Stasi stagionale di crimsontriforce (/viewuser.php?uid=1320)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Vacanze estive ***
Capitolo 2: *** Vuoto d'autunno ***
Capitolo 3: *** Generale Inverno ***
Capitolo 4: *** Primavera incognita ***
Capitolo 1 *** Vacanze estive ***
Vacanze estive
Per la Quinta Disfida di Criticoni,
Faccia a Faccia, in cui verrò bellamente ownata da Julie sul
tema
delle quattro stagioni. Per la precisione: un racconto singolo su una
stagione o quattro capitoli/storie/parti che ne trattino una a testa,
lunghezza complessiva da 100 a 10000, divieto d'introspezione pura e
obbligo di un protagonista diverso a ogni parte.
Partendo da quest'ameno presupposto,
cioè l'ownata assicurata a cuor leggero, ho scritto
esattamente quel
che mi passava per la testa a tema (Riven e) quattro stagioni,
pensieri in libertà.
La prima ipotesi era fare un '100%
Riven' con Nelah, Catherine, Gehn e Straniero/a nell'arco di un anno.
Poi mi sono detta, “Nelah? Ma chi vuoi
prendere in giro?”
e...
(...e il tutto è diventato 45% Riven,
20% realMyst, 10% EoA, 10% Caverna, 15% libri, giusto per non far
torto a nessuno)
Disclaimer: Gli
avvenimenti narrati sono frutto di fantasia. Non intendo dare
rappresentazione veritiera del carattere delle persone descritte
né
offenderle in alcun modo. Se possibile, anzi, il tutto è da
intendersi come tributo di affettuosa stima.
Stasi stagionale
Vacanze estive
Il sogno aveva riconsegnato ad Atrus il
ricordo del lambire della risacca sui piedi nudi e della pelle
bagnata pizzicata dal vento. Il presente era ugualmente sospeso,
senza tempo come le estati di Myst, ma dominato
dall'oscurità
accogliente delle viscere della terra.
La sua mano scorreva sulle pagine,
tracciandovi parole che avevano ormai guadagnato vita e si
rincorrevano senza che dovesse prestar loro attenzione. Ogni momento
era identico e fermo.
Sentiva caldo.
Vedeva caldo. Senza che se ne
accorgesse, l'afa era calata sulla caverna, impossessandosene. Le
colonne in lontananza tremolavano come miraggi e le lampade, un tempo
salde, erano diventate lucciole evanescenti in una notte senza
stelle.
Fuori sarà estate, ragionò,
con quello che gli sembrò un ammirevole senso pratico.
Ricordava il
sole battere con insistenza sulla terra riarsa e immaginò il
suo
calore discendere per le ferite che le causava, giungendo in
profondità, sempre più in basso, segnando ogni
pietra,
rifrangendosi e amplificandosi all'infinito nei corridoi ricoperti
dal nara.
L'immagine si unì alle sue memorie più
lontane, in cui quello stesso calore scandiva le giornate seguendolo
in ogni luogo, senza tregua né rispetto per
l'intimità della casa.
La sua ferita nella terra, le sue
gallerie scavate
nella roccia (e ricoperte di dipinti e teli) non erano mai state
sufficienti a tenerlo lontano e nel pieno delle estati della sua
infanzia Atrus vi si era abbandonato per giorni interi, nel nulla,
rimandando ogni esperimento alla fresca chiarezza della sera.
Ricordava di aver rifuggito quel caldo
e l'inattività cui si accompagnava.
Si scoprì a desiderarli.
Chiuse il Libro di Riven. Si alzò,
vacillando per la stanchezza e l'oppressione crescente dell'aria.
Avanzando come un ubriaco attraversò la stanza,
aprì la porta e
uscì.
*
La barca,
pensò ossessivamente mentre i corridoi e i saloni vuoti di
K'veer si
aprivano al suo passaggio. La barca. Si
portò spesso una mano alla fronte, spalancando gli occhi
dietro alle
lenti ovali per assicurarsi di non cadere addormentato e perdere
tempo prezioso restando vittima di strani sogni. Doveva uscire, per
sentire anche solo un unico raggio di sole. Ma
la barca,
dov'è ormeggiata la barca?
*
La barca era dove
la ricordava – l'aveva sempre saputo, si disse afferrando la
cima,
ma di troppa certezza si fa peccato.
La condusse sul
lago con lente remate. L'acqua era immobile, sigillata da una cappa
di vapore, e brillava. Pulsava, sotto la superficie liscia. La sua
luce ambrata investiva lo scafo, il suo occupante, la Caverna.
È tornata!,
gioì in silenzio Atrus, che mai avrebbe sperato di poter
vedere il
lago tornare a vivere come doveva essere prima della Caduta, se non
più luminoso ancora. Sorridendo, fermò la barca.
Appoggiò una mano
a pelo dell'acqua, sentendola tiepida, e ad occhi chiusi
immaginò di
essere la minuscola alga che dava all'acqua il suo colore e la sua
luce: fu uno fra i milioni di microorganismi che popolavano
nuovamente D'ni, provò ognuno dei processi chimici che ne
scandivano
la vita. Gli sarebbe piaciuto poterli analizzare con i suoi
strumenti. Per il momento, si limitò a quella calma
comunione
immaginaria, senza riscontri scientifici ma così completa,
così
serena, e ne fu soddisfatto.
