THE EMPTY HEART di Holy Hippolyta (/viewuser.php?uid=249593)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Part 1 : The Fall ***
Capitolo 2: *** Part 2: Phone Call ***
Capitolo 3: *** Part 3: The hole in the wall ***
Capitolo 4: *** Part 4 - You're not alone ***
Capitolo 1 *** Part 1 : The Fall ***
THE
EMPTY HEART
Part 1 : The
Fall
Come è
possibile andare avanti a vivere quando i fili che fungono da sostegno
sono
stati recisi? Quando la fonte della propria forza
s’è inaridita mentre quella
della disperazione si rifocilla di nuove lacrime?
John aveva
ritrovato il gusto della vita dopo l’esperienza devastante
della guerra in
Afghanistan. Si era riadattato ad un’esistenza
civile… o meglio, ne aveva avuta
una straordinaria
accanto a Sherlock e
avere la consapevolezza che tutto fosse finito, che il suo migliore
amico si fosse
schiantato al suolo lanciandosi dal tetto di quel maledetto ospedale era inaccettabile.
Vedeva
ancora nitide quelle immagini, udiva la sua voce commossa e rotta
dall’altro
capo del telefono che lo faceva sussultare nella notte. Non riusciva
più a
dormire serenamente perché durante il sonno
l’angoscia lo faceva arrovellare
tra le lenzuola e lo destava di soprassalto in preda ai sudori freddi.
Allora si
alzava in piedi prendendosi la testa fra le mani e si recava in salotto
o verso
la camera da letto dell’investigatore, aspettandosi il suo
sguardo acuto e
tagliente che lo rimproverava: “ John, ti pare che stiamo
giocando a
nascondino? Almeno potevi invitare Mycroft: batterlo in qualcosa
è più
divertente di qualsiasi gioco.” Invece c’era un
vuoto pesante, un eco
silenzioso e terribile.
Gli pareva
di impazzire: vedeva l’ombra alta del coinquilino, udiva un
suo commento
sprezzante, percepiva i suoi passi felpati. Era come vivere in una casa
infestata dalla quale non poteva uscire, in quanto i fantasmi erano
nella sua
mente e nel suo cuore.
Si sentiva
distrutto, defraudato, tradito e a coronare quei tremendi sentimenti
c’erano la
solitudine e la colpa, regine di quella sofferenza. Inoltre con il passare del tempo
aumentava sempre più la
morsa che gli stringeva la gola, stretto da quelle pareti tappezzate e
dalla
moquette polverosa. Capì che per guarire da quella specie di
claustrofobia
doveva andarsene: non poteva più tollerare
quell’ambiente pregno del suo odore
e della sua assenza.
Cercò in
fretta un’altra abitazione, possibilmente lontana da Baker
Street, dal Saint
Barts… credette che scappare fosse la soluzione. Si
recò dalla signora Hudson e
chiese lo scioglimento del contratto. Ella quasi se lo aspettava la
mattina che
se lo vide entrare in cucina con l’espressione seria che
mascherava il dolore.
Quello che non poteva immaginare era il lancinante male di vivere, o
forse di
sopravvivere, che torturava John e che lo avrebbe portato a
interrompere
perfino i rapporti. In fondo lei credeva di averlo compreso, invece era
impossibile. E quella incapacità di empatia profonda fece
infuriare interiormente
il dottor Watson: parevano tutti così costernati quando
nessuno aveva creduto a
Sherlock, nessuno lo aveva aiutato in quel momento mentre
lui… già, lui cosa
aveva fatto? Non abbastanza, dato com’era andata a finire.
Sì, era sicuro di
questo. La sua punizione era stata inflitta da Sherlock stesso,
facendolo
assistere alla sua... Non riusciva nemmeno a dirlo.
Cambiare
casa doveva essere un toccasana, invece scivolò sempre
più inesorabilmente in
un baratro di ricordi e rimpianti che lo inghiottivano come sabbie
mobili.
Restava bloccato a quel giorno uggioso, a quel momento, a quel corpo
esanime.
I primi
tempi aveva sbalzi d’umore che lo portavano dalla
disperazione alla speranza
che l’imprevedibile Sherlock Holmes fosse scampato
miracolosamente alla morte. Probabilmente
era un piano per ingannare quel folle di Moriarty…
però troppe cose non
quadravano, troppe le domande senza risposta.
Si consumava
in quei pensieri, non riusciva nemmeno a piangere tanto s’era
svuotato.
Aveva
iniziato a dimagrire, a non avere più le energie per alzarsi
la mattina. Si
scavavano sotto le aride pupille i segni di notti insonni, quasi un
germe che
lo divorava dall’interno e gli faceva venire la nausea
all’idea di mangiare.
Poteva sembrare che continuasse a colpire il suo corpo e ad umiliarlo
per
espiare la sua colpa.
In quelle
condizioni gli fu prolungato il periodo di ferie che s’era
preso dal lavoro
all’ambulatorio: aveva un aspetto pietoso. Gli offersero di
farsi visitare ma,
ovviamente, rifiutò. La sua claustrofobia si
tramutò nel timore di farsi
conoscere dagli altri e mostrare la sua debolezza, il suo panico e il
suo
dolore. Per ciò s’era barricato in casa, non
faceva entrare alcuno se non un
paio di conoscenze strette. Queste ed altre piccole ossessioni erano
indizi del
suo non accettare che la vita andasse avanti senza il suo compagno di
avventure.
Inoltre l’astio verso quelli che dovevano essere i suoi
amici, primo fra tutti Mycroft,
gli faceva bruciare la
pelle e rivoltare
lo stomaco: erano stati i primi ad abbandonare Sherlock, ad accusarlo.
Perché
mai avrebbe dovuto vederli?
Usciva
solamente per fare un poco di spesa, poi principiò a vagare
per le vie con lo
sguardo spento, l’aria trasandata che nemmeno Greg Lestrade
l’avrebbe
riconosciuto. Era talmente assorto nel suo mondo cupo che a volte non
si
accorgeva di che strade consumavano le suole delle sue scarpe.
In una di
quelle solitarie passeggiate tra la folla anonima di Londra, si
ritrovò davanti
al fatidico ospedale. Era stato tradito perfino dalle sue gambe. Che
schifo di
mondo.
Alzò il
capo e scrutò lentamente le mura ripide, le finestre a vetri
e gli tornarono flash
della caduta in sequenze incalzanti.
Una voce.
Una figura scura che
spalanca le
braccia sul tetto.
: “Addio John.”
Un corpo che precipita.
: “ Sherlock!!”
Un cadavere livido e
insanguinato.
Le vertigini,
l’odore del sangue, le
gambe molli e l’asfissia.
A John
iniziò davvero a mancare l’aria, la testa era
confusa e le gambe gli cedettero,
cadendo prima in ginocchio e poi a terra. Proprio nel punto in cui
Holmes era
precipitato ormai mesi prima. Si accorse che i sintomi che avvertiva
erano
legati ad un inevitabile svenimento… eppure non volle
attuare nessuna delle
pratiche che conosceva. Desiderò solo sparire, immergersi
nell’oscurità e in un
silenzio sordo per non vedere, per non sentire più. Si lasciò
cadere.
Una piccola
folla gli si fece intorno per capire cosa stesse succedendo. Tra di
loro spiccò
una persona vestita con una giacca rossa, la quale scansò i
passanti in modo
gentile ma deciso allo stesso tempo: “ Fate largo, per
favore. Sono
un’infermiera. – Si chinò su di lui, lo
chiamò, scuotendogli una spalla e poi
sfiorandogli una guancia – Signore?... Signore! Mi
sente?”
