THE EMPTY HEART

di Holy Hippolyta
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Part 1 : The Fall ***
Capitolo 2: *** Part 2: Phone Call ***
Capitolo 3: *** Part 3: The hole in the wall ***
Capitolo 4: *** Part 4 - You're not alone ***



Capitolo 1
*** Part 1 : The Fall ***


THE EMPTY HEART

 Part 1 :  The Fall  

 

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Come è possibile andare avanti a vivere quando i fili che fungono da sostegno sono stati recisi? Quando la fonte della propria forza s’è inaridita mentre quella della disperazione si rifocilla di nuove lacrime?

John aveva ritrovato il gusto della vita dopo l’esperienza devastante della guerra in Afghanistan. Si era riadattato ad un’esistenza civile… o meglio, ne aveva avuta una  straordinaria accanto a Sherlock e avere la consapevolezza che tutto fosse finito, che il suo migliore amico si fosse schiantato al suolo lanciandosi dal tetto di quel maledetto ospedale  era inaccettabile.

Vedeva ancora nitide quelle immagini, udiva la sua voce commossa e rotta dall’altro capo del telefono che lo faceva sussultare nella notte. Non riusciva più a dormire serenamente perché durante il sonno l’angoscia lo faceva arrovellare tra le lenzuola e lo destava di soprassalto in preda ai sudori freddi. Allora si alzava in piedi prendendosi la testa fra le mani e si recava in salotto o verso la camera da letto dell’investigatore, aspettandosi il suo sguardo acuto e tagliente che lo rimproverava: “ John, ti pare che stiamo giocando a nascondino? Almeno potevi invitare Mycroft: batterlo in qualcosa è più divertente di qualsiasi gioco.” Invece c’era un vuoto pesante, un eco silenzioso e terribile.

Gli pareva di impazzire: vedeva l’ombra alta del coinquilino, udiva un suo commento sprezzante, percepiva i suoi passi felpati. Era come vivere in una casa infestata dalla quale non poteva uscire, in quanto i fantasmi erano nella sua mente e nel suo cuore.

Si sentiva distrutto, defraudato, tradito e a coronare quei tremendi sentimenti c’erano la solitudine e la colpa, regine di quella sofferenza. Inoltre con  il passare del tempo aumentava sempre più la morsa che gli stringeva la gola, stretto da quelle pareti tappezzate e dalla moquette polverosa. Capì che per guarire da quella specie di claustrofobia doveva andarsene: non poteva più tollerare quell’ambiente pregno del suo odore e della sua assenza.

Cercò in fretta un’altra abitazione, possibilmente lontana da Baker Street, dal Saint Barts… credette che scappare fosse la soluzione. Si recò dalla signora Hudson e chiese lo scioglimento del contratto. Ella quasi se lo aspettava la mattina che se lo vide entrare in cucina con l’espressione seria che mascherava il dolore. Quello che non poteva immaginare era il lancinante male di vivere, o forse di sopravvivere, che torturava John e che lo avrebbe portato a interrompere perfino i rapporti. In fondo lei credeva di averlo compreso, invece era impossibile. E quella incapacità di empatia profonda fece infuriare interiormente il dottor Watson: parevano tutti così costernati quando nessuno aveva creduto a Sherlock, nessuno lo aveva aiutato in quel momento mentre lui… già, lui cosa aveva fatto? Non abbastanza, dato com’era andata a finire. Sì, era sicuro di questo. La sua punizione era stata inflitta da Sherlock stesso, facendolo assistere alla sua... Non riusciva nemmeno a dirlo.

Cambiare casa doveva essere un toccasana, invece scivolò sempre più inesorabilmente in un baratro di ricordi e rimpianti che lo inghiottivano come sabbie mobili. Restava bloccato a quel giorno uggioso, a quel momento, a quel corpo esanime.

I primi tempi aveva sbalzi d’umore che lo portavano dalla disperazione alla speranza che l’imprevedibile Sherlock Holmes fosse scampato miracolosamente alla morte. Probabilmente era un piano per ingannare quel folle di Moriarty… però troppe cose non quadravano, troppe le domande senza risposta.

Si consumava in quei pensieri, non riusciva nemmeno a piangere tanto s’era svuotato.

Aveva iniziato a dimagrire, a non avere più le energie per alzarsi la mattina. Si scavavano sotto le aride pupille i segni di notti insonni, quasi un germe che lo divorava dall’interno e gli faceva venire la nausea all’idea di mangiare. Poteva sembrare che continuasse a colpire il suo corpo e ad umiliarlo per espiare la sua colpa.

In quelle condizioni gli fu prolungato il periodo di ferie che s’era preso dal lavoro all’ambulatorio: aveva un aspetto pietoso. Gli offersero di farsi visitare ma, ovviamente, rifiutò. La sua claustrofobia si tramutò nel timore di farsi conoscere dagli altri e mostrare la sua debolezza, il suo panico e il suo dolore. Per ciò s’era barricato in casa, non faceva entrare alcuno se non un paio di conoscenze strette. Queste ed altre piccole ossessioni erano indizi del suo non accettare che la vita andasse avanti senza il suo compagno di avventure. Inoltre l’astio verso quelli che dovevano essere i suoi amici, primo fra tutti Mycroft, gli faceva bruciare  la pelle e rivoltare lo stomaco: erano stati i primi ad abbandonare Sherlock, ad accusarlo. Perché mai avrebbe dovuto vederli?

Usciva solamente per fare un poco di spesa, poi principiò a vagare per le vie con lo sguardo spento, l’aria trasandata che nemmeno Greg Lestrade l’avrebbe riconosciuto. Era talmente assorto nel suo mondo cupo che a volte non si accorgeva di che strade consumavano le suole delle sue scarpe.

In una di quelle solitarie passeggiate tra la folla anonima di Londra, si ritrovò davanti al fatidico ospedale. Era stato tradito perfino dalle sue gambe. Che schifo di mondo.

Alzò il capo e scrutò lentamente le mura ripide, le finestre a vetri e gli tornarono  flash della caduta in sequenze incalzanti.

Una voce.

Una figura scura che spalanca le braccia sul tetto.

: “Addio John.”

Un corpo che precipita.

: “ Sherlock!!”

Un cadavere livido e insanguinato.

Le vertigini, l’odore del sangue, le gambe molli e l’asfissia.

 

A John iniziò davvero a mancare l’aria, la testa era confusa e le gambe gli cedettero, cadendo prima in ginocchio e poi a terra. Proprio nel punto in cui Holmes era precipitato ormai mesi prima. Si accorse che i sintomi che avvertiva erano legati ad un inevitabile svenimento… eppure non volle attuare nessuna delle pratiche che conosceva. Desiderò solo sparire, immergersi nell’oscurità e in un silenzio sordo per non vedere, per non sentire più.  Si lasciò cadere.

Una piccola folla gli si fece intorno per capire cosa stesse succedendo. Tra di loro spiccò una persona vestita con una giacca rossa, la quale scansò i passanti in modo gentile ma deciso allo stesso tempo: “ Fate largo, per favore. Sono un’infermiera. – Si chinò su di lui, lo chiamò, scuotendogli una spalla e poi sfiorandogli una guancia – Signore?... Signore! Mi sente?”

