Le spade estratte dalle rocce non hanno foderi

di madychan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Incontro dinanzi la spada ***
Capitolo 2: *** Il ragazzo venuto dal lago ***
Capitolo 3: *** Patto tra cavalieri ***
Capitolo 4: *** La dama che combatte ***
Capitolo 5: *** Cambiamento Radicale ***



Capitolo 1
*** Incontro dinanzi la spada ***


Una delle frasi più ricorrenti che Shirou pronuncia è “non voglio vederti ferita”.

In quei momenti, Arthuria lo odia dal profondo del cuore.

Il suo modo di fare è di qualcuno che non è in grado di vedere che Arthuria, o Saber, prima di essere una donna, è un guerriero.

Che Saber è l’incarnazione di quello che viene ricordato come re Artù: uno dei più famosi condottieri esistiti, tanto da entrare nella leggenda – tanto da spingere qualcuno a credere che lei non sia mai esistita,

perché le sue abilità sono troppo al di sopra di quelle umane.

Shirou non capisce che il ferirsi, così come il combattere – e il vincere –

per lei erano all’ordine del giorno, quando era viva.

 

Ma c’è anche un altro motivo – un taglio ancora più profondo, e più simile a una ferita ancora non rimarginata – per cui Arthuria lo odia, quando lui parla così.

E quel motivo è la straordinaria somiglianza di carattere con lei.

Con quella donna che, anche ora che Arthuria è morta e si ritrova in forma di spirito,

rimane impressa a fuoco nella sua memoria.

Il ricordo di una persona che lei, a posteriori, non avrebbe mai voluto incontrare.

L’unica persona cui lei abbia mai concesso di trattarla come una donna,

prima che come un guerriero.

Perché è stata l'unica che lei abbia mai amato.

 

 

 

 

LE SPADE ESTRATTE DALLE ROCCE NON HANNO FODERI

 

Capitolo primo

Incontro dinanzi la spada

 

 

 

 

Il riflesso dell’alba sul metallo della lama era visibile dalla base della collina.

Arthuria aveva ormai smesso di chiedere a Merlin di accompagnarla a salire il pendio tutte le mattine per vedere quella spada, prima dell’inizio dell'allenamento quotidiano e delle lezioni teoriche; le ultime volte in cui era venuto con lei non aveva fatto altro che lamentarsi per tutto il percorso.

Pensandoci bene, Arthuria aveva riflettuto sul fatto che avrebbe fatto di tutto per non diventare flaccida, e stanca, ed esasperante come lui.

Il suo obiettivo era diventare forte. In modo da essere degna di brandire quell'arma sacra e di governare il regno.

E se la strada per quella forza includeva una scarpinata quotidiana di due ore, iniziata sempre prima dell’alba, per andare a contemplare per pochi minuti l’oggetto che la spronava ad andare avanti su quel percorso, tanto meglio.

Adorava guardare quella spada. Il metallo chiarissimo rifletteva il sole all’alba, spargendo luce bianca intorno a sé; il blu dell’elsa illuminato dai raggi solari diventava ancora più profondo, tanto da perdercisi dentro; e l’oro dava un senso di potenza, e di regalità.

Caliburn[1] era, prima di tutto, tanto magnifica da incantare.

Prima della forza, quello cui pensava quando la vedeva era che sarebbe rimasta a fissarla per ore, solo perché era di una bellezza perfettamente armonica ed eterea.

Arthuria sentiva, nei momenti in cui si rendeva conto di quelle sensazioni provate davanti ad Caliburn, che quello che provava fosse molto simile al sentimento che Merlin le aveva descritto come “amore”.

Adorava quella spada, e non vedeva l’ora di vederla, ogni mattina.

E come tutte le mattine, Arthuria si affrettò a salire il pendio della collina, sulla cui cima c’era la roccia in cui l'arma era saldamente piantata.

Faceva freddo. Era l’inizio della primavera; lungo il percorso, aveva avuto modo di vedere la collina tempestata di fiori non dischiusi per l’ancora poca luce che il sole concedeva alla terra. All’alba si poteva ancora sentire un vento freddo provenire da nord-est.

Merlin le aveva più volte raccomandato di coprirsi, quando andava sul colle; ma il primo pensiero di Arthuria a quelle raccomandazioni era stato che, se si fosse coperta, non sarebbe stata in grado di resistere al freddo quando ne avesse avuto bisogno.

Ogni giorno, quando tornava al castello, si beccava i rimproveri di Merlin per la sua disobbedienza; ma ogni mattina, quando si alzava, usciva con solo la casacca di stoffa leggera e i pantaloni che arrivavano fino al ginocchio, e calzari che le coprivano solo il piede, lasciando scoperto il polpaccio.

Avrebbe avuto tutto il tempo di mettere il mantello una volta diventata re.

Quando arrivò in cima, una folata di vento freddo le trapassò le ossa, arrivandole fin nelle viscere.

Tremò, chiuse gli occhi e strinse i denti, aspettando che terminasse; si abbracciò le braccia, cercando di ripararsi per quel poco che poteva.

Quando riaprì gli occhi, si ritrovò davanti uno spettacolo insolito.

Non era sola.

Davanti a lei c’era una altra ragazzina. Con tanto di capelli lunghi, vestito dalla gonna ampia, e l’aria di chi non è per niente stanco per la camminata fatta.

La lunghezza di Caliburn copriva la visuale a entrambe; l’elsa si parava tra i loro visi, concedendo solo a uno dei loro occhi di incrociare parzialmente il viso dell’altra.

La ragazzina fu la prima, a inclinarsi di lato e a guardarla da sotto l’impugnatura.

Arthuria osservò per un secondo quella cascata di capelli scuri, che alla luce del sole assumevano riflessi di colori tendenti a sfumature di rosso, arancione e oro; e poi, vagò sul suo viso dalla pelle chiara, fino a incontrare i suoi occhi di un colore misto tra l’azzurro e il verde.

Una volta Merlin le aveva fatto vedere il mare. Quello era lo stesso, identico colore.

La ragazzina sbatté le ciglia per due volte, continuando a fissarla dal basso.

E, proprio quando Arthuria fece per parlarle e chiederle chi fosse, lei sorrise. Arthuria sbatté le ciglia, vedendo che i suoi occhi andavano a soffermarsi di nuovo sull’elsa di Caliburn per qualche istante, e poi tornavano a guardare i suoi.

«Avete gli occhi di questo stesso colore.» commentò.

Aveva una voce quasi strana, per essere una ragazzina. Di certo, non particolarmente acuta.

Arthuria spostò lo sguardo da lei all’elsa, a propria volta, e fissò l’azzurro smaltato che si alternava con l’oro e i suoi riflessi chiari dati dalla luce di un sole che stava sorgendo.

«Vi somigliate.» disse ancora l’altra.

Arthuria tornò a guardare lei, sorpresa.

Il suo sguardo dovette essere esplicito nella propria perplessità, perché la ragazzina rise, e si aggrappò all’elsa con una mano, chinandosi di più sotto di essa.

E Arthuria, che fino a quel momento non aveva osato toccare quella spada per il timore reverenziale che nutriva per essa, non poté fare a meno di scrutarla con circospezione, ancora più sconcertata di prima.

Quella ragazzina stava toccando Caliburn come se niente fosse; ci si stava aggrappando come se fosse il ramo di un albero su cui i maschi giocavano arrampicandosi.

«Avete gli stessi colori.» spiegò ancora l'altra, senza scomporsi alla sua occhiata scandalizzata da quella noncuranza che, nei canoni di Arthuria, rasentava l’oltraggio. «Oro, blu, e bianco.»

Arthuria osservò la spada, stupita; non aveva mai pensato di paragonarsi ad essa in quel modo.

Inclinò il viso di lato, arricciando le labbra, e riflettendo su quel paragone.

Oro, blu, e bianco.

Il suo sguardo percorse la lama della spada, rimanendo abbagliato dalla sua lucentezza; poi, salì a contemplare l’elsa, e i riflessi blu e oro.

E poi, proseguì sulla mano della ragazzina, ancora stretta sull’impugnatura, e scese a incrociare di nuovo i suoi occhi color del mare e le sue labbra incurvate in un sorriso.

Non sapeva come interpretare quell’espressione: sembrava cordiale e gentile; ma quella fanciulla non era una persona normale. Il suo istinto glielo stava urlando.

Forse perché era arrivata lì senza la minima fatica, e con tanto di vestito lungo e mantello.

O forse perché la stava distogliendo fin troppo dalla contemplazione quotidiana di Caliburn.

«Siete Arthuria, vero?» domandò alla fine la sconosciuta, facendo perno sull’elsa della spada e passandovi sotto, per poi ritornare eretta e guardarla alla pari.

Era più alta di lei di qualche centimetro.

Arthuria annuì, inclinando impercettibilmente il viso, in una muta domanda sulla sua identità.

La ragazzina si profuse in una riverenza tipicamente da signora: prese il vestito ai lati, lo alzò e fece un inchino.

Anche quel saluto aveva qualcosa di strano; sembrava quasi la stesse prendendo in giro.

«Io sono Guinevere.» disse lei, tenendo la testa chinata di poco, e alzando lo sguardo nel suo. «Vi vedevo uscire sempre dal castello di Lady Igraine all’alba, e mi sono chiesta come mai. Così stamattina mi sono presa la libertà di indire una specie di gara a chi arrivava prima qui.» spiegò, alzandosi dalla sua posizione di inchino, e guardandola negli occhi. «A quanto pare è stato un pareggio, anche se per poco.»

«Una gara?» domandò Arthuria, perplessa – preferì, per il momento, lasciare da parte le domande su chi quella ragazzina fosse e sul perché la conoscesse, e concentrarsi sulla spiegazione al fatto che Guinevere fosse arrivata fino alla cima della collina senza essere minimamente affaticata. «Non mi siete sembrata per niente stanca, quando vi ho vista. Come può essere un pareggio?»

Guinevere sorrise, e inclinò la testa di lato. Poi, agitò un dito all’aria; Arthuria spalancò gli occhi, quando fu colpita da una folata di vento freddo, identico a quello che l’aveva accolta quando era arrivata in cima e l’aveva vista.

Guinevere era una maga.

Ecco spiegata quella sensazione di stranezza che sapeva suscitarle: Arthuria con la magia non aveva quasi niente a che fare. Merlin aveva cercato di introdurla a qualche nozione di incantesimi e spiriti della natura; ma quando aveva dovuto fare i conti con una sua predisposizione verso le arti magiche praticamente nulla aveva rinunciato, preferendo incentrare il suo allenamento sullo sviluppo di resistenza, forza fisica e carattere retto.

«Spiriti del vento di tramontana.» spiegò Guinevere, con un’espressione e un tono che volevano sembrare candidi e innocenti. «Mi hanno portato loro.»

Arthuria spalancò gli occhi, esterrefatta.

«Allora la gara non è valida.» disse, incrociando le braccia e spostando il peso su una sola gamba.

Guinevere non si scompose nemmeno in quel momento.

«Ognuno usa quello che gli riesce meglio.» replicò, abbassando la mano che aveva agitato. «Voi avete la forza fisica e la resistenza. Io gli spiriti della natura.»

«Non è una gara equa, quando l’avversario è un mago.» replicò Arthuria.

Guinevere ridacchiò, e inarcò un sopracciglio. «Ma io sono solo un’apprendista.» spiegò. «Così come voi non siete ancora un guerriero completo, perché vi state ancora addestrando ad esserlo. E poi abbiamo pareggiato.»

Arthuria sbuffò, e si articolò nell’esprimere una smorfia di disappunto.

«Di chi siete apprendista?» domandò. «E come fate a conoscermi?»

«La mia maestra è la maga Cassandra.» spiegò Guinevere. «Ed è anche la donna che mi ha allevato. Viviamo in una capanna nel bosco, poco distante dal castello di Lady Igraine. Vi ho vista una mattina, mentre mi allenavo nel contatto con gli spiriti della natura; voi stavate salendo questa collina.». Arthuria la vide sorridere, e inclinare di nuovo il viso. «La prima cosa che ho pensato è stata che vi sareste presa qualche malanno, a salire la collina solo con questi vestiti.»

Arthuria rotolò gli occhi per l’esasperazione. «Se non alleno la resistenza al freddo, come posso combattere durante l’inverno, o in posti ancora più freddi di questo?»

Il sorriso di Guinevere non accennò minimamente a sparire, e lei annuì. «Certo.» disse. «Ma è mia modesta opinione che la resistenza alle basse temperature andrebbe allenata senza prendersi malanni, come rischiate di fare voi. Se ci si ammala, si perdono giorni di allenamento, la gente intorno a voi si preoccupa, e soprattutto, nel peggiore dei casi, si rischia di diventare ancora più vulnerabili al freddo.»

Arthuria la fissò, storcendo le labbra in una smorfia: suo malgrado, il ragionamento di Guinevere non faceva una piega. Ma non voleva dargliela vinta.

«Cosa mi consigliate di fare, dunque, per non rischiare di ammalarmi?» domandò, inarcando un sopracciglio.

Guinevere non colse la sua provocazione arrabbiandosi; sorrise di nuovo, stavolta con un fare quasi ironico, e si tolse il proprio mantello, rivelando di indossarne uno che sembrava più leggero del primo.

Guinevere prese in una mano il mantello leggero, di colore tendente al marrone chiaro, e glielo mise sulle spalle, avvolgendole la schiena e il collo.

«Tra i punti più sensibili al freddo ci sono la schiena e il collo.» spiegò, mentre glielo legava davanti. «Coprite quelli, e avrete fatto metà dell’opera.»

Poi, Arthuria la fissò mentre si rimetteva il proprio mantello, visibilmente più pesante di quello che aveva dato a lei.

«Vogliate perdonarmi se non vi ho concesso l’uso del mio mantello.» disse Guinevere; sorrideva ancora. «Ho pensato che avreste preferito avere un mantello più leggero, per proteggervi giusto il necessario, e poi allenare la vostra resistenza alle basse temperature.»

«Infatti è quello che voglio fare.» replicò Arthuria, riscuotendosi, e annuendo. «Vi ringrazio per la premura.»

Guinevere fece spallucce. «Questo e altro, per il nostro futuro re.»

Arthuria spalancò gli occhi, esterrefatta.

Aveva detto “re”?

D’istinto, gettò un’occhiata alla spada ancora incastonata nella roccia, sorpresa.

«Non è ancora il momento giusto.» disse Guinevere, riscuotendo di nuovo la sua attenzione.

Arthuria la fissò, perplessa.

«Non siete ancora pronta a diventarlo.» proseguì lei. «Dovete ancora imparare cosa siano davvero la rettitudine e la giustizia. Solo allora sarete veramente consapevole di cosa significhi diventare re, e delle responsabilità graveranno sulle vostre spalle dal momento in cui estrarrete questa spada dalla roccia.» spiegò. Poi, si voltò a guardare Caliburn, e sorrise. «Ma siete sulla buona strada.» aggiunse. «Avete determinazione, ed entusiasmo. Se continuerete in questo modo, non ho dubbi che Caliburn sceglierà voi, come nuovo re del Paese.»

Arthuria la fissò, sorpresa.

Sarebbe stata davvero lei?

No… in quel discorso c’era qualcosa che non tornava.

«Avete detto “sceglierà”.» commentò, rendendosi conto di cosa fosse. «Il che significa che Caliburn non ha già stabilito chi sarà il suo possessore?»

«Il possessore di Caliburn non è predestinato.» disse Guinevere, tornando a guardare lei. «Qualunque persona con un cuore retto, e animata da senso di giustizia, e conscia delle responsabilità che portare Caliburn e diventare re comporterebbe, potrebbe estrarla da questa roccia.» spiegò. «Ma ahimè, la Britannia in questo momento è carente di persone di questo genere. E quelle che lo sono hanno perlopiù la vostra età, e con l’avanzare degli anni cambiano.». Guinevere la guardò, e sorrise. «Voi vorreste questa spada, Arthuria?»

Arthuria guardò di nuovo Caliburn, inclinando il viso di lato come per osservarla meglio.

«Penso che chiunque la voglia. Quindi sì, la vorrei anche io.» confessò. «Anche se vi confesso che non so esattamente il motivo, Guinevere. Ho sempre pensato di voler diventare forte per poter diventare re. Anche se sono una femmina, e magari non potrò mai raggiungere la forza fisica che può avere un maschio, cerco in tutti i modi di sopperire alla differenza.» disse. «Ma quando arrivo qui, è come se tutta quella voglia di diventare forte… non dico che sparisca; ma di sicuro passa in secondo piano. E il primo posto diventa di Caliburn in sé. Come spada, e come segno di giustizia.» commentò, allungando una mano verso l’elsa – ma senza osare toccarla. «Spesso mi sono chiesta se sia giusto il mio volerla. Anche il mio voler diventare re. So che Merlin mi sta educando per quello; ma quando arrivo qui, mi chiedo sempre se io sia degna anche solo di toccarla.». Ridacchiò, e abbassò la mano. «Non so nemmeno cosa siano concretamente questi grandi ideali di giustizia e di rettitudine di cui mi si parla. L’unica cosa che vorrei è essere degna di toccare questa spada. Magari anche di estrarla.»

Guinevere rimase in silenzio per qualche istante – tanto che Arthuria si voltò, per scrutare le sue reazioni.

«Avete la purezza di un bambino.» considerò alla fine l’apprendista maga.

Arthuria si irritò, e fece schioccare la lingua. «Così mi offendete.» le fece notare.

«Non era mia intenzione. Tutt’altro.» replicò Guinevere, sorridendo. «Vi prego solo di mantenere questa purezza, nel corso della vostra vita. Non scambiate la vostra innocenza con null’altro, prima di prendere questa spada.»

Arthuria si accigliò, notando che Guinevere aveva concluso la frase lasciando intendere che dopo non avrebbe avuto più l’innocenza che le sarebbe stata necessaria per estrarre Caliburn; ma quando fece per chiedere spiegazioni, Guinevere sollevò lo sguardo verso il cielo, e sorrise.

«Credo che siate in ritardo.» considerò. «Il sole si è levato già da qualche minuto.»

Arthuria sollevò lo sguardo a propria volta, a contemplare il sole, la cui luce trapelava tra i cumulonembi ammassati sopra la Britannia.

Le tonalità di grigio delle nuvole, il colore biancastro del cielo, e la luce dorata che si espandeva ovunque; erano uno spettacolo talmente mozzafiato, che per qualche attimo lei si bloccò a fissarlo, rapita.

Voltando lo sguardo, vide che anche Guinevere stava facendo lo stesso, con il sorriso sulle labbra.

Guinevere sembrò accorgersi di essere osservata, perché si voltò verso di lei, e le sorrise ancora più ampiamente di prima.

«Ci rivedremo domani.» disse. «Anche io devo iniziare l’addestramento quotidiano tra poco.»

Arthuria sorrise, e annuì.

«A domani, allora.» disse.

Guinevere chinò la testa davanti a lei, in segno di saluto.

Arthuria si voltò, e iniziò a correre lungo il sentiero della collina.

«Mi aspetto una vostra vittoria, nella gara di domani!»

La voce di Guinevere la fece fermare.

Voltandosi, si accorse di essere scesa di parecchio, in quei pochi secondi; eppure, riusciva a sentirla ancora perfettamente, come se fosse lì di fianco a lei.

Alzò lo sguardo per fissarla; e sorrise, al vedere i suoi capelli agitarsi, forse preda di qualche spirito del vento, e il suo intero viso sorridere, sinceramente, come una bambina.

Annuì e si voltò, riprendendo a correre.

Il suo percorso in discesa, invece dei soliti pensieri su Caliburn e sul diventare forte in modo da estrarla, quel giorno si concentrarono sulla gioia di aver conosciuto una persona in grado di capire le sue aspirazioni, e con cui incontrarsi il giorno dopo.

 

Quella notte, prima di addormentarsi, il pensiero di Arthuria tornò alla Guinevere sulla cima della collina che le urlava di vincere il giorno dopo; ai suoi capelli scuri mossi nel vento, al suo mantello rosso cupo, e ai suoi occhi luminosi che parevano sorridere.

La sua figura era stata, per qualche attimo, circondata dalla luce del sole che la lama di Caliburn rifletteva.

E per qualche istante, ripensandoci, Arthuria pensò che fosse qualcosa di bellissimo – molto più incantevole della luce del sole mattutino che trapelava tra le nuvole.

Avrebbe vinto, il giorno dopo.

Era un’amichevole battaglia aperta.

 

 

Note sui personaggi

Arthuria Pendragon: versione femminile del nome di King Arthur (italianizzato: Re Artù).

Guinevere: versione inglese del nome Ginevra. Nella leggenda originale, Guinevere non era né una maga, né figlia adottiva di Cassandra; era, invece, figlia del Re Leondegrade (uno dei Cavalieri della Tavola Rotonda), e sposa di Arthur.

Merlin: versione inglese di Merlino, il mago che contribuì alla nascita di Arthur(ia), che si occupò della sua istruzione durante l’infanzia e l’adolescenza, e che fu il suo consigliere quando questi divenne re.

Cassandra: maga. Personaggio inventato dall’autrice.

Lady Igraine: madre di Arthur(ia), che concepì con re Uther. È, altresì, la madre di Morgana, storicamente concepita con il primo marito, il duca di Tintagil.

Caliburn: conosciuta come la Spada nella Roccia. Viene spesso identificata con Excalibur, ma nella leggenda originale le due spade erano probabilmente differenti, e la spada che doveva essere estratta dalla roccia per ottenere il titolo di re era Caliburn; Excalibur, invece, viene donata dalla Dama del Lago ad Arthur(ia) successivamente.

 

Le vicende: è un pezzo completamente inventato, rispetto alle leggende originali, come buona parte delle vicende che verranno raccontate nei capitoli successivi. Nelle leggende del ciclo bretone, Guinevere e Arthur non si sono conosciuti in tenera età, né, tanto meno, Arthur andava a vedere Caliburn tutti i giorni, né Guinevere viveva in un bosco ed era una maga.



Postfazione importante (o forse no)
Salve a tutti. ^^ Spero che il primo capitolo vi sia piaciuto. O quantomeno vi abbia interessato.
Alcune note che potrebbero essere di chiarimento.
Questa è una fanfiction incentrata principalmente sulla storia di Arthuria, quindi di parti a carattere Fate/Stay Night se ne vedranno in numero limitato. Siccome sono una brutta e cattiva secondary (ergo: ho visto solo l'anime, e ho iniziato a giocare alla VN, ma abbiate pietà: ho anche trecentocinquantatré Final Fantasy da recuperare e un po' di altre cose da fare), questa dovrebbe essere una cosa positiva. Sperando di non beccare comunque strafalcioni mentre scrivo quei piccoli cenni.
Sostanzialmente tutto questo è nato per farmi andare bene la Shirou x Saber che ci hanno propinato alla fine dell'anime.
Quindi non mi stupisco che quella che doveva essere una one-shot sia diventata una long fic.
(non è vero, non è quello il motivo, è solo che... sono io.)
Ma comunque, essendo una riscrittura delle leggende arturiane un po' diversa dalle leggende cui si è abituati, direi che per me è interessante scriverla.
Ultima cosa (per ora): al momento la storia conta quattro capitoli. ...Il problema è che sono ferma da tre anni nella scrittura del quinto. XD C'è da dire che però nel frattempo mi sono liberata di diverse cose che mi bloccavano dallo scrivere. Quindi, per ora cercherò di pubblicare un capitolo al mese, e nel frattempo continuerò a scrivere. ^^
(Ricordatevi che le recensioni sono sempre ben accette. :3 )
Bene, per ora è tutto. Alla prossima. ^^
-mady

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Capitolo 2
*** Il ragazzo venuto dal lago ***


Capitolo secondo

Il ragazzo venuto dal lago

 

 

 

 

«Ho vinto di nuovo io, Arthuria.»

Arthuria digrignò i denti al vedere Guinevere che la guardava dall’alto della collina di Caliburn, con un sorriso trionfante a incurvarle le labbra.

Andava a finire così tutte le mattine, da due anni a quella parte; e tutte le mattine lei continuava a guardarla con quel sorriso sornione, soddisfatta di chissà cosa ormai.

Arthuria sospirò, e si chinò ad appoggiarsi sulle ginocchia. Le sue corse mattutine non erano ancora sufficienti a batterla.

«Allora? Allora?» domandò Guinevere girandole intorno, allegramente. «Hai qualche scusa, per stamattina?»

«Nessuna. Un futuro re non accampa scuse.» replicò Arthuria, sollevando gli occhi per guardarla, con un sorriso soddisfatto di sé: era una sua abitudine, quella di tentare di estorcerle una qualche giustificazione per il ritardo e per la perdita, ma Arthuria su quello era sempre stata ferrea: la colpa era solo sua, e della sua ancora poca resistenza.

All’inizio aveva pensato che, con quel giochetto, Guinevere volesse metterla alla prova, e vedere se si sarebbe assunta le proprie responsabilità, o avrebbe demandato la colpa a qualcun altro – una cosa che chi voleva estrarre Caliburn probabilmente non avrebbe dovuto fare; e Arthuria, abituata da sempre a proteggere l'onore come uno dei valori più importanti, non si sarebbe mai sognata di dare la colpa della perdita di quella gara a qualcun altro che non fosse sé stessa.

Dopo qualche tempo, però, si era resa conto che Guinevere verosimilmente lo faceva solo per divertimento.

Rideva sempre, dopo che Arthuria le aveva risposto con la solita formula. E così fece anche quel giorno, stringendosi nelle spalle e mostrandole i denti, mentre rideva.

Arthuria la osservò, e sorrise a propria volta, per poi tornare eretta.

Era bella; forse era dovuto all’essere ormai una donna, dato che aveva quattordici anni – due in più di lei; o forse erano gli spiriti del vento, che volandole intorno riuscivano a creare qualche strano effetto aereo per cui lei sembrasse più bella di quello che in realtà era.

O forse era semplicemente il suo sorriso. La sua allegria. I suoi capelli castano scuro, la pelle chiara, gli occhi chiari e l’armonia che riuscivano a creare su di lei, tanto da illuminarla più di quello che avrebbe fatto il sole.

Eppure sentiva che ci fosse qualcosa, oltre all'armonia del suo viso, tale da impedirle di distogliere lo sguardo da lei; ma non aveva mai capito cosa fosse.

Fu Guinevere, quella volta, a voltarsi e a rivolgere lo sguardo verso il declivio della collina dietro di lei; Arthuria la seguì con gli occhi.

Davanti a loro si parò un ragazzo che doveva avere più o meno la stessa età di Guinevere; aveva i capelli neri, lunghi fino alle spalle, e gli occhi scuri, e vestiva lo stesso tipo di abiti di Arthuria: una casacca, un paio di pantaloni di tela, e un paio di calzari che coprivano solo i piedi.

«Hai perso su tutti i fronti, Lancelot.» lo apostrofò subito Guinevere, ridacchiando, appena lui mise piede sulla sommità della collina. «Siamo arrivate tutt’e due prima di te.»

Il ragazzo, in risposta, rilassò le spalle ed emise un suono di stanchezza mista a disapprovazione, accasciandosi sulle ginocchia esattamente come aveva fatto Arthuria qualche attimo prima.

Dal canto proprio, Arthuria lanciò un’occhiata a Guinevere, sorpresa da quella che istintivamente considerò un’intrusione nel poco tempo che trascorrevano insieme. Certo, erano pochi minuti passati sedute a guardare Caliburn e a parlare di tutto e di niente; ma erano diventati importanti, e Guinevere era l'unica persona con cui fosse mai riuscita a parlare apertamente. Non era contemplato qualcun altro, in quell'angolo di vita che doveva essere solamente loro.

Per di più, Lancelot era un maschio; e come se non bastasse, aveva apparentemente la stessa età di Guinevere.

Il primo pensiero che attraversò la mente di Arthuria fu che non si sarebbe dovuta stupire, se Guinevere avesse provato qualcosa per lui, e l’avesse portato lì perché lo considerava importante e voleva condividere con lui la vista di Caliburn.

Invidiò il suo corpo maschile all’istante.

Invidiò lui, e il suo essere nato come uomo e non come donna.

Guinevere si voltò verso di lei proprio in quel momento, cogliendola quasi alla sprovvista.

Si chiese se i maghi potessero leggere nel pensiero. Si chiese se Guinevere avesse letto nei suoi, e avesse capito qualcosa.

Cosa, poi?

Scacciò quelle riflessioni all'istante, e guardò prima lei, poi Lancelot.

Che ci faceva lei, ancora lì?

«Non ci posso credere!» esclamò lui, alzando lo sguardo verso Arthuria. «Ma tu sei anche più piccola di me!»

Guinevere ridacchiò, mentre Arthuria istintivamente si mise sulla difensiva, senza pensare sulle prime a quella confidenza da lui adottata fin da subito. Non fece in tempo a parlare, però, che Lancelot proseguì, rivolgendosi a Guinevere.

«Con te potevo anche aspettarmelo, Guinevere! Bari!» esclamò lui, puntandola. «Ma lei…»

«Lei viene qui da diversi anni, tutte le mattine. È naturale che sia molto più allenata di te.» replicò Guinevere, con un sorriso sornione stampato in viso. «E poi io non baro, Lancelot! Sei tu che hai accettato la sfida, sapevi che avrei usato gli spiriti del vento. Adesso non lamentarti se sei lento come una lumaca! Abbiamo pure fatto in tempo a parlare per un paio di minuti!» aggiunse, mettendo le mani sui fianchi.

Lancelot si espresse in una smorfia contrariata rivolta a Guinevere, e poi si voltò a guardare Arthuria, che assottigliò gli occhi al suo indirizzo.

Lui però non la prese di nuovo in giro, né l’attaccò; al contrario, si inchinò davanti a lei, abbassando il busto e mettendo una mano sull’addome.

«Perdonate la mia scortesia.» disse. «Sono Lancelot, figlio adottivo della Dama del Lago.»

Arthuria spalancò gli occhi, dapprima sorpresa per la presentazione e per il cambio di atteggiamento improvviso. Si rese conto solo dopo qualche attimo che quel ragazzo aveva detto di avere un legame con la Dama del Lago, e rimase ancora più stupita: sapeva che era uno degli spiriti della natura più potenti di quella zona, Merlin l'aveva a lungo decantata come tale.

Lancelot si risollevò prima che lei potesse considerare altro a suo riguardo; Arthuria rispose all'inchino facendone uno anche più profondo del suo.

«Io sono Arthuria Pendragon, figlia di Uther Pendragon e di Lady Igraine.» si presentò. «I miei omaggi, messer Lancelot.»

Quando sollevò a propria volta lo sguardo e il busto, vide Guinevere ridacchiare e lanciare un’occhiata a un esterrefatto Lancelot.

«Non usare troppi riguardi con lui, Arthuria.» le consigliò lei. «Un semplice “tu” andrà benissimo.»

«Ma…» azzardò Arthuria perplessa, voltandosi a guardare Lancelot, che la stava ancora fissando con quell’espressione allibita.

«Tu sei la figlia del re? La figlia di Uther Pendragon?» esclamò lui mentre le si avvicinava, evidentemente per guardarla meglio. «Avevo sentito che il suo unico erede in realtà era una femmina, ma…»

«...“Ma” cosa, Lancelot?» domandò Guinevere.

Lancelot tornò a rivolgersi a Guinevere, con il disappunto di Arthuria per quella frase fermata a metà.

«Nulla.» disse lui. «Solo che non mi aspettavo di incontrarla veramente, ecco. E soprattutto, non pensavo che fosse così forte da battermi in una gara di velocità.» aggiunse lui, tornando a rivolgersi ad Arthuria, e sorridendole. «Perdona la mia scortesia di prima, davvero. È che ero troppo stupito dell’essere stato battuto.» disse, porgendole la mano.

Arthuria abbassò gli occhi a guardarla, sorpresa; poi, tornò a scrutarlo attentamente, ponderando bene se stringerla o no.

Stava dicendo il vero? O stava mentendo?

I suoi occhi sembravano sinceri, nonostante tutti i presupposti e l’atteggiamento da persona tracotante: erano limpidi, e guardavano dritto nei suoi. E il suo sorriso era ampio, da persona affabile.

Abbozzò un sorriso a propria volta, prendendo la sua mano nella propria e stringendola.

«Non importa. È una reazione ragionevole.» disse, annuendo.

«E scusalo anche se ti dà del “tu” senza chiedertelo.» intervenne Guinevere, riscuotendo la loro attenzione. «Lo fa con tutti. Cerca di non sembrarlo, ma in realtà è un bonaccione.» disse, battendogli una mano sulla spalla, con un sorriso sarcastico.

Forse quello era il modo di fare di Guinevere nei confronti di tutti?

O si comportava così solo con Lancelot?

In quel momento, Arthuria si rese conto di sapere veramente poco di lei, malgrado si conoscessero da due anni.

E si rese conto che avrebbe voluto conoscerla molto di più, in modo da saper interpretare le sue reazioni, i suoi modi di fare, le sue espressioni.

«Va bene.» disse, distogliendo a forza lo sguardo da lei, e tornando a osservare Lancelot. «Mi permettete di fare lo stesso, Lancelot?»

Lancelot reagì mostrando un sorriso ancora più ampio, e annuendo. «Certo! Mi pare il minimo.» replicò, stringendole ancora di più la mano, con fare affabile.

Arthuria tornò ad abbozzare un sorriso, davanti a tutto quell’entusiasmo e amabilità, che finora aveva visto solo in Guinevere; loro due erano tanto simili da farle pensare che si conoscessero da tempo e avessero, in qualche modo, adottato l’uno gli atteggiamenti dell’altra.

«Immagino ti starai chiedendo cosa ci faccia uno come lui qui, Arthuria.» commentò Guinevere, una volta che lei e Lancelot ebbero sciolto la stretta di mani. «Ho pensato che avrebbe potuto essere un tuo buon rivale in allenamento. Anche lui mira ad estrarre Caliburn dalla roccia, un giorno, e la sua intenzione è di allenarsi con quell'obiettivo in mente. Praticamente la pensate uguale.» concluse, sorridendo; sembrava divertita da quella coincidenza. «Che ne dite? Potreste farlo, no?»

Arthuria spostò lo sguardo da lei a Lancelot, sorpresa dalla motivazione per cui lui si trovava lì.

L’idea non era poi così male: allenarsi al castello era diventato complicato, dato che gli unici avversari disponibili che Arthuria aveva erano dei ragazzini figli dei servitori, che acconsentivano ad allenarsi con lei ma non avevano la minima cognizione dell’uso della spada; oppure, Arthuria a volte si ritrovava a duellare con alcuni cavalieri del seguito di suo padre, che riuscivano solo a darle l’impressione di non star facendo sul serio, e la lasciavano vincere sempre.

Nessuno confidava nel fatto che lei sarebbe potuta diventare forte; nessuno confidava davvero nel fatto che lei avrebbe potuto succedere a suo padre, ed estrarre quella spada dalla roccia.

Nessuno la prendeva sul serio come l’erede che Uther Pendragon aveva scelto per sé, nonostante le volontà di Uther stesso dicessero l’esatto contrario.

Arthuria vide Lancelot sorridere e accarezzarsi il mento, in un atteggiamento quasi critico.

E lei in tutta risposta assottigliò gli occhi, sempre più piccata dal suo atteggiamento ad ogni secondo che passava.

«Considerando che è riuscita a battermi nel risalire la collina, direi di sì.» considerò lui, cogliendola quasi alla sprovvista; Arthuria desiderava che lui pronunciasse quelle parole, ma non aveva osato sperarci. «Hai una minima cognizione di come si usi una spada, immagino.» proseguì lui, rivolgendosi direttamente ad Arthuria.

Arthuria non seppe che rispondere, sulle prime: non si aspettava che lui accettasse la proposta di Guinevere. Non aveva pensato a nessuna risposta adatta da dargli.

«Sì. Certo che ce l’ho.» fu tutto quello che riuscì a proferire, cercando di darsi un contegno che, ne era sicura, non riuscì ad adottare per la troppa sorpresa.

«Più che minima.» aggiunse Guinevere, al suo posto. «Da quello che ho visto, la sa usare bene.»

Arthuria sgranò gli occhi, sorpresa, e si voltò verso di lei, chiedendole con lo sguardo quando avesse avuto occasione di spiarla mentre si allenava al castello.

«Questo lo vedremo.» disse Lancelot, facendo per estrarre la propria spada.

«Aspetta, aspetta, aspetta!» lo fermò Guinevere, piazzandosi davanti a lui. «Arthuria ora deve scendere al castello. Di solito sta qui solo fino all’alba. Giusto?» domandò lei, rivolgendosi direttamente all’interessata.

Arthuria sobbalzò, e annuì.

«Parlerò con Merlin.» disse, rivolta a Guinevere. «Di sicuro acconsentirà a farmi allenare con lui. Credo sia il più valido, tra le persone disposte ad aiutarmi ad apprendere a dovere l’uso della spada.». Poi, si rivolse a Lancelot. «Questo sempre se tu hai il tempo e la volontà di farlo, Lancelot.»

Lancelot inarcò un sopracciglio, e sorrise sarcasticamente. «D’accordo. Vedremo domani come te la cavi.» acconsentì. «Fatti trovare qui prima dell’alba. Vedremo quello di cui sei capace, e a partire da quello deciderò il da farsi.»

Arthuria sorrise, entusiasta della cosa; malgrado il tono e le parole di Lancelot, degne di chi si riteneva superiore a qualcun altro, intuì dal suo sguardo che stava facendo così solo per prenderla amichevolmente in giro. Un modo di fare da bonaccione, esattamente come aveva detto Guinevere appena gliel’aveva presentato.

Ciononostante, si inchinò davanti a lui, grata della sua disponibilità ad allenarla. Merlin le aveva detto che la Dama del Lago era abilissima nell'uso della spada, e il fatto che Lancelot fosse suo figlio adottivo rendeva la sua preparazione in merito non indifferente, almeno nella teoria; averlo come compagno di allenamenti sarebbe stato sicuramente qualcosa di produttivo.

«Ti ringrazio, Lancelot.» disse. «E anche te, Guinevere. Anche se non so come tu faccia a sapere le condizioni in cui mi alleno al castello, ti ringrazio per aver pensato di presentarci.» aggiunse, per poi sollevare lo sguardo verso di loro.

Accostati così, non riuscì a fare a meno di pensare che fossero una coppia perfettamente assortita. Sembravano capirsi a vicenda, e parevano molto legati.

Istintivamente e senza riuscire a controllarlo, nella sua mente si parò di nuovo il rimpianto di non essere nata a propria volta uomo – di non essere nata nelle spoglie di Lancelot, addirittura.

Si inchinò di nuovo, cercando di mascherare l’espressione del proprio viso, sicuramente diventata più pensierosa e meno entusiasta; tentò di cancellare quelle riflessioni, attraverso altri pensieri più urgenti. «Scusatemi.» disse. «Ora devo proprio andare. Ci vediamo domani. Grazie ancora a tutt’e due.»

Alzando la testa, vide Guinevere sorriderle.

«A domani.» disse.

Arthuria non si voltò verso Lancelot per vedere la sua espressione.

Annuì e si inchinò di nuovo, brevemente, per poi voltarsi e scappare via.

L’espressione sorridente di Guinevere la tormentò per tutto il tragitto.

 

 

«Aveva una faccia strana.» fu la prima considerazione di Lancelot, quando entrambi videro Arthuria raggiungere i piedi della collina, e correre a perdifiato lungo il sentiero che portava al castello di Lady Igraine.

Guinevere rimase per qualche istante a fissare ancora la sua schiena, ormai diventata minuscola.

Aveva notato anche lei l’espressione con cui Arthuria li aveva lasciati. Eppure, non riusciva a capire da dove arrivasse.

Pensava, tutto sommato, di aver fatto qualcosa di buono, invitando Lancelot ad allenarsi con lei; e sapeva che lui, malgrado tutta la propria tracotanza – finta, e lo avevano capito tutt’e tre –, avrebbe acconsentito il giorno dopo, qualunque fosse stato il grado di apprendimento di Arthuria.

Eppure, nel momento stesso in cui Lancelot si era presentato davanti a loro, aveva notato l’espressione che Arthuria aveva fatto.

L'aveva vista completamente smarrita: la sua faccia era quella di chi aveva appena perso qualcosa di importante e non capiva come, né perché.

E il primo pensiero era stato che Arthuria avesse pensato di aver perso lei.

Guinevere inclinò la testa di lato, e assottigliò gli occhi.

Forse non aveva fatto così bene, a invitare Lancelot. Ma non aveva visto altra via d’uscita, quando aveva avuto modo di costatare le persone con cui Arthuria si allenava: o erano servitori più o meno della sua stessa età che non sapevano usare una spada, o erano cavalieri del re che la lasciavano vincere senza insegnarle nulla; Merlin non era il più adatto, a insegnare l’uso delle armi; e tanto meno potevano esserlo Lady Igraine, o Morgana, la sorella maggiore di Arthuria.

Se voleva diventare forte, aveva per prima cosa bisogno di un buon maestro; e Guinevere aveva ritenuto una fortuna incontrare Lancelot, dato che lui poteva essere l’insegnante perfetto per lei. La Dama del Lago, oltre a essere uno degli spiriti della natura più potenti ancora esistenti al mondo, era esperta nell'uso della spada, e aveva uno degli eserciti di spiriti spadaccini più forti del Paese, da quello che sapeva; sicuramente aveva trasmesso le proprie conoscenze anche al figlio adottivo, rendendolo uno dei ragazzi più forti della Britannia.

Però… Arthuria, nel momento stesso in cui aveva visto Lancelot, non era sembrata così entusiasta.

E Guinevere aveva capito che era perché pensava che lei e Lancelot avessero una qualche relazione amorosa che automaticamente l’avrebbe esclusa, gradualmente, dal trio che Guinevere aveva intenzione di formare.

«Anche tu hai una faccia strana.» considerò Lancelot, interrompendo i suoi pensieri.

Guinevere si voltò verso di lui, sorpresa da quell’interruzione.

Lo scrutò per un attimo, fissando i suoi occhi neri.

Poi sorrise, e scosse la testa, tornando a guardare la schiena di Arthuria, che si avvicinava sempre di più verso il castello.

Una relazione amorosa con Lancelot. Probabilmente non l’avrebbe potuta avere nemmeno tra un milione di anni.

«Stai pensando a qualcosa di strano.» suppose Lancelot, con tono da cospiratore. «Tu sai perché aveva quell’espressione, vero?»

Guinevere ridacchiò, e lo guardò con la coda dell’occhio, inarcando un sopracciglio.

«Sì, credo di sì.» rispose. «Posso farti una domanda?»

Lancelot inarcò un sopracciglio di rimando, in un muto invito a proseguire.

«Tu pensi che potremmo mai avere una qualche storia amorosa insieme?» domandò Guinevere.

Lancelot, di tutta risposta, sgranò gli occhi.

«Guinevere!» esclamò, con un atteggiamento esasperatamente teatrale. «Queste sono proposte che dovrebbero fare gli uomini, non le donne!»

Guinevere scoppiò a ridere, e gli diede uno spintone. «Non è una proposta, scemo!» esclamò. «E rispondi alla mia domanda!»

Lancelot ridacchiò e inclinò il viso di lato, soffermandosi per qualche istante a esaminarla.

«Mah, chissà. Forse in futuro.» considerò, con tono da sufficienza. «Ma ora come ora, direi proprio di no. E penso che, visti i presupposti, non l’avremo nemmeno in futuro.»

«I presupposti?» domandò Guinevere, con un sorriso divertito.

«I presupposti, sì.» confermò Lancelot, annuendo. «Tutte le donne di cui mi sono innamorato fino ad ora hanno fatto breccia nel mio cuore fin dal primo incontro.» spiegò, mettendosi una mano sul petto ed assumendo di nuovo un’espressione teatrale che fece ridacchiare Guinevere. «Con te non è successo.» aggiunse lui, voltandosi verso di lei, e tornando lievemente serio. «Quindi direi di no. Guinevere, sono desolato, ma devo rifiutare la tua proposta.» concluse, inchinandosi e prendendole la mano sinistra, sempre più platealmente.

Guinevere rotolò gli occhi, con fare esasperato, e scosse la testa. «Non era una proposta!» ribadì. «Era solo una domanda di curiosità.»

«Nata da quello che lei deve aver pensato quando mi ha visto, giusto?» domandò lui, alzando lo sguardo, e voltandosi verso il pendio della collina da cui era scesa Arthuria.

Guinevere sorrise, e annuì.

«Tiene molto a te.» commentò ancora Lancelot, lasciandole la mano.

«Beh, credo di essere l’unica con cui riesce a parlare davvero.» commentò Guinevere, sorridendo, intenerita dal legame che Arthuria aveva instaurato con lei. «E lei è la prima persona, oltre alla mia maestra, con cui abbia parlato.» aggiunse.

«È per questo che mi hai chiesto di aiutarla con la spada?» domandò Lancelot.

Guinevere si voltò verso di lui, e lo vide sedersi a terra, poco distante dalla roccia in cui era conficcata Caliburn.

«Per questo cosa?» domandò.

«Per il rapporto che avete.» replicò lui, sollevando gli occhi nei suoi. «Per l’amicizia che vi lega.»

Guinevere sorrise, e annuì.

«E perché comunque devo riconoscerlo.» aggiunse, tornando a voltarsi verso il castello di Lady Igraine. «Avendo come maestra la Dama del Lago, sei indubbiamente uno degli spadaccini più abili della Britannia. Anche se sei lento come una lumaca.»

Lancelot sbuffò; ma quando Guinevere si voltò verso di lui, lo vide sorridere, e scuotere la testa.

«Ricordati che devi insegnare anche a me a combattere, eh!» aggiunse Guinevere, sedendosi all’altro lato della pietra, dalla parte opposta alla sua.

Lancelot si voltò verso di lei, e inarcò un sopracciglio, sorridendole.

«E tu ricordati che mi hai promesso di insegnarmi gli incantesimi che possono essere utili in combattimento.» disse.

Guinevere annuì. «Non preoccuparti. Noi maghi sappiamo bene l’importanza dello scambio equivalente.» replicò, per poi sdraiarsi sull’erba, e mettersi a contemplare le nuvole in cielo.

Vagando sopra di sé, i suoi occhi incontrarono di nuovo Caliburn.

Guinevere sorrise, assottigliando gli occhi al riflesso della luce del sole sulla lama.

E non potendo fare a meno di pensare, come ogni volta che la vedeva, che quella spada avesse gli stessi colori di Arthuria, e fosse fatta apposta per lei.

 

 

 

La lezione di storia antica era esasperante.

Arthuria sapeva dell’importanza che Merlin dava alla storia: per lui era un metodo per imparare dagli errori fatti dai re del passato coi popoli da loro comandati, e per evitare di farli nel presente.

Ciò non toglieva, comunque, che la lezione di storia fosse a dir poco noiosa.

Arthuria avrebbe voluto non considerarla così – Merlin le aveva già detto mille e più volte, quando la sorprendeva distratta durante qualche lezione, che se fosse divenuta re avrebbe avuto a che fare più con materiale scritto su cui concentrarsi, che con guerre, dato che queste stavano per essere risolte da suo padre, e il suo sarebbe stato un regno presumibilmente pacifico; ma lei non riusciva a distogliere la testa dal fatto che avrebbe preferito mille volte di più essere su quella collina ad allenarsi con Lancelot e in compagnia di Guinevere, piuttosto che lì ad ascoltare le disfatte di qualche re del passato più remoto, che non aveva avuto occasione di imparare dagli errori dei re prima di lui solo perché un passato da cui imparare non l’aveva proprio.

