente da perdere. Strafottente, quasi.
Però quando l’aveva guardato aveva avuto lo stesso scatto al petto di sempre.
- Non mi fai entrare? – aveva chiesto poi. E non era riuscito a far altro che sorridere, come un idiota. Sorridere, farsi da parte, e poi intercettarlo all’ultimo minuto.
L’aveva abbracciato, stringendogli le spalle, mentre lui era rimasto con le mani bloccate nelle tasche. Manfredi non lo abbracciò, non mosse le braccia, le mani.
Ma mosse il viso. Abbassò il capo, nascondendo il viso nell’incavo del suo collo, e quello era più di un abbraccio. Era una dichiarazione di resa incondizionata.
- Mi sei mancato – gli confessò, incapace di nasconderglielo.
- Anche tu – borbottò Manfredi contro il suo maglione, all’altezza della spalla.
Quando lo lasciò andare, Federico rimase a guardarlo così, con le mani sulle sue spalle, fissando quegli occhi dalle iridi verdi che brillavano. Allora lo aveva invitato a entrare, lo aveva visto salutare tutti, infilarsi in bocca un dolcetto intero, gonfiando le guance, e lasciarsi cadere sul divano dando una pacca sulla spalla a suo padre. Non sembrava passato tutto quel tempo, non sembravano neppure cambiate tutte quelle cose.
Sembrava che tutto fosse tornato indietro a pochi anni prima, quando tutto andava bene.
- Seeeeeeh, abbiamo vinto! –
Federico si riscosse, all’urlo di suo padre.
Il Palermo aveva vinto, suo padre stava festeggiando, sua madre preparava il caffè, e Manfredi sorrideva.
Era tutto così…dannatamente normale!
Gli faceva venire dentro una strana nostalgia che non avrebbe neppure dovuto contemplare.
Suo padre si alzò dal divano, dirigendosi in cucina da sua moglie. Milena e suo marito erano andati via subito dopo pranzo, per andare a far spese al centro commerciale, ma si sarebbero rivisti l’indomani.
La mano calda di Manfredi si poggiò sul suo ginocchio.
- Che dici, usciamo? C’è una bella giornata, non mi va di restare chiuso a casa. E poi Giuseppe e gli altri non vedevano l’ora che tornassi! –
Gli occhi di Manfredi brillavano. Gli sorrise.
- Certo che usciamo. Vieni, andiamo di sopra! –
Si alzò, ma non ebbe il coraggio di controllare se lo stesse seguendo. Ne era certo, d’altronde.
Sentiva il rumore dei suoi passi su per le scale, e poi lo scatto della porta della sua stanza che si chiudeva. Federico si voltò, con una vena di panico negli occhi e il cuore che perdeva un battito.
Manfredi si era chiuso la porta alle spalle.
Erano chiusi insieme, nella sua stanza, come era accaduto per anni, quando fingevano di studiare e invece si baciavano con l’adrenalina in circolo all’idea di venire scoperti.
Manfredi però stava ridacchiando.
- Perché ridi? –
- Pensavo a tutte quelle volte in cui, di domenica pomeriggio, venivamo qui con la scusa di dover fare i compiti e tu chiudevi sempre la porta di colpo e mi baciavi a tradimento. –
Rise anche lui, ripensando a quando Manfredi, poi, fingeva di non volerlo baciare, per poi finire a spingerlo verso il letto.
Tornò serio, lievemente a disagio, mentre lo vedeva dirigersi verso il letto e lasciarsi cadere, come se fosse esausto per chissà cosa.
- Questo letto è sempre comodissimo. Dovresti regalarmelo, dato che non lo usi! –
- Stanotte lo userò! –
- Che palle che sei – lo rimproverò, con uno sbuffo.
Vedere di nuovo Manfredi sdraiato nel suo letto, con le gambe penzoloni, lo riportava indietro di almeno tre o quattro anni.
Sarebbe stato così facile essere felici di nuovo. Sarebbe bastato semplicemente avvicinarsi a lui con calma, poggiare le mani sul materasso, ai lati della sua testa, e baciarlo mentre aveva ancora gli occhi chiusi. Allora lui non li avrebbe aperti, ma le sue mani gli sarebbero corse sulla schiena, sulla nuca, per intrappolarlo in un bacio. Gli sembrava quasi di sentirlo, il cuore di Manfredi che accelerava mentre lo baciava, il calore delle sue mani sulla pelle, e la bellezza del suo sorriso quando si fossero staccati e avessero abbassato le armi, dichiarandosi finalmente entrambi sconfitti.
Federico si umettò le labbra con la lingua.
Non l’avrebbe baciato. Non poteva, semplicemente. Non poteva illudersi che quella sarebbe stata davvero felicità; si, magari lo sarebbe stata per le prime settimane, i primi mesi, forse per un anno o due. Ma poi? Poi sarebbe rimasto ugualmente schiacciato da tutto quello che lo aveva soffocato fino a quel momento. E tutto sarebbe andato distrutto, di nuovo.
Manfredi non era abbastanza forte per sopportarlo ancora, e nemmeno lui.
E poi…che cosa avrebbe detto Dominik?
Cosa avrebbe pensato nel sapere che fosse crollato di nuovo, che avesse lasciato che Manfredi si riprendesse la sua vita, come se fosse una bambola di pezza nelle mani capricciose di un bambino viziato?
Non è che ti perdi, mentre non ci sono, vero? 
Si sentiva una morsa allo stomaco.
Si stava perdendo, si perdeva sempre quando c’era Manfredi: si perdeva nei ricordi, nel senso di colpa, nei suoi occhi verdi, nell’autocommiserazione. E, adesso, anche in tutto il resto.
- Anche io. Sono contento di rivederla. Però sarà strano. –
- Che cosa? –
- Che tu non ci sarai. Che non tornerai dal lavoro, non aprirai la porta e non poggerai le chiavi nella ciotola di vetro come fai di solito. Che non cucinerai e non guarderai la televisione sul divano, e che non dirai buonanotte sbadigliando prima di andare a letto. Che la mattina non ci sarà la tazza che mi hai regalato nel frigorifero, o il pane bianco sul tavolo. –

Gli mancava l’aria.
- Una volta mi hai detto che ho paura. E che mi privo di certe cose non perché non voglio farle ma perché ho paura e non voglio accettare l’aiuto degli altri. E mi hai detto anche che accettare l’aiuto degli altri non è sbagliato. –
- Quindi avevo ragione? –
- Tutti e due avevamo ragione. Diciamo che è vero che ho un po’ paura, e hai ragione tu. Mi privo di certe cose perché non mi fido delle persone, e delle cose che possono succedere, che possono andare male. Ma oggi mi sono divertito a uscire con te. E qui ho ragione io, perché l’aiuto degli altri non lo voglio. Accetto solo il tuo. –

Si passò una mano sul viso, scendendo fino al collo.
Nella sua mente, la mano di Dominik gli scivolava sulla pelle del viso.
- So che mi piace stare qui con te, però, che mi piace quando torni dal lavoro e mi chiedi come è andata e ascolti quello che dico, che mi piace guardare la televisione con te sul divano, e che in quei momenti non penso solo alla musica. E’ una cosa strana, per me. Io penso sempre alla musica, anche quando non sembra, perché lei è i miei occhi, e tu usi sempre gli occhi, vero? E penso che potrei restare così, perché con te è diverso, mentre io odio essere toccato da qualcuno, perché non posso vederlo. Ma con te non sono cieco. E’ come decidere di chiudere volontariamente gli occhi per un po’. –
Adesso aveva freddo.
Era la sua, quella mano fredda che aveva poggiata sul collo, all’altezza della clavicola.
- Tu fai un sacco di cose per me, ma ho la sensazione che non lo sai nemmeno tu perché lo fai. –
Lo sapeva, eccome, invece. Chiuse gli occhi, solo per un attimo. Credo che tu mi piaccia, Dominik, e non va bene. Non andava bene per niente: Dominik era un ragazzino indisponente, avrebbe dovuto dividerci la casa, pensava solo alla sua musica ed era etero, anche se delle ragazze e dell’amore non gliene importava un fico secco.
Non andava bene per niente.
- Federico? –
Si riscosse, lasciando ricadere la mano in basso. Manfredi lo stava fissando.
- A che pensi? –
- A niente – mentì.
Manfredi non lo incalzò: forse pensava che tutto quel malumore fosse legato a lui, al fatto che fossero di nuovo insieme così, soli in quella stanza dove avevano fatto l’amore decine e decine di volte, doveva avevano studiato, avevano pianto, e avevano imparato ad accettare se stessi. Cosa c’era da accettare, adesso, se non il fatto che tutto fosse andato a puttane?
Manfredi si stiracchiò, portando le braccia indietro.
- Allora, non mi racconti niente di nuovo? –
- Perchè volete tutti che vi racconti qualcosa? Non sono stato a fare una missione in Africa, vengo da Milano! – Manfredi rise, passandosi una mano sui capelli, tirandoli indietro.
- Hai ragione, scusa! E’ che si fanno domande così quando non ci si vede da tanto, no? Anche se tu sei stato comunque sempre qua, con me – confessò. Aveva abbandonato le mani sul materasso, il palmo ad accarezzare il morbido tessuto del piumone blu chiaro.
- Comunque ti ho preso un regalo per Natale, Fede. Te lo darò domani, però, e non lo aprirai prima di Natale! Lo sai che ci tengo! –
- Anche io ti ho preso una cosa - mormorò, e la mente era già partita per altri lidi.
- Dominik, senti…io…ti ho preso una cosa…è una specie di regalo di Natale, e avrei dovuto dartelo a Natale, prima che partissi, ma poi non te lo saresti goduto, quindi…aspettami qui, eh?  E’ una cosa da nulla, però ho pensato che ti sarebbe piaciuta. –
- Non dovevi comprarmi niente. Io non ho niente per te –
- E chi se ne frega, dai! L’ho vista e mi è piaciuta. Non avrei dovuto prenderla perché avrei dovuto pensare se mi avessi preso qualcosa tu? Non fare lo scemo e aprila! –.
- E’ una tazza? –

- Si. Però guarda il manico…è quello che mi è piaciuto! –
- E’ una chiave. E’ una chiave di violino vero? –
- Si! E sulla tazza è stampato un pentagramma con delle note. E’ bianca e nera, così…puoi vederla anche tu, più o meno… Ti piace? –
- Si. E’ bellissima. Non ne ho mai vista una. –
Dominik aveva sorriso in quel modo morbido.
Era come se si fosse acceso un faro.
Manfredi si era alzato in piedi, intanto, raggiungendolo alle spalle. La sua mano, caldissima, gli si era poggiata su un fianco: anche da sopra i vestiti avvertiva quella sensazione strana, come se un’onda anomala volesse travolgerlo, e gli mancava l’aria.
Non voleva che Manfredi lo toccasse, perché se Manfredi lo toccava lo prendeva il panico.
- E pure tu hai paura, cosa credi? Hai paura di qualcosa, quando sei da solo e resti a pensare, anche se non ho ancora capito cosa. –
Aveva paura di Manfredi? O forse di se stesso, e del modo in cui reagiva?
- Sei proprio strano oggi, Fede. –
Aprì gli occhi, tirando fuori un sorriso tirato.
- Io? Perché? –
- Mi nascondi qualcosa. – Gli occhi verdi di Manfredi lo stavano perforando adesso, come se avessero un martello e uno scalpello per distruggere il muro che aveva creato.
Non sarebbe mai riuscito a resistere a lui, a quegli occhi, e a quello che sapeva leggergli dentro e tirare fuori come una valanga pronto a sommergerlo. Però, alla fine, Manfredi sfuggì, con un lieve sorriso, e la valanga venne arginata.
Il suo corpo ricadde sul letto.
- Allora, tTi sbrighi? Devi fare la doccia? –
- L’ho fatta prima che arrivassi. Mi cambio e possiamo andare dove vuoi. –
Lo vide annuire, mettendosi seduto. Sembrava particolarmente interessato a qualcosa poggiata sulla sua scrivania, adesso. Solo quando guardò meglio, Federico si rese conto che non stesse guardando qualcosa sulla scrivania, ma dentro la scrivania. Il cassetto a sinistra.
Se lo ricordava benissimo, cosa c’era dentro.
Avevano studiato tutto il pomeriggio, prima dell’ultimo compito in classe di matematica, prima degli scrutini finali e dell’esame di maturità. Fuori pioveva a dirotto da tutto il giorno, una di quelle piogge di fine maggio che scassavano solo i coglioni.
Manfredi era seduto sulla sua sedia, quella con le rotelle, dietro la scrivania.
Lui era sdraiato a letto, a guardarlo giocherellare con la calcolatrice.
- Mi stai fissando. –
- Nah, non è vero. –
- Invece si, Fede. E’ perché sono bellissimo, lo so! –
Gli lanciò il cucino rotondo che teneva sul letto, ma Manfredi lo scansò con un movimento brusco, ridendo. Aveva una risata bellissima. Allora lasciò la calcolatrice sulla scrivania, e prima che potesse anche fare un solo movimento, se lo trovò addosso, che gli imprigionava il corpo e lo pizzicava su un fianco.
- Dai, dillo che non è vero, dillo! –
- Infatti non è vero, hai una faccia da cazzo! – lo prese in giro, ben sapendo di mentire. Manfredi rise, pizzicandolo più forte.
- Ah, è così? E allora che ci stai a fare con me? –
Commise un piccolo errore. Mentre lo colpiva, perse il controllo dell’altra mano, e Federico si liberò, e gli imprigionò il viso tra le mani. Gli occhi di Manfredi brillarono come se non avesse aspettato altro.
- Perché ti amo – gli soffiò sul viso. Le pupille di Manfredi si dilatarono insieme al soffio del suo respiro che veniva a mancare. Poi sorrise, e a tradimento gli morse una guancia.
- Però non riuscirai a corrompermi! –
Lo lasciò andare, mettendosi in piedi, e Federico si alzò dietro di lui, stiracchiando le braccia in alto e dirigendosi verso la sua scrivania. Prese il quaderno di matematica, per infilarlo nello zaino prima di dimenticarsene, e un pezzetto di carta scivolò fuori, toccando il legno della scrivania.
Era un pezzetto triangolare, strappato via da un foglio a quadretti. C’era scritto solo SEMPRE, nella calligrafia elegante e studiata di Manfredi. Quando si voltò a guardarlo, lui stava sorridendo.
- Sai, nel caso in cui te ne scordassi. Sempre significa per sempre. –
Gli sorrise.
- Non credo che me ne dimenticherò mai. Però questo lo tengo per ricordarmene quando sarò a un passo dal non sopportarti più! –
Il bigliettino finì sul fondo del cassetto, nascosto sotto tutto il resto.
Il cassetto si chiuse.
- Allora, ti devi cambiare o no? –
Federico si riscosse.
Il bigliettino doveva essere ancora lì. Non l’aveva mai tolto.
Però se ne era dimenticato. Sempre non era stato un per sempre.
 

§§§

 
- Allora, ti devi cambiare o no? –
Federico era uscito da quella specie di trance in cui era caduto, pensando a chissà cosa.
Sarebbe stato bello pensare che stesse ricordando qualcosa che riguardasse loro. Aveva desiderato per settimane e mesi che, ad un certo momento della sua vita, ci fosse qualcosa in grado di colpirlo, di ricordargli quanto si amassero, di farlo tornare indietro.
Però non era successo.
E il Federico che era tornato era diverso. Lui non se ne rendeva conto ma, come gli aveva detto al telefono, aveva iniziato a liberarsi di lui. Nel modo in cui sorrideva non c’era più la lieve malinconia che aveva prima, e nel modo di toccarlo, anche per caso, c’era solo l’affetto di una persona che gli voleva bene, senza quella straziante consapevolezza di doversi stare un po’ lontani.
Erano diversi i suoi occhi, perché erano stranamente vivi, e le sue guance così rosee, e non era merito suo.
Non era giusto.
E stare in quella stanza era soffocante, però doveva. Doveva essere se stesso, comportarsi come l’uomo che era sempre stato con lui. Forse, allora, Federico avrebbe cambiato idea e sarebbe tornato. Si sarebbe accontentato anche solo d riaverlo un po’ più vicino solo per quelle vacanze, sarebbe stato meglio del nulla. C’era sempre tempo.
Federico si avvicinò all’armadio, spalancandolo. Era sempre terribilmente disordinato, nonostante fosse un po’ più vuoto. Molta della sua roba doveva essere rimasta a Milano.
Tirò fuori un maglioncino leggero, grigio scuro, e un paio dei suoi soliti jeans scuri.
Lo vide mentre li sistemava sulla sedia dietro la scrivania, dopo averli studiati con quell’espressione indecisa che tirava sempre fuori. Poi, con noncuranza, poggiò le mani sul bordo inferiore del maglione che indossava, facendo per sfilarselo.
Fu allora che Manfredi sussultò, e gli occhi di Federico volarono a incontrare i suoi, incatenandoli.
Deglutì.
- Io…se ti da fastidio aspetto fuori, magari di sotto … - provò a dire.
Federico ci pensò. Era questo che faceva male, il fatto che adesso entrambi dovessero pensare: prima non era mai stato così. Prima erano spontanei, veri, potevano fare quello che volevano.
Adesso no.
Però, alla fine, Federico sorrise.
- Ma no, che dici! Ci metto un attimo. –
Si ritrovò ad annuire, fingendosi indifferente, ma ogni movimento di Federico era una coltellata allo stomaco. Le sue braccia che sollevavano il maglione, scoprendo la pancia, e il petto, si sovrapponevano alle sue mani che glielo sfilavano poche settimane prima, nel suo letto, a Milano.
Le dita di Federico scendevano sul bottone dei pantaloni, sulla zip. I pantaloni scendevano lungo le gambe magre, fino al pavimento, e quando sollevava i piedi, ad uno ad uno, per sfilarli, sulla pancia si formava una piega morbida.
C’era un desiderio sordo che gli bruciava nelle vene, adesso che Federico era nudo e poteva vederlo tutto. E si infuriava con quei boxer scuri, perché avrebbe voluto vederlo completamente, e con se stesso e con il mondo, perché avrebbe voluto toccarlo.
Si poteva essere amici così, desiderando di fare l’amore?
Anche Federico era teso. I muscoli delle gambe erano contratti, respirava più velocemente e meno profondamente, e le dita tremavano appena mentre cercava di infilarsi i pantaloni per il verso giusto.
E lui desiderava solo alzarsi da quel dannato letto e tendere una mano in avanti per poggiarla sulla pelle chiara del suo petto, dove lo sterno creava una depressione e una lieve peluria scura gli avrebbe solleticato le dita. Ma non lo fece, e tutto finì subito.
Federico chiuse il bottone dei jeans, sollevò la zip, infilò il maglione dalla testa.
Sollevò lo sguardo verso il suo.
Poteva giurarci, Manfredi, che i propri occhi fossero smarriti come quelli che stava guardando.
Però gli sorrise, perché Federico aveva bisogno di quello. Lui non era solo un uomo innamorato, un idiota che non aveva la forza di controbattere e che Federico stava allontanando perché qualcosa non era andata bene. Era soprattutto, ancora, un suo amico. Il suo migliore amico.
L’unica persona in grado di comprendere davvero di cosa avesse bisogno, e in quel momento Federico aveva bisogno che qualcuno gli sorridesse e gli dicesse che tutto andava bene.
Manfredi si mise in piedi.
- Allora, sei pronto? Usciamo o no? – Federico sorrise, uno dei sorrisi più belli che gli avesse mai visto addosso? – E non mi dire che devi sistemarti i capelli, perché io altre due ore qua non ci sto! Sei perfetto così! – Lo sentì ridere, dandogli una gomitata su un fianco.
- E va bene, pallosissimo che sei! –
Aveva vinto una piccola battaglia contro i capelli di Federico, che rappresentavano di fatto una sua piccola ossessione. Se solo avesse saputo quanto gli piacevano in quel momento, in cui era tutto spettinato!
Ma lo seguì giù per le scale, giocherellando con le chiavi della macchina, che aveva tirato fuori dalla tasca dei pantaloni.
- Ah, Manfredi! – Federico si voltò così repentinamente che per poco non gli finì addosso. Dovette aggrapparsi al corrimano delle scala per non urtare con il petto la sua faccia.
- Che c’è? –
- Niente, è che… - iniziò. Non lo stava guardando negli occhi, ma sembrava concentrato sul bottone del suo maglione che, per puro caso, si trovava davanti. Si stava tormentando le mani, reprimendo probabilmente l’istinto di prendere a rotearci le dita intorno. Aveva da sempre una fissazione per i bottoni, Federico. Però, poi alzò il viso, incontrando i suoi occhi, e gli rivolse un sorriso caldissimo. La sua mano, bruciante, si poggiò su quella che Manfredi aveva lasciato aggrappata al corrimano, e la strinse, un incrocio tra un abbraccio di mani e una carezza.
- Sono contento di essere tornato. -
Sapessi io







(1) Il titolo è tratto dalla canzone Come si cambia.
(2) Drahà vuol dire tesoro.
Babi è l'appellativo affettuoso che indica nonna.
Ovviamente in ceco. Inutile specificare che io scrivo in italiano, ma Dominik, a casa sua con la sua famiglia, parla in ceco.

Nota al capitolo 22:
Capitolo decisamente sconclusionato, e anche troppo poco!
Quello che deve emergere è che Federico non ha la benchè minima idea di quello che gli sta passando per il cervello in questo momento.
Cambia idea ogni tre secondi, inizia a pensare una cosa e finisce con il pensarne un'altra, e l'idea che ha di ogni cosa si modifica nel giro di un battito di ciglia. Si sente travolto da tutto quello che è successo, perchè, nel giro di pochi giorni, Dominik è passato da algido musicista a ragazzino un po' più umano.
Le vacanze sono ufficialmente iniziate, e sia Federico che Dominik sono tornati a casa loro. Siamo a domenica 23 dicembre, anche se si sarà capito.
Sono sicura che siate tutti contentissimi di ritrovare Manfredi, che certamente vi mancava (seh, come no!), ma molto più di rivedere Milena, che aveva fatto una buona impressione a tutti e che io amo! *_*
Come preannunciato su facebook, questo non è un capitolo importante quando il capitolo 23, che posterò molto presto perchè è quasi pronto! E come preannunciato, nel prossimo capitolo torna Mattia, che in molti aspettate con curiosità, e che io, ovviamente, adoro!
Spero che questo capitolo vi piaccia, perchè è stato parecchio difficile scriverlo: non ne voleva sapere di uscire come pretendevo io, e pensate che era pronto già ieri sera, ma oggi ho tardato a postarlo perchè l'ho modificato di nuovo.
Alla fine devo dire che sono abbastanza soddisfatta.
Vi lascio con il link alla mia pagina facebook: http://www.facebook.com/pages/100-sbavature-di-Esse/509052772480144 e con un enorme bacio.
Ringrazio tutti coloro che mi seguono, che mi sostengono e che non fanno mai mancare la loro presenza.
Alla fine di questa storia ci sarà una piccola sorpresa per tutti voi, una cosina da niente che però a me fa molto piacere. :D
Risponderò alla recensioni sempre piano piano, perchè sono piena di cose da fare, dato che lunedì riprendono le lezioni in università, ma voglio rispondere a tutti! ^_^
Un bacio, e a presto!

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Capitolo 24
*** 23rd: Porto solo il freddo, come l'inverno ***


Le cose non la smettono più di lasciarti.
Forse lo fanno perché sanno che devi procedere leggero, cercano di farti un favore.

Vinicio Capossela, Non si muore tutte le mattine, 2004




Chapter 23rd:  Porto solo il freddo, come l’inverno
 
Palermo era sempre la stessa città dove in giro c’erano più macchine che persone.
Uscire in automobile, la domenica pomeriggio, significava automaticamente restare imbottigliati nel traffico, ascoltando qualche nuova canzone alla radio.
La mano destra di Manfredi era stretta intorno al volante, le dita tamburellavano al ritmo della canzone che veniva fuori dalla radio. Era una canzone dance che era stata il tormentone dell’estate precedente, durante la quale stavano ancora insieme.
Con quella canzone, che un chiosco sulla spiaggia suonava alle cinque del mattino, loro ci avevano fatto l’amore dentro una tenda, che la gente intorno era così ubriaca che anche se un loro amico avesse aperto la cerniera e li avesse scoperti, l’indomani non si sarebbe ricordato di nulla.
Federico continuò a guardare fuori una coppia di ragazzi che camminava mano nella mano, una signora con un passeggino che attraversava la strada e un uomo che, parlando al telefono, camminava velocemente.
Poi la mano di Manfredi gli si poggiò sul ginocchio.
Federico si voltò verso di lui, e lo trovò che gli stava sorridendo appena.
- Dì la verità, ti mancava questo casino della domenica pomeriggio. –
- Eh, sapessi! Non penso ad altro da settimane! –
Risero entrambi, e Federico poggiò la mano sopra quella di Manfredi.
Lo sentì sussultare, ma non si mosse.
La verità era che toccarlo, mantenere quel contatto fisico, lo faceva sentire tranquillo, come se quell’equilibrio che inseguivano non lo avessero perso.
Toccare Manfredi era come ancorarsi a qualcosa che lo avrebbe fatto rallentare.
- Allora, dov’è che andiamo? – Manfredi rise.
- Non ne ho idea, veramente! Ho parlato con Giuseppe, e lo sai com’è, la domenica non esce mai se tutte le partite non sono finite, quindi prima delle undici non se ne parla!  - Fece una pausa, e la sua mano scivolò via perché la fila si muoveva, e doveva tornare sul volante. – Pensavo…che avremmo potuto fare un giro e cenare insieme da qualche parte – snocciolò alla fine, così velocemente che fu difficile captare tutte le parole.
Federico si passò le mani sulle gambe.
Cenare con Manfredi, trascorrere la sera con lui, gli pareva tutto irreale. Non l‘avevano mai fatto prima, però non c’era niente di male, no? Erano due amici, in fondo, e non gli andava di attraversare di nuovo tutta la città per tornare a casa e poi uscire nuovamente.
Senza contare che, una volta a casa, i suoi genitori avrebbero invitato sicuramente Manfredi a restare per cena, e loro due non erano poi ancora così stabili per affrontare anche quello.
Forse cenare solo loro due sarebbe stata la scelta migliore.
Però perché le cose arrivavano sempre quando non le cercava?
Perché Manfredi diventava la persona migliore del mondo adesso che proprio non doveva?
- Perché no? Hai idea di dove andare? –
- No…Possiamo fare un giro adesso, e poi si vedrà! –
Era più allegro, finalmente. Gli era sempre piaciuto vederlo sorridere.
I suoi occhi brillavano di una luce nuova. Da quando conosceva Manfredi, sin da quando erano  bambini, gli aveva invidiato quegli occhi verdi che facevano sognare tutte le ragazze e intrappolavano tutti i raggi del sole; poi, più avanti, quando era cresciuto e delle ragazze non gli era importato più niente, aveva iniziato a invidiargli quella luce che teneva sempre dentro quelle iridi verdi. Non avrebbe mai posseduto, lui, una luce così.
Manfredi superò un vecchietto che guidava peggio di un tartaruga, e riuscì a immettersi in strada, dove si guidava un po’ meglio. La conosceva bene quella strada: facevano sempre un giro come quello quando uscivano insieme, soprattutto nei primi mesi in cui Manfredi aveva preso la patente.
Tutto, in quella città, parlava di loro. Non c’era un posto cui non fosse legato un ricordo.
Era insopportabile.
Il cellulare nella tasca della sua giacca vibrò.
- Chi è? – si lasciò sfuggire Manfredi, salvo poi mordersi subito il labbro.
Federico guardò fuori dal finestrino, fingendo di non aver sentito.
Lo faceva sempre, Manfredi, di chiedergli chi fosse così, a tradimento, un po’ perché era curioso, un po’ geloso, un po’ perché gli andava e basta. Ma adesso non poteva, e non doveva. Lo sapeva anche lui, per questo si finse impegnato con i comandi della radio al volante, cambiando stazione e beccando una vecchia canzone di Lucio Dalla.
Federico abbassò lo sguardo.
Il cellulare rimandava l’immagine di una breve frase di Samuele che gli chiedeva se fosse arrivato, e lo informava di star andando a lavoro, augurandogli una buona serata.
Avrebbe dovuto chiamarlo, era stato un po’ stronzo.
Samuele era sempre stato buono con lui, sin dal primo momento in cui era arrivato a Milano, e fino alla sera prima lo aveva accompagnato a casa dopo il lavoro; e lui, da bravo stronzo, non era in grado nemmeno di fargli uno straccio di telefonata, per sapere come stesse, se andasse tutto bene, e per ringraziarlo.
Però non ce la faceva.
Chiamare Samuele avrebbe significato vedersi di nuovo nella mente i suoi occhi verdi, così diversi da quelli di Manfredi, che avevano dentro la lotta tra giusto e sbagliato, tra ragione e sentimento, tra la solitudine e Riccardo. Avrebbe significato riallacciarsi a Milano. E a Dominik.
Era un vero codardo. Anche nei confronti di Dominik. Soprattutto nei suoi confronti.
Come avrebbe fatto a guardarlo in faccia, quando fosse tornato a Milano?
Prima di partire, Dominik gli aveva lasciato il numero del suo cellulare, quello che usava per parlare con sua madre. Non che gli avesse proprio detto che gli sarebbe mancato o cose del genere, o che gli avesse promesso di chiamarlo: gli aveva semplicemente dettato una serie di cifre, perché lui le scrivesse.
- Così quando ti perdi mi chiami. -
Come poteva chiamarlo se la causa per la quale si stava perdendo era un po’ anche lui? Se non trovava il coraggio di chiamare nessuno?
La loro ultima sera insieme gli aveva insegnato addirittura a usare Skype. Era stato esilarante.
- Fammi capire, dal computer ci si può vedere, no? –
- Si, Dom. Se tieni la testa dritta e parli in direzione dello schermo, dove c’è la webcam, la persona dall’altra parte del computer può vederti e sentirti. –
- Mh. Per me è inutile. –
- No che non lo è! –
- Si invece! Io non ci vedo. Cosa mi importa? –
- A tua madre non piacerebbe vederti suonare, oltre che sentirti? Con Skype potresti passare magari un’oretta davanti al computer e farle sentire tutte le sere come suoni, senza pensare ai minuti che passano e ai soldi che ci vogliono per fare una chiamata al cellulare! Un’ora di connessione internet, con una chiavetta come la mia, non costa praticamente niente! Tu rispiarmi soldi, e tua madre può anche vederti ogni tanto. Quindi no, non è inutile. –
- Non ci avevo pensato. –
- E non fare quella faccia! –
- Quale faccia? –
- Quella da stronzetto snob che hai adesso. Sembri quasi un vecchio prete a cui Galileo cercava di spiegare la sua teoria sulla terra e sul sole! –
Dominik, a quel punto, aveva sorriso.
E poi aveva fatto lo stronzo, mollandogli uno gomitata sul petto proprio mentre si distraeva per spegnere il portatile. Quando lo aveva spinto sul divano per vendetta, assicurandosi però che non cadesse sul pavimento, aveva avuto anche il coraggio di lamentarsi, anche se non era riuscito a trattenere un sorriso. Per il resto della serata si era vantato dell’essere riuscito a padroneggiare il computer, e si erano punzecchiati per tutto il tempo.
Lui gli ricordava come non avesse poi fatto nulla, se non avergli detto i dati di sua sorella, che su Skype c’era, e aver fatto da intermediario con lei, e Dominik gli rispondeva a tono che aveva capito subito tutto, alla prima spiegazione.
Alla fine, Federico gli aveva promesso che si sarebbero sentiti, che Skype sarebbe stato un modo per potersi parlare senza dover spendere un sacco di soldi con il cellulare.
Invece non gli aveva mandato nemmeno un messaggio, anche solo per chiedergli se fosse arrivato, o per informarlo di essere ormai a Palermo.
Era come se, una volta fuori dai confini di Milano, Dominik non esistesse più.
E non era così, perché Dominik esisteva eccome.
Esisteva il suo profumo dolciastro, esistevano le sue fissazioni, le sue idee sui colori e sulla gente, il suo nervosismo, la sua paura del mondo, la sua cocciutaggine. Esisteva, solo che lui non ci doveva pensare. Non doveva lasciare che quella corrente lo trascinasse a fondo, perché andava troppo veloce, e le cose che andavano veloce finivano sempre per finire male.
Dominik era una creatura così buona e particolare, che non poteva permettersi errori.
C’era voluto così tanto tempo per avvicinarlo, per ottenere la sua fiducia, per costruire qualcosa. Non poteva permettersi di rovinare tutto così. Dominik non sapeva neppure che lui fosse gay, figurarsi tutto il resto. La sua vicinanza, quella complicità, quell’affetto, erano solo la tenerezza di un ragazzino lontano da casa che si stava appoggiando a lui perché rappresentava l’unico amico che avesse mai avuto nella sua vita. Una volta tornato a Milano, tutto sarebbe andato per il meglio.
Stare un po’ lontani lo avrebbe aiutato a riportare tutto in ordine, a dimenticare quella sensazione di vuoto che si sentiva nello stomaco. Sarebbe andato tutto bene.
- Fede, perché ridi? –
- Eh? –
- Qualcosa di divertente? – gli chiese ancora Manfredi, osservandolo con la coda dell’occhio mentre guidava.
- No, io…Scusa, Samuele mi ha detto che al locale c’è un tizio strano con una gonnellina leopardata, e mi sono distratto… –
Che bugia, quante menzogne che stava raccontando a Manfredi, la persona più importante del suo mondo. Ma non avrebbe capito, Manfredi. Non ci capiva niente nemmeno lui.
- Allora, dove mi porti a cena? -
 

§§§

 
Era stato bello crederci, fino a che era durato.
Samuele fissò di nuovo il cellulare.
Nessun messaggio. Nessuna chiamata.
Andava avanti così da una settimana.
Da quando Riccardo era andato via da casa sua, la domenica precedente, non c’era stato più niente.
Una chiamata al giorno, all’ora di pranzo, solo per sentirsi un po’, e poi nulla, che quello per lui era un periodo complicato, che suo figlio a scuola non andava troppo bene, che sua moglie era nervosa, e che tanto avrebbero passato insieme il Capodanno.
Alla fine gli aveva detto di sì. Preso da quella strana esaltazione, da quell’euforia magica dei due giorni passati insieme a casa, come una vera coppia, gli aveva detto di sì.
Aveva immaginato come sarebbe stato fare una vacanza insieme, ampliare quella felicità fino alla cima delle montagne, baciarsi allo scoccare della mezzanotte e poi fare l’amore, che chi fa l’amore il primo dell’anno lo fa tutto l’anno.
Invece era tornato tutto come prima, l’euforia era sparita, distendendo le sue dita nella solitudine che era tornata ad avvolgerlo. Se non altro, almeno, gli restavano il lavoro, e la palestra, e gli amici. Giovedì sera avevano passato una bella serata: il giovedì era la serata karaoke, e Samuele chiedeva sempre a Roberto di metterlo di turno quel giorno, per farsi quattro risate.
Anche Lorenzo lo faceva apposta, ma lui pretendeva anche di cantare, possibilmente Modugno, quando poteva. E Chicca, oh Chicca! Lei si faceva vedere poco, non essendo realmente una dipendente, ma le piaceva dare una mano a suo fratello, e adorava cantare: era stonata peggio di una campana, e ne era perfettamente consapevole. Solo che era estroversa, un po’ egocentrica e terribilmente autoironica, e si metteva sempre a cantare in inglese, che di inglese, proprio lei, non ne capiva proprio  una cippa. Anche Federico approfittava del giovedì per il turno serale, che tanto lo avrebbe accompagnato a casa lui, ma quel giorno aveva preferito il turno del pomeriggio: quando Samuele era arrivato per iniziare il suo, Federico aveva già il giubbotto sulle spalle e lo aveva salutato con un cenno e un sorriso.
Sembrava di buon’umore ultimamente, nonostante ci fosse sempre, ogni tanto, una vena di malinconia che se lo portava lontano. Un po’ come lui.
Erano così uguali, loro due, che Federico gli faceva paura.
Era tutta colpa di Manfredi, glielo aveva raccontato: la sensazione di vuoto, il senso di colpa, la rabbia e l’esasperazione per il non riuscire ad uscirne come vorrebbe, quando tutti loro credevano in lui e nella sua forza. E lo attanagliava, tutto quel terrore di rivederlo.
Era partito quella mattina, Federico, dopo il turno serale del sabato: lo aveva accompagnato a casa lui, la sera prima, e si era perso un po’ in quegli occhi scuri quando lo aveva sentito ammettere che non sarebbero state affatto delle vacanze facili, perché Manfredi sarebbe stato troppo vicino, e lui aveva paura di ricaderci, di fare una scelta sbagliata, di deludere se stesso e, perché no, un po’ anche lui.
Era così giovane, Federico, che non poteva capire.
Era fiero di lui proprio per quello che era, perché riusciva a vivere nonostante quel dolore profondo nel petto. Non avrebbe mai preteso, Samuele, che ne uscisse completamente: non sarebbe stato possibile.
Non si usciva mai davvero da amori così.
Però ne valeva la pena tentare, andare alla ricerca di una felicità a cui aggrapparsi per sentire meno il dolore. Si sarebbe affievolito tutto, con gli anni, e sarebbe rimasto solo qualcosa, ogni tanto al mondo, a ricordargli quello che era stato. Ma non sarebbe passato mai, sarebbe rimasto sempre lì, insieme ai ricordi.
Per questo non aveva mai trovato il coraggio di lasciare Riccardo.
Aveva paura dei ricordi. E del vuoto.
- Tieni, Sam! –
La voce di Lorenzo, un bigliettino sul tavolo con quella scrittura stranamente elegante per una mente vivace come la sua. Due vodka e redbull, un limoncello, un Bayles, due whiskey e un prosecco e ananas.
Prosecco e ananas.
Samuele sollevò il viso verso il tavolo dal quale era venuto Lorenzo, e non si sorprese a incrociare lo sguardo divertito e profondamente azzurro di un viso conosciuto.
Mattia. Mattia che lo stava fissando, così sicuro che si sarebbe ricordato di quel suo prosecco, di…quanti giorni erano passati? Nove? Dieci? Però Mattia era certo che se ne sarebbe ricordato, che avrebbe alzato istintivamente gli occhi.
Era a quel tavolo in compagnia di un gruppo di ragazzi, e Samuele li riconobbe subito: erano stati lì decine di volte, e forse, tutte le volte, c’era stato anche lui lì in mezzo, a fissarlo da quella sedia con quegli occhi azzurri.
Quella sera, però, Mattia si alzò, dirigendosi al bancone con un sorriso divertito sulla faccia.
Più che su quella, Samuele si concentrò su quello che aveva in testa.
- Mi stai fissando il cappello. E’ un modo per ricambiare le volte in cui ti ho guardato il culo? – lo sentì chiedere, mentre si lasciava cadere sullo sgabello e poggiava i gomiti sul bancone.
Samuele seguì il profilo elegante delle dita che gli si intrecciavano tra loro davanti al viso: erano un po’ tozze e corte.
- Come cazzo ti sei vestito? –
Gli era venuto istintivo, non era riuscito a trattenersi, e sì, non era risultato troppo gentile.
Ma, insomma, era davvero vestito malissimo.
Al di là di quell’osceno cappello a falde, di una fantasia a quadri tendente al verde che gli ricordava tanto la federa del vecchio divano di sua nonna, si era vestito in modo orribile. Portava una giacca a righe, sui toni del verde, sopra ad una maglietta completamente bianca, che gli aderiva al petto.
Forse se si fosse tolto la giacca, quella maglietta lo avrebbe salvato, nonostante il cappello.
Mattia lo fissò incredulo, portando le mani sulla giacca.
- E’ una giacca. Ne hai mai vista una, o usi solo magliettine terribilmente aderenti che lasciano poco spazio all’immaginazione? –
- Ma è di un colore orribile! E questo cappello poi! –
- Questo cappello fa di me un gran bel pezzo di figo – buttò lì, con sicurezza.
Samuele fece una smorfia divertita, allineando sul bancone i bicchieri che aveva tirato fuori da sotto il bancone.
- Il verde non ti dona. Dovresti mettere dei colori scuri, con gli occhi che hai. –
Gli occhi di Mattia si accesero in uno di quei sorrisi che lo rendeva quasi un gatto pronto a colpire il topolino a tradimento, magari alle spalle, da bravo stronzetto.
- Uh, un complimento malcelato. Mi sento quasi emozionato, sai? –
I bicchieri di whiskey si riempirono entrambi, subito dopo quello di Bayles. Poi ancora, due bicchieri di vodka e redbull, il limoncello, per ultimo il prosecco. – E comunque non mi piace vestirmi di scuro, è deprimente. -
Mattia prese il bicchiere prima che potesse porlo sul vassoio.
- Io lo bevo qui – disse semplicemente. Samuele fece un cenno a Lorenzo, e nel giro di un minuto quello era già passato a soffiargli il vassoio da sotto il naso, per portarlo ai ragazzi al tavolo.
A lui non rimase che mettersi a riempire i bicchieri con le tre birre chiare che avevano ordinato altre tre ragazze, che ad un tavolo all’angolo non facevano che ridere per qualcosa di divertente che doveva esser capitato loro,  forse perché erano semplicemente ubriache.
- Di solito ti viene meglio, questo prosecco. Senza offesa – soffiò Mattia, catturando di nuovo la sua attenzione. Samuele sorrise.
- E’ che in questo ci ho sputato, sai…perché mi andava. –
- Se volevi scambiare la saliva con la mia potevi baciarmi – gli rispose facendo spallucce, per nulla sconvolto, e mandando giù in un solo sorso il resto del liquido contenuto nel bicchiere.
Quando deglutì, il pomo d’Adamo si sollevò.
Era esilarante. E imbarazzante. E anche idiota, a dirla tutta.
Però il modo in cui stava sorridendo era esilarante e basta: non si stava nemmeno preoccupando di nascondere quegli occhi traboccanti di malizia e divertimento, né di dissimulare quella chiarissima allusione che aveva fatto. Era davvero, davvero esilarante.
Samuele poggiò i bicchieri di birra sul vassoio con più forza del necessario, e qualche spruzzo gli finì sul polso. Poi si voltò verso di lui, scioccando le dita delle mano sinistra.
- Accidenti, era proprio la seconda possibilità! Ho fatto la scelta sbagliata! –
Mattia sorrise, sollevando le sopracciglia. Con le dita rigirò il bicchiere sul bancone.
- Possiamo rimediare quando vuoi. Sono un tipo generoso. –
- Molto gentile da parte tua. Quando vuoi! –
Gli occhi di Mattia saettarono in alto, improvvisamente seri, fissandosi nei suoi. Lo fissava a testa alta, con quelle iridi azzurre che lo perforavano. Adesso che ci faceva attenzione non erano proprio azzurre: erano quasi bianche, come di ghiaccio, come se fossero trasparenti.
- Credi che io stia scherzando? –
- Dovresti. –
Lo vide alzarsi in piedi, facendo scivolare le mani sul bancone. Quando si sporse con il busto in avanti, riuscì ad arrivare proprio di fronte al suo viso: era alto quando lui, forse di più. Ed era così vicino che le falde del suo cappello gli sfioravano la fronte.
- Beh, non sto scherzando. Posso farlo anche adesso. –
- No che non lo fai, non hai la faccia per farlo, ragazzino. –
Gli occhi di Mattia brillarono. Era una luce che portava la vita, quella, ed era uno spettacolo prendersi così gioco di lui. Il viso di Mattia era un libro aperto: ci passavano dentro la sorpresa, il desiderio, l’imbarazzo, la malizia, tutte le volte che quegli stessi sentimenti gli stringevano il cuore.
Era così diverso da lui, che in tutta quella conversazione non aveva cambiato espressione.
Però, contrariamente a quanto si aspettava, Mattia non rimase sorpreso.
Semplicemente, si rimise a sedere con un sorriso luminoso in volto.
- Nah, tu non vuoi davvero che lo faccia, non c’è gusto. – Era tornato con le braccia sul bancone e le dita intrecciate davanti al viso.
Samuele poggiò le mani sul bancone, proprio davanti ai suoi gomiti.
- Sei parecchio sveglio, lo sai? –
Mattia fece spallucce. Aveva preso a giocherellare con un bracciale che indossava, un sottile filo d’acciaio tutto intrecciato. Sembrava che fosse una scusa per perdersi nei propri pensieri, più che vera intenzione di occupare il tempo in un passatempo peraltro così noioso.
Non aveva più voglia di parlare, probabilmente.
Samuele tornò a fare le sue cose, e per quasi un’ora Mattia rimase lì, seduto al suo posto, ora a giocare con il suo bracciale, ora a guardarsi intorno e sorridere a qualcuno che lo stava fissando. Quando si muoveva, Samuele ne approfittava per rivolgergli uno sguardo.
Era la cosa più dolce che avesse mai visto.
Era strano pensarlo, un tipo come quello avrebbe potuto ispirare qualunque cosa, eccetto la dolcezza.
Sesso, in primis. E magari anche simpatia. Ma la dolcezza no.
Eppure c’era qualcosa, nel modo in cui stava con la schiena curva in avanti, nel gioco delle sue dita sulle punte dei capelli, nel movimento a scatti degli occhi, che lo faceva sembrare un cucciolo. Era una dolcezza strana, ecco. Non era quella che ti faceva pensare a qualcosa da proteggere, da stringere, da nascondere al mondo. Non era fragilità.
Era una dolcezza migliore, di quelle che faceva solo venir voglia di lasciar cadere le braccia lungo i fianchi e farsi avvolgere, e con la quale accettare non solo la morbidezza, ma anche gli angoli spigolosi del carattere particolare che la portava.
Era così, Mattia. Particolare.
Mentre  lo guardava con la coda dell’occhio, lo sentì sbuffare.
Aveva lasciato cadere le braccia sul bancone, rinunciando al suo giochino con il bracciale.
-  Che palle…domani è la vigilia di Natale! – lo sentì borbottare, passandosi una mano sul viso.
Anche lui non era un fan delle festività natalizie, un po’ come lui, che tutta quell’esaltazione per le lucine colorate non la condivideva proprio. Che poi, a lui il Natale prima piaceva: gli piaceva quel calore, quell’incontrarsi, quel riunirsi in una casa e scambiarsi dei racconti, delle parole. Sua madre aveva sempre avuto la fissa di organizzare pranzo e cena e tutto quanto a casa loro, e quando la casa si riempiva così a Samuele veniva sempre da sorridere.
Non trascorreva il Natale a casa sua da vent’anni.
Chissà se sua madre organizzava ancora quelle cene, se qualcuno ci teneva ancora a quella scaramanzia di baciarsi sotto il vischio, se qualcuno chiedeva ancora del perché lui non ci fosse mai. Da quando a diciassette anni aveva confessato ai suoi di essere gay, non c’era più stato nessun Natale amorevole. Se l’erano tenuto in casa fino a diciotto anni, proprio perché dovevano, e alla fine gli avevano reso la vita così impossibile che, appena dopo la maturità, si era cercato un lavoro e se ne era andato.
Nessuno l’aveva fermato. Nessuno l’aveva cercato.
Per questo, che fosse Natale o meno, non gliene importava poi molto.
Samuele prese dalla lavastoviglie dei bicchieri appena lavati, pronto ad asciugarli e riporli al suo posto. Ne strinse uno tra le dita, iniziando a passarci sopra uno strofinaccio.
- Neppure tu sei un fan del Natale? – gli chiese.
Si rese conto solo allora che di Mattia non sapeva praticamente niente. Era appena la seconda volta che ci parlava, in tutta la vita. Pensava a lui come se conoscesse ogni sua singola azione, modo di pensare, di parlare, ma in verità non sapeva nulla di lui. Forse anche lui era un reietto per la sua famiglia, oppure era amato, adorato e compreso nonostante fosse gay. Lo vide fare una smorfia, pensieroso.
- Per niente. Ogni anno c’è sempre la solita sfilata di parenti con la puzza sotto il naso che non vedi per tutto l’anno e che proprio a Natale decidono di venirti a rompere i coglioni. E tu, ovviamente, sei costretto anche ad andarci, perché non sia mai che non ti presenti alla cena di Natale, che oltraggio! – Samuele rise del suo tono di voce stridulo, come se stesse imitando qualcuno, magari una di quelle vecchie signore snob che si vedevano sempre in certe commediole romantiche.
- Vivi con i tuoi? –
- Dio me ne liberi! – lo sentì dire, con espressione quasi scandalizzata. – No, vivo da solo, ho un appartamento in zona, vicino a dove lavoro. –
- Che lavoro fai? –
- Ho un negozio in franchising. Vendo sigarette elettroniche, E’ l’ultima moda tra i ricconi, sai. – Gesticolava con una mano mentre parlava, con noncuranza. Samuele poggiò il bicchiere asciutto sul bancone, prendendone un altro.  – E’ stato un modo gentile, da parte di mio padre, per farmi capire che avrebbe gradito non avere un figlio gay in casa. Non mi avrebbero mai cacciato, non sia mai che qualcuno pensasse di loro che siano degli omofobi del cazzo. Che poi non è che siano proprio omofobi…mi vogliono bene, a modo loro. E’ solo che avere un figlio gay non rispecchia proprio l’ideale perfetto di famiglia felice d’alto borgo. Ma non mi avrebbero mai cacciato di casa. Sono sempre stati stranamente gentili, cordiali e tranquilli. Ma quando mio padre mi ha proposto di darmi i soldi per aprirmi un’attività, ho capito che sarebbe stato meglio prendermi un appartamento e tornare da loro per le feste o cose così. Che poi è mia madre quella stronza, mio padre non è poi così male. –
Samuele si limitò ad annuire, continuando ad asciugare i suoi bicchieri.
- Tu che farai per Natale? – gli chiese poi.
- Starò a casa a guardare quei vecchi film di Natale che fanno tutti i cazzo di anni, e poi verrò a lavoro. –
- Lavorate anche a Natale? –
Samuele poggiò un altro bicchiere sul bancone. Erano perfettamente allineati.
- Quando non hai niente di meglio a fare a Natale, meglio lavorare. Roberto ha deciso di tenere aperto, se qualcuno si fosse dimostrato disponibile a lavorare. –
- E tu, Samuele? Lavori? – Quegli occhi azzurri adesso lo facevano sentire a disagio.
- Si. Il 25 nel pomeriggio, e poi il 26 sera. –
- Domani no? –
- No, domani….domani no – disse alla fine.
Il giorno della vigilia di Natale, Riccardo passava sempre a trovarlo. Non poteva passare le feste con lui, ovviamente: c’erano troppi parenti a casa e troppe cose da fare, per potersi allontanare. Però finiva di lavorare sempre prima e passava almeno per due ore a casa sua, per fargli gli auguri e stare un po’ insieme, scambiarsi un regalo. A lui dei regali non fotteva proprio niente, a dirla tutta. Avrebbe tanto voluto stare con lui per tutta la sera, cenare insieme, godersi il tepore del divano, delle coperte, addormentarsi insieme di fronte ad un vecchio film di quelli che, invece, ogni anno gli facevano solo girare i coglioni.
Erano tutte cose che non poteva avere. Tutte.
Sospirò, finendo di asciugare l’ultimo bicchiere. Poi li prese tutti, a uno a uno, per riporli nella mensola in basso a destra, insieme a tutti gli altri. Mattia stava seguendo con un dito il contorno del bicchiere da cui aveva bevuto, ormai vuoto.
- Ne vuoi un altro? – Lo vide fare una smorfia.
- No, va bene così. Comunque, allora che fai per Natale? Cioè, con chi lo passi? –
- Con nessuno - gli disse semplicemente. – I miei genitori non hanno preso proprio bene il fatto che io fossi gay, quindi che andassero a fanculo. Ho il mio lavoro, e i miei amici. Però a Natale mica puoi rompere agli amici. –
Fece spallucce, e Mattia sorrise, quasi intenerito dalla sincerità delle sue parole.
Poi poggiò le mani sul bancone, tutte e due, stendendo le dita. Gli faceva venire in mente quel gioco che si faceva da bambini, quando si metteva la mano su un foglio di carta e se ne seguivano i contorni. Ma la mano di Mattia sfuggì subito al legno liscio.
Lo vide alzarsi, con quel cappello ridicolo in testa, e tornare al tavolo da cui era venuto.
Una pacca sulla spalla a uno dei ragazzi, un sorriso divertito ad un altro.
Samuele gli diede le spalle, sistemando l’ultimo bicchiere.
 

§§§

 
Mangiare un gelato a dicembre non era un’idea geniale di per sé.
Ma mangiare un gelato a dicembre, in macchina, in una strada desolata esposta al vento…beh, quella era una cazzata e basta.
Forse per questo stavano ridendo.
- Certo che sei proprio coglione, Manfredi! –
- Io? Veramente è stata un’idea tua, carino! Come sempre! –
- Ma finiscila! –
- Tu smettila di leccare quel cazzo di cucchiaino così! –
Federico infilò tutto il cucchiaino in bocca, solo per ripicca, ma quando scoppiò a ridere, praticamente subito, rischiò quasi di soffocare, scatenando l’ilarità di Manfredi.
Avevano passato una bella serata. Avevano cenato in un pub, con un panino e delle bruschette, e si erano rimessi in macchina subito: poi avevano avuto un’idea apparentemente semplice, una di quelle cose che facevano spesso quando uscivano insieme.
Prendere un gelato al Mc Donald’s, due di quei barattoloni pieni di smarties, e andare a mangiarlo al loro  “solito posto”, una strada sterrata, solitaria, vicino al porto, dove l’odore del mare era pungente, anche se di mare non se ne vedeva nemmeno una striscia.
Manfredi era stato se stesso per tutta la sera.
Aveva sorriso, riso, fatto qualche battuta. E avevano parlato, ah, se avevano parlato!
Si erano raccontati tante cose, quello che avevano fatto, visto, pensato, i dolori che avevano vissuto, anche per colpa dell’altro, finalmente sinceri. E Federico si era sentito più leggero.
Adesso, davanti ad un gelato, però, stava solo morendo di freddo.
E Manfredi se la rideva.
- La smetti? –
- Perché, se no che mi fai, Manfredino? – lo provocò. Gli occhi di Manfredi si accesero di una luce maliziosa, mentre sollevava le sopracciglia.
Una volta, una conversazione iniziata così era finita con lui, rannicchiato tra il sedile e il volante, che gli sbottonava i pantaloni.
Non era stata decisamente una mossa astuta.
Federico scoppiò a ridere da solo e, anche senza sapere il motivo, anche Manfredi scoppiò a ridere.
Sembravano ubriachi, quando la cosa più pesante che avevano bevuto era stata una birra chiara, divisa in due. Erano ubriachi d’eccitazione, però.
Per due ore, finalmente, aveva smesso di farsi seghe mentali.
- Meglio se non te lo dico! –
- Non ne avresti comunque il coraggio. – Stava tirando davvero troppo la corda, forse.
Però Manfredi stava ridendo.
- Non sai nemmeno di cosa sto parlando! –
- Me lo immagino, guarda! Le cose a cui pensi tu le posso contare sulle dita di una mano, e quattro su cinque finiscono con te con i pantaloni alle ginocchia! –
- Non è colpa mia se tu sei troppo bravo… -
Gli lanciò un’occhiata dolcissima, in un battito di ciglia. Era densa e dolce come il miele.
Era paragonabile allo sguardo che avrebbe fatto una tigre per spingerti ad entrare nella gabbia e poterti azzannare al collo. Lo conosceva troppo bene per cascarci.
- Ok, d’accordo. Lo stai facendo apposta, vero? Stai facendo il faccino dolce per spingermi a farlo! –
- Ma cosa? – gli chiese, con fare innocente. Federico represse una risata.
- Un pom… - iniziò, ma la mano di Manfredi finì a tappargli la bocca, spingendolo con la schiena schiacciata sul sedile, mentre il suo corpo gli gravava addosso e lui se la rideva di brutto.
- Non dirlo, non dirlo! – lo pregò, con il fiato che gli restava dopo tutte quelle risate.
Era bellissimo quando rideva così. Gli aveva fatto dimenticare persino di avere le dita congelate e lo stomaco così pieno da non poterci mettere dentro nemmeno un sorso d’acqua.
Federico sollevò lo sguardo, incrociando gli occhi verdi dell’altro ragazzo, che lo stavano accarezzando con uno sguardo. Dopo lo sguardo, anche la mano di Manfredi scivolò via dalla sua bocca, sfiorandogli lo zigomo con una dolcezza disarmante.
- Certo che siamo proprio squallidi -  mormorò. Federico sorrise, e quando inspirò riconobbe nell’aria il profumo di Manfredi, quello della sua pelle, che lui i profumi non li tollerava proprio.
Manfredi scivolò via dal suo corpo, lasciandosi cadere sul suo sedile.
Federico si distese del tutto sul proprio sedile: lo aveva reclinato completamente, e dovette girare il capo un po’ a destra per avere la vista del cielo stellato sopra di loro. Non c’era una sola nuvola in cielo, quella sera, come se Palermo stesse cercando di corromperlo con la sua bellezza per convincerlo a restare e non tornare più a Milano.
Ma lui doveva tornare.
- Federico? –
- Che c’è? –
- Ti piacciono le stelle? –
- Credo che piacciano a tutti, Dom. –
- Come sono? –
- Mh…beh, sono…non sono niente di così particolare, alla fine. Sono dei puntini luminosi nel cielo scuro, di notte. La cosa bella, quella che fa dire alla gente che le stelle sono meravigliose, è il fatto che stanno in cielo sempre allo stesso modo. Quindi potresti guardare lo stesso pezzo di cielo da qualsiasi parte del mondo, e sarebbe sempre la stessa costellazione. Dicono che sia un modo, per due persone lontane, per sentirsi più vicine. –
- Tu ci credi? –
- A dire il vero no. Credo che due persone, se sono lontane, sono lontane e basta. –
Federico chiuse gli occhi, distogliendo lo sguardo dal cielo.
Si voltò alla sua sinistra. Manfredi aveva reclinato indietro anche il suo sedile, e si era sdraiato sul fianco. Quando si voltò a guardarlo, la sua mano gli raggiunse il petto.
Lo toccò solo con un dito, sopra al maglione, seguendo una traiettoria senza nessun ordine.
Poi sorrise.
- Certo che Tiziano Ferro scrive proprio cazzate – esordì, con la sua solita finezza.
La sua nuova uscita doveva essere dovuta al fatto che la radio stava mandando in onda una canzone nuova proprio di Tiziano Ferro: l’amore è una cosa semplice.
- Certo che se non spegni la radio si fotte la batteria e stanotte torniamo a casa a piedi – gli rispose. Manfredi si mise seduto giusto il tempo di spegnere quell’aggeggio infernale, e il silenzio ricadde tra loro come una tenda. Anche la sua mano gli ritornò sul petto, prendendo a seguire, questa volta, una regolare traiettoria circolare.
- Però davvero, quando mai l’amore è stato una cosa semplice? –
Federico si strinse nelle spalle.
Lo guardava, mentre lui era concentrato sulla mano che gli stava muovendo addosso, e non riusciva a vedere altro che la persona più importante del mondo.
Ed era un po’ semplice, in effetti: era sempre dire che Manfredi fosse una cosa bella, pulita, importante, e che nonostante tutto sarebbe sempre stato una parte importante della sua vita.
Pensò a Samuele, a quanto fosse apparentemente semplice per lui nutrire quell’amore struggente per Riccardo senza farsi convincere da nessuno a lasciarlo per il proprio bene.
Pensò anche a Dominik, alla semplicità con cui intendeva l’amore senza neppure conoscerlo davvero. Pensò a tutto quello, e non riuscì a far altro che vedere il viso di Manfredi davanti al suo.
Gli sorrise.
- Per noi due, mi sa mai! – Anche Manfredi sorrise, e la sua mano si fermò, sul petto, però senza staccarsi.
- Vero. –
Federico poggiò la mano su quella di Manfredi. Era fresca, come se il sangue avesse smesso di circolargli nelle dita e fosse tutto arrivato al suo viso, per rendergli le guance così meravigliosamente rosee. E anche se la sua mano era ferma, bloccata tra le sue dita, era come se gli fosse entrata dentro al petto e gli stesse stritolando il cuore.
Si sentiva così terribilmente in colpa.
Perché Manfredi doveva soffrire così? Non lo meritava!
E perché lui non doveva soffrire allo stesso modo?!
- Forse non è stato una cosa semplice per tutti i casini che ci siamo sempre portati dietro. Però amarti e basta…quello è la cosa più semplice del mondo – gli confessò, con un soffio di voce.
Il mondo sarebbe potuto finire, magari per la caduta di un asteroide, e non gli sarebbe importato. Non importava niente al di fuori dello sguardo caldo di Manfredi.
Gli lasciò la mano, ma Manfredi continuò a non muoverla.
- Anche per me – gli mormorò. – Ho avuto una bella vita, tutto sommato, con te. E’ stato bello finchè è durato. –
E’ stato bello finchè è durato. Era così che doveva finire? Con una constatazione vuota?
Era così che finivano gli amori migliori, dicevano i grandi.
Con il nulla.
La mano di Manfredi prese a muoversi di nuovo, in una lieve carezza che risalì lungo il suo collo, fino al viso, alla nuca, all’orecchio. Gli girò il viso così rapidamente che, anche se avesse voluto, non avrebbe potuto opporsi.
Si ritrovò semplicemente così, con la fronte di Manfredi attaccata alla sua e le labbra troppo vicine, così tante che avrebbe desiderato solo colmare quella distanza e baciarlo.
Quello avrebbe fermato tutto e finalmente sarebbe sceso dai pattini.
Chiuse gli occhi quando il soffio del respiro di Manfredi gli si infranse sulle labbra.
Aspettava un bacio, Federico, che però non arrivava.
Era così sicuro che lo avrebbe baciato. Aveva una debolezza così dolce, Manfredi, che avrebbe ceduto. Però non lo stava facendo: gli stava perforando la carne con le dita, gli stava respirando sulle labbra, aveva gli occhi serrati, ma non riusciva a baciarlo.
E non doveva, non era giusto. Non doveva baciarlo. Dovevano smetterla.
- Manfredi – lo chiamò, un lieve tono di rimprovero che, se avessero continuato così, si sarebbe tramutato in una preghiera. Manfredi affondò ancora le dita nella sua pelle, imprigionandogli il viso in quell’agonia.
- Non ti bacio, Fede. Te lo giuro. Però fammi restare così per un po’ – lo pregò.
Non c’era bisogno di dire niente.
Federico espirò appena, rilassando il corpo e girandosi su un fianco, per averlo più vicino. E allora Manfredi lo lasciò andare: le sue dita si rilassarono, e la stretta si tramutò in una carezza leggera che implorava un calore che nessuno dei due possedeva più.
Non riusciva a guardarlo negli occhi, per timore di quello che ci avrebbe visto dentro.
Manfredi sembrava tranquillo: con le palpebre appena abbassate, respirava regolarmente contro le sue labbra. Sarebbe stato semplicissimo baciarsi adesso…ma dopo?
Cosa sarebbe venuto dopo?
- E’ così che deve finire? – lo sentì poi mormorare. Aprì gli occhi a tradimento, e quelle iridi verdi lo inchiodarono. Spalancò la bocca, per rispondere, ma non riusciva nemmeno a inspirare l'aria, figurarsi a poterla espirare per parlare. – Con noi che non riusciamo nemmeno a governarci? –
La mano di Manfredi si mosse sul suo viso, in una carezza, e l’aria si sbloccò, uscendo fuori.
- A me sembra che ci governiamo benissimo. –
- Oh, andiamo, Federico! Avrei potuto baciarti, adesso, e non mi avresti detto di no. Avremmo fatto l’amore, dopo, e lo sai. – Federico deglutì.
- Allora perché non l’hai fatto? –
- Perché sei diverso. Da quando sei arrivato, e anche da prima, sei diverso. E non avrebbe senso. –
Federico chiuse gli occhi.
Aveva un magone, alla gola, che gli faceva venir voglia di urlare e basta. Gli vorticava tutto nella mente, e si chiedeva se non avesse sbagliato tutto, se non sarebbe poi stato meglio restarsene a Palermo, continuare a vivere con Manfredi e accettare i compromessi, pur di non trovarsi in quel vortice. Manfredi gli accarezzò il viso.
- Cosa ti succede, Federico? Lo sai che me lo puoi dire. –
- Sono confuso, Manfredi! Mi sento completamente perso! –
Stava quasi urlando, gli stava urlando addosso, urlava contro il suo viso dagli occhi sgranati, contro la sua mano che gli stringeva il viso, contro tutto quello che Manfredi aveva sempre rappresentato. Espirò, come se con l’aria potessero andar fuori anche tutte quelle paturnie mentali.
La mano di Manfredi seguì la linea della sua mandibola in una carezza leggera.
- Perché? –
- Credo che mi piaccia una persona – confessò, alla fine, e sembrò così facile farlo, in confronto alla difficoltà di sopportare lo sguardo di Manfredi che si spegneva. – E non va bene, perché significherebbe imbarcarsi in una cosa ancora più complicata di quella in cui sono ancora immerso fino al collo, perché lui è etero e non gliene frega proprio niente di me – snocciolò. Teneva gli occhi aperti, ma non riusciva a guardare Manfredi. Sapeva che ogni sua singola parola rappresentava per lui una coltellata in pieno petto, ma non riusciva a fare a meno di parlarne, di dirgli tutto, nell’inutile speranza che farlo potesse servire ad alleggerire se stesso. - Non dovrei nemmeno parlarne con te, scusa, io… -  Fece per scostargli la mano e mettersi seduto, ma Manfredi lo afferrò per un polso, bloccandolo contro il sedile con il viso vicino al suo.
- Non dire minchiate. Ascolta, Federico…prima di essere quello che siamo adesso, prima di qualsiasi cosa, tu sei il mio migliore amico, e io il tuo. Sono l’unica persona su cui puoi contare davvero. Puoi avere milioni di amici, a Milano, a Palermo, anche a Honolulu. Ma nessuno sarà mai come me. E con me devi poter parlare di tutto, hai capito? Prima di essere qualsiasi cosa, io sono tuo amico. Sono Manfredi, e basta. –
- Non dire tu minchiate, Manfredi. Lo sappiamo benissimo che non lo accetterai mai! –
- Non lo accetterò mai, infatti. Ma tu vieni prima di qualsiasi cosa, anche di me stesso. E se vuoi che vada così…beh, non va bene, ma me lo farò andar bene. – Un’altra carezza sul viso, che sembrava stridere come carta vetrata. – Federico…cosa c’è? –
- Non lo so…Mi sento un coglione che a venticinque anni non sa nemmeno cosa vuole. Sono patetico! –
Manfredi  non gli disse niente, non mosse un muscolo. Forse perché sapeva che erano patetici tutti e due.
- In effetti sei un po’ coglione. E sentimentale – disse alla fine. Quando Federico alzò gli occhi verso i suoi, vide che stava sorridendo, così, per alleggerire l’atmosfera.   - Però dai, Federico, sei così e basta! Cos’è che ti ha mandato così in crisi? –
Un ragazzino, avrebbe voluto dirgli.Un ragazzino che vede il mondo come nessuno di noi potrebbe mai fare. Però sapeva che non era solo quello, che c’era qualcosa ancora di più, alla base, che non lo faceva dormire la notte, e che non aveva niente a che fare con Milano.
No, aveva le sue radici proprio lì, a Palermo. Proprio su quella macchina.
- Non lo so, tante cose, credo – provò a dire, perché gli mancava il coraggio di dire la verità.
Solo che Manfredi aveva quella cattivissima abitudine di essere eccessivamente cocciuto, impulsivo, e di non possedere un briciolo di pazienza. Quando pretendeva qualcosa, semplicemente se la prendeva. E in quel momento lo aveva inchiodato con uno sguardo caldissimo che gli stava scavando dentro come un trapano.
Scavava, e trovava sempre.
- E’ per me. E’ per me, vero? E’ colpa mia -  soffiò. – E’ per me! Tu pensi che io ci starò male se ti metterai con qualcuno! –
Manfredi si allontanò da lui, lasciando che la schiena gli ricadesse pesantemente sul sedile. Non l’aveva mai sentito tanto lontano, nemmeno quando, a diciotto anni, si erano ritrovati a lottare contro se stessi e contro quello che stavano scoprendo di provare.
Poi si portò le mani tra i capelli.
- Mi sa che sei patetico sul serio, sai? E coglione.  – Una pausa, poi tornò a voltarsi verso di lui, dandogli uno schiaffo sulla spalla. – Dico, ma ti sei bevuto il cervello Federico?! –
Era furioso. Non aveva mai visto Manfredi tanto arrabbiato, da che ricordava.
E non riusciva a trovare il motivo, per cui essere tanto irato con lui. Federico si mise seduto, perché respirare da sdraiato stava diventando difficile.
Manfredi non aveva ancora finito il suo monologo.
- E’ normale che non la prenderò bene, ma chi lo farebbe? Siamo umani! Questo non vuol dire che non devi fare le cose per colpa mia, non lo sopporterei! –
- Ma non è solo questo… -
- E allora cosa?! –
Federico inspirò, aprendo il finestrino. Aveva sempre odiato quella manopola durissima, ma in quel momento non avrebbe potuto trovare nulla di tanto provvidenziale.
Lanciò fuori il barattolo vuoto del gelato, sentendosi un po’ uno schifo per non aver usato un cestino, ma al momento sentiva di avere preoccupazioni un po’ più importanti.
Il respiro di Manfredi accanto a lui era rapido,  il cellulare nella tasca pesava maledettamente, quasi quanto il senso di colpa nel petto.
- Tu devi smetterla, Federico. Tra tutte le cose buone che fai sempre, non hai tempo per sentirti in colpa! –
Espirò, passandosi una mano sul viso.
- Mi sento in colpa, ma non solo per questo. E’ che tu stai soffrendo come un cane, Manfredi, e lo vedo! E io…io non soffro quanto te, come se ti avessi lasciato indietro…e io avevo promesso che non ti avrei mai lasciato indietro!! –
Manfredi si mise seduto come lui, poggiando i gomiti sulle ginocchia.
- Fammi capire…tu stai male perché ti senti in colpa perché non stai male e io si? – Federico abbassò il capo. – Ma sei scemo?! –
Ci sarebbe voluta una domanda di riserva.
- Vuol dire che tu hai preso una decisione dopo una cosa brutta che ha fatto lui. E lui lo sa che è colpa sua. -
- Smettila Federico, finiscila sul serio o ti tiro un cazzotto che ti manderà in ospedale a vita, magari la smetti di dire stronzate! – Era sempre così fine, Manfredi, quando qualcosa lo irritava. Gli venne persino da sorridere, e lui lo prese come un buon senso, perché gli prese il viso tra le mani, voltandosi del tutto verso di lui. – Se siamo a questo punto, è colpa mia. Forse ci saremmo arrivati comunque, ma non possiamo saperlo. Ma se siamo qua è colpa mia, perchè forse se io avessi accettato  di affrontare i miei genitori, tu non mi avresti lasciato, non te ne saresti andato, e non saresti andato avanti. Adesso non ti puoi fare una colpa perché tu stai andando avanti e io no…vorrei avere la possibilità che hai avuto tu. Io ci tengo a te, Fede, e non voglio che  passi mesi e mesi a piangere per me…Mi farebbe anche piacere, egoisticamente, ma non voglio. Quindi smettila. – Federico abbassò lo sguardo, annuendo appena.
- D’accordo – soffiò. Manfredi lo scosse.
- Oh, Fede! Non sto scherzando, non mi fare incazzare! – La stretta sul viso si tramutò in una carezza, l’espressione dura in un sorriso. – Tengo a te da morire, lo sai. Mi sono attaccato a tutte le possibilità, fino alla fine. Sono venuto persino a Milano, credendo che tutto sarebbe tornato a posto, come succedeva sempre. Invece tu mi hai detto che dovevamo lasciarci andare… -
- Lo sai anche tu che è vero. –
- E allora fallo! Fallo tu, e lo farò anch’io. Ma tu non lo fai! Vuol dire che c’è ancora qualcosa, per noi… –
No, Manfredi, no!Una parte di lui avrebbe voluto urlarglielo, un’altra avrebbe voluto che fosse vero, per rendere tutto più semplice e affidare di nuovo tutta la sua vita nelle mani di Manfredi.
Sarebbe stata solo una bugia, però.
- Ecco…credo che nemmeno io e te siamo amici come tutti gli altri. Quindi sei al di là di quello, sei su un livello più alto. Se tu soffrissi, Federico, e io no…ecco, io mi sentirei in colpa. -  
Tentennò, nella risposta, e quando stava per aprire bocca il cellulare di Manfredi prese a suonare, con quell’orribile suoneria che teneva da tre anni e che aveva cercato di fargli cambiare ricorrendo a tutte le migliori opere di convincimento.
Lo sentì rispondere, borbottare qualcosa, attaccare velocemente.
Si sentiva dentro un palloncino pieno di elio che fluttuava in aria, su un pianeta senza gravità.
Manfredi tirò su il sedile, con un sorriso tirato.
- Era Giuseppe. Ci vediamo da Marcello e poi vediamo cosa fare. –
Federico annuì, azionando la levetta e avvertendo il peso del sedile che tornava aderente alla schiena, fornendogli un appoggio.
Fuori, il buio sembrava diventato ancora più buio, e il silenzio più opprimente.
Non faceva che pensare a Dominik, a Milano, a Samuele, e a tutto il resto. Era come se si fosse drogato di quel mondo, come se Palermo fosse ormai qualcosa di completamente estraneo.
Ma Palermo era sempre la stessa, non era cambiato proprio nulla.
Era qualcosa dentro di lui, allora, ad essere cambiata?
Era quella complessità di rapporti cui faceva sempre riferimento quando rispondeva a qualcuna delle domande di Dominik che lo aveva plasmato come cera malleabile tra le dita di un artista.
Era stato Samuele, con quella sofferenza dolce e quella forza, e anche Lorenzo, con la sua risata, e i clienti del locale, tutti sguardi e abbracci e anche un po’ battibecchi. Era stato anche Dominik, con quel suo modo strano di analizzare le cose eppure così diretto, che le beccava proprio al centro.
- Federico? – La voce di Manfredi giunse lontana, come da un sogno. Si fermò a guardarlo. Aveva già messo in moto, e teneva le mani ben salde sul volante. Non gli disse niente, si limitò a inclinare il capo da un lato per mostrargli di averlo sentito. – Allora finisce così? –
Una voce arrendevole, morbida come una carezza e dolorosa come una pugnalata, e una frase semplicissima, che avrebbero dovuto pronunciare chissà quanto tempo prima.
- Si, Manfredi. Finisce così. –
Finiva così.
O forse, avrebbe dovuto dire, iniziava così.









(1) Il titolo è un verso della canzone Parole di ghiaccio, di Emis Killa.

Nota al capitolo 23:
Come annunciato, il capitolo è arrivato.
Posto così presto perchè il capitolo è pronto, non resistevo all'idea di postarlo, e poi ho chiesto a voi, sulla pagina facebook, e la risposta è stata unanime. Quindi, ecco qui il capitolo!
Il prossimo richiederà un po' più di tempo perchè sarà più difficilotto da scrivere e il tempo è tiranno.
Però in massimo una settimana ce la dovrei fare!
Questo capitolo, come preannunciato, vede Mattia e Samuele, che non vanno da nessuna parte, e Manfredi e Federico.
Avevo annunciato un evento che aspettavo da molto e avrebbe cambiato le sorti della storia, e nonostante in molti aveste previsto un coming out, in realtà niente di così drastico.
Semplicemente questa è la fine  -e insieme l'inizio- di Federico, del Federico legato a Manfredi.
Federico si sarebbe sentito in colpa per il resto della vita, e chiunque -Samuele, Dominik, anche il mago Casanova- avrebbero potuto dirgli che non aveva senso, ma non ci avrebbe mai creduto se non fosse stato Manfredi stesso a scuoterlo.
A questa fine lavoro da parecchio, e per capitoli interi avete sentito Federico dire basta, tagliare tutto, senza mai farlo davvero.
Ecco, finalmente siamo alla fine vera, quella che mette il punto al rapporto malato e libera una parte di Federico.
Perchè adesso? Perchè fino ad adesso Federico non aveva sentito la necessità di liberarsi, di essere finalmente se stesso.
Adesso, invece, c'è un motivo, e avrete intuito tutti qual è, anche se Federico non ne è molto entusiasta.
Nel prossimo capitolo finalmente torna Dominik, e da qui in poi i capitoli non saranno più tanto introspettivi, ma più ricchi di eventi.
Spero che il capitolo vi piacerà, e di non tardare troppo con il prossimo!
Ringrazio sempre tutti, ormai sembra un disco incantato, ma è così...vi adoro!
Nella mia pagina facebook ho postato poi un video di Vladimir Ivanov, che presta il volto a Dominik, in cui è semplicemente dolcissimo! *_* La sua voce è quella che avrebbe Dominik, e anche il suo sorriso.
Solo il carattere è del tutto diverso, ma, ahimè, non i spuò avere tutto dalla vita! xD
Un bacione
Esse

 

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Capitolo 25
*** Stralcio I: Natale con i tuoi ***



Non è strano che a Natale qualcosa ti faccia rattristare tanto? Non so esattamente cosa ma è qualcosa a cui non dai molta importanza non avendolo provato in altri momenti.

Kate Langley Bosher



Stralcio I: Natale con i tuoi
 
I coglioni ormai toccavano il pavimento.
Mattia infilò in bocca un altro pezzo di panettone più per disperazione che per fame: magari sarebbe morto rapidamente e in modo indolore per un’iperglicemia fulminante.
Chissà se si poteva morire davvero di iperglicemia.
Erano appena le cinque del pomeriggio e già faceva pensieri del genere.
- E l’hanno chiamato proprio prima di queste  feste, capisci? –
- Ma è normale zia, con una laurea alla Bocconi era davvero assicurato che lo assumessero! –
- Ah beh. –
Ah beh che due coglioni.
Il giorno di Natale a Mattia non era mai piaciuto: c’erano sempre troppe persone, troppi obblighi da rispettare, troppi sorrisi da fare. Lo obbligavano sempre a indossare quei vestiti scomodi, la giacca e a sistemarsi i capelli, quando avrebbe preferito passare la mattinata a giocare con i regali come tutti i bambini del mondo.
Poi era cresciuto, e allora avrebbe preferito andare a bere qualcosa fuori con gli amici piuttosto che stare lì a sentire la paleolitica zia di sua madre ciarlare di come il nipote fosse stato assunto da una prestigiosa azienda subito dopo la sua fottutissima laurea nella sua fottutissima università.
Mattia giocherellò con il bracciale d’acciaio che portava al polso.
Gliel’aveva regalato Giulio per il suo trentesimo compleanno, giusto due mesi prima che mettessero finalmente fine a quella sottospecie di “storia” che c’era tra loro. Avrebbe dovuto chiamarlo per fargli gli auguri, adesso che ci pensava.
Aveva passato tutta la mattina a pensare a Samuele, a quello che gli aveva detto l’ultima volta che si erano visti al bar.
Però a Natale mica puoi rompere agli amici.
Avrebbe voluto dirgli che a lui poteva rompere quando voleva, e che anzi sarebbe stato più che felice di passare il Natale a bere birra con lui e sputare sentenze sui vecchi film piuttosto che starsene in quella casa troppo pulita con i suoi. Non che non volesse loro bene, per carità: solo che erano troppo diversi, lui e loro.
Non sopportava più il loro modo di ignorare il fatto che fosse gay, di vivere nel loro bel mondo di cene del weekend e di lavoro ben retribuito, di profumi costosi e di figli da vantare come trofei.
In fondo, poi, era sua madre che capiva di meno: quel suo costante bisogno di mettere ordine, la sua mania di controllare sempre tutti, persino lui, con quelle frecciatine che lanciava sempre per il suo bene. Suo padre era molto più diplomatico.
Devi imparare a essere stronzo nella vita, Mattia. Solo se sei stronzo vai avanti.
Lo aveva imparato bene, tutto sommato, ma solo con chi diceva lui.
Suo padre, invece, lo applicava un po’ a tutti.
Mattia si alzò in piedi, spostandosi nel balcone e socchiudendo l’anta alle sue spalle.
Adesso, finalmente, le voci squillanti delle signore arrivavano attutite.
Aveva bisogno di fumarsi una sigaretta. Era un po’ comico che uno come lui, proprietario di un negozio che vendeva sigarette elettroniche, non avesse intenzione di usarne neppure una e continuasse a fumare beatamente.
La verità era che quelle cose di plastica non gli davano alcuna soddisfazione.
Lui fumava poco, una volta ogni tanto quando era nervoso, e voleva che, almeno quando lo faceva, fosse soddisfacente al punto giusto.
Tirò, schiudendo le labbra intorno al filtro, poi soffiò il fumo dritto verso l’alto, nell’aria fredda del pomeriggio di Milano.
- Mi fai fare un tiro? – lo apostrofò una voce.
Mattia sbuffò nello momento in cui sentì l’infisso chiudersi di nuovo, e quella presenza asfissiante dietro le spalle.
- Massi, ma sei peggio di una cozza?! –
- Mi annoio di là con loro. Perché non usciamo? Mi porti in qualche bel posto con i tuoi amici. –
Mattia fece un altro tiro, più lungo del precedente, e si concentrò a osservare le volute di fumo che si diffondevano di nuovo nell’aria fredda, fino a scomparire contro il cielo già un po’ scuro.
- Punto uno, tu con i miei amici non ci esci. Punto due, i posti che frequento io non fanno per te. –
-  Chi te lo dice questo? –
- Lo dico io. –
Massimiliano era suo fratello.
C’era una differenza d’età abissale tra loro: mentre lui stava per compiere trentaquattro anni, Massi ne avrebbe compiuti diciannove a marzo, e frequentava l’ultimo anno di liceo classico.
Avrebbe fatto l’avvocato, come papà.
Era l’orgoglio dei genitori, alla fine, il figlio maschio da mostrare al mondo, ancor più importante di Marina, la figlia sposata all’imprenditore importante. Figurarsi del figlio gay che vendeva sigarette elettroniche e aveva preso una laurea in Filosofia solo per far contenti loro.
Mattia e Massimiliano si somigliavano in modo disarmante: gli stessi occhi azzurri, gli stessi capelli neri, lo stesso sorriso largo e le stesse labbra non troppo carnose. Mattia aveva il viso più allungato, più spigoloso, ma lo doveva probabilmente al suo essere ormai un uomo fatto, quando Massi non era altro che un ragazzino dallo sguardo dolce e dal sorriso di una bellezza disarmante.
Un ragazzino che lo venerava, quasi.
E lui, alla fine, gli voleva bene: voleva bene a lui molto più di quanto ne volesse a quella stronza di Marina, e di quanto ne riuscisse ancora a volere ai suoi genitori.
Solo che lo snervava da morire.
Perché Massimiliano lo adorava, così tanto da essersi sempre fissato nell’imitarlo in qualsiasi cosa: il colore preferito, il cibo preferito, il tipo di amici, alcune espressioni che utilizzava quando parlava. Si era messo in testa, persino, di mettersi a fumare, salvo poi lasciar perdere, a quindici anni, quando dopo la prima sigaretta aveva vomitato nel bagno padronale dove suo padre poggiava le chiappe tutte le mattine. Sarebbe stato anche divertente e lusinghiero se, nella sua tendenza a imitare il fratello più grande, Massimiliano non si fosse convinto di essere gay.
Peccato che non fosse vero.
Per quanto si somigliassero fisicamente, Massimiliano era la sua antitesi: un po’ timido, riflessivo, calmissimo, intellettualoide e terribilmente irritante e logorroico quando ci si metteva.
Aveva la dolcezza insita nello sguardo, insieme a quella morbidezza di movimenti che lo rendevano un ottimo rappresentante della categoria dei rampolli di buona famiglia.
Ed era testardo, dove lui, invece, preferiva lasciar perdere quando qualcosa non andava, perché si annoiava per tutto. Era fin troppo testardo, Massi.
Arrivava spesso persino ad irritarlo, soprattutto quando si presentava a casa sua alle dieci di sera perché aveva comunicato ai genitori che avrebbe dormito da lui, quando invece avrebbe solo voluto che lo portasse in giro da qualche parte. Tutte le volte la scena si concludeva con Mattia che lo infilava a letto, sotto tre strati di coperte, e l’indomani lo accompagnava a scuola in macchina. E, ovviamente, anche i suoi progetti di uscire e incontrare qualcuno andavano a puttane.
La sigaretta, ormai finita, volò giù dal balcone, e quando raggiunse la strada era già così lontana da
non riuscire più a vederla.
- Devi smetterla con questa storia, e sono serio adesso – sibilò alla fine.
Massimiliano si appoggiò con un fianco alla ringhiera lavorata, e il suo corpo flessuoso parve modellarsi come creta intorno alle sbarre: le gambe incrociate, i fianchi, le spalle.
Il maglioncino a V lasciava intravedere il colletto della camicia lasciata un po’ sbottonata, mostrando la pelle chiara del collo. Avrebbe fatto morire ogni uomo al mondo con quel corpo.
Se fosse stato gay. Ma non lo era.
E tutte le volte che glielo ricordava lo vedeva sbottare con le guance tutte rosse.
- Anche io sono serio! –
- Ma non sai nemmeno di cosa stai parlando, sei un ragazzino! Fino all’anno scorso baciavi la ragazzina del liceo e adesso ti metti in testa di essere gay! –
- Non me lo sono messo in testa! –
- Sì invece! E devi smetterla di stressarmi! –
- Non fare lo stronzo, Matti! – La sua voce era colma di rabbia, e stava già gesticolando, ma si era incrinata appena, come tutte le volte in cui sentiva che, nonostante tutto, suo fratello non lo stesse appoggiando. Ma come si faceva ad appoggiarlo in un’occasione così?
Si voltò verso di lui, arrivandogli a un passo dal viso, come un predatore.
Guardarlo negli occhi era come guardare se stesso allo specchio, però gli occhi di Massimiliano erano più rotondi e appena un tono più chiari, come una landa ghiacciata di primo mattino.
- Ascoltami bene, Massi. Essere gay non è una moda, né tanto meno un modo per sentirti figo a scuola o per fare incazzare papà. Non si sceglie. Se vuoi uscire con me bene, se vuoi venire a casa mia fallo, ma smettila con questa storia. Tu non sei gay. –
- Come fai a esserne sicuro? – lo provocò, spruzzando amor proprio da ogni poro della sua pelle di porcellana. Non aveva nemmeno la barba quel ragazzino. Mattia rimase in silenzio: ne era sicuro e basta, l’avrebbe capito. Avrebbe visto nei suoi occhi quello che aveva visto, per anni, in se stesso: la sorpresa, il rifiuto, il senso di colpa, poi l’accettazione e la lotta, quel costante divario tra la voglia di vivere e il pensiero che, magari, avrebbe potuto mandare tutto a fanculo.
Massimiliano non sapeva cosa significasse essere gay per davvero: per lui era facile, perché vedeva suo fratello così, sereno e strafottente di fronte agli sguardi un po’ scettici di sua madre. Ma non aveva idea di cosa significasse trovarsi a letto, a volte dopo una giornata di merda, e chiedersi per quale motivo non fosse nato etero come tutti gli altri, che sarebbe stato più facile. Poi si diceva che era un coglione, perché preferire una donna a un uomo era proprio da scemi. Però avrebbe reso tutto più facile. Ed ecco, negli occhi di Massimiliano non c’era mai stato tutto quello.
Era tipico del genere umano vedere troppo brillante una situazione di schifo che non gli apparteneva. Se fosse stato davvero gay, sarebbe stato disperato, perché non aveva il suo stesso carattere: Massi non era forte, non era in grado di reggere gli sguardi duri di suo padre e le frecciatine di sua madre. Sarebbe stato sconfitto, e non gli sarebbe piaciuto per nulla.
Ma in quel momento, a diciotto anni e con le guance infuocate, lo guardava trionfante.
– Visto? Tu sei gay, e non si vede. Non sei uno di quelli effeminati, e lo dici anche tu che quella storia che i gay si riconoscono tra loro è una stronzata. Quindi perché vieni a dirmi che io non lo sono? Da cosa lo capisci? Io sto dicendo solo che sto cercando…di capire quello che voglio. –
Mattia si allontanò dal viso di suo fratello con un’emicrania terribile.
Non ne poteva più di quelle conversazioni che puntualmente finivano con una pacca sulla spalla o un abbraccio. La verità era che non riusciva a essere stronzo con suo fratello: con Marina ci riusciva benissimo, per quanto era stronza lei, ma con Massi no. Era tenero persino il modo in cui parlava.
Il punto era che Massi non capiva. Non era gay, e non stava cercando di capire.
Semplicemente, stava cercando di fuggire dalla gabbia dorata che i loro genitori gli avevano costruito intorno, e lo stava facendo nel modo che gli pareva più facile: convincersi di essere gay, come lui, per essere allontanato da casa e far venire meno quella pressione che aveva sulle spalle.
Lui lo aveva sempre saputo che Massi fosse un po’ debole: lo era a scuola, quando piangeva per un  brutto voto, o quando soffiava un va bene deluso se il loro padre non aveva partecipato alla recita di natale della scuola. E non era un male: era adorabile per quella leggera debolezza.
Non era nemmeno cattivo; inconsciamente, nella sua debolezza, era davvero convinto di poter essere gay. E lui doveva solo seguirlo fino a quando non avesse finalmente capito di non esserlo.
Espirò, portandosi una mano sul viso.
- Ascolta,  te l’ho ripetuto migliaia di volte. Tu non sei gay. Non sei mai stato attratto seriamente da nessun ragazzo, e all’uscita da scuola baci le ragazzine bionde con gli occhi da cerbiatto….Sì, ti ho visto l’altro giorno, quando sono venuto a prenderti. Quindi smettila di cercare di convincerti di poter essere gay solo perché magari hai visto un ragazzo oggettivamente bello e l’hai trovato carino. Anche io quando vedo una bella donna lo ammetto, ma questo non vuol dire che io sia etero. E anche se sei mio fratello, non è scritto nei geni che sei gay. Quindi, per piacere, smettila. –
Massimiliano abbassò lo sguardo verso il pavimento, con l’aria un po’ delusa.
Era la prima persona al mondo che vedeva delusa per il non essere gay.
E questo la diceva lunga sulle capacità genitoriali dei coniugi Garolfi.
Ma il ragazzino alzò di nuovo il viso, con uno scatto così repentino che le ciocche di capelli che teneva sulla fronte gli finirono sugli occhi.
- Va beh, lascia stare, tanto fai sempre così, non mi credi. –
Avrebbe voluto strozzarlo. Strozzarlo e poi sbattergli la testa contro il muro.
Invece infilò le mani in tasca con forza, stringendosi nelle spalle. Fuori faceva freddo.
- Sei mai stato attratto seriamente da un ragazzo, Massi? – gli chiese poi, a bruciapelo, e lo vide arrossire su quelle gote lisce.
- Io… - iniziò, ma lo fermò.
- Hai mai visto qualcuno e pensato cazzo se è bello, e desiderato solo che ti guardasse, che ti toccasse anche accidentalmente la spalla, che ti accarezzasse? Hai mai pensato a come sarebbe assaggiargli le labbra, o toccarlo? –
Massimiliano prese a fissarsi i piedi, disegnando con la punta dei segni curvi sul pavimento.
- No, ma è perché non ho mai incontrato quello giusto e… -
- Cazzate. Incontrare “quello giusto” – iniziò, mimando le virgolette con le dita – significherebbe parlare d’amore già, di qualcosa di serio. Io ti parlo di attrazione, e quella puoi provarla per chiunque, pure per lo stronzo che incontri sempre dal panettiere. E invece sei attratto dalle ragazzine della tua scuola che ti sbaciucchi tutti i giorni perché ti cascano ai piedi con due moine. –
 - Ma cosa c’entra? Io…loro sono carine, mi piace baciarle, ma non è quell’attrazione che dici tu che… - Lo fermò di nuovo, con un sorriso trionfante.
- Allora è qui che devi parlare a modo tuo. Le baci tutte, fino a quando troverai quella giusta. Ma non sei attratto dagli uomini, ergo non sei gay. Fine della filippica. –
Massimiliano non fiatò per tre minuti buoni: o aveva finalmente capito e accettato la verità, oppure esaurito le argomentazioni e stava ricaricando le batterie per tirare fuori il discorso in un altro momento.
- Matti… - lo chiamò poi, in un soffio di voce. – Dai, usciamo? Non voglio stare con i vecchi. –
Mattia si passò una mano tra i capelli, poggiandosi anche lui alla ringhiera del balcone.
Era convinto che gli avrebbe davvero detto di sì.
Ma lui aveva pensato ad altro in quei minuti di silenzio.
- E tu, Samuele? Lavori? –
- Si. Il 25 nel pomeriggio. -
- Ti prometto che domani usciamo, va bene? Adesso esco solo io, devo andare in un posto. –
- E non posso venire con te? –
- No, Massi. Lì no. –
Lo udì sbuffare e chiudersi in quella dolcissima espressione di delusione.
Erano così diversi anche in quello.
Massimiliano ispirava dolcezza e un tipo d’amore come quello che si vedevano nei film, due corpi stretti tra le coperte a scambiarsi tenerezze. Lui, invece, ispirava sesso.
Diede un altro sguardo a quegli occhi azzurro cielo.
- Davvero, Matti, perché non capisci? Se uscissi con te, se fossi come te…sarebbe tutto più facile. –
- Ma non lo sei, Massi. Fattene una ragione. E, fidati, quelli come te sono molto più felici, al mondo, di quelli come me. –
- Perché, tu non sei felice? –
Mattia fece spallucce.
- Non importa. Però mi rompe il cazzo che gente che lo meriterebbe, invece, non lo sia. –
 

§§§

 
Samuele l’aveva notato più di un anno prima.
Stava dietro al bancone di quel bar, dove lui era arrivato portato dal solito gruppo di amici, e stava riempiendo un bicchiere. Un ragazzo aveva ordinato un prosecco e ananas, e lui aveva ammirato quei gesti carici di una tensione virile che non aveva mai visto.
Gli piacevano i tipi così, da sempre. Quelli che, a guardarli, ti saresti chiesto se ti avrebbe spaccato la faccia o sbattuto su un letto fino al mattino dopo.
Non gli si era avvicinato molto, perché allora non aveva avuto nessuna voglia di imbacarsi anche in una vuota storia di sesso, anche perché aveva avuto la netta sensazione che uno come quello non fosse fatto per storie di quel tipo.
Alla fine, dopo più di un anno, aveva deciso di parlargli, e chi se ne fotte.
Ogni volta che guardava Samuele, Mattia ci vedeva dentro una strana tensione.
Traspariva da ogni suo gesto, da ogni sorriso, da ogni modo di fare: una tensione che rendeva continui i suoi gesti e li amalgamava con quella che gli riempiva lo sguardo.
Anche quel pomeriggio, nel locale semi-vuoto il giorno di Natale, i gesti di Samuele erano tesi.
Ma la solita tensione era ora tesa fino all’esasperazione. La vedeva nel modo in cui passava uno straccio sul bancone, o sistemava una bottiglia su una mensola, o controllava lo schermo del cellulare adagiato su un ripiano dietro di lui.
Mattia pensò che con quella tensione che aveva addosso, se l’avesse baciato in quel momento Samuele l’avrebbe letteralmente sommerso e distrutto.
Però non aveva il coraggio di farlo.
- Beh, non sto scherzando. Posso farlo anche adesso. –
- No che non lo fai, non hai la faccia per farlo, ragazzino. –
Ne aveva avuto la possibilità, e in quell’occasione, se l’avesse baciato, Samuele non si sarebbe neppure arrabbiato. Ma gli era mancato il coraggio di fronte a quegli occhi verdi e a quel corpo imponente.
La verità era che, dalla prima volta che l’aveva visto, aveva avuto in testa solo il desiderio di andarci a letto e farci sesso anche solo per una notte. Sarebbe stata una notte magnifica con uno con un corpo così. E adesso che ci parlava e non lo guardava più solo da lontano, adesso che poteva respirarne il profumo quando si avvicinava o coglierne le piccole rughe ai lati degli occhi, quella cazzo di voglia era diventata insopportabile, tanto che pensava che un giorno glielo avrebbe detto chiaro e tondo, di fare sesso con lui.
Dietro al bancone, Samuele stava preparando tre caffè per tre ragazze sedute a un tavolo.
Sugli sgabelli di fronte a lui non c’era nessuno, così Mattia ne occupò uno a caso, proprio di fronte a lui. Si sedette, fece un giro completo, fino a fermarsi e trovarselo davanti con un sorriso perfetto.
- Ciao, barista – lo salutò. Samuele gli puntò gli occhi addosso prima ancora che lo sgabello si fermasse e le sue mani si stringessero sul bordo del bancone.
- Ciao mister prosecco. Il solito? –
- Nah, oggi fammi solo un caffè macchiato . – Ne aveva abbastanza di alcol per quel giorno, dopo la bottiglia di vino che aveva bevuto a casa per trovare la giornata un po’ meno pietosa.
- Finisco questi e arriva – gli rispose l’altro.
Mattia si limitò a fissargli le dita in silenzio: il modo in cui accarezzavano quasi i tasti della macchinetta, le tazzine, i cucchiaini, quello in cui si stringevano intorno alla bustina di zucchero o seguivano i profili del vassoio rotondo dove le aveva depositate.
Quelle dita avrebbero seguito allo stesso modo i profili del suo corpo, magari.
- Allora, passato bene il Natale? Come mai qui? – lo sentì chiedergli poi, mentre prendeva di nuovo a trafficare con la macchinetta.
- Oh, sapessi! Un Natale a dir poco meraviglioso, davvero! Mi sono quasi ubriacato per sopportarlo meglio. Ho pensato che se mi avessero portato al Pronto Soccorso, lì avrei avuto un po’ di pace! –
Samuele scoppiò a ridere.
- Potevi sempre tornartene a casa! –
- E che gusto c’è a stare a casa da solo quando puoi soffrire in modo lento, lungo e doloroso? – gli rispose con un chiaro tono ironico. La verità era che, se non se ne era tornato a casa subito dopo pranzo, era per fare un po’ di compagnia a Massimiliano, che si sarebbe annoiato a morte e sarebbe stato oggetto di ogni vanto per tutto il giorno, se non ci fosse stato lui.
Samuele si strinse nelle spalle, tornando di fronte a lui, con le mani sul bancone, mentre la macchietta faceva il suo lavoro. Che poi lui quel caffè non lo voleva nemmeno, era solo una scusa per trovarsi lì.
- Però qui ci sei venuto – osservò l’altro, con gli occhi brillanti di divertimento.
- Per te ho fatto un’eccezione, sai, sapevo che lavoravi e ho pensato: perché non andare a rovinare un po’ il Natale anche a Samuele?  -
Lo vide sorridere appena, poi voltarsi indietro per controllare a che punto fosse il caffè.
C’era stato un momento, prima di voltarsi del tutto, in cui Mattia aveva visto il sorriso sparirgli dal volto, e quella tensione che lo caratterizzava sempre tornare a scavargli dentro gli occhi verdi.
- Ah, può andare peggio di così? – lo sentì sibilare mentre prendeva una tazzina e ci versava dentro il caffè, aggiungendo poi la crema di latte per metterci sopra una spolverata di cacao. Ne avrebbe fatto volentieri a meno, che a  lui il cioccolato non piaceva proprio, però non aveva il coraggio di dirgli altro.
Non parlò nemmeno quando Samuele gli adagiò davanti al viso il suo caffè e lui mormorò un grazie, lasciando le monete sul bancone. L’uomo non le prese nemmeno: si era seduto su un piccolo sgabello tra un ripiano e il frigo, e aveva poggiato i gomiti sulle ginocchia.
Non c’era il solito casino al locale. Il giorno di Natale dovevano essere tutti a casa, o in vacanza, e in pochi potevano immaginare magari che quel locale fosse aperto.
Allora Samuele poteva starsene lì con i suoi pensieri, e lui con il suo caffè.
Lo mandò giù in un sorso solo, poi poggiò la tazzina sul bancone.
- Dovresti alzarti, comunque – lo richiamò. Samuele sollevò gli occhi solo per guardare i suoi.
- Per quale motivo? –
- Così posso guardarti il culo. E’ compreso nel servizio, vengono qui tutti per questo – gli spiegò, annuendo con fare autoritario, come se stesse parlando sul serio. Nel suo caso, poi, non è che fosse tanto una bugia.
Ma Samuele rise, e i suoi occhi si accesero di nuovo mentre si alzava in piedi e camminava verso di lui, fino a fermarsi e spingere il busto in avanti, poggiando i gomiti sul bancone.
- Se vuoi gli faccio una foto. Sai,  così dura di più. –
- Oh, davvero lo faresti? E’ così gentile da parte tua! Mi accontenterei anche solo di toccarlo. –
Dopo un attimo di sorpresa, Samuele decise di prenderla sul ridere.
E rise, rimettendosi dritto e sfuggendo al suo sguardo, con il quale avrebbe voluto scavargli dentro per scoprire cosa lo turbasse a quel modo. Ma era già sfuggito, Samuele, lontano, più lontano del sole, verso un’acqua tonica da preparare e quattro tazzine da lavare.
- Che non si dica mai che Samuele non è gentile. Fa parte del servizio, l’hai detto tu, no? –
- Quindi, visto che sei così gentile, magari stasera ci facciamo una birra e mi eviti la peggiore serata della mia vita? – gli propose. E magari sarebbe finita con loro due a letto insieme, quella serata. Avrebbe smesso di odiare il Natale allora.
Ma Samuele si strinse nelle spalle, aprendo il rubinetto del lavello sopra le tazzine da sciacquare.
- Questo non fa parte del servizio. – osservò.
- Sai com’è, di solito non pago la gente per bere qualcosa con me. Al massimo posso offrirti la birra, ma è la mia ultima offerta! –
Lo sentì ridere, e sperò davvero che gli avrebbe detto di sì.
In fondo, aveva detto di non avere impegni per Natale, una birra non gli sarebbe costata nulla.
Ma il suo cellulare, odioso, decise di vibrare nella sua tasca.
Matti, mamma vuole che torni.
E che palle, avrebbe detto. Lo ripose in tasca, pregustando già la dolcezza sulla lingua quando avrebbe scritto: col cazzo che torno, vado a farmi una birra e non aspettatemi per cena.
Solo che Samuele spezzò quell’idillio.
- Non posso proprio stasera. Ma se ti va una birra te ne prendo una. –
Mattia sgranò gli occhi. O era scemo o lo prendeva per il culo. Come se fosse per la birra che gli aveva fatto quella proposta: a lui la birra faceva pure cacare.
- Nah, lascia stare, ho bevuto abbastanza per oggi. Magari un’altra volta. E ora devo andare, mi aspetta la seconda parte del mio inferno personale. Ciao, eh! E Buon Natale! –
- Anche a te! –
Si alzò dallo sgabello con una sensazione di freddo sulla schiena e sulle gambe.
Prese il cellulare.
Dieci minuti e arrivo.
 

§§§

 
C’era così silenzio, adesso, che pareva quasi di essere entrati in un’altra casa.
L’orologio segnava quasi le tre del mattino.
In salotto, le luci dell’albero di natale erano state spente.
- Vieni a letto? –
Riccardo si voltò verso la porta della cucina: proprio lì, con ancora indosso quel vestito arancione che le aderiva sui fianchi ammorbiditi dall’età, c’era Priscilla.
Sua moglie.
A lei quel nome non era mai piaciuto. A casa la chiamavano tutti Maria, come il suo secondo nome; neppure a sua madre era mai piaciuto, ma aveva dovuto metterle quel nome per far piacere al marito, che sua sorella era appena morta e ci teneva a chiamare la figlia come lei.
Lui l’aveva conosciuta come Maria. Si era presentata tendendo la mano e con la voce soffice, presentata da un amico dell’università.
Allora, Riccardo era stato ancora solo con un uomo, e solo per due volte.
Spaventato da se stesso, aveva smesso di incontrarlo, sparendo nel nulla, fino a quando non aveva conosciuto Maria. Sua moglie era come una doppia presenza, ormai: a casa era Maria, la donna con il sorriso largo che sapeva cucinare meravigliosamente. Quando era con Samuele, invece, tornava a essere Priscilla, la donna che lo separava dalla vita che avrebbe voluto vivere.
Samuele lo aveva conosciuto per caso: aveva festeggiato da poco il sedicesimo anniversario di matrimonio con sua moglie, ed era stato con tre uomini, tutte storie durate non più di qualche mese. Poi aveva visto Samuele dietro al bancone di un bar come tanti vicino al suo studio, dove si ritirava dopo il lavoro e prima di tornare a casa.
Aveva pensato che sarebbe stato uno come tutti gli altri, che lo avrebbe allontanato prima che scoprisse la verità.
Ma le cose erano andate diversamente, ed era rimasto imbrigliato nella spirale che Samuele gli aveva costruito intorno. Da allora, erano sette anni d’inferno, tra il peccato e il senso di colpa, ma quando gli strappava anche un solo sorriso, si sentiva  rinascere.
E non era colpa di Maria se gli piacevano gli uomini da sempre e l’aveva sposata solo per fare felice papà, e per quietare un po’ se stesso.
Maria era sempre stata bella, come donna. Aveva il viso allungato, ma il corpo morbido, le labbra carnose e gli occhi grandi, scuri, tanto da perdercisi dentro. Ed era testarda, e forte, e combattiva.
Tutto il contrario di quello che era sempre stato lui.
Era perfetta.
Luciano le somigliava molto da quel punto di vista, nonostante fisicamente avesse parecchi tratti in comune con lui. Forse per questo non riusciva a lasciarla andare, se mai lei glielo avesse permesso.
Maria aveva scoperto della sua passione per gli uomini una sera come tante, quando erano sposati da appena dieci anni e non avevano già più niente da dirsi. Luciano dormiva nella sua stanza dopo aver finito di cenare, loro due stavano in salotto. Allora gli era arrivato un sms di Marco, l’uomo con cui si vedeva in quel periodo: ed era un messaggio inequivocabile.
Sei proprio sicuro che non puoi oggi?
Ho una voglia matta, che non ne hai idea!
Fammi sapere se domani sei libero!
Lei non aveva fatto apparentemente una piega.
Aveva poggiato il cellulare di nuovo sulla mensola di quel vecchio mobile di legno scuro, aveva contratto le labbra in una smorfia e aveva detto solo mi fai schifo, Riccardo. Concisa e diretta.
Poi c’erano state le spiegazioni, le lacrime, le urla, i silenzi per giorni e giorni e i sorrisi finti davanti al mondo. C’erano state le sue parole, con quello sguardo scuro carico di sdegno: non me ne importa un bel niente di chi è quello con cui ti vedi, se è uomo, o donna, o E.T.-telefono-casa! Mi importa che non te ne frega niente di me e di tuo figlio! Perché se tu, Riccardo, avessi un minimo di rispetto almeno per lui, non l’avresti fatto!
Quando, pochi anni dopo, Samuele si era presentato a casa sua, al citofono aveva risposto lei. Si era voltava verso di lui, fulminandolo:
- C’è una delle tue troie al citofono, Riccardo. Sei pregato di scendere di sotto e informarlo che a casa mia non si scopa. –Lui era sceso di sotto, aveva sistemato le cose, a modo suo, e quando era tornato di sopra Maria lo aspettava alla porta: gliel’aveva chiusa alle spalle, e l’aveva inchiodato puntandogli contro il dito, oltre a uno sguardo furente. – Non a casa mia. Mai più, Riccardo. Non a casa mia! -
Quando faceva così, gli faceva venir voglia di schiaffeggiarla. Perché Samuele non era uno di quegli uomini di cui non gli importava poi molto; lo amava, nel modo in cui potevano amare quelli codardi come lui, e non sopportava che Maria parlasse male di lui.
Ma in fondo, quando ci pensava, cosa era Samuele agli occhi di lei, se non l’uomo che vedeva suo marito? Anche se la colpa era tutta sua, forse scaricarla su Samuele sarebbe servito a farla sentire un po’ meglio. E ogni tanto, Riccardo si faceva prendere dal terrore che lei potesse lasciarlo.
Non l’aveva lasciato, ovviamente. Non legalmente almeno.
Agli occhi del mondo erano sempre la stessa bella coppia consolidata in cui anche se l’amore era svanito era rimasto l’affetto. Lui ogni tanto pensava che sua moglie per lui non provasse più neppure quello, e come biasimarla?
Poi, però, delle volte cambiava idea. Succedeva raramente, quando nel sonno la sentiva voltarsi verso di lui e sfiorarlo appena per caso, o quando si spingeva a fargli una carezza sul braccio mentre parlavano a tavola del più e del meno. Lasciare Maria, allora, diventava impensabile: significava mettersi in gioco in una storia fatta davvero d’amore e non di convenienza, rischiare di far andare tutto male e perdere ogni cosa. Significava mostrarsi al mondo, accettarne le conseguenze. E Luciano? Cosa avrebbe detto suo figlio a sapere di avere un padre frocio?
Lo avrebbero preso in giro, a scuola, e avrebbe rovinato i suoi anni migliori all’università.
E tutto per colpa sua.
- Riccardo? – lo chiamò di nuovo lei.
Allora si riscosse, mettendo a fuoco di nuovo la morbidezza di quei capelli neri, lisci fino alle spalle, che incorniciavano quel volto stanco solcato dalle rughe.
Era stata una giornata lunga quella: il giorno di Natale, con amici e parenti a casa, era sempre una piccola tragedia, almeno per lui. Ma Maria sembrava contenta di non starsene più da sola tutto il giorno. Lui, invece, avrebbe solo voluto sprofondare tra le lenzuola calde del letto di Samuele.
- Si, io…adesso vengo. Luciano è già uscito? –
- Lo sai com’è, prendono a giocare a carte e non torna mai prima delle sei del mattino. Io vado a letto allora, ho un mal di testa tremendo, e domani siamo stati invitati a pranzo da mia madre, non dimenticarlo. Non fare rumore quando vieni a letto. –
- Va bene – mormorò, con voce bassa.
La vide sparire in corridoio, dietro la porta della camera da letto.
Allora si lasciò cadere sul divano del salotto, con la testa tra le mani.
Era tardi e non aveva sonno.
Avrebbe solo voluto raggiungere Samuele e fare l’amore con lui, finalmente.
Dormire insieme. Luciano non se ne sarebbe accorto, sarebbe tornato così tardi e così ubriaco da non rendersi conto di nulla.
Ma quando prese il cellulare, c’era, tra i vari sms di auguri di colleghi e amici, un sms di Samuele.
Buonanotte Riccardo.
Solo quello. Solo buonanotte.
Samuele era andato a letto senza di lui.
E probabilmente era anche arrabbiato, furioso, e deluso, perché aveva rotto anche quell’ultima tradizione, tra loro, quella di andare a trovarlo almeno il pomeriggio della viglia di Natale, se poi durante le feste non poteva. Quell’anno era stato trattenuto in ufficio, aveva dovuto fare degli acquisti per la cena a casa, e non era riuscito a passare.
E Samuele aveva dovuto passare il Natale da solo, di nuovo, mentre lui era imbrigliato in quell’assurda cena. Pensare che gli aveva comprato anche un regalo: niente di che, era solo un orologio. Un bell’orologio dal quadrante grande che gli sarebbe stato benissimo al polso e che resisteva anche agli schizzi d’acqua, così avrebbe potuto metterlo anche al lavoro: dietro, ci aveva fatto incidere il suo nome. Riccardo. Al gioielliere aveva detto che fosse per suo fratello, e che ci teneva che portasse il suo nome dietro. Si era sentito una merda.
- Riccardo? Potresti venire un attimo? – lo chiamò la voce di sua moglie, dalla camera da letto. la raggiunse con ancora indosso la camicia e la cravatta allentata sul collo. Aveva desiderato per tutta la sera presentarsi a casa di Samuele così e sentirsela sfilare da lui.
La trovò davanti allo specchio, di spalle, ma con il capo voltato verso di lui e i capelli sollevati sulla nuca.
- Potresti aprire la cerniera, per favore? –
-Sì, faccio subito. –
Il corpo di Maria era morbido, appesantito un po’ dall’età, ma era ancora bella. Avrebbe potuto avere qualsiasi uomo. E lui l’aveva resa infelice. Aveva dimenticato persino quand’era stata l’ultima volta che avevano fatto l’amore.
Riccardo fece scorrere le dita sul vestito, lungo la cerniera, fino ad aprirla sulla schiena nuda di sua moglie, solcata dalla fascia chiara del reggiseno. Lei si scostò subito, per cambiarsi, e mentre lui se ne stava lì in piedi a togliere la cravatta, lei aveva già indossato il suo pigiama di pile, aveva legato i capelli e si era messa a letto.
- Spegni la luce quando vieni a letto – gli mormorò solo.
Riccardo si spogliò lentamente: adagiò la cravatta sulla poltrona, poi la camicia, i pantaloni, i calzini. Indossò il pigiama che teneva sempre nell’armadio: odiava dormire in pigiama, preferiva le volte in cui si addormentava nudo, riscaldato dal corpo di Samuele.
Ma lo indossò.
Spense la luce, scostò le coperte, si lasciò cadere a letto.
Finalmente nel buio. E nel silenzio.
Il respiro di Maria era regolare, ma era ancora sveglia.
Se avesse teso la mano di lato, le avrebbe toccato un fianco.
Forse poi avrebbero fatto l’amore, se lei avesse accettato.
Fece scorrere la mano di lato. Incontrò quel fianco caldo proprio dove si immaginava.
Avrebbe potuto davvero farci l’amore. Solo che non ci riusciva, perché il suo corpo ne cercava un altro, troppo diverso da quello che aveva di fianco.
Ritirò la mano. Maria sospirò.
- Maria? –
- Mh? –
- Mi odi così tanto da non tollerarmi? –
- Non ti odio. Se ti odiassi credo che ti spaccherei la faccia. Adesso dormi, sono stanca – lo liquidò.
Ma Riccardo si rigirò tra le coperte, preda dell’ansia. Pensava a Samuele,  alla felicità che non riusciva a dargli e che invece si meritava, e a quanto fosse stato codardo a non averlo lasciato prima di imbrigliarlo in quella situazione di merda.
- Tu sei una bella donna, Maria. Potresti avere qualsiasi uomo tu voglia, anche domani. –
Finalmente, Maria si riscosse. Si mise seduta sulle coperte, accese la luce.
Quando la vide, nei suoi occhi scuri c’era lo sdegno più puro.
- Fammi capire, Riccardo, è così che credi si risolvano le cose? Dicendo: “scusa se non posso darti quello che vuoi, ma quando ti manca qualcosa da me puoi cercarla da qualcun altro, basta che resi qui buona buona?” Ti fanno così schifo le persone? Credi che siano giocattoli? –
Lo colpì come con delle pugnalate, eppure era immobile: erano le sue parole a bruciargli dentro. Si stava comportando in modo terribile con lei e con Samuele. Era quello che aveva detto anche a lui, in fondo, no? Una relazione aperta, sarebbe potuto stare con chi avesse voluto, solo per sesso o per compagnia, purchè non lo lasciasse. Era squallido. E Maria ancora parlava, gesticolando appena mentre lisciava le coperte sulle ginocchia.
- Beh, apri gli occhi, perché non è così. Mi hai sposato solo per avere una moglie da mettere in vetrina nella tua irreprensibile vita, peggio di un giocattolo! Non era un marito come te che volevo, uno che mi tradisse, e con un uomo poi! Con un uomo non posso  nemmeno competere, non c’è niente da fare! Ma forse è meglio, sai, forse con una donna sarebbe stato peggio. E non mi importa, perché se resto qui, in questa casa con te, lo faccio per Luciano, e anche per me. Ho una bella casa, un marito all’apparenza irreprensibile, mio figlio ha una famiglia e una casa dove tornare per le vacanze quando inizierà l’università. Non devo preoccuparmi di nulla. Se ti lasciassi, invece, sarei infelice lo stesso, perché quello che mi hai fatto non si supera, Riccardo. E in più dovrei vedermela con le chiacchiere della gente, con una nuova casa e nuovi obblighi, con la rabbia di mio figlio. Chi me lo fa fare? Quindi no, non ho intenzione di imbarcarmi in nulla con un altro uomo che magari mi farà più male di quanto me ne hai fatto, se mai fosse possibile. Me ne resto qui, cullata da questo bel matrimonio di merda. E adesso cerca di dormire, perché parlare con te mi ha già stancato. –
- Maria… - provò a chiamarla, per dirle cosa poi?
Lei allontanò la mano che gli stava avvicinando.
- E non mi toccare, Riccardo! Non mi toccare, che con quella mano tocchi il corpo di un altro!! E bada bene, te lo ripeto di nuovo perché sia chiaro: non lo voglio in casa. Non voglio sapere chi sia, come si chiama, cosa faccia di lavoro, nemmeno come sia fatto. Non lo voglio a casa mia, non lo voglio intorno a mio figlio o intorno alla mia famiglia. Qualsiasi cosa tu debba farci, falla lontano da me e da mio figlio! Non farmelo nemmeno sapere. E se avessi un briciolo di palle, anche solo un briciolo, te ne saresti già andato di casa a viverti la tua fottuta vita felice lontano da questa città, senza rovinare la vita di Luciano! Perché se si venisse a sapere succederebbe proprio questo! –
- Hai appena detto, e l’hai detto mille volte, che non vuoi che questo matrimonio finisca. –
Maria tornò sdraiata, voltandosi su un fianco e dandogli le spalle.
- Questo matrimonio non è mai iniziato, Riccardo. Io ho detto solo che non chiederò il divorzio, per scopi puramente pratici, e perché non mi va di renderti la vita così facile. Se vuoi, fallo tu. Solo, fa in modo che Luciano non ne soffra. –
Maria spense la luce, e la stanza sprofondò di nuovo nel buio.  
Riccardo si voltò sull’altro fianco, inspirando il profumo di pulito del cuscino.
Avrebbe voluto che ci fosse Samuele, per sprofondare sulla sua pelle. Ma Samuele doveva essere furioso con lui, perché non riusciva a prendere una decisione, una sola: avrebbe potuto dare la colpa a Maria, a Luciano, o a Samuele stesso.
La verità era che era solo colpa sua se si trovava in quella situazione squallida.







 

10 aprile 2013

Stralcio I: le note....
Eccomi qui.
Come anticipato nella mia pagina facebook (la trovate qui: http://www.facebook.com/pages/100-sbavature-di-Esse/509052772480144), sto lavorando a questi stralci, che verranno inseriti tra i capitoli principali della storia: i capitoli avranno il titolo "chapter.." mentre questi il titolo "stralcio...".
Potete vederli come delle finestre di approfondimento su personaggi secondari, come in questo caso, o sui personaggi principali: sono scene che per necessità non rientrano nel filone principale della storia, ma che volevo mettere su carta.
In questo ci sono Mattia e Riccardo, due antitesi che girano intorno a Samuele.
Massimiliano, intanto, è lui: http://pokerpazzo.ilcannocchiale.it/mediamanager/sys.user/117190/beverly-AdamGregory.jpg
Priscilla Maria è lei: http://images.movieplayer.it/2012/10/14/salma-hayek-in-colpi-da-maestro-254214.jpg
Siete liberi di leggerli o meno, perchè non hanno influenze sulla storia principale: sono, appunto, stralci, però secondo me sono importanti per capire i personaggi, anche i principali. Questo è inserito temporalmente qui nonostanteio l'abbia scritto dopo il capitolo 27, ma in pratica è una finestra sul giorno di Natale.
Spero che vi piacerà, e se avete dubbi su alcuni caratteri dei personaggi sarò felice di chiarirli! ^_^
Ci tengo a sottolineare, nel caso non si fosse capito, che Massimiliano non è gay, ma è convinto psicologicamente di esserlo.
Un bacio a tutti, e alla prossima!
Esse

P.S. Non riesco a rispondere adesso alle recensioni perchè devo scappare, ma lo farò presto!
Un grazie enorme a tutti!

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Capitolo 26
*** 24th: Praga- Milano - Palermo ***


Non si è mai lontani abbastanza per trovarsi.

Alessandro BariccoOceano mare, 1993


 

Chapter 24nd: Praga – Milano - Palermo
 
- Ma non hai freddo? –
- A Praga fa più freddo. Qui no. –
Dominik sollevò la manica del maglione, che era scivolata fino a coprirgli la mano, su fino al gomito. Era successo proprio in quel momento, quando aveva sollevato la stoffa e l’avambraccio si era scoperto, provocandogli un brivido, che aveva pensato a Federico.
Era successo proprio una sera di quelle, che lui gli aveva chiesto se non avesse freddo, perché stava sempre a piedi nudi, e gli aveva risposto che no, Praga era molto peggio, anche se a casa faceva sempre caldo perché la mamma teneva acceso il riscaldamento.
Quando aveva pensato a Federico, la sinfonia elaborata di Wagner si era trasformata in un morbidissimo notturno di Chopin, e tutto si era colorato di tutti i colori del mondo.
Non aveva ancora trovato un colore per Federico, e si era convinto che non esistesse, che il mondo non avesse inventato un colore che potesse descriverlo davvero. Era brutto, però, pensarlo: Federico doveva avere un colore, essere un colore.
Ce l’avevano tutti.
Ma forse Federico non ne aveva uno perché era spezzato in tanti piccoli pezzi, e tutti si incastravano con una delle persone che gli ruotavano intorno: c’era il pezzo per Samuele, e quello era colorato di un giallo un po’ spento, come un riflesso; c’era un altro pezzo per lui, quello che gli concedeva la sera quando guardavano la tv; un altro pezzo per la sua famiglia, e uno, quello più grande, riservato a Manfredi, di un colore viola brillante, come la sensazione dolorosa del ghiaccio sulla pelle. Allora, forse il colore di Federico era il bianco: la mamma gli aveva spiegato che i colori nascevano tutti dalla luce, e che quando la luce passava attraverso una cosa chiamata prisma, il bianco si divideva in sette colori brillanti. O forse otto? Non importava.
L’importante era che Federico doveva essere così. I suoi pezzi colorati passavano tutti attraverso un prisma e si riunivano nel bianco lucente.
Chopin defluì delicatamente verso un andante, uno degli esercizi che la maestra gli aveva assegnato per le vacanze, e che gli piaceva particolarmente perché non era solo una serie vuota di note, ma aveva dentro qualcosa.
I tasti del pianoforte della casa di Praga erano così uguali a quelli della casa di Milano.
In una pausa di un quarto, prima di una serie di crome e di semiminime, udì un sospiro leggero come un soffio di vento d’estate. Era il sospiro della mamma, e gli mandò via le note della testa, tanto che, d’improvviso confuso, dovette fermarsi per sfiorare con le dita gli spartiti e studiarne i rilievi. Nel silenzio, adesso, udiva meglio le cose intorno, quelle che la musica aveva zittito.
C’era il respiro lieve della mamma, il rumore dei ferri da lana della nonna, il fruscio delle pagine del giornale di papà, e l’incessante suono dei tasti del cellulare che Aneta pigiava continuamente. C’era anche un altro suono, un pochino più lontano: un rumore di plastica, e una vocina acuta che mormorava sottovoce. Doveva essere Jana che giocava con il suo nuovo regalo di Natale, la casa per le bambole che le avevano comprato la mamma e il papà. E bisbigliava perché la mamma doveva averle detto di far piano, che Dominik stava suonando.
C’era sempre quella strana magia, a casa loro, il giorno di Natale. Anche se era solo un giorno come tutti gli altri, in cui erano comunque da soli, perché la loro famiglia non era poi così numerosa, e la mamma cucinava cose buone esattamente come gli altri giorni, c’era una magia particolare: forse era dovuta alla risata allegra di Jana quando scartava i suoi regali, o all’abbraccio goffo di Aneta quando lo vedeva tornare da Milano e non riusciva ad ammettere che gli fosse mancato, o ancora alla voce calda della nonna che il Natale lo amava da sempre, e tutti gli anni gli chiedeva di suonare una canzone di Natale, al pianoforte. Allora lui abbandonava Chopin, Bach, Strauss, e si concedeva una di quelle canzoncine ripetitive, senza alcun senso e senza alcuna elaborazione: e gli piacevano, perché erano magiche, nella loro semplicità.
La magia era per la nonna che sorrideva, per la mamma che rideva, per il papà che quando si sedeva vicino a lui e gli chiedeva cosa stesse leggendo gli rispondeva sempre e gli spiegava un articolo, a volte di politica, o di economia, o di cronaca, e anche se poi lui si annoiava, il papà non smetteva, perché sapeva quanto gli piacesse sentirlo parlare.
Per tutto questo adorava il pomeriggio del giorno di Natale.
Fece scivolare via le mani dagli spartiti, poggiandole sulle gambe.
I polpastrelli sfiorarono il tessuto morbido e caldo dei pantaloni.
- Volete un po’ di cioccolata ragazzi? – chiese poi la voce della mamma.
Adorava anche l’ora della cioccolata. La cioccolata che faceva la mamma, però, era diversa da quella che preparava Federico; quella della mamma era più liquida, tutta zuccherata e buonissima, ma quella di Federico era densa, così tanto da sembrare davvero cioccolato, e quando la beveva una parte gli restava sempre attaccata al labbro, e allora Federico gli passava un tovagliolo e lo aiutava a pulirsi. Non poteva dire di preferirne una all’altra.
La cioccolata della mamma era di Praga, quella di Federico di Milano.
- Io voglio una fetta del pandoro che hai fatto! –
Aneta era la solita golosa. La mamma aveva comprato un pandoro e lo aveva farcito di crema alle mandorle, che aveva comprato al supermercato, e aveva imposto a tutti di non mangiarlo prima del giorno di Natale. E ovviamente Aneta non aspettava altro che il giorno di Natale per mangiare quel pandoro. Si ritrovò a sorridere.
- Lo voglio anch’io. –
La mamma ridacchiò, il fruscio dei suoi vestiti la accompagnò mentre si alzava in piedi.
- Siete due pesti impertinenti! – li rimproverò bonariamente.
Dominik fece scivolare la mano sui tasti del pianoforte, come in una carezza: erano ancora tiepidi per il contatto prolungato con la sua pelle.
Sorrise. Glielo diceva sempre anche Federico, però con parole diverse.
- Fai il sentimentale, Dom? Cos’è, un modo cazzuto e orgoglioso per dire che sentirai la mia mancanza almeno un po’, tra tutta quella musica che hai nel cervello? –
- Se anche fosse? –
- Lo prendo come un sì. Nella tua lingua, se non è no, allora è sì, anche se non sembra. –
- Lo prendo anche io come un sì, allora. Perché nella tua lingua è sì quando non dici niente. –
- Certo che sei proprio assurdo, lo sai? –

Glielo diceva sempre ridendo, perché in realtà si divertiva.
E in realtà gli mancava. Non era una mancanza come quella della mamma, per cui bastava una telefonata, la consapevolezza di rivederla presto e che lei fosse contenta di quello che lui stava facendo a Milano.
La mancanza di Federico aveva fatto addensare il tempo, e le giornate trascorrevano più lente.
Si era abituato a quella routine fatta di una giornata intera al conservatorio, un pomeriggio a suonare, in attesa che lui tornasse dal lavoro, e poi una cena insieme, una chiacchierata mentre Federico lavava i piatti, infine almeno due ore insieme davanti alla televisione a scambiarsi i respiri. Era diverso e basta, e anche se erano passati appena tre giorni da quando aveva lasciato Milano, gli mancava. La musica serviva in parte ad attenuare la mancanza di quella routine: con Chopin poteva richiamare Federico e le sensazioni a lui associate, come lo scrosciare rassicurante dell’acqua mentre lavava i piatti, o la sua voce calda mentre parlava a telefono con sua madre, con Samuele, o con uno dei suoi amici. Molto più difficile era rievocare la sensazione delle sue mani, o del suo corpo: forse lo aveva toccato troppo poco per conoscerlo bene come la mamma, per riuscire a ricordare i profili del suo viso e delle sue spalle sotto le dita, però anche ricordare bene la sensazione delle sue mani sul polso, sul dorso della mano, sul ginocchio, era un po’ difficile.
Chissà se anche a Federico mancava. Avrebbe dovuto aspettare di tornare  a Milano per chiederglielo.
- Tieni, Filip – sentì mormorare alla mamma. Aveva quel tono carezzevole e morbido che usava solo con il papà.
- No, zlato, non mi va. Sono ancora pieno per il pranzo. Mangialo tu. –
Dominik avvertì il rumore di una carezza, palmo contro dorso, come quelle che a volte gli faceva Federico mentre pranzavano o parlavano.
Zlatoera il modo in cui il papà chiamava la mamma, da sempre. Anche quando era bambino, e andava a prenderlo a scuola, una volta tornati a casa, la mamma correva ad abbracciarlo, in ginocchio, e il papà non si muoveva dalla porta fino a quando non le aveva mormorato “ciao, zlato” e lei si era alzata in piedi per dargli un bacio.
Zlatosignificava amore. Solo da quando viveva a Milano si era reso conto di quanto fossero diverse le due lingue che conosceva: in italiano, amore era una parola dal suono morbido, caldo, che faceva pensare a una carezza. In ceco, invece, suonava terribilmente sibilante, come una minaccia. Perché, allora, sembrava così caldo, quando lo diceva il papà?
La mamma diceva che tutte le lingue, in fondo, non fossero altro che un insieme di lettere diverse, e che fossero i toni delle persone, le loro espressioni, a fare il vero linguaggio, e che chiunque avrebbe dovuto appigliarsi solo a quelle.
E, che fosse zlato o amore, la mamma e il papà lo erano e basta.
Per questo non capiva Federico quando parlava dell’amore come di qualcosa di brutto, che faceva soffrire, oltre a stare bene, perché l’amore era una cosa bella e basta, come la mamma e il papà.
Alla mamma non aveva voluto chiedere nulla. L’avrebbe chiesto a Federico, una volta che fossero tornati a Milano.
- A cosa pensi, drahà? Ti vedo pensieroso. – La voce della nonna lo chiamò proprio mentre stringeva tra le dita la soffice fetta di pandoro che gli porgeva la mamma.
Ne addentò un pezzo enorme, prima di rispondere, e fu certo di essere sporcato tutto il naso con lo zucchero a velo. Federico sarebbe scoppiato a ridere, se ci fosse stato.
Mandò giù il pandoro, passandosi una mano sul naso per mandar via lo zucchero.
- Non sono pensieroso – osservò. La nonna non gli fece altre domande, lasciandogli finire il dolce con calma, fino a quando lasciò il tovagliolo sul piccolo tavolo accanto al pianoforte, alzandosi in piedi.
Fu lui a tornare dalla nonna. Gli piaceva sedersi sul tappeto, vicino alle sue ginocchia, perché c’era vicino anche uno dei termosifoni, e poteva riscaldarsi, e godere anche del calore e del profumo morbido della nonna.
Si sedette, incrociando le gambe e poggiando le mani sulle ginocchia. Con un ginocchio sfiorava la caviglia della nonna, e poteva avvertire il lembo della coperta che teneva sulle ginocchia solleticargli il viso. Avrebbe voluto poggiarci il capo, su quelle ginocchia, e dormire per un po’. Sentiva la musica affollarsi nella testa.
Poi, la mano della nonna gli accarezzò piano il capo.
- Hai pensato a cosa farai quando a giugno avrai finito gli studi al conservatorio? – gli chiese poi.
Quello era un argomento che tutti cercavano di non toccare mai, perché lo sapeva benissimo come fossero divisi tra la speranza di vederlo tornare e averlo tutto per sé a casa, e la consapevolezza di dovergli lasciar percorrere la sua strada, che probabilmente l’avrebbe portato ancora più lontano. Lui, però, non ci aveva ancora pensato: come aveva detto a Federico, a lui non importava di diventare un grande musicista, di essere ricordato o di essere acclamato.
Voleva suonare e basta.
Si strinse nelle spalle.
- Non lo so, non ho ancora deciso. I maestri mi hanno detto che vedremo cosa fare, prima della fine dell’anno. –  La nonna sorrise, la sua mano calda si insinuò ulteriormente tra i capelli.
- A me piacerebbe tanto che tornassi, drahà. Anche solo per un anno. Tua madre non voleva che te lo dicessi, perché pensa che potrei influenzarti, ma io lo so che non succederà, vero? Tu farai quello che vuoi, come sempre, perché sei un ragazzino cocciuto e testardo. Però io te lo devo dire, che ti vorrei per un anno qui con noi. E non credere, anche a tua madre piacerebbe, però non vuole dirtelo, perché sa che diventerai un grande pianista, e che devi fare la tua strada. –
Tornare a Praga gli sarebbe piaciuto. Anche solo per un anno, come diceva la nonna: tornare a casa, godersi quello che aveva lasciato a tredici anni, e poi ripartire. Però pensava anche a Milano, a Federico, ai maestri, al conservatorio. Piegò il busto appena verso destra, poggiando il capo alle gambe della nonna.
- Io invece vorrei che qualche volta venissi a Milano, babi. Ti porterei a vedere il Duomo, e la Scala, e a girare sul toro alla Galleria, perché dicono che porti fortuna. Poi ti porterei a fare una passeggiata di sera, perché Milano è bella di sera, e ti farei ascoltare la musica dal mio pianoforte di Milano, dentro casa. E poi andremo a mangiare le focacce in un locale buonissimo, e ti comprerei un gelato alla nocciola! –
Avrebbe fatto fare alla nonna le cose che aveva fatto con Federico. Le sarebbero piaciute da matti, perché la nonna adorava il gelato, anche se non poteva mangiarne troppo perché aveva una malattia che le impediva di mangiare troppi dolci.
- Vorresti una vecchietta a Milano? –
- Tu non sei vecchia! – la rimproverò. La nonna aveva appena sessantatré anni, non era vecchia. Aveva un po’ di acciacchi, era vero, ma non era vecchia. – E Milano ti piacerebbe, ne sono sicuro. Poi assaggerai le cose che cucina Federico, sono buonissime, e… -
La nonna rise, travolta dal suo entusiasmo.
- Deve starti proprio simpatico questo Federico! Ne parli sempre! –
Dominik si strinse nelle spalle, raccogliendo le ginocchia al petto. Non ne parlava proprio sempre, ma c’era un motivo, molto spesso, per tirare in ballo Federico, perché tutto quello che aveva fatto a Milano ultimamente era legato proprio a lui.
- Sono contenta che ti sei fatto un amico – soffiò la mamma, con la sua voce dolce e morbida.
Dominik si alzò in piedi mentre lei non aveva ancora finito di parlare.
- Vuoi sentire Mozart, mamma? – le chiese, sedendosi al suo posto.
Avvertì il fruscio dei vestiti della mamma mentre si sistemava i vestiti, probabilmente passando le mani sulle gambe, come a lisciare pieghe inesistenti sui pantaloni.
Era un vizio che avevano in comune, quello.
- Cosa mi fai sentire? –
Dominik poggiò le dita sui tasti del pianoforte, su quelli bianchi: le mani erano abbastanza distanti da permettergli di tenere i gomiti abbandonati di lato, non troppo stretti sul torace.
Iniziò dalle prime note di quell’allegro, che sapeva che alla mamma sarebbe piaciuto molto. Piaceva anche a lui, perché era come se le dita cercassero di inseguire la musica mentre quella correva in avanti, come un gatto che correva e agitava tutto il mondo intorno.
Però c’era qualcosa che non andava, perché non c’era solo quella musica, ma un’altra musica, un trillo insistente e fastidioso.
Smise di suonare, seccato perché quel trillo aveva interrotto l’allegro proprio mentre iniziava a sorgere dal buio. I passi affrettati di Aneta si spensero verso il corridoio, poi si riaccesero mentre si avvicinava, portando con sé quel trillo. Quando parlò sembrava stranamente delusa.
- E’ il tuo cellulare che suona, Dominik – disse, e il trillo si avvicinò ancora, insieme alla mano calda di Aneta.
Dominik strinse il piccolo cellulare che suonava tra le dita; stava vibrando, ed era caldo, e suonava in modo insopportabile. Doveva essere Federico, per forza: il numero di quel cellulare lo avevano solo lui, la maestra, e la mamma. Poteva essere solo lui. Doveva essere lui.
Cercò con il polpastrello il tasto sopraelevato a sinistra, quello per rispondere, e portò l’apparecchio all’orecchio. Finalmente il silenzio. L’altra mano era rimasta sui tasti del pianoforte.
- Federico? –
Dall’altra parte dell’apparecchio non giungevano rumori di sottofondo, se non un chiacchiericcio soffocato, probabilmente proveniente da un’altra stanza rispetto a quella da cui stava parlando l’interlocutore. E poi arrivò la voce, e fu come una carezza bollente sullo zigomo.
- Come hai fatto a capire che ero io? –
La voce incredula di Federico, quel tono a metà tra il divertito e il sorpreso, insieme a quell’incapacità di trattenere una domanda potenzialmente inopportuna.
Era sempre Federico.
- Questo numero ce lo avete solo tu, la maestra, e la mia famiglia. Loro sono qui, la maestra durante le vacanze non chiama mai…non potevi essere che tu – gli spiegò. Avrebbe voluto dirgli anche che un po’ ci sperava, però non lo fece. Avrebbe anche voluto chiedergli di Manfredi, se lo avesse visto, se si fosse fatto trascinare da lui di nuovo in quel baratro buio, o se stesse bene. Avrebbe voluto chiedergli di Samuele, se stesse bene, e di Milena, e di come fosse Palermo, se gli fosse mancata abbastanza da spingerlo a non tornare più a Milano. Invece non disse nulla, lasciando che fosse Federico a parlare.
- Oh, beh…Ti ho chiamato per farti gli auguri di Natale. Che facevi?...No, aspetta, fammi indovinare…o stavi suonando, o stavi mangiando schifezze al cioccolato! –
- Tutte e due – gli rispose, e quasi all’istante Federico rise, di una risata morbida e calda.
Gli venne da sorridere, e la mano scivolò via dal pianoforte, poggiandosi sulla gamba. Avvertì il calore del proprio corpo sulle punte delle dita; era come quando sfiorava Federico, erano caldi uguali. Solo le mani di Federico erano sempre più calde.
- Tu cosa stavi facendo? – gli chiese, stringendosi nelle spalle. Lo sentiva respirare al telefono, ed era come ritrovarsi insieme sul divano a scambiarsi notizie sulle rispettive giornate. Solo che, attraverso il telefono, Federico non poteva sfiorarlo per sbaglio mentre sistemava la coperta sulle gambe.
- Ho affrontato un pranzo interminabile con una famiglia troppo numerosa, e adesso stavamo giocando un po’ a poker. Ho già perso quasi quindici euro, mentre quello stronzo di Manfredi si sta riempiendo le tasche! –
- C’è anche Manfredi? – Non avrebbe dovuto chiederglielo così, però era sorpreso, e confuso. Se Manfredi gli aveva fatto tanto male, se a malapena sopportava di vederlo, perché era a casa sua, il giorno di Natale?
- Viene tutti gli anni, il pomeriggio di Natale, per giocare a poker. –
Federico parlava quasi come se fosse indeciso, come se si chiedesse se fosse il caso di dirglielo. Lui era sempre più confuso, perché non riusciva a capire: avrebbe voluto chiederglielo, ma temeva di offenderlo, o di farlo sparire di nuovo in quella nuvoletta scura dove si rintanava a volte.
- Abbiamo sistemato le cose, comunque….più o meno. Va un po’ meglio, adesso. E ho sentito Samuele, a proposito, ti manda i suoi saluti!  -  Sorrise.
- Davvero? –
- Certo. Perché dovrei dirti una bugia, scusa? –
- Mh…non lo so. – La verità era che riteneva difficile che qualcuno pensasse a lui, che chiedesse addirittura di salutarlo, però in fondo Samuele era buono come Federico, e gli era sempre stato simpatico. Erano un po’ uguali, Samuele e Federico. Erano buoni uguali.
Federico, all’altro capo del telefono, sorrise.
- Com’è lì a Praga? Fa freddo? –
- Poco più che a Milano. –
- Sapessi qui, c’è un sole caldissimo! Non ti invidio proprio! –
Dominik si mordicchiò il labbro inferiore con i denti. Affossò letteralmente il bordo inferiore dei denti nella mucosa del labbro.
- Sono contento che mi hai chiamato – gli confessò alla fine. Federico, che stava dicendo qualcosa, si zittì: poteva giurare di averlo sentito espirare, nel silenzio.
- Quando torni a Milano? – gli chiese, con la sua voce calda.
- Diciotto gennaio. – Sembrava terribilmente lontano a dirlo così. Federico fischiò.
-  Sarò solo per un bel po’ allora! Io torno il dieci gennaio, non ho potuto prendere troppe ferie adesso. – Una pausa, un lieve fruscio. Forse Federico armeggiava con dei fogli di carta, dall’altra parte del telefono. Poi una voce maschile, il rumore di una porta, la voce di Federico.  – Devo andare Dom, scusa! Una sera di queste ci sentiamo su skype, magari parliamo un po’ di più. –
- Va bene. Ciao Federico. –
Sentì appena il suo saluto morbido prima di chiudere la comunicazione.
Era giunto alla conclusione che la mamma avesse ragione riguardo alle persone e alle parole. Era tutto dai toni, che si capiva, dal loro modo di muoversi.
A telefono, Federico non era Federico. Erano state parole vuote le loro, uno scambio di informazioni reciproco, privo di quella dolcissima tensione che si creava quando stavano seduti sullo stesso divano.
Il diciotto gennaio era ancora più lontano. 
 

§§§

 
Il soffio caldo del vapore gli accarezzava il viso.
Inspirò. Era una sensazione simile a quella che provava da bambino quando sua madre lo obbligava a fare l’aerosol.
- Samuele? –
- Sono in soggiorno. –
Avrebbe dovuto essere incazzato. Triste anche, forse, invece era solo stanco.
La sagoma alta ed elegante di Riccardo comparve nello spazio incorniciato dalla porta di legno chiaro. Stava sorridendo, con ancora indosso il cappotto, sopra il vestito scuro, con qualche goccia di pioggia sulle spalle.
- Ciao – lo salutò, con voce carezzevole e le mani già tese in avanti, per imprigionarlo in un bacio. Ma Samuele rimase fermo dov’era, in piedi dietro un asse da stiro dove stava stirando delle magliette appena lavate. Le mani di Riccardo ricaddero lungo i fianchi.
- Lo capisco se sei incazzato, Samuele, ma cerca di capire…Natale è proprio un periodo impossibile! –
- Non sono arrabbiato, infatti – gli disse soltanto. Piegò accuratamente la maglietta blu scuro, sollevandola per adagiarla sul divano, prima di poterla riporre nell’armadio in camera da letto. Riccardo non si era ancora tolto il cappotto. – Puoi anche toglierlo, sai benissimo dove metterlo. –
Quasi obbediente, Riccardo fece scivolare il cappotto lungo le braccia, ma piuttosto che appenderlo all’ingresso, lo poggiò con cura sul divano.
- Mi sembra tutto il contrario. –
Samuele tornò al suo posto, tirando via la corrente al ferro da stiro nuovo che aveva comprato appena tre settimane prima e che non aveva ancora capito bene come funzionasse esattamente.
Avrebbe voluto picchiarlo, mollargli solo un cazzotto, per pura soddisfazione, e poi tornare a baciarsi come prima, come se non fosse successo niente. Invece si rimise in piedi, sollevandosi dalle ginocchia, fermandosi a guardare il suo compagno. I capelli brizzolati erano lievemente umidi.
- Non sono incazzato, sono stanco, Riccardo. –
- Sei stanco? –
- Sì. Sai cos’è…è che arrivi a un certo punto della vita in cui pensi che sarà tutto in discesa, che quei casini che hai fatto per trent’anni, per costruirti la tua vita, alla fine ti diano una stabilità. Che ti possa godere la vita, insomma. Invece, guarda un po’, non succede. –
Riccardo lo afferrò per il braccio.
- E’ per quello che è successo che dici così! Che diamine, Samuele, non hai diciotto anni e il cervello pieno di sogni idioti! Non sono riuscito a passare, lo sai che proprio a Natale è un casino! –
Samuele rimase lì dov’era, perché non aveva voglia nemmeno di scrollarsi da quel tocco.
Riccardo non aveva capito, forse non lo aveva capito nemmeno lui.
Andava avanti così da cinque giorni, da quando aveva preso un giorno libero, per la vigilia di Natale, perché tutti gli anni Riccardo passava per un’ora da lui, prima di rintanarsi in casa a fare la farsa con la sua bella famigliola felice. Ogni anno faceva male: non gli importava di scambiarsi i regali, di fare belle cene o di bere costoso vino. Gli sarebbe bastato solo averlo vicino, essere a casa insieme a guardare quei film ridicoli che mandavano in onda tutti gli anni, e fare con lui tutte le cose che si facevano gli altri giorni dell’anno. Gli sarebbe bastato non essere solo il giorno di Natale. Ogni anno, però, cercava di capire che, per uno come Riccardo, non presentarsi a casa quando era piena di parenti, sarebbe stato difficile. Allora sopportava, sorrideva, e si diceva che non gli importava, perché Riccardo passava mezz’ora da lui, anche solo per fargli gli auguri.
Quell’anno, però, aveva voluto fare qualcosa di più, credendola una cosa carina. Aveva comprato un pollo, che sapeva che gli piaceva parecchio, e aveva preparato la cena alle sei del pomeriggio: aveva comprato un pandoro, e lo aveva farcito con la crema al mascarpone, che Riccardo la adorava. Aveva addirittura comprato un albero di Natale tutto spelacchiato, quattro palline rosse, una stella un po’ storta e un festone dorato che perdeva continuamente filamenti di carta luccicante. Era venuto fuori un albero patetico, ma non gli importava troppo: non ne faceva uno da quando, a diciotto anni, se ne era andato da casa dei suoi. Ma Riccardo pensava che l’albero di Natale fosse la cosa migliore di quella festa, e allora lo aveva preso per lui. La sua idea era quella di avere un Natale con lui, condensato in un’ora: avrebbero mangiato il pollo, il dolce, bevuto il vino, avrebbero fatto l’amore in quel salotto, magari urtando per sbaglio quell’albero di Natale e distruggendolo completamente. Ci stava pensando, quella sera, proprio mentre era arrivato un sms di Riccardo, nel quale si scusava di non poter passare da lui, perché sua moglie lo aveva pregato di prendere due cose al supermercato prima di cena, e che tanto avrebbero trascorso insieme il capodanno, in montagna.
Probabilmente non era mai stato deluso come in quel momento: non si era neppure arrabbiato. Con una strana lucidità aveva riposto il pollo e il dolce nel frigorifero, aveva smontato l’albero di Natale e gli aveva trovato un posto nello sgabuzzino, e aveva sistemato il regalo che aveva comprato per Riccardo di nuovo nell’armadio, che glielo avrebbe dato in un altro momento.
Ad ogni singolo movimento che aveva compiuto quella sera, il cuore si era stretto in una morsa, come se qualcuno lo avesse accoltellato e spingesse la lama in fondo a intervalli regolari, e quello si contraesse intorno a quel corpo con il solo desiderio di fermarsi e basta. Aveva trascorso la vigilia di Natale così, seduto sul divano, a guardare un film che aveva visto quasi ogni anno da quando era bambino, mentre dal piano di sopra giungevano le risate e il chiacchiericcio dell’anziana signora che aveva riunito tutti i suoi figli con relative famiglie.
L’ultima cosa che Riccardo avrebbe dovuto fare, di conseguenza, sarebbe stata proprio presentarsi a casa sua, dopo cinque giorni, con un bel sorriso in faccia, a spiegargli che non avrebbe dovuto essere arrabbiato, perché a Natale, proprio, non avrebbe potuto.
- Forse se avessi diciotto anni e il cervello pieno di sogni idioti riuscirei ad arrabbiarmi, e sarebbe anche meglio. Invece, pensa un po’, sono solo stanco. – Scivolò via dalla sua presa non appena lui la allentò. Adesso aveva freddo, sul braccio. – Io vengo dopo qualsiasi cosa Riccardo, persino dopo il vino rosso e i tovaglioli per tua moglie. Sarebbe stato così semplice, che mi stupisce persino che tu non ci abbia pensato. Io sarei andato a prendere queste cose per te, mentre tu finivi al lavoro, così saresti potuto passare da me. Invece no. –
- Io…non ci ho pensato, Samuele, era un casino! –
- Appunto, non ci hai pensato. Tu non ci pensi mai a quello che potresti fare per cambiare i tuoi programmi. Semplicemente non ce la fai a passare, e allora pazienza. Però, sai, era Natale, almeno un saluto, o una telefonata, avresti potuto farmela. Invece te ne sei fottuto che il coglione qui fosse a casa da solo a rodersi il culo! –
- Non credevo ci tenessi tanto al Natale. –
- Me ne fotto del Natale!! Volevo solo che tu ci fossi, per una cazzo di mezz’ora in un giorno, quando avevo preparato una serata intera solo perché a te sarebbe piaciuto!! Perché io mi ricordo ogni singola cosa che mi hai detto, le cose che ti piacciono, quei cazzo di alberi di Natale che tua moglie ti vieta di fare tutti gli anni e che tu adori, o il pandoro alla crema che non puoi mangiare perché a casa tua preferiscono tutti la crema al pistacchio. A me fa schifo il mascarpone, fa schifo l’albero di Natale e la carne di pollo mi fa venire il voltastomaco! Ma piace a te, e andava bene. E tu non ti sei degnato neppure di venire. –
Adesso l’espressione di Riccardo era cambiata.
Non c’era più quel sorriso velato, o l’irritazione crescente.
Le pupille si erano dilatate, le labbra dischiuse, e le braccia lungo i fianchi si erano irrigidite. Sembrava avere paura adesso, come se potesse aggredirlo da un momento all’altro e sbatterlo contro la parete per riempirlo di pugni. Avrebbe dovuto avere paura di altro, invece, di quel sentimento che gli stava spaccando il cuore a metà, e che non riservava altro che delusioni, una sull’altra.
Di fronte al suo silenzio, Samuele sospirò, sollevando una mano in aria, come se fosse sufficiente a scacciare i mostri di quella delusione. Gli sarebbe passata, con il tempo.
Ma Riccardo lo bloccò, afferrandolo per un braccio e risalendo poi fino a prendergli il viso tra le sue mani fresche e morbide.
- Mi dispiace, Samuele, davvero, ma questo è l’ultimo Natale che passiamo così. A giugno mio figlio si diploma, le cose si sistemeranno. Abbi solo un altro po’ di pazienza. –
Chiuse gli occhi nello stesso istante in cui le labbra di Riccardo si avvicinavano e sfioravano le sue.
- E poi domani io e te partiamo e ci godiamo una bella vacanza in montagna. Ho prenotato per te una piccola baita, la adorerai. – Un altro bacio, uno ad ogni parola tra una carezza e l’altra.
Poi Riccardo si allontanò appena, per armeggiare con le tasche del suo cappotto.
- A proposito, ti ho portato i soldi, così non avrai problemi a… -
- I soldi? – Riccardo sollevò il apo di fronte al suo tono interrogativo.
- Te l’ho detto che questa vacanza è un mio regalo, e che pagherò io. Credevo fossi d’accordo. –
Dalle tasche del cappotto, Riccardo tirò fuori due mazzette di banconote. Non aveva mai visto così tanti soldi tutti insieme, nemmeno nella cassa del locale: erano banconote da cento e duecento euro. Quando l’uomo fece per avvicinarsi, Samuele arretrò come se quello avesse in mano dinamite. Riccardo li poggiò sul tavolo del salotto, guardandolo in modo interrogativo, e Samuele portò le mani avanti.
- Non voglio i tuoi soldi. –
- Non ricominciare, Samuele, voglio farci un regalo! –
- Non così. Se vuoi pagare, se ci tieni tanto, fallo, ma non voglio i tuoi soldi. Posso pagare da me. –
Riccardo espirò.
- Cerca di capire, non posso fare un accredito io al gestore, o si chiederanno perché io stia pagando una baita, il ristorante, e tutto, a uno sconosciuto. Invece dando i soldi a te puoi pagare tu, ma è come se lo facessi io. –
Lo aveva quasi dimenticato, con tutte quelle belle parole e quelle carezze, che loro in quell’occasione sarebbero stati sconosciuti, davanti a tutti. Riccardo gli aveva spiegato che trascorreva spesso le vacane lì, che lo conoscevano tutti, e ci sarebbero stati gli amici di suo figlio.
Loro due si sarebbero incontrati quasi per caso, lui l’avrebbe presentato come un vecchio cliente del suo studio legale, e tutto si sarebbe chiuso lì: così, aveva detto Riccardo, potremo passare le giornate insieme senza insospettire nessuno, e la notte mio figlio farà così tardi che crederà che io sia con gli uomini a giocare a carte, invece che con te.
Adesso gli sembrava tutto terribilmente squallido. Mentire davanti a tutti, godere di Riccardo la notte, al buio di una baita riscaldata, mentire a un ragazzino di diciotto anni convinto che suo padre lo avesse portato in montagna solo per passare del tempo insieme.
Andare in giro con i soldi di Riccardo in tasca. Come una puttana d’alto borgo.
Non l’avrebbe sopportato.
Fece un passo indietro.
- Non posso venire, Riccardo. –
- Smettila, Samuele, davvero, non… -
- Non posso venire. Non ce la faccio. E’ troppo. –
Riccardo lo fissò, battendo le palpebre una sola volta. E Samuele crollò seduto sul divano, stropicciando le maglie che aveva appena stirato, senza curarsene. Nascose il viso tra le mani, con i gomiti poggiati sulle ginocchia.
- Non posso venire, davvero. Non potrei sopportare di trovarmi tuo figlio davanti, magari vederlo gentile con me perché crede che io sia solo un cliente di suo padre, sapendo invece che io e suo padre scopiamo! Non sopporterei di andare in giro con i tuoi soldi, come una puttana, e mentire davanti a tutti. Non ce la faccio, veramente. –
- Noi siamo qui, e mio figlio crede comunque che io sia a lavoro. Qual è la differenza? –
- C’è la differenza! -  Sollevò gli occhi, incrociando quelli di Riccardo. – Perché io sono qui, e mi sento pulito, a modo mio! Ti amo, non pretendo niente da te, o almeno ci provo, e se tuo figlio mi vedesse, un giorno, lo farebbe sapendo chi sono! Ma se io venissi in montagna con te e tuo figlio…sarei solo uno sporco pezzo di merda bugiardo, che ha mentito davanti a tutti e davanti a un ragazzino! No, Riccardo, non ci vengo. –
Nascose di nuovo il capo tra le mani.
Si stava spezzando ad ogni respiro. Non aveva mai pensato a quanto fosse squallida la situazione nella quale si trovava, però non era colpa sua se si era innamorato di un uomo sposato.
Cercava di non fargli pressione, di aspettare che fosse pronto, eppure non era giusto neppure che fosse lui a soffrirne se quell’uomo non amava più sua moglie e amava lui.
La mano di Riccardo si poggiò sulla sua spalla, seguita subito dopo dal suo braccio, dal suo corpo, dall’altra mano, in un abbraccio morbido.
- Non è colpa tua, Samuele. Ma abbi solo un po’ di pazienza, sto facendo quello che posso – gli mormorò. Alzò il viso, sotto la spinta delle sue dita che premevano sul mento. – Con quei soldi faremo un altro viaggio, senza nessun altro. Noi ci godremo questa serata. Sarà l’ultima serata dell’anno, no? Dobbiamo festeggiare. –
Gli venne un po’ da sorridere, mentre Riccardo affondava la lingua nella sua bocca.
 

§§§

 
Era uno di quei giorni in cui, dopo 365 giorni trascorsi a dimenticare il terrificante Natale precedente, tutti i motivi che avevano portato a detestarlo ritornavano freschissimi.
Gli capitava tutti gli anni, il 2 di Gennaio.
Di solito si svegliava con un mal di testa allucinante, la nausea e i coglioni fino al pavimento.
Quell’anno, in aggiunta, c’era una sensazione opprimente alla bocca dello stomaco.
Per un insieme di cose che rimandavano tutte al fatto che se ne stesse seduto di fronte al computer alle due del pomeriggio.
Era iniziato tutto quella mattina, quando si era svegliato e aveva chiamato Samuele. Aveva provato a rintracciarlo il giorno prima, per fargli gli auguri, ma quello non aveva risposto: allora aveva pensato che dovesse essere ancora in montagna con Riccardo. Ci aveva riprovato quella mattina, e quando Samuele aveva risposto, aveva scoperto che fosse rimasto a casa per tutto il tempo, perché alle fine non se l’era sentita di partire con Riccardo e trovarsi suo figlio davanti.
Forse erano state le parole di Samuele su Riccardo, sulla situazione in cui si trovava, forse il maglione di Manfredi abbandonato sul pavimento dalla sera prima, quando era stato a casa sua a giocare a carte, forse quella sensazione di inquietudine con cui apriva gli occhi tutte le mattine chiedendosi quanto mancasse al suo ritorno a Milano, fatto sta che prima di pranzo aveva chiamato Dominik. Era stata una chiamata velocissima, per chiedergli di connettersi su skype, e lui aveva risposto che sua sorella era fuori con la madre, ma che sarebbe tornata presto, e si sarebbe connesso per le due.
Così Federico aveva pranzato in camera sua, e dall’una e mezzo se ne stava a fissare lo schermo del computer, in attesa. I suoi genitori erano usciti presto per andare a lavoro, quella mattina: lavoravano entrambi in banca, e non tornavano mai a casa prima delle sei del pomeriggio. Anche per pranzo preferivano restare in centro, perché per tornare a casa e poi di nuovo al lavoro ci avrebbero messo due ore.
E lui se ne stava lì, da mezz’ora, ad aspettare che il nome Aneta Marek comparisse sullo schermo del computer.
Parlare al telefono con Dominik non gli piaceva per nulla: era letteralmente ermetico nel modo di parlare, e non si capiva mai cosa stesse pensando. Era completamente diverso dall’averlo vicino: quando erano a casa insieme poteva sempre cogliere una scintilla di ripensamento nel suo modo di muoversi quando gli dava una risposta e poi si pentiva, o un accenno di divertimento o di dubbio nella sua voce, accompagnato da un gesto nervoso della mano.
A telefono, Dominik era uno sconosciuto.
Con Manfredi non avevano più parlato veramente: erano usciti insieme, si erano comportati come sempre, si erano lasciati sfuggire qualche sguardo e una carezza, ma niente di più. Manfredi lo aveva accuratamente evitato, e lui non era riuscito neppure ad affrontarlo, perché il casino che aveva in testa era ancora tutto lì, ingarbugliato.
Lo aveva sciolto un po’ proprio Dominik, quando aveva parlato con lui al telefono, il giorno di Natale.
- Che facevi?...No, aspetta, fammi indovinare…o stavi suonando, o stavi mangiando schifezze al cioccolato! –
- Tutte e due! –
Dominik era semplice.
Quando voleva.
Era semplice il suo modo di interpretare il mondo, il suo modo di suonare e di proiettare la musica sulle persone e sulle cose. Era stato semplice anche parlarci, per quel poco tempo: era stato come riportare l’ordine.
Palermo lo stava distruggendo, di nuovo. Non sarebbe dovuto tornare, probabilmente, perché non era ancora pronto. Non era pronto a ritrovare Manfredi, ad affrontare il sorriso fiero di sua madre quando lo guardava, sapendo invece benissimo di aver trascorso a Milano i mesi migliori degli ultimi anni, ad assaporare quella città in cui era cresciuto ma che gli stava troppo stretta.
Non era ancora pronto a staccarsi così da Dominik, da Samuele, da Lorenzo, e da quello che era diventato a Milano. A Milano era cresciuto, era cambiato, ma allontanarsi da Samuele e da tutti era stato come strappare da una ferita la crosticina non ancora del tutto formatisi, riaprendo i lembi e facendo scorrere il sangue.
La verità era che non riusciva più a stare a Palermo così.
Voleva tornare a Milano.
Un trillo dal computer lo fece sobbalzare.
L’icona, sul pc, lo informava di avere una chiamata in arrivo su skype. Si affrettò a rispondere, e quando si aprì l’immagine sfocata, un po’ pixelata, distinse subito la matassa di capelli biondi che aveva imparato ad associare a Dominik. Stava agitando le mani, e parlava nella sua lingua d’origine, probabilmente con la sorella.
Loro non potevano vederlo, perché lui non aveva installato la webcam. Dominik era cieco, non avrebbe avuto senso. E, in fondo, era un modo per sentirsi un po’ protetto. Un modo un po’ infantile.
- Federico? Federico mi senti? –
- Si, Dom, ti sento. –
- Oh, allora è vero…credevo mia sorella mi stesse facendo uno scherzo. –
Federico sorrise, stringendosi su se stesso.
La figura di Dominik gli appariva dai colori poco vivaci, attraverso la webcam, ma era tutta lì. Era lì con i suoi capelli biondi, con le guance un po’ arrossate e le labbra carnose, con le mani poggiate sul piano di una scrivania di legno scuro come se fosse la tastiera di un pianoforte. Indossava uno dei suoi maglioni sformati, ma teneva le maniche sollevate fino a gomiti, mostrando la pelle chiara degli avambracci. Sarebbe rimasto ore così, a fissargli le mani, con quella strana irritazione pe il non poterle sfiorare come faceva di solito.
Era la prima volta che lo “rivedeva” da quando si erano lasciati a Milano.
La prima volta da quando aveva fatto quel sogno assurdo.
La prima volta da quando era riuscito ad ammettere, a se stesso e a Manfredi, che gli piacesse.
E nonostante sarebbe dovuto essere strano, non c’era mai stato niente di tanto naturale.
- Come stai, Federico? –
Dominik aveva reclinato il capo di lati, e le mani erano sparite, finendo sotto la scrivania, probabilmente poggiate sulle sue gambe. Come se gli avesse letto nel pensiero, gli aveva tolto la possibilità di fissare quelle dita sottili. Lo faceva sempre anche quando erano insieme e si sentiva osservato.
- Bene, Dom. A parte che non credo di aver mai mangiato così tanto in un anno intero, però bene! Tu come stai? –
- Bene. Ho fatto sentire alla mamma tutte le ultime cose che ho imparato, anche se a lei piace Chopin, e il lo suono per lei. E mia sorella Jana ha imparato a leggere, e ha raccontato una poesia di Natale che ha imparato a scuola. E poi Aneta, ti ricordi di Aneta vero? La nonna diceva che lei e Roman erano fidanzati perché erano andati al cinema insieme… -
- Si, Dom, me lo ricordo – gli rispose ridacchiando per tanto entusiasmo. Non aveva mai visto Dominik tanto preso da qualcosa. Lo rendeva più…umano.
- Ecco, aveva ragione la nonna, perché Aneta si è fidanzata con Roman, anche se il papà non è che sia tanto d’accordo. Però tu avevi detto che non sempre se due persone vanno al cinema insieme allora sono fidanzate – osservò, con un’espressione confusa che lo fece sorridere. Odiava quella webcam, che con quella bassa qualità gli impediva di godere appieno delle sfumature nella sua espressione, ma sempre meglio che niente. Federico si sistemò meglio sulla sedia, piegando il busto indietro e reclinando appena lo schienale.
- E’ così infatti. Non sempre sono fidanzate, ma possono anche esserlo. Dipende dalle persone, Dom. Ci sono quelle che escono insieme perchè sono amici, e quelle che sono fidanzate. –
DOmink annuì vigorosamente, come se all’improvviso lo avesse colpito una rivelazione.
- Sì, è vero. Anche io e te usciamo insieme perché siamo amici. –
- Ehi, si, visto? –
Deglutì, mordendosi la lingua. Si sentiva un po’ un verme, perché aveva appena pensato al sogno che aveva fatto, a quella lieve consapevolezza che Dominik non lo vedesse poi più tanto come un amico. Però non gli disse niente, perché le cose erano già abbastanza incasinate così. Non gli era bastato innamorarsi del suo migliore amico, no! Adesso doveva anche piacergli un ragazzino fissato con la musica, e sicuramente etero! Avrebbe voluto chiederglielo, però. Dominik, sei etero?
Se lo immaginava già quanto sarebbe stata stupida quella domanda.
- Ci sei stato al mare, Federico, adesso che sei a Palermo? – gli chiese poi Dominik.
- Ci sono stato una volta. - 
C’era stato con Manfredi, il giorno dopo Santo Stefano. Manfredi aveva il giorno libero al lavoro, ed erano scappati a Mondello, di prima mattina, perché c’era un sole spettacolare.  Poi, però, a mezzogiorno il cielo aveva iniziato a oscurarsi all’improvviso e loro, che a Mondello c’erano andati con gli scooter di quando erano ragazzi, erano arrivati a casa di Federico zuppi di pioggia.
Si ricordava benissimo di quando Manfredi, sfilandosi il maglione e appoggiandolo alla sedia in cucina, aveva borbottato che adesso è tornato il sole, bel pezzo di merda.
- Ci sei stato con Manfredi? – La voce di Domink colpì come una stilettata dritta al centro del petto.
- Perché? –
- Tanto lo so che ci sei andato con lui. Si capisce dalla tua voce che anche se ti sei divertito sei triste, perché c’era lui. Io non ti capisco, Federico. -  
- Guarda che io non ho usato proprio nessuna voce, come dici tu! – Tentava di difendersi, ma non stva mentendo. Non era veramente “triste”.
- Invece sì, si sente tutte le volte che parli di Manfredi. E se lui è stato così cattivo con te da farti parlare così anche dopo tutto questo tempo, perché continui a starci insieme, ad invitarlo a casa tua, ad andare al mare con lui? –
Ragazzino cocciuto e indisponente.
Aveva letteralmente perso il conto di tutte le volte in cui avevano affrontato quel discorso, e puntualmente non erano mai giunti a una conclusione, perché lui continuava a dire che erano comunque amici, al punto da non potersi allontanare davvero, e Dominik si fissava che chi si comportava male non poteva essere considerato un amic.
Alla fine lasciavano perdere, e Dominik si lasciava corrompere da un quadratino di cioccolato.
- Te l’ho spiegato, Dom. Siamo amici io e Manfredi, e tra amici funziona così. Anche se uno dei due fa degli errori, l’altro lo perdona, anche quando ad altre persone sembra una cosa imperdonabile. – Dominik assunse un’espressione corrucciata.
Ecco, adesso avrebbe voluto averlo vicino, sul loro divano a casa. Avrebbe seguito il decorso di quelle labbra imbronciate con le dita, e probabilmente non sarebbe riuscito a fermarsi.
Lo avrebbe convinto che aveva ragione lui, o forse lo avrebbe irritato ancora solo per non fargli perdere quell’espressione terribilmente eccitante.
- Ti faccio un esempio. Se io facessi qualcosa di brutto a te, una cosa qualsiasi, tu non mi rivolgeresti più la parola? –
- Tu non faresti mai una cosa cattiva. –
- Sono umano, Dominik, potrebbe succedere, ed è successo spesso. Ma sto parlando per ipotesi. Se succedesse. Rispondimi. –
Dominik dischiuse le labbra, poi le chiuse di nuovo del tutto, spingendosi indietro sulla sedia che occuava e raccogliendo le ginocchia al petto. Non ci entrava proprio in quel modo in quella sedia piccola, ma si stava raggomitolando tanto perché, cocciutamente, doveva entrarci.
- Credo che ti parlerei. Mi arrabbierei, però non riuscirei a non parlarti – confessò alla fine, con voce bassa e terribilmente morbida, perché l’idea di avere avuto torto doveva risultargli insopportabile.
Federico sorrise, raddrizzandosi sulla sedia e spingendo il busto in avanti, ancorandosi con i gomiti sul piano della scrivania. Era vicinissimo allo schermo, nella vana speranza di sentirlo più vicino così.
Ma Dominik era lo stesso terribilmente lontano.
- E dimmi, ti sono mancato? – lo provocò.
Non avrebbe dovuto farlo. Forse, se fosse stato più lucido e meno preso dall’entusiasmo di averlo di nuovo davanti così, attraverso uno schermo impersonale, non avrebbe nemmeno avuto il coraggio di pronunciare una sola parola. Ma Dominik era lì, strano nella sua momentanea fragilità, quella n cui aveva gettato le armi a terra per concedergli ragione almeno su una cosa, e lui non voleva sprecarla a parlare di Manfredi.
Domiik dal canto suo non fece una piega. Fece scivolare via le gambe dal petto, ma le incrociò sul piano della sedia, nascondendoci in mezzo le mani. Doveva averle poggiate sulle cosce, sul ventre. Federico si chiese quanto potesse essere caldo, lì, il corpo di Dominik.
- Si – mugolò alla fine, un incrocio tra la delusione di essere di nuovo debole e la consapevolezza che, in fondo, quella fosse solo la verità.
A vederlo così, a Federico si strinse il cuore in una morsa, una sensazione di calore e di turbolenza che da dentro il petto si spostava lungo le braccia fino alle mani, e lo riempiva.
Riempiva quel vuoto che la lontananza da Milano aveva procurato, chiudeva i lembi di quella ferita che tornare a Palermo aveva riaperto. E gli animava qualcosa dentro, che lo faceva sentire di nuovo vivo.
Si era accorto che la risposta alle sue domande non fosse tornare a Milano, ma riportare Milano da lui.
- Dominik, senti…ti piacerebbe vedere il mare? –
- Il mare? –
- Si. Vieni qua a Palermo. Solo qualche giorno. E poi torniamo a Milano insieme. –
Suonava tanto simile ad una preghiera, che Federico si fece paura.
- Se puoi, ovviamente. E se vuoi – si affrettò ad aggiungere.
Dominik era rimasto immobile, nella sua posizione di sempre, ma le mani erano tornate sulla scrivania, come se tentasse di aggrapparcisi.
- A Palermo con te? –
- Si! Stai qui a casa da me, c’è la stanza di Milena, e ti porterò al mare, così non mi dirai neppure che vado al mare con Manfredi anche se non devo. –
Dominik sorrise. Era terribilmente soffice il modo in cui sorrideva, che la voglia di afferrarlo per le spalle stava diventando insostenibile. Si era sporto con il busto così tanto in avanti che sarebbe finito di lì a poco contro lo schermo del computer.
SI sentiva una strana frenesia addosso. Adesso che si trovava di fronte la possibilità di rivederlo di lì a pochi giorni, di trovarlo a Palermo, nell’ambiente che lo aveva visto crescere, il tempo sembrava essersi condensato. Anche i movimenti di Dominik sembravano più lenti.
- Dici davvero? –
- Perché non dovrei dire sul serio, scusa? –
- Non lo so, io…le persone dicono tante cose, Federico. Quando me l’hai detto una volta, che sarei potuto passare da Palermo e avremmo visto il mare, ho pensato che fosse una frase come quelle che dice sempre zia Petra, quando promette a me e ad Aneta che ci porterà in vacanza con lei l’anno prossimo e poi non ci porta mai. La nonna lo dice sempre che la zia parla tanto per parlare, però non lo dice mai davanti a zio Viktor, che è suo figlio, perché lui si lamenta sempre che alla nonna sua moglie non è mai piaciuta. – Federico sorrise. Quella storia gli ricordava tanto l’astio di sua nonna per quell’idiota di sua nuora. Certe cose non conoscevano proprio differenze di nazione. Ma Dominik era già andato oltre, agitando le mani in aria. – Dici davvero che posso venire a Palermo con te? -
- Davvero, non sono mai stato così serio! –
- Allora lo chiedo alla mamma e poi ti dico. –
- Dille che penso a tutto io. Vengo a prenderti in aeroporto, ti prenoto anche l’aereo se necessario. Stiamo a casa mia e poi torniamo a Milano insieme. Non ci sarà nessun problema. –
Vieni, Dominik, vieni in questa cazzo di città e portaci tutto quello che mi hai dato a Milano.
Dominik avrebbe esorcizzato quella città, l’avrebbe strappata dalla nuvola di ricordi che la circondavano. L’avrebbe migliorata. E l’avrebbe rivisto, dopo più di dieci giorni che erano parsi un anno.
- Grazie, Federico – lo sentì mormorare.
- Non devi ringraziarmi. Però mi sembri stranamente contento, può darsi? – lo provocò, con una mezza risata. Stranamente, anche Dominik rise.
- Lo sono, perché tu sei buono, e perché mi è mancato parlare con te. –
A me sei mancato tu, avrebbe voluto dirgli. Ed era certo, con una parte del suo corpo, che il significato di quella frase, mi è mancato parlare con te, significasse che gli era mancato tutto, e basta.
- Allora mi fai sapere, Dom?– mormorò, quasi come se avesse bisogno di accertarsi che lui se ne ricordasse, che lo avesse preso sul serio..
- Più tardi chiedo il permesso alla mamma, e poi ti chiamo! – lo rassicurò, con quel viso tutto sorridente che sembrava di essere tornati indietro al giorno di Natale. Gli sorrise di rimando: anche se sapeva che non potesse vederlo, era convinto che, in qualche modo, lui potesse sentirlo.
- Ah, Dom, sai cosa mi è successo l’altro giorno? Ero vicino al Teatro Massimo, qui a Palermo, e… - iniziò a raccontare, con il viso ancora così vicino al computer da entraci quasi dentro.
C’era di nuovo quella strana complicità della loro ultima uscita insieme, quando Dominik aveva voluto concedersi una passeggiata dopo la loro cena fuori e aveva sorriso tutto il tempo.
Tu fai un sacco di cose per me, ma ho la sensazione che non lo sai nemmeno tu perché lo fai.
Eccome se lo sapeva il perché lo faceva.
Si stava cacciando in un mare di guai. Era troppo, troppo speranzoso che lui venisse.
Sarebbe finito in un bel casino.
Ma, in fondo, qualche giorno cosa poteva mai fare?
 

§§§

 
Più tardi, mentre a Palermo era buio e se ne stava seduto su una panchina in Piazza Politeama con gli amici, a Federico vibrò il cellulare. Una sola vibrazione, segno di un sms.
Quando prese il cellulare, vide che si trattava di un sms da un numero sconosciuto.
Alitalia. Sabato 5 Gennaio. Praha (Ruzyne) 8:45 a.m.– Palermo (Punta Raisi) 11:00 a.m.
Federico sussultò.
Appena tre giorni e Dominik sarebbe stato a Palermo.
Lo aveva chiamato appena un’ora prima, mentre a casa era appena uscito dalla doccia, e gli aveva detto, entusiasta, che aveva avuto il permesso.
- All’inizio la mamma ha detto di no, che era pericoloso viaggiare da solo in un posto che non conosco, e che voleva stare ancora con me. Però la nonna si è impuntata e le ha detto che non sono più un bambino e che devo fare quello che voglio, e che se la mamma vuole stare con me può venire lei a Milano. Io le ho detto che le voglio bene, e che vorrei stare con lei, ma le ho anche detto che voglio venire a Palermo da te. E alla fine mi ha detto di sì. –
- Io non volevo crearti problemi, però, Dom. –
- No, la mamma lo ha capito, e mi ha detto di stare attento e di dirti grazie perché mi porterai al mare e mi riporterai a Milano. –
- Quando vieni? –
- Questa sera con la mamma e con Aneta guardiamo i voli e ti faccio sapere. Aneta ha detto che scriverà un sms per me, o che comunque mi aiuterà! –
Il cuore aveva mancato un battito nello stesso istante in cui gli aveva sentito dire Federico, vengo! Tutto il resto - il suo entusiasmo, il racconto di come lo avesse chiesto a sua madre, le domande su cosa dovesse portare con sé - erano state solo la dolcissima continuazione di quello che avevano interrotto a Milano dieci giorni prima.
- …te lo ricordi, Fede? –
Sollevò il viso, e un soffio di aria fresca lo riportò al presente, alla panchina fredda e alle voci dei suoi amici. Era stato Rosario a parlargli, e a chiedergli qualcosa riguardo un particolare che evidentemente avrebbe dovuto ricordare, di una cosa della quale non aveva ascoltato una parola.
Ripose il cellulare nella tasca del giubbotto, per passare inosservato, e si limitò ad annuire con una risata, una mezza bugia che non avrebbe fatto del male a nessuno.
Si voltò subito a cercare lo sguardo di Manfredi, come faceva sempre quando si trovavano insieme. Lui non si era accorto di niente: si era appena acceso una sigaretta e stava mormorando qualcosa all’orecchio di Giulia, una delle ragazze del gruppo, che in tutta risposta rise, quasi con le lacrime agli occhi. Poi, sentendosi osservato, anche Manfredi si voltò verso di lui; gli sorrise appena, sollevando un angolo delle labbra, e Manfredi gli rispose con un occhiolino e un largo sorriso.
In quel momento decise che, per il momento, non gli avrebbe detto nulla della visita di Dominik.