John riaprì
gli occhi per un attimo ma c’erano solo ombre sfuocate. La
donna ordinò agli
astanti di lasciargli spazio per respirare, in seguito lo
afferrò da sotto le
spalle e lo trascinò verso il muro dell’edificio
facendogli appoggiare la
schiena.
: “ Se
volete essere d’aiuto, portatemi dell’acqua e
qualcosa da mangiare.” Ed allungò
una mano con alcune sterline che aveva preso dalla tasca ed un uomo
lì vicino corse
ad un bar.
: “ Ma
cos’ha?” Domandò di ritorno con una
bottiglietta di acqua minerale.
: “ Non è
niente di grave, è solo una svenimento. Andate pure.
– Lentamente i curiosi
tornarono ad immergersi nei propri affari, dimentichi di
quell’incidente.
L’infermiera si volse nuovamente verso John e il suo tono
cambiò, diventando
rassicurante intanto che reggeva in una mano l’acqua
destinata ad idratarlo –
Stia tranquillo, va tutto bene. Respiri con calma e non si muova in
maniera
brusca.”
Finalmente
la vista di John gli permise di scrutare il volto di colei che lo aveva
soccorso. Era ovale, pulito, dai lineamenti graziosi e fini, poco
trucco per
far risaltare meglio gli occhi chiari e lucenti come
un’acquamarina e le labbra
rosee che si muovevano soavemente. I capelli biondi e corti
riprendevano la
chiarezza della carnagione e…
: “ Va
meglio?” Gli chiese, interrompendo la sua contemplazione.
: “ Sì,
grazie. Credo sia stata ipoglicemia.” Iniziò
meccanicamente a tastarsi il
polso, a toccarsi la fronte ed analizzare le sue funzioni vitali.
Rimasta
perplessa per un attimo per quella pronta diagnosi e quei gesti, la
donna proferì:
“ Si figuri! È il mio dovere. Sono un’
infermiera. Mi chiamo Mary Morstan.”
: “ Dottor
John Watson.”
: “ Lei … è
un dottore?!” Esclamò trattenendo il contraccolpo.
Appoggiò financo le mani sul
cemento per darsi equilibrio mentre era inginocchiata davanti a lui.
: “ Non si
direbbe, vero?” Sogghignò amaramente,
burlando sé stesso. In quelle condizioni
cos’altro poteva dire? Indifeso,
malmesso sotto ogni aspetto, seduto per terra. Una condizione patetica.
: “ No, no…
intendevo solo… -
Mortan intuì dal tono
di voce quali fossero i suoi pensieri e cercò le parole per
farsi intendere e toglierlo
dall’ imbarazzo – Conosce le strategie per
proteggersi durante uno svenimento.
Perché si è lasciato andare così?
Poteva farsi male!”
: “ Diciamo
che mi sono distratto. Grazie
per
l’aiuto. Devo andare. Arrivederci.”
Tagliò corto Watson, incupendosi. Voleva
andarsene via al più presto, far finta che non fosse
successo niente e chiudersi
in casa. Fece leva sulle gambe per rizzarsi ma barcollò.
Mary lo afferrò al
volo, sorreggendolo.
: “
Aspetti, ancora non riesce a stare in piedi. Lasci che
l’aiuti.”
: “ Ce la
faccio.”
: “ A me
non sembra proprio. – Aumentò la stretta attorno
alle braccia, dimostrandosi
irremovibile nel suo proposito – Permetta che
l’accompagni a casa.”
John la guardò
con aria sospetta e perplessa, storcendo anche un poco il naso davanti
a
quell’insolita disponibilità.
: “ Non si
preoccupi, non ho intenzione di derubarla. Se avessi voluto
l’avrei fatto
mentre era svenuto.”
: “ Davanti
a tutta quella gente?”
: “ Se fossi
stata abile non si sarebbe accorto nessuno, non crede?”
: “ Sarebbe
stato difficile anche per un esperto trovare il mio
portafoglio.” Ed estrasse
da una tasca interna un astuccino
legato
con una catenella ad un bottone.
I due si
guardarono fissi e scoppiarono in un’unisona risata,
divertiti da quello
scambio di ipotesi su un eventuale
furto, facendo dell’ironia forse un po’
sconveniente.
: “ Va
bene, grazie.” S’arrese infine John, accettando
l’offerta dell’infermiera.
: “ Aspetti
qui, cerco un taxi.”
: “ Dove
andiamo?” Chiese il tassista alzando gli occhi allo
specchietto retrovisore,
osservando i due clienti che lo avevano fermato: una donna
dall’aria intrigante
e un individuo malconcio, poco adatto a starle di fianco.
: “ 221B di
Baker Street. – Rispose prontamente John, senza riflettere - No no… ho
sbagliato.” Scosse il capo e
prontamente corresse l’indirizzo al suo attuale domicilio.
Un lapsus
che solo lui poteva comprendere. Aveva ancora molta nostalgia
dell’appartamento
a Baker Street, della vita che aveva condotto lì…
soprattutto gli mancava
Sherlock. Quel pazzo egocentrico e saccente.
Provò una ventata di tormento e dolcezza
ricordando quegli occhi magnetici
e inquietanti. Per scacciare via quell’immagine si
massaggiò la fronte fingendo
di guardare oltre il finestrino.
Mary
osservava discretamente con la sua pupilla celeste e pura
quell’uomo misterioso
che le stava affianco nel taxi. Era visibilmente devastato…
un professionista
probabilmente caduto in disgrazia. La mente fantasiosa di lei
immaginò quale
poteva essere la vita di John Watson, medico con un doloroso segreto.
Giunti
davanti alla porta grigia della casa dell’ex assistente di
Sherlock Holmes, tra
i due estranei ci fu un momento di silenzio ed imbarazzo. Fu John a
prendere la
parola per primo: “ Sono arrivato. Tenga! –
Pagò il tassista per rivolgersi
infine a Morstan – Grazie di tutto.”
: “ Di nulla.
Io userò ancora la vettura… Sa, ho un impegno.
Prenda: in caso di bisogno lo
usi. E si riposi, mi raccomando!”
John
sorrise con noncuranza e prese il foglietto ripiegato che gli porgeva.
Mary lo
salutò, chiuse la portiera dell’auto, dando nuove
indicazioni per chissà quale
meta, e sfrecciò via.
Watson
infilò le chiavi nella serratura ed entrò in
casa, trovando il suo rifugio da
quella bizzarra situazione con una sconosciuta. Si lasciò
accogliere dal divano
e strinse al petto un cuscino. Fissò il soffitto bianco e su
di esso vi dipinse
il viso della donna che l’aveva
soccorso provvidenzialmente, quasi fosse stata un angelo. Sul momento
non ci
aveva fatto caso, però quella fisionomia gentile e
rassicurante lo aveva
calmato dal suo stato di smarrimento come un’onda che azzera
le increspature
della spiaggia. Un’apparizione fugace che non avrebbe mai
più rivisto. Era
stato impreparato e il suo spirito intraprendente con le donne
s’era ritirato
per lasciare il posto alla malinconia. Forse non era stato un male,
tutto
sommato: era impossibile che una bellezza come lei fosse single. Era di
certo felicemente
fidanzata con una persona che l’aspettava per cenare assieme,
che andava al
cinema… chissà, magari appassionata di Cluedo.
Estrasse
dalla tasca dei pantaloni il biglietto che gli aveva lasciato:
sicuramente era
il nome di un farmaco che…
Aprendolo
scoprì che c’era scritta una serie di numeri: era
il suo recapito telefonico!
Gli aveva lasciato il suo numero. Che strano. Va bene che erano dello
stesso
ambiente lavorativo, che lei l’aveva aiutato ma…
dare il proprio cellulare ad
uno sconosciuto? Non doveva farsi tante domande ma nello stato in cui
si
trovava sarebbe stato attraente solo ai piccioni di Trafalgar Square.