Una corrente prese
con sé l'imbarcazione e la sospinse verso la riva esterna.
Attraccò in
un molo dei quartieri bassi, si inoltrò fra le
macerie ancora
ricoperte di polvere giallastra e, a malincuore, lasciò al
lago ogni
speranza di vita. D'ni era morta da più di settant'anni: il
riflesso
di un giorno d'estate senza fine era
il suo giusto epilogo. Se c'era ristoro da
quell'immobilità,
come dal caldo, andava cercato nell'acqua e non altrove.
Atrus si sedette su
un masso crollato in mezzo alla strada e guardò comunque
avanti,
fiducioso, stringendo le palpebre per meglio penetrare la foschia.
*
Nei tunnel, gli sembrò di nuotare
contro una corrente viscosa che legava ogni movimento. Non era certo,
a tratti, di che
corridoio
stesse percorrendo, perché con la coda dell'occhio, quando
si
tergeva il sudore, vedeva rami di pietra intagliata intrecciarsi in
archi acuti alle sue spalle e i muri si ricoprivano talvolta di
volute e piccoli fiori verde rame e si sentiva ancora su K'veer, come
se avesse girato in circolo.
*
Ma anche quelli finirono e con ogni
rampa di gradini del Regahrotiwah
Atrus ritrovò l'aria e parte di sé.
Si fermò a sentire l'odore della
terra, ancora fievole, trasportato da lontano. Era un odore secco, di
casa. L'odore del deserto che tornava ad abbracciarlo.
Un cono di luce adornava gli ultimi
scalini prima dell'uscita.
La brutalità dei colori di superficie
lo colse di sorpresa: non li ricordava
così vibranti.
*
Discese il fianco del vulcano di corsa,
come un ragazzino, e si fermò ansimante ad appoggiarsi alla
leva del
generatore elettrico.
*
“Sei tornato, Atrus”, sentì una
voce al suo fianco. “Mi sei mancato così
tanto.”
E d'improvviso Anna gli era accanto,
piena di quella bellezza vitale che ricordava dall'infanzia.
Risplendeva al sole – lei, il suo sorriso, le perline cucite
in
forme d'alberi su una lunga veste rossa – e Atrus si
ritrovò, in
riverente silenzio, a domandarsi quale sciocchezza avesse avuto il
potere di tenerlo lontano così a lungo.
“Ha piovuto mentre eri via”, gli
disse ancora, aprendo le braccia in un estatico accenno di danza.
“Siamo stati visitati da un temporale. Vieni, nuotiamo: la
Fenditura è colma.”
Con la mente svuotata, attenta solo a
registrare ognuno di quegli attimi nella sua splendente
complessità,
Atrus fece un passo incerto nella sabbia e si trovò di
fronte al
bordo della Fenditura: casa. Guardò oltre la cresta di
roccia, verso
una memoria sommersa, ma era solo buio – e pieno di stelle.
Non si voltò indietro.
***
Atrus tremò, prima di aprire gli
occhi, e si strinse alla penna con l'urgenza di un naufrago –
seppur di un mare caldo ed invitante, eterno, nero come il cosmo e
punteggiato di luci.
Respirò a fondo nell'oscurità
familiare della sua prigione.
Aprì il Libro.
Un nuovo strappo, indisturbato, si era
allungato nel tessuto di Riven e presto, quando i sogni l'avessero
colto di nuovo o prima ancora, l'intera trama sarebbe sfuggita alle
sue mani intorpidite.
Quell'idea di caldo e calma, cullata in
seno a chissà che altri pensieri e liberata da una
stanchezza
atroce, si spense nel gelo della distruzione che lo osservava giorno
dopo giorno, in distaccata attesa, acquattata dietro ogni colonna e
in ogni ombra lunga di K'veer.
Ricominciò a scrivere.
In superficie, l'alba lasciò spazio a
un torrido giorno di giugno spazzato dai venti: stava arrivando
l'estate.
Nerdaggine & credits:
@ K'veer: un sentito grazie al fogging
di realMyst per l'impatto visivo.
@ timori per la barca: a parte
l'assonanza con quel picco di caratterizzazione che è who
had the
boat? I had the boat!
che però
non c'entra un piffero, mi è stato fatto notare che 'my
fandom is
full of failboats'. E in effetti... Stoneship, Myst Shipgate,
Haven... fatte tutte lui, eh.
Anche questo non c'entra un piffero, ma mi sentivo in dovere morale di
comunicare questa scoperta.
@ Regahrotiwah: t3h
effin' Great Shaft. Signor traduttore italiano, cordialmente?
Vaffanbagno. In fede, un roadrunner di passaggio. In mancanza
di
un termine italiano civile (che cos'è 'spaccatura', me lo
spiegate?
Sia di per sé, sia contando che ci sono anche Cleft e
Fissure in
lizza?), ripiego sul D'ni.
@ lunga veste rossa con motivi
vegetali: il complesso di Edipo non era voluto, parola di Giovane
Marmotta. Però in effetti è lì...
