Silence

di ffuumei
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Chapter 1. ***
Capitolo 2: *** Chapter 2. ***
Capitolo 3: *** Chapter 3. ***
Capitolo 4: *** Chapter 4. ***
Capitolo 5: *** Chapter 5. ***



Capitolo 1
*** Chapter 1. ***







침묵
    Silence.    
 
 
 
 
1.       
 
 
 
Se c'era una cosa che Minseok odiava, quella era il silenzio.
Si ritrovava quasi sempre a ridacchiare fra sè e sè quando ci pensava. Era letteralmente assurdo, si diceva, perchè lui stesso era una persona silenziosa. In più, odiava anche il chiasso. Una parte di lui si sentiva profondamente a disagio nei luoghi dove il rumore era assordante e forse fu per questo che, quando ancora frequentava l'università, partecipò una sola volta a quelle feste che i suoi compagni di corso organizzavano costantemente. C'era cibo, a quel tipo di incontri, e questo era probabilmente l'unico punto a favore che Minseok vi trovava. Per il resto, di tutta quella gente che si ammassava al centro della sala per muoversi a ritmo di musica assordante che gli martellava fastidiosamente nei timpani, delle luci soffuse e di quelle psichedeliche che gli offuscavano i sensi, ma soprattutto del vociferare ed urlare continuo e così tremendamente rumoroso e noioso delle persone, non gli importava nulla. Riusciva soltanto a percepire quanto fastidio gli desse tutto ciò, quanto intensamente gli urtasse i nervi.
 
La sensazione era all'incirca la stessa anche per quanto riguardava il silenzio. Il suo malessere aumentava proporzionalmente all'assenza di suoni ed era frustrante, dannatamente frustrante. A volte, quando pensieri scomodi bussavano alle porte del suo inconscio, si rendeva conto che, a differenza dell'odio verso l'eccesso di rumori -il quale era sempre esistito in lui, fin da quando era bambino-, quello che provava per il silenzio era nato con il tempo ed era cresciuto senza preavviso.
 
§
 
Seduto sulla solita panchina con le gambe incrociate e la chitarra posata su di esse, Minseok si scaldava le dita e i polsi, preparandosi a suonare. Non che dovesse dare spettacolo, avesse un pubblico o fosse un musicista. L'unica cosa che faceva con la sua vecchia chitarra era passare il tempo.
Si può dire che suonare, per Minseok, fosse una specie di hobby. C'è gente che coltiva i più disparati interessi, gente che scrive, gente che legge, gente che dipinge, gente che ascolta musica. A Minseok piaceva farla, la musica. Era il modo migliore -l'unico- che aveva per riempire tutti gli spazi vuoti della sua vita.
Mentre pizzicava distrattamente le corde dello strumento, Minseok poteva sentire chiaramente il vento insinuarsi dolcemente tra i suoi capelli biondi, spettinandoglieli tutti e costringendolo di tanto in tanto a muovere il capo per cercare di spostarseli da davanti al viso. Nel frattempo, aveva cominciato a suonare quelle che sembravano le note di Let It Be, storica canzone dei The Beatles. Non che sapesse molto di quel gruppo o della canzone in sè, ma da quando l'aveva sentita cantata in una serata trascorsa nel pub che era solito frequentare nel fine settimana, non aveva smesso un solo giorno di pensarci e fin da subito aveva provato il desiderio di riprodurla con le proprie mani. Il motivo? Non c'era. Continuava incessantemente a ripeterselo. Non c'é un motivo. Non c'è un motivo, davvero. Chissà perchè doveva dirselo così tante volte.
C'erano le risate dei bambini, gli giungevano ovattate alle orecchie per via della distanza che correva tra la sua panchina e il parco dove tutti loro giocavano insieme. Poteva sentire anche il cinguettio sporadico degli uccellini che attraversavano il cielo di tanto in tanto, il rumore dei passi e delle ruote delle biciclette che slittavano lungo il sentierino ghiaioso al di sopra della collinetta lungo la quale lui era sceso. Erano tutti suoni che Minseok era abituato a percepire intorno a sè fin dalla prima volta in cui si era seduto su quella panchina. Li sentiva appartenere alla propria musica come se fossero parte di essa.
L'applauso che seguì questo suo ultimo pensiero, invece, non apparteneva affatto alla monotonia che avvolgeva le sue giornate.
«Sei molto bravo, complimenti!» e a Minseok per poco non cadde la chitarra di mano non appena ebbe riconosciuto il proprietario della voce che si stava rivolgendo a lui.
Non aveva il classico timbro profondo di un uomo della sua età. A Minseok piaceva paragonarla a quella di un ragazzino ancora nel fiore degli anni dello sviluppo, spensierato nella sua giovinezza ancora tutta da vivere. Era una voce gentile e amichevole, forse un po' squillante, ma non troppo. Disturbava la placida quiete in cui Minseok era immerso fino a qualche secondo prima, ma non troppo.
«Disturbo?» chiese l'uomo, ormai ad un passo dal prendere posto accanto a lui sulla panchina.
«No» aveva risposto Minseok, senza guardarlo in viso. Ora che ci pensava, non aveva ancora sollevato lo sguardo dalle proprie dita che si erano come fossilizzate sulle corde della chitarra.
«Ti ringrazio» Minseok continuava a fissarsi i pollici con interesse, quasi come se da quell'azione dipendesse la propria vita. Anche mentre l'uomo si accomodava accanto a lui sulla panchina e gli sorrideva gentilmente. «Ho sentito il suono della chitarra mentre passeggiavo e non ho potuto fare a meno di venire a dare un'occhiata».
Avrebbe dovuto alzare lo sguardo, davvero. Le mani cominciavano a sudargli e gli occhi bruciavano per lo sforzo di rimanere fissi su di esse.
«Sai, adoro il suono della chitarra» Minseok dovette convincersi che no, non voleva alzare lo sguardo per accertarsi che la persona con cui stava parlando non facesse parte di una buffa allucinazione e che sì, doveva farlo, perché appunto non aveva assolutamente idea di chi fosse in possesso di quella voce che tanto occupava i suoi pensieri, giorno e notte, ad ogni ora.
«Trovo che sia, come dire... Dolce e rilassante, ma allo stesso tempo può trasformarsi in adrenalina pura» l'uomo continuava a parlare e Minseok a prendere un profondo quanto ben celato respiro per cercare di darsi una calmata. Strinse le palpebre, le riaprì, si convinse che poteva farcela. «Ma forse sto sembrando logorroico e ti sto annoiando con i miei discorsi».
Sentire la risatina leggera e un po' imbarazzata che seguì l'ultima frase detta, fece decidere Minseok ad alzare il capo. Si stava perdendo troppe cose. Sorrisi, risate, espressioni del viso. Doveva accertarsi di chi fosse -nonostante lo sapesse già- ma allo stesso tempo non poteva permettersi di perdere questi momenti preziosi per un mucchio di inutili complessi mentali.
«No...» finì per dire, a voce bassa e un po' titubante, passandosi poi una mano tra i capelli chiari ed imponendosi di tenere lo sguardo quanto meno davanti a sè. Il suo oggetto di interesse ora era un mucchietto di sassolini che giaceva abbandonato accanto al laghetto in fondo alla collina.
«Ma tu sai dire solo no?» esclamò ridendo l'uomo accanto a lui e Minseok si ritrovò improvvisamente a guardarlo, il viso contratto in una lieve smorfia da ragazzino offeso.
«No!»
«Come volevasi dimostrare».
L'uomo aveva i capelli corvini e la riga che glieli divideva era al centro del capo, in modo da creare due piccole tendine di ciuffi morbidi che gli incorniciavano la parte alta del viso ai lati, lasciando scoperta la fronte.
«Comunque, io sono Kim Jongdae, ed è un piacere conoscerti!» il biondino potè osservare con attenzione tutte le piccole rughe che andavano a crearsi sulla pelle del viso dell'uomo, intorno alla bocca sorridente e vicino agli occhi scuri e socchiusi, persino sull'ampia fronte scoperta. Vicino ad un sopracciglio aveva quello che a prima vista sembrava un brufolo, ma non lo era affatto. Un semplice difetto della pelle. Un difetto adorabile, unito a tutto il resto. Un difetto che non era mai riuscito a notare dallo sgabellino su cui prendeva posto ogni fine settimana al pub e dal quale lo osservava con un'intensità tale da domandarsi se per caso se lo sentisse bruciare addosso, il suo sguardo, mentre lui cantava e ogni volta la sua canzone diventava un pensiero continuo. La sua canzone. Non la sua voce. O forse entrambe, ma non l'avrebbe mai ammesso.
«Kim Minseok» afferrò timidamente la mano che Jongdae gli aveva teso dinanzi e la strinse, acquistando decisione nel constatare che non era l'unico ad avere il palmo e le dita leggermente sudate. «Piacere mio».
Il moro addolcì il suo sorriso e Minseok si sentì mancare il respiro. Abbassò lo sguardo fissando le loro mani che si dividevano e la propria che tornava in automatico sulle corde della chitarra.
«Che canzone stavi suonando?»
Minseok rimase perplesso per qualche attimo. Kim Jongdae era il cantante del pub, non aveva dubbi. E lo stesso Kim Jongdae si era esibito il fine settimana precedente cantando Let It Be, dei The Beatles. E Minseok stava suonando Let It Be, dei The Beatles.
«Let It Be» rispose, pensando che magari non avesse colto a pieno tutte le note o non avesse riconosciuto la melodia, dato che Minseok non cantava. «Dei The Beatles».
«Oh, non l'ho mai sentita. Ti andrebbe di suonarla ancora?»
Aspetta, cosa? Come sarebbe a dire che non la conosce?
«Va bene» Minseok spostò lo sguardo sulla chitarra, sbattendo ripetutamente le palpebre per poi pizzicare le corde. «Aspetta solo un secondo».
Mentre riportava alla mente la sequenza di note che avrebbe composto la canzone, nella sua testa si era creato un grossissimo punto di domanda. Minseok era certo di non aver sbagliato persona. Non era possibile, si ripeteva, lo osservava con così tanta insistenza che avrebbe potuto sembrarne ossessionato, se ogni volta non avesse cercato di darsi un contegno distogliendo lo sguardo. In più, conosceva anche il suo nome, perchè era scritto in lettere mediamente grandi sul manifesto attaccato all'entrata del locale, insieme a quelli dei vari musicisti che si esibivano.
Kim Jongdae. Aveva sempre avuto un'ottima memoria, Minseok, specialmente per le cose che gli interessavano particolarmente.
Ma allora perchè Jongdae gli stava mentendo? Per quale motivo fingeva di non essere lo stesso cantante del pub il cui sguardo si scontrava fin troppo spesso con il proprio, durante le esibizioni?
Perchè?
 