Arthuria osservò distrattamente il libro di storia che Merlin le aveva procurato, aperto sulla pagina in cui si parlava di Gilgamesh e dell’origine dei regni a partire da quello di Babilonia.

Il modo di fare storia di Merlin non era cronologico: sceglieva lui quale argomento affrontare e quale regno e regnante farle studiare, il giorno stesso, con quel criterio che, da quello che aveva concluso Arthuria, era tipico di chi decideva cosa fare in base all’umore con cui si alzava la mattina. Era capitato più di una volta che, a causa di quel metodo, avessero affrontato lo stesso argomento più di una volta.

Emblematico era il caso del re su cui verteva la lezione di quel giorno: Gilgamesh. Decantato dal libro di storia come il primo re in assoluto, che aveva governato da Babilonia il Mondo Unito, Gilgamesh era l’esempio lampante del re che non aveva potuto prendere esempio dai sovrani del passato; ma di sicuro, era stato d’esempio per i re successivi. Almeno nella loro infanzia, perché da quello che sapeva, molti re successivi a Gilgamesh avevano fatto ben peggio di lui.

Arthuria sapeva la sua storia praticamente a memoria: era la terza volta che affrontavano quella lezione.

Nel capitolo dedicato a lui sul libro era riassunta, sommariamente, la sua Epopea. E Arthuria aveva chiesto più di una volta a Merlin di fargliela leggere, in modo che potesse prendere meglio esempio dal primo Re e non ripetere i suoi errori; ma il mago non era ancora riuscito a procurargliela.

Scorse il paragrafo, fino ad arrivare a quella frase che, sin dal primo momento in cui l’aveva letta, era rimasta impressa nella sua mente per la stranezza della situazione.

Non aveva mai chiesto spiegazioni a Merlin; e Merlin non le aveva mai nominato la questione, dato che si trattava di una semplicissima frase che sembrava buttata lì, più simile a una congettura dello scrittore del libro, che ad una realtà vera e propria.

Ma dato che era la terza volta che affrontavano quel re, era la volta buona di chiedere delucidazioni al suo precettore.

«Merlin.» lo richiamò, interrompendolo nella sua declamazione (al nulla, perché le sue orecchie non stavano ascoltando) dell’Epopea di Gilgamesh. «Posso farti una domanda?»

Il mago si voltò, rivelando per intero il suo viso ricoperto di rughe, i capelli e la barba bianchi, e la veste blu che indossava quasi sempre. La guardò con i suoi occhi azzurro chiaro, in cui era dipinta un’espressione interrogativa, ma non di rimprovero.

Sapeva anche lui che quella lezione l’avevano già affrontata più di una volta. Ma faceva finta di niente, evidentemente.

«Qua c’è scritto che il regno di Gilgamesh è terminato, tra le altre cose, perché lui ha amato Enkidu, che era un maschio.» disse Arthuria, cercando la frase interessata nel libro, e puntandola con l’indice. Merlin le si avvicinò per leggerla – anche se Arthuria sospettava che già la sapesse. «È qualcosa di sbagliato?» domandò lei, tornando ad alzare lo sguardo per verificare la sua reazione.

Merlin osservò per qualche istante il libro, probabilmente leggendo attentamente la frase, e nel frattempo si accarezzò pensosamente la barba. Poi, si sollevò eretto, chiuse gli occhi e incrociò le braccia, annuendo di tanto in tanto al ragionamento che stava facendo mentalmente. Faceva sempre così, quando rifletteva bene su qualcosa da spiegarle.

«Il regno di Gilgamesh ufficialmente è terminato perché lui considerava tutto di sua proprietà: poiché era investito della carica di re, pensava di poter fare quello che più gli aggradava con tutto, sudditi compresi. Lui viveva per sé stesso, e non per la missione che gli era stata affidata, che era quella di governare. Infine, il popolo si rivoltò contro di lui e il suo dominio – se vogliamo dirlo, la sua tirannia – ebbe fine.» spiegò il mago. «C’è qualcuno che crede che il suo regno sia finito anche perché lui, che era un uomo, ha amato un altro uomo, quale era effettivamente Enkidu.» proseguì. «Non so dirti se sia giusto o sbagliato, Arthuria. Posso dirti che è opinione comune, non solo mia ma tra tutti i maghi, che le relazioni sentimentali tra persone dello stesso sesso, siano esse due maschi o due femmine, non siano da meno delle relazioni tra un maschio e una femmina. Tuttavia, questa è un’opinione comune solo tra i maghi: c’è invece chi dice che sia qualcosa di innaturale perché attraverso queste relazioni non si possono avere figli. E direi che questa è l’opinione, ora come ora, più diffusa tra le persone.»

«E dato che è quella più diffusa, dovrebbe essere quella più giusta, no?» domandò Arthuria, perplessa.

Merlin scrollò le spalle, ma tenne le braccia incrociate. «Non sempre l’opinione comune è quella più giusta, Arthuria. A volte semplicemente è mancanza di conoscenza.» commentò, incamminandosi verso uno dei tavoli che c’erano nel suo studio, dove Arthuria andava a studiare. «Ad esempio, è opinione diffusa tra i non maghi che la nostra razza di maghi sia in via d’estinzione perché siamo qualcosa che va contro le leggi di Dio.» commentò lui. «La realtà è che un piccolo gruppo di persone ha diffuso quest’opinione con argomentazioni relativamente ragionevoli, spingendo e a volte costringendo le persone a non intraprendere la via della magia, cosicché ora le persone che sanno sviluppare un istinto magico sono poche, dato che la conoscenza magica si trasmette da genitore a figlio. Ma ce ne sono, e sono sicuro che lo sai bene anche tu.»

Arthuria sobbalzò, sorpresa da quella costatazione; la prima persona che le venne in mente fu Guinevere.

Sollevando lo sguardo, vide Merlin farle l’occhiolino; ed ebbe la conferma di quello che pensava, cioè che Merlin in qualche modo avesse scoperto che da due anni a quella parte lei conosceva Guinevere.

«Come fai a…?» domandò Arthuria, perplessa.

«Cassandra. La madre adottiva di Guinevere.» spiegò Merlin, sorridendo. «Dopo che l’ho scoperto – l’andare sulla collina della spada è stata un’iniziativa della piccola Guinevere –, io, Cassandra e la Dama del Lago abbiamo convenuto nel farti incontrare Lancelot tramite Guinevere, in modo che lui potesse insegnarti ad usare la spada correttamente.»

Arthuria spalancò gli occhi, e rimase a bocca aperta.

Quindi era stato qualcosa di architettato da Merlin per lei.

«Quindi posso…?» azzardò Arthuria, entusiasta.

Merlin annuì, con un sorriso. Arthuria sorrise di rimando, entusiasta.

Poi, le venne in mente il rapporto tra Guinevere e Lancelot, e sentì il sorriso sparire lentamente dalle proprie labbra. Abbassò lo sguardo, e aggrottò le sopracciglia.

Avrebbe dovuto essere felice, lo sapeva. Eppure, non riusciva a non pensare che Lancelot le avesse tolto l’esclusività di avere Guinevere come amica. E probabilmente gliel’avrebbe tolta sempre di più.

Eppure, non poteva rinunciare a un’occasione del genere. Doveva assolutamente imparare ad usare la spada. E Lancelot, evidentemente, era l’unico in grado di insegnarglielo a dovere, secondo il parere di Merlin.

Sentì una mano sulla testa, che le scompigliò un po’ i capelli corti.

«Il regno di Gilgamesh è terminato per il suo modo di governare.» disse Merlin, spingendola ad alzare lo sguardo verso di lui. «Era egoista, e pensava più a sé stesso che al regno. Non è così che si governa: un re deve mettere davanti a sé il popolo, perché il governarlo, il guidarlo, il capire i sentimenti che animano la comunità e il comportarsi di conseguenza ad essi, è una responsabilità del re. Per un re prima esiste il popolo, poi sé stesso.» spiegò.

Arthuria lo fissò, assorbendo quel concetto e tenendoselo stretto come se fosse oro.

«La lezione per oggi è finita. Tanto la storia di Gilgamesh la sai, no?» disse Merlin, scostandosi da lei e avviandosi verso uno dei tavoli del proprio studio pieno di ampolle e strani marchingegni magici di cui Arthuria non aveva mai capito l’utilità. «Vai pure. Ci vediamo nel pomeriggio per geografia.»

Arthuria si alzò in piedi, e gli sorrise, per poi correre fuori dicendogli un veloce “sì” entusiasta.

Quello sarebbe stato l’ultimo giorno in cui si sarebbe allenata con i servi e i cavalieri di suo padre; finalmente, avrebbe avuto un maestro che Merlin considerava degno di insegnarle l’arte della spada.

Il sorriso le morì di nuovo, quando si rese conto che quel maestro era Lancelot.

Era più che certa che a usare la spada fosse bravo; altrimenti né Merlin, né Guinevere, sarebbero stati d’accordo a proporglielo. Di certo non poteva lamentarsi di lui sotto quel punto di vista.

Però… Lancelot era un maschio, di bell’aspetto, per di più forte, e simpatico. Aveva con Guinevere quel rapporto che hanno le persone che sono fortemente legate. Di certo era qualcosa di più dell’amicizia; ed era impossibile che Lancelot fosse rimasto indifferente a Guinevere, così come era impossibile che lei fosse rimasta indifferente a lui.

Prima o poi lei sarebbe uscita da quel gruppo, lo sentiva. Quei due erano troppo legati, per avere anche un terzo incomodo quale era lei.

Sospirò, abbattuta dall’evidenza. Di Lancelot le importava molto poco; il massimo che le sarebbe potuto succedere, alla fine, sarebbe stato perdere il maestro di spada che aveva sempre sognato di avere.

Ma Guinevere… Guinevere era stata la prima persona con cui aveva potuto parlare apertamente di sé. Con cui aveva abbassato tutte le proprie difese, e con cui non si era fatta problemi a raccontare tutto ciò che succedeva al castello.

Si era entusiasmata con lei quando Guinevere aveva portato sulla collina, l’estate precedente, un libro pieno di figure di creature mitologiche, per sfogliarlo insieme – una cosa che le era costata un ritardo non indifferente alla lezione di Merlin, da tanto era rimasta impressionata e coinvolta da lei. Si era commossa, quando Guinevere si era ricordata del suo compleanno e le aveva regalato un mantello leggero, ma blu, dicendole che era il colore più adatto a lei per via dei suoi occhi. Si era impegnata a farle un mazzo di fiori come regalo di compleanno, cercando in qualche modo di mettere insieme quelli che erano arrivati al castello dalle regioni più calde, dal momento che la data di adozione di Guinevere da parte di Cassandra cadeva in autunno inoltrato. Si era persino riproposta di imparare dei semplici incantesimi che Guinevere aveva insistito per insegnarle, asserendo che le sarebbero stati utili quando avesse combattuto.

L’aveva vista ridere, quasi sempre; l’aveva vista preoccupata per Cassandra quando era stata male, lo scorso inverno, e si era preoccupata con lei; l’aveva vista sollevata, sognante, scherzosa, seria.

Sempre con gli occhi rivolti a qualche lontano orizzonte, o al cielo.

Quando non erano rivolti a lei.

Quel giorno, invece, i suoi occhi avevano incrociato anche quelli di Lancelot.

I libri che aveva letto avrebbero definito quelle sensazioni, probabilmente, come “gelosia”.

Però la gelosia era qualcosa che si provava solo per chi si amava.

Lei non…

Ripensò alla discussione avuta poco prima con Merlin; e al sentimento provato da Gilgamesh per Enkidu.

Poteva essere che…?

No, non era possibile.

E anche se lo fosse stato, non avrebbe potuto renderlo esplicito a nessuno. Né a lei, né al resto del mondo.

Sospirò, rialzando lo sguardo dai corridoi in pietra che le sue gambe avevano deciso di percorrere.

Si ritrovò davanti alla camera di sua madre. I suoi piedi l’avevano portata fino a lì senza che lei nemmeno si rendesse conto di dove andava.

Ormai, del resto, per lei era qualcosa di abitudinario, arrivare lì davanti e fermarsi a fissare il legno della porta che nascondeva quella stanza alla sua vista. Era normale esitare, e pensare se bussare e chiedere il permesso per entrare, o entrare di colpo senza rendere conto a nessuno, oppure voltarsi e andare via da lì; dopotutto, anche se fosse entrata, sarebbe uscita dopo poco.

Fece una smorfia perplessa con le labbra, e alzò il pugno per bussare.

Eppure, le sue nocche non incontrarono il legno. Si fermarono poco distanti dalla porta, e non riuscirono a toccarlo.

«Prova a portarle questa.»

Arthuria sobbalzò, e si voltò, riconoscendo all’istante quella voce.

Sua sorella Morgana.

La vide sorridere, i riccioli neri che si muovevano morbidi intorno il suo viso bianco, e un fiore bianco tra le dita affusolate della mano sinistra.

Arthuria per qualche istante fissò i suoi occhi verdi; poi, abbassò lo sguardo sul fiore che la sorella le stava porgendo, e lo osservò per alcuni attimi.

«Da quanto sei qui?» domandò poi, tornando a guardarla negli occhi.

«Da qualche minuto.» replicò lei. «Giusto il tempo di vederti alzare il braccio, abbassarlo, e fare quella smorfia che fai sempre quando sei qui davanti.»

Arthuria sospirò, e si voltò a guardare di nuovo la porta chiusa.

«Non credo che un fiore cambierebbe molto.» commentò.

Morgana sorrise di nuovo, e pose la mano destra sopra la corolla. Arthuria osservò le scintille di luce che circondarono i petali, prima che questi diventassero da bianchi a rosa scuro, e poi Morgana tornasse a porgerglielo.

«Magia della natura.» le spiegò. «Non è la mia specialità, ma almeno questo lo so fare.»

Arthuria sorrise al suo indirizzo, e poi guardò di nuovo la corolla del fiore, inclinando il viso di lato, e poi rabbuiandosi.

«Dài, prova con questa. Alla mamma piace il rosa di questa tonalità, si fa sempre fare i vestiti di questo colore, o di rosso.» la incoraggiò Morgana. Arthuria sospirò, e prese il fiore in mano; lo contemplò ancora per qualche momento, poi inspirò a fondo per raccogliere il coraggio, e si voltò verso la porta, alzando il pugno e picchiettando per tre volte.

Da dentro, sentì la voce stanca della madre che diceva “avanti”.

Si voltò verso Morgana, in dubbio; lei la spinse per le spalle, avvicinandola di forza all'ingresso della stanza, con il sorriso impresso sulle labbra. Arthuria sospirò, capendo che sarebbe dovuta andare da sola; abbassò la maniglia, ed entrò, titubante, mostrando prima il viso, e poi il resto del corpo, ma rimanendo ferma sulla soglia a contemplare la madre, stesa sul letto a baldacchino della stanza del castello che era riservata solo a lei, e non al letto coniugale.

Tra le mani stringeva debolmente un libro: Arthuria ogni volta che entrava lì la vedeva leggere. Sapeva che amava immergersi nella lettura, e sapeva che lo riteneva un privilegio, dato che erano poche le donne in grado di farlo. Il mobiletto alla destra del letto era pieno di libri rilegati e importati dai luoghi più lontani. Quello a sinistra era adibito invece ad appoggiare lavori fatti da lei coi tessuti: si poteva vedere qualcosa che somigliava a un vestito azzurro, e qualcosa di ancora incompleto.

Considerando la taglia e la grandezza del vestito, Arthuria arrivò alla conclusione che la madre lo stesse facendo per Morgana.

Come sempre, del resto.

Igraine la fissò per qualche istante; e ad Arthuria quegli occhi sembrarono solamente molto freddi e distaccati. Era come se le stessero dicendo di andarsene: sua madre non aveva bisogno nemmeno della voce, per comunicarglielo.

Arthuria abbassò lo sguardo, contemplando il fiore che aveva in mano; sapeva che non sarebbe servita, a far cambiare alla madre opinione su di lei. Non bastava nulla, di quello che le aveva portato per anni: fiori, altri libri, tessuti, vestiti, gioielli. Nulla era sufficiente.

«Sono passata per…» azzardò, a bassa voce. «…per sincerarmi sulle vostre condizioni di salute, madre.»

Alzò piano gli occhi verso di lei, timidamente, stringendo il gambo tra le dita.

Igraine non rispose. Si limitò a scrutarla, con quegli occhi castano scuro che, nonostante il colore caldo, ad Arthuria sembravano solo delle schegge di ghiaccio che volevano infilarsi nel suo cuore.

Non riuscì a sostenere lo sguardo della madre; avanzò verso il mobiletto alla destra del letto, e vi appoggiò il fiore.

«Questo è da parte di Morgana. Si è raccomandata di dirvi che passerà a farvi visita tra poco.» disse, senza guardarla. «Lieta di vedere che vi sentite meglio, Lady Igraine.»

Chiuse per un attimo gli occhi, e poi inspirò di nuovo a fondo e si avviò verso l’uscita della camera.

Igraine non proferì parola nemmeno quando lei aprì la porta ed oltrepassò la soglia.

Arthuria sollevò lo sguardo verso Morgana, quando si trovò sull’uscio; e la vide fare un’espressione dispiaciuta, prima di appoggiarle la mano sulla testa ed entrare nella stanza – più che altro perché Igraine l’aveva vista; altrimenti, Arthuria sapeva che sarebbe stata volentieri con lei, a cercare di tirarla su di morale.

Osservò la porta della camera chiudersi di nuovo, dietro le spalle della sorella; per qualche attimo, restò a fissare le venature del legno, quasi sperando che Morgana l’aprisse e che la madre le mostrasse un sorriso di solito riservato alla maggiore.

Sapeva che non sarebbe successo.

Per quanto lei fosse sangue del sangue di Igraine, sua madre riconosceva come figlia solamente Morgana, che invece era stata adottata.

La storia era stata molto semplice, in realtà: il primo marito di Igraine, il duca di Tintagil, era un cavaliere del Re Uther. Il duca non aveva eredi di sangue, perché Igraine non poteva avere figli; avevano quindi adottato Morgana, la figlia di una delle dame di compagnia di Igraine, che tra l’altro era una maga. E quella era la ragione per cui Morgana sapeva usare la magia: la madre naturale la istruiva su di essa, perché quello era il patto stipulato tra Igraine e la dama in questione affinché potessero adottarla come legittima erede del duca di Tintagil.

Era poi successo che il duca di Tintagil e la moglie fossero stati invitati a una festa organizzata dal re per i propri cavalieri; Uther si era innamorato a prima vista di Igraine, ma non aveva potuto averla in moglie perché lei era già sposata.

Successivamente, la guerra aveva portato il duca di Tintagil a combattere al fianco del re; il duca era morto in guerra, e Uther, poco tempo dopo, aveva chiesto Igraine in sposa. Ed era stato così che era nata lei, Arthuria. Evidentemente Igraine non era sterile, e la persona che, nella coppia precedente, non poteva avere figli, era proprio il duca di Tintagil.

Igraine aveva ripetuto, per anni, quando Arthuria era piccola, che se le cose dovevano andare veramente così, avrebbe preferito essere sterile lei, al posto del suo primo marito. E Arthuria non riusciva a capire il perché; capiva solo che la madre non aveva voluto vederla per anni, quando era stata piccola, e che ora non si ribellava solo perché era costretta a letto, dopo aver avuto un collasso che, tra l’altro, era stato scoperto da Arthuria per prima.

L’unica cosa che riusciva a capire era che Morgana, malgrado la mancanza di legami di sangue con la regina, era accettata come una figlia; lei, invece, malgrado il proprio stato di figlia legittima, non era riconosciuta dalla madre. Non riceveva vestiti o regali da lei, e non riceveva parole, mani sulla testa, carezze, sorrisi da Igraine; le poche volte che la madre le aveva parlato, le sue parole erano state sempre le stesse: che non avrebbe voluto averla, che doveva uscire dalla stanza perché lei non voleva vederla, che anche se era la figlia del re non significava che fosse figlia sua.

Arthuria sospirò, ritrovandosi sulla sommità di una delle torri del castello, col vento che le sferzava il viso e la vista perfetta della collina di Caliburn; sapeva che la sua nascita aveva avuto connotazione diversa per tutte le persone coinvolte.

Per sua madre, era stata una tragedia.

Per Uther, suo padre, era stata la speranza di un erede maschio, il vedere la nascita di una femmina, e il costringersi a credere che questa femmina l’avrebbe un giorno sostituito; e questo costringersi a credere ciò si era tradotto nel forzare i suoi cavalieri a istruirla per quella via, senza che però questi fossero veramente convinti di quello che facevano – del resto come avrebbero potuto, dato che nemmeno Uther lo era?

Per Morgana, era semplicemente stata la nascita di una sorella che, col tempo, era diventata sua figlia: era stata lei a crescerla, sebbene, quando Arthuria era nata, lei avesse solo otto anni. Morgana si era sempre presa cura di lei ed era stata l’unica, lì dentro, a volerle bene; ma nemmeno lei era veramente convinta che sarebbe riuscita a diventare re, malgrado fingesse di sostenerla.

L’unico che ci credeva davvero era Merlin; era lui che si era preso fin da subito l’incarico di istruirla in modo che diventasse un regnante saggio, altruista, e forte per il proprio popolo. Aveva fatto in modo di istruirla, di insegnarle tutto ciò che un re doveva sapere.

Merlin le aveva sempre ripetuto che ogni persona viene al mondo con un obiettivo; e che non importava che lei fosse nata come una femmina: lei era nata come figlia del re, e gli sarebbe succeduta una volta che suo padre avesse abdicato. Ma per farlo, doveva estrarre Caliburn dalla roccia, e dimostrare di voler diventare un re giusto, e ciò di cui la Britannia aveva bisogno; e Merlin aveva dedicato quei dodici anni a fare in modo che ciò accadesse.

Arthuria non si era mai chiesta cosa volesse veramente dalla vita; era sempre stata convinta che le parole di Merlin avessero un senso, e che fossero vere. E lottava per diventare re, e per ricordarsi che era quello il suo obiettivo, perché ormai poteva fare solo quello: poteva solo portare a termine ciò che Merlin aveva iniziato, e dimostrare a tutti che lei poteva farcela. Anche se era una femmina, anche se era debole, anche se non sapeva usare né la magia, né una spada, e l’unica cosa che sapeva fare bene era ricordare le storie che Merlin le raccontava sui re del passato.

Era per quello, che aveva passato anni a salire su quella collina: doveva ricordarsi quell’obiettivo che gli altri si erano prefissati per lei, e che col tempo era diventato il suo.

Solo una persona era stata in grado di farla vacillare in quella decisione.

Guinevere.

Era stata la prima, e l’unica, a chiederle cos’avrebbe voluto fare della propria vita, lei che era la figlia del re.

E Arthuria non aveva saputo, sulle prime, cosa risponderle; la risposta che con chiunque altro avrebbe dato per scontata, con lei era diventata difficile da pronunciare per il semplice fatto che Guinevere poteva sapere ogni cosa di lei, perché era stata lei la prima a permetterlo.

Ma alla fine, le aveva risposto che chiunque nasceva con una missione; e la sua era di diventare il re, perché quello era il suo compito.

Guinevere aveva sorriso in modo che ad Arthuria era sembrato enigmatico; ma non aveva ribattuto.

Era stato come se avesse capito tutto dal semplice modo in cui Arthuria aveva risposto. E come se avesse capito che era quello che lei doveva fare, perché non aveva altra scelta – perché quello che era il suo dovere, col tempo, era diventato anche il suo volere.

«Caspita, fa freddo qui.» commentò una voce dietro di lei.

Arthuria si voltò, e vide sua sorella sulla soglia del passaggio che portava a quella torre, con vestito e capelli agitati dal forte vento.

«Tu non hai freddo?» domandò Morgana, avvicinandosi a lei nonostante la lamentela per la bassa temperatura.

Arthuria scosse la testa, tornando a guardare, poi, la collina di Caliburn, e il resto della valle del castello di Tintagel, il castello che era stato donato dal duca alla moglie. In lontananza, alla sua destra, si poteva anche vedere il lago su cui governava la Dama del Lago.

Sembrava ci fosse un piccolo mondo, riunito lì intorno al castello. Visto da quell’altezza, pareva davvero tutto così piccolo e così vicino: sembrava che fossero due passi dal castello alla collina di Caliburn, quando ci volevano due ore; e sembrava che ci fosse poca distanza anche dal castello al lago, quando in realtà Arthuria sapeva che, per arrivarci a piedi, ci voleva mezza giornata, e a cavallo ci volevano quattro ore.

«Quello è il lago della Dama del Lago?» domandò Morgana, affiancandosi a lei e allungandosi a vedere il paesaggio a destra.

«Sì.» replicò Arthuria. «Quella è la collina di Caliburn, invece.» disse, indicando la collina di fronte a loro.

«Caliburn si vede a malapena, da qui…» considerò Morgana, voltandosi dove Arthuria stava indicando.

Arthuria non aveva potuto fare a meno di notare la stessa cosa; e pensare che, da vicino, quella spada era alta quasi quanto lei.

«Lì c’è un bosco, invece!» aggiunse Morgana, voltandosi verso sinistra.

Arthuria si voltò a propria volta in quella direzione, e guardò per qualche attimo la distesa immensa di alberi che si estendeva a poca distanza del castello. Lì, da qualche parte, vivevano Guinevere e Cassandra, in pieno contatto con gli spiriti della natura.

Arthuria osservò per qualche istante la sorella allungarsi a osservare il bosco, come se potesse cogliere qualche dettaglio che alla sua vista non era visibile.

«Morgana.» la richiamò. Morgana si voltò verso di lei, sorpresa.

Arthuria la fissò per qualche attimo, in dubbio su come porre la domanda che voleva farle; poi, sospirò, e parlò esplicitamente.

«Come mai non ti sei ancora sposata?»

Lei la fissò per qualche momento, con espressione visibilmente esterrefatta per la domanda. Poi, Arthuria la vide sorridere e metterle una mano sulla testa, come faceva sempre quando voleva tranquillizzarla.

«Il cavaliere che merita la mia mano deve ancora nascere.» disse, scompigliandole i capelli.

Arthuria spalancò gli occhi, osservandola mentre lei la aggirava, e passava dall’altro lato.

«Sei così bella che mi riesce difficile credere che nessun cavaliere che abbia chiesto la tua mano fino ad ora sia meritevole, Morgana.» commentò, mentre lei si metteva di nuovo a osservare il lago in lontananza, circondato dalla nebbia. «Probabilmente ti hanno chiesto la mano tutti i cavalieri del re. Nessuno di loro è stato degno di prenderti in sposa?»

La sentì ridacchiare, e poi la vide voltarsi verso di lei. «No. Nessuno di loro.» replicò, mettendole di nuovo la mano tra i capelli, e scompigliandoglieli più di quanto già fossero.

Arthuria fece una smorfia perplessa con la bocca, arricciando le labbra e fissandola con un sopracciglio inarcato. Morgana scoppiò a ridere, divertita.

«Cos'è quell’espressione?» domandò.

«Mi pare difficile credere che il re non ti abbia fatto pressioni.» commentò Arthuria.

Morgana scrollò le spalle. «Non abbiamo legami di sangue, quindi anche volendo non potrebbe farmene. E poi per lui sono solo una ragazzina capricciosa e viziata che rimarrà zitella a vita. Non si pone più di tanto il problema: a lui non importa che io sia accasata o meno. Perciò posso fare quello che voglio.»

«Però più passa il tempo e più diventi vecchia, per prendere marito.» considerò Arthuria.

Morgan scoppiò a ridere, e poi le scompigliò di nuovo i capelli. «Allora dici che rimarrò zitella a vita?»

«Se continui così, temo di sì…»

Morgana sorrise di nuovo, e fece spallucce. «Io penso che il vero amore non guardi l’età.» considerò. «Magari mi prendono in sposa anche se sono vecchia!»

Arthuria sorrise, davanti alla risata divertita della sorella. Morgana sapeva sempre essere molto leggera e incredibilmente semplice, quando si parlava di quell’argomento; liquidava sempre tutto con quella frase, adducendo che per lei l’età e l’amore non c’entravano nulla l’uno con l’altro.

Il problema era che era solo lei, a pensarla così. Un cavaliere che avesse voluto prenderla in moglie l’avrebbe fatto quando lei aveva sedici, diciassette, massimo i vent’anni che aveva ora; ma più avanti, per quanto bella, Morgana probabilmente non sarebbe più stata un partito ideale per i cavalieri del re: l’età feconda e della giovinezza, era quella in cui era più facile prendere marito; e a vent’anni si era già vecchie per farlo, per quanto le possibilità continuassero ad esistere se si era belle come lei.

«Di’ la verità, Morgana.» disse Arthuria, con tono scherzoso. «Ti sei innamorata di uno dei servi del castello, avete una storia segreta, ma per le vostre classi sociali non vi potete sposare, e quindi sei intenzionata a rimanere senza marito per il resto della vita in virtù dell’amore che provi per lui.»

Morgana rise di nuovo. «Arthuria, ma che vai a immaginarti!» esclamò. «Non è affatto così!»

«E allora com’è?» domandò Arthuria. Poi, le venne un flash, al quale spalancò gli occhi.

Guardò per qualche istante la sorella, aggrottando le sopracciglia. Morgana era una maga. Forse…

«È una femmina?» domandò.

La sua reazione fu quella di sobbalzare, all’inizio; poi, di spalancare gli occhi, e di abbassare la mano che stava scompigliando i suoi capelli. Il sorriso le morì sulle labbra, sostituito da un’espressione sconcertata.

«È una femmina?» ripeté Arthuria, assumendo il tono di chi cerca una conferma, totalmente diverso da quello che aveva usato qualche istante prima, che era solo di curiosità.

«Ma… ma no.» replicò Morgana, abbozzando un sorriso. «Perché sei arrivata a pensarlo?»

Arthuria scrollò le spalle, e tornò a voltarsi verso la collina di Caliburn; malgrado la reazione agghiacciata della sorella, se Morgana le diceva che non si trattava di una donna, lei le credeva. Era l’unica persona, oltre a Guinevere, cui credesse veramente.

«Oggi Merlin mi ha insegnato la storia di Gilgamesh.» spiegò.

«Ancora? Non è la prima volta che lo fa.» la sentì commentare.

Arthuria sorrise, al rendersi conto che lei si ricordasse di qualunque cosa lei studiasse con Merlin, di ogni lezione che affrontasse, e di ogni cosa che lei dicesse. «No, infatti. È la terza.» spiegò. «Sul libro c’era scritta una frase particolare che tutt’e tre le volte mi ha lasciato perplessa: si diceva che il regno di Gilgamesh fosse finito, tra le altre cose, anche perché aveva amato Enkidu, che era un uomo come lui. E allora ho chiesto spiegazioni a Merlin, in merito.» Si voltò verso Morgana, che la stava fissando, attenta e seria. «Mi ha spiegato che tra i maghi le relazioni tra maschio e maschio, e tra femmina e femmina, sono considerate esattamente come le relazioni tra maschio e femmina. Ma che tra il resto della gente non sono accettate perché non portano alla nascita di figli.» esplicitò. «E dato che tu sei una maga, ho pensato che, visto che non ti vuoi sposare, il tuo amore potesse essere anche per una donna.» aggiunse, stringendosi nelle spalle.

Morgana sorrise, e poi annuì, appoggiandosi alla balaustra su cui Arthuria era seduta a gambe incrociate.

«Un buon ragionamento.» considerò. «Effettivamente è un’opinione comune tra i maghi. Anche io la penso così. Anche se ora ci sono dei maghi che la pensano come la gente comune.» disse. «Non è il mio caso. Ma se lo fosse, tu da che parte staresti, Arthuria?»

Arthuria sobbalzò, sorpresa; vide che Morgana non la stava guardando in viso, ed era intenta, invece, a contemplare la collina su cui si ergeva, come un puntino insignificante, Caliburn.

«Beh…» commentò Arthuria. «Immagino che… Immagino che un re debba considerare le opinioni della maggioranza, ma anche prendere in considerazione ciò che pensa solo una minoranza e, se sensato, cercare di farlo rispettare, in modo da garantire la pace.» considerò. La vide spalancare gli occhi; ma proseguì prima che lei si voltasse a guardarla. «Quindi… io sono dalla tua parte, Morgana.»

Morgana si voltò verso di lei, e per qualche attimo la osservò con espressione sorpresa; poi, sorrise, e le scompigliò ancora i capelli.

«Grazie.»

 

 

*****

 

 

La mattina dopo, il cielo sembrava promettere fulmini e pioggia violenta.

Eppure, Arthuria vi prestò ben poca attenzione nel momento stesso in cui arrivò quasi in cima alla collina.

Fu qualcosa di fulmineo, a scagliarla giù per qualche metro lungo il pendio, con una violenza che lei non aveva mai sperimentato prima di quel momento.

«O sacerrimi spiriti dell’acqua! C’è ben tanto lavoro da fare, con te!»

Arthuria spalancò gli occhi che aveva chiuso per l’impatto improvviso, e alzò lo sguardo verso la cima della collina; Lancelot era lì, qualche metro sopra di lei, con la spada di legno tenuta sulle spalle in maniera disinvolta, un sorriso sarcastico dipinto sulle labbra, e uno sguardo divertito e pieno di sfida.

Lei fece una smorfia, rialzandosi in piedi senza nemmeno ripulirsi i vestiti; estrasse immediatamente la spada di legno che portava alla cintola, e si mise in guardia.

«Non agitarti, non agitarti! Non serve a nulla, ora.» la redarguì lui, saltellando giù fino a raggiungerla. «Accidenti, a te vanno spiegate proprio le basi, eh?»

«So come usare una spada. Almeno le basi, le so.» ribatté Arthuria, punta sul vivo.

«No, no, non intendevo quello!» replicò lui, ridendo. «Intendevo proprio le basi del combattimento, Arthuria.» precisò, mettendole una mano sotto le sue che reggevano la spada, e alzandole la guardia. «Ad esempio, in questo momento avrei potuto tranquillamente sottrarti la spada, e tu ti saresti fidata troppo di me per essere tanto veloce da impedirmi di farlo. Sbaglio?» la punzecchiò, lanciandole un’occhiata ironica.

Arthuria strinse la presa sull’elsa di legno, fatta artigianalmente dalle sue mani di bambina e da un coltellino che era riuscita a reperire nel castello.

«Ok, forse prima dobbiamo elaborare meglio la teoria. Andiamo su.» disse lui, voltandosi a darle le spalle e incamminandosi verso la cima della collina.

Arthuria sospirò, e lo seguì, abbassando la spada, pronta però a cogliere qualunque altro attacco a sorpresa lui avesse avuto intenzione di sferrarle. Quello con cui l’aveva accolta di sicuro non se l’aspettava; si era immaginata un inizio di combattimento quando fossero già stati davanti a Caliburn, con tanto di Guinevere intenta a guardarli duellare; qualcosa di onesto, insomma. Non un agguato sferrato quando lei non era nemmeno arrivata alla meta.

E poi, doveva ammetterlo: non se lo era aspettato anche perché si era fidata delle parole che Guinevere aveva detto il giorno prima – ovvero, che Lancelot fosse lento. Si era aspettata di trovare, come prima persona, Guinevere con le sue battute scherzose, come sempre; non aveva previsto Lancelot.

Forse era vero che si fidava troppo.

«Arthuria, Arthuria.» disse lui, mettendole una mano sulla spalla e sospirando, quando furono arrivati in cima – un attimo dopo che Arthuria ebbe avuto modo di considerare che Guinevere non era ancora arrivata. «Sei proprio onesta, non c’è che dire.»

Arthuria lo guardò negli occhi, sorpresa che fosse proprio lui a dirglielo. «Eh? Perché dici così?»

Lancelot ridacchiò di nuovo, e si mise di nuovo la spada sulle spalle, sorridendole ampiamente.

«Hai avuto l’occasione di attaccarmi, mentre salivamo. Ti ho dato le spalle: avresti potuto farlo, o almeno provare, dato che io ero in guardia contro un attacco a sorpresa da dietro.» spiegò lui, facendo spallucce. «Ma l’idea nemmeno ti è passata per la testa, vero?»

«A dire il vero, temevo che saresti stato tu, ad attaccarmi. Ero pronta a rialzare la guardia in qualunque momento.» confessò Arthuria.

Lancelot ridacchiò di nuovo. «Mi piaci, Arthuria!» esclamò, battendole la mano sulla spalla. Arthuria, dal canto proprio, si sentì arrossire; le orecchie diventarono calde, e la presa sulla spada di legno vacillò, per la sua incapacità di interpretare gli intenti nascosti dietro la frase di Lancelot. «Come guerriero, intendo.» precisò lui, facendole l’occhiolino, divertito. «Per l’onestà. Non se ne incontrano molti come te, in giro.» considerò, annuendo, come a darsi ragione, e togliendole la mano dalla spalla. «Però, purtroppo, non sono tutti come te, Arthuria. Dovresti pensare anche a questo.» aggiunse, inclinando la testa di lato. «Guinevere ieri ha detto esplicitamente, quando ci ha presentati, che anche io bramo a prendere Caliburn e mi sto allenando per questo. Quindi avrei potuto attaccarti con una spada vera, ed eliminare una mia avversaria in tal senso. Tu non hai preso minimamente in considerazione quest’ipotesi.»

«Non avresti potuto farlo.» replicò Arthuria, seria.

Lancelot spalancò gli occhi, sorpreso. «Mh?»

«Se pensi a questi mezzucci per ottenere Caliburn, non sei degno di estrarla, Lancelot.» spiegò Arthuria. «Un duello leale e aperto sarebbe stato accettabile. Un agguato, no.»

Lancelot sorrise, sarcasticamente. «Sei sveglia, eh?» commentò. «Ed è vero, non l’avrei fatto. Ma non per Caliburn, ma per la mia innata cavalleria.» precisò. «Ma allora mettiamola in questi termini, Arthuria. Se qui sulla collina ci fosse stato un qualunque altro guerriero cui non fossi stata simpatica perché sei la figlia del re, o perché sei una femmina e sei comunque la legittima erede al trono scelta da Uther; o ci fosse stato un nemico del regno, di quelli che il re sta combattendo e che, tralasciando il come avrebbe fatto a farlo, si fosse informato su di te e fosse venuto fin qui per prenderti in ostaggio; allora, tu avresti ragionato allo stesso modo?»

Arthuria esitò, colpita dal ragionamento; effettivamente, non aveva mai pensato che le sue azioni avrebbero potuto avere conseguenze simili. Lei aveva sempre visto l’andare a vedere Caliburn come il vedere Caliburn e basta; non aveva considerato nemmeno lontanamente che qualcuno l’avrebbe potuta vedere – nemmeno quando effettivamente era successo, e Guinevere le aveva confessato di averla seguita.

Abbassò lo sguardo, affranta. «No.» ammise.

Lancelot le mise una mano tra i capelli, scompigliandoglieli amichevolmente. Arthuria sobbalzò, e arrossì, allontanandosi da lui, poco abituata a quello scambio di gesti da lei considerati affettuosi, da parte di gente diversa da Morgana.

«Onesta fino in fondo.» considerò Lancelot. E il suo, agli occhi di Arthuria e vedendo la sua espressione, sembrò un complimento. «Tuttavia, so benissimo che anche tu sei consapevole del fatto che in questo mondo la vigliaccheria è all’ordine del giorno, purtroppo. Che c’entrino i combattimenti, o che non c’entrino. D’ora in avanti, dovrai stare più attenta; una persona onesta come te non la si può perdere.» disse lui, sorridendo.

Arthuria sorrise di rimando, dimentica, per qualche attimo, delle considerazioni fatte su Lancelot e Guinevere il giorno prima. Annuì, confortata dal fatto che Lancelot, almeno a quanto sembrava, fosse lo stesso tipo di persona che era lei.

Quell’attimo di dimenticanza durò poco; giusto il tempo di sentire un folata di vento freddo provenire da dietro di sé, e voltarsi, scorgendo Guinevere che arrivava, come sempre per niente trafelata, sulla cima della collina; Arthuria osservò i suoi occhi spalancarsi, fissi nei suoi – per un attimo, le sembrò che Lancelot nemmeno esistesse, per Guinevere.

«Hai vinto.» commentò lei, sorpresa. Poi, scoppiò a ridere, e corse ad abbracciarla, divertita. «Hai vinto! Per la prima volta in due anni!» esclamò, entusiasta.

Arthuria avvampò, imbarazzata da tutto quel contatto, prima con Lancelot, e ora con Guinevere; era qualcosa cui non era per niente abituata, nemmeno con Morgana.

E la cosa più strana era che le facesse anche piacere, trattandosi di Guinevere.

«Guinevere… Aspetta…» biascicò, imbarazzata. Lei si scostò, sempre sorridente. «E’ stato Lancelot… il primo ad arrivare qui, oggi…»

Guinevere inclinò la testa a guardare l’altro, senza però scostare le braccia dal collo di Arthuria. Se, da un lato, quel gesto le fece piacere, dall’altro contribuì a imbarazzarla ancora di più; non osò, tuttavia, chiederle di scostarsi ulteriormente, dato che Guinevere sembrava intenta a osservare attentamente Lancelot.

«Lancelot, veramente hai dormito qui?» domandò poi lei, scostandosi – Arthuria sobbalzò per la sorpresa, e si voltò verso l’interpellato, esterrefatta. Lancelot, di tutta risposta, scoppiò a ridere, e si passò la mano tra i capelli, un po’ in imbarazzo.

«Eh?» chiese Arthuria, voltandosi verso Guinevere, confusa.

«Voleva essere sicuro di farti un attacco a sorpresa quando fossi arrivata qui.» spiegò la maga, con un sorriso sardonico in viso. «Ma siccome è ben consapevole di essere estremamente lento, ha evidentemente optato per mettere in atto quello che a me ieri era sembrato uno scherzo; cioè, dormire qui e svegliarsi alle prime luci dell’alba per tenderti un'imboscata, e vedere se sapevi le regole base della battaglia.»

«E ci sono anche riuscito!» esclamò Lancelot, alzando un dito all’aria, come a voler ulteriormente puntualizzare che quella era stata una strategia riuscitissima. «Infatti ne stavamo parlando prima che arrivassi tu.»

Arthuria si voltò verso Lancelot, sconcertata da quelle rivelazioni; guardandolo, sembrava non avesse fatto nulla di speciale; e forse era quel genere di persona che era capace di fare cose del genere anche senza pensare, e senza chiedere nulla in cambio.

Ma Arthuria, di persone così, aveva incontrato solo Guinevere e Morgana, oltre a lui, pur avendo avuto mille contatti con le persone che vivevano nel castello.

«Lancelot…» azzardò, ancora sconvolta. «Hai dormito qui… solamente per questo?»

Lancelot la guardò, sorpreso; con la coda dell’occhio, Arthuria vide Guinevere rivolgerle un sorriso dolce.

«Oh. Ehm. Beh…» replicò lui, dando un’occhiata a Guinevere; sembrava disorientato dalla domanda, e parecchio incerto sulla risposta da dare. «Non è che… Insomma, sì. Ecco…»

«Oh, e smettila, Lancelot!» lo rimproverò Guinevere, con uno spintone, ridendo. «Arthuria.» la richiamò, sorridendole e voltandosi verso di lei. «So che per il clima in cui sei cresciuta magari non è una cosa abituale. Ma Lancelot, esattamente come te, è un guerriero onesto e altruista. Lui farebbe questo e altro, per qualcuno che è esattamente come lui. E anche per chi non lo è, ma… se sei come lui lo stimoli a farlo. Non sentirti in imbarazzo. Per lui è normale.»

Arthuria spalancò gli occhi; e per la prima volta, sentì qualcosa di combattuto, dentro di sé, nei confronti di quel ragazzo. Gelosia, perché tutto dentro di lei le urlava che sarebbe stato lui, a minare il rapporto che lei aveva costruito con Guinevere; ma anche gratitudine per il gesto fatto; e ammirazione per l’onestà, e per il pensiero che aveva avuto.

Era tutto qualcosa di estremamente confuso, per cui la sua mente non riusciva a elaborare le parole da dirgli.

Un “grazie” sarebbe stato ipocrita, o sincero?

Una stretta di mano avrebbe voluto essere minacciosa, o amichevole?

Lancelot prima o poi le avrebbe portato via Guinevere. Eppure, in quel momento, aveva fatto quel gesto per lei.

«Devo ringraziarti, Lancelot.» disse alla fine, con un inchino profondo. «Non credo che a nessun altro sarebbe venuto in mente di fare un gesto del genere per me. Hai la mia gratitudine.»

Dentro di sé, sentì che le parole che aveva appena detto, erano vere nella maggior parte dei sentimenti che provava.

Mancavano solo quei piccoli frammenti in cui invece, per lui, provava solo invidia e gelosia.

Lancelot, col suo solito fare amichevole, le mise una mano sulla testa e le scompigliò i capelli, spingendola a rialzare il capo; Arthuria, una volta che incrociò il suo viso, vide il sorriso dipinto sulle labbra di Lancelot, come su quelle di Guinevere.

«Sono lieto di avere la tua gratitudine.» disse lui. «Ma materialmente parlando non mi serve a molto, se poi non otteniamo i risultati che vogliamo nel tuo allenamento. Che ne dici di iniziare, dunque?»

Arthuria sorrise di rimando e annuì.

Quei piccoli pezzi di gelosia e invidia erano delle schegge di vetro nel suo animo. Ma l’importante era, in quel momento, quello che provava tutto il resto di lei: gratitudine, ed entusiasmo.



 

Note sui personaggi

Lancelot: nome inglese di Lancillotto. È il figlio adottivo della Dama del Lago; non è chiaro se sia stato da lei rapito e poi educato, o se la Dama del Lago l’abbia trovato; è però risaputo che l’ha accudito. Nel ciclo bretone, Lancelot era molto più giovane di Arthur.

Dama del Lago: generalmente identificata come una maga alla guardia del Lago, che parrebbe nascondere persino la leggendaria isola di Avalon, o in alternativa un paese di cavalieri, o un paese di sole donne. Il suo nome non è ben precisato; tra gli altri, vengono utilizzati Vivian e Nimue. È identificata, da alcuni, anche come la maga di cui Merlin si innamorò.

Uther Pendragon: padre di Arthur(ia).

Morgana: viene chiamata anche “Morgan le Fay” (Fata Morgana); nella leggenda originale, è la prima figlia di Igraine, avuta da lei con il primo marito, il duca di Tintagil. Si dice che Arthur, in realtà, avesse due sorelle: Morgana e Morgause. Morgause sarebbe la madre di Mordred, concepito con Arthur; Morgana la madre di Gawain, (e dei fratelli di Gawain) concepito col marito Lot. Spesso, tuttavia, Morgana e Morgause vengono identificate come la stessa persona.

Gilgamesh: nella leggenda, è conosciuto come il primo Re del mondo, e governatore del mondo quando era ancora unito. Le sue gesta, e la sua storia, sono narrate nell’Epopea di Gilgamesh. Nella storia, viene fatto chiaramente riferimento al fatto che amasse Enkidu, suo amico e compagno. Dopo la morte di Enkidu, andò alla ricerca dell’erba dell’immortalità per paura di morire; tuttavia, una volta trovata la pianta, questa venne mangiata da un serpente, precludendogli così la possibilità di avere una vita eterna. Viene spesso dipinto come un re avido e borioso.

Enkidu: una bambola di creta creata dagli déi e inviata a combattere contro Gilgamesh; essendo dotati di pari forza, i due dopo il combattimento finito praticamente alla pari divennero amici. Morì per mano della dea Ishtar: questa si era innamorata di Gilgamesh, era stata da lui rifiutata, e aveva inviato contro di lui il Toro Celeste per vendicarsi. Il toro fu sconfitto poi da Gilgamesh e Enkidu; quest’ultimo provocò la dea gettandole contro una zampa del toro, e la dea reagì facendolo ammalare mortalmente.

