Cutting Eyeteeth On Life

di borndumb3dumber
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***



Il primo passo è sopravvivere.
L’odore di muffa si fa strada nelle mie narici e percepisco il pavimento sporco e bagnato contro la mia pelle. Ma la mia mente è lucida e pronta ad elaborare una via di fuga.
Siamo qui da quelle che suppongo siano ore e il buio è così opprimente da farmi credere di essere sola; tuttavia, ogniqualvolta la porta viene spalancata affinché un’altra ragazza possa fare il suo ingresso, scaraventata impaurita sul pavimento ghiacciato, la luce fioca di una lanterna rivela i volti di decine di ragazze che popolano questo spazio ristretto, le une vicine alle altre, che si tengono per mano a darsi coraggio reciproco. Molte piangono in silenzio, altre singhiozzando, pur sempre evitando di fare troppo rumore per non rischiare guai. La consapevolezza dell’attuale situazione aleggia nell’aria, meschina, senza lasciare spazio ai dubbi.
La porta si apre un’altra volta: cinque ragazze si ammassano in un angolo rimasto libero. Una raffica di vento gelato giunge fino a noi e un gruppo più vicino alla porta si stringe il più possibile addosso i giacconi o semplicemente i pochi abiti che le proteggono, forse coscienti di poter godere di quel calore non per molto ancora. Manca poco perché la stanza si riempia del tutto e allora passeremo ai fatti: non possono permettersi il lusso di cibarci mentre siamo qui – o semplicemente non vogliono- e hanno bisogno di spazio per quelle che arriveranno dopo.
La ragazza che mi è di fianco si accascia sulla mia spalla. Non è la prima e non sarà neanche l’ultima a cedere. E’ probabilmente morta o accadrà a breve, ma non c’è nulla che io possa fare, che nessuno possa fare per aiutare lei o qualsiasi altra persona in questa stanza. La scosto con delicatezza, sistemandola nel miglior modo possibile sul pavimento e con due dita le controllo il battito, leggero ma presente. In queste condizioni non la sceglierebbero mai e spero profondamente che quando arriverà il momento di uscire lei sia già morta. La pietà non è un concetto contemplato, qui. Aguzzo le orecchie per percepire ogni minimo rumore oltre quello dei respiri, sperando che l’attesa finisca il prima possibile, ma la porta non si apre più e i passi smettono di riecheggiare tra le pareti: per ora hanno finito. Ho bisogno di dormire se non voglio sembrare troppo malandata quando arriverà il momento. Stringo il più possibile il mio corpo al muro e chiudo gli occhi, immaginando un caldo sole ad arrossarmi le gote e il rumore rilassante di onde in lontananza che si frantumano sulle rocce.
 
La ragazza è morta. E’ chiaro fin da quando apro gli occhi: fissa il vuoto in una posizione innaturale. Le abbasso le palpebre e cerco di fare mente locale finché gli occhi non si abituano al buio. E’ quasi l’una del mattino, leggo sull’orologio della ragazza deceduta. Devo andare al bagno, ma sono abbastanza sicura che non manchi molto per uscire da questa stanza e decido di trattenerla. Non tutte hanno preso la mia decisione, però, perché una pungente puzza di urina appesantisce ulteriormente l’aria della stanza. Ci saranno pochissimi gradi fuori e il freddo riusciamo a percepirlo anche qui, ma è anche vero che siamo chiuse in questo spazio ristretto da più di sei ore e le condizioni non sono delle migliori.
Dopo circa due ore vengono a prenderci.
La porta spalancata mostra la figura di un uomo robusto e grezzo, seguito da altri uomini con armi di vario genere, e ci ordina a gran voce di muovere le nostre chiappette sudicie. Non tutte hanno retto al freddo e alla fame e giacciono inerti sul pavimento, la vita che le ha abbandonate. Alcune barcollano, sorrette da loro conoscenti o semplicemente da ragazze che cercano di dare una mano. Quello che penso guardandole è che io non lo farei. Il loro futuro è segnato, non avrebbe senso rischiare anche la mia vita per un caso perso, ma penso anche che se ci fosse stata mia sorella lo avrei fatto comunque.
Le gambe per poco non cedono quando mi alzo, intorpidite da ore nella stessa posizione, ma cerco di mostrarmi sicura, perché un minimo errore può costarmi la vita. Prima di allontanarmi troppo guardo indietro e vedo alcuni uomini entrare nella stanza. Sono costretta a girare la testa per non vomitare al pensiero di quello che stanno per fare ai cadaveri delle ragazze morte.
Attraversiamo in fila e immerse nel silenzio un corridoio basso e poco illuminato, ma le condizioni di tutte sono chiare: sporche, infreddolite e puzzolenti. La cosa diventa ancora più evidente quando una donna, circa sulla trentina e vestita di abiti succinti, quasi indifferente alle basse temperature, ci guida spazientita in docce comuni. Abbandoniamo in gruppo i vestiti con riluttanza man mano che il freddo ci colpisce, ma nessuna si lamenta. L’acqua è fredda: devo fare uno sforzo immane per restare sotto il getto. Rifiutarsi significherebbe essere debole e non c’è spazio qui per le persone deboli. Del sangue accompagna l’acqua giù per gli scarichi e ringrazio di non avere oggi il ciclo. Sfrego bene il volto per mandare via ogni traccia di sporco, accettando di buon grado il sapone quando la ragazza alla mia destra me lo passa e usandolo un po’ ovunque sul mio corpo il più in fretta possibile, per poi cederlo in una mano alla mia sinistra. Non dovrei puzzare e questo già mi concede un ottimo vantaggio, soprattutto perché molte ragazze semplicemente rifiutano il sapone, rimanendo ferme a congelare sotto l’acqua. Ci rimettiamo in fila, lasciando spazio ad un altro gruppo di ragazze, e procediamo nella stanza successiva non prima di esserci asciugate alla bell’è meglio con uno straccio: è piena di vestiti poco coprenti, adatti a mettere in mostra la mercanzia, e su di un tavolo sono accatastati pettini, fermagli e altri oggetti simili tra cui uno specchio, adibiti ad abbellirci.
«Avete dieci minuti, quando vi chiamo uscite» dice la donna, abbandonando la stanza dietro ad una tenda. Senza di lei il panico si diffonde nel gruppo, ma al posto di farmi trascinare dalle loro ansie, afferro velocemente un pettine dal tavolo e una forcina appuntita in ferro. Una ragazza inizia ad imitarmi, staccandosi dalle altre, che poco dopo iniziano a mettere su qualcosa: dopotutto siamo ancora nude. Cerco tra i vestiti qualcosa di provocante e che metta in risalto le parti migliori del mio corpo, infilando quasi subito un vestito cortissimo e rosso: se voglio vivere, devo far in modo di piacere. Al resto penserò dopo. Infilo prima come intimo qualcosa di coprente, perché non è tra le mie intenzioni rimanere troppo a lungo da togliere il vestito. Mi piazzo davanti allo specchio esaminandomi la faccia, approfittando della lentezza delle altre ragazze. Sono bianchissima e sarebbe una nota positiva in contrasto con il vestito, se solo non avessi le labbra viola dal freddo. Buco un dito con la forcina recuperata in precedenza e passo sulle labbra il sangue che vi fuoriesce: decisamente va meglio. Mi guardo ancora una volta e la cicatrice che mi attraversa una guancia mi sembra più visibile ora di quanto non lo sia mai stata. Esamino ogni zona della stanza in cerca di qualcosa di utile a togliere l’attenzione dal segno che porto sul viso e noto una scatolina il cui contenuto non mi è nuovo. La donna di prima ci chiama frivola e la sua voce risulta ovattata a causa della tenda che conduce alla stanza successiva, ma è comunque udibile. Nessuna delle ragazze si muove: restano immobili a fissarsi aspettando chissà cosa. Valuto che forse entrare per prima mi metterebbe maggiormente in luce, ma da come sono spaventate le altre, dubito che riuscirei ad avere una posizione centrale una volta fuori, nella fila, perché se anche mi fermassi al centro della stanza, loro non mi sorpasserebbero. Prendo per il braccio una ragazza e la incito ad andare, prima che la donna sancisca la nostra morte per disubbidienza. Le altre iniziano a seguirla a ruota e riesco ad infilarmi a circa metà della fila creatasi. Un boato di fischi mi colpisce le orecchie appena metto la testa oltre la tenda e continuo a camminare fino a quando non raggiungo l’altra ragazza. Faccio bene attenzione a non alzare lo sguardo, non ora, almeno, e trattengo il mio corpo dall’impulso di darmela a gambe perché non è il momento adatto, non avrei possibilità.
«Gentiluomini, ecco il primo gruppo di donzelle!» annuncia la donna, allargando le braccia per indicarci. Siamo su una sorta di palcoscenico rialzato, con la luce del fuoco di torce ad illuminare i nostri corpi avvolti da abiti succinti, mentre gli uomini sono seduti a dei tavoli e battono i calici di birra su di essi, chi del tutto ubriaco e chi invece cerca di mantenere una certa lucidità, probabilmente per scegliere al meglio e non portare a termine un brutto affare.
«Scegliete con attenzione, me ne raccomando. La prima della fila, un passo avanti!» un uomo urla un “Nadin, non farci aspettare!” alla donna, che immediatamente procede con questa routine. Siamo sì il primo gruppo della giornata, ma non degli ultimi mesi.
A metà della fila, Nadin indica una ragazza alta e magra, troppo magra, dovuto alla fame. Non ha l’aspetto di un corpo sano e non mi stupisco quando nessuno offre soldi per averla. Con un sorriso palesemente costruito per la scena, Nadin le intima di tornare nella stanza precedente, ma lei sa cosa vuol dire, ha lo sguardo conscio della situazione e quasi implora di poter avere un’occasione con gli occhi. Quando non le viene concessa, prende una decisione estrema: provare a scappare. Corre dalla parte opposta alla stanza in cui ci siamo vestite e scompare in un corridoio. Il silenzio cala opprimente anche tra gli uomini, in attesa di scoprire cosa accadrà. La risposta non tarda ad arrivare: un colpo di fucile in lontananza rende chiara la fine della ragazza. Nadin cerca di rallegrare la situazione ridendo sguaiatamente e facendo qualche avances qui è lì, lasciando all’alcool il tempo di fare il suo lavoro, allentando i freni inibitori, finché tutto riprende come se nulla fosse.
Non passa molto tempo perché arrivi il mio turno e avanzo sicura con ancora lo sguardo fisso a terra. Borbottii di dissenso si innalzano tra il pubblico maschile e, convenendo di aver aspettato abbastanza, punto gli occhi dritti tra di loro. La reazione è quella sperata: tante mani si alzano, accompagnate da cifre urlate a Nadin, che mi aggiudica al miglior offerente. Scendo dal palco andandogli incontro e mi rendo conto che sarà più difficile del previsto scappare vista la sua statura e il fisico massiccio. Passa un languido sguardo sul mio corpo, osservandone ogni centimetro con bramosia e focalizzo la mia attenzione altrove per evitare di coprirmi con le mani, indignata.
Manca poco, manca poco.
Porta il braccio sinistro sulle mie spalle, trascinandomi fuori dalla stanza. Gli arrivo all’altezza delle ascelle e la puzza di sudore mi dipinge un’espressione disgustata sul volto, in completa sintonia ai miei sentimenti attuali. Barcolla leggermente, con ancora una birra nella mano destra e dopo qualche istante arriviamo di fronte ad una porta. L’uomo prende delle chiavi dalla tasca, abbandonando il boccale di birra che si frantuma al suolo. Nella foga di oltrepassare la porta, non mi dà il tempo necessario per schivare i frammenti del boccale e si conficcano nelle piante dei piedi. Emetto un lamento che attira la sua attenzione e mi fronteggia del tutto, catturando il mio mento tra le sue dita e costringendomi a guardarlo negli occhi.
«Im-impaziente?» balbetta per l’alcool, gli occhi annebbiati per il desiderio e socchiusi in contemplazione. Avvicina la bocca al mio orecchio, strascicando delle parole che subito dopo assumono una forma nella mia mente: “Sarai presto accontentata”.
Devo darmi una mossa.
Sbatte la porta alle mie spalle e inizia a spogliarsi. Non ho intenzione di vederlo nudo, così avanzo verso di lui e blocco le sue mani che armeggiano con la cintura.
«Lascia fare a me» dico suadente. Sorride inebetito e spingo il suo petto con le mani perché possa indietreggiare fino al letto. Leva le scarpe con i piedi e afferra brutalmente i miei fianchi. Cerco di sorridere e non mostrare l’orrore e la paura che si celano dietro al mio sguardo.
«Mi piacciono i tuoi o-occhi, proprio da sgualdrinella,» commenta «anche se non mi aspettavo questa zozzeria sotto l’occhio».
Sono abbastanza vicina da poterlo stendere con una testata, ma non credo che riuscirebbe e mi farei solo male. Individuo un vaso di fianco al letto e, di malumore, mi stendo su di lui. Rovescia le posizioni, affinché troneggi sopra di me e con una mano strappa via il tessuto rosso che mi ricopriva in parte. Rimane un attimo sbigottito nel notare il mio intimo poco sensuale e approfitto per allungare una mano verso il vaso. Ma sono troppo lenta. Mi afferra il polso con forza, portandolo sopra la mia testa e riservandomi uno sguardo in cagnesco.
«Cosa cercavi di fare? Non vuoi spassartela con m-me?» chiede digrignando i denti. Aumenta la presa sul mio polso e si scaraventa con foga sulle mie labbra: sa di birra e disgusto. Gli mordo la lingua con forza quando prova ad oltrepassare il limite delle mie labbra, al che urla per il dolore, lasciandomi il polso e permettendomi di rotolare giù dal letto, per terra. Mi alzo in piedi di fretta e raccolgo il vaso, colpendo l’uomo in testa proprio mentre sembrava stesse per contraccambiare. Cade sul letto come un sacco di patate, lasciandomi esalare un sospiro di sollievo.
Esci di lì.
Cerco dei vestiti tra gli scaffali della stanza, nei cassetti e sotto il letto, ma l’unica cosa che trovo è polvere. Mi rassegno all’idea e mi accontento di infilare le scarpe dell’uomo, seppur mi stiano grandi e levo una tenda per usarla come coperta. Sempre meglio di niente. Un suono alle mie spalle mi avverte che l’uomo sta riprendendo i sensi e mi affretto ad uscire dalla stanza. Corro in direzione opposta a quella da cui sono arrivata e volto l’angolo giusto in tempo per non farmi vedere da un gruppo di uomini accorsi in aiuto del loro amico. Giungo di fronte ad una finestra e prendo la decisione estrema di utilizzarla per scappare. Questo posto è pieno di guardie e persone armate all’interno, il che mi offre poche possibilità di sopravvivenza, mentre fuori non ci sarà probabilmente nessuno a causa del freddo pungente, ma anche questo potrebbe costarmi la vita. Indosso solo un paio di scarponi e una tenda come coperta su intimo sottile, ma mando all’aria ogni pensiero sensato quando il rumore di passi veloci si fanno sempre più vicini. Apro la finestra, l’aria gelida mi colpisce il volto e guardo in basso: saranno all’incirca quattro metri, la neve dovrebbe attutire la caduta. Salto incurante e atterro apparentemente illesa, ma poco importa perché non mi fermerò a controllare, non ora. Con ancora l’adrenalina in corpo, muovo una gamba dopo l’altra sulla neve, ignorando i fiocchi che si posano sul mio corpo sciogliendosi. A piedi non arriverò da nessuna parte, realizzo dopo poco osservando il fitto della foresta a pochi metri dallo stabilimento. Procedo arrancando e mantenendomi al muro, sperando che un’idea mi venga in soccorso, fin quando non intravedo a pochi metri quelle che spero siano motoslitte.
Per favore, per favore, per favore.
Pochi passi e mi permetto di esalare un sospiro di sollievo all’evidente schiera di motoslitte che mi si staglia magnificente davanti agli occhi. Delle urla lontane mettono in azione le mie gambe e mi affretto, ansimante e infreddolita, a controllare se almeno uno di questi aggeggi abbia la chiave di accensione ancora attaccata.
Controllo ormai l’ottava motoslitta quando vengo scaraventata nella neve: un uomo mi guarda dall’alto in cagnesco e avanza con il mio indietreggiare incespicante nella neve, ancora non in piedi. La tenda che prima mi copriva il volto è da qualche parte nella neve, ma a questo punto non ha poi tanta importanza. Un momento di panico mi assale al pensiero di aver fatto tutto questo per niente, ma un ciondolare tremendamente confortante dalla gamba dell’uomo mi infonde la forza necessaria per mettermi nuovamente in piedi e chiudere a pugno le mani davanti al volto per ripararmi da eventuali colpi.
Ci scommetto tutto che quelle che vedo sono le chiavi di una delle motoslitte.
E se ho ragione, saranno mie, che lui lo voglia o no.
Aspetto impaziente e con gli arti congelati che sferri il suo primo colpo, ma non arriva. Invece, estrae da una federe che non avevo notato un coltello di modeste dimensioni, ponendomi in una situazione di ancora più svantaggio. Mando giù il groppo in gola e stringo più forte i pugni.
Tutto o niente.
Si sporge con il coltello in un colpo fugace, troppo lento perché io non riesca a schivarlo. Deluso dal gesto andato a vuoto, stiracchia il collo prima di continuare a tentare: schivo il colpo un’altra volta ma il terzo mi sfiora l’addome, così come i due colpi a seguire.
Dopo attimi interminabili e il dolore a malapena percepito delle ferite a causa del freddo, realizzo una cosa che mi potrebbe essere di fondamentale aiuto.
Sta giocando con me.
Avrebbe potuto mettermi K.O in pochissimo viste le evidenti differenze di prestanza fisica e il fatto che io sia disarmata, ma si limita a due graffi sull’addome con un sorriso sornione sul volto.
Approfitto degli attimi che passano mentre pulisce diligentemente il coltello nella neve dal mio sangue per osservare la zona circostante ed individuo, alle spalle dell’uomo, un tronco di albero caduto che potrebbe fare al caso mio. Avrei preferito qualcosa di più letale, ma viste le condizioni attuali può andare più che bene. L’unico reale problema, adesso, è superarlo per afferrare la mia eventuale arma.
«Ehi» dico, la voce che esce leggermente strozzata nel freddo gelido della serata «Per favore, voglio solo sopravvivere. Farò tutto quello che vuoi»
Mi inginocchio con le mani incrociate davanti al volto abbassato, cercando di mettere in scena la mia migliore sceneggiata.
«Tutto tutto?» ha attimi di cedimento e ringrazio mentalmente che ci stia cascando come una pera cotta.
Per un secondo, per un solo brevissimo secondo, si permette di abbassare l’arma e rilassare le spalle, lasciandomi la possibilità di agire: mi alzo il più in fretta possibile e lo travolgo con tutto il mio peso per farlo cadere, o almeno spostarsi dalla mia traiettoria, riuscendo in pochissimo tempo a raggiungere il tronco tanto agogniato.
«Bastarda!» urla l’uomo issandosi sulle gambe dopo essere finito sulla neve, ma io sono più veloce e sferro un colpo calcolato e deciso sulla sua mascella destra.
Respiro affannosamente guardandolo giacere inerte nella neve e del sangue colargli giù dal naso. Non deve essere stato il mio colpo più preciso, ma ben venga.
Abbandono il tronco per afferrare le chiavi che ancora pendono dai suoi pantaloni, trovandoci sopra il numero corrispondente alla motoslitta che mette in moto. Meno tempo da perdere.
Sono tentata di levargli il giaccone pesante che indossa perché questa notte è davvero gelida e la neve non aiuta, dovendo però cambiare idea alle voci troppo vicine di un gruppo di persone. In un batter d’occhio sono sulla motoslitta e giro con mani intorpidite la chiave per accenderla.
Il rumore confortante del motore mi scalda almeno il cuore, riempiendolo di una nuova speranza, e freccio in poco tempo nella foresta tanto paurosa quanto confortante.
Sento il cuore battere all’impazzata nel petto finché le urla in lontananza non cessano del tutto.
 