§
 
Quando era ancora un bimbo ingenuo dagli occhietti vispi e le guanciotte paffute, il silenzio lo divertiva e lo accompagnava nei suoi mille sogni ad occhi aperti. Minseok non era mai stato un bambino particolarmente vivace ed iperattivo, cosa che giovò molto al suo rendimento comportamentale durante i primi anni di scuola. Il maestro non lo rimproverava mai, non alzava mai la voce con lui, non gli diceva mai di stare in silenzio. Non ce n'era bisogno, Minseok lo faceva già.
C'era un piccolo particolare, però, che non riusciva bene a comprendere. Il maestro, nello stesso modo in cui non gli urlava contro con sguardo truce come faceva con gli altri bambini chiassosi e capricciosi, non gli rivolgeva mai la parola, se non per dirgli il voto di un compito e cose del genere. Il maestro non lo interpellava quando faceva delle domande aperte a tutta la classe, non lo chiamava nemmeno quando alzava la mano, tanto che se il motivo per cui tendeva le dita verso l'alto era chiedere il permesso per andare in bagno, la maggior parte delle volte si vedeva costretto ad alzarsi e andare alla cattedra per domandarlo.
Minseok guardava i suoi compagni di classe e sognava di essere un po' come loro, nonostante non sopportasse i loro continui strilli e capricci rumorosi. Sognava il giorno in cui tutti si sarebbero accorti di lui, il giorno in cui avrebbe smesso di essere ignorato come se non ci fosse, anche se c'era. Ma, in fondo, non gli importava così tanto di essere notato in quel posto. Al termine delle scuole elementari, la mamma era così felice ed orgogliosa di Minseok e dei suoi voti brillanti che aveva deciso di regalargli una chitarra. Avrebbe presto imparato a suonarla, gli aveva detto con un sorriso dolce e luminoso ad ingiovanirle il viso. Minseok spostava lo sguardo dipinto di stupore infantile da lei allo strumento musicale e si sentiva, in qualche modo, davvero felice.
Così, durante le scuole medie, tra regolari lezioni e corsi pomeridiani di potenziamento per migliorare sempre di più le sue conoscenze -e soprattutto i suoi voti-, la mamma aveva preso l'abitudine di sedersi sul divano con la chitarra in grembo e suonargli qualche semplice melodia, mostrandogli poi, nota per nota, come si faceva. Non importava davvero che a scuola i suoi compagni si comportassero come se lui non esistesse, non importava che si accorgessero di lui soltanto per ricordargli quanto ancora sembrasse un bambino, con quelle guance piene. Nulla di tutto ciò aveva davvero importanza.
Minseok osservava la sua mamma rapito da ogni movimento delle sue dita sottili lungo le corde dello strumento. A volte capitava che tentasse di suonare anche lui, perchè il desiderio di farlo era innegabile, e allora teneva stretta la chitarra al petto con le proprie braccia esili, prendeva un respiro profondo e strimpellava qualche accordo. Era un totale disastro, non indovinava una nota nemmeno per sbaglio. Però la sua mamma rideva, rideva fino a che gli occhi non le diventavano piccoli piccoli, tutti lucidi e lacrime di gioia non le bagnavano il viso. E allora Minseok continuava a suonare anche se non sapeva farlo e rideva con lei.
Minseok era felice. Era bello poter riempire così il silenzio.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Hello!
Come prima fic in questo fandom –ma principalmente riguardante il mondo del kpop in generale- non mi sarei mai immaginata che avrei pubblicato una long. Da un lato ne sono felicissima, anche perché si tratta di una ChenMin e Dio solo sa quanto amo quei due ragazzi e quanto vorrei che ci fossero più storie su di loro, ma dall’altro mi sento anche terribilmente tesa e ansiosa. Spero davvero di aver fatto un buon lavoro con questo primo capitolo, ci ho messo tutta me stessa, e spero che anche tutti i prossimi aggiornamenti siano di vostro gradimento!
Credo di dover fare alcune precisazioni riguardanti il testo. Ho deciso di alternare il presente della storia al passato di Xiumin e quest’ultimo ho scelto di evidenziarlo scrivendolo in corsivo e separandolo dal resto della storia. Mi auguro davvero che sia tutto comprensibile. Inoltre, all’interno della trama ho inserito delle canzoni, come ad esempio Let It Be in questo primo capitolo. Ci tenevo a specificare che, nonostante siano esse ad avermi fatto venire l’idea per questa storia, non si tratta di una song fic, in quanto la mia trama si discosta parecchio dal significato di entrambe. Potete tuttavia vederle un po’ come le soundtrack di tutta la long, dal momento che io l’ho scritta ascoltandole ed iperventilando tutto il tempo immaginando Chen che le canta asdfghjkl e che compariranno spesso.
Uhm, che dire- ho già terminato di sviluppare questa long, per cui non resterà incompleta. Cercherò di aggiornare il prima possibile!
Fatemi sapere cosa ne pensate di questo primo capitolo, se vi va. Mi farebbe davvero molto piacere!
Goodbyee ♪
 

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Capitolo 2
*** Chapter 2. ***





 
침묵
     Silence.    
 
 
 
 
2.
 
 
 
La mamma non gli parlava mai di suo padre. Pensandoci, non aveva mai trovato nemmeno una foto dell'uomo nella casa in cui vivevano. C'erano momenti in cui Minseok desiderava poterlo conoscere, accertarsi di che persona fosse, parlarci anche solo per un pochino, vedere con i propri occhi che quell'uomo esisteva davvero. In altri momenti, invece, avrebbe preferito che una persona del genere non ci fosse mai stata, che davvero non fosse mai esistita.
 
Capì il motivo per cui sua madre era sempre stata restia nel parlargli di suo padre solo durante l'estate che precedette il suo secondo anno di superiori, quando fu costretto dagli assistenti sociali a preparare velocemente i bagagli con tutte le sue cose e trasferirsi definitivamente proprio da lui. Da quel momento in poi tutto cominciò ad avere un peso diverso.
 
Minseok non ricordava bene come venne accolto nella casa di quell'uomo. Non aveva memorie precise di come egli lo salutò o di come gli mostrò le stanze fino a farlo accomodare in quella che sarebbe stata la sua, ammesso che fece tutto ciò. Minseok si ritrovò seduto su un lettino singolo addossato ad una parete di un bianco sporco, con un armadio d'ebano di fronte, la porta chiusa, le tapparelle quasi interamente serrate e la mente libera di vagare in meandri che mai avrebbe voluto visitare. Oltre a quello, il nulla. Solo un silenzio diverso che non lo accompagnava più nei suoi sogni ad occhi aperti. Un silenzio che lo prendeva per mano e lo trascinava nel mondo degli incubi.
 
Così passò l'estate. Terminò senza che se ne rendesse davvero conto.
 
