Stasi stagionale

di crimsontriforce
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Vacanze estive ***
Capitolo 2: *** Vuoto d'autunno ***
Capitolo 3: *** Generale Inverno ***
Capitolo 4: *** Primavera incognita ***



Capitolo 1
*** Vacanze estive ***


Vacanze estive
Per la Quinta Disfida di Criticoni, Faccia a Faccia, in cui verrò bellamente ownata da Julie sul tema delle quattro stagioni. Per la precisione: un racconto singolo su una stagione o quattro capitoli/storie/parti che ne trattino una a testa, lunghezza complessiva da 100 a 10000, divieto d'introspezione pura e obbligo di un protagonista diverso a ogni parte.
Partendo da quest'ameno presupposto, cioè l'ownata assicurata a cuor leggero, ho scritto esattamente quel che mi passava per la testa a tema (Riven e) quattro stagioni, pensieri in libertà.
La prima ipotesi era fare un '100% Riven' con Nelah, Catherine, Gehn e Straniero/a nell'arco di un anno. Poi mi sono detta, “Nelah? Ma chi vuoi prendere in giro?” e...
(...e il tutto è diventato 45% Riven, 20% realMyst, 10% EoA, 10% Caverna, 15% libri, giusto per non far torto a nessuno)


Disclaimer: Gli avvenimenti narrati sono frutto di fantasia. Non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere delle persone descritte né offenderle in alcun modo. Se possibile, anzi, il tutto è da intendersi come tributo di affettuosa stima.



Stasi stagionale







Vacanze estive






Il sogno aveva riconsegnato ad Atrus il ricordo del lambire della risacca sui piedi nudi e della pelle bagnata pizzicata dal vento. Il presente era ugualmente sospeso, senza tempo come le estati di Myst, ma dominato dall'oscurità accogliente delle viscere della terra.
La sua mano scorreva sulle pagine, tracciandovi parole che avevano ormai guadagnato vita e si rincorrevano senza che dovesse prestar loro attenzione. Ogni momento era identico e fermo.
Sentiva caldo.

Vedeva caldo. Senza che se ne accorgesse, l'afa era calata sulla caverna, impossessandosene. Le colonne in lontananza tremolavano come miraggi e le lampade, un tempo salde, erano diventate lucciole evanescenti in una notte senza stelle.

Fuori sarà estate, ragionò, con quello che gli sembrò un ammirevole senso pratico. Ricordava il sole battere con insistenza sulla terra riarsa e immaginò il suo calore discendere per le ferite che le causava, giungendo in profondità, sempre più in basso, segnando ogni pietra, rifrangendosi e amplificandosi all'infinito nei corridoi ricoperti dal nara.
L'immagine si unì alle sue memorie più lontane, in cui quello stesso calore scandiva le giornate seguendolo in ogni luogo, senza tregua né rispetto per l'intimità della casa. La sua ferita nella terra, le sue gallerie scavate nella roccia (e ricoperte di dipinti e teli) non erano mai state sufficienti a tenerlo lontano e nel pieno delle estati della sua infanzia Atrus vi si era abbandonato per giorni interi, nel nulla, rimandando ogni esperimento alla fresca chiarezza della sera.

Ricordava di aver rifuggito quel caldo e l'inattività cui si accompagnava.
Si scoprì a desiderarli.

Chiuse il Libro di Riven. Si alzò, vacillando per la stanchezza e l'oppressione crescente dell'aria. Avanzando come un ubriaco attraversò la stanza, aprì la porta e uscì.

*


La barca, pensò ossessivamente mentre i corridoi e i saloni vuoti di K'veer si aprivano al suo passaggio. La barca. Si portò spesso una mano alla fronte, spalancando gli occhi dietro alle lenti ovali per assicurarsi di non cadere addormentato e perdere tempo prezioso restando vittima di strani sogni. Doveva uscire, per sentire anche solo un unico raggio di sole. Ma la barca, dov'è ormeggiata la barca?

*


La barca era dove la ricordava – l'aveva sempre saputo, si disse afferrando la cima, ma di troppa certezza si fa peccato.

La condusse sul lago con lente remate. L'acqua era immobile, sigillata da una cappa di vapore, e brillava. Pulsava, sotto la superficie liscia. La sua luce ambrata investiva lo scafo, il suo occupante, la Caverna.
È tornata!, gioì in silenzio Atrus, che mai avrebbe sperato di poter vedere il lago tornare a vivere come doveva essere prima della Caduta, se non più luminoso ancora. Sorridendo, fermò la barca. Appoggiò una mano a pelo dell'acqua, sentendola tiepida, e ad occhi chiusi immaginò di essere la minuscola alga che dava all'acqua il suo colore e la sua luce: fu uno fra i milioni di microorganismi che popolavano nuovamente D'ni, provò ognuno dei processi chimici che ne scandivano la vita. Gli sarebbe piaciuto poterli analizzare con i suoi strumenti. Per il momento, si limitò a quella calma comunione immaginaria, senza riscontri scientifici ma così completa, così serena, e ne fu soddisfatto.
Una corrente prese con sé l'imbarcazione e la sospinse verso la riva esterna.