 

Le vicende

Lancelot, Arthur e Guinevere non si conoscevano in giovane età, nelle leggende del ciclo bretone; anzi, Lancelot era molto più giovane di Arthur (non saprei dire di Guinevere, invece), tanto che divenne cavaliere a 15 o 18 anni, quando Arthur era già in età avanzata. Allo stesso modo, probabilmente non è stato addestrato dalla Dama del Lago nel combattimento; mi è venuto però in mente che, essendo proprio la Dama del Lago a dare Excalibur ad Arthur, lei potesse essere anche un’abile spadaccina. Da qualche parte le capacità combattive particolarmente alte di Lancelot dovevano pur arrivare, in fondo.

Su Morgana, Lady Igraine, il duca di Tintagil e Uther: nella leggenda, Uther si innamora sì di Igraine a prima vista, e il duca di Tintagil è effettivamente un cavaliere del re; tuttavia, il duca di Tintagil non muore in una guerra per il re, ma in una guerra che il re scatena contro di lui per sposare Igraine. Nel frattempo, Uther manda a cercare Merlin, che acconsente a fargli prendere le sembianze del duca in modo che lui possa possedere Igraine; viene così concepito Arthur, che poi viene istruito da Merlin secondo il patto col re. Prima della guerra, tra l’altro, il duca aveva fatto costruire un castello da cui attaccare il re, chiamato Terrabil; e aveva lasciato Igraine nel castello in cui vivevano, cioè Tintagel.

Per quanto riguarda Morgana, era effettivamente figlia di Igraine e del duca di Tintagil, nella leggenda originale. Non è ben chiaro come potesse essere una maga; quindi, basandomi su Fate e sulla trasmissione di poteri da genitore a figlio, ho pensato che la madre potesse non essere Lady Igraine, e che Morgana potesse essere stata adottata.

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Capitolo 3
*** Patto tra cavalieri ***


Capitolo terzo

Patto tra cavalieri



 

Accadde durante il suo dodicesimo anno di età, in un giorno di fine autunno.

La camminata sul pendio della collina era stata più faticosa del solito, e non si era mai sentita così stanca prima; la testa girava, e sentiva un dolore acuto al bassoventre. Non le era mai successo di sentirsi tanto debole.

E poi, l’attacco di Lancelot era arrivato all'improvviso, cogliendola alla sprovvista: l’aveva scaraventata giù per il pendio della collina per almeno sei, sette metri, come era successo solo la prima volta in cui avevano duellato, mesi addietro. Da allora, non si era mai più fatta prendere di sorpresa da un suo agguato.

Eppure quella mattina era successo. E Arthuria si era chiesta che le stesse succedendo; se qualche stregone o strega le avesse fatto qualche incantesimo per vendicarsi di lei, o se stesse molto male di punto in bianco; e in quel caso, quale evento potesse aver scatenato la punizione divina verso di lei.

Guardando in alto verso Lancelot, che aveva sbuffato e se ne stava sulla cima della collina, con le mani ai fianchi e un’espressione scocciata in viso, per un secondo desiderò di non essere lì, ma nel proprio letto; la sensazione di stanchezza, e di voler, eventualmente, rimanere lì a terra – una posizione in cui il dolore al bassoventre sembrava farsi sentire lievemente di meno – per un attimo la fece da padrone, e la spinse a riappoggiare la fronte tra l’erba della collina bagnata dalla pioggia del giorno prima.

Poi, in un lampo, il ricordo del perché lei fosse lì.

Strinse i fili d’erba e digrignò i denti, determinata ad alzarsi e a cercare di non sentire quel dolore; per un attimo, quando fu di nuovo in piedi, barcollò per il cambio improvviso di posizione e per il giramento di testa; ma poi estrasse la spada di legno, la strinse con entrambe le mani e risalì il pendio.

Al fianco di Lancelot, poco prima che lei lo raggiungesse, si parò anche Guinevere; aveva un’espressione preoccupata in viso, e quella preoccupazione era, come sempre, rivolta a lei.

Perché doveva farla impensierire, mentre verso Lancelot non aveva mai visto un’espressione di quel tipo?

Digrignò i denti e impugnò più saldamente quella rudimentale elsa di legno, pronta all’attacco, quando anche sul viso di Lancelot intravide un’apprensione simile a quella di Guinevere.

Da lei poteva quasi accettarlo; ma da lui, era come se la stesse sottovalutando.

Alzò la propria arma, e lo attaccò con una buona parte della forza che aveva; Lancelot, tuttavia, fu più veloce, e schivò il colpo, menando la spada in un fendente che la prese in pieno alla spalla.

Arthuria strinse i denti per il dolore – perché sembrava centuplicato, rispetto al solito? Perché sentiva dei brividi di sudore freddo e pelle d’oca che le sembravano non avere niente a che fare con la temperatura esterna? – e cercò di colpirlo di nuovo, muovendo la spada esattamente come aveva fatto lui; Lancelot scartò di nuovo, e la colpì dietro la spalla, spingendola sdraiata a terra come qualche secondo prima.

«Ma che…?» azzardò lui; dalla voce sembrava sconcertato.

Arthuria ringhiò, e fece per voltarsi e cercare di alzarsi; ma il dolore al bassoventre la colpì in modo acuto, e la spinse a stringerselo, contorcendosi per un attimo a terra per il dolore – mordendosi il labbro per evitare di manifestarlo più di così.

«Arthuria…!» esclamò Guinevere; Arthuria sentì la sua mano poggiarsi gentilmente sulla sua spalla, e il tono preoccupato della sua voce.

Era snervante. E umiliante.

«Spiriti dell’acqua, Guinevere, io non ho fatto niente, lo giuro! A meno che un colpo alla spalla non possa sortire quest’effetto…!» esclamò Lancelot.

Arthuria sentì la testa venire perforata dal tono troppo alto di quella voce; si strinse di più la pancia, cercando di socchiudere gli occhi e di sollevare lo sguardo.

Perché Lancelot pareva in preda al panico?

«Lancelot, calmati. Tu non hai fatto nulla.» replicò Guinevere.

«Se non colpire più forte del solito…» biascicò Arthuria, facendo perno sulla mano che ancora stringeva la spada, e alzandosi carponi. «Ma è colpa mia che sono ancora debole. Va tutto bene.»

«Ma…!» esclamò ancora lui.

«Va tutto bene, sì. Ma credo che per oggi faresti meglio a stare al castello a riposare, Arthuria. Per oggi risparmiati i combattimenti.» disse Guinevere, dolcemente.

Arthuria sollevò lo sguardo verso di lei, stralunata.

Il primo pensiero fu che lei voleva che Lancelot fosse avvantaggiato su di lei.

«Non…!» azzardò, alzandosi di scatto in piedi; di nuovo, sentì il giramento di testa che la fece barcollare.

«Arthuria.» la richiamò Guinevere, prendendola per le spalle. «So che vorresti combattere. Ma per oggi, almeno per oggi, è meglio che ti limiti a riposarti.»

«Non posso perdere un giorno di allenamento…!» esclamò Arthuria, muovendo un braccio per divincolarsi dalla sua presa. «Ne ho già persi abbastanza al castello! Lancelot mi sta insegnando infinitamente di più di quanto io abbia appreso in otto anni con i cavalieri di mio padre, perciò non ho intenzione di…!»

«Insomma!» la richiamò di nuovo Guinevere, ad alta voce, spingendola a voltarsi verso di lei. Arthuria vide sul suo viso l’espressione decisa di chi non vuole ammettere repliche. «Se combatteste oggi, non otterresti nulla se non un sacco di lividi! Non impareresti nulla e domani saresti ulteriormente debilitata e non riusciresti a combattere a dovere! Ascoltami, una volta tanto!»

Arthuria sbatté le ciglia, sorpresa da quell’atteggiamento così perentorio. Qualcosa le disse che era meglio non contraddirla.

Tuttavia, sapeva anche di aver imparato molte più cose in quei pochi mesi passati ad allenarsi con Lancelot, che in otto anni passati ad allenarsi a Tintagel; e voleva continuare. Era persino quasi arrivata al punto da tenere testa a lui, che si era allenato con quel metodo per anni; persino lui aveva detto che Arthuria aveva un talento innato, per l’uso della spada, che avrebbero dovuto coltivare già da anni.

Non voleva arrendersi. Ora più che mai, il raggiungere la potenza nel combattimento le sembrava qualcosa di fattibile. Non poteva arrendersi.

«Guinevere, però…» azzardò.

«Arthuria, niente “però”. Stai perdendo sangue, e Lancelot è scandalizzato perché pensa di essere stato lui a provocarti qualche ferita.» disse Guinevere, accennando con la testa proprio al suo bassoventre.

La domanda che per un attimo passò per la testa ad Arthuria – cioè, come Guinevere sapesse del suo dolore proprio al bassoventre – fu subito sostituita dall’esigenza di verificare la questione della perdita di sangue.

Effettivamente, aveva il cavallo dei pantaloni sporco di rosso.

«Ma che…?» domandò, sconcertata.

Il bassoventre. Allora il giramento di testa, la debolezza, la stanchezza, erano tutti per quella che doveva essere una ferita interna, che le stava causando quella perdita di sangue? Ma con cosa si era ferita? Come? E chi l’aveva fatto?

«Non è una ferita.» disse Guinevere, spingendo sia lei, sia Lancelot, a guardarla. «So che lo state pensando, ma non è così. È semplicemente il passaggio di Arthuria all’età adulta.»

Arthuria spalancò gli occhi, sconcertata. «…Questo?»

Guinevere annuì, con un sospiro che sembrava scocciato. «Per le donne il passaggio all’età adulta è segnato da qualcosa di preciso: l’inizio di perdite di sangue di questo tipo, per qualche giorno, che si ripresenta più o meno a ogni ciclo lunare.»

Arthuria guardò di nuovo le macchie di sangue – poche, e piccole, ma presenti sui pantaloni di tela; poi, tornò a guardare Guinevere, allibita: non l’aveva mai vista comportarsi in modo così saccente. Ma a giudicare dal modo in cui si era posta, dal fatto che non si era mai comportata così, e dal fatto che aveva distolto lo sguardo da loro durante tutta la spiegazione, concluse che doveva semplicemente essere in imbarazzo per la cosa.

«Effettivamente ho sentito mia madre parlare di qualcosa del genere, quando si è trattato di avere a che fare con una delle sue allieve cui si era presentata la stessa cosa, qualche anno fa.» considerò Lancelot, guardando Arthuria. «Ero piccolo, all’epoca. Ma adesso che ci penso, effettivamente… è praticamente la stessa cosa.»

Arthuria tornò a guardare Guinevere, che li fissava, le mani sui fianchi e l’espressione decisa; era un po’ imbarazzata – lo si vedeva dalle guance lievemente rosse, sulla pelle bianchissima – ma manteneva il suo piglio deciso.

E si sorprese a pensare che, forse, Guinevere aveva passato la stessa cosa. Stesse sensazioni, forse; stesso stupore; stesso dolore al bassoventre, e stesso smarrimento.

O forse no; forse sapeva già tutto e aveva affrontato la cosa preparata.

«Arthuria, dovresti tornare a Tintagel.» ribadì Guinevere.

«Ma…» replicò Arthuria. «Riesco a sopportarlo, davvero. Non fa così male. Credo di riuscire a combattere contro Lancelot…»

Guinevere ricambiò la sua obiezione con un’espressione di chiara disapprovazione; Arthuria fece una smorfia dispiaciuta, e la fissò, mentre l’altra si passava una mano sul viso, evidentemente esasperata dalla situazione.

«Lancelot.» disse poi Guinevere, voltandosi verso di lui. «Hai acconsentito ad allenare Arthuria a patto che ti insegnassi il controllo delle magie. Ricordo bene?»

Arthuria rivolse uno sguardo a Lancelot, che guardò la maga e si mise le mani sui fianchi.

«Ricordi bene. Ma evidentemente te lo ricordi solo ora, dato che per mesi non mi hai insegnato nulla.» ribatté con un tono un po’ seccato.

«Bene. Evidentemente è il tuo giorno fortunato, allora, Lancelot.» considerò lei, sorridendo con fare furbo, e tornando a rivolgersi ad Arthuria. «Facciamo così. Se acconsenti a tornare a Tintagel e a riposarti, per oggi, io insegnerò le basi della magia a entrambi durante la giornata.»

Arthuria la osservò per qualche secondo, sorpresa; poi, sospirò, e scosse la testa.

«Ci ha provato anche Merlin, con me.» replicò. «Non sono portata. Non ho un minimo di potenziale.»

«Mi avevi promesso di provare a imparare quegli incantesimi che ti volevo insegnare.» ribatté Guinevere, prontamente.

Arthuria sollevò gli occhi verso di lei, sorpresa; a causa di tutto l’allenamento con Lancelot, delle lezioni di Merlin, e del fatto di aver sempre pensato di non essere portata per la magia, si era completamente dimenticata di quella promessa. E forse aveva anche pensato che anche Guinevere se ne fosse dimenticata; ma dallo sguardo che l’altra le rivolse, capì che non era così.

Guinevere inclinò la testa di lato, raddolcendo un po’ l’espressione, prima decisa e corrucciata.

«Ci hai provato?» domandò.

Arthuria si strinse nelle spalle. «Solo il giorno in cui hai provato a insegnarmele.» confessò. «Merlin ha tentato in diversi modi di insegnarmi qualcosa, dicendomi che sarebbe stato utile; ma non sono mai riuscita a fare niente, così…»

«…hai pensato che non saresti riuscita nemmeno con quelli che volevo insegnarti io.» completò Guinevere.

Arthuria annuì, tenendo lo sguardo basso; in quel momento, si sentiva solo una stupida, incapace ragazzina arrendevole, ai suoi occhi. Non si era mai arresa al primo tentativo: non era mai stato qualcosa che rientrava nella sua indole.

L’aveva fatto solo con quegli incantesimi di Guinevere.

Arthuria lanciò un’occhiata di traverso a Lancelot, e sospirò internamente di sconforto; non ci sarebbe stato da stupirsi, se la maga avesse preferito, di lì a poco tempo, trascorrere del tempo con lui. Non ci sarebbe stato da stupirsi nemmeno se lui fosse diventato re al posto suo: era Lancelot quello coraggioso, capace, testardo, e carismatico.

Lei era solamente… una ragazzina, che tendeva a starsene per i fatti suoi, che non riusciva a praticare nemmeno i fondamenti della magia nonostante le fossero stati insegnati in mille modi, che non poteva sperare di superare la capacità di uso della spada di Lancelot, e che nessuno voleva al proprio fianco perché non era altro che una mocciosa che tutti avevano avuto la sfortuna di ritrovarsi come unica erede legittima del re.

Per di più, era solo lei, quella per cui Guinevere continuava a preoccuparsi.

La sentì sospirare, e rimanere in silenzio per qualche attimo.

«Lancelot. Avevi detto che in cambio dell’insegnamento delle magie mi avresti anche insegnato a combattere, vero?» disse poi.

Arthuria sobbalzò, e si voltò verso Lancelot; lo vide esitare un secondo, sorpreso forse dalla domanda, e poi annuire.

«Ma così sarebbero due favori al prezzo di uno.» commentò Guinevere, inarcando un sopracciglio. «Qualcosa che va contro lo scambio equivalente che è la legge base dei maghi.»

«Due favori?» domandò Lancelot. «Ah, sì, perché l’allenarsi con Arthuria era un favore, in effetti…»

Guinevere sorrise, e si rivolse ad Arthuria. «Quindi, Arthuria, si può fare così. Io ti insegno a padroneggiare la magia, dovesse costarmi anche gli anni. E tu in cambio mi insegni a combattere.»

Arthuria la fissò per qualche attimo, sconcertata; sembrava estremamente ferma, e decisa.

«Ma così sarebbero due favori contro uno, ancora.» obiettò Lancelot, anticipando la domanda che stava per farle. Guinevere e Arthuria si voltarono verso di lui, sorprese. «Beh, sì.» proseguì lui, stringendosi nelle spalle, come imbarazzato per aver interrotto qualcosa. «Hai detto che se lei torna al castello e si riposa, in cambio insegni la magia sia a me che a lei.» spiegò. «Se le chiedi anche di allenarti, sarebbero due favori in cambio di uno. E saresti ancora fuori dallo scambio equivalente.»

Guinevere si fermò a guardarlo per qualche istante, pensierosa in viso; e lo stesso fece Arthuria, scrutandolo, sorpresa dalla costatazione.

Lanciò un’occhiata a Guinevere, inclinando la testa, e pensando al da farsi.

Sapeva che la soluzione era una sola.

E tutto sommato, avrebbe anche potuto metterla in pratica.

Ma non capiva una cosa.

«Guinevere. Posso farti una domanda?»

Guinevere si voltò verso di lei, mostrando un’espressione pronta a rispondere alla domanda successiva.

«Perché vuoi imparare a combattere?» le chiese Arthuria.

Una cosa del genere le risultava incomprensibile: a combattere c’erano lei e Lancelot. E già lei stava avendo difficoltà ad imparare l’arte della spada, pur allenandosi da una vita: quella era la prova lampante che le donne fossero poco portate per il combattimento, malgrado gli sforzi, e che in forza fisica non sarebbero mai riuscite a sopraffare un uomo.

Guinevere aveva visto gli allenamenti: aveva compreso quel concetto esattamente come l’aveva capito lei. E per di più, aveva già quattordici anni: cos’avrebbe potuto ottenere, se avesse iniziato ad allenarsi in quel momento?

Entrambe sapevano la risposta.

E l’ultima cosa che Arthuria voleva era che combattesse e che rischiasse di morire in guerra.

Guinevere e la guerra non c’entravano assolutamente nulla l’una con l’altra.

La maga sorrise, e inclinò la testa.

«Perché uno di voi due un giorno estrarrà questa spada.» spiegò, voltandosi a guardare Caliburn. Arthuria e Lancelot la imitarono, fissando la spada. «Ho la sensazione che sarà così: sarà uno di voi due, a diventare il re della Britannia.» disse. «E a quel punto, l’altro sarà comunque un valoroso cavaliere.» proseguì. Arthuria la guardò, sorpresa dal tono lievemente intristito e malinconico che aveva adottato. «Mentre io, a quel punto… a cosa vi servirò?»

Arthuria spalancò gli occhi, sentendo all’improvviso un groppo in gola per quella frase. E il desiderio di abbracciarla, e di farle capire che non avrebbe mai permesso che lei si sentisse fuori posto; che il suo futuro fosse di diventare re, o cavaliere, o una poveraccia rinnegata dal regno, sapeva che non avrebbe mai permesso che Guinevere si sentisse inutile per lei.

Ma poi, come poteva pensarlo? Era così ovvio che lei e Lancelot fossero fatti per stare insieme. Se Lancelot fosse diventato re – come era probabile che accadesse –, lei sarebbe sicuramente diventata la sua regina.

Sentiva una stretta allo stomaco al solo pensarci, quello era innegabile: il pensiero che Lancelot diventasse re al posto suo, e soprattutto che lui e Guinevere stessero insieme per il resto della vita, le faceva male.

Ma se quello… se quello poteva valere a Guinevere la felicità, allora…

Guardò Lancelot, in cerca di una sua parola per confortare Guinevere; ma lui sembrava ancora più smarrito e stupito dalla frase di lei, dato che stava fissando la maga con un’espressione a dir poco allibita.

Lo pregò mentalmente di dire qualcosa. Qualsiasi cosa in grado di tirarla su, e di farle passare quell’idea dalla testa.

Ma più andavano avanti i secondi, più si rendeva conto che Lancelot sapeva cosa rispondere ancora meno di lei.

Arthuria tornò a voltarsi verso Guinevere; e sentì il moto di prenderla per mano, e di abbracciarla.

Ma non lo fece; rimase distante da lei, e aprì la bocca per dire qualche parola.

«Non è…» azzardò.

Guinevere alzò la testa, e rivolse lo sguardo verso di lei; sembrava sorpresa che le si stesse rispondendo qualcosa.

Arthuria deglutì a vuoto per un istante, e poi decise di proseguire la frase.

«Non è mai stato un rapporto di scambio equivalente di favori, il nostro.» disse, seria. «Tu… non devi sentirti inutile. Non è così. Basta che…» azzardò, esitando un istante sulle parole. «…che quando uno di noi due diventerà re… e l’altro cavaliere… se lo diventeremo…» precisò, lanciando un’occhiata a Lancelot, per poi tornare a guardare lei. «Basta che, in quel momento, e anche dopo… tu stia con noi. Al nostro fianco. Basta che… che tu rimanga lì, a consigliarci su quello che dobbiamo fare quando non sappiamo cosa fare… a rimproverarci, quando stiamo per fare qualcosa di sbagliato, o l’abbiamo fatto… a starci vicino, quando dovremo prendere qualche decisione importante… Basta che tu stia lì, Guinevere.» ripeté, abbassando per un attimo lo sguardo, per poi tornare a rivolgerlo a lei. «Basta che tu… non ci lasci.»

Guinevere la fissò, con gli occhi spalancati; forse per la sorpresa di quello che Arthuria aveva appena detto. Arthuria stessa non sapeva da dove le fossero uscite quelle parole; le era sembrato di non riuscire più a ragionare, se non in funzione del fatto di voler far star meglio Guinevere, e di dirle quello che pensava, e che sentiva.

«Sì… giusto.» si aggiunse Lancelot, facendo mezzo passo avanti. «Tu sei importante per noi. Non vogliamo che tu rischi la vita in combattimento.»

Arthuria abbassò lo sguardo, contrariata verso sé stessa. Perché Lancelot riusciva sempre a dire quello che avrebbe voluto dire lei? Perché lei non riusciva mai ad anticiparlo?

Per qualche attimo, ci fu solo il silenzio; poi, Arthuria sentì un suono stizzito provenire da Guinevere, e alzò lo sguardo per guardarla.

Spalancò gli occhi, al notare che la sua espressione era contratta in una smorfia che era a metà tra la furia e il pianto; vide che aveva gli occhi lucidi, e che si stava mordendo il labbro per non piangere.

«Siete…» azzardò la maga, a bassa voce. Arthuria lanciò un’occhiata a Lancelot, di nuovo incerta sul da farsi; ma lui, di tutta risposta, ricambiò l’occhiata nello stesso momento, confuso quanto lei.

«Siete due stupidi…!» esclamò Guinevere, alzando la voce. Arthuria e Lancelot sobbalzarono, e si voltarono verso di lei, allibiti; ma Guinevere non ci fece caso, e proseguì. «Per quale… diavolo di motivo pensate che io starei tranquilla, al pensarvi in battaglia, mentre io me ne starei comoda comoda in un qualche rifugio sicuro?! Per quale diavolo di ragione pensate che per me vada bene lasciarvi andare a combattere senza dire nulla?!» disse. Arthuria, con la coda dell’occhio, notò che stava stringendo i pugni, da tanto era arrabbiata; e alzando lo sguardo nel suo, non poté fare a meno di pensare che forse non aveva tutti i torti. «Pensate che, dato che siete così capaci… e che ho fiducia in voi… Pensate che non mi preoccuperei?! Come siete abili voi, ce ne sono altri mille! E uno di quei mille potrebbe essere vostro nemico! Per quale diavolo di motivo pensate che io… che io non mi preoccuperei, sapendo che siete a combattere?! Perché pensate che non vorrei fare qualcosa anche io, fosse soltanto lo starvi vicino in battaglia per assicurarmi che voi ne usciate sani e salvi?!»

Arthuria la fissò, sconcertata.

Dalle parole, innanzitutto.

Ma anche dal fatto che Guinevere stesse guardando lei, mentre le pronunciava.

Era sempre lei, a farla preoccupare.

Era sempre lei, quella per cui Guinevere aveva apprensione.

Lei, e non Lancelot.

Assottigliò gli occhi, furiosa con sé stessa.

«Perché è il nostro compito.» ribatté, freddamente. Guinevere sobbalzò, sorpresa. Arthuria evitò di farci troppo caso, e proseguì. «Perché ognuno ha il proprio ruolo, nel mondo.» aggiunse. «E quello mio e di Lancelot è di combattere. Il mio, perché sono l’unica erede legittima di Uther Pendragon, e qualunque sarà il nuovo re, io sarò al suo servizio, se me lo permetterà; e quello di Lancelot, perché lui è figlio della Dama del Lago. E forse è la strada che ha scelto lui.» spiegò. «Il tuo, Guinevere, non è di combattere. Il combattimento non è qualcosa di adatto alle donne; io sono un’eccezione dovuta alle circostanze.» precisò. «Le tue doti sono quelle di una maga. Il tuo compito è essere una maga.» disse. Esitò, e abbassò lo sguardo, sentendo un dolore allo stomaco al solo pensiero di quello che le era venuto in mente di dire dopo quella frase; preferì attribuirlo al fenomeno che le si era presentato quella mattina, piuttosto che alla sensazione che sentiva sempre al pensare che Guinevere sarebbe stata di Lancelot, un giorno. «E di essere la sposa di qualcuno. Forse.» aggiunse, a voce più bassa. «Io e te non siamo nella stessa posizione, e non abbiamo gli stessi compiti.» ribadì, tornando a guardarla.

Non trovò altre parole da dire; e pensò di aver espresso più che bene il concetto.

Eppure, si sentiva male al solo pensiero di averla ferita.

Si vergognava per aver stroncato così la sua volontà, e quello che pensava.

Si vergognava per essere una femmina che stava dicendo quelle cose a un’altra femmina.

Abbassò lo sguardo, sentendo un’altra fitta alla pancia.

«Forse è davvero meglio che io torni a Tintagel.» commentò, rivolgendosi a Lancelot. «Non si tratta di… del favore che mi ha chiesto Guinevere. Solo, credo di non essere in grado di combattere, oggi. Ti chiedo perdono, Lancelot.»

Lancelot annuì, con un mezzo sorriso che voleva sembrare, forse, comprensivo.

«Non preoccuparti. Recupereremo domani. Parlane con Merlin.» disse.

Arthuria annuì di rimando, e si voltò verso Guinevere.

Non sapeva nemmeno se salutarla o no.

La fissò, mentre teneva lo sguardo basso, in un’espressione che le sembrò solo ferita.

Avrebbe voluto abbracciarla.

Se solo non fosse stata lei, la causa di quella ferita…

Se solo fosse stato Lancelot, per una volta, a dire quelle parole…

Se solo Guinevere si fosse preoccupata anche per lui…

…se solo lei fosse stata abbastanza forte da non farla preoccupare per la propria sorte.

Chiuse gli occhi, con lo stomaco che le si stringeva sempre di più, mano a mano che pensava a quello che aveva fatto.

Bisbigliò un “a domani, dunque”, e si avviò giù per il pendio della collina, passando di fianco a Caliburn senza degnarla di uno sguardo.

Maledicendo quel suo essere diventata adulta che, per una volta che lei avrebbe veramente voluto correre giù e scappare da tutto, glielo impediva per il dolore.

 

 

Lancelot rimase a fissare per qualche attimo Arthuria mentre scendeva la collina.

Andava a rilento, rispetto a quello che si sarebbe aspettato dopo quella che, ai suoi occhi, era stata una sfuriata in piena regola nei confronti di Guinevere. Si teneva la pancia, come se ci fosse qualcosa che le doleva proprio in quel punto. Il famoso passaggio all’età adulta, a quanto pareva, non era proprio quella che si potesse definire una passeggiata.

Si voltò a guardare Guinevere, ancora esterrefatto dalle parole che aveva pronunciato poco prima.

Sembrava distrutta; sull’orlo di scoppiare a piangere, e intenzionata a trattenersi per chissà quale motivo d’orgoglio.

Non capiva nemmeno se dovesse dimostrare a lui di essere in grado di trattenersi dal piangere; o se, piuttosto, dovesse dimostrarlo a se stessa.

Una cosa, però, la sapeva; Guinevere avrebbe preferito mille volte che fosse stato lui, a dirle quelle parole, con quella freddezza, e che fosse stato lui ad andarsene in preda alla rabbia.

L’aveva capito nel momento in cui Guinevere aveva detto quel “io a cosa vi servirò?”.

Aveva avuto il sospetto, in quei mesi, che Guinevere provasse qualcosa di più dell’amicizia per Arthuria; e quel sospetto era stato alimentato a non finire: Guinevere aveva occhi solo per lei, la trattava sempre con riguardo, e cercava, in tutti i modi, di esserle utile e di aiutarla, e di fare il suo bene – anche il chiedergli di darle una mano con gli allenamenti, in realtà, rientrava in tutto quello.

Lo sguardo di Guinevere era sempre, e costantemente, puntato verso Arthuria. Mai verso di lui.

Rimpianse di non aver detto quelle frasi al posto di Arthuria, in quel momento. Non avrebbe dovuto essere lui, ad essere lì, a mettere una mano sulla spalla a Guinevere e ad accarezzarla sulla schiena, osservandola mentre lei chiudeva gli occhi in un gesto di stizza verso sé stessa, e non parlava.

Guinevere non voleva lui. E lui l’aveva capito da tempo – quella frase, quel “io a cosa vi servirò?”, era stata solo la conferma che Guinevere desiderasse solo essere al fianco di Arthuria; e sarebbe stato quello, il suo desiderio per il resto della vita.

Lui si era intromesso in qualcosa in cui non avrebbe dovuto stare; forzato dalla stessa Guinevere, certo – ma era in mezzo a loro, ed era praticamente un terzo incomodo.

E sapeva che Arthuria la pensava allo stesso modo, e voleva che lui non fosse lì. Sapeva che in quel momento, mentre scendeva la collina, si stava pentendo di averlo lasciato lì, insieme a Guinevere; e sapeva anche che era convinta di quello che aveva detto, e che non avrebbe cambiato idea – non facilmente, almeno.

«Guinevere.» la chiamò, a bassa voce, inclinando la testa di lato per guardarla in volto.

Guinevere gli lanciò un’occhiata che riuscì a sembrargli solo irritata; poi, scostò la spalla dalla sua mano, e si voltò, lasciando a intendere che voleva starsene da sola.

Come se lui fosse tanto insensibile da lasciarla lì.

«Ehi, senti!» protestò, mettendosi le mani sui fianchi, spazientito. «Lo so bene che vorresti che al posto mio ci fosse lei! Ma se continui a darle a intendere di preoccuparti per lei, non puoi pretendere che dopo un po’ non si irriti! Lo sai meglio di me com’è fatta!»

Guinevere si voltò verso di lui, gli occhi spalancati per la sorpresa.

Per qualche attimo lo fissò, senza parole, e con un’espressione completamente mutata rispetto alla precedente.

«Dare a intendere… di preoccuparmi per lei?» domandò; sembrava confusa.

Lancelot sbuffò. «Vuoi farmi credere che non te ne sei resa conto? L’avrebbe notato chiunque.» spiegò. «Quando hai parlato del preoccuparti per il fatto che se fossimo cavalieri e andassimo in guerra rischieremmo... hai guardato solo lei, mentre lo dicevi. Non ti sei girata nemmeno una volta verso di me.»

Guinevere spalancò ulteriormente gli occhi; sembrava sempre più esterrefatta da quello che lei stessa aveva fatto.

«…Davvero?» domandò.

«Davvero.» replicò Lancelot, annuendo. «E fai sempre così. Come credi che lo interpreti lei?» proseguì, sospirando. «E’ cresciuta in un ambiente in cui non c’è anima viva, a parte Merlin, che creda che lei diverrà il futuro re. Eppure, quello è lo scopo della sua vita. E tu le hai fatto credere che l’avrebbe realizzato, da quello che mi hai raccontato sulla prima volta che vi siete viste. Ora che vede che tu ti preoccupi in continuazione per lei, e solo per lei… cosa credi che vada a pensare? È ovvio che pensi che io sia sufficientemente forte da non meritare le tue preoccupazioni, e lei invece non lo sia abbastanza.» spiegò. «E se ci aggiungi che prova un profondo affetto per te, e non ti vuole vedere ferita… pensi che accetterebbe così, come se niente fosse, l’idea che tu vuoi combattere per stare al nostro fianco, e invischiarti in una guerra quando non ci sei portata?»

Guinevere mostrò un’espressione stizzita che lo stupì; poi, realizzò quello che aveva detto, e capì.

«Io non voglio… semplicemente stare lì, a guardarvi.» disse lei, anticipando ogni suo tentativo di chiarimento. Lancelot si bloccò, e la fissò, sorpreso. «Io… vorrei esservi d’aiuto anche da quel punto di vista…»

Sospirò, pazientemente. «Perché?» domandò. «Sai bene di non essere portata per il combattimento. Sai che, non essendoti allenata per quattordici anni, non puoi sperare di raggiungere un buon livello ora. E sai che non serve che tu combatta, per esserci d’aiuto.» commentò. «Perché vuoi farlo?»

Guinevere esitò per qualche secondo, lo sguardo basso e i pugni stretti.

E Lancelot chiuse gli occhi, e sospirò.

«E’ per lei, vero?»

Guinevere si strinse ulteriormente nelle spalle; sembrava determinata in quello che faceva, eppure reagiva come qualcuno che volesse proteggersi dagli altri.

Non rispose; voltò solo la testa di lato, tenendo gli occhi bassi.

«Da cosa la vuoi proteggere, Guinevere? Arthuria è un talento del combattimento con la spada. Sa difendersi benissimo, anche da me.»

«Arthuria è una femmina.» replicò Guinevere, alzando lo sguardo verso di lui, seria.

Lancelot sobbalzò, sorpreso da quella costatazione: entrambi sapevano bene che Arthuria odiava essere considerata come tale. Sapeva di esserlo; ma non amava la propria natura fisica. E non amava essere trattata prima come una femmina, che come un guerriero.

«Arthuria è una femmina e, per quanto sia capace, sarà sempre più debole di molti uomini, fisicamente parlando.» proseguì Guinevere. «Lo sappiamo tutti e tre, questo. E io non voglio essere quella che se ne sta in disparte, a sperare di vederla tornare incolume dal campo di battaglia, a pregare che vada tutto bene, e che qualcuno non la colpisca alle spalle, e che gli altri siano in grado di proteggerla. Io voglio essere… una parte attiva nel proteggerla. Nell’aiutarla, anche su quel fronte.»

Lancelot la fissò; non poté trattenere lo stupore, nel vedere come gli occhi di lei brillavano di decisione, mentre diceva quello – mentre pensava, e sentiva, che era quello, ciò che voleva fare.

E tutto per Arthuria.

Quante volte le aveva visto brillare gli occhi così, anche quando parlava di lei? Forse, quella volta, erano davvero più brillanti di quanto avesse mai visto.

Era determinata a tutto. Si sarebbe allenata anche da sola, avrebbe preso le armi per conto proprio, anche in incognito se fosse stato necessario. Ma avrebbe combattuto. Perché era quello che voleva fare.

Lancelot la vide chiudere gli occhi, e trarre un profondo respiro.

«Lancelot.» disse, a voce più bassa. «Lo so, che hai capito come stanno le cose.»

Lui la osservò per qualche istante; il suo tono, e tutta la sua espressione, sembravano tesi, in attesa di un giudizio di cui lei temeva il contenuto.

«Dopo quello che hai detto, mi pare ovvio.» commentò lui, cercando di far trasparire il più possibile la propria tranquillità.

Guinevere rimase per un secondo in silenzio; poi, aprì gli occhi, stavolta con una luce che, mista alla determinazione, aveva anche l’attesa di un suo particolare responso.

«Lo capisci, allora, quello che voglio dire?» domandò. «Lo capisci, che voglio stare vicino a lei, e aiutarla in qualunque modo che mi sia possibile?»

Lancelot rimase fermo per un attimo; poi, sospirò, e annuì.

«Sì, lo capisco.» disse. «Ma capisco anche che è pericoloso, Guinevere.»

«Ho già provato a difendermi con gli spiriti del vento, e ci…»

«Non per quello.» la interruppe Lancelot. Guinevere sobbalzò, e lo fissò negli occhi, stupita; lui abbassò lo sguardo, e assottigliò le palpebre. «Non… solo per quello.» precisò. «Sai meglio di me che… Arthuria non è cresciuta con le leggi dei maghi, e con la morale dei maghi. Per quanto sia stata addestrata e istruita da Merlin, lei non crede in quello in cui tu e io siamo stati abituati a credere.» disse, sollevando di nuovo la testa e rivolgendosi direttamente a lei. «Se… scoprissero quello che provi… Guinevere, non farmi pensare a quello che potrebbe succedere. Sarebbe peggio che vederti morire perché ammazzata in guerra, credo.»

Guinevere abbassò la testa, assumendo un’espressione che sembrava più pensierosa che spaventata; e Lancelot intuì che lei doveva aver già pensato alle conseguenze che avrebbe potuto avere una scoperta di quello che provava nei confronti di Arthuria. Sapeva già cos’avrebbe dovuto affrontare; e anche cosa fare, probabilmente.

Il punto però era: quello che aveva pensato di fare era giusto, o sarebbe stato dannoso per lei?

«Allora insegnami a combattere.» disse Guinevere, alzando di nuovo gli occhi, decisa. «Nessuno scoprirà quello che provo, se la mia giustificazione per stare vicino a lei sarà che sono semplicemente uno dei tanti cavalieri del re.»

Lancelot sospirò, all’ennesima conferma del fatto che Guinevere pensasse che sarebbe stata Arthuria, a riuscire a estrarre Caliburn dalla roccia, e non lui; aveva già intuito anche che la maga la pensasse così – e, a essere onesto con sé stesso, era qualcosa che in fondo pensava anche lui.

La fissò negli occhi azzurro-verde, serio; e riuscì a vedervi solo determinazione.

«E tu riusciresti a nasconderlo, Guinevere?» le chiese. «Riusciresti… a tenertelo dentro per tutta la vita?»

Guinevere ricambiò, con altrettanta serietà. Rimase in silenzio per un solo secondo; giusto il tempo di ponderare bene la propria risposta, e il peso che avrebbe avuto.

«Sì.» rispose alla fine. «Se il nasconderlo porterà al suo bene, sono disposta a nasconderlo per tutta la vita.»

Lancelot osservò i suoi occhi, e la sua espressione: non tradiva il minimo di insicurezza, in quello che aveva detto.

Mostrava solo una compostezza, una fierezza, e una determinazione che ebbero l’unico risultato di farlo intristire, per la missione per cui venivano mostrate.

Guinevere avrebbe vissuto nella più completa solitudine, e avrebbe rimpianto sempre quella decisione, e l’essere nata come donna; e avrebbe continuato a cercare la forza di portare avanti la propria scelta, trovandola chissà dove, e chissà come.

Il ragazzo sospirò, e le si avvicinò, allungando un braccio verso di lei e stringendola a sé.

La sommità della testa di Guinevere arrivava a sfiorargli il mento; e lei aveva le spalle piccole, strette, ed era magrolina.

Eppure, aveva più determinazione e forza di quanta ne avessero cavalieri grandi e grossi.

«Cosa fai?» gli domandò lei, dopo il primo attimo di stupore.

Lancelot sorrise, intenerito dal fatto che, malgrado quella domanda scontrosa, lei avesse appoggiato la fronte alla sua spalla.

Sospirò, e alzò gli occhi al cielo.

«Potrai fare così tutte le volte che vuoi.» disse. «Quando ti sentirai sola, e avrai bisogno di qualcuno con cui piangere… puoi venire da me. Farò così, non ti guarderò mentre lo farai, e tu magari ti sentirai un po’ meglio e capirai che non sei sola.»

Sentì Guinevere ridacchiare, e poi accucciarsi meglio contro la sua spalla.

«Grazie.» la udì mormorare; e lui sorrise, certo che anche sul viso di lei vi fosse la stessa, identica espressione.

 

 

 

Il giorno dopo, Guinevere si addentrò nella foresta prima che sorgesse il sole.

Aveva riflettuto per tutto il giorno precedente su ciò che lei, Lancelot e Arthuria si erano detti sulla collina di Caliburn; ed era arrivata alla conclusione di non desistere dai propri intenti, per nessuna ragione al mondo. Arthuria avrebbe potuto opporsi, o avrebbe potuto infuriarsi perché lei le dedicava attenzioni e si preoccupava per lei e non per Lancelot. Ma lei non avrebbe abbandonato il proposito di imparare a combattere: avrebbe chiesto a Lancelot di insegnarle, e se anche lui si fosse di nuovo rifiutato, avrebbe chiesto a qualche allieva della Dama del Lago, o alla Dama del Lago stessa.

Non si sarebbe fatta proteggere. E non sarebbe stata in disparte, come una tranquilla mogliettina apprensiva, a preoccuparsi della sorte di Arthuria in guerra. Avrebbe combattuto al suo fianco. Le sarebbe stata vicina, nel bene e nel male.

Non sapeva nemmeno quando fossero nati in lei pensieri del genere, e intenti di quel tipo: era una questione su cui aveva riflettuto più e più volte, senza trovare però una conclusione soddisfacente.

Era qualcosa che era sorto in un momento non ben preciso: frequentando tutti i giorni Arthuria, apprendendo la sua storia, ascoltando le sue parole, e prendendo coscienza dei suoi sentimenti e dei suoi pensieri – molti dei quali, lo intuiva, raccontava solamente a lei –, aveva maturato col tempo il desiderio di starla ad ascoltare di più, e di apprendere anche i più piccoli dettagli della sua vita privata, e di non relegare il tutto a qualche minuto passato sulla collina di Caliburn; e quel desiderio si era trasformato in quello di stare al suo fianco, e di proteggerla da ciò che avrebbe rischiato di farla soffrire. L’aveva già vista abbastanza triste quando parlava della madre o della sorella, o quando aveva accennato al fatto che per lei prendere in mano Caliburn non era un desiderio, ma un dovere; non voleva più vederla stare male così.

Voleva aiutarla ad essere felice, malgrado la strada che era stata costretta a percorrere.

E voleva farla vivere più a lungo possibile, in modo che lei potesse accumulare esperienze, e fare tesoro della propria vita che, troppo spesso, Arthuria considerava solo qualcosa di trascurabile.

Guardò in alto, mentre le foglie cadute dagli alberi scricchiolavano sotto i suoi piedi; tra le fronde, si poteva ancora vedere il bagliore della luna e delle stelle risplendere, pallido, nel cielo non ancora albeggiante.

Ritrovò la strada per il rifugio in cui si era rintanata più e più volte, in quegli ultimi due anni, per acuire la propria capacità di interagire con gli spiriti della natura. Era quello, il primo passo per l'apprendimento della magia: entrare in contatto con uno spirito della natura avrebbe garantito al mago la capacità di utilizzare e manipolare la materia a proprio piacimento. Passare al grado di apprendimento successivo a quel punto sarebbe stato facile: il mago sarebbe stato in grado di modificare la sostanza di qualcosa, tramite la magia della natura, o modificarne la forma, tramite la magia della forma.

Guinevere si trovava in quel rifugio ad esercitare le proprie capacità nella magia della forma, in cui era meno capace rispetto alla magia della natura, quando un giorno di quasi un anno prima aveva incontrato Lancelot.

Effettivamente, se ci si voleva rifugiare nel bosco, quello e la piccola casetta in cui abitavano lei e sua madre erano gli unici posti disponibili; perciò era abbastanza logico che prima o poi qualcun altro lo trovasse.

Lancelot era lì per allenarsi nel controllo degli spiriti della natura; ma era a un livello decisamente inferiore al suo. Probabilmente la Dama del Lago, all’epoca, aveva insegnato da poco la magia al figlio, preferendo allenarlo prima nell’uso della spada.

Lei e Lancelot si erano soffermati a litigare per un po’ per decidere a chi spettasse il passare il tempo nel rifugio, e poi Guinevere si era offerta di aiutarlo, in cambio di un paio d’ore passate lì dentro da sola: non avrebbero potuto stare insieme ad allenarsi, visto che Lancelot, nell’atto di ampliare il proprio spirito in modo da interagire con quelli della natura, avrebbe interferito con l’ampliamento dello spirito di Guinevere, per via della sua poca esperienza.

Lancelot aveva accettato, e dopo una breve spiegazione, seguita dalla supervisione di Guinevere e da un suo successo – seppur poco duraturo; una cosa normale, d’altronde, quando si era agli inizi –, aveva lasciato che fosse lei a fare pratica. Ed era rimasto talmente stupito dalle sue capacità, che le aveva chiesto un aiuto per il proprio, di allenamento.

Era stato in quel momento che Guinevere, chiedendogli cosa potesse offrire in cambio, e sentendo la risposta di Lancelot sulla propria capacità di usare spade e lance, aveva pensato ad Arthuria e al suo allenamento.

Non aveva però osato proporre la cosa a Lancelot, almeno non subito: aveva preferito conoscerlo meglio, e sapere con chi avrebbe avuto a che fare.

Ed era stato così che avevano fatto amicizia. Lancelot era un tipo molto estroverso ed esuberante; entrava facilmente in confidenza con chiunque ed era un gran chiacchierone. E lei aveva trovato affascinante, oltre che piacevole, quel lato della sua personalità: non aveva avuto problemi a comunicare con lui e a scherzare con quello che, nell’arco di pochi giorni, era diventato un amico.

Sorrise malinconicamente, riflettendo su quell’incontro mentre si affacciava dalle fessure dell’abitazione che servivano a far passare l’aria esterna, per controllare che non vi fosse nessuno dentro; Lancelot aveva una sorta di capacità empatica che gli consentiva di capire al volo quello che passava per la mente delle persone che conosceva. Era stato lo stesso, il giorno prima: aveva capito subito che cosa lei provasse per Arthuria – l’aveva compreso già da tempo; di quello, Guinevere era assolutamente sicura. E aveva capito quanto ci stesse male, ma quanto non potesse, al tempo stesso, fare nulla di più che accettare la realtà dei fatti e decidere di arrivare a combattere, pur di starle vicino.

Eppure, non le aveva detto che l’avrebbe allenata lui – tutt’altro: gli aveva proposto di andare a chiedere comunque ad Arthuria di istruirla sul combattimento, spiegandole le proprie ragioni, e garantendole che in cambio lei le avrebbe insegnato le arti magiche utili in battaglia.

Era per quello, che Guinevere si trovava lì. Lei doveva apprendere l’uso delle armi dalla base, come Arthuria doveva imparare ad entrare in contatto con gli spiriti della natura e, successivamente, ad usare magie più complesse, se necessario. E quello era il luogo in cui era entrata per la prima volta davvero in contatto con gli spiriti della natura: era stato lì, che aveva davvero sentito il contatto con uno degli spiriti del vento che risiedevano nella foresta; era stato lì, che era stata in grado di toccarlo, perché la forma di quello spirito era quella di un’entità palpabile che si era mostrata a lei e che voleva entrare in contatto con lei.

Lì c’era l’origine del suo controllo degli spiriti del vento. E doveva tornare alle origini, se voleva capire come avesse fatto: ormai era talmente abituata a interagire con la natura che non ci faceva quasi più caso. E anche Lancelot, per quanto meno bravo di lei, ormai era talmente avvezzo all’interazione con gli spiriti da non ricordarsi facilmente come avesse iniziato.

Per quanto la riguardava, era qualcosa di simile al respirare: un atto quasi involontario. Ma per Arthuria non era lo stesso: lei non aveva la minima idea di come fare, ad ampliare il proprio spirito e a contattarne un altro.

Entrò nel rifugio, forzando la porta sgangherata e fuori dai cardini, ed avanzò all’interno della minuscola casetta.