 
Hola~
Appena terminata
Egrocentic (jun)Hoe degli ikon ed eccomi qui con un'altra storia! Di bts in questo capitolo neanche l'ombra, me ne rendo conto, ma avevo bisogno di dare almeno un minimo di introduzione alla situazione generale e al caratterino della protagonista. Cosa ne pensate? Fatemi sapere, se vi va ^^

Come sempre cercherò di aggiornare almeno una volta a settimana, cosa che probabilmente avverrà durante il weekend per nessuna precisa ragione lol
Volevo inoltre informarvi che la storia verrà pubblicata anche su Wattpad, giusto nel caso vi trovaste meglio a seguirla lì, nulla di che.
See ya next chapter!
Baci♥

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***



Devo abbandonare la motoslitta quando ormai sono passate forse ore.
Provo a far ripartire il motore, ma oltre a sbuffare rumorosamente, non ne vuole sapere. La benzina deve essere finita, ma mi ritengo abbastanza soddisfatta per essere arrivata quantomeno ad una distanza ragionevole dalla fortezza.
Decido quindi di avanzare a piedi, non avendo altre alternative, e mi pento subito di non aver preso il giaccone dell’uomo, prima di partire. Il motore della motoslitta deve avermi tenuta un minimo al caldo, ma adesso, nel bel mezzo di una foresta e con la neve che ancora cade prepotente, dubito di riuscire a resistere per molto.
I miei piedi, seppur tenuti al caldo dagli scarponi rubati, sono quasi insensibili e per le mani e le braccia la situazione è anche peggiore. Procedo in fretta e senza riserve, con l’unico rumore delle mie paure a farmi compagnia, lasciandomi pensare irrazionalmente e sforzarmi tanto quando dovrei preservare le energie.
Sono costretta a fermarmi quando inciampo.
Porto le mani avanti per frenare l’impatto, ma cedono e la mia faccia affonda nella neve. Cerco quasi subito di rimettermi in piedi, ma è così difficile essendo insensibile ad ogni movimento. Mi accascio per terra, respirando veloce e continuo a formare nuvolette nell’aria e penso sul serio che sto per morire. Cosa diavolo mi è preso? Uscire con questo freddo senza neanche essere coperta decentemente non è per niente la cosa più intelligente che io abbia mai fatto. Avrei potuto stringere i denti per una notte, al caldo e magari provare il giorno dopo, favorita dal calore del sole.
Non dire sciocchezze.
Mi stendo completamente sulla neve, desiderando ardentemente di poter vedere per un’ultima volta le stelle, ma la neve che cade è troppo densa.
La neve? Come diavolo è possibile che io riesca a vederla così chiaramente? Dovrebbe essere troppo buio perché io possa distinguere i vari fiocchi che cadono dal cielo. Mi tiro su faticosamente e digrigno i denti con il barlume di una speranza, riuscendo a mettermi in piedi. Barcollo qualche metro di pura agonia con la forza delle mani completamente andata, il cuore mi si scalda –per quanto possibile- alla vista di una casa. E’ ben nascosta tra gli alberi in modo da non poter essere scorta in lontananza, ma da questa distanza è quasi stupido che io non mi sia accorta della sua presenza. La luce di un fuoco forma ombre diverse sulle pareti che intravedo dalle finestre e sento già sul viso il calore riscaldarmi e il rumore della legna che scoppietta. Mi avvicino lentamente, perché se cadessi ora, non sono sicura che sarei in grado di rialzarmi.
Quando raggiungo la porta mi sembra quasi un miraggio.
Busso più volte, ma nessuna risposta giunge dall’interno. Così, semplicemente, abbasso la maniglia: la porta è aperta. Entro di corsa, chiudendomela alle spalle e mi inginocchio davanti al fuoco, cercando di riscaldarmi il più possibile. Ho le mani quasi viola e i piedi, una volta tolti gli scarponi, non sono da meno. Dubito di avere il volto in condizioni differenti.
Aspetto di riacquistare mobilità da parte degli arti per poter cercare qualcosa da indossare. Il freddo iniziale è passato, ma devo coprirmi, e noto con piacere che qui non mancano di vestiti. Frugo in uno zaino e, tra varie cose tra cui anche un coltello, riesco a trovare un maglione pesante a sufficienza e un paio di jeans. Infilo subito il maglione e mi ci stringo in cerca del maggior calore possibile, causandomi un acuto dolore sull’addome, probabilmente per via dei graffi provocatimi dai rami. Prima di riuscire ad infilare anche i pantaloni, realizzo una cosa: il maglione è molto grande. Non mi va come un vestito, tuttavia sicuramente non è da ragazza, a meno che non sia più alta della media. Ma quanta fortuna devo avere avuto per imbattermi in una ragazza nel bel mezzo della foresta che non sia ancora stata presa? Molta, davvero molta.
Ti riporteranno lì, devi andare via!
Ma è troppo tardi.
Un ragazzo, vestito più o meno con gli stessi vestiti che ero intenta a mettere, ha in mano i miei scarponi e li osserva incuriosito.
Sono solo degli stivali, dannazione, e io ne ho bisogno.
Si accorge che lo sto fissando e alza lo sguardo. Afferro velocemente il coltello trovato in precedenza nello zaino, estraendolo dalla fodera, e glielo punto contro, pronta a dovermi difendere in qualsiasi modo pur di non lasciare che mi trascini in quel posto. Strabuzza gli occhi sorpreso e poggia, lentamente e senza interrompere il contatto visivo con me, gli scarponi per terra e ritorna subito dritto. Il suo sguardo cade alle mie gambe e alza un sopracciglio, accigliato.
«Dovresti infilare i pantaloni, sai, è freddo» mi dice indicandoli. Ha una bella voce e stringo di più le dita attorno al manico del coltello senza lasciarmi fregare.
Porta le mani in avanti, con i palmi verso di me.
«Non voglio farti del male» afferma «e non è un problema se prendi un po’ della mia roba. Stiamo entrambi cercando di sopravvivere»
«Chi mi dice che non mi venderai?» chiedo, parlando per la prima volta da quando sono scappata e la voce mi esce strozzata, la gola che brucia. Il suo volto si corruccia, come se avesse appena intuito perché sono seminuda e diffidente nei suoi confronti.
«Nessuno, a parte me. Quindi, per quel che può valere, non ti venderò».
Per quanto le sue parole possano sembrare sincere, non ci si può fidare ciecamente di una persona di questi tempi, quindi valuto la situazione: ho bisogno delle cose che possiede e del fuoco che ha accesso per sopravvivere o posso considerarmi morta comunque. Se dovesse rivelarsi tutto un bluff, potrei ritentare di scappare, non sarebbe molto difficile stenderlo con i giusti colpi, ma uscire là fuori nella neve non mi garantisce nessuna possibilità di sopravvivenza e la tempesta sta peggiorando, cosa assolutamente a mio svantaggio. Abbasso lentamente il coltello e infilo i pantaloni, mentre resta a fissarmi vicino al fuoco.
«Puoi tenere il coltello, se ti rende più sicura» offre.
«Lo avrei fatto comunque» e, infilandolo nella fodera, lo seppellisco nella tasca dei jeans.
Mi avvicino cauta a lui e prendo i miei scarponi. Li tengo stretti quando mi chiede: «Dove li hai presi?»
«Li ho rubati» rispondo. Accenna una risata e trattiene un sorriso.
«Questo lo so» dice annuendo «Sono troppo grandi anche per i miei piedi»
«Non ha importanza, adesso sono miei» dico senza levargli gli occhi di dosso. Assottiglia i suoi a mandorla e sposta leggermente la testa, come se qualcosa del mio volto avesse attirato particolarmente la sua attenzione.
«Eterocromia?» domanda dopo qualche istante. Avvicino d'istinto una mano al volto e ricordo di aver completamente ignorato questo aspetto della vicenda nella foga di scappare. 
«No, è solo una lente a contatto» per facilitare la vendita del mio corpo ad un uomo ubriaco, aggiungo tra me e me. Mi considero abbastanza fortunata nell'aver trovato le lenti prima delle altre ragazze, perché potrebbero aver fatto la differenza tra la vita o la morte. Tra decine di ragazze sarei potuta piacere o no, e in quella situazione avevo bisogno che fosse la prima opzione. La lente colorata mi ha aiutata a far sembrare i miei occhi di due colori diversi e, soprattutto, a distrarre dalla mia cicatrice. Ho fatto leva sulla loro stupidità: il colore dei miei occhi non presumeva nulla, ma per quegli uomini non sembrava così. L’immagine dei loro volti stupiti e lussuriosi quando li ho puntati tra la folla mi causa un brivido freddo e non potrei essere più sollevata di non trovarmi in mezzo a quella gente.
«Sei solo o c’è qualcun altro?» indago. Una strana espressione gli attraversa il volto, ma non riesco ad identificarla con un’emozione perché dura un attimo.
«Sono solo io» conferma.
«Mi chiamo Seokjin» mi offre la mano.
Tentenno prima di afferrarla.
«Beth»
 