*pokes*
@ Cleft // Star Fissure: me ne assumo
ogni responsabilità. Ma mi sembra un parallelo
così bello e
significativo e soprattutto servito su un piatto d'argento!
@ distruzione che osserva: dopo la
bozza del Book of Atrus, su K'veer ci si può sentire
autorizzati ad
ogni figura retorica ardita, ivi inclusa la personificazione di
qualunque cosa. True fact!
Riassunto di dubbia utilità per
lettori di passaggio: Atrus è nato nel deserto ed
è stato cresciuto
dalla nonna Anna nella Fenditura, vicino all'entrata della
città
sotterranea di D'ni. Al momento (cinquant'anni dopo, a spanne)
è
imprigionato da mesi in una stanza/caverna murata in D'ni, obbligato
a scrivere continuamente sul Libro di Riven per evitare la
distruzione del mondo in esso descritto.
K'veer
(stanza) – K'veer
(corridoi) – D'ni
– Great
Shaft – in
superficie – la
Fenditura – la
Divina Provvidenza, in variante locale (qui vista dal dentro)
–
Atrus
– (per un'immagine di Anna s'ha da aspettare il film)
|
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Capitolo 2 *** Vuoto d'autunno ***
Vuoto d'autunno
Catherine osservava.
Era appoggiata ad uno dei denti di
pietra che punteggiavano la rupe, grigi come il cielo che turbinava
minacciando pioggia. Ai suoi piedi, il manto di felci aveva
già
assunto le cupe tonalità scarlatte autunnali .
Catherine osservava: non temeva né
riveriva le pietre, così come non temeva né
riveriva il seggio
nascosto nella cupola alla sua destra, da cui Gehn era solito
impartire le sue condanne a morte: giudizi di ordine divino quanto
lei.
A Catherine, quel giorno, tutto questo
non importava: la sua attenzione era fissa sul villaggio, arroccato
all'altro estremo della piccola laguna, e su tutte le immagini che
esso portava con sé. Le case della sua gente,
così costrette sulle
rocce, sembravano un pugno di noci bianche dell'albero del Kolnak,
gettato da mano indifferente in quell'angolo arido del mondo.
Ka-tran, facevano le noci quando
si staccavano dal ramo e cadevano a terra. Ka-tran.
Catherine le ricordava dalla sua
infanzia. Ma non c'erano più alberi del Kolnak su Riven, le
avevano
detto i suoi Moiety. Il decadimento delle isole li aveva portati
tutti con sé.
Non c'era più neanche Katran.
Sotto i teli neri da spettro, sotto le
collane, i ricami e le piume rituali, la donna di vedetta sulle rocce
era ragionevolmente certa che avrebbe trovato Catherine
al suo
posto. Ma non osava scostarli, né togliersi la maschera, per
timore
di scoprire che anche lei se n'era andata, smarrita nel vuoto del
Legame che l'aveva riportata in patria. Non voleva trovare altro nero
sotto quella stoffa, sbuffi d'ombra di un buio tranquillo e ottuso.
Si sentiva a disagio in quei panni.
Toccò la maschera che indossava, bianca e liscia come
l'immagine di
un morto e sormontata da due vetri spessi, che certo non proteggevano
gli occhi dal sole di un mondo morente, ma ne nascondevano il taglio
e lo spirito da sguardi indiscreti. Si era chiesta, indossandola per
la prima volta, che orrori avrebbe evocato in chi l'avesse vista da
lontano, rattristata al pensiero che la sua gente vivesse oppressa da
una rete di simboli falsi intessuta da Gehn, ma anche da loro stessi.
Non amava quello che infliggeva loro
mostrandosi; con sé si sentiva ridicola e, sempre, estranea.
E, se
anche si era abituata alla distanza della gente e di se stessa,
sentirsi una macchia nera sulle rive di casa era un peso nuovo.
Non sarebbe stata ugualmente nascosta
nel suo vestito rosso, una cosa sola col tappeto di felci ai suoi
piedi? Nessuno l'avrebbe vista, allora, salvo Riven, che avrebbe
infine riconosciuto la figlia tornata a porgerle l'ultimo saluto. O,
se qualche intrepido si fosse spinto nel profondo della foresta,
avrebbe visto solamente un fantasma: riflesso del passato, segno di
un tempo in cui l'isola era ancora unita e viva. “Chi
è questo
spirito”, si sarebbe chiesto allora, “che sa
danzare nell'autunno
di un mondo malato?”
Le prime gocce la portarono a cercare
riparo fra gli alberi. Discese con cautela la china rocciosa mentre,
sotto di lei, l'acqua della laguna si ingrossava fino a infrangersi
sui pontili e sfidava gli
sbocchi
d'aria calda in un contrasto
di spruzzi.
*
Era un mondo a parte quello sotto le
fronde, violato solo dal ronzio dei rari insetti ancora operosi.
L'aria era umida e pesante, ma la pioggia restava confinata al di
sopra del tetto di foglie. E c'era luce: fiochi lampioncini a segnare
la via con i loro aloni giallastri e più in basso, dove la
falda
acquifera a tratti affiorava in superficie, l'azzurro di funghi
luminescenti.
