No Quiero algo que Vivir

di Chris Vineyard
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1.* One Shot ***
Capitolo 2: *** 2° One Shot ***
Capitolo 3: *** Storia di una ragazza forte ***



Capitolo 1
*** 1.* One Shot ***


Tutto quello che  voglio essere,
tutto quello che potevo essere con te.
Tutto quello che voglio vivere,
tutto quello che potevo vivere con te.
Tutto quello che voglio essere,
Tutto quello che potevo essere con te.
Tutto quello che voglio vivere,
Tutto quello che potevo vivere con te. 

 
San Lorenzo è appena passato ed ognuno l’ha trascorso a modo suo.
C’è, per esempio, chi ha stesa una tovaglia su un prato e ha deciso di fare un pic-nic serale.
C’è chi, invece, è rimasto in spiaggia per poter ammirare le stelle cadenti sdraiato sul pelo dell’acqua.
E c’è chi, come Killua Zaoldyec, ha tentato di trascinare il suo nuovo coinquilino in discoteca.
Sapeva che l’impresa sarebbe stata ardua, se non impossibile, ma voleva provarci lo stesso. Infondo, che male c’era ad andare a ballare per una, e sottolineo una, sera in discoteca?
- Kurapika, ti andrebbe di andare in discoteca?-
Gliel’aveva proprio chiesto così, chiaro e tondo, senza tanti inutili giri di parole, senza sofferenza o lacrime da coccodrillo.
Dal canto suo, il biondino, che in quel momento stava leggendo un tomo da più di mille pagine, intitolato “I Pilastri della Terra”, si era limitato ad alzare gli occhi sul suo compagno.
- Sai che non mi piacciono quel genere di luoghi.- aveva replicato inmpassibile.
- C’è anche scritto sulla lavagnetta appesa al muro della cucina.-
Perché dovete sapere che i due amici, poche ore dopo che avevano occupato l’appartamento in cui risiedevano da qualche mese, avevano segnato, contanto di pennarello indelebile, alcuni patti che avrebbero dovuto rispettare. Della serie: patti chiari, amicizia lunga, anzi, nel loro caso, convivenza lunga.
- Sì, certo, ma vorrei ricordarti la regola fondamentale della nostra lista, quella che sta in cima alla lavagnetta e che tra poco è scritta sulla cornice: accontentare per essere accontentato.- aveva replicato a sua volta l’albino.
 Un sorrisetto leggermente beffardo si era dipinto sulle sue labbra, tuttavia, aveva preferito scacciarlo subito. Ritenendo che forse era meglio non mandareall’aria tutti gli sforzi fatti per ottenere quell’uscita tanto agognata, dopo giorni e giorni di duro lavoro per ristrutturare quella casa.
Il Kuruta lo stava fissando con sguardo incerto, quasi sicuramente, si stava domandando quali fossero i vantaggi e gli svantaggi, i pro e i contro, che avrebbe potuto trarre da quella serata in discoteca.

 
- E dai, Kurapika! Ti decidi a parlare, sono le undici e mezza passate!-
Incredibile ma vero; Killua e Kurapika erano rimasti per più di un’ora e mezza l’uno di fronte all’altro, con l’albino che trasudava dal sonno e, di tanto in tanto incrociava le braccia al petto in segno di sdegno.
Odiava quando le persone lo facevano aspettare per tanto tempo. E ancor di più odiava starsene fermo in piedi.
- Lo stai facendo apposta, vero? Aspetti che crolli dal sonno per andare a letto?- gli aveva detto, avvicinandosi.
- No, davvero. E’ solo che io non ci sono mai stato. Molte pelo descrivono come un posto malfamato, dove girano: droga, alcool e bullismo. Altre...-
- E a te che cavolo te ne frega!?- aveva esclamato il compagno stizzito.
- Dai, sono stufo di giocare alle belle statuine.- aveva sbottato Killua, tirandolo per una manica della camicia.
- E va bene, e va bene, ma io non ho nel mio armadio: pantaloni corti o camicie hawaiane.-
- Non ti servono!-
Ore 24.
Killua e Kurapika si trovavano all’interno della loro automobile, una Lamborghini nera posseduta per anni dalla famiglia Zaoldyeck e regalata all’albino per il suo diciottesimo compleanno.
- Dai, dai, chiudi quella dannata portiera che non sto più nella pelle!- stava sbraitando il conducente, che ovviamente era Killua.
-  Un attimo! Non posso mica schiacciare una povera ed innocente coccinella.-
Di fatto, sul bordo dello sportello del passeggero, c’era una minuscola coccinella che tentava di arrampicarsi sul finestrino dell’auto. Peccato che un raccoglitore di CD, incastrato nella tasca della portiera, le stava impedendo di riuscire nell’impresa.
-  Ma tu guarda: una coccinella in macchina! Proprio durante la notte di San Lorenzo. Coincidenza, vero signor “Le coincidenze e i miracoli si verificano in casi fortuiti e alquanto rari?”-
- Vero.- aveva risposto l’altro a mezza voce, mentre stava cercando di acchiappare col pollice e l’indice della mano il piccolo insetto per posarlo a terra. Il problema era che l’animaletto adesso aveva una zampetta incastrata nella cerniera del raccoglitore di dischi.
- Senti, è mezzanotte e un quarto. Il motore si sta surriscaldando e non va bene.
 I fari dell’auto stanno abbagliando le finestre della super villa dei nostri vicini, e non va affatto bene!
 Insomma, io parto!-
Detto, fatto.
Lo Zaoldyeck aveva premuto col piede destro il pedale dell’acceleratore, sebbene lo sportello del passeggero fosse ancora spalancato.
Frattanto, l’allarme della macchina aveva cominciato a suonare, svegliando, così, tutti i loro vicini e non solo.
- Killua, Killua, KILLUA!- gridava intanto Kurapika, che per timore di un incidente, aveva chiuso la portiera.
Bisogna dire che l’amico non aveva sentito nemmeno uno dei suoi urli, dal momento che aveva messo il volume della radio al massimo.
- In quell’istante, una stazione radiofonica aveva mandato in onda una canzone degli AC/DC, un gruppo che all’albino piaceva un sacco, anzi no, un mondo!
Dopo poco più di tre ore di strada, di cui:
 una di coda;
 l’altra di lite con i vigili urbani per evitare una multa da 100 mila Geny per eccesso di velocità
 e, l’ultima, ma non meno estenuante, per cambiare una gomma che si era forata, proprio quando mancavano solo 50 metri all’arrivo, i due giovani erano, finalmente, giunti a destinazione.
Le peripezie, però non erano finite qui.
Infatti, dopo aver girato a 360 gradi e per 45 minuti, il parcheggio del locale, Killua aveva dovuto pagare caro una coppia di sposini ubriachi fradici, affinché cedessero loro il posto.
Ma se pensate che basti così poco per accedere all’interno della discoteca più famosa della città, bè, vi sbagliate, e di grosso!
Prima di tutto, i nostri due amici dovettero fare un’ora di fila per mostrare la loro licenza di Hunter.
Dopo di che, compilare un modulo di trenta pagine, in cui, in sostanza, c’era scritto che, qualora fosse accaduta loro qualsiasi cosa, o avessero combinato qualunque cosa, il personale del locale non se ne sarebbe assunto la responsabilità.
- Ma che razza di modulo è!?- aveva detto Killua, sbuffando peggio della canna fumaria di un camino.
- Un modulo studiato papposta per non essere costretti poi a risarcire eventuali danni.- aveva concluso il biondino, mentre compilava anche il questionario dell’altro, il quale era tutto intento a brontolare peggio dello stomaco di Bohara.
 
Prendi le mie mani e baciami,
portami dove ti porterei,
dimmi cose da non crederci.
Portami fuori di me!
Dentro di noi.
Fuori di me!
Dentro di noi.
Di noi, di noi.

 
Musica a tutto volume.
Persone che ti sfiorano continuamente, ballando.
Risate, grida, schiamazzi ovunque.
Rumore di bicchieri di vetro che tentennano.
Tutto questo e molto altro ancora era ciò che stavano vivendo Killua e Kurapika.
All’inizio era stata dura trascinare il Kuruta in mezzo alla mischia. Non gli era bastato sapere e, constatare lui stesso, che nessuno bada apiù di tanto alle persone che ha attorno, specie se sono estranei.
Alla fine, l’albino aveva adottato un’altra strategia.
- Vabbè, io vado a ballare. Se vuoi venire, sai dove trovarmi. Ma ti avverto, non fare come Gon quando siamo andati allo zoo!-
 
Gon: - Ma dove si sarà nascosto Killua?
 Leorio, tu l’hai visto?-
Leorio: - Ehm... L’ultima volta che l’ho visto, era nella gabbia dei leoni.-
Gon: - Ok, allora vado a cercarlo lì.-
Dieci ore più tardi.
Gon: - Dai, Killua, non è divertente nascondersi per così tanto tempo, senza spuntare fuori!-
- Attenzione, prego. Si ricorda ai gentili visitatori che tra venti minuti il personale dello zoo chiuderà i cancelli.-
Gon: - Ecco. Sentito, Killua? Quindi esci fuori!-
- Attenzione, prego. Si invitano i gentili visitatori a recarsi verso l’uscita della struttura entro, e non oltre, le ore diciannove.-
Gon: - Mancano 5 minuti. Mi sa che Killua si farà vivo, solo quando saranno le sette, ameno che...-
- Ehilà a tutti, sono Gon!
 Killua, dai basta giocare a nascondino. Non è divertente nascondersi per così tanto tempo, hai capito?-
Killua: - Ma che... Uff... Che schifo, senti ciccione di un orso, io non sono la tua lettiera!-
- Ripeto, KILLUA, ESCI SUBITO FUORI!-
Killua: - Gon, ma che cosa sta facendo?
 Oh no, mi ha fatto chiamare dalla reception!-
 
Killua era vicino a un gruppo di ragazze della sua età, che stavano chiacchierando animatamente, quando, a un certu punto, si sentì prendere per le
spalle.
Era Kurapika.
- Ti sei deciso, eh?- gli aveva chiesto, ridendo con aria sorniona.
- Più o meno.-
- Dai che ci penso io a scomporti un po’.-
- Che cosa intendi?-
Ma il biondo si era dovuto trattenere: infatti, il suo compagno gli aveva posato frettolosamente una mano sulle labbra. Poi, gli aveva cinto la vita con un braccio, facendogli segno di muovere il bacino a destra e a sinistra.
Durante la canzone successiva, le persone lì presenti formarono alcuni gruppi. In uno di questi c’erano anche i due ragazzi, i quali alzavano le mani, ogni volta che il DJ diceva di farlo.
Il ballo seguente, invece, prevedeva che si saltasse e si facesse la giravolta.
 Alla fine, però, a furia di salti, Killua era riuscito persino a fare lo sgambetto al suo migliore amico, il quale ricambiò puntualmente.
- Mi ricorda un po’ un ballo dove si salta sempre.- aveva detto Kurapika all’orecchio dell’altro.
- Ah, davvero, e come si fa?-
- Ehm... Beh...-
Senza rendersene minimamente conto, il biondo aveva finito per eseguire di sua iniziativa una coreografia.
- Ah, capito. Salto interno. Salto esterno. Cambio braccio con il compagno. Bellino!-
- Era un passo di danza di un ballo tipico del mio clan.-
Nell’udire ciò, Killua si era arrestato di colpo per un attimo.
 Da che aveva memoria, Kurapika non aveva mai parlato delle tradizioni della sua tribù; se l’aveva fatto in quel momento e con lui al suo fianco, allora poteva significare due cose: primo, che si stava divertendo; secondo, che lui, Killua Zaoldyeck, era stato capace di infondergli fiducia, fino a spingerlo a proferir parola su un argomento che riguardava sì il suo clan, ma che, almeno per una volta, non includeva le parole sterminio, vendetta.
- Non ci hai mai raccontato niente delle usanze che erano in voga dalle tue parti...- gli aveva sussurrato all’orecchio, eccitato. – -Caspita, siamo a buon punto!-
Dal canto suo, il Kuruta si era limitato a sorridere debolmente.
Killua pensò di coglierlo alla sprovvista, abbracciandolo calorosamente, tuttavia, ben presto finì per accantonare quell’idea.
Era meglio non rischiare, dopotutto, quella sera avevano già fatto dei grossi passi avanti in fatto di fiducia e scioltezza.
- Ehi, ma che fai?-
Non se n’era reso conto, ma proprio mentre stava riflettendo, il biondino gli aveva preso una mano, l’aveva sollevata e gli aveva fatto eseguire una giravolta.
Se anche quella notte non fosse stata la notte di San Lorenzo, Killua sentiva di essere stato anche troppo fortunato. Aveva ottenuto gran parte dell’appoggio del suo amico.
- Ti va un drink?- aveva proposto alla fine di una canzone. – A forza di Ah! OH! EH! Mi si è seccata la gola e sono tutto sudato.-
L’altro aveva acconsentito entusiasta.
Quando furono di fronte al banco delle bevande, ordinarono: il biondo, una limonata; l’albino, una granita alla menta.
E’ vero, di norma, Killua era solito prendere degli alcolici, ma per il momento non gli andava.
Voleva rimanere lucido per godersi il lato più sciolto del biondo.
Di quel ragazzo così perennemente serio.
Di quel ragazzo così perennemente freddo.
 

Tu non sai cosa può fare,
Una donna innamorata,
UNA DONNA INNAMORATA DELLA VITA COME ME!
Posso correre sul filo,
Dove scorre la corrente.
Posso credere al futuro,
stare persa tra la gente.
 

