«
Shine! »
Mi
riscossi
immediatamente da quello che stavo facendo, solo per incontrare gli
occhi
incuriositi del mio professore di programmazione; costui, un
quarant’enne calvo
ed occhialuto, si avvicinò alla mia postazione, in
laboratorio, dove, con tanto
di sopracciglio inarcato, guardò lo schermo del computer da
me occupato a
lezione.
«
Come va
l’algoritmo? » chiese gentilmente; scrollai le
spalle, reprimendo un grosso
sbadiglio.
«
Scritto e
debuggato, » risposi, « ma è venuto un
po’ lungo, quindi si sta prendendo il
suo tempo, per compilare… »
«
E cosa fai,
nel frattempo? »
Feci di
nuovo
spallucce; « solo una ricerca su Google, giusto per ammazzare
il tempo. »
«
Mi
raccomando, eh. » E se ne tornò al suo posto,
permettendomi di scatenare quello
sbadiglio in tutta la temibile potenza di cui era capace. Soltanto dopo
circa
trenta secondi la mia attenzione tornò alla pagina internet
che avevo aperto
poco più di cinque minuti prima. Circolare su MetaCritic
come una sottospecie
di non morto informatico era divenuta un’abitudine, durante
le ore di
programmazione, una che poteva benissimo rimpiazzare la camomilla e
sonniferi
vari; certo, leggere recensioni e novità riguardo il mondo
dei videogiochi mi
piaceva molto, ma il sonno causato da due o addirittura tre ore di
lettura di
recensioni tradotte malissimo era inevitabile. Specialmente quando nessuna di tutte quelle sezioni non
aveva ancora rivelato nulla sul futuro video ludico del famigerato ed
onnipresente NervGear, il miracolo della tecnologia virtuale.
Ovviamente,
a causa
della mia assai poca ricchezza, quando il marchingegno era stato per la
prima
volta lanciato sul mercato non mi era assolutamente possibile
acquistarne uno.
Poi, la fortuna: i corsi di informatica, grafica e addirittura
meccanica di
tutti i licei del mondo avevano reso obbligatorio
l’utilizzo del NervGear durante specifiche ore di
laboratorio; di conseguenza,
non soltanto il prezzo era stato abbassato dell’ottantacinque
percento per gli studenti, ma l’hardware era stato
brutalmente potenziato, al fine di riuscire a sostenere ore
ininterrotte di
programmazione, disegno, test e quant’altro senza problemi. A
dirla tutta, un
problema in effetti c’era: il consumo energetico, al quale,
però, i creatori
avevano ovviato con una bella batteria interna, permettendo
all’apparecchio di
operare per due ore piene in autonomia.
Lo shock
arrivò quando il nome
del casco delle
meraviglie venne rivelato, durante un tech expo. Ovviamente, noi
giovani
conoscevamo già il NervGear, e fin troppo bene, se
è per questo. Come?
Grazie a uno degli anime giapponesi più
appassionanti ed originali di sempre.
Certo,
aveva
ottenuto risultati altalenanti, ma Sword Art Online era riuscito a
stregare
migliaia, se non addirittura milioni,
di ragazzi in tutto il mondo, specialmente grazie all’idea
che componeva la sua
anima: la prospettiva di rimanere intrappolati
all’interno di un videogioco che, di punto in bianco e a
causa di una mente
malata, era divenuto una prigione per diecimila persone. Una prigione
all’interno della quale la morte non era più il
classico ciclo di HP azzerati e
respawn, ma la realtà più assoluta. A detta di
molti, la serie animata non era
riuscita ad esprimere e sfruttare l’intero potenziale in suo
possesso, e quindi
abbia prodotto più delusioni che soddisfazioni; questo,
però, non era, neanche
lontanamente, lo stesso per me o diversi miei compagni di classe, gli
unici con
i quali potevo parlare di queste cose senza passare per un
maledettissimo nerd
accanito. Oltre a me, gli unici fan di quest’opera erano
soltanto tre, tra di
noi: Felix, un ragazzotto molto alto ed altrettanto magro, dai capelli
neri che
portava molto corti e dagli occhiali dalla montatura azzurra; non era
un tipo
molto studioso, e a buona ragione: il suo sogno non era diventare un
programmatore, bensì un pilota professionista. Paolo, un
giovine biondo scuro
che era l’esatto opposto di Felix, con tanto di muscoloni
tirati su durante gli
allenamenti di rugby che aveva sostenuto quand’era poco
più giovane; era un
gamer appassionato, sì, ma durante le giornate aveva ben
altro da fare. Infine,
Filippo, detto Voky, a causa della sua curiosa somiglianza con
l’omonimo
YouTuber pugliese.