§
 
Minseok continuava a domandarsi quel perchè anche a distanza di una settimana. Una settimana nella quale Kim Jongdae aveva continuato a presentarsi nel parco, più precisamente ai piedi della collina dove lui era solito occupare una delle due panchine di legno presenti, sedersi a gambe incrociate e suonare la chitarra.
La sua routine giornaliera non aveva subito alcun mutamento. Minseok continuava a svegliarsi presto la mattina, saltare la colazione, lavarsi e vestirsi con cura con giacca e cravatta per poi prendere la metro e raggiungere il suo posto di lavoro in una trentina di minuti. Si trattava di un ufficio dall'aria molto pulita e professionale, immagine che rifletteva precisamente la mansione che gli impiegati vi svolgevano. Minseok era uno di loro, era un impiegato in quell'ufficio sempre ordinato e profumato da un fresco deodorante per ambienti. L'unico problema in questo quadretto perfetto era che Minseok non avrebbe mai e poi mai immaginato che nella vita sarebbe finito a fare l'impiegato. Per di più, l'impiegato di un ufficio immobiliare. Sembrava quasi uno scherzo crudele del destino, ma Minseok non ci credeva, nel destino. Si era semplicemente trattato di un raro caso di sfortuna, si diceva da solo, il fatto che avesse studiato per tre anni architettura all'università sperando di poter vivere lavorando come architetto -come diceva la materia centrale che aveva studiato, per l'appunto- e invece si era trovato a ricoprire il ruolo di agente immobiliare, pur di guadagnare i soldi necessari a pagarsi l'affitto del suo appartamento. Così, i suoi sogni di progettazione di case, strutture e cose del genere non avevano nemmeno potuto avere modo di sfumare nel nulla. Erano rimasti lì, nascosti da qualche parte dentro di lui, ed uscivano allo scoperto ogni volta che lavorava sulla vendita di un immobile, quasi come se volessero ricordargli quanto i suoi desideri fossero vicini eppure intoccabili.
Lavorava solo mezza giornata, per cui non appena il suo turno terminava tornava con una certa fretta a casa con il primo vagone della metro che passava a quell'ora, oppure si fermava in un fast food lì vicino, in entrambi i casi con l'unico scopo di riempirsi finalmente la pancia.
Dopo pranzo, nel pomeriggio, aveva da anni l'abitudine di recarsi in uno dei parchi della città, ai piedi della collinetta che separava la strada di ghiaia dal laghetto al centro dello spazio verde. Di restare a casa non se ne parlava: il silenzio di quelle mura talvolta era assordante. Tremendamente fastidioso. Così tanto che nemmeno il suono della sua chitarra riusciva a cancellarlo. E Minseok non poteva e non voleva sopportarlo, per questo prendeva il suo strumento e se ne andava al parco, dove la sua musica si fondeva con la luce del giorno e non sarebbe stato avvolto dal silenzio nemmeno se avesse smesso di suonare.
Kim Jongdae venne anche quel giorno. Arrivava circa due ore dopo Minseok, a metà pomeriggio, e aveva preso velocemente l'abitudine di correre giù per la collina sventolando la mano in segno di saluto.
«Minseok!» urlava mentre continuava a mettere un piede davanti all'altro così rapidamente che il biondo aveva paura potesse inciampare, cadere e rompersi qualcosa da un momento all'altro. «Ciao!»
«Ciao» gli rispondeva sempre Minseok con meno entusiasmo, ma con un sorrisetto a stirargli le labbra rosee. Per qualche strano motivo, il suo nome gli rimaneva sempre incastrato nella gola e non ne voleva sapere di uscire.
Mentre Jongdae si sedeva accanto a lui e si lisciava la stoffa morbida dei pantaloni grigi della tuta, Minseok non poteva fare a meno di domandarsi ancora quel dannato perchè. Perchè Jongdae continuava a fingere di non essere il cantante del pub? Perchè Jongdae continuava a presentarsi ogni giorno al parco? Perchè Jongdae continuava a venire da lui?
Domande che lo torturavano tutto il pomeriggio, tutti i pomeriggi, da quando il moro era entrato a far parte della sua routine giornaliera. Era tutto perfettamente immutato, tranne quel piccolo particolare che restava accanto a lui a ridere e scherzare fino al tramonto, come quel giorno. Da sette giorni.
«Stavo pensando una cosa».
Forse Minseok avrebbe fatto meglio a smettere di farsi domande. Dopotutto, non avrebbe mai dato voce a tutti quei quesiti che minacciavano di fargli venire un'emicrania.
«Che cosa?»
«Lo conosci il testo di Let It Be
Ancora con quella canzone. Era incredibile come, a distanza di una settimana, Jongdae continuasse ancora a chiedergli di suonarla.
«So alcune frasi, credo. Non tutte. Perchè?»
«Pensavo che potresti provare a suonarla mentre la canti. Sarebbe stupendo. E poi, mi piacerebbe davvero tanto conoscerne le parole».
Ancora più incredibile, però, restava il fatto che Jongdae continuasse a fingere di non conoscerla, come se non la cantasse almeno una volta al mese. E Minseok lo osservava da sei mesi.
«Non sono bravo a cantare» più che altro era una cosa che non faceva spesso e nessuno lo aveva mai ascoltato, per cui si sentiva piuttosto insicuro riguardo alle sue abilità canore.
E si sentiva anche in imbarazzo, sapendo perfettamente di trovarsi di fronte ad un cantante dalla voce talmente bella da fargli diventare gli occhi lucidi e battere forte il cuore nel petto. Non sarebbe mai stato abbastanza bravo.
«Sono sicuro che non sia così. Non ti ho mai sentito cantare, ma la tua voce mi piace davvero tanto. La trovo bellissima. Sono certo che con una voce così non puoi che cantare bene».
Minseok distolse lo sguardo, arrossendo visibilmente. Tutto si aspettava fuorchè un complimento così esplicito. Non potè negare nemmeno a sè stesso quanto gli avesse fatto piacere riceverlo.
«Io...» disse piano, stringendo le mani lungo il bordo della cassa della chitarra che teneva sulle gambe.
Non me la sento. Mi vergogno. Tu sei così bravo che ascoltare la tua voce mi fa sentire ad un passo dal paradiso. Io sono mediocre. Non posso.
«Per favore» Jongdae gli mise una mano sulla spalla, lasciando che il palmo della stessa scorresse lungo tutto il braccio di Minseok e che le sue dita gli carezzassero piano la pelle. «Almeno provaci. Va bene anche solo una volta».
Quel semplice tocco, unito alla voce più bassa e morbida usata dal moro, ebbe il potere di convincere Minseok. Si voltò solo un secondo verso Jongdae, rischiando di incantarsi nell'osservare il caldo sorriso che gli stava rivolgendo.
Aveva ancora il fantasma del suo tocco sulla pelle quando iniziò a pizzicare le corde per creare la melodia e le prime parole che ricordava gli uscirono probabilmente troppo basse e troppo tremolanti dalle labbra.
«When I find myself in times of trouble, mother Mary comes to me, speaking words of wisdom, let it be. Let it be, let it be. Whisper words of wisdom, let it be».
Sperò con tutto il cuore che anche Jongdae non fosse un genio in inglese, perchè sicuramente la sua pronuncia non era perfetta e in alcuni punti faceva errori terribili. O magari stava dicendo tutto bene e quello era solo l'ennesimo viaggio mentale dettato dall'insicurezza. Fatto sta che Jongdae continuava a restare in silenzio ad ascoltarlo e allora Minseok si convinse a continuare, cercando di migliorarsi parola dopo parola. Nota dopo nota.
«And when the broken hearted people living in the world agree, there will be an answer, let it be».
Minseok sentì uno spostamento accanto a lui e per un attimo pensò di smettere di suonare e cantare per controllare cosa stesse succedendo. Alla fine optò per guardare con la coda dell'occhio e vide Jongdae scivolare lentamente e sedersi in maniera più scomposta sulla panchina, gettare la testa indietro e chiudere gli occhi, con un sorriso compiaciuto ed appagato sulle labbra.
«And when the night is cloudy, there is still a light that shines on me, shine on until tomorrow, let it be».
Il biondo si umettò le labbra passandoci la lingua sopra. Si sentiva improvvisamente così accaldato e con la gola così secca. Cantare non era stata esattamente una buona idea. O forse sì, considerando quanto fosse bello l'uomo che sedeva accanto a lui, con i capelli spettinati, gli occhi chiusi e il sole al tramonto che gli baciava la pelle bianca proiettandovi sopra le ombre delle sue ciglia lunghe. Ma questo non lo avrebbe mai ammesso nemmeno a sè stesso.
«Let it be, let it be. There will be an answer, let it be. Let it be, let it be, whisper words of wisdom, let it be».
Jongdae lo sorprese cantando in coro con lui le ultime parole della canzone, lasciandolo senza fiato come tutte le volte che l'aveva ascoltato al pub.
Non che fossero impossibili da ricordare, le parole del ritornello di quella canzone, quella parte in particolare era piuttosto orecchiabile. A lasciarlo stupito, però, era sapere che Jongdae fosse un cantante e portasse sul palco quella stessa canzone che diceva di non conoscere almeno una volta al mese. E Minseok era così che l'aveva imparata.
Non appena terminò le ultime note della canzone, mise da parte la chitarra, allungò le gambe e si sedette normalmente, sgranchendosi i muscoli intorpiditi. Poi il suo sguardo si posò su Jongdae e Minseok si perse in quegli occhi scuri, così profondi, così pieni di domande a cui non avrebbe dato voce e risposte che non avrebbe ottenuto.
«Minseok».
«Dimmi».
«Oggi è sabato».
L'espressione sul viso di Minseok era confusa, prima di fare un piccolo collegamento.
È sabato. Questa sera Jongdae si esibisce al pub, come tutte le settimane. Perchè me lo sta dicendo, se continua a fingere di non essere quel cantante?
«Lo so» ma come al solito, non disse nulla dei pensieri che gli attraversavano la mente.
«Lo so che lo sai».
Jongdae rise appena, subito seguito da Minseok.
«Devo andare, ora» disse, come al solito. Jongdae si congedava sempre così. Gli diceva che doveva andare, si alzava, si lisciava la stoffa dei pantaloni nello stesso modo in cui lo faceva quando si sedeva sulla panchina, poi gli sorrideva, scuoteva la mano, si voltava e spariva di là dalla collina.
Chissà perchè quella volta il suo sorriso durò più a lungo. O forse era soltanto una sensazione di Minseok. Il tempo sembrava essersi fermato mentre osservava Jongdae sedersi di nuovo, avvicinarsi a lui e dargli un bacio sulla guancia.
«Ci vediamo domani».
Il sole stava tramontando e le risate dei bambini erano sempre di meno, sempre più lontane. Sfumavano nel silenzio che andava a crearsi persino in quel parco, una volta trascorso il tramonto. Minseok non si sarebbe mai liberato di quella mancanza di suoni. Eppure, per una volta, c'erano pensieri diversi che occupavano la sua mente e il silenzio vi faceva solo da placido sfondo inconsistente.
Le labbra di Jongdae erano davvero belle e morbide come aveva immaginato in tutte quelle sere passate ad osservarlo mentre le schiudeva davanti al microfono, e in tutti quei pomeriggi in cui lo guardava parlare e sorridere a qualche centimetro di distanza da lui.
 
Alle dieci di sera, Minseok era già seduto al bancone del pub che frequentava ormai da anni, sullo sgabello più marginale, punto migliore dal quale poteva osservare meglio il piccolo palco scenico in fondo al locale.
Un gruppo di musicisti che avranno avuto all'incirca una cinquantina d'anni suonava musica jazz e le persone sedute ai tavolini preferivano parlare tra di loro piuttosto che guardarli. La loro musica faceva da sfondo alla serata e a loro sembrava andare bene anche così.
Minseok stava terminando di bere il suo secondo bicchiere, mezz'ora dopo, quando Jongdae salì sul palco con il microfono tra le dita e il suo sorriso gentile come accessorio sempre presente. Si sistemò con calma prendendo un respiro profondo e aspettando che dalle casse partisse la melodia della sua prima canzone. Le persone smisero di produrre il tipico chiacchiericcio di fondo da bar e prestarono interamente la loro attenzione al cantante, questa volta.
Chissà perchè, Minseok non rimase affatto sorpreso che le note che partirono appartenessero a Let It Be, dei The Beatles. La voce del moro era sempre stupenda, talmente bella che Minseok non sapeva nemmeno come descriverla. Si adattava così bene a quella canzone e ogni volta che la cantava sembrava sempre che ci fossero dei miglioramenti.
È davvero possibile migliorare la perfezione?
A stupire Minseok, però, fu il testo della canzone. Più breve, coinciso. Sembrava vi mancassero delle parti.
Le stesse parti che ho saltato io.
Lo sguardo di Jongdae si incatenò fin da subito con il suo e raramente si posò altrove. I loro occhi erano irrimediabilmente attratti da una calamita che li legava insieme, non c'era altra spiegazione.
Tuttavia, non si dissero mai nulla.
Nemmeno al termine dell'esibizione. Nemmeno il giorno dopo. Nemmeno quelli a venire.
 