Siccome la discoteca si trovava nei pressi di un porto, i due ragazzi decisero di uscirvi e di andare a fare due passi lungo il lungo mare.
Kurapika era rimasto sorpreso dal fatto che al mondo potessero esistere discoteche all’aperto. Era bello, secondo lui, poter ballare sotto lo sguardo vigile della Luna e delle stelle.
Di fronte a quella considerazione, l’altro non poteva fare ameno di sorridere compiaciuto. Non per nulla, l’aveva condotto nella discoteca più famosa e prestigiosa della città e, quindi, era naturale apprezzarla.
Passo dopo passo, la coppia era giunta dinnanzi ad una casa galleggiante.
Decisero, dunque, di scattare una foto, per immortalare per sempre quel magnifico momento. E, a dir la verità, nessuno dei due aveva mai visto con i propri occhi una casa galleggiante.
Subito si posizionarono l’uno accanto all’altro su un lato dell’edificio.
“Chak!”
La foto era stata scattata e con loro grande meraviglia, era accaduto un miracolo in piena regola!
In alto a destra, dietro la ciminiera della casa, era spuntata niente di meno che… Una stella cadente.
Subito, i due si voltarono di scatto per vedere se essa fosse ancora visibile in cielo, ma invano.
Era già sparita nel buio della notte.
- Ci pensi, Killua, ci siamo fotografati con una stella cadente alle nostre spalle. Non è fantastico?-
- Sì.-
Killua si sentiva veramente felice. Non tanto per aver visto, per la prima volta in assoluto,una stella cadente, quanto perché aveva scattato la sua prima foto con Kurapika.
- E al diavolo il fatto che dice sempre di non essere fotogenico!- aveva pensato tra sé, nel rivedere l’immagine.
- Killua.-
Kurapika si era seduto su uno scalino posto in prossimità del porto, gli occhi rivolti verso il cielo, in particolar modo, verso la regina del firmamento.
- Grazie.-
Ecco, l’aveva detto.
Adesso sarebbe anche potuto cascare un meteorite, che tanto lui aveva detto tutto quello che sentiva di dover direa chi l’aveva reso felice anche solo per una sera.
Adesso poteva anche venire giù il diluvio universale, che tanto a lui non sarebbe importato più di niente.
Ora, però, meglio non continuare ad evocare fenomeni atmosferici poco gradevoli, giacché, per l’appunto, ha iniziato a piovigginare, pur essendo il cielo sgombro di nuvole.
Nel frattempo, Killua si era accovacciato di fianco al biondo, esterrefatto.
- E di che cosa?- gli aveva chiesto a bassa voce. Non voleva rovinare quel momento così particolare e, in un certo senso, anche sacro.
- Per avermi fatto ricordare dei bei momenti vissuti insieme ai miei amici e agli altri esponenti del clan.- 
Chiunque, Killua compreso, avrebbe creduto che il biondo dicesse chissà quali cose, per poi rimanere di sasso di fronte a quest’affermazione.
Tuttavia, se una persona fa, involontariamente, riaffiorare dei ricordi a lei cari, ma che sono rimasti nascosti per tanto tempo, allora non possiamo fare altro che gioire insieme a lei.
Troppe volte, nella nostra vita, ci capita di ricordare una marea di azioni compiute contro di noi o a nostro svantaggio.
Come, del resto, troppe volte ricordiamo più facilmente tutti i nostri sbagli e tutte le bugie dette a quella o a quell’altra persona per ingannarla.
La nostra memoria è un po’ come il vaso di Pandora; alla fine, seppur con qualche sforzo e, talvolta, in casi rari, riportiamo a galla anche le perle del nostro passato.
Non tutte le onde sono alte e minacciose.
- Ma soprattutto, grazie per avermi fatto provare emozioni nuove.- aveva aggiunto, posando lo sguardo su di lui. - Mi sono divertito. Devo ammetterlo, le discoteche non sono poi così orribili come si dice.-
- Te l’avevo detto io!-
Il ragazzo dai capelli bianchi non aveva potuto trattenersi dal ridere, nel sentire il compagno dargli ragione, almeno per una volta.
- Sai, sono due anni che frequento questa discoteca. Non ci vado molte volte, ma quando ci vado, mi diverto! E per questo motivo, volevo condividere con te uno dei miei divertimenti preferiti.-
Pausa.
Killua si stava contorcendo nervosamente le mani. Era la prima volta che gli capitava di fare una cosa del genere. Pensava che ciò l’avrebbe aiutato a trovare le parole giuste da dire in quella circostanza.
- La verità è che...- aveva esordito, smettendo di far aggrovigliare tra loro le dita. – - Io, uando sono in mezzo a tutta quella gente che ride e scherza anche per una sciocchezza, dimentico il mio passato da assassino e penso solo a divertirmi.
Conoscere te, Gon e Leorio, mi è stato di grande aiuto.
 Però, stare per qualche ora insieme a un sacco di persone felici, mi fa dimenticare il lato schifoso del mio passato.
 Non dico di odiare quello che sono stato, perché sarei un bugiardo, però uccidere: oggi, un uomo;
 domani, un altro;
 dopo domani, un altro ancora, è terribilmente seccante.
 Meno male che all’età di 12 anni, ho scelto di emanciparmi definitivamente dalla mia famiglia.
Io non sono come loro.
Io mi annoio a morte se devo fare tutti i giorni le stesse cose nello stesso modo.
Io voglio avere una vita imprevedibile.
Una vita, sì, piena di pericoli, ma soprattutto, di avventure.
Giudicami pazzo, ma prima capiscimi.
 Da piccolo, mi svegliavo: Killua, oggi, devi uccidere tizio;
 Killua, oggi, devi uccidere Caio e Sempronio;
 Killua, domani devi ammazzare Marco Aurelio e Giulio Cesare mentre si fanno la doccia.
E che diamine!
Che colpa ne ho io, se i miei genitori non riescono ad arrivare mai a un compromesso con le altre persone e, per questo motivo, devono per forza eliminarle!
Mi avessero pagato poi, per tutti quegli omicidi. Col Cavolo!-
Tutt’ad un tratto, l’albino si era bloccato, tappandosi la bocca con una mano.
- Scusa, ho straparlato.-
- No, no, tranquillo.- l’aveva rassicurato l’altro, posandogli una mano su una gamba. – Continua pure a sfogarti, se lo desideri.-
- No, no, grazie.-
- Comunque, grazie anche per l’insegnamento moralistico che mi hai appena trasmesso. Cercherò anche io di lasciarmi alle spalle tutto il rancore che provo nei confronti della Brigata, sebbene sia riuscito a sterminarne tutti i membri.
Grazie, Killua.-
Dopo di che, nessuno dei due aveva più avuto intenzione di parlare.
Entrambi si erano persi nella contemplazione di punti indefiniti del cielo.
- Ti va di riandare a ballare?- aveva domandato, a un certo punto, Killua.
- Sì, perché no.-
- Aspetta. Prima fammi tirare qualche pietra in mare!
L’ho sempre fatto con mia sorella, solo che lei
Non azzecca mai un pesce.-
Presto fatto, l’albino aveva incominciato a raccattare pietre a destra e a manca, per poi scagliarle in mare e godersi il sonoro “Ploff!” che si sentiva non appena esse si scontravano con la superficie dell’acqua.
Intanto, Kurapika l’osservava.
Osservava minuziosamente i singoli gesti che faceva: dal primo, che consisteva nel cercare sempre i sassi più grossi; all’ultimo, ossia quando li lanciava a mo’ di dischi volanti.
Il ragazzo biondo non sapeva perché, ma gli scappava continuamente da ridere, ogni volta che una pietra veniva a contatto contro il pelo dell’acqua, producendo un sonoro “Ploff!”
Certo, tirare le pietre non è un gioco intelligente, tra l’altro, si corre il rischio di colpire qualche pesce, cosa che l’albino stava facendo ripetutamente, però, al di là dell’intelligenza, svagarsi un po’ non gli avrebbe causato dei problemi.
Infondo, questo non era incluso nella lezione che gli aveva insegnato Killua?
Gioire anche senza un motivo.
Essere felice in maniera fanciullesca.
Godersi la vita, o meglio, come sosteneva il poeta latino Orazio: - Carpe diem, quam minimum credula postero.-
- Ok, credo di aver tirato un centinaio di sassi. Posso ritenermi soddisfatto.- aveva affermato colui che aveva iniziato il gioco.
- Aspetta, devo ancora fare il tiro perfetto!- si era lamentato l’altro, sconcertato.
- Dì la verità,hai paura ad uccidere un pesciolino innoquo. Guarda che ti ho visto; miravi apposta lontano dai pesci quando li vedevi emergere a galla!- l’aveva rimbeccato il primo, mentre si stava sfregando le mani. – Si vede che hai ucciso delle persone per vendetta e non per piacere. Sei troppo buono.-
- Dici sul serio? Non paventi la possibilità che possa strangolarti mentre dormi?-
- Forse, ma non credo che accadrà tanto facilmente.-
- Killua, guarda che cosa mi è capitato tra le mani!?-
L’interessato si era avvicinato per dare un’occhiata e...
 

Prenditi quello che meriti,
un amore senza limiti.
E non provare a farmi credere,
Quello che non puoi concedermi.
 

Ciò che, per puro caso, era capitato tra le mani del Kuruta, era una piccola pietruzza biancastra a forma di stella.
Nello stesso attimo in cui ambedue l’avevano vista, si erano scrutati negli occhi.
Le loro iridi riflettevano la luce del mare di giorno.
 Luccicavano, non d’amore; no, era ancora troppo presto per parlare d’amore e, molto probabilmente, non sarebbe stato mai possibile parlarne.
No, i loro occhi luccicavano di sincera e spassionata fratellanza.
Non sentivano di desiderare l’uno il corpo dell’altro. Magari era ancora troppo presto, ma sentivano di volersi bene esattamente come due persone che si conoscono da una vita.
Esattamente come due persone che hanno condiviso un sacco di cose: arrabbiature, battute, insegnamenti di vita.
Certo, questa potrebbe sembrare una frase fatta, tuttavia,
bisogna ammettere che, per quanto ciascuno di noi possa essere unico ed irreducibile nel suo genere, ci sono dei sentimenti che, almeno una volta nella vita, abbiamo provato tutti, anche chi è nato figlio unico.
Così, sotto lo sguardo solenne di sua maestà la Luna e del suo seguito, Killua e Kurapika si abbracciarono.
Niente di più, niente di meno.
Perché i fratelli si abbracciano, nei momenti in cui non sono intenti a: litigare, prendersi in giro o scazzottarsi a vicenda.
Nessuno dei due avrebbe saputo dire per quanto temp rimasero uniti, intrecciati.
Nella mente di Kurapika si era fatta nitida l’immagine di lui e il suo amico Payro.
 Si erano abbracciati in accappatoio, dopo l’ennesima discussione avuta semplicemente perché quest’ultimo gli aveva sbandierato in faccia la sua testardaggine ed egli l’aveva liquidato, dicendo: - Sì, sì, certo.-
 - Oh NO!- aveva urlato all’improvviso il ragazzo dai capelli bianchi, distogliendo tempestosamente l’altro dai suoi pensieri.
- Che cosa….- stava per chiedere l’altro, quando si sentì trascinato violentemente in avanti
”Splaff!”
Erano caduti in acqua.
Le loro teste riemersero una dopo l’altra.
- Scusa…- aveva provato a sillibare Killua, trattenendo a stento un risolino che gli stava salendo alle labbra.
- L’hai fatto apposta, CONFESSA!- aveva gridato di rimando il biondo, ridendo anche lui, seppur meno sguaiatamente del compagno.
- Dai, quando mai abbiamo fatto un bagno di notte?-
- Sì, in un porto, in mezzo alle barche a vela…-
- Appunto, insieme ai pesci grossi, alle navi…-
Avevano continuato a giocare a botta e risponda per un paio di minuti.
Nel frattempo, un grosso squalo bianco era guizzato fuori dall’acqua e poco mancò che Killua non gli salisse sulla groppa.
Glielo impedì il fatto che l’animale, come li aveva visti, si era rituffato nel mare ed era sparito nell’oceano.

 
Portami dentro la musica,
fatta dei nostri battiti
e non lasciare agli altri il gusto.
Questa è la tua vita, alzat

 
 - Bè, torniamo a ballare?- aveva chiesto l’albino, con un tono misto tra lo stizzito e l’amareggiato. Della serie: - Io volevo solo montarti in groppa… Squalo cattivo!-
Kurapika aveva annuito ed insieme si erano nuovamente avviati all’entrata della discoteca.
Questa volta, con grande soddisfazione di entrambi, non c’era da compilare nessun modulo, dato che erano già entrati in precedenza nel locale; sicché poterono gettarsi immediatamente in pista.
Non si sa per quanto tempo ballarono, d’altronde, mica si bada a leggere l’orologio, quando ci si diverte.
Inoltre, il tempo, questa volta, trascorreva più velocemente, perché avevano trovato una buona compagnia. Un gruppetto di coetanee abbastanza simpatiche.
Si presume che avessero finito di danzare, solo quando, alle sei del mattino, il locale dovette chiudere.
Fortunatamente, però, al ritorno a casa non si erano verificati incidenti, tranne il fatto che avevano consumato tutto il carburante e, quindi, erano stati costretti a chiamare un carro attrezzi.  
 
 


 
Angolo dell’autrice:
Buongiorno a tutti!
Era da tempo che avevo intenzione di pubblicare una raccolta di song fic.
Però, fino ad ora: abbozzavo qualcosa; dicevo che era interessante e il giorno dopo non mi piaceva più.
Ad ogni modo, questa raccolta spero vi piaccia.
Aggiornerò ogni qualvolta avrò l’ispirazione e la sicurezza di non aver scritto delle sciocchezze.
Sono ben accette le critiche, purché siano cosytuttive. Dopotutto, ho voglia di migliorare per rendere la lettura dei miei scritti più gradevole.
A presto!
Chris Vineyard
 
P.S. So bene che nel testo della canzone c'è scritto: "Una Donna innamoratta...", però mi servivano comunque le altre parole.
Detto questo, buona lettura!

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Capitolo 2
*** 2° One Shot ***


Dae meda, meda tempus,
 Bos cuntzedo sa carena mia.
Fachidemi isperare chi,
cuntivizades a mie.
Deo soe sa ‘ostra
Mama de Sa Terra… (1)
 
 
Si arrende anche la Luna alla bellezza,
il mare la sua splendida corazza.
Conserva la sua storia nella terra.
Concede un ballo solo a chi sa amarla.
 
 

Pedalò.
 A mio parere, il mezzo di trasporto per eccellenza.
Un mezzo di trasporto misto tra un tandem e un vascello.
Tu sai quanto mi piace andarci…
Pedalare, pedalare… pedalare.
Pedalare, fino a non avere più fiato nei polmoni.
Pedalare, fino a non sentire più il peso di queste gambe sgraziate.
Pedalare, finco a sentire il cuore martellare nel petto a mo’ di tamburo che suona la tarantella.
Pedalare, per dimenticare…
Dimenticare, anche solo per un istante: chi sono qua giù; quali fatiche ho dovuto affrontare; ma soprattutto, quali umiliazioni ho dovuto subire…
Vivere un mese lontano dai miei genitori, mi ha permesso di sviluppare le mie potenzialità, di far accrescere la mia autostima e, quindi, di sentirmi più forte; non così impotente di fronte agli ostacoli.
Ed ora eccomi qui, insieme a te, amico mio, a pedalare adagio adagio.
Undici anni orsono che ci conosciamo, eppure, ho come la sensazione che ciascuno di noi abbia ancora un mare di cose da raccontare al suo compagno d’avventura.
Per esempio, io non ti ho mai narrato di quella volta che, da bambino, mandai giù un grosso pezzo di carne di manzo. Subito iniziai a tossire in maniera convulsa: di fatto, il boccone si era incastrato all’altezza della faringe e, dal momento che era parecchio grosso, si era bloccato lì, tappando le vie respiratorie.
Fortunatamente, mia madre mi afferrò per un braccio, tirandomi su in piedi. Dopodiché cinse con le braccia i miei addominali ed eseguì per cinque volte la manovra di Heimlich (2).
Tutto è bene, quello che finisce bene.
Sì, lo so, non bisogna sdrammatizzare su questi fatti. Però, vedi, malgrado la mia malattia, io ho tanta voglia di vivere.
Sì, lo so che lo sai e che te l’ho già detto in passato. Tra l’altro, mi hai anche lodato più di una volta per la mia forza di volontà. Però è sempre bene ribadirlo, più che altro per convincere me stesso, perché, dopotutto, se nemmeno io credo alle affermazioni che faccio, allora sto solo dando aria cattiva ai nostri polmoni.
Caspita, siamo già arrivati alla punta della scogliera!
Guarda, Kurapika…
 
 
Distese di fiori.
Onde di colori.
L’erba invocava la sua terra,
da ogni montagna.
Fonte scaturiva,
per abbracciare il padre oceano.
 

 
sembra giorno, sebbene nel cielo risplenda sua maestà la Luna.
Si vedono così nitidamente i vari tipi di fiori: alla nostra destra, ci sono delle calle bianche, simbolo di purezza e di una nuova vita; mentre a sinistra, rifulgono di luce tanti tulipani, con i petali che riproducono i sette colori dell’arcobalen, quasi volessero elevare alla settima l’amore che provano per la nostra terra.
Di fronte a noi, vedo delle… come, scusa? Ah sì, hai perfettamente ragione, sono delle Iris. Come non riconoscere i loro pistilli arancioni e il grosso petalo celeste.
Se non ricordo male, l’iris è il tuo fiore preferito…
No, no, ricordo bene.
D’altrocanto, avere la memoria eidetica (3) è una benedizione del cielo. Tuttavia, io non gioisco più di tanto per questo, al contrario, ciò di cui mi rallegro un’infinità è l’averti incontrato e conosciuto.
Fiducia, sincerità e saggezza, questto è ciò che simboleggia l’Iris. Di fatto, sono anche le tue qualità primarie. Qualità che ti rendono l’amico perfetto, o forse no? No, vabbé, diciamo che ti rendono speciale e tu lo sai.
- Payro.-
- Dimmi.-
- Non te ne andare..-
quattro parole.
quattro semplicissime parole.
Eppure, sono parole che per me hanno un effetto curativo.
Sì, perché fanno più effetto queste quattro parole, di mille cucchiai di propoli. (4)
- Davvero…-
- No, non me ne andrò, Kurapika.-
Non c’è bisogno che tu mi dica altro, amico mio. Entrambi sappiamo capirci alla perfezione pronunciando, sì, poche parole, ma gettandoci a vicenda sguardi intensi.
Non c’è bisogno che ti comunichi verbalmente i sentimenti che provo quando mi trovo al tuo fianco. Quella strana tensione che si impadronisce completamente delle mie gambe, facendole fremere, quasi fossero fili di spago che ondeggiano sul pelo dell’acqua.
Sì, perché, come tu stesso mi hai spiegato, lo spago è più leggero dell’acqua e, quindi, galleggia, senza mai affondare.
Chissà che cosa accadrebbe se… - Kuff…-
- Kuff…-
- Kuff, kuff.-
- KUFF, KUFF!-
- Payro…-
Maledizione, di nuovo…
- Payro!-
Non adesso… non deve succedere adesso.
Devo… Calmarmi…
Non. Riesco. A. respirare…
Maledizione…
- Kur… Kuff, kuff…-
“Flash!”
 