Nota al capitolo 24:
Finalmente ce l'ho fatta!
E' praticamente una settimana che lavoro a questo capitolo, e finalmente sono riuscita a finirlo.
Pensavo di aggiornare domani sera, o martedì sra, e invece sono riuscita a farlo adesso.
In questo capitolo, come si capisce anche dal titolo, abbiamo tre contesti: Praga con Dominik, Milano con Samuele, e Palermo con Federico. Sono tre contesti niti dalla chiamata che Federico fa a Dominik e poi a Samuele, e dalla chiamata in skype che Dominik fa a Federico.
Samuele, alla fine, decide di non andare in montagna con Riccardo. Giuro che all'inizio avrebbe dovuto prendere un aeeo e andare in vacanza con Riccardo, passandosi dei bei giorni, perchè volevo dargli un po' di felicità. Però, alla fine, è venuto fuori così, Samele non c'è voluto andare, decide lui! xD A parte lo scherzo, la situazone sarebbe stta davvero squallida, e Samuele è troppo buono per sostenere una cosa del genere. QUi avete avuto l'immagine di un Samuee un pò provato, stanco, sofferente, ma Samuele non è solo questo: questo Samuele è quello che esiste quando c'è Riccardo, ma il vero Samuele è quello che emerge quando Riccardo non c'è, nemmeno nei suoi pensieri. E' il Samuele dei primi capitoli.
Quanto ai nostri amori.... *_* Alla fine Federico ha invitato Dominik a Palermo. Sono mesi che aspetto questo momento, e quando mi chiedevate di rendere le vacanze un momento che passasse rapido, dovevo trattenermi dal dirvi che alla fine Federico avrebbe ceduto e l'avrebbe invitato! 
Come vedete, Manfredi è una presenza un po' più marginale, adesso, segno che le cose sono cambiate.
E anche DOminik e Federico non sono gli stessi che avevamo lasciato, almeno nella prima parte del capitolo: volevo che emergesse questa differenza nel loro rapporto tra il moemento in cui parlano al telefono, un po' imbarazzati perchè nn si sono visti negli ultimi giorni, e quando si ritrovano con skype di mezzo, in cui Federico riesce a vedere Dominik.
Questo perchè il loro è ancora un rapporto così instabile, che anche il non vedersi per qualche giorno lo fa mutare. Muta di giorno in giorno e di ora in ora.
Una volta che vi ho annoiati così, posso anche rotolare via....xD
Spero che questo capitolo vi piaccia, e ovviamente non perdetevi il capitolo 25! Spero di metterci una sola settimana, ma vedremo come si metteranno le cose!
Nella mia pagina facebook troverete sepre aggiornamenti su come procede la scrittura, e sui nostri personaggi: http://www.facebook.com/pages/100-sbavature-di-Esse/509052772480144
Vi lascio con un bacio e un ringraziamento a tutti, e risponderò prestissimo alle recensioni, non appena riavrò il mio adorato pc, domani, visto che questo l'ho letteramente "preso vigorosamente in prestito!. xD
Alla prossima,
Esse

 

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Capitolo 27
*** 25th (I): Portami ovunque, portami al mare ***


Soltanto la musica è all'altezza del mare.

Albert CamusTaccuini, 1935/59 (postumo 1962/89)

 

Chapter 25 – part I: Portami ovunque, portami al mare
 
Uno schermo quadrato e fortemente illuminato proponeva l’acquisto di un nuovo paio di scarpe.
Decisamente troppo bianche.
Una voce femminile metallica annunciava l’imminente imbarco di un volo diretto a Milano.
Uno schermo piatto trentadue pollici bombardava l’ambiente di spot pubblicitari che nessuno ascoltava.
Poco vicino, a seguire le grosse linee nere sul pavimento bianco con passi ampi e lenti, c’era un uomo.
Fissava il suo cellulare di ultima generazione, mordicchiandosi ogni tanto la punta di un dito, ma lanciava sempre più spesso degli sguardi impazienti al tabellone che segnava i voli in arrivo.
Chissà quale volo stava aspettando, chi ci sarebbe stato a bordo.
Forse una moglie, un’amante, una madre, un fratello. Magari un figlio.
Federico lasciò andare le chiavi nella tasca dei pantaloni.
Ci stava giocando da quelle che gli parevano ore, ma non erano più che pochi minuti.
Era arrivato in aeroporto alle dieci e diciotto precise.
Non aveva voluto rischiare di arrivare in ritardo, ma adesso erano ben cinquanta minuti che non faceva che camminare avanti e indietro o muoversi continuamente quando riusciva a sedersi da qualche parte.
Era terribilmente nervoso. Nervoso perché avrebbe rivisto Dominik dopo giorni interi e perché il tempo pareva non passare mai. Nervoso perché non aveva avuto ancora il coraggio di confessare a Manfredi di aver invitato Dominik. Nervoso perché, quando c’era quel ragazzino di mezzo, non sapeva mai cosa aspettarsi.
Erano stati probabilmente i quattro giorni più lunghi della sua vita.
Dopo che Dominik gli aveva inviato quell’sms con i dettagli sul suo volo, Federico era tornato a casa in uno stato di trance, e non aveva chiuso occhio tutta la notte. Aveva dovuto aspettare la sera successiva per informare sua madre di aver invitato il coinquilino, e lei era stata più che contenta, perché amava avere ospiti in casa e conoscere gli amici di suo figlio.
Lui, però non era stato altrettanto tranquillo, e non aveva chiuso occhio neppure le notti successive.
Adesso che si trovava in aeroporto, con i raggi di sole che filtravano attraverso i vetri, quasi si sentiva male. Era un sabato splendido, eppure: faceva caldo come i giorni precedenti, c’era il sole, ed era una giornata perfetta per mettere in atto quello che aveva pensato di fare.
Avrebbe portato Dominik al mare, come gli aveva promesso, ma non a Mondello. Lì ci sarebbero stati un altro giorno. Quella mattina l’avrebbe portato a Cefalù.
Il mare di Cefalù aveva sempre avuto qualcosa di speciale che non c’entrava poi tanto con l’acqua pulita, con la buona fama o con la solita gente che ci stava.
Era come se possedesse qualcosa in sé, per quello che era, e che si percepiva solo quando ci si trovava dentro. A Dominik sarebbe piaciuto, ne era certo.
Aveva pensato a tutto, a dir poco. Aveva fatto preparare la stanza di Milena, salvo poi rendersi conto che Dominik non avrebbe potuto dormirci: se avesse avuto bisogno di qualcosa, come di un bicchiere d’acqua, o di andare al bagno, non avrebbe saputo dove andare, e non voleva metterlo in imbarazzo. Allora aveva spostato il letto di Milena nella sua camera, aveva liberato metà dell’armadio, e una parte della sua mensolina nel bagno.
Aveva parlato al telefono con Dominik tutti i giorni, da quando aveva saputo che si sarebbero rivisti. Tutte le sere, prima di cena, gli faceva una telefonata, e lo sentiva raccontargli la sua giornata, la passeggiata che aveva fatto con i suoi genitori, la nuova sinfonia che aveva fatto sentire a sua nonna, persino le piccole liti tra sua sorella e il suo fidanzatino. A Dominik però piaceva più ascoltare lui: c’era un momento, quando rispondeva al telefono, in cui iniziava a parlare di fretta, come se volesse finire il prima possibile per avere più tempo, del poco a loro disposizione, per sentir parlare lui. Lo capiva subito, Federico, quando succedeva: Dominik espirava debolmente, e restava in silenzio. Allora lui raccontava un po’ di sé: gli aveva parlato di Milena e delle sue paranoie, del paio di ciabatte imbottite che gli aveva regalato per Natale, per scherzo, salvo poi presentarsi con uno splendido orologio; poi era passato a raccontargli dei suoi pomeriggi fuori con gli amici, delle poche telefonate a Samuele. Persino di Manfredi.
Quando parlava di Manfredi, Dominik sarebbe potuto restare ad ascoltarlo in silenzio per ore, e poi sarebbe tornato a parlargli con la sua solita leggerezza.
Federico guardò l’orologio.
Erano le undici e dieci.
Era stato così perso nei suoi pensieri da non essersi accorto che l’aereo che stava aspettando fosse atterrato. Il tabellone indicava che avesse toccato terra in perfetto orario.
Avrebbe dovuto aspettare solo pochi altri minuti.
E si sentiva il cuore battere così forte da potergli uscire addirittura dal petto.
Si chieda come sarebbe stato rivederlo: probabilmente non ci avrebbe trovato nulla di diverso. Avrebbe avuto sempre quello strano modo altero di camminare, quei capelli biondi scompigliati e quei maglioni informi. Lo avrebbe salutato con lo stesso tono di voce di sempre, poi si sarebbe lasciato condurre da qualche parte, e alla prima occasione ne avrebbe approfittato per ritornare un po’ stronzetto.
O forse l’avrebbe visto diverso: non perché Dominik fosse davvero cambiato, ma perché sarebbe stato differente il modo in cui lo avrebbe guardato lui. Temeva quel momento da giorni, e da settimane all’idea di tornare a Milano. Temeva che tutto sarebbe andato a rotoli, che si sarebbe fatto coinvolgere in quel tumulto di sensazioni e che avrebbe fatto un casino.
In momenti come quelli c’era sempre stato Manfredi a tenerlo con i piedi per terra, a strattonarlo e a riportare un ordine nella sua vita al posto suo. Adesso non poteva chiedere a Manfredi una cosa del genere, e avrebbe anche dovuto smetterla di delegargli certi compiti.
Doveva crescere, doveva staccarsi da lui e iniziare a prendere da solo le sue decisioni.
Se erano arrivati a quel punto era colpa sua, che si era sempre troppo appoggiato a lui. Non avrebbe commesso di nuovo lo stesso errore.
Federico sbuffò, passandosi una mano sul viso.
Doveva smetterla. Dominik sarebbe arrivato di lì a poco e non voleva che lo trovasse così. Lo aveva invitato lì e gli avrebbe fatto passare una buona giornata: magari lo avrebbe convinto definitivamente che uscire ogni tanto, invece di starsene sempre rintanato a suonare, non fosse poi una cattiva idea. E gli avrebbe detto la verità. Sai, Dom, sono gay. Semplice e diretto.
Lo aveva promesso a Samuele, quando lui lo aveva chiamato, la sera prima, per chiacchierare un po’. Era al locale, e mentre gli parlava, ad un certo punto aveva borbottato un no, oggi non le ho messe Mattia, sai, per essere più comodo, ma non aveva avuto il tempo di chiedergli con chi stesse parlando che Samuele era già andato oltre, soffiando in un sospiro. Oggi è tornato Riccardo dalla montagna. Non c’era stato bisogno di chiedere per capire che Riccardo non si fosse fatto vedere a casa sua, dopo giorni interi, e che Samuele ci fosse rimasto dannatamente male, anche se si era affrettato a chiedergli con una battuta se avesse intenzione di tornare a lavoro, che Simone si era trovato un nuovo ragazzo e voleva farlo conoscere a tutti, e che avrebbe dovuto vederlo perché aveva i capelli lunghi fino alla schiena e le punte tinte di azzurro pastello.
Allora Federico lo aveva detto. Dirò a Dominik che sono gay. Gli era uscita una voce così sicura che era parso davvero convinto di averlo sempre pensato, nonostante se la stesse facendo già sotto. Solo che non voleva finire così: non voleva nascondersi ancora davanti a tutti, non voleva ritrovarsi magari infognato in una storia come quella di Samuele. E, in fondo, voleva sapere come avrebbe reagito Dominik. Magari avrebbe reagito male, gli avrebbe chiesto di andarsene di casa: così sì che se lo sarebbe tolto definitivamente dalla testa. Lo avrebbe fatto poco prima di tornare a Milano, perché non voleva rovinarsi quei giorni a Palermo. La sera prima di partire glielo avrebbe detto: se lui l’avesse presa male, una volta arrivati a Milano avrebbe fatto le valigie  e sarebbe stato da Samuele per un po’, giusto il tempo di trovarsi un altro appartamento.
Al solo pensiero, però, gli si spaccava il cuore a metà.
Era così abituato a Dominik, ormai, a quella loro routine, al suo modo di vedere il mondo, che gli veniva da pensare che sarebbe stato meglio starsene zitti, piuttosto che rischiare di ricominciare tutto da capo. Ma ormai l’aveva detto, e alle orecchie di Samuele era risultata quasi una promessa: gli aveva risposto solo fai benissimo, Federico, ma con un tono di voce così morbido che non era riuscito a dirgli come, nello stesso momento in cui lo aveva detto, se ne fosse già pentito.
La voce metallica annunciò dagli altoparlanti l’imminente partenza di un volo diretto a Parigi, con scalo a Roma.
L’uomo che c’era prima era stato raggiunto da una donna; non era proprio una donna, era più una ragazza, probabilmente di poco più di vent’anni. Aveva una valigia rigida raffigurante Titti, l’uccellino giallo del cartone animato, e indossava un giubbino di pelle colore cuoio terribilmente corto sulla pancia. Però era bella:  aveva una marea di capelli di un biondo tendente al rosso ramato, tutti ricci, che le incorniciavano un viso piccolo, e gli occhi grandissimi, verdi, che fissavano quell’uomo come se avessero appena visto un diamante.
Si baciarono così, con le mani dell’uomo intorno al suo viso e la mano di lei ancora stretta intorno alla valigia, mentre si sollevava sulle punte dei piedi per raggiungerlo meglio.
Istintivamente, Federico guardò la mano sinistra dell’uomo.
Non portava la fede, ma questo non significava certo qualcosa. Potrebbe essere stato sposato e averla tolta per rivedere la sua amante, oppure non portarla abitualmente, oppure ancora quella ragazzina non conosceva la verità e non poteva portare la fede davanti a lei. O forse, più semplicemente, quell’uomo non aveva una moglie e si era semplicemente innamorato di quella ragazza: forse adesso sarebbero andati a pranzo a casa di lei, con i suoi genitori, e forse le avrebbe chiesto di sposarlo, prima o poi, o sarebbero andati a vivere insieme.
Sarebbe potuto accadere di tutto.
Un po’ come tra lui e Dominik.
Federico allungò il collo per osservare meglio le porte a vetri da cui continuavano a uscire persone di tutti i tipi, con al seguito bagagli di varia natura. Dominik non c’era.
Non aveva idea di come avrebbe fatto a uscire di lì, ma lui gli aveva assicurato che si sarebbe fatto aiutare da una delle hostess, come faceva sempre quando arrivava a Milano e Jenette lo aspettava per accompagnarlo a casa. Doveva solo aspettare pazientemente, e la mano prese a giocherellare di nuovo con le chiavi nella tasca dei pantaloni.
Era nervoso come una ragazzina.
Lo era stato così tanto probabilmente solo una volta, quando aveva fatto sesso per la prima volta con Giulia, e alla fine non gli era piaciuto poi così tanto. Però Giulia era una brava ragazza: si erano lasciati perché lei era partita per Roma, a causa del lavoro di suo padre. Ce l’aveva come amica su facebook, ogni tanto chiacchieravano anche, ma non avevano mai avuto il coraggio di approfondire una conversazione al di là delle solite vuote domande di rito.
Gli sarebbe piaciuto stringere di nuovo un rapporto con Giulia, era la persona migliore del mondo. Se le avesse detto di essere gay, non solo non se la sarebbe presa, ma avrebbe indetto una crociata contro il Papa per legalizzare le nozze gay, solo perché l’avere così vicino un ragazzo omosessuale avrebbe ulteriormente acceso quella vena polemica che la animava da sempre. Ci aveva anche pensato, una volta, di dire la verità a Giulia, solo che non ce n’era stata occasione: non gli andava di spiattellarglielo così, tra un come stai e un cosa fai di bello su facebook, e la conversazione scemava sempre prima che potesse andare oltre. Poi Manfredi gli aveva sconsigliato di farlo, perché per quanto Giulia potesse essere una brava ragazza e non avere nulla contro l’omosessualità, sapere che il suo ex ragazzo fosse gay sarebbe stato un duro colpo anche per lei. Allora aveva lasciato perdere. Solo che adesso tutti quei segreti gli pesavano sulle spalle come un macigno, e l’unica persona con cui potesse parlarne, lì a Palermo, era proprio Manfredi, l’ultima persona con cui avrebbe voluto farlo.
Le chiavi ricaddero nella tasca, Federico alzò di nuovo il viso.
Era una massa di capelli biondi quella che vedeva: un cappotto scuro, una sciarpa sui toni del grigio e un borsone scuro. Era Dominik. Era accompagnato da una sorridente donna alta con i capelli biondi raccolti in una croccia e fermati da un cappellino verde scuro di quelli eleganti che portavano le hostess.
Si avvicinò subito, scansando un gruppetto di ragazze che parlottavano tutte concitate. Era più vicino, adesso, e poteva vedere meglio Dominik. Era identico a quando lo aveva lasciato, forse solo con i capelli un po’ corti. Era ridicolo d’altronde pensare che fosse cambiato totalmente in due settimane, ma era preso dalla strana paura che Dominik fosse una di quelle creature paranormali che smettevano di esistere fuori da Milano. Invece era lì, stava camminando, ed era a Palermo.
 La ragazza bionda puntò i suoi occhi su di lui: doveva aver capito che fosse il ragazzo che sarebbe andato a prendere Dominik.
Quando fu abbastanza vicino da farsi sentire, tese la mano in avanti.
- Dominik? –
Era strano persino pronunciare il suo nome, adesso che ce l’aveva così vicino. Sarebbe stato facilissimo stringere le dita sulla manica del suo cappotto, ma non lo fece.
Il viso del ragazzino si illuminò, e la sua mano scattò istintivamente in avanti mentre allungava il collo, come se fosse un gatto e volesse indirizzare le orecchie per captare meglio il suono della sua voce. Però non provò nemmeno a toccarlo: la mano si arrestò a mezz’aria, come se fosse stato solo un gesto istintivo senza nessun seguito.
Era terribilmente bello in quell’aeroporto: stonava come una pennellata di rosso in una foto in bianco e nero.
- Federico – soffiò.
La ragazza che lo accompagnava si fermò, e gli parlò in inglese così velocemente da non fargli capire una sola parola: lui che di inglese già non ne capiva granchè, in quel modo non era riuscito a captare proprio nulla. Fu Dominik a venirgli in soccorso mentre lui se ne restava a bocca aperta come un idiota: non parlava un inglese fluentissimo, ma riusciva a farsi capire. Lui, invece, capì solo che stesse dicendo di avere trovato il ragazzo, e che la stesse ringraziando per averlo accompagnato. Una cosa del genere, almeno.
La ragazza annuì, poi si voltò verso di lui, facendo un lieve inchino con il capo, e gli porse il trolley scuro che stava trascinandosi dietro. Con un sorriso, alzò la mano in segno di saluto, mormorando un tiratissimo ciao in italiano. Va bene che non capiva molto l’inglese, ma almeno un bye l’avrebbe fatto sentire meno scemo.
Federico strinse le dita intorno al manico del trolley. Non aveva il coraggio di alzare gli occhi per guardare Dominik, adesso. Sarebbe rimasto lì a fissarsi i piedi in eterno.
- Com’è andato il viaggio? – chiese poi, continuando imperterrito a fissarsi la punta delle scarpe. Quella destra aveva una macchiolina scura su un lato.
- Bene. Ci hanno anche dato da mangiare una specie di bollito di pollo che faceva schifo, però il caffè era buono. A te non sarebbe piaciuto però, tu bevi quello italiano. –
Federico allora alzò il viso. Non ci pensò prima di farlo: fu come se quelle ultime parole, a te non sarebbe piaciuto però, fossero state una corda capace di spingere il volto in alto, fino a incontrare i lineamenti spigolosi del volto del ragazzo che aveva di fronte. Era come parlare con qualcuno che lo conoscesse da sempre.
Spinse il braccio in avanti, verso la sua mano, per prendere il borsone, ma quando gli sfiorò la pelle Dominik tirò il braccio indietro.
- Lo porto io. Sono cieco, non invalido. –
Ecco, adesso avrebbe dovuto arrossire e sotterrarsi, oppure mettersi a urlare perché lo stava esasperando quando non era arrivato a Palermo nemmeno da dieci minuti.
Invece scoppiò a ridere, facendo un passo indietro.
- Mi mancavi così stronzo, lo sai? –
Dominik sorrise.
- Allora ti mancavo – disse, inclinando il capo da un lato, tanto che la sciarpa gli scivolò dal collo sul petto.
Fottuto, pensò Federico. Praga doveva avergli fatto bene, se era tornato così stronzo e impertinente. Cosa gli davano da mangiare, pane e yogurt scaduto?
Gli venne da sorridere però. Strinse la mano intorno al manico del trolley più forte, perché avrebbe voluto anche solo sfiorargli una spalla, salutarlo in qualche modo, ma gli mancava il coraggio di toccarlo. Lo aveva davanti così, tutto impettito con quel cappotto scuro, che lo metteva quasi in soggezione. E quando gli aveva sfiorato la mano, poi, l’aveva spinta indietro: certo, forse l’aveva fatto perché non voleva che si prendesse il borsone, ma l’aveva fatto e basta, e lui si sentiva già abbastanza incasinato per aggiungerci anche quella.
E il cellulare nella tasca pesava maledettamente.
Manfredi chiamava sempre il sabato mattina, per uscire insieme dato che non lavorava. Se avesse chiamato in quel momento non avrebbe avuto il coraggio di mentirgli.
- Allora questa è Palermo? – chiese poi Dominik, probabilmente più per attirare l’attenzione che per altro.
- Si, è l’aeroporto di Palermo. Non è granché, ma ci adattiamo. –
- Allora dovresti vedere quello di Praga. Qui c’è tanta gente, e Aneta mi ha detto che l’ha visto su Google e che è grandissimo. Quello di Praga è uno stanzino. E poi qui fa caldo. –
- Siamo al chiuso, Dom, certo che fa caldo – osservò, stringendosi nelle spalle.
Dominik fece una smorfia. Ecco quell’espressione di quando voleva fargli capire qualcosa e non trovava le parole. Gli era mancata anche quella. Soprattutto quella.
Era in momenti come quelli che gli veniva voglia di baciarlo per togliergliela di dosso.
- No, è diverso. A Praga è un caldo artificiale, è quello dell’aria condizionata. Qui fa caldo da sole. Aneta mi ha detto che ci sono i vetri qui. E’ il sole che entra – borbottò.
Mentre Dominik voltava il viso in giro, Federico lo colse di sorpresa.
Strinse appena la mano sul suo braccio, all’altezza del gomito. Lo sentì sobbalzare, i muscoli contrarsi sotto le dita. Era strano: erano settimane che non si ritrovava con quella cappa di imbarazzo tra di loro. Era come la loro prima telefonata, quando non sapevano cosa dirsi e si facevano solo domandine di cortesia. Allora strinse la mano più delicatamente, come in una carezza.
- Certo che fa caldo, ti sei vestito come se stessi andando al Polo Nord! Andiamo, ti porto fuori, così vedi quanto è bello il sole di Palermo! –
 

§§§

 
A Dominik il sole di Palermo piaceva eccome.
Riscaldava molto più di quello di Praga, o di quello di Milano.
Era come se fosse più denso.
Era denso sulla pelle, nell’aria, nei polmoni.
Inspirò, e l’odore del mare lo raggiunse con una forza che non credeva possibile.
Federico lo aveva portato in un posto che si chiamava Cefalù, che non era proprio a Palermo, ma era un’altra città. Un altro comune, lo aveva chiamato Federico, ma con un mare spettacolare.
Era diverso dal mare di Marsiglia. C’era stato due volte con la mamma, quando dovevano vedere un dottore famoso, che potesse curargli gli occhi: la mamma aveva detto che era un paesaggio bellissimo, uno dei più belli del mondo, ma Dominik avrebbe tanto voluto che vedesse quello.
Forse non sarebbe stato altrettanto bello da vedere, o forse sì, però l’odore, quello era molto più bello e caldo. Forse perché c’era anche il corpo di Federico, e la sua voce che parlava.
Era così bello sentire di nuovo la voce di Federico dal vivo.
Attraverso il telefono o il computer non arrivava così calda, non ne arrivavano tutte le sfumature come dal vivo. E attraverso il telefono Federico non poteva toccarlo.
Quando erano usciti dall’aeroporto, Dominik aveva sentito subito quando fosse caldo il sole, e quanto fosse pulita e densa l’aria. Era bella. E Federico era ancora più bello perché aveva preso a parlare, a spiegargli le cose, a dirgli cosa avrebbero fatto in quei giorni.
Quando era arrivato in aeroporto e l’aveva incontrato, gli era parso che Federico non fosse contento: non aveva detto quasi una parola, aveva borbottato qualche frase, però lo aveva anche fatto ridere. Ma una volta fuori era tornato il Federico di prima, o forse tutti e due erano tornati quelli di Milano, però a Palermo. Avevano camminato un po’, fino a quando Federico non aveva detto qui c’è la macchina! e lo aveva aiutato a salire. Avevano sistemato i bagagli nel cofano, ma prima di salire in auto Federico gli aveva sfiorato una spalla con la mano. Quando si era voltato, se l’era trovato vicino, ma non abbastanza da toccarlo con il corpo.
- Perché non togli il cappotto e la sciarpa, Dom? Fa un caldo tremendo! – gli aveva proposto.
Lui aveva obbedito, perché aveva davvero caldo, e Federico doveva averlo capito. Si era tolto il cappotto, la sciarpa che aveva fatto la nonna con i ferri, e finalmente si era sentito un po’ più leggero, perché solo quel maglione che gli aveva regalato la mamma, con i bottoni tutti davanti, e che aveva indossato sopra una magliettina leggera, bastava per sopportare il mese di gennaio di Palermo. Non credeva che ci fosse una parte del mondo dove potesse fare caldo a gennaio, escluso l’altro emisfero, come gli avevano insegnato a scuola. Ma Palermo era diversa.
La macchina di Federico profumava di persone. Non aveva l’odore di plastica delle macchine nuove, ma nemmeno quello pesante delle macchine vecchie. Odorava di buono, di qualcosa di fresco e di vissuto, e anche la stoffa dei sedili era un po’ consumata al tatto ma era morbida.
Per arrivare a Cefalù dall’aeroporto ci avevano impiegato poco più di un’ora, gliel’aveva detto Federico, per questo quando erano arrivati la pancia gli brontolava già.
Allora Federico aveva comprato per tutti e due uno strano dolce che si chiamava iris: era una specie di palla un po’ schiacciata e dalla superficie ruvida. Federico gli aveva spiegato che fosse un dolce che facevano sempre a Palermo, che veniva fritto e che aveva dei ripieni diversi. Lui, ovviamente, lo aveva scelto al cioccolato, mentre Federico alla crema di ricotta.
Quando lo aveva sentito, Dominik aveva fatto una smorfia. La crema di ricotta non lo attraeva per niente. Federico gliel’aveva anche fatta assaggiare: non era poi tanto male, perché non somigliava alla ricotta che si mangiava come formaggio e che una volta la mamma aveva comprato in un supermercato costosissimo, per fargliela assaggiare. Però era molto meglio il cioccolato.
E quel dolce era buonissimo. Il sapore della crema contrastava con quello acre della frittura, e sembrava quasi pizzicargli la lingua. L’unico problema era che, essendo pienissimo di crema, ad ogni morso il cioccolato tendeva a uscire da tutte le parti, con il risultato di essersi ritrovato con la faccia tutta sporca di crema.
Federico aveva riso per dieci minuti, e alla fine si era proteso verso di lui, per aiutarlo a ripulirsi dove non era riuscito. Aveva usato una salviettina imbevuta, che diceva che sua madre lo obbligava sempre a tenerne un pacco in macchina, non si sa mai, aveva borbottato.
Ma anche attraverso lo spessore della salviettina le mani di Federico erano caldissime.
Il dolce lo avevano finito al tavolo di un bar, e poi Federico lo aveva subito trascinato al mare. Anche dal bar si sentiva l’odore, perché il ragazzo gli aveva detto che fossero proprio sulla strada sopra la spiaggia, però voleva che andassero per davvero davanti al mare.
Federico aveva portato anche due asciugamani, per non sporcarsi tutti di sabbia, ma a lui non importava troppo.
Quando Federico si era seduto sulla sabbia, e il suo corpo era quasi caduto con un tonfo, lui era rimasto in piedi, fino a quando lui non gli aveva stretto la mano intorno al polso, tirando verso il basso.  Siediti, Dom. Il mare non si può ammirare in piedi, aveva detto.
 Ed era vero. Sarebbe rimasto seduto su quell’asciugamano, con le gambe incrociate e le mani affossate nella sabbia per l’eternità. Avrebbe tanto voluto avere un pianoforte, adesso, per suonare, però forse la musica avrebbe coperto il rumore del mare e il respiro di Federico.
Erano la stessa cosa, erano belli uguali, solo che avevano due ritmi diversi: quello del mare era più delicato, più lento, del respiro di Federico. Ma erano belli uguali.
- Allora? Ne è valsa la pena di arrivare fino a Palermo per vedere questo mare, o no? –
Anche la voce di Federico era bella quando c’era il mare in sottofondo.
Sembrava più morbida. O forse era solo un’impressione perché non la sentiva da tanto tempo.
Però no, Federico a Palermo era diverso che a Milano, però era anche uguale. Sembrava un po’ perso, come se fosse quella città a guidarlo e non se stesso, ma non si era perso completamente, perché era ancora sempre lui, con quella risata cristallina e quella mania di essere gentile con tutti.
Dominik infilò ancora di più la mano nella sabbia.
Era tiepida, e gli accarezzava la pelle con tutti quei granellini. Man mano che procedeva verso il basso era sempre più fresca. Anche Federico era così: la sua pelle all’inizio era calda, ma quando ci teneva sopra la mano per qualche secondo diventava un po’ più fresca, come se assorbisse un po’ di freddo dalle sue mani. Succedeva sempre, a Milano.
Chissà se sarebbe successo anche a Palermo.
- E’ bellissimo. Grazie per avermi invitato, Federico. –
- Ma scherzi? Mi fa solo piacere. E te l’avevo anche detto qualche tempo fa di passare, ma ero sicuro che non mi avessi preso sul serio! –
Dominik sorrise appena, il volto chino verso il basso, ma leggermente voltato a sinistra, da dove proveniva la voce di Federico.
Era strano trovarselo di nuovo così vicino e in un posto tanto diverso da quello cui era abituato con lui. C’era la sabbia, che era un po’ come la stoffa del divano, e gli asciugamani, che erano come il plaid blu che Federico si metteva sulle gambe, e c’era il rumore del mare che era come il sottofondo basso della televisione.
Era un po’ diverso e un po’ uguale.
- Tu ci vieni spesso qui? – gli chiese. Federico si mosse, i suoi vestiti provocarono un fruscio.
- D’estate sì, quasi ogni giorno. Ci vengo al mare, e ci vengo la sera a ballare con gli amici. D’inverno ci vengo raramente. Quando voglio andare al mare c’è Mondello, è tranquillo pure lì d’inverno. –
- Allora perché siamo venuti qui e non a Mondello? –  Federico si mosse di nuovo, e questa volta per avvicinarsi, perché la sua voce, quando parlò, giunse da un posto più vicino.
- Perché Cefalù per me ha qualcosa di particolare. A Mondello possiamo andarci qualsiasi giorno, anche domani, mentre qui è diverso. Pensa un po’ tu se dovessi scegliere, che so, tra Mozart e Chopin. Sono tutti e due dei musicisti fenomenali, ma devi sceglierne solo uno. –
- Chopin – rispose subito, senza alcun dubbio.
- E perché? – lo incalzò Federico. Mi fa pensare un po’ a te, avrebbe voluto dirgli, però non lo fece, e Federico interpretò il suo silenzio come un assenso. – Visto? Non sempre c’è un motivo ben preciso. Per me Cefalù è come per te Chopin, ma questo non vuol dire che Mondello mi faccia schifo. –
Dominik  restò in silenzio.
Lui pensava invece che tutte le cose avessero un motivo di essere e di esistere, solo che non sempre le persone si spingevano ad analizzarlo davvero a fondo, per motivi diversi. Lui preferiva Chopin perché piaceva alla mamma e lui voleva bene alla mamma, e perchè lo faceva pensare a Federico. E anche per Federico doveva esserci un motivo per cui preferiva Cefalù a Mondello, solo che non voleva cercarlo.
- Togli le scarpe – mormorò poi Federico.
- Eh? –
- Togli le scarpe! – gli disse ancora, con una mezza risata. Aveva la voce soffocata, come quando ci si piega in avanti e il torace si schiaccia contro le gambe. Forse si stava davvero togliendo le scarpe.
- No – disse il ragazzino d’istinto, incrociando le gambe più saldamente, come se con la forza del pensiero Federico avesse potuto sfilargliele.
- E dai, Dom! Vediamo com’è l’acqua! –
- E’ fredda. E’ inverno. –
- Sarà fredda a Praga, a Palermo è sempre buona! Dai, togli le scarpe e i calzini e alzati! –
Dominik stava per sbuffare. Lo avrebbe fatto eccome, se il tono di Federico, quasi esasperato, non lo avesse fatto sorridere.
- Lo farai anche tu? – cedette alla fine.
- Io l’ho già fatto! Ora sbrigati! –
Dominik districò le gambe, stendendole in avanti, poi piegò il ginocchio destro, portandolo al petto. Quel giorno aveva indossato le solite scarpe da ginnastica: da piccolo la mamma gli aveva insegnato ad allacciarle. Non era stato troppo difficile, anche senza vedere poteva seguire i contorni dei lacci e fare dei nodi perfetti. Aveva imparato addirittura prima di diversi compagni di scuola. Sciolse la scarpa destra, sfilandola, poi sfilò il calzino e lo infilò nella scarpa; fece lo stesso con l’altra, e mentre la sistemava alla sua destra con l’altra, Federico parlò di nuovo.
Si era messo in piedi, perché la sua voce arrivava da un punto più in alto rispetto a prima, e praticamente davanti a lui.
- Alza anche i pantaloni o ti bagnerai tutto. –
Sbuffò, e potè sentire Federico ridacchiare della sua esasperazione.
Ma, obbediente, fece anche quello: rivoltò i pantaloni fino al ginocchio, fino a quando la prominenza del polpaccio non li bloccò.
L’aria che sfiorava la pelle gli dava una bella sensazione: era un po’ fresca, ma i raggi caldi del sole la controbilanciavano.
Facendo leva sulle braccia si spinse in avanti, e quando tese le braccia, per ripristinare il baricentro, incontrò qualcosa di morbido, probabilmente il braccio di Federico, perché dopo meno di un secondo le dita di Federico gli presero la mano. Erano sempre caldissime.
Strinse le dita intorno alle sue come se volesse aggrapparvisi.
Forse lo stava aspettando da quella mattina, che Federico lo toccasse, da quando era arrivato, o forse da ancor prima di partire. Non si sentiva bene in quella città, fuori da casa sua e fuori da Milano. Non c’era niente che non andasse, perché il problema era lui.
In una città che non conosceva, senza sua madre e nessun altro, era cieco.
Non conosceva nulla di nessun luogo, neppure della casa dove avrebbe trascorso qualche giorno, e l’unica persona cui appoggiarsi sarebbe stata Federico. E in quel momento aveva bisogno di toccarlo e basta, per scoprire se fosse ancora la stessa persona che aveva lasciato a Milano: allora si sarebbe reso conto che con Federico nulla sarebbe andato male.
Si accontentava di stringergli le dita, se non poteva stringerlo tutto.
La mano di Federico lo guidò in avanti, e cercò di camminare come sempre, senza pensare di non avere idea di dove stesse mettendo i piedi: Federico non gli avrebbe permesso di cadere.
- Vieni dai, non ci sono gli squali – lo prese in giro, ma mentre lo faceva strinse le dita più forte intorno alle sue.
I piedi toccarono l’acqua fresca in un secondo, senza che se ne rendesse conto: ci fu solo, prima, una sottile striscia di sabbia umida e dura, e poi l’acqua.
Era fredda, aveva ragione lui. Però, dopo qualche secondo, iniziò quasi ad abituarcisi e a reprimere l’istinto di battere i denti. Mosse il piede. Non aveva mai tenuto il piede nell’acqua del mare: quando erano stati a Marsiglia la mamma gli aveva permesso solo di fare una passeggiata, perché faceva troppo freddo per fare il bagno.
Adesso ci teneva i piedi dentro, aveva freddo, ma non gli importava.
La mano di Federico era sempre lì a emanare calore.
- Effettivamente è un po’ freddina – lo sentì soffiare, in un sorriso. – Però chi se ne frega! –
- E’ una cosa stupida? –
Federico abbassò la mano quel tanto che bastava per fargli abbandonare il braccio lungo il fianco.
Però non la lasciò andare.
- Sì, direi di sì – disse poi, e Dominik sorrise.
Fare cose stupide insieme a Federico aveva un senso.
Avevano fatto una cosa stupida a Milano, e adesso anche una a Palermo.
Forse sarebbe bastato per non farlo perdere più quando pensava a Manfredi.
Manfredi era il tasto dolente di Federico, e gli piaceva sempre sentirlo parlare di lui; perché anche se gli aveva fatto male, anche se avevano litigato, Federico non aveva mai parole cattive per lui. Lo dipingeva come la persona migliore del mondo, come un santo, e tirava fuori sempre i ricordi belli, anche se alcuni avevano dentro qualche cosa che lo faceva rattristare.
Era questo che gli piaceva di Federico: riusciva a trovare sempre una cosa buona nelle persone.
Se fosse stato un critico musicale, anche nei peggiori musicisti Federico avrebbe trovato almeno una sinfonia meravigliosa. E se non ci fosse stata ne avrebbe composta una lui.
Gli lasciò andare la mano a sorpresa, facendo un passo, avanti, timoroso.
L’acqua non salì di livello come si aspettava, se non di un misero centimetro, forse. Però adesso, con le braccia un po’ tese di lato, senza il sostegno di Federico, si sentiva un po’ più grande.
Un altro passo avanti, poi un altro, fino a quando l’acqua non arrivò a metà polpaccio.
Allora si girò, quasi all’improvviso come in una danza, e con la punta delle dita sfiorò il petto di Federico. Fu abbastanza per fare un passo verso di lui e poggiargli le mani sul petto, all’altezza delle clavicole. Con il palmo sentiva il tessuto del suo maglione, con le dita il calore della sua pelle.
Se avesse stretto le mani, lo avrebbe graffiato.
- E’ bellissimo qui – soffiò.
- Ero sicuro che ti sarebbe piaciuto – gli rispose lui, e il suo respiro lo colpì dritto sul viso.
Dominik si immaginò quanto dovessero essere morbide le sue labbra mentre parlavano, persino i movimenti che stavano compiendo.
La mano risalì in alto, lungo il collo, fino alla linea della mandibola. Lì la pelle di Federico era un po’ ruvida per la barba: la sua non era così ruvida, perché aveva una barba appena accennata.
Chissà come doveva essere poggiarci le labbra, su quella pelle ruvida colpita dal sole.
Fece scivolare la mano oltre, interrompendo il contatto con la pelle di Federico, e fece un passo indietro.
- Tu vieni al mare tutte le estati, Federico? Tutti i giorni? – 
- Praticamente si, d’estate. Solo che non sopporto molto il sole, mi ustiono ogni anno! –
- Però deve essere bellissimo. Io non l’ho mai passata una giornata al mare. –
- Però a Praga nevica, d’inverno – osservò poi Federico.
Era ancora accanto a lui, si muoveva ogni tanto, perché l’acqua faceva rumore ad ogni suo movimento.
- Certo che nevica – gli rispose, come se fosse una cosa ovvia.
- Qui non nevica mai, neppure nei giorni più freddi dell’anno. Non fa mai abbastanza freddo da nevicare. Non ho mai visto nevicare in tutta la mia vita! –
- Non hai visto la neve? –
- La neve si, sono stato in montagna, ma era già caduta, tutta per terra. A me piacerebbe molto vedere la neve cadere…magari quest’inverno a Milano lo vedrò! –
- Io preferisco il mare -  gli rispose serio.
Il mare aveva una magia che la neve se la sognava proprio.
Poi Federico gli girò intorno, sfiorandogli la vita con le mani.
- Allora quest’estate vieni di nuovo e veniamo al mare. E questa volta facciamo il bagno! –
Dominik ruotò il corpo seguendo il tocco di Federico, fino a girare di quasi 360 gradi su se stesso. Pareva quasi che volesse inseguire quella mano per non perderne il contatto.
Avrebbe voluto dirgli di sì, che gli sarebbe piaciuto andare al mare insieme, fare il bagno, e che gli avrebbe lasciato la possibilità di guidarlo, perché la mamma diceva che al mare si poteva annegare, e lui non voleva certo morire. E dopo aver fatto un bagno al mare gli avrebbe fatto ascoltare qualcosa, però non avrebbe potuto suonarla lui: avrebbe portato una radio, magari, per sentire insieme Chopin.
Solo che non gli disse quelle cose. Riuscì solo ad afferrargli il polso con forza prima che riuscisse a staccare la mano da lui, e avrebbe davvero voluto poterlo vedere adesso, potere incrociare il suo sguardo e scoprirci dentro qualcosa, visto che Federico non parlava.
Non respirava nemmeno.
- Tu non te ne andrai da Milano, vero? Resterai? –
Non era una preghiera. Non avrebbe dovuto esserlo, almeno.
Solo che l’idea che Federico un giorno se ne andasse, che non fosse più lì a guardare la televisione con lui, ad insistere perché uscissero insieme, era insopportabile.
Ed era stupido, perché lui non aveva bisogno di nessuno, solo della sua musica.
Però Federico doveva restare e basta.
La mano calda di Federico si poggiò sulla sua, sfiorandola appena.
- Certo che resto, dove dovrei andare? – Dominik mollò la presa, facendo scivolare via la mano da quella di Federico. Il silenzio che seguì era un po’ imbarazzante, almeno per lui, perché Federico stava aspettando che dicesse qualcosa. Qualcosa che non pensava proprio di dire. Poi lo sentì schiarirsi la voce.
- Allora, che dici, ti porto a pranzo? –
- Cosa mangiamo? –
- Eh, vedrai! –
 

§§§

 
Lo aveva portato a pranzo in un ristorante con un terrazzo che si affacciava sul mare.
La finestra era aperta, e lo aveva fatto sedere proprio lì vicino, perché ne captasse il profumo e ne sentisse il rumore, visto che non poteva vederlo.
- Come hai detto che si chiamano queste cose? –
Federico puntò lo sguardo su Dominik, proprio mentre quello si infilava in bocca un boccone enorme. Era bello vederlo così: il sole gli aveva colorito le guance, e aveva sollevato le maniche del maglione fino ai gomiti, perché aveva caldo. Teneva le braccia sul tavolo mentre mangiava. Sembrava finalmente umano.
- Sarde a beccafico, Dom. Sono pesci, e fatti in questo modo hanno questo nome. Ti piacciono? –
Lo vide annuire con enfasi, mentre infilava in bocca di nuovo la forchetta.
Mangiavano da quasi un’ora.
Avevano ordinato per antipasto una zuppa di cozze, poi pasta con i ricci come primo, e ancora un’infinità di pesce: calamaro grigliato, pesce spada panato, infine le sarde.
A Dominik era piaciuto tutto, aveva letteralmente spazzolato tutti i piatti. E poi avevano parlato, ma parlato tanto che si erano fermati spesso entrambi a svuotare i bicchieri d’acqua che avevano davanti. Dominik sembrava aver messo da parte decine di racconti negli ultimi giorni, tutti appositamente conservati per poterli raccontare a lui davanti a quel mare. E anche lui gli aveva parlato delle sue vacanze, ma anche del passato, della sua famiglia, della scuola, della sua vita a Palermo. Gli aveva descritto posti che gli sarebbe piaciuto mostrargli, posti che lo avevano visto crescere, e ancora posti in cui non era mai andato più di una volta ma che gli sarebbe piaciuto rivedere.
C’era stato un momento, tra il primo e il secondo, mentre stava parlando da più di quindici minuti, in cui Dominik si era sistemato meglio sulla sedia, e quando aveva poggiato di nuovo le braccia sul tavolo aveva sfiorato con la mano la sua; e allora, invece di adagiarla sul tavolo, scostandola, l’aveva spostata a sinistra, fino a poggiarla sulla sua.
L’aveva tenuta lì per qualche secondo, giusto il tempo di muoversi ancora, per arraffare un grissino e iniziare a sgranocchiarlo, ma era bastato per confonderlo di nuovo.
Sembrava ancora più bello. Quando pensava a lui, a Milano, credeva che uno come lui a Palermo sarebbe stata una nota stonata, un angelo in un posto troppo terreno.
Invece, adesso che era lì, credeva di non aver mai visto nulla di più bello di quel contrasto.
Dominik era diverso: lo erano il suo volto, il suo modo di fare, di sorridere, il suo modo di parlare.
Era quasi più facile, lì, immaginare di prendergli il viso e baciarlo.
Lo aveva pensato, fino a un’ora prima, quando se ne stavano con i piedi a mollo e lui gli si era letteralmente poggiato addosso. Per un attimo aveva addirittura creduto che stesse per baciarlo.
Poi si era reso conto di quanto potesse essere assurda una cosa del genere.
Dominik gli si era aggrappato addosso quasi a chiedergli di aiutarlo in tutto quello, a reggere tutte quelle novità. Però quando aveva parlato e il suo respiro gli aveva accarezzato le labbra, aveva davvero avuto voglia di mandare tutto a fanculo e baciarlo.
Però non l’aveva fatto.
Non l’aveva fatto perché alla fine aveva paura. Aveva paura che lui non l’avrebbe accettato, che avrebbe rovinato le cose tra loro quando avevano iniziato ad andare bene.
Aveva paura che, dopo essere stato privato di Manfredi, il fato decidesse di privarlo anche di Dominik.
Tu non te ne andrai da Milano, vero? Resterai?
Era sembrata così simile a una preghiera, quella frase, a una dichiarazione, da avergli fermato il cuore per almeno tre o quattro battiti. Solo che poi aveva aspettato, aspettato, e ancora aspettato, ma Dominik non aveva detto più niente.
Cosa significava quella frase?
Non voleva che se ne andasse da Milano, che lo lasciasse, ma non riusciva a classificare quella richiesta. Lui una cosa del genere l’aveva detta solo a Manfredi, una volta, ma Dominik era diverso. Dominik amplificava dannatamente tutto, dava alle cose un’importanza diversa in relazione ai colori che attribuiva ai sentimenti e alle persone. E non aveva idea di come avesse classificato lui.
Erano amici, ma era anche al di là di quello, senza essere troppo.
Non ci capiva niente.
- Sono pieno, non riesco a mangiare più niente! –
La voce di Dominik gli giunse vicinissima, per la prima volta priva di quella lontananza che lo rendeva un angelo lontano. A Palermo Dominik era terreno.
- E ci credo, è più di un’ora che mangi! Ma non ci credo che uno spazietto per il dolce non ce l’hai! –
Dominik fece girare il coltello tra le dita.
- Magari per quello… - mormorò con un sorriso.
Federico scoppiò a ridere.
- Sei incorreggibile! – gli disse, e poi si mosse.
Fu solo una lieve carezza, partita come una lieve pacca sulla nuca, ma conclusasi come un soffio delicato su quel viso spigoloso, dalla sporgenza dello zigomo fino all’angolo della mandibola.
Dominik sobbalzò, sotto a quel tocco, ma non si ritrasse.
Sarebbe stato facile spingere la mano indietro e immergerla nei suoi capelli, sollevargli il viso e baciarlo. Ma non l’avrebbe fatto nemmeno se ne avesse avuto il coraggio: quel locale era pieno di gente che, nello stesso momento in cui li avesse toccato le labbra di Dominik, avrebbe preso a borbottare, a urlare, forse a sputargli addosso.
Sarebbe stata sempre così la sua vita? Un continuo privarsi perché il mondo non era pronto ad accettarlo?
- A cosa pensi Federico? – lo richiamò Dominik, strappandolo a quel silenzio.
Era impossibile come riuscisse sempre a riportarlo a terra quando la testa iniziava a vagare altrove. Lo faceva sempre: appena lo vedeva in silenzio per più di due minuti, se ne usciva con una domanda stupida, con un tocco su una gamba, pur di farlo tornare al presente, lì con lui.
- A niente – mormorò, stiracchiandosi poi sulla sedia allungando le mani in alto.
Dominik smise di giocare con le posate, incrociando le braccia sul tavolo. Sembrava quasi più adulto così. 
- Farò finta di crederci – disse alla fine, stizzito.
- Farai finta? –
- Sì. Perché tanto tu non me lo dirai mai, non me lo dici mai. Quindi farò finta di crederci – gli chiarì. Aveva incrociato le braccia al petto più saldamente.
Era davvero stizzito, infastidito, anche se cercava di non darlo a vedere.
La mano si mosse all’istante, prima che potesse fermarla.
Scivolò sul tavolo, fino a poggiarsi sul suo avambraccio sinistro, per scioglierlo da quella stretta.
- Dai Dom…cosa vuoi sapere? – Lui rimase trincerato nel suo ostinato silenzio. Davvero irritante, ragazzino. La mano di Federico tornò al suo posto. – E’ che sono preoccupato per una cosa. E te lo dirò, però non adesso. Prima di tornare a Milano te lo dirò, promesso – gli disse.
Era patetico, lo stava quasi pregando. Ma Dominik già si era un po’ rilassato, anche se non aveva ancora abbandonato quella stretta di braccia sul petto.
- Davvero me lo dirai? –
- Promesso. –
Finalmente Dominik sorrise, e perse la stretta delle braccia, tornando ad allungarle sul tavolo davanti a loro. Era più bello quando sorrideva e le labbra si tendevano.
- Allora, il dolce lo vuoi o no? -
 



To be continued....








(1) Il titolo è tratto dalla canzone Il centro del mondo di Ligabue.
(2) L'immagine di copertina è Cefalù (PA).

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Capitolo 28
*** 25th (II): Rubo l'amore in Piazza Grande ***



C'è nel giorno un'ora serena che si potrebbe definire assenza di rumore, è l'ora serena del crepuscolo.

Victor HugoIl Novantatré, 1874

 

Chapter 25 – part II: Rubo l’amore in piazza Grande
 
Aveva dormito malissimo e si era svegliato con il mal di testa.
Ma non era colpa di Federico, nemmeno del suo letto o della sua casa.
Era colpa sua, perché quell’inquietudine che lo aveva preso non appena nella stanza di Federico era calato il silenzio non lo aveva abbandonato per tutta la notte.
Si era lasciato cullare dal ritmo del suo respiro, ma si era rigirato tra le coperte per ore intere, probabilmente, prima di cadere in un sonno agitato, e quando aveva sentito dei lievi rumori dal piano di sotto si era subito alzato in piedi, pronto ad iniziare la giornata.
La notte gli faceva paura, perché la notte era davvero solo.
E gli faceva paura anche il giorno, perché Federico non poteva certo stargli appiccicato tutto il tempo.
Solo che lui era cieco, e non sapeva nulla di quella casa: doveva chiedere a lui tutto. Dove fosse il bagno, come fosse fatto, quante fossero le scale per raggiungere il piano di sotto e come arrivare in cucina. Non poteva aiutare ad apparecchiare, o a sparecchiare, o decidere volontariamente di andare a sedersi sul divano o su un’altra sedia, perché non aveva idea di dove fossero.
E non c’era nemmeno la musica.
Lì, dentro la musica, avrebbe potuto ricostruire la sua casa.
Avrebbe potuto ergere di nuovo le mura della casa di Milano, disegnare i contorni delle cose, metterci dentro quello che voleva: Federico che cucinava, lui che suonava, magari Samuele che si presentava a casa con un pacco di biscotti o Milena che usciva dal bagno con i capelli bagnati.
Non c’era nemmeno la musica.
C’era solo Federico. Ma nonostante tutta la sua gentilezza, non sarebbe stato abbastanza.
Perché lui era cieco, e i suoi occhi li aveva lasciati a Praga e a Milano, nel pianoforte.
Però erano tutti gentili con lui: quando erano arrivati a casa, la sera prima, e Federico gli aveva presentato i suoi genitori, loro erano stati buoni. Gli avevano stretto la mano, e la madre di Federico, che di nome faceva Annamaria, gli aveva subito chiesto se gli piacesse il riso, che ci aveva fatto l’insalata, e il pollo, e anche la nutella, che aveva preparato dei dolci che non aveva mai fatto ma che dovevano essere buoni. Con il padre di Federico erano stati poi sul divano a vedere la partita di calcio, e Federico gli aveva spiegato ogni singola azione, anche quando suo padre urlava perché era contento che una squadra di nome Inter avesse sbagliato un calcio di fragore, o una cosa del genere.
Federico era stato felice tutto il tempo: aveva sorriso, aveva raccontato della loro giornata al mare e di quello che avevano mangiato al ristorante, e poi aveva spiegato anche cosa avrebbero fatto gli altri giorni, prima di prendere la nave per andare a Genova e da lì tornare a Milano.
E anche se erano tutti gentili, quel magone nel petto lo sentiva sempre, come se gli mancasse qualcosa.
- Vuoi ancora patate, Dominik? –
- No, grazie. –
Aveva risposto prima ancora di comprendere davvero la domanda, perché cadeva dalle nuvole.
Il chiacchiericcio della tavola era ritornato a riempirgli le orecchie.
Era una voce di donna quella che gli aveva chiesto delle patate, in particolare quella di Milena.
Il pranzo della domenica a casa di Federico era una cosa quasi sacra, gli aveva spiegato, a maggior ragione che quel giorno era anche l’Epifania.
E Milena gli aveva parlato per tutto il tempo; probabilmente lo aveva fatto apposta, perché aveva visto quanto fosse nervoso, e gli aveva riempito la testa così tanto di parole che non c’era stato il tempo per pensare ad altro se non ad ascoltarla e mangiare.
In quello, lei e Federico erano completamente diversi: dove lei iniziava a parlare a raffica, Federico preferiva il silenzio, e sceglieva un piccolo contatto, un tocco sul ginocchio, sul braccio, come un’iniezione di antidolorifico. Non aveva idea di quale fosse la strategia migliore, però stavano funzionando. Solo la notte il buio tornava a tormentarlo.
- …e poi domani non sono a casa per pranzo, amore, ho il turno in ospedale. Ti lascio qualcosa pronto, o magari alla mamma resta un po’ di pasta al forno e ci portiamo quella – stava continuando a dire, parlando con quello che a Dominik avevano presentato come suo marito. Era un uomo silenzioso e alto, si chiamava Michele, ed era l’opposto di Milena.
Forse era vera quell’ipotesi secondo cui gli opposti non potevano far altro che attrarsi.
- Ma oggi restate, no? C’è la partita più tardi, Michele vuole sicuramente vederla- intervenne poi il padre di Federico. Michele era uno di famiglia, ormai: quando gli parlavano, o scherzavano, o in qualsiasi momento, lui era sempre preso in considerazione, come se fosse anche lui figlio loro, e non semplicemente il marito della figlia. Doveva essere bello sentirsi così. Anche la nonna lo faceva con il papà, lo trattava ormai come se fosse suo figlio.
Però l’atmosfera a casa di Federico era più goliardica e giocosa di quella che c’era a casa sua: non ne preferiva una piuttosto che l’altra, gli piacevano tutte e due, ed erano semplicemente diverse.
Aveva ragione Federico, probabilmente, a dire che le loro culture erano così differenti che era normale che anche le loro case fossero diverse.
- Voi uomini e queste partite? Non fanno niente di meglio? – sospirò Milena, stizzita.
- La domenica pomeriggio no! – le rispose suo marito, ma stava trattenendo una risata, e dallo schiocco che sentì subito dopo doveva averle dato un bacio, forse sulla fronte, o sulla guancia, o sulle labbra. Federico accanto a lui non aveva ancora detto niente, ma aveva finito di mangiare, perché il suo braccio destro, vicino a lui, era fermo.
- Quando Federico porterà a casa una ragazza e inizierà a lamentarsi anche lei poi vedrai papà! Non saremo più in minoranza io e la mamma! –
Dominik si sistemò sulla sedia, poggiando le mani sotto le gambe, quasi a schiacciarle. L’idea che Federico portasse prima o poi a casa sua una ragazza gli accendeva dentro una punta di qualcosa che doveva essere gelosia: non gli andava che in quella casa entrasse una persona così importante per lui, che venisse accettata come una figlia, perché Federico meritava più di una ragazza. Federico meritava qualcosa di così importante da non esistere ancora: avrebbe dovuto innamorarsi della musica anche lui, che quella era una cosa abbastanza in alto da potersi meritare l’amore di Federico. Una ragazza no, non sarebbe stata abbastanza. O forse era lui a pensarlo, perché delle fidanzate non gli importava proprio niente.
Sulla sua sedia, intanto, Federico si era irrigidito, e Dominik avrebbe voluto fare come lui, poggiargli una mano sul ginocchio, sperando che servisse a rilassarlo; e forse sarebbe bastato se la successiva frase di suo padre, pronunciata senza malizia e senza cattiveria, non lo avesse colpito ancora di più.
- E Manfredi oggi viene, no Federico? –
- No, oggi non può venire, ha dei parenti a casa e non può uscire. –
Federico aveva detto una bugia.
La verità era che con Manfredi ci aveva litigato. Proprio il pomeriggio precedente, prima che tornassero a casa dal mare. Il cellulare di Federico aveva squillato, e lui aveva riposto subito, abbassando appena il volume della radio.
Stavano chiacchierando un po’, godendosi l’ultima aria tiepida del pomeriggio prima che facesse buio, e poi tutto era andato a rotoli perché Manfredi si era messo in mezzo. Non aveva voluto ascoltare tutta la telefonata, ma non aveva potuto farne a meno. E Federico, mentre aveva risposto quasi spaventato, o comunque tranquillo, poi si era innervosito.
- Sono a Cefalù, Manfredi. No, è che…è venuto Dominik oggi, sta qualche giorno qui e poi torniamo a Milano. Eeee…non te l’ho detto, lo so, ma non ci siamo quasi visti e tu avevi sempre da lavorare e…mi è passato di mente, va bene? Non sei mio padre che devo informarti di quante volte vado al bagno! No, lo so da quattro giorni, per tua informazione, quindi vedi di fare meno lo stronzo! No, oggi non ho intenzione di uscire, sono stanco e sinceramente mi hai rotto il cazzo. Si, perché mi stai facendo sentire una merda quando non c’è motivo, perché mi sembrava che le cose si fossero sistemate e che tu…Oh, Manfredi? Manfredi! –
Manfredi aveva riattaccato. Gli aveva riattaccato in faccia. Poi dopo un’ora gli aveva mandato degli sms. Non aveva avuto il coraggio di chiedere  a Federico cosa gli avesse detto con quegli sms, perché in fondo non voleva nemmeno saperlo.
Manfredi si comportava male e Federico lo giustificava, tant’è che quando erano arrivati a casa lui stava già un po’ sorridendo come se tutto fosse passato e avessero già fatto pace. Non se lo meritava, Manfredi, uno buono come lui!
Federico si alzò da tavola con un movimento rapido che lo fece quasi sobbalzare.
- Fede, non lo vuoi il dolce? – lo chiamò sua madre.
- Si, lo mangio, ma vado un po’ di sopra a riposarmi. Sto morendo di sonno. –
- Ma non ti sei svegliato mica così presto! –
- Ma ero sveglio dalle nove, mamma, con te e la tua aspirapolvere! E poi mi rilasso un po’, più tardi io e Dominik usciamo. – Poi la mano di Federico si poggiò sulla sua spalla. – Tu vieni di sopra con me? –
- Magari Dominik vuole vedere la partita con noi e non ha sonno! –
Gli venne da sorridere. Era una scemenza, essere felici per quello, però il padre di Federico aveva detto Dominik vuole vedere la partita: non solo lo aveva quasi invitato, ma aveva detto vedere, senza crearsi alcun problema di dover essere lui a spiegargli le cose se Federico non c’era, o senza il timore di offenderlo come tante persone credevano. Però la mano di Federico sulla spalla lo richiamava come una calamita, ed era anche un po’ stanco per la notte insonne.
- Vengo di sopra con te – mormorò, alzandosi in piedi, e la mano di Federico scivolò via.
Seguì Federico su per le scale: salire le scale non era un grosso problema, perché bastava solo alzare la gamba e seguire con il piede il profilo degli scalini, e poi c’era anche il corrimano.
Fu più difficoltoso raggiungere il letto, una volta nella stanza di Federico. Non si era ancora abituato a quella nuova disposizione di mobili, e quando Federico si lasciò cadere sul suo letto non poté far altro che imitarlo, sedendosi quasi sul bordo.
Il letto nel quale aveva dormito, quello che era stato di Milena, era più morbido e comodo di quello dove era seduto in quel momento, e che era quello di Federico. Si sedette piegando appena le ginocchia, mentre i piedi seguivano linee immaginarie sul pavimento: Federico si era seduto accanto a lui, a si era subito messo sdraiato, e il materasso si era piegato sotto il suo peso.
Dominik fece scivolare la mano di lato, proprio nella direzione in cui la materasso si curava in basso per seguire il corpo di Federico, ma si fermò proprio lì, al limite, prima di toccargli la gamba.
- Vuoi un dolcetto, Dom? – gli sentì chiedere.
Doveva averli presi dal tavolo della cucina prima di sapere le scale. Al piano di sopra c’era stranamente silenzio: i rumori del piano di sotto non si avvertivano proprio, forse perché Federico aveva chiuso anche la porta. Non gli rispose, limitandosi a poggiare una mano sul ginocchio, con il palmo sollevato: allora, delicatamente, Federico ci poggiò un dolcetto quasi cilindrico, morbido e che profumava di cioccolato.
Lo portò alla bocca in un secondo, affondandoci i denti: dentro, il dolcetto, aveva un cuore di cioccolato, che sapeva molto più di nutella, a dire il vero. Sperò solo di non essersi sporcato.
Federico non parlava più: se ne stava fermo, quasi immobile, abbandonato sul materasso, semplicemente a respirare. E c’era qualcosa, nel modo in cui Federico respirava, che gli colorava tutto intorno di un arancione vivissimo.
Federico era arancione da un bel po’, ormai. Era casa, abitudine, affetto, calore.
Però non sapeva se definirlo proprio arancione, perché stava diventando un arancione diverso da quello della mamma. Avrebbe dovuto cercare un altro colore, probabilmente, per lui, però non riusciva a trovarne uno, perché di solito erano i colori a cercare le persone, e non il contrario.
Con Federico era difficile, perché gli ruotavano intorno tantissimi colori, e per questo, da un po’ di tempo, aveva iniziato ad avvicinargli il colore bianco.
- Dom? –
La mano di Federico risalì lungo la sua schiena come un brivido di freddo, fino a raggiungergli la spalla, dove si fermò come una carezza leggera.
- Puoi sdraiarti se vuoi. Non ti scoppia la testa con le chiacchiere di Milena? –
La mano era ancora lì, ma adesso sembrava essere più pesante, come se volesse premere lì per convincerlo a mettersi sdraiato. Allora la schiena scivolò indietro, fino a toccare il materasso: quello sprofondò come quello di Federico. Pesavano uguale, probabilmente.
Si sdraiò sulla schiena, ma non toccava la spalla di Federico. Doveva essere girato di fianco, lui, perché quando parlò la voce gli giunse diretta a pochi centimetri di distanza dall’orecchio.
- Mia sorella sa essere snervante. Però con gli anni è migliorata, avresti dovuto sentirla da bambina! –
Dominik sorrise. Milena gli ricordava un po’ sua sorella Jana, che a sei anni parlava a ruota libera e spifferava tutto ciò che sentiva o pensava. Forse da grande sarebbe stata anche lei bella e luminosa come Milena.
- Anche tu quando ti piace qualcosa o sei di buonumore parli tanto. –
- Ma non faccio come lei! – si difese, con un tono di voce un po’ risentito. – Faccio come lei? – chiese subito dopo. Dominik scoppiò a ridere, e Federico lo pizzicò sul braccio. – Dom! –
Era un tono quasi di rimprovero, però stava ridendo anche lui.
Dominik si poggiò le mani sulla pancia, e con un gomito si ritrovò a sfiorare per sbaglio quella che doveva essere la pancia di Federico. Si muoveva ad ogni respiro che faceva.
Si sentiva tranquillo, lì con Federico così, nel silenzio. Era diverso dal divano di Milano, perché lì ci stavano sempre a guardare la televisione, a parlare, ma avevano delle giornate piene e Federico a casa non c’era quasi mai. Adesso si ritrovava invece nel suo letto, quello dove aveva dormito per anni, ed era una domenica pomeriggio un po’ noiosa come tante, eppure una delle poche in cui Federico poteva starsene a far nulla senza dover andare a lavorare.
Era diverso.
- Cosa ti va di fare oggi? – gli chiese, con voce bassa, un po’ strascicata, come se stesse per addormentarsi. Dominik fece spallucce.
- Non lo so. –
- Ti va di andare in centro? –
- Mh. – Non gli andava molto, in verità, di affrontare le vie affollate di Palermo della domenica pomeriggio, con le persone, le voci, gli sguardi, però Federico ne sembrava contento. Forse non sarebbe stato tanto male.
- Non ti va – mormorò invece lui.
- Non è che non mi va. Sei tu dici che è bello ci vengo. –
- Dom? – La mano di Federico si poggiò sul suo braccio. Seguì il profilo del suo gomito, lungo l’avambraccio, fino al polso, ma non gli toccò le mani. – Se preferisci fare qualcos’altro lo facciamo. Ma se non vuoi andare in centro perché pensi che ti sentiresti a disagio ti posso dire che non succederà. Ci prendiamo solo un caffè e torniamo a casa. E’ che mi piacerebbe portarti in piazza Politeama. Non è come la piazza del Duomo a Milano ma si fa valere. –
Dominik inspirò. Stava pensando a quella volta in cui erano usciti insieme ed erano andati a fare un giro per Milano: Federico gli aveva comprato una statuetta del Dumo, e per farlo lo aveva lasciato solo.
- Resta qui un attimo. Devo fare una cosa. –
- No. Dove vai? Federico! –
- Devo fare una cosa importante. Tu resta qui solo due minuti, non ti perderò d’occhio un secondo. –
- No…no, no! Non qua da solo! –
- Fidati di me per una volta. Sarò qui, a due passi. Tu respira, e ascolta. Puoi sentirlo quanto è grande questa piazza? –
Era durato non più di tre o quattro minuti, ma non si era mai sentito tanto perso in tutta la sua vita. Però quando erano tornati a casa, e si era messo a dormire, si era sentito un po’ più grande, perché era riuscito star fuori di casa da solo per quasi cinque minuti senza farsi prendere dal panico o arrabbiarsi con Federico. Non l‘aveva mai fatto, perché aveva sempre impedito a sua madre di lasciarlo solo anche per comprare un chilo di mele, e lei non aveva mai avuto il coraggio di lasciarlo, perché sarebbe scoppiato a piangere. Con Federico invece era tutto possibile.
- Allora ciandiamo – mormorò alla fine, passandosi poi le mani sul viso per stropicciare gli occhi.
Si sentiva assonnato, perché era stata una notte orribile, ma adesso si sentiva tranquillo. Era come se su quel letto con Federico lui avesse smesso di essere cieco, di trovarsi in una città sconosciuta e di essere lontano dalla sua famiglia.
La mano di Federico era ancora sul suo avambraccio, poggiata lì come se non potesse esserci posto migliore. Ed era stranamente leggera, come se più che un peso reale fosse solo una sensazione: magari la stava sognando. A sorpresa, poi, Federico sorrise, il soffio del suo respiro gli finì contro l’orecchio.
- Mi sento la pancia così piena che non riuscirò ad alzarmi da qui per tre giorni – soffiò, e poi rise, leggero, con quella mano calda ancora a contatto con il suo braccio, che pareva trasmettergli il buonumore da lì. Dominik piegò lievemente la testa di lato, sistemandosi meglio sul materasso.
- Ma se dormissimo un po’, solo cinque minuti? Poi usciamo, giuro – bofonchiò ancora Federico.
Dominik annuì, muovendo solo il capo.
Aveva una voglia matta di dormire, e forse ci sarebbe riuscito, solo un po’, adesso che c’era Federico e la sua mano sul braccio gli diceva che non sarebbe successo niente di male.
Solo cinque minuti.

§§§

 
Si erano svegliati dopo un’ora e mezzo, con i piedi e le mani congelati e ancor più assonnati di quando si erano addormentati. Federico aveva aperto gli occhi che l’orologio segnava le cinque: si era svegliato con il capo di Dominik vicino, i suoi capelli che gli solleticavano la fronte, e il braccio poggiato sul suo corpo, con la mano nella stessa posizione in cui era quando si erano addormentati.
Si era alzato così velocemente, come se si fosse scottato, che il contraccolpo sul materasso svegliò anche il ragazzino, che si mise seduto subito, passandosi una mano tra i capelli e borbottando: sono già passati cinque minuti?
Quando era sceso di sotto, Dominik ci aveva trovato sua nonna Maria con la zia Silvana, che a quanto pare erano lì da più di mezz’ora, anche se lui non c aveva capito proprio niente. Aveva mandato giù il caffè, risposto a qualche domanda, e borbottato che fosse i ritardo e che avesse fretta di uscire. Di sopra si era portato una spremuta d’arancia che aveva preparato sua madre e n altro dolcetto, che a Dominik il caffè non piaceva per niente.
Prima di riuscire a mettere piede fuori di casa passò quasi un’altra ora, tanto che Federico si ritrovò immerso nel suo incubo peggiore: il traffico di Palermo della domenica pomeriggio ore diciotto. Un suicidio.
- Che palle! Ma vuoi camminare, o no? – si ritrovò a imprecare contro il solito ragazzetto con il mercedes comprato da papà che passava il tempo a parlare al telefono e intasava strade intere. Dominik, al suo posto nel sedile passeggero, scoppiò a ridere. Quando Federico si voltò lo trovò ancora così che rideva, con quel sorriso che non si era ancora spoento.
Vederlo di profilo, a bordo dell’automobile con cui decine di volte era andato a scuola o a comprare il pane, lo faceva sentire strano.
Anche dormirci sullo stesso letto era stato strano, anche se quasi non se n’era accorto. Aveva la testa così pesante da essere crollato nel giro di due minuti: però il suo calore vicino lo aveva sentito. Era stata un po’ come trovarsi sul divano a casa loro davanti la tv, ma senza divano e senza tv. Aveva fatto un paragone idiota, a dire il vero.
- Perché ridi?  -
- Perché hai un accento buffo. A Milano non si sente così tanto. –
- Eh, a Milano mi civilizzo, che ci vuoi fare! Qui torno un po’ allo stato brado! –
Dominik rise di nuovo, mentre la radio mandava in onda una vecchia canzone di Lucio Dalla che, nel casino di clacson, faceva fati persino a sentire. Si ritrovò a tamburellare con le dita sul volante, al ritmo di quella musica un po’ allegra un po’ vintage, mentre le luci natalizie che facevano capolino da tutti i negozi intorno filtravano dentro l’abitacolo dell’auto, illuminandogli le dita e i polsi che il giubbotto, risalendo un po’ sulle braccia, aveva lasciato scoperti.
Sul polso sinistro portava il bracciale di cuoio nero che gli aveva regalato Dominik; o meglio, che gli aveva proteso borbottando e fingendo di dovesi allacciare la scarpa.
- Io…sono uscito con la mamma un po’ di tempo fa, e ti ho preso un regalo. Avrei dovuto dartelo a Milano, però sono venuto qui e te l’ho portato adesso. Non è bello come la tazza che mi hai regalato, però mi è piaciuto perché un po’ ti somiglia: si fuori è ruvido e di dentro è morbido. –
Era un bracciale semplicissimo, come una fascia nera, però mentre all’esterno il cuoio sotto le dita appariva duro e resistente, l’interno, che poggiava sulla pelle, era rivestito di un tessuto morbido e soffice. Era stata quella frase finale che lui aveva pronunciato a farlo innamorare all’istante di quella striscia di tessuto scuro.
Federico tirò il freno a mano, abbandonando i pedali e il volante e stiracchiando le braccia in avanti: poi, come se fosse la cosa più normale del mondo, la mano si mosse verso destra, poggiandosi sul ginocchio di Dominik. Non aveva qualcosa di dirgli in particolare, né la sua attenzione da richiedere, ma gli andava di farlo, come d’istinto. Per il resto se ne rimase a fissare le luci natalizie che si accendevano e si spegnevano in ritmi sempre diversi, mentre il traffico intorno era completamente congestionato.
- Ti sto facendo passare tutta la sera in macchina. –
- Non importa, a me piace stare qui – gli rispose il ragazzino, con il capo abbandonato sol sostegno del sedile.
Ti piace perché è come se fossi dentro casa e non devi incontrare nessuno.
Dominik aveva poggiato la mano sinistra sulla coscia, poco al di sopra del punto in cui c’era la sua, di mano, e la teneva tesa, come se fosse indeciso tra lo spingerla in avanti, per incontrare la sua, o il ritirarla di nuovo indietro, sul ventre.
- Che dici, parcheggiamo e ci prendiamo un caffè? Di questo passo non riusciremo a tornare per cena, se no. – Lo vide annuire, e si costrinse a staccare la mano dal suo corpo. La portò di nuovo sul volante, e sfruttando il poco spazio concessogli dalla macchina davanti alla sua che aveva iniziato a camminar, Federico imboccò la traversa sulla destra, per superare l’anello di traffico e arrivare un po’ più vicino alla piazza, trovando almeno un buco per l’auto. Ne vide uno proprio a pochi passi da un bar, e ne appropriò prima che qualcun altro avesse la sua stessa pensata.
- Perfetto, siamo stati fortunati! Dai scendi, sei dal lato del marciapiede! –
Respirare di nuovo l’aria fresca dell’esterno, piuttosto che quella dell’abitacolo, fu un vero toccasana.
- Dove andiamo? – lo richiamò la voce di Dominik.
Lo raggiunse sul marciapiede, mentre quello di infilava le mani in tasca, più per disagio che per il freddo, dato che di freddo, quella sera, non ce n’era per nulla. Dovevano esserci no meno di sedici o diciassette gradi.
- Scegli tu. Possiamo prendere un caffè in questo bar adesso, o sceglierne un altro, o andare in piazza. –
- La piazza – rispose subito quello.
Il modo in cui Dominik si lasciava affascinare da qualsiasi cosa era strabiliante. Le osservava, le studiava, le assorbiva, e poi ne ritirava fuori qualche particolare anche a distanza di settimane intere, o di anni, come nel caso de ricordi delle cose che aveva visto con sua madre quando era bambino ed era stato in un bel po’ di città inseguendo i migliori medici.
E quel giorno, ovviamente, aveva scelto di andare i Piazza Politeama, piuttosto che prendere un caffè come la gente normale. Forse di lui gli piaceva proprio il fatto che non era quello che chiunque avrebbe definito normale, classico.
Si morse la lingua, perché aveva appena pensato che gli piaceva qualcosa di Dominik. O meglio, era andato a cercare un motivo in particolare per cui gli piacesse lui in generale. Con la coda dell’occhio gli lanciò un altro sguardo: camminava dritto in avanti, seguendo i suoi passi e mantenendosi in contatto con il suo corpo, solo con un gomito.
E Federico sbuffò, mimetizzandolo con un sospiro.
In piazza Politeama c’era stato milioni di volte, e minimo una decina da quando era tornato per le vacanze. C’era stato tutte le volte con Manfredi.
Adesso si sentiva quasi in colpa. Manfredi gli aveva mandato un sms, chiedendogli di vedersi per un caffè, o se potesse passare da casa sua per fare un saluto, magari.
E lui, bravo stronzo, gli aveva risosto solo: è meglio di no.
Punto, nient’altro. Manfredi non gli aveva nemmeno risposto, ma doveva esserci rimasto male, parecchio. Non era mai successo che gli dicesse di no, per qualsiasi cosa, e sentirsi rispondere in quel modo, dopo aver saputo che aveva invitato Dominik a Palermo doveva averlo un po’ distrutto.
Però non aveva detto niente.
E lui si sentiva un macigno così pesante sul petto che avrebbe voluto mandare a fanculo tutte quelle seghe mentali, tutti quei programmi e quelle storie, e portare Dominik in un bar per confessargli tutto: l’essere gay, i suoi casini con Manfredi, la preoccupazione per Samuele, la paura di doverlo confessare ai suoi. Persino quello che provava per lui.
Poi lo sentì ridere. Ridere di una risate leggera, cristallina, con il capo un po’ piegato verso l’alto, come se quell’allegria potesse aprirsi come un ombrello verso il cielo stellato di Palermo.
- Ma che ridi adesso? –
Dominik non si voltò verso di lui, ma le sue mani abbandonarono le tasche e gli scivolarono sul braccio, aggrappandocisi all’altezza del gomito.
- Pensavo a quella volta in cui ti ho fatto fare la cioccolata e poi tu mi hai fatto il solletico. Credo che sia la cosa più stupida che abbiamo mai fatto! –
Anche Federico scoppiò a ridere. Se la ricordava benissimo quella sera, quando dai discorsi seri sulla cecità e sulla paura erano finiti a farsi il solletico sul divano come due idioti. E quello era un esempio di come la mente di Dominik girasse sempre a ruota libera, e poi finisse, per caso, a fermarsi su uno qualsiasi dei cassetti che teneva mezzi aperti, tirandoci fuori ora questo ora quello.
- E poi abbiamo fatto le bruschette. Eccome se erano buone, quelle! –
- Pensi sempre a mangiare! –
- Ma se tu cucini bene non è colpa mia. –
- Dillo davanti a ma madre, non credo che ci crederebbe! –
- A me piace come cucini. Quindi il discorso è chiuso. E questa piazza è lontana? –
Federico scoppiò a ridere, perché Dominik non era cambiato affatto; per quanto il loro rapporto si fosse evoluto, lui sarebbe rimasto lo stesso impertinente tiranno di sempre.
- E’ dietro l’angolo, capitano! –
Era davvero dietro l’angolo, e lo strattonò, per il puro gusto di farlo arrabbiare: attraversarono la strada mentre Federico se ne stava a fissare la meraviglia del Politeama illuminato, che era una meraviglia tutte le sere. E DOminik, ovviamente, iniziò con le domande: come fosse la piazza, quanto fosse grande, cosa ci fosse dentro, se fosse affollata o no, se ci fossero negozi, e anche domande alle quali lui non sapeva rispondere, come la data di costruzione del teatro, l’architetto, il palinsesto degli spettacoli o quali grandi musicisti ci avessero suonato.
- Da questo punto di vista sono proprio ignorante, Dom. Sei tu quello che se ne intende di queste cose. –
Era stranamente caldo dire una cosa del genere come se una legge non scritta, tra loro, li avesse resi una cosa sola in cui dividere le esperienze e le conoscenze. Ma Dominik sorrise: un sorriso accennato, senza aprire troppo le labbra, ma che gli addolcì l’espressione del viso.
- Quando torniamo a Milano voglio farti sentire delle nuove cose che ho perfezionato, e che non ti ho fatto sentire prima perché volevo che fossero perfette. Le suonavo sempre mentre tu non c’eri. – confessò poi. – La maestra non era mai contenta, però io ho provato e provato e adesso anche loro hanno qualcosa dentro. Sono perfette. –
- Me le farai sentire tutte quando saremo a casa. Avremo sere intere per fare quello che vogliamo! –
Lo vide annuire, mentre inspirava più profondamente, quasi volesse assorbire anche l’aria di quella piazza affollata. Poi si voltò verso di lui e gli si piantò davanti, con le mani di nuovo saldamente al sicuro nelle tasche del giubbotto.
- Prendiamo qualcosa al bar? Avevi detto che prendevamo un caffè e poi andavamo a casa. –
- A te il caffè nemmeno piace! –
- Lo so – osservò, facendo spallucce, con una sincerità disarmante. – Però mi piace stare seduto al taolo dei locali con te, perché parli tanto. E poi mi piace il caffè macchiato, perchè sopra ci mettono quella crema che sa di latte, e la polvere di cioccolato. –
 

§§§

 
Alla fine aveva scelto un bar parecchio affollato, ma meno rispetto agli altri.
A Palermo, la domenica pomeriggio, la gente usciva solo per due motivi: chiudersi dentro un centro commerciale o affollarsi all’interno di un bar. Tra le due cose, magari, anche farsi una bella oretta e mezzo di fila in macchina.
Ma lui di fretta non ne aveva.
Sarebbe rimasto ore intere al tavolo di quel bar a fissare Dominik che, con il capo poggiato sulla mano, lo faceva ondeggiare appena al ritmo della musica che si diffondeva dalla radio.
Sarebbe rimasto a fissare la striscia bianca della sua pelle che fuoriusciva dalla manica del maglione, o il profilo delle sue dita che si poggiavano sul viso e premevano appena, affondando nella guancia. Sarebbe rimasto a fissare la smorfia che facevano ogni tanto le sue labbra quando qualcuno parlava più forte e lo disturbava, o un cameriere urtava per sbaglio la sua sedia.
Con i caffè che avevano ordinato – tutti e due macchiati – avevano portato loro anche dei biscotti; alcuni erano al cioccolato, altri semplicissimi, altri ancora avevano su dei quadratini che Federico aveva scoperto essere canditi, prima di sputacchiarli di nascosto in un tovagliolino.
Dominik ne aveva mangiucchiato uno solo, di quelli al cioccolato: una cosa del genere non era un buon segno.
- A che pensi? – lo chiamò, estraendo un tovagliolo dal contenitori per passarlo sulle labbra. Dominik si strinse nelle spalle, poi fece una smorfia.
- Voglio suonare – disse solo. Poi la mano abbandonò il viso, ed entrambe le braccia scivolarono in avanti sul tavolo. – Non ti capita mai di sentirti come se ti mancasse qualcosa? –
- Ti manca qualcosa? Mi sembravi tranquillo fino a mezz’ora fa. –
- Non lo so. Forse è la sera che mi fa questo effetto. Ma dimmelo, Federico, ti capita mai? – insistette ancora, cocciuto, stringendo le dita a pugno.
Federico si passò una mano tra i capelli.
- Si, Dom, credo che capiti a tutti. –
- A me non è mai capitato. Mai. E non lo capisco perché adesso mi capita. – Fece una smorfia, stizzito, arrabbiato con se stesso e con quello che si ritrovava a provare.
Faceva quasi tenerezza, a vederlo così.
Lui un’idea se l’era fatta. Gli era venta in mente, in quel momento, una cosa che aveva detto una volta la professoressa di filosofia del quarto anno, l’unica, delle tre che si erano succedute in tre anni, a concepire la filosofia come un modo per far camminare il cervello, e non come un’accozzaglia di filosofi da infilare in testa ai ragazzini del liceo. Lei diceva sempre che tutti i problemi dei filosofi nascevano dal loro modo di rapportarsi al mondo: nello stesso momento in cui un uomo entrava in contatto con il mondo, iniziavano i problemi. E visto che l’uomo è un “animale sociale”, allora tutti gli uomini finivano per avere dei problemi.
Per Dominik valeva quella linea generale. Per diciotto anni, Dominik non era stato un animale sociale. Gli unici contatti che avesse mai avuto, con la sua famiglia, con gli insegnanti, o i contatti sporadici che aveva avuto con gli altri bambini, li riversava tutti nella musica, ed equilibrava tutto. Adesso che le cose stavano cambiando, che volente o nolente si era ritrovato a condividere qualcosa con lui, la musica non bastava più a contenere quella miriade di contatti umani cui lo stava sottoponendo, e allora Dominik si perdeva. E Federico lo preferiva così, perso.
Non gli avrebbe spiegato quella teoria, perché forse non l’avrebbe accettata, si sarebbe messo a ridere, o forse ancora ci si sarebbe trincerato dietro e avrebbe deciso di volere solo la musica e basta. SI limitò a spingere la mano in avanti, verso la sua, poggiandola all’altezza del suo polso, in una stretta delicata.
- Non ti è capitato prima, ma ti capita adesso. Hai diciotto anni, non sessanta. Si cresce, Dom, e si cambia. Le cose cambiano, ed è una buona cosa. Forse adesso ti sembra che ti manca qualcosa, ma magari domani ti sveglierai e ti renderai conto che va tutto bene, e il giorno dopo ancora sentirai di avercela con tutto il mondo. Capita. –
- No che non capita! La musica perde la sua magia così! – soffiò, come un gatto irritato, sottraendo la mano al suo tocco.
- E se non fosse come dici tu? Se invece facesse bene alla musica, che tu ci mettessi dentro un po’ di questa rabbia e di questa paura? –
- Io non ho paura. –
- Si che ne hai. Ce l’abbiamo tutti. –
Dominik portò di nuovo la mano in avanti, e questa volta fu lui a premerla quasi sulla sua, come se volesse assorbirla. Era stranamente calda, e anche le sue guance si erano arrossate per il fervore.
- Ma è diverso. Se io ho paura, il buio mi soffoca. A te basta aprire gli occhi e tutto va meglio – confessò, in un soffio, un isto tra il terrore e la rabbia.
- Hai detto che la musica è i tuoi occhi, no? Quando hai paura suona – gli mormorò. Dominik espirò, frustrato. – La paura non ti soffoca, Dom. Se tu permettessi agli altri di conoscerti un po’, come ti conosco io, capiresti che tutti hanno paura, ma che si aiutano a vicenda. –
La mano di Dominik lo lasciò di nuovo, scivolando lungo il tavolo fino a raggiungere il suo proprietario. Seguendone il percorso sul legno scuro del tavolo, Federico avrebbe voluto afferrarla e intercettarla prima che si allontanasse così tanto. Era come se, con quella mano, anche Dominik stesse cercando di risalire lungo le mura della sua torre dorata: solo che scivolava continuamente, come se quelle mura fossero ricoperte di sapone.
- Non mi importa. Non voglio fare pena alle persone. –
- Ma chi ti dice che faresti pena alla gente?! Te ne sei convinto tu! –
- E ho ragione io! –
- Tu non hai ragione proprio su un cazzo, Dominik. –
Lo vide, quel movimento.
Vide quel corpo ergersi in tutta la sua fierezza, come quello di un nobile rinascimentale offeso, o di un principe russo dall’onore oltraggiato. Aveva stretto le mani sul bordo del tavolo con così tanta forza da farsi diventare le nocche bianche, ma il suo viso non aveva tradito nessuna espressione.
Niente.
Una cosa sola lo aveva tradito.
Il modo in cui, dopo cinque o sei secondi, aveva curvato appena le spalle in avanti, come se gli avessero dato un pugno allo stomaco e gli avessero fatto mancare il fiato. Aveva dischiuso le labbra, e poi niente. Era tornato di nuovo dritto come una prima donna offesa.
Forse, a colpirlo di più, non erano state solo le parole.
Tu non hai ragione proprio su un cazzo, Dominik.
Forse era stato il tono duro che aveva usato. O forse quel nome. Dominik. Non lo chiamava così da settimane. Fatto sta che, nello stesso momento in cui lo aveva detto, aveva desiderato fare qualcosa.
No, non scusarsi, pregarlo di perdonarlo, o racchiuderlo in un abbraccio.
Avrebbe voluto picchiarlo. Dargli uno schiaffo sulla faccia, e vederlo rispondere.
Farsi schiaffeggiare da lui, o sentirlo urlare. Magari sentirlo dire che lo odiava, che era uno stronzo, che faceva schifo.
Tutto, purchè scendesse da quella torre.
Allora sbuffò, prendendosi la testa tra le mani e immergendo le mani nei capelli.
- Dio, quanto mi fai incazzare certe volte! – sibilò, con tutta la voglia di urlarglielo in faccia. Lo facevano uscire di senno quell’aria composta che aveva, quella freddezza, quell’inflessibilità sulle sue posizioni. E lo faceva urtare di brutto il fatto che pensasse di far pena alle persone. Magari anche a lui. Dominik continuò a non dire niente, immobile e fermo nella sua posizione. Allo Federico si rimise diritto, incrociando le braccia sul tavolo. – E’ mai possibile che con te faccio un passo avanti e centoventi indietro? Io sarò anche impulsivo, ma tu non aiuti per niente! Cazzo, sei venuto fino a qui, ti sei comportato da persona normale, e credevo che qualcosa l’avessimo risolta! Invece no, dopo cinque minuti torni a dire che fai pena alla gente, che il mondo non ti tocca perché la cosa importante è solo la tua musica. E’ questo che pensi di me? Che mi fai pena e che faccio questo per farmi dire grazie? Che non me ne importa niente di te? –
- No – mormorò quello.
- E allora smettila, Dom – gli disse poi, con voce più morbida. – Smettila di pensare cose del genere quando sei una delle persone più pulite che io abbia mai conosciuto. E cerca di aprire un po’ la mente e capire che non ci sono solo persone di merda, al mondo, ma che c’è anche gente per bene. –
- Tu non capisci, Federico. Non capisci quello che voglio dire. –
- Una volta hai detto che sono l’unico che capisce quello che vuoi dire – ribatté, con le braccia incrociate più forte.
Era successo appena tre settimane prima, sul divano della loro casa a Milano.
- Mi piace parlare con te, Federico, perché non hai quelle frasi fatte in testa, ma sai sempre quello che voglio dire, anche quando devi andarmi contro. E’ come se lo capissi dentro la mia testa. –
Dominik sospirò, e le braccia tornarono a poggiarsi sul tavolo.
- Infatti è vero. E’ che…questa volta è una cosa diversa – confessò. Iniziò a tormentarsi le mani, a capo chio, come se tutta quella fierezza da nobile cigno l’avesse perduta in un battito d’ali.
E Federico si chiese cosa ci fosse di sbagliato in quel bar da avergli mutato l’umore nel giro di cinque minuti, da faro passare da quell’espressione estasiata che aveva avuto quando erano per strada a quel malumore nero. Forse era una specie di vampiro che cambiava personalità dal giorno alla notte.
Avrebbe voluto prendergli quelle mani, però. Fermare il movimento delle dita che cercavano di strappare una pellicina intorno all’unghia del dito indice, già arrossato, e riscaldarle.
Quado fece per avvicinarsi, però, Dominik scattò. Con un movimento rapido, gli afferrò un poso, da sopra il maglione, e Federico fece una smorfia: non aveva mai stretto così forte, come se volesse conficcargli le unghie nella pelle.
- E’ vero che non ti faccio pena? Che non mi hai invitato qui solo perché ho blaterato che mi sarebbe piaciuto vedere il mare e hai provato pietà? – La stretta divenne ancora più forte. – E’ vero, Federico? –
- Non mi fai pena. –
- Allora perché mi hai invitato, se non per farmi piacere? –
Gli avrebbe aperto una ferita sul polso, se avesse stretto ancora più forte, e quella stretta contrastava così tanto con l’espressione indifferente che aveva in volto da fare apparire il capo e la man come parti di due corpi diversi.
- Perché volevo che venissi da me – confessò.
La stretta sul polso cessò, ma non si tramutò in una carezza di scuse. Semplicemente, la mano sparì, di nuovo lontana, e il viso di Dominik era di nuovo perso nel suo mondo.
- Andiamo a casa Federico? –
- Non ci fu bisogno di rispondergli.
Dominik era già in piedi.
 
 

§§§

 
L’acqua fresca sulla pelle cancellava i segni, e il dolore.
Dove Dominiki aveva stretto forte, si era formato un segno rossastro.
Federico chiuse il rubinetto, asciugandosi le mani.
Lo specchio del bagno rimandava l’immagine del suo volto a dir poco inguardabile.
Al di là della barba non fatta, dell’orrendo pigiama verdognolo che sua madre si ostinava a fargli indossare e dei capelli senza nessun ordine, aveva la faccia di chi non vedeva l’ora di andare a letto e dormire fino all’indomani pomeriggio. Magari ci sarebbe anche riuscito, dato che la mezzanotte era passata da un pezzo, tutti dormivano già e lui aveva passato mezz’ora a guardare la televisione in soggiorno.
Dominik si era messo a letto da una ventina di minuti: gli aveva lasciato il pigiama sul letto, e poi era uscito.
A cena era stato abbastanza tranquillo: aveva sorriso, risposto alle battute di Milena, preso due porzioni di insalata di patate e persino guardato la partita in televisione con lui e suo padre.
Non aveva nemmeno accennato al suo attacco da psicopatico di qualche ora pria, anche se, quando sorrideva, non aveva lo stesso sorriso di prima. C’era qualcosa, Federico ne era certo, che non gli stava dicendo.
Non avrebbe fatto come faceva sempre però; fingere che tutto andasse bene e fare finta di nulla, che tutto si sarebbe risolto. Era troppo curioso e impulsivo per farlo, proprio come quando aveva sbottato contro Dominik, al bar, per una cosa da nulla.
In quel caso avrebbe dovuto essere impulsivo e vitale. Doveva essere se stesso, e fare come gli aveva detto Samuele.
Tirare fuori i coglioni, detto in parole poco eleganti.
Federico spense la luce del bagno, immettendosi nel corridoio buio seguendo la sottile striscia di luce che filtrava dalla porta chiusa della sua camera. I suoi genitori dormivano già da un’ora, perché l’indomani avrebbero lavorato.
Aprì la porta della camera piano, per non svegliare Dominik, ma quello si era già messo seduto sul letto, sveglissimo. Allora Federico aprì del tutto la porta, chiudendosela poi alle spalle senza tante cerimonie.
- Sei ancora sveglio? – gli chiese. Dominik fece spallucce, limitandosi a rimettersi sdraiato, con le coperte a coprirgli quasi la testa. Come facesse a non soffocare dormendo così era proprio un mistero.
Spense la luce, infilandosi tra le coperte, disteso sulla schiena.
Teneva gli occhi spalancati, perché era certo che non si sarebbe addormentato tanto presto.
Aveva la testa troppo piena di pensieri.
Il cuore che batteva come sospeso in una cassa toracica vuota.
Il tocco gentile di Dominik sulla spalla, mentre in macchina partiva una canzone che si era messo a canticchiare.
Dominik si girava su un fianco.
Il calore del corpo di Dominik sotto la mano mentre guidava.
Il suo sorriso quando aveva immerso i piedi nell’acqua del mare di Cefalù.
Dominik si girava di nuovo.
La paura di Dominik della gente che lo circondava.
Lui che gli urlava contro per scuoterlo in qualche modo.
Il senso di colpa unito alla furia.
Dominik sbuffava.
Il desiderio di affondare la mano nei suoi capelli e strattonarlo.
Il respiro regolare di Dominik mentre dormiva di fianco a lui.
Dominik che lo baciava sul divano della loro casa.
Lui che si svegliata in aeroporto senza fiato.
Dominik si rigirava ancora.
Federico guardò la sveglia. Era quasi l’una del mattino.
- Dom? –
- Cosa c’è? – gli rispose una voce soffocata.
Federico si mise seduto, scostando le coperte di lato.
- Cos’hai? Non riesci a dormire? –
- No. –
- C’è qualcosa che non va? –
- No. –
- Sicuro? –
- Si. –
Adesso avrebbe dovuto tornare a sdraiarsi e cercare di dormire.
Oppure dare di nuovo di matto.
Solo che c’era qualcosa di stranamente dolce e patetico, nella voce morbida di Dominik, che lo rendeva quanto di più diverso dall’altera figura che si era trovato davanti al bar, quel pomeriggio.
Allora si alzò in piedi e, nella penombra, distinse il vecchio letto di Milena e l’ammasso informe di coperte che era Dominik. Si sedette proprio in un angolo, quello che il ragazzino aveva lasciato libero perché se ne stava rannicchiato in posizione fetale.
- Dominik? Sul serio, stai male? –
Si sentiva tremendamente in colpa, adesso. Forse quella era una reazione alla sua sfuriata di quel pomeriggio. Forse quel ragazzino, dietro quella maschera di freddezza, aveva anche un cuore che batteva, e doveva esserci rimasto male per il modo in cui lo aveva attaccato. E quale miglior luogo, per leccarsi le ferite, se non un letto caldo e un fagotto di coperte?
Stava per chiedergli scusa, ma non ci riuscì, perché Dominik tornò a parlare con voce chiarissima.
- Voglio tornare a Milano. –
Una frase tagliente come una coltellata. Era colpa sua, tutta colta sua. Lo aveva trattato in quel modo e aveva bruciato in un secondo tutto quello che aveva costruito in mesi interi. E adesso Dominik voleva andarsene.
- Come, ma…perché? -
- Sono cieco, Federico – lo sentì soffiare solo. – Sono cieco e mi manca qualcosa, e non so cos’è. –
Federico ne vedeva solo il capo biondo, neppure il viso, ma avrebbe voluto soltanto passare una mano su quella fronte, sulla pelle morbida, e togliergli i capelli da lì per poggiarci le labbra.
Aveva i piedi congelati, ma un gelo più profondo nel cuore.
Sono cieco. Si poteva mai dare una risposta a una frase così?
Poggiò la mano all’altezza della sua spalla, da sopra il piumone.
- Mi fai un po’ di posto? – gli chiese poi, con l’intento di sdraiarglisi accanto, sopra le coperte, come quel pomeriggio. Però Dominik scostò anche le coperte, liberando un ampio angolo d letto e schiacciandosi quasi del tutto con la schiena contro il muro.
Federico ci si lasciò cadere, sistemandosi la coperta addosso, fino all’altezza della vita, e girandosi su un fianco. Adesso lo vedeva meglio, quel viso con una piccola smorfia.
- Perché vuoi tornare a Milano? E’ per quello che ti ho detto oggi? Lo sai che mi innervosisco subito, ma non ce l’ho con te.  –
- Io…io sono cieco, Federico. –
- Lo so. Ti è mai sembrato che sia stato un problema per me? – Lo vie scuotere il capo. Era terrorizzato all’idea che gli dicesse di sì, che stesse comportandosi in quel modo perché, quel pomeriggio, le sue parole gli avessero fatto credere di essere un peso. Ma a quanto pareva non era dovuto a quello.
- No. Non è questo. Tu sei buono, Federico, e sincero. Non sai mentire. E io lo so che non ti faccio pena, e che quello che fai…non lo sai neppure tu perché lo fai. Un po’ come mei. E’ che io sono cieco, qui. Non posso fare niente, lo capisci? Non posso andare in bagno, non posso prendere dell’acqua, non posso nemmeno quasi vestirmi da solo! Non conosco nessuno, non ho un pianoforte, e non c’è niente! Ho fatto male a venire qua, dovevo saperlo che sarei stato solo un peso. –
Gli afferrò il viso prima che potesse anche solo finire di parlare. Aveva poggiato la mano sotto il suo mento, per impedirgli di abbassarlo, e poi era scivolata in alto, verso lo zigomo, fino all’attaccatura dei capelli.
- Non devi nemmeno pensare una cosa del genere. Non sei un peso. –
- Ma io non ci vedo Federico. Sarà sempre così. Non potrò andare da nessuna parte senza una balia che mi assista e che mi dica dove sono le cose, che mi impedisca di inciampare, di farmi investire, o di bruciare la cena. –
- Lo so – gli disse semplicemente, perché sapeva benissimo che, nonostante fosse brutta, fosse comunque la verità. – Però perché ci stai pensando adesso? C’è stato qualcosa, qui, che ti ha fatto credere di essere un peso? –
- No – mugolò quello, mettendo quasi il broncio. – E’ solo che stare qui mi ha fatto rendere conto di qual è la verità. A casa a Milano posso fare molte cose da solo, e poi ci sei anche tu, che sei così buono...anche a casa mia posso fare tutto da solo, ma mi è bastato uscire di casa per rendermi conto che da solo non posso fare proprio niente. E la notte è peggio, perché durante il giorno ci sei tu, e quasi me ne dimentico, ma la notte sono solo al buio. –
Federico sospirò, passandosi una mano sul viso. Non voleva vederlo così. Dominik, per lui, rappresentava l’emblema della forza, come un angelo vendicatore indistruttibile: e adesso il muro era crollato. Era quasi paradossale che i cocci fossero finiti proprio sul pavimento della sua stanza da letto a Palermo.
- Perché proprio a me, Federico? Io lo so che sarei potuto nascere paralizzato, o ritardato, e che magari sono stato fortunato a essere nato solo cieco. Lo so che sono fortunato perchè so suonare bene il pianoforte e molti vorrebbero suonare come me. Però perché a me? –
Se lo chiedeva anche lui da mesi. Da quando Dominik aveva iniziato a fidarsi di lui, ad avvicinarsi un po’, e aveva scoperto quanto in realtà ci fosse dietro a quel ragazzino, se l’era chiesto parecchie volte.
E nessuna era riuscito a darsi una risposta.
Come poteva farlo, davanti a quel viso bellissimo eppure così insopportabile da sostenere?
- Non lo so, Dom. E’ che quando nasciamo, nasciamo e basta, e dobbiamo sopportare le cose che ci capitano. Tu lo fai bene, perché non suoni solo il pianoforte, ma ci costruisci le cose. Non credo che qualcun altro potrebbe mai fare una cosa del genere, affrontarla così. Ci sono persone che non sanno affrontare quello a cui vanno incontro. –
Tipo me, che non sono riuscito in sette anni a dire ai miei che sono gay.
Dominik si rannicchiò ancora, avvicinandosi un po’ al suo corpo, fino a trovarsi con il viso incastrato nell’incavo del suo collo, senza sfiorarlo tranne che con il respiro.
- E’ che da quando ho conosciuto te ho iniziato a pensare di più alle persone, e le cose nella testa si sono complicate. Prima era tutto così semplice, perché c’era solo la musica. Adesso ci sono delle cose strane che non capisco. Come quando tu magari tardi dieci minuti, a tornare dal lavoro, e mi prende una morsa allo stomaco, perché mi manca qualcosa. O come quando mi poggi la mano da qualche parte… - Dominik aveva mosso una mano, e l’aveva poggiata sulla sua spalla, seguendo con le dita la linea della clavicola, fino a fermarsi lì. - …e sento che la musica si confonde nella testa. O quando, ieri al mare, mi chiedevo se, baciandoti qui – il dito sottile di Dominik si poggiò sul suo viso, in corrispondenza dell’angolo della mandibola – la pelle fosse ruvida come sembra sotto le dita. E’ troppo complicato, Federico. –
Avrebbe voluto e potuto fare o dire decine di cose, e non ne fece nemmeno una.
Lasciò semplicemente che il corpo di Dominik si muovesse un po’, raddrizzandosi e sciogliendosi dalla morsa nel quale si era costretto, e il suo viso si avvicinasse, quanto bastava perché le sue labbra morbide gli si poggiassero sul viso, soffici e delicate come una carezza, sfiorandolo appena.
Erano morbide come se le aspettava, ma più umide, e meno impacciate.
E stavano poggiate proprio lì, dove la pelle pareva poter prendere fuoco e far partire una scintilla che infiammasse tutto il corpo.
La linea di combustione, almeno, partì subito a congiungersi con un punto, dove la clavicola destra incontrava lo sterno, in cui Dominik aveva adagiavo la mano, a partire da due dita; e da lì, partì subito al cervello, confondendolo del tutto.
Perché se non fosse accaduto così, non avrebbe mai lasciato che succedesse il resto.
Non avrebbe mai permesso che la mano scivolasse in alto, carezzando lievemente quella di Dominik poggiata sul suo petto, per poi risalire ancora e poggiarsi sul suo collo lungo, sfiorando appena con i polpastrelli l’attaccatura dei capelli dietro le orecchie. Non aveva mai lasciato che il viso, e con esso il corpo, si voltassero a destra. Non avrebbe mai permesso al respiro di andarsene a fanculo. Però…cazzo.
Gli bastò premere appena con la punta delle dita sulla sua nuca per fargli alzare il viso verso il suo e baciarlo.
Prima poggiò solo le labbra sulle sue, leggermente dischiuse per assaporarle. Non erano dolci. Niente di lui era dolce. Quello che lo colpiva di Dominik, in quel momento, nonostante i suoi movimenti morbidi, il suo respiro a tratti sparito, era l’odore di maschio.
Aveva solo una punta dolciastra, probabilmente del bagnoschiuma che usava, ma era odore di uomo, e non quell’aroma impalpabile come le nuvole che gli aveva sempre associato.
E la consapevolezza bastò per premersi con più forza il suo viso contro, dischiudendogli le labbra per assaporarne anche la saliva. E Dominik non fece altro che aprirle, morbide, inspirando un soffio di aria che parve non riuscire più a mandar via dai polmoni.
Era come se, per mesi, tutto quello che li aveva avvicinati fosse servito per portarli lì, a baciarsi in quel modo, a sfiorarsi appena con le mani, con le labbra, e con i respiri, ma a strapparsi pezzi di anima. Eppure la mano di Dominik artigliata alla sua maglietta, e la propria stretta tra i suoi capelli, quelle erano cose proprio terrene, e dannatamente eccitanti.
Dominik era un isto di arrendevolezza e di lussuria, nel modo in cui si spingeva un po’ verso di lui, e oi arretrava, aspettando un altro tocco più profondo o un sospiro più accennato.
E l’avrebbe baciato forse per tutta la notte, se un suo lieve mugolio, che parve come il rombo di un tuono nel silenzio della stanza, non lo avesse colpito dritto al cervello. Lo lasciò andare, prima con le labbra, poi anche con le mani, e capì di essersi ficcato in un bel casino.
Ma rimase così pr un po’, ad ammirare nella penombra le labbra gonfie di Dominik, ancora dischiuse, il suo petto sollevarsi e abbassarsi irregolarmente, e poi la sua mano, quella che si portò in avanti, sul cuscino, come se lo cercasse, senza però trovarlo, perché lui era arretrato di una spanna.
- Federico – lo chiamò, la voce un po’ roca, come se non avesse più fiato per far vibrare le corde vocali. Lui rimase immobile con il cuore che gli batteva così forte da potergli spaccare il petto. Aveva fatto una cazzata. Aveva distrutto tutto nel giro di un secondo: l’amicizia, le chiacchiere, i buoni proposito di dirgli la verità, persino l’immagine che doveva essersi creata di lui quel ragazzo. Aveva distrutto tutto perché non era riuscito a controllare l’istinto di prenderlo e baciarlo. E che cazzo, però, ci era riuscito per settimane! Perché, vederlo adesso così umano, lo aveva confuso in quel modo? Avrebbe sospirato di frustrazione, se non fosse stato così nervoso. Sarebbe scoppiato l’inferno adesso. Sarebbe stata una notte di litigi, di urla, magari. Poteva solo augurarsi che i suoi genitori non venissero a sapere nulla.
Voleva tornare a Milano. Voleva essere a Milano, prendere un borsone e presentarsi a casa di Samuele. Lui avrebbe saputo cosa fare. Ma neppure Samuele avrebbe potuto salvarlo.
- Federico? – chiamò ancora Dominik, con un tono così impaurito, adesso, da rendergli impossibile il silenzio.
- Dom, io… - iniziò, nel tentativo di spiegargli tutto, arginare così il casino, ma lui parlò per primo.
- Tu mi hai baciato? – Sembrava incredulo. Di tutti i sentimenti che avrebbe potuto provare, Dominik era incredulo. Teneva le labbra dischiuse, aveva il respiro più regolare, ma la sua mano, sul cuscino, era nervosa, probabilmente per quella distanza.
- Io…si, Dom. Ti ho baciato. E…devo dirti una cosa – gli confessò alla fine. Ci aveva pensato mille volte al discorso che avrebbe fatto, a tutte le cose che gli avrebbe spiegato, ma aveva contato di farlo diversamente: lo avrebbe preso in disparte, avrebbe iniziato con il parlare d’amore, con il fare esempi con la musica, e poi gli avrebbe introdotto l’argomento. Adesso non solo non si ricordava più nemmeno una parola, ma lo aveva baciato. E avrebbe preferito baciarlo ancora, piuttosto che parlare. Allora decise di fare l’ultimo passo, e andarsene a fanculo. – Ti ricordi che ti avevo detto che c’era una cosa a cui pensavo, e che te ne avrei parlato prima di tornare a Milano? Te l’ho detto ieri. – Lo vide annuire. – Ecco…a me piacciono i maschi, Dom. Sono gay. E avrei dovuto dirtelo mesi e mesi fa, solo che non andavamo molto d’accordo e non volevo che mi odiassi, poi abbiamo iniziato a diventare amici e temevo che così avresti pensato male di me e mi avresti allontanato, e non volevo, perché mi piacevi già. Però…però non devi pensare che quello che ho fatto negli ultimi mesi l’ho fatto per prenderti in giro o cose del genere, o per approfittarmi di te. Parlavo sul serio. Siamo amici, e scusami, e giuro che non succederà più se tu... – aveva iniziato a farfugliare come un idiota, come tutte le volte in cui era nervoso.
Però Domiik non sembrava arrabbiato, e per un attimo gli balenò alla mente l’idea che non lo fosse sul serio. Aveva risposto a quel bacio, però adesso sembrava confuso. Aveva poggiato la mano sul suo petto, e lo aveva fermato.
- Aspetta. Mi hai baciato perché ti piacciono i maschi o perché ti piaccio io? – gli chiese, aggrappandosi a lui come se quella fosse una domanda in grado di cambiare il mondo.
- Io…mi piaci tu, ovvio. –
Dominik si prese qualche istante per pensare, aggrottando la fronte e stringendo le labbra. Lo avrebbe baciato proprio in quel momento, come un idiota.
- Quindi… - iniziò, poi abbassò il capo. – A me non piacciono i maschi, Federico. –
Eccola, la coltellata. Aveva creduto che avrebbe fatto meno male, che non gli avrebbe mozzato il respiro e fatto bruciare le labbra come se Dominik lo stesse ancora baciando. I fondo era solo un ragazzino, cosa avrebbe dovuto fare? Avrebbe cambiato appartamento, lo avrebbe salutato, e tanti baci, Punto, Fine.
Però perché la delusione bruciava con tanta forza dentro?
La mano di Dominik si mosse sul suo petto. Probabilmente aveva sentito il cuore iniziare a battere più forte.
- E non mi piacciono nemmeno le femmine. Non mi importa di nessuno, voglio stare più in alto di queste cose. Però tu mi piaci, Federico. Questo vuol dire che mi piacciono i maschi? –
La mano di Dominik si era artigliata sul suo petto con più forza, come se cercasse una zattera a cui aggrapparsi in quella tempesta E gli sembrava tutto così dolce, in quel momento, che non gli importava più di niente.
Però tu mi piaci, Federico. Quel calore nel petto doveva essere il cuore che faceva la conga con i polmoni con tanto di cappellini e stelle filanti. Non riusciva più nemmeno a respirare, perché ogni respiro era un soffio di aria calda che diventava bollente dentro la gabbia toracica.
Allora gli prese la mano nella sua, stringendola contro il palmo.
- Non lo so, Dom. Forse. –
- Non mi importa, però – soffiò poi, con un lieve sospiro.
Allora si sporse un po’ in avanti, verso di lui, con il volto proteso in alto, per incontrare le sue labbra. Quando fu ad un soffio dal sulle sue labbra, però, Federico lo fermò appena.
- Dom, però lo sai che… - iniziò, ma la mano dalle dita allungate del ragazzo salì alla ricerca del suo volto, fino ad accarezzargli il viso lungo la mandibola.
- Ho sonno, Federico. La notte passata non ho chiuso occhio. Puoi dirmelo domani. Ma puoi restare a dormire qui? – gli mormorò, con quella voce morbida.
- Va bene, parleremo domani. –
- E…puoi baciarmi ancora? E’ un nuovo colore. –
Federico sorrise nello stesso momento in cui immergeva di nuovo la mano nei suoi capelli biondi, sfiorandogli lo zigomo con il palmo.
Quando lo baciò sulle labbra, Dominik le dischiuse.





(1) Il titolo è tratto dalla canzone Piazza Grande di Lucio Dalla.
(2) L'immagine di copertina è una vista dall'alto di Piazza Politeama, a Palermo.

Nota al capitolo 25:
Finalmente sono qui. Ammetto di essermela tirava una vita con questo capitolo 25.
Prima ho detto che avrei finito in settimana, poi l'ho diviso in due, poi ho detto che li avrei postati insieme e alla fine mi sono fatta aspettare fino all'ultimo minuto.
Però, capirete, l'ultima parte di questo capitolo non potevo lasciarla a se stessa o scriverla così.
C'è voluto parecchio tempo.
25 capitoli perchè Federico dicesse la verità a Dominik.
Avete fatto miliardi di ipotesi su come Fede avrebbe detto la verità a DOm o di come Dom avrebbe reagito: ipotesi fantasione, contorte, alcune dirette.
Alla fine, la verità era la più semplice. Una fissaria, come ama dire il mio professore di Fisiopatologia.
Semplicemente, quei due si baciano, come due idioti in preda agli ormoni.
Due dolcissimi coccolosi e amorevoli idioti. <3
E la rezione di Dom? Qui non ci sareste mai arrivati, probabilmente. La sua massima preoccupazione è capire se gli piacciono i maschi, dato che Federico gli piace. xD
Ed è la reazine più semplice e verosimile per un ragazzino così, che del mondo non conosce poi tanto, che ragiona a modo suo, e cheha conoscuto Federico prima di sapere la verità. Per Dominik la paorla gay o quella etero sono scisse dall'idea che ne ha la società se ne è fatto na sua idea, e non credete che, improvvisamente sia diventato gay con un bacio dopo essere stato etero per 18 anni.
Come ho detto una volta rispondendo a una domanda su facebook, Dominik è asessuato: n si è creato una sua identità sessuale, perchè non si è mai rapportato a nessuno e non gli è mai nteressato. La sua unica compagna di vita era la musica. Adesso conosce Federico, e non sa se gli piacciono le donne o gli uomini, se è gay o etero. Sta fuori da ogni categoria, perchè nel suo mondo queste categorie non esistono.
Gli piace Federico, e questo è il suo massimo pensiero.
Ma cosa succederà adesso, quando sorgerà il sole?
Ovviamente, ho lasciato la porticina aperta, sia perchè questo capitolo sarebbe stato un poema, sia per creare un pochino di suspense (lo sapevate che si scrivesse così? Ero sempre stata convinta dsi scrivesse suspance, ma google mi ha smentito!)
Ringrazio tutti, perchè siamo quasi a 160 recensioni! o.O E vi amo!
Spero anche di avervi dato una bella visione di Palermo, come risulta a me almeno, anche se non ci vivo stabilmente. Ma davvero, è una città magica!
E giuro solennemente che adesso mi prendo due giorni di pausa dalla scrittura per risondere alle recensioni, perchè non posso far schifo così! D:
Spero che questo capitolo non vi deluda, ma io il primo bacio delle nostre creature lo progettavo così da quando ho iniziato questa storia, con DOminik a Palermo che entra in crisi e alla fine Federico che cede! Spero di leggere delle vostre impressioni, e vi lascio!
Un enorme bacio a tutti e appuntamento a presto!
Esse

 Nella mia pagina facebook potrete leggere sempre novità varie ed eventuali, vedere foto con piccoli spolier e anche linciarmi in diretta, perchè lì magari riesco a rispondere prima!xD
http://www.facebook.com/pages/100-sbavature-di-Esse/509052772480144


 

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Capitolo 29
*** 26th: Ràno ***


Nessun giorno è uguale all'altro, ogni mattina porta con sé un particolare miracolo, il proprio momento magico, nel quale i vecchi universi vengono distrutti e si creano nuove stelle.

Paulo Coelho, Sulla sponda del fiume Piedra mi sono seduta e ho pianto, 1994


 

Chapter 26th: Ràno
 
Sotto le dita il tepore era confortante.
Non era quello delle lenzuola tiepide. Era tepore di pelle.
La mano si mosse, e più in basso scoprì la morbidezza di un tessuto leggero.
Poi di nuovo più in alto, a ritrovare quella pelle che, già tiepida, aveva addosso il calore che gli avevano lasciato le sue dita.
Lasciandole lì, sopra la sporgenza ossuta della clavicola, sentiva quella stessa sporgenza che si sollevava e si abbassava appena ad ogni respiro.
- Federico – mugolò.
Voleva che si svegliasse.
Improvvisamente voleva che aprisse gli occhi, che gli parlasse con quella voce calda e carezzevole. Che lo baciasse di nuovo, come la sera precedente, prima che si addormentassero, quando l’ultima sensazione che aveva avvertito era stata quella soffice delle labbra di Federico sulle sue.
- Federico – lo chiamò ancora.
Il corpo sotto la mano si mosse. Non l’aveva mai avuto così vicino: anche se non erano davvero abbracciati, i loro corpi, nel letto singolo che avevano occupato, aderivano quasi l’uno all’altro, ma con una strana deferenza, quasi come se Federico non volesse toccarlo troppo.
L’unico vero contatto concesso era quella mano che Dominik gli aveva poggiato sul petto.
Gli faceva venire in mente quella volta, mesi prima, in cui si erano addormentati in salotto, lui sulla poltrona, Federico sul divano; e svegliatosi all’improvviso, forse in piena notte, forse già al mattino, aveva sentito la necessità di toccarlo, di sentirlo più vicino, e si era riaddormentato con le dita intrecciate a quelle di Federico.
- Mh – sentì mugolare il ragazzo accanto a lui.
Il corpo di Federico si tese sotto le lenzuola: stava stiracchiando le gambe, e le braccia, persino le mani. Ce l’aveva così vicina alla pancia, una delle sue mani, che sentì le dita aprirsi a ventaglio e sfiorarlo da sopra il pigiama.
Voleva che Federico si svegliasse, e che lo abbracciasse.
Si sentiva stranamente leggero e intorpidito, anche se non aveva proprio più sonno: semplicemente, si sentiva stranamente bene. Le gambe vibravano nella loro immobilità, come se il sangue avesse deciso di prendere a fluire più velocemente, come in una festa: persino le mani erano più sensibili, e le sensazioni sui polpastrelli amplificate. E poi c’era quella sensazione strana.
Si svegliava tutte le mattine così, da quando aveva quindici anni, per quello che ricordava. Sapeva benissimo il perché: glielo avevano spiegato a grandi linee in terza media, durante la lezione di scienze, ma era stato suo cugino Pier a dirgli tutto, una di quelle sere d’estate che avevano passato insieme, mentre gli adulti chiacchieravano in salotto e lui lo aveva trascinato nella sua camera.
Pier gli aveva spiegato come facevano l’amore un maschio e una femmina, ma anche che non c’era solo quel tipo di amore per mettere a mondo un figlio, ma anche altri metodi. Aveva parlato di altri tipi di sesso, aveva detto, e secondo lui molto più belli. Aveva appena quattordici anni, e Pier, dall’alto dei suoi diciassette anni, gli pareva quasi un maestro da ascoltare a bocca aperta. Poi gli aveva parlato anche di certi filmini che giravano su internet, e che lui guardava a basso volume la sera, quando i suoi genitori credevano che dormisse o che stesse ancora studiando, e di quello che succedeva ai ragazzi quando si svegliavano al mattino, e una certa parte del loro corpo era ben sveglia.
Era quello che accadeva praticamente tutte le mattine, ma sapeva che, passata una ventina di minuti, anche quella sensazione andava via da sola. Qualche volta, preso dalla curiosità, nella solitudine della sua stanza a Praga aveva provato a fare quello che gli aveva detto Pier: era stata una bella sensazione, solo che poi si era sentito troppo stupido a fare una cosa del genere, e aveva preferito continuare a suonare.
Adesso non si sentiva tanto stupido. Era più…strano. Era strano pensare che avendo Federico così vicino avrebbe voluto avvicinarglisi un po’ di più e prendersi un po’ del suo calore.
Chissà se anche Federico stava provando quella sensazione.
- Mh – mugolò di nuovo il ragazzo, e le sue braccia si sollevarono, costringendo Dominik ad arretrare appena, senza staccare la mano dal petto caldo di Federico. Il ragazzo si passò le mani sul viso, stropicciandolo, poi si voltò sul fianco, con un altro mugolio di fastidio: la mano di Dominik scivolò via dal suo corpo, ricadendo con il dorso sul materasso, ma quella di Federico era finita proprio accanto alla sua, sfiorandogli le dita con i polpastrelli. Sarebbe bastato chiuderle un po’, per intrecciare le dita con le sue, ma si sentiva così intorpidito da non riuscire neppure a fare quel semplice movimento.
- Dom… - sussurrò la voce di Federico, un po’ impastata e stanca.
Doveva avere ancora sonno. Ma come poteva, quando lui si sentiva così sveglio?
Sollevò l’altra mano, e si ritrovò a seguire il profilo del suo viso, prima lungo la linea della fronte, seguendo l’attaccatura dei capelli, fino a scorrere lungo lo zigomo e verso le labbra.
Voleva vederlo appena sveglio.
Aveva le labbra dischiuse, e ci respirava attraverso in piccoli soffi.
Il corpo di Federico era bollente. Anche il suo. Sentiva una lieve patina di sudore sulle gambe, sull’addome, perché quel prolungato contatto fisico, sotto il pesante piumone, aveva reso i loro corpi due tizzoni ardenti.
- Buongiorno. –
Federico si era finalmente svegliato del tutto. Quando aveva mormorato quel saluto, la sua voce era un po’ più sveglia, meno impastata e più consapevole. E anche il suo viso, sotto il tocco delle sue dita, si era contratto un po’, in uno sbadiglio.
Avrebbe voluto spingersi avanti e scontrarsi contro il suo petto.
Invece si limitò a restare con le dita sotto la sporgenza del suo zigomo, godendo del calore della sua pelle. Doveva essere giorno, ormai.
- Che ore sono, Federico? –
Lo sentì muoversi dal lato opposto al suo, sfuggendo al suo tocco, fino a girarsi sulla schiena e trovarsi ormai troppo lontano da lui. Poi, in un secondo, Federico ritornò voltato sul fianco verso di lui, come prima. Doveva essersi voltato a guardare un orologio o una sveglia: sicuramente lo stesso apparecchio che aveva ticchettato insistentemente per tutta la notte passata, quella che aveva trascorso insonne.
- Le nove e venti. Non hai ancora sonno? – Sembrava quasi che lo stesse implorando di rispondere di sì, e Dominik sorrise, divertito. Era anche un po’ tenero di primo mattino.
Non lo aveva mai visto così. Di solito quando usciva per andare in conservatorio Federico dormiva ancora nel silenzio della sua stanza, o nel fine settimana, quando restava a casa ad esercitarsi, Federico si svegliava sempre un po’ tardi e decisamente più sveglio.
Adesso invece lo aveva colto proprio in quel momento strano in cui non aveva ancora messo bene in moto il cervello, ed era tremendamente tenero. Aveva la sensazione che avrebbe potuto fargli fare qualsiasi cosa in quel momento, e non gli avrebbe detto di no.
- No. –
- Mmmmhhhh – mugolò di nuovo Federico, ma stava sorridendo.
Lo sentì chiaramente, perché Federico si voltò ulteriormente verso di lui, sfiorandogli il collo con il viso, e i suoi zigomi si sollevarono, insieme ad un soffio di fiato.
Poi, in un secondo, Federico tornò al suo posto, ma si stiracchiò del tutto, portando le braccia in alto, e il suo corpo si tese tanto da portare i loro petti quasi a collidere l’uno contro l’altro.
Le gambe di Federico erano più grosse delle sue, e più muscolose, in un certo senso, e sotto il tessuto largo e morbido del pigiama apparivano anche loro quasi soffici.
- Che dici, ci alziamo? Ho bisogno di una doccia. –
Perché prima non mi baci?Avrebbe voluto chiederglielo, ma non lo fece.
Era un po’ come se quello che era accaduto quella notte fosse stata una corsa che aveva fatto mancare il fiato a entrambi, e che adesso avessero bisogno di recuperare un po’.
Lui  non si era addormentato subito. Anche quando il respiro di Federico si era fatto più tranquillo e morbido, lui era rimasto sveglio per un po’: ma non perché fosse nervoso, spaventato, o altro.
Semplicemente, voleva restare sveglio.
Aveva bisogno, prima che il sonno rendesse sfocate le sensazioni, di riordinarle nella testa insieme alla musica e ai colori. Allora Federico aveva avuto finalmente un unico colore, che non era più il bianco, o l’arancione: Federico aveva preso il colore delle sue mani calde ai lati del viso, del suo respiro accelerato, delle sue labbra morbide. Federico era diventato rosso.
Era stata una scelta repentina, come aveva sempre pensato.
Erano i colori a scegliere le persone.
E il rosso aveva scelto Federico. Perché Federico era diverso da qualsiasi altro colore avesse sperimentato al mondo, e l’unico colore al di fuori di tutto era stato proprio il rosso.
Poco importava che la mamma avesse parlato del rosso come il colore dell’amore: a lui Federico piaceva, ma non poteva definire un senso per quel sentimento, non poteva classificarlo. Avrebbe potuto dire che gli fosse sempre piaciuto, ma poi pensava che forse non gli fosse mai piaciuto così tanto come in quel momento, o che qualcosa fosse cambiato, anche se non sapeva dire quando.
E la musica, anche quella aveva assunto un andamento diverso, ma si era persa come un gomitolo annodato nella testa. L’aveva persa.
Mentre pensava a Federico, mentre aveva ancora le labbra calde per il contatto con lui, aveva perso il filo della musica e quella era andata oltre senza di lui, lasciandolo indietro, annodato in quel groviglio di sensazioni nuove. Ed era certo che fosse perché non aveva il suo pianoforte: se l’avesse avuto, avrebbe suonato subito, e l’avrebbe ripresa. Allora non sarebbe più stato cieco, e tutto si sarebbe colorato dei colori della musica, non solo di quelli di Federico, perché quelli erano indispensabili.
Poi si era addormentato, nel bel mezzo di quei pensieri. Perché non gli importava di altro.
Non c’era stato bisogno di fare altre classificazioni.
La cosa importante era stata riordinare i colori.
Il resto avrebbe potuto aspettare.
Dominik si mise seduto sul letto, scostando finalmente il pesante fardello della coperta dalle gambe. Sentiva caldo, e si sentiva soffocare.
Anche Federico si mosse sul letto, mettendosi seduto anche lui, perché quando parlò la sua voce giungeva da un punto quasi alla sua stessa altezza, e il materasso si era incurvato in maniera più profonda sotto il suo corpo.
Lo cercò istintivamente con le mani, incontrando la sporgenza del suo ginocchio, sopra al quale adagiò la mano, in una lieve carezza.
Federico non l’aveva ancora toccato da quando si era svegliato.
- Hai…hai dormito bene? – lo sentì chiedergli poi. Annuì vigorosamente, scostandosi alcune ciocche di capelli dal viso. Se le sentiva incollate sulla fronte umida. – Hai smesso di pensare a quelle scemenze, tipo essere un peso, essere inutile e cose del genere? –
Dominik rilassò il viso in qualcosa che non era un sorriso ma che avrebbe voluto esserlo.
- E’ che poi mi hai baciato e non ci ho più pensato – gli confessò.
Federico piombò nel silenzio. Se non l’avesse udito respirare e non avesse sentito il suo corpo caldo vicino, avrebbe creduto che se ne fosse andato. Invece poi lo sentì muoversi, ma contiuò ostinatamente a non toccarlo.
- Dom… - lo chiamò di nuovo, ma questa volta con un tono diverso, meno leggero, come se fosse indeciso. – A proposito di ieri sera… -
- Cosa? – Dominik inclinò il capo da un lato. Federico pareva aver perso la voglia di parlare.
- Ecco…Io sono gay, Dom, l’hai capito, no? –
- Si. Non sono scemo. –
- Non ho detto che sei scemo! Però…la mia famiglia non lo sa. Dovresti…non dirlo a nessuno, Dom. Solo per qualche giorno, poi torniamo a Milano. –
Dominik annuì istintivamente, di fronte a quel tono implorante, a subito dopo gli si affollarono mille domande in testa. Lui con la sua famiglia parlava sempre di tutto, mentre Federico non aveva detto loro una cosa così importante. Aveva pensato che non lo avesse detto a lui perché non si conoscevano ancora abbastanza bene, mentre adesso scopriva di essere praticamente l’unico in quella casa a sapere la verità.
- Ma perché? Perché non lo sanno? -
La mano di Federico, finalmente, si poggiò sulla sua, che si ritrovò schiacciata come in un sandwich tra la gamba di Federico e la sua mano. Era tutto così caldo. Ed era soffice il modo in cui Federico lo stava accarezzando. Gli faceva venir voglia di abbracciarlo e basta, senza ascoltare la risposta, perché non gli importava più. Federico lo stava toccando.
- Perché…è un argomento delicato, Dom, e…diciamo che non tutte le persone sono limpide come te o hanno il tuo modo di pensare. Alcune persone pensano male di quelli come me. E io sto cercando il momento giusto per dire la verità ai miei genitori. Lo farai, per me? –
- La mamma da piccolo mi diceva di non chiedere alle persone se potessi toccarle, per vederle, perché avrebbero potuto avere paura. E’ una cosa come questa? –
- In un certo senso, sì. –
- Io ho sempre pensato però che non avessero paura, ma che fossero semplicemente stupide. Però non posso credere che i tuoi genitori siano stupidi. A me sembrano così buoni. –
Federico inaspettatamente rise, e la sua mano salì a scompigliargli i capelli.
- Non puoi immaginare cosa nascondano certe persone, sai? – lo ammonì, divertito. Poi il tocco sui capelli si trasformò in una carezza delicata. – Comunque…dicevo sul serio ieri sera. Tu mi piaci, Dom. Però non ti voglio fare pressione, o cose del genere, d’accordo? –
- In che senso pressione? – gli chiese, l’espressione corrucciata. La mano di Federico scese lungo il suo viso, sfiorandolo non solo con i polpastrelli, come faceva lui, ma con tutto il palmo caldo.
- Pressione…come dire… - La mano di Federico si staccò da lui. – Ecco, non cambieranno le cose tra noi. Saremo sempre gli stessi. Fai quello che ti senti, come hai fatto fino ad oggi. – Federico parlava, però sembrava sempre sull’orlo di un burrone, e nel fondo del burrone c’era una cosa che non gli voleva dire. Avrebbe voluto saltarci dentro e scoprirla, e spingere di sotto pure lui.
- Le persone che si piacciono fanno così? – gli chiese invece. Lo sentì muoversi sul letto.
- Sì, direi di sì. Semplicemente fanno quello che si sentono. Come ieri sera – gli spiegò.
Allora Dominik si spinse con il busto in avanti, cercandolo con la mano. Incontrò finalmente la pelle del suo viso.
- Allora se io volessi darti un bacio potrei farlo? – gli domandò, candidamente, e sentì il viso di Federico tendersi sotto la mano quando sorrise, almeno fino a che la mano non scivolò via perché Federico si era avvicinato tanto da portare il viso vicino al suo.
Bastò alzare appena il mento per incontrare la sporgenza soffice delle sue labbra.
Baciare Federico era come sprofondare in un materasso morbido.
La sera prima, quando l’aveva baciato, era stato strano. Sentire sulle labbra la morbidezza umida delle sue era stato strano. Sapere che fosse Federico era stato strano.
Poi non ci aveva più pensato, perché essere stretto in quel modo, un misto di possessività e di dolcezza, lo aveva fatto sentire come se avesse finalmente aggiunto l’ultima nota, quella perfetta, a una sinfonia a cui lavorava da tempo e che lo lasciava sempre felice ma non pienamente soddisfatto.
E quando Federico gli aveva dischiuso le labbra, era andato tutto stranamente in ordine, come se dal suo arrivo nella sua casa a Milano, quel giorno di ottobre, quel loro continuo avvicinarsi non potesse portarli a far altro che quello. Come quella sera in cui erano andati a cena insieme, e lo aveva accusato di fare l’elastico: forse era per quello che Federico aveva fatto l’elastico, perché lui gli piaceva e non voleva dirglielo.
La mano calda di Federico gli si poggiò su un fianco, al di sopra del pigiama, e Dominik inclinò istintivamente il capo, per avvicinarglisi ancora di più, e gli si artigliò alle spalle, perché quella posizione, seduto con le gambe incrociate, lo teneva così lontano da lui da obbligarlo a tendere la schiena tanto da farsi male. Però non importava.
Fino a quando, almeno, la mano di Federico sul fianco non lo spinse un po’ di lato, in basso, di nuovo verso il materasso. 
Ci si lasciò cadere, e il corpo di Federico gli scivolò addosso come una coperta calda.
Non era pesante, e in fondo non  era del tutto sopra di lui: semplicemente, sentiva il suo petto vicino, muoversi a un ritmo più rapido del solito, insieme al respiro, e una delle sue mani sul cuscino, vicino al viso, mentre l’altra restava sul suo fianco, adesso immobile, tesa, come se muoverla avrebbe potuto cambiare qualcosa.
E le labbra di Federico…quelle erano morbide come la musica, e soffici.
Federico aveva le labbra sottili, eppure in quel momento erano la cosa più morbida che avesse mai sentito, e gli confondevano le cose nella testa, e le idee.
Sentiva che, se si fosse seduto in quel momento dietro al pianoforte, non sarebbe riuscito a suonare nulla. C’era qualcosa, nel modo in cui Federico lo baciava, che andava al di là di quello che erano sempre stati: e anche se Federico gli diceva di comportarsi come al solito, di fare ciò che avesse voluto, c’era già qualcosa di diverso, prima ancora che Federico parlasse.
E cosa importava, in fondo, se il modo in cui Federico lo stava baciando racchiudeva tutta la bellezza che lui metteva sempre dentro la musica?
Le labbra morbide di Federico gli lasciarono la bocca, ma si spostarono a sfiorargli la guancia, mentre il suo respiro gli solleticava la pelle.
- Cosa ti va di fare oggi? – gli chiese poi. Dominik lasciò che i polpastrelli seguissero le linee delle spalle del ragazzo vicino a lui. Adesso, senza l’ingombro delle coperte, poteva sentire chiaramente i profili delle gambe di Federico, in contatto con le sue. Se ne avesse mossa una, non avrebbe fatto altro che aderirgli addosso.
Si strinse nelle spalle.
- Non lo so. Possiamo andare al mare. –
- E’ che non c’è proprio una bella giornata oggi – soffiò Federico, e la sua mano gli accarezzò lievemente il viso.
Era tutto così uguale, eppure così diverso, rispetto al solito.
Era strano trovarsi su quel letto, così abbracciato a lui, lasciare che lo baciasse.
Eppure pareva che non ci fosse nulla di diverso dal solito nel modo in cui trovava la sua voce carezzevole, o piegava il capo sotto a un suo tocco casuale, o immaginava di stringergli un braccio tra le dita.
- Allora no – rispose, cocciuto.
Federico si allontanò un po’, ricadendo sul materasso con un sospiro.
- Mi piacerebbe portarti a villa Trabia, o a Mondello, ma volevo farlo in una bella giornata di sole – biascicò. Poi si mosse repentinamente, tanto che Dominik quasi scivolò giù dal letto. – Potremmo andare in giro in centro! C’è una bella villetta, si chiama Villa Garibaldi…potremmo pranzare lì, se ci sbrighiamo a uscire. –
Dominik si stiracchiò sul materasso, annuendo appena.
Sarebbe andato in qualsiasi posto, con Federico.
- Federico? –
- Mh? –
- Quando torneremo a Milano…sarà ancora come adesso? – gli chiese, in un soffio di voce.
Si sentiva quasi come un cucciolo che stesse implorando qualcuno per avere un abbraccio. A modo suo, però, stava chiedendo solo una conferma: Federico gli aveva detto che le cose tra loro non sarebbero cambiate, che sarebbero stati gli stessi, però lui lo sentiva che, in realtà, il cambiamento c’era già stato. Era stato graduale, e aveva avuto ragione quando si era convinto che Federico, con le sue risate e le sue gentilezze, lo stesse condizionando.
Era un condizionarsi positivo però.
Solo che il punto non era esattamente quello. O meglio, non era la risposta a quella domanda che voleva da lui. Nonostante questo, Federico gli rispose, in un soffio di fiato che gli accarezzò il viso.
- Sarà…normale, credo. Come vuoi che sia? Te l’ho detto, le cose non devono mica rivoluzionarsi adesso. Chi fa troppi passi avanti troppo in fretta finisce sempre nel fango, Dom, segnati queste parole. –
- E tu come lo sai? E’ successo con la persona con cui stavi? Quello che hai detto che era una storia importante? –
Era quella la domanda.
Se le ricordava benissimo le parole di Federico quando aveva risposto a una sua domanda-
Perché non ce l’hai una ragazza? Era uscito da una storia importante, aveva detto, e voleva restare solo. Sul momento Dominik non ci aveva prestato molta attenzione. Adesso, però, aveva la certezza che dovesse essere un ragazzo, e che l’avesse fatto soffrire, altrimenti non ne avrebbe tirato fuori tutte quelle oscure e malinconiche concezioni dell’amore che gli propinava sempre, scontrandosi con la visione rosea e cristallina che aveva lui. Si spiegava anche perché la pensasse in quel modo, adesso.
Ecco, tutti i pezzi di Federico che gli erano sfuggiti negli ultimi mesi, certi suoi silenzi, alcuni discorsi al telefono con Samuele, qualche vena di imbarazzo, adesso se li spiegava tutti, acquistavano tutti un senso. Solo che c’era ancora un pezzo che non tornava al suo posto.
Era ancora serbato nella palude di silenzio di Federico.
- Non proprio, Dom. Lo so e basta – gli rispose, un po’ stizzito, tanto che si alzò subito, sfuggendo a ogni contatto e lasciandolo come un corpo freddo nel calore delle coperte.
Avrebbe voluto tendere la mano in avanti e afferrarlo, dirgli che non voleva farlo arrabbiare, ma che non credeva di aver detto nulla di male. Avrebbe voluto costringerlo a raccontargli tutto di quel ragazzo, a confessargli il nome, cosa gli avesse fatto. Avrebbe voluto davvero che glielo dicesse, o che almeno non se ne andasse così, via da quel letto morbido.
- Allora, la facciamo la doccia o no? -
 

§§§

 
Il vapore si era condensato sul vetro appannandolo completamente.
Gli mancava quasi l’aria, ma era allo stesso tempo confortante essere cullati da quel tepore e dal caratteristico rumore del phon con il quale Dominik stava asciugando i capelli dopo aver fatto la doccia. Era entrato in bagno subito dopo di lui, e mentre Federico era andato a cambiarsi e a frizionare i capelli con un asciugamano nella sua camera, Dominik si era chiuso in bagno insieme allo scrociare dell’acqua nella doccia.
Federico, che aveva sempre avuto i capelli sottili, ci aveva messo pochi minuti a lasciarli un po’ umidi e a rivestirsi; poi aveva rifatto i letti, nonostante nel suo non ci avesse praticamente dormito.
Le lenzuola, nel vecchio letto di Milena, erano ancora tiepide.
Federico le aveva tirate, sistemate sotto il materasso e infine coperte con il piumone dai colori vivaci che aveva comprato sua madre pochi anni prima, con l’intenzione di appiopparlo a lui che di quei colori nella sua camera non ne aveva voluti proprio.
In casa il silenzio lo riportava sempre un po’ indietro nel tempo.
Sin da quando era bambino i suoi genitori, che lavoravano entrambi in banca, uscivano di casa al mattino alle otto e non rientravano prima delle sei del pomeriggio: lui restava a casa con Milena, al ritorno da scuola, e più avanti, quando lei era partita per l’università, non c’era stata più nemmeno lei. Allora c’era sempre Manfredi: tornavano a casa sua, insieme, e si mettevano a studiare, un po’ a scherzare. Il lunedì pranzavano sempre con le lasagne che sua madre preparava la domenica in eccesso, perché sapeva quanto Manfredi ne andasse ghiotto.
Poi si mettevano a studiare, dopo una partita alla play. Durante l’ultimo anno di scuola, invece, e negli anni avvenire, alla play avevano preferito il tepore delle lenzuola del suo letto dove, approfittando della solitudine, potevano fare l’amore per ore. Tutti i giorni finivano per dover fare i compiti a tarda sera, perché il pomeriggio l’avevano impiegato ad amarsi un po’.
Adesso, quel mattino, a casa non c’era silenzio, non c’era Milena, non c’era Manfredi.
C’era Dominik, ed era lì come la prima tessera di un nuovo puzzle che aveva appena iniziato senza avere idea dell’immagine che ne sarebbe venuta fuori. Allora, preso da quella strana morsa allo stomaco, aveva deciso di entrare in quel bagno, che tanto lui stava già asciugandosi i capelli, e c’erano gli asciugamani da sistemare.
Quando aveva bussato alla porta del bagno, e Dominik lo aveva fatto entrare, lo aveva trovato tutto impettito in piedi, con il phon in mano e quella marea di capelli biondi ancora quasi del tutto bagnati appiccicati alla fronte.
Aveva il braccio destro teso in alto, a reggere l’apparecchio, e la magliettina leggera che indossava, di un grigio scuro strano, si era sollevata all’altezza della vita, scoprendo un triangolo di pelle che avrebbe voluto sfiorare con le dita.
Tutto di Dominik lo attraeva come il miele per un’ape.
Solo che il miele era anche terribilmente denso. Un altro insetto non ci avrebbe messo niente a restare intrappolato in quel fluido come nella tela di un ragno.
Quella sera, quando tutti quegli eventi lo avevano schiantato, era crollato addormentato in pochissimo tempo. Si era svegliato solo quel mattino, quando la voce soffice del ragazzino lo aveva chiamato, e anche se avrebbe voluto continuare a dormire per altre due o tre ore, il nervosismo che gli si era risvegliato nell’animo lo aveva svegliato del tutto.
Avrebbe voluto dirgli tante cose, quel mattino, prima ancora di implorarlo di non dire niente a nessuno che sarebbe scoppiato un putiferio. Avrebbe voluto chiedergli una conferma, una sola, che spazzasse via tutti i suoi timori: quello che lo attanagliava, più di tutti, era il terrore che Dominik si fosse fatto travolgere da tutte quelle sensazioni e che stesse confondendo tutto.
Era un rischio che doveva correre.
Dominik non aveva mai avuto una ragazza, un ragazzo, o quel che fosse. Non era mai stato innamorato, non si era mai posto il problema, e non aveva mai conosciuto sentimenti come quello.
Il suo timore, tra tutti, era proprio quello di sbagliare tutto. Magari Dominik si sarebbe reso conto che quello slancio che provava verso di lui altro non era che sorpresa, un battito d’ali nel cuore legato alla novità, come l’entusiasmo dei bambini per un nuovo giocattolo, o di un adolescente per una nuova cotta. Era proprio la cosa che voleva evitare.
Non era innamorato di Dominik, questo no. Era attratto da lui, desiderava baciarlo, stringerlo, assaporarne la pelle. Voleva tenerlo un poco per sé.
Ma per quanto non ne fosse innamorato, c’era qualcosa, tra di loro, che non lo rendeva semplicemente un tizio che gli piaceva. Doveva proteggerlo, anche da se stesso, aiutarlo, riportarlo sul piedistallo al di sopra della propria fragilità e migliorargli un po’ la vita, facilitargliela.
E dividevano la casa. Si era abituato anche a quello, era un pezzo della sua vita: se tutto fosse andato a rotoli, se avessero litigato, cosa sarebbe accaduto? Avrebbe dovuto cambiare casa, trovarsi un altro appartamento, altri coinquilini, tornare a fingere. Dominik sarebbe rimasto di nuovo solo. Dominik che stava iniziando ad aprirsi al mondo come il calice di un fiore, sarebbe rimasto di nuovo solo. Non era giusto.
Non lo avrebbe permesso.
Però non aveva il coraggio di farlo, di dirgli senti Dom, non è che per caso stai fraintendendo tutto, che in realtà non ti piaccio per niente ma ti piace sperimentare queste cose con me?
Gli mancava proprio il coraggio di farlo, almeno in quel momento: allora se ne restava in silenzio, convincendosi che prima o poi, di ritorno a Milano, l’avrebbe fatto. Ma se tutto fosse andato a rotoli prima?
Il fatto, però, era che non voleva rinunciarci ora. Non voleva smettere di baciare Dominik, di guardarlo in quel modo, di crederci un po’, proprio adesso. Era come iniziare per la prima volta una cosa nuova, una storia diversa: in fondo, con Manfredi, scoprirsi amanti era stata quasi la normale continuazione di quello che erano stati per anni. Adesso era diverso: si stava imbarcando in una storia per la prima volta vicina alla normalità.
Al resto avrebbe pensato dopo.
Il phon si spense, e lui doveva ancora riporre gli asciugamani al loro posto e riordinare il bagno.
Invece rimase a osservare Dominik che riprendeva il sacchetto dal mobiletto accanto al lavandino e ci riponeva il phon, chiudendo lo sportello. C’era una vena di soddisfazione sul suo viso per quella piccola conquista, che lo fece sorridere.
- Federico, ho finito. –
- Ma hai ancora tutti i capelli bagnati. –
Le punte di quei capelli biondi erano ancora umide, di una tonalità un po’ più scura delle radici, e gli stavano attaccate alla fronte e alla nuca. Ma Dominik non se ne curava. Fece un passo verso di lui, scuotendo il capo per togliersi quei capelli di dosso, e inclinò il capo un po’ verso l’alto, come se aspettasse un bacio.
Da quando si erano svegliati, e anche dalla sera prima, Dominik  non aveva fatto altro che chiedere dei baci, in silenzio, solo con quel suo modo di muoversi soffice come una nuvola.
Ci aveva preso gusto, e confidenza, ma non si spingeva mai oltre quelli, o con le mani oltre la linea delle sue spalle. Fosse stato per lui, sarebbe rimasto a baciarlo per ore intere, non gli sarebbe importato. Solo che poi lo prendeva quel desiderio di farci l’amore. Era inevitabile.
Ma come si poteva dirlo a uno così, che ti parlava con l’ingenuità di un bambino e poi ti baciava come se volesse strapparti l’anima?
Federico sollevò una mano per sfiorargli il viso in una carezza. Aveva sempre avuto il viso stranamente morbido, Dominik, per essere un ragazzo: faceva la barba una volta ogni quindici giorni, quando andava bene, perché aveva una peluria così sottile e così rada da sembrare quasi ancora un bambino.
- Andiamo a mangiare in una villa allora? –
- Sì. Compriamo dei panini da qualche parte e pranziamo lì. –
- Dev’essere bello mangiare sull’erba. A Praga non lo si può fare mai, fa sempre troppo freddo, e in primavera non c’è mai abbastanza tempo o abbastanza spazio per passare una giornata sull’erba. Sai cosa mi piacerebbe, Federico? –
- Cosa? –
- Che qualche volta tu venissi a Praga con me. D’inverno, così vedresti quando nevica. –
La carezza divenne un tocco più profondo sul viso, sul collo, sulla nuca.
- Tu hai detto che non ti piace però, quando nevica. –
- Ma se ci fossi tu sarebbe diverso. Sono stato a Milano con te, a Palermo con te. Pensa come sarebbe bella Praga! –
Federico sorrise, e avrebbe tramutato quella carezza in un abbraccio se una fitta al cuore non lo avesse preso proprio in quel momento.
Di Praga gli era piaciuta subito la Moldava, quel fiume quasi immenso.
Ce li avevano portati, quella primavera in gita, a fare una traghettata. Tre quinte classi di liceo stipate su un traghetto insieme a una marea di altri turisti, tutti troppo stanchi per badare agli altri eppure vivi per quell’entusiasmo che contagiava sempre gli alunni in gita all’estero.
Lui se l’era goduta tutta dalla punta anteriore del traghetto, senza ricordarsi mai se fosse la prua o la poppa. C’era vento, aria fresca in quella giornata piena di nuvole, con ancora l’odore della pioggia nelle narici.
- Sei così bello, con questo vento. –
-Manfredi! Mi hai fatto prendere un colpo! Lasciami la mano, dai, ci vedranno! –
- Sono tutti nei sedili in fondo. Al massimo ci vede questa vecchietta cinese. Ti piace qui, Fede? –
- Si. E’ la parte migliore di tutta la gita. – Manfredi aveva riso, e il suo sorriso aveva illuminato quella giornata di pioggia.
- Mi piacerebbe farlo di notte, però, al buio. Passerei tutto il tempo a baciarti. –
- Mh…magari… -
- Qualche volta ci torniamo. Quando avremo tutti e due un lavoro metteremo i soldi da parte e ci faremo un viaggio soli io e tu. Però mi porti a vedere lo spettacolo dell’Orologio! –
- No, Manfredi! Quel teschio mi fa paura ti ho detto! –
A Praga, nella piazza del Comune, c’era un orologio, l’Orologio Astronomico.
Allo scoccare di ogni ora, si innescava un meccanismo per cui uscivano da alcune insenature delle figurette. Se avesse ascoltato la spiegazione della guida, forse Federico si sarebbe ricordato cosa rappresentassero e chi fossero, ma era stato troppo impegnato a impedire a Manfredi di palpargli le natiche, dal fondo dell’ultima fila nella quale si erano nascosti.
Quella sera, dopo essere tornati in albergo dopo una serata fuori, lo stesso pomeriggio del viaggio in traghetto, avevano fatto l’amore promettendosi che sarebbero ritornati in quella città.
Avevano lasciato una monetina sotto il materasso, come a Roma con la fontana di Trevi.
Federico pensò che Manfredi non avrebbe rispettato quella promessa, e neppure lui, che ci sarebbe tornato con Dominik, se mai ci fosse andato sul serio.
La mano di Dominik, fresca per il contatto con l’acqua e con i capelli umidi, gli si poggiò sul viso.
- A cosa pensi, Federico? –
- All’orologio astronomico di Praga – confessò.
- Lo Staromestsky Orloj. Ne sei rimasto affascinato anche tu come tutti? – Sembrava leggermente deluso mentre gli faceva quella domanda, ma Federico si era concentrato molto di più sulla tremenda sensualità che avevano sprigionato quelle labbra quando avevano parlato in ceco.
- A dire il vero, non ti offendere, ma non mi è piaciuto per niente. Cioè, è molto bello, ma solo quando non escono quelle figure inquietanti! – Dominik rise, divertito.
- Mia sorella Aneta ne ha sempre avuto paura. Una volta, quando aveva cinque anni, non ha voluto dormire nel suo letto per una settimana, dopo che l’abbiamo portata a fare un giro e a vedere lo spettacolo dell’orologio. A te cosa piace di più di Praga, di quello che hai visto? –
- La Moldava. E’ la cosa più bella che io abbia mai visto. Anche se non è una costruzione di Praga, veramente, a me piace da impazzire. –
- L’hai guardata bene, Federico? L’hai guardata dal Karluv Most? Non ti mette addosso malinconia? –
- Dal che? –
Dominik fece scivolare la mano via dal suo corpo.
- Dal ponte, Federico. Dal Ponte Carlo. Io ci andavo spesso con la mamma, ma non mi piaceva restare lì. Mi metteva addosso una sensazione di vuoto. –
Anche a lui aveva dato quella sensazione, come potesse mancargli da un momento all’altro il terreno sotto i piedi e finire risucchiato da tutta quell’acqua e da quell’immensità. Non aveva avuto troppo tempo per trattenersi durante il giorno: solo una sera, durante una delle uscite clandestine con i compagni, si era allontanato con Manfredi e si era spinto fino a lì, attratto dall’illuminazione che contrastava tanto con il buio di quella distesa di acqua.
Manfredi lo aveva abbracciato da dietro: erano abbastanza lontani dai loro compagni per non incontrarli nemmeno, e se anche li avessero visti, entrambi con quei giubbotti scuri e il cappuccio sulle testa, non li avrebbero riconosciuti nemmeno.
Lo aveva baciato sul viso, frustrato, per non potergli raggiungere il collo, dove preferiva sempre sfiorarlo con quelle labbra di rosa.
- Cerchi qualcosa? –
- Cercavo il tuo cervello, a dire il vero, ma è troppo buio oggi! –
- Che stronzo che sei!...Perchè non ti giri e mi baci, invece? Non ci vede nessuno. –
Si era voltato subito, incontrando la morbidezza di quelle labbra. Faceva caldo in quel piccolo spazio chiuso dai cappucci dei loro giubbotti, riscaldato dai loro sospiri, labbra su labbra.
- Questo fiume mi mette ansia. –
- Mh…perché? –
- Non lo so. Lo sai che soffro di vertigini, e qui è così nero. Se ci cadessi dentro morirei in un secondo. –
- Così capisci cosa vuol dire quando ti guardo negli occhi e mi sembra di sprofondare. –
- Federico, ma se oggi andiamo a pranzare in quella villa…quando ci andiamo al mare? –
La voce di Dominik lo strappò di nuovo a quel vuoto dove lo riportavano sempre i ricordi.
A Praga ci aveva lasciato un pezzo di Manfredi, e quei pezzi lo riportavano sempre a fondo. La Moldava era un po’ come Manfredi, un fiume nero e profondo pronto a inghiottirlo non appena si fosse spinto un po’ di più per guadare di sotto.
Forse tornare a Praga lo avrebbe aiutato.
Forse anche portare Dminik a Mondello sarebbe servito a esorcizzare quel posto.
A Mondello, Federico aveva lasciato Manfredi. Ma non solo nel senso letterale del termine, perché in effetti era vero che lo aveva lasciato proprio lì. Ma anche in senso figurato, ci aveva lasciato il cuore, e i ricordi: a Mondello erano indissolubilmente legati i più bei momenti della sua vita, tutti insieme a Manfredi. Portarci Dominik forse lo avrebbe liberato?
Si concentrò sul suo viso, sulla morbidezza delle sue labbra contro i lineamenti spigolosi del volto, sui suoi capelli biondi illuminati dalla luce chiara che filtrava dall’esterno attraverso i vetri smerigliati della finestra. Avrebbe voluto mordergliele, quelle splendide sporgenze.
- Ci andremo un altro giorno, mica c’è solo oggi! –
- Ma tra due giorni partiamo! –
- Domani vedrai che ci sarà il sole e ci andremo, promesso. –
Il sole avrebbe sciolto anche quell’iceberg gelato che aveva in un posto del cuore?
 

§§§

 
A Palermo era tornato il sole.
Non era il sole caldo di certi giorni di dicembre, che parevano di primavera.
Era il sole incostante che faceva ogni tanto capolino tra certi nuvoloni neri, e che riusciva appena a riscaldare i corpi e i cuori.
Federico si sentiva strano.
Fuori di casa, adesso, lui e Dominik erano tornati gli stessi di prima: si cercavano, si sfioravano, si parlavano, e poi scivolavano di nuovo via. Sembrava che non fosse cambiato nulla, tra loro: dopo averlo baciato, quella sera, prima di crollare addormentato aveva immaginato qualcosa di diverso per loro. Invece c’era una strana freddezza nel loro modo di fare, un imbarazzo strano che non aveva vissuto con Manfredi, e che poteva spiegarsi solo con il fatto che il loro rapporto fosse troppo diverso da quello che aveva con il suo migliore amico, e anche le personalità, di Dominik e di Manfredi, fossero diametralmente opposte.
Allo stesso tempo, il calore che animava i gesti di Dominik e le sue parole era lo stesso di sempre.
Era per quello, forse, che non percepiva la differenza: erano davvero finiti ad essere così vicini prima, che adesso tutti quei baci non avrebbero potuto avvicinarli più di così?
Avrebbe voluto baciarlo proprio in quel momento, ad ogni modo, mentre finalmente un raggio di sole gli colpiva il viso e faceva quasi brillare la sua pelle candida. E Dominik aveva sollevato il viso verso l’alto, per rubare tutta la luce a quel raggio di sole. Pareva un po’ malinconico.
- Vuoi un altro panino? –
Dominik scosse il capo in segno di diniego, e lo riportò di nuovo lì, teso quasi fino allo spasimo verso il sole, con quelle labbra carnose docilmente abbandonate in una smorfia quasi nostalgica.
Pareva il personaggio di un quadro, visto così.
Se fosse stato un pittore, o quanto meno fosse stato in grado di disegnare almeno una casetta senza farle persino i muri storti, gli sarebbe piaciuto dipingerlo così. Aveva il viso delicato di uno di quei personaggi dei quadri di Caravaggio, uno stralcio di passato con indosso vestiti del ventunesimo secolo e abbandonato sull’erba di una villa splendida, incastonata tra le strade caotiche di Palermo.
Quella villa gli era sempre piaciuta, sin da ragazzo.
Paradossalmente, non ci aveva mai passato più di qualche oretta con gli amici.
Era un’oasi di verde incastonata nel caos, proprio lunga la Via della Libertà, di fronte al Giardino Inglese. Non se la filava mai nessuno, ma a lui piaceva da morire. E quando aveva immaginato dove portare Dominik, e gli era venuta dapprima in mente Villa Garibaldi, si era poi ricordato di quel parco meraviglioso dove Dominik sarebbe parso davvero un giovane immortale delle tragedie greche.
Teneva gli occhi chiusi, Dominik, per necessità, ma se anche se non fosse stato cieco, li avrebbe tenuti chiusi allo stesso modo, soffice come un putto.
Avrebbe voluto inchiodarlo con un bacio proprio in quel momento, coglierlo di sorpresa e mordergli quelle labbra delicate, schiacciandolo contro l’erba.
Invece gli scattò una foto. Semplice nella sua immobilità, tanto da strappargli via un po’ di quella magia che si portava. Il clic della macchina fotografica lo strappò a quel paesaggio strano, spingendolo a voltare appena il viso in direzione del rumore, lentamente, come se avesse a disposizione tutto il tempo del mondo.
- Dobbiamo fare qualche foto! Vuoi farle vedere a tua madre o no? – si giustificò, imbarazzato, senza avere il coraggio di dirgli come, in verità, avrebbe preferito farsene una gigantografia da tenere in salotto.
Dominik, però, si sciolse in un sorriso.
- Si. Le piaceranno molto – mormorò, mettendosi seduto con la schiena dritta, prima di spostarsi a destra, sull’asciugamano che aveva portato, per trovarsi un po’ più vicino a lui.
Poi, Dominik reclinò il capo di lato, per poggiarlo sulla sua spalla, e Federico sentì il cuore che spariva in un ultimo battito. Era un gesto così innocente che avrebbe voluto passargli un braccio intorno alle spalle e stringerlo di più.
Ma era terrorizzato.
Era terrorizzato dai corpi della gente intorno, dai loro possibili sguardi sdegnati, dalla possibilità di riconoscere, tra tutti quei volti, quello di un conoscente, e di sentire il terreno aprirsi sotto al corpo in una voragine. Eppure Dominik sospirò, delicato, e il mondo tornò al suo posto così, con la sua testa sulla spalla e i corpi così tremendamente troppo lontani.
- Mi piacerebbe tanto suonare, Federico – lo sentì sussurrare, flebile come se quasi non volesse essere sentito. Ah, se avesse potuto! Gli avrebbe comprato un pianoforte seduta stante, e lo avrebbe lasciato suonare il salotto ogni singolo momento della giornata, restandosene su una sedia, ad ascoltarlo. Era certo che chiunque, nella sua famiglia, ne sarebbe rimasto ammaliato. Solo che non poteva.
- Lo so, Dom. Però solo qualche altro giorno di pazienza, e poi torneremo a casa e potrai suonare tutto il tempo che vorrai. –
- A te non capita mai di sentire il bisogno impellente di fare qualcosa? E di non riuscire a ragionare o a fare altro tutto il giorno fino a quando non la fai? – Federico si strinse nelle spalle. Non si era mai trovato in una situazione come quella, ma poteva immaginarla: non era uno di quei talenti nella musica, nella danza, nella scrittura, nella pittura, uno di quelli che viveva per una forma d’arte e desiderava solo darle sfogo ogni singolo istante della sua vita. Lui era uno che a tratti viveva solo perché era al mondo, e altre volte perché scopriva qualcosa per cui valesse la pena di alzarsi la mattina. Non poteva capirlo davvero, ma immaginarlo. Dominik, però, non si aspettava una risposta. – Ci sono volte in cui non riesco nemmeno a dormire perché ho una sinfonia in testa, un insieme di note e di suoni, e mi rende nervoso il non poterle suonare subito. Mi prende la tachicardia, divento nervoso e mi sembra che il tempo non passi mai, e più cerco di mettere ordine, meno riesco a raggiungerlo, come se più sto a suonare, più la musica perde se stessa. Altre volte, invece, no. Altre volte mi sento tranquillo, come se tutto fosse al suo posto, e suonare diventa un modo dolcissimo per colmare tutto quell’ordine. Mi sento soddisfatto. Secondo te da cosa dipende? –
- Mah, io…non lo so. Forse è perché quello che vuoi fare, una sinfonia per esempio, ti piace talmente tanto da volerla bruciare subito. Quella sarebbe la soddisfazione, alla fine. Dura per un po’, e poi svanisce, e inizi a inseguire un’altra cosa. –
- Ma perché deve svanire? Perché non possiamo essere sempre soddisfatti e in ordine? –
- E’ nella natura dell’uomo l’insoddisfazione. Proviamo più piacere nell’inseguire qualcosa che vogliamo che nell’averla, perché poi ci annoiamo. Ma non è una cattiva cosa, Dom. Penso che l’insoddisfazione animi le grandi menti: gli scienziati, i pittori, anche i musicisti. Vanno alla ricerca delle cure per le malattie, dei meccanismi alla base dell’universo, della perfezione nell’arte. E ne tirano fuori bellissime cose, alla fine. –
Dominik si strinse ancora verso di lui, rabbrividendo quando un soffio di vento più fresco, non più mitigato dai raggi del sole che si era nascosto dietro un nuvolone, gli sferzò il viso e le spalle.
- Anche con le persone è così? –
- Con le persone è un po’ diverso. Con le persone non puoi essere mai veramente soddisfatto, perché le persone non sono oggetti con cui entri in contatto, ma hanno il loro modo di pensare. Magari la pensano uguale su alcune cose, e vanno d’accordo, e su altre no, e allora litigano, discutono, si allontanano. –
- Una volta mi hai detto che ho paura di avere a che fare con le persone perché non sono come la musica, ma sono imprevedibili. E’ a questo che ti riferivi, allora – gli disse poi, e la sua mano si mosse fino alla sua gamba, accarezzandola piano, con il dorso, come se avesse timore a toccarlo.
Era per quello che gli aveva detto: gli aveva spiegato che non avrebbero potuto baciarsi fuori di casa, che si sarebbero comportati da amici, e lui lo aveva preso parecchio sul serio. C’era una tensione, nel modo in cui lo stava sfiorando, che non aveva nulla a che fare con la morbida insicurezza che lo contraddistingueva.
- Diciamo di sì. –
- Anche tu sei imprevedibile, allora, come tutte le altre persone. Però posso dire di essere soddisfatto, quando ci sei tu. – Federico fece per parlare, ma il ragazzino continuò, storcendo un po’ il naso. – Ora che ci penso, però, a volte no. Come quella volta che ti sei arrabbiato perché non volevo uscire, o quando mi hai detto che ho paura di essere cieco. Lì non ero proprio soddisfatto – si lamentò. Federico sorrise.
- E dai, però poi abbiamo fatto pace! –
- Mh, si. –
- E non fare lo stizzito, che questa volta ho ragione io! –
Questa volta riuscì a strappargli un sorriso, ma lo cancellò subito, perché tornò ad assumere quell’espressione pensierosa che aveva sempre quando pensava d’improvviso a qualcosa.
- Federico, ma…nemmeno i tuoi amici lo sanno, vero? –
- No, Dom, neppure loro. –
- Allora domani sera non dovrò dire niente? –
- Guarda che se non vuoi non ci andiamo, non sei obbligato. –
- No, voglio venirci – ribatté, ostinato.
Federico trattenne uno sbuffo, ma alla fine era meglio così.
La sera seguente sarebbe stata l’ultima che avrebbe trascorso a Palermo: poi sarebbe ripartito nel tardo pomeriggio, in nave, per tornare a Milano. Allora i suoi amici avevano organizzato una piccola rimpatriata per salutarlo, e ovviamente avevano invitato anche Dominik.
Il fatto che Dominik volesse andarci rendeva tutto più facile, perché non avrebbe saputo come spiegare che non ci sarebbe andato neppure lui, altrimenti, ma lo rendeva anche nervoso.
Quel ragazzino era l’antitesi della socializzazione, e di tutto quello che rappresentavano i suoi amici di sempre. E poi ci sarebbe stato Manfredi: non si erano più rivolti la parola da quando gli aveva chiuso il telefono in faccia, per poi scusarsi con degli sms, qualche giorno prima, all’arrivo di Dominik. Eppure Manfredi ci sarebbe stato, doveva salutarlo.
Doveva sostenere i suoi occhi verdi, il suo sguardo ferito, e le sue battutine taglienti.
E avrebbe dovuto sostenere se stesso, quando avrebbe pensato di essere uno stronzo, perché Manfredi non conosceva la verità.
Il respiro caldo di Dominik si infranse sul suo collo quando lui sollevò il capo e si voltò per parlargli.
- Prometto che non dirò niente, Federico. Non sapranno niente. – Era così dolce mentre lo diceva. Aveva avuto anche lui quel tono morbido tutte le volte che aveva promesso a Manfredi di tenere il segreto nonostante gli scoppiasse il cuore? Ed era risultato tanto angosciante per il suo ormai ex ragazzo sentirlo così?
Federico portò la mano sulla gamba di Dominik, sottile e flessuosa.
- Solo per qualche giorno, Dom, davvero. A Milano potremo fare quello che vuoi, e anche qui, perché lo dirò ai miei. Promesso. –
- Guarda che a me non importa, davvero. –
- Adesso forse no. Ma ti importerà. –
Dominik tacque, assumendo di nuovo quell’espressione stizzita. Voleva sempre avere l’ultima parola, e sentirsi dire il contrario di ciò che pensava lo aveva irritato: però aveva ragione, Federico. Anche lui, all’inizio, la pensava così, pensava che non gli sarebbe importato di nulla se non di stare con Manfredi, anche mantenendo quel segreto così pesante. Poi, però, era diventato decisamente troppo ingombrante: dover recitare un’amicizia davanti a tutti, dover sopportare di non potergli stare vicino in certe occasioni perché era solo un amico, dover piegare i propri impegni e i propri desideri alle sue necessità, e sentire i suoi genitori chiedergli perché non si trovasse una ragazza.
Allora aveva iniziato ad importargli, fino a quando era diventato insopportabile.
L’ultima cosa che avrebbe permesso che accadesse sarebbe stata far passare a Dominik quello che aveva passato lui; anche se magari dopo un mese o due sarebbero tornati amici come prima, se tutto fosse naufragato così, lui avrebbe detto la verità.
Sarebbe stato meglio di Manfredi.
Sarebbe stato forte come Samuele.
Federico si mise in piedi, voltandosi verso Dominik e tendendogli le mani, tanto da incontrare subito le sue, che aveva teso istintivamente le braccia in alto, sentendolo lontano.
Lo aiutò ad alzarsi, e questa volta il ragazzino non si oppose, come l’ultima volta al mare. Era solo una scusa, in fondo, per stringergli le mani tra le sue.
- Ti va di andare a casa? I miei non torneranno prima delle sei. Possiamo guardare un film sul divano, o fare qualcos’altro – gli propose. – Oppure facciamo un altro giro in centro, ci sono un sacco di negozi qui.
La verità era che aveva solo voglia di chiudersi nell’unico posto sicuro che avesse e fare quel che cavolo gli pareva. Anche baciarlo, sì.
Le dita di Dominik si strinsero intorno alle sue come un abbraccio.
- Voglio andare a casa con te. - 










(1) Ràno significa mattino in ceco.
L'accento sulla a sarebbe al contrario, sfortunatamente non so se sono io impedita, ma non sono riuscita a trovare il simoblo corretto.
Perdonate l'inesattezza.
(2) La villa dove Federico porta Dominik esiste, si trova in Via della Libertà a Palermo.
Non ne conosco il nome, ma nella mia pagina facebook ( https://www.facebook.com/pages/100-sbavature-di-Esse/509052772480144 ) troverete una foto. E' splendida!
Sono in attesa di notizie dalla mia esperta fidatissima che mi  farà sapere se ho scritto scemenze, intanto prendetelo per buono.xD
Nota al capitolo 26: Sono tornata!
Non troppo in ritardo, questa volta.
Come avrete letto, questo capitolo è una sorta di stop: dopo aver corso i cento metri ed aver fatto milioni di passi da gigante in poco tempo, Dominik e Federico si svegliano un bel mattino e si fermano. In fondo, non poteva essere altrimenti: due come loro, in nessun cas sarebbero potuti svegliarsi e dirsi oh quanto ti amo, oh quanto voglio stare con te. Dominik, poi! E' peggio di un gatto randagio!
Come dice l'aforisma, ogni giorno è dierso dall'altro, e questo è quello della resa dei conti. E' un capitolo molto introspettivo, e che torna quasi indietro: Fede e Dom quasi non si toccano, si baciano a malapena, si perdono nei loro pensieri e nelle loro riflessioni. Affrontano quello che è successo in modo diverso: Dominik si lascia travolgere dalle sensazioni, Federico quasi fa un passo indietro.
E ritorna Manfredi, almeno nei suoi pensieri, perchè a Praga Federico c'è andato con lui, ve ne ricordate?
Nel primo capitolo, Fede dice a Dom di essere stato a Praga in gita con la scuola.
E lasciatemelo dire, Praga è qualcosa di meraviglioso.
L'orologio Astronomico è la cosa più particolare che io abbia mai visto, e non è inquietante come Federico ci ha lasciato crdere.xD E' affascinante. Su youtube si dovrebbe trovare qualche video.
E la Moldava...oh, la Moldava! Quella, davvero, è una delle cose più belle del mondo, soprattutto quando ci si traghetta sopra: se ne scopre tutta la bellezza, nel tardo pomeriggio.
Di Palermo vorrei parlarvi di milioni di altre cose, ma purtroppo non ne ho il tempo in questi capitoli, o ci vorrebbe ua storia a sè stante: ma ci sarà tempo, visto che sto lavorando a un prequel su Manfredi e Federico..e lì sul serio girerò Palermo in lungo e in largo!xD
Questo capitolo sarebbe dovuto essere più corto e comprendere anche un paragrafo su Samuele: ma come avete visto, è venuto fuori un poema senza aver detto nulla!
Nel prossimo capitolo, piccolo spoiler, Dominik ottiene finalmente quello che vuole: andrà al mare con Federico. xD
Un bacio a tutti, un grazie immenso, e non linciatmi perchè devo ancora rispondere alle recensioni! Non vedo l'ora di riavere il mio adorato pc e poterlo tenere tra le mani quanto voglio, per rispondere a tutti! Ma vi porto nel cuore!
Alla prossima
Esse

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Capitolo 30
*** 27th: Il tuo sorriso dolce è così trasparente che dopo non c'è niente ***


Il destino assomiglia al vento, poiché ci spinge rapidamente in avanti, oppure ci rigetta all'indietro; contro di ciò poco possono fare le nostre fatiche e i nostri sforzi.
Arthur SchopenhauerParerga e paralipomena, 1851

 



Chapter 27th: Il tuo sorriso dolce è così trasparente che dopo non c’è niente
 
L’acqua è trasparente.
Questa era la prima cosa che a Dominik era stata insegnata da sua madre.
Era stata anche la prima cosa che gli aveva detto quando gli aveva chiesto perché gli piacesse tanto il mare: per il profumo, per il rumore, e perché l’acqua non ha colore. E’ trasparente.
Anche il sorriso di Dominik era trasparente, come in quella canzone di Tiziano Ferro.
Una trasparenza buona, che pareva brillare di luce propria quando quel sorriso scopriva gli incisivi un po’ troppo grandi e gli occhi di Federico seguivano la strana linea che seguiva il bordo inferiore del suo labbro superiore, come il bordo di un cuore.
A Mondello tirava un vento fortissimo.
Non c’era tanto vento da giorni e giorni, però era uscito il sole: quando si era svegliato, quel mattino, di nuovo nel letto di Milena, con il corpo rovente di Dominik di fianco, c’era già il sole, e filtrava dai buchi tra le tapparelle abbassate.
Un particolare che Federico aveva notato, aprendo il balcone della cucina, al piano terra, era stata la calma piatta. C’era sempre calma in quella strada poco frequentata, con tutti quei bei villini a schiera e poche macchine che passavano. Però non c’era un filo di vento, e anche i piccoli cespugli delle aiuole erano immobili.
Allora aveva preparato la colazione  -il ciambellone di sua madre su cui aveva steso tre dita di nutella- ed era salito in camera sua con Dominik, dopo averlo ripulito da quegli adorabili baffetti di cioccolato che si era fatto, e vedendolo fare una smorfia di disappunto, che ce la faccio da solo, Federico. In quel momento aveva notato, con una nota di soddisfazione, che certe cose non sarebbero cambiate mai. Mentre si vestiva in camera sua, e Dominik in bagno faceva la doccia, si era soffermato un po’ a guardare la camera apparentemente parecchio ordinata: non era mai stata così, una stanza perfetta in cui l’unico particolare stonato era il letto disfatto.
Di solito, lì dentro regnava il caos più totale: ma da quando c’era Dominik, Federico si era impegnato almeno a tenere sgombra la strada dalla porta al vecchio letto di Milena, quel materasso minuscolo a una piazza dove dormire in due era insopportabile.
La prima notte era stato un puro caso, era vero, ma quella sera avrebbe potuto chiedere a Dominik di raggiungerlo nel suo: era un letto a una piazza e mezza, che aveva insistito per avere quando la vecchia rete era ormai inutilizzabile e i suoi gli avevano comprato rete e materasso nuovi. Solo che non ce l’aveva fatta.
Dormire in quel letto con Dominik sarebbe stato come sconsacrarlo.
In quello stesso letto ci aveva studiato con Manfredi. Ci aveva giocato alla playstation, mangiato patatine, imprecato. Ci aveva guardato dragon ball.
Ci aveva pianto.
Ci aveva scoperto se stesso.
Ci aveva baciato Manfredi. Ci aveva fatto l’amore. Ci aveva anche dormito.
Farsi dormire Dominik sarebbe stato come un tradimento.
Poi, amaro, si era reso conto che sarebbe stata un’idiozia, di fronte al fatto di non averlo nemmeno chiamato per giorni, neppure per chiedergli come stesse.
Poi Dominik era piombato nella stanza, con quell’aria soddisfatta per esserci arrivato da solo e con quella magliettina chiara un po’ trasparente, e tutto aveva perso importanza.
Solo che adesso, a Mondello, credeva che il mondo, o chi per lui, lo stesse punendo.
Aveva portato Dominik lì perché gliel’aveva promesso, ma era ancora una volta come tradire Manfredi. Forse per questo, nonostante il sole, aveva iniziato a tirare quel vento un po’ freddo e fastidioso che agitava tutta quella matassa bionda e sollevava il cappuccio del giubbotto che il ragazzino indossava.
Quel giorno Dominik sembrava la cosa più lontana che potesse esistere dall’immagine che si era fatto di lui. Forse era per quel giubbotto imbottito che lo rendeva tre taglie più grande di quanto fosse in realtà, o ancora per le scarpe che teneva in mano e per i pantaloni arrotolati fino al polpaccio, ma sembrava il gemello buono di quella specie di principe delle nevi che vedeva sempre a Milano con il cappotto scuro aperto e la sciarpa adagiata maldestramente sul collo.
- Dominik – lo chiamò, con tono di rimprovero. Ormai, a prescindere dal tono, il ragazzino aveva imparato ad associare l’uso del suo nome intero a uno stato di irritazione del ragazzo che lo pronunciava. Allora sbuffò, capriccioso.
- Ti ho detto che non le metto le scarpe. Non fa freddo. –
- Ma c’è vento e ti prenderai un malanno, e allora ti avrò sulla coscienza! –
- Mpf – lo sentì borbottare.
Era insopportabile quando non lo ascoltava in quel modo, eppure terribilmente tenero. Faceva venir voglia di gettarlo sulla sabbia fredda e prenderlo a morsi.
Quando si fissava su qualcosa era impossibile smuoverlo: e la fissazione di quel giorno era camminare a piedi nudi sulla sabbia, pur accontentandosi di non sfiorare l’acqua perché davvero doveva essere troppo fredda. Quando si erano trovati a Cefalù c’era stata una giornata di gran lunga migliore: ma tanto c’era il sole, aveva detto, cosa vuoi che sia un po’ di vento?
Allora Federico aveva rinunciato.
Avrebbe goduto come un pazzo, però, non appena si fosse svegliato un bel mattino con il raffreddore. Avrebbe passato tre giorni a ripetergli te l’avevo detto.
Mentre camminavano così, uno accanto all’altro, Federico si concesse qualche istante per guardarsi intorno.
Era tutto dannatamente uguale a quel giorno d’estate in cui aveva lasciato Manfredi.
Avevano da poco passato il ferragosto insieme: grigliata con gli amici, tende sulla spiaggia, svegli fino all’alba per poi crollare addormentati in una tenda minuscola.
Avevano fatto l’amore, in quella tenda, il più silenziosamente possibile, ma erano tutti troppo ubriachi e troppo assonnati per sentirlo.
C’erano tornati, a Mondello, dopo, e ce l’aveva portato lui.
Per lasciarlo.
Le lacrime di Manfredi, quel giorno, l’avrebbero perseguitato per sempre.
Erano anche loro trasparenti.
Poi era finito tutto in quel costante tira e molla che erano sempre stati: ripensamenti, baci, notti insieme, rancore, e ancora baci.
Fino a quando lui non se ne era andato, e il cerchio aveva iniziato a girare in un’altra direzione. E poi qualcuno, il destino o qualche entità divina, aveva scagliato all’interno del cerchio quella variabile impazzita che era Dominik, quel ragazzino che gli camminava accanto a testa alta con il vento di gennaio che gli sferzava la faccia.
In quel periodo, a Mondello non c’era nessuno.
I ragazzi erano tornati a scuola, gli adulti al lavoro, gli universitari erano schiacciati dalla sessione d’esami. Era buffo pensarci adesso: non aveva trovato neppure il coraggio di confessare ai suoi di non aveva preparato neppure una materia, ancora. Non si era deciso, però, a lasciare l’università: avrebbe deciso a giugno.
Che poi, con una laurea in scienze politiche in quell’Italia in cui viveva, cosa ci avrebbe fatto?
Federico volse lo sguardo in un’altra direzione, nella spiaggia sola e triste.
Mondello d’inverno metteva sempre una certa tristezza, quando ci andava da solo.
Anche con Dominik accanto, però, ci trovava dentro una strana malinconia, come se solo Manfredi fosse destinato a regalare colori pastello a quella spiaggia grigia di pieno inverno.
Che poi Mondello d’estate era bellissima. Piena di vita, e con il mare più bello del mondo.
Adesso era solo un’immagine di se stessa, pur assolata, ma con il vento che sollevava i granelli in sottilissime nuvole di polvere e la solitudine a circondarla.
Avrebbe potuto uccidere qualcuno, lì, e non se ne sarebbe accorto nessuno.
Avrebbe potuto baciare Dominik.
Una volta, su quella spiaggia, a marzo, ci aveva fatto l’amore.
- Ma c’è sempre il sole qui a Palermo? – chiese poi Dominik, fermandosi ad un tratto e affondando i piedi nella sabbia fredda. Federico si voltò verso di lui, con le mani affondate nelle tasche del giubbotto.
- Molto più che a Milano, però piove anche. Mica siamo alle Maldive! –
Dominik sorrise.
- Dev’essere bello. Però penso che non mi piacerebbe vivere qui – confessò, inarcando la schiena e nascondendo il capo tra le spalle, come se si vergognasse di quello che aveva detto. Avrebbe voluto dirgli di quanto fosse insopportabile per lui, viverci adesso, ma non lo fece. Piuttosto gli scompigliò i capelli con una mano.
- Cosa te lo fa pensare? –
Dominik si strinse ulteriormente su se stesso, facendo una smorfia.
- Non lo so. Qui è tutto…così caldo. Le persone, le cose…è soffocante. E’ come avere sempre intorno qualcuno, quasi attaccato, che ti toglie l’aria. E’ chiassosa, goliardica, è sempre viva, anche di sera. Milano è diversa Federico, Praga ancora di più. Quelli sono posti che mi piacciono. Non dico che Palermo sia brutta. E’ bello stare qui qualche giorno, girarla un po’, ma poi basta. A me piace vivere in posti come Milano o Praga, dove quando vuoi puoi restare solo. Io ho sempre bisogno di restarmene un po’ solo con la mia musica. – Federico  lo guardò per un po’, approfittando di quel silenzio, ammirando la sensualità ingenua con cui la lingua andava ad umettargli le labbra un po’ secche. – Non so se capisci cosa voglio dire, è difficile da spiegare. –
- No, no, lo capisco. Può sembrarti strano, ma è facile da capire. Da quando sono nato, per quello che ricordo, non sono mai stato veramente solo in questa città. C’era sempre un amico da incontrare fuori, un parente in visita a casa, un pranzo da qualche zia o una festa da qualche parte. E credo che tu abbia ragione. Vivere in un posto come questo soffocherebbe la tua musica.  –
Soffocherebbe te, che suoni come se fossi un dio creatore di universi paralleli.
Dominik prese a torturarsi il labbro con i denti, in decine di smorfie diverse.
- Da quando siamo qui, da quando ho lasciato Praga, è come se mi fossi dimenticato della musica. Te ne accorgi, Federico? E’ come se mi fossi dimenticato della musica, e ricordato di essere cieco e di avere delle persone intorno. –
Federico preferì non rispondere a quella osservazione.
Forse perché aveva paura di trovarsi d’accordo con lui. Da quando Dominik era arrivato a Palermo, era stato come scoprire un’altra persona, come se si fosse rotto quel cordone ombelicale che lo univa a quello strumento in un rapporto simbiotico. Adesso Dominik esisteva al di fuori del suo pianoforte, della sua musica, del Conservatorio.
Esisteva, ed era un ragazzino a cui batteva il cuore, che baciava, che adorava il mare, che era fatto di carne, come tutti, e non solo di note e colori. Era un ragazzino che la mattina faceva la doccia, che mangiava piatti stracolmi di pasta con il pomodoro, che camminava per Palermo chiedendo cosa fosse questo o quello, che parlava di persone, e che si professava disponibile persino ad accompagnarlo ad una festa. Non sembrava più lo stesso Dominik che aveva conosciuto, se non per quei discorsi strampalati e per la dolcezza con cui si muoveva, a volte, che risultava quasi musicale anch’essa, come se la musica ce l’avesse dentro, e fosse da lì che la suonasse.
Solo che stava correndo il rischio, Federico, di dimenticarsi che una volta tornati a Milano, il pianoforte sarebbe tornato a reclamare la sua posizione.
- Però non sembra proprio una cattiva cosa – continuò poi, in un monologo che spandeva quella voce dolce a sovrastare il rumore delle onde. – Anche se mi manca suonare. Però non è forse un po’ anche musica questo suono che fanno le onde? E’ morbido come il notturno di Chopin che piace alla mamma. –
Sua madre lo chiamava tutte le sere, prima che si mettesse a letto, e anche se Federico gli offriva di parlare via Skype, lui diceva sempre di no, che preferiva usare il telefono, come sempre, e piuttosto parlare con la mamma da sotto le coperte, così sarebbe bastato poi girarsi sull’altro fianco per addormentarsi con lui. E Federico durante quelle conversazioni, delle quali non capiva una sola parola, poteva solo restarsene su quel letto minuscolo, con quel corpo rovente accanto, cullato, a occhi chiusi, dalla spigolosa sensualità di quella lingua strana e dal calore del fiato di Dominik che gli accarezzava il collo o la spalla.
- Lo sai cosa mi piacerebbe, Federico? – lo chiamò poi, con un altro tono di voce, squillante e acceso come il trillo di mille campane. Non riuscì a non sorridergli, mentre lo vedeva fare un passo avanti come per cominciare di nuovo a camminare e invece poi fermarsi di nuovo.
- Che cosa? –
- Sedermi un po’ e poterlo ascoltare meglio. Se mi siedo qui dici che va bene? – gli chiese, ingenuo.
Federico sorrise, avvicinandoglisi per sfiorargli il braccio con la punta delle dita.
- Vieni, ci sediamo in un altro punto dove c’è meno vento, almeno non mi finisce la sabbia in bocca quando parlo. –
Non avrebbe dovuto portarlo .
Però era l’unico posto che conosceva: la prima sigaretta, i primi baci clandestini, le prime foto abbracciati, le prime carezze più spinte.
Non poteva portarci Dominik.
Sarebbe bastato a esorcizzare quel posto? A strappargli quella magia che possedeva, suo malgrado, per tutto quello che aveva visto come muto spettatore?
Che tradimento sarebbe stato, poi, nei confronti di una storia passata, vissuta fino all’ultimo, ma ormai finita.
Federico fece scivolare la mano in basso, fino a incrociare quella di Dominik, e strinse le dita anche intorno all’altra. Poi, con uno strattone lieve, lo spinse in avanti.
Non c’era nessuno, a parte loro.
Gli stampò un bacio leggero, casto, lievemente umido, e si sentì stranamente leggero.
Era il primo gesto davvero naturale che facesse con lui da mesi.
- Vieni. –
Lo guidò, allora, appena poi metri in avanti, verso quella protuberanza della spiaggia creata da un insieme di scogli rimasti ormai intrappolati dalla sabbia quando l’acqua si era ritirata.
C’era, tra loro, una rientranza quasi studiata ad arte, dove un’area meno spigolosa forniva un appoggio perfetto, riparato dalla catena di altre pietre tutte intorno.
Dominik, suo malgrado, fu costretto a rimettere le scarpe che aveva lasciato cadere sulla sabbia quando Federico gli aveva preso la mano. Si sedette, accettando le braccia del ragazzo che lo guidavano, e si ritrovò stretto su se stesso, con le ginocchia al petto, tra le gambe di Federico, appoggiato al suo petto.
Allora Dominik divenne solo la carezza con cui gli stava sfiorando il dorso della mano poggiata sulla gamba.
- Mi hai dato un bacio. Fuori di casa – osservò.
Federico avrebbe voluto intrappolargli quelle dita e portarsele alle labbra, ma sapeva che sarebbe stata una cattiva idea. Nonostante quella voglia di baci, nonostante le notti passate a dormire vicini, nonostante quel casuale sfiorarsi, Dominik era ancora un corpo troppo freddo per poter sopportare anche quello: a quello che accettava si contrapponeva la rigidità che ostentava quando provava ad abbracciarlo e deporgli anche solo un bacio sulla nuca, in un gesto semplice, come se quel gesto bastasse a spezzare un equilibrio.
Allora Federico evitava, si accontentava di continuare a oscillare sopra quel filo di lana che li univa da quando, a ottobre, aveva varcato la soglia di casa con una valigia e lo aveva trovato seduto al tavolo del salotto.
- Non passava nessuno, potevo farlo – gli spiegò, e faceva male dirlo così  perché era terribilmente squallido, gli rimandava alla mente qualcosa di sporco, quando il viso di Dominik era la cosa più pulita che esistesse al mondo. Però era quella la verità, ed era quella la risposta che il ragazzino voleva: usava sempre quel tono, come di un allievo che stesse facendo una domanda al professore, e non sarebbe riuscito a mentirgli. Solo che gli ricordava quel passato che faceva male, fatto di baci di nascosto, di carezze evitate, di amore soffocato.
Dominik spinse il busto in avanti, poggiando il mento sulle ginocchia.
- Posso chiederti una cosa? –
- Dimmi. –
- Quando hai detto che avevi avuto una storia importante, che eri stato innamorato…era Manfredi quel ragazzo? –
Adesso il mondo sarebbe potuto finire.
Forse stava già finendo in quel suono sordo che si sentiva rimbombare nelle orecchie.
Era Manfredi quel ragazzo?
- Perché lo vuoi sapere? -  D’improvviso Dominik si sciolse un po’, stendendo le gambe in avanti e liberando le ginocchia dalla presa ferrea delle mani. Le dita, quelle sue dita sottili e allungate che avrebbe voluto baciare ad una ad una, se le poggiò sulle cosce, aperte a ventaglio, e la pelle chiara era un contrasto netto con il colore scuro dei pantaloni.
Era un contrasto magnetico. Avrebbe voluto che lui non fosse cieco per poterlo ammirare.
- Io…non lo so, Federico, magari ho detto una scemenza. Però tu mi hai sempre parlato di rapporti umani complessi, di persone che sbagliano e si vogliono bene, di cose complicate. Io ho sempre pensato che fosse tutta colpa di una ragazza. Poi…poi scopro che invece è colpa di un ragazzo, e non lo so, Manfredi…è così ingombrante. E hai detto che non eravate amici come tutti gli altri, e io ho pensato…non lo so, quando è venuto a casa, e tu l’hai visto, ho pensato che si fosse portato via tutta la tua musica. – Le mani di Dominik  scivolarono fino al ventre, poi le dita si intrecciarono. – Ma forse ho detto una scemenza, scusa – farfugliò alla fine, stringendosi di nuovo nelle spalle, ma reclinando poi il capo un po’ indietro, come se volesse assorbire tutta quell’aria di mare per spazzare via anche quella tensione che si era creata.
Quando l’aveva portato lì, Federico non voleva che andasse così: avrebbero dovuto sorridere, ridere, come quella volta a Cefalù. Ma forse aveva ragione a dire che preferiva Cefalù perché era diversa, che a Mondello c’erano legate troppe cose. O forse era la stessa essenza di Dominik che portava con sé quel misto di dolcezza e malinconia.
Gli occhi gli si posarono sul collo del ragazzo, proprio dove la posizione del capo faceva svettare in modo più prominente la sporgenza del pomo d’Adamo che si continuava in alto nel mento spigoloso e nelle labbra soffici.
Era tutto un contrasto, Dominik.
Soffice e spigoloso.
Sensuale e ingenuo.
- Era il mio migliore amico, da quando avevo cinque anni. Non mentivo quando ti dicevo che non siamo mai stati amici come tutti gli altri, perché amici lo siamo stati sul serio. Poi, a diciotto anni, ci siamo baciati per scherzo: abbiamo visto una foto su internet di due ragazzi che si baciavano, e abbiamo iniziato a dire che non doveva essere nulla di così particolare, come una sfida. Solo che poi è piaciuto a tutti e due. – Federico si fermò, mentre i ricordi brucianti di tutto quel dolore lo trafiggevano come punte acuminate: l’allontanamento di Manfredi, la nuova consapevolezza di sé, la paura degli altri, il terrore per quell’amore strano, la voglia di scappare di casa e di strapparsi di dosso quell’attrazione immorale. Espirò. – Siamo stati insieme sette anni. Sette anni di segreti, bugie, di accettazione e di compromessi. Manfredi non ha mai voluto dire la verità ai suoi genitori, non lo farà mai. Io invece volevo. E alla fine è finita, è andato tutto in fumo. Io sono venuto a Milano, lui è rimasto qui. Questo è quanto. – Sembrava così semplice e vuota a raccontarla così. Succedeva questo quando le grandi storie finivano?
Venivano raccontate con queste poche parole, come fossero un romanzetto rosa di serie B che non meritava neppure un po’ di cura?
Dominik reclinò il capo da un lato, e una ciocca di capelli gli accarezzò morbidamente la nuca.
Avrebbe voluto poggiarci le labbra, ma non poteva. Non ancora.
- E’ di lui che parlavi allora, quella sera. –
- Quale sera? –
- Stavamo vedendo un telefilm sul divano. Sai, quando c’era quella donna che diceva scegli me. Tu mi hai raccontato che qualcuno te l’aveva detto, e che tu avevi rifiutato perché non sarebbe stata una vita vera. Parlavi di Manfredi? –
- Si. Quando è venuto a Milano mi ha proposto di restare con me, di vivere insieme, ma senza dire niente a casa. –
- E perché poi mi hai detto grazie? –
Insisteva Dominik, con quella cocciutaggine con cui pretendeva di scavargli dentro alla ricerca degli scheletri sepolti. E ci sarebbe stato tanto da raccontare che avrebbe potuto scavare per tutta la vita senza trovarli nemmeno tutti.
- Perché è stato anche merito tuo se sono riuscito a essere forte fino alla fine. Tuo, di Samuele, dei miei amici. Ho pensato che voi siete forti. Volevo esserlo anch’io. –
- Io non sono così forte – lo udì mormorare, con voce lieve e morbida come una carezza tra i capelli. – E se lui ti ha fatto stare male, perché gli sei ancora amico così, Federico? Non ti capisco! –
Non si capiva neppure lui, figurarsi quel ragazzino impertinente.
- Perché non posso fare altrimenti, Dominik. Da certi rapporti non si esce mai. Non posso abbandonarlo così. Forse con il tempo andrà meglio…E’ come la tua musica, come una sinfonia che suoni da sempre e che senti dentro la pelle. Riusciresti a non suonarla, se ti facesse pensare a qualcosa di triste? – lo incalzò.
Dominik allora reclinò il busto indietro, fino a toccare il suo torace con la schiena, e fu come abbracciarlo davvero per la prima volta, come se finalmente lo stesse accettando. Non mosse le braccia, o le gambe: rimase così, al centro di quell’equilibrio, come una trottola che finalmente trovava la posizione giusta per roteare all’infinito.
Sembrava perso, adesso: nella sua musica, nei suoi ricordi, nei suoi pensieri, perché di certo ancora quel rapporto malato non riusciva a capirlo.
- Con il tempo non andrà meglio – soffiò solo alla fine, come se stesse parlando con se stesso, o forse con quel mare che gli piaceva tanto.
Non gli fece altre domande, non mosse altri muscoli.
Se ne rimase solo lì, poggiato alla schiena, cullato dal rumore del mare.
Solo dopo quasi mezz’ora parlò di nuovo, ed era già andato oltre, cambiando di nuovo umore come se avesse un disturbo della personalità: e prese a parlare del Conservatorio, di alcuni ragazzi che ci stavano e che aveva sentito suonare, e di sua madre, che le foto che le avrebbe mandato le sarebbero piaciute sicuramente, e poi ancora a chiedergli come sarebbe stato viaggiare in nave, al di sopra del mare, e di come, alla scuola elementare, fosse il più bravo della classe in matematica.
Pareva impossibile pensare che, in quella stessa mente contorta, riuscissero a convivere le ferree regole della matematica con la libera espressione della musica. Ma Dominik gli aveva precisato che anche nella musica c’erano regole dure da rispettare, e che era nell’animo di chi suonava la capacità di farla apparire così libera.
E Federico rise, perché l’espressione di Dominik mentre lo rimproverava a quel modo per quella piccola ottusità mentale era tremendamente tenera.
 