§
 
Minseok non piangeva mai, nemmeno quando avrebbe tanto voluto farlo.
Seduto su quel lettino con la testa appoggiata al muro e le ginocchia al petto, pensava alla nuova città, alle nuove strade, alla nuova scuola, ai nuovi volti, ai nuovi compagni. Tutte cose che Minseok prese in analisi solo molto tempo dopo la sua sistemazione in casa di suo padre. Si disse che non era tanto la novità non richiesta quanto il fatto che tutto somigliasse così tremendamente a ciò che era stato costretto a lasciarsi alle spalle, a fargli male. Da quel momento in poi, essere ignorato divenne dannazione e benedizione in egual modo. Le prese in giro erano costanti. Fingeva di non sentirle, mentre gli si depositavano nel petto come ruggine lungo la superficie ammaccata del cuore.
Il vero dolore, però, arrivava solo dopo. Lo percepiva sulla pelle, lungo le ossa, attraversagli la colonna vertebrale penetrando al di sotto dei vestiti, nella carne. Gli scuoteva il corpo come un brivido senza fine. La sensazione di non esistere nemmeno tra le mura della casa in cui viveva. La sensazione di essere meno palpabile di un soffio di vento. La consapevolezza che il silenzio, tra quelle mura, esisteva e Minseok no. Minseok non c'era, anche se c'era. Suo padre non lo guardava, non gli sorrideva, non lo salutava, non gli chiedeva come era andata la giornata, se si era fatto degli amici. Suo padre non si sedeva sul divano con una chitarra in grembo, non suonava nessuna canzone, non rideva fino alle lacrime. Suo padre non riempiva il silenzio. Suo padre non era la mamma e la mamma non tornava. Non sarebbe mai più tornata, ma questo Minseok lo realizzò solo con il tempo. Non era stupido. Aveva solo preteso di poter tenere gli occhi chiusi per sempre, fallendo e sprofondando poi nella triste realtà.
I morti, una volta tali, non camminano più nel mondo dei vivi. Non suonano più la chitarra. Non sorridono più.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Hello!
Credo che questo sia il capitolo più amaro di tutta la fic. Mi sento male per quello che ho fatto a Xiumin- a mia discolpa, posso solo dirvi che… no, niente, qualunque cosa io dica a questo punto sembra uno spoiler, quindi evito c.c
Non so voi, ma io da quando ho sentito Chen cantare Imagine, non sono più riuscita a frenare l’immaginazione e ora sono convinta che la sua voce sia perfetta per quel genere di canzoni (è perfetta e basta, veramente). Mi piacerebbe tantissimo sentirlo mentre canta Let It Be, oh dio *piange*
Teoricamente avrei dovuto postare questo capitolo martedì prossimo, a distanza di una settimana precisa dal primo, ma alla fine ho deciso di pubblicarlo prima perché nei prossimi giorni sarò in vacanza e non so se avrò un computer con la connessione ad internet laggiù. Quindi, eccomi qui in anticipo ad un orario indecente (sono le 5 di mattina, aiuto), sperando di non ritardare troppo nella pubblicazione del prossimo capitolo- dipende tutto da quando torno, cosa che spero succeda nel giro di una settimana, non di più. Spero anche che questo aggiornamento vi sia piaciuto e, come al solito, di aver fatto un buon lavoro! 
Goodbyee ♪

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Capitolo 3
*** Chapter 3. ***





 
침묵
        Silence.      
 
 
 
 
3.       
 
 
 
C'erano quelle volte in cui si perdeva ad osservare i deboli raggi del sole che filtravano dai buchini delle tapparelle e si infrangevano sulla superficie fredda del suo letto. Minseok passava intere ore a giocare con la coperta, si divertiva a lasciare che le piccole scie di luce si distorcessero sulle sue dita e sulle lenzuola, per poi lisciare il tessuto di cotone e tornare ad appoggiare la testa contro il muro alle sue spalle, lo sguardo perso in un punto indefinito.
Era passato un anno. Un intero anno gli era sfilato dinanzi senza che muovesse un dito per sfiorare quel lungo lasso di tempo e farne qualcosa. Un intero anno trascorso alternando la scuola e lo studio alla solitudine e al silenzio persistente di quella stanza buia. Minseok non aveva fatto altro in tutti quei mesi.
In momenti come quello, quando nemmeno i passi di suo padre in salotto riempivano un pochino il pesante silenzio della sua stanza, Minseok sentiva i secondi e le ore scorrergli accanto e abbandonarlo per sempre. Il tempo non lo avrebbe aspettato. Il tempo non si sarebbe mai fermato nell'attesa che lui si fosse alzato da quel letto e avesse mosso il primo passo verso il cambiamento in cui si era ritrovato a sperare da qualche giorno, o da qualche mese.
Un sospiro lasciò le sue labbra e si dissolse lentamente nella totale mancanza di suoni. Voleva fare qualcosa, qualsiasi cosa, ma non aveva idea di cosa. I pensieri gli affollavano la testa e si sentiva soffocare, trascinato nel vortice che era il suo subconscio. Voleva smettere di pensare. Voleva smettere di immergersi nelle sue fantasie e terminare il viaggio in un incubo. Voleva trovare una distrazione, qualcosa che lo strappasse a quei giorni senza colore, che lo spingesse in un mondo nuovo, che lo facesse sentire di nuovo vivo. Aveva iniziato ad odiare il silenzio da molto tempo, ma mai come ora aveva desiderato riempirlo così tanto da farlo esplodere di suoni. Quel silenzio che lo abbracciava in ogni momento come fosse la sua ombra, che gli si era aggrappato come fosse un parassita che si nutriva di lui. Doveva liberarsene se voleva riprendersi sè stesso.
 
§
 
Minseok cominciava a pensare che Jongdae non sarebbe mai più tornato da lui.
Si dava dello stupido per aver creduto che quel piccolo sogno potesse non avere una fine. Tutte le cose belle finiscono, prima o poi. Tutte le cose, in generale, finiscono, prima o poi. E la felicità non è che un soffio di vento. Impalpabile, labile, effimera. Nel momento in cui ci si rende conto di essere felici, in quello stesso istante la felicità muta in qualcos'altro, rivoluzionando nuovamente la nostra vita e lasciandone unicamente il ricordo. A volte, succede così. Fa tutto parte di un ciclo interminabile in cui gioia e sofferenza devono susseguirsi l'un l'altra per poter permettere l'esistenza di entrambi. Minseok rifletteva distrattamente lanciando piccoli sassolini nell'acqua torbida del lago di fronte a lui. La pietra, a contatto con l'acqua fresca, creava piccole onde concentriche che andavano allargandosi, per poi dissolversi lentamente mentre il sasso andava sempre più a fondo. Era rilassante, in qualche modo, ma lanciare pietre nel lago non era più un passatempo divertente. Niente era come prima ora che con lui non c'era Jongdae.
 
Minseok si guardò intorno. Quel posto era così pieno di ricordi che pensarci gli faceva venire un nodo alla gola e l'improvvisa voglia di piangere. Ma non lo fece. Continuò ad osservare gli alberi, l'erba, la panchina, il prato, l'acqua increspata da un lieve soffio del vento, le foglie scostate dallo stesso, il cielo terso macchiato di bianco di tanto in tanto. Strinse le labbra in una linea sottile e prese in mano la chitarra. Ne osservò i contorni, la cassa, ne saggiò il legno con i polpastrelli ed infine li premette lungo le corde per creare una melodia. Chiuse gli occhi e si lasciò trasportare dalla musica che, come al solito, nasceva naturalmente dalle sue dita e correva, libera, nella placida quiete del parco, rotta soltanto dal cinguettio degli uccellini e dalle risate di alcuni bambini in lontananza.
Interruppe quasi subito qualunque cosa avesse iniziato a strimpellare con la sua chitarra. Non seppe quando di preciso e nemmeno perchè, ma i suoi occhi si erano improvvisamente fatti lucidi e calde lacrime gli rigavano le guance piene. Minseok si passò le dita tra i capelli biondi e poi le mani su tutto il viso, portandosi le ginocchia al petto e circondandosele con le braccia, la chitarra abbandonata accanto a lui.
Sono stato stupido. Mi ha solo preso in giro. Lo scorso fine settimana non era nemmeno al pub.
Pianse in silenzio, senza emettere il minimo rumore. Non era scosso nemmeno dai singhiozzi, come gli succedeva solitamente in quei rari momenti. Semplicemente, si rinchiuse in sè stesso e attese che le lacrime terminassero di rigargli il viso.
 
Non seppe con certezza quanto tempo passò in quella posizione. Ore, minuti, secondi. Non riusciva a percepirlo. Fu una voce ad interrompere le sue lacrime e a destare i suoi sensi intorpiditi.
 
