Fire and Blood

di Fenio394Sparrow
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** O1 > Nothing left to say ***
Capitolo 2: *** O2 > Radioactive ***
Capitolo 3: *** O3 > Into The Open Air ***
Capitolo 4: *** O4 > Marigold ***
Capitolo 5: *** O5 > Firework ***
Capitolo 6: *** O6 > Di storte e lingue straniere ***
Capitolo 7: *** O7 > Something I need ***
Capitolo 8: *** O8 > Who we Are ***
Capitolo 9: *** O9 > Hoist the colours high ***
Capitolo 10: *** 1O > Time is Running Out ***



Capitolo 1
*** O1 > Nothing left to say ***


Prolologo -
Nothing left to say


Queste gioie violente hanno fini violente.
Muoiono nel loro trionfo come la polvere da sparo e
 il fuoco che si consumano al primo bacio
▪William Shakespeare, Romeo e Giulietta▪


 
 
 
Quanto il dolore potesse essere forte, Arya adesso lo capiva.

Ma non riusciva ancora a capacitarsene. Quella voragine che sentiva al centro del petto, quel vuoto che si espandeva, male, male, faceva tanto male. Non avrebbe retto ancora per molto: sarebbe implosa su sé stessa: crollando, rompendosi, frantumandosi come cristallo. Una volta, oh, una volta non era così fragile. Una volta sì che era forte. Una volta il suo più grande dolore era un quattro a scuola. Una volta era stata al sicuro. Ma una volta era vuota. Una volta non aveva conosciuto nessuno di loro, una volta non era viva.

I volti di Fili, Kili e Thorin le tornarono prepotentemente in viso, i primi due sorridenti e l’altro serioso come al solito. Provò ad alzarsi da terra –quando era caduta?- annaspando, ma non era colpa del bustino troppo stretto. Le mancava aria, non riusciva a respirare. Doveva fuggire, fuggire, fuggire, non vederli …

E all’improvviso, come tutto era iniziato, sparì. Velocissime immagini di persone che conosceva e amava le tornarono alla mente, una appresso all’altra, spedite ma nitide nella sua mente. Chiare e limpide come mai lo erano state. Aveva la sensazione di aver visto qualcuno a lungo perduto ed ora ritrovato –tutta la sua famiglia. Era amara quella parola nella sua mente, forse perché non le bastava. Una consapevolezza si era fatta strada in lei. Le si spezzava il cuore a pensare a ciò che avrebbe fatto e quali ripercussioni avrebbero avuto su Bilbo -non poteva lasciarlo lì.

Tuttavia …
La Contea sembrava avere un bell’effetto su di lui: era più rilassato, tranquillo, e a volte lo aveva visto sorridere –sorridere per davvero. Non uno di quei sorrisi che avevano caratterizzato entrambi in quell’ultimo mese, quelli che servivano a fingere che tutto andasse bene quando era evidente che non era così. Su di Arya, invece, aveva l’ effetto opposto. Non dormiva, mangiava a stento e non usciva.
Certo, Bilbo era ancora in lutto. Capitava, talvolta, che lo trovasse a girare meccanicamente lo zucchero nel tè, il cucchiaino tintinnante sulla porcellana della tazzina; lo sguardo perso nel vuoto tradiva le memorie che, palpabili, scorrevano sulla superficie dell’iride esprimendo tutto il dolore. E quando piangevano. Oh, quando piangevano era una tragedia. Attaccava uno e lo seguiva l’altra. O viceversa. Avrebbe anche potuto essere ilare non fosse stato per la gravità della situazione. Piangevano per ore e ore come fontane.
Dapprima iniziava lei, accasciandosi al suolo; Bilbo provava a consolarla e si ritrovava a singhiozzare sulla sua spalla. Talvolta capitava che si addormentassero in quelle posizioni: Bilbo con la testa poggiata sulla spalla di Arya che aveva il suo capo posato sui riccioli dell’hobbit. La gente della Contea parlava e parlava, ma a loro non importava.

Era stata chiamata puttana e traditrice: non le importava se un paio di hobbit impiccione avevano messo in giro la voce che lei e Bilbo si erano incontrati durante l’avventura di quest’ultimo e successivamente si erano sposati; anzi. Sarebbe stato bello essere davvero la moglie di Bilbo e vivere felici e contenti. Ma lei non lo amava, lei aveva diciott’anni e non voleva sprecare la sua vita in un matrimonio; lei, se si fosse sposata, lo avrebbe voluto fare nella Montagna, con un nano. Non che Bilbo avesse qualcosa che non andava, anzi, ma era il suo più caro amico, come avrebbe potuto sposarlo?

Bilbo, dal canto suo, se ne infischiava altamente di ciò che le persone dicevano: era vero sì che era un Baggins di casa Baggins, ma era anche un Tuc, ed ormai quella sua vena pazzerella aveva preso il sopravvento.
Arya doveva dirglielo.
«Bilbo ..» lo chiamò, tentando di alzarsi mentre si asciugava le lacrime. L’abito da hobbit le andava corto ma non le dava fastidio: sembrava un vestito con minigonna che era solita portare prima; quello in imbarazzo da tanta pelle scoperta era Bilbo. Una volta si sarebbe divertita nel vedere le guance dell’hobbit arrossire violentemente, posandosi sulle sue gambe e risalendo fino al suo viso, ma ormai non riusciva a vedere del bello in niente. Nemmeno nei prati verdi della Contea, il vento fresco fra i capelli, il volo di una farfalla. Le sembrava che tutto avesse perso colore.

«Bilbo, devo dirti una cosa.»
L’hobbit si girò, osservandola. Sembrava stesse bene, ma avvertiva la preoccupazione nel suo sguardo: «Va bene, Arya. Ti ascolto.»
La ragazza prese un bel respiro, sedendosi sulla sedia assurdamente bassa, bassa perfino per lei: «Devo andarmene di qui, Bilbo. Non …» non riusciva a guardarlo negli occhi. «Non mi sento bene. Li vedo dovunque: nelle forme delle nuvole, nei fondi di caffè, nell’ondeggiare dell’erba. Questa … Questa non è casa. Questa è la tua casa, non la mia .. la mia .. » nuove lacrime le stavano appannando la vista, strinse le labbra per non piangere, ma non ce ne fu bisogno.
Le mani di Bilbo corsero dolcemente ai suoi occhi, asciugandoli amorevole come una madre. Poi prese le sue mani fra le proprie, invitandola a guardarlo negli occhi: «Ti capisco, amica mia. Lo vedo come tu ti stia logorando pian pianino, come tu stia sparendo. Questa persona che ho di fronte a me è lo spettro della ragazza sbarazzina e allegra che conobbi tredici mesi or sono, è la sua ombra. Allo stesso tempo, sei cresciuta. Sei cambiata e anche io sono cambiato. Solo che … alcuni cambiamenti sono più grandi di altri, ecco. Ormai io posso cambiare poco, Arya, ma sono cambiato in meglio. Tu sei così giovane, amica mia, ch temo tu possa cambiare ancora. Perché adesso sei più coraggiosa , più saggia, più … ma sì, anche più educata!» e qui Arya ebbe la decenza di lanciargli un’occhiataccia che lo fece sorridere e andare avanti: «Il problema, mia cara, è che stai sparendo. Lo vedo. Non voglio che questo cambiamento ti condizioni a vita. Quindi appoggio questa tua decisione, anche se … anche se ..» gli occhi di Bilbo erano lucidi e la voce aveva iniziato a tremare. Arya si chinò verso di lui commossa e gli posò un bacio sulla fronte sussurrando: «Grazie, o mio Capitano»
Bilbo sorrise e ricambiò il bacio abbracciandola.

Caso volle che Gandalf passasse di lì in quella stessa settimana. Non ci è dato sapere se fu davvero un caso fortuito o il volere dello Stregone a manifestarsi. Arya si sentiva leggermente meglio dopo ciò che lei e Bilbo si erano detti  ed era addirittura uscita un po’ in giro a passeggiare. Addirittura canticchiava a bassissima voce, l’eco di un’abitudine persa nei meandri del viaggio, quando il lusso di cantare non era più possibile da permettersi.
«Gandalf ..? Sei un’allucinazione?» gli chiese quando lo vide davanti al cancello di casa Baggins intento a farsi strada. Quello la guardò male prima di .. intenerirsi? «Quella che sembra un’allucinazione sei tu Arya! Ma Bilbo ti dà da mangiare? Ah, ne devo dire a quell’hobbit!»
Tre giorni dopo, Arya tornò nel suo mondo, le memorie dell’avventura appena vissuta impresse nell’anima.



 
   My age has never made me wise
But I keep pushing on and on and on and on ..

-Imagine Dragons; Nothing Left To Say




 
NdA:
Salve ragazza, sì, tu, ma proprio tu che leggi. Ammettilo che ti ha fatto schifo ;)
Prometto che i prossimi saranno migliori
.
Okay, faccio la seria. Lo so che dovrei continuare Winter Is Coming, ma io ... ecco, il mio cuore appartiene alla Compagnia di Thorin Oakenshield, non a quella dell'Anello. Mi spiego: non mi vengono altro che spin off e tutti incentrati sul periodo Lo Hobbit e non riesco ad andare avanti con quell'altra. Dato che ho notato un certo interessamento per la storia di Arya e che è perfettamente delineata nella mia mente manderò avanti questo progetto, per ora *parte Rains Of Castamere in sottofondo*
Essì. Prima finirò questa e dopo mi dedicherò all'altra che per ora sarà incompiuta. Non odiatemi, vi prego. Ma non voglio darvi le briciole di ciò che potrebbe essere con tanto scarto di distanza. Ergo, beccatevi questa.
BUON ANNO <3
Feniah *^*

PS
Per il momento sono sprovvista di Banner, ma Lil provvederà presto. NON E' VERO, ADEPTA?

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Capitolo 2
*** O2 > Radioactive ***


Radioactive
 
-Le vie del Signore sono infinite-
;Detto popolare;


 

Piccoli appunti, miei fedeli fans (?)
- I nani di Tolkien sono alti dal metro e quaranta al metro e sessanta, quindi alcuni della Compagnia sono alti quanto Arya (se non un paio di centimetri in più) tipo Kili, Fili, Thorin e Dwalin, i più alti della compagnia :3
-Ricordate, Arya è una fangirl  e principalmente opera nel fandom di Game of Thrones, Harry Potter, Shakespeare  e Marvel ;) I metalupi fanno parte dell’universo Trono di Spade, sono die lupi molto più grossi e, in sostanza, molto più fighi dei classici lupi u.u

 

 
Quella grotta puzzava incredibilmente. Si domandò che cosa potesse esservi accaduto per avere un tanfo del genere, perché, davvero, non riusciva ad immaginarlo – e lei aveva tantissima immaginazione. O meglio, proprio non riusciva ad immaginare qualcosa di terrestre che fosse in grado di puzzare così – non credeva che quello in cui fosse capitata fosse l’habitat migliore per dei bufali o dei bisonti. Fatto sta che si stava ancora chiedendo come avesse fatto ad arrivare lì, perché non ricordava niente. Non riusciva a ricordare come fosse arrivata, non riusciva a ricordare cosa stesse facendo prima, dove fosse prima. Prime di cosa, poi? Prima di sparire dalla città e ritrovarsi in una grotta nel pieno del bosco?

La caverna era spaziosa, leggermente più in basso rispetto al livello della foresta lì fuori, poco luminosa e zeppa di oggetti che avevano tutta l’aria di provenire da un’epoca passata, tipo il Medioevo o giù di lì. Siccome non riusciva proprio a tenere a freno la sua curiosità stava esaminando già da un po’ i manufatti, trovandovi diversi gioielli –bellissimi, certo, ma a suo parere troppo estrosi perfino per lei- e tante armi, spade soprattutto. Ve ne era una che superava di gran lunga in bellezza tutte le altre: era pesantissima per lei, infatti non riuscì a tenerla in mano per molto, ma abbastanza per ammirarne la fattura e rimanerne incantata. Aveva un design leggero, quasi sembrava fatta di vento; le venne in mente che Tolkien descriveva così le armi degli elfi e un sorriso le spuntò sulle labbra: magari fosse stata una vera lama elfica! Tuttavia non si spiegava perché quella spada in particolare fosse rimasta così bella e lucente mentre le altre avevano un aspetto orribile: di certo era ancora rimasta affilata. Ma lei volle controllare, e non appena pose il dito lungo il filo della lama il sangue iniziò a sgorgare vivace dal dito, imbrattando leggermente la lama. Quasi le cadde l’arma: la ragazza sibilò di dolore portando il dito alla bocca. Stupida. Così la prossima volta impari a toccare una spada affilata.

Ma quando mai le sarebbe ricapitato di toccare una spada in generale? Mai, sicuro. Avrebbe potuto portarla a casa e appenderla alla parte della sua camera –lontana dalle grinfie di sua sorella- e se un giorno fossero giunti dei ladri … bè, avrebbe avuto di che difendersi. Siccome il suo indice sembrava averci preso gusto a sanguinare, decise che forse – ma proprio forse, eh!- era il caso di uscire e cercare un ruscello in cui bagnarsi e disinfettare il taglio – non avrebbe mai finito di stupirsi della quantità di sangue che scorreva in un unico dito. Rimise nel fodero la spada con la sinistra in modo molto impacciato e si diresse verso l’entrata della grotta, agognando aria pura: addirittura le mosche giravano lì, ma che cosa era in grado di puzzare così tanto? Provò a risalire, ma la sua uscita dalla grotta fu bloccata da una figura inaspettata.

Un signore anziano, bastone di legno e  cappello a punta, stava scendendo cautamente sul terreno soffice, seguito da un altro tizio che ad occhio e croce doveva essere alto quanto lei, e, dietro di loro, vi erano altri uomini dalle lunghe barbe folte, anch’essi piuttosto bassi – bassi quanto lei, se non di più!
«Un bottino troll» borbottò Cappello a Punta. «Fate attenzione e dov- e tu che ci fai qui?»
  La ragazza ci mise qualche secondo a capire che ce l’aveva con lei e che aveva parlato in inglese. Decise quindi di rispondere nello stesso idioma, togliendo il dito dalla bocca per non risultare più infantile di quanto già non fosse: «Io .. io non lo so. Chi siete voi?»
«Ma che sciocco! Io sono Gandalf il Grigio, e lui è Thorin Scudodiquercia, e loro sono i nani della Compagnia. Qual è il vostro nome?»
Marina fece molte cose in quel piccolo lasso di tempo che occorse per pronunciare le due frasi.

Primo: si congratulò con sé stessa per riuscire a capire perfettamente ciò che diceva e si disse che vedere tutto Game of Thrones in lingua originale era stato un lampo di genio da parte sua.
Secondo: non appena registrò i nomi “Gandalf “ e “Thorin” aggrottò le sopracciglia, ripetendosi che no!, non potevano essere loro perché era impossibile, matematicamente impossibile!
Terzo: scoppiò a ridere, ridere tanto forte da piegarsi su sé stessa. Non era una di quelle risate piacevoli da sentire: la sua vocetta acuta era enfatizzata dai toni striduli ma contagiosi delle risa, specie se poi stavano iniziando a diventare isteriche -perché alcuni pezzi stavano combaciando nella sua mente. Allora era vero che quella spada era elfica! Era vero che erano stati dei troll ad infestare quel luogo!

La ragazza tacque di colpo, osservando stralunata tutto il gruppetto che si era formato all’entrata della grotta. Fece un passo in avanti, come a voler andare a verificare che tutto ciò fosse reale, che non fosse solo un brutto scherzo che la sua mente le stava giocando. Forse si era addormentata da Arianna, forse aveva bevuto e non se lo ricordava –quante volte la sua amica le aveva detto di non esagerare?- o forse era davvero la realtà quello che stava succedendo.
«Non è possibile ..» sussurrò in italiano, portando le mani sul naso e facendole scivolare giù, come a voler togliersi quel pensiero di dosso. Percepì una scia umida bagnarle il viso e si ricordò del sangue sul dito, ma accantonò subito il pensiero. Certo che era una finzione.
«Cos’avete detto?» chiese l’uomo che affermava di essere Gandalf.
«Ho detto» ripetè, stavolta in inglese «che non è possibile»
«Perché no, mia cara?»
«Perché» rispose leggermente stizzita dal tono accondiscendente dell’uomo «Voi siete personaggi di un libro. Voi non siete reali»
Quest’affermazione dovette lasciarli tutti basiti, perché un silenzio grave iniziò a pesare sulle loro teste, facendo sentire la ragazza tremendamente in colpa.
«Mi dispiace ma .. ma io lo so, io li ho letti quei libri. Però .. però ..» nel libro però c’è qualcuno che muore, anche se non mi ricordo chi.
«Non dire stupidaggini, ragazzina» sibilò quello che doveva essere Thorin – non se lo ricordava così antipatico. Aveva detto quattro parole e già le stava sulle palle. Ottimo.

«Non sono una ragazzina» rispose lei  alterata, mentre la mano iniziava ad inumidirsi tutta per via del sangue: «Solo perché dico qualcosa a cui tu non credi non vuol dire che non sia vera. Se io ti dicessi che credo in Buddha e non in Dio non mi chiameresti ragazzina per questo. Le hai mai viste le balene? No, ma sai che esistono.» Le balene non c’entravano poi molto in verità, ma doveva pur fare bella figura in qualche modo, no?
Furono le parole che pronunciò riguardo alle due divinità che convinsero Gandalf che la ragazza stesse dicendo la verità. Ricordava molto vagamente quei nomi, qualcosa di cui Manwe lo aveva messo al corrente molto tempo fa. Doveva scoprire più cose su quella ragazzina.

«Cosa puoi dire che possa convincerci che tu ci stia dicendo la verità?» chiese così lo Stregone. La ragazza impiegò qualche secondo a rispondergli, aggrottando le sopracciglia come se stesse cercando le parole, poi parlò, enfatizzando involontariamente quello stranissimo accento: « Voi siete la Compagnia di Thorin Scudodiquercia. State partendo per riprendervi Erebor e uccidere il drago – di cui ho dimenticato il nome. E’ una missione segreta, ma siccome i nani dei Colli Ferrosi non hanno accettato di venire e voi avevate bisogno di uno scassinatore siete arrivati nella Contea e avete .. avete .. arruopato Bilbo Baggins nella vostra Compagnia, sì?»
Thorin scese le scale arrivando ad un passo da lei, sembrava arrabbiato: «Tu come fai a sapere tutto questo?»
«Ve l’ho detto!» rispose lei arrabbiata, indietreggiando di un passo: «Ho letto i libri qualche anno fa! Non me li ricordo benissimo! Io devo solo tornare a casa! I miei si staranno già preoccupando, non so da quanto tempo sono qui.»
«Non credo che tornerai a casa presto» disse Gandalf avvicinandosi. «Come ti chiami?»
Marina pensò vagamente che non doveva dar confidenza agli sconosciuti, forse fu per questo che si bloccò a metà parola: «Mar … Arya. Mi chiamo Arya, sì.» annuì per enfatizzare la cosa.
Thorin la guardò sospettosa: «Arya? Sei sicura? Arya e basta?»
«Sicurissima! Arya .. Sparrow. Arya Sparrow, piacere.»
Arya. Le piaceva quel nome.
«Bè, Arya, mi dispiace ma non credo di poterti aiutare. Da dove provieni?» chiese Gandalf poggiandosi al suo bastone.
«Roma, Italia. Conoscete?»
Dagli sguardi attoniti che si lanciavano credeva proprio di no.
«Bene, Arya Sparrow dall’Italia, ho deciso, tu verrai con noi» stabilì con un sorriso bonario Gandalf.
«Che cosa!?» sibilò Thorin girandosi verso lo stregone: «Lo sai che non possiamo portarci altri pesi morti appresso, Gandalf»
«Thorin, mi addolora vedere che ancora non hai capito che c’è sempre un disegno in ciò che faccio.» rispose serio Gandalf. Poi guardò verso Arya, sorridendole gentile: «Arya non sarà un peso morto, vero?»

La ragazza sorrise di rimando, corrucciandosi subito dopo: «Gandalf, non posso. Devo tornare a casa. Mia madre morirebbe dal dolore, non sto scherzando. Una volta eravamo al centro commerciale e mi sono persa, tu non vuoi sapere in che stato stava lei. Non so da quanto tempo sono scomparsa, non so come tornare ..»
«Per questo, Arya, devi venire con noi. Non possiamo aiutarti, ma sei troppo importante per essere lasciata qui. Ti prometto che quando la missione sarà compiuta, troverò un modo per riportarti indietro.»
Arya impiegò un paio di secondi per recepire tutto, ma alla fine annuì e sorrise a trentadue denti: «Andata.» “Wao, ha detto che sono importante!”
«Benissimo» fece Thorin lapidario: «Oin, disinfettale la mano prima che si dissangui. Benvenuta nella nostra Compagnia, Arya Sparrow.» Non sembrava felice di questa cosa, ma la ragazza apprezzò comunque quel “benvenuta” che la fece sorridere: «Grazie»
S’inerpicò su per la salita della grotta, tenendo la mano sanguinante lontano dal terreno. Uscì e si avvicinò al nano indicatole da Thorin, quello con le trecce strane nella barba grigia.
Speriamo solo di essere in gamba quanto la vera Arya e quanto il vero Sparrow. Pensò lei mentre Oin la faceva sedere su una roccia e le medicava la ferita. Il taglio in sé non era poi molto grosso o profondo, era solo il sangue che gli dava un tocco macabro e lo faceva apparire più grave di quanto non fosse. Le mise un composto di erbe tutto molle – Arya sospettava fossero masticate- e poi fasciò rapidamente il dito con una garza. A vederlo così non sembrava poi tanto grave come cosa.
«Grazie» sorrise Arya al nano, che la guardò e le sorrise di rimando: «Oin, al vostro servizio»
Il saluto la lasciò piuttosto perplessa, ma si affrettò a replicare nello stesso modo; Oin se ne tornò giù dai suoi amici, dove sembrava stessero scavando nel terreno. Sporgendosi, Arya capì che aveva ragione; ma Gandalf e Thorin uscirono, ordinando agli altri di tornare su. Aveva chiamato Bofur, Gloin e Nori.
Oddio, pensò la ragazza, allora è tutto vero! Provò a rialzarsi da terra facendo leva solo su un braccio, ma non ci riuscì, perché una mano era tesa verso di lei.

Alzò lo sguardo stupita, trovandosi davanti un nano biondo con buffi baffi trattenuti in due treccine appena sopra il labbro superiore, il sorriso in volto: «Serve una mano?»
Lei accettò con un sorriso il suo aiuto, rimettendosi “agilmente” in piedi –in realtà quasi la tirò su di peso lui- e gli rivolse un bel sorriso sincero: «Grazie per l’aiuto. Tu sei?»
«Fili, al vostro servizio!» e si esibì in un profondo inchino davanti a lei.
«Oh» sussurrò la ragazza-ancora con questo “al vostro servizio”?- ma fece una leggera riverenza anche lei: «Anche io. Puoi darmi del tu, Fili. Io sono Arya.»
«Ed io sono Kili!» S’intromise una voce allegra spuntando dal nulla. Un altro nano, castano, identico a Fili, si presentò sorridendo, inchinandosi profondamente davanti a lei e le fece l’occhiolino. Arya rise- conosceva quei due da tre nanosecondi e già le stavano molto simpatici- e ricambiò l’occhiolino: «Scusami caro, sono già fidanzata»
Il sorriso morì sulle labbra di Kili, alimentando le risa di Fili e della ragazza: «Peccato, Kili»
«Dai, ti andrà meglio la prossima volta» Arya si spolverò i jeans – più per fare qualcosa che altro- «Ditemi, ragazzi..» i due si avvicinarono, ascoltandola: «Come si chiamano tutti gli altri? Allora, quello là scorbutico e antipatico è Thorin-»
«Ah, non te la prendere, Arya» fece Kili.
«Già!» annuì suo fratello: «All’inizio fa così con tutti. Anche con noi che siamo suoi nipoti! A chi lo fa fare il primo turno di guardia? Sempre a noi! Però poi ci si abitua e lui migliora»
«Sarà ..» borbottò la ragazza«Ma a me continua a non piacere. Comunque: Thorin, Gandalf, voi due, Oin, Bilbo ..» indicò ognuno man mano che li nominava: «E gli altri?»
«Allora» esordì Kili: «Questo è Bofur» e indicò un nano con un buffo cappello sul capo: «Poi abbiamo Ori, Nori, Bifur, Bombur..»
«Balin, Dwalin e Dori» concluse Fili.
«Non li imparerò mai tutti» sussurrò affranta la ragazza. Ma non poteva chiamarli “Ehi tu!” oppure “Nano” oppure “Amico!” Meglio di no, specie con quello lì pieno di tatuaggi in testa –Dwalin.  Però, dai. Poteva cavarsela.

«ARRIVA QUALCOSA!» urlò Thorin facendo sobbalzare la ragazza: «Restate uniti!»
Quasi fosse stato un movimento automatico, prima che Arya potesse rendersene conto, Fili e Kili si misero davanti a lei, avvicinandosi verso il gruppo e mettendosi in posizione difensiva. Fruscii e zampetti pesanti, sinistri, provenivano dalla selva: tutti quanti – nani, Arya, Bilbo e Gandalf- erano in trepidante attesa. Quale sarebbe stato il nemico da fronteggiare? Arya sperava non fossero orchi. Aveva un vago ricordo dei libri che aveva letto sulla Terra di Mezzo e nessuno riguardo al film: aveva letto i libri, perché guardare la trasposizione cinematografica quando c’erano i fumetti da leggere o Game of Thrones su cui avanzare teorie? Però in quelle vaghissime memorie una cosa era impressa nella sua mente: orchi. Non sapeva se avrebbe retto alla vista di uno di quelli senza iniziare ad urlare – si riteneva una persona abbastanza coraggiosa, sicuramente più di chiunque conoscesse, ma gli orchi … E se .. e se fossero stati ragni giganti?

L’urlo era lì lì per uscire dalle sue labbra quando dei conigli spuntarono dalla selva, trascinando una slitta con un tizio con la cacca di uccello in faccia ed Arya invece di urlare ridacchiò nervosamente, portandosi la mano a sistemare i capelli – viziaccio di famiglia: quando era nervosa o faceva così o iniziava a mangiarsi le unghie.
«LADRI FUOCO ASSASSINIO!» urlò invasato l’uomo, destabilizzando la ragazza. Ma che diamine ..?
«E’ Radagast il Bruno!» li informò Gandalf abbassando le armi. Sembrava che Radagast volesse dirgli una cosa importante, molto importante, ma continuava a bloccarsi a metà frase: «Oh! Avevo un pensiero proprio qui sulla punta della lingua e ora l’ho perso!»
Non riuscì a capire cosa disse dopo – oltre che in inglese stava parlando strano, come se avesse qualcosa in bocca- infatti chiese a Fili cosa stesse dicendo. Il nano si limitò a scuotere la testa mentre Gandalf estraeva dalla sua bocca un insetto lungo e schifoso. «Bleah!» esclamò la ragazza: «Che schifo!»
Poi ci si chiede perché nel medioevo moriva tanta gente. Basti guardare a che razza situazione igienica c’era!

Gandalf e Radagast si appartarono, e gli altri colsero l’occasione per riposarsi un po’ – compresa Arya. Non aveva fatto poi molto quel giorno, però doveva ammettere di essere abbastanza scossa. In realtà doveva complimentarsi con sé stessa: aveva appreso la notizia dell’esistenza della Terra di Mezzo molto bene; con stoica fermezza aveva accettato di non rivedere la sua famiglia e Leo per non si sa quanto tempo; certo che si doveva complimentare con sé stessa! Sua sorella avrebbe avuto una crisi isterica dal primo secondo, iniziando a dar di matto: lei invece no, lei era rimasta composta e assolutamente calma. Certo, avrebbe preferito finire su Asgard o a Hogwarts invece che in un posto di cui ricordava poco o niente, ma se la vita – o la sua mente, chissà- le stavano giocando questo scherzo – o regalo- lei era intenzionata a coglierlo. Stava osservando senza realmente vederle le proprie converse, smuovendole sul terreno distrattamente quando decise di alzarsi, rimboccandosi le maniche –metaforicamente parlando visto che indossava una t-shirt: «Come vi posso aiutare? Cosa posso caricarmi?» al che la guardarono un po’ stupiti, ma le affidarono qualche zaino e borsa –tutti piuttosto leggeri in realtà. Stava per protestare per averne altri –i nani si caricavano tanta roba, ce la faceva a reggere altro peso- ma un guaito catturò la sua attenzione.

«Metalupo?» sussurrò  spaventata, iniziando a stringere convulsamente la stringa di una borsa.
«Ci sono i lupi da queste parti?» chiese Bilbo preoccupato.
«Lupi? No, quello non era un lupo» affermò serio Bofur stringendo a sé il suo piccone. Da sopra l’altura provenne un basso ringhiare e tutti si girarono verso la fonte del suono: un coso enorme, orribilmente grande e cattivo stava venendo giù lentamente, scoprendo le zanne e ringhiando minaccioso. Ad Arya scappò un gemito che si tramutò in uno strillo quando la bestia saltò addosso a Dori, schiacciandolo sotto il suo peso.
«FATE QUALCOSA!» urlò qualcuno, Thorin estrasse la sua spada –Arya notò che era quella che aveva toccato lei prima, sporca del suo sangue rappreso- e uccise il lupo con un solo movimento.
«KILI! Usa l’arco!» urlò a suo nipote per ucciderne un secondo che sbucò dalla selva retrostante; Kili scoccò la freccia e lo colpì alla giugulare, quello cadde a terra ma provò a rialzarsi, non riuscendoci, visto che Thorin lo finì recidendogli la gola assieme a Dwalin.
«Un Mannaro ricognitore» esalò mentre estraeva con fatica la spada dal collo dell’animale: «Un branco di orchi non è molto distante»
«O-orchi?» Balbettarono all’unisono Bilbo e Arya.
Gandalf si avvicinò affannato verso Thorin: «A chi hai parlato della tua impresa oltre che alla tua famiglia?»
«A nessuno.»
«A CHI LO HAI DETTO!?»
 «A nessuno, lo giuro.»
Ah, allore se lo giura lui, pensò Arya leggermente contrariata.
«In nome di Durin, che succede?»
«Vi stanno dando la caccia, dobbiamo spostarci»
La ragazza corrugò le sopracciglia: «In nome di chi?» Si girarono verso di lei: i nani come a dire “Come sarebbe a dire in nome di chi?” gli altri “Ma ti pare il momento!?”
«Dobbiamo andarcene di qui!»» fece Dwalin minaccioso.
«Non possiamo!» piagnucolò Ori da lassù: «Sono scappati!»
«Li depisto io» fece Radagast incredibilmente sicuro.
«Ma cos …»
Gandalf si voltò verso l’altro Stregone: «Questi sono mannari di Gundabad, ti raggiungeranno!»
«E questi sono conigli di Rhosgobel.» Gonfiò il petto d’orgoglio: «Vorrei che quelli ci provassero.»
 
E a quanto pareva quei conigli di Rhosgobel erano davvero veloci, perché sebbene i mannari provassero a raggiungerli, quelli gli sfuggivano sempre da sotto il naso, alimentando così le risate dello Stregone.
«Andiamo» borbottò Gandalf sporgendosi dalla roccia dietro cui si erano nascosti iniziando a correre. Il terreno era tutt’altro che facile da percorrere: alla foresta verde e spumeggiante di prima si era sostituita una sorta di pianura d’erba secca gialla, punteggiata qua e là di verde e cosparsa del grigio delle rocce. Arya avrebbe tanto voluto fermarsi a scattare qualche fotografia ma 1) non aveva una macchina fotografica; 2) stava correndo per istinto di sopravvivenza, le sue gambe scattavano avanti e indietro da sole, tremanti; 3) non voleva morire né perdere di vista Fili e Kili.
«Presto, muoviamoci!»
«Restiamo uniti!»
Girarono senza seguire un percorso apparente, coperti da una roccia; ma Ori dovette aver accelerato troppo, perché si sporse e sentì un “ORI NO!” ch confermò la sua teoria. Si strinse un po’ a Fili, respirando affannosamente.
Gandalf li fece passare guidandoli verso la prossima meta: «Presto, presto!»
Non sapeva dove stessero andando, non se lo stava chiedendo in realtà: sebbene i mannari non fossero dietro di loro, Arya stava tremando di paura; sentiva il loro fetore caldo sulla pelle, udiva le zanne schioccare, gli artigli grattare la terra e l’unica cosa a cui pensava era la dolore che avrebbero procurato loro se quei cosi li avessero trovati. Si accucciarono contro una roccia, percependo una presenza sopra il masso. Erano loro! Erano loro venuti a prenderli e ad ucciderli!
Arya trattenne un singulto tappandosi la bocca con una mano: Fili dovette capire che non stava bene perché le rivolse un sorriso tirato ma rassicurante che la fece stare meglio. Deglutì e annuì, mentre osservava come Kili scoccava la freccia e centrava il bersaglio. Fu una lotta breve ma rumorosa – troppo chiassosa!    Che attirò tutti i mannari su di loro.
«MUOVETEVI!» Urlò Gandalf: «Correte!»
Finirono in un spiazzo erboso, completamente circondati da quelle fetide creature. Le si rivoltò lo stomaco solo a guardarle, quindi si avvicinò il più possibile al resto del gruppo, dove aveva l’illusione di sentirsi un po’ protetta. Non aveva nemmeno un coltello con cui difendersi!
«Dov’è Gandalf!?» urlò disperata.
«Ci ha abbandonati!»

