Humanity

di olivia301203
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** -Parte Prima- ***
Capitolo 2: *** I. ***
Capitolo 3: *** II. ***
Capitolo 4: *** III. ***



Capitolo 1
*** -Parte Prima- ***


 Parte Prima
 

Dove I Morti Camminano

 

"Sono nato piangendo mentre tutti ridevano,
E morirò ridendo quando tutti piangeranno."

Jim Morrison.


Morire non è né strano, né difficile.
Checché se ne dica, non è la cosa peggiore che vi possa capitare.
Morire non fa male, né appagante.
Quindi dimencatevi del "passare a miglior vita" e cose del genere. Di "migliore" la morte non ha proprio niente.
Morire è instantaneo, uno lo fa inconsciamente.
Nessuno si vede scorrere la propria vita davanti a gli occhi, nessuno pensa "ecco, adesso muoio". Non ci sono luci in fondo a fantomatici tunnel, benché meno voci.
La morte è il Nulla.

*****

Sono morta centocinquanta anni fa, all'età di diciott'anni. Morte improvvisa. Non ho fatto ricerche più approfondite.
So soltanto che quello che sta accadendo è impossibile: sono viva.
Come? Non lo so neanch'io.
Perché? È troppo difficile da spiegare.
Se lo voglio? No, non lo voglio. Preferivo rimanere morta.


 

 

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Capitolo 2
*** I. ***


 
I.






"Devi promettere che sopravviverai, che non ti
arrenderai qualsiasi cosa accada, per quanto disperata sia la situazione.
Promettimelo adesso Rose, e non dimenticare mai questa promessa."
Leonardo di Caprio, Titanic.





