Il sole sorge a ovest

di Trick
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo Uno ***
Capitolo 3: *** Capitolo Due ***
Capitolo 4: *** Capitolo Tre ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quattro ***
Capitolo 6: *** Capitolo Cinque ***
Capitolo 7: *** Capitolo Sei ***
Capitolo 8: *** Capitolo Otto ***
Capitolo 9: *** Capitolo Nove ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Documento senza titolo

Ehilà, creature.

Ho avuto l'illuminazione. Ero coricata a letto con un fighissimo fumetto di Star Wars in una mano e con una tazza degli Avengers piena di caffelatte nell'altro, quando, d'un tratto, ho capito.

È giunto il momento di porre fine a quell'infinita, adolescenziale e oggettivamente brutta long-fic nata quasi otto anni fa. Otto anni sono un sacco di anni, ho pensato dall'alto di un'immagine veramente figa di Ian Solo. Ma no, io e la ragazzina che sono stata non saremmo andate poi così tanto d'accordo e ciò che ha scritto lei otto anni fa, pur con impegno e dedizione, non è niente di ciò che potrei cercare di scrivere oggi.

Ed ecco la svolta. L'idea. La follia. Ma crediamoci.

Quella che vi apprestate a leggere altro non è che la solita, nonfinita, adolescenziale e oggettivamente brutta Diario di un Lupo in un Branco di Lupi.

Sempre lei, solo... beh, un po' più grande e un po' più vecchia, proprio come la sua scompigliata autrice.



°°°



°°°

 

Ci stava impiegando decisamente più tempo del previsto. E dire che lui, di oggetti preziosi da conservare con cura non ne aveva mai avuti.

Possedeva solo i malridotti romanzi Babbani di sua madre e un acquario ormai opaco nel quale suo padre studiava le Creature Magiche. Niente di antico, insomma.

Erano solo cose vecchie e rovinate, robaccia da due Zellini che avrebbe potuto semplicemente scagliare di nuovo nel fondo del baule ingrandito con l'Incantisimo di Estensione Irriconoscibile. Dopotutto, quando l'Ordine della Fenice era stato costretto ad abbandonare in fretta Grimmauld Place, a Remus erano bastati cinquantaquattro secondi per disfarsi di qualunque cosa fosse conservata nella sua stanza.

Cinquantaquattro secondi.

Eccolo lì, il reale peso della sua vita. Cinquantaquattro secondi. In trentacinque anni di età non era riuscito ad accumulare nemmeno un minuto di ricordi che valessero la pena di essere conservati con cura.

Remus era abbastanza sicuro che Sirius avesse impiegato sette secondi per morire. La sua mente aveva ripercorso quel momento fino a quando non aveva realizzato che il tempo non si era affatto fermato. Aveva rivissuto ancora e ancora, Sirius sprezzante – Sirius vivo – Sirius che duella – Sirius che vive – e no, dopo il suo centesimo tentativo e un pugno di Kingsley alla bocca dello stomaco aveva decisamente realizzato che Sirius non ci aveva impiegato un'eternità.

Sette secondi.

Negli ultimi sette secondi Remus era semplicemente rimasto in piedi al centro del misero salottino della vecchia casa dei suoi genitori nello Yorkshire con una copia sciupata di Ivanhoe in mano.

Sette secondi.

Si avvicinò alla libreria piena solo per la metà e infilò Ivanhoe fra Cime tempestose e Otello, senza alcuna logica e senz'alcun senso dell'ordine. Fino a qualche tempo prima avrebbe scelto di catalogarli per genere, per anno, per autore... di tanto in tanto aveva bisogno di fermare la testa e svuotava l'intero contenuto della libreria solo per il gusto di trovare un ordine diverso, qualcosa che all'apparenza potesse funzionare meglio. Strinse qualche avventura di Sherlock Holmes sopra alla rigida copertina di Anna Karenina e, per buona misura, infilò una cartina della metropolitana di Londra fra le pagine de I Miserabili.

Sette secondi per morire. Mentre lui aveva raccolto le sue cose in cinquantaquattro secondi e le stava sistemando con risultati deludenti da cinque ore, tredici minuti e ventisei secondi.

Non era nemmeno del tutto certo del perché stesse contando.

Uno, due, tre...

Dante Alighieri accanto a Nabokov.

Quattro, cinque, sei...

E Nabokov vicino alla Bibbia.

Sette.

Si domandò per l'ennesima volta quanto potessero essere inutili setti secondi e stava per rispondersi per l'ennesima volta che non era importante, quando riconobbe il fischio acuto del campanello nell'ingresso. Concesse allo sconosciuto visitatore di fare altri due tentativi e gli lasciò qualche minuti per andarsene.

Poi il campanello suonò ancora e con più insistenza, e non fu l'unico suono a turbare il suo silenzio.

«So che sei lì dentro, pezzo di cretino!».

Remus sospirò, appoggiò Macbeth sulla libreria e si diresse con passo lento fino al piccolo ingresso polveroso. Tolse il chiavistello e abbassò la maniglia senza chiedere chi fosse. Non ne aveva bisogno, non con quella voce acuta e irritata. Non con lei.

Quella mattina i capelli di Tonks erano del suo colore naturale, neri e brillanti.

Non era un bel segno. Negli ultimi mesi Remus aveva imparato a riconoscere certi tratti distintivi del suo carattere prima dei membri dell'Ordine. Tonks sapeva riprodurre qualunque tonalità con incredibile maestria, ma di tanto in tanto ne perdeva il controllo: il verde pistacchio era una conseguenza di una situazione imbarazzante; giallo canarino quando rideva troppo, lilla quando beveva troppo. Una volta l'aveva vista con tutti e tre i colori contemporaneamente.

Il nero, ad ogni modo, restava un brutto segno.

“Scusa, ho la testa altrove...” le aveva confidato parecchi mesi prima, quando le aveva domandato per quale motivo quel giorno la sua testa non fosse psichedelica. “...quando sono concentrata su qualcosa mi scordo i capelli. E comunque fottiti, Lupin, io non sono psichedelica: sono semplicemente meravigliosa”.

«Oh, grazie mille» sbottò lei con un nota di limpido sarcasmo nella voce, mentre gli sgusciava accanto per oltrepassare la soglia con aria marziale. «È un onore essere ricevuta da Sua Maestà Pezzo-Di-Cretino! Sono desolata di essere arrivata senza preavviso, Vostra Altezza Baciami-Le-Chiappe, ma ho supposto che dopo un mese di suo totale esilio, qualcuno dovesse accertarsi che il vostro regale cadavere non stesse puzzando troppo». Si fermò sulla porta della cucina e si voltò per rivolgergli un'occhiata astiosa. «Stronzo».

Remus sospirò di nuovo e la seguì in silenzio. Sapeva di essere nel torto, ma sapeva anche che le sarebbe passata molto in fretta. Tonks si era già impadronita di una tazza e aveva acceso la vecchia macchina da caffè di sua madre. Non gliel'aveva mai confessato apertamente, ma negli ultimi mesi si era affezionato alla naturalezza con cui lei si muoveva per la casa, fra le sue cose vecchie e la sua vita vecchia.

Prese dalla mensola una seconda tazza e la appoggiò accanto a quella di Tonks, che roteò gli occhi al cielo e protestò:

«Sul serio, Remus? Non mi dici una parola e ora vuoi il mio caffè?».

«Tecnicamente è il mio caffè».

«Tecnicamente lo faccio meglio di te».

«È il motivo per cui ne voglio una tazza anche io».

Lei emise uno sbuffo rassegnato, ma sembrava essersi calmata.

«Remus, io--».

«Lo so. Non sentirti obbligata a scusarti per avermi chiamato pezzo di cretino».

Le labbra piene di Tonks si piegarono in una smorfia divertita. Aveva un rossetto di un viola intenso che le faceva sembrare ancora più soffici e carnose.

«Pezzo d'imbecille ti fa sentire più tranquillo?».

«Sì, molto» rispose Remus, mentre afferrava la tazza calda che lei gli porgeva.

Nel versare il caffè aveva rovesciato un paio di gocce scure sul tavolo e lui l'aveva ripulito distrattamente con uno strofinaccio un po' logoro. Non c'era bisogno di dire altro. Se all'inizio lei si scusava per dieci minuti e lui rispondeva che non era nulla di cui preoccuparsi per altri venti, ora entrambi godevano il silenzio dell'abitudine.

«Sono solo due settimane, non un mese» notò infine lui, soffiando via un po' di vapore caldo.

«Remus, sto cercando di sbollire per non prenderti a calci: collabora».

«Hai ragione».

«Puoi scommetterci le pa-- oh, è caldo forte!». Aveva scostato la bocca dalla tazza con un sibilo di dolore. Parlò solo dopo qualche secondo. «Remus, so che sei ancora fuori di te. Non mi sono ripresa io, quindi figurati tu... però hai bisogno di muoverti, di staccarti da te stesso. Credevo che la situazione sarebbe migliorata ora che il Ministero ha capito di essere pieno di imbecilli e ha accettato il ritorno di Voldemort, ma... Cristo, Remus, è ancora tutto un casino. Abbiamo bisogno di te ora più che mai».

Lui non disse niente. Continuò a rimirare le onde nere del proprio caffè attorcigliarsi nella tazza. Tonks inspirò profondamente.

«Dimmi che hai smesso di contare...» gli chiese con una nota di preoccupazione nella voce. «Ti prego, dimmi che non stai sistemando di nuovo i libri. Sarebbe la trentesima volta in meno di un mese».

«Trentaduesima, in realtà. Lo so, è una cosa folle...» aggiunse in fretta. «Lo pensa anche Silente, sebbene abbia avuto il garbo di non dirmelo apertamente».

«Silente è stato qui?».

«Sì, qualche giorno fa...».

Tonks lo invitò a proseguire con un cenno eloquente del capo.

«...e nient'altro. È solo venuto a... vedere come stavo sistemando la libreria, credo».

Mentirle lo faceva sentire un mostro. Aveva trascorso tutta la vita nelle menzogne ed era diventato un bugiardo realmente impareggiabile – non che lo reputasse un vanto – ma mentire a lei, a Tonks... non era del tutto sicuro che lei gli credesse tutto le volte, ma i suoi occhi vibravano di fiducia, e lui sapeva, bugia dopo bugia, che lei avrebbe sempre mantenuto vivo il desiderio di credergli. Questo sì, che lo faceva sentire un mostro. Tonks era leale, era sincera, era diretta. Era tutto ciò che lui non aveva mai potuto essere, ma c'erano cose che non poteva dirle... non poteva e basta, non riusciva.

«Immagino sia preoccupato quanto noi».

La risposta di Tonks giunse più in ritardo di quanto non avrebbe desiderato. Per qualche motivo che Remus ignorava, sembrava intenzionata a superare quell'ennesima menzogna.

«È per quello che ho detto, vero?» disse lei dopo diversi secondi di silenzio. Nella sua voce suonava una pavida esitazione, molto differente dall'usuale esuberanza di cui si era innamorato mesi prima. «Sai che non intendevo farlo».

«No, io--».

«Lo intendevo» lo interruppe con più decisione. «Dico davvero, Remus. Intendevo davvero ogni singola e fottuta sillaba che ti ho detto... ma non era il momento giusto».

Remus aprì la bocca ma la richiuse senza dire altro. Non era del tutto certo di cosa rispondere.

Aveva un'infinità di cose da dirle, un'infinità di domande da porle e un'infinità di obiezioni da avanzare... ma non sapeva da quali fosse meglio iniziare.

«Dopotutto ero in shock post-traumatico» continuò lei con finta allegria. «E se di norma sono capace di dire la cosa sbagliata al momento sbagliato, figurati cosa posso combinare in shock post-traumatico, giusto?».

Avrebbe voluto dirle che non era né il momento né il luogo a essere sbagliato. Erano le parole. Era tutto ciò che quelle parole significano.

“Mi sto innamorando di te”. Era stato il pigolio di una donna moribonda, con il volto pallido e una grossa benda ancora sanguinolenta attorno alla testa. “So che non vuoi sentirlo, Remus, ma io sono quasi morta, Sirius è morto e io ho una paura fottuta, quindi dovevo dirtelo... dovevo dirtelo adesso”.

Per un attimo era stato solo fuoco. Caldo, intenso, inaspettato. Per un attimo aveva solo pensato di mandare ogni cosa al diavolo, raccogliere quel suo mucchietto d'ossa e portarla dall'altro capo del mondo, lontano dalla guerra e dalla morte, in un posto in cui avrebbe potuto amarla senza nessun altro pensiero. Avrebbe voluto fare l'amore con lei ogni notte. Avrebbe voluto dirle anche questo, ma era rimasto in silenzio.

Era sbagliato. Tutto era sbagliato.

«Ho bisogno di sapere se intendi smettere, adesso».

La guardò perplesso.

«Smettere di rigirare le carte in tavola» continuò lei con enfasi. «Ho bisogno di sapere se prenderai una decisione, se mi dirai se nella tua vita c'è spazio per me o no. Se smetterai di saltare avanti e indietro, se capirò mai se cercarti al mio fianco o alle mie spalle... qual è la verità? Cosa siamo davvero?».

Avrebbe voluto fare l'amore con lei ogni notte, ogni giorno, perfino in quell'istante. E tremava dalla voglia di dirglielo, di provare la sensazione di essere sincero almeno una volta. Gli occhi scuri di Tonks lo scrutavano brillanti.

«Vorrei fare l'amore con te ogni notte» sputò infine, senza nemmeno guardarla. Scosse la testa come se non riuscisse a credere a ciò che stava dicendo. «Vorrei fare l'amore con te ogni giorno, perfino in questo istante». Scrollò le spalle come se stesse conversando del tempo, troppo confuso per fingersi nuovamente quello con i piedi per terra. «E sarebbe sbagliato. Meriti meglio e voglio che tu lo abbia, quindi... eccola, la verità. Devi andare via».

Tonks appoggiò la tazza al lavabo e inclinò appena il capo. Poi emise uno sbuffo a metà fra un sospiro e una risata soffocata.

«Puoi dirmelo ancora?».

«Devi andare via».

Lei scosse piano la testa. Gli prese la tazza dalle mani e la appoggiò accanto alla propria. Iniziò a giocherellare quasi distrattamente con il colletto della sua camicia, fingendo di sistemarglielo con cura.

«Dimmelo ancora».

«Tonks...».

«Dimmi che vuoi fare l'amore con me».

Era vicina... talmente vicina da permettere a Remus di sentire ognuna delle curve del suo corpo schiacciate contro il suo. Abbassò gli occhi per guardare le sue mani sfilare il primo bottone, ma non si mosse. Qualcosa nella sua testa gli stava gridando di farlo – di fermarla, di salvarla – ma rimase fermo a guardarla con la gola secca e le labbra dischiuse.

Come poteva quella donna avere su di lui un effetto talmente dirompente?

«Dimmi che vuoi fare l'amore con me ogni notte».

Si era alzata in punta di piedi e aveva nascosto il viso nell'incavo nel suo collo. Le sue labbra iniziarono a solleticargli la mandibola... doveva fermarla.

«Tonks....».

La sua mano iniziava a scendere pericolosamente verso il basso, dove il calore iniziava a intensificarsi... avrebbe dovuto fermarla. Lo sapeva bene, c'erano milioni di ottime ragioni per le quale avrebbe dovuto farlo. E invece iniziò a contare.

Uno...

«Dimmi che vuoi fare l'amore con me ogni giorno...».

Due...

«Dimmi che vuoi fare l'amore con me anche in questo istante».

Tre.




°°°



Qualche blanda nota di fine capitolo per non dimenticare i vecchi arbori.

Alla fine ho deciso di ignorare molto di ciò che Pottermore ha rivelato negli ultimi anni per dare spazio alle manie di protagonismo mie e dei miei HeadCanon, primo fra tutti il passato di Lupin. Quindi probabilmente finirete per rileggere cose che avete già letto decine di volte nelle mie sempre-verdi e sempre-uguali fan fiction e mi minaccerete con la padella di Rapunzel... by the way, per ora credo che rispetto alla prima versione adolescenziale di Diario di un Lupo in un Branco di Lupi, cambieranno solo le cose che non mi piacciono, tutte quelle schifezze di cui con gli anni mi sono pentita... non oso dunque quantificarle.

Grazie mille a chi non ha voluto dimenticare la mia prima incompiuta long-fic e che ha avuto la faccia tosta di rinfacciarmi di non averla mai terminata. A causa vostra – e vi dico grazie sul serio – si ricomincia.


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Capitolo 2
*** Capitolo Uno ***


Documento senza titolo

Beh, non è male: sono al primo capitolo e non ho già nulla da dire.

Not bad.



°°°



°°°

«Dessert al cioccolato».

I due colossali Gargoyle di pietra posti a custodia delle scale che conducevano alla torre più alta del castello di Hogwarts si sollevarono dai loro piedistalli e si spostarono quieti ai lati della porta. Remus si affrettò a risalire le scale a chiocciola che portavano all'ufficio di Silente con il capo chino, il cappuccio del mantello liso ancora calato sul volto.

Nonostante ritenesse piuttosto improbabile incrociare qualche studente a quell'ora tarda della notte, aveva preferito essere quanto più prudente possibile. Silente era ancora circondato da malelingue che nemmeno il ritorno di Voldemort era riuscito a smorzare: un Lupo Mannaro a passeggio fra le pareti del castello non avrebbe fatto che peggiorarle ancora.

Chi fino a qualche mese prima si era dichiarato sicuro della pazzia dell'anziano Preside, ora era convinto fosse semplicemente troppo vecchio. In qualunque caso, a sentire loro, i suoi consigli e le sue strategie non erano più garanzia di vittoria. Per Remus, la cui fiducia in Silente sconfinava talvolta nell'animalesco, erano solo le panzane di un Ministero che non aveva mai davvero resistito alla guerra.

L'ufficio di Silente era avvolto quasi totalmente nell'oscurità. Non fosse stato per un candelabro galleggiante, non avrebbe nemmeno notato l'alta figura del Preside accomodata su una poltrona. Addormentata su un alto trespolo accanto a lui, c'era Fanny. Silente indossava una camicia da notte di un intenso color violetto e i suoi calzettoni di lana erano spaiati e malmessi.

«Buonasera, Remus» lo salutò con voce gioviale. «O buongiorno, forse. Immagino sia una questione di punti di vista piuttosto relativa».

Remus fece un sorriso leggero e si avvicinò.

«Mi dispiace averla svegliata nel cuore della notte, ma non potevo attendere oltre».

«Non preoccuparti». Silente lo invitò ad accomodarsi sulla poltrona di fronte con un gesto leggero della mano. Attese che Remus si fosse seduto prima di parlare ancora. «Posso dunque ritenere che tu abbia valutato la mia proposta?».

«Sì».

Alla luce delle fiammelle, il volto di Silente appariva molto più vecchio di quanto non fosse. Remus si domandò se stesse offrendo lo stesso triste spettacolo. Osservò ancora la sua buffa camicia da notte, ma incrociando gli occhi vivaci dell'anziano non vide alcuna ombra di stanchezza, nessun segno che facesse pensare che qualche sciagurato Lupo Mannaro lo avesse svegliato di colpo in piena notte. Sorrise appena. Le bugie di Silente non lo avevano mai impensierito.

«Non credo di avere una seconda scelta» confessò infine Remus, mostrandogli i palmi.

«Tutti abbiamo una seconda scelta».

«Qual è la mia?».

«La seconda scelta di chiunque a questo mondo» rispose Silente con ovvietà. «Fuggire».

«Non intendo fuggire».

«Né io avrei mai pensato il contrario».

Remus volse l'attenzione alla mezzaluna che si specchiava nelle acque del Lago Nero. “Non intendo fuggire” aveva detto, ma era vero? In cuor suo sapeva che era esattamente ciò che stava facendo. E doveva saperlo anche Silente, sebbene stesse dimostrando ancora una volta la cortesia di non intromettersi nelle sue decisioni. Immaginò Tonks svegliarsi in quel preciso momento e allungare un braccio fra le lenzuola senza trovare nessuno addormentato accanto a lei. Le donne che aveva conosciuto prima di lei si sarebbero infuriate: lei con tutta probabilità avrebbe cercato di rompergli il naso con un pugno.

«Vorrei poterti offrire di più. L'ultima notizia fondata che ho della Fossa risale a molti anni fa...».

«Diciassette» puntualizzò d'istinto Remus. «E se non ho fallito allora, per quale motivo dovrei fallire oggi? Dopotutto, Preside, la Fossa non è mai cambiata nel corso dei secoli... la sua gente è terrorizzata alla sola idea di cambiare gli stivali» aggiunse con tono più allegro, sforzandosi di dissimulare l'agitazione.

Silente lo guardò a lungo. Si sfilò gli occhiali con incredibile lentezza e si massaggiò le palpebre.

«Devo confessarti, Remus, che quest'informazione proviene da qualcuno di cui so di potermi fidare ciecamente».

Remus era confuso. Aveva l'impressione che Silente stesse tentennando perfino più di lui – ma Silente non tentennava, non poteva tentennare.

La sua voce lapidaria colpì Remus come uno schiaffo.

«Fenrir Greyback è tornato».

Per un momento Remus rimase immobile davanti alla scrivania con espressione assente. Doveva essergli sfuggito qualcosa di molto stupido o molto ovvio, perché non riusciva a capire cose stesse cercando di dirgli Silente. Doveva esserci uno sbaglio.

«Fenrir Greyback è morto» ricordò con decisione Remus. «Saltò in aria insieme a cinque Mangiamorte sul ponte della ferrovia di Coventry».

«Lo so...».

«L'ho visto esplodere, ho visto quel ponte prendere fuoco come un petardo e trascinarsi novantasei Babbani e tredici Auror per oltre sessanta metri di vuoto. E Greyback è esploso con tutti loro».

«Remus...».

«No. È morto. Io l'ho visto, io c'ero».

«Lo ricordo bene».

Le mani di Remus tremavano. Strinse ripetutamente le dita e iniziò a muoversi avanti e indietro, incerto. Continuava a sfuggirgli qualcosa – a lui, a Silente, a chiunque avesse raccontato questa stupidaggine per riesumare i mostri del suo passato – perché non poteva essere vero. Greyback era morto e Remus non avrebbe mai dimenticato quella notte. Il boato, le fiamme, le grida delle persone rinchiuse nelle carrozze del treno che si spingevano contro i finestrini nel disperato tentativo di scappare... la Maledizione del tutto incontrollabile di uno dei Mangiamorte che aveva portato l'inferno su quel ponte. Era il quindici aprile del 1979, erano le dieci e un quarto di sera e Remus non lo aveva più scordato. Era il giorno in cui aveva visto il mostro annidato sotto al suo letto svanire per sempre.

«Com'è possibile?» riuscì infine a chiedere. «Se anche fosse scampato dall'esplosione – e così non è, l'ho visto avvolto dalle fiamme – il treno delle dieci e quarantasei se lo è trascinato nel dirupo e si è schiantato».

«Temo di non avere una risposta».

«Può almeno dirmi chi mai avrebbe visto il cadavere di Greyback aggirarsi per l'Inghilterra?».

«Severus».

Remus sbatté le palpebre come se non potesse credere a quanto aveva appena sentito. Schioccò la lingua e scosse il capo, incapace di trattenere il sarcasmo.

«Giusto. Severus... come potrei non fidarmi di lui, d'altronde?».

«So che la notizia ti ha sconvolto, ma devi fidarti».

«Di Severus?».

«Di me» lo corresse laconico Silente. «Voglio essere certo che non sottovaluterai i rischi che questa missione comporterà. Non abbiamo un'idea chiara su cosa sia cambiato con il ritorno di Greyback. Diciassette anni sono lunghi e molti dei Lupi Mannari che lo seguivano sono caduti insieme ai Mangiamorte... ma in questi anni abbiamo commesso l'errore di fingere ancora una volta che la Fossa non esistesse, e un numero sempre maggiore di esiliati finivano per abbandonare la comunità magica e infoltirne le fila. Questi profughi della nostra società sono un'incognita. Non sappiamo nulla di loro».

«Clandestini».

Silente inclinò interrogativo il capo.

«È così che viene chiamato chi si unisce alla Fossa dopo essere stato morso» spiegò Remus con aria distante. «La maggior parte della Fossa è composta da Clandestini: è maledettamente raro che un Lupo Mannaro riesca a riprodursi o che un feto riesca a sopravvivere ai mutamenti del ventre materno durante il plenilunio».

Non era necessario e probabilmente stava ripetendo cose che Silente conosceva a sua volta, ma sapeva che l'altro mago non lo avrebbe fermato. Silente lo conosceva da quando era un bambino: analizzare le situazioni lo aiutava a mantenere la calma.

«Bambini e ragazzini sono quasi tutti frutto dell'abbandono dei genitori a seguito dell'aggressione di un altro Lupo Mannaro» riprese Remus. «È un'abitudine che il Ministero della Magia ha sempre negato di accettare pur continuando a permetterla... lo sanno tutti. Se vuoi sbarazzarti di un bambino affetto da licantropia, devi lasciarlo nella metropolitana di Londra. Tutto il resto viene da sé... e la Fossa se lo prende» concluse con voce roca. «Durante i pleniluni è decisamente meglio stare laggiù piuttosto che quassù...».

Silente sospirò.

«Sei tornato nella Fossa anche dopo la caduta di Voldemort, non è vero?».

Remus scrollò le spalle.

«È un buon vantaggio con il quale partire».

Silente dovette annuire suo malgrado.

«E come suggerisci di affrontare il pericolo costituito da Greyback?».