L’interno era buio e pieno di polvere; dalle fessure che facevano passare la luce durante il giorno entravano rami di piante rampicanti, e foglie di alberi troppo bassi per salire al cielo. Un tempo quello doveva essere stato il rifugio di qualcuno: lo si poteva notare dal tavolo ancora presente, relegato in un angolo, costruito con legno che ormai sembrava quasi marcio, e con la superficie coperta da un dito di polvere; e dal letto, addossato alla parete opposta alla porta, con lenzuola sudicie e grigie.

Eppure, in quel luogo si sentiva l’odore della natura in quanto tale.

Si sentiva il profumo dell’erba bagnata di rugiada e di umidità del sottobosco; la fragranza dei fiori non ancora aperti; l’odore quasi pungente di alcuni tipi di alberi che circondavano la casupola; la forza del legno, che resisteva alle intemperie e al tempo.

Guinevere inspirò profondamente quella mescolanza di fragranze, e chiuse gli occhi per qualche istante.

Poi, li riaprì, e si piazzò al centro del rifugio, ritta in piedi sul pavimento di legno da cui facevano capolino, attraverso alcune fessure, dei fili d'erba, e su cui camminavano gli insetti.

Chiuse gli occhi di nuovo, e tentò di concentrarsi, e di evocare lentamente uno spirito qualunque della natura, riapprendendo, passo per passo, il metodo con cui farlo.

Doveva ampliare il proprio spirito. E sua madre le aveva insegnato che ampliare lo spirito significava innanzitutto ascoltare l’esterno: i rumori della natura, lo scrosciare della pioggia, lo stormire delle fronde. Acuire i sensi, alle volte fino ad udire un fiume a miglia di distanza: era quello, che un mago particolarmente bravo avrebbe saputo fare – e sarebbe successo perché sapeva fondersi con la natura, fino a viaggiare all’interno della terra o dell’aria pur rimanendo, con il corpo, in un posto preciso.

Inspirò a fondo di nuovo, concentrandosi innanzitutto sul rumore del proprio respiro; poi, lentamente, mentre espirava, si concentrò su più suoni contemporaneamente – il fruscio delle foglie degli alberi circostanti; il pigro soffio del vento; il canto dei grilli; lo spostamento delle foglie all’esterno, sull’erba, sempre per opera del vento; e poi, più attentamente, anche sul lieve rumore dei passi delle formiche, e degli insetti sui muri dell’abitazione; fino ad arrivare al suono fatto dal legno, che si piegava al loro passo, e sotto il peso del suo corpo.

Sapeva che, a quel punto, metà del lavoro era fatto; il resto consisteva nel lasciare che la natura comunicasse qualcosa a lei. Il suo spirito si era espanso perché i suoi sensi si erano acuiti: tramite quell’acuirsi, sarebbe stata in grado di udire anche il lievissimo passo di uno spirito del vento accanto a lei, o l’andatura felpata di uno spirito della foresta che si arrampicava su un albero, o l’altrimenti inudibile spostamento d’acqua fatto da uno spirito dell’acqua mentre si muoveva.

Di spiriti, la natura ne era piena. Sentiva i fruscii dei passi di diversi di loro a poca distanza da lei, sia del vento che della foresta; un paio erano addirittura all’interno della casa. Ma stavolta non doveva essere lei, a contattarne uno di proposito, come faceva abitualmente; ora doveva essere uno spirito, ad entrare in contatto con lei. Era così che avveniva l’iniziazione: gli spiriti erano esseri la cui volontà andava necessariamente rispettata, in modo da guadagnarsi la loro fiducia. La prima volta si doveva essere necessariamente contattati da loro, in quanto non si era abbastanza esperti per mantenere la concentrazione per l’ampliamento dello spirito e, nel contempo, per contattarne uno. Successivamente, diventava più semplice: ricevuto il contatto con uno di loro, se ne manteneva per sempre l’odore, e ciò giovava al contatto con altri spiriti – avere l’odore di uno di loro addosso significava essersi meritati la loro fiducia, e quindi meritarsi la fiducia di qualunque altro spirito. In genere, gli spiriti dello stesso tipo erano più propensi a dare il proprio aiuto a un mago che avesse contattato per primo un membro del loro gruppo: ad esempio, lei che era stata contattata per prima da uno spirito del vento era generalmente in contatto con spiriti di quella famiglia – pur essendo in grado di entrare in contatto anche con quelli delle altre.

Quella volta, lasciò che gli spiriti entrassero in contatto con lei; e percepiva chiaramente la loro perplessità, mentre le camminavano di fianco e voltavano la testa a guardarla, per il fatto che avesse già odore di spirito addosso, eppure non si avvalesse di quello per contattarli.

Rimase lì per minuti o ore; non capì esattamente quanto, e non vi diede nemmeno importanza.

Fu quasi all’improvviso, che sentì un’immensa presenza avvicinarsi a lei. Se non avesse avuto i sensi perfettamente tesi a percepire ogni movimento e ogni suono, probabilmente non se ne sarebbe accorta.

Era uno spirito del vento, ed era molto più grande di quelli con cui lei interagiva di solito.

Lo sentì avvicinarsi, spostando semplicemente l’aria, senza toccare terra. E percepì la sua immane potenza davanti a sé, dopo quelli che le sembrarono minuti. Di certo, non si era messo a correre per lei.

Tuttavia, era venuto lì per lei, lo sentiva. Rimase con gli occhi chiusi, concentrata a sentire il suo muoversi intorno a lei, in cerchio, come a studiarla; restò immobile, quando lui si piazzò davanti a lei, e inclinò la testa da un lato, e poi dall’altro, per qualche secondo.

Aprì le palpebre solo quando sentì la sua mano appoggiarsi sulla sua testa.

Era una creatura meno immensa di quanto si fosse immaginata, per quanto riguardava le dimensioni: arrivava quasi al tetto del rifugio ma, considerando che la casupola era bassa, lo spirito non era granché alto. Aveva una consistenza quasi lattiginosa, a malapena visibile nell’aria dell’alba; si stagliava prendendo una forma eterea e trasparente, e attraverso il suo corpo Guinevere poté vedere il letto in tutto il proprio sudiciume, e il pavimento della casa, e la parete di fronte a sé.

Eppure, aveva occhi, e bocca, e fattezze umane; e sprigionava una forza che la sua pelle, al tatto, recepì come abnorme.

Probabilmente non era, in forza, molto diverso dalla Dama del Lago, che pure era uno degli spiriti dell’acqua più potenti; ma mentre lei si presentava in forma assolutamente umana, quello spirito aveva un modo diverso di presentarsi. Estremamente simile a quelli del suo stesso gruppo.

All’esterno della casupola, Guinevere poté sentire la presenza di almeno un paio di centinaia di spiriti del vento, e di una cinquantina di quelli della foresta, che spiavano dalle finestre, o dalla porta, o dalle fessure nelle mura e sul tetto.

Ma non diede loro una sola occhiata; sollevò gli occhi verso lo spirito che aveva davanti a sé, decisa, ma lasciando che fosse lui il primo a parlare.

«Voi riportate già l’impronta di uno dei nostri, giovane maga.» esordì lo spirito, dopo qualche secondo, sollevando il mento nel guardarla. «Qual è la ragione per cui non avete appellato nessuno di noi di vostra sponte?»

Guinevere rimase in silenzio per un attimo, cercando le parole giuste per esprimersi.

«Esercizio delle mie capacità.» replicò. «E il richiamare l’attenzione di uno spirito della comunità abbastanza influente da potergli fare qualche domanda.»

Lo spirito restò zitto per alcuni istanti, ponderando la risposta da darle; dietro di sé, Guinevere sentì la quiete più totale degli altri, che assistevano alla scena.

«Ce l’avete davanti.» rispose allora lui, facendo un piccolo cenno d’assenso con il capo. «Voi siete…?»

«Guinevere, figlia adottiva della maga Cassandra, che vive in questo bosco.» replicò Guinevere.

Lo spirito annuì. «Cassandra è conosciuta, nel nostro bosco. È in contatto in particolare con i nostri simili della razza della foresta.» commentò. «Su di voi invece percepisco l’impronta di uno della nostra famiglia.» aggiunse. «Quali sono le vostre domande?»

Guinevere inspirò a fondo, chiudendo per un attimo gli occhi; poi, li riaprì, e lo guardò, decisa.

«Quali sono le prerogative che un aspirante mago dovrebbe avere, per entrare in contatto con voi, o con qualunque altra… razza di spiriti?» domandò, rifacendosi al termine usato da lui.

Lo spirito assunse per qualche secondo un’espressione che Guinevere definì pensierosa; poi, rispose.

«Noi capiamo quando qualcuno percepisce la nostra presenza.» spiegò. «Noi siamo, nella scala degli esseri viventi, i meno percettibili ai vostri sensi umani. Quando uno di voi sente la nostra presenza attraverso i sensi, lo si capisce da un semplice movimento dell’espressione facciale, o delle mani, o del corpo intero. Percepiamo che il vostro spirito diventa quello della natura che vi circonda, e che così sentite la natura dentro di voi.» disse. «Quando lo capiamo, a nostra discrezione, entriamo in contatto con voi. In genere chi ha più sensazioni olfattive entra in contatto con gli spiriti della foresta; chi ne ha uditive, con noi del vento; chi ne ha tattili, con quelli dell’acqua.» precisò. «Ma molto va a nostra discrezione.»

Guinevere annuì. «Quindi tutto starebbe nel concentrarsi sulle sensazioni che la natura dà.» commentò. «E nel fatto che voi lo percepiate.»

Lo spirito annuì. «Il che, tuttavia, non è una cosa semplice nei vostri giorni, giovane maga.» ribatté lui, pacatamente; Guinevere notò che il suo aleggiarle davanti emanava potenza, ma al tempo stesso non era opprimente. «Nei tempi antichi, noi spiriti e voi umani eravamo in stretto contatto. Tuttavia, col tempo, gli umani si sono concentrati sempre più su sé stessi, e gli spiriti hanno fatto lo stesso di rimando.» raccontò. «Ma evidentemente il nostro antico legame non si scinde facilmente: appena qualcuno di noi percepisce che uno di voi cerca un contatto, lo studia, e poi se lo ritiene meritevole lo stabilisce.» disse. «Ci sono, tuttavia, spiriti che su questo dissentono, e preferiscono non stabilire contatti con voi, in virtù dell’inizio dello stacco tra le nostre specie.» commentò, con una lieve punta di amarezza. «Guadagnarsi la fiducia di quelli è difficile.»

Guinevere assottigliò gli occhi. «Cosa si deve fare, di particolare, per essere ritenuti meritevoli?» domandò.

Sul viso dello spirito, Guinevere vide comparire l’abbozzo di un sorriso.

«Giovane maga, il semplice cercare un contatto con noi e riuscire nell’impresa di sentirci è già da giudicarsi abbastanza meritevole da guadagnarsi la nostra impronta.» disse. «Viene vista la buona volontà del mago, e la voglia di imparare nozioni che non sono poi così semplici.» commentò. «Ma se mi chiedi cosa si deve fare per guadagnare la fiducia di quelli più malfidenti, ebbene, ti dico che bisogna altresì dimostrare di avere un cuore sincero. Ciò stabilisce la purezza di intenti. E ciò viene visto dagli spiriti meno fiduciosi come segno che qualcosa, forse, è rimasto nel cuore degli uomini.»

D’istinto, Guinevere pensò ad Arthuria come la candidata adatta a quel ruolo. Ma perché non era mai riuscita ad interagire con gli spiriti, allora, se era così sincera con sé stessa?

«Forse conosco una persona di questo genere.» disse Guinevere; sentì, dietro di sé, il mormorare degli spiriti del vento e della foresta, a quell’affermazione; quel rumore era simile allo stormire delle fronde degli alberi. «Si tratta della candidata ideale ad estrarre Caliburn, almeno a mio parere.» spiegò.

«Caliburn è di competenza degli spiriti della montagna.» commentò lo spirito davanti a lei. «Sono loro che la tengono ancorata al suolo, e che la daranno solo a un cuore puro che se la merita.»

«Se puro significa lo stesso di sincero, allora stiamo parlando della stessa persona, secondo il mio modesto parere.» considerò Guinevere.

Lo spirito assottigliò gli occhi. «Voi parlate della giovane Arthuria Pendragon, che vive poco distante dalla roccia in cui è incastonata Caliburn.» asserì. Guinevere annuì, sollevata che anche loro pensassero lo stesso. «Gli spiriti della montagna cui è addossato il castello in cui lei e la sua famiglia vivono ci hanno parlato di lei.» commentò.

«Tuttavia, nonostante il suo cuore puro e il fatto che gli spiriti della montagna vi abbiano parlato di lei, lei non è mai riuscita, in un solo addestramento, a entrare in contatto con gli spiriti della natura.» disse Guinevere.

Lo spirito alzò una mano per interromperla. «Giovane maga, stai dando per scontato che la purezza e la sincerità siano per noi la stessa cosa. Non ho mai detto che sia così.». Guinevere esitò, sorpresa, e aspettò che lui parlasse di nuovo. «Una persona sincera è un tipo di persona che ammette le proprie colpe, i propri difetti, e i propri limiti.» spiegò. «Un cuore puro, invece, è un cuore libero da ogni male. E Arthuria Pendragon, ancora, non è né l’una, né l’altra cosa.» disse. «Arthuria Pendragon coltiva dolore, senza riuscire a disperderlo all’esterno di sé stessa. La storia della propria nascita le è nota, esattamente come le è evidente la ragione per cui sua madre non la voglia vedere, e del fatto che nessuno si fidi completamente di lei. Se vuole estrarre Caliburn, deve fare in modo di scindere sé stessa e questo tipo di dolore. Solo così il suo cuore potrà essere puro: altrimenti, il dolore potrebbe essere tale da scatenare, in futuro, rancore.» disse. «Allo stesso tempo, per essere pura dovrà dimostrare l’intenzione di farsi carico delle proprie responsabilità quando necessario, e talvolta anche quando non necessario. Dovrà conoscere, in sintesi, il senso del dovere verso sé stessa, e soprattutto verso gli altri.» disse. «Ma se mi stai chiedendo la ragione per cui non è mai riuscita a mettersi in contatto con noi spiriti della natura, ecco, è questa: il suo cuore è acerbo; lei è potenzialmente adatta a riconoscere i propri limiti e ad assumersi le proprie responsabilità, ma il fatto che gli altri nutrano poca fiducia in lei ha comportato il suo sottovalutarsi e, di conseguenza, non essere sincera con sé stessa e non riconoscersi per quello di cui è capace. Lei vorrebbe entrare in contatto con noi; ma lo ritiene un limite invalicabile, nel profondo, per quanto lei provi a superarlo, come prova a superare tutti i suoi limiti anche in combattimento. Tutto ciò genera un animo confuso e un cuore in tumulto, che vede i propri limiti più in basso rispetto a quanto realmente lo siano, e che vorrebbe innalzarli.» spiegò lo spirito. «Entrare in contatto con noi significa avere coscienza almeno di una parte di sé: quella che riconosce i propri limiti e le proprie capacità per quello che sono. Un cuore sincero, che non sia troppo umile né troppo superbo, ma che spinga a riconoscere sé stesso per quello che è, e a cercare costantemente di migliorarsi. Arthuria Pendragon, in questo senso, non ha lo spirito adatto a contattare nessuno di noi, in quanto lei non è sincera con sé stessa, seppure per cause esterne.» disse. «Se vuoi aiutarla» aggiunse; probabilmente aveva capito le intenzioni di Guinevere dall’inizio. «devi fare in modo che riconosca le proprie capacità per quello che sono, almeno in buona parte. Nel momento stesso in cui lo farà, avrà la capacità di acuire i propri sensi, e riuscirà a mettersi in contatto con qualcuno di noi. Qualcuno di potente, probabilmente. Quell’umana è destinata a fare grandi cose.» commentò.

Guinevere lo fissò, esterrefatta; in effetti, ora tutto si spiegava. La Dama del Lago, e sua madre Cassandra, avevano avuto fiducia in Lancelot e in lei; sapevano che ciò avrebbe comportato il riconoscimento di sé stessi, e dei propri limiti. Ed entrambi sapevano quali questi fossero. Entrambi avevano coscienza di sé stessi e riuscivano ad avere coscienza anche delle capacità di altre persone, forse proprio in virtù di questo.

Per Arthuria era diverso: nessuno si fidava di lei, e quindi lei si sottovalutava e non riconosceva esattamente ciò che era. Non aveva ancora coscienza di quello che era, e non confidava in quello che avrebbe potuto diventare.

Una volta che l’avesse avuta, sarebbe stata in grado sia di usare la magia, sia di estrarre Caliburn dalla roccia.

Lei doveva fare in modo che apprendesse cosa lei realmente fosse.

Inspirò a fondo, riflettendo sul da farsi; probabilmente, il far prendere consapevolezza ad Arthuria di quello che era sarebbe stata la parte più difficile del tutto. Ci sarebbero voluti davvero anni, forse, per farle capire che qualcuno che credeva in lei c’era davvero.

Riaprì gli occhi che aveva chiuso, e guardò ancora quello spirito, non troppo alto ma dalla forza immane e pacata.

Sorrise, e si inchinò.

«Avete la mia gratitudine.» disse, cercando, con il proprio tono di voce, di esprimere al meglio la gioia che provava all’aver avuto quelle informazioni, così preziose per Arthuria. Sentiva il corpo tremare di euforia: sebbene difficile, sarebbe riuscita nei propri intenti, ad ogni costo. Sapeva come fare a raggiungerli, e tanto bastava. «Cosa posso fare per ricambiare le preziose informazioni che mi avete concesso?»

Lo spirito rimase per qualche attimo in silenzio.

«Essere capace di combattere da sola.» disse. Guinevere alzò lo sguardo verso di lui, sorpresa. «Non fraintendeteci, giovane maga. Siamo più che lieti di aiutarvi e di cooperare con voi. Ma è nella nostra indole ripudiare la guerra. Sebbene ci sia impossibile morire per via della nostra natura, le urla di combattimento, e gli orrori presenti su un campo di battaglia, sono per noi insopportabili. Miei compagni mi hanno comunicato che voi volete apprendere l’arte del combattimento. Se è così, vi chiedo di non contare molto sul nostro aiuto, nel rispetto del nostro modo di essere.»

Guinevere esitò per un secondo soltanto, guardandolo in viso, sorpresa; aveva contato, almeno nei primi momenti, sulla loro protezione: era in grado di utilizzare la magia anche senza l'ausilio degli spiriti della natura, ormai, ma il loro contributo avrebbe reso gli incantesimi più forti. Perciò, almeno nelle prime fasi dell'addestramento con le armi, contava sulla loro presenza.

Tuttavia, anche a lei quello sembrava solo uno sfruttamento; e voleva altresì essere capace di difendersi con le proprie forze, senza contare su nessun altro. Aveva meno tempo per apprenderlo, rispetto a Lancelot e Arthuria; ed era sensato che iniziasse ad apprenderlo da subito.

Annuì, quindi, all’indirizzo dello spirito; e sentì un sospirare di sollievo da parte degli spiriti dietro di lei.

«E’ mia intenzione imparare a combattere e difendermi da sola.» chiarì. «Perciò non chiederò il vostro intervento, in nessun caso.»

Lo spirito annuì di rimando, pacatamente. «Dunque, avete altre domande?»

Guinevere scosse la testa. «Solo la mia gratitudine da offrirvi.» disse. Poi, sbirciò fuori dalla finestra, notando le prime luci del mattino; quanto era stata lì dentro? Arthuria e Lancelot erano già sulla collina di Caliburn?

«Dunque mi accomiato da voi, giovane Guinevere.» disse lo spirito, attirando di nuovo la sua attenzione. Guinevere si voltò, e lo guardò inchinarsi gentilmente in segno di saluto. «Siate prudente nell’apprendere l’arte del combattimento con le armi.» aggiunse. «I miei fratelli saranno lieti di essere al vostro servizio per qualunque altra cosa.»

«E io vi sarò sempre grata di questo.» replicò lei, chinando di nuovo la testa.

Subito dopo, vide lo spirito passarle velocemente di fianco, e si voltò; vide che gli altri si scostavano per farlo passare, e poi lo seguivano, come pecore attratte dalla guida di un pastore.

Sorrise, entusiasta; aveva quello che desiderava – aveva il modo per far apprendere la magia ad Arthuria e, cosa più importante, sapeva ciò che lei avrebbe dovuto diventare per poter estrarre Caliburn.

Ci avrebbe messo anni, forse, ma avrebbe fatto in modo che ne fosse in grado.

Sapeva che nessun altro poteva estrarre quella spada, oltre a lei.

 

 

Cassandra le aveva fatto una sfuriata, quando Guinevere era tornata a casa per dirle che quella mattina era uscita presto.

Guinevere non si era arrabbiata particolarmente, e aveva subìto quella sfuriata che, più che alla rabbia, sembrava dovuta all'ansia che Cassandra aveva patito in quelle ore. E aveva evitato di dirle dove fosse andata davvero: il rifugio in cui aveva incontrato uno dei capi degli spiriti del vento era verosimilmente stato la dimora di personaggi di ogni risma e tipo, che vi avevano trascorso la notte. Non era un posto sicuro: era stata una fortuna non trovarvi nessuno, malgrado il bosco fosse un posto tranquillo.

Tuttavia, Cassandra si era calmata nel momento stesso in cui Guinevere le aveva rivelato la missione che si era prefissata quella mattina, e in cui era riuscita; dopo che le aveva raccontato a grandi linee le parole dello spirito, sua madre si era rivelata sollevata, e quasi soddisfatta, e non le aveva impedito di andare alla collina di Caliburn.

Una volta arrivata lì, Guinevere aveva trovato solamente Lancelot.

Avevano concluso che Arthuria stesse ancora male per via delle mestruazioni. Guinevere aveva sospirato, e Lancelot si era alzato dalla propria posizione seduta – probabilmente, nell’attesa, si era esercitato nel contatto con gli spiriti della natura; lui era più affine a quelli dell’acqua, e ci teneva ad allenarsi anche a distanza – e l’aveva seguita, quando lei si era diretta spedita al castello di Tintagel. Il cielo, dopo un abbozzo di sole all’alba, minacciava pioggia; tutto sommato era un bene, che Arthuria fosse rimasta al castello – sebbene, Guinevere lo sapeva, non fosse stata una decisione presa da lei.

Nel tempo impiegato ad arrivare lì, il tempo era cambiato da timidamente soleggiato a nuvoloso a minaccioso di pioggia almeno cinque volte. Guinevere aveva descritto nel dettaglio a Lancelot il motivo del proprio ritardo, e quello che aveva visto e di cui era venuta a conoscenza quella mattina, inclusi i dettagli su come estrarre Caliburn dalla roccia.

«Me lo stai dicendo perché pensi comunque che sarà lei, ad estrarre Caliburn, vero?» aveva domandato lui, una volta conclusa la spiegazione.

Guinevere aveva sospirato – in effetti, sapeva che da parte sua quei dettagli esposti proprio a lui potessero sembrare detti per quel motivo. «No.» aveva replicato. «Lo dico perché abbiate pari possibilità. Anche se sono convinta che Arthuria abbia più… potenziale, per estrarre Caliburn, nulla vieta che possa essere anche tu, quello che alla fine la tirerà fuori dalla roccia.»

Lancelot aveva emesso un suono di sufficienza, e aveva replicato con un semplice sorriso. E Guinevere aveva capito che la sua intenzione era chiudere lì il discorso: in un certo senso, comprendeva che per Lancelot fosse umiliante sentirsi quasi una seconda scelta. Anche se non era proprio quello, il punto della sua osservazione.

Arrivarono a Tintagel nell’arco di poco più di un’ora, procedendo a passo spedito. Il ponte levatoio per l’ingresso al castello era alzato; tuttavia, una volta che si presentarono al guardiano, bastarono alcuni attimi, e quello spalancò loro l’ingresso.

Attraversarono il ponte velocemente, intravedendo delle figure sulla soglia del castello. Uno era sicuramente Merlin: aveva i capelli grigi dalla vecchiaia, il viso segnato dalle rughe eppure sorridente, e una tunica tipicamente da mago, di colore blu scuro, senza particolari ricami o simboli magici. L’altra era una donna davanti alla quale bellezza rimasero entrambi sbalorditi – Guinevere sentì Lancelot trattenere il fiato, di fianco a lei, non appena riuscirono a vederla chiaramente; e dal canto proprio, non poté fare diversamente.

Doveva avere all’incirca vent’anni. Aveva i capelli scuri che si articolavano in boccoli finemente elaborati, e raccolti in un fermaglio laminato d’oro; la pelle chiarissima; e un vestito azzurro che le cadeva morbidamente addosso, assecondando ogni sua curva e rilucendo dei riflessi del poco sole che il cielo voleva mostrare quel giorno. Le maniche si allargavano all’avambraccio; e il corpetto era stretto da una fascia blu avvolta sotto il seno. La parte tra collo e attaccatura del seno era scoperta, e mostrava la pelle bianca.

Sulle spalle, per proteggersi dal vento che aveva iniziato a soffiare almeno un’ora prima, teneva un mantello pesante, color porpora. Se non fosse stato per quel dettaglio, Guinevere l’avrebbe assimilata a una dea romana: aveva visto delle immagini, su alcuni libri che era riuscita a reperire e in cui si parlava delle culture dell’entroterra europeo e del Mar Mediterraneo.

Rabbrividì lievemente, sentendo una scossa alla schiena, quando la donna soffermò i propri occhi verdi su di lei.

Per un momento, si sentì come penetrata da quello sguardo; e non fu una sensazione piacevole.

Vide che Lancelot esitava, ancora ammaliato dalla bellezza di quella che Guinevere, dopo un attimo di smarrimento per quello sguardo fulminante, identificò come Morgana, la sorellastra di Arthuria. Si voltò verso Merlin, facendo un debole inchino; Lancelot, fortunatamente, si riprese a sufficienza da imitarla.

«Lieta di incontrarvi di persona, Merlin lo stregone.» proferì lei, sollevandosi. «Sono Guinevere, figlia della maga Cassandra. E lui è Lancelot, figlio della Dama del Lago.»

Merlin annuì, prima al suo indirizzo, poi a quello del suo compagno. «Mi ricordo di entrambi.» rispose, con tono affabile. «Ma sono felice di rivedervi. Permettetevi di presentarvi Lady Morgana.» disse subito dopo, voltandosi verso la donna al suo fianco. «E’ la sorella di Arthuria, e la primogenita di Lady Igraine.»

Entrambi si inchinarono davanti a lei, affascinati. Guinevere sentì Lancelot mormorare un “incantato”, e alzò gli occhi al cielo, per metà divertita, e per metà esasperata; non ci voleva una grande mente, per capire che il suo compagno fosse rimasto stregato dalla bellezza di Morgana.

E come non rimanerlo, del resto? Non poteva poi biasimarlo troppo.

«E’ un onore conoscervi, Lady Morgana.» disse, rialzandosi eretta, e guardandola negli occhi.

Morgana annuì, senza dire una parola per un solo attimo; poi, parlò.

«Siete gli amici di cui Arthuria mi ha parlato, immagino.» commentò. Entrambi annuirono. «Vedo. Mi ha parlato in particolare di te, Guinevere.» proseguì, spostando lo sguardo su di lei, di nuovo; e di nuovo, Guinevere sentì un brivido freddo scorrerle lungo la spina dorsale, a quell’incrocio di occhi.

Non era amichevole. Per niente.

«Siete venuti a trovarla per sincerarvi sulle sue condizioni di salute, suppongo.» proseguì Morgan, tornando a guardare Lancelot. «Lasciate che vi faccia strada. Oh, Lancelot.» disse, arrestandosi mentre si stava voltando per entrare nel castello, e rivolgendo di nuovo uno sguardo all’interpellato. «Devo ringraziarti per aver addestrato Arthuria con la spada. Continua a proclamarti come un maestro eccezionalmente capace.» considerò, condendo il tutto con un sorriso che Guinevere non riuscì a non vedere come artificioso. Da parte sua, tuttavia, Lancelot esitò per un attimo, mentre arrossiva; Morgana si voltò, facendo loro strada per i corridoi del castello, e Guinevere dovette dare uno spintone all’amico per farlo proseguire, perché altrimenti sarebbe rimasto imbambolato a fissarla svanire.

Merlin si accomiatò rapidamente da loro e se ne andò da tutt’altra parte. I due lo salutarono, poi inseguirono Morgana, che era già diversi passi avanti a loro.

Guinevere preferì non parlare con Lancelot, durante il tragitto; Arthuria le aveva accennato al fatto che la sua sorellastra fosse una maga: se loro due si fossero messi a parlare, lei li avrebbe sicuramente sentiti. E a primo impatto, non riusciva a fidarsi di lei. Forse era solo una sua impressione; ma quegli occhi non promettevano nulla di buono. Non a lei, almeno.

Perciò, rimase in silenzio per tutta la camminata lungo i corridoi del castello di Tintagel, e Lancelot fece lo stesso – evidentemente era troppo intento ad osservare la camminata decisa di Morgana, i capelli ricci che le cadevano sulle spalle, e il mantello che ondeggiava a pochi centimetri dal pavimento. Lungo la strada, Guinevere intravide delle serve che camminavano frettolosamente nei corridoi, avanti e indietro, come se avessero qualcosa di particolarmente impellente da fare tutte quante.

«Lady Igraine ha problemi di salute, negli ultimi giorni. Per questo vedete un continuo andirivieni di serve.» spiegò Morgana, dopo che l’ennesima domestica passò di fianco a loro. Guinevere si voltò verso di lei, sorpresa. «E c’è da aggiungere che nemmeno Arthuria è in forma perfetta. Alcune delle donne provengono anche dalla sua camera.» proseguì, voltandosi dalla sua parte, e guardandola con la coda dell’occhio.

Guinevere si chiese se quella donna, oltre a usare la magia, sapesse anche leggere il pensiero.

Se così fosse stato, era una donna temibile. La lettura del pensiero, insieme ad altri tipi di magie che non riguardavano la modificazione della natura delle cose, era annoverata in quella branca delle arti magiche che erano le Magie Oscure. Generalmente, erano anche bandite dalla comunità magica, in quanto interferivano con altri esseri umani in particolare; Guinevere si chiese dove avesse appreso qualcosa del genere, se l’avesse appreso.

Ma il pensiero che Morgana sapesse capire i sentimenti che lei provava per Arthuria fu più lancinante: la colpì come una freccia in pieno petto, mentre i loro sguardi rimanevano fissi l’uno nell’altro.

Se l’avesse saputo… cos’avrebbe fatto Morgana?

Rabbrividì, e abbassò gli occhi, con la speranza – vana, se lo sentiva dentro – che se lei sapesse leggere nel pensiero, quell’abilità venisse meno una volta che mancava il contatto visivo tra le due parti.

Cercò di tranquillizzarsi, riflettendo. Se Morgana sapeva, ma l’aveva comunque portata lì dentro, significava che come la maggior parte dei maghi non era contraria; che leggendo il suo pensiero aveva compreso che lei non volesse fare nulla ad Arthuria; che magari le stesse rivolgendo quegli sguardi perché, più che altro, stupita dalla sua intenzione di prendere le armi per stare al fianco dell’altra. Forse il fatto che non avesse ancora detto nulla, né l’avesse cacciata, significava che non era poi così contraria; forse quegli sguardi volevano solo studiarla, ed erano normalmente rivolti ad un’estranea che provava quei sentimenti verso sua sorella.

O forse… forse la stava studiando per usare quegli argomenti contro di lei? L’avrebbe cacciata appena ne avesse avuto la conferma? Oppure li avrebbe usati per ricattarla?

Di colpo, le sembrò che l’ostacolo più alto da oltrepassare per prendere le armi in difesa di Arthuria non fosse l’approvazione di Arthuria stessa, ma il giudizio di Morgana.

Si torturò le mani, mentre continuavano ad avanzare; forse non era nemmeno vero che Morgan sapesse leggere il pensiero, pensò. In fondo, le Magie Oscure erano una pratica antica, e da tempo bandita all’interno della comunità magica odierna; e poi, Morgana da chi avrebbe potuto imparare quelle arti? In Britannia non c’era nessun mago noto che le praticasse.

Forse era stata solo una sua impressione, dovuta allo sguardo penetrante dell’altra; forse non sapeva leggere davvero il pensiero, e il fatto che avesse risposto alle sue domande mentre lei pensava la stessa cosa era stata una semplicissima coincidenza. Anzi, no: era proprio dovuto al fatto che avessero visto molte serve passare al loro fianco lungo la strada.

Sì, doveva essere così. Era l’unica spiegazione logica.

Sollevò lo sguardo, esitando nell’alzare completamente la testa; si soffermò a guardare il movimento ondeggiante del mantello porpora della donna, pochi passi avanti a lei.

Ci volle poco, ad arrivare alla stanza di Arthuria. Morgana si fermò davanti ad essa, picchiettando delicatamente con le nocche, mentre loro due aspettavano dietro di lei.

«Qui con me ci sono Guinevere e Lancelot.» disse, accostandosi alla porta per rispondere a un’evidente domanda di Arthuria, che Guinevere non aveva avuto la prontezza di udire. Alzando lo sguardo per la sorpresa di quella frase inaspettata, la maga intercettò l’espressione facciale della sorella di Arthuria, e sobbalzò per lo stupore: da costruita e artificiosamente cordiale, era diventata apprensiva, e si era addolcita. Ripensandoci, anche il tono le era sembrato più preoccupato, e più tenero.

«Credo siano venuti a sincerarsi sulle tue condizioni di salute.» disse ancora Morgana, in risposta a un’ennesima frase che Guinevere non sentì. Il tono di voce era ancora più dolce di prima; sembrava quasi preoccupata di farli entrare, ora.

«Arthuria, non è una strada da nulla. Penso che tu debba lasciarli entrare.» commentò ancora Morgana.

Guinevere fece una smorfia perplessa: fino a poco prima sembrava contraria al fatto che lei fosse lì – su Lancelot, non aveva capito bene quale fosse l’opinione di Morgana –, mentre ora voleva farli entrare.

A meno che non volesse farlo per spiare la conversazione.

Guinevere si accigliò contro sé stessa, riproponendosi di non avere pensieri così negativi su una persona che nemmeno conosceva, se non per il sentito dire da parte di Arthuria – e per di più, lei ne aveva sempre parlato benissimo, descrivendola come una sorella dolcissima e molto apprensiva.

«D’accordo.» disse Morgana, con un sorriso intenerito; poi, si voltò verso di loro, e mutò l’espressione in una più decisa, e severa.

Allora non era stata solo una sua impressione, rifletté Guinevere.

«Potete entrare e stare con lei.» disse. «Ma non per molto. Quando vi chiederà di uscire, dovrete andarvene.»

Guinevere e Lancelot annuirono. Morgana appoggiò una mano affusolata sulla maniglia della porta, l’abbassò e spalancò loro l’entrata.

Guinevere fissò Arthuria, sorpresa di trovarla praticamente rintanata sotto le coperte pesanti del suo letto a baldacchino, con i capelli scompigliati e gli occhi appesantiti da occhiaie, anche se non eccessivamente evidenti.

Lei la osservò di rimando, con uno sguardo meno aggressivo del giorno precedente, e più tranquillo – al vederla, le sembrò desolata.

«Andrò a fare visita a nostra madre, Arthuria.» disse Morgana. «Se hai bisogno, fammi chiamare.»

«E’ tutto a posto, sorella. Ma grazie.» replicò lei, con un debole inchino della testa.

Guinevere osservò con la coda dell’occhio Morgana chiudere la porta; quando sentì lo schiocco contro l’infisso, sospirò internamente di sollievo.

Con ulteriore sorpresa, vide Arthuria disfare le coperte e alzarsi a sedere sul letto, come se stesse benissimo.

E tuttavia, proprio mentre stava pensando, nel suo movimento, che Arthuria non risentisse più dei dolori delle prime mestruazioni, la vide afferrarsi il ventre e fare una smorfia di dolore.

«Diamine.» la sentì sibilare. «Quando andranno via?» domandò, più a sé stessa che a loro.

«Presto, se sei fortunata.» replicò Guinevere, attirando la sua attenzione; e gioì internamente, al vedere la sua espressione attenta, e non arrabbiata perché si stava preoccupando per lei – un atto che, ormai, le riusciva naturale esattamente come respirare o esercitare la magia. «Dipende da persona a persona. Però se stai a riposo dovresti migliorare in fretta.»

Arthuria sospirò, e dette un’occhiataccia al cuscino. «Non credo di volermi sdraiare ancora.» confessò. «Mi hanno costretto a letto tutto ieri e tutta stamattina. Qualcuno sembrava addirittura entusiasta di questo mio passaggio all’età adulta.» commentò, con tono chiaramente scocciato. Poi, si voltò verso Lancelot. «Mi dispiace di non essere potuta venire, Lancelot. Mi hanno praticamente legato al letto. Il corridoio è pieno di serve e non sarei potuta uscire senza che loro cercassero di riportarmi in stanza.»

«Sì, abbiamo notato.» replicò lui.

Guinevere ridacchiò, attirando l’attenzione dell’amico. «Abbiamo?» domandò, inarcando un sopracciglio. «Mi parevi intento a osservare ben altro, tu.»

Lancelot arrossì, imbarazzato, scatenando le sue risate, e la perplessità di Arthuria.

«Credo che Lancelot non sia proprio quello che si definisce immune, al fascino e alla bellezza di Lady Morgana.» chiarì Guinevere, facendo spallucce. Arthuria spalancò gli occhi per la sorpresa, e poi li rivolse a Lancelot; fu solo poco dopo, che si espresse in una piccola risata divertita.

Guinevere sorrise, al vedere la sua espressione rilassata. Si avvicinò a lei e tirò su il cuscino del suo letto, in modo che fosse appoggiato alla testiera. «Così non dovrai sdraiarti di nuovo.» spiegò, quando si voltò verso di lei.

Arthuria le sorrise di rimando, e annuì, appoggiandosi al cuscino con la schiena. E Guinevere si sentì rinfrancata, da quel tranquillo distendersi di labbra.

«In realtà non voglio che ve ne andiate.» commentò Arthuria. «Ho… sentito quello che vi ha detto Morgana, prima di farvi entrare. Ma non voglio che ve ne andiate. Se volete restare, ovviamente.»

Guinevere sobbalzò, sorpresa – e lanciò un’occhiata a Lancelot, che le sorrise di rimando; si voltarono entrambi, ed entrambi annuirono all’offerta di Arthuria.

«Però prima vorrei mettere in chiaro una cosa, Arthuria.» disse Guinevere. «Così, nel caso tu voglia mandarmi via, lo puoi fare subito. In realtà sono venuta qui soprattutto per questo.»

Arthuria sembrò capire al volo di cosa stesse parlando; assottigliò gli occhi, ma non disse nulla, consentendole, tramite il proprio tacito assenso, di proseguire.

Guinevere prese fiato, cercando le parole adatte con cui cominciare. Poi, le prese una mano nella propria, e la strinse.

«Voglio che tu sappia» disse «che quello di imparare a combattere non è un capriccio del momento. Forse lo si potrebbe definire capriccio, perché è effettivamente una scelta mia; ma è da tempo, che sto ponderando la cosa.» spiegò. «Credo di aver intuito quello che tu hai pensato ieri, quando te l’ho detto la prima volta: credo siano gli stessi pensieri che ho avuto io all’inizio.» commentò. «Il fatto che io sia una femmina non mi aiuta. E nemmeno il fatto di iniziare l’addestramento a quattordici anni. E probabilmente non sono nemmeno portatissima per il combattimento come lo siete tu e Lancelot.» ammise. «Ma voglio combattere al vostro fianco, Arthuria. Voglio essere lì, vicino a voi, ad aiutarvi. E sono sicura che se voi mi insegnerete, io potrò diventare forte, e capace, e colmare le mie lacune.» disse. «Sai che sono decisa a farlo. Lo vedi e lo senti dalle parole che ti sto dicendo.» aggiunse. «E sai che se non mi insegnerete voi, sarei capace anche di farmi insegnare da chiunque altro, ma che è meno dotato di voi, forse. Che capisce di meno dove sbaglio, e cosa posso fare per rimediare. Come per me non sono poi molti anni che ho imparato ad usare la magia, e quindi posso capire di più dove stanno gli errori di una persona nei fondamentali, lo stesso vale per voi due, che avete iniziato da relativamente poco ad allenarvi.» disse. «Per favore, Arthuria. Aiutami ad imparare a combattere.»

Arthuria la fissò per qualche secondo; per un po’, rimase in silenzio, a quelle dichiarazioni. Poi, Guinevere la vide sospirare, e dare una breve occhiata a Lancelot, prima di tornare a guardare lei.

«Perché, Guinevere?» domandò. «Ci sono altri mille modi in cui potresti aiutarci.» disse, prima che Guinevere si rimettesse a ripeterle daccapo le proprie ragioni. «Sai che né io né Lancelot vorremmo che tu rischiassi la vita. Non ci saresti inutile, te l’ho già spiegato ieri: anzi, saresti comunque indispensabile, visto che sia io che lui siamo cocciuti, e tu sei molto più intelligente e istruita di noi, e potresti consigliarci in merito a tante decisioni.» commentò. «Potresti…» azzardò ancora Arthuria, esitando per un istante sulla parola successiva. «…sposarti, avere dei figli, essere un’ottima moglie. Una donna normale, tutto sommato.» proseguì. Guinevere si sentì colpita nel vivo, da quelle parole, e la fissò, sconcertata e quasi pronta a replicare; ma si fermò sul punto di aprire bocca, quando notò che Arthuria aveva un’espressione affranta, dopo quella frase. «Perché rischiare la vita quando non è necessario?» domandò l’altra, stringendole la mano a propria volta. «Perché vuoi a tutti i costi combattere?»

E di colpo, la risposta si rivelò a Guinevere. La vera risposta. Quella più sensata da dare secondo il suo cuore.

«Consigliarvi significherebbe rimanere nell’ombra. E lo stesso varrebbe se mi sposassi.» disse. «Una donna normale rimane nell’ombra, in genere. Totalmente asservita al marito, e vivente in funzione sua e dei figli.» commentò. «Sento che non è quello che voglio fare. Quello che vorrei è darvi il mio aiuto apertamente, e potermi manifestare agli occhi di tutti di fianco a voi due. Non voglio rimanere in disparte, Arthuria: voglio essere al vostro fianco, agli occhi di tutti, come voi sarete una volta diventati cavalieri.»

Almeno in quello, pensò, avrebbe potuto dimostrare apertamente la propria fedeltà e la propria lealtà ad Arthuria, visto che nel modo che desiderava non sarebbe stato fattibile agli occhi del popolo e del mondo intero.

Almeno in quel modo, voleva essere apertamente al fianco di Arthuria.

Strinse di più la sua mano, e incrociò, decisa nei propri intenti e determinata a dimostrarlo, gli occhi spalancati per lo stupore dell’altra; poi, la vide sospirare, e annuire, un po’ stancamente.

«Immagino non ci sia modo di farti cambiare idea. So bene quanto sai essere testarda» commentò. Guinevere sobbalzò, e sorrise, spalancando gli occhi per l’entusiasmo e l’euforia che sentì montarle da dentro. «E sia. Ti allenerò io, se tu in cambio mi insegnerai ad usare la magia. Ma valuterò io se sarai pronta alla battaglia o meno, e nel caso che si verifichino combattimenti prima che tu sia pronta ad affrontarli, mentre noi lo saremo, non ci seguirai. Per favore, promettimelo.»

Guinevere sorrise, e annuì. «Però mi devi promettere che mi istruirai in modo che io un giorno sia meritevole di un tuo giudizio positivo.» disse, stringendo di più la sua mano per l’entusiasmo.

Arthuria si espresse in un sorriso tranquillo di rimando. «Certo.» replicò. «Altrimenti non terrei fede allo scambio di favori.»

Lancelot s’intromise, mettendo una mano sopra le loro, e attirando la loro attenzione con quel gesto.

«Facciamo una solenne promessa, allora.» commentò. «Un patto.»

«Un patto?» domandò Arthuria.

«Un patto tra cavalieri.» disse Lancelot, annuendo e guardando prima Arthuria, e poi Guinevere. «Visto che Guinevere insiste tanto nel dire che uno di noi due estrarrà Caliburn, Arthuria,» commentò, tornando a guardare l’interessata, «promettiamo che, se uno di noi due diventerà re, l’altro e Guinevere diventeranno i suoi primi cavalieri, e i più fidati.» disse.

Guinevere sorrise, e lo stesso fece Arthuria; entrambe si scambiarono uno sguardo, prima di appoggiare anche le altre loro mani su quella di Lancelot, in segno di aver accettato il giuramento.

Quella mattina, lo sentivano, stava nascendo qualcosa di nuovo, e di completamente diverso dal regno di Uther in cui ancora si trovavano.

Quel giorno, stavano nascendo i primi cavalieri di Caliburn.

 

 

Le vicende

Nulla da precisare in particolare, se non che Guinevere, ovviamente, non è mai stata una guerriera, né un cavaliere di Arthur(ia).

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Capitolo 4
*** La dama che combatte ***


Capitolo quarto

La dama che combatte

 

 

 

Quando ha iniziato ad allenare Shirou, Arthuria ha avuto un deja-vu che, a posteriori, le sembra inevitabile.

Lui e Guinevere sono fatti allo stesso, identico modo.

Tutt’e due non sono troppo portati per il combattimento:

non sanno muoversi bene, non sanno anticipare i movimenti dell’avversario, non sanno studiarlo,

e non sanno nemmeno contrattaccare a dovere, o almeno difendersi.

Vedere Shirou cadere diverse volte a terra le riporta alla mente tutte le volte in cui Guinevere era crollata,
nello stesso modo in cui sta facendo lui ora.

Tanto che, dopo un paio di giorni di allenamento, avevano optato per sostituire gli abiti di Guinevere, fin troppo femminili,
con degli abiti più pratici, che fossero utili almeno nel non farla inciampare in continuazione.

Shirou è uguale a lei: cade, ma si rialza e non si arrende, malgrado i lividi, i colpi,

e anche l’umiliazione di essere battuto da una ragazza.

Lo si potrebbe definire quasi stupido, se non fosse per quella luce che Arthuria continua a vedergli negli occhi.

Vuole proteggerla.

È la stessa, identica, volontà che aveva anche Guinevere.

È lo stesso fuoco di fierezza e determinazione, a brillare negli occhi di entrambi.

E nei momenti in cui lo vede, Arthuria deve stringere con più forza l’elsa di quella spada di legno giapponese che le hanno dato per allenarlo.

E, senza volerlo, si ritrova a colpirlo forse più forte del normale e del consentito in un allenamento.

Perché non riesce a controllarsi?

Perché non riesce a trattenersi dal cercare di smorzare quell’entusiasmo, e quella determinazione?

Perché non riesce a non pensare che, se Shirou continua così, farà una brutta fine?

E perché continua a pensare che non sia solo per il Graal, che lei non vuole che lui muoia?

 

 

 

 

 

Era da qualche giorno che Guinevere dimostrava entusiasmo dovunque e a chiunque, nei cortili del castello.

Arthuria e Lancelot si limitavano a sorridere, consci del motivo di quell’esaltazione così tipica di lei.

Si trovavano, nella pratica, rinchiusi tra le mura del castello di Tintagel da alcuni mesi: la battaglia di Uther contro i Sassoni si era spinta fino a poco distante da loro, e il castello aveva preso le misure necessarie ad ospitare gli abitanti dei villaggi vicini, in modo da proteggerli.

Era come se fossero sotto assedio; solo che non lo sembrava.

La vita proseguiva tranquillamente, all’interno di quelle mura. Guinevere e sua madre, ovviamente, si erano rifugiate lì insieme agli altri; Lancelot avrebbe anche potuto non farlo, visto che la fortezza dominata dalla Dama del Lago era sufficientemente potente da resistere a un attacco umano. Ma siccome lui e Arthuria si erano riproposti di allenare Guinevere, e allenarsi tutti insieme, lui le aveva seguite e si era volontariamente rinchiuso lì dentro con loro.