Sono ferma davanti alla porta della mia stanza, una mano tesa a saggiarne la consistenza metallica.
Oggi incontrerò gli altri ragazzi, che come me, sono stati strappati alla morte. Non so di cosa abbia paura. Sono sempre stata una persona solare, incline a nuove amicizie. Ma la morte mi ha cambiata, non so dire se in meglio o in peggio, ma l'ha fatto.
Da quando sono arrivata qua, le giornate sono state scandite da test, esami e spiegazioni. Le cose -che si sono rivelate essere robot- mi hanno spiegato cos'è successo: della mia morte improvvisa, dell'Estinzione, e di come gli Automi abbiano preso in nostro posto sulla Terra.
Sono sempre stata diffidente, sin da subito, nei confronti delle cose. Ascoltavo i loro racconti scettica, fingendo di essere schierata dalla loro parte. Non so da quanto dura la mia messinscena alla "Devo essergli riconoscente a vita", un mese, forse di meno, ma sta diventando sempre più difficile il trattenermi allo sputargli i miei pensieri in faccia. Letteralmente.
Sospiro. Prima o poi, volente o nolente, dovrò uscire allo scoperto. Tanto vale togliermi subito il pensiero.
Spingo la porta, uscendo nel corridoio in cui si affaccia la mia camera. Come il resto delle cose, anch'esso è di un bianco così omogeneo e brillante da farmi male agli occhi. Lì, ad aspettarmi immobile e rigido, c'è un Automa, incaricato di scortarmi nella sala adibita a mensa. Lo seguo in silenzio, contando i passi per tenere la mente occupata.
Un brusio mi avverte della vicinanza al mio obiettivo.
La cosa si ferma di fronte a una porta vetrata a due battenti, la apre e mi fa entrare. Lo spettacolo che mi si presenta davanti è familiare: lungo una parete vi sono vari carrelli e congelatori dove sono riposti bibite e cibo. Nell'altro lato lo spazio è completamente occupato da tavoli singoli. Tutto questo ha un che di nostalgico, mi ricorda la mensa scolastica, dove passavo i tre quarti del tempo a chiacchierare con Benedetta, la mia migliore amica.
Mi giro, in cerca della cosa, ma se n'è già andata, troppo indaffarata per accertarsi che mangiassi davvero. Poco male. Incerta sul da farsi, cammino silenziosa verso i vassoi di cibo. Non mi servo un granché, non ho molta fame. Mi siedo a un tavolo vuoto, il più isolato dal resto degli altri.
Mangio il mio pasto in silenzio, giocherellando col le foglioline di insalata. A un certo punto delle voci parecchio forti e vicine, catturano la mia attenzione accompagnate da un trambusto di sedie che mi costringe ad alzare gli occhi. Un gruppetto di quattro o cinque ragazzi si è seduto al mio tavolo, accerchiandomi.
«...te l'avevo detto che non ti avrebbero lasciato portare l'uva in camera. Oh, tu devi essere quella nuova.»
Una ragazza, dai grandi occhi neri mi sta fissando, in attesa di una mia risposta.
«S-sì»
«Come ti chiami?»
«Cherokee.»
«Io sono Paula, questo è Lucas, lei Sondra, Natasha e lui è Brain.» mi presenta tutti, con un sorriso a trentadue denti.
«Brain?» non posso fare a meno di chiedere. Da quel che ne so in inglese dovrebbe significare -cervello.
«Beh ecco, lui in realtà si chiama Brian, ma a scuola era il secchione della classe, perciò...» spiega Paula.
«E tu cosa preferisci che ti chiami?» azzardo al diretto interessato.
Lui si volta. Il suo viso è celato dietro degli occhiali dalla montatura quadrata troppo grande. Ha l'aria infantile e da intellettuale.
«A-a me va be-bene tutto» mormora timidamente, con un accenno di balbuzie.
Gli sorrido rassicurante, quando uno stridire mi costringe a voltarmi.
Un ragazzo, più grande di me, si è seduto al nostro stesso tavolo ma all'estremo opposto, come a volerci evitare. Mangia in silenzio, senza degnarci di uno sguardo. Qualcosa nella sua postura e nel suo modo di fare, mi trattiene dal parlarci.
«Cherokee, posso chiamarti Cher, giusto?» annuisco a Paula, la quale continua a parlare.
«Allora, come sei morta?» chiede con nonchalance.
Sgrano gli occhi. Sarò io un po'strana, ma non mi sembra molto educato domandarlo.
«Devi scusarla. Paula dice tutto quello che le passa per la testa.» interviene Lucas.
«Il punto è che qua siamo tutti morti, e alla fine è diventata una cosa comune chiederlo.» spiega Natasha.
«Ehi, fa niente se non ti va di dirmelo»
«No, no... beh in realtà è stato un attacco di cuore, morte improvvisa»
Paula soppesa un po' la mia risposta e poi mi sorride incoraggiante.
In quel momento l'altoparlante gracchia un «ventisette» metallico.
«Che succede?» chiedo a nessuno in particolare.
«Ci stanno chiamando» spiega Sondra indicando la ragazza che si è alzata dirigendosi verso la porta, dove una cosa la sta aspettando. «Lo fanno alla fine di ogni pranzo. Ti portano in una sala dove fare dei test, e poi sei libera di tornartene in camera»
«Ma qual'è il mio numero?»
«Hai presente la medaglietta che ti hanno dato il primo giorno? Ecco, prendila. In fondo, sotto il tuo gruppo sanguigno c'è scritto un numero, appena lo chiameranno tu dovrai raggiungere l'Automa all'entrata, lui ti scorterà nell'laboratorio»
Osservo ansiosa il numero 57 impresso nel ferro del ciondolo.
Aspetto che chiamino il mio numero, e in tanto la mensa si svuota. Quando chiamano il 36, Paula si alza e prima di andarsene mi fa l'occhiolino.
Alla fine rimaniamo solo io e il ragazzo dall'aria burbera di prima. Lo osservo ed incontro il suo sguardo gelido.
«Così tu sei la nuova arrivata» la sua voce è profonda, leggermente roca.
«S-sì»
«Sopravvivi» mi raccomanda. In quel momento l'altoparlante annuncia la sua uscita.
Lui si alza, è più alto di quanto pensassi.
«Aspetta!» esclamo, «come ti chiami?»
Lui si volta, un sorrisetto compiaciuto è impresso sulla sua faccia.
«Elihas».
Scompare dietro la porta, ancor prima che possa porgli altre domande.
E mentre aspetto che arrivi il mio turno penso a quello che mi ha detto: sopravvivi.

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Capitolo 3
*** II. ***


II.






"Non è perché le cose sono difficili che non osiamo,
è perché non osiamo che sono difficili."

Seneca

 



«Cinquantasette» gracchia l'altoparlante.
In tutta calma, porto il vassoio nell'apposito contenitore e raggiungo la cosa. Sta ferma sulla soglia della mensa, tenendomi la porta aperta. Un chiaro invito a sbrigarmi.
Mi scorta lungo i corridoi bianchi che corrono lungo tutto l'edificio. So che è a più piani: a volte ho sentito lo scalpiccío di passi sul soffitto della mia camera.
Svoltiamo a destra, poi a sinistra, destra, ancora destra, di nuovo a sinistra... così via. Camminiamo tanto, troppo, i piedi iniziano a farmi male nelle semplicissime scarpe da ginnastica bianche.
Quando le vesciche iniziano a formarsi sulle piante dei miei piedi, ľAutoma si arresta di fronte ad una porta scorrevole, che apre mediante un codice.
...3...5...8...2...
Non riesco a vedere il resto.
La porta si apre sprigionando una nuvola di vapore e ci affrettiamo ad entrare. La stanza non è come me la aspettavo: sembra di stare in un ospedale. Un macchinario per fare le risonanze magnetiche domina l'intero ambiente, su delle scrivanie vi sono dei computer, collegati alla macchina.
Senza premurarsi di essere garbato, ľAutoma mi spinge verso un camerino posto nell'angolo estremo alla porta.
«Togliti ciascun capo di abbigliamento che indossi, sciogliti i capelli e poi copriti con questo» mi ordina porgendomi una salvietta candida di modeste dimensioni.
Faccio quanto eseguito, seppur un po' a disagio. Avvolgo il tessuto morbido intorno alle mie fattezze, appena sotto le ascelle. L'asciugamano è più corto di quanto pensassi, mi copre a malapena le natiche.