Non era certo di saperlo. Non aveva nemmeno accettato che non fosse morto... e un'antica paura che era morta con lui stava iniziando a risvegliarsi.

«Anche Greyback era un Clandestino e i Figli della Fossa intenzionati ad assecondare le sue folli idee di rivoluzione e strage erano molto pochi e molto deboli. I Lupi dei quali si circondava non avevano molta esperienza ed erano vittime di aggressioni recenti, ancora del tutto incapaci di metabolizzare il cambiamenti della loro vita e del loro corpo, facili prede di rabbia e vendetta... all'epoca per lui fu relativamente semplice circondarsi di Lupi Mannari che condividevano il suo stesso odio per il mondo degli umani e per il Ministero della Magia». Si grattò la barba, tentando di mantenere la propria concentrazione ben lontana da ciò che Greyback suscitava davvero in lui. «Tuttavia, come lei sa bene, presto hanno capito che Voldemort non aveva alcuna intenzione di concedere loro ciò che il Ministero ci negava da secoli e le sue schiere si sono indebolite fino a poche decine... ad essere sincero, Preside, io temo che Lord Voldemort possa trarre da ciò che è accaduto diciassette anni fa un valido insegnamento. Il Ministero, invece...».

«...continuerà a offrire ai Lupi Mannari sempre più ragioni per voltarci le spalle».

Remus mosse il capo in un flebile assenso.

«Io sono già pronto, Preside».

Le dita di Silente tamburellarono qualche istante sui braccioli della poltrona.

«Lo so... ma devo confessarti di essere tremendamente preoccupato».

«Naturale. Non ho alcuna garanzia di riuscire a impedire a Voldemort di servirsi della Fossa per i suoi scopi e--».

«No, Remus: io sono preoccupato per te» lo interruppe con decisione.

Fra tutte le cose che avrebbe potuto aspettarsi da Silente, la sua preoccupazione non era decisamente una di esse.

«Oh, beh... non ce ne è bisogno. Me la caverò».

Silente gli sorrise con affetto e si alzò in piedi. Remus lo imitò, in parte lieto che la conversazione stesse terminando prima che potesse trasformarsi in argomenti verso il quale era più insofferente... con Silente capitava troppo spesso.

«Non è facile vedervi tutti adulti, sai, Remus?» commentò quasi casualmente. «Tu, Severus, Kingsley... perfino Hagrid. Sono abbastanza vecchio da ricordare tutti gli anni che avete trascorso in questo castello». Si avvicinò al trespolo e accarezzò la piccola testa della fenice, che emise un lungo fischio nel sonno. «Siete maghi di grande talento, ma non credo che riuscirò mai a dimenticare quanto eravate giovani mentre il Cappello Parlante vi smistava. Sei stato probabilmente uno dei Testurbanti più lunghi degli ultimi duecento anni, lo sai?» aggiunse con voce divertita.

Remus ridacchiò.

«Lo ricordo bene. Il Cappello Parlante mi chiese di mettermi le mani nei capelli al suo posto».

La risata di Silente parve allietare l'atmosfera cupa della notte e presto Remus se ne ritrovò contagiato.

«Credo che alla fine tutto quel suo ragionare e borbottare abbia portato alla scelta giusta, Remus».

Remus non ne era del tutto convinto, ma non aveva voglia di contraddirlo.

«Lei è di parte, Preside».

«Eh... forse un pochino lo sarò sempre» concluse vivacemente.

Consapevole che il momento di andarsene era finalmente giunto, Remus si sentì obbligato a tendere la mano all'anziano mago. Silente la strinse con vigore mentre gli appoggiava l'altra sulla spalla destra.

«Per quel che conta, Remus, ti ritengo uno degli uomini più coraggiosi a cui abbia mai avuto il piacere di insegnare» ammise con dolcezza Silente. «Qualunque cosa accada nella Fossa, ti scongiuro di non dimenticarlo».


°°°


Fu la luce fastidiosa del sole a svegliare Tonks.

Quando si decise finalmente ad aprire gli occhi, la sveglia sul comodino di Remus segnava le sette passate. Mugugnò appena e si voltò verso di lui per controllare se si fosse svegliato a sua volta. Le ci vollero parecchi secondi per rendersi conto che era sola.

Si alzò a sedere e si guardò intorno. La camicia che Remus aveva appoggiato sulla cassettiera la sera prima era ancora lì, ma le sue scarpe erano sparite.

«Remus?» lo chiamò.

Non ricevendo alcuna risposta, sbuffò stizzita, si sollevò dal letto e acciuffò la sua camicia per evitare di uscire in mutande nel giardino. La casa di Remus era piccola: se non l'aveva sentita, doveva per forza essere uscito in giardino. Il motivo, tuttavia, le sfuggiva, ma iniziava a sentire un vago pizzicore preoccupato risalirgli lungo la schiena.

Aprì la porta d'ingresso e venne investita da una folata d'aria fredda che si insinuò sotto la camicia leggera. Sebbene fosse estate, l'alba nello Yorkshire restava umida e gelida.

«Remus?» chiamò ancora. «Dove accidenti ti sei cacciato?».

Lo cercò nel retro, sbirciò lungo la strada che conduceva al centro della piccola e noiosa cittadina di Queensbury, ma dopo diversi minuti fu costretta ad arrendersi. Rientrò in cucina con passo rapido mentre la preoccupazione si mescolava a una rabbia genuina. Doveva esserci una spiegazione logica e razionale.

«Remus?».

Il salotto era vuoto, i suoi libri ancora abbandonati negli scatoloni.

“Beh, perlomeno non si è svegliato nel cuore della notte per fare le pulizie”.

Remus non era nemmeno in cucina. Impensierita, ritornò nella camera da letto per recuperare la bacchetta. Fu solo quando ebbe recuperato i suoi jeans dal pavimento che si accorse della pergamena che spuntava dalla tasca destra. Era la tasca della bacchetta, quella in cui lei avrebbe infilato la mano prima di fare qualunque altra cosa quel giorno... il primo posto in cui Remus sapeva che avrebbe guardato. Non era la prima volta: era già capitato che lui si accertasse che lei avesse gli orari delle riunioni dell'Ordine infilata in quella tasca.

Tonks si sedette sul bordo del letto, gettò la bacchetta fra le coperte e dispiegò la pergamena. La scrittura minuta e serrata di Remus aveva riempito quasi ogni angolo disponibile.



Ninfadora,


questa notte non ho potuto dormire. Continuavo a guardarti e a chiedermi per quale motivo fossi tanto terrorizzato all'idea di metterti al corrente di ciò che sto facendo. Non avrei voluto, te lo giuro, ma temevo che non avrei avuto la forza di resistere alle tue obiezioni e che saresti riuscita a farmi desistere. Sei l'unica ad avere questo potere e ho preferito non rischiare.

Se tu mi avessi chiesto di restare, ti avrei detto di sì – ma non posso farlo.


Silente mi ha offerto un incarico per l'Ordine e io l'ho accettato. So che avrai già capito che ne avevo già parlato con lui, so che avrai già capito che non te l'ho detto quando avrei dovuto e che ancora una volta ti ho escluso dalle mie scelte.


Non sono del tutto certo che tu possa capire la gravità e l'importanza di ciò che devo fare – non per tue mancanze, ma perché sto parlando di qualcosa che esula di molto le tue competenze come Auror.

Silente ha bisogno di una spia all'interno della comunità dei Lupi Mannari e nessuno, per logici motivi, è più adatto di me. Sono luoghi che già ho frequentato in passato e spero che il tempo abbia conservato intatte qualcuna delle mie vecchie amicizie, perciò mi sento abbastanza tranquillo da poter perlomeno affermare che so ciò che sto facendo.


Tutto questo ha delle conseguenze. Non credo di poter stabilire con certezza quando e se riuscirò a tornare, né se la mia missione avrà esiti positivi o meno. L'unica cosa che posso affermare con sicurezza è che porterò il tuo ricordo vivo nel cuore fino a quando avrò respiro e spero che riuscirà a rendermi più nobile e coraggioso di quanto non mi sia dimostrato fino ad ora.

Amarti mi ha fatto sentire un uomo diverso, mi ha fatto provare sensazioni che ero convinto di poter evitare, ma che non rimpiangerò mai. Sei l'unica donna che io sia mai riuscito ad amare – l'unica che con tutta probabilità mi abbia mai amato. Non ho parole per spiegarti quanto questo abbia significato per me. Mi hai permesso di assaggiare una vita totalmente diversa dalla mia, hai reso straordinario il mio inferno quotidiano.

Ma sei una donna tremendamente intelligente, Ninfadora, e sono sicuro che avevi già capito che non ci sarebbe mai stato un futuro vero per noi.


Ti ho ascoltato per mesi parlare dei tuoi sogni di Auror, del tuo desiderio di avere la famiglia numerosa che non hai mai avuto – Dio, non hai idea di quanto vorrei farne parte – ma non posso darti ciò che vuoi, e presto i tuoi sogni dovranno diventare dei progetti.

Sarei la rovina della tua carriera di Auror, distruggerei tutto ciò per il quale hai lottato... e non potrei mai darti la famiglia che tanto desideri. Io non posso avere figli, sono un Lupo Mannaro. E anche se così' non fosse, il Ministero della Magia ha bandito i matrimoni fra razze diverse dal 1457.

Non avrei che patimenti da garantirti.


Sono troppo vecchio e troppo povero, e non voglio nemmeno prendere in considerazione quanto potrebbe essere pericoloso per te essere costretta a vivere a fianco di una Creatura come me.

Credo sia meglio per entrambi sfruttare il mio allontanamento dalla comunità magica per permetterti di organizzare davvero una vita degna di essere vissuta, ben diversa dal degrado nel quale finirei per trascinarti.

So che un giorno saprai darmi ragione.


Ti ringrazio di essere stata la parte più importante della mia vita.

Addio.



Remus



Quando ebbe terminato di leggere rimase a fissare la scrittura di Remus, aspettandosi di vedere l'inchiostro attorcigliarsi e cambiare forma, cambiare le parole. Cambiare il senso.

Rilesse ancora e ancora. Una, due, cinque volte, sette volte, fino a quando non perse semplicemente il conto.

Non ci sarebbe mai stato un futuro vero”.

Si piegò in avanti e si passò una mano fra i capelli, con gli occhi chiusi e la lettera ancora fra le dita. Non era possibile. Non era semplicemente possibile. Avevano parlato e cenato insieme fino a poche ore prima. Avevano fatto l'amore e avevano riso e si erano lasciati cullare dalla desolazione e dalla tristezza della guerra insieme... improvvisamente avvertì un moto di nausea e aprì la bocca per prendere un lungo respiro.

Addio”.

Non voleva piangere.

Strinse le palpebre e si passò le mani sul viso, mentre il peso di ciò che quella lettera significava si faceva rapidamente spazio in lei... non voleva piangere.

Incapace di trattenersi oltre, scattò in piedi e urlò al nulla, prese a calcii la cassettiera e si strappò la sua dannata camicia di dosso... perse per qualche istante il controllo dei propri poteri e il vetro della finestra della camera da letto si crepò un po'.

Rimase seduta al centro della stanza, con le gambe incrociate come una ragazzina ad abbracciarsi da sola.

Non voleva piangere. Non avrebbe pianto. Si conficcò i denti nel labbro inferiore per fermare le lacrime, ma una riuscì a sfuggirle.

Non riuscì davvero a realizzare per quanto tempo fosse rimasta lì, in stato apparentemente catatonico, a ripetersi nella testa ognuna di quelle dannate parole.

Nel colletto della sua camicia era rimasto impresso il suo profumo. Fu un lampo, fu un'esplosione nello stomaco, e improvvisamente si rese conto di non volersi arrendere.

“Fanculo” si disse con forza. “Deve ancora nascere l'uomo che decide per me”.

Si rialzò in piedi e fece un largo respiro, aggrappandosi alla fiducia di quel rinnovato spirito battagliero. Si voltò verso lo specchio con l'intenzione di rimettersi a posto la faccia e rimase impietrita.

Per un attimo non fu in grado di capire cosa fosse accaduto ai suoi capelli. Non avevano mai assunto una tonalità tanto spenta – da dove usciva fuori quel grigio slavato? Sospirò debolmente e strizzò gli occhi, concentrandosi su un colore ordinario.

Quando si rese conto di non essere in grado di cambiarli, tentò ancora e ancora, tentò di cambiare l'intera faccia con veemenza crescente.

Poi venne la paura e con la paura vennero anche le lacrime. Avrebbe potuto combattere, lo sapeva. Lui sarebbe tornato indietro e lei lo avrebbe preso a sberle, ma ora si sentiva inutile, per la prima volta dopo molti anni si sentiva debole. Avrebbe potuto combattere contro il mondo intero, lei, ma senza i suoi poteri... non era più niente.

Niente.


°°°



Buonasera.

Si sa, l'inizio è sempre in salita, anche se in tutta sincerità mi sto rendendo conto che riscrivere qualcosa è decisamente più facile. Anche se, come magari qualche vecchietta del fandom come me ha notato, questa nuova long-fic intende percorrere una strada un po' differente da Diario di Lupo in un Branco di Lupi.

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Capitolo 3
*** Capitolo Due ***


Documento senza titolo




°°°

Prima che i Nazisti bombardassero Londra erano esistiti due modi per raggiungere la Fossa: la fermata di Oakwood e quella di Royal Oak.

Quando Remus vi aveva messo piede per la prima volta era il 1978 e, dopo quasi quarant'anni, l'entrata di Royal Oak era ancora sigillata da quintali di rocce e detriti. Incuriosito, aveva domandato per quale motivo non fosse mai stata riaperta e l'unica risposta che aveva ottenuto era stata che Oakwood dava già abbastanza problemi da sola.

“Tutto sommato, ragazzo, pure i Nazisti qualcosa di buono lo hanno fatto” gli aveva detto un vecchio Lupo Mannaro di nome Roald, che all'epoca aveva abbastanza anni per aver assistito all'incoronazione della Regina Vittoria.

“E perché sempre la quercia?” aveva insistito Remus. “Oakwood, Royal Oak... c'è un legame? Per gli Antichi Romani era un simbolo di grandi virtù”.

Roald lo aveva fissato intensamente per qualche secondo, senza smettere di masticare un grumo marroncino di tabacco.

“Ma perché te cerchi cose difficili anche nel caso?”.

Remus ricordava di aver riso con una leggerezza che non provava da molti mesi a quella parte e si era lasciato coinvolgere in un ridicolo brindisi “in onore di quella cazzo di quercia”. I due primi anni che aveva trascorso nei sotterranei della Fossa erano stati di grande ispirazione per lui: aveva temuto che si sarebbe ritrovato circondato dagli stessi demoni che affollavano ancora i suoi incubi, dove le zanne e il tanfo di Greyback non gli davano tregua, aveva temuto di non essere in grado di passare inosservato fra tutti quegli occhiacci gialli, e invece... Roald gli aveva semplicemente insegnato giochi di carte che non conosceva.

Era morto nel 1984.

Remus non era tornato nella Fossa negli ultimi dieci anni. Non aveva idea di cosa fosse cambiato in quel lasso di tempo – anche se dubitava fosse cambiato qualcosa – né aveva idea di quanti volti amici avrebbe avuto la fortuna di rivedere.

Lo stridio dei freni della metropolitana gli annunciarono che erano giunti alla fermata di Oakwood. A quell'ora del giorno la linea era utilizzata principalmente da ragazzi che rientravano da una notte di bagordi o da poveracci costretti ad alzarsi alle quattro di mattina per lavori probabilmente sottopagati. Remus lo sapeva bene: in passato era stato sia fra i primi che fra i secondi. A volte contemporaneamente. Non fu ovviamente l'unico a scendere dalla metropolitana, ma non si sarebbe potuto dire che la stazione fosse affollata. Perfino i due controllori che erano appena saliti a bordo sembravano ancora addormentati. Si sedette a una delle panchine di ferro ed estrasse dalla gigantesca tracolla un pacchetto di Rothmans senza filtro. Era un brutto retaggio ereditato da sua madre, quello.

Diede una prima profonda boccata e rimase a guardare le lancette dell'orologio appeso al muro. Le quattro e sedici minuti.

Era in anticipo.

Si appoggiò alla tracolla e continuò a fumare pigramente, fissando un punto indistinto davanti a sé. Quanto poteva permettersi di credere a Severus? Come poteva Greyback essere davvero sopravvissuto a quell'incidente? Quando gli uomini del Ministero erano riusciti ad arrivare sul posto, del treno e di chiunque fosse stato trascinato in fondo al dirupo non era rimasto molto. Identificare tutti quei Babbani spiaccicati aveva impegnato tre Dipartimenti del Ministero per almeno due settimane.

Remus l'aveva visto precipitare avvolto dalle fiamme... ma per quale motivo Severus avrebbe dovuto mentire a Silente? Mentire a lui, con tutto l'astio mai sepolto che li legava, avrebbe avuto un senso, seppur malevolo, ma a Silente? No, se nel Regno Unito c'era una persona a cui Severus non avrebbe mai mentito, quella persona era Silente.

Doveva solo sperare che la notizia fosse falsa e che Severus si fosse sbagliato. Voleva sperarlo con tutte le proprie forze.

Venne distratto da un acuto squittio alla sua sinistra. Era talmente soffocato che per un attimo credette di averlo solo immaginato, ma poi lo sentì ancora. E ancora. Alzò lo sguardo in direzione di una guardia di sicurezza mollemente appoggiata a una delle barre meccaniche per l'accesso alla metropolitana. C'erano solo due ragazzi sui vent'anni che dormivano su una panchina poco distante.

Remus afferrò la tracolla, spense la sigaretta e si avvicinò con aria noncurante al punto dal quale aveva sentito provenire il rumore, ma aveva la mano già stretta attorno alla bacchetta, nascosta sotto al vecchio pastrano Babbano che indossava.

Era così che i Mangiamorte avevano fregato Emmeline il mese prima.

Il rumore si faceva più intenso mano a mano che si avvicinava alla fine della banchina, ma presto venne coperto dal boato del treno in arrivo delle quattro e ventidue. Da una delle ultime colonne spuntava un'ombra informe e tremolante. Remus si arrestò ed estrasse la bacchetta.

Quando il treno sfrecciò loro accanto, l'ombra svanì di colpo dietro la colonna.

Imprecando mentalmente, Remus chiuse gli occhi, si massaggiò lentamente la tempia destra e ripose la bacchetta. Non tornava nella Fossa da dieci anni, quante possibilità c'erano che proprio lui e proprio quel giorno ne trovasse uno a Oakwood? Attese che il treno fosse passato prima di parlare.

«Ehi? C'è qualcuno lì dietro?» chiese con voce calma.

Non era uno squittio e non era un Mangiamorte. Il pianto soffocato che proveniva dall'altro capo della colonna apparteneva inequivocabilmente a un bambino.

Si sporse e lanciò un'occhiata al mucchietto di vestiti accovacciato ai suoi piedi. Non poteva avere più sette o otto anni. Si ostinava a tenere il viso sommerso in un pupazzo a forma di tigre. Remus lo studiò meglio: corti riccioli chiari, un piccolo cappottino azzurro e una sciarpa con i colori del Manchester City – o delle Frecce di Appleby, eventualità più probabile.

«Buongiorno» ritentò ancora, abbassandosi per arrivare alla stessa altezza.

Ora che poteva vederlo da più vicino, notò le punte delle dita fasciate con delle garze e sospirò, riconoscendo l'odore dell'aconito con il quale erano imbevute. Era decisamente un piccolo tifoso delle Frecce.

«Io mi chiamo Remus».

Il bambino non diede segno di averlo sentito.

«Non sono un Babbano» continuò. «E non voglio farti del male, voglio solo aiutarti». Non ottenendo alcuna risposta, Remus allungò la mano con il dorso rivolto verso l'alto. Nei punti attorno alle unghie curate, laddove erano fuoriusciti gli artigli nel precedente plenilunio, la pelle era rovinata e piena di croste di sangue. «Fa un po' male anche a me, ma l'aconito non è il rimedio giusto».

Finalmente il bambino si arrischiò ad alzare la testa per guardarlo. Aveva ciglia lunghe e un piccolo naso dritto, e le guance pallide erano rigate di lacrime. Non era un maschio, Remus si era sbagliato: era una bambina. E le sue pupille – notò Remus con una smorfia triste – erano già diventate quasi totalmente gialle. Le diede tutto il tempo di studiare con cautela sia lui che la sua mano.

«Lei cos'ha usato?».

«Essenza di belladonna, ma non devi annusarla, o rischi di dormire per il resto della settimana» spiegò prontamente Remus. «Come ti chiami?».

«Cleo».

Remus le sorrise.

«È un bel nome».

La bambina abbassò lo sguardo e si strinse al pupazzo.

«Cleonia» mormorò, e nella sua voce tornò a intromettersi il tremolio del pianto. «Ma mi chiamano Cleo... mamma e papà».

Dapprima tremolarono le labbra, poi le mani. Ricominciò a piangere senza sosta, bagnando la tigre giocattolo di lacrime. Remus si passò una mano sul viso. Aveva trovato decine di bambini e ragazzini nella metropolitana di Oakwood, eppure ogni volta era sempre più dura della precedente.

Molti anni prima c'era mancato poco che anche lui finisse fra di loro – ma sua madre era irlandese ed era Babbana, e anziché finire nella Fossa Remus si era ritrovato in un villaggio cattolico a sud di Cork. Non era ancora del tutto certo che gli fosse andata meglio, ma di certo era andata peggio a suo padre, che non era mai riuscito a levarselo davvero dai piedi e aveva dovuto sopportare il primo Lupin smistato a Grifondoro dopo almeno otto generazioni di Corvonero.

«Voglio la mia mamma...».

Remus gli appoggiò una mano sulla sommità dei riccioli biondi.

«Lo so, ma ora non puoi». Avrebbe potuto mentirle, ma in cuor suo era certo che prima o poi se ne sarebbe pentito. «Quando sarai un po' più grande e se vorrai farlo, potrai rivederla. Quando avrai imparato tutto ciò che devi sapere, potrai tornare a casa». “Ma non credo ne avrai voglia quando capirai cosa ti ha fatto”. Ogni volta era sempre difficile. «Sai cosa sei, non è vero?».

Nonostante il pianto, la parola che uscì dalla bocca di Cleo parve fendere l'aria come un pugnale.

«Un mostro».

«Certo che no» replicò d'istinto Remus. Ora sì, che iniziava la bugia. «Noi Lupi Mannari non siamo dei mostri. Sappiamo fare cose che i maghi e le streghe non possono fare, ma non sempre siamo abbastanza bravi da controllare il nostro potere. È per questo che non puoi ancora tornare a casa, lo capisci? Non sei ancora abbastanza brava». Più bugie, sempre più bugie... non erano mai abbastanza. Remus continuava a sorriderle e a carezzarle la testa, ma si sentiva soffocare. «Conosco un posto dove potrai incontrare molte persone gentili pronte a spiegarti ciò che ora non riesci a capire... e darti una bella bistecca di manzo al sangue, scommetto che sei affamata».

Cleo tirò su con il naso e si strofinò il viso con la manica del cappotto.

«Non è vero, io l'ho visto... i suoi denti erano gialli ed è saltato fuori dal buio, e io l'ho visto...» piagnucolò.

Remus fece un profondo respiro. Non aveva più tempo, ma la piccola Cleo non meritava di essere trascinata nella Fossa come se la stesse rapendo.

«L'ho visto anch'io molto tempo fa» le confessò. «So che ti fa paura, so che fa male... ma non tutti i Lupi Mannari sono cattivi. Io non sono cattivo e non lo sei nemmeno tu. Vuoi fidarti di me, Cleo? Vuoi venire con me? Ti prometto che se non ti dovesse piacere, scriveremo una lettera alla tua famiglia e le chiederemo di riportarti a casa». “E loro la ignoreranno così come hanno ignorato te e ti costringeranno a odiarli per il resto della vita”.

Cleo sembrava ancora piuttosto combattuta. Parve sul punto di dire qualcosa, quando una figura magra guizzò improvvisamente fuori dal tunnel nel quale svanivano le rotaie. Cleo strillò spaventata e si nascose fra le braccia di Remus, che aveva alzato la bacchetta con incredibile velocità. Quando riconobbe il volto dello sconosciuto, sbuffò.

«Gordon!».

L'uomo strizzò gli occhi con espressione ebete. Aveva un lieve strabismo che dava al suo volto un'aria perennemente sciocca e la costituzione alta e scheletrica di uno spaventapasseri. Il cappello arancione dei Cannoni faceva a pugni con i suoi capelli rossicci.

«Lupin? Remus Lupin? Che il diavolo ti porti, maledetto figlio di--!».

«Gordon» lo interruppe con un sibilo feroce.

Gli indicò Cleo con un cenno eloquente della testa, ma l'altro rispose mostrandogli i palmi della mani e scrollando le spalle.

«Aye, e che colpa ne ho io? È la terza, questo mese. Dai, prendila in braccio e andiamo, tra un po' passerà l'altro treno dei Babbani e non mi piace quando mi fischia nelle orecchie».

Gordon risaltò giù dalla banchina senza aggiungere altro. Con Cleo ancora appiccicata al suo pastrano, Remus sfruttò l'occasione e la sollevò con sé, premurandosi di raccogliere la sua tigre di pezza.

«E lei come si chiama, invece?» domandò come se non fosse accaduto nulla.

Gli occhietti gialli della bambina lo scrutarono da uno spiraglio nel cappotto, poi guardarono la tigre.