Catherine saltò giù dal bordo
arrotondato del sentiero e appoggiò la mano guantata sul
tronco
dell' albero più vicino. Immaginò, allungando il
braccio, di poter
toccare il punto in cui la corteccia lasciava il posto
al legno nudo e di accarezzare quella sofferenza.
L'albero era in attesa. Raccoglieva le
energie prevedendo il freddo.
La ferita era stata ordinata da Gehn:
aberrazioni simili non appartenevano ai suoi ricordi.
Un fungo vicino tracciava labirinti di
ombre blu sulle rughe della corteccia.
Nessun insetto si posava sulla parte
bianca.
C'era un significato in
quell'osservazione, ma Catherine non riusciva a vederlo con
chiarezza, come se osservasse il senso del mondo attraverso lenti
appannate. Sollevò gli occhialoni e si coprì gli
occhi con le mani,
respirando piano.
Riaprì gli occhi. Non era cambiato
nulla.
*
Già da quella mattina Catherine
sentiva i suoi pensieri distanti e deboli, ma era stata costretta a
nasconderlo, per non perdere il diritto a quell'uscita oltre che per
evitare che il piedistallo divino su cui la sua gente continuava a
spingerla s'incrostasse anche di inutili compatimenti.
Aveva bisogno almeno di rimanere una
donna, in ogni piccola cosa. L'essere madre le era stato strappato di
dosso troppo presto; cadendo, aveva spezzato tutti i ricordi cui era
legato. Come moglie poteva solo sperare, immaginare, dubitare: un
frutto marcio che teneva troppo stretto senza potervi fare
affidamento.
Rinsecchiva poco a poco, in attesa del
freddo.
*
Una scossa violenta del suolo e
Catherine si ritrovò con la schiena all'albero, mentre il
mondo si
tingeva di rossi.
Si smarrì nel turbinio delle foglie.
Stava cadendo tutto.
Tutto a terra e sui rami nulla.
Si lasciò cadere a terra anche lei.
Osservò una sagoma avvicinarsi oltre
il velo rosso. Restò a fissarla senza curiosità,
immobile, con la
maschera alzata.
“Bisogno?”, chiese la sagoma in un
D'ni fortemente accentato. Una voce maschile, profonda, che
rotolò
come un sasso nei cunicoli della sua memoria, rimbalzando, senza
creare echi nel loro vuoto ovattato.
“Alla malora... hai bisogno
d'aiuto?”, ripeté in Rivenese. “Sei
ferito?” Ma si irrigidì
quando vide chi stava soccorrendo: spirito maligno o pazzo ribelle,
nessuna fortuna attendeva chi s'intrattenesse con la sua schiatta.
Solo punizioni, per mano della natura o del loro dio.
Eppure quello spirito, o quel pazzo,
non l'aveva ancora colpito con i suoi dardi avvelenati e, al
contrario, restava a guardare attraverso di lui come se fosse fatto
di vetro. Aveva degli occhi, notò allora, che non erano i
globi
vacui dei fantasmi ma quelli tondi e scuri di una donna delle isole.
E, anche se lo sguardo era molto diverso, il bel taglio aggraziato lo
riportò a una memoria sepolta da trent'anni cui diede voce
con un
sussurro:
“Katran?”
Catherine alzò un braccio, tentando,
dal luogo vuoto in cui si trovava, di raggiungere quella persona che
in fondo a tutto aveva richiamato un'eco in lei.
In quel momento le scosse ripresero,
più violente di prima, fino ad aprire una spaccatura nel
terreno fra
loro che sembrò volerli ingoiare salvo poi fermarsi d'un
colpo, come
se qualcuno vi avesse messo un punto. L'uomo lottò per
rimanere in
piedi senza toglierle gli occhi di dosso, terrorizzato.
“Maleficio!”, la accusò,
gettandole un'ultima occhiata con cui avrebbe voluto comprenderla e
ritrovare la ragazza di un tempo, o almeno assicurarsi che fosse
davvero lei, ma non incontrò nulla e al villaggio
portò solo paura
e una nuova storia ad alimentare il fuoco dei loro miti.
Non era importante.
Catherine osservò l'acqua farsi strada
verso la nuova crepa e riempirla con la sua luminescenza lieve.
Infine scostò una foglia fra quelle
che le ricoprivano le gambe. Sotto era nero.
*
Nelah trovò la sua migliore amica
addormentata ai piedi di un albero spoglio, nel pieno dell'autunno.
Nerdaggine & credits:
@ riassunto: soggetti Catherine e
Riven.
@ scena iniziale: è nata dalla
necessità di piazzarla in un punto vicino alla foresta da
cui si
vedesse il villaggio, non dal voler mettere una 'Catherine' su una
'cima tempestosa', tuttavia...
@ felci rosse: le felci di Riven
all'inizio della stagione fredda (qui ragionevolmente adattata come
'autunno') diventano rosse perché lo dico io *incrocia le
dita e
spera tantissimo che il sciur Watson non abbia già tenuto
cattedra
in materia di flora rivenese*.
@ albero del Kolnak: inventato al 100%.