Con un
sospiro
profondamente annoiato, feci per chiudere la pagina e tornare al
programma che
avevo messo a compilare; « aspe’! » mi
fermò Felix, che, appena mi vide
muovermi per fare quello che stavo per fare, fece guizzare la sinistra
con una
velocità che farebbe impallidire anche Jigen Daisuke, il
temibile pistolero
dell’anime Lupin the Third,
ed
afferrò il mouse prima che riuscissi a fare nulla.
«
Leggi qua, »
con il cursore mi mostrò un articolo pubblicato appena
ventiquattro ore prima,
in fondo alla home di MetaCritic; lessi il titolo: «
confermata la data di
uscita di “project Art”, il primo videogioco
ufficiale per la piattaforma
NervGear.”»
Rimasi
imbambolato come un idiota per quello che credei fossero almeno tre
minuti.
Poi: « …che? »
«
Cosa, sei
lento? » mi canzonò lo stecchino, «
fanno un gioco per il NervGear! »
«
E’ proprio
di questo che non riesco a capacitarmi! » mi difesi,
« prima ‘sta roba viene
rilasciata solo per costringerci ad applicarci meglio nello studio e
ora, dal nulla cosmico, viene
fuori la notizia
che sta per uscire un videogioco fatto apposta? Difficile da credersi.
»
«
Eppure è
vero » si intromise Filippo, dalla mia sinistra, «
dicono che sarà un gioco
fantasy medievale in prima persona, con combattimento stile action, le
armi
saranno esclusivamente spade e archi… »
«
Collega i
puntini…! » Paolo riemerse dal suo codice e non
tardò ad aggiungersi alla conversazione.
«
Che
intendi…? » ma le parole mi morirono in bocca,
quando mi resi conto cosa
stessero cercando di farmi capire. « Mi state dicendo che questo qui è un riadattamento reale
di Sword Art Online? »
Gli altri
tre
alzarono le mani al cielo per ringraziare il Signore, appena prima che
li
mandassi tutti a quel paese.
«
Quand’è
l’uscita, allora? » domandò vagamente
Felix e cliccò sull’articolo in
questione; passarono diversi secondi e riuscimmo a leggere le poche
righe stese
dall’admin del sito:
Gente, ci siamo: dopo uno dei beta test
più
celati di sempre, il famigerato “project Art” ha
una data di nascita, che è
stata fissata per il diciotto ottobre duemilaventidue. Ovviamente non
è
trapelata nessun’altra notizia riguardo il gioco vero e
proprio, ma i sospetti
di giocatori di tutto il mondo che questo progetto segreto possa
davvero
risultare in un reale Sword Art Online non fanno che aumentare e
aumentare,
specialmente con la annunciata, iniziata e più che inoltrata
fase gold. Ma
saremo tutti pronti all’eventuale uscita di un titolo che
rivoluzionerà il
mondo del gaming moderno? O meglio ancora, riusciremo a sopportare una
più che
probabile e devastante delusione?
Qualunque sia la domanda che gli
appassionati sparsi per tutta la faccia del globo si stanno ponendo,
una cosa è
certa: tra poco meno di una settimana scopriremo se potremo esplorare
tutti e
cento i piani di Aincrad, oppure ci ritroveremo con il classico pugno
di
mosche.
Subito
accanto
era piazzato il punteggio che project Art
aveva già ottenuto, ancor prima
dell’uscita: uno sfacciatissimo
novantanove. Non avevo mai visto
un
singolo gioco con un punteggio che sfiorava il tetto di MetaCritic,
specialmente non una leggenda metropolitana. Leggenda che, in cuor mio,
speravo
davvero corrispondesse al vero.