«È un lui. Si chiama Lionel».

«Lionel?» ripeté con vivace interesse Remus, mentre tentava di mettersi la tracolla sulle spalle senza far cadere la bambina e il suo pupazzo. «Strano... dimmi, Lionel, tu sai di essere una tigre?».

Cleo allungò le mani per recuperare il pupazzo con un accenno velato di risata.

«No, tu dici? Sul serio?» continuò Remus, mentre scendeva con attenzione dalla banchina e seguiva la scia della torcia elettrica di Gordon lungo il tunnel. «Cosa dici, Lionel? Credevi di essere un procione? Santo cielo, pensa che io una volta credevo di essere uno struzzo! Ma che razza di mondo è mai questo, se una tigre non viene più avvisata di essere una tigre! Non sei d'accordo, Cleo?».

Mentre la bambina ridacchiava e Remus si distendeva un poco insieme a lei, nella sua testa continuava a rimbombare il pensiero che il loro mondo non era orrendo solo per le tigri di pezza.


°°°


Era da poco sorto il sole quando Tonks si Smaterializzò a poche decine di metri dal limite magico dei confini di Hogwarts. L'antico castello si affacciava dalla prima nebbia del mattino come da un piccolo quadro ad acquerello.

La strega si avviò a passo deciso verso i cancelli neri, con il cappuccio del mantello chino sui capelli grigi. Sebbene l'aria fosse abbastanza umida, il clima estivo era ancora caldo e difficilmente avrebbe potuto giustificare il mantello. Prima o poi qualcuno avrebbe notato i suoi capelli insoliti, si era detta dopo il cinquantesimo tentativo di riappropriarsi dei proprio poteri di metamorfosi, ma aveva comunque preferito “poi”.

Fu piuttosto sorpresa di trovare tre dei suoi vecchi professori ad attenderla oltre i due colossali pilatri d'ingresso. La professoressa McGranitt e il professor Vitious parvero improvvisamente sollevati di vederla, ma alle loro spalle il sogghigno di Piton era un'inequivocabile dimostrazione di disgusto. Poco male, si era detta, d'altronde nemmeno lui le era mai piaciuto e non ne aveva mai fatto segreto. La presenza di un così nutrito gruppo di professori restava comunque un mistero che era intenzionata a risolvere. Notò le loro bacchette sguainate solo quando arrivò a qualche metro da loro.

«Oh, cavolo!» esclamò all'improvviso, alzando entrambe le mani. «Sono felice che abbiate rafforzato le difese alla scuola, ma giuro di non avere brutte intenzioni».

La McGranitt e Vitious si scambiarono un'occhiata allarmata. Tonks inarcò un sopracciglio.

«È solo una precauzione, signorina Tonks...» le disse Vitious.

«E meno male che ho avvisato con il mio Patronus...» cercò di scherzare lei. «Se fossi arrivata e avessi fatto un fischio, mi avreste Schiantato?».

Anche la McGranitt parve arrangiare un sorriso divertito piuttosto forzato.

«Probabilmente sì».

Piton rivolse a Tonks un'eloquente occhiata di sdegno e si voltò sui tacchi, con l'impressione di chi trovava snervante il solo pensiero di rimanere il loro compagnia. Tonks lo apostrofò con una parola volgare e si guadagnò il primo rimprovero giornaliero della McGranitt.

«Parola sbagliata, senso azzeccato» tagliò corto Tonks.

Vitious ridacchiò brevemente.

«Questa scuola sente giorno dopo giorno la mancanza del suo spirito composto, signorina Tonks».

«I suoi professori un po' meno» si aggiunse la McGranitt. «Filius, ti spiace precederci e avvisare il professor Silente che Ninfadora--».

«Tonks».

«--è arrivata e lo raggiungerà nel suo ufficio sana e salva, se solo la smetterà di interrompermi».

Tonks rimase a fissare il piccolo professore allontanarsi in direzione del castello, sicura di non aver ancora compreso del tutto la situazione. Si rivolse alla McGranitt con voce seria.

«A cosa devo quest'accoglienza? Il mio Patronus non è arrivato in forma corporea?».

Le narici della McGranitt vibrarono un poco. Dopo sette anni passati ad ammirarne le tacitamente le capacità, Tonks intuì che c'era qualcosa che la metteva a disagio.

«Al contrario» rispose brevemente, prima di avviarsi lungo il sentiero.

Tonks la seguì di buona lena.

«E dunque?».

«Dunque è stata nostra premura accertarsi che fossi tu».

«E chi altri avrei dovuto essere? Quanti stupidi Patroni a forma di lepre americana possono mai esistere in Gran Bretagna?».

La professoressa si bloccò di colpo e la guardò con espressione ansiosa.

«Tonks, non era nemmeno lontanamente simile a una lepre».

La risposta la colpì talmente inaspettata che per qualche secondo rimase immobile al centro del sentiero, mentre la McGranitt aveva già ripreso a marciare vero i portoni di Hogwarts. Oltretutto era la prima volta dacché aveva preso i suoi M.A.G.O. che la McGranitt la chiamava con il suo cognome.

«Che vuol dire che non era una lepre?» le urlò dietro mentre la raggiungeva di corsa. «Come poteva non essere una lepre?».

Ormai avevano raggiunto i gradini che conducevano alla Sala d'Ingresso. La professoressa sembrava intenzionata a darle le spalle e ad accelerare il passo pur di non rispondere alle sue domande.

«Minerva!».

La McGranitt si fermò davanti ai portoni. Tonks non era del tutto certa che qualche ex-studentessa avesse mai avuto l'ardire di chiamarla per nome, ma quella fuga inspiegabile la stava irritando. La strega più anziana si volto con incredibile lentezza – e nei suoi occhi non c'era più solo preoccupazione, ma una lieve scintilla di stizza.

«Non sono più la ragazzina che faceva perdere punti a Tassorosso» riprese Tonks. «Voglio essere trattata da adulta».

«Hai ragione. Tuttavia temo che nei prossimi tempi tu non possa aspettarti un simile trattamento».

«Cosa--?».

«Il tuo Patrono ha cambiato forma».

Dapprima si limitò a sbattere semplicemente le palpebre, incerta su cosa avesse davvero sentito o capito. Cambiare forma? Era una follia, i Patroni erano connessi al mago o alla strega che li evocava, ne rispecchiavano l'anima e la storia... mentre il suo cervello continuava a ragionare sull'assurdità di quanto la McGranitt aveva appena detto, una piccola luce di comprensione balenò improvvisamente in lei.

Aveva perso i suoi poteri.

«Oh, merda».

«Eh, sì» convenne la McGranitt. «Questa volta hai ragione ad essere volgare, Ninfadora. Potresti essere diventata una mina vagante per tutti noi». Il suo tono si fece d'un tratto più gentile. «Non fasciarti quella testa dura prima del tempo: lasciamo che sia il professor Silente a decidere se e quanto dobbiamo preoccuparci».

Sapeva cosa voleva dire. L'Incanto Patrono era una magia complessa e per sua natura molto potente, difficilmente mutabile con il tempo. Occorreva una crisi interiore di pari complessità per cambiarne l'aspetto... e se ne aveva subito le conseguenze un incantesimo così impenetrabile, il rischio che non fosse più in grado di controllare appieno anche magie di difficoltà inferiore era scandalosamente elevato. “Una mina vagante” aveva detto la McGranitt. Lei era un'Auror, un membro dell'Ordine della Fenice... non poteva combattere se non era certa di poter controllare la propria magia. “Mina vagante ” era decisamente un eufemismo.

«Perlomeno hai la tua faccia» commentò con praticità la McGranitt. «È un bene che tu non abbia perso il controllo dei tuoi poteri da Metamorfomagus».

Con un sospiro affranto, Tonks abbassò il cappuccio e le mostrò i capelli grigi. Fu il turno della McGranitt di imprecare.

Nessuna delle due donne aggiunse altro. Tonks la seguì attraverso la Sala d'Ingresso e poi lungo la scalinata più lunga che conduceva direttamente al quinto piano – quel giorno non pareva avere molta voglia di muoversi. Senza il brulicare delle centinaia di ragazzini che lo abitavano durante il periodo scolastico, Hogwarts sembrava un gigante tetro.

Fu solo a metà della scala che parlò di nuovo.

«Che cos'era? Il mio Patrono, intendo» si spiegò meglio Tonks. «Se non era la mia lepre americana... cos'altro era?».

La McGranitt respirò profondamente.

«Era un Lupo Mannaro».

Forse non avrebbe dovuto esserne tanto stupita, ma la rivelazione la prese in contropiede. Si scostò un ciuffo di capelli dagli occhi e scosse il capo, incredula.

«Assurdo...» borbottò fra sé.

Aveva raggiunto Hogwarts con l'intenzione di scoprire cosa stesse realmente architettando Remus e cosa si nascondesse davvero dietro a tutte le sue mezze bugie. Non aveva la minima intenzione di farlo desistere dall'incarico – ma per chi l'aveva presa, quell'imbecille? Lei era un'Auror, una sua alleata, non certo una ragazzina capricciosa disposta ad anteporre i suoi bisogni alla pace della comunità magica. Ora il suo interesse stava rapidamente lasciando il posto a una furia crescente. Si era ripromessa che mai avrebbe accettato di cambiare a causa di un uomo. Era stata la sua prima regola da quando aveva iniziato a frequentare i primi ragazzi a Hogwarts: avevano sempre delle richieste dopo i primi appuntamenti. Qualcuno le chiedeva di diventare più alta o più snella, più mora o più bionda, con il seno più abbondante... e lei li scaricava tutti, uno dopo l'altro, prima a Hogwarts e poi fuori, in un mondo in cui gli uomini che frequentava non sembravano mai essere davvero cresciuti.

Era la sua regola fondamentale.

“I tuoi poteri non sono un gioco, Dora. Devi usarli con saggezza o l'unica cosa che gli altri vedranno sarà una strega con mille facce di cui non ci si può fidare” le ripeteva il padre da quando era una bambina. “Non lasciare che diventino più importanti di te”.

Suo padre era l'unico uomo a cui avesse mai davvero ubbidito. E ora? Eccola lì, molti anni più tardi e con più esperienze sulle spalle a commettere un errore che con tutta probabilità le sarebbe costato la carriera. Giurò su se stessa che avrebbe preso a calci Remus fino a quando i sui capelli non sarebbero ritornati colorati.

Perché un Lupo Mannaro, poi? Avrebbe potuto capire un lupo, ma perché doveva proprio essere un Lupo Mannaro? I Patroni tendevano ad assumere forme piuttosto comuni... il Patrono di Remus era un lupo. Un lupo scandalosamente ordinario, niente zanne esagerate, niente coda a ciuffo... Tonks ci aveva impiegato mesi a capire per quale motivo Remus lo trovasse tanto disgustoso: autocommiserazione. In quello Remus era un bambino prodigio che non voleva crescere.

Un Patrono a forma di Lupo Mannaro non avrebbe dovuto esistere.

Giunte davanti ai due gargoyle di pietra che proteggevano l'ingresso all'ufficio di Silente, le due streghe si fermarono l'una davanti all'altra. Tonks attese qualche frase di blando incoraggiamento con le mani infilate nelle tasche e l'espressione rassegnata.

«Guarda il lato positivo. Sei così tanto concentrata sui tuoi problemi che non sei inciampata in nessuno dei gradini».

Tonks inarcò un sopracciglio.

«Pensa che io sia debole?».

«Non ho detto questo».

«Ma è quello che pensa» ribatté secca Tonks. «Sto perdendo il controllo della mia magia per colpa di Remus, è inutile nasconderlo. I miei poteri, le mie abilità, tutto ciò che sono viene messo in discussione a causa di un uomo. Lei non è una di quelle donne che lo avrebbe accettato».

«Lo credi davvero?».

«Sì».

La McGranitt le rivolse uno sguardo carico di nostalgico affetto.

«Se ti ritenessi una donna debole, non perderei tempo a conversare di tragiche sventure d'amore insieme a te. Non mi pare che tu stia piagnucolando, non mi pare che tu stia battendo i piedi sul pavimento come una bambina viziata». La sua voce tornò ad animarsi della consueta severità. «Se credi di essere debole, il mondo intero ti vedrà debole. Alza quella testa, signorina Tonks. Sei l'unica alla quale devi rendere conto della tua vita».

La salutò con un cenno sbrigativo del capo e le voltò le spalle, incamminandosi a passi rapidi lungo il corridoio. Per un attimo Tonks ebbe l'impressione che stesse cercando di fuggire dall'argomento... si chiese se non avesse inavvertitamente toccato qualche nervo non del tutto sepolto dal passato.

«Scarafaggi a grappolo».

I due pesanti gargoyle si scansarono e le permisero di salire le scale. La luce del sole entrava dalle finestre e rischiarava l'ufficio con un'atmosfera di candida quiete. Le decine di strani oggetti di vetro sulle mensole luccicavano mentre Fanny, la fenice, la osservava curiosa dall'alto del suo trespolo. Il professor Silente scrutava la grandiosità della brughiera attorno a Hogwarts appoggiato al davanzale dell'unica finestra spalancata. Indossava solo una leggera veste da mago di un intenso azzurro.

«È una bella giornata» commentò serenamente Silente.

«Già» convenne Tonks, avvicinandosi a lui e incrociando le braccia al petto. Attese qualche secondo prima di parlare. «Gliel'hanno già detto?».

«Cosa, mia cara?».

Lei si tirò un ciuffo grigio davanti al volto con aria eloquente.

«Oh, quello. Sì, Severus potrebbe avermelo accennato...».

«Fantastico».

«Guarda laggiù, signorina Tonks. Vedi quel piccolo sentiero che svanisce lungo i confini della Foresta Nera?».

Tonks strizzò gli occhi e tentò invano di seguire la direzione del suo dito indice. Percorse con lo sguardo le rive frastagliate del lago e i primi alberi più basso della Foresta, ma del sentiero non c'era traccia.

«Credo proprio di no...».

«Nemmeno io» rispose allegramente Silente. «Però so che c'è, lo percorro spesso quando non ho voglia di sopportare la nausea della Metrolpolvere». Tonks dubitava che un mago del calibro di Silente avesse mai dovuto usare la Metrolpolvere, ma non lo interruppe. «Conduce poco fuori da Hogsmeade e una volta superato il perimetro di Hogwarts lunghe file di pioppi lo costeggiano fino alle prime campagne Babbane. In primavera è davvero uno spettacolo magnifico... ma suppongo che tu non sia qui per ammirare un sentiero poco battuto, non è vero?».

Come la maggior parte delle volte in cui si ritrovava a parlare con Silente, Tonks era confusa. Aveva smesso di fingere di capirlo quando aveva tredici anni e ora si limitava a scuotere la testa e a dire semplicemente la prima cosa che gli capitava. A quanto le aveva detto anni prima, Silente trovava la sua vena estroversa di particolare divertimento.

«In tutta sincerità, professore, nemmeno sapevo ci fosse un sentiero».

«Esatto».

L'anziano mago tornò ad accomodarsi sulla sua poltrona. Fanny aprì le ali e si lasciò scivolare con un pigro volteggiare sul suo bracciolo. Tonks si voltò verso di lui e si appoggiò al davanzale.

«Vuoi le caramelle al lampone?».

«Sono al solito posto?».

Silente rise.

«A meno che tu non le abbia divorate durante l'ultima riunione dell'Ordine, sì».

«Certo che no» ribadì Tonks, fingendosi teatralmente seria mentre afferrava una ciotola di ottone da uno scaffale poco distante e rischiava di inciampare nel tappeto. «Sono sicura di averne risparmiate almeno un paio».

Ne infilò in bocca una e tese la scatola a Silente, che le studiò con cura prima di sceglierne una in particolare. Tonks tornò ad appoggiarsi alla finestra, sbocconcellando le sua caramelle preferite. Credeva che Silente le conservasse davvero solo per lei, perché ogni volta quelle particolari caramelle al lampone sembravano lì ad aspettarla, fin dalle sue prime punizioni a undici anni. Sembrava essere diventato un rito.

«Da dove preferisci iniziare?» domandò con un sorriso gentile Silente.

«Non lo so. Quando sono arrivata credevo di sapere cosa chiederle, ma poi... Piton le ha detto del mio Patrono?».

«Sì, mi ha accennato anche quel particolare dettaglio».

«Sono in congedo per malattia?».

Silente parve perplesso.

«Prego?».

«Al Ministero mi sbatteranno di sicuro fuori con qualche trovata simile...» continuò Tonks, prima di infilarsi in bocca una seconda caramella. «Se non controllo la magia, sono inutile».

«Il giorno in cui ti rivelerai inutile per l'Ordine o per il Ministero sarà una tragedia per l'intera comunità magica, signorina Tonks. In tutta sincerità, non capisco di quale magia tu stia parlando».

Tonks si indicò ancora una volta i capelli.

«Sì, devo ammettere che quel colore non ti dona» riprese Silente con naturalezza. «E per quanto riguarda il tuo Patrono... la tua lepre americana era una gran giocherellona, ma ora è indiscutibilmente più temibile».

«Mi sta prendendo in giro?».

Silente ridacchiò e allungò una mano. Tonks gli lanciò un'altra caramella.

«Perdonami. Sono solo dispiaciuto nel vederti con quello sguardo triste, di solito se tu quella che mette di buon umore la gente, non il contrario».

«Non sono triste. Okay, sono anche triste...» aggiunse in fretta. «Ma perlopiù sono preoccupata. Voglio capire cosa mi devo aspettare nei prossimi mesi. È un fenomeno passeggero? Sì? Bene, e quanto passeggero? Quanti altri aspetti della mia magia ne verranno influenzati?».

Silente masticò lentamente.

«Temo di non averne la più pallida idea». Dovette leggere la delusione sul viso di Tonks, perché riprese con voce più decisa: «Queste situazioni sono molto personali. Riappropriarti dei tuoi poteri più o meno rapidamente dipenderà solo da te».

Tonks sospirò. Si era illusa che Silente avrebbe potuto offrirle conclusioni meno vaghe di quelle alle quali avrebbe potuto giungere da sola.

«Dov'è Remus?» domandò all'improvviso, senza troppa convinzione. Non credeva che Silente glielo avrebbe detto.

Con sua grande sorpresa, l'anziano mago le rivolse uno sguardo interrogativo al di sopra delle lenti a mezzaluna.

«Remus non te l'ha detto?».

«Non proprio. Mi ha solo rivelato che aveva a che fare con una comunità di Lupi Mannari...».

Silente annuì.

«La Fossa, la più antica comunità di Lupi Mannari ben nascosta nei sotterranei magici di Londra».

«Non ne ho mai sentito parlare».

«È il motivo per cui è sopravvissuta per secoli alle incessanti angherie del Ministero della Magia. È ancora terreno neutrale e noi abbiamo bisogno del loro appoggio prima che lo regalino alle vane promesse di Lord Voldemort».

«Che genere di posto è?» chiese con più interesse.

Durante il suo addestramento aveva collaborato con l'Unità di Cattura per l'arresto di un piccolo branco di Lupi Mannari. Erano solo in cinque, ma avevano fatto in tempo a sterminare tre famiglie di Babbani prima che riuscissero a fermarli e a trascinarli ad Azkaban. Vivevano all'aria aperta, nutrendosi occasionalmente di cacciagione e mantenendosi grazie a piccoli furti e ai traffici sporchi di Notturn Alley. Gli era impossibile immaginare Remus fra di loro.

«Non ho mai avuto il piacere di visitarlo... Remus lo conosce molto meglio di me. Non ne ha mai parlato in maniera entusiasta, ma nemmeno in maniera critica. La maggior parte dei suoi abitanti è composta da reietti e disperati, molto più spaventati dagli umani di quanto noi non lo saremmo mai di loro... mia cara, non gli avrei mai chiesto di partecipare a una missione suicida. Devi fidarti: sa perfettamente ciò che fa».

«Non lo metto in dubbio... ho solo paura che non sia davvero pronto».

Silente parve intuire la verità nascosta nelle sue parole.

«La morte di Sirius è stata un duro colpo per tutti noi. Per Remus più di chiunque altro – eccezion fatta, forse, per Harry. Ma Remus non è uomo facile alla resa... aveva un disperato bisogno di rimettersi in piedi prima di perdere il controllo».

Tonks si girò e guardò in direzione delle montagne scagliate ormai nitidamente contro il cielo limpido. Ora che la leggera nebbia del primo mattino si era alzata, riusciva a scorgere il sentiero che Silente aveva tentato di indicarle. Non riusciva a vedere i pioppi, era troppo distante.

«Anche io ho bisogno di rimettermi in piedi, professore» disse all'improvviso. «La prego, mi dica che ha qualcosa da offrirmi... qualunque cosa».

Silente sorrise.

«In verità, mia cara, volevo domandare al Capo degli Auror la possibilità di mobilitare un piccolo gruppo di Auror a Hogsmeade per aumentare la protezione alla scuola durante le lezioni. E in tutta confidenza, dormirei sogni più tranquilli se sapessi che sei una di loro».

Anche Tonks sorrise. “Il tuo Patrono ora è decisamente più temibile” aveva detto Silente. Probabilmente lui e la McGranitt avevano ragione: se lei per prima si fosse creduta debole, cosa avrebbe trattenuto il resto del mondo dal ritenerla tale? Temibile... temibile come un Lupo Mannaro, non come un lupo ordinario...

Forse in quell'atmosfera di sfortuna e tragedia che sembrava averla circondata dacché aveva conosciuto Remus c'era davvero una lezione da imparare. Se voleva essere presa come la adulta e l'Auror che sapeva di essere in realtà, probabilmente era davvero giunto il tempo per la sua ridicola lepre dalle orecchie buffe di togliersi dai piedi e di accettare il fatto che non tutto ciò che la circondava era un gioco del quale poter ridere.

Il duello con Bellatrix le aveva già aperto gli occhi. Era giovane, era inesperta e sottovalutare quella guerra le era quasi costato la vita. Non avrebbe commesso due volte lo stesso sbaglio. Se qualcuno lo avesse dubitato, sarebbe stata pronta a sbattere loro in faccia la verità con tutti gli artigli e le zanne scoperte. Non era una ragazzina afflitta da una cotta non corrisposta: era una donna con il fegato di non temere nemmeno lontanamente un Lupo Mannaro.

«Può contare su di me, professore».


°°°



Salve a tutti ancora una volta e sì, stavolta ho davvero qualche nota da aggiungere.

1. Non sono mai stata a Londra in vita mia e ho preso la metropolitana solo due volte, quindi quando ho aperto la cartina di Londra con l'intenzione di collocare la Fossa in un posto figo ho squittito. Troppo grande, aiuto. Sicché ho chiuso gli occhi e ho puntato il dito... nemmeno a farlo apposta, ho spiaccicato la fermata di Baker Street.

Il mio secondo tentativo è andato decisamente meglio e tutto sommato ho pensato che Oakwood facesse figo.

2. Ho letto – come credo voi – ciò che J.K. Rowling ha scritto sia sulla vita di Remus Lupin. Mi pare anche di aver già accennato che sono intenzionata a ignorarla in buona misura... non che non abbia adorato leggere la storia di Remus, anzi, ma con il trascorrere degli anni mi sono creata una rete fitta-fittissima di Headcanon difficile da abbattere... le povere anime che si sono sorbite le decine di fic che ho scritto su questo personaggio avranno capito che ormai sono incurabile.

3. Questione un po' diversa per quanto riguarda i Lupi Mannari, di cui ricordo solo qualche vago accenno su Pottermore, e per i quali mi scosterò un pelo di più dal Canon, perché mi piace troppo il sovrannaturale per non cercare di sfruttarne appieno le possibilità. E poi Lupin è il mio personaggio preferito e lo sanno tutti che le fyccinare danno delle skills potenti ai propri personaggi preferiti. Eh. E a me gli occhiacci gialli piacciono, sorry not sorry.

4. Non sono una cima in inglese, ma mi pare che l'originale mousy brown dei capelli di Tonks non abbia niente a che fare con il grigio della traduzione italiana. Correggetemi se sbaglio, non sono sicura nemmeno un po'. Dovrebbe essere castano scuro, il che mi ha portato a pensare che sia semplicemente il colore naturale dei suoi capelli che se ne esce fuori... un po' per nostalgia e un po' perché fa dramma, ho comunque optato per il colore grigio. E poi il granny va di moda.

5. Sì, mi sono perfino fatta il banner, avete ragione... sono peggio di Kronk che si fa la colonna sonora. Non giudicatemi, dopotutto con questa long-fic sto rivivendo la mia adolescenza, suvvia.

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Capitolo 4
*** Capitolo Tre ***


Documento senza titolo


°°°

 

Remus si fermò davanti alla grata di ferro arrugginito. Nemmeno i segni del tempo sembravano aver toccato l'entrata della Fossa. Umida, misera, buia... così londinese. C'erano solo due particolari che la contraddistinguevano da una qualsiasi delle vecchie grate che ancora si affacciavano lungo il tunnel della linea 42: la prima era un Incantesimo Imperturbabile che la rendeva invisibile a qualunque Babbano. Non che i Babbani a spasso per i sotterranei di Londra fossero molti, ma di tanto in tanto c'era il rischio di imbattersi in qualche addetto alla sicurezza. La seconda era un Incantesimo di Pietrificazione che veniva lanciato sulla grata ad ogni plenilunio. I Lupi Mannari erano famosi per avere la testa dura – ma non al punto da sfondare un muro di pietra largo almeno un metro con il muso.