Una cosa ovvia: è bello.
Ho modo di osservarlo mentre dorme dall’altra parte del fuoco su una stuoia trovata qui. Ha dei lineamenti dolci e la cosa mi manda in confusione. Può qualcuno con un aspetto del genere covare del male? E’ un ragionamento del tutto irragionevole e insensato, ma è come avere di fronte l’espressione fisica di una animo gentile, e la cosa non so se mi piace. Comunque non è solo questo: anche i suoi atteggiamenti sono molto diversi dalle persone che ho incontrato finora. Sembra quasi… innocuo.
Scaccio via il pensiero velocemente. Non posso fidarmi così, alla cieca e dopo aver osservato i suoi movimenti per pochissimo tempo. Sono stata prudente fino ad ora, non ho intenzione di smettere.
Mando uno sguardo veloce fuori dalla finestra e prendo la cauta decisione di chiudere le tende, cercando di fare meno rumore possibile. Controllo le stanze e, dopo essermi accertata di avere ancora indosso il coltello, ritorno al mio posto vicino al fuoco. Mentre tento di sedermi, il dolore all’addome si ripresenta ed emetto un lamento, che tuttavia smorzo subito per non svegliare il ragazzo. Alzo il maglione, in alcuni pezzi macchiato di sangue rappreso, per ispezionare le zone colpite e mi rendo effettivamente conto della profondità dei graffi. Devo averli sicuramente smorzati con il tessuto doppio della tenda, ma non del tutto evitati. Il primo istinto è di trovare qualcosa per medicarmi. Sono abbastanza fiduciosa nel fatto che il ragazzo abbia con sé qualche scarto medico, ma presto è ovvio che non sarà facile trovare qualcosa senza fare eccessivo rumore. E non saprei neanche dove iniziare a guardare. Osservo un’altra volta le ferite e, di malavoglia, abbasso il maglione, cercando di convincermi di non sentire nulla.
Poco prima che il sonno mi culli, sento un forte fastidio al piede: dovrò medicare anche quello.
 
«Hai due secondi per giustificare la cosa» minaccio il ragazzo sotto di me, il mio coltello puntato alla sua gola. Mi sono svegliata per un leggero formicolio al piede e, aperti gli occhi, lui era seduto ad armeggiare con la mia caviglia. Non gli ho dato il tempo di dire nulla e l’ho costretto sul pavimento. Tuttavia non batte ciglio: resta immobile e mi fissa, forse elaborando una risposta che non mi faccia arrabbiare o forse una mossa per sottrarmi il coltello e mettermi K.O.
«Avevi i piedi e l’addome pieni di sangue, così li ho fasciati»
Mi do della stupida. La prima cosa che mi è venuta in mente è che mi stesse legando i piedi e non ho visto ragioni, reagendo esageratamente. Allontano il coltello dal suo collo e mi alzo, borbottando un “mi dispiace” nel notare di averlo ferito superficialmente con la lama.
«Anche a me, avrei dovuto svegliarti, ma dormivi come un sasso» mi fa notare, riprendendo le fasce usate per il piede. Sollevo la maglia e trovo anche qui fasce a coprire i miei tagli. Mi sento un po’ in colpa per non aver interagito da persona normale, ma quando si tratta di essere catturata come merce, la mente e il corpo mi spingono a fare di tutto per evitarlo. Non sono stata più di otto ore rinchiusa in uno di quei posti del diavolo, probabilmente, ma le voci corrono tra le persone e io non sono sorda: sono a conoscenza delle barbarie rinchiuse tra quelle mura. Mi rendo conto di stare fissando troppo il fuoco della sera prima, ravvivato sicuramente questa mattina con altra legna, e mi affretto ad aiutare il ragazzo nel raccogliere il materiale medico che ha usato.
«Faccio io, tu piuttosto mangia qualcosa, devi essere affamata» il mio stomaco risponde alla sollecitazione più rumorosamente di quanto sia mai capitato, causando nel ragazzo una risata spontanea. Mi afferra un braccio e gentilmente mi trascina davanti al tavolo poco lontano con sopra del cibo come erbe, funghi e anche del riso. Non mi domando troppo da dove abbia preso quest’ultimo e comincio a mangiare senza fare molti complimenti. Non mangio da giorni, anche da prima che mi catturassero. La selvaggina è difficile da ottenere cacciando con questo freddo, soprattutto se non si è equipaggiati a dovere, e il pane o qualsiasi altro alimento fatto in casa sono un totale tabù per chi non possiede denaro, ormai non più in grado di essere guadagnato. Le persone che ne hanno un po’ sono quasi sempre uomini e l’unico modo per ottenerne è uccidere chi già lo possiede, per altri omicidi o per eredità. Di tanto in tanto si vedono donne ricche, come Nadin: raccolgono ragazze per strada e le vendono finché non arrivano stremate alla morte, per poi ricominciare con altre. E le donne come lei sono quelle più al sicuro, perché se mai qualcuno dovesse ucciderle, sarebbe decisamente più complicato procacciarsi da soli le donne.
Siamo povere, malnutrite e senza un tetto sotto cui vivere, ma abbiamo imparato a correre veloce.
«Ti piace? Non preparo mai qualcosa per più di una persona» mi accorgo di essermi allontanata con la mente solo quando parla. E’ seduto dall’altra parte del tavolo con una ciotola vuota davanti e mi guarda incuriosito.
«E’ la cosa più saporita che io abbia mangiato negli ultimi sei mesi» rispondo, dopo aver mandato giù del cibo. Spazzolo tutto in pochissimo tempo e lui si appresta subito a lavare le ciotole in una vaschetta d’acqua ricavata sicuramente dalla neve. Osservo le sue mani muoversi con delicatezza mentre ripone tutto in uno zaino. Annuncia di andare a procurarsi dell’altro cibo ma, prima di fare un passo fuori dalla porta già spalancata, e guardando dritto davanti a sé, dice una cosa che mi lascia sbigottita per qualche minuto anche dopo che se n’è andato.
«I tuoi occhi sono molto più belli di questo colore»



 
Eccoci con un nuovo capitolo ad una settimana precisa precisa dalla pubblicazione del primo ^^
Finalmente entra in scena il nostro Seokjin, più bello e gentile che mai! Non accade molto, in realtà, ma spero che abbia attirato comunque la vostra curiosità. Lasciatemi un parere, se vi va, senza impegno! Ringrazio tutti quelli che dedicano del tempo alla lettura/recensione della storia :*
See ya in a week (non me lo chiedete neanche perché lo scrivo in inglese perché
nonsense) Baci ♥

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Sono stata super impegnata nell'ultima settimana, tanto da non accorgermi che fosse ora di aggiornare, scusate! Farò anche in modo di leggere le recensioni che ancora non ho avuto modo di visionare entro domenica sera e di rispondere, ma adesso proprio scappo a letto che domani mi aspetta una lunga giornata. Baci e buona lettura ♥
 

 
Sono dovuti passare più di due mesi prima che la neve iniziasse a sciogliersi.
Raccolgo la mia bottiglietta d’acqua dal pavimento, finitaci per colpa dei miei movimenti notturni. Da quando sono qui, non riesco a far altro che non sia pensare che possano irrompere nella tranquillità creatasi per trascinarmi via. E’ una paura costante, annidata sotto la pelle, pronta a tormentare i miei sogni.
Ripongo la bottiglietta sul mio comodino e l’occhio mi cade fuori dalla finestra della stanza: la giornata è luminosa e gli alberi colorati. E’ anche più caldo rispetto a qualche mese fa, ma teniamo il fuoco accesso per poter cucinare la selvaggina che di tanto in tanto troviamo nelle trappole o riusciamo a catturare con qualche colpo di fortuna. Inoltre, ci siamo spostati a dormire nelle camere: senza più le basse temperature, il calore emanato dal fuoco era quasi opprimente e la casa offriva anche altri ambienti. Io dormo nella stanza più vicina all’ingresso, mentre Jin in quella in fondo al corridoio. Ci resta un sacco di tempo in quest’ultimo periodo e, dato che non ho molto da fare, passare gran parte delle mie giornate da sola mi annoia. Da quando sono con lui ho perso il callo della solitudine e non mi dispiace neanche tanto: a volte poter parlare di cose qualsiasi, come la caccia, mi tranquillizza. Troppi pensieri rumorosi occupavano la mia mente quando ancora dormivo per strada e non c’era modo che potessi fermarli. Parlare con Jin li zittisce.
Mi sono resa conto che, pian piano, ho smesso di pensare a lui come al “ragazzo”, chiamandolo per il suo nome. Ma a volte dire “Seokjin” mentre cacciavamo era dispendioso e gli animali si spaventavano, così ho iniziato a chiamarlo con solo “Jin”. Non ha mai fatto obiezioni al riguardo e, tra l’altro, non ha mai neanche più accennato nulla sui miei occhi.
 
«Proviamo ad andare a nord» mi dice un giorno. Lo guardo accigliata, per niente nascondendo la natura piuttosto strana della proposta.
«Perché dovremmo?» ribatto. Qui abbiamo tutto quello che è necessario a sopravvivere e, a parte i medicinali, ce la passiamo abbastanza bene rispetto alle condizioni della stragrande popolazione. Non dobbiamo neanche temere che qualcuno ci possa importunare, qui nella foresta.
«Così» alza le spalle «Per provare a vedere un po’ in giro»
«Cosa dovremmo vedere, Jin? Non c’è niente che io e te già non conosciamo» sbuffa infastidito e si alza dalla sedia, scostandola dal tavolo. Si avvicina alla finestra e guarda fuori, pensieroso.
«Allora facciamo solo un giro in città» propone nuovamente «di perlustrazione».
«Ne abbiamo fatti decine e decine, in tutte le direzioni, lo sai»
«Sì che lo so, ma potremmo provare ad andare più lontano, no? Magari riusciamo a trovare qualcosa come dei farmaci, ci sarebbero utili» la cosa non mi convince del tutto, però da un lato comprendo come possa sentirsi. Mi ha raccontato di essere stato in questa casa per molto tempo prima che io arrivassi, anche se non ha accennato niente riguardo al prima. Fatto sta che dev’essere un po’ stufo della solita routine e forse vorrebbe provare a svarionare. Così, quando mi chiede se ci penserò su, gli rispondo senza esitazione.
«Ci ho già pensato: va bene»
 