Arthuria era ormai conosciuta da tutti gli assediati; ed era stato anche grazie a quello, che era quasi riuscita a completare il percorso che Guinevere aveva deciso di intraprendere tre anni prima, per addestrarla all’uso delle magie.

Guinevere le aveva spiegato che, per cominciare, doveva acquistare più fiducia in sé stessa: solo così avrebbe potuto ottenere quella degli altri, e degli spiriti in primis. Il che non era stato tanto facile: quella sfiducia in se stessa era talmente radicata in Arthuria che lei aveva faticato a cercare di superarla, e Guinevere aveva fatto i salti mortali per farle capire che lei, Lancelot e Merlin erano i primi a credere in lei, e che dopo di loro ne sarebbero arrivati tanti altri – bastava solo che lo volesse davvero.

L’assedio era stato utile, in quel senso: gli assediati, vedendo lei e Lancelot combattere, avevano espresso tutti la propria ammirazione per le sue capacità, senza sottovalutare quelle di Lancelot – il che non aveva fatto altro che accrescere ancora di più la sua stima verso sé stessa, visto che ormai riusciva a tenergli testa senza problemi.

Avevano addirittura saputo che si era aperto un giro di scommesse su chi vincesse i combattimenti quotidiani che facevano lei e Lancelot per allenamento: le puntate venivano fatte sia da contadini, sia da persone che appartenevano a ranghi più alti, e Arthuria era venuta a sapere di essere più quotata di Lancelot.

Teoricamente le scommesse erano illegali, specie all’interno di un castello; ma siccome non avevano scoperto la base di quel giro, non erano ancora riusciti a stanare il colpevole di tutto. Non che ci provassero più di tanto, in fin dei conti – si giustificavano dicendo che era giusto che durante un assedio gli assediati avessero i propri svaghi; e per di più, se quello favoriva l’interazione tra ceti diversi, era quasi accettabile.

L’ennesima soddisfazione le era arrivata dal fatto che anche alcuni guerrieri di Uther, che erano rimasti al castello per difenderlo, avevano dovuto ammettere i suoi progressi e le sue capacità, pur rifiutandosi di sfidarla – chissà se per non perdere il proprio orgoglio, o perché non la ritenevano davvero alla loro altezza.

L’entusiasmo di Guinevere era arrivato proprio da quello: superate quasi tutte le proprie ansie, Arthuria era quasi pronta per entrare in contatto con gli spiriti. Per di più, dal fronte arrivavano notizie di vittoria delle armate britanniche su quelle germaniche: ciò significava che lo stato di assedio sarebbe presumibilmente finito presto, e Guinevere avrebbe potuto condurla in un luogo “naturale”, come li definiva lei (un luogo era la natura a farla da padrone, e non la presenza dell’uomo), e attendere che entrasse in diretto contatto con uno spirito.

Arthuria sorrise, guardandola dall’alto di uno stretto balcone su una torre, mentre lei si allenava con Lancelot nel cortile di qualche piano più sotto, tra grida e applausi della gente che li osservava in prima linea.

Si era dimostrata più abile di quanto Arthuria si fosse aspettata: malgrado fosse evidente che il combattimento non fosse il suo talento primario, Guinevere aveva dimostrato di saper apprendere in fretta – anche se a suon di batoste belle forti. Erano bastati pochi giorni, per farle lasciare in disparte il vestito lungo, e farlo sostituire con dei vestiti simili a quelli di Lancelot (un paio di braghe, e una veste sopra, che le arrivava fino alle ginocchia); era bastato un solo mese, perché imparasse i rudimenti, apprendesse come guardarsi le spalle, come maneggiare una spada, come tenerla, quali attacchi fossero più potenti e quali più veloci, e i movimenti di base da fare con le gambe. Il resto era venuto da sé, e dall’istinto, mentre si allenava con lei e Lancelot. E Guinevere era stata in grado di apprendere più velocemente del previsto.

Magari non era proprio prontissima per una battaglia, in quel momento, ma era quasi arrivata a quel punto.

Sorrise di nuovo, e sollevò per un attimo la testa al cielo, per respirare a pieni polmoni l’aria fresca che le sferzava il viso.

Strinse la parte di torre su cui si era seduta, per evitare di farsi schiantare dalla forza del vento contro qualche muro, e distese le labbra, rilassata dal freddo delle raffiche a quell’altezza. Solo in quel punto si poteva sentire tutta quella forza.

E solo in quel punto si poteva vedere così bene Caliburn, abbandonata sulla collina a quasi due ore di cammino dal castello, eppure integra e risplendente nella luce del mattino come sempre.

Arthuria osservò il riflesso bianco dei raggi del sole sulla lama, solo per un istante; poi, chiuse gli occhi e inspirò di nuovo a fondo, concentrandosi sul fischio del vento nelle proprie orecchie, e sul violento fruscio prodotto dall’aria che si schiantava contro i suoi vestiti e li faceva aderire al suo corpo.

Fu in quella distensione totale in cui aveva imparato a calarsi, dopo anni di addestramento per contattare gli spiriti della natura, che udì il respiro di qualcuno dietro di lei – qualcosa di impercettibile, se non fosse stato per quell’ampliamento dello spirito.

Socchiuse gli occhi e si voltò.

Scivolò con la propria presa sulle pietre della torre, quando identificò la figura che stava a guardarla, ritta, sulla feritoia che fungeva da ingresso a quel punto del castello. E quasi cadde a terra per lo sbalordimento.

Trattenne il respiro per un secondo, sentendo chiaramente il cuore batterle all’impazzata nel petto.

Gli occhi castano scuro di Lady Igraine la stavano fissando, quasi come a studiarla.

E per la prima volta, non le sembrarono delle schegge di ghiaccio.

La osservò, in religioso silenzio, mentre lei compiva qualche passo e si affiancava a lei, in piedi, a osservare la collina di Caliburn. Senza dire una parola.

Arthuria la fissò, incapace di proferire un qualsiasi suono e, quasi, di respirare; deglutì a vuoto, e poi si limitò a osservare il suo profilo da vicino – una cosa che non le era mai capitato di fare prima.

Lady Igraine era quella che si poteva definire una bella donna: aveva i lineamenti perfetti, né troppo delicati, né troppo decisi; aveva gli occhi grandi, e Arthuria era sicura che con chiunque, tranne che con lei, sapessero essere dolci; aveva le labbra non troppo carnose; la pelle bianca, che contrastava coi capelli neri e gli occhi scuri; e un portamento sicuro di sé, che chiunque avrebbe definito regale.

Capiva, in un certo senso – un senso puramente estetico, in realtà – il desiderio che Uther avesse provato per lei.

Abbassò lo sguardo, e poi passò a guardare Caliburn a propria volta; non voleva sembrare troppo invadente, a continuare a guardarla. Lo sguardo, però, le cadde su Guinevere, e sull’affondo che Lancelot stava facendo contro di lei.

Si ritrovò a contemplarla – come le era capitato, ormai, diverse volte, in quegli ultimi mesi; e una delle prime considerazioni che le vennero alla mente fu che la bellezza di Guinevere fosse diversa da quella di Igraine. Guinevere aveva tutto al posto giusto: a cominciare dai lineamenti delicati, e dagli occhi sempre assottigliati per i suoi sorrisi; fino ai suoi capelli scuri e lunghissimi, e al naso con la punta lievemente ricurva all’insù, e alle orecchie impercettibilmente a sventola, e alle sue mani dalle dita lunghe; fino ai suoi polsi sottili, e al suo corpo non prosperoso, ma armonioso nelle forme; fino alle gambe un po’ più lunghe della norma, e muscolose per via degli allenamenti.

I suoi lineamenti erano perfetti pur non essendo nella norma di perfezione comunemente intesa.

Se non fosse stata così, non sarebbe stata lei; e Arthuria sentiva che non sarebbe stata perfetta, se non così.

«Quella spada era di re Uther.»

Arthuria sussultò, e quasi cadde dal posto su cui era seduta; voltò velocemente lo sguardo verso Lady Igraine, che aveva appena parlato, al di sopra del vento, e col chiaro intento di farsi sentire da lei.

Spalancò gli occhi per la sorpresa, a quella realizzazione.

Sua madre, dopo quindici anni, stava parlando con lei.

La fissò, inebetita. All’inizio non seppe nemmeno cosa provare esattamente: sentiva solo un confuso e indecifrabile turbinio di emozioni dentro di sé. L’unica sensazione chiara fu il brivido che le percorse la schiena, e che non fu assolutamente spiacevole.

E poi giunse il sorriso, al realizzare che sua madre era lì perché voleva parlarle; che era andata fino a lì perché l’aveva seguita, e si era interessata a lei. Magari lo aveva sempre fatto, in tutti quei quindici anni, ma l’orgoglio e la rabbia le avevano impedito di mostrarglielo finora; magari ora aveva riconosciuto che lei non era come suo padre, e si era meritata la sua attenzione. Anche solo per qualche attimo.

«Merlin, lo stregone…» proseguì Igraine, lentamente – facendo una smorfia, al nome del mago, «…l’aveva data a lui, confidando, probabilmente, che sarebbe stato un re saggio e giusto.». Arthuria spalancò gli occhi, sorpresa: non conosceva quel risvolto della storia. Vide la madre sollevare il mento, e continuare a fissare la spada, stringendosi lievemente nello scialle che portava sulle spalle. «Una convinzione sorprendente, a giudicare dal fatto che è uno degli stregoni più potenti del mondo.» considerò ancora lei. «Probabilmente ha commesso un errore di giudizio. In fondo è un essere umano anche lui.» commentò, chiudendo per un momento gli occhi, e abbassando la testa.

Arthuria rimase in attesa di qualche altra parola, in bilico sulle sensazioni da provare: come doveva sentirsi, se le prime parole che sua madre le rivolgeva consistevano in un discorso di disprezzo verso il padre?

«Merlin lo stregone si è reso conto solo successivamente di aver commesso questo errore.» considerò ancora Igraine, socchiudendo di nuovo gli occhi e riprendendo a guardare la spada. «Gliel’ha presa con l’inganno, e… l’ha data in custodia agli spiriti della montagna, o almeno così mi è stato detto.» proseguì, indicando con un movimento del braccio la collina. «Nella speranza che un re giusto un giorno la estraesse, e governasse in modo saggio. A differenza del nostro beneamato Uther, che più che scatenare guerre non ha fatto, nei suoi anni di regno.» considerò. «Quel re… Merlin l’ha voluto creare. Con l’inganno, un’altra volta.» disse Igraine – Arthuria sobbalzò, senza capire. E Igraine dovette intuirlo, visto che voltò lo sguardo verso di lei, e le rivolse un’occhiata fredda. «Uther si era invaghito di me la prima volta in cui mi aveva visto. Era stato in occasione di festeggiamento per una vittoria sui Sassoni, cui aveva invitato Gorlois, il mio primo marito, e me.» spiegò. «Le sue intenzioni erano state subito evidenti a entrambi. Ma Gorlois non vi aveva dato peso, pensando che Uther avrebbe onorato il legame del matrimonio che intercorreva tra me e lui.» disse. Poi, voltò la testa di nuovo a contemplare Caliburn, e la scosse per un attimo. «Molto probabilmente quella guerra in cui Gorlois è stato chiamato era solo una scusa. Mi è sempre parso strano che lui, che era un guerriero così capace, fosse morto poco dopo l’incontro mio e di Uther.» considerò.

Arthuria abbassò lo sguardo, desolata; sapeva la storia, e ragionandoci a mente fredda era abbastanza ovvio che Uther avesse approfittato dell’occasione di quella guerra per eliminare il rivale. Era un comportamento che Arthuria non concepiva per sé: era talmente vigliacco che non rientrava nelle regole della cavalleria che le erano state insegnate, e che avrebbero dovuto essere proprie di ogni cavaliere, e di ogni re.

Ma non era ingenua: sapeva che, come molti cavalieri rispettavano il codice, altri invece lo ignoravano in virtù dei propri scopi personali. Era un po’ come il discorso che le aveva fatto Lancelot, il primo giorno di allenamento: loro non avrebbero mai attaccato qualcuno alle spalle, perché avrebbe significato perdita dell’onore; ma dovevano guardarsi da quelli che, mostrando una facciata da cavaliere, sarebbero ricorsi anche ai mezzi più infimi pur di ottenere la vittoria.

«Merlin in qualche modo deve aver collaborato. Anche solo consentendo a Uther di mettere in pratica qualcosa di tanto meschino.» considerò ancora Igraine, a bassa voce. «Lo dimostra il fatto che ti ha preso in custodia appena sei nata, e ti ha educata per diventare re e per estrarre quella spada.» considerò. «Per lui devi essere il modo di riparare agli errori che ha fatto in passato con Uther.»

Arthuria chiuse gli occhi, mortificata. Ora tutto quadrava: l’ossessivo studio dei re del passato e dei loro errori; i valori della giustizia e della rettitudine e della cavalleria infilati in testa anche prima che lei iniziasse a camminare; l’aver passato le giornate della sua infanzia con Merlin, che le insegnava che ad azione corrisponde reazione, secondo la regola dello scambio equivalente valida per tutti i maghi – e, più ampiamente, secondo una legge valida per l’intero mondo.

«Sei completamente diversa da lui.» disse ancora Igraine, a bassa voce.

Arthuria spalancò gli occhi, esterrefatta da quella frase; e poi, alzò la testa.

Igraine la stava guardando, attentamente – quasi come se la vedesse per la prima volta solo in quel momento.

«Anche… in aspetto fisico.» disse ancora sua madre, inclinando di poco la testa. «Non sembri nemmeno sua figlia. Se non fosse per i vostri occhi, che sono dello stesso colore… non si direbbe nemmeno che voi siate parenti.»

Arthuria boccheggiò per qualche istante, allibita da quelle osservazioni.

Conosceva poco suo padre: tutto quello che ricordava di lui era il prodotto di un’immagine sbiadita di quando era molto piccola, che vedeva una barba scura incolta e il luccichio di una corona d’oro in testa, e dei ritratti di lui – giusto un paio – presenti in quel castello, cui lei non aveva mai fatto troppo caso. Aveva sempre preferito guadagnarsi la stima di una madre presente, piuttosto che di un padre assente; tanto più che né Merlin, né Morgan, avevano mai avuto una buona opinione di lui. Se odiandolo avrebbe ottenuto l’approvazione di sua madre, aveva pensato più di una volta, allora l’avrebbe odiato; era anche ben predisposta da come era stata informata su di lui nel corso degli anni.

Non si era mai soffermata a fare confronti fisici con lui. Si era sempre ritenuta diversa da lui.

Ma se era lei, a dirglielo… allora cambiava tutto.

«Tutto ciò mi fa pensare che di speranze ce ne siano ancora.» commentò Igraine, stringendosi di più nello scialle, e tornando a guardare Caliburn. «Che se estrarrai veramente quella spada, allora forse sarà… davvero un bene per tutti.» aggiunse.

Arthuria sentì un battito cardiaco mancarle, solo per ottenere l’effetto di sentirlo, subito dopo, rimbombare contro la parete toracica, talmente forte da farle male. Talmente forte che sembrava voler uscire, e farla esplodere.

Sua madre credeva in lei.

Sua madre confidava che lei sarebbe stata un re giusto, e capace.

Sebbene il tutto fosse condito da un “forse”, poco importava: sua madre ci credeva.

Dopo quindici anni di silenzio, quelle erano le sue parole.

Dopo quindici anni passati, forse, a osservarla sempre, a verificare che lei crescesse con dei valori cavallereschi e che intraprendesse una strada diversa da quella di suo padre. Altrimenti, se così non fosse stato, non sarebbe mai arrivata a fare quell’osservazione.

«C’è una cosa che devi capire, però.» disse ancora Igraine, sporgendosi oltre il parapetto, e guardando giù, alla folla di persone radunate intorno al combattimento di Guinevere contro un giovane contadino. «Una volta che avrai estratto quella spada, se la estrarrai,» spiegò. «tutta questa gente… e probabilmente mille volte tanto… saranno in tuo potere.» disse. «Avrai diritto di vita o di morte, su tutti quanti loro. Nessuno escluso.» proseguì. «E anche non direttamente. Dipenderà tutto da come governi il regno. Dipenderà tutto da come ti guadagnerai il loro rispetto. Da come saprai guidarli. E questa che vedi è solo un infinitesima parte della popolazione che abita il nostro regno a tutt’oggi.» aggiunse. «Tu avrai… una responsabilità enorme, nei loro confronti.» concluse, guardandola di nuovo. «Dipenderà tutto da te.»

Arthuria sobbalzò, intendendo dove il discorso andasse a parare, e osservando gli occhi scuri di sua madre che la scrutavano, in attesa di una risposta – non per forza verbale.

Merlin le aveva fatto mille e più volte quel discorso sulla responsabilità; sul governare con rettitudine, e in maniera giusta, imparando gli errori dei re del passato e non ripetendoli.

Eppure, non l’aveva mai messa davanti ai fatti.

Si voltò a guardare in basso, alla piccola folla radunata intorno al combattimento.

Eccola lì, la realtà dei fatti.

Quante persone c’erano, in quel regno che Uther aveva costruito?

Di quante vite sarebbe stata responsabile, una volta estratta quella spada, se l’avesse estratta?

Un solo errore sarebbe costato la vita di quante persone?

Di quante opinioni, di quanti punti di vista, di quante preferenze, di quante religioni, di quante situazioni sociali e famigliari avrebbe dovuto tenere conto, prima di prendere una singola decisione? Quante avrebbe dovuto ponderarne, prima di creare una legge?

Spalancò gli occhi, trattenendo per un secondo il respiro davanti all’immagine di quella piccola folla.

Dovevano essere una cinquantina al massimo; eppure, erano già tante vite, e tante situazioni, tanti pensieri, di cui tenere conto.

Come avevano fatto suo padre e sua madre a controllarli e a prendere le decisioni giuste?

Come avevano fatto a capire che strada prendere?

E lei… lei era veramente pronta a prendere in mano quella spada?

«Scegliere la decisione giusta da prendere non è mai facile.» disse ancora Igraine, riscuotendo la sua attenzione. «Ma confido che tu saprai come fare. Sei stata istruita per questo per tutta la tua vita, in fondo.» considerò, alzando il mento e guardandola, con occhi decisi.

Arthuria strinse i mattoni della torre, sorpresa per quella frase, come per tutto il resto del discorso.

Sua madre aveva fiducia in lei. E stava riconoscendo quello per cui era stata educata da sempre.

Trattenne il fiato per qualche attimo, senza sapere cosa rispondere; poi, non riuscendo a trovare le parole – la testa era ancora troppo in preda all’euforia, per articolare un discorso ragionevole da farle – annuì, sentendo un sorriso entusiasta stirarle le labbra, in risposta alle parole dette da Igraine.

La sua mente era un continuo ripetere la litania “mia madre ha fiducia in me”.

Sua madre stava riconoscendo i suoi meriti e le sue capacità, in quel momento. Ed era venuta a parlarle, per quello.

«Meglio che vada, ora.» considerò Igraine, chinando la testa e stringendosi meglio nello scialle. «Qui fa parecchio freddo. Non vorrei prendermi un malanno.» disse. Poi, alzò la testa verso di lei, e la guardò ancora per qualche secondo.

«Non sprecare il tuo tempo a cercarmi, Arthuria.» disse. Arthuria sobbalzò, sia per la frase, sia per la realizzazione che sua madre la stesse chiamando per nome per la prima volta.

Era un modo quasi dolce, di chiamarla; un po’ stiracchiato, forse per la poca abitudine, ma tutto sommato dolce.

«Tu hai i tuoi allenamenti da portare a termine. La storia e la disciplina da studiare. E mi hanno altresì informato che stai anche cercando di imparare la magia.» disse. Arthuria annuì, entusiasta che si fosse ricordata di tutto. «Occupati di quello. Occupati di migliorare il più possibile e di diventare degna di quella spada e del tuo regno. Io d’altronde sarò molto impegnata coi preparativi per il ritorno di Uther, e col governare queste persone all’interno del nostro castello. Non avrò tempo da dedicarti.»

Arthuria annuì, capendo quello che Igraine voleva dire.

Forse non era ancora del tutto pronta a voler instaurare un rapporto di madre e figlia con lei. Ma forse quello avrebbe potuto essere un primo passo per averlo.

In ogni caso, se voleva ottenerlo, avrebbe dovuto aspettare i suoi tempi, e nel frattempo obbedirle. A malincuore, ma l’avrebbe fatto.

Sorrise. «Mi bastano queste vostre parole.» disse. «Madre.» aggiunse, con un tono di voce più basso.

Igraine chiuse gli occhi per un attimo; poi, si voltò, e con un inchino della testa si accomiatò da lei, avviandosi all’interno del castello.

Arthuria la osservò mentre si allontanava.

Poi, tornò a voltarsi verso la collina di Caliburn.

Ora più che mai, quella spada le sembrava raggiungibile, tanto da essere un desiderio, più che un dovere.

 

 

«Ti ho vista un po’ distratta, durante il combattimento con quel contadinotto.»

Guinevere sollevò lo sguardo dalla propria spada di legno, senza interrompere il processo di rafforzamento e ricostruzione che stava effettuando su di essa tramite la magia della natura. Spostò un ciuffo di capelli che le cadeva davanti agli occhi, per osservare Lancelot che si stava facendo strada nelle scuderie, in cui lei amava rifugiarsi.

Lancelot in quegli anni era cambiato, dal ragazzino quindicenne scapestrato e un po’ magrolino che era; era diventato prestante, alto, responsabile e, col tempo, sempre più acuto nelle proprie osservazioni.

Sarebbe stato un partito perfetto – e in effetti diverse ragazze del villaggio non avevano nascosto la propria ammirazione nei suoi confronti.

Peccato che il suo unico interesse, Lady Morgana, non la pensasse come le altre.

Erano anni, ormai, che Lancelot moriva dietro alla sorella di Arthuria, senza essere minimamente ricambiato: Morgana si limitava ad apprezzarlo come guerriero e a ringraziarlo per essere un ottimo maestro per Arthuria. Ma non aveva mai dato adito a pensare di volergli chiedere qualcosa di più.

Un po’ le spiaceva per Lancelot; ma considerando il rapporto di pura freddezza che si era instaurato negli anni tra lei e Morgana, e considerando che aveva con Lancelot un rapporto praticamente fraterno, era contenta che la cosa non si fosse evoluta troppo. Non si fidava di Morgana, e Morgana non era mai sembrata intenzionata a darle dimostrazione del contrario; tutt’altro, aveva mostrato apertamente la propria ostilità nei suoi confronti, senza un particolare motivo – e quelle settimane di assedio avevano portato la situazione a un punto di non ritorno.

Scosse la testa, sorridendo, e riprendendo a guardare la propria spada di legno.

«Quel ragazzo mi muore dietro da qualche settimana. Non volevo fargli troppo male, né ferire troppo il suo orgoglio.» rispose, alzando le spalle.

Sentì i passi di Lancelot avvicinarsi a lei; vide la sua ombra sovrastarla, e le sue mani appoggiate sui fianchi.

«Non sei capace di mentire, Guinevere.» disse lui, tranquillamente.

Guinevere si strinse nelle spalle.

«Diciamo che è una mezza verità.» replicò, mettendo da parte la spada di legno, e prendendo tra le mani quella di ferro che portava sempre con sé, infilata nel fodero di pelle. Accarezzò per un attimo la lama fredda, contemplando i riflessi di luce sul metallo chiaro; poi, sospirò, e prese uno straccio, per pulirla. «Quel ragazzo effettivamente mi sta parecchio appiccicato. Un paio di volte mi ha anche chiesto di andare a fare una passeggiata con lui. Da soli.» precisò, inarcando un sopracciglio. «Dato che chiunque vede che io e te siamo solo compagni di allenamento, ogni tanto mi capitano anche queste cose.» spiegò, facendo spallucce.

«E cos’avresti fatto?» domandò Lancelot, con un tono che lasciava trapelare il suo divertimento per la cosa.

Guinevere scosse la testa. «Gli ho detto di no.» disse, sorridendo.

«Quanto fegato, Lady Guinevere.» scherzò Lancelot. «Quindi è per quello, che lo vedo sempre a chiederti di allenarti con lui?» domandò poi, un poco più serio.

«Credo che stia cercando di conquistare il mio cuore a suon di combattimenti. E di batoste, visto che non è capace.» commentò Guinevere.

«Sta cercando di aprire una breccia.» disse lui, allungando un dito verso di lei, e colpendola lievemente nello spazio in mezzo alle clavicole, per poi spingerla delicatamente contro il muro e farle alzare lo sguardo. «In modo da essere sicuro di colpirti direttamente nel punto giusto.» aggiunse, con un sorriso sarcastico, e un sopracciglio inarcato.

Guinevere scoppiò a ridere, e scosse la testa.

«Se mira al cuore come miri tu, mi sa che fallirà.» considerò.

Lancelot sbuffò, fintamente scocciato, e tolse il dito da lei, condendo la fine del movimento con un sorriso.

«Lady Guinevere, io sono un galantuomo.» disse. «Mi limito a toccarvi in zone consentite, e a non andare troppo oltre.»

Guinevere ridacchiò, e scosse la testa, tornando a guardare la spada.

«Devo fingere di essere il tuo promesso sposo?» domandò poi Lancelot.

Guinevere sobbalzò, e alzò lo sguardo verso di lui, sconcertata. «Lancelot…!» lo richiamò. «Che diavolo ti salta in mente?»

«Solo per evitare queste situazioni.» replicò lui, stringendosi nelle spalle. «Sarebbe più plausibile che io e te stiamo insieme, piuttosto che tu stia insieme a un villico che…»

«Lancelot, piantala con queste idiozie. E io che pensavo fossi diventato un po’ più ragionevole.» lo interruppe lei. «Sarebbe controproducente. Per te, visto che se fingessi di stare con me non potresti correre dietro a Lady Morgana, e per Arthuria.»

Lancelot rimase per un secondo a fissarla negli occhi; non sembrava per nulla sorpreso da quella costatazione.

Poi, Guinevere lo osservò crollare a terra, e sedersi davanti a lei a gambe incrociate.

Non obiettò a quella posa, né si premurò di fargli presente che sulla panca su cui era seduta lei c’era un altro posto: sapeva che Lancelot preferiva parlare faccia a faccia, quando si trattava di discorsi seri.

E quello era chiaramente un discorso serio. O almeno lo era diventato.

«E per te non sarebbe controproducente?» domandò Lancelot.

«Per me?» replicò Guinevere, inarcando un sopracciglio, perplessa. «Perché dovrebbe esserlo?»

«Che ne so. Magari Arthuria in realtà prova veramente qualcosa per te, solo che ha paura di dimostrartelo.» rispose lui.

Guinevere sentì il cuore perdere un battito, a quella considerazione; abbassò lo sguardo, tornando a pulire la lama della spada.

«Arthuria non prova niente di più dell’amicizia, per me.» ribatté.

«Perché devi dire così?»

«Perché è ciò che le è stato insegnato, Lancelot.» controbatté prontamente lei, dando un colpo di straccio più violento. «La religione in cui crede non ammette relazioni tra persone dello stesso sesso. Non ne ammette nemmeno i sentimenti. Non può provarne per me.»

«Sentimenti e insegnamenti sono due cose ben diverse, Guinevere.» replicò lui.

«Non quando ti insegnano che l’amore tra due persone dello stesso sesso è qualcosa di abominevole che andrebbe cancellato, Lancelot.» ribatté lei. «Ed è questo, quello che le è stato insegnato. Come pensi che possa provare qualcosa per me?»

«Perché quando si arriva ad amare una persona si arriva a fare anche pazzie, anche contro gli insegnamenti che sono stati dati.» rispose lui, appoggiandole una mano sulla sua, e fermandola dalla pulizia della lama della spada – ormai perfettamente lucida. «E tu sulle pazzie ne sai qualcosa.»

Guinevere sospirò, e sollevò lo sguardo verso di lui, contrariata.

«Ammettiamo anche che provi effettivamente qualcosa per me, Lancelot.» commentò, allargando le braccia, esasperata. «Non lo ammetterebbe mai, in virtù degli insegnamenti che le sono stati impartiti. E se non in virtù di quelli, in virtù del fatto che ancora crede che io e te prima o poi avremo una relazione, se non crede che ce l’abbiamo già.» disse. «Lo sai che è onesta. Non vorrebbe mai mettersi in mezzo a noi due, se così fosse. Solo che se fingessimo di stare effettivamente insieme, come tu hai proposto, non faremmo altro che metterla in difficoltà. E non ho intenzione di farlo, sia per correttezza nei suoi confronti, nei tuoi e anche nei miei, e sia perché non voglio mandare a monte tutto il lavoro che io, te e lei abbiamo fatto in questi anni, per un semplice ragazzo che mi corteggia.» spiegò, riprendendo il fodero e affondandovi la spada, per poi mettere da parte lo straccio. «E poi, si può sapere perché questo discorso salta fuori proprio ora?» aggiunse. «Avevamo chiarito già tre anni fa le mie posizioni al riguardo. Sai bene che non proverei mai a confessarle quello che provo, e sai che è la motivazione per cui sono qui ad allenarmi con voi due. Perciò, perché

Lancelot sospirò, ma non abbassò lo sguardo.

«Ti ho semplicemente detto quello che penso potrebbe essere.»

«Tre anni fa non la pensavi così.» replicò lei. «Tre anni fa la prima cosa che mi hai detto è stata che era pericoloso, che dovevo fare attenzione a non farmi scoprire, e che dovevo tenermi tutto dentro, perché altrimenti sarebbe stato peggio che morire ammazzata in guerra. Non sono state forse le tue parole?» ribatté lei, stizzita. «Cosa ti ha fatto cambiare idea, adesso?»

«Il vederti tutti i giorni.» replicò lui. «Il venire a svegliarti la mattina e vedere che ogni tanto hai gli occhi gonfi. Il passare di fianco alla tua camera, la notte, e sentirti piangere.» disse. Guinevere sobbalzò, sbalordita, sia dalla costatazione, sia dallo sguardo triste con cui Lancelot aveva accompagnato quell’affermazione. Lo vide esitare per un secondo, forse per trovare altre parole da dire; poi, lui parlò di nuovo. «Il vedere che ti distrai da un duello con un contadino che non sa combattere perché prima di iniziare hai visto Arthuria sulla torre sulla quale va sempre a guardare Caliburn.»

Guinevere lo fissò negli occhi, allibita.

Lancelot, come al solito, mostrava quella capacità di capire gli altri – o almeno, di capire lei – con una facilità estrema; e la metteva davanti ai fatti più di quanto i pianti, il risvegliarsi con gli occhi gonfi, e la consapevolezza dei propri sentimenti, fossero in grado di fare.

Guinevere adorava questa sua capacità, a volte, perché lui sembrava conoscerla anche meglio di sé stessa, e talvolta la metteva davanti ad aspetti positivi di sé di cui lei non si era mai resa conto; ma erano altrettanti i momenti in cui invece odiava quella sua empatia, perché le sbatteva davanti il dolore con i toni diretti di chi non adottava mai mezze misure nel parlare – e perché, mostrandole apertamente tutto quello, Lancelot mostrava chiaramente anche la propria tristezza, e il proprio rammarico per non riuscire a fare nulla per lei.

Trasse un profondo respiro, guardandolo, e poi appoggiando la testa contro il muro.

«Non ci posso fare niente.» commentò, chiudendo gli occhi. «Non credo che tu possa capire tutto… l’odio che a volte provo per essere nata in un corpo come questo. E il dover realizzare che il tagliarmi i capelli, o il nascondere il seno, o allenarmi e vestirmi come un uomo non cambierà quello che sono.» disse.

Lancelot sbuffò lievemente per un attimo; poi, Guinevere lo sentì ridacchiare, piano.

«Sì, me lo ricordo quel tuo colpo di testa nel tagliarti i capelli corti.» commentò. Guinevere sorrise lievemente, ricordando il momento in cui aveva preso un coltello e aveva tagliato i capelli a livello delle spalle, lasciando cadere a terra una chioma che, fino a un attimo prima, le arrivava quasi alla fine della schiena. Era una cosa successa tre anni prima, poco dopo l’inizio degli allenamenti; se l’era cavata con la scusa che i capelli lunghi la infastidissero durante i combattimenti.

«Ti ho sempre detto che potevi venire da me, se volevi piangere.» disse poi Lancelot.

«Di certo non pensavo di non svegliarti, visto che quando è successo era quasi sempre notte fonda.» replicò lei.

«Quasi sempre?»

Guinevere sospirò. «Una volta mi è successo sulla collina di Caliburn, prima che arrivaste voi due. Appena vi ho sentiti mi sono asciugata tutto e mi sono ricomposta.» confessò. «Qualche altra volta mentre ero da sola in casa. Nemmeno mia madre lo sa. E poi, altre volte, dopo gli allenamenti.» spiegò. «Erano tutte occasioni in cui tu non ci potevi materialmente essere, a darmi una mano. Non fartene una colpa.»

Lo sentì sospirare pesantemente.

«Comunque oggi non ero deconcentrata per averla vista.» proseguì, socchiudendo gli occhi, e soffermandosi a guardare il soffitto. «O almeno, non per aver visto solo lei

«In che senso?» domandò lui, perplesso.

Guinevere sbuffò, e tolse la testa dall’appoggio del muro, per poi abbassare lo sguardo su Lancelot. «Non l’hai vista nemmeno tu, dunque. Credo di essere stata l’unica a vederla.» considerò. «C’era Lady Igraine, con Arthuria, oggi, su quella torre. E le stava addirittura parlando.»

Lo vide sgranare gli occhi per lo stupore.

«Lady Igraine?!» esclamò lui. «Ma…!»

«Lo so. Sembra assurdo, ma è così.» disse lei. «Ed è una cosa che mi ha sorpreso. Per quello ero deconcentrata. Stavo pensando agli effetti che avrebbe avuto su Arthuria, e sulla sua autostima. Certo, tutto dipende da cosa effettivamente le abbia detto Lady Igraine, ma… a giudicare dall’espressione di Arthuria dopo il discorso, dev’essere stato qualcosa di parecchio bello.»

Vide Lancelot esprimersi in un sorriso sinceramente entusiasta; e sorrise a propria volta, al pensiero che lui non fosse contrariato perché Arthuria, ormai, aveva presumibilmente tutti i mezzi per estrarre Caliburn come li aveva lui.

L’avrebbe affrontata lealmente davanti a quella spada, con il legame tipico degli amici rivali.

«Significa che Arthuria potrà imparare ad usare la magia, ora.» considerò lui. «E’ perfetto. Capita proprio nel momento giusto.»

«Eh già.» commentò Guinevere, stringendosi nelle spalle, e alzando lo sguardo quasi distrattamente. «Proprio nel momento giusto.» aggiunse, assottigliando gli occhi per esaminare un uccellino che si puliva le ali, appollaiato sul davanzale di una piccola finestrella sopra una delle stalle. «Significa anche che potrebbe avere tutto il necessario per estrarre Caliburn, ora. Almeno nelle basi.» considerò poi, voltandosi verso Lancelot, alzandosi e prendendo il fodero con la propria spada. Lui trasalì per un istante, ma poi inarcò un sopracciglio col suo solito fare ironico.

«Meglio così. Avrò una degna avversaria.» commentò. «Sennò sai che noia. Quanti cavalieri che si presenteranno davanti a quella spada avranno la reale possibilità di estrarla?»

Guinevere fece spallucce, e poi sorrise. «Mi fa piacere che tu la prenda così.» considerò. «Chiunque altro sarebbe stato arrabbiato, al sapere che qualcuno ha le sue stesse possibilità di estrarre Caliburn.»

«Quella si chiama vigliaccheria.» replicò lui, dimostrando nell’espressione la propria sicurezza di sé. «Non è qualcosa che mi è stato insegnato.»

Guinevere annuì. «Giusto, giusto.» commentò, per poi avviarsi verso l’uscita delle scuderie. «Scusami se ti lascio qui così, Lancelot, ma mi sono appena ricordata di dover incontrare la tua amata.»

Lo sentì, dietro di lei, alzarsi di scatto e seguirla a passi ampi e rapidi.

«Lady Morgana?» domandò lui.

«A meno che tu non abbia proclamato il tuo amore a qualche altra donna nell’ultima mezz’ora, sì.» replicò Guinevere, con un sorriso sarcastico, voltando la testa verso di lui e incrociando i suoi occhi, che esprimevano una chiara perplessità. «Mi ha chiesto di incontrarci dopo gli allenamenti. Non domandarmi il motivo, non lo so nemmeno io.» lo anticipò, intuendo dal fatto che stava aprendo bocca che stesse per farle quella domanda. «Non è granché loquace, specie se si tratta di dare ordini a me.» considerò, tornando a guardare avanti a sé. «Ma se mi ha chiesto di andare da lei, sono sicura che una buona ragione ci sia.» disse, facendo una smorfia con la bocca, mentre metteva piede fuori dalle stalle.

«Da che ricordi, non ti ha mai voluto parlare troppo.» commentò lui. «Come mai proprio ora?» domandò, più a se stesso che a lei.

Guinevere scrollò le spalle con fare noncurante. «Non ne ho idea.» rispose. «Te lo saprò dire quando tornerò. Se tornerò viva.» aggiunse, con un sorriso sarcastico.

Lancelot le dette una leggera spinta alla spalla, e si espresse in una mezza risata. «Smettila, scema.» disse. «Non credo arriverebbe a tanto.»

«Ah, mah. Chi lo può sapere.» commentò Guinevere.

«Sai dove trovarla?» domandò Lancelot, ancora.

Guinevere esitò, voltandosi indietro a dare un’occhiata verso il castello, e incontrando con lo sguardo l’uccellino che prima era appollaiato nelle scuderie. Riuscì a intravedere il suo piumaggio chiaro, mentre lui svolazzava verso il castello, diretto a una stanza a un paio di piani più sopra di dove si trovavano loro.

Sapeva che in quell’ala del castello, a quel piano, c’erano due o tre stanze riservate esclusivamente a Morgana.

Assottigliò gli occhi per un attimo, per poi voltarsi di nuovo verso Lancelot.

«In una delle sue stanze.» replicò. «Ha detto di guardare in tutte, dato che non sa esattamente in quale sarà quando arriverò.»

«In una delle sue stanze?» chiese Lancelot. Aveva un tono e un’espressione visibilmente sorpresi.

Guinevere inarcò un sopracciglio, in una muta richiesta di spiegazione.

«Stavo pensando che…» considerò lui, volgendo lo sguardo verso le finestre delle stanze interessate. Guinevere lo seguì, curandosi che non intravedesse l’uccellino – non sapeva se Lancelot l’avesse visto anche nelle scuderie, e sarebbe stato in grado di collegare il tutto; ma fortunatamente, quello era sparito, probabilmente già arrivato da Morgana. «…Lady Morgana ha… ventitré anni, giusto?» domandò ancora lui, attirando di nuovo la sua attenzione. Guinevere si voltò verso di lui, e annuì. «E non è ancora sposata.» aggiunse lui, facendo una smorfia.

Guinevere ci mise qualche istante, a capire dove volesse andare a parare Lancelot. Poi, scoppiò a ridere, e scosse la testa.

«Per carità, Lancelot!» disse, dandogli una piccola pacca sulle spalle. «Non starai veramente pensando che Lady Morgana abbia delle mire…». Intravide delle persone che si stavano avvicinando a loro, e abbassò drasticamente il tono di voce. «…su di me?» concluse.

«Eppure tutto quadrerebbe!» sibilò lui di rimando. «Non è sposata pur avendo ventitré anni, ti chiama nelle sue stanze, e per di più è una maga! Questo spiegherebbe anche perché non ha mai prestato attenzione ai miei corteggiamenti.»

Guinevere sollevò gli occhi al cielo, e sospirò: Lancelot non aveva mai digerito quell’ignorare le sue avance da parte di Morgana. Era abbastanza ovvio che cercasse una scusa plausibile, ora; solo, non si sarebbe mai aspettata che concludesse tutto quello con così tanta tranquillità, e persino così tanta prontezza.

Il problema era che lei sapeva che non si trattava di quello; ma cos’avrebbe potuto dire a Lancelot, senza sminuire il suo orgoglio? Non bastava un “non ti merita” – non era mai bastato, in effetti; non era sufficiente a ripagare le delusioni che Lancelot aveva accumulato in quei tre anni, e il colpo violento che tutto quel corteggiamento non contraccambiato aveva dato al suo orgoglio maschile.

«Ti saprò dire quando uscirò da lì.» disse, mettendogli una mano sulla spalla. «Anche se non penso che sia davvero così. Io non le sto simpatica, me l’ha sempre dimostrato. E anzi, sinceramente non ho mai capito cosa ci trovi in lei.»

«Cosa c’è da capire?» replicò lui, allargando le braccia, con fare ovvio.

«E’ solo una questione di aspetto fisico?» replicò lei, aggrottando le sopracciglia, sorpresa dalla superficialità di Lancelot. «Le stai morendo dietro da tre anni solo per una questione estetica?»

«Non è solo quello!» ribatté lui, stringendosi nelle spalle. Al vedere l’espressione di Guinevere, che lo invitava a proseguire, lui sbuffò, e alzò gli occhi al cielo per un istante. «E’ affascinante.» spiegò. «E ha qualcosa di misterioso. Qualcosa di triste, nell’espressione. Vorrei capire cos’è.»

Guinevere lo fissò per qualche attimo, sorpresa da quelle costatazioni; era sempre stata troppo impegnata a guardarsi dagli occhi e dall’espressione fredda che Morgana le rivolgeva, per accorgersi di quella vena triste di cui Lancelot parlava. Come al solito, lui sembrava rendersi conto, con un solo sguardo, di qualcosa in più, rispetto alle persone normali.

Si voltò per un attimo verso le stanze due piani più su, dove presumibilmente si trovava Morgana. Poi, tornò a guardare Lancelot, e gli sorrise, appoggiandogli una mano sulla spalla, pronta a dirgli qualcosa per tirarlo su di morale a proposito di quell’amore che sembrava non corrisposto. Ma non riuscì a trovare nulla.

«Vado.» disse, battendo lievemente un colpetto sulla sua spalla, e poi facendo per voltarsi e andarsene. «Dopo ti racconto quello che sono riuscita a scoprire.»

«Ci vediamo a casa, allora?» domandò lui.

Guinevere si voltò per un attimo, e annuì, sorridendo; lei, Lancelot e Cassandra vivevano nella stessa abitazione all’interno delle mura. Cassandra sembrava non essersi fatta problemi ad ospitare un uomo al piano superiore a quello dove vivevano loro due – e se quello, all’inizio, era stato un fatto che aveva attirato pettegolezzi a non finire, erano bastato poco tempo e l’evidenza che né Cassandra, che si dedicava alle erbe e sembrava frequentare più Merlin che chiunque altro, né lei, che più che allenarsi con Lancelot non sembrava fare, per smorzare il tutto e far finire anche quella presunta storia nel dimenticatoio.

Guinevere si voltò di nuovo, accelerando il passo; infilò la spada nella cintura, e si diresse verso il portone dell’ala est del castello, in cui si trovavano le stanze di Morgana.

Prima di entrare, visualizzò per bene il punto in cui doveva andare, dato che non vi era mai stata; e alzando la testa, lo sguardo le capitò sulla torre su cui Arthuria andava sempre a contemplare Caliburn.

Era ancora lì. Da quello che aveva potuto vedere Guinevere, non si era mossa per l’intera giornata; e ormai era l’ora del tramonto.

Fissò per qualche secondo la sua minuscola figura, rannicchiata sulla torre, aggrappata ai mattoni, e intenta a osservare, in quel momento, la collina di Caliburn.

Aveva intravisto diverse volte la sua testa abbassarsi e guardare verso la cittadella che, con l’assedio, era andata costruendosi all’interno delle mura del castello; era una cosa che generalmente non capitava. Quando andava lassù, Arthuria guardava solo Caliburn – andava apposta su quella torre, perché la visuale della collina da lì era perfetta. Quel giorno, invece, sembrava aver quasi lasciato in disparte Caliburn, e aver preferito abbassare gli occhi a guardare dell’altro.

Guinevere dubitava che lo sguardo di Arthuria cercasse lei, anche se le sarebbe piaciuto pensarlo; ma in tutta la giornata, non aveva capito cosa stesse guardando Arthuria esattamente.

Qualunque cosa fosse, o chiunque fosse, aveva attirato abbastanza la sua attenzione da distoglierla dalla contemplazione di quella che per lei era diventata una ragione di vita.

Guinevere sentì un moto di gelosia, e un nodo allo stomaco; poi scosse la testa, e sospirò, ribadendosi che Arthuria aveva tutto il diritto di guardare chi e cosa lei preferisse, senza che lei dovesse provare invidia verso quel qualcuno o quel qualcosa.

Ma preferì non tornare a guardarla, giusto per non sentire quelle sensazioni dentro di sé.

Abbassò gli occhi, ed entrò nel castello, seguendo il percorso che l’uccellino, un palese famiglio di Morgana, le aveva sommariamente indicato dirigendosi verso le stanze due piani più su.

Sospirò, al pensiero di aver mentito a Lancelot; sua madre le aveva sempre detto che mentire non era un bene a meno che non fosse a fin di bene – e in quel caso, effettivamente, lo era sicuramente –, ma dire falsità a quello che era il suo migliore amico le faceva montare dentro un senso di colpa che non riusciva a controllare, e con cui non riusciva a giustificarsi.

Morgana non l’aveva invitata nelle sue stanze, o almeno non l’aveva fatto esplicitamente; era stata un’intenzione di Guinevere, quella di andare a parlare con lei. E per un attimo aveva avuto un moto di panico, quando aveva sentito le ali di quell’uccellino frullare sopra lei e Lancelot, nelle scuderie; le era chiaro già da tempo che Morgana la tenesse sotto controllo anche tramite i suoi famigli – era sicura che oltre all’uccellino di quel giorno ce ne fossero almeno un altro paio; e forse c’erano anche altri animali –, ma in quel momento era stata talmente concentrata sul discorso con Lancelot, che non aveva pensato all’eventualità che Morgan potesse sentirla e usare quelle informazioni contro di lei. Aveva sempre ritenuto le scuderie un posto sufficientemente sicuro, dal momento in cui aveva notato che Morgana e i cavalli non andavano d’accordo – un evento cui le era capitato di assistere poco dopo l’inizio dell’assedio –; ma aveva sempre e comunque controllato che i suoi famigli non fossero nei paraggi.

Quel giorno, invece, era stata talmente assorbita da quello di cui doveva parlare con lei, che non aveva pensato a guardarsi le spalle.

Era stata una fortuna che quell’uccellino fosse arrivato in un momento in cui aveva potuto troncare il discorso senza destare troppi sospetti in Lancelot; se lui avesse saputo che i famigli di Morgana la tenevano sotto controllo, non sarebbe stato tranquillo per lei. E lei voleva evitare che succedesse.

Inspirò a fondo e nel farlo chiuse gli occhi, quando arrivò al punto del corridoio nel quale c’era la prima stanza di Morgana. Accostò la mano al sacchettino con le erbe che sua madre le aveva preparato su sua richiesta, subito dopo l’allenamento.

Quando riaprì gli occhi, non si stupì di vedere Morgana affacciata sulla soglia della porta aperta: aveva sentito i suoi passi sul pavimento, e lo scatto della porta che si apriva. Morgana tra l’altro aveva evitato di contenere il rumore che aveva fatto, a quanto pareva.

