Against You - Sfidando le Stelle

di the_scream_of_silence
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


PROLOGO

Luglio 2013

-Giulia!- Il suo grido disperato giunse alle orecchie della ragazza con la stessa intensità di una pugnalata, e per un attimo ebbe la tentazione di mollare tutto e rimanere lì, con quella famiglia che l’aveva tanto amata ma che non sapeva. Non poteva sapere. Scese in fretta la rampa di scale, il borsone pieno di vestiti gettati alla rinfusa e il cuore ricolmo di un’insana agitazione, e aprì la porta d’ingresso ad un cielo che traboccava di luci e ad una sensazione di immenso che l’avvolgeva in maniera impetuosa e improvvisa. Decise di non guardare. Sembrava quasi che volessero lanciarle una sfida, quelle stelle cui aveva affidato le sue confessioni più profonde, come a sottolineare la remota possibilità che aveva di sopravvivere a quella fuga matta e disperata. Diamine, questo lo sapeva anche lei. E sapeva anche che, se mai fosse ritornata a casa in futuro, non sarebbe stata più la stessa ragazza di una volta.

Per niente.

Avrebbe preso finalmente in mano la sua vita senza timore, si sarebbe graffiata la pelle per trattenerla e non avrebbe mai ceduto ai dubbi, alle incertezze, a tutto ciò che in passato le aveva impedito di essere in pace con se stessa e con il mondo.

Avrebbe ottenuto la sua rivincita, deridendo il destino e quelle maledette stelle.

Peccato che le circostanze, almeno in quel periodo, non glielo permettessero affatto.

Superò spedita il giardino di casa e ne aprì il vecchio cancello senza guardarsi indietro. Il clangore di metallo contro la staccionata risuonò nel viale di case in cui era cresciuta, desolato a causa dell’ora tarda. Si sentì rabbrividire: aveva appena rinchiuso la sua intera esistenza in quel giardino. E sarebbe stato ancora più doloroso se non avesse già rinunciato ai suoi sogni tempo prima.

-Possiamo parlarne!- continuava a dire suo padre raggiungendo rapidamente l’atrio. Prese un respiro profondo, uno di quelli che servono a capire se il macigno di sofferenza ti abbia ucciso o no, e cercò di convincersi che tutto ciò era giusto, che lo stava facendo per una buona causa: l’amore per i suoi familiari. Soprattutto per lei.

Ma poi la sentì. Mentre si avviava velocemente verso l’auto parcheggiata a pochi metri di distanza dalla sua proprietà, una voce infantile ma adulta allo stesso tempo, flebile come una fiamma esposta al vento, debole come una foglia al frusciare degli alberi, sussurrò: -Non partire.-

Alzò lo sguardo. Nascosta dalla tenda della finestra del bagno che dava direttamente sul giardino, la sua sorellina la osservava muoversi nella notte con le mani ad asciugarsi le guance, quasi che stesse piangendo ma non volesse farsi scoprire. Le venne una fitta al cuore. Quella bambina... ragazza di appena quindici anni rappresentava tutto il suo mondo: il suo passato, il suo presente e, anche se in maniera piuttosto paradossale, il suo futuro. Era l’unica ragione che la spingesse a vivere ancora, il motivo per cui non si era uccisa subito dopo aver ricevuto la notizia. Incarnava la speranza. Pura e semplice speranza.

E, per evitare di sopprimerla con l’angoscia e il senso di smarrimento, doveva allontanarsi da lei.

Le lacrime iniziarono a pungerle gli occhi e dovette distogliere lo sguardo, pur sapendo che in quel modo sarebbe scoppiata definitivamente in un pianto disperato, e continuò a camminare. Sua sorella l’avrebbe odiata, lo sapeva bene. L’avrebbe odiata come si odiano le persone impulsive, quelle incapaci di ragionare sulle proprie azioni poiché condizionate dall’intensità del momento. Le avrebbe dato dell’ingrata, perché in fondo la storia di cui era protagonista la vedeva come un’ingrata. E pian piano iniziava a crederci anche lei.

Mille domande affollavano la sua mente e agitavano il suo animo, mentre cercava di trattenere l’istinto di correre a consolarla come sempre. Sarebbe riuscita a superare anche questa? Sarebbe stata in grado di affrontare la vita con la stessa forza d’animo che caratterizzava le donne di quella famiglia? Sarebbe stata... felice?

Ma certo che lo sarebbe stata. Nei suoi occhi brillavano la fierezza, l’invincibilità, lo spirito di una combattente che non avrebbe ceduto di fronte a nulla, e un giorno quella donna sarebbe emersa dal corpo di ragazzina in tutto il suo splendore. Ne era sicura.

Ma non rendeva le cose più facili.

E quando si sentì dire ancora più forte: -Non andartene!-, accompagnato dal pianto sommesso del papà che se ne stava accasciato sulla soglia della porta di casa, incapace di reagire, le sembrò di perdere tutto ciò che le era rimasto di buono nell’anima.

Stringendo le labbra in una smorfia che voleva tenere a bada il dolore, aprì la portiera del SUV senza guardarsi indietro.

-Ehi-. Il ragazzo al volante accostò le labbra alle sue per salutarla, ma lei lo rifiutò con un gesto della mano e iniziò ad armeggiare con la cintura di sicurezza. Ormai aveva le guance interamente bagnate.

Lui non disse niente: parve aver capito ogni cosa, come sempre. E come sempre lei si ritrovò col cuore colmo di gratitudine.

-Andiamo-. Continuava a tirare su col naso.

-Sei sicura?- le chiese apprensivo, asciugando qualche lacrima con il pollice. –Non siamo costretti. Loro potrebbero aiutarti-.

Incrociò per un attimo il suo sguardo e si stupì della nota di dolore che vi leggeva dentro: a quanto pareva, nemmeno per lui era così semplice abbandonare la propria famiglia senza sapere quando avrebbe potuto rivederla. La morsa di tristezza che le strinse il petto mentre pronunciava quelle parole fu forse la più forte che avesse mai sentito in vita sua: -Tu non sei costretto-.

-Cosa?- Ora sembrava confuso e vagamente arrabbiato.

-Non voglio che tu soffra come me. Insieme a me-. Era come se mille aghi dalla punta avvelenata le trafiggessero il cuore, e si disse che era meglio così, che non poteva costringere il ragazzo che più amava ad una fuga che non aveva meta se non la fine, che sarebbe stato meglio senza di lei sin dall’inizio, che magari avrebbe incontrato qualcuno che non l’avrebbe immischiato nei propri assurdi, impensabili, grandi casini, e sarebbero stati insieme una coppia felice. Normale.

Quel pensiero le faceva male, certo, perché non era nemmeno lontanamente capace di immaginare un giorno lontana da lui, figuriamoci un’eternità intera, ma le faceva ancora più male sapere che lui volesse seguirla verso un futuro che era ormai già deciso e lasciarsi trascinare nel baratro, quando aveva la possibilità di tirarsene fuori. Forse all’inizio sarebbe stato l’amore a dargli la forza di rimanere, ma se alla fine fosse scomparso come succedeva spesso in quei casi? Sarebbe stato costretto a vivere una vita che detestava solo per il senso di colpa? E ammesso che l’amore non lo lasciasse, sarebbe mai più riuscito a provare felicità, gioia, leggerezza? Ad amare?

Non poteva accettare quelle eventualità. Non poteva annientare anche quel che c’era di buono in lui.

-Che cazzo stai dicendo?- ringhiò, le nocche rese bianche dalla forza con cui stringeva il volante. Lei sussultò sul sedile ma non perse il controllo delle emozioni che le suggerivano tutt’altra decisione. Maledetto egoismo.

-Meriti di essere un ragazzo come tutti gli altri. Di... vivere la tua vita senza preoccupazioni-. Dio, quanto soffriva.

-Cosa significa?-

-Che forse è meglio lasciarsi, prima di rovinare tutto-. E ricacciò indietro le poche lacrime che le erano rimaste da versare.

-Ne abbiamo già parlato. Io voglio stare con te - disse, dopo aver preso un respiro profondo per calmarsi e stretto dolcemente la sua mano. Adesso nel suo sguardo non c’era che preoccupazione.

–Io voglio stare con te perché la mia vita non sarebbe la stessa senza il tuo sorriso, la tua risata, le tue labbra sulle mie. Non riuscirei nemmeno ad aprire gli occhi la mattina, capisci?- Le sollevò il mento con le dita e la costrinse ad affrontare una volta per tutte la verità: -Io ti amo, Giulia. Non mi importa se sarà difficile e dovrò soffrire, dovremo soffrire. Voglio rimanerti accanto. Altrimenti non me lo perdonerei mai-.

Sorrise commossa come se le avesse appena chiesto di sposarlo e si sporse dal suo sedile per abbracciarlo e riempirlo di baci sul viso. Quelle parole... quelle parole erano assolutamente sbagliate, ma non poteva farci niente, non potevano farci niente, perché si amavano alla follia e quel poco di tempo che aveva a disposizione non sarebbe mai stato lo stesso se avessero deciso di separarsi.

E per quanto potesse essere scorretto da parte sua, lei l’aveva sempre voluto con sé in quella battaglia già persa in partenza.

Intrecciò le dita alle sue, si accoccolò sulla spalla che le porgeva e chiuse gli occhi, mentre il motore si azionava con un rombo viscerale e la macchina sfrecciava via verso l’ignoto.

-Mi prometti una cosa?-

-Qualsiasi cosa-. Le passò una mano tra i capelli con fare protettivo, gli occhi rivolti alla strada davanti a sé.

-Non dovrai mai smettere di amare. Mai-.

Lui si irrigidì. –Perché me lo dici proprio adesso?-

-Lo sai bene- gli rispose in tono perentorio. –E sai bene che prima o poi sarai costretto a capire-.

Non ribatté. Si limitò ad annuire rigido e a stringerla a sé con più vigore.