Attraccò in un molo dei quartieri bassi, si inoltrò fra le macerie ancora ricoperte di polvere giallastra e, a malincuore, lasciò al lago ogni speranza di vita. D'ni era morta da più di settant'anni: il riflesso di un giorno d'estate senza fine era il suo giusto epilogo. Se c'era ristoro da quell'immobilità, come dal caldo, andava cercato nell'acqua e non altrove.

Atrus si sedette su un masso crollato in mezzo alla strada e guardò comunque avanti, fiducioso, stringendo le palpebre per meglio penetrare la foschia.

*


Nei tunnel, gli sembrò di nuotare contro una corrente viscosa che legava ogni movimento. Non era certo, a tratti, di che corridoio stesse percorrendo, perché con la coda dell'occhio, quando si tergeva il sudore, vedeva rami di pietra intagliata intrecciarsi in archi acuti alle sue spalle e i muri si ricoprivano talvolta di volute e piccoli fiori verde rame e si sentiva ancora su K'veer, come se avesse girato in circolo.

*


Ma anche quelli finirono e con ogni rampa di gradini del Regahrotiwah Atrus ritrovò l'aria e parte di sé.
Si fermò a sentire l'odore della terra, ancora fievole, trasportato da lontano. Era un odore secco, di casa. L'odore del deserto che tornava ad abbracciarlo.

Un cono di luce adornava gli ultimi scalini prima dell'uscita.
La brutalità dei colori di superficie lo colse di sorpresa: non li ricordava così vibranti.

*


Discese il fianco del vulcano di corsa, come un ragazzino, e si fermò ansimante ad appoggiarsi alla leva del generatore elettrico.

*


“Sei tornato, Atrus”, sentì una voce al suo fianco. “Mi sei mancato così tanto.”
E d'improvviso Anna gli era accanto, piena di quella bellezza vitale che ricordava dall'infanzia. Risplendeva al sole – lei, il suo sorriso, le perline cucite in forme d'alberi su una lunga veste rossa – e Atrus si ritrovò, in riverente silenzio, a domandarsi quale sciocchezza avesse avuto il potere di tenerlo lontano così a lungo.

“Ha piovuto mentre eri via”, gli disse ancora, aprendo le braccia in un estatico accenno di danza. “Siamo stati visitati da un temporale. Vieni, nuotiamo: la Fenditura è colma.”

Con la mente svuotata, attenta solo a registrare ognuno di quegli attimi nella sua splendente complessità, Atrus fece un passo incerto nella sabbia e si trovò di fronte al bordo della Fenditura: casa. Guardò oltre la cresta di roccia, verso una memoria sommersa, ma era solo buio – e pieno di stelle.
Non si voltò indietro.

***


Atrus tremò, prima di aprire gli occhi, e si strinse alla penna con l'urgenza di un naufrago – seppur di un mare caldo ed invitante, eterno, nero come il cosmo e punteggiato di luci.
Respirò a fondo nell'oscurità familiare della sua prigione.
Aprì il Libro.
Un nuovo strappo, indisturbato, si era allungato nel tessuto di Riven e presto, quando i sogni l'avessero colto di nuovo o prima ancora, l'intera trama sarebbe sfuggita alle sue mani intorpidite.
Quell'idea di caldo e calma, cullata in seno a chissà che altri pensieri e liberata da una stanchezza atroce, si spense nel gelo della distruzione che lo osservava giorno dopo giorno, in distaccata attesa, acquattata dietro ogni colonna e in ogni ombra lunga di K'veer.
Ricominciò a scrivere.

In superficie, l'alba lasciò spazio a un torrido giorno di giugno spazzato dai venti: stava arrivando l'estate.














Nerdaggine & credits:


@ K'veer: un sentito grazie al fogging di realMyst per l'impatto visivo.
@ timori per la barca: a parte l'assonanza con quel picco di caratterizzazione che è who had the boat? I had the boat! che però non c'entra un piffero, mi è stato fatto notare che 'my fandom is full of failboats'. E in effetti... Stoneship, Myst Shipgate, Haven... fatte tutte lui, eh. Anche questo non c'entra un piffero, ma mi sentivo in dovere morale di comunicare questa scoperta.
@ Regahrotiwah: t3h effin' Great Shaft. Signor traduttore italiano, cordialmente? Vaffanbagno. In fede, un roadrunner di passaggio. In mancanza di un termine italiano civile (che cos'è 'spaccatura', me lo spiegate? Sia di per sé, sia contando che ci sono anche Cleft e Fissure in lizza?), ripiego sul D'ni.
@ lunga veste rossa con motivi vegetali: il complesso di Edipo non era voluto, parola di Giovane Marmotta. Però in effetti è lì... *pokes*
@ Cleft // Star Fissure: me ne assumo ogni responsabilità. Ma mi sembra un parallelo così bello e significativo e soprattutto servito su un piatto d'argento!
@ distruzione che osserva: dopo la bozza del Book of Atrus, su K'veer ci si può sentire autorizzati ad ogni figura retorica ardita, ivi inclusa la personificazione di qualunque cosa. True fact!