 
Niùne l’ischetchi sas neulas dansant,
Chin cada amina foras che a mie. (4)
Perché anche il cielo l’ha capito subito,
che non può farci niente se non vedo luce se non sto con te.
 
 

Pov. Kurapika.
- NO!-
Urlo con tutto il fiato che ho nei polmoni, prima di scavalcare con ambedue le gambe lo scivolo del pedalò e buttarmi in mare.
L’acqua è tremendamente gelida, ma questo non è il momento per le considerazioni.
Cerco di trarre un profondo respiro, sebbene l’ansia e l’agitazione si stiano impadronendo del mio corpo, impedendomi di respirare in maniera adeguata.
Dopo di che, m’immergo.
Inizio a scendere in profondità, il più velocemente possibile. Purtroppo, però, questa non è un’impresa affatto facile, poiché non riesco a vedere praticamente niente.
M’impongo di restare calmo, anche se so che è matematicamente impossibile, dal momento che la posta in gioco è la vita del mio migliore amico.
Smetto per un attimo di nuotare; ho bisogno di avere almeno una certezza: sapere la mia posizione.
Lancio un’occhiata rapida verso il cielo. Impossibile distinguere una stella di preciso, anche perché gli occhi stanno cominciando a bruciarmi.
Adesso, oltre all’ansia e all’agitazione, rischio di essere soggiogato da un altro sentimento, ossia la paura di perderlo per sempre.
Per niente al mondo vorrei che Lui morisse soffocato per causa mia.
Non me lo perdonerei mai.
Vivrei, se mai avessi ancora abbastanza coraggio per vivere, con un rimorso grande tanto quanto questo mare che si sta portando via Payro.
Basta, ho deciso: non mi interessa più avere una stella di riferimento, né posso fare anche a meno.
Riprendo, dunque, a nuotare in profondità.
Credo di trovarmi più o meno a cinque metri di distanza dalla superficie.
Di Lui, nemmeno l’ombra.
Continuo a scendere sempre più in basso. Ormai non vedo più niente, per questo motivo mi affido molto al senso dell’udito e a quello del tatto.
Chiudo gli occhi, un po’ per non percepire il bruciore e, un po’ per poter lasciare campo libero al primo dei dueo.
Tendo le orecchie, con la speranza di cogliere qualche suono che possa indicare un movimento.
Aspetto…
Cerco di non muovere per un attimo le gambe e le braccia.
Niente.
Ritento l’operazione una seconda volta.
Attendo…
Ancora niente… O forse…
- PRR!-
Come una scheggia mi fiondo sul lembo di pelle umana che mi pare di aver toccato con la pianta del piede sinistro.
Nuoto più veloce che posso, spalancando gambe e braccia a 180 gradi.
Ecco, di nuovo quel contatto.
Accelero.
Tendo entrambe le mani per tentare di acchiappare quel tessuto di pelle umana, ma dev’essere lontano.
“Spunk!”
Urto il fianco sinistro contro una roccia, che a giudicare dal dolore lancinante che avverto su tutto quel lato del corpo, dev’essere grossa.
Ma certo, la grotta della Passione!
Di nuovo quello strato di pelle…
Appoggio un piede su una roccia per potermi dare uno slancio in avanti.
Ecco… preso!
Sì, è Lui, ne sono sicuro. Riconosco gli intarsi che decorano il suo costume da bagno.
mi accosto per bene al corpo, tastandolo freneticamente nella disperata ricerca di una mano per poterlo trascinare in superficie.
La mia ricerca può dirsi frenetica. Talmente frenetica da non riuscire a portarla a termine.
In questo preciso istante la testa sta iniziando a girarmi vorticosamente.
Sento che potrebbe scoppiare da un momento all’altro…
Ho bisogno di…
“Spunk!”
“Spunk, spunk!”
“Spunk!”
“Prunk!”
- Ff… ffsss… ff… ff…-
Sono riuscito a risalire per miracolo, credevo di soffocare.
Soffocare…
- Oh no, Payro!-
“Flash!”
Mi rimmergo nella gelida acqua del mare della nostra terra.
Questa volta, però, non avverto i muscoli del corpo rattrappirsi per il freddo. Ad essere sincero, devo dire che ho la strana sensazione di sentirmi tale e quale a una conchiglia. Non ho più la percezione del peso del mio corpo, dovrei forse rallegrarmi? Oppure preoccuparmi? O ambedue le cose insieme?
Inoltre, questa volta scendo in profondità a gran velocità, visto che non c’è un secondo da perdere.
Scendo in picchiata, malgrado corra il rischio di sbattere contro una roccia da un momento all’altro…
Scendo…
Scendo, sempre più giù…
Adesso avrò superato i sette metri di distanza dalla superficie dell’acqua.
se non ricordo male, la grotta della Passione è situata a un’altezza pari a quindici metri di profondità. In poche parole, essa è la soglia che bisogna varcare, prima di addentrarsi ufficialmente negli abissi.


Continuo a scendere in picchiata…
Devo sbrigarmi, altrimenti poi non avrò le forze necessarie per risalire insieme a Payro.
“Tunf!”
Ecco, ci siamo.
Allungo il braccio sinistro in cerca dei grossi massi che compongono la parete della grotta, nel frattempo, continuo a nuotare, o per dire meglio, a correre.
Non ci impiego molto a trovare il corpo inerte del mio amico: infatti, la sua sagoma giace proprio nel punto in cui ricordo dui averla lasciata.
Mi chino lievemente e, per mia fortuna, la prima parte del corpo che tocco è una mano. Gliela stringo forte; più che altro per rassicurare me stesso e non lui.
In quattro e quattrotto adagio il suo addome contro la mia schiena, preparandomi ad uscire dalla caverna.
Inizio a muovermi a tentoni, perché ho il timore di sbattere contro qualche roccia appuntita. Non tanto per preservare il mio corpo da eventuali lesioni, quanto per impedire che Payro soffra ulteriormente.
Calpesto, una dopo l’altra, le pietre che conducono all’uscita della caverna. Procedo con passo spedito, quantunque debba stare sempre ben attento a dove poggi i piedi.
Finalmente, dopo aver messo i piedi su due rocce più sgretolate delle precedenti, comprendo che da qui in poi si tratta solo di salire su in superficie.
Ahimé, come temevo; l’operazione non è per niente semplice. Il corpo pesante, non per natura, del mio amico fa rallentare i miei movimenti, rendendo, così, la salita più dura e faticosa del previsto.
Ma a parte questo, ciò che veramente mi preoccupa è il fatto che non so per quanto tempo ancora sarò in grado di trattenere il fiato. Pertanto, la testa potrebbe ricominciare a girarmi da un momento all’altro.
Senza pensarci troppo, decido, di scostare la schiena di Payro dalla mia, cosicché possa tenerlo solo per mano.
Fatto ciò, mi do una spinta violenta con la gamba sinistra e, poco a poco, iniziamo a risalire.
È un’impresa vera e propria, molto impegnativa, ma soprattutto, stancante. non so di preciso per quanto ancora potrò resistere.
Sto iniziando a sentirmi seriamente male: percepisco una certa tensione alle tempie e per di più i muscoli degli arti sembrano appesantirsi ad ogni movimento.
Spero solo di farcela.
Lo spero con tutto il cuore…

No, non devo sperare di farcela. Devo pensare di farcela!
Devo crederci!
Voglio crederci!
Richiudo nuovamente gli occhi, mentre piego il busto leggermente in avanti.
Muovo le gambe e il braccio libero come un forsennato.
Li muovo come se dovessi scappare, anche se in vita mia non sono mai scappato di fronte al pericolo, al contrario, l’ho sempre affrontato. Perché è questo il principale insegnamento che mi ha trasmesso Payro: vincere le sfide di ogni giorno per continuare a sopravvivere.


“Scrash!”
- Ff… Ssh… ffsss…-
Bene, siamo riemersi…
Dov’è il pedalò…?
Eccolo là. Devo sbrigarmi, non c’è un secondo da perdere. le dita della mano di Payro sono raggrinzite, o per meglio dire, cianotiche.
Lo sconforto sta per assalirmi, per poi ricacciarmi giù negli abissi, ma io non glielo permetto. Dopotutto, sono o non sono un ragazzo forte? Certo, anche molto sensibile, ma soprattutto, forte.
Una volta che ci siamo avvicinati al pedalò, mi aggrappo con una mano al primo gradino della scaletta che serve per montarvici sopra. Infilo un piede sullo scalino su cui avevo precedentemente appoggiato la mano.
Mi rendo conto di non poter salire con il corpo dell’infortunato agganciato, è troppo pesante per me. Inoltre, correrei il rischio di ricadere in acqua, oppure, nella peggiore delle ipotesi, di slogarmi un braccio.
In un altro momento, magari meno critico, non me ne sarebbe importato niente, ma ora come ora non posso più permettermi mosse azzardate.
Mollo, dunque, la presa sulla mano del mio compagno per montare sul pedalò.
Un secondo più tardi, mi sporgo dall’imbarcazione e, con tutte le forze che mi sono rimaste, sollevo quel corpo inerte, afferrandolo per le braccia.
Non penso a nient’altro, se non a tirare su Payro.
Stringo i denti, fino a percepire il sangue che scorre nei capillari delle gengive.
La parte più razionale del mio istinto mi suggerisce di eseguire un’operazione che ho visto fare solo una volta e, per giunta, da un giovane esponente di un altro clan di cui ignoro il nome.
Forse potrei farcela anch’io…
Non ho molta scelta, poiché l’alternativa è una sola, ossia quella di tornare a riva il più presto possibile.
Non posso neppure dire: “Tentar non nuoce”, perché si tratta della vita del mio migliore amico, che deve aver perso conoscenza da fin troppo tempo, a giudicare dalla colorazione violacea delle sue mani.
Alla fine, quella stessa parte che mi aveva suggerito, prende il sopravvento. Così mi inginocchio sopra di lui, le gambe divaricate. Dopo di che, chino appena appena il capo per avvicinarlo al suo viso; la mano sinistra protesa per sollevare la sua testa dallo scivolo. Fatto ciò, traggo un profondo respiro, quindi, avvicino la mia bocca alla sua, in modo tale da farvi passare un po’ di ossigeno. Mentre eseguo questa delicata operazione, appoggio delicatamente il pollice e l’indice sulle narici del mio amico, con lo scopo di chiudere le vie aeree superiori.
Cerco di non pensare a niente, benché il mio cervello stia elaborando tutta una serie di emozioni.
Trascorrono diversi secondi, durante i quali continuo a pompare aria, seppur senza risultati.
Continuo, perché non voglio pensare al peggio.
Continuo, perché non voglio ascoltare il gorgoglio dell’acqua che stranamente suona come una provocazione.
Continuo, perché, malgrado tutti mi dicano che sono un ragazzo molto sportivo e maturo, non sono ancora capace di accettare le sconfitte. Specie se si tratta di battaglie importanti come questa.
Continuo, insomma, perché intendo dimostrare a Payro quanto Lui sia importante per me.
non ho mai badato alla sua malattia.
Non mi è mai importato, a differenza di molte persone (adulti compresi), del fatto che non potesse correre più di cinque minuti di fila.
Ma soprattutto, non mi sono mai permesso di considerarlo inferiore a causa del suo malessere. Sarebbe come giudicare anormale un cane, solo perché gli piacciono le mele e non la carne
Sono talmente assorbito dai miei pensieri e, naturalmente, anche dal compito che sto svolgendo, da non accorgermi che…
 
 
Leami sos pensamento (portami oltre il pensiero),
Juchemi in sos misterios (al di là del mistero).
Lea tambene s’ispiritu.
E cando mi ides chirchende a mie.
So chirchende a Tie.
 

 
Pov. Payro.
Che cosa mi sta succedendo…?
Mi sento come se fossi sprofondato in un pozzo senza fine.
Ho caldo, molto caldo. Forse sto sudando. Non lo so. Quello che so è che mi sento come se fossi eclissato…
Come se mi mancasse aria…
Non vedo niente.
No, la verità è che non vedo niente, perché tengo gli occhi chiusi. Sembra che della resina si sia attaccata alle mie palpebre. Magari sono in montagnia. Questo spiegherebbe anche perché mi manca l’aria e perché ho la testa che sembra che ci siano conficcati degli aghi appuntiti.
Cos’è questo suono che sento?
È dolce, calmo, ipnotico…
Un momento, sono i gorgheggi delle onde del mare!
Mare…
Mare…
Come ci sono finito in mezzo al mare?
e perché mi sembra di ondeggiare lentamente?
E perché ho come la sensazione che qualcuno o qualcosa sia sdraiato sopra di me?
E come mai… No, non può essere! È successo anche oggi!
No, no, non dirmi che è successo proprio mentre ero con…

