Anche il futuro ha bisogno di un passato

di milla4
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte I ***
Capitolo 2: *** Parte II ***
Capitolo 3: *** Parte III ***



Capitolo 1
*** Parte I ***


Lo vide inciampare e cadere per terra sulle ginocchia;  era stato tutto molto veloce… stava rincorrendo Milo,  il piccolo e irrequieto cane maltese di famiglia per poi cadere.
 Subito si precipitò verso di lui, come solo una madre potrebbe fare: si era sempre detta che non sarebbe stata come quelle madri asfissianti, che oramai erano quasi gli anni cinquanta, i tempi delle istitutrici e dei corpetti erano finiti.
Come la guerra che, sì, aveva cambiato tutto.
 
Marigold si protese verso il suo bambino, Michael, quasi inconsciamente, guidata da un qualcosa che Edith avrebbe sicuramente chiamato istinto materno e forse, per questa volta, le avrebbe dato ragione.
-Tutto bene, piccolo?- era il suo soprannome “piccolo”.
 -Mamma, mi fa male il ginocchio.- piagnucolò il bambino; Marigold si affrettò a guardare la ferita che subito si rivelò poco sanguinante.
-Non è nulla, Michael: vai in casa dalla Signora Wright e dille di medicarti-.
 
No, non ce l’avrebbe mai fatta ad essere una mamma moderna;  in fondo era figlia degli anni venti ed anche se erano nel 1947, lei sentiva di provenire da un altro pianeta. Sospirò.
 Altro pianeta, altro mondo… quant’era diversa la sua casa di Londra rispetto allo splendido castello in cui era cresciuta, con Edith e Bertie.

Edith… non riusciva ancora a chiamarla “mamma” anche se erano passati ben dieci anni dal giorno in cui le aveva rivelato chi in realtà lei fosse,  di chi era figlia.
Non sapeva neanche lei il perché, forse per le bugie raccontatele in quindici anni o per gli infidi pettegolezzi che giravano tra l’alta società, o forse perché aveva rotto un incantesimo che non voleva fosse rotto.
 
-Marigold! Marigold!-  la Signora Pansey, la governante, la richiamò dai suoi eterni pensieri: la sua voce era strana, quasi gracchiante.
-Cosa succede?- che il suo Micheal si fosse fatto male seriamente?
-Vostra  zia… venite al telefono, presto-
Mary.
 
Corse più veloce che la gonna che portava le permettesse; arrivata alla cornetta si fermò. Voleva davvero sapere?
No. Questa volta no.
 Avrebbe voluto essere all’oscuro di qualcosa, per la prima volta in vita sua voleva essere solo Marigold Drewe, vedova di Alfred Marlin,  psicologo.
 
Punto.
 
Abbassò la cornetta in tutta fretta e si sedette tremante sulla sedia accanto al mobile che su cui era poggiato il telefono. E pianse.
 
 
 
22 Ottobre 1938 - Brancaster Castle
 
-Shhh! Fai silenzio, se Hanna ci scopre sono guai!- George era impaurito , nei suoi occhi c’era il terrore di chi ha visto la morte più e più volte,  che in questo caso aveva il volto della cameriera personale di sua madre.
 
Erano scappati, quella sera si erano dati appuntamento alle dieci di sera accanto al grande pioppo che si trovava alla destra del castello.
Il parco era immenso, o meglio non vi era un vero e proprio parco, solo una vastità di verde e bianco, in inverno.
 
Era tutto programmato da mesi ormai, la grande fiera del paese era un’istituzione per loro, da quando Marigold, trasferitasi al castello, vi era stata portata una domenica di Luglio da Bertie, il marchese di Hexham.
Era stato così strano e spettacolare allo stesso tempo, luci e colori si fondevano insieme; i clown, i dolci e, soprattutto, la ruota panoramica, erano fuori da qualsiasi immaginazione che la bambina avesse mai pensato.
L’anno dopo, quando Lady  Mary venne a trovare sua sorella, portò con sé George.
Marigold era riuscita a convincere la sua tutrice a far portare loro bambini nel suo grande mondo magico. E da lì tutto ebbe inizio.
 
-Forza, sei lenta come una lumaca- George le tese una mano per trascinarla con sé in quella corsa sfrenata verso la macchina che li avrebbe portati al paese.
 