Nessuno dei due si azzardò a rompere quel silenzio consapevole: avevano ancora molta strada da fare.

E non solo in quel viaggio.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


CAPITOLO 1

Luglio, 3 anni dopo

Ho sempre pensato che i cambiamenti, positivi o negativi che siano, abbiano l'unica conseguenza di distruggere tutto ciò per cui si è combattuto, sudato, vissuto. E non importa se il tempo sarà gentile con te e farà in modo che diventino "nuova realtà": l'anima ricorderà sempre quel che ha perso e immaginerà un futuro diverso in cui ogni cosa segua il corso di prima, come se non fosse accaduto nulla.

Ed io lo immaginavo. Sì, lo immaginavo, mentre ero seduta su quel divano a lasciarmi consumare dalla rabbia che ogni singola parola accendeva come miccia. Ma, cavolo, quale comune ragazza di diciotto anni si preoccuperebbe di questioni del genere? Non ne ha affatto bisogno: si diverte, va in giro per discoteche con i propri amici e magari ne approfitta per accendere la sua prima sigaretta o aspirare la sua prima riga di polvere magica. No, a pensarci bene non si tratta di una comune ragazza di diciotto anni: questo è il ritratto della tipica quindicenne disposta a bruciare le tappe pur di sembrare "adulta" agli occhi dei altri. Di certo non avevo intenzione di rimettermi al passo con le altre ragazze della mia generazione, ero troppo giudiziosa e forse anche troppo ingenua per farlo, eppure in quel momento, lo ammetto, mi sarebbe servito qualcosa di forte per digerire la situazione e gli sguardi di mio padre e della sua compagna, Claudia, mentre cercavano di spiegarmi tutto nella maniera più calma e ponderata possibile: -Non è un cambiamento così drastico, tesoro: saremo distanti da qui soltanto di pochi chilometri e tu potrai continuare a frequentare i tuoi amici, ad uscire in città, a vivere la tua vita come al solito. Dobbiamo farlo, altrimenti sarebbe impossibile gestire tutte le esigenze della nostra famiglia allargata-.

Prima cosa: odiavo il nomignolo "tesoro", che fortunatamente mio padre usava solo nei casi in cui occorreva addolcirmi con qualche parola affettuosa risalente ai tempi dell'asilo. L'avrei volentieri fulminato con un'occhiataccia, ma non mi sembrava il momento ideale per dare sfogo alle mie "esigenze di adulta".

Seconda cosa: famiglia allargata. Certo, come no. Erano una coppia da quasi due anni, ormai, e si definivano "famiglia allargata" solo adesso? Per una cerimonia formale che li riconosceva marito e moglie agli occhi dello Stato?

Non capivo. La nostra vecchia casa era abbastanza grande da accogliere altre persone, perché trasferirsi?

 

-Sei una ragazza molto intelligente, Talia. Saprai già che questa...- Claudia si guardò intorno con un'aria vagamente infastidita, alla ricerca della parola giusta. Mi trattenni dal gridarle che, fino a prova contraria, quella era ancora casa nostra. -...struttura, non va bene per tutti. Io non riuscirei a viverci neanche un giorno, ad essere sincera, e il mio vecchio appartamento è troppo piccolo per ospitare anche voi-.

E all'improvviso mi fu chiaro il motivo del trasloco: Claudia. Come avevo fatto a non pensarci? Era sempre lei a cambiare le carte in tavola, stravolgendoci la vita che avremmo potuto trascorrere serenamente anche senza tutti quei fronzoli.

O, almeno, era quello che credevo io.

E non sarei mai riuscita a capire in che modo mio padre, modesto impiegato presso una piccola azienda di Firenze, gentile e onesto come pochi uomini, avesse perso la testa per lei, un'imprenditrice senza scrupoli che sembrava aver venduto la sensibilità e le emozioni umane in uno dei suoi famosissimi affari, ambiziosa al punto da utilizzare qualsiasi mezzo, anche il più meschino, per raggiungere i propri obiettivi. Okay, poteva sembrare che io la giudicassi una cattiva persona ma, fidatevi, non era così. Al contrario: sin da subito avevo pensato che fosse una donna elegante e con carattere, dotata di un fascino che la rendeva il bersaglio di tutti gli sguardi in un ristorante o in un qualsiasi altro posto di vita mondana. Insomma, una che ispirava rispetto. Ed era proprio questo il problema: cosa ci faceva con mio padre? Non che fossero del tutto incompatibili, ma... Quasi.

E supponevo che la cosa valesse anche per me e lei perché, se quella era una coppia destinata a non resistere alla convivenza per più di qualche mese, io non avevo neanche la minima possibilità di uscirne indenne.

Immaginavo già i suoi occhi grigi, costantemente pieni di biasimo, seguire ogni mio gesto a tavola senza mollarmi un solo istante; inquietante, no? Mi chiedevo se anche mio padre ne fosse terrorizzato.

No, certo che no: probabilmente era così innamorato da considerarli pagliuzze di mare incastonate in un volto angelico.

Bleah.

-Che ne pensi, tesoro?- cercò lui di richiamare la mia attenzione, con un'espressione che non avrei saputo dire se di speranza o timore.

Quel "tesoro" mi fece ritornare immediatamente alla realtà e per poco non persi la pazienza che avevo preservato con grande fatica.

Almeno fino ad ora.

Che ne penso?

Non potevo crederci: me l'aveva chiesto sul serio. Eppure ero abbastanza sicura che sulla mia fronte lampeggiasse una parola non proprio carina che riassumeva molto bene quello che pensavo.

Fissai entrambi con una certa indifferenza. Si aspettavano che io dicessi qualcosa, era chiaro. Qualsiasi cosa. Che sbraitassi. Che urlassi. Che mi dimenassi a terra e piangessi come una disperata. Continuai a fissarli, e dai muscoli del viso che si distendevano pian piano, rilassati, capii che si stavano convincendo di poter ottenere una risposta positiva.

Lo pensavano davvero?

Bene.

Al diavolo tutti.

Non li degnai di una singola parola mentre mi alzavo dal divano e raggiungevo la rampa di scale del primo piano, verso la mia stanza.

Mi sembrò quasi di sentire il rumore delle aspettative che andavano in frantumi.

-Talia!- sentii gridare mio padre, seguito da un verso stridulo di Claudia che doveva essere il mio nome.

Non appena entrata, mi lasciai richiudere la porta alle spalle.

Quella casa, che poteva disgustare Claudia e, forse, apparire anche cadente e mal ridotta dal corso del tempo, era il luogo in cui avevo trascorso i momenti migliori della mia infanzia. E non mi importava delle fottute "esigenze della nostra famiglia allargata": io volevo rimanere lì. Avrei dovuto rinunciare ai miei ricordi solo perché non possedevano alcun valore agli occhi degli altri?

Se lo potevano scordare.

E mentre percorrevo a grandi falcate il perimetro della stanza, cercando di placare con respiri profondi la fitta di rabbia mista ad impotenza che mi aveva colpito il petto e lo stomaco, il mio sguardo cadde sulla porzione di giardino che si intravedeva dalla finestra, delimitato ai margini da una staccionata che aveva ormai perso il bianco acceso di un tempo, e per un istante mi sembrò di vedere una bambina mingherlina dalla chioma arancione che giocava a nascondino con i figli dei vicini, gridava di eccitazione ed euforia sul seggiolino dell'altalena al primo volo in alto e si riparava nello sgabuzzino degli attrezzi per sfuggire all'ira funesta del papà che, nonostante le minacce, non avrebbe osato nemmeno torcerle uno dei suoi lunghi capelli.

Sul viso prese forma un sorriso amaro.

E, a questo punto, la domanda che continuava a martellarmi nella testa era: chi avrebbe acquistato il mio passato? A che prezzo, poi? Quale bambino (o bambina) avrebbe rigurgitato il pranzo sulla parete della cucina o segnato la propria altezza sullo stipite della porta d'ingresso? Quale uomo di famiglia si sarebbe appropriato del garage e avrebbe allestito lì un posto dove evadere dalla routine quotidiana? Ma soprattutto, chiunque fosse la nuova famiglia, avrebbe amato quella casa come l'avevano amata i miei genitori, anche se era l'unica che potessero permettersi con il misero budget di partenza? Come l'avevo amata, e continuavo ad amarla, io?

Mi accasciai sconsolata contro le ante chiuse dell'armadio in legno e affondai la testa tra le ginocchia.

Respira, Talia.

Perdere la calma non cambierà le cose.

A meno che...

-Talia!- Mio padre continuava a bussare con insistenza alla porta. -Apri la porta, ti prego-.

Iniziai a frugare tra le mie cose, alla ricerca della scatola a motivi floreali in cui avevo riposto tutti i soldi che le mie vecchie zie mi avevano regalato per varie occasioni: compleanno, Natale, Epifania, Pasqua.

Ero sicura di aver racimolato un bel gruzzolo.

Quando lo trovai, sollevai il coperchio ed iniziai a contare le banconote sul letto.

Siamo ringraziate tutte le vecchie zie del mondo.

-Esci, per favore-.

E se avessi vissuto in quella casa per conto mio? Se nei primi tempi avessi badato a me stessa grazie al denaro del budget di partenza che avevo a disposizione e poi avessi trovato un qualsiasi lavoro estivo, da sostituire con qualcosa di più serio nell'arco del prossimo, nonché ultimo, anno scolastico?

Se fossi stata completamente indipendente e... felice? Ormai avevo diciotto anni, non ero più una bambina. Potevo cavarmela.

Sì, ce l'avrei fatta.

Quell'idea mi provocò una scarica di adrenalina e di eccitazione che mi fece tremare le gambe e le mani.

C'era ancora un misero barlume di speranza, in fondo. Ed io mi stavo aggrappando ad esso con tutta me stessa.

-Possiamo parlarne!-

Rimasi di ghiaccio.

Possiamo parlarne.

Sapevo che non l'aveva detto di proposito, probabilmente non ricordava nemmeno in quale occasione avesse usato quelle due parole, ma io sì. Era questo il problema.