“Muack!”
- Incosciente!- gridi, prima di mollarmi un sonoro schiaffo.
- è così che ripaghi i miei sforzi? Cogliendomi alla sprovvista per darmi un bacio? Tu non sai quanto mi sia costato fare quello che ho fatto…-
Ti detesto quando assumi le sembianze di un vecchio prete che fa la predica, come, del resto, ti detesto quando sfoggi la tua conoscenza enciclopedica.
- Dai, Kurapika, non te la prendere per così poco!-
- Non te la prendere per così poco? Ma ti rendi conto cos’è successo? c’è mancato un pelo che non morissi affogato! Non avresti dovuto tuffarti in acqua!-
- Sì, ma se non l’avessi fatto, sarei morto per soffocamento, quindi vedi un po’ tu! E poi, c’è bisogno di scaldarsi tanto per un innocentissimo, naturalissimo, bellissimo bacio?-
Aspetto una risposta, mio caro.
- Ah, ah! Allora ti è piaciuto, eh!- ti conosco fin troppo bene, Kurapika e so che, quando non rispondi a questo genere di domande, è perché non sai se dare retta alla testa o al cuore.
- Andiamo a riva, prima che non ti prenda di peso e ti getti in acqua con le mie stesse mani!-
- E dai, Kury!-
- Non. Chiamarmi. Kury!-
- Ah-ah-ah-ah! Ok, Salvatore!-
- Payro.-
Smetto immediatamente di ridere. Sul mio volto si dipinge un’espressione preoccupata.
Mi sa tanto che devo averla combinata grossa, se i tuoi occhi sono diventati scarlatti.
Non nasconderli, ti prego. Risolleva la testa.
Non celare i tuoi sentimenti, sai quanto sia di vitale importanza per me conoscere lo stato d’animo delle persone, specie se mi sono particolarmente care.
- Kurapika…- biascico incerto, intristito. -… Scusa. So di essere stato un irresponsabile, un incosciente, come dici tu.-
Mi stringo nelle spalle, afflitto.
- Ma dimmi, come avrei potuto farti capire che l’unico modo per contrastare gli attacchi d’asma è una fonte esterna d’aria. Non ho portato il propoli, o i ribes neri, tantomeno i germogli di ravanello, perché pensavo che avremmo fatto un giro breve.-
Faccio una pausa per guardarlo dritto in viso.
Stringo i pugni fino a farmi sbiancare le nocche. Non mi importa una beata fava, se le dita diventano cianotiche o perdono sensibilità. Quello che mi importa, è sapere che la nostra amicizia non si sia butttata per sempre in mare aperto.
- Sono mortificato. Immagino che tu ti sia preso un bello spavento. Lo so…-
- Perdonami…-
Concludo il mio discorso, dopo di che mi volto dalla parte opposta per scavalcare lo scivolo del pedalò e tornare al mio posto, quando, inaspettatamente…
- Vieni qui.-
Scorgo la tua mano destra stesa di fronte a me. L’affero e in men che non si dica mi ritrovo tra le tue braccia. Braccia esili, all’apparenza minute, ma forti e calde.
- Non hai bisogno di chiedere scusa…-
è la prima volta in tutta la mia vita che sento la tua voce divenire rauca.
Con questo, non intendo dire che non ti ho mai visto piangere, anzi, da bambino, da quante lacrime versavi, avresti benissimo potuto riempire una bacinella. Dunque non si può dire che non ti abbia visto piangere.
- Piuttosto, accetta le mie di scuse.- soggiunge alzando la testa e guardandomi dritto negli occhi.
Occhi che sono ritornati azzurri, limpidi come sempre, ma che al contempo esprimono amarezza.
- Mi rendo conto di aver agito in maniera impulsiva, nel momento in cui ti ho schiaffeggiato. Il fatto è che ero… Preoccupato per te… per giunta, quando ho tentato di rianimarti, la mia mente è stata attraversata da una marea di emozioni, che, a quanto pare, non sono riuscito a controllare, come avrei dovuto…-
- Tranquillo, è comprensibile.- rispondo io, abbozzando un sorriso.
- Payro. Domani partirò per York Shin City e lì troverò un bravo medico che sappia curare la tua malattia. È una promessa!-
Lo fisso negli occhi; sta dicendo sul serio?
Potrebbe mai esistere una cura più efficace dei germogli di ravanello, della lantana…
- Te ne sono grato, Kurapika. Davvero!- esclamo incerto. – Ma non voglio farmi troppe illusioni. Da te ho imparato che è inutile farsi tante illusioni, per poi alla fine rimanerci malissimo. Non voglio dire che bisogna vedere sempre il bicchiere mezzo vuoto, ma se parti già con dare per persa una cosa, poi ci rimani meno male, quando saprai per certo che quella cosa non è possibile realizzarla. Capisci?-
- Payro, non credo che questo sia il tuo caso. Del resto, se tu stesso non credi che sia possibile sconfiggere la malattia, allora non ci crederà mai nessun altro!
- Già, è vero.- concludo con un’alzata di spalle.
Senza aggiungere altro, ci dirigiamo verso la strisci luminosa che sta emergendo dal mare: è l’aurora.
Ho sempre amato ammirare l’aurora e, poi, l’alba. Come, d’altrocanto, mi è ugualmente piaciuto contemplare, assorto, il tramonto e il crepuscolo.
Questo Tu lo sai bene. D’altronde, quante notti in bianco abbiamo passato l’estate scorsa, solo per ottenere un posto in prima fila per questi spettacoli?
Amo la mia terrra e, sinceramente, mi dispiacerebbe lasciarla. So che per te è lo stesso. So che soffri all’idea di dover partire, sebbene tu lo faccia per uno scopo più che nobile.
La nostra terra, i nostri campi, il nostro mare… quanto li amiamo…
Certo, noi non abbiamo né un telefono, o come si chiama quell’apparecchio con i fili. Tantomeno possediamo quelle cabine che servono capaci di salire o scendere da un piano all’altro in pochi secondi.
Noi possediamo la nostra cultura, un insieme di valori, tradizioni, conoscenze che sono completamente diverse da quelle che ha il popolo moderno.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo dell’autrice:
Buongiorno a tutti!
Dunque, tanto per cominciare vorrei dirvi che questa One shot ha iniziato a prendere forma quando mi trovavo al mare con amici e un giorno sono salita in pedalò, tuffandomi in mare aperto. Tranquilli, a me non è successo niente di male, al contrario, è stata un’esperienza bellissima!
Invece, per quanto riguarda i testi delle canzoni e la parte medica, se così si può chiamare, mi limiterò a scrivere due cose:
primo, le frasi delle canzoni appartengono al gruppo sardo dei Tazenda. ho pensato di inserirle nella lingua originale, per dare un tocco di terra/popolazione che ha le sue tradizioni ecc. ecc. inoltre, confesso che sono legata alla Sardegna, perché nelle mie vene scorre sangue sardo. Purtroppo, però, anche io, come Kurapika, ho dovuto abbandonare quel posto, perché altrimenti non potrei avere tutto ciò che ho. Non lo dico per disprezzare o indurre le persone a non andarci, no; sto solo dicendo la verità. Magari, con il passare del tempo, la situazione migliorerà. Speriamo! Fino ad allora, credo che continuerò ad andarci solo durante l’estate.
Veniamo, adesso, a parlare della cosiddetta “Parte medica”.
Killua: “Sì, parliamo del fatto che a 7 anni gardavi dr. House!”
“E anche se ciò fosse vero, che diritto hai tu di sbandierare la cosa ai quattro venti?”
Killua: “Visto, è vero!”
Stavo dicendo: tra le varie passioni, ne ho una anche per il corpo umano, i suoi meccanismi e le malattie.
Spero vivamente che la storia vi sia piaciuta. Sinceramente, ho un po’ paura di aver combinato un disastro. Male che vada, la cancello, anche se mi dispiacerebbe farlo.
Fatemi sapere che cosa ne pensate e se ci sono degli errori.
Ed ora, vai con le note!
 
 

 
 
Note:
1. Testo della canzone Sacrofango dei Tazenda. Traduzione: Da molto, molto tempo vi concedo i miei spazi perché possiate viverci.
Trattatemi con rispetto,
Non sono eterna, quindi…
abbiate cura di me.
Io sono la vostra
Madre Terra.
2. La manovra di Heimlich prende il nome dall’omonimo medico che l’ha messa appunto per cercare di porre freno ai numerosi casi di soffocamento da cibo. Si consiglia di evitare di praticarla se non si sa il punto preciso in cui sono situati gli addominali, poiché si potrebbe causare delle lesioni alla gabbia toracica o alla colonna vertebrale.
3. Memoria eidetica: è una memoria particolare, perlopiù di tipo grafico, ossia le persone che la possiedono, ricordano molto bene le rappresentazioni grafiche. Tuttavia, va detto che essa si verifica in casi particolari e, in genere, non rimane per tutta la vita. Uno dei fortunati ad averla realmente avuta è il compositore austriaco Wolfgang Amadeus Mozart.
4. Il propoli, la lantana, i ribes neri e i germogli di ravanello, sono dei rimedi naturali tutt’ora utilizzati da chi soffre d’asma. 

Chris Vineyard

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Capitolo 3
*** Storia di una ragazza forte ***


4 settembre 2009

 

Il cielo è un mosaico di nuvole di colore blu incastrate l'una con l'altra. 

La tramontana soffia impetuosa, mentre i corvi gracchiano avidamente. 

Un'ombra cammina ad agio. Il rumore dei suoi passi echeggia sulle mattonelle. A tratti, si sente anche il fruscio di un pezzo di cartapesta. 

L'ombra si ferma. 

Poi, con una mano afferra un vaso vuoto di latta: è ancora in buono stato, fatta eccezione per il manico un po' logoro e maleodorante. 

Il fruscio della carta diventa piu' forte: infatti, i fogli di cartapesta sono schiacciati bruscamente contro una superficie dura e fredda. 

Il vento diffonde nell'aria il profumo avvolgente delle orchidee, fresco e delicato. 

L'ombra scuote leggermente il capo, sorridendo impercettibilmente. Dopo di che adagia con cura i fiori sul vaso, accarezzandone i petali umidi.

 

"Ogni donna che vive alla luce dell'eternita' puo' realizzare la propria vocazione, sia essa il matrimonio, l'ordine religioso o la professione."

Non sono mai stata cosi' d'accordo con Edith Stein come in questo momento. Momento in cui mi ritrovo a tirare le somme della mia vita. 

Non sono ne' triste, ne'  malinconica. Al contrario, sono felice, perche' oggi ho la possibilita' di dimostrare a una persona che non ha mai riposto veramente fiducia in me, di essere diventata cio' che sono e di essermi realizzata.

Per troppo tempo ho vissuto con l'angoscia di non riuscire a diventare una donna forte, capace di difendersi dagli insulti e dalle violenze con il solo mezzo della parola.

Infatti, posso affermare con assoluta fermezza di credere nella parola.

Credo nel suo potere persuasivo e dissuasivo.

Credo nella conoscenza e nella capacita' di esprimere i propri pensieri, perche' solo cosi' si puo' contrastare  l'ignoranza. 

Pertanto, ammiro tutte quelle donne, come la Stein, che hanno raggiunto i loro scopi e non si sono abbassate a chiedere aiuto agli altri, specialmente se uomini ossessionati dal sesso e dai soldi.

Nel corso degli anni dell'università, ho compreso a poco a poco quali erano le mie qualita': prima fra tutte, l'abilita' di scovare e memorizzare informazioni preziosissime, inerenti ai vari ambiti della vita di allora. Purtroppo però, non sempre ho utilizzato quest'abilita' unicamente a mio vantaggio, in quanto alcune volte i miei compagni di corso mi chiedevano delucidazioni in merito agli esami e alle procedure in uso in ateneo ed io, mossa dal fatto che un domani quelle persone avrebbero potuto ricambiare i favori, condividevo tali conoscenze. In un certo senso, potrei dir di essere riuscita nel mio intento, visto che molti di loro, soprattutto i ragazzi, mi hanno contattata svariate volte per avere dei consigli. Cio' non poteva farmi altro che piacere, in quanto nessuno prima d'ora si era avvicinato a me per chiedermi qualcosa. Nessuno prima aveva capito che io potevo rivelarmi una fonte inesauribile e attendibile di informazioni e competenze. D'altronde, cos'ero io per i miei compaesani e per i compagni di scuola dalle elementari al liceo? 

Un individuo silenzioso. Uno studente brillante, ma non geniale. Sì, perché i geni sono quegli allievi che imparano tutto in fretta e prendono sempre il massimo dei voti; però, se chiedi loro come si compila una dichiarazione dei redditi, sprofondano nell'oblio, oppure cercano di svincolarsi dalla domanda, o peggio ancora, ti insultano pesantemente, attribuendoti l'apellativo di essere saccente e arrogante. 

Molto spesso mi e' capitato di trovarmi in queste tre situazioni, in particolar modo nella terza: infatti, un giorno in cui ero impegnata con il tirocinio, mi offrii per stendere la bozza della relazione che il mio gruppo avrebbe dovuto presentare alla commissione del corso di laurea. 

Scrissi un bel documento di trentadue pagine di cui andavo fiera, sebbene fosse solo una bozza piena di errori di battitura. In ogni caso, inviai il documento per posta elettronica ai miei compagni di gruppo. 

La risposta?

Una valanga di bugie e una scarica di insulti.

"L'ho letto giusto questa mattina prima di venire qui. Va bene."

"Non mi si apre il file. Avrei voluto dirtelo, ma poi mi sono dimenticata."

"Non mi piace il formato della pagina; secondo me ci vorrebbe un formato a tre, con i caratteri piu' grandi e piu' paragrafi. Poi dovresti aggiungere molte piu' perifrasi per dare al testo un risvolto filosofico-discorsivo."

Ho ritenuto necessario replicare solo all'ultima contestazione fatta sul mio operato; le altre non meritavano minimamente di ricevere attenzione.

"Con tutto il dovuto rispetto, i tuoi suggerimenti, per quanto sinceri, non hanno alcun fondamento logico. Tanto per cominciare: l'utilizzo di perifrasi o locuzioni verbali nel novanta per cento dei casi serve solo ed esclusivamente per allungare il testo e renderlo di difficile comprensione. Inoltre, ai lettori non arriva il messaggio che s'intende comunicare. Per quanto riguarda la formattazione del documento, credo non sia necessario apportare modifiche di questo genere, soprattutto perche' potrebbero non essere gradite ai professori."

"Io pensavo di risolvere la situazione nel migliore dei modi, non ti arrabbiare, eh!"

"Ti sarei grata se non ti mettessi subito sulla difensiva, attaccandomi e, alcontempo, proclamandoti risolutrice di problemi inesistenti. Ma d'altrocanto, non posso fartene una colpa, dato che gia' in passato ti sei comportata in questo modo nei miei confronti. Sembra quasi che noi due siamo delle rivali, ma credimi, io non ci tengo affatto ad averti come nemica, perche' ho capito che nella vita la vera sfida e' contro noi stessi e non contro gli altri."

"Ma come cazzo ti permetti, eh?!"

A quel punto mi limitai a mordermi il labbro inferiore e lasciai perdere, certa che se avessi continuato la discussione, avrei solo danneggiato le corde vocali. 

Ad ogni modo, come si puo' immaginare, gli errori di battitura presenti nel testo della relazione li corressi io tra una faccenda domestic e l'altra.

Inutile dire che il riconoscimento da parte dei miei compagni di gruppo non e' mai arrivato e che i professori si sono complimentati con tutti quanti a mo' di maestrine dell'asilo quando battono le mani e danno un pizzicotto sulla guancia ai loro alunni. 

Riconosco che all'epoca avevo un profondo senso del dovere, oggi quasi del tutto scomparso: infatti, quando avevo ventidue anni, mi indignavo come una furia, se sentivo che una persona di mia conoscenza non pagava il biglietto del treno o trovasse scuse per scroccare un bicchiere di caffe' alle macchinette da qualcun altro. Purtroppo pero', malgrado questo profondo senso del dovere, convenni che era meglio non far niente in quella circostanza: non perche' avrei avuto certamente tutti contro e sarei stata immancabilmente etichettata come "maleducata", "egocentrica, "esibizionista, "falsa"; ma piuttosto perche' in fin dei conti il gioco non valeva la candela, ed io avrei perso la fiducia di molti professori, che mi ero guadagnata a suon di conversazioni stimolanti sulle loro discipline e piccoli favoretti.

Il fatto e' che ho sempre cercato di contraddistinguermi dalla maggioranza delle ragazze per le mie qualita' linguistiche, logiche ed etiche. Non mi sono mai permessa di mettere in bella mostra il mio davanzale o il mio fondoschiena, come faceva quell'ingrata che mi disse: "Ma come cazzo ti permetti, eh?" che ogni mattina, arrivata in aula, si spalmava letteralmente sulla schiena del rappresentante degli studenti. Io, l'unica parte del mio corpo che amavo esporre era il collo. Infatti, in primavera e in estate mi piaceva indossare maglie e camicie con la scollatura a V per far risaltare, appunto, il collo e il seno prosperoso di cui andavo fiera. Non volevo che gli altri mi considerassero per quel dettaglio intrigante, ma perche' rinunciare a un piacere personale? 

 

You should know you're beautiful just the way you are.

And you don't have no change a thing, the world could change its heart.

No scars to your beautiful, we're stars and we're beautiful.

 

Il soddisfacimento del piacere personale e' una prerogativa che mi sono imposta dopo aver vissuto un periodo difficilissimo, fatto di violenze, dissapori e malessere generale a causa di una malattia diagnosticata solo dieci anni piu' tardi dal giorno in cui si manifestò per la prima volta.

Tutto comincio' quando avevo quindici anni: ero una ragazza silenziosa, ma per niente timida, semplicemente, preferivo stare per conto mio. Passavo interi pomeriggi a studiare e le sere ad immergermi nel meraviglioso mondo dei libri e della musica country. Comunque sia, al di la' di questo, non avevo rinunciato a provare l'emozione del primo bacio; ricordo ancora come cio' avvenne: io e lui sulla spiaggia del paese, di fronte a un mare in burrasca. 