@ china rocciosa: quella cosa piena di
spunzoni che una persona un minimo più avventurosa del/la
signore/a
col ditino puntato potrebbe benissimo usare per salire e scendere dal
punto di osservazione in questione senza dover usare il pescensore
(wahrk elevator, sopportatemi)... né dover fare il ninja
issandosi con una
corda sul ponticello.
@ sbocchi d'aria calda: i buchi
nell'acqua! Se l'acqua rivenese provasse a schiantarcisi sopra
dovrebbe venire un bello spettacolino, credo.
@ falda acquifera: le polle di
dentifricio in realtà cosa ca...?
@ alberi scortecciati: al suo diario
posso solo dire BUONGIORNO CATHERINE SVEGLIA. “Vedo mezza
Riven
deforestata e il resto sfregiato. COSA FARA' MAI GEHN DI TUTTO QUESTO
BEL LEGNO? Stuzzicadenti? Orologi a cucù?
Sottobicchieri?” C'ha
bisogno della relyimah de noantri per capirlo, c'ha bisogno...
:facepalm:
@ frutto marcio: *s'incipria e si
prepara alla grande occasione* Mo' mi metto a fare una finta scenata
à la OssantoCIELOhoscrittocontroilmioOTPandallthat.
XD No, sul serio: dal modo in cui si citano nei diari mi sembra che
lui sia ovviamente molto propositivo, ma è quello col Libro
dalla
parte del pannello di collegamento, non so se mi spiego. Lei al
contrario sta (male) in una situazione (difficilissima) che non ha
modo di includerlo, con o senza il suo impegno. Me la vedo, col suo
piglio pratico, ad adattarsi alla situazione e cercare di concentrare
tutte le sue energie sul ricominciare, se necessario senza di lui.
Non può permettersi di languire in attesa di un salvataggio
in
grande stile da parte del suo principe azzurro (...asd). Nella sua
situazione, sarebbe letale.
@ omino del
mistero: tendenzialmente Enant, ma vedeteci un po' chi vi pare. :)
@ 'come se qualcuno ci avesse messo un
punto': See what I did there?
Riassunto di dubbia utilità per
lettori di passaggio: Katran è originaria del mondo isolano
di
Riven. Animo inquisitore, inquieto e sradicato, visitata da sogni e
da visioni, trent'anni dopo aver lasciato la patria vi si ritrova
imprigionata. Parte della sua gente si è unita in una
ribellione
(Moiety) contro il tiranno Gehn e guarda a lei come la dea che
potrà
liberarli. Nei suoi diari, l'accettazione di questo ruolo si unisce a
momenti in cui la coglie un senso di vuoto a metà fra il
delirio
febbrile e la botta di depressione. 'Catherine' è un errore
di
pronuncia di suo marito che lei col tempo fa suo e dà
l'impressione
di usarlo per marcare la differenza fra ciò che era e
ciò che è.
Punto
d'osservazione – vista
dal punto d'osservazione – divisa
Moiety – il
villaggio – la
foresta – una
frattura – Catherine
|
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Capitolo 3 *** Generale Inverno ***
Generale Inverno
Gehn non aveva scritto la neve, su 233.
Uscì al calare del vento. La porta del
laboratorio si chiuse alle sue spalle con uno schiocco secco: nel
silenzio, Gehn si preparò ad affrontare la cima rocciosa e
la
distesa viola tenue che la ricopriva.
In realtà, non aveva scritto molti
altri dettagli.
C'era il mare di notte, per esempio,
che non abbandonava il suo colore rosso ma scivolava in una
tonalità
calda e scura che consolava l'animo, come un buon vino.
O c'erano le creature che abitavano
quel mare, bestie tristi e pericolose, nate per resistere alla
corrosione dell'acqua che giorno dopo giorno distruggeva l'Era da
dentro.
Eppure quegli aspetti non lo
disturbavano. Erano, per lui, due cose assieme e non in contrasto:
rappresentavano sia gli spazi bianchi fra le righe del Libro,
naturale completamento della sua volontà per come l'aveva
descritta
(nemmeno a un dio, si diceva, si può richiedere attenzione
ad ogni
dettaglio), sia un tributo della creazione al suo creatore.
Affondò la pala nel soffice manto
lilla.
La neve no.
Gli inverni di 233 erano brevi e
frequenti, vicina com'era al suo sole debole.
Gehn non si era mai curato di studiarne
eclittica, asse e rivoluzione. Non gli importava di sapere quali
fossero le ragioni della rotazione stagionale di quell'Era di
appoggio, poco più di un rifugio temporaneo dalla barbarie.
Di
fatto, però, dopo un numero stabilito di giorni i nembi si
accalcavano sempre, minacciosi, in una spirale arroccata sul suo
arcipelago di rupi corrose e iniziavano a contestare il suo dominio
sul luogo. Lo osservavano lavorare, dall'alto. Trasportati dai venti
in forme ardite, gli negavano la pioggia fino al momento in cui
diventava un intralcio più che un aiuto e solo allora la
liberavano
tutta d'un tratto.
Non poteva lasciare che ghiacciasse.
Puntò il piede sulla pala e si fece forza.