Feci una
smorfia dubbiosa: mi sarebbe davvero piaciuto metterci sopra le mani,
ma il mio
portafogli piangeva al solo pensiero di organizzare una serata in
pizzeria,
figuriamoci comprare un titolo che valeva addirittura ottanta
euro, in uno degli unici due GameStop di Reggio Calabria,
la città in cui vivevo da dodici anni, molto più
tempo di quanto ne abbia
trascorso nel mio paese natale.
«
Beh, forse
se attingessi dai miei risparmi nascosti… »
mugugnai a malapena, ma fu più che
sufficiente affinché gli altri tre mi udissero e
sghignazzassero.
«
A dire il
vero, noi l’abbiamo già preordinato » si
vantò Voky; lo guardai, occhi e bocca
spalancati. « Cazzate » sibilai tra il furioso e il
disperato.
«
Infatti,
sono cazzate, » Paolo rise di gusto, « solo i beta
tester hanno diritto al
preordine del gioco, quindi a noi toccherà far la
fila… »
«
Non è una
prospettiva invitante, in effetti… » commentai.
L’istante dopo, l’idea: « ma
potrei farmelo portare direttamente a casa… »
«
Acquisto online?
»
«
Perspicace, un bel pupazzo a Felix che ha capito cosa intendo fare!
»
Mi sedetti
sul
divano con un grosso gemito di dolore; sfortunatamente, mia madre non
aveva mai
avuto la possibilità di affrontare l’esame per la
patente ed eravamo troppo poveri
per acquistare un’auto, quindi ero costretto, ogni santo
giorno, a camminare, andata e
ritorno, a scuola. E
non era esattamente vicino al quartiere nel quale vivevamo.
Appena
riuscii
a poggiare le natiche su quel soffice paradiso, i miei cani Jack e
Luka,
rispettivamente un Pinsher di quattro anni e un Pastore Maremmano di
due, si
fiondarono sui cuscini poggiati appena accanto a me e subito si
scagliarono
nella direzione opposta, inseguendosi in una corsa furibonda; il mio
primo
istinto fu di abbracciare la borsa contenente il mio NervGear, pronto a
proteggerlo al costo della vita: quell’affare, anche con
l’ottanta percento di
sconto al quale avevano diritto gli studenti, costava un diamine di
occhio
della testa!
Quando
l’attacco ebbe finalmente termine, mi alzai con cautela e
posai il
casco-console nell’armadio dove tenevo tutti i miei libri di
scuola, nella
speranza che lì sarebbe rimasto al sicuro; dunque mi distesi
su quello stesso
divano, troppo stanco perfino per pranzare, accendere la PlayStation o
prendere
un libro da leggere. Grugnii dal sonno. Avrei potuto benissimo
addormentarmi lì,
con le gambe gettate una sul comodino lì accanto, una sullo
schienale del
divano e le braccia un po’ per conto loro, come una qualche
ridicola bambola di
pezza buttata lì da un bambino dispettoso. Se non fosse
stato per un
piccolissimo problema: se nel malaugurato caso dovessi dormire per un
intero
pomeriggio, avrei considerato tutto quel tempo sprecato inutilmente.
Fu solo ed
esclusivamente per questo motivo che mi costrinsi ad alzarmi
nuovamente, andare
all’armadio di prima, prendere la borsa con il NervGear e
riaccasciarmi. Tirai
l’apparecchio fuori dal suo involucro di stoffa e plastica
termoindurente e me
lo poggiai sulle ginocchia per qualche secondo, pensando a cosa farci,
oltre a
collegarlo ad una presa di corrente, in modo da prepararlo per
l’indomani. Non
smettevo mai di meravigliarmi del fatto che una cosa
dall’apparenza così
semplice contenesse una tecnologia così maledettamente
avanzata: a detta del libretto
di istruzioni, una volta indossato questo avrebbe dovuto quasi
letteralmente scollegare le
funzioni cerebrali dal
corpo fisico. Cos’intendo dire: in virtù alla
miriade di complicati emettitori
di microonde, il NervGear convinceva il cervello che il corpo che stava
comandando era all’interno del mondo ricreato dal primo,
quindi, nel caso in
cui fossi, per esempio, in una simulazione di guerriglia urbana
(sì, esistevano
già. Il motivo, apparentemente, era la preparazione ad un
possibile attacco
terroristico alle scuole. Ma valli a capire), la mia mente sarebbe
stata
forzatamente convinta che quello che stava accadendo era reale e
avrebbe dovuto
muovere le proprie membra in modo da fuggire e sopravvivere. Se
dovessimo
metterla sotto termini più semplici, ci teletrasportava
quasi fisicamente nel
mondo artificiale.