Erano poco più che adolescenti, ma sapevano che dovevano cogliere tutte le opportunità della vita perché la guerra stava distruggendo tutto ciò che era stato faticosamente riscostruitolo dopo l’avvento di sua sorella maggiore, la Grande guerra.
George era stato risparmiato per via di una gamba lievemente zoppicante dovuta ad una caduta da cavallo quando aveva dieci anni e Marigold non smise un solo giorno di ringraziare quello splendido animale.
 
Saliti in macchina non parlarono, l’agitazione era troppo alta: stavano infrangendo mote regole, lei era un’orfana e lui il nipote nobile della sua tutrice, c’era tutto per uno bello scandalo.
 
La macchina li fece scendere proprio sotto Ruth, la ruota panoramica, come l’avevano soprannominata da bambini; presero i biglietti e salirono. Di nuovo, ma con occhi diversi.
 
-Hai freddo?-  Marigold sussultò:  George l’aveva sorpresa dopo minuti di silenzio imbarazzante.
-Uh? No, no… grazie-
-Di cosa?-
-N-non lo so, per la domanda credo-
 
Mani sudate, occhi che non si incontravano; era tutto diverso dall’ultima volta di due anni prima, tutto era diverso.
In quel tempo interminabile di separazione si erano scritti lettere su lettere e qualcosa in loro era cambiato, sbocciato.
Geroge le scriveva del divorzio di sua madre con il suo patrigno, il buon vecchio Henry, che non riusciva a reggere una moglie come sua madre e, Marigold lo rincuorava come poteva, sentendo il dolore del suo amico arrivare a toccarle il cuore come un filo diretto.
 
Ed ora eccoli lì, stretti l’una all’altro, aspettando un qualcosa di cui non conoscevano neanche la forma ma che sapevano sarebbe accaduto.
Il ragazzo fece la prima mossa toccando con la propria mano quella della ragazza accanto a lui che, se all’inizio si mostrò imbarazzata, presto ricambiò quella carezza che li stava proiettando in un altro mondo.
Erano lì, solo loro, senza tutori, madri apprensive, cameriere personali, solo loro.
 
E la differenza di estrazione sociale.
 
Non potevano negarlo, lui avrebbe ereditato un titolo importante con i doveri che ne derivavano  e lei non sapeva nemmeno che volto avessero i suoi genitori.
Lo zio Tom era stata un’eccezione, come h Henry. Due eccezioni non fanno una regola, tanto più nel loro mondo.
Ma erano giovani e forse innamorati e tanto bastava, loro.
Un bacio, un semplice bacio e poi tutto dovette finire; Hanna era riuscita a scovarli e li riportò in casa.
Poi tutto fu rivelato.

 
 
 
 
 
 
Marigold smise di piangere, doveva essere forte, voleva essere forte; dopotutto era figlia di suo padre, Michael Gregson da cui aveva ripreso delle orecchie non proprio piccole, capelli castani ma, soprattutto, una caparbietà senza pari.
Lui aveva voluto sua madre, Edith, come Marigold aveva voluto suo marito, Alfred: entrambi ottennero ciò che avevano voluto.
Ripensò alla foto che Edith le consegnò poco dopo averle confessato di essere sua figlia, quella fatidica notte in cui la sua vita fu fermata per ricominciare per altra via; era nascosta in fondo al comodino, non la osservava spesso, ogni volta scopriva troppe cose in comune, e la faceva stare male.
 
-Signora tutto bene?-
-Certo, certo… era caduta la linea, ora richiamo- .
Non sapeva neanche lei il perché ma sentiva come il dovere di darle una spiegazione.
Riprese la cornetta in mano per un paio di secondi poi, si fece passare il numero dal centralino.
Il suo passato stava rientrando a gamba tesa nella sua nuova vita borghese; dopo questa chiamata sarebbe dovuta rientrare a Downtown Abbey per dare l’ultimo saluto  a l’unico zio che avesse mai avuto e amato e avrebbe rivisto sua madre, Edith.
 
-Micheal, piccolo, ti devo parlare.-.
 
 
 


 
 *


 
 
 
 
Era stato un viaggio lungo e triste; Tom era morto prima che giungesse a destinazione cosicché si preparò ad andare direttamente al  suo funerale.
Le dispiaceva per Sibyl, ora era orfana di entrambi i genitori; aveva sentito George poco prima di partire: grave insufficienza polmonare.
 