§§§

 
Il letto di casa sua non gli era mai sembrato così morbido, ne gli era mai parso che profumasse tanto. Era il profumo di Riccardo: il costosissimo, prezioso e rassicurante profumo da avvocato penalista di Riccardo.
E quelli sul pavimento e poggiati alla poltrona erano i suoi vestiti: la camicia che la donna delle pulizie gli stirava con cura, la giacca che gli aveva comprato sua moglie, i pantaloni che gli aveva sbottonato lui.
E quello sul letto, quel corpo caldo adagiato sulle lenzuola, era il corpo di Riccardo.
Lui ci stava passando sopra una mano: la depressione sopra lo sterno, il torace ricoperto dalla peluria brizzolata, l’addome, poi i fianchi. Poi gli catturò le labbra in un bacio con cui lo colse di sorpresa, e Riccardo mugugnò in segno di protesta.
- Non borbottare a quel modo. Mi devi ancora parecchi baci prima di recuperare tutta questa astinenza. –
Riccardo suo malgrado sorrise, nel buio delle palpebre ancora abbassate.
Aveva il viso liscio, come sempre. Faceva la barba tutti i giorni.
Pareva quasi pulito, quel volto di noto avvocato che tradiva la moglie con un uomo.
Quando erano insieme, tutto il rancore che Samuele arrivava a provare nei periodi di solitudine, svaniva in un soffio, portato via dal soffio di aria che si generava quando Riccardo si chiudeva la porta di casa alle spalle. Compariva così, con quel cappotto scuro sopra la giacca, l’ombrello in mano, gli occhiali sul naso e quel sorriso quasi infantile.
Allora tutte le barriere crollavano. Anche quel giorno, in cui lo aveva raggiunto per pranzo, avrebbe dovuto essere a dir poco furioso con lui: tornato dalla sua adorabile gita in montagna non si era fatto vedere per giorni, scusandosi che sua moglie aveva una brutta tosse, che c’erano troppi parenti in giro e che aveva del lavoro arretrato.
Quando era entrato dalla porta, però, ai suoi occhi era tornato solo Riccardo, l’uomo che amava.
La sua mano calda gli si poggiò sulla spalla, provocandogli un fremito.
I tocchi di Riccardo avevano qualcosa di particolare tutte le volte.
Era a partire da quei tocchi che era caduto in quella spirale di amore e dolore.
Riccardo lo aveva conosciuto per caso, sette anni prima, quando lavorava come barista in un bar come tanti, quella in centro, frequentati sempre da gente per bene. Un giorno, dalla porta del locale era entrato quell’uomo distinto: all’inizio non se l’era filato di striscio, perché l’ultima cosa che voleva era avere di fianco un barbosissimo e decrepito vecchietto che faceva l’avvocato.
Poi Riccardo era tornato quasi tutte le sere, a volte con l’aria stanca, altre volte un po’ sconsolata.
Una volta, addirittura, gli aveva rivolto la parola: gli aveva chiesto un’opinione riguardo ad un fatto di cronaca che in quel periodo stava facendo molto parlare di sé. La volta successiva avevano parlato della formula uno, quella dopo ancora di calcio, poi della disoccupazione.
Ogni sera Riccardo aveva trovato un argomento diverso, ma non avevano mai parlato più di una ventina di minuti, mezz’ora al massimo.
Fino a quando Samuele non l’aveva invitato a bere qualcosa a casa sua, non appena avesse staccato dal lavoro. Riccardo non aveva risposto subito, così gli aveva dato appuntamento alle otto e mezzo di fronte all’ingresso, se avesse voluto.
Alle otto e mezzo, Riccardo c’era.
Si erano scambiati i numeri di telefono, e si erano visti parecchie volte.
Al quarto incontro si erano baciati.
Al quinto erano andati a letto insieme.
Dopo sei mesi, quando Samuele era già così cotto da essere quasi abbrustolito, Riccardo gli aveva confessato di avere una moglie e un figlio. Forse, se gliel’avesse detto prima, lo avrebbe mandato a fanculo alla velocità della luce: ed era proprio per questo, Riccardo gli aveva confessato, che non l’aveva fatto. No, aveva aspettato prima che fosse abbastanza innamorato, come uno scemo, da non poterlo allontanare.
Però una cosa l’aveva fatta. Dopo una settimana dalla confessione, in cui Riccardo si era fatto sentire e vedere poco o niente, si era presentato a casa sua e gli aveva risposto al citofono persino sua moglie. Quando ci pensava gli piaceva credere di essere stato giovane e ingenuo a quei tempi, ma in realtà aveva già trentatré anni, mica venti: ma era vero, era più intraprendente.
Gli anni con Riccardo, un po’, lo avevano sfiancato.
Solo che era ormai troppo tardi per tornare indietro.
Il corpo di Riccardo gli aderì addosso, abbracciandolo da dietro e depositandogli un bacio sulla nuca.
- Come mai così silenzioso? Di solito diventi logorroico, dopo. –
Samuele gli si strinse contro, godendo di tutto quel calore e del contrasto tra i loro corpi così diversi: tonico e imponente il suo, un po’ flaccido e morbido quello di Riccardo.
- Il silenzio è d’oro, non lo sai? –
- Mh, sì? O forse pensi che rischieresti di dirmi quanto mi ami? –
- O magari di ricordarti quanto sei stronzo? –
A quelle frecciatine, Riccardo non rispondeva mai bene. Era come se quelle accuse lo colpissero con maggiore forza del necessario, proprio perché erano vere.
Ma non appena cercò anche solo di allontanarsi, Samuele si voltò sull’altro fianco, inchiodandolo con le braccia e prendendo a baciarlo piano sul viso, lasciando una scia umida poi lungo il collo e sul torace.
- Ti chiuderei a chiave in questa casa  - gli mormorò, tra un bacio e l’altro.
Riccardo sospirò tra le labbra dischiuse, il corpo che iniziava a risvegliarsi e le gambe che si stendevano, come intorpidite.
- Ti amo, lo sai? – lo sentì soffiare, delicato, come se volesse difendersi da quell’accusa celata dal tono scherzoso. Ma Samuele ormai non sapeva più niente, se non che ci avrebbe rifatto l’amore subito, in quel momento.
Fare l’amore con Riccardo era sempre terribilmente eccitante.
Il modo in cui lo spogliava, lo mordeva, lo provocava. Persino il modo in cui gli entrava dentro, un po’ rude, come se, ogni volta, quel momento lo avesse aspettato da secoli.
Una cosa che non gli aveva mai permesso, però, era di essere, per una volta, quello attivo tra i due.
Quella era un’ipotesi che Riccardo non aveva mai voluto prendere in considerazione: eppure a lui sarebbe piaciuto così tanto sconvolgerlo, per una volta, vedergli in viso quell’espressione un po’ dolorante e sentire di avere, anche solo per quella volta, un po’ di potere su di lui.
E il pensiero che fosse per quello che pensava, che Riccardo non volesse, tutte le volte lo straziava: anche se non glielo aveva mai sentito ammettere,  si era convinto che l’uomo non volesse neppure tentare perché sarebbe stato come ammettere definitivamente di essere gay. Un conto era baciare un uomo, farci l’amore sì, ma come lo avrebbe fatto con sua moglie, con quella posizione di potere, come un leone dominante. Altra cosa sarebbe stata lasciarsi prendere da un uomo: allora quello sì, avrebbe significato in maniera incontrovertibile di essere gay.
E Riccardo aveva paura di ammetterlo in modo definitivo.
Oscillava sempre tra il senso di colpa e la passione. Forse, un giorno, sarebbe crollato: dalla parte sua o di sua moglie, magari sarebbe stato solo un caso.
Allora Samuele cercava di prolungare quelle ore insieme, quella dolce sofferenza, e si piegava come un fuscello.
Le labbra discesero lungo l’addome, la mano di Riccardo tra i suoi capelli.
- Devo tornare a lavoro – mugugnò, in una debole protesta.
- Di già? – soffiò Samuele, vicino al suo ombelico, e il suo respiro caldo increspò la pelle di Riccardo, come un soffio di vento sulla superficie di un lago.
Anche lui aveva il lavoro ad attenderlo, ma separarsi da Riccardo, adesso, pareva impensabile. Se solo fosse stato lì ad aspettarlo, se lo avesse ritrovato per cena su divano del salotto con indosso un sorriso, forse sarebbe stato più facile.
Invece, una volta a casa, avrebbe trovato ad attenderlo solo un divano vuoto. Come la casa.
Depose un bacio sulla pelle di Riccardo, spostandosi poi per ritornare ad un passo dal suo viso e lasciar cadere il capo sul cuscino.
- Ci vediamo, domani? – gli chiese. Riccardo aprì gli occhi, e Samuele si perse per un po’ in quelle pozze liquide di desiderio.
- Cercherò di liberarmi per pranzo, ma non so se ce la faccio, devo andare in tribunale. Forse giovedì, o venerdì. Ci provo, Samuele. –
Annuì anche se nella sua mente avrebbe voluto solo mandare a fanculo qualcuno.
Sarebbe andato bene chiunque, pur di sfogare quell’irritazione.
Ma le labbra di Riccardo tornarono dolcissime sulle sue, mordendole piano.
- Abbiamo altri quindici minuti, magari… - gli mormorò poi.
Solo che il cellulare di Samuele trillò, e il proprietario sbuffò, ma Riccardo lo trattenne.
- Dai, guardi dopo chi è. –
- Potrebbe essere uno dei ragazzi, magari hanno bisogno di un cambio di turno.
Era un sms. Ma non di uno dei ragazzi.
Ciao sexy barista dalle magliettine aderenti e dal culo d’oro.
Ho avuto il tuo numero da un uccellino.
Fammi sapere quando lavori, ormai bevo solo i tuoi prosecco e ananas.
Mattia. Dannatissimo tizio impertinente.
Avrebbe fatto allo spiedo quell’”uccellino”, non appena lo avesse avuto tra le mani.
Il cellulare ricadde sul comodino, con noncuranza, mentre Samuele si lasciava avvolgere di nuovo dalle braccia calde di Riccardo.
 

§§§

 
Quella dannatissima canzone la odiava.
E più la odiava, più quell’idiota di Marcello continuava a metterla a random.
- Marcello, e che palle, la levi o no ‘sta cosa?! –
Giuseppe. Era da amare, in certi momenti.
Molto rari, ma pur sempre utili.
Federico accavallò le gambe, lasciando cadere il busto contro la poltrona morbida.
Era esausto, ed erano quasi l’una del mattino.
Alla fine, come promesso, a quella festa di saluto per lui, prima che partisse per Milano, Dominik c’era venuto. Aveva affascinato tutti, quando era arrivato, forse perché aveva tirato fuori di nuovo quel cappotto nero, anche se aveva evitato la sciarpa al collo.
Anna, la sorella di Giuseppe, era rimasta estasiata da lui non appena se l’era trovato davanti.
Erano stati tutti avvisati che quel misterioso ospite fosse cieco, e avevano fatto in modo, almeno, di farlo sentire il meno a disagio possibile. Soprattutto Anna, sì, che gli si era appiccicata addosso come una cozza, prendendo a parlargli di quanto le sarebbe piaciuto sentirgli suonare il pianoforte, che doveva essere molto bravo, e di quanto la affascinasse la sua lingua così contorta.
Federico ci avrebbe scommesso che non fosse solo in senso figurato che le interessava la lingua di Dominik.
E  lui era riuscito persino a essere meno odioso del solito, con gli estranei: non aveva parlato molto, ma si era risparmiato le smorfie stizzite e il tono scorbutico quando rispondeva a qualche domanda. Però non si allontanava mai da lui, pareva quasi che gli ruotasse intorno come un satellite: prendeva qualcosa da bere insieme a lui, si sedeva di fianco a lui per mangiare, e cercava sempre la sua presenza con la mano, per accertarsi che lo avesse ancora di fianco.
Quando aveva provato a fargli assaggiare un’arancina, poi, quelle enormi e piene di ragù che solo a Palermo sapevano fare davvero, Dominik aveva fatto una smorfia, perché i piselli nel sugo non gli piacevano per niente.
Aveva mangiato il resto, però, e aveva anche scambiato qualche parola con qualcuno.
In quell’occasione, Federico aveva conosciuto Simona, la nuova ragazza di Marcello.
E forse era stato quel piccolo particolare a fare in modo che si rendesse definitivamente conto che i tempi del liceo erano finiti. Tutti loro erano cresciuti, avevano tutti una ragazza, Giuseppe era stato appena lasciato, e Rosario parlava di matrimonio non appena la sua ragazza, che studiava fisioterapia, si fosse laureata. E poi c’erano lui e Manfredi, che non erano riusciti ad andare avanti e che si aggrappavano ancora a quei bei tempi in cui le serate erano fatte di giri in motorino e le feste erano solo occasioni per trovare qualcuno con cui ubriacarsi un po’ e fare gli idioti.
Era cambiato tutto. Erano cresciuti.
Lui aveva lasciato quella città, viveva e lavorava fuori, divideva la casa con un ragazzino scorbutico che avrebbe baciato per ore intere su qualsiasi superficie di quella stessa casa.
Magari sul suo adorato pianoforte.
- E ti ricordi di Isabella? Federico, non suonava il clarinetto con te? –
Federico si riscosse, con un sorriso. Si ricordava benissimo di Isabella, quella ragazzina dodicenne un po’ cicciotta che suonava il clarinetto come lui nella banda della scuola e che sicuramente si era presa anche una bella cotta. Giuseppe l’aveva preso in giro per anni con quella storia.
Con Giuseppe, lui e Manfredi ci avevano fatto la scuola media insieme: poi loro avevano scelto il liceo, e lui aveva preferito l’I.T.C. Marcello invece l’avevano conosciuto al liceo, e si era aggregato al loro gruppo. E poi c’erano Rosario e Salvo, che giocavano con loro sin da bambini, quando Federico aveva comprato la play station nuova e facevano a gara per chi dovesse usare il joystick migliore. Ovviamente lui lo lasciava sempre a Manfredi.
Adesso era tutto diverso. Si erano trovati tutti delle belle ragazze a posto, da presentare alla mamma e con cui costruirsi una famiglia: il sabato sera non lo passavano più in giro in motorino ma in qualche locale un po’ più cool dove offrire da bere alla fidanzata. Le telefonate non si chiudevano più con un ciao, cazzone! ma con un semplice allora ci sentiamo, Fede.
Gli lasciava addosso una malinconia quasi dolce, la consapevolezza che i bei tempi fossero finiti ma che ce ne sarebbero stati ancora di migliori adesso.
La mano di Dominik gli si poggiò sul braccio, reclamando attenzione. Il suo corpo lungo e sottile era seduto su uno sgabello di legno, proprio di fianco alla poltrona nella quale si era lasciato cadere lui: nella sedia dall’altro lato, Dominik aveva Anna, ormai un tutt’uno con il suo braccio.
Non aveva da dirgli nulla, semplicemente gli aveva adagiato quella mano sottile sull’avambraccio, quasi con noncuranza. Federico gli si avvicinò all’orecchio, per sovrastare il chiacchiericcio goliardico che si era diffuso.
Se c’era un particolare che odiava, dell’essere a quella festa, era sempre quello: non poter essere se stesso. Non potergli parlare come sempre, sfiorarlo, accarezzarlo con uno sguardo, perché se ne sarebbero accorti tutti, e allora addio pace.
Gli sarebbe piaciuto tanto, però, poterlo toccare una volta sola come aveva fatto prima di scendere dalla macchina, quando gli aveva accarezzato lievemente una guancia, come a togliergli una ciocca di capelli dal viso.
- Sei stanco? – gli chiese. Sarebbe bastato colmare quegli ultimi dieci centimetri per poggiargli le labbra sulla pelle. Dominik si strinse nelle spalle.
- Un po’. –
- Adesso ce ne andiamo. Ti sei divertito, però? –
- Mh, si. Soprattutto quando Giuseppe ha raccontato di quando suonavi il clarinetto – lo prese in giro, il tono di voce terribilmente dolce che gli avrebbe volentieri preso tra le dita quelle guance come a un bambino impertinente.
Invece sollevò una mano per accarezzare furtivamente la sua, che aveva poggiata sull’avambraccio, in un gesto che doveva sembrare casuale, se a qualcuno fosse venuto in mente di osservarli proprio in quel momento.
Non appena lo fece, però, sentì pungere sulla pelle lo sguardo di ghiaccio di Manfredi.
Non gli aveva praticamente rivolto la parola per tutta la sera, escluso il caloroso e fintissimo saluto con cui lo aveva accolto: aveva fatto in modo di non trovarglisi troppo vicino per non dover spiegare il perché non lo guardasse nemmeno.
Federico alzò gli occhi e incrociò quelli del suo migliore amico.
Non avrebbe saputo dire se dentro ci fosse più rabbia o più delusione.
Li distolse subito.
Dominik al suo fianco era sempre nella stessa posizione, un po’ perso nei suoi sogni, e le chiacchiere che aveva intorno forse non le stava nemmeno ascoltando. Si lasciò sfuggire un piccolo sbadiglio, celato dietro una mano, e Federico seguì il profilo delle dita che accarezzavano piano le labbra.
Pensò che se lo avesse fatto lui, accarezzargli le labbra a quel modo,  Dominik gli avrebbe azzannato la mano. O nella migliore delle ipotesi si sarebbe trasformato in una statua di sale terribilmente stizzita.
- Hai sete Dom? –
- No, grazie – lo sentì rispondere, e Anna era già tornata all’attacco, chiedendogli come fosse Praga e quanto sapesse della sua storia, che avrebbe potuto raccontargliela. Allora Dominik  aveva risposto che non ne sapeva poi molto, e anche quando Anna provò a chiedergli di parlarle un po’ di qualche musicista famoso, il ragazzino declinò l’invito neppure tanto gentilmente, tanto da farle assumere un cipiglio infastidito.
- Bevo qualcosa e poi ce ne andiamo – gli sussurrò mentre si alzava.
Nel salotto della casa di Giuseppe, il tavolo era stato spostato vicino alla finestra, per poter sistemare le poltrone, le sedie e il divano più centralmente, vicino alla tv. E quando Federico si alzò per versarsi qualcosa in uno dei bicchieri di carta, passò inosservato a tutti, intenti a chiacchierare e ridere, come appena pochi secondi dopo si alzò anche Manfredi.
Federico se lo trovò vicino mentre svitava il tappo alla bottiglia d’acqua semivuota.
- Te lo porti anche dietro come un cagnolino adesso? – lo sentì sibilare.
Aveva quel tono di voce che aveva imparato a conoscere negli anni, quando credeva di aver subito uno sgarbo e allora diventava cattivo. Aveva sempre una strana lucidità, Manfredi: quando lui si arrabbiava, di solito, impulsivo com’era iniziava a inveire, ma dopo pochi minuti era già tutto passato. Manfredi, invece, conservava a calma anche per settimana, ma quando arrivava a colpire lo faceva con un’insolita cattiveria, come una stilettata al centro delle scapole.
- Non iniziare a fare lo stronzo adesso. –
- Io sono lo stronzo? Non tu, che prima ti professi amico e confidente e poi, non appena arriva il tuo musicista, ti dimentichi persino che esisto? –
Avrebbe tanto voluto avere la faccia tosta di dirgli che non fosse vero. Ma lo era. Era verissimo.
Lo aveva messo da parte, ma non lo aveva fatto apposta.
Aveva creduto che fosse la scelta migliore. Si era comportato da egoista.
Non voleva guardarlo. Se lo avesse fatto si sarebbe lasciato sommergere dagli occhi di Manfredi.
Si concentrò allora sulla sua mano che riempiva un bicchiere di sangria e lasciava poi che la brocca si poggiasse di nuovo sul tavolo, sollevando appena qualche schizzò che andò a macchiare la tovaglia chiara.
- Mi dispiace, va bene? Ma sapevo che se te lo avessi detto avresti fatto il pazzo! –
- Allora è molto meglio fare finta di niente no? –
Federico si voltò, vuotando il bicchiere d’acqua in un sorso.
Allora incontrò quegli occhi verdi, feriti, e avrebbe voluto premergli le mani ai lati del viso e pregarlo di dimenticare tutto e di odiarlo, purché la smettesse di soffrire a quel modo.
- Manfredi, per favore… - gli mormorò. Non sapeva cosa dirgli, in verità. Pregarlo di perdonarlo? Mandarlo a fanculo e dirgli di smetterla di soffocarlo?
Mi soffochi, Federico. Gliel’aveva detto lui, sette anni prima, quando le cose erano ancora così diverse e avevano appena iniziato a rendersi conto di quello che provavano. E Manfredi non lo accettava, e sbuffava e scalciava come un cavallo imbizzarrito.
- E non dirmi per favore! Anzi, dimmelo che te lo porti a letto, magari sarà più facile farsene una ragione che il tuo migliore amico è uno stronzo! – Federico sgranò gli occhi, non sapendo se essere più arrabbiato o sorpreso. Era questo che pensava, Manfredi? Era geloso?
Avrebbe dovuto rimproverarlo, schiaffeggiarlo, urlargli che con Dominik a letto non c’era andato proprio, e che se anche fosse stato non avrebbe avuto alcun diritto di parlarne così. Però pensò  a quei baci rubati sotto le coperte calde, a quei tocchi leggeri sulla spiaggia, e non ebbe il coraggio di dire nulla. Ma Manfredi non se ne accorse nemmeno, preso com’era dalla sua furia. Si stava trattenendo per un urlare, glielo leggeva in faccia.
- Non puoi, Federico, non puoi! Avevi promesso che non avresti permesso a nessuno di mettersi tra noi! Io non l’ho mai permesso a Bianca, e ci sono stati insieme più di un anno! E tu avevi giurato che non l’avresti fatto con Laura! Adesso arriva questo ragazzino e inizi a nascondermi le cose?! Perché, Federico? Se davvero mi ami come dici, e ne sono sicuro, come puoi arrivare a preferire lui a me! Siamo…siamo due mondi diversi! Se hai amato me, non può nemmeno starti simpatico uno così! –
Federico avrebbe voluto schiacciarsi le mani sulla faccia e crollare con le ginocchia sul pavimento.
Allora Manfredi sarebbe sceso giù con lui e l’avrebbe abbracciato, accarezzato, avrebbe perso quella maschera di indifferenza e sarebbe tornato per un po’ il suo migliore amico: gli avrebbe detto che tutto sarebbe andato bene, allora, e sarebbe stato vero.
Ma non poteva farlo lì, davanti a tutti.
Eppure avrebbe avuto tanto bisogno di confessargli tutto, spalancare la bocca e rovesciargli addosso tutto quello che era successo negli ultimi gironi, i suoi dubbi, quello che provava, e quel costante velo sottile che Dominik teneva suo malgrado sempre steso tra loro.
Avrebbe voluto che il pavimento si aprisse e lo ingoiasse. Come la Moldava di Praga.
Invece, stranamente lucido, fissò gli occhi nei suoi.
- Non è questo il luogo per parlarne Manfredi. Passo da te domani mattina, d’accordo? Allora parleremo. –
Manfredi lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, come prive di vita.
L’emblema della sconfitta.
- Federico… - Era così simile a una preghiera adesso.
Come avrebbe fatto a dirgli la verità?
Come avrebbe fatto a sostenere il peso di quegli occhi verdi?
Lo superò, dandogli le spalle e sentendosi uno schifo.
Aveva negli occhi solo l’immagine di Dominik seduto su quello sgabello, silenzioso e un po’ pensieroso.
E pensò che non vedeva l’ora di tornare a Milano.








(1) Il titolo è tratto da L'ultima notte al mondo di Tiziano Ferro.
Nota al capitolo 27: Sono tornata!
Dpo meno di una settimana, cosa che accade raramente!
E, devo dirvi, d'ora in poi mooolto raramente perchè le vacanze sono finite, quindi è tempo di rimettersi a lavoro tra lezioni, tirocinio e studio.
Però cercherò di aggiornare comunque con una certa regolarità. 
Sulla mia pagina facebook troverete sempre novità, comunque, su come procede la scrittura di questa e delle mie altre storie! ^_^
In questo capitolo finalmente torna Samuele: l'avevo progettato nello scorso, ma per motivi di spazio ho dovuto rinviare. Samuele e Riccardo, che lo odiamo un po' tutti, ma solo Samuele continua ad avere i cotechini sugli occhi!
E poi Dominik e Federico a Mondello: è la scena che mi è piaciuto scrivere maggiormente di questo capitolo! E che spero vi piacerà quanto a me, ovviamente!
Alla fine poi torna Manfredi: lo so che forse non vi sta proprio simpatico, soprattutto in questo capitolo, ma nel prossimo spiegherà appieno le sue ragioni! ^_^
Non dico altro, perchè vi annoierei a morte senza motivo, e quindi vi lascio, sperando di leggere presto le vostre opinioni, perchè fanno sempre piacere, e sapendo finalmente che dalla prossima settimana riavrò il mio pc con la mia chiavetta internet e potrò fare quello che mi pare e rispondere alle recensioni! *_*
Un bacio a tutti, alla prossima
Esse

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Capitolo 31
*** 28th: Io ho bisogno di... ***




Io ho bisogno che qualcuno abbia bisogno di me, ecco cosa. 
Ho bisogno di qualcuno per cui essere indispensabile. 
Di una persona che si divori tutto il mio tempo libero, il mio ego, la mia attenzione. 
Qualcuno che dipenda da me. 
Una dipendenza reciproca.
Chuck Palahniuk, Soffocare, 2003



 

Chapter 28th: Io ho bisogno di…
 
Lo stava aspettando.
Anche se gli avesse detto che non sarebbe venuto lo avrebbe aspettato.
Lo aspettava sempre.
Pareva quasi che anche quella camera lo stesse ancora aspettando.
Nel comodino c’era nascosto quel lubrificante alla fragola che avevano comprato insieme di nascosto e che aveva chiuso lì dentro proprio lui, la sera prima che Federico decidesse di lasciarlo, convinto che lo avrebbero utilizzato ancora nelle notti a venire, fino a consumarlo. Nella libreria, tra le copertine impolverate c’erano istanti della loro vita: una foto insieme alla gita del liceo, quella conchiglia spezzata raccolta a Mondello, un elefantino di legno che un ambulante aveva voluto vendere loro per forza, un foglio tutto stropicciato, piegato in quattro, dove Federico aveva preso appunti a proposito di un albergo gay-friendly in Grecia, quando avevano programmato di farsi una vacanza insieme.
Tra le pagine di uno di quei libri che aveva letto milioni di volte, ci teneva una foto più bella delle altre, che avevano scattato a Cefalù in una giornata di sole fenomenale.
Si stavano baciando, in quella foto, sorriso contro sorriso.
Altre foto, chiuse in una busta, le teneva nel fondo del cassetto della scrivania: foto di loro nella camera di Federico proprio un attimo prima di fare l’amore, foto di baci, di morsi, di sorrisi, foto di carezze fatte solo di sguardi.
Nel fondo del comodino, poi, Manfredi ci teneva una collana.
Non era niente di che: un semplice filo d’acciaio intrecciato che sarebbe stata perfetta al collo di Federico. Aveva programmato di regalargliela per Natale, l’ultimo che avevano passato insieme come coppia, quando non sapeva ancora che lo sarebbe stato.
Poi non ne aveva avuto il coraggio, tra le liti e la distanza che si stava creando tra di loro, e aveva rimandato di giorno in giorno, fino a quando Federico non gli aveva proposto di andare a trascorrere la mattinata a Mondello.
- Non ce la faccio più, Manfredi. –
Allora la collana era rimasta in fondo al cassetto, con quell’incisione per lungo, sul retro: Manfredi.
Gli avrebbe accarezzato il collo in ogni momento se l’avesse indossata, proprio come piaceva fare a lui con le mani, lungo la linea delle clavicole e dello sterno.
Solo che Federico non l’aveva indossata.
Federico se n’era andato a Milano come portato via da un soffio di vento.
 

§§§

 
Il portone d’ingresso era sempre nero e lucido come lo ricordava.
- Portone di merda, si inceppa sempre la chiave! Fede tieni qui! -
Le cassette della posta un po’ vecchiotte, l’androne tirato a lucido, le scale, l’odore di pulito.
La porta blindata di legno chiaro, con quei decori un po’ impolverati.
- Quella stronza della donna delle pulizie pulisce sempre tutto tranne la nostra porta, solo perché mia madre le sta antipatica! Ma ti pare normale? -
Federico suonò il campanello.
Manfredi aveva fatto scattare il portone, quando lui aveva suonato, ma salendo le scale, Federico aveva trovato la porta ancora chiusa.
Era confortante fissare lo sguardo su quel legno: così ordinato, fermo, bloccato nella sua immobilità, tanto da riportare all’ordine quasi se stesso, mentre il cuore si spaccava nel contrasto del trovarsi in quel posto così conosciuto e l’essere cambiato così tanto, dentro, da non riconoscersi più.
Quando era uscito di casa, quella mattina, aveva lasciato Dominik a letto.
Con quella magliettina scura, sotto le coperte e le lenzuola chiare.
Gli aveva promesso che sarebbe tornato prima di pranzo, che avrebbero mangiato insieme e finito di preparare le valigie, e gli aveva quasi intimato, con un sorriso, di non alzarsi dal letto.
Poi lo aveva baciato. Un bacio solo, che era già abbastanza.
Quella notte avevano dormito di nuovo nel letto di Milena, vicini eppure così distanti.
Dominik aveva dormito per tutto il tempo su un fianco, con una gamba piegata e una tesa verso la fine del letto, il volto affondato sul cuscino e il respiro regolare. Aveva tenuto la mano poggiata sul suo petto con tanta delicatezza da parere quasi trasparente.
Quando dormiva, Dominik non si muoveva mai: era il suo esatto opposto in quello. E quando dormiva, però, poteva avvicinarlo senza rischiare di beccarsi una rispostaccia: poteva sfiorargli la fronte per scostare i capelli dal viso, guardare il suo petto sollevarsi e abbassarsi ad ogni respiro.
Avrebbe potuto accarezzargli il corpo, il petto, l’addome, senza che lui si ritraesse.
Sarebbe stato impossibile, perché al minimo tocco Dominik si sarebbe svegliato.
Era un po’ difficile a vederlo così: lo baciava, gli accarezzava il viso, ma non si spingeva mai un po’ oltre. Non gli si avvicinava, non lo toccava, mentre lui avrebbe voluto schiacciarlo contro il materasso e spogliarlo, anche se poi magari non ci avrebbe fatto nient’altro. Forse.
La verità era che un po’ quel rallentamento gli piaceva.
Con Manfredi era andato tutto così di corsa da non lasciargli nemmeno il tempo di rendersi conto di cosa stesse succedendo: il primo bacio, l’allontanamento, le litigate, l’accettazione, e poi il sesso. Ed era stato un sesso con una persona che teneva ormai dentro al petto, come se il sesso fosse l’ultimo tassello da inserire in un puzzle ormai quasi del tutto completato.
Con Dominik era diverso. Era un po’ più normale.
Erano due persone che si erano scoperte piacersi a vicenda, e che stavano facendo pian piano qualche passo avanti. Per quel che ne sapeva, era così che andavano le storie normali.
- Siamo la cosa più lontana dalla normalità, noi, Manfredi. –
- Però mi ami. Che te ne importa? -
La porta si aprì subito, stranamente silenziosa.
Prima di alzare il viso, Federico pensò a tutte le volte in cui quell’azione si era ripetuta e si era trovato a entrare senza nemmeno chiedere permesso, per poi saltare al collo di Manfredi e baciarlo, quando in casa non c’era nessuno.
Adesso non riusciva nemmeno a trovare il coraggio di guardarlo.
- Ciao – lo salutò prima lui, con la mano ancora sulla porta.
Doveva essersi svegliato da poco, Manfredi, perché aveva gli occhi gonfi e l’aria assonnata: però profumava di bagnoschiuma al muschio, aveva i capelli con le punte umide e indossava una tuta blu scuro. Doveva essere uscito da poco dalla doccia.
- Ciao –  mormorò in risposta, non sapendo bene cosa dire. Se ne stava sul pianerottolo, con le mani affondate nelle tasche del giubbotto, a fissare il suo migliore amico. Non aveva idea di cosa gli avrebbe detto, di come avrebbe collegato la sua presenza lì alla loro ultima discussione, la sera prima.
O meglio, lo sapeva. Sapeva benissimo le parole che avrebbe usato, il tono di voce, persino dove lo avrebbe toccato: sul polso, sul braccio, sul viso.
Ma non sapeva come iniziare.
Però Manfredi aprì ulteriormente la porta.
- Vieni, entra. Vuoi un invito scritto? – lo provocò. Stava sorridendo, avrebbe potuto giurare.
Allora Federico lo seguì in silenzio, come se ne avesse paura. Aveva paura di non rivedere quel sorriso quando gli avrebbe detto la verità su lui e Dominik: perché gliel’avrebbe detto, non poteva tenerglielo nascosto.
Manfredi lo precedette, chiudendogli la porta alle spalle, poi lo guidò verso la cucina.
Federico riscoprì gli angoli che aveva imparato a conoscere negli anni: le pareti che prima erano state verdi, poi di un caldo salmone, adesso di un anonimo beige con delle varianti dorate. I quadri alle pareti, di volta in volta di stili diversi. Le foto, sempre più numerose: Manfredi all’asilo, loro due insieme allo spettacolo musicale alle scuole medie,  Manfredi il giorno della laurea, i compleanni, le feste, le vacanze al mare e in montagna.
C’era una foto nuova, dall’ultima volta che era stato lì: una foto di Manfredi insieme ai suoi genitori, vestito bene e ben pettinato, nell’ampia sala di un ristorante. Doveva risalire all’anno prima, quando Manfredi aveva partecipato al matrimonio della cugina al quale non aveva potuto invitare lui, non potendolo presentare come il suo ragazzo. Avevano rinunciato a una vacanza in Spagna, per quel matrimonio.
In silenzio, Federico lo seguì fino alla cucina.
A casa di Manfredi la cucina era un ambiente caldissimo e accogliente, con il frigorifero pieno di calamite colorate, le tende gialle con i bordi arricciati e il divano grandissimo davanti alla televisione. Tra tutte, lui preferiva quella sedia vicino al balcone dove, nelle belle giornate, di prima mattina, entrava un raggio di sole che finiva giusto a riscaldargli le gambe.
- Ti togli da lì o no? –
- Perché? C’è il sole, e io muoio di freddo! –
- Ti riscaldo io, no? –
- Ah sì? E come faresti? –
- Visto che mia madre non c’è per tutta la mattina, un’idea ce l’avrei. -
- Non ti siedi? Vuoi un caffè? –
Federico sussultò, spostando lo sguardo dalla finestra al corpo di Manfredi, vicino ai fornelli. Aveva sollevato le maniche della maglietta fino ai gomiti, scoprendo le braccia dai polsi affusolati.
Lo stava riempiendo di domande, come se fossero due sconosciuti che si incontravano per la prima volta, presi da quell’imbarazzo strano.
Federico si sedette, togliendosi il giubbotto e appoggiandolo sullo schienale della sedia. C’erano quei cuscini, sulle sedie, da più di cinque anni. Li aveva cuciti a mano la nonna di Manfredi.
- No, Manfre, l’ho già preso a casa. –
Manfredi annuì, stringendosi nelle spalle. In un solo movimento fluido, adagiò di nuovo la caffettiera sul ripiano di muratura, rinunciando all’idea di preparare un caffè. C’era una morbidezza, in quel momento, nel viso di Manfredi, che Federico pensò che fargli del male sarebbe stato come distruggere una creatura sacra.
Alla fine lo vide fare spallucce, appoggiarsi al piano della cucina incrociando le braccia. Non si sedette.
Federico avrebbe voluto che gli si aprisse una voragine sotto ai piedi.
Incrociò le mani sul tavolo.
- Mi dispiace, Manfredi – gli disse alla fine. – MI dispiace di non avertelo detto, ma credevo avresti reagito male –  esordì, come se non stessero parlando che di quello fino a pochi secondi prima.
Invece era solo come afferrare di nuovo l’estremità di una corda che aveva perso nel buio la sera prima.
- Dopo le cose che ci siamo detti l’altra sera sarebbe stato il minimo – gli rispose quello, adesso un po’ tagliente. Federico alzò gli occhi verso i suoi, e Manfredi mostrò un sorrisino ironico. – Prima di essere il tuo ex ragazzo sono il tuo migliore amico, Fede. E se tu te lo dimentichi mi chiedo cosa ci stiamo a fare qui. –
Federico si ritrovò a boccheggiare, in mancanza di qualcosa da dire, o forse di aria. Non poteva davvero parlare così.
E se tu te lo dimentichi mi chiedo cosa ci stiamo a fare qui.
Sentiva che ci fosse qualcosa di diverso tra loro, una diversità che si era insinuata pian piano nel loro modo di essere, di vedere il mondo, di toccarsi, e che li aveva cambiati. Pareva impossibile restarsene lì di fronte allo sguardo duro di Manfredi, o anche solo pensare di trascorrere con lui più che pochi minuti.
Si sentiva a disagio, ecco cosa. A disagio per le bugie che gli aveva detto, per le verità che aveva omesso, per quello che gli avrebbe confessato. E Manfredi era così lontano da non sembrare più nemmeno il suo migliore amico.
Federico gli rivolse un debole sorriso tirato, per alleggerire l’atmosfera, perché lui non si accorgesse di quanto quella semplice frase lo avesse ferito, insinuandogli dentro il tarlo del dubbio.
E invece Manfredi era stranamente serio, con quelle braccia strette al petto e lo sguardo fisso su di lui.  Poi, all’improvviso, si staccò dalla cucina per raggiungerlo, poggiando le mani sul tavolo con uno scossone, proprio davanti a lui, che si ritrovò a guardarlo dal basso con un’espressione ferita.
- Vedi quanto sei stronzo? Ci credi subito quando ti dico queste stronzate! –
Era arrabbiato adesso, forse ferito, e Federico abbassò di nuovo lo sguardo, insieme al tonfo che venne dalla sedia di fronte a lui, nella quale Manfredi si lasciava cadere, sprofondando con il capo tra le mani. Aveva sbagliato tutto, sbagliava sempre tutto.
Pareva non essere più in grado di parlargli senza commettere un errore.
Sarebbero potuti morire così, passarci delle ore e lasciare che il tempo li accarezzasse morbido, senza dire una parola, ciascuna delle quali avrebbe solo scavato più a fondo nel fossato che si stava aprendo tra di loro. E mentre Federico teneva le mani sul tavolo, Manfredi stese le sue, senza avere il coraggio di toccare quelle dell’amico, perché temeva, e in fondo sapeva, che se ci avesse provato Federico si sarebbe tirato indietro. Perché era già indietro.
- Oggi parti, Federico? – gli chiese poi, morbido come una carezza sul viso.
Quando si sentiva crollare, Manfredi diventava un cucciolo morbido che si piegava verso le mani di chiunque per farsi accarezzare, per aggrapparsi così alle mani di qualcun altro per risollevarsi.
Federico alzò gli occhi, fino a incrociare i suoi.
- Alle otto – riuscì solo a dirgli, e lo vide annuire, come se avere un orario servisse a renderlo più reale. Manfredi tornò con le mani contro al petto, ma non incrociò le braccia.
- Non abbiamo avuto troppo tempo per noi. –
- Se avessimo voluto l’avremmo trovato. –
- Tu non hai voluto trovarlo. – Una stoccata, che suonò come un’accusa.
Federico ritirò anche le sue mani, stringendole intorno al bordo del tavolo.
Si sentiva in colpa, ma Manfredi non poteva trattarlo così. Non era vero che di tempo non ne avevano avuto: prima che l’aereo di Dominik atterrasse, quattro giorni prima, avevano trascorso insieme praticamente tutto il tempo, a volte da soli, altri in compagnia.
Si erano quasi baciati, su quella macchina.
Avevano parlato, e sorriso.
Adesso non poteva parlare così.
- Siamo stati insieme tutto il tempo, Manfredi. Non puoi farmi pesare gli ultimi quattro giorni! –
- Tu non c’eri anche prima con la testa – lo sentì mormorare.
- Adesso non fare il possessivo. –
 Manfredi sbuffò, e con un solo gesto il centrotavola di plastica rovinò sul pavimento, i fiori finti che conteneva scivolarono fuori. Federico ne seguì la caduta, trattenendo il fiato nel timore che si rompesse, preparandosi all’urto, e il clangore della plastica sul pavimento fu quasi assordante.
Ma niente di rotto.
Era Manfredi, quello rotto.
Manfredi che si era alzato in piedi, con le guance arrossate dalla furia.
- Io ti amo, Federico! Come puoi liquidarlo così! –
Quando fece per aprire la bocca, in mente aveva solo frasi taglienti.
Se mi avessi amato come dici, avresti accettato di dire a tutti la verità e di soffrire insieme a me.
Solo che, di fronte agli occhi di Manfredi, così verdi, non ce la faceva, gli strappava il cuore.
- E se entrasse tua madre? –
- Non entrerà. Baciami e basta. –
Federico provò a inspirare, ma l’aria, quando attraversava la trachea per arrivare ai polmoni, era tagliente, cose per portasse con sé tante particelle di vetro che volevano graffiarlo.
Non sopportava più niente: di stare in quella stanza dalle pareti troppo soffocanti, di trovarsi di fronte la presenza di Manfredi che lo angosciava. Era come trovarsi all’improvviso adulto e aver provato a rimettere quei pantaloni che indossava sempre da bambino: troppo stretti, troppo infantili, troppo poco adatti. Manfredi era come quel paio di pantaloni: apparteneva a qualcosa di passato, che era cambiato, e non riusciva a stargli più bene.
Si alzò in piedi.
- Devo andare, Manfredi. –
- Te ne vai così? Prima spergiuri che mi spiegherai, che parleremo, e poi ti presenti qui per restare dieci minuti e andartene, senza sapere neppure quando tornerai? Federico! –
Si voltò, di scatto, e avrebbe avuto voglia di lasciarsi cadere sulle ginocchia e provocarsi un dolore di qualsiasi tipo. Invece era arrabbiato.
D’improvviso era arrabbiato, con quella spiacevole sensazione di rancore che gli riempiva le vene.
E si voltò, puntando gli occhi in quelli verdi che lo fronteggiavano.
- Me ne devo andare, Manfredi, perché non so che cosa dirti, lo capisci?! E se resto ancora qui finiremo per dirci delle cazzate, solo per il gusto di farci del male a vicenda! Quindi è meglio se me ne vado. –
- No… -
Lo sentì come un soffio delicato, prima ancora che la sua mano gli si poggiasse sul braccio. Manfredi si era spezzato, con una sola frase, come un albero ancora giovane cui un calcio ben assestato avesse spaccato il tronco a metà. Stava appassendo, ad ogni respiro, nel movimento lento delle dita, negli occhi che lo scrutavano.  – Resta almeno altri dieci minuti – lo pregò, e Federico sospirò, perdendosi nel buio, quando la presa sul braccio si trasformò in uno strattone leggero e il suo corpo finì dritto contro quello di Manfredi, con le sue braccia chiuse intorno in un abbraccio. Profumava del bagnoschiuma che usava da sempre, quella fragranza al cocco che rendeva il sapore della sua pelle irresistibile.
Sarebbe rimasto chiuso in quell’abbraccio per ore, immobile al centro della cucina, con la faccia schiacciata contro il petto del suo migliore amico, e le sue dita che gli sfioravano la nuca in una carezza leggerissima e impalpabile. Era tutto così semplice, prima, quando gli abbracci bastavano a fermare un litigio, i baci a riportare in pari tutto il resto del mondo.
Adesso non bastava. Perché non bastava?
Perché sentiva sempre come se gli mancasse un pezzo?
- Perché non me l’hai detto, Federico? Che avevi invitato il tuo coinquilino qui per qualche giorno. Non ci sarebbe stato nulla di male. Ti ho chiamato, e tu mi hai mentito. Non l’avevi mai fatto. –
Quasi mugolava, Manfredi, come un animale nel bel mezzo dell’agonia, che però continuava ancora a spingere e spingere aria nei polmoni, per prolungare la sofferenza.
Non ci sarebbe stato nulla di male. Ne era convinto anche lui.
Eppure chiudendo gli occhi ritrovava sulle labbra la morbidezza di quella di Dominik, lungo il collo il tocco leggero della sua mano. Gli pareva persino di sentire il suono morbido della sua voce e dei suoi sospiri delicati mentre lo baciava.
- Allora se io volessi darti un bacio potrei farlo? –
Un sorriso soffice, il petto di Manfredi che si alzava e abbassava allo stesso ritmo regolare del suo.
- Manfredi…è così ingombrante. E hai detto che non eravate amici come tutti gli altri, e io ho pensato…non lo so, quando è venuto a casa, e tu l’hai visto, ho pensato che si fosse portato via tutta la tua musica. -
Federico portò le mani sui fianchi di Manfredi, seguendone i profilo fino alla schiena, sopra al tessuto sottile della maglia. Conosceva ancora a memoria ogni singola linea dei suoi muscoli, ogni neo, persino il punto esatto di quella cicatrice che si era fatto una volta mentre giocavano a pallone ed era caduto su delle schegge, ferendosi la schiena.
E di quel corpo gli sarebbe rimasto solo il ricordo.
Probabilmente, dopo, Manfredi non avrebbe più voluto nemmeno abbracciarlo.
Perché non era una questione tra Dominik, lui e Manfredi.
Era solo una questione tra loro due. Manfredi e Federico.
Erano spezzati, adesso. E allo stesso tempo quella verità omessa ondeggiava sulle loro teste come una spada di Damocle pronta a distruggerli.
- Io e Dominik ci siamo baciati. –
La frase parve rimbombare come un eco nella stanza silenziosa.
All’inizio non cambiò niente, anzi, parve che Manfredi non lo avesse neppure sentito.
Lo teneva ancora stretto al petto, gli sfiorava la pelle, respirava.
Poi parlò.
- Quando? –
- Qualche giorno fa. –
Di nuovo silenzio.
Avrebbe preferito sentirlo urlare, forse. Urlare, strepitare, magari piangere. Si era preparato a tutto. Ma a quel silenzio non era preparato. A Manfredi che continuava ad abbracciarlo non era preparato. Forse non era preparato e basta, e si era illuso di esserlo.
Fu Federico a lasciarlo. Gli tolse le mani dai fianchi, si sottrasse alla sua presa.
Le braccia di Manfredi ricaddero sui fianchi, come in un corpo morto.
Con gli occhi, Manfredi lo seguiva.
Sembravano gli stessi occhi di sempre, le stesse labbra di sempre, lo stesso movimento di sempre, quello con cui si passò una mano sul viso per allontanare una ciocca di capelli.
Solo che gli mancava la leggerezza.
- Era lui quel ragazzo che ti piaceva? –
- Sì, era lui. –
- Capisco. –
Gli occhi verdi di Manfredi si abbassarono a seguire il profilo dei propri piedi.
Avrebbe voluto abbracciarlo, nonostante tutto, strappargli il cuore e dargliene uno nuovo, perché non soffrisse così. Avrebbe voluto che le cose fossero andate diversamente, che tutto fosse cambiato in un altro modo, e che loro due non fossero costretti a soffrire a quel modo.
Aveva creduto che Manfredi avrebbe urlato, forse pianto.
Invece era semplicemente svuotato.
Lo erano i suoi occhi, quando li sollevò per riportarli su di lui.
Lo era il suo sorriso tirato.
- E’ per questo che non mi vuoi. –
- Noi ci siamo lasciati da mesi, Manfredi. Non dare la colpa a Dominik adesso – lo rimproverò, stizzito, perché quel ragazzino non aveva nessuna colpa, non doveva essere sporcato da tutto quello che loro due si erano fatti negli ultimi sette anni.
- Se non ci fosse stato lui, tu saresti già tornato con me! – Manfredi affilò lo sguardo, adesso, e anche Federico alzò il capo.
- Per cosa, per essere trattato di nuovo come una merda? No, caro mio, non l’avrei fatto! –
- Non dire stronzate, lo sai meglio di me. Per sette anni quante volte hai provato a lasciarmi? E quante volte sei tornato? Tu hai paura di restare solo, Federico! E se non ci fosse stato quel ragazzino, e quei tuoi amici del cazzo a Milano, tu saresti già tornato con me!! –
Fu come essere colpito a raffica da decine di coltellate. Non si era ancora affievolito il dolore della prima, che già arrivava la seconda, e la terza, e il mondo intorno si offuscava.
Per sette anni quante volte hai provato a lasciarmi? E quante volte sei tornato?
Quella non era una semplice cattiveria.
Era la verità, quello che Manfredi, sotto sotto, aveva sempre pensato di lui. Che fosse debole, una marionetta da manovrare: e se non fosse stato così, in effetti, lo avrebbe spinto a dire la verità da un pezzo, per timore di perderlo.
Manfredi sapeva che non sarebbe mai stato lasciato sul serio.
Ma non aveva messo in conto il cambiamento cui era andata incontro la sua vita: ed era vero, in effetti. A Milano si sentiva come un pesce fuor d’acqua, e non appena Manfredi si era presentato da lui gli era cascato di nuovo tra le braccia. Se non fosse stato per Samuele, per Lorenzo, per i colleghi dell’università, per Dominik, forse avrebbe già lasciato il lavoro e sarebbe tornato a essere quello che era prima, con un ragazzo che amava ma che non avrebbe mai potuto neppure accarezzare in pubblico.
La mano di Manfredi gli finì sul braccio prima ancora che riuscisse a prendere aria e a ritornare in sé dopo quei colpi ben assestati.
C’era la paura, adesso, e il pentimento, in quegli occhi.
- Non volevo dire questo, Fede…solo…non voglio perderti così! –
Aveva quella straordinaria capacità, Manfredi, di passare dall’essere la persona migliore del mondo al diventare un mostro nel giro di cinque secondi, quando qualcuno lo irritava o lo braccava e lui prendeva a cercare tutti i modi possibili per far del male a quella minaccia.
I modi possibili, di solito, non erano altro che la verità.
E per quanto dicesse di non aver voluto dire quelle cose, in realtà erano cose che pensava.
Federico tirò il braccio indietro, sfuggendo a quella presa.
- Sì che volevi dirlo, invece. E’ quello che pensi, no? –
- Dico sempre stronzate quando sono nervoso, lo sai! E tu te ne stai andando, mi stai lasciando definitivamente, ti stai mettendo con un altro! –
- Io ti avevo già lasciato Manfredi!! Solo che per te sono un coglione, un idiota che sarebbe comunque tornato strisciando! Ecco quanto te ne fotteva di me! Ed è colpa mia, che ti ho sempre lasciato fare quello che volevi, anche quando sparivi per giorni, non mi facevi uno straccio di telefonata, o eri troppo impegnato a stare avvinghiato alle sottane di mamma per pensare anche solo al coglione che ti aspettava a casa sua!! – Urlava, e Manfredi induriva lo sguardo. Stava tornando quella cattiveria che un po’ gli apparteneva, quella che lui era sempre riuscito a domare ma che adesso voleva tirargli fuori per il gusto di trovare qualcosa cui aggrapparsi per fargli un po’ male.
- Non dire stronzate e non fare il ragazzino! Cosa volevi, che ti scrivessi dei messaggini romantici pieni di cuoricini e faccine, che ti ripetessi quanto ti amassi e che facessi il carino? Non siamo i protagonisti di Dawson’s creek Federico! –
- Vedi che non capisci mai un cazzo?! – gli urlò a un passo da viso, e lo spinse, schiacciandogli le mani sul petto e costringendolo ad arretrare contro al tavolo. E Manfredi, stupito, quasi non oppose resistenza, tanto che per un pelo non inciampò nei suoi stessi piedi, finendo per terra. – Io non valevo niente!! Me ne stavo lì, a casa, ad aspettarti, accontentandomi di qualche momento con te, di nascosto! E non meritavo uno straccio di telefonata?! Non dovevi dirmi chissà cosa, ma almeno chiedermi se fossi quantomeno ancora vivo!! E’ questo che fanno le persone che stanno insieme, sai? Si cercano, hanno voglia di consumarsi ogni singolo secondo! Io avevo bisogno di questo!! Che tu mostrassi di aver bisogno di me, in ogni singolo istante della tua vita! E invece no, dovevo esserci sempre io, io a pensare a tutto, io a chiederti di fare qualsiasi cosa, io a organizzare la mia vita per tutte le volte che tu non potevi proprio liberarti, che mammina voleva averti a cena!! –
Allora Manfredi lo colpì.
Un pugno dritto sul petto, prima di uno spintone, nello stesso istante in cui, alla parola mammina, Federico accompagnò una smorfia.
Stavano aspettando solo quello, forse.
Manfredi lo afferrò per il colletto della maglia, strattonandolo.
- Perché non hai mai detto niente, eh? Perché lo stai dicendo adesso? –
- Perché ti amavo! Avrei fatto qualsiasi cosa se tu me lo avessi chiesto, avrei sopportato tutto. E tu te ne sei sempre approfittato! –
- Io ti amo, Federico!! E se davvero avessi voluto fare qualsiasi cosa per me, mi avresti aspettato per tutta la vita! Invece te ne vai con un ragazzino che non sa nemmeno di avere un cazzo tra le gambe! Non gliene frega niente di te, lo vuoi capire?! A nessuno importerà mai di te quanto importa a me! –
- Ho visto quanto te ne importa! Sono sempre stato l’ultima ruota di questo carro pieno di merda che ti porti dietro! -
- Smettila!! –
Un altro spintone, ma Federico era preparato. Sfuggì al colpo, e gli mollò uno schiaffo sulla faccia, e un pugno, e un altro, alcuni a vuoto, senza badare neppure a dove colpiva. E non sentiva neppure il dolore, dove era Manfredi a colpirlo. Era avvelenato,  avvelenato di dolore.
Gli avrebbe strappato la pelle, se avesse potuto.
Si colpirono ancora, contro il tavolo, contro il divano, sul pavimento.
Poi ricaddero, stremati, sul pavimento freddo, con i visi arrossati e le mani tremanti, dei segni rossi sul collo, e sicuramente altri sotto i vestiti. Svuotati.
Federico si sentiva distrutto, dentro, come se quel poco che fosse rimasto di lui e Manfredi non fosse altro che un castello di lego che un adulto aveva buttato giù con un calcio. Però restavano ancora le fondamenta, quelle troppo basse per essere raggiunte e troppo stabili per crollare: erano le fondamenta che non sarebbero andate mai, via, che avrebbero potuto usare per costruire qualcosa di diverso, sulla stessa base.
- Noi due siamo sempre stati buoni ad essere amici. Andava tutto bene prima – gli mormorò, passandosi una mano sul viso, per controllare che l’amico non gli avesse spaccato il labbro.
E Manfredi mugolò, con il capo reclinato indietro, come se in quel gemito frustrato stesse nascondendo tutto quello che avrebbe voluto dirgli, tutta la sofferenza, tutto il dolore.
Federico invece voleva andarsene. Tornare a casa, affondare il viso nel collo fresco di Dominik, pensare di poter ricominciare.  Rivedere i vecchi giochi per il computer con cui da bambino aveva giocato per ore con Manfredi, riscoprire la tenda da campeggio in cui avevano dormito nelle notti di ferragosto,  o i vecchi quaderni di scuola. Quando erano ancora amici e tutto andava bene.
- Io ho davvero bisogno di te, Federico. L’ho sempre avuto, lo sai. Ma….sai come sono fatto, non sono tanto bravo a esternare quello che penso. E tu…tu mi capivi. Credevo che sapessi quello che provavo per te. –
- Sì che lo capivo. Ma non mi bastava, Manfredi. Bastava quando eravamo amici, lì bastava eccome. Ti avevo sotto la pelle, lo capisci? Ma dopo, quando l’amicizia è diventata amore, non è più bastato. –
Si alzò in piedi. La maglietta che indossava si era un po’ deformata su un lato, probabilmente quando Manfredi ci si era aggrappato per non perdere l’equilibrio dopo essere stato raggiunto da un pugno. Gli veniva da piangere, per il modo in cui si era ridotti.
Quando si mise in piedi, anche Manfredi, carponi, strisciò verso di lui, per tentare di riacquistare anche lui la stazione eretta.
- Non volevo farti del male, Federico. Io…ti amo. Non amerò mai più nessuno come ho amato te – gli mormorò, rimettendosi in piedi, mentre gli afferrava il braccio, ci si aggrappava, alla ricerca probabilmente  di un abbraccio. Perché era certo che lui non se ne sarebbe andato così, senza un saluto o un tocco leggero, prima di lasciarlo per i mesi a venire, o forse per sempre.
Ma Federico era stanco di essere quello che Manfredi si aspettava. Voleva essere ciò che si aspettava da se stesso, con le proprie decisioni, e la propria vita.
Non sarebbe stato l’uomo innamorato di Manfredi.
Sarebbe stato Federico e basta. Forse sarebbero ancora stati amici.
Sfuggì alla sua presa con uno strattone.
- La sai qual è la verità, Manfredi? Che mi hai ferito decine, migliaia e milioni di volte. E tutte le volte promettevi che non lo avresti mai più rifatto. Sei sempre stato un ottimo amico, sempre. Ma poi le cose sono cambiate. Non metto in dubbio il fatto che mi ami. Il punto è che tu sei egoista. Tu mi ami male. -
Era quella la logica conclusione, la logica fine.
Prese a camminare, uscendo dalla cucina, mentre Manfredi biascicava un no e tentava di afferrarlo, per bloccarlo. Ma i passi divennero più rapidi, il corridoio finì sulla porta d’ingresso, la mano abbassava la maniglia.
Lasciò che Manfredi lo seguisse quasi correndo, per bloccarlo, ma Federico aprì la porta con furia, imboccando le scale e scendendo i gradini di corsa.
Correva veloce, per essere più veloce dei passi di Manfredi per le scale, dietro di lui.
Per essere più veloce del dolore che si portava nel cuore spezzato.
Non gli avrebbe permesso di riacciuffarlo.
Si stava liberando.
 

§§§

 
Due caffè.
De Andrè diceva che solo a Napoli fosse inimitabile.
Ma Samuele, modestamente, credeva proprio di saperci fare. Anzi, senza modestia.
- Hai ancora intenzione di ignorarmi? –
- Direi di sì. Per i prossimi mille anni, magari – rispose a tono alla voce che gli aveva parlato, e dovette dare le spalle al suo proprietario, perché stava già sorridendo.
In fondo non era veramente arrabbiato.
- E dai, Samuele! – Lo colpì con una gomitata sul fianco, rischiando di fargli rovesciare tutte le cialde che avrebbe dovuto sistemare. Continuò bellamente a ignorarlo.
- Quando mi chiederai scusa, Simone, magari ci penserò. –
Lo sentì sbuffare. Simone era adorabile quando sbuffava: assumeva un cipiglio infantile e morbido, che quei tratti spigolosi, i capelli praticamente rasati e quella miriade di tatuaggi avrebbero reso impossibile da immaginare.
Però un po’ di filo da torcere se lo meritava.
- Io lascio il tuo numero di cellulare a un figo pazzesco, che magari ad averlo, e devo chiederti scusa?! – Era incredulo adesso, e trattenere le risate stava diventando impossibile. – E poi, scusa, come hai fatto a capire che gliel’ho dato io? –
Samuele fece spallucce.
-  Mi ha detto di averlo avuto da un uccellino. E qui dentro, notoriamente, quello con l’uccello piccolo sei tu! –
Moriva dalla voglia di fare quella battuta almeno da tre ore, e in risposta ricevette una stoccata sulle gambe con lo strofinaccio che Simone stava usando per ripulire il bancone.
- Ma quanto sei stronzo, oh! Ma dallo a me quel numero, che me lo faccio io quel gran figo! –
Samuele rispose con una risata, ma non fece altro.
Non gli avrebbe dato quel numero di telefono.
Mattia era più di quello. Era irritante, strafottente e terribilmente molesto, però doveva essere più di quello. Era un’oasi di leggerezza nel casino che era diventata la sua vita: non lo conosceva nemmeno, eppure pensare che esistesse, che magari sarebbe passato al locale a bere qualcosa e a dire cazzate, gli alleggeriva la giornata, perché gli impediva di pensare a quanto facesse schifo la vita che faceva. Riccardo non lo chiamava dal giorno prima, quando se ne era andato da casa sua.
All’sms di Mattia non aveva risposto.
Semplicemente perché non gli pareva il caso di prenderlo troppo sul serio: era stato solo un modo sfruttato da quel ragazzone per fargli capire di aver il suo numero di telefono.
E tra tutte le cose che aveva avuto per la testa, quella era stata proprio l’ultima a venirgli in mente.
- Ma guarda tu che ingrato, oh! Questo è l’ultimo favore che ti faccio! – borbottò ancora Simone.
Samuele poggiò le tue tazzine colme di caffè sul bancone, di fronte alle due persone che li avevano chiesti. E quando alzò il viso verso l’ingresso gli venne da sorridere.
- Toh, guarda. Parli del diavolo… -
Dalla porta, splendente nella sua camicia bianca, era appena entrato Mattia, con un sorriso che andava da un orecchio all’altro e gli occhi puntati su di lui. Sembrava un rappresentante porta a porta che vendeva scope elettriche alle vecchiette, a dire il vero: indossava quella camicia bianca che lo rendeva troppo bon ton, e Samuele avrebbe potuto giurare che sotto il cappotto, che teneva aperto, portasse addirittura la giacca.
Samuele lo vide avvicinarsi diretto, come se non avesse altro posto dove andare se non quel bancone. Aveva le guance arrossate, probabilmente per il freddo, e i capelli un po’ umidi, perché sicuramente non si era portato dietro l’ombrello, nonostante da quella mattina non avesse fatto altro che piovere.
Gli occhi di Mattia, quando si sedette su uno sgabello di fronte a lui, si adagiarono prima su Simone, in uno sguardo lascivo e morbido, infine su di lui.
- Buongiorno – salutò, con un occhiolino. – Lo fai un caffè anche a me? –
- Credevo venissi qui per il mio famosissimo prosecco – lo rimproverò, sorridendo. Mattia si strinse nelle spalle.
- Quella è la scusa ufficiale, in realtà vengo qui per guardarti il culo. E non posso andare a lavoro ubriaco – disse con noncuranza, prima di guardare l’orologio che portava al polso sinistro. – A proposito, se non mi sbrigo rischio di fare tardi, poi chi la sente quella scema di Carla che non riesce nemmeno a far partire il registratore di cassa! –
Samuele si allontanò da lui per avvicinarsi alla macchinetta e preparargli quel caffè.
Il locale era poco affollato, dato l’orario: erano da poco passate le quattro, e loro avevano appena aperto. Grazie al momentaneo silenzio, avrebbe potuto parlare con Mattia e farsi sentire anche da quella posizione un po’ più lontana. Mentre gli preparava il caffè, poi, Mattia si tolse il cappotto, rivelando, effettivamente, come sotto portasse giacca e camicia. Dalla tasca della giacca spuntava una cravatta con una fantasia a quadri sui toni dell’azzurro.
A scegliere le fantasie di cappelli e cravatte quel tipo era proprio negato.
Samuele sorrise appena, sistemando con uno scatto la cialda al suo posto.
- Perché sei vestito così? –
Mattia si guardò un attimo, facendo spallucce.
- Cos’ho che non va? –
- Hai una cravatta dal gusto discutibile in tasca – osservò Samuele, e Mattia sbuffò.
- Te l’ho già detto,  quanto a stile tu non hai diritto di parola, a meno che non decida di indossare una di quelle magliettine aderenti che metti sempre tu. E devo andare a lavoro. Sai, come proprietario del negozio devo fare la mia porca figura, modestamente – gli rispose, inclinando il capo da un lato. Poi, con noncuranza, poggiò i gomiti sul bancone. – E comunque, sto ancora aspettando una risposta a un sms. E’ da maleducati fare finta di nulla, non lo sai? –
Samuele continuò a dargli le spalle solo per qualche minuto, mentre trafficava con la macchinetta. E in effetti non aveva idea di cosa gli avrebbe detto: insomma, non credeva davvero che si aspettasse una risposta. Alla fine, con la tazzina piena e un sorriso sulla faccia, si voltò, per poggiarla di fronte a lui.
- E tu non lo sai che è maleducazione estorcere numeri di cellulare privati? –
- Non l’ho estorto. L’ho chiesto gentilmente – gli rispose quello, con un sorriso serafico e divertito. Samuele gli puntò contro un dito, come si faceva con i ragazzini disobbedienti.
- Utilizzare quei due fanali che hai al posto degli occhi per corrompere uno facilmente corruttibile come Simone è estorsione, Mattia. –
Lo vide sorridere, senza aver ancora neppure toccato il caffè.
Aveva gli occhi splendidi, adesso.
Visti da vicino, in effetti, gli occhi di Mattia non erano neppure propriamente azzurri.
Erano quasi trasparenti, come l’acqua. E allora prendevano i colori che avevano intorno, quando catturavano la luce, e diventavano di un azzurro più chiaro o più scuro, o tendente al verde, in base al momento della giornata, o ai toni della luce. E le pupille nere, in quegli occhi, risaltavano come capocchie di spillo.
In quel momento, mentre lo guardava, Mattia aveva le pupille dilatate e lo sguardo ammorbidito.
- Quando mi fai certi complimenti mi sciogli proprio il cuore, lo sai? – lo prese in giro, poi, finalmente mandò giù il caffè in un sorso, completamente amaro. – E tu, Samuele? Sei uno facilmente corruttibile? – gli chiese poi.
Samuele si strinse nelle spalle.
- Dipende da cosa mi viene offerto. Ma a meno che non si tratti di una valigia piena di soldi…no, non sono corruttibile. –
Mattia rise, una risata aperta e cristallina, stranamente pulita.
Non aveva mai visto qualcuno ridere così, come se non potesse esserci nulla al mondo in grado di sporcarlo.
- Quanto stacchi oggi? – gli chiese poi, prendendolo in contropiede.
- Alle otto. –
- Se mi aspetti qui, alle otto e venti ci andiamo a fare una birra da qualche parte. Senza offesa, ma questo locale mi metterebbe un po’ ansia  - gli confessò con una smorfia, alzandosi e lasciando le monete sul bancone, pronto a indossare di nuovo il cappotto.
Samuele gli rivolse uno sguardo stranito, poi si finse occupato a sciacquare le tazzine nel lavello subito sotto il bancone.
- Eh…magari facciamo un’altra volta, oggi non posso… - provò a dire.
Finse di non vedere la delusione dipingersi in quegli occhi chiari e puliti. Era impossibile sporcarli così. Ma subito, quella venne cancellata da un altro sorriso, e Mattia riprese la sua ironia di sempre.
- Avrei portato una valigia piena di soldi! Ma pazienza, se proprio non puoi… - tentò. Samuele sorrise.
- Davvero, non posso. Facciamo un’altra volta. –
- Come vuoi – gli rispose questa volta quello, salutandolo con un cenno del capo.
E Samuele si sentì un po’ uno schifo, perché l’unico impegno che aveva per quella sera era starsene sul divano, davanti al computer o a guardare la tv, e crogiolarsi un po’ nella sua solitudine.
Non gli sarebbe costato nulla dire di sì, prendersi una birra con Mattia e poi tornare a casa un po’ di buonumore, cenare e alla fine andare a letto.
Solo che non voleva coinvolgere Mattia nella sua vita. L’avrebbe sporcato.
Perché anche se faceva continuamente lo stronzo, anche se ispirava sesso ogni volta che anche solo respirava, Mattia sembrava pulito, quando sorrideva, molto più di lui.
E la verità, quella che gli stringeva le viscere in uno spasmo forte, era che si vergognava, un po’.
Si vergognava perché sarebbe finito a parlare di sé, della sua vita di merda, di Riccardo, e sarebbe apparso a quegli occhi azzurri come il verme che era.
E non voleva.
Non di fronte a uno come Mattia.
 

§§§

 
Ciò che lo aveva colpito, per primo, era stato il rumore.
E poi l’odore, quella puzza opprimente di alghe, di acqua stagnante, e di troppe persone.
Dominik si aggrappò al braccio di Federico. Quello, in risposta, sussultò.
- Cosa c’è? – gli chiese.
Dominik scosse il capo, allentando la presa.
- Niente – borbottò.
In realtà aveva caldo. Federico gli aveva fatto mettere il giubbotto pesante, ma faceva caldissimo.
Ed era stanco. Era stata una giornata lunghissima: si era svegliato presto, ed era rimasto a casa da solo per più di un’ora, mentre Federico andava a salutare Manfredi.
Ed era tornato strano. Manfredi si portava via un pezzetto di Federico tutte le volte, e non era giusto: avrebbe voluto afferrarli ad uno ad uno, riprenderli e ridarli tutti a Federico, riportargli un sorriso intero e non solo spezzato, con tutti i pezzi che si era preso Manfredi.
Solo che poi erano tornati in anticipo dal lavoro i genitori di Federico, e a lui era tornato un po’ il sorriso: Milena aveva fatto ridere un po’ tutti. Avevano finito di preparare le valigie, salutato tutti, si erano messi in macchina, e il sole era già calato da un pezzo quando si erano incolonnati al porto, per imbarcarsi nella nave che li avrebbe portati fino a Genova.
Dominik non era mai salito su una nave.
Le uniche notizie che avesse di quel mezzo di trasporto provenivano dalla tv, e Titanic finiva malissimo per prendere in considerazione anche solo l’idea di pensarci. Federico, però, stava zitto zitto in macchina, e a lui non rimase altro da fare che restarsene raggomitolato sul sedile anteriore, con il capo adagiato al poggiatesta, e ascoltare le canzoni che la radio mandava a rotazione continua, con Federico che cambiava stazione tutte le volte che qualcuno prendeva a chiacchierare troppo.
Poi, dopo quelle che gli erano parse ore, finalmente Federico aveva spento la macchina, e gli aveva detto di essere arrivati, e di scendere, che lui avrebbe preso le valige e avrebbero raggiunto la loro cabina. Quando Federico aveva parlato di “cabina”, Dominik si  era aspettato uno stanzino abbastanza grande, ma carino. Invece, la loro cabina non era altro che una stanza probabilmente rettangolare, con i letti ai due lati attaccati al muro, e una porticina sulla sinistra che portava a un bagno in cui si poteva entrare uno alla volta: persino l’armadio era scomodo, posizionato in modo tale che le ante potevano essere aperte solo se la porta d’ingresso della cabina era chiusa.
Federico gli aveva detto poi di fare attenzione, che sopra a ciascun letto ce ne stavano altri due, estraibili, e che se il mare fosse stato mosso avrebbero potuto ribaltarsi come gli era successo una volta quando era andato in gita. Le coperte dei letti erano ruvide, di lana, e pizzicavano terribilmente sotto le dita, ma quando Dominik ci infilò la mano, vide che le lenzuola, al contrario, fossero morbide e profumassero di detersivo.
Tutto sommato, però, gli piaceva quell’ambiente: era abbastanza piccolo da costringere lui e Federico a starsene vicinissimi sempre. C’era qualcosa di diverso anche nel modo in cui lo sentiva respirare, pesante, come se avesse un peso sul petto a impedirgli di alzarlo e abbassarlo a ritmo, come faceva di solito.
Mentre si sistemavano in cabina, però, Federico sembrava essersi alleggerito un po’.
Per questo, forse, non gli chiese nulla fino a quando non lo sentì intimargli di prendere il giubbotto pesante che si era portato da Praga e seguirlo. Lo aveva portato in un’altra stanza affollata, dopo una serie di corridoi nei quali, tra destra e sinistra, aveva perso l’orientamento, con quel chiacchiericcio e le voci concitate dei bambini che correvano. In quella stanza avevano cenato: era un self service, e Federico aveva preso per lui carne e patatine, che sapeva quanto gli piacevano.
E poi, neppure il tempo di buttar giù un ultimo sorso d’acqua, lo aveva trascinato ancora per i corridoi, questa volta prendendogli la mano, nascosta dalla manica lunga del giubbotto. le dita di Federico, intorno alle sue, erano caldissime.
E anche se continuava a essere silenzioso allo stesso modo, adesso Dominik lo percepiva come un silenzio tranquillo, carico di una certa attesa. Un silenzio che cozzava contro il chiasso che avevano intorno.
Nei pensieri, Federico prese forma nella mano che gli aveva poggiato alla base della schiena, per spingerlo avanti a superare un gruppetto di donne che chiacchieravano.
Attraverso lo spessore del giubbotto non la sentiva nemmeno, e aveva così caldo che si sarebbe spogliato in un attimo. Sentiva anche il viso sudato.
Federico gli avvicinò le labbra all’orecchio.
- Senti caldo? – Annuì, e sentì Federico soffiare un sorriso. – Stiamo arrivando, dai, un po’ di pazienza. –
- Ma dove? –
- Niente domande! – gli intimò, e lo prese di nuovo per la mano, trascinandolo in quel labirinto di corridoi senza uscita, nei quali anche Federico non doveva orientarsi tanto bene, dato che rallentava spesso, e a volte anche si fermava.
Però lo sentiva fremere, carico di attesa, mentre lo guidava e gli stringeva le dita intorno alle sue, intorno alla mano, in un abbraccio caldissimo.
Federico era sempre caldo.
Forse aveva qualcosa che non andava con la termoregolazione, ma era sempre caldissimo.
All’inizio si era convinto che fosse lui a sentirlo così: i tasti del pianoforte, su cui passava sempre le dita, erano freddi, inerti, e anche quando ci teneva tanto tempo le mani sopra, erano comunque materia che riusciva appena a intiepidirsi. Invece le mani di Federico erano vive, e calde, e pensò che se ci fosse stato qualcuno ad inventare i colori, il rosso sarebbe stato il colore della mani di Federico. Tutto il rosso sarebbe stato Federico, perché lui era vivo tutto.
Era vivo anche quando dormiva e si agitava un po’, quando sorrideva e rideva, quando si arrabbiava perché si portava così tanta vita, dentro, che l’idea che lui adorasse invece starsene seduto fermo dietro a un pianoforte doveva sembrargli inconcepibile.
La mamma lo diceva sempre che gli opposti fossero in grado di attrarsi, ma lui e Federico erano così diversi da essersi quasi incatenati. E avrebbe voluto baciarlo, in quel momento, perché Federico non gli dava un bacio da quella mattina.
C’era stata sempre troppa gente intorno, la sua famiglia, e poi le persone, e non aveva potuto.
Che poi, era una scemenza. Cosa ci sarebbe mai stato di male se si fossero dati solo un bacio?
La gente si baciava di continuo.
Ma Federico gli aveva chiesto quel piccolo favore, non gliel’avrebbe negato.
Solo che adesso avrebbe voluto restarsene un po’ in quella cabina e strappargli solo un bacio.
Federico gli faceva uno strano effetto quando lo baciava, come se qualcosa dentro al petto iniziasse a muoversi e a diventare sempre più grande, spazzando via tutto il resto intorno, fino a quando rischiava di soffocarlo. Allora, quando succedeva, Dominik si staccava e inspirava un fiotto d’aria fresca, e ci voleva qualche minuto prima che quell’onda ritornasse quieta nel petto, come il mare dopo una tempesta.
- Siamo arrivati! –
 - Dove? – sussurrò, ma prima che potesse anche solo finire di pronunciare la parola, una sferzata di vento fresco lo raggiunse sul viso, e Dominik inspirò, liberandosi finalmente da quella cappa di caldo che lo aveva avvolto.
C’era vento, moltissimo. Ed era anche freddo.
C’era silenzio, finalmente. E il respiro di Federico. Il sorriso di Federico.
- Siamo sul ponte! Aggrappati qui. –
Federico gli guidò le mani verso una barra orizzontale, cilindrica e liscia. Seguendone il profilo, e muovendo le mani anche al di sotto, Dominik scoprì una ringhiera, e le mani si strinsero ulteriormente sulla barra. Il vento era diventato forte, gli sferzava il viso e si sentiva infreddolito adesso, tranne che nel petto, dove il giubbotto pesante lo proteggeva.
- Siamo fuori? –
- Sì. E’ un po’ inquietante, in nemmeno due ore ci siamo allontanati parecchio dalla costa, è tutto buio. Sotto di noi c’è il mare, e visto di notte a me mette ansia! –
Dominik rise del tono di voce un po’ preoccupato di Federico, ma il sorriso si tramutò in una smorfia quando il vento finì per spettinargli tutti i capelli e mandarglieli contro la faccia, sugli occhi, pizzicandogli le guance. Sbuffò, e sentì Federico ridere.
Era così leggero, adesso, da non sembrare più il ragazzo che era tornato a casa prima di pranzo.
E lui, nonostante morisse dalla curiosità, non gli avrebbe chiesto nulla, perché chiedergli di Manfredi avrebbe spento quella luce, e la luce invece doveva restare lì, sul ponte di quella nave, nel buio e sotto al vento.
Dominik inspirò l’aria fresca, quasi fastidiosa.
Era così diverso quell’ambiente da quello che aveva sentito al suo arrivo, quando intorno alla nave c’era puzza di alghe, e le persone tutte accalcate rendevano l’aria praticamente irrespirabile.
Adesso, su quel ponte, era tutto così tranquillo, silenzioso e pulito da farlo sembrare in un altro mondo.
- Federico? – lo chiamò, voltandosi nella direzione dalla quale l’ultima volta era giunta la sua voce.
- Ti piace? –
- Sì. E’ più bello che stare in cabina, o nei corridoi. Però fa un po’ freddo. –
- E’ il vento, e diventerà ancora più forte tra qualche ora, quando la nave andrà ancora più veloce. –
- Io non ho fretta di arrivare – gli rispose, inclinando il capo da un lato per contrastare il vento che gli spingeva i capelli contro al viso. – Se la nave è così bella, resterei qui anche tutta la notte. Anche se fa freddo. –
- Vuoi che ti riscaldo? –
Il corpo di Federico gli si chiuse a cucchiaio intorno, poggiando le mani sopra le sue, adagiate sulla sbarra. Era strano, trovarlo in quel modo: erano alti quasi uguale, e Federico non era poi molto più in carne rispetto a lui. Così, riusciva appena a poggiargli la fronte sulla spalla, vincendo la resistenza dei loro giubbotti pesanti. Ma ugualmente, Dominik si sentiva un po’ scaldare dal contatto con le sue mani.
- Se ci vedesse qualcuno? – gli chiese però. Federico mosse la fronte sul suo corpo.
- Non c’è nessuno in questa parte, c’è troppo vento e troppo freddo. Sono tutti a poppa o a prua – gli spiegò. Poi lo sentì sorridere, in modo meno allegro del solito. – E poi, sinceramente, me ne fotto – lo sentì sibilare.
Allora Dominik reclinò il capo indietro, appoggiandolo una spalla di Federico, e gli vennero in mente tutte le volte in cui si era sistemato così sul suo letto con la mamma.
Erano sensazioni completamente diverse, evocate dalla stessa posizione, quasi un po’ infantile, morbida.
E poi, sinceramente, me ne fotto.
Alla fine, vuoi per l’accento strano di Federico quando aveva arrotondato la parola “fotto”, vuoi per la leggerezza che sentiva all’idea di tornare finalmente nel suo nido a Milano, vuoi semplicemente la presenza di Federico alle sue spalle, a Dominik venne da ridere.
Ma non un sorriso, o una semplice risatina.
Gli venne da ridere di cuore, leggero, con i colori che gli si agitavano nella mente più veloce di quanto avrebbe mai potuto fare il vento, e con l’inspiegabile incapacità di smettere.
E rise, rise forte, contro il vento, con il capo reclinato indietro e il corpo di Federico che aderiva al suo. E il vento, le mani di Federico, il suo “ma che hai?”, persino i capelli che gli finivano sul viso e quel vento irritante, tutto si colorava di rosso acceso e prendeva a splendere, concentrandosi nelle sue mani che avevano artigliato quelle di Federico.
Allora si voltò, quasi di scatto, e gli si aggrappò alle spalle, e lo baciò, assaporando di nuovo quelle labbra, incurante che passasse qualcuno, e a chi importava!
Federico gli prese il viso tra le mani, parlandogli a un soffio dalle labbra.
- Non so cos’hai, ma mi piace – gli disse solo.
Non lo sapeva nemmeno lui cos’ aveva.
Forse era solo l’idea di lasciare Palermo, di tornare a essere se stesso, con la sua musica, la maestra, il Conservatorio, la pioggia di Milano, la poltrona in salotto.
Forse Federico lo aveva davvero condizionato troppo.
Forse un po’ era cambiato, come cambiavano tutti a diciotto anni.
O, molto probabilmente, era stato il bicchiere di birra che Federico gli aveva fatto bere con le patatine.
- Avevo bisogno di un bacio. E se tu non lo vuoi…beh, sinceramente me ne fotto. -












Nota al capitolo 28:  Vado di frettissima ma ci tenevo ad aggiornare, come promesso, e finalmente ce l'ho fatta!
La prima parte del capitolo mi ha dato del filo da torcere, ma finalmente è più vicina a quella che mi immaginavo quando l'ho pensata.
Non mi dilungo troppo perchè sono stanchissima, ma comunque la prima parte di capitolo è quella importante, le altre due sono diciamo di "contorno", leggere, con Mattia e Samuele, e poi Dominik e Federico.
Su loro due e la nave ci sarà molto più spazio nel prossimo capitolo!
Manfredi, invece, tocca il fondo in questo capitolo.
Adesso scappo, vi mando un bacio e buon 1 Maggio a tutti! Godetevelo! :D
Esse

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Capitolo 32
*** 29th: Ritorno a casa ***




Quando pensi di avere tutte le risposte, la vita ti cambia tutte le domande.
Anonimo (attribuita a Charlie Brown e altri)


 

Chapter 29th:  Ritorno a casa

Dominik affondò il viso contro il cuscino, inspirando l’aroma fresco delle lenzuola pulite.

- Mh – mugolò, tenendo gli occhi ancora saldamente chiusi.
Se anche li avesse aperti non avrebbe visto comunque altro che buio.
E poi bastava il profumo di Federico, e l’andamento regolare del suo respiro.
Anche se era stato lui a muoversi su quel letto strettissimo, come aveva fatto per tutta la notte, e a mugolare il suo nome con la voce impastata che aveva quando si era appena svegliato.
Poi la sua mano gli sfiorò lievemente la spalla, sopra al tessuto del pigiama.
Un tocco leggero, rovente ma delicato, quasi casuale.
L’avrebbe seguito con tutto il corpo.
Solo che aveva troppo sonno e un mal di testa che lo distruggeva. Di solito il mal di testa gli veniva sempre la sera, quando la testa si affollava di pensieri tanto che credeva di non avere abbastanza spazio per contenerli tutti. Allora bastava andare a letto, smettere di pensare, di immaginare, per un po’, e tutto tornava normale.
Quello era un mal di testa diverso. Era come un cerchio intorno agli occhi.
Doveva essere stata quella maledettissima birra.
Dominik mosse i piedi nudi sul materasso, accarezzando le lenzuola. Erano così fresche che il contatto con il corpo bollente di Federico pareva quasi doloroso: e la sua mano, sulla spalla, prendeva ad accarezzarlo piano, scendendo lungo il braccio, fino a poggiarglisi su un fianco, con tutto il palmo, quasi pesante.
- Dominik - lo chiamò di nuovo in un soffio. – Sei sveglio? –
- Mi hai svegliato tu – gli rispose, affondando ulteriormente il viso sul cuscino.
Adesso che iniziava a svegliarsi del tutto, le sensazioni tornavano a emergere meglio.
Sentiva il calore del pigiama sulla pelle, il profumo delle lenzuola, quello della pelle di Federico dopo una notte di sonno, il rumore che proveniva dai corridoi, un misto del chiacchiericcio allegro della gente e dei suoni dei motori e del mare. E poi c’erano il respiro di Federico, le dita un po’ intorpidite, il velo di sudore fastidioso sulla schiena.
Federico si mosse di nuovo, e questa volta si sistemò a pancia in su, rischiando di far rotolare lui giù dal letto, tanto che dovette aggrapparglisi al petto, facendo scivolare le gambe verso di lui fino a incontrare le sue, all’altezza delle cosce. Allora lo sentì mugolare piano, in un soffio, e poi espirare.
- Scusa. E’ che mi ha chiamato Samuele e mi sono svegliato. Non l’hai sentito il telefono? –
Aveva così sonno che non avrebbe sentito proprio nulla. Però non gli rispose, limitandosi ad adagiare la testa sul cuscino alla ricerca di una posizione più comoda.
- E cosa voleva? –
- Niente di che, voleva solo sapere se ci servisse un passaggio fino a casa o qualcosa, ma gli ho detto che non serve. – Federico mugolò di nuovo, stiracchiandosi e stendendo le braccia in alto, fuori dal giaciglio caldo delle coperte. Poi, quando lasciò che ricadessero, il braccio sinistro si poggiò sulla sua spalla, avvolgendolo e lasciando così che, quando il ragazzo si volto su un fianco, si trovassero abbastanza vicini da potergli sfiorare il viso con la punta del naso.
Lo sentì sorridere morbido, ancora assonnato.
Era sempre dolce quando si svegliava, Federico, come se tutti pesi e i pensieri non fossero in grado di attraversare la barriera delle coperte e tornare a soffocarlo.
Di Manfredi, poi, non aveva osato chiedergli nulla. Di certo, non si erano sentiti neppure al telefono. Era così che finivano i rapporti troppo stretti?
Quando ci pensava, sentiva una leggera inquietudine al petto al pensiero che anche lui e Federico sarebbero potuti finire così, incatenati tanto da non riuscire a sciogliersi.
A lui i rapporti come quello facevano paura. Lo soffocavano.
Era come se potessero mettergli un cappio al collo e spingere in alto, fino a sottrargli completamente l’aria dai polmoni, e la vita. Eppure Federico era anche qualcosa di leggero.
Sentì la sua mano, a sorpresa, sulla guancia, ad esercitare una lieve pressione per spingerlo ad alzare il viso. Poi, in un soffio delicato, ne incontrò le labbra umide.
Anche i baci di Federico erano leggeri.
Ma non poteva fare a meno di chiedersi se sarebbero stati sempre così, se non avessero finito per farsi del male, un giorno, come gli era successo con Manfredi. Perché Federico era buono, e non voleva fargli del male. Era buono, ma si attaccava molto alle persone: era successo con Manfredi, stava succedendo con Samuele, e con lui.
Federico era il maggior rappresentante di quelli che Aristotele aveva definito animali sociali.
Era il suo esatto opposto.
Lui sarebbe riuscito a vivere da solo anche per anni interi, senza curarsi di nessuno.
Lo aveva fatto, prima che arrivasse lui.
Adesso invece tutto prendeva una piega diversa, nel modo tenero in cui Federico gli accarezzava il viso, nelle parole scherzose di Samuele, persino nel modo in cui Sonia, una sua compagna al Conservatorio, cercava sempre di attaccare bottone parlando del suo flauto traverso.
- Dom – lo chiamò di nuovo Federico, con le labbra ancora attaccate alle sue, ma non in un bacio, quanto piuttosto in una carezza leggera che lo sfiorava tutte le volte che parlava. Quella che lo accarezzava davvero era la sua mano, poggiata alla base della schiena, che da sopra il pigiama lo sfiorava.
- Mh? – gli rispose in un soffio.
Non voleva dire altro, e non poteva. Si stava concentrando sulla mano di Federico che si fermava sulla schiena, poi si muoveva, poi si fermava di nuovo, come fosse incerta: allora saliva un po’ lungo la spina dorsale, e si abbassava di nuovo fino al bordo dei pantaloni, e in avanti sui fianchi.
Poi Federico soffiò tra le labbra, un sospiro delicato, e lo baciò di nuovo.
Era una sensazione sempre così strana averlo tanto vicino e sentire le sue mani addosso.
Anche adesso, che lo baciava piano, e aveva il suo corpo contro il proprio, era strano.
Gli poggiò la mano sulla spalla, incontrando la pelle calda sotto i polpastrelli.
Gli girava quasi la testa, e forse dovette stringere un po’ troppo forte, perché Federico lo lasciò andare, allontanandolo appena.
- Cosa c’è? –
- Mi fa male la testa – biascicò, passandosi la mano poi sul viso, a stropicciare gli occhi.
Federico, allora, semplicemente rise. Una risata breve ma cristallina e viva.
- Un bicchiere di birra ti fa quest’effetto? – lo prese in giro.
Dominik  gli rispose con una smorfia, e si rigirò tra le coperte, voltandosi sull’altro fianco e dandogli le spalle: affondò il viso sull’angolo di cuscino freddo, trovando un po’ di refrigerio.
Fu proprio quando stese le gambe per stiracchiarle che il corpo di Federico gli si chiuse intorno, come la sera prima sul ponte, e la sua mano gli si poggiò sulla pancia, facendolo sussultare.
- E dai, ti sei offeso? – gli mormorò, carezzevole, mentre il soffio del suo respiro gli solleticava l’orecchio. Gli faceva sempre uno strano effetto, quello. E al mattino Federico era più morbido del solito, come privo di ogni blocco, e gli si avvicinava, plasmandoglisi intorno come cera. Dominik si strinse più su se stesso, come a proteggersi.
- No. –
- Dominik… -
Aveva la voce stranamente dolce, e il tocco sulla pancia divenne più forte, come se la pelle stessa fosse diventata più sensibile, e nonostante i muscoli contratti non riuscisse a tirarsi abbastanza indietro.
- Non mi sono offeso – sussurrò tra le labbra, tornando a voltarsi verso di lui per sfuggire a quel contatto che lo metteva improvvisamente a disagio. E quando la mano di Federico, nel momento in cui lui si voltò sulla schiena, rimase adagiata sul suo addome, Dominik la prese con finta noncuranza, poggiandosela sul viso, come in un gesto semplice, che spinse Federico ad avvicinare il viso al suo e sfiorargli il collo con la punta del naso.
Sentiva il cuore battergli nel petto con forza, come se volesse liberarsi di lui e trovarsi un altro corpo da alimentare. Magari uno più caldo, che non reagisse così quando qualcosa di diverso da sua madre o da un pianoforte lo toccava.
Scivolò via dal letto così velocemente che gli parve di non averci mai dormito.
- Devo andare in bagno. –
Al buio. A tentoni. Era sempre buio.
E il profumo di Federico, misto al suo, riempiva quell’ambiente stretto, e rendeva l’aria quasi soffocante. Forse l’aria, sul ponte, doveva essere fresca.
Magari gli avrebbe fatto passare il mal di testa, e anche quella sensazione opprimente allo stomaco.
 

§§§

 
Fuori l’aria era davvero più fresca.
C’era il sole, ma la temperatura non era alta e soffocante come gli ultimi giorni a Palermo.
E più si allontanavano da Palermo, più Dominik si sentiva bene.
Era da egoisti pensare cose del genere, ma per quanto Palermo fosse bella, non faceva decisamente per lui. C’erano troppe persone, troppo sole, troppo chiasso, e troppo poco spazio per la musica. E la musica era fondamentale.
Adesso, sul ponte, accarezzato dal vento e circondato dal chiacchiericcio allegro della gente, ci sarebbe stato benissimo Bach. Le note morbide sarebbero state accarezzate dal vento, e avrebbero accarezzato anche lui.
Era sempre bastato solo quello.
La dolcezza della musica, la completezza di una sinfonia, la soddisfazione di aver costruito qualcosa, di averlo visto, la sensazione di non sentirsi più inferiori quando qualcuno gli passava accanto e si trovava a pensare che, nonostante tutto, quella persona avrebbe visto cose che a lui sarebbero state negate per sempre. Non gli era mai importato altro che quello.
E adesso, invece, si trovava a chiedersi se Bach, oltre che con quel vento e quell’odore di mare, sarebbe stato bene anche addosso a Federico, al suo corpo che aveva accanto, appoggiato alla ringhiera, e che gli parlava di quella volta che in gita aveva preso la nave per arrivare a Civitavecchia e si era perso per i corridoi con Manfredi e un certo Giulio di cui non aveva mai sentito parlare.
Federico era diverso dalla musica, in tantissime cose, solo che non ci aveva mai fatto attenzione davvero. Quella mattina però aveva messo in risalto la differenza fondamentale: dove la musica accarezzava, blandiva, morbida come un soffio sulla pelle, senza mai prendersi davvero niente, Federico era fatto tutto di una fisicità che gli faceva paura. C’era nel modo in cui gli poggiava una mano sul braccio quando doveva dirgli qualcosa, nel modo in cui gli accarezzava i capelli dopo una battuta divertente, nel modo in cui lo baciava e gli poggiava la mano sul viso.
Gli era sempre piaciuto ricevere una piccola attenzione così.
Solo che poi Federico lo aveva toccato.
Sul serio, questa volta. A letto, sulla pancia.
Era stato un tocco casuale, non doveva nemmeno averci fatto caso: ma lui sì. Aveva sentito il peso e il calore di quella mano sull’addome, vicino all’ombelico, e ne aveva percepito i contorni anche attraverso il tessuto del pigiama.
Allora il cuore era diventato enorme dentro al petto, tanto da salirgli fino alla gola e rischiare di soffocarlo, e la testa aveva preso a girare, e il mondo aveva perso i contorni.
Gli faceva paura anche quello. Era come se fosse troppo per una sola persona, per uno come lui.
- Mi stai ascoltando? – La voce di Federico tornò chiara nella mente insieme al contatto casuale con il suo braccio, mentre probabilmente gesticolava per rendere meglio un concetto. E Dominik sollevò appena il capo verso la fonte della voce, ruotandolo da un lato per evitare che il vento gli spingesse i capelli sulla faccia. – A che pensi? – gli chiese ancora.
Pensava a che effetto gli facesse essere toccato, alla musica che si confondeva in testa, a Milano e al Conservatorio, a come sarebbe stato trovarsi di nuovo a casa da soli, a cosa ne sarebbe stato di loro e se Federico si fosse accorto dell’effetto che gli faceva.
Invece si strinse nelle spalle.
- A Bach – rispose.
Federico sospirò. Non sembrava arrabbiato. Forse si era un po’ abituato a come tutto al mondo si riducesse solo a quello, alla musica.
- Non mi hai ancora detto se ti è piaciuta Palermo – tirò poi fuori, per iniziare da capo una conversazione che magari non finisse su Chopin o sul pianoforte.
- Sì, è stato bello, anche se fa caldo e c’è sempre chiasso. Però preferisco Milano – aggiunse subito dopo, e Federico rise, muovendosi accanto a lui. C’era di nuovo, con quella fisicità, mentre con un dito gli sfiorava il dorso della mano stretta alla ringhiera del ponte. E, contrariamente a quanto si aspettasse, sospirò.
- Anche io, sai? Ho iniziato a preferire Milano alla città in cui sono cresciuto. –
- E’ perché Milano è una città più grande e ci sono molte cose che non hai mai visto – provò a dirgli, ma Federico non sembrava convinto.
- No. Credo che sia più proprio perché ci sono cresciuto – gli rispose invece, con una punta di amarezza nella voce, e si mosse di nuovo, avvicinandoglisi un po’. Quando si avvicinava così, Dominik aveva sempre pensato che ne avrebbe percepito bene il profumo, e il calore: invece no. Non succedeva nulla di tutto quello. Semplicemente, avvertiva la presenza di Federico più vicina non con il corpo, ma prima con qualcos’altro, perché c’era qualcosa che gli agitava nella pancia, e la pelle prendeva a pizzicare, proprio nel punto in cui, a pochi centimetri, doveva esserci quella di Federico. Come i poli opposti di una calamita che si attraevano. – Ci sono così tante cose che non mi piacciono di me, Dom, che tu non ne hai idea. Ed è come se le avessi lasciate tutte a Palermo, e a Milano mi fossi portato via poche cose, ma buone. –
Dominik strinse le mani intorno alla ringhiera. Ce le aveva strette anche Federico appena la sera prima, sopra le sue. E adesso si trovava lì a parlare come se non ci fosse un domani.
Era impossibile immaginare che Federico avesse dentro di sé qualcosa di brutto, che non gli piacesse. Credeva di conoscere molto di lui, e non c’era stata una sola cosa che non gli fosse piaciuta: forse era un po’ troppo impulsivo, ma era buono, sempre.
- Non puoi avere qualcosa che non va, Federico. Non ci credo – gli rispose sicuro. Quello rise.
- Hai un’alta opinione di me, eh? –
- Non c’entra. E’ che tu sei buono, ti affezioni subito alle persone, e non faresti mai del male intenzionalmente a qualcuno. Non ci credo che c’è qualcosa di te che non ti piace. A me piace tutto. –
Federico si distese lievemente, nel corpo, e nel respiro.
Avrebbe voluto poggiargli una mano sul viso, adesso, per vedere che espressione avesse. Se ci avesse creduto, o se avesse tirato fuori una di quelle solite smorfie di diffidenza che faceva e che lui riusciva sempre a intercettare con le mani. Quella volta però preferì lasciarlo stare, tenersi quel dubbio per un po’, e lasciarsi cullare dal suono della sua voce che si perdeva nel vento.
Solo che Federico adesso era tutto silenzio, concentrato su chissà cosa, e Dominik lasciò che naufragasse così, mentre alle orecchie gli giungevano il rumore del mare, il vociare di una donna che rimproverava sua figlia, le chiacchiere di due o tre uomini sul campionato di calcio, quelle di un ragazzo e una ragazza su quello che avevano fatto durante le vacanze di Natale.
Era tutto così normale.
Il mondo intero era immerso nella normalità. E allora si chiedeva come fosse possibile tirare fuori la musica sublime da qualcosa di tanto normale, come avessero fatto Bach, e Mozart e Chopin. Forse era la musica che si creava da sola.
O forse, più che dipingere il mondo, come faceva lui con i suoi colori, Chopin e Bach avevano rappresentato le persone: le sensazioni, il modo di vivere, i tocchi delicati.
- Penso che vivere un po’ farebbe bene alla tua musica, tutto qui. Non puoi sempre startene chiuso a suonare le cose che trovi solo nella tua testa…devi raggiungere la gente! -
Quando Federico gli aveva detto quelle cose, lo aveva aggredito subito, perché lui non suonava per raggiungere la gente, ma per se stesso, e per toccare il punto più alto della musica. Per far quello serviva concentrazione, e studio, e non farsi distrarre da nessuno.
Il punto, però, era che adesso iniziava ad avvertire quel disagio sotto la pelle, come se alla musica non bastasse più tutto quel mondo che le aveva costruito intorno, e cercasse di prendere di più, di attaccarsi al respiro di Federico, alla risata di Milena, alle parole di Samuele, persino alla rabbia di Manfredi.
Gli stava chiedendo di più. Gli stava chiedendo sensazioni, sentimenti, e non più solo oggetti e costruzioni. E lui moriva dalla voglia di dargliele, di trovarsi a Milano, con le mani adagiate sui tasti del pianoforte, e dare a Chopin quello che chiedeva, alle note quello che si aspettavano da lui.
Poi l’avrebbe fatta sentire a Federico, e lui avrebbe capito che c’era qualcosa di diverso, avrebbe sentito. Ci avrebbe visto dentro anche un po’ di se stesso e di quella morbidezza che aveva al mattino. Anche della tristezza, ogni tanto, e della rabbia.
Staccò la mano dalla ringhiera, spostandola di lato, alla ricerca del braccio di Federico. Lo incontrò più vicino di quanto si aspettasse, e ci chiuse la mano intorno: non riusciva a circondargli tutto il braccio, perché il giubbotto era troppo ingombrante.
- Che c’è? – gli chiese lui. Dominik allentò un po’ la presa, ma non lo lasciò andare.
- Niente. Volevo solo sentire che c’eri. –
Il corpo di Federico si distese, morbido e malleabile come cera, e avrebbe voluto poggiargli entrambe le mani sul viso e sentirlo respirare a un passo dalle labbra. Quando gli stava così vicino, Federico respirava in modo diverso dal solito, come se fosse più caldo, e gli mancasse un po’ l’aria.
- Se non fossimo davanti a tutta questa gente ti bacerei, lo sai? – gli mormorò, a voce così bassa da rendere difficile persino distinguere le parole, con tutto quel vento.
Avrebbe voluto che lo facesse.
I baci andavano bene, riusciva a gestire il cuore che batteva.
E avrebbe voluto che lo baciasse di nuovo in mezzo a tutto quel vento, come era successo la sera prima, quando lui l’aveva baciato e Federico non si era tirato indietro, e il vento lo aveva accarezzato insieme alle mani di Federico, che doveva essere bellissimo in mezzo a tutto quel buio.
Ma Federico non poteva baciarlo.
Perchè era giorno, e c’era tanta gente. E quelli come loro non potevano baciarsi alla luce del sole.
La mano scivolò via dal braccio di Federico, ricadendo con il braccio lungo un fianco.
- Federico? –
- Mh? –
- Perché è una cosa brutta? – gli chiese allora, a bruciapelo. Voleva farlo da giorni, ma non aveva mai trovato il coraggio, perché aveva creduto che forse, da solo, avrebbe capito. Ma adesso l’istinto di baciarlo, almeno di toccarlo, era tale che l’idea di non sapere perché non potesse farlo era insopportabile.
 - …diciamo che non tutte le persone sono limpide come te o hanno il tuo modo di pensare. Alcune persone pensano male di quelli come me. –
- Perché non posso toccarti davanti alla gente? Le altre persone lo fanno. Si baciano. Cosa c’è di sbagliato? Hai detto che non tutti hanno il mio modo di pensare, ma questo non è un modo di pensare. Perché gli altri possono e io no? –
Forse, se avesse toccato Federico adesso, avrebbe trovato il suo viso teso, e non morbido come al solito. Forse lo avrebbe sentito mordersi il labbro con i denti, o fare una smorfia, o aggrottare la fronte.
Di sicuro avrebbe avvertito il sospiro che cacciò fuori dalle labbra, e la sua mano che gli finiva tra i capelli, come faceva sempre quando era nervoso.
- Non lo so, Dom – gli rispose semplicemente.
E quello era impossibile. Federico sapeva tutto, aveva una risposta a tutte le domande.
Adesso, invece, se ne stava in silenzio, e aveva parlato con la voce bassa, triste.
- Vorrei tanto saperlo anche io, ma è così. Gli altri, i ragazzi e le ragazze, possono fare qualsiasi cosa in pubblico, persino spogliarsi, perché tanto è “normale, si fanno prendere dalla passione”. Io invece non posso nemmeno tenerti la mano, perché a certa gente darebbe fastidio – continuò, un po’ acido. Dominik si strinse nelle spalle.
- Non è giusto – biascicò.
- Lo so. Però non credere che siano tutti così, perché non è vero. Ci sono delle persone diverse, che capiscono quanto, in fondo, io e te non siamo diversi dal resto del mondo, e non facciamo niente di male. Però ci sono anche gli altri, Dom, e lo so che non è giusto. –
Non riusciva a capire. Per quanto si sforzasse, quel pensiero non riusciva ad entrargli in testa.
Perché non aveva una spiegazione logica, una su cui riflettere come aveva fatto certe volte di fronte ad alcune risposte di Federico alle sue domande. Questa volta non c’erano spiegazioni.
Espirò, frustrato.
- Ma non capisco, perché? Non facciamo niente di male a loro. Non voglio obbligarli a baciare dei maschi. Quando loro baciano delle ragazze, a me non interessa. Perché a loro deve interessare chi bacio io? –
Federico, stranamente, sorrise.
- Perché hai ragione tu. Sono stupidi – gli rispose semplicemente, e questa volta non aveva sconti o parole buone per nessuno, Federico.
Stava per rispondergli, per controbattere, ma la mano di Federico si poggiò sulla sua, stringendola in un tocco caldissimo.
- Ti va di venire a lavoro con me domani sera? – gli chiese poi.
Avrebbe sottratto la mano al suo contatto in un secondo netto, se lui non l’avesse stretta così forte. Non voleva uscire di casa, non voleva vedere nessuno e non voleva lasciare che il mondo di Milano si insinuasse così presto tra di loro, e tra lui e la musica.
Doveva trovare un equilibrio.
- No – rispose subito, e Federico rise, improvvisamente leggero.
- D’accordo, vedremo… - gli disse, gongolante.
- Ho detto che non ci vengo. Non cambio idea. –
 

§§§

 
Invece aveva cambiato idea.
Sbuffando, ripetendo che gliel’avrebbe fatta pagare e che usciva di casa solo perché gli aveva promesso che avrebbero mangiato una pizza, ma aveva cambiato idea.
Federico spense l’auto, controllando dallo specchietto retrovisore di aver parcheggiato ben allineato al marciapiede. Dominik era ancora immobile nel sedile del passeggero, sempre nella stessa posizione.
Gli poggiò una mano sul ginocchio, e lo sentì sussultare. Era terribilmente tenero quando faceva così, e poteva giurarci che non fosse poi davvero arrabbiato: forse aveva solo bisogno di essere un po’ pregato.  E lui aveva insistito parecchio.
La verità era stata che non aveva avuto il coraggio di lasciarlo a casa da solo per andare a lavoro; e non tanto per lui, quanto per se stesso. Da quando avevano lasciato Palermo, si era sentito tremendamente solo. Era una sensazione che probabilmente provavano tutti, quando si lasciavano alle spalle la casa e la famiglia, ma lui aveva desiderato ardentemente andarsene.
Per questo non si spiegava quella sensazione, e aveva cercato calore nel corpo di Dominik, nella sua voce, nell’odore della sua pelle, nella sua compagnia.
Da quando erano tornati a casa, la sera precedente, intorno alle dieci, non l’aveva lasciato solo nemmeno un secondo: forse solo per fare la doccia.
Avevano dormito insieme, nel suo letto, ma era stato diverso. In un letto matrimoniale, Dominik riusciva a sfuggire a tocchi troppo intimi, quelli a cui lui si era abituato, che si concedeva fingendo che fossero carezze casuali provocate dall’essere così vicini su un letto ad una piazza.
Invece, il più delle volte lo aveva fatto apposta: per sentire un po’ di calore addosso, e per toccarlo.
Non gli aveva mai permesso di farlo. Gli unici stralci di pelle nuda che aveva toccato erano stati quelli del suo viso, del collo, dei polsi. Nient’altro. E gli si muoveva accanto, Dominik, tutte le mattine, ancora intorpidito e assonnato, e lo sfiorava, lo toccava, e gli faceva venire una voglia di fare l’amore che neppure le docce fredde avrebbero potuto sedare.
E puntualmente, non appena provava a toccarlo, diventava rigido come un pezzo di legno.
Era quello che non capiva: come facesse ad infiammarsi tanto quando lo baciava, e a spegnersi così repentinamente appena provava a sfiorarlo con un dito. Era come se avesse qualcosa, dentro, per cui superata una certa soglia di intimità tornavano ad essere due estranei, almeno fino a quando lui non ripristinava le distanze e tutto tornava a posto.
Federico strinse la mano sulla coscia del ragazzo, come un richiamo silenzioso.
- Sei ancora arrabbiato? – Dominik scosse il capo, poi lo reclinò indietro sul sedile.
- Non ero arrabbiato. –
- E allora cos’hai da essere così silenzioso? –
Lo vide appena, lo smarrimento. Dominik era rimasto quasi impassibile, ma la sua mano si era sollevata, e si era poggiata sopra la sua, leggera eppure strana, come a chiedergli di essere avvolta e chiusa dentro un nido buio.
- Non mi piace uscire di casa e andare nei bar. –
- Ci siamo stati a Palermo, e ti è piaciuto. E siamo stati anche a casa dei miei amici, ti ricordi? –
- Sì, ma è diverso. Lì eri con me. Sempre. Adesso devi lavorare. – La voce gli si incrinò appena sulle ultime parole, e Federico portò la mano libera sopra a quella di Dominik, chiudendola così come in un sandwich tra i propri palmi.
- Non resterai solo nemmeno un secondo, promesso. C’è anche Samuele – gli spiegò. Poi, in un soffio, liberò una mano e gliela fece scivolare lungo il viso, schiacciandogli il palmo contro lo zigomo per avvicinare il viso al suo. Dominik rimase sorpreso, tanto che, quando lo ebbe vicino, lo sentì trattenere il fiato. – E poi questo bar è diverso. Qui posso baciarti tutte le volte che voglio – mormorò.
Lo baciò a tradimento, mentre aveva ancora le labbra dischiuse per prendere un respiro.
Poi lo lasciò andare, con un sorriso, per scendere dalla macchina e aiutare anche lui.
Mentre chiudeva lo sportello, e avvertiva il caratteristico clic  della chiusura, Federico pensava a Samuele. Non gli aveva detto nulla. Samuele rappresentava le sue paure più profonde.
Da quando aveva baciato Dominik, aveva preso a dormire con lui e a vederlo in modo diverso, c’era stato un piccolo tarlo che non lo aveva abbandonato: temeva che, in fondo, a Dominik non piacesse davvero lui, quanto la novità di avere qualcuno che lo baciasse, che lo risvegliasse fisicamente dal torpore di cui era preda da sempre. E non dire nulla a Samuele era un modo per confinare quelle paure. E non era giusto, perché Samuele non avrebbe potuto fargli altro che bene.
Federico lasciò che la mano di Dominik gli si stringesse sul braccio, all’altezza del gomito: avrebbe voluto prenderlo per mano, ma sapeva che non sarebbe stato il caso, che lui si sarebbe tirato indietro alla prima occasione, e poi avevano parcheggiato abbastanza lontano da poter essere visti da qualcuno.
Perché diamine doveva essere tanto codardo?
- Perché gli altri possono e io no? –
Chiuse gli occhi.
- Non è giusto. -
L’insegna rossa del locale gli brillò di fronte agli occhi, quando li riaprì.
- Vieni, Dom. –
Dentro era tutto come lo aveva lasciato. Pareva passata un’eternità piuttosto che poche settimane.
I tavoli erano sempre nella stessa posizione, sul bancone c’erano le ciotole con gli stuzzichini, i tovaglioli e i bicchieri sporchi da ritirare, sulle mensole le bottiglie di liquore e vicino alla macchinetta del caffè c’era Simone che si disperava. Tra i tavoli girovagavano Claudio e Michele: Lorenzo non doveva essere di turno, o doveva già aver finito. E poi c’era Samuele, dietro al bancone: sempre lo stesso, con quel sorriso largo, una magliettina aderente a maniche corte e le mani impegnate a tagliare un limone e poco dopo a triturare del ghiaccio mentre rispondeva ridendo probabilmente alla battuta del cliente biondino che stava servendo.
C’era la solita tranquillità delle otto di sera, quando si presentava solo gente stanca che chiedeva un drink dopo il lavoro, prima di tornare a casa, o un caffè, prima che, dalla dieci in poi, il locale tornasse a riempirsi di coppie alla ricerca di un angolino dove chiacchierare e bere qualcosa e di gruppetti di amici pronti a fare baldoria fino a tardi e magari rimorchiare qualcuno.
Federico guidò Dominik verso il bancone: lo avrebbe fatto sedere lì, vicino a Samuele, dove avrebbe anche potuto tenerlo d’occhio. E magari mangiare qualcosa, dato che stava praticamente morendo di fame, perché non aveva fatto in tempo a cucinare prima di andare a lavoro.
Avrebbe voluto arrivare al suo posto senza essere visto, ma come attratti da una calamita gli occhi di Samuele gli si poggiarono addosso, percorrendolo con un’occhiata, prima lui, e poi anche Dominik. Alla fine, quel volto si aprì in un largo sorriso, e tutte le paure andarono a farsi benedire.
Voleva abbracciarlo, e basta.
- Federico!! – lo chiamò, con la voce chiara e forte.
Lasciò cadere il limone e lo strofinaccio in cui aveva messo il ghiaccio, perché aveva quasi fretta di raggiungerlo, come se non dovesse vederlo per le ore a seguire. E quando lo raggiunse, superando il bancone, lo strinse così forte in un abbraccio che pensò che l’avrebbe soffocato: si era fatto ancora più muscoli nelle ultime settimane, e aveva cambiato profumo e accorciato i capelli.
Però sorrideva, segno che con Riccardo non dovesse andare poi così male.
- Mi sembri contento di vedermi – biascicò, mentre Samuele lo liberava da quell’abbraccio.
- Non c’è stato nessuno a rompere i bicchieri, ultimamente! Dominik, ci sei anche tu! –
- Federico mi ha convinto – sentì mormorare il ragazzino di fianco a sé, con la mano ancora saldamente stretta al suo braccio.
Samuele sorrise anche a lui, poggiandogli una mano sulla spalla. Dominik non arretrò di un passo, come se non l’avesse neppure sentito. Se lo avesse fatto lui, avrebbe già dovuto tirare via la mano.
- Vatti a cambiare, dai, Lorenzo se ne è appena andato! Vieni, Dominik, siediti qui dietro con me, fammi compagnia, che oggi ci sta Simone incazzato nero perché l’inter ha perso di nuovo! –
- Infatti è sempre incazzato! – osservò Federico, con una mezza risata.
- Vi sento!! –
Samuele rise per primo, di fronte al tono irritato di Simone, e Federico lo seguì.
Si sentiva improvvisamente leggero, come se adesso, finalmente, sentisse di essere davvero tornato a Milano, alla sua normalità. Fino a quella mattina sentiva ancora di essere un po’ fuori posto, con la spesa da fare, la casa da ripulire, il frigorifero da rimettere in moto e le borse da disfare. Ma adesso, a lavoro, tutto tornava a posto.
Anche Dominik stava sorridendo.
Si sedette sulla sedia dove Samuele lo aveva guidato, e aveva accettato gli stuzzichini e l’aranciata senza battere ciglio, obbediente come non era mai stato: Federico, che stava morendo di fame, avrebbe mangiato tutto il piano del bancone, mensole comprese, ma si costrinse ad accontentarsi delle pizzette e dei panini in miniatura, pensando che, prima di tornare a casa, un panino porchetta e svizzero in un pub l’avrebbe comprato eccome.
- Allora, che mi racconti? – gli chiese Samuele, mentre prendeva a preparare un drink.
Avrebbe potuto raccontargli così tante cose da impegnargli tutta la serata: la dolcezza di Manfredi, le liti, le parole cattive, e poi i baci di Dominik, le sue domande, le scoperte su se stesso e sul mondo. Solo che si sentiva troppo leggero per annoiarlo così. Allora fece spallucce.
- A Palermo succedono sempre troppe cose! E tu, invece? Qui che si dice? –
- Si dice che Samuele ha conosciuto un figaccione pazzesco a cui non voleva dare neppure il numero di telefono! – intervenne Simone, lasciando tre tazzine nel lavello. Federico fece un fischio lungo e acuto.
- Manco per qualche settimana e succede l’irreparabile? E non mi dici niente per giunta? – Samuele si strinse nelle spalle.
- Non è successo niente di che infatti. –
- Perché non ci sei voluto uscire! – se ne uscì di nuovo Simone, meritandosi un’occhiataccia.
- Ma ti fai i cazzi tuoi o vuoi continuare a fare a comare pettegola? – lo rimproverò Samuele, ma stava già ridendo, e con una smorfia Simone si allontanò di nuovo, portandosi via i suoi tatuaggi, i suoi piercing e la sua camicia di jeans arrotolata fino ai gomiti. Samuele ripulì il bancone con lo strofinaccio prima di riporlo sotto al lavello. – Comunque davvero, non è niente di che. E’ solo un tizio che viene sempre a bere qualcosa qui e ha attaccato bottone, abbiamo parlato qualche volta, fino a quando Simone non ha avuto la brillante di idea di lasciargli il mio numero. Fine della storia. –
- E perché non ci sei voluto uscire? – Samuele sbuffò.
- Non mi ha mai chiesto di uscire, solo di prendere una birra. E io avevo troppe cose da fare a casa, e forse sarebbe anche passato Riccardo. –
- Che poi non è passato – concluse Federico. Samuele lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, con aria stanca. Poi scosse il capo.
- No, non è passato. Ad ogni modo, non c’entra solo questo. Non vedo perché ci dovrei uscire. E’ simpatico, parliamo sempre quando sta qui, ma la cosa finisce lì. Se sapesse la vita che faccio, poi, probabilmente non mi reputerebbe più nemmeno degno di rivolgergli la parola. –
Federico gli diede un colpo sul braccio.
- Sei sempre il solito esagerato! –
- Tu non lo conosci, è uno diretto, schietto, non saprebbe tenersi un parere neppure se gli chiudessi la bocca con il nastro isolante. Gli sembrerei un idiota senza coglioni. Che è quello che sono più o meno. –
Avrebbe voluto colpirlo. Forte. Con una mazza. Al centro della testa.
Solo che non aveva nelle vicinanze una mazza, e non voleva finire in galera per tentato omicidio.
Così dovette accontentarsi di pungerlo moralmente.
- Per essere solo un tizio che viene a bere qualcosa ogni tanto lo conosci proprio bene – lo pungolò, arraffando il blocchetto delle ordinazioni dalla tasca e spostandosi verso un tavolo dove un ragazzo aspettava di ordinare.
Era improvvisamente curioso di vedere questo fantomatico tizio. Come fosse fisicamente, il suo modo di parlare, e come avesse fatto ad attaccare bottone con Samuele e avvicinarlo così tanto.
Avrebbe tanto voluto che lo scuotesse, che lo strappasse via da Riccardo che, come al solito, non era cambiato per nulla ed era rimasto sempre il solito stronzo. E parlava lui, poi, che di stronzi se ne intendeva e aveva ancora le catene di uno di loro strette intorno.
Non sentiva Manfredi da quando era andato via da casa sua.
Forse non l’avrebbe più sentito, o visto.
Forse la vita sarebbe finita così.
- A nessuno importerà mai di te quanto importa a me! -
Non ci credeva. C’era Samuele, che gli aveva sorriso come se lo aspettasse dal primo giorno che se ne era andato. C’era Lorenzo, che lo invitava sempre a uscire con lui per non lasciarlo a casa a pensare. C’era Marco, e i ragazzi dell’università, che lo aveva chiamato mille volte durante le vacanze per sapere quando sarebbe tornato, magari per studiare un po’ insieme o farsi una birra. C’era Dominik.
- Io ti amo, Federico!! E se davvero avessi voluto fare qualsiasi cosa per me, mi avresti aspettato per tutta la vita! Invece te ne vai con un ragazzino che non sa nemmeno di avere un cazzo tra le gambe! Non gliene frega niente di te, lo vuoi capire?! –
Non era vero.
Manfredi voleva solo fargli male, sapeva dove colpire, per questo parlava così.
Perché, allora, aveva quella sensazione orribile di abbandono allo stomaco?
Si voltò verso il bancone, intercettando Dominik con lo sguardo. Samuele gli aveva detto qualcosa, lui aveva annuito e si era stretto nelle spalle, poi Samuele si era spostato dall’altra parte per preparare dei caffè. E Dominik era rimasto lì seduto, a sfiorare con la punta delle dita il bordo del bancone, muovendole appena, come se stesse percorrendo i tasti di un pianoforte.
Anche allora pensava alla musica, doveva avere una melodia nella testa.
Lo raggiunse approfittando di un momento di tranquillità in cui nessuno lo avrebbe disturbato, e lo prese per la mano, guidandolo fuori da quello spazio, verso la piccola rientranza dove stava incuneata la porta che portava al magazzino.
Profumava di bagnoschiuma, e quando si sentì spingere con la schiena contro il muro trattenne il fiato. Però non voleva baciarlo così presto; o meglio, lo desiderava, ma aveva la certezza che se avesse aspettato un po’, Dominik lo avrebbe baciato da sé, gli avrebbe poggiato le mani sul viso e lui sarebbe morto nel giro di tre secondi netti.
- Federico – lo sentì soffiare.
- Ti diverti? O ti stai annoiando? –
- Samuele è divertente, soprattutto quando litiga con l’altro ragazzo. E mi ha fatto venire in mente una sonata di Mozart, leggera come lui – mormorò.
Federico sarebbe rimasto lì ad ascoltare la sua voce da vicino per ore. Non voleva tornare a lavoro, non voleva lasciarlo seduto lì, dove pareva un dipinto di Botticelli dentro ad una discoteca di Amsterdam. Avrebbe solo voluto baciarlo per il resto della notte e mandare a fanculo tutto il resto.
Le mani di Dominik gli si poggiarono sul viso, ciascuna su un lato, con i polpastrelli che gli accarezzavano gli zigomi e poi l’attaccatura dei capelli.
- A cosa pensi? – gli chiese. Federico scosse il capo.
- A niente. –
- Non è vero. Lo vedo – lo rimproverò il ragazzo, assumendo un cipiglio contrariato.
Federico sorrise, e gli affondò i polpastrelli sulla nuca, spingendolo ad alzare il viso, fino a trovarsi le sue labbra più vicine.
- Fai sempre il furbo. – Lo vide distendere le labbra in un sorriso.
- E tu non prendermi in giro – gli rispose a tono.
Lo avrebbe divorato a morsi.
Invece, semplicemente, approfittò del momento in cui le sue labbra non si erano ancora chiuse, e lo baciò, sfiorandone il contorno con la punta della lingua, e riconoscendo il sapore fresco di acqua tonica e limone. Le mani di Dominik si ancorarono alle sue spalle, come se cercasse un appiglio dove aggrapparsi, e lo sentì sospirare piano, mentre inclinava la testa per lasciarsi baciare.
Ci avrebbe fatto l’amore subito, in piedi contro la porta del magazzino.
Si sentiva mancare l’aria.
Aprì gli occhi, mentre lo baciava, scoprendo da vicino i profili morbidi della sua pelle chiara.
- Non ci credo che c’è qualcosa di te che non ti piace. A me piace tutto. -
 

§§§

 
Una volta, a undici anni, la professoressa di storia delle medie aveva avuto la grande idea di far vedere loro un vecchio film. In classe avevano spento le luci, il film era partito, e la professoressa se ne stava tutta intenta a guardare lo schermo della televisione.
Lui era seduto su un banco all’ultima fila, insieme a due compagni.
Davanti a lui, seduti sulle sedie e con il capo poggiato sulle braccia incrociate, c’erano Laura e Giovanni. Un ragazzetto di dodici anni, bocciato l’anno prima, con un tatuaggio finto dei polaretti sull’avambraccio, e una ragazzetta dai capelli neri, tagliati a caschetto, con cui stava in classe insieme dall’asilo. Loro due non guardavano la televisione. Si guardavano tra loro, scambiandosi uno sguardo. Erano “fidanzati” da qualche settimana, ed erano tutti paroline dolci e strette di mano.
Ma in quel momento, mentre in tv si consumava un duello medievale, il suo sguardo fu catturato proprio da quelle due piccole teste che si avvicinavano, e dalle labbra che si toccavano in un casto bacio a stampo che, nella sua mente di undicenne che non aveva mai nemmeno stretto la mano a una ragazza, era parso la scena clou di un film porno con Siffredi.
Il cuore gli era salito fino in gola, battendo furiosamente, e aveva distolto lo sguardo.
Adesso, a distanza di trent’anni, Samuele si sentiva nello stesso identico modo.
Solo che quelli che si baciavano in un angolo in penombra erano Federico e Dominik.
E non riusciva a distogliere lo sguardo da quei due corpi e da quelle due anime tanto diverse da attrarsi in quel modo.
Si sentiva sconvolto. Non si sarebbe mai immaginato una cosa del genere in tutta la sua vita.
Dominik, il ragazzino-ghiacciolo che passava le giornate a suonare il pianoforte, era letteralmente avvinghiato a un ragazzo, e lo baciava, con le guance rosse e i capelli scompigliati.
E quell’altro ragazzo era Federico, che fino a un mese prima si stava lasciando distruggere da uno stronzo.
E c’era qualcosa di particolare, nel modo in cui si baciavano, come se le mani di Dominik, premute sul viso di Federico, ne stessero cercando l’essenza, mentre quelle di Federico, adagiate sulla schiena dell’altro, più che premerselo addosso stessero cercando di entrargli dentro.
Distolse lo sguardo, inspirando profondamente alla ricerca di aria.
- Mi dispiace, Samuele, davvero, ma questo è l’ultimo Natale che passiamo così. A giugno mio figlio si diploma, le cose si sistemeranno. Abbi solo un altro po’ di pazienza. –
Avrebbe voluto baciare anche lui qualcuno in quel modo, fuori da casa sua.
- Non è colpa tua, Samuele. Ma abbi solo un po’ di pazienza, sto facendo quello che posso – 
Solo un po’ di pazienza, e sarebbe stato possibile.
- Ti amo, lo sai? – 
Lo sapeva?
Ci provo, Samuele. –
Ci provava?
- Davvero, non posso. Facciamo un’altra volta. –
Mattia se ne andava con un cenno del capo.
Riccardo sorrideva.
Il mondo stava andando a rotoli.








Note al capitolo 29: Sono di fretta ma proprio di fretta, quindi ringrazio sempre tutti, per il sostegno e per la pazienza per questo colossale ritardo, e per il resto ci sentiremo sulla mia pagina facebook.
Non dovrei più tardare così tanto per aggiornare, e questo capitolo è più un passaggio, un ritorno in carreggiata, che un vero e proprio capitolo di quelli succosi che mi immagino. 
Adesso scappo, spero di rispondere alle recensioni la prossima settimana!
Buon weekend a tutti e un bacione!

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Capitolo 33
*** 30th: Promise me ***


Promettere e mantenere è una cosa che porta lontano.

Pierre de MarivauxLa vita di Marianna1731/42

 

Chapter 30: Promise me
 
Negli amori che finivano c’era sempre qualcosa di squallido.
Si sputavano sentenze, cattiverie, ci si rinfacciava ogni minimo errore.
Tutta la bellezza evaporava sulle labbra.
Come quei due, seduti allo stesso tavolo rotondo ma distanti come se si trovassero in due parti opposte della città: ogni tanto, poi, si avvicinavano un po’, per darsi una spinta sul petto, un colpo sul braccio, i segni con cui l’inconscio si aggrappava all’amore quando la razionalità spingeva a urlare e prendersela con il mondo.
Uno dei due aveva iniziato a piangere: non un pianto a dirotto, ma solo qualche lacrima spremuta via da occhi troppo rossi, spinta in alto dalla gola quando anche le parole non bastavano più a far sfiatare quella cappa di dolore.
Si stavano lasciando.
Aveva sentito l’altro dire: sono stanco, non ce la faccio più, non stiamo più bene insieme. E’ meglio se ci lasciamo, adesso. E poi erano continuate le urla, i e tutte le volte che sono stato ad aspettarti fuori dal lavoro, te le sei scordato?, i vaffanculo, gli sguardi duri.
E allora pensava a tutto quello che doveva esserci stato prima, alla dolcezza di un amore che li aveva consumati, avvicinati, avvolti e soffocati.
Solo allora, pensando a quello, si rendeva conto di quanto fosse squallido finirla così.
Lui e Manfredi erano finiti semplicemente in una nuvola di vuoto.
- Però davvero, quando mai l’amore è stato una cosa semplice? –
- Per noi due, mi sa mai! –
- Vero.  Forse non è stato una cosa semplice per tutti i casini che ci siamo sempre portati dietro. Però amarti e basta…quello è la cosa più semplice del mondo –
- Anche per me.  Ho avuto una bella vita, tutto sommato, con te. E’ stato bello finchè è durato. –
Frasi vuote.
- Federico? Allora finisce così? –
- Si, Manfredi. Finisce così. –
Sguardi vuoti.
O forse no, forse anche loro erano diventati squallidi, al colmo dell’esasperazione.
- Noi ci siamo lasciati da mesi, Manfredi. Non dare la colpa a Dominik adesso –
- Se non ci fosse stato lui, tu saresti già tornato con me! –
- Per cosa, per essere trattato di nuovo come una merda? No, caro mio, non l’avrei fatto! –
- Non dire stronzate, lo sai meglio di me. Per sette anni quante volte hai provato a lasciarmi? E quante volte sei tornato? Tu hai paura di restare solo, Federico! E se non ci fosse stato quel ragazzino, e quei tuoi amici del cazzo a Milano, tu saresti già tornato con me!! –
Il dolore sordo nel petto.
- Vedi che non capisci mai un cazzo?! Io non valevo niente!! Me ne stavo lì, a casa, ad aspettarti, accontentandomi di qualche momento con te, di nascosto! E non meritavo uno straccio di telefonata?! Non dovevi dirmi chissà cosa, ma almeno chiedermi se fossi quantomeno ancora vivo!! E’ questo che fanno le persone che stanno insieme, sai? Si cercano, hanno voglia di consumarsi ogni singolo secondo! Io avevo bisogno di questo!! Che tu mostrassi di aver bisogno di me, in ogni singolo istante della tua vita! E invece no, dovevo esserci sempre io, io a pensare a tutto, io a chiederti di fare qualsiasi cosa, io a organizzare la mia vita per tutte le volte che tu non potevi proprio liberarti, che mammina voleva averti a cena!! –
Forse il punto era che, se non fosse finito così, l’amore non sarebbe mai andato via. Si sarebbe sgretolato, mantenendo attaccati tutti i pezzi, e distruggendo dall’interno, come un tarlo nel legno.
Come succedeva agli occhi verdi di Samuele.
Lo osservava da minuti lunghi come ore. Aveva seguito il profilo dei muscoli del suo corpo mentre si sfilava il giubbotto e il maglione pesante. Aveva resistito all’istinto di schiaffeggiarlo quando al suo saluto aveva risposto con un sorriso finto, perché di sorridere non doveva averne nessuna voglia. Lo aveva studiato, con la coda dell’occhio, mentre insieme sistemavano i tavoli e le sedie pochi minuti prima di aprire il locale.
Quel pomeriggio Samuele aveva lo sguardo perso, come se gli mancasse qualcosa. Non era triste, o arrabbiato, o deluso, come succedeva di solito a causa di Riccardo. Era piuttosto stranamente tranquillo, di una serenità vuota.
Si voltò verso di lui proprio mentre lo fissava.
- Allora, ci venite stasera o no? –
Federico si strinse nelle spalle.
Samuele aveva invitato lui e Dominik a cena a casa sua: non ho caviale da offrire, aveva detto, ma ho preso della carne buonissima dal macellaio, e so che Dominik adora le patatine fritte.
A Dominik lo aveva detto subito, non appena tornato dal lavoro, ed era certo che però gli avrebbe detto di no: lo aveva visto sfiorare ancora il pianoforte come se non lo avesse sentito, poi far cadere improvvisamente le mani.
- Non mi va tanto, Federico. –
- Perché? Samuele ci terrebbe tanto! –
- Puoi andarci tu…io devo suonare. –
- La sera non devi suonare! Nell’ultima settimana non hai fatto altro che guardare la tv e adesso devi suonare?! Non mi fare incazzare, Dominik. –
Era finita che non si erano parlati per quasi un’ora, mentre lui finiva di cucinare e di apparecchiare.
Poi, mentre iniziavano a mangiare e lui si era offerto di tagliargli la carne a pezzettini, perché la mangiasse meglio, Dominik gli aveva sfiorato il braccio con la mano.
- Non essere arrabbiato con me. –
- Non ti capisco, Dom. Non ci posso fare niente. –
- Lo so. –
Avrebbe voluto schiaffeggiarlo, in quel momento.
Invece gli aveva accarezzato il viso, e lo aveva baciato. Di fronte ad un viso così, a quell’espressione seria e un po’ addolorata, non poteva arrabbiarsi.
Solo che non lo capiva.
Si era un po’ illuso, nelle ultime due settimane, che le cose fossero cambiate in maniera radicale: dormivano sempre insieme, guardavano la tv praticamente abbracciati, e quando rientrava dal lavoro, qualsiasi cosa stesse facendo, Dominik tendeva il viso verso di lui per ricevere un bacio.
Solo che la musica era sempre la musica.
Da quando, negli ultimi giorni, era tornato a lezione al Conservatorio, tornava spesso con un’espressione strana: non era arrabbiato, o di cattivo umore. Era semplicemente concentrato, come se tornando a casa sperasse di catturare qualcosa e ci ragionasse su per ore intere.
Solo intorno all’ora di cena, dopo aver fatto una doccia, mentre si appoggiava al frigorifero per tenergli compagnia mentre cucinava, Dominik si rilassava.
Ma da Samuele non voleva andarci.
Federico era convinto che, se avesse insistito un po’, come l’ultima volta per portarselo al lavoro, avrebbe ceduto. Però non ne aveva la forza, o la voglia.
Sarebbe stato così dannatamente bello se, per una volta, Dominik avesse preso una decisione da sé. Non lo capiva, non riusciva a decifrarlo, e gli distruggeva il cervello.
Si strinse nelle spalle.
- Dominik non vuole mettere piede fuori di casa – rispose alla fine all’amico.
Samuele era come un prete confessore: ascoltava in silenzio, non faceva mai neppure una smorfia con il viso. Poi, alla fine, quando lui aveva finito di parlare, come i bravi sacerdoti lo ammoniva, perché era troppo impulsivo, e impaziente, e tremendamente giovane. Quando andava male lo obbligava persino ad ammettere di avere torto.
Era bello avere vicino qualcuno così. Samuele gli faceva vedere il mondo da un’angolazione un po’ diversa, più vicina a quella di Dominik, anche se pure lui, ogni tanto, doveva ammettere che quel ragazzino fosse snervante, indisponente e nevrotico.
Quel giorno, Samuele era meno paziente del solito. Difatti, passandosi una mano sul viso, sospirò.
- Mi sento un po’ stronzo, sai? – gli disse alla fine. Federico corrugò la fronte.
- Perché, scusa? –
- Perché sto pensando che Dominik sia un po’ stronzetto, che ti stia rigirando tra le mani e che deve smetterla di tirarsela tanto. E poi mi rendo conto che mi sfugge un piccolo particolare. –
- Sarebbe? – lo incalzò, sollevando le sopracciglia. Samuele lo guardò di traverso.
- E’ cieco, Federico – gli spiegò, scuotendo il capo.
- E’ una giustificazione per l’essere stronzo? –
- Sì – gli rispose quello. – Lo è perché noi non sappiamo che cosa voglia dire crescere così e doversi appoggiare a chiunque persino per andare al bagno. Non sappiamo cosa si sia creato intorno quel ragazzino, o cosa gli sia capitato. Ci hai mai pensato? Magari a scuola lo prendevano in giro, i bulli lo spingevano nei corridoi, o gli amichetti lo snobbavano perché non ci vedeva. Forse è stato un miracolo che abbia trovato la musica. E che abbia trovato te. –
No, non ci aveva mai pensato. Nella sua mente Dominik era sempre stato così: alto, chiuso in un corpo da angelo e fermo dietro ad un pianoforte, a elaborare melodie. Non se lo immaginava bambino: persino aver visto quella foto di lui da bambino con sua madre non lo rendeva reale. Non riusciva a costruirsela, nella mente, l’immagine di un bambino biondo che giocava a caa con le costruzioni senza vederle, o che andava a scuola e alla ricreazione mangiava un panino come gli altri. Per lui Dominik era nato e cresciuto tra le mura intrise di arte del Conservatorio.
- Toh, guarda chi c’è. Cos’è, sei stato a farti un viaggio e sei sparito così? – esclamò poi Samuele.
Federico si voltò di colpo, sobbalzando, seguendo gli occhi verdi di Samuele.
Si trovò davanti la cosa più strabiliante che avesse mai visto.
Era un essere umano, almeno così pareva: ma aveva gli occhi più belli che avesse mai visto, e sudava testosterone. Stava sorridendo, e nel modo che aveva di sorridere c’era qualcosa di animale.
Un cobra. Ecco, somigliava a un cobra.
Quando mosse il capo, inclinandolo appena verso destra, il colletto della camicia bianca che indossava sotto ad un cardigan rosso scoprì un triangolo di pelle chiara del collo, su cui scivolarono le punte dei capelli neri.
- Allora ti sono mancato – lo sentì dire, con un sorriso che somigliava a quello di Lucifero.
I suoi occhi gli si posarono addosso prima che avesse tempo di distogliere lo sguardo.
- Tu devi essere Federico. E Simone….non c’è Simonuccio? –
Federico gli avrebbe anche risposto, eppure sentiva di non esserci in quella stanza, di essere una presenza invisibile, un ologramma impalpabile tra gli sguardi di Samuele e del misterioso sconosciuto.
- Si dice che Samuele ha conosciuto un figaccione pazzesco a cui non voleva dare neppure il numero di telefono! –
Riportò lo sguardo su Samuele. Stava sorridendo, teso.
- Simonuccio non c’è, oggi non lavora. Volevi corromperlo per ottenere qualcos’altro? –
Il ragazzo sorrise, poi fece spallucce, sedendosi su uno degli sgabelli, su quello proprio davanti a Samuele.
- In realtà speravo di ottenere il tuo indirizzo per farmi trovare sul tuo letto con un cappellino da babbo natale in testa – rispose, lasciando cadere un mazzo di chiavi argentee sul bancone. Le fece roteare una volta, trattenendole per l’anello, poi le fermò premendoci sopra la mano. – Con solo quello addosso, ovviamente – specificò. Le chiavi sparirono, finendo nella tasca del pantaloni. – Ma pazienza, aspetterò di trovarlo di turno! –
Samuele si allontanò un po’ per raggiungere la mensola dietro il bancone, dal quale prese un calice sottile, di quelli da aperitivo alcolico. Poi poggiatolo sul bancone, prese una bottiglietta di succo d’ananas dal frigo.
- Sarebbe stato comunque meglio delle giacche che metti di solito. –
- Non offendere le mie giacche! Non sei nella posizione di farlo! –
Samuele rise, stappando la bottiglietta di succo d’ananas in un gesto solo, godendosi il caratteristico clic che faceva il tappo che si staccava e poi cozzava contro il legno del bancone. Poi, ritornando con un passo sulla terra, si voltò verso Federico.
- Lui è Mattia. Sembra stronzo, ma è solo un po’ un pallone gonfiato! –
Mattia. Non gli stava bene come nome. Su uno così ci avrebbe visto un nome tagliente, forte: Nicola, forse, o Pietro. Non Mattia. Era morbido il nome Mattia.
L’uomo che aveva davanti no.
Mattia, però, non accusò il colpo, anzi rise. E invece di rispondere a tono, si voltò verso di lui.
- Lui, invece, sembra stronzo, e lo è. Hai idea di quante volte mi abbia rifiutato una birra, nelle ultime due settimane? –
- Qualche volta, Mattia, che sarà mai… -
- Nove volte, Samuele. Nove. Se te lo chiedessi oggi farebbero dieci. Che dici, con dieci rifiuti si vince un premio come al supermercato? No, perché ho visto che avete un frullatore davvero carino, è nuovo? – Samuele scosse il capo, poi si strinse nelle spalle. Stava ridendo. Non lo vedeva ridere così da un po’. Da quando Mattia era entrato al locale, aveva portato un po’ di luce, e di vita. E sembrava non rendersene conto, nel modo in cui trafficava il cellulare, e con qualcosa che aveva in tasca.
- E visto che siamo in argomento, ho un’offerta che non potrai rifiutare. –
Samuele depose sul bancone, davanti a lui, il calice lungo pieno di un liquido chiaro, con il bordo coperto di zucchero. Poi si appoggiò sui gomiti, incrociando le braccia.
- Sono tutto orecchi. –
Federico seguì il profilo delle mani di Mattia che uscivano dalla tasca e depositavano due foglietti di carta sul bancone. Erano colorati, sui toni del nero e del rosso, e poi c’erano alcune scritte un po’ più piccole. Avrebbe voluto vederli da vicino, ma sembravano tanto dei biglietti di…
- Sono del concerto di Vasco a San Siro? Sono esauriti da mesi! –
Mattia si strinse nelle spalle.
- Per quel grandissimo stronzo del notaio De Paola, che sarebbe mio padre, sono disponibili in qualsiasi momento. E tu ovviamente ci vieni con me. Passo a prenderti sabato alle tre del pomeriggio. Mandami il tuo indirizzo per sms, piuttosto! –
Dopo l’entusiasmo iniziale, Samuele era diventato dello stesso colore degli strofinacci immacolati che tenevano nei cassetti. Non lo aveva mai visto così pallido.
- Io? Con te? Ma sei scemo? –
Mattia non fece una piega. Sollevò solo un sopracciglio, e sulla fronte gli si formarono delle rughe orizzontali.
- Sono esasperato in verità. Vedi, se io ti offrissi una birra, tu mi diresti sempre di no. Ma se io adesso ti offro un concerto che mi è costato un occhio della testa, perché quel gran figlio di buona donna di mio padre non mi ha fatto neppure uno sconticino, tu, che sei un così brav’uomo, ti sentirai costretto a venire. Semplicissimo. –
- E’ da stronzi, Mattia. –
- Machiavelli diceva che il fine giustifica i mezzi. Il fine è che tu accetterai il mio invito, e magari riuscirò anche a strapparti una birra, dopo. I mezzi non contano. E non fare quella faccia, ti divertirai! Diglielo anche tu, Federico! –
Samuele si voltò verso di lui alla ricerca di aiuto.
Aveva lo sguardo smarrito, preoccupato, e gli stava chiedendo di fare qualsiasi cosa pur di tirarlo fuori da quella situazione. Il sabato era un giorno sacro, per lui: Riccardo, quando poteva, si liberava e passava da lui, cenavano insieme, perché suo figlio stava sempre via. L’idea di rinunciare a quella piccola routine lo spaventava, e glielo leggeva nello sguardo caldo e spaurito.
La stessa richiesta di aiuto, adesso, lo leggeva anche negli occhi di Mattia.
Aveva comprato due biglietti introvabili pur di costringerlo a uscire con lui.
Non stava facendo niente di male. Eppure, con quegli occhi azzurri e freddi, lo stava pregando di fare qualsiasi cosa affinchè Samuele non sfuggisse così, come l’acqua tra le dita.
Samuele era bravissimo a scappare, e trovava sempre rifugio nella grotta che per lui era Riccardo.
E Riccardo non se lo meritava. Riccardo non lo avrebbe mai guardato con quella calma mista a disperazione negli occhi. Doveva salvare Samuele, perché da solo non si sarebbe mai salvato.
- Ma dai, Samuele, non rompere i coglioni! L’avessi io qualcuno che mi porta a un concerto di Vasco! –
La tensione si era spezzata. I tre birilli, tenuti insieme da un unico filo invisibile, ricaddero ciascuno nel proprio angolo di mondo.
 
 

§§§

 
C’erano volte, durante la notte, in cui si svegliava tutto sudato, perché il corpo di Federico ce l’aveva così tanto avvolto intorno da trasmettergli tutto il suo calore.
Allora si stiracchiava tra le coperte, e il corpo di Federico scivolava via infastidito da quel movimento e da tutto quel caldo: lui poteva girarsi sull’altro fianco, cercare il corpo accanto al suo, e poggiarci sopra il palmo della mano, tirando il braccio fuori dalle coperte.
Subito dopo spingeva fuori dal materasso anche un piede.
Ecco, così si realizzava la temperatura perfetta per riprendere sonno.
La stanza era piena solo del respiro di Federico.
Succedeva in quel momento.
Quando nel buio la mente ancora offuscata cercava di naufragare di nuovo nel sonno, arrivava la musica. Era una musica diversa dal solito: erano le note più belle che avesse mai sentito, e si amalgamavano in un modo che non era mai riuscito a costruire.
E per quanto provasse, durante il giorno, a ottenere una melodia come quella che lo prendeva alla notte, al caldo delle coperte, non ci riusciva mai. E si irritava, schiacciava le dita sui tasti, agitava gli spartiti, e tutto perdeva la sua forma.
Quando lo faceva, Federico era a lavoro, o si chiudeva a studiare nella sua stanza, perché nelle ultime settimane si era fissato nel voler finire quegli anni di università e poter vantare un pezzo di carta senza alcun significato: questo, almeno, era quello che gli aveva detto lui.
Perché non aveva alcun senso ottenere una laurea senza crederci nemmeno, solo per far magari felici i suoi genitori, quando a lui invece non fregava nulla di tutto quello che stava facendo.
Senza passione, tutte le cose appassivano.
Come la musica, che da quando era tornato da Palermo aveva assunto migliaia di sfumature diverse che non era riuscito a catturare del tutto.
Erano passati venti giorni.
Le lezioni al Conservatorio erano ricominciate, la routine di sempre era stata riacquistata, e Milano era tornata a essere la solita caotica e piovosa città di sempre. Anche Federico era un po’ sempre lo stesso: cucinava, rideva, scherzava, guardava la tv.
Solo che adesso quando stavano insieme sul divano, Federico si concedeva qualche tocco in più sulle sue gambe, sulle ginocchia, sulle braccia. E poi dormivano insieme, nello stesso letto, quello matrimoniale enorme nella stanza di Federico, dove lui dormiva sempre completamente spostato verso il centro del letto, perché lo sentiva troppo grande e temeva di cadere sul pavimento proprio mentre stava dormendo.  E si baciavano, si baciavano continuamente: quando Federico tornava dal lavoro, mentre guardavano la tv sul divano, mentre fuori pioveva e Federico preparava la cena.
E ogni mattina, quando si ritrovava a suonare, riempiva la musica anche di quei baci.
Solo che non era mai uguale a quella che sognava la notte.
E alla maestra non sembrava mai abbastanza.
- Perché non puoi metterci un briciolo di concentrazione in più? So che puoi fare meglio! –
I polpastrelli sfiorarono i tasti tiepidi del pianoforte.
Era stanco, aveva mal di testa. Quando le lezioni al Conservatorio riprendevano, i maestri li sfiancavano sin da subito, e a lui scoppiava la testa. Avrebbe voluto bere una cioccolata calda e lasciarsi cadere sulla sua poltrona, sotto a una coperta morbida. Con Federico.
Sospirò. Aveva voglia di suonare Chopin, adesso, non i soliti esercizi.
Eppure doveva ancora essere troppo presto per andare a casa.
Federico doveva essere andato a lavoro. Una volta tornato non l’avrebbe trovato, avrebbe avuto la casa tutta sua e silenziosa per un po’, fino a quando lui non fosse tornato, con la sua solita voce calda e quella strana voglia di parlare, e avrebbe preso a girare per il salotto e per la cucina, preparando qualcosa di buono e raccontandogli qualche aneddoto divertente successo al lavoro.
C’erano tante cose nuove, adesso, che stava riscoprendo: innanzitutto, aveva saputo che Samuele fosse gay, e anche Lorenzo. Non se l’era aspettato, a dire il vero, ma alla fine non ne era rimasto troppo sorpreso. Poi aveva saputo che il locale dove lavorava Federico era di fatto un locale gay, e che lui non voleva dirlo ai suoi genitori perché l’avrebbero potuto giudicare male. E, infine, aveva iniziato a vedere il mondo sotto una luce nuova, ad analizzare i rapporti tra le persone, ad applicare un po’ di quella magia alla musica.
Iniziava a funzionare, un po’.
Iniziava a capire quanto fosse importante per Federico ricevere qualche parola la sera, mentre lui prima, di solito, se ne restava zitto tutto il tempo.
Iniziava a capire quanto valessero i baci e le carezze.
Stava trovando un equilibrio nuovo, in cui la musica e la vita cercavano di coesistere, e si arricchivano l’una dell’altra.  Prima il rapporto era unidirezionale: la musica arricchiva la vita, ma la vita non faceva lo stesso con la musica. Adesso invece metteva le sensazioni sotto i polpastrelli, quelle che riviveva quando toccava il viso di Federico, tutte dentro la musica.
E a Chopin piaceva.
Alla maestra un po’ meno, perché invece di esercitarsi come chiedeva lei, non faceva che suonare Bach, Mozart e provare nuovi virtuosismi morbidi.
Ma non importava.
La maestra prima o poi non l’avrebbe più rivista. La musica, invece, gli sarebbe rimasta tutta sotto la pelle.
 

§§§

 
 
- Io non ho capito perché… -
- Ah ah, no, smettila! E’ così e basta! E’ magia! –
Dominik mise il broncio, affondando il capo sul cuscino.
- Mah. A me non piace proprio – borbottò.
L’idea di vedere il signore degli anelli era stata sua. Non che facessero granchè di bello in televisione, ma Italia uno ogni tanto mandava quei film simil-infiniti e tragicamente conosciuti.
Come quello.
In cui Dominik continuava a non capire perché fosse scoppiato tutto quel casino solo per uno stupido anello.
A lui del film non gliene era importato niente sin dal primo momento. Gli aveva proposto di vederlo a letto, perché con tutti gli spot pubblicitari sarebbe finito così tardi da farli crollare, ma in realtà voleva solo trovarsi sotto le coperte con lui per poterlo sentire più vicino.
Aveva fatto la doccia con il suo bagnoschiuma. Profumava di muschio, un odore pungente che non gli apparteneva, ma che amalgamandosi con la sua pelle lo rendeva terribilmente buono.
E come faceva durante la notte, aveva occupato la parte centrale del letto matrimoniale, costringendolo a girarsi su un fianco per trovare una posizione comoda e non finire di sotto: il che non gli dispiaceva affatto, dato che poteva stargli attaccato addosso.
Da quella posizione, poteva persino contargli le ciglia.
Dominik se ne stava sdraiato su un fianco, con il capo abbandonato sul cuscino morbido, e si lasciava accarezzare il viso come un gatto lo zigomo, lungo l’attaccatura dei capelli, il bordo dell’orecchio, fino al collo. Respirava regolarmente, in modo così lieve che il volume alto della televisione lo rendeva impercettibile.
- C’è rimasto male, Samuele, che oggi non siamo andati a cena da lui? – gli domandò poi, mentre piegava un po’ il capo per seguire il palmo della sua mano che gli si era adagiato a metà tra la mandibola e il collo, in una carezza.
- Non ha capito il perché, e sì, c’è rimasto un po’ male – mentì. In realtà Samuele non si era offeso sul serio, perché si era sforzato di comprendere la situazione, e le cose. Quello che non capiva invece era lui; e sfruttare Samuele per estorcere una confessione a Dominik non sarebbe poi stato tanto da infami. Forse solo un po’.
- Perché non sei voluto andare? –
- Non mi piace uscire di casa. Te l’ho spiegato, e tu non lo capisci – borbottò, un po’ infastidito, tanto che mosse un po’ il capo per sfuggire al tocco della sua mano. Ma Federico gli premette i polpastrelli sulla pelle.
- Credevo che Samuele ti piacesse. –
- Questo non c’entra. –
- Sì che c’entra. Samuele ti piace molto più di quanto dici – lo incalzò.
Fu allora che Dominik gli scivolò via.
Non solo fisicamente, spostandosi sulle coperte fino a far ricadere la sua mano sul materasso. Anche moralmente, come se si fosse incrinato qualcosa.
Non era gelosia, quella. O forse sì. O forse era quella sensazione che aveva accumulato per settimane, quel non riuscire a spiegarsi perché Samuele riuscisse con un po’ di calore a strappare Dominik dalla sua apatia, mentre lui doveva sempre tenere le distanze: come la prima volta che si erano visti, quando ancora faceva lo stronzetto ma con Samuele si era sciolto come neve al sole.
E poteva essere anche gelosia, morsa allo stomaco, ma qualcosa doveva pur essere.
Lo cercò di nuovo, lungo il bordo del materasso, fino a bloccargli un polso: quando lo circondò con la mano, trovò la pelle tiepida, ma i muscoli contratti.
- Spiegamelo, Dom. Spiegami perché se fosse Samuele a chiederti di uscire, a toccarti, a chiederti di suonare, tu gli diresti sempre di sì. Quando si tratta di me, invece, devo prenderti con le tenaglie! –
Dominik mosse le gambe sotto il piumone.
Persino quel modo che aveva di calcolare ogni singolo movimento per non toccarlo era paradossale, eppure lo faceva sempre, con apparente noncuranza, ma lo faceva. Ed era insopportabile, perché fosse stato per lui lo avrebbe afferrato e se lo sarebbe schiacciato addosso.
- Tu mi rendi nervoso – lo sentì soffiare piano, tanto che fu difficile intuire tutte le parole con la tv accesa. Però erano quelle, il senso era quello. Persino il rossore sulle guance era quello.
Tu mi rendi nervoso.
- Che vuol dire? –
- Quello che ho detto – sibilò poi, stizzito. E lo vide sollevarsi un po’ su un gomito e avvicinarsi, ricadere sul materasso con un leggero rimbalzo che glielo riportò di nuovo vicino, insieme al soffio caldo del suo respiro. – Mi rendi nervoso. Da quando sei arrivato qui, con quel modo che hai di cercare sempre di fare conversazione, di coinvolgere tutti, di far sorridere tutte le persone con cui parli. Io non le volevo queste cose. –
- Fammi capire, adesso è colpa mia se tu facevi lo stronzo? – Era incredulo. No, era impossibile. E Dominik sbuffò, agitando le mani davanti al viso, come se fosse esasperato.
- No, Federico! Io…non sono abituato alle persone come te, o come Samuele. Con le persone ci parlo quanto basta, perché sono insegnanti, o amici di famiglia. Nessuno si è mai fermato a parlare con me, e non mi interessa. Ma tu eri lì, e insistevi, e mi toccavi…e io non le so fare queste cose. Samuele…è diverso. Quando c’è Samuele, ci sei sempre anche tu: e quando voi siete insieme… - Lo sentì sospirare, come se le parole gli si fossero ingarbugliate in testa. – Come quella volta che Samuele è venuto a casa, di domenica mattina. Voi due eravate insieme, e avete portato qualche cosa di dolce e di denso…come il miele. E quando Samuele mi ha parlato, io mi sono lasciato coinvolgere, perché volevo entrarci pure io in quel miele che avevate insieme. E’ così, quando c’è Samuele: tu non te ne accorgi, ma cambiate tutti e due. Ma quando ci sei solo tu, mi fai diventare nervoso… -
Era nervoso anche in quel momento: lo si vedeva dal modo in cui agitava le mani prima, e prendeva a tormentare il bordo della federa del cuscino.
Federico lo fermò premendoci sopra la sua mano.
- Credi che anche tu non mi renda nervoso? –
- E’ diverso. – - E perché sarebbe diverso? – Lo sentì sbuffare di nuovo. Un sospiro più pesante, come se qualcosa gli premesse sulla gola.