Riassunto di dubbia utilità per lettori di passaggio: Atrus è nato nel deserto ed è stato cresciuto dalla nonna Anna nella Fenditura, vicino all'entrata della città sotterranea di D'ni. Al momento (cinquant'anni dopo, a spanne) è imprigionato da mesi in una stanza/caverna murata in D'ni, obbligato a scrivere continuamente sul Libro di Riven per evitare la distruzione del mondo in esso descritto.
K'veer (stanza)K'veer (corridoi)D'niGreat Shaftin superficiela Fenditurala Divina Provvidenza, in variante locale (qui vista dal dentro)Atrus – (per un'immagine di Anna s'ha da aspettare il film)


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Capitolo 2
*** Vuoto d'autunno ***





Vuoto d'autunno







Catherine osservava.

Era appoggiata ad uno dei denti di pietra che punteggiavano la rupe, grigi come il cielo che turbinava minacciando pioggia. Ai suoi piedi, il manto di felci aveva già assunto le cupe tonalità scarlatte autunnali .
Catherine osservava: non temeva né riveriva le pietre, così come non temeva né riveriva il seggio nascosto nella cupola alla sua destra, da cui Gehn era solito impartire le sue condanne a morte: giudizi di ordine divino quanto lei.
A Catherine, quel giorno, tutto questo non importava: la sua attenzione era fissa sul villaggio, arroccato all'altro estremo della piccola laguna, e su tutte le immagini che esso portava con sé. Le case della sua gente, così costrette sulle rocce, sembravano un pugno di noci bianche dell'albero del Kolnak, gettato da mano indifferente in quell'angolo arido del mondo.

Ka-tran, facevano le noci quando si staccavano dal ramo e cadevano a terra. Ka-tran.
Catherine le ricordava dalla sua infanzia. Ma non c'erano più alberi del Kolnak su Riven, le avevano detto i suoi Moiety. Il decadimento delle isole li aveva portati tutti con sé.

Non c'era più neanche Katran.
Sotto i teli neri da spettro, sotto le collane, i ricami e le piume rituali, la donna di vedetta sulle rocce era ragionevolmente certa che avrebbe trovato Catherine al suo posto. Ma non osava scostarli, né togliersi la maschera, per timore di scoprire che anche lei se n'era andata, smarrita nel vuoto del Legame che l'aveva riportata in patria. Non voleva trovare altro nero sotto quella stoffa, sbuffi d'ombra di un buio tranquillo e ottuso.

Si sentiva a disagio in quei panni. Toccò la maschera che indossava, bianca e liscia come l'immagine di un morto e sormontata da due vetri spessi, che certo non proteggevano gli occhi dal sole di un mondo morente, ma ne nascondevano il taglio e lo spirito da sguardi indiscreti. Si era chiesta, indossandola per la prima volta, che orrori avrebbe evocato in chi l'avesse vista da lontano, rattristata al pensiero che la sua gente vivesse oppressa da una rete di simboli falsi intessuta da Gehn, ma anche da loro stessi.
Non amava quello che infliggeva loro mostrandosi; con sé si sentiva ridicola e, sempre, estranea. E, se anche si era abituata alla distanza della gente e di se stessa, sentirsi una macchia nera sulle rive di casa era un peso nuovo.
Non sarebbe stata ugualmente nascosta nel suo vestito rosso, una cosa sola col tappeto di felci ai suoi piedi? Nessuno l'avrebbe vista, allora, salvo Riven, che avrebbe infine riconosciuto la figlia tornata a porgerle l'ultimo saluto. O, se qualche intrepido si fosse spinto nel profondo della foresta, avrebbe visto solamente un fantasma: riflesso del passato, segno di un tempo in cui l'isola era ancora unita e viva. “Chi è questo spirito”, si sarebbe chiesto allora, “che sa danzare nell'autunno di un mondo malato?”

Le prime gocce la portarono a cercare riparo fra gli alberi. Discese con cautela la china rocciosa mentre, sotto di lei, l'acqua della laguna si ingrossava fino a infrangersi sui pontili e sfidava gli sbocchi d'aria calda in un contrasto di spruzzi.

*


Era un mondo a parte quello sotto le fronde, violato solo dal ronzio dei rari insetti ancora operosi. L'aria era umida e pesante, ma la pioggia restava confinata al di sopra del tetto di foglie. E c'era luce: fiochi lampioncini a segnare la via con i loro aloni giallastri e più in basso, dove la falda acquifera a tratti affiorava in superficie, l'azzurro di funghi luminescenti.