Michael era agitato, non conosceva Downtown, non c’era mai venuto da quando era nato, anche se ormai quella non era Downtown, la vera Downtown.
 
Anche la “casa” era stata spazzata via dalla seconda guerra:  Carson era andato in pensione e sua moglie aveva lasciato il lavoro per assisterlo; la signora Pattmore gestiva la sua locanda e veniva a portare solo i pasti; il resto del personale  oltre Thomas, Bates e Hanna era costituito da personale affiatato per le grandi occasioni.
 Era finito il tempo degli sprechi, questa volta per davvero.
 
Li accolse Cora, nel suo volto tutto il dolore per la perdita di un figlio, subito dopo incontrarono gli altri membri della famiglia, giunti lì per l’occasione: Sibyl con suo marito;  George;  Mary e tutti coloro che lo avevano amato.
Talbot era in disparte, non era stato un divorzio felice, specie per Mary che aveva visto nell’allontanamento del marito una sconfitta personale difficile da mandare giù.
 
La funzione fu semplice, senza fronzoli, come Tom Branson; Marigold e suo figlio avrebbero soggiornato nella grande casa vuota: era stata una richiesta di Edith, glielo doveva.
 
 
La trovò seduta su una panchina sotto un larice, nel parco; Edith aveva in braccio  il figlio più piccolo avuto da Bertie, addormentato sulla sua spalla.
Era una marchesa, ma amava i suoi figli e voleva stare con loro.
-Ciao- Edith alzò gli occhi che si illuminarono seppur velati di tristezza -Ciao-.
Marigold indicò il bambino, Edith sorrise.
 -È stanco, la giornata è stata lunga per lui-.
 Marigold era interdetta, ma decise di sedersi accanto alla madre. Doveva proave a ricucire quel rapporto prima che fosse toppo tardi.
 
Erano sedute vicino eppure né l’una né l’altra parlava, aspettando che l’altra cominciasse un argomento qualsiasi; fu Edith  a toglierle dall’imbarazzo.
 
-Allora, ho sentito che il piccolo Michael ha cominciato ad andare a scuola…- nel pronunciare quel nome la sua voce ebbe un’inflessione: era stato il suo primo grande amore e la fine così repentina, senza la possibilità di dirsi addio, lo aveva cristallizzato nel suo cuore per sempre, anche se ora era mamma di quattro figli, anche se amava Bertie come mai avrebbe creduto.
-Si… è una scuola privata vicino al mio ufficio; io lo accompagno la mattina e la tata lo va a prendere il pomeriggio.
 
-Oh bene…  l’inizio non sarà semplice, farà tante storie per rimanere in casa, ma tu non demordere. Avrei voluto mandare sia Thomas che Margareth in una scuola normale, senza avere un’istitutrice, ma Lady  Pelham  era fortemente contraria.
Ora che lei purtroppo non c’è più, potrò iscrivere almeno Peter tra qualche anno.-
 
Non era una conversazione quella, solo poche semplici frasi intervallate da lunghi silenzi carichi di aspettative; durante quei momenti Marigold si sentiva in agitazione perché le balenavano nella testa solo domande inerenti a suo padre ed aveva paura a farle per sentirsi dire un no.
 
-… tuo padre… mi ha corteggiata molto, sin dalla prima volta che ci siamo incontrati; oserei dire quando ancora sapeva di me solo il nome scritto in un articolo di giornale.-
 
Edith guardò sua figlia stupirsi di fronte a quelle parole; in tutti quegli anni non avevano mai parlato di ciò che era successo al padre della ragazza e, dopo la morte di Alfred, sembrava un argomento troppo dooroso da affrontare. Ma Edith sapeva che le bugie, le menzogne feriscono più della verità più ostica, più delle parole di veleno sputate in faccia.
La morte di Tom, poi, del caro Tom le a aveva fatto capire  che anche se si sentiva ancora giovane, i suoi capelli cominciavano a tingersi di grigio,  piccole rughe solitarie stavano comparendo ai lati della sua bocca e che quindi non poteva aspettare altri vent’anni per lasciare uscire “Michael” da sé, non poteva lasciare sua figlia senza un padre, un’altra volta.
 