Piu' ripenso a quel momento, e piu' mi convinco che il pittore David Friederich deve aver provato un'emozione simile alla mia, quando ha dipinto Monk By the Sea.

Sarei stata molto grata al fato, se avesse lasciato tutto esattamente cosi' com'era; avrebbe evitato parecchi dispiaceri a me e a chi mi stava maggiormente intorno.

Il 27 ottobre del 1974, infatti, dopo aver mangiato un piatto di pasta asciutta con le zucchine, iniziai ad accusare dolori lancinanti allo stomaco. Un'ora piu' tardi. rimisi la pasta.

Mia madre si adiro' tantissimo per l'accaduto, sebbene io non ne comprendessi il motivo. Non compresi nemmeno il perche' dell'improvviso malessere che avvertivo all'altezza dello stomaco.

Al contrario, mi sentivo sollevata all'idea di aver rigettato la pasta proprio nel gabinetto del bagno e non per terra. Non ho alcuna intenzione di sdrammatizzare su una questione cosi' seria, tuttavia, dal momento che mia madre mi sgridava aspramente per qualsiasi cosa che facessi o dicessi, provavo gioia nel constatare che almeno una volta nella vita, non le avevo fornito un pretesto per lamentarsi con giusta ragione. Infatti, se lasciavo una briciola sul pavimento o una macchia su un muro, lei mi brontolava per tutto il giorno.

Fortunatamente, la sera non accusai nessun malore e la vita pote' riprendere il suo cammino tranquilla. Almeno per il momento.

Il giorno seguente pranzai mangiando due panini farciti con prosciutto crudo e pomodori di campo. Finii per vomitare anche quelli con la consapevolezza che forse c'era qualcosa che non funzionava a dovere nel mio corpo. 

A poco a poco, il tarlo della preoccupazione inizio' a farsi strada nella mia mente: la presa di coscienza che quel comportamento anomalo del mio organismo potesse dipendere da un'influenza totalmente ignorata, come da qualche disturbo dell'apparato gastrointestinale. Da principio, ritenni piu' plausibile la prima ipotesi: anzitutto perche' in quel periodo dovevo alzarmi ogni mattina alle cinque per portare al pascolo il gregge di famiglia, a prescindere dalle condizioni meteorologiche; in secondo luogo, ogni pomeriggio dovevo occuparmi della pulizia della casa e dello studio, attivita' tra loro conciliabili, se non fosse per la continua intromissione di mia madre che mi costringeva a rifare tutto da capo nel caso in cui avesse scorto anche solo un granello di polvere del diametro di un picometro. 

Per come stavano le cose in quel periodo, avrei anche potuto avere veramente l'influenza, che tanto non sarebbe cambiato niente.

Continuai a correre tutti i giorni, senza sapere a che velocita' stavo andando. 

Continuai a rimettere piatti di pasta e panini ed altri cibi, cominciando a scartare volta per volta gli alimenti che mi facevano stare male. Con il passare dei mesi, arrivai a nutrirmi solo di frutta, verdura, carne e pesce; ovviamente, cosi' facendo mi indebolivo sempre piu', ma non mi importava. 

Intanto. quella donna che viveva con me inizio' a perdere la pazienza ancora di piu' e a percuotermi violentemente ogni qualvolta vomitassi: si era convinta che io avessi volotariamente deciso di smettere di mangiare certi alimenti per capriccio, o meglio, come diceva lei, per paura d'ingrassare. 

Le prime volte provai a spiegarle la verita', ma puntualmente lei trovava il pretesto per accendere le discussioni e colorirle di urla e bestemmie.

Una domenica mattina decisi di preparare un tipo di pasta tipico del mio paese. Subito impastai in un recipiente in terracotta la farina con l'acqua e, una volta lavorato ben bene l'impasto, creai una motagna di scodelline di pasta. Non appena le campane della chiesa rintoccarono mezzogiorno, misi a cuocere le scodelline e tagliai diverse verdure di stagione che avevo colto dall'orto situato dietro la casa.

Un quarto d'ura dopo, udii dei passi; era lei. 

Mi appoggiai al mobile della cucina respirando lentamente. La sera prima avevamo litigato aspramente, sempre per il solito problema e,, come accadeva nella maggior parte dei casi, lei si ritirava nella sua camera da letto senza aver toccato cibo. Curioso, vero? In teoria, avrei dovuto essere io quella che non aveva voglia di mangiare, secondo la sua logica.

Quando lei entro' in cucina,. Ci scambiammo una rapida occhiata. Nessuna delle due disse niente e forse era meglio cosi'; parlare avrebbe significato rovinare quel bel momento di pace che si era introdotto silenziosamente in cucina, come un cagnolino che gira per le stanze in cerca di qualcosa con cui giocare.

Apparecchiai la tavola, sempre in rispettoso silenzio, mentre lei scolava la pasta. All'improvviso avvertii un intenso bruciore all'altezza del rene sinistro: avevo stirato troppo quella parte del bacino, di conseguenza, si era leggermente aperta una delle tante ferite causate dalle sue percosse. Mi morsi il labbro inferiore, noncurante del dolore.

Ci sedemmo a tavola, inforcammo le forchette ed ognuna sprofondo' nei propri pensieri. 

Avevo deciso di cucinare quel piatto, perche' speravo in questo modo di ricucire i nostri rapporti, anche se ero ben consapevole che di li' a poco avrei rimesso anche quello.  

Non volevo ricucire i rapporti per amore o per paura di perderla, ma solo ed esclusivamente perche' andava fatto. Andava fatto perche' altrimenti lei avrebbe prolungato inevitabilmente le future discussioni, sostenendo che io ero un'egoista, ingrata, maleducata, apatica, senza un briciolo di umanita'. La verita' e' che facevo di tutto per non darle modo di lamentarsi di me. Ero stanca di sentirla inveire contro di me e non poter far niente.

Compii sedici anni e non me ne accorsi, presa com'ero dalle faccende domestiche e dalle altre occupazioni quotidiane. Non ero diventata una persona indifferente, come si potrebbe pensare. Niente affatto, ero diventata una persona che viveva la vita sempre correndo. Non mi fermavo un attimo ne' a riflettere, ne' ad ascoltare il mio corpo che mi inviava costantemente segnali, presumo di dolore, ne tantomeno a discutere con la donna che alloggiava sotto il mio stesso tetto.     

Compii diciassette anni, ne compii diciotto, ne compii diciannove e nulla cambio', anzi, le discussioni con quella signoraa s'intensificarono ed il mio corpo cercava di reggere tutto lo stress come poteva. 

Un giorno, mentre stavo pulendo il bagno, mi voltai distrattamente verso lo specchio. 

Mi misi la mano sinistra sulle labbra. 

Com'ero cambiata in soli quattro anni... 

Avevo gli occhi incavati in un volto scarno e avvizzito. I capelli arruffati e color biondo cenere. Sotto i tantissimi punti neri che costellavano la mia faccia, si vedevano le ossa zigomatiche e la mandibola.

Ritrassi la mano dalla bocca e immediatamente scorsi il giallo dei denti, causato dall'acidita'  del vomito.

Abbassai lo sguardo: non c'era falange che non fosse segnata da una ferita da taglio o da bruciature. 

Appoggiai per un'istante lo straccio che tenevo nella mano destra, quindi toccai con i polpastrelli dell'indice il palmo della mano sinistra; era rugoso, la pelle era ruvida a causa del freddo gelido e dei continui maneggiamenti dell'acqua. 

Girai la mano: le unghie si presentavano corte. Addirittura quella dell'anulare sanguinava da quanto era ristretta. Molto probabilmente era in corso un'infezione. Tuttavia, cio' che mi sorprese maggiormente fu la vista chiara e nitida deble ossa del dorso della mano: scorsi l'osso scafoide e l'uccinato e distinsi i punti in cui scorrevano le vene sanguigne.

Durante questo esame minuzioso, non sbattei mai le palpebre, perche' in cuor mio sapevo che quello non era un sogno. No, quella era la verita', e la verita' va fatta venire a galla; non bisogna mai nasconderla, soprattutto a noi stessi. Ho sempre detestato le persone che si nascondono di fronte alla verita',. Ancor piu' ho sempre ripudiato quelle che ti insultano all'infinito, pur di non ammettere la verita' e farti passare per bugiarda. E' facile trincerarsi dietro le menzogne e puntare il dito contro gli altri, poi pero', quando sono gli altri a comportarsi cosi' con noi, non ci va bene e andiamo in escandescenza. Del resto, se tutto va bene, bravi tutti; se tutto va male, e' colpa del piu' fesso.

All'improvviso, un'immagine si fece largo prepotentemente nella mia mente. Si trattava di una ragazza che aveva fatto l'esame per l'ottenimento del diploma insieme a me: aveva i capelli lunghi castani raccolti in uno chignon; gli occhi cerulei erano messi in risalto da diverse pennellate di ombretto celeste; sul viso, uno spesso strato di terra ricopriva i brufoli e i punti neri; infine, le sue mani apparivano candide, con le unghie smaltate. 

Non volevo essere esattamente come lei, poiche' ritenevo che quello non fosse il modo piu' consono di presentarsi a scuola, tuttavia, dovevo riconoscere che tra noi due c'era un abisso. 

Non mi piacevo proprio. Sentivo che quel corpo non era il mio, che il mio cervello era imprigionato in un corpo che non gli apparteneva. 

Inspirai profondamente. 

"Ma quanto sei bella!"

Non mi voltai nemmeno, tanto sapevo benissimo chi e' che mi aveva rivolto quelle parole in maniera cinica. Non volli neppure risponderle; non accettavo provocazioni. 

Afferrai lo straccio, quindi aprii il rubinetto del lavandino; un getto d'acqua calda si rovescio' sul panno, formando una grossa chiazza verdastra. Non appena la macchia ebbe superato i bordi della stoffa, girai la leva e strizzai ben bene lo straccio. 

Uscii dal bagno, oltrepassando la figura che mi aveva parlato, dirigendomi verso il como' situato in camera da letto. Iniziai a passare la pezza umida sui vari ripiani e sui cassetti. Dietro di me c'era sempre lei con il suo occhio vigile e le braccia incrociate sul petto. 

Non mi voltai mai, non volevo darle la soddisfazione di rimproverarmi per una qualunque sciocchezza. 

"Mi dici che hai?" 

- Adesso mi sto seriamente stancando. - pensai. Possibile che non avesse nient'altro da fare che starmi dietro come un'anima in pena? Possibile che avesse gia' finito di accudire le pecore per quel giorno? E il campo? Entro mezzogiorno bisognava raccogliere le mele e metterle nelle cassette per portarle poi al mercato. 

C'era qualcosa che non andava per il verso giusto. Il suo atteggiamento era a dir poco sospetto; di solito controllava il mio operato, solo dopo aver terminato le sue faccende. 

Un dubbio mi assali' all'improvviso:  possibile che... 

Increspai le labbra in un sorriso sprezzante. Poi la guardai di sottecchi: aveva i capelli color giallo canarino; le sopracciglia talmente fini e perfette, che avrei giurato fossero state disegnate; il viso levigato e luminoso; le unghie smaltate. 

Compresi subito la situazione. 

Finii di spolverare il como', dopo di che lucidai il pavimento. Con uno sguardo eloquente, intimi alla signora di uscire dalla stanza.

Verso mezzogiorno mi recai nel campo per raccogliere le mele. Basto' una rapida occhiata per capire che il terreno non era stato curato per diversi giorni. 

Mi diedi della sciocca: avrei dovuto accorgermene prima. D'altrocanto, pero', in quel periodo ero stata impegnata giorno e notte con la preparazione della tesina. In ogni caso, l'insulto era valido lo stesso. 

Pochi minuti piu' tardi, scattai verso il recinto dove tenevamo le galline: erano sparite tutte. Al loro posto c'erano delle pozzanghere d'acqua e piccole montagnette d'erba secca. 

Proseguii la mia corsa. Volevo vedere dov'erano le pecore, dov'era il nostro principale mezzo di sostentamento. 

Risalii  la collinetta che conduceva al capannone dove si trovava il greggie. Scavalcai le profonde radici degli alberi e la sterpaglia che era cresciuta a dismisura. Intravidi anche i segni di un rogo ormai spento, ma che aveva comunque lasciato tracce evidenti della sua presenza nel terreno. 

Finalmente giunsi dinnanzi al portone in ferro battuto. Era chiuso. 

Tirai verso di me la maniglia arrugginita; niente. 

Tirai ancora piu' forte, fintanto che non sentii l'ammasso di ferro dondolare appena appena. Dopo un po', riuscii a crearmi un varco abbastanza ampio da permettermi di passare. 

Ancor prima che mettessi piede all'interno del capanno, fui investita da un forte odore acre che ricordava quello del sangue misto a carne putrefatta. 

Spinsi la porta piu' indietro per avere piu' luce. 

Udii dei gemiti acuti di animali moribondi e dei respiri affannosi. A poco a poco i miei occhi si abituarono alla luce soffusa del luogo: scorsi delle masse bianche che giacevano inerti su grosse pozze marroni che emettevano dei mugolii strazianti. Piu' in la', scorsi un grosso corpo grigiastro che si muoveva a scatti; sembrava che  avesse le convulsioni. E, in effetti, poteva anche essere cosi', visto che aveva una gamba mozzata e molteplici ustioni gravi all'altezza della pancia. 

Deglutii a fatica. 

Uscii da quel posto lugubre. 

Avevo bisogno di pensare al dafarsi ed avevo bisogno di farlo all'aria aperta. 

Sospinsi velocemente la porta in dentro. 

Ripercorsi la stessa strada correndo a perdifiato, rallentando in prossimita' del recinto delle galline. 

Senza pensarci due volte, presi le cassette contenenti le mele e le caricai sul carretto, facendo attenzione a non toccare con nessuna parte del corpo le viti ossidate che tenevano insieme la struttura. 

Estrassi il passante del cancello, spostai il carro in avanti e richiusi il cancello alle mie spalle.

Camminai a passo svelto: gli alberi e i cespugli mi passavano davanti uno dopo l'altro. 

Non pensavo a niente: in quel momento io ero solo una semplice ragazza che spingeva un carro carico di mele verdi. Niente di piu', niente di meno. 

Giunsi all'incrocio che portava alla strada asfaltata, svoltai a destra e mi misi a lato del sentiero per non essere investita. 

Camminai difilato, senza guardarmi intorno; pensavo solo al mio obiettivo.

Tutt'ad un tratto, inciampai. Caddi rovinosamente a terra, tra l'asfalto e le rocce. 

Mi ritrovai in posizione prona, con il petto sulla parte posteriore del carro. Le braccia sopra le maniglie. 

Sentii il sangue pulsare nelle tempie: ogni battito del cuore risuonava come se fosse stato amplificato almeno un centinaio di volte. Respiravo affannosamente ad occhi chiusi. I polmoni bruciavano dal dolore. Anche le gambe bruciavano all'altezza delle tibie. molto probabilmente, avevo sfiorato uno o piu' chiodi.

Mi tirai su in piedi. Sentivo le coste pesanti e la colonna vertebrale rigida. 

Aprii gli occhi, constatando di avere delle ferite superficiali sulla parte mediale dell'avambraccio. 

Non che le gambe fossero messe meglio, ma se non altro presentavano dei tagli solo sulla parte anterolaterale. 

abbassai lo sguardo sul carro; era intatto, ma quasi vuoto. 

Mi scrollai la polvere di dosso, quindi raddrizzai il carrello e raccolsi le mele. Erano un po' ammaccate, ma con una sciacquata sarebbero sicuramente ritornate succose e lucenti. 

Imboccai un sentiero ristretto situato in aperta campagna, che conduceva ad un ruscello. Procedetti con passo spedito: avevo perso tempo, dovevo recuperare, altrimenti i proprietari del magazzino avrebbero chiuso i battenti ed io non avrei portato soldi a casa. 

Arrivai nel luogo previsto. Non badai affatto alla natura e alla fauna che circondavano il laghetto. 