L’istinto fu quello di chiedersi se Morgana l’avesse sentita in base più agli odori che derivavano da lei, o al rumore che aveva fatto arrivando lì; ma quando vide il suo sguardo stanco abbassarsi, e andare a fissare senza alcuna esitazione il sacchetto di erbe che le aveva portato, capì che era l’olfatto, il senso che aveva sviluppato di più.

Sciolse il nodo con cui il sacchetto di iuta era legato alla sua cintura, e glielo allungò con un sorriso – anche se entrambe sapevano che si trattava solo di un’espressione di circostanza.

«Ho pensato che avreste potuto gradirle, dopo lo sforzo di stamani.» commentò.

Morgana spostò lo sguardo dal sacchetto a lei; Guinevere intuì che l’intenzione era di inchiodarla sul posto con il solo sguardo, e di farle capire di rimanere ferma dov’era; ma vista la stanchezza che traspariva non solo dagli occhi, ma anche dal resto del corpo, appoggiato in maniera forzatamente dignitosa alla porta, Morgana non riuscì nei propri intenti. E dovette capirlo dall’espressione per niente turbata che Guinevere assunse, mentre teneva il sacchettino a mezz’aria, sul palmo della mano, allungato verso di lei.

«Sono sicura che sappiate prepararvi un infuso di erbe.» disse ancora. «Ma lasciate che ve lo faccia io. Immagino che sarete stanca.»

Morgana assottigliò gli occhi, e si espresse in un sorriso sarcastico con un fondo malvagio.

«Chi mi assicura che tu non voglia avvelenarmi, con quelle erbe?» domandò.

Guinevere incassò il colpo, e sospirò.

«Non mi avete mai dato un motivo sufficientemente valido per farlo, malgrado la vostra palese ostilità nei miei confronti.» rispose. «Sentimento di cui, sinceramente, non ho mai compreso l’origine; ma siete libera di provarne per me. Io invece vorrei solo mostrarvi la mia gratitudine per quello che avete fatto stamattina, Lady Morgana.» disse, sinceramente.

Morgana non sembrò particolarmente sorpresa da quelle considerazioni; Guinevere la vide semplicemente sostenere il suo sguardo per diversi istanti, come a cercare di sondare le sue vere intenzioni. Di sicuro non era dotata della stessa empatia di Lancelot.

«Di tutti, proprio tu dovevi vedermi. E sì che avevo curato di farlo in un momento in cui tu ti stessi allenando.» costatò alla fine, scostandosi dalla porta, in un chiaro segno di invito ad entrare. «Entra. Te lo lascio fare solo perché riconosco quelle erbe, e so che non ce n’è nessuna velenosa, né che insieme creano un effetto velenoso.» commentò.

Guinevere annuì, ed entrò con un sorriso parzialmente entusiasta nella sua stanza, superandola senza guardarla negli occhi.

Quando lo rialzò, si ritrovò davanti a una stanza di dimensioni più modeste di quanto si fosse immaginata; ma non per questo vuota.

Quello doveva essere il laboratorio in cui Morgana eseguiva le proprie ricerche; diversi maghi, specialmente quelli più abbienti, ne avevano uno. Guinevere aveva avuto occasione di vedere dal vivo anche quello di Merlin, qualche tempo prima: il suo si trovava ai piani più bassi del castello, ed era molto più ampio di quello in cui si trovava lei in quel momento.

Lì dentro erano presenti molti tipi di erbe, suddivisi per tipo in vasetti di ceramica o di argilla, ciascuno catalogato con il nome latino, e ognuno in un riquadro diverso dell’immenso erbario che c’era sulla parete a destra dell’entrata; sotto di esso, c’erano degli armadietti in legno scuro (mogano, probabilmente; lo stesso che era stato usato anche per l’erbario), in cui dovevano esserci i libri di magia su cui Morgana aveva studiato e studiava tuttora, e le pergamene su cui appuntava i risultati delle sue ricerche.

Procedendo sempre più verso sinistra, Guinevere vide una piccola finestra incassata nel muro e coperta da tende bianche, poco sopra l’erbario; non molto distante dalla finestra c’era un paiolo rinchiuso da tre lastre di pietra, due ai lati e una sopra, che si articolava in un camino che probabilmente trovava la propria uscita qualche piano più su. Sulla parete a sinistra della porta c’erano dei ripiani con altri libri; una scrivania con pergamene, calamai, inchiostro, erbe, scatole e altri libri ancora; nell’angolo più lontano da lei c’era una gabbia con tre uccellini; e nell’angolo a sinistra della porta, di poco distanziata dalla parete, c’era una poltrona di un rosso sbiadito – un colore strano, considerando che Morgana spesso tendeva ai colori cupi.

Guinevere sobbalzò lievemente, quando sentì qualcosa strusciarsi contro la propria gamba sinistra; guardando in basso, vide un gatto dal pelo bianco con sfumature grigie, piuttosto grosso, che le accarezzava il polpaccio con la coda.

Sorrise lievemente, voltandosi a cercare lo sguardo di Morgana; notando che però non sembrava opporsi al fatto che il suo gatto la trovasse simpatica, si chinò ad accarezzarlo tra le orecchie, mentre lei trafficava con uno degli armadietti sotto l’erbario.

«Ecco.» la sentì dire poi. Guinevere sollevò lo sguardo, vedendo che lei teneva un piccolo paiolo di rame in una mano, e una ciotola di ceramica nell’altra, e gliele porgeva. «Usa questi, se vuoi farmi quell’infuso di erbe.»

Guinevere si alzò in piedi, e prese i due oggetti tra le mani, annuendo e poi dirigendosi verso il focolare. Dietro di sé, sentì Morgana sedersi sulla poltrona, e il gatto avvicinarsi alla sua padrona con passo felpato.

«Quindi sei piuttosto abile nelle percezioni uditive.» commentò Morgana, mentre lei accendeva il fuoco e riempiva il paiolo più piccolo di acqua. «Non ti sei stupita minimamente, quando mi hai visto sulla porta.»

«Cosa vi fa pensare che non sia abile con l’olfatto o il tatto, invece?» domandò Guinevere, mettendo il paiolo sul fuoco.

«Intuizione. Se fossi stata abile con l’olfatto, la prima cosa che avresti fatto una volta entrata qui sarebbe stata rimanere per un attimo ferma sulla soglia della porta, e recepire gli odori delle piante, esattamente come fanno tutti quelli con una percezione olfattiva sviluppata, quando arrivano in un luogo sconosciuto.» replicò lei. «E per il tatto… il manico di quel paiolo è rovinato, ma tu non ci hai fatto minimamente caso. Sarebbe stata una reazione naturale, per qualcuno con un tatto sviluppato.»

Guinevere annuì, e iniziò a mettere le foglie sminuzzate delle erbe nella ciotola. Aspettò di vedere l’acqua bollire e prese un mestolo di legno dal lato sinistro del camino, su cui era appeso, per poi prendere con esso dell’acqua e versarla nella ciotola con le erbe pronte. Appena la riempì, un odore di erbe forti e rinfrescanti si sparse per l’angolo in cui si trovava lei – e non serviva un olfatto sviluppato, per percepire quel profumo.

«Siete un’attenta osservatrice.» commentò poi, voltandosi verso di lei e sorridendo. «I miei gesti mi hanno chiaramente tradito, ma voi siete stata in grado di coglierli.»

Morgana inarcò un sopracciglio, e sorrise lievemente. «E dunque, Guinevere…» disse, allungando una mano, e facendole cenno di portare la ciotola. «…hai sentito ciò che ho detto ad Arthuria stamani?» domandò, mentre Guinevere prendeva la ciotola ancora bollente tra le mani, e gliela portava con cautela.

«No, Lady Morgana. Non ho sentito nulla.» rispose Guinevere, ponendole la ciotola tra le mani. Morgana la accostò al proprio grembo, e Guinevere sollevò lo sguardo nel suo. «Non lo ritenevo corretto. In fondo, si trattava pur sempre del primo dialogo tra Arthuria e sua madre.»

Morgana sorrise con fare sarcastico, e sollevò di poco il mento. «Sei anche tu un’abile osservatrice, Guinevere.» commentò. «Credo che tu sia stata l’unica a vedermi lassù. E questo nonostante tu stessi combattendo, prima contro Lancelot del Lago, e poi contro il villico che, da quello che ho potuto sentire, ha un debole per te.»

Guinevere aggrottò le sopracciglia, perplessa sia dal complimento che Morgana le stava facendo, sia dall’espressione che aveva adottato per farglielo. A guardarla le sembrava solo ostile; di certo, non intenzionata ad adularla.

«Proprio per questo ho una perplessità.» proseguì Morgana. «Come sei stata in grado di riconoscermi, pur essendo io perfettamente trasformata in Lady Igraine, avendo indossato i suoi vestiti, e non avendo tu sentito le parole che ho detto ad Arthuria?»

Guinevere assottigliò gli occhi. L’espressione di Morgana da sarcastica era diventata seria; gli occhi, freddi e penetranti; il tono aveva una cadenza pericolosamente minacciosa e accusatoria.

«Mi è parso semplicemente strano che Lady Igraine, dopo quindici anni di silenzio, decidesse di parlare proprio ora ad Arthuria.» disse, sinceramente.

«Eppure era qualcosa di possibile.» commentò Morgana, sollevandosi in piedi, appoggiando la ciotola su un tavolino accanto alla poltrona, e avvicinandosi a lei con passo lento. Guinevere indietreggiò solo di poco, giusto per non scontrarsi con lei. «Lady Igraine avrebbe potuto ricredersi su quello che pensava a proposito di Arthuria, e avrebbe potuto decidere di parlare con lei.»

«Lady Igraine ha subìto una violenza da parte di re Uther, e da quella violenza è nata Arthuria.» replicò Guinevere, duramente, assottigliando gli occhi. Vide la sicurezza di Morgana vacillare per un attimo, e uno dei suoi occhi assottigliarsi, in una specie di reazione irritata. «Se non ha mai cambiato idea in quindici anni, non vedo perché la debba cambiare ora.» proseguì Guinevere, indietreggiando ancora di mezzo passo, preoccupata dall’espressione che il volto dell’altra aveva assunto. «Solo perché la gente parla bene delle capacità di Arthuria, non è detto che Lady Igraine si ricreda per quello. Anzi, forse penserebbe proprio che ha preso tutto da suo padre, e cercherebbe di allontanarla ancora di più da sé.»

Morgana sollevò il mento per guardarla dall’alto in basso – la superava di almeno cinque centimetri – e rimase in silenzio per qualche secondo; le sembrò che i suoi occhi verdi volessero trapassarla da parte a parte, da come la stavano fissando. Ma non si mosse, né abbassò la testa: se era una guerra, quella che Morgana voleva, era una guerra che avrebbe avuto.

«Come sai di Igraine e Uther?» domandò l’altra, infine, in tono innaturalmente tranquillo. Guinevere intuì che quella fosse una tattica come un’altra per sondare il suo terreno e poi colpirla nel momento propizio.

«Suppongo si possa intuire, viste le vicende che si sono susseguite così in fretta.» replicò. «Ma a me ha raccontato tutto Arthuria.»

«Perché?» insistette Morgana; Guinevere vide di nuovo quella sua reazione irritata di socchiudere l’occhio per un istante, prima di porre la domanda. Non capì se a causarle quella reazione fu il modo in cui aveva pronunciato il nome di Arthuria, o il fatto che Arthuria le avesse raccontato qualcosa che, probabilmente, doveva restare un segreto all’interno del castello.

«Credo sia successo perché aveva bisogno di parlarne.» rispose.

«E perché avrebbe dovuto parlarne con te?»

Guinevere la fissò; Morgana aveva alzato di più il mento, e la squadrava con un’espressione glaciale.

La infastidiva che Arthuria parlasse con lei, ora era chiaro. La infastidiva parecchio.

Ma perché?

«Perché si fida di me ed ero pronta ad ascoltarla.» rispose.

Morgana smosse finalmente la bocca, facendole assumere la forma di un sorriso sghembo.

«Sai, Guinevere.» disse, muovendo un passo avanti; Guinevere fece per indietreggiare, ma si fermò quando si accorse che l’intento di Morgana non era di aggredirla – non fisicamente, almeno –, ma solo di girarle intorno come a esaminarla. «Ho sempre trovato… singolare che una donna decidesse di prendere le armi. Una donna graziosa come te, poi.» aggiunse, facendole venire un brivido per quegli aggettivi; Guinevere non seppe perché, ma il suo istinto le urlò che non presagivano nulla di buono – e di certo non quello che Lancelot aveva pronosticato riguardo alla sua visita nelle stanze di Morgana. «Mi sfugge la ragione del tuo gesto. Tu potresti avere ai tuoi piedi mille e più uomini, se solo non fossi sempre sporca di polvere, non ti allenassi con le spade e non ti vestissi alla stregua di un maschio.» disse ancora Morgana, arrivandole lentamente dietro la schiena. «Per quale motivo, dunque, hai deciso di allenarti per diventare un soldato?»

Guinevere non voltò la testa. Assottigliò gli occhi, cercando di capire dove stesse andando a parare il discorso di Morgana. Tuttavia, la sua mente sembrava più concentrata sul fatto che lei avesse intuito i suoi sentimenti per Arthuria; e il valutarne le implicazioni le fece girare la testa per diversi attimi.

«Rispondimi, Guinevere.» la incalzò Morgana, con tono duro.

«Perché credo che sarà Arthuria, ad estrarre Caliburn dalla roccia.» replicò Guinevere. «E io voglio stare al suo fianco e servirla come suo soldato.»

«Quale singolare scelta.» continuò Morgana. «Malgrado le tue ragioni, dovresti sapere bene che il compito di una donna non è certo quello di stare sul campo di battaglia, ma di consigliare gli uomini da dietro le quinte, se proprio devono. Oltre, ovviamente, al dare loro dei figli e al governare il castello e il territorio in loro assenza.» Guinevere sollevò lo sguardo nel suo, quando se la ritrovò di nuovo davanti; Morgana le sollevò il mento prendendolo con forza tra le dita, e la fissò negli occhi. «Saresti la moglie perfetta per qualunque uomo. Il corpo caldo di cui hanno bisogno i re, quando tornano vittoriosi dalle loro guerre, per trastullarsi.» aggiunse, a bassa voce, vicino alla sua bocca. Guinevere ebbe un moto di disgusto, verso quell’immagine, pur sapendo che corrispondeva alla realtà dei fatti per la maggioranza delle dame di corte – o forse proprio per quello. «Eppure hai un carattere indomito. E hai fatto una scelta che va contro ogni legge, scritta o della natura che sia.» proseguì Morgana, lasciandola. «E tutto questo solo perché credi che Arthuria estrarrà Caliburn? Io dubito che sia solo questo.»

Guinevere rabbrividì. La calma con cui Morgana stava pronunciando quelle parole non prometteva bene: sapeva esattamente quello che stava dicendo, e sapeva che corrispondeva a verità.

«Ho elaborato due teorie, al riguardo.» disse Morgana. «La prima, e quella in cui credo meno, è che tu stia facendo tutto per ingraziarti Arthuria. Lei è ingenua: è stata educata così da Merlin, e non c’è da stupirsi che non sappia leggere gli sporchi trucchetti di una come te, una figlia di nessuno che è cresciuta in mezzo ai boschi e che fa una strana comunella con un ragazzo prestante e abile nel combattimento.»

Guinevere spalancò gli occhi; seppur con termini inusuali, Morgana le stava chiaramente dando della sgualdrina.

«Strana comunella, Lady Morgana?» replicò, con tono palesemente irritato, ma cercando di trattenere la furia. «Non vi permetto di parlarmi così, che voi siate uno o diecimila gradi sociali più in alto di me.»

La reazione di Morgana la colse alla sprovvista. Si ritrovò con la camicia stretta nella morsa di dita troppo forti, per essere quelle di una persona debole che aveva fatto uno sforzo come lei aveva pensato, e la schiena e la nuca sbattute di malagrazia contro il muro, doloranti per il colpo ricevuto, di cui lei aveva a malapena percepito l’urto.

Strinse i denti, e fissò Morgana negli occhi, furibonda; e vide delle pupille che bruciavano per l’ira, se possibile ancora più delle sue.

«Tu e Lancelot non condividete forse la stessa abitazione?» domandò Morgana, in un sibilo violento. «Lo stesso letto, magari?»

«No!» replicò Guinevere, artigliando una delle mani e cercando di liberarsi dalla sua presa.

«E tu non stai forse cercando di ingraziarti Arthuria con tante belle parole per ottenere, una volta diventata una sua fedele, se così si può dire, delle terre e delle ricchezze del regno che andrà costruendo?» disse ancora Morgana, ad alta voce, ignorando la sua risposta e stringendo di più la presa.

«No!» rispose ancora Guinevere, a voce più alta, e fissandola negli occhi.

Morgana strinse ulteriormente la presa, e la inchiodò ancora di più contro il muro; ma Guinevere non chiuse gli occhi, né distolse lo sguardo dal suo.

Fu solo dopo qualche attimo, che la presa si allentò, e l’espressione furiosa di Morgana si tramutò in un ghigno malvagio.

«Allora avevo ragione, a pensare che la mia seconda opzione fosse quella più plausibile.» commentò, in un tono troppo tranquillo, per non inquietare Guinevere, che sbarrò gli occhi. «A te non interessano né terre, né ricchezze, né il prestigio che potrebbe darti lo stare vicino ad Arthuria una volta che lei guiderà la Britannia.» considerò. Fece una brevissima pausa, alla quale Guinevere sentì i polmoni cercare troppa aria rispetto al solito, e il cuore battere nel suo petto fino allo sfinimento. «E io che pensavo di accusarti di fornicazione con Lancelot. Un peccato su cui tutto sommato si può indulgere.» disse ancora Morgana. «Ma, no. Qui si tratta di ben altro. Qualcosa di tanto forte da spingere una donna graziosa come te ad indossare un’armatura e a seguirla in battaglia.» disse. «Qualcosa di contemplato dalla maggioranza della comunità magica.»

Guinevere si accorse di tremare violentemente, malgrado la presa di Morgana si facesse sempre più debole e, alla fine, la lasciasse del tutto. Sostenne lo sguardo dell’altra, cercando di rimanere ferma nella propria sicurezza di sé; ma sentì come un mancamento, e dovette appoggiarsi al muro con una mano.

«Cosa potrebbero pensare di te le persone, se io dicessi in giro che provi dei sentimenti proibiti in una terra che si sta cristianizzando?» commentò Morgana. «Che cosa potrebbero fare di te, quelle persone?»

Guinevere la fissò per un istante, smarrita; poi, abbassò la testa, chiudendo gli occhi al ricordo di quello che le aveva detto Lancelot quando gli aveva dichiarato i propri sentimenti per Arthuria.

Peggio che morire ammazzata in battaglia.

Per la prima volta, ebbe paura. Non tanto di Morgana; quanto di come i propri sentimenti avrebbero potuto distruggerla, un giorno.

Se ne avesse parlato con Arthuria l’avrebbe distrutta la gente; se non le avesse detto niente, l’avrebbero divorata da dentro fino a farla impazzire.

E ora c’era anche Morgana, che sapeva.

Da quanto aveva intuito tutto?

Da quanto covava quella convinzione?

E perché lei non l’aveva lasciata perdere, invece di andare stupidamente a ringraziarla per il gesto che aveva fatto quella mattina per Arthuria?

Sapeva che Morgana la detestava. Era andata a ficcarsi nella tana del lupo da sola. Perché era stata così stupida?

«Non avvicinarti a lei, Guinevere.» disse Morgana, a voce bassa, il viso poco distante dal suo. «Tu non sei in grado di renderla felice.»

Guinevere per un attimo sentì quelle parole fluttuare nella sua mente; e poi, improvvisamente, collegò il tutto.

Il modo dolce con cui si rivolgeva solo ad Arthuria; il modo in cui cercava di proteggerla; l’essere sempre pronta a consolarla e a starle vicino.

Lo sguardo che le aveva lanciato sin dalla prima volta che si erano incontrate. E la convinzione che lei non potesse rendere felice Arthuria.

Quelle ultime non potevano essere solo le parole di una sorellastra, né di una sorella che aveva assunto il ruolo di madre.

Quello era…

La fissò, in dubbio su quelle considerazioni, mentre lei le dava le spalle. Forse erano solo i sentimenti un po’ confusi e morbosi di una ragazzina che a otto anni aveva iniziato a fare da madre alla sorellastra minore. Forse era solo il forte attaccamento che provava per lei.

Eppure…

«Io non sono in grado di renderla felice?» domandò, azzardandosi, in una maniera che in un’altra occasione avrebbe giudicato estremamente incosciente, a verificare se i propri pensieri avessero un fondamento. «Voi lo siete, Lady Morgana?»

Bastò l’immobilizzarsi di Morgana a quelle parole; gli occhi sbarrati in un’espressione di incredulità mista a furia, che lei le mostrò quando si voltò a guardarla; le labbra strette in una morsa, fino a diventare quasi bianche.

Fu sufficiente, a far capire a Guinevere i veri sentimenti di Morgana verso Arthuria. E verso di lei.

Non aveva mai visto tanto odio in vita propria.

Gli occhi di Morgana volevano ucciderla; il suo intero corpo sembrava teso in preparazione di un attacco che sarebbe stato violento e, se possibile, letale.

Si rese conto troppo tardi dei rami delle piante che erano andati allungandosi fino a raggiungerla; in un attimo, fu stretta nella morsa di piante che fino a pochi secondi prima erano solamente medicinali, e che ora invece avevano rami rampicanti che le legavano i polsi e si avvolgevano intorno al suo corpo, fino a stritolarle il collo.

«La magia della natura non è la mia specialità.» commentò Morgana. «Ma quando si tratta di magia della forma, posso adoperarla senza problemi, anche senza il contatto con l’oggetto. Specie se si tratta di qualcosa legato alla foresta, come delle piante.»

Guinevere annaspò, sentendo il fiato mancarle. In un angolo della sua mente, riuscì a pensare che Morgana era tanto abile con la magia da riuscire ad adoperare i due tipi di magie di seconda classe senza avere contatto fisico con l’oggetto, e che avrebbe dovuto riuscire a farlo anche lei, se voleva contrastarla.

«E’ stato un errore venire qui e provocarmi in questo modo, Guinevere.» commentò Morgana, avvicinandosi a lei.

Guinevere sentì la stretta farsi più forte. Chiuse gli occhi, e agì con la magia sull’aria vicino a sé, recitando mentalmente un incantesimo che la rendeva, in parte, affilata come lame.

Riprese fiato, quando i rami che la legavano furono recisi.

Con un altro incantesimo, fece in modo che l’aria vicino alle orecchie di Morgana fischiasse fino a diventare insopportabile. La vide perdere il controllo delle piante che stava maneggiando, e tapparsi le orecchie con le mani, gemendo per il dolore. Guinevere scattò in avanti, facendo per uscire dalla stanza.

Quando vi arrivò, però, fu trattenuta da altri rami che spuntarono fuori dal nulla. Crollò contro la parete accanto alla porta, sorreggendo il proprio peso tramite le mani, mentre sulle caviglie salivano le piante, i rami sempre più lunghi.

Indistintamente, sentì il gatto di Morgana soffiare – contro di lei, o contro qualcos’altro? –, e i passi di Morgana avvicinarsi a lei.

«E’ inutile legarti.» commentò Morgana, fissandola negli occhi. Aveva riacquistato la sua espressione fredda e sgradevolmente placida nei toni. «Così come è inutile tapparti la bocca. Sai usare gli incantesimi adatti a contrastarmi pronunciandoli nella tua mente.» proseguì. Guinevere sentì le gambe mancarle, quando i rami la lasciarono andare, e le piante tornarono com’erano prima. «Sei fastidiosa, Guinevere del Bosco. Molto. Ma in questo momento io e te finiremmo un combattimento in pareggio, malgrado la mia abilità nella magia sia superiore alla tua.» considerò. «E siccome non saprei bene come giustificare la tua morte o la tua scomparsa, specie se Lancelot sa che eri nelle mie stanze, direi di essere propensa a lasciarti andare, per questa volta.» commentò, avvicinandosi alla porta ed aprendola con una chiave. Guinevere la fissò negli occhi, sorpresa della propria fortuna, se così si poteva chiamare. «Dammi solo un pretesto, Guinevere. Uno solo. E io sarò pronta ad eliminarti.» disse. «In caso contrario, mi gusterò la tua morte sul campo di battaglia. Dubito che durerai a lungo.»

Guinevere sentì per un attimo il fiato mancarle, allo sguardo che Morgana le lanciò: definirlo crudele e desideroso della sua morte era usare un eufemismo. Lei voleva che soffrisse. Voleva che venisse uccisa tra le peggiori torture.

Se avesse potuto, l’avrebbe denunciata. Ma come era sospetta lei, che a diciassette anni viveva nella stessa casa con Lancelot pur non avendo una relazione con lui, e che invece di diventare una dama di corte aveva deciso di diventare un soldato, così era sospetta Morgana, che a ventitré anni ancora non si era sposata e rifiutava il corteggiamento di chiunque, compreso qualcuno di prestante come Lancelot.

Se una avesse accusato l’altra, l’altra avrebbe ribattuto con la stessa accusa, e sarebbero state imputabili entrambe.

«Esci dalle mie stanze e non farti più vedere.» concluse Morgana, voltandosi a darle le spalle.

Guinevere non se lo fece ripetere due volte. Saettò fuori dalla porta e camminò più velocemente che poté lungo i corridoi del castello, per uscire a respirare aria fresca.

Morgana l’aveva quasi ammazzata.

Morgana voleva la sua morte.

Morgana sapeva di quello che lei provava per Arthuria.

Morgana e lei erano più simili di quanto lei avesse mai potuto immaginare.

 

 

 

Aveva esagerato.

Quella era la considerazione che, come una litania, aveva iniziato a rimbombarle nella testa nel momento stesso in cui Guinevere era uscita di corsa dalla sua stanza.

Finché si trattava di adoperare la magia della forma su un corpo estraneo al suo poteva anche andare bene: si trattava di usare un minimo di energia, e con quella poteva anche ingrandire qualcosa di piccolissimo, o viceversa rimpicciolire qualcosa di grandissimo. Si trattava solo di utilizzare la materia esistente nel modo giusto per portare a termine l’obiettivo.

Ma quando si adoperava la magia della forma sul proprio corpo, variando lineamenti, curve, colore e lunghezza di qualsiasi cosa per trasformarsi momentaneamente in qualcun altro, il discorso cambiava: il corpo tendeva naturalmente a tornare alla propria forma più stabile, che altri non era la sua vera forma, e l’energia usata era la sua, sia per mantenere la forma scelta, sia quella che il corpo usava per cercare di stravolgere l’incantesimo. Per quanto Morgana fosse abile con le magie della forma, e a cambiare le sembianze degli oggetti, non adoperava spesso quel genere di magia sul proprio corpo, proprio per quel motivo; e per quanto si fosse esercitata, nelle settimane, al fine di assumere in maniera estremamente precisa tutti i connotati di Lady Igraine, non era riuscita a metabolizzare a sufficienza lo sforzo. Non da riuscire a tornare in forma in mezza giornata per utilizzare la magia della forma anche contro Guinevere senza conseguenze, almeno.

Doveva essere stato lo sforzo eccessivo, a spingerla a tradirsi davanti a lei. Quell’orfana venuta dai boschi aveva capito tutto dalle parole che aveva detto, e forse aveva intuito qualcosa anche in precedenza.

Morgana si morse un’unghia, contemplando i cocci della ciotola di argilla che aveva dato a Guinevere per mettere l’infuso, sparsi a terra in una macchia ancora umida di infuso di erbe rigeneranti: l’aveva colpita con una manata non appena l’altra era uscita, in preda alla furia di essersi tradita davanti a lei e di non essere riuscita ad eliminarla.

L’unica cosa positiva era che Guinevere si fosse tradita esattamente come aveva fatto lei, e avesse confermato le sue teorie – pur senza dirlo esplicitamente; ma d’altra parte, nemmeno lei l’aveva detto con franchezza a Guinevere, malgrado la propria reazione fosse stata più che eloquente.

Guinevere era imputabile quanto lei, a questo punto. Avrebbe potuto accusarla, e dall’alto del proprio rango sociale con tutta probabilità l’avrebbe avuta vinta e avrebbe potuto contemplare Guinevere bruciare sul rogo dopo mille torture. L’altro lato della medaglia era che non poteva, a conti fatti, accusarla: Guinevere avrebbe potuto accusare lei della stessa cosa, e Morgana non avrebbe potuto difendersi.

Quella ragazzina era infida. L’aveva capito nel momento stesso in cui l’aveva sentita arrivare nelle sue stanze e aveva notato l’odore di erbe medicinali in quel sacchetto: cosa pensava di fare, con quel gesto? Trasformarle all’ultimo minuto e rendere l’infuso velenoso in modo da eliminarla? O guadagnarsi le sue grazie e la sua simpatia con quel gesto da quattro soldi? Di sicuro non era un gesto dettato dalla gentilezza: non le aveva mai dato motivo di essere gentile con lei, dal momento che lei per prima non si era mai fidata di lei: Guinevere, fin dall’inizio, era stata fin troppo vicina ad Arthuria, per non avere qualche doppio fine da quel rapporto. E Arthuria era mentalmente partita per quella mocciosa da anni, molto prima che Morgana la vedesse coi propri occhi: continuava a parlare di lei e del fatto che si incontrassero ogni giorno, e del fatto che fosse stata Guinevere ad assoldare Lancelot per allenarla e farla diventare abile nel combattimento.

Morgana si era chiesta più e più volte cosa quella Guinevere volesse ottenere con quei gesti verso Arthuria. Quando aveva scoperto che era un’orfana cresciuta da Cassandra, la maga amica d’infanzia di Merlin, aveva supposto che l’obiettivo di Guinevere fosse ingraziarsi Arthuria per ottenere, in futuro, benefici a livello economico, e un rango sociale alto, in modo da poter vivere una vita agiata.

Poi, l’aveva vista. E più di una volta, dopo quella prima volta in cui Arthuria aveva avuto le sue prime mestruazioni, Guinevere e Lancelot erano venuti al castello per allenarsi insieme a sua sorella.

Era bastato forse qualche sguardo, o qualche gesto di troppo, per far maturare a Morgana il sospetto che Guinevere non stesse vicino ad Arthuria esattamente per ottenere benefici economici, ma per tutt’altro motivo.

Tuttavia, le era sempre risultato difficile credere che quella teoria fosse vera. Guinevere poteva semplicemente essere una ragazzina fin troppo esagitata e ribelle, e aver scelto di diventare un soldato per guadagnarsi ulteriore fiducia di Arthuria – che, dall’alto della propria ingenuità, non aveva mai capito quali fossero i reali obiettivi di Guinevere, e credeva di potersi ancora fidare di lei: Arthuria era fin troppo pura, e fin troppo gentile e onesta, in tutti i sensi, per credere che qualcuno avesse secondi fini in un rapporto con lei. E Morgana aveva sempre dovuto proteggerla da complotti alle sue spalle, di cui Arthuria non aveva mai saputo nemmeno l’esistenza, grazie al suo intervento: erano stati diversi, i cavalieri del re che avevano tentato di eliminare l’unica erede di sangue di Uther per guadagnarsi in qualche modo la successione al trono, o per semplice convinzione che una donna non dovesse combattere. E c’erano state alcune volte in cui la mandante di quei complotti era stata la stessa Igraine, soffocata dall’odio verso la propria unica figlia.

Morgana avrebbe voluto ammazzarla direttamente ed eliminare così il male alla radice; ma non poteva farlo senza una scusante valida, e in quegli anni una scusante non si era mai presentata. Così, aveva dovuto accontentarsi di far sparire dalla circolazione qualunque cavaliere fin troppo fedele alla regina, o fin troppo sicuro di sé e delle proprie capacità da credere di poter eliminare Arthuria.

Arthuria era la sua unica ragione di vita. Arthuria era quella bambina che si era ritrovata ad accudire perché Igraine si era rifiutata persino di allattarla, cercando di farla morire di fame, e Morgause, la sua madre naturale, aveva preso in custodia, facendola allattare da una delle serve del castello. Arthuria era quella bambina cresciuta in un’atmosfera di odio, e istruita ad amare gli altri e ad essere giusta: una contraddizione che chiedeva solo di essere amata quel poco che bastava a farla diventare un re giusto e saggio come le veniva insegnato.

Morgana aveva deciso di darglielo, quell’amore. Aveva deciso di darle il conforto, la spalla su cui piangere, l’educazione che Arthuria non aveva mai ricevuto da sua madre, la figura femminile di cui lei aveva avuto bisogno, la sorella complice che sapeva tutto di lei e cui lei poteva raccontare tutto.

Eppure, col tempo, Morgana si era resa conto che l’amore che lei dava ad Arthuria non era ricambiato nella stessa misura.

Lei stava dando tutta sé stessa per lei: voleva che fosse felice, che compisse il proprio destino, che sentisse quel sentimento noto come amore dritto nel cuore, e ne fosse colpita. Ma Arthuria non ricambiava: la considerava solamente una sorella, una confidente, una complice, e la madre che non aveva mai avuto.

Che era quello che Morgana aveva deciso, inconsciamente, di essere per lei.

Ma che non era quello che Morgana voleva essere davvero, per lei.

Morgana si era ritrovata a fare i conti con qualcosa che andava oltre il legame famigliare e affettivo; si era ritrovata a dover interagire con un sentimento di possessione verso Arthuria, che la spingeva a volerla solo per sé, e per cui ancora in quel momento soffriva, perché sapeva che non sarebbe mai stato ricambiato.

E ora arrivava quella mocciosa dal bosco, e presumeva di poter amare Arthuria più di quanto facesse lei – lei, che aveva dato tutta la propria vita per Arthuria, e che aveva devoluto ogni singola briciola della propria anima a rendere felice Arthuria per quanto le fosse possibile, a proteggerla, e ad esserle vicino; lei, che conosceva ogni singolo angolo dell’anima di Arthuria, che l’aveva ascoltata e consolata per anni, che aveva fatto fronte ai suoi dubbi e aveva cercato di incoraggiarla; lei, che pur di farle apprendere la magia e farle avere fiducia nelle proprie capacità in quelle ultime settimane aveva lavorato per rendersi più simile possibile alla persona che più odiava, e a elaborare un discorso che potesse essere coerente con la situazione, sforzandosi di pensare con una mente di cui non concepiva nemmeno il minimo pensiero.

Guinevere non sapeva nulla di Arthuria; e se sapeva qualcosa, non sapeva abbastanza. Non le era stata vicina per un tempo sufficiente ad avere la conoscenza della mente di Arthuria che aveva Morgana; non le era stata vicina un tempo sufficiente per poter dire di amarla e di conoscere ogni angolo di lei – eppure, con una sfrontatezza che per lei era come un oltraggio, l’aveva dato a intendere, e provava quei sentimenti, e il suo obiettivo era avere Arthuria per sé.

Morgana assottigliò gli occhi a contemplare Urion, il proprio gatto; Guinevere era qualcuno che lei avrebbe dovuto eliminare, in un modo o nell’altro. Ma era talmente subdola che sarebbe stato difficile farlo. Se era ancora vergine, avrebbe potuto chiedere a Lancelot di esserle complice, e di prendersi la sua verginità, in modo da dimostrare di avere una relazione con lui nel caso Morgana avesse deciso di accusarla di omosessualità. La fornicazione prematrimoniale era effettivamente un peccato all’interno della comunità cristiana che si stava formando in Britannia; ma era qualcosa su cui si poteva indulgere, specie perché era una pratica particolarmente diffusa tra le persone dei ceti sociali più bassi. E Guinevere e Lancelot, per quanto maghi, appartenevano entrambi a ceti sociali bassi, e per di più erano orfani.

Lei non avrebbe potuto fare la stessa cosa: essendo di un rango alto, ci si aspettava che arrivasse vergine al matrimonio – per quanto chiunque, ormai, presumeva che lei avesse una relazione illegittima con qualche appartenente a un ceto basso, e che quello fosse il motivo per cui si rifiutava di sposarsi. Se non fosse arrivata vergine, avrebbero potuto esserci delle conseguenze gravi. Ovviamente, nel lontano caso in cui lei fosse effettivamente arrivata al matrimonio: la sua intenzione, in realtà, era di stare vicino ad Arthuria e di proteggerla dai complotti di corte più a lungo possibile.

Certo, se avesse avuto una qualche relazione con qualcuno di rango più basso, in qualche modo si sarebbe potuta difendere dalle accuse di omosessualità che Guinevere avrebbe potuto muoverle.

Di colpo, le tornò alla mente la prima volta che aveva visto Lancelot. Quel ragazzo le moriva dietro sin dal primo istante in cui aveva incrociato il suo sguardo. Ed era di un rango ritenuto basso: era qualcosa di misto tra un apprendista scudiero e un aiutante della bottega erboristica di Cassandra.

Una relazione con lui sarebbe stata plausibile; purtroppo, era amico di Guinevere, e avrebbe potuto sapere di quello che era successo tra loro due quel pomeriggio, se fosse stato tanto intimo di Guinevere al punto da venirlo a sapere. Se fosse stato particolarmente intimo di Guinevere, avrebbe potuto addirittura sapere dei sentimenti che lei provava per Arthuria. E Guinevere avrebbe potuto dirgli addirittura di quello che lei, Morgana, aveva dato a intendere quel pomeriggio.

Ma se così non fosse stato, una relazione con Lancelot sarebbe stata plausibile.

Si alzò dalla poltrona su cui si era accasciata dopo lo sforzo di un uso eccessivo di magia, e si diresse verso gli armadietti sotto l’erbario, per poi abbassarsi ed estrarre una gabbia in cui dormivano due gattini nati da poco, striati di grigio e bianco.

Guinevere aveva riconosciuto i suoi uccellini come suoi famigli, e Urion come un suo animale domestico; ma quei due gattini non li aveva visti, con tutta probabilità, dato che Morgana li aveva raccolti da poco perché Urion glieli aveva portati. Aveva avuto intenzione di renderli dei famigli nel momento stesso in cui li aveva visti; e ora le tornavano utili a quello scopo. Sarebbe stato un ulteriore sforzo per cui avrebbe successivamente dovuto chiedere aiuto alla madre: per rendere un animale un proprio famiglio, bisognava imprimergli una parte della propria volontà tramite un sigillo; e i sigilli erano tra le magie di classe più elevata.

Ma poco importava, se avrebbe dovuto fare l’ennesimo sforzo.

Contemplò per qualche istante i due gattini, raggomitolati l’uno contro l’altro, gli occhi chiusi in un sonno placido; lasciò per un attimo la gabbia nella posizione in cui trovava, si alzò e andò verso Urion, comandandogli mentalmente di andare a chiamare sua madre, e aprendogli la porta per lasciarlo passare. Urion si dileguò nel giro di qualche istante con un guizzo di coda mentre oltrepassava la soglia.

Morgana tornò ai due gattini, e aprì la gabbia. I due percepirono in qualche modo quel movimento, e socchiusero gli occhi; Morgana allungò una mano verso uno di loro, e lo accarezzò, grattandolo dietro le orecchie e, in quel momento, imprimendogli il sigillo che l’avrebbe reso uno dei propri famigli.

Sentì qualcosa di simile a un mancamento, e buona parte dell’energia abbandonarla in un solo attimo, per lasciare spazio a un torpore che per un attimo la spinse a pensare che avrebbe potuto bastare anche uno solo dei due gatti come famiglio; tuttavia, prese coscienza del fatto che doveva sorvegliare sia Guinevere, sia Lancelot, in maniera più discreta possibile, ma contemporaneamente. E l’unico modo per farlo era usare due famigli. Se poi avesse scoperto che Lancelot sapeva tutto di Guinevere, avrebbe architettato un altro modo per togliere di mezzo entrambi: lei non poteva avere Arthuria, ma non era disposta a cederla a nessun altro, perché nessun altro l’avrebbe amata come lei.

Passò la mano sul pelo dell’altro gattino, sorridendo, mentre imprimeva il sigillo anche a lui.

Nessuno avrebbe lasciato due gattini così piccoli a sé stessi. Specie se si trattava di due orfani come Guinevere e Lancelot.

Mal che fosse andata, avrebbe avuto tante informazioni su di loro da poterle distorcere e da poter formulare delle accuse contro di loro tali da farle godere, in futuro, lo spettacolo di entrambi arsi sul rogo.

 

 

Arthuria si fermò per un secondo, incerta sulla direzione da prendere.

Il tramonto era passato da almeno due ore – ed era da almeno due ore, quindi, che stava cercando Guinevere per i cortili del castello, senza trovare la minima traccia di lei.

Si era resa conto del tempo passato (e con esso, dell’aver perso un’intera giornata di allenamento, persa com’era a contemplare Caliburn e a riflettere sulle parole pronunciate da sua madre) solamente quando il sole aveva iniziato a calare, e lei aveva visto Caliburn non riflettere più la luce del sole. Solamente allora aveva deciso di scendere da quella torre, e di dirigersi verso l’abitazione di Guinevere, Cassandra e Lancelot, in modo da parlare con l’amica degli avvenimenti di quella mattina, delle parole che sua madre aveva pronunciato, e dei pensieri che le avevano occupato la mente per l’intero giorno. Nonché della decisione che aveva preso in virtù di essi.

Quando era arrivata all’abitazione di Cassandra, tuttavia, aveva scoperto che Guinevere non si trovava lì.

Lancelot le aveva raccontato che era tornata a casa circa un’ora prima del calare del sole, aveva preso il proprio mantello rosso scuro che portava sempre, una bisaccia che né lui né Cassandra avevano capito cosa contenesse, ed era uscita di nuovo, dicendo che aveva bisogno di stare da sola, e intimando loro di non seguirla per nessun motivo.

Tutto ciò spiegato sullo sfondo dell’interno della casa di Cassandra, in cui la maga era seduta al tavolo apparecchiato per la cena, evidentemente in attesa che la figlia tornasse.

Tuttavia, Lancelot e Cassandra avevano deciso di non seguire Guinevere, convinti del fatto che fosse sicura di quello che faceva, se aveva pronunciato una frase del genere e aveva chiesto loro di non cercarla. Non era mai stata una sprovveduta: sapeva difendersi, e spesso usciva di casa per riflettere per conto suo, prima di cena, per tornare in tempo.

Il problema era che non era tornata, quella sera.

Arthuria aveva osservato per qualche attimo lo sguardo preoccupato di Cassandra, e l’espressione di Lancelot, che cercava di dimostrarsi convinto di quello che stava dicendo – salvo per una vena di preoccupazione che Arthuria, troppo abituata a interpretare la sua mimica facciale, aveva colto subito: nemmeno lui era tranquillo per quello che sarebbe potuto succedere a Guinevere, specialmente alla luce del fatto che non fosse tornata come faceva abitualmente; e aveva capito che Lancelot aveva deciso di non cercarla solamente per non violare la sua richiesta.

Arthuria aveva assicurato a entrambi di trovarla, e riportarla a casa sana e salva.

Eppure, in quel momento, iniziava a dubitare di riuscirci, o che Guinevere addirittura volesse essere riportata a casa.

Erano due ore che vagava per i cortili del castello, la spada di ferro alla mano pronta a colpire chiunque avesse potuto attaccare lei o Guinevere, e i due piani superiori della fortezza perlustrati. Tuttavia, non aveva trovato traccia di lei, malgrado la dimora di Cassandra fosse nel cortile più in alto, il terzo a partire dal basso.

Non riusciva a credere che Guinevere si fosse allontanata tanto da casa propria; la fortezza era composta da tre piani sovrapposti, in cui la fortezza principale troneggiava su cortili che si aprivano da parti diverse, l’uno rispetto all’altro, e ospitavano tipologie diverse di abitanti: al piano più alto, rivolto verso sud, vi erano le case delle persone più abbienti, e più in contatto con la popolazione del castello – questo comportava la presenza, ad esempio, di alcuni maghi ed erboristi, oltre a Cassandra; della presenza delle case di altri guerrieri che presidiavano alla protezione della fortezza, ed erano fedeli militari del re; e la presenza di sarti, di scudieri che si occupavano dei cavalli, delle famiglie di alcuni dei cavalieri del re, e della dimora di Merlin.

Al piano inferiore, rivolto verso est, si trovavano invece le dimore della servitù del castello; insieme alle dimore del cortile più alto, si trattava di abitazioni abitualmente utilizzate.

L’ultimo cortile era quello più ampio, rivolto verso il nord e l’ovest, e ospitava tutti gli assediati: contadini, servi di signori che al momento erano in battaglia, braccianti, fabbri, artigiani, e tutti coloro che non potevano combattere e si occupavano di dare un contributo all’economia del castello tramite il lavoro manuale. C’erano anche alcuni soldati del re, sottoposti di quelli che abitavano nel cortile più alto, e che ricoprivano il grado più basso all’interno dell’esercito reale: erano stanziati lì per proteggere il castello, esattamente come i loro sovrintendenti due piani più sopra, ed eventualmente per presidiare alla resistenza.

Arthuria poteva quasi accettare che Guinevere se ne fosse andata in giro per i due piani più in alto; ma li aveva perlustrati tutti, da cima a fondo, e non aveva trovato traccia di lei da nessuna parte.

Non riusciva a credere che Guinevere potesse essersi spinta fino al piano più basso: quello era abitato da persone di tutti i tipi, e qualunque uomo avrebbe potuto aggredirla e farle del male, anche se lei era in grado di difendersi con la magia.

Rabbrividì, quando contemplò per qualche attimo le scale che portavano al piano più basso, e strinse l’elsa della spada con più forza e decisione; nella sua testa, l’immagine di una Guinevere cui veniva tappata la bocca e che veniva costretta a subire le più umilianti vessazioni, o che veniva aggredita, tramortita e uccisa per motivi non chiari.

Esitò per un attimo, rendendosi conto di essersi immobilizzata sul posto e di tremare violentemente – la presa sulla spada non più salda, e tendente a farla cadere a terra.

Avrebbe fatto veramente in tempo ad aiutarla, se lei fosse stata lì e fosse stata aggredita?

Sarebbe riuscita a salvarla, o lei avrebbe dovuto essere…?

Sentì il fiato mancarle per il panico dovuto al solo pensiero. Non riusciva a immaginarsi il giorno dopo senza di lei; non riusciva a capire le ragioni di quella fuga, del perché lei avesse dovuto rischiare tanto per andare laggiù, e del perché non avesse avvisato nessuno – del perché avesse confidato così tanto in sé stessa, al punto da mettersi in pericolo in quella maniera.

Poi, d’improvviso, una specie di illuminazione la colpì.

Più che definirla illuminazione, si ritrovò a definirla un’autentica fitta al suo cervello.

Guinevere forse era andata lì perché… perché aveva…

Arthuria esitò nel formulare quel pensiero, incerta persino sul fatto che fosse lecito o meno considerare una possibilità del genere.

Eppure, non riusciva a spiegarsi altrimenti il rischio che lei avrebbe potuto correre, se non con il fatto che lei potesse avere…

Deglutì a vuoto, sentendo un punto in corrispondenza del proprio cuore iniziare a stringersi fino a farle male, e la testa pulsare per la rabbia e il sentirsi inadeguata, come sempre.

Aveva quasi accettato che lei non fosse fatta per Guinevere, e che non avrebbe mai potuto avere il corpo maschile che probabilmente lei desiderava al proprio fianco – aveva quasi accettato di non poterla proteggere come un uomo, e di dover fare del proprio meglio, di doversi allenare cinque volte tanto un normale uomo, per poter contribuire alla sua protezione. Aveva quasi accettato che probabilmente un giorno sarebbe stato Lancelot, al suo fianco, a proteggerla e a prendersi carico della sua persona. Aveva quasi accettato l’idea di avere, in futuro, un ruolo marginale nella sua protezione e nella salvaguardia della sua vita, che era tutto ciò che lei voleva e cui pensava – sempre; e che le veniva riportato in mente ogni volta che lei vedeva Guinevere allenarsi con la spada, e si ritrovava a pensare che un giorno lei avrebbe potuto anche combattere al loro fianco; e allora, quello del protettore sarebbe stato un ruolo più adatto a Lancelot, che a lei.