«No, non è vero ..» sussurrò più a sé stessa che agli altri, ed aveva ragione, perché Gandalf spuntò lì all’improvviso da dietro un masso, urlando loro di venire da quella parte. Arya corse verso di lui e aiutò lo hobbit ad entrare per primo, poi si buttò in scivolata lei, atterrando sul terreno di pietra del cunicolo.
Contò personalmente assieme allo Stregone che ci fossero tutti, sospirando di sollievo quando la compagnia fu al completo.
Udirono suoni di trombe e cavalli e colluttazioni, poi il corpo morto trafitto da una freccia di un orco cadde ai suoi piedi, facendola strillare di orrore. Si allontanò di scatto schifata, mentre Thorin si chinava e affermava che quella era una freccia elfica.
«Elfi?» domandò lei frastornata.
«Ti senti bene, Arya?» le chiese Kili sorridendole sornione: «Sei un po’ palliduccia»
«Sto bene, sto bene. Voi?»
Tutti asserirono di star bene e un altro sospiro di sollievo le scappò, portandola a passarsi nervosamente le mani fra i capelli legati.
«Non vedo dove porta il sentiero! Lo seguiamo o no?»
Arya e Bofur parlarono nello stesso istante, frettolosamente: «Lo seguiamo, certo!»
«Direi che è una cosa saggia» sussurrò Gandalf.
 Ah, il gusto dell’ignoto. Chissà dove l’avrebbe portata.

 
Welcome to the new age
-Imagine Dragons-




Allora sono di corsa. 6 pagine di word, buon anno, non betato, aiuto devo scappare. Vi voglio bene <3
Feniah <3

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Capitolo 3
*** O3 > Into The Open Air ***







Could these walls crumbling down?
-Brave OST-

 
Così iniziarono a seguire il sentiero.
Arya, che era una bambina curiosa, e le bambine curiose si osservano sempre attorno, notò come le pareti di roccia si stringessero attorno a loro mano a mano che avanzassero, fece caso anche all’angolazione che la luce aveva nel raggiungerli. Non c’era l’oscurità tipica delle caverne, simile a quella che permeava nel luogo in cui l’avevano trovata, piuttosto sembrava filtrare dall’alto, illuminandoli di luce fredda e soffusa, in qualche modo frizzante. Alzando lo sguardo ne capì il motivo: non vi era soffitto, la striscia del cielo era ben visibile oltre al corpo alto e frastagliato di roccia, stretta e leggermente accidentata. Il terreno su cui camminavano non era da meno: la roccia era infida, e più di una volta si era ritrovata a tentennare o a scivolare, prontamente salvata da Fili, ed una volta – mentre camminava col naso all’insù per vedere se c’erano strani animaletti in agguato- era andata a sbattere contro la schiena di Kili, fermatosi per colpa di Bombur, incastrato fra le rocce troppo strette per la sua enorme mole. Si era scusata con Kili massaggiandosi la spalla –non sapeva cosa il nano portasse a tracolla, ma faceva malissimo- e lui la liquidò con un sorriso e un occhiolino, invitandola a passare davanti a lui.
Aveva accettato sorridendogli contenta; mentre avanzava lasciava che la sua mano vagasse sulla superficie accidentata della roccia, esplorandola con la punta delle dita, permettendosi di fare ciò che le era sempre stato negato fino ad allora: quando ci provava in città, l’intonaco crollava impolverandole i vestiti, oppure, visto che era sporco, riceveva sonore sgridate dai suoi, e alla lunga era stancante, perciò smetteva quasi subito o non ci provava proprio. Ma era bello, ora, infrangere quella piccola regola.

Alla fine riuscirono ad uscire, ritrovandosi in una sorta di spiazzo formato da ampi gradini semicircolari -non proprio simmetrici- leggermente bagnati da un rigagnolo d’acqua che scendeva pigro, la pallida imitazione di una cascata. Inspirò a pieni polmoni l’aria fresca del luogo, sentendosi stranamente più rilassata e tranquilla, felice. Stava strofinando le proprie dita fra loro, lasciando che la leggera polverina lasciata dalla roccia cadesse a terra, solleticandole i polpastrelli. Voltando lentamente il capo aprì gli occhi, lasciando che tutto lo stupore si manifestasse sul suo viso: «Wow …» fu tutto ciò che riuscì a sussurrare, mangiandosi con gli occhi la visione davanti a lei.
Il paesaggio più bello che avesse mai visto faceva mostra di sè appena più a valle, estendendosi per tutto il suo campo visivo: illuminato d’arancio e d’oro alla luce pomeridiana sembrava dormisse, lasciando che i raggi penetrassero quieti in quella perfetta composizione di boschi, pietre e acqua. Dei fiumi scorrevano veloci al di sotto, dando un tocco freddo al caldo sentore d’autunno già percepibile nell’aria, i boschetti aranciati alternati da alte mura rocciose, belle ed eteree, che sembravano lì da sempre e per sempre.
Le prudevano le dita per la voglia di fotografare quel posto.

«La Valle di Imladris» la informò Gandalf: «Nella lingua corrente è nota con un altro nome»
«Granburrone …» sussurrò Bilbo.
La cosa buffa fu che impiegò un paio di secondi ad identificarvi le costruzioni: erano così ben incastonate nel paesaggio da mimetizzarsi completamente, lasciando che il loro bagliore argenteo saltasse alla vista dopo la meraviglia offerta dalla natura, dopo che l’occhio si fosse abituato ai colori e al … tutto che c’era lì. Sembravano fatte su misura per il luogo, come se gli ingegneri, quando la progettarono, avessero pensato che sarebbero dovute essere le costruzioni ad abituarsi alla natura, non viceversa. Cupole, archi, palazzi, tutti rigorosamente curvi, dolci, dalle linee gentili, in perfetta comunione con il paesaggio.
«Qui si trova l’ultima casa accogliente a est del mare» continuò lo Stregone, avvicinandosi a lei. E mentre Arya annuiva distrattamente tentando di inglobare con lo sguardo tutto il paesaggio della Valle, mentre tutto sembrava assumere un senso e mentre la possibilità di viaggiare per terre di tale bellezza faceva capolino nella sua mente, Thorin giunse, con la dolcezza e simpatia che lo caratterizzavano da sempre: «Era il tuo piano fin dall’inizio, sicuro. Trovare rifugio dai nostri nemici!»
 «Tu non hai alcun nemico qui, Thorin Scudodiquercia. Il solo malanimo che si trova in questa Valle è quello che porti tu stesso.» lo zittì Gandalf serio.
Ad Arya scappò un sorrisino soddisfatto. Che abbassasse la cresta, ogni tanto. Di sicuro non gli avrebbe fatto male.
Ma no, eh! Lui continuava ad insistere! «Pensi che gli elfi vorranno benedire la nostra impresa? Piuttosto tenteranno di fermarci!»
Elfi! Lo sapeva che quel luogo non poteva esser stato costruito da dei semplici esseri umani come lei.
«Certo che lo faranno!» fece Gandalf con il tono più naturale possibile: «Ma non abbiamo domande che attendono una risposta.»
E qui Thorin ebbe la buonagrazia di abbassare lo sguardo e tacere.
«Se vogliamo avere successo la faccenda va trattata con tatto. E rispetto. E con una non piccola dose di fascino. Ecco perché lascerete parlare me»
Arya –che stava ridacchiando per via di Gandalf- tacque all’improvviso, sentendosi chiamata in causa. Non sapeva perché, ma aveva come l’impressione che lo stregone stesse parlando con lei, come se avesse capito di che pasta era fatta.

Si rigirò a disagio, iniziando a scendere frettolosamente le scale,cosa che avrebbe fatto meglio ad evitare- visto che con la sua immensa grazia rischiava di scivolare da un momento all’altro- ma tutto andava per il meglio: la Compagnia procedeva adagio per il sentiero di roccia, e la ragazza fischiettava a voce non troppo bassa Yellow Submarine, tanto per rallegrare un po’ la traversata. Dopo l’esperienza vissuta poco tempo prima aveva bisogno di sciogliere i nervi, e non c’era miglior modo di farlo se non usando la musica. Impiegarono più tempo del previsto a raggiungere la destinazione: la ragazza se ne accorse dalla luce, divenuta più calda e piacevole –aveva sempre amato la luce pomeridiana, la trovava perfetta per le sue fotografie- e dal sole, leggermente calato rispetto a come lo aveva visto qualche tempo prima. Il suo orologio segnava le cinque e dieci di pomeriggio, ciò significava che erano un paio d’ore che scendevano dallo spiazzo, ma non percepiva la stanchezza- le dava solo un sacco fastidio non avere la sua fotocamera con sé.

Dopo la lunghissima discesa Gandalf li fece attraversare un ponte su un fiume che scorreva impetuoso, inumidendone un po’ la superficie. La cosa che la stava turbando era la totale assenza di ringhiere o parapetti: «E se cascasse qualcuno?»
«Affari suoi» borbottò Dwalin, aggregandosi a Thorin –che non l’aveva nemmeno degnata di uno sguardo- il quale era già a metà strada.
«Hai paura di cadere?» le chiese qualcuno – Bofur, se non sbagliava. Si strinse nelle spalle, sistemandosi bene lo zaino in spalla: «No, io so nuotare. Solo non so se voi sì- insomma, non mi pare di aver mai letto che i nani fossero abili nuotatori. E se uno cade dove lo prendiamo?» L’ultima frase le parve grammaticalmente scorretta,  ma il concetto dovette esser chiaro, perché il nano le sorrise a trentadue denti: «Non preoccuparti, uccellino, lo riprenderemo sicuramente. E poi non puoi cadere, c’è così tanto spazio che ci passerebbero due draghi!»
Lei ridacchiò, anche se non era ancora del tutto convinta: «Va bene»
  Bofur la fece passare avanti- «così se cadi ti prendo!»- e attraversarono senza complicazioni il breve ponte, arrivando in un altro spiazzo di pietra, perfettamente circolare. Davanti a loro delle scale di pietra, avvolete in tralicci d’erica e fiori appena appassiti, conducevano ai livelli superiori, dove la ragazza supponeva si estendesse tutto il complesso di edifici. Due statue bellissime, raffiguranti due elfi in armatura, diedero loro il benvenuto: ad attenderli c’era .. bè, nessuno.

Meglio così, pensò Arya continuando a guardarsi attorno: «Questo posto è bellissimo. Chissà che primi piani verrebbero con la mia Nikon!»
Non era l’unica così meravigliata: notò con piacere che anche gli altri avevano gli occhi spalancati per tentare di riuscire a vedere tutto quanto senza perdersi nulla; tuttavia non le sfuggirono Thorin e Dwalin – sempre insieme stavano- che si lanciavano occhiate torve in giro, sussurrandosi qualcosa – avvertimenti, supponeva.

«Mithrandir!»
Arya si girò verso la voce: dalle scale una persona – presumibilmente un elfo- scendeva tranquilla, guardando fisso lo Stregone. Era bello, si ritrovò a pensare, bello ma di quella bellezza scialba e banale che molti possedevano: lei per prima sapeva di non poter far testo, eppure – forse era colpa degli abiti viola che indossava, forse dello sguardo profondo che aveva- risultava attraente. Poco virile, ma da quanto ne sapeva gli elfi non si facevano crescere la barba. Dannatamente alto. Fece uno strano movimento con una mano – un saluto?- e poi parlò in elfico, sempre rivolto a Gandalf. Com’è che l’aveva chiamato? Mithrandir?
«Devo parlare con il Sire Elrond» fece Gandalf serio, usando l’inglese.
L’elfo passò senza alcun problema all’idioma scelto dallo Stregone: «Il mio signore Re Elrond non è qui»
«Non è qui. E dov’è?»

Ahoooooooooooo ..
un corno suonò. Voltandosi Arya vide una carica di cavalli venire verso la loro direzione. Non pareva corressero, ma Thorin urlò qualcosa in una lingua stranissima e in meno di un battito di ciglia successe il finimondo: venne acciuffata da dietro e spinta all’interno del cerchio protettivo che i nani erano andati a formare, quasi cadde addosso a Bilbo ma riuscì a bloccarsi in tempo; la Compagnia aveva serrato i ranghi chiudendo i due al proprio interno ed esibiva espressioni feroci brandendo le armi pronti a difendersi da eventuali attacchi. Il manipolo di elfi a cavallo aveva iniziato a separarsi, avanzando in circolo attorno a loro  guardandoli dall’alto verso il basso, portando bandiere con stemmi colorati. Si bloccarono quasi subito, permettendo ad uno di loro di scendere: «Gandalf!» esclamò gioviale.

«Re Elrond!» rispose Gandalf; seguì un breve scambio di battute -di cui Arya non comprese assolutamente nulla – durante il quale l’elfo – Re Elrond- era sceso da cavallo abbracciando brevemente lo Stregone: «Strano per degli orchi avvicinarsi tanto ai nostri confini» osservò dando una spada all’altro elfo: «Qualcosa o qualcuno li ha attirati.»
Gandalf indicò il loro gruppo – ancora in formazione protezione- «Magari siamo stati noi» e solo allora, casualmente, Elrond parve notarli.
«Benvenuto Thorin, figlio di Thrain» fece allora l’elfo.
«Ciao anche a te» borbottò sottovoce Arya guardandolo male. Ma l’educazione dove era finita? Almeno un “Salve a tutti” o un “Buon pomeriggio” o qualsiasi altra cosa sarebbe andato bene. Mica c’era solo Thorin lì!
«Non penso che ci conosciamo»
«Tuo nonno aveva lo stesso portamento. Conoscevo Thror, quando regnava sotto la Montagna.»
«Ah,sì? Non ti ha mai menzionato» e Thorin continuava a fare il nano mestruato. Porca miseria che fastidio  le dava!
Non sembrava l’unica a cui l’atteggiamento di Thorin desse fastidio: Sire Elrond guardò intensamente il nano, iniziando a parlare lentamente e scandendo le parole, ovviamente in elfico, cosicché non capirono cosa volesse dire.
«Che sta dicendo!?» ringhiò uno di loro – Gloin?- : «Quello ci sta offrendo insulti!?»
«No, mastro Gloin! Il Re vi sta offrendo del cibo» fece Gandalf quasi disperato. La cosa buffa era che tutti – tutti, nessuno escluso- parvero ricevere un’illuminazione alla parola “cibo”. Un secondo prima erano pronti a scannarsi come belve selvagge e un secondo dopo si erano riuniti in gruppetti confabulando fra loro decidendo se accettare o no l’offerta. Come se l’idea del cibo potesse mettere tutto in discussione. Arya ridacchiò, notando che anche Elrond sembrava divertito.

 «Ah bè» esclamò allora Gloin: «Allora facci strada!»
«Muoio di fame!» esclamò Bofur: «Tu no, uccellino?»
«Sì» sorrise lei: «anche se forse è un po’ presto, no?»
«Naaaah!» esclamarono in coro Fili, Kili e Bofur.

Effettivamente persero un po’ di tempo – un bel po’ di tempo- a sistemare le loro cose: vennero condotti in un ala del palazzo dove la luce non filtrava dalle finestre, mettendo tutto in penombra. Le piaceva quell’alone azzurrino che circondava ogni cosa, le conciliava il sonno.  Alcun servitori dissero che la sua stanza era in fondo a destra e che la cena sarebbe stata servita di lì a poco. Arya vi si avviò velocemente, chiudendo la porta dietro di sé, girandosi i suoi occhi si spalancarono ancora, facendola restare a bocca aperta. Non aveva occhi che per la terrazza: un’intera parte mancava, sostituita da un’enorme finestra affacciata sulla valle; due colonne dai capitelli corinzi sorreggevano le volte acute del’infisso, quella centrale più ampia delle altre due. Le colonne erano in marmo bianco e grigio, perfettamente in tinta con i colori neutri della stanza. Oltre la finestra vi era un terrazzo colori antracite, il panorama dominato dall’incotro dell’azzurro del cielo, il bianco della schiuma dei fiumi e i colori vari degli alberi. Un letto a baldacchino bianco stava quieto in un angolo, le cortine di leggero tessuto grigio che ondeggiavano alla brezza pomeridiana; un armadio grafite era posato alla parete alla sua destra, decorato un rampicante che s’inerpicava diagonalmente sulle ante. Vi erano anche due specchi, uno accanto allo scrittoio (alla destra dell’armadio) e uno incorporato in un mobile pieno di cassetti, anche questo di un colore grigio-azurro. I motivi di piante e fiori regnavano sovrani, rendendo l’ambiente piacevolissimo. Prestando pochissima attenzione a dove posava gli zaini, corse verso la finestra, esplorando con lo sguardo i colori della Valle. Era bellissima, non poteva negarlo. Chiuse gli occhi alzando leggermente il capo, respirando a pieni polmoni l’aria della sera ormai prossima.
Una brezza fresca le stava accarezzando dolcemente la pelle, facendole venire la pelle d’oca; l’aria sapeva di bosco, acqua e erba bagnata; nonostante le sue palpebre calate celassero tutto il belvedere sotto di lei poteva immaginare gli uccellini volare nel cielo, gli elfi passare attraverso sentieri nascosti alla vista, l’acqua scorrere verso luoghi remoti e ignoti, e le venne da pensare che in confronto a tutto quello lei non era niente, nessuno: nient’altro che una ragazzina sperduta in una terra che non sarebbe dovuta esistere, un nulla nell’immensità del mondo.
Eppure era confortante sapere che era proprio l'essere un niente  a fare di lei parte di quel tutto.




I want to feel my feets on the
ground
-Into The Open Air (Brave OST)-

 
Ciaoooo!! Scusate il ritardo e la brevità/inutilità del capitolo ç.ç
Tuttavia è necessario, un pò per rimarcare la personalità della ragazza, un pò perchè era TROPPO lungo e ho dovuto dividerlo. Ma l'altro .. oh, sì, il seguito sarà bellissimo Mewhehe!
Ringrazio tutti, dal primo all'ultimo, coloro che seguono/ricordano/preferiscono/ recensiscono la mia storia. Continuate così, che mi date la carica! E ricordate, un parere è sempre bene accetto!
Ah, ultimo ma non ultimo! Ricordate le gif dell'altra volta? E' tutto merito di
radioactive e ineedhoransmile -che mi perdoneranno per la mia incapacità nell'usare collegamenti ipertestuali- e l'attuale banner è una creatura di The S Team -la mia adepta <3 - e niente, volevo ringraziarle dal profondo del cuore.
Buona settimana a tutti
Feniah <3

 
 

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Capitolo 4
*** O4 > Marigold ***





 
   Al mio Generale: ho pensato a te nella stesura del capitolo,
spero possa soddisfarti e farti sorridere;
alla mia amica dal falso nome gallese:
sorridi anche tu, e suonami qualcosa.


Marigold

-La Margherita è il fiore delicato della purezza e
dell'innocenza giovanile, libera dai sensi di colpa, dal peccato, dalla corruzione.-

 
 
 
Restarono a Granburrone per due settimane, abbastanza per permettere alla ragazza e alla Compagnia di conoscersi e piacersi.
Nessuno sembrava considerarla un peso – eccetto Thorin e Dwalin- e, in linea di massima, piaceva a tutti, ma, per il momento, alcuni non sembravano interessati ad approfondire il rapporto.
Invece era convinta di essere entrata nelle grazie di alcuni di loro: Fili, Kili e Bofur l’adoravano già – sentimento più che ricambiato- e Balin sembrava avere un occhio di riguardo per lei, cosa che non le dispiaceva affatto.
Balin le sembrava estremamente saggio, molto più rispetto ad alcuni elfi che aveva avuto modo di conoscere in quel breve soggiorno.
Certo, aveva preso la fastidiosissima abitudine di chiamarla “bambina” nonostante lei avesse spiegato loro che sarebbe diventata maggiorenne, quindi adulta, un paio di mesi dopo, ma a quanto pareva sembrava  che le sue parole non fossero state recepite. Sempre meglio di Bofur, che se ne usciva con “Uccellino”, ma siccome non voleva fare la figura della ragazzina capricciosa si limitava a far finta di niente – sotto sotto le piaceva.
Quando la chiamavano con quei nomignoli le pareva di cogliere una sfumatura affettuosa nella voce, la stessa che sentiva quando Balin chiamava Bilbo “ragazzo”.

Già. Bilbo.
Era piccolo – lui era un bambino- e provava un insensato istinto materno nei suoi confronti, che le faceva sempre allungare l’occhio su di lui quando si allontanava – sì, anche se erano in confini protetti- e le stringeva il cuore, apprensivo, quando si avvicinava a quei maledetti ponti senza parapetti. Stessa cosa valeva per Ori: l’aveva adocchiato la prima sera a cena, mentre cercava le patatine fritte perché non gli piaceva il cibo verde, e aveva capito che lui era il più piccolo di tutti. Almeno di testa, visto che la media dell’età era cent’anni – a parte Fili e Kili: loro ne avevano settanta ed erano giovani- e Bilbo che ne aveva cinquanta.
Arya diciassette. Quasi diciotto.
 
Aveva passato quel periodo aggirandosi per Granburrone armata di pergamena, piuma e calamaio: si sceglieva dei bei posticini dove stare e cominciava a disegnare. Non erano certo capolavori – la fotografia era il suo forte, non il disegno – ma erano molto carini. Ci si impegnava e si arrabbiava se qualcosa veniva male. Ogni tanto perdeva la pazienza e iniziava a disegnare manga e chibi – quelli sì che le venivano bene!- però i nani non sembravano apprezzarli, quindi li usava come ultima spiaggia. Ma la cosa che amava di più era stendersi sul prato e guardare il cielo.
Si sdraiava, chiudeva gli occhi, e si lasciava avvolgere dalla brezza estiva, facendo fluire i suoi pensieri in balia del momento. Era molto rilassante e appagante: non aveva mai potuto farlo prima – non aveva mai voluto  farlo- ed era bello scoprire che qualcosa si smuoveva in lei, qualcosa sembrava interessarsi all’ambiente che la circondava.
Aveva anche iniziato ad intrecciarsi i fiori nei capelli.
Margherite, le margherite erano le sue preferite.  Non ne conosceva il significato, ma le trovava così bianche e allegre che non poteva non amarle. Le margherite sopravvivevano all’inverno, nonostante il freddo, il gelo e la solitudine: erano forti. E fra le sue ciocche erano bellissime, sembravano piccole stelle leggermente appassite.
Inutile dire l’imbarazzo che provò nell’essere vista da Fili e Kili con i fiori fra i capelli – e con addosso l’abito che le avevano dato gli elfi!
«Ma quanto sei carina» ghignò Kili vedendola arrivare.
«Una principessa» gli fece eco Fili poggiando una mano sulla spalla del fratello. Arya non capì se la stessero prendendo in giro oppure no, quindi si limitò a sorridere e a ringraziare.
«Non credevo che tu avessi interessi da donna, sai» buttò lì Kili per iniziare la conversazione – a quanto pareva lui e il fratello quel giorno avevano voglia di stare con lei, visto che avevano iniziato a seguirla dovunque.
«Davvero?» fece Arya, iniziando a giocare a “M’ama, non m’ama” con un fiore.
«Sì! Insomma, ti ho vista portare i pantaloni e quella strana cosa senza cuciture, erano abiti molto particolari.» affermò Kili sedendosi di fronte a lei: «Perché sei qui da sola?»
«Volevo ammirare il paesaggio» confessò Arya lasciando vagare lo sguardo: «E’ bellissimo, qui. Ho provato a disegnarlo, ma è uno schifo. Voi che fate?»
«Niente» sbuffò Fili: «Non capisco che cosa ci trovi nel paesaggio, Arya. E’ solo erba, fiori e cielo»
Arya ci pensò su un paio di secondi prima di rispondere: «Da dove vengo io, le aree verdi sono molto limitate e rare; abbiamo città grandi e all’avanguardia, con grattacieli e-»
«Che cos’è un grattacielo?» domandarono i due fratelli in coro.
«Sono dei palazzi altiiiiissiiimi, così alti che sembrano toccare il cielo» spiegò la ragazza alzando il braccio come a mimare l’atto di toccare la volta celeste: «Così alti che se uno provasse a buttarsi morirebbe prima di toccare terra perché a quella velocità la pressione del sangue è così alta da schiacciare tutti gli organi interni.»
Kili non sembrava aver perso il suo entusiasmo: «Ma quindi con i grattacieli .. riuscite a toccare le stelle e il sole e le nuvole?»  
«No» rispose Arya sorridendo: « Nessuno riuscirà mai a toccare le stelle o il Sole. Brucerebbe»
«In che senso?» domandò Fili.
«Le stelle e il Sole sono corpi gassosi con temperature caldissime: perfino la più fredda incendierebbe tutto. Il Sole è una stella. Brilla così luminosa perché è relativamente vicina»
«Relativamente?»
«Migliaia e migliaia di chilometri. Anni luce» Affermò convinta la ragazza, strappando l’ultimo petalo dal fiore lilla: non m’ama. Meglio così, in fondo non era convinta nemmeno lei di amarlo sul serio.
Fili si portò più vicino a lei, interessato: « Tu come fai a sapere queste cose?»
«Le ho studiate. In realtà sono stata molto vaga, ma a me non è mai importato molto di queste cose. Preferisco molto di più l’arte e la medicina: ti immagini che figo aprire una persona per vedere com’è fatto? Oppure progettare un monumento che passerà alla storia! O immortalare il volo di una farfalla!» Arya rise, immaginandosi come protagonista di quelle avventure: «Sarebbe bellissimo!»
Kili sghignazzò, dandole una leggera pacca sulla spalla: « Il cucito o la decorazione floreale no, eh?»
«Naaah»
 
Quelle prime giornate a Granburrone le passò così: rispondeva alle domande di Fili e Kili su di lei – mamma mia quant’erano impiccioni!- e sul suo mondo, invece i due le dicevano cose riguardo alla loro terra e alle tradizioni del loro popolo, anche se non scesero molto nei particolari. Erano delle vere e proprie suocere, quei due: la bombardarono di domande generali– chi era, quanti anni aveva, dove viveva- e personali; tuttavia non furono mai troppo invadenti, e lei fece la stessa cosa con loro. Erano molto affascinati da questo posto così all’avanguardia e tecnologico – Fili andava pazzo per gli aerei: voleva sapere come fossero fatti, come funzionassero e chi li avessi inventati- mentre Kili adorava i luna park – cose che lei condivideva appieno. Purtroppo non riusciva a dare delle risposte molto dettagliate, ma provava ad accontentarli come poteva, e loro non glielo fecero pesare. Dopo un po’ ai loro incontri si aggiunse anche Bofur, e poi Bilbo, e dopo Ori – sembravano averla eletta loro “narratrice di storie”. A volte non riuscivano a credere a ciò che diceva e la guardavano con un sorrisino di scherno in volto, a volte toccava a lei essere scettica e sorridere incredula: «Mi state dicendo che i nani sono stati creati dalla roccia?»

«Esatto» confermarono loro impassibili.
«Non è possibile. E’ scientificamente impossibile» obiettò lei con un sorriso: «Deriviamo tutti da un’unica specie: la scimmia e- che c’è!?»
I nani erano scoppiati a ridere e avevano iniziato addirittura a rotolarsi sull’erba, incapaci di contenere le risa. Quando capì che il motivo di tanta ilarità era ciò che lei aveva detto s’infuriò, trafiggendo con lo sguardo perfino Bilbo, che non c’entrava niente: «E’ vero! E’ scientificamente provato!» si alzò da terra raccogliendo le vesti colorate, guardandoli dall’alto in basso – ancora ridevano!
Se ne andò sdegnata e furiosa, lasciandoli ridere sull’erba: «Haha! Ma l’avete sentita? Dalle scimmie!»
Che ridano pure, pensò Arya marciando verso la sua stanza, non lo faranno più, quando porterò loro le prove.
 
 
Ovviamente l’arrabbiatura le passò in un batter d’occhio e tornò tutto subito alla normalità, però aveva cominciato a pensare all’avventura che le si prospettava davanti, riscoprendosi assolutamente inadeguata e impreparata per ciò che sarebbe potuto succedere.
Innanzitutto non era in grado di maneggiare nessun’arma. Certo, se si fosse trovata in pericolo un coltello sarebbe stata in grado di usarlo, ma l’avrebbe fatto alla cieca e senza alcuna tattica – inoltre era certa che ci sarebbero stati i nani a proteggerla, ma non poteva di certo fare sempre affidamento su di loro.  
Non era un tipo outdoor. O meglio, lo era molto di più di chiunque conoscesse: avrebbe benissimo potuto sopravvivere senza televisione, telefono e quant’altro, però, quando andava in campeggio portava le cose “tecnologiche” con sé. Tende con le zip, sacchi  a pelo caldi, telefoni satellitari per essere rintracciabile e abiti in tessuti tecnici. Non credeva che in quel posto esistesse niente di tutto ciò.
Terzo: aveva fatto dei corsi di primo soccorso a scuola, era abbastanza brava. Sapeva praticare la respirazione bocca a bocca e il massaggio cardiaco, più qualche altra manovra salvavita. Non sapeva se sarebbe bastato, però.
Necessitava di una preparazione qualificata e veloce, aveva bisogno di un allenamento.
Fu così che conobbe Varion.
 
L’allenò per qualche giorno, insegnandole le basi della scherma e un principio di tiro con l’arco. Non era in grado di reggere il peso di una spada per più di cinque minuti né di tendere la corda abbastanza da permettere un tiro, quindi si concentrò sulla resistenza, puntando sulle daghe e sulle spade. Come riuscì a cavare qualcosa di buono dalla ragazza restò un mistero anche per lei, ma cinque durissimi e lunghissimi giorni dopo, Arya era in grado di sapersi difendere da sola – per un breve periodo di tempo. Si ripromise di iscriversi ad un corso di scherma, quando sarebbe ritornata a Roma. Varion riuscì a migliorare un po’ anche la sua forza fisica, colpa degli addominali e dei piegamenti che la costrinse a fare – una serie da cento per aver detto “L’importante è che sappia difendermi, non che applichi le posizioni giuste”. Pessimo sbaglio. Nemmeno il suo professore di ginnastica delle medie caricava così tanto il tiro. Però riconosceva di sentirsi più pronta per l’avventura. Il giorno successivo si era alzata di buon’ora per andare da Varion per l’allenamento giornaliero, ma quando aprì la porta della sua camera due occhi la trafissero come lame: «Thorin!» squittì Arya spaventata: «Che ci fai qui?»
Lui la squadrò leggermente contrariato: «Prepara la tua roba, partiamo.»

«Partiamo?» gli fece eco: «Adesso? Ma Thorin, non ..»
«Niente ma, partiamo adesso. O vieni con noi o ti lasciamo qui, non mi interessa ciò che dice Gandalf» e se ne andò, lasciandola sulla porta.
«Va bene, va bene, arrivo. Non c’è bisogno di essere così irascibili» borbottò contrariata Arya, rientrando e accollandosi tutte le provviste che spettavano a lei. Lasciò cadere al volo lo sguardo sullo specchio, controllandosi per essere sicura di essere a posto: gli abiti elfici avevano colori tenui; le era stato spiegato che era in un materiale che teneva caldo d’inverno e rinfrescava l’estate. Legò i capelli in una coda di cavallo alta e stretta, fermandola con qualche forcina per farla durare di più.
Si domandò se Gandalf era a conoscenza di quella partenza segreta fatta in fretta e furia.
 
Camminarono. Camminarono per molto tempo, tantissimo tempo. In realtà, non fecero altro che camminare. Man mano che procedevano, salivano sempre di più: l’aria si faceva più fredda, quasi pungente, però c’erano i raggi del sole a fare da contrappeso e, nonostante la fatica perché stavano salendo e le provviste che le avevano affidato cominciavano a pesarle, non riusciva a togliersi quel sorriso meravigliato dal viso.