John riaprì gli occhi per un attimo ma c’erano solo ombre sfuocate. La donna ordinò agli astanti di lasciargli spazio per respirare, in seguito lo afferrò da sotto le spalle e lo trascinò verso il muro dell’edificio facendogli appoggiare la schiena.

: “ Se volete essere d’aiuto, portatemi dell’acqua e qualcosa da mangiare.” Ed allungò una mano con alcune sterline che aveva preso dalla tasca ed un uomo lì vicino corse ad un bar.

: “ Ma cos’ha?” Domandò di ritorno con una bottiglietta di acqua minerale.

: “ Non è niente di grave, è solo una svenimento. Andate pure. – Lentamente i curiosi tornarono ad immergersi nei propri affari, dimentichi di quell’incidente. L’infermiera si volse nuovamente verso John e il suo tono cambiò, diventando rassicurante intanto che reggeva in una mano l’acqua destinata ad idratarlo – Stia tranquillo, va tutto bene. Respiri con calma e non si muova in maniera brusca.”

Finalmente la vista di John gli permise di scrutare il volto di colei che lo aveva soccorso. Era ovale, pulito, dai lineamenti graziosi e fini, poco trucco per far risaltare meglio gli occhi chiari e lucenti come un’acquamarina e le labbra rosee che si muovevano soavemente. I capelli biondi e corti riprendevano la chiarezza della carnagione e…

: “ Va meglio?” Gli chiese, interrompendo la sua contemplazione.

: “ Sì, grazie. Credo sia stata ipoglicemia.” Iniziò meccanicamente a tastarsi il polso, a toccarsi la fronte ed analizzare le sue funzioni vitali.

Rimasta perplessa per un attimo per quella pronta diagnosi e quei gesti, la donna proferì: “ Si figuri! È il mio dovere. Sono un’ infermiera. Mi chiamo Mary Morstan.”

: “ Dottor John Watson.”

: “ Lei … è un dottore?!” Esclamò trattenendo il contraccolpo. Appoggiò financo le mani sul cemento per darsi equilibrio mentre era inginocchiata davanti a lui.

: “ Non si direbbe, vero?” Sogghignò amaramente,  burlando sé stesso. In quelle condizioni cos’altro poteva dire? Indifeso, malmesso sotto ogni aspetto, seduto per terra. Una condizione patetica.

: “ No, no… intendevo solo…  - Mortan intuì dal tono di voce quali fossero i suoi pensieri e cercò le parole per farsi intendere e toglierlo dall’ imbarazzo – Conosce le strategie per proteggersi durante uno svenimento. Perché si è lasciato andare così? Poteva farsi male!”

: “ Diciamo che mi sono distratto.  Grazie per l’aiuto. Devo andare. Arrivederci.” Tagliò corto Watson, incupendosi. Voleva andarsene via al più presto, far finta che non fosse successo niente e chiudersi in casa. Fece leva sulle gambe per rizzarsi ma barcollò. Mary lo afferrò al volo, sorreggendolo.

: “ Aspetti, ancora non riesce a stare in piedi. Lasci che l’aiuti.”

: “ Ce la faccio.”

: “ A me non sembra proprio. – Aumentò la stretta attorno alle braccia, dimostrandosi irremovibile nel suo proposito – Permetta che l’accompagni a casa.”

John la guardò con aria sospetta e perplessa, storcendo anche un poco il naso davanti a quell’insolita disponibilità.

: “ Non si preoccupi, non ho intenzione di derubarla. Se avessi voluto l’avrei fatto mentre era svenuto.”

: “ Davanti a tutta quella gente?”

: “ Se fossi stata abile non si sarebbe accorto nessuno, non crede?”

: “ Sarebbe stato difficile anche per un esperto trovare il mio portafoglio.” Ed estrasse da una tasca interna un astuccino  legato con una catenella ad un bottone.

I due si guardarono fissi e scoppiarono in un’unisona risata, divertiti da  quello scambio di ipotesi su un eventuale furto, facendo dell’ironia forse un po’ sconveniente.

: “ Va bene, grazie.” S’arrese infine John, accettando l’offerta dell’infermiera.

: “ Aspetti qui, cerco un taxi.”

 

: “ Dove andiamo?” Chiese il tassista alzando gli occhi allo specchietto retrovisore, osservando i due clienti che lo avevano fermato: una donna dall’aria intrigante e un individuo malconcio, poco adatto a starle di fianco.

: “ 221B di Baker Street. – Rispose prontamente John, senza riflettere  - No no… ho sbagliato.” Scosse il capo e prontamente corresse l’indirizzo al suo attuale domicilio.

Un lapsus che solo lui poteva comprendere. Aveva ancora molta nostalgia dell’appartamento a Baker Street, della vita che aveva condotto lì… soprattutto gli mancava Sherlock. Quel pazzo egocentrico e saccente.  Provò una ventata di tormento e dolcezza ricordando quegli occhi magnetici e inquietanti. Per scacciare via quell’immagine si massaggiò la fronte fingendo di guardare oltre il finestrino.

Mary osservava discretamente con la sua pupilla celeste e pura quell’uomo misterioso che le stava affianco nel taxi. Era visibilmente devastato… un professionista probabilmente caduto in disgrazia. La mente fantasiosa di lei immaginò quale poteva essere la vita di John Watson, medico con un doloroso segreto.

Giunti davanti alla porta grigia della casa dell’ex assistente di Sherlock Holmes, tra i due estranei ci fu un momento di silenzio ed imbarazzo. Fu John a prendere la parola per primo: “ Sono arrivato. Tenga! – Pagò il tassista per rivolgersi infine a Morstan – Grazie di tutto.”

: “ Di nulla. Io userò ancora la vettura… Sa, ho un impegno. Prenda: in caso di bisogno lo usi. E si riposi, mi raccomando!”

John sorrise con noncuranza e prese il foglietto ripiegato che gli porgeva. Mary lo salutò, chiuse la portiera dell’auto, dando nuove indicazioni per chissà quale meta, e sfrecciò via.

Watson infilò le chiavi nella serratura ed entrò in casa, trovando il suo rifugio da quella bizzarra situazione con una sconosciuta. Si lasciò accogliere dal divano e strinse al petto un cuscino. Fissò il soffitto bianco e su di esso  vi dipinse il viso della donna che l’aveva soccorso provvidenzialmente, quasi fosse stata un angelo. Sul momento non ci aveva fatto caso, però quella fisionomia gentile e rassicurante lo aveva calmato dal suo stato di smarrimento come un’onda che azzera le increspature della spiaggia. Un’apparizione fugace che non avrebbe mai più rivisto. Era stato impreparato e il suo spirito intraprendente con le donne s’era ritirato per lasciare il posto alla malinconia. Forse non era stato un male, tutto sommato: era impossibile che una bellezza come lei fosse single. Era di certo felicemente fidanzata con una persona che l’aspettava per cenare assieme, che andava al cinema… chissà, magari appassionata di Cluedo.

Estrasse dalla tasca dei pantaloni il biglietto che gli aveva lasciato: sicuramente era il nome di un farmaco che…

Aprendolo scoprì che c’era scritta una serie di numeri: era il suo recapito telefonico! Gli aveva lasciato il suo numero. Che strano. Va bene che erano dello stesso ambiente lavorativo, che lei l’aveva aiutato ma… dare il proprio cellulare ad uno sconosciuto? Non doveva farsi tante domande ma nello stato in cui si trovava sarebbe stato attraente solo ai piccioni di Trafalgar Square.