Possedevo
diversi corsi di studio per il NervGear, tra cui
l’assemblaggio e
disassemblaggio di computer, con tanto di descrizione dettagliata di
tutte le
componenti, esplorazione di edifici e siti storici riprodotti con
fedelissima
grafica 3D e molte altre cose interessanti. Ma ero tra gli innumerevoli
studenti che si erano lamentati (e parecchio) del fatto che esistesse
perfino
un dannatissimo corso di matematica.
Ancora ricordo le notti passate in bianco dopo una sessione di almeno
quattro
ore di questa roba, con numeri e
formule che mi apparivano dietro le palpebre ogni volta che tentavo di
addormentarmi; sì, era buggato. Pesantemente.
Per
fortuna avevo
acquistato un paio di corsi di arti marziali. Potete immaginare
l’ira dei
maestri dei dojo di tutto il mondo, quando il primo corso di Tae-Kwon
Do fu
messo in commercio e fece il tutto esaurito in meno di una settimana.
Io,
invece, avevo optato per Kung Fu, Judo, Combattimento ravvicinato della
Marina
Militare e una demo di Ninjutsu, nel quale ero abbastanza abile. Ogni
giorno,
quando non avevo nulla da fare o un minimo di tempo libero, mi
immergevo in uno
o due di questi, finendo, talvolta, per rimanerci non poche ore, ad
esplorare
ogni singolo aspetto di tutte le tecniche nascoste in quelle arti che
fin da
bambino avevo così tanto bramato. Inoltre, un programmatore
neo laureato,
nonché mio amico, aveva perfino creato un programma di
Parkour, che, però, non
venne mai commercializzato perché troppo
pericoloso. Stupidaggini, ci siamo detti entrambi, e mi ha
dato una copia
in dono, con mia immensa gratitudine, dal momento che per due anni
interi mi
ero allenato in questa disciplina, ma a causa di una inarrestabile
serie di
eventi che hanno sconvolto la mia vita, fui costretto a porvi fine.
Fino ad
ora.
Con una
scrollatina di spalle, indossai il NervGear sulla testa e mi distesi
comodamente; una volta acceso l’apparecchio, pronunciai:
« Link start. »
Dopo un
turbinio di colori, mi ritrovai in una stanza completamente bianca,
salvo per
una dozzina di colonne di colori diversi ad altezza di bacino, che
spuntavano
dal terreno. Quelle erano le applicazioni pre-installate dai
produttori; quello
che mi interessava, però, era l’app che avevo
appena inserito nell’hardware, il
corso di Kung Fu. I software erano distribuiti sia in copia digitale
che copia
fisica, sotto forma di Micro SD, che si inserivano in un minuscolo
scomparto
che si trovava vicino all’orecchio destro, sulla superficie
del casco. Era
proprio a causa di queste dimensioni ridotte che parecchi utenti si
erano
ritrovati a perdere cartucce su cartucce, e quindi finivano per
preferire
l’installazione digitale.
Toccai con
i
polpastrelli una colonna arancione, che immediatamente si
aprì fino a raggiungere
le dimensioni di uno schermo da settanta pollici. Presentava il titolo
del
corso di arti marziali e un tasto che confermava l’avvio di
quest’ultimo; se mi
fossi allontanato di un passo, in quel momento, lo schermo sarebbe
tornato ad
essere una colonna.
Sfiorai il
tasto di avvio e mi venne chiesto di chiudere gli occhi; questo
perché,
apparentemente, durante i primi test gli utenti si erano ritrovati a
vomitare,
durante i caricamenti. Il problema non impiegò molto ad
essere risolto: era
sufficiente tenere le palpebre chiuse fino a nuovo ordine e tutto
andava bene,
senza essere costretti a rivedere il proprio pranzo.