Quel posto era stupendo. Il cielo era terso, limpido come non lo aveva mai visto prima, la terra su cui procedevano era aspra e brulla, prevalentemente gialla, ma qui e là piccoli cespugli marroni interrompevano la continuità dell’erba; foreste di pini verdi si trovavano un po’ ovunque senza un preciso criterio, creando un forte contrasto fra l’erba appassita e la vita rigogliosa dei sempreverdi; e dietro, quando lo sguardo si abituava a quel meraviglioso paesaggio autunnale, una catena montuosa aguzza e impervia si stagliava contro il cielo, dove dei nuvoloni neri – che Arya non aveva assolutamente notato- facevano presagire temporali in arrivo. Erano  montagne scure, coperte di sempreverdi che scendevano dalle sue pendici fino alla pianura sottostante, arrestandosi di botto sull’erba su cui camminavano. Sulle cime delle montagne, la neve imbiancava i versanti, lasciando giusto qualche spazio roccioso libero dal proprio dominio. Ad Arya ricordò il cioccolato immerso nella panna, e le si strinse il cuore al pensiero che non avrebbe più mangiato dei dolci per i prossimi mesi a venire. Non si accorse nemmeno di essersi fermata e di star congiungendo le mani per vedere da quale prospettiva la foto sarebbe venuta meglio fino a che non la richiamò Bofur: «Uccellino, che stai facendo?»
«Uh?» Si osservò attorno, trovandosi in quella posizione che adottano di solito i fotografi per prova, con le dita messe rettangolari, come a voler simulare la forma della foto: «Niente, stavo solo facendo qualche prova»

Si affrettò a rimettersi in marcia appresso a Bofur, che avanzava spedito assieme al resto della Compagnia.
«Senti» le chiese dopo un po’: «Non è che hai qualche altra bella storia da raccontare? Una di quelle tue?»
«Una di quelle mie» ripetè Arya: «Facciamo così: io ci penso e appena ci fermiamo te la racconto, okay?»
«Va bene!» esclamò felice il nano, aumentando leggermente l’andatura. La ragazza non ce la faceva ad andare così spedita, quindi finì in fondo alla fila assieme a Fili, che procedeva adagio e senza fretta. Qualcuno, davanti a loro, iniziò ad intonare una melodia tranquilla, molto orecchiabile però, e nel giro di qualche secondo quasi tutti i membri avevano iniziato a cantare, avvolgendo la loro traversata in un’atmosfera festosa e allegra. Beati loro che riescono a cantare nonostante ‘sta camminata  pensò Arya,  prima o poi devo riuscirci anch' io.

Quando il tramonto calò, avvolgendo il paesaggio d’arancio, Thorin li fece accampare, ordinando loro di accendere un fuoco. Non appena pronunciò le parole “ci accampiamo qui stanotte” Arya crollò a terra come un sacco di patate, sospirando un “Oddio, sì!” molto ambiguo. Fili e Kili ridacchiarono, sistemandosi accanto a lei, che non esitò a mollare una manata sulle loro braccia per farli stare zitti. Ovviamente non fece loro del male, ma recepirono il messaggio e si zittirono, anche se ogni tanto, quando incrociavano gli sguardi, non riuscivano ad evitare di sghignazzare, coinvolgendo anche la ragazza che sentiva i propri muscoli facciali sciogliersi sotto gli sguardi dei due ragazzi. Il falò brillava vivace davanti alla Compagnia, scaldandoli e illuminandoli della propria luce aranciata, brillando nell’oscurità della notte. Le stelle non erano visibili, coperte da nuvole grigie e nere – ma Balin era sicuro che non avrebbe piovuto per quella notte, quindi Arya si sentiva tranquilla.

«Allora!» esclamò Bofur, il viso sorridente illuminato dal fuoco: «Avevi promesso che mi avresti raccontato una storia, Uccellino! Mentre Bombur prepara la cena è il momento giusto! Su, siamo tutti orecchi!»
«Sì, sì!» fecero eco Fili e Kili: «Una storia, Arya, una storia!»
Arya era sul punto di dire che non se la sentiva di raccontarla lì davanti a tutti, però Ori e Bilbo scelsero proprio quel momento per sporsi dai loro posti e fare gli occhioni dolci: «Ti prego, Arya»
Non poteva dirgli di no. Non poteva se la guardavano con quegli occhioni sgranati e innocenti, con quella vocina così da bambini e la loro disarmante gentilezza …
«E va bene» bofonchiò Arya, arrendendosi: «Vi racconterò una storia. Allora, c’era una volta, tanto tempo fa, su un pianeta chiamato Asgard …» Arya andò avanti per molto tempo a raccontare, e se all’inizio aveva solo quel gruppetto di ascoltatori, piano piano si aggiunsero tutti i membri della Compagnia, meravigliati.
 
« …. E fu così che il Principe Loki si lasciò andare, cadendo dal Bifrost e perdendosi nei meandri dello spazio.» concluse tristemente, facendo vagare lo sguardo su ogni nano, che la guardavano con le pupille dilatate per la curiosità. C’era chi era amareggiato come lei – Bilbo, Ori, Bofur- chi invece sembrava approvare la fine del Dio Asgardiano – Thorin, Dwalin- e chi invece sembrava deluso – come Balin e Nori. La sua ciotola di stufato, preparata da Bombur, giaceva accanto a lei, ormai fredda, e si accorse di star morendo di fame. Bè, parlare per così tanto tempo mentre gli altri mangiavano doveva mettere appetito. Prese quindi la ciotola: «Mh, complimenti, Bombur,  è squisito!»  commentò allegra.
Il nano la ringraziò con un sorriso.

«E dove finisce il principe?» volle sapere Ori, con la sua vocina tremante.
Arya ingoiò il boccone: «Domani. Non ne posso più di parlare»
«Ma non è giusto!» fece Kili: «Io voglio sapere come va a finire!»
«Anche io, credimi, ma ho sonno. Domani, domani ve lo dico.»
Quella sera non fece turni di guardia, né le due sere successive. In verità nemmeno si rese conto che i nani facevano dei turni, se ne accorse quando si svegliò, nel bel mezzo della notte, per dover liberare la propria vescica. Fortunatamente vide Thorin in tempo e si allontanò un bel po’, avvertendolo. Quando tornò Arya gli chiese se fosse stanco.
«No» rispose seccamente lui.
«Vuoi il cambio? Posso farlo io, se vuoi» si offrì lei, leggermente in imbarazzo.
«No»
Arya ci restò un po’ male per il tono burbero del nano, ma si impose di non prenderla sul personale. “Fa sempre così, tanto. Non serve a niente prendersela.” «Okay … allora buonanotte» mormorò avviandosi verso il suo giaciglio, fra Fili e Kili.
«Arya» la richiamò Thorin.
«Mh?»
«Belle storie. Hai molta fantasia.» Non le sorrise né la guardò negli occhi. Le disse soltanto questa frase continuando a scrutare l’ombra, animata dai versi notturni di gufi e insetti; tuttavia ebbe il potere di far nascere un sorriso sul viso della ragazza, che si rintanò nel sacco a pelo quasi saltellando, rischiando di svegliare i due fratelli accanto a lei.
 

All in all the clock is slow
Six color pictures all in a row
Of a marigold


Nirvana; Marigold
 
Ciaoooooo <3 <3
Lo so che sono stata cattiva ad aggiornare così tardi e di aver promesso che avrei promesso scintille in questo capitolo, ma un'ulteriore divisione è stata necessaria ai fini della scorrevolezza del teso. Ergo, questo è quello che oggi passa il convento e devo dirvi che mi piace :D
Purtroppo sono stata sommersa dalla roba da studiare, per lo più tutto il latino che ho dovuto mettere a paro, e credetemi se vi dico che stavo sbattendo la testa sui libri per la disperazione. Cos'altro volevo dire .. ah, sì. Marigold significa "Campanula" non "Margherita" ma facciamo finta che vada bene, okay? Il capitolo non è betato, non ne ho avuto proprio il tempo, e non volevo far passare altro tempo, visto che nei prossimi giorni non ci sarò xD
Un grazie a tutti i lettori, anche a quelli silenti, ma vi prego, lasciate un commento ad una povera autrice :'D
Ringrazio specialmente fwrgjiwrjnfre ( spero di averlo scritto bene *^* scusami se ho cambiato il titolo, quello che conosci tu sarà il successivo!) e evelyn80, le mie più fedeli seguaci!
E anche tutti voi che seguite/preferite/ricordate, vi ringrazio!
Un bacio, sperando che questo capitolo vi soddisfi

Feniah <3

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Capitolo 5
*** O5 > Firework ***





'Can a man still be brave if he's afraid?'
‘That is the only time a man can be brave’

 
 

La pioggia scrosciava incessante su di loro, bucandole la pelle come tanti piccoli aghi dispettosi, facendole male. Il vento le sferzava con forza il viso e la cima della montagna, battendo incessantemente anche sui versanti opposti: i mostri potevano ancora essere in agguato.
«AFFERRA LA MIA MANO!»

Arya tese la propria, tremante, mentre la vista le si appannava e il terreno sotto di sé cedeva, sporgendosi un po’ di più per aiutarlo.
Thorin afferrò la sua mano tesa con foga, aggrappandosi anche a Dwalin e puntando i piedi per tirarsi su. Arya non sapeva cosa l’avesse spinta a buttarsi e a tendere la propria mano per soccorrerlo, a farla praticamente scivolare nel vuoto per offrirgli il suo aiuto: da dove veniva tutta quel coraggio? Si sentiva le membra tremanti non solo di paura, ma anche di adrenalina. La sentiva in corpo, scorreva tutto velocissimo e il suo corpo reagiva di conseguenza: scatti felini, mani che si aggrappano alla roccia, poca attenzione alle cose che ti circondano, ecco come  aveva risposto agli eventi. Quei mostri giganti … li aveva visti davvero? O erano stati frutto della sua immaginazione? Cosi enormi, completamenti fatti di spuntoni di roccia, che si staccavano dalle montagne e combattevano fra loro. Velocissimo, le ritornò in mente un ricordo di pochi secondi prima: metà della compagnia ammassata una sull’altra, il sollievo di non averli persi e il panico per non aver trovato Bilbo. Thorin che si getta a capofitto nel vuoto per salvarlo e Thorin che scivola: e all’improvviso lei urla di afferrare la propria mano al nano sul terreno infido e scivoloso, sporgendosi incurante di cadere. Thorin era più pesante di quanto immaginava. Udiva il suo respiro e quello di qualcun altro – Bilbo, sospettava- affannoso e irregolare.
«Credevo l’avessimo perso» esclamò Dwalin sollevato.
«Lui si è perso, fin da quando ha lasciato casa sua» sibilò Thorin velenoso. Rivolse al mezz’uomo un’occhiata di disprezzo e gli voltò le spalle: «Non sarebbe mai dovuto venire. Non c’è posto per lui tra noi.»

E se ne andò, richiamando Dwalin per esplorare una caverna. Arya aveva assistito alla scena allibita, dal basso verso l’alto, praticamente ancora sdraiata per terra, con la pioggia a molestarle il viso. Era rimasta a bocca aperta nell’udire le parole del nano, nel percepire la cattiveria di cui erano intrise. Non poteva pensarlo veramente. Osservò Bilbo, mortificato e perso, soffocando un singhiozzo. Non … non era possibile. Lei aveva rischiato la propria vita - la sua giovane e innocente vita- per lui? Per un uomo – nano, si corresse mentalmente, nano- per un nano così … cattivo? Così meschino? Ori le diede una mano ad alzarsi, ignorando gli occhi lucidi della ragazza, cosa per la quale lei gli fu molto grata. Non capiva perché stesse sull’orlo del pianto. Paura di essersi gettata a capofitto verso lo strapiombo e solo adesso se ne rendeva davvero conto, a mente più lucida? O forse perché aveva avuto davvero paura, terrore, al pensiero che Fili e Kili fossero morti, schiacciati contro la montagna da un mostro di roccia?

Non era la paura che aveva provato davanti ai mannari, una paura istintiva e primordiale, la paura della preda davanti al predatore, affatto. Aveva temuto per loro, per i suoi amici. Non era sicura che Thorin meritasse la sua fiducia, perché quelle parole, le parole che aveva rivolto a Bilbo, avevano ferito anche lei, sebbene non capisse perché. Decise di ignorare la questione ed entrò nella caverna che avrebbe fatto da rifugio per la notte. A quanto pareva, Thorin aveva ordinato di non accendere il fuoco, così Arya si scelse il posto più lontano dall’entrata, dove pioggia e vento continuavano ad imperversare.
«Cercate di dormire, partiremo non appena giunge l’alba» disse Thorin.
Balin era sorpreso: «Dovevamo aspettare l’arrivo di Gandalf fra le montagne. Questo era il piano»
«I piani cambiano» rispose il capo, mettendo fine alla discussione. «Bofur, primo turno di guardia»
Bofur accettò sconsolato, il sorriso spento sul volto. Per lo meno quella scena riuscì a strapparne uno alla ragazza, che andò accanto a lui mettendogli una mano sulla spalla per consolarlo. «Se vuoi possiamo farlo insieme»
«No, grazie» replicò lui: «Faccio io. Ti ho vista, sai?»
Arya corrugò la fronte: «Mi hai vista? Intendi nuda?»
«No, ma che dici!» Bofur rise: «Intendo dire prima, quando hai aiutato Thorin. Sei stata molto coraggiosa»
«Oh .. grazie» Arya arrossì: «Lo avrebbero fatto tutti. Buona notte»
Le parve di star sognando quando la terra si aprì sotto di lei, inghiottendo la compagnia nella profondità della montagna.
 
Stava strillando come una ragazzina isterica, e si stava dando della stupida da sola per questo, ma davvero, non poteva farne a meno. Vocali indistinte uscivano fuori, mentre le sue corde vocali davano il meglio di sé per far comprendere lo spavento e la paura che stava provando in quel momento. Arya aveva sempre amato le montagne russe, ma un conto sono le montagne russe, sicure, con le cinture di sicurezza e i piani B per le emergenze, un conto è cadere su sentieri scoscesi e irregolari creati nella roccia, troppo ben articolati per essere naturali. Arya questo lo comprendeva, anche se la sua mente era occupata a proteggere testa e busto. Alla fine caddero tutti in una specie di gabbia di legno, dall’inquietante forma di una mano. Sembrava pronta a chiudersi su di loro, a stringerli in una morsa senza fine. Sbattè e per il contraccolpo i polmoni si svuotarono, lasciandola senza fiato. Le membra pulsavano per il dolore, ma non appena si sentì stabile alzò la testa, e ciò che vide le fece spalancar gli occhi per la paura e per lo schifo.

Strillò ritraendosi di scatto, andando a sbattere contro il povero Dwalin, che se la ritrovò addosso senza capire cosa stesse succedendo. Ma quei cosi piombarono su di loro strillando ed emettendo versi acuti, separandoli e artigliandoli.
«Lasciami! LASCIAMI!» urlava Arya tentando di levarseli di dosso, completamente nel panico, ma quelli continuavano a mettere le mani dove non dovevano, e lei si agitava e menava pugni e calci a caso, con l’unico scopo di liberarsi. Sentiva che volavano insulti da ambo le parti, ma più di una volta le voci dei suoi amici intimarono ai goblin – quello era il nome che Arya dava loro- di lasciarla stare, di non toccarla, ma quelli non li ascoltavano, sogghignando e ridendo. La cosa peggiore era che erano dappertutto, venivano da tutte le parti e li spingevano lungo dei sentieri, illuminati dalle torce che non facevano altro che peggiorare la situazione, gettando ombre macabre su di loro.
Alla fine dovette arrendersi e seguì i goblin, lanciando loro occhiate cariche di disprezzo e odio: «Giuro che quando usciamo da qui vi spezzo le ossa e me le mangio»

Non sembrò sortire alcun effetto su di loro: dopotutto le ossa non si possono mangiare, e il livello di inglese della ragazza era momentaneamente calato, forse per via dello choc, rendendo la loro minaccia più simile ad un tentativo di spavalderia che di omicidio.
Osservandosi intorno vide centinaia, migliaia di goblin ammassati gli uni sugli altri, stretti su ponti e passerelle di legno poco stabili, alcune della quali avevano delle gabbie con degli scheletri all’interno. Arya non voleva sapere di chi fossero. Li portarono di fronte all’essere più brutto e abominevole che la ragazza avesse mai visto, così orribile da farle dimenticare del disprezzo e della rabbia che provava, instillandole una punta di paura.
Sedeva su un trono di legno assicurato ad una piattaforma che dava sul vuoto della montagna, l’espressione compiaciuta di chi sa di avere la vittoria in pugno e vuole giocare un po’ con la ricompensa. Era incredibilmente grosso e brufoloso, con un ventre prominente coperto di macchie e bolle e altro, un gonnellino striminzito a coprire le nudità. Il viso era orribile, viscido, e aveva una … barba? Arya doveva chiamarla così perché non c’era altro termine per descriverla. Sembrava che avessero spostato il suo cervello dal cranio al mento, chiudendolo in una sacca fatta di pelle raggrinzita e coperta di brufoli, sporca e maleodorante. Una corona di zanne e uno scettro con un teschio completavano il quadretto, assieme agli occhi folli e viscidi che sembravano squadrarli come per capire chi potesse valere di più. Non si stupì quando udì la propria gola emettere un verso schifato.

I goblin gettarono a terra tutte le loro armi, compattandoli in gruppo e serrando i ranghi attorno a loro. Arya finì fra Ori e Kili, lanciando un’ultima occhiata di disprezzo verso i loro carcerieri.
«Chi è stato così sfrontato da entrare nel mio dominio armato?» esordì il re barcollando giù dal trono, indicandoli con un dito: «Spie? Ladri? Assassini?»
«Nani, vostra malevolenza» rispose uno dei goblin accanto a Kili: «Più questa qua. Trovati nel portico anteriore!»
Questa qua. Va bene, Arya, stai calma.
«Bè non statevene lì impalati! Perquisiteli! Ogni fessura, ogni crepa!»
Saltarono loro addosso eccitati, eseguendo alla lettera l’ordine del loro padrone. Le strapparono la collana che le aveva regalato sua sorella dal collo, tentarono di frugare ovunque, ma Arya li respinse tutti con una forza che sorprese anche sé stessa, che menava schiaffi e calci a chiunque avesse sotto tiro. Si dispiacque tantissimo, molto più di quanto avrebbe dovuto fare, quando presero il cornetto acustico di Oin e lo schiacciarono sotto i loro piedi. Kili, accanto a sé, guardava stoico e con una dignità ammirevole il re, maledicendolo con lo sguardo.
«Che cosa ci fate, da queste parti?»
Nessuno rispose.
«Parlate!»
«Una gita in montagna» rispose acida.
Per l’occhiata che il re dei goblin le rivolse, avrebbe potuto non esistere.
«Molto bene» disse: «Se non vorranno parlare, saremo costretti a farli strillare!»

L’affermazione del re fu accolta con piacere dai goblin. Arya non capì bene cosa disse dopo, erano dei nomi che non comparivano nel suo repertorio. Afferrò solo il verbo “spezzare” e la parola “ossa” e la cosa non le piacque affatto, infatti sentì i peli rizzarsi sulla nuca e la pelle d’oca raggrinzirle la pelle.
Il viso del re dei goblin si arricciò in un ghigno, indicando Ori: «Cominciate dai più giovani»
Senza pensarci, Arya si frappose fra lui e il nano, facendogli da scudo con il proprio corpo, protettiva.
«Aspetta» parlò Thorin. Emerse dalla calca, goblin e nani che si spostavano per farlo passare.
«Bene bene bene» lo schernì il mostro: «Guarda chi c’è … Thorin, figlio di Thrain, figlio di Thror! Re, sotto la Montagna» si esibì in un inchino ossequioso, poi alzò la testa, simulando preoccupazione: «Oh, ma mi dimenticavo! Non ce l’hai, una Montagna, e non sei un Re. Il che fa di te … un nessuno in verità.»
«Un nessuno? Un nessuno!? Lui ne vale mille di te!»
Tutti, nessuno escluso, si girarono a guardarla: Thorin, Bofur, perfino i goblin e il loro re si girarono verso di lei, stupiti. Ma per una volta, Arya non si sentiva imbarazzata. Per una volta, sapeva esattamente cosa dovesse fare.

«Come osi tu parlare così a lui, Thorin Scudodiquercia. Come osi anche solo pensare di poter essere un suo pari? Lui aveva una Montagna e l’ha persa, e ora combatte per riprendersela. Lui è mille volte migliore di te, obbrobrio, e non ha paura di vivere alla luce del sole. Tu parli di titoli e cose perdute, ma è meglio perdere cento Montagne Solitarie piuttosto che regnare in questo fetido buco.» Sputò ai piedi del re dei goblin.
Quello non sapeva cosa fare. La fissava allibito e furioso, aprendo e chiudendo la bocca, incapace di parlare: «Tu .. lurida umana … come osi … Prendetela! Gettatela di sotto!»

Prima che Arya potesse aprire la bocca per fare qualsiasi cosa – urlare, per esempio- un drappello di nani si schierò davanti a lei, facendole da scudo contro l’attacco dei goblin: «Dovrai passare sui nostri cadaveri prima» disse Thorin.
Il re dei goblin levò una mano, fermando così l’avanzata dei mostriciattoli verso di loro, ghignando: «Oh, succederà molto presto, vedrai. E allora non ci sarà nessuno a salvare la vostra amichetta. Conosco qualcuno …» sorrise maligno, completamente dimentico di Arya: «Che pagherebbe un bel prezzo per la tua testa … solo la testa. Con niente attaccato» rise: « Forse, tu sai di chi sto parlando.»
Si erse in tutta la sua altezza, diventando molto più minaccioso: «Un vecchio nemico tuo …»
Thorin alzò la testa lentamente, incontrando lo sguardo del mostro: «Un orco pallido, a cavallo di un bianco mannaro.»
«Azog il Profanatore» replicò Thorin: «E’ stato distrutto. Trucidato in battaglia molto tempo fa.»
«Così pensi che i suoi giorni di profanatore siano finiti, vero?» scoppiò a ridere, rivolgendosi ad un messo su una sorta di funivia: «Invia un messaggio all’orco pallido: digli che ho trovato il suo premio!»
Il mostriciattolo rise e avviò la carrucola, sparendo nel buio.
«Portate i giocattoli» sibilò il re, guardandoli con sadismo. Arya non si sentiva più tanto coraggiosa.

Il suo ardimento vacillò di più quando vide cosa fossero i giocatoli: enormi macchinari pieni di rostri e aggeggi di legno, perfetti per uccidere e torturare. Intanto, il re stava intonando una canzone davvero orribile di cui Arya non comprendeva che qualche vocabolo poco rassicurante, come “morte”e “oscurità” e “mai lascerete la nostra città!”
Stavano combattendo contro i goblin che li stavano accerchiando per portarli verso i giocattoli, quando un urlo acuto e il clangore metallico di un’arma li interruppero, terrorizzando addirittura il re dei goblin che si ritirò di scatto sul suo trono, schiacciando i pochi rimasti ai piedi del sedile: «Conosco quella spada! E’ la fendi orchi!»
Tutti i goblin cominciarono a strillare, allontanandosi: «Il coltello, la lama che ha squarciato mille colli! Squarciateli! Picchiateli! Uccideteli, uccideteli tutti!»
Arya era stata accerchiata da tre goblin che tentavano di pugnalarla, fermati da lei che li bloccava prendendoli per le braccia e usandoli come scudo dalle incursioni degli altri due. Ma alla fine, riuscirono a bloccarla, con lei che scalciava e urlava in preda al panico e alla rabbia più totale di lasciarla andare. Il goblin alzò la lama del pugnale in alto, preparandosi a calarla …

E una luce bianchissima e potente li scaraventò via da lei.
Un attimo di silenzio calò sulla scena, lasciandole il tempo di riprendere fiato e di rialzarsi di scatto, cercando l’origine della luce. Una figura in ombra, con bastone e cappello a punta incedeva con calma e regalità in mezzo ai cadaveri dei goblin. Un sorriso spuntò sul viso della ragazza: «Gandalf!»
Lo stregone tacque, venendo alla luce. Li osservò riprendersi dallo choc, scandendo le parole: «Imbracciate le armi. Combattete. COMBATTETE!»
E combatterono. Partirono alla carica, lanciando urla di battaglia e colpendo con cattiveria i nemici, sbaragliandoli dal loro cammino. Arya si fiondò sulle armi, lanciandole ai nani che ne avevano bisogno, usando la fionda di Ori contro un goblin che si era avvicinato troppo. Tuh! Lo colpì in pieno viso, finendolo con un pugno ben assestato. Combattevano come se non ci fosse stato un domani, combattevano per le loro vite, per il futuro della Compagnia, per riuscire a vedere il sole sorgere l’indomani.

«Brandisce la Batti Nemici! Il martello splendendo come il Sole!» piagnucolò il re dei goblin allontanandosi. Arya si girò verso di lui e mai, in tutta la sua vita, desiderò così tanto avere una pistola a portata di mano. Sarebbe bastato girarsi, puntare l’arma, premere il grilletto e sparare in testa, ponendo per sempre fine ai giorni del dominio dei goblin sulle montagne. Ma Arya non aveva una pistola, e non poteva fare niente di tutto ciò. Ci pensò Thorin a finirlo. Il re dei goblin stava brandendo la sua arma contro di loro, Arya si preparò a morire, Thorin si girò e mulinò Orcrist con una forza tale da rimbombare nelle grotte, il contraccolpo fu così potente che il re indietreggiò e cadde, sparendo nel baratro.
Gandalf l’aiutò a rialzarsi: «Seguitemi, svelti, seguitemi!»

Scapparono dietro di lui, seguendolo attraverso cunicoli e ponti, strapiombi e scale, facendo gioco di squadra contro i goblin: tagliarono corde e buttarono giù intere strutture, oltrepassarono strapiombi e ammazzarono tanti ma tanti mostri.
Arya ne vide uno, un arciere puntare verso Kili: «KILI, ATTENTO! Dietro di te!»
Il nano si girò appena in tempo: parò prima una poi due e infine tre frecce usando solo la spada – come cavolo faceva?- poi acciuffò una scala e la usò come arma impropria per gettare giù tutti i goblin dalla corsia, adattandola a ponte fra due strutture. Fu solo per miracolo che Arya non cadde, anche se arrivata dall’altra parte rovinò addosso a Balin, che l’aiutò con molta delicatezza ma in fretta a rialzarsi da terra, facendola proseguire davanti a lui. Arrivati ad un certo punto Gandalf si fermò di botto, rischiando di cadere, e il re dei goblin spuntò dal nulla con un ruggito: «Pensavi di potermi sfuggire? Che intendi fare, ora, Stregone?» Mulinò il suo scettro con cattiveria, facendolo scivolare a terra.

Gandalf  si rialzò, lo colpì all’occhio col bastone, il mostro si accasciò gemendo di dolore e Gandalf mulinò la sua spada aprendo un taglio profondo sul ventre, esponendo la carne rossa e vivida.
Il Re era allibito: «Sarò sconfitto»
Arya sorrise, maligna: «Buon viaggio per l’inferno» e Gandalf lo finì recidendogli la giugulare. Il corpo crollò al suolo con un tonfo sordo, facendo crollare la struttura precaria del legno nelle profondità del buio.
Urlando si strinsero l’una all’altra, cadendo sdraiati sotto i resti di legno, stretto nelle pareti di roccia.
Impattarono a terra, schiacciati dal peso del ponte.
«Bè, poteva andare peggio» ironizzò Bofur con la sua solita allegria. Poi un boato e il corpo del re dei golbin li compresse come sardine, svuotando loro i polmoni.
«Vorrai scherzare, spero» Dwalin, senza dubbio.
Kili indicò verso l’alto: «GANDALF!»

Un orda di goblin avanzava urlando verso di loro, armati fino ai denti. Arya non riusciva ad uscire dal ponte, aveva le gambe incastrate e nonostante stesse strattonando a più non posso quelle non ne volevano sapere di uscire. «Ragazzi» ansimò: «Ho bisogno di una mano!»
Thorin accorse in suo aiuto, liberandola e tirandola su di peso. La spinse davanti a sé e continuarono a correre, attraverso gallerie oscure e irte d’ostacoli – più volte la ragazza inciampò nel buoi, più volte Thorin fu costretto ad aiutarla a rialzarsi- e alla fine giunsero alla fine delle grotte: una luce era visibile in lontananza.
Sentiva la sua milza mordere per il dolore, i polmoni bruciavano reclamando ossigeno, la gola era fredda per il fiatone ma c’era una speranza, la luce laggiù brillava così vivida e vera …
Uscirono all’aria aperta, correvano il più velocemente possibile per mettere quanta più distanza fra loro e le gallerie: scattavano come saette, i piedi che si muovevano da soli, saltando massi e evitando rocce, spezzando rami e facendosi venire la pelle d’oca – perché davvero, i goblin potevano ancora essere in agguato. L’aria della sera era fredda, ostile.

Si rifugiarono nella coltre dei boschi, il respiro affannoso e lo sguardo vigile. Arya aveva la gola secca e un disperato bisogno di ossigeno: crollò a terra, boccheggiante, e scoppiò in una risata isterica: «Ahaha! Noi .. eravamo in quindici … ahaha! E bum! Zac! Li abbiamo ammazzati tutti!»
«DOV’E’ BILBO?! DOV’E’ IL NOSTRO HOBBIT?!»
Dwalin ringhiò: «Accidenti al mezz’uomo! Ora si è perso?»
«Credevo che fosse con Dori!»
«Non incolpare me-»
«Dove lo avete visto l’ultima volta?» chiese Gandalf. «Mi sa che è sgattaiolato via quando ci hanno catturati» rispose Nori.
«Che è successo esattamente? Dimmelo!»
«Te lo dico io che è successo esattamente» s’intromise Thorin «Mastro Baggins ha visto la sua occasione e l’ha colta! Pensava solo al suo soffice letto e al suo caldo focolare da quando ha messo piede nella nostra Compagnia! Non rivedremo mai più il nostro hobbit. E’ ormai lontano.»
Fili e Kili la guardarono, come se avesse avuto chissà quali risposte. Ma anche lei era desolata e allibita, fissando Thorin con le labbra rivolte all’ingiù, triste che il nano avesse una tale bassa considerazione di Bilbo.

«No, invece.» se ne uscì sorniona una voce a loro nota. Alcuni nani sospirarono di sollievo. Bilbo entrò nel loro campo visivo a passo andante. «Bilbo Baggins! Non sono mai stato felice di vedere qualcuno in vita mia!» esclamò Gandalf. Lo hobbit sorrise, dando una pacca amichevole a Balin.
«Bilbo» Fili sorrise: «Ti credevamo scomparso! Ma come hai fatto a superare i goblin?»
«Già, come?» gli fece eco Dwalin.
Bilbo ammiccò ma non rispose, ponendosi nervosamente le mani in tasca. Arya s’insospettì un po’ a quel comportamento, ma gli sorrise calorosa: «Ma che importa? E’ tornato, è sano e salvo»
«Ha importanza» ribattè Thorin: «Voglio saperlo. Come mai sei tornato?» L’ultima domanda era stata posta non con tono di sfida, o rabbia, come Thorin era solito rivolgersi allo hobbit, ma in modo quasi rispettoso, in modo stupito, più che altro.
«So che dubiti di me, lo so, lo hai sempre fatto» esordì lo hobbit: «e hai ragione, penso spesso a casa Baggins. Mi mancano i miei libri e la mia poltrona e il mio giardino. Vedi, quello è il mio posto. E’ casa mia. Perciò sono tornato, perché … voi non ce l’avete, una casa. Vi è stata portata via. E voglio aiutarvi a riprendervela se posso.»

Era vero, era così. Arya glielo leggeva negli occhi. Un silenzio religioso era caduto sui nani, perfino Thorin aveva abbassato la testa davanti alla veridicità di quelle parole. Perché Bilbo aveva ragione. Loro una casa non ce l’avevano. Era per quello che Thorin era partito: ancora prima di recuperare un onore perduto, ancora prima di riprendersi le sue ricchezze, era una casa ciò che andava cercando. Una casa per sè e il suo popolo, per la sua gente. Non occorreva essere così autoritari e freddi per essere monarca. Era quella consapevolezza, la consapevolezza di esser partiti per una buona causa a spingere i nani verso l’ignoto. Per far sì che la gente lo seguisse, Thorin non aveva bisogno di interpretare un personaggio. Si vedeva lontano un miglio la dedizione e la lealtà che il Re aveva verso il suo popolo, aveva solo bisogno che ogni tanto qualcuno glielo ricordasse.