Lavai i frutti uno ad uno: dovevano essere impeccabilmente perfetti. Fatto cio', tirai su la gonna e immersi le gambe nell'acqua gelida, trattenendo una smorfia di dolore. La carne bruciava nell'acqua ghiacciata, ma poi trvai sollievo. Sciacquai anche gli avambracci e il viso, rilevando un taglio abbastanza profondo sull'incavo del mento. 

Rifeci il sentiero a ritroso. Corsi verso il porto dove si trovava il deposito. Consegnai il carrello con la merce ai signori, i quali eseguirono un controllo minuzioso su ogni singola mela, perdendosi in chiacchiere inutili. 

Io non li ascoltavo; mi tormentavo le mani in maniera convulsa: sentivo le gambe bruciare e il sangue pulsare forte nei punti in cui mi ero tagliata.

Dopo dieci minuti abbondanti di chiacchiere e pettegolezzi, mi furono messe in mano delle monete. Le contai per accertarmi che i conti tornassero, quindi afferrai le maniglie del carro e girai sui tacchi. 

Tornai a casa. 

Quella donna non c'era. Non sapevo dove fosse andata e, sinceramente, in quel momento non m'interessava proprio saperlo. Sciacquai la ferita sul mento, sebbene il sangue continuasse a sgorgare copiosamente. Presi una pezza di stoffa bianca,  la bagnai e me la legai sotto il labbro inferiore. 

Fatto cio', ne approfittai per dare un'occhiata al libretto di bilancio della "famiglia". 

Volevo vederci chiaro. Mi premeva sciogliere dei dubbi sorti durante la mattinata. 

 

Dicembre 1978

Spese:

340,92 jenny (bottiglie)

227,88 jenny (vestiti negozio Stiff)

172,49 jenny (cura corpo)

13,99 jenny (fiori e prodotti casa)

Totale: 755.00 Jenny * 400 Jenny da restituire a Karl.

 

Gennaio 1979

193.98 jenny (regalo Karl)

429.29 jenny (vestiti Glost)

858,99 jenny (serata con Sean)

totale: 1.495.00 * restituirne 900 a Karl.

 

Febbraio 1979

Totale spese: 2.427 Jenny. * restituirne 1.350 Jenny a Karl

 

Marzo 1979

937,00 jenny (regalo Sean)

549,59 jenny (serata Last Goodnight)

279,22 jenny (Animazione festa svice)

Totale: 1.770 jenny * restituire 2.940 jenny a Karl * restituire 5.000 jenny a banca

 

Aprile 1979

Richiesta prestito alla banca: 10.000 jenny.

 

Maggio 1979

100.000 jenny (acquisto auto)

Restituire 3.000 jenny a Karl + 110.000 alla banca"

 

Chiusi il libretto di bilancio molto lentamente. 

Dovevo ancora incassare quel brutto colpo, metabolizzarlo razionalmente. 

La ferita sul mento prese di nuovo a pulsare violentemente. La ignorai. 

Appoggiai la schiena al mobile della cucina, sconfortata. Non sapevo esprimere a parole cio' che provavo in quel momento; era come se tutti i nomi si fossero scollegate dalle rispettive emozioni e si fossero fusi insieme per comporre un'unica grande parola: apatia. 

Non provavo odio nei confronti di quella donna, soprattutto perche' avevo smesso di nutrire affetto nei suoi riguardi da anni. In secondo luogo, non la odiavo perche' sarebbe stato inutile covare rancore; non avrei risolto niente. In quel frangente, sentivo di dover prendere una scelta e le alternative che mi venivano in mente erano principalmente due: scontrarmi con lei per parlare del problema e vedere di risolverlo insieme; oppure, far e di testa mia per saldare il conto con la banca e con quel Karl, per poi andarmene definitivamente via da casa. Fatto sta che il debito andava assolutamente estinto, in quanto altrimenti avrei potuto avere difficolta' a pagare la prima rata dell'universita'. 

Mi grattai la punta del naso pensierosa. 

Alla fine, optai per la seconda soluzione, quantunque dovessi trovare un modo efficace per guadagnare 130.000 jenny in pochi mesi. 

Conclusi che, in questi casi, le strade percorribili erano due: l'investimento in borsa e il gioco d'azzardo. 

La prima idea era la piu' sicura, non tanto perche' fosse piu' giusta dal punto di vista etico e morale, quanto perche' avrei corso meno i rischi, ammesso che agissi cautamente. D'altrocanto pero', per poter investire in borsa, mi occorreva una certa quantita' di denaro, di cui al momento non disponevo. Di conseguenza, dovevo trovare del tempo per recarmi in un casino', anche se cio' avrebbe significato lasciar perdere la fattoria e il campo, ma del resto, non potevo fare altrimenti. Sono stata una persona ligia al proprio dovere, senza mai trascurare nessun'attivita', tuttavia, in quella circostanza ero costretta a dare la priorita' a qualcosa.

Infilai in una borsa i vestiti piu' eleganti che possedevo insieme ai pochi cosmetici buoni che mi erano rimasti. 

Ero pronta per uscire, ma non appena varcai la soglia della porta, udii dei passi secchi provenienti dalla stradina di ghiaia. 

"Dove vai?" Mi chiese lei visibilmente arrabbiata. 

"Devo partire per York Shin City per un tirocinio." Risposi in tono calmo.

"Dammi i soldi del signor Gosmen!" intimo' lei, ignorando la mia risposta.

"Forse, se me lo chiedessi piu' gentilmente, potrei valutare l'ipotesi di darteli." replicai fermamente.

Mi schiaffeggio' in pieno viso. 

"Ma come cazzo ti permetti, brutta stronza che non sei altro?" 

"Dovrei essere io a schiaffeggiarti, o quantomeno a rimproverarti, visto lo stato di miseria in cui ci troviamo. Per non parlare poi della tua crudelta' ingiustificabile verso i nostri animali."

La guardai dritta in faccia ed ebbi una visione: lei che prendeva un braciere ardente e un attimo dopo vidi la casa in fiamme. Chiusi di scatto le palpebre e scossi bruscamente il capo per allontanare quella visione cosi' dannatamente reale e tangibile. 

Sentii uno scroscio e riaprii immediatamente gli occhi. Non era una visione, quella donna aveva realmente un braciere fumante nella mano sinistra.   

"Edelmira, per favore, discutiamo, insultiamoci, veniamo alle mani, ma sii razionale." dissi, cercando di rimanere calma. Non che fossi preoccupata, semplicemente non volevo trovarmi proprio sul lastrico e non avere piu' un tetto sopra la testa. 

"Non parlo con chi non mi chiama piu' mamma!" replico' lei agitando pericolosamente il braciere.

"Con tutto il dovuto rispetto, non pensi che se non lo faccio c'e' un motivo ben preciso? Il nostro rapporto si e' incrinato da quasi quattro anni, non ci parliamo piu' e ognuna persegue scopi molto diversi dall'altra."

Non disse niente.

All'improvviso, il braciere cadde a terra, proprio di fianco a un piede del tavolo della cucina. Subito le fiamme intaccarono il legno ed un forte odore di bruciato pervase tutta la stanza. 

Mi tolsi la giacca di lino nera e la lnciai sulle fiamme, quindi scattai verso il tavolo e lo tirai di lato, il piu' lontano possibile dal fuoco. 

"Mamma, rovescia la tinozza d'acqua sul fuoco." le intimai, cercando di non assumere un sono autoritario.

"Mamma, la tinozza!" ripetei piu' decisa. 

Di colpo la guardai negli occhi. Era in un altro mondo; gli occhi erano spenti, smarriti. Le mani si contorcevano irrefrenabilmente. Le spalle tremavano impercettibilmente. 

Era pietrificata. 

Intanto, il fuoco aveva preso a divampare, mentre una nuuola di gas si era levata in aria ed impediva la visione di qualsiasi oggetto. Tant'e' che non vedevo niente all'infuori della luce del fuoco.

Balzai verso uno dei lati della cucina per tentare di carire in quale punto della stanza mi trovavo. Tastai degli oggetti: si trattava dei vasi che contenevano il sale, lo zucchero e le spezie, dunque mi trovavo sul lato dei fornelli. Mi spostai a destra in direzione della porta d'ingresso. Da li' avanzai in avanti, toccai la credenza con i suoi cassetti e poi la tinozza d'acqua.    

Alzai il coperchio e spostai a fatica la tinozza. Era molto pesante, da sola non ce l'avrei fatta a rovesciarla sulle fiamme. 

"Mamma, per favore, aiutami." 

Il mio appello non fu ascoltato. Continuai a trascinare la tinozza verso le fiamme, conscia del fatto che molto probabilmente non sarebbe servito a niente, in quanto era necessario gettare l'cqua dall'alto e non dal basso. 

"Mamma..." apostrofai stremata dallo sforzo: "Ti prego." 

Stavo sudando e mi mancava l'aria. Sentivo i polmoni e le ferite bruciare ardentemente. Sentivo un forte odore di fumo misto a bruciato. 

Sentivo il sangue pulsare vorticosamente in tutto il corpo. N'ero certa, di li' a poco avrei perso i sensi e sarei morta carbonizzata. 

Poi, udii cinque passi secchi. 

Sollevai la testa. 

Un'ombra stava di fronte al fuoco. Odore di carne putrefatta.

“No..."

...

 

Black star, black star,

Forever you will be.

Shining star, shining star,

Be whatever you can be.

 

Corsi a  chiamare i vicini, ignorando totalmente i segnali d'allarme che mi stava inviando il mio corpo ormai esausto. Bussai alla porta dei Foster e a quella dei Kanizawa. Raccontai loro il minimo indispensabile per farli accorrere, dopo di che mi tirai indisparte. 

Rimisi le fette di pane con la confettura di fragole mangiate a colazione. Ansimavo in maniera convulsa. Avevo gli occhi aperti, ma di fatto non vedevo niente. 

Sentii il gracchiare di un corvo. Poi percepii il battito delle sue ali; si poso' vicino a me. 

Un attimo dopo volo' via gracchiando in maniera acuta, spaventato. Il mio sesto senso mi suhgeri' che probabilmente esso avesse inghiottito del vomito e fosse fuggito per paura che quella poltiglia potesse essere pericolosa. 

Tentai di sollevarmi da terra, ma le ginocchia non rispondevano ai miei comandi. Provai a rotolare leggermente sul fianco destro, ma invano. 

Mi morsi il labbro inferiore, quindi feci uno sforzo sovrumano per tirarmi su. 

Fortunatamente ci riuscii, ma mi riaccasciai a terra subito dopo aver mosso una decina di passi brevi e incerti. 

Persi i sensi. 

Se il mio organismo fu in grado di risvegliarsi, il merito e' da attribuire all'opera di una persona che poi diventera' l'unica conoscenza di cui, nonostante tutto, mi fidi ciecamente e per la quale sarei disposta a sacrificarmi. 

Quando ripresi conoscenza, mi sentivo schiacciata al suolo; sembrava che tutto il peso del pianeta si fosse addossato sul mio corpo. 

I muscoli e le ossa erano pietre inerti che sorreggevano un peso dal valore incalcolabile. Avevo la bocca impastata di saliva. 

Poi, tutt'ad un tratto, mi accorsi della presenza di qualcuno seduto accanto a me. 

Imposi alle palpebre di sollevarsi, sebbene le percepissi come pesanti saracinesche arrugginite. La luce del sole m'investi' da sopra gli alberi e mi avvolse tutta. 

Provai a voltare il capo verso il lato in cui mi sembrava che si trovasse qualcuno, ma invano. I muscoli della testa e del collo erano letteralmente paralizzati. Allora aguzzai la vista per quanto fosse possibile. Era un bambino di circa sei o sette anni, vestito semplicemente con una maglietta bianca e dei pantaloncini blu.

Avrei voluto sorridergli per rassicurarlo, ma non riuscivo a contrarre i muscoli della faccia. 

"Ciao!" disse lui tranquillamente. 

"Ciao." risposi, vincendo la fatica. 

Mi accorsi solo dopo diversi minuti di avere un pezzo di stoffa umido sulla fronte. Sollevai una mano per toccarlo. 

"Grazie." farfugliai in direzione del ragazzo.

"Hai bisogno di un medico. Vdo a chiamare mio padre." fece lui scattando in piedi.

"No." ribattei lanciandogli uno sguardo eloquente: "Non chiamare nessuno. Allontanati da qui, ma promettimi di non dire niente a nessuno."

"Perche'?" 

"Perche' non posso permettermi di pagare tuo padre."

I nostri occhi s'incrociarono ed io non potei fare a meno di scorgere nelle sue iridi nere la determinazione; non una determinazione cieca mossa dall'istinto, come avrei potuto aspettarmi da un bambino della sua eta', ma una determinazione razionale e consapevole.

Desistetti dal replicare e lo lasciai andare dal padre. 

Una decina di minuti piu' tardi, vidi arrivare il rragazzino insieme a un signore di mezz'eta' con una valigiettta in mano. 

L'uomo mi scruto' da dietro gli occhiali a mezzaluna, indugiando sul mio volto e sulla ferita all'altezza della tibia. Dopo di che si chino' su di me, esaminando meglio quella ferita. 

"Quando si e' procurata questa ferita, signorina?" mi chiese guardandomi negli occhi sovrappensiero.

"A mezzogiorno." risposi sostenendo il suo sguardo.

"Sono passate sei ore e non si e' ancora rimarginata." osservo', mentre palpava la mia gamba per verificare se ci fossero fratture. 

"L'ha lavata o disinfettata?"

"Si', l'ho immersa nell'acqua del lago e poi l'ho disinfettata con l'acqua dolce una volta tornata a casa." 

Il medico mi  mise una mano sulla fronte: dal contatto con la sua mano mi resi conto che stavo effettivamente bruciando. Era come se avessi un fuoco dentro di me e la mia pelle fosse diventata un'isolante tra esso e l'ambiente esterno.

"Kuroro, corri dalla mamma e dille di darti il flacone che sta in frigo. Presto!"

Il bambino obbedi' agli ordini dell'uomo. 

"Signorina, lei ha contratto un'infezione. Spero solo che non sia troppo tardi." mi comunico' in tono amareggiato: "Mi dica, riesce a muovere i muscoli facciali?"

Provai nuovamente a girare il collo da una parte all'altra, ma fu tutto inutile. Provai ad aprire e chiudere le palpebre, ma riscontravo delle difficolta' sia nell'eseguire tale movimento, ma soprattu+to, nell'eseguirlo in maniera coordinata. 

Fu un tuffo al cuore. 

"Dottore." mormorai: "E' probabile che abbia contratto il tetano?"

Lui sorrise bonariamente, poi sospiro' e disse: "Temo di si', signorina. Ma forse siamo ancora in tempo. Ad ogni modo, lei qui non puo' stare, bisogna andare in ospedale."

"Questo significa che devo abbandonare il Ryuseigai ed io non posso permettermelo."

"Lo so. So tutto, signorina. Non si preoccupi per questo. L'accompagnero' io a York Shin City nell'ospedale in cui lavoro."

In quel momento, pensai che non avevo altra scelta, se non quella di affidarmi a quella famiglia per potermi curare. Peraltro, in questo modo, avrei potuto recarmi nei casino' di York Shin City per guadagnare il denaro necessario per estinguere il debito e pagare gli studi universitari.

Il figlio del medico torno' pochi minuti dopo con in mano una borsa che poi scoprii essere piena di cubetti di ghiaccio e piccole ampolle di vetro trasparente.

"La mamma non sapeva quale flacone intendessi e quindi me li ha dati tutti." fece Kuroro, mentre consegnava la borsa al padre. Quest'ultimo la prese e l'apri' facendo scattare la cerniera, quindi estrasse un'ampolla, prese del cotonfiocco e dell'acqua ossigenata dalla valigietta. 

Trattenni un gemito di dolore. L'acqua ossigenata non l'avevo mai potuta sopportare, infatti utilizzavo altre sostanze per disinfettare le ferite come, ad esempio, l'acqua di mare. 