Salvò il numero sul suo dispositivo e lo stette ad ammirare. Riflettendoci, più che attrazione doveva aver suscitato pietà. Questo era quello che avrebbe detto Sherlock se fosse stato lì. Quell’idea fece stizzire John che pose nervosamente lo smartphone sul tappetto, volendo con l’immaginazione allontanare anche l’infermiera.

Si addormentò sul divano, rannicchiato su di esso, in un sonno profondo e senza sogni.

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Capitolo 2
*** Part 2: Phone Call ***


THE EMPTY HEART

Part 2: Phone Call   

                

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: “ Pronto? “

Dopo tre squilli rispose senza guardare, con un atteggiamento svogliato mentre si girava sul divano, dove aveva dormito serenamente per qualche ora.

Non s’udì alcuna voce per cui si mise in posizione seduta e scostò un cuscino, non capendo bene cosa stesse succedendo.

: “ Pronto?” Ripeté, lasciandosi quasi vincere dalla tentazione di premere il tasto di fine comunicazione: probabilmente era una persona che aveva sbagliato numero e non sapeva cosa dire, oppure un centralinista ancora inesperto degli insulti che gli sarebbero stati inflitti per il suo essere scocciante. Quest’ultima ipotesi era molto plausibile, dato che si accorse che l’utente non era riconosciuto dal suo cellulare.

: “Salve… Mary? Mary Morstan…?” Era il timbro di un uomo.

: “ Sono io, chi parla?” Domandò, incupendosi e aggrottando le sopracciglia. Cominciò a lanciare sguardi sospetti alle finestre e negli angoli della stanza, come se sapesse che poteva esserci in agguato qualcuno.

: “ Sono il dottor Watson… John…” Seguitò con tono flebile, trascinato.

: “ Salve! – Sospirò alleggerita da un lato e sorpresa dall’altro. Era trascorsa una settimana da quando lo aveva incontrato. Temeva di essere stata un po’ troppo frettolosa nel dargli il suo recapito telefonico, idea rafforzata dal silenzio di lui. Eppure il suo istinto era stato irrefrenabile e aveva dovuto almeno provare –  Non m’aspettavo una sua chiamata… La sento un po’ male, tutto a posto?”

: “ Sì, certo. – Era molto più stringato ed asciutto della prima volta che lo aveva conosciuto. Mary si insospettì dai lunghi silenzi con cui John intervallava  brevi frasi. – Sono al parco. Oggi è una bella giornata. Sono fortunato.”

La conversazione aveva avuto un inizio strano non tanto per quel che veniva detto, quanto per la modalità con cui si parlava. Nonostante un po’ di imbarazzo che faceva balbettare Mary, volle continuare ad assecondarlo, sperando di strappargli un nuovo incontro.

: “ Vero! Io sono a casa, stavo riposando: mi sono presa alcuni giorni di ferie. Ne avevo accumulate ahah.”

: “ Oh… Mi dispiace.”

: “ Si figuri! In fondo le avevo lasciato il mio numero. Le sarà parso bizzarro, ammetto che non lo faccio mai però la volta scorsa l’ho vista in difficoltà e… John? – Domandò, sentendo dei versi incomprensibili dall’altro capo – La linea deve essere disturbata… John?”

: “ Mi scusi…  non credo di avere molto tempo. Volevo solo ringraziarla per settimana scorsa. È stata gentile.”

Mary rimase delusa sul momento, anche se non avrebbe dovuto: era un estraneo in fin dei conti! Vero che aveva spesso pensato a lui, al suo volto sbattuto, al suo sguardo abbattuto ed aveva fatto fatica a concentrarsi di recente. Aveva visto in Watson una bellezza che andava oltre quella inesistente che presentava in quell’occasione, aveva immaginato un buon cuore: infatti nessuno che non fosse stata una persona sensibile sarebbe stata in grado di apparire così dignitosa e pietosa allo stesso tempo in quello stato sofferente. Pensare che le sue speranze di poterlo rivedere fossero svanite le aveva causato amarezza… finalmente che aveva la possibilità di frequentare un uomo interessante!

: “ Capisco. Non si preoccupi. Sono lieta di averla aiutata. Mi auguro sia tutto a posto.”

: “ Certo… passerà tutto… presto… - Sussurrò John.  Poi fece un profondo respiro e seguitò gelido – Sa, molte persone lasciano un biglietto. Un mio amico mi suggerì di fare una telefonata.”

Quella frase era decisamente inquietante e fece rabbrividire Mary, che sobbalzò e si fece incalzante nella sua preoccupazione per quel discorso che forse si stava rivelando non così senza senso come supponeva: “ Cosa intende dire? – Udì un nuovo respiro, faticoso e grave quasi stesse per svenire. Il suo istinto tornò a prendere il comando del suo cervello –  Per favore, mi dica dove si trova, vengo da lei. Sta delirando.”

: “ No, sto bene… qui è così verde. Se mi sdraio qui penseranno che dorma… invece…”

: “ Mi ascolti, risponda la prego: in che parco si trova?”

Esitò e parve un’eternità: “ Regent Park.”

: “ Ok! Continui a parlare, metto la giacca ed esco! A cosa è vicino? Dottore?... Dottore!”

 

L’ultima cosa che aveva visto erano state le fronde degli alberi sopra di lui che ondeggiavano, creando giochi di luce con i raggi solari. La brezza li faceva fluttuare leggeri e il loro fruscio sembrava un canto malinconico che lo accompagnava al riposo su quella panchina fredda. Aveva vagato senza meta per diverse ore attorno alla zona di Baker Street senza mai avere il coraggio di andarvi. Rivedere la signora Hudson, sentire i suoi discorsi sentimentali e nostalgici, rivedere quelle stanze vuote sarebbe stato devastante per i suo nervi, che avevano subìto uno scossone di recente. Dopo il collasso davanti al Saint Barts, aveva accarezzato per giorni l’idea di raggiungere l’oblio dal quale Mary lo aveva sottratto. Si era spaventato in principio ma il desiderio di lasciarsi andare, oscurare i suoi rimorsi e ricordi diventava sempre più radicato tanto da essere una necessità il riprovare quell’esperienza di annullamento. Continuò a mangiare sempre meno, a dormire poco per timore di fare sogni e ad essere scontroso con chiunque. Prima di abbandonarsi del tutto avrebbe voluto telefonare alla gentile infermiera per ringraziarla dell’aiuto,  sebbene la stanchezza e il malore lo stessero privando di energie. Non ricordava molto bene però se lo aveva fatto davvero o lo aveva soltanto immaginato. Probabilmente era stata solo un’intenzione.

Il suono nuovo che colpì il suo orecchio era breve, acuto e meccanicamente continuato. Aprendo lentamente gli occhi un’ondata indistinta di bianco lo travolse e ci mise alcuni secondi prima di riacquistare fuoco e delineare i contorni del luogo in cui si trovava. Era all’interno di una stanza d’ospedale, una flebo collegata ad una vena violacea penzolava dall’asta in metallo posta accanto all’apparecchiatura per il controllo del battito cardiaco e delle funzioni vitali.  I valori erano bassi da quel che leggeva sul monitor.