Il
messaggio “prego, aprire gli occhi”
apparve poco
dopo ed io ubbidii.
Ma quel
che
vidi non era il menù di selezione della modalità
di allenamento. No. Quello che
vidi era tutt’altro: in una stanza questa volta nera come la
pece, un avatar
per tutorial stava in piedi dinanzi a me. Un avatar per tutorial era
una sorta
di manichino di colore azzurro, senza volto o fattezze che
contraddistinguevano
un essere umano dall’altro, dal momento che, come dice il
nome, il loro unico
compito era illustrare le funzioni al primo accesso al NervGear oppure
quelle
nuove dopo aggiornamenti del firmware importanti.
L’avatar
era
perfettamente fermo. Proprio quando mi chiesi se il corso di Kung Fu si
fosse
buggato (cosa che accadeva piuttosto spesso, in effetti), questi
proferì
parola: « la profezia sta per
divenire
realtà, giocatore. Sarai il nuovo Spadaccino Nero, oppure
morirai come tanti
altri faranno? »
Spalancai
gli
occhi; di che diavolo stava parlando?! Non solo quelle due frasi non
avevano un
reale senso compiuto, ma suonavano ancor più strane,
pronunciate da un avatar
per tutorial! Avrei chiuso un occhio, se quella fosse stata una trovata
pubblicitaria, ma sapevo ormai che gli annunci comparivano
esclusivamente come
messaggi privati e se
l’utente aveva
acconsentito a riceverli. Tutto questo era fin troppo assurdo; volevo
soltanto
allenarmi un po’ nel Kung Fu, prima di riprendere sotto mano
il codice che avevo
iniziato a scuola, ma forse ero stato troppo incosciente,
nell’entrare in
alcuni siti non autorizzati per programmatori e quello era un hacker
sotto
mentite spoglie.
«
Sparisci dal
mio NervGear, avanzo di imbecille! » latrai una volta
ritrovata la parola, «
prima che ti denunci! »
Allora,
l’avatar sollevò la sua mano senza dita,
aprì il menù dei messaggi privati
spedì qualcosa. Un secondo più tardi mi
arrivò una notifica di Messaggio
Privato Ricevuto da Utente
sconosciuto; con un ringhio selvaggio stampato sul volto,
aprii la missiva
digitale: conteneva un algoritmo scritto in Java, ancora da compilare.
«
Avvia questo
sul tuo computer e forse capirai » queste furono le sue
ultime parole, subito
prima che sparisse nel nulla, lasciando spazio alla selezione
d’allenamento che
cercavo prima di incontrarlo. Scossi il capo, già
dimenticante dell’intera
faccenda.
«
Felix, te
l’ho già detto stamattina: se modifichi la
variabile dodici senza cambiare
nulla della funzione che
la coinvolge, manderai in crash l’intero programma!
»
«
Aspetta,
ripeti, che mio fratello non ci crede! »
Finalmente,
dopo un paio d’ore di duelli nel corso di arti marziali, mi
ero messo al lavoro
sull’algoritmo che avremmo dovuto riportare compilato
l’indomani a scuola. E
Felix aveva problemi a scrivere il codice, perciò mi aveva
chiamato al
cellulare per chiedere spiegazioni e, magari, scroccare qualche riga
già
creata.
«
Whoa, ma sei
tu che hai dubbi, oppure Nick? » chiesi al microfono degli
auricolari,
interrompendo per un secondo la programmazione, un sopracciglio
inarcato dal
sospetto; dall’altra parte del filo si sentì
distintamente il mio compagno di
classe deridere il proprio fratello maggiore, che subito lo
mandò a cagare e
lasciò la stanza.
Il ragazzo
rise di nuovo e si rivolse a me: « allora, che intenzioni hai
per project Art?
»; grugnii. « Posso decisamente comprarlo, ma ho
alcuni dubbi, riguardo la
sensatezza dell’acquisto. »
«
Eddai, è un
Massive Multiplayer! Lo compreremo tutti e quattro, quindi ci
divertiremo
molto! »
Sospirai.
Avevo tutta l’intenzione di far mio questo fantomatico
“presunto Sword Art
Online”, ma, curiosamente, avevo un tremendo presentimento a
riguardo.