E, come sempre, mi sentivo colpevole.

Diedi un'occhiata al letto dove le banconote, soggette al venticello estivo che rinfrescava la stanza attraverso la finestra aperta, si muovevano a malapena.

Per poco non ebbi la tentazione di sbattere la testa contro il muro.

Ma cosa stavo facendo?

Avevo davvero pensato a tutto quello, come se... volessi scappare.

Sono uguale a lei.

No, era impossibile.

Lei ed io eravamo diverse.

Lo dicevano tutti.

O no?

Non riuscivo neanche a sopportare quel pensiero e così, per dimostrare agli altri ma soprattutto a me stessa che era una grande menzogna, feci la più grande stronzata della storia che, ne ero sicura, avrei ricordato per tutta la vita con grande rimpianto.

Maledetto orgoglio.

Uscii dalla stanza, lo sguardo fisso sui piedi.

Mio padre sorrise per il sollievo.

E dopo nemmeno un paio di settimane mi ritrovai su un camion traslochi, diretta alla zona di campagna fuori Firenze.

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


CAPITOLO 2

Non sarei mai più riuscita a dormire.

E purtroppo non era una battuta.

Perfino le pareti della stanza che mi era toccata mi creavano disagio, come se avvertissi l'incessante bisogno di tornare alla mia vecchia mediocrità. Strano, no? Un povero, anche se sentimentalista, non dovrebbe avere l'intenzione di rimanere tale, anzi, sarebbe felicissimo di poter finalmente emergere dal cumulo di polvere che era la sua vita precedente. Mio padre ne era un esempio: saltellava da un posto all'altro come un coniglio impazzito e ripeteva di continuo, tra sé e sé: "Non è stupenda? Non è meravigliosa?", pretendendo che anche gli altri condividessero il suo immenso entusiasmo.

Se fosse stato qualcun altro a comportarsi in quel modo, e non lui, figura genitoriale cui ero costretta a riservare il massimo rispetto (talvolta a scapito dei miei nervi)... Ecco, non volevo sapere come sarebbe andato a finire. Perché quella vita stupenda, meravigliosa, agiata, da signori che purtroppo fino ad allora non eravamo mai stati, non faceva per me o, meglio, non mi sembrava autentica, quasi che in realtà si trattasse di uno spettacolo da quattro soldi in cui eravamo sfortunatamente capitati e ogni nostra mossa fosse controllata da qualcuno di assai superiore.

La perfezione può risultare insopportabile a tal punto?

Be', a quanto pare sì.

Claudia, dal canto suo, non era minimamente turbata dal trasloco, al contrario, si muoveva in quella casa con la stessa disinvoltura di chi non ha mai conosciuto realtà diversa. Prevedibile: i suoi genitori navigavano nell'oro grazie all'eccellente intuito nel campo dell'imprenditoria, e i genitori dei suoi genitori, e i genitori dei genitori dei suoi genitori... Una famiglia ricca da diverse generazioni, insomma.

Aveva addirittura il coraggio di definire "casetta" la villa in cui eravamo capitati.

No, giusto, in effetti non si trattava di una villa.

Ma di un castello.

Balconate lunghe quanto interi corridoi allineavano le stanze del primo e del secondo piano, delimitate da ringhiere di metallo e protette da tettoie in legno chiaro, mentre quelle che sembravano due piccole torri, rivestite all'esterno da cemento misto a pagliuzze d'ardesia, dominavano i due lati della struttura, di un color bianco acceso che le conferiva un tocco di modernità. Il piano terra, dove si trovavano la cucina, la sala da pranzo, il soggiorno e il bagno più grande, era quasi interamente invaso dalla luce solare grazie alle ampie vetrate, semplici o in mattoni, da cui si aveva una visione parziale della strada sterrata, diramazione della principale, e delle colline poco distanti. E percorrendo le rampe di scale, fino a raggiungere la soffitta tramite una scala retrattile, era possibile accedere ad una spaziosa terrazza che consentiva di assistere al meraviglioso spettacolo di luci dell'alba e del tramonto. Per non parlare della bellezza surreale del giardino, un vasto prato costellato da aiuole in cui si ergevano alberi dalle foglie rossastre, gialle e verde smeraldo, o anche piccoli arbusti e fiori di campagna che lo rendevano a tutti gli effetti un paradiso terreno, uno di quelli descritti dai libri e dalle storie popolari. Lo percorreva un sentiero ciottoloso che zigzagava dolcemente da un angolo all'altro, sbucando da un elegante patio di legno sul quale dava la porta-finestra della cucina.

E lì, proprio lì, era sistemata la sola cosa che fosse valsa la pena di trasportare dal nostro vecchio giardino: un dondolo arrugginito, dai cuscini logori e sporchi, che una persona normale avrebbe gettato via senza pensarci due volte, ma non io, perché quella ferraglia, che minacciava di cadere sotto il peso di un uccellino e cigolava in maniera fastidiosa, era forse l'unico punto di riferimento di cui disponessi. Parecchio stupido legarsi ad un oggetto che in poco tempo si ridurrà ad un mucchio di sbarre di metallo e bulloni, giusto? Ne ero consapevole, ma non mi importava. Non mi importava e basta.

Se quello era il prezzo da pagare per preservare un po' di me stessa che ormai non riuscivo più a riconoscere... Be', lo avrei pagato.

Nonostante Claudia, come al solito, avesse da ridire e si lamentasse con i suoi continui: "Ne compreremo un altro sicuramente migliore, non c'è bisogno di rovinare l'estetica del giardino con questo... coso". Sul serio, qualche volta avrei voluto davvero aprirle gli occhi sulla realtà e farle capire che i suoi sudatissimi e amatissimi soldi non possono comprare qualsiasi cosa e che prima o poi avrebbe dovuto rassegnarsi all'idea che, sì, la nostra vecchia vita non era delle migliori, ma non aveva il diritto di mostrare il suo disgusto in ogni occasione, visto che la nuova non sembrava presentarsi meglio. Almeno dal punto di vista umano.

Eppure, in maniera quasi paradossale, mi ritrovavo a giustificarla. In fondo, al posto suo, chi avrebbe visto qualcosa di diverso al posto di un aggeggio ormai inutile che minacciava l'incolumità delle persone che lo usavano?

Nessuno avrebbe mai capito, e non potevo di certo aspettarmi che lei rappresentasse un'eccezione.

O fargliene una colpa, perché ne aveva molte altre, prima tra tutte la grandissima crisi di nervi che ormai la convivenza con lei mi stava provocando.

Peggio di come la immaginassi già, cazzo.

Cos'aveva quella donna che non andava?

Avrei dovuto trascorrere davvero l'ultimo anno della mia adolescenza in quelle condizioni?

Finché un ragazzo allampanato e capellone, con un borsone pieno di vestiti e una custodia per violino ben fissati alle spalle, come un principe azzurro giunto a salvarmi, non bussò un pomeriggio al portone d'ingresso dopo aver parcheggiato in gran fretta la sua Porsche metallizzata davanti al maestoso cancello, urlando con un fischio di approvazione:

-Gran bell'acquisto, mamma!-

Al suono della sua voce, Claudia si bloccò sul divano accanto a me, la tazza di tè che aveva preparato poco prima accostata appena alle labbra, e rivelò uno dei suoi rari (e inquietanti) sorrisi. Ebbi più o meno la stessa reazione, a parte il tè e il sorriso inquietante.

-Ne sapevi qualcosa?- mi chiese, avviandosi verso la porta.-Assolutamente no-. E nel momento stesso in cui pronunciai quelle parole, avvertii un fremito d'eccitazione alla consapevolezza che ogni cosa sarebbe cominciata ad andare per il verso giusto una volta per tutte.

-Alessandro-. Mio padre lo accolse confuso in casa con una pacca sulla spalla. –Sbaglio, o dovevi tornare a casa tra due settimane?-

Intanto, Claudia si era già avvicinata al figlio per controllare che il suo corpo non avesse perso peso in quei sei mesi.

-È successo qualcosa, Alessandro?- La preoccupazione e l'apprensione che riempivano le sue parole e deformavano il suo volto mi davano uno strano effetto, come se non le appartenessero davvero ma le avesse prese in prestito da qualcun altro. Questa rimaneva comunque un'ipotesi plausibile, certo, ma era molto più probabile che in presenza del figlio la modalità "Imprenditrice spietata" andasse in stand-by per lasciare il posto a quella "Mamma normale" che la rendeva finalmente una persona reale, accantonando il robot che era in lei almeno per un po'.

-Perché dovete per forza essere così pessimisti?- rispose lui ridendo, alla ricerca di un posto in cui sistemare il violino e il borsone. Alla fine optò per la poltroncina vicino all'ingresso. –Il professore che avrebbe dovuto tenere l'ultimo corso si è dato malato e l'ha spostato a settembre, così ho deciso di tornare prima e farvi una sorpresa-. Inarcò le sopracciglia, fingendosi vagamente offeso.

-Non siete felici?-

Mi sfuggì una risatina, la prima dopo... be', sei mesi, a partire dall'esatto momento in cui era entrato in auto e aveva gridato dal finestrino aperto, impegnato a compiere una manovra in retromarcia: -Tornerò. Più morto che vivo, ma tornerò-.

Alessandro sembrò accorgersi di me soltanto adesso, e sul suo volto si fece largo un gran sorriso.

–Musona!-

-Quante volte ti ho detto di non chiamarmi così?- protestai scocciata, nonostante avessi sentito in realtà la mancanza di quel soprannome che mi mandava sempre in escandescenze.

-Non abbastanza, a quanto pare-. E si allontanò dalla mamma per circondare e sollevare il mio corpo minuto con le sue possenti braccia.

-Mettimi giù!- Continuavo a ridere e, anche se non l'avrei ammesso ad anima viva, quel tipo di contatto fisico non mi infastidiva come gli tutti gli altri.