«Quindi cosa ci stava di così interessante da tenerti lassù dieci anni, eh, Lupin?» gli domandò con curiosità Gordon, mentre colpiva una delle barre di ferro più basse con la punta dello stivale. «Non è che ti hanno preso i Loschi? Aye, ci avevo scommesso! Ti hanno messo il guinzaglio?».

«Preso?» pigolò confusa Cleo, ancora saldamente attaccata al cappotto di Remus.

«No, non mi hanno preso» tagliò corto.

«Cosa vuol dire?».

«Vuol dire che i Loschi ti pigliano mentre te ne stai a fare gli affari tuoi e ti tagliano la carne per distinguerti da loro» spiegò con tranquillità Gordon. Dall'oscurità del tunnel al di là della grata rimbombò un rumore di passi. «Aye, così sanno sempre che sei un Lupo Mannaro».

«Non è assolutamente vero» la tranquillizzò in fretta Remus, a cui non era sfuggito lo sguardo della bambina farsi più spaventato di quanto già non fosse. «Gordon non è mai uscito da qui sotto, non sa di cosa sta parlando».

«Al diavolo, Lupin! Lo sanno tutti».

«Chi dei due ha passato l'ultimo decennio nascosto venti metri sotto terra?».

«Chi è losco?» continuò a domandare Cleo.

Gordon stava per rispondergli, quando una luce ballerina fece la sua comparsa poco distante da loro. Lieve e barcollante, la videro farsi sempre più vicina, mentre le pareti umidicce del tunnel si facevano sempre più chiare. La donna che era giunta a prenderli non era alta nemmeno un metro e cinquanta e aveva un intrigo di rughe che rendevano il suo viso simile a carte impecorita. I suoi occhi gialli brillavano svegli al di là delle fiamme.

«Razza di sciocco piscialetto, sei di nuovo in ritardo».

«Aye, mica per colpa mia» replicò stizzito Gordon, alzando la visiera del cappellino con aria indignata. «Guarda un po' chi ti ho ripescato dal mondo di sopra».

Remus abbassò la testa per entrare nel cono di luce e rivolse all'anziana donna un largo sorriso un po' scanzonato.

«Ciao, vecchia Mabel».

Mabel assottigliò gli occhi e lo scrutò a lungo con espressione maligna. Parlò solo dopo diversi secondi.

«Damerino» sbottò infine con voce aspra. «Maledetto irlandese addomesticato, ma allora non ti hanno ancora fatto secco, eh?».

«Non potevo andarmene senza aver rivisto il viso della donna più bella del mondo, vecchia Mabel».

«Ah! Ti venissero cent'anni di zecche!» esclamò all'improvviso la donna, facendo sobbalzare Cleo. Si aprì in un sorriso sdentato e la sua risata un po' folle rimbombò nel tunnel come un tuono.

Estrasse dal mantello una corta bacchetta di legno chiaro e colpì un paio di volte la grata, poi arretrò di qualche passo per farli entrare.

«E che abbiamo qui?» s'informò, allungando il piccolo collo tozzo per osservare Cleo. «Aye, ma guarda un po' che bella signorina. Come ti chiami?».

La bambina si strinse al pupazzo a forma di tigre, ma non distolse gli occhi dall'anziana. Sembrò ragionare molto rapidamente su quanto avesse davvero da temere da lei.

«Cleo» disse infine.

«Beh, ho sentito nomi peggiori».

Seguirono Mabel lungo il tunnel, camminando con cautela negli acquitrini a causa della mancanza di luce. L'odore di pietre bagnate e di umido entrava ferocemente nelle narici. Un dettaglio piuttosto nauseante che Remus aveva dimenticato.

«E così alla fine i Loschi ti hanno preso, eh, Damerino?».

Remus sospirò.

«No, non mi hanno preso».

«Davvero? Strano, c'hai la faccia di uno che è stato appena mollato da un Losco».

«Aye, è quello che ci ho detto anche io».

«Chiudi la bocca, piscialetto».

A Cleo scappò una risatina divertita.

«Ti piacciono le parolacce, eh?».

«Un po'...» ammise la bambina. «Sono buffe».

Anche Remus scoppiò in una leggera risatina.

«Buon per te» continuò Mabel con aria vivace. «Abbiamo la migliore scuola di parole buffe di tutto il paese. Abbiamo convertito pure questo Damerino, qua... ma spero che quella che ho visto prima non fosse una cravatta».

«Una cravatta molto elegante, vorrei aggiungere» la punzecchiò divertito Remus. «L'ho scelta appositamente per compiacerti».

«Bontà del cielo, tu non sei un uomo... sei una pustola di zucchero».

Pochi secondi più tardi la fine del tunnel iniziò a rischiararsi di una luce tiepida e rossastra. Si ritrovarono affacciati a un largo balcone di pietra viva, al quale si accedeva con una scala ripida e tortuosa che conduceva a un piazzale largo almeno venticinque metri di diametro, circondato da un porticato. Il pavimento era costituito da un gigantesco mosaico composto da centinaia di tasselli blu che riproducevano la volta celesta. Da quell'altezza era quasi possibile riconoscere l'Orsa Minore.

“Il Cielo”, ricordò con amarezza Remus. “Ciò che quaggiù c'è di più simile alle stelle”.

Nonostante l'aria della Fossa fosse decisamente più piacevole e secca del tunnel appena percorso, Remus non si sentiva affatto più sereno. Imponenti volte a sesto acuto dominavano sulle loro teste, sostenute da robuste colonne di pietra sanguigna. Il lieve brulicare dei primi commercianti intenti ad aprire le botteghe sembrava rimbombare fino a loro.

«Benvenuta al Mercato» spiegò Gordon a Cleo con aria complice. «E questa qua era l'unica strada per arrivare. Laggiù ci sta il barbiere, Kurt, e lì accanto c'è Mastro Hallec, il conciatore... oh, e quella con i capelli scuri è Rina, sua figlia... oh, lei sì, che me la concerei volen--».

«Gordon!» lo riprese Remus.

«Scusa, amico».

«Piantatela, tutti e due» sbottò Mabel. «E tu, Damerino, metti giù la signorina. Non ha mica i piedi di cristallo».

Con suo stupore, Cleo non si lamentò né piagnucolò quando Remus la appoggiò a terra. Si sistemò il piccolo zainetto azzurro sulle spalle, abbracciò stretto Lionel e tirò un po' in su con il naso. Con quei riccioli ingarbugliati sembrava quasi essere scivolata giù dal tunnel. Mentre scendevano tutti e quattro le scale, Cleo si affiancò a Remus e gli afferrò la mano.

«Non avere paura» cercò di confortarla. «Non ti succederà niente di male, te lo prometto».

«Io non ho paura».

«...laggiù c'è Fiona. Lei e suo marito Abraham fanno i vasi...» continuava a spiegare Gordon.

Sembrava che Cleo iniziasse a provare una infantile curiosità per quel luogo nuovo, tanto che presto abbandonò la mano di Remus e prese a trotterellare al fianco di Gordon.

Remus sorrise.

«Perché ti sei rimesso quella robaccia sulla faccia?» gli domandò Mabel alla sprovvista, bloccandosi a metà della scala per fronteggiarlo.

«È così importante?».

«Aye, con quei ridicoli occhietti scuri sembri un Losco».

Remus inarcò un sopracciglio.

«Qual è la vera domanda, Mabel?».

Lei grugnì.

«Se sei tornato, o sei più disperato del solito o lassù sta di nuovo scoppiando un gran casino».

Lui la fissò negli occhi. Nonostante l'età, Mabel dava ancora l'impressione di una donna che avrebbe potuto prenderti a pugni in qualsiasi istante. Non aveva bisogno di chiederle di cosa stesse parlando.

«È un gran casino».

Mabel non disse altro. Riprese a scendere, con Remus che la seguiva in un rigido silenzio. Era ovvio che le voci fossero già arrivate fino a laggiù. Il ritorno di Lord Voldemort non era certo un avvenimento che si potesse contenere solo alla luce del sole. Non era tuttavia sicuro di quali reazioni potesse aver suscitato ala notizia: durante la prima guerra magica erano stati molti i ragazzi che si erano lasciati convincere ed erano saliti in superficie con la vana speranza di conquistare il mondo dei maghi... non tutti erano riusciti a tornare indietro a guerra finita. Qualcuno di loro marciva ad Azkaban per crimini contro i Babbani, altri non erano mai stati ritrovati.

«Come sta Noah, Mabel?».

«Rigido come uno stoccafisso e fastidioso come una zanzara».

Passarono accanto a un ragazzo intento a spostare un pesante tendaggio di canapa che celava l'ingresso alla buia bottega di Wallace, il fabbro della Fossa. Il giovane non poteva essere molto più grande di Harry, nonostante fosse decisamente più alto: aveva lunghi capelli scuri aggrovigliati in un dritto codino all'altezza della nuca e un viso lungo e olivastro. Remus lo scrutò con più attenzione. Quando il ragazzo voltò la testa, vide una lunga cicatrice attraversargli la parte sinistra della mandibola e risalire fino all'orecchio.

Si passò una mano nei capelli con aria sconcertata.

«Richard» lo chiamò. «Accidenti, quasi non ti riconoscevo».

Il ragazzo si voltò e inarcò un sopracciglio. Poi il suo volto si illuminò di feroce sorpresa.

«Mastro Lupin! Non posso crederci! Ehi, Wallace!» gridò all'interno della bottega. «Vieni a vedere chi c'è!». Si avvicinò a lui e gli strinse energicamente la mano. «Accidenti, Mastro Lupin, sono passati nove anni. Come hai fatto a scappare dai Loschi?».

Remus sospirò per l'ennesima volta.

«Non mi hanno preso. Si può sapere chi ha messo in giro questa--?».

«Lupin! Razza di maledetto finto irlandese!».

Wallace O'Leary era uno degli uomini dalla stazza più imponente che Remus avesse mai conosciuto. Sebbene un'incipiente calvizia gli stesse lasciando il capo sempre più scoperto, la lunga barba grigia sembrava ancora avvolgerlo come la criniera di un leone. Remus se la ricordava decisamente più castana – ed era piuttosto sicuro che Wallace stesse pensando la stessa cosa delle sue basette, che continuavano a ingrigire senza pietà anno dopo anno.

«Non sei invecchiato di un solo giorno, Wallace».

«Te invece sembri appena ritornato dall'inferno» replicò col suo vocione grosso e l'accento dell'Irlanda del sud calcato su ogni parola. Lo strinse in un grosso abbraccio che lo fece sentire un bambino ossuto avvolto da una montagna. «Come sta tuo padre?».

«In piena salute».

«Peccato».

«Puoi ben dirlo».

Improvvisamente qualcosa gli urtò il polpaccio con una tale forza da fargli quasi perdere l'equilibro. Cleo si era aggrappata con disperazione alla sua gamba.

«Voglio tornare a casa, voglio tornare a casa mia...».

«Miseria ladra, è la terza dall'ultimo plenilunio» commentò serio Wallace. «Di questo passo avremmo problemi con il cibo prima di Natale».

«Credevo fossi con Gordon». Remus le scompigliò i riccioli chiari mentre cercava il profilo allampanato dell'altro uomo fra i banchi del Mercato. Lo scorse dall'altro capo della piazza, intento a parlottare con l'avvenente figlia di Mastro Hallec. «E dov'è andata Mabel?».

«Non lo so... mi sono girata e non c'era più nessuno».

Remus sospirò.

«Portala da Gerwulf» gli consigliò Wallace. «Gli altri bambini si staranno svegliando, falle fare colazione insieme a loro».

«Aye, io berrei volentieri una pinta di birra per sgranchirmi i muscoli».

«Gli sguatteri non hanno muscoli, Ric». Wallace gli lanciò una scopa e gli indicò l'interno della forgia con un cenno severo del capo. Attese che fosse rientrato prima di guardare con espressione torva Remus. La fronte era talmente aggrottata che le folte sopracciglia scure sembravano quasi sfiorarsi.

«Dimmi la verità: è tornato davvero?».

Remus annuì brevemente. Wallace emise un suono molto simile a un ringhio.

«Avevi detto che era morto».

«Wallace, possiamo parlarne in un altro momento?» gli domandò calmo Remus. Non voleva che Cleo fosse costretta ad ascoltare discorsi che l'avrebbero spaventata ancora di più.

«Aye, hai ragione».

Staccò con delicatezza Cleo dalla sua gamba e la prese nuovamente in braccio.

«Chiedi a Gerwulf se puoi restare» lo avvisò Wallace prima di rientrare nella bottega. «Non so se lui e i Figli abbiano ancora voglia di mettere a rischio tutta la Fossa».

«Di che stai parlando?».

«Se lui è tornato, la tua sarà la prima testa che verrà a reclamare».

Un'ondata di freddo scivolò d'un tratto lungo la sua spina dorsale. Aveva creduto stesse parlando di Lord Voldemort... che sciocco. Era evidente che aveva trascorso troppo tempo lontano dai suoi simili e dalle loro priorità.

Remus lo salutò con un rapido gesto della testa e attraversò la piazza con le magre braccia di Cleo attorno al collo e il pupazzo di Lionel che gli ondeggiava accanto all'orecchio destro. Se le voci del ritorno di Greyback erano arrivate fino alla Fossa, probabilmente la fonte di Severus non aveva mentito. Prima Mabel, poi Wallace... tutti i Clandestini più anziani sembrano esserne preoccupati, ma non era certo che la loro paura avrebbe giocato a suo favore.

“Non so se lui e i Figli abbiano ancora voglia di mettere a rischio tutta la Fossa”.

Gerwulf era l'unico membro dei Figli ad aver mostrato simpatia per Remus durante la prima guerra magica, ma quasi tutti i Figli avevano continuato a tirarsi fuori dal conflitto fino alla caduta di Voldemort. Non che questo avesse in qualche modo tenuto la guerra fuori dalla Fossa: presto i proclami di Greyback finirono con l'aizzare i più giovani, che commisero l'errore di farsi incantare dalle sue favole di gloria e libertà.

Se Remus non ricordava male, dei trenta giovani che avevano seguito Greyback fuori dalla Fossa erano tornati indietro solo due.

Dal Mercato si diramavano tre larghe strade principali che si estendevano per diversi chilometri. Scavate nelle roccia, le abitazioni delle diverse centinaia di abitanti della Fossa sembravano scrutare i passanti in strade come dall'alto di un ciarlante formicaio. Remus oltrepassò l'arco che sovrastava l'ingresso alla Zona Nord e avanzò lungo la strada che si affollava sempre più mano a mano che i Lupi Mannari si svegliavano.

«Remus?».

«Dimmi».

«Chi è morto? Di chi parlavate tu e il signore grosso?».

La curiosità innocente di Cleo lo fece rabbrividire.

«Nessuno, Cleo».

Proseguirono per diversi minuti. Remus camminava ai bordi della strada per non farsi notare dai passanti, sfruttando Cleo e il suo pupazzo per nascondersi quanto meglio il viso. Aveva la sensazione che qualcuno potesse piantargli un'ascia in mezzo alla schiena da un momento all'altro.

«Remus?».

«Dimmi».

«Posso cambiare il mio nome?».

Remus aggrottò perplesso le sopracciglia.

«Perché mai dovresti volerlo fare? Cleo è un bel nome». Poi ricordò le parole di Mabel. «Oh, capisco. Non dare retta a quella vecchia strega: a Mabel non piace quasi niente».

Cleo rimase zitta per qualche secondo.

«Non è per quello... posso cambiare il mio nome?».

Avrebbe voluto chiederle cosa l'avesse spinta improvvisamente a nutrire il desiderio di cambiare il proprio nome, ma conosceva già la risposta. Forse chiederglielo l'avrebbe solo messa a disagio e le avrebbe spinto i brutti pensieri ancora più in profondità. Si ripromise di rimandare quell'ostica conversazione a più tardi.

«Certo» acconsentì con naturalezza. «Come vuoi chiamarti?».

«Lionel».

«Non puoi rubare il nome degli altri. Che ne dici di Cécile?».

Lei sollevò la testa dalla sua spalla per rivolgergli un'occhiata disgustata.

«Va bene, va bene... Emily? Melissa? Daphne?».

«Non voglio un nome che sembra un dolce di zucchero».

«Hai gusti difficili».

«No, sei tu che hai gusti brutti».

Remus rise di cuore.

«Theresa? Virginia? Mafalda?».

«Non è un nome vero!».

«Certo che è un nome vero».

«Io con una persona di nome Mafalda non ci parlo...».

Lui ridacchiò ancora. L'espressione di Cleo si fece ancora più nauseata. Sospirando appena, Remus tentò di concentrarsi. Non aveva mai abbracciato l'idea di diventare padre, quindi figurarsi se aveva mai pensato a quale nome avrebbe voluto dare a una bambina... e invece sì, ricordò con un moto di improvvisa tristezza.

«Lydia».

La bambina assottigliò le palpebre e iniziò a ripetere il nome fra i denti come un mantra. Qualche secondo dopo gli rivolse un sorriso raggiante.

«Mi piace!».

«Molto bene» rispose allegramente Remus. «È un piacere conoscerti, signorina Lydia».

«Il piacere è tutto mio, signor Remus» recitò compita lei, prima di scoppiare in una trillante risatina.

Remus si unì a quell'attimo di ilarità inaspettata, mentre il ricordo amaro di Lily che applaudiva entusiasta al suono di Lydia Potter si spegneva nella tiepida nostalgia.

Se fosse femmina, James vorrebbe chiamarla Comet, capisci?” risuonò nella sua testa. “Non gli permetterò di chiamare mia figlia come una ridicola scopa”.

In effetti credo che Pluffa Potter suoni meglio”.

Remus!”.

Perdonami, non volevo sottovalutare il tuo dramma. Visto che i nomi più intelligenti li hanno proposti Prongs e Padfoot – ti hanno già detto che Elvendork è unisex? - dovrò accontentarmi di proporre qualcosa di ordinario... che te ne pare di Lydia?”.

Lydia? Come la Lydia del romanzo?”.

Beh, solo se dovesse assomigliare a James, suppongo”.

«Remus?».

«Dimmi, Lydia».

«C'è una donna che ci guarda dall'altra parte della strada».

Lui ruotò appena il capo e trattenne il respiro nel riconoscerla. Non sembrava cambiata di un solo centimetro. I capelli neri stretti in decine di sottili treccine legate dietro la nuca, il collo alto e magro, gli zigomi alti... e la furia di una belva negli occhi gialli.

«Non la conosco...».

Affrettò il passo per raggiungere il vecchio Teatro in fondo alla Zona Nord, sperando che la sensazione alle proprie spalle fosse solo lo sguardo pungente di Anita e non la sua ascia pronta a conficcarglisi nella schiena.




°°°



 


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Capitolo 5
*** Capitolo Quattro ***


Documento senza titolo


«Perché a Hogsmeade?».

Tonks sobbalzò, facendo accidentalmente scivolare a terra una copia del fascicolo di Antonin Dolohov ai piedi della sua scrivania. Kingsley camuffò una leggera risatina con un soffio, si abbassò per raccoglierlo e glielo porse.

«Da quando sei così suscettibile?».

Tonks riprese a infilare appunti e vecchie fotografie all'interno della tracolla di pelle con poco garbo.

«Non ricominciare» lo ammonì con piglio severo. «Sto bene».

Il collega inarcò le braccia al petto con quell'espressione che Tonks gli aveva visto fare almeno un centinaio di volte nelle ultime due settimane. Era lo sguardo inquisitore che voleva dire “secondo me non ti sei ancora ristabilita, dovresti fare domanda per un lavoro d'ufficio temporaneo”. Ne avevano già discusso abbastanza, o perlomeno questa era l'opinione di Tonks. Al contrario, Kingsley pareva ritrovare in continuazione le energie per ricordarle quanto fosse ancora provata dalla maledizione di Bellatrix Lestrange. E meno male che Moody era già in pensione – a sentir lui non si sarebbe mai più dovuta muovere dal letto.

Kingsley scrutò cauto il cubicolo, lo sguardo indagatore che scivolava sui punti in cui carte geografiche della Gran Bretagna e manifesti di Maghi Oscuri avevano lasciato un alone più chiaro. Parve contare mentalmente la pila di fascicoli con cui stava riempiendo la borsa. Tonks si fermò di colpo e incrociò le braccia al petto.

«Che c'è?».

«Assolutamente nulla».

Lei inarcò sospettosa un sopracciglio. Kingsley sospirò.

«Hogsmeade».

«È un villaggio carino. Dovresti portarci quel giornalista della Gazzetta che ti sta sempre addosso».

«Non ricominciare» fu il suo turno di replicare.

«È così sexy» lo ignorò. Imitò il ruggito di una belva feroce e aggiunse con voce maliziosa: «Oh, perché voi gay dovete sempre essere i più sexy in ogni cosa?».

«Sono venuto con intenzioni molto serie».

«Stronzata, sei solo venuto per rimbrottarmi».

«Non ne avrei motivo».

«Altra stronzata, tu hai sempre qualche motivo per farlo». Gli rivolse un sorriso sardonico. «E se non ce l'hai tu, ce l'ha Malocchio. Di che si tratta questa volta?».

Lui le mostrò i palmi.

«Sono stupito che ti sia offerta volontaria per Hogsmeade. Mi hai preso alla sprovvista».

«I posti per le Bahamas erano già tutti esauriti. Dovresti portarci quel giornalista della Gazzetta che--».

Kingsley socchiuse appena le palpebre.

«Tonks, ti imploro».

«Scusa» ridacchiò lei. Gli rivolse un sorriso amichevole a aggiunse con più serietà: «Hogwarts ha bisogno di un paio di occhi in più. Penso di poter essere più di aiuto al villaggio piuttosto che qua dentro».

«Il Ministero ha accettato il ritorno di Voldemort da meno di un mese e abbiamo già più di quindici operazioni sotto copertura in atto. La tua abilità nel camuffamento è necessaria qui a Londra».

Tonks finse di controllare qualche foglio di pergamena.

«A quanto pare Robards non la pensa così».

«Tonks--».

«E senti chi parla, fra l'altro: il nuovo paggetto del Ministro Babbano».

Kingsley sbuffò e indicò un punto indistinto alle proprie spalle.

«Downing Street è a soli quattro isolati da qui».

«Ah, dillo ai tassisti della domenica che sono “solo quattro isolati”».

«La sicurezza del Ministro Babbano è di vitale importanza per la nostra comunità».

«Paggetto Shacklebolt» lo prese in giro lei. «Scommetto che ti farà portare in giro il parrucchino di sua moglie per tutto Hyde Park».

«Gloria a Rowena, non è un parrucchino: è uno Shih Tzu».

Rimasero per un momento in silenzio e si squadrano con aria divertita. Fu Tonks la prima a ridere, e alla sua risata trillante si unì in fretta quella più calma e moderata di Kingsley.

«D'accordo, hai ragione: sono un paggetto» si arrese lui. «Ora che l'ho ammesso puoi rispondere alla mia domanda?».

«Quale domanda?».

«Perché a Hogsmeade, Tonks?».

Lei lo scrutò con espressione indecisa. Da mesi aveva smesso di guardare Kingsley come un collega. Nonostante avessero più di dieci anni di differenza e lui fosse stato uno dei suoi insegnanti di Duello durante il periodo dell'addestramento, l'ultimo anno trascorso a collaborare insieme per l'Ordine li aveva avvicinati più di quanto non avesse mai fatto il Quartier Generale. Sapeva di potersi fidare di lui, ma era anche consapevole che scoprire quanto le era accaduto non avrebbe fatto altro che alimentare la sua naturale inclinazione a preoccuparsi per lei. Se da una parte si era rassegnata all'idea che sarebbe rimasta “quella più giovane dell'Ordine” per altri vent'anni, dall'altra parte trovava quelle attenzioni fastidiose ed eccessive. Kingsley ne avrebbe parlato con Moody – e se così non fosse stato, Tonks era certa che il vecchio Auror glielo avrebbe comunque estorto con la forza – Moody ne avrebbe parlato con Arthur, Arthur con Molly e Molly con tutti gli altri, e in meno di due giorni Tonks sarebbe stata circondata. Tremava al pensiero che la notizia potesse raggiungere anche sua madre.

Si passò una mano fra i capelli e sbuffò sonoramente.

«Me l'ha chiesto Silente».

Kingsley inarcò dubbioso un sopracciglio e Tonks si mordicchiò nervosa l'interno della guancia.

«È una versione diplomatica e attendibile, te ne do atto. E qual è quella vera che io non rivelerò a nessuno?».

Tonks inspirò profondamente. Si soffermò su un fascicolo particolarmente grosso sigillato da due giri di Magiscotch. L'etichetta rovinata recitava il nome “Bellatrix Lestrange”. Rimase a studiare la grafia secca e sgangherata con cui qualche mese prima aveva aggiunto la parola “puttana” accanto al nome della zia.

«Sono un po' fuori uso... no, non è a causa della battaglia nell'Ufficio Misteri» aggiunse prima che Kingsley potesse interromperla. «Ho una specie di... sai, i nervi. O gli ormoni. O la testa. Cose così».

«Cose così?».

«Il mio Patrono ha cambiato forma e non ho più il controllo del mio potere di metamorfosi».

Rimase ad attendere il suo verdetto, ma Kingsley non disse niente. Si limitò a guardarla con espressione impenetrabile e con le braccia incrociate al petto.

«Robards lo sa?».

«No».

«Meglio così».