- Perché io sono cieco! Non sono come te…Tutto mi rende nervoso: stare nella stessa stanza con te, aspettare che torni a casa, mettere piede fuori di casa quando me lo chiedi, e persino stare qui nella tua stanza con te che mi parli così vicino. E allora devo staccare un po’, mantenere le distanze per riportare un po’ di ordine nella testa. Non faccio lo stronzo, Federico. E’ che sono diverso. -
Federico gli lasciò andare la mano, risalendo lungo il braccio, fino a raggiungergli il viso. Quando gli sfiorò il labbro inferiore con il pollice, Dominik sussultò, con le guance tutte rosse.
- Tu mi piaci, Dom. E vorrei davvero essere la persona migliore e più comprensiva del mondo, però non ce la faccio. Sto pensando che vorrei solo che mi baciassi, adesso, e che tutto il resto se ne andasse a fanculo. – Voleva davvero essere un santo, ma l’unica cosa a cui pensava erano le labbra di Dominik e il suo corpo caldo vicino.
Lasciò che la mano scivolasse lungo il suo collo, sulla nuca, e poi sulla parte alta della schiena, per avvicinarlo ancora e allo stesso tempo costringerlo ad abbassare il braccio e la spalla, privandolo della possibilità di allontanarlo. Ma Dominik sfuggì a quella presa, sollevò il braccio e gli portò la mano sul viso. Aveva imparato a riconoscere la differenza tra le carezze e il modo che aveva di guardarlo:  in quelle occasioni, sfruttava tutti polpastrelli, aperti a ventaglio, e premeva con più forza. Le carezze, invece, erano tutte concentrate nel palmo della sua mano che lo sfiorava, e nel polpastrello del pollice che seguiva il contorno del suo zigomo, del naso, delle labbra.
- Sei pensieroso, Federico – soffiò, in un sospiro. Poi lo lasciò andare, ma la mano rimase adagiata sulla sua spalla. - Mi rendi nervoso. E mandi in confusione la musica nella testa. E se la musica va in confusione diventa tutto troppo buio – lo sentì dire, prima che avvicinasse un po’ le labbra alle sue, per un bacio leggero.
Il bacio leggero non bastava.
Federico gli premette le mani sulla nuca, costringendolo a qualcosa di più profondo. Sentì il suo corpo tendersi, sotto le coperte, e poi liberarsi in un sospiro contro le labbra mentre gli si aggrappava alle spalle. Faceva sempre così quando lo baciava, gli si stringeva addosso come se gli chiedesse di sostenerlo in chissà quale battaglia, arrendevole, e accendeva una morsa di desiderio nello stomaco che poi non placava mai.
Ed era così morbido, su quel materasso, con le gambe fasciate dal pigiama pesante e la maglia che si era sollevata un po’, scoprendogli un fianco.
Lo schiacciò con la schiena contro il materasso senza neppure essersene reso conto: solo quando sentì il calore delle sue gambe contro la coscia avvertì una sensazione di calore salire lungo la spina dorsale fino al viso, soffocandolo. Tutto soffocava: la coperta troppo pesante, le mani calde di Dominik, il suo corpo rovente e dannatamente lontanissimo, perché c’erano quelle diamine di magliette, e poi la pelle, era di troppo anche quella.
Allora si sollevò sulle gambe, staccandosi appena da lui: lo vide restare con il viso un po’ sollevato, gli occhi chiusi e le labbra gonfie, le mani ancora tese verso di lui.
E si sfilò la maglia del pigiama.
Era come saltare dal ciglio di un baratro e chiedersi se la spinta sarebbe stata abbastanza per raggiungere l’altro lato. Di certo fu abbastanza per piegarsi di nuovo sul corpo di Dominik e sentirlo sussultare non appena le mani vennero in contatto con la pelle nuda del suo petto.
Federico chiuse gli occhi, prendendosi nel sapore dolciastro che aveva ancora sulle labbra.
Le mani di Dominik erano ghiacciate.
Il suo corpo pareva così rovente, ma le mani erano come parte di un'altra persona.
Fredde, dai palmi alla punta delle dita, e ce le aveva adagiate all’altezza dei pettorali, quasi sullo sterno: il contrasto era tale che si sentiva la pelle caldissima, come se potesse prendere fuoco da un momento all’altro.
Lasciò, però, che Dominik lo sfiorasse: lungo lo sterno, la linea delle coste, la depressione dello stomaco e la peluria sull’addome. Poi, prima ancora di raggiungere l’altezza dell’ombelico, lo sentì sussultare e ritrarre la mano, riportandola nel territorio sicuro della spalla.
Gli venne da sorridere, quasi, se non fosse stato che la posizione sollevata aveva alzato anche le coperte, rivelando il torace di Dominik lasciato scoperto dalla maglia che si era sollevata.
Ci poggiò la mano, proprio su un fianco, prima che tirasse di nuovo fuori quella insopportabile mania di risistemarsela, nascondendosi. Lo avrebbe spogliato tutto, iniziando da lì.
Prima che potesse rendersene conto, poggiargli una mano sul polso per fermarlo, Federico l’aveva già sollevata: l’addome, il torace, la linea delle spalle. Arrendevole come non l’aveva mai visto, Dominik sollevò entrambe le braccia.
E la maglia finì sul pavimento.
La pelle di Dominik era qualcosa di spettacolare. Chiarissima, dall’aspetto morbido e carezzevole, era coperta solo da una lieve peluria in corrispondenza dello sterno e vicino l’ombelico. Aveva l’addome piatto e le coste un po’ rilevate, soprattutto quando inspirava: faceva venir voglia di affondarci le labbra e baciarlo dappertutto.
Invece gli si premette addosso, pelle contro pelle, fondendo il calore del proprio corpo con quello del suo: e lo sentì sussultare, trattenendo il fiato, ma senza sottrarsi, anzi si lasciò baciare come se non avesse fatto altro per tutta la vita. Come se fosse come tutti gli altri.
Come se aspettasse quello: toccarlo ed essere toccato, baciarlo ed espirargli sulle labbra.
Federico gli percorse il petto con la mano, poi continuò sulla schiena, e gli catturò le labbra in un bacio.
Dominik non era Dominik. Era un sogno erotico che prendeva forma e gli si condensava tutto nei pantaloni. Forse sarebbe morto così, con il cuore sfiancato per quanto batteva, e che galoppava più forte quando sentiva Dominik sospirare o le sue mani addosso, sulla schiena.
I fianchi di Dominik era strettissimi, e contrastavano con le spalle più larghe.
Federico ne seguì il profilo, lungo il bordo dei pantaloni: la depressone sulla schiena, il profilo spigoloso del fianco, la morbidezza della coscia, vicino all’inguine….e poi si spezzò.
Il ghiaccio si condensò nella mano di Dominik sul braccio destro, all’altezza del bicipite.
- Federico… - lo sentì mormorare. E la frustrazione, l’eccitazione, il desiderio, presero tutti forma nel suo nome e in quel tono che era un silenzioso diniego.
- Perché no? –
- Non ce la faccio – gli rispose solo.
Steso su un letto, mezzo nudo, con quel viso da quadro peccaminoso, non ce la faceva.
Lui stava prendendo fuoco.
- Guarda che se hai paura possiamo… - iniziò, ma Dominik scosse il capo, adagiando le mani sul cuscino. Respirava a fatica, quasi, come gli mancasse l’aria.
- No, Federico. Non è questo. E’ che…è troppo. –
Federico si lasciò cadere sul materasso, di fianco a lui, con la testa tra le mani.
Era assurdo, sotto ogni punto di vista. Era troppo. Cosa cazzo significava troppo?
Era troppo quell’esasperazione che teneva nei pantaloni, per esempio!
- Sei arrabbiato? – lo sentì poi domandare, tenero. Ed era arrabbiato sì, come un toro davanti a cui avevano sventolato un drappo rosso, ma non voleva litigare. Non voleva dirgli che secondo lui non gli piaceva abbastanza, e che era uno stronzetto sadico.
- Che vuol dire che è troppo? – chiese allora, tra i denti.
Dominik si girò tra le coperte, sul fianco, e se lo trovò davanti mentre voltava il capo verso di lui.
- Le sensazioni, Federico. Io vivo di quelle. Tutti i ricordi della mia vita sono condensati lì, persino i tratti del viso della mamma. Poi tu mi baci, ed è come se un soffio di vento aprisse tutti i cassetti e  mettesse confusione, agitasse via tutto. Arriva un punto, quando mi baci, che credo che qualche cosa possa scoppiare, e devo smettere un po’, per riordinare le cose. Adesso…adesso è stato peggio. Perché quella soglia, dove tutto sembrava dover esplodere, si è spostata, è diventata un po’ più lontana ma gli effetti sembrano diventare più devastanti, e io…non ce la faccio. Ho bisogno di rimettere ordine nella testa. -  Federico si passò la mano sul viso, stropicciando gli occhi. Doveva stare calmo, essere comprensivo. Era un ragazzino, ed era cieco.
Pensava a Samuele.
- Lo è perché noi non sappiamo che cosa voglia dire crescere così e doversi appoggiare a chiunque persino per andare al bagno. Non sappiamo cosa si sia creato intorno quel ragazzino, o cosa gli sia capitato. Ci hai mai pensato? Magari a scuola lo prendevano in giro, i bulli lo spingevano nei corridoi, o gli amichetti lo snobbavano perché non ci vedeva. Forse è stato un miracolo che abbia trovato la musica. E che abbia trovato te. –
Dominik gli poggiò una mano sulla spalla nuda, dopo averla cercata sul materasso.
- Una volta mi hai detto che io non sono fatto per le sensazioni forti. E questo è forte. Non ci sono abituato a queste cose – lo sentì mormorare.
Ed era così morbida la sua voce, adesso che aveva acquisito quel tono, che era impossibile arrabbiarsi, soprattutto quando l’espressione di biasimo di Samuele lo tormentava nel buio delle palpebre chiuse. Aveva ragione Samuele, aveva ragione Dominik, ma un po’ di ragione ce l’aveva anche lui. E stava impazzendo.
Allora Dominik lo lasciò andare.
- Ti arrabbierai con me, per questo? Te ne andrai? –
Federico sussultò.
- Perché me ne dovrei andare, scusa? –
- Perché quando non faccio quello che vogliono loro, le persone se ne vanno – lo sentì mormorare piano. E il mondo divenne un posto più nero.
Magari a scuola lo prendevano in giro, i bulli lo spingevano nei corridoi, o gli amichetti lo snobbavano perché non ci vedeva.
Si voltò su un fianco, verso di lui.
- Non vado da nessuna parte, Dom. –
- Allora promettilo. –
Gli venne da sorridere.
- Promettilo, Federico! Giuralo! –
- No che non lo giuro! –
- Se non lo giuri non vale! Dammi il mignolino! –
- Uffa! –
- Adesso non puoi tirarti indietro! E se ti tiri indietro lo dico a tutti i tuoi amici, così non vorranno più giocare con te!
- Perché ridi? – gli chiese Dominik, e Federico riaprì gli occhi.
- Quando eravamo bambini, io e Milena ci facevamo sempre i dispetti. Allora, quando ci promettevamo di non farlo più, ci serviva un contratto, e ci davamo il mignolino. Era un passo di sangue, quello – gli spiegò, ancora con una mezza risata.
E con la mano destra, libera, cercò il braccio, di Dominik, fino alla mano, sfiorandone il profilo delle dita. Poi prese il mignolo, affusolato e morbido, e ci intrecciò il suo.
- Prometto che non me ne vado. E dal mignolino non si torna indietro! –
Anche Dominik sorrise, avvicinandosi di più a lui con il capo.
- E tu prometti che farai meno lo stronzo, però. –
- Mh…d’accordo. –
- Promettimelo! – lo incalzò, agitando le mani intrecciate, e lo sentì ridere, cristallino.
- Promesso. -
 









Nota al capitolo 30
Ce l'ho fatta, finalmente!
Sono di corsa ma ce l'ho fatta!
Questa sera risponderò alle recensioni, e adesso ne approfitto per ringraziare tutti.
Gli scleri li conservo per la mia pagina facebook, ma qui posso solo dirvi grazie, grazie, grazie!
Sono affezionata a questa storia ad un livello allucinante!
Questo capitolo, con la mia fissazione per le decine, ha un suo senso: è il capitolo in cui qualcosa subisce uno scossone. 
Samuele, Mattia, Dominik.
Tutti si scuotono, in qualche modo. Anche Federico.
A questo capitolo seguirà un altro stralcio, lo stralcio II, su Samuele e Mattia, e poi si ritornerà alla storia: probabilmente scriverò prima di altri capitoli, e solo dopo lo stralcio.
Ringrazio tutti per il vostro affetto, per le belle parole che spendete per questa storia, che esiste anche grazie a voi.
Un bacio a tutti, e a presto.
Esse

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Capitolo 34
*** Stralcio II: Siamo vivi, domani chi lo sa? ***


L'energia del rock 'n' roll è quella di abbattere il muro della fantasia.

Bono Vox

 

http://www.youtube.com/watch?v=FeNtJ1Ykaf0


Stralcio II: Siamo vivi, domani chi lo sa?
 
Era iniziata come una pessima idea.
Poi era diventata ottima.
Adesso non lo sapeva, perché stava urlando così forte che il cervello andava in frantumi.
- La conosci questa? –
La voce calda di Mattia, alterata dal tono alto di voce, gli giunse vicino ad un orecchio, insieme al tocco caldo della sua mano sulla spalla. Se c’era una cosa di Mattia che aveva imparato, da quel poco che lo conosceva, era quanto fosse importante per lui il contatto fisico: tutte le volte che parlava, con chiunque, doveva sfiorarlo anche solo accidentalmente, carezzevole e un po’ inquietante, come il tocco della Morte.
E poi aveva imparato anche che conosceva a memoria tutte le canzoni di Vasco Rossi, anche quelle che lui non ricordava di aver mai sentito alla radio. Non per niente si era presentato a casa sua con indosso un maglioncino, sopra ad una camicia dall’aria apparentemente normale, e alla fine, allo stadio, si era tolto tutto rivelando una t-shirt con una stampa di Vasco in concerto.
Quella, di canzone, però, la conosceva bene.
Eh già! Sembrava la fine del mondo, ma io sono ancora qua.
L’aveva ascoltata per settimane e giorni interi: aveva iniziato a circolare in rete proprio nel periodo di una sua colossale litigata con Riccardo, quando gli aveva giurato e spergiurato che sarebbero partiti per qualche giorno loro due da soli per poi non presentarsi sotto casa sua all’orario stabilito, non rispondergli al telefono, e chiamarlo dopo tre ore come se niente fosse dicendo che proprio non ce la faccio Samuele, non sai che è successo! Non aveva neppure voluto sapere cosa fosse successo, gli aveva attaccato in faccia: era stata una delle ultime briciole di amor proprio che ricordava di aver tirato fuori. E poi era tornato tutto come prima.
Il freddo quando arriva poi va via, il tempo di inventarsi un’altra diavoleria.
Accendeva la radio, e si rendeva conto che, nonostante tutto, era ancora lì, vivo.
Eh già! Sembrava la fine del mondo ma sono qua e non c’è niente che non va.
E adesso che ci pensava era sabato sera, Riccardo non lo aveva chiamato, un quasi sconosciuto aveva speso un centinaio di euro per portarlo a un concerto di Vasco…e lui si era rotto i coglioni di tutto.
Urlò, insieme al resto dello stadio, proprio mentre attaccava il ritornello, con le mani in aria.
- Col cuore che batte più forte, e la vita che va e non va! Al diavolo non si vende…si regala! –
Era liberatorio. Era trovarsi sospeso su una corda tesa sopra un precipizio e agitarsi senza la paura di cadere di sotto…che tanto, chi se ne fotteva!
E Mattia cantava, e lo stadio cantava, e che si fottessero tutti anche loro.
Aveva fatto bene ad andare a quel concerto.
Dopo che Mattia lo aveva invitato, aveva pensato per due giorni interi di dargli buca, ma alla fine non se l’era sentita di fargli sprecare quei soldi, perché sarebbe stato capace di non andarci proprio, nemmeno con un suo amico, solo per fargli dispetto, e avrebbe  perso quei soldi per nulla. Poi Vasco era Vasco, insomma…era impossibile rinunciare.
Gli aveva inviato il suo indirizzo per sms prima di pentirsene, e Mattia aveva risposto con una di quelle faccine del cazzo che gli sembravano sempre idiote. Una specie di punto e virgola con una parentesi. Le odiava, ma inviata da Mattia non gli faceva più tanto schifo.
Se l’era fatta spiegare, dopo. Era un occhiolino, a quanto pareva, ma ci voleva davvero parecchia fantasia per capirlo!
Puntuale come un orologio, anzi in anticipo di cinque minuti, Mattia si era presentato sotto casa sua e si era appeso al citofono invitandosi a salire, quando lui stava ancora cercando di finire i piatti con cui aveva pranzato senza sporcarsi la maglietta. La maglietta che Mattia aveva definito ecco, ora questa maglietta aderente per un concerto di Vasco va bene.
In macchina Mattia lo aveva deliziato con un album dei migliori successi dei Queen, avvertendolo che se avesse provato a cambiare musica lo avrebbe abbandonato sul ciglio della strada.
Allo stadio erano riusciti a entrare dopo quasi due ore di fila, e in quel momento avevano parlato un po’: aveva scoperto che Mattia fosse figlio di benestanti, che avesse una sorella un po’ stronza e un fratellino insopportabile che si era convinto di essere gay. Gli aveva parlato della vacanza studio in Inghilterra a diciannove anni, quando aveva pregato suo padre, per “imparare la lingua” e invece aveva imparato benissimo i contorni delle lingue dei ragazzi inglesi. O quando era stato a Malta con gli amici e fingeva tutte le notti di aver rimorchiato una ragazza con cui passare la serata, quando in realtà spariva per inseguire le belle braccia muscolose di qualcuno. Poi ai suoi amici lo aveva confessato, gli aveva detto anche, e a parte i tre stronzi che se l’erano data a gambe, gli altri erano più o meo rimasti, nonostante adesso preferisse uscire con il gruppo di amici gay, perché, a suo dire, avevano più interessi in comune. Aveva parlato a ruota libera, così tanto che Samuele pensò che prima o poi sarebbe morto per mancanza d’aria. Invece ad un certo punto aveva smesso, e aveva sentito come se venisse a mancare qualcosa, insieme alla sua voce. Lui, in cambio, gli aveva raccontato quello che poteva: che a diciotto anni lo avevano cacciato di casa e che non era stato da nessuna parte del mondo, e che anche gli amici di sempre, chi più velocemente, chi meno, erano spariti tutti. Di Riccardo però non aveva parlato.
Aveva glissato su quell’argomento, e anche Mattia non aveva parlato di ragazzi.
Poi il concerto era iniziato, si erano presi qualche birra, e l’atmosfera si era scaldata.
Il tocco di Mattia lo raggiunse di nuovo, questa volta sul braccio, vicino al polso.
Quando si voltò lo trovò con una birra appena stappata in mano.
- Bevi! – lo invitò, sovrastando la voce del cantante e quella della calca urlante. La prese tra le dita, sfiorando appena le sue, che per il contatto con la bottiglia erano fredde e un po’ umide.
La portò alle labbra, reclinando il capo indietro e mandando giù una sorsata fresca che gli procurò sollievo, in tutto quel caldo: nonostante fosse gennaio, tutta quella gente scaldava più di un calorifero.
Mattia fischiò, e ne incrociò lo sguardo proprio mentre abbassava la testa.
- Se fai altro come bevi la birra, potresti uccidere qualcuno! – Samuele gli diede una gomitata.
- Sei sempre il solito! – lo apostrofò. Poi gli passò la bottiglia, piena per metà. – Bevi, toh! –
Negli occhi di Mattia saettò una luce strana, mentre stringeva il vetro tra le dita. E solo quando vide le sue labbra chiudersi intorno all’imboccatura della bottiglia, Samuele si rese conto di avergli offerto di bere da dove aveva bevuto lui. E sarà stata la leggerezza che si sentiva addosso, la musica, la sensazione di non dover pensare a niente,  ma c’era qualcosa di stranamente sensuale nel modo in cui Mattia beveva, mischiando la saliva alla sua e passandosi poi la lingua sulle labbra quando staccò la bottiglia dalla bocca.
Aveva perso il conto di quante ne avessero bevute. Tre o quattro, forse.
-Io sono ancora qua! – lo sentì cantare, un po’ stonato, con le braccia in aria e quelle mani un po’ tozze tese allo spasimo come se volesse raggiungere il cielo e farsi assorbire.
Aveva la fronte un po’ lucida di sudore e gli occhi brillanti, persino i capelli un po’ appiccicati alla fronte; ma non aveva mai visto niente di più attraente.
Avrebbe potuto avere chiunque avesse voluto: e invece se ne stava a un concerto con lui che non sapeva far altro che lagnarsi. Forse una birra avrebbe potuto anche concedergliela prima.
Gli si avvicinò a un orecchio, per farsi sentire.
- Quasi quasi mi convinco che una birra avrei potuto accettarla prima…ma non ti vantare troppo adesso! – Mattia scoppiò a ridere, cristallino.
- Oh, ne hai ancora da recuperare, caro! Hai bevuto solo tre birre, te ne mancano sei per arrivare alle nove che mi devi! –
- Stai scherzando spero! –
- Affatto! Magari riesco a farti ubriacare e riprenderti con il telefonino mentre canti I will always love you in piedi sul tavolo di un bar! – Quando Samuele lo fissò torvo, incredulo, Mattia rise ancora.
- Ma da dove ti vengono in mente certe cose? – lo prese in giro, con una mezza risata.
- Io l’ho fatto – gli rispose invece quello, trattenendo le risa e portando alla bocca il collo della bottiglia che non aveva ancora finito. – All’addio al celibato di un mio amico del liceo per cui mi ero preso una cotta colossale. Era ubriaco fradicio, me lo ricordo ancora! –
Samuele scosse il capo, ridendo.
Immaginare Mattia in piedi su un tavolo a cantare era assurdo, ma la sola idea gli faceva venir voglia di ridere almeno per mezz’ora di fila, senza curarsi del resto.
Poi Mattia gli diede un’altra gomitata.
- Bevi invece di fare lo stronzo! – gli urlò, e lui afferrò la bottiglia reclinando il capo indietro. – Così magari ti ubriachi e mi baci – aggiunse quello.
Solo che, proprio mentre lo diceva, Vasco attaccò con un forte Fammi godere!, che gli riempì le orecchie.
E la birra rinfrescava la gola.
 

§§§

 
Le strade vuote erano confortanti per l’emicrania.
Nonostante le luci abbaglianti, il caldo soffocante e la sensazione di aver fatto un giro sulle montagne russe, andava meglio.
Abbandonare San Siro era stato più che un miracolo: una fila allucinante, una calca da far paura, e così tante macchine come non ne aveva mai viste.
Ma finalmente, dopo un’ora e un quarto, Mattia guidava  per le strade silenziose di Milano.
- Mi scoppia la testa… - sentì Samuele borbottare dal sedile passeggero.
Nove birre non era riuscito a fargliele scolare, ma sei sì. E adesso gli effetti sulla testa si sentivano eccome. Era abituato a bere quasi ogni sera, ma mai più di un drink: eppure quando Samuele gli aveva passato le birre, dopo aver bevuto, non era riuscito a dire di no, perché poggiare le labbra sul vetro ancora umido della sua saliva era un po’ come baciarlo.
Mentre cantava le canzoni di Vasco l’avrebbe baciato sul serio, a tradimento, ma non l’aveva fatto solo perché si sarebbe incazzato peggio di un toro il giorno della corrida, e lui moriva dalla voglia di trascorrere una serata senza casini. E soprattutto, potergli rinfacciare di essersi divertito per invitarlo ancora.
Per avere quei biglietti si era quasi umiliato, di fronte a suo padre, pregandolo di procurarglieli, e non importava che si fosse sentito dire, per l’ennesima volta, di essere ancora un fallito, a trentacinque anni, che andava da paparino a chiedergli dei biglietti per un concerto perché non si era laureato nella facoltà che voleva lui e non era diventato altro che uno scemo che vendeva sigarette di plastica ai ricconi annoiati.
Samuele aveva detto di sì. Era in macchina con lui. Mezzo ubriaco. Bastava quello.
Mattia premette la frizione e scalò la marcia, mentre svoltava a destra.
- Adesso andiamo a mangiare qualcosa e tornerai come nuovo! –
- No, Mattia, è tardissimo, dovremmo tornare a casa – lo sentì lamentarsi, lieve, con la mano sulla faccia.
Gli occhi azzurri saettarono sull’orologio analogico sul cruscotto. Segnava quasi l’una del mattino.
- Cos’è, mammina ti aspetta a casa? – lo canzonò. - Non essere palloso, dai! Muoio di fame, domani è domenica e puoi svegliarti quando ti pare! E io ho voglia di una piadina ripiena di qualsiasi cosa da Salvo! –
- Da chi? –
- Non hai mai mangiato una piadina da Salvo?! Ma non ti vergogni?! – lo rimproverò, con uno sbuffo melodrammatico, per accentuare quella canzonatoria incredulità.
Salvo era il gestore di un piccolo locale che aveva conosciuto per caso grazie a Marco, il suo  ultimo ex ragazzo: era un omone dalle spalle larghe, che si era trasferito a Milano dalla Sicilia con uno di quei camion con cui vendeva cibo per la strada. Alla fine era riuscito ad ampliarlo, trasformando un magazzino in un locale con fuori un tendone in plastica dove d’inverno si moriva di freddo e la gente faceva a gara per occupare i quattro tavoli sotto la stufa.
Però faceva delle piadine che erano la fine del mondo.
E si trovava facilmente parcheggio nelle vicinanze. Difatti, Mattia riuscì a lasciare l’auto proprio dietro l’angolo, dallo stesso lato della strada. Si spinse verso il sedile posteriore per prendere il giaccone.
- Togliti quella faccia da funerale e scendi! – intimò a Samuele. Quello rise, aprendo la portiera per infilarsi in giaccone, che dentro lo stretto abitacolo della macchina ci entrava a malapena.
- In realtà stavo cercando di decidere tra la porchetta e il prosciutto crudo – lo sentì mormorare, con un largo sorriso canzonatorio, mentre si piegava in avanti per guardalo  mentre se ne stava ancora in macchina a tentare di indossare il giaccone.
- Sei simpatico come un pompino fatto da uno con l’apparecchio ai denti! –
- Di solito si dice come un calcio nei coglioni, ma apprezzo la fantasia! –
Mattia  scese dall’auto, chiudendo la portiera e premendo il piccolo tasca della chiusura: poi si voltò verso Samuele.
- L’hai mai provato? – gli chiese, sollevando un sopracciglio.
- No –
- Allora sta zitto, non hai idea di cosa si provi – gli rispose, facendo spallucce e afferrandolo subito dopo per la manica del giaccone. – Dai, sbrigati! Poi mi dirai se ho ragione o no su quella piadina! –
Ovviamente aveva ragione. Aveva ordinato per entrambi una delle piadine migliori: porchetta, svizzero, pomodoro, wurstel e salsa a composizione rigorosamente segreta.
E Samuele si era a dir poco leccato i baffi.
- Allora, avevo ragione o no? –
- Questa devo concedertela, era buonissima. –
- E stavi morendo di fame – lo pungolò, dandogli una gomitata leggera sul braccio che aveva poggiato sul piccolo tavolo di plastica.
Si erano fermati a mangiare sotto il tendone, in un tavolo libero sotto la stufa che riscaldava un po’ l’aria, anche se a quell’ora della notte c’era comunque un freddo boia e Mattia aveva le dita completamente arrossate. Samuele invece quasi pareva insensibile al freddo: se non fosse stato per le labbra lievemente screpolate, Mattia avrebbe creduto che non ne risentisse per nulla.
Infilò in bocca l’ultimo boccone, mentre Samuele aveva già finito.
Lo intercettò mentre lo stava fissando.
- Che c’è? – Samuele fece spallucce, distogliendo lo sguardo.
- Niente. Non passavo una serata così incasinata da un sacco. –
- E’ perché sei vecchio. – Lo vide sorridere, un po’ amaro, senza dirgli altro, e di fronte a quell’espressione neppure lui ebbe il coraggio di aggiungere qualcosa.
Adagiò semplicemente la mano sul tavolo, accanto a quella di Samuele: se fosse stato uno dei suoi amici, uno come Marco, Carlo, o come Davide, l’avrebbe poggiata sopra la sua.
Ma non lo fece. La lasciò lì, sulla plastica fredda, mentre la sentiva vibrare come se fosse fatta di polvere di ferro e la mano di Samuele fosse una calamita.
Moriva dalla voglia di farlo da ore, e c’era riuscito, almeno a sfiorarlo: passargli la birra, convincerlo a sollevare le braccia mentre Vasco cantava, dargli una pacca amichevole sulle spalle.
Prendergli la mano sarebbe stato diverso.
La allontanò di scatto, poggiandola sullo schienale della sedia e facendo forza per mettersi in piedi.
- Andiamo, dai. Si è fatto tardissimo e non ho più nemmeno la forza per tornare a casa. Credo di essere un po’ brillo, sai? –
- Un po’? – lo sentì dire, e poi la mano calda di Samuele gli si strinse intorno al braccio, per impedirgli di cadere quando per sbagliò calcolò male le misure e inciampò in uno dei piedi della sedia. Non era ubriaco, e ci vedeva benissimo, ma sentiva di avere i riflessi un po’ lenti.
E certamente li aveva, se per mettere a fuoco il viso di Samuele, e rendersi conto di non averlo mai avuto così vicino in tutta la sua vita, ci mise tutto quel tempo.
Ma quando lo vide bene notò come avesse una piccola cicatrice sul naso, una di quelle della varicella che erano rimaste anche a lui su un fianco.
Poi Samuele lo lasciò andare, con un sorriso divertito.
- Andiamo a casa mia, ti faccio un caffè. Se guidi così rischi di ammazzarti! E dammi le chiavi, guido io! –
 

§§§

 
Samuele lanciò il giaccone su una sedia, senza curarsi di raccoglierlo quando quello finì sul pavimento.
- Vieni, entra – borbottò, passandosi una mano sul viso.
Aveva un mal di testa terribile, erano passate le due del mattino e non vedeva l’ora di lasciarsi cadere sul letto e dormire almeno per dodici ore di fila
Si svuotò le tasche sul mobile di legno chiaro all’ingresso: il cellulare, il portafogli, le chiavi di casa.
Mattia se ne stava stranamente silenzioso dietro di lui, con gli occhi che saettavano tutto intorno a studiare l’ambiente che lo circondavano: si soffermò, soprattutto, su un quadro astratto sulla parete di fronte a lui.
- Carino. Di chi è? – gli chiese. Samuele sollevò lo sguardo per seguire il suo.
- Non ne ho idea. Me l’hanno regalato quando mi sono trasferito….sai, è di buon auspicio – gli spiegò, ma lo superò subito per entrare in cucina.
Adesso lo voleva anche lui un caffè. Corretto con la vodka.
- Ecco qua! Ti piace? –
- E’ bello ma…dove lo metto, Riccardo? Non c’è una parete libera! –
- Togliamo questa plafoniera e lo mettiamo qui… -
- E la luce? –
- Ce ne sono altre due! Per un corridoio basta e avanza! E poi così te lo troverai davanti tutte le volte che tornerai a casa, e allora mi penserai. –
- Io ti penso lo stesso… -
- Che serata! Spero che questo caffè sia miracoloso, Samuele! –
Gli sorrise appena, un accenno, mentre si sporgeva per aprire lo sportello di fianco al frigorifero ed estrarre la caffettiera. Gli stava dando le spalle, fortunatamente, o non gli sarebbe sfuggita l’espressione che aveva, conoscendo il tipo.
Riccardo non lo aveva chiamato.
Si erano sentiti la sera prima, quando gli aveva detto che non si sarebbero visti, perché andava ad un concerto con un amico: lui gli aveva risposto che fosse contento che avesse qualcosa da fare, perché quella sera proprio non ce la faceva, aveva un impegno importante.
E tutto il giorno non l’aveva chiamato.
- Grazie a Dio sono riuscito a evitarmi la cena del sabato dai miei…non sai quanto sono pallosi quei ricconi! Si credono chissà chi solo perché hanno una laurea…ma non una di quelle normali, eh? No, non sia mai! Loro hanno le lauree vere, quelle in Medicina, Giurisprudenza, Ingegneria aerospaziale e sti gran cazzi! Uno come me, con la laurea in Filosofia ci si pulisce – iniziò, e diede un colpo sul tavolo, fermandosi. – Vedi? mi fanno diventare scurrile! – soffiò poi.
Samuele sistemò con cura il caffè nella caffettiera, stando il più possibile attento a non lasciar cadere la polvere scura sul ripiano della cucina: tentativo inutile, dato che per la stanchezza gli tremavano anche le mani.
- Hai una laurea in Filosofia? Sul serio? – chiese poi, chiudendo finalmente la caffettiera e avvitandola stretta, mentre si voltava verso Mattia. Si era seduto dalla parte opposta del tavolo rispetto a lui, e aveva i gomiti poggiati sul legno e la testa tra le mani.
Quei dannatissimi occhi sembravano due fari.
- Ti sembra così strano? –
- Hai detto che hai un negozio di sigarette elettroniche. Uno con una laurea di solito cerca di usarla. Ma d’altronde, da uno che vende sigarette elettroniche e poi fuma ugualmente cosa mi aspettavo? – lo prese in giro.
Mattia sorrise, con l’aria stanca ma leggera.
- L’ho presa solo perché i miei pretendevano che facessi l’università, e ho scelto quella che poteva piacermi di più. Alla fine non è stato tanto male. –
Samuele sistemò la caffettiera sul fuoco, regolando la fiamma affinchè non fosse troppo alta da bruciare il manico di plastica. Il silenzio era confortante: c’era solo il respiro di Mattia, e il leggero sfrigolio del fuoco. Se avesse chiuso gli occhi si sarebbe addormentato lì, in piedi di fianco alla cucina, come un idiota.
Era stato divertente, tutto.
Anche se stava crollando.
Mattia, con la testa tra le mani, aveva chiuso gli occhi.
Quando chiudeva gli occhi, Mattia sembrava diverso.
Era come se quei due fari azzurri, dal taglio allungato e felino, fossero in grado di renderlo quasi pericoloso e diffidente come un gatto, come qualcuno in grado di mettere in soggezione chiunque solo con uno sguardo. Poi abbassava le palpebre, e l’attenzione veniva catturata dalla linea morbida delle labbra, dalle mani un po’ tozze, da quel modo tenero che aveva di prendere a giocherellare con qualsiasi cosa si trovasse a portata di mano.
Riaprì gli occhi.
- Hai una bella casa comunque. Ci vivi da solo? – gli chiese, rimettendosi dritto.
Samuele controllò il caffè. Ancora niente.
- Mi trovo meglio così – mentì. L’unica persona che voleva, non era lì.
- Mh, anch’io. Ho provato ad avere un coinquilino, ma mi mancava troppo la mia privacy. Ho tentato anche tre volte la convivenza, ma è andata da schifo. –
- Perché? –
- Sono uno impulsivo, Samuele. Faccio sempre le cose senza pensare, e troppo presto. Semplicemente, era troppo presto – gli rispose, facendo spallucce.
L’aroma del caffè si diffuse insieme al gorgogliare che proveniva dalla caffettiera, e Samuele si voltò per prendere due tazzine, dandogli le spalle.
- Quanto zucchero? –
- Senza, grazie. –
- Dovresti prenderlo un po’ di zucchero, sai? Ti addolcirebbe un po’! – lo prese in giro. Mattia rise.
- Non sono io quello stronzo tra noi, Samuele – gli rispose a tono.
Samuele riempì le due tazzine, e in una mise un cucchiaino raso di zucchero.
Poi le prese ciascuna in una mano, adagiandole sul tavolo e sedendosi proprio di fronte a Mattia.
Lui aveva stretto le mani intorno alla tazzina bianca.
- Comunque, dopo ho deciso di prendermi una pausa dalle relazioni e dai casini – aggiunse, stringendosi nelle spalle. Faceva roteare le tazzina spingendola con l’indice, senza bere, quando Samuele ne aveva già mandato giù metà e si sentiva un po’ meno frastornato.
Seguiva le dita di Mattia che si muovevano come se fosse incantato: era una danza morbida, e sempre uguale, come se stesse seguendo un disegno che si era fatto nella mente.
Poi si fermò.
Samuele alzò lo sguardo.
Si trovò davanti gli occhi di Mattia che parevano volerlo studiare, o ipnotizzare. Circuire, forse.
Quando parlò, aveva la voce carezzevole che aveva sentito solo nei film, nelle bocche di certi assassini prima di uccidere la loro vittima.
- E tu, Samuele? Stai con qualcuno? – gli domandò. Samuele si strinse nelle spalle.
Gli scoppiava la testa.
- Più o meno – rispose, senza aprirsi troppo.
Mattia strinse le labbra, poi le riaprì, umettandole con la lingua.
- E’ quello che rispondo di solito ai miei quando mi chiedono qualcosa di cui non voglio dire niente – gli rispose poi, e in un sorso solo, reclinando il capo indietro, mandò giù tutto il caffè bollente.
Samuele guardò i capelli che gli scivolavano sulla nuca.
Avevano fatto lo stesso percorso quando, durante il concerto, lui aveva piegato il capo indietro per cantare e i capelli scuri si erano mossi.
Quando Mattia mandò giù il caffè, il pomo d’Adamo ebbe un balzo.
- Sto con uno sposato – disse alla fine.
La tazzina di Mattia si poggiò sul tavolo, e i suoi occhi gli finirono di nuovo addosso. Si sentì d’improvviso d’imbarazzo, e tutte le sensazioni che aveva creduto avrebbe provato gli finirono addosso: il disagio, l’imbarazzo, la sensazione di essere sporco di fronte agli occhi limpidi di Mattia. Che stava in silenzio. E lui doveva parlare, adesso, o il silenzio lo avrebbe schiacciato.
Ma Mattia semplicemente rimase impassibile.
-  Non lascerà sua moglie, Samuele. Anche se ti ha promesso che lo farà, non succederà – gli disse, deciso, ma con un tono di voce morbido e carezzevole.
E tutta la miriade di sensazioni diventava rabbia, e rassegnazione, e voglia di soffocare la faccia dentro ad un cuscino.
Sapeva, con una parte di se stesso, che quella era la verità, che tutte le promesse potevano essere solo vuote nuvolette rosa in cui rifugiarsi: ma Riccardo sembrava sincero. Vigliacco, forse, ma non bugiardo fino a quel punto. E lui, per quanto si facesse schifo, lo amava.
Si passò una mano sul viso.
- Sono squallido, lo so. Non volevo neppure dirtelo. –
- Non credo tu sia squallido. E nemmeno che lo sia quello che fai. Ma sei sul filo del rasoio, Samuele, perché quello che ti fa fare potrebbe diventarlo. –
Le tazzine di caffè erano vuote. Ma il mal di testa non passava.
E gli occhi di Mattia facevano male.
- Suo figlio deve fare la maturità. Dopo…dopo sarà più facile. Sarò idiota, ma sono uno che crede alle promesse. –
Mattia abbassò gli occhi a fissare le venature del legno, e ne seguì una con la punta dell’indice.
Sembrava un bambino attirato da un aquilone.
- Le promesse sono fatte per essere rotte – lo sentì. Poi lo vide alzare lo sguardo, con un lieve sorriso. – Io sono l’ultima persona al mondo che potrebbe farti la paternale, con tutte le cazzate che ho combinato! – Guardò l’orologio, poi si mise in piedi, facendo attenzione a non far rumore con la sedia. – Ma te le racconto un’altra volta, adesso ho bisogno di andarmene a casa. –
Samuele si alzò subito dopo di lui.
Mattia alleggeriva l’atmosfera solo con un respiro.
O forse stava facendo finta di niente per non farlo sentire uno schifo.
Lo seguì verso il corridoio e la porta d’ingresso, per salutarlo, ma si voltò prima di raggiungere la porta.
- Stà attento, Samuele. Sei uno buono. Non farti mettere i piedi in testa – gli disse, e si voltò per aprire la porta. Ma Samuele lo intercettò prima che uscisse.
- Mattia? – Lui si voltò subito.
- Mh? –
- Grazie per i biglietti, e per la piadina, e per il passaggio….e per non aver lasciato perdere. –
Il sorriso di Mattia, allora, illuminò il corridoio.
- Ciao, Samuele. - 






(1) Titolo dello stralcio tratto dalla canzone L'uomo più semplice, di Vasco Rossi.
E' solo il titolo del capitolo, ma non ha niente a che fare con la storia perchè all'epoca in cui sono ambientati i fatti la canzone non era ancora uscita.
Nota allo Stralcio II: stralcio fuori dalla storia.
Non scrivo molto perchè sono stanchissima e ho speso le ultime energie per finire il capitolo. Gli stralci in teoria dovrebbero essere degli intermezzi, a me escono invece più lunghi dei capitoli!
Adesso scappo, ringrazio sempre tutti e risponderò alle recensioni, anche se dico sempre che lo farò e poi non lo faccio mai, con l'esame la prossima settimana è una sfida! Però il mio pensiero va sempre a voi!<3
Altre comunicazioni nella mia pagina facebook, dove ogni tanto sbrocco. xD
A presto
Esse

 

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Capitolo 35
*** 31st: Compulsione ***




Non posso fare a meno di pensare che nell'amore ci sia qualcosa di essenzialmente sbagliato. Tra amici si litiga o ci si perde di vista, e anche tra parenti stretti, ma non c'è questo spasimo, questo pathos, questa fatalità che sta attaccata all'amore. L'amicizia non ha mai l'aspetto di una condanna. Perché dunque l'amore è così misteriosamente esclusivo? Si possono avere mille amici, ma si deve amare una sola persona.
Vladimir NabokovLa vera vita di Sebastian Knight, 1941


 

Chapter 31st: Compulsione
 
Il mondo stava tornando a girare con la solita regolarità.         
- Che palle! –
- Dai, Marco, non fare sempre l’idiota! –
Federico si passò una mano sulla faccia, stropicciandosi gli occhi: nel buio delle palpebre chiuse comparirono una serie di puntini colorati.
Aprì gli occhi.
- Avete sete? –
- Una coca se ce l’hai, grazie. –
Si alzò in piedi, concentrandosi per non sbuffare in faccia ad Enrico e alla sua solita aria da sborone che la gentilezza l’aveva persa insieme al cordone ombelicale. Aveva sete, ed era stanco, ed era tardissimo: fuori il cielo si era già scurito, e in casa i caloriferi erano già stati accesi per riscaldare l’ambiente.
Federico aprì il frigorifero, tirando fuori la bottiglia di coca, insieme a una di acqua e una di aranciata.
Era stato un lunedì a dir poco sfiancante, e quella sera aveva anche il turno al locale.
Da quando era suonata la sveglia, al mattino, e Dominik era scivolato velocemente giù dal letto, non si era fermato un attimo. La colazione da preparare, la doccia, la corsa in facoltà per incontrarsi con i tre amici con cui si era dato appuntamento per andare al ricevimento del professore; e poi l’idea malsana di andare tutti a studiare a casa sua, che tanto Dominik non sarebbe tornato prima delle sei e mezzo. Aveva preparato la pasta, e tirato fuori dal freezer
qualche cordon bleu pronto, che Enrico ovviamente non aveva voluto mangiare.
Poi, alla fine, si erano messi a studiare.
Lui non ci aveva capito niente, però era confortante vedere che, a parte Enrico, anche gli amici non fossero poi messi tanto bene. Greta aveva iniziato a studiare da una settimana, e Marco, come lui, non aveva ancora nemmeno comprato le dispense. Greta si era messa all’opera con dei riassunti, e aveva prestato loro le sue dispense per sistemarne degli altri da cui studiare per essere preparati per il mese successivo, all’appello a fine febbraio.
E lui era stanco morto.
Aveva passato la domenica pomeriggio al lavoro, a servire succhi di frutta, caffè e aperitivi a una massa enorme di gente che, approfittando della giornata libera ma fredda, se ne stava rintanata nel locale. Samuele, in compenso, era arrivato di ottimo umore, e gli aveva raccontato per filo e per segno di ogni singola canzone di Vasco: gli aveva mostrato persino qualche video, anche se non si vedeva poi tanto, ma lo faceva sentire un po’ partecipe.
Ce n’era uno, di quei piccoli filmati, in cui ad un certo punto si sentiva una voce più chiara e più vicina delle altre, e l’obiettivo si spostava poi sul viso sorridente di Mattia con una birra in mano: ecco, in quel momento a Federico era venuta voglia di schiaffeggiare Samuele.
Uno schiaffo forte, abbastanza almeno da distruggergli la mandibola in mille piccoli pezzi: perché l’idea che avesse passato una serata così bella, così normale, e continuasse ancora a non vedere quanto fosse grande la possibilità che Mattia gli spianava davanti, era insopportabile.
Però non lo aveva colpito.
Aveva semplicemente finto un sorriso di circostanza e aveva afferrato i bicchieri degli aperitivi.
Tanto, se avesse detto qualcosa a Samuele, lui avrebbe risposto con un’alzata di spalle e l’avrebbe fatto infuriare ancora di più. E non aveva tempo di arrabbiarsi, aveva già gli ormoni a mille.
Dall’ultima volta in cui era riuscito quasi a spogliarlo, Dominik non si era più spinto tanto oltre.
Qualche bacio, delle carezze, e poi più nulla.
E non aveva voluto forzare troppo la mano, perché quando ci aveva provato lo aveva sentito rispondere con uno sbuffo e un colpetto sulla mano.
Era insopportabile. E bellissimo. E stronzo.
- Fede, hai finito il tuo? –
Federico sussultò, poggiando le bottiglie sul tavolo. Lo sguardo si era fermato sui riccioli di Greta che, sollevando il capo verso di lui, le si erano mossi sulle spalle come in una morbida danza.
- Le ultime tre pagine e ho finito. –
- Ok, dai, finiamo questi e andiamo. E già tardi e io devo tornare a casa. –
- Potete restare per cena, se volete – azzardò, ma sperava vivamente che dicessero di no.
Doveva lavorare, quella sera, e l’ultima cosa che voleva era dover confessare dove lavorasse.
Ma Enrico, fortunatamente, alzò una mano agitandola in aria.
- No, io devo studiare stasera, non posso. Tanto ci vediamo domani, no? –
Per la prima volta in tante settimane, Federico gli fu grato, e non provò la voglia di soffocarlo con un calzino. E poi era stanco di stare con loro per quel giorno, di sorridere alle battute di Marco sulle ragazze o alle occhiate dolci di Greta: era da quella mattina che li sopportava.
Voleva godersi una serata insieme a Samuele e Lorenzo, a lavorare e non pensare a niente.
Si rimise seduto, passandosi una mano sul viso.
Quelle ultime tre pagine da leggere e riassumere parevano un libro intero, per quanto si sentiva stanco. Finiva per leggere un intero paragrafo senza averci capito niente, o per seguire con gli occhi sempre la stessa riga.
Il fatto era che, mentre leggeva, si faceva cogliere da qualche particolare insulso.
La coperta preferita di Dominik sul bracciolo della poltrona.
Uno sparito poggiato con noncuranza sul tavolo della cucina.
I tasti del pianoforte lasciati scoperti, perché la sera prima, quando aveva smesso di suonare, era stato lui a trascinarlo in camera da letto per rubargli almeno un bacio.
Tornò con gli occhi sulla carta bianca della dispensa.
Due righi, tre righi, un paragrafo.
Tornare sul quaderno, scrivere qualcosa.
Un altro paragrafo.
Un’altra pagina.
La penna di Enrico che strideva sul foglio.
Il sospiro stanco di Marco.
Il clic appena accennato del tappo dell’evidenziatore di Greta.
I suoi riccioli che si agitavano per aria quando girava la testa.
Poi il rumore lo fece sussultare. Era quello della porta d’ingresso che si apriva, seguito dal suono profondo della voce di Dominik.
- Federico? Sei a casa? –
Sollevò il capo, per guardare verso l’ingresso.
Dominik stava adagiando la borsa e togliendosi il cappotto. Era umido di pioggia.
- Sì. Ci sono dei miei colleghi dell’università, stiamo studiando. –
- Mh – lo sentì mormorare. Aveva voglia di baciarlo, all’istante, di catturargli quelle labbra carnose che stava mordicchiando, come faceva sempre quando era un po’ nervoso o irritato. Se ne stava ancora lì, sull’ingresso, come bloccato, con quel maglione scuro che gli avvolgeva il collo e faceva risaltare il colore chiaro della pelle e dei capelli. Sembrava uno di quegli pittori un po’ chic che guidavano la gente a visitare le loro gallerie d’arte.
Poi le voci di Marco e Greta lo salutarono, Dominik borbottò qualcosa di indistinto e il mondo tornò al suo posto. Dopo alcuni istanti in cui gli occhi di tutti rimasero poggiati su di lui, Dominik finalmente si mosse: raggiunse l’angolo della cucina, per prendere un bicchiere e bere qualcosa. – Hai visto il mio sparito di esercizi? – sussurrò.
- C’è un foglio lì sul tavolo della cucina, dovrebbe essere quello. –
Dominik lo afferrò in un istante, sfiorandolo con la punta delle dita, e sorrise appena, soddisfatto.
- Vado a studiare – borbottò, e raggiunse la sua camera chiudendocisi dentro in due secondi netti.
- Simpatico, eh? – sentì dire a Enrico.
Non che lui fosse tanto meglio, avrebbe voluto dirgli, ma preferì star zitto.
- Enrico! E’ cieco! Si sentirà un po’ a disagio. Vorrei vedere te! – bisbigliò Greta, imbarazzata.
Se Dominik fosse stato lì in quel momento, li avrebbe presi a pugni. Tutti e due.
E vedere Dominik arrabbiarsi, le guance divenirgli rosse e la sua voce salire di un tono sarebbe stata la cosa più eccitante degli ultimi tre giorni.
Invece la cosa più eccitante per lui dovevano restare quelle tre pagine ancora da finire.
Sbuffò, passandosi entrambe le mani tra i capelli. Aveva solo voglia di bussare alla porta di Dominik e lasciarsi cadere sul suo letto: magari avrebbe lasciato che gli appoggiasse il capo sulle gambe, mentre studiava i suoi spariti, e forse gli avrebbe anche accarezzato i capelli, ogni tanto.
Avevano trascorso un’intera serata così, due giorni prima, e nonostante la voglia folle di baciarlo che lo aveva preso ad un certo punto, per il resto era stato bene.
Tranquillo, sereno. Bene.
Cercava di rendersi conto di quanto fosse difficile sentirsi veramente bene.
Era mai stato bene veramente? C’era stata la scuola, gli amici, la bella famiglia. Anche Manfredi.
Ma c’era sempre stato qualcosa che non andava proprio a posto.
Se otteneva un otto in inglese, c’era un quattro in matematica.
Se sua madre gli faceva un sorriso, suo padre lo rimproverava per aver graffiato il motorino.
Se usciva con gli amici, Manfredi se la prendeva perché non era rimasto solo con lui.
Se stava con Manfredi, c’era quel nodo alla gola tutte le volte che pensava come non fosse così tanto reale.
Invece quella sera era sul divano con Dominik, i suoi amici stavano facendo quello che volevano in giro, poteva permettersi di uscire di casa e intrecciare le dita con quelle di Dominik, e poteva fare quello che voleva senza che sua madre e suo padre fossero venuti a saperlo.
Ecco, si sentiva bene.
- Basta, io mi sono rotto il cazzo –
Marco si era alzato in piedi, chiudendo i quaderni con uno sbuffo e lasciando volare qualche foglio sul pavimento. Greta lo fulminò con lo sguardo.
- Se non finisci i riassunti non ti passo più niente! –
- E dai, Gretù, giuro che li finirò! Ma voglio andare a casa, farmi una doccia, cenare, e poi giuro che prima di domani avrò fatto tutto! –
Greta sospirò, esasperata, poi guardò l’orologio.
Aveva un bell’orologio con un quadrante enorme e tempestato di lustrini, toppo grande per il suo polso sottile.
- E va bene, sono quasi le sette, dai. E’ meglio se andiamo. Grazie di tutto, Fede! Ci vediamo domani alla stessa ora in facoltà? –
- Va bene, ci sarò – soffiò, esausto.
La sola idea gli faceva venir voglia di darsi malato.
Ma lei sorrise, luminosa, e non potè far altro che sorridere di rimando e accompagnarli alla porta.
Quando la chiuse alle loro spalle, e tornò il silenzio, riconobbe finalmente casa sua.
C’era sempre silenzio in quella casa, tranne la sera, quando c’era la tv accesa, o quando Dominik si metteva a suonare il pianoforte. Ma anche quello era un po’ una forma di silenzio, solo che era arricchito.
Federico guardò il tavolo del salotto. C’erano le bottiglie da mettere a posto, i libri, il riassunto da finire.
Ma non importava.
Finì di fronte alla porta di legno chiaro senza che se ne rendesse conto.
Bussò due volte.
- Dom? Posso entrare? –
- Sì. –
Se anche gli avesse detto di no, sarebbe entrato lo stesso.
Vedere Dominik sul suo letto, a gambe incrociate e con la schiena appoggiata al muro, dava un senso anche al primo giorno della settimana.
Quando lo aveva sentito entrare, aveva sollevato il capo, voltandolo verso di lui.
- I tuoi amici sono andati via? –
- Sì, erano stanchi, e io devo andare a lavoro e devo preparare la cena. –
- Posso aiutarti – lo sentì mormorare, e le mani dalle dita sottili lasciarono che i fogli che stringevano scivolassero sul materasso, mentre il corpo del ragazzo si muoveva per mettersi in piedi. Ma Federico fece qualche passo avanti.
- Ancora è presto. Posso restare qua per un po’. Ti guardo studiare –
Dominik sollevò le spalle, lasciando che il capo ci affondasse dentro. Quel maglione scuro che lo avvolgeva lo rendeva meno infantile, come qualcosa di estremamente pericoloso e attraente come una fiamma per la falena. Ma lo vide annuire appena, stendere una gamba e aderire al muro freddo, facendogli spazio.
Federico si sedette sul letto, in diagonale, per poggiargli il capo sulle gambe.
A quel contatto, Dominik sussultò, e le dita si strinsero maggiormente intorno al foglio.
Però non lo allontanò.
Semplicemente, ci mise qualche minuto ad abituarsi, ma alla fine il suo corpo si rilassò, le gambe si distesero, e il suo respirò tornò un po’ normale. Federico rimase allora in quella posizione, a guardare dal basso la carta spessa di quei fogli, mentre appena in trasparenza si intravedeva l’ombra scura delle dita di Dominik che ne percorrevano i caratteri.
Aveva i capelli spettinati, perché c’era un punto, quasi alla fine del foglio, in cui le sue dita si fermavano sempre, lui sbuffava, e allora passava una mano tra quei morbidi ciuffi biondi, e li spostava da tutte le parti. Una ciocca finì ad accarezzargli il padiglione auricolare.
Se si fosse alzato un po’, e l’avesse baciato lì, Dominik avrebbe avuto un fremito.
L’aveva scoperto per caso, una sera, mentre guardavano la televisione sul divano.
Gli aveva trovato un punto debole.
Il problema era che di punti deboli Dominik ne aveva solo uno.
Lui, invece, gli stava mostrando tutti i suoi.
Gli stava affidando tutte le armi per poterlo distruggere anche solo con un soffio di voce.
 

§§§

 
La lana pungeva.
Era una sensazione sgradevole.
Pungeva sul collo, e sulle braccia. Dove non c’era la sottile magliettina di cotone a proteggergli la pelle.
E quell’esercizio era insopportabile.
Si bloccava sempre sullo stesso punto. Forse se l’avesse suonato sul serio al pianoforte l’avrebbe trovato più semplice.
Ma non voleva alzarsi, o avrebbe dovuto lasciare che anche Federico si alzasse, e invece lui era lì, con la testa poggiata su di lui e respirava piano: ogni tanto si muoveva un po’.
Forse pensava a qualcosa.
La maestra gli aveva detto che era distratto, che mentre suonava c’era qualcosa che gli passava nella mente e lo distraeva. Che era diverso.
Che quando suonava Chopin ci metteva qualcosa in più, ma che quando doveva eseguire un esercizio dimenticava le note, o cambiava qualcosa dello sparito originale, e che non andava bene.
Era sfiancante. La maestra gli intrappolava tutta la musica.
Dominik lasciò andare il foglio con lo spartito, e con la stessa mano sinistra, finalmente libera, sfiorò i capelli di Federico. Erano morbidi.
A quel tocco lui si mosse subito, allungandosi sul letto.
- Com’è andata oggi? – gli chiese.
Dominik si strinse nelle spalle. Era andata benino, alla fine: i maestri erano rimasti contenti del fatto che avesse studiato, che si impegnasse, ma poi arrivava la maestra che lo soffocava e che si concentrava del tutto su di lui. E diventava distratto, e svogliato.
Ma non era colpa sua. Era solo che, mentre suonava e si concentrava, il pensiero di Federico a casa che preparava la cena gli attraversava la mente, e le note prendevano ad inseguirlo.
Prima la mente era più chiusa, sigillata intorno alla musica, adesso no.
Doveva essere un bene per la musica, quello.
Ma non voleva annoiare Federico.
- Bene. Tu cosa hai fatto? –
- Ho avuto una giornata infernale! Stamattina sono uscito di casa poco dopo di te, e pioveva a dirotto, con la mia solita sfiga! Sono andato in facoltà, e il professore è arrivato con un’ora di ritardo! Allora siamo stati lì ad ascoltarlo, lui con le sue manie da superuomo che conosce tutto ciò che non va nel mondo! Poi sono tornato a casa, e mi sono portato dietro i miei colleghi. Dobbiamo studiare, sai…anche se non so come farò questo esame, è tra meno di un mese e devo ancora iniziare a studiare! E insomma, ho cucinato per loro, e abbiamo passato tutto il pomeriggio a studiare. Poi sei arrivato tu, eravamo stanchi, e abbiamo smesso. Sono distrutto, e stasera devo lavorare. –
Dominik sorrise, affondando maggiormente la mano nei capelli morbidi, sentendosi accarezzare la pelle.
Federico era così diverso da lui. Bastava fargli una domanda che iniziava a parlare a raffica, a rispondere a tutto nei minimi dettagli, a raccontare qualsiasi cosa gli fosse capitata durante il giorno: l’avrebbe ascoltato per ore intere, soprattutto in quei momenti in cui faceva una pausa e prendeva fiato, perché lì poteva immaginare le sue labbra dischiuse come quando lo baciava.
Lo sentì mugugnare, mentre il suo corpo si muoveva e la sua smetteva di pesargli sulle gambe, perché Federico si era messo seduto, e aveva il busto vicino al suo.
Dominik dischiuse le labbra.
Era un gesto automatico, come se si aspettasse sempre che da un momento all’altro Federico lo baciasse.
- Avresti dovuto togliere questo maglione, lo sai? E asciugarti i capelli. Ti prenderai un raffreddore – lo rimproverò, bonario, ma sembrava solo una scusa per passargli una mano tra i capelli, e sul viso.
La mano calda di Federico contro lo zigomo.
- Non importa. –
- Non importa? Io sono certo invece che tu non lo abbia fatto perché c’erano degli estranei in salotto e volevi nasconderti qui dentro. –
Sussultò, tirando il busto indietro, stizzito.
Non aveva paura degli estranei.
Però non voleva girovagare per casa quando c’erano anche altre persone, perché lo avrebbero fissato, avrebbero fatto dei commenti su di lui e poi chissà cosa avrebbero detto.
Voleva suonare, piuttosto.
Ma c’erano loro lì.
Forse avrebbe potuto suonare prima di cena.
Federico sospirò.
- Dom? –
- Mh? –
- Perché fai così? –
- Così come? –
- Ti nascondi. –
- Non mi piacciono gli estranei, lo sai – si giustificò, e la mano di Federico si poggiò sul suo ginocchio, che teneva piegato appoggiato al muro.
- Lo fai anche con me. –
- Questo non è vero. –
- Non è vero? L’hai fatto proprio adesso, appena ti ho fatto notare che sei venuto a chiuderti qui dentro come un cagnolino spaventato! E stai continuando a farlo. –
Dominik scosse le spalle, e le braccia, e le gambe. Tutto perché Federico si allontanasse un po’, quel che bastava per poterlo scostare e scendere giù dal letto.
- Ma perché non la smetti? Fatti gli affari tuoi! – lo rimproverò, allontanandosi abbastanza dal letto. Si sentiva una tensione, adesso, addosso, che non sapeva da dove fosse venuta fuori.
Prima, mentre era sul letto con Federico e gli accarezzava i capelli, non c’era.
Anche Federico era nervoso, adesso, perché alzava la voce.
- Perché sto cercando di far funzionare questa cosa! –
- Io sono così, va bene? Non ti ho chiesto io di far funzionare questa cosa! – lo imitò, con tono di voce acuto. -  E non dirmi quello che devo fare!–
Si sentì le sue mani addosso prima che riuscisse a capire da dove arrivassero.
Seppe solo di avere il muro, o forse l’armadio, dietro alle spalle, e il corpo di Federico contro, non troppo vicino.
- Sto solo cercando di aiutarti! Ti è passato per la mente che ti trovano tutti più simpatico adesso che non sei stronzo come al solito? –
Gli poggiò le mani sui polsi, affondandoci le unghie, ma erano troppo corte per fargli del male.
- E a te è passato per la mente che non mi importa di essere simpatico a qualcuno? –
- Nemmeno a me? Hai detto che ti piaccio. E ti importa eccome. –
- Mi importa – confessò. – Ma non mi importa di nessun altro, quindi non dirmi cosa devo fare con gli altri! -
- Certo, tu non hai bisogno di nessuno, non ti importa niente. Ti svelo un segreto, Dom. Sono cazzate! Perché appena ne hai avuto la possibilità, hai fatto vedere che sei come tutto il resto del mondo! –
- Io sono cieco, Federico! Non sarò mai come il resto del mondo!! – gli urlò contro. – A te cosa importa, no? Tu ci vedi! Tu puoi fare tutto quello che vuoi! – lo accusò.
Non voleva. Non voleva dirgli quelle cose.
Però era la verità.
Non voleva sentire cosa dovesse o non dovesse fare, non voleva essere rimproverato, accusato.
Voleva solo starsene tranquillo.
Lui, la sua musica, anche Federico.
Basta. O sarebbe diventato troppo.
Gli scoppiava la testa.
Le mani di Federico gli si strinsero sul letto, ed era un supplizio adesso non poterlo guardare, come se qualcuno lo stesse soffocando premendogli la mano sulla gola.
- Voglio solo trovare un compromesso. Ti sto venendo incontro, Dominik. Vorrei solo che facessi un passo anche tu. –
- Li ho fatti, i passi. – Lo sentì sbuffare in una mezza risata.
- Ah, davvero? E perché stiamo discutendo allora, secondo te? –
Stavano discutendo perché si erano innervositi, e si erano innervositi perché…si erano innervositi dal nulla. Federico risalì con le mani dal suo petto lungo il collo.
- Perché tu mi hai detto quello che devo fare, e non lo sopporto. –
- E tu ti arrabbi per così poco perché sei teso, e io sono teso. E lo sai perché? – Non gli rispose. Federico espirò. – Si chiama tensione sessuale – gli mormorò.
Dominik gli diede uno schiaffo sulla mano, e lo sentì sorridere appena.
L’atmosfera si alleggeriva, ma lui era ancora nervoso, perché non voleva ricevere ordini, e non voleva che niente e nessuno scompaginasse l’equilibrio della sua vita.
Federico, invece, ci infilava sempre le mani per mettere disordine.
- Smettila. –
- Perché? E’ la verità! Io ti piaccio. E per qualche insano motivo nella tua testa, ti tiri sempre indietro. –
Dominik gli poggiò le mani sul petto, spingendolo indietro, e Federico non oppose resistenza. Aveva abbassato la voce, il tono era più morbido, ma lui era ancora nervoso.
E quello che diceva Federico non aveva senso.
Non c’entrava nessun insano motivo.
Semplicemente non ce la faceva. Gliel’aveva persino spiegato.
Succedeva che, quando Federico lo baciava, c’era un momento in cui tutto entrava così tanto in confusione che credeva di perdere il controllo, che tutto sarebbe esploso intorno a lui, e che il buio l’avrebbe sommerso se avesse solo un altro piccolo passo avanti.
E tutto doveva essere in ordine, nella sua testa.
La musica, i ricordi, le sensazioni, i visi, le voci.
Non poteva permettersi di perdere il controllo.
- Tu vuoi avere sempre tutto sotto controllo, in equilibrio. Hai paura delle emozioni forti che piacciono a me. Non vuoi uscire con me perché non ti piace, e non ti piace perché in fondo hai paura di avere a che fare con qualcuno o qualcosa che esca fuori dai tuoi schermi. Perché le persone sono imprevedibili, non puoi controllarle come fai con le tue note, e non ti va bene. Hai paura di non avere tutto sotto controllo. E la sai una cosa? Puoi anche dire che non ti importa, che stai bene così, che hai tutto quello che cerchi, ma la verità è che ti fa paura essere cieco. –
Federico gli poggiò una mano sul viso, in una lieve carezza.
- Perché non vuoi provare? Non devi avere paura. –
Paura. C’entrava sempre la paura. Lui non aveva paura.
Cacciò via la mano con uno scatto, e il corpo di Federico si fermò.
- Perché è tanto importante? E’ questo tutto il problema?! Litighi con me per questo? –
- Non è questo il problema! Discuto con te perché fai lo stronzo instabile! E oltre a questo sì, mi piacerebbe fare l’amore con te, va bene? Come le persone normali che sono attratte l’una dall’altra! Ma evidentemente non ti piaccio abbastanza, o non ti faresti tutti questi problemi! Dovevo trovarlo io l’unico terrorizzato dal cazzo!! –
Dominik arretrò di un passo, poi di due, fino a finire con le spalle contro il muro.
Era tornato a casa stanco, ma con quell’alone di allegria nel petto, perché a casa ci avrebbe trovato Federico. Gli aveva accarezzato i capelli, mentre studiava, e aveva immaginato che poi lo avrebbe baciato.
Invece adesso stavano litigando, e non si ricordava il perché.
E Federico urlava di nuovo, irritato, e diventava di nuovo l’impulsivo uomo con cui aveva litigato quando ancora non lo conosceva bene.
Come poteva spiegarglielo, se avevano modi così diversi di vedere?
Come poteva fargli capire che gli piacesse davvero, ma che non poteva permettersi di perdere il controllo, perché avrebbe perso tutto.
- Guarda, me ne vado a lavoro, basta. –
- E io ti piaccio, Federico? Se sono uno stronzo instabile, se mi tiro sempre indietro, allora io ti piaccio? Se è così importante, per te, perché stai perdendo tempo con me? – gli disse, mentre lui aveva già aperto la porta per uscire dalla stanza.
E lo sentì tornare indietro, esasperato, premendoglisi addosso e schiacciando le mani sul muro, ai lati della sua testa.
- Perché mi piaci, non c’è un motivo! Mi piaci anche se sei uno stronzo instabile, mi piaci anche se ti tiri indietro e mi fai venire voglia di prenderti a schiaffi, e mi piaceresti ugualmente se smettessi di ragionare mille volte sulle cose e facessi quello che ti senti! Perché tu lo vuoi quanto lo voglio io! -
Lo afferrò per il maglione, strattonandolo, e lo baciò prima che avesse finito di parlare.
Per smettere di ragionare sulle cose e fare quello che sentiva.
Le mani di Federico lo raggiunsero sui fianchi, sulla pancia, le sue labbra sulle proprie, che lo divoravano. Voleva che stesse zitto, che non urlasse, ma voleva mantenere il controllo e l’ordine, sforzarsi di conciliare le cose.
E non era facile farlo, con le labbra di Federico che gli lambivano lo zigomo, l’orecchio, la linea della mandibola, con le sue dita che scostavano il collo alto del maglione affinché le labbra lo aggredissero anche lì. Gli artigliò le mani sulle spalle, nello stesso momento in cui le mani calde di Federico gli si infilavano sotto il maglione e si spostavano verso l’alto, seguendo il decorso retto della spina dorsale. E la lana pungeva sulla pelle.
Il maglione finì in aria.
Le mani di Federico sui fianchi.
Il proprio respiro irriconoscibile.
Le labbra di Federico sulla spalla.
I cassetti ordinati nella testa che si aprivano, e il vento che portava disordine.
Il cuore che prendeva a battere che il rumore era troppo forte.
Nel buio, il respiro di Federico accelerava, e lui si muoveva, lontano dal muro, di colpo sopra al materasso, rimbalzando appena, riconoscendo il sollievo della coperta fresca sulla schiena mentre sul petto e sulla pancia Federico bruciava.
Bruciava, e respirava, e tutto prendeva colore.
Dominik azzardò un movimento: percorse il profilo delle sue spalle, dei fianchi, il tessuto del maglione, fino al bordo inferiore, tirando verso l’alto. Federico sparì, e quando tornò si trovò a contatto con la sua pelle, ancora più calda.
Espirò nel bel mezzo di un bacio, perché la mano di Federico scendeva lungo l’addome, gli solleticava un fianco.
Il bottone dei pantaloni scattava, e lui sussultò.
La mano di Federico nei pantaloni, e il mondo esplodeva.
Dominik trattenne un sospiro, artigliando le mani sulle spalle di Federico, per conficcarci le unghie.
Non riusciva a controllare tutto contemporaneamente.
Il cuore che batteva.
Il respiro accelerato.
Federico.
La musica.
Il mondo intorno.
I ricordi.
Non poteva controllare tutto, non poteva riuscire a intrappolare ogni cosa di Federico, e allo stesso tempo controllare il corpo che si scioglieva, e i ricordi che si perdevano nel buio.
Era bello, e come tutte le cose belle era troppo.
Gli mancava l’aria.
- Federico – lo chiamò.
- Mh? – Gli rispose, con la voce spezzata, ma non si fermava.
La mano a contatto con la pelle e il mondo che girava.
- Non mi fermare adesso, Dom. Dai. –
Aveva la voce così carezzevole che non sarebbe riuscito a negargli niente.
Ma lui era arrabbiato, e nervoso, ce l’aveva con lui. O almeno, fino a cinque minuti prima era così.
Era in confusione.
Cercò con la mano il polso di Federico, chiudendocela intorno.
- Non ce la faccio, non ti arrabbiare. E’…troppo, Federico. –
Lo sentì sospirare. E lo lasciò andare.
Nonostante avesse il corpo premuto contro il suo, il capo nell’incavo del suo collo, Federico fermò le mani, convogliando la frustrazione in un sospiro.
Il mondo girava ancora: girava e ruotava come un tornado, e si condensava nei pantaloni sbottonati, nella pelle che ardeva, nel contatto con il corpo di Federico, nel respiro affannoso.
E Dominik pensava a cosa sarebbe successo se non gli avesse chiesto di fermarsi.
Il bello sarebbe diventato più bello.
Avrebbe scoperto quello che sconosceva.
Avrebbe conosciuto Federico.
Ma avrebbe perso definitivamente il controllo del mondo.
E lui era cieco.
Federico si alzò dal letto.
- Dove vai? –
- Devo cucinare, e devo andare a lavoro. Si è fatto tardi. –
- Sei arrabbiato? – Lo sentì sospirare. Gli avrebbe risposto di no, ne era certo, ma non era sicuro che corrispondesse alla verità.
- Sì, sono arrabbiato. Sono arrabbiato e nervoso, e siccome non voglio litigare e voglio sforzarmi di capire che cosa succede, preparerò la cena, andrò a lavoro, e poi andrò a dormire. E ne riparliamo domani. –
Dominik abbottonò i pantaloni.
Forse aveva ragione Federico.
Forse era lui ad avere qualcosa di sbagliato.
Ma era cieco. Non sarebbe mai stato come gli altri.
 
 

§§§

 
- Hai fatto CHE COSA?! Ma sei scemo? -
Samuele lasciò scivolare la caffettiera, che sarebbe finita sul pavimento se non l’avesse intercettata con un ginocchio, ringraziando il cielo di non averla ancora riempita per preparare il caffè.
- No, ascoltami bene tu invece! Adesso ti bevi una birra, ti calmi, e appena torni a casa gli chiedi scusa! No, Federico, non mi interessa! Ti avrei dato ragione se fosse stato chiunque altro, ma Dominik no! Non puoi saltargli addosso e incazzarti come un ragazzino capriccioso perché non vuole fare sesso con te! – Samuele versò l’acqua, sistemò il piccolo tappo forato e prese il barattolo con il caffè. - Non c’entra quello che dici, non  con lui. C’entrerebbe con chiunque altro, ma non puoi accusare quel ragazzino così: io non ti piaccio, vienimi incontro…ma sei scemo?? Forse ti dimentichi che non stiamo parlando di me, di Lorenzo, di Simone…parliamo di un ragazzino cieco che probabilmente non sapeva nemmeno di avercelo il pisello prima di baciare te! Quindi datti una calmata e non fare lo stronzo. – Il caffè stava ricoprendo quasi la metà del ripiano della cucina, ma non importava, avrebbe pulito dopo. – E fattelo spiegare! Ma se ti incazzi appena dice a malapena due parole non arriverai tanto lontano! Sul serio, Federico, perché devi rovinare tutto? Parlagli, fatti spiegare perché non vuole, se dice che non è per paura, e trovate un compromesso. Fai più passi avanti tu, se necessario! – Chiuse la caffettiera, cercando di non rovesciare altro caffè, più di quanto non avesse già fatto. -  Ok, vai dai, o Roberto si incazza. Ci vediamo domani, allora. E non fare cazzate! Va bene, ciao. –
Chiuse la chiamata, bloccando il telefono tra la testa e la spalla, per sistemare la caffettiera sul fornello.
Poi due mani gli si poggiarono sui fianchi, facendolo sobbalzare.
- Finito, finalmente? Ma chi era? –
Si voltò, poggiando il cellulare sul ripiano sporco di caffè: incontrò gli occhi di Riccardo per un secondo, prima di avvicinare il viso per baciarlo chiudendo gli occhi.
- Federico. Ti ricordi, no? Quello siciliano. –
- Oh, sì, quello che mi odia. Cosa voleva? –
Samuele gli diede un colpetto sulla spalla.
- Certo che ti odia, sei uno stronzo – osservò, con un mezzo sorriso. – Comunque, era un po’ incazzato, problemi con il suo nuovo ragazzo, se così si può dire. –
- Del tipo? –
- Del tipo che quel poveretto non vuole fare sesso, Federico è troppo impulsivo come al solito, dice e fa cose che non dovrebbe fare, e scoppia un casino. –
Riccardo gli circondò la vita con le braccia, premendoselo addosso.
- Ah, questi giovani e i loro problemi d’amore! –
- Tu staresti con me anche se non volessi fare sesso? – lo provocò Samuele, poggiandogli le mani sulle spalle. Riccardo lo perforò con uno sguardo, poi lo lasciò andare, facendo un passo indietro.
- Non mettere in dubbio quello che provo per te come fanno le ragazzine che vogliono sentirsi dire le paroline dolci – lo rimproverò. Samuele lo vide allontanarsi ancora, fino a sedersi sulla sedia accanto al tavolo della cucina. Era la stessa sedia su cui si era lasciato cadere Mattia tre sere prima. – E poi. fai sesso così bene, perché dovresti smettere? -
- Dovrei smettere di farlo con te, magari – gli rispose a tono, appoggiandosi al tavolo.
Riccardo sollevò il capo.
Quell’uomo aveva sempre qualcosa di straordinariamente tranquillo dentro.
Non si arrabbiava mai.
Quando litigavano, ed era sempre lui quello che urlava, Riccardo restava sempre stranamente tranquillo, come se non gli importasse: magari alzava la voce appena un po’, o stringeva gli occhi, ma restava sempre l’imperturbabile avvocato che aveva conosciuto più di sei anni prima.
E ogni tanto gli faceva saltare i nervi, perché aveva bisogno che lui tirasse fuori qualcosa, da dentro, un briciolo di vita, un brandello di amore disperato.
Invece no.
Il solito avvocato con la solita camicia al solito tavolo.
Sulla solita sedia.
- Non credo tu sia squallido. E nemmeno che lo sia quello che fai. Ma sei sul filo del rasoio, Samuele, perché quello che ti fa fare potrebbe diventarlo. –
Mattia lo tormentava.
Ma non fisicamente. Non lo vedeva né sentiva da tre giorni, da quando era uscito da casa sua, in piena notte, portandosi dietro un sorriso.
Lo tormentavano la sua voce, le sue parole, insieme a quegli occhi che lo perforavano.
-  Non lascerà sua moglie, Samuele. Anche se ti ha promesso che lo farà, non succederà –
- Che c’è, siamo nervosetti oggi? –
Si riscosse. L’aroma del caffè aveva iniziato a riempire la stanza.
Si avvicinò alla cucina, prese due tazzine e afferrò la caffettiera, per riempirle.
- Avevi giurato e spergiurato che saresti passato domenica, che avresti pranzato con me visto che tuo figlio non era a casa, e invece non è venuto nessuno. Poi ti presenti all’improvviso nel pomeriggio e mi costringi a sposare il turno al lavoro, per presentarti con un’ora di ritardo. Non dovrei essere nervoso? –
La sedia si mosse contro il pavimento, e le braccia di Riccardo lo avvolsero da dietro mentre finiva di riempire due tazzine di caffè bollente. Lo baciò nel punto in cui la linea del collo continuava verso la spalla.
- Mi dispiace, Samuele. Ero davvero pronto a venire, ieri. Avevo ordinato anche il profiteroles al pistacchio che ti piace tanto. Ma sono venuti i miei suoceri a pranzo all’improvviso, non potevo mancare, avrebbero fatto domande – si giustificò, stringendolo più forte. – Un giorno di questi pranziamo insieme, d’accordo? –
Samuele gli passò una tazzina, senza voltarsi.
- Ma porti il profiteroles che mi hai promesso. –
Riccardo mandò giù il caffè tutto d’un sorso, poi rise.
- Potresti fare l’avvocato, sai? – lo prese in giro, rubandogli la tazzina prima che finisse il suo caffè.
Gliela sfilò di mano, costringendolo a voltarsi per averlo davanti e imprigionargli il viso in una mano. Non portava gli occhiali, quella sera, e il modo in cui lo guardava gli accendeva dentro tutto quello che provava per lui.
Come poteva fargli tanto bene e tanto male allo stesso tempo?
Si stavano consumando con quell’amore che li divorava da dentro.
Lo baciò prima che potesse parlare, premendogli le mani sul viso morbido.
Non si poteva non amarlo. Non riusciva a capacitarsi di come la donna che avesse sposato non lo amasse con lo stesso fervore con cui lo amava lui, lei che poteva, lei che era sua moglie, riconosciuta davanti a tutto il resto del mondo.
Forse era quello il fascino degli amori impossibili, il loro consumarsi nel segreto di un appartamento, quel riuscire a godere degli attimi rubati e renderli lunghi come giorni interni.
Riccardo gli passò una mano sulla schiena, avvicinando il suo corpo.
- Ti sono mancato? –
- Tu mi manchi sempre. –
- Anche quando dormi con tua moglie? – Riccardo lo pizzicò forte su un fianco.
- Smettila – lo ammonì. Lo baciò, violandogli la bocca, come se volesse distruggerlo. – Non lo capisci, Samuele? Non lo capisci quanto è difficile? E tutte le volte che ti comporti così, che me lo rinfacci, che fai anche una battuta stupida…mi distruggi. –
Samuele spalancò gli occhi verdi, fissandoli in quelli ardenti di Riccardo.-
- Potrei darti tutto quello che desideri. Una casa grande, una cameriera, potremmo vedere tutto il mondo, e non avresti più bisogno di lavorare. Ti darei qualsiasi cosa per tenerti a casa con me. Ma non posso. Adesso non posso. E quando fai così mi fai sentire un verme! E quando guardo mio figlio, o guardo mia moglie, mi sento un verme. Sono pieno di soldi, ma quello che provo per te potrebbe distruggermi la vita. –
- No, non è vero. - gli mormorò sulle labbra. – Io posso aspettare. Non ho bisogno di soldi, ho solo bisogno di te, e posso aspettare. –
- Fino a quando non incontrerai qualcuno che possa darti quello che vuoi. Allora mi lascerai. –
- Se fai altro come bevi la birra, potresti uccidere qualcuno! – 
Gli premette le mani sul viso come se potesse assorbirlo.
- Riccardo…Riccardo, ascoltami. Io ti amo. Non ti lascerò mai. Per nessuno. Posso aspettare. Ho aspettato così tanto, cosa vuoi che sia qualche altro mese? Giugno non è così lontano. –
Riccardo abbassò gli occhi, poi li portò di nuovo nei suoi.
- Tu lo sai, puoi fare quello che vuoi della tua vita, puoi andare dove vuoi, con chi vuoi. Se ti senti solo, se vuoi sfogarti, puoi andare a letto con chi vuoi. Sul serio, Samuele. Solo, non lasciarmi. –
- Non voglio andare a letto con nessuno. Non sono uno di quelli che non riesce a tenere abbottonati i pantaloni. E smettila di fare questi discorsi! –
Lo colpì sul petto, costringendolo ad arretrare di qualche passo, poi lo afferrò per il colletto della camicia.
- Vieni qui e dammi un bacio. –
Premette le labbra su quelle di Riccardo, le mani sulla sua nuca, sulle sue spalle.
- Stà attento, Samuele. Sei uno buono. Non farti mettere i piedi in testa –










(1)
Un grazie particolare ad Alessandro che ha revisionato questo capitolo.


Nota al capitolo 31: Avrei dovuto pubblicare questo capitolo ieri sera, perchè era prontissimo.
Solo che tra imprevisti vari, il caldo che mi frigge il cervello e il fatto che finalmente ho potuto mettere piede fuori di casa, non ho avuto il tempo.
Però è stata la prima cosa che ho fatto questa mattina, prima di rimettermi a studiare.
In questo capitolo l'atmosfera passa da leggera a pesante in pochissimo tempo: Federico con la sua solita impulsività e Dominik con la sua testardaggine si accendono subito come due micce, e non si comprendono. E poi c'è il buon vecchio Samuele che cerca di far ragionare quella testa calda di Federico. E c'è anche  Riccardo, e per questo mi odierete!xD
Come ho scritto su facebook, ho già in mente il finale perfetto per tutti i miei personaggi, ma la storia non è ancora neppure a metà, quindi dovrete sopportarmi ancora un po'...devono succedere ancora parecchie cose!
Detto questo, torno a studiare, e nel pomeriggio mi metterò a rispondere alle recensioni...non dico che risponderò a tutte oggi, ma ci provo!
Intanto vi ringrazio come sempre e vi mando un bacio!
Esse

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Capitolo 36
*** 32nd: Cose speciali come dicono ***



 

La verità profonda, per fare qualunque cosa, per scrivere, per dipingere, sta nella semplicità. La vita è profonda nella sua semplicità. 

Charles BukowskiHollywoodHollywood!, 1989


 

A una storia speciale, e a due ragazze speciali.
A Minnie e Jey, che hanno scritto una parte di questo capitolo.
E all’amore, quello vero.

 

Chapter 32nd: Cose speciali come dicono
 
L’ensemble era la somma perfezione della musica.
Tutti gli strumenti, con i loro suoni, si incontravano in un unico mondo e davano vita alle sinfonie migliori di tutti i tempi.
Dominik accarezzò i tasti del pianoforte.
Adesso non era più un momento buono per suonare, perché c’erano le chiacchiere.
Le lezioni si erano interrotte per l’ora di pranzo, dopo due ore consecutive di prove su prove su prove per il concerto di fine anno, al quale mancavano ancora cinque mesi.
Ogni allievo avrebbe avuto uno spazio tutto per sé per esibirsi, e poi ci sarebbero stati i pezzi in ensamble, con tutti gli allievi insieme. Quell’anno, tra i tanti brani di Bach, Beethoven, Wagner, i maestri ne avevano scelto uno più moderno.
Il libertango di Piazzolla, in un arrangiamento nuovo.
Avrebbe iniziato a suonare lui: era il pianista migliore tra gli allievi degli ultimi anni, e avrebbe avuto qualche battuta in cui avrebbe suonato da solo, e la maestra iniziava già a soffocarlo affinchè quelle battute fossero perfette. Poi ci sarebbe stato l’oboe, e il violino, e  le trombe, e poi tutti gli altri.
Quella del violino era una lotta all’ultimo sangue tra i due migliori violinisti del Conservatorio.
Una dei due era Sofia, una ragazza con la capacità di suonare il violino in modo morbido, e che parlava sempre a voce bassa, come se avesse paura di essere sentita e rimproverata.
Era gentile. Parlava sempre con lui, nelle ore in cui avevano lezione di solfeggio, e quando lui iniziava a non rispondere più come prima, allora Sofia si zittiva e restava accanto a lui semplicemente in silenzio.
- Ti è passato per la mente che ti trovano tutti più simpatico adesso che non sei stronzo come al solito? –
Forse Federico aveva ragione. Forse era un po’ antipatico.
Ultimamente Sofia parlava di più.
Forse Federico non aveva davvero tutti i torti.
Espirò.
Con Federico non aveva più parlato. La sera prima, quando era tornato dal lavoro, lui stava già dormendo: l’aveva sentito rientrare e mettersi a letto, ma non gli aveva detto niente. La mattina, Federico era rimasto a dormire ancora un po’, e lui si era chiuso la porta alle spalle per andare al Conservatorio.
Forse era ancora arrabbiato con lui, ma non credeva di avere delle colpe.
Non era colpa sua se non ci riusciva, se tutto quello era troppo nuovo per lui. E Federico non doveva pretendere chissà cosa, se davvero lui gli piaceva.
Non lo capiva. Perché era tanto importante per lui, il sesso?
Suo cugino Pier gli aveva detto che il sesso c’entrava sempre in un mucchio di cose, ma a lui non era mai sembrato niente di così speciale. Forse con qualcun altro era diverso che da soli.
Forse trovarsi accanto il corpo caldo di qualcuno era diverso dallo sfiorarsi nel buio per pura curiosità.
Cercò di accostare il ricordo del calore di Federico alle sensazioni sopite: doveva essere bello, eppure non pareva così di vitale importanza.
O forse era lui ad avere qualcosa che non andava, se tutti lo trovavano così speciale.
- Ehi, Marek! –
Dominik sussultò non appena sentì la mano poggiarsi sulla spalla. Era una voce che conosceva bene; era di quello sbruffone violinista che voleva soffiare la parte a Sofia.
Rafael Lovinescu.
- Complimenti, eh? Non avevo dubbi che scegliessero te. E ovviamente, al violino, hanno scelto me. Mi dispiace un po’ per quella ragazza, a dire il vero. –
- Mh – rispose semplicemente lui.
Voleva alzarsi e andarsene, ma la sua mano era ancora poggiata sulla spalla, ed era fastidiosa. Odiava essere toccato, men che meno da qualcuno che non conosceva. Era lui quello che toccava, per vedere. Non voleva essere toccato. Solo Federico poteva farlo.
Poi, uno come Rafael non gli era mai stato simpatico: gli aveva rivolto la parola l’ultima volta dopo il concerto di inizio anno, e solo perché sua sorella si era attaccata a Federico come una cozza allo scoglio, ed era stato costretto a mugugnare una risposta a qualche domanda, ogni tanto.
- Ci vedremo spesso, mi sa! Senti, che ne dici se qualche sera invito a cena te e il tuo amico che c’era al concerto? Mia sorella ci terrebbe tanto! –
Irritante e falso, con quel tono melenso.
- Federico è molto impegnato a lavorare, al momento. –
- Anche noi siamo molto impegnati, ma per una bella ragazza può liberarsi no? Solo una sera! Sono sicuro che gli piacerebbe. Tu chiediglielo. –
- Mh. Ok – mentì, stringendosi nelle spalle.
Federico non voleva uscire con quella ragazza. A lui piacevano i maschi.
E poi, se anche gli fossero piaciute le ragazze, quella lì non gli era piaciuta dal primo momento, e a cena con quella non ci sarebbe andato mai. Non poteva.
Era lui quello che gli piaceva.
- Perché mi piaci, non c’è un motivo! Mi piaci anche se sei uno stronzo instabile, mi piaci anche se ti tiri indietro e mi fai venire voglia di prenderti a schiaffi, e mi piaceresti ugualmente se smettessi di ragionare mille volte sulle cose e facessi quello che ti senti! Perché tu lo vuoi quanto lo voglio io! –
La mano di Rafael si staccò da lui.
- In realtà non credo che vorrà venire. Credo che abbia una ragazza. –
Bugia. Oddio, non era proprio una bugia.
Non si trattava di una ragazza, ma il senso era sempre quello.
Voleva lui. Gli piaceva lui. Non quella ragazzetta irritante.
Dominik si mise in piedi, scivolando indietro di qualche passo, per avere il corpo di quel ragazzo un po’ più lontano. Non gli era mai piaciuto, sul serio; non perché fosse antipatico o cosa, però…sembrava subdolo e falso, e non gli piaceva.
E neppure quell’oca di sua sorella gli piaceva.
Lo sentì ridacchiare
- Oh, ha una ragazza gelosa? –
- Non è gelosa – scattò lui subito, e l’altro ragazzo si zittì.
Non era geloso.
Era solo nervoso perché aveva litigato con Federico, e lui non sarebbe mai stato con una come quell’antipatica ragazzetta, e Rafael era subdolo e antipatico.
Ecco, non era geloso.
- Senti, tu chiediglielo lo stesso e fammi sapere! Ciao, Marek! – si sentì dire, prima che Rafale si dileguasse nel silenzio.
Non gli rispose nemmeno.
Non era geloso. E poi non ce n’era motivo.
Federico aveva detto che stava cercando di far funzionare la cosa, quindi lo voleva.
Fino a quando non si fosse stancato.
- Non è questo il problema! Discuto con te perché fai lo stronzo instabile! E oltre a questo sì, mi piacerebbe fare l’amore con te, va bene? Come le persone normali che sono attratte l’una dall’altra! Ma evidentemente non ti piaccio abbastanza, o non ti faresti tutti questi problemi! Dovevo trovarlo io l’unico terrorizzato dal cazzo!! –
Cosa avrebbe fatto se Federico si fosse stancato di lui?
Avrebbero litigato, se ne sarebbe andato di casa, e l’avrebbe lasciato da solo in quella casa vuota e silenziosa. Poteva sopportare ancora tutto quel silenzio, sapendo che a fine giornata Federico non sarebbe tornato? Come sarebbe stato non pensare più a quando l’avrebbe rivisto e l’avrebbe baciato?
Baciare Federico era bello. Perché però doveva essere così complicato?
Eppure pensare a Federico gli lasciava addosso una bella sensazione.
Morbida. Come se dovesse sorridere da un momento all’altro.
Come quando lo accarezzava piano e lui piegava la testa perché così la carezza sarebbe durata un po’ di più.
- Dominik? Vuoi andare a pranzo o no? - 
Sussultò mentre la voce della maestra lo richiamava.
Si alzò immediatamente, come se più che una domanda quello fosse stato un ordine.
- Perché non vuoi provare? Non devi avere paura. –
Perché non voleva provare, era la domanda che aveva tormentato Federico.
Quella che tormentava lui, nel profondo, era perché non dovesse avere paura, quando il mondo che aveva intorno stava in piedi per miracolo, nel buio.
 

§§§

 
Era successo nel giro di cinque minuti, proprio mezz’ora di prima di tornare a casa.
Prima c’erano la solita vita, il solito lavoro, i tavoli da servire e il pensiero della cena da preparare non appena a casa; c’era l’irritazione per non aver parlato con Dominik, il testosterone in circolo e la tensione accumulata per tutti i casini che aveva ancora incatenati come una palla di piombo alla caviglia.
E poi, in un attimo, tutto aveva perso il suo senso.
Non sapeva esattamente quando fosse successo, quale fosse stato il momento esatto.
Probabilmente quando si era voltato per andare a quel tavolo, e le aveva viste.
Era come se fossero apparse all’improvviso.
Non le aveva viste entrare, o sedersi al tavolo, o chiacchierare.
Semplicemente le aveva viste materializzarsi sedute a quel tavolo all’angolo, vicino alla finestra: la luce aranciata che proveniva dalla strada e filtrava attraverso il vetro si rifletteva sulla spalla di una delle due, rendendo più vivace il colore chiaro della camicetta che indossava.
Federico non sapeva perchè, ma era come aver ricevuto un colpo dritto allo stomaco.
Come se tutto quello che aveva fatto fino a quel momento non avesse senso.
Come se quello che era accaduto la sera prima fosse stata una enorme stronzata.
- Perché è tanto importante? E’ questo tutto il problema?! Litighi con me per questo? –
Dominik che urlava, che si arrabbiava.
- E io ti piaccio, Federico? Se sono uno stronzo instabile, se mi tiro sempre indietro, allora io ti piaccio? Se è così importante, per te, perché stai perdendo tempo con me? –
Improvvisamente, di fronte a tanta semplicità, il sesso  - che non aveva fatto – aveva perso senso.
E da quel momento, da quando le aveva viste, si sentiva un idiota.
Le aveva raggiunte subito.
Non si stavano baciando, e neppure toccando.
Si stavano sorridendo.
Sorridevano come se non avessero un mondo intorno, e parlavano, a voce alta, ora inframmezzata da una risata, chissà per cosa.
Ad un certo momento, una delle due aveva azzardato una carezza.
Federico riuscì a sentirne la voce morbida quando se le trovò un po’ più vicine, con il blocchetto degli ordini che pesava nella tasca del grembiule nero.
- Tu non riesci a crederci? Ti ricordo che sono praticamente scappata con la laurea in mano...anzi, tu mi hai portato via, ma l'hai vista la faccia che hanno fatto? Non so te, ma stavo per scoppiare a ridere in faccia a tutti..."ok, è ora che ve ne andiate tutti a quel paese, la specialistica me la vado a fare a Torino" bella uscita di scena... – La ragazza rise, leggera, e il suo tono di voce salì di un’ottava mentre riprendeva a ricordare una delle ultime frasi. Aveva mosso la mano, mentre scandiva a quel paese, e Federico si era risvegliato dal torpore. Non voleva dire niente, non voleva interromperle, o non avrebbe mai saputo che voce avesse l’altra ragazza, cosa avrebbe risposto, se il suo tono sarebbe stato più morbido o divertito.
Allora tirò fuori lo strofinaccio dal grembiule, fingendo di voler ripulire il tavolo vicino, tra l’altro perfettamente lucido.
- Te l'avevo promesso no? – sussurrò l’altra ragazza, appoggiandosi al tavolo e sporgendosi appena verso la compagna. - ..che ti avrei portato via, che avrei aspettato e ti avrei portato via con me appena possibile... –
Federico inspirò. Il viso di Dominik, imprigionato in una risata, lo tormentava.
Aveva promesso milioni di cose nella vita, ma in poche aveva creduto veramente.
Come quella stupida promessa che si erano scambiati intrecciando i mignoli come due idioti.
- Prometto che non me ne vado. E dal mignolino non si torna indietro! –
- E tu prometti che farai meno lo stronzo, però. –
- Mh…d’accordo. –
- Promettimelo! –
- Promesso. –
Sorrise, a capo chino per non farsi vedere, con delle ciocche di capelli che gli sfioravano la fronte e gli zigomi.
- Sì, come io ti avevo promesso due anni fa che ci saremmo baciate per la prima volta dentro alla Scala, come poi è successo...Dio mio quella giornata. Non sembra sia passata un'eternità? L'ho sempre detto che ho una sbagliatissima concezione del tempo, insieme al tempismo sbagliato! – riprese di nuovo la prima ragazza, e la compagna ridacchiò appena, leggera. Non una risata divertita, o maliziosa, o esagerata: semplicemente un sorriso più accentuato, perché era l’unica risposta possibile.
- Davanti alla Scala – la corresse poi, in un rimprovero dolce, ma sorrideva ancora in modo morbido. - Volevi che il nostro primo bacio fosse davanti alla Scala e volevi fare una foto. Invece è stato dentro, nel teatro, mi hai baciato a tradimento e velocemente, neanche il tempo di sapere il sapore delle tue labbra che già non c'erano più sulle mie! Dio, quanto tempo...e lo sai, amo il tuo tempismo... –
Federico passò lo strofinaccio sul tavolo, con una delicatezza che non aveva mai usato, perché un po’ gli mancavano e forze. Non aveva idea di chi fossero quelle ragazze, o di cosa facessero nella vita, se si amassero, si volessero bene, o si fossero appena conosciute, se avessero di fronte una strada spianata o anni fatti di lotte.
Semplicemente,  in un mondo tutto loro, si amavano e non si curavano di niente di ciò che le circondava.
Come faceva Dominik.
Come non aveva fatto Manfredi, per cui il mondo intorno era stato sempre il primo pensiero.
La voce morbida lo avvolse di nuovo, strattonandolo come una corda di seta.
- Oh si certo, come il primo ti amo mentre litigavamo! Adesso ho capito perché sei voluta passare per Milano prima di tonare a Torino! – stava dicendo la prima, e stava puntando il dito contro alla compagna, in modo ironico. - Ammettilo, il bacio lo vuoi davanti alla Scala, non dentro! – la accusò, con una mezza risata, e quando spinse la mano ancora in avanti per prendere quella della ragazza dall’altra parte del tavolo, Federico si staccò dal tavolo vuoto e raggiunse quello occupato dalle due ragazze.
Perché Samuele lo aveva guardato con la coda dell’occhio, e la voce di Manfredi, e quella di Dominik, stavano arrivando a tormentarlo.
Era insopportabile. Non bastava un cuore solo per tutto quel casino.
- Buonasera ragazze. Volete ordinare? – chiese subito, un po’ troppo diretto persino per i suoi stessi gusti. Ma le ragazze non si scomposero: si voltarono verso di lui, e poi, in un secondo, si rivolsero uno sguardo morbido, prima che una delle due gli rivolgesse la parola.
- Sì, grazie. Due caffè, di cui uno macchiato – gli rispose.
Aveva inclinato un po’ la testa di lato, e aveva usato lo stesso tono delicato con cui aveva parlato con la sua ragazza, solo un po’ più stridente e diretto. Federico le sorrise di rimando.
- Arrivano subito! – le disse, allontanandosi per tornare al bancone da Samuele.
Ma fu intercettato da un gruppo di ragazzi ad un tavolo, e poi da un uomo dall’aria stanca che teneva un giornale completamente aperto sul tavolo che occupava. Si fermò prima al tavolo dei ragazzi, ancora indecisi su cosa ordinare, ma era così attratto dalle voci morbide di quelle ragazze da tendere di nuovo l’orecchio verso di loro.
- Quello è stato un colpo di classe amore. Le dichiarazioni a effetto così mentre si litiga sono le più sincere alla fine... e no, non solo per quello sono voluta passare da Milano. Voglio fare tutto quello che non abbiamo fatto quel giorno, magari ti concedo anche quel ballo in mezzo alla strada che volevi farmi fare... – aveva ripreso a parlare una delle due.
- Oh beh, sì, modestamente, ma guarda che anche il ballo in piazza era di gran classe, adesso lo faresti? E amore...da adesso in poi abbiamo molto molto tempo per fare tutto quello che non abbiamo fatto, tipo comprare il divano marrone e poi insultarlo perché non ci piace, o preparare insieme la cena dopo una giornata di lavoro per te ed una di università per me...oh, mi prenderanno in giro per l’accento vero?-
La ragazza aveva assunto, su quell’ultima frase, un tono di voce a metà tra l’esasperato e il divertito.
- Posso provarci ma non ti assicuro nulla! E Dio, faremo tutto...Il divano è la prima cosa che compreremo, e tranquilla amore, non importa nulla a nessuno del tuo accento, anzi a me piace...- Rise sull’ultima frase, coprendosi la bocca con una mano.
Federico si prese appena un secondo per trascrivere due ordini, con un sorriso vuoto.
Stava ascoltando una conversazione fatta di sogni e di progetti: una casa nuova, un divano nuovo, un lavoro, una giornata all’università, una cena da preparare.
Gli pareva quasi di sentire se stesso quando, a Palermo, progettava con Manfredi di partire, dopo il diploma, e rifarsi una vita da qualche altra parte, magari proprio a Milano.
E sentire parlare del teatro, di Milano, da quelle ragazze, gli faceva venire in mente la giornata che aveva passato in giro insieme a Dominik, il suo sorriso quando lo aveva portato alla Scala, o quando gli aveva comprato quel piccolo modellino del Duomo.
Lo aveva conservato, lo teneva sul comodino: lo aveva visto quando era entrato nella sua stanza per aiutarlo a riordinare, un po’ di tempo prima.
- Perché è tanto importante? –
Perché era tanto importante? Perché adesso, di fronte a due ragazze che progettavano il futuro, si sentiva un idiota al solo pensiero di aver discusso con Dominik per una cosa come il sesso, quando aveva trascorso anni a farsi distruggere da Manfredi e tacere?
Espirò, mentre trascriveva un altro ordine, e si spostava verso il tavolo dell’uomo solitario con il giornale.
Le due ragazze stavano ancora parlando.
Non era corretto origliare, sua nonna l’avrebbe rimproverato per ore intere.
Ma, d’altronde, la nonna non c’era.
- Oh sì lo so, ma sono una romana a Torino. Guarda, potrebbe essere il titolo di un film! Ah, domani quando arriviamo dovrei passare in università, spero non abbiano fatto casini con il trasferimento...mi accompagni? Ho paura da sola – La ragazza sporse il labbro inferiore, in quella che doveva essere una richiesta ironica.
- Diciamo che non hai la minima idea di dove devi andare! – la rimbrottò l’altra, e rise di nuovo, di gusto. - Sì che ti accompagno, e sai, con la nostra vita si potrebbe fare tranquillamente un film non credi? -
- Il fatto che non sappia dove andare sono dettagli! Oh sì che ci si potrebbe fare un film...se me la raccontassero non ci crederei nemmeno io in effetti...titolo? – Federico appuntò un altro ordine, trattenendo un sorriso. - Vediamo… "Amore a distanza con lieto fine"...nah, troppo banale...- stava dicendo una delle due ragazze. Poi, all’improvviso, alzò le mani con lo sguardo verso il vuoto, in un gesto teatrale - "Si amavano ma a casa si tiravano le padelle "- esordì poi, melodrammatica, muovendo le mani in aria come a disegnare un titolo da Oscar, e  rise, annuendo a se stessa - Ecco, più veritiero! -
L’altra scoppiò in una cristallina risata.
 - Sì,dettagli dettaglianti... E "si amavano ma a casa si tiravano le padelle"? Troppo veritiero! Non è meglio "l'amore è come una padella lanciata" che dice tutto e niente? -
- Uhuhm, sì mi piace! Padelle volanti in casa, e quando mia madre ci verrà a trovare le diremo "ma no, non è una padella, è amore!" –
Federico ripose il blocchetto nella tasca del grembiule.
Stava ancora sorridendo, come se la leggerezza portata da quelle due ragazze avesse alleggerito un po’ anche lui. Se la immaginava quasi, sua madre che andava a trovarlo e magari se ne stava sul divano a parlare con Dominik di musica o di una notizia sentita al tg del mattino.
Non sarebbe mai successa una cosa del genere. O forse sarebbe stato un miracolo.
Forse forse, una come Milena, invece, avrebbe potuto riderci su.
Tornò al bancone, dove Samuele stava asciugando dei bicchieri con uno strofinaccio pulito: quando lo vide arrivare lo fissò di sbieco, e Federico schiaffò con un po’ troppa forza i tre bigliettini con gli ordini sul bancone.
- Va bene che è quasi ora di andare a casa, ma sei così stanco da impiegare tre ore per… - si fermò per controllare i foglietti. - …due caffè, sei birre e un aperitivo? –
Federico si strinse nelle spalle.
- Sono carine quelle due. –
- Non te l’ha detto nessuno che non si deve origliare? –
Federico rubò una nocciolina dalla ciotola sul bancone, meritandosi un’occhiataccia di Samuele, che però non potè schiaffeggiargli le mani perché stava iniziando a preparare i due caffè per le ragazze.
- Sì, mia nonna. Ma lei adesso non c’è! –
- Mh. E io che pensavo che fossi strano perché magari hai fatto una stronzata con Dominik – mormorò Samuele, prima di esibirsi in una smorfia, spalancando gli occhi come se avesse realizzato chissà quale grande scoperta. – No, aspetta…tu hai fatto una stronzata con Dominik! –
- Grazie per avermelo ricordato! Lo sai che sei stronzo? –
- Sono solo sincero – gli rispose quello a tono.
Federico sbuffò, passandosi una mano tra i capelli.
A quell’ora Dominik doveva già essere tornato a casa ad aspettarlo.
Forse non gli avrebbe nemmeno rivolto la parola.
- Anche io sono sincero quando ti dico di mandare a fanculo Riccardo e farti Mattia nel magazzino, ma non mi sembra di aver mai sentito un grazie uscire dalla tua bocca! –
Mentre lo diceva gli veniva quasi da ridere da solo come uno scemo: forse per il nervosismo, forse per la stanchezza, o forse ancora perché l’idea di Samuele e Mattia nel magazzino, e della faccia che avrebbe fatto Roberto, era sinceramente divertente. E per quanto tentasse di rimanere serio, anche Samuele tratteneva un sorriso mentre guardava il caffè uscire dalla macchinetta e cadere perpendicolarmente nelle tazzine bianche.
Le prese che erano ancora calde, nello stesso momento in cui il caffè fermava la sua corsa, e le poggiò sul vassoio, insieme a un bicchiere di aperitivo bianco.
- Tra un po’ sentirai uscirci un vaffanculo se non la smetti di crederti spiritoso! E adesso fila e porta questi caffè e l’aperitivo, poi vieni a prendere le birre, così te ne torni a casa e vedi di far camminare quel cervello intasato di testosterone! –
Federico si esibì in una linguaccia, prima di tornare al suo lavoro.
Le ragazze di prima stavano ancora parlando e ridendo: si avvicinò prima all’uomo solitario, per portargli il suo aperitivo, e poté sentire di nuovo le voci morbide. Chi se ne fregava di origliare!
- Oh, a proposito...per quei due gattini?-
- Fisher e Shoney? Li andiamo a prendere appena casa è a posto, ok?  E magari li teniamo lontani dal divano mh? Oh tua mamma a casa nostra? Ci avvisa una settimana prima di venire vero? -
- Sì, loro...E, amore, il divano un pezzettino deve essere il loro, le unghiette dovranno pur farsele da qualche parte, e quell'orrendo divano marrone è il posto giusto! – La ragazza prese una pausa, sorridendo appena - Probabilmente sì, ci avviserà, e come minimo farà una chiamata o due al giorno... -
- Sarà pure orrendo e marrone, ma le loro unghiette se le fanno sul tira graffi se non vogliono che gliele taglio! – rispose l’altra, imbronciandosi appena. Poi, d’improvviso, assunse un’espressione disperata. - Due chiamate al giorno?-
A Federico venne da sorridere, pensando a sua madre e a quanto fosse iperprotettiva: ad averlo lontano non si era ancora abituata, e quelle due chiamate al giorno, a distanza di mesi, le faceva ancora.
Con lo straordinario tempismo con il quale lo beccava sempre quando cercava di baciare Dominik o di godersi dieci minuti di riposo a letto con lui.
L’uomo al tavolo gli diede una banconota e due monete, e Federico le lasciò cadere sul caffè, allontanandosi con un sorriso di circostanza. I caffè caldi aspettavano solo di arrivare a destinazione, ma lui avrebbe voluto prolungare quei momenti ancora per un po’, per scoprire cosa altro si sarebbero dette, o qualcosa in più sulla loro vita, se fosse un casino come la sua.
- Sì, sai com'è ansiosa no? Giusto per i primi tempi credo, poi ci farà l'abitudine a non avermi per casa...-
- Ci dovrà fare l'abitudine prima o poi! Ma va bene, basta che non ti tenga le ore al telefono, voglio averti un po’ anche per me...-
- Ma figurati, con un "sì è tutto ok" me la cavo. E poi mi avrai sempre per te…abbiamo due anni passati a vederci da dietro uno schermo del pc e a parlare al telefono da recuperare... - La mano della ragazza, dalle dita allungate, scivolò in avanti sul tavolo, alla ricerca dell’altra, e la compagna ne seguì il movimento con gli occhi.
- Ce la siamo cavate benissimo anche senza poterci sfiorare, anche se è stata dura... e recupereremo ogni secondo... abbiamo tante litigate e tanti momenti assieme da recuperare... – L’altra sorrise appena, annuendo piano.
 –Si, è stata dura…ma ce l’abbiamo fatta…- mormorò proprio nel momento in cui Federico si avvicinava con i loro caffè mormorando uno scusate.
Adagiò i caffè, i bicchieri d’acqua, e una delle due ragazze lasciò cadere le monete sul vassoio.
Lo fece di nuovo con un sorriso, come se non avesse al mondo motivi che la spingessero a spegnere un sorriso così. Faceva venir voglia di sorridere anche a lui.
- Grazie – gli disse, con lo stesso tono morbido che aveva imparato ad associare a un viso come quello. Ma prima che si allontanasse lo richiamò. – Ah, senti! Scusami…potresti consigliarci un buon ristorante? Non siamo di qui, siamo solo di passaggio… - la sentì dire.
Federico sul momento rimase interdetto: dei locali che conosceva di Milano, non ce n’erano poi molti che avrebbe consigliato. Con Lorenzo e dei suoi amici era stato a mangiare in un posto carino, ma non gli era parso che avessero poi molta tolleranza per i gay, a giudicare dal modo in cui il sorriso di cortesia del caposala si era trasformato in uno sguardo stizzito quando Giulio aveva stretto la mano di Daniele e l’aveva portata alle labbra per baciarla lievemente.
E poi quel posto sembrava troppo banale e troppo pesante per due come quelle.
Si sentiva un po’ idiota ad azzardare ipotesi su di loro senza nemmeno conoscerle.
Poi, mentre stava per stringersi nelle spalle e cedere all’idea di chiedere consiglio a Samuele,  arrivo l’illuminazione: un posto rustico, non troppo lontano, carino e intimo, dove nessuno lo aveva guardato male.
Dove Dominik aveva assunto un altro aspetto.
Dove era stato lui quello un passo indietro.
- E’ quando fai l’elastico che non fai buone scelte –  
- L’elastico? –
-  Si. Ti avvicini un po’, poi di più, e quando diventa troppo, rimbalzi indietro. –
Era un idiota. Un povero idiota.
Battè le palpebre, e mise di nuovo a fuoco la ragazza, che lo guardava con un’espressione di attesa in volto.
- Ne conosco uno dove si mangia benissimo! Aspetta, vi scrivo l’indirizzo! –
Si avvicinò di nuovo al tavolo, prendendo la penna e scribacchiando su un tovagliolino.
Poi non si curò di molto altro.
Solo dell’orologio, e quando segnò le otto in punto si sfilò in grembiule tanto velocemente da rischiare di strapparlo. Aveva già raccolto tutte le sue cose mentre Samuele entrava nel piccolo ufficio riservato a loro per cambiarsi: aveva una strana aria soddisfatta in viso, così tanto che Federico, quando gli passò davanti con le chiavi della macchina strette tra le dita, non riuscì a stare zitto.
- Certo che io sarò idiota, ma anche tu…! –
 

§§§

 
 
Federico scese dalla macchina, infilando le chiavi nella tasca del giubbotto.
Erano le otto e venti. Tempo record
Dominik doveva essere a casa ad aspettarlo, e forse l’avrebbe trovato seduto sul divano a studiare i suoi spartiti, o a sgranocchiare grissini, perché quando lui tornava così tardi non riusciva a resistere alla fame.
Una volta lo aveva trovato con il barattolo della nutella al centro delle gambe incrociate, a immergerci dentro delle piccole brioche che avevano comprato al supermercato.
Ne aveva mangiate quasi dieci, e poi non aveva voluto cenare, salvo borbottare, alle undici passate, di avere un po’ fame,  costringendo lui a tirare fuori l’insalata di riso dal frigo per fargli mangiare qualcosa. Aveva insistito per dieci minuti buoni di non volere nulla, e di non preoccuparsi, ma alla fine aveva pulito tutto il piatto.
Quando Federico glielo aveva fatto notare, aveva sorriso e si era fatto un po’ più piccolo sul divano.
Era esilarante quando faceva i capricci a quel modo.
Federico infilò le chiavi nella toppa: l’androne del palazzo era deserto, ma c’era dentro un bel tepore. Dalla porta del suo appartamento non giungeva nessun rumore, e non filtrava neppure un po’ di luce dal bordo inferiore. Solo per trovare la toppa ci mise almeno un minuto intero, perché le dita tremavano un po’ e si sentiva un nodo alla gola.
Tutta l’euforia che lo aveva preso al locale, realizzando di essere stato un povero scemo, l’aveva persa per strada. Adesso si sentiva nervoso e basta.
Forse Dominik non avrebbe voluto parlargli.
Magari avrebbe tenuto il broncio per giorni interi.
O forse avrebbe semplicemente fatto finta di niente come faceva di solito, a meno che qualcosa non gli interessasse abbastanza da stressarlo fino a che non gliel’avesse spiegata.
Infilò le chiavi, e aprì.
Dentro c’era buio. Era impossibile che Dominik non fosse tornato.
Quando fece scattare l’interruttore, infatti, lo trovò seduto dietro al suo pianoforte, con la schiena dritta e le orecchie tese ad ascoltare. Il rumore doveva averlo fatto sussultare.
- Federico? – chiamò, e il ragazzo si soffermò sul contorno delle sue labbra che si accarezzavano mentre pronunciava il suo nome.
Lasciò cadere le chiavi nella ciotolina di vetro sul mobile all’ingresso.
- Sono io, Dom – gli rispose.
Dominik non si alzò dal pianoforte.
Non lo faceva mai. Aspettava sempre che lui si avvicinasse un po’, prima: poi scivolava via dal suo sgabello e lo raggiungeva, ciondolandogli intorno mentre preparava la cena.
Quella sera però non si sentiva in grado di avvicinarlo.
Si sentiva un po’ un verme per il modo in cui lo aveva aggredito la sera prima, e per averlo lasciato uscire quella mattina senza dirgli niente, solo perché era troppo codardo per affrontarlo prima che andasse al Conservatorio.
Da quando aveva visto quelle due ragazze al locale, poi, si sentiva anche uno stupido infantile.
Vederle a quel modo gli aveva fatto pensare che, per quanto si fosse lamentato per anni e anni di Manfredi, perché litigavano almeno una volta a settimana, stava rendendo la cosa identica con Dominik. E l’ultima cosa che voleva era ripetere un’esperienza come quella.
Ferirlo come aveva ferito Manfredi.
E farsi ferire come Manfredi aveva fatto con lui.
Gli sarebbe piaciuta una storia semplice invece.
Ma non semplice perché priva di problemi, perché di quelli ne avevano sempre tutti.
Semplice perché fatta di cose semplici: un sorriso, qualche parola, una carezza.
Una di quelle storie leggere, in cui immergersi e lasciarsi avvolgere, non una storia fatta di litigate e del reciproco rinfacciarsi qualche mancanza.
Come aveva fatto lui con Dominik.
- Io sono cieco, Federico! Non sarò mai come il resto del mondo!!  A te cosa importa, no? Tu ci vedi! Tu puoi fare tutto quello che vuoi! –
Non poteva credere di averlo spinto a parlare in quel modo.
- E io ti piaccio, Federico? Se sono uno stronzo instabile, se mi tiro sempre indietro, allora io ti piaccio? Se è così importante, per te, perché stai perdendo tempo con me? – 
Non voleva che andasse così.
Voleva che fosse come i minuti prima di quella litigata, quando aveva poggiato la testa sulla sua pancia e Dominik gli aveva affondato le mani nei capelli, e si era sentito bene.
Federico si tolse il giubbotto, appendendolo all’ingresso, e si mosse verso la cucina, sfregandosi le mani per riscaldarle.
- Allora, hai fame? – mormorò, superando il salotto e avvicinandosi alla cucina.
Parlagli, parlagli, parlagli. Dì qualcosa!
Non disse niente.
Dominik annuì appena, e lo vide con la coda dell’occhio, perché se ne stava ancora seduto dietro al suo pianoforte. Anche quello era segno che qualcosa non andasse: non appena lui rientrava a casa, Dominik metteva il pianoforte da parte per un po’.
Federico aprì il frigorifero, tirando fuori delle uova, un po’ di prosciutto e un panetto di mozzarella, adagiandoli sul ripiano della cucina. Avrebbe preparato una frittata, perché non aveva voglia di cucinare altro ed era stanco.
E Dominik era in silenzio.
Si chinò di nuovo, tirando fuori l’occorrente per fare un’insalata, e adagiò sul ripiano anche quello.
Lavare l’insalata era rilassante.
C’era un ordine ben preciso: prendere le foglie, ad una ad una, lavarle bene, sistemarle su uno strofinaccio, asciugarle singolarmente. Poi tagliarle in pezzetti regolari, e sistemarle in un’insalatiera. Aggiungere il pomodoro, il mais, qualche carota, nei giorni buoni anche un po’ di mozzarella.
Tutto secondo un ordine preciso. Era l’unica cosa ordinata che faceva in vita sua, e per questo era confortante: perché poteva seguire quell’ordine in modo automatico e poteva intanto pensare ad altro, allontanando le preoccupazioni per un po’.
Federico prese a lavare l’insalata, sistemandola sullo strofinaccio vicino a sé.
Si sentiva quasi solo: c’era silenzio, inframmezzato solo dal respiro di Dominik e dal leggero sfrigolio dei fogli che teneva tra le dita. Se si fosse voltato a guardarlo l’avrebbe trovato forse a capo chino, a sfiorare i fogli con le mani. Troppo lontano.
Di solito le cose non andavano così.
Di solito, quando arrivava l’ora di cena, sia che lui fosse a casa, sia che fosse appena tornato dal lavoro, in casa c’era il chiacchiericcio di sottofondo della tv sintonizzata sul tg, e lo sfrigolio di qualcosa sui fornelli. Dominik lo seguiva in cucina, appoggiandosi alla parete per qualche secondo.
Poi, quando lui aveva già iniziato a cucinare e a muoversi in giro, Dominik si staccava dalla parete: gli girava intorno, chiacchierava, si lasciava imboccare quando c’era qualcosa che gli piaceva particolarmente, come la mortadella o un pezzetto di salsiccia cruda.
Federico asciugò l’insalata, poi si spostò per rompere le uova e iniziare a preparare la frittata.
Un uovo, due uova, tre uova.
L’olio sulla padella.
La fiamma accesa.
La mozzarella da tagliare a dadini.
Quando si voltò per riprendere in mano l’insalata, Dominik se ne stava silenzioso sulla soglia della cucina, con le mani in tasca e il capo contro il muro. Non sembrava arrabbiato, o confuso come la sera prima: era particolarmente lucido, e quasi leggero.
Federico continuò a preparare la cena. Non sapeva cosa dirgli, come comportarsi.
Cosa avrebbe dovuto fare? Avvicinarlo, fargli una carezza e chiedergli come fosse andata la giornata, come se nulla fosse? O forse avrebbe dovuto sorridere e basta, come le due ragazze al locale.
Ma fu Dominik a spezzare il silenzio.
- Oggi ci hanno consegnato gli spartiti nuovi per il saggio di fine anno – buttò lì.  Aveva preso a giocherellare con due dita con il bordo inferiore del maglione chiaro che indossava. Lo rendeva diverso, quel colore: era la cosa più diversa che ci fosse dal maglione nero che indossava la sera prima, e che li aveva portati a litigare a quel modo.
Lo faceva sembrare più adulto e allo stesso tempo più posato.
- E come ti sembrano? – gli chiese. Dominik si strinse nelle spalle.
- Belli. Ce ne hanno dati solo due, per adesso. Uno mi piace più dell’altro. –
- Mh, ho capito – mormorò Federico, versando le uova in padella.
Lo sfrigolare che ne seguì era parecchio confortante.
Dominik si era staccato dalla soglia. Si era sistemato un po’ più vicino, appoggiato al frigorifero, ma non vicino quanto le sere precedenti.
Mentre iniziava a tagliare la mozzarella, Federico lo vide muovere il piede destro regolarmente, come a seguire una qualche melodia che aveva in testa.
Era codardo come un tacchino il giorno di Natale.
In realtà non aveva idea di cosa provassero i tacchini a Natale, ma se avessero saputo che quello stesso giorno sarebbero stati serviti spellati e imbottiti su una tavola da pranzo, un poco di fifa ce l’avrebbero anche avuta. E magari avrebbero iniziato a fare qualche cosa di stupido, presi dal panico, un po’ come stava facendo lui, che di lì a qualche istante avrebbe preso compasso e squadretta per fare a dadini un panetto di mozzarella.
- Oggi Rafael mi ha detto che ci invita a cena perché tu piaci a sua sorella –  mormorò poi la voce di Dominik. Non stava più muovendo il piede come prima.
Federico mandò al diavolo la mozzarella, gettando i pezzetti dal taglio irregolare in mezzo all’insalata e lasciandone qualcuno per la frittata.
- E sua sorella come mi conosce, scusa? –
- E’ Szilvia. La ragazza che c’era al concerto di inizio anno. Siamo andati a cena con loro. –
- Ah, Szilvia! –
Szilvia, la rossa che con cui era andato a cena e a cui aveva accurata evitato di aprire la porta di casa quando si era presentata con un sorriso a trentadue denti. Non che avesse qualcosa che non andasse, ma aveva avuto la sfortuna di incontrarlo quando era in quel periodo della vita in cui era stanco di tutto e di tutti, e soprattutto di fingere: continuare a far finta di essere etero anche di fronte a lei, in quel periodo, sarebbe stato decisamente troppo.
Se l’avesse rivista adesso, le avrebbe detto la verità senza porsi problemi.
Se le fosse andato bene, avrebbe avuto una conoscenza in più, altrimenti amen. Era stanco e basta. E gli sarebbe piaciuto rivedere Rafael: quella sera che avevano trascorso insieme non gli era bastata per studiarlo, ma aveva la sensazione che fosse un tipo particolare.
- Comunque ho detto che non andiamo. Gli ho detto che hai una ragazza –  snocciolò Dominik in tutta risposta. Federico sistemò il prosciutto e la mozzarella sulla frittata, piegandola poi in due per farla somigliare a un calzone imbottino.
- Perchè? –
- Perché quella sera a cena tu non gli hai detto di essere gay. Pensavo non volessi –  rispose il ragazzo, stringendosi nelle spalle. Si era staccato dal frigorifero, finalmente, e aveva ripreso a ciondolargli intorno come faceva di solito.
- Non mi importava nulla di loro, figurati. Mi importava di te. Non volevo dirlo a te. –
- Perché? Ti stavo così antipatico? –
- Oh, no! Ma…pensavo…le cose andavano già male, non volevo dirti anche quello. Non sapevo se l’avresti presa male. –
Dominik annuì appena, in silenzio: poi, però, aggrottò la fronte.
- Le cose non andavano male, Federico. Lo pensavi tu! A me piacevi – confessò.
Federico si aprì in un sorriso, mentre spegneva il fornello e tagliava una carota in pezzetti irregolari, per l’insalata.
- Non sembrava proprio! Sembravo più uno dei tanti di cui non ti importava un bel niente, perché non erano abbastanza in alto per raggiungere i livelli della tua musica – disse, parlando lentamente affinchè non si perdesse nemmeno una parola.
Dominik sporse le labbra, in un broncio.
- Invece mi importa – borbottò.
- E’ per questo che hai mentito a Rafael, allora. Sulla mia fantomatica ragazza. –
Dominik infilò le mani nelle tasche dei pantaloni.
- Non era una bugia. Non è proprio  una ragazza ma…stai con me. –
Il tono di voce era cambiato, la sicurezza da grande musicista maniaco del controllo era sparita.
Ed era bello da guardare, adesso che aveva il capo un po’ inclinato da un lato e le labbra dischiuse, privo di quella patina di sicurezza che si portava sempre dietro e che non era altro che una montatura, un castello di carte che crollava non appena qualcuno si avvicinava abbastanza da invadere il suo spazio.
Era bello ed era reale.
Era vero, e leggero, e adesso lo faceva sentire sul serio come al posto di una di quelle due ragazze al locale, come se starci insieme potesse essere la cosa più facile del mondo, senza prendere a urlarsi addosso.
Gli si avvicinò e gli poggiò una mano sul viso, in una carezza.
- Mi dispiace, Dom. Per ieri. Non avrei dovuto prendermela a quel modo – gli confessò. Dominik dischiuse ulteriormente le labbra. – E’ che per te è tutto nuovo, ma anche per me lo è. –
- Tu stavi con Manfredi. Sai cosa vuol dire.  –
- Appunto – sussurrò. - Con Manfredi è stato diverso. Io e lui… eravamo amici, ci conoscevamo già. Conoscevo ogni suo punto debole, sapevo dove colpirlo per fargli del male, se lui ne avesse fatto a me. E’ stato un po’ come continuare qualcosa che c’era da sempre, come se non potesse andare a finire in altro modo che così. E come amici eravamo fenomenali, non c’era al mondo persona migliore di lui. Solo che come amanti abbiamo fatto schifo, ed è diventato un inferno. Abbiamo preso a rinfacciarci ogni minima cosa, a sfruttare le debolezze dell’altro per trarne un vantaggio. Io stavo zitto su quello che non mi andava bene, e lui si cullava che tutto andasse a meraviglia. E hai visto com’è finita, no? – gli spiegò. Il capo di Dominik si mosse appena mentre annuiva lievemente, e la sua pelle sfregò contro il palmo della mano di Federico. - Non voglio che sia così con te. E non è facile per te come non lo è per me, perché siamo diversi praticamente su tutto, edi te non so niente. Potresti farmi male in qualsiasi momento, e non potrei farci niente. –
- Io non voglio che stai male, Federico. Non lo farei mai! – si difese lui.
- Lo so che non lo faresti intenzionalmente. Ma credi che io ne abbia fatto a Manfredi così, perché mi andava? Non ci rendiamo sempre conto di quello che facciamo, perché pensiamo sempre di avere ragione. Ieri, quando discutevo con te, ero convintissimo di avere ragione io, che ti avresti dovuto fare di più e che ti comportavi così per farmi uno sgarbo. – Dominik si imbronciò un po’, e le labbra si accarezzarono mentre assumeva un’espressione contrariata: c’era davvero da baciarlo e prenderlo a morsi.
- E adesso? – chiese, le labbra che si mossero di nuovo sfiorandosi.
- Adesso mi sto dando dell’idiota perché ho piantato un casino per una cosa così – gli disse semplicemente, e la carezza si trasformò in un buffetto che lo fece sorridere, chinando il capo.
- Però me lo spieghi? –
- Che cosa? –
- Perché è così importante? Il sesso, intendo – lo sentì soffiare, arrossendo un po’ sulle guance.
Non sapeva cosa rispondergli esattamente: non c’era un motivo vero.
C’era solo quel desiderio viscerale che lo prendeva tutte le volte che ce lo aveva vicino, e che non si poteva spiegare, perché come quelle erano così, arrivavano come un tornado senza lasciare il tempo di prendere fiato o di fermarsi a pensare. Come la sera in cui lo aveva baciato: se ci avesse pensato anche solo un po’, non l’avrebbe fatto. Ma non c’era riuscito, e non se ne pentiva.
Così come non doveva essersene pentita quella ragazza al locale quando aveva baciato la sua compagna a tradimento, dentro alla Scala.
- Non c’è un motivo. E’ che…non lo so, non c’è un motivo in queste cose. Diciamo che è lo stesso motivo che fa venire voglia a te di baciarmi – tentò.
Dominik all’inizio la prese per buona, poi aprì la bocca.
- Sì, ma… - iniziò, e Federico lo zittì con un bacio.
Lo sorprese a tradimento, tanto che lo sentì aggrapparsi alle sue spalle per non perdere l’equilibrio, e gli affondò le mani sulla nuca, tra i capelli. Sapeva di arancia, delle caramelle che avevano comprato al supermercato e che rosicchiava continuamente quando studiava ed era nervoso.
- Ceniamo, e poi te lo dico. –

 

§§§


- Adesso me lo dici? –
- Finisci di mangiare prima. –
- Ho finito! –
Federico sbuffò divertito, stiracchiando le gambe in avanti, a occhi chiusi.
- No, non è vero. –
- Il panettone non conta, Federico. Avevi detto dopo cena. –
Sorrise, riaprendo gli occhi. Dominik aveva messo di nuovo su il broncio: se ne stava sdraiato sul divano, con la schiena poggiata al bracciolo e le gambe tese, poggiate su quelle di Federico. Sbuffando, si sporse di lato, alla ricerca del basso tavolino, su cui, con cura, poggiò la fetta di panettone al pistacchio che non aveva ancora finito.
Quando tornò a sistemarsi, incrociò le braccia al petto, stizzito.
Era esilarante prendersene gioco così.
Gli aveva promesso che gli avrebbe parlato, che avrebbe risposto a tutte le sue domande sul sesso, ma dopo cena: solo che aveva aspettato che finissero di mangiare, poi aveva lavato i piatti, e alla fine gli aveva offerto persino una fetta di panettone che gli piaceva tanto.
Per tutto il tempo, Dominik lo aveva tormentato affinché gli rispondesse, e lui aveva sempre rimandato, fino a quando, seduto sul divano, Dominik si era finalmente  immaginato che avrebbero parlato: si era seduto sul divano, aveva steso le gambe sulle sue, con i piedi nudi e affusolati tesi verso l’alto. Aveva aspettato, paziente.
E Federico aveva taciuto.
Fino a quando non ce l’aveva fatta più.
Federico fece scivolare la mano sulla caviglia di Dominik, lasciata scoperta dal pantalone che gli si era sollevato fino al polpaccio, e poi fino a piedi, massaggiandoli appena:  piedi affusolati e magri, quando li sfiorò lo sentì sussultare.
- Ma perché non metti un paio di calzini? Hai i piedi freddi. –
- Non ho freddo - gli rispose subito, scrollando le spalle. Aveva il viso arrossato, e le maniche del maglione sollevate fino ai gomiti: però i piedi li aveva costantemente freddi.
Federico reclinò il capo indietro, contro lo schienale del divano: nel buio, concentrò l’attenzione totalmente sulla pelle di Dominik sotto i polpastrelli. La peluria sulle gambe, le linee ossute dei piedi, la fossa sulla pianta del piede piegato, la linea morbida della caviglia, la curva del polpaccio.
- Vieni qua, Dom – lo chiamò, lasciando scivolare le mani un’ultima volta sulle sue gambe.
Lui si mosse all’istante: scivolò con le gambe giù dal divano, e si mosse senza nemmeno alzarsi in piedi, semplicemente ruotando, con il corpo affondato nei cuscini morbidi, tendendo le mani avanti per cercarlo.
La mano affusolata di Dominik gli si poggiò sul petto, e le dita si strinsero appena sulla sua maglietta mentre si sporgeva avanti con il busto, poggiando il capo sulla sua spalla.
Federico avrebbe voluto circondargli il corpo con il braccio, ma non aveva voglia di muoversi: gli poggiò semplicemente la mano sulle ginocchia che Dominik aveva portato al petto, lasciando poi che il palmo scivolasse ancora in avanti, oltre le ginocchia, fino alla coscia.
- Federico, posso farti una domanda? – lo sentì poi borbottare, il viso sformato perché schiacciato contro di lui.
- Spara. – Lo vide aprire la bocca, poi richiuderla. Poi la aprì di nuovo.
- Me lo dici adesso? – mormorò a tradimento.
Federico rise, dandogli un pizzicotto sulla coscia. Poi alzò il braccio, e gli circondò del tutto il corpo, stringendoselo addosso.
- Che cosa vuoi sapere? –
- Se è così speciale come dicono. Mio cugino Pier dice che è una cosa importante per tutti, e che le cose che succedono, succedono quasi tutte perché c’è il sesso di mezzo. Ma è davvero come dicono loro? Io non mi fido di quello che dice Pier, mi faceva un sacco di scherzi. Ma se me lo dici tu…tu lo spieghi meglio – lo sentì farfugliare.
Era il discorso più sconclusionato che avesse mai fatto.
E nella top ten dei discorsi sconclusionati, c’erano solo quelli con Dominik.
- Non so cosa ti abbia detto tuo cugino, però…non lo so, Dom, non posso dirti se è speciale come dicono o no, perché non c’è un termine di paragone o un modo per definire se qualcosa è speciale o no. Puoi dirlo se lo provi. E’ come quando baci qualcuno. E’ sempre diverso. –
Dominik spinse i piedi in avanti, fino a nasconderli tra le gambe di Federico e il cuscino dei divano, alla ricerca di un po’ di calore. E, con una piccola spinta, raddrizzò la schiena, sollevando il capo per spingerlo in alto, verso l’incavo del suo collo, quasi cercando un ripato.
Federico voltò il capo istintivamente, alla ricerca delle labbra dolciastre di Dominik, che dovevano sapere di pistacchio.
Tutte le volte che lo baciava, sentiva il bisogno di accarezzarlo: sulla spalla, sul braccio, sul collo, sul viso, un posto qualunque, perché potesse avere la sensazione di avere un qualche potere su di lui. E mentre dischiudeva le labbra per baciarlo, Federico gli sfiorò il viso con una mano, spostando anche il busto per trovarselo più vicino.
Quando le cose andavano in quel modo, tutto sembrava andare bene: ed era più facile immaginarsi leggero come le ragazze di quel pomeriggio al locale, credere di potersi trovare un giorno a scegliere che colore di divano scegliere, o se prendere un cane o due gatti.
Bastava solo prendere le cose come venivano.
Federico depositò un ultimo bacio sulle labbra morbide dell’altro ragazzo.
- Ci pensi troppo, Dom, ti fai un sacco di problemi. Perché? – gli soffiò quasi sulle labbra.
- Perché sono cieco.
Un altro bacio.
- A me non importa. –
- A me sì. –
Ancora uno, le mani di Dominik sulle spalle, il viso nascosto nell’incavo del suo collo, con il naso che sfregava contro la pelle.
- E’ che…ho paura di perdermi, Federico – lo sentì confessare, piano, raggomitolato contro di lui, come se fosse qualcosa di fragile.
- Ho paura di perdermi . –
- Tu non ti perdi, Federico. Ci sono tante persone che ti tengono dove sei. –
- Ma se Manfredi si perde, mi perdo anche io. –
- Allora tu pensa a Manfredi. A te ti tengo io. –
- E a te chi ci pensa? – 

- Tu. –
Il mondo si ribaltava, le parti si invertivano. Gli accarezzò il capo, godendosi il contatto con i suoi capelli soffici.
- Ti tengo io, no? –
Lo sentì sorridere, distendere le labbra contro la pelle e premergli ancora il viso contro. Poi, prendendo un respiro si allontanò appena, e tornò a essere un po’ meno piccolo, spostandosi indietro e sistemandosi a gambe incrociate davanti a lui.
Sul divano, Dominik gli cercò una mano, impadronendosene e prendendo a giocare con le sue dita, come un bambino attirato dalle costruzioni.
- Quando tu mi baci, Federico, va bene. Anche se sento che inizia a esserci confusione, nella testa, riesco a tenere un ordine, riesco a governarlo. Solo, che più mi baci e più la confusione aumenta, e ho paura che permettessi alla confusione di prendersi tutto, non riuscirei più a tornare indietro. – Le mani di Dominik lasciarono la sua, risalendo lungo il suo braccio, fino alla spalla. – Io sono cieco, Federico. Tutto si è sempre basato sulla musica, sul suo ordine, e sulle cose che posso creare. Anche la mamma. Quando le sto lontano per molto tempo, come adesso, arriva un momento in cui non la ricordo più. E non ho una foto da guardare, o una chiamata su skype da poterle fare. Ho solo le sensazioni sui polpastrelli, e i ricordi. Se perdo quelli, se perdo la musica, sarei completamente cieco. –
- Credi che succederebbe? Non funziona così, Dominik. Tutta questa confusione che senti, non dura in eterno. Qualsiasi cosa fai, i ricordi non te li può portare via nessuno, e nemmeno la musica: altrimenti la gente non lo farebbe mai, no? –
- Ma loro sono diversi! – provò di nuovo a difendersi.
Federico avrebbe voluto dirgli tante cose, mentre seguiva con gli occhi il percorso della sua mano che gli lasciava il braccio e riscendeva verso il divano. Avrebbe voluto pregarlo di provare, avrebbe voluto dirgli che il sesso con lui sarebbe stata una delle cose migliori della sua vita, avrebbe voluto pregarlo di fidarsi.
Invece poggiò la mano sulla sua, schiacciandola contro il divano.
- Ascolta, on ti devi sentire obbligato, va bene? Ti ricordi cosa ti ho detto quella volta a casa mia, a Palermo? Continua a fare quello che hai sempre fatto, quello che ti senti. E non ne parliamo più, va bene? –
- Ma tu… -
- Io aspetto. Anche tu lo vuoi, Dom. Te ne devi solo rendere conto – lo interruppe. - Adesso finisci quel panettone! -










Nota al capitolo 32: Capitolo infinito da scrivere e da elaborare.
Innanzitutto, ha una dedica speciale a due ragazze speciali, che hanno scritto una parte di questo capitolo, in particolare, la dolcissima scena di due ragazze innamorate, che è stata per me un'ispirazione.
Questo capitolo è stato difficile da scrivere, e anche adesso non è che sono proprio soddisfatta soddisfatta: ma di fatto, una fine quest lungo discorso non può averla, perchè ognuno di loro è fermo nelle proprie posizioni.
In questo capitolo dovevano esserci anche Samuele e Mattia, ma il discorso è andato per le lunghe, quindi rimanderò al prossimo capitolo!
Ringrazio tutti voi per il vostro affetto, per le recensioni, per la pazienza soprattutto, perchè sono lentissima ad aggiornare, e un grazie va anche a chi legge silenziosamente, ma comunque c'è.
Infine un grazie a coloro con cui parlo quasi sempre su facebook: a voi il grazie più grande, perchè mi sopportate continuamente e avete una pazienza infinita! :D Soprattutto un altro grazie immenso va a chi recensisce sempre, e a cui io devo rispondere da un sacco di tempo.
Vi chiedo scusa, perchè devo rispondere da moltissimo tempo, ma purtroppo con questo esame imminente le cose si fanno complicate.
Cercherò quando possibile di iniziare a rispondere, ma se dovete intanto chiedermi qualcosa in particolare potete contattarmi al mio account facebook o sulla mia pagina!
Vi mando un bacio, e a presto!
Esse
 

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Capitolo 37
*** 33rd: L'acqua che lava via tutte le colpe ***



 

Piove sul giusto e piove anche sull'ingiusto; ma sul giusto di più, perché l'ingiusto gli ruba l'ombrello.

Lord Bowen, in Walter Sichel, Sands of Time, 1923


 

Chapter 33rd: L’acqua che lava via tutte le colpe
 
Lo schiocco fu così sonoro da far sussultare Simone, mentre riempiva un boccale di birra direttamente dal rubinetto.
- Ma che cazzo… - lo sentì imprecare, arretrando di qualche passo mentre la schiuma fuoriusciva dal bicchiere e finiva sul pavimento, macchiandogli le scarpe.
L’ennesimo tuono, da fuori, fece tremare i vetri delle finestre.
Samuele strinse le mani intorno al bordo del bancone.
Qualcosa si era spaccato, in un punto imprecisato del petto: aveva cercato di tenere tutti i pezzi insieme per più di cinque minuti buoni, ma era arrivato quell’ultimo respiro traditore a fargli mancare le forze, lasciando che tutto si spezzasse.
Lo strofinaccio con cui aveva colpito il legno, provocando il rumore che aveva distratto Simone, era scivolato sul pavimento.
Si chinò per raccoglierlo, stizzito, mentre Federico lasciava cadere tre bigliettini con degli ordini davanti a lui.
- Che succede? – lo chiamò, proprio mentre si rialzava e lanciava lo strofinaccio verso il bordo del lavello d’acciaio.
- Niente – sibilò, afferrando uno dei foglietti.
La scrittura a zampe di gallina di Federico indicava due aperitivi bianchi e uno rosso.
Samuele prese tre bicchieri puliti, poi si allontanò per prendere dal frigo tre bottigliette di aperitivo, aprendole con tre scatti secchi: quando tornò al bancone, per prendere il ghiaccio e riempire i bicchieri, Federico era ancora lì.
- Non ci credo. Stavi benissimo fino a dieci minuti fa. –
- Sto benissimo se ti fai i cazzi tuoi, va bene? – rispose, secco, lanciando le tre bottigliette adesso vuote nel cestino all’angolo.
Federico lasciò cadere il vassoio che teneva in mano sul bancone, con un tonfo.
- Quando mandi a fanculo quel coglione sarà sempre troppo tardi, Samuele! – gli sibilò, superando il bancone per andare in magazzino a prendere qualche bottiglia di aperitivo da sistemare nel frigo.
Samuele inspirò profondamente, e i pezzi di quello che doveva essere stato il cuore si dispersero come le foglie secche sulla superficie di un fiume.
Non voleva prendersela con Federico. Non voleva avercela con nessuno, a dire il vero.
Solo con Riccardo, che gli aveva appena rovinato la giornata.
Aveva programmato tutto di quel venerdì sera, da giorni: il figlio di Riccardo sarebbe andato ad una festa di compleanno, ed essendo il luogo della festa abbastanza lontano, il ragazzo ci sarebbe andato con il padre di un amico e avrebbe dormito a casa del festeggiato, permettendo a Riccardo di avere un’intera nottata libera da passare con lui. Non appena lo aveva saputo, Samuele era andato a fare la spesa per preparare la cena, e aveva programmato tutto nei minimi dettagli: lo avrebbe accolto al ritorno dal lavoro, avrebbero fatto un bagno insieme, avrebbero cenato, poi avrebbero parlato un po’, e infine sarebbero andati a letto. Il tutto, ovviamente, contornato da del buono e sano sesso a riempire ogni minuto di tempo libero.
Tutto questo sarebbe successo se Riccardo non gli avesse inviato un sms, a meno di dieci minuti dalla fine del suo turno di lavoro al locale, dicendogli di essersene tornato a casa e di non avere voglia di uscire di nuovo perché fuori c’era un temporale troppo forte e non voleva rischiare il suo bel culo a mettere piede fuori di casa.
Decisamente, far schioccare uno strofinaccio contro il bancone del locale, per come si sentiva, era stato troppo poco. Lo aveva fatto semplicemente per superare il rumore che gli pulsava nelle orecchie, quello di qualcosa che si spezzava.
Federico tornò dal magazzino con le braccia piene di bottigliette di aperitivo, e Samuele aprì il frigo al posto suo, per aiutarlo: il ragazzo però, stizzito, si limitò a piegare il busto in avanti e iniziare a riporre le bottigliette, senza nemmeno rivolgergli la parola.
Lo aveva praticamente mandato a fanculo, non aveva tutti i torti.
Samuele tenne il frigo ancora aperto con una mano.
- Scusa, comunque. Sono un po’ nervoso. –
- L’ho notato – gli rispose quello.
Lui e Federico erano molto simili, come carattere, e capiva benissimo come, in quel momento, fosse troppo arrabbiato per fingere indifferenza: gli sarebbe passata prima della fine del turno, però, dopo aver  ricevuto le scuse. Federico non era uno che portava rancore.
E Samuele, tendenzialmente, avrebbe cercato di liquidare tutto con una risata: ma non ce la faceva.
Si sentiva tutto spezzato. Deluso.
Così, per ingannare l’attesa, Samuele tornò a dedicarsi al suo lavoro, riempiendo con cura i bicchieri e sistemando le ciotole di patatine e noccioline.
Federico si allontanò con gli ordini, tenendo il vassoio alto su una mano, e Samuele rimase lì, di fronte al bancone, con le mani poggiate sul legno, la pelle chiara che spiccava sul colore scuro del ripiano.
- Cucinerai per me, allora? –
- Pensavo che potremmo andare a cena fuori, però. Solo una volta. Possiamo andarci presto, mi libero dal lavoro e andiamo lì prestissimo. Non ci vedrà nessuno. Poi torneremo a casa. –
- Non posso, Samuele. Cosa cambia? Possiamo cenare a casa e stare insieme. Non ti lamenti sempre che passiamo troppo poco tempo insieme? –
- Si, ma non siamo mai stati fuori a cena. Sempre chiusi in questa cazzo di casa. –
- All’improvviso vuoi fare la bella mantenuta che viene portata a cena fuori e a cui si regalano gioielli? Cerca di essere maturo, e capisci che proprio non possiamo farci vedere in giro insieme! –
Chiuse gli occhi, passandosi una mano sul viso.
Si sentiva sporco. Qualcosa di cui vergognarsi, da tenere nascosto nel tepore di una casa che stava diventando una prigione.
Ho finito al lavoro, ma sono dovuto tornare a casa.
Il temporale è troppo forte.
Facciamo un’altra volta.
Ti amo.

Se ne fotteva dei ti amo. Sarebbe stato di nuovo a casa da solo, con la cena in frigo e il letto vuoto.
Senza di lui. Non si sarebbero visti neppure il giorno successivo, perché Riccardo era stato incastrato da una cena con dei colleghi, e poi c’era la domenica, e quella si passava sempre in famiglia, era proprio impossibile per lui liberarsi.
- Perché devi fare sempre così, si può sapere?! –
- Perché sono stanco! –
- Tu sei stanco? Sei tu quello che passa tutti i giorni a fare finta di avere una famiglia perfetta? –
- Nessuno te l’ha chiesto! IO ti ho chiesto di lasciare tua moglie e venire a vivere con me! –
- Per fare cosa, la bella famigliola felice? E come credi che vivrei? Verrei spazzato via ad ogni causa, lo capisci Samuele? Perderei il rispetto di tutti, non avrei più un lavoro e la mia vita sarebbe rovinata! –
- E allora lasciami! Lasciami e basta!
- No. Non posso. Non mi puoi lasciare, Samuele. –
- Io non ce la faccio più, Riccardo. O prendi una decisione, oppure mi lasci andare. –
- Oh, Samuele, sei ancora qui? Credevo te ne fossi già andato. –
Aprendo gli occhi, Samuele mise a fuoco il viso di Claudio, arrivato per l’inizio del suo turno, per dargli il cambio. L’orologio segnava le otto e dieci, e Claudio era in ritardo dei suoi canonici dieci minuti, come al solito. Stava sorridendo, sotto ai capelli un po’ umidi, e Samuele sentì che, in fondo, intorno a lui non tutto il mondo stesse andando a rotoli, se Claudio sorrideva.
- Tanto a casa non ho niente da fare. Resto un po’ qui stasera. –
- Dovresti approfittarne per tornare a casa invece, il temporale non è più forte come prima. –
- Nah, va bene così – rispose, e Claudio si allontanò in una scrollata di spalle, per prendere il suo grembiule nero e iniziare il suo turno al lavoro.
Non voleva stargli in mezzo, ma neppure allontanarsi troppo di lì.
Così girò intorno al bancone, occupando uno degli sgabelli riservati ai clienti: si prese la testa tra le mani, poggiando i gomiti sul bancone.
Era solo, come succedeva sempre. Niente di nuovo, se non fosse che si sentiva tremendamente stanco: era stanco di venire dopo qualsiasi cosa, come il lavoro, la famiglia, i colleghi, gli amici, persino dopo un insulso temporale che gli aveva fatto venire voglia di mettere il riscaldamento al massimo per riscaldare la stanza da letto e passarci dentro tutta la sera.
Riccardo tirava sempre fuori la scusa della famiglia.
Era legittimo, agli occhi di chiunque.
Ma sarebbe voluto essere anche lui una famiglia, per Riccardo.
Invece era solo l’uomo che amava e che si scopava ogni tanto, quando il resto degli impegni non lo soffocava troppo. Nel buio degli occhi chiusi, gli pareva quasi di sentirla, la delusione che gli si riversava addosso e allontanava ancora di più i pezzi del cuore distrutto. Poteva immaginare sotto ai polpastrelli il tessuto liscio della camicia di Riccardo, non appena gliel’avesse sfilata, sulle labbra il sapore un po’ salato della sua pelle, sulla schiena il tocco forte delle sue mani. Gli pareva quasi persino di sentirne la voce, non appena fosse entrato a casa sua, un po’ bagnato per la pioggia, e gli avrebbe proposto di fare un bagno insieme, che tanto la cena era nel frigo.
Riaprì gli occhi, e si trovò di fronte il legno scuro del bancone.
Un tintinnio lo scosse, facendogli sollevare il capo: era Federico che riportava un vassoio pieno di bicchieri, ma non indossava più il grembiule del lavoro. Aveva finito il turno, e portava già il giubbotto e la sciarpa intorno al volto, facendo dondolare tra le dita le chiavi della macchina.
Aveva l’aria stanca, ma era sereno: a casa Dominik doveva aspettarlo sul divano, o dietro al suo pianoforte. Lui avrebbe aperto la porta, e l’avrebbe salutato con un bacio. Avrebbero cenato, chiacchierato, forse avrebbero anche litigato, perché erano troppo diversi, ma alla fine sarebbero andati a letto, e le coperte calde di un letto matrimoniale avevano da sempre la capacità di appianare ogni conflitto.
- Io me ne vado a casa. Tu che fai, resti? – gli chiese. Ostentava indifferenza, ma non era più arrabbiato, glielo si leggeva negli occhi. Samuele annuì appena, raddrizzando il busto.
- Cosa fai stasera? – gli domandò. Federico si strinse nelle spalle.
- A casa. Dominik non vuole uscire nemmeno quando c’è bel tempo, figurati con un temporale del genere! E poi non mi sento proprio bene, credo che mi stai venendo il raffreddore. Tu che fai? –
- Quello che faccio tutte le sere. Un cazzo – rispose, in una scrollata di spalle, stringendo le mani sulle ginocchia. Forse un giorno la delusione avrebbe smesso di fare male: avrebbe imparato a rispondere con una scrollata di spalle anche a Riccardo, quando lo liquidava con un banale non posso, e avrebbe imparato a fregarsene. O forse non gli sarebbe mai passata.
- Uh, figo. Posso venire anch’io? – sentì poi una voce, insieme al tonfo di un corpo che si lasciava cadere sullo sgabello accanto al suo, al quale stava dando le spalle.
Federico aveva seguito il percorso del misterioso interlocutore con gli occhi, e alla fine aveva sorriso, sollevando il capo in un gesto di saluto.
Samuele si voltò di scatto, trovandosi di fronte gli occhi azzurri di Mattia.
O meglio, di quello che restava di Mattia sotto ai capelli e al cappotto grondanti d’acqua.
Quando incontrò il suo viso, Mattia sorrise, una di quelle sue solite smorfie ironiche con cui salutava sempre tutti: prima di quel momento, però, prima che le sue sopracciglia si sollevassero e le sue labbra si tendessero, c’era stato un momento in cui Mattia aveva sorriso come l’ultima sera che si erano incontrati, quando era uscito da casa sua e aveva sorriso solo per un attimo.
Gli occhi azzurri avevano brillato, e il sorriso era stato vero.
Solo per qualche secondo, prima che Mattia tornasse a essere il solito Mattia.
Samuele lo squadrò, dai capelli bagnati fino al cappotto puntellato di gocce d’acqua, e poi alle scarpe lucide completamente zuppe d’acqua.
- Ma come ti sei conciato così? –
Mattia si strinse nelle spalle, facendo una smorfia con la quale piegò gli angoli delle labbra verso il basso.
- Nulla, ho fatto una doccia e ho pensato di passare, solo che avevo fretta e l’ho fatta direttamente tutto vestito, per non perdere tempo – disse, scrollando le spalle. Poi lo inchiodò con uno sguardo. – Secondo te che cosa ho fatto, Samuele? Fuori sta praticamente diluviando! –
- E tu scommetto che non avevi l’ombrello. –
Mattia sollevò il braccio sinistro, mostrando un ammasso di stoffa e ferraglia tutta accartocciata: una volta doveva essere un ombrello, probabilmente. Ma di fronte alla sua espressione scocciata, che pareva un incrocio tra un film comico e un cartone animato, Samuele non riuscì a non sorridere, e Mattia scoppiò a ridere di rimando. Poi si passò una mano tra i capelli bagnati, liberandoli di un po’ dell’acqua che avevano assorbito.
- Fammi un caffè, ti prego. –
- Ho finito il turno, spiacente. Dovrai chiedere a Claudio – disse, portando le mani avanti sul bancone. – Claudio, lo fai un caffè? – gridò poi, quando vide che Mattia lo stesse fissando incredulo. Claudio rispose solo con un cenno della mano, sollevando il pollice.
- Va beh, io vado, Dominik mi aspetta – esordì Federico, infilando le mani in tasca e staccandosi dal bancone. Samuele annuì soltanto, mentre l’amico faceva qualche passo indietro. - Ci vediamo domani, e cerca di combinare qualcosa! – lo ammonì, puntandogli il dito contro.
L’uomo non rise, ma se non altro gli sorrise, mentre Federico gli dava le spalle e imboccava la porta, dopo aver preso il suo ombrello dal cestino vicino alla porta.
Probabilmente si sarebbe distrutto anche quello prima che arrivasse alla macchina.
- Cos’è, non hai combinato nulla ultimamente e ti becchi un rimprovero da un ragazzino? – lo chiamò Mattia, la voce calda, vicino ad un orecchio. Per attirarne l’attenzione, lo aveva anche sfiorato sul braccio con il gomito, fino a quando si era voltato.
- Che ti importa? Non ti fai sentire o vedere per tutta la settimana e poi vieni qui a pretendere che ti parli? –
- Perché, tu ti sei forse fatto sentire? -
Gli occhi di ghiaccio di Mattia, nonostante l’espressione del viso divertita, lo perforarono come una trivella su un terreno granuloso: gli affondarono le punte fin dentro il cervello, facendolo sussultare. Distolse lo sguardo, concentrandosi su Claudio che armeggiava con la macchinetta del caffè.
- Dovresti toglierti il cappotto, comunque. Sei fradicio. –
- Nah, preferisco tenerlo così. E’ come un’armatura, non vedi? Se lo togliessi, mi bagnerei tutto quello che ho sotto. Così, invece, mi basterà uscire e sarò più che protetto, tanto è già bagnato! –
- Ah, se lo dici tu! – lo prese in giro, stringendosi nelle spalle.
- Dovresti essere lusingato. Ho affrontato una terribile punizione divina sotto forma di diluvio per venire fino a qui! –
- Capirai, sei venuto per un caffè! –
Claudio depositò con un tintinnio un piattino e un cucchiaino davanti a Mattia, seguito poi dalla tazzina piena del liquido scuro e da un bicchiere pieno d’acqua. L’uomo allungò il braccio alla sua destra, afferrando una bustina di zucchero, che prese a far dondolare, afferrandola per una punta.
- Perché speravo me l’avresti fatto tu – disse poi. Samuele non lo guardò in faccia, concentrandosi sulla bustina di zucchero rossa che ondeggiava in aria.
- Credevo lo prendessi amaro. –
- Infatti questa è per te. Magari ti addolcisci un po’ – gli rispose a tono, strappando una punta della bustina e versandone tutto il contenuto nel bicchiere d’acqua, prima di farlo scivolare verso di lui spingendolo con due dita.
Samuele lo guardò incredulo, ma Mattia sembrava serio: afferrò la sua tazzina per il manico, la fece ondeggiare due volte, poi la portò alle labbra e reclinando il capo indietro la vuotò completamente. Solo alla fine la ripose al suo posto e si voltò di nuovo verso di lui.
Non disse niente, contrariamente a quanto faceva di solito.
Solo quando Samuele distolse lo sguardo, Mattia allungò le braccia sul bancone.
- In realtà volevo chiamarti, l’altro giorno ma, sai, non sapevo se ti avrei disturbato. Potevi essere con il “tuo uomo” – spiegò, e accompagnò le ultime due parole con un paio di virgolette mimate con le dita. Samuele sbuffò, suo malgrado, sollevando gli occhi al cielo.
In tutta la settimana, con Riccardo c’era stato più o meno due ore, prima di cena, quando si era presentato a casa sua così contento di essersi ricavato qualche ora libera, che anche a lui era sembrato quasi che avesse fatto chissà quale atto eroico. Adesso non lo sembrava più così tanto.
- Oggi sei meno divertente del solito – lo richiamò la voce di Mattia. Samuele voltò il viso verso di lui, e quando ne incontrò lo sguardo non ci vide dentro neppure un’ombra della malizia che aveva di solito. – E’ successo qualcosa? –
Forse avrebbe potuto raccontarglielo: dirgli tutto, delle speranze deluse, delle paure di Riccardo, di quanto si sentiva inutile. Mattia voleva ascoltarlo: ce l’aveva dentro quegli occhi chiari, sotto le ciocche di capelli neri, sul viso sbarbato.  Invece si strinse nelle spalle.
- Il solito schifo – borbottò. Mattia annuì, stringendo le labbra.
- Quindi stasera hai detto che non fai un cazzo? –
- Sì, più o meno – gli rispose con un lieve sorriso.
- Anch’io. Sarei dovuto uscire con degli amici, a dire il vero, ma alla fine abbiamo lasciato stare. Capirai, con questo tempo – gli disse quello, in una scrollata di spalle. - Però se non hai niente da fare potremmo andare a mangiare qualcosa, che dici? – gli propose.
Avrebbe dovuto dirgli di sì.
Non avrebbe commesso il solito errore che lo aveva portato a rifiutargli persino una birra: erano stati bene, al concerto di Vasco. E, in fondo, la verità era che non voleva tornare a casa e restare da solo. Nel buio, la mancanza di Riccardo sarebbe tornata a colpirlo fino a strappargli i pezzi di cuore che erano rimasti a navigare alla deriva.
 – O devo forse aspettare il prossimo concerto di una rockstar per fare in modo che tu dica di sì? -
Samuele sorrise, reclinando il capo indietro.
- L’idea non è male! – rispose a tono. – Ma per questa volta ti dirò di sì, muoio di fame. –
- Uh, addirittura! Allora andiamo, conosco un posto che fa della carne spettacolare! –
Samuele si alzò in piedi prima di lui, e il rumore dello sgabello che cozzava contro il bancone venne coperto da un tuono che squarciò l’aria. Forse davvero non sarebbe stato il caso di uscire: Mattia era già zuppo d’acqua, e a lui il discorso “Riccardo” aveva lasciato addosso un enorme mal di testa.
Ma non voleva tornare a casa da solo.
Si figurò, per un attimo, l’immagine di Mattia, nel suo bagno, ad asciugarsi i capelli e indossare qualcosa di asciutto.
- Ho un sacco di roba a casa. Possiamo andare da me – gli disse alla fine. Mattia lo guardò dal basso, e gli occhi azzurri parvero quelli di un gatto che organizzava un piano per  accalappiare il topo.
- D’accordo. Ma se mi metti le mani addosso mi metto ad urlare! –
Samuele rise, dandogli una pacca sulla spalla.
- Cammina, dai! –
 

§§§

 
Federico spinse la porta di casa, sbuffando, e quella si chiuse con un tonfo sordo.
- Federico? – La voce di Dominik riempì l’ingresso: proveniva dalla sua camera da letto, con la porta socchiusa.
- Eeeh – bofonchiò, lasciando cadere le chiavi nel cestello all’ingresso e togliendosi il giaccone.
Si tolse le scarpe senza nemmeno scioglierle, semplicemente forzandole dai talloni fino a fare uscire il piede, e le afferrò poi con una mano.
In bagno, le poggiò a terra, vicino al calorifero, e allo stesso modo appese il giaccone a una gruccia e la fissò ad una delle sbarre del calorifero attaccato alla parete. Dell’ombrello era rimasto ben poco: due bacchette si erano piegate, le altre si erano squilibrate un po’, ma tutto sommato non era proprio in condizioni disperate. Lo infilò nella doccia, aperto, affinché si asciugasse un po’.
- Sei tornato? –
Federico si voltò verso la porta del bagno, da dove proveniva la voce di Dominik. Si era cambiato: quando era uscito di casa quella mattina aveva indossato un maglioncino chiaro e un paio di jeans scuri. In quel momento, invece, aveva indosso un paio di pantaloni più comodi, a quadri, e un maglioncino blu con lo scollo a V. Camminava a piedi nudi, come faceva sempre, anche se fuori faceva un freddo boia ed erano in pieno inverno.
- Sì. Hai fame? – gli rispose, passandosi le mani tra i capelli umidi. L’ombrello, con il temporale che impazzava fuori, era servito a ben poco: era tornato a casa con i pantaloni zuppi fino alle ginocchia, persino i calzini bagnati, e il giaccone completamente fradicio. Se non altro, però si era riparato un po’ la testa, o sarebbe tornato a casa in condizioni paragonabili a uno appena uscito dalla vasca da bagno.
Dominik si appoggiò con una spalla allo stipite della porta, incrociando le braccia al petto.
- Un po’ – soffiò, sollevando il capo verso l’alto quando sentì che lui si stava avvicinando di qualche passo.
Federico gli circondò il viso con le mani, baciandolo piano: quando lo baciava a quel modo, cogliendolo di sorpresa con le labbra ancora chiuse, si scontrava con le sue labbra soffici come cuscinetti, fino a quando lui le schiudeva e inclinava il capo da un lato, per lasciarsi baciare.
Quella volta, però, Federico si ritrasse prima che succedesse, solo con la sensazione delicata delle sue labbra sulle proprie. Dominik tese il capo in avanti, verso di lui, alla ricerca di un altro bacio, e Federico sorrise, trasformando il tocco sullo zigomo in una carezza.
- Vuoi un altro bacio? – lo provocò. Dominik arricciò il naso, infastidito.
- Questo non mi è piaciuto – borbottò.
- Ah, non ti è piaciuto? I miei baci non ti piacciono? Allora niente, non ti bacio più – gli rispose con tono altero, arretrando di un passo e fingendosi offeso. Il braccio di Dominik scattò così velocemente e con tanta precisione che parve quasi che ci vedesse: gli si strinse all’altezza del gomito, non troppo forte. Quando reclinò il capo da un lato e un po’ indietro, la luce lo colpì lungo la linea della mandibola, e la pelle chiara spiccò in contrasto con il colore scuro del suo maglione.
- Lo sai cosa voglio dire – lo rimbrottò, e lo strattonò un po’ verso di sé.
Federico si lasciò avvicinare, fino a far aderire il petto al suo, ma quando gli fu vicino al viso, lo ritrasse appena.
- Fino a dopo cena allora non ne avrai altri – cantilenò, dondolando con il capo da un lato all’altro, sfiorando ogni volta il naso del ragazzo che aveva di fronte, che, in tutta risposta, sbuffò, divertito, dandogli un colpetto sul petto.
Da quando avevano parlato, una settimana prima, Dominik era tornato a essere un po’ più allegro e spensierato: sorrideva, accettava tutte le prese in giro, lo colpiva, lo baciava, a volte scherzava anche. Poi, ogni tanto, si chiudeva un po’ in se stesso e nella sua musica, perché ne aveva bisogno, e a Federico piaceva sdraiarsi sul divano ad occhi chiusi ad ascoltarlo, capirlo e scoprirlo un po’ di più. Aveva comprato dei cd di un compositore italiano famoso, Ludovico Einaudi, che non suonava proprio la musica classica che piaceva a Dominik, ma era un buon compromesso, ed era bravissimo con il piano. Una volta, ascoltando una sua composizione allo stereo, Dominik gli aveva poggiato il capo sulla spalla.
- Mi piacerebbe essere come lui. –
- Non eri tu quello che diceva di non essere ambizioso? –
- Questa non è ambizione, Federico. Non mi interessa diventare famoso, conosciuto, e fare soldi e concerti come lui. Voglio essere come lui per quello che fa: riesce a far diventare le persone silenziose. Loro parlano e parlano, ma quando lui inizia a suonare, tira fuori una musica che riesce a zittire tutti. E’ quello che voglio fare io: riuscire a fare una musica che sappia zittire tutti. –
Il tema “sesso” non lo avevano più nemmeno nominato. Non che lui non ci avesse provato: tutte le sere, a letto, lo aveva accarezzato, baciato, sfiorato, ma non era mai riuscito ad andare oltre ai baci. Una sera era riuscito al massimo a fargli togliere la maglia del pigiama, ma dopo pochi minuti Dominik era tornato a rintanarsi in un angolo del letto, e allora aveva lasciato perdere.
Non ne aveva parlato, a voce, o sarebbe servito solo a litigare ancora. Però aveva notato che, da una sera a un’altra, Dominik gli aveva permesso di fare un piccolo passo in avanti: una volta era stata una mano su un fianco, un’altra la maglietta sul pavimento, un’altra ancora un bacio sul petto. E  aveva preso anche un po’ di coraggio: con le mani aveva preso a studiargli non solo il viso e le spalle, ma anche le braccia, il petto, l’addome; una volta si era spinto addirittura fino al bordo dei pantaloni.
Federico raddrizzò il capo, sfiorando il viso di Dominik con il naso un’ultima volta, poi fece un passo indietro. Gli sfiorò il braccio con una mano, esercitando una lieve pressione per far sì che capisse di seguirlo verso la cucina.
- Com’è andata oggi? – gli domandò, precedendolo in salotto, verso la cucina.
I passi di Dominik erano silenziosi, accompagnati solo dal fruscio dei suoi vestiti, mentre lo seguiva.
- Bene. La maestra non è venuta, dicono che abbia la febbre. Ho fatto lezione con gli altri, e sono tornato prima, così sono riuscito a esercitarmi un po’ e a suonare – gli raccontò, mentre Federico in cucina apriva il frigorifero per cercare qualcosa da cucinare, possibilmente di rapido e di buono.
Dominik lo aveva seguito come sempre, e si era appoggiato alla soglia, con le mani dietro la schiena: di lì a poco, appena dopo pochi minuti, avrebbe preso a gironzolargli intorno facendosi raccontare qualcosa di particolare accaduta quel giorno. L’unica cosa degna di nota che ricordava di quel pomeriggio, però, era lo sguardo di Samuele: avrebbe voluto picchiarlo, per toglierglielo di dosso, e poi picchiare Riccardo fino a farlo sparire del tutto dalla faccia della terra. Solo così, forse, Samuele se ne sarebbe liberato, perché era certo che, altrimenti, non lo avrebbe mai lasciato.
- Tu cosa hai fatto oggi? – lo chiamò la voce di Dominik. Federico era ancora in contemplazione davanti al frigorifero, con una smorfia di indecisione in volto.
Non riusciva a decidersi tra la frittata con il formaggio o l’insalata con il pollo.
- Ho servito ai tavoli, ho camminato, mi sono inzuppato e mi sono incazzato con Samuele. Il solito – rispose in una scrollata di spalle.
- Perché ti sei arrabbiato con Samuele? –
- Perché sta con uno che non lo ama e che lo tratta da schifo, e non lo capisce. –
Dominik inclinò il capo da un lato, mettendo su quella smorfia che tirava fuori tutte le volte che si metteva a riflettere su qualcosa: prendeva a mordicchiarsi la parte inferiore del labbro, tirando un po’ fuori quello inferiore. Federico optò per l’insalata con il pollo: tirò fuori dal freezer il pollo panato che vendevano al supermercato che si poteva scaldare in pochi minuti al microonde, e poi lattuga, rucola e pomodoro. Stava morendo di fame, ma aveva anche un grosso mal di testa, colpa di tutta quella pioggia e delle ore al locale con la musica a palla nelle orecchie.
Forse avrebbe potuto rimandare un po’ la cena.
- Ti dispiace se ceniamo un po’ più tardi? Faccio solo una doccia, mi metto qualcosa di asciutto e poi… -
- Pensi che anche io ti tratto da schifo? – esordì invece Dominik, interrompendolo.
Federico alzò il viso per guardarlo, incontrando il suo corpo teso poggiato allo stipite della porta: aveva smesso di tormentarsi il labbro. Adesso si stava umettando le labbra con la punta della lingua, le mani infilate nelle tasche dei pantaloni.
- Perché dovrei? –
Dominik dischiuse le labbra per parlare, ma non uscì nemmeno una parola: le richiuse, e semplicemente si strinse nelle spalle, arricciando le labbra. Federico poggiò ciò che aveva in mano sul bancone della cucina, asciugandosi le mani in uno strofinaccio, e fece qualche passo verso di lui, che intanto non si era mosso.
- Non conosci quel tipo, e non sai cosa vuol dire trattare la gente da schifo, Dom. Oddio, sei un po’ insopportabile, ogni tanto – aggiunse, per strappargli un sorriso. – Ma questo non vuol dire che mi tratti da schifo. Come ti viene in mente? – Questa volta, quando Dominik dischiuse le labbra, la voce venne fuori.
- Non lo so. Ci pensavo – ammise.
Federico gli si avvicinò quanto bastava per prendergli il viso tra le mani.
- Non fare lo scemo – lo rimproverò, strappandogli un bacio. Dominik dischiuse subito le labbra, poi si allontanò appena.
- Avevi detto che non avrei avuto altri baci fino a dopo cena – mormorò. Federico gli sorrise sulle labbra.
- Ho cambiato idea. –
Fu Dominik a baciarlo, a sorpresa, avvicinando il capo al suo e accarezzandogli le labbra in un bacio soffice. Dominik baciava sempre in quel modo, all’inizio, come se gli servisse un po’ di tempo per assaporargli le labbra e prendere il ritmo: poi, bastava anche solo un tocco sul viso perché cambiasse, modificasse il suo respiro e prendesse a baciarlo come se volesse rubargli l’anima. Federico gli poggiò le mani sulla vita, stringendoselo addosso, e lo sentì inspirare, sollevando la gabbia toracica per rubare quanta più aria possibile. Lo baciava piano, perché si sentiva addosso una strana sensazione di calma, come se avesse tutto il tempo del mondo e gli mancasse la frenesia che lo animava di solito. Quando gli passò una mano tra i capelli ancora umidi, Dominik si allontanò appena.
- Devi fare la doccia? – gli chiese, inclinando il capo in avanti fino a poggiargli la fronte sulla spalla.
Avrebbe dovuto fare la doccia, e preparare la cena, e lavare i piatti. Avrebbe dovuto fare tante cose, solo che gli mancava la forza di staccarsi dal corpo caldo di Dominik per farle. Avrebbe significato rinunciare alla sensazione del suo respiro caldo sul collo, mentre ce l’aveva poggiato addosso. La mano che gli teneva sul fianco risalì lungo la sua schiena, fino alla nuca che sfiorò con i polpastrelli.
- Vuoi farla con me? – azzardò, e subito dopo si morse la lingua. Aveva passato una settimana a non parlare, a trattenersi, e in un secondo aveva bruciato tutti gli sforzi, come un idiota.
Il corpo di Dominik si tese contro il suo, mentre tratteneva il fiato. Gli avrebbe detto che non importava, che l’avrebbe fatta da solo. Il viso del ragazzino sfregò contro la sua pelle.
- Solo la doccia? – sussurrò.
- Solo la doccia. Non ti tocco. – La speranza gli stava crescendo nel petto come una bolla di sapone, bella ma altrettanto fragile.
- Allora va bene – lo sentì dire.
Doveva aver bevuto o fumato qualcosa. O forse se lo stava immaginando e si sarebbe svegliato sul bordo del letto con il corpo di Dominik lontanissimo.
Eppure la sensazione delle sue mani sulla schiena e del suo corpo che si allontanava mentre faceva un passo indietro era terribilmente reale, così come quella delle sue mani che gli risalivano sulle braccia, bloccandosi al livello dei suoi polsi, scendendo poi fino alle mani, che strinse non troppo forte. Federico ne studiò il viso: non sembrava nemmeno così tanto nervoso. Lo era probabilmente più lui, perché non sapeva se sarebbe riuscito a mantenere la promessa di non toccarlo.
Gli strinse una mano.
Il percorso fino al bagno fu più lungo di quanto fosse in realtà.
Dominik gli aveva lasciato la mano e gli camminava dietro, seguendolo in silenzio: aprendo la porta del bagno, Federico si trovò davanti quello che aveva lasciato. L’ombrello nella doccia, le scarpe e il giaccone vicino al calorifero. Prese l’ombrello con un gesto rapido, andando a poggiarlo vicino alla porta socchiusa: Dominik era rimasto lì vicino, in piedi, e Federico si concentrò sui contorni dei suoi piedi nudi sul pavimento. Non sapeva cosa avrebbe dovuto dirgli, così, semplicemente, afferrò i bordi del maglione, tirando verso l’alto per sfilarselo. Il fruscio dei vestiti riscosse Dominik.
- Voglio entrare prima io – gli disse, e Federico lasciò andare il maglione.
- Ah, va bene. Vado a prendere dei vestiti asciutti nella mia stanza. –
Uscì dal bagno come un detenuto che usciva di prigione dopo trent’anni.
Era da stupidi comportarsi a quel modo, ma si sentiva nervoso: aveva fatto una promessa che non era certo di mantenere, si sarebbe ritrovato il corpo di Dominik vicinissimo nello stretto box della doccia, e l’avrebbe visto nudo, veramente, ne avrebbe studiato tutti i contorni del corpo.
In camera prese una tuta dall’armadio, un po’ stropicciata perché non l’aveva stirata, e ritornò in bagno: quando aprì la porta, Dominik stava finendo di spogliarsi. Aveva i pantaloni abbassati fino alle ginocchia, e il busto piegato in avanti. Sulla schiena, la spina dorsale disegnava una linea che scendeva in basso e terminava nella linea scura degli slip che aveva ancora addosso.
Fece scivolare i pantaloni fino a una caviglia, sfilandoli dalla gamba destra, poi ripeté l’operazione con la gamba sinistra, fino a trattenere i pantaloni tra le mani, piegandoli in due, e poi in quattro, e adagiandoli sul bordo del lavandino.
Federico lasciò cadere la tuta sul ripiano del mobiletto che tenevano vicino alla porta, e Dominik sussultò, riconoscendo la sua presenza, ma non si voltò: piuttosto, tentennò, per alcuni secondi, con le mani tese in aria e le dita che tremavano appena. Il ragazzo pensò che da un momento all’altro avrebbe detto di aver cambiato idea, e sarebbe scappato di nuovo, raccogliendo i suoi vestiti. Invece, con un gesto fluido, Dominik afferrò l’elastico degli slip e li fece scivolare fino al pavimento, prima di avanzare verso la doccia ed entrarci dento, socchiudendo le ante.
Federico fece in tempo a guardarne il profilo solo per qualche secondo: riuscì a seguire con gli occhi la linea della schiena, delle natiche, e delle gambe magre. E poi Dominik sparì.
- Federico? – sentì chiamare.
Era rimasto fermo al centro del bagno, ancora vestito. Si sentì per un attimo sollevato, perché Dominik non avrebbe potuto vederlo: era da stupidi anche quello.
Si spogliò ugualmente velocemente, e contrariamente a Dominik, che aveva ripiegato con cura tutti i suoi vestiti, sistemandoli in ordine sul bordo del lavandino, Federico li appallottolò, abbandonandoli in un angolo, sul pavimento. Aprì l’anta della doccia, sollevando una gamba per entrare, e Dominik arretrò di qualche passo, fino a far aderire la schiena sulle piastrelle fredde.
Federico aprì l’acqua.
Il getto freddo lo colpì in pieno petto, provocandogli un brivido e facendo ulteriormente allontanare Dominik, per scansare l’acqua: poi, la temperatura si fece più gradevole, e il getto d’acqua tiepida parve rinvigorirlo. Non si era reso conto di quanto fosse intirizzito con i calzini bagnati ancora addosso fino a quando non si era trovo sotto il confortevole tepore della doccia.
Dominik era ancora lontano, per quanto lo consentisse lo spazio ristretto della doccia: allora, Federico ne approfittò per osservarlo. Aveva già visto, a letto, e persino seguito con le dita, la linea delle spalle, delle braccia, del petto, lungo la depressione dello sterno, fino all’addome. Ma adesso poteva continuare a percorrerlo con lo sguardo lungo i fianchi stretti e le gambe esili e flessuose, fino ai piedi. Poterlo guardare, ma non avere il permesso di toccarlo, era insopportabile: c’era una strana forza che gli percorreva le mani, gli faceva fremere le dita, e lo convinceva che avrebbe dovuto sollevare le braccia e toccarlo, affondargli la lingua nella bocca e smettere persino di respirare. Ma non poteva, aveva promesso.
Afferrò il bagnoschiuma e la spugna, bagnandola sotto il getto d’acqua e versandoci sopra una noce di sapone: poi lo avvicinò a Dominik, fino a sfiorargli la mano con la boccetta. Lui sobbalzò, stringendo la mano intorno alla plastica, e quando la riconobbe come un oggetto, e non come una parte del suo corpo, la prese con più delicatezza, spingendo il braccio in alto per afferrare la sua spugna.
- Quindi la maestra oggi non c’era? – buttò lì Federico, per spezzare quel silenzio ed evitare che l’aria intorno diventasse di ghiaccio. La domanda era stata leggera, indifferente, ma il suo tono di voce era diverso, di un’ottava più bassa. Dominik annuì, strofinandosi il corpo con la spugna, e Federico non riusciva a fare altro che seguire il percorso della spugna.
- Sì. Forse tornerà lunedì. Ma io intanto posso esercitarmi con calma. –
Anche la voce di Dominik era diversa dal solito. Era quella, probabilmente, più del resto, a impedirgli di comportarsi come avrebbe fatto con Manfredi, o con qualunque altro ragazzo della sua età. La voce di Dominik era quella di chi non sapeva che cosa stesse facendo, o il perché, e che non aveva idea di come venirne fuori.
- E’ un bene no? –
- Si. –
Dominik continuò ad insaponarsi il corpo con calma, respirando regolarmente, fin troppo, come se stesse contando i secondi per inspirare ed espirare. Avrebbe voluto toccarlo, o essere toccato. Avrebbe voluto baciarlo. Avrebbe voluto fare così tante cose che quasi gli doleva la testa.
Quel silenzio lo opprimeva. C’era solo il rumore dell’acqua calda che fuoriusciva ad altra pressione dalla doccia, e il lieve fruscio della spugna che scivolava sul corpo di Dominik.
Si sarebbe anche accontentato di non toccarlo direttamente, ma solo attraverso la spugna.
- Dom? –
- Mh? –
- Mi aiuteresti a lavarmi la schiena? – gli chiese poi. Una delle proposte indecenti più patetiche di sempre, prima ancora dell’invito a vedere la collezione di farfalle. Era patetico, e Dominik sobbalzò. – Non ti tocco, sul serio – gli assicurò.
Il ragazzino era indeciso: aveva le mani bloccate a mezz’aria, e le labbra dischiuse. Avrebbe voluto baciarlo. Avrebbe dovuto baciarlo.
Federico fece un passo verso di lui, e Dominik lo captò subito: raddrizzò il capo, la spugna gli sfuggì, e le mani scattarono in alto, in avanti, fino ad aderirgli al petto, con le braccia contratte.
- Federico… - mormorò, in una preghiera.
Non avrebbe dovuto, aveva promesso. Eppure il corpo nudo di Dominik, così vicino, gli faceva perdere la capacità di ragionare: fino a pochi minuti prima era convinto che non lo avrebbe sfiorato, poi era passato a chiedergli di lavargli la schiena, e alla fine stava perdendo ogni limite e gli si stava quasi schiacciando addosso. Se avesse potuto, probabilmente Dominik sarebbe fuggito correndo. Invece poteva solo premergli le mani sul petto e respirare. Federico si fermò.
- Scusa – soffiò, ma non si mosse. L’acqua calda gli finiva dritta sulla spalla. Non poteva credere che Dominik non sentisse quella stessa tensione che aveva lui nello stomaco, quella voglia di tendere una mano in avanti e toccarlo tutto, di baciarlo. Lo faceva sentire un maniaco pervertito.
E lo sapeva che, da qualche parte dentro, Dominik doveva condividere quei sentimenti con lui, come tutte le persone normali al mondo.
E poi le sue mani sul petto parevano quasi volerlo ustionare.
Avrebbe dovuto chiudere l’acqua, probabilmente. Sarebbero dovuto uscire da lì.
Ma le mani di Dominik si mossero. Subito, senza nessun preavviso. Si mossero verso l’alto, verso le sue spalle, e raggiunsero le scapole, proseguendo il loro percorso verso il basso, lungo le braccia. Dove toccava, Federico avvertiva la pelle d’oca, e un calore bruciante, come se le dita di Dominik fossero tizzoni ardenti. Quando raggiunsero i suoi polsi, e le sue mani, le dita di Dominik si spostarono ancora sui fianchi, e poi sull’addome, tornando indietro verso la schiena.
Federico espirò, dischiudendo le labbra. Chiudendo gli occhi, le sensazioni erano amplificate, come se la sua stessa essenza non esistesse oltre il corpo che Dominik stava toccando.
- Così va bene? – gli chiese, ancora a occhi chiusi, con un mezzo sorriso. Le mani del ragazzino arrestarono il loro percorso per un attimo, poi si adagiarono sui suoi fianchi, facendo aderire tutto il palmo alla sua pelle.
- Sì. Così va bene – lo sentì dire.
Aprì gli occhi, e mosse le mani verso di lui, poggiandogliele sulle spalle, un territorio neutro dove sapeva di poter toccare: Dominik, come se avesse ricevuto un implicito comando, sollevò il capo, e le mani di Federico risalirono lungo il suo collo.
Allora, Federico lo baciò. Premette le labbra bagnate sulle sue, e lo sentì inspirare come se l’aria non gli bastasse più. La presa sui fianchi divenne più forte, e gli si spinse contro.
Erano uguali, in quel momento.
Erano due corpi che si attraevano, che rispondevano.
Non contava altro.
Sul tavolo della cucina, intanto, il cellulare di Federico squillava.
 