Mentre si guardava attorno notò due figure che parlavano dietro la porta che dava accesso alle camere dei pazienti. Una di loro entrò: era un’infermiera.

: “ Mary…?” Fu la prima cosa che disse John appena vide la donna avvicinarsi al suo letto.

: “ No signor Watson, mi chiamo Jennifer Green, sono la sua dottoressa. Come si sente?”

Solo da pochi centimetri di distanza l’ex medico militare si accorse che la brunetta dai lunghi capelli lisci ed esile come un grissino non era la signorina Morstan. O signora? Non era quello il momento di chiederselo.

: “ Un po’ debole. “

: “ Normale. Ci vorrà qualche tempo per recuperare le forze. Ha rischiato un serio collasso, però non dovrebbero esserci ripercussioni sugli organi. La nostra dietologa le fornirà una regime alimentare adeguato.”

: “ Grazie, dottoressa.” Rispose distrattamente, azionando con il telecomando sotto il cuscino il tasto per alzare lo schienale.

: “ Se vuole parlare con la sua amica può farlo. È qui fuori in attesa. Pareva molto preoccupata ma lei immagina il protocollo non permetteva…”

: “ Si trova qui?” Ne rimase sorpreso: credeva di aver lavorato di fantasia!

: “ Non ha voluto lasciare il suo capezzale per nulla al mondo. È stata qui tutta la notte.”

Come aveva fatto a sapere che era lì? Soprattutto… come c’era finito in ospedale?

: “ La faccia entrare, per favore.”

Uscita Green  fece capolino Mary con il suo ciuffo biondo e gli occhi da tenero cerbiatto, che tratteneva la sua impazienza di poterlo vedere. Aveva il viso segnato dall’apprensione e a John parve così curioso che un estraneo potesse affezionarsi tanto rapidamente. Forse no, si corresse, non era poi assurdo… gli era successo in prima persona.

: “ Salve.  – Disse Morstan richiudendo la porta alle sue spalle – La dottoressa ha detto che si sente meglio e...”

: “ Grazie – La interruppe lui accompagnando le parole ad un gesto della mano – Mi dispiace di averla fatta preoccupare.”

: “ Possiamo darci del tu? Dopo la seconda volta che ti salvo penso di averlo meritato, no?” Soggiunse con un sorriso ironico per provare a risollevare lo spirito mentre prendeva una sedia e si collocava al lato del letto.

Joh impallidì: “ Seconda?!”

: “ Sì, ieri pomeriggio. Mi hai telefonato…”

: “ Ti ho telefonato?!” Esclamò John portandosi il palmo della mano sulla fronte in segno di stupore: non gli sovveniva niente del genere! Credeva di averlo sognato prima di svenire.

: “ Sicuro di non avere danni cerebrali?” Chiese lei tra il serio e il faceto.

: “ Scusami temo di non ricordare bene cosa sia accaduto nelle ultime ore. “

Dopo avergli riassunto della insolita chiamata, della corsa per raggiungerlo e dell’arrivo dell’ambulanza, concluse più seriamente : “ Hai rischiato grosso. Sei molto denutrito e non avevi abbastanza zuccheri nel sangue. Meno male che ti avevo raccomandato di curarti, eh?”

: “ Sono un po’ smemorato di recente. Perdonami se ti ho cercata… ero convinto di averlo solo pensato e non fatto realmente. Non avrei dovuto…”

: “ Beh, non ti dissi io di usarlo in caso di bisogno? Ascolta, io non ho alcun diritto di dirti cosa fare o non fare della tua vita. Sei uno che ho soccorso casualmente per strada… e poi al parco. Non so nemmeno cosa ti spinga a non mangiare però parlo da professionista a professionista: se continui così finirai per ucciderti.”  

John si morse il labbro superiore e scostò lo sguardo  non solo per evitare di vedere in faccia la donna ma soprattutto la situazione. Però non poteva continuare a negarlo e in quel momento ebbe una terribile illuminazione.

: “ Hai ragione…”

: “ Oh, questa non me l’aspettavo. In genere si tende a non dare retta agli estranei.”

: “ Intendo… forse io volevo… - La fissò e l’idea di contrarre quel bel viso in tristezza per l’affermazione che stava per pronunciare lo fece desistere dal suo proposito – Volevo esagerare con la dieta. Ho imparato la lezione.”

Mary rise leggermente: “ Mai diete fai da te. Questa è la prima regola! Anche io feci questo errore in passato, fortuna che mi hanno consigliato una specialista ed ho risolto. Adesso ci frequentiamo spesso! Meno male che ci sono gli amici, no?”

. “ Già…” Asserì poco convinto. Aveva involontariamente toccato un nervo scoperto.

: “ Tutto bene?”

: “ Sì, sì… mi sono distratto.”

: “ Se non sei troppo stanco potremmo fare qualcosa che ti riattivi la mente. Ho delle parole crociate con me.” Ed estrasse dalla borsa una biro ed un fascicoletto.

: “ Vai in giro con le parole crociate?”

: “ Certo! O un libro. Ultimamente ne sto leggendo uno un po’ corposo ed era troppo pesante da trasportare. Se non ti va io…”

: “ Mi farebbe piacere. Ma non voglio trattenerti. Insomma tuo marito…”

: “ Non ho un marito.”

: “ Allora il tuo ragazzo…”

: “ Non ho nemmeno quello. Non ho nessuno: posso disporre del tempo a mio piacimento. Piuttosto se non sono io che ti infastidisco. In fondo non mi conosci… e magari ti sta aspettando qualcuno.”

: “ Anch’io non ho nessuno. – Poi riferendosi  al cruciverba – Prima parola?”

Le si imporporarono le guance per la contentezza e lesse: “ Ok! Uno verticale….”

 

 

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Capitolo 3
*** Part 3: The hole in the wall ***


THE EMPTY HEART

Part 3: The hole in the wall



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Dopo un mese.

John e Mary iniziarono a frequentarsi: cinema, passeggiate, cene… si divertivano assieme, ridevano, condividevano molti interessi e quando tra i due c’erano delle opinioni diverse si ascoltavano e arricchivano la loro discussione. Anche se spesso era l’infermiera a spuntarla.

Stava nascendo un’armonia che li teneva legati a un filo dolcemente stretto e la rapidità con la quale quella fiamma s’era accesa preoccupava entrambi. John in particolare era bloccato.

La bramava, voleva che un po’ della sua luce entrasse in lui e lo sciogliesse dalle catene che si era autoimposto. Si volle convincere che Mary poteva essere la cura alla propria depressione. Aveva fatto molti passi avanti da quando l’aveva conosciuta: si era preoccupato di curarsi, aveva ripreso peso, il suo spirito aveva riscoperto la gioia, la spensieratezza (seppur momentanea)… e il desiderio.

Il suo cuore però era ancora vuoto, come l’appartamento che aveva abbandonato a Baker Street. Era affamato d’amore, il suo corpo fremeva di eccitazione al pensiero di possedere Mary e al contempo di paura. Avrebbe retto quel coinvolgimento? Avrebbe trovato l’appagamento che cercava? Se avesse deluso sia sé medesimo che lei? Troppe aspettative.