Un suono, una voce gutturale e cavernosa, interruppe il momento creatasi, facendoli voltare di scatto verso di lui. Perché non poteva essere nient’altro che un lui.
Un orco, grande, alto, spaventoso, li guardava con cupa soddisfazione dalla cima del versante, a cavallo di un mannaro bianco come la neve. E per la prima volta nella sua vita, Arya ebbe davvero paura. Tutto ciò che aveva provato nelle grotte dei goblin, quello che aveva sentito nella battaglia fra tuoni, non era niente in confronto a ciò che provava in quel momento.
Aveva la pelle nivea e solcata da profonde cicatrici, gli occhi freddi come il ghiaccio – non come quelli di Thorin, che nonostante tutto erano in grado di trasmettere calore- ma crudeli e velenosi come il morso di un serpente. Mulinava una mazza ferrata dall’aria pericolosa e al posto del braccio sinistro aveva una spietata lama ricurva, affilata e pronta ad uccidere. Era circondato da orchi, attendenti a cavallo di mannari ringhianti e affamati. Ordinò qualcosa nella sua lingua agli orchi e subito piovvero giù dalla montagna, pronti a sbranarli.
Gandalf urlò: «SCAPPATE!»

Loro non se lo fecero ripetere due volte. Arya balzò in piedi e scattò velocissima con il gruppo, acciuffando Ori per una manica e spingendolo davanti a sé: «Corriamo!» La notte era ormai calata, i mannari li avevano raggiunti. Si lanciavano le armi proteggendosi a vicenda: urlò un «Bofur!» quando una bestia si accanì contro di lui, ma il nano la finì in fretta, spingendo la ragazza in avanti per correre.
Ma non c’era via dove andare. Una lingua di roccia era tutto ciò che restava da percorrere, il sentiero punteggiato di pini, la terra a strapiombo, giù, nel blu infinito. Erano in trappola.
«Presto, correte sugli alberi! SUGLI ALBERI!»
Oh no! Come avrebbe fatto Balin? Era anziano, non poteva salire da solo …

«PRESTO, ARYA, SALI!» urlò qualcuno, ma lei non lo ascoltò. Si voltò per vedere che fine avessero fatto gli altri e vide che tutti erano al sicuro sugli alberi, compreso Balin, solo lei era a terra. E i mannari la stavano puntando. Con uno scatto felino s’aggrappò al primo ramo che trovò, salì velocemente senza prestare attenzione a dove metteva i piedi, aiutata da Dwalin. I si fermarono sotto di loro, annusando l’aria, annusando la loro paura.
«Azog» ringhiò Thorin: «Non è possibile»
L’orco pallido – Azog- annusò l’aria. Sorrise malvagio in direzione del nano, parlando nella sua lingua raschiante e gutturale, scandendo bene il suo nome: «Thorin ... Thrain»
Lo indicò con la mazza ferrata ordinando qualcosa, poi la ruotò e lasciò che i mannari li attaccassero. Le bestie presero d’assalto gli alberi, saltando troppo in alto, troppo! Uno balzò così vicino a Fili …
«Resisti, Fili! RESISTI!»
Non seppe dire cosa accadde dopo, ma gli alberi cominciarono a scricchiolare, a rovesciarsi, a cadere l’uno sull’altro, costringendoli a saltare in un intrigo di fronde e rami. Alla fine, si ritrovarono su un unico pino, ammucchiati. Ovviamente, era quello a strapiombo sul vuoto. Precario, fra l’altro.
Gandalf le passò una pigna infuocata, lei non ci pensò due volte a scagliarla contro i mostri: uno dopo l’altro, i nani diedero il meglio di sé, ferendone alcuni e creando un fuoco che rischiarava la notte, oscura e piena di terrori. Esultarono tutti insieme – ce l’avevano fatta!- ma l’albero scricchiolò. S’incrinò.
E cadde.

Riverso su sé stesso, giaceva quasi orizzontalmente, soltanto un ciuffo di radici a tenerlo ancorato al terreno. La Compagnia per non cadere era aggrappata ai rami dell’abete con le unghie, lottava disperata per mantenersi, ma qualcuno scivolò.
«ORI!» Gridò disperata Arya, allungandosi verso di lui, ma il suo ramo scricchiolò, non potè fare nulla per aiutarlo. Per il momento piagnucolava aggrappato alla gamba di Dori, che invocava l’aiuto di Gandalf per fare qualcosa. Ma cosa si poteva fare con la morte ormai prossima? La ragazza si strinse di più al proprio ramo, avvicinandosi al tronco dell’albero. Si trovava vicino alla base del pino, un paio di metri più in là riusciva a vedere le radici che li tenevano ancorati al terreno. Si sporse un po’, per vedere il fondo. Ma non c’era un fondo da vedere.
C’era qualcos’altro, molto più importante, che occupò la vista della ragazza.

Thorin si alzò dal ramo, ergendosi in tutta la sua altezza, Orcrist sguainata. Arya vide tutto al rallentatore. Il nano guardava con odio l’orco pallido, che lo seguiva con malcelato interesse in ogni mossa che faceva. Le fiamme brillavano vivide, illuminando la figura possente e regale del nano. Sembrava che tutto si fosse fermato, perfino il vento, anche se non aveva smesso di spirare, aveva abbassato i toni, lasciando il rumore del sangue pompare nelle orecchie, colonna sonora dell’atto di coraggio più incredibile a cui Arya avesse mai assistito. Pum. Pumpum.
Dapprima partì lentamente, mettendo un piede dopo l’altro sul tronco, mantenendo sempre lo sguardo fisso su Azog, avanzando quieto ma inesorabile. E poi accellerò.
Partì alla carica lanciando un urlo da guerra, mulinando Orcrist con ferocia, la lama che brillava …
E Azog lo colpì, stendendolo al suolo. Thorin cadde a terra.
Il nano provò a rialzarsi, ci provò, ma Il Profanatore era inesorabile, roteò la sua mazza ferrata, colpendolo. Il suo scudo di quercia lo abbandonò, lasciandolo in balia dell’orco. Il mannaro lo strinse nelle sue fauci.

Thorin urlava, Dwalin urlava, lei urlava, Thorin assestò un colpo maldestro sul muso del carnefice che lo lasciò andare, guaendo. Ma Azog non si scompose: chiamò a sé un attendente, e gli ordinò qualcosa. L’orco scese dal mannaro, estraendo la propria arma, si avvicinò per ucciderlo. Alzò la lama …

E due figure lo bloccarono. Una, la più piccola, lo placcò con urlo, gettandolo lontano da corpo del Re. L’altra accolse in grembo il capo di Thorin, che la guardò negli occhi: «Sh, resisti, resisti …» gli sussurrò quella, liberandogli gli occhi da una ciocca di capelli. Si girò verso Bilbo che aveva appena ucciso l’orco e si era messo davanti a lei e a Thorin, ultima difesa contro gli altri. Guardò il nano la cui testa era posata sulle sue gambe e realizzò con orrore che aveva gli occhi chiusi, il capo completamente abbandonato a lei. Spalancò gli occhi con orrore: «No, Thorin … No … »
Diede qualche leggero schiaffo al viso del nano, completamente in preda al panico – respirava, certo, ma non doveva perdere conoscenza!- «Resta con me, Thorin, resta!»

Gli altri erano arrivati in loro soccorso, stavano combattendo e li tenevano lontano dai mannari, ma avevano bisogno di un medico, Thorin aveva bisogno di aiuto …
Un ringhio la distrasse, ritrovandosi a fissare un mannaro che sembrava ghignare, nel vederla sola e inerme. Sarebbe morta. Sarebbe morta lì, in quel momento, quel giorno, provando a difendere un nano scorbutico e altero con cui aveva scambiato sì e no sue parole … ma era una persona. Arya .. Arya credeva in lui. Si chinò un po’ di più sul corpo del nano per proteggerlo, per concedergli quei due minuti in più di vita, chiudendo gli occhi …
E il mannaro volò via.

Ma cos ..?  Alzò la testa e ciò che vide la lasciò completamente senza fiato: aquile ...  Enormi, grandi, bellissime aquile volteggiavano sopra di loro, artigliando le bestie e buttandole giù dal dirupo, salvando i suoi amici e prendendoli in groppa. Spalancò gli occhi per la sorpresa, mentre sentiva delle lacrime di felicità rigarle il viso: «Le aquile … Thorin, ci sono le aquile …»
Non si stupì quando glielo presero dalle braccia, tenendolo al sicuro fra gli artigli, né si stupì quando presero lei e la deposero in groppa ad un altro uccello; aveva fatto in tempo ad acciuffare Orcrist ed ora la teneva stretta a sé, impedendole di cadere.
Volare era una sensazione bellissima. Sentiva il vento sulla pelle, le piume dell’aquila solleticarle il viso e i capelli librarsi leggeri in volo, facendole rizzare i peli sulla nuca, mentre l’alba sorgeva, avvolgendola in un balsamo per i suoi sensi …
Eppure, era preoccupata, era dannatamente preoccupata. «Thorin!» urlarono insieme lei e Fili, ma il Re non rispose, il braccio che ciondolava inerte.
«Thorin» sussurrò la ragazza, coprendosi la bocca con una mano. Non era morto.
Per tutta la durata del viaggio, fu quello che si sussurrò per calmarsi. Non. Potevano. Perderlo.
Le aquile li adagiarono su un’altura di pietra circondata da montagne verdi, Orcrist cadde con un clangore metallico quando Arya la depose con malagrazia sulla roccia.

«Thorin!» biascicò non appena le sue gambe, tremanti, toccarono il terreno. «E’ vivo? Gandalf, è vivo?»
Bilbo le si avvicinò, avvolgendole la vita con un braccio. Probabilmente capiva che Arya stava per avere una crisi di nervi.
Gandalf si accasciò vicino al nano, passandogli la mano sulla faccia e mormorando qualcosa in una lingua sconosciuta. Il viso tumefatto e coperto di ferite di Thorin si aprì, rivelando gli occhi glaciali.
«E’ vivo» boccheggiò la ragazza, per poco non cadde per la gioia – le gambe tremavano ancora, l’incredulità troppa da poter contenere.
«La ragazza» biascicò: «Il mezz’uomo»
«Loro stanno bene. Sono qui, salvi.» sorrise Gandalf, facendosi da parte.
Dwalin e Fili aiutarono il nano a rialzarsi, ma Arya non sorrideva più. Thorin era livido.
«Voi. Cosa credevate di fare? Vi siete quasi fatti uccidere. Non vi avevi detto che sareste stai un peso? Che non sareste sopravvissuti alle Terre Selvagge? Che non c’è posto per voi fra noi?»
Figlio di-
«Bè, non mi sono mai sbagliata tanto in vita mia»
Li accolse di slancio, stringendoli in un abbraccio stritolatore. In un primo momento, Arya non capì cosa stesse accadendo e non ricambiò l’abbraccio, troppo stupita e sorpresa. Ma non appena la consapevolezza fece breccia in lei un sorriso radioso le illuminò il viso, e ricambiò con slancio, stringendo a sé quell’orso. Successivamente le dolse ammettere che delle lacrime di commozione le rigarono il volto, e che non fu lei, molto più tardi, a sciogliere l’abbraccio.

Baby you’re a firework!
Come on and show what you are:
Make them oh! oh! oh!
 



Siete liberissimi di ammazzarmi. Troppo tempo, troppe cose da spiegare, troppe venie da chidere.
Sono tipo 10 pagine di word, ma IO LO AMO <3
Vi prgo, ditemi che lo amate anche voi. Recensite, vi prego, devo  sapere cosa ne pensate. Magari con qualche dettaglio, così mi sento perdonata ^^
Ah, da oggi cambierò Nickname. Tornerò Fenio394Sparrow.
Feniah <3

 

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Capitolo 6
*** O6 > Di storte e lingue straniere ***


 
||Di storte e lingue straniere||

A mia sorella, che si è presa una storta pure lei.
Non rompere e resta a casa, che io mi devo alzare alle sei.



Erano  rare le volte in cui Thorin Scudodiquercia ammetteva di essersi sbagliato, e quando accadeva le persone si meravigliavano di lui, come se non potesse sbagliare o ammettere di aver sbagliato. Come se non fosse una persona e sbagliare non gli fosse concesso. Ma un buon re deve essere in grado di riconoscere i propri errori, anche a costo di chinare la testa e abbassare lo sguardo. Non gli piaceva farlo, ma era giusto.
Non si sarebbe mi aspettato di dover chiedere scusa al loro Scassinatore e alla ragazza. Il mezz’uomo non faceva altro che lamentarsi ed evitarli, restando un po’ sulle sue, mentre la ragazzina … bè, già il fatto che una donna che se ne andasse in giro così discinta – quei pantaloni erano incredibilmente aderenti e quella casacca così sbracciata – solo l’idea che un soggetto simile si unisse alla loro Compagnia era un’assurdità. Invece Gandalf si era messo in testa di portarli entrambi, come se il viaggio non fosse stato abbastanza lungo e pericoloso di suo! Aveva chiesto spiegazioni allo Stregone, obiettando che non potevano portarsi appresso un altro peso morto, ma era stato irremovibile: Arya sapeva delle cose, anche se poteva averle dimenticate, cose molto importanti riguardo alla loro missione. Per la segretezza della loro impresa doveva essere tenuta sotto controllo, perché avrebbe potuto ricordare e parlare.
«Inoltre» aveva aggiunto serio: «Potrebbe modificare il corso degli eventi. E’ molto pericolosa.»

«E perché dobbiamo portarcela dietro, se è così pericolosa?» aveva ribattuto lui, cercando di farsi valere. Non credeva davvero che quello scricciolo potesse rappresentare una vera minaccia, anche se Gandalf ne pareva davvero convinto. In ogni caso, le avrebbe provate tutte pur di levarsela di mezzo.
«Preferiresti che cambiasse qualcosa a mille leghe di distanza da noi o in un posto dove il danno sarebbe circoscrivibile, dove si potrebbe rimediare? E poi sembra una ragazza deliziosa, non vedo il perché di tutta questa ostilità, Thorin»
«E il mezz’uomo?»
Su di lui Gandalf non aveva proferito parola, guardando lontano. E così se li era ritrovati in mezzo. Aveva fatto di tutto per far si che non stessero fra i piedi più del necessario, ma avevano resistito più del previsto, contrariandolo non poco. Quando erano caduti nella trappola dei goblin era convinto che li avrebbero persi per primi, a partire dal mezz’uomo che, infatti, era sparito. Era stata la ragazza a sorprenderlo, nell’oscurità delle grotte. Aveva parlato con una sicurezza poco comune: parole intrise di disprezzo, gesti carichi di risentimento, modi decisamente avventati. Anche lo Scassinatore lo aveva sorpreso, appena fuori delle grotte. Strano per delle persone così giovani ed indifese sorprendere lui, Thorin Scudodiquercia.

Ricordava la rabbia e l’impotenza che aveva provato – l’odio che lo stava consumando- quando Azog era giunto a loro sul suo bianco mannaro, mettendo in pericolo non solo Thorin stesso, ma tutta la Compagnia, colpevoli solo di essersi uniti a lui in quell’impresa. Era stato sciocco, certo. Aveva lasciato che la voglia di vendetta offuscasse il suo giudizio: aveva pagato caro quell’errore, ritrovandosi a terra in balia della belva, prossimo all’incoscienza. Prossimo alla morte. Stava già volgendo le sue preghiere a Mahal per i suoi amici quando un urlo e due figure indistinte lo avevano scosso dal torpore in cui stava cadendo. Il loro Scassinatore aveva ucciso l’orco che stava per finirlo, trucidandolo con la sua piccola spada illuminata d’azzurro. Si era a malapena accorto che il suo capo non poggiava più sul terreno scosceso, ma su qualcosa di morbido, caldo.
Arya aveva un tocco gentile ma tremante, insicuro. Gli stava parlando, realizzò dopo, ma a quel punto le forze vennero meno e precipitò nel baratro dell’incoscienza. Ricordava di aver pensato vagamente ad un’imprecazione prima di chiudere gli occhi.

Quando aveva ripreso coscienza l’alba era sorta da un pezzo. Sembrava che tutti fossero in apprensione per lui, anche se Arya sembrava proprio sul punto di scoppiare a piangere, con Bilbo che le stava accanto apprensivo. Quei due non erano nani, non erano parte della Compagnia, non erano in grado di badare a loro stessi, eppure non si erano fatti scrupoli a correre in suo aiuto, a rischiare la propria vita per quella degli altri nani. Non era riuscito ad impedire al suo cuore di fidarsi di loro, di affezionarsi a loro. Ci avrbbe pensato la Compagnia a quei due, se ne sarebbero presi cura e li avrebbero protetti. Erano parte del loro gruppo, lo erano a tutti gli effetti.
Dopo quell’abbraccio durato molto tempo, avevano convenuto che era meglio spostarsi in basso e riposarsi un paio di giorni per riprendersi dalle peregrinazioni degli ultimi tempi. Dopotutto erano ancora scossi, chi più e chi meno, e Thorin contava che subito dopo si sarebbero messi in marcia a velocità sostenuta, quindi pensò che un paio di giorni di tranquillità potevano permetterseli. Ovviamente Arya doveva rovinare i suoi piani.
L’altura era circondata da una vegetazione generosa e ancora verde, anche se si avvertiva l’imminente arrivo dell’autunno nell’imbrunire precoce di alcune foglie. Scendere non era stato affatto semplice: il sentiero ricavato dalla roccia era incredibilmente stretto e scosceso, liscio e ripido, e in alcuni punti spariva del tutto, perciò erano costretti ad arrampicarsi e cercare appiglio nella nuda roccia. Chiunque avesse costruito quelle strade aveva proprio bisogno di una lezione di architettura di base: erano un insulto alla sua abilità di nano. Per un po’ andò tutto bene, scesero con calma, lui e Dwalin per primi, ordinando agli altri di metterei piedi dove li mettevano loro, e con quel sistema erano riusciti ad arrivare più o meno indenni alla fine della parete di roccia. Avevano stabilito che sarebbero scesi in coppie: Arya e Bilbo si calarono assieme fino a quando la ragazza non perse la presa e cadde. Aveva lanciato un urlo stranissimo, di una sola emissione vocale, abbastanza acuto. Sembrava uno strillo più di sorpresa che di paura. Per fortuna Dwalin aveva avuto la prontezza di prenderla al volo, impedendo all’unica ragazza del gruppo di sfracellarsi al suolo. Ma la storta se l’era presa, ed Oin e Gandalf avevano consigliato una decina di giorni di riposo, visto che la sua caviglia era molto gonfia e non riusciva ad appoggiarsi col peso.

Arya lo aveva guardato mortificata, abbassando, una volta tanto, lo sguardo. «Scusa» aveva mormorato colpevole.
«Non basteranno due giorni di riposo?» chiese Thorin.
Oin, dopo varie volte che Thorin lo ripetè, scosse la testa: «No, è meglio di no. Guarda in che stato è la caviglia. Se non si riposa potrebbe peggiorare e forse arrivare alla zoppia. La buona notizia è che non se l’è rotta.»
Thorin aveva sospirato, sconfitto. Ormai l’avevano accettata a pieno titolo nel gruppo, quindi dovevano tenersela così com’era: canterina e goffa. «Ti porteremo noi» stabilì stancamente Thorin: «Vedi di non peggiorare.»
La prese lui stesso e la portò in un punto riparato dal vento, dove si stabilirono per i due giorni successivi. Non notò l’acuto rossore sulle guance della ragazza, ma ringraziò il cielo che non avesse iniziato a parlare perché aveva capito che quando cominciava non la smetteva più.
«Grazie» mormorò lei quando la depose a terra con delicatezza.
Scosse la testa in un gesto incurante: «Sei meno pesante di quanto sembri»
«Perché, quanto sembro pesante?» si allarmò la ragazza: «Tanto?»
«No.» E chiuse lì il discorso.
 
Arya dal canto suo si sentiva incredibilmente a disagio e stupida. Come aveva fatto a cadere anche quella volta? Era stata attenta, aveva osservato i punti dove mettere i piedi, li aveva messi dove li avevano messi loro. Ma ad un certo punto le mani avevano iniziato a tremare e nonostante avesse amato quelle ore di interminabili scalate – il vento fra i capelli, la nuda roccia sotto le dita, il sudore che le bagnava la fronte- il suo corpo aveva ceduto, tradendola. Aveva stretto compulsiva la mano di Dwalin, respirando profondamente. Quando l’aveva messa a terra commentando bonariamente di stare più attenta, una fitta lancinante l’aveva fatta cadere, stringendosi la caviglia. Responso: brutta storta.
Era diventata di peso. Si era ripromessa di non farlo, e invece alla prima montagnetta da scalare cadeva e si infortunava. Era molto intelligente da parte sua, sì. Perlomeno Dwalin l’aveva redarguita bonariamente –quindi non era arrabbiato con lei, vero? Arya sperava ardentemente di no.
Sistematosi, ognuno aveva iniziato a rilassarsi come più gli confaceva. Fili e Kili, poco distanti da lei, facevano un casino tremendo, ma dopotutto erano Fili e Kili, non poteva aspettarsi niente di meno. Bofur stava intagliando qualcosa nel legno, fischiettando a bassa voce un motivetto allegro. Anche gli altri si erano sistemati: perfino Thorin e Dwalin stavano chiacchierando con tranquillità seduti su una roccia. Arya sorrise, sentendo una sensazione di calore all’altezza del petto, e osservò come il cielo, che virava nei tenui colori del crepuscolo, non le fosse mai sembrato più radioso e bello di così.

Ori si avvicinò a lei, strappandola dalla contemplazione della volta celeste: «P-posso sedermi?»
Arya gli sorrise, spostandosi un po’ più il là: «Certo che puoi, non c’è nemmeno da chiedere»
Il nano si sedette ed Arya notò con dispiacere che erano alti uguali, anche se lui risultava più .. corposo, massiccio. Non che lei fosse mai stata magrissima, ma in proporzione sembrava più minuta, come al solito. Doveva essere una cosa caratteristica dei nani, la stazza più robusta. Sentì una stretta al cuore ricordando la fine nefasta del libro, ma scosse la testa e allontanò il pensiero dalla sua mente. Era brava a non pensare alle cose brutte. Ori sembrava sul punto di parlare, ma si interrompeva spesso, abbassando lo sguardo e arrossendo. Le faceva un sacco di tenerezza, dopotutto quando il re dei goblin lo aveva minacciato gli aveva fatto scudo con il proprio corpo. «Puoi parlarmi, sai? Non mordo mica»
Ori annuì, prendendo finalmente parola: « Come sei arrivata qui? Ti piace la Terra di Mezzo? D-da dove vieni? Se vuoi puoi non rispondere» abbassò lo guardo, timido.

«Non credo che tu conosca il mio Paese. E’ molto molto lontano da qui. Nemmeno io so quanto. Non so come sono arrivata qui, mi ricordo solo stavo andando a casa di …» tacque, aggrottando le sopracciglia. Stava andando a casa di chi? «Io … non ricordo … Vabbè, ero uscita di casa e poi mi ritrovo in quella grotta puzzolente con tutte quelle spade -hai visto quella di Thorin? Ma che figata che è! Cioè, ma l’ha vista? Wow, io l’ho anche presa in mano! Però pesa un sacco … E cosa stavo dicendo? Ah, sì, vengo dall’Italia.»
Ori –che si era spaventato per la velocità con cui stava parlando la ragazza- azzardò un’altra domanda: «Che lingua parlate lì?»
Arya non aveva notato che il nano aveva tirato fuori il suo diario e che alle sue parole aveva iniziato a scribacchiarvi sopra.
«Italiano, anche se abbiamo tanti dialetti che sono lingue a parte ..» fece, cercando di sbirciare da sopra la sua testa.
«Mh, ecco perché questo accento. Però parli benissimo il comune. Come mai?»
Arya aveva notato che mano mano che Ori entrava nel suo elemento – lo studio, a quanto pareva- perdeva la timidezza, mentre una quieta cortesia e una dolce tolleranza facevano di lui una buona compagnia. Arya alzò le spalle: «L’anno scorso io e una mia compagna di scuola siamo andate un anno in America, a San Diego, in una famiglia. I figli di chi ci ospitava sono venuti da noi, così loro imparavano l’italiano e noi l’inglese … Senti un po’, posso vedere quello che hai scritto?»
Ori, che intanto stava prendendo appunti sul diario, si bloccò di colpo e la guardò in un modo che la ragazza non seppe decifrare. Notando che però Arya sembrava davvero interessata glielo concesse, mormorando un superfluo “fai attenzione”.
Arya tutta contenta aprì il diario alla prima pagina, affilando subito lo sguardo.

Girò pagina e un’espressione stupita le si dipinse in volto, espressione che divenne sempre più confusa mano a mano che continuasse a leggere. «Non ci capisco niente.» ammise alla fine: «Che alfabeto è?»
«Il nostro alfabeto. E’ normale che tu non lo capisca» rispose Ori: «E’ il Khuzdul» mormorò a voce bassa.
Arya si avvicino un po’ per sentire, mormorando a sua volta: «Perché stiamo sussurrando?»
«Perché … perché Dwalin se la prende molto su certe cose. Tu adesso … v-vuoi che ti insegni il Khuzdul, vero?»
Arya era impressionata. Gli rivolse uno dei sorrisi più ammaliatori che aveva: «Me lo insegnerai vero?»
«No» rispose Ori. La fermezza nella voce del nano la spiazzo, destabilizzando il suo sorriso. Ori non era mai sembrato più sicuro di così. Per recuperare un po’ di dignità e non lasciarsi quell’espressione da pesce lesso in faccia Arya gli domandò perché.

«E’ uno dei nostri segreti più importanti, Arya. E’ l’identità di ogni singolo nano nella Terra di Mezzo. Non è solo un idioma o un metodo di riconoscimento … è il nostro stesso essere. Quando Mahal ci creò non ci rese fantocci nelle sue mani. Ottenemmo la conoscenza e la vita. Il nostro libero arbitrio. Non possiamo condividere qualcosa di così profondo e intrinseco della nostra natura.» le spiegò Ori.
«Oh» mormorò Arya, affascinata.
La sera stava lasciando il passo alla notte, il falò che avevano acceso creava strane luci e ombre sui loro visi. Arya li osservò quasi con timore reverenziale. Chissà cos’altro nascondevano con così tanta gelosia, i suoi amici. Quei nani esercitavano un fascino ammaliatore su di lei: voleva conoscerli tutti, voleva sapere le loro storie, i loro sogni e le loro aspirazioni, voleva saperli suoi. Suoi amici, compagni, suoi fratelli. Quell’atteggiamento possessivo era puerile da parte sua, ne era consapevole. Ma Arya era sempre stata una persona gelosa, anche quando era Marina, la ragazza che andava a scuola con la metro. E chiunque osasse nuocere all’oggetto della sua gelosia andava incontro alla sua ira. In quel momento sentì di odiare Smaug, i goblin, perfino gli elfi di Gran Burrone, che li avevano guardati con una sufficienza e superiorità immotivati. Non avevano il diritto di farlo. Né Smaug, né i goblin, né quegli stupidi elfi del cazzo. Stupidi elfi del cazzo? I nani stavano esercitando una brutta influenza su di lei, questo doveva ammetterlo.
«La vostra lingue sembra senza vocali … è stato difficile impararne due? Di lingue, intendo» chiese Arya.
Ori scosse la testa, sorridendole: «Tutti i nani della Terra di Mezzo sono bilingui, così si può parlare anche con gli Uomini. Anche gli elfi lo sono.»

«E’ una lingua così aspra la vostra … Sembra quasi senza vocali» mormorò sovrappensiero Arya.
«Più che altro le parole che tu hai sentito sono imprecazioni» rispose lui.
Arya girò pagina, un sorriso le spuntò sulle labbra: «Però, che bella grafia, Ori.»
Il nano arrossì leggermente: «Grazie»

Lesse quel piccolo appunto che aveva scritto in inglese, e anche se erano indicazioni sul tempo di qualche giorno prima, le fece piacere vedere qualcosa che capiva. Le diede un po’ di speranza: forse sarebbero davvero potuti diventare uniti, anche più di com’erano già. Si soffermò sulla grafia dell’amico, che era molto ordinata e perfettamente leggibile: un po’ piccola ma lineare. Quella di Arya era spigolosa e disordinata; quando scriveva qualcosa controvoglia, tipo gli appunti di filosofia, diventava illeggibile e si dilatava enormemente, non sapeva nemmeno lei perchè. Girò pagina e un sospiro sorpreso le sfuggì dalle labbra, gli occhi spalancati dalla sorpresa: «Ori … ma l’hai disegnato tu?»
Un Bilbo sorridente li salutava dalla carta, impresso con incredibile precisione dai tratti precisi di Ori. Sembrava pronto per una passeggiata, con il bastone in mano e lo zaino in spalla. Quei riccioli così realistici le mettevano voglia di arruffare i capelli al ritratto. Nella pagina seguente Dwalin la fissava arcigno, le sopracciglia aggrottate e i tatuaggi minacciosi.  Restituì il diario ad Ori con un sorriso ammirato. Il nano era arrossito e mormorò un “vado da mio fratello” lasciandola lì. Arya lo salutò con la mano, posando la testa sulla parete di roccia alla quale si sosteneva. La sua gamba destra giaceva distesa sull’erba pregna dell’odore della sera, mentre la sinistra era piegata. Se non si fosse presa quella storta, sarebbe stata a gambe incrociate.
 
Il corpo penzolava inerte dal ramo, la corda stretta sul collo spezzato del cadavere. Arya si domandò vagamente se avesse sofferto prima di morire. Ondeggiava piano, appena sospinto da vento. Aveva i capelli lunghi e neri, la pelle bianca, quasi azzurra, ed era voltato, in modo che non potesse vedere il viso. Sullo sfondo notò un’unica vetta solitaria, appena imbiancata dalla neve. Anche le sue dita erano bagnate di nevischio. Arya sorrise, sfiorandosi le dita. Quando rialzò gli occhi sul cadavere trovò due occhi azzurri che la fissavano, la bocca sanguinante e mangiata dai vermi. Sotto il corpo –non capiva se fosse femmina o maschio- il sangue profanava la neve, non più sottile, ma alta, morbida. Una cappa di gelo l’avvolse, e il vento cominciò a spirare freddo sulla sua pelle, offuscandole la vista. Gli occhi della morte si spalancarono, allungando una mano verso di lei. Le parlò.
«Arya»

Arya aprì di scatto gli occhi, alzandosi repentina. Era abbastanza sicura che quella montagna solitaria fosse la loro meta, ma non comprendeva il corpo che aveva visto. Cosa rappresentava? Si passò una mano fra i capelli, provando a mantenere la calma. Nonostante nel suo sogno gelasse e la temperatura reale fosse abbastanza fredda, era sudata. Dwalin era di guardia, appena oltre il falò. La guardava con la sua solita espressione, quindi non sapeva dire se fosse arrabbiato con lei o meno. Dovette capire dal suo viso che non si sarebbe riaddormentata quella notte e che gli stava chiedendo di venire vicino a lui. Sospirò e venne verso di lei, attento a non svegliare gli altri. Il russare di Gloin svelava che Arya era l’unica ad aver avuto un incubo, quella notte. Senza parlare Dwalin se la caricò addosso, passandole un braccio sotto le ginocchia –Arya si sentì una principessa- e la portò accanto a lui, attento alla caviglia lesa. Non parlò, continuando a scrutare l’oscurità con fare arcigno, alla ricerca di qualche pericolo. Arya si aggiunse alla sua veglia, entusiasta, ma dopo un po’ sbuffò, iniziando ad annoiarsi.
«Non succede niente.» borbottò.
«Meglio così, no?» ringhiò Dwalin, probabilmente disturbato dalla sua voce.
Ad Arya piaceva stare con lui, anche se era così scontroso. Le piaceva proprio lui, punto. Le ricordava suo nonno, che quando era ancora vivo le raccontava della guerra, di come una pallottola lo avesse reso zoppo, o anche di come aiutava i suoi genitori a coltivare la terra. Dwalin durante quelle settimane le aveva raccontato, ogni tanto, delle sue guerre, dell’officina di suo padre, dei lavori che erano in grado di creare i nani lavorando le gemme e i metalli, delle meraviglie delle loro città … erano posti lontani, però la voce di Dwalin, cavernosa e sicura, era un’ottima narratrice. Passarono il resto della notte in silenzio, però fu bello, per Arya. Il nano non sembrava infastidito da lei, e anche solo stare lì – lei che guardava le stelle alla ricerca di costellazioni, lui a fare la guardia- la fece sentire un membro della Compagnia.
 
 
«Bene, sei pronta Arya?» le chiese Kili, piegandosi leggermente. Arya annuì: «Certo!»
La prese in braccio con delicatezza e senza sforzo, sorridendole radioso. Di nuovo, la ragazza si sentì una principessa. Avevano smontato l’accampamento, cominciando a muoversi verso la montagna che svettava all’orizzonte, vicinissima eppure irraggiungibile.






 
Edit del 13/04/2015: modificati font ed errori vari del capitolo.