Un istante dopo percepii l'ago di una siringa penetrare nella carne. Mi sembro' di perdere sensibilita' al braccio sinistro, ma nel corso dei miei studi avevo appreso che quello era un effetto temporaneo dei vaccini. 

Chiusi gli occhi e respirai intensamente: avevo la terribile sensazione che la terra stesse cedendo sotto il mio peso. Per un attimo tutti i rumori si fecero piu' lontani, uno soltanto echeggiava in maniera distinta, il battito del mio cuore che pompava il sangue. 

"Adesso bisogna aspettare e sperare che non sia troppo tardi..." fu l'ultima frase che udii prima di perdere nuovamente i sensi; sicuramente era stato il medico a pronunciarla. 

Quando ripresi conoscenza, compresi di trovarmi in una stanza d'ospedale. Ero a York Shin City. 

Sorrisi, felice di poter tornare a sorridere impercettibilmente come prima.

Sorrisi, pienamente grata a quel medico e a suo figlio che mi avevano salvato la vita.

Sorrisi, perche' da quel di' avrei iniziato una nuova vita e non vedevo l'ora di mettermi alla prova e sorprendermi.

Nel giro di due settimane mi ristabilii completamente e fui dimessa dall'ospedale. Il giorno della mia dimissione mi recai dal medico e lo ringraziai di cuore. Non avevo mai ringraziato nessuno veramente di cuore prima d'allora, ma lui rappresentava un'eccezione piu' che giustificata. 

Lui mi abbraccio' e mi fece promettere di andarlo a trovare ogni tanto. Prima di congedarmi, lo pregai di portare i miei ringraziamenti anche a sua moglie e a suo figlio.

Varcai la porta di uno dei casino' piu' famosi di York Shin City senza farmi notare dalle guardie. Una volta entrata, mi guardai intorno in cerca di un gioco interessante da cui partire. Alla fine, scelsi il poker, certa del fatto che sarebbe stato quello che mi avrebbe dato maggiori soddisfazioni, per diversi motivi: innanzitutto, ne conoscevo molto bene le regole; in secondo luogo, avrei conosciuto un buon numero di persone ricche e influenti che avrebbero potuto essermi utili in seguito. 

Mi avvicinai al tavolo con disinvoltura. Indossavo una maglia nera attillata con la scollatura rotondeggiante e un paio di jeans eleganti. Tali indumenti mi erano stati regalati dalla consorte del medico con la scusa che tanto a lei non stavano piu' per via dei fianchi a pera che le erano venuti dopo il parto.

"Ehi, qualcuno qui si e' smarrito!" biascico' un signore in giacca e cravatta e con una sigaretta in bocca.

"Buongiono, signore. Mi spiace doverla contraddire al nostro primo incontro, ma io so benissimo dove sono." replicai maliziosa. 

"Ehi, zuccherino, forse non hai capito con chi stai parlando." fece lui di rimando cambiando completamente tono di voce. 

Lo guardai dritto in faccia. 

Sussultai lievemente: vidi quell'uomo aprire una valigietta piena di banconote di fronte a dei sicari. Lo vidi mentre prendeva in mano delle fatture false per consegnarle alla polizia. Lo vidi mentre teneva un comizio davanti a una folla in una piazza. Capii subito di chi si trattava.    

"Signor Reddington, io leggo i quotidiani, percio' credo di sapere con chi ho il piacere di parlare e, se me lo consente, di giocare con lei." 

Il mio interlocutore diede un colpetto al tavolo da gioco con fare compiaciuto: "Come desidera, mia signorina. Quanto punta?"

"1.000 jenny, giusto per non sbilanciarmi fin da subito." risposi, estraendo la banconota corrispondente alla somma dichiarata. 

"Molto razionale, signorina. Se tutto il gentil sesso fosse come lei, non avrei vita facile."

"Vede, io non sono volubile. Non per vantarmi, certo, ma sono tutto fuorche' volubile." Esibii un sorriso malizioso, accompagnandolo con una strizzatina d'occhio. Mi sentivo elettrizzata e apatica allo stesso tempo. 

Ebbi un'altra visione: il signor Reddington che palpava la schiena di una donna mora molto attraente. 

Rabbrividii per un istante, al solo pensiero di ritrovarmi le sue mani ossute e sudaticce sulle spalle. Provavo disgusto nei suoi confronti, tuttavia, ero conscia del fatto che il denaro non ha ne' odore, ne' sapore.

Egli diede inizio alla partita schiaffeggiando sul tavolo verde una banconota da 5.000 jenny. 

Durante la partita, ebbi altre visioni riguardanti il mio avversario, ma non mi sorpresi piu'; ormai ci avevo fatto l'abitudine, piuttosto, indagavo sul contenuto delle immagini rappresentate.

Vinsi il duello. Vinsi 6.000 jenny. 

Com'era prevedibile, Reddington volle la rivincita.

Puntai 3.000 jenny, benche' egli cercasse di invogliarmi a puntare tutto il denaro guadagnato al primo turno.

Vinsi nuovamente, racimolando 10.000 jenny. 

Dal canto suo, il politico mi guardo' confuso: scommettevo che si stesse chiedendo come avevo fatto a sfilargli 9.000 jenny dal portafoglio

"Per oggi credo possa bastare, signorina. Le faccio i miei complimenti!" annuncio' in tono pacato: "Penso che io e lei diventeremo buoni amici." aggiunse una volta che si fu alzato, dandomi una pacca sulla spalla destra. 

"Lieta di ricevere i suoi complimenti, signor Reddington. Spero vivamente d'incontrarla in seguito."

Uscii dal locale soddisfatta  di me stessa. 

Nel pomeriggio contattai un'agenzia immobiliare per prendere in affitto un appartamento. Trovai quello che faceva al caso mio con una rapidita' sorprendente, quasi sicuramente perche' avevo trascorso vent'anni in una piccola casa di campagna e quindi non avevo pretese di alcun genere. 

Spesi parte dei soldi guadagnati per comprare del cibo e degli indumenti, il giusto necessario per poter sopravvivere.

Il giorno successivo ritornai al casino' con l'intenzione di giocare di nuovo a poker. 

Fui invitata da un signore molto piu' anziano di Reddington. Accettai.

"Ieri ho visto come ha giocato contro Reddington. Davvero una grande maestra del poker, un vero prodigio!" esclamo' l'uomo in tono mellifluo. 

Lo guardai; era abbastanza corpulento, tant'e' vero che i bottoni della camicia bianca minacciavano di schizzare via da un momento all'altro e la giacca blu sembrava incollata al capo sottostante. 

Misi sul tavolo una banconota da 1.000 jenny, lui altrettanto. Compresi immediatamente il tipo di persona con cui avevo a che fare: classico miliardario simpaticone che vuole fregare gli altri  con la convinzione che essi siano fieri di essere adulati e spacciati per geni.

"Lei non e' di York Shin?" mi chiese fissandomi senza battere ciglio. 

"No, signore. Sono arrivata qui da poco." risposi, ben attenta a non muovere la mano in cui tenevo le carte. Vedevo che spostava leggermente lo sguardo in avanti e indietro per sbirciare i miei numeri.

"Capisco. Per qualunque cosa, mi chieda pure, io conosco questa citta' come le mie tasche." dichiaro' spavaldo, estraendo, seppur con un po' di fatica, un biglietto da visita da una tasca dei pantaloni. 

Presi il pezzetto di carta con la mano destra, senza muovere il resto del corpo. Cio' infastidi' non poco il mio sfidante, che inizio' a sudare e a serrare le mascelle. 

Lo stavo mettendo in difficolta', non era intelligente, ma furbo. Aveva suscitato l'ammirazione di parecchi suoi concittadini, solamente perche'  aveva acquistato un grosso gabinetto d'oro e una vasca di vetro smerigliato.

"Quindi di dov'e'?" 

"Mi perdoni, signore, ma non sono la persona che da' confidenza ad un estraneo al primo appuntamento." 

Si morse nervosamente il labbro inferiore. 

"Brava!" ribatte' in tono asciutto. 

"La ringrazio caldamente e la prego di perdonarmi." 

"Non fa niente!" sbotto' lui: "Adesso devo proprio andare." aggiunse alzandosi goffamente in piedi. Aveva problemi di equilibrio, probabilmente causati dal grasso che atrofizzava i muscoli del corpo. 

"Capisco, tuttavia, non crede che sia buona educazione dichiarare conclusa la nostra partita?" lo rimbeccai con voce affabile.

"Ehm..." 

"Non e' difficile notare quanto lei sia una persona importante ed influente, corretta e ligia al proprio dovere, percio'... Dubito fortemente che voglia andarsene via, senza riconoscere che questa volta ho vinto io." 

Le mie parole lo paralizzarono completamente. 

"Mi fermo qui a York Shin City per un po' di tempo, quindi ha la concreta possibilita' di rifarsi durante la prossima partita." 

Detto cio', vedendo che non si muoveva per niente, mi avvicinai a lui con estrema cautela.

"Te la faro' pagare, mocciosa!" borbotto' sbattendomi la vincita in mano.

"Comprendo il suo disappunto e sarei felice, se il nostro rapporto si evolvesse positivamente." affermai sempre in modo affabile, prima che lui potesse voltarsi per abbandonare la sala da gioco.

Quel giorno, misi insieme 35.000 jenny, 20.000 dei quali furono versati sul conto corrente del signor Karl, in modo da fargli capire che intendevo restituirgli il debito e, di conseguenza, non avere nessun tipo di screzzio con lui.

Mi recai al casino' tutte le mattine, mentre i pomeriggi li trascorrevo sui libri presi in prestito dalla biblioteca dell'universita'. 

Nel corso del mese di giugno svolsi il mio primo tirocinio formativo, durante il quale dovetti stendere la relazione che mi porto' a scontrarmi con gli altri membri del gruppo. 

Dopo sei settimane di permanenza nella uuova york, riuscii ad estinguere, finalmente, il debito di 130.000 jenny: infatti, restituii tutti i soldi al signor Karl e alla banca del Ryuseigai. 

Nell'agosto del 1979 tornai nel mio paese natale per dare una degna sepoltura a mia madre. Glielo dovevo, almeno quello, glielo dovevo; come dovevo dirle che avevo scoperto che i miei disturbi legati al cibo avevano un nome: infatti, ero ciliaca, ossia intollerante al glutine. 

Ho pensato molto a lei durante quelle sei settimane. dopo la diagnosi, ma soprattutto, nel bel mezzo della traversata in mare. 

Il nostro rapporto si e' incrinato a causa di fraintendimenti ed ognuna ha seguito la propria strada, sfaldando i legami familiari. Solo, mi chiedo che cosa l'abbia fatta diventare una persona materialista, disfattista e superficiale. Forse l'assenza del mio affetto, ma non credo, visto che non sono mai stata un'aperta donatrice d'affetto. 

Non e' da escludere che si fosse innamorata di quel Karl e lui l'avesse, in qualche modo, influenzata. Come non e' da escludere che lei si fosse stancata di quella vita rigida, fatta di sacrifici e totalmente priva di liberta' e di svaghi. 

La mente e il cuore mi portarono a credere che mia madre avesse scelto di suicidarsi, perche' non reggeva piu' la vita che stava conducendo, che certamente non era quella che avrebbe voluto vivere. Lei era sempre stata sola, non aveva mai avuto amici. Io ero l'unica presenza umana con cui entrava in contatto piu' intimamente; di conseguenza, persa me, perso tutto. A quel punto, lo shopping e i regali costosi ad alcuni semplici conoscenti dovevano assolutamente compensare la perdita. Il problema e' che nessun oggetto, sia esso il piu' caro e meraviglioso, potra' mai sostituire una relazione umana cosi' intensa come quella che si instaura tra una madre e sua figlia. 

Invece, per quanto concerne gli animali moribondi rinchiusi nel capannone e le galline scomparse, l'unica spiegazione razionale che mi viene in mente e' quella della vendita di tali creature al macellaio del posto per ricavarne del denaro. 

Comunque sia, tornai al paese per dirle addio in maniera tranquilla e consapevole. Ero pronta a lasciarla andare, non serbavo rancore nei suoi riguardi. Provavo solo un vuoto nel cuore e un sincero rispetto per lei. 

La mattina del funerale, la chiesa era colma di gente, semplicemente perche' era domenica, anche perche' nessuno dei presenti aveva mai messo piede dentro casa nostra. 

Il sacerdote fece un'omelia incentrata soprattutto sulle letture del giorno, dedicando solo poche frasi a Edelmira Laurie, mia madre. Dopo di lui, volle brocciolare due parole su di lei anche il sindaco, il cui discorso si scolpi' con forza nella mia mente, come quando uno scultore batte su un blocco di marmo con il piccone.

"Edelmira Laurie era una donna amata da ognuno di noi, che ci ha dato tutto di se': dai frutti del suo orto all'amore per la natura; dal latte delle sue pecore all'amore per gli animali; ma soprattutto, Edelmira ci ha insegnato che si puo' essere delle grandi donne facoltose, pur non essendo avvocati, medici, giuristi... Grazie, Edelmira, grazie per tutto."

Strinsi le labbra, reprimendo un conato di vomito.

Anche la moglie del primo cittadino, da brava ipocrita qual'era, sali' sull'altare per biascicare qualche parola detta a caso.

"Io ed Edelmira eravamo migliori amiche e non capisco come sia potuto succedere... Lei era una brava persona..." 

"Vai col pianto!" mormorai tra me e me cinicamente. 

"Davvero! Io non so proprio come sia potuto succedere! Io... io non me lo sarei mai aspettata!"

La signora  si allontano' dall'altare in maniera frettolosa per attraversare la navata centrale ed uscire fuori. Il tutto fatto ad una velocita' impressionante, talmente impressionante che, per quanto mi riguardava, era palese che il suo pianto fosse finto. 

Presi la parola, determinata ad avere la" rivincita su ogni individuo presente in quella chiesa, che si era permesso di rovinare un momento sacro, come dovrebbe essere un funerale. 

Ignorai totalmente il gesto del celebrante, il quale mi esortava ad essere breve e concisa. 

"Mi scuseranno padre Kurakichi e i coniugi Asser, che haono fatto la carita' di elogiare benignamente mia madre, tuttavia, permettetemi di esprimere il mio pensiero. Mia madre si e' suicidata, sui-ci-da-ta." 

Ancora una volta ignorai le occhiatacce e i gesti ossessi del sacerdote.

"Mia madre si e' suicidata, perche' era sola, sconfortata, stanca di una vita che le chiedeva soltanto sacrifici. Lei non sopportava le persone ipocrite, ma era anche conscia del fatto che bisognasse stare attenti a trattare con loro, poiche' sono capaci di sciorinare al mondo intero ogni singola parola che si dice loro." 

Padre Kurakichi si era avvicinato a me con fare minaccioso. Gli sorrisi maliziosamente, allargando leggermente le braccia.

"Quando mia madre leggeva sui quotidiani notizie di stragi familiari, dove i vicini di casa dichiaravano che i componenti di tali famiglie  fossero delle brave persone, e che mai avrebbero sospettato che potesse succedere qualcosa di spiacevole. La verita' non e' che nessuno sospetta qualcosa, ma che nessuno vuol vedere la questione in maniera chiara." 

Il sacerdote mi afferro' per un braccio, indispettito,. Io mi spostai bruscamente di lato, in modo da fargli perdere l'equilibrio e costringerlo a mollare la presa.

"La verita' e' che nessuno di voi conosceva realmente mia madre. Nessuno di voi si e' mai avvicinato a lei per chiederle come stesse, se avesse bisogno di aiuto, se il callio andava aggiunto al latte a temperatura ambiente oppure no. I vicini di casa della famiglia a cui alludevo poco fa incarnano la superficialita', la chiacchiera, la frivolezza, l'indifferenza, l'egoismo radicato e l'ipocrisia. Nessuno di voi dovrebbe permettersi di spendere parole inutili per Edelmira Laurie, perche' non esiste termine che possa rendere merito a un defunto. Soltanto il silenzio e l'accettazione dell'accaduto rendono merito e memoria alla persona scomparsa."