«
Qual è il
problema, scusa? » chiese poi l’altro, poggiandosi
sul letto con un sonoro
tonfo. « Prova a pensarci e magari ti insospettirai anche tu:
non è mai esistito un
videogioco per il
NervGear per quanto, due anni, ovvero fin da quando è stato
messo a forza nei
negozi ed ora se ne escono fuori con un titolo che, almeno in teoria,
dovrebbe rivoluzionare questo
piccolo grande
mondo. »
«
Arrivi al
nocciolo, per cortesia? »
Ringhiai
dalla
frustrazione. « Intendo dire che è assai
improbabile che sia un gioco. Ho le
mie ragioni per credere che
ci ritroveremo con un altro, pallosissimo sistema di didattica, fidati.
»
«
O magari ti
stai cagando in mano, pensando a quello che è successo
nell’anime. » Felix mi
prese in giro, come ogni volta che esplicavo una delle mie congetture.
Eppure,
la derisione dello stecco ambulante corrispondeva, almeno in parte, al
vero: la
prospettiva di ritrovarmi la mente intrappolata all’interno
di un videogioco e
dal quale era possibile uscire esclusivamente morendo
oppure concludendolo
mi spaventava a morte. E questa era una delle poche ma convincenti
ragioni che
mi stavano facendo intuire che c’era qualcosa di seriamente malato e, in qualche modo, pericoloso,
dietro project Art. Forse mi sbagliavo, ma quando il mio istinto mi
dice
qualcosa, lo fa ruggendo ad un volume indefinito, talmente alto che
talvolta mi
sorprendevo che le persone a me esterne non riuscivano a sentirlo.
Imprecai.
Quasi avrei voluto non aver letto quell’articolo di
MetaCritic. Allo stesso
tempo, però, i miei pensieri suggerivano che il gioco,
forse, sarebbe valso la
candela.
«
Vedremo. C’è
ancora un po’ di tempo, prima del day one.
Prenderò una decisione per allora. »
Felix,
dopo un
leggermente seccato va bene,
staccò
la chiamata.
Terminai
l’algoritmo mezz’ora prima di cena; assonnato e con
la testa dolorante,
risistemai tutte le mie cose nello zaino e mi assicurai che il NervGear
stesse
ricaricandosi propriamente. Mentre le mie dita e i miei occhi
indugiavano sulla
superficie liscia di quel marchingegno così sofisticato,
così avanzato da
apparirmi quasi alieno, a me, un gamer che proveniva dall’era
del Sega Master
System, NES, SNES e compagnia bella, anche se non così
vecchio, ripensai a
quello che aveva detto l’avatar:
La profezia sta per divenire realtà,
giocatore. Sarai il nuovo Spadaccino Nero, oppure morirai come tanti
altri
faranno?
Cosa
intendeva
dire con profezia? E chi diavolo
era
questo Spadaccino Nero che,
secondo
lui, sarei dovuto diventare al fine di sopravvivere a qualsiasi cosa
stesse
riferendosi?
Ancora
arrovellato, misi il casco al sicuro dai cani e andai a cenare.
«
Raga, ho
sentito che riceveremo un nuovo sistema di didattica, »
comunicò uno dei miei
compagni di classe facente parte della fetta dei fighi
ai suoi amichetti, che subito presero ad imprecare a manetta.
«
E che
sistema è, questa volta? »
«
Hanno detto
in televisione che si chiama “proget Arr”, o
qualcosa di così. »
«
Che palle,
non voglio altra roba per ‘sto coso! » un altro
schiantò la propria borsa
contenente il NervGear al muro, furibondo.
«
Cosa, non ti
unisci a noi, Silvio? » fece il primo a parlare, rivolto a
me; scossi il capo.
« Meglio che esegua qualche altro test sul programma che
dobbiamo portare
all’interrogazione di oggi » risposi, accendendo il
mio telefono, all’interno
del quale avevo inserito una copia esatta dell’algoritmo del
giorno prima, desideroso
di non immischiarmi in discussioni in cui si sfracellavano caschi
ipertecnologici al muro.
«
Che nerd… »
lo sentii sibilare ad un’altra compagna, ma lo ignorai.