Salvò il
numero sul suo dispositivo e lo stette ad ammirare. Riflettendoci,
più che
attrazione doveva aver suscitato pietà. Questo era quello
che avrebbe detto
Sherlock se fosse stato lì. Quell’idea fece
stizzire John che pose nervosamente
lo smartphone sul tappetto, volendo con l’immaginazione
allontanare anche
l’infermiera.
Si
addormentò sul divano, rannicchiato su di esso, in un sonno
profondo e senza
sogni.
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Capitolo 2 *** Part 2: Phone Call ***
THE EMPTY
HEART
Part 2: Phone
Call
: “ Pronto?
“
Dopo tre
squilli rispose senza guardare, con un atteggiamento svogliato mentre
si girava
sul divano, dove aveva dormito serenamente per qualche ora.
Non s’udì
alcuna voce per cui si mise in posizione seduta e scostò un
cuscino, non
capendo bene cosa stesse succedendo.
: “
Pronto?” Ripeté, lasciandosi quasi vincere dalla
tentazione di premere il tasto
di fine comunicazione: probabilmente era una persona che aveva
sbagliato numero
e non sapeva cosa dire, oppure un centralinista ancora inesperto degli
insulti
che gli sarebbero stati inflitti per il suo essere scocciante.
Quest’ultima
ipotesi era molto plausibile, dato che si accorse che
l’utente non era
riconosciuto dal suo cellulare.
: “Salve…
Mary? Mary Morstan…?” Era il timbro di un uomo.
: “ Sono
io, chi parla?” Domandò, incupendosi e aggrottando
le sopracciglia. Cominciò a
lanciare sguardi sospetti alle finestre e negli angoli della stanza,
come se
sapesse che poteva esserci in agguato qualcuno.
: “ Sono il
dottor Watson… John…”
Seguitò con tono flebile, trascinato.
: “ Salve!
– Sospirò alleggerita da un lato e sorpresa
dall’altro. Era trascorsa una
settimana da quando lo aveva incontrato. Temeva di essere stata un
po’ troppo
frettolosa nel dargli il suo recapito telefonico, idea rafforzata dal
silenzio
di lui. Eppure il suo istinto era stato irrefrenabile e aveva dovuto
almeno
provare – Non
m’aspettavo una sua
chiamata… La sento un po’ male, tutto a
posto?”
: “ Sì,
certo. – Era molto più stringato ed asciutto della
prima volta che lo aveva
conosciuto. Mary si insospettì dai lunghi silenzi con cui
John intervallava brevi
frasi. – Sono al parco. Oggi è una bella
giornata. Sono fortunato.”
La conversazione
aveva avuto un inizio strano non tanto per quel che veniva detto,
quanto per la
modalità con cui si parlava. Nonostante un po’ di
imbarazzo che faceva
balbettare Mary, volle continuare ad assecondarlo, sperando di
strappargli un nuovo
incontro.
: “ Vero!
Io sono a casa, stavo riposando: mi sono presa alcuni giorni di ferie.
Ne avevo
accumulate ahah.”
: “ Oh… Mi
dispiace.”
: “ Si
figuri! In fondo le avevo lasciato il mio numero. Le sarà
parso bizzarro,
ammetto che non lo faccio mai però la volta scorsa
l’ho vista in difficoltà e…
John? – Domandò, sentendo dei versi
incomprensibili dall’altro capo – La linea
deve essere disturbata… John?”
: “ Mi
scusi… non
credo di avere molto tempo. Volevo
solo ringraziarla per settimana scorsa. È stata
gentile.”
Mary rimase
delusa sul momento, anche se non avrebbe dovuto: era un estraneo in fin
dei
conti! Vero che aveva spesso pensato a lui, al suo volto sbattuto, al
suo
sguardo abbattuto ed aveva fatto fatica a concentrarsi di recente.
Aveva visto
in Watson una bellezza che andava oltre quella inesistente che
presentava in
quell’occasione, aveva immaginato un buon cuore: infatti
nessuno che non fosse
stata una persona sensibile sarebbe stata in grado di apparire
così dignitosa e
pietosa allo stesso tempo in quello stato sofferente. Pensare che le
sue
speranze di poterlo rivedere fossero svanite le aveva causato
amarezza…
finalmente che aveva la possibilità di frequentare un uomo
interessante!
: “
Capisco. Non si preoccupi. Sono lieta di averla aiutata. Mi auguro sia
tutto a
posto.”
: “ Certo…
passerà tutto… presto… -
Sussurrò John. Poi
fece un profondo respiro e seguitò gelido
– Sa, molte persone lasciano un biglietto. Un mio amico mi
suggerì di fare una
telefonata.”
Quella
frase era decisamente inquietante e fece rabbrividire Mary, che
sobbalzò e si
fece incalzante nella sua preoccupazione per quel discorso che forse si
stava
rivelando non così senza senso come supponeva: “
Cosa intende dire? – Udì un
nuovo respiro, faticoso e grave quasi stesse per svenire. Il suo
istinto tornò
a prendere il comando del suo cervello – Per
favore, mi dica dove si trova, vengo da
lei. Sta delirando.”
: “ No, sto
bene… qui è così verde. Se mi sdraio
qui penseranno che dorma… invece…”
: “ Mi
ascolti, risponda la prego: in che parco si trova?”
Esitò e
parve un’eternità: “ Regent
Park.”
: “ Ok! Continui
a parlare, metto la giacca ed esco! A cosa è vicino?
Dottore?... Dottore!”
L’ultima cosa che aveva visto erano
state le fronde degli alberi sopra di lui che ondeggiavano, creando
giochi di
luce con i raggi solari. La brezza li faceva fluttuare leggeri e il
loro
fruscio sembrava un canto malinconico che lo accompagnava al riposo su
quella
panchina fredda. Aveva vagato senza meta per diverse ore attorno alla
zona di
Baker Street senza mai avere il coraggio di andarvi. Rivedere la
signora
Hudson, sentire i suoi discorsi sentimentali e nostalgici, rivedere
quelle
stanze vuote sarebbe stato devastante per i suo nervi, che avevano
subìto uno scossone
di recente. Dopo il collasso davanti al Saint Barts, aveva accarezzato
per
giorni l’idea di raggiungere l’oblio dal quale Mary
lo aveva sottratto. Si era
spaventato in principio ma il desiderio di lasciarsi andare, oscurare i
suoi
rimorsi e ricordi diventava sempre più radicato tanto da
essere una necessità il
riprovare quell’esperienza di annullamento.
Continuò a mangiare sempre meno, a
dormire poco per timore di fare sogni e ad essere scontroso con
chiunque. Prima
di abbandonarsi del tutto avrebbe voluto telefonare alla gentile
infermiera per
ringraziarla dell’aiuto, sebbene
la
stanchezza e il malore lo stessero privando di energie. Non ricordava
molto
bene però se lo aveva fatto davvero o lo aveva soltanto
immaginato. Probabilmente
era stata solo un’intenzione.
Il suono nuovo che colpì il suo
orecchio era breve, acuto e meccanicamente continuato. Aprendo
lentamente gli
occhi un’ondata indistinta di bianco lo travolse e ci mise
alcuni secondi prima
di riacquistare fuoco e delineare i contorni del luogo in cui si
trovava. Era
all’interno di una stanza d’ospedale, una flebo
collegata ad una vena violacea
penzolava dall’asta in metallo posta accanto
all’apparecchiatura per il
controllo del battito cardiaco e delle funzioni vitali. I valori erano bassi da quel
che leggeva sul
monitor.