Catherine saltò giù dal bordo arrotondato del sentiero e appoggiò la mano guantata sul tronco dell' albero più vicino. Immaginò, allungando il braccio, di poter toccare il punto in cui la corteccia lasciava il posto al legno nudo e di accarezzare quella sofferenza.

L'albero era in attesa. Raccoglieva le energie prevedendo il freddo.
La ferita era stata ordinata da Gehn: aberrazioni simili non appartenevano ai suoi ricordi.
Un fungo vicino tracciava labirinti di ombre blu sulle rughe della corteccia.
Nessun insetto si posava sulla parte bianca.
C'era un significato in quell'osservazione, ma Catherine non riusciva a vederlo con chiarezza, come se osservasse il senso del mondo attraverso lenti appannate. Sollevò gli occhialoni e si coprì gli occhi con le mani, respirando piano.
Riaprì gli occhi. Non era cambiato nulla.

*


Già da quella mattina Catherine sentiva i suoi pensieri distanti e deboli, ma era stata costretta a nasconderlo, per non perdere il diritto a quell'uscita oltre che per evitare che il piedistallo divino su cui la sua gente continuava a spingerla s'incrostasse anche di inutili compatimenti.
Aveva bisogno almeno di rimanere una donna, in ogni piccola cosa. L'essere madre le era stato strappato di dosso troppo presto; cadendo, aveva spezzato tutti i ricordi cui era legato. Come moglie poteva solo sperare, immaginare, dubitare: un frutto marcio che teneva troppo stretto senza potervi fare affidamento.
Rinsecchiva poco a poco, in attesa del freddo.

*


Una scossa violenta del suolo e Catherine si ritrovò con la schiena all'albero, mentre il mondo si tingeva di rossi.

Si smarrì nel turbinio delle foglie.

Stava cadendo tutto.

Tutto a terra e sui rami nulla.
Si lasciò cadere a terra anche lei.

Osservò una sagoma avvicinarsi oltre il velo rosso. Restò a fissarla senza curiosità, immobile, con la maschera alzata.
“Bisogno?”, chiese la sagoma in un D'ni fortemente accentato. Una voce maschile, profonda, che rotolò come un sasso nei cunicoli della sua memoria, rimbalzando, senza creare echi nel loro vuoto ovattato.

“Alla malora... hai bisogno d'aiuto?”, ripeté in Rivenese. “Sei ferito?” Ma si irrigidì quando vide chi stava soccorrendo: spirito maligno o pazzo ribelle, nessuna fortuna attendeva chi s'intrattenesse con la sua schiatta. Solo punizioni, per mano della natura o del loro dio.
Eppure quello spirito, o quel pazzo, non l'aveva ancora colpito con i suoi dardi avvelenati e, al contrario, restava a guardare attraverso di lui come se fosse fatto di vetro. Aveva degli occhi, notò allora, che non erano i globi vacui dei fantasmi ma quelli tondi e scuri di una donna delle isole. E, anche se lo sguardo era molto diverso, il bel taglio aggraziato lo riportò a una memoria sepolta da trent'anni cui diede voce con un sussurro:
Katran?

Catherine alzò un braccio, tentando, dal luogo vuoto in cui si trovava, di raggiungere quella persona che in fondo a tutto aveva richiamato un'eco in lei.
In quel momento le scosse ripresero, più violente di prima, fino ad aprire una spaccatura nel terreno fra loro che sembrò volerli ingoiare salvo poi fermarsi d'un colpo, come se qualcuno vi avesse messo un punto. L'uomo lottò per rimanere in piedi senza toglierle gli occhi di dosso, terrorizzato.

“Maleficio!”, la accusò, gettandole un'ultima occhiata con cui avrebbe voluto comprenderla e ritrovare la ragazza di un tempo, o almeno assicurarsi che fosse davvero lei, ma non incontrò nulla e al villaggio portò solo paura e una nuova storia ad alimentare il fuoco dei loro miti.

Non era importante.
Catherine osservò l'acqua farsi strada verso la nuova crepa e riempirla con la sua luminescenza lieve.
Infine scostò una foglia fra quelle che le ricoprivano le gambe. Sotto era nero.

*


Nelah trovò la sua migliore amica addormentata ai piedi di un albero spoglio, nel pieno dell'autunno.

