«Capisci perché devo andare a Hogsmeade?» continuò lei. «È l'unico posto in cui posso ancora sentirmi utile. Mi sento così... stupida». Pronunciò l'ultima parola con violenza mentre apriva il primo cassetto della scrivania e lo svuotava del contenuto. «La guerra ormai è alle porte e io cosa faccio? Perdo la testa come una ragazzina. Cazzo, io sono un'Auror. Dovrei essere pronta per la prima linea, dovrei avere tutto sotto controllo... sono brava in quello che faccio, sono così maledettamente brava da potermene fregare se di tanto in tanto rovescio una dannata tazza di tè o inciampo in un gradino... fanculo».

Gli ultimi due fascicoli conservati nel secondo cassetto le sfuggirono di mano e caddero a terra. Lei e Kingsley si chinarono per raccoglierli nello stesso secondo, e fu solo allora che Tonks si accorse dell'errore commesso. Dal primo fascicolo di Rabastan Lestrange ne era fuoriuscito uno che non apparteneva al Quartier Generale degli Auror. L'intenso color vermiglio era inequivocabile. Glielo strappò lesta dalle mani e lo nascose subito nella borsa, sperando invano che lui non se ne fosse accorto.

«Tonks...».

«Sono solo un po' agitata. Mi passerà».

Kingsley si rialzò molto lentamente, fissandola come se stesse tentando di aprirle la mente per leggere ogni suo pensiero. Tonks richiuse la borsa con uno scatto secco e se la mise a tracolla, stringendola d'istinto con la mano sinistra.

«Perché hai dei documenti del Quarto Livello?» le domandò con voce molto bassa. Non riusciva a capire se fosse arrabbiato o preoccupato. «A cosa stai lavorando?».

«Ero solo curiosa... e questa è solo una copia, non se ne accorgerà nessuno».

Rimase ad attendere il suo scoppio d'ira. Lo aveva colpito nel suo punto sensibile, l'etica e il codice d'onore degli Auror e del Ministero, ed era piuttosto certa che non gliela avrebbe fatta passare liscia. Kingsley aveva sempre dimostrato un inquietante attaccamento alle regole – anche se forse, pensò lei, le regole non erano ciò che lo stavano infastidendo... forse avrebbe semplicemente preferito che lei non glielo avesse nascosto.

«Anche se fosse un'area di tua competenza, è morto da più di quindici anni» le disse in tono lapidario.

«L'ho letto. Eri uno degli Auror accorsi a Coventry quando è crollato il ponte».

Kingsley scosse il capo.

«A che cosa stai giocando, Tonks? Prima mi dici che non hai più il controllo della magia e ora scopro che stai portando fuori dal Ministero dei documenti segretati – sì, so che sono segretati, credi che non sappia distinguerne uno quando lo vedo?». Le sue narici vibrarono appena. «Te l'ha chiesto Remus?».

«No».

«Non mentirmi, chi altri potrebbe avere interesse a leggere i rapporti su Fenrir Greyback?». Kingsley mosse la mano come per scacciare una mosca fastidiosa. «Maledizione, dopo tutti questi anni non ha ancora smesso con quel ridicolo elenco? Non ha alcun diritto di coinvolgere te nelle sue fissazioni».

Le dita di Tonks si strinsero attorno alla cinghia della borsa.

«Quale elenco?».

L'uomo parve improvvisamente svuotarsi di tutta l'irritazione, sostituita da sincero stupore.

«Davvero non lo sai?».

«No» rispose, e sentì la delusione vibrarle in quella parola come un pugno nei reni.

Era come tutte le volte in cui scopriva l'ennesimo segreto di cui lui non l'aveva messa a conoscenza. Non importava che lui fosse con lei o meno, le verità che si ostinava a nasconderle continuavano a spuntare fuori senza che lui volesse condividerle con lei.

Perfino la sua licantropia era rimasta segreta fino a quando lei non aveva accidentalmente scoperto una confezione di lenti a contatto nascoste nel bagno di Grimmauld Place. Ricordava di essersele rigirata fra le mani per diversi minuti, sforzandosi di immaginare chi fra di loro potesse essere tanto strano da usare qualcosa di così tipicamente Babbano anziché una comoda Pozione Occhiolungo. Si era quasi convinta che appartenessero ad Arthur e alla sua assurda collezione di oggetti Babbani quando si era accorta che erano lenti di un intenso color nocciola. Fu facile per lei fare il resto dei collegamenti: le cicatrici che spiccavano sulla carnagione pallida, la fiacchezza quasi abitudinaria, e infine le lenti a contatto. Il solo motivo per cui qualcuno avrebbe dovuto preferire un espediente Babbano per confondere il colore dei propri occhi era che non ne esistevano di magici. In Gran Bretagna c'era solo una Creatura Oscura nota per essere totalmente immune da qualsiasi incantesimo di metamorfosi.

Ora nell'appartamento di Tonks, una Metamorfomaga, c'erano tre confezioni di lenti a contatto in un cassetto del bagno. A distanza di mesi, era ancora costretta a immaginare come potessero apparire in realtà gli occhi dell'uomo di cui si era innamorata. Se si fosse sforzata di infilarsi deliberatamente in una relazione più assurda, probabilmente avrebbe fallito.

«Remus ha un elenco di ogni vittima di Greyback» iniziò a spiegare Kingsley in tono tetro. «Donne, uomini, bambini... li annota su un'agenda. L'anno scorso mi ha chiesto di procurargli i nomi delle vittime di un orfanotrofio Babbano che venne assalito nel Derbyshire nell'inverno del 1977. Non avrei dovuto assecondarlo, ma non ho capito quanto fosse folle fino a quando Sirius non mi ha rivelato che lo fa da quando aveva quindici anni».

Tonks dischiuse appena le labbra. Non riusciva a credere alle proprie orecchie. Come, in nome del cielo, aveva potuto celargli qualcosa di così insensato?

«Quindici anni?».

«L'ho detto che era folle».

Lei emise una vaga risatina isterica.

«Se non te l'ha chiesto Remus...» continuò Kingsley, «...per quale motivo vuoi quel fascicolo? Non troverai che orrori vecchi di decenni là dentro».

Tonks sbuffò appena e si passò una mano fra i capelli. Un ciuffo gli scivolò davanti agli occhi e lei lo scostò con fare rabbioso. Non disse niente. Lo fissò a lungo, quasi senza sbattere le palpebre, e sapeva che presto avrebbe capito... non era un uomo particolarmente espansivo, ma non si poteva dire che non fosse abile a comprendere la natura delle persone.

«Non ci credo» disse semplicemente. Chiuse gli occhi e sospirò. «Maledizione, Tonks, è una pazzia».

Fu una sensazione strana. Forse fu l'aria tragica assunta da Kingsley, forse fu il modo impietoso con cui aveva pronunciato “pazzia” o forse fu davvero la consapevolezza che aveva motivo di essere tragico e di ritenerla una pazzia, ma Tonks fu scossa da un moto nervoso di risate. Rise di pancia, fragorosamente, attirando l'attenzione degli altri Auror. In realtà credeva di aver un gran bisogno di piangere, ma in quel momento non sembrava far altro che ridere.

Forse era pazza pure lei.

«Se ne è andato» riuscì a dirgli dopo essersi calmata. «Ordini di Silente, missione segreta. Non ho più niente di pazzo del quale preoccuparmi».

«È per questo che ora la tua magia è sottosopra?».

Tonks schioccò la lingua e gli colpì amichevolmente il braccio mentre lo superava.

«Porta fuori a cena quel giornalista della Gazzetta, mi sembra un tipo abbastanza ordinario per non darti troppi problemi» tagliò corto con un occhiolino. «E chiedigli se ha un fratello – possibilmente eterosessuale, l'ultima volta in cui ho fatto giochetti strani sono stata costretta ad andare al San Mungo per farmi levare i testicoli, non se mi spiego».

Ignorando i suoi tentativi di sdrammatizzare, Kingsley le afferrò il suo braccio per fermarla.

«Dico davvero, Tonks, lascia perdere».

Lei si liberò con uno strattone scontroso.

«Sì, è una pazzia, ho capito. Hai altro da aggiungere o posso andarmene?».

Per un attimo lui parve davvero dispiaciuto, ma la sua voce continuò a fremere di seria praticità.

«Lo conosco abbastanza per sapere che non durerà. Lui non fa mai durare nulla».

«Non sapevo foste amici di lunga data» ribatté lei con sarcasmo feroce.

«Apri gli occhi. Da quando James e Lily Potter sono morti non è mai rimasto in un solo posto per più di qualche mese. L'hai mai sentito parlare della sua famiglia? L'hai mai sentito raccontare storie che non avessero niente a che fare con James e Sirius?». Sospirò con aria affranta. «Non farti ingannare dalle apparenze, lui e Sirius erano identici. Qualcosa di loro è morto con i Potter e non c'è niente che tu possa fare per cambiarlo».

«Hai finito?» sibilò fra i denti.

«Non essere stupida--».

«Bene, grazie».

Non attese oltre. Se lo lasciò alle spalle e si diresse a passi rapidi verso la porta dell'ufficio. Urtò con furia la spalla di Williamson, che si voltò verso di lei con espressione infastidita.

«Ehi, Tonks, guarda dove mette i piedi!».

Lei lo ignorò. Oltrepassò l'atrio del Secondo Livello e si infilò nel primo ascensore libero. Stringeva la tracolla con tanta foga da conficcare le unghie nella pelle. Il vociare caotico dei dipendenti e il ronzare delle missive incantate gli arriva alle orecchie come attraverso un muro ovattato.

“Non c'è niente che tu possa fare per cambiarlo”.

Il ricordo del tono presuntuoso di Kingsley la fece infuriare ancora di più. Credeva davvero di saperne più di lei? Credeva davvero che lei fosse talmente ingenua da non saperlo? A volte Remus sembrava davvero vivere in un mondo di cui lei non faceva parte, un mondo in cui lei non riusciva nemmeno a entrare di soppiatto. Lo vedeva in quei momenti in cui lui si perdeva a fissare un punto indistinto fra le fiamme nel camino o nella pioggia al di là del vetro della finestra; lo vedeva nella penombra della camera da letto, quando restava ore intere a fissare il soffitto convinto che lei stesse dormendo e non potesse accorgersene. Era nell'ombra cupa che lo faceva sembrare più vecchio di quindici anni, nella voce accomodante che assicurava che andava tutto bene, nel lampo ferino che di tanto in tanto gli guizzava nello sguardo quando qualcosa lo faceva infuriare. Erano quei secondi disperati in cui tutto di lui veniva a galla per poi riaffondare nell'oblio della sua educazione controllata.

Lei non aveva intenzione di cambiarlo.

«Auror Tonks!».

Aveva raggiunto l'Atrium senza nemmeno rendersene conto. Mentre si voltava indietro, si domandò da quanto tempo stessero cercando di attirare la sua attenzione.

John Dawlish era un uomo sulla quarantina. Nonostante non vantasse una corporatura molto massiccia, era abbastanza alto da mettere in soggezione i suoi sottoposti con i suoi occhi oscenamente chiari. Tonks li aveva sempre trovati inquietanti, le ricordavano lo sguardo di un cadavere. Erano talmente chiari da non lasciare trasparire alcuna emozione, come se fra il mondo e Dawlish ci fosse una lastra di perenne ghiaccio.

«Auror Dawlish» lo salutò con un cenno del capo, senza nascondere una certa perplessità nella voce.

Lui le rivolse un sorriso impercettibile che non si estese allo sguardo e si passò appena la lingua sul labbro superiore. Tonks rabbividì. Era un gesto che faceva in continuazione, ma ogni volta era più raggelante della precedente.

«Volevo informarti di persona che arriverò nel primo pomeriggio di domani. Temo di avere ancora qualche cosa da sistemare in ufficio».

Tonks inclinò confusa il capo.

«Prego?».

«Parlo di Hogsmeade, naturalmente. Sarò io a supervisionare i controlli nel villaggio».

Le parve di essere stata investita da una cascata di acqua fredda. Improvvisamente accettare l'offerta di Silente non le sembrava più l'idea migliore.

Detestava Dawlish con ogni fibra del suo essere. Era un mago talentuoso, non poteva negarlo, ma il modo in cui la fissava la metteva a disagio. Kingsley sembrava convinto che fosse attratto da lei, ma Tonks aveva smentito con una grassa risata e un eloquente dito medio. Al pensiero si sentì in colpa per il modo scortese con cui aveva liquidato l'amico: era solo preoccupato per lei.

«Savage e Proudfoot sono già di stanza» continuò lui con voce atona. «Hai già ricevuto tutte le direttive?».

«Sì, ho parlato con Robards questa mattina. Io... non avevo idea che lei fosse nella squadra».

«Gawain ha pensato fosse meglio avere al comando un Auror di esperienza».

Tonks evitò di sottolineare che Savage e Proudfoot erano Auror altamente qualificati che avrebbero potuto vantare non meno esperienza di lui. Proudfoot era stato il suo insegnante di Occultamento fino all'anno prima. Non esattamente ciò che si sarebbe potuto definire un novellino.

«Ci vediamo domani, Auror Tonks».

C'era qualcosa di viscido nel modo in cui aveva pronunciato quelle parole, ma Tonks si ostinò ignorarlo.

«Certo».

Si passò ancora la lingua sulle labbra prima di ritornare sui suoi passi e lasciarla da sola in mezzo all'Atrium affollato. Cosa diavolo intendeva dire? Perché aveva abbandonato il Quartier Generale per dirle qualcosa che avrebbe comunque scoperto di lì a poco? L'idea agghiacciante che Kingsley potesse avere ragione continuava a tormentarla...

Infilò una mano nella tasca del cappotto ed estrasse un taccuino di pelle verde e una matita Babbana – il Ministero poteva tenersi le sue abitudine screanzate, ma per lei portarsi in giro un calamaio e una piuma erano un'idea folle. Strappò un piccolo angolo di pergamena e si appoggiò alla gamba del centauro per scrivere il messaggio.



Sono una stronza, hai ragione... ma accetterò comunque le tue scuse per aver cercato di farmi sentire una ragazzina scema. C'è mancato poco che ti prendessi a calci nel sedere, bastardo.

Scusami.


P.s.

Dawlish ha rifatto quella cosa con lingua davanti a me. Due volte. Orribile.

Ed è il responsabile della squadra di Hogsmeade. Due volte orribile.


P.p.s.

Il tizio della Gazzetta è singol e si chiama Terence. Dannazione, può esistere in tutta la Gran Bretagna un nome più gay di così?


La tua meravigliosamente sexy e seriamente dispiaciuta,

Tonks



Fu piacevolmente sollevata quando riuscì a incantare la pergamena senza produrre danni. Con un po' di fortuna stava sottovalutando le conseguenze del suo sbalzo emotivo e la sua magia non avrebbe fatto poi così tanto schifo. Fece per avviarsi verso l'uscita, sperando che Kingsley non reagisse in maniera diversa dal solito.

Le loro litigate erano peggiorate da quando Malocchio era andato in pensione. Fino a quel giorno l'influenza che il vecchio Auror aveva sulle uniche due matricole che avesse accettato di addestrare era stata in grado di attutire le loro differenze, ma negli anni successivi il contegno ragionevole di Kingsley aveva iniziato a schiantarsi con l'imprudenza audace di Tonks. Erano comunque due fuochi di paglia, poco più pericolosi di due studenti di dodici anni, e solitamente non portavano rancore per più dieci minuti.

Tonks guardò l'orologio. Ne erano già trascorsi sedici, Kingsley doveva trovarsi nel suo ufficio, intento a dondolarsi sulle sedie in preda ai sensi di colpa per averla trattata male.

Sistemò la tracolla e raggiunse uno dei camini della Metrolpolvere. Fece un profondo respiro e lanciò un'ultima occhiata al Ministero prima di pronunciare con sicurezza:

«Tre Manici di Scopa, Hogsmeade!».



°°°

 

 

 


Che bello, stavolta ho delle note da aggiungere.

    1. Nella mia testa il fatto che Kingsley non fosse un membro del primo Ordine della Fenice non significa che non abbia preso parte alle battaglie, anzi: è un Auror, e nel quinto libro dicono che Tonks era troppo giovane per combattere, non certo lui. Vivo nell'HeadCanon che all'epoca dell'avvento di Lord Voldemort Kingsley fosse all'inizio della sua carriera di Auror, sotto l'addestramento di Moody. Eh, dai, lasciatemi sognare. Ho sempre pensato avesse all'incirca l'età dei Malandrini – in questo caso ho deciso che era Caposcuola di Corvonero nell'anno in cui Remus diventa Prefetto. Mi piace anche pensare che Moody non sia un uomo facile ai complimenti, quindi se ha riconosciuto in Tonks il talento adatto per diventare la sua giovane protetta, esigo l'abbia fatto anche con il giovane Kingsley, non ancora pelato ma con le treccine nere. Lo esigo ieri, insomma

    2. Non ho idea di cosa mi abbia portato a renderlo omosessuale in questa fic. In tutta sincerità l'idea non mi aveva mai nemmeno sfiorato, poi l'altro giorno ho pensato: «Al diavolo, facciamo tutto quello che ci pare, yeeeeah». Mi sembra cosa buona e giusta.

    3. L'idea delle lenti a contatto è un mio umile e stupido tributo a In the Flesh e un grido di speranza affinché la BBC mi dia una seconda stagione di zombie complessati. Quindi please, BBC, voglio ancora dolore, morte e risurrezione.




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Capitolo 6
*** Capitolo Cinque ***


Documento senza titolo

Sono molto dispiaciuta per questo abominevole ritardo - più di tre mesi, argh...! Purtroppo il tempo libero è sempre in discussione. Qualcuno direbbe che l'importante è arrivare. ;)

 

 


Il Teatro era una gigantesca nicchia di pietra scavata al limitare della Fossa, a capo della Zona Nord. A differenza del largo cunicolo, tuttavia, era del tutto sprovvisto di rientranze abitate; non c'erano scale ritorte per raggiungere i piani più alti, né fili del bucato appesi da una parte all'altra della via.

Era un ambiente rotondo largo parecchi metri che poteva ospitare anche diverse centinaia di persone in piedi, sovrastato non più dagli archi del Mercato, ma dalla cruda e ruvida superficie della roccia. “Il lato B di Londra” l'aveva definito molti anni prima. Era incredibile pensare che solo pochi metri sopra alla sua testa centinaia e centinaia di ignari Babbani stessero vivendo le loro abitudinarie esistenze alla luce del sole.

Le torce che circondavano l'intero perimetro del Teatro erano già accese, ma i candelabri incantati per galleggiare a mezz'aria erano ancora spenti. Ce ne erano di tutti i tipi: a tre braccia, a quattro, piccoli monconi di candele ormai terminate o grossi lampadari rotondi... tutto ciò che nel corso degli anni si era potuto rubare dal mondo di sopra per illuminare l'unico luogo davvero tranquillo della Fossa.

Seduto a un lungo tavolo di legno massiccio situato in un incavo della roccia dall'altra parte dell'ingresso, il Rabbino aaaGoldstein era sprofondato in una copia del Daily Mirror. I radi capelli che spuntavano al di sotto della kippah era ormai del tutto ingrigiti.

«Questa settimana ci aspettano i Vangeli?».

Noah Goldstein abbassò il giornale di scatto. Le sue sopracciglia cespugliose schizzarono verso l'alto con evidente sorpresa. Nonostante non fosse ancora particolarmente anziano, la pelle macchiata e rugosa e i movimenti lenti gli conferivano un aspetto sciupato e malato.

«Remus Lupin!» esclamò raggiante, girando attorno al tavolo e attraversando le file centrali delle panche del Teatro per raggiungerlo. «Non posso crederci. Che ti è successo, ragazzo?».

«I Loschi non mi hanno preso».

«Sei sempre stato troppo furbo per farti prendere dal Ministero». Lo strinse in un abbraccio gentile. «Sono anni che lo ripeto, ma ormai la voce si è diffusa ed è diventata vera. E chi è questa graziosa signorina?».

«Lydia» rispose con prontezza la bambina, stringendo al petto la tigre di pezza.

«È un vero piacere conoscerti, signorina Lydia». Goldstein alzò lo sguardo su Remus. «Quali orrende notizie sei venuto a portarci?».

«Perché credi lo siano?».

«Perché non ne hai mai portate di belle» ribatté con affettuosa ironia l'anziano licantropo. «Signorina Lydia, ormai è ora di colazione: non hai fame?».

La bambina sfoggiò un largo sorriso e annuì vigorosamente.

«Galila!» chiamò a gran voce Goldstein in direzione di una logora tenda viola che ondeggiava dietro di loro. «Sei ancora lì, mia cara?».

«E dove altro dovrei essere?» rispose una voce squillante.

Remus non aveva dimenticato né il suo nome né la sua vivacità, ma la giovane che uscì dall'alcova oltre la tenda era ben distante dal volto infantile che ricordava. Esattamente come il suo incontro con il ragazzo che un tempo era stato il piccolo Ric, vedere con quanta rapidità Galila avesse smesso di essere una bambina lo fece sentire nuovamente molto più vecchio di quanto non fosse davvero. A modo suo, era riuscita a diventare perfino graziosa – proprio lei che piagnucolava perché aveva la carnagione scura e troppe sopracciglia nere, i capelli grossi e il naso pronunciato, e si sentiva così diversa dalle altre bambine con la pelle chiara. Galila aveva ancora la carnagione scura, le sopracciglia e i capelli folti e neri, e il suo naso aveva indubbiamente una linea particolare, ma il sorriso caloroso che rivolse a Remus la illuminarono di bellezza.

«Mastro Lupin, sei tornato!» strillò eccitata, abbandonando dei grossi libri che reggeva su una delle panche e catapultandosi fra le sue braccia.

«Oh!» esclamò lui, preso alla sprovvista da quella manifestazione di entusiasmo.

Lei rise di cuore e si sciolse dall'abbraccio.

«Dicevano che ti avevano preso i Loschi, ma--».

«Galila, mia cara, credo gliel'abbiamo già fatto notare almeno un paio di volte oggi».

La giovane scoppiò ancora a ridere. Quella risata sembrava fuori posto sotto tutti quei metri di terra rossa e pietra umida.

«E chi abbiamo qui? Ciao, creatura».

Lydia sorrise.

«Lei è Lydia» la presentò Remus. «E credo stia morendo di fame».

«Scommetto che hai una fame da lupi, eh?» scherzò Galila, mentre le scostava un ricciolo chiaro dietro un orecchio. «E scommetto che se ci sbrighiamo possiamo ancora sperare di trovare qualche fetta di pancetta e un paio di uova ancora calde, che ne dici?».

La bambina si mordicchiò il labbro inferiore e scrutò Remus con aria interrogativa.

«Io non direi no a una fetta di pancetta» la rassicurò. «Potresti andare con Galila e vedere se ne è rimasta anche per me».

Lydia afferrò di slancio la mano di Galila e ridacchiò mentre iniziava a trascinarla fuori dal Teatro.

«Oppure la potrei mangiare tutta!».

«Ehi, Mastro Lupin!» lo chiamò la ragazza. «Questa volta resti?».

Remus si limitò a rivolgerle un sorriso leggero senza risponderle. Non era certo che della bambina che ricordava fosse rimasto abbastanza per credere alle sue bugie. Non appena furono svanite dalla loro vista, Goldstein fece un lungo sospiro rassegnato.

«Per quanto resterai?».

«A questo punto temo che la domanda giusta sia se potrò restare».

L'anziano rabbino storse le labbra in una smorfia sarcastica.

«Sai, qualcuno crede che tu porti sfortuna».

«Anche io lo credo».

Goldstein rise. Una risata un po' gutturale e rauca, che presto si trasformò in un colpo di tosse. Remus gli appoggiò una mano sulla schiena e lo aiutò a sedere a una delle panche.

«Stare così tanto tempo nella Fossa ha le sue conseguenze» spiegò con tranquillità Goldstein. «E questo posto è pieno di polvere più vecchia di me. Oh, non guardarmi con quella faccia preoccupata, ragazzo».

Remus si sedette nella panca di fronte a lui e voltò il torso in modo da poterlo vedere in viso. Ora che gli era più vicino, riusciva a vedere tutti i segni che il trascorrere del tempo gli avevano inciso sulla carne.

«Ho incontrato tuo nipote a Hogwarts» disse all'improvviso.

Negli occhi di Goldstein si accese un lampo di vivace curiosità, che tuttavia venne accompagnato da una voce carica di antica tristezza.

«Anthony?».

«È un Prefetto di Corvonero. Passa in biblioteca decisamente più tempo di quanto non ci si aspetterebbe da un sedicenne. È un ragazzo in gamba».

Il vecchio sorrise con tristezza.

«Sono contento di sapere che sta bene» mormorò. Agitò una mano davanti al viso e cambiò argomento con una rapidità tale da far rimpiangere Remus di averglielo detto: «Ma dimmi, perché sei qui?».

«Credevo fosse ovvio».

«No. Il tuo ritorno quaggiù conferma solo delle voci che speravo rimanessero tali per almeno altri cinquant'anni... Gerwulf ti chiederà cosa pensi di fare quaggiù. E ho paura che qualunque risposta gli darai sarà quella sbagliata».

Remus rimase in silenzio qualche istante.

«Come credi abbia potuto sopravvivere?».

«Oh, Fenrir ha sempre avuto più assi nella manica di quanti non potresti credere. Non sarei stupito di scoprire che ha imparato a trasformarsi in un gigantesco lupo volante».

«Cosa si dice stia facendo?».

«Remus... sai come funzionano i pettegolezzi, quaggiù».

«Cosa dicono, Noah?».

Goldstein sospirò.

«Dicono stia rimettendo in piedi il suo branco. A quanto pare non sei stato l'unico abbastanza sveglio da scappare ai Loschi in questi anni».