Mentre si guardava attorno notò due
figure che parlavano dietro la porta che dava accesso alle camere dei
pazienti.
Una di loro entrò: era un’infermiera.
: “ Mary…?” Fu la
prima cosa che
disse John appena vide la donna avvicinarsi al suo letto.
: “ No signor Watson, mi chiamo
Jennifer Green, sono la sua dottoressa. Come si sente?”
Solo da pochi centimetri di distanza
l’ex medico militare si accorse che la brunetta dai lunghi
capelli lisci ed
esile come un grissino non era la signorina Morstan. O signora? Non era
quello
il momento di chiederselo.
: “ Un po’ debole. “
: “ Normale. Ci vorrà qualche
tempo
per recuperare le forze. Ha rischiato un serio collasso,
però non dovrebbero
esserci ripercussioni sugli organi. La nostra dietologa le
fornirà una regime
alimentare adeguato.”
: “ Grazie, dottoressa.”
Rispose
distrattamente, azionando con il telecomando sotto il cuscino il tasto
per
alzare lo schienale.
: “ Se vuole parlare con la sua
amica può farlo. È qui fuori in attesa. Pareva
molto preoccupata ma lei
immagina il protocollo non permetteva…”
: “ Si trova qui?” Ne rimase
sorpreso: credeva di aver lavorato di fantasia!
: “ Non ha voluto lasciare il suo
capezzale
per nulla al mondo. È stata qui tutta la notte.”
Come aveva fatto a sapere che era
lì? Soprattutto… come c’era finito in
ospedale?
: “ La faccia entrare, per
favore.”
Uscita Green
fece capolino Mary con il suo ciuffo biondo e
gli occhi da tenero cerbiatto, che tratteneva la sua impazienza di
poterlo
vedere. Aveva il viso segnato dall’apprensione e a John parve
così curioso che
un estraneo potesse affezionarsi tanto rapidamente. Forse no, si
corresse, non
era poi assurdo… gli era successo in prima persona.
: “ Salve. –
Disse Morstan richiudendo la porta alle sue
spalle – La dottoressa ha detto che si sente meglio
e...”
: “ Grazie – La interruppe lui
accompagnando le parole ad un gesto della mano – Mi dispiace
di averla fatta
preoccupare.”
: “ Possiamo darci del tu? Dopo la
seconda volta che ti salvo penso di averlo meritato, no?”
Soggiunse con un
sorriso ironico per provare a risollevare lo spirito mentre prendeva
una sedia
e si collocava al lato del letto.
Joh impallidì: “
Seconda?!”
: “ Sì, ieri pomeriggio. Mi
hai
telefonato…”
: “ Ti ho telefonato?!”
Esclamò John
portandosi il palmo della mano sulla fronte in segno di stupore: non
gli
sovveniva niente del genere! Credeva di averlo sognato prima di
svenire.
: “ Sicuro di non avere danni
cerebrali?” Chiese lei tra il serio e il faceto.
: “ Scusami temo di non ricordare
bene cosa sia accaduto nelle ultime ore. “
Dopo avergli riassunto della
insolita chiamata, della corsa per raggiungerlo e dell’arrivo
dell’ambulanza,
concluse più seriamente : “ Hai rischiato grosso.
Sei molto denutrito e non
avevi abbastanza zuccheri nel sangue. Meno male che ti avevo
raccomandato di
curarti, eh?”
: “ Sono un po’ smemorato di
recente. Perdonami se ti ho cercata… ero convinto di averlo
solo pensato e non
fatto realmente. Non avrei dovuto…”
: “ Beh, non ti dissi io di usarlo
in caso di bisogno? Ascolta, io non ho alcun diritto di dirti cosa fare
o non
fare della tua vita. Sei uno che ho soccorso casualmente per
strada… e poi al
parco. Non so nemmeno cosa ti spinga a non mangiare però
parlo da professionista
a professionista: se continui così finirai per
ucciderti.”
John si morse il labbro superiore e
scostò lo sguardo non
solo per evitare
di vedere in faccia la donna ma soprattutto la situazione.
Però non poteva
continuare a negarlo e in quel momento ebbe una terribile illuminazione.
: “ Hai ragione…”
: “ Oh, questa non me
l’aspettavo.
In genere si tende a non dare retta agli estranei.”
: “ Intendo… forse io
volevo… - La
fissò e l’idea di contrarre quel bel viso in
tristezza per l’affermazione che
stava per pronunciare lo fece desistere dal suo proposito –
Volevo esagerare
con la dieta. Ho imparato la lezione.”
Mary rise leggermente: “ Mai diete
fai da te. Questa è la prima regola! Anche io feci questo
errore in passato,
fortuna che mi hanno consigliato una specialista ed ho risolto. Adesso
ci
frequentiamo spesso! Meno male che ci sono gli amici, no?”
. “
Già…” Asserì poco convinto.
Aveva involontariamente toccato un nervo scoperto.
: “ Tutto bene?”
: “ Sì,
sì… mi sono distratto.”
: “ Se non sei troppo stanco
potremmo fare qualcosa che ti riattivi la mente. Ho delle parole
crociate con
me.” Ed estrasse dalla borsa una biro ed un fascicoletto.
: “ Vai in giro con le parole
crociate?”
: “ Certo! O un libro. Ultimamente ne
sto leggendo uno un po’ corposo ed era troppo pesante da
trasportare. Se non ti
va io…”
: “ Mi farebbe piacere. Ma non
voglio trattenerti. Insomma tuo marito…”
: “ Non ho un marito.”
: “ Allora il tuo
ragazzo…”
: “ Non ho nemmeno quello. Non ho
nessuno: posso disporre del tempo a mio piacimento. Piuttosto se non
sono io
che ti infastidisco. In fondo non mi conosci… e magari ti
sta aspettando
qualcuno.”
: “ Anch’io non ho nessuno.
– Poi
riferendosi al
cruciverba – Prima
parola?”
Le si imporporarono le guance per la
contentezza e lesse: “ Ok! Uno
verticale….”
|
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Capitolo 3 *** Part 3: The hole in the wall ***
THE EMPTY HEART
Part
3: The hole in the wall
Dopo un
mese.
John e
Mary
iniziarono a frequentarsi: cinema, passeggiate, cene… si
divertivano assieme,
ridevano, condividevano molti interessi e quando tra i due
c’erano delle opinioni
diverse si ascoltavano e arricchivano la loro discussione. Anche se
spesso era
l’infermiera a spuntarla.
Stava
nascendo un’armonia che li teneva legati a un filo dolcemente
stretto e la
rapidità con la quale quella fiamma s’era accesa
preoccupava entrambi. John in
particolare era bloccato.
La
bramava,
voleva che un po’ della sua luce entrasse in lui e lo
sciogliesse dalle catene
che si era autoimposto. Si volle convincere che Mary poteva essere la
cura alla
propria depressione. Aveva fatto molti passi avanti da quando
l’aveva conosciuta:
si era preoccupato di curarsi, aveva ripreso peso, il suo spirito aveva
riscoperto la gioia, la spensieratezza (seppur momentanea)…
e il desiderio.
Il suo
cuore però era ancora vuoto, come l’appartamento
che aveva abbandonato a Baker
Street. Era affamato d’amore, il suo corpo fremeva di
eccitazione al pensiero
di possedere Mary e al contempo di paura. Avrebbe retto quel
coinvolgimento?
Avrebbe trovato l’appagamento che cercava? Se avesse deluso
sia sé medesimo che
lei? Troppe aspettative.
Si
impose
di non pensare e invece i fotogrammi della convivenza con Sherlock gli
balenavano davanti agli occhi, intervallatati da fantasie sensuali di
lui e
Mary. C’era da impazzire.