Nerdaggine & credits:

@ riassunto: soggetti Catherine e Riven.
@ scena iniziale: è nata dalla necessità di piazzarla in un punto vicino alla foresta da cui si vedesse il villaggio, non dal voler mettere una 'Catherine' su una 'cima tempestosa', tuttavia...
@ felci rosse: le felci di Riven all'inizio della stagione fredda (qui ragionevolmente adattata come 'autunno') diventano rosse perché lo dico io *incrocia le dita e spera tantissimo che il sciur Watson non abbia già tenuto cattedra in materia di flora rivenese*.
@ albero del Kolnak: inventato al 100%.
@ china rocciosa: quella cosa piena di spunzoni che una persona un minimo più avventurosa del/la signore/a col ditino puntato potrebbe benissimo usare per salire e scendere dal punto di osservazione in questione senza dover usare il pescensore (wahrk elevator, sopportatemi)... né dover fare il ninja issandosi con una corda sul ponticello.
@ sbocchi d'aria calda: i buchi nell'acqua! Se l'acqua rivenese provasse a schiantarcisi sopra dovrebbe venire un bello spettacolino, credo.
@ falda acquifera: le polle di dentifricio in realtà cosa ca...?
@ alberi scortecciati: al suo diario posso solo dire BUONGIORNO CATHERINE SVEGLIA. “Vedo mezza Riven deforestata e il resto sfregiato. COSA FARA' MAI GEHN DI TUTTO QUESTO BEL LEGNO? Stuzzicadenti? Orologi a cucù? Sottobicchieri?” C'ha bisogno della relyimah de noantri per capirlo, c'ha bisogno... :facepalm:
@ frutto marcio: *s'incipria e si prepara alla grande occasione* Mo' mi metto a fare una finta scenata à la OssantoCIELOhoscrittocontroilmioOTPandallthat. XD No, sul serio: dal modo in cui si citano nei diari mi sembra che lui sia ovviamente molto propositivo, ma è quello col Libro dalla parte del pannello di collegamento, non so se mi spiego. Lei al contrario sta (male) in una situazione (difficilissima) che non ha modo di includerlo, con o senza il suo impegno. Me la vedo, col suo piglio pratico, ad adattarsi alla situazione e cercare di concentrare tutte le sue energie sul ricominciare, se necessario senza di lui. Non può permettersi di languire in attesa di un salvataggio in grande stile da parte del suo principe azzurro (...asd). Nella sua situazione, sarebbe letale.
@ omino del mistero: tendenzialmente Enant, ma vedeteci un po' chi vi pare. :)
@ 'come se qualcuno ci avesse messo un punto': See what I did there?

Riassunto di dubbia utilità per lettori di passaggio: Katran è originaria del mondo isolano di Riven. Animo inquisitore, inquieto e sradicato, visitata da sogni e da visioni, trent'anni dopo aver lasciato la patria vi si ritrova imprigionata. Parte della sua gente si è unita in una ribellione (Moiety) contro il tiranno Gehn e guarda a lei come la dea che potrà liberarli. Nei suoi diari, l'accettazione di questo ruolo si unisce a momenti in cui la coglie un senso di vuoto a metà fra il delirio febbrile e la botta di depressione. 'Catherine' è un errore di pronuncia di suo marito che lei col tempo fa suo e dà l'impressione di usarlo per marcare la differenza fra ciò che era e ciò che è.
Punto d'osservazionevista dal punto d'osservazionedivisa Moietyil villaggiola forestauna fratturaCatherine


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Capitolo 3
*** Generale Inverno ***





Generale Inverno







Gehn non aveva scritto la neve, su 233.

Uscì al calare del vento. La porta del laboratorio si chiuse alle sue spalle con uno schiocco secco: nel silenzio, Gehn si preparò ad affrontare la cima rocciosa e la distesa viola tenue che la ricopriva.

In realtà, non aveva scritto molti altri dettagli.
C'era il mare di notte, per esempio, che non abbandonava il suo colore rosso ma scivolava in una tonalità calda e scura che consolava l'animo, come un buon vino.
O c'erano le creature che abitavano quel mare, bestie tristi e pericolose, nate per resistere alla corrosione dell'acqua che giorno dopo giorno distruggeva l'Era da dentro.
Eppure quegli aspetti non lo disturbavano. Erano, per lui, due cose assieme e non in contrasto: rappresentavano sia gli spazi bianchi fra le righe del Libro, naturale completamento della sua volontà per come l'aveva descritta (nemmeno a un dio, si diceva, si può richiedere attenzione ad ogni dettaglio), sia un tributo della creazione al suo creatore.

Affondò la pala nel soffice manto lilla.

La neve no.
Gli inverni di 233 erano brevi e frequenti, vicina com'era al suo sole debole.
Gehn non si era mai curato di studiarne eclittica, asse e rivoluzione. Non gli importava di sapere quali fossero le ragioni della rotazione stagionale di quell'Era di appoggio, poco più di un rifugio temporaneo dalla barbarie. Di fatto, però, dopo un numero stabilito di giorni i nembi si accalcavano sempre, minacciosi, in una spirale arroccata sul suo arcipelago di rupi corrose e iniziavano a contestare il suo dominio sul luogo. Lo osservavano lavorare, dall'alto. Trasportati dai venti in forme ardite, gli negavano la pioggia fino al momento in cui diventava un intralcio più che un aiuto e solo allora la liberavano tutta d'un tratto.

Non poteva lasciare che ghiacciasse. Puntò il piede sulla pala e si fece forza.