Ciao ragazzi ;)
Ho modificato il capitolo -scusatemi davvero, ma mi meraviglio di me stessa. Non ho mai scritto niente di così pessimo, così pieno di errori più o meno gravi. A quanto pare il periodo che sto vivendo si riflette nel mio stile di scrittura, ma vedrò di migliorare, ve lo prometto. Io tengo tantissimo a questa fanfiction, e la finirò, dovessi impiegarci cent'anni. E dopo mi dedicherò a Winter is Coming. Coomunque: siamo alla fine di An Unexpected Journey! Dal prossimo verremo catapultati in DoS ed entreremo nel vivo della storia! Oggi niente banner perchè 1) è un capitolo di passaggio e i capitoli di passaggio non ne avranno     2)non avevo banner da appioppare   3) perchè ne avremo uno per ogni film, sì u.u
Volevo dire un sacco di cose ... ah, sì. Questa è la seconda versione sia delle note che del capitolo. Ho tentato di salvare il salvabile.

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Capitolo 7
*** O7 > Something I need ***


~ The moon loved the sun~


You’ve got something I need
In this world full of people, there’s one killing me
And if we only die once
I wanna die with you



 
«Quant’è vicino il branco?»
Arya si sporse subito dalla roccia su cui era poggiata, sospirando di sollievo alla vista di Bilbo.
«Un paio di leghe, non di più» rispose trafelato: «Ma questa non è la parte peggiore»
«I mannari ci hanno fiutati?» chiese Dwalin.
«Non ancora, ma lo faranno» rispose lo Hobbit, ora circondato dai nani desiderosi di ascoltare com’era andato il giro di ricognizione. Arya avrebbe voluto andare con l’amico –non potevano lasciarlo andare da solo sul serio- e invece no, glielo avevano impedito, costringendola a restare fra loro a mordicchiarsi le unghie per l’ansia.
«Abbiamo un altro problema» disse grave Bilbo.
Gandalf lo interruppe: «Ti hanno visto?»
«No, non è questo il problema» Bilbo scosse la testa, impaziente.
Gandalf rise: «Che vi avevo detto, silenzioso come un topo!» Tutti i nani risero e si complimentarono fra loro, ma Bilbo pareva incredibilmente preoccupato, continuava ad aprir bocca senza riuscire a parlare, interrotto da una fiumana di voci che mettevano loro stessi e la propria famiglia al suo servizio fino alla fine dei tempi.
«Volete darmi ascolto? Volete darmi ascolto!?» urlò lo Hobbit per farsi sentire.
Tutti tacquero, osservandolo sorpresi: «Sto cercando di dirvi che c’è qualcos’altro là fuori» Indicò con la mano la direzione da cui era venuto. Si guardarono l’un l’altro, destabilizzati. Cosa poteva esserci di così pericoloso da far in modo che Bilbo fosse più preoccupato per quella cosa che per Azog?
«Quale forma ha assunto?» domandò Gandalf, serio: «Quella di un orso?»
«S..sì, ma più grosso, molto più grosso» rispose sorpreso Bilbo. «Lo sapevi?» domandò Arya  a Gandalf: «Sapevi di quest’orso?»
Gandalf non le rispose. I nani presero a parlare fra loro, avanzando una teoria più stupida dell’altra: Bofur voleva tornare indietro, appoggiato da Gloin e Dori; Thorin si opponeva con veemenza, ma non sapeva come controbattere, mentre la maggior parte del gruppo parlava troppo velocemente perché Arya potesse intendere ciò che dicevano.
«C’è una casa» disse Gandalf.
«Sì, nella prateria» rispose Arya guardandolo storto. Lui la ignorò, guardando Thorin: «Non è lontana da qui, dove noi potremmo trovare rifugio»
«Di chi è la casa?» chiese Thorin: «Amico o nemico?»
Bella domanda.
«Nessuno dei due» rispose Gandalf: «Lui ci aiuterà o … ci ucciderà»
«Che scelta abbiamo?» chiese retorico Thorin. Un ruggito squarciò l’aria, facendoli girare di scatto verso i sentiero da cui proveniva. Arya strinse la mano di Bofur accanto a lei, in un impeto di paura.
Lo Stregone li guardò sconsolato: «Nessuna»
 
Non aveva mai corso così tanto in vita sua. Nemmeno quando all’inizio erano fuggiti dai mannari ed erano arrivati a Granburrone, nemmeno nelle caverne dei goblin, nemmeno allora aveva corso così veloce come correva in quel momento. Ed era leggera, oh sì. Correva non solo per la propria vita, correva e basta, perché se c’era una cosa che Arya aveva sempre, sempre desiderato fare, era correre, correre e basta, correre fino a che non avesse più avuto fiato in corpo e le gambe le avessero tremato tanto da non reggerla più. Ma quei mesi di peregrinazioni erano valsi a qualcosa: aveva le gambe più forti e resistenti oltre che più scattanti, e il respiro era quello profondo e saldo di chi vive in continuo movimento, e la stanchezza non si faceva sentire se non dopo ore intere di corsa, ore e ore passate a correre e a mettere un piede davanti l’altro. Non era veloce, neanche la metà di Gandalf o Thorin –avevano le gambe più lunghe!-  eppure le sembrava di essere veloce quanto un autotreno. Non era l’ideale, certo, per la sua caviglia, recentemente guarita. Il terreno non era affatto liscio e privo di ostacoli: sassi, buche, fiori ed erbacce minavano ai loro piedi, desiderosi solo di farli cadere e interrompere la loro corsa, ma ad Arya non importava e rideva come una bambina: che importanza aveva essere a meno di un giorno da loro? Nessuna, perché quando correva era facile non pensare. Arya non si era mai sentita più viva di così.
La Terra di Mezzo era così varia e vasta, bellissima, piena di sorprese. Proprio un giorno prima fuggivano in mezzo al nulla più totale e adesso lei correva spalancando le braccia, sentendo i soffi delicati delle lavande sotto i palmi. Ed era facile relegare il pensiero di Azog in un angolino nella mente per tirarlo fuori quando le gambe cominciavano a far male e l’andatura a diminuire. Procedevano anche più leggeri perché in una precedente imboscata erano stati costretti ad abbandonare i propri bagagli restando con poca roba. Stava ingaggiando una gara più o meno lecita con Fili e Kili quando udì un ruggito dietro di loro che la spinse a voltare la testa verso la fonte del suono. Inciampò.

Un gemito terrorizzato le sfuggì dalle labbra quando vide la cosa che li seguiva. L’enorme orso avanzava snudando le zanne e ruggendo come un leone. Arya si alzò con impeto aiutata da qualcuno che non riconobbe. Voltò di nuovo la testa, vedendolo sempre più vicino. Non avevano via di scampo! Il cuore batteva a mille nel suo petto, il fiato era spezzato da ansimi di fatica, le gambe si muovevano da sole per paura. Terrore era poco per descrivere quello che provava. Non penseresti mai di morire sbranato da un orso troppo grosso per essere vero, eppure quella sarebbe stata la morte più normale a cui sarebbe andata incontro, in quel mondo. Non voleva morire, voleva scappare. Entrarono nel giardino della casa di corsa, attraversando velocissimi il vialetto e buttandosi sulla porta. Commise l’enorme errore di gettarsi a capofitto sui suoi compagni, certa che avrebbero aperto la pesante porta di legno subito; invece sbatté contro il corpo di Nori, rimbalzando all’indietro per il contraccolpo. «Aprite la porta, PRESTO!» urlò disperata quando vide la bestia varcare la soglia del giardino. Si avvicinava, correva avanzando feroce verso di loro, un balzo più veloce del precedente. Vicino, sempre più vicino …
Thorin aprì di scatto il battente. Qualcuno l’afferrò per la collottola e la spinse dentro, facendola rotolare sul pavimento. La bestia attaccò con un ruggito il portone, ringhiando inferocito per assaggiare le loro carni. Arya, riversa sul pavimento, si allontanò strisciando di alcuni passi, rabbrividendo le vedere quanto grande e feroce fosse. Snudava le zanne con rabbia e cattiveria, sputi di saliva volavano via dalle fauci affamate. Ma i nani spinsero, spinsero, spinsero e riuscirono a lasciarlo fuori, rinchiudendosi in quell’enorme tenuta. Si tirò su con qualche difficoltà e si osservò intorno, ignorando gli altri. Quel Beorn doveva essere davvero alto, molto più di un uomo normale, se i soffitti erano così alti e le api così grosse. Vide dove avevano il nido, perciò decise che si sarebbe stabilito dalla parte opposta del fienile – perché era quello ciò che la casa sembrava. La parte dell’abitazione che poteva essere chiamata “casa” comprendeva un tavolo e delle sedie, punto. C’erano anche dei buoi, constatò un po’ stupita, ma decise di non aprir bocca e pregò che non venisse loro voglia di esplicare le loro funzioni durante la loro breve permanenza. Anche in quel caso si diresse dalla parte opposta, trovando un bel posticino arieggiato al punto giusto.
Quel pomeriggio pareva aver perso la sua vena ciarliera, giacché non partecipò attivamente alle conversazioni dei suoi amici, come faceva di solito, limitandosi ad ascoltare e a rispondere solo se interpellata –cosa che accadde molto di rado: i nani coglievano ogni occasione per mantenere la quiete, per quanto potesse essere quieta una stanza con Fili, Kili e Bofur insieme. Non aveva nulla: nessun malessere, anzi, nonostante il grande spavento di prima si sentiva leggera e felice e percepiva un onnipresente sorriso aleggiarle in viso. Non sapeva perché si ritrovasse ad arrossire o a ridacchiare, ma non le dispiaceva. Si addormentò col sorriso, schiacciata dall’abbraccio di Kili.
Quando riaprì gli occhi, la luna le colpiva il viso, bagnandolo di luce. Sbatté un paio di volte le palpebre, sedendosi con cautela. Kili non la stava abbracciando più, era riverso sulla schiena e aveva un braccio sulla faccia, la luna che baciava anche lui e russava a bocca aperta. Arya sorrise intenerita e si alzò, facendo attenzione a non svegliare gli altri. Anche Bombur russava sonoramente, ingerendo ed espirando delle farfalline capitate lì per caso, e tutti gli altri erano tranquilli. Non sapeva perché si fosse svegliata all’improvviso, ma le lame di luce che filtravano alle finestre non erano di certo un incentivo sufficiente per farla riaddormentare, anzi. Cercando di non fare rumore, si diresse verso una delle finestre della casa, poggiò il capo su un cornicione e iniziò ad osservare il cielo, lasciando vagare lo sguardo. La luna piena era enorme, così grande che riusciva a vederne i crateri  con estrema nitidezza; le stelle brillavano come tenui lucine nel cielo di un blu puro e deciso, di quelli che si posso incontrare solo nei sogni. Alla ragazza sembrava proprio di essere precipitata in un sogno – il suo sogno. E che Dio la perdonasse, non voleva più svegliarsi.
Per tutta la vita aveva vissuto sentendosi come il pezzo mancante di un puzzle, sbagliata, uno di quei pezzi che non coincidono perfettamente con il disegno. E se ne era fatta una ragione, aveva imparato a conviverci, ad apprezzare le piccole cose, perché era quello che faceva lei: si accontentava. Non che non amasse la sua famiglia e i suoi amici, ma c’era sempre stato –sepolto in profondità, ma c’era – un senso di malessere e disagio che non era riuscita ad estirpare del tutto. La fotografia, i fumetti e lo studio erano ottime valvole di sfogo, ma come poteva evitare di far tornare a galla quei sentimenti che, maligni, si manifestavano nei momenti meno opportuni? Aveva provato a gettarsi sui rapporti umani, fallendo miseramente anche in quel campo. Era stata innamorata di Leo, lo aveva amato profondamente, quanto può una quattordicenne verso il suo primo ragazzo, e lui l’amava – l’amava ancora, e questo le faceva male.
Quello che c’era stato fra loro era stato dolce, ma l’amore non può cambiare la natura di un uomo. O di una donna, nel suo caso. E qual era la natura di Arya? Glissare, fuggire, evitare gli argomenti spinosi. Era un buon metodo che funzionava male, come era solita dirle una sua amica. Il metodo era buono perché in linea di principio andava, solo che alla lunga perdeva funzionalità e i sentimenti che provava a reprimere bussavano alla soglia del suo cuore con crudele soddisfazione: per quanto tu possa chiudere gli occhi e ignorare i tuoi problemi noi saremo sempre qui a tormentarti!

Era da molto tempo che Arya non amava più Leo, ma non aveva mai avuto il coraggio di uscire allo scoperto, soprattutto perché lui l’amava, l’aveva sempre amata, fin da bambini, quando lei lo aveva spinto in piscina per scherzo – o per dispetto? Arya non se lo ricordava, e conoscendosi sospettava fosse più per il secondo motivo: dopotutto da bambina era una terrorista, non si sarebbe sorpresa se avesse provato l’impulso di annegare qualcuno.
Sotto quel cielo trapunto di stelle veniva da chiedersi come potessero esistere tutti i sentimenti come tristezza, odio e disperazione, come potesse, una ragazzina di diciotto anni, essere tanto vigliacca da non riuscire a confessare al suo ragazzo che erano anni che non lo amava più. Il chiaro di luna era così splendido, così romantico, che riuscì a virare i suoi pensieri su argomenti meno amari.
Lei era viva, e non perché non era morta di recente, ma perché … perché … non era in grado di spiegarlo nemmeno lei. Erano forse le immense distese erbose della Terra di Mezzo che le davano tutta quella carica? Era stata un primate, miliardi di anni prima, forse antichi geni sopiti si erano risvegliati? No, non era questo. Volse lo sguardo verso l’interno della casa e trovò la risposta che russava con mala grazia, assolutamente ignara delle sue considerazioni. Un sorriso dolce le increspò il viso: i miei dolci nani, non potè fare a meno di pensare, anche se di dolce non avevano proprio niente. Nonostante non sarebbero dovuti nemmeno esistere – erano personaggi di un libro, dopotutto – era molto più affine a loro che alle sue vecchie conoscenze, sospettava, e amava molto di più loro che gli altri, e di questo ne era sicura. Prese dalla tasca del giacchetto il suo portafogli, l’unica cosa che non si era sentita di lasciare a Granburrone. Il peso familiare delle monetine da venti centesimi le riportò alla mente l’odore fragrante del bar della sua scuola, dove si recava ad ogni intervallo per acquistare le caramelle gommose alla frutta che nemmeno le piacevano tanto. Era un portafogli molto semplice, di tela rosa, imbrattato dai disegni che aveva fatto con il pennarello indelebile, con due scompartimenti: il primo serviva per gli spiccioli, il secondo conteneva eventuali – ed inesistenti – carte di credito e i contanti. Sua madre era piena di carte fedeltà dei supermercati, lei invece aveva solo tessere di biblioteche, librerie e della metro. La carta d’identità era un po’ usurata, ma non era messa male. Un altro problema andava ad aggiungersi a quelli che aveva già, e forse solo quel foglietto ora inutile poteva aiutarla.

I ricordi … le persone … stavano sparendo. Le loro personalità erano ancora ben definite nella sua mente, ma l’aspetto fisico … c’era già qualcuno di cui non ricordava il nome … per esempio, quella ragazza dalla personalità vivace e riflessiva … Chi era? Sentiva di volerle tanto bene, ma se provava a ricordare il suo nome, quello le sfuggiva via come acqua fra le dita. E non era un bene, perché sebbene non volesse tornare a casa, non doveva dimenticarsi chi era.
«Notte insonne?»
La sua voce la fece trasalire: «Thorin! Mi hai spaventata!»
Il nano si avvicinò a lei scrutando con vago interesse l’esterno della casa, le mani giunte dietro la schiena: «Progettavi la fuga?»
La domanda non era stata fatta come un’accusa, bensì come un tentativo di iniziare una conversazione.
«No.»
 Non me ne andrei mai. E’ questa la vita che ho sempre desiderato vivere. Arya capì troppo tardi di aver sussurrato, invece di aver fatto una considerazione personale, perchè Thorin si girò verso di lei: «Tu hai sempre desiderato vivere una vita vagabondando senza un tetto sulla testa e fuggendo ogni giorno da pericoli più grandi di te?»
Arya avrebbe potuto eludere quella domanda con facilità, se solo non avesse avuto la mente svuotata da ogni pensiero. Rispose quindi con sincerità: «Io ho sempre desiderato vivere una vita combattendo per qualcosa in cui credo.»
«E in cosa credi?»
In noi, avrebbe potuto rispondere: in noi, nella Compagnia. Ma non poteva farlo. «Io credo che tu abbia ragione a riprenderti ciò che è tuo perché è un tuo diritto. Che sarai un buon Re e che è giusto aiutare gli amici. Perché noi siamo amici, vero?» Non voleva correre il rischio di aver detto una cavolata, non dopo che sembravano aver iniziato ad instaurare un rapporto basato sul rispetto reciproco invece che sui dispetti e le linguacce.
Per la prima volta dopo l’abbraccio, Thorin le sorrise. Un sorriso dolce che si estese fino agli e che le trasmise tanto calore da contagiarla: «Arya, tu sei molto di più.»
Spiazzata, non trovò nulla di intelligente da dire, quindi si limitò a sorridergli e a tornare a guardare il cielo, realizzando solo dopo che loro erano lì, vicini, al chiaro di luna, e nulla avrebbe potuto essere più perfetto di così. Stavano parlando, semplicemente parlando, e il mondo era perfetto.
«Che cos’hai in mano?» le chiese Thorin. Arya, realizzando che stringeva ancora il documento in mano, arrossì leggermente perché quella non era una delle sue foto migliori, ma glielo porse lo stesso, dicendogli che era la sua carta d’identità. Gli spiegò brevemente a cosa servisse e cosa c’era scritto, mormorando che qualche giorno di qualche settimana prima – ormai aveva perso la cognizione del tempo – aveva compiuto diciotto anni e che quindi era diventata maggiorenne. «E’ importante, sai» annuì con fierezza: «Ora posso firmarmi le giustificazioni da sola, a scuola.» Aveva la testa sulle spalle, lei.
Thorin indicò foto: «L’artista è stato davvero molto bravo»
«Si chiama “macchina fotografica”. Bello il chiaro di luna, vero?»
Il nano annuì vago. «E’ una fortuna che sia piena. Abbiamo più luce e riusciamo a vedere quasi come se fosse giorno: ci sarà molto utile in caso di fuga.»
«Non è quello che intendevo ma rispetto la tua opinione.» Arya ridacchiò. «Io lo trovo romantico, è un peccato che non possa fotografarlo.»
Thorin alzò gli occhi al cielo: «Tu trovi tutto  romantico»

Arya gli fece una linguaccia, rivolgendo lo sguardo al cielo, alla ricerca di qualche costellazione. Balin era in grado di riconoscerle tutte, di scovare anche il più piccolo gruppo di astri: «Ogni stella ha la sua storia, bambina mia» le aveva detto una notte, quando l’aveva sorpresa a scrutare la volta celeste: «Anche la più insignificante. Alcuni credono che siano delle lucciole rimaste intrappolate nel cielo, altri pensano che siano raggi del Sole adottati dal suo grande amore, la Luna. Ogni giorno il Sole tenta di raggiungerla, ma la Luna è timida, e si nasconde, fuggendo per un pelo. E’ solo durante le eclissi che i due amanti si ricongiungono, seppur per un breve periodo. Baci fugaci, lesti abbracci e dolci carezze sono tutto ciò che possono concedersi, prima di riprendere il loro doloroso gioco. Molte persone pensano che le stelle siano il frutto dell’amore fra la Luna e il Sole, per sempre accuditi dalla madre, alla costante ricerca del padre. In realtà nelle stelle è scritto il destino di tutti noi, bambina, e pochi sono in grado di leggerlo.»
«Ancora meno sono in grado di essere il destino. Rare sono le persone che in vita hanno brillato così tanto che per grazia dei Valar continuano a vivere nella volta celeste anche dopo la loro morte su questa terra: non sarebbe giusto farli morire e basta, non credi? E così i loro spiriti si trasformano in polvere fatata, e veglieranno su di noi, fino alla fine dei tempi. E’ questo che sono le stelle in realtà: non lucciole, non raggi di Sole, non i figli della Luna: sono persone buone, le migliori fra noi, che vivono per narrare la loro storia. Lì, ci sono i grandi Re del passato.»
Arya non aveva avuto il cuore di dirgli la verità. Con quale coraggio avrebbe potuto dirgli che i grandi Re del passato non erano altro che corpi gassosi distanti anni luce da loro e destinati, prima o poi, a svanire? «Anche il nonno di Thorin è lassù?»
«Certo» aveva risposto Balin, non senza una nota di tristezza ad incrinargli la voce: «Certo.»
«Una volta nel cielo c’erano due lune» aveva allora detto Arya: «Ma una si avvicinò troppo al Sole e cadde, bruciando. La leggenda narra che dai suoi frammenti nacquero delle uova di drago, che piovendo sulla terra trovarono la casa perfetta per prosperare, e portarono con loro la magia. Presto, anche questa luna si avvicinerà troppo, e i draghi ritorneranno nel nostro mondo.»
«Allora speriamo che quel presto giunga tardi» Balin le aveva sorriso: «Abbiamo ancora un Drago da togliere di mezzo»
Fu la voce di Thorin a riportarla alla realtà. «Dovresti dormire. Domani ci rimetteremo in viaggio.»
Arya sospirò: «D’accordo. E tu?»
«Vengo anche io.»
«’Notte»
Tornò al suo posto vicino a Kili e Fili, e chiuse gli occhi, molto più stanca di quanto si sarebbe aspettata. Cominciò a mormorare i nomi dei ricordi, come faceva da molte notti a quella parte, per non dimenticare. In italiano, perché non la potessero capire. «Mamma, papà, Martina, Leo, A … Arianna? Mamma, papà, Martina, Leo, Arianna. Mamma, papà, Martina, Leo, Arianna.» Ogni notte diventava più difficile ricordare qualcuno o qualcosa. Ogni notte, prima di dormire, perché non dimenticasse.
 
La mattina giunse inattesa e indesiderata, troppo presto per i suoi gusti. La notte precedente era stata limpida quanto la mattina che aveva preceduto: così come la luna le aveva colpito il viso, il sole filtrava con prepotenza, arancione e giallo, e sembrava stranamente alto. Capendo di aver dormito molto più del normale, Arya si alzò, sbuffando. I ragazzi sembravano essere tutti riuniti a tavola, a giudicare dal chiacchiericcio, ma lei decise di andare alla ricerca di un catino d’acqua per sciacquarsi un po’. Non le piaceva stare per troppo tempo senza lavarsi – cosa che ai nani non sembrava dar per niente fastidio, invece – ma aveva capito sin dall’inizio che avrebbe dovuto farci l’abitudine, quindi di solito non ci prestava attenzione. Ma in quella casa un po’ d’acqua doveva esserci, e infatti, stiracchiandosi, vide un recipiente pieno proprio accanto a lei. Sospettava che Bilbo fosse l’artefice di quel pensiero gentile. Quando si specchiò sulla superficie d’acqua per poco non urlò per l’orrore, però restò a bocca aperta, incredula.
 Non poteva esser davvero conciata così. Non aveva mai badato tantissimo al proprio aspetto, non con la cura maniacale di sua sorella, ma molto di più di altre ragazze che si trascuravano proprio: insomma, dal suo punto di vista, si prendeva cura di sé nella maniera appropriata, giusto il necessario per apparire presentabile e risultare gradevole alla vista. Ma così … oh, non era mai stata più trasandata di così. Lo specchio d’acqua le rimandava l’immagine di una ragazzina sporca di terra, le guancie coperte di lividi e il viso bruciato dal sole. Un taglio sottile e quasi del tutto rimarginato attraversava la guancia sinistra, completamente coperta di sporcizia. E i capelli. I capelli erano un altro paio di maniche. Già erano abbastanza inutili prima, ma adesso … adesso il fango e la terra li avevano resi luridi e impastati, afflosciati una coda di cavallo che Arya non aveva alcuna intenzione di toccare. Ho bisogno di una doccia, pensò decisa la ragazza. Ho bisogno di una doccia e guai a lui se mi dice che non c’è tempo. Non osava immaginare che odore dovesse avere. Il Dì di Durin poteva essere incombente quanto voleva, ma lei non avrebbe mosso un altro passo se non si fosse lavata come diceva lei. Perciò fece il suo meglio con l’acqua del catino e si diresse a grandi passi verso la tavola.

«Senti un po’» aveva un tono deciso e lo sguardo fermo, l’indice accusatore puntava verso Thorin: «Noi abbiamo bisogno di lavarci e non dirmi che non è vero perché …» la voce si perse nell’aria non appena la ragazza vide in nuovo arrivato. Era enorme, alto quanto lo stipite del portone, se non di più, visto che quando camminava doveva abbassare  la testa. Camminava posando pesantemente i piedi per terra, aveva uno sguardo pieno di diffidenza, duro e stranamente animale. Le iridi erano d’orate come il miele, ma non possedevano neanche un briciolo della sua dolcezza. La scrutava con sospetto. «Chi sei tu?»
«Arya Sparrow.» Una bugia così naturale da sembrare la verità. Battè le palpebre, confusa. «E tu chi sei?»
Gandalf s’intromise: «Lui, mia cara Arya, è Beorn, mutatore di pelle. Il nostro anfitrione e salvatore, visto che ci ha concesso asilo in casa sua, cosa di cui siamo grati.»
Arya aveva letto abbastanza libri fantasy da capire che c’era qualcosa nel tono dello stregone che non andava, qualcosa che non andava nemmeno nello sguardo di Beorn, che la faceva sentire a disagio, come se fosse stata una preda braccata nella foresta. Ma capiva anche che dire la cosa sbagliata, o fare la domanda sbagliata, avrebbe potuto far precipitare le cose, perciò si esibì nel sorriso più cortese del suo repertorio, ed emulò il comportamento dei nani, inchinandosi leggermente: «I miei ringraziamenti, mutatore di pelle.» Era lui l’orso.
«Cosa ci fa una ragazza umana in compagnia di tredici Nani, un Hobbit e uno Stregone?» chiese Beorn, con voce cavernosa.
«Non quello che pensi tu» Gandalf sorrise conciliante: «Arya è nostra amica. Si è persa sulla strada di casa, e in cambio dei suoi grandi quanto pericolosi servigi noi le abbiamo offerto protezione e un posto nella nostra Compagnia»
Beorn non ricambiò il suo sorriso: «Allora benvenuta alla mia tavola, Arya Sparrow.»
«Grazie» Arya si sedette accanto a Bofur, che le strinse la mano per darle il buongiorno. Gli altri, che avevano seguito lo scambio di battute con attenzione, temendo di vederle negata l’ospitalità, la salutarono con sorrisi e battute, riprendo a mangiare. Arya perlustrò due volte la tavola con lo sguardo, prima di capire che la crema che stava cercando non c’era. Non ricordava il nome del dolce, ma ne ricordava il sapore: casalingo, squisito, di nocciole. Era solita spalmarlo sul pane o sulle fette biscottate, prima. Leggermente delusa, si servì di tutte le cose dolci che riuscì  a trovare, versando una generosa quantità di miele nel suo latte. Bofur le offrì anche una salsiccia affumicata, ma Arya declinò l’offerta con veemenza cedendola a Bombur, che le sorrise radioso. Prestava scarsa attenzione alle conversazioni del tavolo, annuendo vagamente qua e là, visto che la sua attenzione era catturata da Fili che stava bevendo da un bicchiere più grande di lui. Quella vista la fece ridacchiare stupidamente, considerando l’argomento che Thorin e Beorn stavano trattando.

«Dimmi, perché Azog il Profanatore è sulle vostre tracce?»
«Tu sai di Azog» rilevò Thorin. «Come?»
«Il mio popolo è stato il primo a vivere sulle montagne, prima che gli orchi venissero giù dal nord. Il Profanatore uccise molti della mia famiglia, ma alcuni li resi rese schiavi.» Man mano che proseguiva il racconto stringeva a sé la brocca con cui aveva riempito il boccale di Fili, come se necessitasse di un appiglio a cui aggrapparsi per sopportare la crudeltà dei ricordi. Lo sguardo era vacuo, perso. Aveva dei ceppi ai polsi, cosa che Arya non comprese fino a quando Beorn non andò avanti a raccontare. «Non per necessità, vedi …» ogni parola grondava di disprezzo: «Ma per sport.» Sguardi allarmati serpeggiarono nella Compagnia: molti di loro si mossero sulle sedie, a disagio. «Intrappolare mutatori di pelle e torturarli sembrava divertirlo molto» concluse Beorn, riempiendo il boccale di Fili.
«Ci sono altri come te?» chiese Bilbo, dando voce agli interrogativi di Arya.
Beorn distolse lo sguardo. «Una volta ce ne erano molti.»
Oh. «E ora?»
«Ora, ce ne è solo uno»
«Oh.»
«Dovete raggiungere quella Montagna, prima degli ultimi giorni d’autunno» disse Beorn.
Gandalf confermò espirando il fumo della pipa: «Prima che il Dì di Durin giunga, sì.»
Beorn li osservò pensoso: «State correndo contro il tempo»
«Per questo prenderemo la via per Bosco Atro» Gandalf annuì.
«L’oscurità grava su quella foresta» il mutatore di pelle guardò lo Stregone con gravità: «Strane creature prosperano sotto quegli alberi. C’è un alleanza fra gli orchi di Moria e i goblin di Dol Guldur. Io non mi avventurerei lì, se non in caso di grande necessità»

Arya non era spaventata da ciò che Beorn raccontava: certo, un po’ d’inquietudine l’aveva, sarebbe stato anormale il contrario, ma da quanto aveva capito degli Elfi vivevano in quella foresta. Gliene aveva parlato qualche volta Balin, anche se non ne era sicura. Se c’erano ci Elfi, allora non avevano di che preoccuparsi. Memore del soggiorno avuto a Granburrone, Arya quasi sperava di imbattersi in loro – magari così avrebbero fatto quella stramaledettissima doccia.
Gandalf confermò le sue supposizioni: «Prenderemo il sentiero elfico.»
«Attenti. Gli Elfi dei boschi non sono come gli altri parenti: sono meno saggi e più pericolosi. Ma non importa.»
Thorin si girò di scatto: «Che intendi dire?» Anche Arya si stava preoccupando. Quando una persona usa quel tono, vuol dire due cose: uno, non importa perché vi ammazzo io ora; due, non importa perché vi uccideranno loro dopo. Non sapeva decidere quale opzione fosse meglio.
«Queste terre sono piene di orchi. Il loro numero aumenta. E voi siete a piedi … Non raggiungerete mai quella foresta vivi.»
Si alzò dalla sedia, ergendosi in tutta la sua altezza. Lo sapeva, li avrebbe uccisi lui per primo lì.
«Non mi piacciono i nani. Sono avidi e ciechi, ciechi verso la vita di chi considerano meno di loro …» prese con delicatezza un topolino che Bofur stava scacciando dal suo braccio e lo osservò pensieroso. Taceva, e quel silenzio era carico d’attesa. Arya sentiva i muscoli tesi e pronti all’azione. Sembrava pronto a strizzare il topolino nelle sue dita, e Thorin lo osservava con le braccia incrociate, anche lui guardingo. Arya riusciva a percepire la tensione nell’aria. Beorn accarezzò il topolino. «Ma gli orchi li odio di più. Che cosa vi serve?»
Un sospiro le sfuggì dalle labbra e percepì i muscoli sciogliersi.
 