Era quasi arrivata ad accettarlo.

Ma pensare che Guinevere avesse una relazione con un altro uomo, e che sarebbe stata protetta anche da lui, non faceva che relegarla a un ruolo ancora più marginale, nei suoi confronti.

Non faceva che renderla sempre più inutile, ai suoi occhi, alla mansione della sua vita, e alla sua intera esistenza.

Eppure, non riusciva a trovare altra spiegazione per cui lei potesse essersi diretta fin lì.

Esitò, chiedendosi se lei veramente volesse essere recuperata e portata a casa, in quel caso; e considerando che, se le sue ipotesi fossero state vere, Guinevere avrebbe voluto tutto, tranne che il suo “aiuto”. Se così si poteva chiamare.

Deglutì a vuoto, fissando con rabbia la curva dietro la quale le scale continuavano a scendere fino al cortile del primo piano, e maledicendo la sorte per averla fatta nascere donna.

Se non fosse stata la sorte, lei avrebbe potuto essere il degno erede di Uther, benvoluto e accettato da tutti, non sottovalutato, allenato a diventare un vero guerriero che avrebbe succeduto al padre nel comando della Britannia; avrebbe potuto avere molta più forza di quella che aveva in quel momento, e che rispecchiava solamente quella di una ragazzina di quindici anni che si era fatta i muscoli allenandosi cinque volte più di un normale maschio, in qualsiasi tipo di allenamento possibile – e ciò non sarebbe bastato, a farla essere più forte di un uomo: sarebbe rimasta sempre una femmina, e per questo più debole.

Se non fosse stata la sorte, Guinevere avrebbe anche potuto legarsi a lei al punto da volere la sua protezione, e solamente la sua; al punto da non chiedere di rischiare la vita e di combattere, pur di rimanere al suo fianco e di servirla qualora fosse diventata re.

Se non fosse stato per la sorte, lei avrebbe potuto essere l’unico e l’immutabile protettore di Guinevere.

Si accorse di avere il fiato corto, da quanto stava respirando a fondo pur di cercare di calmarsi, e pur di imporsi di non mettersi a piangere all’imbocco delle scale, in un luogo aperto: gli uomini non piangevano, e non avrebbe dovuto farlo nemmeno lei – malgrado lei non sarebbe mai stata un uomo, non sarebbe mai stata all’altezza di un uomo, e non sarebbe mai stata alla pari di un uomo, non voleva comunque essere da meno di loro, e comportarsi come una femmina avrebbe fatto.

Strinse con più forza l’elsa della spada, cercando di calmarsi e di imporsi di scendere le scale per andare, comunque, a controllare che Guinevere non fosse nel cortile; nel caso non l’avesse trovata, avrebbe concluso che si trovava nella casa di qualche individuo dei piani più bassi, e avrebbe atteso il suo ritorno pazientemente, davanti alla casa di Cassandra.

Scendendo i gradini, sentì delle persone cantare ad alta voce, e diventare sempre più distinte mano a mano che si avvicinava a toccare con piede il pavimento del primo piano. Svoltando l’angolo, notò quella che doveva essere una locanda, in cui militari e contadini bevevano da grossi calici, seduti affiancati sulle panche che davano sulla strada principale, intonando quelle che dovevano essere canzoni di guerra.

Li osservò per qualche attimo, confusa. Scene del genere non si vedevano ai piani superiori: al secondo e al terzo piano c’erano semplicemente le famiglie di case attigue che si mettevano a parlare, seduti sulle sedie che venivano puntualmente piazzate accanto alla porta di casa. C’era familiarità, e gli abitanti dello stesso piano si conoscevano quasi tutti; ma non c’era quello che Arthuria definì istintivamente “affiatamento”, appena vide i militari e i contadini l’uno accanto all’altro a cantare vecchi canti di battaglia.

Non era mai stata lì, in realtà; per lo meno non di sera, dopo il tramonto. E quando usciva dal castello per andare a vedere Caliburn, si ritrovava sempre davanti a uno scenario molto tranquillo e pacato, ordinato, in cui i militari facevano il loro dovere e le sentinelle controllavano il paesaggio circostante. La vita in quella zona, di notte, era qualcosa di completamente diverso a quello che era abituata a vedere; e a quel punto, non sapeva nemmeno da dove cominciare a cercare Guinevere, vista la vastità della zona, e vista la quantità di persone che ancora a quell’ora erano alzate e sembravano perfettamente pronte a fare confusione per qualche ora.

Esitò, guardandosi in giro in cerca di una persona cui chiedere indicazioni, e diffidando di chiunque vedesse in giro: giravano voci non buone, sugli abitanti del primo piano, che venivano dipinti come dei violenti e dei villici da quelli dei piani superiori. Nessuno amava avvicinarsi lì; e nessuno aveva una buona opinione di qualcuno che abitasse lì in basso.

Ma doveva muoversi. Guinevere avrebbe potuto essere lì da qualche parte, e in quel momento poco importava cosa stesse facendo: prima otteneva informazioni su di lei, prima la trovava, prima si sarebbe messa l’anima in pace se lei fosse stata davvero lì per trovare un uomo.

Decise di rivolgersi a quella che doveva essere la padrona di una taverna lungo la strada principale: era una donnona corpulenta, col viso rosso, i capelli non troppo lunghi raccolti all’indietro, e un grembiule fin troppo pulito addosso.

Si avvicinò, titubante, dando un’occhiata poco convinta ai contadini, ai fabbri e ai soldati poco distanti da lei, e che sembravano non prestarle più di tanta attenzione, impegnati com’erano a bere e a inalberarsi per quelle che parevano questioni di poco conto.

«Ragazza, metti via quella spada! Ch’è, vuoi cavare un occhio a qualcuno?»

Arthuria sobbalzò, e si voltò a guardare la donna proprietaria della taverna. Per un attimo, rimase stranita a fissarla, per metà sorpresa per la richiesta, e per metà per il fatto che non l’avesse riconosciuta come l’erede di Uther – odiava il titolo di “principessa”; considerata la sua posizione, era fin troppo femminile.

Storse per un attimo la bocca, chiedendosi se il fatto di non essere stata riconosciuta potesse essere interpretato come qualcosa di positivo o, piuttosto, di negativo; poi, decise che poco importava, e ripose la lama nel fodero che portava legato alla cintola.

«Che ci fa una ragazza come te qui, neh?» domandò la donna, quando vide che la sua richiesta era stata esaudita. «Le ragazze non bevono insieme agli uomini, anche se usano le armi.»

Arthuria spalancò gli occhi, sorpresa da quella costatazione.

«Ci sono altre ragazze che usano le armi, qui?» chiese, avvicinandosi al bancone e mettendovi le mani sopra.

La donna la fissò per un attimo, e poi annuì, lentamente. «Sì, una c’è. Sta ad allenarsi insieme ai ragazzi, poco più in là, nei tornei che fanno la sera una volta a settimana.» spiegò, indicandole con il dito la sua destra.

Arthuria la osservò giusto un istante, e poi si voltò verso la direzione che le stava indicando, rapita.

C’era un’altra ragazza che si allenava a combattere, esattamente come lei. Magari la figlia di un militare. Magari la maggiore delle figlie di un contadino, che aveva avuto la sfortuna di avere solamente figlie femmine.

Poi, si ricordò per cosa era lì, di colpo. Tralasciò all’istante le ipotesi sulla ragazza, decidendo che sarebbe andata a vederla solo dopo aver trovato Guinevere, e tornò a guardare la donna.

«In realtà ho un’informazione da chiederle.» disse, a voce sufficientemente alta da sovrastare il caos che stava imperversando nella taverna, e farsi sentire almeno da lei. «Sto cercando una ragazza. È poco più alta di me, ha i capelli lunghi castano scuro, gli occhi azzurri, tendenti al verde, ed è piuttosto magra. Si chiama Guinevere. L’ha vista, per caso?»

La donna la fissò ancora per qualche attimo, e poi inclinò di lato la testa, facendo una smorfia con la bocca.

«Gwin, vuoi dire?» disse. «È quella che sta a combattere insieme ai ragazzi.»

Arthuria trasalì, sconcertata.

Per un attimo, sentì solo il proprio respiro rallentare, e le palpebre allargarsi a guardare la proprietaria della taverna.

Guinevere. Che si allenava nel combattimento. In tornei insieme ai villici del primo piano del castello.

Sollevò lo sguardo verso la donna, e indicò verso la propria destra. «Ha detto che si trovano di là, vero?» domandò. Quasi non fece in tempo a vedere la donna annuire, che prese a correre in quella direzione, ringraziandola ad alta voce.

Guinevere che si allenava insieme ai villici. Aveva senso – ne aveva anche troppo…! Come aveva fatto a non pensarci appena la donna le aveva detto di una ragazza che combatteva? Era più plausibile che fosse lei, piuttosto che fosse un’altra ragazza oltre a loro due.

Istintivamente, trasse un sospiro di sollievo, al rendersi conto che non c’era nessun uomo da cui Guinevere volesse andare al punto da incontrarsi di nascosto con lui. Corse seguendo la strada principale, e voltando lo sguardo a destra e a sinistra in continuazione, pur di trovare il punto in cui c’erano quei fantomatici tornei tra ragazzi.

Diversi metri più avanti, finalmente trovò uno spiazzo alla propria sinistra, in cui effettivamente c’erano due persone che stavano combattendo, con un nugolo di gente che li stava a osservare, e a fare il tifo per l’uno o per l’altro.

Avvicinandosi, poté notare che uno dei due combattenti era proprio Guinevere: portava i capelli raccolti in una crocchia, e indossava i vestiti che usava abitualmente durante gli allenamenti diurni che faceva con lei e con Lancelot.

Assottigliò gli occhi, osservandola mentre combatteva con un ragazzo che doveva avere una ventina d’anni, armata di due daghe, una per mano; l’agilità con cui schivava i fendenti della spada dell’altro, e con cui muoveva i polsi per gestire prima la daga sinistra, e poi quella che teneva nella mano destra, cercando di colpire l’altro, erano qualcosa che non le aveva mai visto fare: in genere, lei si allenava con una sola spada a lama lunga, come quelle che avevano lei e Lancelot. Eppure, con quelle armi era molto più agile, e sembrava molto più pratica, rispetto agli allenamenti.

Trattenne per un attimo il fiato, quando un fendente andò troppo vicino al torace di Guinevere, e lei lo schivò con un movimento agile del corpo; la fissò, esterrefatta dalla sua velocità, quando diresse un colpo con la daga destra verso il ragazzo, arrivando quasi a toccare la sua gamba – eppure, anche lui era veloce, e schivò l’attacco; Arthuria spalancò gli occhi, vedendolo menare un fendente per cui fece volare via una daga dalla mano destra di Guinevere, facendola finire poco distante da una parte del pubblico (alcuni di loro, per evitare di essere colpiti, dovettero spostarsi indietro). Spostò lo sguardo per un solo attimo verso il ragazzo, e poi tornò a guardare Guinevere, che stava indietreggiando, gli occhi scattanti e attenti a cercare di anticipare ogni gesto dell’altro, in modo da poter schivare e attaccare di nuovo.

L’altro rimase in guardia, la spada alta davanti a sé, e a debita distanza da Guinevere – ma muovendosi in modo da essere più vicino, rispetto a lei, alla daga che le aveva fatto volare via di mano, per fare in modo che non la potesse riprendere.

Arthuria rivolse uno sguardo a lei, e vide chiaramente gli occhi di Guinevere fissare l’altro dritto nelle pupille, con l’intento di studiarlo; e in quel momento, colse anche la determinazione che lei aveva di vincere quel duello – era qualcosa che sembrava bruciarle nelle iridi, e infiammarle il resto del comportamento: la tensione degli arti, la lentezza dei movimenti, la daga tenuta avanti a sé ma con il braccio mezzo piegato e pronto a sferrare un attacco; l’espressione concentrata del viso, e il respiro controllato, malgrado probabilmente fosse affaticato per tutte le schivate e gli attacchi veloci che aveva fatto fino a quel momento.

Non era qualcosa che fosse riuscita a vedere quando Guinevere si allenava con lei e con Lancelot.

La fissò, confusa, mentre Guinevere studiava ancora il suo avversario, gli occhi infuocati dalla voglia di vincere malgrado lo svantaggio.

Perché lo vedeva solo in quel momento?

Lei e Lancelot non erano avversari degni di destare la sua voglia di competere?

Dov’era l’errore, in quello che facevano? Perché lei sembrava combattere in tutt’altro modo, in quel momento, rispetto a quando combatteva contro loro due? Perché sembrava più capace con quelle armi, malgrado Arthuria non gliele avesse mai viste usare?

Spalancò gli occhi, quando Guinevere attaccò con uno scatto – quello era il classico momento in cui avrebbe dovuto aspettare che fosse l’altro, a fare la prima mossa! Così lui…

Arthuria fissò l’altro che deviava la daga di Guinevere, e con essa la traiettoria e il suo colpo, facendola finire a terra.

Reagì d’istinto, quando vide la spada dirigersi di nuovo verso la ragazza, dal basso della mano di Guinevere, verso il suo collo.

Non si rese conto nemmeno del movimento che aveva fatto.

Si ritrovò semplicemente davanti all’altro, la propria spada alzata che deviava il colpo dell’altro, le gambe divaricate e l’intero corpo pronto a proteggere Guinevere; il fiato corto, i denti stretti, e gli occhi piantati in quelli del ragazzo.

Sentì fiati trattenuti dal pubblico che li circondava; mormorii, da qualche parte; il respiro ansante di Guinevere dietro di sé; e gli occhi sorpresi del ragazzo che la fissavano dall’alto dei centimetri che li separavano – dovevano essere almeno una ventina.

«Che è questa storia?» domandò lui, rivolgendosi verso Guinevere. Arthuria lo fulminò con un’occhiata – cosa di cui lui sembrò accorgersi, perché esitò per un attimo, e parve trasalire.

«Aspetta aspetta aspetta!» esclamò frettolosamente Guinevere, dietro di lei – Arthuria sentì che si era rialzata in piedi, e che i suoi piedi avevano compiuto mezzo passo sul selciato dell’arena improvvisata in cui si tenevano quei combattimenti. «Credo che lei abbia inteso male. Non voleva mettersi in mezzo, Kay, abbassa l’arma, per favore.»

Arthuria spalancò gli occhi, e si voltò verso di lei, sconcertata al cogliere il significato di quelle parole. Dietro di sé, sentì Kay abbassare la lama, facendola strisciare per un solo istante contro la sua prima di ritrarla.

«A… Arith è nuova di qui.» disse Guinevere, mettendole una mano sulla spalla, e gettandole un’occhiata che le dava a intendere che dovesse reggerle il gioco. Solo in quel momento, Arthuria si ricordò che la donna della taverna aveva chiamato Guinevere con un nome diverso dal suo; sulle prime aveva pensato che fosse un’abbreviazione del nome vero e proprio, ma in quel momento si rese conto che Guinevere partecipava a quei tornei senza far conoscere la propria vera identità.

«Cioè, intendo che è nuova nel senso che ha iniziato da poco ad allenarsi.» proseguì Guinevere, rivolta a Kay. «Arith, per favore, abbassa la spada e lasciami spiegare.»

Arthuria sobbalzò, e fece come le veniva chiesto; iniziava ad essere conscia di aver creato una situazione scomoda, e di aver frainteso totalmente il gesto che Kay voleva fare nei confronti di Guinevere pochi attimi prima. In realtà, probabilmente l’ultimo dei suoi pensieri era quello di farle del male.

«Quindi?» domandò Kay, riponendo la spada nel fodero e incrociando le braccia al petto.

«Quindi, Arith ha iniziato da poco ad allenarsi, come ti sto dicendo.» proseguì lei, con un gesto eloquente della mano. «E deve essersi preoccupata per non avermi visto tornare a casa, e forse mi è venuta a cercare per questo. Quando ha visto che ero a terra e che tu stavi muovendo la spada verso di me, deve aver pensato che volevi attaccarmi e farmi fuori, e quindi ha pensato di intervenire per proteggermi. Giusto, Arith?» domandò Guinevere, rivolgendosi a lei.

Arthuria trasalì, e annuì freneticamente, rivolta a Kay.

«Ha capito male la situazione, non voleva intromettersi davvero.» disse ancora Guinevere. Arthuria la fissò, sorpresa da come sapesse adottare con facilità il linguaggio un po’ sgrammaticato e molto concreto dei villici.

Probabilmente veniva lì da tempo; probabilmente aveva rischiato la vita, o di essere ferita durante un combattimento, una miriade di volte, senza che né lei né Lancelot lo sapessero.

Perché non gliene aveva parlato? Almeno a lei. Erano amiche, no? Avrebbero dovuto raccontarsi tutto, non avrebbero dovuto esserci segreti tra di loro. Si fidava così poco di lei, da pensare che non sarebbe stata d’accordo?

Aggrottò lievemente le sopracciglia, quando si rese conto che, se Guinevere le avesse detto che voleva fare qualcosa del genere, lei avrebbe cercato in ogni modo di impedirglielo.

Forse Guinevere la conosceva anche troppo bene. Per quello non gliel’aveva detto.

«Sei venuta a cercare Gwin per portarla a casa, Arith?» domandò Kay.

Arthuria si voltò a fissarlo, e annuì, riponendo la spada nel fodero. «Ma mi sono preoccupata quando mi è sembrato che la stessi attaccando.» spiegò. «Non volevo mettermi in mezzo. Sono…»

«È molto spiacente.» la interruppe Guinevere, stringendole la spalla tra le dita e cogliendola alla sprovvista. «Scusate, per oggi io finisco qui.»

Kay annuì, con fare solenne, e raccolse la daga che aveva dietro di sé. «Fate attenzione a tornare a casa.» disse.

«Sicuro.» disse lei, annuendo e porgendogli l’altra daga con un sorriso affabile. Arthuria spalancò gli occhi al gesto, e lanciò un’occhiata a Guinevere, perplessa – ma lei, per tutta risposta, ricambiò e si voltò velocemente. «Vieni, Arith.»

Arthuria la seguì mentre lei si dirigeva verso la strada principale, imitandola nel non fare inchini di saluto, come invece era abituata con gli altri membri dei piani superiori.

Di nuovo, si ritrovarono in mezzo al caos delle taverne, tra militari e contadini che cantavano, e per qualche minuto anche tra l’andirivieni da e per quella che doveva essere l’arena dei tornei, da cui loro due si stavano allontanando.

Guinevere camminava davanti a lei, precedendola sulla strada e mostrandole la schiena dritta, e senza fare alcun cenno di volersi voltare a parlarle.

Arthuria abbassò lo sguardo, optando per seguire i suoi piedi sulla strada per tornare ai piani superiori. Malgrado l’avesse fatto in buona fede e con tutte le buone intenzioni, si era intromessa in qualcosa che era solamente di Guinevere, e di cui lei non avrebbe dovuto sapere nulla, esattamente come non avrebbero dovuto sapere Cassandra e Lancelot. Guinevere non le era parsa particolarmente irritata, quando lei era intervenuta a deviare il colpo di Kay; ma il fatto che non le stesse parlando mentre facevano la strada a ritroso era segno che ci fosse qualcosa che non andava. E quel qualcosa poteva essere solamente il fatto che lei si fosse immischiata, palesando, per di più, il fatto di averla scoperta.

La seguì fino a su per le scale che portavano al secondo cortile; arrivate in cima, Guinevere svoltò verso destra, e passò attraverso un arco stretto, che le condusse al corridoio delle sentinelle di quel piano.

Arthuria tornò a osservare la sua schiena, quando lei si fermò senza voltarsi. Aveva pensato che sarebbero andate spedite a casa; non aveva immaginato che Guinevere volesse deviare il percorso. Per cosa, poi?

La seguì con lo sguardo, mentre lei si arrampicava su una delle torrette che limitavano il corridoio, e vi si sedeva sopra, le gambe incrociate e le braccia tese perché le mani circondassero le caviglie – le ciocche di capelli uscite dalla crocchia che venivano agitate al vento, e gli occhi azzurri rivolti altrove, in un posto lontano.

Sempre distanti, quando non dovevano preoccuparsi per lei.

In quel momento, Arthuria fu colta da una sensazione che sentiva di non aver mai provato – una sensazione che le strinse la bocca dello stomaco, le fece stringere un pugno, la fece rabbrividire, e spinse la sua testa a chiedersi ripetutamente che cosa attirasse a quel modo l’attenzione di Guinevere, e perché quello che aveva fatto non fosse sufficiente ad entrare nei suoi pensieri, nemmeno in quel momento.

La lingua voleva muoversi ad articolare una frase con cui chiederle cosa stesse guardando di così interessante; la sua mente era tesa a cercare di capirlo senza le parole, per non disturbarla, per non risultare inopportuna, per comprendere senza dover per forza parlare, come Arthuria avrebbe voluto che fosse.

Capirla da un solo sguardo. Capire quello che pensava, quello che voleva dirle, quello che voleva fare, solamente da un gesto degli occhi, da un’espressione del viso, da un movimento della mano.

Rimase per quelli che le parvero attimi interminabili a osservarla cercando una parola da dire, un gesto da fare, la cosa giusta da pensare a proposito di quella situazione – e nel frattempo, la volontà di chiederle cosa ci fosse di così interessante in una landa desolata, e coperta dal buio della notte, martellava incessantemente il suo cervello, facendolo pulsare per la fatica di trovare qualcosa di alternativo da pensare.

Qualcosa che non fosse quell’assurdo pensiero per cui lei voleva Guinevere tutta per sé, e solamente per sé.

Voleva che i suoi sguardi fossero rivolti a lei anche in un’espressione diversa dalla preoccupazione; voleva che i suoi sorrisi non fossero di chi sospirava di sollievo al capire che lei stava ancora bene; voleva che Guinevere conoscesse qualche altro lato di lei, e che arrivasse a fidarsi di lei.

«Guinevere…» la richiamò alla fine, dopo quelli che probabilmente erano stati minuti – e che nella sua testa erano state ore insopportabili.

Guinevere si voltò, mostrando un’espressione che aveva del sorpreso.

E Arthuria sentì il proprio corpo rilassarsi, e la morsa allo stomaco allentarsi, al vedere i suoi occhi.

Incontrarli di nuovo era qualcosa di tranquillizzante.

Vederli di nuovo le fece capire che quelli erano gli occhi più belli, più luminosi e più sinceri dell’intero mondo.

Si rese conto solo dopo qualche istante di essere rimasta a fissarla e basta, senza riuscire a pensare a nulla se non a rimanere incastrata, occhi negli occhi. Spalancò i propri, e socchiuse per un attimo la bocca, esitando su cosa dire.

Voleva solamente attirare la sua attenzione.

Voleva solamente capire se ne era capace.

Era stato quello, il vero motivo per cui l’aveva chiamata.

E si era resa conto che ci riusciva. Che sapeva spingere Guinevere a mostrarle espressioni che non fossero preoccupate per lei.

Il suo cuore perse un battito, a quella realizzazione, per poi riprendere a battere con più forza – tanto che lo sentiva chiaramente, conto il petto.

«Io…» azzardò, abbassando lo sguardo per non risultare esageratamente stupida. Si massaggiò il retro del collo, imbarazzata, e cercò in ogni modo una via di fuga – ma la sua testa continuava a tornare ai suoi occhi, alla sua espressione, alla sua bocca semiaperta per la sorpresa, alla sua figura tesa per voltarsi a guardarla.

«Io… volevo…» biascicò Arthuria, cercando con tutte le forze di calmarsi, e sentendo invece le mani che stavano diventando scivolose per la preoccupazione di fare l’ennesima brutta figura alla quale Guinevere avrebbe avuto la definitiva conferma di doversi solamente preoccupare, per lei. «Volevo… Ehm…»

Colse con la coda dell’occhio il movimento che lei fece, per voltarsi e saltare giù dalla torretta, e rimanere in piedi a fronteggiarla. Indietreggiò lievemente, in preda al panico di averla così vicina – troppo vicina, in quel momento.

«Volevo…» azzardò di nuovo Arthuria, senza osare rivolgerle di nuovo un’occhiata. Esitò, e poi colse al volo il lampo di genio che le venne – il motivo per cui erano lì, e il motivo per cui l’aveva cercata, e tutto il resto. «Volevochiedertiscusaperessermiintromessa.» biascicò, talmente velocemente che per un momento non colse nemmeno lei il significato delle proprie parole. Respirò a fondo, spalancando gli occhi rivolti a terra, e cercando di articolare di nuovo la frase. «Prima.» le uscì di nuovo di bocca, senza che la sua testa riuscisse a riflettere molto. «Volevo… volevo chiederti scusa per… per essermi intromessa, prima.» riuscì a dire, più lentamente. «Ero… preoccupata per te, e sono venuta a cercarti, e quando ho visto che ti stava attaccando non so cosa mi è saltato in testa…»

Proteggerla. Aveva solamente voluto proteggerla. Aveva solamente sentito il desiderio di essere abbastanza forte perché lei non dovesse fare quello che stava facendo; aveva solamente provato la sensazione di doversi parare in mezzo, a costo della vita, purché lei non morisse.

Era una sensazione così banale, e così semplice, che aveva sempre provato. Ma perché sentiva che, invece, in quel momento era mista a mille altre sensazioni che non sapeva identificare, allora?

«Ti ha mandato Lancelot?» domandò Guinevere, pacatamente.

Arthuria sollevò lo sguardo nel suo, sorpresa. Non si era nemmeno resa conto di aver smesso di parlare ad alta voce, e che quello che stava parlando era solo il suo cervello.

«No…» rispose. «Voglio dire, era preoccupato, ma mi sono offerta io di…»

Guinevere sbuffò, distogliendo lo sguardo, le braccia incrociate e l’espressione che dimostrava esplicitamente il suo disappunto per la cosa. Arthuria si bloccò all’istante, senza andare oltre.

Che aveva fatto di male, ora? Cos’altro?

«Gli avevo detto di non seguirmi.» considerò lei. «Ovviamente ha avuto la brillante idea di chiederti di controllarmi.»

«No…» azzardò Arthuria. «Lancelot ha solamente…»

«Perché non siamo amici ancora da abbastanza anni perché capisca che sono capace di non ficcarmi nei guai, e che so cavarmela da sola, dato che mi alleno da tre anni con le armi. Saranno pure pochi, ma davvero non contano nulla, per lui?»

«Guinevere…»

«La vigliaccheria, dannazione! E poi osa dirmi che non è tra i suoi vizi!» proseguì lei, senza ascoltarla. «Pur di non disobbedirmi, manda te al suo posto, a cercarmi, mettendoti anche in pericolo, magari! Come se fossi chiunque

Arthuria spalancò gli occhi, colta alla sprovvista da quel commento. E Guinevere, fermandosi e guardandola, sgranò a propria volta i suoi.

Non voleva credere che quella perifrasi per dire che lei era l’erede di Uther fosse uscita dalla bocca di Guinevere: di tutti, aveva sempre pensato che lei fosse l’unica che davvero la considerava solamente come Arthuria, e con nessuno dei suoi titoli; di tutti, aveva sempre cercato di fare in modo che Guinevere la considerasse proprio in quel modo – era sempre stata l’unica di cui le importasse veramente che la vedesse per quello che era, e non per quello che rappresentava.

Il paradosso era che non aveva detto una cosa falsa – e anzi, forse proprio perché era la verità, faceva male.

Era solo perché era la verità? O era perché Guinevere vedeva quella verità, e solamente quella?

«Maneggio la spada da molto più tempo di te. Praticamente la tengo in mano da quando ho imparato a camminare.» disse, lo sguardo basso, e il pensiero fisso a quel dolore che provava, proprio lì, al centro del petto – era dove avrebbe dovuto esserci il suo cuore? Perché era proprio lì, che faceva più male? «Non considerarmi una sprovveduta qualunque che non sa badare a sé stessa.»

«N-Non volevo dire quello…» azzardò Guinevere.

Arthuria emise un suono di stizza. «No, certo. Volevi dire che siccome sono la figlia del re, sono da proteggere a tutti i costi.» disse. Sentiva il proprio tono velenoso; sentiva il desiderio di farle capire quanto stava male, e di farsi sentire dire che non era quello, ciò che lei intendeva. Eppure, non aveva nemmeno voglia di ascoltarla – il dolore al cuore, e quella frase che le martellava la testa, erano già abbastanza insopportabili; non poteva aggiungere anche la sua voce e i suoi tentativi di spiegare. «È così che mi hai sempre visto.» biascicò ancora, mettendo mano all’elsa della spada. «È questo, quello che io sono sempre stata per te. Solo la figlia del re, solamente la persona che un giorno avrebbe estratto Caliburn, e che sarebbe diventata re, e perciò da proteggere da eventuali congiure, anche con la propria stessa vita. Tu hai sempre visto solamente l’Arthuria che doveva diventare re. Come tutti.» proseguì. «E io che come una stupida ho sempre pensato che tu riuscissi a vedere oltre…!» aggiunse, estraendo la spada e sollevando lo sguardo nel suo.

La fissava, gli occhi spalancati, la bocca chiusa, l’espressione tesa.

Perché continuava a pensare che quegli occhi fossero meravigliosi, e che volesse farli tornare tranquilli, come la loro vista aveva calmato lei pochi minuti prima?

Gettò in un gesto furioso la spada a terra, assordandosi per un attimo col fragore della lama che si schiantava sulle pietre del corridoio.

«Non è stato Lancelot a mandarmi. Sono stata io a venire a cercarti, prima a casa tua, e poi per tutti i cortili del castello.» disse, freddamente. «Dovevo parlarti, perché ho raggiunto una conclusione, oggi, dopo aver parlato per la prima volta in quindici anni con mia madre.» aggiunse. La vide spalancare gli occhi, anche se un po’ in ritardo – evidentemente, dovette metterci un po’, per realizzare la cosa; esattamente come aveva dovuto fare lei quando aveva visto sua madre sulla torre.

«Puoi smettere di cercare di proteggermi, se è questo quello che stai facendo. Puoi smettere di preoccuparti per me. Puoi smettere anche di considerarmi la figlia di Uther.» disse. «Io non sono pronta per regnare sulla Britannia, e non lo sarò mai. Perciò non tenterò di estrarre Caliburn.»

La vide sgranare gli occhi più di quanto non fossero già spalancati. Sorpresa? Stupore? Sensazione di aver trascorso anni a considerarla come non voleva essere considerata? Senso di perdita?

Perché non riusciva a capirla da un solo sguardo?

Assottigliò gli occhi – non riusciva a reggere troppo il suo sguardo.

Distolse il proprio, con un gesto stizzito, e si voltò per andarsene.

Una parola. Forse sarebbe stata una sola parola, e lei sarebbe rimasta lì.

Ma Guinevere non disse nulla, e lei si diresse verso il castello nel silenzio della notte.

 

Personaggi e situazioni

Kay: nella storia originale, Kay era il figlio di Sir Ector, cui era stata affidata la custodia e l’educazione di Arthur(ia) insieme a Merlino, da parte di Uther.





Note dell'autrice:
Volevo dividere il capitolo in due parti, ma la seconda parte sarebbe venuta troppo breve. Perciò, eccovi un capitolo lungo. MOLTO LUNGO.
Scusatemi. ^^"
Per il resto, grazie a chi legge e a chi recensisce. Mi rendete felice. :3
Alla prossima!

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Capitolo 5
*** Cambiamento Radicale ***


Capitolo quinto
Cambiamento radicale
 
 
 