Si impose di non pensare e invece i fotogrammi della convivenza con Sherlock gli balenavano davanti agli occhi, intervallatati da fantasie sensuali di lui e Mary. C’era da impazzire.

Mary volle intraprendere il passo successivo per arrivare ad un altro livello della loro relazione e una sera, dopo un appuntamento terminato a casa del dottore, si fece coraggio utilizzando uno strategemma: “ Oh questa sera ho bevuto un po’ troppo. Non me la sento di guidare…”

La conclusione di quella frase rimasta sospesa era ovviamente una richiesta di restare a dormire da lui.

John deglutì, afferrando un bracciolo del divano sul quale erano seduti: ecco il momento. Si era fatta avanti. Perché allora era teso, quasi trattenendosi dal tremare? Lei gli si avvicinò suadente e cominciò a baciarlo prima delicata, poi appassionata. Lui  in principio volle lasciarsi trasportare dalla passione ma quando lei gli slacciò un paio di bottoni della camicia non trattenne le membra e sussultò.

: “ Tutto ok?” Gli domandò, interrompendosi.

: “ Sì “ Replicò incerto.

: “ John, se non vuoi farlo non siamo costretti.”

: “ No no Mary, io… lo voglio.”

Voleva abbattere la freddezza di cui si era circondato e sentiva che l’amore di Mary era un piccolo buco nel muro che si era costruito per soffrire in solitudine. Eppure qualcosa dentro di lui gli impediva di lasciarsi andare completamente, quasi non si meritasse quell’ebrezza. Forse c’era altro che gli impediva di essere felice…

Affondò le mani in quel lucente biondo, provò ad abbandonarsi a quell’amplesso in principio cauto e in seguito travolgente, ardente, tentando di ritrovare in esso quell’oblio in cui sperava di cadere per non patire gli inganni della sua mente. Parve riuscirci: avvertì distintamente crollare in sé, bacio dopo bacio, mattoni del lutto e frantumarsi. Il buco divenne una granata e in quei momenti scordò il dolore, i tentativi di farsi del male, il suicidio del suo migliore amico… esistevano solo lui e lei, uniti in un unico abbraccio di calore vitale, dalla passione. Il resto non esisteva più.

Fu da quella stessa notte però che cominciarono a raffigurarsi nel sogni strane immagini caotiche e bizzarre, dove Sherlock appariva in atteggiamenti inconsueti.

Una volta era in boxer, seduto sulla poltrona collocata curiosamente in un obitorio, intento a leggere un giornale mentre continuava a sanguinare, incurante di ciò. Un’altra ancora si trovavano a correre senza apparente motivo per strada quando all’improvviso uno strapiombo inghiottiva entrambi . Un’altra vedeva Moriarty e Holmes intenti a bere del thé assieme nell’appartamento di Baker Street, John non faceva in tempo a chiedere nulla che si vedeva addosso una giacca imbottita di esplosivo che era sul punto di disintegrarlo.

Accadde per alcuni giorni e al mattino Watson si alzava con grandi cerchi alla testa, intontito, disturbato e scostante. I miglioramenti che Mary aveva riscontrato nel suo carattere stavano regredendo sicuramente a causa di quei sogni. Era difficile non accorgersene mentre dormivano assieme quando succedeva: il materasso sobbalzava, si udivano profondi sospiri e spesso John si alzava per andare  a bere un sorso d’acqua. Comprese che non poteva andare così… lei stessa non poteva vederlo autodistruggersi: gli voleva troppo bene. Quanto meno voleva che le confessasse cosa lo tormentasse in quella maniera. Con tutta la sua amorevole determinazione, lo pretese.  

Cenarono presso l’abitazione di lei, dove aveva preparato un paio di candele e del buon cibo per riscaldare l’atmosfera, renderla più accogliente in attesa che potesse cominciare ad introdurre l’argomento che le stava a cuore.

: “ Dimmi, va tutto bene?”

: “ Tutto perfetto! Davvero squisito, complimenti.” Rispose lui mentre si puliva soddisfatto la bocca con un tovagliolo.

: “ Grazie! Ma intendevo, in generale… stai bene?”

: “ Sì, perché?”

: “ Ne sei sicuro?”

: “ Certo. – John rimase perplesso da quell’insistenza e non comprese inizialmente il motivo di quell’inchiesta – Sicuro.”

: “ Chiedevo sai… ultimamente la notte ti alzi di frequente. Così, preoccupata per la tua salute, ho fatto un po’ di ricerca ed sono giunta ad alcune diagnosi.”

Watson rise, volendo quasi nascondere il nervosismo che stava nascendo dentro se, in quanto non comprese quanto stesse scherzando e quanto fosse seria. La donna estrasse un quaderno sul quale erano scritti alcuni nomi di disturbi, John lo prese e lesse ad alta voce: “ Insonnia, apnea notturna… problemi alla prostata!? Mary ma cos’è questo?”

: “ Non vedi? È un elenco. Se ti vergogni indicami pure con il dito la risposta.”

: “ Lo scherzo è bello quando pura poco. Non mi pare serio.”

: “ Allora vedi che c’è qualcosa che non va?”

: “ Non ho detto questo. – Protestò lui. L’agitazione si fece palese e la trattenne a stento – Dico solo che non si gioca su queste situazioni. Sono gravi e delicate.”

: “ Ti posso assicurare che non sto sottovalutando alcunché. Ad essere onesti forse sei tu che le stai ignorando.”

: “ Non credi di esagerare? Insomma… mi sarò alzato un paio di volte e per questo devo avere… che ne so, problemi alla prostata?!” Esclamò John sotto pressione, allontanandosi dal tavolo.

. “ Perché alzi la voce? Non ce c’è bisogno.” Ribatté lei mantenendo il tono calmo ma incisivo, seguendolo nel salottino.

: “ Come si fa? Perché inventarsi tutte queste cose assurde? Cosa ne sai di me?!”

Quell’ultima frase ferì Mary, la quale s’irrigidì e il suo sguardo divenne per un momento di gelo. Il suo interlocutore se ne accorse e rabbrividì: probabilmente aveva  esagerato. Però in fin dei conti aveva cominciato lei con quella stupidaggine della diagnosi!

: “ Esatto. Ma come faccio a conoscerti se mi eviti, se non mi parli?”

: “ Cosa vuoi che ti dica…?”

: “ Per esempio cosa sogni la notte, perché ultimamente sei distante e nervoso, perché da quella sera non facciamo più l’amore? Sono io…? “

John spalancò le pupille e si affrettò a rassicurarla: “ Oh mio Dio, no no! Assolutamente ! Non c’entri … cosa vai a pensare? Quella notte fu fantastica, te l’ho ripetuto. Sei meravigliosa…”

: “ Allora perché. Ho in testa troppi interrogativi senza risposta, vedo che nascondi un terribile segreto e non vuoi svelarlo sebbene ti stia facendo del male. Ci tengo a te e soffro nel vederti in questo stato. Non puoi lasciarmi fuori dalla tua vita così! Sono la tua ragazza… o mi sbaglio?”

Mary con quel gesto volle approfittarne per definire la loro relazione, in modo tale da spronare ulteriormente John… almeno era quello che sperava. Se lui le avesse detto che era solo un flirt, che non aveva intenzione di impegnarsi… No, non era possibile: Watson era troppo rispettoso per fare una cosa simile. Nonostante questo non poteva esserne certa fino in fondo. Sperò di non aver rovinato tutto.