§§§

 
Aveva trovato una foto, in fondo all'armadio, nel vecchio scatolone a fiori sulla mensola più alta.
 Era salito lì sopra perché stava cercando il vecchio joystick della playstation, per prestarlo al cugino più piccolo: quando giocavano a Fifa, con Federico, quel joystick lo aveva sempre lui.
 Ci stringeva le dita intorno, schiacciava la lingua tra i denti e aggrottava la fronte, e tutte le volte che segnava un gol si alzava in piedi e sollevava le braccia in aria, prendendolo in giro.
 Poi lo baciava.
 Tutte le volte.
 Doveva darlo via. Doveva staccarsene per staccarsi da Federico. Per liberarsi di lui.
 Solo che, accanto al joystick, c'era anche lo scatolone a fiori: dentro c'erano i vecchi libri del liceo, quelli che non aveva voluto vendere perché avrebbero potuto essergli utili per l'università, e i vecchi diari, gli album con i disegni in prospettiva che aveva fatto durante l'ora di arte. Molti glieli aveva fatti Federico.
 E dalla sommità di quello scatolone, era venuta fuori la punta di una foto: era in bianco e nero, di dimensioni maggiori di quelle standard.
 Manfredi la afferrò, tirandola fuori.
 Dietro c'era una frase, scritta con calligrafia femminile:
 "Certi amori regalano un'emozione per sempre... <3
 Buon anniversario amore mio.
 Ti amo! <3
"
 Voltandola, Manfredi la riconobbe subito.
 Era una foto di lui insieme a Bianca: gliel'aveva regalata lei insieme ad un portafoto, per il loro primo anniversario, quando avevano diciassette anni e pregustavano già le vacanze estive. Bianca sorrideva, nella sua casa in campagna, e aveva abbassato lo sguardo perché lui le aveva sussurrato chissà cosa all'orecchio e lei si era vergognata, arrossendo.
 Di lì a pochi mesi anche le vacanze sarebbero finite, avrebbero iniziato l'ultimo anno di liceo, avrebbero trascorso l'ultimo Natale insieme, lui le avrebbe regalato quella bella collana con un ciondolo a forma di cuore, per quietare i sensi di colpa che lo attanagliavano: poi l'avrebbe lasciata, perché amava Federico. Lei avrebbe pianto, e urlato, l'avrebbe pregato di provare ancora: poi si sarebbe arrabbiata, l'avrebbe odiato. Non gli avrebbe più parlato.
 A lui sarebbe rimasto solo il ricordo di quel bel sorriso di una ragazzina che aveva amato, come si poteva amare a sedici anni, e che non aveva meritato di soffrire a quel modo.
 E capì, con una morsa allo stomaco, che doveva farlo.
 Doveva dirlo a Federico. Dirgli una cosa come quella.
Perché nemmeno Federico si meritava di soffrire.
 Tenergliela nascosta, in quelle due settimane, era stato facile: non si erano praticamente neppure sentiti. Forse Federico lo aveva lasciato per sempre.
 Ma quando fosse tornato, perché prima o poi sarebbe tornato, l'avrebbe saputo, e l'avrebbe odiato per non avergli detto la verità.
 Manfredi prese il telefono. Compose il numero.
 Attese il primo squillo.
Il secondo.
Il terzo.
Perse il conto.
Federico non aveva risposto.
Si era liberato di lui.
 

§§§

 
Tutto era magicamente soffice e colorato.
Anche il silenzio sembrava pieno.
Dominik stese le gambe in avanti, stiracchiandosi e sfiorando la stoffa del divano con i piedi nudi.
Era in quella posizione probabilmente da un’oretta, a giudicare dalla sua percezione del tempo: sul divano, appoggiato con la schiena al petto di Federico, con le gambe tese sui cuscini e il capo abbandonato sulla sua spalla. L’altro ragazzo si era seduto in un angolo, accavallando le gambe, e aveva lasciato che lui gli si sdraiasse addosso: nella mano destra, con il gomito poggiato sul bracciolo, teneva dei fogli che stava studiando per gli esami all’università, e che dovevano essere non più di cinque o sei, a giudicare dal rumore che facevano quando Federico muoveva la mano. L’altro braccio, invece, lo aveva passato sopra il suo petto, fino a intrecciare la mano con la sua, all’altezza della sua pancia. Erano rimasti in quel modo, in silenzio.
Non capitava spesso: di solito, quando c’era Federico a casa e lui non stava suonando, la televisione era sempre accesa, perché Federico non sopportava il silenzio. Anche con il volume molto basso, ma doveva stare accesa: in alternativa, accendeva la radio.
Quella sera però doveva studiare, e allora gli aveva proposto di suonare, che tanto non gli avrebbe dato fastidio: ma lui voleva solo lasciarsi cadere un po’ sul divano e godersi tutto quel calore.
Ogni tanto, quando faceva una pausa per cambiare foglio, Federico si stiracchiava un po’, e lo baciava sul capo. Era una bella sensazione, che lo faceva sentire un po’ più tranquillo dopo tutto il trambusto che era successo prima. Quando pensava alla doccia che avevano fatto insieme, il cuore prendeva di nuovo a pulsargli dritto nella testa. Riusciva a sentire sotto le dita la pelle bagnata di Federico, il suo corpo contro la pancia, e la testa che andava in confusione. Era arrivato al punto, mentre lo baciava, di sentirsi mancare l’aria nel petto: aveva dovuto staccarsi dalla sua bocca per inspirare profondamente, rubare tutta l’aria fresca e utilizzarla per fermare il caos nella mente.
Allora Federico lo aveva sfiorato sul viso, e aveva capito.
Non lo aveva toccato oltre. Per un attimo, mentre lo baciava sotto la doccia, Dominik aveva pensato che invece l’avrebbe fatto, che l’avrebbe accarezzato come quando erano a letto, e che avrebbe provato a forzarlo, e magari avrebbero litigato di nuovo. Invece non era successo: Federico lo aveva aiutato a uscire dalla doccia, gli aveva passato un telo, e gli aveva asciugato persino i capelli, prima di andare a preparare la cena.
Adesso, sul divano insieme a lui, non riusciva a rendersi conto di cosa effettivamente lo avesse spinto ad accettare di fare la doccia insieme a lui: sapeva solo che, quando Federico glielo aveva chiesto, e lui ce lo aveva contro, con la testa poggiata sulla sua spalla, non gli erano venuti in mente abbastanza motivi per dirgli di no, e aveva sentito piuttosto una strana tensione nello stomaco che lo aveva portato a seguirlo verso il bagno. Anche sotto la doccia, non avrebbe dovuto toccarlo: ma qualcosa, sotto la pelle, lo aveva attirato verso il corpo di Federico, e aveva preso a percorrerne le linee del corpo come non aveva avuto mai il coraggio di fare.
Aveva desiderato, mentre lo sfiorava, che lui lo baciasse: per questo, quando Federico gli aveva poggiato le mani sulle spalle, aveva spinto subito il apo in alto, alla ricerca delle sue labbra.
Erano morbide, e bagnate, e sapevano di fresco ma anche di caffè.
Un movimento, nel corpo di Federico, e un altro bacio sul capo lo fecero riscuotere. Subito dopo arrivò il fruscio dei fogli di Federico che finivano sul basso tavolo di fronte al divano, mentre il ragazzo tendeva il busto in avanti e sbilanciava anche il suo corpo.
Poi tutto tornò com’era prima: la schiena di Federico aderente al divano, il corpo di Dominik sul suo, le mani intrecciate sulla pancia. Federico sbuffò.
- Non dovevi studiare? – lo rimproverò.
- Questa materia è troppo una palla. E poi non si studia il venerdì sera, è una legge non scritta! Soprattutto quando ci sei tu così vicino – mormorò, sfiorandogli un orecchio con le labbra.
Dominik avrebbe voluto sorridere, compiaciuto, ma si trattenne, arricciando le labbra.
- Invece dovresti studiare. –
- Antipatico che sei! – gli rispose a tono Federico, dandogli un pizzicotto sulla pancia che lo fece sobbalzare e sollevare le gambe verso il petto, contraendo gli addominali.
La risata di Federico riempì il silenzio, insieme all’ennesimo tuono.
I tuoi erano stati più vicini del solito nell’ultima ora, e anche il rumore della pioggia che batteva sul davanzale era quasi assordante.
- Sta ancora piovendo – soffiò Dominik, reclinando il capo indietro, fino a scivolare poggiando la testa sulle gambe di Federico. La sua mano calda lo raggiunse subito, accarezzandogli una guancia e scostando un po’ i capelli.
Rimasero in silenzio così per un po’, ad ascoltare la pioggia: Federico forse avrebbe voluto accendere la televisione, ma non voleva alzarsi e lui, dal canto suo, preferiva molto di più quel silenzio, perché gli permetteva di sentire bene il ticchettio della pioggia, i tonfi che venivano dal piano di sopra, e il ritmo del respiro di Federico. Quando c’era la televisione accesa non poteva captare tutti quei particolari, perché la tv li copriva tutti, e anche per sentire respirare Federico doveva avvicinarglisi più del solito. Così invece aveva una visione globale di quello che aveva intorno.
- Tra due settimane quasi è il mio compleanno – borbottò.
- Sul serio? –
- Sì. – Federico aveva usato un tono sorpreso, e Dominik si chiese cosa ci fosse di così strano per avere un tono tanto incredulo; tutti facevano il compleanno.
- E non mi dici niente? –
- Te lo sto dicendo adesso. –
- Sì, ma potevi dirmelo prima! –
- Tu non me l’hai detto quando è il tuo compleanno – ribatté lui, e Federico finalmente si zittì. In effetti non sapeva quando fosse il compleanno di Federico, o quanti anni facesse: gli aveva detto di averne 25, quindi al prossimo compleanno ne avrebbe compiuti 26.
- Il 9 agosto – disse alla fine Federico.
- Mh? –
- Il mio compleanno. Il 9 agosto. –
- Il mio è il 10 febbraio – gli mormorò.
- Ne fai 19? -  Dominik annuì, sollevando le ginocchia. La mano di Federico continuò a sfiorarlo sulla guancia, regolarmente, e godette di quel contatto a occhi chiusi. Gli venne da sorridere: se anche li avesse avuti aperti, non avrebbe visto comunque niente.
- Quindi ti diplomi quest’anno al Conservatorio? –
- Sì. A luglio ci sono gli esami finali, dopo il saggio, e poi mi daranno il diploma. –
- E poi che farai? – gli chiese ancora Federico. Il suo tono di voce era sempre lo stesso, ma il tocco sulla guancia era cambiato: era più lento, eppure più profondo, come se volesse seguire i profili del suo volto. Dominik si strinse nelle spalle.
- Non lo so. La maestra mi dice sempre che potrei avere delle borse di studio per andare a studiare a Londra, a Parigi, o anche a Praga, però a me piacerebbe l’Accademia, a Roma – gli spiegò. – In Italia ci sono tanti musicisti bravi, ma anche in America. Sarebbe bello studiare anche lì. –
- Già – commentò Federico, e la sua mano gli si fermò sulla guancia, mentre faceva un respiro più profondo degli altri. – Sono sicuro che potrai andare a studiare dove vorrai, sei bravo – gli disse poi.
La sua voce era diversa, adesso. Era un po’ più bassa del solito, e più piatta, come se pensasse a qualcosa. A Federico Roma sarebbe piaciuta sicuramente, ma anche Londra, anche se lì dicevano che piovesse sempre. Mentre ci pensava, però, la sfumatura della voce di Federico acquisì un senso. Dominik sollevò la mano, poggiandola sulla guancia di Federico: pungeva un po’.
- E tu non puoi venire – osservò. Se lui fosse andato da qualsiasi parte fuori da Milano, Federico non sarebbe venuto con lui, Federico non ci sarebbe stato. Sarebbe stato da solo. La carezza sulla guancia di Federico divenne un tocco più profondo, con i polpastrelli che gli premevano sulla pelle.
- Lavoro qui, vado all’università qui. Non posso andare da qualche altra parte. –
Aveva ragione, e lo sapevano tutti e due.
Anche se avrebbe voluto dirgli che avrebbe potuto cercare un lavoro da un’altra parte e andare con lui, Dominik sapeva che non fosse così semplice, e che Federico non avrebbe certo potuto rivoluzionare la sua vita per uno come lui, con cui litigava un giorno sì e uno no.
Forse non ne valeva la pena.
Lasciò cadere la mano sul petto. Quella di Federico gli lasciò la guancia e si poggiò sulla sua.
- Dai, ci pensi già adesso? Prima devi guadagnarti il diploma! – lo riprese Federico, stringendo la sua mano tra le dita. Dominik sorrise, sollevando una mano per pizzicargli la guancia.
Federico rise, e il ragazzino spinse la mano verso i suoi capelli, intrecciandoli tra le dita.
- Che ne dici se io e te ce ne andiamo a letto adesso? –
- Hai già sonno? –
- No, devo studiare – lo canzonò Federico, sfiorandogli un fianco con una mano.
Dominik lo colpì sulla spalla con un pugno, in una mezza risata.
- Scemo. - 













Nota al capitolo 33
Eccomi qui come annunciato!
Questo capitolo è venuto lunghissimo, nonostante ne abbia tagliato un paragrafo per sistemarlo nel capitolo successivo. Chedo venia, ma purtroppo più di così non potevo tagliare, i miei personaggi fanno quello che vogliono!
A questo capitolo seguirà un altro stralcio, il terzo, incentrato sui personaggi secondari, come i precedenti: poi il capitolo 34 avrà invece una parte un po' più importante, in cui si capiranno parecchie cose.
Spero di non metterci troppo come ho fatto questa volta, ma di farcela un po' prima.
Sto rispondendo alle recensioni, iniziando dal capitolo 32 e andando a ritroso. Ne approfitto per ringraziarvi tutti qui e vi mando un grosso bacio!
Esse

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Capitolo 38
*** Stralcio III: Mattia sente i pezzi del mondo ***



 

Dappertutto gli uomini non fanno altro che togliersi o vincersi qualcosa a vicenda.

Fёdor DostoevskijIl giocatore, 1866

 

Stralcio III: Mattia sente i pezzi del mondo
 
Il telefono era muto.
Se ne stava lì, immobile, con lo schermo scuro. Silenzioso.
Lui non l’avrebbe chiamato.
- Grazie, Samuele. Ora va molto meglio! –
Lo sguardo di Samuele saettò verso la soglia della cucina.
Incorniciato dallo stipite della porta c’era Mattia: con un asciugamano pulito si stava frizionando i capelli bagnati. Aveva indosso un paio di pantaloni grigi di una vecchia tuta e una felpa scura con una stampa colorata sul petto che gli aveva prestato lui. Non gli stavano poi così male.
I pantaloni erano un po’ larghi sulle gambe, ma l’elastico in vita li teneva su: anche la felpa gli stava un po’ grande, sulle spalle, ma non eccessivamente. Gli stavano bene, anche se cozzavano terribilmente con il suo viso: Mattia, checché se ne dicesse, aveva la faccia di uno che sarebbe stato benissimo in giacca e cravatta, oppure con uno di quei completi di lino che si mettevano i ricconi per passeggiare al lungomare in vacanza. Le felpe e le tute non erano proprio fatte per lui.
Ma sempre meglio quelle dei suoi vestiti fradici.
Quando erano usciti dal locale, insieme, si erano incamminati ciascuno verso la propria automobile, dandosi appuntamento sotto casa di Samuele: solo che aveva continuato a piovere ininterrottamente e, entrambi senza ombrello, quando avevano varcato la soglia di casa erano zuppi d’acqua. Si sarebbe fatto volentieri una doccia, ma non gli andava di piantare Mattia in asso, e stava anche morendo di fame: così si era cambiato, si era passato un asciugamano sui capelli corti e si era messo al lavoro con la cena. Non che richiedesse particolare lavoro, a dire il vero: aveva preparato un’insalata russa, un cocktail di gamberi  - Riccardo ne andava pazzo – e un misto di formaggi e affettati. Tutte cose che avrebbe trovato subito pronte: il progetto, infatti, era di non staccarsi da Riccardo nemmeno per un secondo.
Ma Riccardo era a casa sua. Con sua moglie.
Mattia sollevò il capo, piegando l’asciugamano sulle braccia: aveva ancora i capelli un po’ umidi, ma solo sulle punte.
- Questo lo porto in bagno? – gli chiese. Samuele fece cenno di no, avanzando verso di lui con la mano tesa.
- Dallo a me, lo sistemo io. Siediti così mangiamo, sto morendo di fame! – Gli rubò l’asciugamano dalle mani, superandolo per andare in bagno. Aveva lasciato ordine, fortunatamente: c’erano anche i sali da bagno profumati che aveva preparato sul bordo della vasca. Li aveva a casa quasi per sbaglio: glieli avevano tra l’altro regalati in omaggio, quando aveva comprato uno stendino nuovo, e non li aveva mai usati. Avrebbe voluto provarli quella sera, con Riccardo.
Ma Riccardo non c’era.
Quando Samuele tornò in cucina, Mattia stava trafficando con il cellulare: alzò lo sguardo quando avvertì i suoi passi entrare nella stanza, e ripose il sottile aggeggio sul tavolo, di fianco al suo.
Che era sempre muto.
- Ti stanno bene i miei vestiti. Credevo ti sarebbero stati grandi. –
- Io sono sempre un figo da paura, Samuele, qualsiasi cosa abbia addosso – lo rimproverò quello, puntandogli il dito contro. Samuele gli scostò la mano circondandogli il polso con la sua.
- E’ arrivato Casanova! Ma vai va! – lo prese in giro. Mattia rise, lasciandosi spostare.
Mentre raggiungeva il frigorifero e lo apriva, Samuele si sentiva lo sguardo dell’uomo addosso, sulla nuca. Tirò fuori il vassoio, e quando si voltò Mattia era dietro di lui, con le braccia tese, e se lo trovò praticamente di fronte: se non ci fosse stato il vassoio a separarli, lo avrebbe urtato, petto contro petto. Le mani di Mattia scattarono ai lati del vassoio, mentre sorrideva, sollevando un sopracciglio.
- Lascia che ti aiuti. –  Samuele lasciò andare il vassoio all’improvviso, e per la sorpresa Mattia lasciò quasi che scivolasse sul pavimento: lo recuperò all’ultimo secondo, piegandosi sulle ginocchia.
- Davvero divertente – sibilò, senza riuscire a trattenere un sorriso, mentre Samuele si voltava di nuovo verso il frigorifero.
Quello che lo divertiva, di Mattia, era quella costante leggerezza. Tutte le volte che si incontravano, non faceva che flirtare spudoratamente con lui: se avesse pensato per un solo minuto che lo facesse seriamente, non glielo avrebbe permesso. Ma Mattia flirtava con qualsiasi cosa respirasse: con Simone, con il buttafuori al concerto di Vasco, con il tizio del  supermercato che gli aveva venduto le birre, persino con il parcheggiatore abusivo fuori dal locale del fantomatico Salvo-il-venditore-di-piadine. Flirtava con tutti, e poi non si prendeva mai nessuno; liquidava tutti con un ultimo sguardo disinteressato dopo nemmeno cinque minuti, e passava oltre. Era leggero. Probabilmente non era nemmeno sempre così: forse ce li aveva anche lui quegli strani momenti di malinconia, o problemi personali a cui pensare, ma quando c’era qualcuno con lui, Mattia non li sentiva.
Chiuse il frigorifero, facendo attenzione a non far scivolare niente di quello che aveva in mano, riponendo tutto sul tavolo e scostando la sedia per sedersi: Mattia lo imitò, occupando la sedia di fianco alla sua. Samuele gli mise davanti una ciotola con il cocktail di gamberi, e dei piattini vicino.
- Bianco o rosso? – gli chiese, indicando due bottiglie di vino.
- Rosso – mormorò Mattia, e Samuele si perse un attimo a seguire il movimento lento delle sue labbra e della lingua tra i denti mentre parlava.
Se l’era aspettato che uno come lui bevesse vino rosso: caldo, pesante e appiccicoso. Samuele invece aveva sempre preferito il sapore un po’ impalpabile del vino bianco. Anche Riccardo lo voleva sempre bianco.
Afferrò il collo della bottiglia, prendendo il cavatappi: quella sera vino rosso per tutti.
Lo sguardo di Mattia era pesante e appiccicoso come il vino, ma in senso buono: se lo sentiva addosso come una coperta ingombrante che gli rallentava i movimenti e gli rendeva difficile persino coordinare le dita per aprire la bottiglia.
Fuori continuava a piovere forte, e i tuoni seguivano i lampi quasi in modo istantaneo, segno che il centro del temporale dovesse essere proprio sopra Milano. E Riccardo se ne stava a casa sua, beatamente al calduccio sul suo divano, senza nemmeno preoccuparsi che lui fosse a casa da solo, senza fargli nemmeno una telefonata: se non ci fosse stato Mattia, sarebbe stato da solo sul serio.
A tradimento, Mattia gli rubò la bottiglia dalle mani.
- Dai qua, apro io o domani saremo ancora qui ad aspettare!  - lo rimproverò, e per la prima volta Samuele lo lasciò fare. – Non che mi dispiacerebbe passare la notte con te ma, sai, ho un po’ di fame, e la cena senza vino non si può proprio sentire! – continuò, tirando il cavatappi e stappando finalmente la bottiglia, inclinandola poi sopra ai loro bicchieri, riempiendoli entrambi prima di rimettersi seduto.
- Ah ah ah – commentò Samuele, con tono ironico, ma non riuscì a trattenere un sorriso quando Mattia incrociò i suoi occhi e arricciò il naso, stizzito.
Il cocktail di gamberi era venuto buono: a lui il pesce solitamente non piaceva, lo cucinava solo per Riccardo, però aveva così fame che lo finì tutto in pochi bocconi. Mattia, invece, ci mise più tempo: non perché fosse particolarmente lento, o perché mettesse in bocca bocconi piccoli. Prendeva due o tre gamberi in una volta sola, e li portava alla bocca, masticando quasi velocemente quanto lui: quello che lo fregava era quello che c’era nel mezzo. Prima di infilzare i gamberi, Mattia quasi li accarezzava con i denti della forchetta, sfiorava il manico della posata con le dita, poi finalmente li prendeva: li portava alla bocca, ci chiudeva le labbra intorno come una carezza, e quando finiva di masticare ricominciava di nuovo quella danza silenziosa. Ogni tanto, tra un boccone e l’altro lasciava scivolare la forchetta al lato del piatto e chiudeva le dita intorno al bicchiere di vino, mandandone giù uno o due sorsi leggeri, che gli facevano abbassare appena le palpebre quando il liquido scendeva lungo la gola.
Sarebbe rimasto a guardarlo mangiare per ore, anche quando finì il suo cocktail e accettò una grossa porzione di insalata russa che Samuele gli schiaffò sul piatto senza tanti complimenti.
- Dovresti provare anche questo formaggio al peperoncino. E’ un po’ forte ma è buono. –
Mattia annuì, accettando anche quello: ne tagliò un piccolo pezzo, portandolo alle labbra, e lo assaporò un po’. Non era eccessivamente piccante, ma per mangiarne più di qualche boccone senza bere un bicchiere o mangiare qualcos’altro ci voleva coraggio: dopo due bocconi, infatti, Mattia lasciò la forchetta per bere il vino, svuotando il bicchiere. Samuele lo precedette nell’afferrare la bottiglia per riempirlo al posto suo.
- Piccante? – lo prese in giro, in una mezza risata.
- Ma no, scherzi? – gli rispose quello a tono. – Comunque è tutto buono, devo ammetterlo. L’hai fatto tu? -
- Sì. Sono diventato un cuoco provetto, modestamente. –
- Io è già tanto se so fare una frittata – osservò l’uomo, stringendosi nelle spalle. – No, a dire il vero c’è qualcosa che so fare, ma sono proprio poche ricette che ho dovuto provare decine di volte prima di tirarne fuori qualcosa di commestibile! – Samuele rise, immaginando Mattia, tutto vestito elegante, davanti ai fornelli a rigirare una frittata.
- Io ho dovuto imparare per forza. I miei mi hanno cacciato di casa a diciotto anni. Per non morire di fame mi sono dovuto organizzare. –
- Credo sia questo il problema. Io sono sempre stato servito, non mi sono mai posto il problema. Anche quando me ne sono andato di casa, l’ho scelto io, anche se i miei mi hanno gentilmente spinto verso la decisione di andarmene a vivere da solo – gli raccontò, prendendo due fette di prosciutto cotto e mettendole nel proprio piatto. – Però non sono ancora morto di fame, quindi tanto male non devo essere no? – aggiunse, con una risata. Solo dopo lasciò la forchetta a mezz’aria e gli puntò gli occhi addosso. – Magari qualche sera di questa ti invito a cena e ti faccio provare la mia cucina – soffiò, morbido, infilzando un ultimo pezzetto di formaggio con la forchetta. Samuele sobbalzò quando il metallo della posata cozzò contro il piatto.
L’immagine di Mattia ai fornelli tornò a balenargli nella mente.
Cose come quelle avrebbero dovuto vietarle ai minori.
Prese un boccone di insalata russa, per stemperare il silenzio.
- Magari prima mangio un panino, però, eh? – gli disse alla fine. Mattia poggiò la forchetta sul piatto e batté il palmo della mano sul tavolo. -
- Che stronzo che sei – si imbronciò, ma stava sorridendo.
Samuele mandò giù un boccone, trattenendo una risata.
Si sentiva un po’ più leggero, come capitava sempre quando vicino a lui c’era Mattia. Poi, ogni tanto, all’improvviso come un temporale in piena estate, arrivava una morsa allo stomaco che si diffondeva fino alla pancia e al petto, e ancora più su verso la gola, sottraendogli l’appetito e il respiro. Durava pochi minuti, uno o due, durante il quali la testa era tutta concentrata sul telefono muto, e su cosa Riccardo stesse facendo a casa senza di lui: poi Mattia prendeva il bicchiere, lo sfiorava per caso con il gomito, si puliva la bocca con il tovagliolo, e la morsa si scioglieva, riportandolo in quella stanza, a quel tavolo. Allora sorrideva lievemente o annuiva, se Mattia aveva detto qualcosa.
- Hai cucinato un sacco, però. Aspettavi qualcuno che non è venuto? –
Suonava come una domanda, ma entrambi sapevano che non lo era: forse Mattia l’aveva formulata come tale per non offenderlo, ma i suoi occhi azzurri erano troppo penetranti perché quelle poche parole non acquisissero la sfumatura dolce e un po’ spigolosa di un rimprovero.
Samuele portò il bicchiere alle labbra, mandando giù tutto il vino al suo interno con pochi sorsi veloci: poi lo riportò al suo posto, stringendosi nelle spalle.
- Sì – rispose semplicemente. Mattia non chiese altro: finì di mangiare, e rimase un po’ con le braccia intrecciate sul tavolo a guardarlo. Samuele non aveva più fame: stava mangiando semplicemente per tenersi occupato. Ogni tanto la morsa allo stomaco tornava, e faticava ad andare via, adesso, perché Mattia gli aveva ricordato l’assenza di Riccardo.
Così continuò a mangiare un’altra fetta di prosciutto, un pezzetto di formaggio, un boccone di insalata russa: bevve un altro bicchiere di vino, e il liquido caldo scivolò giù lungo la gola con una strana facilità. Forse perché Mattia aveva iniziato a parlare: gli stava raccontando del lavoro, del negozio di sigarette elettroniche che possedeva, della ragazza che aveva assunto per lavorare con lui, e che spesso gli permetteva di restarsene a casa e far sgobbare solo lei.
Continuò a parlare anche quando, finita la cena, Samuele si era alzato per iniziare a sparecchiare e lui aveva insistito per aiutarlo, e poi ancora mentre l’uomo preparava il caffè. Quando Samuele poggiò la caffettiera sul fuoco, si passò le mani sulle cosce: Mattia se ne stava in piedi vicino al tavolo, con le braccia incrociate sul petto. Nel silenzio, gli sembrava di sentire il cuore martellare nelle orecchie, e la morsa allo stomaco attanagliarlo.
Non avrebbe dovuto farlo.
Ma forse gli occhi di Mattia addosso lo rendevano più debole. Forse la morsa lo soffocava troppo.
Forse era debole e basta.
- Ti dispiace se faccio una telefonata? Non ci metto troppo. –
Non gli sfuggì il lampo negli occhi di ghiaccio di Mattia.
- No, fai pure. Io intanto faccio i piatti. –
- No, lascia stare, li faccio io domani. Vengo subito eh? –
Afferrò il cellulare tra le mani.
Non vedeva l’ora di sentire la voce di Riccardo.
 

§§§

 
La telefonata di Samuele non iniziò nemmeno.
Non appena era uscito dalla cucina, Mattia si era avvicinato al lavello, per lavare i piatti che avevano sporcato: aveva rischiato di rompere il bicchiere quando aveva ripensato agli occhi verdi di Samuele e al modo in cui si erano oscurati quando gli aveva chiesto se avrebbe dovuto incontrare qualcuno. Lo irritava terribilmente l’idea che quell’uomo si prendesse gioco di lui, che lo rigirasse come una pedina tra le dita: e sapeva che la telefonata fosse destinata a lui.
Per questo, forse, non si stupì troppo quando, dopo neppure un minuto, sentì la voce di Samuele che lo chiamava dal salotto.
- Mattia. –Aveva detto proprio così, con quella voce calda, arrotondando il suo nome tra le labbra come una carezza. Gli piaceva sempre quando Samuele pronunciava il suo nome.
Lo faceva in modo nettamente diverso da suo padre.
Allora aveva chiuso il rubinetto, si era asciugato le mani, e lo aveva raggiunto in salotto, oltre il corridoio: con i suoi vestiti addosso si sentiva agitato, perché non era abituato a cose sportive come quelle. Ci stava bene, dentro. Non avevano il profumo di Samuele, però: odoravano di ammorbidente e di vestiti puliti. L’uomo aveva poggiato il cellulare sul tavolo all’angolo del salotto, vicino al centrotavola: non aveva accennato alla telefonata senza risposta.
Gli aveva semplicemente indicato il divano, chiedendogli se volesse guardare qualcosa in televisione, e come andasse il lavoro: per tutto il tempo, Mattia non era riuscito a far altro che lanciare occhiate al cellulare di Samuele sul tavolo del salotto.
- Tieni. –
Mattia sussultò quando la voce calda di Samuele lo raggiunse di nuovo, al presente: gli stava porgendo una tazzina di caffè fumante. Tese la mano, stringendola tra le dita, mentre il divano sprofondava, di fianco a lui, sotto il corpo dell’altro uomo.
La presenza di Samuele, da vicino, era ingombrante: era dentro al modo in cui sorrideva, nelle rughe che gli si formavano ai lati degli occhi, e sopra le labbra. Era nel movimento delle sue mani grandi mentre parlava. Era nel tono naturalmente alto della sua voce, che lo si poteva sentire anche a diversi passi di distanza e non se ne rendeva conto. Era tutto insito nel suo modo di essere. Persino nel modo in cui si rigirava la tazzina tra le mani, dopo averla svuotata, i gomiti poggiati sulle ginocchia e gli occhi fissi sullo schermo scuro della tv spenta.
Il salotto di Samuele non aveva finestre, bensì un unico balcone: si affacciava sulla strada illuminata, e attraverso gli spazi lasciati liberi dalle imposte Mattia poteva vedere le grosse gocce di pioggia cadere dal cielo, nel riflesso della luce un po’ aranciata del lampione. Si sentiva, nel silenzio, anche l’infrangersi della pioggia sulla strada, e, quando, raramente, passava qualche automobile, il suono delle ruote che scivolavano sulla strada bagnata era come un sibilo.
Gli sarebbe piaciuto alzare una mano e poggiarla sul ginocchio di Samuele: fermarsi lì, senza far altro, ma almeno toccarlo. Gli sarebbe anche piaciuto risalire con la mano lungo il suo braccio, fino alla spalla, al collo, al viso, e baciarlo: ma sarebbe stato davvero impossibile. Un semplice tocco sul ginocchio, invece, era fattibile.
Mattia mandò giù il caffè in un unico sorso, e il liquido rovente gli ustionò la lingua, lasciandogli una fastidiosa sensazione di intorpidimento.
- Oggi non sono proprio divertente, hai ragione – interruppe poi il silenzio Samuele. Mattia si alzò per poggiare la tazzina sul tavolo, rubando a Samuele la sua, anch’essa vuota.
-  Quando mai sei stato divertente, scusa? –
- Sicuramente non lo sono mai stato quanto te! – gli rispose a tono.
E poi fece una cosa che Mattia non si sarebbe mai aspettato. Si alzò in piedi, intercettandolo quando aveva compiuto solo pochi passi, e gli strinse le mani intorno ai polsi: nelle sue, Mattia teneva le loro tazzine. I palmi delle mani di Samuele erano roventi, mentre gli stringevano la pelle, e Mattia si irrigidì subito, per la sorpresa: l’uomo, allora, ne approfittò per sfilargli le tazzine dalle mani. Quando la pelle di Samuele lasciò la sua, Mattia avvertì una sensazione di freddo che gli procurò la pelle d’oca lungo tutte le braccia. Era diventato rigido come una statua di sale, e come uno stupido: ce l’aveva avuto così vicino, per un momento, che sarebbe bastato strattonarlo in avanti per schiacciarselo addosso.
Si chiese come avrebbe reagito Samuele se lo avesse baciato, quella sera: lo aveva invitato a casa sua, gli aveva offerto la cena, aveva accettato il suo invito al concerto e aveva trascorso tutta la sera con lui. Erano segnali incoraggianti quelli. Forse, avrebbe accettato quel bacio e lo avrebbe ricambiato. Ma mentre lo guardava poggiare le tazzine sul tavolo e voltarsi verso di lui, con uno sguardo leggero dentro quegli occhi verdi, Mattia seppe che quello non era ancora il momento: Samuele non lo prendeva sul serio, era questa la verità. Scherzava, rispondeva a ogni battuta, flirtava con lui come avrebbe fatto un quindicenne, ma non lo stava prendendo sul serio. Perché dentro la testa di Samuele, dentro il suo petto, dentro il suo stomaco, c’era quello stronzo di uomo sposato che si prendeva gioco di lui e lo consumava piano piano. Non c’era spazio per nient’altro.
Mattia tese il braccio in avanti, afferrando Samuele per la cinta dei pantaloni: era caldo anche lì. Diete uno strattone in avanti, non troppo forte, tanto che l’uomo non si sbilanciò del tutto, ma riprese l’equilibrio facendo solo un passo avanti, verso di lui.
- Se vuoi ti posso far diventare divertente nel giro di cinque minuti – gli disse, e notò il guizzo di divertimento negli occhi di Samuele, che precedette la sua risata mentre faceva di nuovo un passo indietro.
La mano di Mattia scivolò via, il braccio ricadde lungo il fianco.
Non lo prendeva sul serio.
- Se volevi scambiare la saliva con la mia potevi baciarmi. –
- Accidenti, era proprio la seconda possibilità! Ho fatto la scelta sbagliata! –
- Possiamo rimediare quando vuoi. Sono un tipo generoso. –
- Molto gentile da parte tua. Quando vuoi! –
- Credi che io stia scherzando? –
- Dovresti. –
- Beh, non sto scherzando. Posso farlo anche adesso. –
- No che non lo fai, non hai la faccia per farlo, ragazzino. –
- Sei un cazzone, Mattia – gli mormorò, e non era arrabbiato. Neppure stanco.
Era semplicemente alleggerito.
Samuele si lasciò cadere sul divano con un tonfo, appoggiando una gamba su uno dei braccioli e portandosi un braccio sul viso, per riparare gli occhi dalla luce. La maglia che indossava si sollevò sulla pancia, lasciando libera una striscia di pelle subito sopra il cavallo dei pantaloni.
Mattia si chiese come dovesse essere baciarlo proprio lì, che sapore dovesse avere la sua pelle, quanto potesse essere calda.
- Ah, può andare peggio di così? –
Probabilmente poteva andare peggio di così. Sicuramente poteva andare peggio della volta in cui Samuele aveva pronunciato quella frase, quando era andato a trovarlo al locale il giorno di Natale.
Andava peggio, perché lo sguardo di Samuele era più consumato di quanto non fosse mai stato prima.
Un tuono improvviso fece sussultare il corpo di Samuele, che subito dopo tolse il braccio dal viso e si mise seduto, sfregandosi gli occhi.
- Resti in piedi perché speri di mettere su qualche altro centimetro? Dopo i vent’anni non si cresce più, non te l’hanno detto? – lo prese in giro. Mattia sbuffò, e avvicinandosi a lui per sederglisi accanto, gli diede un leggero schiaffo su uno zigomo, senza fargli male, cui l’altro rispose con un colpo sulla mano.
- Non fare queste battute squallide, non risulti più divertente. –
Samuele rise, una risata simile a uno sbuffò.
Mattia si lasciò cadere sul divano, lasciando che la schiena affondasse sui cuscini come in un abbraccio caldo. Il divano di Samuele non era di pelle, come quelli di casa sua. Aveva un rivestimento in stoffa, morbido, che pareva quasi di essere su un materasso soffice.
Forse ci aveva fatto l’amore con il suo uomo, lì sopra. Ci avevano visto dei film. Magari ci avevano anche litigato. Sbuffò, chiudendo gli occhi, disturbato dalla luce chiara del lampadario.
- Non faccio sesso da settimane – soffiò. Samuele si mosse appena accanto a lui.
- Era un’informazione indispensabile? – Mattia sorrise. Stava immaginando lo sguardo stizzito di Samuele, le sue labbra sollevate da un lato in una smorfia, la sua espressione di rimprovero mista a quel sorriso che faticava a trattenere.
- In realtà no. Però è un’informazione utile – gli rispose, stringendosi nelle spalle. – Magari, adesso che lo sai, penserai di rimediare in qualche modo – azzardò. Sentì nello stomaco la conosciuta sensazione di formicolio che si spandeva nel corpo quando si vergognava di qualcosa: raramente Mattia provava vergogna o timidezza. Suo padre non glielo aveva mai permesso. L’ultima volta che era arrossito probabilmente era stato il giorno della sua prima comunione, quando sua nonna gli aveva messo in mano qualche banconota come regalo. Così, tutte le volte che credeva di essersi spinto un po’ troppo oltre, lo prendeva quel formicolio che partiva dallo stomaco e si diffondeva lungo le braccia, fino alle gambe, ma non raggiungeva mai la superficie: così, rimase impassibile mentre Samuele sorrideva in uno sbuffo.
- Ti stai annoiando? Non sono molto di compagnia oggi. –
Avrebbe voluto dirgli di sì, a dire il vero. Avrebbe voluto dirgli che si sentiva un ospite in casa di qualcuno che conosceva poco, imprigionato in una conversazione forzata e noiosa, che loro due non erano fatti per parlarsi in quel modo, come due condomini che si incontravano nell’androne del palazzo e si sentivano costretti a scambiare qualche parola. Avrebbe voluto dirglielo, e confessargli che, se si trovava lì, non era solo per qualcosa di assimilabile all’amicizia: sì, provava simpatia per lui, ma il sentimento che lo guidava, soprattutto, era l’attrazione.
Aveva voglia di afferrarlo per i capelli e dirgli di stare zitto, di smetterla di parlargli in quel modo affettato e gentile, e poi baciarlo: baciarlo fino a fargli mancare l’aria, nel modo più irrazionale e maleducato possibile, come sua madre avrebbe odiato. E poi spogliarlo, togliergli quei vestiti e stenderlo sul tappetto, e zittirlo di nuovo non appena avesse provato a parlare.
Mattia aprì gli occhi, e la luce della stanza lo accecò per qualche secondo.
Si mise seduto composto.
- L’ho notato. Preferisco di gran lunga il tizio che è venuto al concerto di Vasco insieme a me – gli confessò. Samuele agitò una mano in aria, i gomiti poggiati sulle ginocchia, e si voltò verso di lui: stava sorridendo appena. – Però, se non vuoi fare sesso, possiamo farci una partitina a carte. A scopa, magari? – gli propose, trattenendo un sorriso.
Samuele scoppiò a ridere.
- Sei sempre così diretto tu? – Mattia si strinse nelle spalle, assumendo un’espressione ingenua.
- Perché? –
- Se non vuoi fare sesso – snocciolò Samuele, con voce melliflua e un po’ più alta del normale, per imitare il suo tono di voce.
- E’ inutile girarci intorno, no? Il risultato non cambia. –
Samuele sollevò le sopracciglia, distendendosi in un altro sorriso, poi piegò il busto indietro, lasciandosi cadere sui cuscini del divano, con il capo rivolto verso l’alto. Visto di profilo, Samuele aveva una leggera gobba sul naso, appena percettibile, che gli dava però un’aria meno dolce di quella che gli conferivano i suoi occhi verdi.
- Non so se sia il vino a farmelo dire – iniziò poi, con voce un po’ biascicata. – Ma se non ci fosse Riccardo, farei sesso con te anche adesso – confessò alla fine.
Mattia sentì i polmoni svuotarsi come se qualcuno gli avesse aspirato tutta l’aria con un tubo.
Se non ci fosse Riccardo, farei sesso con te anche adesso.
L’avrebbe polverizzato all’istante, pur di avere Samuele, sentirsi sbarazzare da quei vestiti e assaporare la sua pelle. Ma non sarebbe successo.
Per quanto, a una prima analisi, Samuele si fosse esposto più di quanto non avesse mai fatto, in realtà non aveva detto un bel niente. Il messaggio era chiarissimo: ci avrebbe fatto sesso all’istante, ma il suo uomo si sarebbe arrabbiato. Che poi, Riccardo era proprio un nome da sfigati.
Fino a quando ci fosse stato lui, Samuele non avrebbe ceduto alla tentazione: perché soltanto di quello si trattava. Attrazione. Nulla di più, nulla di meno. Solo banale attrazione che scuoteva le carni e lasciava spossati dopo un orgasmo, senza portarsi dietro nient’altro.
Si sarebbe accontentato anche di quello, forse, all’inizio.
Mattia fece schioccare le dita.
- Che palle, mi va sempre male per un pelo! – si lamentò, in un mugolio che fece ridere Samuele.
Si sentì colpire da un suo pugno sul braccio subito dopo, cui avrebbe voluto rispondere con un altro colpo, magari sul petto: solo che, dopo, forse non sarebbe riuscito a trattenersi dall’istinto di afferrarlo per il bordo della maglietta e baciarlo, mandando a fanculo Riccardo e tutto quello che gli girava intorno.
Quando la risata di Samuele si spense, rimasero in silenzio per un po’, seduti vicini, con le schiene affondate sui cuscini e le gambe distese in avanti sul pavimento. Samuele respirava regolarmente: aveva poggiato la mano sul divano, vicino alla gamba di Mattia, sfiorandola appena con le nocche. Aveva chiuso gli occhi, e nel silenzio del salotto si avvertiva solo lo scrosciare della pioggia.
Mattia sentiva un tremito nelle dita delle mani, come se non riuscisse più a controllarle: era la vicinanza di Samuele che lo stregava e gli sottraeva la forza e la voglia di fare qualsiasi cosa. Riusciva a rispondere solo a quel tremito lieve, che lo portò, lentamente, a muovere la mano destra verso il ginocchio di Samuele: la poggiò proprio lì, sulla sporgenza ossuta e calda, e Samuele sussultò solo un attimo, ma non si mosse. Non aprì neppure gli occhi.
- Ti vedi con me solo per questo? – esordì poi. Mattia abbassò le palpebre, lasciandosi avvolgere dal buio.
- Mh? –
- Se ti dicessi che non c’è nessuna possibilità che io e te finiamo a letto insieme, continueresti a frequentarmi come adesso? – Nella voce di Samuele c’era qualcosa di stranamente morbido e caldo, come una richiesta d’aiuto, forse di calore. Era una domanda stupida. Credere che la gente si avvicinasse a lui solo per ottenere qualcosa in cambio era da stupidi. Come se non si rendesse conto di tutto quello che avesse davvero da offrire, delle risate, dei sorrisi, dei tocchi leggeri e del tempo. Soprattutto del tempo: Samuele riempiva le vite. Riempiva il suo tempo.
Lasciò la mano sul suo ginocchio, e Samuele non la respinse.
- C’è mai stata la possibilità che finissimo a letto insieme? Devo essermela persa. – Samuele sorrise, in uno sbuffo.
- Lo sai cosa voglio dire. –
- No, non lo so. Spiegamelo. – Samuele si prese qualche secondo per pensarci.
- Tu flirti con me. Flirti con tutti a dire il vero – aggiunse poi, stringendosi nelle spalle. – Ci verresti sul serio a letto con me. –
- Touché – rispose Mattia, sollevando la mano e staccandola dal ginocchio tiepido di Samuele. – Ma mi sono bastati cinque minuti, la seconda volta che hai parlato con me, per capire che saremo andati a letto insieme quando gli unicorni avessero fondato un partito per le prossime elezioni. Il che, a dire il vero, non sarebbe tanto male. Avrebbero il mio voto. –
Samuele lo colpì di nuovo, questa volta sulla gamba, ma stava ridendo.
- Comunque no, non mi vedo con te solo per questo. Mi offendi, Samuele! – concluse, con un tono offeso e un po’ isterico che lo fece sorridere di nuovo.
Era questo, però, che non capiva di lui. Perché, tra tutta la gente che aveva intorno e che lo faceva sorridere a quel modo, avesse scelto proprio uno che di bene non gliene avrebbe potuto mai portare. – Mi piace passare il tempo con te. Anche se non verrai mai a letto con me, va bene lo stesso. -
La mano di Samuele, sulla gamba, si trasformò in una carezza che lo infiammò dritto dritto dentro i pantaloni.
- Va bene. Va molto bene – lo sentì dire, ma parlava tra sé, più che con lui, tanto che, quando staccò la mano da lui, Samuele si mise seduto dritto, battendo le mani tra loro. – Che dici, ti va un limoncello? – gli chiese, alzandosi in piedi, come rianimato da chissà quale energia. Mattia si trascinò anche lui in piedi, aggrappandosi al bracciolo.
- Ah, vuoi farmi ubriacare per portarmi a letto? –
- Mattia!! –
Samuele rise.
Anche se non verrai mai a letto con me, va bene lo stesso.
“Impara a mentire, figliolo. La gente crede sempre alle belle cose, anche se sono bugie.”
 
 

§§§

 
 
Il tonfo della porta d’ingresso attirò l’attenzione della donna che in cucina stava preparando un’insalata. La sua voce riempì il corridoio.
- Luciano? – chiamò, con quella voce dolce e morbida che usava quando si rivolgeva al figlio. Riccardo pensò a come sarebbe cambiata non appena avesse visto che si trattava di lui.
Appese le chiavi all’ingresso, lasciando l’ombrello e il cappotto umidi sull’attaccapanni.
Poi, passandosi una mano tra i capelli, raggiunse la cucina.
- Sono io – mormorò soltanto, quando superò la soglia.
Maria alzò gli occhi, stringendo con più forza le dita intorno alle posate con cui mescolava l’insalata. Quando i suoi occhi si poggiarono su di lui, arricciò le labbra. Aveva indosso un maglione a collo alto, colore crema, che faceva risaltare il colore scuro degli capelli, e un paio di pantaloni scuri, ampi sulle gambe.
- Credevo avresti fatto tardi, oggi – commentò, asciutta, riportando lo sguardo sull’insalata.
Era perfetta, ormai, ma lei continuava ad agitarla.
- Il temporale ha fatto saltare la luce e sono andato via. –
- Già. C’è un brutto temporale, fuori. –
Il silenzio tornò a riempire la stanza, mentre Maria lasciava andare finalmente l’insalata e si voltava per prendere una mozzarella e qualche carota dal frigorifero. Ne chiuse la porta con un tonfo.
- Se resti per cena posso vedere di prepararti qualcosa. –
- Andrà benissimo l’insalata. –
- D’accordo. –
- Luciano? –
- E’ venuto a prenderlo Giancarlo. Stanotte dormirà a casa dei Rampelli, come concordato. –
- Capisco. –
Calò di nuovo il silenzio, interrotto dal rimestare di Maria e dal cozzare delle posate sul bordo dell’insalatiera.
Riccardo ripensò ai primi anni del loro matrimonio, al sorriso caldo di Maria quando tornava dal lavoro e gli chiedeva cosa volesse per cena, alle sue carezze sotto le coperte, quando non sapeva ancora di cosa lui facesse quando il lavoro gli faceva fare tardi. Sembrava tutto così estraneo adesso che non riuscivano nemmeno a stare nella stessa stanza senza respingersi a vicenda come i poli uguali di una calamita. Era colpa sua. Forse per questo non riusciva ad accettare che il suo matrimonio fosse naufragato a quel modo. Eppure, quando pensava allo sguardo morbido di Samuele, alle sue carezze sulla schiena, non riusciva a vederci qualcosa di sbagliato.
Era teso tra l’affetto che provava per sua moglie e l’attrazione distruttiva che lo univa a Samuele.
Forse, prima o poi, uno di loro due si sarebbe stancato, avrebbe tirato la corda più forte, e da quella parte si sarebbe spezzata, facendolo rimbalzare verso la parte opposta.
Maria rimestò l’insalata più velocemente, fino a quando una delle due posate le sfuggì di mano, finendo sul pavimento e portando con sé due foglie di rucola di un verde acceso. Allora la donna lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, e sbuffò: quando lo fece, parve incrinarsi un po’, curvando la schiena in avanti, come se qualcuno stesse cercando di strapparle il cuore con una mano e lei volesse proteggersi. Non sfuggì, a Riccardo, il modo in cui sollevò gli occhi al cielo, che aveva associato ai suoi tentativi di trattenere le lacrime.
Prima che si chinasse per raccogliere tutto da terra e ripulire il pavimento, Riccardo avanzò verso di lei, per precederla, ma lei, in ginocchio, fece volteggiare le mani in aria, verso di lui, come a volerlo colpire, ma senza toccarlo: sospese in aria, le sue dita tremavano.
- Riccardo. Togliti. – Le tremava la voce, anche, con quella morbidezza che gli attanagliava le viscere. Sembrava schifata dal solo averlo vicino.
Le si allontanò subito, lasciando che facesse da sé: la guardò mentre raccoglieva da terra la posata e le foglie di insalata cadute, che ci passasse sopra un panno bagnato, che gettasse l’utensile nel lavello. Trattenne il fiato quando le braccia le ricaddero nuovamente lungo i fianchi.
- L’insalata è pronta, puoi mangiarla tutta, io non ho fame. Credo che andrò a letto, ho un terribile mal di testa – soffiò poi, dirigendosi verso la soglia della cucina, a grandi passi. I capelli scuri, sciolti, le danzarono sulle spalle. Avevano sempre avuto un fascino particolare su di lui: erano quel particolare che faceva la differenza. Riccardo sceglieva sempre uomini che portavano i capelli corti, dall’aspetto mascolino. A casa, i capelli di Maria rappresentavano quel qualcosa in più che la rendeva diversa da loro, e da lui.
Quando lei gli passò accanto, Riccardo, le sfiorò un braccio per fermarla.
- Maria… - provò a dirle. Lei scattò subito, agitando il braccio per liberarsi del suo tocco. Quando lo guardò, i suoi occhi scuri ardevano di rabbia.
- Non mi toccare, Riccardo! – urlò. – Perché sei tornato a casa? I tuoi “affari” ti hanno finalmente mandato al diavolo dopo essersi accorti di quanto fai schifo? –
La lasciò andare come se si fosse scottato, arretrando di un passo, fino a sentire contro la spina dorsale lo spigolo dello stipite della porta. Maria era furiosa. Ma non era solo quello.
Era furiosa, ma era una rabbia diversa dal solito. Non era lo sdegno vuoto che mostrava di solito.
Adesso stava piangendo. Aveva gli occhi arrossati, e le ciglia umide. Non una lacrima le rigava il viso, solo perché aveva imparato a trattenerle troppo bene.
Ma stava piangendo, e lo stava distruggendo.
Se lei piangeva, in quel momento, se lo odiava e gli urlava contro, era colpa sua. Era stato lui a tradirla, a rovinare quel bel matrimonio in cui lei sperava. E adesso che avrebbe avuto voglia di stringersela contro, abbracciarla e rubarle un po’ di calore, lei non gliele avrebbe permesso.
Sua moglie lo superò, imboccando il corridoio. Dopo qualche secondo, Riccardo sentì il rumore della porta della camera da letto che si chiudeva: non un tonfo, ma semplicemente uno scatto, come se anzi avesse fatto attenzione a non fare rumore.
Lo lasciò in cucina, con la sola compagnia dell’insalata sul ripiano lucido e pulito.
Riccardo la ripose in frigo. Nella sala da pranzo c’era, sul tavolo, una piccola tovaglietta, con sopra un piattino e un bicchiere, e delle posate. Le lasciò lì dove stavano, accomodandosi sul divano.
Non si era cambiato. Aveva indosso dei vestiti un po’ umidi, ma non importava. Voleva solo starsene sul divano, con la testa tra le mani e i gomiti sulle ginocchia, a chiedersi cosa avesse fatto di male per meritarsi una vita come quella.
Sarebbe stato così bello essere nato normale.
Sentirsi felice con la sua bella moglie, senza la necessità di doversi perdere nei corpi caldi di altri uomini. Non avere mai conosciuto Samuele, non essersi lasciato circondare dal suo calore, dal suo sorriso, non avergli permesso di farlo sentire a quel modo: un uomo migliore.
Samuele lo faceva sentire perfetto. Un buon avvocato, una brava persona, un ottimo amante. Qualcuno che meritasse di essere amato nonostante tutti gli errori che aveva commesso, e che continuava a commettere. Qualcuno per cui valesse la pena anche di soffrire, pur di averci un solo minuto insieme. Samuele lo faceva sentire sempre bene.
Poi tornava a casa, e doveva combattere con gli sguardi ostili di Maria.
Non voleva dare la colpa a lei, e  non poteva. Maria era stata sempre una moglie perfetta: mai un ritardo, mai una vera litigata, era sempre d’accordo con lui sull’educazione di Luciano, e tutte le notti andava a letto con un pigiama carino o un completino, e accettava le sue carezze quando lui aveva voglia di fare l’amore. Era stato lui a distruggere anche quello che Maria era stata.
Era tutta colpa sua.
Riccardo si alzò dal divano, svuotando le tasche sul tavolo della sala da pranzo: il portafoglio, i bigliettini con gli appunti, il cellulare. Samuele non aveva risposto al suo sms con cui lo avvisava di non poter passare la sera con lui. L’avrebbe chiamato, magari più tardi.
Sarebbe stato arrabbiato, o forse deluso, a casa da solo con il temporale.
Si sarebbe fatto perdonare, in qualche modo.
Abbandonò la cucina a grandi passi, dirigendosi verso la camera da letto. Forse avrebbe dovuto bussare.
Abbassò la maniglia, spingendo la porta in avanti.
Maria era seduta su una sponda del letto, le mani sulle cosce. Il rumore attirò la sua attenzione, facendole sollevare il viso. Riccardo sarebbe voluto sparire, sprofondare, morire sotto le ruote di un camion. Sua moglie stava piangendo.
Quando lo vide, si passò le mani sule guance, asciugandosi il viso, e si alzò in piedi, avvicinandosi alla specchiera, per togliere gli orecchini pesanti che indossava. Non gli rivolse una sola parola, neppure uno sguardo. Lui si fece avanti.
- Dovresti mangiare qualcosa. –
- Mi è passata la fame, grazie. Vorrei andare a letto. –
- Maria… -
- Cosa? –
La voce dura di sua moglie lo colpì come una coltellata mentre lei si voltava per guardarlo.
- E se avessi un briciolo di palle, anche solo un briciolo, te ne saresti già andato di casa a viverti la tua fottuta vita felice lontano da questa città, senza rovinare la vita di Luciano! –
Riccardo fece qualche altro passo in avanti, verso di lei. Non gli sfuggì il lampo nei suoi occhi: per quanto potesse odiarlo, a Maria lui non era indifferente. Lo aveva amato, forse lo  amava ancora, e lui le aveva fatto del male, come nessuno avrebbe mai potuto farle.
Adesso si proteggeva, lo evitava, ma tutte le volte che si incrociavano, per caso, qualcosa dentro le si spezzava. Tese la mano in avanti, e lei vi depositò gli orecchini; lo facevano sempre, quando tornavano a casa dalle cene alle quali fingevano di essere una bella coppia felice, prima di andare a letto. Questa volta, però, piuttosto che lasciare che lei ritirasse subito la mano, Riccardo mosse le sue, chiudendovi dentro, a coppa, quella morbida di sua moglie, che subito lo strattonò per sfuggire alla presa, senza che lui glielo permettesse.
- Mi dispiace, Maria – le mormorò. Si sarebbe aspettato che lei urlasse, lo respingesse. Invece semplicemente lo guardò a testa alta, la mano bollente tra le sue.
- Non basta – gli rispose, asciutta.
- Lo so. Lo so che non basta. Però mi dispiace. Sono rimasto imbrigliato in una cosa più grande di me. – Questa volta lei diede uno strattone e liberò la mano: aveva di nuovo gli occhi lucidi.
- Sei vigliacco, Riccardo. Non ci puoi fare niente. –
- Maria, ascolta… -
- Ascolta un cazzo! Tu hai un altro, Riccardo! Mi tradisci tutti i santi giorni! Anche stasera, se non ci fosse stato questo temporale che ti ha fatto venire un po’ di strizza, saresti stato a scopare sul letto di un altro mentre io cenavo da sola davanti alla televisione! – urlò ancora, e questa volta fu diverso da tutte le altre. La voce le si incrinò, e gli occhi si riempirono di lacrime mentre cercava di tirare fuori ancora più voce, senza riuscirci. Si stava spezzando.
La afferrò per le spalle, scoprendo sotto la pelle il tessuto morbido del suo maglione.
- Mi dispiace, Maria, mi dispiace! Perdonami, io…io non volevo farti del male. Se fossi stato come tutti gli altri, non ti avrei mai fatto una cosa del genere – le mormorò, avvicinando il viso a suo, fino a far aderire le loro fronti. Le mani di sua moglie, all’improvviso, risalirono sul suo petto e si aggrapparono al colletto della sua camicia. Aveva una sorta di disperazione, addosso, che non le aveva mai visto in tutti quegli anni.
- Allora fatti aiutare! Possiamo andare da uno psicologo, un consulente. Potranno aiutarti! –
- Non sono malato. – Le mani di Maria risalirono sul viso, accarezzandolo, e la sua voce suonava quasi come una preghiera, la litania di una donna in chiesa davanti all’altare di qualcuno in cui credeva.
- Mi ami, Riccardo. Possiamo parlare con uno psicologo, ci può aiutare. Può aiutarti a farti bastare me. –
Per un attimo, Riccardo si figurò il volto di Samuele.
Se lo immaginò a casa, dietro i fornelli a preparargli il caffè, o sulla soglia della camera da letto mentre lui si spogliava. Gli venne alla mente la sua voce mentre, attraverso il telefono, lo pregava di raggiungerlo a casa, e gli diceva di amarlo. Sentì una morsa allo stomaco quando si ricordò dei suoi occhi verdi, del suo sguardo scuro mentre lo pregava di lasciarlo andare, che gli faceva solo del male, e mentre avvertiva sotto i polpastrelli il ricordo della sua pelle calda.
Non poteva fare a meno di Samuele, non poteva farsi bastare il corpo morbido di una donna, quando desiderava costantemente quello imponente di un uomo. Non era malato.
Era solo vigliacco.
Maria lo accarezzò ancora sul viso.
- Io ti posso bastare, Riccardo. Se tu smetti di vederlo, se ti impegni un po’ con me, io ti posso bastare – gli mormorò ancora,  vicino alle labbra. Non si curava più delle lacrime che le inumidivano le ciglia, o della rabbia. Gli si stava premendo addosso, disperata, aggrappandosi all’ultima speranza di ricostruire quella vita che lui le aveva distrutto.
Gli stava chiedendo di lasciare Samuele.
- Riccardo… -
Gli girava la testa, e il soffio caldo del respiro di Maria gli accarezzava il viso. Nella mente, le immagini di Samuele lo tormentavano. Chiuse gli occhi, spinse il viso in avanti.
Premette le labbra su quelle morbide di Maria, e le mani di lei gli risalirono sul collo, sulla nuca, stringendolo con forza. Il tessuto soffice del suo maglione gli accarezzava la pelle del collo.
La strinse, scoprendo sotto le dita i contorni morbidi del suo corpo di donna, la curva dei fianchi larghi, l’addome ammorbidito, che aveva accolto suo figlio, il seno soffice contro cui affondare il viso. Le sfilò il maglione, strattonandolo verso l’alto, e lasciò che lei gli sbottonasse la camicia.
La pelle di Maria sapeva di qualcosa di dolciastro, ed era liscia e morbida come quella di un bambino. Era il corpo di una donna. Non ne toccava uno da mesi, forse anni.
Affondò una mano nei suoi capelli soffici che profumavano di un’essenza floreale.
Intanto, in cucina, il cellulare di Riccardo squillava.
 











(1) Il titolo è tratto dalla canzone "Mattia" di Edwyn Roberts.

Nota allo stralcio III:
Stralcio completamente incentrato sui personaggi secondari: Samuele, Mattia e Riccardo.
Il tempo è lo stesso del capitolo precedente, la stessa sera del temporale.
Samuele si avvicina un po' a Mattia, e finisce a fare un discorso sconclusionato che lo fa somigliare un po' a Dominik: telefona a Riccardo, che non gli risponde, perchè intanto è a letto con sua moglie. Lei, da parte sua, cerca di strapparlo a Samuele con le armi che ha in pugno.
E Riccardo ondeggia avanti e indietro come una banderuola al vento: non è cattivo, in sè e per sè, ma solo codardo, e vigliacco.
Che è peggio che essere cattivo, quasi.
Non mi odiate, odiate lui!xD E povero Mattia, lui ci prova, ma Samuele è un po' testardo.
Di Mattia mi dispiace che ancora non sia uscito tutto quello che ha da offrire, e quello che ha alle spalle, alla base del suo carattere: verrà fuori nei prossimi capitoli, e magari nel prossimo stralcio, che non so quando lo inserirò.
Un enorme grazie va a tutti, a chi legge, chi recensisce e chi è costretto a subire le mie farneticazioni su facebook!xD
Vi mando un bacio, e a presto!
Esse

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Capitolo 39
*** 34th: Mai fare scelte guidati dalla paura ***


L'origine della paura è nel futuro, e chi si è affrancato dal futuro non ha più nulla da temere.

Milan KunderaLa lentezza, 1995

 



Chapter 34th: Mai fare scelte guidati dalla paura
 
Febbraio era iniziato con una pioggia torrenziale e nel freddo pungente.
Già al mattino, una spessa coltre di nubi oscurava il sole: nelle giornate più belle, non pioveva per tutto il giorno. In quelle peggiori, invece, iniziava a piovere sin dal mattino: già a letto, Federico sentiva lo scrosciare della pioggia sul davanzale delle finestre, sull’asfalto, e non smetteva di cadere giù fino a sera, quando spegneva la luce e si concentrava sul respiro di Dominik vicino ad un orecchio. Dopo i primi dieci o venti minuti, quando Dominik si addormentava, il suo respiro diveniva più regolare, e il rumore della pioggia arrivava a sovrastarlo: allora diventava impossibile non pensarci.
- La maestra mi dice sempre che potrei avere delle borse di studio per andare a studiare a Londra, a Parigi, o anche a Praga, però a me piacerebbe l’Accademia, a Roma. In Italia ci sono tanti musicisti bravi, ma anche in America. Sarebbe bello studiare anche lì. –
Tutte le volte sembrava di sentire la voce di Dominik, e di distinguerne le parole nel ticchettio della pioggia sul davanzale. Gli pareva anche di essere accarezzato dal suo tono di voce morbido, con quella punta di entusiasmo, e di vedere le sue dita muoversi in aria mentre elencava tutti i posti in cui avrebbe potuto studiare, far conoscere la sua musica.
- E tu non puoi venire –
Federico osservò la pioggia battente attraverso l’ampia vetrata nella parete sud del locale: a quell’ora era deserto. Mancava quasi mezz’ora alle quattro: era uscito di casa in anticipo perché stare solo a casa era diventato insopportabile.
Era vuota: Dominik era uscito di primo mattino, e lui aveva esaurito le mansioni. Negli ultimi quattro giorni aveva fatto l’impossibile: fatto il bucato, spolverato, lavato dappertutto, persino svuotato i pensili della cucina per ripulire tutto e sistemare un po’. Tutto questo lo aveva aiutato a non pensare, a spegnere quell’istinto di affondare la faccia su un cuscino e urlare.
Dominik se ne sarebbe andato: sarebbe arrivato un giorno, non troppo lontano, in cui gli avrebbe sbattuto di fronte al viso la verità. Sarebbe andato a studiare fuori, lontano, magari in Inghilterra, o addirittura in America: se ne sarebbe andato via con un sorriso, un abbraccio, forse con un bacio. Non si sarebbe reso conto dello squarcio che gli avrebbe aperto nel petto per averlo lasciato.
Quando aveva lasciato Palermo, a settembre, non aveva immaginato che si sarebbe legato tanto a qualcuno: aveva solo voluto mettere quanta più distanza possibile tra sé e Manfredi, e l’ultima cosa che avrebbe voluto era proprio tornare a dipendere da qualcun altro.
Si era già abituato a Dominik: alle sue scarpe fuori dalla porta della sua stanza, ai suoi piedi nudi, al suo spazzolino con un nastro intorno, ai cd riposti sempre nello stesso ordine, alle calamite sugli elettrodomestici, alle sue chiacchiere mentre cucinava, al suono del pianoforte tutte le sere, alla sua mano di fianco al cuscino mentre dormiva. Aveva cercato quella routine per anni, e adesso la assaporava sulla lingua, una sensazione pastosa e dolce come il caramello.
E ogni giorno che passava, Dominik diventava sempre più grande, riempiva un altro pezzo di vita e se ne appropriava.
Cosa sarebbe accaduto quando si sarebbe allontanato, quando sarebbe partito per continuare la sua vita? Aveva così tanti progetti, in mente, e nessuno di loro includeva lui.
Voleva stare più in alto.
E per farlo doveva stare solo, non dipendere da nessuno, viaggiare per il mondo in ogni posto dal quale avrebbe potuto rubare qualcosa per arricchire la sua musica. Era così che doveva andare, era tutto già scritto: uno come Dominik, un talento come quello, doveva essere condiviso con il mondo. Poteva anche non essere ambizioso, e, chissà, se gli avesse chiesto di restare in Italia insieme a lui, forse l’avrebbe anche fatto. Ma a quale prezzo? Incatenarlo a un conservatorio in un paese che si stava sfasciando, quando avrebbe potuto avere qualsiasi cosa, ed essere di tutti.
Non avrebbe potuto trattenerlo lì.
E per cosa, poi? Per il terrore di restare da solo, di vedere sfumare un’altra delle cose in cui aveva iniziato a credere? Dominik non lo amava. Non potevano parlare d’amore. E i sacrifici si facevano solo per amore: anche quelli, poi, finivano per distruggere tutto, quando il rancore cresceva.
Lui per Dominik era qualcosa di indistinto: non era amore, non era solo amicizia, magari non capiva nemmeno cosa fosse. Poteva essere anche soltanto un’anima affine con cui condividere un po’ di tempo prima di andare via, volare altrove alla ricerca di qualcosa di più grande.
Dominik era già più in alto.
Federico era solo un ragazzo che lavorava in un locale gay, che non sarebbe mai diventato nessuno, e che non riusciva nemmeno a badare a se stesso. Era il masso cui era legato l’altro capo della corda, quella che stava trattenendo Dominik nella sua ascesa.
Avrebbe dovuto tagliare la corda. Lasciare che lui se ne andasse, al momento giusto.
E sarebbe rimasto da solo, di nuovo: in una casa vuota, senza di lui, che aveva una vita davanti, un tappeto rosso spianato, una parete bianca su cui dipingere note. Con il cuore distrutto, dopo essersi innamorato di nuovo e avere lasciato a qualcuno il potere di scaraventargli il cuore fuori dalla finestra.
Forse avrebbe dovuto tagliare adesso.
Impedirsi di farsi del male.
Ci aveva pensato in ogni ora degli ultimi quattro giorni.
Magari impedirsi di legarsi troppo, di innamorarsi, avrebbe alleviato la sofferenza: meglio un po’ di dolore adesso piuttosto che la sofferenza del cuore spezzato dopo.
Si sarebbe dimenticato di Dominik, così come Dominik si sarebbe dimenticato di lui.
Se avesse aspettato, cosa ci avrebbe guadagnato?
Si sarebbe innamorato, magari. Avrebbe spinto Dominik a fare cose che non avrebbe avuto il coraggio di fare, prima: uscite in pubblico, meno musica. Il sesso.
Per fortuna non ci aveva ancora fatto sesso. Sarebbe stato più facile per tutti e due.
Non gli sarebbe costato niente.
Spezzare il filo sottile prima che divenisse una corda d’acciaio che gli avrebbe strappato le viscere, come aveva fatto il suo rapporto con Manfredi.
Mentre guardava la pioggia, Federico pensò proprio a Manfredi.
Lui odiava la pioggia. L’aveva odiata, almeno, fino a diciotto anni, quando si erano messi insieme, durante l’ultimo anno di scuola, e la pioggia aveva rappresentato l’occasione perfetta per restarsene tappati in casa per pomeriggi interi, quando i genitori di Federico erano al lavoro, fingendo di studiare per chissà quale interrogazione o compito in classe, quando in realtà la maggior parte del tempo la occupavano baciandosi.
Dominik non sarebbe mai diventato come Manfredi.
E Manfredi non sarebbe stato come Dominik.
Era più alla sua portata, erano allo stesso livello. Era fattibile.
Non aveva più chiamato Manfredi.
Neppure quando si era accorto della sua telefonata, quattro giorni prima.
Gli sarebbe piaciuto rispondere, sentire il suono morbido della sua voce, chiudere gli occhi e pensare di essere con l’unica persona che non gli avrebbe mai fatto del male.
Poi, per un attimo, aveva pensato alle cattiverie che si erano detti prima che lui lasciasse Palermo, a quello che Manfredi pensava di lui: che fosse un debole, che non fosse in grado di rispettare una decisione, di camminare da solo. Allora non l’aveva chiamato: era sicuro che, se l’avesse fatto, la prima cosa che gli avrebbe detto, prima ancora di un saluto, sarebbe stata “cosa devo fare?”. E sarebbe apparso di nuovo debole, così facilmente raggirabile, tanto stupido da non riuscire neppure a restare arrabbiato con lui per più di due settimane di fila.
Manfredi doveva essere arrabbiato, adesso.
Non lo aveva più richiamato: probabilmente si era aspettato che lo avrebbe fatto lui. E adesso doveva essere terribilmente furioso.
Forse avrebbe dovuto prendere il telefono e chiamarlo. Era ancora presto per aprire il locale, e non c’era neppure Samuele con cui parlare: ecco, forse avrebbe dovuto chiamare Manfredi e poi parlare con Samuele. Lui sapeva sempre la cosa giusta da fare.
Federico afferrò il cellulare, estraendolo dalla tasca.
Il numero di Manfredi era ancora tra i preferiti.
Al primo squillo, se ne era già pentito.
- Oggi forse torno un po’ più tardi, la maestra vuole parlarmi. Ma tanto tu sei al lavoro, no? –
La voce morbida e grave di Dominik gli pulsava nelle orecchie, accompagnata dall’immagine delle sue dita lunghe che si stringevano intorno al manico della borsa e lo poggiavano sulla spalla, prima di aprire la porta e uscire di casa
Avrebbe dovuto riattaccare.
Era tornata la sensazione spiacevole di avere le orecchie tappate e sentire solo i tonfi accelerati del cuore.
- Federico? Ma che cos’è? –
- Pasta, che cosa dovrebbe essere? –
- Ma è dolce! Hai scambiato il sale con lo zucchero?! Sono io quello cieco in questa casa! –
La risata accennata di Dominik farsi più sicura dopo essersi accertato che stesse ridendo anche lui, la pasta buttata nel cestino e rimpiazzata con un panino preparato all’ultimo minuto, le prese in giro per due giorni di fila.
Inspirare un’aria che non entrava nei polmoni.
- Pronto? –
Federico spalancò gli occhi.
Tutto era tornato normale. Le orecchie, il cuore, l’aria.
- Ehi…sono io – mormorò.
- Ehi, Fede. Che fai? – La voce di Manfredi era tranquilla, calda come sempre. In sottofondo si avvertiva un chiacchiericcio metallico, probabilmente proveniente da una televisione, perché dopo pochi secondi scemò.
- Sono al locale, oggi lavoro. Ho visto che mi hai chiamato, qualche giorno fa. Scusa, ma…ho avuto molto da fare - mentì. Si sentiva nervoso, farfugliava e stava sudando freddo: avvertiva una patina umidiccia sulla nuca, imbarazzante e snervante. Si stava comportando come se ce l’avesse davanti e temesse il suo giudizio. Che poi, tra l’altro, quello arrabbiato sarebbe dovuto essere lui. E invece temeva il momento in cui Manfredi avrebbe parlato di nuovo: forse avrebbe urlato, lo avrebbe insultato, lo avrebbe distrutto, e poi gli avrebbe riattaccato in faccia. Per questo, forse, gli piaceva tanto quel silenzio che si era creato, muta coltre sicura sotto la quale sentirsi protetti. – Cosa dovevi dirmi? – gli chiese poi, per spezzare il silenzio, e la sicurezza cadde come un panno di seta che scivola sulla pelle. Manfredi rispose subito.
- Sì, lo so, l’ho immaginato. Io, niente…ti chiamavo perché devo dirti una cosa.  – Non era arrabbiato. Non stava urlando, non gli stava rinfacciando il silenzio. Stava facendo finta che non fosse successo: come se non lo avesse chiamato, come se quella telefonata quattro giorni prima non ci fosse stata. Come se le ultime parole che si erano rivolti non fossero stati insulti.
Era più comodo così, per entrambi, burattini nelle mani l’uno dell’altro.
Anche attraverso il telefono, la voce di Manfredi aveva dentro quella strana tensione, quel suono atono, che c’era sempre quando era particolarmente nervoso.
Dominik, invece, quando era nervoso se ne stava sempre zitto sulla sua poltrona, senza avvicinarsi neppure per sbaglio al pianoforte.
Federico deglutì, poi sbuffò il più silenziosamente possibile, per non farsi sentire da Manfredi.
Dominik lo tormentava senza neppure essere lì presente.
- Dimmi. E’ una cosa importante? – rispose, ma la voce lo tradì. Si incrinò proprio sull’ultima parola: importante. Una reazione inconscia con la quale il cuore aveva voluto dimostrare alla testa che, in un modo o nell’altro, il comando non l’avrebbe mai avuto. Era stato così flebile, però, che forse Manfredi non se ne sarebbe neppure accorto.
Dall’altro capo del telefono, nel silenzio, non si sentiva neppure respirare. Forse era caduta la linea.
- Oh, è successo qualcosa? Mi sembri strano. –
Se ne era accorto.
Niente. Sarebbe stato facilissimo dirlo.
Erano solo due sillabe, forse: non era mai stato molto bravo in italiano.
Avrebbe tirato fuori un tono tranquillo che avrebbe potuto mantenere senza difficoltà solo per quelle due sillabe: poi, una volta che Manfredi ci avesse creduto, sarebbe stato molto più facile continuare a mentire.
- Un casino, Manfredi – disse invece.
Adesso il mondo sarebbe anche potuto finire. La figura dell’idiota l’aveva già fatta.
Non riusciva a essere più uomo di così, a tenersi dentro le cose e sbrigarsela da solo: doveva sempre scaricare il peso delle sue paranoie su Manfredi. E quello le accoglieva, eccome: solo che l’ultima volta gliele aveva riversate tutte addosso, lapidario.
Forse, questa volta non sarebbe stato disponibile ad ascoltarlo: forse avrebbe dato uno strattone e sarebbe sparito. Solo così Federico avrebbe dovuto affrontare la verità, che non poteva sempre appoggiarsi a qualcuno, che doveva imparare a cavarsela da solo perché era l’unica possibilità.
Invece Manfredi fece quello che non avrebbe dovuto fare.
- Che è successo? – Proprio quella domanda.
Federico disegnò un cerchio con la punta del piede, sul pavimento.
Se fosse stato solo con Manfredi, si sarebbe fatto abbracciare. Un abbraccio soltanto.
Invece era da solo all’interno di un locale troppo vuoto, a fissarsi la punta delle scarpe un po’ consunte.
- Niente, paranoie che mi faccio io. Mi conosci no? –
- Proprio perché ti conosco mi preoccupo. –
- Sul serio, Manfre, lascia stare. –
- Perché non me ne vuoi parlare? Puoi fare a meno del tuo migliore amico? –
Era in momenti come quelli che Manfredi lo soffocava, gli stringeva una mano guantata attorno al cuore minacciando di strapparglielo con uno strattone. Si immaginava i suoi occhi verdi dalle pupille dilatate dalla delusione, le labbra dischiuse con gli angoli un po’ curvi verso il basso, e da vittima si trasformava in carnefice.
Era tutta intrisa lì la morbosità del loro rapporto.
Nel senso di colpa che Manfredi riusciva a infondergli quando lo accusava di poter fare a meno di lui. E tutte le volte cedeva, dicendosi che non ci fosse niente di male a parlare con lui e farsi consolare, perché in fondo erano amici. Stava lì, probabilmente, la potenza di Manfredi.
Ogni tanto pensava quasi che lo facesse apposta, che gli rinfacciasse di non sapersela cavare da solo per poi farlo sentire in colpa, e fargli credere che non potesse fare davvero a meno di lui.
Come se fosse un espediente per tenerselo sempre legato al polso.
Federico si portò una mano tra i capelli.
- E’ che non credo che tu voglia sentirne parlare – mugolò.
- Riguarda Dominik, allora? – azzardò. Federico annuì stupidamente, come se quello potesse vederlo. – Ma puoi dirmelo, Fede, sono il tuo migliore amico per prima cosa, lo sai vero? – Annuì di nuovo, come ipnotizzato, e la mano scivolò dai capelli sul viso, stropicciando gli occhi e poi una guancia.
- E’ che mi faccio mille paranoie. Cioè, io sto qui, non so se riuscirò mai a prendere una laurea o se finirò a lavorare in un bar per il resto della vita, o se me ne tornerò a Palermo tra uno o due anni. E lui…lui andrà a studiare da qualche parte. Me lo ha detto qualche sera fa – spiegò. All’altro capo del telefono, Manfredi rimase in silenzio: si sentiva solo il suo respiro regolare. – Come faccio, Manfredi? Già penso che ci starò male adesso. Se passa ancora del tempo e mi lego troppo? Che cazzo faccio dopo? Sono venuto qua perché pensavo che sarebbe stato meglio e invece mi sono messo ancora di più nei casini! –
La voce di Federico, nell’ambiente vuoto del locale, con ancora le sedie sui tavoli e la tv spenta, rimbombava lievemente. Manfredi lo avrebbe preso in giro con una mezza risata: gli avrebbe detto di non imparanoiarsi come al solito, di smetterla, e di tirare fuori le palle. Anche se lo sapeva, se lo conosceva abbastanza bene da potersi immaginare persino l’esatto tono della sua voce, aveva bisogno comunque di sentirselo dire. Sentì il sollievo diffondersi nel petto già non appena Manfredi pronunciò la prima consonante.
- Non sono paranoie, Fede. Avresti dovuto pensarci. –
Inizialmente, Federico non captò le esatte parole di Manfredi.
Alla mente, prima, arrivarono quelle che si immaginava avrebbe detto.
Soltanto dopo, come bloccate in un universo parallelo dalla consistenza della colla, arrivarono quelle reali. Non sono paranoie.
- Lo sapevi che le cose stavano così. Non è nemmeno italiano, è qui per caso, e l’anno prossimo chissà dove sarà. E io non voglio che sta male per uno che non si farà problemi a lasciarti quando non gli servirai più -  continuò. Sull’ultima frase, il suo tono si addolcì ulteriormente.
Manfredi stava dando corpo a tutte le paure che non aveva avuto il coraggio di dire a parole.
- Quindi è colpa mia perché lo sapevo? Sapevo anche che non avresti mai avuto il coraggio di metterti contro mammina, però mi sono innamorato di te comunque! Scusami tanto! – sibilò, ma stranamente Manfredi non colse la provocazione, perché quando parlò nuovamente non era irato.
- Ti sto solo dando un consiglio da amico, non era quello che volevi? Oppure ti incazzi con me perché il consiglio non ti è piaciuto? – Federico alzò gli occhi al cielo, in uno sbuffo: non sapeva se il consiglio gli fosse piaciuto o no, perché ne sarebbe uscito perdente in ogni caso. – Senti, Fede, io te lo dico chiaramente, perché ti conosco. Secondo me non ne vale la pena. Vuoi restare a Milano e continuare starmi lontano? Va bene, fa’ pure. Però  se proprio devi stare con qualcuno, scegline uno che abbia interesse davvero a stare con te. Dominik se ne andrà, e secondo me è meglio darci un taglio adesso. Se ti leghi ancora di più a lui poi ci starai troppo male, e non credo che tu lo possa sopportare adesso. –
Manfredi aveva ragione. Stava dicendo tutto quello che non aveva avuto il coraggio di dirsi da solo. Se si fosse innamorato di Dominik, e l’avesse perso, sarebbe stato ancora peggio di quando aveva lasciato Manfredi: perché Dominik l’avrebbe perso sul serio, non l’avrebbe più rivisto per il resto della vita.
Lo scampanellare della porta del locale che si apriva lo fece voltare in direzione della soglia: Samuele, Lorenzo e Claudio erano appena entrati, ridendo per chissà quale battuta. Li salutò con un cenno del capo.
- Sei già qua? – gli bisbigliò Claudio e lui annuì in risposta.
- Ma con chi sei? – lo richiamò Manfredi.
- Sono arrivati i ragazzi, è ora di aprire il locale. Devo andare, Manfredi. Però…grazie – ebbe solo il coraggio di dirgli.
- Puoi chiamarmi quando vuoi, lo sai. Ci sarò sempre per te. – Federico annuì di nuovo, poi, prima di attaccare, si ricordò un particolare. – Ma cos’è che dovevi dirmi? –
- Io? –
- Mi hai chiamato per dirmi una cosa – gli ricordò.
- Oh, sì, è vero. E’ che… - iniziò. Prese tempo, e Federico pensò che stavolta fosse successo davvero qualcosa di grave: Manfredi non prendeva mai tempo quando doveva dire qualcosa. Alla fine lo sentì ridere. – Niente di importante, solo che Concetta è incinta! –
- Ma chi, la figlia di quello della sala giochi? – Si ricordava di Concetta: era la ragazza più brutta e meno elegante che avesse mai conosciuto in vita sua, incapace di dire qualsiasi cosa se non in dialetto stretto, e senza un dente davanti. Ci voleva proprio un bel coraggio per portarsi a letto così, e per sposarsela: conoscendo Peppino, suo padre, sarebbe convolata a nozze con il malcapitato prima ancora che quello potesse battere le palpebre.
- Proprio lei! Ti immagini lo schifo a vederla nuda? –
- Che schifo, Manfredi! Ho mangiato poco fa! – si lamentò, e quello rise all’altro capo del telefono. - Devo andare sul serio, Samuele mi sta lanciando occhiatacce. –
- Chiamami se vuoi parlare, lo sai. –
- Lo so. –
Attaccò, infilando il cellulare in tasca. Avevano da sempre la cattiva abitudine, entrambi, di non salutarsi praticamente mai, al telefono: semplicemente si attaccavano in faccia.
Federico si allontanò dal suo angolino, raggiungendo Samuele al bancone: Lorenzo e Claudio stavano già da soli sistemando le sedie e i tavoli, così non gli restava altro da fare se non aiutare l’altro a sistemare le tazzine, i bicchieri e avviare la macchinetta del caffè.
Mentre parlava al telefono, Samuele lo aveva guardato storto due o tre volte, ma mentre lo aiutava a mettere tutto in ordine non gli aveva detto niente.
Federico prese le tazzine dal mobiletto sotto al bancone, disposte in colonne da quattro: le tirò fuori ad una ad una, sistemandole in fila sul bordo di destra, insieme ai piattini allineati subito dietro. Le dispose con ordine, curandosi che il disegno colorato spiccasse sul davanti.
Stava usando una precisione millimetrica, e strana. Non era mai stato tanto ordinato neppure per sistemare le mutande nei cassetti, figurarsi le tazzine che avrebbero sporcato nel giro di due minuti.
E io non voglio che sta male per uno che non si farà problemi a lasciarti quando non gli servirai più.
Si chiedeva spesso se a Dominik importasse davvero di lui. Più che della sua musica, magari. O anche tanto quanto, sarebbe stato già abbastanza. Forse non gli interessava tanto da sentire un nodo alla gola all’idea di separarsi da lui. Che poi, a pensarci bene, era da stupidi piantare tutto quel casino. E appunto per questo era da lui.
Aveva lasciato Palermo per venir fuori da una storia troppo complicata, e che lo stava distruggendo. E a Milano rischiava di trovare qualcosa di altrettanto complicato.
- Come mai quella faccia? – lo chiamò poi la voce di Samuele, che stava prendendo una bottiglia di lemon soda per sostituire la vecchia, quasi vuota. Federico mise di nuovo a fuoco le tazzine dai disegni colorati.
- Cattiva giornata – bofonchiò, stringendosi nelle spalle. Samuele raddrizzò il corpo, poggiando entrambe le mani sul bancone.
- Anche ieri deve esserlo stato, allora. E anche il giorno prima, e quello prima ancora. Devi essere proprio sfortunato per avere tutte queste cattive giornate – osservò quello.
Non era un tono indagatore il suo: sembrava quasi che stessero parlando del tempo. Samuele continuò così per qualche altro minuto, fingendo di essere particolarmente interessato che gli strofinacci fossero piegati nel giusto modo, e che le etichette delle bottiglie di alcolici fossero ben in vista e tutte allineate. – Non vedo Riccardo da quasi una settimana. Sarebbe dovuto passare a dormire da me, te lo ricordi quella sera in cui c’è stato quel temporale? Mi ha liquidato con un sms, e mi ha chiamato il giorno dopo, e quello dopo ancora, ma non ha trovato tre minuti del suo tempo magari per passare a fare un saluto – lo sentì dire poi. Anche in quel caso, il tono non era rancoroso, o deluso: suonava piatto, come se stesse facendo una constatazione. – E sono stato convinto che mi sarebbe piaciuto fare sesso con Mattia. Sai, sesso senza impegni, sentirsi leggero, farsi coccolare un po’. Essere egoista per una sera. Poi ho pensato che Mattia non meritasse di essere usato come un ripiego, e che avrei fatto un favore a Riccardo. Perché a lui semplicemente non importerebbe – aggiunse, scrollando le spalle.
Forse c’erano voluti anni, a Samuele, per imparare a essere in quel modo, a mascherare i sentimenti dietro le parole: però non ci riusciva sempre. La vedeva benissimo la delusione nei suoi occhi quando riceveva un sms di Riccardo che disdiceva un appuntamento, o la rabbia quando non riceva una spiegazione, o il divertimento quando Mattia lo faceva ridere. Erano gli occhi a tradirlo. Ma quando era preparato, quando sapeva come prendere le cose, Samuele sembrava senza sentimenti.
Alla fine, Federico lasciò perdere le tazzine.
- Credo che dovrei rompere con Dominik – disse. Avrebbe voluto introdurlo diversamente, ma tutte le parole sembravano non riuscire, messe insieme, ad arrivare a un punto.
Non gli sfuggirono le rughe che si formarono sulla fronte di Samuele, seppur per pochi secondi.
- Avete litigato di nuovo? – Federico scosse il capo, e le ciocche di capelli più lunghe rimbalzarono sulla fronte.
- No, anzi. Non abbiamo mai passato giorni migliori di questi – confessò.
Da che si conoscevano, probabilmente sul serio non erano mai stati meglio: quando tornava dal Conservatorio Dominik aveva sempre un bacio per lui, milioni di chiacchiere e un brano nuovo da fargli ascoltare al pianoforte, tanto da impedirgli di andare a fare una doccia purché se ne stesse buono sul divano a sentire. Sembrava più tranquillo del solito, e due sere prima si era lasciato sfiorare, a letto, seppur attraverso i vestiti: e aveva toccato lui, con il respiro smorzato tra le labbra dischiuse. Sì, se avesse dovuto scegliere un bel periodo per loro, sarebbe stato quello.
- E allora qual è il problema? – lo incalzò Samuele.
- Il problema è che lui se ne andrà! Alla fine di giugno si diplomerà al conservatorio e avrà la possibilità di andare da qualsiasi parte del mondo a studiare e suonare. Mentre io resterò qui. –
- E tu non credi alle storie a distanza – concluse Samuele per lui.
Federico sollevò lo sguardo e incrociò quello dell’uomo vicino a lui: aveva smesso di fare quello che stava facendo, e di usare quel tono privo di inflessioni.  Sembrava, adesso, quasi sconfitto.
- Che senso ha? Una storia a distanza ha senso quando si spera di avvicinarsi. Noi siamo vicini adesso, e non lo saremo dopo: Dominik può andare da qualsiasi parte e fare quello che vuole, io sarei solo un peso. Ma il punto, veramente….il punto è che non credo che a Dominik importi abbastanza di me per porsi il problema – mormorò alla fine.
Era quella la cosa che gli stringeva la gola maggiormente: l’idea di non contare abbastanza.
- Stronzate. Tu gli piaci. L’hai convinto a uscire di casa decine di volte, mi hai raccontato che si fida di te e che è cambiato, vuoi una dimostrazione migliore di questa? Secondo me ti stai fasciando la testa prima di cadere, Federico. Ne hai parlato con lui? -
- Ho parlato con Manfredi. – Samuele inspirò, e il maglione si tese sul petto.
- E scommetto che ti ha detto di lasciar perdere – commentò, con un sorriso ironico. Federico, risentito, raddrizzò il capo.
- Lui mi conosce. Sa cosa posso affrontare. –
- Secondo me proprio perché ti conosce se ne approfitta. Così tu lascerai Dominik e te ne tornerai mogio mogio a Palermo, dritto tra le sue braccia pronte a consolarti. –
Federico accusò il colpo.
Nella mente gli risuonarono le ultime parole di Manfredi.
E se non ci fosse stato quel ragazzino, e quei tuoi amici del cazzo a Milano, tu saresti già tornato con me!
Manfredi non era cattivo. Poteva sembrarlo, per ciò che diceva quando era arrabbiato, ma non era cattivo, e non sarebbe mai arrivato a tanto, non di proposito, almeno. Però, ogni tanto, ci pensava anche lui: forse Manfredi lo faceva inconsciamente, ma lo strattonava continuamente verso di sé non appena lo vedeva allontanarsi un po’ più del normale.
Ma era il suo migliore amico.
- Smettila, Samuele. Lui è il mio migliore amico, prima ancora di essere il mio ex-ragazzo. –
- No, Federico, smettila tu e datti una svegliata. Quando ci sono i sentimenti di mezzo non siamo più amici di nessuno. – Gli occhi verdi di Samuele si affilarono come quelli di un felino pronto ad attaccare, e Federico arretrò di un passo.  – Lo sta facendo apposta, ti rigira come un calzino e tu lo difendi continuamente. Quante volte ti ho sentito dire “ora basta, ho rotto con Manfredi”? Beh, lui non lo ha fatto con te. Ogni santissima volta che te lo ritrovi vicino o ci parli, dai più retta a quello che pensa lui che a quello che dice il resto del mondo! Sei totalmente rincoglionito! – Espirò sonoramente, e la sua voce alta riempì il locale ancora semivuoto: attirò l’attenzione di Lorenzo e Claudio, ma nessuno dei due disse niente, non appena lo sguardo di Samuele si puntò su di loro. Poi gli occhi verdi tornarono su Federico, e il suo tono si addolcì. - Sta facendo leva su tutto quello che non ti vorresti sentir dire. Così cederai, e tornerai a casa. –
- Manfredi non è così calcolatore, e non farebbe mai nulla contro di me. –
- Ti ho detto che quando c’è l’amore di mezzo non c’è amicizia che tenga, Federico. Magari non lo fa con cattive intenzioni, forse crede che sia meglio così, o lo fa senza rendersene conto. Ma lo sta facendo. – Federico abbassò lo sguardo, tornando a fissarsi la punta delle scarpe. – Manfredi pensa che tu non lo possa affrontare. Embè, io invece penso che lo puoi affrontare, non sei stupido. Finirà male? Chi se ne fotte! La gente affronta la morte di un figlio, perde il lavoro e non sa come mandare avanti la famiglia, viene cacciata di casa senza un soldo, e riesce ad affrontarlo. Quindi scusami, ma una cazzata come questa non la posso sentire: tu affronterai quello che succederà, non si muore per cose così. Non sei impedito –  lo rimproverò. Era arrabbiato sul serio.
Forse doveva sembrargli davvero stupido a lamentarsi per una cosa così, quando lui a diciotto anni era stato sbattuto fuori di casa e non vedeva i suoi genitori da più di vent’anni.
Ed era stupido, in effetti, tanto che Federico non ebbe più il coraggio di dirgli niente. Afferrò il grembiule, da dietro il bancone, e fece un nodo stretto intorno alla vita, stendendolo poi sulle gambe, curandosi che non si formasse nessuna piega. Nel taschino sulla destra, dove di solito teneva un bloc-notes e una penna, c’era anche un bigliettino tutto stropicciato, un frammento strappato da un foglio a quadretti. Lo prese, incuriosito, e lo dispiegò: c’era una lista.
pane
latte
mele
detersivo per piatti
sgrassatore
Era la lista della spesa che risaliva almeno a due settimane prima, o quasi. Era andato a fare la spesa con Dominik, quel pomeriggio, e aveva dimenticato il bigliettino in tasca: dal supermercato erano tornati con il doppio delle cose per cui c’erano andati, compresi un pacco di wafer rivestiti al cioccolato, due pacchi di papatine e tre bottiglie di coca-cola.
Scusa Federico, ma se è in offerta ci conviene no?
Una volta al locale, quando aveva infilato il cellulare in tasca, ci aveva trovato il bigliettino, e non sapendo dove buttarlo lo aveva stropicciato e spinto nella tasca del grembiule.
Sembrava passata un’eternità. Allora il pensiero di cosa sarebbe stato in futuro della sua storia con Dominik non lo aveva sfiorato nemmeno: andava tutto bene e basta.
- Hai la mia opinione, e quella di Manfredi. Però non hai l’unica che ti servirebbe, che è quella di Dominik –  lo richiamò poi la voce di Samuele. Federico raddrizzò il capo bruscamente, infilando di nuovo il bigliettino nella tasca, con un gesto repentino.
- Lui non sa quello che vuole, per questo devo pensarci io. Non lo capisci? Per lui è tutto nuovo come per un ragazzino di quindici anni durante la pubertà! Non capisce quello che prova per me o quello che vuole. Io invece so cosa succederà quando lui se ne andrà, lo faccio anche per lui. –
- Ma tu fatti i cazzi tuoi una buona volta! Lo tratti come se fosse rincoglionito! Quello lì ragiona meglio di me e di te messi insieme! E stai facendo un casino senza precedenti perché il ragazzo con cui stai da nemmeno un mese forse in futuro andrà a studiare fuori dall’Italia e tu, parliamo sempre per ipotesi, potresti soffrire e starci male. Ma stai parlando sul serio?! – gli rispose Samuele. Poi, con un gesto nervoso, arraffò tre vassoi e si allontanò verso la porta che conduceva al magazzino. - Senti, fai quello che vuoi che già mi stai facendo incazzare oggi. –
Lui lo stava facendo incazzare. Ma se non gli aveva fatto niente!
Samuele era troppo netto nei suoi ragionamenti, non capiva cosa significava per lui venire fuori da una storia come quella con Manfredi e rischiare di ritrovarsi di nuovo dentro a una situazione simile nel giro di pochi mesi. La verità era che non avrebbe dovuto farsi coinvolgere tanto: avrebbe dovuto lasciare che Dominik continuasse a fare lo stronzetto nel suo mondo, e lui si sarebbe divertito con i suoi nuovi amici, al locale. Fine della discussione. E quando Dominik se ne fosse andato, avrebbe cercato qualcuno cui affittare la sua stanza, magari più simpatico e meno complicato di lui. Avrebbe avuto persino più spazio in salotto, una volta che non ci fosse più stato il pianoforte: avrebbe potuto togliere i magneti dagli elettrodomestici, rinnovare l’arredamento e lasciare le sue cose dove avesse voluto, senza il timore che qualcuno ci inciampasse.
Ma più pensava a quei piccoli particolari, più si rendeva conto che facevano ormai parte di una routine consolidata: tornare a casa, lasciare la borsa al solito posto vicino all’attaccapanni, le chiavi nel piattino di vetro, accendere la luce, andare a salutare Dominik seduto sul suo pianoforte e sentire le sue mani tiepide sul viso mentre lo tratteneva per un bacio un po’ più lungo. E cucinare con la sua presenza vicino, le sue chiacchiere, il suono del pianoforte.
Samuele tornò dal magazzino, porgendogli un vassoio con sopra i contenitori di plastica con all’interno i tovaglioli di carta.
- Toh, apparecchia. –
Federico lo afferrò con una mano.
- E comunque non ho detto che voglio rompere adesso. Ci devo pensare – borbottò, stizzito.
 
 
§§§
 
Pollice, medio, indice.
Mano destra.
Smetteva di pensarci, tutte le volte, quando le prime note riempivano l’aria e la melodia acquisiva una forma che andava oltre le singole note.
A volte bastavano pochi secondi. Altre, invece, ci voleva anche un minuto intero.
Altre volte ancora non bastava tutta la melodia affinché le note si amalgamassero.
Non dipendeva solo dalla musica, dipendeva molto da lui: dall’umore del giorno, dalle cose che gli stavano intorno, da quello che era successo da quando si era svegliato.
Quella sera, la musica aveva abbracciato le note quasi istantaneamente, quando aveva pigiato, con il dito medio, la seconda nota.
Non si trattava neppure di un brano che gli piacesse particolarmente: era solo un esercizio, un “allegro” che la maestra gli aveva chiesto di portare per il lunedì successivo e che aveva passato tutta la sera, da quando era tornato dal conservatorio fino all’ora di cena, a studiare.
E la prima cosa che aveva pensato di fare era farlo ascoltare a Federico, come faceva quasi tutte le sere: Federico lavava i piatti, e lui suonava. Alla fine Federico gli diceva cosa ne pensasse, e magari mangiavano qualcosa di dolce insieme, sul divano.
Quell’allegro gli era piaciuto dal primo momento in cui lo aveva studiato, percorrendo il foglio con le dita: già quando studiava, si immaginava nella testa quale suono avrebbero avuto le note. E quello era un bel suono. Quando lo aveva realizzato sul serio, le note erano parse ancora più belle di come erano state nella sua immaginazione.
Dominik accarezzò i tasti con le dita, sulle ultime note: poi, senza preavviso, le staccò, interrompendo l’esercizio di colpo. Nel silenzio del salotto, allora, si avvertì solo il lieve tintinnio dei piatti e delle posate che Federico stava lavando.
Quel giorno era di cattivo umore.
Era tornato tutto silenzioso, borbottando. Si era dimenticato persino di salutarlo, fino a quando non glielo aveva fatto notare. Però quando aveva scoperto la sorpresa aveva sorriso.
Da quando condividevano l’appartamento, Federico si era sempre impegnato a cucinare o a comprare qualcosa per cena, senza che lui se ne preoccupasse mai: anche se tornava stanco dal lavoro, e magari zuppo di pioggia, cucinava sempre, metteva in ordine, e si era rifiutato persino di continuare a tenere la donna delle pulizie che veniva due volte a settimana, anche se Dominik si era offerto di pagarla interamente lui.
Così, quella sera aveva deciso che tornando a casa Federico non si sarebbe dovuto preoccupare di niente. E siccome non sapeva cucinare, avrebbe ordinato qualcosa a domicilio: a Federico piacevano le piadine, quelle buone che facevano in quel pub non troppo lontano da casa.
Solo che non aveva il numero di telefono.
Allora, aveva fatto una cosa che non si sarebbe mai sognato di fare.
Era uscito dall’appartamento, era salito al primo piano, e aveva suonato alla porta della signora Livolsi, pregandola di dettargli il numero del locale,  affinché potesse chiamarlo: era stata così gentile da offrirsi persino di lasciarlo telefonare da casa sua. Prima che tornasse di nuovo a casa, poi, gli aveva anche dato un piccolo vassoio di biscotti che aveva preparato per i suoi nipoti.
Quando Federico era tornato a casa, le pizze erano già arrivate da una decina di minuti, e Dominik le aveva sistemate sul tavolo: aveva aspettato che il ragazzo fosse entrato in casa, e che fosse andato a salutarlo. Ma Federico stranamente non aveva fatto nulla di tutto quello: si era limitato a un saluto, ed era già quasi arrivato in cucina quando lui si era alzato dal divano e aveva seguito il rumore dei suoi passi. Lo aveva affiancato, sfiorandogli un braccio, e Federico si era fermato.
- Ehi – aveva detto. Poi gli aveva poggiato una mano sul viso, e lo aveva baciato: e tutto era tornato al giusto equilibrio.
- Ho fame – gli aveva detto lui, e Federico aveva ridacchiato.
- Dammi una ventina di minuti ed è tutto pronto. –
- Ma è già tutto pronto! – si era lamentato lui, in un mugolio, e Federico era stato zitto mentre lo tirava per un braccio in direzione della cucina. Si era fermato sulla soglia, e Federico aveva acceso la luce, perché lui non ci aveva pensato: quando i suoi muscoli si tesero appena, Dominik ne aveva dedotto che dovesse aver visto i cartoni con le pizze sul tavolo. – Tu cucini sempre. Oggi ti prendi una vacanza – gli aveva detto allora, stringendosi nelle spalle, e Federico lo aveva pizzicato su una guancia.
Dominik si alzò in piedi, superando lo sgabello su cui era seduto per dirigersi verso la cucina, da cui il rumore lasciava intendere che Federico fosse ancora intento a mettere ordine.
A piedi nudi, percorse il salotto, fino a raggiungere la soglia della stanza.
Federico era stato zitto per tutta la cena, parlando ogni tanto, ma per lo più ascoltando.
Per il resto, non era stato più strano del solito: negli ultimi giorni, a dire il vero, era parso un po’ diverso, come se fosse sempre in un mondo immaginario, con la testa tra le nuvole, ma Dominik non aveva fatto domande. D’altronde, anche lui era nervoso: la maestra lo assillava con gli esercizi, con le prove per il saggio, con i brani da preparare per gli esami di fine anno, e come se non bastasse gli faceva trascorrere giornate intere con i nervi a fior di pelle ripetendogli di non essere abbastanza concentrato e di smetterla di stare con la testa sulle nuvolette rosa.
Poi, però, quando alla sera tornava a casa e ci trovava Federico, si sentiva più rilassato, e anche Federico lo era: si mettevano a letto presto, sotto le coperte, e si lasciava accarezzare un po’.
L’ultima volta si era lasciato accarezzare più del solito, e aveva passato tutto il giorno successivo a chiedersi come potesse essere sentire la mano di Federico a diretto contatto con la pelle, anziché attraverso i vestiti. Solo che gli era mancato il coraggio di dirglielo.
Appoggiando una spalla allo stipite della porta, Dominik incrociò le braccia al petto.
- Ti aiuto? – gli propose.
- No, ho quasi finito. Tu non suoni più? –  Scosse il capo, poi si staccò dalla porta e fece ugualmente qualche passo avanti verso di lui: sfiorò una porzione di pavimento umido, bagnandosi un piede. Gli sarebbe piaciuto se Federico l’avesse baciato in quel momento, cogliendolo di sorpresa.
- Per stasera no – rispose. C’era una pellicina, sul labbro, che gli dava un fastidio enorme da più di dieci minuti: solo che non aveva il coraggio di tirarla via con i denti, perché pensava si sarebbe fatto male e avrebbe avvertito sulla lingua il sapore del sangue. E odiava il sapore del sangue.
Il rumore di uno sportello che si chiudeva gli indicò che Federico dovesse aver finito di mettere in ordine. Finalmente avrebbero potuto affondare i corpi nel divano e rilassarsi un po’. Da quando dormivano insieme, tutte le sere, gli veniva sempre voglia di essere abbracciato un po’.
Era come sentirsi a casa.
- Vuoi guardare qualcosa in tv? – gli chiese il ragazzo. La voce proveniva da un punto alla sua destra: Federico era ancora in cucina, ma si stava muovendo. Dominik tese la mano un po’ avanti, per intercettarlo non appena gli fosse passato accanto.
Gli strinse la mano intorno a un braccio non appena lo ebbe abbastanza vicino.
- Sul divano? – chiese, e la mano risalì lungo il braccio di Federico, fino al suo viso. Era un po’ ruvido, proprio sul mento, ma stranamente morbido sulla parte superiore degli zigomi, e vicino alle labbra: doveva aver fatto la barba non oltre due giorni prima. Quando gli accarezzò il viso, Federico inclinò il capo verso sinistra: immaginando che l’avrebbe baciato, Dominik fece lo stesso nella direzione opposta, ma il bacio che si aspettava non arrivò, e, stizzito, piegò il capo dal lato contrario.
- Dove preferisci, io devo studiare un po’. –
- Quindi non guardi la televisione con me? – lo incalzò, anche se avrebbe voluto fargli un’altra domanda. Perché non mi dai un bacio?
Sotto le dita della mano, Federico scosse il capo a destra e a sinistra, due volte, in segno di diniego.
- Devo studiare, ho un esame tra quindici giorni, Dom. Tu guarda la televisione o vai a letto. –
La mano scivolò via senza che potesse far nulla per contrastarla.
Federico stesso gli sfuggì prima che potesse fermarlo.
Senza un bacio o una carezza.
Semplicemente lo superò, e fece stridere la sedia sul pavimento mentre si accomodava dietro al tavolo del salotto. Dominik rimase fermo sulla soglia solo per qualche secondo, e il pavimento sotto i piedi nudi adesso sembrava freddissimo.
Forse Federico non ci aveva fatto caso. Forse se lo avesse raggiunto e gli avesse fatto una carezza, lui avrebbe sorriso e lo avrebbe baciato, prima di iniziare a studiare.
Ma qualcosa gli diceva che non sarebbe andata così.
Dominik si staccò dallo stipite della porta, e percorse il salotto fino alla sua poltrona: ci si sedette sopra, abbracciando le gambe al petto e poggiando il mento sulle ginocchia. Quando viveva in quella casa da solo, o prima ancora con la signora che badava a lui, si sistemava spesso in quel modo. Gli piaceva affondare con il corpo dentro la poltrona, magari con la coperta sulle spalle: nel silenzio, lo faceva sentire meno solo, come se fosse a casa, a Praga, e la mamma in cucina stesse preparando la cena mentre il papà guardava il telegiornale seduto sul divano.
Da quando c’era Federico, su quella poltrona aveva iniziato a sedersi sempre di meno.
Preferiva il divano, perché il braccio di Federico intorno al corpo era più caldo della coperta.
Quella sera faceva freddo.
Aveva freddo ai piedi nudi, alle spalle, e al petto.
Cercava, mentre con i denti  giocherellava con la pellicina che aveva sulle labbra, di ricordare cosa avesse fatto a Federico perché si comportasse in quel modo. Qualcosa doveva averla fatta, se lui lo stava ignorando.
Forse si era stufato di lui perché era cieco.
Forse era stanco perché non aveva ancora voluto fare sesso con lui.
O forse era successo qualcosa a lavoro e non era colpa sua. Ma era impossibile, perché quando gli capitava qualcosa di brutto, Federico lo cercava sempre, la sera,  per farsi abbracciare un po’.
Doveva essere colpa sua.
- Puoi accendere la tv se vuoi, non mi disturba – lo sentì dire, come se fosse tutto tranquillo e normale e non fosse successo nulla. Dominik sbuffò.
- Sono cieco. Io non la guardo la televisione. – gli rinfacciò.
Federico rimase in silenzio.
Non stava studiando. Se l’avesse fatto, i suoi fogli avrebbero dovuto fare rumore. Invece non c’era nessun rumore, segno che non stava voltando pagina: forse non li aveva presi nemmeno quei fogli, e si stava approfittando del fatto che lui fosse cieco e non potesse vederlo, per prenderlo in giro.
Le mani si strinsero con più forza sulle gambe, all’altezza degli stinchi: le dita lunghe circondarono per metà la circonferenza della gamba, e gli permisero di riconoscere il profilo deciso dei muscoli sopra le ossa.
Federico aveva qualcosa che non andava, e lui non lo sopportava: non sapeva se essere più arrabbiato perché si stesse prendendo gioco di lui, o più preoccupato per quell’ansia che gli attanagliava lo stomaco.
Poi, nel silenzio, Federico espirò.
- Dom – lo chiamò. Lui raddrizzò il capo, ma non gli disse nulla. Se avesse parlato, l’onda che stava trattenendo dentro al petto avrebbe perso il suo equilibrio e l’avrebbe travolto. – Te la caveresti se io non ci fossi? – gli chiese poi.
Dominik arricciò il naso.
- Sono stato anni qui senza che ci fossi tu. Non sono stupido, so badare a me stesso – gli rispose, più duro di quanto avrebbe voluto. Avrebbe preferito rispondergli con voce morbida, chiedergli se gli avesse fatto qualcosa di male, ma c’era una parte di lui profondamente arrabbiata con Federico.
- Sì, lo so… - soffiò quello. – Perché il mio amico Lorenzo ha una stanza libera, a casa sua, ed è molto vicino al locale, è comodo… -
Dominik avvertì proprio in quel momento perché tutto gli fosse parso così dissonante.
Federico aveva qualcosa da dire, e adesso la stava dicendo.
Stava parlando di un altro suo amico, di un’altra casa, di qualcosa che non riguardava lui.
Federico voleva andarsene. Stava pensando di andare via, di lasciarlo lì, con la sua musica, e di trasferirsi a casa di un altro suo amico. Uno che non era cieco. Uno a cui non avrebbe dovuto fare da baby-sitter, a cui non avrebbe dovuto preparare la cena, o che non lo facesse sentire in colpa quando aveva voglia di uscire. Eppure a Federico era parso che non pesasse: stavano così bene insieme, tutte le sere. Avevano persino fatto la doccia insieme, aveva ordinato la pizza per non farlo cucinare, evitava di suonare, a volte, per non disturbarlo, e Federico sapeva quanto fosse opprimente per lui l’impossibilità di suonare.
O forse, il problema era l’unico motivo per il quale avessero sempre litigato.
Era una conclusione così ovvia e semplice che si chiese come avesse fatto a non pensarci prima
Dominik strinse con più forza le dita intorno alle gambe.
- Te ne vuoi andare perché non voglio fare sesso con te – sibilò. Avrebbe voluto tirare fuori un tono di voce più alto, più sicuro, che non ondeggiasse a quel modo, come le onde sulla superficie del mare. E invece parlò in quel modo morbido, che gli ricordava tanto le notti in cui mormorava a sua madre di portargli un bicchiere d’acqua prima di andare a letto, solo per rubarle altri due minuti lì, seduta sul suo stesso letto, sopra le coperte. Stava pregando anche Federico di prendere un bicchiere d’acqua per lui, di restare un altro po’.
Federico espirò.
- Non dire stronzate – rispose.
- E’ la verità. Siccome non voglio fare sesso con te, tu te ne vuoi andare. E’ davvero così importante, Federico? –
Questa volta il tono tagliente che voleva uscì fuori. Certo, se non fosse stato arricchito da quella strana sfumatura ferita sarebbe stato perfetto. Dominik spinse le dita contro il tessuto dei pantaloni che gli coprivano le gambe: sentì le unghie un po’ lunghe che premevano sulla pelle. Se non ci fosse stato il tessuto a proteggerlo, forse si sarebbe graffiato. Era confortante sentirlo, scoprire di avere potere sul dolore, potere su qualcosa. Un potere che gli avrebbe permesso di soffocare quel nodo di ansia nel petto semplicemente affondando le unghie sulle gambe. O premendo le dita sui tasti del pianoforte.
- Ti ho detto che non è per quello. Casa di Lorenzo è vicina al locale, e tu te la puoi cavare benissimo senza di me. –
- No, è come dico io – insistette.
- Ti ho detto no. E’ così difficile per te pensare che il mio mondo non ruoti intorno al sesso?! Ti sembro tanto coglione? –
- Mi basta sapere che tu sei sempre stato qua con me, non hai mai pensato di andartene, e adesso improvvisamente vuoi andare via – continuò con tono sicuro.
- Smettila!! -
Un leggero tonfo gli fece intuire che Federico avesse dato un colpo al tavolo con la mano. Lo stridio sul pavimento accompagnò il corpo del ragazzo mentre si alzava in piedi, prima di riprendere fiato per parlare
- Tanto a te che importa se vado via, eh? Puoi cavartela benissimo da solo. Non è quello che dici sempre? Vuoi stare più in alto, vuoi suonare, vuoi farti i cazzi tuoi quando vuoi, aspettando che gli altri stiano sempre a tua disposizione. Non ti è mai importato, non ti importerà nemmeno di me. –
Dominik allentò la presa sulle gambe. Anche affondandoci le unghie, la voce di Federico nelle orecchie non sarebbe sparita, non si sarebbe trasformata nel tono dolce con cui la sera gli mormorava “hai sonno?” sperando che non si addormentasse subito.
La musica, invece, quella sarebbe servita. Sarebbe bastato suonare e riportare indietro l’orologio appena a qualche ora prima, a quel pomeriggio: tornare a casa dal conservatorio, studiare, comprare le pizze, suonare. E poi aspettare Federico di fronte alla porta e rubargli un bacio non appena l’avesse aperta, prima che tutto il silenzio li avvolgesse come le spire di un serpente enorme. Ecco, solo un po’ di musica e tutto sarebbe tornato in ordine.
Non ti importerà nemmeno di me.
Questa era una bugia. A lui importava di Federico.
Gli era importato quasi da subito, quando aveva cercato di convincerlo a uscire con lui e a fare le cose che facevano le altre persone, senza rimproverarlo sul serio, ma scuotendolo un po’.
Dominik abbassò le gambe, toccando il pavimento con i piedi nudi. Si alzò in piedi.
Avrebbe voluto farlo sentire in colpa, fargli provare un po’ quel battito forsennato del cuore che sentiva lui. Era come terrore.
Federico, e il suo rapporto con lui, era una delle poche cose al mondo che sentiva di non poter controllare: e gli stava scivolando tra le dita, prendendo la direzione sbagliata, e lui non avrebbe potuto farci niente. Non era come le sinfonie, come gli esercizi di musica, in cui bastava sostituire una minima con un virtuosismo e far tornare tutto a posto ad ogni disequilibrio.
Su Federico non aveva potere. Federico aveva la sua mente, il suo carattere, faceva le sue scelte.
Se Federico avesse deciso di andare via, non avrebbe potuto farci niente.
Sarebbe rimasto da solo, ed era insopportabile anche solo pensarlo: immaginare il silenzio di tutti i giorni, immaginare di non vedere più Federico, di non poterlo baciare, di non poter più fare nulla di quello che avevano progettato in certe sere fredde sul divano.
Sarebbero dovuti andare a Praga, in estate. Gli avrebbe mostrato la sua città come Federico aveva fatto con la propria. Avrebbe chiesto alla mamma di cucinare le polpette di verdura che le venivano tanto buone, gli avrebbe fatto vedere il negozio del padre di Roman che faceva il calzolaio, e gli avrebbe chiesto di descrivere i primi disegni che aveva fatto Jana in prima elementare.
Adesso non sarebbero più andati a Praga.
- Sei venuto qui, hai cambiato tutto. Io stavo benissimo, prima. Suonavo, mangiavo, ascoltavo la musica, telefonavo alla mamma. Era tutto in ordine. Poi sei arrivato tu e hai portato disordine ovunque, ma un disordine buono: mi hai portato a Palermo, mi hai fatto uscire, mi hai fatto vedere come sono le persone….mi hai baciato. Mi hai cambiato. Hai idea di cosa significhi rendersi conto di essere diversi? Rendersi conto di essere cieco sul serio, di non poter fare quello che fanno le altre persone allo stesso modo, scoprire di avere bisogno di qualcuno. Non solo fisicamente, per essere aiutato, ma moralmente: una compagnia, qualcuno che arricchisca il mondo. Mi hai fatto vedere che i rapporti tra le persone sono complessi. Mi ci hai fatto entrare dentro, e facendolo mi hai fatto diventare debole! Mi hai fatto diventare come tutti gli altri, con la paura di restare solo, l’ansia per la solitudine, la voglia di avere qualcuno vicino! E adesso te ne vuoi andare, e mi vuoi lasciare così. Adesso non puoi! Non puoi avere fatto questo e lasciarmi da solo!!  – gli rinfacciò, con quella rabbia che gli attanagliava le viscere e che voleva riversargli addosso. Le braccia, abbandonate lungo i fianchi, sembravano quelle di una bambola di pezza: eppure, in corrispondenza della punta delle dita, c’era un forte tremolare, il pulsare dei capillari pieni di sangue, che spingevano in avanti, alla ricerca di qualcosa che riempisse il buio.
Federico espirò, e il suo mugolio esasperato riempì la stanza.
- Tu non hai affatto bisogno di me. Nel giro di una settimana tornerai com’eri prima. Farai lo stronzo con tutti e penserai solo alla tua bella musica, che è quello che sai fare – gli rispose quello.
- Niente può tornare più com’era prima! – gli urlò, e la voce si incrinò proprio sulla prima parola, e sull’ultima, o forse su tutte, e venne fuori quel tono stranamente tagliente, come le unghie di un animale in una gabbia, disperato, che cerca di scavare più per affondare le zampe in qualcosa che per cercare la libertà. Federico rimase in silenzio per qualche minuto, percorrendo a grandi passi il salotto, senza avvicinarsi troppo a lui: ma ne sentiva il rumore irregolare. Un passo ampio, uno più piccolo, uno lento, tre veloci. Un altro sospiro. Poi il silenzio.
Nessun respiro, nessun passo. Era impossibile capire persino dove si fosse fermato.
- Io ti piaccio, Dom? Ti piaccio sul serio? – gli chiese poi.
A Dominik tornò in mente quella volta in cui aveva sentito sua madre e suo padre litigare, quando aveva otto anni. Lei aveva la voce morbidissima, lui aveva urlato per tutto il tempo: litigavano per colpa sua, perché la mamma badava troppo a lui e ignorava il papà.
E lei aveva usato lo stesso tono di Federico.
- Tu mi ami, Filip? -
Nella sua ingenuità, quella sera stessa aveva chiesto alla mamma perché avesse fatto quella domanda al papà. non avrebbe dovuto essercene bisogno. Lui sapeva che la mamma gli voleva bene, non stava lì a chiederle sempre se fosse vero. La mamma, allora, gli aveva spiegato che c’erano volte in cui i grandi dovevano ricordarsi le cose, perché tutte le faccende complicate che avevano intorno riempivano loro la testa e glielo facevano dimenticare.
Non ci aveva pensato più di tanto, dopo: la mamma e il papà avevano fatto pace, poi era nata Jana, e la nonna era sempre pronta a prendersi cura di loro. Andava tutto bene.
Ma quella sera Federico aveva lo stesso tono della mamma.
Allora, forse voleva sentirsi dire anche lui le cose che aveva dimenticato.
Dominik inspirò, gonfiando il petto.
- Sì. Mi piaci sul serio – confessò.
Che cosa significasse quel “sul serio” non l’aveva capito? Ci si poteva piacere per finta?
Dove stava differenza. Piacersi  era come la musica, come una nota: o la suoni, o non la suoni. O ti piace qualcuno o non ti piace. Non ci sono mezze misure.
Ma forse aveva a che fare con la parola preferita di Federico: complesso.
Forse era nella complessità quella sfumatura di piacere.
- Allora sarebbe meglio anche per te se me ne andassi adesso – lo sentì dire poi. La sua voce proveniva da un punto non troppo lontano: a destra, verso la porta del bagno, o forse della sua camera da letto. Dominik espirò, abbassando le spalle: non era servito nemmeno quello, per far sorridere Federico. Nemmeno ammettere che gli piaceva sul serio.
- Perché? –
- Perché a giugno ti diplomerai, e te ne andrai chissà dove nel mondo! Mi lascerai. Vivrai la tua bella vita e io resterò qua, da solo! Ecco perché! E se ti importasse quanto me, lo capiresti! –
Questa volta Federico parlava in modo diverso: più forte, con una sicurezza che gli veniva da dentro, e che si portava allo stesso tempo una strana debolezza. Era tutto dentro quella parola: lascerai. L’avrebbe lasciato sul serio? Non aveva idea di dove l’avrebbe portato il futuro, di cosa sarebbe successo.
- Mi importa. Ma non lo capisco – ammise, aggrottando la fronte. Federico sospirò.
- Se ti importasse lo capiresti. –
- Ma a me importa!! Spiegamelo! – lo incalzò, irritato. Federico sbuffò, e questo fu accompagnato dal rumore di una porta che si apriva.
- Senti, voglio andare a letto, ne parliamo domani. –
- No! – mormorò, facendo due passi in avanti in direzione della voce di Federico. – Voglio che mi dici che non te ne vai. Spiegamelo – insistette.
Federico parve non averlo sentito. Forse era entrato nella stanza, ma non aveva chiuso la porta, perché non era arrivato nessun rumore. Così, Dominik lo seguì: percorse a piedi nudi la strada che lo separava da lui, e con la mano tesa in avanti sfiorò il legno della porta della camera da letto, socchiusa. La spinse in avanti forzandola con tutto il palmo della mano, fino a quando questa si adagiò con un tonfo leggero al muro.
Dall’angolo a sinistra, vicino al letto, proveniva il fruscio delle coperte.
- Spiegamelo, Federico – gli disse ancora, in piedi al centro della stanza, e quello sbuffò ancora.
Non gli rispose per diversi secondi, tanto che Dominik pensò che non l’avrebbe fatto e che l’avrebbe ignorato. Invece, alla fine rispose.
- Pensaci. Mi sto affezionando a te, tu lo stai facendo a me. Come pensi che sarà quando te ne andrai, tra qualche mese? Se me ne andassi adesso sarebbe meglio per tutti. –
La verità era che non aveva idea di come sarebbe stato.
Sapeva solo com’era in quel momento: i piedi nudi sul pavimento, Federico lontano, il cuore che batteva e la testa che cercava di comprendere cosa stesse succedendo, e cosa avrebbe dovuto capire, anche se non ci riusciva. Non gli importava, in fondo: se proprio avrebbe dovuto un giorno separarsi da Federico, avrebbe preferito che fosse il più tardi possibile. E se anche fosse andato a studiare chissà dove, lontano, non avrebbe perso Federico: avrebbe fatto in modo di tornare a Milano, qualche volta, o andare a Palermo, e gli avrebbe telefonato, l’avrebbe invitato a Praga, avrebbe parlato con lui su Skype. Federico era importante.
Ma forse non gli bastava, quello: non gli bastavano le telefonate e le visite. Forse voleva che restassero sempre così, vicini, a Milano. Ma lo sapeva anche lui che non sarebbe stato così per sempre: aveva così tante cose da vedere, da scoprire, così tanti posti dove suonare, solo che sarebbe stato bello se Federico avesse potuto seguirlo.
- Io non voglio che te ne vai. Sto con te. Adesso. E fino a quando va bene – gli disse alla fine.
L’unica conclusione logica alla quale era stato possibile arrivare.
Bastava, a lui. Sarebbe stato bello se fosse bastato anche a Federico.
Se Federico fosse stato una sinfonia, l’avrebbe portato dove avrebbe voluto lui, come le note.
Ma Federico non rispondeva a lui. Non aveva nessun potere.
Non aveva potere neppure sul silenzio che lo stava soffocando.
- Ne parliamo domani, Dom, sul serio. Adesso voglio dormire – gli rispose Federico.
Forse quello rappresentava il massimo di ciò che poteva ottenere quella sera.
Dominik si mosse, solo perché il silenzio che era calato era freddo e pesante: ruotò intorno al letto, ci si sedette sopra, scostò le coperte e ci si infilò in mezzo. Non si cambiò: lasciò addosso i pantaloni della tuta che aveva indossato quella sera e il maglione pesante. Non gli piaceva dormire con dei vestiti pesanti addosso, di solito, perché era come se lo soffocassero. Ma quella sera non ci aveva fatto neppure caso: nulla poteva soffocarlo più della brutta sensazione che si sentiva addosso e che gli faceva mancare il coraggio di rotolare verso il centro del letto e sfiorare il corpo di Federico.
Non sarebbe dovuta andare così, quella serata: Federico sarebbe dovuto essere contento della sorpresa, baciarlo, stare con lui a parlare e a guardare la televisione, abbracciarlo a letto.
Avrebbe lasciato che le cose succedessero secondo il loro ritmo, senza impedire niente.
Invece, tutto ciò che aveva guadagnato era stato il freddo: anche sotto le coperte, anche con i vestiti pesanti, a letto c’era freddo, e il corpo di Federico era troppo lontano e silenzioso.
Non poteva aspettare fino all’indomani.
Non era paziente, e tutte le volte che ci pensava gli si stringeva lo stomaco.
Non riusciva più a sentire il suono leggero del respiro di Federico, delle macchine in strada, del vicino del piano di sopra. Il cuore pulsava troppo forte nelle orecchie e copriva tutto il resto.
E la cosa peggiore era che Federico era sembrato privo di emozioni. Solo spaventato, forse. Non aveva voluto parlare, rispondere alle sue domande. Non aveva detto un bel niente: avrebbe preferito che si fosse arrabbiato, mostrato disperato, che avesse esternato un qualsiasi sentimento invece di quell’indifferenza con la quale gli aveva comunicato l’intenzione di andarsene, e poi quella di voler dormire, senza dire altro.
Federico non era così. Federico avrebbe dovuto parlare con lui, abbracciarlo, spiegargli le cose come faceva sempre. Non poteva allontanarsi così, ergendo un muro di indifferenza e scrollando le spalle, come se la cosa non lo riguardasse. Non poteva trincerarsi dietro il suo silenzio.
Non aveva potere su di lui, ma non gli avrebbe permesso di andarsene.
Non gli avrebbe permesso di lasciarlo da solo dopo essersi preso tutto quello di lui.
 
 


 
 
 
 Nota al capitolo 34:
Il capitolo sarebbe dovuto arrivare il 10, e me ne scuso.
Il ritardo è stato terribile, ma, come ho spiegato su facebook, questo capitolo non voleva saperne di venire fuori: è stato il capitolo più brutto che io avessi mai scritto, per molto tempo, e anche adesso non è che mi soddisfi molto. Me lo sono preso in antipatia, ecco.
Però spero che possa venir fuori quello che ci ho visto io, almeno nella mia testa: la paura.
Federico spaventato che si appoggia a Manfredi, il quale, da parte sua, come sostiene Samuele, tira acqua al suo mulino, più o meno consapevolmente. Samuele a sua volta si irrita con lui perchè non capisce questa paura che lo governa, essendoci, al mondo, cose ben più gravi dei problemi d'amore, a parer suo. E poi ultimo c'è Dominik, la psiche più complicata: è cambiato, si sente diverso anche lui, ha iniziato a modellarsi intorno a Federico e a sviluppare un rapporto quasi morboso con lui. E quando Federico fa un passo indietro, lui non ne capisce il modo.
Eppure, nessuno dei due lascia trasparire emozioni: Federico sembra quasi indifferente, Dominik apatico, per la sopresa.
Sono bloccati entrambi sui confini dei loro mondi.
Il capitolo, come avete visto, è incentrato totalmente sulla paura.
Non so cosa ve ne parrà: nel prossimo capitolo, che spero di pubblicare molto prima e con moooooolto meno ritardo, vedremo cosa succederà.
Sono davvero dispiaciuta per questo enorme ritardo, come vi ho già detto nella mia pagina facebook, e spero che almeno ne sia valsa la pena, leggendo il capitolo: mi impegnerò per aggiornare prima, ma ringrazio tutti voi per la pazienza, per l'affetto che mi dimostrate e per la vicinanza anche quando le cose vanno un po' male. <3
Vi mando un bacio, ai vecchi e ai nuovi lettori, e a coloro con cui mi ritrovo a scambiare qualche parola tramite la mia pagina facebook. Vi ringrazio infinitamente, e risponderò presto alle recensioni.
A presto,
Esse
 

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Capitolo 40
*** 35th: Il coraggio è per i deboli ***


Fino al giorno della morte, nessuno può essere sicuro del proprio coraggio.

Jean AnouilhBecket o l'onore di Dio, 1959


 
Chapter 35th: Il coraggio è per i deboli
 

Tutto era concentrato sulla mano dalla pelle chiara e dalle dita lunghe mollemente adagiata su un braccio. Forse non era neppure lì e la stava semplicemente sognando.
Ne stava immaginando il calore, il profilo, l’ondeggiare leggero ad ogni respiro.
Federico aprì gli occhi lentamente, battendo le palpebre.
La stanza da letto era debolmente illuminata dalla luce del mattino che filtrava attraverso le fessure delle imposte e che proveniva dal salotto, dove la sera prima doveva aver dimenticato la finestra aperta.
Nella penombra, la sveglia sul comodino segnava quasi le sei e mezzo del mattino.
Abbassando gli occhi verso il basso, Federico vide che la mano che aveva immaginato sul braccio non era un miraggio: era vera, era lì, rovente. Ed era connessa a un braccio che proseguiva verso l’alto fino a una spalla, e poi a un viso addormentato, con le labbra arricciate in un broncio.
Dominik stava dormendo. Era bello guardarlo così.
Sarebbe stato bello anche pensare di aver vissuto un brutto sogno, non aver discusso con Dominik, non essersi sentito una merda mentre la sua voce morbida lo avvolgeva.
Io non voglio che te ne vai. Sto con te. Adesso. E fino a quando va bene.
Avrebbe tanto voluto possedere parte di quel coraggio. Anche se non se ne rendeva conto, anche se aveva detto di sentirsi debole, di essere cambiato, Dominik aveva quel tipo di coraggio che posseggono i bambini, quello ingenuo e coinvolgente che li fa correre sul ciglio della strada inseguendo una palla senza curarsi del pericolo di essere investiti.
Ecco, in tutto quel caos, Dominik e Federico rappresentavano l’adulto e il bambino che giocavano con quel sentimento attanagliante che rotolava privo di controllo, come un pallone da calcio. E mentre quello rimbalzava al centro della strada, pronto a essere schiacciato e perso per sempre, Dominik aveva lasciato il suo posto e aveva iniziato a corrergli dietro, per afferrarlo. Lui, invece, era rimasto fermo, immobile, con i piedi ben piantati al suo posto: tutto quello che riusciva a fare era fissare il pallone che finiva in strada e che non avrebbe più stretto sotto le dita. Ma subito dopo, nell’arco di pochi secondi, vedeva Dominik corrergli dietro con le braccia tese, come un bambino dalle guance arrossate per lo sforzo, incurante della bella macchina scura che sfrecciava per la strada, pronta a investirlo e a rubargli quel sorriso.
Quella macchina, quella berlina nera, rappresentava il futuro.
Dominik ci si stava letteralmente lanciando, a costo di rompersi qualche costola nell’impatto.
Federico, invece, se ne restava sicuro sul marciapiede, milioni di passi indietro.
Battè le palpebre, e nella penombra l’immagine della strada e della berlina scura sparì, lasciando il posto alla rassicurante quiete della camera da letto, con la poltrona in un angolo e i vestiti ammucchiati lì sopra, l’armadio con un’anta socchiusa e le coperte un po’ troppo scivolate a sinistra. Il corpo caldo di Dominik era ancora nella stessa posizione.
Quando dormiva, Dominik non si muoveva mai: quando glielo aveva fatto notare, gli aveva risposto di essere stato sempre così, e di trovare rassicurante l’idea di sapere benissimo, al risveglio, cosa avesse intorno, perché identico a come lo aveva lasciato prima di addormentarsi.
Era quella l’unica debolezza di Dominik, probabilmente: la cecità.
Sarebbe stato in grado di affrontare qualsiasi cosa, qualsiasi dolore, ma di entrare in confusione all’idea di non avere più il controllo su tutto e di non potersi occupare di se stesso in modo autonomo. Ad uno come Federico, invece, bastava un minimo particolare, una piccola sbavatura, per entrare in crisi. E allora si appoggiava a Manfredi.
Secondo me proprio perché ti conosce se ne approfitta.
Federico chiuse gli occhi.
Sta facendo leva su tutto quello che non ti vorresti sentir dire. Così cederai, e tornerai a casa.
Li riaprì, e il campo visivo fu invaso da centinaia di lucine colorate, piccole come delle stelle osservate dalla spiaggia. Sul braccio, la mano di Dominik stava ancora adagiata morbidamente in un gesto di intima complicità.
Federico sollevò la mano del braccio libero e la fece scivolare delicatamente sul dorso di quella di Dominik.
Contrariamente a quanto aveva avvertito sull’arto, attraverso i vestiti, la pelle di Dominik era appena tiepida. Doveva essere la sua a bruciare, allora.
Il contatto leggero non disturbò il sonno del ragazzo: rimase nella stessa posizione in cui si trovava, a occhi chiusi e respirando regolarmente, anche quando le dita di Federico accarezzarono il dorso della sua mano.
La sera prima, Dominik ci aveva messo un po’ ad addormentarsi: nonostante non avesse detto una sola parola per più di mezz’ora, aveva continuato a muoversi, in maniera impercettibile a volte, spostando appena un piede, un braccio, sistemando il cuscino sotto la testa. E aveva respirato, anche, in modo diverso: quando dormiva, il respiro di Dominik era fatto di piccole inspirazioni, come quelle di un bambino, poi una piccola pausa, e infine un’espirazione lunga, quasi liberatoria come un sospiro.
Quella sera, invece, aveva respirato allo stesso modo di quando suonava, in modo irregolare: inspirare più a fondo, espirare piano, trattenere il fiato, poi un sospiro. Però non aveva detto nulla, fino a quando, dopo forse un’ora o poco più, il respiro era cambiato, e i muscoli avevano smesso di muoversi.
Allora, Dominik si era addormentato.
Federico ci aveva messo almeno il doppio del tempo: per la prima ora non aveva fatto altro che pensare a quanto avesse avuto ragione a comportarsi così, a come anche Manfredi fosse nel giusto, ad arrabbiarsi con Samuele per essersi impicciato senza conoscere le cose, fino ad approdare alla conclusione di fare le valige l’indomani mattina e sparire mentre Dominik se ne stava in Conservatorio, chiedendo ospitalità a Lorenzo.
All’inizio della seconda ora, il buio della stanza si era fatto più profondo, il respiro di Dominik più morbido, e l’orda di sentimenti si era un po’ calmata, rendendolo più lucido: allora, le parole di Samuele avevano acquisito un senso nuovo, l’idea di scappare da casa mentre non c’era nessuno, come un ladro, gli era sembrata effettivamente stupida, e Manfredi era diventato un po’ meno opprimente.
In quella seconda ora, aveva iniziato a credere a Dominik.
Sì. Mi piaci sul serio.
Su quelle parole, finalmente Federico si era addormentato, e ci si era svegliato.
Alla luce flebile del mattino sembravano ancora più luminose, l’idea di andarsene di casa sembrava ancora più stupida, e Samuele non pareva avere più tanto torto quando gli dava dell’idiota per essere entrato in crisi per una scemenza quando c’era gente al mondo che tirava avanti dopo cose molto più gravi.
Nonostante tutto, però, non era tranquillo: qualcosa di opprimente, l’ansia della sera precedente, continuava a premere un po’ sul petto, seppur in maniera più leggera, perché la razionalità tentava di mantenerlo il più lucido possibile. La razionalità, allora, si stava concentrando tutta sul braccio sinistro, dove stava poggiata la mano di Dominik, sopra la quale lui aveva adagiato la sua.
Se fossero stati in un film, adesso, con un tempismo perfetto, Dominik si sarebbe svegliato, lo avrebbe abbracciato, e quello sarebbe stato il segno con il quale avrebbe magicamente capito di non poter vivere senza di lui e di volersi buttare.
Ne sarebbe seguito un bacio epico con una colonna sonora melodiosa e i titoli di coda su fondo nero.
Ma quello non era un film, Dominik non si sarebbe svegliato.
Non da solo almeno.
Prima di pentirsene, Federico chiuse le dita intorno alla mano tiepida del ragazzo, dapprima lievemente, poi con più forza, strattonandola appena verso di sé.
Con un sobbalzo, figlio dell’istinto di sopravvivenza, Dominik si svegliò, e il suo primo movimento fu quello di ritrarre istintivamente la mano. Federico lo lasciò fare: temeva che, ancora assonnato, non potendo vederlo, pensasse di essere stato aggredito da chissà chi e gli prendesse un colpo.
Ma Dominik tornò in sé quasi subito: doveva essere un’abitudine consolidata, quella di mettere in moto il cervello nel giro di meno di dieci secondi.
Non si mise seduto: si strinse semplicemente la mano al petto, come a proteggerla, ma dopo pochi secondi la adagiò sul materasso, davanti a sé, spingendo il capo contro il cuscino con più forza, come a voler affondarci dentro.
Federico rimase in silenzio. Non sapeva cosa dire.
Lo aveva svegliato solo perché la cappa che lo opprimeva aveva iniziato a distendergli le dita sul petto, minacciando di salire su fino alla gola e di stringerla in una morsa rubandogli tutta l’aria dai polmoni. Così, adesso che Dominik era sveglio, era più facile concentrarsi sulla morbidezza dei suoi movimenti, sul mugolio della sua voce mentre distendeva le gambe per stiracchiarsi, sul cuore che batteva fin dentro le orecchie mentre si chiedeva che cosa, allora, sarebbe successo.
Non successe niente.
Per almeno dieci o quindici minuti, rimasero immobili entrambi.
Dominik lo ascoltava, lui lo osservava. Come la tigre e la gazzella quando comprendono che, nel giro di pochi secondi, qualcuno avrebbe mangiato, e qualcuno sarebbe stato mangiato.
Federico non sapeva se sentirsi tigre o gazzella, ma quando la mano di Dominik scivolò sul materasso, cercando di nuovo il suo braccio, smise di pensarci. Reprimendo l’istinto di tirarsi indietro e sfuggire a quel tocco, rimase immobile mentre le dita affusolate percorrevano il profilo del suo braccio fino alla spalla, e lì si fermavano. Represse persino il malsano istinto di baciarlo che gli era sorto nel petto, l’idea di affondare le labbra in quelle di lui, che sembravano così morbide nella penombra del primo mattino.
A sorpresa, le dita di Dominik affondarono nella sua spalla, afferrando il tessuto del pigiama e graffiandogli appena la pelle.
- Te ne vuoi ancora andare? – mormorò.
Federico chiuse gli occhi soltanto per un attimo, e fu come se la notte non fosse mai trascorsa, come se si fosse appena sdraiato in quel letto e Dominik fosse ancora sul ciglio della porta ad appigliarsi a qualcosa pur di non porre fine a quella conversazione. Invece, riaprendoli, si rese conto di come la notte fosse trascorsa, di come i pensieri e gli approcci fossero diversi, e di come, nonostante tutto, Dominik fosse ancora sul ciglio dello stesso mondo in cui lo aveva lasciato la sera prima. Fisicamente, l’appiglio era rappresentato dalle sue dita strette spasmodicamente intorno al tessuto pesante del pigiama.
- Tu pensi che abbia cambiato idea? –
- Sei ancora qui – osservò, stringendosi nelle spalle. La stretta sul pigiama si allentò, e si trasformò in un tocco più leggero sulla spalla, mentre anche il resto del corpo di Dominik si muoveva per avvicinarsi a lui, non abbastanza da poggiargli il capo sul petto. Per un attimo, invece, Federico aveva pensato che l’avrebbe fatto: allora, lui si sarebbe voltato su un fianco e l’avrebbe abbracciato, affondando il viso nell’incavo che si sarebbe creato tra la spalla e il collo di Dominik, lasciandosi accogliere da quel piacevole buio. – A me importa, Federico. E proprio perché mi importa non voglio che te ne vai – gli disse.
- E proprio perché ti importa dovresti essere d’accordo con me. Se adesso non vuoi che me ne vado, pensa a quanto sarà peggio tra qualche mese, quando ti diplomerai e te ne andrai a studiare da qualche parte nel mondo. –
- No. – Dominik aggrottò la fronte, stizzito. – Mi importa adesso. E mi importerà tra qualche mese tanto quanto mi importa adesso. Se te ne vai, non mi piacerà adesso come non mi piacerà dopo. Preferisco che il peggio venga dopo, quando proprio non si può evitare. Non adesso. –
- Non ha senso, Dom. –
- No, tu non hai senso! Perché sei tu a non capirlo? Puoi anche pensare di dovermi spiegare tante cose, che non conosco le persone e il modo in cui si comportano con gli altri, però questa volta sono io che devo spiegare le cose a te! – lo attaccò, stizzito, stringendogli di nuovo la spalla, questa volta afferrando il muscolo e dandogli uno strattone per mettersi seduto. Il suo torace, adesso, svettava nella penombra della stanza, con le coperte abbandonate da un lato e in parte finite sul pavimento. – Vuoi andartene adesso perché dici che sia meglio per tutti, ma secondo me non è così! Tu mi piaci adesso, e tra qualche mese mi piacerai ancora come adesso, non puoi piacermi più di così! E’ come con la musica, con le note: o suoni o non suoni, o la musica o il silenzio. O ti piaccio o non ti piaccio, ma adesso! E se ti piaccio, allora resta con me fino a quando puoi! –
Federico si premette le mani sulla faccia, sugli occhi, e il buio si riempì di cerchi colorati: il professore di biologia del liceo gli aveva spiegato che fosse dovuto alla stimolazione del nervo ottico. Se stimolato dalla luce permetteva di vedere, mentre la stimolazione meccanica della pressione, inadeguata per quel tipo di recettore, produceva una risposta come quella, con scariche nervose che in realtà non permettevano di vedere un bel niente se non macchie di luce colorate.
Anche quando riaprì gli occhi e cercò il viso di Dominik, per qualche secondo lo vide tempestato di macchie luminose verdi e gialle.
- Quando me ne sono andato da Palermo, mi ero ripromesso di non avvicinarmi a nessuno per un po’. Nonostante quello che ti ho detto, che sono partito per l’università, perché Milano è una città più grande e offre più sbocchi lavorativi, per trovare un lavoro e avere una mia indipendenza, in realtà ho lasciato Palermo per Manfredi. Non sopportavo l’idea di incontrarlo per la strada, di vederlo, e di sentirmi soffocare da lui. Ma se ho scelto Milano è stato perché questa era la nostra città, e una piccola parte di me sperava che lui avrebbe trovato il coraggio di mandare tutto a fanculo e trasferirsi qui, insieme a me – confessò. Dominik rimase fermo ad ascoltare, seduto sul materasso a gambe incrociate: solo il modo in cui, con due dita, tormentava il bordo del lenzuolo mostrava quanto in realtà fosse inquieto. – Poi mi sono reso conto che Manfredi non sarebbe mai venuto, e non sarebbe mai cambiato. Me ne sono fatto una ragione. L’ultima cosa che volevo, però, era cacciarmi di nuovo in un casino. –
- Io sono un casino? –
- Tutto questo è un casino. Perché se tu non fossi un musicista destinato a girare il mondo, sarebbe tutto più facile. –
- Se io fossi diverso sarebbe tutto più facile – lo sentì mormorare, e intanto aveva smesso di tormentare il lenzuolo e aveva cambiato posizione, portando le ginocchia al petto e stringendo le gambe tra le braccia, le dita incrociate all’altezza degli stinchi e i piedi nudi che accarezzavano con le piante il materasso.
- Se la situazione fosse diversa. Non tu. Se non fossi così, forse non mi piaceresti così tanto. –
Dominik fece una smorfia.
- Dici sempre che sono uno stronzo lunatico che pensa solo ai cazzi suoi – snocciolò, un po’ ferito. Federico si mise seduto, scostando anche lui le coperte e lasciando che si aggrovigliassero ai piedi del letto.
- Ma tu pensi alle cose in un modo diverso da come fanno tutti, e da come faccio io. E’ questo che mi piace. E mi piaci tu – gli confessò.
Dominik rimase nella stessa posizione, ma strinse maggiormente le braccia intorno alle gambe, portando le cosce a premere sul petto, quasi soffocandolo. C’era una ciocca di capelli, biondissima, che  gli era scivolata sulla fronte, accarezzando morbidamente il profilo lineare del sopracciglio, e poi giù lungo la tempia. L’unica nota stonata era rappresentata dal movimento incostante del suo labbro inferiore, mentre con gli incisivi Dominik lo tormentava.
Federico aveva la netta sensazione di non essere in grado nemmeno di dire la cosa giusta: mentre Dominik lo implorava di restare, gli parlava dei suoi sentimenti, lui era riuscito a tirare fuori Manfredi, i loro progetti, i loro sogni su Milano. Ma Dominik non si era arrabbiato, semplicemente sopportava: forse lo riteneva addirittura normale, che lui fosse tanto legato al suo ex ragazzo, ma non sarebbe dovuto esserlo.
Federico spinse una mano in avanti, sul letto, fino a sfiorare la caviglia di Dominik, lasciata scoperta dal pigiama che era risalito sullo stinco a causa della presa delle mani sulle gambe.
- Scusa. Non era il momento di parlare di Manfredi. –
- Parli sempre di Manfredi – osservò quello, stringendosi nelle spalle.
Federico avrebbe voluto affondargli le dita nella pelle, scuoterlo, tirarlo per una gamba e schiacciarselo addosso. Invece allentò la presa, e le dita scivolarono via dalla caviglia del ragazzo.
La spiacevole sensazione di fresco sui polpastrelli gli provocò un fremito lungo il braccio.
- Lo so, io…scusami – mormorò. – Ma tu mi piaci sul serio, questo…questo non ha più a che fare con Manfredi, adesso. Io sono qui, divido la casa con te, e tu mi piaci. E’ solo che… - iniziò, ma si fermò, perché non sapeva cosa dire e aveva parlato solo per occupare il silenzio, che tanto lo sapeva che Dominik non ci avrebbe nemmeno fatto caso.
Ma quella volta, contrariamente al solito, Dominik sciolse la presa, stendendo le gambe in avanti, fino a sfiorare la sua con i piedi nudi.
- E’ solo che? – lo incalzò. Allora Federico dovette pensarci sul serio, pensare a cosa dire, a cosa fare: perché era stato lui ad insegnare a Dominik a dare un peso alle parole e alle azioni delle persone, a non appoggiarsi soltanto a quello che sentiva. E adesso Dominik aveva tutto il diritto di spremerlo un po’.
Ma cosa avrebbe dovuto dirgli?
Tutto quello che c’era da spiegare era già stato detto.
Non potevano continuare a stare insieme, perché lui meritava una vita diversa, senza qualcuno che lo ancorasse ad una sola città e ad una routine sempre uguale.
- E’ solo che tu ed io abbiamo due vite completamente diverse, Dom. E tu hai un futuro così strano e…e così contorto che non è giusto che io lo ostacoli. –
- Tu non lo ostacoli. Non mi faccio comandare da nessuno, nemmeno da te. –
- Forse ti sembra così adesso, ma quando dovrai prendere delle decisioni, ti lascerai coinvolgere da quello che provi per me, e anche se ti sembra una cosa assurda, lo farai, e io finirò per ostacolarti senza volerlo. –
- Non sono stupido, Federico. So decidere benissimo per me e per il mio futuro. La musica sarà sempre al primo posto – sibilò, e fu come ricevere un piccolo colpo dritto al centro del cuore, con una lama affilata che, al posto della violenza, aveva preferito un ingresso lento ma tagliente e doloroso. Dominik, dal canto suo, aveva iniziato a innervosirsi, ed era tornato sincero e trasparente come era sempre stato, senza curarsi che le sue parole avrebbero potuto ferire qualcuno. Ed ecco, era tutto lì: la musica sarebbe stata sempre al primo posto, lui non contava abbastanza per mettersi a rischio il futuro. Che senso aveva, allora, continuare a stare insieme?
- Visto? Mi stai dando ragione. Io non conto abbastanza, non pensi nemmeno di poterci stare male, se dovessi lasciarmi, perché la musica viene prima di tutto – continuò, facendogli il verso, e ne uscì un tono più stizzito del solito. Dominik si irrigidì.
- A me importa di te! –
- Non ti importa quanto importa a me, o ti porresti il problema!! –
- Perché devi comandare sempre tu?! – Dominik sbuffò, e le guance gli si colorarono di rosso.
Era un colore diverso dal timido rossore che lo colorava quando si sentiva imbarazzato.
Era un rosso vivo, e tutto il suo viso, e anche il collo, si erano tinti di quel colore.
Rabbia.
Non lo aveva mai visto tanto arrabbiato.
Tanto umano.
Aveva stretto i pugni, affondando le unghie nel palmo della mano.
- Hai sempre ragione tu, vero? Vuoi comandare su di te, e anche su di me, perché sono così stupido e idiota da aver bisogno della babysitter! Tu non capisci, Dominik, io soffro, io ci sto male, Manfredi ha detto questo, Manfredi di qua, Manfredi di là, io ti voglio aiutare a capire… - continuò, facendogli il verso. – Sono cieco, non sono ritardato!! – lo ammonì, e il colpo che gli diede lo raggiunse dritto sulla spalla con una precisione spaventosa, e una forza che credeva non ci avrebbe mai messo, tanto che Federico, sorpreso, scivolò indietro, ancorandosi al materasso per non scivolare giù dal letto. – Io non sono stupido. Soltanto perché la penso in modo diverso, perché tu hai più esperienza di me, non vuol dire che quello che dico io è sempre sbagliato e quello che dici tu è giusto. Io le conosco le persone, il cambiamento nel tono della loro voce quando provano pietà per me, il loro tono acuto quando mi trattano come un ragazzino, o quello più grave che ha la maestra quando mi prende sul serio. E vale anche per te: anche se non vedo la tua faccia, anch’io capisco quando devo lasciarti stare, perché magari pensi ai fatti tuoi, o quando posso permettermi di fare un passo avanti. E tutte le volte che parli di Manfredi ti vorrei dare un pugno, ma non lo faccio mai, e sai perché? Perché io, forse, capisco le persone meglio di te. E l’ho capito che vorresti fare sesso con me ma che non me lo vuoi dire, che Samuele sta con uno che vorrebbe lasciare, ma non ci riesce, e che la mamma avrebbe preferito che non fossi nato, forse, piuttosto che vedermi così, e che se tu parli di Manfredi te lo devo lasciar fare perché è meglio così. – Parlava forte, velocemente, come se qualcuno avesse inserito la monetina e lui avesse fretta di dire tutto prima che il tempo si esaurisse. E gesticolava, anche. Non lo faceva mai. – Io, a differenza tua, capisco quando è il caso di stare zitto. E questo, Federico, era il caso di stare zitto. Tu mi piaci sul serio, mi importa sul serio, e anche se vorrei darti un pugno tutte le volte che metti in mezzo Manfredi, sto zitto. Quindi se io ti piaccio sul serio, e ti importa sul serio, devi stare zitto e lasciare le cose come stanno – snocciolò.
Federico rimase immobile per diverso tempo, forse due o tre minuti, e Dominik non fece nient’altro.
Semplicemente rimase zitto.
Era così che avrebbe dovuto interpretare i suoi silenzi?
Forse, in tutto quel tempo, il carattere di Dominik era sempre stato lì, sotto la sua pelle, pronto a esplodere, e lui l’aveva punzecchiato continuamente, fino a farlo scoppiare.
Non lo aveva mai visto in quel modo, e mai si sarebbe aspettato una reazione di quel tipo.
Non sembrava nemmeno la stessa persona che aveva conosciuto lui in tutto quel tempo.
Io, a differenza tua, capisco quando è il caso di stare zitto.
Dominik se ne stava sempre silenzioso, ed era impossibile pensare che, almeno un po’, anche quello non facesse parte del suo carattere: perché era uno che analizzava le cose, le studiava, e si piegava sempre con una strana dolcezza davanti a tutto.
Solo quando non voleva fare qualcosa, sul serio, allora sbottava e si intestardiva.
Ma mai, mai in tutto quel tempo, si era comportato in quel modo.
Quando Federico tornò a guardarlo, il viso di Dominik si era schiarito, ma era ancora un po’ rosso sulle guance, due chiazze scarlatte sulla pelle umida di sudore freddo.
Aveva le labbra dischiuse, ci respirava attraverso.
Sembrava tornato il ragazzino riflessivo e docile, solo un po’ stronzetto di sempre: sarebbe stato impossibile immaginare che potesse arrabbiarsi a quel modo, se non l’avesse visto poco prima proprio con i suoi occhi.
Di fronte al suo silenzio, Dominik tese la mano avanti, fino a toccargli un ginocchio.
- Non te ne andare – gli mormorò. Federico posò la propria mano sulla sua.
- Pensi davvero questo di me? – Dominik ritrasse la mano, ma non abbassò il capo.
- Che pensi troppo e parli troppo, quando non dovresti? Sì, a volte lo fai. E tutte le volte che lo fai noi litighiamo – gli fece notare. Federico sorrise, in uno sbuffo.
- Detto così, mi fai sembrare uno stupido. –
- Tu sei stupido – gli rispose lui, a tono, candidamente, poi intrecciò le mani sul ventre. – Non comandare su di me, Federico. Non pensare di avere il diritto di decidere per tutti e due – gli disse poi.
Non si era mai fermato a pensarci.
In effetti, maniaco del controllo com’era, aveva preso una decisione credendo che andasse bene a entrambi. Invece aveva pensato a se stesso, ai propri sentimenti quando Dominik se ne fosse andato, al proprio futuro, credendo ingenuamente di far del bene anche a lui.
A giudicare dalle parole delle ultime dodici ore, non ne aveva azzeccata una.
Perché, in fondo, nemmeno lui era pronto a lasciare Dominik adesso.
Ma se avesse ricevuto da lui un segnale, se avesse capito che davvero non gliene importava poi tanto, lo avrebbe lasciato, e probabilmente se ne sarebbe pentito per i prossimi dieci anni.
Federico tese la mano in avanti, per cercare quelle di Dominik, e quando le trovò, ci premette contro il palmo.
- Mi dispiace, ok? Mi dispiace di averti trattato come uno stupido, e di aver preso decisioni senza chiederti nulla. E cercherò di non parlare di Manfredi. – A quel nome, Dominik si irrigidì appena.
- Puoi farlo, se vuoi – gli rispose però, ma Federico strinse le sue mani nella propria
- No, non è giusto, e non è stato carino – si giustificò, poi la mano risalì lungo il braccio di lui, fino alla sua spalla, al collo, e infine sul viso. Era bollente, ancora chiazzato di rosso, come se avesse bevuto un po’ troppo vino. – D’ora in poi starò più zitto e lascerò che le cose vadano come devono andare, va bene? – Dominik annuì appena, sfregando il viso contro la sua mano. – Anche se la mia vita sarà costellata di paranoie e notti insonni – aggiunse, con tono melodrammatico.
Voleva solo scherzare, anche se, pensandoci bene, sapeva benissimo che non sarebbe mai stato veramente tranquillo, che il pensiero di essere mollato di punto in bianco lo avrebbe tormentato.
Ma Dominik era lì, adesso, sentiva la sua pelle sotto la mano, il suono del suo respiro nella stanza, e non avrebbe trovato il coraggio di alzarsi e andarsene, di lasciarlo, nonostante avesse cercato di convincersi che ne sarebbe stato in grado.
Non era in grado di lasciarlo, non era in grado di sopportare di stare con lui, perché avrebbe pensato continuamente al dolore del dopo. Non aveva nessuna scelta.
E mentre apriva la bocca per parlare di nuovo, Dominik lo sorprese, seguendo con una mano il profilo del suo braccio, fino al petto. Fu lì che premette entrambe le mani mentre si sollevava e gli si premeva addosso, e il suo profumo gli carezzò le narici prima che l’unica sensazione sulla quale fosse in grado di concentrarsi divenisse il sapore di Dominik sulle labbra.
Lui lo stava baciando.
Lui si era alzato dal suo posto per raggiungerlo e premergli le labbra contro.
E mentre la sveglia prendeva a suonare, Federico strinse il viso di Dominik tra le mani, dischiudendo le labbra.
 
 
§§§
 
La tracolla della borsa tirava appena sul petto.
Il cappotto pesante e la sciarpa che gli circondava il collo e il viso lo rendevano impacciato nei movimenti. Si era rifiutato di indossare i guanti: Federico li aveva comprati per lui una mattina in cui era uscito con Samuele, ma lui non aveva mai voluto metterli.
Erano opprimenti: a Federico aveva spiegato che sarebbe stato come far indossare a lui una benda sugli occhi. Le mani erano importanti, il tatto lo era, e anche se sentiva le punte delle dita ghiacciate e quasi doloranti, non avrebbe rinunciato alla morbida sensazione del corpo di Federico quando, camminando l’uno di fianco all’altro, a intervalli irregolari lo incontrava per caso: la pelle della sua mano, il tessuto del suo cappotto, il cuoio della borsa che portava all’università.
Federico era passato a prenderlo all’uscita dal Conservatorio, alle sei di sera.
Aveva passato il giorno a studiare a casa di un collega, per il suo prossimo esame, e aveva pensato che sarebbe stato carino, dato che stranamente non stava piovendo, fare una passeggiata prima di cenare in tutta fretta e correre al lavoro per il suo turno serale.
L’aveva anche invitato ad accompagnarlo, ma lui gli aveva subito detto di no: preferiva stare un po’ a casa da solo a studiare. L’avrebbe aspettato a letto, quando fosse tornato.
- Cosa ti va di fare per il tuo compleanno? – lo chiamò poi Federico.
Avevano parlato di tutto, nella prima mezz’ora della loro passeggiata: di cosa Federico avesse studiato, di come fosse andata la giornata al Conservatorio, dei brani per gli esami di fine anno, di cosa preparare per cena e persino di quella volta che Federico, a nove anni, era entrato in camera di sua sorella Milena mentre lei e le sue amiche stavano provando dei vestiti nuovi e le aveva beccate praticamente nude. Milena non gli aveva parlato per due settimane.
Forse per questo, tra tante possibilità di conversazione, Dominik rimase tanto stupito quando sentì Federico nominare il suo compleanno. Mancava ancora più di una settimana al dieci febbraio, non c’era certamente motivo di pensarci adesso.
E poi lui non voleva fare un bel niente.
Quando era bambino, la nonna e la mamma gli preparavano sempre una torta diversa tutti gli anni, cucinavano per cena tutto quello che piaceva a lui, e poi gli compravano un regalo ciascuno.
Quello della mamma era sempre più bello.
Da quando si era trasferito a Milano, a quattordici anni, il compleanno non era più stato lo stesso magico evento di quando era piccolo: per i primi due anni la mamma era riuscita a raggiungerlo, ma poi, con Jana che faceva i capricci e il lavoro che la ostacolava, Dominik le aveva detto che sarebbe potuta restare a casa, che non aveva tanta importanza, e che, quando fosse stato più grande e fosse tornato a casa avrebbero festeggiato insieme un mucchio di compleanni.
Quell’anno, di conseguenza, non sarebbe dovuto essere diverso.
C’era Federico, e quello bastava.
Sarebbe stato un giorno come un altro.
Dominik si strinse nelle spalle.
- Niente – borbottò.
- Come niente? – lo pungolò l’altro. – Potremmo andare a cena fuori, ti va? –
Non gli andava, e si sentì terribilmente in colpa, perché il tono di voce di Federico si era alzato di un’ottava per l’eccitazione. Dominik arricciò le labbra.
- Sul serio, Federico, non voglio fare niente di speciale. –
- Ma almeno uscire, io e te..è il tuo compleanno! –
- Non ho mai fatto niente per il mio compleanno. Sono sempre rimasto a casa con la mia famiglia ad abbuffarmi di torta – confessò.
- Posso almeno prenderti una torta, allora? – gli chiese Federico.
Dominik fece spallucce, con indifferenza.
Il tono di voce di Federico era cambiato di nuovo, indice dell’entusiasmo smorzato. Era carino da parte sua preoccuparsi del giorno del suo compleanno, ma a lui non importava molto, ed era anche di cattivo umore perché la maestra si era lamentata della sua distrazione tutto il tempo.
La verità era che non aveva fatto altro che pensare a Federico, alle sue parole, e alla propria reazione. Gli aveva detto molte cose cattive, però erano vere: Federico voleva decidere per lui, e lo aveva fatto sentire uno stupido. E lui non era stupido.
- Potremmo magari invitare Samuele a cena, che dici? Samuele ti sta simpatico – propose di nuovo Federico.
Dominik sentì il rossore salire lungo le guance, e affondò il viso ancor di più nella sciarpa pesante che indossava. Era arrossito a quel modo perché aveva pensato ad una cosa stupida, e imbarazzante, e senza senso, anche se, quando l’aveva elaborata, non si era sentito tanto idiota.
Il fatto era che il giorno del suo compleanno, quando avrebbe compiuto diciannove anni, avrebbe rappresentato, per lui, una spinta a fare qualcosa che non aveva avuto il coraggio nemmeno di pensare: fare l’amore con Federico. Si sentiva stupido al solo pensarci, ma, se fino ad allora gli era mancato il coraggio, trovarsi con lui il giorno del suo compleanno sarebbe stata un’ottima spinta: si sarebbe sentito così idiota nell’aver paura del sesso a ormai diciannove anni, che la vergogna avrebbe superato persino il terrore del contatto fisico.
Che poi, a dire la verità, non era come diceva a Federico: non era solo la questione trascendentale della paura di perdersi, della musica, e di se stesso.
Dominik aveva fisicamente paura del sesso. Aveva paura di fare qualcosa di sbagliato, che a Federico non sarebbe piaciuto, che si sarebbe fatto male o che si sarebbe vergognato così tanto da non riuscire nemmeno a toccarlo, e avrebbe fatto una figuraccia epica.
Ecco, quel lato fisico e umano della sua paura, a Federico non aveva avuto il coraggio di confessarlo. Così aveva pensato che il suo compleanno sarebbe stato una spinta sufficiente per se stesso: avrebbero cenato insieme, si sarebbero messi a letto, e avrebbe lasciato che succedesse quel che doveva succedere, senza interferire.
Ma adesso Federico voleva invitare Samuele, e allora sarebbe stato più difficile restare da soli e trovare il coraggio di affrontare se stesso.
- Mh? – mormorò, deglutendo.
- Dicevo che potremmo invitare Samuele, o magari qualche tuo amico del conservatorio che ti piacerebbe avere a cena – gli propose di nuovo Federico.
E Dominik, nella sua debolezza, cedette: d’altronde, questa volta non era colpa sua, era stato Federico a voler invitare Samuele, non era lui ad essere un codardo.
- Mh, no, non voglio invitare nessuno del Conservatorio, Federico. Puoi dirlo a Samuele, se vuoi, e ai tuoi amici. Possono venire a casa – gli rispose.
- Davvero? Posso dirlo a Lorenzo e a Claudio, a loro farebbe piacere, che dici? –
- mh mh – biascicò, annuendo.
Federico gli camminò di fianco per alcuni minuti: lui lo seguiva, andando sempre dritto, e fermandosi per attraversare la strada quando era Federico a dirglielo. E sembrava così semplice e lineare, quel modo di passeggiare l’uno di fianco all’altro.
- A cosa pensi? – lo richiamò di nuovo Federico, quando, dopo ormai più di dieci minuti, avevano continuato a camminare in silenzio. Dominik si strinse nelle spalle.
- A niente – rispose, ed era la verità. Non stava pensando a nulla in particolare, se non al vorticare di idee che aveva nella mente: stava costruendo una musica, una colonna sonora un po’ grigia eppure melodiosa come l’assenza di pioggia, che sarebbe stata perfetta per quella passeggiata con Federico.
- Non è vero. Pensi ancora a quello che ti ho detto ieri sera? Sei arrabbiato con me? –
Dom, Te la caveresti se io non ci fossi?
Non era arrabbiato. Lo era stato, in quegli istanti di follia in cui gli aveva riversato addosso tutta la propria frustrazione. Ma poi non lo era stato più: era passato attraverso la paura, e la delusione, ma non era arrabbiato. Aveva persino smesso di pensarci.
- No, Federico. Non sono arrabbiato con te. Pensavo alla musica – ammise candidamente, anche se forse Federico ci sarebbe rimasto un po’ male perché non stava pensando a lui.
Ma era normale: aveva Federico così radicato dentro che non c’era bisogno di pensare a lui continuamente.
La presenza di Federico gli giunse vicina insieme a un piccolo sbuffo, uno di quelli che faceva con il naso quando sorrideva ed espirava allo stesso tempo. E, insieme a quel sorriso, arrivò la sua mano sul braccio, proprio sotto il gomito, e poi giù fino al polso, e alla mano.
Federico intrecciò le dita con le sue, e subito dopo Dominik si sentì avvolgere da un tessuto liscio e caldo. Federico aveva nascosto le loro mani nella larga tasca del proprio cappotto: e anche se quel tepore era piacevole, e se il contatto con la pelle di Federico gli aveva provocato un fremito lungo il braccio, ci rimase un po’ male del fatto che dovessero nascondersi a quel modo.
- Il mio problema è che manco di coraggio, Dom – esordì Federico, mentre, all’interno della tasca, gli carezzava il dorso della mano con il pollice. – E anche le cose stupide mi fanno perdere la bussola. –
Lui non pensava che Federico mancasse di coraggio. Aveva lasciato la sua città, la sua famiglia, e una persona importante per lui, perché credeva che sarebbe stato meglio così: e poi si era avvicinato a lui, quando di pazienza ce ne voleva tanta, e si alzava dal letto tutte le mattine.
La nonna diceva che quello era il gesto che richiedeva più coraggio di qualsiasi cosa.
Dominik strinse le dita intorno a quelle di Federico.
- La nonna dice sempre che il coraggio è per le persone deboli. –
- Non ha molto senso – borbottò Federico, e Dominik sorrise, perché la prima volta che lo aveva sentito dire alla nonna, a sette anni, non ci aveva trovato un senso nemmeno lui.
- Si che ce l’ha. Solo le persone deboli hanno bisogno del coraggio. Le altre sono naturalmente coraggiose: sono come i grandi eroi. Gli eroi non sono coraggiosi: tutto quello che fanno, lo fanno per qualcuno. E quello non è coraggio, è affetto. Le persone deboli, invece, hanno bisogno di una dose di coraggio per fare qualsiasi cosa, non come gli eroi. E tu fai parte di quelli, Federico: fai parte delle persone naturalmente coraggiose, gli eroi, quelli che tutte le mattine si alzano dal letto.  –
- Se fossi così coraggioso come dici, le cose non andrebbero così. –
- Non confondere le persone deboli con quelle spaventate, Federico – lo ammonì.
Federico non rispose, ma la stretta forte delle sue dita intorno alle proprie valse qualsiasi risposta.
Continuarono a  camminare così, con le mani intrecciate nascoste, e Dominik iniziò ad avvertire un piacevole calore, all’altezza del petto: perché quelle mani protette dal tessuto del cappotto non erano più un gesto di vergogna, ma qualcosa di caldo e morbido dentro al quale sentirsi riparati.
Era Federico che lo circondava, e che faceva l’eroe per tutti e due.
- Federico? –
- Mh? –
- Quando arriviamo a casa? –
- Siamo quasi arrivati. Non ti piace stare in giro? – Dominik si strinse nelle spalle.
- Non tanto – confessò. Gli piaceva fare una passeggiata ogni tanto, ma l’idea di avere intorno tutte quelle persone, a Milano, dopo un po’ lo metteva in soggezione: e se era stato così bene con Federico, quel pomeriggio, adesso che era passato un po’ di tempo, la sua autonomia era finita, e aveva iniziato a sentirsi inqueto e osservato.
Federico fece scivolare la mano dalla tasca del cappotto, e lui uscì la sua: pensò che fossero già arrivati, ma c’era troppo rumore rispetto a quello che sentiva di solito dalla finestra di casa, segno che non potesse essere proprio quella la loro via.
Infatti, prima, il braccio di Federico, adesso libero, gli circondò il corpo, a sorpresa, avvicinandolo al suo: Dominik trattenne il fiato, ma continuò a camminare, seguendo Federico.
Quando sentì il suo fiato vicino ad un orecchio, sussultò.
- Anch’io non vedo l’ora di essere a casa – mormorò. – Sai perché? –
- Perché? –
- Voglio baciarti dallo stesso momento in cui ti ho visto uscire dal Conservatorio. –
Dominik dischiuse le labbra, come in un muto invito a farlo, ma le rischiuse subito: Federico non l’avrebbe mai baciato lì, in mezzo alla strada, per colpa delle persone. Anche se gli sembrava assurdo, Federico continuava a dire che, se li avessero visti, sia uomini che donne avrebbero preso a far loro problemi, e non aveva alcun senso mettersi nei pasticci quando avevano una casa tranquilla nella quale baciarsi per tutto il tempo in cui avessero voluto.
Stava per dirglielo, quando fu distratto dal tintinnio delle chiavi e dal caratteristico clac grave del portone di casa che si apriva. Seguì Federico dentro, nell’androne, fino alla porta di casa.
Fu allora, quando anche quella fu chiusa alle sue spalle, che Federico lo afferrò per il colletto del cappotto, spingendolo indietro fino a cozzare con la schiena contro il muro.
Quello, insieme alle labbra di Federico che premevano sulle sue con una strana frenesia, gli procurò un brivido di eccitazione lungo la schiena, prima che il cuore prendesse a battere nel petto in un misto di frenesia e panico. Perché se da un lato i baci e i tocchi di Federico accendevano una scia bollente sulla pelle e dentro a petto, dall’altro lato sentiva che, se non fosse stato attento, avrebbe perso il controllo del mondo intorno, perché tutto era già in confusione: nel buio, non era riuscito a inquadrare la stanza, l’ordine in cui erano sistemate le cose, e i suoni, perché tutto, adesso, si era concentrato nel calore che sentiva addosso e dentro, e nelle proprie mani ancorate al cappotto di Federico, sul petto. Glielo sbottonò senza rendersene conto, perché era ingombrante, e freddo, e fastidioso. E Federico, in un attimo di sgomento, lo lasciò fare, lasciandoselo sfilare dalle spalle: lo aveva percepito, quell’interrogativo, nell’incertezza con la quale aveva accompagnato un altro bacio, e con la quale aveva poi provato a sfilargli la tracolla da sopra la testa.
Dominik lasciò che la borsa, insieme al cappotto, finisse sul pavimento, e quando la schiena cozzò di nuovo contro la parete, questa volta ne avvertì la temperatura fredda attraverso il maglione. Ma non si allontanò da lì: lasciò invece che le labbra di Federico lo consumassero, che scendessero sul suo viso, fino al collo, che il suo corpo gli si premesse addosso.
Era tutto naturale, adesso. Non stava succedendo perché erano a letto, sotto le coperte, ed era notte. Accadeva così, perché erano appena tornati a casa e avevano voglia di scambiarsi pezzi di cuore. Per questo era tranquillo, per questo credeva di poterlo controllare: perché non era la situazione ad obbligarlo. Stava succedendo, e avrebbe potuto fermarsi in qualsiasi momento.
E tutto sarebbe andato bene.
Dominik reclinò il capo indietro, contro il muro, mentre le labbra di Federico lasciavano una scia umida sul suo collo, sotto l’orecchio, in un brivido caldo: aveva le mani immerse nei suoi capelli, e si sentiva addosso una strana adrenalinica potenza, la sensazione di poterlo controllare, di avere potere su di lui attraverso quelle mani, nonostante fosse lui, tra i due, quello schiacciato contro il muro. Federico risalì fino alle sue labbra, intrappolando quello inferiore e strattonandolo appena, mentre le sue mani sui fianchi, sulle cosce, si facevano pretenziose.
Quando la mano di Federico gli scivolò lungo l’inguine, Dominik spalancò gli occhi nel buio, ancorando le mani sulle spalle dell’altro ragazzo. La scossa che lo aveva raggiunto fino al cervello era stata diversa dal solito, da quelle adrenaliniche quando Federico lo baciava: era stata simile, ma allo stesso tempo diversa, più morbida eppure ancorata più in profondità, in un punto imprecisato del suo corpo che lo aveva spaccato a metà tra l’istinto di respingere Federico e quello di abbandonarsi contro il muro e lasciare che lo toccasse ancora.
Sarebbe bastato pochissimo per far sì che quella metà superasse la metà e vincesse l’istinto di correre via: sarebbe bastato aspettare un po’, lasciare che Federico continuasse, e tutto sarebbe venuto da sé. Eppure, quando gli circondò il viso con le mani, e poi gli accarezzò  le spalle e le braccia, quando sentì il corpo di Federico addosso, la sua eccitazione sotto la pelle, e sotto i vestiti, la metà coraggiosa di sé parve farsi ancora più piccola e rintanarsi in un angolino, insieme alla poca aria rimasta nei polmoni, mentre il buio lo avvolgeva e lo mandava in iperventilazione.
I tocchi di Federico si fecero allora più gentili: le sue labbra tornarono a baciarlo come se avessero davanti tutto il tempo del mondo, e anche le sue carezze si fecero più delicate, sul corpo. E Dominik si sentiva spaccato in due metà che si strattonavano e si fondevano, il panico e qualcosa di assimilabile al desiderio, alla curiosità di sentire sotto i polpastrelli la pelle di Federico.
Espirò, contro le labbra di Federico, un soffio caldo che gli rimbalzò addosso, o forse quello che lo aveva raggiunto era il respiro di Federico che si fondeva con il suo. Gli strinse le braccia intorno al petto, la fronte premuta forte contro il suo sterno, nel desiderio di spaccarsi del tutto e lasciare che le due metà si dividessero: quale avrebbe seguito? Quella che scappava in camera sua, o quella che restava con Federico, sotto le sue mani?
Un altro soffio caldo lo raggiunse sull’orecchio, un sospiro esasperato, eppure perso nel silenzio: Federico non parlava, non diceva niente. Federico era tutto nei baci soffici che gli lasciava sulla tempia, sul collo, sulla spalla, mentre lui piegava docile il capo.
- Mi sta venendo voglia di non andare a lavoro stasera – lo sentì mormorare.
- Sono sempre qui quando torni. –
- Non è lo stesso. -
Dominik gli strinse le mani sulla schiena, ancorandosi al suo maglione.
Non sarebbe stato lo stesso, lo sapeva anche lui: nelle ore di assenza di Federico, sarebbe riuscito a ricucire le due metà. Gli venne per un attimo la malsana idea di pregarlo di non andare, di fingersi malato, e di restare lì, spingerlo contro il muro fino a spaccarlo del tutto e rompere quei fili sottili che univano le sue due metà, scoprire dove lo avrebbe portato tutto quello. Gli baciò il petto, da sopra il maglione, e Federico lo strinse più forte: non era uno di quegli abbracci che gli riservava di solito, con quella morbidezza dell’affetto. era un abbraccio che trasudava desiderio, le terminazioni nervose tese allo spasimo per rubare quanto più contatto possibile.
- Se vuoi, posso chiamare e dire che sono malato. Trovo qualcuno che mi sostituisca. –
Non gli sfuggì la sfumatura di eccitazione, il tono roco della sua voce, il modo in cui, inconsapevolmente, Federico lo spinse un po’ più contro il muro.
Le due metà si stavano allontanando ancora, e forse davvero si sarebbe spaccato, o gli si sarebbe spaccata la testa: perché il buio si era fatto troppo opprimente, e l’indecisione rendeva tutto ancora più asfissiante.
Dominik spinse la fronte contro il petto di Federico: poteva sentire, attraverso la gabbia toracica, il suo cuore che batteva a ritmo regolare ma con più forza, come se si stesse spremendo con tutte le sue forze e il mondo fosse tutto concentrato in quel cuore che batteva.
Anche il suo batteva così, ma molto più velocemente: era il panico, quello, insieme all’indecisione, e all’eccitazione.
- Devi andare a lavoro, stasera – gli disse, e fu abbastanza perché Federico capisse.
Nonostante il sospiro profondo, però, non disse nulla.
Non era pronto a spaccarsi del tutto.
Era stato abbastanza, per quella sera, scoprire di essere fatto di carne in una percentuale maggiore di quanto immaginasse, capire di non poter avere il pieno controllo di se stesso quanto credeva, un po’ come gli animali, prede dell’istinto.
Lo stesso istinto che lo spingeva contro Federico, pronto ad afferrarlo per il maglione e trattenerlo mentre si staccava da lui e si allontanava.
Era così facile, per tutti, lasciarsi prendere dall’istinto: per lui, tutti i giorni era una battaglia persa in partenza, perché quello stesso istinto gli metteva troppa confusione in testa, e tutta quella confusione avrebbe distrutto le fondamenta del suo mondo.
Era stato abbastanza, per quella sera. Tutto quello era stato abbastanza, ed era stato troppo.
- Dom? – Federico non lo aveva lasciato andare del tutto: anche se si era allontanato, aveva ancora le mani morbidamente adagiate sui suoi fianchi. Il tono di voce era quasi normale, ma non gli sfuggì la sfumatura di esasperazione. Non voleva irritarlo, non voleva farlo arrabbiare, ma stava diventando tutto troppo grande per una persona sola, per un cuore e un corpo soli.
- Che c’è? – gli rispose, quasi stizzito, perché l’irritazione che provava verso se stesso e verso il mondo non l’aveva ancora abbandonato.
Federico, stranamente, ridacchiò.
- Siamo nervosetti? – lo prese in giro. Dominik boccheggiò, stupito, non sapendo come controbattere. Quando la mano di Federico sfiorò la sua, ci strinse spasmodicamente le dita intorno.
- No – rispose subito, più per istinto che per verità.
Le labbra di Federico lo raggiunsero quando si stava ancora consumando la “o”, cogliendolo di sorpresa e senza fiato. La sua mano, invece, con ancora la propria ancorata intorno, si mosse verso il basso: Dominik era incapace di contrastarlo, più per curiosità che per debolezza.
- Lo vedi cosa succede tutte le volte? – gli mormorò sulle labbra. Dominik strinse con forza gli occhi, come se, tenendoli aperti, avrebbe mai potuto vedere chissà cosa: ma erano lo stupore, e il panico, a renderlo così nervoso. Stava toccando una parte del corpo di Federico che non si era mai nemmeno permesso di immaginare e che, se non fosse stato per la mano di lui che aveva guidato la sua, non avrebbe mai neppure sfiorato.
Eppure, insieme all’imbarazzo e alla fifa, sentiva dentro una sensazione che lo aveva portato a non ritrarre subito la mano, come avrebbe fatto in altre situazioni, ma a lasciarla un po’ lì, preda di una sana curiosità, prima di sfilarla via da quella di Federico e portargliela su una spalla.
Non gli era sfuggito, nello stesso istante in cui lo aveva toccato, il sospiro di Federico, diverso dal solito, quasi un’espirazione liberatoria. A quel sospiro, a quel sono, Dominik aveva subito associato la sensazione che aveva provato lui quando Federico lo aveva toccato proprio nello stesso punto.
Con la schiena ancora contro il muro, reclinò il capo indietro.
Approfittando del movimento, Federico si chinò, lasciandogli un bacio sulla sporgenza prominente del pomo d’Adamo. Dominik lasciò che lo facesse, godendosi il contatto umido e caldo delle sue labbra. Poi, Federico lo accarezzò, sul viso bollente.
- Prepariamo la cena, dai. Dopo devo andare al lavoro – gli mormorò sulle labbra, prima di baciarlo.
Un bacio appena accennato, uno sfiorarsi di labbra.
Gli girava la testa, adesso che Federico non era più davanti a lui: la testa girava, faceva caldo, e avvertiva uno strano nervosismo, uno scuotersi di terminazioni nervose sotto la pelle.
Solo dopo, quando Federico doveva già essere in cucina, Dominik staccò la schiena dal muro.