«Hai preso la tua roba?» domanda Jin, appoggiato allo stipite della porta della mia camera con la spalla. Sento il suo sguardo passare dal mio volto alle mie mani, mentre infilo le ultime cose nel mio zaino.  Ha insistito a lungo prima di convincermi a portarci dietro tutto, nel caso dovessimo trovare un luogo migliore o volessimo trattenerci di più. Mi sembra comunque inutile, perché credo che fondamentalmente non troveremo nulla per cui valga la pena trattenersi, ma non glielo dico. Quando ho accettato la sua proposta, gli si è dipinta sul volto un’espressione di puro sollievo e felicità, e non mi va di rovinargli l’umore. Almeno uno dei due sembra stare bene, per una volta.
«Sì» rispondo, caricandomi a stento lo zaino sulle spalle. Jin si avvicina velocemente e mi aiuta, assicurandosi un paio di volte che io possa reggere il peso senza troppa fatica.
«Ce la faccio» dico, più a me stessa che a lui. Ho mangiato bene in questi mesi –Jin è un ottimo cuoco- e ho molte più energie di quante ne abbia mai avute negli ultimi tempi. Ciononostante, apre lo zaino ormai sulle mie spalle e prende alcune cose, portandole invece nel suo.
«Ma che fai? Il tuo zaino pesa già più del mio, non vorrai spezzarti la schiena» protesto, anche un po’ indispettita dal fatto che abbia notato quanto non lo reggessi bene.
«Non preoccuparti, io riesco benissimo»
«Se ti salissi sulle spalle, probabilmente non riusciresti a tenermi» pronuncio le ultime parole talmente piano che dubito le abbia sentite. La frase non ha molto senso, poiché peso veramente poco a causa delle condizioni di vita e lui potrebbe trasportarmi sulle spalle per ore prima di stancarsi. Per un attimo è stato come se nulla fosse cambiato e mi sono ritrovata a ripetere una frase che dicevo sempre a mio fratello, inconsapevole di rivolgerla alla persona sbagliata. Non che non riuscisse per davvero a portarmi, ma la contraddizione reciproca era all’ordine del giorno.
«Beth?» la mano di Jin mi stringe una spalla, mentre lui mi guarda a metà tra l’incuriosito e il preoccupato.
«Sto bene» scuoto la testa «andiamo» ed esco dalla stanza senza dargli il tempo di replicare. Raggiungo il bordo della foresta in men che non si dica, ma Jin non è dietro di me. Aspetto qualche minuto e, proprio mentre prendo la decisione di andare a controllare perché ci stia mettendo così tanto, fa capolino dalla porta d’ingresso. Mi affianca e insieme ci fermiamo a guardare la casa che è stata nostro rifugio nei mesi più freddi e, soprattutto, ostacolo alla sopravvivenza. Sono quasi tentata di rimangiarmi tutto e di restare, perché credo che sia profondamente sbagliato lasciare un riparo del genere per una perlustrazione. Qui siamo al sicuro anche dai saccheggiatori, in crescita notevole nei luoghi popolosi come le città, e dai ladruncoli affamati.
Tu eri una ladruncola affamata.
Sono colta da un sussulto. E’ vero, lo ero e sono stata presa proprio per questo.
«Forse è meglio se andiamo» propone Jin al mio fianco. Annuisco e lo seguo tra gli alberi. Noto che ha i muscoli tesi e aguzza la vista in cerca di qualcosa. Gli domando un paio di volte se si sente bene ed entrambe le volte risponde scuotendo la testa. Quando, un paio d’ore dopo, gli faccio nuovamente la domanda, sembra essere più rilassato e non mi rifila più un segno con la testa.
«Molto meglio, ora»
«Da dove venivi la notte che ci siamo incontrati?» domanda dopo un po’, piano, come per paura di una mia brutta reazione.
«Da dove può arrivare una ragazza mezza nuda nella notte di una tempesta di neve?» chiedo a mia volta.
«Dai Jin, credevo fossi più sveglio» cerco di fare dell’ironia per nascondere l’odio profondo per la situazione da cui sono riuscita a fuggire. Ammettere di essere quasi arrivata a prostituirmi perché costretta non mi crea troppi problemi, non sono né la prima né l’ultima, ma raccontare quanto credessi di essere spacciata al dovermi adattare a quel destino è tutta un’altra storia.
«Volevo solo che me lo confermassi, ma mi sembrava scortese domandarlo direttamente»
«Non saranno delle domande ad uccidermi» rispondo, prima che un silenzio cali tra noi come un macigno.
 
Arriviamo nella città più vicina che ormai è buio. Per le strade c’è il silenzio opprimente che avevo imparato a gestire e a sopportare, ma che adesso mi pesa più di quanto mi aspettassi. Jin si guarda intorno incuriosito, ma cammina per i marciapiedi come se fosse la cosa più naturale del mondo. Lo afferrò per un braccio prima che possa chinarsi a raccogliere una lattina da terra. Gli mimo con le labbra “Niente rumore” e mi allontano velocemente dal suo volto perché mi accorgo che me le fissa un po’ più del dovuto.
Ho imparato due cose molto importanti tra queste vie: la prima, mai interrompere il silenzio di chi dorme, perché c’è sempre qualcuno che ti guarda e ti controlla, dalle tapparelle abbassate o da dentro un cassonetto distrutto, pronto a fare la spia per un po’ di cibo a chi ha i mezzi necessari per prendere provvedimenti; e secondo, cercare un rifugio il prima possibile. E questa volta non siamo abbastanza svelti.
Un’ombra saetta velocemente di fronte a noi, lasciando cadere per terra da una busta decine di lattine e schizzando via una volta emesso rumore a sufficienza. Cerco Jin a pochi metri da me e gli dico di seguirmi, iniziando a correre nella direzione opposta dell’ombra. Nella mia testa passo in rassegna tutti i posti che conosco di questa città alla ricerca di uno che faccia al caso nostro, ma la necessità che io riesca a pensarci il prima possibile mi impedisce di farlo realmente. Mi fermo con il fiatone e Jin mi viene addosso. Riprendiamo l’equilibrio in fretta nonostante gli zaini e lo trascino in un vicolo per essere quanto meno riparati finché non trovo una soluzione.
«Beth, dobbiamo andare» mi dice, cercando di riprendere fiato contro il muro. Lo zittisco e chiudo gli occhi.
Ragiona. Dove andresti se volessi dormire per una notte al sicuro?
E la risposta arriva quasi immediatamente.
Ero solita dormire il più vicino possibile al centro della città, perché la mattina presto, con un po’ di fortuna, trovavi qualcuno a vendere del cibo senza che ci fossero guardie a controllare e tutti cercavamo di rubare una mela o un pezzo di pane, accontentandoci, in caso contrario, di avanzi dei mercanti. Ma a volte la stanchezza prendeva il sopravvento e la fame passava in secondo piano rispetto al sonno, così dormivo nella cantina di quelli che all’epoca erano i miei vicini. Afferro nuovamente Jin senza pensarci molto e senza farlo riprendere del tutto e mi ci dirigo di fretta. I rumori di decine di uomini che brancolano nella notte cercandoci mi fa rabbrividire e stringo la presa su Jin, per essere sicura di non perderlo proprio ora.
Arriviamo alla cantina stremati, ma con solo i nostri respiri affannati a riempire l’aria: dovremmo aver seminato quegli uomini. Siamo davanti alle macerie di una casa che nessuno controllerebbe perché non idonea come riparo e quindi inutile. Ma avendo frequentato questa casa sin da bambina, so perfettamente che queste macerie nascondono ben altro. Jin mi guarda dubbioso e come se avessi perso il senno, ma non è questo ad attirare la mia attenzione, quanto il fatto che gli sto stringendo la mano. Anche lui se ne accorge, o forse già lo sapeva, ma non fa reagisce, così sciolgo l’intreccio delle nostre dita e cammino spedita verso l’entrata della cantina, ringraziando il buio della notte per coprirmi le guance arrossate e il volto imbarazzato.
 
«Perché quel ragazzino ha fatto rumore?» domanda Jin a bassa voce. Siamo sdraiati l’uno affianco all’altro su un materasso che sono riuscita a recuperare tempo fa, quando ancora usavo questo nascondiglio e, sebbene sia abbastanza piccolo per permettere ad entrambi movimenti fluidi, non ci lamentiamo più del dovuto. Un letto è sempre un letto.
«Avrà avuto fame, probabilmente» rispondo qualche attimo dopo. Non credo che sia l’unica possibile risposta, a dire il vero: alcuni rapiscono dei bambini, costringendo tramite minacce i loro fratelli più grandi a compiere razzie e a trovare gente. Jin sembra quasi intuire l’incompletezza della mia risposta e storce la bocca, ma giusto per un attimo.
«Per fortuna che c’eri tu con me, in tal caso»
«Te la saresti cavata comunque, sei in gamba» replico senza esitare. Non sarei ancora viva se Jin non fosse stato in grado di creare un rifugio accogliente con fuoco e cibo e, cosa più importante, se mi avesse consegnata per denaro e viveri.
«Nella foresta, è quello il mio territorio. Non avrei saputo cosa fare se non ci fossi stata tu» dice lentamente, meditando sulle parole da pronunciare «Probabilmente mi avrebbero preso» un groviglio di ansia mi si crea nello stomaco. Ho pensato spesso alla probabilità che uno dei due venisse beccato, forse nella foresta in cerca di cibo o forse in perlustrazione, ma sentirlo dire ha tutto un altro effetto. Lo rende reale, e attualmente la realtà non può essere esattamente dipinta come un tripudio di felicità.
E ti mancherebbe.
Emetto un lamento appena udibile non appena il pensiero prende forma nella mia mente, perché è vero, fin troppo. Jin è diventato un elemento essenziale della mia già schifosa esistenza e l’ha rallegrata nei limiti del possibile. Mi calma, mi lascia immaginare, anche per poco, che le cose possano andare diversamente.
«Beth… non voglio costringerti a parlarne, ma cosa è successo prima che arrivassi da me, quella sera?» resto qualche minuto a decidere che fare. Mi fido di Jin, questo lo so, ma non mi piace ripensarci, non mi piace immaginare le cose andare in una direzione diversa. Quando però inizia a dire che non fa niente, prendo la parola.
«Da come avrai già capito, mi avevano presa» inizio.
«Come?» domanda subito.
«Ero affamata, di quella fame che non puoi immaginare finché non la provi, che ti spinge a fare cose terribili»Jin sussulta al mio fianco e prende un profondo respiro, prima di incitarmi a proseguire.
«Non mangiavo qualcosa di decente da settimane, andavo avanti a scarti dell’immondizia» a volte anche vermi nel terreno, penso «e ricordo quanto nulla avesse importanza se non trovare da mangiare, così mi unii ad un gruppo di ragazzi nel tentativo di garantirmi più spesso dei viveri e sicurezza» gli racconto dei mercanti e di come noi altri cercassimo di rubare del cibo dalle loro bancarelle.
«E riuscivate a sopravvivere con quella quantità di cibo?» domanda, la voce in pena e lo sguardo rivolto al mio volto.
«Era abbastanza per non morire, ma non sufficiente a saziarci» quando annuisce, proseguo.
«Per settimane non ci fu più nessun mercante e non sapevamo darci una spiegazione ragionevole. Un giorno, però, alcuni sentirono per strada due uomini discutere sulla decisione di non permettere la vendita di cibo» stringo i pugni al ricordo, ma subito dopo stendo le dita, per riprendere abbastanza calma da proseguire il racconto.
«Lo avevano fatto per liberarsi della maggior parte di noi e costringere le ragazze a prostituirsi volontariamente per non morire di fame».
«E tu non lo hai fatto» afferma, sottovoce.
«Altre presero questa decisione coscienziosamente, ma a me l’idea non è mai andata giù. Non credo sarei riuscita a guardarmi allo specchio come prima, scegliendo quella vita perché costretta» mi fermo un attimo, cercando di calmare il battito accelerato del cuore.
«Ad ogni modo, non riuscii a trovare molto cibo: avevano fatto in modo di svuotare le pattumiere e di pulire le strade con più frequenza e anche rubare qualcosa era diventato impossibile. Ma mentre bighellonavo in giro mezza intontita e stordita dalla fame, venni a sapere dell’arrivo in città di un allevatore di galline» Jin, che aveva rivolto nuovamente lo sguardo al soffitto, torna a guardarmi già intuendo le conseguenze.
«Ho tentato di rubargliene qualcuna. Me ne bastava anche solo una, una, per delle uova, ma fui beccata quasi subito, non avevo programmato un vero e proprio piano: avevo fame e volevo mangiare. E si sa, la gatta frettolosa…»
«…fa i figli ciechi» conclude lui per me. Annuisco in silenzio, beandomi del silenzio della notte.
«Ti hanno… toccata?» domanda, prendendomi alla sprovvista. Avverto irritazione e disgusto nella sua voce, ma non sono del tutto sicura da poterci mettere la mano sul fuoco.
«No, anche se ci sono andata vicino. Il tipo era alto due metri e pesava almeno trenta chili in più di me» Jin si rilassa al mio fianco e mi convinco che forse avevo inteso bene i sentimenti della sua frase.
«E poi dici che sono io quello in gamba» è l’unica cosa che sento, prima di addormentarmi.
 
Una cosa che ho imparato su Jin è che al mattino si sveglia sempre presto. In questi mesi, ogni qualvolta mi svegliassi, lui era già in piedi, per preparare la colazione o a badare alla legna. Le uniche volte in cui rimaneva a dormire aveva l’influenza.
Così, quando apro gli occhi e lo trovo ancora al mio fianco, porto d’istinto la mano alla sua fronte.
«Che… Beth, che fai?» chiede, aprendo un solo occhio per scrutarmi. Uno spiraglio di luce illumina esattamente quella parte della faccia e quando realizzo la nostra troppa vicinanza, mi ritraggo.
«Controllavo la tua temperatura» rispondo, infilando le scarpe lasciate di fianco al materasso la notte prima. Sento il fruscio del suo corpo sul materasso e capisco che si è messo a sedere.
«Come mai?»
«Sei mattiniero, solitamente» una piccola risata giunge dalle mie spalle.
«Ero già sveglio, avevo solo gli occhi chiusi» dice, ormai completamente in piedi. Mi alzo a mia volta e lo osservo accigliata. E’ forse stanco per il viaggio in città e la corsa di ieri? Jin sembra intuire il mio dubbio e non ci mette molto a rispondere.
«Non credevo avessi gli incubi» mi fermo a fissarlo. Con tutta la successione degli eventi mi sono completamente dimenticata di questo aspetto del mio sonno. Che lo abbia…
«Ti ho colpito?» domando istintivamente. Jin corruga la fronte pensieroso.
«Non mi sembra» alla sua risposta, due opzioni mi si presentano nella mente: o ha il sonno terribilmente pesante o questa è stata la notte più calma mai vissuta da me. E considerando che la prima sia terribilmente improbabile, non restano poi tanti dubbi.
Scuoto la testa. Il materasso è diventato uno scaccia incubi mentre ero via? Poi alzo lo sguardo e incontro quello di Jin, che continua a guardarmi e fare due più due non mi è difficile. Quando penso a lui, uno dei primi sentimenti che mi colpisce è la tranquillità. Potrebbe anche darsi, viste le circostanze, che la sua vicinanza durante la notte abbia avuto la funzione di rilassare il mio inconscio. Non abbastanza da mandare via ogni preoccupazione, ma comunque di frenare il mio malessere, almeno un po’.
«Credo…» inizio, considerando l’ipotesi di condividere i miei pensieri, ma quando realizzo quanto suonerebbe strano, cambio argomento.
«Credo che dovremmo andare a cercare qualcosa»
 