La neve tornava sempre. Non sfuggiva,
non si organizzava, non imparava tattiche: tornava, in forze. E Gehn,
ogni numero prestabilito di giorni, difendeva l'intimità del
suo
studio e il suo diritto ad occupare quel suolo, come un dio giocato
dai suoi stessi poteri e costretto infine ad agire da uomo.
Oh, aveva provato a scacciarla con un
colpo di penna. Ma una volta scritta una temperatura più
accogliente
i mari si erano ritirati ad una velocità di cui nessuna
roccia
portava memoria ed era stato costretto a cancellare in tutta fretta
ogni traccia dello sgraziato intervento. Se avesse avuto accesso alle
opere dei maestri Scrittori del passato, certo avrebbe trovato parole
migliori per correggersi.
Se avesse avuto accesso alle opere dei
maestri Scrittori del passato, d'altronde, quel sasso inospitale
sarebbe stato l'ultimo dei suoi problemi, un numero dimenticato fra
tanti.
Riversò nel movimento meccanico delle
braccia l'ansia che lo attanagliava quando le sue riflessioni
puntavano, non richieste, in quella direzione.
Si controllò: doveva prestare
attenzione. La neve di 233 era acida come la sua acqua e non poteva
oltrepassare la protezione di guanti, tuta e stivali.
Il freddo però era più astuto.
S'infilava sotto i lacci più stretti, nel vuoto fra colletto
e
cappello. Gehn lo teneva a freno con lo sforzo, ma non appena si
fosse fermato quello avrebbe colpito, foss'anche stato già
sulla
soglia dello studio, senza lasciargli tempo di trovare rifugio nel
tepore di una stanza chiusa. Conosceva bene il freddo. Ad ogni
nevicata, ad ogni raffica di vento, ne veniva invaso ed era sempre
più difficile scrollarselo di dosso allungando semplicemente
le mani
verso la caldaia.
Ad ogni inverno, un pezzo di freddo
restava con lui. Da ben prima di aver messo piede su quell'Era
nemica, battuta dalle intemperie.
Così non si fermò alla prima fitta
alla schiena. Puntò la pala, la spinse col piede,
inarcò i muscoli
dolenti con meno forza di prima, gettò la neve poco lontano.
Puntò
di nuovo la pala.
Era una macchia bianca in un mare di
rossi e viola. Da solo, al di sopra di 233, al di sopra di Riven e
dei suoi selvaggi.
Non ricordava che i dolori l'avessero
raggiunto tanto presto, in passato. Per la precisione: ricordava che
non l'avessero fatto. Le braccia erano dure e stanche; la schiena
percorsa da solchi doloranti. Non era accaduto la prima volta in cui
si era ritrovato costretto ad imbracciare una pala.
Continuò a lavorare e a disprezzare il
terreno su cui poggiava i piedi e a difenderlo e a cercare una
ragione per la sconfitta delle sue ossa. Gehn era bravo a trovare
ragioni: ne aveva una per D'ni, una per l'Arte, una per sua madre,
mezza per suo figlio e molte altre accumulate in trent'anni di esilio
su Riven. Quella volta trovò il freddo.
Doveva essere il freddo. Gli
pesava sulle ossa e le rendeva fragili come ghiaccio. E lo
costringeva a letto. E gli toglieva la forza di alzarsi. Si reggeva
in piedi solo sui suoi progressi; nel caricarsi in spalla le
prospettive e le aspettative di cento secoli di civiltà si
sentiva
investito di un'urgenza potente che teneva cara al cuore. Era
riluttante a consegnare ai diari la bellezza di quel sentimento, per
timore che si unisse alla fila di delusioni che li segnava. Un tempo
ne sarebbe stato giustamente entusiasta. In allora, si limitava a
maledire i tradimenti e custodire tutto quel poco che gli era rimasto
di prezioso.
Perché presto – spalata – si
sarebbe liberato dalle ultime catene che lo imprigionavano su Riven.
Presto – spalata più forte – avrebbe
avuto un nuovo figlio, uno
che non fosse sordo al richiamo del sangue e di verità
profonde.
Presto – spalata – avrebbe ricostruito un nucleo di
Ere più
giusto e ugualmente l'avrebbe chiamato 'Nuovo inizio', D'ni,
nell'unica lingua degna di venir parlata. Presto. Spalata.
Aveva solo settant'anni: per la sua
razza, ancora nel fiore della giovinezza. E sua madre, sua madre non
aveva mai contato nulla. Doveva essere il freddo e non si sarebbe
fatto sconfiggere.
*
Il vento ululò attorno ai funghi di
pietra e in un attimo gli fu addosso, mettendo fine a quel momento
sospeso: l'Era si era rianimata e non tardava a ringhiargli contro.
Si ritirò nel suo rifugio.
*
Liberatosi dalle ingombranti
protezioni contro il freddo, Gehn mise a scaldare l'acqua per un
infuso. Il rumore del rudimentale bollitore era confortante; non
altrettanto lo stato delle sue scorte di erbe, decaduto al seguito di
quello delle isole da cui provenivano. Dosò con parsimonia
quello
che gli era rimasto e si rammaricò al pensiero che non
avrebbe più
donato ai suoi muscoli l'effetto calmante di un tempo.