John rimase impietrito per alcuni secondi, ritrovandosi a riflettere: cos’erano loro? Cosa voleva da quella storia? Cosa stava facendo? E Sherlock…? Ma cosa c’entrava Holmes in quel momento?! Il medico scosse la testa, intontito da tutte quelle domande che lo stavano sommergendo in un oceano di incertezze.

: “ John, non è così?” Insistette ella, preoccupata da quel silenzio e da quella titubanza.

: “ Ho bisogno di pensarci…” Prese tempo, sentendosi braccato.

: “ Cosa c’è da pensare? – Ribatté, avvicinandosi a Watson – Lo si sente. Cosa provi davanti a me, ora? Guardami negli occhi e dimmi la verità. Ammettilo.” Seguitò, afferrandogli il volto tra le mani e fissandolo intensamente.

: “ Cosa?”

: “ Che vuoi stare con me.”

: “ Ci stiamo già…” Balbettò poco convinto.

: “ No, e tu lo sai.”

: “ Mary, lasciami. “ Toccò con le proprie mani il dorso di quelle di lei, però Morstan aumentò la stretta e lo fece avvicinare alla parete fino a metterlo letteralmente con le spalle al muro. Si impaurì: faceva sul serio e un’ombra minacciosa oscurò il viso solitamente radioso.

: “ Lo farò se sarai onesto.”

: “ Con voi donne non si sa mai cosa fare. –  Commentò a mezza voce. Riprese vigore e si sciolse da quella stretta – Per favore, adesso basta! Ti stai comportando come una bambina. Non pensavo che sarebbe stato così. ”

Dopo quella risposta la donna proferì amaramente: “ Allora è vero. Ero solo un passatempo. Ho capito, va bene. Potevi dirmelo prima: ti avrei risposto che non ero interessata e mi sarei risparmiata questa conversazione penosa, questo investimento di sentimenti per te. Ed io che credevo che ci tenevi, invece se domani scomparissi non ti importerebbe nulla!  – Si discostò disgustata e andò verso la finestra che dava sul balcone. – Addio John.”

In quelle parole e in quella scena rivide nuovamente vivida la scena della caduta. Ancora indelebile, marchiata a fuoco. Istintivamente si lanciò verso di lei, l’afferrò per la vita e l’attrasse a sé verso il muro esclamando: “ Sherlock!!”

Mary si girò e lo guardò: “ Cosa?”

John la sciolse dalle sue braccia, si tappò la bocca con le mani e scivolò seduto, rimanendo incollato alla parete. Ormai stava perdendo il controllo sul proprio corpo, in preda com’era ad un forte tremito, il respiro strozzato lo faceva sobbalzare in singhiozzi trattenuti senza lacrime. Pareva sull’orlo di una crisi di nervi.

L’infermiera si allarmò e gli si inginocchiò davanti, esattamente nella stessa posizione in cui l’aveva assistito la prima volta: “ Dio mio… stai bene? John dimmi qualcosa! – Lui invece si coprì gli occhi e il volto che si stava accartocciando in un’espressione di dolore e disperazione – Mi dispiace tanto, non volevo spaventarti…! John…?” Più cercava di  farlo parlare meno otteneva, in quanto era paralizzato dallo sgomento che si era preso all’idea che i suoi ossessionati ricordi prendessero corpo, dall’imbarazzo di essersi comportato in quella maniera davanti alla persona che gli piaceva e dall’aver pronunciato ad alta voce quel nome. Non lo faceva da parecchio tempo.

Rimasero lì per alcuni secondi, fino  a quando Watson non ritrovò  la forza di darsi un contegno e si sollevò in piedi assieme a lei.

: “ Scusami, scusami – Ripeteva con voce roca e bassa – Sto bene, sto bene.”

: “ Ti preparo una bevanda calda, ok? Veni con me. Hai bisogno di sederti.”

: “ No no – Rifiutò, confuso. Istintivamente volle fuggire, senza guardare in faccia nessuno e celarsi da Mary e da se medesimo. – Io… devo andare.” Girò le chiavi che c’erano nella toppa della porta lì accanto e si scapicollò fuori dall’appartamento mentre il richiamo della donna si faceva sempre più lontana con l’avanzare dei passi.

 

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Capitolo 4
*** Part 4 - You're not alone ***


THE EMPTY HEART

PART 4 - YOU'RE NOT ALONE

Una settimana. Un’intera settimana. Tre giorni, quattro potevano essere accettabili… ma una settimana era decisamente troppo.

Non aveva sue notizie da quella sera. Forse aveva esagerato nel cercare di spingerlo a confidarsi con lei, però non aveva avuto idee migliori sul momento per indurlo a parlare. La persuasione e la dolcezza non avrebbero sortito effetto; o forse lei stessa si era scoperta impaziente e frustrata da quella situazione: veder soffrire l’uomo che amava e non poter fare niente…! Amava? Aveva detto “amava”? Sì, non c’era altro nome per descrivere il sentimento che la spingeva ad agire in quel modo. Era successo tutto assai velocemente, eppure le era nato così spontaneo e rapido l’attaccamento per lui che aveva sorpreso sé stessa. Riusciva quasi a vedersi come in una foto, in un futuro sereno e tranquillo, in una casa tutta per loro. Quel sogno era talmente realistico che le pareva di toccarlo e accanto a lei vedeva solo lui: John Watson.

L’aveva lasciato per troppo tempo con i suoi demoni e adesso doveva tornare in azione, salvarlo da qualsiasi cosa lo stesse tormentando. E se proprio la loro relazione doveva finire, che almeno glielo dicesse in faccia in maniera chiara. Anche se non avrebbe permesso che accadesse, non senza lottare.

Mary gli telefonò nuovamente ma rispose la segreteria. Per l’infermiera fu una conferma. Decise di recarsi direttamente sotto casa del dottore per affrontarlo di persona.  Preavviso o meno. Inoltre era sabato sera, per cui se non l’avesse trovato presso la sua dimora si sarebbe recata in quei due locali che solitamente frequentava.

Una volta davanti all’ingresso, citofonò. Non ebbe risposta. Ripeté il gesto… ancora nulla.

: “ John! – Lo chiamò ad alta voce – Sono Mary! Lo so che ci sei, per favore aprimi! John?” Ancora silenzio. La donna vide le luci accese e di certo lui era lì da qualche parte.

: “ Ho bisogno di parlarti… di vederti. Non è carino far aspettare una signorina ahah! “– Continuò provando a fare una battuta per alleggerire la tensione che percepiva. Non si mosse una foglia. Assunse allora un tono più serio – “Sono preoccupata per te. Non rispondi al telefono da quella sera… Volevo chiederti scusa. Perché non me lo permetti?”

Ebbe la netta sensazione che in qualche modo la stesse ascoltando da dietro la soglia che li separava, quasi si stesse barricando. Mary seguitò con emozione crescente: “ John Watson, apri questa porta! Se non lo farai… beh, io resterò qui ad aspettare, fosse anche per tutta la notte. Ne sarei capace, sai? Mi hai sentito? Io rimango! Non ho intenzione di lasciarti solo, perché tu non lo sei, hai capito?! Non sei solo! Qualsiasi cosa ti stia succedendo io…”

La frase le si bloccò a mezz’aria in quanto vide spalancarsi energicamente la porta e dall’altro lato il dottor Watson stava ritto di fronte a lei, talmente rigido che pareva sul punto di spezzarsi.