Scesi i due scalini dell'altare molto molto lentamente: volevo assaporare quel momento, vedere le facce dei presenti. Qualcuno sembrava sinceramente sconvolto, qualcun altro era indignato e puntava il dito indice contro di me. Il sacerdote, il sindaco e sua moglie si guardavano in cagnesco, confabulando chissa' quali ingiurie a nome mio.

Dopo la cerimonia, passai a casa della famiglia Lucifer, dove trovai Kuroro intento a leggere un romanzo di oltre mille pagine. 

Non appena mi vide, chiuse di scatto il libro, mettendo una foglia come segnalibro e mi venne incontro.

"Tu sei fantastica!" mi disse cingendomi la vita: "Li hai stesi tutti quanti con la sola forza della parola."

Mi abbassai alla sua altezza: "Le parole, se utilizzate correttamente, sono un'arma formidabile che ciascuno di noi puo' avere; non servono ne' soldi, ne' poteri magici."

"Voglio essere come te, Pakunoda." dichiaro' lui in tono fiero.

"Studia, leggi, informati e ci riuscirai." 

Pranzai con loro, dopo di che presi una nave che mi avrebbe ricondotta alla citta' piu' vicina in cui vi fosse presente un aereoporto. Sarei ritornata a York Shin City per proseguire i miei studi in economia e management e trovare un lavoro.

I successivi quattro anni della mia vita volarono: infatti, furono intensi e tranquilli. Mi laureai con il massimo dei voti e trovai un impiego presso il casino' in cui avevo giocato. Quasi sicuramente, ero rimasta impressa nella memoria dei gestori dell'attivita'.

Lavorai nel settore amministrativo per diversi anni, conoscendo svariate persone: alcune molto intelligenti e stimolanti; altre avide di denaro ed incapaci. 

Il giorno del mio trentunesimo compleanno, ricevetti la visita di Kuroro. Non lo vedevo da quando mi ero laureata. Era solo e, sebbene cercasse di comportarsi come sempre, capii che dietro a quella sicurezza e cordialita' si celava qualcosa di preoccupante. 

Gli chiesi notizie dei suoi genitori, in particolare di suo padre. Lui rispose in maniera evasiva che stavano bene. Io lo guardai dritto negli occhi. Mentiva. 

I suoi genitori erano morti, uccisi da due colpi di pistola alla testa. Vedevo le loro sagome riverse sul pavimento della veranda. 

"Sai cos'e' il Nen?" mi domando' cambiando discorso. 

"Si'."

"Che categoria sei?"

"Sono della specializzazione. Tu?"

"Anche io. Ho scoperto dell'esistenza del Nen da tre anni."

"Da quando sono stati uccisi i tuoi?" gli chiesi lentamente: "Kuroro, ti sarei grata se non mi mentissi. Per cortesia. Se hai bisogno di sfogarti, di esternare la tua rabbia e il tuo dolore, io sono disponibile."

Rimanemmo in silenzio per alcuni minuti, seduti l'uno accanto all'altra sul divano del mio appartamento. Poi, tutt'ad un tratto, lui mise la mano destra sulla mia coscia sinistra. Io gliela presi e la strinsi forte. 

Lo senti' rabbrividire lievemente al contatto con la mia mano ghiacciata. 

"Pakunoda, tu sai che il Ryuseigai e' stato sempre un posto molto poco ospitale, tuttavia, da qualche anno le cose sono ulteriormente peggiorate. Sono arrivati degli individui armati che hanno despodestato i sindaci e preso il controllo del territorio. La gente vive nella miseria: i negozi sono stati costretti a chiudere; i ricchi e chi ha potuto permetterselo, se ne sono andati; un sacco di persone vive in strada e mendica fino a che non viene ammazzata. Il Ryuseigai e' nel degrado piu' totale. I miei genitori si sono posti fin da subito contro quei tizi spietati, ma hanno trovato la morte."

Altri due minuti di silenzio assoluto. Guardai di sottecchi Kuroro; era incredibilmente calmo e risoluto. 

"Sono venuto a conoscenza del Nen grazie a un maestro incontrato per caso. Costui mi ha convinto a fare la cerimonia dell'acqua, tramite la quale ho scoperto di appartenere alla categoria della specializzazione. Cosi' ho iniziato a sviluppare il mio potere e ad oggi ritengo di saper padroneggiare abbastanza bene il Nen." 

Allentai la stretta.

"Deduco che tu voglia tentare di fare qualcosa per il Ryuseigai; se non per liberarlo da quegli individui malvagi, almeno per aiutare la gente comune, giusto?"

"Si', esatto. Voglio fondare una specie di organizzazione formata da poche persone che perseguono il mio stesso scopo. Desidero rubare oggetti di estremo valore per ricavare del denaro da destinare alla popolazione e, soprattutto,  i membri di quest'associazione proverranno tutti dal Ryuseigai."

Fece una breve pausa per ruotare il busto di novanta gradi, cosi' che i nostri occhi potessero incrociarsi. 

"Pakunoda, io vorrei che tu ti unissi a me in quest'impresa. Tu hai vissuto per vent'anni in quel posto e sei una donna potente. Inoltre, sai usare il Nen sicuramente abbastanza bene, anche se non ti ho vista ancora in azione."

Soppesai con cura le sue parole. In pratica, mi stava chiedendo di immischiarmi in affari loschi e difficilmente gestibili. Non che fossi una moralista, solo non ero certa di voler rischiare tanto per il Ryuseigai; del resto, io non mi ero mai preoccupata realmente delle condizioni in cui perversava quel luogo. Durante l'infanzia, ero una bambina innamorata della natura e del mare; mentre negli anni dell'adolescenza, invece, ero assorbita dalla mia situazione familiare e dallo studio. Sapevo in che stato versava l'intera isola, tuttavia, non ero mai stata una persona con manie rivoluzionarie. 

"Accetto la tua proposta, unicamente perche' credo di doverti ripagare adeguatamente per avermi salvato la vita insieme a tuo padre." dichiarai solennemente, scuotendo la testa. 

"Mi sta bene." concluse. 

Lo invitai a stabilirsi nel mio appartamento, fino a quando non avesse trovato una casa di suo gradimento. La mia richiesta fu ben accolta e nel giro di qualche giorno divenimmo dei buoni concubini. Buoni concubini nel senso che entrambi ci prendevamo cura della dimora allo stesso modo: infatti, io mi occupavo del bucato, della spesa, della cucina e delle bollette; mentre lui della pulizia delle stanze, della cura delle piante e della manutenzione generale. Tra l'altro, dovetti riconoscere che Kuroro era estremamente meticoloso sotto ogni aspetto. 

Una settimana piu' tardi, il mio amico riparti' per il Ryuseigai per cercare altre persone disposte a realizzare il suo piano e che avessero determinati requisiti da lui stabiliti.

il 23 luglio 1990, Kuroro fondo' il Genei Ryodan, una brigata i cui membri perseguivano lo scopo di procurarsi ingenti somme di denaro da destinare al nostro stato. Fu deciso che il modo principale per impossessarsi di tale denaro fosse il furto di oggetti preziosi di qualsiasi natura. Inoltre, fu deliberato che i due precetti fondamentali per entrare a far parte del Genei Ryodan fossero uccidere uno dei membri, oppure essere scelti dai componenti stessi dell'organizzazione. Infine, determinammo che il numero dei componenti non dovesse superare le dodici unita' e che ciascuno di essi dovesse conoscere approfonditamente le caratteristiche del Nen. 

Alcuni giorni dopo svolgemmo il primo incarico; si trattava di rubare delle statue risalenti al quattordicesimo secolo di un valore inestimabile. Kuroro aveva studiato appositamente un piano che prevedeva la partecipazione di tutti noi. Io avevo il compito di effettuare un sopraluogo nel museo in cui erano esposti i capolavori. Riuscii a farmi rivelare da uno degli addetti alla sicurezza il codice per disattivare il sistema d'allarme. Ovviamente, non me lo disse di sua iniziativa, ma basto' scambiarci qualche parola per leggergli nella mente e carpire cosi' il codice. 

La missione fu un successo, tuttavia, una volta recuperate le statue, dovettimo sbrigarci per rivenderle al mercato nero. 

Ricavammo una somma cospiqua di denaro che evolvemmo per la costruzione di una scuola nel Ryusegai. Ero stata io a suggerire l'idea, in quanto ritenevo che l'edificazione di tale struttura, dedicata a tutti i bambini del luogo, non avrebbe fatto altro che accrescere il prestigio della brigata. Il capo approvo' senza batter ciglio.

In seguito compimmo un altro furto amolto piu' ardito, che consisteva nell'impossessarsi di alcuni steli e oggetti appartenenti agli antenati della dinastia Hoikoro ed esposti nel palazzo del re. 

La buona riuscita di quell'operazione dipese dal modo impeccabile con cui ci coordinammo. 

Il guadagno della rivendita fu investito per la sistemazione di diverse zone di utilizzo pubblico, come: chiese, negozi, acquedotti e cosi' via. 

Nei primi mesi del 1994, Kuroro mi comunico' in privato che intendeva alzare la posta in gioco. Cito testualmente: "Alzare la posta in gioco". Cio' significava smettere con il solo furto di oggetti di valore per intraprendere la via del furto misto a sequestro di persona e al ricatto. 

"Onestamente, penso che tu stia facendo il passo piu' lungo della gamba, per diversi motivi:. Credimi, in quindici anni di lavoro, ho capito che il denaro muove ogni singola attivita' umana e basta poco per noi criminali ritrovarci da un momento all'altro con una taglia in testa. 

"Pakunoda, io rispetto le tue idee, tuttavia, vorrei ricordarti qual e' il nostro scopo. Preferisco rischiare, ma arrivare al punto che mi sono prefissato, piuttosto che continuare ad organizzare furti di oggetti che hanno un valore ben definito. Io sono convinto che in questo modo potremmo competere con quegli individui e liberare la nostra amata terra."

"Kuroro, non mentirmi. Te lo leggo nella mente, in faccia, sulla croce; le tue priorita' sono cambiate. E' evidente che dietro alla voglia di liberare il Ryuseigai si cela qualcos'altro."

Sorrise  debolmente, poi aggiunse: "E' vero, ma non intendo approfondire ulteriormente il discorso. Tra una settimana ci recheremo nella regione di Lukuso, dove vive il clan dei Kuruta, celebre per i suoi occhi scarlatti e, cosa piu' importante, per essere riuscito, in qualche modo, a stipulare un patto con quei tiranni. Cosi' facendo, essi possono continuare a vivere indisturbati nella loro foresta. Non so in che cosa consista il patto, ma e' ovvio che cio' non sia giusto nei confronti di tutte le altre persone che popolano il nostro paese. Il mio obiettivo e' quello di trattare con i capi della tribu', al fine di ottenere del denaro o condizioni ampiamente favorevoli per noi."

"Suppongo che tu sappia che i capi dei Kuruta, per quanto possano essere saggi, non ti concederanno condizioni ampiamente favorevoli. In quanto al denaro, dubito fortemente che dispongano di monete."

"Non preoccuparti. Sono pronto ad usare anche la forza, se sara' necessario per rggiungere tale scopo."

"Ne hai parlato con gli altri? Sono d'accordo?" 

"No, tu sei la prima a saperlo e, francamente, non mi sembri molto convinta."

"Esatto. Secondo me, dovresti utilizzare le tue capacita' diplomatiche per portare quel clan dalla tua parte e non tentare di soggiogarlo. Se tu riuscissi a parlare con i loro capi, magari avresti l'opportunita' di persuaderli a stare dalla tua parte, cosi' che in futuro possiamo utilizzare una piccola parte del loro territorio per nascon

dere tutto quello che vogliamo." 

"Mhh... Non male come idea. Vedro' che cosa posso fare. Intanto, vado ad esporre la missione agli altri." concluse, alzandosi in piedi: "Grazie per avermi ascoltato e consigliato." Aggiunse voltandosi ed aprendo la porta.

Mi aveva liquidata. 

Non mi aveva raccontato tutta la verita'. Temevo seriamente che a Kuroro non interessasse utilizzare la foresta dei Kuruta per nascondere oggetti e materiale vario. Sospettavo che Kuroro volesse l'intero bosco per costruirci fabbriche, ferrovie, scuole, case, ospedali. Probabilmente si era stancato di pagare operai e materie prime scelti dai comandanti per niente. Infatti, il tanto agognato riconoscimento da entrambi auspicato non c'era stato. Se invece avessimo costruito tutti gli edifici da capo, avremmo sicuramente ottenuto un prestigio maggiore. Tuttavia, la vera domanda era: come arrivare a un compromesso con l'etnia dei Kuruta? A parer mio, Kuroro e gli altri non ce l'avrebbero fatta. Ed e' questo il punto: il mio amico avrebbe adoperato la forza e i suoi avversari avrebbero sicuramente risposto.

Sospirai, scrollando le spalle.

Avrei voluto richiamarlo, ma ritenni che fosse giusto chiudere li' la nostra discussione, poiche' era comprensibile che in merito a quella questione, io e Kuroro avevamo idee diverse.

Il mio intento non era certo difendere il Clan Kuruta, ma mettere in guardia Kuroro dai rischi che avrebbe potuto correre. 

Confesso che mi dispiace notare che Kuroro sembra aver dimenticato gli insegnamenti di suo padre, ammesso che fossero in buoni rapporti. Ma del resto, io non ho alcun diritto di intromettermi nella vita privata della famiglia Lucifer, visto che io stessa non ho mai avuto un bel rapporto con mia madre, la quale mi avra' causato tanto dolore. Tuttavia,a e' proprio grazie a questo dolore, se ho potuto realizzarmi e divenire la donna che volevo essere. 

L'insegnamento piu' importante che mi ha trasmesso, involontariamente s'intende, e' che le avversita' vanno affrontate; si puo' cadere, si puo' subire dei danni, si puo' star male fino all'inverosimile, ma bisogna rialzarsi e riprendere il cammino. 

 

A modo tuo, 

Andrai, a modo tuo.

Camminerai e cadrai, ti rialzerai 

Sempre a modo tuo.

A modo tuo,

Vedrai, a modo tuo,

Dondolerai, salterai, cambierai,

sempre a modo tuo. 

 

"Posso sapere perche' non tentate di scappare?"

"Perche' siamo suoi amici!"

"Guardalo bene, Pakunoda. Vedi qual  il suo punto debole..."

"Cachi, Feitan, Shalnark... I miei ricordi, Posso sparare solo sei colpi... Ma dovete fidarmi di me."

 

"Ti ho voluto bene come se fossi stata mia sorella maggiore. Continua a riposare in pace."

Detto cio', l'ombra si allontano' lentamente, voltandosi di tanto in tanto per contemplare il vaso di fiori che aveva deposto dinnanzi alla tomba. 

La tramontana faceva ondeggiare freneticamente i petali delle orchidee, i suoi fiori preferiti.

 

 

 

 

 

Angolo dell'autrice

Salve a tutti!

Dopo quasi due anni di silenzio come autrice, sono tornata.

Questa storia e' un misto tra autobiografia, Hunter x Hunter ecanzoni ascoltate. Mi e' piaciuto tantissimo scriverla e ne vado fiera, al di la' degli errori e di tutto il resto. Mi sento soddisfatta e credo che questo sia importante.

Vi scrivo i titoli delle canzoni citate:

Scars in your beautiful by Alessia Cara;

Black star by Avril Lavigne;

A modo tuo by Elisa.

Ho scelto di scrivere una Fan Fiction su Pakunoda, perche' e' un personaggio che mi e' sempre piaciuto tantissimo. Sinceramente, mi ha rattristato molto leggere/vedere la sua morte, ma ha comunque la mia stima. Inoltre, grazie a lei, ho potuto esaltare per la seconda volta il mio lato femminista. XD Scherzo!

Spero che la storia vi sia piaciuta e gradirei avere una vostra opinione, positiva o !negativa che sia.

Grazie per l'attenzione.

 

Chris Vineyard

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