Con la tazza stretta fra le
mani, Gehn percorse più volte la circonferenza del suo
studio. Vide
il sole uscire dalla coltre di nubi e tramontare sul mare ghiacciato.
La morsa stringeva tutti gli scogli dell'arcipelago, assottigliandosi
e infine scomparendo vicino alla linea dell'orizzonte.
Il ghiaccio gli dava una sensazione di
soffocante inutilità, di immobilità letale. Non
era quella
l'urgenza cui aspirava.
Lo sfiorò un parallelo con la sua
condizione – ed era un parallelo benevolo, perché
l'orizzonte è
poca cosa da raggiungere in confronto all'inizio di una
civiltà –
ma lo evitò con cura. Era bravo anche in quello.
Nel paesaggio rosso di 233, Gehn tornò
a vedere solo una distesa nemica. E un primo, nuovo fiocco di neve
scendere dal cielo.
Alla fine, la morale era sempre la
stessa: D'ni non aveva inverni.
Nerdaggine & credits:
@ neve viola: ...perché no? È in
tinta...
@ creature: c'è un forse-scheletro su
una roccia visibile da una finestra. Se anche quello fosse solo un
grosso sasso, nulla vieta che esistano bestie marine. Ah, ed
è stato
fatto notare che Gehn esce sempre armato.
@ tempistica: dal lab journal, sono
quattro anni secondo il calcolo D'ni da quando 233 è stata
scritta
fino agli eventi di gioco. Con una rivoluzione minore di quella
terrestre (perché lo dico io), sono... un tot di inverni.
@ età di Gehn: in-game non se ne cura,
ma rly? Atrus in Revelation ha la sua stessa età ed
è decisamente
più giovanile. Nelle generazioni successive la genetica fa
buffi
salti, ma per me una cosa è certa: come mezzosangue, lui
non
sarebbe arrivato ad un'età D'ni e nemmeno lì
vicino. Rendendo ancor
più tragiche le sue aspirazioni, se posso dire. Ah, settanta
perché... *conta con le dita e mostra orgogliosamente il
risultato
al(l'inesistente) pubblico* ...perché 19+circa20+circa30
sulle mie
dita fa circa70. ...no? Quel 20 è giusto così?
*si osserva le dita
pensierosa*
Riassunto di
dubbia utilità per lettori di passaggio: Gehn ha un solo
desiderio:
far rivivere la sua civiltà, D'ni, che custodiva il potere
di
scrivere mondi. Ne ha solo ricordi vaghi e idealizzati; non ha mai
accettato che fosse stata sua madre, terrestre, a causarne la caduta.
Quindi scrive mondi su mondi di cui si considera creatore e dio,
fallati perché non è capace, numerandoli, senza
concedere loro
nemmeno l'identità di un nome. Per ricostruire un impero da
un
milione di mondi però la strada è lunga... e per
di più suo figlio l'ha
bloccato da trent'anni rinchiudendolo nel mondo di Riven. 233
è il
suo primo passo verso la libertà.
233
flyby – vista
dallo studio – Gehn
– e
buon Natale, già che ci siamo... XD (Easter egg del gioco)
|
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Capitolo 4 *** Primavera incognita ***
Primavera incognita
All'arrivo su Myst
credette di stare sognando. Un colpo di sole, forse, e la stanchezza
accumulata, uniti al mistero di quel tomo scritto in una lingua
ignota.
Eppure l'isola era
lì, sotto i suoi piedi. Solida quanto la pietra su cui si
reggeva e
che spuntava a tratti dal prato come i resti fossili di un colosso
meccanico: colonne, ingranaggi, due edifici. Si fermò ad
inspirare
l'aria salmastra, fresca come si sente sulle isole al Nord;
bagnò un
singolo pavido dito nell'acqua che s'infrangeva sul molo. Quel luogo
era reale quanto il deserto che aveva lasciato solo minuti prima
–
o, se uno era sonno e l'altro veglia, non avrebbe saputo dire quale e
quale, e in che direzione conducesse il libro, e se quella fosse una
stazione di passaggio, una sorta di limbo privato per ogni essere
umano che fosse giunto al risveglio, lasciato il quale poteva
iniziare la vita vera.
Si rassegnò
quindi a vagare in un luogo senza tempo.
Le stanze erano
tonde e curate e prive di ogni vita; fuori, la torre dell'orologio
segnava un perenne mezzogiorno e non c'era motivo di credere che
potesse aver torto quella struttura semplice e solida verso cui
l'intera isola sembrava puntare in cerca di consiglio.
Nulla sembrava
rispondere al suo tocco, da leve che scattavano a vuoto a futili
mappe stellari, a figure astratte, porte cocciutamente chiuse, motori
spenti, due messaggi così rovinati provenienti da
chissà dove,
chissà chi. Erano mai esistite quelle persone, assieme alle
altre
due che, affannate, sembravano rincorrersi in un carosello
invisibile? O era un elaborato gioco, stabilito da dèi
beffardi in
tempi antichi e lasciato privo di una soluzione per
l'eternità?