Beorn possedeva tanti bei cavalli, grandi stalloni dal pelo chiazzato di marrone, le criniere folte e pallide come un timido raggio di sole. Erano bellissimi, e sebbene Arya non avesse mai amato i cavalli, non potè far a meno di accarezzarli con gentilezza sul muso, mormorando qualche parolina dolce in italiano.
«Arya, vieni qui, noi non possiamo usare i cavalli» Kili la prese energicamente per mano: «Siamo troppo bassi. Perfino tu. E io sono più alto!»
«Sì, grazie per aver constatato l’ovvio, Kili. Li stavo solo accarezzando: sono così belli …»
«Ma dai! Allora accarezza anche i pony, che altrimenti si ingelosiscono!» Arya gli diede un pugno sul braccio, mormorandogli uno scemo veramente sentito, anche se sorrideva.
La ragazza dovette condividere la cavalcatura con Bofur, visto che non ne ce ne erano abbastanza con tutti. Comunque non era in grado di cavalcare, quindi alla fine sarebbe andata lo stesso così, ma evitò di raccontarlo in giro. Kili si era offerto di farle da cavaliere, ma Arya, per ripicca, aveva rifiutato con una linguaccia. Il pony di Fili era troppo carico, e Bofur era stato più che felice di aiutare il suo Uccellino. L’uccellino aveva provato a canticchiare, ma canticchiare a cavallo era impossibile. Fu così che a fine giornata arrivarono ai margini del Bosco. La ragazza era tutta intirizzita per tutte le ore passate a cavalcare e scese solo grazie all’aiuto di Bofur. Le doleva tutto: braccia, gambe, natiche e cosce erano le parti messe peggio, infatti camminava come se fosse stata uno zombie particolarmente sgraziato. Ma tutti ebbero la delicatezza di non farglielo notare, e Kili addirittura l’abbracciò. Quegli slanci di affetto non le dispiacevano affatto, quindi, mentre gli altri scaricavano le provviste dai pony, si avvicinò a Gandalf. Doveva chiedergli una cosa.
Lo Stregone non li stava aiutando, stranamente, perché guardava verso un’altura poco distante, che delimitava la radura erbosa su cui si erano fermati. Seguendo il suo sguardo Arya capì perché avevano attraversato indenni la strada. Beorn, sotto forma di orso, li aveva scortati, e li osservava ancora, a distanza di sicurezza. Le sembrava quasi di poter percepire lo sguardo da predatore sulla pelle e rabbridì, volgendogli le spalle. «Gandalf, devo chiederti una cosa.»
«Dimmi, ragazza mia.»
Deglutì, alla ricerca di parole: «Io … io, ecco … Tu lo sai che questo non è il mio mondo, anche se vorrei che lo fosse, vero? Mi credi, giusto?» Gandalf annuì e lei andò avanti: «Io … io mi sto dimenticando del vecchio mondo.» Strano come dirlo ad alta voce lo aveva fatto sembrare più vero. Sapeva che stava accadendo, eppure dirlo, confessarlo, faceva sembrare tutto più grave di quanto già non fosse. Arya si stava dimenticando degli affetti, della sua vita precedente.
«Cosa intendi dire?»
«Quello che ho detto: sto dimenticando. Le persone stanno sparendo: se penso a loro le personalità sono definite e so chi sono, ma il loro aspetto fisico … alcuni non hanno nome. Non mi ricordo nemmeno che scuola frequentavo – l’uso del passato la spaventò, soprattutto perché era venuto così naturale usare quel tempo, quasi avesse già deciso che aveva finito – e ieri non sono riuscita a ricordare il nome della mia professoressa. Mi spaventa, Gandalf. Come … perché sta succedendo?»

Gandalf le posò uno mano sulla spalla: «Non agitarti, Arya. Farò di tutto per aiutarti. Confesso che quello che dici però non mi risulta inaspettato e anzi, mi sorprende che tu ci abbia messo tanto a iniziare a dimenticare …»
«Tu lo sapevi?» scattò Arya, sbattendo le palpebre scioccata: «Tu lo sapevi e non mi hai detto niente?»
Non sapeva perché stesse sussurrando, forse perché non voleva far sapere che una grave amnesia le stava facendo dimenticare il suo passato. Sì, forse era per quello che sussurrava. 
«No, mia cara, io lo sospettavo. Cose di questo tipo sono grandi e pericolose, e so di certo che solo pochi riescono ad uscirne più o meno indenni. La magia ha sempre un prezzo, ricordalo bene, e i tuoi ricordi potrebbero essere lo scotto. Oppure, questa cosa potrebbe dipendere da te.»
«Me?» ripetè Arya: «In che senso da me? Gandalf, pensi davvero che io dimenticherei per mia scelta i nomi e i visi dei miei amici?»
«No, non sto dicendo questo. Ma tu stai facendo delle scelte, anche se potresti non accorgertene. Tutti devono fare delle scelte, nessuno escluso, e tutti hanno l’opportunità di fare grandi cose, è cosa risaputa. Ma alcuni hanno scelte più difficili di altri da affrontare, e solitamente sono le persone più forti a saper decidere la cosa giusta.» Le accarezzò la guancia in un gesto affettuoso: «Io sono molto affezionato a te, e tu sei una persona davvero coraggiosa, confido nella tua capacità di giudizio. Sono le scelte che facciamo a rivelare chi siamo, molto più delle nostre capacità.»
Arya lo guardava negli occhi, le labbra leggermente dischiuse. Non sapeva cosa dire, ma si costrinse ad annuire debolmente: «Spero che la tua fiducia non sia malriposta.»
«Io credo di no, mia cara» rispose lo Stregone, sorridendole.
Ma cosa ne poteva sapere lui, che riteneva coraggiosa una persona che non aveva mai avuto il coraggio di dire al fidanzato che non l’amava più? Che molte volte aveva taciuto quando piccole ingiustizie si verificavano davanti ai suoi occhi, impotenti e lacrimanti?
Non molto, si disse la ragazza, ma abbastanza da darmi fiducia, e questo mi deve bastare.
 


 


 
And if we live once, I wanna live with you.
-One Republic, Something I need-

Devo sbrigarmi, che mia sorella rompe. Vi vioglio bene e scusate l'ennesimo immenso ritardo.
Feniah <3

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Capitolo 8
*** O8 > Who we Are ***


~ The moon loved the sun~




Who we are
We were never welcome here,
We will never welcome here at all, no

 
 
«Qual è il tuo colore preferito?»
Quella di Kili era nata come una domanda innocente, ma non aveva idea della confusione che le stava provocando. Amava il blu, prima. Non un blu qualsiasi, che lasciava spazio ad un’ampia gamma di sfumature: un blu preciso, che era quello e nessun altro – Arya odiava quando le persone dicevano “blu” o “verde”. Quale blu? Quale verde? Nel suo caso, era un blu mare, lo stesso blu intenso e imperscrutabile dell’acqua profonda, in netto contrasto con l’azzurro dei fondali bassi. Ma qualcosa era cambiato.
 «C’è questo colore» disse con aria vaga, cercando le parole giuste. «Un azzurro molto chiaro, però non è come il cielo, più o meno la stessa tonalità di quando ci sono soffi di nuvole, hai presente? Quel colore che ogni tanto potrebbe sembrare trasparente, davvero vivido. Che non appena lo vedi ti senti trafitto come da due lame affilate.»
«Uhm, sì. A me piace il blu.»
Ecco, quello le dava i nervi. «Quale blu?»
«Blu. Punto. Quanti blu ci sono?»
«C’è il blu scuro, il blu chiaro, il blu mare, il blu oltremare, il blu nontiscordardime oppure il blu cielo. Voi con blu intendete blu e azzurro*» rispose Arya, saltando una radice. Maledette. Alzò lo sguardo per cercare il cielo, ma le fronde degli alberi occupavano completamente la sua visuale, rendendo impossibile vedere altro. Stava piovendo, ma le foglie erano così fitte che l’acqua cadeva solo in determinati punti, dove qualche foglia solitaria si piegava al peso e cadeva. Era molto umido e Arya tremava come un topolino. Bilbo aveva ragione, quella foresta era malata. Ma Thorin era stato irremovibile e Arya lo aveva seguito senza fiatare, anche perché cosa avrebbe potuto dire? La ragazza sapeva quando le parole erano fiato sprecato, perciò aveva semplicemente abbassato il capo e si era incamminata subito dietro il nano.
«Ezuro? E che colore è?» Kili provò a ripetere ciò che lei aveva detto, ma aveva una pronuncia così scarsa che provocò un eccesso di ilarità da parte della ragazza, che ora rideva facendogli il verso. «Azzurro, non ezuro! Ezuro non esiste! Azzurro sarebbe blu chiaro, come il cielo.»
«Bah.» Commentò il nano, evidentemente non convinto. Arya ridacchiò un’ultima volta e alzò gli occhi al cielo, provando a cercarne una traccia fra le fronde. Ma erano così fitte che non riuscì a scorgere niente, se non qualche pezzettino grigio nascosto fra le foglie.

Ancora non riusciva a concepire come si potesse sopportare un viaggio di una tale portata, considerando soprattutto che per loro era più che normale. Erano mesi che andavano avanti così. Avrebbe mentito a sé stesse se avesse detto che non aveva cominciato ad averne abbastanza. Non per la compagnia – non poteva desiderare compagni migliori – ma per la stanchezza. Ogni giorno si fermavano al tramonto e ripartivano all’alba, si riposavano un’oretta per pranzare e ricominciavano a camminare fino alla sera e ogni singolo giorno andava avanti per inerzia, come una ruota difettosa di un carro, che si muove a fatica grazie al moto esercitato dal cavallo che trainava tutto.
Quella maledetta foresta non aveva mai fine. Una volta, svegliata di soprassalto in seguito ad un brutto sogno, si era resa conto di non sapere quanto distante fosse la loro meta, di non sapere quanti kilometri avevano percorso né quanti ne rimanevano e aveva sentito la stessa sensazione di disagio che aveva provato quando all’inizio di quell’anno scolastico aveva capito che avrebbe dovuto sostenere l’esame di maturità. Aveva realizzato che di lì a poco sarebbe tutto finito. Quella consapevolezza l’aveva gettata nel panico e aveva svegliato in fretta e furia Thorin per calmarsi. Lo aveva tempestato di domande per far combaciare i puntini e dopo era ricaduta in un sonno leggero ma senza sogni. Sapere che sarebbe stata costretta ad abbandonare i suoi amici – coloro che ormai considerava come una famiglia – l’aveva riempita di terrore.

Si riscosse da quei pensieri con disappunto, visto che a quanto diceva Thorin doveva essere passato da un’ora mezzogiorno e potevano ristorarsi. A lei sembrava perennemente sera, con quel cielo plumbeo e gonfio di pioggia, ma si fidava della loro guida e accolse con felicità quella decisione. Era da un po’ di tempo che Bofur era impegnato ad intagliare un oggettino nel legno, riprendendo il lavoro ogni volta che si fermavano per fare una pausa. Arya era curiosa di vedere il lavoro terminato, quindi non gli dava fastidio. Stava notando come tutti apparissero un po’ più smunti e, di conseguenza, più scontrosi del solito. Quella foresta era dannatamente odiosa. Come facessero gli elfi a vivere lì dentro rimaneva un mistero per lei. Probabilmente era dimagrita anche lei – sentiva i pantaloni andarle più larghi sulle cosce, ma non se ne rallegrò, perché di quel periodo aveva perennemente fame e non aveva un dannatissimo snack da sgranocchiare. Il che era quello che succedeva ad ogni singola donna che decideva di incamminarsi verso quella tortuosa strada conosciuta come “dieta dimagrante”. Molte fallivano nell’impresa, cedendo alle tentazioni che il frigorifero offriva – tipo Arya, che al primo squilibrio emotivo si buttava sul gelato al cioccolato – e poche riuscivano. In ogni caso, non è una bella esperienza. «Ucciderei per un Tronky» borbottò la ragazza.
«Io per una torta di mele!» sospirò Bilbo.
Fili emise un verso disgustato. «Torta di mele? Bleh, non dirai sul serio, spero»
«Non dirai sul serio tu!»  rispose Nori.
«Infatti!» gli fece eco Arya. «Davvero non ti piace? E pensare che è la cosa che mi riesce meglio!»
«Io la odio.» sentenziò Fili. «Non prepararmi mai una torta di mele se vuoi essere mio amico! Ai mirtilli, lamponi, fragole … ma le mele proprio no.»
«Nemmeno a me piacciono così» replicò la ragazza. «Ma nella torta … dai, è l’unico modo che mia madre ha trovato per farmele mangiare!»
«Non dovresti avere questo atteggiamento, Fili» lo rimbeccò Bombur. «Il cibo non si butta mai via, perché è tutto buono! Non so che darei per qualche torta di mele, mi sto deperendo!»
«Eh sì, proprio deperito!» fece Kili e tutti si unirono alle risate, perfino Thorin e Dwalin. Bombur tirò su col naso, offeso, e ritornò a cucinare. «Ridete tutti quanto vi pare, ma se non ci fossi io, qui sareste tutti magri come scheletri per la fame! E il cibo sta finendo, tocca a me razionarlo per farlo durare più a lungo!»
«Vero!» replicò Kili, che non riusciva a placare le sue risate. «Guarda Arya, per esempio, con quelle guance scavate non è più  così bella!»
Arya, che stava ridendo a crepapelle assieme agli altri, si bloccò all’improvviso, le si imporporarono le guance e rispose con tutta l’eleganza che la sua lingua poteva offrire – meglio non riportare: confido nella vostra immaginazione.
 «Cosa?»
«Ho detto che prima di parlare devi aspettare che ti cresca la barba!»
«Ooooooooooh!» Fece Fili, piegandosi in due dalle risate. «Beccati questa, fratello!»
 «Te l’ha fatta, nipote» commentò con un sorriso Thorin.
Kili era ammutolito. Lui e Arya si guardarono negli occhi, silenziosi, prima di scoppiare a ridere come se niente fosse accaduto. Mentre si asciugava una lacrimuccia che minacciava di scendere dall’occhio, la ragazza pensò che avrebbe preferito viaggiare in quel modo fino alla fine dei suoi giorni, piuttosto che finire la ricerca in tempi brevi e separarsi da loro.

Correre non era mai stato il suo forte. Quando era una bambina era veloce come una scheggia, ma a dieci anni era caduta dalla bicicletta e si era rotta un ginocchio, mettendo fine ai giorni di “più veloce della classe”. Non era mai stata fortunata con le articolazioni: questo lo ricordava perché ogni volta che il tempo era in procinto di cambiare il ginocchio e il polso le dolevano – quest’ultimo si era rotto dopo un match di pallavolo alquanto combattuto, quando aveva cercato di ricevere una schiacciata e l’unica cosa a schiacciarsi erano state le sue povere ossa. Di recente, si era anche aggiunta la caviglia offesa. Il suo corpo non poteva aiutarla, in quel caso. L’Orco Pallido era alle loro calcagna, lei era rimasta indietro e correva con tutte le sue forze, ma non riusciva ad avanzare: sembrava che il terreno le corresse sotto come un tapis roulant e più aumentava la velocità più restava ferma al suo posto e Azog si avvicinava ogni secondo di più, pronto a prenderla ….
Un lupo le azzannò il polpaccio. Arya gridò di dolore, ma tutto ciò che uscì dalla sua gola fu un miagolio debole e spento, e mentre il mannaro la scuoteva e le lacerava la carne come se fosse stata una bambola di pezza Arya urlava sempre con più disperazione e sentiva le lacrime solcarle il viso sporco di fuliggine. Ma più forte urlava, meno la voce le usciva dalla gola, che sembrava bruciare come pugnalata da mille coltelli. Adesso apriva la bocca in un disperato tentativo di farsi sentire, ma non ne usciva alcun suono. Era uno dei suoi incubi ricorrenti, quello di urlare senza farsi sentire, e la verità la colpì come una pallonata in faccia: questo non è reale. Ma la consapevolezza di essere dentro un incubo non rendeva il dolore meno presente. Sentiva di star perdere i sensi, quando percepì i denti del mannaro lasciarla e udì un tonfo. Allo stremo delle forse, si girò e un debole sorriso spunto sulle sue labbra: una figura a lei cara stava facendo fuori tutti quanti per salvarla e in breve ogni mannaro, escluso quello bianco montato da Azog, cadde a terra, morto. Non ci fu tempo per gioire, perché l’Orco Pallido scese dalla sella e piantò la propria lama nel cuore del nano, ed Arya si svegliò cadendo.

Si alzò di scatto, sudata e tremante. Si guardò attorno, tranquillizzandosi solo quando contò tredici figure più o meno grandi che dormivano. Bombur sembrava avere un talento speciale per attirare farfalline da ogni dove ed espirarle ed inspirarle mentre russava. Gloin faceva la guardia e le chiese se stava bene e lei rispose sì, solo un brutto sogno. Si poggiò a terra e mormorò la sua lista, come faceva ogni volta prima di addormentarsi. «Mamma, papà, Martina, Leo. Mamma, papà, Martina, Leo.» C’era un nome in meno nella lista, ma non ricordava quale.
 
Il giorno successivo accadde qualcosa di strano. Non sapeva dire da quanto stessero camminando dentro quella stramaledetta foresta – Io ne ho piene le tasche! Mi basta per tutta la vita questa stupida camminata e guai a chi mi proporrà di fare una gita per boschi! – ma si sentiva strana. Barcollava ed era finita in fondo alla fila, senza che riuscisse a mettere a fuoco chi le stava davanti. Sospettava che avesse smesso di piovere. Mettere un piede dietro l’altro sembrava una cosa così difficile … così stupido …  perché invece non si fermavano un po’? Solo un po’, solo per riposare … Solo per schiacciare un pisolino … Solo … Solo …
Perché non ti stendi un po’, Arya? Le domandò una voce. Perché non ti stendi sull’erba soffice  e ristori un po’ il tuo cuore?
Non posso, ribattè la ragazza, devo seguirli oppure mi perderò.
Ma non vedi quanto procedono lenti, sempre sul sentiero? Anche se dovessero lasciarti indietro ti basterà restarci sopra, seguirlo. Li ritroverai in un batter d’occhio.
Perché aveva pensato che fosse sinistra? Era una voce molto dolce, invece, materna. Così bassa e tranquilla …
Dormi, le disse, dormi. Non vedi quanto sei stanca, quanto hai bisogno di ristoro, di qualcuno che vegli su di te? Chiudi gli occhi.
Ma loro …
Loro non sono più tua preoccupazione, dolce Arya. Chiudi gli occhi. Stenditi. Dormi.
Io …
Dormi.
«Ho detto di no!»
Tutti si voltarono verso di lei e la squadrarono interrogativi.
«Stai bene, Arya?» le chiese Bilbo.
«Non … » Non le sentite le voci? «Sì, sto bene.»
«Non devi stare laggiù, lo sai» ringhiò Dwalin. «Vieni dentro la colonna, non è sicuro stare dietro»
Arya si affrettò a mettersi dove diceva lui.
 
La cosa più frustrante di quel viaggio nella foresta? Ogni giorno era peggiore del precedente. Ogni giorno le voci si facevano sempre più invadenti ed ogni giorno diventava più difficile opporre resistenza. Se all’inizio erano solo un mormorio seducente, ora erano diventate conversazioni frustranti – era come avere un angioletto e un diavoletto poggiati sulle spalle, che battibeccavano nella sua testa lasciandola confusa e arrabbiata, incredibilmente stanca per tutte le volte che aveva provato a combatterle. Alla fine, aveva deciso di concentrarsi su altro, anche se risultava ogni giorno sempre più difficile. Stavano seguendo il sentiero da giorni, ed erano giorni che si sentiva prosciugata da ogni forza. Anche i nani sembravano molto più deboli del solito, più lenti, con tanto di riflessi meno pronti. Arya finiva sempre più spesso all’ultimo posto, in fondo alla colonna, ma Dwalin sembrava non farci più caso – non sapeva se la cosa la sollevasse o meno. Stava cercando di dare un senso a quella piccola fatina che vedeva svolazzarle accanto, brillante e luminosa, quando andò a sbattere contro Bofur e quella si sdoppiò, lasciandola ancora più confusa di prima. Percepì solo vagamente la voce di Thorin che chiedeva a qualcuno perché si fossero fermati, ma dalla coltre oscura che aveva invaso la sua mente, ovattando tutto il resto, capì che avevano perso il sentiero.
«Trovatelo!» Ordinò Thorin. «Tutti voi, cercare! Cercate il sentiero!»

E te pare facile, pensò Arya. Qualcuno la prese per mano. Lo seguì placidamente, la vista che si faceva sempre più offuscata. Balin stava farneticando qualcosa riguardo all’essersi persi, e Dwalin borbottava che non ricordava nemmeno che giorno fosse. Stiamo messi bene, insomma.
Si ritrovò vicino a Thorin, che la guardava come se fosse qualcosa di strano e fuori posto. Desiderava soltanto potersi poggiare a terra, smettere di vagare, schiacciare un pisolino giusto per riprendere le forze. Quei nani erano tutti zucconi, se non ci fosse stata lei a fare da balia sarebbero andati a sbattere contro la prima quercia che incontravano. Poi ripresero la marcia, ed Arya trascinò i piedi alla fine della colonna, i mormorii insistenti che le ottenebravano la mente.
Dormi … dormi, dolce Arya, poggia il tuo capo sulla soffice terra e goditi un po’ di ristoro.
L’aria era così pesante e satura di umidità che sentiva la testa farsi sempre più lontana.
Dormi.
Arya cadde a terra proprio quando qualcuno raccoglieva un portatabacco delle Montagne Blu.
 
Bilbo sapeva che per recuperare un po’ di lucidità restare fra un branco di nani impegnati in una zuffa non era il rimedio adatto. Gli alberi erano grandi e solidi, le radici e i rami offrivano numerosi punti d’appoggio, e le fitte fronde sembravano invitarlo a nascondersi lì dentro. Arrivò con facilità in cima, sbucando fuori con la testa riccia fra le foglie vermiglie. Subito, l’aria fresca gli schiarì le idee. Ne inalò quanta più possibile, osservando con ritrovata gioia ciò che lo circondava. La foresta si estendeva ai suoi piedi, immensa e meravigliosamente incantevole, tinta nei viola e arancioni dell’autunno; un nugolo di farfalle cobalto sciamò dalle fronde, agitando le loro ali e danzando attorno a lui con estrema grazia: brillavano vivide contro i colori caldi delle foglie. Bilbo si ritrovò a ridere senza nemmeno rendersene conto, e le belle notizie non erano finite. Il cielo era punteggiato di nuvole rosa, il sole splendeva ad ovest, volgendo i propri raggi sopra le acque limpide di un lago. Faceva capolino fra i monti bassi e Bilbo non sembrò di aver mai visto niente di più bello. Era giorno, allora! La lunga notte non li aveva avvolti, il sole aveva continuato a splendere ogni giorno da quando erano entrati nella foresta! «Riesco a vedere un lago! E un fiume!» scostò con forza un cespuglio di foglie «E la Montagna Solitaria! Ci siamo quasi!»

Avrebbe dovuto sentire un coro di giubilo, voci incredule, in ogni caso molto chiasso, per questo si inquietò quando tutto ciò che ricevette in risposta fu un fruscio sinistro sotto di lui. Si erano forse arrampicati anche loro? «Mi sentite? So dove bisogna andare!» Fruscii, scricchiolii, sibili inquietanti ai suoi piedi. «Ci siete?» Bilbo non avrebbe mai voluto scendere e negarsi una lucidità e una bellezza tale, ma doveva farlo, non poteva lasciare i suoi amici lì sotto. Guardò un’ultima volta con aria sofferente il panorama e un movimento brusco delle foglie risvegliò i suoi sensi, mettendolo in allerta: decisamente non erano i suoi amici. Si accucciò nascondendosi nella selva, ma avvertì qualcosa di scivoloso sotto i piedi e cadde in avanti con uno squittio spaventato. Provò ad appigliarsi ai rami, ma mentre cadeva tutto gli sfuggiva di mano e quando finalmente trovò un ramo a cui aggrapparsi, il cuore gli si fermò in gola.  Un’enorme ragnatela, viscida, opaca, impossibile da penetrare, gli stava davanti. Se fosse stato fortunato sarebbe tutto finito lì, e invece un sospiro fetido gli carezzò le guance. Una sagoma si cominciava a distinguere fra i fili, ma lui non voleva vederla, non voleva assolutamente vederla. Otto occhi lattiginosi gli restituirono lo sguardo. Bilbo riuscì a percepire chiaramente il proprio respiro infrangersi nell’aria, il cuore battere nel petto, la paura entrare in circolo nel suo corpo. Perfino in vento sembrava essersi fermato. Poi il ragno scattò in avanti con un ruggito, snudando le proprie zanne, e Bilbo precipitò urlando, finendo sopra una matassa di ragno appiccicosa. Tentò con tutte le sue forze di liberarsi , agitandosi con disperazione, ma l’aracnide piovve con grazia e velocità dall’alto, avvolgendolo nella sua tela. Il buio giunse come un’ombra di morte, e Bilbo precipitò in un’incoscienza che sapeva di solitudine.

Quando i sensi tornarono a lui, faticarono a comprendere cosa stava accadendo. Gli ultimi ricordi si affollarono nella sua mente e afferrò la spada che gli aveva dato Gandalf, conficcandola con cattiveria nel ventre della bestia. Infilzò con tutte le forze che aveva e si voltò su un fianco, buttandola giù e facendola scomparire nel buio della foresta. Si spogliò della ragnatela e ciò che vide gli gelò il sangue nelle vene. I suoi amici erano insaccati come maiali nelle tele dei ragni, che si aggiravano fra loro sibilando come bestie fameliche qual erano. Bilbo si sentì d’improvviso molto piccolo e molto solo, e il suo cuore squittì dalla paura. Come avrebbe potuto farcela da solo?
Ma lui non era solo. Prese dalla sua tasca l’anello, e lo accarezzò amorevole e speranzoso. Lo infilò al dito.

Uccidiamoli, uccidiamoli …. Ssssì, uccidiamoli, facciamo fesssta, fesssta …  i ragni sibilavano malefici, strusciando le esse, complottando per un banchetto dove i suoi amici avrebbero fatto da portata principale. Lanciò un ciocco per attirarli lontano, perché aveva intenzione di liberarli: sul suo nome di Baggins, avrebbe aiutato i suoi amici. I ragni abboccarono all’esca e si diressero altrove, ma uno, più affamato degli altri, si accanì su una figura che lo hobbit riconobbe essere quella di Bombur, che si agitava e mugolava tentando di liberarsi. Il ragno stava sibilando quanto fosse croccante e Bilbo non ci vide più dall’odio: mulinò la sua spada con rabbia contro il corpo del ragno, che si girò cercando di capire chi lo avesse attaccato. Maledetto! Maledetto! Sibilava, dove sssei? Bilbo odiava le esse sibilate. Si tolse l’anello e gli sorrise con cattiveria: «Qui!»
Lo infilzò e quello sibilò  Pungola, pungooola! E si schiantò al suolo. Però, quella sì che era una bella idea. «Pungolo» ripetè lo hobbit assaporandone il suono. «E’ un bel nome! Pungolo.»
Cominciò a staccare i propri amici e ad aiutarli a liberarsi dalle ragnatele; per fortuna i ragni ne avevano tessute di così fitte da attutire la caduta dei compagni fino a guidarli dolcemente verso terra. Individuò Thorin e Dwalin che stavano aiutando i ragazzi e la voce di Bofur lo raggiunse: «Bilbo! Dove sei, Bilbo?»
«Sono quassù!» Non fece in tempo a rispondere che un ragno spuntò all’improvviso sbilanciandolo, lo sovrastò e ruggì, pronto ad affondare le sue fauci, Bilbo lo infilzò con Pungolo, ma quello, gemdendo dal dolore, lo strinse a sé trascinandolo nella rovinosa caduta – Bilbo stava bene, ma l’anello gli sfuggì di mano.
Si liberò a fatica dalle zampe e cominciò a frugare fra le foglie del sottobosco, cercando disperatamente il suo tesoro: «Dov’è? Dov’è?» Alzò lo sguardo e si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo: l’anello era lì, pochi metri più giù, sano e salvo. Si alzò con l’intento di andarlo a prendere, quando un cucciolo di ragno- un metro e mezzo di lunghezza- spuntò da una buca dal terreno e lo toccò con una zampa. Lo toccò con una zampa. Come. Osa. Toccare - «NOOOO» partì alla carica con un ruggito, menando fendenti e urlando parole piene d’odio, probabilmente la creature non sapeva nemmeno perché la stesse attaccando con così tanta violenza, ma a Bilbo non importava, quell’essere aveva toccato il suo anello, meritava di morire.
Lo finì con incredibile cattiveria, e se nell’uccidere i suoi parenti era stata la forza della disperazione a muoverlo, ora solo l’odio riempiva il suo animo. Registrava vagamente le voci dei suoi compagni – colluttazioni, il nome di Arya più volte ripetuto – ma tutto ciò che contava era aver riavuto il proprio anello. Lo guardò con commozione, tentando di impedire che le lacrime gli solcassero il viso. Andava tutto bene, era tornato da lui. Udì la voce di Thorin e un grido di donna in lontananza.
 
«Non ci fermiamo, presto!» Thorin contò i propri compagni uno ad uno, e gli si gelò il sangue nelle vene. «Arya! Dov’è Arya!?»  Un urlo acuto si librò dal folto della foresta e la figura della ragazza comparve, zoppicando, nella radura in cui si trovavano. Coperta di terra, il viso solcato dalle lacrime e sporca di sangue, arrancava verso di loro urlando frasi sconnesse, molte delle quali in una lingua incomprensibile, scansò di malagrazia il corpo di un ragno e gli si buttò addosso con le braccia al collo, singhiozzando. Thorin non l’aveva mai vista così e la cosa lo metteva un po’ a disagio: come poteva gestire una cosa che non comprendeva?
Tuttavia rispose goffamente all’abbraccio, buttandola poi di lato alla comparsa di un’altra  bestia: Arya cadde ma Nori l’afferrò al volo, e il nano si preparò a fronteggiare la minaccia. Ma la minaccia venne abbattuta, e quando capì da chi, sentì il disprezzo montargli dentro. Elfi. Avrebbe preferito mille volte affrontare un’infinità di ragni piuttosto che parlare con degli Elfi. Specie se si muovevano con una grazia e un’abilità tali da rivoltargli lo stomaco. Sentì Arya mormorare stupita un nome, Legolas, e una frase che lo lasciò interdetto: «Non c’era nel libro.» Non potè indagare, tuttavia, perché l’elfo biondo, Legolas, gli aveva puntato contro l’arco.

«Non credere che non ti uccida, nano, lo farei con molto piacere.» Decine di elfi li circondavano, tutti che puntavano i loro archi contro di loro. Un urlo squarciò l’aria, facendo mancare un battito al cuore del nano. Arya e Fili urlarono il suo nome in sincrono: «KILI!»
Come aveva fatto a cacciarsi nei guai di nuovo? Quando lo avrebbe preso … Per fortuna giunse un elfo – o un elfa? Non riusciva mai a capire bene la differenza, tutti con quei capelli lunghi e i volti glabri – giunse in suo soccorso, uccidendo i ragni che lo minacciavano. Suo malgrado, si riscoprì riconoscente per lei – aveva sentito la sua voce, era decisamente una donna – e ringraziò Mahal per aver risparmiato la vita di suo nipote.
«Perquisiteli » ordinò Legolas. Si ritrovarono con le loro sporche mani elfiche addosso, mentre i suoi compagni ringhiavano per il disgusto. Arya osservava incantata Legolas, anche se sul suo viso era presente una nota accigliata che raramente aveva visto.
Si lasciava perquisire senza aprir bocca, ma aveva occhi solo per lui – Thorin sentì più di una fitta di gelosia invadergli petto. Non capiva perché sorridesse come se la sapesse lunga, come se fosse sempre un passo avanti rispetto agli altri e avesse il controllo della situazione. Notò che si era asciugata le lacrime in fretta e furia, e che aveva dei tagli, molti dei quali sanguinanti. Sembravano piuttosto profondi. Che avesse combattuto da sola con dei ragni? «E basta!» ringhiò, alzando le mani: «Sono disarmata! Andate a controllare qualcun altro!»
«Dove l’hai presa questa?» chiese Legolas, maneggiando la sua spada. «Quella mi è stata data» rispose Thorin. L’elfo rigirò la lama puntandogliela al collo. «Non solo un ladro, ma anche un bugiardo.»
Thorin non sopportava che gli venisse dato del bugiardo. Non potendo fare niente, si incamminò con i suoi compagni, affiancando Arya e Fili. La ragazza, forse casualmente, fece scivolare la propria mano nella sua; Thorin ricambiò la stretta tentando di confortarla: avrebbero parlato dopo. Bofur si girò verso di lui e gli sussurrò: «Thorin, dov’è Bilbo?»
Dov’era il mezz’uomo?
It’s who we are,
doesn’t matter if we’ve gone too far,
doesn’t matter if it’s all okay,
doesn’t matter if it’s not our day
  - Who we  Are, Imagine Dragons –
 
*Azzuro: Gli inglesi dicono “blue”e intendo blu e azzurro, per questo Arya fa questa precisazione e per questo ho usato il corsivo e un carattere differente per evidenziare le parti in cui usa la nostra lingua.

Angolo Autrice
Ciao, ragazzi! Spero non vi siate dimenticati di me perchè io non ho dimenticato voi. E’ dal sei luglio che il capitolo marcisce nella mia cartella, e ho finalmente deciso di pubblicare. Non nego che ho persino pensato di eliminare questa long: ricevo sempre meno pareri, e mi sento inutile, visto che c’è molta gente che segue la mia storia ma soltanto due hanno il tempo di lasciare un piccolo commentino che per me vuol dire tanto. Insomma, mi ero un po’ depressa. Ma alla fine ho deciso di partire alla carica. Io finirò questa storia. Me lo sono ripromesso.
Detto questo, passiamo al capitolo: la canzone degli Imagine Dragons ( Dio li benedica) è stata scelta perché essendo ciò che sono, cioè nani (Who we are) sono intrusi, non sono i benvenuti a Bosco Atro né fra gli elfi o, in futuro, dagli uomini, proprio per il loro modo di essere. Per questo ho scelto questa colonna sonora. Tenete a mente i sogni che fa Arya, i pensieri che sembrano futili - l'inizio del capitolo non è messo a caso!- perchè dicono molto riguardo la storia.
Le voci. No, Arya non è pazza. Ma gli uomini hanno la tempra meno forte dei nani e degli hobbit – Bilbo infatti è l’unico che mantiene un po’ di lucidità- e ho voluto manifestare il potere malvagio del bosco in questo modo. Non mi ricordo se anche nel libro era così; se così non fosse, prendetela come una licenza poetica, se invece è così, buon per me. Per quanto riguarda le fatine che vede, sono delle allucinazioni. Arya è il tipo di persona che ha queste visioni.
Ringrazio tutti voi e le mie speciali lettrici – voi sapete a chi – per essere passati e vi invito a lasciarmi un parere. Vi prego. Scusatemi eventuali errori di distrazione, non avendo una beta me ne devo occupare io, fatemeli notare e rimedierò al più presto.
Feniah <3
 
 

 

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Capitolo 9
*** O9 > Hoist the colours high ***



they were made for each other





The seas be ours and by the power, where we will,

We’ll roam

 
 
Che bello essere rinchiusi in prigione. Davvero. Che meraviglia.