Mary
volle
intraprendere il passo successivo per arrivare ad un altro livello
della loro
relazione e una sera, dopo un appuntamento terminato a casa del
dottore, si
fece coraggio utilizzando uno strategemma: “ Oh questa sera
ho bevuto un po’
troppo. Non me la sento di guidare…”
La
conclusione di quella frase rimasta sospesa era ovviamente una
richiesta di
restare a dormire da lui.
John
deglutì, afferrando un bracciolo del divano sul quale erano
seduti: ecco il
momento. Si era fatta avanti. Perché allora era teso, quasi
trattenendosi dal
tremare? Lei gli si avvicinò suadente e cominciò
a baciarlo prima delicata, poi
appassionata. Lui in
principio volle lasciarsi
trasportare dalla passione ma quando lei gli slacciò un paio
di bottoni della
camicia non trattenne le membra e sussultò.
:
“ Tutto
ok?” Gli domandò, interrompendosi.
:
“ Sì “ Replicò
incerto.
:
“ John,
se non vuoi farlo non siamo costretti.”
:
“ No no
Mary, io… lo voglio.”
Voleva
abbattere la freddezza di cui si era circondato e sentiva che
l’amore di Mary
era un piccolo buco nel muro che si era costruito per soffrire in
solitudine. Eppure
qualcosa dentro di lui gli impediva di lasciarsi andare completamente,
quasi
non si meritasse quell’ebrezza. Forse c’era altro
che gli impediva di essere
felice…
Affondò
le
mani in quel lucente biondo, provò ad abbandonarsi a
quell’amplesso in
principio cauto e in seguito travolgente, ardente, tentando di
ritrovare in
esso quell’oblio in cui sperava di cadere per non patire gli
inganni della sua
mente. Parve riuscirci: avvertì distintamente crollare in
sé, bacio dopo bacio,
mattoni del lutto e frantumarsi. Il buco divenne una granata e in quei
momenti
scordò il dolore, i tentativi di farsi del male, il suicidio
del suo migliore
amico… esistevano solo lui e lei, uniti in un unico
abbraccio di calore vitale,
dalla passione. Il resto non esisteva più.
Fu da
quella stessa notte però che cominciarono a raffigurarsi nel
sogni strane
immagini caotiche e bizzarre, dove Sherlock appariva in atteggiamenti
inconsueti.
Una
volta
era in boxer, seduto sulla poltrona collocata curiosamente in un
obitorio,
intento a leggere un giornale mentre continuava a sanguinare, incurante
di ciò.
Un’altra ancora si trovavano a correre senza apparente motivo
per strada quando
all’improvviso uno strapiombo inghiottiva entrambi .
Un’altra vedeva Moriarty e
Holmes intenti a bere del thé assieme
nell’appartamento di Baker Street, John
non faceva in tempo a chiedere nulla che si vedeva addosso una giacca
imbottita
di esplosivo che era sul punto di disintegrarlo.
Accadde
per
alcuni giorni e al mattino Watson si alzava con grandi cerchi alla
testa,
intontito, disturbato e scostante. I miglioramenti che Mary aveva
riscontrato
nel suo carattere stavano regredendo sicuramente a causa di quei sogni.
Era
difficile non accorgersene mentre dormivano assieme quando succedeva:
il
materasso sobbalzava, si udivano profondi sospiri e spesso John si
alzava per
andare a bere un
sorso d’acqua. Comprese
che non poteva andare così… lei stessa non poteva
vederlo autodistruggersi: gli
voleva troppo bene. Quanto meno voleva che le confessasse cosa lo
tormentasse
in quella maniera. Con tutta la sua amorevole determinazione, lo
pretese.
Cenarono
presso l’abitazione di lei, dove aveva preparato un paio di
candele e del buon
cibo per riscaldare l’atmosfera, renderla più
accogliente in attesa che potesse
cominciare ad introdurre l’argomento che le stava a cuore.
:
“ Dimmi,
va tutto bene?”
:
“ Tutto
perfetto! Davvero squisito, complimenti.” Rispose lui mentre
si puliva
soddisfatto la bocca con un tovagliolo.
:
“ Grazie!
Ma intendevo, in generale… stai bene?”
:
“ Sì,
perché?”
:
“ Ne sei
sicuro?”
:
“ Certo. –
John rimase perplesso da quell’insistenza e non comprese
inizialmente il motivo
di quell’inchiesta – Sicuro.”
:
“ Chiedevo
sai… ultimamente la notte ti alzi di frequente.
Così, preoccupata per la tua
salute, ho fatto un po’ di ricerca ed sono giunta ad alcune
diagnosi.”
Watson
rise, volendo quasi nascondere il nervosismo che stava nascendo dentro
se, in
quanto non comprese quanto stesse scherzando e quanto fosse seria. La
donna
estrasse un quaderno sul quale erano scritti alcuni nomi di disturbi,
John lo prese
e lesse ad alta voce: “ Insonnia, apnea notturna…
problemi alla prostata!? Mary
ma cos’è questo?”
:
“ Non
vedi? È un elenco. Se ti vergogni indicami pure con il dito
la risposta.”
:
“ Lo
scherzo è bello quando pura poco. Non mi pare
serio.”
:
“ Allora
vedi che c’è qualcosa che non va?”
:
“ Non ho
detto questo. – Protestò lui.
L’agitazione si fece palese e la trattenne a
stento – Dico solo che non si gioca su queste situazioni.
Sono gravi e
delicate.”
:
“ Ti
posso assicurare che non sto sottovalutando alcunché. Ad
essere onesti forse
sei tu che le stai ignorando.”
:
“ Non
credi di esagerare? Insomma… mi sarò alzato un
paio di volte e per questo devo
avere… che ne so, problemi alla prostata?!”
Esclamò John sotto pressione,
allontanandosi dal tavolo.
.
“ Perché
alzi la voce? Non ce c’è bisogno.”
Ribatté lei mantenendo il tono calmo ma
incisivo, seguendolo nel salottino.
:
“ Come si
fa? Perché inventarsi tutte queste cose assurde? Cosa ne sai
di me?!”
Quell’ultima
frase ferì Mary, la quale s’irrigidì e
il suo sguardo divenne per un momento di
gelo. Il suo interlocutore se ne accorse e rabbrividì:
probabilmente aveva esagerato.
Però in fin dei conti aveva
cominciato lei con quella stupidaggine della diagnosi!
:
“ Esatto.
Ma come faccio a conoscerti se mi eviti, se non mi parli?”
:
“ Cosa
vuoi che ti dica…?”
:
“ Per
esempio cosa sogni la notte, perché ultimamente sei distante
e nervoso, perché
da quella sera non facciamo più l’amore? Sono
io…? “
John
spalancò le pupille e si affrettò a rassicurarla:
“ Oh mio Dio, no no!
Assolutamente ! Non c’entri … cosa vai a pensare?
Quella notte fu fantastica,
te l’ho ripetuto. Sei meravigliosa…”
:
“ Allora
perché. Ho in testa troppi interrogativi senza risposta,
vedo che nascondi un
terribile segreto e non vuoi svelarlo sebbene ti stia facendo del male.
Ci
tengo a te e soffro nel vederti in questo stato. Non puoi lasciarmi
fuori dalla
tua vita così! Sono la tua ragazza… o mi
sbaglio?”
Mary con
quel gesto volle approfittarne per definire la loro relazione, in modo
tale da
spronare ulteriormente John… almeno era quello che sperava.
Se lui le avesse
detto che era solo un flirt, che non aveva intenzione di
impegnarsi… No, non
era possibile: Watson era troppo rispettoso per fare una cosa simile.
Nonostante questo non poteva esserne certa fino in fondo.