-Era strano per me pensare che qualcuno mi volesse… me, Edith Crowley,  secondogenita del conte di  Grantham, ragazza non di eccezionale bellezza o intelligenza, in pratica lo scarto della famiglia.
Ma invece lui volle me, con i mie difetti, con la mia famiglia ingombrante… con tua zia Mary.- Sorrise.
- Aveva deciso di prendersi il pacchetto completo, per me.
Tu… tu sei una grande parte di lui, non solo per la vostra somiglianza, ma perché tu sai cosa vuoi e cosa non vuoi e in questo non hai preso da me e ringrazio Dio di questo.-
 
Marigold assorbiva quelle parole come un nettare divino, pendeva dalle labbra della donna che l’aveva cresciuta e che non riusciva a chiamare madre, che le stava aprendo il cuore a nuove informazioni, nuovi sentimenti.
-Ti ricordi quando mi hai detto che io ero tua figlia?-
Rise nervosamente –E come potrei dimenticarlo?-
-Quella sera, George mi avrebbe chiesto di fidanzarci. E ti ho odiato come non mai per avermi privato di quella gioia, per aver reso improvvisamente un rapporto così puro in qualcosa di ignobile, malato, perverso e forse un po’ di quella rabbia l’ho con me ancora addosso.-
Altra verità taciuta, altro dolore inutile.
 
-È per questo che ti sei allontanata? Per George?- Edith  guardò sua figlia con occhi nuovi: credeva che ce l’avesse con lei per verle mentito, non aveva pensato minimamente a quello che le stava succedendo.
L’aveva considerata una bega da ragazzini, mentre per lei era stata importante.
-Credo… credo di sì, o almeno questa è una delle motivazioni principali. Diciamo che l’età non ha aiutato e poi il college, Alfred, il matrimonio… e scappare mi era sembrata la soluzione più giusta.-
Silenzio.
 
-Lo ami ancora?-
 -Chi?-
-George…-
- Amore non credo, ma qualcosa di lui mi è rimasto, ormai però ho chiuso con tutto,  mi sono abituata al fatto che sia sbagliato-
Edith sorrise – Cara, imparerai troppo presto che in questa vita di amore ce n’è veramente poco…  io ringrazio ogni giorno per il mio Bertie, ma certo la mia vita sentimentale non è stata delle più brillanti-
 
Marigold sapeva di cosa stesse parlando: lasciata sull’altare, incinta di un uomo che era emigrato per lei e che era scomparso nel nulla poco dopo... Edith non poteva essere considerata una donna fortunata e, forse, un po’ di quella sfortuna l’aveva eredita anche lei.
Smisero di parlare per osservare Michael e Thomas correre per la colina; dovevano essere zio e nipote ma la differenza di età di soli due anni annullava quel vincolo di parentela rendendoli solo due bambini che giocavano a rincorrersi; l’altra sorella, Margareth era in un collegio per signorine dell’alta società.
Sembrava tutto così normale eppure da quel giorno in poi un altro membro della famiglia si sarebbe aggiunto alla tomba familiare. Il più giusto e onesto.
 
-Edith, Edith- una voce maschile chiamò la marchesa con agitazione, Bertie agitava il braccio in aria cercando di richiamare la loro attenzione: era l’ora della sepoltura.
Entrambe le donne si alzarono compostamente dalla panchina e, presi i propri figli si diressero verso le rispettive macchine per andare al cimitero.
 Per Marigold il viaggio fu un’agonia: se per sua madre la morte del suo amato era stata improvvisa e senza un corpo da seppellire, per lei era stato terribile dover scegliere la bara, i vestiti che avrebbe dovuto indossare il suo Alfred e, soprattutto il viaggio in auto fino al cimitero, con imbraccio un bambino troppo piccolo per ricordare bene e troppo grande per dimenticare.
 
 
Erano tutti lì, ognuno accanto a l’altro, i membri rimasti di una grande casata nobiliare: sua nonna Cora, sua zia Mary, Rose e Atticus, Daisy con suo marito, Henry Talbot ed infine George.
Solo in disparte, il suo tight era all’ultima moda come si addiceva ad uno degli scapoli più ambiti di Londra.
 
Non aveva legato molto con lo zio irlandese forse fu l’unico che non lo aveva conosciuto davvero bene… erano troppo diversi, crescendo George aveva espresso i peggiori tratti del carattere della madre; era per questo che Marigold  sapeva di non amarlo in più.
 Oltre la fatto di essere cugini, erano anche profondamente diversi, gli voleva ancora bene ma di un sentimento in cui la passione era stata spenta.
 