Passiamo il pomeriggio in cerca di provviste e medicine ma, come immaginavo, i cassonetti sono vuoti e i negozi già svaligiati.
«Non c’è assolutamente niente» mi lamento, lanciando l’ennesima pietrolina contro il muro, nel tentativo di prendere un vecchio manifesto.
«Saremo più fortunati» cerca di tirarmi su il morale Jin, senza però riuscirci. Questo viaggio è stato una perdita di tempo, restando nella casa nella foresta saremmo stati decisamente meglio.
«Dovevamo cambiare idea prima di partire» do’ voce ai miei pensieri. Jin sbuffa e si alza, abbandonando il posto contro il muro.
«Abbiamo cambiato aria, no?» dice non del tutto convinto. Annuisco per concludere il discorso. Lamentarsi adesso non farà molta differenza. Jin mi porge la mano e la afferro per issarmi in piedi. Raccolgo lo zaino, mentre lui si avvicina alla fine del vicolo per controllare che non ci sia nessuno.
Un “Ragazzo!” che viene urlato in lontananza mi blocca completamente. La sua schiena si irrigidisce e volge lo sguardo verso di me, facendomi il segno di alzare il cappuccio e di andare via. Lo guardo per qualche istante più del dovuto e mi fa segno nuovamente con la mano di allontanarmi. L’istinto mi dice di scappare a gambe levate finché sono in tempo, ma non posso, non voglio lasciare Jin lì. Alla fine, decido di nascondermi dietro ad un cassonetto nel vicolo, in modo da poter assistere alla scena e intervenire in caso. In fondo è un maschio, potrebbero lasciarlo andare.
«Seok!» dice un uomo un po’ più alto di lui, mettendogli un braccio intorno alle spalle e scompigliandoli i capelli. Lo ha chiamato per nome, penso e tendo le orecchie ancora di più. Non oso sporgermi troppo per paura di essere vista, ma posso immaginare lo sguardo corrucciato di Jin in questo momento.
«Come mai da queste parti?» dice il tizio, a voce tanto alta da poter essere sentito per metri.
«Io…» tentenna Jin, prima di rispondere riacquistando la calma «…perlustro». Non che non sia del tutto vero.
«Oh, perlustri, eh? Vieni con noi a bere qualcosa, allora, conosco una bottega fantastica» dice, con il tono di qualcuno che non accetta un no. Quindi non è solo. Attimi di silenzio perforano l’aria, mentre attendo la risposta di Jin.
«D’accordo» cede alla fine «devo solo prendere la mia roba, l’ho lasciata lì» il dito probabilmente puntato in direzione del cassonetto.
«Bene allora, muoviti!» lo esorta l’uomo, allontanandosi di qualche passo. Il rumore di scarpe si fa sempre più vicino al mio nascondiglio e, quando la faccia di Jin, seppur in un misto di preoccupazione ed agitazione, mi si para davanti, smetto di tremare.
«Chi cavolo è quello?» domando velocemente, mentre lui raccoglie il suo zaino per portarselo in spalla.
«Torna al rifugio, ti raggiungo quando me ne libero» dice allontanandosi. Qualcosa nel tono della sua voce mi suggerisce che non è una cosa da niente. Mi alzo in fretta e gli afferro il braccio con uno strattone, lasciando che il cappuccio mi scopra il viso. Appena se ne accorge, si avvicina rapido e me lo ritira su, nascondendo bene i capelli.
«Sta’ attenta» sussurra con preoccupazione, guardandosi indietro a controllare. Riporta lo sguardo su di me e risistema meglio il cappuccio per la seconda volta. Aggrappo le mani alla sua felpa e lo costringo a guardarmi.
«Jin, per l’amor di Dio, dimmi chi è quel tipo» quasi supplico e lui emette un sospiro, passandosi successivamente una mano sul volto.
«Lui e altre persone vogliono una cosa che…» si ferma, cercando le parole adatte «…una cosa che mi appartiene, al momento». Assimilo le parole e aggrotto le sopracciglia.
«E non puoi dargliela e levarteli dai piedi?» domando stupita, non trovando la stessa gravità del problema. Ma dallo sguardo impotente che mi rivolge un attimo dopo, mi rendo conto di non sapere davvero quanto tenga a questa cosa.
«Non lo farò» dice solo. Un “Seok!” urlato nuovamente in lontananza accelera la situazione e mi sposto dietro il cassonetto, sempre per paura che possano vedermi. Jin fa per andarsene, ma quasi a metà strada si ricorda come di qualcosa e torna indietro correndo.
«Sii prudente» dice, prima di posare un leggero bacio sulla mia fronte e sparire oltre il vicolo.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***



 

Passo le ore successive a rimuginare sulla successione degli eventi. Cosa possiede Jin di così importante? Cammino avanti e indietro nel rifugio, ma la risposta sembra essere troppo lontana dalla mia intuizione. Alla fine, potrebbe essere qualsiasi cosa. Decido così di percorrere una strada logica: sarebbe Jin così stupido da portare questo oggetto con sé? La risposta è no. E’ tornato indietro a prendere lo zaino e, se fosse stato contenuto lì dentro, me lo avrebbe affidato pur di non cederlo a quei tipi. Inizio a perlustrare a fondo il rifugio in cerca di qualcosa che possa aver nascosto mentre dormivo o semplicemente mentre ero distratta, ma l’unica cosa che ottengo è un mare di disordine e polvere sollevata. Mi sdraio afflitta sul materasso e mi copro gli occhi con un braccio, sentendomi completamente inutile. Una considerazione, tuttavia, si fa strada nella mia mente: per essere questa cosa tanto importante, Jin deve averla tenuta sotto attenta osservazione e negli ultimi due mesi siamo stati…nella casa della foresta! Lui era lì già da prima che io arrivassi e forse aveva scelto quel luogo proprio come rifugio per l’oggetto. Mi alzo con un balzo dal materasso e raccatto tutte le mie cose. Quando metto il mio zaino sulle spalle, però, realizzo quanto sia pesante e quanto questo possa rallentarmi. Alla fine, quindi, infilo una maglia in più e allaccio bene la giacca, riservandomi di portare con me almeno il coltello nascosto negli scarponi. Tutto il resto delle cose non mi servirà se sarò abbastanza veloce.
Esco guardinga dal nascondiglio e mi avvicino il più in fretta e silenziosamente possibile al confine con la foresta, per poi iniziare a correre come se ci fosse un branco di cani al mio seguito.
Dopo un’oretta rallento, ma non mi lascio abbattere dal fiatone e dalla stanchezza: devo arrivare il prima possibile. Fortunatamente ho avuto modo di tenere i miei muscoli allenati anche con la neve, che si era rivelata un ottimo esercizio per rafforzare la mia resistenza.
I rumori della foresta si fanno più vividi quando cala il sole e mi sembra di rivivere la notte in cui sono scappata, con la differenza che non sono mezza nuda e che non sto scappando da nessuno. Mi ringrazio mentalmente di aver messo una maglia in più quando un brivido di freddo mi attraversa la spina dorsale, a causa di un venticello leggero ma gelido. Dopotutto, non è ancora primavera.
La casa si staglia in lontananza e, giunta più vicina, noto una luce illuminare l’ambiente interno. Tutto mi ricorda quella notte di qualche mese fa e non posso fare a meno di pensare che Jin sia tornato indietro per riprendere l’oggetto o per assicurarsi che sia al sicuro. Mi affretto ad entrare nel rifugio per ripararmi dal freddo, con una brutta sensazione che si concretizza quando quattro paia di occhi fermano le forchette a metà tra la bocca e il piatto nelle loro mani. Tutti rimaniamo fermi ed in silenzio, gli sguardi che vagano da un volto all’altro, ma prendo la saggia decisione di girarmi e correre.
Perché mi sembra una scena già vista?
Gli intrusi del mio ormai vecchio rifugio non si lasciano seminare e sento presto i loro passi che mi seguono e mi raggiungono velocemente. Uno di loro si avvicina pericolosamente, quasi sento il suo fiato sul collo e le mani che mi afferrano, ma, confidando nel fatto che non stia badando ad altro se non seguirmi, proseguo dritta verso un albero. Un attimo prima di colpirlo, viro a sinistra rapidamente, finendo per terra. Non mi lascio sfuggire il tonfo e le imprecazioni di qualche istante dopo. Non posso ancora cantare vittoria, perché altri due di loro, giunti in ritardo, non hanno impiegato molto a riprenderci e mi ritrovo circondata.
Gli alberi su due lati e loro dagli altri due.
Mi rimetto in piedi in fretta e non ho il tempo di fare altro che subito uno dei due, il quale noto avere l’orecchio sinistro del tutto inesistente, si lancia ad afferrarmi. Mi divincolo nella sua stretta e riesco ad assestargli un calcio all’indietro alla cieca sullo stinco, avendo il tempo necessario per liberarmi. Gli assesto infine un pugno sul viso e, vedendolo cadere per terra, capisco di aver fatto centro. L’altro, nel frattempo, si avvicina minacciosamente con una corda tra le mani. Mi metto in posizione di combattimento e cerco di colpirlo al volto per stordirlo il tempo che basta a scappare. Lui però è più veloce e, colpendo i miei piedi con la canna di un fucile che portava addosso, mi fa perdere l’equilibrio. Ovviamente non usa nessun proiettile, poiché l’obiettivo ultimo non è quello di uccidermi. Provo a tirarmi nuovamente su, ma si sdraia su di me cercando di impedirmi di scappare mentre armeggia con la corda. Gli rendo il compito difficile in tutto e per tutto, scalciando e urlando con quanto più fiato ho in corpo anche solo per stordirlo, ma, invece di concedermi un vantaggio, peggioro la situazione. L’uomo, infatti, non vedendo modo di usare la corda al meglio, la abbandona al suo fianco e mi porta le mani alla gola. Intuisco immediatamente le sue intenzioni e mi avvento con le unghie sulla sua faccia, tuttavia causandogli apparentemente solo del fastidio. La presa diventa sempre più forte e lascio stare la sua faccia per afferrargli le mani, in un disperato tentativo di liberare la morsa che non mi permette di respirare. Muovo le gambe convulsamente senza risultato e mando lo sguardo all’indietro in cerca di qualcosa che possa usare per uscire da questa situazione. Ricordo improvvisamente del coltello nello scarpone e, in una mossa di puro sforzo fisico, riesco a piegare un piede malamente in modo da avere la punta della scarpa puntata verso di me e la caviglia affiancata alla gamba. La testa inizia a dolermi e la vista a vacillare, ma estraggo il coltello dalla fodera con le ultime forze che mi rimangono e lo uso per trafiggere, tenendolo saldamente, il collo del mio assalitore. Tosse convulsa mi riempie i polmoni appena la sua presa viene meno e me lo levo di dosso per riprendere maggiormente fiato. Guaiti di dolore e gorgoglii mi riempiono le orecchie e so perfettamente dove ho colpito l’uomo. Mi posiziono a gattoni e respiro lentamente, riacquistando, in poco tempo, la vista e l’equilibrio. Mi alzo facendomi leva con un albero vicino e osservo il corpo inerme tra le foglie. Gli occhi sono vitrei e rivolti verso l’alto senza guardare un punto preciso, mentre una pozza di sangue va espandendosi attorno alla sua testa. Il sangue continua ad uscire dalla sua gola, ma non resto altro tempo ad assistere alla scena. Recupero velocemente il mio coltello –pulendolo con qualche foglia- e riprendo a correre, seppur con maggiore fatica, in direzione della città.
Ma in tutto questo dimentico una cosa importante: gli uomini nella casa erano quattro.
Così, quando un colpo in testa mi fa ritrovare con la faccia immersa nell’erba e le narici ad ispirare l’aria fresca della foresta, penso che sarei dovuta essere più attenta.
E poi il buio.

Una luce lieve mi colpisce il volto e costringe i miei occhi a restare chiusi nonostante cerchino di aprirsi. Realizzo di essere sdraiata quando riprendo piena coscienza del resto del mio corpo, intorpidito da chissà quante ore nella stessa posizione. La testa inizia a vorticare nuovamente appena tento di mettermi a sedere, e mi lascio ricadere sulla superficie alle mie spalle. Stropiccio gli occhi con le dita, che mi rendo conto avere piene di tagli, forse causati dal tentativo di usare il coltello per difendermi. Provo ad aprire gli occhi una seconda volta e, per mia fortuna, inizio a mettere a fuoco l’ambiente circostante: sono nella casa che mi ha ospitato negli ultimi mesi, solo che questa è la camera di Jin, ma con le finestre sbarrate.
Buona pensata.
E’ l’ultima del corridoio e, con le finestre fuori uso, dovrei passare davanti a tutti gli altri ambienti della casa per trovare una via d’uscita. Mi sollevo sui gomiti e riesco a sedermi, poggiando la schiena sul muro. Un gemito di dolore esce automatico dalle mie labbra per la fitta alla testa e istintivamente porto una mano sulla fronte, massaggiandola come se questo potesse alleviare il dolore. Tasto il collo e fremo al contatto dei polpastrelli con la zona ormai violacea dal trauma, ma lascio ricadere la mano un attimo dopo.
«Beth?» dice una voce ormai troppo familiare da un angolo scuro della camera. Jin avanza e mi osserva da lontano, come se avesse paura di qualcosa.
«Oh mio Dio, Jin, devi andare via prima che si accorgano di te!» rispondo in fretta, muovendo quanto più mi è possibile la testa in tutte le direzioni per controllare che non ci sia nessun altro. La voce mi esce rauca e a fatica. Assicurata la nostra unica presenza nella stanza, ritorno con lo sguardo su Jin, che tuttavia non accenna a muoversi. Il mio primo istinto è stato quello di dirgli di scappare ma, pensando meglio alla successione degli eventi, lui che cavolo ci fa qui?
Apre la bocca per dire qualcosa, ma la porta che viene spalancata allontana qualsiasi suo tentativo.
«Ci siamo svegliate, vedo!» dice un uomo, che riconosco essere uno dei quattro che ho avuto il piacere di incontrare quella che, suppongo, sia la sera prima. Gli occhi e i capelli in disordine sono rigorosamente neri. Sotto il mio sguardo stupito, si avvicina a Jin e gli assesta due pacche importanti sulla schiena.
«Ci hai portato proprio un bell’affare! La cercavamo da mesi» commenta. La serie di emozioni che mi investe è così varia che non riesco a distinguere chiaramente cosa mi passi per la testa. Ma sono sicura che la parola adatta ad esprimere il sentimento predominante sia tradita. Tradita da Jin, dall’unica persona di cui mi fidavo e dall’unica persona che credevo non fosse in grado di una cosa del genere. E non aveva paura di qualcosa, aveva paura di una mia reazione! La rabbia mi ribolle così tanto nelle vene che sono costretta a stringere i pugni per impedirmi di aggredirlo.
Non ora. Mi ripeto. Non ora.
Tiene lo sguardo basso e lo alza verso di me solo prima di uscire. Ma la rabbia è troppa e mi volto a guardare il muro di fronte a me finché la porta non si richiude alle loro spalle.