La neve tornava sempre. Non sfuggiva, non si organizzava, non imparava tattiche: tornava, in forze. E Gehn, ogni numero prestabilito di giorni, difendeva l'intimità del suo studio e il suo diritto ad occupare quel suolo, come un dio giocato dai suoi stessi poteri e costretto infine ad agire da uomo.

Oh, aveva provato a scacciarla con un colpo di penna. Ma una volta scritta una temperatura più accogliente i mari si erano ritirati ad una velocità di cui nessuna roccia portava memoria ed era stato costretto a cancellare in tutta fretta ogni traccia dello sgraziato intervento. Se avesse avuto accesso alle opere dei maestri Scrittori del passato, certo avrebbe trovato parole migliori per correggersi.
Se avesse avuto accesso alle opere dei maestri Scrittori del passato, d'altronde, quel sasso inospitale sarebbe stato l'ultimo dei suoi problemi, un numero dimenticato fra tanti.

Riversò nel movimento meccanico delle braccia l'ansia che lo attanagliava quando le sue riflessioni puntavano, non richieste, in quella direzione.
Si controllò: doveva prestare attenzione. La neve di 233 era acida come la sua acqua e non poteva oltrepassare la protezione di guanti, tuta e stivali.

Il freddo però era più astuto. S'infilava sotto i lacci più stretti, nel vuoto fra colletto e cappello. Gehn lo teneva a freno con lo sforzo, ma non appena si fosse fermato quello avrebbe colpito, foss'anche stato già sulla soglia dello studio, senza lasciargli tempo di trovare rifugio nel tepore di una stanza chiusa. Conosceva bene il freddo. Ad ogni nevicata, ad ogni raffica di vento, ne veniva invaso ed era sempre più difficile scrollarselo di dosso allungando semplicemente le mani verso la caldaia.
Ad ogni inverno, un pezzo di freddo restava con lui. Da ben prima di aver messo piede su quell'Era nemica, battuta dalle intemperie.

Così non si fermò alla prima fitta alla schiena. Puntò la pala, la spinse col piede, inarcò i muscoli dolenti con meno forza di prima, gettò la neve poco lontano. Puntò di nuovo la pala.
Era una macchia bianca in un mare di rossi e viola. Da solo, al di sopra di 233, al di sopra di Riven e dei suoi selvaggi.

Non ricordava che i dolori l'avessero raggiunto tanto presto, in passato. Per la precisione: ricordava che non l'avessero fatto. Le braccia erano dure e stanche; la schiena percorsa da solchi doloranti. Non era accaduto la prima volta in cui si era ritrovato costretto ad imbracciare una pala.
Continuò a lavorare e a disprezzare il terreno su cui poggiava i piedi e a difenderlo e a cercare una ragione per la sconfitta delle sue ossa. Gehn era bravo a trovare ragioni: ne aveva una per D'ni, una per l'Arte, una per sua madre, mezza per suo figlio e molte altre accumulate in trent'anni di esilio su Riven. Quella volta trovò il freddo.

Doveva essere il freddo. Gli pesava sulle ossa e le rendeva fragili come ghiaccio. E lo costringeva a letto. E gli toglieva la forza di alzarsi. Si reggeva in piedi solo sui suoi progressi; nel caricarsi in spalla le prospettive e le aspettative di cento secoli di civiltà si sentiva investito di un'urgenza potente che teneva cara al cuore. Era riluttante a consegnare ai diari la bellezza di quel sentimento, per timore che si unisse alla fila di delusioni che li segnava. Un tempo ne sarebbe stato giustamente entusiasta. In allora, si limitava a maledire i tradimenti e custodire tutto quel poco che gli era rimasto di prezioso.
Perché presto – spalata – si sarebbe liberato dalle ultime catene che lo imprigionavano su Riven. Presto – spalata più forte – avrebbe avuto un nuovo figlio, uno che non fosse sordo al richiamo del sangue e di verità profonde. Presto – spalata – avrebbe ricostruito un nucleo di Ere più giusto e ugualmente l'avrebbe chiamato 'Nuovo inizio', D'ni, nell'unica lingua degna di venir parlata. Presto. Spalata.
Aveva solo settant'anni: per la sua razza, ancora nel fiore della giovinezza. E sua madre, sua madre non aveva mai contato nulla. Doveva essere il freddo e non si sarebbe fatto sconfiggere.

*


Il vento ululò attorno ai funghi di pietra e in un attimo gli fu addosso, mettendo fine a quel momento sospeso: l'Era si era rianimata e non tardava a ringhiargli contro. Si ritirò nel suo rifugio.

*


Liberatosi dalle ingombranti protezioni contro il freddo, Gehn mise a scaldare l'acqua per un infuso. Il rumore del rudimentale bollitore era confortante; non altrettanto lo stato delle sue scorte di erbe, decaduto al seguito di quello delle isole da cui provenivano. Dosò con parsimonia quello che gli era rimasto e si rammaricò al pensiero che non avrebbe più donato ai suoi muscoli l'effetto calmante di un tempo.