Nota al capitolo 35: L'ultima volta che ho aggiornato è stato il 15 settembre: due settimane prima di un esame, e prima dell'inizio delle lezioni e dei tirocini all'università. 
Oggi è il 28 dicembre: avevo detto che avrei aggiornato lunedì, ma ho scritto ininterrottamente alle tre del pomeriggio per riuscire a finire oggi e aggiornare, altrimenti non sarei più riuscita a riprendere il filo e mi sarei tirata via altre due settimane, almeno. E poi ho altri tre esami: belle cose, vero? :(
Ecco, non riuscivo a scrivere perchè non avevo tempo: ora ne approfitterò per scrivere un po' di capitoli e portarmi avanti, così quando non avrò tempo di scrivere almeno sarò avanti con i capitoli.
Finalmente, però, oggi ho aggiornato: spero di ritrovarvi tutti, e che mi perdoniate per l'attesa, che ne sia valsa almeno la pena. Dominik e Federico mi hanno fatto penare in questo capitolo: essendo molto legato al capitolo precedente, forse è meglio dargli una lettura per riprendere le fila (io, da autrice che dovrebbe saperlo a memoria, ho dovuto farlo, ahimè!).
Ora non so più cosa dirvi, se non auguri di buon Natale in ritardo e di Buon 2014 in anticipo: questo è l'ultimo capitolo dell'anno, l'ultimo capitolo del 2013 di una storia che ho iniziato nel 2012. Fa un po' strano. Magari entro il 2014 riesco a finirla? Secondo i miei calcoli ho superato la metà della storia, ma i miei calcoli fanno sempre schifo.
Vi mando un bacio, e ci risentiamo sulla mia pagina facebook! <3
https://www.facebook.com/pages/Ventiquattro-pezzi-di-Esse/509052772480144
A presto,
Esse




 

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Capitolo 41
*** 36th: Evoluzione ***


Le cose cambiano perché assumono la forma di chi le usa.

Efraim Medina ReyesLa sessualità della Pantera Rosa, 2004

 
Chapter 36th: Evoluzione
 
Quel giorno di inizio Febbraio, Federico pensò che quello fosse un segno che la sua vita avesse preso la piega giusta. Quando aveva aperto le finestre, fuori tutto era diventato magicamente bianco: a Milano nevicava.
Aveva sperato di vedere una cosa come quella da quando era arrivato in quella città, mesi prima: si era quasi mangiato le mani quando, durante le vacanze di Natale, mentre si godeva il sole caldo di Palermo, tutti i telegiornali mandavano continuamente in onda le immagini del Nord Italia tormentato dalle continue nevicate.
E finalmente poteva vederlo anche lui.
Era uno spettacolo strano, meno magico e più reale di quanto avesse mai immaginato: dal cielo scuro cadevano fiocchi leggeri, che non appena arrivavano al suolo creavano una banda tutta bianca, che contrastava con il grigio scuro dell’asfalto.
Quando si era svegliato, Dominik era già uscito per la sua giornata al Conservatorio: lo aveva sentito armeggiare in bagno, ma aveva infilato il capo sotto le coperte per rubare qualche minuto di sonno in più, e alla fine, quando si era svegliato sul serio, l’orologio segnava già le nove e mezzo passate. In realtà, quando la sveglia aveva suonato, Federico aveva pensato che gli sarebbe piaciuto voltarsi verso Dominik e circondargli il corpo con un braccio, tormentandolo un po’ a furia di baci e facendogli fare tardi. Ma era troppo stanco: la sera prima era tornato dal lavoro alle due passate, e aveva trovato Dominik già a letto, con dei fogli sparpagliati sul suo lato del letto, segno che dovesse essersi addormentato dopo aver resistito quanto possibile, per aspettarlo sveglio.
Sono sempre qui quando torni. 
Sarebbe bastato pochissimo per svegliarlo a furia di carezze e convincerlo, quando era ancora ammorbidito dal sonno, a fare l’amore, a lasciarsi andare come aveva quasi fatto quando, prima di uscire per andare a lavoro, lo aveva praticamente assalito contro la parete del salotto. Se lo avesse svegliato, avrebbe potuto infilare la mano sotto la maglia del suo pigiama, godere del calore della sua pelle e del suo corpo intorpidito mentre non si era ancora svegliato del tutto.
- Credi che resterai così ancora per molto? Quei due aspettano di ordinare da almeno dieci minuti. – La voce di Samuele gli giunse ovattata alle orecchie, mentre era distratto a pensare a tutto quello che gli sarebbe piaciuto fare a Dominik non appena fosse tornato a casa dal lavoro. Dopo la voce, arrivò la pacca sulla spalla, e Federico si riscosse, voltandosi verso l’amico: quel giorno Samuele sembrava abbastanza allegro, o forse era diventato particolarmente bravo a fingere. Ma da quando era arrivato per il suo turno, due ore prima, si era comportato come al solito. – Stai guardando fuori da due ore. E’ solo neve! – lo prese in giro.
Fuori non nevicava più, ma lungo i bordi delle strade ghiacciate erano rimasti rivoli di neve bianca, che con tutto quel freddo non riusciva a sciogliersi.
Federico sorrise, ma non rispose alla provocazione: l’immagine di Dominik non era ancora sparita dagli occhi, e parlare l’avrebbe fatta volare via come dopo un soffio di vento, proprio quando gli pareva di sentirne il sapore dolce sulla lingua. Si staccò dal bancone al quale era appoggiato, ma prima che raggiungesse i due ragazzi fu intercettato da Giulio, il ragazzo nuovo, che andò a prendere gli ordini prima di lui. Così, con uno sbuffo, Federico tornò a schiacciare la schiena contro il bordo del bancone, le braccia conserte sul petto.
La neve di quel giorno aveva scoraggiato gran parte dei milanesi dall’uscire di casa: il locale, nonostante fossero già passate le sei del pomeriggio, era stranamente tranquillo.
Fissando le lancette dell’orologio appeso alla parete, Federico si chiese se, a quell’ora, Dominik dovesse essere già a casa; magari lo stava aspettando sul divano, paziente, o forse era così preso dal suo pianoforte e dalla sua musica da non riuscire a pensare ad altro.
- Allora? – lo chiamò Samuele, dandogli un colpo sul braccio. Si era fermato di fianco a lui, nella stessa posizione. Federico si voltò a guardarlo interrogativo.
- Allora che? –
- Con Dominik – lo incalzò lui, fissandolo come se avesse appena detto un’ovvietà.
- Meglio, diciamo. Non vuole che me ne vada. –
- Questo era ovvio. –
- Era ovvio per te, forse. –
- Era ovvio per chiunque non fosse idiota – rispose Samuele. Aveva le labbra arricciate nello sforzo di trattenere il sorriso affioratogli sulle labbra.
- Mi stai dando dell’idiota? – Samuele si strinse nelle spalle, il tessuto del maglione teso sulle braccia quando i suoi bicipiti si contrassero.
- Quindi state ancora insieme? –  Federico non sapeva precisamente cosa rispondere: non aveva idea se quello che c’era tra lui e Dominik potesse essere definito esattamente uno stare insieme. Con Manfredi era stato semplice definirlo: non erano più stati amici, per cui erano diventati amanti. Stavano insieme. Ma lui e Dominik non erano mai stati propriamente amici, e adesso non stavano esattamente insieme: si piacevano, si attraevano, eppure era come se mancasse qualcosa.
Il futuro, probabilmente. Il fatto che l’idea del futuro fosse così sfumata rendeva difficile immaginarsi effettivamente insieme.
- Sì, diciamo di sì – disse alla fine, dando, per comodità, una definizione al loro rapporto.
- E? – lo incalzò Samuele. Federico lo fissò dal basso, sollevando le sopracciglia.
- E…? – La gomitata di Samuele gli arrivò dritta tra le costole.
- Dai, hai capito! – Federico continuò a fissarlo interrogativo, e Samuele sbuffò. – Avete fatto sesso, sì o no?! – chiese alla fine, spalancando le braccia come in un gesto liberatorio.
Federico si irrigidì, e se non fosse stato per il fatto che di fronte avesse proprio Samuele, sarebbe anche arrossito. Si vergognava, un po’: aveva venticinque anni, un ragazzo, e non faceva sesso da due mesi. Con Dominik non ci aveva mai fatto sesso e basta.
- No – borbottò, abbassando lo sguardo e incrociando più forte le braccia sul petto, in un gesto di stizza. Samuele non disse niente per più di un minuto, limitandosi a fissare un punto imprecisato di fronte a sé: se avesse detto qualcosa, probabilmente sarebbe stato meglio. Invece rimase zitto, e Federico liberò le braccia. –  Secondo te è sul serio gay? – confessò alla fine.
Su quel dubbio si era arrovellato per due settimane, negli ultimi tempi.
All’inizio, aveva pensato semplicemente che Dominik non fosse pronto ad affrontare il sesso, a lui sconosciuto, perché credeva di poterne fare a meno, o perché non voleva impegnarsi troppo. Ma dopo le loro ultime litigate, pensare che lui provasse davvero dei sentimenti ma che non volesse essere nemmeno sfiorato era un controsenso. Aveva iniziato a pensare, così, che quel sentimento che li unisse fosse qualcosa di semplicemente platonico da parte di Dominik, che avesse trovato in lui un confidente, un compagno, l’unica persona che gli si era avvicinata negli ultimi anni, o forse da che era nato: e in tutto quel caos di sentimenti, poteva aver confuso per amore un semplice affetto. D’altronde, lui lo aveva baciato, cogliendolo di sorpresa e imponendogli la propria attrazione, rendendogli così facile la confusione tra ciò che provava realmente e ciò che avrebbe potuto provare, magari in futuro.
Tutte le volte che pensava al passato, Federico se ne convinceva un po’ di più: con Manfredi era impossibile stare nella stessa stanza senza sentire il desiderio di baciarsi, di toccarsi, di fare l’amore. Quando si trovavano nella sua camera da letto, a studiare, finivano sempre per sfiorarsi di nascosto sotto il plaid a righe di Federico dopo nemmeno dieci minuti. Con Dominik dormiva nello stesso letto da settimane, e lui non lo aveva mai toccato.
Poteva essere tutto lì, il succo del problema: a Dominik lui piaceva, ma non nello stesso senso in cui lui piaceva a Federico. Se per Federico era attrazione, per Dominik poteva rappresentare solo un sincero affetto.
E quando era vicino a convincersene, a spiegarlo anche a lui, succedeva che le sue convinzioni venivano rivoluzionate: perché Dominik lo baciava cogliendolo di sorpresa, o ripensava alla loro doccia insieme, o accadeva qualcosa che gli faceva fremere le terminazioni nervose. Come la sera prima, quando lo aveva baciato contro il muro di casa: Dominik era parso preso sul serio, anche fisicamente, e la reazione del suo corpo non poteva essere fraintesa con un affetto fraterno.
Forse, semplicemente, i rapporti tra le persone erano diversi.
Forse non avrebbe avuto mai con nessuno lo stesso rapporto che c’era stato con Manfredi, né quello che adesso c’era con Dominik. Forse un giorno avrebbe conosciuto un altro uomo e ci avrebbe creato qualcosa di ancora diverso.
- Lo sai cosa mi piace del tuo dialetto? – lo apostrofò Samuele, cambiando del tutto discorso.
Si aspettava che lo avrebbe rimproverato, o rincuorato, o che ne avrebbe comunque discusso con lui. Invece se ne usciva con qualcosa che non c’entrava proprio niente.
- Cosa? – gli disse ugualmente. Samuele parve pensarci su.
- La parola minchia. La trovo molto più incisiva della parola cazzo – spiegò. Quella parola, detta da lui, con quel suo accento fresco da milanese, assumeva un suono quasi grottesco. Federico rimase interdetto, ma Samuele gli diede un colpo sulla nuca così all’improvviso da fargli quasi perdere l’equilibrio, nonostante non fosse stato poi così forte. – Pensa quanto è incisivo quando ti ricordo che dici sempre minchiate! –
Federico si massaggiò la nuca, ritraendosi dal bancone.
- Ma sei scemo?! – lo apostrofò, ma quello stava già ridendo, un po’ leggero.
- Ti insegno una regola semplicissima per capire a grandi linee se un tizio è gay oppure no. Certo, si deve sempre approfondire, non è una regola sempre valida, ma di solito funziona. – Federico lo osservò dal basso, in attesa, e le mani di Samuele si strinsero sulle sue spalle. – Se quando lo baci gli diventa duro, allora è gay – snocciolò semplicemente, dandogli un buffetto sulla guancia.
Federico gli diede uno spintone, e la risata di Samuele riempì il locale semivuoto, quasi sovrastando il suono che proveniva dal televisore sintonizzato su un canale che trasmetteva musica.
- Sei proprio un cazzone! –
- E tu ti fai prendere per il culo troppo facilmente! –
Ormai ridevano entrambi, ed era così facile sentirsi più leggeri, privi di pensieri, quando c’era Samuele vicino: ma solo quando era di buonumore come quel pomeriggio. Era più allegro, divertente, e persino più disinibito di quanto lo ricordasse. Forse aveva ragione lui, Dominik era gay e lui si faceva troppe paranoie e basta; e, in ogni caso, non gli andava di litigare di nuovo per una scemenza quando le cose parevano aver appena preso la piega giusta.
Era convinto che la sera precedente, se non avesse avuto il turno a locale, lui e Dominik sarebbero finalmente finiti a letto insieme.
- Visto che pensi di conoscere Dominik così bene, sarai felice di venire a cena per il suo compleanno - gli disse poi.
- E’ il compleanno il Dominik? –
- Il 10. Alle sette a casa mia. Non accetto rifiuti – lo ammonì.
Samuele, forse, non lo stava nemmeno più ascoltando: aveva puntato gli occhi sull’entrata, dove la porta si era appena richiusa alle spalle di un uomo alto nascosto sotto un cappotto scuro, una pesante sciarpa e un cappello. L’unico particolare rimasto visibile erano gli occhi.
Federico avrebbe riconosciuto occhi come quelli tra milioni, nonostante li avesse visti una sola volta: erano di quel tizio di nome Mattia, lo strano amico di Samuele.
Quello che sudava sesso.
Il cobra.
E il cobra stava attraversando il locale sotto gli occhi di Samuele.
Federico ne seguì il percorso, certo che non si sarebbe mai seduto ad un tavolo come tanti, ma che avrebbe raggiunto proprio loro: per questo non fu stupito quando lo vide giunto ormai vicino, mentre con le mani si sfilava il cappello e la sciarpa. Sotto quei vestiti c’era nuovamente il viso del bell’uomo che Federico aveva visto la prima volta: la mandibola squadrata, la barba scura, le labbra sottili, gli occhi allungati. E quel terribile sorriso.
Uno come quello sarebbe potuto essere responsabile di un’alta percentuale di tradimenti.
Quando se lo trovò vicino, Federico fece finta di non averlo seguito con lo sguardo: quel tipo lo metteva in soggezione, lo faceva sentire a disagio, nonostante pareva non essersi nemmeno accorto della sua presenza, con gli occhi azzurri che teneva fissi su Samuele. Quando fu abbastanza vicino, si fermò di fronte al primo sgabello libero, allo stesso tempo a distanza di sicurezza.
La cosa che lo colpì, però, fu il tono morbido con cui Samuele parlò.
- Ciao – lo sentì dire, e il suono soffice della sua voce, allo stesso tempo grave, che partiva dritta dal petto, lo superò, leggero come un soffio di vento, stridente come una carezza mancata, perché era tutto diretto all’altro uomo che aveva davanti.
Mattia inclinò il capo da un lato.
- Ciao Samuele – rispose al saluto, con un sorriso che era più una smorfia, gli angoli delle labbra sollevati verso l’alto.
Federico si chiese allora, per la prima volta, cosa diavolo fosse successo, perché la voce di Samuele fosse così morbida e perché il sorriso di Mattia non fosse più così ironico come al solito.
Ma prima che potesse anche solo chiederselo, la bolla si ruppe, e tutto tornò come prima.
Accadde nel momento in cui Mattia si spostò e si sedette sullo sgabello che aveva davanti, facendolo ruotare appena: Samuele sussultò, si passò una mano sulla nuca, e si staccò dal bancone al quale era appoggiato.
- Allora, cosa ti preparo? – bofonchiò, tornando al suo posto da barista e armeggiando con i bicchieri nel lavello. Mattia si strinse nelle spalle, incrociando le mani sul bancone.
- Niente – disse semplicemente. -  Non sono qui per bere. Sono venuto a trovarti. –
Samuele alzò lo sguardo, guardandolo di sottecchi.
- Dai, non fare lo scemo. Cosa ti faccio? – insistette. Mattia si aprì in un sorriso divertito, abbassando il capo: in quella posizione, a causa di un effetto ottico, le ciglia parevano sfiorargli gli zigomi come morbide carezze. Quando alzò lo sguardo, fissò Samuele con una strana luce negli occhi.
- Ok, se proprio insisti puoi farmi un pom.. –
- Mattia!! –
Il rimprovero di Samuele echeggiò nel locale quasi vuoto, mischiandosi alla risata di Mattia, che sollevò un braccio per ripararsi dalla frustata che l’altro provò a dargli con lo strofinaccio che aveva in mano.
- Dai, non fare così. Lo so che queste cose non si dicono davanti ai bambini – si scusò ironicamente, ammiccando in direzione di Federico.
Samuele sbuffò, lasciando cadere lo strofinaccio sul bancone e allargando le braccia, come in un gesto di resa. Sarebbe stato bello se si fosse arreso per davvero a quella strana cosa che evidentemente c’era con Mattia, se avesse saltato quel bancone e lo avesse afferrato per baciarlo lì davanti a tutti. Magari, più tardi Mattia sarebbe andato a cercare Riccardo e l’avrebbe preso a calci sul suo bel culo da avvocato. Invece, come nelle peggiori occasioni, Samuele incrociò le braccia sul petto.
- Dai, sul serio non vuoi bere niente? – lo incalzò, come se il fatto che quell’uomo non volesse nulla fosse un affronto personale. Mattia strinse le mani tra loro, e le nocche gli divennero bianche: poi, morbidamente, le lasciò andare, stendendole sul bancone.
- Ti ho detto di no. Ero in zona per incontrare un fornitore e sono passato a salutare. Devo tornare in negozio prima che quella ragazzina combini qualche guaio! – Samuele sorrise, le braccia ancora strette e ancorate di fronte al petto, come se potessero rappresentare una barriera.
Anche il fatto che si fosse spostato, che si fosse quasi nascosto dietro al bancone, ponendo il legno come difesa tra lui e il corpo di Mattia, rappresentava una barriera.
E nonostante tutti i muri che avrebbe potuto metterci nel mezzo, tutte le volte che Mattia alzava il capo e gli rivolgeva un’occhiata, Samuele faceva un piccolo passo indietro, verso il muro, come colpito, ogni volta, da un bacchettata sui piedi.
Federico, in quel vortice di colpi e parate, si sentiva escluso.
Così, mentre Mattia sollevava di nuovo gli occhi, e Samuele si preparava ad arretrare tanto da cozzare con la schiena contro il frigorifero, si schiarì la voce.
- Allora, Samuele? – Quello sobbalzò.
- Allora cosa? –
- Ci vieni o no a cena a casa mia? – gli ricordò.
- Ah sì, il compleanno di Dominik! Va bene, dai, certo che ci vengo – disse alla fine. Federico sorrise, voltandosi verso Mattia, che stava disegnando con i polpastrelli delle onde curve sul bancone.
- Puoi dirlo a qualcuno, magari…Mattia, perché non vieni anche tu? – lo apostrofò, come se fosse stata una casualità.
In realtà non lo era. Non che lo avesse calcolato, ma il fatto che Mattia fosse arrivato al locale proprio mentre lui invitava Samuele poteva benissimo essere un segno divino. E lui era sempre stato bravo a sfruttare le occasioni quando gli si presentavano, o, almeno, lo era stato quasi sempre.
Mattia sussultò, come se fosse sorpreso che qualcuno gli avesse rivolto la parola, e i suoi occhi azzurri, spaesati, saettarono per la sala, prima di posarsi su Samuele e sul profilo della sua mandibola: fu proprio Samuele, prima che potesse rispondere, a intervenire per lui.
- Non fa per lui, Federico – borbottò, ma Mattia tirò fuori un’espressione entusiasta.
- Stai scherzando? Io adoro i compleanni! Sai, con tutti quei cappellini colorati, le stelle filanti… - disse, con aria sognante e divertita. Poi batté la mano sul tavolo. – Poi, se ci sarai anche tu sarà divertentissimo! – Samuele, di fronte alla sua espressione maliziosa, spinse il busto in avanti, puntandogli il dito contro.
- Se stai pensando di farmi ubriacare per portarmi a letto, toglitelo dalla testa! –
- Non l’ho mai pensato, come ti permetti? – rispose lui, fingendo un’espressione scandalizzata.
Samuele si schiarì la voce, trattenendo una risata, Mattia ammiccò, divertito.
- Facciamo così. Io prometto di non farti ubriacare per portarti a letto, e tu, in cambio, domenica mi inviti a pranzo a casa tua. -  Tese la mano in avanti, sul bancone, il palmo volto verso l’alto. Aveva la pelle chiarissima e liscia, come se quelle mani non le avesse mai usate da che era nato: quelle di Samuele, Federico lo ricordava, avevano i calli che si era procurato in tanti anni di palestra, con i pesi.
- Affare fatto? –
Samuele fissò il profilo di quelle dita come se fossero carboni ardenti e qualcuno lo avesse condannato a toccarli e bruciarsi tutta la pelle.
Poi, con un gesto repentino, ci poggiò la mano sopra, palmo contro palmo.
- Affare fatto. –
Federico sorrise, afferrando il vassoio che aveva lasciato sul bancone.
- Vado a prendere due ordini! – annunciò a voce alta.
Ma, si rese conto subito, quei due non lo stavano ascoltando.
 
 
§§§
 
Il violino di Sofia stava suonando Strauss.
Era così che andava.
Non era Sofia a suonare il violino.
Semplicemente, Sofia rappresentava il mezzo attraverso il quale la musica si liberava nel mondo, attraverso il suono tagliente eppure soffice di quello strumento di ottima fattura.
Una volta, Sofia glielo aveva fatto sfiorare con le dita. Non permetteva mai a nessuno di avvicinarsi al suo violini, ma lui, aveva detto, era diverso, perché toccare il legno rappresentava per lui l’unico modo per vederlo, e perché ne era degno, perché non avrebbe sporcato la musica sacra del violino con le sue dita: così ne aveva sentito il profilo fiero sotto i polpastrelli, il legno lucido e freddo intriso di sacralità
Adesso, nella sala troppo grande del Conservatorio, quella dove si tenevano le lezioni di ensemble con tutti i maestri e tutti gli allievi, nell’ultima ora prima di pranzo, la musica di Strauss rappresentava la tenda soffice che lo separava dal mondo e che lo privava di quella sensazione spiacevole che sentiva dentro al petto.
Non riusciva a definirla, ma riusciva a darle un colore: era senape, il colore più brutto che potesse esistere al mondo, quello che aveva assimilato alla paura e a tutti i sentimenti più brutti e spaventosi.
Era senape.
E se avesse dovuto darle un nome, piuttosto, sarebbe stata un misto di irritazione, angoscia e senso di soffocamento.
Dominik si sentiva in quel modo dalla sera prima, quando Federico si era chiuso la porta di casa alle spalle e lui era rimasto da solo. Quando aveva sentito lo scatto rumoroso della serratura, e poi il silenzio, quella sensazione era calata come una coperta a soffocarlo, dritta sul viso, rubandogli l’aria. E anche se aveva suonato tutta la sera, e studiato, anche se ad un certo punto aveva acceso la radio, anche se alla fine era andato a letto per addormentarsi, quella sensazione spiacevole non lo aveva abbandonato, nemmeno al mattino, quando aveva avvertito vicino il calore del corpo di Federico, a letto.
Non aveva fatto che ripensare a se stesso contro il muro, per tutto il tempo.
Lo aveva toccato.
E Federico aveva toccato lui.
Ma la cosa che gli provocava più sgomento, era che, in quel momento, gli avrebbe permesso di fargli qualsiasi cosa. Sarebbe rimasto inerte contro il muro, con le terminazioni nervose tese allo spasimo verso Federico, e lo avrebbe baciato per ore, lasciandosi persino spogliare, o fare chissà cosa. E non aveva avuto paura.
Aveva avvertito decine di sensazioni contrastanti, ma non la paura, quella vera.
Imbarazzo, irritazione, curiosità, ma non paura.
E non lo sopportava, perché sentire quelle cose aveva significato perdere il controllo su se stesso e sul suo mondo, ed era inconcepibile anche solo immaginare di sentirsi preda di qualcun altro, non avere più la piena libertà di comandare se stesso e quello che aveva intorno. Eppure glielo avrebbe permesso, glielo avrebbe lasciato fare: se Federico non fosse andato via, se avesse fatto pressione su di lui appena un altro po’, gli avrebbe lasciato distruggere con un colpo la barriera piena di ordinati comparti stagni di cui si era circondato.
Invece Federico aveva ceduto, ed andato a lavoro, e lo aveva lasciato con quella sensazione addosso, così appiccicosa che non riusciva a togliersela di dosso: era nervoso, disorientato, pronto a scattare come una molla al minimo stimolo esterno.
Per questo, la maestra non faceva che dirgli da quella mattina di essere distratto, e di cercare di tornare in sé prima delle loro lezioni del pomeriggio: aveva dovuto mordersi le labbra per non sbottare e risponderle male. Non era mai successo che se la prendesse così, che sentisse, sotto la pelle, di essere pronto a perdere il controllo.
Ecco allora che il violino di Sofia lo calmava, lo illudeva di poter riprendere il controllo su tutto, anche su quella sensazione di vuoto che aveva al centro del petto, e su quel formicolio che sentiva alle gambe e al ventre.
Dominik distese le mani sulle cosce, separando le dita e concentrandosi sul calore dei polpastrelli attraverso la stoffa dei pantaloni: si concentrò affinché fossero tutti alla stessa distanza l’uno dall’altro, poi li unì, poi li divise di nuovo attentamente. Anche quello, insieme alla musica di Strauss, serviva a calmarlo. Quando però pensava che, a quella spiacevole sensazione che stava provando, si sarebbe aggiunta quella che avrebbe sentito al ritorno a casa di Federico, neppure Strauss riusciva a rimettere ordine.
Alcune volte, quando si trovava a casa da solo, smetteva di suonare senza rendersene conto.
Succedeva che, mentre si dedicava ad un esercizio o permetteva a Chopin di librarsi nella stanza, il pensiero di Federico, di una sua battuta scema o di una sua domanda, si insinuava nella mente strisciando come un serpente. Allora, senza che se ne fosse consapevole, le dita rallentavano e poi si fermavano, perché la musica aveva perso il suo filo conduttore e le mani non avevano più saputo quali tasti accarezzare. Poi, quando se ne accorgeva, riprendeva il filo e tornava a suonare.
Non si arrabbiava, quando accadevano cose così.
Succedeva semplicemente perché, nella rete intessuta dalla musica, Federico era una componente che doveva stare lì naturalmente, senza forzature. Piuttosto, strapparlo da lì sarebbe stata una forzatura, perché la musica doveva scegliere da sola le strade da intraprendere.
Come per Sofia con il suo violino, anche lui era semplicemente lo strumento che la musica utilizzava per venire morbidamente fuori dal pianoforte.
Nessun uomo al mondo sarebbe mai dovuto essere definito un grande musicista.
E’ la musica a decidere per se stessa.
Colui che suona diventa a sua volta uno strumento.
Un uomo che definiva se stesso un grande musicista, un esecutore perfetto, dimostrava già di non esserlo affatto, perché pretendeva di comandare la musica, di essere più bravo della musica stessa.
Dominik non voleva essere un grande musicista, vincere premi, girare il mondo.
Lui voleva essere come Einaudi quando lo aveva ascoltato alla radio, come Mozart quando aveva impressionato il mondo.
Voleva essere abbastanza da riuscire a zittire una stanza piena di persone liberando la musica.
E se poi qualcuno avesse parlato di lui come di un grande musicista, avrebbe saputo di essere riuscito, in parte, a dare alla musica lo spazio che meritava.
Era in tutto quello che si incastrava Federico, e che si incastrava anche ciò che lui stesso diventava quando c’era Federico. Dentro quella musica dovevano starci anche quelle sensazioni: i baci, le carezze, le battute. Anche il sesso. Anche quello che gli avrebbe permesso di fare la sera prima se le cose fossero andate diversamente.
Affinché la musica fosse reale, lui stesso doveva essere reale, lui stesso avrebbe dovuto metterci dentro tutto ciò che era stato, che era, e che sarebbe diventato, anche grazie a Federico.
- Marek, allora! Come va? –
Prima della voce, Dominik riconobbe il profumo pungente. Quando poi lo sentì parlare, ebbe la conferma che si trattasse univocamente di Rafael.
Il fatto che avesse preso a non sopportarlo era in parte legato alla loro ultima chiacchierata, quando gli aveva proposto una cena a casa sua, per far piacere a sua sorella. Quando, però, lui lo aveva bellamente ignorato per le settimane successive, aveva immaginato che non lo avrebbe più disturbato. Adesso, che si sentiva già nervoso, che il violino di Sofia aveva appena smesso di suonare e che si stava diffondendo un irritante chiacchiericcio, sperava solo che lo avrebbe lasciato in pace il prima possibile.
- Bene – borbottò. Aveva ancora le mani strette sulle cosce.
- Oggi hai suonato bene. Dobbiamo suonare qualcosa insieme, qualche volta, io e tu. –
Dominik gli rispose con un mh disinteressato: non aveva alcuna intenzione di far incontrare la propria musica con la sua. Perché per quanto fosse universale, ogni musicista ci metteva dentro qualcosa di se stesso, e quello che ci metteva Rafael non gli piaceva per niente. – Senti, per quella cena? Va bene domani? –
Lo richiamò proprio quando si era appena messo in piedi per andare a prendere la borsa e dedicarsi al suo pranzo. Aveva preparato un panino con prosciutto cotto, mozzarella e pomodoro, quel mattino, prima di andare al Conservatorio, perché aveva in mente di suonare da solo, e stare da solo. La  prima lezione del pomeriggio sarebbe stata con la maestra, e l’ultima cosa che desiderava sarebbe stato sentirsi ripetere di essere distratto e di avere la testa tra le nuvole.
E proprio per stare da solo, avrebbe dovuto allontanare Rafael il prima possibile.
- No. Non veniamo. Te l’avevo detto che Federico non era interessato. –
- E dai, Marek, non fare lo stronzo! E’ solo una cena, ci divertiamo! Mia sorella è tanto contenta! – lo incalzò quello. Dominik sbuffò, avvertendo la fastidiosa sensazione di irritazione percorrergli le vene, fino alla punta delle dita e poi indietro, pulsando dritta al centro del petto.
Non voleva andare a cena da quell’idiota, e né a lui né a Federico importava niente di Szilvia. Voleva solo essere lasciato in pace, mangiare il suo panino e mettersi a suonare.
- Ho detto di no. –
Rafael gli poggiò una mano sulla spalla, in un gesto che sarebbe dovuto essere amichevole ma che aveva qualcosa di viscido. Lo allontanò con un movimento brusco, facendo un passo indietro.
- Perché no? Cos’è, ha la ragazza? Mica ci vuole tanto a dimenticarsi una ragazza…c’è mia sorella – cantilenò quello, e Dominik avvertì una brutta sensazione, come se la sua mano, viscida e calda, ce l’avesse ancora addosso e stesse cercando di insinuarglisi sotto la pelle.
Si passò la mano sul braccio, grattandolo: sarebbe parso un gesto casuale, ma in realtà era solo un modo per cancellare quel contatto dalla pelle.
Mica ci vuole tanto a dimenticarsi una ragazza.
Era il tono che aveva usato, ecco cosa.
Non l’insinuazione, non la cattiveria verso una ragazza che nemmeno esisteva, ma il tono: era il tono di una persona sicura, che conosceva il mondo e che sapeva come girasse.
Era l’insinuazione, la certezza, che Federico avrebbe messo in secondo piano un’ipotetica fidanzata per renderne felice un’altra.
E quel concetto di ragazza si estendeva a lui, lo avvolgeva e lo sporcava: rendeva verosimile la possibilità che Federico potesse dimenticarsi di lui, che non valesse abbastanza. Che Federico fosse una persona viscida, subdola e calcolatrice come tutte le altre.
Questo, più di ogni altra parola e interpretazione, lo fece sbottare.
- Federico non è così! – sibilò.
E fece una cosa che, se non fosse stato così nervoso, e spaventato, e arrabbiato, non avrebbe mai fatto.
Lo colpì: non con forza, e nemmeno con precisione. Semplicemente, spinse il braccio in avanti, orientandosi con l’udito, seguendo la direzione della sua voce, e colpì alla cieca.
Si accorse solo dopo di essere riuscito a raggiungerlo su un braccio, ma non con abbastanza forza per fargli del male, o spostarlo. Non gli importava di fargli del male: voleva solo ristabilire una supremazia, agire con la fisicità per imporsi sulle parole.
Il colpo di risposta lo raggiunse all’improvviso, al centro del petto, proprio vicino al collo: avvertì i polpastrelli delle dita di Rafael, dita sottili e ossute da violinista, scavargli alla base del collo, sopra le clavicole, come se volessero aprirci due buchi. Ma quando la resistenza del proprio corpo cedette, la forza delle dita diminuì, trasformandosi in uno spintone sul petto, dritto sopra lo sterno.
Dominik non si aspettava il colpo di risposta, non così forte: non era preparato. Per la sorpresa, tentò di  sostenersi sulle gambe, allargando le braccia, in aria, per non scivolare.
Il punto dove Rafael lo aveva colpito era caldo di sfregamento e umiliazione.
- Non ti riscaldare, ragazzino! Che c’è, ti piace il tuo amico? –
- Lasciaci in pace – borbottò.
Avrebbe voluto colpirlo ancora, e tese le braccia in avanti, le mani strette a pugno, e poi aperte, con le dita distese allo spasimo nel desiderio di afferrargli la faccia e stringerla sotto i polpastrelli, come aveva fatto lui intorno al suo collo. E non gli importava di essere cieco, di star brancolando nel buio, di sentire solo il sangue pulsare nelle orecchie in un ronzio fastidioso come un boato: aveva le mani tese in avanti, pronte ad afferrare qualsiasi cosa, qualsiasi parte del suo corpo, e di fargli male, più male possibile, anche fino a farsi sanguinare le mani.
Così si gettò in avanti, per finirgli addosso, e fu come precipitare nel vuoto, nel buio, perché non lo trovò dove si aspettava di sentirlo: sentì, invece le mani di Rafael spingerlo indietro, per le braccia, e poi chiuderglisi con forza intorno ai polsi. La fitta di dolore, come una lama lucente nel buio, arrivò solo quando, con uno strattone, lui gli piegò le braccia indietro, prima di spintonarlo malamente.
Dominik sentì di stare precipitando: un passo, due passi, le gambe rigide, le braccia tese indietro per cercare di frenare la caduta. Allora cozzò contro quella che doveva essere una sedia, e vi si aggrappò come se fosse un pilastro: quella scivolò, stridente, per qualche decina di centimetri, poi rotolò sul pavimento. Lui era rimasto in piedi, con un bruciore sul palmo della mano che aveva usato per aggrapparsi, e le gambe doloranti, e un calore fastidioso sul collo.
- Allora è così! Scusa, non sapevo eri homosexual!  - gli sibilò contro la voce di Rafael, quasi divertita. - Com’è che dite voi in Italia? –
- Culaton! – rispose una voce sconosciuta, nel dialetto che aveva imparato a riconoscere come quello della città in cui viveva da anni.
- Che fate, state insieme a darvi i bacini? Eh? – lo pungolò ancora Rafael. – Fate i finocche? –
Un botta e risposta che gli girava intorno come quando i bambini giocavano a moscacieca. Lui era la mosca al centro del cerchio, il bersaglio delle risate, delle insinuazioni, delle parole cattive.
Solo allora, quando quell’ultima parola lo raggiunse, tagliente come una sciabolata, Dominik ricostruì il mondo che aveva intorno e che stava al di là di Rafael e della sua rabbia.
C’era silenzio, uno strano silenzio condito di un bisbigliare soffuso, e di risatine: e poi c’era la voce acuta della maestra, quella grave del direttore dell’ensemble, una serie di rimproveri su quanto fossero squallidi, infantili e stupidi, su quanto gente che si comportava a quel modo non fosse degna neppure di varcare la soglia sacra del Conservatorio.
Ma Dominik non li ascoltava, non li sentiva, perché c’era un ronzio dentro le orecchie, quasi doloroso: faceva male, come le gambe che avevano battuto contro le sedie, come le braccia, come il collo dove Rafael lo aveva colpito.
Ma più di tutto, gli faceva male il cuore.
Era l’umiliazione.
E questa volta non era stato solo il tono di voce: erano state le parole, i colpi, e le risate, e l’indifferenza.
Lo avevano messo alla berlina, una pecora sacrificabile, il toro al centro dell’arena, pronto a ricevere i colpi mortali per far divertire la folla.
Come se ci fosse qualcosa di sbagliato in quello che lui e Federico stavano facendo, come se fosse illegale, o pericoloso, o degno di biasimo.
Tutto il mondo si stava concentrando su quelle parole.
Finocchi. Culaton.
Tutto il dolore era dentro al tono di voce.
Non si era mai sentito tanto umiliato, calpestato.
- Andate immediatamente tutti fuori di qui! Avete un’ora prima della prossima lezione, per consumare i vostri pranzi! Ed esigo che non si ripeta più uno spettacolo squallido come quello che ho visto oggi. – Era la voce della maestra, e tuonava in un tono grave che non le aveva mai sentito: la maestra non aveva mai alzato la voce, in cinque anni che la conosceva. -  Lovinescu, ci saranno delle conseguenze disciplinari per questo…per questo schifo. –
Aveva usato quella parola.
Schifo.
Non si era mai esposta con parole come quella: ci teneva sempre ad essere elegante, distante da tutto ciò che aveva intorno, come un’enciclopedia piena di paroloni.
E adesso diceva schifo, come una donna qualsiasi di fronte ad uno spettacolo indecente.
- E togliti di mezzo, frocio! –
La spallata arrivò anche quella a sorpresa, e Dominik scivolò due passi indietro, prima di riprendere l’equilibrio: farlo fu più difficile. Non riusciva più a irrigidire i muscoli: l’adrenalina era scomparsa, lasciando il posto solo al dolore.
Alcune persone pensano male di quelli come me.
Lo aveva detto Federico, una volta, mentre erano a casa insieme e lui gli aveva stretto un po’ il braccio.
Ci sono delle persone diverse, che capiscono quanto, in fondo, io e te non siamo diversi dal resto del mondo, e non facciamo niente di male. Però ci sono anche gli altri, Dom, e lo so che non è giusto.
Dominik strinse i pugni, affondando le unghie nel palmo della mano.
Serviva a ritrovare l’ordine e l’equilibrio: sfruttare il dolore alle mani per concentrarsi solo su quello, e lasciare poi che tutto il resto gli venisse alle orecchie, e alla mente, che gli permettesse di tornare a elaborare il mondo al di là della voce di Rafael e degli spintoni.
Perché hai ragione tu. Sono stupidi.
Inspirare, espirare. Distendere le dita, lasciarsi abbracciare dal silenzio.
C’era silenzio. L’unico rumore era il suono del suo respiro, e il regolare ticchettio che accompagnava i passi della maestra.
- Marek. – La sua voce parve rimbombare, in tutto quel silenzio.
Avrebbe tanto voluto sentire ancora il violino di Sofia suonare Strauss.
- Sono allibita e delusa. Un simile comportamento è imperdonabile, e l’ultima persona da cui me lo sarei mai aspettato eri tu. Mettersi a fare a botte! Qui! Come i barboni! – Mentre parlava la sua voce era salita di un’ottava, e pareva quasi un trillo, se non fosse stata carica di quell’irritazione che ne tendeva le ultime lettere fino allo spasimo.
Non l’aveva mai toccata, ma se la immaginò dritta in piedi, le braccia magre spasmodicamente strette e incrociate sul petto, il collo allungato come la mamma quando si sdraiava sul letto con lui per leggergli qualcosa.
Era arrabbiata.
Dominik abbassò il capo, suo malgrado.
- Mi dispiace – mormorò. In verità non gli dispiaceva: o meglio, gli dispiaceva che tutto quello fosse accaduto proprio lì, tra le mura del Conservatorio.
Che quello schifo avesse sporcato la musica di quel luogo sacro.
La maestra gli si avvicinò ulteriormente, ma senza toccarlo: lei non lo toccava mai. Anche i suoi consigli, le sue rare dimostrazioni d’affetto, si consumavano sempre ad una certa di stanza, solo all’interno di un tono più morbido della voce.
Accadde in quel momento. Accadde in quel momento che la cappa di umiliazione gli piombò di nuovo addosso, condensandosi nel petto e ostruendogli le vie aeree. Non se ne accorse nemmeno, delle lacrime: a capo chino, ne sentì solo tre scivolare lungo gli zigomi, ma non alleviarono il nodo alla gola. Ne avvertì il sapore salato sulle labbra, e si augurò che la maestra non se ne fosse accorta: non riusciva neppure a sollevare le braccia per asciugarsi il viso, come se sentire la pelle bagnata a quel modo fosse catartico per il dolore che provava.
Lo avevano umiliato.
Lo avevano umiliato in pubblico, avevano riso di lui, lo avevano spintonato ed emarginato.
E non era come al solito, quando non gli importava di stare da solo: prima era soltanto un puntino nel mondo, a cui piaceva stare in disparte, senza confondersi con gli altri miliardi di puntini.
Ma quella mattina, lì, in una sala esercitazioni come tante, lo avevano calpestato, avevano calpestato tutto ciò che lui era stato ed era diventato.
Avevano calpestato i suoi sentimenti per Federico, la sua cecità, nel modo in cui se ne erano approfittati per spingerlo e punzecchiarlo.
Era come se avessero calpestato anche la sua musica.
- Verrete convocati dal Direttore, tutti e due – sibilò la maestra, rompendo il silenzio. - Se vorrete continuare a far parte di questo Conservatorio ed essere ammessi al Triennio, fareste bene a chiedere scusa con sincero pentimento! Tutto questo non dovrà ripetersi mai più. Hai capito bene? – Dominik annuì, stordito, ma non la stava davvero ascoltando. Aveva imparato, negli anni, che le persone associavano sempre una data inclinazione della voce a uno stato d’animo: così se erano felici la frase terminava in un trillo, se erano tristi borbottavano un po’, se erano arrabbiati urlavano, se non volevano mostrare sentimenti fingevano un tono atono e grave, e, infine, se volevano imporre un’autorità, la frase assumeva una cadenza particolare, acquisendo un maggiore spessore e una piega più grave proprio sulle ultime parole. Così, avendo riconosciuto quell’inclinazione nella voce della maestra, Dominik aveva annuito, anche se nelle orecchie erano tornate le parole e le risate di poco prima. La maestra probabilmente non se ne accorse nemmeno: stava parlando a bassa voce, borbottando tra sé, con tono nervoso. – Due alunni di questo Conservatorio che fanno a botte come i figli dei peggiori delinquenti di strada! Proprio da voi non me lo sarei mai aspettato. Proprio da te, Dominik, non mi sarei mai aspettata una cosa così spregevole. -
Dominik  avrebbe voluto dire qualcosa, ma non sapeva cosa.
Si era fermato alla parola spregevole.
Quella parola lo aveva circondato, lo aveva graffiato, proprio sul petto, come uno straccio ruvido coperto di spilli, una finta carezza ma più dolorosa di un pugno.
La maestra aveva detto spregevole, e lui aveva associato quell’aggettivo a tutta l’umiliazione, al dolore che c’era stato e che c’era ancora. Strinse di nuovo i pugni, la sensazione del dolore al palmo della mano come unico appiglio alla realtà.
- Io non volevo – riuscì solo a borbottare.
La maestra gli fu più vicina, e fece una cosa che non aveva mai fatto, da quando la conosceva. Gli afferrò un braccio, all’altezza del gomito, e gli si avvicinò: aveva l’odore di un profumo costoso, di quelli che si sentivano sempre indosso alle donne di mezza età con un marito ricco, come qualche amica della mamma.
- Ascoltami, Dominik. Così non va bene. Sono settimane che te lo ripeto: tu non sei concentrato come prima, inizi a sbuffare, pretendi di conoscere chissà cosa. Io te lo avevo detto che quel ragazzo avrebbe portato guai. E se adesso sta provando a deviarti, dovresti dirmelo. – Dominik non captò subito il senso di quella frase: mentre la stava ancora elaborando, la maestra tornò a parlare. -  Io posso risolvere la cosa, posso parlare con i tuoi genitori, e tu potrai tornare ad impegnarti come facevi prima. Vuoi passarli questi esami? Vuoi essere ammesso al Triennio, vero? – continuò. Lui annuì in risposta al tono di voce, senza ascoltare le parole. Adesso sta provando a deviarti. – Io ti ho preso a cuore. Ho fatto per te ben più di quanto mi venga richiesto come insegnante, e più di quanto avrei dovuto fare. Non voglio che tutti i tuoi sacrifici vadano perduti per colpa di un pervertito. -
Alcune persone pensano male di quelli come me.
La spada di dolore si approfondò sempre di più nel petto, mentre espirava.
E l’umiliazione tornò, ancora più profonda e dolorosa, perché la donna con la quale aveva condiviso anni della sua vita, che per prima lo aveva accolto e introdotto a quel modo carico di antica musica italiana, che si era presa cura, seppur con la sua distanza, di un ragazzino quattordicenne, adesso lo stava accoltellando con ogni parola.
Era impossibile. Forse si stava sbagliando.
Era impossibile associare la maestra a quelle persone che, come diceva Federico, pensavano male di quelli come loro, a quelle persone per le quali, sulla nave che li aveva riportati a casa dopo le vacanze di Natale, non avevano potuto neppure stringersi la mano di fronte al mare.
La maestra non poteva essere così.
Lei suonava il pianoforte, dirigeva le orchestre, conosceva la musica in ogni sua forma, fin dalle origini, e anche se voleva imbrigliarla nelle catene degli esercizi, quando poteva gli lasciava il permesso di liberare la musica. Era cattiva, ma la sua era una cattiveria buona, era la cattiveria che lo aveva portato fin lì. Per cui, era impossibile che anche lei fosse come quelle persone.
Che fosse come Rafael.
- Federico non è così – ebbe il coraggio di contraddirla. E fu come sentire la propria voce innalzarsi dalla terra, emanciparsi e liberarsi dalle catene di oppressione che gli si erano avvolte intorno dopo quelle parole.
La maestra doveva essere solo preoccupata per lui.
Una volta che le avesse spiegato come fosse Federico realmente, anche lei avrebbe capito, e avrebbe lasciato che la sua musica si esprimesse libera: lui, in cambio, non si sarebbe più lamentato per gli infiniti esercizi, e avrebbe chiesto scusa al Direttore per aver tentato di fare a botte con Rafael. Ecco, sarebbe andata così.
Eppure non riusciva a spiegarsi perché il cuore stesse battendo ancora a quel modo, e perché lo stomaco gli si fosse attorcigliato nella pancia.
- Dominik, quello verso cui questo ragazzo ti vuole spingere è…è spregevole, lo capisci? Non è una cosa naturale! Si sta approfittando di te. –
La mano della maestra gli si poggiò sulla spalla, e bruciò come se fosse stata cosparsa di veleno.
Lo stava toccando nello stesso punto in cui tante volte Federico lo aveva toccato, e baciato, e la pelle aveva iniziato a bruciare da lì, fino a quando la sensazione di calore non si diffuse alle braccia, e a tutto il corpo, a tutti i punti che Federico aveva baciato, guardato, su cui aveva poggiato le mani, aveva pizzicato e poi accarezzato. E bruciava, e bruciava anche la gola, e i polmoni sembravano non aveva più voglia di respirare, di espandersi perché anche l’aria intorno era avvelenata, e pesante, e priva di ossigeno: allora iniziò a respirare velocemente, e superficialmente, mentre il calore se ne andava, lasciando il posto ad un’insensibilità che gli provocò un fremito alla punta delle dita.
E’ spregevole.
Che fate, state insieme a darvi i bacini?
Culaton.
Fate i finocche?
- Non è vero! Non c’è niente di sbagliato – si intestardì. La mano femminile si allontanò da lui, come tutto il resto del corpo. Adesso pareva avere paura di lui, che potesse decidere di aggredirla come era accaduto con Rafael.
- Questa cosa non è naturale! Questa promiscuità non è naturale! – rispose lei, stizzita. – Quel ragazzo è malato, è un pervertito! E sta cercando di coinvolgere anche te nella sua perversione! Tu sei un bravo ragazzo, Dominik, sei sempre stato un bravo ragazzo. Non sei come quelli là. –
Cosa c’era di non naturale nel modo in cui Federico lo abbracciava?
Una volta, dopo una lezione, Sofia aveva messo da parte il suo violino, e lo aveva abbracciato: era stato in occasione dell’ultima lezione prima delle vacanze di Natale, ed era stato il suo modo di salutarlo.
A parte il suo profumo dolciastro e il corpo sottile, nell’abbraccio di Sofia non c’era stato nulla di diverso rispetto a quello di Federico.
Era tutto naturale.
Eppure lei lo etichettava come uno di quelli là.  E anche se non aveva usato una parola offensiva come gli altri ragazzi, era stato il tono a fare male: forse sarebbe stato meglio se lo avesse chiamato per quello che era. Finocchio. Frocio.
Invece no, lei si chiudeva nel suo mondo alto-borghese, nel chiostro sacro del Conservatorio, e non si sporcava le labbra con affari come quelli. Si limitava ad umiliarlo.
Immaginava il modo in cui lo stesse guardando, come se fosse spazzatura, come se tutto ciò che era non valesse più niente, adesso che si era fatto contagiare da quelli là. Faceva più male del modo in cui lo guardavano gli amici della mamma quando era bambino e lei si arrabbiava: perché allora, ai loro occhi, lui era un bambino cieco che non sarebbe mai stato come gli altri, e quello sguardo pietoso poteva rappresentare l’unico modo in loro possesso per entrare un po’ nel suo mondo, o almeno per accarezzarne i confini. Quello sguardo, invece, quello sdegnato e scandalizzato che doveva avere la maestra, era per lui incomprensibile, nel vero senso che non sarebbe mai riuscito a comprenderlo, a giustificarlo. E a perdonarlo.
E nessuno avrebbe perdonato a lui il fatto che gli piacesse Federico, lo sapeva.
Quella storia non sarebbe stata dimenticata, lui non sarebbe più stato trattato allo stesso modo: ma era sempre lui, Dominik Marek, sempre la stessa persona, con la stessa musica e gli stessi colori. E se li aveva arricchiti con i colori che aveva portato Federico, cosa mai avrebbe potuto fare di male, per giustificare quell’astio?
Cosa avrebbe tolto agli altri, il suo modo di provare i sentimenti?
- A me piace Federico. E non so se questo vuol dire che mi piacciono i maschi, ma a me piace Federico. E sono sempre la stessa persona – disse, sicuro.
La voce della maestra gli giunse in lontananza, probabilmente perché aveva raggiunto la porta, per uscire e lasciarlo lì, da solo, perché era stato infettato da quelli là, che erano malati, e lei non voleva essere contagiata.
- No, Dominik. Così non sei più la stessa persona. Non sei più degno di suonare quel pianoforte qui dentro. E quando te ne accorgerai verrai a cercarmi per dirmi che avevo ragione. –
Se ne andò lasciandolo lì, soffocato dalle grossa e pesanti mura del Conservatorio.
Non sei più degno di suonare quel pianoforte qui dentro.
Era cieco, ed era finocchio. Era malato.
Non aveva fatto una sola cosa giusta nella vita.
Si immaginò, per un attimo, nel buio, la voce della mamma.
Avrebbe voluto chiederle scusa. Avrebbe voluto scusarsi perché era nato cieco, perché l’aveva sempre fatta preoccupare, perché avrebbe gettato su di lei la stessa umiliazione dell’essere un finocchio. Le due cose erano inscindibili: era nato cieco, ed era nato finocchio.
Una delusione dopo l’altra, che nemmeno la musica gli avrebbe perdonato.
L’umiliazione pubblica, gettata sulla mamma e sulla sua famiglia come una coperta ingombrante.
Forse lei avrebbe pianto, e avrebbe davvero desiderato che non fosse mai venuto al mondo.
 
§§§
 
Aveva ripreso a nevicare pochi minuti prima della fine del suo turno.
La neve del mattino si era sciolta quasi completamente, tramutando la strada in una lastra ghiacciata e scivolosa.
Quando parcheggiò vicino a casa e scese dalla macchina, Federico rimase qualche minuto ad ammirare i fiocchi leggeri cadere nel buio e stendere una coltre bianca sul tetto della sua utilitaria scura. Si decise a muoversi quando sentì che le dita si stavano congelando, e le scarpe inzuppando.
Corse verso il portone d’ingresso, infilò la chiave, lo aprì spingendolo con la spalla.
Aveva comprato un vassoio di biscotti al cioccolato, prima di tornare a casa, e mentre attraversava l’androne del palazzo si chiese che faccia avrebbe fatto Dominik quando gliene avrebbe infilato uno in bocca a tradimento.
Infilò le chiavi nella toppa della porta mentre stava ancora sorridendo.
Un giro, e quella si aprì, cedevole.
Dentro era tutto buio. Di solito, quando lo aspettava, Dominik accendeva sempre la luce, sapendo che sarebbe tornato: quel giorno, probabilmente, doveva essere così preso dai suoi esami o dal suo pianoforte da essersene scordato.
Federico poggiò il dito sull’interruttore, facendolo scattare. La lampadina accesa illuminò immediatamente il salotto deserto: sul divano e sul pavimento c’era una mancata di fogli gettati lì alla rinfusa, e il giubbotto di Dominik, umido di pioggia e neve, era stato malamente appoggiato al bracciolo del divano. Dalla cucina proveniva un rumore tenue, un leggero armeggiare.
Dominik doveva essere lì.
Si sentiva improvvisamente nervoso, impacciato nel suo cappotto umido, con la borsa ingombrante addosso e il sacchetto pieno di biscotti al cioccolato nella mano libera.
Lasciò cadere tutto lì, all’ingresso.
- Dom? Sono tornato – lo chiamò, mentre si sfilava il giubbotto e lo appendeva all’ingresso, che proprio non aveva voglia di sistemarlo sul calorifero o in bagno ad asciugare.
Dominik non rispose, così Federico riprese il sacchetto di biscotti, procedendo verso il salotto: lo depositò sul tavolo, tirando il pacchetto fuori di lì e scartandolo immediatamente.
Era un po’ umido, per la neve che era caduta mentre era rimasto per la strada ad ammirare il panorama imbiancato.
- Lo sai, sta nevicando! – lo informò, mentre sistemava il vassoio al centro del tavolo.
La sorpresa gli sarebbe piaciuta, ne era certo.
Federico rimase ad aspettare un’altra risposta che non arrivò: allora, fece qualche passo per affacciarsi in cucina.
Dominik gli stava dando le spalle, e stava armeggiando con qualcosa poggiato sul bancone, vicino al lavello: Federico poté vedere il movimento delle sue braccia, le spalle allargarsi e i bicipiti poco sviluppati contrarsi sotto al maglione chiaro che aveva addosso, i capelli un po’ umidi appiccicati sulla nuca.
Aveva l’aria un po’ disinteressata del musicista, dell’artista di strada, quasi poetico nel suo decadente splendore.
Vederlo in quel modo gli fece venir voglia semplicemente di raggiungerlo.
Lì, alle sue spalle, avrebbe potuto avvertire il calore del suo corpo, e il suo profumo, senza nemmeno toccarlo.
Federico fece qualche passo, fino a lui: era certo che non l’avrebbe spaventato, che lui stesse quasi vedendo il suo percorso. Nel silenzio, infatti, il rumore dei suoi passi risuonava chiaramente.
Quando fu dietro di lui, non resistette alla tentazione di poggiare le mani sul bordo del ripiano, imprigionando il suo corpo e premendosi contro la sua schiena.
Alto quasi quanto lui, Dominik aveva delle spalle inaspettatamente larghe: eppure, sotto di lui, le curvò lievemente in avanti.
Quella posizione aveva scoperto una parte della sua pelle, sul collo, subito sotto l’’orecchio, dove il maglione non era abbastanza alto, o i capelli abbastanza lunghi per arrivarci.
- Ciao – mormorò, depositando un bacio asciutto proprio lì.
Il corpo di Dominik ebbe un lieve fremito, che si trasmise alle mani, con le quali stava premendo con un tagliamela su una mela dalla buccia di un verde acceso. Ma, contrariamente a quanto Federico si aspettava, non alleggerì la pressione sui muscoli, rimase rigido, dritto in piedi come un palo.
- Ciao – lo sentì dire. Mentre parlava, Dominik premette ancora le lame del tagliamela sul frutto, senza che la pressione fosse sufficiente a tagliarla: sulla buccia c’erano i segni poco profondi di diversi tentativi analoghi, andati male, probabilmente prima che lui fosse a casa.
Alla fine, un colpo più forte fece scivolare la mela, che rotolò, forte della spinta, lateralmente, fino a cadere con un tonfo dentro il lavello vuoto. Irritato, Dominik scagliò il tagliamela in avanti, e quello scivolò lungo il ripiano fino a fermarsi sul bordo dei fornelli.
- Votřes! Non sono in grado nemmeno di tagliare una stupida mela! – imprecò, dando uno strattone indietro.
Federico, colto di sorpresa, cozzò contro la sua schiena, e Dominik arrestò il suo scatto.
Le sue dita, ancora sospese in aria, tremavano come rametti mossi dal vento.
Federico fece scorrere le mani sui suoi avambracci, fino ai polsi, arrestandosi lì, come una carezza.
- Ehi – lo chiamò, soffice, per attirare la sua attenzione.
Dominik espirò.
Solo allora, in un gesto di resa, piegò il capo indietro, poggiandolo sulla sua spalla.
Lo vedeva debole adesso, il collo esposto, il pomo d’Adamo pronunciato, la gabbia toracica tesa allo spasimo per rubare l’aria che aveva intorno.
Se ne accorse subito che, alla base di tutta quella debolezza, dovesse esserci qualcosa, qualsiasi cosa. E lui aveva sperato di guarirla, instillando dentro un semplice richiamo, un ehi, tutta la dolcezza che avrebbe voluto mettere in una carezza.
Ma se gli avesse dato una carezza, in quel momento, lo avrebbe rotto.
Lo sentiva nel tremore lieve del suo corpo, sotto la pelle, che si accentuava ad ogni respiro, come se avesse qualcosa di tagliente incastrato nel petto e respirare potesse farlo approfondare ancora di più nella carne.
Per un attimo, Federico si chiese se non fosse colpa sua, se non avesse fatto qualcosa di male per farlo reagire a quel modo: eppure, richiamando alla mente i ricordi della sera prima, era certo di non aver fatto nulla di male. Lo aveva salutato prima di andare a lavoro, e quando era tornato non lo aveva neppure svegliato: al mattino lui era andato in Conservatorio, e non si erano più visti.
Era certo di non aver fatto consapevolmente nulla di male.
L’alternativa era che fosse stata la mente di Dominik ad elaborare una colpa imperdonabile.
Solo che, pensò ancora dopo, se fosse stato arrabbiato con lui o preoccupato per qualcosa che lo riguardasse, non si sarebbe lasciato avvicinare, baciare, o stringere a quel modo. Perché sotto le mani i polsi di Dominik non si stavano ribellando a lui, il suo corpo si era abbandonato contro il suo: era qualcosa di più profondo, dentro di lui, che si stava ribellando.
Federico avrebbe voluto dirgli qualcosa,  ma temeva che qualsiasi cosa avesse detto avrebbe finito per spezzare quel momentaneo equilibrio: così, per un attimo, si concentrò semplicemente sui palmi delle mani a contatto con i polsi nudi di Dominik. Erano affusolati,  eppure straordinariamente solidi, continuandosi nel dorso della mano, fino alle dita sottili con le unghie curate. Gli tremavano ancora le dita. Federico ci fece scivolare sopra le mani, intrecciando le proprie dita con le sue. Dominik lo lasciò fare, all’inizio. Poi, all’improvviso, strinse, e Federico rimase imprigionato lì, sotto le sue unghie taglienti.
- Oggi mi hanno chiamato finocchio. –
Lo disse così, semplicemente.
Oggi mi hanno chiamato finocchio.
Gli piombò addosso come un macigno, come un pallone pieno d’acqua piovuto dal cielo dritto sulla sua testa. Se Dominik non avesse tenuto le sue dita tra le proprie con tutta quella forza, Federico avrebbe lasciato che le braccia ricadessero lungo i fianchi come corpi morti.
Oggi mi hanno chiamato finocchio.
Avrebbe voluto dire qualcosa.
Avrebbe dovuto dire qualcosa.
Invece riuscì solo a restare in silenzio alle sue spalle, le dita strette tra le sue e i polmoni bloccati, come di cemento.
Per anni, la cattiveria della gente era stata per lui sempre un’idea sfumata, una paura dai contorni indefiniti, perché non lo aveva mai toccato direttamente. Si era limitato a vivere nell’ombra, stringere le mani di Manfredi sotto il tavolo, baciarlo sotto le coperte, evitare di farsi vedere in atteggiamenti intimi con lui, perché non voleva essere giudicato. Perché Manfredi aveva paura.
Eppure, il fatto che, in sette anni, non fosse mai successo, lo aveva convinto che il pericolo fosse un’isola abbastanza lontana, sulla quale non sarebbe mai sbarcato.
Adesso, lontano da casa sua, qualcuno su quell’isola lo aveva colpito con un pugno in pieno petto, aprendogli gli occhi. E l’effetto collaterale di quella presa di coscienza era caduto su Dominik.
Dominik che non si era mai interessato a nessuno, che aveva voluto vivere da solo e stare da solo, pensare a se stesso. Lo aveva trascinato lui dentro il mondo umano dei sentimenti: lo aveva gettato al centro dell’arena, e aveva lasciato che lo colpissero.
La realtà era piombata a bussare alla sua porta con la violenza di un tornado.
Eppure ancora non ci credeva, le parole di Dominik prendevano forma ma non riuscivano a prendere sostanza.
- Com’è successo? – gracchiò. Non riconobbe nemmeno il suono della propria voce, teso com’era.
- E’ stato Rafael. -
Dominik mollò la presa sulla sua mano, ma non si scostò: rimase lì, la schiena contro il suo corpo, il capo piegato indietro sulla sua spalla, come se, privo di quel sostegno, potesse scivolare in un buco nero senza fine.
Ci scivolarono insieme, mentre lui gli raccontava tutto, arricchito del buio che doveva averlo avvolto: le battute di Rafael, gli spintoni, le urla, e poi le risate, i toni cattivi, l’indignazione della sua maestra, la statua che  lo aveva sorretto per cinque anni.
- Ha detto che siamo malati, e pervertiti. Non siamo naturali – lo sentì mormorare, la voce stranamente arrotondata in un lamento. – Ha detto che non sono degno di suonare. –
Dominik si staccò da lui, superandolo e lasciando la cucina. Tendeva le mani in avanti, adesso, per camminare, come se si sentisse perso e non sapesse più come fosse fatta quella casa.
Federico lo seguì.
Se fosse rimasto solo in quella cucina vuota, sarebbe crollato sulle ginocchia e avrebbe vomitato, per la nausea che sentiva nello stomaco e che gli faceva girare la testa. Il peso degli anni gli era piombato sulle spalle, sulla pancia, gli saltava addosso per calpestarlo,  e allo stesso tempo gli vibrava al centro del petto come se qualcosa dovesse venir fuori.
Si trovò in salotto, il profilo altero di Dominik in piedi accanto al divano.
- Sono dei bastardi, ecco cosa sono! Ignoranti, inutili e stronzi bastardi! –
Avrebbe voluto colpire qualcosa, qualsiasi cosa: sentire la mano battere contro qualcosa, un vaso prendere il volo e schiantarsi sul pavimento rompendosi in mille mezzi, come doveva aver fatto Dominik quando lo avevano trattato a quel modo. Se la immaginava, la scena: lui fermo, immobile, bersaglio di un cerchio fatto di insulti, di risate, di spintoni, incapace di fare niente, persino di colpirli, perché era cieco, ed era anche frocio.
Non colpì nulla. Si portò le mani sul viso, premendo sugli occhi, poi le sollevò, imprigionandole tra i capelli che si scostò dal viso. Il cuore nel petto gli batteva così forte che poteva benissimo uscirgli dalle orecchie, o esplodergli dentro e ucciderlo sul colpo. Sospirò, e avrebbe voluto infilarci dentro la frustrazione e la rabbia, e lo sdegno, e tutto quanto, senza che quelli gli restassero stabilmente ancorati dentro.
Dominik era straordinariamente immobile: in piedi, vicino al divano, il respiro regolare, solo le mani un po’ tremanti. Era quieto. Troppo. Come le tempeste prima di scatenare la loro furia.
- Non devi credere a queste cose, Dom. –
Quel tono di voce gracchiante non lo aveva ancora abbandonato: era una voce che vibrava contro la laringe, che gli giungeva alle orecchie come se non fosse sua, come se venisse da qualcuno sistemato alle sue spalle, che lui non riusciva a vedere.
Dominik si lasciò cadere sul divano, portando le ginocchia al petto e stringendosi lì, come se servisse a sentirsi meglio. C’era una dolce debolezza, adesso, nella linea curva della sua schiena.
- Io non ci credo – disse lui, sicuro. Poi fece una smorfia sofferente. – Ma la mamma, Federico. Se lei ci credesse? Se si vergognasse di me? Se si pentisse di me? –
Ci aveva messo una strana tensione nel modo in cui aveva detto pentisse, come se non stesse pensando solo a quello, all’omosessualità, ma anche a qualcos’altro, ancorato nel passato.
Federico gli si sedette accanto.
- Tua madre ti vuole bene, Dominik. E’ tua madre, e tu lo sai che non è una persona cattiva. Sei suo figlio. – Parlava per consolarlo, ma avrebbe tanto voluto crederci anche lui.
Sarebbe stato bello immaginare che fosse vero, che le madri e i padri che cacciavano i figli di casa non esistessero. Come quelli di Samuele.
Si sentiva un bugiardo, e anche Dominik doveva aver pensato la stessa cosa.
- E allora tu perché non l’hai ancora detto alla tua? – lo pungolò.
Questa volta la sua non era curiosità: ci aveva messo dentro una punta di malizia, di cattiveria, o forse era solo la debolezza che sentiva intorno a spingerlo a graffiare, come gli animali prima di venire catturati.
Federico tese una mano in avanti, fino a poggiargliela sul viso: era appena ruvido per la barba rada, così corta e chiara da non vedersi nemmeno. Era più ruvido lungo la linea della mandibola.
- Mi dispiace – riuscì solo a dire.
Si sentiva responsabile per tutto quello, per tutta quella tensione.
- Perché ti dispiace? Non è colpa tua. – Parlava ancora in modo tranquillo.
- Sì invece. Sono stato io a spingerti a… - si bloccò, perché non seppe più cosa dire. – Se io non ti avessi baciato, non sarebbe successo niente. –
- Se tu non  mi avessi baciato, io non avrei mai baciato te. Non ne avrei mai avuto il coraggio, e non sapevo nemmeno che ti piacessero i maschi. Però tu mi piacevi già, e questo non sarebbe cambiato. Questo non avrebbe cambiato le cose – gli rispose lui, stizzito.
Aveva assunto un’espressione irritata, e aveva scostato la sua mano con un gesto del capo, scuotendolo, e lasciando che i capelli gli danzassero sulla fronte. Si stava tormentando le mani, nervoso: lasciò andare le gambe, le distese fino al pavimento, poi le riportò al petto.
Incrociò le mani di fronte agli stinchi.
Sembravano i gesti di un pazzo con qualche disturbo ossessivo, uno che cercava di sfogare la nevrosi d’ansia in gesti ordinati e carichi di una furia compressa.
- Mi hanno umiliato – sibilò. – Hanno chiacchierato, mi hanno detto quelle parole, hanno usato un tono sprezzante con me. E io valgo molto più della maggior parte di loro. –  Era avvelenato, eppure la sua voce aveva un tono morbido. – Io non me lo merito – mugolò poi.
E forse furono quelle parole, insieme alla curva soffice che assunsero le sue labbra.
O forse, piuttosto, fu il tremito della sua voce, quello che lo spinse sull’orlo del pianto.
Allora Federico lo fece.
Lo afferrò per le spalle prima che potesse capirne abbastanza da sovrastarlo. Lo avvicinò, se lo strinse addosso, lo afferrò, agguantandolo per le spalle, schiacciandosi il suo corpo addosso mentre lui iniziava appena a ribellarsi afferrandogli un braccio con entrambe le mani.
E lo fece con forza, come se volesse strappargli la pelle.
Divenne una lotta a chi colpiva più forte: lui che stringeva, i bicipiti gonfi, il corpo di Dominik contro il petto e le sue mani ancorate ora sul braccio, ora sulla schiena, oro sul collo, per costringerlo a lasciarlo, le sue gambe che si divincolavano. Graffiava, si agitava, e lo sovrastava: Federico fu costretto a mollare la presa più di una volta, ma lo afferrò di nuovo subito, per il collo, per la manica della maglietta, per un braccio.
Afferrava quell’essenza di orgogliosa ribellione, e voleva inglobarla, zittirla, voleva smettere di parlare e governarla.
Finì tutto all’improvviso, nel mezzo di un singhiozzo strozzato, con i cuscini del divano in disordine sul pavimento e i respiri spezzati: le braccia di Dominik cedevano, il suo corpo gli si abbandonava addosso, il suo viso gli si schiacciava contro al petto e si perdeva negli strazianti scossoni silenziosi del suo corpo.
Federico lo avvolse del tutto, perché dove le parole non sarebbero riuscite a far nulla, quel contatto fisico avrebbe scosso il mondo: come quando la prima volta lo aveva afferrato e aveva scoperto che lui fosse cieco, come quando l’aveva baciato, come le volte in cui aveva voluto afferrarlo e rubargli l’ingenuità nel calore di un bacio.
Il contatto fisico avrebbe risolto qualcosa.
E se anche non avesse risolto nulla, ci si sarebbe aggrappato perché rappresentava l’unica cosa che gli fosse rimasta.
Si premette il suo viso addosso e gli lasciò un bacio sul capo, uno solo perché uno di più avrebbe distrutto tutto.
- Mi dispiace – gli mormorò sui capelli. – Non sarebbe dovuto succedere a te. –
Era terrorizzato, adesso. E arrabbiato.
Perché sarebbe potuto succedere a lui, colpirlo con quella stessa cattiveria e spazzarlo via. Ci sarebbe stato lui al posto di Dominik, lui a essere quello spezzato, e non sapeva cosa ne sarebbe rimasto di lui dopo un’umiliazione pubblica. Ci aveva pensato spesso con Manfredi, nei primi tempi della loro relazione: ma con Manfredi accanto sembrava semplice affrontare tutto, essere più forti del mondo e contare sul suo sostegno. Ma forse, adesso che ci pensava, era sembrato così semplice perché non si era mai fermato a pensarci sul serio: Manfredi aveva detto sin da subito di non essere pronto ad affrontare il mondo, e lui si era cullato in quella consapevolezza, mentendo a se stesso.
Ed era arrabbiato anche perché Dominik non se lo meritava, perché lui era un musicista, era più in alto di tutti, e loro lo avevano afferrato per un piede e lanciato contro il pavimento, con un tonfo sordo che lo aveva spezzato.
- Io non me lo merito. –
- Mi dispiace. –
- Smettila di dire che ti dispiace! – La voce rotta contro il suo petto, ma non stava piangendo. – Persino lei. –
Federico avrebbe voluto fare qualcosa, qualsiasi cosa.
Rimettere l’orologio indietro, tornare a quella mattina, abbracciarlo a letto, rubargli un bacio e fargli fare tardi come avrebbe voluto, costringerlo a fingersi malato, restare a casa e fare l’amore su quel letto caldo: così non sarebbe successo niente.
Avrebbe dovuto ascoltare il suo istinto, lo aveva sentito.
- Non facciamo niente di sbagliato – sentì Dominik mormorare, prima che, con inaspettata forza, gli piantasse le mani sul petto e lo obbligasse a lasciarlo andare, rimettendosi dritto sulla schiena. - - Che cosa facciamo di sbagliato? – lo incalzò.
Federico non sapeva cosa rispondergli: qualsiasi risposta filosofica sarebbe parsa stupida, inutile, piena di fronzoli, e avrebbe riempito l’aria di qualcosa di stranamente pesante.
Così, semplicemente, sospirò.
- Niente. -
Dominik tese le mani in avanti, e le dita gli tremavano ancora. Gliele poggiò sul petto, gli afferrò la maglietta e diede uno strattone, come preso da una strana smania. Non lo faceva con forza, ma con una struggente malinconia che spinse Federico a prendergli il viso tra le mani.
Quando lo baciò, nonostante tutte le parole, e i singhiozzi, e la tensione, trovò Dominik esattamente come lo aveva lasciato: le sue labbra soffici, subito dischiuse, appena un po’ umide. Lo baciò, lo morse, gli permise di attaccarlo, di affondargli le dita sul collo, sul viso, sulle spalle.
- Ti sembra che ci sia qualcosa di sbagliato? – gli mormorò, ancora sfiorandogli le labbra.
Dominik fece cenno di no solo con il capo, senza dire altro, lasciando che la punta del suo naso gli sfiorasse ora le labbra, ora la guancia.
- Allora non c’è niente di sbagliato. –
La mano tiepida del ragazzo risalì lungo il suo collo, fino al viso.
- Cosa succederà adesso? –
Federico si strinse nelle spalle.
- Sinceramente? Non lo so – rispose con un sorriso.
Non lo sapeva, ma era certo che le cose sarebbero cambiate, che Dominik avrebbe dovuto imparare a diventare cattivo, a prendere a pugni il mondo e a tapparsi le orecchie di fronte alle risatine della gente.
Sarebbe cambiato tutto.
Sarebbero cambiati anche loro.
Ma soprattutto, Dominik sarebbe cambiato.
Era già cambiato.
 

 

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Capitolo 42
*** 37th: Perdere gli equilibri ***


Bisogna trovarsi in uno stato di equilibrio perfetto per non lasciarsi squilibrare dagli squilibri.

Romain GaryCane Bianco, 1970

 
 
 
Chapter 37th: Perdere gli equilibri
 
Erano puntini.
Minuscoli, insignificanti puntini.
Erano protetti. Erano come i personaggi di un libro dentro un libro.
Chiusi lì, nella loro piccola alcova, dove nessuno avrebbe potuto far loro del male.
I genitori di Federico erano lontani, in Sicilia: mangiavano cannoli alla ricotta, guardavano il Palermo allo stadio, si svegliavano tutte le mattine andavano a lavorare, telefonavano ai figli, andavano a dormire sereni.
I suoi erano a Praga, un altro Stato, un’altra città sulle rive di un bel fiume dalle acque scure: accompagnavano Jana a scuola, sentivano parlare dei fidanzatini di Aneta, la nonna a volte impastava ancora il pane a casa.
Nessuno l’avrebbe mai saputo.
Nessuno avrebbe mai dovuto sapere di cosa succedeva dentro le mura di quella casa, dei baci morbidi sul divano, dei tocchi sotto le coperte, delle mani bollenti sotto la doccia.
Nessuno l’avrebbe mai saputo.
Nessuno a Milano li avrebbe colpiti e affondati.
E allora perché quando aveva aperto gli occhi  aveva sentito quella strana inquietudine al centro del petto?
Gli sarebbe piaciuto essere come gli altri: avere la possibilità di spalancare gli occhi sul mondo, lasciare che le immagini colorate mandassero via l’oscurità soffocante.
Invece, in tutto quello, lui era costretto ad essere sempre preda del buio.
Dominik sollevò le palpebre nello stesso momento in cui adagiò le mani sui tasti tiepidi del pianoforte. Eppure, tutto continuava ad essere buio e vuoto, come era sempre stato.
Non c’era niente, oltre le palpebre.
Era tutto vuoto, e tutto lo tormentava, di giorno come di notte.
Fece scivolare via le mani, poggiandole sulle cosce.
La casa era silenziosa: Federico era uscito di primo mattino, per incontrare dei colleghi in facoltà e studiare per un esame che non aveva nemmeno tanta intenzione di sostenere. Lo aveva baciato, prima di andare via, un bacio soffice, le labbra premute contro le sue e una mano sulla nuca, come a volerselo premere contro ancora per un attimo in più, come a lasciargli un segno. Torno per pranzo, gli aveva mormorato, e lui aveva annuito piano, quasi distratto.
Si muoveva a rallentatore.
Si sentiva diverso, ma allo stesso tempo sempre uguale.
La musica era sempre lì, era sempre la stessa, e fino a quando non fosse cambiata quella, lui sarebbe rimasto sempre lo stesso Dominik che aveva trascorso l’infanzia a Praga, che si era quasi spaccato la testa per imparare ad andare in bicicletta e che a Milano aveva sempre voluto fare tutto da solo.
Eppure era diverso: non sapeva spiegarsi bene dove, o in che modo, ma qualcosa era cambiato. Era nel modo in cui reagiva quando pensava alla mamma, ai sentimenti contrastanti che gli agitavano la mente, che non erano più solo malinconia e affetto, ma anche ansia, senso di colpa, rimorso.
Non aveva mai associato sentimenti negativi alla figura di sua madre.
E adesso arrivavano, prepotenti e decisi, e mandavano in subbuglio tutto.
Credeva di essere sempre stato un bravo figlio: obbediente, con ottimi voti a scuola, educato, chiedeva sempre per favore e diceva sempre grazie, aveva un talento naturale per la musica, che la nonna non dimenticava mai di elogiare di fronte ad amici e parenti. Sembrava, quel talento, un modo di cui Dio lo avesse dotato per chiedere scusa.
Scusa, mamma, se sono cieco e ti faccio preoccupare, ma guarda come sono bravo con il pianoforte. Sono così bravo da farti dimenticare tutta la vita passata ad aiutarmi persino a pettinarmi.
Sembrava un buon prezzo da pagare.
L’oscurità per la musica.
La cecità per il talento.
Poi era arrivato quello.
E la bilancia aveva perso il suo equilibrio, perché aveva iniziato a pendere da un lato.
Dominik, all’inizio, non aveva pensato che l’omosessualità potesse rappresentare un problema: lo aveva intuito dalle parole di Federico, dalle sue paure, ma gli era parsa una minaccia incorporea, impossibile da intravedere chiaramente. Pensava che non ci fosse nulla di diverso nel Federico che lo aveva baciato nel suo letto, a Palermo, e quello che era arrivato a Milano carico di bagagli e aspettative. Federico, ai suoi occhi, era rimasto lo stesso.
Ma la reazione di Rafael, dei ragazzi al Conservatorio, e soprattutto quella della maestra, di fronte alla sua, di omosessualità, aveva ricalcato i contorni di quella strana e malsana idea, e tutto era diventato un problema.
Era diventata un’aggiunta alla sua ingombrante cecità.
Non ci sarebbe stato talento abbastanza grande da contrapporsi anche a quello.
Dominik espirò, portandosi le mani sul viso, per stropicciarsi gli occhi: sentiva quasi i muscoli del viso addormentati, congelati, le tempie che pulsavano.
La cosa peggiore, in tutto quel caos, era la sensazione di avere perso il controllo.
Un conto era affrontare le chiacchiere, gli sguardi delle persone conoscendone il motivo: lui era cieco, suscitava pietà, e per questo veniva fissato. Poteva sopportarlo. Ma sentirsi umiliato senza comprendere il perché, ecco, quello era insopportabile, insostenibile, gli faceva mancare il fiato e non lo faceva dormire la notte.
Dominik non poteva perdere il controllo sulle cose.
Non vedeva, non era come le persone normali, come gli altri.
Non poteva permettersi di non avere il controllo su qualsiasi cosa.
Forse soffriva persino d’ansia, forse aveva manie di protagonismo, ma conoscere l’esatto funzionamento e il preciso meccanismo alla base delle cose lo faceva sentire tranquillo.
A volte, da bambino, prima di conoscere la musica, gli era capitato di sentirsi perso: vagava per casa inseguendo i passi della mamma, i rumori dell’esterno, i suoni provenienti dal televisore.
In tutti quegli anni, c’era stata una sola persona in grado di riportare l’ordine nel suo mondo, di ricostruire le cose e di sistemare ciò che andava perduto per uno sguardo di troppo o una crisi di pianto.
Dominik si alzò in piedi, abbandonando il porto sicuro del pianoforte.
Sul basso tavolo del salotto aveva lasciato il vecchio cellulare che gli avevano regalato quando aveva lasciato Praga, per tenersi sempre in contatto con la sua famiglia: aveva imparato a memoria la posizione dei tasti, e in che ordine premerli per comporre un numero in particolare.
La voce soffice rispose al terzo squillo.
- Dominik, miláčku. –
- Mami – soffiò. Non avrebbe voluto metterci dentro tutta quell’apprensione, quel tremolio che lo faceva apparire così infantile e spaventato.
La mamma aveva risposto con la sua solita voce delicata, con quel tono confortante, come se avesse appena finito di preparare un dolce e dovesse decidere se iniziare a lavorare ad un maglione di lana o scegliere un tessuto colorato per cambiare le tende del salotto. Era sempre calma, morbida e accogliente, un po’ come una casa calda d’inverno.
Non ci aveva pensato molto, prima di chiamarla: non ragionava mai, prima di telefonare alla mamma. Per questo, fino a quando non aveva sentito la sua voce raggiungergli le orecchie, non aveva sentito quel magone alla gola e la voce tremare. L’unica cosa che gli veniva in mente, l’unica cosa possibile da dire, sembrava solo scusa. Scusa un po’ per tutto: per  la vita sacrificata che l’aveva costretta a fare, per la delusione che le avrebbe dato scoprendo di essere gay, per aver fatto a botte con un perfetto idiota al Conservatorio che lei pagava lavoricchiando quando poteva, per far quadrare i bilanci familiari con tre figli a carico e una nonna anziana a casa.
- Cosa stai facendo, sei a casa? Non chiami mai a quest’ora – gli fece notare lei, ma non sembrava preoccupata, anzi, pareva abbastanza allegra. In sottofondo non si sentiva nessun rumore, oltre alla sua voce: doveva essere a casa, forse in cucina, o a rimettere in ordine il salotto. Aneta e Jana dovevano essere a scuola, e la nonna probabilmente cuciva nella sua stanzetta, sfruttando la luce del sole, visto che non ci vedeva più molto bene. A volte gli diceva che, quando non ci avesse più visto, loro due sarebbero stati uguali, e che sarebbe morta esattamente come lui era nato.
- Sì, stavo suonando – mormorò, schiarendosi la voce per mascherare un sospiro. Non la chiamava mai a quell’ora: le loro telefonate erano sempre molto lunghe, piene delle risate di Jana e dei saluti di Aneta, delle domande di suo padre e di quelle della nonna. Per questo chiamava sempre alla sera, quando Federico era a lavoro o stava facendo la doccia. Quel mattino, invece, era stato vittima di un impulso, della necessità di rimettere ordine e di privarsi di quel peso che gli gravava sullo stomaco.
La mamma non gli rispose subito: ci fu un momento, forse più lungo di un intero minuto, in cui non si dissero niente. Dominik rimase ad ascoltare il silenzio vuoto all’altro capo del telefono, e la mamma stava sicuramente avvertendo il suo.
- Dominik, è successo qualcosa? – ruppe poi il silenzio.
La preoccupazione nella sua voce, questa volta, era palpabile: tutto quel silenzio, più del suo tono di voce, doveva averla disturbata e messa sull’attenti. Di solito, quando la chiamava, Dominik non stava mai in silenzio per più di dieci secondi: aveva troppe cose da raccontare e troppo poco tempo, e milioni di domande da fare e di aneddoti da ascoltare.
Adesso c’era troppo silenzio.
Aprì la bocca almeno tre volte, pensando di rispondere alla domanda della mamma. Lei non avrebbe insistito: semplicemente, sarebbe rimasta in silenzio fino a quando lui non avesse parlato.
E’ successa una cosa al Conservatorio.
Ho litigato con un ragazzo.
La maestra mi ha detto che non sono degno di suonare.
Sono gay, mamma.
Avrebbe potuto dire decine di cose, ma non sapeva da dove iniziare. Si pentì persino di averla chiamata, di trovarsi di fronte alla sua voce e non sapere che cosa dirle.
- E’ che… - iniziò. Il cuore gli palpitava così forte nel petto che avrebbe potuto sfiancarsi e fermarsi all’improvviso. – Ho litigato con un ragazzo, al Conservatorio – disse alla fine.
Tra tutti gli scenari possibili, quello gli era parso l’esordio migliore.
La voce di sua madre salì di un’ottava.
- Cosa?! Dominik! Quando è successo? Perché avete litigato? –
Si stava facendo prendere dal panico, adesso, e stava gettando quell’alone di paura anche su di lui. Perché adesso avrebbe dovuto per forza dirle la verità, spiegarle il motivo di quel litigio, esordire a quel modo, quando avrebbe voluto solo sentirsi dire di averla resa comunque orgogliosa. No, aveva scelto l’esordio migliore, aveva immaginato scene diverse.
Aveva la gola secca, e il buio che vedeva lo soffocava.
Avrebbe voluto che Federico fosse a casa: lui avrebbe saputo cosa dire, il modo migliore per calmare la mamma. Forse, se ci fosse stato Federico, non l’avrebbe chiamata e basta.
Dominik si passò una mano sul viso.
- Abbiamo discusso. L’ho colpito. Lui mi ha provocato. –
- Non mi interessa chi ha iniziato, Dominik! Ti ho dato un’educazione, ti ho insegnato che le cose non si risolvono facendo a botte! – Adesso stava urlando, ma in modo quasi soffocato, probabilmente per non farsi sentire dalla nonna. – Ti ho permesso di andare a studiare in Italia perché mi fido di te, e tu non sei un ragazzo che fa a botte, lo so – si addolcì poi.
Dominik fu tentato di attaccare la chiamata. L’aveva delusa in ogni caso: forse sarebbe stato meglio farle credere di essere solo uno stupido che faceva a botte, piuttosto che confessarle il motivo per cui aveva colpito Rafael.
Ma quello non avrebbe chiuso la voragine che gli si era aperta al centro del petto, non avrebbe riportato l’ordine: chiamare la mamma, allora, non avrebbe avuto alcun senso.
- Mami – mormorò, in un richiamo soffice, come quelli che usava per pregarla di restare seduta sulla sponda del suo letto per altri cinque minuti. – Lui mi ha provocato su una cosa importante. Mi ha umiliato – soffiò. Quando dall’altro capo del telefono giunse ancora silenzio, Dominik continuò. – Lui mi ha umiliato, la maestra mi ha umiliato, e non avrebbero dovuto, perché io non faccio niente di sbagliato. -  Stava andando bene, e ci stava pensando proprio quando, sull’ultima parola, gli si incrinò la voce.
- Dominik, che cosa è successo? –
Questa volta non era solo una domanda preoccupata, apprensiva o addolorata. Era decisa, quasi come un’imposizione: era un ordine, ma carico di una disperazione che solo la lontananza e il senso di impotenza avrebbero potuto arricchire.
- E’ che…io non lo so, però… - Sono gay. Dillo, dillo. Diglielo. – Ti ricordi di Federico, mamma? –
- Certo che mi ricordo. Te ne sei andato prima, l’ultima volta, per raggiungerlo a Palermo – rispose lei, semplicemente. Dominik non avrebbe potuto vederla, e non poteva toccarla: non le aveva confessato nulla, e lei aveva risposto con una semplicità tale da farla apparire un’ingenua scolaretta. Eppure, Dominik sentiva che lei avesse solo bisogno di sentirselo dire, ma che già avesse capito.
- Mi piace Federico, mamma. In quel senso. –
No, non sono gay, perché non era quello il punto. Non voleva categorizzazioni, non voleva sforzarsi di comprendere se stesso o ciò che gli altri pensavano di lui. Gli piaceva Federico, basta.
Uscì fuori come la confessione di un condannato a morte, di colui che, pur sapendo di stare per morire, per dire addio alla vita, avrebbe potuto godere, finalmente, di un intero minuto di pace.
Durò più di un minuto, ma meno di due.
Poi la voce della mamma arrivò, alterata dall’apparecchio telefonico.
- Ti piace un ragazzo? – gli chiese. Aveva la voce bassa, delicata nel silenzio. – Dominik, sei gay? –
Questa volta non gli sfuggì l’inflessione bassa, forse di delusione, e la pace svanì.
Tutte le preoccupazioni che lo avevano tormentato la notte, il senso di colpa, il desiderio di non essere nato, la voglia di essere diverso, gli si riversarono di nuovo addosso con una furia spaventosa. Ci lesse qualcosa, in quella frase: se pure gay? Anche questa?
Anche la mamma come la maestra, come Rafael, come il mondo di cui Federico sembrava avere tanta paura. Per tutto questo, Federico non aveva mai confessato niente a nessuno. E lui si sentì stupido, perché se fosse stato zitto, se avesse lasciato a Federico la possibilità di aiutarlo, la mamma non avrebbe mai saputo la verità. Sarebbe andato tutto bene.
D’improvviso, l’idea di telefonare a sua madre, di chiederle di rimettere tutto in ordine, di pregarla di dargli conforto, non parve più ottima come lo era stata nei minuti precedenti.
Perché, però, il pensiero di nascondere la verità a sua madre sembrava tanto sbagliata? Era come tradirla, come deluderla un’altra volta e spezzare la corda che lei aveva ispessito in tutti quegli anni.
- Dominik? – lo chiamò di nuovo, attraverso il telefono.
Non avrebbe voluto parlare, dire nient’altro. Ma lo fece.
- Sei arrabbiata? – riuscì solo a dirle.
- Arrabbiata? No, io….no, tesoro, perché dovrei essere arrabbiata? – La sua voce adesso era quella che aveva sempre avuto, quella con cui lo rassicurava quando temeva di non aver svolto bene un esercizio e che lei potesse essere arrabbiata perché aveva fatto tanti sacrifici per lasciarlo studiare in Italia e lui non riusciva a far bene niente. Fu come sentirsi di nuovo a casa, a un mese prima, come se nulla fosse mai successo. – Sono…sorpresa, e un po’…non lo so. Vorrei tanto che fossi qui, potremmo parlarne con calma. – Fece una pausa, che occupò con un sospiro. – Perché hai litigato con quel ragazzo, al Conservatorio? Cosa ti ha detto? –
Stava tentando di occupare il tempo.
Lo avrebbe sentito parlare, forse non lo avrebbe nemmeno ascoltato, perché avrebbe occupato quel tempo a ragionare su cosa dire, su come risolvere le cose. Dominik lo sapeva, perché l’aveva vista reagire a quel modo tutte le volte che aveva litigato con il papà: gli faceva delle domande, lo spingeva a parlare senza interromperlo mai, e prendeva tempo.
Si sentì ferito, un po’, come una leggera abrasione, una sbucciatura su un ginocchio dopo una caduta. Ma non si lamentò, anzi: iniziò a raccontarle del Conservatorio, di Rafael e di Szilvia, dell’invito a cena giorni prima, delle prime provocazioni, dei colpi, delle risate, della maestra e delle sue parole cattive. Si ritrovò a parlarle anche del ritorno a casa, di Federico, della notte insonne e della voragine nello stomaco, di come si sentisse sbagliato e di come temesse di averla delusa, aggiungendo alla cecità anche quello sconforto.
Parlò così tanto che quando si zittì aveva la bocca asciutta, e gli doleva la gola.
La mamma non lo aveva interrotto, e nonostante l’ansia nel petto, si sentiva un po’ più leggero, come se il muro che lo divideva da sua madre fosse stato abbattuto. Sapeva tutto, adesso.
Era impossibile tornare indietro.
Prima che la sentisse parlare passarono diversi minuti, durante in quali Dominik rimase in ascolto di ogni minimo suono: non sentiva niente, oltre al respiro di sua madre, regolare ma pesante. Ogni tanto la sentiva prendere fiato, come se volesse parlare, ma alla fine stava zitta. Avrebbe voluto dirle qualcosa, purché parlasse. Avrebbe voluto che Federico tornasse a casa e che facesse qualcosa.
- Dominik – lo chiamò di nuovo la voce di sua madre. – Tu…ne sei sicuro che questo ragazzo ti piaccia? – Fece una pausa, durante la quale inspirò di nuovo. – Tu lo sai che sono contenta che ti trovi bene a casa con questo ragazzo, che siete amici e che hai trovato qualcuno con cui fare amicizia, però…non vorrei che confondessi questo affetto per qualcosa di diverso. E’ bene essere amici e volersi bene, come io voglio bene a tuo padre, però c’è anche qualcosa in più tra me e tuo padre. –
Gli stava parlando come quando era un bambino e doveva spiegargli come rapportarsi con le persone adulte o con gli altri bambini alla scuola elementare. Stizzito, Dominik si morse il labbro inferiore, affondandoci i denti. Federico non era solo un suo amico, era…diverso. Non erano amici quando si baciavano sul divano o quando gli veniva voglia di toccarlo, o quando Federico lo accarezzava sulla schiena e sentiva improvvisamente caldo.
- Lo so. Ma a me Federico piace come a te piace papà – controbatté. – Federico mi piace sul serio. – Dall’altro capo del telefono non giunse nessuna parola. – Mi piace stare con lui. E’ l’unica persona con cui mi piaccia stare. E lo so che è un ragazzo, ma io non sto facendo niente di sbagliato, non faccio del male a nessuno. Vero? –
L’ultima parola  assunse quasi il tono di una preghiera.
Voleva che lei gli dicesse che sì, non stava facendo nulla di sbagliato, che non ci fosse niente di male nel provare qualcosa per un ragazzo, che fosse contenta e che non vedesse l’ora di riabbracciarlo esattamente come prima. Invece la mamma esitò: durò solo un attimo, ma fu abbastanza perché lui se ne accorgesse, perché quella pausa troppo lunga stonasse e lasciasse scivolare tutto fuori tempo, come quando si sbaglia a chiudere il primo bottone di una camicia e tutto viene sfalsato.
- Mami – la chiamò di nuovo, con un tono implorante, più di una preghiera.
- Lo so che non fai male a nessuno, Dominik, però cerca di capire che sono un po’ sconvolta, adesso. Non me lo aspettavo. –
- Sei arrabbiata anche tu. Come la maestra. –
- No, non sono arrabbiata, tesoro. – Le credette subito, senza neppure rifletterci. – Ho solo bisogno di un po’ di tempo, va bene? Quando sarai a casa ne parleremo con calma, io, tu e tuo padre. –
- Papà si arrabbierà? – le chiese. L’ultima volta che aveva usato quel tono era stato quando, correndo per casa con Aneta, era entrato nello studio di suo padre, e inciampando tra i fili vicino alla scrivania aveva fatto cadere sul pavimento lo schermo nuovo del suo computer, distruggendolo. Il sospiro che fece sua madre, allora, fu uguale a quello che sentì in quel momento attraverso l’apparecchio telefonico.
- Non lo so – ammise lei, in un soffio di voce.
Non si sentiva sollevato. Aveva creduto che lo sarebbe stato, ma si era sbagliato: sua madre lo aveva sempre capito, ma in quell’occasione sarebbe stato chiederle troppo. Espirò, sconfortato, e lei dovette averlo sentito, perché parlò subito.
- Ascolta, Dominik. Noi non ci arrabbieremo con te, d’accordo? E’ vero, speravo che…fosse diverso. Però, quello che mi preoccupa di più, adesso, è che hai fatto a botte, che una tua insegnante ti abbia detto cose orribili e che sono troppo lontana per fare qualsiasi cosa. A tutto il resto ci penseremo dopo, va bene? – Annuì stupidamente, consapevole che lei non potesse vederlo. – Andrà tutto bene. Dammi solo un po’ di tempo, e ne riparleremo quando sarai a casa. –
Il tono morbido non lo aiutò molto.
Si era illuso che sua madre potesse avere ancora lo stesso potere di quando era bambino, quello di risolvere tutto con un abbraccio, e di rimettere a posto tutti i pezzi del mondo. Non sapeva se fosse lei ad aver perso quel potere, o se fosse lui ad essere cresciuto: o, semplicemente, se certi problemi non potessero essere risolti. Eppure aveva sperato davvero che lei potesse semplicemente rispondergli con una scrollata di spalle e una risata, leggera come era sempre stata.
Non era andata così. Si sentiva più leggero, ma ancora appesantito e anchilosato, come se fosse stato bloccato a letto per troppo tempo. Non desiderava altro, adesso, che Federico tornasse a casa.
- Va bene. Adesso devo andare, ho ancora molto da studiare –  disse alla fine.
- Non vuoi parlare un altro po’? – La voce dolce di sua madre lo sfiorò come una carezza. Gli venne da sorridere, istintivamente, nell’istante in cui realizzò di essere cresciuto abbastanza, forse, da riporre tutte le sue speranze non più nel potere di sua madre, ma in quello di Federico.
Perché Federico avrebbe rimesso in ordine i pezzi del mondo: lo avrebbe distratto, accarezzato, gli avrebbe spiegato altre dinamiche dei rapporti tra le persone, avrebbe ascoltato le sue preoccupazioni su sua madre, e avrebbe fatto qualcosa, qualsiasi cosa.
- No, io…Vi chiamo stasera, come al solito -  disse alla fine.
Prima di chiudere la chiamata, sentì sua madre mormorargli ti voglio bene. Lo faceva tutte le volte, perché pensava che l’affetto si dovesse ricordare alla persone care, fino a quando fosse possibile, perché se le fosse successo qualcosa, a Praga, e lui non fosse riuscito a tornare in tempo per vederla l’ultima volta, avrebbe ricordato che le ultime parole di sua madre sarebbero state ti voglio bene.
Questo, più di tutta la telefonata, riuscì a confortarlo, quando fu da solo nella casa di nuovo silenziosa.
Che, tra tutte le cose che avrebbe ancora potuto dirgli, sua madre gli aveva ricordato di volergli bene. E che, se non l’avesse più vista, o sentita, si sarebbe ricordato di quelle parole, anche dopo averle confessato di essere gay.
 
§§§
 
Un uomo camminava di fretta, una mano nella tasca del cappotto scuro, una sciarpa viola intorno al collo e gli occhi chini sullo smartphone, a scrivere sms furiosamente, come se da quelle poche parole, compresse in un invio, dipendesse il suo futuro, la sua stessa vita.
Samuele distolse lo sguardo mentre quello, sentendosi osservato, sollevava il suo verso di lui, prima di superarlo, continuando a camminare velocemente per le strade trafficate e scivolose per la pioggia.
Quel mattino di febbraio si respirava quell’aria un po’ pastosa e dolciastra che c’era sempre a Milano quando non aveva fatto che piovere tutta la notte ma al mattino aveva fatto capolino un timido sole, anche solo per un’ora o due. Difatti, mentre camminava per strada alle undici passate, era già andato via, coperto da una sottile coltre di nuvole non troppo scure.
- Credevo stessi scherzando – esordì alla fine.
Mentre camminava le braccia gli ciondolavano inerti lungo i fianchi, e più di una volta aveva urtato accidentalmente il corpo caldo che gli camminava di fianco semplicemente, come se non avesse fatto altro per il resto della vita. Con una punta di nervosismo, infilò le mani nelle tasche dei jeans.
- Mh? –
Il mugolio interrogativo, sorpreso e distratto, lo raggiunse carezzevole.
 - Quando stamattina mi hai telefonato –  specificò.
- Perché? –
Samuele, nonostante fosse stizzito da quei monosillabi e quella finta ingenuità, non si voltò verso l’uomo che gli camminava di fianco, perché se l’avesse fatto avrebbe incontrato le labbra sottili di Mattia distese in una smorfia.
Mattia gli aveva telefonato alle otto del mattino, strappandolo ad un sonno tormentato ma rigenerante. La sera prima, Riccardo si era presentato a casa sua a sorpresa, con una bottiglia di pregiatissimo vino bianco e ore intere da dedicargli: aveva accompagnato suo figlio ad una festa di compleanno in periferia, vista la pioggia, promettendo che sarebbe passato a prenderlo quando avesse voluto. E piuttosto che tornare a casa da sua moglie, aveva preso di nascosto il suo miglior vino dal carrello dei liquori del suo salotto, e si era presentato a casa sua.
Samuele aveva dimenticato quando fosse stata l’ultima volta in cui Riccardo avesse fatto una cosa tanto piacevole: avevano bevuto, godendo di quella piacevole leggerezza che era arrivata dall’alcol, e avevano fatto l’amore, e avevano dimenticato di quanto fosse ancora lontano il mese di giugno. Quando Riccardo si era addormentato di fianco a lui era stato come immaginare che vivessero insieme, che fosse già arrivata l’estate, che il caldo della camera da letto non fosse attribuibile ai termosifoni ma alla calura d’agosto, e che tutto avesse finalmente preso la giusta piega. Poi, alle tre del mattino il cellulare di Riccardo aveva preso a squillare furiosamente, e nel silenzio della stanza buia Samuele aveva sentito la voce roca di suo figlio chiedergli di passare a prenderlo e di dare un passaggio anche a due amici: allora la bolla era scoppiata, Riccardo si era rivestito, e Samuele lo aveva salutato sulla soglia. Non era riuscito a riprendere sonno prima delle cinque, così che, alle otto, quando Mattia lo aveva svegliato tartassandolo di telefonate, si sentiva ancora la testa pesante e gli occhi che bruciavano, come se si fosse appena addormentato.
Non appena aveva saputo il perché lo avesse svegliato, aveva avvertito l’istinto di mandarlo a fanculo, che aveva trattenuto solo perché Mattia si era offerto di offrirgli un caffè doppio prima di rivolgergli ancora la parola.
- Mi hai fatto uscire di casa per cercare un regalo di compleanno per un tizio che non conosci –  borbottò, avvertendo di nuovo quella punta di irritazione che lo aveva accompagnato sin da quando era uscito di casa.
- Oh, quello! – Mattia rise, reclinando il capo indietro, e il bavero del cappotto scuro che indossava, sollevato, contrastò con la pelle chiara del viso, coperta dalla barba di due giorni che doveva rendergli la mandibola terribilmente pungente. – Da quando ti presenti ad una festa senza un regalo, scusa?! – lo apostrofò.
- Non è un vero compleanno! Federico organizza una semplicissima cena. –
- Se qualcuno è nato quel giorno, per me è un compleanno. –
- Tu non conosci Dominik, è per questo che parli così. Non è uno da compleanni e festicciole in compagnia. Non riesco ancora a capire come abbia fatto Federico a convincerlo ad organizzare anche solo una cena. – Fece una pausa, e tirò via le mani dalle tasche, perché averle fasciate a quel modo lo innervosiva. – Avremmo portato qualche bottiglia di vino e basta. -
Mattia sbuffò, quasi infastidito, con una punta di divertimento.
- Che palle  – lo pungolò, allargando platealmente le braccia di fronte a sé. Indossava un paio di guanti a coprirgli le mani, per ripararsi dal freddo. Samuele odiava i guanti, e tra l’altro non soffriva poi così tanto per le basse temperature invernali. - Nemmeno io sono uno da compleanni, ma mi fa piacere portare qualcosa, va bene? Dovresti farti venire qualche idea piuttosto. –
- Io?! –
Questa volta Mattia si fermò al centro del marciapiede, e Samuele non poté evitare il suo sguardo che lo colpì dritto come un fendente.
- Ti ho chiamato per aiutarmi. Non conosco questo fantomatico Dominik, né tantomeno i suoi gusti – precisò, poi sorrise sornione. – A meno che tu non sia uscito con me per un altro motivo. Devo considerarlo un appuntamento? Bastava dirlo! –
Samuele lo colpì su una spalla e Mattia, che se lo aspettava, non arretrò di un passo, inchiodandogli il polso con una mano.
- Sei sempre il solito – lo rimproverò, riprendendo a camminare. Mattia lo seguì.
- Ti ricordo che domenica mi hai invitato a pranzo. –
- In realtà ti sei invitato da solo. –
- Ho promesso che non ti avrei fatto ubriacare per portarti a letto, e tu in cambio mi inviterai a pranzo domenica. Mi hai stretto la mano, le promesse ufficiali vanno  mantenute. –
- E chi mi garantisce che dopo essere venuto a pranzo, poi non proverai lo stesso a farmi ubriacare alla festa?  –
- Fiducia. –
- Facciamo così. Se tu manterrai la tua promessa, allora dopo la festa ti inviterò a pranzo e ti chiederò scusa per aver dubitato delle tue buone intenzioni. -
Questa volta, quando gli diede un’altra gomitata, Mattia lo fece con meno forza del solito: anzi, parve morbido, quasi come una carezza rassicurante. Persino quando parlò, era stranamente serio e posato.
- Andiamo, Samuele, sai benissimo che non lo farei mai – confessò. Non lo stava guardando: aveva lo sguardo dritto davanti a sé, distrattamente poggiato su qualche vetrina, le braccia lungo i fianchi. Aveva le labbra screpolate per il freddo: Samuele lo aveva notato solo in quel momento perché solo allora, da quando si erano dati appuntamento e incontrati in centro, si era concesso il privilegio di guardarlo per più di qualche secondo, di sfuggita.
Distolse lo sguardo.
- Sì, lo so. –
Non sapeva se esserne veramente certo. Mattia era imperscrutabile, ed era difficile comprendere quando parlasse sul serio e quando invece scherzasse.
Samuele non aveva scherzato, quella sera in cui gli aveva confessato che ci sarebbe stato sul serio a letto con lui, se non avesse avuto un compagno. Che male avrebbe mai potuto fare una notte di sesso con uno come lui? Si intendevano, si punzecchiavano, ed innegabilmente Mattia era un bell’uomo: avrebbe potuto trascorrere con lui una notte senza alcuna implicazione, e sarebbe anche stato bello, perché non sarebbe stato con uno sconosciuto.
I pensieri di Mattia, però, erano sempre insondabili, anche quando si presentava al locale chiedendo un caffè e continuando a fissare il cellulare, o quando spariva per giorni interi e ritornava poi con uno sorriso indifferente sul volto.
Mattia c’era e non c’era, e lo faceva sempre con una leggerezza che non si addiceva per nulla alla sua età: era più come un ragazzino che credeva ancora di poter governare il mondo, di poter scavare un solco profondo e memorabile nella storia dell’umanità, un po’ come la Grande Muraglia cinese.
- In verità odio i compleanni. L’ultimo a cui sono stato, lo scorso anno, è stato il diciottesimo di mio fratello – lo sentì esordire, con aria annoiata, in una scrollata di spalle. Lo aveva detto con noncuranza, stretto in quel cappotto scuro che faceva tanto uomo d’affari, con i guanti di pelle e la sciarpa intorno al collo. Era tutto nero, un puntino per la strada che se fosse stata notte sarebbe stato impossibile vedere. L’unico stralcio di colore, in tutto quel nero, dovevano essere i suoi occhi. Samuele non si voltò per incontrarli.
- Io non ho festeggiato nemmeno il diciottesimo. I miei avevano già deciso di cacciarmi di casa . confessò.
A volte, quando ripensava ai suoi genitori, non riusciva ad evitare quella stretta al cuore. Con il passare degli anni, si era man mano affievolita, aveva iniziato a far sempre meno male: ma era sempre lì, dove sarebbe rimasta probabilmente fino a quando non fosse stato vecchio e solo, magari con un cane.
La stretta di Mattia, sul braccio, lo fece sobbalzare. Era una stretta decisa, ma leggera, e durò solo un attimo, giusto il tempo di imprimergli il tocco sulla pelle. Fu strano, a dire il vero: indossava un maglione pesante, un giubbotto imbottito, e le mani di Mattia erano coperte dai guanti. Così, quel tocco, più che una stretta tra le dita, parve una morsa.
- Suona strano il fatto che abbiamo accettato di partecipare ad un compleanno – osservò poi Mattia. Samuele sorrise.
- Non so dire di no a Federico, e Dominik è un ragazzino strano. Hanno bisogno di questa cena, o almeno ne sono convinto. –
- Fai il buon samaritano? – lo prese in giro quello, con una nota canzonatoria nella voce. Quel tono lì c’era sempre, nella voce di Mattia, ed era difficile intuire quando fosse serio e quando, piuttosto, lo stesse semplicemente prendendo in giro.
- Tu perché hai detto di sì? –
Mattia non gli rispose subito, ma quando lo fece stava già ridendo prima di iniziare a parlare.
- Non so dire di no a Federico, e tu sei un tipo strano. Diciamo che avete bisogno che io venga a questa cena – rispose a tono, riprendendo le sue parole, e solo quando finì si aprì in una risata cristallina, di quelle che faceva quando era di buonumore e il suo cellulare non squillava continuamente.
Samuele avrebbe potuto insistere. Avrebbe voluto.
Era stato preso dall’insano desiderio di sbatterlo contro il muro, afferrarlo per il colletto del cappotto e scuoterlo contro la parete, costringendolo ad essere serio, per una volta, a rispondergli sul serio. Non era la prima volta che Mattia si comportava a quel modo: da quando lo conosceva, i discorsi seri che aveva condotto con lui avrebbe potuto contarli sulla punta delle dita. E tutte le volte che toccava a lui rispondere ad una domanda, o sbilanciarsi su qualcosa, tirava fuori quell’ironia, una canzonatura, una risposta stupida, e tutto volava via come un mucchio di coriandoli sotto ad un soffio di vento. E tutte le volte, Samuele non otteneva mai niente.
Perché stesse dando tanto importanza a quel particolare, adesso, non lo sapeva.
Forse avere Riccardo a casa la sera prima, essere così vicino ad un concetto di normalità e poi vederselo scappare via al primo squillo del cellulare, gli aveva lasciato addosso una malinconia, appiccicosa e fastidiosa come il sudore sulla pelle quando fuori c’è troppa umidità.
Samuele sbuffò, infastidito.
Non lo aveva mai fatto.
Per questo, probabilmente, Mattia lo prese sul serio.
- Che c’è? –  gli chiese, un tono di voce un po’ più alto del solito, più acuto.
- Non rispondi mai a nessuna mia domanda. –
- Ma quando mai! –
Samuele lo afferrò per un braccio mentre lui gli camminava a fianco tranquillamente: dopo quel gesto repentino, però, Mattia si irrigidì, e quando Samuele lo strattonò, costringendolo a voltarsi, lo fissò con gli occhi azzurri sgranati e l’espressione interrogativa, un po’ infastidita.
- Ma che vuoi? –
- Non hai mai risposto seriamente a nessuna mia domanda. –
- Sono il figlio di un avvocato, mi hanno insegnato a fare così – gli rispose a tono, le labbra strette.
Samuele gli lasciò il braccio d’improvviso, come se si fosse appena reso conto di averlo afferrato e strattonato, appena tornato in sé dopo essere stato posseduto.
Si portò una mano sul viso.
- Scusa, io…scusa. Ho dormito poco, è non sono di ottimo umore. – Perché vieni a quella festa? – Mi innervosisco facilmente, saranno i troppi caffè. –
Mattia non rispose, ma quando Samuele cominciò di nuovo a camminare, lo seguì in silenzio. Non voleva comportarsi a quel modo, non voleva afferrarlo, dargli uno strattone. Non voleva spingersi così oltre, agire con tanta confidenza, e soprattutto non voleva reagire a quel modo per una cosa così stupida.
Riccardo lo stava avvelenando. L’ansia, l’attesa, quegli ultimi mesi di attesa lo stavano avvelenando, consumando piano piano, gli stavano facendo perdere il senno.
Se non ci fosse Riccardo, farei sesso con te anche adesso.
Anche Mattia lo stava avvelenando, con i suoi sorrisi ambigui, le sue battute, i tocchi casuali sulle braccia, il vino, e le labbra.
Lo stavano consumando. Gli stavano rubando dei piccoli pezzi.
Per questo aveva accettato l’invito di Federico, senza pensarci. Perché Federico non gli rubava niente. Federico lo prendeva in giro, lo spronava, gli chiedeva consiglio, ma quando tornava a casa dopo aver parlato con lui, Samuele era ancora tutto intero, non era teso tra la voglia di andare a urlare sotto casa di Riccardo e quella di mandare a fanculo tutti e concedersi una notte di sesso senza impegno con Mattia.
- Come ti va? – spezzò il silenzio Mattia. – Col tuo uomo – precisò.
La puntualizzazione, in realtà, non era necessaria: il resto della sua vita non era poi così piena, e gliene aveva raccontato qualche particolare, come gli allenamenti in palestra, il supermercato, le bollette da pagare e la sensazione di essere diventato una sorta di fratello maggiore per i colleghi più giovani, come Federico o Giulio, uno dei ragazzi che erano stati assunti da poco.
Di Riccardo, invece, Samuele non parlava mai: era un po’ come se evitare di portarlo fuori di casa potesse far sembrare la situazione in cui si trovavano migliore, meno squallida.  Men che meno, poi, ne avrebbe parlato con Mattia. Mattia era sicuro di sé, diretto: era un uomo forte, a modo suo. E Samuele si vergognava. Così, di Riccardo aveva parlato una o due volte, giusto il tempo di raccontargli della squallida situazione in cui sguazzava da anni: poi, aveva smesso persino di nominarlo. Anche Mattia, quando era con lui, evitava di farne il nome, persino un riferimento casuale: e in quel momento, l’ultima cosa di cui Samuele volesse parlare era Riccardo.
- Non voglio parlare di lui – disse chiaramente, come non aveva mai fatto.
Allora, nel silenzio, Mattia sorrise, chiudendo le mani in un battito muto, attutito dai guanti.
- Allora, qualche idea per questo regalo? -
 
§§§
 
- Dobbiamo aver sbagliato, da qualche parte. –
Adéla fece scorrere le mani sulle lenzuola fresche, facendo attenzione che ricadessero dolcemente sul materasso, ma che non toccassero terra. Suo marito, invece, si infilò a letto con un gesto stizzito, strattonando le coperte dalla sua parte. Lei le risistemò con attenzione: tutta quella cura quasi maniacale serviva a distrarla.
Per tutto il giorno aveva cercato di comportarsi nel modo più normale possibile: aveva preparato il pranzo, chiacchierato con sua madre, l’aveva aiutata a cucire e aveva controllato i compiti delle bambine. Quando Filip era tornato dal lavoro aveva apparecchiato, gli aveva preparato la cena, e si era seduta sul divano a guardare la televisione come tutte le sere, mentre lui leggeva il giornale: poi, quando sua madre era andata a letto e anche le bambine l’avevano seguita, l’aveva detto.
Dominik è gay.
Aveva guardato con attenzione il modo in cui Filip aveva chiuso il giornale, senza curarsi di piegarlo bene, e lo aveva poggiato sul bracciolo del divano, con le sue mani grandi. Di Filip le erano sempre piaciute le mani, soffici e grandi, con le dita lunghe e sottili: Dominik aveva le mani esattamente come le sue, con l’anulare della mano destra un po’ storto.
Non aveva urlato. FIlip non urlava mai. Non le aveva neppure chiesto di ripetere, perché aveva capito. Semplicemente, aveva voluto sapere: aveva voluto sapere tutto, della loro telefonata e di quelle precedenti, del rapporto con quel ragazzo e di eventuali segni che avrebbero potuto farli insospettire.
Mentre raccontava tutto dal principio, Adéla rielaborava: ripensava alla voce di suo figlio, alla cadenza, al modo in cui aveva temporeggiato, quasi a volersi tirare indietro e nasconderle la verità. Non gli aveva chiesto da quando andasse avanti: se ne rese conto solo quando fu suo marito a chiederlo a lei, e si accorse di non sapere cosa rispondergli. Gli disse ancora una volta la verità. E mentre parlava, si rese conto del fatto che le cose iniziassero ad avere dei contorni differenti: Dominik era a Milano, lontano da lei, e non era solo. C’era qualcuno, nel suo stesso mondo, che si prendeva cura di lui a modo suo, che doveva sicuramente farlo sorridere, perché a Dominik piacevano solo coloro che lo facevano ridere, e che non doveva trattarlo come uno scemo o come un disabile, o non gli sarebbe mai stato concesso di avvicinarsi tanto.
Il fatto che fosse un uomo diventava un particolare piccolo, ai confini delle sue idee e del suo mondo: c’era, era sempre lì e brillava come il diamante sotto la luce, ma era più piccolo rispetto a prima.
- Abbiamo sbagliato qualcosa – sentì suo marito ripetere.
Adéla trattenne l’istinto di raggiungerlo sotto le coperte, alla ricerca di un luogo caldo nel cui trovare rifugio, chiudendo gli occhi e adagiando il capo sul letto dell’uomo, in silenzio.
Non voleva toccare l’argomento, non voleva parlare di Dominik a kilometri di distanza da lei, non voleva affrontare le conseguenze della sua rivelazione sul loro futuro.
Si chiese, allora, perché le avesse raccontato tutto. Si chiese se, anche durante le vacanze di Natale, anche quando suonava Chopin al pianoforte di casa, Dominik provasse quei sentimenti per un ragazzo. Si chiese come avesse fatto suo figlio ad arrivare a quel punto, a fare a botte dopo un’offesa, quando aveva vissuto tutta la sua vita come un’incorporea entità angelica, scesa sulla terra per migliorare un po’ il mondo.
Fu proprio per l’immagine che aveva di lui che, alle sue orecchie, il tono duro della voce di suo marito suonò quasi stridente sui contorni dell’immagine di Dominik.
- Abbiamo sbagliato? – si chiese da sola, in un sussurro.
Adéla aveva sempre creduto di non essere una donna forte: era un insignificante ed esile corpo femminile, con i capelli troppo biondi, gli occhi troppo azzurri e i polsi troppo sottili. Persino la sua voce, sempre flebile, non incuteva timore neppure quando urlava. Per questo motivo, quando aveva scoperto di avere contratto la toxoplasmosi, e che il suo primo figlio sarebbe potuto nascere gravemente deforme, era stata immediatamente certa che sarebbe crollata, che neppure Filip avrebbe potuto afferrarla per le spalle, scuoterla e tenerla in piedi.
Poi era successo: Dominik era nato vivo, con entrambe le braccia e le gambe, e un viso bellissimo.
Ma era cieco. Sarebbe sempre stato cieco: non avrebbe mai ammirato la bellezza dei colori, i giocattoli colorati che aveva comprato per lui. Non avrebbe mai visto il suo viso, non avrebbe imparato ad andare in bicicletta, a leggere, a fare le addizioni. Non avrebbe preparato i biscotti con lei per Natale, non avrebbe potuto fare il lavoro che avrebbe desiderato.
Non avrebbe potuto avere una vita normale, una moglie, una famiglia, dei figli.
Di fronte a suo figlio, Adéla si era ripromessa di essere una donna forte, che non avrebbe permesso a niente e a nessuno di discriminare suo figlio. Dominik avrebbe avuto una vita normale.
Gli aveva insegnato a cucinare, a muoversi per casa da solo, a ordinare i vestiti nell’armadio per colore, così da vestirsi da solo, a pettinarsi, a fare la doccia, ad allacciarsi le scarpe: lo aveva fatto come una madre normale, solo che aveva richiesto più tempo rispetto agli altri bambini. Si era imposta di insegnargli ad andare in bicicletta, a usare coltello e forchetta, a suonare il pianoforte e a rifarsi il letto. Lo aveva lasciato andare, quand’era stato necessario, anche se non chiudeva occhio tutte le notti, per il terrore che potesse accadergli qualcosa, in Italia, lontano, e che non avrebbe avuto il tempo di raggiungerlo e di fare qualcosa.
Poi, una mattina come tante Dominik aveva telefonato e le aveva confessato di essere gay.
Poteva, il suo mondo, incrinarsi per così poco?
Poteva una donna come lei, che aveva affrontato il dolore di un figlio che non avrebbe mai visto il mondo, crollare di fronte ad una rivelazione come quella?
Eppure era accaduto.
Adéla aveva sostenuto il peso degli sguardi della gente, le domande di suo figlio sulle cose, i suoi malumori e le sue lacrime. E adesso, proprio adesso che Dominik aveva bisogno di lei, non riusciva a far altro che stare in piedi, al centro della camera da letto, a fissare le lenzuola.
- Andiamo a prenderlo. –
- Come? – Parlò senza rendersene conto, sgranando gli occhi solo quando le parole di suo marito le giunsero alle orecchie e vennero attentamente elaborate.
Non sarebbero andati in Italia a prendere Dominik pochi giorni prima del suo compleanno, e appena quattro mesi prima dei suoi esami di maturità e di quelli al Conservatorio. Filip la guardò interrogativo.
- Andiamo a prenderlo. Vedrò di ottenere qualche giorno di ferie, andiamo a Milano, prendiamo le sue cose e lo riportiamo a casa. –
- Ma….ha gli esami. –
- Potrà farli qui, chiederemo trasferimento per gravi motivi di salute. Abbiamo i Conservatori anche in Repubblica Ceca, non ci faranno problemi. Quando sarà qui ne parleremo con calma e vedrai che sarà stato tutto un equivoco, quel ragazzo gli avrà detto chissà cosa, magari non è stata colpa nostra e… - Adéla girò intorno al letto, sedendosi su una sponda e premendo le mani su quelle di suo marito: Filip stava gesticolando. Lo faceva solo quando era nervoso. Era un uomo posato, che raramente esponeva delle emozioni: gli occhi, solo quelli lo tradivano. In quello, Dominik un po’ gli somigliava: se ne stava sempre chiuso in se stesso, a suonare, ma quando le rivolgeva una carezza, o un bacio soffice sulla guancia, ci metteva dentro tutto quello che provava. Quando adagiò le mani su quelle di Filip, cercò contemporaneamente i suoi occhi azzurri: erano smarriti, le pupille dilatate in netto contrasto con le iridi di ghiaccio. Si fermò: fermò i movimenti, il respiro, le labbra.
- Non porterò mio figlio via da Milano, Filip. Quattro anni fa, il suo insegnate di musica ha detto che quel Conservatorio è l’occasione migliore della sua vita. Io non gliela toglierò adesso. –
Parlò dolcemente, come se dovesse spiegare un argomento particolarmente difficile ad un bambino, e Filip abbassò lievemente le palpebre, come accarezzato dal tono morbido con cui gli parlò. Poi li riaprì, in un sospiro.
- Non può stare lì. Non hai visto cos’è successo? Avrebbe dovuto restare da solo, andava tutto bene prima! – sibilò. Adéla sollevò le mani dalle sue. – Io non capisco cosa abbiamo fatto di sbagliato. Siamo sempre stati dei buoni genitori, lo abbiamo educato bene e non ha mai dato problemi – continuò. Quando alzò gli occhi verso di lei, la guardò in modo diverso dal solito. – Sei stata tu. Avevo ragione io a non volerlo spedire in quel Paese a quattordici anni. Ma tu no, Filip, è l’occasione della sua vita! Avevo ragione io, era troppo piccolo per andare via di casa! In quel Paese sono tutti così, non hanno principi o morale, e lui era troppo piccolo! Aveva bisogno di noi, di qualcuno che lo educasse! E io avrei dovuto insistere, non avrei dovuto permetterti di lasciarlo partire! – Espirò, furioso, la pelle chiara delle guance tinta di rosso, sotto la barba.
Adéla si alzò dal letto, facendo due passi indietro.
- Filip! Stai dicendo che è colpa mia?! – Non avrebbe voluto usare quel tono accusatorio, non avrebbe voluto che la voce le tremasse a quel modo e che il magone alla gola le crescesse, spezzandola sull’ultima parola. Suo marito agitò le mani in aria, come in segno di diniego, e quando parlò, quasi confuso, aveva la voce roca.
- Tu gli hai detto che andava bene!! – la accusò.
La donna fece un altro passo indietro.
Non gli aveva detto che andasse bene, che fosse tutto a posto.
Ma gli aveva detto che gli voleva bene.
Non era forse la stessa cosa?
Filip a volte sembrava non capire il rapporto morboso che avesse sviluppato con Dominik, come se avesse il cordone ombelicale ancora integro, come se lui potesse strattonarla e tirarla ancora vicino a sé. Sarebbe stato impossibile fargli del male. Sarebbe stato come farne a se stessa.
Anche lei, presa dalla furia, sollevò le braccia, in un gesto plateale, con le mani in aria, e la vestaglia che indossava le si agitò intorno al corpo.
- Cosa avrei dovuto dirgli, Filip?! E’ in un altro Paese, a kilometri di distanza da me, e mi ha telefonato quasi in lacrime, dicendomi che un ragazzo lo aveva umiliato perché è gay e che la sua insegnante gli ha dato del depravato! Cosa avrei dovuto fare, eh? Dirgli che non mi sarei mai aspettata una cosa del genere da lui, che sono sconvolta e che non posso crederci?! – Stava urlando con così tanta forza da sentire vibrare persino il proprio corpo. – Lui mi ha chiamato per sentirsi dire qualcosa di bello. Ha chiamato me perché sono sua madre, e perché adesso ha bisogno che sua madre gli dica che andrà tutto bene, di ignorare quel ragazzo idiota e la sua insegnante! Avrò tutto il tempo di parlare di cosa o di chi gli piace quando tornerà a casa. Ma fino ad allora, se lui avrà bisogno che io gli dica che non sono arrabbiata e che gli voglio bene, io gli dirò che gli voglio bene! –
Stava urlando, ne era consapevole: nonostante lo facesse in modo soffocato, per non svegliare le bambine e sua madre, a modo suo stava urlando. Ed era confortante, catartico sentire la gola bruciare e il viso arrossato dalla furia. Non aveva mai litigato a quel modo con Filip, e non lo aveva mai visto tanto arrabbiato, e allo stesso tempo tanto smarrito, come in quel momento, in cui sollevò le coperte, scalciandole via, e si sedette sulla sponda del letto, i gomiti sulle ginocchia e le mani tra i capelli.
- E’ questo il punto. Tu gliele hai sempre fatte passare tutte. –
- Questa non è una marachella, Filip. Stiamo parlando della vita di nostro figlio. –
- Nostro figlio che all’improvviso vuole andare a letto con gli uomini! – sibilò lui, trattenendosi dall’urlare. Nonostante tutto, quelle parole parvero rimbombare nella casa silenziosa, e ad Adéla sembrò ancora di sentirne l’eco per interi minuti.
Si passò le mani sul viso, stropicciando gli occhi e le guance: Dominik lo faceva sempre quando si sdraiava nel suo lettino insieme a lui, la afferrava per la manica del pigiama quando gli diceva che fosse ora di addormentarsi, la convinceva a raccontargli un’altra storia del mondo o a portargli un ultimo bicchiere d’acqua.
E’ l’unica persona con cui mi piaccia stare.
La verità era che non si sentiva preparata a tutto quello.
Probabilmente, non solo al fatto che Dominik volesse stare con un ragazzo, ma al fatto che volesse stare con qualcuno. L’idea che ci fosse, adesso, al mondo, una persona alla quale Dominik si appoggiasse, una persona che non fosse lei. Era destabilizzante.
Aveva trascorso tutta la sua vita a prendersi cura di suo figlio, ad insegnargli come affrontare il mondo, la gente. L’unica cosa che non gli aveva insegnato, era l’amore.
Non avrebbe potuto insegnargli quel sentimento: i sentimenti non si insegnavano.
Avrebbe potuto spiegarli il valore dell’amicizia, il rancore, l’odio, la vendetta, l’affetto.
Ma l’amore no, non aveva limiti, o spiegazioni. Era lo stesso motivo per cui Dominik non era riuscito a definirle con parole esatte come provasse per quel ragazzo, il modo in cui gli piacesse, se ne fosse attratto fisicamente. Aveva usato un semplice paragone.
Ma a me Federico piace come a te piace papà.
Era l’unico modo in cui Dominik avesse conosciuto l’amore.
E l’unico modo per spiegarlo a qualcun altro era il termine di paragone.
Con voce stanca, sospirò.
- Ascolta, Filip. Ne parleremo con lui. Lo supereremo. – Non era certa di cosa avrebbero dovuto superare: l’omosessualità di Dominik, cercando di cambiarla, o l’ostilità di Filip, cercando di superarla? Adéla non sapeva cosa stesse provando, in tutto quel caos di sentimenti: l'unica cosa di cui fosse certa, era l’amore per suo figlio, che non le avrebbe permesso di abbandonarlo, o di fargli del male. A tutto il resto avrebbero pensato dopo. Fece qualche passo avanti, ma non si sedette sul letto di fianco a suo marito, preferì rimanere in piedi. - Abbiamo superato tutto. Credevamo che Dominik sarebbe morto prima ancora di nascere, e invece guardarlo, sta benissimo. Abbiamo superato una vita con un bambino cieco. Abbiamo superato la distanza da lui. Lo supereremo. Abbiamo sempre superato il peggio – mormorò.
La sua voce era così carezzevole da risultare convincente persino a se stessa. Filip sollevò il viso verso di lei, fissandola da sotto le sopracciglia aggrottate.
- Ah, il peggio! Perché, ci può essere ancora qualcosa peggio di questo? –
Arrivò come un colpo a sorpresa, alle spalle. Forse fu il tono, forse la furia o la disperazione che lesse nei suoi occhi, ma fu abbastanza per scuoterla.
Non potevano spezzarsi, non in quel momento e non per quel motivo.
Erano una famiglia, avevano tre figli a cui potevano garantire un’istruzione e la felicità. Avevano superato una vita accidentata, con un bambino cieco per casa e altre due pesti ancora troppo piccole per comprendere tutto quello. E Adéla non avrebbe lasciato che quei venticinque anni con suo marito venissero incrinati, così come non aveva permesso al mondo di procurare anche un solo piccolo taglio all’anima di Dominik, di Aneta o di Jana.
Non lo avrebbe permesso, per nessuna ragione al mondo.
- Mio figlio è cieco, Filip. Niente può essere peggio di questo. – esordì, improvvisamente sicura di se stessa, come una leonessa di fronte al cucciolo in pericolo. – Sono sempre stata l’unica persona al mondo in grado di fare qualcosa per lui. Pensavo che sarebbe rimasto da solo per tutta la vita, che avrebbe allontanato sempre tutti, che gli sarebbe bastata la musica, magari la fama. Ma ci hai mai pensato, Filip, a cosa succederà quando io sarò morta, quando anche tu sarai morto? Chi si prenderà cura di lui quando io non potrò più farlo? – Pensarci era insopportabile, ma era la verità, una verità che permeava le mura di quella casa tutte le volte che sua madre, anziana, aveva difficoltà a fare il bagno, o a trattenere un accesso di tosse. La verità stava nella morte, l’unica cosa al mondo che avrebbe potuto impedirle di prendersi cura dei suoi figli. L’unica cosa che non avrebbe potuto contrastare. - Ha trovato qualcuno che è riuscito ad avvicinarlo, a cui vuole bene. E sì, forse ne è anche attratto – ammise. - Non mi importa che sia uomo o donna, se lui è felice e non è solo. Ricordatelo, Filip. Dominik è cieco, e niente al mondo potrà mai essere peggio di questo. – Gli puntò un dito contro, accusatoria, perché all’improvviso c’era di nuovo quella punta di irritazione a pungolarla, a confonderla. - Dovrebbero dirlo, a quelli che parlano come tu stai parlando adesso, e alle donne che si strappano i capelli perché il figlio è gay, che se sapessero quali sono i problemi veri, smetterebbero di crearsene. –
- I problemi veri? Questo non è un problema vero?! –
- Tuo figlio è cieco, Filip! Diciotto anni fa hai pianto sul mio letto d’ospedale perché tuo figlio era cieco! Adesso non ti permetterò di farlo solo perché tuo figlio è gay – lo rimproverò. Le mancava il fiato, sentiva caldo e doveva avere certamente il viso rosso, a chiazze, come le capitava sempre quando era arrabbiata. Filip non parlò per diversi minuti, durante i quali si limitò a passarsi le mani sul viso, come se farlo potesse scacciare la spiacevole tensione che aleggiava nella stanza.
Adéla fece un passo avanti, e questa volta si sedette al suo fianco, sul letto: il materasso cigolò un po’, affondando sotto il suo peso, ma lei fece attenzione a non scivolare di lato e a non toccarlo.
- Ne riparleremo quando Dominik sarà a casa per Pasqua. Intanto ci penseremo, analizzeremo le cose, e metabolizzeremo, d’accordo? Poi, se sarà il caso, ne riparleremo. Ma io non porterò via Dominik da Milano, né gli impedirò di avere accanto quel ragazzo, fino a quando lo vorrà. Tu adesso sei arrabbiato, ma tra qualche giorno, quando ti sarà passata, ti accorgerai che ho ragione io. Lo sai. –
Filip lo sapeva.
Era solo troppo arrabbiato e orgoglioso per ammetterlo.
Sarebbe andato tutto bene.
Si alzò dal letto quando lo sentì muoversi al suo fianco: in silenzio, Filip tirò le coperte verso di sé, sdraiandosi e coprendosi fino alle spalle, senza rivolgere un ultimo sguardo.
- Buonanotte Adéla. - 







(1) miláčku significa tesoro
mami
significa mamma, nella forma confidenziale e come appellativo.
Ho inserito queste parole in ceco perchè mi piaceva l'effetto, ma ovviamente è superfluo specificare che tutto il dialogo tra Dominik e sua madre, e tra i suoi genitori nell'ultimo paragrafo, è scritto in italiano ma avviene in ceco.




Nota al capitolo 37: Ci avviciniamo ad una parte della storia che io amerò, e che come tale è difficile da scrivere. 
Lo so che ci ho messo un sacc ad aggiornare, e chi mi segue sulla mia pagina facebook avrà letto tutti i miei scleri. 
Per chi non lo sappia, sono in piena sessione d'esame, ho già dato due esami in queste settimane e me ne manca un terzo, da qui la colossale lentezza nell'aggiornamento. Non posso assicurare una maggiore velocità, perchè inizierà adesso il nuovo semestre all'università, però forse fino ad aprile avrò un poco di tempo.
In questo capitolo mi sono concentrata anche sui genitori di Dominik, per sondare le loro reazioni.
Come vi sono sembrati? 
Nel prossimo capitolo, invece, torna sicuramente Federico.
Spero di aggiornare presto, e risponderò prestissimo alle recensioni, non appena avrò dieci minuti liberi. Ne approfitto per ringraziarvi tutti qui, per la pazienza e per l'affetto. A presto!
Esse

 

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Capitolo 43
*** 38th: Esprimi un desiderio ***


I desideri sono la cosa più importante che abbiamo e non si può prenderli in giro più di tanto. Così, alle volte, vale la pena di non dormire per star dietro ad un proprio desiderio.

Alessandro BariccoCastelli di rabbia, 1991

 

 
A Jessica,
nel giorno del suo compleanno.
Chapter 38th: Esprimi un desiderio
 
Federico era sempre stato disordinato.
Il suo armadio era un’accozzaglia di vestiti stropicciati, borsoni ingombranti e coperte appallottolate. Nei cassetti infilava di tutto, dalle cartacce ai block-notes, fino alle cartoline e alle matite, salvo poi non riuscire mai a trovare nulla di ciò che gli servisse.
Periodicamente, quando era particolarmente di buonumore, tirava fuori tutto e rimetteva in ordine: gettava via le cose inutili, sistemava i fogli da un lato e le penne dall’altro, le cartoline in una busta, piegava i vestiti e metteva via i borsoni. Quella placida calma durava appena due giorni.
Le uniche occasioni in cui riusciva ad ordinare qualcosa, sua madre glielo diceva sempre, erano quelle in cui avrebbero ricevuto ospiti: allora Federico si vestiva con attenzione, metteva in ordine la sua stanza, nonostante il più delle volte lo facesse allo stesso modo in cui certe donne nascondevano la polvere sotto il tappeto.
Da quando viveva da solo, Federico era fissato con l’ordine, almeno in salotto e nella sua camera: il suo armadio, per il resto, era esattamente come al solito, un ammasso di roba appallottolata. Da un lato, tutto quell’ordine si era dimostrato essere una necessità: Dominik non era più caduto, inciampando chissà dove, e lui stesso aveva iniziato a ritrovare le proprie cose con molta più facilità. Dall’altro lato, vivere da solo lo obbligava ad occuparsi di se stesso, a dover mettere tutto in ordine da sé, se aspettava una visita da un amico o da un collega dell’università.
Mentre ammirava il salotto e la tavola apparecchiata, Federico pensò che sua madre sarebbe stata davvero fiera di lui. Piacevolmente spaventata e stupita, ma sicuramente fiera.
- Federico? Mi aiuteresti con questa cosa? –
La voce di Dominik lo richiamò all’ordine. Era nervoso, irritato e stizzito, così tanto da farlo ridacchiare. In verità, era arrabbiato con lui, appena un po', da quando, quel pomeriggio, rovistando nel suo armadio per aiutarlo a scegliere cosa indossare per la cena di compleanno in suo onore, aveva trovato quella cravatta: non era niente di che, semplice tessuto blu con un motivo a quadretti, a tinta unita, ma nello stesso momento in cui gliel’aveva immaginata addosso aveva sentito la gola prosciugarsi. Aveva insistito così tanto che alla fine Dominik aveva accettato.
Era un po’ più cedevole, negli ultimi tempi.
All’inizio, Federico lo aveva attribuito a tutto quel casino che lo aveva stravolto: la lite al conservatorio, le parole della sua maestra, la minaccia di essere sospeso per due settimane, poi rientrata, e infine la telefonata a sua madre.
Quando glielo aveva confessato, Federico aveva avvertito il duplice e opposto istinto di abbracciarlo e di schiaffeggiarlo. Se fosse rimasto a casa, quella mattina, non gli avrebbe mai permesso di fare una cosa così stupida come confessare alla sua famiglia lontana kilometri di essere gay. Solo uno come Dominik avrebbe potuto agire così. Eppure, quando lo aveva sentito dire di essere un po’ più tranquillo, seppure abbattuto, non aveva avuto il coraggio di infuriarsi con lui: d’altronde, il danno era ormai fatto, e i suoi rimproveri non avrebbero cambiato le cose.
Nei giorni successivi, Dominik aveva parlato al telefono con sua madre come al solito, e il suo umore era migliorato parecchio, nonostante, al conservatorio, la sua insegnante non gli rivolgesse ancora la parola, se non per riprenderlo su qualche esercizio. Ma era di sua madre che gli importava, e a Federico importava solo di Dominik.
Andava tutto bene, tutto sommato, anche, alla sera, ogni tanto Dominik si faceva ancora prendere dalla tristezza. Per questo Federico giudicò provvidenziale quel compleanno, e quella cena.
Aveva preparato con cura tutto: aveva comprato gli aperitivi e i bicchieri per servirli, patatine, tartine e olive. Aveva ordinato della pizza e della tavola calda, perché non era proprio sicuro di essere in grado di cucinare qualcosa di commestibile per tutti. Aveva invitato le persone a lui più vicine, ma non troppe da mettere Dominik in imbarazzo, appena tre colleghi: Claudio, Lorenzo, che avrebbe portato il suo compagno, e Samuele, che avrebbe portato Mattia.
L’idea di invitare Mattia non gli era venuta in mente fino a quando non lo aveva visto al locale, con gli occhi puntati su quelli di Samuele, che sorrideva. Dopo, la sicurezza che fosse stata una buona idea lo aveva abbandonato quasi subito: temeva che Samuele se la sarebbe presa, o che addirittura gli desse buca per un impegno dell’ultimo minuto con Riccardo.
Invece, fino a pochi minuti prima Samuele gli aveva telefonato per chiedergli se, oltre a qualche bottiglia di vino, non sarebbe stato il caso anche di portare qualche birra.
Andava tutto bene. Andava tutto così bene da fargli quasi paura.
- Federico! – lo richiamò Dominik.
- Sì, arrivo, aspetta un po’ – gli rispose a tono, mentre sistemava meglio le ciotole sul tavolo.
Lo raggiunse vicino al bagno mentre quello batteva il piede sul pavimento, stizzito: era spettinato, si mordicchiava continuamente il labbro e aveva la pelle del viso un po’ arrossata per la barba appena fatta. Federico gli sfiorò il collo con le dita, chiudendo il primo bottone della camicia bianca che gli aveva fatto indossare sotto ad un maglione blu con un bel disegno sul bordo inferiore. Quando gli infilò la cravatta dalla testa per sistemarla, lo sentì sbuffare.
- Stai benissimo – gli mormorò, un misto tra un complimento e un rimprovero. Dominik arrotondò le labbra in un broncio. – E smettila di fare quella faccia – lo prese in giro, dandogli un buffetto sulla guancia. Non gli sfuggì lo sbuffo esasperato tra quelle labbra morbide, e Federico lo afferrò a sorpresa all’altezza della nuca per baciarlo.
Dominik reagì dopo un iniziale istante di sorpresa, dischiudendo le labbra e poggiandogli le mani sulle spalle. Aveva il sapore del dentifricio alla menta che avevano comprato al supermercato, e gli incisivi grandi, che gli sfioravano le labbra.
Quando Federico lo lasciò andare, si sfogò con un mugolio frustrato.
- Abbiamo ancora delle cose da sistemare prima che arrivino gli altri, e tu devi finire di vestirti – gli fece notare, quando Dominik lo afferrò di nuovo per il bordo del maglione, tirandolo verso di sé. Lo sentì sbuffare di nuovo.
- Io sono vestito. Ho anche la cravatta! –
- Sei a piedi nudi e sei spettinato – lo canzonò. – Fila a darti una sistemata o stanotte ti farò dormire sul divano. –
- Come se io ti permettessi di farmi dormire sul divano – lo sentì borbottare, mentre tornava in bagno.
Gli piaceva ancora di più, Dominik, quando era così umano, quando borbottava, quando stava allo scherzo, quando non faceva mille domande e si lasciava baciare e basta. Gli piaceva quando lo vedeva attraverso la porta aperta del bagno, a pettinarsi: il modo di pettinarsi di Dominik consisteva semplicemente nel far scorrere il pettine sui capelli, con aria distratta, per poi passarci in mezzo una mano. Il risultato finale era quello di una matassa di sottili capelli biondi che lo facevano sembrare un soldato russo della seconda guerra mondiale subito dopo un assalto ai tedeschi, soprattutto quando aveva caldo, o era imbarazzato, e la pelle chiara del viso gli si tingeva di chiazze rosee.
Federico sentì alle proprie spalle e il rumore della porta del bagno che veniva chiusa, e poi il tramestio di fogli che precedeva di solito il momento in cui Dominik avrebbe iniziato a suonare. Quella volta, invece, il ragazzino stava semplicemente mettendo in ordine i propri spartiti e i fogli della scuola, nascondendo i tasti del pianoforte sotto una morbida stoffa rossa.
Mentre lo vedeva armeggiare, così apparentemente distratto e preda di una piacevole leggerezza, Federico parlò con apparente noncuranza.
- Quando pensi che potremo parlarne? –
- Di cosa? – Dominik pareva sinceramente stupito e interrogativo, mentre raddrizzava la schiena dopo aver rimesso in ordine. Federico iniziò a separare i piattini di carta che teneva tra le mani, sistemandoli in colonna, sfalsati, affinché non si unissero di nuovo.
- Di quello che è successo al Conservatorio. E di tua madre. –
Dominik non gli rispose, esattamente come era successo con tutti i suoi precedenti tentativi di farlo parlare. A parte lo sfogo che aveva ascoltato la sera stessa in cui era scoppiato tutto il caos al conservatorio, Dominik non aveva più voluto toccare l’argomento. Anche quando gli aveva raccontato della telefonata a sua madre, era durato solo un’ora o due, e quando avevano iniziato a parlare d’altro si era rifiutato di ritornarci su.
Federico lo aveva lasciato fare, facendosi da parte: così, a sorpresa, tentava ogni giorno di estorcergli qualche parola, magari sfruttando un attimo di buonumore, o il momento di distrazione dopo un bacio. Tutte le volte, però, Dominik riprendeva il controllo immediatamente, come se, in verità, non lo avesse mai perso: e tutte le volte non riusciva ad ottenere una sola, piccola, confessione. Era convinto che parlarne gli avrebbe fatto bene, che avrebbe potuto aiutarlo a comprendere e a studiare meglio la propria situazione, ma il silenzio che proveniva sempre dal ragazzino era insondabile. Anche quel pomeriggio Dominik rispose distrattamente.
- Non c’è niente di cui parlare, è tutto come prima. –
- Io non credo. –
- Invece sì – insistette Dominik, irritato per essere stato contraddetto. – Ho parlato con la mamma proprio stamattina. Mi ha chiamato per farmi gli auguri, come tutti gli anni. E le ho parlato ieri, e il giorno prima, e il giorno prima ancora. E’ tutto come prima. –
- E al Conservatorio? – lo pungolò ancora. Dominik sistemò i cuscini sul divano con più forza del necessario, poi si mise dritto, il corpo volto verso Federico, nella direzione da cui proveniva la sua voce.
- Ho detto che è tutto come prima. Me ne posso occupare io, sono cieco ma non sono un ragazzino. – Federico si strinse nelle spalle, mordendosi un labbro per trattenersi dal rispondergli a tono.
- Non ho detto questo – borbottò, a voce bassa, indeciso se sperare che Dominik lo sentisse o no.
Sia che l’avesse sentito o meno, il ragazzino non aggiunse altro.
Federico continuò a sistemare i piattini, le ciotole e i tovaglioli: era tutto in ordine almeno da mezz’ora, ma trovava sempre qualcosa da dover ancora sistemare, pur di riempire quel silenzio. Dominik, invece, nel silenzio si crogiolava, come una lucertola al sole, tranquilla e a proprio agio: si muoveva per casa, ascoltando solo il rumore dei propri passi.
- Dominik? –
- Mh? –
- Vieni qui un secondo – lo chiamò. Il ragazzino si mosse in direzione della sua voce, e quando fu abbastanza vicino Federico lo afferrò per un braccio, tirandoselo addosso così repentinamente che Dominik inciampò nei suoi stessi piedi e dovette aggrapparsi alle sue spalle per non trascinare entrambi sul pavimento. Gli prese il viso tra le mani, inclinandolo indietro. – Perché devi essere sempre così testardo e insopportabile? – gli sussurrò sulle labbra, con un mezzo sorriso, prima di affondarci dentro in un bacio. Dominik mugolò una protesta.
- Perché sei qua se sono insopportabile? –
Federico lo strinse più forte, una mano tra i suoi capelli a tirare delicatamente qualche ciocca bionda, a metà tra la voglia di schiaffeggiarlo e quella di sbatterlo contro il muro, fregarsene della festa e togliergli quella cravatta e quell’aria soddisfatta che aveva in viso.
Non voleva parlarne, e Federico si sentiva così bene che, per puro egoismo, aveva voglia di godersi un po’ di tempo senza drammi.
- Perché sei così insopportabile da essere eccitante – confessò.
Il cambiamento nell’espressione di Dominik si notò immediatamente, non appena perse quell’aria sfacciata e ne assunse una stupita, le labbra dischiuse e il corpo in tensione, ma così pensieroso che, se l’avesse baciato, probabilmente si sarebbe lasciato spogliare lì, contro il muro.
Se solo non avessero aspettato ospiti.
Se solo Federico non avesse organizzato una festa.
Per giorni, prima di quel momento, si era chiesto se non stesse azzardando troppo, se si sarebbe potuto pentire di aver organizzato tutto: quello era l’esatto momento in cui si stava pentendo di aver ideato una festa, piuttosto che preparare una cena e decidere di passare il compleanno a letto.
Le labbra soffici di Dominik si poggiarono sulle sue a sorpresa, quando meno se lo aspettava, e Federico le dischiuse istintivamente, senza pensarci, lasciandosi baciare. Dominik baciava in modo appena impacciato, leggero e con attenzione, come se dovesse tenersi pronto a correggere un errore. E sapeva di menta, e profumava di bagnoschiuma al muschio, e Federico sapeva che non si sarebbe potuto spingere oltre quello, perché di lì a poco sarebbe arrivato Samuele, e poi Claudio, e Lorenzo, e la casa si sarebbe riempita di voci e di musica.
Lasciò le labbra di Dominik, assaporando ancora l’aroma di menta. E le riprese subito dopo, perché ne voleva ancora un po’, quanto bastava per arrivare fino alla fine della serata senza perdere il senno. Aveva cullato l’idea di quella festa, di una serata con gli amici, avvertendo una strana eccitazione tutte le volte che ci pensava: ma adesso, con le labbra di Dominik così vicine, era difficile nutrire ancora lo stesso entusiasmo.
Si staccò di nuovo, questa volta con più convinzione.
- Devi ancora mettere le scarpe – gli fece notare, spezzando il silenzio.
Dominik reclinò il capo da un lato, come se volesse pensarci su.
- Lo so – rispose invece, sicuro. – Non mi baci più? –
- Se ti baciassi ancora, i nostri ospiti ci troverebbero in atteggiamenti equivoci, e non potrebbero ammirare la tua splendida cravatta – gli disse, in una poco celata insinuazione.
Dominik rise, una risata cristallina, il capo un po’ piegato indietro, delle ciocche bionde di capelli ad accarezzargli la nuca.
 
§§§
 
Non aveva mai sentito così tanto rumore dentro una sola casa.
Le chiacchiere, la musica, le risate.
E poi faceva dannatamente caldo.
Dominik si era sfilato la cravatta dopo nemmeno un’ora dall’inizio di quella festa, e il maglione dopo un’altra mezz’ora: alla fine, aveva arrotolato le maniche della camicia fino ai gomiti, crogiolandosi nella sensazione fresca della pelle esposta. Anche Federico, che quella sera aveva indossato un maglione morbido, ma pesante, doveva aver sofferto quel caldo, e doveva essersi cambiato, in camera sua: quando lo aveva toccato, poco prima, sul gomito, aveva sentito la pelle nuda, e il tessuto che aveva addosso non pungeva più, quando gli aveva sfiorato la schiena.
Gli amici di Federico era rumorosi. Rumorosi ma simpatici.
Samuele era quello con la risata più bella, calda e gialla, come se fosse il sole. Poi c’era un tipo di nome Lorenzo, che Dominik non ricordava di aver mai conosciuto, che aveva la erre moscia e lo si riconosceva subito quando parlava: quando era arrivato, suonando alla porta, aveva salutato con un buonasera, arrotondando quella erre probabilmente di proposito, perché il ragazzo che era con lui, il suo compagno, aveva riso, dicendogli di smetterla. Con Lorenzo era arrivato anche un altro collega di Federico, che si chiamava Claudio: era un tipo che parlava poco, con una voce grave e roca, e lo faceva così velocemente che a volte era difficile capire che cosa stesse dicendo. Ma quello che più di tutti aveva attirato l’attenzione di Dominik era stato Mattia.
Mattia era arrivato insieme a Samuele, con un po’ di fiatone perché, gli avevano detto, aveva comprato una cosa per lui, abbastanza pesante da trasportare: Samuele lo aveva preso in giro, dicendogli che fosse vecchio e parlando di qualcosa che aveva a che fare con una strega. Di Mattia, Dominik aveva pensato immediatamente che fosse il compagno di Samuele: lo aveva intuito dal modo in cui si erano punzecchiati, come aveva fatto Lorenzo con quel certo Gianluca, non appena erano arrivati. Solo che, subito dopo, si era ricordato di quella volta che Federico gli aveva accennato della storia di Samuele, del fatto che il suo compagno non volesse fare sapere di essere gay, e che non si facesse vedere in giro con lui. Per questo, vedere l’uomo arrivare in compagnia gli era parso strano: quando poi il misterioso accompagnatore si presentò come Mattia, Dominik fu certo che non fosse il compagno di Samuele, perché quello aveva un nome più brutto, anche se non si ricordava quale fosse.
In tutto quel caos di gente, Dominik aveva trascorso gran parte della serata a studiare: una risata, un modo di parlare, una battuta, un gesto gentile. Era convinto di poter ricostruire la storia di tutte quelle persone sconosciute semplicemente ascoltandole parlare.
Così aveva capito che Claudio fosse uno un po’ timido, o forse riflessivo, ma comunque silenzioso; che Lorenzo giocasse sul suo difetto di pronuncia, che il suo Gianluca fosse un po’ logorroico e che Samuele quella sera fosse di buonumore. L’unico del quale non era riuscito a capire niente era Mattia.
- Dom? – La voce di Federico lo raggiunse alle spalle, il suo fiato caldo gli sfiorò il collo e il lobo dell’orecchio destro. – Vuoi un bicchiere di sangria? –
Annuì, pregustando già il sapore corposo della bevanda sulla lingua. Gli alcolici non gli erano mai piaciuti molto, e non ne aveva mai bevuti né alle feste né nelle occasioni speciali: anche quella sera aveva rifiutato il vino e la birra, e Federico gli aveva strappato a forza la promessa di assaggiare almeno un po’ di spumante, non appena lo avessero stappato. Ma quella bevanda particolare, con quel nome spagnolo, che aveva preparato Samuele, aveva un sapore caratteristico, corposo, avvolgente e un po’ alcolico, dolciastro, che gli lasciava una bella sensazione sulla lingua. Quando Federico gli fece scivolare il bicchiere tra le dita, Dominik lo portò alle labbra, assaporando un piccolo sorso: era il terzo bicchiere della serata, e non gli aveva fatto alcun effetto, probabilmente perché aveva bevuto piano, o mangiato così tanto da sentirsi scoppiare lo stomaco.
Mentre beveva un altro sorso, una mano calda, quella di Federico, gli circondò la vita, e il suo mento gli si adagiò sulla spalla: quando parlò, il fiato caldo lo sfiorò di nuovo.
- Sei ubriaco? – si sentì chiedere.
- No – rispose fiero, e sentì Federico sorridere.
- Sicuro? Nemmeno un po’?  - insistette lui, e Dominik avvertì nella sua voce una sfumatura diversa, morbida e carezzevole come la mano che gli stava sfiorando la pancia. Gli sorrise, mentre portava di nuovo il bicchiere alle labbra, godendo del sapore denso sulla lingua.
- Perché? – Non sapeva da dove fosse venuta quella domanda. Probabilmente lo aveva visto fare in un film, così come aveva immaginato cosa intendesse Federico domandandogli se fosse ubriaco: lo sapeva cosa facessero nei film le persone ubriache. Ma nemmeno Federico lo era: aveva la voce ferma, solo un po’ più carezzevole del solito, la stessa che usava, da sobrio, a volte quando erano a letto e gli parlava in un certo modo.
La mano di Federico sulla pancia arrestò il suo movimento lento.
- Perché pensavo che se fossi stato ubriaco avrei potuto convincerti a parlare con me – gli disse invece. Dominik gli diede una gomitata: avrebbe dovuto arrabbiarsi almeno un po’, ma si sentiva di buonumore, e i sensi un po’ rallentati. Poteva esser stata la sangria. Federico scansò il colpo arretrando di un passo, e trascinando indietro anche lui, perché lo stava ancora stringendo. – Che ti aspettavi? – lo prese in giro, imitando un’odiosa pubblicità che mandavano sempre in tv a tutte le ore.
- Federico! – La voce di Samuele risuonò sopra tutte le altre, e Federico lo lasciò andare subito. – Dove sono gli altri piatti? –
- Sotto al lavello della cucina! – lo sentì rispondere, di rimando. Poi la voce tornò ad essere bassa e carezzevole. – Vieni? Ti ho preso una torta. Non sarebbe un compleanno senza una torta – disse serio, afferrandolo per la mano libera.
Federico gli aveva preso una torta. L’ultima volta che qualcuno gliene aveva comprata una era stato per il suo tredicesimo compleanno, a Praga. Tutti gli altri anni era sempre stato a Milano, e la signora che si prendeva cura di lui non era certamente tenuta a fare anche quello.
Dominik, arrendevole, seguì Federico fino alla cucina, dove lui gli lasciò la mano, aprendo il frigorifero: riconobbe il suono, come una bottiglia di vino che viene stappata, e poi il cigolio dell’anta un po’ storta. Federico armeggiò con qualcosa sul tavolo, e lui attese fermo, lì vicino, le mani adagiate sul legno: c’era meno rumore, in cucina, ma ugualmente molto più di quello che ci fosse di solito. Era confortante, in un certo senso: ispirava calore.
- Vieni qui, soffia ed esprimi un desiderio – sentì poi la voce di Federico. Reagì d’istinto, facendo un passo indietro, immaginando che lui avrebbe teso una mano per toccarlo.
- Come? –
- Vieni qui e soffia! – lo chiamò ancora, afferrandolo questa volta per le spalle e spingendolo in avanti.
Dal salotto giungevano le voci alte degli altri uomini, che discutevano probabilmente di calcio.
Federico lo guidò, tenendolo per le spalle, attorno al tavolo, come se fosse un burattino, una bambola di pezza: quando lo fece fermare, Dominik sentì dietro le ginocchia il legno di una sedia.
- Ok, ora siediti, e soffia solo quando te lo dico io. Non prima, d’accordo? Devo fare la foto. –
- La foto?! – Quasi si strozzò per la sorpresa, mentre chiudeva le mani intorno al bordo del tavolo.
- Sì, la foto - gli rispose Federico, come se stesse parlando con un cavernicolo che non avesse mai sentito parlare di una macchina fotografica. – Ne ho già fatte un sacco stasera, ma per queste devi metterti in posa –  gli spiegò ancora.
Dominik aprì la bocca, poi la richiuse: rimase in piedi, mentre si stringeva nelle spalle. Il fatto che Federico, tutte le volte che fosse sparito quella sera, fosse stato in giro a fare delle foto, era quasi preoccupante, o imbarazzante. Comunque, lo metteva a disagio l’idea di essere ritratto in immagini che in ogni caso non avrebbe potuto vedere.
- Federico, non mi servono le foto – mormorò, dolce, per non offenderlo.
- Lo so – gli rispose lui, sicuro. Poi, alla fine, esitò. - Pensavo…che volessi farle vedere a tua madre. Però se non vuoi va bene lo stesso. –
Dominik distese le labbra in una O di stupore.
Federico aveva pensato di fare le foto per farle vedere alla mamma.
In tutto quel tempo, l’unica immagine che sua madre avesse avuto del trascorrere degli anni era rappresentato dalle loro telefonate il giorno del suo compleanno. Nell’ultima foto di lui che possedeva di una occasione come quella, c’era un numero 13 sopra la torta. E Federico ne aveva comprata una per lui, insieme ad una candela su cui soffiare, magari ad un numerino, e aveva una macchina fotografica con la quale fargli delle foto da inviare a sua madre.
Federico aveva pensato a tutto quello. E lui no.
- Ho pensato che in cucina sarebbe stato meglio, sai…so che odi queste cose, la gente che ti fissa, essere al centro dell’attenzione, e sicuramente avresti odiato che ti cantassero una canzoncina mentre soffi su una candela – continuò la voce di Federico. – Possiamo farlo qui, noi due e basta. E poi porteremo tutto già nei piatti, in salotto. –
Dominik non gli rispose. Allungò il braccio indietro, fino ad incontrare lo schienale della sedia: lo tirò in avanti, verso di sé. Si sedette. Quando poggiò le braccia sul tavolo, sentì poco avanti il bordo di un piatto basso, probabilmente di cartone:  sistemò gli avambracci lateralmente, raddrizzando la schiena.
Dominik, tesoro, alza la testa e sorridi, così facciamo la foto! Sì, così…sorridi di più dai!
Distese le labbra in un sorriso.
- Ok…adesso esprimi un desiderio e soffia. Dicono che porti fortuna. –
Non ci aveva mai creduto troppo, né aveva mai espresso un desiderio soffiando sulla candelina sopra la torta, nonostante sua zia glielo avesse ricordato tutti gli anni. Semplicemente, non gliene era mai importato. Ma Federico era entusiasta, lo sentiva nella sua voce.
Abbassò le palpebre, chiudendo gli occhi: nonostante non cambiasse poi tanto, farlo lo aiutava a concentrarsi. E lo faceva sentire come le altre persone, quelle normali.
Non sapeva cosa desiderare: aveva tutto quello che avrebbe potuto avere, e l’unica cosa che non aveva…beh, per quella non c’era molto da fare. Nessuno gli avrebbe permesso di riacquistare la vista. E poi, forse non la voleva nemmeno: era riuscito a costruirsi un mondo, in tutto quel buio, che gli sembrava di gran lunga migliore di quello reale. Nel suo mondo nessuno lo avrebbe mai chiamato finocchio. E nessuno lo avrebbe mai fatto neppure a Federico.
Così, desiderò l’unica cosa che avrebbe voluto avere.
Voglio che resti sempre tutto come adesso.
Inspirò, soffiò. Non vide la candelina spegnersi, ma lo capì dall’esclamazione di Federico.
Sua zia diceva che i desideri, per avverarsi, non avrebbero dovuto essere confessati ad alta voce. Avrebbe voluto dirlo, lui, a Federico, che gli sarebbe piaciuto che tutto fosse rimasto così, per molto tempo, ma poi non si sarebbe avverato, e non voleva correre il rischio.
- Ok, dai, portiamola di là così la tagliamo. – La voce di Federico gli giunse vicina, e avvertì la presenza del suo braccio vicino al proprio. Fece per alzarsi, ma la voce di Federico lo bloccò. – Oh, aspetta! Io…ti ho preso una cosa. Non è niente di che, non sapevo cosa regalarti, quindi…non lo so, mi è sembrata una buona idea. –
Dominik sorrise. L’ultima volta che Federico aveva farfugliato a quel modo era stato prima di Natale, quando gli aveva comprato quella deliziosa tazza con il manico a forma di chiave di violino, con la quale faceva colazione tutte le mattine. Tese una mano in avanti, repentinamente, poggiandola sul braccio di Federico, che si bloccò: sentì i muscoli tendersi sotto il palmo della mano, mentre il ragazzo si muoveva.
- Non sapevo cosa prendere, cosa potesse servirti. Così ho pensato di regalarti l’unica cosa che sicuramente non avevi – gli spiegò. Dominik raddrizzò la schiena, aggrottando la fronte. – So che non ci sei mai stato, così…Ho comprato due biglietti per una prima, a la Scala. Suona la Filarmonica. – Dominik sussultò, non appena sentì quel nome. La Scala. Aveva un suono così musicale e carezzevole, meraviglioso come il violino di Paganini.
- Andiamo a vedere uno spettacolo a la Scala? – chiese, incredulo.
- Sì – gli rispose Federico, il tono di voce alto e sicuro, un po’ acuto, di quando era soddisfatto ed entusiasta per qualcosa. – Sei contento? – Dominik annuì di tutta fretta, stringendo la mano sul braccio del ragazzo, quasi strattonandolo.
- Grazie, Federico. E’ un bellissimo regalo – gli rispose, semplicemente.
Non usò parole particolari, non lo abbracciò né lo baciò: l’unico contatto tra loro fu quel morbido tocco sul suo braccio. Dominik non era un tipo da effusioni, da eccitato entusiasmo mostrato al mondo. Eppure, in quelle poche parole ci mise tutta la sincerità che possedeva.
Federico gli accarezzò il viso con una mano, delicatamente e con cura, percorrendo attentamente la sua guancia con il palmo della mano: lo baciò lievemente, in uno sfiorarsi di labbra, e lo fece lentamente, così che Dominik poté godersi il movimento che fece il suo capo mentre si avvicinava, il suo respiro sul viso, e poi le labbra calde. Solo dopo, Federico sfilò il braccio alla sua presa.
- Andiamo di là, adesso, dai. –
- Aspetta – lo richiamò, portando la mano avanti per afferrarlo di nuovo per il braccio. Lo fece con ritardo, tanto che le dita non riuscirono a chiudersi intorno all’avambraccio di Federico, sfiorandolo solo con i polpastrelli. – Non abbiamo fatto una foto insieme noi due – gli fece notare. -  Tu non ci sarai in nessuna foto, e voglio farle vedere alla mamma. –
- Ah, una foto noi? – domandò Federico. – Ok, sì…chiamo Samuele, aspetta. –
A quello che venne dopo Dominik non prestò particolare attenzione, fino a quando non sentì il corpo di Federico dietro il suo, e poi accanto, una mano intorno alla vita, mollemente adagiata su un fianco. Quando sentì il corpo maschile aderirgli addosso, fece scorrere il braccio in alto, intorno alla vita di Federico: era più stretta di quanto immaginasse, o ricordasse, e gli tremava così tanto la mano da costringerlo ad ancorarsi al bordo dei jeans del ragazzo, per evitare che le dita fremessero sul fianco di Federico.
- Fatemi un sorriso però! – li richiamò la voce di Samuele.
Durò solo qualche secondo: le labbra nervosamente tese, gli occhi chiusi, le dita che tremavano. E poi Federico si staccò, sfilandosi appena da quella presa, le dita che gli sfiorarono la schiena. Dominik lo lasciò andare,  schiarendosi la voce.
- Toh, siete venuti bene. Tu sembri un fantasma il giorno del suo funerale, ma siete carini – stava dicendo Samuele a Federico. – Ora venite di là, Mattia vuole farvi vedere la sua geniale idea – aggiunse, con uno sbuffo.
Quando Dominik aggrottò la fronte, Federico rise.
Li seguì entrambi in cucina, quando sentì le loro voci allontanarsi verso il salotto, ma rimase quasi sulla soglia, indeciso se andare avanti oppure no. C’erano troppe persone, troppo disordine e troppi occhi, e non sapeva quanto fosse alto il rischio di inciampare su un piede o su una borsa e finire disteso sul pavimento.
- Dominik! Perché non vieni qui, io e Samuele vogliamo farti vedere una cosa. –  Era la voce calda, graffiante e avvolgente di Mattia, la riconobbe subito: stava parlando dal punto opposto del salotto, vicino al pianoforte. Si mosse all’istante, passando dietro al divano, dove sicuramente non avrebbe trovato ostacoli: Mattia parlava ancora, così poté seguire la sua voce. – Guarda qui! –
Tese istintivamente le mani in avanti, un po’ ingenuamente: conosceva la gente come Mattia, la gente che ci vedeva. Doveva accidentalmente aver dimenticato che lui fosse cieco, e gli stava indicando qualcosa che doveva avere davanti. Ma ugualmente, per abitudine, le mani saettarono in avanti, certe di trovare il vuoto. Per questo si stupì così tanto quando i polpastrelli sfiorarono una superficie lineare e un po’ ruvida, che riconobbe come un foglio di carta: quando ci passò sopra le dita, incontrò delle linee, che seguì più di una volta prima di comprendere di cosa si trattasse.
- E’ una chiave di violino. E’ il disegno di una chiave di violino – osservò, interrogativo.
- Esattamente – gli rispose la voce solida e sicura. – Questo disegno è il modello della tua nuova libreria. –
Dominik aprì la bocca, ma Federico lo anticipò.
- Gli avete regalato una libreria? – chiese, incredulo.
- Io gliel’avevo detto che sembrava un’idea assurda – rispose Samuele. Dominik sorrise.
- E’ una bella idea, invece. Non ne ho mai vista una. –
- Visto? – rispose di nuovo a tono Mattia, sicuramente rivolto a Samuele. - La vedrai non appena Federico l’avrà montata, ovviamente – mormorò più delicato, suadente, rivolto a lui.
Dominik non aveva mai visto una libreria a forma di chiave di violino.
Ma non era questo il punto, non era stato questo a farlo arrossire sulle guance e a fargli sentire la testa leggera: era successo come quella volta con Federico, quando gli aveva comprato una semplice tazza, eppure l’aveva scelta con quel motivo musicale, tale che anche lui potesse vederlo passandoci sopra le mani. E il fatto che Samuele e quel suo amico, Mattia, avessero pensato di fargli un regalo, e che lo avessero scelto a quel modo e con quella cura, lo faceva sentire importante. Lo sapeva benissimo che fare un regalo ad un ragazzo cieco non fosse la cosa più semplice del mondo: lui, che già non era bravo a scegliere dei regali per nessuno, sarebbe entrato in crisi per molto meno. Perché la gente, nel tentativo di fare del bene, viveva l’angoscia di poter procurare dolore, di fare una gaffe, una scelta sbagliata. E Samuele gli aveva comprato un regalo, insieme ad un perfetto sconosciuto: e gli avevano preso una libreria che avrebbe potuto tenere aderente al muro e sfiorare con le dita, tutti i giorni; avrebbe anche potuto metterci sopra gli spartiti, e i libri, e il copritastiera di stoffa che gli aveva comprato la nonna a Praga. Poi le avrebbe fatto una foto, e l’avrebbe fatta vedere alla mamma: oppure no, gliel’avrebbe tenuta segreta fino alla sua prossima visita per farle una sorpresa, per farle vedere che, anche se gli piaceva Federico, anche se era stato sempre solo, e anche se era insopportabile, qualcuno gli aveva fatto un bel regalo per il suo diciannovesimo compleanno.
Perché anche se non gli era mai importato di nessuno, le cose belle erano belle lo stesso.
- Adesso la torta ce la possiamo mangiare o no? – esordì alla fine Federico, col suo accento marcato e quel modo di dire un po’ sgrammaticato.
- Dovresti tagliarla tu per primo. –
La voce di Mattia gli giunse all’orecchio così all’improvviso e con tanta sorpresa da farlo sobbalzare: si era concentrato sul chiacchiericcio, sulle risate, e su tutto quello che stava succedendo quella sera, da non aver sentito l’uomo avvicinarsi. Eppure adesso percepiva benissimo la sua presenza, di fianco a lui.
Avrebbe voluto rispondergli che non fosse il caso, che gli sarebbe piaciuto farlo senza tutta quella gente intorno, e che aveva troppo caldo e troppe emozioni  per pensare anche a quello. Ma c’era qualcosa che lo pungolava, che gli tormentava l’anima, una curiosità malsana e irritante, che lo pizzicava come un bambino capriccioso con la maestra. Alla fine glielo disse, voltandosi verso di lui.
- Posso toccarti? –
Ci aveva pensato tutta la sera, e tutte le volte che lo aveva sentito parlare, che la sua voce gli aveva ricordato che lui fosse lì, in quella stessa stanza, quella curiosità lo aveva pungolato ancora, e ancora, e anche se si era convinto che non fosse il caso di rivolgersi a quel modo ad uno sconosciuto, il tormento non l’aveva abbandonato. Non aveva avuto lo stesso impulso con Lorenzo, o con Claudio, ma ce lo aveva con Mattia: perché Mattia aveva una bella voce, e le belle voci erano sempre lo specchio di un bel viso. E perché aveva visto Samuele, una volta, e adesso sentiva il bisogno di vedere Mattia, di associare un volto alla sua voce, e di confrontarlo con quello di Samuele, di scoprire quanto fossero complementari i loro colori.
Mattia gli rispose subito, tranquillo, come se stessero parlando del tempo, o se stessero flirtando in un bar, come vedeva fare nei film.
- Io ti ho fissato tutta la sera, non vedo perché non possa farlo tu. –
Prima ancora che avesse finito di parlare, Dominik aveva già teso le mani avanti, verso di lui: scivolò in alto, oltre il petto, e oltre il collo, fino ad una mandibola ruvida per la barba, allungata e squadrata. Più in alto trovò delle labbra sottili, degli zigomi poco pronunciati, un naso dritto, sottile e un paio di occhi allungati, che si chiusero al suo passaggio, lasciando che le ciglia gli accarezzassero le dita. Ancora più su,  Dominik sfiorò la fronte, fino all’attaccatura dei capelli, che scoprì essere lisci, con delle ciocche che ricadevano sul viso, sul collo, sulla nuca.
Lo lasciò andare subito, nell’arco di pochi secondi: tutto il suo studio si concluse in una semplice carezza a due mani, che lo lasciò con l’immagine di un bel volto nella mente.
Il viso di Mattia era del tutto diverso da quello di Samuele: era più affusolato, più lungo e squadrato, aveva gli occhi più piccoli, le labbra più sottili, la barba di almeno tre o quattro giorni, il naso più piccolo. Ma soprattutto, era semplice.
Era nel modo in cui lo aveva trattato: era stato come con Samuele, eppure diverso. Dove Samuele lo aveva trattato amichevolmente, Mattia gli aveva spalancato le braccia e si era lasciato fare qualsiasi cosa.
Gli piaceva. Gli piaceva il modo in cui lo aveva trattato, in cui gli aveva parlato.
Era come Samuele, un colore bello, ma non splendente come il giallo: era più delicato eppure incisivo, come se fosse…azzurro. Azzurro come il colore della pioggia.
Era una di quelle persone che gli sarebbe piaciuta.
Non come Federico, ma gli sarebbe piaciuta. Come Samuele.
- Dom, vieni? –
Abbandonò il suo posto, per tornare da Federico.
Stava già pregustando il sapore del cioccolato.
Perché di una cosa era certo: se Federico si era preso la briga di comprargli una torta, sicuramente si sarebbe ricordato di quanto adorasse il cioccolato.
 