Incessante, la
risacca andava e veniva sulla spiaggia di un mondo morto, abbandonato
dai suoi abitanti, dalla logica e infine dallo scorrere stesso dei
giorni.
*
Quando tornò
sull'Era, l'isola non era cambiata, ma il suo sguardo sì.
Passò un dito sul
bordo di un leggio, mentre ancora stringeva nervosamente la pagina
colorata: uno strato sottile di polvere.
“You've
returned...”
E all'esterno,
passeggiando un poco all'ombra rassicurante dei pini – prima
di
tornare, perché non sarebbe stato saggio sentire solo
metà della
storia – ecco d'improvviso il grido di un uccello marino e un
frullare d'ali. Volgendo l'occhio alla fonte del rumore,
avvicinandovisi, attendendo un nuovo fruscio a conferma della sua
posizione, riuscì a scorgere, ben nascosto fra le fronde, un
nido
pieno d'uova e la madre che vi si affaccendava. Nell'ammirarli vide
che gli alberi stessi custodivano un loro segreto, più
modesto e più
affine al carattere austero dell'isola: in fondo ai rami, gemme.
Il
cambiamento era possibile. Era parte dell'ordine delle cose anche in
quel mondo solitario e, in parte, sarebbe accaduto anche senza aiuti.
La parte rimanente... aveva bisogno di una piccola spinta.
L'avrebbe avuta.
Vide un sentiero
iniziare davanti a sé e si vide percorrerlo, tendendo la
mano a un
innocente, incontrando poi altri pellegrini per la strada, fra cui
quel padre scomparso e la sua moglie paziente, e così
gettando semi
di rinascita in fondo, forse, poteva già scorgere casa.
Sul suo taccuino
scrisse solo, per memoria e buon augurio: Primavera.
Nerdaggine &
credits:
@ riassunto: 'by
the Maker, or by the roll', yesyes?
@ POV: Straniero/a
generico/a con sospettato generico e percorso generico, come spero si
noti dalle capriole grammaticali. è_é La mia
sarebbe stata molto
più pragmatica, è una signorina di larghe vedute
e spalle
altrettanto! (e con questionabili gusti in fatto d'uomini, ma credo
che questo sia già stato trattato altrove.) (hint: sono
interpretati
dalla stessa persona) (...non David Ogden Stiers!)
@ Colossi su Myst:
mmmme piacerebbe! Un Colosso rende tutto migliore °=°
@ dèi beffardi &
co: non so dove stia scritto che un punto di vista ottocentesco dia
carta bianca con le metafore buffe, ma certo devo averlo letto da
qualche parte, perché continuo a farlo a spron battuto... il
'San
Giorgio e il drago' di Con resta imbattuto, però.
@ abbandonato
dalla logica: BESTEMMIAAAH! ...ma l'abbiamo pensato tutti prima o
poi, ve'? E ci siamo pentiti dei nostri peccati non appena trovata la
soluzione all'Infame Enigma di turno. Amen.
@ You've returned:
i due scassamaroni m'hanno fatto un solo favore in vita loro:
iniziare il secondo discorso nella stessa maniera, proprio quel che
serviva per tenere indefinite le scelte di questo buffo Straniero. Ah
sì, e anche dare un'ossatura di trama al mio gioco
preferito. Ma
quelli son dettagli.
@ tendendo una
mano a un innocente: soprattutto visto che Assassinio sull'Orient
Express non era ancora stato scritto, l'idea che i colpevoli siano
tutti non è la prima cosa che passa per
la mente alla gente,
eh! A quel punto della storia, per quel
punto di vista
c'è ancora un colpevole, un innocente e probabilmente un
morto
*tocca ferro*
@ semi di
rinascita & primavera: ...con tutti i migliori auguri. In
realtà
è un posto EMO abitato da gente EMO con un futuro EMO e
discendenza
EMO, ma non diciamolo troppo in giro e soprattutto non a chi
s'è
appena fatto un mazzo così a risolver quattro Ere,
poveraccio/a.
Riassunto di
dubbia utilità per lettori di passaggio: un generico 'tu'
senz'altre
caratteristiche che parlare inglese e trovarsi nel 1807 in un deserto
in New Mexico* trova un libro che lo trasporta in un altro mondo,
un'isola che sembra fuori dal tempo. Due fratelli sono imprigionati
in altri libri e si accusano a vicenda, chiedendo di essere liberati.
L'isola porta tracce della presenza passata di altre due persone,
tali Atrus e Catherine. In realtà risolvere l'intera baracca
potrebbe aver portato a
risultati dubbi dal punto di vista storico pan-dimensionale e
duecent'anni dopo certa gente
non ci andrà leggera nel classificare i signori in questione
come
falliti figli di falliti e genitori di falliti
e il luogo stesso come (brutto, cattivo, puzzone e) maledetto,
ma sul momento ci si sente fighissimi, davvero. °_°
Luogo
brutto,
cattivo,
antipatico,
puzzone,
maledetto
e
in brutta CG
*dev'essere questa
la famosa immedesimazione totale di cui parlano tanto analizzando
Myst: chi non è stato nel 1807 in un deserto in New Mexico,
in
fondo?
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