Con la tazza stretta fra le mani, Gehn percorse più volte la circonferenza del suo studio. Vide il sole uscire dalla coltre di nubi e tramontare sul mare ghiacciato. La morsa stringeva tutti gli scogli dell'arcipelago, assottigliandosi e infine scomparendo vicino alla linea dell'orizzonte.

Il ghiaccio gli dava una sensazione di soffocante inutilità, di immobilità letale. Non era quella l'urgenza cui aspirava.
Lo sfiorò un parallelo con la sua condizione – ed era un parallelo benevolo, perché l'orizzonte è poca cosa da raggiungere in confronto all'inizio di una civiltà – ma lo evitò con cura. Era bravo anche in quello.
Nel paesaggio rosso di 233, Gehn tornò a vedere solo una distesa nemica. E un primo, nuovo fiocco di neve scendere dal cielo.

Alla fine, la morale era sempre la stessa: D'ni non aveva inverni.

















Nerdaggine & credits:

@ neve viola: ...perché no? È in tinta...
@ creature: c'è un forse-scheletro su una roccia visibile da una finestra. Se anche quello fosse solo un grosso sasso, nulla vieta che esistano bestie marine. Ah, ed è stato fatto notare che Gehn esce sempre armato.
@ tempistica: dal lab journal, sono quattro anni secondo il calcolo D'ni da quando 233 è stata scritta fino agli eventi di gioco. Con una rivoluzione minore di quella terrestre (perché lo dico io), sono... un tot di inverni.
@ età di Gehn: in-game non se ne cura, ma rly? Atrus in Revelation ha la sua stessa età ed è decisamente più giovanile. Nelle generazioni successive la genetica fa buffi salti, ma per me una cosa è certa: come mezzosangue, lui non sarebbe arrivato ad un'età D'ni e nemmeno lì vicino. Rendendo ancor più tragiche le sue aspirazioni, se posso dire. Ah, settanta perché... *conta con le dita e mostra orgogliosamente il risultato al(l'inesistente) pubblico* ...perché 19+circa20+circa30 sulle mie dita fa circa70. ...no? Quel 20 è giusto così? *si osserva le dita pensierosa*



Riassunto di dubbia utilità per lettori di passaggio: Gehn ha un solo desiderio: far rivivere la sua civiltà, D'ni, che custodiva il potere di scrivere mondi. Ne ha solo ricordi vaghi e idealizzati; non ha mai accettato che fosse stata sua madre, terrestre, a causarne la caduta. Quindi scrive mondi su mondi di cui si considera creatore e dio, fallati perché non è capace, numerandoli, senza concedere loro nemmeno l'identità di un nome. Per ricostruire un impero da un milione di mondi però la strada è lunga... e per di più suo figlio l'ha bloccato da trent'anni rinchiudendolo nel mondo di Riven. 233 è il suo primo passo verso la libertà.

233 flybyvista dallo studioGehne buon Natale, già che ci siamo... XD (Easter egg del gioco)

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Capitolo 4
*** Primavera incognita ***





Primavera incognita







All'arrivo su Myst credette di stare sognando. Un colpo di sole, forse, e la stanchezza accumulata, uniti al mistero di quel tomo scritto in una lingua ignota.
Eppure l'isola era lì, sotto i suoi piedi. Solida quanto la pietra su cui si reggeva e che spuntava a tratti dal prato come i resti fossili di un colosso meccanico: colonne, ingranaggi, due edifici. Si fermò ad inspirare l'aria salmastra, fresca come si sente sulle isole al Nord; bagnò un singolo pavido dito nell'acqua che s'infrangeva sul molo. Quel luogo era reale quanto il deserto che aveva lasciato solo minuti prima – o, se uno era sonno e l'altro veglia, non avrebbe saputo dire quale e quale, e in che direzione conducesse il libro, e se quella fosse una stazione di passaggio, una sorta di limbo privato per ogni essere umano che fosse giunto al risveglio, lasciato il quale poteva iniziare la vita vera.

Si rassegnò quindi a vagare in un luogo senza tempo.
Le stanze erano tonde e curate e prive di ogni vita; fuori, la torre dell'orologio segnava un perenne mezzogiorno e non c'era motivo di credere che potesse aver torto quella struttura semplice e solida verso cui l'intera isola sembrava puntare in cerca di consiglio.
Nulla sembrava rispondere al suo tocco, da leve che scattavano a vuoto a futili mappe stellari, a figure astratte, porte cocciutamente chiuse, motori spenti, due messaggi così rovinati provenienti da chissà dove, chissà chi. Erano mai esistite quelle persone, assieme alle altre due che, affannate, sembravano rincorrersi in un carosello invisibile? O era un elaborato gioco, stabilito da dèi beffardi in tempi antichi e lasciato privo di una soluzione per l'eternità?