Anzi.

Un cambiamento drastico, quasi incredibile, rispetto all'estate di due anni prima, quando non eravamo che una sedicenne e un diciottenne costretti dai rispettivi genitori ad incontrarsi e comportarsi come veri fratelli, e lui, alla fine di quella noiosa cena, aveva detto: -Bene, sorellina, è stato proprio un vero piacere conoscerti!- e mi aveva abbracciata nonostante i miei continui: "Smettila di stritolarmi!"

Da quella sera non ci eravamo più separati.

E aveva deciso di chiamarmi "Musona".

Se qualcuno mi avesse detto che il figlio di Claudia sarebbe diventato il mio migliore amico, gli avrei riso in faccia. Chi avrebbe mai immaginato che fossero l'esatto opposto sia nell'aspetto che nel carattere? O, molto probabilmente, c'era stato uno scambio di culle nell'ospedale in cui era nato e adesso suo figlio naturale stava facendo impazzire una famiglia innocente. Poveri genitori.

Non avrei voluto trovarmi nei loro panni per nulla al mondo.

Dopo essere stato costretto a riportarmi a terra con un piccolo calcio sulla pancia, in segno di avvertimento, si sedette sul divano accanto a me mentre sua mamma poggiava un vassoio con biscotti e succo di frutta sul tavolino al centro. Non proprio il massimo per un ventenne, ma lui non lo diede a vedere.

-Com'è andato il viaggio?- gli chiese lei, sistemandosi sull'altro divano insieme a mio padre. -Hai avuto difficoltà a trovare la casa?-

-No, è praticamente l'unica a raggi di chilometri!-

Solo per dare un'idea di quanto fossimo lontani dalla civiltà.

-E...- Iniziò a lisciarsi pieghe inesistenti della gonna, segno che stava per dare inizio ad una discussione molto seria. –Sei stato già contattato da qualche orchestra?-

Alessandro studiava Violino in un prestigioso conservatorio di Milano da quasi due anni, ormai, ed era bravo. Davvero. Non mi sarei stupita se qualche musicista di alto livello si fosse messo in contatto con lui, anche se continuava a ripetere che, semmai avesse ricevuto un'email o una telefonata, si sarebbe rifiutato di presentarsi perché preferiva proseguire gli studi con serenità, senza stress o pressioni.

Ma Claudia sembrava pensarla in maniera diversa.

Come al solito.

-Non ancora, mamma-. Il tono di voce tradiva il fastidio.

-Hai controllato?-

-No, mamma-.

-E allora fallo, no? Cosa stai aspettando?-

-Un po' di pace, mamma-. Le rivolse un sorriso sarcastico che mi costrinse a coprire la bocca con una mano per soffocare una risata maleducata.

Claudia assunse un'espressione offesa che sostituì a breve con la sua solita freddezza. –Se non pensi più seriamente al tuo futuro, ti ritroverai a suonare il violino per elemosina in mezzo alla strada-.

-Di sicuro sarà più eccitante che controllare di continuo i risultati della Borsa sul cellulare-.

-Come ti...- si trattenne a stento lei. Mio padre le poggiò una mano sulla sua schiena che scrollò di dosso con un movimento eloquente delle spalle. –Dovresti soltanto ringraziarmi per aver assecondato la tua scelta, invece che costringerti ad entrare nell'attività di famiglia come i tuoi nonni hanno fatto con me-. Si alzò furibonda, la maschera di impassibilità che tremava insieme al labbro inferiore, e riprese:

-Come farai quando non ci sarò più? Chi ti darà i soldi per vivere?-

Se non la conoscessi, avrei detto che fosse sul punto di piangere. Perché lei era Claudia, e le sue non potevano essere lacrime.

Forse gocce di veleno.

O anche olio di motore.

Papà aveva un'aria preoccupata e continuava a lanciare occhiate significative ad Alessandro, anche lui consapevole di aver esagerato. Quanto a me, l'istinto mi intimava di agire ed intervenire come sempre, con la stessa prudenza e accortezza di un elefante in una cristalleria, ma il buon senso mi suggeriva di evitare discussioni non strettamente legate a me o alla mia famiglia e, per una volta, decisi di ascoltare l'ultimo.

-Ne abbiamo già parlato- sospirò lui. –Non andrà a finire così. In futuro troverò qualcosa, te lo prometto-.

-Non mi interessano le tue promesse. Voglio delle certezze. E se non sarai capace di darmele, chiamerò tuo padre e ti farò iscrivere all'università di Economia più vicina. L'hai sempre saputo, no?-

-Non pensi che...- fece per protestare mio padre.

-Non ti immischiare, Pietro-.

Okay, se adesso non reagisce lui, ci penso io al posto suo.

-D'accordo, come vuoi- alzò le mani lui.

Come non detto.

Stavo riscaldando le corde vocali, pronta alla battaglia che di lì a poco si sarebbe consumata nel soggiorno, quando Claudia si voltò di scatto e iniziò a procedere impettita verso la rampa di scale senza spiegarne il motivo, probabilmente diretta allo studio che si trovava al primo piano. E mio padre non esitò a correrle dietro con uno sconsolato: -Non dirmi che ora ce l'hai anche con me!-

Rimanemmo così soltanto noi due, Alessandro ed io, a dover sopportare quel silenzio consapevole in cui continuavano ad aleggiare le parole crude, spietate, dannatamente razionali di Claudia che, per la prima volta, non avvertii il bisogno di celare con altre parole.

Poi, quasi in un sussurro: -Bello schifo, eh?-

Puoi ben dirlo.

–Purtroppo sì-. Lo guardai con sincero dispiacere.

-Non è la prima volta che me lo dice, ma mi ripeto sempre: "Ehi, sei in gamba, le dimostrerai di valere almeno in questo"- Sorridendo amaramente, prese un respiro profondo. –Sono passati due anni e non ci sono ancora riuscito-.

-Stai dicendo una grandissima stronzata-.

-E allora perché continuiamo a parlare dell'università di Economia?-

-Perché tua madre vuole il meglio per te-. Gli poggiai istintivamente una mano sulla spalla e quasi non mi accorsi del sussulto che la sua schiena ebbe al mio tocco. –Ma non riesce a capire che quello che stai facendo è il meglio per te, perché hai talento e farai strada, credimi. E anche lei se ne accorgerà presto -.

E dal sorriso che mi rivolse, capii che mi stava ringraziando in silenzio; io non potei fare a meno di aggiungere con una smorfia: -Anche se a volte quella donna mi spaventa un po'-.

-Spaventa anche me. E sono suo figlio!-

La sua risata gutturale si perse nell'aria mentre calava di nuovo il silenzio tra di noi, ed io mi ritrovai a pensare a come ci fossimo trovati senza qualcosa da dire per portare avanti la conversazione. In genere era così semplice divagare, scherzare, ridere, ma in quel momento no, sembrava quasi inappropriato.

Perché quel tipo di silenzio non aveva lo stampo dell'indifferenza reciproca, nelle situazioni in cui non si ha nulla a che vedere con un determinato interlocutore e l'unica cosa che esiste è l'enorme vuoto da riempire con qualche domanda a caso.

No, anzi, era fin troppo intimo, forse anche imbarazzato, come di due persone che non hanno bisogno di parole per parlarsi. Quasi... fuori luogo.

E quelle persone erano di solito unite da un legame molto più forte dell'amicizia.

Sto davvero pensando ad Alessandro, Alessandro, in quel modo?

Stavo per scoppiare a ridere: ed eccomi qui in compagnia dei miei film mentali, una coppia che difficilmente qualcuno sarebbe riuscito a sciogliere.

Eppure c'era qualcosa di sbagliato in quella situazione, me lo sentivo.

Come sentivo che i suoi occhi color verde slavato continuavano a scrutarmi il viso, nonostante il mio sguardo fosse rivolto altrove e i capelli formassero un lungo sipario rosso, e il cuore prese a battere all'impazzata senza motivo.

Non mi era mai capitato.

Ed era... strano. Forse anche piacevole.

-E tu?- sussurrò improvvisamente lui con voce flebile.

-Io cosa?- Iniziavo ad essere consapevole di ogni suo gesto (le dita che si muovevano sinuose mentre gesticolava, la bocca che si arricciava leggermente quando parlava, le piccole rughe intorno alle palpebre che si formavano insieme ai suoi sorrisi) e questa cosa non mi piaceva affatto perché...

Al diavolo, non lo sapevo nemmeno io il perché.

-Tu come stai?-

Quella domanda non me la sarei proprio aspettata da lui, che era l'unico ad essere a conoscenza di quanto detestassi parlarne; probabilmente quel giorno doveva essersi sentito fortunato e aveva deciso di sfidare il destino e il mio umore oscillante dal picco della felicità a quello della rabbia.

Qual era il mio problema con il "Come stai?"?

Non di certo le parole in sé, visto che erano soltanto un'accozzaglia di suoni che le persone rivolgevano ad altre per pura cortesia.

Era la risposta.

Perché dovresti dire come ti senti a qualcuno cui magari non interessa affatto?

E se anche fosse interessato, tu saresti in grado di rivelare la verità?

No, ovviamente.

Nessuno ha il coraggio di affrontare se stesso.

E forse il problema, nel mio caso, era che nemmeno io conoscevo quella verità.

Esiste qualcosa di peggio?

Successe così, senza che me ne accorgessi o potessi fermarlo in tempo.

In un attimo rimossi dalla mente qualsiasi pensiero fuori luogo, tornando a considerare Alessandro semplicemente "Alessandro", il ragazzo dalla personalità stravagante e imprevedibile che mi faceva ridere, zittii la vocina che mi ricordava del fastidio che le dimostrazioni d'affetto mi provocavano e poggiai la testa sulla sua spalla, gli occhi chiusi e le spalle rilassate, insolitamente confortata dalla familiarità del suo corpo.

Il torpore del sonno mi avvolse all'improvviso e notai a malapena che mi stava accarezzando dolcemente i capelli.