Piuttosto incominciai a
scervellarmi per trovare l’incongruenza nella riga
sessantadue che provocava un
errore di lettura…
Qualcuno
afferrò la mia borsa, per dispetto; lo anticipai e, senza
volgere lo sguardo,
mi ripresi tutto, causando qualche esclamazione stupefatta.
Forse se
avessi eliminato la variabile della riga quarantasette…
Quello che
voleva infastidirmi tentò di strapparmi il NervGear di mano.
Lo fulminai ancora
e calciai la sedia che mi stava dinanzi, colpendolo alle rotule e
facendolo
quasi cadere.
No,
così era
ancora peggio. Avrei fatto meglio a riscrivere le parti che ho
eliminato prima…
«
Ah, spero
che un giorno ci morirai, con quei cazzo di videogiochi! »
Morirai.
Questa
parola
mi riecheggiò nel cranio. Ma non mi aveva impressionato,
tanto meno offeso. No.
Quello che era riuscita a fare era far scattare qualcosa, nella mia
mente,
qualcosa di inaspettatamente illogico, folle ma anche sensato. Qualcosa
che
neanch’io, per quanto mi potessi sforzare, riuscivo a
comprendere in alcun
modo. Posai la borsa sul pavimento subito accanto a me, al sicuro da
mani
indesiderate, e mi massaggiai il mento, nel tentativo di intendere cosa
il mio
cervello stesse cercando di comunicarmi.
Magari
l’avvertimento dell’avatar c’entrava
qualcosa?
Scossi il
capo: quello doveva essere stato un bug di sistema, una trovata
pubblicitaria
era sfuggita al controllo del suo creatore, o qualcosa di simile. Poi
mi
ricordai dell’algoritmo che mi aveva spedito tramite
messaggio privato. Tutti i
messaggi ricevuti su NervGear venivano salvati su un cloud privato,
quindi
avevo accesso al backup ogni volta che lo desideravo e da qualsiasi
dispositivo. Avrei potuto accedervi anche dal cellulare, in quel
momento.
Facendo una smorfia come per dire “okay,
facciamolo”, eseguii il log-in al mio
cloud e ne recuperai l’algoritmo.
Leggendolo
così non presentava nulla di anomalo, salvo per il fatto che
sembrava essere
una sorta di orologio. Incuriosito,
compilai il codice che, nonostante la considerevole mole,
impiegò veramente
poco a far apparire il programma pronto.
Il nome
dell’applicazione, All’inizio
della fine,
non prometteva nulla di buono; essendo, però, un codice
grezzo non avrebbe
dovuto presentare alcun tipo di spyware, quindi cercai di mantenere la
calma,
mentre attendevo che l’avvio avvenisse.
«
Ehi,
ragazzi, buongiorno, » Paolo arrivò in classe,
tutto trafelato e Voky e Felix
si risvegliarono dal loro letargo pre-scolastico per salutarlo. Non
capitava
spesso, ma perfino quel pignolo arrivava in ritardo a scuola,
specialmente a
causa degli orari sballati degli autobus. Sfortunatamente, le gambe di
qualcuno
non hanno bisogno di manutenzione, quindi il sottoscritto poteva
assentarsi da
scuola esclusivamente se in punto di morte.
«
Allora, caro
Shine, sai cosa fare per project Art? » chiese, dopo essersi
sistemato a posto;
lo guardai. Molto più spesso, invece, capitava che Paolo si
divertisse ad
infastidirmi con domande costanti, alle quali non ero ancora riuscito a
rispondere. Per questo parecchie nostre discussioni terminavano spesso
con un
“hai creato il tuo primo videogioco?”, oppure un
“quando ti compri la moto?”.
Lo mandai
a
quel paese, stiracchiandomi le braccia.
«
E questo
cos’è? » fece Voky, sistemi
completamente riattivati. Stava indicando lo
schermo del mio telefono, che avevo momentaneamente abbandonato sul
banco.
Poggiai lo sguardo dove stava puntando il dito.
E rimasi
di
stucco.
Su quello
schermo, stilizzati come un orologio a tasselli, era possibile leggere
diversi
numeri.
No.
Quelli non
erano semplici numeri.
Tre giorni, ventidue ore, cinquanta
minuti, tre secondi.
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