Esco dal camerino, rivelandomi mezza nuda al robot, coperta solo dalla soffa bianca. So che è una cosa scema vergognarsi di essere svestita difronte qualcosa che non può provare emozioni, tantomeno attrazione, ma probabilmente la sua forma fisica mi induce a paragonarlo a un uomo. Un lieve porpore mi invade le guance.
A quanto pare lui non si fa tutti questi complessi mentali, dato che mi fa cenno di sdraiarmi su una specie di lettino imbottito attaccato alla macchina, senza degnarmi di un secondo sguardo. Mi distendo, la branda è confortabile, come stare su un divano di pelle. L'Automa prende una siringa, di quelle che assomigliano vagamente a una pistola, il liquido giallognolo al suo interno scroscia contro la parete di vetro della fialetta.
«Cos'è?» domando.
La cosa si guarda bene dal rispondermi, ignorandomi completamente.
«Rispondimi!»
«Un sedativo. Servirà a non farti muovere durante la risonanza» spiega atono.
Annuisco. E' la prima volta che uno di loro reagisce ad una mia domanda. Mi prende il polso e senza troppe cerimonie mi infila l'ago nella vena solitamente usata dai medici per sentire il battito cardiaco. Il primo pensiero è: cavolo quanto brucia. Il secondo: troppo lungo, l'ago è troppo lungo. E in effetti è davvero troppo lungo, ho paura di vedere la punta sporgere dall'altra parte del polso. Fortunatamente non succede. Quando il siero finisce lo stantuffo si alza, trascinandosi dietro l'ago. La cosa poggia la siringa su un tavolino d'allumineo lì a canto.
Va dietro alla mia testa, alzandomela e poggiandoci qualcosa di freddo al di sotto. Poi schiaccia qualche pulsante su un pannello e afferra una delle maniglie ai lati del lettino. Tira il manico verso la bocca del macchinario, incassando il lettino all'interno. La macchina per le risonanze si attiva con un ronzio e altri suoni inquietanti.
Una potente luce mi acceca per una frazione di secondo, e poi... il buio.

*****

Cammino, le scarpe nere che affondano nella ghiaia. Davanti a me i miei parenti, amici di famiglia o colleghi di lavoro dei miei genitori camminano a testa bassa, i piedi che strusciano per terra. Nessuno parla, non vi sono sorrisi ne rumori. Il cielo sembra triste pure lui, e per questo straziante evento ha sfoderato le nubi più buie e cupe che avesse mai mostrato. Un singhiozzo dilegua la quiete che regnava su di noi.

Ad un certo punto le persone in testa al gruppo si arrestano, poggiando a terra la cosa che stavano portando in spalla: una bara.
Un fulmine squarcia il cielo, diramandosi in milioni di ramoscelli per tutto l'etere. La cassa viene calata nella fossa sottostante, e mano a mano che scompare nel buco, la lapide dietro di essa diviene visibile. Inciso sul marmo a caratteri eleganti c'è un nome. Simona Whilson.
Un tuono caracolla giù dal cielo facendo tremare la terra, e con essa le mie certezze. Mia madre è morta. Non avevo veramente realizzato questa realtà, mi sono barricata nell'indifferenza, convincendomi del contrario. Che scelta stupida la mia, come se il mio menefreghismo potesse riportarla in vita.
Volto la testa, voglio vedere in che condizioni è mio padre. Cerco il suo sguardo ma i miei occhi vengono incatenati da un altro.