Incessante, la risacca andava e veniva sulla spiaggia di un mondo morto, abbandonato dai suoi abitanti, dalla logica e infine dallo scorrere stesso dei giorni.

*


Quando tornò sull'Era, l'isola non era cambiata, ma il suo sguardo sì.

Passò un dito sul bordo di un leggio, mentre ancora stringeva nervosamente la pagina colorata: uno strato sottile di polvere.
You've returned...”
E all'esterno, passeggiando un poco all'ombra rassicurante dei pini – prima di tornare, perché non sarebbe stato saggio sentire solo metà della storia – ecco d'improvviso il grido di un uccello marino e un frullare d'ali. Volgendo l'occhio alla fonte del rumore, avvicinandovisi, attendendo un nuovo fruscio a conferma della sua posizione, riuscì a scorgere, ben nascosto fra le fronde, un nido pieno d'uova e la madre che vi si affaccendava. Nell'ammirarli vide che gli alberi stessi custodivano un loro segreto, più modesto e più affine al carattere austero dell'isola: in fondo ai rami, gemme.

Il cambiamento era possibile. Era parte dell'ordine delle cose anche in quel mondo solitario e, in parte, sarebbe accaduto anche senza aiuti. La parte rimanente... aveva bisogno di una piccola spinta. L'avrebbe avuta.
Vide un sentiero iniziare davanti a sé e si vide percorrerlo, tendendo la mano a un innocente, incontrando poi altri pellegrini per la strada, fra cui quel padre scomparso e la sua moglie paziente, e così gettando semi di rinascita in fondo, forse, poteva già scorgere casa.

Sul suo taccuino scrisse solo, per memoria e buon augurio: Primavera.





















Nerdaggine & credits:

@ riassunto: 'by the Maker, or by the roll', yesyes?
@ POV: Straniero/a generico/a con sospettato generico e percorso generico, come spero si noti dalle capriole grammaticali. è_é La mia sarebbe stata molto più pragmatica, è una signorina di larghe vedute e spalle altrettanto! (e con questionabili gusti in fatto d'uomini, ma credo che questo sia già stato trattato altrove.) (hint: sono interpretati dalla stessa persona) (...non David Ogden Stiers!)
@ Colossi su Myst: mmmme piacerebbe! Un Colosso rende tutto migliore °=°
@ dèi beffardi & co: non so dove stia scritto che un punto di vista ottocentesco dia carta bianca con le metafore buffe, ma certo devo averlo letto da qualche parte, perché continuo a farlo a spron battuto... il 'San Giorgio e il drago' di Con resta imbattuto, però.
@ abbandonato dalla logica: BESTEMMIAAAH! ...ma l'abbiamo pensato tutti prima o poi, ve'? E ci siamo pentiti dei nostri peccati non appena trovata la soluzione all'Infame Enigma di turno. Amen.
@ You've returned: i due scassamaroni m'hanno fatto un solo favore in vita loro: iniziare il secondo discorso nella stessa maniera, proprio quel che serviva per tenere indefinite le scelte di questo buffo Straniero. Ah sì, e anche dare un'ossatura di trama al mio gioco preferito. Ma quelli son dettagli.
@ tendendo una mano a un innocente: soprattutto visto che Assassinio sull'Orient Express non era ancora stato scritto, l'idea che i colpevoli siano tutti non è la prima cosa che passa per la mente alla gente, eh! A quel punto della storia, per quel punto di vista c'è ancora un colpevole, un innocente e probabilmente un morto *tocca ferro*
@ semi di rinascita & primavera: ...con tutti i migliori auguri. In realtà è un posto EMO abitato da gente EMO con un futuro EMO e discendenza EMO, ma non diciamolo troppo in giro e soprattutto non a chi s'è appena fatto un mazzo così a risolver quattro Ere, poveraccio/a.





Riassunto di dubbia utilità per lettori di passaggio: un generico 'tu' senz'altre caratteristiche che parlare inglese e trovarsi nel 1807 in un deserto in New Mexico* trova un libro che lo trasporta in un altro mondo, un'isola che sembra fuori dal tempo. Due fratelli sono imprigionati in altri libri e si accusano a vicenda, chiedendo di essere liberati. L'isola porta tracce della presenza passata di altre due persone, tali Atrus e Catherine. In realtà risolvere l'intera baracca potrebbe aver portato a risultati dubbi dal punto di vista storico pan-dimensionale e duecent'anni dopo certa gente non ci andrà leggera nel classificare i signori in questione come falliti figli di falliti e genitori di falliti e il luogo stesso come (brutto, cattivo, puzzone e) maledetto, ma sul momento ci si sente fighissimi, davvero. °_°
Luogo brutto, cattivo, antipatico, puzzone, maledetto e in brutta CG

*dev'essere questa la famosa immedesimazione totale di cui parlano tanto analizzando Myst: chi non è stato nel 1807 in un deserto in New Mexico, in fondo?

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