Resto nella stanza fino a che non cala la notte. Senza-orecchio entra di furia e mi trascina per un braccio fino al bagno, chiudendomi dentro. Nonostante sappia di quanto sia vano il mio tentativo, controllo la finestra sbarrata in cerca di qualche asse di legno messa male. Mi sforzo di tirarne via qualcuna, ma presto capisco che non verranno via.
Controlla nei cassetti.
Ma prima ancora che io possa fare qualche passo, un pugno batte forte sulla porta più volte.
«O ti dai una mossa» dice Senza-orecchio «O te la trattieni per tutta la notte». Sospiro affranta e mi sbrigo a fare come dice.
Apro la porta una volta finito e mi ritrovo in un attimo contro il muro, Senza-orecchio a tenermi le braccia serrate.
«Voglio che tu sappia che non ti uccido solo perché ti cerchiamo da una vita» sibila ad un soffio dal mio volto. Mi lascia andare e mi spintona verso la cucina. Per un attimo mi aspetto di trovare il fuoco accesso, ma al suo posto ci sono delle lanterne. Forse e troppo caldo, forse sono troppo occupati in altro per badare alla legna.
Mi rendo conto di essermi fermata a fissare il pavimento, nel posto in cui tenevamo il fuoco, quando Senza-orecchio mi riserva un altro spintone verso il tavolo del vano cucina. Ad aspettarci ci sono tutti: un tipo alto e biondo con una cicatrice sul mento simile a quella che ho sotto l’occhio, l’uomo irrotto nella mia stanza quando mi sono svegliata e Jin. Il colpo di coltello al collo di uno di loro deve essere andato a segno, perché qui non c’è. Trattengo l’impulso di chiedere se l’abbiano seppellito o meno e mi siedo al tavolo di fretta colta da un giramento di testa, se per aver realizzato di aver ucciso un uomo o per il colpo alla testa non saprei dirlo chiaramente. Sul tavolo ci sono già pronti dei piatti con all’interno del riso e funghi vari e ricordo vagamente di quando mi domandai come facesse Jin ad averlo, vista la difficoltà nel reperirlo. Adesso non mi sembra poi così strano.
Senza-orecchio si piazza alla mia destra immediatamente, spostando la sedia rozzamente e facendo una gran confusione per sedersi. Il biondo gli lancia un cenno di assenso e mi volto a guardare Senza-orecchio, pensando che probabilmente è stato affidato a lui il compito di controllarmi. Osservandomi un po’ intorno, risulta una scelta più che ovvia: è l’unico abbastanza massiccio fisicamente da potermi impedire di scappare. Ma è anche vero che l’ho messo a tappeto per un po’ con un colpo agli stinchi e che non mi sarebbe difficile ripetermi. Quindi perché?
«E’ un onore averti qui, finalmente» dice il biondo, sedendosi a capotavola, proprio a destra di Senza-Orecchio, mentre l’altro uomo di fronte a lui. Mi ritrovo Jin davanti e cerco di provare innaturale interesse anche nei moscerini spiaccicati sulla finestra alle sue spalle per evitare di incontrare i suoi occhi. Deve sapere che ha perso del tutto la mia fiducia e questo è l’unico modo che ho perché lo capisca. Però credo anche che sia arrivato a questa conclusione già da un pezzo.
«Non posso dire la stessa cosa» rispondo atona, guardandolo dritto negli occhi. Ride di gusto e prende una cucchiaiata di riso dal suo piatto. Come se avessero ricevuto il permesso, anche gli altri continuano a mangiare e risulta abbastanza chiaro che è lui a decidere chi fa cosa e come, nel gruppo. Dopo qualche minuto in cui l’unico rumore dell’aria è prodotto dalle loro bocche, Biondo mi fissa, abbandonando momentaneamente il cucchiao.
«Cosa aspetti? Mangia» dice, indicando con la testa il piatto di fronte a me. Lo guardo, con lo stomaco che chiede cibo e il cervello che mi prenderebbe a legnate per quello che sto per dire.
«Non ho fame» alzo lo sguardo per un attimo, dimenticandomi di chi ho di fronte, e resto incatenata negli occhi di Jin. Ha le labbra serrate e mi guarda contrariato. Da quanto si è reso conto che non ho intenzione di mangiare?
«Darren mi aveva detto che sarebbe stato difficile con te» commenta, le braccia ora incrociate e i gomiti sul tavolo, con la testa in avanti per scrutarmi meglio. Lo guardo interrogativa, nella muta domanda di sapere chi sia questo Darren.
«Oh, è l’uomo che aveva pagato per averti, scricciolo» dice con una voce un po’ troppo acuta. Con la coda dell’occhio vedo Jin fermare il cucchiaio per un attimo, per poi continuare a mangiare. Avrei voglia di prendere quella merda di riso e lanciargliela addosso con tanto di piatto. Gli avevo raccontato l’accaduto in totale fiducia e sicurezza, senza sospettare nulla e lui probabilmente sapeva già tutto.
Ma resto calma e mi concentro sul Biondo.
«Rimasto insoddisfatto dal servizio?» domando ironicamente e con un sorriso falsamente appiccicato alla mia faccia.
«Tanto da mandare cinque persone a cercarti, come vedi» risponde allargando le braccia e poggiandosi completamente con la schiena alla sedia.
«O meglio» dice un attimo dopo, alzando l’indice della mano sinistra. Si sporge nuovamente in avanti e continua «ne puoi vedere solo quattro».
Mi guarda fisso e con uno sguardo che intimidirebbe chiunque e, dopo interminabili secondi, mando giù il groppo che ho in gola e sposto gli occhi altrove.
Sì, ho ucciso quell’uomo.
Ancora non so se me ne pento.
«Ma non te ne faccio una colpa» dice ad un certo punto. Poso nuovamente gli occhi su di lui e aggrotto le sopracciglia.
«Non è stato abbastanza prudente, è stata colpa sua» sorride divertito dalla situazione.
«Ma faremo in modo che questo non abbia modo di avvenire di nuovo» afferma e lascia due pacche sulla spalla di Senza-orecchio.
Oh.
E’ questo il suo ruolo, quindi. Non serve a controllarmi, o almeno non solo per quello, ma a proteggere il Biondo da qualsiasi mio eventuale attacco. E, adesso che ci faccio caso, credo che fosse seduto a capotavola anche quando sono entrata velocemente ieri sera. Per questo Senza-orecchio si è seduto immediatamente tra me e il posto a capotavola: sapeva già che il Biondo si sarebbe accomodato lì. E’ la sua assicurazione sulla vita.
«Adesso mangiamo» irrompe perentorio nell’attimo di silenzio creatosi, riprendendo il cucchiaio in mano, probabilmente neanche notando come Jin e il Corvino al suo fianco. Senza-orecchio ha già finito.
E mentre prende anche il mio piatto, passo in rassegna tutti i modi che mi vengono in mente per potermi liberare di lui.

Diventa ovvia la paura del Biondo nei miei confronti quando a cena, il giorno dopo, mangiamo –o meglio, mangiano- carne ma ci sono ancora cucchiai come posate. Sono sicurissima del fatto che ci fossero ancora dei coltelli nel cassetto sotto il lavello, quindi perché non usarli? Ma la cosa che mi destabilizza di più e a cui ho pensato quasi in ogni istante da ieri sera è perché il Biondo debba avere tanta paura di me. L’ho incrociato in corridoio, scortata da Senza-Orecchio al bagno, ed è molto più alto di me. Per non parlare dell’allenamento che fa tutti i giorni più volte al giorno, da quello che ho origliato da una sua conversazione con il Corvino, che ho scoperto chiamarsi Bris. E’ molto più forte di me, perché preoccuparsi? Perché tutte queste precauzioni? Mi fa controllare ogni ora in caso io trovi per caso qualche arma in giro e per di più la cosa mi causa parecchio riso perché, quando ho ucciso quell’uomo, non avevo idea di quello che stessi facendo. Era l’istinto a guidarmi ed è andata a finire male. Niente di più, niente di meno.
Un giorno, Bris torna infuriato da una seduta di caccia.
«Non ho preso niente! Quei dannati animali» borbotta, lasciando il fucile vicino all’entrata.
«Cosa succede?» chiede Senza-orecchio, che mi tiene d’occhio seduto sulla poltrona vicino al divano su cui sono sdraiata guardando il soffitto.
«Sono troppo svelti, non ho preso niente» si lamenta Bris. Sento la noia mangiarmi gli organi interni e decido improvvisamente, vista la bella giornata, che una passeggiata nel bosco mi farebbe piacere.
«Non sono loro ad essere troppo svelti,» dico, mettendomi a sedere «sei tu troppo lento».
Bris mi riserva un’occhiataccia e subito parte con la recita da maschio alfa mago della caccia.
«Non devi darmi spiegazioni» lo interrompo nel bel mezzo del suo monologo «Non tutti sono portati per questa roba» commento prima di risdraiarmi.
«E tu saresti tanto capace, invece?»
Jin siede al tavolo e vi svuota il suo zaino. Resto per un momento in silenzio, sbigottita dal fatto che si sia unito alla conversazione e lo osservo riporre ogni oggetto sul tavolo in fila.
«Non con un fucile, ma sì» rispondo poco convinta. Sa perfettamente che so costruire trappole e la sua domanda suona insensata alle mie orecchie. Tuttavia, tengo il gioco.

«Bris, portala con te» propone all’uomo che sembra pensarci su un momento. Notando la sua esitazione, Jin dice «Fa’ venire anche Trevor» rivelando il nome di Senza-orecchio.

«Senza offesa, ma vorrei poter cucinare qualcosa di meglio che carne di settimane fa».


 


Buonsalve miei cari lettori! Sarò breve perché non ho molto da dire.
Per prima cosa vi ringrazio molto per le numerose recensioni perché mi fanno davvero molto piacere dal momento che non mi sarei mai aspettata di vedere così tante persone interessate, quindi potete bene immaginare il mio entusiasmo al riguardo! Seconda cosa, vorrei consigliarvi la lettura di una one shot che ho pubblicato qualche giorno addietro (non ho resistito c.c) sulla YoonMin, "Never Mind The Scam", che spero possa intrattenervi positivamente per qualche minuto, naturalmente senza impegno ^-^
See ya next chapter, baci ♥

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Oggi scriverò qualcosa prima! Vi ringrazio immensamente per le visualizzazioni e le recensioni (apprezzo moltissimo, soprattutto i vostri scleri)! Buona lettura a tutti ♥

 
Due ore dopo siamo in marcia nella foresta. Io cammino davanti e Bris e Trevor mi seguono per controllare ogni mia mossa. Sono abbastanza sicura che ogni tanto mi guardino il sedere e ringrazio la maglia abbastanza lunga di Jin che me lo copre almeno un po’. Ho avuto l’istinto di lanciarla via, ma poi ho realizzato che non avrebbe fatto tanta differenza.
«Qui» annuncio, trovando un posto adatto per una trappola. Trevor mi porge le corde e altri attrezzi che ho detto loro di portare per poterne costruire qualcuna decente, ma rifiuto scuotendo la testa. Mi hanno legato i polsi per maggiore sicurezza e in queste condizioni non sono capace di creare una trappola che possa essere definita tale.
«Dovete togliermi questa morsa ai polsi»
«Non esiste!» ribatte Bris, guardandomi come se fossi pazza.
«Allora perché siamo qui? Non posso farne una senza avere completa mobilità delle mani! I nodi non si fanno da soli» sembrano pensarci su e dopo un po’ Bris cede.
«Controllala a dovere» si rivolge a Trevor, mentre taglia la corda. Massaggio i polsi arrossati e mi metto a lavoro, insegnando a Bris come crearne una abbastanza semplice e veloce. Passiamo un’altra ora a piazzare trappole e, quando spero abbiano abbassato un po’ le difese, parto con le domande.
«Perché aspettate? Perché non mi portate da Darren?» Bris e Trevor spostano gli occhi su di me all’unisono e sui loro volti appare l’espressione di chi aspettava questa domanda. Ho evitato di chiederlo con il Biondo nei paraggi perché avevo paura di una sua reazione troppo esagerata, ma ora non ho motivo di tenermi i dubbi. E la domanda è lecita: siamo qui da giorni e sembra di stare aspettando qualcosa che non arriverà mai.
«E’ complicato» dice solo Bris. Trevor annuisce e finisce di sistemare un’altra trappola.
«Spiegamelo lo stesso, apprendo facilmente» provo, ma ricevo solo un “no” con la testa. Sbuffo e mi arrendo per la giornata. Proverò in un altro momento.
 