Tutto durò sin troppo poco;  la vedova Branson con Sibyl e Anne si diressero verso l’auto che li avrebbe condotti nuovamente alla tenuta, gli altri si comportarono i modo diverso.
Marigold si accostò a sua madre che per l’emozione si era sentita svenire e quindi accasciata su una sedia; Mary la guardò con profondo disprezzo: era lei che era stata più legata a Tom, non certo Edith;  era veramente ridicola… la povera piccola Edith la cui vita era stata ricca di ingiustizie…
 
E allora lei? Aver perso l’amore della sua vita il giorno in cui il suo unico figlio era venuto al mondo; sposarsi con un uomo, perdere il loro bambino e  vederlo allontanarsi da sé  ed infine, sapere che il destino della propria casata è in mano al suo unico discendete che sembrava aver votato la sua vita agli agi, senza decidersi a mettere la testa a posto… tutto questo non contava più di un amante perduto, di una figlia bastarda, di essere lasciata sull’altare?
No, evidentemente, per il mondo, Edith era la pecorella smarrita e lei il suo lupo personale, colui che vive solo per farle del male
-Su, mamma vieni, ti accompagno alla macchina- Marigold aveva scelto coscientemente di  non chiamarla per nome, non voleva dare a sua zia questa soddisfazione, di umiliare ancora una volta sua madre come aveva fatto in passato.
Tom Branson, il mediatore della famiglia, le aveva raccontato di come sua zia avesse usato la sua nascita illegittima per far lasciare sua madre e Bertie, solo perché gelosa della sua felicità;  egli pensava di fare una cosa giusta raccontandole di come poi Mary avesse fatto in modo che tutto tornasse alla normalità, ma Mariglod in quei gesti non vide pentimento solo senso di colpa.
 
La giovane donna accompagnò sua madre vicino alla macchina dove Bertiee l’aiutò a salire.
-Vieni con me?- le sussurrò sua madre e inizialmente pensò di rifiutare. ma perché avrebbe dovuto farlo? La tata avrebbe portato i bambini direttamente a Downtown e lei, in fondo,  non aveva programmato nulla di ché.
-Certo-


Note: 
Buonasera, mi chimao milla4 e ormai sono affezionata a Downton abbey e alla sua famiglia come fosse la mia.
Non mi sono mai cimentata in una storia su questo fandom forse per timore di rovinare un capolavoro o, forse per codardia... resta il fatto he questa ff per me è una novità e, insomma, se volete darmi un parere recensite, mi farebbe molto piacere. Ovviamente nessun personaggio o ambientazione è di mia proprietà, ma appartengono a chi ha il copyright, non ho nessuno scopo di lucro sulla storia.

Per ogni informazione sui personaggi, mi sono attenuta a quanto riportato su questo sito:  http://downtonabbey.wikia.com/wiki/Marigold
 

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Capitolo 2
*** Parte II ***


Il guanto di mussolina aderiva alla mano in modo impeccabile, umido di pioggia e di tristezza: un pezzo di vita era da poco venuto a mancare, permettendo che Mary la facesse sentire di nuovo sola, di nuovo inadeguata, di nuovo Edith.