Lei viene da me e si siede ai miei piedi, usando le mie gambe com poggia-schiena.
«Che cosa stupida, onorare un morto. Si festeggiano le persone vive, anche se questa... non è proprio una festa» ridacchia, «che ne pensi?»«
Io... io non lo so».
I raggi del sole che hanno bucato timidamente le nuvole, si riflettono sui suoi capelli neri dal taglio corto e sbarazzino, creando rossastre coreografie. La sua pelle candida schizzata di lentigini è lucente. Non è vestita con gli abiti che si addicono ad un funerale, una semplice maglia turchese e legghins neri la coprono. I piedi sono nudi.
Si volta, il suo sorriso è luminoso, gli occhi di foresta brillano. E' bellissima.
«Me la prometti una cosa?» chiede dolce. Annuisco.
«Sii coraggiosa, ok? Qualunque cosa accada vai avanti, spingiti a limite. Sii l'eroina di chi crede in te»

«Lo sarò, per te. Sarai fiera di me»
«Oh, ma io sono già fiera di te» un sorriso «ti voglio tanto bene»
«Anch'io ti voglio tanto bene, Mamma».

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Capitolo 4
*** III. ***


III.






"La solitudine o ci fa ritrovare
o ci fa perdere noi stessi."

Roberto Gervaso





Dopo il funerale di mia madre mi ero rintanata alle pendici di un cipresso, accucciandomi in una posizione che non credevo fosse possibile. Non piansi, non mi disperai, non feci niente. Rimasi immobile a fissare i sette colli che circondavano la mia città senza chiedermi il perchè di quell'accaduto.
I giorni successivi feci come se niente fosse successo, ingnorando le lacrime di mio padre e le domande di mio fratello, che era ancora troppo piccolo per comprendere una morte.
Ma piano piano la consapevolezza della mia crudeltà iniziò a farsi largo nei meandri del mio cuore, distruggendomi. Iniziai ad osservare il vuoto, cercando la sagoma di mia madre, annusavo i suoi vestiti per conservare il ricordo del suo odore di pulito e di resina. Fissavo le sue foto per ricordarmi il suo viso. E ben presto scesi in depressione.
Mio padre mi portò dallo psicologo, per paura che fosse grave. Avanzarono delle ipotesi, tra cui la schizofrenia. Non ero schizofrenica, mi sentivo soltanto... sola.

Come adesso.
La vista di mamma nel sogno mi ha portato un'immensa euforia, per poi scemare in un complesso di solitudine.

Mi basterebbe un abbraccio, una carezza, non da qualcuno a cui suscito compassione ma da qualcuno che mi vuole bene.
Rimango così, nell'asetticità della mia camera a pensare come dovrebbe essere una vita normale.

*****

Victor Hugo. Mi ha sempre aiutato nei momenti difficili. Le sue parole colmavano i silenzi, e lo fanno tutt'ora.

"La collera può essere pazza e assurda e si può essere irritati a torto; ma si è indignati solo quando, in fondo, si ha ragione per qualche aspetto."

Tengo in mano una copia de I Miserabili, lo leggevo assieme a mia mamma. Papà lo reputava un volume troppo complicato per una bambina di dieci anni, ma lo trovavo puro. Sia nel testo che nella storia. E'stato l'ultimo libro che ho letto assieme a mia madre. Ammiro Jean Valjean per la sua capacità di cambiare e di come ha cresciuto Cosette con le proprie forze, mantenendo fede alla parola data alla madre Fantine, e Javert, che appena comprese di essere nel torto si suicida.
Uno scatto e la porta della mia camera si apre sbuffando. Una cosa appare alla porta, reggendo un vassoio colmo di cibo, scatolame più che altro.
I circuiti luminosi si intravedeno al disotto della corazza in titanio candido. La forma umanoide e la struttura massiccia li fanno assomigliare sorprendentemente ad un uomo. La cute l'hanno liscia e levigata: plastica. Sono silenziosi, i loro meccanismi non fischiano o stridono. Si muovono leggermente a scatti, ma armoniosi nei loro movimenti.
Adesso ho capito perché la cena si fa in camera, da soli. Benché in questo momento soffra di solitudine, stare assieme a qualcuno mi terrorizzerebbe.
L'Automa esce silenzioso com'è entrato, chiudendosi la porta alle spalle.
Non ho fame, perciò mi limito a giocherellare con l'insalata e la fettina di carne. Mi sforzo, devo farlo, e inizio a tagliare il pollo mettendomene in bocca i pezzi staccati.
Un conato, poi due. Mi precipito in bagno e vomito il poco che avevo mangiato assieme ai succhi gastrici. Mi lavo i denti e li sciacquo, per eliminare i residui di cibo.
Metto il vassoio sulla cassettiera e mi infilo sotto le coperte. Non ho voglia di leggere, non più, così mi limito a chiudere gli occhi. Mi addormento immediatamente. Sogno di stare in acqua.

Sto annegando. Di nuovo.


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SPAZIO AUTRICE sì, qualcuno sta scrivendo questa storia.

Spero che la mia storia vi piaccia e che non vi annoi. Ancora non è entrata nel vivo e dovrete pazientare ancora un po' per questo.
Commentate in molti con le vostre impressioni!

Olivia.

 

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