 

Salve a tutti!

Non sono riuscita a scrivere l'Angolo Autrice nell'altro capitolo per mancanza di tempo, ma cercherò di rimediare a partire dall'ultimo aggiornamento.

Che ne dite? Vi sta incuriosendo la storia?

C'è ancora molto da scoprire, anche se, personalmente, già inizio a shippare i miei personaggi come se non ci fosse un domani (le fangirls capiranno).

Al prossimo capitolo (che spero di pubblicare il prima possibile),

the_scream_of_silence

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


-Cosa significa “arriveranno i miei amici domani”?!- urlò Claudia, senza preoccuparsi questa volta di tenere a bada l’ira. Non aveva ancora dimenticato la discussione di qualche giorno prima e quella notizia, snocciolata da Alessandro a cena come se fosse qualcosa di assolutamente normale, non migliorava la situazione. Mio padre le strinse la mano che aveva poggiata sul tavolo, ma lei, come al solito, si ritrasse di scatto.

-Lo sai che tra meno di due mesi dobbiamo sposarci? Lo sai, Alessandro?-

Alessandro spezzò tranquillamente un pezzo di pane e se lo infilò in bocca. –Appunto, tra meno di due mesi. Domani siete liberi-.

Colpita e affondata.

Prima che potessi accennare un sorriso o qualcos’altro, Claudia mi fulminò con lo sguardo. –E per quanto tempo dovrebbero rimanere questi tuoi “amici”?- scandì con cautela, prendendo dei respiri profondi per calmarsi.

-Non lo so. Quanto vogliono-.

Mi fece l’occhiolino con un sorrisetto furbo dipinto sul viso ed io capii che stava tramando qualcosa.

-Stai scherzando, vero? Questa casa non è un albergo, Alessandro!-

-Ma è così grande che potrebbe esserlo-.

-Tu...- Gli rivolse un’occhiata di fuoco e sembrò quasi sul punto di scoppiare, ma poi, visibilmente esausta, scrollò la testa e poggiò una mano sulla fronte. –Sei proprio uguale a tuo padre-.

-Sto solo dicendo che potrebbero volerci diverse settimane. Sai, per i provini...- gettò l’amo con indifferenza, anche se era abbastanza evidente che l’avesse programmato già dall’inizio. Una delle sue solite furbate, in pratica. Io l’avevo sempre detto: era un dannato genio del male.

Lo guardai con aria interrogativa. Lui, per tutta risposta, scrollò le spalle e nascose un ghigno colpevole con una mano sulla bocca. Continuò a sbocconcellare il suo pane.

-Provini?- abboccò subito Claudia, rianimatasi all’improvviso. Stavo per scoppiare a ridere: quella situazione era assurdamente comica.

 

-Be’, sì, mamma. Il ragazzo studia Pianoforte nel mio conservatorio e ha deciso di venire a Firenze con la fidanzata per trovare una buona occasione lavorativa-. Alzò lo sguardo, fingendo innocenza.

-Incontrerà parecchi maestri d’orchestra e, chissà, magari qualche volta potrei accompagnarlo anche io, al posto della ragazza...-

-Uhm, ecco, mi sembra giusto- fece lei con un’espressione orgogliosa e trionfante sul viso. Pensava di averla avuta vinta senza sospettare neanche lontanamente di essere appena caduta nella trappola di Alessandro. –Quel ragazzo ha bisogno di un amico come te, che condivida i suoi stessi interessi. Quindi perché no?- Si raddrizzò contro lo schienale della sedia. –Tu sei d’accordo, Pietro?-

-Per me non c’è problema- confermò mio padre.

-Bene, allora è deciso. Però mi raccomando, Alessandro: serietà da parte tua e dei tuoi amici. Non voglio essere costretta a pensare anche ai vostri guai mentre sono impegnata con gli ultimi preparativi. Anzi, preferirei che se ne andassero almeno un paio di settimane prima del matrimonio, per sicurezza-.

–Mamma, hanno ventidue anni. Non sono bambini-.

-A proposito di preparativi...- finse di non averlo sentito. –Pietro, dovremmo scegliere tra la villa e la spiaggia per la cerimonia civile. Che ne dici della spiaggia? Conosco delle persone che potrebbero farci risparmiare sulla prenotazione e sul catering...-

Mentre discutevano di costi e prezzi e altre cose noiose che avrei preferito non sentire, continuavo a prendere cucchiaiate dalla “zuppa” che Claudia aveva preparato orgogliosamente per cena, cercando di controllare l’istinto di sputarla tutta sul tavolo. Il sapore mi ricordava tanto quello del latte rancido o del pesce andato a male.

Bleah.

Purtroppo la cucina non era il suo forte e lei non aveva mai avuto intenzione che lo diventasse, visto che pagava una cameriera per stare ai fornelli e sbrigare tutte le fastidiose e necessarie faccende di casa, ma siccome quella donna aveva deciso di prendere un aereo diretto in Albania all’ultimo minuto per andare a trovare i figli e trascorrere l’intera estate insieme a loro... be’, adesso Claudia indossava un grembiule e ci avvelenava senza saperlo. Avrei volentieri cucinato io al posto suo, visto che me la cavavo abbastanza in cucina e ne andava della nostra salute, ma lei non ne voleva sapere, testarda come un mulo nel dimostrare di essere capace anche in quello.

Prima o poi avremmo dovuto fare una lavanda gastrica di famiglia, ne ero sicura.

Ad un certo punto avvertii delle dita che mi scostavano i capelli dal viso e si facevano strada sulle guance, in una carezza così dolce e spontanea che mi fece pensare a quella di mia madre. Mi voltai perplessa: Alessandro sorrideva con tenerezza, come se si stesse occupando di una bambina.

Prima che potessi chiedere spiegazioni con un’occhiata eloquente e infastidita, avvicinò le labbra al mio orecchio e sussurrò con voce profonda, quasi ridendo: -I tuoi capelli stavano per finire nella zuppa-.

Rabbrividii, quasi dimenticando cos’avesse detto e, nel momento stesso in cui avvertii uno spasmo in zone del corpo che non pensavo neanche esistessero, capii che c’era davvero qualcosa che non andava. Insomma, fino a quel giorno ci eravamo comportati alla solita maniera, come se non fosse successo nulla e nessuno dei due avesse sperimentato quelle sensazioni inappropriate. O forse riguardavano solo me e stavo fraintendendo tutto. E lui non provava niente. E la colpa era soltanto mia e dei miei maledetti ormoni impazziti.

Attratta da Alessandro? Sul serio?

Sarei scoppiata a ridere se i suoi brevi e concitati respiri non avessero continuato a solleticarmi la pelle del collo. Okay, lo sapevo bene, non ci sarebbe stato nulla di strano a provare qualcosa per lui, visto che era un bel ragazzo e a Milano aveva il suo bel da fare per evitare di incontrare spasimanti indiscrete, ma... ecco, per me le cose erano diverse, faceva ormai parte della mia famiglia ed essere attratta da lui sarebbe stato come perdere la testa per un fratello.

Appunto, fratello. Solo un fratello. Perché eravamo solo questo: fratelli. E i fratelli si vogliono bene, si sostengono a vicenda, si aiutano l’un l’altro... Per il nervosismo i miei pensieri iniziarono a divagare fino ad arrivare chissà come al prezzo del tappeto della mia stanza, mentre provavo a tenere a bada la piacevole morsa al ventre che mi solleticava lo stomaco.

O mio Dio.

Mi sforzai di ironizzare per impedire alla situazione di prendere una piega pericolosa: -Fidati, il sapore sarebbe migliorato-.

-Ne sono sicuro. Meglio i tuoi capelli che il dado che usa mia madre!-

Io risi. Lui rise. Bene. La tensione si stava allentando e il mio corpo poteva testimoniarlo.

-Mi chiedevo se...- Iniziò a giocherellare con qualche ciocca di capelli e, dannazione, fui come attraversata da una scarica elettrica di mille volt che mi mandò il cervello completamente in pappa. Il mio corpo ed io avevamo parlato troppo presto. -...magari, una di queste sere, ti andasse di venire a sentire qualcosa con me in un locale che conosco. I proprietari sono gente in gamba, ti piacerebbero-.

“Appuntamento”, mi sussurrò una vocina fastidiosa nella testa che zittii all’istante. Ed io compresi con un moto di frustrazione che, sì, il problema riguardava solo me, perché non era la prima volta che Alessandro mi invitava ad uscire.

Presi un respiro profondo. Dio, mi sentivo così stupida.

-Ehm...- Lanciai un’occhiata a Claudia e mio padre, troppo impegnati a discutere sul colore delle bomboniere per accorgersi di me e delle mie crisi nervose. –Sì, certo. Mi farebbe piacere conoscerli-.

-Perfetto- sussurrò soltanto, accostando per un attimo le labbra al mio lobo.

E in meno di qualche secondo terminai il piatto di zuppa.

 

Il giorno successivo mi svegliai grazie al suono dell’aspirapolvere passato sulla moquette del soggiorno. Dopo aver salutato Alessandro che si era avviato verso l’aeroporto di Firenze intorno alle undici per accompagnare gli amici a visitare la città, mi ritrovai costretta a sistemare la mia stanza su ordine di una Claudia che era già passata in modalità “Donna di casa”, strillando di continuo a mio padre di darle una mano a spostare i mobili nuovi di zecca che non aveva disposto con attenzione in cucina, nel soggiorno e nelle stanze destinate agli ospiti. Solo che, con i guanti di gomma che continuava a pulirsi sul grembiule non appena sfiorava uno strato di polvere, non rappresentava il massimo dell’efficienza casalinga.

-Riuscite a capire sì o no che quei ragazzi arriveranno nel tardo pomeriggio e in casa c’è ancora molto da fare?- ci rimproverava senza sosta, spostandosi da una stanza all’altra con uno spolverino tra le mani.