§§§
 
A Samuele pulsava la testa.
Probabilmente aveva iniziato a fargli male già durante la festa di Dominik, ma c’erano così tanto rumore e così tanta allegria nell’aria, da non essersene reso conto. Adesso che, fuori dall’edificio, si godeva in un sospiro l’aria fredda di Milano, avvertiva ogni singola pulsazione bussargli sulle tempie. Il silenzio della città addormentata era confortante, lo avvolgeva.
- Che fai adesso, vai a casa? – Persino la voce di Mattia sembrava confortante, quando parlava così piano. Quando lo guardò, Samuele si focalizzò sui suoi occhi un po’ rossi e sulle labbra piegate in una smorfia interrogativa. Appariva stranamente stanco, forse provato da tutte quelle chiacchiere, quelle risate, e quel cibo, e quel tutto.
O forse se lo stava immaginando lui, perché era stanco e gli doleva la testa.
Samuele non era ubriaco.
Aveva bevuto sì e no una birra e un bicchiere di sangria. Era solo ubriaco d’eccitazione, perché era stata una bella serata, aveva riso, mangiato, bevuto, aveva fatto l’idiota e si era sentito di nuovo un ragazzino: e per tutta la sera non aveva guardato il cellulare. Neppure da quando era uscito da quella casa aveva avuto il coraggio di mettere la mano in tasca e controllare se ci fossero chiamate o sms: semplicemente aveva salutato i ragazzi, che erano andati via con la loro auto, Federico e Dominik si erano chiusi la porta di casa alle spalle, e lui era rimasto per un po’ sul marciapiede, ad inspirare l’aria fresca. Anche Mattia era silenzioso, vicino a lui: non se ne era ancora andato, nonostante avesse salutato tutti almeno due volte.
Espirò, e il respirò gli si condensò in una nuvoletta davanti al viso.
- Sì, credo di sì. – Si strinse nelle spalle. – Tu? –
Mattia infilò le mani nella tasca del cappotto.
- Bah, anch’io. Domani lavoro. –
Samuele annuì, senza aggiungere altro. Rimasero così, a fissarsi per un po’, le mani in tasca, le spalle sollevate per ripararsi dall’aria fredda, i respiri che prendevano forma in bizzarre nuvolette di vapore. La sua macchina era parcheggiata dietro l’angolo, vicino a quella di Mattia, ma nessuno dei due aveva voglia di parlare. Samuele non voleva andare a casa: trovava confortevole essere lì, nel silenzio di una strada vuota, le luci delle case quasi tutte spente, a tarda ora, e non dover pensare a niente se non alla birra che aveva bevuto e ai migliori calciatori del secolo di cui avevano parlato per tutta la sera. Alla fine sbuffò.
- Ti va un caffè, prima di andare a casa? –
- E’ l’una e mezzo del mattino – gli fece notare Mattia.
- Allora un tè? – Lo vide sorridere, divertito.
- Sì, un tè lo accetto volentieri – gli rispose, quasi formale, ma con le mani adesso fuori dalle tasche, le dita arrossate a contatto con l’aria fredda.
Si diedero appuntamento sotto casa di Samuele, perché entrambi erano arrivati da Federico con la propria auto: l’uomo la parcheggiò nel box a lui riservato, sotto l’appartamento, mentre Mattia sfruttò un piccolo posticino dietro l’angolo, con il muso sul marciapiede, sicuro che, a quell’ora e con quel freddo, nessuno gli avrebbe fatto una multa.
Quando se lo ritrovò in casa, Samuele lo osservò sfilarsi il cappotto, la sciarpa, tornando di nuovo ad indossare soltanto quella camicia chiara che gli aveva visto addosso per tutta la sera.
Mattia si sfregò le mani, per riscaldarle.
- C’è sempre terribilmente caldo qui. –
- E’ il riscaldamento, c’è il timer – gli spiegò, mentre armeggiava in cucina con un pentolino colmo d’acqua.
Non aveva granché voglia di bere, men che meno di un tè, ma non gli andava di restare a casa da solo, e per quanto non fosse corretto trattenere Mattia a quell’ora, ne avrebbe approfittato giusto un po’, solo il tempo di bere qualcosa, di scaldarsi, e poi tutto sarebbe tornato com’era stato fino ad allora.
- Hai visto che la mia idea della libreria non si è rivelata tanto sbagliata? – esordì Mattia, mentre tirava indietro una sedia e si accomodava al tavolo della cucina, i gomiti sul tavolo e le braccia incrociate. Samuele sorrise di quella sicurezza, certo che non avrebbe fatto altro che rinfacciarglielo per le successive due settimane.
- Sei stavo bravo, con Dominik – gli rispose, cambiando argomento. - Credo ti abbia preso in simpatia. –
- Mio nonno era diabetico, e non si era mai curato sul serio. Ha passato gli ultimi dieci anni della sua vita senza vedere niente. Io gli raccontavo le puntate di Ok, il prezzo è giusto. Azzeccava sempre tutti i prezzi, non so come facesse – rispose l’uomo, mentre Samuele si voltava verso di lui, dando le spalle al fornello accesso sotto l’acqua ancora fredda. Gli occhi di Mattia erano insondabili, ma seri: si rese conto che quella fosse la prima cosa vera che gli stesse raccontando di se stesso, seriamente. – Dominik se la cava bene. Smettere di vedere dopo una vita intera è molto peggio – continuò. Samuele incrociò le braccia al petto.
- Lo penso anch’io. Non so come farei se succedesse a me. Se ci pensi, quasi tutte le cose che facciamo ogni giorno hanno bisogno della vista, anche le cose più semplici. –
Mattia distese le braccia in avanti, iniziando a giocherellare con le dita con il centrotavola che aveva davanti, e che aveva studiato con interesse nei due minuti interi in cui lo aveva ascoltato parlare.
- Darwin, Samuele. E’ l’evoluzione. Ci evolviamo in base alle cose che abbiamo intorno. Dominik è nato con dei sensi a disposizione, e li ha sfruttati. Ognuno di noi nasce con qualcosa, e ognuno di noi si sviluppa in base a ciò che ha tra le mani, cercando ciò che è meglio per lui. – Di fronte alla sua faccia sbigottita, Mattia sorrise. – Avevo un professore, all’università, fissato con queste cose – spiegò. – Ed era fermamente convinto che in natura, e anche tra gli esseri umani, ci fossero sempre quegli esseri difettosi, incapaci di evolversi e di distinguere tra il meglio e il peggio, per loro. –
- Però, parli bene – lo interruppe Samuele, perché la piega che stava prendendo quel discorso gli stava provocando una morsa allo stomaco. Si voltò, spegnendo la fiamma sotto al pentolino, dove l’acqua si era fatta bollente. Si sentiva un essere difettoso, uno di quelli di cui aveva parlato Mattia, uno incapace di capire cosa fosse meglio e cosa fosse peggio per se stesso: o meglio, qualcuno in grado di capirlo, ma incapace di agire di conseguenza. Versò l’acqua in due tazze, immergendo in ciascuna una bustina di tè.
- Non per niente ho scelto Filosofia – osservò. – E ho un padre avvocato. Certe doti si tramandano, credo. –
Lui non ne era tanto convinto. Suo padre faceva il medico, e lui di medicina non ci aveva mai capito molto, a differenza di suo fratello Giuliano: l’ultima volta che lo aveva visto aveva quindici anni, e in mente già l’idea di diventare un medico come papà.  Samuele si chiese se alla fine avesse realizzato quel progetto, o se avesse lasciato stare: Giuliano non lo aveva cercato, e lui si era fatto da parte. Probabilmente, un fratello gay faceva schifo anche a lui.
Samuele prese un limone, tagliandolo a metà, e spremendo un po’ di succo nel tè bollente, dopo aver tolto le bustine inzuppate d’acqua: ci mise dentro anche un cucchiaio di zucchero, e alla fine le depose sul tavolo, una di fronte a Mattia, una in corrispondenza del posto che occupò lui stesso poco dopo. Per tutto il tempo in cui si mosse in silenzio, sentì il peso di quegli occhi azzurri pungerlo sulla pelle delle braccia, della nuca, della schiena. Quando si sedette, cessò.
Mattia aveva chinato lo sguardo sul liquido scuro di fronte a sé, dal quale risaliva qualche rivolo di fumo: ne inspirò l’odore avvolgente, abbassando le palpebre. Samuele provò un moto di sollievo.
- La torta era buona, comunque – osservò. Samuele annuì. – Anche se a me non piace molto il cioccolato. A tutti i miei compleanni ho sempre voluto una torta alla frutta, rigorosamente con le fragole e la panna tutto intorno, ovviamente – gli raccontò. – Ora che ci penso non ne mangio una da un sacco. –
- Io ho sempre avuto delle torte gelato, sai, quelle particolari che fanno le gelaterie d’alta qualità – raccontò. – Nocciola e pistacchio. –
Mattia sorrise, il volto quasi immerso dentro la sua tazza. Sembrava confortato dal calore che risaliva dal liquido scuro al suo interno.
- Te l’hanno mai fatto, quel giochino di esprimere un desiderio mentre spegnevi la candelina ad occhi chiusi? –
Samuele ripensò ai suoi compleanni da bambino, alle feste organizzate a casa con tutta la famiglia, i giochi, i cuginetti, le urla: e poi il rito immancabile delle foto, e sua nonna che gli ricordava, con una carezza sui capelli, di esprimere un bel desiderio, che si sarebbe avverato se avesse fatto il bravo.
- Sì. Ma non se ne è mai avverato nessuno – osservò. – L’hai fatto anche tu? –
Mattia si strinse nelle spalle.
- Nah, mio padre non è uno che crede ai desideri – borbottò. Samuele si immaginava il padre di Mattia come un uomo tutto d’un pezzo, uno di quei vecchi avvocati che in tribunale incutevano terrore già solo con uno sguardo, e che alle belle cene con i colleghi arrivavano sempre con un bel vestito e una moglie piena di gioielli. – Se dovessi farlo adesso, cosa desidereresti?  - gli chiese poi.
Avrebbe potuto desiderare tante cose, tutte diverse: realizzare dei sogni, avere una casa di proprietà, una vita semplice ma normale, regolare. Ma la verità era che non sapeva cosa avrebbe desiderato, se si fosse trovato di fronte la fiamma di una candela.
- Non lo so. Avrei così tante cose da migliorare che non saprei quale scegliere. –
Mattia aveva ancora gli occhi puntati su di lui, pungenti e magnetici come quelli di un gatto, quasi pericolosi. Sembrava pronto a dirgli qualcosa, invece sorrise sornione.
- Nemmeno io – sospirò. Quando bevve un altro sorso di tè, reclinò il capo indietro, e Samuele si concentrò sulla sporgenza del pomo d’Adamo; quando riabbassò il capo, distolse lo sguardo. - Domani a lavoro troverò un casino – lo sentì mormorare.
- La ragazza che lavora per te non sembra tanto sveglia. –
- Infatti non lo è. Credo di doverle dire persino quando andare al bagno. – Portò la tazza alla bocca, poi la allontanò,  passando la lingua sulle labbra. – Non credo che durerà molto, comunque. Questo lavoro, intendo. –
- Gli affari vanno male? –
- Nah, non proprio, non mi posso lamentare – confessò. Samuele approfittò della sua distrazione, impegnato com’era a parlare e a bere il suo tè, per studiarne i movimenti: il modo in cui parlava, in cui muoveva le mani o le spalle. – Vendo ancora un bel po’, ma un millesimo meno di sei mesi fa. E’ un settore destinato a scemare, non appena passerà di moda questa mania della sigaretta elettronica che fa tanto uomo di alta borghesia. E io ho intenzione di vendere prima che questo succeda. -  Parlava con convinzione, come se fosse un progetto al quale pensava da mesi, e che fosse pronto a realizzare già l’indomani. – Mi piacerebbe avere un albergo. –
Samuele aggrottò la fronte.
- Un albergo? –
- Sì, un albergo. Esserne proprietario. Ma uno di quelli belli, non quei motel sulla statale – precisò. Mentre parlava, aveva abbandonato la tazza, perché con le mani aveva iniziato a costruire delle forme in aria, e sul tavolo. – Un albergo di classe, a quattro o cinque stelle, con dei dettagli in oro, una reception con una bella donna gentile, delle camere grandi, e una piscina coperta. Anche una sauna, sì. E potrei battere la concorrenza offrendo dei prezzi stracciati alle scuole. Insomma, tutti sono stati in gita almeno una volta a Milano, avrei tutte le camere piene ogni anno! –
- Hai le idee chiare. –
Mattia riportò le braccia sul tavolo. Nel modo in cui avvolse di nuovo le dita intorno alla sua tazza, Samuele ci lesse una certa indecisione, qualcosa che lo trascinava e lo strattonava, e che gli faceva tremare le dita.
- Sono solo idee. Non credo di avere abbastanza soldi. E non ho intenzione di chiedere un prestito a mio padre, quando ho finito di restituirgli gli ultimi soldi che gli dovevo solo un mese fa. Resterà solo un’idea, probabilmente. – Mattia si strinse nelle spalle, e Samuele annuì.
Anche lui aveva avuto dei progetti, una volta.
Era convinto che avrebbe aperto, un giorno, un ristorante tutto suo, avrebbe assunto lo chef migliore di Milano e scelto un posto romantico e intimo: ci avrebbe costruito una parete fatta solo di vetro, che si aprisse su un bel giardinetto, o sulle luci di Milano. E sarebbe stato aperto a tutti, come il locale in cui lavorava adesso: sarebbe stato un posto in cui due uomini o due donne avrebbero potuto stringersi la mano e baciarsi sulle labbra, senza drammi.
Il sogno era naufragato quando suo padre lo aveva cacciato di casa, e non aveva avuto più i soldi nemmeno per comprarsi da mangiare: quando aveva iniziato a lavorare, quello che guadagnava gli bastava appena per pagare l’affitto, fare la spesa e permettersi qualcosa per sé.
Il tempo era passato, e adesso si sentiva troppo vecchio per tentare la fortuna.
- Ti è mai venuta voglia di lasciare un segno nel mondo? – gli chiese poi Mattia. – Essere ricordato da qualcuno, valere più dell’uomo che sei. – Samuele puntò gli occhi verdi su di lui, e commise l’errore di lasciarsi avvolgere da quel mondo che Mattia teneva in quegli occhi troppo chiari, troppo freddi e troppo magnetici. – Avere un albergo mi farebbe lasciare un segno. Sarebbe il mio albergo, un posto che ho costruito io, che ho portato io alla bellezza. Sarebbe la cosa buona che tutti speriamo di fare per essere ricordati come belle persone. Sarebbe l’unica cosa mia. – Gli occhi di Mattia fremevano, ed erano diventati caldi come se fossero fatti di fuoco, come se il ghiaccio dell’iceberg potesse sciogliersi e salvare il Titanic. – Ci evolviamo, Samuele, con quello che abbiamo a disposizione, e vogliamo il meglio. Quasi tutti vogliamo il meglio. –
Distolse lo sguardo nello stesso momento in cui sentì che gli sarebbe scoppiata la testa, se fosse rimasto a guardarlo.
- Devo proprio andare, adesso. Grazie per il tè, Samuele. – Mattia parlò mentre si stava già alzando in piedi, e Samuele scattò insieme a lui.
- Ti accompagno. –
- Non ce n’è bisogno, la porta è qui dietro, non mi perdo – gli rispose a tono, tirando fuori uno di quei sorrisi stanchi e strafottenti che aveva di solito.
Samuele gli sorrise di rimando, ma lo seguì ugualmente fuori dalla cucina.
All’ingresso, Mattia prese il suo cappotto, lo fece roteare indietro, ci infilò le braccia: nel movimento, i bottoni della camicia si tesero, sul petto.
- E’ stata una bella serata, comunque – mormorò. -  Ma continuerò ad odiare i compleanni – precisò alla fine, strappando a Samuele un sorriso divertito.
Con la mano sulla maniglia della porta d’ingresso, Samuele esitò.
- Domani lavori? – intervenne di nuovo Mattia.
- Sì, ho il turno serale – rispose. – Passi? –
- Magari sì, vengo a prendere una birra. –
Un respiro. Due respiri. Tre respiri.
Al settimo respiro di Mattia, Samuele parlò.
- Comunque è stata davvero una bella serata. Grazie per essere venuto, e per aver pensato a quella libreria. Si è rivelata un’ottima idea, anche se fa schifo ammetterlo – confessò.
Si era aspettato che Mattia avrebbe sorriso, teso la mano verso la maniglia della porta, che l’avrebbe aperta e che sarebbe sparito, giù per le scale.
Invece rimase serio, con gli occhi puntati su di lui, come se stesse vedendo qualcosa, sulla sua faccia o sul suo corpo, che gli avesse scatenato quel turbinio di oscurità in quelle pozze di ghiaccio.
Alla fine, lo vide fare un passo indietro, verso la porta.
E poi due avanti, il cappotto che gli si sollevò sui fianchi.
- Ti manderei a fanculo in questo momento – lo sentì dire.
Samuele ebbe la certezza che sarebbe successo nello stesso istante in cui si aggrappò al cappotto di Mattia, all’altezza delle spalle, e pensò a sfilarglielo, piuttosto che a spingerlo indietro: o forse fu quando si passò la lingua sulle labbra e gli occhi di Mattia saettarono in basso.
O forse fu solo nel momento in cui si rese conto di avere voglia di baciarlo.
E il mondo rotolò tutto da una parte, le funi che lo trattenevano si ruppero e lui precipitò completamente dal lato del sesso senza implicazioni.
Samuele espirò mentre toccava le labbra di Mattia.
Erano più morbide di quanto se le fosse immaginate, sottili, esigenti, e parevano volerlo divorare: in quel bacio, avvertì la tensione sessuale che aveva inconsapevolmente accumulato liberarlo dalle catene.
Mattia che beveva una birra, arrotondando le labbra intorno al collo della bottiglia.
Mattia che gli sfiorava un braccio quasi casualmente.
Mattia che lo invitava a fare sesso, che gli sorrideva, che flirtava, che lo tirava giù da un letto alle otto del mattino, che chiudeva le mani intorno ad una tazza come se fosse il corpo di un uomo.
La verità era che Mattia gli aveva ispirato sesso dal primo momento in cui l’aveva visto.
Se non ci fosse Riccardo, farei sesso con te anche adesso.
Riccardo non c’era, aveva momentaneamente smesso di esserci in ogni momento che Samuele aveva trascorso con Mattia: un caffè, una birra, una cena, una serata tra amici.
Una notte di sesso.
Non c’entrava più niente con Riccardo, con se stesso o con quello che aveva detto Mattia.
Aveva solo voglia di sentirsi vivo, per una notte.
Stava baciando Mattia, pensava a cosa avrebbe trovato sotto i suoi vestiti.
Aveva voglia di farlo, e solo questo contava, al di là del resto del mondo.
Gli fece scivolare via il cappotto dalle spalle, aggrappandosi ai suoi polsi, coperti dalla camicia, quando le mani di Mattia finirono ad accarezzargli il viso, e sentì che gli mancava il fiato e che avrebbe voluto che lui facesse qualsiasi cosa per placare quel calore.
Ma Mattia lo baciava. Lo baciava come se avesse tutto il tempo del mondo, spingendolo indietro, con le spalle contro il muro, lo baciava.
Mattia baciava in modo diverso da quanto avesse mai sperimentato, con la maturità di un uomo e il senso di scoperta di un ragazzino: gli sfiorava il viso, gli mordeva le labbra.  Era così vicino che l’odore del suo profumo, sul collo, lo sentiva perfettamente: era un misto di una costosa fragranza acquistata in profumeria, e di pelle.
Avrebbe voluto baciarlo proprio lì.
E si staccò dalle sue labbra per spingergli il capo indietro, con una mano nei suoi capelli, per baciarlo in quel punto, tra la spalla e l’orecchio, dove il profumo era più inebriante. Lì vicino vide di nuovo la sporgenza del pomo d’Adamo, sulla quale si era concentrato quella sera, mentre lo vedeva bere il tè, il capo reclinato indietro, per non guardarlo negli occhi. Lo baciò anche lì, e sentì la sporgenza ossuta fremere, trasmettere il vibrare delle sue corde vocali mentre sospirava.
Mattia abbassò il capo di scatto, rubandogli un altro bacio, semplice, premendo le labbra sulle sue.
Non si dissero nulla.
Soltanto, rimasero lì, pochi secondi per guardarsi negli occhi: Samuele si perse in tutto quell’azzurro, e sentì di avere qualcosa di estremamente caldo, nelle proprie iridi, e di così turbolento da confondergli la mente.
Era la scoperta, la tensione della novità, il corpo sconosciuto che aveva davanti. Ma era anche qualcosa insito nell’essenza stessa di Mattia, nel suo fare felino, nei suoi movimenti calcolati e nelle sue battute, nei suoi sguardi strani. Quando Mattia lo baciò ancora, questa volta più lentamente, come ad accarezzargli le labbra, Samuele fece scattare il primo bottone della sua camicia, e il secondo, e il terzo.
E le mani di Mattia furono dappertutto.










Nota al capitolo 38: Avevo annunciato e promesso il botto
Già il fatto che abbia aggiornato così presto è di per sè un botto. xD
Ma il botto annunciato lo hanno fatto Mattia e Samuele: aspetto da MESI questo momento, e da innumerevoli capitoli. Il momento in cui finalmente Samuele sbatte la testa da qualche parte e si sveglia.
Il capitolo si interrompe così perchè la storia è a rating arancione, e non mi posso spingere oltre certi livelli, o dovrei cambiare il rating, e preferirei a dire il vero lasciarla così, un po' leggera come una favola.
Non escludo, in futuro, di farci una one-shot.
Nel prossimo capitolo, ve lo anticipo, saremo ancora temporalmente alla stessa notte, e torneranno Dominik e Federico, i miei primi amori. Avevo detto che non sapevo quando avrei aggiornato, perchè ho un esame e poi le lezioni in università: quindi lo ripeto, purtroppo ora sarà difficile aggiornare presto, perchè sul serio sono indietro con l'esame, ma dovevo scrivere questo capitolo o sarei impazzita. xD
Non aggiungo altro, perchè ho parlato molto lo scorso capitolo, e vi assillo abbastanza su facebook. xD
Grazie ancora a tutti, ai nuovi e ai vecchi, e a chi mi segue in questo viaggio. <3
Esse

 

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Capitolo 44
*** 39th: Le persone aiutano le persone ***


Per aiutare, bisogna anzitutto averne il diritto.

Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo, 1866

 


Chapter 39th: “Le persone aiutano le persone”
 
- Basta. Sul serio, basta. –
Federico si lasciò cadere sul divano, godendo finalmente del silenzio e della piacevole sensazione dei muscoli che si distendevano.
Aveva bisogno di riposo, assoluto riposo.
Espirò mollemente, quasi sollevato, perché sentiva che quegli istanti di pausa stessero alleviando la stanchezza che provava, e che gli si era riversata addosso all’improvviso, quando aveva chiuso la porta di casa e aveva assaporato il silenzio.
Aveva trascorso tre giorni di fuoco: aveva lavorato, e fatto un turno in più per ottenere quell’intera giornata libera; poi aveva girovagato per la città alla ricerca di un buon locale che avesse delle buone pizze, di una pasticceria che preparasse un’ottima torta rigorosamente al cioccolato, e infine era stato in quattro supermercati diversi per fare incetta di aperitivi, patatine, patti e bicchieri, sfruttando le offerte settimanali differenti.
Il 10 febbraio si era svegliato carico di energie: aveva sistemato casa mentre Dominik era al Conservatorio, era stato a ritirare le pizze, la torta, e aveva fatto un’ultima capatina in un altro supermercato, tutto prima che l’altro fosse tornato a casa, perché poi sarebbe stato troppo tardi per mettere tutto in ordine.
Eppure, si era sentito eccitato e pieno di energie per tutto il giorno, e la sangria che aveva preparato Samuele , insieme alla birra e all’ultimo provvidenziale bicchiere di spumante prima di chiudere la serata, gli avevano fatto sentire la testa stranamente leggera, come un palloncino pieno di elio liberato nell’atmosfera. Anche Dominik lo aveva fatto sentire leggero: lo aveva guardato tutta la sera, aveva studiato il  profilo delle sue braccia sotto la camicia e quello delle sue labbra quando mandava giù la sangria.
Ma una volta rimasto da solo nella casa vuota, la stanchezza gli era piombata addosso tutta insieme, proprio mentre iniziava a rimettere in ordine: prima di crollare sul divano era riuscito semplicemente a sparecchiare, buttare piatti e bicchieri in un enorme sacco nero e infilare le ciotole nel lavello. A tutto il resto avrebbe pensato l’indomani, o comunque una volta che gli fossero ritornate le forze.
A occhi chiusi, il capo reclinato indietro sullo schienale imbottito, Federico sentì qualcosa di tiepido adagiarglisi sulle cosce: riconobbe subito, sotto le dita, i polpacci di Dominik. Quando aprì gli occhi, voltandosi a sinistra, lo vide sdraiato sul divano, la schiena appoggiata al bracciolo e le gambe tese su di lui. Aveva abbandonato il capo contro lo schienale, un po’ reclinato indietro, gli occhi chiusi e la camicia tutta stropicciata. Federico gli fece scorrere le mani sulle gambe, fino alle caviglie, e infine ai piedi: erano nudi, senza più le scarpe né i calzini. Doveva aver aspettato quel momento per tutta la sera, la possibilità di ritornare di nuovo a fare il ragazzino selvaggio, la sensazione di libertà delle dita scoperte. Sorrise, mentre gli premeva le dita sulla pianta si un piede, come in un massaggio improvvisato.
Dominik mugolò soddisfatto tra le labbra chiuse, sistemandosi meglio sul divano e avvicinando ulteriormente i piedi verso le sue mani.
- Grazie Federico, che mi stai massaggiando i piedi – lo apostrofò, per attirare la sua attenzione. Dominik sorrise divertito, ancora ad occhi chiusi.
- Grazie Federico, che mi stai massaggiando i piedi – ripeté, imitando il suo tono canzonatorio.
Federico gli diede un pizzicotto sulla caviglia, ma continuò ugualmente ad accarezzargli la pelle, premendo i polpastrelli e imprimendo alle proprie dita un movimento rotatorio.
Vedere Dominik abbandonato sul divano, leggero come un’offerta sull’altare di un dio greco, aveva un effetto rilassante su di lui, come se potesse permettersi di fermare  il tempo e prendersi un po’ di meritato riposo, restare tutta la notte su quel divano a far scorrere le dita sulla pelle tiepida dell’altro ragazzo.
- Domani hai lezione? –
- Sì. Starò via tutto il giorno, ho lezione di composizione, e poi l’esercitazione orchestrale nel pomeriggio – mormorò, con aria stanca.
- Vuoi che ti prepari un panino, o pranzi lì? –
Dominik tentennò, i denti affondati nel labbro inferiore in un’espressione pensierosa. Sembrava indeciso su quale risposta avrebbe dato. Di solito, nei mesi precedenti, aveva sempre pranzato al Conservatorio, facendosi accompagnare dalla sua maestra a comprare qualcosa al bar: nei giorni precedenti, però, aveva insistito per portare con sé qualcosa da casa, e Federico non era così stupido da non leggerci qualcosa, alla base.
- Potresti farmi un panino? – chiese, a voce così bassa che se la casa non fosse stata silenziosa si sarebbe perso qualche parola. Aveva usato la voce carezzevole di un bambino, quasi implorante, e stanca, come a lasciar intendere di essere troppo spossato per parlare ancora.
Federico gli sfiorò il dorso del piede con una mano, in una carezza leggera.
- Perché non pranzi più al Conservatorio come facevi prima? –
Lo sentì subito irrigidirsi, lungo le gambe, ma non diede altro segno di essere stato turbato da quella domanda.
- Perché domani mi va un panino. –
- Guarda caso per mesi interi non ne hai mai voluto sapere di portarti il pranzo da casa, e proprio adesso ti viene voglia di un panino – lo provocò, ironico.
- Sì, ho voglia di un panino – gli rispose Dominik a tono, sulla difensiva.
Federico prese un profondo respiro.
Non voleva litigare, non ne aveva nessuna intenzione: solo che spingersi oltre con Dominik, in qualsiasi senso, significava puntualmente irritarlo abbastanza da fargli partire un embolo e far scoppiare una litigata. E si sentiva decisamente troppo stanco e troppo allegro per discutere con lui, nonostante fosse già un po’ irritato dal fatto di non avere neppure il permesso di offrirsi di aiutarlo, di entrare nel suo territorio per dargli una mano. Lo faceva sentire escluso, fuori da qualcosa, quando Manfredi lo aveva sempre abituato ad essere assorbito in ogni cosa che facesse.
Ma Dominik non era Manfredi. Aveva fatto dei passi avanti, verso di lui, ma non abbastanza da lasciarsi dare una mano. Eppure Federico avrebbe voluto davvero aiutarlo, piombare in quel Conservatorio e spaccare la faccia a quel violinista arrogante.
Nonostante tutto, di fronte al suo corpo abbandonato sul divano, contò fino a dieci ed espirò.
- Come va con la tua maestra? – gli chiese, a voce bassa, quasi con noncuranza, come se non gli interessasse sul serio.
- Tutto come prima. Mi ha assegnato un esercizio complicato per il prossimo lunedì, però dice di essere sicura che riuscirò a farlo bene, se mi impegno e penso solo alla musica. –
- E Rafael? –
- Te l’ho detto due giorni fa, l’hanno sospeso per due settimane e hanno dato la sua parte di primo violino per il saggio ad un’altra ragazza. –
Parlava così tranquillamente e con la voce così ferma che, se non avesse saputo tutti i retroscena, Federico avrebbe sul serio creduto che non fosse accaduto nulla. Se non avesse stampata nella mente l’immagine delle sue mani che tremavano a mezz’aria, e nelle orecchie la sua voce mentre si chiedeva cosa avesse fatto di sbagliato, sarebbe stato facile immaginare di essersi sognato tutto, che non fosse successo. Se solo non avesse sentito ancora i muscoli contratti e il corpo di Dominik che si dimenava contro il suo su quello stesso divano, quasi a volerlo colpire pur di rimettere in sesto quella serenità che gli avevano rubato.
- Tua madre ti ha più parlato di…insomma, di quello che le hai detto? –
- No, è tutto come al solito. –
- Dom, smettila, non mi dire minchiate -  si lasciò scappare. Quelle parole gli giunsero alle labbra senza che se ne rendesse conto, come se fosse a Palermo e potesse usare quell’italiano misto al dialetto senza che stonasse contro le pareti di casa. – Se ci sono problemi puoi parlarmene. -
Questa volta, Dominik sbuffò, stizzito, e con un movimento rapido fece per tirare via le gambe, sfuggendo alla sua presa, sicuramente per alzarsi dal divano.
Ma Federico lo afferrò per le caviglie, strattonandolo di nuovo nella posizione in cui era, e nonostante quello avesse preso ad agitarsi, la forza che possedeva nei quadricipiti non era abbastanza per vincere la presa più forte delle mani di Federico.
Così, alla fine, si arrese.
- Non voglio un interrogatorio, Federico, e non c’è niente di cui parlare – sibilò. Poi, nel silenzio, emise un lieve sospiro tra le labbra dischiuse. – Lo so che lo fai per me, perché secondo te è giusto così, però…io non sono come te, te l’ho detto milioni di volte. Io sono cresciuto così, sono così, e non ho bisogno di parlare e di analizzare chissà che cosa. Ho detto che non mi importa. Io voglio stare più in alto di tutto questo, più in alto della maestra, di Rafael, delle persone e di quello che pensano. Ho passato la vita ad essere fissato dalla gente perché sono cieco, e la mamma non ha fatto altro che dirmi di ignorarli. E io adesso ho bisogno di ignorarli, e ho bisogno che tu non me ne parli. – Federico osservò il movimento rapido e complesso delle labbra di Dominik che si muovevano, le sue parole che gli giungevano all’orecchio. Si stava tormentando le dita, le mani adagiate sull’addome. – Io ho la musica a cui pensare, non posso lasciare che venga sporcata da tutto questo. Non posso permettermi di perdere la mia musica, che questo ci entri dentro. Io devo stare più in alto. –
- Lo dicevi anche di me. Che volevi stare più in alto. –
- Tu non puoi sporcare la musica. Le persone come te, quelle che hanno una bella voce, sono anche belle persone. Siete un colore. E va bene così – lo sentì dire. – Ma non posso permettermi di pensare a quello, adesso, con te. Io sbatto contro le cose, e me ne occupo da solo, perché se iniziassi a parlarne con te, inizierei a collegare questo a te, e poi alla musica, e a tutto il resto. Quindi no, non ne voglio parlare. – Poi, alla fine, la sua voce si addolcì appena di un tono. – Se un giorno ne vorrò parlare te lo dirò. –
Federico rimase in silenzio. Persino respirare, fece in modo di farlo piano, estinguendo un sospiro in un soffio delicato, inudibile anche nel silenzio della casa. Dominik aveva abbandonato di nuovo il capo indietro, sul bracciolo del divano, la pelle nuda del collo lasciata scoperta dalla camicia ed esposta: Federico gli sfiorò il dorso del piede immaginando di accarezzarlo proprio lì, in quel triangolo di pelle chiara.
Sarebbe rimasto in disparte, in un angolino. Nonostante non riuscisse a capire come si potesse passare dalle lacrime, dallo strepitare, da quel tremore alle mani e da quell’umiliazione, al nulla, sarebbe rimasto in disparte e lo avrebbe lasciato fare. Uno come lui, se gli fosse capitata una cosa del genere, sarebbe corso da qualcuno. Da Manfredi. Gli avrebbe riversato addosso tutto il dolore, le lacrime, le urla, magari lo avrebbe persino preso a pugni, e lo avrebbe tormentato pe giorni, per mesi, fino a quando, piano piano, il dolore non fosse diventato sempre più piccolo, e meno ingombrante. A Dominik era bastata una sera, poche ore di parole sussurrate, di umiliazione, di rabbia, e poi, al mattino, più nulla. Il silenzio.
Io sbatto contro le cose, e me ne occupo da solo.
E io adesso ho bisogno di ignorarli.
Io voglio stare più in alto di tutto questo.
Lui voleva stare più in alto.
Quello che non sapeva era che proprio comportarsi a quel modo lo faceva già stare più in alto.
Tornare in quel Conservatorio, voler affrontare tutto da solo, lo innalzava ulteriormente su quel trascendentale piedistallo su cui Federico lo aveva posto il primo giorno che lo aveva visto, quando lo aveva conosciuto, come un musicista abitante di un mondo lontano. E Federico non poteva far altro che restare lì sotto ad aspettare che lui scendesse, ogni tanto, per rubargli un pezzetto di anima.
Reclinò il capo indietro anche lui, contro lo schienale del divano.
Ad occhi chiusi, si concentrò solo sulla caviglia di Dominik che stava accarezzando.
- E’ stato tragico come ti aspettavi? La festa, le persone, tutte quelle chiacchiere… - gli disse. Dominik non rispose subito, ma quando lo fece aveva la voce ferma e rilassata.
- E’ stato carino. E io non ho mai detto che sarebbe stato tragico. –
- Ma l’hai pensato. – Il ragazzino esitò, poi si mosse appena sul divano, a disagio.
- L’ho pensato solo una volta. Però è stato carino. Hai degli amici simpatici. –
- Scommetto però che, per quanto siano simpatici , non li vuoi rivedere tanto presto. –
Questa volta Federico aprì gli occhi, voltandosi alla sua sinistra per cercare il viso di Dominik: stava sorridendo, stringendosi nelle spalle, come per ripararsi.
- Non mi piace stare con le persone. Ogni tanto va bene, ma non troppo – si giustificò.
Federico pensò che, tutto sommato, fosse comunque un bel progresso: fino a pochi mesi prima si sarebbe rifiutato persino di uscire di casa, anche per una cena, o un panino, o un aperitivo, o qualsiasi altra cosa. Sentì il calore della sua mano su un braccio, mentre era distratto a pensare. – Grazie per aver organizzato questa festa per me, e per non averla fatta diventare troppo – lo sentì mormorare. Se avesse potuto descrivere la sensazione di sentirsi bruciare dall’interno, sarebbe stata proprio come quello che stava provando in quel momento, come se avesse qualcosa di estremamente caldo al centro del petto che gli stesse bruciando le ossa e i muscoli, e tutta la superficie del corpo. Non fu tanto per le parole che sentì, quanto per il tono di voce soffice, carezzevole, che gli scivolò addosso quasi cullandolo.
 Federico afferrò la mano di Dominik, poggiata sul suo braccio, strattonandola verso di sé, per spingerlo ad abbandonare la sua posizione per avvicinarsi a lui.
- Vieni qui. Me lo merito un bacio? -
Dominik si diede una spinta con il braccio libero, mettendosi seduto e abbassando le gambe giù dal divano: gli scivolò addosso quando, nel tentativo di aggrapparsi al divano, mancò la presa, ma lasciò che Federico lo trattenesse per le spalle, baciandolo sulle labbra. Durante la serata, con quella confusione e tutto quel caldo, il profumo che gli aveva visto spuzzarsi un po’ addosso, nel pomeriggio, era evaporato: non restava altro, adesso, che l’odore pastoso della sua pelle accaldata, avvolgente, e ce l’aveva proprio vicinissima, il collo e il petto lasciati scoperti dalla camicia sbottonata.
Federico si rese conto di essere veramente esausto quando, nonostante ce lo avesse così vicino, non avvertì l’istinto di spogliarlo, ma solo quello di affondargli il viso sulla pelle e restarci ad occhi chiusi, addormentandosi all’istante. Cose come quella succedevano agli uomini solo quando erano malati, troppo vecchi o semplicemente, veramente, esausti.
- Sono stanchissimo – borbottò. La mano di Dominik gli scivolò sul petto, sul collo, sul viso, in una languida e soffice carezza. Si lasciava sempre incantare dal modo in cui lo accarezzava, perché percepiva benissimo la differenza rispetto alle volte in cui sfruttava le mani per studiarlo. Le carezze di Dominik erano un superficiale dondolio di un paio d’ali di farfalla.
- Possiamo andare a dormire. Metteremo in ordine domani – lo sentì sussurrare.
- Mh, aspetta, altri cinque minuti. Devo raccogliere le forze per alzarmi – farfugliò, a occhi chiusi, il capo poggiato sulla spalla dell’altro, ad inspirare solo l’aroma della sua pelle e l’odore fresco di ammorbidente dei suoi vestiti. Anche Dominik rimase fermo, il capo chino, il naso a sfiorargli la nuca: avvertiva ogni suo respiro come un soffio caldo sulla pelle.
Stare imbrigliati in quell’abbraccio gli faceva venir voglia di addormentarsi lì, senza spostarsi, senza spezzare quel contatto per raggiungere il letto: si stava lasciando avvolgere, e allo stesso era lui che lo avvolgeva. Sentiva il peso del corpo di Dominik appallottolato contro il suo fianco, la sua mano aggrappata al petto, l’incavo del suo collo come un rifugio e i suoi capelli che gli solleticavano la nuca. Eppure, allo stesso tempo, c’era il suo braccio che lo avvolgeva, il suo corpo che gli forniva un rifugio soffice dove nascondere il viso.
Federico tese una mano per toccare quel corpo che pareva inconsistente.
Sfiorò un fianco, al di sopra della camicia, e scese fino alla coscia: sotto la mano incontrò la consistenza solida e affusolata del quadricipite.
Allora le labbra di Dominik gli si poggiarono sulla nuca, in una carezza delicata, e il suo corpo lo avvolse con più forza. Federico alzò il capo, superando quello dell’altro ragazzo e trovandosi a sfiorargli il naso con il suo.
A metà strada le labbra si incontrarono in un bacio.
Le labbra di Dominik erano già dischiuse, come se lo stesse aspettando, e Federico si ancorò con più forza alla sua gamba, perché non gli sfuggisse dalle mani. Era una posizione scomoda: il collo gli doleva, e Dominik era costretto a stringergli le mani intorno alla maglietta, per trattenersi seduto e non scivolare indietro, contro il divano.
Allora, Federico fece la cosa che gli sembrava più logica.
Spinse la mano che gli teneva sulla coscia verso l’altro, strinse le dita intorno ai suoi pantaloni, e tirò. La gamba di Dominik fece un movimento solo, preciso come se lo avesse deciso volontariamente, e gli scivolò oltre le cosce.
Se lo ritrovò seduto a cavalcioni sulle gambe senza essersi nemmeno reso conto di come avesse fatto. Semplicemente si abbandonò sul divano, con il corpo di Dominik più vicino di quanto non lo avesse mai avuto, e le sue mani poggiate sul collo, sulle spalle, a baciarlo come se sapesse esattamente cosa stesse facendo, come se lo avesse sempre fatto. Probabilmente doveva essere stata la sangria, o forse l’eccitazione di quella serata, ma gli avrebbe lasciato fare qualsiasi cosa, per come si sentiva distrutto e privo di forze.  Si sarebbe lasciato baciare a quel modo per tutto il resto della notte, senza avere il coraggio di opporsi.
L’unico movimento di Federico fu quello delle mani lungo la schiena del ragazzo, per tutta la lunghezza della spina dorsale, che sentiva attraverso il tessuto sottile della camicia. La percorse con i polpastrelli, più e più volte, dalla nuca fino al bacino, sospirando stizzito quando il bordo dei pantaloni gli impedì di andare più giù.  Allora lo accarezzò sui fianchi, mentre sentiva le mani dell’altro sulle spalle, insinuarsi sotto la maglietta, dietro le scapole, più audaci di quanto non fossero mai state.
Dominik era audace.
E c’era qualcosa di fondamentalmente strano.
Anche quando gli tirò via la camicia dai pantaloni, Dominik non disse nulla.
Quando ci infilò sotto le mani, toccandogli la pelle, un contatto diretto con la sua vita e la sua schiena, ugualmente non disse nulla, se non un sospiro più profondo degli altri.
- Perché non andiamo a letto? – gli chiese allora.
Ma Dominik gli mormorò qualcosa all’orecchio, sfiorandogli il viso con le labbra, soffice e appiccicoso come una caramella tra i denti.
- No, a letto no – bisbigliò, e la sua voce era così carezzevole che gli avrebbe permesso di aver ragione su qualsiasi argomento, senza protestare. Lo accarezzò ancora, questa volta sulla pancia scoperta, con la chiara intenzione, dopo avergli sfilato la camicia e avergli scoperto i fianchi, di sbottonarla definitivamente.
In verità non era sicuro di riuscire ad alzarsi da quel divano e a restare sveglio fino ad arrivare a letto, così come non era certo che sarebbe riuscito ad andare avanti. Si prese mentalmente a schiaffi, perché proprio quando Dominik sembrava pronto a cedere, lui si sentiva troppo stanco per goderselo.
Eppure c’era qualcosa, mentre era su quel divano con quel corpo così vicino e così apparentemente sciolto, che lo tormentava, come una zanzara fastidiosa, come se ci fosse qualcosa di strano, che non andasse. Forse perché era stanco, gli girava la testa.
Era che aveva esaurito la pazienza, per quel giorno.
Aveva avuto a che fare per giorni con persone diverse, e per un’intera serata con troppe voci, troppo caldo e troppe cose. La pazienza giornaliera si era esaurita, lasciandolo spossato, fisicamente ma anche mentalmente.
E per spingersi oltre, con Dominik, di pazienza ce ne sarebbe voluta parecchia: perché anche se sembrava così sciolto e di buonumore, così audace, su quel divano, Federico sapeva benissimo che, non appena si fosse reso conto di quello che davvero sarebbe successo, si sarebbe lasciato prendere dal panico. Era normale, era capitato anche a lui quando si era trovato decisamente troppo vicino a Manfredi, le prime volte. E lui sarebbe dovuto essere paziente, e una serie di altri begli aggettivi che, quella sera, in quel momento, sentiva di non possedere.
Eppure, il desiderio che gli vorticava nello stomaco lo spingeva verso il corpo caldo che aveva addosso, a cavalcioni sulle gambe, e che probabilmente non avrebbe avuto di nuovo così vicino tanto presto.
- Perché? E’ più comodo – provò a insistere, con un tono di voce che avrebbe dovuto essere suadente, sensuale, ma che somigliò più al mormorio di un bambino addormentato.
Il disagio che aveva sentito, l’azione di quella fastidiosa zanzara che gli planava vicino alle orecchie, si palesò quando Dominik parlò: aveva la voce che tremava appena, nonostante, esteriormente, fosse ancora lì, a sfiorargli il viso con le labbra, a cavalcioni sul suo corpo.
- Il letto mi mette a disagio – confessò, a voce bassissima, che riuscì a sentire solo perché aveva le labbra vicinissime all’orecchie, e quel suono fu accompagnato da un soffio che gli accarezzò la pelle.
- Il letto ti mette a disagio. – ripeté Federico, come se credesse di aver sentito male.
- Sì – confermò il ragazzino, e qualcosa era già cambiato, perché era diventato più rigido, ed era lontano. Il suo corpo era lì, ma la sua mente era già andata via, era volata di nuovo in alto, dove non sarebbe bastato neppure saltare per raggiungerla.
Federico poggiò entrambe le mani sulle sue cosce, lasciandole lì, inermi.
- Ci stiamo sempre, a letto. Sei sempre tu che mi chiedi di andarci – gli ricordò. Dominik si prese il labbro tra i denti con tanta forza che Federico pensò volesse strapparselo, trapassarlo da parte a parte. Ed era arrossito furiosamente nel giro di pochi secondi, le guance e il collo gli si erano tinti di chiazze rosse.
- Non lo so, è che…mi mette a disagio – farfugliò. Prima di parlare di nuovo, aveva preso a tormentarsi le mani: muoveva le dita, come se stesse suonando un furiosa sinfonia di Beethoven su un pianoforte trasparente. – Io ho pensato che tu mi piaci. Ed eravamo qui sul divano, quindi… - sbuffò, irritato, perché non riusciva a trovare le parole. – Noi eravamo sul divano, e tu mi stavi baciando – disse alla fine, risoluto. – E anche io ti stavo baciando. E…avremmo potuto continuare a baciarci – continuò, ma perse tutto il fiato proprio alla fine, arrossendo ulteriormente.
Federico lo guardò accigliato, in un modo che, se non fosse stato cieco, l’avrebbe fatto infuriare.
- In pratica tu volevi fare sesso? – concluse per lui, trattenendo una risata divertita che era sorta spontanea di fronte a tutto quell’imbarazzo. Allo stesso tempo, però, la presa sulle sue cosce si fece più forte perché, come immaginava, la prima cosa che Dominik provò a fare fu scivolare via, per raggiungere il bagno, o la camera da letto, e porre fine a quella conversazione. Per il contraccolpo, invece, scivolò con il busto in avanti, e Federico gli cinse la vita con entrambe le braccia. – Dai, non scappare – lo pregò. Finì con le labbra vicino al suo orecchio, stringendolo tanto che, nonostante si dimenasse, premendogli le mani sul petto, Dominik non riuscì a liberarsi. – Mi piacerebbe moltissimo – confessò, e avvertì una specie di dito freddo percorrergli la spina dorsale dall’interno. – Però perché adesso? Per ringraziarmi della festa? –
Dominik si era arreso, mollando la presa, e aveva affondato il viso sul suo petto: per questo, quando parlò, la sua voce giunse soffocata.
- No. –
- E allora perché? –
- Non è soltanto adesso – lo sentì dire. Federico sorrise, scuotendo appena il capo, e lo lasciò andare. Dominik non si alzò, ma fece forza sulle braccia per raddrizzarsi quanto bastava da non premere più il viso contro di lui. Poteva guardarlo, adesso, ancora rosso in viso, con i capelli tutti spettinati. – Non ci avevo pensato, fino ad un attimo fa. Poi tu eri qui, e mi baciavi, e io ti baciavo. Ho lasciato andare le cose, come faccio con la musica, quando suono, e so che ad un certo punto devo lasciare andare. Ma non succede soltanto adesso. E’ che adesso siamo qui, non siamo a letto. Io…a letto non ci riesco, Federico. Ci provo, ma non ci riesco. E’ la stessa cosa di adesso, con te, ma lì…mi sento a disagio, mi sento soffocare. A letto è come se dovesse succedere qualcosa per forza. Tutti si aspettano questo, quando sono nello stesso letto, che succeda qualcosa. E io ci penso, anche se tu non dici niente, e non appena ci penso mi sento soffocare, e non riesco a lasciar andare niente. Qui no. Questo è un divano, non dovrebbe succedere niente, e smetto di pensarci. E se non ci penso è più facile, perché poi arrivi tu e…mi prendi di sorpresa. -
Federico avrebbe voluto baciare quelle labbra e sentirci dentro tutta la dolcezza che c’era in quel ragazzo. Invece gli strinse le braccia intorno alla vita, perché si sentiva così leggero che persino ad affrontare un argomento come quello non riusciva ad essere troppo serio. E se lo fosse stato, Dominik sarebbe scappato via come un coniglio spaventato di fronte ad un cacciatore.
 - Ah, allora è il letto…perché infatti mi sembrava proprio che poco fa non fossi tanto a disagio – lo canzonò, sfiorandogli il collo con le labbra. Dominik arrossì, aprendo la bocca per ribattere, ma non trovò le parole adatte: così, stizzito, lo pizzicò con forza su un braccio, e Federico rispose con un’esclamazione di protesta, prima di premergli le mani sulla schiena e schiacciarselo di nuovo addosso.
- E’ una cosa stupida – lo sentì borbottare, e doveva essere arrossito ulteriormente, perché la pelle del suo viso, che Federico aveva a contatto con il proprio collo, scottava come se avesse la febbre. Gli lasciò un bacio sulla spalla, scostando il colletto della camicia con il naso.
- No, non lo è. –  Forse lo era un pochino.  – E in ogni caso non importa, dai – provò a dirgli, e il bacio sulla spalla si trasformò in un morso che strappò a Dominik un mugolio di protesta. - Oggi sono troppo stanco, Dom. Non ce la faccio – ammise alla fine. – Ho voglia di farlo con te, sul serio, ma oggi non ci riesco, e non voglio farlo per forza. -
Era stanco fisicamente, e psicologicamente.
Non voleva che Dominik si sentisse rifiutato, ma proprio non ci sarebbe riuscito. L’ultima volta che aveva provato a fare l’amore con Manfredi quando era stanco a quel modo, e pure un po’ ubriaco, era finita con una colossale litigata perché si era fatto un male boia, ai piani bassi non si era risvegliato nessuno, e non gli era nemmeno piaciuto.
Ma Dominik gli avvolse le braccia intorno alle spalle, poggiando il capo sulla sua spalla.
- Non lo dici solo per farmi piacere? –
- Mh, no – farfugliò.  – Dico sul serio, sono stanchissimo. Però se vuoi restare qui e continuare a baciarmi per un po’ non mi dispiace – lo provocò.
Dominik ridacchiò, una risata leggera vicino al suo orecchio.
Le sue mani gli finirono sulle spalle, a contatto con la pelle.
Federico chiuse gli occhi.
 
 
§§§
 
 
La finestra era rimasta aperta, e la luce filtrava all’interno della stanza da un lampione posto strategicamente troppo vicino, e troppo luminoso.
Poteva sentirlo, il respiro di fianco al suo, quello regolare di un corpo in dormiveglia, in quella fase del sonno che non era ancora una dormita profonda ma che non era neppure la veglia: quella fase in cui ogni gesto sarebbe stato al confine tra il sogno e la realtà.
Samuele non stava dormendo.
Il suo respiro si era regolarizzato da poco, approdando a quella leggerezza dopo il turbinio dei minuti precedenti.
Se avesse teso il braccio alla sua destra, Mattia lo avrebbe toccato.
Avrebbe sentito sotto le dita il calore della sua pelle, la peluria sulle braccia, la linea curva e solida del bicipite che aveva stretto con forza mentre ci faceva l’amore.
Lo fece, nell’istante stesso in cui l’immagine gli si proiettò nella mente.
Trovò la spalla di Samuele, la pelle ancora calda, un velo impalpabile di sudore.
Si voltò subito.
I suoi occhi erano spalancati verso di lui, le pupille  nere come una voragine sul fianco di un vulcano, con la lava rovente sul fondo, e le fiamme, e le rocce che si scioglievano di fronte a tutto quel calore, come neve al sole. E poi c’erano le iridi verdi come il mare in tempesta visto dal molo, onde grandi tese verso il cielo e quel colore di acqua smossa.
Eppure c’era una tale pastosa dolcezza nel modo in cui Samuele lo guardava, le pupille dilatate e le labbra quasi tremanti in una preghiera. Avrebbe potuto baciarlo e lui non avrebbe protestato: lo avrebbe accarezzato, e pizzicato. Lo avrebbe spezzato, e Samuele non avrebbe detto di no.
Ci avrebbe fatto di nuovo l’amore.
Di fronte a tutto quello, Mattia si sentì soffocare.
Di nuovo, come quando lo aveva sentito sospirare il suo nome, la schiena tesa verso di lui e le mani artigliate sui suoi fianchi, e aveva avuto la sensazione di non riuscire più a respirare.
Mattia.
Preghiera e desiderio.
Bruciava sulla pelle, il ricordo bollente dei suoi baci.
Mattia si spinse in avanti, scivolando lungo il materasso, fino a incontrare Samuele in un bacio.
Lui lo lasciò fare, arrendevole.
Toccò di nuovo quelle labbra, ancora arrossate di baci, e calde, e morbide.
Non c’era più quell’esigenza quasi letale che avevano assaporato mentre si aggrappavano alle lenzuola, quel desiderio bruciante e distruttivo che lo aveva fatto sentire come se non fosse stato altro che un uomo pronto a morire, preda di uno spasmo al cuore che lo avrebbe fermato, condannandolo ad un’agonia mortale.
Lo baciò come se non potesse chiedergli nulla di più al mondo, a occhi chiusi, il respiro fermo.
Mattia si sentiva indolenzito, assonnato, anchilosato.
Come se il tempo si fosse fermato, congelato, e lui fosse lì a dover subire il ritmo rallentato che gli veniva imposto. Persino i muscoli parevano non volergli rispondere, contratti e vibranti, come se Samuele lo stesse ancora toccando.
Gli pareva di sentirle, le mani di Samuele sulle gambe, sulla schiena, sul viso, le sue labbra che lo mordevano, lo baciavano, gli lasciavano un segno rosso sul petto, che bruciava ancora, un incrocio tra un morso e un bacio lascivo.
E lui aveva sentito il cuore che si spaccava.
Baciami, Mattia, dai.
Dolce come una preghiera.
Un richiamo disperato e lascivo.
Se chiudeva gli occhi, sfuggendo alla presa di quelle iridi verdi, gli pareva di poter tornare indietro.
Samuele lo aveva baciato.
Poco prima che lasciasse casa sua, il cappotto già sulle spalle, pronto ad aprire la porta, Mattia aveva avuto quel piccolo ripensamento. Stava per andarsene, pronto a rivederlo solo il giorno successivo, passare al locale, fare qualche battuta e poi tornare a casa a desiderare anche solo di intrappolargli le labbra.
Ma per tutta la sera Samuele lo aveva attratto come il miele, con quegli occhi disperati.
Lo aveva portato a casa sua, gli aveva preparato un tè e aveva preso tempo: aveva tentennato, non aveva voluto restare da solo. E Mattia, che non era un santo, non era riuscito a trattenersi oltre. Aveva pensato solo di fare un passo, due, verso di lui, essere abbastanza vicino da immaginare di baciarlo: poi se ne sarebbe andato.
Invece, dentro gli occhi di Samuele c’era stato quel lampo di desiderio, una luce rossastra in tutto quel verde, ed era stato impossibile resistere all’aroma della sua pelle, alla forma del suo corpo e a quelle dannatissime labbra che avrebbe voluto accarezzare ogni giorno.
E Samuele lo aveva baciato.
Lo aveva accarezzato, e spogliato.
Lo aveva portato a letto e aveva continuato a baciarlo all’infinito.
Se avesse dovuto descrivere cosa si provasse a morire per un attimo e ritrovarsi in mezzo alla luce, ad un passo dal Paradiso, Mattia avrebbe descritto quella sensazione: il desiderio di Samuele sotto la pelle. Sentire di valere qualcosa per uno come lui, sentire quel bisogno che vibrava a livello delle terminazioni nervose.
Tutto lo aveva infiammato, e condannato inequivocabilmente ad ardere, in ogni parte del corpo.
Riaprì gli occhi, e Samuele era ancora lì, gli occhi smarriti, come se avesse bisogno di essere spinto per buttarsi giù dall’ultimo piano di un grattacielo. La mano di Mattia gli scivolò sul viso, a sfiorargli le labbra con i polpastrelli delle dita. Il modo in cui Samuele dischiuse le labbra per lasciarsi accarezzare fu quasi struggente, come se fosse strattonato verso due direzioni opposte e fosse pronto a spaccarsi, sopportando un dolore che correva lungo la spina dorsale.
- Buongiorno… – farfugliò.
Si sentiva la lingua impastata, ancora vittima del sonno, della sorpresa, o di chissà cos’altro.
Non aveva idea di cosa gli avrebbe detto, così si era limitato a quel buongiorno, appena sussurrato, nonostante non si fossero neppure addormentati: erano rimasti semplicemente così, distesi, uno accanto all’altro in silenzio. Forse avevano dormito, ma solo per qualche minuto, perché la sveglia sul comodino segnava ancora le tre del mattino.
Samuele sembrò riscuotersi dal torpore solo in quel momento, come se il suono di quella voce estranea lo avesse pungolato alla stregua di un campanello d’allarme.
Mattia aveva freddo, adesso, ancora nudo a letto.
Si portò le coperte sulle spalle, fino quasi alla testa.
Sentiva le dita dei piedi gelate, e gli sarebbe bastato spostarsi un po’ a destra per premerle contro le gambe di Samuele, alla ricerca di calore. Ma lui sollevò le coperte, scendendo dal letto. Dal pavimento raccolse i pantaloni della sera prima, infilandoli maldestramente prima dalla gamba destra, poi dalla sinistra: non si prese la briga neppure di mettere gli slip, di cercare qualcosa di comodo dall’armadio.
Semplicemente, aveva arraffato  quello che c’era sul pavimento, come se fosse confuso e disorientato per poter fare qualcosa di meglio.
Mattia fece scivolare la mano sul materasso fino al punto in cui c’era stato il suo corpo.
Era tiepido, e profumava di Samuele.
- Sono le tre del mattino, Samuele – lo chiamò, e non riuscì ad ignorare il modo in cui si era fatta carezzevole la sua voce, nel pronunciare quel nome, come se fossero amanti, come se quel letto li avesse ospitati chissà quante volte.
- Lo so – gli rispose.
Mattia lo capì subito, che ci fosse qualcosa.
Lo aveva capito quando si era perso nella voragine al centro dei suoi occhi, dal modo in cui lo aveva guardato smarrito, dalla sensazione di completo potere che aveva avvertito quando gli era entrato dentro, e che adesso era sparita. Lo aveva sentito subito, perché, anche mentre era ancora sdraiato su quello stesso letto, Samuele era già lontano, aveva lasciato solo il suo corpo ed era volato via.
Si mise seduto prima che Samuele avesse il tempo anche solo di posare lo sguardo su di lui.
Le coperte rimasero così, a coprirgli le gambe e un braccio.
Si guardarono in silenzio, nella stanza in penombra.
Poi Samuele tornò a letto: si sedette, portò le gambe sul materasso, scivolò indietro fino a che la schiena non aderì alle lenzuola ancora tiepide. Mattia rimase seduto, a lasciare che gli occhi verdi dell’altro uomo lo guardassero dal basso: se si fosse sdraiato accanto a lui, avrebbe rischiato di farsi risucchiare da quella tempesta che stava spazzando via Samuele.
- Abbiamo fatto sesso - disse solo.
Mattia rimase zitto, ma la prima martellata era già arrivata, con la voce tremante di Samuele, un tono infantile ed esasperato, troppo piccolo per vagare dentro quell’enorme corpo da uomo. La sua mano gli scivolò sul braccio, Mattia la sentì risalire fino alla spalla, al collo, per fermarsi sulla sporgenza della clavicola. Se avesse abbassato appena il capo, avrebbe potuto baciargli le nocche.
- Direi di sì – rispose, e la propria voce aveva già perso quella delicata inflessione carezzevole di un amante. Succedeva sempre così, dopo: smetteva di essere amante, e tornava uomo.
E non voleva essere, di fronte a Samuele, quel tipo di uomo che avrebbe voluto aggrapparsi alle sue spalle e rubargli tutto il tempo, e la vita.
Il sospiro di Samuele, che arrivò dopo, lo trapassò da parte a parte come se avesse avuto un buco nero al centro del petto. La sua mano gli scivolò via dal corpo, lasciandogli addosso una sensazione di incompletezza.
Samuele si stava spaccando lì, davanti ai suoi occhi, tra le lenzuola bianche, con le dita delle mani che tremavano lievemente, e il respiro breve e accelerato. E nonostante fosse ad un passo dalla rottura, le dita della sua mano destra continuavano a mantenere un contatto con lui, adagiate mollemente sul dorso della mano che Mattia teneva premuta sul materasso.
Avrebbe voluto baciarlo. Intrappolargli le labbra e tenerlo tutto intero attraverso quel contatto.
– Io non sono uno che tradisce il suo compagno. Io sono una brava persona. –
La voce gli tremò proprio sulle ultime due parole.
- Lo so. Tu sei una brava persona. –
- E non vado a letto con chiunque. –
- Io non sono chiunque –  precisò Mattia, la voce ridotta quasi ad un sibilo, adesso.
Samuele scosse il capo, come a voler scacciare un fraintendimento, o un pensiero.
- Non vado a letto con altri se sto con un uomo. –
- Il tuo uomo ha una moglie – gli ricordò. Stava diventando cattivo, e non avrebbe voluto.
Eppure voleva essere cattivo, affondargli le unghie sul petto, strappargli la carne allo stesso modo in cui lui gli stava tormentando il petto a martellate. Samuele sollevò repentinamente un braccio, e lo spinse indietro, per allontanarlo.
- Non ha importanza!  -
Aveva alzato la voce e si era messo in piedi.
Era furioso.
La spaccatura che lo stava divorando aveva scoperto un cuore bollente, come il magma sotto la terra che risaliva verso la crosta terrestre, aprendosi la strada fino a creare un’altra voragine da cui zampillare verso il cielo. E la furia di Samuele stava venendo fuori dalle sue spaccature, e si sarebbe riversata su di lui: tutto ciò che aveva represso per mesi, tutta la sua collera, e l’irritazione, e la paura, sarebbe piombata su Mattia, comprese le colpe che non aveva.
- Era questo che volevi, vero? – lo accusò, puntandogli contro l’indice della mano destra. - Non hai fatto altro che provare a portarmi a letto, da quando mi conosci! –
La lava bollente lo aveva raggiunto, avvolgendolo, iniziando a bruciargli la pelle.
Mattia la avvertì lungo la schiena, sulle gambe, e sarebbe arrivata presto sempre più in alto, ad avvolgerlo, a soffocarlo, fino al collo, fino a rubargli tutta l’aria e a scioglierlo, come le rocce franose sui fianchi dell’Etna.
- Non mi sembra proprio di averti obbligato – gli rispose. Era un sibilo, avvolgente e ipnotico, eppure feroce e tagliente. Non aveva più nulla dell’ironia che aveva sempre sfoderato su di lui: era come un serpente, e avrebbe voluto avere un paio di zanne da conficcargli dritte sulla gola. - Sono sempre stato da parte, Samuele, anche se avrei voluto baciarti contro il muro del locale dove lavori, tutti i giorni! Ho fatto finta di niente! –
- Questo è fare finta di niente? Tutte quelle battutine del cazzo e quei sorrisini? – lo accusò. – Tu fai così con tutti, qualche battuta divertente, una toccatina di culo e poi a letto insieme, no? Per te è così che vanno le cose, non importa se stasera è toccato a me. Per te è facile! E’ sempre così, tutte le sere! Io non sono così! –
Mattia sentì che la lava gli provocava le vesciche sulla pelle, gli bruciava il viso.
Non importa se stasera è toccato a me.
Era come un puttana, agli occhi di Samuele.
Sentì  uno squarcio all’altezza del petto, come se qualcuno ci avesse affondato dentro due mani e gli avesse strappato tutti e due i polmoni. Gli mancava l’aria, l’ossigeno, e tutto si arricchiva di mille puntini colorati, uno sfarfallio rossastro e irritante sulle pupille.
- Però ci stavi, guarda un po’! Adesso non farmi passare per quel mostro che ti ha aperto i pantaloni e ti ha violentato, quando mi hai quasi pregato di succhiarti il cazzo! –
Non fece nulla per spostarsi, quando vide il pugno avvicinarsi.
Lasciò semplicemente che arrivasse, dritto sullo zigomo, che lo facesse rotolare indietro, sul materasso, aggrappandosi alle lenzuola per non cadere sul pavimento.
Lo aveva voluto.
Era diventato cattivo, e volgare, e spregevole, per fargli male e colpirlo su un nervo scoperto.
Tutti hanno un punto debole, Mattia, lasciatelo dire da tuo padre. Devi conoscerlo, ma non pungolarlo. Solo così sarai sempre pronto a sfruttarlo, quando sarà necessario.
Samuele aveva un punto debole. Tutti ce l’avevano.
E lui non lo conosceva ancora, ma voleva colpire qualsiasi punto, pur di fargli del male, pur di difendersi.
 Quando fece per afferrarlo di nuovo, per i capelli, Mattia gli strinse il polso tra le dita, affondando le unghie corte nella pelle, e fu abbastanza da fargli mollare un po’ la presa, quanto bastava per spingerlo indietro.
Tutto bruciava, da qualche parte dentro.
Aveva ingoiato la lava e quella lo stava distruggendo dall’interno.
Lo stava avvelenando.
- Volevi farlo da settimane, Samuele, lo sai meglio di me – lo accusò.
- Sei un pezzo di merda. –
- Non hai fatto che fissarmi, tutta la sera. Mi hai invitato a casa tua, mi hai trattenuto. –
- Smettila. –
- Volevi che ti scopassi. –
Samuele si portò le mani sulla faccia.
- La devi smettere, Mattia! Smettila! –
Trovò ancora dolce il modo in cui arrotondava il suo nome tra le labbra, esasperato, e fu come un’altra coltellata che gli agitò il veleno sulla lingua, tra i denti, come se potesse sputarlo proprio lì, ad un passo dai suoi piedi, acido e corrosivo. Mattia scivolò sul materasso, scendendo dal letto, e gli si piazzò davanti: nonostante fosse ancora nudo, non sentiva più freddo, perché tutto quel calore distruttivo lo stava bruciando. Avrebbe voluto schiaffeggiarlo, afferrarlo per i capelli e baciarlo così tanto da fargli mancare il fiato.
Samuele stava torturando il suo punto debole.
Lo aveva baciato, e accarezzato, aveva lasciato che lui gettasse tutte le maschere, e adesso si stava tirando indietro, tornando nella sua grotta fredda, lasciandolo lì, le scapole esposte pronte a colpirlo. Non lo aveva mai permesso a nessuno. Aveva sempre avuto un punto di vantaggio.
E adesso voleva riprenderselo.
Avrebbe dovuto schiacciare Samuele e riprendersi il suo vantaggio.
Sempre avanti a tutti, Mattia, sempre pronto a sapere cosa rispondere.
Solo così ci si può difendere dal mondo.
- Non puoi dare la colpa a me! Hai voluto baciarmi, sei venuto a letto con me, e quindi? Non mi prenderò la responsabilità di questa notte anche per te! –
Samuele gli crollò davanti come se lo avessero fucilato.
Cadde sulle ginocchia, come un peso morto, il viso affondato nelle mani.
C’era qualcosa di terribilmente sbagliato nel modo in cui Samuele si era lasciato affondare, come se avesse esposto ogni angolo del suo corpo e avesse semplicemente aspettato che qualche altra parola arrivasse a trafiggerlo. C’era qualcosa di sbagliato nella sua schiena nuda e vulnerabile, esposta. C’era qualcosa che lo fece sentire male, come se avesse commesso un sacrilegio.
E fu nella voce di Samuele, un tremolio disperato, che Mattia trovò la catarsi.
- Sono diventato una persona diversa da quella che volevo essere. –
Sentì il veleno fluirgli via dal corpo, come se fosse stato esorcizzato dalla voce tremante di Samuele. Il cuore aveva preso a battergli furiosamente nel petto, e si spostò subito dalla sua posizione. Perché se Samuele avesse sollevato il viso, e lasciato cadere le braccia lungo i fianchi, non aveva idea di cosa avrebbe trovato dentro i suoi occhi.
- Ho sempre pensato che sarei diventato una brava persona, che mi sarei guardato allo specchio, ogni giorno, consapevole che i miei genitori non avessero ragione, che io non fossi una delusione – lo sentì mugolare, ed era straziante come assistere all’agonia di un animale morente. – Invece mi sveglio tutte le mattine e quello che vedo non mi piace. Vedo un uomo che lavora in un bar, guadagnando una miseria, che ha una relazione clandestina con un altro uomo, che è sposato di fronte a Dio. E da domani, saprò di essere anche un uomo che tradisce. –
Mattia non disse nulla, perché non c’era niente da dire.
Samuele scostò via le mani dal viso, lasciando che ricadessero fino a toccare il pavimento.
Teneva gli occhi chiusi, privo di forze.
- Non posso dare la colpa a te. Ma tu mi confondi, Mattia – soffiò. Sembrava non avere più la forza neppure per litigare. Eppure si voltò, per cercarlo, e lo trovò al suo fianco, in piedi: lo guardava dal basso, le spalle curve in avanti, ma Mattia non si era mai sentito tanto sovrastato da qualcuno come in quel momento. – Tu arrivi al locale con quell’aria lì e mi convinci che posso fare il cazzone almeno per qualche ora. Mi telefoni alle otto di mattina per andare a comprare una libreria. Mi porti ad un concerto ad urlare fino a perdere la voce come se non ci fosse niente di più importante da fare al mondo. E sei sempre lì a flirtare, a farmi credere che dipenda tutto da me e che potrei decidere in qualsiasi momento di mandare tutto all’aria – mormorò. – Io mi sto spaccando. Non capisco più se sono l’uomo responsabile e paziente che ha una storia stabile, o quello che manda al diavolo tutto perché vuole fare sesso con te. – Samuele sbuffò, e sembrò più simile ad un sospiro sull’orlo delle lacrime. Si passò una mano sul viso. – Io sono fatto di carne, non sono cieco. Ti guardo e penso a come sarebbe una notte di sesso con te. Sei un bell’uomo, e lo sai. E io sono attratto da te. Ho pensato milioni di volte che avrei potuto baciarti, spogliarti nel magazzino del locale e chiudere dietro quella porta tutti i sensi di colpa. – Mattia trattenne il fiato. – Ma tutte le volte, mi sono reso conto di non essere quel tipo di uomo. Io non voglio essere così. -
Samuele non era quel tipo di uomo, lo sapeva anche lui, e sentiva il cuore spaccarsi e qualcosa stridergli dentro la testa, come un rumore fastidioso che gli faceva pulsare le tempie.
Se solo avesse saputo che neppure lui era così, che non voleva più esserlo, e che avrebbe tanto voluto presentarsi tutte le sere a casa sua e riempirgli il letto, la cucina, la vasca da bagno.
Riempirgli la vita fino a soffocarlo.
Mattia si inginocchiò dietro di lui, poggiandogli le mani sulle spalle: quando ci affondò le dita, per massaggiarlo, per lasciare che i muscoli si rilassassero, Samuele li irrigidì ancora di più, ma non si mosse.
- Non mi confondere, Mattia. Ti prego. –
Gli lasciò un bacio sulla spalla, e un altro, più vicino al collo: Samuele, quasi inconsapevolmente, inclinò il capo dal lato opposto, esponendo la pelle alle sue labbra. Anche i muscoli delle spalle, e della schiena, si rilassarono, nel mezzo di un sospiro.
Lo sentì più vicino, malleabile come creta sotto le mani.
Gli sfiorò il lobo dell’orecchio con le labbra, e avrebbe potuto dirgli di smetterla.
Lascia quell’uomo. Ci sono sempre stato io. Ci sono io.
Se l’avesse fatto, l’avrebbe spaccato del tutto.
Samuele si sarebbe lasciato spaccare, sarebbe caduto in decine di piccoli pezzi ai suoi piedi.
Lo avrebbe messo in difficoltà, lo avrebbe messo nelle condizioni di compiere una scelta che, decisamente, non era in grado di prendere.
Non lo avrebbe spaccato così.
Allontanò le labbra dalla sua pelle, il massaggio sulle spalle perse la sua intimità, trasformandosi in una carezza lasciva.
- Abbiamo solo fatto sesso, Samuele. Una volta sola. Ci siamo lasciati prendere la mano. –
Mentire. Gli era sempre riuscito così bene da divenire quasi naturale: ma dovette staccare le mani dalle spalle di Samuele, affinché lui non si accorgesse che stavano tremando.
Lui scivolò via, alzandosi in piedi. Mattia rimase sul pavimento, coprendosi l’intimità con le braccia.
All’improvviso, si vergognava di essere nudo. Si sentiva vulnerabile, esposto a quel modo.
Solo quando l’altro si voltò, scivolò di nuovo sul letto, portandosi le coperte fino all’addome.
Samuele si sedette vicino a lui, le mani poggiate sul materasso. Lo stava perforando, con quegli occhi ardenti, come se lo volesse assorbire e farlo sprofondare dentro quella voragine vulcanica.
- Io non voglio essere così, Mattia. Abbiamo fatto sesso, ma non succederà più. –
All’improvviso, avrebbe voluto ricordare meglio ogni dettaglio di quella notte.
Avrebbe voluto non essere stato così impulsivo, così impaziente mentre lo spogliava.
Avrebbe voluto imprimersi nella mente il ricordo del suo corpo caldo, delle sue labbra.
Non succederà più.
Tirò fuori un sorriso, il veleno di tutta una vita che tornava a scorrergli nelle vene, rialzando quella barriera di cemento che lo aveva sempre difeso dal mondo.
- Come vuoi – buttò lì, stringendosi nelle spalle. – E’ stato un buon sesso, non puoi negarlo. –
Samuele rimase a fissarlo, un po’ basito, per alcuni istanti.
Quelle labbra dischiuse erano così attraenti che l’avrebbe baciato di nuovo, seduta stante.
Invece si alzò dal letto, iniziando a raccogliere i suoi vestiti: sentiva le gambe e le braccia pesanti come piombo, ma niente era paragonabile al peso che si sentiva sul petto e che gli raschiava la gola.
- Mattia -  iniziò, ma lo interruppe, perché non avrebbe sostenuto un’altra parola.
- Parli troppo, Samuele – lo rimproverò, dandogli le spalle mentre si infilava i boxer e i pantaloni. Raccolse dal pavimento la camicia stropicciata. – Abbiamo fatto sesso, è stato bello, ma non succederà più. Fine della discussione. –
Ma Samuele sospirò, un soffio tremante tra le labbra.
- E’ cambiato qualcosa? – gli chiese.
A colpirlo non fu solo il tono speranzoso e interrogativo, quanto le parole.
Si voltò verso di lui prima ancora di abbottonarsi la camicia, lasciandola pendere sui fianchi.
- Mettiamo bene in chiaro una cosa – iniziò, l’aria stizzita. – Quando ti ho detto che non sto con te solo per il sesso, stavo parlando sul serio. Quindi, anche se siamo stati a letto insieme, tu continuerai sempre a essere Samuele, il tizio che lavora in un locale che frequento, che posso chiamare alle otto di mattina per andare a comprare una libreria e a cui posso portare a casa una bottiglia di vino, se mi va – gli spiegò. – Abbiamo fatto sesso, ma la cosa si chiude qua. Tu continuerai a essere Samuele, e io continuerò a essere me. Il sesso è una cosa nettamente distinta dal rapporto che io ho con te. Chiaro? –
- Chiaro. -  ripeté l’altro. – E’ stato sesso. Nessuna implicazione. –
- Esattamente – confermò, ma dovette dargli di nuovo le spalle, fingendo di chinarsi per raccogliere le scarpe e i calzini.
Gli faceva male tutto, dall’alluce del piede alla punta dei capelli.
Era tutto una massa di dolore che partiva dal petto e si irradiava al resto del corpo.
E’ stato sesso. Nessuna implicazione.
Era tutto racchiuso lì. Solo sesso.
Era rimbalzato dalla melodiosa sensazione di avere finalmente rotto la grande muraglia intorno a Samuele, all’amara constatazione di averci condiviso solo il sesso.
La prima volta che lo aveva visto, con quegli occhi verdi e l’aria indaffarata dietro il bancone di un bar, era stato colpito dalla consapevolezza che quell’uomo lì fosse troppo. Aveva sperato, fin dal primo momento, di sentire che fosse solo, che non avesse nessuno, per portarselo a letto.
Era quella la verità, non avrebbe potuto negarla. Fin dal primo istante in cui lo aveva visto ne era rimasto così colpito da non desiderare altro che farci sesso: una notte intera di sesso, e poi un’altra e un’altra ancora fino a quando non ne avesse avuto abbastanza.
Poi lo aveva conosciuto. Una birra insieme, un concerto, uno sguardo distratto alla sua vita all’infuori dei momenti che concedeva a lui. E aveva scoperto che, oltre alla faccia da sbruffone e alle risposte taglienti che rifilava sempre a lui, Samuele era anche altro: Samuele era dentro alle pacche sulle spalle che dava ai suoi amici, dentro al modo in cui sorrideva con aria paterna a Federico. Era dentro i suoi occhi tristi mentre gli diceva che avrebbe lavorato per Natale, perché non c’era nessuno a casa ad aspettarlo, ed era ancor di più dentro all’aria smarrita con la quale controllava il cellulare, tutte le volte che vibrava nella tasca. Samuele era dentro l’immagine di quell’uomo cresciuto da solo, a partire da un ragazzino senza un mestiere sbattuto in strada da una famiglia delusa. Samuele era dentro al modo in cui mandava giù la birra, in cui si bagnava le labbra di vino rosso, in cui preparava il caffè con le mani grandi e con quell’aria casalinga.
Nello stesso momento in cui si era reso conto di tutte le anime di Samuele, Mattia aveva smesso di provare a portarselo a letto seriamente, e aveva iniziato a ruotargli intorno come si fa con un satellite. Da satellite si era trasformato in meteorite, quando aveva incrociato i suoi occhi, quella sera, ed era stato risucchiato dalla sua atmosfera, precipitandoci dentro così velocemente da iniziare a bruciare, perdendo ad ogni kilometro un piccolo pezzo.
Si era schiantato sulla sua superficie che non era altro che un sassolino.
E anche allora, non era bastato.
Non era stato abbastanza per abbattere il muro e strappare Samuele dalle mani di un uomo che non avrebbe mai lasciato sua moglie, che non avrebbe mai scelto lui. E, se non allora, prima o poi Samuele si sarebbe spaccato, e lui sarebbe stato lì, nei dintorni, a raccoglierne i pezzi.
Mattia tirò fuori uno dei suoi serafici sorrisi migliori.
Aveva abbottonato perfettamente la camicia, allacciato entrambe le scarpe: solo il cappotto doveva essere rimasto sul pavimento dell’ingresso. Samuele lo precedette fuori dalla camera da letto, e quando lo seguì lo trovò già con il suo indumento tra le mani, a scrollarlo.
Non lo stava buttando fuori. Semplicemente, sapevano entrambi che fosse arrivato per lui il momento di andarsene. Se fosse rimasto un minuto in più, avrebbe rischiato di cedere di nuovo, mandare tutto al diavolo e baciarlo in una replica perfetta della prima volta: si sarebbe aggrappato alle sue spalle, gli avrebbe mormorato sulle labbra di piantare quell’idiota con cui stava e di darsi una svegliata, di non comportarsi più come un ragazzino e di aprire gli occhi.
Lo avrebbe pregato di rendersi conto che Mattia era lì di fronte, e lui non lo vedeva.
- Grazie – disse invece, prendendo il cappotto dalle mani di lui.
Lo indossò velocemente, insieme alla sciarpa, e aprì la porta di quella casa che adesso lo soffocava.
Alle sue spalle, la presenza di Samuele era insopportabile.
Aveva la forza di fargli un ultimo sorriso.
- Io vado, domani lavoro. Magari passo dal locale. –
- Senti Mattia… -
Chiuse gli occhi, gli aveva già dato le spalle. Non si voltò.
- Devo andare, Samuele. Ne parliamo domani. –
Qualsiasi cosa fosse, ne avrebbero parlato l’indomani, quando si sarebbe svegliato con un nuovo sorriso, una nuova barriera e un nuovo modo di vivere, come gli aveva insegnato suo padre.
Ma per quella notte non aveva più la forza di contrastare tutte le anime di Samuele.
Per quella notte era abbastanza.
Mentre si appoggiava al corrimano delle scale, udì il clac della porta che si chiudeva alle sue spalle.
 
 
 
 
 
 
 
1) Il titolo del capitolo è tratto dalla canzone People help the people, di Cherry Gost.
La traduzione corretta sarebbe “le persone si aiutano”, o “le persone aiutano gli altri”, ma ho preferito la traduzione letterale, che ho inserito tra virgolette, perché così sgrammaticata mi è parsa più incisiva per il caos che c'è nel capitolo.

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Capitolo 45
*** 40th: Io bacio anche le tue domande ***




Quando ti bacio
non è solo la tua bocca
non è solo il tuo ombellico
non è solo il tuo grembo
che bacio
Io bacio anche le tue domande
e i tuoi desideri
bacio il tuo riflettere
i tuoi dubbi
e il tuo coraggio

il tuo amore per me
e la tua libertà da me
il tuo piede
che è giunto qui
e che di nuovo se ne va
io bacio te
così come sei
e come sarai
domani e oltre
e quando il mio tempo sarà trascorso.

Erich Fried - Come ti si dovrebbe baciare



Chapter 40th: Io bacio anche le tue domande
 
Di quella sera di febbraio Federico avrebbe ricordato il suono profondo e avvolgente dell’Allegro che Dominik stava disegnando al pianoforte. E anche la sua espressione stranamente concentrata, la fronte un po’ aggrottata  e la lingua che saettava a intervalli irregolari a umettare le labbra.
E poi ancora il movimento delle sue spalle che trasmettevano alle braccia una danza flessuosa e scattante, come uno spadaccino sulla pedana.
Seduto sul divano, le gambe distese sul basso divanetto che aveva di fronte, Federico era letteralmente ipnotizzato dal movimento che faceva il corpo di Dominik, e dalla musica che ne stava venendo fuori, un’essenza tormentata che si piegava sotto i colpi netti e flessuosi delle dita sottili di un ragazzino che aveva lasciato l’anima a Praga.
Era come se qualcosa lo stesse divorando, gli stesse attraversando le dita fino a fluire dritta sulle note del pianoforte, passando attraverso tutto il suo corpo, attraverso la presa delle gambe sullo sgabello, il movimento delle spalle e i muscoli degli avambracci che si tendevano per imprimere ai polpastrelli un movimento rapido e preciso.
C’era un fluire rabbioso che si trasmetteva alla musica, nei rapidi cambiamenti di tono.
Avrebbe voluto afferrarlo, imprigionargli i polsi tra le dita e coglierlo in quell’istante di sorpresa mista a rabbia, baciarlo sulle labbra dischiuse con lo scopo di rimproverarlo, e  assorbire un po’ di quell’aura vitale.
Ma poi, dal nulla, la musica cessò.
Il suono dell’ultima nota parve quasi rimbombare tra le pareti di casa.
Nel silenzio, Federico udì Dominik sbuffare, irritato, mentre con un gesto stizzito scostava qualche spartito e lo sfiorava con i polpastrelli, alla ricerca di qualche nota che doveva essergli sfuggita, in quell’intrico di sinfonie che aveva nella testa.
Quando riprese a suonare, le note fluenti dell’Allegro si trasformarono in quelle più morbide di una melodia lenta e avvolgente, ma altrettanto viva. Il corpo di Dominik si muoveva diversamente, in modo più profondo e morbido, un ondeggiare con la schiena, un dondolio di gomiti, quasi come se lo spostamento del corpo potesse servire a dare più forza alla musica che stava suonando.
A guardarlo, Federico ci trovò dentro una sorta di malinconia struggente, un modo di muoversi morbido, come a cullare la musica, anziché aggredirla come nei minuti precedenti, con un’enfasi rabbiosa.
E di nuovo gli venne voglia di baciarlo, interrompendo una nota per assorbirne la malinconia, sentirla dentro i polmoni e sulla superficie delle labbra.
Mentre suonava, ogni tanto Dominik si fermava.
Succedeva all’improvviso, a metà di una nota, subito dopo un virtuosismo.
Era come se stesse riflettendo sulla musica, o ricordando quale nota dovesse riacciuffare o cullare, ma, in realtà, le sue dita non si muovevano dai tasti, né sfioravano lo spartito in braille che aveva davanti. Sembrava semplicemente fermo, vittima di un istante sospeso nel tempo.
Una di quelle pause durò più del solito. Dominik era immobile, il mignolo della mano destra sospeso in aria in un movimento interrotto, pronto a calare di nuovo sui tasti lisci e freschi. A Federico piaceva anche quello di lui, quella costante sensazione di essere teso verso qualcosa di grande. Poi, lentamente, i polpastrelli aderirono di nuovo ai tasti, senza che ne venisse fuori alcun suono: fu solo una lieve carezza, un aderire della pelle al materiale tiepido, artificiale, nel silenzio.
Dominik non fece altro. Non riprese a costruire la sua musica.
Muoveva appena le dita, poco convinto, senza suonare sul serio.
- A cosa pensi? – chiese Federico, la voce un po’ rauca per il prolungato silenzio, che suonò così strana da sorprenderlo. Dominik parve ignorarlo, come se non lo avesse neppure sentito. - Dominik? – lo chiamò ancora.
Questa volta, il ragazzo rispose subito.
- Ho sentito –  soffiò, mentre si stringeva nelle spalle, con un movimento morbido sotto al maglione. Lo aveva fatto in modo stranamente dolce, come se due mani invisibili lo avessero accarezzato sulla schiena. Sembrava si muovesse lentamente, come se fosse confuso, oppure rinchiuso in un mondo che stava troppo in alto rispetto a quello da cui Federico lo stava chiamando. – Non penso a niente. Stavo suonando – aggiunse.
- Cosa? –
- Cajkovskij. –  Il nome russo suonò stranamente straniero pronunciato da lui, con quell’accento ceco con cui rendeva più aspre certe consonanti. – E poi Einaudi – aggiunse, mentre stendeva le mani per afferrare gli spartiti, agitandoli appena in aria e sistemandoseli con cura sulle gambe, per far coincidere i margini di ogni singolo foglio. Li adagiò sulla superficie liscia del pianoforte, quasi accarezzandoli, prima di alzarsi in piedi.
Mentre Federico si stiracchiava, le braccia verso l’alto, anche Dominik spinse le proprie indietro, intrecciando le dita dietro la schiena e distendendo i gomiti: il movimento fece sollevare le spalle, sotto il maglione, che apparvero terribilmente ossute e spigolose.
- Mh – bofonchiò Federico, al termine di uno sbadiglio. – Mi piace Cajkovskij, è cazzuto. – Dominik fece una smorfia di sufficienza, arricciando le labbra.
- Fa troppa confusione. Certe volte perde il senso vero della musica, perché ci mette troppe cose. Invece Mozart no. Anche nell’allegro, c’è tutto quello che ci deve essere, e non c’è niente che viene coperto – borbottò, mentre faceva qualche passo per avvicinarsi al divano.
Federico ne seguì il percorso in silenzio, e quando fu abbastanza vicino lo afferrò per il bordo del maglione, strattonandolo: il ragazzo non si aspettava quel gesto improvviso, e non riuscì a opporsi alla forza che lo tirava indietro; le sue braccia saettarono in aria, alla ricerca di un appiglio, come se stesse precipitando, nel buio dei suoi occhi ciechi, e quando finalmente gli cadde addosso, Federico lo afferrò per le spalle. Lo costrinse con la schiena sopra le proprie gambe, i piedi sospesi in aria e il busto imprigionato contro il suo, ma non riuscì ad impedire che le unghie di una mano, seppur corte, gli affondassero sul braccio in una muta punizione.
- Stai insultando un grande maestro, ragazzino? – lo prese in giro, borbottandogli quella frase contro un orecchio del ragazzino.
Era ancora preda di quella smania di premerselo contro e baciarlo in ogni punto raggiungibile.
Dominik tentò di divincolarsi, infastidito e ferito nell’orgoglio, ma con un mezzo sorriso sulle labbra, e Federico lo lasciò fare, allentando la presa sulle sue spalle e permettendogli di aggrapparsi al tessuto del divano, scivolando indietro fino a lasciarsi cadere proprio accanto a lui.
Non gli sfuggì il modo in cui, di proposito, lo colpì con qualche calcio leggero sulle gambe, fingendo di sistemarsi tra i cuscini morbidi.
- E tu mi disturbi sempre – gli rinfacciò, mentre lo raggiungeva su un fianco con un piede nudo. Avrebbe potuto afferrarlo e strattonarlo di nuovo, tirarlo per la caviglia e farlo scivolare giù dal divano: invece, si limitò a imprigionare quel piede tra le dita di una mano, sfiorandone il dorso con i polpastrelli. Dominik si fermò subito, godendosi quella carezza leggera.
- Ah, ti ho disturbato? –
- Sì – rispose, piccato.
-  Allora puoi tornare a suonare, vai – lo provocò Federico, dandogli un pizzicotto sulla gamba, all’altezza del polpaccio. Dominik sobbalzò e ritirò l’arto, ma si spinse con il busto in avanti per afferrargli un braccio, con entrambe le mani, avvicinando ulteriormente il corpo al suo.
- No – rispose di nuovo, arricciando le labbra per tentare di nascondere un sorriso soddisfatto, mentre gli aderiva ad un fianco. Persino il suo tono di voce tradiva quella malcelata soddisfazione di essersi preso gioco di lui, di esserselo rigirato un po’ tra le mani come un gatto con un gomitolo di lana.
- Certo che sei proprio stronzo – lo apostrofò Federico, ma ormai il suo tono di voce era diventato morbido come la carezza delle braccia che circondarono il corpo di Dominik, per schiacciarselo addosso. Come si aspettava, Dominik tentò di divincolarsi, agitando le gambe, ma durò giusto lo sprazzo di un secondo prima che, arrendevole, le sue braccia e il suo busto iniziassero già ad arrendersi.
C’era una vitalità quasi musicale nel modo in cui i capelli gli danzavano davanti al viso, mentre si muoveva, e una strana eleganza persino nel modo in cui imprimeva forza alle proprie braccia per sostenersi, in un’ultima lotta per difendere il proprio orgoglio e non cedere a quell’abbraccio.
Federico rimase così tanto a guardarlo, e con così tanta attenzione, da non essersi reso conto di aver allentato la presa: così, il corpo di Dominik gli sfuggì bruscamente dalle mani, e ricadde dalla parte opposta del divano, le guance rosse e il fiato un po’ corto mentre si sistemava il maglione sui fianchi con uno strattone quasi infantile.
Avrebbe dovuto baciarlo, ecco cosa avrebbe dovuto fare: afferrargli il viso, intrappolarlo tra le mani  e affondare nella sua bocca. Si immaginava già il mugolio di protesta che gli avrebbe fatto vibrare le labbra, e le sue mani sulle spalle che lo avrebbero prima respinto, in un impeto di orgoglio, e poi accarezzato. Invece, Federico ricadde esausto con la schiena contro il cuscino soffice del divano.
Rimasero un po’ così, senza niente da dire, il fiato corto e una calda eccitazione che fluiva sotto la pelle. Poteva sentire benissimo il ritmo del respiro di Dominik farsi via via più lieve e più lento, i suoi muscoli allentarsi, e le sue gambe avvicinarsi a lui, scivolando sul tessuto caldo del divano. Con i piedi nudi gli sfiorò una coscia: Federico seguì il movimento carezzevole di quelle dita sui pantaloni con un nodo alla gola, e dovette costringersi  a distogliere lo sguardo e puntarlo più in alto, sul suo viso. Dominik era completamente spettinato, più per essersi passato continuamente le mani tra i capelli durante i suoi esercizi che per quella loro breve lotta. Se ci avesse passato una mano proprio nel mezzo, Federico avrebbe avvertito la sensazione di sentirsi avvolto da una matassa intricata , di essere accarezzato in ogni punto raggiungibile della propria pelle.
Dominik aveva una marea di capelli. Ma non in senso figurato: ne aveva davvero moltissimi: una matassa di spessi, liscissimi e intricati capelli biondi che gli ricopriva il capo, e nei quali non faceva che passare le mani. A lui piaceva immergerci le proprie, afferrarli tra le dita e strattonarlo un po’ quando faceva lo stronzo.
- Com’è andata oggi? –  chiese Federico quando il silenzio aveva iniziato a diventare noioso, la voce ancora un po’ rauca.  Dominik dapprima si strinse nelle spalle, poi, con un movimento quasi calcolato, scivolò mettendosi seduto, scorrendo fino ad accomodarsi proprio di fianco a lui: la sua mano gli scivolò sulla coscia con una leggerezza disarmante, ma senza malizia.
C’era una strana pericolosa e magnetica bellezza in quel gesto semplice, nel modo in cui le dita scorrevano sul tessuto dei suoi pantaloni con noncuranza, come se non fossero altro che un’estensione del pianoforte che avevano accarezzato fino a pochi istanti prima.
- Bene – rispose, la voce ferma e seria. - Oggi ho avuto la lezione orchestrale. I maestri dicono che non siamo ancora pronti, che non siamo amalgati. –
- Amalgamati – lo corresse Federico. Dominik arricciò il naso, infastidito per essere stato corretto.
- Ecco, amalgamati -  si corresse.
Fu in quel momento che accadde, proprio pochi istanti dopo averlo visto ridere sul divano, dopo averlo strappato alla musica afferrandolo per un braccio e averlo visto crollare con un tonfo sordo nel mondo terreno della fisicità.
Accadde che, probabilmente per la prima volta, Federico si rese conto di quanto Dominik fosse cambiato negli ultimi quattro mesi. Fu nel momento in cui lo vide passarsi distrattamente una mano sul viso, e ci vide una sicurezza nuova e più adulta, una sensualità sconosciuta che era certo di non aver mai notato prima.
Il modo in cui raccoglieva le gambe sul divano, in cui si passava la mano sugli occhi o si sollevava le maniche del maglione sulle braccia, non sembravano più i gesti di un bambino chiuso dentro una scatola, senza concezione del mondo: adesso Dominik sembrava inserito all’interno del mondo reale, come un abbellimento, una pennellata di colore, con una gestualità ancora acerba eppure più ipnotica. A pensarci a posteriori, si rese conto di aver notato quella differenza anche nei suoi discorsi, nel modo di affrontare le conversazioni, di rapportarsi alle persone.
Non avrebbe saputo descrivere esattamente come, ma qualcosa era cambiato, in modo impercettibile, un granello al giorno nei quattro mesi che avevano visto le loro strade incontrarsi.
E con quella consapevolezza, Federico avrebbe voluto baciarlo subito.
- Perché non dici niente? – lo chiamò Dominik, staccando la mano dalla sua gamba quasi contemporaneamente a Federico che gli passava un braccio intorno alle spalle.
- Ti stavo guardando – confessò.
- Perché? –
Federico gli si avvicinò a sorpresa al viso, quanto bastava per avvertire l’odore pastoso della sua pelle nelle narici, per sfiorargli lo zigomo con il naso e fargli sentire quanto fosse effettivamente vicino.
- Perché non mi baci? –
Lo vide arrossire quasi subito, a partire dalla serie di chiazze che gli si formò sul collo e che risalì verso le guance.
- Perché non mi baci tu? – gli rispose a tono, ma ancor prima di finire la frase era arrossito completamente, persino sulla punta del naso.
- Sei uno stronzetto, dovrei lasciarti qua sul divano da solo – lo minacciò Federico, ma aveva le labbra distese in un sorriso quando lo afferrò per la nuca, con una mano.  Quando lo baciò, le labbra di Dominik erano già dischiuse, in attesa di quel contatto, e la pelle del viso era ancora rovente per l’imbarazzo.
- Non lo fai  – lo prese in giro lui. Punto sul vivo, Federico gli morse il labbro inferiore, e il ragazzo scattò indietro immediatamente, ma giusto per un attimo, cedendo quando quel morso si trasformò in un umido risucchio.
- Sicuro? Adesso ti lascio qui e me ne vado – rispose, piccato, ma lasciò che le dita di Dominik gli scivolassero sulla nuca, e poi sul viso, a sfiorare la linea dello zigomo e della mandibola, fino a risalire ad accarezzargli i capelli. – Magari tra cinque minuti. -
 
§ § §
 
Quarantacinque minuti dopo erano ancora sul divano, e Federico lo stava ancora baciando, sul collo, e poi di lato, lungo la spalla.
Dominik avvertiva sulla schiena il calore bruciante del petto di Federico.
Si erano sistemati così, l’uno avvolto intorno all’altro, il ragazzo appoggiato con la schiena contro il divano, le gambe distese sui cuscini e lui incuneato lì in mezzo, stretto in un abbraccio tra le sue ginocchia. In quella posizione, avvinghiati a quel modo, aveva caldo, ma ogni tanto le labbra di Federico gli sfioravano la nuca, e i suoi capelli gli solleticavano il collo.
- Ho deciso, lascio perdere. Non fa per me. –
Dominik avvertì come un soffio di vento le dita di Federico che gli accarezzavano un fianco da sopra il maglione, con una dolcezza che cozzava terribilmente con il tono risoluto della sua voce.
- Secondo me non ti piace, ecco perché vuoi lasciar perdere. –
- Nah, l’università non fa per me. Non lo so, non riesco a starle dietro. – Dominik sorrise, ma dalla sua posizione Federico non riuscì sicuramente a vederlo.
Si stava crogiolando nel dubbio da più di mezz’ora, quando una telefonata di sua madre li aveva interrotti proprio nel bel mezzo di un bacio, chiedendogli se stesse mangiando, bofonchiando qualcosa a proposito del clima e della pioggia e infine tirando fuori l’argomento esami. Federico aveva borbottato qualcosa a proposito del 20 febbraio, forse del 27 e quando aveva attaccato il telefono era tornato a sedersi sul divano di pessimo umore. Era stato allora che avevano assunto quella posizione: Federico si era seduto, e poi lo aveva avvicinato, incastrandoselo tra le gambe. Dopo dieci minuti di silenzio aveva esordito con un “non arriverò mai a fare quell’esame, non ho studiato un cazzo”, e da lì in poi era stato un proseguo di contraddizioni tra la necessità di iniziare a studiare immediatamente e la consapevolezza di non averne proprio voglia. Solo dopo una ventina di minuti era approdato timidamente alla possibilità di abbandonare del tutto lo studio, pur nella consapevolezza che come minchia glielo dico ai miei. Aveva detto proprio così, con quell’intercalare dialettale e un po’ sgrammaticato e le vocali tutte aperte, così diverse da quelle dei milanesi che Dominik ancora faticava un po’ ad abituarcisi.
Che però pensasse che l’università non facesse per lui, Dominik non lo credeva assolutamente: Federico era fatto per essere qualcosa di più, per diventare una persona importante, e sì, anche per prendere una laurea, ma in qualcosa che gli permettesse di emergere, di tirare fuori la vita che aveva. Da quando lo conosceva, sin da quando aveva iniziato a parlare davvero con lui, Dominik era stato certo che a Federico quella facoltà non piacesse per niente, e che non sarebbe mai riuscito non solo a sostenere un esame, ma proprio ad aprire un libro: e non era colpa sua, ma le cose importanti, senza la passione, appassivano sempre.
- Non è l’università. E’ questa facoltà, l’hai detto tu che non ti piace. – Federico sbuffò, appoggiando la fronte contro la nuca dell’altro.
- Non lo so, una volta volevo fare architettura, ma poi ho lasciato perdere, e non mi va proprio di studiare per cinque anni e ritrovarmi a non fare un cazzo e continuare a lavorare in un bar – iniziò. – E poi come lo dico ai miei? Ci ho messo un anno per convincerli a farmi venire a studiare a Milano. Non appena sentiranno che voglio mollare l’università mi uccideranno – si lamentò. – E mi faranno tornare a casa. – Nel pronunciare quelle ultime parole, abbassò la voce di un tono, sfiorandolo sul collo con la punta del naso. Dominik reclinò il capo nel verso opposto, esponendosi ulteriormente, e Federico alla fine vi depositò un bacio. – Io non voglio tornare a casa – gli mormorò sulla pelle.
Avrebbe voluto alzarsi da quel divano.
La situazione gli stava sfuggendo di mano: faceva caldo, Federico era così vicino e lui non sapeva cosa dire o cosa fare. Avrebbe voluto ascoltare un po’ di musica, ecco.
Proprio nello stereo del salotto doveva essere rimasto uno dei CD che inseriva più spesso, quando era a casa da solo e voleva lasciarsi permeare da una musica che non fosse sua, ma che avesse la possibilità di affondargli nelle vene e permettergli di creare qualcosa.
Quando Federico era in casa, Dominik non faceva mai partire nessun CD.
La musica andava ascoltata in solitudine, nel silenzio, avrebbe dovuto colmare il pieno e il vuoto, e attraversare tutti i vasi sanguigni del corpo per arrivare fino alla testa.
Con Federico a casa, Dominik non riusciva a pensare: anche se lui stava in silenzio, lo lasciava suonare, andava a fare la doccia, comunque c’era, ed era impossibile anche solo pensare di esternarsi dal mondo per un po’.
Poi Federico faceva qualcosa: lo toccava, gli passava di fianco, sospirava. E lui precipitava di nuovo su quel divano, distratto, le orecchie tese a captare ogni suo movimento e una strana sensazione di prurito sotto la pelle, un fremito che lo spingeva sempre ad alzarsi in piedi e andargli vicino, anche solo per un attimo. Ma intanto, la musica aveva perso le sue fila.
Per questo, quando Federico era a casa, era sempre Dominik a suonargli qualcosa, e gli piaceva sentirlo seduto sul divano, ad ascoltarlo, attento.
Federico era in grado di riconoscere qualcosa, nella musica, anche se non sapeva mai cosa.
Ne captava un’essenza, un bagliore particolare, un passaggio, che gli faceva dire “questa è bella”, senza una spiegazione. A volte, alla sera, quando si esercitava, Dominik sceglieva sempre degli esercizi o dei brani che potessero far dire a Federico ehi, questa è cazzuta, perché avrebbe significato essere stato in grado di creare qualcosa che uscisse fuori dalla propria mente e abbracciasse anche quella degli altri.
Anche se Federico non era uno qualsiasi degli altri.
Federico riusciva a sentire la musica meglio di molte altre persone, anche se non ne capiva molto di virtuosismi e di esercizi. Solo che, quando era a casa, lo confondeva, ed era Dominik a perdere un po’ le fila e a non capirci più niente.
Come quella sera, in quel momento, imprigionato contro il suo corpo e vittima dei suoi baci.
Si sentiva come un gatto, intrappolato, nervoso, eppure così subdolamente imbrigliato tra le carezze del padrone che gli facevano fare le fusa.
- Non dici niente? – lo richiamò Federico, in risposta al suo silenzio. Dominik mosse la mano per cercare la sua: era poggiata sul suo ginocchio, e ci poggiò la propria subito sopra, in corrispondenza del dorso, avvertendo le sporgenze ossute delle nocche.
- Devi decidere tu – gli disse. – Tu meriti di diventare qualcuno che ti piace, non qualcuno che piace agli altri. Fai sempre tante cose per tutti, e devi fare anche qualcosa per te. – Accarezzò il dorso della mano di Federico con i polpastrelli, e lui la rigirò, esponendo il palmo: intrecciarono le dita quasi contemporaneamente, come in un gesto calcolato, provato e riprovato più volte. – E’ come con la musica, Federico. Non è solo suonare le note, ma ci devi mettere dentro te stesso, e qualcosa in più, per amalgamare tutto. Lo stesso succede con la tua università: puoi provare a studiare tutto quello che vuoi, ma non farai mai niente se non ti piace. Io suono il pianoforte: avrei potuto scegliere di studiare il violino, o il sassofono, o la chitarra, ma non sarebbe stata la stessa cosa. Nessun altro strumento avrebbe avuto lo stesso suono profondo, con nessuno avrei potuto costruire le cose. Nessun altro sarebbe stato mio – continuò. – Per te è lo stesso. Non è colpa dei tuoi genitori o dell’università, ma non è nemmeno colpa tua. –
Avrebbe voluto che lo capisse, che lo sentisse come lo sentiva lui: Federico era una delle poche persone buone che esistevano al mondo, e meritava di diventare qualcuno che gli sarebbe piaciuto ritrovare riflesso nello specchio, la mattina, qualcuno che gli avrebbe fatto pensare ecco, ce l’ho fatta. Era la stessa sensazione che inseguiva lui quando suonava al pianoforte e le orecchie iniziavano a riempirsi di musica: costruiva, sentiva, studiava, immaginava qualcosa di bello, che gli provocasse un fremito lungo la schiena, eppure si sentiva sempre con le braccia tese verso qualcosa che fosse ancora di più, qualcosa che gli facesse pensare di avercela fatta, di avere toccato il punto.
Federico sospirò, e il soffio caldo del suo respirò lo solleticò ad un orecchio.
- Sai, ogni tanto, oltre ad essere stronzo, sei anche saggio – lo prese in giro, stemperando l’atmosfera. Avrebbe voluto dargli uno schiaffo, ma aveva ancora una mano imprigionata tra le sue dita, e l’altra bloccata da un suo ginocchio, così che, quando il ragazzo chinò il capo per mordergli una guancia, non riuscì a spostarsi.
Poi, accadde in un attimo, e con naturalezza, che le braccia di Federico lo avvolgessero, a livello dei fianchi, e lo rigirassero in un modo tale da farlo finire sdraiato sul divano, con il suo corpo steso addosso e il capo poggiato sul petto, i capelli a solleticargli il naso.  Era come avere una coperta ad avvolgerlo, e fu per questo che Dominik lo lasciò fare, lasciò che lo spostasse, che lo rigirasse, che lo schiacciasse contro i cuscini del divano, imprigionandolo in un abbraccio quasi ancor più soffocante di prima. Sentiva che Federico aveva sollevato il capo, perché il suo respiro gli si infrangeva contro il naso, e le labbra, e il mento, e sapeva che, se si fosse spinto abbastanza oltre, avrebbe potuto baciarlo.
- Sei bellissimo, lo sai? – lo sentì dire, prima che ridacchiasse nervosamente. – E io sto diventando troppo sdolcinato. –
Dominik non lo trovava troppo sdolcinato. Si sentiva preda di quell’abbraccio, con la testa che un po’ girava, e ancora quella sensazione che ci fosse troppo caldo. Pensava che, se non fosse stato cieco, avrebbe chiuso gli occhi, per lasciarsi cullare dal buio e dare un ritmo al respiro di Federico che gli stava così vicino eppure così immobile, come se avesse paura di baciarlo.
Chiuse ugualmente gli occhi, abbassò le palpebre, e nel buio a cui era abituato non cambiò niente.
Eppure, c’era Federico, che era così vicino e non faceva niente.
Era così immobile da innervosirlo.
Nel buio, Dominik tese le mani verso l’alto, incontrando il capo di Federico: le mosse lungo la sua nuca, riconoscendo il bordo caldo del suo maglione. Poi, con un’intraprendenza che non possedeva, ci infilò sotto le dita, avvertendo sui polpastrelli la pelle bollente della schiena del ragazzo. Sotto quelle stesse dita, lo sentì appena sobbalzare, ma non sapeva se per la sorpresa, o perché avesse le mani un po’ fredde.
Dominik ricostruì nella propria mente il profilo delle spalle di Federico, la sporgenza ossuta di qualche vertebra proprio sotto la nuca, e poi il dorso, che si espandeva di lato, verso le spalle, e si allungava verso il basso, lungo la colonna vertebrale, in un percorso che non poteva seguire con le mani, ostacolato dal maglione.
Allora le labbra di Federico gli si poggiarono sul collo a sorpresa, in un bacio che si tramutò in un’umida carezza, calda per il respiro che vi fluiva attraverso.
Si sentiva racchiuso in quell’abbraccio quasi soffocante, la schiena schiacciata contro il divano, il petto premuto contro quello di Federico, il suo corpo avvolto attorno al proprio.
Nessuno dei due parlava, come se non avessero niente da dire: eppure, dentro il respiro di Federico Dominik percepiva qualcosa. Era lo stesso qualcosa che sentì dentro le sue mani quando gli si infilarono sotto il maglione e gli accarezzarono la pancia: sussultò, sorpreso, ritraendola appena, ma quelle continuarono il loro percorso, lungo i fianchi, sul petto. Si muovevano piano, eppure sembrava che strisciassero rapide come un serpente, sottraendogli l’aria.
Solo quando incontrò le labbra di Federico, Dominik avvertì che tutto fosse tornato in ordine: premette entrambe le mani ai lati del suo viso, riconoscendo la piacevole sensazione della barba di qualche giorno che gli faceva prudere i palmi. Lo baciava, e ci trovava dentro cose che conosceva, sentiva di camminare in un terreno sperimentato, anche se Federico era più vicino del solito e una delle sue mani gli scivolava lungo un fianco, direttamente a contatto con la pelle: la sentì sfiorarlo sulla pancia, intorno all’ombelico, in un complicato gioco di spirali disegnate con le dita, e poi scivolare lungo il bordo dei pantaloni. Sotto i pantaloni.
Trattenne il fiato nello stesso istante in cui il bottone usciva dall’asola e la zip scorreva con un rumore metallico, mentre il cuore continuava a rimbombargli nelle orecchie: si rese conto di essere pervaso da una lieve sensazione di nervosismo e di disagio, che gli fece venir voglia di alzarsi  e andare a letto, chiudere gli occhi e sprofondare nel terreno sicuro del sonno. Ma le labbra di Federico lo baciavano, lo sfioravano sul viso, sul mento, e la sua mano lo accarezzava attraverso i pantaloni sbottonati, e sui fianchi e sulle natiche.
Aveva una paura fottuta.
Pensò proprio a quelle due parole, che aveva sentito una volta in un film che aveva visto insieme a Federico, quando erano ancora solo amici, o forse neppure quello, e non gli si era mai avvicinato tanto. Allora non era riuscito a immaginare situazioni in grado di mettere tanto in difficoltà qualcuno, ma in quel momento non riusciva a pensare ad altro che a quello: alla paura fottuta. E a differenza di tutte le sensazioni che aveva provato prima, delle situazioni e delle persone che si era trovato ad incontrare e sulle quali aveva potuto esercitare un totale controllo, quello gli sfuggiva di mano.
Sentiva che le cose gli stavano sfuggendo tra le dita come se fossero fatte di fumo.
Tutto il suo mondo si era concentrato nel contatto delle mani di Federico, nel suo respiro contro il viso e nel battito sordo del cuore dritto dentro le orecchie: avrebbe voluto mettere tutto in pausa, eppure non riusciva a fermarlo.
Nel modo in cui le mani del ragazzo lo toccavano, Dominik riconosceva una strana tensione, la stessa che aveva sentito quando i loro visi erano così vicini e Federico non lo aveva baciato.
Lo toccava, e lo accarezzava, come se avesse paura di romperlo, un misto di desiderio e delicatezza, e lo metteva a disagio, e lo innervosiva la consapevolezza di non riuscire ad afferrare quelle sensazioni tra le dita e di sentirsi come una barca in balia delle onde durante una tempesta.
In balia di quel caotico insieme di novità, Dominik non riusciva a pensare ad altro che non fosse la pelle di Federico sotto al maglione: lo aveva toccato decine di volte, sul petto, sulla pancia, ma solo una volta lo aveva fatto in un modo simile a quello, quando si era trovato con il torace nudo contro quello di Federico e aveva sentito come i loro corpi non fossero poi così diversi. Spinse la mano in avanti, fino a toccare il bordo dei pantaloni dell’altro, riconoscendo una striscia di pelle lasciata libera dal maglione che, nel movimento, si era sollevato. Ci infilò le dita sotto senza pensare, intraprendente: toccò i fianchi, la schiena, poté finalmente percorrere in lunghezza l’avvallamento della colonna vertebrale come nei minuti precedenti non era riuscito a fare, e si fermò solo quando una carezza di Federico, più profonda delle altre, gli fece mancare un po’ il fiato. La mano scivolò in avanti, sulla pancia: avvertiva sotto i polpastrelli la peluria dell’addome, intorno all’ombelico,  ma allora il busto del ragazzo si allontanò, lasciandogli una momentanea spiacevole sensazione che ci fosse troppo freddo. Quando Federico gli tornò vicino, non indossava più il maglione, e fu proprio quando inconsapevolmente e istintivamente si mosse spingendo appena il bacino verso di lui che Dominik si sentì mancare il coraggio sotto i piedi, e le dita gli tremarono proprio a contatto con la pelle del ragazzo, quando provò a poggiargli una mano sul petto.
- Federico – lo chiamò istintivamente, come se si fosse perso in un labirinto, o al supermercato o chissà dove. Come se avesse bisogno di aiuto. Gli parve di non riconoscere l’inflessione nel respiro di Federico contro le sue labbra: c’era qualcosa di roco e di diverso in quel respiro, come se gli provenisse dalla parte più profonda del petto.
- Dom, che c’è? – sentì la voce chiamarlo, il tono un po’ interrogativo e un po’ disperato di chi è teso tra due possibilità e non sa che cosa dire. Lo lasciò andare, ma avvertiva un fremito impercettibile che gli percorreva le dita e le faceva tremare, e sperava che Federico non se ne accorgesse. Dischiuse le labbra in una sorta di muta richiesta d’aiuto, ma le mani estranee erano ancora così terribilmente vive sulla pelle.
- Non so che cosa devo fare – confessò alla fine, stremato, nervoso, eppure come ipnotizzato da quella vicinanza e da quel calore, e dalle mani, dal respiro, dal profumo di Federico.
Il bacio arrivò quando non se lo aspettava, mentre aveva ancora le labbra dischiuse in un misto di sorpresa e disagio: arrivò come un leggero strofinio di labbra, o un abbraccio. E proprio aggrappandosi a quel disagio, Dominik schiacciò i palmi delle mani sul viso di Federico, avvertendo la sporgenza degli zigomi e quella delle orbite e i capelli che gli solleticavano i polpastrelli. Lo sentì sospirare contro le sue labbra, mordendo quello inferiore in una leggera stretta tra i denti.
- Niente. – Un bacio. – Non devi fare niente. –  Un altro.  La voce così bassa e carezzevole che sembrava quasi un mormorio farfugliato, le parole indistinguibili l’una dall’altra. Con una mano, Federico gli accarezzò il viso, lungo l’attaccatura dei capelli, e poi lo zigomo, l’angolo della mandibola, finendo poi in una carezza sulle labbra. – Non ci pensare – aggiunse, ma con i polpastrelli gli sfiorava il labbro inferiore in una carezza diversa. Fu un gesto automatico, allora, quello di avvolgere una di quelle dita tra le labbra: la pelle aveva un sapore lievemente salato, e asciutto, e sull’unghia Dominik premette i denti. Federico chiuse istintivamente le altre dita sul suo viso, subito sotto la mandibola, a metà tra una carezza e una presa ferrea che gli fece mancare il fiato per la sorpresa e per qualcosa di indecifrabile all’altezza dello stomaco. - Che cazzo – lo sentì imprecare in un sussurro, mentre la presa sotto il viso si trasformava in una carezza sul collo, lungo il profilo della clavicola, il dito umido di saliva. Era come se ogni parte del suo corpo si stesse impegnando per carpire sensazioni e odori e suoni.
- Che c’è? –
- Niente. Mi piace. -  La voce di Federico, vicino ad un orecchio,  arrivò insieme ad un soffio di fiato senza che nessuna parte del suo viso lo stesse toccando, ed era stranamente bassa e ammorbidita, quasi una normale appendice della carezza che lo stava sfiorando. E come una normale appendice, Dominik tese il viso di lato, in direzione della voce, per cercare le labbra in un bacio.
Nella testa tutto aveva perso ordine: non c’era altro che un’accozzaglia di colori che si inseguivano, e si mescolavano, e bruciavano al di sotto dei bulbi oculari segnati dal buio.
Ma in tutto quel caos, Dominik riconobbe qualcosa. I capelli di Federico che gli solleticavano le dita erano verdi e splendenti, e freschi; le sue labbra umide erano azzurre come la pioggia scrosciante fuori dalla finestra. Le sue mani avevano preso i toni del rosso, e il suo corpo caldo era arancione come la coperta del suo letto, a Praga. La sensazione della sua pelle contro la propria, quando gli sfilò il maglione, era una pennellata di marrone sul torace, avvolgente e malinconica come l’autunno. E la sua voce: la sua voce era di un colore viola accattivante e avvolgente, che lo accarezzava al di là delle mani, e delle labbra e del corpo.
Se avesse dovuto suonare qualcosa, in quel momento, Federico sarebbe stato un allegro di Cajkovskij, caotico e disordinato, e colorato e difficile da suonare, che spezzava il fiato.
Non era bravo con il sesso e con le altre cose, ma era bravo con i colori, e quando tese le mani aggrappandosi ai fianchi di Federico immaginò di intrappolare una densa nube di arancione, e di rosso, e di verde e di azzurro, di affondarci le dita e di plasmarla come cera. Lo toccò sulla pancia, seguendo la linea verticale della peluria che lo portava fino al bordo dei pantaloni, ed erano come una rete di ferro che lo separava da tutto quel calore: e allora si insinuò in uno spazio per toccare direttamente la pelle di Federico, e la scoprì insieme ad un sussulto di sorpresa, e la trovò blu.
Blu come qualcosa di misterioso, come il cielo di notte.
Tutto era diventato colore, ma era anche vivo, carnale, aggrappato alla terra, fuso alla musica e al suo stesso essere, eppure così lontano da essa.
Chiuse gli occhi. Fece un respiro, poi un altro, con la bocca, per far entrare più aria.
I capelli di Federico tra le dita. Le sue labbra chiuse sul collo, in corrispondenza del pomo d’Adamo, come se succhiando, proprio lì, potesse strappargli qualcosa, qualcosa di blu, o forse di azzurro, o di un bianco splendente. La sorpresa del contatto, del dolore e delle carezze.
Sotto le dita, Federico diventava un corpo fatto solo di pelle, di carne e di ossa, di qualcosa di caldo che gli entrava dentro e lo divorava e allo stesso tempo si lasciava plasmare e baciare.
Nel buio, tutto era diventato rosso.
 
§ § §
 
La pelle di Dominik, sul petto, era chiara, e soffice, terribilmente morbida e liscia, se non per una lieve peluria vicino ai capezzoli rosei, bionda e chiarissima come quella che dall’ombelico costruiva una losanga che scendeva giù fino al pube.
Avrebbe voluto baciarlo in ogni singolo angolo di quella pelle di latte.
Federico aprì gli occhi, e allo stesso tempo spinse la mano alla sua sinistra: espirò quasi sollevato quando avvertì il calore del corpo di Dominik sdraiato di fianco a lui.
Sperava che fosse ancora notte.
Desiderava che fosse ancora notte. Avrebbe potuto svegliarlo, baciarlo su una spalla, accarezzarlo ancora e ancora. Ma quando si voltò dal lato opposto, vide la sveglia segnare le sette meno dieci. Ancora dieci minuti e avrebbe preso a trillare, acuta e insopportabile.
Ne approfittò per abbassare di nuovo le palpebre. Inspirò nel buio.
I ricordi della notte precedente tornarono vividi: il contatto caldo della pelle di Dominik, le sue mani impacciate eppure intraprendenti, il suo sapore, i capelli biondi attaccati alla fronte e soprattutto il proprio cuore. Federico lo aveva sentito battere all’interno del petto così velocemente che gli ricordò quasi quello di un neonato, o di un uccellino, o di una qualsiasi preda prima di essere mangiata dal leone.
Aveva fatto l’amore con Dominik.
Non ci credeva. Fino a quando non l’avesse detto ad alta voce non ci avrebbe creduto, sarebbe stato come un bel sogno, o qualcosa avvenuto in una dimensione parallela o in un futuro lontano.
Invece era successo.
Lo aveva toccato, baciato. Lo aveva spogliato: solo quello, l’averlo spogliato, gli aveva provocato le vertigini. Ma sostenere quello che era venuto dopo  - toccare la sua pelle, baciarlo, sentire i suoi sospiri - gli aveva fatto mancare il fiato.
Farci l’amore in generale gli aveva fatto mancare l’aria.
La sveglia iniziò a suonare proprio nel momento in cui il Federico della sua mente si chinava sulle labbra di Dominik, dischiuse per la sorpresa del contatto, mentre il suo corpo lo avvolgeva, sulle spalle, sui fianchi, e intorno al sesso.
Il Federico del mondo reale la spense con uno sbuffo scocciato.
Avrebbe tanto voluto restare a letto per il resto della mattina, e lui avrebbe anche potuto farlo, se Dominik non avesse avuto lezione al Conservatorio alle otto.
Avrebbe potuto svegliarlo con un bacio, ma sapeva benissimo che l’acuto trillo che aveva riempito la stanza aveva disturbato il suo sonno leggero. Nonostante quel piccolo intoppo, riuscì ad avvolgersi intorno al suo corpo, a cucchiaio, proprio mentre lui si stiracchiava e faceva per distendersi supino: lo intercettò, depositandogli un bacio sul collo.
- Buongiorno – gli mormorò.
Le labbra di Dominik si allargarono in un sorriso assonnato. Federico rimase a fissarle per qualche secondo. Aveva stampato in mente quel momento terribilmente erotico in cui quelle stesse labbra gli si erano chiuse intorno ad un dito, umide e rosee, e non aveva pensato ad altro che a farci l’amore e basta.
Il lieve mugolio di protesta che provenne dal ragazzo accanto a lui lo riportò alla realtà solo per un attimo, prima che lo sovrapponesse al ricordo di un verso simile, la sera prima,  mentre gli entrava dentro e Dominik distendeva le labbra in una O di sorpresa ma anche di quel dolore che lo aveva preso all’inizio e che Federico aveva acquietato con un bacio.
- Che ore sono? –
- Le sette. –
Un altro verso di insofferenza, poi Dominik fece per alzarsi, scostando le coperte: Federico lo afferrò appena in tempo per la manica del pigiama, riuscendo ugualmente a bloccarlo e farlo finire supino sul materasso, imprigionandolo con un braccio.
- Ehi ehi, dove vai? – lo rimproverò. – Dammi un bacio – lo pregò poi.
E nonostante la richiesta, nonostante avesse ricevuto quasi un ordine, seppur con quel tono di voce terribilmente implorante che a Federico era venuto fuori senza che se ne rendesse conto, Dominik lo baciò, premendo le labbra sulle sue.
Sembrava leggero quella mattina, con il suo solito pigiama e i capelli spettinati.
Federico si era aspettato che le cose sarebbero state strane, e particolari, e che le dinamiche all’interno di quella casa sarebbero cambiate.
Invece no.
Sembrava tutto così normale. Era come se si fossero svegliati in una mattina qualsiasi di un giorno qualsiasi: e in realtà era così. Avevano fatto l’amore, lo aveva toccato, lo aveva trascinato in quel mondo terreno e se ne era impossessato: ma non aveva fatto niente di straordinario, era successo e basta, come se fosse accaduto un milione di altre volte. E anche se nei movimenti di Dominik c’era stata tutta la sorpresa dell’affacciarsi ad un mondo sconosciuto, ed era stato strano guidarlo in quel modo, Federico pensò che non sarebbe potuta andare diversamente, o con più naturalezza. Eppure ci doveva essere qualcosa di diverso, un’inquietudine che potesse spiegare lo strano formicolio che sentiva nello stomaco.
Dominik sollevò una mano per accarezzarlo sul viso, e lui si voltò appena per baciargli il palmo.
- A che ora finisci oggi? –
- Alle sei. Ho la lezione del pomeriggio con la maestra. Non farà che rimproverarmi tutto il tempo perché non le piace un virtuosismo o perché non suono come dice lei. – Era tenero persino nel modo in cui, sbuffando, si lamentava della severità della sua insegnante. Federico non aveva più avuto il coraggio di chiedergli nulla a proposito di Rafael, della maestra o del Conservatorio, perché se lo avesse fatto avrebbero litigato, si sarebbe innervosito: e invece andava tutto così dannatamente bene che sembrava irreale.
Sfuggì alla mano di Dominik solo per chinarsi a baciargli il viso, proprio lì, all’angolo delle labbra.
- Oggi ho il turno serale, ma ti aspetto per cena – gli mormorò contro la pelle. – Suonerai tutta la sera? – Dominik si strinse nelle spalle.
- Sì. Mi serve. -
Avrebbe voluto chiederglielo. Avrebbe voluto che parlasse, che dicesse qualcosa su quello che era successo, su di loro  - perché, diamine, era stato bello -  ma non aveva il coraggio di dire nulla, e Dominik sembrava non ritenere importante parlarne.
Era semplicemente sempre lui, alle sette del mattino, già così sveglio e con in mente il programma esatto di come sarebbe andata la sua giornata. Ma era anche un po’ diverso, un po’ più morbido e lento, più terreno. Era come se tutte le paranoie che li avevano tenuti lontani fino a quel momento, sul versante fisico, non fossero mai appartenute a lui, ma a Federico stesso, che adesso sentiva lo stomaco contorcersi dal nervosismo: Dominik no.
Dominik era una pennellata di colore nel primo mattino, come se i suoi diciotto anni, il loro incontro, le loro discussioni e la loro diversità fossero serviti esclusivamente a portarli lì, a fare l’amore su quel divano, il naturale vertice di un percorso già segnato. Allora pensò che non sarebbe stato lui a parlare, ad analizzare e scindere e sezionare ogni particolare e ogni parola: avrebbe lasciato le cose correre così, con la freschezza delle labbra di Dominik sulla pelle e la leggerezza dei suoi capelli spettinati alle sette del mattino. Perché di Dominik aveva imparato poche cose, e tutte portavano ad una sola conclusione: lui non parlava. Agiva, suonava, rifletteva e studiava, ma non parlava: non ne trovava il motivo. Così non avrebbe mai parlato a voce alta di Rafael, della maestra, dell’omosessualità, della cecità, della confessione a sua madre, e nemmeno del sesso. Era accaduto, lo aveva assorbito, e lo avrebbe reso in musica. Ma non avrebbe parlato.
- Dovresti alzarti. Ti farò fare tardi – disse Federico, ma aveva ancora le labbra contro la pelle di Dominik, a sfiorargli il viso, lungo la mandibola verso l’orecchio, e se lo avesse baciato proprio lì, sotto al lobo, lo avrebbe fatto tremare appena. Dal movimento del suo viso, capì che stava sorridendo.
- Lo so. -
Dominik calciò via le coperte dalle gambe, sfuggendo alla sua presa per mettersi seduto: quel pigiama un po’ vecchiotto che indossava, e del tutto sformato, lo avvolgeva come una coperta, rendendolo goffo nei movimenti. Federico ricordò il momento in cui, la sera prima, ancora nudi sul divano, gli aveva proposto di andare a letto: la prima cosa a cui aveva pensato in quel momento, Dominik, era stata quella di indossare il pigiama, perché dormire nudo, a contatto con lui, lo aveva già fatto arrossire e gli aveva fatto tremare le dita.
Le aveva baciate una ad una, quelle dita, e gli pareva ancora di sentire il loro lieve sfiorare sulla spalla per quanto tremavano, quando Dominik lo aveva accarezzato. Adesso erano poggiate sul materasso, mentre il loro proprietario si stiracchiava, cercando con i piedi le ciabatte sul pavimento. Federico lo afferrò per un braccio a tradimento, e per la sorpresa il corpo del ragazzo scivolò indietro, di nuovo sdraiato.
- No, dai, resta altri cinque minuti. -



(1) Il titolo è un verso della poesia di Fried "Come ti si dovrebbe baciare".
(2) L'immagine scelta mi piaceva. Se dovesse dare fastidio a qualcuno, o se dovesse andare contro il regolamento (anche se non si vedono parti intime e cose oscene) informatemi e la rimuoverò.

Nota al capitolo 40: Aaaaawwww finalmente sono tornata! *.*
Non so quanti di voi ritroverò dopo la mia lunga assenza, ma mando un bacio a tutti: ho letto i messaggi che mi avete inviato in privato, a qualcuno ho risposto e a qualcuno forse no perchè in quel momento studiavo, ma provvederò, non me ne vogliate. Dopo tutti questi mesi cosa dire? Dominik e Federico li ritroviamo dove li avevamo lasciati. Io, intanto, sono andata avanti: mi sono dedicata allo sport, ho perso cinque chili, ho cambiato colore di capelli e mi mancano solo 14 materie alla laurea. 
Non mi sembra vero di essere riuscita a finire di scrivere questo capitolo, che, anche se si avvicina a come lo volevo, non è ancora perfetto: non escludo una prossima revisione.
Forse lo avevate capito, essendo io fissata con le decine, che questo capitolo 40 avrebbe fatto il botto, e quale botto migliore, FINALMENTE, del povero Federico che scarica la sua tensione e di Dominik che entra a far parte del mondo di noi poveri mortali? Io li amo, e li ho amati anche in questo capitolo, così impacciati e sdolcinati e idioti e imbambolati: non so, la loro prima volta non me la sarei immaginata che così (o giù di lì); niente orgasmi paurosi o posizioni da circo. Essendo il rating arancione, ovviamente, non ho approfondito la narrazione: e poi, non so, ma mi piaceva l'idea di immergermi nella mente di Dominik e nel suo punto di vista. Come per Samuele e Mattia, non escludo di dedicare una one-shot a questa nottata, dal punto di vista di Federico.
Non mi resta che lasciarvi e ringraziarvi tutti per la pazienza e il sostegno. Siamo arrivati a 299 recensioni ( o.O ), ma soprattutto, al di là del numero, sono bellissime le vostre parole, non solo qui ma anche su facebook.
Ne approfitto per ricordarvi che mi trovate lì per ogni domanda o aggiornamento (leggo i messaggi più facilmente lì che non qui su efp), e per rispondere ad una domanda che mi è stata fatta spesso, visto che non aggiornavo da un sacco: 
Non lascerò questa storia a metà, nè l'ho interrotta.
Ci metto un po' ad aggiornare in base agli esami e agli impegni, ma non la 
lascerò mai incompiuta, fosse l'ultima cosa che faccio.
Loro sono i miei personaggi, e si meritano un finale che
anche se nella mia mente già ho, non ho ancora scritto.
E voi siete i miei lettori, e anche a voi devo questo finale.
Grazie a tutti ancora, risponderò alle recensioni non appena i miei esami me lo permetteranno, ma vi leggo sempre e vi adoro. 
A presto
Esse
 
 

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Capitolo 46
*** Stralcio IV: Verità ***



Si può sopportare qualsiasi verità, per quanto distruttrice sia, purché surroghi tutto,
e abbia la stessa vitalità della speranza alla quale si è sostituita.

Emil Cioran, L'inconveniente di essere nati, 1973




Stralcio IV: Verità
 
Il soffitto era bianco.
Nell’angolo a destra, da sempre, c’era quella macchia verdognola di umidità.
Si era ripromesso decine di volte di comprare un po’ di vernice e di tinteggiare il tetto, magari in primavera, quando il sole avrebbe fatto comparsa un po’ più spesso nel cielo e aprendo le finestre avrebbe avvertito un poco di tepore penetrare all’interno.
Per un motivo o per un altro non l’aveva mai fatto.
Era rimasto ancorato a quella macchia di umidità come se rappresentasse un porto sicuro, una costante della propria vita: come se cancellarla, andare avanti, avrebbe significato tradire qualcosa, dire addio ad una parte della sua vita.
Il cambiamento gli faceva paura.
Samuele inspirò. Sentì l’aria umida e aspra di pioggia bruciargli le narici.
Aveva freddo, ma non voleva chiudere la finestra, perché se l’avesse fatto si sarebbe sentito soffocare dal senso di colpa.
Erano passati due giorni e due notti, esattamente: due giorni e due notti in cui aveva smesso anche solo di respirare. Due giorni e due notti che non rispondeva al telefono, che non parlava con nessuno. Non era andato a lavorare, inventando una brutta influenza. Non aveva risposto alle telefonate di Federico.
Non aveva chiamato Mattia.
Non aveva risposto al telefono, né ai suoi sms.
Barista, oggi lavori?
Nessuna risposta.
Sono passato al locale, ho saputo che sei malato. Vengo a prepararti il brodo di pollo? ;-)
Ancora silenzio.
Fai pure, continua a ignorarmi.
Quello non l’aveva neppure letto.
Samuele che cazzo fai? Credevo avessimo deciso che non era successo niente. Chiamami.
Avrebbe voluto dissolversi. Ecco, semplicemente.
Avrebbe tanto desiderato che il terreno gli si aprisse sotto i piedi all’improvviso e lo avvolgesse, richiudendosi sopra di lui senza lasciare nessuna traccia.
Sparire, e non essere cercato.
Sparire, e dimenticare le mani di Mattia, gli occhi di Mattia, le labbra di Mattia.
Dimenticare la notte con Mattia.
Dimenticare Mattia, non ricordare di averlo conosciuto.
Rimettersi in carreggiata, aspettare Riccardo, amarlo, coltivare la speranza di averlo un giorno per sé. Soffrire un po’ e risanare le ferite nelle notti clandestine con il suo compagno accanto.
Invece stava bruciando. C’era il senso di colpa al centro del petto che bruciava come un tizzone ardente, e lo consumava, e gli faceva mancare l’aria e il coraggio di affrontare il mondo, di rispondere alle telefonate di Mattia, di incontrare Federico. Si vergognava persino alla sola idea di andare a lavoro, come se avesse una lettera scarlatta appuntata al maglione e tutti avrebbero potuto leggerci sopra che schifo di persona era.
Si sentiva un codardo, e un traditore. Ecco, entrambe le cose. Un traditore così codardo da non riuscire a fare nulla. Confessare la verità o a fare finta di nulla, ma almeno prendere una decisione.
Espirò. Gli pareva di non espirare da mezz’ora.
Forse aveva semplicemente smesso di respirare.
Chiudeva gli occhi e vedeva Mattia.
Abbiamo fatto sesso, ma la cosa si chiude qua. Tu continuerai a essere Samuele, e io continuerò a essere me.
Li apriva e vedeva Riccardo.
Lo so che non posso essere un vero compagno per te, che meriteresti di meglio, e io voglio dartelo. Dammi solo del tempo, Samuele. Un po’ di tempo e metterò le cose a posto. Non ti farò mai più mancare nulla. Ma tu non lasciarmi adesso: puoi fare quello che vuoi, vedere persone, fare sesso, andare a ballare, a bere, quello che vuoi. Ma non lasciarmi.
Non era un traditore. Ecco, Riccardo gli aveva quasi dato il permesso.
Allora perché avvertiva quel magone al centro del petto che lo faceva sentire spregevole?
Samuele si prese la testa tra le mani: credeva che sarebbe esplosa proprio lì, tra le sue dita.
Non riusciva a uscirne: non riusciva a smettere di pensare alla notte con Mattia, a quanto era stato bene. E a quanto si era sentito un verme, dopo.
Mattia era un universo parallelo governato da leggi della fisica incomprensibili. Non riusciva a inquadrarlo, ad afferrarlo. Gli scivolava tra le dita tutte le volte che credeva di averlo finalmente intrappolato. C’era stato un momento, durante quella notte che avevano trascorso insieme, in cui lo aveva guardato negli occhi e aveva pensato sul serio che le cose sarebbero potute andare nel verso giusto, che con uno come Mattia avrebbe potuto uscirci insieme, trascorrerci le serate, le estati. La vita. Era stato forse per il modo in cui lo aveva guardato. E anche dopo, quando si erano trovati sdraiati di fianco, sul letto, Samuele aveva avvertito ancora un legame con lui, nella semplicità con cui lo aveva chiamato. Sono le tre del mattino, Samuele. Si era sentito complice, parte di qualcosa che non avrebbe dovuto comprimere in un breve arco di tempo.
E poi Mattia lo aveva sventrato, gli aveva infilato una mano al centro del petto e gli aveva strappato via tutto: si erano fatti male a vicenda, avevano urlato, aveva anche immaginato di poterlo colpire più volte con forza, strappargli quel sorriso e quei dannatissimi occhi dalla faccia.
Abbiamo fatto sesso, ma la cosa si chiude qua.
Il corpo di Mattia, e anche la sua anima, che gli era parso finalmente di aver afferrato, gli erano scivolate via dalle mani come se fossero fatti di acqua.
Si era ritrovato solo, con un tizzone ardente nel petto e il senso di colpa che gli chiudeva la gola.
Devo andare, Samuele. Ne parliamo domani. 
Il domani non era arrivato: aveva ignorato le sue chiamate, e i suoi sms.
In realtà, non aveva avuto nulla da dirgli: lo aveva richiamato, quando era ancora sulle scale, perché sperava di tirare fuori il coraggio di chiedergli di restare a dormire, di fare un passo avanti, solo uno. Cambiare le cose.
Ma il cambiamento gli faceva paura.
Così lo aveva lasciato andare, chiudendo la porta alle sue spalle.
Il suono del citofono lo fece sobbalzare: con un movimento automatico, si alzò immediatamente dal divano del salotto e corse ad aprire. A Riccardo non piaceva aspettare di sotto, qualcuno avrebbe potuto vederlo. Al solo pensiero di quell’inutile paura, Samuele avvertì un crampo allo stomaco, a metà tra la delusione e il panico.
Riccardo lo aveva chiamato lui quella mattina, pregandolo letteralmente di raggiungerlo per pranzo.
Non aveva chiuso occhi tutta la notte, perché, tutte le volte che provava ad addormentarsi, gli sembrava di annegare e non avere più aria a disposizione. Rivedeva Mattia, e Riccardo, e se stesso che girava come una trottola in balia della sua stessa vita. Risentiva la propria voce, i suoi rimproveri a quel compagno assente, le sue ragioni e i loro baci, e quando ormai il sole era sorto ad illuminare i palazzi grigi di Milano, Samuele era giunto alla conclusione che glielo avrebbe detto. Sì, gli avrebbe confessato di essere stato a letto con Mattia, ma che fosse stato solo sesso, un’attrazione fisica data dall’astinenza, ma che non sarebbe accaduto mai più, perché non faceva per lui, e avrebbe preferito aspettare il suo uomo, con le sue assenze, pur di sentirsi a quel modo.
Si era preparato persino un bel discorso. Si sarebbe sentito meglio, e tutto sarebbe tornato a posto.
Due minuti dopo che il citofono aveva trillato, Riccardo apparve sulla porta. Così bello ed elegante con il suo bel cappotto e l’ombrello ben chiuso appeso ad un braccio. Non stava sorridendo, come faceva di solito: aveva addosso una sorta di espressione apprensiva che accentuava le rughe sulla sua fronte.
- Ciao – riuscì solo a dire Samuele, facendosi da parte sulla porta. L’uomo entrò, poggiando all’ingresso l’ombrello e la costosa ventiquattrore che gli aveva regalato sua moglie in occasione dell’ultimo Natale. Non riusciva a toglierle gli occhi di dosso, come se invece della valigetta Riccardo gli avesse portato in casa la moglie in persona.
- E successo qualcosa? – Distolse lo sguardo, puntandolo su Riccardo: si stava sfilando il cappotto. Sotto portava un bel completo scuro, e una cravatta sui toni del rosso. Samuele ci poggiò sopra le dita, per allentarla: lo faceva sempre, ma questa volta le vide tremare così tanto da costringersi ad afferrare la cravatta e quasi aggrapparcisi.
- Non mi dai un bacio? – chiese a voce bassa. Riccardo lo baciò sorridendo contro le sue labbra.
- E’ per questo che mi hai chiamato con tanta urgenza, per convincermi a venire – lo prese in giro, e ad ogni parola le loro labbra si sfioravano un po’ di più. – Mi sei mancato. -
Samuele sentì la morsa allo stomaco stringersi e soffocarlo, sottrargli l’aria e fargli venir voglia di crollare in ginocchio. Invece, si aggrappò alle spalle di Riccardo e gli dischiuse le labbra, per intrappolarlo in un bacio e divorarlo, trovarci dentro qualcosa, sapere di avere un’ancora a cui aggrapparsi.  Riccardo rispose  a quella furia, e parve davvero che non fosse successo nulla, che non fossero trascorsi gli anni, che tutto andasse bene. Fino a quando non si separarono.
- Fammi almeno togliere la giacca – borbottò Riccardo, a tratti divertito. Samuele lo lasciò andare, sorridendo in modo morbido: lo aveva spettinato, e gli aveva fatto scivolare gli occhiali di lato, sul naso, dandogli un’aria meno seria. Distolse subito lo sguardo però, perché guardarlo troppo a lungo gli provocava un brivido spiacevole lungo la schiena.
Avrebbe voluto farci l’amore subito.
Non pranzare, non parlare.
Fare l’amore e basta.
- Vuoi pranzare? – chiese invece, cercando di mantenere la voce quanto più ferma possibile e voltandosi per raggiungere la cucina.
- Ho soltanto due ore libere, è meglio di sì – rispose l’altro, raggiungendolo alle spalle e circondandolo all’altezza dei fianchi. Quando le sue labbra gli sfiorarono l’orecchio, Samuele espirò tra le labbra. – Dopo pranzo ho voglia di riposare a letto. Che dici? –
Samuele annuì, scivolando via dalla sua presa per aggrapparsi al frigorifero. Non aveva fame, o voglia di mangiare: non sopportava più nemmeno di vederlo così allegro e leggero quando lui aveva un peso sullo stomaco che lo avrebbe fatto sprofondare sul fondo dell’oceano.
Riccardo si sedette al lato corto del tavolo, poggiandoci sopra lo smartphone.
La sua immagine si sovrappose a quella di Mattia, seduto sulla stessa sedia, le braccia tese in avanti sul tavolo e lo sguardo stanco perso in chissà quali pensieri.
- Te l’hanno mai fatto, quel giochino di esprimere un desiderio mentre spegnevi la candelina ad occhi chiusi? –
- Sì. Ma non se ne è mai avverato nessuno.  L’hai fatto anche tu? –
- Nah, mio padre non è uno che crede ai desideri. Se dovessi farlo adesso, cosa desidereresti?  -

Morire. Ecco quale sarebbe stata la risposta.
 - Ti è mai venuta voglia di lasciare un segno nel mondo?  Essere ricordato da qualcuno, valere più dell’uomo che sei. –
Pochi minuti dopo quella conversazione, si stavano baciando in corridoio.
Poco prima, Samuele avvertiva sotto la pelle la necessità di non lasciarlo andare, di non farlo uscire da quella casa chiudendosi la porta alle spalle e lasciandolo solo.
- Cos’hai cucinato? – La voce di Riccardo riempì la cucina: Samuele si voltò di scatto, con un tuffo al cuore, come se quello avesse potuto vedere quali pensieri gli si agitassero nella mente. Invece, Riccardo stava controllando qualcosa sul suo cellulare, il gomito distrattamente poggiato sullo schienale della sedia.
- Pasta. Ti va? – farfugliò. In verità non ci aveva pensato: lo aveva invitato a pranzo, ma non aveva idea di cosa avrebbero mangiato, perché non gli importava molto mangiare. Avrebbe tirato fuori una confezione di ragù comprata al supermercato.
- Andrà benissimo. Ho passato tutta la mattina dietro la scrivania, per risolvere un caso. Ho un cliente che non fa altro che fare stronzate – iniziò l’altro. – Per non parlare del mio praticante: un perfetto idiota, ma è il figlio di Bonfanti, non potevo dirgli di no.  -
Sentire Riccardo parlare della sua giornata era confortante. Lo faceva sentire parte di qualcosa, di una famiglia, di un’unità. Trovarsi nella sua cucina, a metter su l’acqua per la pasta, a scegliere tra tagliatelle e bucatini mentre lui si lamentava giusto quel tanto che bastava dopo una mattinata di lavoro, era come vivere insieme un qualsiasi giorno di una qualsiasi vita normale.
Essere una persona normale.
Samuele fissò per un po’ la superficie ancora liscia dell’acqua sul fuoco: avevano iniziato a formarsi delle piccole bollicine sul fondo già caldo.
- Il tuo uomo ha una moglie. -
- Spero solo che il Bonfanti si renda conto dell’incapacità di suo figlio prima degli altri. Non voglio fare brutte figure. –
 - Avevo un professore, all’università, fissato con queste cose.  Ed era fermamente convinto che in natura, e anche tra gli esseri umani, ci fossero sempre quegli esseri difettosi, incapaci di evolversi e di distinguere tra il meglio e il peggio, per loro. –
- Ah, quasi dimenticavo! Ho un convegno a Torino tra due settimane. Riesci a liberarti? -
 - Non mi prenderò la responsabilità di questa notte anche per te! -
- Dobbiamo parlare. –
Gli parve di averlo detto così forte da sentire la voce rimbombare nella stanza.
Probabilmente fu per il silenzio che cadde subito dopo: Riccardo aveva smesso di parlare, lui di respirare. L’unico suono era il lieve gorgoglio dell’acqua sul fuoco che iniziava a ribollire.
Riccardo aveva poggiato il telefono sul tavolo, la sua espressione si era fatta seria.
- Dimmi – disse soltanto, secco.
Avrebbe voluto baciarlo: prendergli il viso tra le mani e depositargli un bacio su tutto il viso, strappargli la pelle, aggrapparsi alle sue spalle e chiedergli di spegnere tutto quel fuoco, di alleviare il suo senso di colpa. Invece, lentamente, Samuele scostò una sedia e vi si sedette. Si sentiva soffocare, e l’immagine di se stesso a quel tavolo con Mattia lo tormentava.
Gli pareva di rivederlo seduto lì in quelle sere in cui era andato a trovarlo, a bere un bicchiere di vino rosso, un caffè, o una tazza di tè come l’ultima volta, e scherzare, fare qualche battuta. Se si fosse concentrato, lo avrebbe rivisto sulla soglia della cucina con i suoi vestiti addosso, ad asciugarsi i capelli dopo un giorno di pioggia. Mattia si era insinuato nella sua vita come una piacevole quotidianità, quasi subdolamente, affondando gli artigli nelle sue mancanze. Lo aveva fatto sentire più caldo, e più vivo, più leggero, ma in una notte era riuscito a farlo sprofondare nel senso di colpa.
Trovandosi di fronte Riccardo, in quel momento, e solo per un attimo, pensò che sarebbe potuto essere facile. Liquidarla come una sola notte: milioni di volte lo stesso Riccardo lo aveva quasi spinto nelle braccia di uno sconosciuto, per sfogare l’astinenza fisica, ma lui non era mai stato un tipo come quello. Fino a quando Mattia non era piombato nella sua vita a portare solo caos.
Sarebbe andato tutto bene. Non sarebbe più successo, sarebbe stata solo una parentesi, e a Riccardo avrebbe detto la verità: che aveva avuto la conferma che quello stile di vita non facesse per lui, che si sentiva in colpa, e che lo amava. Si sarebbe sentito meglio.
Si sentiva già più leggero prima ancora di aver parlato, perché era lì davanti a lui e gli occhi di Riccardo lo guardavano apprensivi e curiosi. Samuele deglutì, per prendere coraggio.
- E’ successo che… - iniziò. No, non andava bene. Prese di nuovo fiato. - Ultimamente ci sei stato poco. Non ti ho visto, non ti ho nemmeno sentito…mi sei mancato. Mi è mancata la quotidianità, tu come persona. Tutto, mi è mancato tutto. – Gli occhi di Riccardo parevano quasi addolcirsi, e gli infondevano coraggio: avrebbe anche potuto tendere una mano in avanti, verso la sua, e toccare la pelle calda e soffice. Fece un altro respiro profondo. – Ho avuto una debolezza, Riccardo, solo una. Ma mi sento uno schifo, non lo sopporto e non…non ce la faccio, non succederà più, davvero. – Stava farfugliando, adesso. Dirlo ad alta voce, nonostante fosse fiducioso e più sereno, lo aveva reso più squallido, e gli aveva creato una piccola nota di panico, proprio al centro del petto. Si sentiva più leggero, però, dopo aver confessato la verità, pronto a ritornare ad amare e a vivere come la persona che era sempre stata. Eppure, la goccia di panico iniziò ad allargarsi come un lago quando Riccardo lo apostrofò.
- Fammi capire, sei andato a letto con un altro? E’ questo che mi stai dicendo? – Samuele si irrigidì sulla sedia, il lago di panico che si trasformava in un mare in tempesta, spazzando via i pochi barlumi di fiduciosa speranza che gli erano rimasti. – Samuele! Sei andato a letto con un altro?! –
Da bambino aveva avuto un pesce rosso che gli aveva tenuto compagnia per sette anni. Se ne stava sempre lì, a rigirare nella sua boccia, sulla scrivania della sua cameretta. Era sempre uguale, e trasmetteva calma: nuotava tranquillo in quello spazio ristretto, con una tale calma da sembrare quasi libero nel mare. Poi, un giorno, quando faceva la quinta elementare, era salito sulla sedia per prendere il sussidiario dalla mensola più alta della libreria: accidentalmente aveva tirato giù anche il libro di matematica, che era scivolato, cadendo proprio sopra la bella boccia di vetro del suo pesciolino rosso, che andò a finire per terra, in frantumi. Samuele era rimasto sulla sedia, in piedi, il sussidiario tra le mani, e aveva iniziato a urlare, perché il pesciolino rosso era sul pavimento, si agitava e boccheggiava, gli occhi vuoti spalancati sulla morte imminente.
Lui, in quel momento, si sentiva così, come se una calamità naturale gli fosse piombata addosso e avesse distrutto la sua vita, e lui non riusciva a fare altro che restarle davanti, con gli occhi spalancati, a urlare, in attesa che qualcuno o qualcosa intervenisse. Da bambino, sua madre era entrata nella stanza e aveva raccolto il pesciolino: gli avevano comprato una boccia nuova, e aveva vissuto per altri due anni. Ma adesso, di fronte a quello sfacelo, non sarebbe intervenuto nessuno.
- Samuele, porca puttana! – La voce di Riccardo rimbombava, si abbatteva sulle pareti e gli sembrava quasi di sentirle vibrare, come se fossero fatte di cartapesta.
- E’ stata solo una cosa fisica, non contava niente! – cercò di difendersi. Baciami, Mattia, dai. Voleva morire, sprofondare, dissolversi nel nulla, purché finisse. Si alzò in piedi, perché gli sembrava di ottenere più forza, di essere più stabile, più imponente: gli sembrava di non disgregarsi sotto alle urla. – L’hai detto sempre anche tu che non importava, è stato solo sesso! Tu non c’eri, mi sentivo solo, e ne avevo voglia e… - Più parlava, più si rendeva conto di quanto fossero squallide le parole che gli venivano fuori, e di quanto avrebbe voluto cadere in ginocchio e piangere, e dire che non sapeva cosa gli fosse successo, che gli era piaciuto, che si era sentito desiderato, ma che amava lui e lui soltanto. – L’hai detto sempre tu che il sesso non ha niente a che fare con noi, che non avrebbe cambiato le cose ma che magari mi sarebbe servito per andare avanti! – Stava cercando di farlo parlare, ma la verità era che non aveva idea di che cosa stesse dicendo lui stesso: stava cercando di giustificarsi, farfugliava, tirava fuori argomentazioni squallide, e non sapeva cosa avesse rappresentato quella notte con Mattia.
- Non me ne fotte un cazzo che fai sesso, ma non venirmelo a dire! – Il pugno di Riccardo si abbatté sulla superficie del tavolo: non abbastanza forte da romperlo, o da fargli male, ma quanto bastava affinché il rumore gli provocasse una crepa nel petto. Sembrava furioso, come raramente lo aveva visto: si portava le mani tra i capelli, aveva tolto gli occhiali e allentato la cravatta. Si muoveva così freneticamente che la camicia stava venendo fuori dai pantaloni. – Ma ti rendi conto?! Hai fatto sesso con un altro e me lo vieni a dire? Cosa vuoi, la mia benedizione? Vuoi che ti dica che sei stato bravo? O forse che mi senta in colpa, che mi dispiaccia di non essere stato molto presente e di averti buttato tra le braccia di un altro? O forse ti fa sentire meglio avermelo detto, ti fa sentire una persona migliore! Eh, Samuele? Dimmelo! Perché cazzo me lo hai detto?! –
Samuele si sedette,  chinando il capo verso il tavolo, premendosi le mani sul viso e lasciandosi avvolgere dal buio. Aveva pensato che si sarebbe sentito meglio, che sarebbe stato corretto e sincero, che tutto sarebbe andato bene: aveva pensato tante cose, eppure avrebbe voluto stare zitto e basta.
- Ti ho detto di fare quello che cazzo vuoi, ma non voglio saperne niente, è chiaro? Non devi venirmi a schiaffare in faccia chi o quanti te ne sei sbattuto! -
- E’ questo il problema? Che te l’ho detto? - Samuele batté i pugni sul tavolo all’improvviso, e avrebbe voluto davvero che si spaccasse e franasse sul pavimento. –  Ti senti con la coscienza pulita per avermi dato il permesso di fare sesso quando non ci sei, chissà con chi o con quanti, ma l’importante è che non te lo venga a dire?! – gli urlò contro.
- Voglio che tu sia felice, d’accordo? Mi rinfacci sempre che ti faccio mancare milioni di cose, che non ci sono mai, che sto sempre fuori. Almeno il sesso goditelo! E’ solo sesso, è solo un corpo! Però, cazzo, Samuele, non venirmelo a dire! Ti piacerebbe se io lo facessi con te?! -
Samuele sentì che, da qualche parte, qualcosa si spaccava.
Un pezzo della sua vita, o forse un pezzo del suo corpo.
Era diventato una persona che non gli piaceva essere: saltava il lavoro, rifiutava gli inviti degli amici, tradiva il suo compagno, litigava con chiunque e annullava la propria vita per un uomo.
Non era una persona così, non lo era mai stato fino a quando non aveva dovuto adeguare la propria vita a quella di Riccardo: e più passava il tempo, più trascorrevano gli anni, più Samuele non si riconosceva, pezzo per pezzo. Fino a pochi mesi prima avrebbe giudicato impossibile tradire Riccardo, cadere nella trappola di una vita normale e lasciar credere a se stesso di essere quasi nel giusto, che fosse una cosa normale, perché, come aveva detto Riccardo, sarebbe stato solo sesso, un momento di puro appagamento fisico per sopportare meglio l’assenza del suo compagno.
Ma quella non era una cosa normale: la gente viveva lontana, non si vedeva per settimane, eppure stava sempre lì, non tradiva, perché anche solo moralmente era presente. Riccardo, invece, lo stava consumando, perché quando non era fisicamente, semplicemente non c’era.
Cessava di esistere. E lui era solo, in balia di se stesso.
Non c’erano giustificazioni alla sua notte con Mattia, e al suo tradimento.
Era un tradimento a tutti gli effetti, e lui era una persona di merda.
Ma paradossalmente, l’unica persona che lo stava giustificano era proprio Riccardo. Riccardo che lo metteva alla gogna per la colpa di avergli confessato di quella notte, ma non per quella di averla fatta accadere. Era un mondo che girava al contrario.
- Ma tu mi ami, Riccardo? Sul serio, tu mi ami? – gli chiese. Riccardo lo guardò corrucciato.
- Lo sai che è così. –
- Lo so?  Io non credo. Perché se tu mi amassi, non mi diresti di andare a letto con degli sconosciuti, e dovresti arrabbiarti perché ho fatto sesso con un tizio, non perché te l’ho confessato! –
Riccardo si passò le mani sul viso, in un gesto che tradiva esasperazione.
- Sto cercando, per quanto possibile, di non farti mancare niente, Samuele. Ci sto provando. E sono pronto ad accettare che tu vada a letto con altri, quando ne hai il bisogno fisico o quando ti manca, quando pensi che non valga più la pena aspettarmi…purchè tu abbia la pazienza di aspettare. –
- Non sarebbe l’astinenza dal sesso a farmi prendere la decisione di lasciarti – gli disse chiaramente. Ci sarebbero stati milioni di altri motivi per lasciare Riccardo, riprendersi la sua vita e smetterla di lasciargliela modellare come creta. Ma c’erano milioni di altri motivi per cui non riusciva a farlo, per cui si teneva ancorato a lui, nonostante la delusione, la rabbia, lo squallore che lo avvolgeva. Riccardo si inginocchiò di fronte a lui, che si era lasciato cadere su una sedia.
- Io ti amo, Samuele. Sono pronto a sopportare tutto, perché anche tu sopporti decine di sacrifici. Ma non lasciarmi. Dammi solo qualche altro mese, e sistemerò tutto, e non ci troveremo mai più a dover sostenere discussioni del genere. –
- Del genere che ci sei tu a dirmi di scopare in giro ma di non venirtelo a raccontare? –
- Samuele. – La mano di Riccardo gli si poggiò sul viso, all’altezza di uno zigomo, insieme alla sua voce carezzevole che gli riempì le orecchie. Chiuse gli occhi, concedendosi un piccolo tentennamento.
- Per giorni interi ho pensato a come confessarti tutto, Riccardo. Mi ero preparato un discorso. Ci sono stati giorni in cui credevo che saresti stato furioso, altri in cui pensavo che avresti solo scrollato le spalle. Eppure volevo che fossi furioso, che ti arrabbiassi, che mi dimostrassi che stavi parlando a vanvera, che non vorresti mai vedermi con un altro sul serio. –
- Non vorrei mai vederti con un altro, Samuele. Non vorrei vederci te, non semplicemente il tuo corpo. Io voglio te, e se tu vuoi un po’ di contatto fisico, di vicinanza, posso sopportarlo. E’ giusto. Ma nonostante questo, non raccontarmi niente. Ti prego. –
 Samuele, ancora a occhi chiusi, avrebbe voluto dire qualcosa. Avrebbe voluto dirgli che non gli importava del sesso, che non sarebbe più successo, e che non vedeva l’ora di vivere con lui e di cominciare sul serio una vita insieme, senza più tutto quello squallore.
Invece non disse nulla, mente il suo cellulare emetteva un trillo.
Lo ignorò, in balia delle braccia di Riccardo.
Soltanto più tardi, quando, dopo pranzo, il suo compagno fosse andato via per tornare al lavoro, avrebbe visto l’icona di un sms in un angolo dello schermo.
Mi hai rotto il cazzo.
 