Strinse la mano di suo marito che ricambiò la stretta con trasporto.
-Io..io davvero non capisco cosa ci sia di sbagliato in lei- esclamò Bertie  adirato.
-Bertie!- Edith guardò suo marito con disapprovazione:  anche se ormai era una donna, moglie e madre di suo nipote, per lei, Marigold era ancora un piccolo fiore da proteggere.
-Oh no, tesoro! So che non vuoi che lei ascolti certi discorsi, ma ti renderai pur conto che Mary oggi abbia esagerato. Non ho mai interferito nel vostro rapporto e devo pur ammettere che, senza il suo intervento, avrei perso la donna della mia vita- strinse con più forza  la mano della moglie  -ma questa volta… sì… questa volta ha decisamente esagerato. Chi è lei per trattarti in questo modo, per decidere chi o cosa debba provare dolore?-
La mascella si contrasse per l’ira, Bertie non era un uomo vendicativo né amava serbare rancore, ma quella donna, sua cognata, stava tormentando sua moglie da troppo tempo ed era stanco della sua  cattiveria.
-La conosci ormai da troppo tempo, non cambierà mai…  se qualcuno le fa un torto lei è la vittima, se lei fa un torto sicuramente sarà colpa della vittima.- Edith prese il fazzoletto che Marigold le porgeva, asciugandosi le  ultime lacrime di quella mattinata. 
- Normale routine per la mia famiglia, ma se prima di stamattina avevo un minimo scrupolo, un barlume di rimorso per la nostra festa natalizia, ora so con certezza che non vorrò vedere mia sorella in quei giorni di festa. Mia madre potrà benissimo scegliere con quale figlia passare le festività.- Edith pronunciò quelle frasi con un orgoglio nato e fatto crescere nel tempo, sepolto dalla cenere dell’insicurezza, non accorgendosi  dello sguardo stupefatto della sua primogenita, al contrario di suo marito.
-Marigold, perdonaci deve esserci sfuggito di mente, ma è così:  il castello di Pelloux avrà la sua festa, di nuovo.  È giusto che venga rispettato il mio grado…  finché tuo nonno era in vita ho ceduto il mio onere a lui più che volentieri, unendo le due famiglie a Grantham, un‘ unica grande festa per tutti, ma ormai George non è più in grado di sostenere simili spese né credo abbia molta voglia di farlo… da quest’inverno il castello riaccoglierà i suoi ospiti per la tradizionale festa natalizia- era sicuro di sé, Bertie, mentre pronunciava quel discorso che le circostanze gli avevano strappato. Avevano ferito la donna della sua vita, colei che per formare la loro famiglia aveva rinunciato al suo lavoro, all’appartamento che le era stato donato dal padre di sua figlia e, cosa più importante, aveva riaperto il suo cuore per lui.

-Zia Mary ne è conoscenza?- chiese titubante Marigold.
-Lo saprà stasera-.
 
 
La tensione era palpabile, stesa come un velo adornato i odi silenziosi e latenti e segreti svelati: ogni commensale ne era come soffocato.
Da quando il nonno era morto, George occupava il suo posto, quello centrale, accanto vi era sua madre poi  la Contessa di Grantham, Rose e suo marito;  di fronte, come opposto schieramento, Marigold, Lady Edith e suo marito Bertie. Mancavano solo la vedova Branson che si accomiatata preferendo andare a riposare, quella sera e Henry che aveva preferito alloggiare in una locanda nel villaggio.
Lilian Branson era distrutta: aveva appena perso un marito, che solo da poco tempo era divenuto veramente “suo”; da quando Sybil si era sposata il fantasma di sua madre aveva smesso di opprimere il cuore di suo padre rendendolo libero davvero.
 
-Non credo sia possibile, temo. Abbiamo già pensato a stilare la lista degli inviti e cercato degli aiuti per la servitù. La signora Pattmore sta procedendo con gli acquisti delle vettovaglie… ormai è tutto pronto.- 
Mary prese un sorso di Merlot –Dovevi pensarci prima, Edith. Ma l’organizzazione non è mai stata il tuo forte a che io ricordi.-
Una mano le prese la sua mentre stava rigirando il cucchiaio del consommé, Marigold strinse la mano di sua madre: erano tante le cose che avevano da chiarire, la fiducia da riguadagnare, ma in quel momento aveva bisogno di sua figlia per vincere contro il suo passato e vivere il suo futuro.
-Ma gli inviti non sono stati spediti e nessun contratto scritto è stato firmato, quanto alla signor Pattmore si provvederà a restituirle il denaro già speso. Nulla di così grave, comunque non mi pare di aver detto di volere  che Downton non abbia la sua festa, semplicemente che, da quest’anno, anche Pelloux avrà la sua.-
 