-E cosa c’entra l’ordine della mia stanza con il loro arrivo?- replicai ad un certo punto, stizzita.

–Non penso che la useranno anche loro, no?-

-Non la useranno, ma potrebbero vederla di sfuggita passando per il corridoio. E non sarebbe carino se trovassero le tue cose... intime dappertutto-.

Un attimo. Aveva sul serio detto “cose intime”? Non riuscivo a crederci. Pensava che fossi una specie d’animale che marchia il proprio territorio?

Ma per favore.

Mi rinchiusi nella mia stanza senza neanche degnarla di una risposta decente e decisi che, prima di tutto, avrei iniziato a “sistemare” proprio le pareti, ancora immacolate e perfettamente bianche come le mie cose intime che secondo Claudia formavano un tappeto sul pavimento.

Assurdo. Ed era ancora più assurdo che mi venisse quasi da ridere per il nervosismo.

Due colpi alla porta che io riconobbi subito. Il suo tono di voce preoccupato, forse addirittura colpevole, era ovattato dal pannello di legno massiccio della porta mentre cercava di rimediare con l’unica parola in grado di peggiorare la situazione più del dovuto: -Tesoro...-

-Non ora, papà- risposi secca, con frustrazione, lasciandomi ricadere sul materasso e tendendo le orecchie per assicurarmi che i suoi passi pesanti si allontanassero nel corridoio e lui mi lasciasse finalmente in pace. Dopo un lungo, quasi interminabile, sospiro di sconforto che riuscii a cogliere benissimo anche attraverso le pareti. Un brivido sinistro mi percorse la spina dorsale.

Non c’era motivo per cui mio padre dovesse lamentarsi. Insomma, era stato lui a scegliersi una donna del genere come compagna per il resto della vita, con la speranza che io mi adattassi alla sua “nuova realtà” senza problemi. Insomma, era stato lui a comportarsi da padre superficiale e distratto e ad evitare di parlarne con me. Insomma... Era lui il colpevole di ogni cosa.

E allora perché mi sentivo così male, come se avessi appena preso a calci un innocente cucciolo di cane o di cerbiatto o di qualsiasi altro animale adorabile? Non era affatto giusto. Quel dannato senso di colpa non era giusto.

Poggiai una mano sul petto per alleviare le fitte di rimorso che mi comprimevano il petto e lo stomaco e continuavano a risalire sotto forma di colazione, e il mio sguardo cadde accidentalmente sulla foto che avevo sistemato sul comodino accanto al letto diverso tempo prima, forse addirittura lo stesso giorno del trasloco. Il cuore ebbe un fremito. Una donna dai capelli rossi, così lunghi da sfiorare il fondoschiena, sorrideva raggiante all’obbiettivo con un fiore tra le mani che si era appena chinata a cogliere in mezzo ad un prato, visibilmente sorpresa come se non si aspettasse di essere fotografata proprio in quel momento. Gli occhi grigi riflettevano la luce del sole, le fossette sulle guance la rendevano ancora più bella di quanto non fosse già e il cappello di paglia che schermiva il volto le stava d’incanto, nonostante fosse decisamente troppo grande per la sua testa. Passai un dito sulla cornice color argento e sussurrai così, senza riuscire a farne a meno: -Mamma-.

L’unica donna perfetta per mio padre era lei. Era sempre stata lei. Con un sorriso gentile, lo sguardo cordiale, un’innocenza dipinta sul volto che la ringiovaniva di diversi anni, la mamma costituiva da sempre il punto di riferimento principale della nostra famiglia. Non esisteva dolore che lei non potesse allontanare con una bella fetta di torta al cioccolato, credeva nel potere del destino e del riscatto e ripeteva di continuo che, se le bollette da pagare erano l’inevitabile ostacolo ad un futuro all’insegna della felicità... be’, allora ci saremmo rimboccati le maniche e avremmo sofferto un po’. Almeno all’inizio. L’ottimismo e la voglia di vivere di cui non era mai a corto illuminavano la casa e il piccolo negozietto di fiori dove lavorava come commessa, quasi da risultare contagiosi: non era un caso che molti parenti venissero a trovarci più spesso del dovuto o le persone di altri quartieri andassero a fare acquisti proprio lì.

Mio padre la amava più di se stesso. Era la sua ancora di salvataggio e non sarebbe mai riuscito a vivere senza i suoi abbracci, le sue carezze, i suoi baci che avevano sempre “un gusto dolce ed esotico”.

Eppure lo stava facendo.

Accarezzai la superficie di vetro della cornice, ricalcando i contorni del suo volto con un dito.

Successe diversi anni prima, quando non ero che una bambina di cinque anni incapace di contare i numeri da uno a dieci sulle mani e di pronunciare perfettamente la “r”, figuriamoci di sopportare una cosa del genere. Quel giorno afoso d’agosto, nel tardo pomeriggio, aspettavo che la mamma tornasse dal negozio per farmi un “bagnetto tutto schiuma e paperelle” e mi aggiravo per la casa con addosso soltanto una leggera maglietta intima e un paio di mutandine colorate, quasi pronta a tuffarmi nella vasca da bagno, quando sentii bussare alla porta e mio padre andò ad aprire. Io mi precipitai nel soggiorno perché credevo che la mamma fosse finalmente arrivata. Ma no, non era lei. Eppure il negozio aveva ormai chiuso. Mi chiesi per quale motivo ci fosse un uomo corpulento dalla divisa blu e il cappello ben calato sulla testa al suo posto. Ma soprattutto perché stesse parlando con tanta compassione nello sguardo e nella voce: -Sua moglie ha avuto un incidente. La chiedo di seguirmi per...-

Non ebbe neanche il tempo di terminare la frase che subito mio padre si precipitò fuori dalla porta, lasciandomi da sola a cercare di capire cosa fosse successo alla mamma. Che significava “incidente”? Perché papà era così preoccupato? Si trattava di qualcosa di brutto?

Dopo circa un quarto d’ora, arrivò la mia nonna paterna con i suoi inseparabili occhiali da sole e il foulard a motivi floreali che le avevamo regalato lo scorso Natale. Pensavo che mi avrebbe sorriso come al solito, che mi avrebbe rassicurata con uno di quei pizzicotti che indolenzivano le guance, e invece evitava anche solo di guardarmi. Piangeva. Non riusciva a trattenere i singhiozzi mentre mi accarezzava i lunghi capelli lisci con fare materno. Continuavo a non capire.

-Nonna, dov’è finita la mamma?-

Scossa da singhiozzi ancora più forti, mi cullò dolcemente dopo avermi presa tra le sue braccia e mi portò nella mia camera, sul lettino con le sbarre che nessuno si era ancora deciso a rimuovere. Mi agitai anch’io: iniziavo ad avere un brutto presentimento. –Dormi, tesoro- mi aveva detto lei dopo essersi accomodata sulla sedia lì vicino. –Adesso la mamma non c’è. Ci sono io con te e ci sarò per sempre, te lo prometto-.

-Ma io non ho ancora sonno, a quest’ora la mamma mi fa sempre il bagnetto. Quando torna a casa?-

A quelle parole innocenti e ingenue, la nonna affondò il viso tra le mani e il suo corpo tremò in maniera impercettibile, le lacrime che scorrevano libere sulle guance. –Non lo so, tesoro- sussurrò con una nota di disperazione nella voce. –Non lo so-.

Mia madre avrebbe voluto che papà fosse felice. Che tornasse ad amare qualcuno proprio come aveva fatto con lei. Mi avrebbe rimproverata per l’astio che serbavo nei confronti suoi e soprattutto di Claudia, non si sarebbe lasciata sfuggire il mio silenzio e i miei sguardi spenti, e qualcosa mi diceva che non avrebbe approvato nemmeno il comportamento che avevo assunto negli ultimi anni. Non era affatto orgogliosa di me. L’avevo delusa per aver deciso di chiudermi in me stessa e nel mio dolore, senza provare a condividerlo con la mia famiglia, e continuavo a deluderla adesso, perfino da adulta.

Il pensiero mi faceva stare malissimo e avrei voluto rimediare in qualche modo, ma io non ero come lei. Non sarei mai riuscita a fingere per la felicità di mio padre, perché l’altruismo non rientrava tra le mie doti. Non avrei avuto il coraggio di andare a cercare la mia, di felicità, legata com’ero ad un passato che mi aveva ferita profondamente. Sarei rimasta sempre la stessa ragazza dai lineamenti dolci e delicati, ereditati dalla mamma, che confondeva la gente sino a spingerla a credere che fossi una sorta di sua reincarnazione; e non era certo piacevole scoprire che quell’aspetto ingannevole nascondeva in realtà una persona tanto scontrosa e impulsiva quanto lei era affabile e razionale. Né per gli altri, né tantomeno per me.

Con una lacrima che mi bagnava le guance e ricadeva lenta sul cuscino, sistemai meglio la foto sul comodino e passai in rassegna tutti i modi che conoscevo per “decorare” le pareti della stanza.

 

-Ha appena chiamato Alessandro. Stanno per arrivare-. Erano soltanto le sette del pomeriggio e Claudia aveva già cominciato a preparare una tavolata degna del banchetto di una regina: il colore deciso del legno massello spiccava attraverso i ricami floreali della tovaglia in lino che aveva comprato in chissà quale negozio per snob, mentre al centro regnava una composizione di rose e rami d’abete destinata a circondare una candela rossa che creava un’insolita atmosfera natalizia. In fin dei conti, con le posate d’argento e le coppe di cristallo che lei aveva deciso di usare come bicchieri, l’occasione non poteva che sembrare tra le più solenni.

Uno dei tanti motivi per cui non mi andava così a genio la mia nuova posizione sociale era l’incapacità di apprezzare le cose più semplici. Insomma, cosa c’è di male nell’usare economici pezzi di stoffa colorati piuttosto che tovaglioli di alta fattura che non dovrebbero neanche avvicinarsi alle mani di una persona, figuriamoci alla bocca? Di sicuro non mi sarei sentita come una donna della foresta alle prese con un collier di perle da un miliardo di euro. Immaginavo che la cosa valesse anche per gli amici di Alessandro, chiunque fossero.