 
 

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Capitolo 47
*** 41st: Šťastného Valentýna ***



Oggi non è che un giorno qualunque di tutti i giorni che verranno,
ma ciò che farai in tutti i giorni che verranno dipende da quello che farai oggi.
Ernest Hemingway
 

Chapter 41st:  Šťastného Valentýna (1)  
 
Sotto la luce gialla e calda del lampadario i tasti bianchi brillavano in modo quasi doloroso.
Così lisci da sembrare appiccicosi, opponevano una insospettabile resistenza alla pressione del polpastrello. La nota che ne venne fuori era più acuta di quanto si aspettasse.
Federico ritirò la mano con uno scatto nervoso.
Si sentiva come se avesse violato qualcosa.
Seduto sulla panca troppo dura, dietro quel pianoforte nero e imponente, il cuore gli batteva nel petto rimbombando come in una stanza vuota.
Non ne aveva mai toccato uno così da vicino, non lo aveva mai suonato: aveva immaginato che sarebbe stato diverso, leggero come premere un cuscino, con una sensazione di onnipotenza e importanza. Invece, gli sembrava di essere un ragazzino di fronte ad una montagna: si sentiva piccolo, con le spalle deboli, e quei tasti che quasi si opponevano a lui, che rimbalzavano come delle molle sotto i suoi polpastrelli.
Fece scorrere le dita lungo le lettere dorate che ne indicavano il marchio: Steinway & Sons. Brillavano, contrastando elegantemente con il nero lucido che ne costituiva la base.
Dominik sarebbe tornato di lì a poco dalla sua lezione del pomeriggio.
Gli sarebbe piaciuto farsi trovare lì, dietro al pianoforte, assorbito nel suo mondo: eppure c’era una parte della sua anima che lo faceva sentire sbagliato, lì, come se stesse violando un luogo sacro e una serie di spilli lo stesse pungendo sulle cosce.
Era la sera di San Valentino: al tg non avevano fatto che parlarne tutto il giorno, in giro per le strade era tutto un tripudio di cuoricini e cioccolatini, e lui si era già rotto le palle. In realtà gli sarebbe piaciuto portare Dominik a cena fuori, sfiorare la sua mano poggiata sulla tovaglia colorata di un ristorante, godersi il sapore di un buon vino sulle labbra, e poi portarlo a casa e baciarlo contro la porta per non aspettare di essere dentro, di arrivare al salotto o alla camera da letto.
Premette un altro tasto, ne venne fuori una nota più grave.
Probabilmente non avrebbe mai avuto il coraggio di farlo: l’idea di essere guardato in quel modo, quel misto di commiserazione e sdegno, dagli altri, gli provocava già un brivido lungo la spina dorsale che lo faceva sudare freddo. Si sarebbe sentito a disagio, incapace di avvicinare le dita a quelle di Dominik, anche solo di guardarlo: e allora si sarebbe innervosito, e la loro serata sarebbe finita da schifo. Piuttosto, sarebbe stato molto meglio attenersi al piano originario: preparargli la cena, tirare fuori il dolce al cioccolato che aveva comprato per lui e poi trascinarlo sul divano e farci l’amore per tutta la sera.
Federico fece scorrere tutte le dita sui tasti del pianoforte.
L’ultimo San Valentino lo aveva trascorso a cena con i suoi genitori, a guardare la televisione, fino a che non era uscito fingendo una serata tra amici come tante: si era appartato con Manfredi nei pressi di un parcheggio deserto, avevano mangiato un gelato del McDonald e avevano fatto l’amore. Gli era piaciuto, in fondo: anche se aveva infantilmente invidiato, con ogni fibra del proprio corpo, le coppie che si erano scambiate auguri sdolcinati al tavolo di un ristorante, non gli era importato di altro che non fosse stato il corpo di Manfredi contro il suo, nel buio della strada deserta. Adesso, a distanza di un anno, gli sembrava di guardare i propri ricordi come se appartenessero ad un altro: li sorvolava, svolazzava lontano, in alto, e li sentiva diversi. Avvertiva, con il senno di poi, come gli ultimi ricordi con Manfredi fossero differenti da quelli leggeri e delicati delle prime esperienze, come se il tempo, e il male che si erano fatti, avessero sfilacciato il sentimento che li legava, imbruttendolo.
Lo scatto della porta lo fece sobbalzare, portandolo ad alzarsi immediatamente in piedi: fece due passi lontano dalla panca prima ancora che la porta di casa si aprisse del tutto.
- Federico? –
Dominik comparve sulla soglia come il protagonista di un film, solo meno etereo e più disordinato: i capelli spettinati, il giubbotto abbottonato male e lo zaino caduto lungo un braccio, mentre tentava di tirare fuori le chiavi dalla toppa. Federico si sentiva finalmente un po’ più a casa, come se qualcosa fosse ritornato al proprio posto: ingenuamente, aveva ricercato la stessa sensazione sedendosi dietro al pianoforte durante la sua assenza, come se quello strumento avesse potuto assorbire l’essenza di Dominik mentre lui lo suonava, per poi restituirla pian piano attraverso la superficie lucida.
- Sei tornato – disse, non riuscendo a trattenere un sorriso.
Avrebbe voluto farsi avanti per aiutarlo, ma sapeva che Dominik avrebbe tirato fuori un’espressione stizzita e avrebbe arricciato le labbra, così lasciò perdere: lo vide riuscire a sfilare le chiavi dalla toppa, chiudersi la porta alle spalle e allo stesso tempo fare scivolare lo zaino sul pavimento, aprendo il giubbotto con un unico strappo. Si muoveva in modo confuso, come un bambino affrettato.
- Ho una fame tremenda – lo sentì borbottare, appendendo malamente il giubbotto all’ingresso e avvicinandosi alla cucina. Federico si mosse nella stessa direzione per intercettarlo, arrivando sulla soglia poco prima di lui: Dominik, quando avvertì la sua presenza proprio davanti a sè, gli diede un colpetto sul petto, divertito. Aveva la punta del naso rossa per il freddo, e le labbra screpolate. – Dai, ho fame – si lamentò, quasi sbattendo i piedi, eppure aveva teso il capo verso l’alto, le labbra dischiuse come a chiedere un bacio.
- Che c’è? – gli chiese lui, fingendosi interrogativo. Dominik non rispose, ma batté un piede sul pavimento aggrappandosi al suo maglione, spazientito. Quando vide che Federico tentennava, diede un altro strattone al maglione. – Ah, vuoi un bacio? Ma non avevi fame? – continuò, prendendolo un po’ in giro. Dominik sbuffò, e stava quasi per cedere e superarlo quando Federico lo afferrò per le spalle, avvicinando il viso al suo. – Baciami tu – lo provocò. – Ho pensato per tutto il pomeriggio a te che tornavi dalla tua lezione e mi venivi a baciare. – Non gli sfuggì il rossore che gli colorò la base del collo, ma non se ne curò quando, a sorpresa, le labbra di Dominik cercarono le sue, e le sue mani, ancora fredde per il contatto con l’esterno, gli si poggiarono sul collo.
Dischiuse le labbra, per averne ancora un po’ di più, e gli poggiò le mani sulla schiena, per averlo più vicino: aveva il corpo tiepido, avvolto da un maglione troppo ingombrante.
Avrebbe voluto spogliarlo subito, assaporarne non solo le labbra, ma tutta la pelle, e farci l’amore così tante volte da recuperare tutto il tempo perduto.
Un sospiro di Dominik gli giunse all’orecchio quando lo sfiorò su un fianco da sotto il maglione.
- Hai ancora fame? –
Federico si aspettava che gli avrebbe detto di no, che non volesse far altro che restare lì e baciarlo fino all’indomani. Invece, piccato e orgoglioso, il ragazzo lo lasciò andare subito.
- Mh mh – gli rispose a tono.
Insopportabile ragazzino, avrebbe dovuto afferrarlo e morderlo dovunque piuttosto che darla vinta a lui e alla sua espressione di soddisfatta vendetta.
Invece, Federico si fece da parte sorridendo, e lo vide scattare subito in avanti, avventandosi sul frigo: ci infilò dentro entrambe le mani, tirando fuori una confezione di prosciutto e un pezzo di formaggio.
- E’ quasi ora di cena – gli fece notare Federico, con un tono di rimprovero che gli ricordò terribilmente sua madre. Dominik ci pensò su soltanto pochi secondi, poi, con uno sbuffo, rimise tutto dentro il frigorifero, chiudendo l’anta con insofferenza. Dal ripiano della cucina afferrò una mela.
- Dobře (2) – borbottò. A Federico venne da sorridere di fronte a quell’espressione affranta eppure divertita, anche se sentirlo parlare nella sua lingua gli provocò una stretta allo stomaco, come tutte le volte. Avrebbe dovuto afferrarlo e baciarlo subito. Si sentiva stranamente malinconico, rallentato, con la sola voglia di essere assorbito da lui e smettere di pensare.
Quando addentò la mela, Dominik arricciò il naso per imprimere più forza, staccandone un grosso pezzo. Le dita si chiusero intorno al frutto con più forza, in un impercettibile movimento delle nocche: avevano delle linee sottili e morbide, e il colore pallido e roseo della gente dell’est.
Nella mente di Federico ritornò l’immagine dell’unica volta in cui si erano trovati veramente fuori insieme, al colore viola così chiaro del maglioncino di Dominik, alle sue dita che sporgevano da sotto le maniche e che si stringevano intorno alle posate.
Adesso avrebbe potuto prendergli la mano lì, sul tavolo coperto da una tovaglia colorata, tra i piatti e le posate, senza farsi troppe paranoie sui sentimenti, sul loro rapporto, su cosa diamine stesse succedendo, su cosa fossero o non fossero: avrebbe semplicemente potuto spingere le dita fino a incontrare quelle di Dominik. Stringerle e basta.
- Federico? –
- Mh? –
- Perché ti perdi? –

Quella sera, la mano di Dominik si era poggiata con naturalezza sulla sua, mentre parlava, mentre lui non aveva avuto il coraggio nemmeno di sfiorarlo, ed era stato come ricevere un colpo dritto sulla testa, che lo aveva confuso. Erano stati fuori, a fare una passeggiata, e lo aveva avuto vicino come mai da che lo conosceva: adesso, gli pareva quasi di risentire la sua pelle fredda contro il palmo della mano.
- Sabato parto, e voglio guardare la televisione con te prima di partire. –
- Fai il sentimentale, Dom? Cos’è, un modo cazzuto e orgoglioso per dire che sentirai la mia mancanza almeno un po’, tra tutta quella musica che hai nel cervello? –
- Se anche fosse? –
- Lo prendo come un sì. Nella tua lingua, se non è no, allora è sì, anche se non sembra. –
- Lo prendo anche io come un sì, allora. Perché nella tua lingua è sì quando non dici niente. –

Si era sentito bene come non gli capitava da anni, o forse da mai: non si era mai concesso tutta quella libertà, a Palermo. Cenare fuori, fare una passeggiata, stringersi la mano tra le vie quasi deserte della sera.
- Tu fai un sacco di cose per me, ma ho la sensazione che non lo sai nemmeno tu il perché lo fai. -
- Ti va di andare a cena fuori? –
Le parole gli uscirono prima che avesse il tempo di tapparsi la bocca e stare zitto: e lo fece così repentinamente che Dominik ci mise un po’ ad afferrare il senso della domanda e a collocarla nella conversazione. Federico ne studiò le espressioni, perché, nel suo caso, parlavano sempre più delle sue parole: nel viso di Dominik passarono, una dopo l’altra, la sorpresa, l’indecisione, la preoccupazione, fino a che non aggrottò la fronte.
- Perché? –
Federico rimase spiazzato per un attimo: si sarebbe aspettato una risposta, negativa o positiva che fosse, o magari una richiesta di chiarimento. Ma di sicuro non che gli chiedesse il perché.
Non lo sapeva neppure lui, esattamente, il perché: fino a mezz’ora prima era fermamente convinto che sarebbero rimasti a casa, a mangiare un dolce e guardare uno stupido film alla tv, ma improvvisamente era cambiato qualcosa. Perché vaffanculo a Palermo, a Manfredi, ai sette anni di relazione nascosta, alla gente di Milano e a tutto il resto: voleva sentirsi libero di cenare fuori, sedersi al tavolo di un ristorante con Dominik, anche se non avrebbe potuto baciarlo o accarezzarlo, ma almeno viverlo fuori dalle quattro mura di quella casa.
- Perché mi va – farfugliò così, spiazzato. – Però se non vuoi non fa niente…Non ci sono mai andato, a cena fuori per San Valentino, sopravvivrò ugualmente. Non è mica obbligatorio – continuò, stringendosi nelle spalle. Non riuscì a nascondere del tutto il tono deluso della voce, e non perché Dominik si fosse rifiutato di andare a cena fuori per San Valentino, ma semplicemente perché si era rifiutato di uscire con lui. Di nuovo, come se fossero tornati indietro a qualche mese prima. O forse, più semplicemente, era rimasto deluso perché aveva già iniziato a sentire sulla punta della lingua il sapore dolciastro della serata che avrebbero trascorso insieme.
- Non lo so – sentì Dominik soffiare, seriamente indeciso.
- Guarda che sul serio non importa – insistette.
Dominik non finì neppure di mangiare la mela, gettandola tra i rifiuti.
Si muoveva in modo nervoso, dando dei colpetti con il piede sul pavimento che trasmettevano una vibrazione a tutto il corpo. I capelli spettinati non erano altro che una matassa sulla testa e ai lati del viso: se ci avesse infilato una mano ci avrebbe trovato dei nodi, ma sarebbero stati terribilmente morbidi.
Federico tese le mani in avanti, per poggiarle ai lati del suo viso e spingerlo in alto a rubargli un bacio. Le labbra di Dominik erano un po’ ruvide e screpolate, restie a baciarlo, come se il nervosismo dal piede si fosse trasmesso a tutto il resto del corpo, oscurandogli anche la mente. Probabilmente pensava che si fosse arrabbiato per il rifiuto: in verità, davvero non gli importava granchè di una cena fuori in mezzo a tutto il caos di gente che si affollava nei ristoranti per San Valentino. Lo aveva proposto colto dall’entusiasmo del momento, ma stava già iniziando ad assaporare l’idea di trascorrere una serata a letto:  adesso che ci pensava, gli sarebbe piaciuto preparare qualcosa che avrebbero potuto mangiare anche a letto, per non perdersi nemmeno un attimo. Sarebbe stato un San Valentino idilliaco.
- Preparo la cena, dai – disse poi. - Prima vuoi fare la doccia? –
Dominik scosse il capo.
- La faccio dopo – mormorò. Gli sfuggì subito dalle mani, lasciando la cucina per dirigersi verso il salotto. Probabilmente gli era venuta voglia di suonare: a Federico piaceva cucinare con in sottofondo le note del pianoforte, anche se il più delle volte Dominik si interrompeva continuamente perché non era mai abbastanza soddisfatto.
Iniziò a cucinare immediatamente, con l’intenzione di preparare una frittata e una ricca insalata: aveva già sbattuto le uova, iniziato a cuocere gli spinaci e i cubetti di prosciutto, e stava per tagliare l’insalata, che ancora la casa era assolutamente avvolta dal silenzio. Quando si sporse oltre la soglia, per osservare il salotto, Dominik non era dietro al pianoforte: lo trovò, invece, sul divano, con il corpo completamente sprofondato tra i cuscini e  le braccia conserte.
Il maglione che indossava gli era risalito lungo un fianco, ma non se ne era curato: Federico rimase a guardare il triangolo di pelle chiara lasciata scoperta, immaginando di toccarla, o di baciarla. Se ci avesse poggiato le labbra, Dominik avrebbe avuto un sobbalzo, e magari lo avrebbe afferrato per le spalle, nel timido tentativo di respingerlo, prima di cedere.
Avrebbero potuto fare l’amore lì, sul divano, e lui non gli avrebbe detto di no.
- Non suoni? – lo chiamò.
Dominik non gli rispose. Semplicemente, fu come se non lo avesse nemmeno sentito: restò lì, seduto, il capo reclinato indietro e i capelli biondi ad accarezzargli la fronte.
Era terribilmente dolce visto a quel modo, e allo stesso tempo c’era qualcosa di lussurioso nel modo in cui se ne stava abbandonato.
Federico tornò a fare attenzione in cucina, ma avvertiva una strana tensione a livello dello stomaco, come una lieve morsa: cercava di convincersi che fosse tutto normale, che non fosse successo niente. D’altronde, Dominik pareva tornato di ottimo umore dal Conservatorio: sembrava cambiato solo nel momento in cui aveva proposto di andare a cena fuori, ma sul serio a lui non era importato nulla che gli avesse detto di no. Nonostante fosse razionalmente convinto che non fosse accaduto nulla di male, Federico finì di preparare la cena accompagnato ancora da quel senso di inquietudine: così lasciò l’insalata sul ripiano della cucina, e infilò la frittata nel forno, che avrebbe fatto tutto da sola.
Tese di nuovo lo sguardo fuori dalla cucina. Dominik era sempre nella stessa posizione.
Federico gli si avvicinò, con l’intento di accarezzarlo proprio lì, dove i capelli gli sfioravano il viso. Invece, quando fu abbastanza vicino, proprio di fronte a lui, si inginocchiò, poggiandogli le mani sulle ginocchia:  in quella posizione, doveva alzare un po’ la testa per vederlo in viso, e lo sguardo poteva seguire il pomo d’Adamo e la linea della mandibola. Persino le labbra, viste dal basso, parevano più piene. Sotto le mani, le ginocchia di Dominik risultavano terribilmente ossute.
- Che c’è? – lo chiamò, ma l’altro non rispose ancora.  – Non sono arrabbiato, davvero. Non mi importa niente di andare a cena fuori, pensavo solo che potesse farti piacere. Sinceramente, preferiscono restarmene qui a casa con te – confessò, avvertendo un lieve fremito d’imbarazzo lungo la schiena, che si concretizzò nella necessità di sentire sulla pelle le mani di Dominik, in una carezza. Per attirarne l’attenzione, con naturalezza, gli fece scorrere le mani in alto, lungo le cosce.
Fu in quel momento che Federico avvertì qualcosa che si spezzava.
Fu nel modo in cui Dominik gli afferrò i polsi e lo spinse indietro.
Fu nella sensazione di freddo che gli avvolse prima le mani e poi tutto il corpo che Federico sentì mancare il respiro. Era come se qualcuno lo avesse colpito con un calcio e lo avesse rispedito indietro, a quando non faceva che cozzare contro le mura che Dominik si era costruito intorno.
- Si può sapere che hai? – si lasciò sfuggire allora, più brusco di quanto avrebbe voluto essere.
Dominik scosse il capo, ma non parlò.
La sorpresa, l’irritazione e quel senso di ingiustizia che covava  nel petto si stavano concretizzando in un unico sentimento che lo tormentava, proprio all’altezza del petto.
Non lo capiva, e questo gli faceva quasi pulsare la testa.
Eppure, prima che sbottasse, preda della propria impulsività, Dominik fece un gesto apparentemente impercettibile: si passò le mani sul viso, fino alla fronte, e poi giù lungo le guance.
- Io sono arrabbiato. Non lo sopporto – soffiò, alla fine. Federico sentì la frustrazione nel tono della sua voce, nel modo in cui arricciò le labbra e diede un colpo al bracciolo del divano. Inginocchiato ancora di fronte a lui, questa volta non lo toccò, perché l’umiliazione di essere stato respinto bruciava ancora. Dominik sbuffò, come se fosse spazientito da qualcosa. – Non ho più il controllo su niente! Era tutto perfetto, prima. La maestra mi rimproverava, ma mi spronava, la musica aveva un senso, riuscivo a disegnarla, a metterci dentro qualcosa. -  Federico non disse nulla, perché se lo avesse fatto, era certo che Dominik avrebbe smesso di parlare. – Adesso lei mi tormenta, mi dice che non sono concentrato, che non sono degno di suonare in quel Conservatorio, che sono una persona diversa perché sono un deprivato – mugolò. – Ma io sono degno, più di quanto non lo sia la metà dei musicisti vuoti che ci sono lì dentro! E il fatto che mi piaci tu non vuol dire che io sia diverso, sono sempre la stessa persona, è sempre la stessa musica. Ma lei me la strappa, Federico. E’ come se io stessi ricamando una bella coperta calda e colorata e tutte le volte arrivasse lei, sul più bello, e ne tirasse via un pezzo, lasciandoci un buco. – La voce di Dominik, nonostante la frustrazione e la rabbia, suonava ancora melodiosa, con un so che di malinconico, come una melodia di Einaudi. Non se ne rendeva conto, ma tutto in lui era musica: era nel modo in cui si muoveva quando parlava, in cui si stropicciava i capelli, nell’inflessione che assumeva la sua voce quando pronunciava il suo nome. Dominik era musica, e nessuna maestra bigotta sarebbe mai riuscita a strappargliela dalle ossa. Federico avrebbe voluto tendere le dita in avanti per toccarlo sul viso: pensò che se lo avesse accarezzato adesso, lui non l’avrebbe più respinto. – Non mi sta bene, così – lo sentì soffiare poi, stizzito. - La musica non deve avere costrizioni, me l’ha insegnato la mamma. E anche la maestra: ma adesso è lei che dice il contrario. Se la musica non ha costrizioni, come puoi esserlo tu? Cosa ci sarebbe di diverso se tu fossi una ragazza? La musica avrebbe sempre lo stesso suono. –
- Non devi ascoltarla su questo, Dom. Lei ha le sue idee, come la maggior parte della gente omofoba che c’è in giro. Non puoi fare niente per farle cambiare opinione. Quello che puoi fare è non starla a sentire. Lei insegna musica. Ascoltala solo su quella. –
- Ma non è giusto! Anche se io non la ascolto, so che cosa pensa, so che è così, e la musica mi sfugge! E mi fa arrabbiare il fatto che non riesco più a controllarla, e anche il fatto che non riesco a dirti di andare a cena fuori perché non sopporterei di essere guardato a quel modo. –
- Quale modo? -
- Come Rafael. Come la maestra. -  La voce gli si incrinò proprio sull’ultima parola, e reclinò il capo indietro, il pomo d’Adamo a svettargli sulla gola.
Poggiate sui cuscini del divano, le dita gli tremavano: a Federico ricordò quella volta che, tornato dal lavoro, lo aveva trovato sconvolto, proprio lo stesso giorno in cui aveva cozzato contro la realtà, contro Rafael e contro la propria insegnante. E come quella volta, Dominik gli sfuggiva come un gatto selvatico, si arrabbiava, la realtà sfuggiva al suo controllo.
Aveva fatto male a pensare che lo avesse superato, che il fatto di non parlarne fosse sinonimo di un trauma ormai lasciato alle spalle. Aveva sbagliato persino a lasciare che facesse tutto da solo, nonostante fosse stato lui stesso a pregarlo. Forse non avrebbe dovuto: forse avrebbe dovuto strattonarlo, spingerlo a parlare, avrebbe dovuto capirlo che una persona come lui, da sola, non potesse sopportare tutto quello schifo senza esplodere.
Federico afferrò entrambi i polsi del ragazzo prima che tornasse a inveire: ne avvertì immediatamente la resistenza, mentre Dominik cercava di scacciarlo di nuovo, ma strinse più forte la presa.
- Dominik – lo chiamò. Il ragazzo si fermò subito, le labbra dischiuse. Avrebbe potuto dirgli qualsiasi cosa, invece lo lasciò andare, prendendogli il viso tra le mani, cogliendolo di sorpresa. Quando gli si avvicinò, poggiando la fronte sulla sua, Dominik sussultò. – Basta. Smettila. –
Federico pensò a come sarebbe stato baciarlo mentre era preda di quella furia frustrata. – Andremo a cena fuori, anche se non oggi. Nessuno ci guarderà in nessun modo, e se lo dovessero fare…che se ne vadano a fanculo. –
Dominik mosse il capo indietro, per sfuggire alla sua presa, ma Federico strinse più forte, le dita affondarono nelle guance dell’altro.
- Parli così adesso. Hai dimenticato cosa dicevi prima? Dicevi le stesse cose. Vorrei vedere te al mio posto – gli sibilò, tagliente. Federico accettò quella stilettata senza mollare la presa.
- Io al tuo posto avrei fatto un casino, al Conservatorio. Avrei pianto, avrei sbraitato, probabilmente avrei spaccato una o due sedie. Poi mi sarei chiuso in casa, non avrei voluto vedere nessuno, e avrei lasciato che tutto andasse a rotoli – gli disse, depositandogli un bacio sulla fronte. La pelle di Dominik adesso era bollente, quasi bruciava. – Io al posto tuo avrei fatto veramente schifo – confessò. – Ma tu no. Tu hai pianto, hai urlato, ma il giorno dopo hai mandato ancora avanti la tua vita e te ne sei fregato. Non ne hai più nemmeno parlato, sei andato avanti da solo, e basta. E’ così che si fa. –
Lo lasciò andare, e questa volta Dominik non arretrò: rimase lì, la schiena dritta, seguendo quasi con il capo le sue mani che si allontanavano, perso in quell’istante. Ma Federico rimase con il viso vicino al suo, perché se ne stava teso nell’attesa di un bacio, come se da un momento all’altro Dominik potesse spingersi in avanti e catturargli le labbra.
- Ho fatto tanti sacrifici per arrivare fino a qua, Federico. C’era la musica, e solo quella: era già così, suonava e usciva fuori, ma non era perfetta. Nemmeno adesso è perfetta, ma ogni giorno sembra salire un po’ più alto, è sempre un po’ più perfetta. E non posso permettere a niente di rovinarla. – Federico seguì con lo sguardo i contorni delle labbra di Dominik, mentre parlava, e si lasciò catturare dal tono morbido della sua voce. Era così concentrato che non si accorse della mano che gli si avvicinava al viso, fino a poggiarglisi sulla guancia: i polpastrelli ne percorsero il profilo, dal sopracciglio lungo lo zigomo, in basso fino alle labbra, e poi di lato, seguendo una linea immaginaria che li portò fino a sfiorare il lobo dell’orecchio. - Questo Conservatorio è la mia unica possibilità di non restare bloccato in Repubblica Ceca, ma di arrivare  ancora più in alto, e di non essere mai cieco. –
Se avesse voltato il capo solo un po’, avrebbe potuto baciargli il palmo.
Lo fece, e Dominik lo lasciò fare.
- Tu suoni come poche persone riescono a fare. - gli disse, le labbra ancora a sfiorargli il palmo della mano. - Non è soltanto una questione di studio, è il modo in cui lo fai. Ci metti sempre qualcosa per migliorare, suoni sempre con un obiettivo, e non ti stancherai mai di suonare da qui ai prossimi cent’anni. Questa è una cosa che non tutti hanno e che non si insegna in nessun conservatorio. Tu ce l’hai, suoni per te, e non per gli altri o per i soldi o per diventare famoso. Nessuna maestra te lo potrà togliere, anche se ti dovesse tormentare per i prossimi dieci anni. –
Dominik scosse il capo, ritirando la mano, ma non lo fece del tutto: la fece scorrere lungo la spalla di Federico, poi lungo il torace.
- Ma lei mi distrae. Mi tormenta, mi rimprovera, mi assegna decine di esercizi senza mai permettermi di suonare quello che voglio, o di inventare una musica che mi piace. –
Federico gli prese il viso tra le mani nello stesso istante in cui la sua mano lo sfiorava all’altezza dello stomaco e gli provocava una fitta: Dominik reagì dischiudendo le labbra in un’espressione sorpresa.
- E allora suona, fai quei dannati esercizi davanti a lei. Studia, diplomati, diventa un grande musicista e zittisci quella vecchia bigotta del cazzo! – Sull’ultima affermazione, Dominik accennò un sorriso sinceramente divertito, scoprendo i denti. Le mani di Federico, ai lati del suo viso, gli finirono tra i capelli: come si aspettava, erano morbidi, ma pieni di nodi, perché lui non faceva che passarci le mani, quando era nervoso. - Dom, non possiamo cambiare quello che tutta la gente pensa. Anch’io ho paura. Una paura fottuta, a dire il vero – aggiunse. – Ma tu sei andato avanti, perché ne valeva la pena. E chi se ne fotte se oggi non andremo a cena fuori! – Si sporse in avanti, perché il calore della pelle di Dominik lo attraeva come la fiamma per una falena, e quando finalmente poggiò le labbra sulla sua pelle, all’altezza della clavicola, lo sentì sobbalzare. – D’altronde, io cucino molto meglio di tutti quegli chef, vero? –
Dominik si strinse su se stesso, come una tartaruga che si richiudeva nel guscio: lo faceva sempre, quando lo baciava in quel punto, perché gli provocava un fremito che non sopportava di mostrare.
- Ma insomma – lo sentì rispondere, in un borbottio. Federico lo morse a tradimento, proprio sopra la clavicola, affondando i denti in un punto che trovò più morbido, piano, ma abbastanza da fare protestare il ragazzino.
- Come ma insomma? – lo rimproverò. – Se è così, d’ora in poi potrai morire di fame! –
- Pazienza – gli rispose a tono, stringendosi nelle spalle.
Aveva assunto un’espressione divertita e furbetta, come i bambini dopo una marachella.
Federico mosse le mani, per raggiungerlo da qualche parte e pizzicarlo, ma Dominik lo anticipò abbastanza da spingersi con il corpo di lato, scivolando lungo il divano: riuscì a intercettarlo solo perché uno dei cuscini, sistemato male, gli imprigionò un piede, rallentandolo quanto bastava affinché potesse afferrarlo e spingerlo di nuovo sul divano, imprigionandolo del tutto con il corpo sotto il proprio. Poteva guardarlo dall’alto adesso, studiare il modo in cui i capelli gli si erano spettinati ulteriormente.
Il movimento gli aveva stropicciato tutti i vestiti, e il maglione era risalito lungo i suoi fianchi, scoprendo la pelle chiara. Federico non resistette alla tentazione di toccarlo lì, lungo un fianco: come un gatto, al minimo tocco il corpo di Dominik si bloccò, lasciandosi accarezzare. Durante un respiro più profondo degli altri, la gabbia toracica si tese tanto da rivelare la sporgenza dell’arcata costale: Federico passò le dita anche lì, e poi più in basso, nella depressione lungo il fianco.
Si chinò, per baciare la pelle come aveva immaginato di fare diversi minuti prima, quando lo aveva visto seduto da solo sul divano, le braccia conserte e il viso teso. Quella stessa tensione pareva averlo abbandonato, a vederlo così, sdraiato, a lasciarsi baciare lungo un fianco.
- Sei ancora arrabbiato? – chiese Federico, le labbra a sfiorare la pelle di Dominik, che  non rispose fino a quando il viso dell’altro non risalì fino a lui, per baciarlo. Si lasciò anche baciare, prima di scuotere il capo.
- No. Adesso no. – Non era arrabbiato, ma a Federico non sfuggì la lieve tensione che trapelava dal modo in cui respirava. - Con te non sono arrabbiato – aggiunse poi, muovendo le mani per toccargli il viso e studiarlo. Aveva messo le dita proprio in quel modo, quello che usava per seguire i lineamenti del suo volto e capirne le espressioni: ma quando fu abbastanza vicino alle labbra, Federico si voltò all’improvviso, imprigionando una di quelle dita tra le labbra. Dominik la ritirò velocemente, sorpreso, e il movimento produsse un caratteristico e lieve risucchio che gli colorò le guance di rosso. - Tu sei arrabbiato? –
- Perché dovrei essere arrabbiato? –
- Perché non voglio mai uscire. – Il tono della sua voce si era fatto più dolce e carezzevole, quasi seducente, come se stesse inconsapevolmente cercando di ammaliarlo e rabbonirlo. In realtà non sarebbe nemmeno servito, gli girava già la testa. -  Nemmeno se oggi è San Valentino. -  Federico si chinò sulle braccia, per baciarlo.
- Non me ne frega proprio niente di uscire. Non me ne frega niente neppure di San Valentino, o della cena. – Intercettò la mano di Dominik prima che potesse toccarlo di nuovo, imprigionandola sul divano, sopra la sua testa: lui oppose resistenza, ma lo lasciò fare quando lo baciò ancora, sfruttando il fatto che avesse dischiuso le labbra per protestare, stizzito, orgoglioso e insopportabile. Federico si sentiva quasi potente, per quella piccola rivincita: eppure era già più debole, perché agognava un contatto che non arrivava, immaginava le mani di Dominik che lo spogliavano e invece quelle erano sempre ferme lì, lontane.
Si allontanò da lui solo per un momento, mettendosi seduto, ma non interruppe il contatto, trattenendolo per un polso. Sdraiato a quel modo aveva sentito quasi come se gli mancasse l’aria, e aveva avvertito il bisogno di stare seduto per un po’, e di averlo incollato addosso.
- Vieni – lo chiamò, accompagnando le parole ad un lieve strattone. Apparentemente docile, Dominik si mise seduto, le braccia tese in avanti, e si lasciò abbracciare: lasciò che Federico gli sfiorasse i fianchi, insinuandogli le mani sotto al maglione. A sorpresa, innervosito dalla posizione scomoda che lo costringeva a puntellarsi sulle ginocchia con il busto teso in avanti per riuscire a farsi abbracciare, Dominik gli salì a cavalcioni sulle gambe, e fu come ricevere una coltellata con un ferro rovente proprio tra le gambe. Senza pensarci, Federico lo ghermì per i glutei, avvicinando il suo corpo per farlo aderire al proprio, e trovò in quel gesto un non so che di animale che gli provocò un brivido lungo la schiena, e un sospiro profondo quando il bacino di Dominik strusciò proprio lì, in corrispondenza del cavallo dei suoi pantaloni.
Dominik arrossì in un attimo, alla base del collo e sulle orecchie, eppure c’era qualcosa di diverso rispetto a prima: era tutto non modo in cui reclinò il capo indietro, distendendo la gola, e liberandosi in un sospiro. Federico gli catturò il pomo d’Adamo in un bacio.
- Vuoi ancora andare a cena fuori? –
Dominik non rispose, non lo faceva mai, ma scosse il capo quanto bastava perché valesse come una risposta. Federico ne approfittò per sollevare il maglione, con l’intento di sfilarglielo dalla testa, ma non ci riuscì, perché le mani del ragazzo arrivarono di nuovo a fermarlo. Pensò, per un attimo, che non volesse essere spogliato, o toccato, ma sembrava impossibile dalle reazioni del suo corpo. Invece, fu con una stretta alla gola che vide Dominik stringere il bordo del maglione con entrambe le mani e tirare verso l’alto, per sfilarlo: ammirò,  quasi con sacra adorazione, la pelle che si scopriva, il torace disteso, la sporgenza delle coste e la lieve peluria sulla pancia. C’era un non so che di languido ed erotico anche nel modo in cui, sfilatosi il maglione, Dominik abbassò le braccia e lasciò cadere l’indumento sul pavimento, togliendolo da una delle braccia con uno strattone: Federico studiò la linea delle spalle, quella dei bicipiti appena accennata e quella più morbida dell’avambraccio, fino alle mani. Non resistette alla tentazione di poggiare entrambe le mani su quella pelle nuda: la pancia, i fianchi, infine la schiena. Gli depositò un bacio sulla clavicola, insieme a un sospiro.
- Federico? –
Suonava come un richiamo, o una preghiera.
Era musicale, erotico, e animale.
Quando le mani di Dominik finirono sulla cerniera dei suoi pantaloni, Federico reclinò il capo, a occhi chiusi.
 
 
§§§
 

La luce sul soffitto dell’auto era difettosa da sempre.
Ci volevano almeno tre tentativi e dieci minuti a smanettare con l’interruttore per poterla spegnere, e non faceva che accedersi da sola tutte le volte che avviava il motore.
Mattia sbuffò, dandole un colpo più vigoroso che produsse un lieve scricchiolio. Quando premette di nuovo il dito sull’interruttore, finalmente calò il buio.
- Era ora – borbottò, accompagnando l’espressione ad un gesto della mano di palese frustrazione.
Era nervoso, e irritato, e tutta un’altra serie di cose che fondamentalmente lo rendevano incazzato e basta. Aveva lavorato tutto il giorno per un branco di idioti ricconi il cui unico cruccio era se acquistare un atomizzatore rosa o pesca, o preferire un aroma alla vaniglia o al ginseng per le loro belle sigarette elettroniche con le quali amavano pavoneggiarsi, salvo poi accendersi una bella sigaretta di nascosto da mogli e colleghi. Inoltre, la ragazza che lavorava per lui era riuscita a far inceppare la cassa proprio dieci minuti prima della chiusura, costringendolo a implorare il tecnico di raggiungerli per ripararla e irritando non poco i tre clienti in attesa. A tutto questo, come un ronzio fastidioso e continuo nella testa, si aggiungeva la consapevolezza che Samuele continuasse a ignorare i suoi sms: lo pungolava nell’orgoglio, e lo avvelenava, l’idea di essere stato messo da parte a quel modo, la consapevolezza che tutto quel casino avesse irrimediabilmente cambiato le cose proprio quando era arrivato ad un passo dall’afferrarlo e dargli uno strattone.
Così, con quella che chiunque avrebbe definito una bella faccia tosta, Mattia aveva comprato una bottiglia di vino rosso e aveva parcheggiato l’auto sotto casa di Samuele, con la chiara intenzione di costringerlo a non ignorarlo. Per lui, ignorare Samuele era diventato impossibile: si sorprendeva a riconoscere il profilo delle sue mani in quelle dei sui clienti, o il profumo della sua pelle nell’aria, per non parlare di tutte le sere in cui, annoiato a morte da una conversazione noiosa con un parente o un amico, la mente non si imbarcava nel ricordo della notte che aveva trascorso con lui.
Gli era sembrato di sentire qualcosa, nel modo in cui Samuele lo aveva salutato prima di chiudergli la porta alle spalle, come se avesse voluto dirgli alcune cose, trattenerlo, rubargli un altro bacio.
Invece non era successo niente.
Samuele era sparito, e se non lo avesse conosciuto un tantino avrebbe pensato di essere stato liquidato come una scopata passeggera. Invece lo conosceva, seppur troppo poco per affondargli le mani nell’anima, ed era certo che, se Samuele lo stava ignorando, doveva esserci qualcosa che gli si agitava nella mente e lo rendeva completamente idiota.
Guardandosi un’ultima volta nello specchietto retrovisore, illuminato solo dalla luce gioca che proveniva dai lampioni ai lati della strada, Mattia sistemò il colletto della camicia attorno al bordo del maglione: poi, prima di pentirsene, aprì la portiera dell’auto, aggrappandosi saldamente alla bella e costosa bottiglia di vino rosso che per una volta non aveva soffiato alla cantina di suo padre.
Era nervoso, oltre che incazzato.
Temeva che Samuele gli avrebbe sbattuto la porta in faccia, o che, in alternativa, non gli avrebbe aperto e basta, visto il modo in cui lo aveva ignorato. Eppure come faceva a stargli lontano a quel modo, quando lui non faceva che pensare al modo in cui lo aveva baciato, in cui lo aveva toccato, e, meno poeticamente, a uno degli orgasmi migliori di tutta la sua vita? Era proprio stampata nella sua testa, l’immagine del viso di Samuele in quel momento, della sua fronte un po’ corrucciata e delle labbra dischiuse a scoprire i denti, gli occhi chiusi per abbandonarsi, almeno per un attimo, alla debolezza della carne.
Mattia si trovò di fronte al pesante portone verniciato di verde scuro senza rendersene quasi conto, le dita strette spasmodicamente intorno al collo della bottiglia di vetro: cercò il nome sul campanello, premette il pulsante prima di pentirsene.
Poi, il silenzio.
Si chiedeva se Samuele avrebbe mai risposto.
Forse non era in casa, e tutta quella fatica sarebbe stata sprecata.
Forse non avrebbe risposto perché avrebbe voluto restare da solo.
O forse era sotto la doccia e non avrebbe sentito il suono del citofono.
- Sì? – La voce arrivò forte e chiara, e Mattia sobbalzò.
Aveva risposto.
Il cuore aveva preso a martellargli nella testa così forte da fargli sentire un ronzio nelle orecchie, e persino la lingua si era ingarbugliata, o forse attaccata al palato.
Si schiarì la voce goffamente.
- Sono Mattia. – Disse solo quello, perché non gli sarebbe bastata la voce per una battuta di spirito.
I secondi successivi parvero dilatati nel tempo.
La strada era quasi deserta. Dal citofono proveniva solo il silenzio: era certo che Samuele non avesse messo giù, perché ne sentiva il ronzio, ma il portone d’ingresso restava ostinatamente chiuso.
Mattia strinse le dita convulsamente intorno alla bottiglia di vino.
Probabilmente non avrebbe aperto, e questo lo faceva incazzare, più di ogni altra cosa, perché lo faceva sentire impotente, incapace di avvicinarglisi abbastanza per afferrarlo.
Poi, nel silenzio, echeggiò il caratteristico clac.
Aveva aperto. Gli sarebbe bastato spingere per fiondarsi su per le scale e piombargli addosso, magari afferrandolo per baciarlo, e poi prenderlo a pugni.
Invece, diede una spinta con una strana calma.
Si chiuse il portone alle spalle, e salì tranquillamente le scale, ad una ad una.
Ad ogni gradino l’immagine di Samuele nella sua mente assumeva contorni più netti: gli parve di ricordare meglio il colore dei suoi occhi, la pelle ruvida lungo la mandibola, il profumo, il tocco forte delle mani intorno ai fianchi. Avrebbe dovuto essere furioso con lui, era lo era: ma era anche nervoso, teso, e sentiva sotto la pelle un fremito di entusiasmo all’idea di rivederlo, che cozzava terribilmente con la voglia, opposta, di tirargli un cazzotto e sputargli addosso il rancore accumulato in quei giorni di assenza. Perché erano trascorsi pochi giorni, eppure gli sembrava di aver perso la bussola: aveva trascorso settimane a costruire quella regolarità di contatti con lui, fino a che non aveva fatto un passo troppo lungo e tutto si era incrinato.
Alzò gli occhi solo quando arrivò all’ultimo gradino.
Samuele lo aspettava sulla porta. Avrebbe voluto essere in grado di decifrare il suo stato d’animo dall’espressione del suo viso, ma l’uomo pareva imperturbabile, solo un po’ sorpreso, e lui aveva solo voglia di baciarlo di nuovo e trascinarlo sul divano.
Mattia tirò fuori uno dei suoi migliori sorrisi da schiaffi, mentre si avvicinava alla soglia in silenzio. Gli parve di vedere Samuele chiudere un po’ la porta, come a limitargli l’ingresso, e la sua sagoma poggiata contro lo stipite.
- Sei venuto a casa mia per San Valentino. –
Samuele lo disse senza un preciso tono di voce, come una considerazione sul tempo, ma un angolo della sua bocca era appena sollevato in un accenno di sorriso.
- Sì, sono venuto a casa tua per San Valentino. Di solito chiamo, prima di presentarmi sotto casa di qualcuno, ma visto che non rispondi alle mie chiamate…. – iniziò, stringendosi nelle spalle. Ci mise dentro, volutamente, un certo astio, appena un po’. – Oggi era il giorno adatto, ero sicuro di trovarti da solo. Sai, di solito San Valentino si passa con le mogli – azzardò. Giusto appena un altro pizzico di astio. Samuele alzò gli occhi al cielo. – Allora, mi fai entrare? – gli chiese, poi alzò un braccio mostrandogli la bottiglia che teneva stretta nel pugno.  – Ho portato il vino. –
Sull’ultima affermazione, il sorriso di Samuele fece finalmente capolino, mentre il suo corpo si faceva da parte, aprendo del tutto la porta. Mattia ci passò attraverso come se stesse attraversando una sorta di ingresso ad un mondo magico, come se fosse l’armadio per avere accesso a Narnia.
Samuele attese che lui fosse entrato, prima di chiudergli la porta alle spalle.
Al centro dell’ingresso, adesso, si sentiva un po’ spaesato. Lo sguardo gli cadde proprio sulla parete contro la quale aveva quasi spinto Samuele, prima di baciarlo.
- Tu mi confondi, Mattia. –
Deglutì a vuoto.
- Dai, entra. La apriamo o no questa bottiglia di vino? –
Mattia fece per tendergliela, poi ci ripensò, tirandola indietro all’ultimo minuto, con un sorriso sornione.
- In realtà non te la meriti – gli fece notare. Non gli sfuggì il modo in cui le spalle di Samuele si irrigidirono.  Fece una smorfia, la bottiglia sempre lontana dalla sua presa: si stava divertendo, adesso, perché la vicinanza di Samuele risvegliava la parte irrazionale di lui. – Non hai risposto a nessuno dei miei messaggi. Non mi hai richiamato –  lo rimproverò. – Non credi che dovresti farti perdonare? – lo provocò.
La presenza di Samuele lo portava sempre a fare lo stupido, a irretirlo con i giochetti, a girargli intorno divertito come un leone con la gazzella, prima di mangiarla. Ma quella sera, contrariamente al solito, non rise nessuno.
Samuele accusò il colpo in silenzio, ma distolse lo sguardo.
Non recepì la provocazione, ne risultò quasi infastidito. Probabilmente, era ancora troppo presto per scherzare: nonostante si fossero promessi di dimenticare quella notte e non pensarci più, Samuele aveva fatto l’esatto contrario. Lui, invece, si era impegnato il più possibile per dimenticare, un po’ senza risultato: se avesse continuato a pensare alla loro notte insieme, non sarebbe più riuscito a guardare Samuele in faccia senza avere l’irresistibile voglia di baciarlo.
Eppure, dall’altra parte era arrivata la chiusura totale: la promessa di far finta di nulla era naufragata, cozzando contro il muro alzato da Samuele.
Era stato arrabbiato per giorni interi, aveva pensato persino a cosa gli avrebbe detto quando fosse riuscito finalmente a parlargli: invece, adesso se lo trovava davanti, e la rabbia era svanita, nascosta in una parte imprecisata e periferica del corpo. Si sentiva come la prima volta in cui gli aveva parlato, quando lo aveva abbordato con una battuta e aveva sentito l’eccitazione dell’ignoto, il non sapere come avrebbe reagito, se lo avrebbe preso a cazzotti o se sarebbe finito a letto con lui la sera stessa. Nessuna delle due previsioni si era poi realizzata, ma aveva scoperto quello che c’era dentro Samuele, dietro il suo modo di sorridere ai clienti e dietro alle sue mani ferme mentre preparava cocktail in serie. Quello che aveva trovato lì dentro gli era piaciuto, tanto da avvicinarlo abbastanza da fare un passo troppo lungo, e finirci a letto.
E adesso tutto stava andando a rotoli, perché Samuele non era più Samuele.
Quelle spalle appena incurvate, i muscoli tesi e l’espressione seria non erano da lui.
- Hai ragione – lo sentì dire. – Mi dispiace. – Portò lo sguardo su di lui, e quando si trovò quegli occhi verdi addosso, a Mattia passò la voglia di ridere. – Le cose mi sono sfuggite di mano, ho perso il controllo e non sapevo cosa fare. Pensavo che, qualsiasi cosa avessi fatto, avrei combinato un altro casino – ammise.
Mattia non sapeva cosa fosse accaduto in quei giorni di silenzio, cosa Samuele avesse fatto o detto, come avesse trascorso le sue giornate, ma di fronte a quello sguardo perso non riuscì ad essere arrabbiato, deluso, nemmeno felice. Si sentiva vuoto dentro, e immerso in un vuoto più grande. Si trovava davanti quelle labbra che aveva baciato, adesso strette dalla tensione, e quegli occhi che si erano chiusi mentre sospirava, e gli sembrava di non riconoscerli, come se gli stessero sfuggendo. Samuele si comportava come un gatto diffidente, gli scivolava dalle mani quando le tendeva per afferrarlo, non somigliava più all’uomo che aveva provocato un pomeriggio al bar. Gli tese la bottiglia di vino, utilizzandone il collo per dargli un colpetto sul braccio.
- Apri questa bottiglia. Ho voglia di un bicchiere di vino - gli disse solo, e anche Samuele non aggiunse altro.
Si sfilò il cappotto, poggiandolo sulla spalliera di una delle belle sedie del salotto. Quella stanza gli era sempre piaciuta, dalla prima volta che c’era entrato: non sapeva se fosse per il colore caldo delle pareti, per il bianco splendente dei mobili, per il tappeto colorato o per il tessuto caldo del divano. C’era qualcosa, in quella stanza, che urlava dappertutto casa.
- Vuoi qualcosa da mangiare? –
Si voltò subito verso la porta, trovando Samuele con in mano la bottiglia di vino stappata e due bicchieri così lucidi da sembrare appena tirati fuori dalla loro confezione. Gli andò incontro, prendendoli ciascuno in una mano per poggiarli sul tavolo all’angolo. Samuele evitò accuratamente anche solo di sfiorarlo, distogliendo persino lo sguardo. Quella patina d’imbarazzo era snervante, lo irritava.
- No, sto bene così, grazie – rispose. - Comunque non era necessario prendere il servizio buono – buttò lì, riuscendo a strappargli un sorriso.
- Per il vino buono serve il servizio buono – gli rispose lui a tono. Mattia finse una faccia offesa.
- Credevo fosse perché era l’ospite ad essere buono! –
Samuele colse la provocazione solo in parte, limitandosi ad un sorriso accennato mentre sistemava anche la bottiglia sul tavolo. Se avesse fatto la stessa battuta una settimana prima, avrebbe ricevuto in cambio una risposta tagliente, ma non disse altro.
Osservò l’uomo versare con cura il vino in ciascuno dei due bicchieri: il modo in cui il liquido scarlatto fluiva disordinato, cozzando contro la superficie trasparente, era ipnotico. Entrambi i bicchieri furono pieni per ben oltre la metà: dopo aver poggiato la bottiglia di nuovo sul ripiano, Samuele li prese entrambi, porgendogliene uno. Mattia si costrinse a distogliere gli occhi dal liquido per poggiarli su di lui.
- Oggi hai lavorato? – esordì Samuele, per catturare la sua attenzione e spezzare quella massa di imbarazzo che li avvolgeva e pareva quasi limitarli anche nei movimenti. Prima di rispondergli, Mattia mandò giù un sorso di vino: era inebriante, e quasi catartico, concentrarsi sul sapore avvolgente dell’alcool. Gli sembrava quasi sentirlo già agire sul cervello, sciogliendo le catene, quando non era arrivato ancora neppure allo stomaco.
- Sì. Una tragedia – si lamentò. – Il tizio migliore con cui ho avuto a che fare è stato un signore sulla quarantina che mi ha chiesto un atomizzatore con dei cuori o qualcosa di romantico per la moglie – iniziò a raccontare, mandando giù un altro sorso di vino. Samuele non aveva ancora assaggiato nemmeno un sorso del suo. – Ma chi è che regalerebbe un atomizzatore per San Valentino? Quando è andato via, io e Carla abbiamo riso per quasi mezz’ora! –
Anche Samuele rise, appena, prima di superarlo per andare a sedersi sul divano. Mattia lo seguì, sprofondando con il corpo proprio accanto a lui, tanto da destabilizzarlo: un po’ lo aveva fatto apposta, a sederglisi così vicino. Era spinto dalla curiosità di vedere se si sarebbe spostato un po’ più in là, o se sarebbe rimasto lì, con le loro cosce che si sfioravano.
Samuele si irrigidì appena, ma non si spostò, e per Mattia fu come aver bevuto una bottiglia di vino tutta in un sorso: la testa leggera, la nausea e un enorme peso sullo stomaco.
- Io oggi ho fatto il turno pomeridiano al locale. Non ho fatto che preparare cocktail dell’amore -  accompagnò le ultime parole mimando delle virgolette con le dita di una mano – e vedere un vai e vieni di gente che non ha fatto altro che sbaciucchiarsi. –
Mattia finse una smorfia disgustata.
- Da farsi venire il diabete. –
- Quasi – rispose Samuele, e questa volta rise sul serio. Rise con quella leggerezza che ci metteva dentro tutte le volte, come se gli si fosse sciolto un peso dal petto: e non poteva essere l’effetto del vino, non ne aveva bevuta nemmeno una goccia. Solo in quel momento, mentre Mattia lo guardava con la coda dell’occhio, Samuele portò il bicchiere alle labbra, reclinando il capo indietro: il pomo d’Adamo gli balzò sulla gola quando deglutì. – E poi ci siamo noi, sul divano di casa mia a bere costosissimo vino che hai soffiato a tuo padre. –
- Ehi ehi! Questo l’ho comprato! – lo rimproverò, dandogli una gomitata sul braccio che non reggeva il bicchiere, quello più vicino a lui. Samuele non colse la battuta, rimase serio: parve non averla nemmeno sentita, preda di un altro flusso di pensieri.
- Noi siamo sul divano a bere vino, mentre la gente normale sta bevendo champagne in un lussuosissimo locale, insieme a un gruppo di colleghi che odia, portando in giro le proprie mogli con le loro belle pellicce, i gioielli e i racconti sui figli che crescono e che diventano impossibili e bla bla bla. –
Non stava parlando della gente normale.
Stava parlando di quello stronzo del suo compagno, che doveva essere da qualche parte con sua moglie, come tutti gli uomini per bene che nascondevano i loro segreti sotto il tappeto, o dietro la porta di un appartamento in una via come tante di Milano.
Samuele non disse altro, e per un po’ rimasero in silenzio. Un silenzio così imbarazzante che Mattia ringraziò il fatto che i loro bicchieri fossero tanto pieni da tenerlo occupato per quei minuti interminabili.
Non era mai successo, prima, che in compagnia di Samuele ci fosse per così tanto tempo quel silenzio. Tutte le pause erano sempre state riempite da qualcosa, c’era stato sempre un motivo perché fossero lì, come intermezzo, una pausa nella loro corsa per permettere loro di riprendere fiato. In quel momento no: quello era uno dei classici silenzi imbarazzanti alla fine dei quali, terminato anche il vino nel bicchiere, lui si sarebbe alzato e sarebbe andato via, lasciando l’altro da solo. Era insopportabile. Mattia mando giù un altro sorso, questa volta più grande, tanto da bruciargli la gola e fargli lacrimare un po’ gli occhi.
- Quando pensi di smetterla? – La voce gli uscì più gracchiante di quanto si aspettasse, per colpa del vino. Samuele parve riscuotersi in quel momento.
- Di fare cosa? –
- Di fare così – gli fece notare. - Il tipo che ho abbordato al bar era molto più divertente. -
Samuele sorrise appena, in modo tirato, reclinando il capo indietro, contro lo schienale del divano.
- Anch’io preferisco quel tipo. Ma stasera non è potuto venire. –
- E’ perché è idiota – si lasciò sfuggire Mattia. Samuele non si mosse, se non con il capo, voltandolo verso di lui: aveva un non so che di languido, in quella posizione, che gli provocò una stretta allo stomaco. Le sue pupille si dilatarono, fino a far divenire le iridi verdi due contorni quasi invisibili.
- Sì, è vero – mormorò, stringendosi nelle spalle e distogliendo di nuovo lo sguardo.
Mattia si sentì montare dentro un fastidio che non aveva mai provato, qualcosa di puro e di potente che lo pungolò dritto al centro del petto. Gli era venuta voglia di urlare.
Di picchiarlo. E di baciarlo, che fosse maledetto. Invece canalizzò tutta quella rabbia nella mano con cui lo afferrò per un braccio, stringendo le dita intorno al suo bicipite.
- La smetti di compiangerti? Mi fai incazzare! – Samuele aggrottò la fronte. – Se non ti sta bene essere trattato come un idiota, fa qualcosa! Non fare ricadere tutte le colpe sugli altri! Facendo così sembra solo che ci provi gusto a fare la vittima! –
Se ne pentì nello stesso istante in cui lo disse e gli occhi di Samuele si accesero.
Avrebbe voluto dire che non lo pensava sul serio, che lo stesse dicendo solo per farlo arrabbiare, per scuoterlo. Invece, sentiva che quella fosse la verità. Che Samuele si stesse comportando da vittima, che sguazzasse in tutto quel dolore e che non avesse intenzione di tirarsene fuori perché in realtà gli piaceva avere qualcosa da rinfacciare all’uomo che gli faceva del male.
Perché aveva paura di uscirne.
- Secondo te mi piace farmi trattare così?! Che cosa ne sai di quello che c’è tra me e lui? – gli rispose quello, e il tono della sua voce si era alzato di un’ottava, tanto che Mattia lo lasciò andare.
- Quello che so è che tu non stai facendo niente per venirne fuori! –
- Ma cosa ne vuoi capire tu di amore, eh? Ci provi con qualsiasi cosa respiri! –
Arrivò come una mazzata dritta contro le costole, spezzandole tutte insieme con un colpo solo.
- Per te è così che vanno le cose, non importa se stasera è toccato a me. Per te è facile! -
Mattia boccheggiò, sentendo gli organi piegarsi sotto le ossa spezzate.
Poi inspirò, prese fiato, e la rabbia gli si riversò addosso come uno tsunami. Si alzò in piedi, poggiando malamente il bicchiere sul tavolo, tanto che il poco vino rimasto all’interno schizzò fuori, e qualche goccia finì sul tavolo.
- Hai ragione, non ne capisco niente, e allora? Preferisco restare solo e provarci con chiunque piuttosto che farmi trattare di merda da uno stronzo che ha paura anche solo di ammettere che gli piace il cazzo! -  Anche Samuele si alzò in piedi, parandoglisi davanti: a differenza sua, non si curò del bicchiere, che si infranse sul pavimento con uno stridio cristallino, mentre il vino si allargava sul pavimento e sul tappeto. Nessuno dei due ci fece troppo caso.
- E’ solo questione di tempo! –
- NO, Samuele! Non è questione di tempo!! – gli urlò contro il viso, così vicino da potergli sfiorare il naso con il proprio. Avrebbe voluto colpirlo, strappargli la pelle per la rabbia che gli faceva montare dentro. – Te lo sta dicendo solo per tenerti buono!! Non lascerà mai quella donna, lo capisci?! Quelli come lui pensano solo a loro stessi, non gli importa niente di nessun’altro! –
- Tu non lo conosci! Come puoi dirlo? –
- Perché anche mio padre è così! E non gli importa di nessuno se non di se stesso. – Samuele si zittì, arretrando di un passo, e Mattia rincarò la dose: si sentiva bene a riversargli addosso quelle urla, miste al proprio rancore. Gli sembrava di poterlo accoltellare con ogni parola. – Quelli come lui venderebbero qualsiasi cosa per salvarsi la pelle. Qualsiasi. –
Suo padre aveva venduto l’affetto dei suoi figli. Aveva venduto lui, non appena aveva saputo che fosse gay, per apparire di fronte ai suoi colleghi come un uomo comprensivo e progressista, e soffiare una causa da sotto il naso di un avversario. Stava vendendo il futuro di Massimiliano, purché studiasse legge come lui e fosse il figlio perfetto. Magari aveva venduto pure il suo matrimonio, per farsi un’amante e tappare la bocca di qualche collega di uno studio legale avversario. Avrebbe venduto qualsiasi cosa pur di ricavarne qualcosa.
A Mattia non sfuggì il cambiamento negli occhi di Samuele.
Anche se non lo avrebbe mai ammesso, le sue parole avevano aperto una piccola crepa, che liquidò con un gesto della mano in aria. Ma neppure quel gesto sarebbe servito, visto che le dita tremavano in maniera incontrollabile.
- Lui non è come tuo padre, tu non lo conosci, quindi falla finita. – Persino la sua voce aveva preso a tremare appena, chissà se per la rabbia o perché il tarlo del dubbio avesse iniziato a divorarlo. - Sono affari miei – gli sibilò contro.
Mattia fece un passo indietro, furioso.
- Oh, su questo non ho dubbi, io me ne tiro fuori. Ma tu non sei così, Samuele, o almeno questo non è quello che ho conosciuto io, che è venuto a un concerto con me e che lavora in quel locale. Per cui, quando pensi che tornerà, fammi uno squillo – gli sibilò.
Voleva lasciare quella casa prima di dargli un pugno e schiacciarlo sul pavimento.
- Dove vai? – lo chiamò Samuele, quando lo vide dirigersi verso la porta del salotto. Il suo tono era cambiato di nuovo: c’era un’inflessione più morbida, adesso, solo un po’. Mattia si voltò, e lo vide ancora in piedi, nello stesso punto in cui l’aveva lasciato.
- A casa. Si è fatto tardi, e devo cercare qualcuno con cui provarci, sai, non vorrei trascorrere il San Valentino senza una buona scopata. Ma va bene chiunque – gli rispose, imitando il suo tono, ironicamente.
- Mattia, dai – lo richiamò, questa volta con voce stanca. - Non volevo litigare. –
- Non abbiamo litigato, infatti. Ti ho detto quello che penso. Lo faccio spesso, non riesco a trattenermi. Ti ci dovrai abituare, se vorrai avere ancora a che fare con me – gli rinfacciò. Poi, preda di una strana smania velenosa, gli si avvicinò di nuovo di un passo, puntandogli un dito contro. Quando gli fu vicino, le pupille di Samuele si dilatarono come quelle di un coniglio di fronte al cacciatore. – E, per inciso, non andavo a letto con qualcuno da mesi, prima di te. -
Samuele non mosse in passo, ma le braccia gli ricaddero lungo i fianchi, privi di forze.
Mattia sapeva di essere stato troppo diretto, forse un po’ cattivo, e di esserlo ancora: sapeva di avere affilato lo sguardo, di avere arricciato le labbra e stretto i pugni vicino ai fianchi. Si stava comportando come gli aveva insegnato suo padre, inflessibile e indifferente, perché solo quelli così facevano strada nella vita.
Però, al di là dello sguardo impassibile, c’era un filo sottile, al centro del petto, che si stava tendendo, in attesa di quello che avrebbe detto Samuele: se gli avesse rinfacciato di non voler avere più nulla a che fare con lui, il filo si sarebbe spezzato.
Ma Samuele, all’inizio, non disse nulla. Lasciò che le braccia gli ricadessero lungo i fianchi, poi si portò le mani sul viso, stropicciandosi gli occhi, e le guance, in un gesto stanco.
- Non faccio che fare casini – lo sentì mormorare. Quando rialzò gli occhi verso di lui, Mattia ci trovò dentro soltanto tanta amarezza. - Non ho mai incontrato nessuno che fosse così forte e deciso come te, nei sentimenti. La gente ha paura, Mattia. Io ho paura come un ragazzino, anche se non lo sono più da un pezzo. E la gente, quando ha paura, si comporta in modo idiota. E’ in grado di aspettare per anni che qualcuno mantenga una promessa. Di restare vicino a una donna anche se non la ama più. Di restare amico di qualcuno che si è amato solo perché sai che ha bisogno comunque di te. E di ignorare tutte le chiamate e gli sms di una delle poche persone a cui importa di te. – Accennò un sorriso, a cui Mattia non riuscì a rispondere. Quando sollevò una mano, sembrò che volesse toccarlo. Ma non lo fece, la ritirò subito dopo. - Mi piacerebbe tanto essere come te: troverei il coraggio di mandare a fanculo Riccardo e dire “se mi ama tornerà”, e se non torna chi se ne fotte. Ma io non sono come te, sono io. Però sono contento di aver conosciuto uno come te. –
Se solo Samuele avesse saputo, avrebbe compreso che anche lui aveva paura.
Solo che non gli era mai stato permesso di mostrarla.
Non sapeva cosa dire, perché se avesse aperto la bocca probabilmente lo avrebbe pregato di baciarlo. O forse avrebbe iniziato a parlare di suo padre, di tutte le volte che aveva sentito di non essere abbastanza, e della paura che gli attanagliava le viscere quando si svegliava, certi giorni, e si rendeva conto di non aver realizzato nemmeno uno dei suoi sogni di ragazzo. Allora lo prendeva una sorta di malinconia che gli avvolgeva tutte le membra, rendendogli impossibile persino respirare. Era un po’ come la sensazione che stava provando in quel momento, di fronte agli occhi di Samuele.
- Per quel che vale, anch’io sono contento di aver conosciuto te – azzardò. Non avrebbe dovuto farlo, eppure tese la mano in avanti, fino a incontrare il viso di Samuele, all’altezza della guancia: la pelle era ruvida per la barba corta, ma era calda.  Samuele chiuse gli occhi, quando avvertì il contatto con il palmo della sua mano.
- Mi dispiace di averti trattato a quel modo. Di averti accusato di volermi portare a letto, di aver urlato, e di non aver risposto alle tue chiamate – mormorò. Quando riaprì gli occhi, dentro c’era sereno dispiacere. – E’ che non faccio altro che fare casini, Mattia, come un ragazzino. – Fece una pausa. – Soprattutto quando ci sei di mezzo tu. Per questo non ti ho richiamato. Ho pensato che così sarebbe potuto tornare tutto come prima. –  Mattia avvertì che un poco d’aria usciva dai polmoni, facendogli mancare l’ossigeno. Quando gli occhi di Samuele si posarono su di lui, gli parve quasi che il viso stesse bruciando, che tutto stesse bruciando. – Poi tu vieni qui, e non ci ho pensato nemmeno un attimo alla possibilità di chiederti di andartene e di lasciarmi in pace per un po’. - Lo sentì sbuffare di frustrazione. – Mi confondi, Mattia. Mi fai sentire leggero, come se non avessi nulla di cui preoccuparmi, come se potessi chiudere tutte le porte e ricominciare da capo anche adesso. E questa cosa mi fa incazzare maledettamente, e allora me la prendo con te, anche se non te lo meriti. – Le mani di Samuele gli si aggrapparono al maglione, sul petto, all’improvviso, senza che le avesse viste arrivare. – Anche adesso sono incazzato nero, perché penso che potrei baciarti e mandare tutti a fanculo, per stanotte. –
Il tormento di Samuele era difficile da comprendere, eppure aveva un suo senso: era come se fosse intrappolato all’interno di una gabbia, e avesse avuto diritto, per una volta ad un’ora d’aria, della quale razionalmente sapeva che avrebbe dovuto pentirsi, ma, in verità, non si pentiva per niente. E anche Mattia avrebbe voluto tirarlo di nuovo fuori da quella gabbia, anche solo per un’altra ora, e assaporarne la pelle.
- Beh, puoi baciarmi tutte le volte che vuoi. Chi te lo impedisce? – lo pungolò. Samuele scosse il capo, facendo per ritrarsi.
- Non è giusto. Non è così che deve andare. –
- Ed è giusto amare te e vivere con la propria moglie? – Avrebbe voluto avvolgerlo, solo con lo sguardo, e strattonarlo verso di sé. – Nessuno ti impedisce di essere un po’ egoista, ogni tanto.
Basta non dirlo a nessuno -  lo incalzò. Samuele lo costrinse ad arretrare con uno spintone.
- Smettila – lo rimproverò. Mattia lo afferrò per un braccio, strattonandolo, con l’intenzione di avvicinarlo, ma il corpo di Samuele era troppo pesante e opponeva troppa resistenza, e riuscì solo a farlo voltare verso di sé.
- Perché? Così puoi credere di portare rispetto ad un uomo che ti calpesta? –
- Ti ho detto di smetterla. –
Samuele lo spintonò di nuovo, e Mattia arretrò senza opporre resistenza. Non era veramente arrabbiato, adesso: avvertiva solo la tensione sessuale che lo univa a Samuele, che ad ogni spinta riceveva uno strattone e gli tendeva le membra. Lo guardò, lo sguardo affilato.
- Non so essere egoista, non sono bravo quanto te. – Mattia sollevò le sopracciglia, liberandosi in una risata che evidenziò eccessivamente, di proposito.
- Se io volessi comportarmi da egoista, caro mio, ti avrei già sbattuto sul divano, e lo sai benissimo anche tu che non mi avresti detto di no – lo provocò, e lo scintillio negli occhi di Samuele, che tanto cozzava con la sua espressione combattuta, fu abbastanza indicativo della battaglia morale che stava affrontando. Mattia ne approfittò per avvicinarglisi, abbastanza da poter chinare il capo e baciarlo direttamente sulla pelle del collo, un bacio solo.
- Non facciamo niente di male. Ci teniamo solo compagnia – mormorò, per circuirlo.
- Smettila, Mattia. -
Quando mosse le labbra verso l’alto, per scoprire la linea della mandibola, e poi la guancia, incontrò le labbra di Samuele, che aveva voltato il capo. Lo baciò come se fossero passati mesi dall’ultima volta, e tutte le immagini della loro notte insieme gli si sovrapposero nella mente.
Stavano facendo di nuovo un casino.
 








(1) Buon San Valentino
(2) - Va bene. - 

 

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Capitolo 48
*** Chapter 42nd: Codardo ***



Peccare di silenzio, quando bisognerebbe protestare, fa di un uomo un codardo.

Ella Wheeler Wilcox, Protest, 1914


Chapter 42nd: Codardo
 
Il suono del suo respiro sembrava amplificato dal silenzio della stanza dalle mura spesse.
Ad ogni soffio, gli sembrava di avvertire l’aria lungo la gola sfiorarlo come una carezza.
Era un silenzio avvolgente, morbido. Musicale.
Un ultimo respiro, lungo appena un attimo, e cominciò a suonare.
Dominik stava provando quell’esercizio da quella che doveva essere un’ora, eppure c’era sempre qualcosa che lo irritava, una piccola sbavatura nella musica, una nota dimenticata, la necessità di far scorrere i polpastrelli sullo spartito per riprendere un passaggio particolarmente complesso.
E tutte le volte, ad ogni pausa, avvertiva il sospiro silenzioso eppure così fastidioso della maestra.
Lo aveva fatto apposta, ad assegnargli quell’esercizio così lungo, solo per privarlo del tempo di dedicarsi a Chopin, avanzando la giustificazione degli esami di fine anno così vicini, anche se era ancora Febbraio e sapeva benissimo anche lei come gli sarebbero bastati poco più di una quindicina di giorni per padroneggiare ogni brano, a differenza di tutti gli altri allievi.
Ma lei era cattiva.

Dominik non aveva mai sperimentato cosa fosse la cattiveria: non avrebbe saputo darne una definizione, o darle un colore, una sfumatura, farne un esempio.
Ma se glielo avessero chiesto in quel momento, la cattiveria avrebbe avuto la stessa sfumatura di viola che aveva il respiro stizzito della maestra, insieme alla sua lingua tagliente e ai suoi modi sgarbati. Si era chiesto più volte, durante l’ultima settimana, se davvero le fosse mai stato simpatico e lo avesse stimato, visto che era bastato così poco per renderlo diverso ai suoi occhi.
- Marek! Non ci siamo ancora! –
La voce tornò a rimbrottarlo proprio nel bel mezzo di un passaggio più difficile degli altri, distraendolo. Lo aveva fatto apposta. Lui non aveva sbagliato, stava suonando bene: aveva avuto solo una piccola incertezza, ma se lei lo avesse lasciato fare l’avrebbe superata, se ne sarebbe accorta. Invece lo aveva interrotto di proposito.
Il respiro stizzito riempì di nuovo il silenzio.
- Che cosa ti succede? Hai smesso di studiare? –
Dominik avvertì la tensione fluire lungo le dita fino ai polpastrelli, e immaginò di riversarla sui tasti del pianoforte che stava ancora sfiorando. Si chiese che ore fossero, e sperò che mancasse poco alla fine della lezione e all’ora di pranzo.
- No. Io studio sempre. E suono. Stavo suonando bene, se lei non mi avesse interrotto – rispose, frustrato. La maestra era ancora seduta lì, di fianco a lui: ne avvertiva la posizione.
- Invece no. Non stavi suonando bene, sei in grado di fare molto meglio di così. –
- Sono esercizi. Non c’è niente dentro. Posso suonarli solo così. –
- Sei sempre stato molto più bravo, Marek. Stai avendo un tracollo. – Dominik accusò il colpo, ma non rispose. – Sei distratto, non ti eserciti abbastanza. Quel ragazzo ti ha portato ad uno stile di vita che non ti fa affatto bene. –
Avrebbe tanto voluto non avvertire quella solita stretta allo stomaco di tutte le altre volte, ma non ci riusciva mai. L’inquietudine arrivava immediatamente, partiva dal petto, si irradiava fino alla punta delle dita e poi scendeva giù, concentrandosi in un macigno dentro al petto che sembrava soffocarlo e paralizzargli le mani, impedendogli di suonare. E gli riempiva la testa, e lo faceva sentire in colpa.
Perché, nonostante fosse consapevole di essere bravo e di avere studiato, tutte le volte che la maestra gli parlava a quel modo c’era una piccola parte di lui, quel minuscolo tarlo del senso di colpa, che iniziava ad eroderlo, consumandolo dall’interno: allora pensava a come avrebbe suonato se la sera prima, invece di trascorrerla a letto con Federico, l’avesse passata sul divano a studiare; o, ancora, a che colore avrebbe assunto la musica se il pomeriggio di due giorni prima Dominik non aveva mai sperimentato cosa fosse la cattiveria: non avrebbe saputo darne una definizione, o darle un colore, una sfumatura, farne un esempio.
Ma se glielo avessero chiesto in quel momento, la cattiveria avrebbe avuto la stessa sfumatura di viola che aveva il respiro stizzito della maestra, insieme alla sua lingua tagliente e ai suoi modi sgarbati. Si era chiesto più volte, durante l’ultima settimana, se davvero le fosse mai stato simpatico e lo avesse stimato, visto che era bastato così poco per renderlo diverso ai suoi occhi.
- Marek! Non ci siamo ancora! –
La voce tornò a rimbrottarlo proprio nel bel mezzo di un passaggio più difficile degli altri, distraendolo. Lo aveva fatto apposta. Lui non aveva sbagliato, stava suonando bene: aveva avuto solo una piccola incertezza, ma se lei lo avesse lasciato fare l’avrebbe superata, se ne sarebbe accorta. Invece lo aveva interrotto di proposito.
Il respiro stizzito riempì di nuovo il silenzio.
- Che cosa ti succede? Hai smesso di studiare? –
Dominik avvertì la tensione fluire lungo le dita fino ai polpastrelli, e immaginò di riversarla sui tasti del pianoforte che stava ancora sfiorando. Si chiese che ore fossero, e sperò che mancasse poco alla fine della lezione e all’ora di pranzo.
- No. Io studio sempre. E suono. Stavo suonando bene, se lei non mi avesse interrotto – rispose, frustrato. La maestra era ancora seduta lì, di fianco a lui: ne avvertiva la posizione.
- Invece no. Non stavi suonando bene, sei in grado di fare molto meglio di così. –
- Sono esercizi. Non c’è niente dentro. Posso suonarli solo così. –
- Sei sempre stato molto più bravo, Marek. Stai avendo un tracollo. – Dominik accusò il colpo, ma non rispose. – Sei distratto, non ti eserciti abbastanza. Quel ragazzo ti ha portato ad uno stile di vita che non ti fa affatto bene. –
Avrebbe tanto voluto non avvertire quella solita stretta allo stomaco di tutte le altre volte, ma non ci riusciva mai. L’inquietudine arrivava immediatamente, partiva dal petto, si irradiava fino alla punta delle dita e poi scendeva giù, concentrandosi in un macigno dentro al petto che sembrava soffocarlo e paralizzargli le mani, impedendogli di suonare. E gli riempiva la testa, e lo faceva sentire in colpa.
Perché, nonostante fosse consapevole di essere bravo e di avere studiato, tutte le volte che la maestra gli parlava a quel modo c’era una piccola parte di lui, quel minuscolo tarlo del senso di colpa, che iniziava ad eroderlo, consumandolo dall’interno: allora pensava a come avrebbe suonato se la sera prima, invece di trascorrerla a letto con Federico, l’avesse passata sul divano a studiare; o, ancora, a che colore avrebbe assunto la musica se il pomeriggio di due giorni prima fosse stato veramente concentrato, anziché pensare a come sarebbe stato baciare Federico quando fosse tornato dal lavoro.
Si sentiva spaccato, percorso da qualcosa che lo tormentava, dentro e fuori dal petto.
Era così facile, prima, far tutti felici: la mamma, la sua maestra, il mondo intero. Anche la musica.
Adesso era tutto una gran confusione, e la mamma era preoccupata, la maestra lo tormentava, gli estranei l’avrebbero guardato con quel misto di pietà e disgusto, come solo un ragazzino gay cieco poteva essere guardato. E poi c’era la musica, che non riusciva più a esprimersi come una volta, quando era così facile disegnare delle cose, quando non c’erano tutte quelle sensazioni nuove ad emergere mentre suonava, riversandosi non solo nella musica ma anche sulla pelle, e nella testa.
-  Non riesco a capire come farai a superare gli esami, quest’anno, di questo passo. –
Dominik deglutì, a vuoto.
Stava cercando di ritrovare la calma, di far cessare quell’impercettibile tremore che sentiva lungo le dita e che gli avrebbe impedito di suonare. Avvertì fermarsi prima di polpastrelli, poi si impadronì di nuovo del movimento delle dita, infine della solidità dei gomiti e delle spalle.
C’era di nuovo silenzio, e soltanto due respiri.
Attorno a quei respiri, iniziò a sentire la musica, prima che a suonarla.
Attaccò immediatamente, non appena sentì che fosse arrivato il movimento, e ricominciò a suonare da capo: questa volta le note dello spartito gli si riversarono nella mente come se le avesse scritte lui, con una fluidità che gli era sembrato impossibile raggiungere, nei minuti precedenti.
Alla fine, chiuse l’ultima nota con una profondità maggiore delle altre, lasciando che risuonasse un po’ e venisse assorbita dalle spesse pareti del Conservatorio.
La maestra non disse nulla per alcuni minuti, poi si schiarì la voce.
- Meglio – borbottò. - Ma non è abbastanza. Sei scostante, e distratto, come se non ti importasse più abbastanza – lo accusò poi.
Io te lo avevo detto che quel ragazzo avrebbe portato guai. E se adesso sta provando a deviarti, dovresti dirmelo. 
Avvertì lo stridio della sedia che scivolava sul pavimento, mentre lei si alzava, insieme al fruscio dei suoi vestiti.
Io ti ho preso a cuore. Ho fatto per te ben più di quanto mi venga richiesto come insegnante, e più di quanto avrei dovuto fare. Non voglio che tutti i tuoi sacrifici vadano perduti per colpa di un pervertito
– Ti avevo assegnato la sonata numero 2, Chopin. Hai studiato? –
- Sì – rispose subito, quasi automaticamente, sobbalzando. Un altro lieve ondeggiare di abiti. Nella mente, gli sembrava di sentire ancora spegnersi le ultime sillabe della parola pervertito che lei aveva usato così poco tempo prima, riferendosi a Federico. Riferendosi a lui.
- Esercitati. Tornerò tra dieci minuti, pretendo di ascoltare qualcosa di impeccabile. –
Dominik non disse nulla.
Rimase fermo, le dita a sfiorare i tasti del pianoforte e la sensazione che un unico respiro potesse scoppiargli nel petto. Stava cercando, da qualche parte dentro di sé, la musica da mettere dentro la sonata di Chopin.
Non c’era niente.
C’era solo quel fastidio, quell’inquietudine che lo corrodeva dall’interno.
Quando finalmente avvertì il rumore della porta che si chiudeva, e più nessun respiro intorno a sé, fece una cosa che non aveva mai fatto: staccò le dita dai tasti bianchi e le portò tra i capelli. Rimase così, finalmente in pace, con la testa tra le mani e i gomiti poggiati sulla tastiera, godendo del silenzio e del vuoto.
Non c’era più niente
In tutto quel vuoto, avvertiva solo il suono del proprio respiro, e poi il silenzio: nessuna musica, nessuna nota, solo uno strano rimbombo nella testa, che sembrava pulsare senza sosta.
Era stanco.
Per la prima volta nella sua vita aveva il solo desiderio di uscire da quell’edificio e rifugiarsi a casa, dietro il proprio pianoforte e la propria musica, senza che nessuno potesse opprimerlo.
Non era mai successo. Non aveva mai sperimentato quella sensazione prima.
Si sentiva come se non ci fosse più niente intorno: nessun obiettivo, nessuna gioia, nessun colore. Ogni colore che provava a creare veniva spazzato via dal senso di oppressione al petto che seguiva ad ogni respiro stizzito della maestra, o dalla morsa allo stomaco quando pensava a Federico, ai suoi baci e ai suoi sospiri.
Forse era vero, era distratto. Solo un po’.
Lo era quando Federico tornava a casa dal lavoro e lui si alzava subito per andare a rubargli un bacio, o quando lo raggiungeva sul divano per guardare un film insieme o farsi semplicemente fare qualche carezza. Lo era ancora quando decideva di accompagnarlo al supermercato, perché fare la spesa insieme gli metteva addosso uno strano e dolce senso di intimità.
Tutto quello, però, metteva la musica appena un po’ da parte.
E se, prima, era così facile riprenderle le fila e tirarla verso di sé, adesso sembrava sfuggirgli dalle mani, come se fosse una coperta schiacciata da un masso enorme e pesante, mentre lui se ne stava da una parte a strattonarla inutilmente per un angolo. Il masso, in quel caso, era rappresentato dal resto del mondo, o meglio, da quello che il resto del mondo pensava di quelli come lui e, di riflesso, anche di lui: deviato, pervertito, animale. Ed era rappresentato anche da quella parte di delusione e di amarezza che, anche se aveva fatto finta di niente, aveva sentito nella voce di sua madre, quando l’aveva chiamata, e che era mancata solo in quell’ultimo “ti voglio bene”.
All’esterno, sembrava non essere cambiato nulla.
Continuava a frequentare il Conservatorio, a studiare sulla sua poltrona, a cenare con Federico e fare lunghe telefonate ai suoi genitori, come era successo negli anni e nei mesi precedenti, fino a Natale: eppure, nel momento stesso in cui Federico lo aveva baciato per la prima volta, si era avviata una catena di eventi che aveva cambiato tutto.
Anche se le cose apparivano sempre uguali, lui era diverso.
Quando andava in Conservatorio si scontrava con i bisbigli e l’isolamento degli altri studenti e con i toni velenosi della maestra. Quando studiava sulla poltrona teneva le orecchie tese al minimo rumore, in attesa che Federico rientrasse, e quando cenava con lui si lasciava sfiorare le mani e lo ascoltava raccontare la sua giornata immaginando il movimento delle sue labbra. Quando telefonava a casa, non trovava le parole e gli pareva si avvertire sempre una strana tensione nella voce di sua madre.
Dominik trasse un profondo respiro, raddrizzando la schiena.
Iniziava a sentirla, pensando al suono della voce di Federico, la sonata di Chopin prendergli forma sotto la pelle. Doveva concentrarsi solo su quella, e allontanare tutto il resto: le occhiate, i sussurri, la tensione. Prendere solo le cose belle e lasciarle fluire lungo le spalle, e le braccia, fino alle dita.
Premette i polpastrelli sui tasti, e iniziò a suonare.
 
§§§
 
Si sentiva leggero.
Come se stesse respirando un’aria impalpabile, come se non dovesse compiere più nessuno sforzo nemmeno per respirare.
Era letteralmente su una nuvoletta rosa, a guardare il resto del mondo dall’alto.
Federico allacciò il grembiule nero intorno ai fianchi: l’rologio segnava le quattro e cinque del pomeriggio, il locale, che aveva appena aperto, era ancora vuoto, i tavoli e le sedie in ordine, il bar ancora fermo come nel languore del sonno. Proprio dietro il bancone, Samuele se ne stava appoggiato ad una parete, lo smartphone tra le dita e il viso illuminato dal lieve chiarore dello schermo. Gli altri erano tutti sul retro, Claudio fuori a fumare l’ultima sigaretta nel freddo di Febbraio.
Federico si lasciò cadere moridamente su uno sgabello di fronte al bancone, il gomito sul piano di legno e il viso poggiato sulla mano.
Non vedeva l’ora di tornare a casa, anche se era uscito da nemmeno un’ora.
Avrebbe trovato ad accoglierlo il tepore del riscaldamento centralizzato, e quello più dolce delle mani di Dominik e della sua musica che riempiva la stanza mentre lui preparava la cena. E i baci di Dominik. E il corpo caldo di Dominik tra le lenzuola.
Probabilmente non era mai stato veramente così felice.
Tutta la sua felicità, negli anni precedenti, era sempre stata soffocata dal timore di essere scoperto a letto con Manfredi dai suoi genitori, dall’ansia del non potersi tenere per mano e dall’angoscia delle bugie. Anche dalla paura del futuro.
Adesso, solo adesso, così lontano da casa, gli pareva di aver trovato se stesso e l’essenza della vera felicità, quela che Dominik diceva di disegnare con le sue note, quando le dita si piegavano e si contorcevano rapidamente sui tasti del pianoforte.
Sarebbe potuto restare bloccato così, in un istante eterno, senza tornare mai più indietro.
Nessuna bugia, nessuna ansia di essere visto in giro, nessun timore.
Solo Federico, e la felicità, e Dominik, e le mani intrecciate, e le cene a casa e le passeggiate al freddo, e il lavoro con la voglia di tornare a casa a rifugiarsi sotto le coperte.
Nessun limite, nello spazio e nel tempo.
- Ehi – si sentì chiamare. Lo aveva visto, avvicinarsi di qualche centimetro, il corpo di Samuele: il richiamo era giunto quando aveva ancora gli occhi fissi sul cellulare, ma quando Federico si voltò, lo aveva già rimesso in tasca.
- Ehi – lo salutò di rimando, voltandosi del tutto verso il bancone e incrociando le braccia sul ripiano. Samuele sorrise, ma aveva un’aria stanca, le occhiaie, e il viso teso. Aveva indosso un maglione tutto stropicciato, il cui colore non c’entrava proprio nulla con quello dei pantaloni. Era strano: Samuele era uno che a cose come quella prestava attenzione. Anche se indossava quasi sempre magliettine aderenti e jeans a vita bassa, ci teneva che fossero sempre perfettamente abbinati, e stirati, e magari con una marcia in più, come un foulard o un bracciale. Di rimando, anche Federico si fece sfuggire un largo sorriso. Sentiva di non poter fare a meno di sorridere, da alcuni giorni a quella parte.  -  Ti ho mandato un messaggio stamattina – gli fece notare.
Gli aveva scritto intorno alle dieci, quando, da solo in casa, non era riuscito più a contenere il buonumore e gli era venuta voglia di uscire a bere qualcosa, o di parlare con qualcuno. Ma Samuele non aveva risposto, così Federico era rimasto a casa a fare le pulizie, utilizzando la scopa con l’asta di un microfono mente ascoltava gli U2 a tutto volume.
Samuele parve sobbalzare appena, solo una lieve scossa delle spalle. Poi, con un movimento fluido, agitò una mano in aria, davanti al viso, in un gesto distratto.
- Sì, scusa, io…Ho tenuto il cellulare spento tutto il giorno. Ero…sono stato qualche oretta in palestra. Proprio adesso stavo leggendo tutti gli sms… - si giustificò, con un sorriso.
Federico non trovò nulla di strano, in quello. Non era la prima volta che Samuele spariva per delle ore o non rispondeva ad un sms. Quando andava in palestra, ogni mattina per tre volte la settimana, staccava il cellulare, o lo lasciava proprio a casa: diceva che la palestra fosse l’unico angolino di pace della sua vita, quello in cui rifugiarsi qualche ora per tenere lontani tutti e tutto: il lavoro, la vita, la casa, le spese, Riccardo. Soprattutto Riccardo. Ecco perché staccava il cellulare.
No, questo non era strano.
Quello che lasciò Federico stranito, con una sensazione spiacevole alla bocca dello stomaco, fu il sorriso di Samuele.
Quel sorriso finto. Teso, vuoto.
La sua bocca si era distesa, ma i suoi occhi erano rimasti assenti.
Samuele non sorrideva mai così. Nei sorrisi di Samuele c’era sempre un calore che sembrava avvolgere tutti come una coperta calda d’inverno.
Federico non fece in tempo a dirgli nulla, perché l’altro aveva appena fatto un cenno con la mano per indicargli dei clienti appena entrati, che attendevano di ordinare.
Li raggiunse con una strana sensazione di disagio che gli scorreva lungo la spina dosale, come un brutto presagio.
Il comportamento bizzarro di Samuele poteva essere attribuito ad una sola cosa: Riccardo lo aveva di nuovo piantato in asso. Per San Valentino, e magari proprio quando lui aveva preparato una bella cena e aveva riempito la vasca da bagno per trascorrere una serata insieme. E Samuele, come sempre, doveva aver incassato e tirato fuori quei sorrisi di circostanza, fino a quando, tra qualche giorno, non gli sarebbe passata, mandata giù come l’ennesimo rospo.
Almeno, fino alla delusione successiva.
Riccardo era una di quelle classiche persone che rappresentava l’incarnazione della delusione continua e ripetuta. A volte, certi gesti, certe giustificazioni, gli ricordavano Manfredi.
E la trovava una cosa brutta, e cattiva, da pensare, associare la figura del suo migliore amico, una parte dell’essenza della propria anima, a quel bastardo traditore e vigliacco che era Riccardo.
Eppure, certe volte, quando Samuele gli parlava dell’ennesimo appuntamento rimandato, della cena finita nella pattumiera e della chiamata dimenticata, Federico avvertiva bruciare ancora nel petto la delusione, gli pareva di sentire sulla pelle l’occhiata triste eppure altera – come se non fosse dalla parte del toro – di Manfredi, tutte le volte che gli faceva notare l’ennesima mancanza.
E li sentiva ancora addosso, i baci del sesso dopo la litigata, quel filo invisibile che gli si attorcigliava intorno al cuore e sembrava ridurglielo in poltiglia ad ogni sguardo del suo migliore amico.
Pensare a Manfredi, in quei giorni, era quasi piacevole.
Era come se la felicità e la leggerezza stessero soffocando i brutti ricordi, le litigate, i dissapori e le urla, per lasciare spazio soltanto alle cose belle: il calore degli abbracci di Manfredi, i pomeriggi passati a giocare a Fifa, le gite scolastiche e le versioni di latino passate di nascosto sotto il banco. E quel viaggio che avevano fatto di nascosto, inventando che ci sarebbero stati dei colleghi di Manfredi, e le domeniche allo stadio a guardare il Palermo, e quel susseguirsi di baci, nel buio della sua stanza, nascosti agli occhi di tutti.
I ricordi, i bei ricordi, lo accompagnavano con una dolcezza disarmante, facendo da sfondo al battito forsennato del cuore nel petto tutte le volte che pensava a Dominik, e a come avevano fatto l’amore, la notte precedente, e alla sua smorfia assonnata al suono della sveglia, quella mattina, prima che si voltasse per rubargli un bacio all’improvviso.
Federico poggiò il biglietto con gli ordini dei clienti sul bancone, proprio di fonte a Samuele.
- Due caffè per quei due tipi laggiù. Due thè caldi e un caffè al ginseng per le salutiste in fondo – gli indicò.
Gli occhi di Samuele saettarono subito, giusto un attimo, verso i due tavoli occupati, poi verso Claudio, all’altra estremità del bancone. Mentre quello preparava i caffè, Samuele si mise subito al lavoro con il bollitore. A Federico non sfuggì il lieve tremore delle sue dita quasi impacciate.
Mentre aspettava, si lasciò cadere sullo sgabello circolare, lasciando che ruotasse un po’, come in un gioco, le gambe penzoloni.
- Com’è andata ieri? Festeggiato San Valentino? – chiese Samuele, il sottofondo del tintinnare dei cucchiaini e delle tazze.
- Festeggiato è un parolone! – la buttò lì, stringendosi nelle spalle ma aprendosi immediatamente in un sorriso. – Dominik non è voluto uscire, ma forse è stato meglio così. Non ha ancora…diciamo mandato giù quello che è successo al Conservatorio, credo. E’ scazzato, si sente oppresso da quella stronza della sua insegnante e da quegli idioti con la puzza sotto il naso. Io non so cosa fare, come aiutarlo. Lui dice che non ne vuole parlare, e io faccio finta di niente. Però lo vedo più sciolto con me, sai? …Così ieri siamo rimasti a casa, a letto, per tutta la sera – snocciolò, parlando velocemente, come se l’entusiasmo gli spingesse le parole fuori dalle labbra senza che avesse il tempo di contenerle. – È stato bellissimo, Samuele. Credo di non essere mai stato così felice, di questa felicità pulita e senza ombre. -  Abbassò lo sguardo, a fissarsi le punte delle scarpe: un po’ si vergognava, quasi si sentisse sporco, di quello che stava per dire. - Nemmeno con Manfredi. C’era sempre qualcosa da nascondere o qualcosa da accettare di malavoglia, per colpa delle persone e dell’ambiente che avevamo intorno, e anche per colpa sua, che non ha mai accettato di dire la verità ai suoi, non l’ha mai nemmeno preso in considerazione. O di andare via, partire e mandare tutto al diavolo. Ma adesso mi sento bene, come se niente più potesse andare male. –
Fu allora che accadde.
Fu allora che gli occhi di Samuele si sollevarono finalmente su di lui e, con quel verde intenso come del mare in tempesta, lo bruciarono.
Fu come avvertire una scossa che partiva dall’altezza del petto, insieme alla sensazione di qualcosa che lo ustionava sul viso, sul collo, e che lo soffocava, stringendolo alla gola. Eppure Samuele non aveva detto nulla, né cambiato espressione.
Solo dentro ai suoi si occhi si era aperta una voragine.
Durò solo lo spazio di qualche secondo, poi quegli occhi sfuggirono, concentrandosi sull’acqua all’interno del bollitore.
- Ti è mai capitato di sentirti come se tutto quello che fai fosse sbagliato? – gli chiese. Federico si strinse nelle spalle: gli mancava l’aria, come se fosse ancora soffocato da quello sguardo. Samuele non attese nessuna risposta. – Io sono sempre stato un bravo bambino, e un bravo ragazzo. Non ho mai fumato, mi sarò ubriacato sì e no due volte, avevo buoni voti, anche se mi toccava studiare fino a tarda notte. Ero un bravo figlio. Non so se lo fossi davvero, perché volevo esserlo, o solo perché mi piaceva avere l’approvazione dei miei genitori. Probabilmente la seconda. Quando a diciassette anni ho confessato di essere gay, ho pensato che quella sarebbe stata la decisione peggiore che avrei preso in tutta la mia vita, e che l’avrei ricordata così, in questo modo, fino a quando fossi stato vecchio. Ero convinto che quel dolore, quella sensazione di smarrimento e di vertigine, la terra che mancava sotto i piedi, fossero tutte cose che non avrei mai più provato con quell’intensità, mai più. Mi sentivo perso. – Si strinse nelle spalle, continuando ostinatamente a sfuggire al suo sguardo. Gli parve quasi di vederlo sorridere, una specie di smorfia. – E invece, adesso sto facendo un casino, Federico – lo sentì dire.
E mentre l’acqua iniziava a bollire e l’odore del caffè iniziava a diffondersi, la voragine lo risucchiò.
Federico ci roteava dentro, e la voce di Samuele lo avvolgeva, parlando del senso di colpa, di Mattia, del buio e della sensazione di sporco. E parlava anche del desiderio sotto la pelle, e dell’estasi, e del benessere che gli riempiva il petto prima di gettarlo nello sconforto del tradimento.
Samuele stava bruciando, dall’interno.
Bruciava l’uomo che era stato, e l’uomo che credeva di essere, mentre l’uomo che sarebbe diventato prendeva forma dalle ceneri, plasmato dalle mani di Riccardo, e da quelle di Mattia e delle altre persone che gli vorticavano intorno, mentre lui sembrava aver perso la presa.
Federico lo lasciò parlare, cullato dall’inflessione morbida della sua voce, addolcita dalla malinconia. Dovette lasciarlo, per pochi minuti, per servire ai tavoli, e mentre lo faceva, mentre guardava i visi sorridenti dei clienti, i loro bei vestiti, la barba di uno e le unghie smaltate dell’altra, si chiese se anche loro, come lui, come Samuele, avessero alle spalle una storia, e che tipo di storia fosse.
Quando tornò al bancone, Samuele era ancora nello stesso punto in cui lo aveva lasciato, i palmi delle mani adagiati sul legno, le spalle un po’ curve in avanti.
Si sedette di nuovo sullo sgabello.
- È per questo che stamattina non ti ho risposto. Non ci sono nemmeno andato, in palestra. Sono rimasto tutta la mattina a casa, il cellulare spento per il terrore di leggere un sms di Mattia, o di una chiamata di Riccardo. Con quale coraggio avrei potuto fare finta di niente quando non riesco nemmeno a guardarmi allo specchio? –
Federico pensò che avrebbe potuto dire tantissime cose, ma che qualsiasi cosa avesse detto non sarebbe servita a nulla. Samuele era innamorato di Riccardo, e tutte le parole delle persone intorno a lui non lo avrebbero nemmeno toccato, tutti i discorsi razionali si sarebbero schiantati contro la parete costruita dai suoi sentimenti, lì a proteggerlo.
- Cosa pensi di fare adesso? – gli disse allora.
Samuele si strinse nelle spalle, un gesto quasi grottesco, il movimento infantile che cozzava con l’imponenza del suo corpo da uomo.
- Ero sicurissimo di quello che avrei dovuto fare. Smetterla. Avevo confessato a Riccardo quello che era successo, avrei fatto in modo che non si ripetesse. Sarebbe tornato tutto come prima. – Un sospiro, lo sguardo un po’ perso. – Solo che poi è arrivato Mattia. Non era nemmeno arrabbiato per l’indifferenza che gli avevo riservato, anche se mi sarei meritato un bel cazzotto in faccia – ammise, lasciandosi andare ad un lieve sorriso, più simile ad una smorfia che alla vera allegria. Sospirò, come un soffio di vento in un pomeriggio d’autunno. - Mi sono sentito come se ci fosse qualcuno a cui importasse di me. E ho fatto di nuovo la cazzata. –
Federico seguiva con la punta dell’indice una venatura del legno. Le loro vite – la sua, quella di Samuele – erano come quelle venature: un complesso di linee, diverse sfumature, che si intrecciavano, disegnavano percorsi irregolari che a volte era impossibile seguire, perché si intrecciavano così saldamente con quelle degli altri da sparire in quella confusione. Si perdevano, ma riemergevano da qualche altra parte, a distanza, a volte di un colore diverso, ed era impossibile riconoscerne l’origine.
- Non hai risposto alla mia domanda però. –
- Cosa dovrei fare, Federico? La cosa giusta. Smetterla e basta. Anche se c’è una parte di me, irrazionale e stupida, che pensa che forse Mattia, e Riccardo, hanno tutti ragione. Che posso essere egoista, fare sesso quando mi sento solo, divertirmi, pensare a me e solo a me, nell’attesa che la vita che voglio mi apra le porte. Anche se questo potrebbe significare non riuscire più a guardarmi allo specchio. –
- Potrei farti un bel discorso, Samuele, uno di quelli razionali, ordinati, da persona matura. Potrei dirti di “lasciare Riccardo, di riprendere in mano la tua vita, perché meriti di meglio e che lui si renderà conto del gioiello che ha perso e allora tu sarai felice con un uomo migliore e gli sbatterai la porta in faccia”. Insomma, tutte delle sante verità che però sono anche le cazzate che si dicono sempre per sembrare dei gran fighi a cui importi qualcosa della tua vita, tanto è tutto facile quando non è tuo il culo che brucia. – Vide Samuele sorridere di nuovo, appena. Nel locale, ancora vuoto, si sentiva solo la musica provenire dalla tv e il lieve chiacchiericcio delle tre ragazze al tavolo, le salutiste al ginseng, come Federico le aveva ribattezzate. -  Però, anche se sembrano cazzate, in realtà è vero. Lasciare Riccardo e decidere per te sarebbe la cosa giusta, indipendentemente dalla presenza di Mattia o di chiunque altro. Solo tu. E ti dico che farà un male cane, come se ti strappassero tutte le budella senza anestesia, e che non avrai nemmeno voglia di alzarti dal letto per giorni, e giorni e giorni. Però devi farlo, prima o poi, o rischi di passare il resto della vita così, e ti ritroverai a sessant’anni a vivere con tre gatti e a guardare Forum e Barbara D’Urso, chiedendoti che cosa sarebbe successo se… -
Samuele stava per dire qualcosa, ma Federico lo interruppe. Stava prendendo coraggio, a parlare con lui, come se non stesse dicendo quelle cose solo a lui, ma anche a se stesso.
- Ma continuare ad andare a letto con Mattia, nell’attesa che Riccardo lasci sua moglie, lasciatelo dire ma è proprio da stronzi. –
- Ed io non voglio esserlo! Io amo Riccardo, ho investito otto anni della mia vita in questa storia, ed è con lui che immagino il mio futuro…E’ solo che… - Samuele sbuffò, frustrato. – Mattia mi confonde. Io ho delle mancanze, lo ammetto, ma è come se lui ci rigirasse dentro un coltello. È un bell’uomo, è divertente, io...mi sento leggero, e libero, quando sono con lui… - Negli occhi di Samuele, il verde era diventato morbido, e soffice, come anche il suo tono di voce. E quell’improvvisa arrendevolezza aveva irritato Federico nel profondo, come se una serie di spilli avessero iniziato a pungerlo, e pizzicarlo, all’altezza dello stomaco, irritanti come le punture di insetto d’estate.
- Non hai mai pensato di prenderlo sul serio, allora? – Federico rigirò lo sgabello sul quale era seduto, puntando i piedi a terra per fermarsi di fronte a Samuele, in modo da averlo proprio di fronte. – Mattia ti piace. Non hai mai tradito Riccardo in otto anni di relazione, e adesso sì. Io mi farei due domande. –
Federico immaginava che, a quel punto, Samuele non avrebbe risposto, che avrebbe dischiuso la bocca, come per cercare le parole, ma che non avrebbe detto niente, limitandosi ad abbassare il capo in segno di resa. Invece, quando parlò era terribilmente lucido e sicuro di sé. Anzi, era irritato.
- Io e Mattia facciamo sesso, Federico. Solo questo, e lui lo sa, è stato lui stesso a ribadirmelo. Non gli piaccio io, gli piace il sesso. Non ci sono implicazioni, seghe mentali o complicazioni. Non c’è proprio niente da prendere sul serio. – Sembrava quasi frustrato, come se avesse ripetuto quella frase più e più volte a qualcuno che non voleva capire. Probabilmente a se stesso. – Io ho un compagno, e a giugno andremo a vivere insieme. Non appena lascerà sua moglie. Mattia…Mattia non lo so. È come se tutte le persone che ho attorno mi stessero consumando – soffiò. Era come se la voragine si fosse chiusa, e fosse rimasto solo un involucro esterno, un mulo testardo con i paraocchi. Federico non credeva proprio che fosse solo per il sesso: sorbirsi le paranoie di Samuele, i suoi sbalzi d’umore e i suoi sensi di colpa per il compagno tradito era davvero troppo per qualcuno che voleva semplicemente godersi un po’ di sano sesso senza impegno. Soprattutto per uno come Mattia: carismatico com’era, e non semplicemente bello, in una discoteca o in un bar avrebbe rimorchiato chiunque nel giro di dieci minuti. Per questo, probabilmente, l’idea che Samuele ci fosse andato a letto – o anche solo quella che potesse pensare di farlo di nuovo – per colmare il vuoto lasciato da Riccardo gli gettava addosso un velo di disagio e di irritazione.
- A me sembra invece che tu glielo permetta, alle persone che hai intorno –  rispose. Si alzò dallo sgabello, perché un’altra coppia di uomini era entrato nel locale, togliendo i guanti e i cappotti. - Ti ho conosciuto come un tipo sveglio e cazzuto, mentre adesso somigli tanto a Manfredi. E a Riccardo. Un codardo senza palle che ha paura di usare la bocca per parlare – gli snocciolò proprio davanti alla faccia. Samuele arrossì, ma non di un rossore timido, o imbarazzato. Era il rossore tipico di chi sta per tirarti un cazzotto in faccia. Si era sicuramente incazzato di brutto, ma gli sarebbe passata. – Così non mi piaci proprio. Io ho trovato il coraggio di lasciare Manfredi e riprendermi me stesso anche grazie a te, perché ti vedevo così maturo, e adulto, e mi davi dei buoni consigli, e volevo essere adulto e maturo anch’io, farti vedere che lo ero. A te, e anche a Dominik. Ma adesso sembri proprio uno senza palle, come Riccardo.  – Gli lanciò un ultimo sguardo. – Dominik mi dice sempre che gli ricordi il colore giallo. Per lui il giallo è luminoso, potente e caldo. È una sensazione bella. Se ti vedesse adesso, non piaceresti nemmeno a lui. Sei diventato grigio, Samuele, il colore peggiore di tutti, quello vuoto. –
Federico lo lasciò lui: il suo primo amico a Milano, l’uomo che aveva raccolto i suoi pezzetti e li aveva incollati ad uno ad uno, che gli aveva aperto le porte di una città nuova e che lo aveva avvolto in un abbraccio caldo. Non voleva dirgli quelle cattiverie, eppure era arrabbiato: era arrabbiato con lui, e con se stesso, perché fino a pochi mesi prima era stato così anche lui. Grigio e vuoto.
Gli sarebbe passata. Lo avrebbe lasciato riflettere, ma gli avrebbe chiesto scusa. Dopo, un altro giorno. In quel momento non riusciva a pensare ad altro che al desiderio di tornare a casa e di immergersi nel mondo colorato di Dominik e della sua musica, e sentirsi di nuovo leggero.
 
 
§§§
 
Quando tornò a casa, Dominik non lo stava aspettando sulla soglia, né lo raggiunse qualche minuto dopo.
Era seduto sul divano, con degli spartiti in mano e l’aria tesa. Si era sistemato di traverso, le gambe distese sui cuscini e la schiena poggiata ad un bracciolo.
Federico lo vide mentre si toglieva il giubbotto, lasciandolo all’ingresso.
Il riscaldamento centralizzato doveva essere acceso da un bel po’, in casa faceva caldissimo. Le guance di Dominik erano tinte di rosso, i piedi nudi distesi sui cuscini.
Si sentiva a casa, finalmente. Avvertiva la tensione di una giornata di lavoro scivolare via lungo la schiena mentre si spostava verso il divano e raggiungeva Dominik alle spalle.
- Ehi – lo chiamò, poggiando le mani all’altezza delle sue clavicole e abbassando il capo per baciarlo su una tempia. Ma Dominik fu più veloce, voltandosi verso la direzione della sua voce e reclinando il capo un po’ indietro, invitandolo a baciarlo. Quelle guance arrossate erano adorabili, e quando Federico lo baciò gli parve che le sue labbra fossero più morbide e dolci del solito, come miele.
- È già così tardi? – gli chiese. Aveva la voce un po’ roca, come se non parlasse da ore: probabilmente aveva trascorso tutto il pomeriggio a studiare o a suonare. I tasti del pianoforte erano scoperti, il panno copritastiera abbandonato sulla poltrona.
- Quasi ora di cena – rispose, seguendo con le dita il profilo delle sue clavicole, al di sotto del maglione. Lo sentì fremere lievemente. – Continua a studiare, faccio la doccia e poi preparo la cena. –
Sotto il getto dell’acqua calda, dentro la doccia, Federico si trovò a pensare a Manfredi.
Non sapeva perché, né perché proprio in quel momento. Non era arrivata nessuna telefonata da parte sua, né nessun riferimento in qualche conversazione con Milena o con i suoi genitori.
Forse era stato lo sguardo smarrito di Samuele, e la frustrazione che aveva sentito sotto la pelle mentre parlava con lui. Federico, in quella stessa situazione – vittima di un amore che faceva più male che bene – ci si era trovato imprigionato per anni, e persino in quel momento, quando gli capitava di pensarci, sentiva una lieve morsa all’altezza del cuore.
Non sapeva più nulla di Manfredi. Erano settimane che non lo sentiva, e ogni volta che pensava a lui lo rivedeva con lo sguardo perso e furioso di quando lo aveva lasciato a casa sua, prima di ripartire per Milano dopo le festività natalizie. Quando aveva baciato Dominik, quando si era lasciato avvolgere dal suo mondo fatto di buio e di colore.
Il fatto di sentirsi così bene, in quel momento, lo faceva sentire in colpa, come se avesse inglobato in parte la sofferenza del suo migliore amico, del suo amante, e non fosse in diritto di essere felice perché lui era lì e un pezzo di anima si stava lentamente dissolvendo. Anche una parte di lui, senza che avesse potuto farci niente, era rimasta a Palermo, nel letto di Manfredi, nella sua automobile, nel loro pub preferito e nel loro angolino in spiaggia dietro a quei grandi scogli: e stava morendo lì, consumata dal dolore e dalla lontananza.
Uscì dalla doccia, indossando l’accappatoio: si era creato un velo di vapore, sullo specchio, e anche sulle mattonelle alle pareti. Quando spalancò la finestra, un soffio di aria fredda lo investì in pieno, provocandogli la pelle d’oca sullebraccia, e sulla schiena, mentre ancora si sentiva soffocare dall’aria densa di vapore.
Dominik gli dava quella sensazione: l’aria fresca, pulita, che lo sconvolgeva mentre era avvolto da una cappa soffocante.
Quando uscì dal bagno, vestito e con i capelli umidi, lo vide ancora sul divano con i suoi spartiti: non poteva dire se fossero gli stessi di prima o meno.
Decise di non disturbarlo, resistendo all’impulso di piombargli addosso e riempirlo di baci: conoscendolo, gli avrebbe mollato un calcio, stizzito, prima di cedere al languore del desiderio.
Federico sorrise, mentre, in cucina, tirava fuori quattro uova e gli ingredienti per preparare un’insalata. Aveva voglia di un’omelette, con dentro un bel po’ di prosciutto e formaggio. Dovevano esserci anche dei funghi, da qualche parte in frigo.
Aveva appena iniziato ad affettare le carote per l’insalata quando Dominik apparve sulla soglia, attirato probabilmente dall’odore del burro che aveva iniziato a fondersi nella padella sul fuoco.
- Uhm, che profumo…Cosa cuciniamo? – chiese, raggiungendolo alle spalle e sfiorandogli la schiena con una mano. Se non avesse avuto le mai occupate, Federico l’avrebbe intercettata per baciarla, proprio sul palmo, dove l’odore della pelle di Dominik assumeva una sfumatura dolciastra.
- Omelette al prosciutto e una bella insalata – rispose, versando le rondelle di carote in un’insalatiera.
- Io cosa faccio? –
- Puoi venire qui a darmi un bacio, tanto per cominciare. –
Dominik sorrise, con l’aria un po’ dispettosa, ma dopo averci riflettuto qualche secondo gli si avvicinò, le dita distese nell’aria alla ricerca del suo corpo: quando lo incontrò, all’altezza del gomito, seguì il profilo del bicipite, della spalla, fino alla nuca, artigliandolo proprio lì. Lo baciò con le labbra già dischiuse, e fu come respirare di nuovo un soffio d’aria pura, scoprendo la punta della sua lingua che gli sfuggiva, quasi timida. Subito dopo, con la fronte ancora poggiata alla sua, avvertì sul viso il soffio del suo fiato mentre espirava.
- Com’è andata oggi? –
- Bene – rispose subito Dominik, mentre il suo viso si allontanava e lui sfuggiva. – Tanti esercizi. –
- E la tua maestra è rimasta contenta? – Dominik si strinse nelle spalle, scuotendo il capo.
- Come al solito. Lei non è mai veramente contenta. –
Federico avrebbe volto baciarlo. Afferrarlo a sorpresa, proprio sul viso, e premergli le labbra contro: baciarlo, fino a scorticargli le labbra, premere la fronte contro la sua e dirgli parlami, ti prego, dimmi qualsiasi cosa ma non lasciarmi fuori. Quella malinconica dolcezza gli scavava dentro alle viscere come se avesse gli artigli, e lui non poteva farci niente. Non poteva chiedere, non poteva parlare, non poteva pretendere.
Poteva solo stare lì, accogliere le brevi frasi che Dominik gli diceva, gli sprazzi di vita che gli concedeva, e lasciarlo fare.
Era così, Dominik, impalpabile come l’aria, impossibile da catturare e tenere tra le dita come l’acqua. E doloroso, a volte, come l’acido sulla pelle.
- A casa ho suonato Chopin. È bello suonare Chopin senza la maestra. È libero, e si colora. – Lo vide sorridere tra sé, le labbra distese e gli incisivi bianchi in bella mostra. Sul fuoco, le uova avevano iniziato a sfrigolare, liberando un odore che gli fece venire l’acquolina in bocca.
Federico prese il sale per condire l’insalata.
- Oggi ho litigato con Samuele. – In realtà non avevano proprio litigato, ma dirlo così sarebbe stato più facile per Dominik da comprendere. La sua espressione si fece subito corrucciata: nella sua mente, il fatto che uno come li potesse litigare con uno come Samuele doveva risultare impossibile.
- Perché? –
- Io…è un periodo un po’…particolare, per Samuele. E credo di avergli detto delle cattiverie, anche se a fin di bene. –
- Si possono dire le cattiverie a fin di bene? – gli chiese lui, interrogativo. Aveva messo un po’ il broncio. Federico spense il fornello e lasciò perdere l’insalata, facendo qualche passo verso di lui; quando gli poggiò le mani sui fianchi lo sentì sobbalzare, sorpreso.
- A volte, quando vuoi spronare qualcuno a migliorarsi, poi dirgli delle cose un o’ cattive. Per aiutarlo. Come quando l tua maestra ti dice che non sei abbastanza bravo, anche se non è vero. Così tu ti metti sotto a studiare per dimostrarle che ha torto. –
L’espressione di Dominik da interrogativa divenne corrucciata.
- Non è mai bello dire cattiverie. – Suonava quasi come un rimprovero.
- Alcune persone a volte ne hanno bisogno. – Come me, per esempio, gli venne da pensare.
Ma Dominik stava già pensando a qualcos’altro, l’espressione pensierosa, il silenzio che si dilatava intorno a loro. Sarebbe rimasto a guardarlo così per l’eternità, nelle palpebre chiuse e nelle labbra dischiuse, come una musica sospesa. Tutto, di Dominik, era musica.
- Anche io ne ho bisogno? – gli chiese poi. Federico avvicinò il viso al su, sfiorandogli il naso con il proprio.
- Nessuno riuscirebbe a dire cattiverie ad uno come te – mormorò, mentre protendeva le labbra per baciarlo. Dominik si ritrasse un po’, l’espressione un po’ dispettosa.
- Tu sì – gli rinfacciò.
- Io? –
- Sì. Una volta mi hai detto che sono uno stronzo e che non facevo funzionare la nostra convivenza. E un’altra volta che avevo paura di vivere e che la mia musica sarebbe stata vuota.  –
Federico scoppiò a ridere, ricordandosi perfettamente dei loro litigi e delle loro incomprensioni, di quando era arrivato a Milano e si era trovato a dividere l’appartamento con un alieno che non sopportava proprio, fino a quando non si era lasciato avvolgere dalla sua musica e aveva iniziato a vedere il mondo come lui.
- E, va beh, ma allora eri insopportabile, mi hai quasi costretto a dirti quelle cose! – lo prese in giro, dandogli un buffetto sul viso.
- E adesso le pensi ancora quelle cose? – lo incalzò. Aveva l’espressione seria, ma aveva portato le braccia sulle sue spalle, ad avvolgerlo in un abbraccio caldo, il viso vicino al suo.
- Insopportabile lo sei ancora. – Gli pizzicò un fianco con una mano, piano, sentendolo sobbalzare e schiacciare il petto contro il suo. – Però no, non penso più che tu abbia paura di vivere, e la tua musica non è vuota. Ero io che non sapevo vederci dentro. –
Dominik sorrise, soddisfatto della risposta e addolcito dalla carezza di Federico lungo la schiena, sotto il maglione, a contatto con la pelle tiepida.
- Invece sei tu la persona a cui nessuno potrebbe dire cattiverie – lo sentì dire poi, in un sussurro così caldo che fu come essere riempiti, nelle vene, di lava bollente. Anche il suo fiato, con il viso, sembrava bruciare.
- Eh, sapessi invece quante me ne hanno dette! – 
- Non capiscono proprio niente. –
Il suo bacio arrivò morbido, preceduto dal cauto avvicinarsi delle labbra che si sfioravano fino a trovare l’incastro giusto: Dominik lo baciava con la solita ingenuità mista a sorpresa, e ad ardore, insieme a qualcosa di malinconico e lento che fluiva tra le sue labbra.
Lo avrebbe baciato così per ore, la mano sulla sua schiena a sentire il morbido movimento dei suoi respiri, e le sue mani...le sue mani sulla nuca, tiepide, che gli percorrevano la pelle in carezze morbide, solo per sfiorare e non per studiare, solo per assorbire, un’essenza, un’emozione, un colore.
Tutto quel calore si condensava nel petto, nelle dita, nel ventre e si trasformava in desiderio, ma desiderio soffice di essere spogliato e percorso da quelle dita, e studiato, di avere tutto il tempo del mondo per essere cullato da quei respiri e per sentire il cuore scoppiare e uscire fuori dal petto.
E all’improvviso finiva tutto con il telefono che squillava nella tasca.
Sul display, il nome di Milena, accompagnato da una sua foto dalla faccia buffa, che le aveva scattato proprio lui quasi un anno prima.
Avrebbe potuto non risponderle, riprendere a baciare Dominik e perdersi così nel buio. Ma quella magia, il filo di quel desiderio, erano ormai andati perduti, come se fossero stati qualcosa di talmente intimo da essersi dissolto in un battito di ciglia.
- È mia sorella – borbottò. Dominik stava sorridendo, come se fosse divertito. Gli diede un pizzicotto, sull’addome, a quale lui sfuggì subito facendo due passi indietro.
-Pronto? –
- Federico! – La voce di Milena, attraverso il telefono, era come un trillo acuto, e sapeva di casa, delle lasagne di sua madre, del sole di Palermo, dell’odore di calore e di sabbia e di mare che si respirava d’estate, del sudore sulla pelle ad agosto e delle luci sui balconi a Natale. – Cosa stai facendo, stronzetto? Non ti fai mai sentire! – lo rimproverò, ma l’allegria nella voce.
- Ehi, ho lavorato un sacco in questi giorni, e poi mamma mi chiama quattro volte al giorno e mi parla sempre di te! – La sentì ridere all’altro capo: doveva essere a casa, gli sembrava di sentire il suono ovattato di un televisore.
- Ho una notiziona, Fede! Vengo su a Milano per un convegno di genetica forense, importantissimo, una figata! Insomma, vengo a trovarti, posso restare da te, no? Non mi farai dormire in albergo, vero? –
Improvvisamente, stava sudando freddo.
Vedeva Milena, a casa sua, insieme a lui e a Dominik. La vedeva scoprirli dormire insieme, qualche vestito di Dominik slla poltrona in camera sua, i loro baci. Vedeva Milena all’interno della loro vita, e stesso piombare nel buio.
Milena non sapeva niente.
Nessuno sapeva niente.
Non era più libero. Palermo, e l’angoscia, e il terrore di essere scoperto, e le bugie, stavano tornando a tormentarlo.
- E quando verrai? –
- Il prossimo venerdì! –
- Ah, è perfetto! -  
Poco più di una settimana, e la sua bella nuova vita sarebbe andata in frantumi.





Nota al capitolo 42:
E' passato decisamente troppo, troppo tempo dall'ultimo aggiornamento. Quasi un anno, senza rendermene conto.
Un anno di esami, problemi vari e di impossibilità di scrivere.
Il mio pensiero è sempre stato su questa storia, ma ho trascorso dei mesi - chi mi segue su facebook lo sa - in cui il blocco dello scrittore mi ha vinto, e di fronte alla pagina bianca di word mi sentivo quasi soffocare.
Vi ringrazio tutti per l'affetto ele bellissime recensioni, e per le bellissime parole che mi dedicate ogni giorno: mi impegnerò per riprendere bene le fila di questa storia, e aggiornare il prima possibile, ma certamente questa storia non verrà mai abbandonata. E ringrazio voi per non averla abbandonata, per averla tenuta viva e per aver dato corpo a Dominik, a Federico, a Samuele, a Mattia e a tutti gli altri personaggi.
Mando un bacio a tutti voi, con la promessa di aggiornare prestissimo con il nuovo anno.
Se volete contattarmi, mi trovate su facebook o qui su efp, seppure entro più raramente.
Vi lascio con i miei migliori auguri per il nuovo anno, che sia sempre migliore del precedente.
Un bacio!


 

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Capitolo 49
*** 43rd: E pensare a quanto tradirono tutti quei baci… ***




La vita d'una persona consiste in un insieme d'avvenimenti di cui l'ultimo potrebbe anche
cambiare il senso di tutto l'insieme, non perché conti di più dei precedenti
ma perché inclusi in una vita gli avvenimenti si dispongono in un ordine che non è cronologico,
ma risponde a un'architettura interna.

Italo Calvino, Palomar, 1983
 


Chapter 43rd: E pensare a quanto tradirono tutti quei baci…
 
A Milano pioveva da giorni. Quasi ininterrottamente.
La pioggia aveva allontanato un po’ dello smog che aveva saturato l’aria nei giorni precedenti, ma aveva creato un’atmosfera tetra.
Grigia. Dovunque si voltasse, tutto era grigio.
Era come una punizione, come se il cielo stesse riversando su di lui il suo rancore, come se volesse ricordargli di essere un fallito.
Sei diventato grigio, Samuele, il colore peggiore di tutti, quello vuoto.
Eppure in quel momento, intorno a lui, tutto era colorato: le pareti, i tovaglioli sul tavolo, i sottobicchieri, persino i cuscini sulle poltrone.
L’idea di uscire a bere una birra era stata sua.
Non sapeva esattamente come fosse giunto a quella conclusione: forse l’ennesimo impegno di Riccardo che lo aveva tenuto lontano, forse la solitudine, o forse le parole di Federico che gli rimbombavano nella testa dal pomeriggio precedente.
O forse, più semplicemente, non lo vedeva da un sacco. Aveva bisogno di questo: sentirsi leggero, e senza impegni, come un ragazzino.
Allora, quel pomeriggio, Samuele aveva inviato un sms a Mattia.
Non ci aveva scritto chissà che, solo una parola: “Birretta?
La risposta era arrivata dopo nemmeno venti minuti, con una telefonata: la voce roca e musicale di Mattia era stata un sorso d’acqua fresca nel deserto. Gli aveva dato appuntamento per quella sera in quel delizioso locale che sembrava un ritrovo di artisti e filosofi, con divanetti e poltrone al posto dei tavoli e un piccolo palco in cui un gruppo di giovani musicisti stava suonando un jazz asciutto e coinvolgente.
Samuele era arrivato in anticipo: aveva occupato un divanetto con un piccolo tavolo basso proprio di fronte, e aveva ordinato un Martini bianco. Con i gomiti poggiati sulle ginocchia, si era lasciato coinvolgere dalla musica: non aveva mai apprezzato granchè il genere, ma quella sera non gli dispiaceva troppo. Il sapore un po’ dolciastro e un po’ amaro del Martini sembrava bruciare sul palato: lo aveva mandato giù in tre sorsi, e quando una cameriera – una graziosa ragazzina bionda di non più di diciassette anni – era passata a prendere il bicchiere, le aveva detto di stare aspettando qualcuno.
Le parole di Federico bruciavano nelle orecchie come il Martini sulla lingua.
Non riusciva nemmeno ad essere arrabbiato, quelle parole avevano semplicemente dato voce a quello che persino lui pensava di se stesso.
Quando si svegliava la mattina faticava a riconoscersi allo specchio, e non si era mai sentito così: aveva trascorso otto anni insieme alle delusioni provocategli da Riccardo, ma da quando aveva conosciuto Mattia era come se avesse sviluppato una sorta di impazienza che gli ustionava le viscere e gli provocava un fremito sotto la pelle, che lo soffocava al solo pensiero di dover trascorrere anche solo un altro giorno ad aspettare che la vita che desiderava finalmente iniziasse.
E, inoltre, in otto anni non gli era mai capitato di conoscere qualcuno che gli facesse lo stesso effetto di Mattia.
Si era trovato, più di una volta, a pensare che, se lo avesse conosciuto in un universo parallelo, in un mondo in cui Riccardo non esisteva, si sarebbe anche potuto innamorare di uno così. Perché Mattia rappresentava tutto quello che lui sarebbe voluto essere: un uomo forte, testardo ma risoluto, uno che sapeva prendere delle decisioni e portarle avanti. Uno con le palle. E sembrava impossibile il non potersi innamorare di uno così: carismatico, divertente, e un gran bel pezzo di figliolo.
Era quello l’effetto che gli faceva, come se si fossero incontrati in un altro mondo, in uno in cui erano entrambi delle persone diverse.
Ma nel mondo reale, Riccardo esisteva, e con lui esisteva quell’amore che lo consumava, proprio dentro lo stomaco e nel petto. E in un mondo in cui Riccardo esisteva, Samuele non avrebbe potuto amare altri che lui.
Erano queste le cose che non era riuscito a spiegare a Federico, perché non aveva trovato le parole; Federico avrebbe capito, perché – ne era certo – in quel mondo, in cui Manfredi esisteva e respirava, non sarebbe mai riuscito ad amare qualcun altro, nemmeno Dominik, nel modo in cui aveva amato lui. Si sarebbe innamorato, sì, in fondo era ancora un ragazzino, ma sarebbe stato un amore diverso.
E Samuele non voleva un amore diverso. Voleva quello di Riccardo. Ma Mattia, quando piombava nella sua vita, lo faceva sentire come se avesse sedici anni e si nascondesse dai suoi genitori per farsi fare una sega dal ragazzo più grande per il quale si era preso una cotta stratosferica. Mattia gli faceva sembrare tutto quello – il sesso, la distrazione, l’evasione dalla sua vita di merda – come una cosa giusta, uno svago meritato e necessario per sopportare la vita terrena.
Aveva quegli occhi, Mattia, così belli: non era il loro colore, o il taglio. Era il resto. Era per il modo in cui lo guardava, per quello che c’era dentro: una luce, un misto di forza, decisione e debolezza, che gli percorreva la pelle. Era il desiderio, la sensazione di valere qualcosa. Di valere di più.
Mattia apparve sulla soglia proprio mentre pensava quelle cose, spingendo l’ampia porta a vetri, con dieci minuti di ritardo.
Ci mise qualche secondo a trovarlo tra i divanetti, nel locale affollato, secondo in cui Samuele poté osservarlo: un cappotto scuro, una sciarpa a fantasia sui toni del borgogna che sembrava uno sbuffo di colore nel buio, quell’espressione quasi smarrita eppure così a proprio agio in quell’ambiente. Non appena lo vide, lo raggiunse subito, un sorriso luminoso mentre si sfilava i guanti di pelle.
- Scusa il ritardo, non trovavo parcheggio. –
Samuele sorrise. Gli sembrava di non sorridere da secoli. E sorrise solo perché anche l’altro stava sorridendo, e si sentiva già più leggero.
Mattia si tolse il cappotto dopo aver accuratamente sfilato ogni bottone dalla propria asola: per un attimo, Samuele ripensò a quello stesso movimento quando, l’ultima volta che era finiti a letto insieme, con gli stessi movimenti impacciati e le stesse dita un po’ tozze, Mattia si era sbottonato la camicia. Gli si sedette di fianco, le gambe accavallate: il peso del suo corpo fece sprofondare il cuscino.
- Allora, questa birra? – disse, dopo essersi seduto. – Anche se sono più un tipo da vino. –
Samuele fece una smorfia.
- Il vino è da snob. –
- Sbagliato. Il vino fa rimorchiare. – Una risposta a tono, un’occhiata divertita, e gli occhi di Mattia sembravano diventare più azzurri nella penombra. Con un cenno della mano aveva chiamato un cameriere: a prendere i loro ordini era arrivata di nuovo la ragazzetta bionda di prima. – Uno Chardonnay per me e la migliore birra bavarese che avete per il mio amico – snocciolò.
La ragazza annuì, scrivendo freneticamente con una piccola matita sul suo taccuino, poi, in silenzio, si allontanò.
Il piede di Mattia, la gamba accavallata e la caviglia adagiata sull’altro ginocchio, si muoveva a tempo di musica. Era a suo agio, come se stesse per bere un caffè nel salotto di casa propria.
A pensarci, uno come Mattia sembrava creato proprio per stare in un posto come quello, un locale un po’retrò che ricordava i ritrovi degli artisti nell’800 e che gli conferiva uno strano fascino misterioso.
- Bavarese? – Mattia voltò il capo e lo sguardo verso di lui, come richiamato sulla terra.
- Sono le birre migliori, vedrai. – Un occhiolino, una carezza sul ginocchio che pareva quasi uno sfiorarsi accidentale. – Ti piace qui? – Samuele annuì, perdendosi con lo sguardo a guardarsi intorno: mano nella mano, erano appena entrate due ragazze, e subito dietro di loro un gruppetto bizzarro di ragazzi di diverse età ed etnie aveva occupato un divanetto e quattro poltrone facendo un po’ di chiasso che non aveva infastidito nessuno. – Ci vengo da anni, quando sono stanco di tutti. Puoi fare quello che vuoi, bere quello che vuoi e dire quello che vuoi. Non importa a nessuno. –
Gli sarebbe piaciuto scoprirlo prima, un posto così.
Perdercisi dentro per scacciare la solitudine, vincere il silenzio con il chiasso e la musica e il jazz.
I loro ordini arrivarono insieme alla biondina sorridente: prima poggiò il grosso calice di fronte a Mattia, il vino di un giallo paglierino che ondeggiava elegantemente lungo la parete di vetro. Poi, con un altro movimento fluido, sistemò un enorme boccale pieno di birra fino all’orlo, proprio di fronte a lui.
- È una Augustiner Helles – gli sussurrò, insieme ad un occhiolino.
- Va benissimo tesoro – fu la risposta pronta di Mattia. Quando la ragazza si allontanò, si voltò verso di lui. – Il vino fa rimorchiare, eppure qui quello che ha rimorchiato sei tu – lo prese in giro, indicando con un cenno del capo la direzione verso la quale era sparita la ragazzina. – Saranno stati quei bei bicipiti che hai. – Il tono morbido della sua voce parve accarezzarlo proprio lungo le braccia.
- Ho già abbastanza casini. Grazie – rispose, più brusco di quanto avrebbe voluto. Afferrò il boccale, affondandoci dentro per berne un lungo sorso: era fresca e dissetante. Anche Mattia si era proteso, sollevando il calice con una eleganza quasi ipnotica e felina: il suo viso sparì dietro la circonferenza del bicchiere mentre reclinava il capo indietro. Bevve solo un piccolissimo sorso, come ad umettarsi semplicemente le labbra.
- Giornataccia? –
- Posso dire “decennaccio”? O semplicemente “vita di merda”? - Un altro sorso. -  Ieri Federico mi ha praticamente detto che sono un idiota. Anzi, no, le sue parole esatte sono state “vigliacco senza palle praticamente più inutile delle spogliarelliste ad un party gay” o qualcosa di simile. – Ancora un altro, poi poggiò il boccale sul tavolo. Ne mancava già quasi metà, forse avrebbe dovuto prenderne un’altra.
Non avrebbe dovuto parlarne, nemmeno accennare a quello che era successo il giorno precedente al locale. Ma allora perché si sentiva come se quell’invito a uscire non fosse nato per nient’altro se non per parlane con lui e riversargli addosso un po’ di quell’amarezza che lo stringeva proprio alla gola?
Mattia sorrise mentre mandava giù un altro po’ di vino.
I loro modi di fare erano così diversi da farlo quasi sorridere.
- Non che abbia proprio tutti i torti – rispose. Samuele avvertì un brivido freddo lungo la spina dorsale. -  Sulla parte del “senza palle” direi – aggiunse. – Ma cosa gli hai fatto per farlo parlare così? Gli hai messo sotto il gatto? –
- Gli ho detto di noi. –
Non avrebbe dovuto dirlo.
Non così.
Quella frase, insieme al tono morbido della propria voce, fu come una carezza sulla nuca, calda e rassicurante. Sapeva di cose proibite, eppure aveva dentro un’intimità strana, che non aveva a che fare soltanto con il sesso ma sembrava spiegare le ali ad avvolgere tutta la sua vita e le scelte che aveva compiuto. Si era sentito, in quell’attimo in cui aveva detto quella parola – noi -, come parte di un mondo in cui poteva dividere con qualcun altro tutta quell’amarezza e quella delusione, e anche la malinconia che lo prendeva certe sere d’inverno. Si era sentito meno solo.
Samuele seguì il movimento fluido della schiena di Mattia e quello del suo braccio mentre poggiava il calice di vino, ancora pieno, sul tavolo.
- Di noi? –
- Del sesso – si corresse subito.  – Di noi con…di noi e del sesso. –
Aveva avvertito una specie di scossa gelata lungo la spina dorsale quando aveva incrociato lo sguardo di Mattia: era così freddo, tutto quel ghiaccio, eppure anche così caldo, da provocare l’effetto dell’azoto liquido. Così freddo da bruciare.
Si sentì stupido. L’intimità che aveva avvertito tra loro sembrava stupida, adesso.
Durò solo un attimo, prima che Mattia si rilassasse.
- Oh, quello. – Scollò le spalle, quasi con sufficienza. – Ne parli come se avessimo ammazzato qualcuno, Samuele. Siamo maggiorenni, e da parecchio tempo anche, e consenzienti. Che Federico si faccia un po’ i cazzi suoi. Cos’è, ti ha fatto la paternale? –
Non gli sfuggì il lieve tremore delle sue dita mentre riprendeva il calice e questa volta mandava giù un bel sorso di vino bianco, forse troppo, perché fece una smorfia, arricciando il naso e strizzando gli occhi.
- E non ricominciare con quella storia che sei una brava persona, che hai un compagno e che non fai queste cose e che è sbagliato e che finiremo all’inferno e bla bla bla. Perché poi mi toccherà ricordarti che il tuo compagno ha una moglie, e tu ti incazzerai e finiremo per discutere di nuovo, e sarebbe un vero peccato non godersi questo bellissimo jazz in questo bel posto in una serata così tranquilla, in cui sei così arrapante con questo maglioncino aderente. – Ancora un sorso. Forse due. Anche Samuele riprese la birra, ma non riusciva a bere.
Il viso di Federico si era proiettato di nuovo nella sua mente, e vedeva le sue labbra muoversi e avrebbe sicuramente sentito la sua voce nelle orecchie se tutto non fosse stato spazzato via dal tocco rovente della mano di Mattia sulla coscia. Non si voltò, perché sentiva già i suoi occhi pungere lungo lo zigomo e la mandibola e non sarebbe stato pronto ad affrontarli in quel momento.
- Abbiamo fatto sesso – disse semplicemente. – Due volte – precisò. – Del gran sesso, se proprio devo dirlo. E adesso cosa vuoi? Che ti dica che mi dispiace? Che mi scusi per averti sedotto? – Il tocco rovente si trasformò in un incendio mentre la mano di Mattia risaliva lungo il polso, e il braccio, e il suo corpo si avvicinava lungo il divano, coscia contro coscia. Si costrinse a voltarsi per guardarlo negli occhi. Il suo fiato, vicino al viso, aveva l’odore frizzante del vino che aveva appena bevuto. -  Tu hai il tuo compagno, la tua vita, io ho la mia. Se questo ti fa sentire troppo in colpa e non vuoi che ti tocchi mai più, va bene. Fine, amici come prima. Ma se vorrai rifarlo, al diavolo, facciamolo! –
Avrebbe voluto dirgli tante cose.
In primo luogo, che lo aveva invitato lì perché sentiva di stare impazzendo, la voce di Federico gli rimbombava nelle orecchie ed era perfettamente consapevole che avesse ragione, ma non riusciva più ad ascoltarlo. Poi, avrebbe voluto dire che non si riconosceva più, che anche Federico non lo riconosceva più, e che paradossalmente l’unico che lo riconosceva ancora, che si comportava come se la loro vita stesse scorrendo tranquilla come al solito, era Riccardo. Riccardo che, dopo aver piantato su un casino micidiale quando lui aveva avuto il coraggio di confessargli di averlo tradito, si era chiuso la porta di casa alle spalle, insieme a quella rivelazione: due ore dopo, era lo stesso uomo di sempre, come se nulla fosse accaduto. Come se, sullo stesso letto in cui avevano fatto l’amore decine di volte, non ci avesse portato, e spogliato, e baciato e tutto il resto, un altro uomo, che non era lui.
Tutto normale. Come un piccolo intoppo burocratico di quelli che ogni tanto rallentavano una delle cause che stava seguendo. Una roba da nulla.
Adesso, a Samuele girava un po’ la testa. Doveva essere stato il Martini che aveva bevuto. O forse il corpo di Mattia così vicino, e terribilmente caldo, con quegli occhi che sembravano lava ghiacciata.
Gli veniva anche a ridere. Appena un po’.
- Ho fatto una battuta divertente? –  Gli occhi di Mattia lo stavano perforando, e avrebbe davvero voluto dirglielo, perché stesse sorridendo.
Riccardo mi ha praticamente autorizzato a fare sesso con chi voglio. Purchè non glielo dica, ovvio. Come si dice, occhio non vede, cuore non duole.
Non c’era proprio nulla da ridere, eppure quella frustrazione sembrava essersi condensata nella gola e avergli scatenato dentro quella stupida voglia di spalancare la bocca e ridere, ridere fino a farsi mancare l’aria e a farsi dolere la pancia.
E scoppiò a ridere, il boccale che ondeggiava pericolosamente nelle mani e un po’ di birra che finì fuori quando lo poggiò malamente sul tavolo. Stava ridendo e gli sembrava di non aver riso a quel modo negli ultimi tre o quattro anni. Mattia stava sorridendo, le labbra contratte a trattenere il riso: anche lui voleva ridere? Perché non stava ridendo?
Era tutto così terribilmente divertente! Lui che parlava con l’uomo che si era portato a letto del suo compagno, che a sua volta lo aveva autorizzato a fare sesso a destra e a manca purché fosse sempre lì, docile, come una moglie fedele. Come faceva la sua vera moglie, d’altronde.
Perché Mattia non stava ridendo?
- Scusa, scusa – cercò di farfugliare, incapace di trattenere persino le ultime risate. – Non sono ubriaco, anche se sembra così. Ho pensato ad una cosa…divertente. –
Un colpo di tosse per trattenere l’ultima risata.
Si sentiva così leggero. Era proprio divertente.
Mattia aveva smesso di sorridere. Lo stava guardando – anzi no, osservando e studiando – alla ricerca di un particolare che spiegasse quella risata e quella leggerezza. Ma come spiegarlo, a Mattia, che stava ridendo di se stesso?
Samuele sollevò una mano e con i polpastrelli dell’indice e del medio sfiorò il viso di fonte al suo, lungo l’attaccatura dei capelli.
- Mi viene sempre voglia di ridere, quando ci sei tu di mezzo. –
Non gli sfuggì il lampo di luce negli occhi azzurri, insieme all’accenno di un sorriso.
- Oh, beh, grazie. Posso mettermi delle campanelle da clown, la prossima volta che facciamo sesso, ti piacerebbe? – gli suggerì. – Non sarebbe la peggiore fantasia erotica con cui ho avuto a che fare! –
- Chi ti dice che faremo di nuovo sesso? – gli fece notare, ma lo stava già pungolando su un fianco con due dita, avvertendo il suo corpo, la carne calda sotto al maglione. Mattia colse la provocazione, e le nocche della sua mano destra gli scivolarono sul viso, lungo lo zigomo e lungo la mandibola.
- Era solo un’ipotesi. –
Sfuggì, ritornando al suo posto dall’altro capo del divano, il calice di vino di nuovo tra le dita e quel sorriso sornione sul volto mentre le labbra e la lingua sfioravano il vetro in una carezza. Ne mandò giù tre sorsi, uno dopo l’altro, eppure con quella strana posata eleganza che lo contraddistingueva. Lui, dal canto suo, aveva già finito la sua birra in due sorsi; l’aveva sentita scorrere lungo la gola come la carezza di un amante.
- E la prossima volta che Federico ti dice che sei uno senza palle, dagli un cazzotto. Gli passerà la voglia. -  Samuele rise, di nuovo, sentendosi leggero.
Ci aveva pensato, all’idea del cazzotto. C’era stato un attimo, mentre si trovava al locale, subito dopo aver ascoltato le sue accuse, in cui aveva visto Federico muoversi tra i tavoli e aveva pensato che lo avrebbe trascinato nel retro e lo avrebbe gonfiato di botte.
Gli era passata subito, però, perché si era accorto di come quelle parole fossero sincere: per questo, probabilmente, avevano fatto male in quel modo.
Così non mi piaci proprio.
In realtà, un po’ era invidioso di Federico. Era invidioso del modo in cui si era liberato dalle catene di quell’amore malato, anche se era ancora un po’ fragile, convalescente, ancorato all’idea di amicizia morbosa che lo teneva tuttora un po’ legato a Manfredi. Ma era libero. Federico era libero di fare quello che voleva della propria vita, era giovane e impulsivo e terribilmente testardo.
Ma era libero.
- Federico è impulsivo, e ha questo vizietto un po’ pericoloso di dire subito le cose che pensa. Il più delle volte ha ragione però, sai? Sono davvero uno senza palle che da otto anni è inginocchiato ai piedi di un uomo – ammise. Il boccale, ormai vuoto, finì sul tavolo con un tonfo, attutito dalla musica e dal chiasso intorno a loro. – E mi sono un po’ rotto i coglioni. Ho sempre fatto le cose giuste, mi sono sempre comportato bene: buoni voti a scuola, figlio modello, lavoratore, affitto e bollette sempre pagate, ho pagato persino tutte le multe che mi abbiano mai fatto! E cosa ne ho guadagnato? Essere cacciato di casa, avere a stento un diploma e spaccarmi la schiena a lavorare in un bar, mentre aspetto che l’uomo che amo da otto anni lasci sua moglie. – Avrebbe tanto voluto avere un’altra birra, per non dover affrontare gli occhi di Mattia. – Quindi adesso penso di meritarmi di essere felice a fare solo le cose che voglio io, no? –
Gli occhi di Mattia bruciavano, di nuovo, sulla pelle e nelle viscere.
Non era pienamente convinto di quello che stava dicendo.
Nel profondo, sentiva davvero di essere quell’uomo onesto e responsabile che era stato fino a quel momento. Ma quell’uomo gli aveva portato soltanto delusioni, lacrime e scelte sbagliate.
Adesso aveva la possibilità di tornare indietro e comportarsi come quel ragazzino di sedici anni che baciava di nascosto Andrea, della V C, nei bagni della scuola. Poteva tornare ad essere quel Samuele, quello leggero e impulsivo e irresponsabile e con le farfalle nello stomaco.
Quello nascosto, che nessuno aveva conosciuto.
- Facciamo un giro? -
 
 
§§§
 
- Gli ho detto di noi. –
Avrebbe voluto dire tante cose.
Baciami, Samuele. Baciami e dici di nuovo “noi” e guardami di nuovo in quel modo, come se volessi pregarmi di fare le valige e sparire, andare in un posto lontano in cui essere delle persone diverse e fare delle cose diverse.
Invece aveva fatto la cosa che gli riusciva meglio. Lo stronzo. Non semplicemente lo stronzo. L’idiota stronzo, un connubio perfetto che aveva imparato da suo padre, lo stronzo idiota per eccellenza, al quale ogni 31 dicembre consegnavano il premio di pezzo di merda dell’anno.
- Di noi? –
Gli era venuta fuori una voce acida, come se Samuele gli avesse appena detto di avergli dato fuoco alla macchina, invece di averlo incluso in quella dolcissima idea di loro due insieme in….in qualcosa di non meglio definito.
- Se non vuoi che ti tocchi mai più, va bene. Fine, amici come prima. –
Amici come prima sarebbe stato un concetto impossibile.
Non sarebbe mai riuscito a essergli veramente amico senza pensare, almeno ogni tanto, a quanto fosse bella la sua schiena che continuava in quelle spalle ampie, o a quanto sarebbe stato bello baciarlo, anche solo una volta o due al mese, giusto per non dimenticare quella sensazione di pace e tormento, entrambi racchiusi in un solo bacio.
Gli mancava l’aria, anche se fuori la temperatura era prossima allo zero, per quel che gli sembrava.
Le strade erano quasi vuote: aveva piovuto, ad intervalli, un po’ per tutto il giorno, e l’aria fredda scoraggiava quasi tutti dall’idea di una passeggiata. Per questo, in quella tranquillità silenziosa, a Mattia sembrava di essere l’unico abitante di una meravigliosa Milano deserta.
Camminava di fianco a Samuele, e non aveva indossato i guanti, anche se sentiva le mani screpolate e prossime a sanguinare per il freddo. L’altro uomo, dal canto suo, sembrava immune alle basse temperature: camminava a testa alta, spalle larghe e un giubbotto imbottito, ma non troppo spesso, a coprirlo. Ad ogni respiro, una nuvoletta di fiato caldo gli si condensava di fronte alle labbra sottili e arrossate.
- Così, alla fine, ho fatto le valigie e me ne sono andato. Per un po’ sono stato da un’amica di scuola che mi ha lasciato dormire da lei per qualche giorno, poi sono andato a bussare alla porta di un mio ex fidanzato…Oddio, non proprio ex fidanzato. Lui aveva 25 anni all’epoca, abbiamo avuto una specie di storia, qualche mese, io ero letteralmente cotto, ma lui mi ha mollato senza tanti complimenti. – Samuele si strinse nelle spalle, il giubbotto di tese lungo le braccia e le spalle. – Comunque, quando sono andato a chiedergli aiuto perché i miei mi avevano cacciato di casa mi ha subito aperto la porta, mi ha permesso di stare per qualche mese nell’appartamento in affitto che divideva con altri quattro ragazzi, con un piccolo contributo. Diciamo che capiva bene come mi sentivo: lui era originario di Bari, ma aveva deciso di venire a studiare a Milano perché l’aria in casa sua era diventata pesante. Ho iniziato a lavorare nei bar, nei ristoranti, a fare quello che capitava per racimolare un po’ di soldi: quando mi hanno assunto come barman con uno stipendio fisso, mi sono trovato un posto per me. All’inizio una stanza in affitto, poi un piccolo appartamento…fino a ritrovarmi qui. –
Il resoconto di Samuele era terminato con una vena di rammarico.
Gli aveva raccontato della sua vita, di quand’era un ragazzino: i genitori che scoprivano la verità, le liti, le minacce di chiamare uno psichiatra o un santone per risolvere la sua “deviazione”, l’inferno a casa nel tentativo di sistemare le cose ed, infine, la decisione di mollare e andare via.
Mentre lo sentiva raccontare, Mattia si sentiva un po’ un idiota viziato: credeva che i suoi genitori  - una madre bigotta con la puzza sotto il naso e un padre maniaco del controllo troppo concentrato sul lavoro e sulla sua reputazione – fossero dei mostri del tutto inadeguati a crescere dei figli, eppure di fronte al racconto di Samuele apparivano quasi degli angeli. Per quanto sua madre avesse storto il naso e suo padre avesse reso l’aria tanto tesa da spingerlo ad andare via di casa, non lo avrebbero mai cacciato e allontanato dalle loro vite: non avrebbe mai saputo, probabilmente, se per amore genitoriale o semplicemente per salvare le apparenze, ma lo avevano cresciuto, mantenuto all’università in una facoltà che reputavano senza futuro, gli avevano fornito il capitale per iniziare un’attività tutta sua e dato i soldi per pagare l’affitto di un bell’appartamento per un anno.
Si era sentito solo e incompreso per tutta la vita, ma non era mai stato veramente solo: se le cose fossero andate male, avrebbe avuto sempre una porta alla quale bussare, un letto e del cibo, anche se avrebbe dovuto sopportare lo sguardo di disapprovazione di sua madre e i “te l’avevo detto che non avresti concluso nulla nella vita” di suo padre.
Samuele, invece, era solo.
E in tutta quella solitudine la sua strada aveva incrociato quella di un uomo che lo aveva fatto sentire amato, prima di accorgersi, però, che sarebbe stato ancora più solo di prima.
Mattia non era mai stato molto bravo a consolare le persone e, in ogni caso, sentiva che Samuele non gli avesse raccontato tutte quelle cose per essere compatito o consolato.
In ogni caso, non sapeva cosa dire, per cui semplicemente si voltò a guardarlo. Quando anche Samuele girò il capo nella sua direzione, incrociando il suo viso, stava sorridendo divertito.
- Perché mi hai proposto una passeggiata, se soffri così tanto il freddo? – lo apostrofò.
- Chi ti dice che ho così freddo? – rispose, sulla difensiva.  La verità era che non sentiva più le punte dei piedi, per quanto aveva freddo, e doveva avere il naso paonazzo, come tutte le volte che si esponeva all’aria fredda della sera di Milano. - Mi piace passeggiare la sera. Non c’è mai così tanto silenzio a Milano, puoi godertela soltanto a quest’ora. E poi nel locale iniziava a esserci troppa confusione – continuò, stringendosi nelle spalle.
Con la coda dell’occhio, Mattia percepì un movimento del braccio di Samuele, come se avesse pensato di fargli una carezza, o dargli un colpetto sul braccio. Alla fine, però, in un gesto quasi stizzito, la mano di Samuele affondò nella tasca del proprio giubbotto.
Il silenzio che ne seguì non era imbarazzante, ma quasi confortante, rotto soltanto dal rumore dei loro passi sul marciapiede.
- Hai più pensato a quell’idea dell’albergo? – esordì all’improvviso Samuele.
Nella mente di Mattia si affollarono e sovrapposero una serie di ricordi: la festa di compleanno di Dominik, l’invito di Samuele a salire a bere qualcosa, il suo sguardo perso, i loro baci e la sua pelle calda.
Una serie di eventi dopo i quali la sua vita aveva iniziato a rotolare giù per un dirupo senza che riuscisse più a controllarla.
Era successo quella sera che, davanti ad una tazza di the dopo una serata in compagnia, gli aveva raccontato della sua idea dell’albergo, destinata però a naufragare.
Avrebbe voluto dirgli di aver fatto dei passi avanti, di aver preso delle decisioni, ma la verità era che no, non si sentiva pronto a chiedere un altro prestito a suo padre, né in grado di affrontare un’impresa come quella, che sembrava un ostacolo insormontabile.
Avrebbe voluto tacere, o al contrario iniziare a parlare, parlare, parlare e snocciolare tutta quella paura e quell’ansia che gli stringevano lo stomaco.
Invece fece quello che sapeva fare meglio: minimizzare.
- Nah, è un’idea campata in aria, e non vale neppure la pena approfondirla più di tanto. Ho un’attività che va abbastanza bene, e una ragazzina che mi ringrazia ogni mattina di averla assunta. – Fece spallucce. – Magari tra due mesi le cose inizieranno ad andare male e dichiarerò fallimento, ma per adesso non voglio pensarci. –
Samuele rimase zitto per qualche minuto.
-  E’ un peccato, ti ci vedrei bene come figo proprietario di un albergo. –
- Ma dai! – Mattia rise divertito, le mani affondate nelle tasche del cappotto. Anche Samuele rise, mentre gli rispondeva.
- E’ così! Sei proprio un tipo da giacca, cravatta e sorriso sornione alle vecchiette ingioiellate. Fossi in te ne approfitterei, le vecchie signore danno sempre belle mance ai giovanotti disponibili. – Lo stava chiaramente prendendo in giro, anche se quel commento riguardo al vederlo bene come proprietario di un albergo gli aveva diffuso una bella sensazione di calore allo stomaco.
- Che schifo, Samuele! –
La sua risata calda si diffuse nell’aria silenziosa intorno a loro.
Giunti ad un semaforo rosso si fermarono prima di attraversare la strada, anche se si vedeva nessuna automobile. Samuele aveva ancora le mani affondate nelle tasche del giubbotto, ma l’espressione più serena, seppur con quella vena di malinconia che lo aveva accompagnato per tutta la sera, anche al locale, mentre si nascondeva dietro ad un boccale di birra. Avrebbe voluto dirgli tante cose anche allora, mentre se ne stavano seduti lì circondati dalla musica, ma non aveva saputo che cosa dire esattamente. Non lo sapeva neanche in quel momento.
Il semaforo divenne verde, e Samuele si mosse subito, raggiungendo il marciapiede dall’altro lato della strada. Mattia rimase qualche secondo indietro, ad ammirarne il profilo delle spalle e la cadenza del passo, poi lo seguì.
Continuarono a camminare ancora per un po’, allontanandosi sempre di più dal locale dove si erano incontrati, dalle loro auto parcheggiate, ma sembrava più un modo per allontanarsi dai problemi, come se fermarsi avrebbe significato lasciarsi raggiungere e sommergere.
Illuminato dalla luce fredda dei lampioni, Samuele si fermò.
- Torniamo indietro? – propose.
Mattia annuì, ma prima che Samuele potesse ricominciare a camminare gli strinse una mano sul braccio, all’altezza del gomito.
- Comunque non dare troppo peso alle parole di Federico. Gli passerà. Non diceva sul serio. –
Il viso di Samuele si aprì in un sorriso tirato.
- Nemmeno tu dicevi sul serio? – Mattia colse subito il sottile velo di ironia nella voce dell’uomo.
- Io? – chiese, mentre gli lasciava il braccio e metteva di nuovo le mani nelle tasche. – Io dico un sacco di cazzate, non dovresti prendermi troppo sul serio. Neppure quando mi arrabbio e ti dico che sei un idiota dalle troppe speranze. –
- Ah no? –
- Nah. – A Mattia, quella negazione uscì fuori quasi come un sospiro. – Non perché non sia vero, ovvio. Tu sei un idiota dalle troppe speranze…Ma – continuò, puntandogli un dito contro il petto – non mi sono mai veramente arrabbiato con te. Nemmeno quella volta in cui sei sparito per giorni senza rispondere a nessuno dei miei sms. Anche se avrei dovuto! – Lo colpì più volte sul petto con la punta del dito, quasi accusatorio, anche se avrebbe volentieri trasformato quel gesto in una carezza morbida. Samuele sorrise, questa volta disteso.
- Sì, è vero, avresti dovuto. Me lo sarei meritato. –  Lo guardò con un’espressione di scuse, gli occhi verdi che brillavano nel buio. – Ma sono contento che tu non l’abbia fatto. –
Contrariamente ad ogni logica e a quello che avrebbe dovuto fare, Mattia, che aveva ancora la mano sul petto di Samuele, trasformò il tocco accusatorio prima in una carezza lungo la cerniera del giubbotto, poi in una presa leggera.
Sentiva di non avere nulla da dire, ma di volerlo soltanto baciare, e sapeva che se l’avesse fatto Samuele non si sarebbe tirato indietro: glielo leggeva negli occhi, e nelle labbra dischiuse e nel modo in cui ci passò sopra la lingua per inumidirle, e nelle spalle morbidamente distese e nel viso già proteso verso il suo. Eppure, quando si avvicinò di qualche centimetro, il corpo dell’altro si irrigidì, i suoi occhi saettarono intorno a loro, per la strada deserta.
- Andiamo da me? – gli chiese, un sussurro tra le labbra, pronto ad un passo indietro, ma Mattia lo teneva ancorato per il giubbotto. Voleva terribilmente baciarlo, e l’idea di aspettare di tornare alle loro auto e arrivare a casa sua era insopportabile.
- Dopo. Baciami adesso. –
- Qui? –
- Perché? – Gli occhi di Samuele scivolarono di nuovo via, lungo la strada e il marciapiede, ma Mattia utilizzò la mano libera per poggiarla sul suo viso, attirandone l’attenzione.
Prima che avesse il tempo di protestare, Mattia lo baciò, e trovò le sue labbra ancora più morbide e arrendevoli e aggressive dell’ultima volta. Le mani di Samuele gli si schiacciarono sulla schiena, e lui rispose con un passo avanti, per attaccarglisi addosso e avvertirne finalmente il profilo di nuovo addosso.
Sentì che gli era mancato terribilmente e che tutto quello – l’invito, la birra, la passeggiata – fosse stato solo il prologo che li avrebbe finalmente portati lì, a baciarsi per la strada come due innamorati, liberi e felici.
Esattamente ciò che non erano.
 
 
§§§
 
 
Il calendario, implacabile, lo fissava dalla parete chiara della cucina cui era appeso grazie ad un chiodino tutto storto.
Federico si premette le mani sul viso.
Erano passati cinque giorni dalla telefonata di sua sorella, e lui non aveva trovato il coraggio di fare niente. Ma proprio niente. Non aveva parlato a Dominik della prossima visita che avrebbero ricevuto, di quanto lo terrorizzasse, né aveva avuto il coraggio di confessare a Milena la verità: l’aveva chiamata sei volte, negli ultimi giorni, e nemmeno per un attimo era riuscito ad accumulare sufficiente coraggio per dirle tutto.
Semplicemente, se ne stava seduto lì, a fissare il calendario che, come la spada di Damocle, gli ricordava costantemente il prossimo arrivo dell’apocalisse portato dall’arrivo di sua sorella.
Mancavano tre giorni. Tre giorni e la sua vita sarebbe finita.
- Federico? Dove hai messo il phon? –
La voce di Dominik lo chiamò dal bagno.
- Devo averlo lasciato sul mobiletto sotto la finestra! – gli rispose, pronto ad alzarsi per aiutarlo a cercarlo, ma l’altro lo precedette.
- Trovato! –
- Scusami Dom. La prossima volta lo rimetterò a posto! –
Non avrebbe mai saputo se Dominik avesse risposto o meno, perché ogni rumore venne sovrastato dal rullio del phon.
Sapeva quanto il ragazzo odiasse non riuscire a trovare le cose dove le aveva lasciate, ma in parte ci aveva fatto l’abitudine, anche se Federico cercava, per quanto gli riuscisse possibile, di rimettere a posto tutto quello che usava.
Non gli succedeva da settimane, in realtà, di lasciare qualcosa fuori posto, ma in quei giorni era costantemente sovrappensiero: a lavoro aveva rovesciato i drink dal vassoio tre volte, ma Claudio e Samuele lo avevano sempre coperto, a casa non faceva che fare confusione e sistemare tutto sempre nei posti sbagliati, e la sera precedente aveva dimenticato la tv accesa, costringendo Dominik a svegliarsi alle tre del mattino e a cercare il telecomando in giro fino a quando, stizzito, non era stato costretto a staccare la spina dalla parete.
Sentiva di avere qualcosa, nella testa, che svolazzava, offuscando ogni tipo di ragionamento; quel qualcosa, in alcuni momenti, scendeva giù fino al petto, stringendogli i polmoni in una morsa e accelerando il suo battito cardiaco.
Era consapevole di dover fare qualcosa, ma non sapeva cosa.
O meglio, sapeva benissimo cosa avrebbe dovuto fare: prendere il cellulare, chiamare sua sorella e dirle tutta la verità. Ma proprio tutta. Sai, sono gay, tanto per cominciare. Solo che, non appena ci pensava, al volto di sua sorella si sovrapponevano quello di sua madre, e di suo padre, e la loro delusione, le chiacchiere dei parenti e di tutto il quartiere, la fine della tranquillità che fino a quel momento vivere a Milano gli aveva concesso.
Dominik uscì dal bagno con indosso il suo vecchio pigiama blu e con i capelli tutti spettinati: lo seguì con lo sguardo mentre raggiungeva il divano e ci si lasciava cadere, mentre alla tv davano un vecchio film comico.
- Che fai? – lo chiamò quando, ormai seduto, non lo trovò né sul divano né nelle vicinanze del salotto. Federico si staccò dal ripiano della cucina cui si era appoggiato, passandosi una mano tra i capelli, per ravvivarli.
- Stavo finendo di sistemare i piatti al loro posto – mentì. In realtà, aveva finito già da un pezzo, ma era rimasto in cucina a fissare il calendario, nell’ingenua speranza di fermare il tempo o riportarlo indietro con il solo sguardo.
Federico si lascò cadere sul divano, schiacciandosi tra il bracciolo e il corpo di Dominik, che, nel giro pochi secondi, ne approfittò per sdraiarglisi addosso, poggiandogli la schiena e il capo sulle gambe e raggomitolando i piedi nudi sotto ai cuscini. Federico infilò una mano tra i suoi capelli, riconoscendo la solita confortante morbidezza che lo faceva sentire un po’ più a casa.
Ad occhi chiusi, Dominik respirava piano, godendosi le carezze come un gatto.
Erano stati entrambi abbastanza silenziosi durante tutta la cena: Federico avrebbe voluto parlare di più, ma tutte le volte che apriva bocca temeva di dire qualcosa di sbagliato, o di scoppiare a piangere. Così aveva raccontato un po’ della sua giornata, e aveva ascoltato Dominik parlare della sua, della maestra che lo tormentava, dei sussurri che lo circondavano costantemente, anche se nessuno aveva il coraggio di provocarlo apertamente, non dopo i rimproveri del direttore del Conservatorio e la minaccia di un’espulsione al minimo segno di quella che aveva chiamato “discriminazione sessuale” o qualcosa di simile.
Dominik non se lo meritava.
Un essere umano così pulito e buono, incapace anche solo di pensare di fare un torto a qualcun altro, non meritava di ricevere quel trattamento.
Federico lo accarezzò sul petto con l’altra mano, fino ad incontrare la sua, che teneva adagiata sulla pancia. Dominik lasciò che le loro dita si intrecciassero, stringendosi morbidamente le une alle altre. Quell’immagine, quella posizione, il suono del respiro di Dominik: tutto quello evocava in Federico una sensazione di pace. E tutte le volte che ci pensava, l’ansia tornava a tormentarlo.
- Perché non parli? – Federico sobbalzò, sorpreso dall’improvviso suono della voce di Dominik.
- Mh? –
- Non parli. Da tutta la sera – insistette. – Sono giorni che non parli. E tu parli sempre, di solito. –
- Mah, niente…Pensavo… - Federico iniziava a sentire una strana sensazione lungo la schiena, quasi di sudore freddo. Gli tremavano le gambe.
- A cosa? – Sì, a cosa? Cosa avrebbe mai potuto dirgli? Quale tipo di risposta, esattamente, non lo avrebbe fatto apparire stupido? Di fronte al silenzio, Dominik arricciò un po’ le labbra in un broncio. – Non me lo vuoi dire perché sei arrabbiato con me? –
- No! – gli rispose subito, alzando un po’ la voce. L’ultima cosa che avrebbe voluto, in quel momento, era far credere a Dominik che avesse fatto qualcosa di sbagliato. – No, perché dovrei avercela con te? –  Lo vide stringersi nelle spalle, spingendo un po’ il corpo verso di lui, contro le sue gambe e il suo addome.
- Le altre volte che non parlavi eri arrabbiato con me – gli fece notare.
Federico sorrise tra sé, suo malgrado, chinando il viso verso il suo.
- Non fare lo scemo – gli sussurrò, ad un passo dalle labbra. - Non ho proprio nessun motivo per essere arrabbiato con te – aggiunse, tra un bacio ed un altro.
Le labbra di Dominik si aprirono in un sorriso mentre lasciava che le mani di Federico riprendessero ad accarezzarlo tra i capelli.
Rimasero in silenzio per un po’, accompagnati dalle scene del film in televisione: la comicità demenziale non riusciva a distrarlo dai propri pensieri, dall’idea che la bella vita che si era costruito avrebbe potuto vedere la fine dell’arco di pochi giorni.
Non ci aveva mai pensato prima, non fino alla telefonata di Milena: aveva considerato Milano un porto sicuro, così lontano dalla sua vecchia vita, da casa, che l’idea che sua sorella, o qualsiasi componente della sua famiglia, avrebbe potuto pensare di andare a trovarlo non gli aveva neppure attraversato la mente.
Era come se esistessero due versioni di se stesso: il Federico di Palermo, simpatico e divertente figlio minore di una famiglia come tante, con molti amici e nessuna intenzione di mettere la testa a posto, e il Federico di Milano, gay e impulsivo e perdutamente invaghito di un ragazzino perso nella musica classica. Quei due personaggi li immaginava lontani e sconosciuti l’uno per l’altro, impegnati in due strade parallele che mai si sarebbero incontrate; invece, la realtà era piombata su di lui all’improvviso, ed era venuta fuori attraverso la voce melodiosa di Milena, e le sue due entità avevano cambiato direzione ed erano pronte ad un doloroso scontro, dal quale probabilmente nessuna delle due sarebbe uscita indenne.
A lui, il Federico di Palermo non piaceva più: non sopportava più l’essere stato succube di un amore malato, debole e incapace di imporsi sulle convenzioni e i pregiudizi. Gli piaceva molto, invece, il Federico che era diventato da quando si trovava a Milano: più indipendente, più forte, ancora troppo impulsivo, ma più vero. Non si era mai sentito più vicino alla vera essenza di se stesso.
E adesso il Federico di Palermo stava bussando con forza alla porta del suo bell’appartamento milanese.
- Qualche giorno fa mi ha chiamato mia sorella. – Federico sentì se stesso parlare come se quella voce non gli appartenesse. Dominik, da parte sua, rimase fermo nella stessa posizione in cui era, come se non lo avesse sentito o non fosse stato colpito dalle sue parole: d’altronde, come avrebbe mai potuto immaginare quello che stava per dirgli? – Ci sarà un convegno questo weekend, qui a Milano,  al quale vuole andare. Verrà qui. – Qui. Suonava così intimo, eppure grave come una condanna a morte.
- Qui da noi? – La voce di Dominik era morbida e bassa come sempre.
- Sì. Solo per qualche giorno, per il weekend. Si è praticamente invitata da sola, non ho potuto dirle di no…hai visto anche tu com’è fatta, no? –
Si stava giustificando. Gli pareva quasi di sentire lo stridio delle proprie unghie mentre si arrampicava sugli specchi. Non avrebbe dovuto, non aveva alcun motivo per il quale doversi giustificare o chiedere scusa; ma allora perché sentiva quella morsa allo stomaco?
Federico cercava in Dominik, nel suo viso, un segno di fastidio, di rancore, ma non ne trovava. C’erano solo le sue belle labbra carnose, il profilo squadrato della sua mandibola, la pelle chiara dei suoi zigomi. C’era lo stesso viso di sempre, l’espressione appena un po’ corrucciata.
- Perché dovevi dirle di no? La mamma resta sempre qui quando viene a trovarmi, e anche il papà. Qualche volta è venuta anche Aneta. –
Sembrava non capire, Dominik, il perché della sua reticenza e della sua ansia: probabilmente non aveva proprio pensato a cosa avrebbe significato trovarsi Milena per casa. La prima volta, qualche mese prima, gli aveva fatto piacere avere sua sorella in giro per le stanze del suo appartamento, dormire insieme a lei nello stesso letto, sotto le coperte calde, portarla in giro per Milano e godersi la sua compagnia per colmare un po’ della nostalgia di casa. Ma quelli erano stati altri tempi: si sentiva ancora legato a Palermo, a Manfredi, alla famiglia, e Dominik era solo il coinquilino pazzoide e insopportabile con cui si era ritrovato, suo malgrado, a dividere gli spazi comuni di quell’appartamento carino.
Adesso era cambiato tutto: Dominik era diventato una parte della sua vita, e lui stesso era cambiato, così come le sue giornate. Dormivano insieme, cucinavano, andavano a fare la spesa, scherzavano: vivevano insieme una quotidianità che per Federico era impossibile adattare alla presenza di sua sorella. Non senza dirle la verità almeno.
- E’ che…è complicato – provò a dire. 
- Perché è complicato? –  Il corpo di Dominik gli sfuggì dalle dita, i suoi capelli, e la sua mano, tutto gli scivolò via mentre si metteva seduto sul divano di fianco a lui: avrebbe preferito continuare ad averlo addosso, sentirlo sulle gambe come se fosse una specie di portafortuna per controllare l’ansia. Invece, il ragazzino si portò le ginocchia al petto, circondando le gambe con le braccia.  – Tua sorella mi piace. E’ buona, è stata carina con me l’ultima volta, e anche quando sono stato a Palermo, a casa tua. –
Era terribilmente dolce, adesso, un po’ imbronciato e raggomitolato su se stesso. Doveva essere complicato per lui comprendere come una persona come Milena, così simpatica e sempre alla mano con tutti, potesse rappresentare qualcosa di complicato. Ed in effetti non lo era, non lei almeno: ad essere complicato era il casino che sarebbe scoppiato non appena a casa avessero scoperto la verità. Tutta la verità: non solo che il loro unico figlio maschio fosse gay, ma che fosse anche completamente perso per il ragazzino cieco con cui divideva l’appartamento e che aveva invitato a casa per Natale. Avrebbe spezzato il cuore di tutti, e solo perché sua sorella aveva deciso di andare ad uno stupido convegno e di piombargli in casa, di nuovo; e se anche l’avesse scampata per quella volta, quanto tempo sarebbe trascorso prima che la sua ingombrante famiglia si fosse avvicinata di nuovo a Milano?
Federico espirò, frustrato.
Non era riuscito a trovare il coraggio di confessare a sua sorella la verità su se stesso e sulla sua vita, ma non riusciva nemmeno ad essere sincero con Dominik, a confessargli, spiegargli, perché fosse tutto così incasinato.
Dominik era pulito: i sotterfugi, le bugie, le verità nascoste, erano qualcosa di incomprensibile per lui, che con la sua famiglia aveva sempre parlato di qualsiasi cosa. Aveva persino confessato a sua madre che gli piacesse un ragazzo, e aveva trovato il coraggio di farlo nei pochi minuti che gli erano bastati per comporre un numero di telefono.
Di fronte a Dominik, Federico si sentiva uno stupido ragazzino imbranato.
- Lo so, Milena è carina e tutto quello che vuoi, però…- Fece una pausa, prendendosi qualche minuto per studiare il profilo del suo volto. – E’ un casino, Dom. – Federico si passò entrambe le mani sul viso, schiacciando i palmi sugli occhi; quando li aprì, la stanza si riempì di punti colorati, solo per pochi secondi. -  Milena non sa di noi. Non le ho detto niente. Non ho detto niente a nessuno. -
Aver pronunciato quelle parole ad alta voce, in quel momento, aveva reso tutto ancor più reale, e lo aveva fatto sentire profondamente stupido.
Si ricordò, in un momento, di se stesso, nella sua camera a Palermo durante le vacanze di Natale, e di Dominik, e della sua preghiera di non dire niente alla sua famiglia dei loro baci della notte precedente, quelli che avevano aperto le porte al futuro. Solo per un po’, aveva detto, e invece quanto tempo era passato?
- Dom… A proposito di ieri sera… -
- Cosa? –
- Ecco…Io sono gay, Dom, l’hai capito, no? –
- Si. Non sono scemo. –
- Non ho detto che sei scemo! Però…la mia famiglia non lo sa. Dovresti…non dirlo a nessuno, Dom. Solo per qualche giorno, poi torniamo a Milano. –

Dominik non disse niente per un po’, ancora raggomitolato sul divano: sembrava pensare a qualcosa, un piede che si muoveva velocemente in un tic nervoso.
Federico si sentì una vera merda, in quel momento, ma quando il ragazzino parlò non c’era traccia di rabbia nella sua voce, o di risentimento, o di vergogna, come lui aveva temuto. Pareva invece stranamente tranquillo.
- Allora possiamo non dirle niente anche per questi giorni – disse, semplicemente. – Può dormire con te, come l’ultima volta, e uscire con te. - Federico aveva immaginato tanti scenari: che Dominik si sarebbe arrabbiato, o che non avrebbe capito e gli avrebbe chiesto spiegazioni, o che avrebbe fatto semplicemente finta di nulla. Ma che potesse addirittura proporgli di mentire a Milena su di loro non gli era proprio passato per la mente.
Era confortante, e allo stesso tempo preoccupante. Quando era stato lui a proporgli di tacere per qualche giorno, Dominik si era mostrato confuso, gli aveva chiesto spiegazioni, e aveva accettato la situazione non perché l’avesse compresa, ma perché era stato Federico a chiedergli di farlo.
- Ma perché? Perché non lo sanno? -
- Perché…è un argomento delicato, e…diciamo che non tutte le persone sono limpide come te o hanno il tuo modo di pensare. Alcune persone pensano male di quelli come me. E io sto cercando il momento giusto per dire la verità ai miei genitori. Lo farai, per me? –
- La mamma da piccolo mi diceva di non chiedere alle persone se potessi toccarle, per vederle, perché avrebbero potuto avere paura. E’ una cosa come questa? –
- In un certo senso, sì. –
- Io ho sempre pensato però che non avessero paura, ma che fossero semplicemente stupide. Però non posso credere che i tuoi genitori siano stupidi. A me sembrano così buoni. –

- Dici davvero? –
- Sì. –
- E a te sta bene? -  Dominik si strinse nelle spalle in un movimento che Federico trovò stranamente dolce e arrendevole, ma non disse niente. Semplicemente, mosse il capo in un gesto di assenso, i capelli che gli sfioravano morbidamente la fronte. Federico gli poggiò la mano su un ginocchio.
  - Dom, quando…a Palermo, quando eravamo insieme e sono stato io a chiederti di non dire niente a nessuno, non mi hai detto esattamente queste cose – gli ricordò. Aveva ancora chiari nella mente i contorni della sua espressione sorpresa e confusa mentre cercava di capire perché qualcosa di normale, come dei baci, dovesse essere tenuta nascosta ai suoi stessi genitori.
Quell’espressione sul viso di Dominik non c’era più.
Era stata sostituita da un’aria seria e stranamente lucida, che si ammorbidì appena mentre il ragazzino chinava il capo in avanti, lasciando che il mento ciondolasse verso il basso.
- Lo so, Federico. E’ che…mi sono accorto che ci sono delle cose, come questa qui, che forse è meglio non dire a nessuno e basta. -
Dominik era cambiato.
Tutto in lui era diverso dal ragazzino che aveva visto per la prima volta quando era entrato in quell’appartamento. Quelle settimane, e tutte le cose che erano accadute in quelle settimane, lo avevano cambiato: la convivenza, la scoperta del mondo esterno, incontrare i suoi colleghi, la musica, i baci e il sesso, il suo passato con Manfredi. Il conservatorio. Gli insulti, i sussurri. La cattiveria. Il sostegno di sua madre che forse, per qualche attimo, aveva vacillato.
Dominik aveva lasciato entrare il mondo esterno nella sua musica, e quel contatto lo aveva cambiato. Il ragazzino che era stato, quello che aveva conosciuto all’inizio, quello con cui aveva litigato, non gli avrebbe mai risposto a quel modo.
- E’ per quello che è successo al Conservatorio. –  
Federico sapeva che fosse così. Entrambi lo sapevano. Eppure dirlo ad alta volte lo faceva sembrare reale, faceva piombare di nuovo tutto il disgusto sulle loro spalle, e faceva sorgere di nuovo in lui la voglia di prendere a pugni tutti quegli insulsi musicisti bigotti.
Dominik si prese qualche secondo prima di rispondere.
- Sì. Anche per quello – disse semplicemente, poi abbassò le gambe, facendole scivolare lungo il divano, e la sua mano lo cercò, fermandosi sul suo braccio, all’altezza del gomito. Stava sorridendo in modo appena accennato. - Ma non mi importa. – Si era chiuso di nuovo, come tutte le volte in cui lui accennava a quello che era successo.
- Non è vero che non ti importa. – Dominik prese fiato, come se fosse pronto a sbuffare esasperato, ma non lo fece.
- Non mi importa – ribatté, e questa volta sbuffò. Non sorrideva più. -  Sono solo pochi giorni, Federico. E io non voglio che sei silenzioso, o nervoso, come stasera e come ieri e il giorno prima. Non voglio che litighi con tua sorella, che pensi a come dirle le cose, solo perché ti senti obbligato per non farmi un torto. E non voglio che litighi con me perché non sai che cosa fare, o perché io non voglio dirti le cose e pensi che sia per colpa tua. Io non ne voglio parlare, non voglio litigare e non voglio che ti senti obbligato a dire tutto a tua sorella. - Era lievemente arrossito sulle guance e lungo la linea del collo, il suo tono di voce si fece più basso. -  Non voglio che lei ti guarda come al conservatorio guardano me.  –
Federico si sentì impotente di fronte alle parole di Dominik, perché in pochi secondi aveva riassunto tutte le sue peggiori paure su quello che sarebbe potuto succedere: una possibile lite con Milena, e con la sua famiglia, la pietà e la rabbia, e l’inevitabile rancore che avrebbe riversato su Dominik, trasferendo su di lui la colpa di una confessione che non si sentiva pronto a fare.
Avrebbe rovinato tutto.
Eppure si sentiva ugualmente colpevole all’idea di mentire, di fingere di fronte a sua sorella un’amicizia cordiale che non esisteva più e che aveva lasciato il posto alla morsa allo stomaco al pensiero dei soffici baci di Dominik.
- E’ che…non lo so, Dom, l’idea di fingere…. – Federico fece una pausa: avvertiva ancora sotto la pelle la delusione e l’amarezza tutte le volte che Manfredi aveva rimandato un loro appuntamento per un altro impegno, magari con la sua famiglia, al quale lui non avrebbe potuto partecipare. Non voleva che Dominik provasse quella stessa sensazione. – Ho vissuto degli anni interi così. Fingere un’amicizia, rimandare le cene, organizzare weekend in comitiva e far finta di essere spariti ubriachi con delle ragazze per nascondersi e scambiarsi qualche bacio. Per anni non ho fatto che desiderare di lasciare Palermo per poter essere finalmente me stesso e non dovermi più trovare in quelle situazioni. E adesso l’idea di costringere te a fare la stessa cosa….non mi piace. Non mi piace per niente. –
Dominik gli accarezzò il braccio da sopra il tessuto del maglione.
- Adesso hai lasciato Palermo, e sei te stesso. Non ti sei più trovato in quelle situazioni. Hai organizzato una festa per il mio compleanno, e mi hai abbracciato. Mi hai baciato. Mi baci sempre. Questi sono solo tre giorni. – Quando la mano risalì fino alla spalle e poi al viso, Federico riconobbe il tatto profondo di quando Dominik cercava di studiare la sua espressione. - Tutto va bene adesso, e mi piace. E voglio che resti così, non mi importa di far finta di niente per due o tre giorni. –
Federico si sentiva ipnotizzato dalla voce di Dominik, dal suo tono e dal movimento delle sue labbra. Sapeva che avrebbe dovuto protestare, insistere con lui e con se stesso, trovare il coraggio di affrontare i propri fantasmi e i demoni che stavano roteando intorno ai pensieri di Dominik. Invece era debole,  già proteso in avanti, per catturare quelle labbra carnose in un bacio; prima ancora di parlare, aveva già poggiato entrambe le mani sulla nuca sottile del ragazzo.
- Sei sicuro che va bene? –
Si era già fatto convincere, troppo presto. Dominik annuì, le labbra distese in un sorriso perché aveva già compreso l’arrivo di quel bacio dal soffio caldo del suo respiro che gli era arrivato vicino.
- Va bene. -
 
 
 
§§§
 
Niente andava bene.
Nel buio, avrebbe voluto vedere qualcosa.
Avrebbe dovuto vedere qualcosa.
Non c’era niente.
Dominik si rigirò nel letto.
Lasciò che un piede uscisse fuori dalle coperte, penzolando oltre il bordo del materasso: aveva caldo. Al suo fianco, Federico stava dormendo.
Non aveva idea di che ore fossero, ma era certo non essersi addormentato un solo istante da quando, spenta la tv in salotto, si erano trasferiti nel letto per continuare a baciarsi.
Non avevano fatto altro: si erano baciati, sfiorati, accarezzati.
Non avevano più parlato. Federico non aveva avuto niente da dire, lui non aveva voluto dire niente.
C’era qualcosa di strano: nel silenzio, nella casa, nella vita. nel buio.
Tutto era buio, e gli sembrava di aver perso la capacità di creare i colori nella testa.
La maestra lo riempiva di rimproveri, lo soffocava, lo travolgeva di esercizi ma non riusciva più a stimolarlo come prima: quel tono di voce stizzito, disgustato, era come un tocco freddo sulla pelle.
Quando si trovava con lei, nella stessa stanza, provava una sensazione brutta, di vergogna.
Quando era a letto, circondato dal silenzio, e pensava a casa, alla sua famiglia e alla mamma, si chiedeva cosa stessero pensando, se avessero parlato di lui: si domanda se la mamma lo avrebbe abbracciato allo stesso modo quando l’avrebbe rivisto.
Era terrorizzato.
Terrorizzato dalle persone.
Non gli succedeva da quando aveva cinque anni e la mamma gli aveva insegnato a muoversi nel buio e ad affrontare la stupidità delle persone che lo circondavano, a crearsi un modo migliore e colorato nella testa.
Ma se adesso anche lei non lo amava più allo stesso modo, se disegnare le cose stava diventando impossibile, che cosa ne sarebbe stato di lui e della sua musica?
Non riusciva più a suonare come prima.
Era ancora bravo, le note venivano fuori fluide, in una musica melodiosa.
Ma lui sentiva di non riuscire più a suonare. La mente era sempre affollata: la voce della maestra, i sussurri al conservatorio, la subdola e finta apprensione del direttore del conservatorio, interessato più alla reputazione della sua struttura che al reale benessere di Dominik. Ma anche i baci di Federico, il suono della sua voce e il calore delle sue mani, le sensazioni nuove dei baci sulle labbra e del piacere del sesso.
Dominik si sentiva travolto dal mondo.
All’inizio era stato bello, lo aveva fatto sentire arricchito e gli aveva dato una spinta dritto dentro la musica: adesso, invece, tutto pareva diventato una marea incontrollabile, pronto a travolgerlo e a distruggerlo.
Nel letto, spinse la mano alla sua destra, cercando il corpo di Federico.
Incontrò la sporgenza ossuta del gomito, sfiorandola lievemente, per non svegliarlo.
Federico era buono: si preoccupava sempre per tutti, soprattutto per lui, e anche se a volte quell’insistenza lo innervosiva, gli procurava allo stesso tempo una piacevole sensazione alla pancia.
Proprio perché Federico era così buono, alcune volte Dominik si vergognava.
Succedeva quando si trovava al conservatorio e la maestra lo torturava, o quando era appena tornato e la casa intorno a lui era vuota ma non riusciva più a suonare come prima: in quei momenti, Dominik si chiedeva se non sarebbe stato meglio non aver mai conosciuto Federico. Continuare a stare da solo, a costruire la propria musica e innalzarla sempre più verso l’alto, farla conoscere al mondo come qualcosa di pulito, più in alto delle brutture.
Durava pochi minuti, a volte qualche ora, e in quegli istanti si sentiva arrabbiato, frustrato e impotente: desiderava riportare indietro l’orologio, tornare a quando tutto era semplice, la mamma gli voleva totalmente bene, non vedeva l’ora di tornare a casa per rivedere la sua famiglia, la maestra lo rimproverava benevola con una nota di soddisfazione nella voce, e la musica gli permetteva di costruire tantissime cose belle nella testa.
Desiderava tornare a quando non si sentiva cieco.
Poi Federico tornava a casa, lo baciava o lo chiamava dalla cucina e Dominik veniva travolto di nuovo da quella piacevole ondata di sensazioni calde che aveva scoperto con lui, quando aveva imparato a conoscerlo e gli aveva permesso di prendersi ogni volta un pezzo in più di se stesso.
Era come se ad ogni passo in avanti di Federico, lui avesse perso un pezzetto della sua musica.
Ed era terrorizzato all’idea di perderla del tutto.














 
Nota al capitolo 43
Un bentornato a tutti, a chi ha aspettato questo aggiornamento, a chi mi ha scritto e a chi mi segue su facebook. :D
Avevo promesso, un mesetto fa, un aggiornamento a breve, che non è arrivato.
Alla fine, oggi ho aggiornato quasi a sorpresa: il capitolo era pronto da un po', ma l'ultimo paragrafo, calato nella mente di Dominik, non mi convinceva molto, così ho letteralmente camnbiato tutto....e non è che mi soddisfi pienamente eh.
Credo che nessun paragrafo dentro la testa di Dominik mi verrà mai fuori lasciandomi pienamente soddisfatta.
In questo capitolo ho voluto lasciare spazio, all'inizio, a Samuele e Mattia, che stanno sgomitando per venire fuori, in questo punto della storia: il tempo passa, ma loro sembrano arenati sempre nello stesso stagno fangoso.
Federico e Dominik, invece, sono vicini alla seconda svolta della storia: la prima è stata quella che li avvisti avvicinarsi fino a collidere, portandoli ad iniziare questo rapporto un po' indefinito. Questa seconda svolta è una sorta di conseguenza della prima: essersi trovati così vicini, lasciando entrare l'altro nel proprio mondo, ha irrimediabilmente portato entrambi a cambiare, e quello che succederà da adesso in poi sarà frutto di questi mutamenti.
Dominik è diventato più terreno, si è letteralmente schiantato con il mondo reale, mentre Federico ha appena ricevuto la bella batosta della visita di sua sorella che gli ha ricordato di avere una vita incasinata a centinaia di kilometri da Milano.
Le idee mi frullano già per la testa, ma non dirò che spero di aggiornare presto perchè puntualmente finisco per non farlo mai. Ma....adesso avrò veramente più tempo per scrivere.
Questo è il mio primo aggiornamento da dottoressa: ebbene sì, la tanto agognata laurea è arrivata, e questo spiega in parte l'assenza degli ultimi tre mesi.
Ringrazio tutti per le meravigliose parole che mi rivolgete, per la pazienza e per l'affetto.
A prestissimo, e un bacione a tutti voi!

 

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