-Non possono essere fatte due feste con gli stessi invitati, sai già che diserteranno l’una con improbabili e stupide scuse per andare a quella che reputeranno più conveniente e interessante.-
Rossa, Mary Crawley era la rabbia personificata, neanche gli anni, il divorzio avevano scalfito quella vena di superbia che era stata la sua condanna in più d’una occasione.
Si girò a guardare suo figlio, per cercare in lui un segno di approvazione, un alleato contro quell’affronto che Downton  stava subendo, ma nulla.
George era impegnato a fissare quell’insulsa ragazza dall’altra parte del tavolo. A volte si stupiva di come suo figlio fosse diventato così profondamente diverso da lei: in lui non c’era passione, orgoglio per la sua casata, nulla.
-Ne sono a conoscenza sorella mia, ma non è un nostro problema: Pellouux avrà la sua festa di Natale che ti piaccia o no. Se hai davvero paura, fai in modo che sia la tua più interessante e vedrai che non resterai da sola-
-Mamma…- Cora sorseggiava in disparte il suo consommé restando, come ormai faceva da anni, fuori dalla conversazione, in un silenzio composto.
-Se vorrai farci il piacere della sua compagnia al castello, abbiamo apportato dei cambiamenti per crearti un appartamento proprio per te.-
Una macchia rossa di vino pregiato, una sedia strusciante  -Questo è troppo. Credi di poter venire in casa mia a pretendere che tutti qui dentro si inchinino ai tuoi piedi ad ogni tua richiesta?-
-No, Mary, io non sono te- rispose la bionda risoluta.

Un riso amaro si insinuò su quella bocca perfettamente laccata di rosso;  come sempre Edith le aveva dato la vittoria, la stoccata finale nelle mani.

-No,  è vero. Io non mi sarei mai concessa ad un uomo già sposato, rimanendole incinta, senza avere da lui una certezza. Sarò perfida, cattiva, invidiosa, manipolatrice ma non sono una sciacquetta.-
Silenzio, nessuno poteva rispondere perché non  vi era risposta.
Lacrime imbrattarono il volto di Lady Edith, il belletto venne rigato da ferite profonde, ma questa volta non c’era il buon Tom ad aiutarla, né poteva far molto suo marito per non peggiorare la situazione; lo sentiva accanto a sé irrigidirsi.
Doveva pensarci da sola, sua figlia le era accanto come mai in vita sua e questo le bastava, avrebbe fatto qualcosa non da Edith Crawley, ma da Edith Pelham Marchesa di Hexham.
-Ebbene, mia cara sorella hai perso l’ennesima occasione per non dare fiato alla bocca. Io tengo a ribadire che quest’anno Pelloux avrà la sua festa, che Lady Mary lo voglia o no. Tutto qui, il resto può rimanere nella storia dove deve rimanere.
Ora continueremo a mangiare, il pasto non è più buono se consumato freddo- detto questo si rimise a sorseggiare elegantemente la su zuppa.
Mariglod le lasciò la mano, ma la forza di quella donna che per tanto tempo aveva avuto tenuto a distanza le era rimasta impressa nella mano.
La cena finì senza altri particolari scena né all’una né dall’altra parte, solo fugaci occhiate che le due sorelle Crowley, nulla di più.
-Vado a vedere come sta il piccolo: non è abituato a stare in dimore così grandi, sarà eccitato…- Marigold fu la rima ad alzarsi e ad accomiatarsi in barba alle convezioni sociali; non le importava nulla fuorché avere con sé la sua piccola oasi felice, il suo bambino.
Al cenno di assenso degli alti commensali si diresse verso la grande scalinata ce l’avrebbe condotta nella stanza dei bambini quando una mano l’afferrò in modo fermo.
Era George, il quinto conte di Graham.
-Marigold...-

Quel tocco, non aveva potuto dimenticarlo, era impresso dentro di lei ed anche se il ricordo era stato adombrato da altri più recenti, era rimasto lì, in attesa di  tornare in superficie.

-George… -

-Vorresti fare una passeggiata nel parco, come hai vecchi tempi?-  occhi negli occhi, non potevano smettere di guardarsi, quegli occhi le erano mancati; erano azzurri come quelli di suo padre ed erano gli unici xhe l’avevano sempre vista per come era e non per le sue origini. Come il suo Alfred.