-Pietro, hai già preso il vino? Se il ragazzo suona il pianoforte in quel conservatorio, la sua famiglia dovrà essere molto importante e ricca-.

Già, molto importante e ricca.

-E che mi dici della ragazza? Anche lei fa parte del circolo oppure è una comune plebea come tutti noi?- la stuzzicai.

-Talia!- mi rimproverò mio padre dalla cima della scala di ferro, impegnato a sistemare una delle tante luci del lampadario gigantesco che sovrastava il soggiorno. Claudia liquidò le mie parole con un gesto della mano e mi rivolse uno sguardo a malapena infastidito: era proprio decisa a non lasciarsi rovinare la serata, a quanto sembrava. –Non ne so niente e non mi interessa. L’importante è che il suo fidanzato abbia una buona influenza su Alessandro-.

Certo, come no. Per poco non mi misi a ridere.

-Ho parlato con suo padre ed è d’accordo con me. Se non mette la testa a posto, non avrà una vita facile-.

-Forse è quello che vuole lui, non trovi?-

-Adesso basta, Talia...-

-No, Pietro, ha ragione Talia- lo interruppe tranquilla lei. Mi ci volle un po’ per elaborare il senso di quella frase. –È vero: i giovani vogliono l’esatto opposto di ciò di cui hanno bisogno. Un lavoro? No, meglio la bella vita. Una promozione? Inutile, perché sgobbare di più se si sta così bene? Mi chiedo spesso quando capirete che il mondo non gira in questa maniera-.

-Certo, perché la cosa più importante è il denaro, giusto?-

-No-. Claudia zittì mio padre con un dito e riprese a parlare, più decisa di prima: -È l’ambizione. Se non ce l’hai, non riusciresti mai a vivere al passo degli altri. Ti accontenteresti della mediocrità e non lo noteresti nemmeno-.

-Almeno non saresti un eterno insoddisfatto-.

-Dipende dai punti di vista, cara-.

Prima che potessi ribattere con un’altra frecciatina, il campanello suonò. –Eccoli- annunciò lei con un sorriso soddisfatto, felice di aver avuto l’ultima parola in quella discussione. Non ero abituata ad un risultato simile e non mi piaceva affatto, ma se avessi anche solo provato ad accennare qualcosa in presenza degli ospiti, Alessandro non mi avrebbe rivolto la parola per più di un mese e a ragione. Dovevo tenere a bada l’orgoglio e incassare il colpo. Almeno per questa volta. Almeno per lui.

Anche se lo sguardo di vittoria di Claudia continuava a bruciarmi dentro.

Mi sedetti sul divano, i nervi tesi e lo stomaco in subbuglio, e mi convinsi che alzarsi per le presentazioni era un inutile gesto di pura formalità. Mentre Claudia si apprestava ad aprire la porta ad Alessandro che le chiedeva di uscire in giardino e conoscere subito i due ragazzi, alle prese con le valigie da scaricare dall’auto, mio padre si accomodò accanto a me e mi circondò le spalle con un braccio. Notando che non opponevo resistenza come al solito, si azzardò a dire: -Sai, Talia, sei una delle poche persone in grado di tenerle testa. Be’, non mi sorprende più di tanto...- Raddrizzò orgoglioso la schiena. –Sei mia figlia-.

Era una battuta, vero?

-Il punto è che, sì, qualche volta il confronto va bene, a tutte le famiglie capita di litigare, ma tu lo fai di continuo. E questo non va bene. Sembra quasi che tu la veda come una rivale-.

Presi un respiro profondo, massaggiandomi lentamente le tempie. Non riuscivo davvero a credere che ne stessimo parlando proprio in quel momento.

-Io vorrei soltanto che tu iniziassi a considerare anche Claudia un membro effettivo della nostra famiglia, proprio come Alessandro. Insomma, non mi sembra che tu abbia avuto problemi con lui all’inizio, no? Perché non dare anche a sua madre una possibilità?-.

Questo era troppo.

-Papà, senti...- iniziai, ma fui interrotta all’improvviso dalla voce di Alessandro sulla soglia della porta, rivolto a qualcuno dietro di lui: -E questo è il soggiorno. Se ti sembra grande, aspetta di vedere il salone al primo piano che mia madre ha finito di arredare proprio ieri...-

Appena mi vide si bloccò con un grande sorriso dipinto sul volto, e il mio cuore cominciò a battere più forte.

-Jacopo, ho l’onore di presentarti la mia meravigliosa Musona, Talia-. E si inchinò in maniera teatrale con un braccio proteso davanti a sé, allontanandosi dall’ingresso per permettere al ragazzo che lo seguiva di entrare.

Ed io rimasi a bocca aperta.

Caspita.

Con il fisico slanciato e statuario, le spalle ben piantate ma non esageratamente massicce e le braccia dai muscoli scolpiti che sbucavano dal suo maglione di cashmere blu, che gli fasciava il busto in maniera perfetta, non sembrava il classico stereotipo del pianista che avevo immaginato al suo posto. Per niente. Succede sempre così: quando pensi di incontrare un dio greco, ti ritrovi alle prese con un bambino troppo cresciuto e pieno di brufoli; quando dai per scontato che il tipo in questione non rispecchierà la tua idea di “ragazzo dei sogni”, ecco che si materializza come per magia e compare in casa tua. Non che la cosa mi dispiacesse, certo, ma adesso cominciavo a pensare che la convivenza sarebbe stata più difficile del previsto. Soprattutto se aveva una fidanzata.

Continuai a fissarlo mentre sorrideva quasi imbarazzato, con la bava alla bocca come in uno degli episodi cliché delle sitcom americane, e doveva essere parecchio evidente perché ad un certo punto sentii qualcuno tossire per richiamare la mia attenzione. Sobbalzai dalla sorpresa. Qualcun altro rise, e non avrei saputo dire chi.

-Piacere di conoscerti-. Il ragazzo si avvicinò e tese una mano verso di me, abbandonando per qualche secondo la presa sulle due valigie-trolley che trascinava. Soltanto allora mi accorsi che il suo viso non era perfetto come il suo corpo: il naso, leggermente più grande del normale, tendeva verso un lato senza però dare nell’occhio, proporzionato alla bocca di un colore rosso quasi innaturale che presentava una spaccatura al centro, sul labbro inferiore. E il sorriso aveva un che di magnetico, sì, come se trasudasse tutto il suo fascino e il suo sex appeal, ma l’effetto era bruscamente interrotto da uno degli incisivi, inclinato di qualche millimetro verso un altro dente, e dai canini di dimensioni diverse. E gli occhi... be’, gli occhi erano di un comune castano scuro che si abbinava ai suoi capelli lisci e pettinati in modo da formare un ciuffo.

Insomma, niente di speciale nel dettaglio: era il complesso a provocare una crisi respiratoria. E rimaneva comunque uno dei ragazzi più belli che avessi mai visto.

-Piacere mio- riuscii a non balbettare. Adesso era il suo turno di guardarmi assorto, forse anche incuriosito, con la fronte corrugata in un’espressione che non riuscivo a decifrare. Speravo solo che fosse un fatto positivo.

Dopo aver presentato Jacopo a mio padre, Alessandro si sedette sul bracciolo in pelle del divano e mi strinse a sé con un braccio. –Sono sicuro che tu e la sua fidanzata andrete molto d’accordo. Ha conquistato anche mia madre!-

-Se è così, allora sarà molto semplice legare-. Mi costrinsi smettere di fissare quel ragazzo come in trance, prima di farmi beccare dalla fidanzata e giocarmi tutta la dignità di cui disponevo ancora, ma era quasi impossibile: attirava lo sguardo alla stessa maniera di una calamita. Okay, avevo bisogno di altro tempo.

-Entra pure. Puoi sistemare il borsone sulla poltrona-.

Come non detto.

Claudia fu la prima ad entrare, voltandosi all’istante verso una ragazza alta e snella poco distante da lei che continuava a camminare senza guardare dinanzi a sé.

Non appena la riconobbi, mi mancò il respiro.

Mio padre strabuzzò gli occhi.

Non è possibile.

Lei non si era ancora accorta della nostra presenza, continuava a ringraziare la mia matrigna con il solito sorriso di gratitudine che prima adoravo e che invece adesso consideravo così falso e scontato. Che detestavo con tutta me stessa.

Non può essere.

Strinsi i pugni lungo i fianchi.

Quando si voltò verso di noi, fu come se il tempo rallentasse e poi si fermasse all’improvviso, per inquadrare il volto dall’espressione sconvolta e dalle labbra rosee appena dischiuse, con alcune ciocche di capelli castani sfuggite alla sua coda che lo incorniciavano perfettamente.

I suoi occhi si riempirono di lacrime.

Sorrise di nuovo.

Mi ricordò tanto la mamma.

E in quel momento mio padre, ancora scioccato e con il fiato sospeso come in attesa del prossimo colpo di scena, pronunciò in un filo di voce l’unico nome che pensavo non avrei mai più sentito in vita mia:

-Giulia-.

 

Buonasera, popolo di EFP!

Mi scuso per aver pubblicato il capitolo con una settimana di ritardo: sono stata abbastanza impegnata con i compiti estivi e ho avuto a malapena il tempo di scrivere questo terzo capitolo. Un po’ troppo lungo, vero? Consideratelo un semplice modo per farmi perdonare.

Allora, che ne pensate? La storia ha iniziato ad “ingranare la marcia” e ad attirare la vostra attenzione? Siete curiosi di scoprire cosa succederà in seguito tra Talia e Giulia?

E con Jacopo?

Lasciate un vostro giudizio nei commenti ed io vi risponderò immediatamente.