Remus si passò una mano sul viso. Sembrava molto peggio di quanto non avesse temuto. Il branco di Greyback aveva insanguinato la Gran Bretagna per quasi vent'anni senza che nessuno riuscisse a fermarli. Dopo la morte – o qualunque cosa fosse – di Greyback, sembrava essersi dissolto nel nulla e le aggressioni dei Lupi Mannari erano tornate a essere tragedie del tutto sporadiche e fuori da ogni complessa gerarchia.

«Sono felice che tu sia passato a trovarmi» disse Goldstein. «Ma sai perfettamente cosa devi fare».

Remus sollevò un sopracciglio con aria perplessa.

«Va' da Gerwulf e parla con i Figli».

«L'ultima volta la guerra era inevitabile e non hanno mosso un dito. Cosa ti fa pensare che oggi vorranno ascoltarmi?».

«Non vollero ascoltare il ragazzino che parlava di libertà senza conoscere la prigionia. Forse oggi ascolteranno l'uomo che teme la prigionia perché conosce la libertà».

Remus abbassò il capo e si guardò con aria pensierosa le mani. Il susseguirsi dei lavori manuali che aveva svolto saltuariamente negli ultimi dieci anni aveva lasciato segni indefiniti sui suoi palmi, calli più o meno profondi, più o meno visibili. A differenza delle cicatrici che gli deturpavano la pelle, avere le mani rovinate non gli aveva mia procurato fastidio – così come non gli aveva mai procurato fastidio lavorare nei moli o nelle cave di sale, fin quando questi erano durati.

In quei posti la gente conosceva sempre canzoni allegre sulla libertà – peccato non ricordarne molte.


°°°


L'indirizzo fornitole da Robards era quello di una casetta di due piani dall'aspetto ordinario che sia affacciava sulla strada principale di Hogsmeade, non troppi metri più avanti ai Tre Manici di Scopa. Le tende del piano di sopra erano tutte tirate.

Tonks alzò una mano per bussare, quando il batacchio d'ottone a forma di cinghiale cominciò a strillare e la fece sobbalzare per lo spavento inatteso.

«IDENTIFICARSI! GIUSTIFICARSI! ARROTOLARSI!».

«...arrotolarmi?» domandò Tonks con un sopracciglio inarcato. «Cosa dovrebbe significare?».

«IDENTIFICARSI! GIUSTIFICARSI! ARROTOLARSI!».

Tonks fece un passo indietro – rischiando di inciampare nel borsone che conteneva i suoi vestiti – e aprì le braccia, mostrando il mantello d'ordinanza degli Auror e il distintivo appeso alla cinghia dei pantaloni.

«Sono l'Aur--».

«IDENTIFICARSI! GIUSTIFICARSI! ARROTOLARSI!».

«Ho detto che sono l'Auror To--».

«IDENTIFICARSI! GIUSTIFICARSI! ARROTOLARSI!».

Tonks tirò un calcio alla porta e imprecò a gran voce.

«SONO UN'AUROR!».

«Non si direbbe proprio, a giudicare da questo trambusto» s'intromise una voce allegra alle sue spalle.

Philibert Proudfoot era un mago di mezz'età che vantava ancora una capigliatura rossiccia che avrebbe potuto far invidia perfino ai Weasley. Nonostante la corporatura bassa e ben piantata, era un duellante rapido – e particolarmente abile negli incantesimi di Occultamento. Si divertiva spesso a dire che l'arrivo di Tonks gli aveva quasi portato via il lavoro e che, fra una missione e l'altra, doveva arrotondare pulendo i bagni Babbani comunicanti con il Ministero. Sapeva raccontare le storie talmente bene che qualcuno gli aveva perfino creduto.

«Oh, beh, sei tu» continuò lui con vivace ironia. «Ora capisco il trambusto».

«Stavo solo procedendo all'arresto di questo demonio per resistenza a pubblico ufficiale» ribatté Tonks all'indirizzo del batacchio. «E cosa dovrebbe voler dire che devo arrotolarmi?».

Proudfoot scosse la testa e si avvicinò alla porta.

«Ah, lascia stare. Crediamo intenda dire arruolarsi, ma deve esserci qualcosa che non funziona nell'Incantesimo Controllante».

«Come si entra, quindi?».

«Beh, facendo ciò che vuole lui. Auror Philibert Proudfoot, Divisione Hogsmead» proclamò a voce alta, prima di esibirsi in una ridicola piroetta davanti all'ingresso.

«Bentornato, Auror Proudfoot» rispose con voce gentile il batacchio, mentre la serratura scattava e la porta si apriva verso l'interno. «È un piacere rivederla».

«Grazie, Frankie».

Tonks non fece in tempo nemmeno a muovere un passo prima che la porta si richiudesse nuovamente. Sospirò rassegnata – dopo quattro anni di lavoro al Ministero della Magia era abituata anche a cose più assurde – e si fermò di fronte al cinghiale di ottone.

«IDENTIFICARSI! GIUSTIFICARSI! ARROTO--!».

«Sì, un momento! Auror Tonks, Divisione Hogsmeade».

Piroettò con attenzione cercando di non cadere, e riuscì perfino a mostrare un lieve inchino sarcastico alla porta. Ma quella non si mosse.

«Ehi?».

«IDENTIFICARSI! GIUSTIFICARSI! ARROTOLARSI!».

«Mi prendi in giro!?» si lamentò lei. «Ehi, Phil! Non mi fa entrare!».

«Devi dirle il tuo nome, Tonks!» la raggiunse dall'interno la voce del mago più anziano.

«Le ho detto il mio-- oh, diavolo». Inspirò infastidita. «Auror Ninfadora Tonks, Divisione Hogsmeade».

Fu un sollievo quando il cinghiale la invitò ad entrare.

«Benvenuta, Auror Tonks. È un piacere conoscerla».

«Sì, grazie... ehm, Frankie?».

Proudfoot rise di nuovo. Tonks seguì l'eco della sua risata fino al salotto. Era una stanza non troppo grande, ma dalle pareti ricoperte con una carta da parati calda e il pavimento di legno. Un camino spento troneggiava dinanzi a un divanetto e a un paio di poltroncine dall'aspetto sciupato. Tonks lasciò cadere il borsone sull'uscio.

«Perché la porta si chiama Frankie?».

«Perché è una porta».

Tonks inclinò perplessa il capo.

«Come Frankie Jones, il Portiere del Puddlemore United nel Campionato del '73. Sei troppo giovane per ricordarlo».

«...hai chiamato la porta come un portiere di Quidditch?».

Proudfoot annuì con espressione orgogliosa.

«Charles voleva chiamarla Jim in onore di non so quale cantante Babbano, ma ho vinto la partita a carte, perciò...».

Fu Tonks a ridere.

«Scommetto che vuoi disfare i bagagli. Tibby!» gli disse lui, indicando con un cenno del capo la porta.

Crack!

Era una delle elfe domestiche più giovani che Tonks avesse mai visto. Non che fosse abituata agli elfi domestici, certo. I suoi genitori non ne avevano mai posseduto uno, ma aveva avuto modo di incontrarne un paio di quelli che lavoravano a Hogwarts durante il periodo scolastico, quando di tanto in tanto sgattaiolava nelle cucine del cuore della notte. E Kreacher, naturalmente... ma Tonks era convinta che Kracher fosse una creature già di per sé fin troppo particolare per essere confrontata con i suoi simili.

Tibby aveva due orecchie gigantesche e due occhi di un intenso viola altrettanto giganti. Indossava una piccola tunica di lana grossa verde scura, con il simbolo del Ministero cucito con un filo dorato sul petto.

«Tibby, lei è l'Auror Tonks. Puoi accompagnarla alla sua stanza?».

Gli occhioni dell'elfa lampeggiarono entusiasti.

«Auror Tonks, signorina! Tibby è così felice di vederla! Tibby sa tutto di lei, Auror Tonks!».

Presa alla sprovvista, Tonks lanciò un'occhiata in tralice a Proudfoot, che scrollò le spalle.

«Chiede di te da questa mattina. Credo sia una tua fan» la prese in giro.

«Tibby è felice di conoscere la signorina Auror Tonks. Tibby le chiede di seguirla, signorina Auror, così le fa vedere la stanza nuova...».

Con un sorriso quieto, Tonks raccolse la sua borsa e la seguì lungo le scale. Non fosse stato per un lungo lampadario a candele che penzolava sull'ingresso, la volta delle scale sarebbe stata completamente immersa nell'oscurità. A differenza del salotto, che sembrava più accogliente, il resto della casa aveva un aspetto più lugubre.

«Venga, Auror Tonks, venga! Tibby ha sistemato la sua stanza pensando a lei!».

«A me?».

«Oh, sì, sì! Tibby sa chi è lei, signorina Auror, Tibby pensa che lei è molto forte».

«Avanti, ora puoi dirmelo: chi ti ha ordinato di farmi questo scherzo?».

Tibby scosse il capo mentre si alzava in punta di piedi per aprire la porta dell'ultima camera a sinistra.

«Tibby non capisce di cosa l'Auror Tonks parla».

La stanza sembrava sbucare da un mondo parallelo. Non c'era niente del resto della casa: le pareti erano state ricoperte con dei pezzi di carta da pareti attaccata un po' a caso. C'erano pezzi verdi, rossi e gialli, fucsia e azzurri, in completo caos, che davano l'idea di trovarsi all'interno di un costume da pagliaccio – o nel suo stomaco. Per un lungo istante Tonks non fu in grado parlare. Quell'assurdità di colore riusciva ad accecare perfino lei.

«Tibby pensa che i colori le piacciono, Auror Tonks, perché ha visto al Ministero, e l'Auror Tonks ha sempre capelli colorati molto belli, signora!».

«Oh» capì all'improvviso Tonks. «Beh, bel colpo, Tibby. È davvero... mitico».

L'elfa si aprì in un sorriso radioso. Attese che Tonks avesse appoggiato la borsa sul letto – ricoperto da un copriletto di un accecante arancione – prima di strillare entusiasta:

«La signorina Auror Tonks ha bisogno di altro, signorina Auror? Tibby pensa che--».

«No, no, no. Tibby, grazie. È una stanza fantastica, ma ora vorrei sistemare i miei vestiti nell'armadio».

«Ci pensa Tibby, signorina Auror Tonks!».

«Non ce n'è bisogno, davvero».

Gli occhioni acquosi dell'elfa si riempirono di delusione. Sentendosi in colpa, Tonks sospirò e aggiunse:

«Potrei avere una tazza di caffè?» domandò infine.

«Sì! Sì, signorina Auror Tonks, la signorina Auror Tonks avrà il caffè più miticofantastico della Gran Bretagna!». Tibby prese a saltellare su se stessa in preda a una cavalcante euforia. «Tibby prepara il caffè e--».

«E la signorina Auror Tonks scenderà a prenderlo in cucina» terminò per lei Tonks con un sorriso divertito. «Non disturbarti per portarmelo fino a qua, Tibby. Scendo io».

Dopo tre inchini e quattro “signorina Auror Tonks”, Tonks rimase finalmente da sola. Iniziò a disfare il borsone con movimenti pigri della bacchetta, domandandosi se sarebbe mai riuscita ad abituarsi a quell'accozzamento inquietante di colori. Quando anche l'ultima t-shirt delle Sorelle Stravagarie si incastrò nel cassetto già ricolmo, Tonks si lasciò cadere sul letto a fissare il soffitto azzurro chiaro.

Quel colore era talmente slavato da farle tornare in mente gli occhi inquisitori dell'Auror Dawlish. Non era esattamente una posizione confortevole. Sapere che sarebbe arrivato a breve a Hogmeade la irritava profondamente. Non che fossero mai stati in disaccordo, certo. Quando si era diffusa la notizia che lei e Kingsley avevano trascorso l'ultimo anno lavorando in segreto per Silente e per l'Ordine della Fenice, aveva sopportato qualche situazione di contrasto con un paio dei suoi colleghi più anziani, mentre Dawlish non aveva praticamente aperto bocca. Le aveva solo detto: “Lei è molto giovane, Tonks”. E questo, nonostante il tono apatico e il sorriso cortese, l'aveva infastidita più di tutto il resto.

“Almeno sono qui” si fece forza. “Lontana da Robards e dalle sue domande sui miei poteri e vicina a Hogwarts”. Realizzò d'istinto che se Silente avesse ricevuto delle novità dalla Fossa, lei avrebbe potuto essere fra le prime a saperlo. Non era certa se esserne confortata sul serio.

Un improvviso ticchettio alla finestra le fece sollevare la testa dal materasso. Al di là del vetro un piccolo alloco dal piumaggio gonfio la fissava con espressione paziente. Era uno dei degli allocchi del Ministero.

Si alzò dal letto e fece entrare il piccolo volatile, che le tese la zampetta alla quale era stata annodata una sottile pergamena giallognola.

Tonks la dispiegò con un sorriso.



Ho esagerato. Sei una bimba grande e maggiorenne, seppur stronza e imprudente, e non avevo il diritto di rimproverarti. Fermo restando che sono convinto che sarò io a prendere a calci nel sedere Remus, sono tuo amico.

E sono solo preoccupato.

Scusami.


P.s.

Conosci la mia opinione su John: colpisci forte in mezzo alla gambe.


P.p.s.

So che si chiama Terence e so dove abita. Se pensi che il suo nome sia gay, dovresti vedere la sua collezione di album di Joni Mitchell.


Il tuo straordinariamente affascinante e sinceramente preoccupato,

Kingsley



Tonks ridacchiò.

Un soffio di aria fredda si insinuò attraverso la finestra aperta e la fece rabbrividire. Rimase a contemplare la strada principale di Hogsmeade del tutto deserta, gli spazi lasciati vuoti dalle insegne dei negozi che avevano chiuso e le finestre sbarrate. Il sorriso lasciatole dalla lettera di Kingley svanì in fretta. Con l'avanzare dei Mangiamorte e con il Ministero sempre più instabile, Remus non era nemmeno lontanamente il primo dei suoi problemi – magari lo fosse stato.

Ripensò di colpo a una sera di diversi mesi prima a Grimmauld Place. Remus era di turno all'Ufficio Misteri e lei si era attardata dopo cena ed era rimasta a parlare con Sirius fino a notte fonda. Era nell'Ordine da poco più di qualche settimana e il suo cugino preferito non aveva ancora avuto modo di recuperare il tempo trascorso ad Azkaban. L'aveva già bombardata di domande la sera in cui Alastor l'aveva portata al Quartier Generale dell'Ordine, ma quella sera fu speciale.

Erano solo loro due, come i sabati sera di tredici anni prima in cui Sirius si rifugiava a casa dei suoi genitori per lasciare un po' fuori dalla porta gli orrori di Voldemort e dei Mangiamorte. “Per avere ancora una mia famiglia” – diceva spesso a sua madre.

Tonks aveva appena finito di raccontargli del suo ultimo esame da Auror. Quando aveva alzato lo sguardo, gli occhi grigi di Sirius brillavano orgogliosi.

“Non sei cambiata poi così tanto da quando eri una bambina”.

“Tu dici?”.

Sirius aveva sorriso nostalgico mentre riempiva nuovamente i loro bicchieri di vino elfico.

“Hai solo tolto le treccine. Ci sono cose che non sono fatte per cambiare... guarda Remus: all'inizio non riuscivo a vedere quasi niente del ragazzo che ricordavo, ma ora mi accorgo che i piccoli gesti sono sempre lì e sono quelli che contano davvero. Siamo più stanchi, più vecchi... ma lui mi mette ancora poco zuccherò nel tè e mi rimprovera perché ne metto troppo nel suo”.

Avevano riso entrambi – e Tonks gli aveva fatto notare che rideva allo stesso modo. I piccoli gesti non cambiano mai.

Si avvicinò al borsone ed estrasse il fascicolo che aveva rubato dall'archivio dell'Unità di Cattura. Non aveva ancora avuto il coraggio di aprirlo.

“Lui e Sirius erano identici” l'aveva avvertita Kingsley. “Qualcosa di loro è morto con i Potter e no c'è niente che tu possa fare per cambiarlo”.

Stronzate. Erano solo stronzate.

I piccoli gesti sono sempre lì».

Si sedette sul bordo del letto e iniziò a sfogliare cauta il fascicolo.

Sono quelli che contano davvero”.





°°°

 

 

 


Ho qualche nota anche questa volta, yeah.

    1. Il rabbino Goldstein è il nonno del Corvonero Goldstein. Mi pare che sia stata proprio la Rowling ha dire che Goldstein è ebreo, o forse ricordo male io... beh, poco male, non importa. Non so se qualcuno ricorda Calima, ma Galila è la sua versione dopo l'upload.

    2. Stessa cosa per il quadro che animava la stanza che Tonks occupa a Hogsmeade. Non ricordo nemmeno più il suo nome. Tarvis? Tarquino? Un attimo che vado a controllare.. ah, Tarbis. C'ero quasi. Ho deciso di elfizzarlo.



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Capitolo 7
*** Capitolo Sei ***


Documento senza titolo

Lo so, sono passati circa uno, due, tre mesi. Mi dispiace, faccio quello che posso. Spero possiate perdonarmi e accettare in cambio un capitolo lungo circa tre volte tanto i precedenti.

 

 


Fenrir Greyback si era affilato i denti per dare al suo volto un aspetto più ferino. Lunghi, gialli e appuntiti come quelli di una bestia selvaggia. Sebbene dalla fotografia Tonks non potesse sentire cosa stesse gridando nel momento in cui era stata scattata più di quindici anni prima, era certe che ringhiasse. Una creatura simile doveva per forza ringhiare.

Era decisamente peggio di quanto lei non avesse immaginato.

Decise di saltare in tronco tutte le decine di pagine che parlavano delle sue aggressioni – ma quanto diavolo era grosso quel fascicolo? - e si fermò su una fotografia molto più vecchia di quella del Ministero.

Ritraeva Fenrir Greyback a nove anni in compagnia di un uomo e una donna che Tonks presumette fossero i genitori. Sembrava una famiglia apparentemente ordinaria. L'annotazione a margine della fotografia proclamava un misero:


Lawrence Deverill, figlio di Amanda e Dougal Deverill – Maggio '39 - Southerndown, Galles.


Tonks osservò con attenzione i visi che sorridevano all'indirizzo della macchina fotografica. La foto in bianco e nero non le permetteva di stabilire se la signora Deverill avesse i capelli biondi o rossicci, ma di certo aveva un incarnato pallido. Il piccolo Fenrir – Lawrence – assomigliava al padre: piccoli occhi scuri, naso un po' schiacciato, fronte alta e capelli piuttosto crespi.

“Lawrence Deverill” ripeté Tonks fra sé e sé. Non aveva mai pensato che Greyback potesse essere un nome falso. In realtà non si era mai posta la questione. Guardò ancora il ragazzino che agitava tranquillo una mano come per salutarla e si chiese cosa avesse potuto trasformare un comune giovane mago del Galles nella Creatura Oscura più sanguinaria della Gran Bretagna.

Non c'era molto da leggere sull'infanzia di Fenrir. Suo padre aveva un piccolo allevamento di Augurey nelle campagne gallesi e si guadagnava da vivere vendendone le piume alla Donovan & Donovan, la fabbrica di repellenti per l'inchiostro magico di Bristol. Non c'era scritto nulla sulla madre, il che portò Tonks a pensare che fosse una Babbana. Nessuna annotazione su Hogwarts, nessuna Casa di appartenenza per il giovane Deverill.


Il Lupo Mannaro colpevole dell'aggressione non è mai stato identificato. Nessun Lupo Mannaro regolarmente iscritto al Registro di Controllo risulta residente nelle vicinanze fino ai primi anni Cinquanta.


“Bella stronzata”, pensò Tonks con uno sbuffo. Più della metà dei Lupi Mannari inglesi non comparivano in quel registro per evitare problemi con il Ministero. Perfino Remus era riuscito a evitarlo fino a qualche prima – fino a quando quello stronzo di Piton non aveva avuto la brillante idea di raccontare ai ragazzini di Serpeverde che il loro insegnante era un Lupo Mannaro. Tonks ancora non si capacitava della calma con cui Remus aveva reagito. Piton gli aveva calpestato quel misero angolo di normalità che era riuscito a ritagliarsi: da ciò che Sirius gli aveva raccontato, Remus si era ritrovato l'Unità di Cattura alle calcagna meno di due giorni dopo ed era stato trascinato davanti al Consiglio per il Controllo delle Creature Oscure.

“Non è scappato per non incasinare Silente” aveva borbottato Sirius con aria tetra. “Ha detto che ammettere di aver ingannato anche lui era l'unico modo per evitare che Hogwarts finisse nei guai. Quell'idiota si è consegnato in mano a loro... altrimenti non lo avrebbero mai beccato, è sempre stato troppo furbo”.

Tonks continuò a scorrere le pagine. Fenrir Greyback era passato per il Ministero o era riuscito a fuggire? Che ne avevano fatto i genitori?


Amanda Deverell muore nel dicembre del 1940 in seguito alle gravi lesioni provocate dal Lupo Mannaro. Le sopravvivono il marito e il figlio, entrambi contagiati dalla maledizione.

 

“Merda”.

Erano stati aggrediti tutti. Nessun testimone, lesse poco più sotto. Quindi padre e figlio erano stati scaraventati nel girone dell'inferno della Regolazione delle Creature Oscure. Tonks poteva solo immaginare quali umiliazioni potessero aver passato. Remus si era rifiutato di parlarne perfino con Sirius, ma Tonks era un'Auror. Conosceva le procedure attuate da quell'Ufficio. Quando lo aveva spogliato per la prima volta, aveva finto di non accorgersi delle cinque croci marchiate a fuoco sulla sua spalla.

XXXXX.

Il grado di pericolosità più grande attribuibile a una Creatura Oscura. Avevano deciso che Remus fosse più pericoloso di un Drago o di un'Acromantula, più pericoloso perfino di quel dannato Lethifold che si era divorato Sirius.

Si chiese se anche al piccolo Fenrir Greyback fossero toccate le stesse umiliazioni che erano toccate a Remus, ma prima che la sua pietà si lasciasse trasportare oltre, la vivida consapevolezza che proprio Greyback aveva trascinato Remus all'inferno tornò a dominare i suoi pensieri. Guardò ancora la fotografia attaccata alla prima pagina, dove il ragazzino che un tempo era stato Lawrence Deverill ringhiava e strepitava all'indirizzo della macchina, con i denti aguzzi e gli occhi gialli iniettati di sangue. Mise da parte la fotografia e riprese a sfogliare il fascicolo. Fra le mani le comparve un'autorizzazione di soppressione emessa nei confronti di Dougal Deverell dall'Ufficio di Regolazione per le Creature Magiche nel novembre del 1944.


Aggressione nel piccolo villaggio di Babbani di Bosherston. Vittime accertate: 27.


Tonks si massaggiò stancamente le tempie mentre le parole le galleggiavano nella testa e iniziavano a procurarle una fastidiosa emicrania. “Nessun difensore d'ufficio previsto”, “ammissione di colpa”, “condanna a morte per decapitazione”... aveva la nausea.

Remus doveva conoscere per forza la vera storia di Greyback, eppure non dimostrava mai nemmeno il minimo accenno di empatia nei suoi riguardi. Nemmeno il più misero tentativo di comprendere cosa avesse portato quel ragazzino a insanguinare la Gran Bretagna. Non era perdonabile... ma come si poteva fingere che tutto quello non fosse mai accaduto? Remus parlava di Greyback come se fosse Greyback da sempre, ma doveva sapere che c'era stato un momento in cui entrambi erano stati uguali: due bambini disperati.

Un quieto bussare alla porta la fece sobbalzare. Raccolse in fretta e furia tutti i fogli sparpagliati sul letto e li nascose sotto al cuscino.

«Sì?».

«C'è una sorpresa al piano di sotto» le disse la voce infastidita di Proudfoot. «So che non vedi l'ora di scoprire di cosa si tratta».

Tonks aprì la porta con una smorfia.

«È arrivato in anticipo».

L'uomo si limitò a sbuffare. Tonks sapeva che era perfino più innervosito di lei all'idea che fosse Dawlish a dirigere le operazioni. Produfoot era indubbiamente l'Auror che in quella casa poteva vantare la maggiore esperienza sul campo. Il motivo per il quale Robards avesse assegnato quella responsabilità a Dawlish piuttosto che a lui erano un mistero.

Scesero in silenzio quasi rassegnato le scale. Dawlish e Savage li stavano già aspettando nel soggiorno. Dritto e impeccabile nel suo completo da Auror, Dawlish stava agitando con pigrizia la bacchetta. Alla parete opposta al caminetto comparve una grande cartina del villaggio di Hogsmeade.

«Buon pomeriggio, Auror Tonks» la salutò Dawlish con un sorriso affettato. «L'abbiamo disturbata?».

La sottile ironia la fece irritare, ma si costrinse a mantenere un contegno serio mentre si accomodava in una poltrona accanto a Savage.

«Credevo non sarebbe arrivato prima di domani».

«Quindi l'ho disturbata?».

Tonks inarcò appena un sopracciglio.

«Ovviamente no. Salve, Charles».

«Salve, Tonks» la salutò con un sorriso gentile Savage.