-Devo andare da mio figlio, ora, ma se vuoi possiamo trovarci alla vecchia quercia tra mezz’ora-

George le sorrise: -Perfetto ti aspetto lì-

 

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Capitolo 3
*** Parte III ***


 
 
Il verde del parco della tenuta era sempre più sovrastato dalla folta vegetazione lasciata crescere senza alcuna inibizione.
Marigold sentiva il peso del tempo  riversarsi sotto i loro piedi: il tacco delle scarpe faticava a farsi strada tra le sterpaglie di quello che primo era un ordinato boschetto di cipressi posizionato poco ad est di Downton House.
George le era accanto,  aveva il braccio sotto al suo per sostenerla.
Marigold e George…. ancora insieme dopo tutti quegli anni, due vite opposte e separate eppure quel sentimento di appartenenza era ancora vivo in loro.
Appartenenza ad una grande famiglia, a dei ricordi… a un mondo che era finito e di cui loro erano le ultime briciole.
- Sai… mi era mancato passeggiare insieme, vivere questi piccoli momenti solo per noi… -
Marigold sorrise, sempre stato un poeta il suo George.  Il sorriso le morì sul volto: non suo, non suo.
Sospirò era così stano essere lì.
-Beh, siamo diventati grandi, il tempo dei balocchi e delle fughe improvvise è finito ormai da tempo.- gli mise un mano sopra la sua, posizionata sopra il braccio di lei.
-E chi lo decide quando si è cresciuti? Chi definisce quando è ora di chiudersi in un ufficio tra carte e conti arretrati?- George si bloccò improvvisamente, aveva sentito quei discorsi  sin dalla sua prima infanzia, il peso della morte di suo padre cadde su di lui dal suo primo vagito.
Sua madre… suo nonno… il caro zio Tom erano solo palliativi, amministravano la proprietà aspettando che lui fosse abbastanza grande per occuparsene personalmente.
Tutto deciso, tutto stabilito… come quella notte.
 
-Tu mi comprendi, vero? Tu sai cosa significa avere un destino già scritto!- le prese il viso tra le mani obbligandola a girarsi verso di lui;  la guardava negli occhi,  cercava in quello sguardo ciò che lo faceva sentire compreso quando era un bambino.
Marigold alzò la mano posandola delicatamente sulla spalla del suo accompagnatore, sul viso un sorriso che George non gradì affatto.
 
Accondiscendenza.
 
Il giovane uomo si allontanò da quella mano diventata improvvisamente  estranea.
-George… - non sapeva cosa dire, davanti a lei vi era il ragazzo conosciuto più di dieci anni prima mai cresciuto.
 
-Posso comprendere la difficoltà di portare avanti una nave che sta affondando da così tanto tempo, ma non puoi lasciarla andare in rovina così… trasformala in una pensione di campagna, o vendila. Ma non lasciare che vada in rovina.-
Non credeva di poter provare tanto affetto per una casa che l’aveva sì accolta, ma non come una sua figlia: eppure la sentiva parte della sua identità, della sua parte Crowley.
 
 
 
Il freddo le si insinuò da sotto la leggera giacchetta che aveva sopra le spalle, Marigold rabbrividì: era ora di rientrare.
-Torniamo indietro?- chiese speranzosa
-No… vai avanti tu. Io ho voglia di passeggiare ancora.- George si allontanò di scatto: non l’avrebbe riaccompagnata ma avrebbe lasciato che una giovane donna tornasse all’interno della dimora da sola, al buio.
L’uomo cominciò ad avanzare lasciandola dietro di sé: aveva sentito le parole della sua amica d’infanzia come un ennesimo rifiuto ed ora sarebbe stata lui a rifiutare lei.
-George?- Marigold non riusciva  capire i comportamento dell’altro, ma riusciva a vedere gli effetti deleteri che l’educazione troppo permissiva di sua zia Mary aveva prodotto.
Non poteva fare molto ormai, erano cresciuti in modo diametralmente opposto e la sua influenza non gli avrebbe giovato; non aveva paura di tornare indietro da sola, se la prima guerra aveva  levigato molti fili che riallacciavano al passato ottocentesco, con la fine della seconda quei fili erano stati definitivamente tranciati.
 
L’erba umida le aveva impregnato le scarpe, facendole aderire alla delicata pelle dei suoi piedi; camminava velocemente, voleva dimenticare quella strana passeggiata e tornare l’indomani mattina alla sua vera vita.


Note: Buondì... vorrei dare una scusa plausibile a questo ritardo mostruoso ma  la semplice verità è che non avevo piùù ispirazione nel continuarla; aprivo il foglio e non sapevo cosa scrivere. Forunatamente una ripassata di tutta la slendida seri mi ha spronata a mettermici sotto ed ecco qui questo piccolo capitolo.

Spero vi possa piacere
a presto milla4

 

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