 
Da una settimana, sembrava che Arthuria fosse svanita dai cortili del castello di Tintagel.
Lancelot aveva provato più volte a cercare di capire cosa fosse successo e perché lei non si facesse vedere in giro; ma tutto quello che aveva guadagnato erano state la sua spada che ora dimorava nella dimora di Cassandra, e la certezza che fosse successo qualcosa con Guinevere, dato che era stata lei a portarla a casa, la sera in cui era sparita e Arthuria era andata a cercarla.
Aveva più volte temuto che fosse accaduto quello che lui più temeva e voleva per loro due: che una di loro (più presumibilmente Guinevere) si fosse dichiarata all’altra. Il timore era che l’altra (verosimilmente Arthuria) l’avesse rifiutata, con chissà quali motivazioni. Guinevere non l’avrebbe mai fatto; ma Arthuria ne aveva mille, a cominciare dalla fede sotto cui era stata battezzata e che serviva, e per andare fino al fatto che forse i sentimenti di Guinevere non fossero corrisposti come Lancelot pensava.
Era un’ipotesi da non scartare, quella dell’avvenuta dichiarazione; ma se fosse stato così, da Guinevere si sarebbe aspettato un umore totalmente a terra, demoralizzato e depresso.
Cosa che invece non sembrava, a giudicare da quanta violenza ci mise a provare a mettere in pratica le nozioni base della magia di proiezione, per ora imparate solo nella teoria.
Sospirò, notando la sua fronte aggrottata a mostrare un’espressione seccata dalla mancata riuscita di quello che stava provando.
La magia di proiezione era un tipo di magia di grado superiore: prevedeva la trasmutazione dell’elemento con cui ci si era avvicinati alla magia (nel caso di Guinevere, l’aria) in un oggetto accuratamente pensato e studiato nei minimi dettagli, per un dato periodo di tempo. Era un tipo di magia che mescolava la magia dell’elemento di elezione, che veniva imparata appena si entrava in contatto con gli spiriti; la magia della natura, che prevedeva il cambiamento dell’essenza di un oggetto senza cambiarne la forma; e la magia della forma, che permetteva invece il cambio dell’aspetto esteriore di un oggetto, senza tuttavia cambiare la materia da cui era composto.
Guinevere era un’esperta nell’uso della magia della natura – più di una volta, grazie a quella, gli aveva facilmente curato le ferite che riportava negli allenamenti con Arthuria; tuttavia, non era una cima nella magia della forma. E in quel momento sembrava troppo occupata a pensare a qualunque cosa fosse successa con Arthuria, per riuscire a proiettare perfettamente nella propria mente un qualunque oggetto – anche un semplicissimo sasso – e poi riprodurlo grazie alla magia della proiezione.
Era da giorni che tentava – aveva studiato per anni, per arrivare a quel punto, in modo poi da passare alla magia del cambiamento radicale, l’ultimo stadio di magia consentito al loro tempo dalla comunità magica. Ma era da giorni che falliva miseramente, ottenendo solamente il risultato di smuovere violentemente l’aria davanti a sé, e provocare reazioni infuriate delle persone che si ritrovavano davanti durante gli allenamenti. Di conseguenza, avevano deciso (o meglio, Lancelot aveva proposto, giusto per evitare altre rimostranze) di fare pratica in un luogo abbastanza isolato, appena sotto i corridoi delle sentinelle del cortile più alto.
Il risultato era stato lo stesso tutte le volte che aveva provato, quel pomeriggio: un soffio d’aria, mille suoi sbuffi, e poi di nuovo il tentare di trovare la concentrazione per provare ancora.
C’era da dire che una delle caratteristiche di Guinevere era la testardaggine – e su quello non c’erano mai stati dubbi: Lancelot la conosceva da anni, e lei non aveva mai mostrato segni di cedimento, quando voleva raggiungere un obiettivo. Il problema principale, infatti, non era la sua mancanza di volontà, in quel momento: era la mancanza di concentrazione, di cui Guinevere sembrava non rendersi assolutamente conto.
Lancelot sospirò, e si fermò dall’allenamento nel manovrare delle gocce d’acqua rimaste sull’erba dalla pioggia della notte prima. Si mise ad osservarla in maniera palese, voltando la testa e rimanendo immobile; ed era impossibile che Guinevere non l’avesse notato.
Ma lo ignorava. Palesemente.
Sbuffò, e le afferrò una delle braccia tese avanti a cercare di portare a compimento l’ennesimo tentativo.
«Mollami.» gli intimò Guinevere, freddamente, senza nemmeno guardarlo.
Si era fatta anche molto più fredda, in quei giorni. Non gli parlava quasi, era stressata, di pessimo umore, e gelida nel rispondere. A ogni domanda che Lancelot le faceva, la risposta era sempre un’occhiata rapida e un voltare la testa dall’altra parte – un chiaro segno di non voler parlare dei fatti propri.
«Sei troppo presa a pensare ad altro. Ancora non l’hai capito?» fece Lancelot, mantenendo un tono tranquillo.
«Lancelot, mollami o ti scaravento da qui a tre o quattro metri di distanza. Hai visto i miei tentativi, sai che sono in grado di farlo.»
Lancelot rabbrividì lievemente per un attimo – non l’aveva mai vista così furiosa, eppure così gelida. Tuttavia, non mollò la presa – non poteva. Non prima di averla fatta parlare. Non prima di averla aiutata a calmarsi per quella questione – qualunque fosse il problema che le frullava in testa da giorni.
«Fermati un po’. Facciamo una pausa, poi ci riprovi.» tentò di nuovo.
Guinevere strattonò il braccio via dalla sua presa, e lo fulminò con un’occhiata iraconda.
«Tu hai il tempo di fare pause.» replicò, ancora gelidamente – ancora di quella rabbia estremamente lucida, controllata e consapevole. «Io non posso. Tu non hai necessariamente bisogno della magia. Io sì.»
Lancelot spalancò gli occhi; esitò per un secondo, sorpreso da quella sua considerazione. Per quanto Guinevere potesse essere legata alla magia in quanto maga, non capiva come mai ora ne fosse quasi ossessionata.
«Perché?» domandò, dopo qualche attimo – in cui Guinevere era rimasta immobile, accovacciata a gambe incrociate e mani nell’incavo tra le gambe, a fissare l’erba davanti a sé. «Da quando hai così bisogno della magia?»
«Io ne ho sempre bisogno, Lancelot.» replicò lei, con più calma e un tono stizzito, ma un po’ meno di prima. «Sono una maga. È parte di me.»
«Questo lo so, ma in questi giorni la tua è un’ossessione bella e buona. Cosa che prima non è mai stata.» considerò lui.
«Mi sono solamente resa conto che sto perdendo tempo, e che non dovrei farlo. Quello che non ho in campo di combattimento, devo compensarlo con la magia, e gli spiriti del vento non mi daranno aiuto sul campo di battaglia. Devo cavarmela da sola, e per farlo devo imparare il più possibile. Altrimenti non sarò mai alla vostra altezza.»
Lancelot sospirò. «Sarebbe un ragionamento anche convincente, se non fosse che hai iniziato a fare così da quando tu e Arthuria avete litigato. O qualunque cosa abbiate fatto.»
Guinevere sobbalzò, e assottigliò gli occhi. Ma non rispose, come faceva di solito, che quelli erano affari suoi; quella volta, come era successo poche altre, rimase in silenzio, e continuò a fissare il manto erboso davanti a loro.
«Non capisco come la magia potrebbe sistemare le cose tra voi due, e se non ne vuoi parlare non te lo chiederò.» disse Lancelot, dopo qualche secondo, distogliendo lo sguardo da lei e rivolgendolo alle case distanti da loro solo una dozzina di metri. «Ma di questo passo, non imparerai a mettere in pratica nulla. Lo sai anche tu, che non sei abbastanza…»
«Voglio trasformarmi in un uomo.»
Lancelot sussultò, e tornò a guardarla, sconvolto.
Una doccia ghiacciata. Una bruciatura improvvisa. Un colpo alle spalle. Qualunque cosa avrebbe fatto meno effetto di quello.
E il peggio era che Guinevere sembrava fermamente convinta di quello che aveva detto.
La fissò, attonito, per i diversi istanti in cui cercò di riordinare i pensieri – che si erano fatti assurdamente confusi, dopo quell’affermazione – e cercando una motivazione per cui Guinevere volesse fare una cosa del genere.
«Con la magia del cambiamento radicale si può fare. Sarei in grado di trasformarmi in qualcosa, radicalmente, cambiandomi completamente. E il cambiamento durerebbe per il resto della mia vita.» proseguì lei, spiegando le nozioni base che Lancelot le aveva già sentito pronunciare.
Lui boccheggiò per ancora qualche attimo.
«Perché?» domandò alla fine.
Guinevere gli lanciò un’occhiata – un solo istante, prima di tornare a non guardarlo in faccia, e andare di nuovo a contemplare l’erba.
Ma Lancelot captò il sorriso amaro che accompagnò quell’occhiata.
«Si è mai visto un soldato donna, Lancelot?» domandò Guinevere. «Tralasciamo per un attimo Arthuria: lei ha vissuto tutta la vita per quello. Ma un soldato donna, si è mai visto, Lancelot? È possibile che una come me, che si allena da soli tre anni con la spada, possa effettivamente diventare un soldato degno di proteggere la corona?». Lancelot la fissò – ma non ebbe il tempo di rispondere, che lei proseguì. «Sappiamo tutt’e due che, per quanto impegno ci possa mettere, per quanto possa allenarmi, per quanto motivata sia, la risposta sarà sempre no. Una donna è e rimane una donna. Fragile, debole. Sottomessa
«Tu sei tutto tranne che quello…» azzardò Lancelot, istintivamente.
«E credi che non lo diventerò?» domandò lei, tornando a guardarlo. Aveva la voce rotta, malgrado cercasse di mantenere il controllo. «Credi che non lo sia già, avendo questo corpo che mi impedisce di fare quello che vorrei?»
Lui esitò. Non sapeva cosa rispondere – ma sentiva il dolore di Guinevere, e sentiva che lei non voleva essere come le altre donne. Che non avrebbe mai voluto essere così. Non era il tipo che riusciva a rimanere dietro le quinte, in attesa, passiva, obbediente, ad aspettare.
«Diventare uomo sarebbe la soluzione.» proseguì lei. «Sarei più forte, non verrei più guardata male se volessi combattere. Imparerei più facilmente, avrei più resistenza.» disse. Poi, dopo una breve pausa, mormorò: «Lei non si preoccuperebbe più per me e per la mia salvaguardia sul campo di battaglia solo perché sono una donna.»
Lancelot spalancò gli occhi – e poi sospirò. Lo sapeva, che c’era di mezzo Arthuria.
«Se ne preoccuperebbe lo stesso. Perché sei tu.» disse.
«Si preoccuperebbe di meno, allora!» esclamò lei. «Mia madre si preoccuperebbe di meno, Arthuria si preoccuperebbe di meno, persino tu ti preoccuperesti di meno! Sarei un uomo, sarei più resistente, sarei più…»
«Se vieni trafitto da una spada nel punto sbagliato muori, Guinevere. Uomo o donna che tu sia.» la interruppe Lancelot, mettendole una mano sulla spalla.
Stavolta, lei non la respinse. Era talmente sconfortata e demoralizzata, che probabilmente una mano sulla spalla era il minimo di cui avesse bisogno, e non osava negarselo.
Lancelot cercò di ignorare le sue spalle piccole, e per niente simili a quelle di un uomo – così come cercò di non pensare che quello che stava dicendo Guinevere avesse una parte di vero, malgrado lui le avesse risposto il contrario. Guinevere aveva mille altri mezzi da usare in battaglia, oltre alla forza fisica.
«Parli così per quello che è successo con Arthuria?» domandò, inclinando il viso di lato per cercare di guardarle il suo.
Guinevere inspirò a fondo – e Lancelot, dalla sua spalla, la sentì rabbrividire.
«Quella è stata solamente la goccia che ha fatto traboccare il vaso.» disse, a bassa voce. «Forse, se non avessi insistito tanto per imparare a combattere, lei avrebbe avuto qualcosa in meno di cui preoccuparsi.»
Lancelot non chiese: sapeva che non era il caso, perché insistendo avrebbe solamente generato l’effetto opposto del farla parlare. Le lasciò il tempo di decidere cosa dire, con calma, aspettando il resto del discorso.
Guinevere rimase in silenzio per diversi secondi. Forse anche diversi minuti. Poi, alla fine, fece un respiro profondo e continuò.
«Ti sei mai chiesto come sono i tuoi genitori, Lancelot?» domandò.
Lancelot sobbalzò, sorpreso da quella domanda. In tutti quegli anni, pur condividendo il fatto di essere orfani, non avevano mai affrontato quell’argomento. Per loro due, vivere con genitori diversi da quelli che li avevano generati era qualcosa del tutto naturale e scontato – o almeno, così aveva sempre pensato Lancelot.
«Credo di sì…» rispose lui. «Insomma, penso che anche tu ti sia chiesta come sono fisicamente, cosa hai preso da loro. Perché ti hanno abbandonato.» considerò.
Guinevere assottigliò lievemente gli occhi.
«I miei non mi hanno abbandonato, in realtà. Sono morti durante una delle innumerevoli guerre scatenate da Uther. Cassandra è la sorella di mia madre: appena ha saputo la cosa mi ha preso con sé e mi ha cresciuto come se fossi figlia sua. Avevo due anni, quando è successo.»
Lancelot sbatté le palpebre, sorpreso. Aveva notato una lieve somiglianza tra lei e Cassandra; ma non al punto da arrivare a pensare che fossero parenti piuttosto strette.
«Io non…»
«Non fa niente. Non lo sapevi, non te l’ho mai detto.» lo anticipò lei. «Ma in effetti mi sono chiesta più volte cosa volessero loro da me. Come mi avrebbero cresciuto, cosa mi avrebbero dato. Cosa si aspettassero che diventassi… Beh, non che ci sia molta scelta, in effetti.» aggiunse, facendo una smorfia con la bocca. «La sera che abbiamo discusso… mi sono resa conto che per Arthuria non è mai stato così.» disse ancora, facendo sobbalzare lievemente Lancelot per il cambio di argomento e perché, all’improvviso, lei gli stava rivelando cosa fosse successo. «Lei ha sempre avuto una strada già prefissata. Non le è mai stato dato modo di scegliere cosa volesse fare, a differenza di me e te, che da quello che ho capito un minimo di scelta l’abbiamo comunque avuto.»
Lancelot sospirò. «Non penso che si abbia molta scelta, se si nasce come figli di un re...»
«Eppure la scelta ci sarebbe, Lancelot. Caliburn non è automaticamente sua, non basta che lei sia la figlia del re.»
Lui annuì, e poi guardò l'erba davanti a sé. «Quindi? Cos'è successo tra di voi?»
Guinevere si espresse in una smorfia contrariata, e tenne lo sguardo basso. «Mi ha detto che non vuole più competere per Caliburn.» disse alla fine, a bassa voce.
Lancelot, dopo quella premessa, si era aspettato un'uscita del genere; perciò non si scompose, almeno non troppo.
Sospirò, e si appoggiò con la schiena al muro dietro di loro.
«Avete litigato solo per questo? Non mi sembri il tipo da darle contro solo per un motivo del genere.»
Guinevere sussultò, e si voltò verso di lui, gli occhi spalancati dallo stupore.
«Lancelot, tutta qui la tua reazione?! Ti ho appena detto che Arthuria...»
«Ti ho sentito.» la interruppe Lancelot, con calma. Guinevere ammutolì, e lo fissò negli occhi per qualche istante.
Si vedeva chiaramente che non sapeva cosa fare, era confusa, erano troppe cose insieme e di sicuro non c'era solamente quella storia di Arthuria che aveva deciso di rinunciare all'obiettivo di un'intera vita, tra di loro; Guinevere non avrebbe mai litigato a quel modo con lei per un motivo del genere, piuttosto avrebbe tentato di capire perché, addirittura l'avrebbe supportata nella sua decisione se le motivazioni dell'altra fossero state sufficientemente logiche per lei.
Dall'altra parte, anche Arthuria non era il tipo da litigate: era troppo calma, e troppo affezionata a Guinevere.
Lancelot vide l'amica voltare la testa in maniera stizzita, e stringersi nelle spalle con fare nervoso.
«Guinevere, vuoi raccontarmi per filo e per segno quello che è successo, per favore?» sbottò Lancelot, sbuffando per l'esasperazione. «Cassandra è preoccupata, continua a chiedermi se so il motivo per cui tu hai improvvisamente smesso di mangiare in maniera decente e sei così nervosa, e io vorrei saperle dire il perché, o quantomeno saperlo e doverle rispondere “scusami, Cassandra, non posso risponderti perché mi ha chiesto di tenere il segreto; ma non ti preoccupare, si sistemerà tutto”. Ma maledizione, non so niente! E non credere che a me faccia piacere vedervi in questo modo, tutte e due!»
«Perché non lo chiedi a lei, allora?» replicò Guinevere, stringendosi ulteriormente nelle spalle e rimanendo stoicamente con lo sguardo fisso da tutt'altra parte.
«Perché non me lo puoi dire tu?!» esclamò Lancelot. «Cosa c'è di così vergognoso di cui non puoi parlare con me?!»
La vide trasalire lievemente, forse per l'urlo, forse per l'intensità della frase in sé. Lancelot la vide sbattere velocemente le ciglia qualche volta, esitare, voltarsi timidamente in una posizione in cui potesse guardarlo almeno con la coda dell'occhio.
In effetti lo sbirciò anche, in tralice; ma quando intercettò il suo sguardo, spostò subito il proprio, fissandolo a terra.
«Giurami che manterrai il segreto.» mormorò poi. «Anche con mia madre.»
Lancelot aggrottò le sopracciglia. «Addirittura? Mi pare che tua madre sappia addirittura di quello che provi per Arthuria...»
Guinevere strinse le labbra l'una contro l'altra. «Per favore, giuramelo.»
«Va bene. Va bene, lo giuro. Su entrambe le mie mani ti può andare bene?»
Guinevere annuì, e rilassò lievemente le spalle. Lancelot la vide tentennare ancora un poco, poi sospirare e prendere parola.
«Ci sono... due cose.» disse. Teneva la voce bassa, e lui non riusciva a capire se fosse per la vergogna o per che altro motivo. La vide fare di nuovo un respiro più profondo degli altri, e poi proseguire. «La prima è che... ero sparita perché da diversi mesi mi alleno in segreto nei ranghi inferiori, insieme ad altri soldati, o ragazzi che sanno usare le armi.»
Lancelot sgranò gli occhi, mentre vedeva la sua testa voltarsi di nuovo, leggermente.
«Perché...?» fu l'unica cosa che riuscì a domandare, mentre si chiedeva cos'avessero fatto di sbagliato lui o Arthuria nell'essere suoi maestri, tanto da spingerla a rischiare... chissà cosa, ad andare a combattere con qualcuno che nemmeno conosceva.
Guinevere aggrottò le sopracciglia. «D-direi... per lo stesso motivo per cui Arthuria preferisce allenarsi con te, e non con i soldati al comando di suo padre.» mormorò.
«Non mi risulta che tu abbia mai vinto uno scontro con noi!» esclamò Lancelot, contrariato.
«Non in quel senso...» replicò lei. «Ma... quello che faccio con voi è... solamente combattimento figurato.» spiegò. Lancelot spalancò gli occhi, sorpreso. «Insomma, se uno volesse diventare soldato... quello non basterebbe.»
«Non è un buon motivo per andare a cercarsi rogne con quelli dei piani di sotto!» ribatté lui, protendendosi col corpo verso di lei.
«Non sono mica andata a litigare...»
«Guinevere...!». Lancelot esitò, conscio di quello che stava per dire. Poi prese fiato, e proseguì. «Che ti piaccia o no, sei una donna! Cos'avresti fatto se ti avessero attaccato con intenzioni diverse dall'allenamento?! Chi mi assicura che non l'abbiano fatto, anzi?!»
Guinevere si voltò verso di lui con un gesto di stizza, ma quando incrociò il suo sguardo non riuscì a proferire parola. Lancelot la fissò, stoico, finché lei non tornò ad abbassare la testa, pur mantenendo un'aria corrucciata.
«Non mi è successo nulla di quello che pensi.» disse, con tono deciso. Lancelot sospirò di sollievo, per quanto si aspettasse una risposta del genere. «Si è trattato solamente di allenamenti sotto forma di tornei, con armi anche diverse dalla spada. Ho imparato parecchio.»
«Sarebbe bastato dirlo a noi!» esclamò di nuovo lui, allargando le braccia per dare più enfasi al concetto. «Perché non l'hai fatto?»
Guinevere si strinse nelle spalle. «Non voglio essere un peso.»
«Guinevere, non...»
«Lo sono!» esclamò lei. «Sono indietro di anni di allenamento, rispetto a quanto siete allenati voi due, non riesco a reggere i vostri ritmi, ma solamente... solamente quelli di qualche contadino che nel frattempo cerca anche di farmi la corte! Hai idea di quanto diavolo sia frustrante?! Ho faticato a battere anche quel ragazzo di cui abbiamo parlato qualche giorno fa, una cosa che non sarebbe successo né a te né ad Arthuria! E come se non bastasse sono un dolce fiore in età da marito, nessuno mi prende sul serio, nessuno prende sul serio in considerazione l'idea che io possa preferire diventare un soldato, non ci crede nessuno! Vengo vista solamente come una donna
Lancelot assottigliò gli occhi, al disgusto con cui lei aveva pronunciato quelle ultime due parole. Capiva – o almeno, intuiva – quello che lei stava provando, quello che le passava per la testa, e capiva la sua frustrazione; tuttavia, sapeva anche che non ci si poteva fare nulla.
Le mise una mano sulla spalla, sospirando. «Se ti può consolare, per me non sei un dolce fiore in età da marito.» disse. Guinevere gli lanciò un'occhiata contrariata, ma al vedere la sua espressione si addolcì un poco. Lancelot ridacchiò, e le mise una mano sulla testa. «Tifo ancora per te e Arthuria, in fin dei conti.»
Guinevere sorrise debolmente, e Lancelot ci vide anche dell'amaro. Sospirò e allontanò la propria mano da lei, costatando il proprio ennesimo fallimento nel tentare di risollevarle il morale.
«Guinevere.» la chiamò. «Se ti trafiggono nel punto sbagliato dell'armatura, muori. Non c'entra l'essere uomo o donna, e di sicuro cercare di usare la magia del cambiamento radicale per cambiare sesso non è la soluzione alla cosa.» disse. «Non sei un peso, e ti sei allenata tanto con noi; se vuoi provare armi diverse dalla spada, basta dirlo, e per i combattimenti seri manca ancora un po' di tempo perché non sei ancora pronta abbastanza; è normale, ci è voluto del tempo anche per me ed Arthuria. Ma hai fatto progressi, e cercare di bruciare le tappe in questo modo non ha senso: hai rischiato, e se avessi saputo della cosa e tu te ne fossi andata comunque, sarei stato parecchio in pena. Sono uomini, Guinevere, sono pericolosi a prescindere, che siano lì o qui. La differenza è che qui non osano metterti le mano addosso perché sanno chi sei, o ti portano rispetto per il loro status; là invece non sei che una ragazza di cui non sanno nulla, che si mette in testa di voler fare il soldato come loro.»
«Beh. Col tempo hanno capito chi fossi. Non mi hanno mai aggredito, comunque; è bastata la prima performance nel torneo, per dimostrare con chi avessero a che fare.»
Lancelot sorrise lievemente. «Non ne dubito.» commentò. «Arthuria ti ha scoperto?»
Guinevere annuì, mesta. «Pensava che l'avversario che avevo davanti volesse farmi fuori, ed è intervenuta a difendermi.» spiegò. «Posso immaginare cosa le sia passato per la testa, quando ha capito che non era così. Qualcosa tipo quello che mi hai detto tu, oltre il fatto di sentirsi in colpa per avermi scoperto in qualcosa in cui non volevo essere scoperta... Cose così, conoscendola.»
Lancelot annuì, riconoscendo che in effetti sarebbe stato da lei.
«Infatti la prima cosa che ha fatto è stata chiedermi scusa per essersi intromessa.» commentò ancora lei. «Pensavo l'avessi mandata tu a cercarmi, e mi sono arrabbiata senza ascoltarla... finché non ho detto qualcosa come “ha mandato te a cercarmi, come se fossi chiunque”.»
Lancelot sgranò gli occhi; iniziava a capire come fosse andata la cosa.
«Ha capito male?» domandò.
«Cosa poteva capire, Lancelot? Quello che avremmo voluto io e te?» replicò lei, con un'ironia amara. «Mi ha detto che lei per me non era altro che il futuro re da proteggere da eventuali congiure, che avevo intenzione di prendere le armi perché in lei avevo sempre visto soltanto il futuro re... Non posso biasimarla, visto il nostro primo incontro davanti a Caliburn. Ero davvero convinta che sarebbe diventata lei il re, e gliel'ho detto. Lei non ha mai visto altro che quello.» spiegò. «E nel frattempo, mentre mi parlava, la mia testa non riusciva a trovare una scusa decente per cui avrei potuto dirle che volevo diventare un soldato. Qualcosa che fosse diverso dal “lo faccio per i sentimenti che provo per te”.» aggiunse. «Non ho trovato... nulla da dirle. E intanto, lei proseguiva, e mi ha detto che aveva visto la madre, quella mattina...»
«Lady Igraine?» domandò Lancelot, sconvolto da tutte quelle rivelazioni, troppo improvvise. «Ha parlato con Arthuria?»
Guinevere abbassò lo sguardo, e assottigliò le palpebre. «Mi ha detto che aveva visto Lady Igraine» riprese, e Lancelot aggrottò le sopracciglia per quella domanda ignorata; era sicuro l'avesse sentito. «e che, parlando con lei, era giunta alla conclusione di non essere in grado di essere re di un regno come la Britannia. Di conseguenza, ha detto di voler rinunciare a Caliburn.» concluse. «Ero talmente... confusa, sapevo di doverle dire qualcosa, sapevo che così l'avrei fermata e magari saremmo riuscite a chiarire, ma non sono riuscita a trovare cosa. Cosa avrei dovuto dirle? Che ero innamorata di lei, e che per quello voglio affiancarla sul campo di battaglia, diventare un soldato, non sposarmi per non allontanarmi da lei? Che ero convinta che sarebbe diventata re perché ho sempre creduto in lei, perché l'ho sempre stimata? Avrei dovuto dare delle spiegazioni, e nella mia testa erano... sono tutte troppo sdolcinate e romantiche, per non farle capire quello che provo.» commentò. Lanciò un'occhiata a lui, che nel frattempo la stava fissando, allibito. «Ed ecco il motivo per cui non ci parliamo.»
Lancelot boccheggiò per un secondo. Poi abbassò lo sguardo, storcendo le labbra.
Era tutto così assurdo. Era quasi sicuro che Arthuria provasse qualcosa per Guinevere: lo vedeva da come lei la guardava, lo sentiva da come lei continuava a parlare dell'altra, come se fosse l'unico vero argomento di cui le importasse, come se riuscisse ad avere in mente solo lei. Gli aveva fatto sempre tenerezza quel modo di fare, perché lo mostravano entrambe,; non avrebbe mai immaginato che le cose sarebbero evolute in quel modo proprio per quel motivo.
«Non era Lady Igraine.»
La voce bassa di Guinevere lo riportò alla realtà, e a quella domanda insoluta. Si voltò, aggrottando le sopracciglia, e la vide seria, a fissare il muro davanti a loro.
Tremava. Anche se lievemente.
«Lancelot... sto per dirti qualcosa che non ti farà piacere.» proseguì, sempre a voce bassissima. «Sappi che vorrei non farlo.»
Lancelot sbatté le palpebre per un paio di volte, confuso.
«Era Lady Morgana.»
Spalancò gli occhi, sconvolto; sentì il proprio corpo immobilizzarsi sul posto, incapace di muoversi.
«In che senso?» domandò poi, facendo un sforzo notevole con la gola per articolare quelle parole.
Guinevere scosse la testa. «Ha preso le sembianze di Lady Igraine ed è andata a parlare con Arthuria, quel giorno. Sulla torre su cui lei guardava sempre Caliburn.» disse. «Non so esattamente di cosa abbiano parlato, ma Arthuria ha davvero creduto che si trattasse di Lady Igraine. E credo che Lady Morgana l'abbia fatto per darle un po' di fiducia in sé stessa, consapevole del fatto che le serva quella, per padroneggiare la magia.»
Lancelot aggrottò le sopracciglia. «Ma tu come fai a saperlo...?» domandò.
Guinevere socchiuse gli occhi. «Il suo famiglio.» mormorò.
«Il suo famiglio?» domandò Lancelot, confuso.
«Era poco distante da lei, mentre lei era con Arthuria.» spiegò Guinevere, rabbrividendo lievemente. «Sulla torre accanto a quella su cui erano loro. E l'ho riconosciuto, l'ho visto un paio di volte, e ho notato che non si stacca mai molto da lei; però anche lei ha notato che stavo guardando verso di loro. È stato... l'attimo di disattenzione col contadino.»
Lancelot ricordò all'improvviso. Lei che combatteva, improvvisamente guardava sopra di loro in maniera quasi distratta, e per poco non veniva buttata a terra dal contadino che le faceva la corte. L'aveva attribuito a un atto di disattenzione e al fatto che lei avesse notato all'ultimo minuto che il contadino se ne stesse approfittando...
«Sei andata da Lady Morgana, quel giorno.» commentò. «E poi non sei tornata a casa e sei svanita nel nulla...»
Guinevere annuì debolmente, stringendosi nelle spalle. Tremava, come se avesse freddo; eppure, aveva iniziato solamente da quando avevano cominciato a parlare di Lady Morgana. Possibile che...?
«Mi stava controllando tramite il suo famiglio.» spiegò. «Dunque ho deciso di andare nelle sue stanze. In realtà volevo solamente parlarle, ringraziarla per il gesto fatto con Arthuria, chiarire che non avrei detto una sola parola in merito perché era importante per me quanto lo era per lei... Quindi sono passata da casa, ho preso delle erbe tonificanti, visto che per quell'uso di magia della forma su di sé doveva aver perso parecchie energie. E sono andata nelle sue stanze.».
Lancelot aggrottò le sopracciglia a vederla tremare più visibilmente; stava iniziando a preoccuparsi seriamente. «Cos'è successo?» domandò.
Guinevere raccolse le gambe in un abbraccio, e tenne lo sguardo basso.
«Non so nemmeno se mi crederesti.» mormorò.
«Guinevere.» la richiamò Lancelot, con voce ferma.
Lei esitò. Fu quasi un sussurro, quello che le uscì dalla bocca subito dopo.
«Mi ha... attaccato.»
Lancelot sentì il cuore mancare un battito. Sentì gli occhi spalancarsi, e la bocca socchiudersi per la sorpresa.
Aveva sempre saputo dell'antipatia che Morgana provava per Guinevere, apparentemente senza motivo. In realtà, al castello non era un segreto: chiunque aveva avuto modo di notare i modi rudi con cui l'affascinante Lady Morgana trattasse la migliore amica di sua sorella. E nessuno se n'era mai fatto una ragione, per quante voci ci fossero in giro, che proponessero i più svariati motivi; Lancelot ne aveva sentite talmente tante, sul loro conto, che non se ne ricordava nemmeno una.
Ma addirittura attaccarla per quello?
Stentava a crederci, eppure sapeva che Guinevere stava dicendo la verità: nel momento in cui le mise una mano sulla spalla, sentì che i suoi brividi di terrore erano sinceri, non solamente qualcosa di fatto per tirare acqua al proprio mulino. Da parte propria in realtà si pentì addirittura di aver dubitato di lei – ma dannazione, era qualcosa di così assurdo, che Morgana attaccasse Guinevere per una cosa del genere.
«Mi dispiace, Lancelot, so che provi...»
«Perché?» domandò Lancelot, interrompendola. «Avete fatto discussione ed è degenerata? Voglio dire...»
Guinevere si strinse nelle spalle. «Era già partita col piede sbagliato sulle erbe. Pensava che la volessi avvelenare.»
Lancelot si espresse in un gemito di frustrazione. «Va bene tutto, ma per quale diavolo di motivo ce l'ha tanto con te? Non mi risulta che tu le abbia fatto niente. O le hai fatto qualcosa che io non so, Guinevere? Sputa il rospo, se è così, è anche ora che capiamo come stanno le cose...»
«Non le ho fatto nulla.» replicò lei. Non sembrava arrabbiata per quei dubbi che lui le aveva espresso, e di cui lui stesso si era pentito appena dopo averli pronunciati; piuttosto, sembrava concentrata a pensare a quello che le era successo.
«E allora come stanno le cose?» domandò.
Guinevere strinse le labbra in una smorfia. «Non mi crederesti.»
«Ehi, così non mi aiuti.»
Lei emise un suono di disappunto. «Credi quello che ti pare. Se ti dicessi il motivo per cui mi odia tanto non mi crederesti, e probabilmente se lei venisse a sapere che te l'ho detto mi ammazzerebbe senza pensarci due volte. E mi è bastato che abbia provato a farlo una settimana fa, e il sapere che in ogni caso nutre istinti omicidi nei miei confronti, e mi farebbe volentieri fuori se solo ne avesse l'occ...»
«Fermati un attimo!» esclamò Lancelot, stringendole la spalla. «Ha tentato di ammazzarti?!»
Guinevere lo fissò negli occhi per qualche istante; poi, scostò lo sguardo, l'espressione seria e le spalle scosse da un ennesimo fremito.
«Cos... Cos'è successo?» chiese Lancelot, cercando di essere più calmo possibile.
«Mi ha quasi strangolato con una delle sue piante.»
Lancelot sentì il gelo lungo la spina dorsale, e per un attimo percepì chiaramente la mancanza di volontà e di forza di muovere qualunque muscolo del suo corpo, che fosse per toccarle la spalla e confortarla, o per dirle che l'avrebbe protetta.
Guinevere in effetti per qualche attimo nemmeno se ne accorse; fu solamente dopo un po', che voltò la testa verso di lui e sbatté le ciglia, guardandolo senza nessuna espressione particolare.
Il che era già strano di per sé.
«Non mi faccio ammazzare per così poco.» affermò, sollevando il mento in un gesto di tracotanza che poco c'entrava con il terrore che ancora le faceva tremare i muscoli del corpo, seppur in maniera meno evidente rispetto a qualche minuto prima. «Tagliare i rami col vento è stato un gioco da ragazzi. Però devo ammettere che mi ha colto alla sprovvista.»
Lancelot la fissò per qualche secondo ancora, a bocca aperta, senza riuscire a trovare nulla da dire se non un soffiato “Ti ha quasi ucciso”.
Guinevere lo osservò per qualche attimo, e poi si strinse nelle spalle. «Beh, sono ancora viva, no?» commentò, distogliendo di nuovo lo sguardo, e assumendo un'espressione cupa in viso.
Lancelot boccheggiò, nella sua testa solo il pensiero di rimarcare quanto lei fosse ancora lì, per fortuna, e quanto fosse sconcertato per quello che era successo, e quanto non riuscisse a capire perché. Ma alla fine, non disse nulla; sapeva che non sarebbe stata Guinevere a chiarire i suoi dubbi.
Improvvisamente avrebbe solamente voluto andare nelle stanze di Lady Morgana, strattonarla per il vestito e urlarle contro perché, per quale diavolo di motivo doveva avercela tanto con Guinevere; avrebbe voluto davvero farlo, senza farle del male ma cercando di capire cosa diavolo ci fosse tra quelle due. Tuttavia, se l'avesse fatto non avrebbe ottenuto altro che mettere ulteriormente in pericolo la vita di Guinevere e, visto quello che era successo, era meglio evitare.
Chiuse gli occhi, cercando di mettere insieme le idee: era tutto così inconcepibile.
«Ricapitolando: Morgana si è finta Lady Igraine per dare ad Arthuria fiducia in sé stessa, tu l'hai scoperta e ti ha quasi ammazzato per motivi che non posso ma che vorrei molto sapere, e nello stesso giorno tu e Arthuria avete litigato e lei ti ha rivelato di non voler più competere per Caliburn.» riassunse, in un sospiro.
«In effetti avrei potuto essere molto più sintetica e dirti solo questo.»
«Ti stavi tenendo tutto questo schifo dentro. Non mi stupisce che tu ne volessi parlare.»
«Non avrei dovuto.»
«E allora cos'avresti dovuto fare?»
Guinevere si espresse in un suono di stizza. «Parlare con Arthuria prima che tutto questo succedesse.» disse. «Per i sacri spiriti dell'aria... sono così debole
Lancelot le mise una mano sulla spalla. Con qualunque altra ragazza probabilmente avrebbe allungato il braccio fino ad appoggiarla sulla testa, ma con Guinevere gli veniva naturale metterla lì. «Smettila.» la redarguì pacatamente. «Dopo tutte quelle cose in una giornata, è normale essere sconfortati e comportarsi come hai fatto tu.»
«Non avrei dovuto parlarti di Morgana.» considerò Guinevere, stringendosi nelle spalle e voltando la testa dalla parte opposta a lui, quasi si vergognasse di guardarlo in faccia.
«Hai fatto bene.»
«Sei innamorato di lei.»
«Ha tentato di ammazzarti.» ribadì Lancelot, come se la piega che avrebbero dovuto prendere gli eventi fosse alquanto ovvia. «Ero innamorato dell'aspirante assassina della mia migliore amica. Meno male che l'ho saputo a tempo debito.»
Guinevere sbatté le sopracciglia e gli rivolse uno sguardo perplesso e timido al tempo stesso. «Tutto qui?»
«Conosco poco e niente di Morgana. Mi spaventa molto di più perdere te, che perdere lei.» disse Lancelot, stringendosi nelle spalle.
Guinevere abbassò lo sguardo, e lui la vide arrossire lievemente. Sorrise, e le diede una pacca leggera sulla schiena.
«Quindi che farai, a proposito di Arthuria?» domandò.
Guinevere sobbalzò; sbarrò gli occhi, e sotto le dita Lancelot sentì chiaramente un brivido violento provenire dal suo corpo.
«C-che devo fare?» replicò lei, rivolgendo lo sguardo altrove. «Basta, è chiusa. No? Non posso rivelarle i miei sentimenti, sarebbe tutto controproducente, scatenerei una catastrofe. Meglio che le cose rimangano così.»
«Ma state male entrambe!» esclamò Lancelot.
Guinevere sussultò. Era vero, e lo sapeva anche lei: Lancelot aveva visto sia lei conciata in quel modo, tanto che Cassandra non sapeva più che fare, sia Arthuria che aveva preso ad estraniarsi dal mondo intero; le poche volte che Lancelot l'aveva vista uscire dalla sua camera e si erano scambiati uno sguardo veloce, Arthuria aveva rapidamente distolto lo sguardo dal suo e si era allontanata a grandi passi senza voltarsi indietro.
Dubitava che ce l'avesse con lui, o anche con Guinevere: Arthuria non era il tipo. Le era stato insegnato di perdonare, perdonare sempre, tanto che ne aveva fatto qualcosa di simile a una religione. Semplicemente, si sentiva inadatta ad avere a che fare con loro: non voleva, e preferiva starsene da sola, in modo da non avere a che fare con qualcuno che  - ora lo sapeva – le ricordava fin troppo spesso il motivo per cui era venuta al mondo, e quello per cui aveva lottato per anni, per poi decidere di rinunciarvi.
Era spaventata, ed era una cosa assolutamente normale che lei non riusciva ad accettare, perché non era stata cresciuta per essere normale.
«Dovresti parlarle.» suggerì.
«No.». La risposta di Guinevere fu talmente lapidaria che Lancelot per qualche secondo rimase a fissarla, in cerca delle parole giuste da dire.
«Guinevere...»
«Lo so cosa intendi per “parlarle”, e la risposta è no, Lancelot.» affermò lei, perentoria. «Ti ho promesso che non le avrei detto nulla, e il fatto che tu mi abbia visto stare male per la cosa è solamente segno della mia debolezza. Non vi porrò rimedio parlandole di quello che provo per lei.» disse.
«Farebbe stare bene entrambe.»
«No, Lancelot. Lei è devota a una religione per cui quelli che provano i sentimenti che provo io nei suoi confronti sono considerati un abominio. Qualcosa da cancellare dalla faccia della Terra. Non la farebbe stare bene: al contrario, la confonderebbe ulteriormente sulla propria posizione, sul perché sono sempre stata al suo fianco, su quello che dovrebbe fare di me.»
Lancelot la osservò per qualche attimo. «Stai cercando di convincerti di questa cosa, vero?»
Guinevere assottigliò gli occhi, e Lancelot per qualche momento fu quasi sicuro che gli avrebbe dato quantomeno un pugno in risposta. Tuttavia, non ricevette nulla.
Aveva notato che il tono con cui aveva detto quelle parole era andato sfumando dal perentorio al rantolo trascinato di chi cercava di trattenere il pianto e le sue evidenze con una forza che non gli apparteneva. In quel momento sentì davvero l'impulso di metterle la mano sulla testa e di attirarla a sé, facendola accoccolare contro di lui per farla calmare; tuttavia, si limitò a passarle la mano avanti e indietro sulla spalla un paio di volte, e poi a staccarla da lei.
«Non voglio parlarle.»
«A mio parere, dovresti. Ma la scelta spetta a te, Guinevere; e sono sicuro che saprai decidere per il meglio.»
Guinevere si espresse in un sorriso chiaramente amaro. «La tua fiducia nelle mie capacità decisionali è mal risposta, visto quello che è successo.»
«A tutti capita di sbagliare.» minimizzò Lancelot, alzandosi e battendole la mano sulla spalla ancora una volta. «L'importante è provare a rimediare. E comunque non penso che Arthuria ti odierà per questo.»
Guinevere scosse la testa e si strinse nelle spalle. «No, certo, ho solo abbattuto quella poca fiducia che aveva nel non essere considerata solamente l'erede di Uther. Di sicuro non mi odierà.» considerò, con tono abbattuto. «Te ne vai?»
Lancelot annuì. «Penso ti serva un attimo di tempo per pensare a quello che vuoi fare. Senza di me.»
Guinevere lo fissò per un secondo, e sbatté le palpebre, sorpresa. Poi evidentemente riuscì a cogliere l'antifona, perché Lancelot vide i suoi occhi assottigliarsi lievemente e la sua testa abbassarsi con espressione contrita.
«O-okay.» la sentì biascicare. «A dopo, allora.»
Lancelot le rivolse un ultimo veloce sguardo, e sorrise amaramente. Si allontanò da lei, lasciandola sola e rannicchiata contro il muro.
 
Sapeva che Guinevere aveva capito, e sapeva che probabilmente non avrebbe dovuto lasciarla sola nel prendere una decisione così importante.
Ma aveva bisogno di riflettere e calmarsi.
Mettere in ordine le idee e realizzare quello che avrebbe potuto succedere.
Quello che non era successo.
Quello che era successo.
Erano troppe informazioni, tutte insieme, e a un certo punto aveva quasi sentito la testa scoppiargli per tutte quelle rivelazioni improvvise.
Morgana aveva quasi ammazzato Guinevere. Lui era stato innamorato per anni di una donna che odiava la sua migliore amica al punto da tentare di eliminarla a sangue freddo da un momento all'altro.
Avrebbe tentato di farlo di nuovo? E perché? Perché Guinevere non gli aveva detto di cosa si trattava? Capiva il terrore che poteva avere dopo quello che era successo con Morgana, ma per arrivare a non dirglielo probabilmente era qualcosa di estremamente compromettente.
Come faceva Guinevere a saperlo e lui no?
Perché Guinevere non gliene aveva mai parlato, prima?
Perché proprio Guinevere  lo sapeva?
E come aveva fatto Morgana a scoprire che Guinevere lo sapeva? Se si trattava di un'informazione così pericolosa, Guinevere non se la sarebbe lasciata facilmente sfuggire. Era incosciente, alle volte, ma non così tanto. Sicuramente lo era meno di lui e Arthuria messi insieme, perciò come?
Ma soprattutto, di che razza di donna si era innamorato? Per anni era morto dietro Morgana, per anni aveva creduto che avesse qualcosa di buono, per anni aveva per quello sottovalutato i suoi atteggiamenti nei confronti di Guinevere. E ora, quello.
Se solo non fosse stato così stupido da minimizzare l'odio che Morgana provava per Guinevere come una semplice gelosia dovuta al rapporto molto stretto che Morgana aveva sempre avuto con...
Spalancò gli occhi.
Non era Lady Igraine, ma Morgana.
Morgana aveva assunto le sembianze di Lady Igraine solamente per fare in modo che Arthuria acquisisse della fiducia in sé stessa tale per cui avrebbe potuto imparare la magia e, quindi, sarebbe stata una possibile candidata all'estrazione di Caliburn. Aveva assunto un ruolo complicato solamente per quello, quando avrebbe potuto parlarle semplicemente come sorella e spingerla a fare di più.
E la reazione che aveva avuto verso Guinevere appena l'aveva conosciuta...
Gelosia.
No, una cosa del genere era assolutamente da pazzi.
Stava degenerando. Era ancora semplicemente troppo sconvolto dal rischio di ritrovarsi con Guinevere morta da un momento all'altro, stava vaneggiando.
Però quale altro motivo avrebbe potuto avere per tentare di fare fuori Guinevere, se non...?
No. No, era assurdo.
Morgana aveva un atteggiamento morboso nei confronti di Arthuria, e nessuno lì lo avrebbe mai negato. Ma era semplicemente perché era molto affezionata ad Arthuria, e visto il rapporto praticamente nullo di Arthuria con Lady Igraine, Morgana si era ritrovata ad essere sorella e madre, per lei. Era un legame molto stretto. Un rapporto del tutto normale.
Poteva essere, però, che in virtù di quello, Morgana avesse cercato di essere protettiva con Arthuria e per quello avesse tentato di ammazzare Guinevere? Ma protettiva per cosa?
Sbatté le ciglia, quando si ritrovò davanti una chioma bionda e disordinata che conosceva fin troppo bene.
Arthuria, vedendo la sua ombra proiettata davanti a sé, alzò lo sguardo dal gattino che stava vezzeggiando.
Lancelot vide i suoi occhi azzurri sbarrarsi, quando lo vide, e il suo intero corpo irrigidirsi. Era quasi sicuro dal suo sguardo, simile a quello di un animale braccato, e dalla tensione dei muscoli delle sue gambe, che volesse fuggire di lì e stesse valutando mentalmente la migliore direzione da prendere.
La osservò per qualche secondo. Era trasandata, più che disordinata: di certo non aveva il portamento e la compostezza che ci si aspettava da un membro della famiglia reale. Aveva un'espressione chiaramente provata in viso, e dei segni scuri sotto le palpebre inferiori, visibile segno di quanto avesse pianto. O quantomeno dormito male, per via dell'essere stanca e agitata per tante cose.
Valutò per un istante la decisione da prendere. Non voleva che scappasse, ma era sicuro che se lui si fosse avvicinato di più di quanto già non fosse – ed era già fin troppo vicino a lei – Arthuria sarebbe scattata e sarebbe corsa via più veloce di un fulmine, perché non voleva affrontare nessuno.
Abbassò lo sguardo sul gattino, che nel frattempo era rimasto fermo ad aspettare che le dita della mano destra di Arthuria riprendessero ad accarezzarlo sotto il collo come stavano facendo prima che lei lo notasse. Si abbassò cautamente, evitando di guardare lei negli occhi, e allungò una mano in direzione del gatto, schioccando la lingua per attirare la sua attenzione e farlo muovere verso di sé.
Captò con la coda dell'occhio lo stupore di Arthuria, il suo corpo che si rilassava quasi impercettibilmente, la sua testa voltarsi a osservare la reazione del gatto; le sue dita si allontanarono dal suo pelo, quando lui, dopo un lungo attimo di esitazione, si avvicinò a Lancelot e si lasciò accarezzare.
Continuò a non guardarla, e vide indistintamente che lei si rilassava di più, e lasciava cadere la mano destra lungo il fianco, per poi appoggiare la schiena contro il muro del vicolo in cui si era nascosta e che Lancelot aveva preso come scorciatoia verso casa. Udì un flebilissimo sospiro da parte sua, e poi un suo lento alzarsi in piedi.
«Arthuria.» la chiamò Lancelot, a bassa voce.
Lei si irrigidì, di nuovo. Lancelot sollevò lo sguardo, e incrociò il suo.
Terrorizzato. Era quello di un animale fin troppo prossimo a incontrare la morte per via della freccia di un cacciatore.
La vide rabbrividire lievemente, e per quanto desiderasse prenderla per il polso e trattenerla lì, non lo fece. L'avrebbe solo spaventata, e avrebbe solamente ottenuto l'effetto contrario – quello di farsi prendere a calci da lei e di vedersela scappare da sotto le dita.
«Possiamo parlare, per favore?» domandò Lancelot, piano. Arthuria sussultò, e Lancelot proseguì prima che potesse essere troppo tardi. «Solo per poco.»
Arthuria esitò e distolse lo sguardo dal suo. «Di cosa... dovremmo parlare...?»
Lancelot la osservò per qualche secondo: aveva mille domande da farle, e una grande confusione in testa su quale farle per prima. Avrebbe voluto parlare di Guinevere, di cosa provava per lei, di cosa fosse successo tra loro due; capire cosa stesse pensando, in modo da dare loro un consiglio per risolvere la situazione; darle quella fiducia necessaria a riprendere a competere con lei per Calib...
La spada.
A casa di Cassandra c'era ancora la spada di Arthuria.
E qualunque domanda volesse farle, sarebbe stato meglio che gliela facesse Guinevere e che chiarissero direttamente. Mettersi in mezzo e fargliele per conto proprio avrebbe rischiato di dare ad Arthuria una visione distorta della situazione, con la probabile conseguenza di farla chiudere di più in sé stessa.
Sospirò. Era l'unico modo in cui potesse aiutarla, probabilmente.
«Vorrei che tu mi parlassi di cos'è successo tra te e Guinevere.» disse con tono dolce, tornando a rivolgere le proprie attenzioni al gattino, che al suo tocco dietro le orecchie iniziò a fare le fusa. Sentì Arthuria trasalire e trattenere il fiato per qualche secondo, e sorrise debolmente, amareggiato da quella sua reazione. «Ma, dal fatto che tu sia scappata da me per giorni, intuisco che...»
«Non stavo scappando.» ci tenne a puntualizzare Arthuria.
Lancelot la guardò in tralice. «Dunque cosa stavi facendo?»
Lei rimase in silenzio e lo guardò per un attimo negli occhi; poi, arricciò le labbra in una smorfia. «Non... non stavo scappando.» disse, con voce flebile.
Lancelot intuì quale fosse il senso di quell'affermazione. Arthuria doveva essere forte, sempre: e per quello non poteva scappare. Sorrise lievemente e sospirò di nuovo, prima di annuire.
«D'accordo, allora... non abbiamo trovato un'occasione adatta per parlare da soli.» l'assecondò. «Vorresti parlare, quindi?»
Arthuria si strinse nelle spalle, lo sguardo ancora altrove, rispetto a lui.
«Non prenderò le difese di Guinevere, Arthuria.» la incalzò Lancelot. «Ma non prenderò nemmeno le tue. Piuttosto, starò ad ascoltare le vostre versioni e aspetterò che sistemiate questa faccenda tra di voi, se si può sistemare.»
Arthuria incassò di più il viso nelle spalle, come a volersi difendere da qualcosa. Da un suo eventuale giudizio negativo su quello che aveva fatto, forse.
Lancelot sorrise di nuovo. Prese in braccio il gattino, si sollevò in piedi e se lo mise sulla spalla, per poi iniziare a coccolarlo mentre la guardava dall'alto.
«Altrimenti...» aggiunse. La vide sussultare, e voltare debolmente il viso verso di lui, fino a far incrociare i loro sguardi. L'aver ottenuto la sua attenzione in effetti era un enorme risultato. «Dato che non mi sembri molto propensa a piangere o a parlare, posso sempre darti un altro modo per sfogarti.»
«Un altro...?» azzardò Arthuria, confusa.
Lancelot sorrise ed estrasse la propria spada dal fodero, per poi lanciarla davanti a lei.
La vide osservarla per qualche istante, con un'espressione confusa in viso. Poi, tornare a guardare lui, con mille domande stampate in viso.
«Conosco un paio di posti abbastanza appartati in cui potremmo combattere per conto nostro, senza che nessuno, inclusa Guinevere, ci disturbi.» spiegò lui. «E per vivacizzare i nostri confronti, visto che non riusciamo a smuoverci dalla parità da mesi, ci scambieremo le armi. Tu userai la mia spada, e io userò la tua.»
Arthuria osservò per qualche istante la spada; poi allungò le dita verso l'elsa, e la prese tra di esse.
«Non... non so se sono in grado di...» azzardò Arthuria.
Lancelot inarcò un sopracciglio. «Oh, beh. Vorrà dire che il pareggio si smuoverà a mio vantaggio.»
«Non ho mai usato la tua spada...»
«E io non ho mai usato la tua.»
Arthuria lo fissò per qualche attimo. Poi storse la bocca, contrariata.
«Arthuria, con la tua aura negativa allontani persino i gattini da te.» disse Lancelot. «Quindi, dal momento che suppongo che non ti sia rimasto nemmeno questo da fare durante la giornata, ci vediamo davanti a casa di Cassandra tra un'ora.»
Arthuria fece una smorfia, a quell'ordine, probabilmente più per il luogo d'incontro che per il suo ordine che non lasciava spazio alle repliche.
«Qualcosa in contrario?» domandò Lancelot, con tono di sfida.
Arthuria si strinse nelle spalle. «No.» mugugnò.
Sospirò in maniera quasi impercettibile. Non aveva ancora perso quell'abitudine di farsi dare ordini dagli altri, e di pensare che quello che gli altri dicevano fosse inequivocabilmente giusto, mentre quello che diceva lei fosse molto probabilmente sbagliato. «Bene.» acconsentì. «Ci vediamo tra un'ora da Cassandra, allora.»
Fece appena in tempo a vedere Arthuria annuire debolmente; poi si diresse a grandi passi verso casa.
 
 
 
Credeva di essere puntuale. Non ne era sicura, in realtà, dato che quando aveva alzato lo sguardo aveva visto il sole spostato rispetto a prima, e si era maledetta per aver perso tutto quel tempo a riflettere a vuoto senza arrivare a una conclusione.
Le capitava spesso, in quel periodo. Era come se lei volesse mettere i suoi pensieri in un cassetto e iniziare a pensare ad altro, ma la sua mente in qualche modo non si chiudesse a dovere e glieli ributtasse tutti fuori, più alla rinfusa di prima.
In realtà non le importava nemmeno di combattere. Aveva corso per non arrivare in ritardo, perché sarebbe stato scortese nei confronti di Lancelot, ma se avesse potuto avrebbe trascinato i piedi fino alla casa di Cassandra. Anzi, molto probabilmente non sarebbe neanche andata fino a lì: c'era il rischio di incontrare Guinevere. E non voleva incontrarla. Voleva starle alla larga il più possibile.
Anche se, vederla solo per un attimo, forse non sarebbe stato...
No. Che motivo aveva di rivedere una persona che l'aveva ingannata per tutto quel tempo?
Quella che aveva conosciuto non era la vera Guinevere. Aveva solo creduto di conoscerla, per tanti anni. Troppi.
D'improvviso, rallentò. Era a pochi metri dalla casa di Cassandra, e per un attimo si chiese se dovesse davvero andare fino a lì. Poteva rifiutarsi. Poteva non presentarsi all'appuntamento di Lancelot. Poteva semplicemente lasciar perdere, far cadere la spada da qualche parte e andarsene per conto proprio. Sarebbe stato scortese, ma... chi le assicurava che anche quella di Lancelot non fosse tutta una montatura?
Sollevò lo sguardo verso la dimora della maga, la presa sull'elsa che vacillava. Lancelot uscì proprio in quel momento, parlando amabilmente con Cassandra di chissà cosa.
Era tutto così... diverso, da come si sentiva dentro.
Odiava quelle espressioni tranquille e sorridenti. Avrebbe voluto averne una anche lei, ma non poteva, non ci riusciva; perciò, non le rimaneva che odiarle. Odiare lui, perché nonostante dicesse di essere suo amico era così tranquillo e sembrava non le importasse del suo dolore; odiare Cassandra, semplicemente perché non sembrava turbata da quella situazione, come non sembrava mai turbata da nulla; e soprattutto, odiare Guinevere, che probabilmente rideva alle sue spalle, come se non fosse successo nulla.
Assottigliò gli occhi, quando Lancelot sollevò lo sguardo e la vide.
Durante un lungo attimo, vide le sue palpebre spalancarsi.
Per un lungo attimo, percepì l'elsa della spada scivolare lungo le proprie dita.
Poi, il tonfo della lama di metallo sull'erba.
Scattò, correndo dalla direzione da cui era venuta.
Era più veloce di Lancelot. Era sempre stata più veloce di lui.
Lancelot non sarebbe riuscita a raggiungerla.
Per un attimo, sentì la familiare sensazione del senso di colpa montarle al centro dell'addome.
Poi, la scacciò.
Che senso aveva sentirsi in colpa, quando non doveva più nulla a nessuno? Non aveva obblighi nei confronti di nessuno. Non doveva rendere conto a Lancelot: non era stata lei a decidere di voler combattere. Aveva fatto tutto lui. Non le aveva chiesto se volesse, e non le aveva lasciato possibilità di scelta. Aveva ordinato, e basta.
Non sarebbero stati più amici, probabilmente.
Non era importante.
Saettò dentro il castello, e si infilò velocemente tra i corridoi meno frequentati dalle domestiche.
Nessuno l'avrebbe interrotta, ora.
Nessuno le avrebbe detto cos'era giusto fare e cosa non lo era, ora.
Nessuno l'avrebbe fatta sentire in colpa.
Si fermò in uno stretto corridoio, e si appoggiò con una mano alla parete di pietra. Trasse un profondo respiro, cercando di regolarizzare il respiro che si era fatto corto per via di quella corsa forsennata.
Per un attimo, davanti ai suoi occhi vi furono solo le fredde pietre del pavimento del castello di Tintagel.
Per un attimo, la sua mente fu vuota.
Libera.
 
 
Lancelot osservò con la coda dell'occhio il luccichio della lama della propria spada. In realtà, il suo sguardo era più concentrato a osservare la schiena di Arthuria mentre correva in maniera forsennata chissà dove.
Stava scappando.
No, non era solo quello.
Per un attimo nei suoi occhi aveva visto qualcosa che l'aveva immobilizzato sul posto, e gli aveva impedito di continuare il dialogo che stava avendo con Cassandra sulle condizioni di Guinevere, e su quando si sarebbe ripresa.
Negli occhi di Arthuria c'era rabbia.
Non era mai stata arrabbiata in quel modo, da che ricordasse. In quei non comuni momenti in cui si era opposta a qualche osservazione che gli era stata fatta, aveva abbassato la testa in segno di sconfitta pochi minuti dopo averla alzata, sottostando a qualcosa che non era sicura fosse giusto.
In quel momento, invece, era una rabbia definitiva.
Arthuria aveva deciso che qualcosa – che fosse la sua imposizione, o il luogo dell'incontro, o entrambe le cose; non importava – era sbagliato per lei e aveva agito di conseguenza, senza pensare alle ripercussioni che la sua azione avrebbe avuto.
Era spaventata, ma... al tempo stesso, aveva alzato la testa.
Ghignò lievemente, mentre andava a recuperare la spada caduta a terra.
Sperava di far liberare Arthuria dalle proprie preoccupazioni durante il duello; sperava di farla riuscire a parlare e sfogarsi, una volta che fosse stata sfinita dallo scontro.
Ma, forse, andava bene anche così.
«Che le è preso?» domandò Cassandra, mentre lui tornava sulla porta di casa. Aveva un'espressione impensierita, che si accigliò ulteriormente a vedere il sorriso che Lancelot aveva ancora sulla faccia.
Lancelot si voltò per un attimo a osservare il punto in cui Arthuria era sparita. Poi, tornò a guardare Cassandra con un sospiro.
Con la coda dell'occhio, vide Guinevere sulla porta. Era rimasta lì per tutto il tempo, nascosta agli occhi di tutti, a sporgersi appena per vedere Arthuria dopo tanto tempo. Era parecchio inquieta anche lei, alla sua reazione; e Lancelot la vide aggrottare le sopracciglia quanto e più di Cassandra, quando vide il sorriso che lui fece.
«Arthuria è cresciuta un poco, ecco tutto.» fu la sua semplice risposta, mentre rientrava in casa.
 
 
Le palpebre stavano diventando pesanti. Il fiato era di nuovo regolare: l'aria le riempiva il petto e piano usciva. La pietra era umida e fredda sotto il palmo della mano. Le gambe tremavano per la corsa forsennata.
C'era qualcosa di profondamente sbagliato in quello che aveva fatto. Forse. Forse no, forse aveva solo fatto ciò che era giusto. No, come poteva essere giusto scappare a quel modo da una persona che aveva persino assistito alla sua fuga da lei? Come poteva essere giusto, con un amico?
Probabilmente non sarebbero più stati amici, ora. Come poteva perdonarla, Lancelot?
Sentì un brivido lungo la schiena.
Era di nuovo sola.
Per un attimo nella sua mente vi fu il vuoto.
Poi, sentì la mano scivolare lungo il muro.
Voltando involontariamente la testa, intravide il palmo, e l'intero braccio.
Stava tremando.
Con un'analisi più attenta, si accorse che il proprio intero corpo stava tremando.
C'era un senso di pesantezza alla pancia, proprio sotto il cuore.
Gli occhi pizzicavano.
La gola bruciava.
E poi, un lungo suono di tromba riempì l'aria.
Spalancò gli occhi, e sollevò di scatto il capo.
Non era un allarme.
Era una fanfara gioiosa e trionfante, creata non da una sola tromba, ma da più trombe e corni che si univano tra loro. Era come se alcuni fiati chiamassero, e altri rispondessero al richiamo con suoni ancora più alti e vivaci.
Si voltò verso l'entrata del castello, proprio dietro di lei. Davanti ad essa si era già raccolto un gruppo di persone, prevalentemente donne, che parlavano con toni concitati.
Parevano felici.
Si concentrò di nuovo sulle note che vibravano nell'aria.
Parlavano di vittoria, e di un ritorno glorioso.
Senza nemmeno farvi caso, si avvicinò al capannello di persone davanti all'entrata, e guardò verso l'esterno.
Le bandiere col simbolo della Britannia svettavano imponenti sopra le torrette.
Le persone si scambiavano abbracci e parole eccitate; alcune sventolavano la bandiera britannica.
Le sentinelle suonavano trombe e corni senza fermarsi.
Arthuria sgranò gli occhi, quando vide l'uomo a capo dei soldati.
Aveva i capelli neri, la barba era scura e scarmigliata. Gli occhi azzurri guardavano in basso verso i suoi sudditi, mentre lui teneva la testa alta, e portava con fierezza la sua corona d'oro sulla testa.
Uther Pendragon era tornato.
 

 
Le vicende
Malory, nel suo “Le Morte d'Arthur”, riporta che Arthur venne dato in custodia a Sir Ector subito dopo la nascita, e che Uther morì di malattia due anni dopo la sua nascita, subito dopo una vittoria contro le schiere del Nord. Prima di morire, diede la benedizione al fatto che Arthur potesse diventare suo erede al trono.

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