«Avete visto Daniel?» è la prima cosa che Jin ci dice una volta tornati in casa, il respiro affannoso e l’urgenza nella voce. Non ho mai sentito questo nome e mi viene spontaneo associarlo al Biondo.
 Si muove di fretta in cerca di qualcosa, controllando tra le pieghe dei cuscini e i cassetti del vano cucina, ma non mi sfugge all’occhio la serie di lividi che ora gli contornano il volto.
«Che diavolo è successo, Seok?» gli domanda allora Bris dopo averlo bloccato per le spalle, una smorfia di pura consapevolezza attraversargli le rughe del volto una volta osservate le sfumature violacee sugli zigomi del più giovane. Infatti, manda uno sguardo d’intesa a Trevor e non vi è alcuno scambio di parola mentre si apprestano a raccogliere i loro fucili diretti nuovamente verso la porta.
«Resta con lei» ordina a Jin e sto per lamentarmi della decisione quando Trevor aggiunge, mesto «Spero che non sia una crisi forte» e uno sparo giunge lontano dal silenzio della foresta.
«Se dovesse tornare, Seok, nascondi la ragazza» e sono in un attimo spariti.
Il silenzio cala pesante nella stanza e il ragazzo si siede altrettanto silenziosamente al tavolo della cucina, invitandomi con gli occhi a fare lo stesso. Jin prende poi lo zaino che aveva lasciato nella fretta per terra e inizia a tirare fuori tutto per fare un inventario e risistemarlo in modo da sapere esattamente dove cercare ognuno di quegli oggetti.
L’ho visto farlo tante volte negli ultimi mesi. Mi aveva detto che lo aiutava a rilassarlo, avere il controllo su tutto.
Adesso lo osservo, ma è diverso da tutte le altre occasioni in cui mi è capitato: una profonda emozione negativa è l’unica cosa che il suo volto mi suscita. Non ha fatto altro che prendermi in giro per tutto questo tempo e non glielo perdonerò mai.
«Devi restare a fissarmi per molto?» sbotta ad un certo punto, abbandonando sul tavolo con un tonfo una borraccia d’acqua che stava esaminando.
«Non è che io abbia molto da fare» rispondo atona, senza levare gli occhi dalla sua faccia.
«Bene, allora» e riprende il suo lavoro.
Comincio a puntellare le dita sul tavolo una dopo l’altra nel giro di dieci minuti. Mi sto davvero annoiando e in più mi sento sopraffatta dalla necessità di riversargli addosso l’immenso sentimento di delusione che ha causato in me. Così, quando sento le parole uscirmi spontaneamente dalle labbra, non ne resto molto stupita.
«Spero almeno che ne sia valsa la pena»
Jin alza lo sguardo fermandosi per un istante prima che io prosegua.
«Fingere per mesi di essere qualcun altro non deve essere stato affatto facile» mi guardo le unghie imitando noncuranza, quando in realtà evito soltanto i suoi occhi, puntati con molta probabilità sul mio volto.
«Per non parlare delle cose personali che ti ho raccontato» a questo punto, non riesco a far meno di alzare nuovamente gli occhi: ho bisogno che capisca quanto il suo tradimento non sia una cosa da nulla per me. Deve sentire quello che ho sentito io.
«Tutta quella falsa preoccupazione…»
«Basta, Beth» dice in tono serioso, ma non lo ascolto, non più.
«…le menzogne e l’empatia in realtà inesistente…» continuo con sottile ironia che accompagna il mio tono.
«Basta»
«Non sono mai stata una brava attrice. Com’è mostrare palese ribrezzo per le persone di cui ti ho parlato quando sei esattamente come loro?»
Il tonfo rumoroso del suo pugno contro il tavolo fa perdere un battito al mio cuore, ma non mi scompongo visibilmente. Non devo fargli sapere che può avere influenza su di me, in nessun senso.
«Puoi dire tutto, tutto quello che vuoi e ingoierò il rospo. Ma questo…» scuote la testa, come a non poter credere alle sue orecchie «…questo supera il limite. Non ti avrei mai fatto del male»
«Sono solo stronzate, Seok» scimmiotto il nome con cui i suoi amici lo chiamano e sento ogni fibra del corpo tremare per l’ira crescente.
«Lo sai che non lo avrei fatto» tenta ancora.
«No, invece! Ho conosciuto qualcuno che non esiste»
«Ti sbagli, io-» prova a dire, ma lo interrompo prima di sentire qualsiasi altra cosa.
«Io mi fidavo di te,» mi alzo dalla sedia facendola procedere indietro e lo stridio contro il pavimento mi pizzica le orecchie «e guarda dove sono ora. Tutto ciò a cui crederò d’ora in poi è l’evidenza»
Sposto ulteriormente la sedia e mi incammino per il corridoio verso la mia stanza con lo sguardo bruciante di Jin sulle mie spalle.
Chiudo la porta con violenza perché possa sentirmi e mi rannicchio sul letto, odiando l’idea di sentire l’odore un tempo confortante di Jin sul cuscino.
Per la prima volta da mesi, una lacrima solitaria mi attraversa il viso e mi accompagna in un sonno tormentato.
 
Mi sveglio che ormai è buio.
La luce non penetra più in fasci dalle grate di legno sulla finestra e l’aria è decisamente più fresca.
Stendo bene le gambe e le braccia per risvegliare il mio corpo intorpidito e mi concentro sui rumori all’esterno della stanza: un forte baccano giunge ovattato, misto di colpi violenti e voci sovrapposte.
Abbasso la maniglia della porta con cautela e la apro piano per osservare la situazione senza che nessuno mi veda. Tuttavia, sembra che l’attuale confusione provenga dalla zona principale della casa, lasciando questo lato nella penombra e assoluto anonimato. Esco silenziosa per avvicinarmi ulteriormente e mi fermo quando ho una visione chiara della scena che mi si presenta davanti: Daniel, preso come da una furia cieca, abbatte qualsiasi cosa sul suo cammino, mentre gli altri tre cercano di fermarlo invano. Trevis si prende una gomitata sul volto nel tentativo di bloccargli le braccia dietro la schiena, Bris è ormai pieno di lividi ovunque e si assicura che il leader non si ferisca con qualche colpo e Jin allontana dalla sua portata qualsiasi arma.
Resto accucciata in un angolo buio del corridoio finché Daniel viene spinto all’indietro da Bris e finisce steso esattamente di fronte a me.
Trattengo il respiro prima che i suoi occhi si posino sulla mia figura, alzandosi tanto velocemente da farmi fare la stessa cosa per tornarmene in camera.
Ormai, però, è troppo tardi: mi afferra un braccio per impedirmi di proseguire e mi intrappola al muro dalle spalle. Mi divincolo inutilmente sotto la sua presa ferrea e mi mordo la lingua per non dire niente quando mi sfiora con occhi allucinati la cicatrice sulla guancia.
«Aveva i tuoi stessi occhi…» sospira ad un soffio dal mio volto per allontanarsi di qualche centimetro, il necessario a permettermi di riprendere a respirare. Mi dimentico di mantenere la bocca chiusa, presa dalla troppa curiosità, e domando: «Chi?»
Il pentimento arriva tanto veloce quanto il cambio di espressione di Daniel, il quale porta la mano che prima toccava la cicatrice a stringermi il collo per tenermi ferma mentre con allunga l’altra alle sue spalle. Non riesco a capire bene quel che avviene dopo, ma sono sicura di divincolarmi il più possibile dalla stretta causandomi solo altro dolore sui già esistenti traumi violacei del giorno della cattura. Lo osservo in trance portare la mano, che impugna ferocemente un coltello, all’indietro e, iniziando a comprendere le sue intenzioni, chiudo gli occhi per evitare di vedere il mio stesso sangue nel momento dell’impatto.
Grida ovattate arrivano alle mie orecchie ma sembrano terribilmente lontane, la mente che viaggia lontana a prima del Giorno Zero.
L’attimo dopo le ginocchia colpiscono forti il pavimento ed esalo un respiro rumoroso. Gattono lontana da Daniel e, guardando il suo corpo steso inerte sul pavimento, vedo Jin in piedi di fianco a lui con un fucile in mano al contrario.
Deve aver colpito il biondo con la canna per impedire che mi uccidesse.
Sento i polmoni finalmente riempirsi e il respiro regolarizzarsi. Bris si avvicina per mettermi in piedi e controllare che non abbia ferite da curare, per poi riportarmi nella mia stanza con del ghiaccio da posare sul collo.
Siedo turbata sul bordo del letto e accenno una smorfia nel momento in cui con la sacca di ghiaccio prendo un punto più delicato e sicuramente in cui si è formato un livido violaceo. Resto in questa posizione finché il ghiaccio non si è sciolto e lo abbandono sulla scrivania per ritornare sul letto.
Ho gli occhi chiusi in uno stato di dormiveglia quando sento bussare flebilmente alla porta.
Non mi muovo e fingo di dormire.
La porta si apre cigolando e dei passi fin troppo familiari avanzano incerti nella stanza. Jin poggia quello che sembra essere un vassoio sulla scrivania, prendendo poi la sacca del ghiaccio ormai sciolta e lo sento ritornare sui suoi passi verso la porta. Tuttavia, invece di lasciare la stanza, indugia ancora qualche istante e azzarda a dire:
«So che non dormi. Hai bisogno di mangiare qualcosa, sono giorni che non fai un pasto decente. Il piatto coperto è particolarmente buono»
Non lo sento muoversi per secondi infiniti, nei quali io continuo a fingere di dormire e lui resta in piedi sulla porta. La sento chiudersi poco dopo.
Mi stendo a pancia in su e passo le mani sul volto, stanca di tutta questa situazione. Lo stomaco mi brontola rumoroso al delizioso odore di cibo e mi costringo a dare almeno un’occhiata a ciò che mi ha portato, solo un’occhiata.
Mossa sbagliata.
Non appena i miei occhi intercettano il piatto fumante di riso, la fame sembra aumentare esponenzialmente e non riesco più ad ignorare i brontolii.
«Al diavolo» dico e prendo una sedia per poter mangiare in comodità. Sfrego le mani e mi concedo un altro attimo per osservare le delizie sotto il mio naso, ricordandomi in poco di quello che ha detto Jin.
“Il piatto coperto è particolarmente buono”.
E’ più piccolo dell’altro con il riso ed è, effettivamente, coperto con un altro piatto. Lo prendo con la punta delle dita e lo sollevo piena di aspettative, trovandoci invece un biglietto scarabocchiato in fretta. D’istinto guardo la porta per essere sicura che non ci sia nessuno e lo prendo con mani tremanti. Ci metto un po’ per decifrare la scrittura traballante di Jin.
 
Trecento metri procedendo dritta fuori dalla finestra. Il cacciavite è sotto il piatto di riso.
Devo parlarti.
Finisci di mangiare e aspetta mezz’ora.
Beth, fidati di me.
Un’ultima volta.
 
Controllo sotto il piatto di riso e il cacciavite è davvero lì. Lo prendo velocemente e lo infilo nella tasca del pantalone che indosso.
Massaggio le tempie mentre decido cosa fare. Se Jin avesse voluto farmi del male, lo avrebbe già fatto, più volte ce n’è stata occasione. L’unico modo che ho per sperare di andare via da qui è, pertanto, assecondare questa assurda richiesta. Se le cose dovessero mettersi male, potrei tentare di scappare con il favore del buio della notte.
Appallottolo il biglietto e lo strappo in tanti pezzettini, buttandolo in seguito nell’immondizia. Per essere ulteriormente sicura che nessuno lo legga, ci verso sopra dell’acqua e lo copro con altre cartacce.
Guardo il vassoio con il riso e mi risiedo con un tremore nel petto.
Prendo il mio cucchiaio e mangio in silenzio, ignorando il dolore della deglutizione.
D’accordo Jin, mi fiderò di te.
Un’ultima volta.



 
 
 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Dovete scusare il madornale ritardo!!! Ero andata in vacanza e tutta convinta avevo il capitolo sul telefono così da poter aggiornare la storia, ma favola delle favole: non andava internet ;_; e quindi niente, sono tornata stamattina e adesso sto morendo un po' di sonno, mi super sbrigo.
Spero come sempre che il capitolo sia di vostro gradimento e domani leggo anche le recensioni dell'altro, sicuro ♥
Baci 
 