Sperò di non aver
rovinato tutto.
John
rimase
impietrito per alcuni secondi, ritrovandosi a riflettere:
cos’erano loro? Cosa
voleva da quella storia? Cosa stava facendo? E Sherlock…? Ma
cosa c’entrava
Holmes in quel momento?! Il medico scosse la testa, intontito da tutte
quelle
domande che lo stavano sommergendo in un oceano di incertezze.
:
“ John,
non è così?” Insistette ella,
preoccupata da quel silenzio e da quella
titubanza.
:
“ Ho
bisogno di pensarci…” Prese tempo, sentendosi
braccato.
:
“ Cosa
c’è da pensare? – Ribatté,
avvicinandosi a Watson – Lo si sente. Cosa provi
davanti a me, ora? Guardami negli occhi e dimmi la verità.
Ammettilo.” Seguitò,
afferrandogli il volto tra le mani e fissandolo intensamente.
:
“ Cosa?”
:
“ Che
vuoi stare con me.”
:
“ Ci
stiamo già…” Balbettò poco
convinto.
:
“ No, e
tu lo sai.”
:
“ Mary,
lasciami. “ Toccò con le proprie mani il dorso di
quelle di lei, però Morstan
aumentò la stretta e lo fece avvicinare alla parete fino a
metterlo letteralmente
con le spalle al muro. Si impaurì: faceva sul serio e
un’ombra minacciosa
oscurò il viso solitamente radioso.
:
“ Lo farò
se sarai onesto.”
:
“ Con voi
donne non si sa mai cosa fare. – Commentò
a mezza voce. Riprese vigore e si
sciolse da quella stretta – Per favore, adesso basta! Ti stai
comportando come
una bambina. Non pensavo che sarebbe stato così. ”
Dopo
quella
risposta la donna proferì amaramente: “ Allora
è vero. Ero solo un passatempo.
Ho capito, va bene. Potevi dirmelo prima: ti avrei risposto che non ero
interessata e mi sarei risparmiata questa conversazione penosa, questo
investimento di sentimenti per te. Ed io che credevo che ci tenevi,
invece se
domani scomparissi non ti importerebbe nulla! –
Si discostò disgustata e andò verso la finestra
che dava sul balcone. – Addio John.”
In
quelle
parole e in quella scena rivide nuovamente vivida la scena della
caduta. Ancora
indelebile, marchiata a fuoco. Istintivamente si lanciò
verso di lei, l’afferrò
per la vita e l’attrasse a sé verso il muro
esclamando: “ Sherlock!!”
Mary si
girò e lo guardò: “ Cosa?”
John la
sciolse dalle sue braccia, si tappò la bocca con le mani e
scivolò seduto,
rimanendo incollato alla parete. Ormai stava perdendo il controllo sul
proprio
corpo, in preda com’era ad un forte tremito, il respiro
strozzato lo faceva
sobbalzare in singhiozzi trattenuti senza lacrime. Pareva
sull’orlo di una
crisi di nervi.
L’infermiera
si allarmò e gli si inginocchiò davanti,
esattamente nella stessa posizione in
cui l’aveva assistito la prima volta: “ Dio
mio… stai bene? John dimmi
qualcosa! – Lui invece si coprì gli occhi e il
volto che si stava accartocciando
in un’espressione di dolore e disperazione – Mi
dispiace tanto, non volevo spaventarti…!
John…?” Più cercava di
farlo parlare
meno otteneva, in quanto era paralizzato dallo sgomento che si era
preso
all’idea che i suoi ossessionati ricordi prendessero corpo,
dall’imbarazzo di
essersi comportato in quella maniera davanti alla persona che gli
piaceva e
dall’aver pronunciato ad alta voce quel
nome. Non lo faceva da parecchio tempo.
Rimasero
lì
per alcuni secondi, fino a
quando Watson
non ritrovò la
forza di darsi un
contegno e si sollevò in piedi assieme a lei.
:
“
Scusami, scusami – Ripeteva con voce roca e bassa –
Sto bene, sto bene.”
:
“ Ti
preparo una bevanda calda, ok? Veni con me. Hai bisogno di
sederti.”
:
“ No no –
Rifiutò, confuso. Istintivamente volle fuggire, senza
guardare in faccia
nessuno e celarsi da Mary e da se medesimo. – Io…
devo andare.” Girò le chiavi
che c’erano nella toppa della porta lì accanto e
si scapicollò fuori
dall’appartamento mentre il richiamo della donna si faceva
sempre più lontana
con l’avanzare dei passi.
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Capitolo 4 *** Part 4 - You're not alone ***
THE
EMPTY HEART
PART
4 - YOU'RE NOT ALONE
Una
settimana. Un’intera settimana. Tre giorni, quattro potevano
essere
accettabili… ma una settimana era decisamente troppo.
Non aveva
sue notizie da quella sera. Forse
aveva esagerato nel cercare di spingerlo a confidarsi con lei,
però non aveva
avuto idee migliori sul momento per indurlo a parlare. La persuasione e
la
dolcezza non avrebbero sortito effetto; o forse lei stessa si era
scoperta
impaziente e frustrata da quella situazione: veder soffrire
l’uomo che amava e
non poter fare niente…! Amava? Aveva detto
“amava”? Sì, non c’era altro
nome
per descrivere il sentimento che la spingeva ad agire in quel modo. Era
successo tutto assai velocemente, eppure le era nato così
spontaneo e rapido
l’attaccamento per lui che aveva sorpreso sé
stessa. Riusciva quasi a vedersi
come in una foto, in un futuro sereno e tranquillo, in una casa tutta
per loro.
Quel sogno era talmente realistico che le pareva di toccarlo e accanto
a lei
vedeva solo lui: John Watson.
L’aveva
lasciato per troppo tempo con i suoi demoni e adesso doveva tornare in
azione,
salvarlo da qualsiasi cosa lo stesse tormentando. E se proprio la loro
relazione doveva finire, che almeno glielo dicesse in faccia in maniera
chiara.
Anche se non avrebbe permesso che accadesse, non senza lottare.
Mary gli
telefonò nuovamente ma rispose la segreteria. Per
l’infermiera fu una conferma.
Decise di recarsi direttamente sotto casa del dottore per affrontarlo
di
persona. Preavviso
o meno. Inoltre era
sabato sera, per cui se non l’avesse trovato presso la sua
dimora si sarebbe recata
in quei due locali che solitamente frequentava.
Una volta
davanti all’ingresso, citofonò. Non ebbe risposta.
Ripeté il gesto… ancora
nulla.
: “ John! –
Lo chiamò ad alta voce – Sono Mary! Lo so che ci
sei, per favore aprimi! John?”
Ancora silenzio. La donna vide le luci accese e di certo lui era
lì da qualche
parte.
: “ Ho
bisogno di parlarti… di vederti. Non è carino far
aspettare una signorina ahah!
“– Continuò provando a fare una battuta
per alleggerire la tensione che
percepiva. Non si mosse una foglia. Assunse allora un tono
più serio – “Sono
preoccupata per te. Non rispondi al telefono da quella sera…
Volevo chiederti
scusa. Perché non me lo permetti?”
Ebbe la
netta sensazione che in qualche modo la stesse ascoltando da dietro la
soglia che
li separava, quasi si stesse barricando. Mary seguitò con
emozione crescente: “
John Watson, apri questa porta! Se non lo farai… beh, io
resterò qui ad
aspettare, fosse anche per tutta la notte. Ne sarei capace, sai? Mi hai
sentito? Io rimango! Non ho intenzione di lasciarti solo,
perché tu non lo sei,
hai capito?! Non sei solo! Qualsiasi cosa ti stia succedendo
io…”
La frase le
si bloccò a mezz’aria in quanto vide spalancarsi
energicamente la porta e
dall’altro lato il dottor Watson stava ritto di fronte a lei,
talmente rigido
che pareva sul punto di spezzarsi.