Mary trattenne il fiato per un attimo a quella vista. John era molto pallido, vestito come da lavoro ma trasandato, teso oltre ogni limite con le labbra strette in un’espressione lugubre e gli occhi lucidi. Con un sussurro che pareva l’eco dello schianto del suo cuore, le chiese: “ Puoi ripetere?”

Lei inspirò e affermò con sicura dolcezza: “ Io rimango. Non sei solo.”

Watson scrollò il capo, si morse il labbro inferiore e guardò a terra, spostandosi leggermente verso sinistra come per farle spazio. L’infermiera ne interpretò la prossemica ed entrò cautamente nell’abitazione fino ad oltrepassare l’ingresso, il quale fu poi richiuso da John.

Stettero davanti uno all’altra, muti, in un’atmosfera tra l’imbarazzante e il sospeso, i loro respiri congelavano l’aria e invano entrambi tentavano di trattenere l’affanno che li faceva palpitare. D’un tratto Mary ruppe quella bolla insonorizzata: “ John…”

: “ Dillo ancora.” Proferì lui, tenendo lo sguardo sempre in basso. Ad osservarlo da vicino, la bionda si accorse che il suo amato aveva cominciato a tremare. Era di certo sull’orlo di una crisi di nervi. Era giunto il momento.

: “ Non sei solo.”

Fu lì che la compostezza di John andò letteralmente in frantumi. Erano le parole che voleva sentirsi dire. Da giorni viveva l’inferno nel cuore, inutilmente si reprimeva e cercava di negarlo. Stava annegando e le lacrime che gli sorsero dagli occhi erano solo la superficie di quell’oceano in tempesta, frutto di lunghi silenzi e notti inquiete.

Mary gli si accostò e lo avvolse stretto nelle sue braccia tenendogli le spalle sussultanti mentre sussurrava: “ Sono qui, John. Non vado via. Non sei da solo. Sono qui...”

La stanza echeggiò dei singhiozzi nascosti, attutiti dalla stoffa degli abiti di lei, soffici e caldi come la sua pelle.

: “ S-scusami …” Balbettò ansimante intanto che celava il volto nell’incavo della spalla di Mary, vergognandosi di quello scoppio emotivo ma incapace di calmarsi da solo.

Lei scosse il capo e lo strinse più forte, rassicurandolo: “ No, no sssh… è tutto a posto. Va tutto bene, John. Adesso sono qui.”

John non riusciva più a smettere di tremare. Quelle parole l’avevano fatto crollare definitivamente: a lungo aveva cercato di trincerarsi innalzando un filo spinato attorno al dolore, senza capire che ne veniva ugualmente punto e grondava sangue. Le sue allucinazioni, i suoi incubi, la sua tristezza e i ricordi nostalgici lo stavano consumando e non sapeva, o meglio non voleva, chiedere aiuto. Sentire però il corpo di Mary, averla vicino, suo angelo e scoglio nella bufera del suo animo afflitto, gli aveva fatto toccare la sua disperazione e l’acqua melmosa che lo soffocava. Voleva essere salvato.

Tutto questo ovviamente non riuscì ad esprimerlo in maniera così chiara, potendo farfugliare frasi a metà nell’affanno del pianto che gli rigava le guance smunte e il respiro strozzato.

Nonostante ciò lei intuì cosa stesse passando, lo comprese e lo consolò facendo emergere il suo lato protettivo: gli accarezzò la testa, i capelli biondi e la schiena scossa dai singulti.

Dopo qualche momento, John si staccò dalla stretta mantenendo gli occhi coperti con una mano.

: “ Siediti, adesso. Hai l’aria distrutta. Ti porto un po’ acqua.”

Si lasciò condurre, stordito e atterrito dallo sfogo. Dopo aver bevuto assieme si sedettero sul divano: lui pallido come uno straccio e lei sbiancata dalla preoccupazione nel vederlo in quello stato.

: “ Mi dispiace …” Sussurrò Mary osservandolo di sott’occhi.

: “ No, non devi. Anzi dispiace a me che tu abbia dovuto vedere… di solito non mi lascio andare … - Replicò con tono sommesso, faticando a ricambiare lo sguardo. Principiò a raccontare, abbandonandosi alla corrente di pensieri che gli uscirono dalla bocca spontaneamente – La verità è che non sto bene. Sto malissimo. Il mio migliore amico è… morto. Si è suicidato mesi fa.”

Mary allungò una mano per stringere la sua che stava visibilmente tremando. Le stava aprendo il cuore e comprese quanto fosse complicato per lui, eppure con quel tocco volle da un lato assicurarlo di essergli accanto e dall’altro invitarlo a proseguire.

: “ Si è lanciato dal tetto del Saint Barts. Ero lì. Mi telefonò e mi impose di fissarlo. Mi salutò e si gettò.”

: “ Dio! È terribile! … ma perché lo ha fatto?”

: “ Disse che era un falso.  Sai, era un investigatore privato famoso in città ma la sua reputazione fu messa in discussione. Sono sicuro sia stato un piano architettato dal suo acerrimo nemico…”

: “ Un acerrimo nemico?” Ripeté ella.

: “ Pare assurdo però esisteva davvero. Ho rischiato di essere ucciso da lui almeno in un paio di occasioni.”

: “ Oddio…!” –  Esclamò Mary – “ Un attimo… il Barts? Ma è il luogo dove ti ho conosciuto, quando sei svenuto!”  

Egli annuì, dicendole che fu proprio quel luogo a farlo stare così male: “Era un uomo straordinario. La sua vita non era comune ed io ho avuto la fortuna di stargli accanto come assistente. Era pericoloso, eccitante, intrigante… mi sentivo vivo. Se non ci fosse stato lui non mi sarei mai riadattato dopo la guerra in Afghanistan.” – La donna annuì, sorridendo – “Vado ancora a trovarlo, alla sua tomba. Continuo a pensare che tornerà, che apparirà da dietro un albero, un palazzo o sa Dio dove. Lui era coraggioso, leale, brillante… anche un egocentrico bastardo insensibile e sociopatico. Ma era il mio unico… amico” La voce fu spezzata, come se una scheggia l’avesse iniziata  a tormentare. Le lacrime che avrebbe voluto cancellare riemersero dagli occhi con prepotenza.

: “ Ero così solo… non puoi immaginare quanto. I fantasmi della guerra, il senso di vuoto… tutto è tornato da quando lui è… non riesco a…” L’emozione si impossessò nuovamente del suo corpo e lo tenne prigioniero con le catene dei ricordi, interrompendolo. Morstan allora capì che l’unica cosa che poteva fare era abbracciarlo ancora, più forte, fargli sentire che in quella tormenta di emozioni c’era un posto sicuro: l’amore, e la pace sarebbe tornata presto nel suo cuore. John si lasciò afferrare e quasi cullare. Era un collasso nervoso potente che non gli accadeva dai tempi del post trauma dalla guerra.

I loro corpi di unirono in quella stretta, sprigionando un gentile calore protettivo e consolatorio che avvolse John, facendolo sentire per la prima volta dopo mesi di arrovellamenti al sicuro dalla sua stessa mente crudele, che gli riproponeva nei sogni o in allucinazioni ricordi dolorosi: “ Va meglio?”