Savage aveva pochi anni in più di Proudfoot, anche se i capelli ormai del tutto bianchi gli conferivano un'aria più anziana. Era un uomo decisamente alto – quasi quanto Dawlish – ma era di costituzione magra e secca come un giunco di palude. Era famoso per essere uno degli Auror più competenti in materia di Pozioni ed Erbologia. Aveva anche scritto un saggio sulla pericolosità di certe piante magiche associate alla Magia Oscura di cui non ricordava il titolo: Tonks aveva tentato di leggerli durante il suo addestramento, ma non era mai riuscita a superare i primi capitoli – al contrario di Remus, che ne possedeva una copia completamente piena di sottolineature e microscopiche annotazioni a margine.

«Philibert mi ha detto che la porta d'ingresso ti ha dato qualche problema».

«È un sistema di sicurezza che sa fare il suo mestiere» ridacchiò lei.

«Oh, poco ma sicuro».

«Ci sono altri convenevoli di cui desiderate metterci a conoscenza?» li interruppe con voce annoiata Dawlish. Agitò pigramente la bacchetta. Quattro minuscole puntine dalla testa rossa apparvero a mezz'aria. «La stazione di Hogsmeade è e rimarrà la nostra priorità» iniziò a spiegare loro. «Voglio una guardia costante attorno all'intero perimetro. È importante che la ferrovia resti sicura fino a quando rimarremo di stanza. Voglio un Auror in perenne perlustrazione di quell'area» concluse, attaccando la prima delle puntine.

Tonks storse appena il naso, ma preferì tenere per sé la propria perplessità. Al contrario di Proudfoot, che sembrava intenzionato a dar battaglia prima ancora di iniziare a discutere.

«La stazione?» ribatté difatti con evidente tono divertito. «Sei serio? A parte l'arrivo e la ripartenza degli studenti è una zona morta e i binari sono incantati per non trasportare nessun altro vagone che non faccia parte dell'Espresso di Hogwarts. A meno che tu non stia supponendo che i Mangiamorte abbiamo intenzione di partire dal binario 9¾ per attaccarci, concentrarci su un'area tanto distante lascerebbe scoperti tutti gli altri accessi al villaggio».

«Credo che Phil abbia ragione» aggiunse Tonks, che aveva avuto lo stesso dubbio. «Una volta che i ragazzi avranno raggiunto Hogwarts, la stazione sarà più che periferica. Inoltre è circondata quasi interamente dal Lago Nero, l'unico modo di raggiungerla è a bordo di un treno che non si muoverà da Londra per i prossimi nove mesi».

«La posizione periferica la rende una facile preda» insistette Dawlish.

«Anche Mondomago, se è per questo» continuò Tonks. «Con la differenza che da quell'angolo si ha un'ottima visuale aperta del sentiero principale che conduce a Hogwarts, mentre dalla stazione...».

«...dalla stazione si controlla solo la stazione».

Charles tossicchiò con aria vaga.

«Io credo sarebbe più opportuno attendere che l'Auror Dawlish abbia terminato di spiegarci il suo progetto, prima di valutarne ogni singolo aspetto senza avere un quadro generale».

A Tonks non sfuggì l'occhiata lapidaria che gli rivolse Proudfoot. Era cerca ne avessero già discusso in privato e che Proudfoot non avesse dato ascolto ai consigli del collega.

«Naturalmente» si arrese infine.

«Dopo l'area della stazione» continuò Dawlish come se non ci fosse stata alcuna interruzione, «intendo garantire un controllo costante ai posti più frequentati, i Tre Manici di Scopa, l'Ufficio Postale e... Mondomago» concluse con un accenno di ritrosia, mentre una ad una le puntine andavano a piazzarsi sugli edifici elencati. Ci turneremo in modo da garantire la costante presenza di almeno due di noi negli orari più trafficati – la mattina e il tardo pomeriggio – e lasceremo sempre qualcuno di controllo nella zona dell'Ufficio Postale». Li fissò con intensità uno a uno, ma dalla sua espressione fredda era difficile capire se li stesse invitando a sfidarlo.

Tonks immaginò la faccia che avrebbe fatto Moody davanti a un piano di pattugliamento tanto sciocco. Era strano che Robards avesse davvero messo Dawlish a capo di quella missione. Dacché Tonks sapeva, il suo campo d'azione comprendeva il Duello e gli assalti di gruppo, strategie completamente differenti da quelle richieste dal pattugliamento del villaggio.

Fu Savage il primo a parlare.

«Hai fatto un buon lavoro con la gestione dei turni, ma temo che non riceveremmo altri rinforzi dal Quartiere Generale, ammesso che non siano arrivati aggiornamenti da Robards di cui non sono a conoscenza. Noi siamo in quattro, John».

Tonks soffocò un sorriso soddisfatto.

«Il mio programma è perfettamente studiato per quattro Auror competenti».

«...quattro Auror che non avranno tempo nemmeno di dormire, si direbbe».

«Se hai delle rimostranze per il numero di Auror coinvolti in questa missione, Auror Proudfoot, puoi comunicarlo al Capo Robards» replicò con decisione feroce Dawlish. «Io ho già esposto le mie perplessità in merito a questo gruppo».

«Oh, ma non mi dire...».

«Stai insinuando qualcosa?».

«Ho motivo di farlo?».

Savage si alzò in piedi e raggiunse la mappa affissa alla parete con la chiara intenzione di placare la discussione sul nascere. Tonks, sebbene nutrisse un malsano desiderio di vederla esplodere solo per il gusto di vedere Proudfoot fare a pezzi Dawlish, lo imitò e si avvicinò a lui per osservare meglio.

«Cerchiamo di salvare il salvabile da questa situazione» le sussurrò Savage in un soffio praticamente incomprensibile. «Posso suggerire qualche modifica, John?» domandò a voce più alta.

Dawlish inclinò il capo e mosse a mezz'aria la mano. Non le dispiacque vedere la rassegnazione con cui accettava di ascoltare Savage.

«Credo che Philibert e Tonks abbiamo sottovalutato l'importanza della stazione. Fino a quando non sarà arrivato l'Espresso di Hogwarts, è una posizione ad alto rischio».

«Sì, ma--».

«Sì, Philibert, lo è. D'altro canto, anche io sono dell'opinione che un eccesso di protezione in un punto che è già quasi completamente difeso dal Lago Nero ci farà correre il rischio di lasciare sguarnite posizioni più adatte al nostro compito... come abbiamo ormai compreso, siamo in quattro».

Tonks aprì la bocca per parlare, ma Savage la interruppe con un gesto gentile della mano.

«Credo anche sia eccessivo pattugliare contemporaneamente le aree dei Tre Manici di Scopa e dell'Ufficio Postale: non distano che qualche decina di metri e siamo tutti sufficientemente competenti per coprire da soli un'area così limitata».

Dawlish alzò il mento con aria di supponenza, ma continuò a tacere.

«Infine, temo tu abbia sottovaluto la possibilità di essere attaccato non dall'esterno, ma dall'interno... in quel caso, sperando di non doverne avere la necessità, la posizione migliore è sicuramente--».

«--il negozio di scherzi di Zonko».

Tonks si morse la lingua mentre lo sguardo indagatore di Savage si posava su di lei.

«Sì, giusto» commentò con un sorriso appena accennato. «In questo modo, con una copertura attenta anche se parziale della zona a nord della stazione e un buon controllo della parte sud che porta a Hogwarts, dovremmo essere in grado di muoverci con largo anticipo in caso di un assalto al villaggio».

«Sembra che tu stia suggerendo di modificare interamente il mio progetto».

«Affatto, continuo a ritenere fondamentale l'area della stazione fino a quando i giovani studenti di Hogwarts non avranno raggiunto la scuola».

«Posso dire qualcosa?» s'intromise Tonks.

Gli occhi dei tre Auror si posarono su di lei. Tonks si grattò distrattamente la nuca per prendere il tempo di riordinare meglio le idee.

«Anche io sono convinta che non dovremmo sprecare troppe energie per la sola stazione, ma è anche vero che la parte nord del villaggio resta fortemente esposta alla brughiera. I Mangiamorte potrebbero voler risparmiare i soldi di Lucius Malfoy e non comprare i biglietti dell'Espresso...».
Proudfoot emise un vago risolino sarcastico, ma Tonks continuò.

«Perciò credo dovremmo valutare l'idea di spostarci da qui...» propose, staccando la puntina dalla stazione, «...a qui».

Questa volta fu Proudfoot a protestare.

«La Stamberga Strillante? Tonks, è una perdita di tempo».

«Ehi, guarda la mia puntina!» si lamentò lei. «Non è sulla Stamberga Strillante, è almeno venti metri prima. C'è un piccolo pendio che scivola verso la Stamberga e questo è il suo punto più alto. Da qui non solo possiamo avere un'ottima visibilità della stazione, ma anche dell'intera zona che costeggia le case più distanti dalla strada. E dovrebbe esserci un sentiero non segnalato, proprio qui». Tracciò vagamente una linea curva che seguiva la costa del Lago Nero, cercando di ricordare la posizione indicatale da Silente. «Andrò a controllare subito se è un sentiero ancora praticabile... se l'Auror Dawlish è d'accordo» aggiunse.

Dawlish si passò la lingua sul labbro superiore senza distogliere lo sguardo da lei. Non riusciva a capire se fosse molto viscido o molto minaccioso, ma Tonks mantenne alto il capo e rimase in impassibile attesa.

«E sia» sibilò infine Dawlish, voltando loro le spalle. «Voglio un rapporto dettagliato su quel sentiero immaginario prima dell'ora di cena, Auror Tonks».

«Ma sono le quattro del pomeriggio».

«Ceniamo alle sette in punto» continuò lui con espressione soddisfatta. Le rivolse un'ultima occhiata imperscrutabile prima di svanire nel corridoio.

Attesero di sentire il rumore della porta d'ingresso chiudersi prima di parlare.

«Robards è uscito di senno» commentò con sprezzo Proudfoot. «Mandare quel gradasso incapace».

«Non è incapace» lo corresse con calma Savage, tornando a sedere sulla poltrona. «Ma questo non è decisamente il suo campo d'azione».

“Gawain ha pensato fosse meglio avere un Auror di esperienza al comando” le aveva detto Dawlish la mattina prima al Ministero. Ma Proudfoot e Savage erano Auror più anziani e decisamente più adatti a quel tipo di missione... Tonks aveva l'orrenda sensazione che ci fosse qualcosa di sporco nascosto dietro la presenza di Dawlish a Hogsmeade.

«L'idea della Stamberga è stata una discreta intuizione» scherzò Proudfoot con voce sarcastica. «Non male per una ragazzina che si diverte a trasformare il suo naso in un grugno di maiale».

Tonks sorrise appena, continuando a fissare il corridoio nel quale Dawlish era sparito.

«Grazie» rispose soltanto. «Credo che mi incamminerò verso la Stamberga. Che quel sentiero esista o meno, sarà comunque meglio muoversi prima che il sole tramonti».

«Posso accompagnarti?» si offrì con gentilezza Savage.

Tonks stava per dirgli che non era un'escursione particolarmente pericolosa, ma la possibilità di avere compagnia in un tragitto lungo e probabilmente noioso ebbe la meglio sul suo senso pratico.

«Sicuro».

Attese sulla soglia del soggiorno che Savage prendesse il proprio mantello e ammonisse bonariamente Proudfoot per il suo comportamento immaturo con Dawlish.

«Quell'idiota...» sentì biascicare Proudfoot mentre uscivano dalla casa.

Tonks rise del sospiro rassegnato di Savage. Nonostante il clima fosse abbastanza fresco, il sole splendeva fra le nuvole bianche. Tuttavia Hogsmeade era comunque un lungo e magro spettro deserto, con molte case dalle serrande sigillate e le porte sprangate. Infilò le mani nelle tasche e s'incamminò al fianco dell'uomo verso la stazione del villaggio.

«Phil è stato avaro di complimenti prima» disse lui. «La tua stata un'intuizione piuttosto brillante».

«Non è stata proprio una mia idea» confessò Tonks con un mezzo sorriso divertito. «Mi sono ritrovata in una situazione di poco diversa qualche mese fa e...». S'interruppe con aria vaga, non del tutto certa di quanto oltre potesse spingersi nel raccontare le missioni dell'Ordine della Fenice. «...beh, ho imparato in fretta».

«Una virtù indispensabile per qualunque Auror» commentò deliziato Savage. «È più vicina di quanto non credessi: si vede già la Stamberga in fondo alla strada».

«Charles?».

«Sì?».

«Stai perdendo tempo anziché dirmi qualcosa di importante?».

L'Auror più anziano emise un soffio che a Tonks suonò come una mezza risata. Scosse il capo e le mostrò i palmi delle mani.

«È molto evidente, vero? Oh, beh, non sono mai stato un'abile ingannatore». Fece un respiro profondo e aggiunse: «Mi dispiace non aver avuto modo di incontrarti al Quartier Generale senza orecchie indiscrete attorno... ma temo non sia semplicemente contemplabile l'idea di avere un po' di privacy in qualche luogo del Ministero».

Tonks si umettò nervosa le labbra, in vigile attesa.

«Volevo essere certo che non cadessi nell'errore di credere che te e Kingsley foste gli unici due Auror a rispettare Albus Silente. Siamo in più di quanto tu non creda... anche se non siamo tanto irresponsabili da mettere a rischio la nostra carriera». C'era una punta di distinto rimprovero nel suo tono di voce cortese. «Probabilmente penserai che dovrei badare ai miei interessi...».

«No, per niente» si affrettò a rispondere Tonks. «In realtà... beh, grazie. Devo ammettere che mi fa piacere sapere che non tutti i miei colleghi più anziani sono degli immensi imbecilli».

Savage sorrise.

«E Phil?» domandò Tonks, sebbene intuisse la risposta.

«È un immenso imbecille» ridacchiò Savage. «Ma morirebbe per quello in cui crede... e quello in cui crede coincide con ciò in cui Silente ha sempre creduto».

Tonks annuì.

«E Belcher?».

«No».

«Leach?».

«No».

«Williamson?».

«No».

«Rufford? Ruth? Kenneth?».

«No, no e ancora no» mormorò Savage con una mezza smorfia. «Tonks, mia cara, non ho detto che siamo tanti».

«Hai detto che siamo più di quanto non credessi».

«Perché credevi foste solo tu e Kingsley».

Tonks incrociò le braccia al petto e scosse il capo. Aveva nutrito il sogno di diventare un Auror da quando era una bambina che sgraffignava di nascosto il giornale ai genitori. Cercavano di impedirle di leggere le notizie in prima pagina – Mangiamorte, maghi e streghe morte, Babbani morti, altri Mangiamorte – ma lei era affascinata dalle fotografie in bianco e nero che ritraevano gli Auror nelle loro divise. I mantelli neri (solo successivamente scoprì essere di un intenso verde scuro), i guanti di pelle di drago, la cinghia dalla quale dondolavano la bacchetta e la distintiva “A” del Quartier Generale... a nove anni suo padre le spiegò che il metallo di cui era forgiato quel medaglione rappresentava il valore dimostrato dall'Auror che la portava. Di ferro per le matricole, di rame per chi superava l'addestramento e poi il bronzo e l'argento, fino ad arrivare all'oro, la medaglia che – a sentire suo padre – veniva conferita solo a pochi grandi Auror. Con il passare degli anni Tonks aveva scoperto suo malgrado che nella maggior parte delle occasioni quella medaglia era l'ultimo solenne ringraziamento che il Ministero e il Quartier Generale offrivano agli Auror caduti... i Prewett, Dearborn, anche i Longbottom.

Aveva sognato per tutta la vita il giorno in cui avrebbe potuto mostrare con orgoglio il suo medaglione da Auror – il giorno in cui avrebbe salvato la Gran Bretagna come una giovane eroina, e non sarebbe stato troppo diverso dai giochi che faceva da bambina, quando fingeva di uccidere Oscuri Signori e temibili mostri per salvare sua madre e suo padre nella sicurezza del salotto.

Si rigirò fra le dita il medaglione di rame che portava saldo alla cintura. Le ultime posizioni prese dal Quartier Generale e dai suoi superiori le stavano facendo dubitare di esserne tanto orgogliosa. Ciò che aveva scoperto del Ministero negli ultimi due anni, in effetti, l'aveva costretta a rivalutare completamente tutto ciò in cui aveva sempre creduto.

“Prima o poi dovevi renderti conto che fare l'Auror è uno schifo di lavoro, ragazza” aveva risposto Moody alle sue proteste. Sirius le aveva appena raccontato di non aver avuto un equo processo.

«Non essere troppo abbattuta» la consolò Savage. «La prontezza in guerra non è mai stato un vanto per il Ministero, ma alla fine ha sempre combattuto dalla parte giusta».

«Sì, ma la parte giusta di chi?» domandò infine. «Il Ministero ha mai combattuto per difendere i diritti al lavoro dei Maghinò? Ha mai davvero fatto qualcosa di concreto per fermare chi usa la magia per danneggiare o deridere i Babbani? I Folletti? Ordiniamo loro di gestire i nostri ricchi patrimoni ma la nostra legge non permette loro di possederne di propri».

Savage inclinò appena il capo, ma non la interruppe.

«Abbiamo costretto l'intera comunità dei Centauri scozzesi a rinchiudersi nella Foresta Nera. E Tibby ha uno stipendio regolare?».

«Tibby... l'elfa domenistica? Temo di no».

«La parte giusta di chi?» domandò con enfasi Tonks. «Siamo solo i soldatini ipocriti di un branco di altri ipocriti».

Il silenzio che seguì la sua affermazione lapidaria le fece rimpiangere di aver parlato prima di ragionare. Moody l'aveva avvertita un'infinità di volte.

“Tieni chiusa la bocca, se non vuoi che qualcuno mozzi la tua lingua progressista”.

Forse Savage era dalla parte di Silente, ma questo non significava che non la pensasse esattamente come qualunque altro membro rispettabile della comunità magica.

Savage non le rispose. Percorsero senza dire nulla i pochi metri che li separavano dal perimetro della Stamberga Strillante, mentre il sole iniziava a svanire oltre le montagne del nord e gettava una luce dorata sui pendii della brughiera scozzese attorno a loro. Quasi nascosto dagli alberi e dai grossi arbusti che circondavano la Stamberga, si sporgeva l'inizio di uno stretto sentiero battuto che sembrava seguire il profilo della Foresta Nera e svaniva non troppo distante dai cancelli a sud di Hogwarts.

«Hai ragione» commentò l'uomo con un vago sorriso.

Tonks annuì brevemente.

«Domani dovremmo controllare quante sono le possibilità di raggiungere quel sentiero dalla Foresta Nera».

«Sì, dovremmo».

Gli diede le spalle, incapace di sopportare oltre la tensione che si era venuta a formare di colpo fra loro. Non rimpiangeva ciò che aveva detto, ma sapeva anche che non avrebbe dovuto. Savage era un Auror competente e un uomo corretto: non meritava di essere paragonato a tutti i bastardi del Ministero senza alcuna possibilità di difendersi. Dopotutto, lei non era da meno: non aveva certo rassegnato le dimissioni per protesta.

«Hai ragione anche su ciò che pensi di questo paese» le ripeté infine, raggiungendola. «Ma dovresti comunque stare attenta a come ne parli».

«Lo so» confessò amaramente.

«No, non lo sai». Per la prima volta nella voce dell'Auror più anziano c'era una solenne severità. «Le tue sono opinioni pericolose. Non credi di star già correndo abbastanza rischi con Tu-Sai-Chi e i suoi Mangiamorte nuovamente in circolazione?».

«Lord Voldemort e i suoi Mangiamorte fanno distinzione in base alla quantità di sangue magico che scorre nelle nostre vene...». Si chiese se non stesse osando troppo, ma ormai era fatta. «Noi lo facciamo in base alla qualità e abbiamo deciso che la qualità migliore fosse quella di chi stringe in mano una bacchetta».

«Tonks...».

«Non stiamo combattendo Voldemort perché rappresenta una minaccia per la Gran Bretagna: lo stiamo combattendo perché è una minaccia per noi».

«Tonks» la ammonì con fermezza Savage. «Dawlish è qui per te».

«Cosa?».

Savage sospirò e si passò una mano sul viso.

«Dawlish non ha la minima esperienza in questo settore. Per quale motivo credi che Robards abbia insistito per averlo a capo di questa squadra di pattugliamento?».

Tonks avvertì una fastidiosa sensazione di calore diffondersi sulle gote. Si sentiva una scolaretta davanti al professore.

«Non ne ho idea».

«No? Permettimi di darti un indizio. Per quale motivo a un Auror capace come Kingsley Shacklebolt è stato affidato un compito tanto al di sotto delle sue capacità? E cosa può mai aver spinto l'Ufficio Applicazione delle Legge sulla Magia a dare una promozione al direttore di un reparto tanto sottovalutato come quello di Arthur Weasley?».

La ragazza abbassò gli occhi e si mordicchiò appena il labbro inferiore, mentre una fastidiosa sensazione claustrofobica le serrava lo stomaco.

«È un modo per tenere Kingsley lontano dal Ministero» commentò in un basso mormorio. «E Arthur...».

«Basil Lufkin ora lavora per lui» le spiegò con più dolcezza Savage. «E Basil Lufkin è il nipote di Mafalda Hopkirk, probabilmente una delle burocrati meno empatiche che il Ministero abbia mai assunto».

«Vogliono... oh, dannazione!» capì infine Tonks. Prese a calci un sasso e lo guardò scivolare nell'erba alta fino a perderlo di vista. «Silente ha chiesto a Robards di mettermi nella squadra e Robards si è preoccupato che volesse usarmi per spiare le mosse del Ministero. Ecco perché Dawlish è qui. È così?».

Savage si grattò il mento con espressione concentrata.

«Lo spero».

«Lo speri?».

«So per certo che hanno consultato l'elenco dei visitatori che hai ricevuto mentre eri ricoverata al San Mungo e un nome in particolare ha attirato la loro attenzione».

Tonks non riusciva a capire dove Savage intendesse arrivare con quel ragionamento.

«Sono venuti i miei genitori. E Malocchio, Kingsley... anche Arthur e Molly Weasley. Nessuno che--».

«--e Remus Lupin».

Si bloccò di colpo con aria sconvolta. Scosse appena la testa, mentre quell'idea assurda le faceva comparire un mezzo sorriso incredulo.

«No» negò con sicurezza. «Remus Lupin non è venuto. Me ne ricorderei».

«Forse non eri cosciente, Tonks, ma ti assicuro che il suo nome è su quella lista».

“Bastardo”. Non gliel'aveva nemmeno detto. Era sgattaiolato nella sua stanza d'ospedale come un ladro d'appartamento, senza nemmeno avere la decenza di attendere che si svegliasse. Era così stanca che la presenza di Remus nella sua vita fosse sempre avvolta nel buio...

«E anche se fosse così, cosa c'è di così grave?» proruppe infine. «Remus è un mio amico».

«Lo è davvero?».

Non c'era accusa nel suo tono di voce. Savage la guardava senza riuscire a celare una lieve apprensione. Tonks lo scrutò a lungo, indecisa se fidarsi o meno di lui. L'uomo parve intuire il motivo del suo tentennamento.

«Per quale motivo credi che io sia qui? Non è il campo d'azione adatto a Dawlish e non lo è per me» le domandò.

La giovane soppesò con attenzione la situazione. Vagliò ogni possibile ipotesi, ma una sola sembrava la più plausibile. Sperava solo di sbagliare.

«Te l'ha chiesto Moody» scandì con un soffio rabbioso. «Siete tutti qui per controllare me? Molto lusinghiero».

«È solo preoccupato. E anche se ti infastidirà ancora di più, ora devo ammettere di esserlo anche io».

«Non è necessario».

«Stai rischiando molto più della tua carriera».

«E cosa dovrebbe avere a che fare Remus Lupin con tutto questo?».

Savage le sorrise.

«Non è un amico, vero?».

Tonks si umettò le labbra e scrollò le spalle. Non credeva fosse una domanda così complicata, ma improvvisamente si ritrovò incapace di delineare una risposta sensata perfino a se stessa. In ogni caso era decisa a tenersela per sé. Tuttavia Savage sembrava aver dedotto dal suo silenzio più di quanto lei stessa non avrebbe voluto.

«Qualunque cosa lui rappresenti per te, il Ministero lo sa. Alastor non sa come, ma lo sanno».

«È assurdo. Non posso credere che l'intero Ministero si stia mobilitando per controllare... cosa, esattamente? Che io non commetta impudicizie poco rispettabili con un Lupo Mannaro? È questo che dà loro fastidio?». Imprecò ad alta voce e si passò una mano fra i capelli. «Il Ministero è pieno di stronzi, ma questo non spiega la fatica di controllare me. Remus non è certo l'unico Lupo Mannaro che cerca di avere una vita in questo paese. Questo lo sanno?».

«Tu sei un'Auror. E Remus Lupin non è un Lupo Mannaro qualunque».

«Perché non mi hanno semplicemente licenziato, allora?».

«Questo non lo so...».

Tonks sbuffò.

«... ma lo scopriremo» le promise Savage. «Anche se temo che questa sia solo la punta della iceberg e non ho dei buoni presentimenti in merito».

La ragazza lanciò un'ultima occhiata adirata al sentiero che portava a Hogwarts e al profilo sgangherato della Stamberga Strillante. Non poté fare a meno di pensare a quanti pleniluni dovesse aver trascorso Remus rinchiuso fra quelle mura fatiscenti in completa solitudine.

Quell'idiota – si disse poi – mi ha nascosto qualcosa. E qualunque cosa sia, mi sta incasinando la vita.

Oh, Dio, non vedo l'ora di prenderlo a calci.