«Hey!»
Gli ci volle qualche secondo per collegare quella voce familiare e squillante al volto altrettanto familiare che popolava costantemente i suoi pensieri. Altri secondi vennero spesi per rendersi conto della mano che si era posata sulla sua spalla, la stessa che stava cercando invano di fargli alzare il capo. Ma Minseok era testardo. Non volle assecondarla.
«Minseok...» aveva sussurrato Jongdae alle sue spalle abbassando il tono di qualche ottava, allentando la presa fino a farla scomparire. Per un attimo, il biondo pensò che l'altro se ne sarebbe andato vedendo che non gli rivolgeva nè lo sguardo, nè una parola. Avrebbe dovuto sapere, però, quanto la propria ostinazione somigliasse a quella di Jongdae.
«Stai piangendo?»
Minseok continuava a tenere il capo affondato tra le ginocchia e non accennava a muoversi, nè tantomeno a rispondere.
«Minseok, guardami» continuava a scuoterlo leggermente e con una punta di nervosismo, quasi come se non volesse mettere pressione, ma allo stesso tempo ne avesse lui stesso la necessità.
Stette in silenzio per qualche minuto e Minseok pensò che si fosse arreso, finalmente. Che avesse capito che avrebbe dovuto solo lasciarlo stare e andarsene. Che poi tutto ciò non coincidesse con ciò che realmente Minseok desiderava che Jongdae facesse, quella era un'altra storia.
«Minseok...» non fu nulla più che un sussurro seguito da mani calde che gli cingevano i fianchi e stringevano le dita sulla stoffa della sua maglietta. «Ti prego, parlami».
Jongdae aveva un profumo ipnotico. Il calore del corpo di Jongdae immediatamente dietro al suo era ipnotico. Il suo respiro così vicino era ipnotico. La sua voce resa più bassa dai sussurri era ipnotica. Minseok si sentiva terribilmente attratto da tutto questo. Talmente attratto che parve dimenticarsi di tutto: del suo dolore, delle lacrime, dell'assenza, della mancanza, dell’amara delusione. In quel momento era tutto sparito. C'era solo lui e c'era Jongdae, che lo stava abbracciando da dietro e gli stringeva i fianchi con dita quasi tremanti, come se avesse paura di procurargli ulteriore sofferenza.
Minseok si fece coraggio e decise di asciugarsi le lacrime con il dorso della mano, per poi alzare il capo dalle ginocchia.
Pensavo che non saresti più tornato. Questo avrebbe voluto dirgli. E forse avrebbe anche potuto farlo. Doveva smettere di tenersi dentro tutte quelle cose.
«Pensavo...» cominciò, incerto. Jongdae, intanto, si era accoccolato meglio contro la sua schiena e aveva appoggiato il viso contro la sua spalla. Minseok poteva sentire i suoi capelli scuri solleticargli il collo scoperto e il suo respiro ustionargli la pelle persino sopra lo strato della maglietta. «Pensavo che non saresti più tornato».
Lo sentì irrigidirsi contro di sè. Per un attimo pensò che avrebbe fatto meglio a stare zitto come sempre, che tutte quelle parole avrebbe fatto meglio se se le fosse tenute per sè, che aveva fatto un casino e rovinato tutto e-
«Mi dispiace davvero tanto, Minseok» Jongdae aveva sospirato, facendogli tremare tutto il corpo in un brivido così piacevole. «Ho... avuto degli imprevisti. Se avessi potuto ti avrei detto tutto per telefono, ma in questi giorni non abbiamo mai pensato di scambiarci i numeri e così non l'ho potuto fare».
Ridacchiò alla fine della frase e il suono della sua voce rimbombò nella cassa toracica di Minseok. Gli era mancata così tanto la sua risata. Gli era mancato così tanto lui.
«Potremmo scambiarceli ora» si ritrovò a dire senza nemmeno accorgersi di aver aperto la bocca. «Se vuoi» aggiunse subito dopo, arrossendo un pochino.
«Certo!» Jongdae sorrise contro la pelle delicata del collo di Minseok passandogli meglio le braccia intorno all'addome, stringendoselo più vicino, contro il suo petto.
Fu come se il tempo non fosse mai passato. Come se quelle due settimane di assenza non fossero mai esistite.
 
Lungo la strada per tornare al suo appartamento, si chiese se non si fosse appena sognato tutto. Sarebbe stato il massimo, si rispose da solo, e poi, ancora non soffriva di allucinazioni o cose del genere, per cui doveva essere tutto vero. Minseok sorrise tra sè e sè portandosi le mani sulle guance come per lenire il rossore che le stava imporporando e saltellò fino a casa come un bambino in un negozio di caramelle. Era così felice. Soltanto felice. Si sentiva libero. Stupidamente libero.
 
Mancavano una decina di passi al portone del suo appartamento. Minseok aveva appena preso le chiavi dalla tasca, quando sentì la vibrazione poco familiare del suo cellulare. Non era affatto abituato a ricevere messaggi. Non era mai stato un ragazzo molto socievole e pieno di amici. Si sorprese non poco quando sentì addirittura una seconda vibrazione e poi una terza, infilandosi le chiavi tra i denti e sfilando l'oggetto dalla tasca posteriore dei jeans con un gesto fluido. Sbloccò lo schermo e quando lesse il nome del mittente ed i seguenti messaggi tutti dallo stesso, per poco non gli caddero per terra le chiavi che stava tenendo tra le labbra.
 
[Sabato, 19:37] Kim Jongdae
Uhm, ecco- mi domandavo se per caso ti andasse di venire al pub dove canto, questa sera.
 
[Sabato, 19:38] Kim Jongdae
Mi esibisco e vorrei tanto che ci fossi anche tu ad ascoltarmi.
 
[Sabato, 19:38] Kim Jongdae
Solo te ti va, ovviamente.
 
Stava rileggendo tutto quanto per la terza volta consecutiva quando gli arrivò un quarto messaggio.
 
[Sabato, 19:40] Kim Jongdae
Qualunque cosa tu voglia prendere al bar, offrirò io!
 
[Sabato, 19:41] Kim Jongdae
A meno che non ordini mezzo bancone, in quel caso farei fatica-
 
Rise di fronte allo schermo, incapace di fare altro.
 
[Sabato, 19:42] Kim Jongdae
Ma non importa, ti offrirei comunque tutto io! Almeno mi farei perdonare seriamente per le settimane in cui non mi sono fatto vedere. E…  per tutto il resto.
 
Non devi farti perdonare, pensò. Ti ho già perdonato. Non potrei mai arrabbiarmi con te.
 
[Sabato, 19:44] Kim Jongdae
Insomma, dico davvero, non sentirti obbligato, è solo che mi renderebbe felice sapere che ci sei anche tu ad ascoltarmi, stasera. E dopo vorrei offrirti davvero qualcosa. Se vuoi.
 
Minseok finse di ignorare come il suo cuore avesse iniziato a battere forte, rimbombando quasi dolorosamente nella gabbia toracica. Per quanto facesse male, però, era un tipo diverso di dolore. Si irradiava come un brivido lungo tutto il corpo e gli annebbiava la ragione lasciandolo lì, in mezzo alla strada, mentre sorrideva come uno scemo allo schermo del cellulare fattosi nero per mancanza di attività da parte sua.
Sarebbe andato comunque al pub, anche quel sabato sera. Faceva parte della sua routine giornaliera, frequentare quel posto nel fine settimana. Ma ora era diverso. Il fatto che Jongdae glielo avesse chiesto, cambiava tutto.
Senza pensarci ulteriormente -non che ci avesse seriamente pensato- sbloccò nuovamente la schermata e si affrettò a digitare la propria risposta.
 
[Sabato, 19:58] Kim Minseok
Okay.
 
Quasi un quarto d'ora soltanto per scrivere un misero okay. Minseok si diede dell'idiota. E forse lo era davvero.
 
§
 
La chitarra era coperta da uno spesso strato di polvere quando Minseok decise di trascinarla allo scoperto. L'aveva portata con sè quando si era dovuto trasferire da suo padre, ma l'aveva sempre lasciata sotto al letto, senza trovare il coraggio di tirarla fuori. Il risultato fu una grossa ragnatela nella cassa dello strumento, oltre alla polvere. Gli ci volle più di un'ora per ripulirla tutta, ma alla fine del lavoro si sentì profondamente soddisfatto. Sembrava ancora nuova, come se il tempo e la polvere avessero stipulato un tacito accordo per lasciarla intoccata. Minseok restò a guardarla per una quantità indefinita di minuti come se si trattasse dei resti di un animale preistorico e ne dovesse analizzare le componenti chimiche. Alla fine, però, si riscosse dallo stato di trance e prese lo strumento con le mani leggermente tremanti. Se lo mise in grembo, lo strinse al petto con le proprie braccia non più tanto esili, e strimpellò qualche accordo.
Posò la chitarra in fondo al letto poco dopo, con il fantasma della propria musica confusa e senza senso che aleggiava ancora nel rinnovato silenzio. Per la prima volta in quell'anno, Minseok si portò le mani al viso e pianse tutte le lacrime che possedeva.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Hello!
*Schiva sedie, pomodori e quant'altro* MI DISPIACE- sono in terribile ritardo con la pubblicazione del capitolo e se volete insultarmi, prendermi a padellate, uccidermi (?) fate pure, ne avete il diritto. A mia discolpa, posso solo dirvi che, davvero, ci ho provato. La mia vacanza si è prolungata a mia insaputa e nonostante mi avessero promesso che avrei potuto usare un computer, nessuno ha mai mantenuto la parola. Non è stata colpa mia, ma mi sento comunque una persona orribile. Chiedo perdono ç.ç
Anyway, eccomi qua con il terzo capitolo. Sono praticamente appena tornata da un viaggio di sette ore e spero di non aver fatto casini con l'HTML e cose del genere- oh dio, mi sento leggermente rintronata--
Parlando di questo capitolo, non vedevo l'ora di pubblicarlo, davvero. Non è il mio preferito -quello è il prossimo, insieme a quello successivo- ma comunque è uno dei punti della mia storia che più mi sono a cuore, a cui ho pensato fin dall'inizio e che ho cercato di mettere per iscritto il prima possibile. Sia la parte del passato di Xiumin, che quella del presente, in cui finalmente si ha una svolta nella relazione tra lui e Chen, Xiumin inizia a "sbloccarsi" un pochino e sì insomma io *scoppia a piangere per i troppi feels che sente solo lei*
Per farmi perdonare del ritardo, se volete, invece di farvi aspettare una settimana per il quarto capitolo, potrei pubblicarlo nei prossimi giorni ;-;
In ogni caso, spero che vi stia piacendo e, come al solito, spero di aver fatto un buon lavoro. Fatemi sapere cosa ne pensate, se vi va :3
Goodbyee ♪

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Capitolo 4
*** Chapter 4. ***





 
침묵
      Silence.      
 
 
 
 
4.       
 