Mary
trattenne il fiato per un attimo a quella vista. John era molto
pallido,
vestito come da lavoro ma trasandato, teso oltre ogni limite con le
labbra
strette in un’espressione lugubre e gli occhi lucidi. Con un
sussurro che
pareva l’eco dello schianto del suo cuore, le chiese:
“ Puoi ripetere?”
Lei inspirò
e affermò con sicura dolcezza: “ Io rimango. Non
sei solo.”
Watson
scrollò il capo, si morse il labbro inferiore e
guardò a terra, spostandosi leggermente
verso sinistra come per farle spazio. L’infermiera ne
interpretò la prossemica
ed entrò cautamente nell’abitazione fino ad
oltrepassare l’ingresso, il quale
fu poi richiuso da John.
Stettero
davanti uno all’altra, muti, in un’atmosfera tra
l’imbarazzante e il sospeso, i
loro respiri congelavano l’aria e invano entrambi tentavano
di trattenere
l’affanno che li faceva palpitare. D’un tratto Mary
ruppe quella bolla
insonorizzata: “ John…”
: “ Dillo
ancora.” Proferì lui, tenendo lo sguardo sempre in
basso. Ad osservarlo da
vicino, la bionda si accorse che il suo amato aveva cominciato a
tremare. Era
di certo sull’orlo di una crisi di nervi. Era giunto il
momento.
: “ Non sei
solo.”
Fu lì che
la compostezza di John andò letteralmente in frantumi. Erano
le parole che
voleva sentirsi dire. Da giorni viveva l’inferno nel cuore,
inutilmente si
reprimeva e cercava di negarlo. Stava annegando e le lacrime che gli
sorsero
dagli occhi erano solo la superficie di quell’oceano in
tempesta, frutto di lunghi
silenzi e notti inquiete.
Mary gli si
accostò e lo avvolse stretto nelle sue braccia tenendogli le
spalle sussultanti
mentre sussurrava: “ Sono qui, John. Non vado via. Non sei da
solo. Sono
qui...”
La stanza
echeggiò dei singhiozzi nascosti, attutiti dalla stoffa
degli abiti di lei,
soffici e caldi come la sua pelle.
: “ S-scusami
…” Balbettò ansimante intanto che
celava il volto nell’incavo della spalla di
Mary, vergognandosi di quello scoppio emotivo ma incapace di calmarsi
da solo.
Lei scosse
il capo e lo strinse più forte, rassicurandolo: “
No, no sssh… è tutto a posto.
Va tutto bene, John. Adesso sono qui.”
John non
riusciva più a smettere di tremare. Quelle parole
l’avevano fatto crollare
definitivamente: a lungo aveva cercato di trincerarsi innalzando un
filo
spinato attorno al dolore, senza capire che ne veniva ugualmente punto
e
grondava sangue. Le sue allucinazioni, i suoi incubi, la sua tristezza
e i
ricordi nostalgici lo stavano consumando e non sapeva, o meglio non
voleva,
chiedere aiuto. Sentire però il corpo di Mary, averla
vicino, suo angelo e
scoglio nella bufera del suo animo afflitto, gli aveva fatto toccare la
sua
disperazione e l’acqua melmosa che lo soffocava. Voleva
essere salvato.
Tutto
questo ovviamente non riuscì ad esprimerlo in maniera
così chiara, potendo
farfugliare frasi a metà nell’affanno del pianto
che gli rigava le guance
smunte e il respiro strozzato.
Nonostante
ciò lei intuì cosa stesse passando, lo comprese e
lo consolò facendo emergere
il suo lato protettivo: gli accarezzò la testa, i capelli
biondi e la schiena
scossa dai singulti.
Dopo
qualche momento, John si staccò dalla stretta mantenendo gli
occhi coperti con
una mano.
: “
Siediti, adesso. Hai l’aria distrutta. Ti porto un
po’ acqua.”
Si lasciò
condurre, stordito e atterrito dallo sfogo. Dopo aver bevuto assieme si
sedettero
sul divano: lui pallido come uno straccio e lei sbiancata dalla
preoccupazione nel
vederlo in quello stato.
: “ Mi
dispiace …” Sussurrò Mary osservandolo
di sott’occhi.
: “ No, non
devi. Anzi dispiace a me che tu abbia dovuto vedere… di
solito non mi lascio
andare … - Replicò con tono sommesso, faticando a
ricambiare lo sguardo.
Principiò a raccontare, abbandonandosi alla corrente di
pensieri che gli
uscirono dalla bocca spontaneamente – La verità
è che non sto bene. Sto
malissimo. Il mio migliore amico è… morto. Si
è suicidato mesi fa.”
Mary
allungò una mano per stringere la sua che stava visibilmente
tremando. Le stava
aprendo il cuore e comprese quanto fosse complicato per lui, eppure con
quel
tocco volle da un lato assicurarlo di essergli accanto e
dall’altro invitarlo a
proseguire.
: “ Si è
lanciato dal tetto del Saint Barts. Ero lì. Mi
telefonò e mi impose di
fissarlo. Mi salutò e si gettò.”
: “ Dio! È
terribile! … ma perché lo ha fatto?”
: “ Disse
che era un falso. Sai,
era un
investigatore privato famoso in città ma la sua reputazione
fu messa in
discussione. Sono sicuro sia stato un piano architettato dal suo
acerrimo
nemico…”
: “ Un
acerrimo nemico?” Ripeté ella.
: “ Pare
assurdo però esisteva davvero. Ho rischiato di essere ucciso
da lui almeno in
un paio di occasioni.”
: “
Oddio…!” – Esclamò
Mary – “ Un attimo…
il Barts? Ma è il luogo dove ti ho conosciuto, quando sei
svenuto!”
Egli annuì,
dicendole che fu proprio quel luogo a farlo stare così male:
“Era un uomo
straordinario. La sua vita non era comune ed io ho avuto la fortuna di
stargli
accanto come assistente. Era pericoloso, eccitante,
intrigante… mi sentivo
vivo. Se non ci fosse stato lui non mi sarei mai riadattato dopo la
guerra in
Afghanistan.” – La donna annuì,
sorridendo – “Vado ancora a trovarlo, alla sua
tomba. Continuo a pensare che tornerà, che
apparirà da dietro un albero, un
palazzo o sa Dio dove. Lui era coraggioso, leale, brillante…
anche un
egocentrico bastardo insensibile e sociopatico. Ma era il mio
unico… amico” La
voce fu spezzata, come se una scheggia l’avesse iniziata a tormentare. Le lacrime
che avrebbe voluto
cancellare riemersero dagli occhi con prepotenza.
: “ Ero
così solo… non puoi immaginare quanto. I fantasmi
della guerra, il senso di
vuoto… tutto è tornato da quando lui
è… non riesco a…”
L’emozione si impossessò
nuovamente del suo corpo e lo tenne prigioniero con le catene dei
ricordi,
interrompendolo. Morstan allora capì che l’unica
cosa che poteva fare era
abbracciarlo ancora, più forte, fargli sentire che in quella
tormenta di
emozioni c’era un posto sicuro: l’amore, e la pace
sarebbe tornata presto nel
suo cuore. John si lasciò afferrare e quasi cullare. Era un
collasso nervoso
potente che non gli accadeva dai tempi del post trauma dalla guerra.
I loro corpi
di unirono in quella stretta, sprigionando un gentile calore protettivo
e
consolatorio che avvolse John, facendolo sentire per la prima volta
dopo mesi
di arrovellamenti al sicuro dalla sua stessa mente crudele, che gli
riproponeva
nei sogni o in allucinazioni ricordi dolorosi: “ Va
meglio?”