Continuo a domandarmi se sia la cosa giusta.
Ogni rumore proveniente da fuori la mia stanza mi fa sobbalzare come se potesse rappresentare una minaccia per il proseguimento del piano che sto assurdamente assecondando. Ma ogni volta mi calmo e la ragione mi dice che non sono suoni diversi da quelli degli ultimi giorni.
Il pasto da poco terminato mi fornisce fin da subito lucidità dopo un’astinenza da cibo durata un bel po’ e riesco a percepire i miei sensi predisposti al loro ruolo senza troppe difficoltà. La pancia brontolante, oltre ad essere terribilmente fastidiosa, faceva in modo che la mia mente si distraesse con molta più facilità e ne conseguiva un calo dell’attenzione sfavorevole alla creazione di qualsiasi piano.
D’altro canto, non sono neanche più sicura di voler fare affidamento sulle parole di Jin. Mi ha mentito e tratta in inganno per un periodo fin troppo lungo e, cosa davvero importante, quando ormai aveva la mia totale fiducia. Dopo il Giorno Zero, con la mia famiglia e chiunque altro che conoscessi ormai non più in vita, l’unica persona su cui potessi far affidamento ero io.
A volte si sentivano voci su una nuova epidemia che avrebbe colpito chi era sfuggito alla prima, perché immune o solo fortunato, ma chiunque avesse un minimo di cognizione logica era ben in grado di comprendere che non sarebbe più avvenuto. La malattia non c’era più, nel peggiore dei modi e con la popolazione mondiale ormai ampiamente dimezzata, ma era finita. Chiunque ci aveva rimesso, e l’unica cosa davvero sensata era sopravvivere.
Le città potevano essere un luogo sicuro e favorevole solo per persone come Nadin e poteva essere estremamente pericoloso per persone come me. Lo era, in fin dei conti, ma nel condurre una vita di stenti non si presentavano poi così tante opzioni. Dove vai nel bel mezzo dell’inverno quando le temperature raggiungono livelli bassissimi? Sicuramente non in case nel bel mezzo del nulla e senza possibilità di procacciarsi il minimo per continuare a vivere.
Le scelte sono obbligatorie e mai sicure al cento per cento.
Continuo a ripetermelo per la seguente mezz’ora.
I rumori fuori dalla mia stanza sembrano cessare quasi del tutto, se non per il ronfare pesante di Bris. Jin deve avermi dato delle precise indicazioni perché potessi uscire senza attirare l’attenzione, aiutata dalla tarda ora e dalla stanchezza degli altri ragazzi.
Mi metto in piedi, scuotendo leggermente i piedi per preparare i muscoli ad una corsa che potrei o meno fare: se dovessi trovare l’occasione opportuna, potrei tentare di fuggire.
Il cacciavite mi scivola dalle mani mentre lo uso per togliere le sbarre di legno dalla finestra e finisco per metterci più del previsto. Rispetto a questa mattina l’aria è decisamente più fresca, motivo per il quale non riesco a spiegarmi il sudore se non per l’agitazione di quello che sto per fare.
Lascio con cautela l’ultima imposta sul letto, evitando di fare più rumori di quelli necessari, e mi passo nervosamente le mani sui jeans scuri che mi fasciano le gambe per asciugare le mani e cercare di calmarmi un minimo.
La finestra si apre cigolando e una goccia di sudore mi scende lungo la schiena, provocandomi un brivido che non riesco ad evitare.
Il dolore al collo si presenta inaspettato mentre scivolo silenziosa fuori dalla finestra e ingoio un gemito di pura sofferenza perché il piano non vada in fumo adesso che sono fuori. Mi guardo intorno per un attimo e realizzo che, se solo volessi, potrei dimenticarmi della richiesta di Jin e sparire nel silenzio di questa foresta come molte volte ho desiderato di fare, rinchiusa in quella stanza nell’osservare i folti alberi da un sottilissimo spiraglio tra le assi sulla finestra.
Ma Jin mi ha chiesto di fidarmi di lui per un’ultima volta e ogni fibra del mio corpo mi dice che la cosa che voglio davvero fare –non, quindi, necessariamente la più giusta- è raggiungerlo per ascoltarlo. Anche lui ha avuto fiducia in me, lasciandomi da sola raggiungere la destinazione sul fogliettino. Potrei scappare, potrei farlo sul serio, e gli altri non ci metterebbero molto a capire in che modo e grazie all’aiuto di chi.
Si è messo a rischio per potermi parlare in privato e non posso ignorare che si tratti di qualcosa che davvero non può più ignorare.
Mi incammino a passo felpato nel fitto della foresta, con il cuore che mi pulsa nelle orecchie e lo stomaco in groviglio al pensiero di stare sprecando un’occasione che probabilmente non tornerà.
Tengo conto della distanza che percorro facendo affidamento agli alberi che affiancano il mio percorso, ma nonostante questo sono costretta a fermarmi per calmare il cuore e per sfregare le mani sui pantaloni, anche se oramai non sudano più. Il freddo inizia a farsi sentire.
E’ quando mancano più o meno una decina di metri che mi permetto di agitarmi davvero.
Cosa mai vorrà dirmi?
La mia mente continua a ripropormi lo stesso straziante scenario nel quale Jin cerca di uccidermi, confessando una vendetta di cui non saprei immaginare la causa.
«Sei tu?» dice lievemente una voce alle mie spalle e sobbalzo per l’improvvisa apparizione. Mi calmo un poco quando vedo il volto familiare di Jin.
Annuisco alla sua domanda, nonostante non ce ne sia motivo ora che mi ha vista. Sembra leggermente stupito di vedermi, come se anche lui avesse dubitato che potessi raggiungerlo davvero, e al contempo leggo sul suo volto un sollievo.
«Non ero sicuro che saresti venuta» aggiunge, dando voce ai miei stessi pensieri.
«Neanche io» mi lascio sfuggire e un sorriso triste gli si forma sulle labbra. Scuote la testa impercettibilmente e abbassa la maglietta, a disagio. Mi fa segno poi con una mano di seguirlo e in breve tempo siamo in una parte della foresta in cui gli alberi sembrano più fitti, concedendoci una riparazione migliore.
Ancora non ho ben chiari quali siano i pensieri del ragazzo che ho di fronte, così taccio senza levargli gli occhi di dosso.
E per un attimo, un solo effimero attimo, mi sembra di riuscire a guardarlo con gli stessi occhi di qualche settimana fa, con un senso di serenità e di affetto che adesso a stento riesco a reprimere.
La verità si abbatte nuovamente su di me e torno a guardarmi i piedi con l’amara consapevolezza che quelle piacevoli sensazioni fossero solo un inganno.
«Posso… Beth, perché sei venuta?» domanda in un momento di assoluto silenzio e posso avvertire nel tono della sua voce un senso di urgenza che mi fa rabbrividire.
«Sono qui, adesso. Perché la motivazione dovrebbe importare così tanto?»
La verità, ammetto a me stessa, è che, a discapito di quello che Jin potesse aver fatto, a discapito di un susseguirsi di eventi che mi avevano di nuovo sconvolto l’esistenza in peggio, lui mi manca. Mi manca il modo in cui si prendeva cura di me e di come sorrideva nel momento in cui apprezzavo un suo nuovo tentativo culinario, e mi manca, anche se potrebbe suscitare stupore, il modo in cui riusciva a rovinare ogni battuta di caccia con un’innocenza e indifferenza disarmanti.
Avevo imparato a vivere di queste piccole abitudini e non è del tutto semplice potersene dimenticare come ci si può scordare del pollo che cuoce nel forno.
«Non importa» offre in risposta Jin alla mia domanda retorica. Ma so, guardandolo attentamente, che non era esattamente la risposta che si aspettava.
«Piuttosto, mi piacerebbe sapere il motivo per cui sono qui»
Il ragazzo che mi fronteggia annuisce, conscio che questo momento prima o poi sarebbe arrivato, e tenta qualche passo verso di me ricevendo come riflesso io che indietreggio. Si ferma, deluso, e sembra decidere che questa distanza di circa tre metri possa essere adatta a ciò che sta per dire, perché non potrebbe altrimenti.
«E’ un argomento delicato, quindi ti prego di non reagire nel modo sbagliato, almeno fin quando non arrivo alla fine»
Confermo con un cenno della testa e sospira, preparandosi a ciò che verrà.
«Come credo tu abbia già capito, c’è qualcosa che non torna e nessuno sembra darti le spiegazioni adatte. Voglio investirmi di questo ruolo, se a te non dispiace»
«Ti ascolto» dico e tendo le orecchie per non perdermi nessun dettaglio.
«Vedi, è vero che Darren ti stava cercando» aspetta un secondo, prima di dire «…ma non è noi che ha mandato a prenderti»
La mia faccia deve aver assunto la forma di un punto interrogativo, perché Jin agita le mani come per dirmi che adesso capirò tutto.
«Daniel e Darren si conoscono da tanto tempo, ma solo dopo il Giorno Zero hanno iniziato vere e proprie trattative. Solo che, come spesso capita, non entrambe le parti rispettano i termini di un contratto di fiducia»
Prima ancora che possa proseguire, inizio ad intuire come le cose possano essere andate. Divorata da una curiosità che non mi sarei mai aspettata di avere per la questione, resto in silenzio e non faccio domande per non interrompere il racconto di Jin.
«Non sono sicuro di cosa sia successo per davvero, ho sentito diverse versioni e non ho idea di quale possa essere la più attendibile. Ma una cosa è certa: la sorella di Daniel è l’unica che ci è andata di mezzo»
Un pensiero affiora nella mia mente e porto la mano istintivamente a toccarmi il volto.
«Esatto» mi conferma il ragazzo «Daniel parlava di lei quando ha detto dei tuoi occhi ed è anche uno dei motivi per i quali ha un senso di terrore nei tuoi confronti. Gli ricordi lei»
Le sue parole iniziano a fare chiarezza nella mia mente: mi ero spesso domanda come il biondo potesse essere tanto intimorito da me con una costituzione fisica doppia della mia e Trevor che tallonava ogni mio movimento. All’inizio avevo erroneamente pensato che fosse dovuto al quinto del gruppo, ucciso per mano mia nel tentativo di difendermi, ma solo ora mi rendo conto che la paura di Daniel era prettamente di carattere psicologico.
«Lei è…» deglutisco, sentendo un senso di nausea salirmi su per la gola.
«Non lo so» risponde Jin prima ancora che io finisca la frase.
«Credo che ormai sia morta, sono passati tanti mesi da quando Darren l’ha portata da Nadin»
Passa un lungo istante nel quale un vortice di pensieri mi confonde, cosicché l’unica cosa che io riesca a far uscire dalle mie labbra sia un flebile “Oh”.
Per quanto Daniel non possa essere in tutto e per tutto una brava persona, doveva volere bene a sua sorella e vederla pagare per un suo errore deve averlo cambiato più di quanto ci si aspetti.
«Perché me lo stai raccontando?» chiedo, non capendo ancora lo scopo ultimo di questo incontro. Cosa dovrebbe cambiare adesso?
«Non ho ancora finito» mi zittisce semplicemente. Resto in silenzio e in attesa.
«So che questo potrà sembrarti strano, ma sono in debito con Daniel. Ha salvato la vita di mio fratello maggiore moltissimo tempo fa, prima che…» si ferma, trovando la forza di proseguire «…prima che morisse per l’epidemia».
Sento un brivido lungo la schiena pensando alla mia famiglia. Abbiamo tutti perso qualcuno.
Jin continua «Non voglio la tua pietà raccontandoti questo, né mi aspetto che ciò cambi le cose, però avevo bisogno che tu sapessi che non avevo intenzione di prendere parte nella faccenda».
Adesso mi guarda, ma è diverso da quando ha iniziato a parlare: i suoi occhi sono fiammanti e taglienti come un coltello appena affilato e mi ritrovo incastrata in un intreccio dal quale non riesco a districarmi.
«Abbiamo litigato a lungo nel tentativo di dissuaderlo dall’iniziare la ricerca, ma poi me ne sono andato nel cuore della notte quando iniziai a capire che la vendetta lo aveva divorato del tutto»
Tenta di nuovo di avvicinarsi, ma questa volta non mi ritraggo e non riesco a capire se per la sensazione di stordimento che il suo racconto mi ha provocato o per il desiderio nascosto di non allontanarmi.
«Ho trovato rifugio in quella casa per all’incirca un mese; e poi, quando credevo che sarei morto nell’attesa del nulla, ti ho trovata a ficcanasare tra le mie cose con uno sguardo che avrebbe intimorito chiunque» ride appena e, man mano che realizzo l’affetto che traspare dalle sue parole, sento un calore fastidioso salirmi sulle guance.
«Non ero sicuro che fossi tu, all’inizio, perché non avevo mai visto una tua foto o alcunché. La certezza è arrivata solo quando mi hai raccontato di quello che ti era successo; dopo mi hanno trovato e…» scuote la testa e abbassa il volto, ricordando di quando ci siamo separati per la prima volta dopo mesi, in quel vicolo.
«Il piano iniziale di Daniel consisteva nel portarti da lui per un baratto e, dopo aver ottenuto la sorella, uccidere Darren. Se la sta prendendo troppo comoda però, non credi? Nessuno di noi sa quali siano le sue reali intenzioni»
Ricordo le domande che ho posto a Trevor e Bris durante la battuta di caccia e alle loro reazioni spaesate; probabilmente, non avevano la minima idea di quali fossero le risposte, indifferentemente dal fatto che volessero o no che ne fossi al corrente.
«Già, mi sembra di aspettare qualcosa che non verrà mai» parlo sovrappensiero e me ne pento quasi subito: non voglio offrire troppa confidenza.
Jin non sembra farci troppo caso e riprende il discorso.
«E’ per questo che ho deciso di aiutarti a scappare»
Le sue parole mi lasciano interdetta. Ha davvero detto quello che credo? Scappare?
«Non oggi, comunque. Devo trovare un mezzo di trasporto, a piedi non arriveresti molto lontano»
Boccheggio qualche istante e trovo la forza di dire: «Ma… perché?»
Jin sorride, lo stesso sorriso triste di poco fa, quando gli ho detto che neanche io credevo che sarei venuta qui. Si guarda una mano, come se potesse trovare le parole giuste trascritte in piccoli caratteri sulle dita affusolate.
«Ti ho chiesto di raggiungermi anche per questo» alza finalmente la testa e lascia cadere la mano sul suo fianco.
«Ricordi cosa ti ho detto in quel vicolo, il giorno in cui ci siamo separati?»
Faccio in fretta mente locale e la risposta mi scivola dalle labbra.
«Che c’era una cosa che non volevi cedere»
Jin annuisce, un po’ in ansia. Quando le parole gli escono dalla bocca, sembra improvvisamente agitato.
«Non voglio che tu la prenda nel verso sbagliato, la terminologia che ho usato era solo un modo per non renderlo troppo evidente» deglutisce e una goccia di sudore gli attraversa il volto. Penso che in questo istante si senta come me qualche minuto fa, nella mia pseudo-fuga dalla casa e, ad essere onesta, non ne comprendo appieno il motivo.
«Non lo hai capito sul serio?» domanda incredulo Jin quando non mostro accenni di nessun tipo. Mi guardo intorno per aiutarmi a pensare e dico la prima cosa che mi viene in mente:
«Ho cercato nel rifugio, ovunque, ma…»
La sua risata mi fa tacere e in piedi, silenziosa, non faccio altro che bearmi di questa visione: è imbarazzato, terribilmente, e io son qui che non ho idea di cosa stia parlando. Leggo quasi sul suo volto lo stupore nei confronti delle mie rotelle che non accennano a ruotarmi nella testa.
«Beth, eri tu quella cosa»

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