 
 
Suo padre si era fermato sullo stipite della sua porta, un giorno. Era l'estate successiva al diploma delle scuole superiori.
L'uomo era rimasto fermo ed in silenzio per un tempo che Minseok non seppe mai calcolare, troppo preso dalle corde della chitarra e dalla melodia che gli rimbombava nella mente e sulle pareti. Suonare era diventato il suo passatempo continuo, il suo modo di tenersi occupato, di eliminare il silenzio che aleggiava pesantemente nella sua stanza.
«Sei bravo» gli aveva detto suo padre. Erano forse le prima parole che gli sentiva pronunciare di sua spontanea volontà da quando aveva memoria di lui. «Però dovresti cercarti un appartamento. Un lavoro. Oppure andare all'università. Non puoi perdere tempo qui, chiuso nella tua stanza, a suonare quella».
Durante i primi tempi si era sentito come se un macigno gli si fosse piantato nel petto e non accennasse a spostarsi, troppo pesante, troppo duro, troppo intenso. Si era convinto che suo padre non lo volesse più, ora che era diventato maggiorenne e autosufficiente. E forse era davvero così, ma a Minseok, con il passare del tempo, fece piacere pensare che quell'uomo avesse finalmente trovato il coraggio di essere un padre.
Fu per questo che Minseok prese definitivamente in mano la propria vita e decise di farne qualcosa. Riuscì a trovare un piccolo appartamento in un palazzo in periferia. Era davvero minuscolo, ma il prezzo per l'affitto era il più basso che aveva trovato sul foglio degli annunci e si trattava di una vera e propria offerta. Si iscrisse al corso triennale di architettura all'università situata appena fuori città. Vi si recava utilizzando la metro. Il pomeriggio era interamente dedicato allo studio, salvo le poche e sporadiche ore che dedicava alla chitarra. La sera, invece, per contribuire alle spese dell'appartamento e del corso universitario -gran parte dei soldi venivano dal conto di suo padre, sorprendentemente- aveva trovato lavoro in un bar del centro. Servire ai tavoli era piuttosto snervante, ma non poteva permettersi di addossare tutte le spese sulle spalle di suo padre. Non c'era mai stato per lui, ma non per questo Minseok lo avrebbe sfruttato. Era comunque suo padre. L'unico famigliare rimasto accanto a lui, con un cuore pulsante e dei polmoni funzionanti.
Fu proprio al termine di uno dei suoi turni serali di lavoro che Minseok vide il parco. Era una macchia verde che si estendeva per un tratto della strada che percorreva per tornare a casa ogni sera quando c'era troppo traffico. C'erano panchine e c'erano scivoli e altalente per i bambini. Sembrava carino. Poi Minseok notò la collinetta che scendeva giù, al centro del parco, e si scoprì curioso di vedere cosa ci fosse nella piccola valle. Il giorno dopo, presa la chitarra e lasciati i libri sul tavolo della cucina, passò il suo primo pomeriggio a suonare seduto su una delle panchine situate al termine della collina, a ridosso del laghetto che ne occupava il fondo. Aveva scoperto che tutti i suoni di quel posto erano di gran lunga migliori del silenzio di casa propria. Era un bel luogo in cui trascorrere tranquillamente i pomeriggi.
Cominciò a portarsi i libri al parco, per studiare stando immerso in quella miriade di suoni che erano la natura e il dolce ridere dei bambini. Minseok era sempre solo, ma tutta quella vita che gli scorreva intorno lo faceva sentire un po' meno vuoto.
Al termine dell'università, aveva deciso di lasciare il lavoro da barista per cercare un impiego più inerente alla materia degli studi appena conclusi. Avrebbe voluto progettare infrastrutture, case, palazzi. Finì seduto davanti ad una scrivania in un ufficio immobiliare.
Inizialmente, la delusione e la frustrazione erano ad un livello talmente elevato da non permettergli nemmeno di chiudere occhio durante la notte. Pensava, pensava, pensava. A tutto. A tutte le cose che non aveva. A quel dannato silenzio che gli restava incollato da troppo tempo addosso, come se glielo avessero tatuato sulla pelle.
In una di quelle notti, decise di uscire di casa. Il giorno dopo non sarebbe nemmeno dovuto andare a lavorare, era domenica. Vagò per una buona mezz'ora senza una meta, osservava il cielo scuro e le insegne luminose dei locali. Una in particolare attirò la sua attenzione.
Si trattava di un pub. Lo stesso pub che, da quella notte, entrò a far parte della sua routine quotidiana, insieme al lavoro che non gli piaceva, al parco che faceva da sfondo alle sue canzoni, alle sue notti insonni. Alla sua persistente, fredda solitudine. Al suo silenzio.
 
§
 
Jongdae era bellissimo.
Cioè, Jongdae era sempre bellissimo, si corresse mentalmente scuotendo leggermente il capo. Ma in quel momento lo era in modo particolare. Indossava un paio di jeans chiari e semplici, stretti, che gli fasciavano perfettamente le cosce magre e il bacino, con sopra un maglioncino nero dalla scollatura appena accennata che lasciava intravedere le clavicole sporgenti e la pelle nivea del collo. Ma non erano i vestiti a fare la differenza, quella sera. Lui non era mai appariscente, tantomeno in quel momento, nonostante si trovasse su un palco con un microfono tra le mani e l'attenzione di tutta la clientela del pub. Forse era stato quel luccichio nello sguardo intenso sovrastato dalla chioma scura divisa a metà sulla fronte che aveva fatto smuovere qualcosa nel petto di Minseok. Oppure era tutto merito del sorriso dolce con cui stava salutando il suo pubblico- almeno così credeva il biondo, prima di realizzare che quel sorriso e quello sguardo si erano incatenati unicamente a lui, non appena lo avevano notato tra la folla.
«Today is gonna be the day that they're gonna throw it back to you. By now you should've somehow realized what you gotta do. I don't believe that anybody feels the way I do about you now».
Inizialmente non riconobbe le parole, nonostante la melodia della canzone gli fosse nota. Decise di non darci troppo peso, la voce di Jongdae era così potente e dolce da lasciarlo senza fiato. Non avrebbe mai potuto descrivere seriamente a parole tutti i sentimenti che provava ogni volta che le labbra di lui si schiudevano davanti al microfono.
«Backbeat the word was on the street that the fire in your heart is out. I'm sure you've heard it all before but you never really had a doubt. I don't believe that anybody feels the way I do about you now».
Ora ricordava. Doveva averla sentita durante uno dei tanti giorni passati in ufficio a sistemare scartoffie nell'archivio. In quell'ala particolare, il datore aveva installato un altoparlante sintonizzato costantemente sui più disparati canali della radio.
Wonderwall. Gli era rimasta stranamente impressa nella memoria, nonostante non avesse mai provato a suonarla. Lo avrebbe fatto sicuramente, prima o poi.
«And all the roads we have to walk along are winding and all the lights that lead us there are blinding. There are many things that I would like to say to you but I don't know how».
Che importanza aveva pensare alla canzone che stava cantando? Jongdae sembrava intento a dare il meglio di sè in tutto, quella sera. La sua voce era sempre la stessa, l'atmosfera intorno a lui, il suo abbigliamento, la sua persona, era tutto identico alle altre innumerevoli volte in cui Minseok lo aveva osservato, negli ormai quasi sette mesi precedenti. Eppure, c'era qualcosa di diverso. Che si trattasse dell'intensità del suo sguardo, oppure del fatto che non lo avesse distolto nemmeno per un secondo da quello di Minseok, al biondo non importò più. Decise di smettere di pensare e lasciò che la voce di Jongdae riempisse ogni più piccola parte di lui, mentre continuava a perdersi nella profondità dei suoi occhi.
«Because maybe you're gonna be the one that saves me. And after all, you're my wonderwall».
Jongdae gli sorrise contro la superficie del microfono e Minseok arrossì leggermente, puntellando un gomito sul legno del bancone e posando il capo sul palmo della mano, lo sguardo ancora incatenato a quello del cantante. Era come se tutto il resto avesse smesso di esistere. In quel pub c'erano solo loro due. Jongdae e Minseok. La musica fungeva solo da sfondo all'incessante battere dei loro cuori.
 
L'esibizione del cantante era terminata da appena una ventina di minuti -Minseok si era scoperto particolarmente interessato allo schermo del suo cellulare da quando Jongdae era sceso dal palco- quando percepì una presenza accanto a sè, lo spostamento dello sgabello alla sua sinistra e l'inconfondibile sensazione di sentirsi osservato.
«Allora? Com'era la mia esibizione?»
Minseok alzò lo sguardo dallo schermo nero del telefonino, acquistando sicurezza dal tremolio quasi impercettibile che attraversava le parole dell'altro. Voltandosi nella sua direzione, notò che teneva lo sguardo basso, fisso in un punto impreciso che potevano essere le sue mani intrecciate, oppure le punte delle scarpe, oppure il pavimento del locale.
«Bella» disse Minseok, continuando a guardarlo e sperando che anche lui facesse lo stesso, per poi domandarsi come avrebbe fatto a reggere quegli occhi in quella situazione. «È stata molto bella» ripetè il concetto come per marcarlo ulteriormente. «La migliore».
Tuttavia, nella testa si era formato un pensiero diverso che premeva per essere tramutato in parole.
Al diavolo l'esibizione, eri tu ad essere bello. Così dannatamente bello. Come la prima volta che ti ho visto e tutte quelle a seguire.
Jongdae alzò immediatamente lo sguardo e Minseok reagì d'istinto abbassando il proprio. Era come se stessero giocando a nascondino con gli occhi. Minseok sperò che Jongdae non vi avesse letto dentro, nell'unico momento in cui si erano stanati.
«Sono contento che ti sia piaciuta».
Minseok gli sorrise timidamente, senza guardarlo.
«Vuoi qualcosa da bere?»
«Ti ringrazio, sono a posto così».
«Guarda che dicevo sul serio, per messaggio» Jongdae ridacchiava e Minseok si sorprese ad osservarlo, come se fosse la prima volta.
Aveva un piccolo neo sulla clavicola, lasciata scoperta dalla scollatura del maglioncino nero. Quando rideva le sue spalle si alzavano e si abbassavano seguendo un ritmo tutto loro e mentre deglutiva il pomo d'Adamo diventava ancora più evidente.
«Anche io sono serio. Non voglio nulla, davvero, non c’è bisogno».
Ed era la verità. Sentiva la gola tremendamente secca, ma non aveva affatto sete. Era come se la vista di Jongdae lo avesse privato dei bisogni primari, riempiendogli la testa con la sua sola immagine. E con la consapevolezza dell'enorme attrazione che provava nei suoi confronti, ma questo... questo avrebbe dovuto ammetterlo almeno a sè stesso, prima o poi.
«Oh. Va bene, allora. Niente cose da bere».
Jongdae parve deluso dalla situazione, nonostante cercasse palesemente di non darlo a vedere. Era teso e il suo nervosismo malcelato era ben visibile allo sguardo attento del biondo. Forse fu per questo, per la consapevolezza di stare in qualche modo rovinando i piani che si era prefissato e di star contribuendo a renderlo insicuro, che Minseok se ne uscì con quella proposta che assomigliava più ad un ordine.
«Andiamo fuori».
«Fuori?»
«Sì».
Il moro lo guardò con un'espressione confusa, ma il suo viso si distese subito non appena Minseok si alzò dallo sgabello, si aggiustò la felpa e gli sorrise, incontrando i suoi occhi senza riserva.
 