Watson
annuì a bocca chiusa, così si sciolsero e si
fissarono negli occhi. Con sua
sorpresa, il medico notò che anche le pupille della sua
ragazza erano lucide e
alcune goccioline le avevano rigato le guance : “ Oh
Mary…” E con le dita le
volle asciugare le lacrime.
: “ Non ti
preoccupare, mi sono solo commossa. “– Si ricompose
velocemente e gli domandò –
“ Quindi è questo che mi tenevi nascosto. Il tuo
grande segreto…”
John
ridacchiò, volendo allentare la tensione: “
Già. Purtroppo non ho chissà quali scheletri
nell’armadio. La mia vita era monotona e piatta. Con la
scomparsa di… Sherlock,
“ - Quel nome lo articolò con una gran fatica,
avvertendone il peso che
comportava nel pronunciarlo ad alta voce – “
era crollata ogni cosa. Poi ti ho incontrata
quel giorno e mi sembrava di avere ancora una speranza.”
: “ C’è
sempre speranza, una seconda possibilità di tornare a
vivere… ad amare. Sembra
impossibile, si è schiacciati dal dolore della perdita
però piano piano si
torna a respirare. Ti comprendo bene, più di quanto
immagini. L’unica cosa che
mi addolora è l’averti visto soffrire per
così tanto tempo senza saperne il
motivo. Questa me la paghi, dottor Watson: mi hai fatto veramente
preoccupare!
“– Ribatté celiando, poi seguitando con
intenzione – “Temevo che potessi cadere
in un baratro di depressione, non volevo perderti… e non
voglio. Ci tengo
troppo a te. “
: “ Lo so.
Mi dispiace tanto. Dico sul serio. Non volevo ma… era
più forte di me. Faccio
ancora fatica a pronunciare il suo nome. Come se una parte di me fosse
morta
con lui quel maledetto giorno. Non so quando, se mi passerà
mai… Sono
impegnativo, me ne rendo conto, e se vuoi lasciarmi per questo lo
capisco e non
ti biasimo affatto…”
: “ Aspetta
aspetta – Lo interruppe – Pensi sul serio che ti
possa lasciare? Dopo avermi
detto questo?”
: “ Sarebbe
logico. Sono un uomo distrutto, Mary. Vuoi stare davvero accanto a un
rottame
del genere?”
: “ Beh,
parlandomi così non fai altro che attirarmi ancora di
più. Quello che ho detto
prima lo pensavo davvero: io rimango. Ok che ancora non ci conosciamo
da molto
però sento qualcosa e ….”
: “
Potrebbe essere per caso amore?”
Mary
sorrise ambigua, celiando: “ Un po’ presto per
dirlo ma credo siamo sulla
strada buona.”
: “ Mi
conosci così bene. Sono come un libro aperto per te. Da una
parte mi spaventa.”
: “ Perché?
Sai che adoro leggere.”
: “ Vero.” –
Finalmente sorrise anche John, notando la prontezza della risposta.
Seguitò poi
– “
Perdonami se ti ho fatto tanto
allarmare. A questo punto siamo a quota tre.”
: “ Tre?”
: “ La
terza volta che mi salvi la vita.”
Trascorsero
tre mesi dopo quel chiarimento, durante i quali la loro conoscenza e il
loro
affetto s’intensificarono a tal punto che avevano fisicamente
bisogno di vivere
assieme. Nessuno dei due poteva tollerare oltre di essere in due case
separate,
darsi la buonanotte solo attraverso il cellulare e aspettare il giorno
seguente
per vedersi. John in particolare, dovendo ancora metabolizzare
l’uragano di
sentimenti che portava dentro, sentiva quella necessità. La
notte, quando le
immagini terribili del suo inconscio tornavano prepotenti, aveva la
sicurezza che
accanto aveva Mary, la cui forza gli era da esempio per affrontare il
proprio
dolore.
A lei non pesava
quel compito, sebbene comprendesse quanto fosse impegnativo: doveva
assisterlo
emotivamente ed era la tipologia di cura più difficile e
deliziosa al contempo.
Fu proprio lei, la signorina Morstan, ad invitare il dottor Watson a
vivere
assieme nel suo appartamento. Era piccolo e modesto però
sapeva che al suo amato
non importava il fasto di una bell’arredamento.
Lo stesso
giorno che gli fece la proposta, tornò presso la sua dimora
e decise di
iniziare subito a suddividere gli spazi affinché John
vedesse tutto pronto. Era
così eccitata ed energica che pareva una tortora super
indaffarata a creare il
suo nido d’amore. Nello scostare abiti, riposizionare i
mobili, nascondere in
scatole o profondi cassetti il suo disordine, mise mano anche alla
piccola
scrivania che utilizzava più che altro come
“appoggia tutto”. Tra le riviste
che comprava ogni tanto, giornali e libri, vide dei fogli racchiusi in
una
cartelletta blu. Vero… s’era dimenticata di aver
lasciato quel plico proprio lì
sotto! Fortuna che l’aveva ritrovato: sarebbero stati enormi
guai se John l’avesse
visto. Era in procinto di metterlo via insieme alle carte di cui voleva
disfarsi quando fu spinta dalla curiosità di rileggere il
contenuto di quei
fogli, così aprì la cartelletta bloccata da un
fermaglio ed iniziò a sfogliare:
c’erano delle foto, una serie di dati, stampe di un sito
internet dal titolo
spiritoso di “ La scienza della
deduzione”…
niente di particolarmente segreto, specialmente per quanto riguardava
il sito
(che era pubblico), tuttavia Watson sarebbe rimasto assai turbato alla
vista di
un intero album dedicato al suo miglior amico Sherlock Holmes in mano
alla sua
fidanzata. Avrebbe sollevato delle giuste domande alle quali era meglio
non
rispondere. Non poteva certo dirgli che, fin da quando erano cominciati
i primi
incubi, aveva fatto una piccola ricerca ed aveva scoperto della
presenza del
consulente investigativo, della sua influenza su John e della sua
tragica fine.
Aveva esagerato certamente, durante la litigata da lei orchestrata quella sera, quando aveva riproposto la
medesima
scena del suicidio, però era stata mossa dalle migliori
intenzioni. Lo aveva
fatto per comprendere cosa doveva affrontare e soprattutto come
relazionarsi
con il suo caro dottore su quell’argomento così
intimo per lui. Sì, intimo,
perché aveva compreso bene la profondità della
sofferenza dell’ex soldato e da
questo aveva facilmente dedotto dell’importanza della figura
di Sherlock, o
forse era il caso di chiamarlo “il fantasma” del
signor Holmes. Era abituata ad
ottenere informazioni in maniera rapida e segreta. Si sicuro
l’avrebbe perfino
convinto a portarla a visitare la sua tomba. Si capiscono molte cose
dal
monumento mortuario ed era intenzionata a conoscere quel misterioso
individuo,
seppur attraverso dei ricordi. Aveva una grande capacità
deduttiva e avrebbe
indagato in maniera discreta. In passato lo aveva fatto spesso e su ben
altre
questioni.
In fondo
non era necessario che John sapesse tutto su di lei… era
anche questo parte del
suo fascino, no? Sorridendo a quei pensieri, cominciò a
stracciare in frammenti
tutti i documenti contenuti nella raccolta e una volta ultimato li
chiuse in un
sacchetto e li gettò nella spazzatura, sapendo che
già la mattina sarebbero passati
a ritirarlo, incenerendo così ogni prova di quella sua
ricerca.
John non
avrebbe mai dovuto sapere.
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