Watson annuì a bocca chiusa, così si sciolsero e si fissarono negli occhi. Con sua sorpresa, il medico notò che anche le pupille della sua ragazza erano lucide e alcune goccioline le avevano rigato le guance : “ Oh Mary…” E con le dita le volle asciugare le lacrime.

: “ Non ti preoccupare, mi sono solo commossa. “– Si ricompose velocemente e gli domandò – “ Quindi è questo che mi tenevi nascosto. Il tuo grande segreto…”

John ridacchiò, volendo allentare la tensione: “ Già. Purtroppo non ho chissà quali scheletri nell’armadio. La mia vita era monotona e piatta. Con la scomparsa di… Sherlock, “ - Quel nome lo articolò con una gran fatica, avvertendone il peso che comportava nel pronunciarlo ad alta voce –  “ era crollata ogni cosa. Poi ti ho incontrata quel giorno e mi sembrava di avere ancora una speranza.”

: “ C’è sempre speranza, una seconda possibilità di tornare a vivere… ad amare. Sembra impossibile, si è schiacciati dal dolore della perdita però piano piano si torna a respirare. Ti comprendo bene, più di quanto immagini. L’unica cosa che mi addolora è l’averti visto soffrire per così tanto tempo senza saperne il motivo. Questa me la paghi, dottor Watson: mi hai fatto veramente preoccupare! “– Ribatté celiando, poi seguitando con intenzione – “Temevo che potessi cadere in un baratro di depressione, non volevo perderti… e non voglio. Ci tengo troppo a te. “

: “ Lo so. Mi dispiace tanto. Dico sul serio. Non volevo ma… era più forte di me. Faccio ancora fatica a pronunciare il suo nome. Come se una parte di me fosse morta con lui quel maledetto giorno. Non so quando, se mi passerà mai… Sono impegnativo, me ne rendo conto, e se vuoi lasciarmi per questo lo capisco e non ti biasimo affatto…”

: “ Aspetta aspetta – Lo interruppe – Pensi sul serio che ti possa lasciare? Dopo avermi detto questo?”

: “ Sarebbe logico. Sono un uomo distrutto, Mary. Vuoi stare davvero accanto a un rottame del genere?”

: “ Beh, parlandomi così non fai altro che attirarmi ancora di più. Quello che ho detto prima lo pensavo davvero: io rimango. Ok che ancora non ci conosciamo da molto però sento qualcosa e ….”

: “ Potrebbe essere per caso amore?”

Mary sorrise ambigua, celiando: “ Un po’ presto per dirlo ma credo siamo sulla strada buona.”

: “ Mi conosci così bene. Sono come un libro aperto per te. Da una parte mi spaventa.”

: “ Perché? Sai che adoro leggere.”

: “ Vero.” – Finalmente sorrise anche John, notando la prontezza della risposta. Seguitò poi –  “ Perdonami se ti ho fatto tanto allarmare. A questo punto siamo a quota tre.”

: “ Tre?”

: “ La terza volta che mi salvi la vita.”

 

Trascorsero tre mesi dopo quel chiarimento, durante i quali la loro conoscenza e il loro affetto s’intensificarono a tal punto che avevano fisicamente bisogno di vivere assieme. Nessuno dei due poteva tollerare oltre di essere in due case separate, darsi la buonanotte solo attraverso il cellulare e aspettare il giorno seguente per vedersi. John in particolare, dovendo ancora metabolizzare l’uragano di sentimenti che portava dentro, sentiva quella necessità. La notte, quando le immagini terribili del suo inconscio tornavano prepotenti, aveva la sicurezza che accanto aveva Mary, la cui forza gli era da esempio per affrontare il proprio dolore.

A lei non pesava quel compito, sebbene comprendesse quanto fosse impegnativo: doveva assisterlo emotivamente ed era la tipologia di cura più difficile e deliziosa al contempo. Fu proprio lei, la signorina Morstan, ad invitare il dottor Watson a vivere assieme nel suo appartamento. Era piccolo e modesto però sapeva che al suo amato non importava il fasto di una bell’arredamento.

Lo stesso giorno che gli fece la proposta, tornò presso la sua dimora e decise di iniziare subito a suddividere gli spazi affinché John vedesse tutto pronto. Era così eccitata ed energica che pareva una tortora super indaffarata a creare il suo nido d’amore. Nello scostare abiti, riposizionare i mobili, nascondere in scatole o profondi cassetti il suo disordine, mise mano anche alla piccola scrivania che utilizzava più che altro come “appoggia tutto”. Tra le riviste che comprava ogni tanto, giornali e libri, vide dei fogli racchiusi in una cartelletta blu. Vero… s’era dimenticata di aver lasciato quel plico proprio lì sotto! Fortuna che l’aveva ritrovato: sarebbero stati enormi guai se John l’avesse visto. Era in procinto di metterlo via insieme alle carte di cui voleva disfarsi quando fu spinta dalla curiosità di rileggere il contenuto di quei fogli, così aprì la cartelletta bloccata da un fermaglio ed iniziò a sfogliare: c’erano delle foto, una serie di dati, stampe di un sito internet dal titolo spiritoso di “ La scienza della deduzione”… niente di particolarmente segreto, specialmente per quanto riguardava il sito (che era pubblico), tuttavia Watson sarebbe rimasto assai turbato alla vista di un intero album dedicato al suo miglior amico Sherlock Holmes in mano alla sua fidanzata. Avrebbe sollevato delle giuste domande alle quali era meglio non rispondere. Non poteva certo dirgli che, fin da quando erano cominciati i primi incubi, aveva fatto una piccola ricerca ed aveva scoperto della presenza del consulente investigativo, della sua influenza su John e della sua tragica fine. Aveva esagerato certamente, durante la litigata da lei orchestrata quella sera, quando aveva riproposto la medesima scena del suicidio, però era stata mossa dalle migliori intenzioni. Lo aveva fatto per comprendere cosa doveva affrontare e soprattutto come relazionarsi con il suo caro dottore su quell’argomento così intimo per lui. Sì, intimo, perché aveva compreso bene la profondità della sofferenza dell’ex soldato e da questo aveva facilmente dedotto dell’importanza della figura di Sherlock, o forse era il caso di chiamarlo “il fantasma” del signor Holmes. Era abituata ad ottenere informazioni in maniera rapida e segreta. Si sicuro l’avrebbe perfino convinto a portarla a visitare la sua tomba. Si capiscono molte cose dal monumento mortuario ed era intenzionata a conoscere quel misterioso individuo, seppur attraverso dei ricordi. Aveva una grande capacità deduttiva e avrebbe indagato in maniera discreta. In passato lo aveva fatto spesso e su ben altre questioni.

In fondo non era necessario che John sapesse tutto su di lei… era anche questo parte del suo fascino, no? Sorridendo a quei pensieri, cominciò a stracciare in frammenti tutti i documenti contenuti nella raccolta e una volta ultimato li chiuse in un sacchetto e li gettò nella spazzatura, sapendo che già la mattina sarebbero passati a ritirarlo, incenerendo così ogni prova di quella sua ricerca.

John non avrebbe mai dovuto sapere.

 

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