Avevano camminato per un po' lungo il marciapiede, parlando del più e del meno, conversando di tutto e di niente. Con Jongdae era così facile parlare, gli veniva naturale. Il tempo scorreva e così anche la strada che percorrevano proseguiva, fino ad interrompersi in prossimità dell'appartamento di Minseok.
«Oh, io abito qui» disse con noncuranza indicando il proprio palazzo. Non mi ero accorto che avessimo imboccato quella strada.
Ci fu un attimo di silenzio. Un solo, breve attimo di nulla più assoluto.
L'aria era fredda, ma le mani di Jongdae sui suoi fianchi bruciavano. Il portone alle sue spalle era gelido, ma il volto di Jongdae era tiepido a contatto con le sue dita tremanti.
Minseok non aveva idea di come potesse essere accaduto tutto ciò, ma non aveva rimpianti. Si era reso conto di desiderare quel momento da troppo tempo per poter resistere ancora.
Le mani di Jongdae gli carezzavano i fianchi e lo stringevano, diminuendo gradualmente la distanza tra i loro corpi. Quelle di Minseok, invece, vagavano senza sosta lungo le spalle dell'uomo e poi il collo, le guance, i capelli. I loro respiri erano uno solo, si confondevano l'un l'altro. Jongdae schiuse le labbra e lo guardò intensamente. Minseok si morse le sue e ricambiò lo sguardo. Non c'era tempo per parlare, per pensare. Minseok si sentì stringere forte forte e poi Jongdae posò dolcemente le proprie labbra sulle sue, in un caldo bacio che si concluse troppo in fretta.
Il moro si ritrasse un pochino per lanciargli nuovamente uno sguardo. I suoi occhi erano piombo fuso, un oceano nero come la pece, liquido nel quale Minseok rischiava di restare intrappolato. Mai come ora si era ritrovato ad apprezzare la gabbia di cui era prigioniero.
«Minseok…» La voce di Jongdae non era altro che un sussurro improvvisamente agitato contro le sue labbra umide. «Minseok, io-»
«Va bene» il biondo gli passò le dita tra i capelli scuri, scendendo lentamente fino a posare i palmi sulle sue guance calde dall'imbarazzo. «Va tutto bene».
Questa volta fu Minseok ad azzerare la distanza tra le loro labbra. Il bacio che seguì fu intenso, bollente, nulla a che vedere con il primo, fugace contatto che avevano consumato poco prima. Il loro secondo bacio aveva il sapore di tutta l'attesa, di tutto quel tempo che avevano trascorso a guardarsi da lontano, restando in silenzio.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Hello!
Come avevo detto nello scorso capitolo, eccomi qui. Leggermente in ritardo ma hey, almeno non di mezza settimana! *schiva una porta volante*
Per fortuna che in questo capitolo finalmente succede qualcosa, lol
Abbiamo la fine del passato di Xiumin e quindi ora un quadro generale completo del suo personaggio, inoltre ne vediamo lo sviluppo nella trama centrale e finalmente -credetemi se vi dico che anche io, quando ho scritto tutto ciò, non vedevo l’ora di arrivare a questo punto- Chen e Xiumin si baciano bghkgcfgcfx *sclera in solitudine*
Sinceramente non ho molto da dire se non che anche quella canzone citata nel testo io me la immagino cantata da Chen e niente, darei un rene, i due polmoni e la vita (?) per essere al posto di Xiumin in quel momento e in quello dopo.
Mi rattrista tantissimo pensare che sono già praticamente alla fine della fic. Il prossimo capitolo è l’ultimo e conterrà tutte le risposte alle domande che vi sarete fatti, oh voi anime silenziose che leggete la mia fic :’D
Spero tanto di non deludervi, di aver fatto un buon lavoro anche con questo capitolo e che la storia vi stia piacendo! Ci terrei davvero tanto a ricevere un parere da parte di chi legge, anche solo due righe, sarebbe bellissimo sapere cosa ne pensate di quello che ho scritto ;-;
Goodbyee ♪

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Capitolo 5
*** Chapter 5. ***







침묵
       Silence.      
 
 
 
 
5.       
 
 
 
Minseok si sfilò rapidamente le chiavi dalla tasca dei jeans e con mani tremanti cercò di aprire la serratura. Persino mettere un piede davanti all'altro era diventata un'azione complessa, con Jongdae che continuava a tenerlo stretto a sè e lasciargli baci umidi sulle labbra e sulle guance anche mentre salivano le scale. Indovinare quale fosse la chiave giusta per aprire la porta del suo appartamento non fu difficilissimo, era più lunga e seghettata delle altre. Una volta spalancata la porta, entrarono in casa e Jongdae se la richiuse immediatamente alle spalle con un tonfo sordo, per poi venire preso dal biondino per un polso e trascinato nella sua camera da letto.
Minseok lo baciò ancora, e ancora, e ancora, finchè Jongdae non si stese sulle lenzuola portandolo giù con sé, le mani che si infilavano lentamente sotto la sua felpa e gli carezzavano l’addome, le gambe intrecciate insieme. Minseok abbandonò le sue labbra per lasciargli una scia di baci lungo le guance, gli zigomi pronunciati, la mascella, la pelle morbida del collo, il piccolo neo sulla clavicola. Sentì Jongdae rabbrividire ad ogni suo tocco, proprio come lui stesso reagiva alle mani dell’altro che stavano esplorando la sua schiena e i suoi addominali.
Poi, Jongdae smise di saggiare con le dita la sua pelle e gli prese il viso tra le mani, per indurlo ad alzare il capo. Si guardarono per un po’, i respiri affannati, le guance rosse e il battito accelerato di chi ha appena finito una maratona. Alla fine, scoppiarono a ridere all’unisono.
«Non staremo correndo un po' troppo?» Jongdae gli scostò una ciocca di capelli chiari dal viso con una carezza lenta, la bocca contratta in un sorriso dolce.
«Forse» gli sussurrò Minseok sulle labbra, poco prima di dargli un bacio sulla punta del naso e spostarsi di lato.
Si stese a pancia in su sul letto e rimase con lo sguardo verso il soffitto bianco, le braccia abbandonate ai lati del corpo. Probabilmente se fosse rimasto ancora per un po' in quella posizione avrebbe cominciato a lamentarsi mentalmente di quanto il silenzio fosse opprimente, ma Jongdae fu più svelto. Si tirò a sedere contro i cuscini del letto, si aggiustò i pantaloni e il maglioncino nero, producendo il tipico fruscio di coperte e stoffe.
«Vieni qui» gli disse piano e quando Minseok si voltò nella sua direzione per capire che luogo significasse qui, l'altro allargò le braccia, rispondendo inconsciamente alla sua domanda.
Minseok gli sorrise con rinnovata timidezza, accettando l'invito e accoccolandosi contro il suo petto. Jongdae prese a tracciare cerchi immaginari contro la stoffa della sua felpa, all'altezza della schiena. Era così caldo e piacevole.
«È molto distante l'università da qui?»
Minseok poteva sentire la voce di Jongdae rimbombare dentro il suo corpo.
«Un quarto d'ora di metro e sei arrivato».
Il suo profumo da così vicino era una specie di droga. Minseok non era sicuro del paragone che aveva fatto mentalmente, però, perchè, pensava, le droghe hanno più effetti negativi piuttosto che positivi per l'organismo. Invece, per lui, avere il viso premuto nell'incavo della spalla dell'uomo e poter sentire il suo profumo così chiaramente era unicamente una sensazione bellissima. Forse l'unico effetto negativo sarebbe stata la dipendenza e la mancanza. Non era sicuro di poter fare a meno di quel profumo, ora che sicuramente ne era rimasto il fantasma persino sulle lenzuola dove il moro aveva preso posto.
«Come mai me lo chiedi? Insegni all'università?» semplice curiosità, quella di Minseok.
Di certo non si aspettava la risata pienamente divertita che seguì le sue domande.
«Scherzi?» Jongdae continuava a ridere e il suo corpo era scosso da sussulti continui. «Io, insegnare all'università?» Minseok si domandò se per caso non avesse le lacrime agli occhi dalle risate e provò ad alzarsi per guardarlo meglio, ma poi rimase nella sua posizione, troppo scioccato dalla seguente frase dell'altro. «Me lo dicono in molti che sembro più vecchio della mia età, ma cavolo, è davvero così evidente?»
«Perchè, quanti anni hai?»
«Precisamente ventitré. Tu?»
«Ho venticinque an-» Minseok si puntellò velocemente sui gomiti, alzandosi quanto bastava per fissare il suo sguardo incredulo in quello dell'altro. «Aspetta, tu avresti due anni in meno di me?»
Jongdae ridacchiò, passandosi una mano tra i capelli. «Sì? A dire il vero, nemmeno io mi aspettavo che tu fossi più grande».
Il biondo si bloccò, abbassando lo sguardo e risistemandosi con lentezza nell'abbraccio di prima.
«Lo so. Non ho mai dimostrato la mia età».
Forse la lieve nota di tristezza nella sua voce era fin troppo evidente, forse Jongdae semplicemente si accorse di aver toccato involontariamente un tasto importante e non esattamente piacevole della vita di Minseok. Fatto sta che, invece di cambiare argomento come chiunque avrebbe fatto, lui decise di passare il dorso della mano lungo il profilo della guancia del più grande.
«Avrei giurato che non avessi più di vent'anni, con questo visino dolce» Minseok era sicuro che l'altro stesse sorridendo, mentre continuava a toccargli le guance. «Mi piaci anche per questo».
«Perchè sembro un bambino?»
Jongdae gli pizzicò la pelle sotto lo zigomo, diventata rossa per l'imbarazzo della dichiarazione improvvisa.
«No, scemo» rise, stringendolo più forte. «Perchè sei così dolce e timido, perchè ti tieni dentro la maggior parte delle cose che ti passano per la testa, perchè sei riservato e perchè dalla prima volta che ti ho visto ho subito trovato adorabili le tue guance. Non immagini nemmeno quanto io abbia desiderato baciarle. Il fatto che non dimostri la tua età non è una cosa negativa, anzi. Penso che tu sia bellissimo».
Anche tu lo sei, avrebbe immediatamente detto Minseok e dovette mordersi la lingua per non dare vita a quella frase. Era certo che se avesse parlato, la sua voce sarebbe uscita troppo bassa e tremante, o troppo acuta ed incomprensibile. Si disse che alzarsi un pochino e sporgersi per baciarlo dolcemente fosse la scelta migliore.
Anche tu mi piaci, non hai idea di quanto.
 