Era l’unica cosa che non aveva spuntato sulla sua lista di Cose Da Fare Se Per Caso Finissi in una Terra Magica e Non Sapessi Come Passare il Tempo: farsi rincorrere dagli orchi – fatto! Scappare dai ragni giganti – fatto! Dare la mano a Thorin – fatto! Scappare (ancora una volta) da mannari/orchi/Azog/inserire qui nome della creatura indesiderata – fatto! Adesso poteva spuntare la sezione Finire in Cella. «Fantastico!» borbottò Arya. «Davvero fantastico.»

«Poteva andarci peggio» esclamò Bofur, ma sembrava aver perso anche lui la sua vena ottimista. Li avevano rinchiusi in celle più lunghe che larghe, molto strette – l’ideale per dei nani – e la maggior parte di loro era privo di compagno, anche se avevano avuto la grazia di mettere Ori con suo fratello. Poggiò la testa nello spazio fra le sbarre di ferro, facendo scorrere lo sguardo sulle celle e sui sotterranei, cercando una qualche via di fuga. Non ne trovò alcuna, e sbuffò contrariata. Non restava nient’altro da fare che confidare in Bilbo. L’elfa dai capelli rossi e Legolas stavano discutendo nella loro lingua, e nonostante la sua vena impicciona la obbligò ad ascoltare gli scambi di battute, non capì una sola parola. C’era una cosa, però, che non le era sfuggita. Kili stava tenendo gli occhi puntati sull’elfa, anche lui stava origliando, però la ragazza era piuttosto certa che non stesse capendo un bel niente proprio come lei. Quando la guardia se ne andò e Legolas rimase solo, Kili perse completamente interesse e si sedette per terra, rigirandosi una pietra fra le mani, ma all’occhio attento della ragazza non sfuggì l’occhiataccia che l’elfo gli rivolse, né lo sguardo disgustato che ebbe nell’osservarli tutti, né la sorpresa quando i suoi magnifici occhi si posarono su di lei. Erano bellissimi, senza dubbio, ma Arya si ritrovò a paragonare l’azzurro liquido delle sue iridi a quello di ghiaccio di qualcuno di sua conoscenza, e sorrise sconsolata all’elfo, che se ne andò lasciandoli soli.
Non appena l’eco dei suoi passi si perse nell’aria, i nani cominciarono i loro efficaci tentativi di fuga, caricando le sbarre come se fossero degli arieti.

Ovviamente non funzionò, ma Arya non disse niente, anzi, approfittò del fracasso generale per parlare con Kili, chiuso nella cella davanti alla sua. «Psst!» lo chiamò: «Kili!»
Il nano si girò verso di lei, la guardò e un sorriso automatico gli spuntò in volto, sicuramente per rispondere a quello canzonatorio che Arya aveva sfoderato: «Che c’è?»
Arya inarcò un sopracciglio, continuando a sorridere.
«Che c’è?» ripetè lui, angelico.
«”Potrei avere di tutto nei pantaloni”» lo scimmiottò, in un’evidente riproduzione della battuta che aveva dato all’elfa dai capelli rossi pochi minuti prima. «Ma sei serio? Cioè, tu flirti davvero così?»
«Fino ad oggi ha sempre funzionato» rispose orgoglioso.
Arya alzò gli occhi al cielo. «I maschi sono uguali dappertutto.»
Kili rise proprio nel momento in cui Balin diceva: «Nessuno se ne va via da qui, se non con il consenso del Re.»

«Una prospettiva davvero confortante» mormorò Arya, perdendo improvvisamente tutto il suo entusiasmo. Si accasciò lungo la parete pietrosa della cella, con il capo poggiato ad una delle sbarre di ferro, cominciando a canticchiare il primo motivetto che le venne in mente, di cui purtroppo aveva dimenticato il nome esatto. Aveva solo una vaga sensazione, ma era sicura che avesse a che fare con quella leggenda che le piaceva tanto sulle guerre stellari, sui cavalieri … Jemi? Jedi? E il lato oscuro della Forza. Che cosa volesse dire Arya proprio se ne era dimenticata, e questo fece precipitare il suo umore ancora più in basso. Continuò a canticchiarlo – ovviamente protestarono e ovviamente non diede loro peso – e riflettè, per l’ennesima volta, sulla sua situazione attuale.
Gandalf erano settimane che non lo vedevano. Bilbo era scomparso nel mezzo di un’imboscata di elfi e ragni. Era piuttosto sicura che si aggirasse indisturbato per il Reame Boscoso con il suo Anello – perché Arya lo sapeva, se lo ricordava, lo aveva letto nel libro che era tutta colpa di un anello – a cercare una via di fuga. Tuttavia Bilbo rimaneva sempre un grande punto interrogativo, visto che poteva benissimo essere stato divorato da un ragno gigante. Prospettiva alla quale Arya si rifiutava di pensare. Altro grosso problema: la sua memoria stava facendo cilecca. E non nel senso “oh, mi sono dimenticata cosa ho mangiato ieri” oppure “non mi ricordo in quali giorni davo ripetizioni” – no, non era quel genere di amnesia. Suo padre … che aspetto aveva? E sua madre? Arianna? Persino le loro personalità stavano sfumando nella sua mente, mentre l’unica che rimaneva intatta era la memoria di sua sorella, perfettamente integra e allegra come suo solito. Mai avrebbe pensato di avere lei come unico appiglio alla realtà. E soprattutto … perché ricordava le storie che aveva letto o visto? Tutte quelle leggende … sapeva che erano del proprio mondo, e allora perché la maggior parte di loro era chiara e limpida? Perché, fino a qualche notte prima, continuava a raccontarle attorno al fuoco, come faceva da mesi a quella parte?

Aveva smesso di cantare già da un po’. Sentì di avere gli occhi lucidi e pur di impedire alle lacrime di solcarle le guance, seppellì il viso fra le ginocchia, subito dopo essersi allontanata dalle sbarre e di essersi nascosta dalla luce. Soppresse qualche singhiozzo, ma nel giro di qualche minuto riuscì a ricomporsi e a ragionare lucidamente, e le venne un’idea. Gli elfi li avevano spogliati dei loro abiti, lasciandoli senza armi e senza effetti personali, ma Arya era stata più furba di loro, e mentre nessuno badava a lei perché si era fatta piccola piccola fra Bofur e Dori, aveva ripescato dalla sua casacca cose che non aveva lasciato nemmeno a Granburrone, cose che erano sue e solo sue, che non si era fidata a lasciare nemmeno in mano degli elfi. O forse proprio perché erano elfi, chissà. Si sarebbe sentita molto più sicura nel lasciare ogni suo ninnolo al più scapestrato della Compagnia che a Lord Elrond in persona. Perciò, mentre nessuno guardava, aveva nascosto quegli oggetti nel proprio reggiseno – le aveva fregate le sue ancelle, ahah! Credevano che avesse messo quel coso che equivaleva ad un capo intimo e voilà, lo aveva nascosto sotto il letto – e facendo in quel modo, aveva potuto salvare qualcosa. Certo, non era stato facile, visto che era sotto gli occhi di tutti e aveva dovuto operare contro strati e strati di vestiti, e sì, era vero che erano mesi che aveva lo stesso reggiseno, ma che colpa ne aveva lei? Alla fine, era servito a qualcosa.

Perciò estrasse da lì un ritratto abbastanza vissuto, di piccole dimensioni e fatto su una carta strana, , un ciondolino – un portachiavi, forse? –  e una tessera rigida, con sopra scritto “Cinema”. Che cosa fosse un cinema, per Arya restava un mistero.
Per prima cosa, osservò  il ritratto, stupendosi di quanto i tratti fossero realistici e colori vividi, senza alcuna sbavatura fuori dal margine. Ritraeva due persone, un ragazzo e una ragazza – lei stessa – sorridenti e che sollevavano insieme quello che doveva essere un trofeo d’argento, con una sfera posta in cima. La targhetta d’ottone in basso diceva “Secondo classificato – Trofeo Regionale Scuola Calcio” e a seguire il nome di quella che doveva essere una squadra calcistica. Questo spiegava gli abiti sgargianti del ragazzo e la fascia che portava sul braccio, gialla con una grande C blu disegnata sopra. La ragazza accanto a lui doveva essere per forza lei. Il viso scialbo e il fisico passabile si salvavano solo grazie all’ampio sorriso che illuminava il volto, incredibilmente pulito e infantile. Il ragazzo, invece, era davvero carino. Ne accarezzò la figura col pollice, pensierosa. Aveva la pelle olivastra, un po’ più scura di quella di Arya, gli occhi verde oliva e una zazzera di capelli castani che se ne andavano per la tangente. Un bel neo sulla guancia destra alterava la simmetria dei suoi lineamenti. Sorrideva felice anche lui, e portava dei grandi occhiali blu. Arya non provò niente nel vederlo, né lo riconobbe. Un moto di tristezza le oscurò il cuore, e voltò l’immagine per leggere ciò che vi era scritto. La grafia non era la sua – era troppo ordinata per esserlo – ed era scritto nella propria lingua natia. La tradusse all’istante: Grazie per esserci stata, il rigore l’ho dedicato a te. – Leo

La “o” di Leo era a forma di cuore, e questo la fece sentire ancora più in colpa. Un’altra lacrima le rigò il viso, l’asciugò con rabbia, e ripose il ritratto dentro una tasca. Basta piangere, pensò infastidita, non sei una pappamolle come tua sorella. Ma pensare a lei la riempì di nostalgia e fece scendere un’altra lacrima. Prese il ciondolino e se lo rigirò fra le dita, cercando di capire di che materiale fosse fatto. Era un pesciolino a righe bianche e arancioni, striato di nero, e su un lato c’era scritto “Nemo”. Chi era questo Nemo? Il suo pesce? Lei era convinta di possedere un cane … Passò all’ultimo ninnolo, quella tessera del cinema. Si arrovellò il cervello per un bel po’ di tempo per cercare di ricordare cosa fosse esattamente un cinema, ma alla fine fu costretta a rinunciare. Thorin ancora non si vedeva da nessuna parte.
Si riaffacciò alla luce delle torce, ma vide che la situazione non era cambiata. Bofur accanto a lei, provò ad affacciarsi a sua volta, ma tutto ciò che riuscì ad affacciarsi furono i suoi baffi. «Tutto bene, Uccellino?»
Ha sentito tutto. Arya lo sapeva che l’aveva udita. E se l’aveva fatto lui, quanti altri? «Tutto bene» mormorò in risposta, stringendo le sbarre fra le mani. «Sto aspettando Thorin. Da quanto è via?»
«Oh, lo so che aspetti Thorin» Bofur sorrise con quel suo sorriso da gatto che ha beccato la sua preda, e Arya non seppe cosa rispondergli. «Tu aspetti sempre Thorin.»
 
«Qualcuno immaginerebbe che una nobile impresa sia imminente.» La voce del Re sembrava annoiata, ed era fredda, quasi noncurante di ciò che stesse dicendo. «Un’impresa per riavere una terra natia … e annientare un Drago. Personalmente, sospetto un motivo molto più prosaico. Tentativo di furto, o qualcosa di quel genere.» Si abbassò su di lui, colmando la notevole differenza di altezza che c’era fra i due. «Hai trovato una via entrare. Cerchi quello che farebbe convergere su di te il diritto di regnare. Il gioiello del Re, l’Arkengemma! E’ preziosa per te oltre ogni misura; lo capisco questo: ci sono gemme nella Montagna che  anch’io desidero: gemme bianche, di pure luce stellare … »
E Thorin ben sapeva a quali gemme si riferisse. Non aveva mai odiato nessuno così tanto come aveva odiato il Re degli Elfi del Reame Boscoso, Thranduil, figlio di Oropher. Mai aveva augurato così tanta sventura a qualcuno come per lui, l’essere più infido e velenoso che la Terra di Mezzo avesse mai visto, colui che abbandonava gli amici alla più grande calamità che il mondo avesse mai visto. E anche lì, in quell’istante, mentre lo osservava con tutta la dignità che solo un Re poteva avere, mentre taceva e gli permetteva di mandare avanti il suo teatrino,  pregava Mahal affinchè facesse sprofondare il rovina il suo nemico.
«Io ti offro il mio aiuto.»
Immagino che le gemme siano il prezzo. «Ti ascolto.»
«Ti lascerò andare … solamente se mi restituisci ciò che è mio»
Thorin sorrise fra sé e sé, dando le spalle al sovrano. «Favore per favore»
«Hai la mia parola» gli assicurò Thranduil «Da un Re, a un altro.»
Quelle parole colpirono Thorin più di quanto avrebbe voluto, e lo riempirono di una rabbia antica, a lungo covata nelle notti di peregrinazione, quando il pianto dei bambini si spegneva per il freddo e quello delle madri non si placava per giorni interi, quando dovevano decidere chi salvare e chi lasciare indietro per salvarne di più, quando sua sorella aveva rischiato di perdere la vita nel dare alla luce il suo primogenito, senza le cure di cui aveva bisogno, quella rabbia lo fece esplodere – la stessa rabbia che lui avrebbe potuto evitare, se solo avesse voluto: «Io non mi fiderei che Thranduil, il grande Re, onori la sua parola, dovesse la fine dei giorni incombere su di noi.»

Si girò con furia verso di lui, urlandogli contro: «Tu! Sei privo di ogni onore! Ho visto come tratti i tuoi amici! Siamo venuti da te, una volta, affamati, senza dimora, a cercare il tuo aiuto, ma tu ci hai voltato le spalle! Tu ti sei allontanato dalla sofferenza del mio popolo, e dall’inferno che ci ha distrutti! Imrid arham dursul!»
«Non parlami del fuoco del Drago!» sibilò avvicinandosi all’improvviso: «Conosco la sua rabbia e la sua rovina! Io ho affrontato i grandi serpenti del Nord!»
Si allontanò e lo guardò disgustato, sguardo che Thorin ricambiò senza esitazione alcuna.
«Misi in guardia tuo nonno su ciò che la sua avidità avrebbe raccolto … ma lui non mi ascoltò. Tu sei proprio come lui.» Risalì le scale del suo trono e fece un pigro gesto con la mano. Subito le guardie accorsero, lo presero e lo immobilizzarono.    
«Resta qui, se vuoi, e marcisci. Centro anni sono un mero battito di palpebre nella vita di elfo. Io sono paziente. Posso attendere.»
«Anche per noi cento anni sono poca cosa!» ringhiò Thorin ancora immobilizzato dalle guardie: «Non parleremo mai, nemmeno in cento anni!»
Thranduil sorrise, e qualcosa nel suo sguardo inquietò l’animo di Thorin. «Voi no, e nemmeno la vostra amica, immagino. Forse perché lei in cento anni sarà morta.»
 
Arya lo capì subito quando Thorin sarebbe arrivato – non dalla sua figura, non riusciva a vedere niente chiusa lì dentro, ma dal suono delle sue dolci imprecazioni. Non riusciva a capire cosa stesse dicendo, ma dalla faccia scandalizzata di Dori dovevano essere parole pesanti. Lo chiusero nella cella adiacente a quella di Balin, nel livello inferiore, perciò Arya aveva una buona visuale su di lui. Non si era accorta di essersi aggrappata alle sbarre fino a che non sentì le mani dolerle, ma era troppo concentrata su di lui per preoccuparsene.
«Ti ha offerto un accordo?» domandò subito Balin.
«Lo ha fatto» rispose Thorin. «Gli ho detto che poteva andare ish kakhfe ai-‘d dur-rugnu! Lui e tutta la sua stirpe!»
Arya scoppiò a ridere, ma Balin scosse la testa sconsolato. «Non c’è niente da ridere, bambina. Un accordo era la nostra sola speranza.»
No, non la nostra sola speranza. C’è Bilbo. Arya non osò esprimere la propria speranza ad alta voce, per non allarmare le guardie e metterle sull’attenti, ma se anche Thorin aveva dissentito sull’ultima frase di Balin, allora significava che anche lui credeva nel mezz’uomo. Thorin alzò lo sguardo verso di lei e la guardò preoccupato. Arya gli sorrise, per rassicurarlo, ma lui distolse lo sguardo e si allontanò dalle sbarre. Non sapendo cosa pensare, Arya si lasciò scivolare sulla pietra, e si sedette per terra. Restò comunque vicino all’entrata, in modo da avere la visuale delle celle, e non di una in particolare, sotto gli occhi. E così passarono i giorni.

Non c’era assassina peggiore della noia. Moriva, letteralmente, di noia. Dapprima se l’era cavata bene. L’unico segno di energia repressa era il ticchettare delle dita sulle ginocchia, ma all’inizio quella pausa inaspettata era stata presa con gioia, dopotutto lei guardava al lato positivo della situazione. E così aveva fatto. Si era sistemata più o meno comodamente, aveva poggiato la testa al muro – tanto più sporca di così non poteva essere – e aveva chiuso gli occhi, godendosi quel riposo inaspettato. Aveva dormito per davvero tanto tempo: non si era mai sentita così fresca a riposata in vita sua. Si era ritrovata sdraiata sul pavimento, in una posizione più comoda, e con una ciotola piena di cibo accanto a sé. Cominciò a riconsiderare gli elfi, che a quanto pareva non lesinavano sul cibo, perciò stavano acquistando parecchi punti. E i primi due giorni passarono così, con Arya che mangiava e dormiva a intermittenza e recuperava il sonno perduto. Si accorse  che avevano preso Fili per parlare col Re quando lo riportarono in cella, più furioso che mai. Legolas, nel risalire, la guardò e le sorrise: «Vedo che ci siamo svegliate.»
«Già» Arya sorrise a sua volta, lasciva. «Tu sai quando usciremo di qui?»
«Non appena qualcuno di voi parlerà.»
La ragazza si sforzò di non far sfumare quel sorriso. «Capisco.»
 
Dal terzo giorno in poi, fu una tortura vera e propria. Aveva recuperato il sonno perso, questo era vero, ma così aveva un sacco di energia inutilizzata e non poteva fare niente per sfogarla. Allora cominciarono i guai. Cambiava posizione ogni due per tre. Provava a cantare, ma veniva brutalmente zittita da Dwalin, perciò non poteva insistere più di tanto. Provava a conversare con i nani, ma nessuno aveva voglia di parlare. Provò perfino ad attaccare bottone con le guardie, ma niente, non aprirono bocca nemmeno una volta. Il non fare niente la portava a pensare, e lei non voleva pensare, non voleva ascoltarsi, e cercava disperatamente un modo per passare il tempo. Ogni giorno, di primo pomeriggio – o comunque credeva che fosse pomeriggio, il suo orologio diceva così – prendevano un nano e lo facevano interrogare dal Re, e puntualmente il nano in questione tornava in gabbia senza che nessuno di loro venisse liberato. L’unica consolazione in quella noia totale era la sera, quando veniva il tempo delle storie attorno al fuoco. Non avevano un fuoco, ma su quello potevano sorvolare.
«E così, il malvagio pirata Davy Jones realizzò che qualcuno era riuscito a rubare il suo cuore dal Forziere, e che alla fine, Jack Sparrow, aveva davvero aggirato il diavolo.»
«Wow» commentò Ori, ammirato. «La leggenda finisce così?»
«No, affatto. Jack non è morto. E’ stato mandato in un luogo di punizione eterna. Il fato peggiore a cui un essere vivente può essere condannato.»
Una voce inaspettata s’intromise. «Io non ho capito la storia fra la dea Calypso e Davy Jones.» Arya si voltò e vide l’elfa dai capelli rossi sorriderle con gentilezza. «Sono arrivata per ascoltare le fine della storia, quando lui si cavò il cuore dal petto. Me la puoi raccontare, per favore?»
I nani si erano rifugiati all’interno delle proprie celle, imprecando disgustati, ma la guardia non ci prestò molta attenzione, ancora ferma a sorriderle con gentilezza.
«Perdonali» disse Arya con un sorriso di scuse. «Di solito sono più educati di così. In realtà ti siamo grati per aver salvato Kili, non è vero?»
«Verissimo» confermò lui dall’altra cella, ma gli altri risposero in Khuzdul parole che Arya preferì ignorare.
«Lavoro di ordinaria amministrazione» rispose lei. «Me la racconti, allora, la storia?»

«Certo.» rispose Arya. «Allora. Tantissimo tempo fa, il mare non era dominato dagli uomini. Era una dea a detenere il potere: crudele, e volubile, e indomabile come il mare. Davy Jones non è sempre stato l’uomo spietato che è oggi. Un lupo di mare, ecco cos’era: abile marinaio, un Capitano più che giusto, e un uomo sempre desideroso di oltrepassare il limite, per vedere cosa c’è più in là. Finchè non è incappato in ciò che fa tribolare gli uomini.»
«Una donna» dissero in coro.
Arya sorrise. «Esatto. Alcune versioni dicono che è del mare che si sia innamorato, ma ognuna di queste è esatta. Questa donna teneva il suo cuore in pugno. Questa donna era il mare, Calipso stessa. Gli assegnò il compito di traghettare dall’altra parte le anime di coloro che sono morti in mare, ed ogni dieci anni sbarcare a terra per un giorno, per vedere colei che lo ama. Per dieci anni Davy Jones fece ciò che gli era stato ordinato di fare, dieci anni passati a vegliare su coloro che sono morti in mare, e quando finalmente potevano stare insieme … lei non c’era. Allora Jones rivelò al Primo Consiglio della Fratellanza il modo in cui intrappolarla nella sua forma umana. »
«E poi …?» domandò l’elfa, gli occhi spalancati dalla curiosità. Le labbra di Arya si arricciarono in un sorriso soddisfatto: lei amava lasciare le persone col fiato sospeso. «E poi … il dolore patito era troppo per continuare a vivere … ma non abbastanza da poter morire. E così … si cavò il cuore dal petto! E lo rinchiuse in forziere che nascose al resto del mondo. La chiave la tiene sempre stretta a sé … e dopo questo terribile atto di disperazione la nave, e la sua ciurma, vennero maledette. Davy Jones e l’Olandese Volante solcano i Sette Mari depredando e razziando chiunque si metta sulla sua strada. E’ il diavolo del mare, che va a stipulare accordi con chi è abbastanza sveglio da evitare la morte, o di unirsi alla sua ciurma. E con la sua bestiolina, il kraken, si assicura che i debiti vengano saldati.»
«Ma Jack Sparrow è riuscito ad imbrogliarlo» commentò l’elfa.
«Ma Jack Sparrow è riuscito ad imbrogliarlo.» ripetè Arya. «Come ti chiami?»
«Tauriel. E tu?»
«Arya Sparrow, piacere.»
«Sparrow? Come Jack?» domandò Tauriel.
«Esatto. L’ironia, eh? Lui riesce a sfuggire al diavolo, e io me ne sto in cella ad ammazzare la noia parlando con te.» Arya rise, e anche Tauriel si concesse un sorriso. Era bello poterle dare un nome. Certo, era ancora l’elfa schifosamente alta e bella di prima, ma almeno poteva smetterla di pensare a lei come “l’elfa”. Lei le sorrise e se ne andò, lodando la sua capacità di narratrice di storie. Kili, da dietro le sbarre, la seguì con lo sguardo fino a che non scomparve dalla vista.  
Arya sorrise soddisfatta. «Ecco come flirtiamo noi italiani.»
«Ah, ma stai zitta.» rispose Kili, sorridendo sotto baffi.
 
Diversi giorni – e storie – dopo, toccò ad Arya essere portata davanti al Re. Quasi la commosse l’ira generale che sconvolse i nani, ma fece loro cenno di stare tranquilli, anche se percepiva il proprio battito cardiaco accelerare man mano che si allontanava da loro. Thorin urlò: «Non aver paura, Arya!» appena prima che svoltasse e scomparisse dalla sua vista, ma quell’avvertimento la fece sentire meglio.
 
Quando vide Thranduil per la prima volta, Arya quasi rischiò di morire di vergogna.
Fu improvvisamente consapevole di quanto fosse sporca e brutta e cominciò a sentirsi davvero gnoma. Era abituata a vedere le persone dal basso verso l’alto, ma il Re degli Elfi sembrava essere davvero più alto del normale. Forse erano stati tutti quei mesi in mezzo ai nani, ma Arya si era abituata a sentirsi normale, quasi alta, ma la realtà le piombò addosso come un macigno. Non desiderava far altro che sprofondare.
«E quindi … tu sei l’amica dei nani.» La sua voce era fredda, proprio come il suo aspetto: i capelli, biondissimi, erano lunghi, incorniciati da una magnifica corona di frutti d’autunno, e gli abiti erano l’unica cosa che sembrava rendere onore alla sua presenza regale. Arya aveva l’impressone che anche vestito di stracci sarebbe apparso bellissimo. Lo guardò negli occhi, sostenendo il suo sguardo, ma ciò che vide la riempì di delusione: i suoi occhi, per quanto fossero azzurri, non somigliavano affatto al colore che stava cercando lei. Sembravano quasi sbiaditi, come se tutti i millenni che pesavano sulle sue spalle avessero inciso sul suo sguardo, rendendolo molto più simile a quello di una statua che di un essere umano.
«Io sono l’amica dei nani.» confermò Arya con voce cordiale.
«Mi domando come abbia fatto una donna umana – una bambina – a finire in una Compagnia di nani, e quale sia il suo ruolo all’interno di essa. Tu e i nani siete … intimi, per così dire?»

E tanti saluti alla cordialità. «No» ringhiò Arya. Possibile che in quel posto una donna potesse avventurarsi con un gruppo di uomini solo per quel motivo? «Non siamo intimi. Mi sono persa e mi hanno aiutato a trovare la strada. Sono la mia famiglia, concetto che a quanto pare ti è difficile da capire, Sire Thranduil.»
«Combattiva» commentò con un sorriso il Re. «Adesso capisco perché piaci a Scudodiquercia. Sai, a vederti così, non avrei mai detto che sotto tutto quel lerciume ci sia un fuoco che arde così vivido. Ma sarà un bene? Le fiamme più vivide sono quelle che si consumano più velocemente.»
«Che cosa volete?» domandò Arya, ignorando ogni possibile implicazione della frase. Era sicura di starlo fulminando con lo sguardo, e aveva la mascella così contratta dalla rabbia che si meravigliava che i denti non scricchiolassero.
«Niente di che, cara, te lo assicuro» rispose il Re con un sorriso gelido, da serpente. Seduto sul suo trono, sembrava l’essere più alto e potente del mondo. «Solo delle informazioni. Anzi, voglio farti un’offerta.»
La ragazza tentò di ragionare con lucidità. Meglio farlo  parlare. «Che offerta?»
Il suo sorriso si allargò di più. «Vi lascerò andare per la vostra via. In cambio, voglio sapere ogni cosa riguardo Scudodiquercia, e voglio ottenere la sua collaborazione per gli anni futuri. Purtroppo ci sono state delle divergenze fra di noi, e credo di aver bisogno di un intermediario. Ovviamente, se hai qualcosa da chiedere sarò ben lieto di concedertela.»
Arya lo fissò scioccata. «Voi .. voi volete che io mi venda per comprare la nostra libertà? E’ questo che mi state offrendo, Re Thranduil? La mia libertà e quella dei miei amici per diventare una doppiogiochista?»
Thranduil alzò un sopracciglio. «Se scegli di vederla da questa prospettiva … »

«E ci lascereste liberi» lo interruppe Arya. «Promesso?»
Il sorriso del Re non poteva essere più subdolo di così. «Hai la mia parola.»
Ma voi non avete la mia. «State sorvolando sulle condizioni in cui lascerete andare, signore.»
Thranduil la guardò stupito, senza capire dove stesse andando a parare Arya. «Non so quale considerazione abbiate riguardo gli uomini, signore, o delle bambine che si accompagnano ad un gruppo di nani, ma vi assicuro che io non sono stupida, e questo accordo mi puzza d’imbroglio. Ci lascerete liberi, certo, ma magari nel mezzo della foresta e senza viveri né armi e saremo alla mercé dei ragni in meno di un giorno, e tanti saluti alla nostra impresa. Perciò penso che vi convenga alzare un po’ la posta, Sire, perché io non faccio beneficenza e i miei servigi non sono a poco prezzo.» Arya sorrise amabilmente.
«E quali sono i tuoi servigi, io questo mi domando» rispose Thranduil, abbassandosi per guardarla.
Arya si erse in tutta la sua altezza, sostenne il suo sguardo senza esitazione alcuna e parlò con freddezza, scandendo per bene le parole, affinchè Re Monociglio afferrasse il concetto: «Thorin Scudodiquercia è il mio Re, e qualsiasi servigio lui mi chiederà di fare sarà da me eseguito. La Compagnia è la mia famiglia, e non li venderò, nemmeno per tutto l’oro della Montagna.»
«Quanta lealtà, per una degli uomini. Non credevo vi interessasse altro a parte il potere. Nemmeno per tutto l’oro della Montagna, dici? Ricorda le mie parole: sarà l’oro stesso a smentire le tua parole, bambina, e per quanto mi riguarda puoi benissimo finire i tuoi brevi anni di vita in cella. Portatela via.»
«E’ stato un piacere!» Arya rise mentre le guardie la trascinavano giù in cella, celando l’inquietudine che montava nel suo cuore. Che cosa voleva dire che la Montagna avrebbe messo alla prova le sue parole?
 
E così passarono … bè, altri lunghissimi e interminabili giorni. L’ultimo di prigionia fu il più esilarante, perché, a posteriori, Arya aveva esaminato la conversazione e le era parso che un po’ troppo ardore fosse trapelato dalle sue parole, ardore che poteva benissimo essere frainteso. Con la testa poggiata alle sbarre, osservò la cella sotto di sé, dove Thorin stava fischiettando un motivetto a lei familiare. Anzi, lei quella canzoncina la conosceva proprio. Si alzò, impietrita, mentre la consapevolezza la faceva arrossire di vergogna. Quella melodia … lei la fischiettava quando si faceva un bagno. Solo una volta era capitato che si fossero lavati, in quel lunghissimo viaggio, e i nani e Bilbo si erano allontanati per concederle un po’ di privacy, e lei aveva sguazzato felice come un pesciolino – come Nemo! – nell’acqua. Ma aveva anche fischiettato quella canzone. La canzone che Thorin stava ripetendo con tanta precisione e impegno, senza sbagliare una nota che fosse una. Arya era a bocca aperta. Mi ha … mi ha vista? Non sapeva se la cosa le facesse piacere o meno, ma realizzò, arrossendo fino alla punta dei capelli, che le faceva decisamente piacere e che anzi, si sentiva invidiosa perché lei non aveva avuto l’opportunità di farlo a parti invertite.
«Che effetto mi fai» mormorò alle sue ginocchia, guardando con un sorriso il nano sotto di sé.

«Che ore sono?» chiese qualcuno.
«Scommetto che il sole sta sorgendo» rispose esasperato Bofur. «Deve essere quasi l’alba.»
Ori era sconsolato: «Non raggiungeremo mai la Montagna, non è vero?»
Se c’era una cosa che Arya non poteva sopportare, era vedere Ori triste e senza speranza. «No, no, Ori, tranquillo, certo che …»
«Non chiusi qui dentro di certo!» esclamò una voce assai gradita, facendo tintinnare un mazzo di chiavi nella sua mano.
«BILBO!» esclamarono tutti in coro.
Lo hobbit cominciò ad aprire le porte e a far segno di star zitti. «Sh!»
Aprì la sua cella e Arya lo soffocò in un abbraccio: «Ti ho mai detto che ti amo?»
 
Yo – ho, thieves and beggars, never shall we die!
All togher, hoist the colours high!