P.S.: ho modificato i primi due capitoli per scrupolo, senza però apportare cambiamenti drastici: si tratta perlopiù di affinamenti lessicali e scelte stilistiche diverse. Avrei potuto lasciar correre, ma sono sempre stata una grande precisina e non mi piace affatto presentare lavori di cui non sono pienamente soddisfatta. Se vi va, passate a dare un’occhiata.

Al prossimo aggiornamento (spero di riuscire a farcela entro la prossima settimana, anche se non ne sono sicura: la scuola ricomincerà a breve e avrò meno tempo a disposizione per scrivere e pubblicare regolarmente. Chiedo venia),

the_scream_of_silence

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


Agosto 2003

Giulia se ne stava lì, sul dondolo in giardino, con le gambe penzoloni che non riuscivano a raggiungere il prato sottostante e le lacrime che scendevano copiose sulle sue guance senza che lei se ne accorgesse. Piangeva e basta. Piangeva in silenzio perché non conosceva parola in grado di esprimere quello che provava. Piangeva con la consapevolezza che da quel giorno in poi la sua vita non sarebbe più stata la stessa, e non aveva idea di come affrontare il domani che si era sgretolato davanti ai suoi occhi così, all’improvviso.

Non si aspettava di trovare la nonna in casa al suo ritorno dagli allenamenti di nuoto. Sonnecchiava sul divano, infagottata in una coperta di lino siccome, a suo dire, era particolarmente sensibile al freddo anche in piena estate. Non era stata avvisata del suo arrivo, né ricordava di aver sentito dire che sarebbe venuta a trovarli.

Era decisamente strano.

Dopo aver poggiato il borsone sulla poltrona del soggiorno e controllato l’orologio in cucina per assicurarsi di non essere tornata a casa troppo tardi, si avvicinò a lei e decise di svegliarla con un colpetto di dita alla spalla. Lo strano verso animale che uscì dalla sua bocca fece indietreggiare la bambina, poi, come se fosse stata appena interrotta durante uno dei suoi sonni più profondi, la nonna aprì gli occhi confusa e si tirò a sedere. –Giulia- biascicò, non ancora perfettamente lucida. –Dove sei stata? Non ti ho vista-.

-In piscina, nonna. E tu cosa ci fai qui?- Si guardò intorno, notando che la casa era più silenziosa del solito. –E dove sono la mamma e il papà? E Talia?-

A quelle parole, sembrò quasi colpita da una fitta che la costrinse a poggiare una mano sul petto e a camuffare una smorfia di dolore sul viso. E poi le lacrime che uscivano prepotenti dai suoi occhi serrati, insieme ai singhiozzi che le scuotevano il corpo.

-Nonna, cos’hai?- chiese allarmata lei, con il timore che stesse avendo un attacco cardiaco. –Devo chiamare qualcuno? Ma dove sono finiti tutti?-

-No, tesoro. Io sto bene- cercò di rassicurarla con la voce rotta dal pianto, scostandole una ciocca di capelli dal viso e abbracciandola in maniera impetuosa, così forte che pareva non volesse più lasciarla andare. Le sue mani tremavano mentre le accarezzava ripetutamente la testa. –Io sto bene-.

Giulia non riusciva a capire, c’era qualcosa che continuava a sfuggirle e iniziava ad avere un brutto presentimento. –Cos’è successo?-

La nonna non rispose. Si limitò a stringerla a sé con più vigore e a sussurrarle all’orecchio che sarebbe andato tutto bene.

-Cos’è successo, nonna?- Anzi no, non voleva saperlo. Per l’agitazione crescente, il suo cuore assomigliava ad un martello che batteva incessantemente contro la gabbia toracica per uscirne fuori. L’attesa, il respiro profondo che la nonna prese prima di cominciare a parlare, il ticchettio della lancetta dei minuti in cucina erano laceranti più di ogni altra cosa al mondo: -Ti piacciono le stelle?-

Quella domanda la disorientò. –Cosa?-

-Ti piacciono, sì o no?-

-Sì ma...- Perché?

-Ora, quando le guarderai, ne troverai una tutta per te e per Talia. Una bellissima, meravigliosa, luminosa stella che vi proteggerà sempre anche se tanto lontana da voi. Ed io- Deglutì. –Farò tutto il possibile per aiutarla anche da qui-.

-Nonna...- sussurrò lei implorante, quasi scongiurandola di non rivelarle la verità.

Ma arrivò comunque. E con essa altre lacrime, altri singhiozzi, le grida e le invocazioni di una bambina di nove anni che non accettava di aver perduto per sempre la persona più importante della sua vita. Che non era pronta a quel dolore. Che non poteva esserlo.

E così adesso scrutava il cielo, colorato dalle mille sfumature e luci del tramonto ormai prossimo, alla ricerca di quella stella tra le tante che iniziavano a comparire sullo sfondo bluastro del cielo come minuscoli puntini luminosi. Non ci credeva, eppure ci sperava. Contro le leggi razionali che conosceva sin dalla più tenera età e contro la sua stessa razionalità, sperava di vederla all’improvviso e di riconoscere nel suo bagliore una qualche minima traccia di ciò che sua madre era stata, perché in questo modo avrebbe avuto un appiglio, la certezza che fosse davvero esistita. E forse il dolore non sarebbe stato così difficile da sopportare.

Ma poi si convinse che le stelle erano tutte malvagie, senza eccezioni, e che la sua mamma non avrebbe mai avuto nulla a che fare con loro.

-Giulia-. Una vocina intimorita la richiamò all’improvviso, proveniente da una figura minuta che se ne stava avvolta dalle ombre sul patio. Stringeva a sé l’orsacchiotto di peluche che il papà le aveva regalato per il suo compleanno e continuava a tremare come una foglia.

-Talia- disse sorpresa, asciugandosi le guance con le mani. Pensava che stesse dormendo, e la nonna le aveva raccomandato più volte di non svegliarla perché le avrebbe soltanto reso ogni cosa più difficile da sopportare. –Cosa ci fai qui?-

-Non riuscivo a dormire-.

Provò un improvviso moto di tenerezza nei confronti della sorellina. –Vuoi sederti qui, accanto a me?-

Dopo un cenno di assenso con la testa, Talia scese in fretta le scale, incerta sui suoi passi come qualsiasi altra bambina della sua età, e si accoccolò sul cuscino logoro del dondolo con il pupazzo ben saldo tra le piccole gambe. Rivolse uno sguardo al cielo. –È vero che la mamma se n’è andata?-

-Sì-.

-E tu sai quando tornerà?-

La disperazione che c’era in lei, desiderosa di contagiare altre persone, la supplicava di rispondere che mai e poi mai sarebbe tornata perché era morta. Persa. Irraggiungibile, e nessuno poteva farci niente. Ma nel momento stesso in cui incontrò i suoi occhi grigi, tanto simili a quelli della mamma, che la guardavano in attesa di una rassicurazione, della conferma che almeno lei potesse continuare a sperare, il dolore fu sostituito da qualcos’altro. Un istinto quasi irrefrenabile, primordiale, che la spinse ad abbracciare la sorellina e a coccolarla proprio come una madre con una figlia.

E poi capì. Oh, sì, finalmente capì.

Tutt’ad un tratto i contorni di quel domani così lontano si fecero più chiari, più distinti, più veri, perché aveva appena trovato lo scopo principale della sua vita: proteggere Talia ad ogni costo. Evitare che soffrisse di nuovo in futuro. Comportarsi come la madre che avevano sì perso entrambe, ma di cui aveva bisogno soprattutto lei.

E così, con un sorriso materno che tentava di celare la sofferenza, le disse: -C’è una stella in più nel cielo. Riesci a vederla?-

-No-.

-Sforzati, dài- la incitò. –Non la vedi? È proprio lì...-

E per poco non ricominciò a piangere. In una delle pieghe del cielo che iniziava pian piano ad incupirsi era comparsa una piccola, ma splendente stella davanti ai suoi occhi. Così, all’improvviso. Prima non c’era, e invece adesso... eccola lì.

Non poteva avere la certezza che fosse proprio quella, la stella di cui le aveva parlato sua nonna, né che vi fosse mai stato del vero nelle sue parole, ma di una cosa era sicura: la luce che emetteva, candida come un fiordaliso, pura come la più limpida delle sorgenti, le era tanto familiare, anche se così lontana. L’avvolgeva in un caloroso abbraccio che aveva qualcosa di dolce e, soprattutto, materno. E questo le bastava per credere che esistesse ancora una possibilità.

Fissò Talia. Il suo sguardo vagava ancora nell’immensità verso cui l’aveva rivolto, le labbra dischiuse che lasciavano intravedere i due dentoni da scoiattolo e le mani che torturavano frenetiche una delle zampe dell’orsacchiotto di peluche.

Adesso sapeva esattamente cosa fare.

La strinse ancora più forte a sé e fissò il puntino luminoso senza battere le ciglia, decisa a non perderlo di vista, mentre giurava solennemente a bassa voce: -Avrò cura di lei, mamma. Puoi starne certa-. E per un attimo ebbe l’impressione che la stella avesse avuto un guizzo improvviso.

I fari di una macchina illuminarono il dondolo. Il rombo di un motore riempì il silenzio. E nel momento stesso in cui ne uscì la figura affranta del padre, Giulia comprese che la battaglia del giorno non era ancora terminata.

 

Buonasera, popolo di EFP!

Siete sorpresi che abbia aggiornato prima del solito? Be’, questo capitolo mi ha coinvolta in maniera particolare e mi sono ritrovata con ben quattro pagine battute dopo nemmeno un paio d’ore!

Ecco il primo dei numerosi flashback che scriverò sulla vita precedente delle due sorelle narrati dal punto di vista di Giulia: penso che la sfera emotiva di questo personaggio, probabilmente detestato da molti ma al quale io sono tanto affezionata, debba essere approfondita. Come le sue motivazioni, le sue idee, l’affetto che nutre da sempre nei confronti della “piccola” Talia...

Al prossimo aggiornamento (entro il prossimo lunedì con il 50% delle possibilità),

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