«Quindi... tu frequenti ancora l'università?»
«Esatto. Ho iniziato il corso triennale di musica dopo essermi preso un anno per pensare a me stesso. Una specie di pausa».
«Oh» Minseok pensò di aver sbagliato a porre quella domanda, nonostante il più piccolo continuasse a sembrare sempre tranquillo e a suo agio mentre gli carezzava la schiena e le spalle.
«Sai, penso che capiti un po' a tutti, almeno una volta nella vita».
«Cosa?»
«Un momento di crisi. Di rottura» il biondo si sollevò per guardarlo negli occhi. «È come se ci dovesse essere per forza qualcosa che prima o poi è destinato a smettere di funzionare correttamente e a rovinare tutto. Sai, anche nelle vite più belle e perfette».
Minseok annuì piano affondando di più il viso nel maglione di Jongdae, pensando che gli fosse capitato proprio ciò di cui stava parlando. Curioso, si disse, che quel ragazzo gli somigliasse tanto pur essendo in un certo senso il suo opposto. Così disinvolto, così aperto, così chiacchierone e di compagnia, ma allo stesso tempo così insicuro, talvolta.
«Perchè mi hai mentito?» Perche hai finto di non essere il cantante del pub?
Minseok non seppe con che coraggio lasciò che le parole uscissero dalla sua bocca, ma lo fece. Non se ne pentì.
Jongdae rimase interdetto e serrò le labbra, agitandosi un pochino. «Io- non... non so come dire-»
Il più grande poteva sentire i suoi battiti del cuore accelerare, segno di nervosismo. Quella reazione non faceva che confermare la teoria di poco prima. Jongdae sapeva essere il suo opposto, ma allo stesso gli somigliava davvero tanto.
Strinse le dita sul suo maglione nero come se volesse dirgli: continua a parlare, qualsiasi cosa dirai io resterò sempre qui.
«Ti ho osservato per tanto tempo, ma nonostante tu ricambiassi il mio sguardo la maggior parte delle volte, quando pensavo di venire da te a parlarti, mi bloccavo».
Anche io. Avevo paura di aver frainteso tutto.
«Poi, quando quella volta al parco ho sentito qualcuno che suonava quella canzone, non ho resistito e ho sentito l'impulso di avvicinarmi».
Le dita di Jongdae passavano lentamente dalla sua schiena alle sue spalle ai capelli, soffermandosi tra le ciocche chiare e tirandole leggermente.
«Vederti è stata una sorpresa. Non immaginavo che sapessi suonare la chitarra. Sai, mi piace davvero. So anche qualche accordo, ma preferisco suonare il pianoforte e cantare. A proposito, prendo lezioni di canto anche adesso, da quando ero bambino, e sono immerso nel mondo della musica persino per quanto riguarda lo studio».
Jongdae si perdeva in tanti discorsi mentre parlava e finiva per sembrare logorroico. Minseok lo aveva notato già da un po', ma solo ora ne ebbe la conferma.
«È per questo che ho deciso di parlarti, quel giorno. Non potevo ignorare il fatto che sapessi suonare così bene, che stessi riproducendo la canzone con cui mi esibisco più spesso, che sembrassi così perfetto in quel posto, così... che sembrassi tutto ciò che avevo sempre desiderato e cercato».
Il cuore del più grande cominciò a battere forte tanto quanto quello dell'altro. Sentiva le proprie pulsazioni andare a ritmo quasi sincronizzato con quelle di Jongdae, mentre ripensava al modo in cui si erano osservati per tutti quei mesi.
Minseok si perdeva nel guardare la figura dell'altro e Jongdae lo perforava con i suoi occhi magnetici, lo scrutava con attenzione, con interesse, come se Minseok potesse davvero essere una persona interessante e piena di dettagli sorprendenti. E Minseok era sempre stato invisibile, era sempre stato assente. Non c'era, anche se c'era. Ma Jongdae lo vedeva chiaramente e non smetteva mai di osservarlo come se ci fosse solo lui in mezzo a quel mare di persone.
Jongdae si era accorto di lui e Minseok aveva finalmente smesso di essere inconsistente come il silenzio al quale tanto cercava di sfuggire.
«Ma ho avuto paura. Ho pensato che avrei potuto aver frainteso tutti i tuoi sguardi, che tu non mi avessi mai guardato nello stesso modo in cui ti guardavo io. Mi sono lasciato prendere dall'insicurezza e ho agito d'istinto».
Sospirò profondamente. «Mi dispiace. So che non avrei dovuto. Ho reso le cose più difficili, e ti ho fatto piangere».
«Non fa niente. Va bene così».
E andava bene davvero.
 
«Hai detto che frequenti l'università, un corso di canto e nel fine settimana sei sempre al pub. Come-» Minseok prese un respiro. «Dove lo trovavi il tempo di venire sempre al parco?» Di venire sempre da me?
Jongdae lo guardò con un'espressione strana dipinta in viso per qualche secondo, prima di fargli l'occhiolino.
«È un segreto».
Sicuramente, si disse Minseok, era per quel motivo che non si era presentato nel posto di sempre per quelle due settimane. Era quasi certo che Jongdae avesse trascurato lo studio per ritagliare del tempo da dedicargli ogni giorno e, pensandoci, erano anche nel pieno del periodo degli esami. Era comprensibile che fosse dovuto rimanere a casa sua a studiare, a fare esercizi, memorizzare schemi, aggiustare la tesi. Dopotutto, era anche il suo ultimo anno nella facoltà.
Minseok gettò un'occhiata rapida all'orologio sul suo comodino, pensando alla domanda che gli era stata posta prima. È molto distante l'università da qui?
«Se vuoi, puoi-» il biondo si torse nervosamente le mani sudate, le guance rosse rosse per l'imbarazzo. «Sì, insomma. Restare qui. Stanotte».
Ci fu un attimo di impercettibile silenzio durante il quale il biondo osservò con la coda dell'occhio la reazione di Jongdae. Un sorrisetto malizioso era spuntato sulle sue labbra.
«Speravo me lo chiedessi».
Minseok gli tirò un cuscino sul viso, arrossendo ancora di più, se possibile. Il più piccolo si dimenò e lamentò rumorosamente, per poi ridere e togliersi l'oggetto di dosso. Il sorriso che gli riservò dopo era ampio, gli attraversava il viso da parte a parte e mostrava tutti i suoi denti bianchi. Aveva le guance arrossate anche lui e il respiro leggermente accelerato, i capelli tutti scompigliati sulla fronte.
Minseok non potè fare altro che sorridergli a sua volta, prendergli le guance tra le mani e baciarlo di nuovo.
 
§
 
Se c'era una cosa che Minseok odiava, quella era il silenzio. Non avrebbe mai smesso.
In compenso, però, avrebbe potuto imparare ben presto a sopportarlo. Dopotutto, il silenzio della notte era quasi piacevole quando Jongdae dormiva tra le sue braccia.
Quel ragazzo -non più uomo, dato che si era rivelato essere più giovane di lui, sorprendentemente- era entrato nella sua vita riempiendone ogni piccolo spazio vuoto con la sua dolce presenza. Certo, non si può dire che fosse la versione umana della perfezione in carne ed ossa. Semplicemente, Jongdae sapeva essere rumoroso fino al punto giusto, riempiendo il silenzio senza sfociare nell'opposto eccesso. Ma non era solo questo. C'era tanto altro.
Solo che Minseok non trovava mai le parole per esprimersi, e allora preferiva sporgersi di qualche centimetro in avanti, scostare alcune ciocche di capelli scuri da davanti il viso assopito di Jongdae con una lenta carezza e lasciargli un bacio umido sulla fronte scoperta, sorridendo dolcemente al contatto con essa.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Hello!
Eccoci qua, questo è l'ultimo capitolo. Mi viene da piangere. Sono davvero troppo affezionata a questa fic e nonostante fosse già finita fin da quando ho postato il primo capitolo, concludere anche la pubblicazione... boh, mi fa venire voglia di piangere. Aiuto ç_ç
Quest'ultimo capitolo in sintesi è tutte le risposte a tutte le domande che vi sarete fatti durante l'intera fic, insieme alle scene che penso tutti stavate aspettando :'D
L'idea iniziale era quella di farli arrivare al sodo -if you know what I mean- ma poi mi sono resa conto di aver bisogno di fare maggior pratica con quel tipo di descrizioni, così ho evitato. Penso sia stata la scelta migliore, copulare lì in quella situazione sarebbe stato troppo affrettato e un po' fuori luogo, suppongo.
Questo è stato il capitolo che mi ha fatto sclerare di più, sia parlando di contenuti che di fatica nello scrivere. Le scene non venivamo mai come volevo io e i continui viaggi mentali su quei due non aiutavano x°°
Comunque, alla fine è venuto fuori questo, e ne sono abbastanza soddisfatta. Spero, come al solito, di aver fatto un buon lavoro e di non aver deluso nessuno ;-;
Ci tengo a ringraziare davvero di cuore tutte le persone meravigliose che hanno recensito e messo la fic tra le seguite/preferite/ricordate. Mi avete resa felicissima e non ci sono parole per esprimervi la mia gratitudine c.c
E bene, dovrei smettere di scrivere, l'angolino ormai è più lungo del capitolo- quindi, a presto! Magari tornerò con un'altra XiuChen, o forse no, chi lo sa?
Goodbyee ♪

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