Angolo di Feniah <3
Ma buonsalve, amici miei, sono tornata! Questa settimana c'è stata occupazione e ho deciso di portarmi avanti con tutto il lavoro. Sono uscita con la tipa che mi piace, ho visto Star Wars, mi sono anticipata i compiti, ho fatto appassionare mia madre a Doctor Who e ho battuto al pc il capitolo! Vi piace?
La canzone è quella di Pirati dei Caraibi - Ai confini del mondo, in lingua originale. A parte per la leggenda, l'ho messa perchè è un invito a prendere le armi contro il comune nemico, in questo caso Thranduil, e ad essere fedeli gli uni agli altri, come un vera famiglia <3 *coccola i suoi amichetti*
Che ne pensate? Arya e la sua amnesia, i sentimenti di Thorin e di Ariuccia - tra parentesi, il nome della ship è Sparrenshield, meravigliosamente coniato da Foxy che saluto - e del capitolo in generale? Personalmente, Arya mi sta diventando troppo Sassy, diventerà l'erede di Donna Noble.
Ah, la canzoncina che Thorin fischietta è la colonna sonora di Jurassic Park. Esatto. Arya canta Jurassic Park quando se ducha.
Thorin che fischietta Jurassic Park >>>> Mondo.
Ma vabb, buona serata a tutti, che domani vado alla fabbrica di cioccolato!
Feniah <3

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Capitolo 10
*** 1O > Time is Running Out ***


but they were constantly parted



Time is running out
You’re something beautiful, a contradiction
I wanna play the game, I want the friction
You will be the death of me
 
 
«Non ti amo più» affermò Arya sconsolata. Il piano era troppo folle. Bilbo le lanciò un’occhiataccia come a dire non ti ci mettere anche tu, per favore, ma la ragazza non poteva farci niente. Almeno non stava dando di matto come una gallina, lei. Non potevano, seriamente, entrare nei barili e rotolare giù fino … fino a dove, poi? Arya si fidava di Bilbo, ma la fisica non è un opinione. Ed era piuttosto sicura che fosse una cosa che non insegnavano, nella Terra di Mezzo.
«Dovete fidarvi di me!» implorò Bilbo.
Thorin sedò le proteste imminenti: «Fate come dice!»
E quindi dovettero entrare nei barili in fretta e furia. Si aiutarono l’un l’altro ad entrare e a riempirli di paglia per “accomodarsi” , non senza qualche imprecazione. Una volta dentro, Bofur chiese che dovessero fare, e Bilbo rispose «Trattenete il fiato»
«Che vuol dire trattenere il fiato?!» squittì Arya.

Trattenere il fiato, scoprì dieci secondi dopo, significava trattenere il fiato. La pedana su cui le botti erano adagiate a piramide s’inclinò pericolosamente, facendoli strillare. La propria botte crollò sotto il peso delle altre e rotolò verso sinistra, precipitò lungo la rampa, cadde nel vuoto e si schiantò con un suono sinistro. Venne risucchiata giù  e qualcosa di gelido l’investì. Il tempo di un respiro e venne spinta verso l’alto dove riemerse aggrappandosi ai bordi di legno.  Arya sentì come se avesse lasciato lo stomaco nelle cantine e poi freddo, tanto freddo. Galleggiava.
Acqua. Gelida e schifosamente bagnata, l’aveva inzuppata fin dentro le ossa. I vestiti appiccicati alla pelle e pesanti la infastidivano; sentiva di avere la pelle d’oca e brividi la facevano tremare. Il lato positivo era che erano usciti di prigione. Tossì e sputò altra acqua, che bruciava nella gola come fuoco, per quanto era fredda.

«Ci siete tutti?» urlò qualcuno. «Bofur, Fili, Arya?»
«Ci sono» gracchiò la ragazza facendo il segno dell’okay con una mano. Un mezzo urlo le fece notare che anche Bilbo era precipitato giù, ma lui senza botte. Si allungò per prenderlo – non era sicura che sapesse nuotare. Bilbo si spinse verso Nori, e Thorin gli disse: «Ben fatto Mastro Baggins. Ora TENETEVI FOOORTE!»
E precipitarono di nuovo giù in un’altra cascata. I nani e Arya urlarono e splash! Di nuovo giù lungo il fiume. La corrente era fortissima e li sbandava a destra e a sinistra senza riguardi. C’era una piccolissima parte di lei che si stava divertendo, doveva ammetterlo, mentre tutto il resto … tutto il resto era impegnato a reggersi il più saldamente possibile per non cadere fuori il barile. Quando sbatté contro le altre botti non realizzò subito cos’era successo. Si arrischiò a far capolino dal proprio barile e li vide tutti ammucchiati: il cancello era chiuso. Arya guardò disperata una delle guardie che presidiavano il ponte sopraelevato e le sfuggì un urlo quando un elfo venne colpito da una freccia e cadde nelle acque gelide, morto.

Gli orchi spuntarono dal nulla.
Quello era un buon momento per farsi piccola piccola. Un orco si gettò sulla sua botte e lei – con quale coraggio! – gli diede un pugno mentre strillava di paura e Fili gli sfracellava la testa sulle rocce. Vide un’ombra saltare e si rannicchiò di più, ma era soltanto Kili che mirava alla leva per aprire il ponte. Sembrava che stesse per arrivarci quando la mente di Arya registrò un sibilo. Poi la freccia si conficcò nella gamba di Kili. Non urlò, sembrò solo sorpreso ed emise un singulto: cadde a terra, senza forze.
«KILI!» Urlarono Fili e Arya in coro.
Un orco si stava per avventare su di lui, ma una freccia gli trapassò il cranio e lo uccise. Tauriel era uscita dal bosco e lanciava frecce con una precisione micidiale, e all’improvviso uno sciame di elfi si riversò fuori dal bosco in loro soccorso. Arya non era mai stata così contenta di vedere qualcuno in vita sua. Con un singulto venne risucchiata verso il cancello – non capiva come ma si era aperto- e riuscì a scorgere una cascata prima di pensare oh no prima di precipitare fra le acque gelide. Fu davvero terribile.

Sepolta dentro il proprio barile, Arya sentiva le colluttazioni, le grida, i sibili delle lame. Dopo un po’ svanirono e la corrente rallentò mano a mano che la pendenza diminuiva.
Si arrischiò a fare capolino e vide che era tutto tranquillo, a parte le imprecazione dei nani, quindi tutto apposto. Bofur sputò acqua. «Mi sa che abbiamo staccato gli orchi!»
«Non per molto, abbiamo perso la corrente!» replicò Thorin, ottimista come al solito.
«E Bombur è mezzo affogato!»
I nani non sembravano degli esperti nuotatori, perché si arrischiarono a raggiungere la sponda rocciosa all’interno della botte vogando con le braccia, mentre la ragazza trovò più naturale sgusciare fuori e nuotare fino a riva. Per quanto l’acqua fosse gelida fu una bellissima sensazione: le ricordava vagamente le giornate estive al mare, quando faticava a buttarsi in acqua per via della temperatura. Ma una volta dentro il freddo passa. Quando riemerse sgranò gli occhi per lo sbalzo termico e iniziò a tremare. Per una volta era lei che aiutava qualcuno a fare qualcosa: dava una mano per farli uscire dai barili e si allontanò anche per recuperare la botte di Ori che era rimasta a galleggiare al largo. Non toccava per pochissimi centimetri, ma fu comunque abbastanza arduo tornare a riva. I nani stavano cercando di orientarsi, ma tutto ciò che dicevano per lei era senza senso; piuttosto era rimasta colpita dalle proprie abilità di nuotatrice. Chissà dove aveva imparato a nuotare così. Il non saperlo la rattristì molto. Ancora una volta, guizzò nella sua mente un viso giocondo dagli occhi chiari e i capelli biondi. Oppure era solo il riflesso del sole sui baffi di Fili, che scrutava apprensivo il fratello?

Strizzò i capelli – almeno una doccia l’avevano fatta! – iniziando a pensare che per quel giorno ne avevano avute abbastanza, grazie tante.
Ma no! Ovviamente cinque minuti di tranquillità erano troppi per essere graziati così! Le emozioni non erano finite!
Un uomo puntava l’arco verso Ori, completamente ignaro. E sembrava disposto ad ucciderlo sul serio.
Arya sentì il proprio cuore andare in pezzi. Strillò «NO!» nello stesso istante in cui la freccia partiva e si incastrava nel legno che Dwalin – spuntato dal nulla – aveva usato per difendere il compagno, rapido come il fulmine scagliò un’altra freccia che disarmò Kili e aprì un taglio sottile sulla sua mano.
Puntò l’arco verso Kili, ferito a terra. «Fatelo di nuovo, e siete morti.»
Ancora troppo scioccata per fare qualcosa, non potè impedire a Balin di avanzare. «Scusami … sei di Pontelagolungo, se non vado errato.»
L’arciere misterioso puntò l’arco verso il nano, che comunque parlò con tranquillità, tenendo le mani alzate. «Quella tua chiatta … non è che sarebbe possibile noleggiarla, per caso?»
L’uomo abbassò l’arco, titubante. Il linguaggio dei soldi era una cosa internazionale.

Mise l’arma in spalla e scese lungo un sentiero che conduceva ad un pontile di pietra. Lo seguirono, scambiandosi occhiate dubbiose.
«Cosa vi fa pensare che vi aiuterò?» chiese ansante per lo sforzo di spostare i barili.
Balin rise gioviale. «Quegli stivali hanno visto giorni migliori, come quel cappotto, ah!»
Ora, Arya si fidava di Balin, ma per convincere qualcuno a fare qualcosa per lei di certo non avrebbe puntato al fargli notare quanto fosse povero.
«A casa scommetto che avrai delle bocche da sfamare, eh? Quanti bambini?»
«Un maschio e due femmine.»
Povero e con dei figli a carico, di bene in meglio insomma.
«E tua moglie immagino che sia …» si girò verso di loro, sorridendo  perché la trattativa stava procedendo «una bellezza, eh?»
Io dico che è morta. Sicuro l’inghippo era quello.
«Sì, lo era.»
Quasi si diede il cinque da sola, poi si ricordò che era una brava persona e che non gioiva delle disgrazie altrui.
«Io … mi dispiace, non so-»
«Oh e falla finita!» Brontolò Dwalin alzando gli occhi al cielo. «Gettiamolo nel lago e facciamola finita.»
Arya ridacchiò.
Il chiattaiolo quasi sorrise a sua volta.«Perché tanta fretta?»
«Perché ti interessa?»
Simulò disinteresse. «Mah, vorrei solo sapere chi siete e che cosa ci fate in queste terre.»
«Siamo dei semplici mercanti delle montagne blu! In viaggio per vedere i nostri parenti sui Colli Ferrosi.»
L’uomo alzò le sopracciglia. «Semplici mercanti, tu dici? Lei non sembra una nana.»

Arya trasalì, non si aspettava di essere chiamata in causa. «Chi ti dice che non sia una nana?»
«Non hai la barba.»
In altri momenti quello sarebbe stato un bel complimento, ma in quel frangente era un piccolo problema. Gonfiò le guance ed espirò, prendendo tempo. Dov’era la sua lingua lunga quando serviva? «E’ che sono ancora piccola. Ci vuole del tempo prima che cresca, non sai che seccatura, tutti a prendermi in giro perché sono ancora imberbe e -»
«Non ti credo. Ma non importa.» Accarezzò una botte, la parte del legno rovinata per la caduta. «Non so quali affari abbiate con gli elfi, ma non credo sia finita bene.»
«Però, perspicace.» Commentò la ragazza, beccandosi l’occhiataccia da Thorin.
Il chiattaiolo continuò a parlare, imperterrito. «Si entra a Pontelagolungo solo col permesso del Governatore. Tutte le sue ricchezze provengono dal Reame Boscoso, ti metterebbe ai ferri prima di rischiare l’ira di Re Thranduil.» Lanciò una cima a Balin, che non sapeva cosa dire.
«Offrigli di più!» sussurrò Thorin.
Balin alzò gli occhi al cielo, ma non si perse d’animo. «Sono certo che ci sono altri modi per entrare non visti!»
«Certo» concordò il chiattaiolo, sistemando l’ultimo barile. «Ma per quello vi ci vorrebbe un contrabbandiere.»
Balin spuntò lì accanto a lui in un modo un po’ inquietante. «Per il quale pagheremmo il doppio!»
Adesso sì che si ragionava.  L’uomo annuì e fece cenno di salire.

La chiatta resse il peso di tutto il gruppo con tranquillità, anche se l’uomo consigliò di sparpagliarsi per distribuire il peso. Raccomandò loro di fare anche silenzio, perché il Governatore aveva occhi e orecchie ovunque.
La ragazza si prese del tempo per osservarlo. Non era un uomo brutto. Per quanto l’antipatia iniziale gli faceva perdere diversi punti sulla sua classifica, non poteva negare che la sua figura emanava una dignità che aveva visto in pochi. Sembrava un uomo che si spaccava la schiena per portare la cena in tavola alla propria famiglia e che pensasse prima a loro e poi a sé stesso: gli abiti dimessi e le movenze pratiche e veloci lo confermavano. Le ricordò in qualche modo Thorin, perciò si sentì subito più ben disposta verso quell’uomo misterioso che, nonostante tutto, aveva deciso di aiutarli a proprio rischio e pericolo. Si avvicinò a lui e sorrise. «Come ti chiami?»
Rispose un po’ preso in contropiede. «Bard.»
Allungò la mano verso di lui. «Io sono Arya.»
La strinse con un po’ di diffidenza, poi levò gli ormeggi e si posizionò al timone. Più si addentravano nel lago, più la nebbia saliva a coprire tutto, avvolgendo la chiatta in un silenzio irreale. Avanzavano nell’ombra come fantasmi, fendendo placidamente l’acqua. Pezzi di ghiaccio attaccavano la chiglia, segno dell’imminente arrivo dell’inverno.
Avrebbero proceduto per un’altra ora almeno, le confidò Bard, così decide di poggiare la testa sul parapetto della nave, intenzionata a chiudere gli occhi solo per un po’, giusto il tempo di riposarli. Ovviamente si addormentò.

Neve. Nei suoi sogni c’era sempre la neve.
Neve rossa, macchiata di sangue, l’innocenza violata e la gelida morsa della morta stretta alla gola. Era anche nera, come se fosse marcita, e l’aria puzzava di dolore. I fiocchi le volteggiavano attorno con dolcezza, tentando di distrarla, ma c’era qualcosa che non andava, qualcosa di sbagliato, di profondamente sbagliato …

Riaprì gli occhi di scatto. Ori le stava dolcemente scuotendo la spalla, invitandola a svegliarsi. La fece entrare nel barile come tutti gli altri, poi attesero. Stava cominciando a stufarsi di queste botti e stava per fare un bel discorsetto a tutti quanti, quando un rumore viscido la incuriosì. Che cos’è?
«Pesce!» esclamò qualcuno sopra di lei. E iniziò a buttare giù tutto il pescato della nottata. Arya soffocò un singulto schifato chiuse gli occhi mentre la puzza la investiva e tutti quei pesci la coprivano fin sopra i capelli – e tanti cari saluti alla doccia.
Ripartirono conciati in quella maniera e una volta arrivati alla barriera per il pedaggio udì una voce infida e strascicata parlare. Non capiva cosa stesse dicendo, ma le comunicò una sensazione di viscido che non aveva niente a che vedere con il pesce. Le scappò un gemito quando ribaltarono la botte cominciando a far cadere del pesce e rischiando di smascherarla, ma Santo Bard da Pontelagolungo la salvò in qualche modo.

Ovviamente dopo dovettero rituffarsi in acqua.
La ribaltarono ancora una volta ed emerse dal mare di pesce in tutta la dignità rimastole, che in effetti era molta poca. Seguirono abbattuti l’uomo che li guidò per viuzze secondarie, al riparo da occhi indiscreti.
Ad un certo punto un giovanotto di circa quindici anni, non molto più piccolo di lei, si accodò a loro. Dal modo in cui si rivolgeva a Bard - «Pa’» - dedusse che fosse suo padre.
La città lacustre era molto caratteristica: le case erano delle palafitte costruite direttamente sull’acqua ed erano dipinte di blu e marrone; i vetri erano opachi e la gente silenziosa. Sembrava un agglomerato di tristezza costruito con la fatica e col sudore, che si manteneva in piedi grazie alla forza delle centinaia di schiene che ogni giorno lavoravano per mantenerla in piedi. Sarebbe stata caratteristica, non fosse stato per il lungo profilo della Montagna a gettare la sua ombra.
Entrarono in casa dell’uomo dal gabinetto – sì, dal gabinetto e no, non ci avrebbe pensato – e ricevettero un’accoglienza non proprio calorosa.
«Pà, perché dei nani escono dal nostro gabinetto?» domandò una ragazza.
La sorellina sorrise: «Ci porteranno fortuna?»
Arya decise che l’adorava.
 
                                                                                                                                                                                           
La ragazza si osservò allo specchio, stringendo le labbra. No, pensò seccata, non ci siamo proprio. La nuotata indesiderata almeno era servita a qualcosa: aveva lavato via tutto il sudiciume ed ora era pulita, e l’immagine riflessa allo specchio non era cambiata dall’ultima volta. Una ragazza bassa dal viso gradevole ma scialbo, i capelli castani e gli occhi di un imprecisato colore fra il nero e il marrone. Forse era più magra? Restava comunque graziosa, ma nulla di speciale. Tuttavia il proprio aspetto non la impensieriva più di tanto, per il momento, visto che era intenta a cercare un’acconciatura adatta alla serata. Gli abitanti di Pontelagolungo avevano indetto in quattro e quattr’otto una festa per loro ed il Governatore aveva offerto una casa per passare qualche giorno in tranquillità prima dell’imminente viaggio. Avevano inoltre concesso loro dei nuovi capi, visto che gli elfi li avevano spogliati dei propri, ed ovviamente a Thorin e ai ragazzi erano spettati i capi più belli e caldi, ma tutti avevano insistito affinchè i meno danneggiati andassero a lei, per scaldarla. Quindi aveva ricevuto un cappotto semplice, da uomo, che le stava grande; probabilmente una pelliccia di orso o simili. Arya preferì non indagare e si limitò a ringraziare con un sorriso. Alla fine pettinò i capelli come meglio poteva e li lasciò sciolti, constatando che si erano allungati di molto, in quei mesi. Andò verso il camino, dove Fili stava sistemando i capelli di Kili. La ragazza aveva imparato che per i nani era molto importante, intrecciarsi i capelli. Già fra gli uomini era un gesto riservato a pochi, ma per loro era proprio un atto intimo. I fratelli erano solito acconciarsi l’un l’altro – non solo Fili e Kili, anche Balin e Dwalin e Bofur con Bombur – mentre Thorin sembrava non farci molto caso. Non come Dori, che era maniacale con Ori e Nori. Le ricordava vagamente qualcuno che conosceva, anche se non ricordava chi. Arya si attorcigliò una ciocca di capelli, pensosa. Il fuoco scoppiettava allegramente nel caminetto, trasmettendole una meravigliosa sensazione di calore. Ogni tanto si spaventava per uno scoppio troppo forte, ma per diverso tempo si godette quel momento. Il cielo era buio. La casa che era stata prestata loro il giorno prima non aveva molte finestre, inoltre quelle del pianterreno erano piccole e appannate, perciò l’unica luce proveniva dal caminetto e dalle numerose candele che illuminavano quello che doveva essere il soggiorno.   

«Che fai davanti al camino?» le chiese la voce di Thorin. Arya alzò lo sguardo ed incontrò quello del nano, stranamente rilassato. Ma non la ingannava. Aveva viaggiato con lui per mesi e mesi e l’impazienza che infiammava quegli occhi azzurri non le era nuova. Thorin moriva dalla voglia di dirigersi fuori  e mettersi in cammino perché non riusciva ad aspettare ancora, non ora che la Montagna era così vicina. Fortunatamente Thorin non era sprovvisto di buonsenso, perciò aveva concordato con loro che una breve pausa a Pontelagolungo avrebbe giovato alla loro salute. Dopodiché, si sarebbero messi in marcia subito.
«Mi sto scaldando» rispose Arya. Lo osservò e un sorrisino le incurvò le labbra. «Vedo che ti sei fatto bello» per lei Thorin era sempre bello, ma questo non aveva certo intenzione di dirglielo. Thorin sorrise a sua volta. La ragazza stava giochicchiando distrattamente con il pettine che aveva trovato nella stanza da bagno: se ne era appropriata senza alcun rimorso, visto che lei aveva perso il suo e la casa era a loro completa disposizione. I capelli le scivolarono oltre la tempia come una tendina, li scostò con una mano e li sistemò dietro l’orecchio.
Al nano faceva uno strano effetto vederla coi capelli così sciolti, perciò le parole gli uscirono di bocca prima che potesse fermarle: «Ti faccio una treccia.»
Arya spalancò appena gli occhi, evidentemente sorpresa. Vederla dall’alto in basso, quando era solito averla alla stessa altezza, aumentava il senso di orgoglio e rispetto che provava per lei: quel viso dolce e gli occhi innocenti che la facevano sembrare pronta a sfiorire alle prime avvisaglie dell’inverno li avevano fregati tutti, lui compreso. E c’erano poche persone che ci riuscivano: Arya e Bilbo erano fra questi. Il nano sedette su una poltrona vicino al fuoco e Arya si accomodò ai suoi piedi, gli passò il pettine ed iniziò la tortura.

Thorin non era delicato. Thorin non capiva che lei aveva i capelli mossi e crespi e che se avesse continuato a mettere tutta quella forza nel pettinarla le avrebbe fatto lo scalpo ma ooooookay ce la posso fare altrimenti questo non mi parla più ahi! Riuscì a trattenere le lacrime  per tutto il tempo di quella tortura e anche a ringraziarlo con tanti complimenti. Si era formata la folla lì intorno, infatti Bofur volle continuare ciò che Thorin aveva iniziato. Fortunatamente lui ci andava piano. Ben presto, tutti iniziarono a dispensare consigli: una ciocca lì, un fermaglio là. La sensazione di benessere che man mano cresceva nel suo petto l’avvolse con dolcezza e la cullò per molto tempo. Era un modo per prendersi cura l’uno dell’altro, un po’ come quando Bombur preparava la cena e lei, nell’attesa, raccontava le storie. Anche quando non si poteva proseguire per via di una valanga o di una strada allagata, o semplicemente quando il morale era troppo basso per fare altro.
Bilbo le diede una molletta. «Tieni.»
La ragazza la osservò e vide una perlina sopra di essa. «Grazie» disse con un sorriso. «Sono un bravo scassinatore» gongolò lui.

Arya si alzò, andò verso lo specchio e la sistemò fra i capelli, in modo che risaltasse. Per una volta, l’immagine riflessa nel vetro non la deluse. Girò il capo per rimarsi per bene, un sorriso incredulo che cresceva sul viso. I capelli erano strettamente legati in una treccia che partiva dalla parte superiore della nuca e scendeva fino ad assottigliarsi alle punte, legate da un nodo blu gentilmente regalatole da Balin. Era elaborata, tipicamente nanica. Sentì come una forza crescere in lei, una consapevolezza di sé che le fece vedere le cose da un’altra prospettiva. Era bella. La persona nello specchio era lei ed era bellissima. Gli occhi non erano solo scuri, erano vispi, erano magnetici, attiravano in qualche modo lo sguardo. Il viso esposto rivelava la presenza di tagli ed escoriazioni, ma erano il suo percorso, la sua storia. Era scolpita come la pietra.
Non vide  qualcosa di cui vergognarsi. Vide una giovane donna con la speranza negli occhi, una personalità su cui dipingere l’orgoglio, un fiore appena sbocciato la cui bellezza, una volta raggiunto il pieno dell’estate, poteva solo essere immaginata. Era così che la vedevano i nani? Avevano tanto rispetto per lei? Arya sapeva da tempo che per lei loro significavano tutto, ma non credeva che il sentimento fosse così ricambiato … Commossa, si voltò verso la Compagnia, li guardò negli occhi uno ad uno. «Grazie.»
Per ultimo si soffermò su Thorin. Arya sentì vagamente come qualcosa che si lasciava andare, in un angolo remoto della sua mente, come se stesse perdendo la presa, ma non vi badò. Thorin stava sorridendo proprio come tutti gli altri, e tanto bastava a distrarla.
 
La festa era divertente, doveva ammetterlo. I violini strimpellavano allegri e il banchetto, per quanto povero, era abbondante ed aperto a tutti. Il primo fugace pensiero che aveva avuto nell’arrivare a Pontelagolungo era stato “E’ una Venezia povera” ma non aveva la più pallida idea di cosa fosse Venezia. Invece, non appena aveva messo piede nella sala del banchetto aveva pensato “alcool” e l’alcool lo conosceva benissimo. Aveva appena finito di ballare con un simpatico vecchietto molto interessato alle reti da pesca e si era ritrovata con un bicchiere pieno in mano. Bevve e il fuoco le incendiò l’esofago. Brutta idea pensò disgustata e lo diede a Bofur- che ormai era partito per la tangente – e prese un boccale di birra, che le piaceva. Ma venne trascinata in un brindisi, inciampò in Tilda, volteggiò con Fili senza un motivo apparente si ritrovò di fuori senza che si ricordasse di aver attraversato la porta. Oh, guarda, c’è Thorin! Ovviamente si era tenuto fuori dai festeggiamenti, l’eremita. Arya sospirò internamente e si prese un secondo per osservarlo bene, perché non scherzava prima quando diceva che si era fatto bello. Lei si era dovuta accontentare di un abito grigio dismesso che nel complesso le stava bene: era privo di decorazioni ma molto caldo ed era comodo nel vento che soffiava gelido da nord e nell’aria umida. Thorin aveva dovuto adattarsi come gli altri, ma quel cappotto che gli faceva da mantello accentuava la sua regalità innata.

«Che vuoi, Arya?» le chiese lui, senza particolare inflessione nella voce. Arya non se la prese. Aveva capito che era lei perché aveva il passo pesante, glielo diceva sempre.  
«Niente» rispose lei caracollando verso il nano. «In realtà mi domandavo che ci facessi qui fuori.» Quindi si stava preoccupando. «Fa freddo. Non vuoi unirti alla festa? Dopotutto è per te, Re sotto la Montagna.» Thorin si girò verso di lei e la guardò sospettoso. «Sei ubriaca?»
«Noo» le formicolavano un po’ le dita, ma sentiva di avere pieno possesso delle facoltà mentali. «Sei impaziente, vero?» domandò indicando col capo il punto dove Thorin stava guardando. La Montagna, ovviamente, sempre la Montagna. Arya era diventata gelosa di una montagna.
«Molto.» confermò Thorin. «Siamo quasi arrivati. Ho aspettato così a lungo ed ora che sono così vicino … ancora una volta sono costretto a mendicare aiuto da qualcuno.»
«Ce l’hai quasi fatta» lo interruppe Arya. «Pazienta un po’. Abbiamo ancora un Drago da sconfiggere. Non possiamo farlo se non siamo al massimo delle forze. Questa gente sa quanto vali. E se ti hanno aiutato solo per un tornaconto personale … problemi loro. L’importante è che tu non perdi di vista te stesso. Non lasciarti consumare.» Quel discorso la sorprese, specialmente perché era stata lei stessa a farlo.  Lasciarsi consumare da cosa? C’entrava con il libro che aveva letto, ovviamente. Se si fosse ricordata bene, però, sarebbe stato meglio.
«Tu parli sempre al plurale» Thorin le sorrise amaramente. «Noi, noi, noi. Cosa ti impedisce di restare qui, al sicuro? Nessuno penserebbe che tu sia codarda.»
«Non me ne voglio andare.» Il sorriso era svanito dalle sue labbra. Ora lo guardava con serietà. «Non me ne andrò, Thorin. Voi siete la mia famiglia. Sarei solo al mondo, senza di voi, ed ora …»
«Ora cosa?»
«Ora che i ricordi della mia vecchia vita … svaniscono» abbassò lo sguardo, per nascondere eventuali occhi lucidi. Da quando lo aveva detto a Gandalf quella era la prima volta che lo ammetta ad alta voce. « … stare con voi, stare con te … mi fa sentire al sicuro. Penso … penso che se ho finito una vita posso iniziarne un’altra con qualcuno. Con la mia famiglia.»
Thorin si avvicinò a lei, le trecce mosse dal vento. In quel momento soffiava ad intermittenza e con più dolcezza; era freddo come il ghiaccio, ma riparati dalle case non era poi così terribile stare lì fuori.  «La Montagna ora come ora non è un luogo ospitale. L’inverno sta arrivando, Arya.»
Non seppe dire cosa la spinse a fare ciò che fece. Forse era la sua ingenuità o il fatto che il giorno dopo avrebbe potuto dare la colpa all’alcool, ma gli prese la mano e l’accarezzò fugacemente, sorridendogli con dolcezza. «Lo so. Ma non mi importa. Il nostro tempo sta scadendo, Thorin. Sento che qualcosa di terribile sta per accadere, ma non so cosa. Faccio dei sogni terribili da molto tempo ormai, ed ogni indizio è sfumato da troppo perché possa ricordarlo e-»
«Che vuol dire “qualcosa di terribile sta accadendo”?» Thorin la interruppe con fermezza e Arya si morse la lingua. Dannata loquacità. Potevi starti zitta.
 «Una guerra è in arrivo. Questo è tutto ciò che ricordo. Probabilmente è la guerra contro Smaug.»
Thorin annuì. «Probabilmente.»

Il nano rimirava pensoso la Montagna avvolta dalla nebbia, e lei pensò di andarsene, di dargli un colpetto sulla spalla e di tornare a ballare, però le parole uscirono lo stesso, stufe di nascondersi nelle sue labbra. «Però voglio credere che non toccherà a noi. Voglio credere che un lieto fine sia possibile, che ci sia concessa quest’occasione. Voglio costruirmi una vita ad Erebor, e la voglio passare con …» Arrossì per ciò che aveva quasi detto e abbassò lo sguardo.
Thorin le alzò il viso con delicatezza, incontrando quei grandi occhi scuri che parlavano senza dir niente. Sorrideva. «Sei così giovane e coraggiosa, Arya. Non voglio che tu rischi la vita per noi. Ma non posso impedirti di venire, e sarò più felice di vederti trascorrere la tua vita al sicuro all’ombra della Montagna. E troverai qualcuno che ti farà felice a sua volta.»
Arya posò la propria mano su quella di Thorin e la strinse con forza. «Ma io voglio stare con te. Quando sono con te io … mi sento a casa.»
Thorin tacque per un paio di secondi, senza smettere di guardarla negli occhi. «Tu mi sorprendi sempre, Arya. Tu e Bilbo mi siete diventati cari. Mi avete insegnato che avere un cuore gentile non significa avere un cuore debole, e di questo vi sono grato. Mi hai fatto cambiare idea.»
Quello che accadde dopo non fu programmato. Non avevano programmato proprio niente. Ma scivolare l’uno verso l’altra, in sincrono, fu una cosa naturale. Le labbra si sfiorarono con delicatezza, senza fretta, senza degenerare in un bacio animalesco e violento. Teneramente, si strinsero fra di loro e la mano di Thorin sulla guancia di Arya disegnò ghirigori sulla sua pelle, facendole sfuggire un sorriso. Con dolcezza, si lasciarono andare, le fronti che si toccavano. Nessuno dei due aprì gli occhi. Arya sentì distintamente qualcosa nella sua testa spezzarsi definitivamente, lasciarsi andare per sempre. Ma non le importava. Se il vero amore era quello, capiva perché tutti si struggevano per averlo.


Our Time is Running Out
Our Time is Running Out


Angolo di Fenio:
eh eh,
non so nemmeno da dove cominciare. Faccio schifo lo so ciao. Salto la manfrina in cui mi scuso che tanto la sappiamo tutti a memoria.
Inizio subito col titolo della canzone: Time is Running Out dei Muse. Abbastanza esplicito, lo dice anche Arya a Thorin e voilà, c'è stato il bacio finalmente! Che dire, questo capitolo è stato un parto ma non lo schifo completamente. Buona parte era pronta da mesi ma il corpo centrale non ha voluto saperne di venire fuori per moltissimo tempo, il tempo di una gravidanza in effetti, perciò ecco il mio parto plurigemellare, pronto per voi!
Tutta la parte dell'arrivo a Pontelagolungo, quando vengono scoperti e blablabla non ha voluto comunque uscire, perciò mi sono detta "Fenio, vedi di andare avanti, scrivi quello che ti viene e posta. Il resto lo metterai come flashback." E infatti farò così. Chiedo scusa a tutte le persone che hanno recensito e alle quali non ho risposto, giuro che rimedierò il prima possibile. Ringrazio chiunque abbia ancora la pazienza di seguirmi e chiunque vorrà lasciarmi un commento. Ci ho messo un sacco ad aggiornare e me ne vergogno, ma la mia vita è molto più appassionante di quanto mi potessi aspettare, devo essere sincera. Per quanto ormai ora navighi in altri fandom (Dottore <3) questa è la mia bambina e ha un posto nel mio cuore. Buon Ferragosto in ritardo!
Feniah <3

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