°°°

 

 

 


Inutili note di fine capitolo:

    1. Non si sa nulla di Greyback e non credo di essermi persa qualche novità da Pottermore. Fenrir Greyback è un personaggio che mi ha scelto affascinato tantissimo... fino a quando non è comparso in scena alla fine del Principe Mezzosangue. Ehm... seriamente? No, un attimo, facciamo mente locale. Io capisco che Remus Lupin è un tipo pieno zeppo di seghe mentali e che Fenrir rappresenti un po' il suo incubo nel cassetto, ma soffermiamoci al momento in cui ne parla con Harry durante le vacanze di Natale alla Tana. Stringe le mani al grembro, parla con esitazione... Remus Lupin ha una fottuta paura di Fenrir Greyback, e questo mi fa amare ancora di più sia l'uno che l'altro. Quando ho letto per la prima volta quel pezzo - soprattutto il punto in cui Remus spiega che Voldemort ha promesso una preda speciale a Greyback - ero elettrizzata. Che figata, un Lupo Mannaro sociopatico. E invece... beh, quando Greyback è comparso sembrava uno dei personaggi di A Very Potter Sequel. Non parliamo del settimo libro, poi, dove tutta la cosmica inutilità di Greyback non ha più paragoni. Bella la scena in cui fa il viscido con Hermione, ma... ehi, dai, dov'è il mostro più sanguinario della Gran Bretagna? Detto ciò - ma quanto parlo? - spero di riuscire a renderlo un po' meno Hobbit e un po' più Orco in questa fic. Spero, eh.

    2. No, basta. Giuro.



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Capitolo 8
*** Capitolo Otto ***


Documento senza titolo

Il capitolo è abbastanza corto, ma ahimè, il tempo è poco e faccio quello che posso... ;)

 

 

 


La prima cosa a colpirlo fu il chiacchiericcio allegro dei ragazzini che sparecchiavano i piatti della colazione. Erano almeno una cinquantina, chi ancora seduto attorno ai tre tavoli della mensa e chi intento a creare file pericolanti di tazze di terracotta e latta.

Lydia era seduta in fondo alla tavolata più distante da lui ed era intenta ad azzannare un cosciotto di pollo come se non avesse mangiato da giorni. Galila la guardava con un sorriso divertito, chiacchierando di tanto in tanto con i ragazzini seduti attorno a loro e spronandoli a coinvolgere la nuova arrivata nei loro discorsi.

Non erano grandi tavoli – niente a che vedere con la magnificenza della Sala Grande – ma le panche e le sedie di legno erano abbastanza numerose per far avere a tutti i bambini un posto in cui mangiare tranquilli. A meno che le cose non fossero cambiate negli ultimi anni, ipotesi che Remus dubitava, tutti quei ragazzini erano dei Clandestini senza famiglia. Forse qualcuno aveva trovato rifugio e protezione nelle case di qualche Lupo Mannaro adulto, ma la maggior parte viveva semplicemente lì, all'inizio della Zona Ovest, con l'intera Fossa come famiglia acquisita da affrontare durante l'adolescenza.

A Remus sfuggì un sorriso nostalgico. Aveva passato nella Zona Ovest quasi tutto il tempo che aveva trascorso nella Fossa in compagnia di quei ragazzini sperduti.

Un bambino dalla pelle scura e dai fitti riccioli neri che non avrebbe potuto avere più di nove o dieci anni gli si piazzò improvvisamente davanti. Accanto a lui c'era una bambina un po' più piccola, forse sei o sette anni, con una treccina rossa legata con cura e il viso pieno di lentiggini. L'espressione risoluta sul suo viso gli ricordò Ginny Weasley.

«Chi sei tu?» domandò il bambino più grande con le braccia incrociate.

Il suo gesto attirò l'attenzione di tre o quattro altri ragazzini, che si fermarono ad osservare curiosi la scena.

«Mi chiamo Remus». Gli tese la mano destra, ma il bambino continuò a fissarlo con un cipiglio sospettoso. «Sto cercando Mastro Gerwulf».

Uno dei ragazzini più grandi che stava assistendo si grattò il naso.

«I tuoi occhi sono strani».

«Non è una cosa molto lusinghiera da dire a qualcuno».

«Sono strani» ripeté con sicurezza la bambina con la treccia. Si avvicinò cauta lui e allungò il collo con l'evidente intenzione di annusargli una manica della camicia. «E hai un odore strano».

«Ah, sì?» domandò divertito Remus. «Quale odore?».

La bambina scosse la testa e bisbigliò qualcosa all'orecchio dell'amico. Il bambino annuì con aria convinta.

«Odori da Cacciatore, ma più forte...».

«Te l'ho detto: è molto che non vengo qui».

«Devi aver cacciato un sacco di cose per essere stato via così tanto da avere quell'odore» commentò una quarta ragazzina con i capelli biondi.

«Il giorno in quel mucchietto d'ossa diventerà un Cacciatore è ancora lontano» s'intromise una voce tenorile.

Remus alzò gli occhi dai ragazzini e sorrise. Non avrebbe saputo dire con esattezza quanti anni avesse Gerwulf, ma aveva già raggiunto quell'età in cui non ci si accorgeva più del trascorrere del tempo. Era sempre uguale, con le basette ridicolmente lunghe e grigie e i grossi baffi arricciati a discapito del cranio completamente pelato. Non sembrava cambiata nemmeno la portata delle sue spalle giganti.

«So che non ti hanno preso i Loschi» gli disse con una smorfia divertita.

«Chi ha messo in giro questa storia?».

«Io» rispose con ovvietà. Poi si rivolse ai bambini con voce perentoria. «Voi tre, finite di sparecchiare. Annie, controlla che sparecchino» «E tu...» aggiunse nello stesso modo piantando un indice sul petto di Remus, «...con me dietro alla lavagna».

Gerwulf non attese risposta e si avviò lungo la stanza di pietra, svanendo oltre un'arcata che conduceva alle tre camere più piccole dove era allestita la cosa più simile a una scuola che la Fossa potesse permettersi.

Il bambino dalla pelle scura – Mouse, probabilmente – gli tirò la mano con aria preoccupata.

«Wow, l'hai già fatta grossa se Gerwulf ti vuole già mettere dietro la lavagna».

Remus ridacchiò. Seguì il licantropo più anziano attraverso l'arcata, superando a passo sicuro le prime due stanze adibite a minuscole classi artigianali. Non riuscì a trattenere la curiosità e infilò la testa dentro alla seconda, che solitamente ospitava i bambini più piccoli. Fu felicemente lieto di vedere che le lettere che aveva inciso nella pietra per insegnare loro l'alfabeto spiccavano ancora chiare sulla pietra rossiccia.

«Damerino, hai perso la strada di casa?» lo richiamò Gerwulf.

«Quando la smetterete di chiamarmi così?» si lamentò Remus, raggiungendolo oltre l'ultima stanza.

«Quando la pianterai di vestirti come una ragazzina al suo debutto in società».

Era un corridoio a fondo chiuso che terminava con un tavolino di legno che aveva come unico compito quello di sorreggere le gambe di Gerwulf. Sulla parete alla sua sinistra era comparsa una mensola dall'aspetto particolarmente fine che sorreggeva una mezza dozzina di libri di genere sparso.

«È una camicia» scandì con ironia Remus, afferrandosi con enfasi il colletto. «E questi si chiamano pantaloni, la più eccezionale invenzione mai creata dai Babbani».

Gerwulf iniziò a dondolarsi un'aria annoiata sulle gambe posteriori della sua sedia, ma i suoi occhi giallognoli luccicavano di divertita perfidia.

«E quella diavoleria piena di bottoni cosa dovrebbe essere? Il pezzo di sopra di un tutù?».

«È un panciotto a doppio petto».

«Una volta ho visto una puttana vicino a Hyde Park indossarne uno uguale».

Si scrutarono in silenzio per qualche secondo, prima di scoppiare entrambi a ridere.

«Ah, fottiti e prendi una sedia, Damerino».

Remus si guardò intorno con un sopracciglio inarcato. L'unico oggetto vagamente simile a una sedia era un minuscolo sgabello progettato per un bambino non più alto di un metro e tranta. Remus si appoggiò con la schiena al muro umido e incrociò le braccia al petto, alzando lo sguardo verso il soffitto. Il minuscolo lucernario sopra le loro teste non faceva filtrare molta luce – dacché Remus sapeva, sbucava da qualche parte nei condotti fognari, non esattamente un gran deposito di luce e aria pulita – ma era meglio che niente.

Estrasse dalla tasca dei pantaloni una Rothmans e la accese prigramente, prima di lanciare il resto del pacchetto a Gerwulf. Più che dieci anni, sembravano trascorsi dieci minuti – ma Remus sapeva che il dramma era alle porte e che Gerwulf lo avrebbe lasciato entrare in fretta.

«Perché hai raccontato all'intera Fossa che ero stato catturato dai Loschi?».

Gerwulf gli lanciò un'occhiata lapidaria. Eccolo lì, pensò Remus, il dramma che inizia a farsi vedere.

«Perché i ragazzini più grandi iniziavano a progettare di imitarti. Stronzate, ho detto loro. Mettete un solo piede fuori di qui e qualche bracconiere del demonio attaccherà le vostre pellacce nella sua sala trofei».

Remus aspirò una lenta boccata di fumo.

«Per la milionesima volta: la caccia al Lupo Mannaro è stata dichiarata fuorilegge più di sei secoli fa».

«Buon per te che ti fidi ancora degli umani, Damerino» concluse con decisione. Lo fissò per un lungo istante prima di parlare ancora. «Che cosa vuoi?».

Remus prese tempo aspirando una boccata di fumo, ma prima di poter parlare, Gerwulf alzò una mano e lo fermò.

«Lascia stare, non voglio perdere tempo: no».

«No?».

«No».

«Non sai nemmeno per quale motivo sono qui».

Gerwulf lo guardò come se avesse appena detto la più colossale stupidaggine mai sentita – e Remus non poteva dargli torto.

«Certo che so per quale motivo hai portato le tue chiappe educate qua sotto, razza di idiota. Quel cane è ancora vivo e tu hai intenzione di coinvolgerci tutti».

«Siete già coinvolti».

Gerwulf fece un lungo sbuffo sarcastico.

«Oh, adesso ricomincerai a cantare le tue storie di amore e giustizia, vero? “Questo mondo è anche nostro, vecchio Gerwulf. Dobbiamo fare la cosa giusta”» gli fece il verso. «Non ti sei ancora stancato di fare sempre la cosa giusta, Damerino?».

«Non so se sto facendo la cosa giusta».

«Dunque perché sei qui?».

Lentamente, Remus spense il mozzicone contro la parete di pietra e se lo infilò in tasca.

«Lord Voldemort ha trovato il modo di riacquistare il suo corpo e il suo potere» spiegò con voce piatta. «Il suo esercito diventa più pericoloso ad ogni secondo che passa e Azkaban ha rinvigorito la crudeltà dei suoi Mangiamorte più devoti. Greyback si unirà presto a lui».

«Non è un problema nostro».

«Lo sarà nel momento in cui Greyback deciderà di scendere nella Fossa insieme a loro».

«Non osererà» protestò Gerwulf, ma a Remus non sfuggì la nota di timore quasi impercettibile nella sua voce. «Nessun Lupo Mannaro in questo paese tradirebbe la Fossa – nemmeno quel figlio di puttana di Greyback».

«Dopo essere stato ritenuto morto, gli Auror hanno decimato il suo branco. Ora non comanda che l'ombra dei Lupi Mannari che lo seguivano quattordici anni fa, ma le sue fila si stanno arricchendo mentre noi parliamo. Presto saranno decine, forse centinaia, a seguirlo. Credi che gli Esclusi non si uniranno a lui?».

Gerwulf abbassò il capo con una smorfia infastidita.

«Le leggi della Fossa sono il solo motivo per cui possiamo dirci ancora al sicuro» lo ammonì severamente. «Nessun Escluso è mai stato esiliato senza motivo dal Concilio dei Figli».

«Buon per te che ti fidi ancora degli Esclusi, Gerwulf...» lo rimbeccò con le sue stesse parole Remus. «Rappresentano una minaccia peggiore del Ministero della Magia e tu lo sai. Sono facile preda del loro istinto e sono infuriati: a nessuno di loro interessa capire le vostre leggi, vogliono solo vendicarsi di chi li ha cacciati. I cancelli potranno anche essere capaci di tenere fuori una decina di Esclusi, ma non basteranno per arrestare la discesa di Greyback – non se con lui ci saranno i Mangiamorte di Voldemort». Remus sospirò. «Gerwulf, ti prego: dobbiamo essere preparati».

Gerwulf si alzò in piedi con un'espressione infastidita.

«Non rimarrò qui ad ascoltare i tuoi piani suicidi. Non sai niente – niente - di questo posto. Guardati» disse con una punta di astio. «Con quei ridicoli occhi da Losco non sembri meno bugiardo di loro. Hai passato metà della tua vita disprezzando ciò che siamo, fingendo di essere un umano e cercando l'approvazione di tutti quei pagliacci con la bacchetta infilata su per il culo. Scommetto che ti ha mandato Silente quaggiù, non è così?».

Remus si umettò le labbra.

«È così».

«Cane» soffiò con sfida l'altro.

Remus non disse nulla. Era una delle più offensive ingiurie della Fossa, ma lui aveva davvero trascorso troppo tempo fra gli esseri umani per farsi toccare da quell'accusa. Di tanto in tanto i licantropi più anziani della Fossa glielo sibilavano ancora alle spalle, forse convinti che lui non li avrebbe sentiti.

Cane.

Per Remus non aveva alcun significato.

« Non hai alcun diritto di pretendere che combattiamo per una una qualunque delle tue cose giuste» riprese Gerwulf. «Non ti lascerò ammazzare la mia gente solo perché a Silente serve un esercito di bestie da macello».

«Non voglio che combattiate» replicò piano Remus. «Non è per questo che sono tornato, non cerco alleati per la guerra contro Voldemort».

Gerwulf inclinò appena la testa con espressione perplessa.

«Hai detto che Silente ti ha mandato a cercare alleati».

«Sì».

«...e tu non lo farai?».

Remus abbassò lo sguardo sulla punta delle sue scarpe. Non era il sospetto negli occhi di Gerwulf a metterlo a disagio quanto la sua sorpresa. E come dargli torto, d'altronde? Il cane di Silente, lo chiamavano - perfino al Ministero della Magia qualcuno usava quel nomignolo malevolo. Non aveva mai tradito Silente, nemmeno quando gli sarebbe stato facile, nemmeno quando gli sarebbe convenuto... nemmeno quando finirono per ritenerlo ingiustamente un traditore e allora sì, sarebbe stato più che facile. Silente gli aveva concesso la più straordinaria opportunità che avesse mai avuto nella sua vita, si era fidato di lui come nessun altro mago o strega della comunità magica. Remus aveva giurato a se stesso che non avrebbe mai dimenticato quel debito fino alla fine della sua vita – e l'aveva rischiata centinaia di volte per Silente senza mai esitare.

Ma ciò che l'anziano mago gli aveva domandato ora non metteva più a rischio la sua vita. Non gli aveva chiesto di combattere per l'Ordine, non gli aveva chiesto di morire per l'Ordine... gli aveva chiesto di convincere centinaia di persone abituate a nascondersi a combattere per una guerra che li avrebbe decimati.

Qualcuno di loro armeggiava più che abilmente con la spada, ma nessuno di loro controllava altrettanto bene la magia. Cosa potevano fare le loro venti o trenta mazze ferrate contro le bacchette magiche del mondo di sopra? Nulla. Era per quel motivo che si nascondevano da secoli, ma Silente non poteva capirlo.

Silente non era mai stato nella Fossa, non aveva mai visto la paura riflessa negli occhi dei bambini mentre gli adulti raccontavano loro storie dell'orrore popolate di potenti maghi e streghe. La Fossa non era mai cambiata nel corso dei secoli – ma lo aveva forse fatto la comunità magica? Se anche avessero combattuto... se anche avessero dimostrato di voler allearsi con Silente, se anche avessero vinto, cosa avrebbe offerto loro il Ministero della Magia?

Remus aveva combattuto per loro – aveva ucciso per loro. E cosa ne aveva ottenuto? Altre ingiurie, altro disappunto, altre condanne.

Se Voldemort non avesse distrutto la gente della Fossa per vincere la guerra, l'avrebbe fatto il Ministero una volta conquistata la pace.

Non aveva mai tradito Silente e non avrebbe mai pensato di doverlo fare, ma non poteva permettergli di sfruttare la sua lealtà per condannare a morte certa gli abitanti della Fossa.

«Non lo farò» proclamò con sicurezza. Guardò Gerwulf con aria di sfida. «Sono un cane, non uno stronzo».

Gerwulf scosse il capo.

«E perché diavolo sei venuto, allora?».

Remus lo guardò intensamente.

«Per aiutarvi a fuggire prima che arrivino».

°°°


Stava camminando avanti e indietro il negozio di scherzi di Zonko da ormai trenta minuti. Aveva già trascorso più di due ore di guardia seduta sulla panchina di legno di fronte al negozio e aveva già ampiamente fatto amicizia con il nuovo commesso appena assunto dai titolari – un tale Edmund nato a Edimburgo.

Lanciò un'occhiata all'orologio da taschino d'argento che suo padre le aveva regalato il giorno in cui era diventata un'Auror: le tre e venti minuti del pomeriggio.

Ancora un'ora.

Continuò a fare qualche passo senza allontanarsi troppo per sgranchire ancora le gambe. Stare ferma troppo a lungo non le era mai piaciuto e Hogsmeade era particolarmente noiosa quel pomeriggio.

Non aveva ritenuto saggio portare con sé il fascicolo che aveva sottratto quasi legalmente dall'ufficio dell'Unità di Cattura e lo aveva lasciato sul proprio comodino, trasfigurato in una copia dell'ultimo numero di Magic & Rock Magazine. Peccato aver dimenticato la Gazzetta del Profeta sul tavolo della cucina. Avrebbe preferito la Guferia del Cuore di Nigella Sparks a quella noia letale. La noia era silenziosa, il silenzio la faceva pensare.

E pensare le stava facendo venire un mostruoso mal di testa.

Non riusciva a capire per quale motivo il Ministero della Magia fosse così interessato a lei e Remus. Certo, lui era un Lupo Mannaro e c'erano almeno una ventina di leggi che vietavano il matrimonio e almeno altrettante a vietare ogni altra forma di convivenza sul suolo britannico di cui lei non ricordava molto, ma cosa, gloria a Merlino, poteva aver agitato tanto gli animi dei difensori della comunità magica?

Lei e Remus non erano proprio una di quelle coppiette che passeggiavano per Diagon Alley stringendosi la mano e apostrofandosi in modi stupidi davanti alle vetrine.

Una sera di qualche mese prima si era divertita a chiamarlo “amore mio” mentre lui era steso al suo fianco nel letto a risolvere le parole crociate della Gazzetta del Profeta. Remus aveva abbassato cauto il giornale, ma nei suoi occhi aveva brillato subito un'espressione divertita. Era riuscita ad aggiungere qualche languido “orsacchiotto” e almeno un paio di “cucciolino”, prima che Remus afferrasse il lenzuolo nel tentativo di farla scivolare dal letto.

Non erano nemmeno una coppia, a pensarci bene. Le coppie parlavano di sentimenti e progettavano il loro futuro, loro cercavano solo un modo per non farsi divorare dalla sensazione di sconfitta imminente che la guerra stava fomentando. A pensarci bene, fu costretta ad ammettere Tonks, era andato tutto bene fino a quando non si era svegliata al San Mungo e non aveva detto le parole magiche che tutti gli imbecilli prima o poi dicono.

“Mi sto innamorando di te”.

A volte credeva di aver perduto Remus prima ancora di terminare la frase. A volte credeva di aver visto per la prima volta il terrore balenare nei suoi occhi – non per Voldemort, non per Sirius, non per Greyback: per lei innamorata di lui.

Diavolo, quanto la faceva imbestialire.

«Ninfadorà?».

Tonks si voltò di colpo e sbatté un paio di volte le palpebre, perplessa. Ferma a pochi passi da lei c'era Fleur Delacour. Quel giorno indossava un vestito azzurro dal taglio semplice che le scendeva oltre le ginocchia e un paio di eleganti stivaletti – niente di particolarmente appariscente – ma addosso a lei sembravano pronti per la copertina del Settimanale delle Streghe. L'unica cosa che sembrava insolitamente fuori posto era la sporta di carta che stringeva in mano.

«Ti scercavo» le disse con il suo flautato accento francese.

Tonks aggrottò la fronte, incapace di trovare un valido motivo che potesse spiegare la presenza di Fleur lì – Fleur che la cercava, soprattutto. Non erano decisamente amiche. Nelle poche occasioni alla Tana in cui erano state obbligate a frequentarsi le frecciatine e le battute avevano superato le frasi di cortesia da entrambe le parti. Niente di maligno, in effetti. A volte Tonks si era perfino divertita nell'essere presa in giro da quella strega da sfilata con il suo buffo accento sibilante.

«Mi hai portato la merenda?» domandò con ironico interesse.

«Non». Si avvicinò a lei e le lanciò la sporta fra le mani. «È un regalo. Mollì l'ha fatto per te».

«È agosto».

«Che encredibile acume».

«“È agosto” nel senso che non è il mio compleanno» spiegò sarcastica Tonks, mentre sfilava un pacchetto poco più piccolo di un libricino dal sacchetto.

«Mon Dieu, scommetto che dentro sc'è qualcosa di orriblè».

«Non può essere peggio di ciò che stava fuori dal pacco».

Fleur non ribatté alla battuta, ma Tonks sapeva che era una ragazza sveglia. Presuntuosa e fastidiosa, certo, ma era sveglia – e l'aveva capita eccome.

Tolse l'incarto marrone e rimase per diversi istanti a fissarne immobile il contenuto, incerta su cosa fosse passato per la testa di Molly ma piacevolmente colpita. Incorniciata in un legno semplice e di poco valore, c'era una fotografia di cui Tonks non ricordava nemmeno esattamente il momento dello scatto – forse ottobre o novembre.

La se stessa nella fotografia rideva con poco contegno insieme a Sirius, che aveva brandito un bicchiere di vino in fondo alla tavola in una posa ridicolmente eroica. A giudicare dall'espressione rassegnata di Remus, il cugino stava proclamando uno dei suoi brindisi stupidi.

Un brindisi alla tette di Tonks, che anche stasera hanno rischiato di soffocare in quel minuscolo top arancione per la gioia di noi tutti!”.

E al tuo cervello!” credeva di aver risposto divertita Tonks. “Possa il suo ricordo vivere glorioso nel tempo!”.

Nella fotografia Kingsley rideva di gusto seduto accanto a lei, fingendo di ignorare Moody che imprecava contro di loro con la bocca ancora piena. Ridevano Arthur e Bill, mentre l'ultimo sollevava il bicchiere con un solenne cenno del capo in direzione di Sirius, e rideva anche Molly, mentre colpiva bonariamente il figlio dietro la nuca. Ad un certo punto fu piuttosto sicura di aver visto il Remus della foto allungarsi verso di lei con espressione furba e mormorarle qualcosa all'orecchio che finì per costargli un pugno amichevole sulla spalla e un chiaro “cretino” scandito dalle sue labbra.

Tonks sorrise appena.

«È una bella photographie».

Alzò gli occhi dalla cornice. Si era completamente dimenticata di Fleur, che nel frattempo si era avvicinata curiosa per guardare meglio.

«Sì, lo è».

«Sembrate felisci».

«Direi di sì».

«È stato un ponsiero molto carino da parte di Mollì».

Tonks si umettò le labbra. Non le era sfuggita la nota di labile risentimento nascosta dall'accento straniero. Fece un profondo sospiro e le rivolse un sogghigno divertito.

«Invidiosa?».

Le narici di Fleur vibrarono appena.

«Per una orriblè cornisce da pochi soldi e una tua photographie? Io sono franscese. Io non ho queste... queste... faute de gout?».

«Hai detto flatulenze?».

«Non!».

«Ah, perché ero proprio convinta che tu avessi... sai...».

Fleur le rivolse un'occhiata incendiaria e Tonks non fu capace di trattenere una risata.

«Non fasceva ridere».

«Oh, sì, invece» la prese in giro Tonks. «Stavolta ho vinto io».

Fleur emise uno sbuffo infastidito e agitò graziosamente una mano a mezz'aria, come a voler intendere che la faccenda era chiusa.

«Bièn. Io ho fatto sciò che dovevo fare, persciò me ne vado».

«Perché sei venuta tu?».

«Volevo sgranchire un po' le gombe».

«Ah, capisco... deve essere orribile per te vivere reclusa nelle segrete della Tana a pane e acqua. No, perdonami: è proprio “orriblè”».

«Si pronunscia horrible”».

«“Orìble”?».

«“Horrible”».

«“Oorible”?».

«Lo stai fascendo apposta, oui?».

«No, faccio realmente schifo a parlare in francese, ma grazie lo stesso per l'alta opinione» ridacchiò Tonks.

La bocca di Fleur si piegò in un lieve sorriso divertito. Tonks avvolse nuovamente la fotografia nell'incarto e scrollò le spalle. Non conosceva per niente Fleur, ma su una cosa era sicura: se Bill si era innamorato di lei, non doveva essere una donna tremenda quanto la facevano apparire Molly e Ginny.

«Io finisco il turno di guardia fra cinque minuti» le disse con tono vago. «E a Madama Rosmerta sono sempre piaciute quelle robe strane che bevete in Francia, quindi... sì, insomma, se non hai voglia di tornare subito alla Tana, mi piacerebbe offrirti qualcosa da bere. Sai, per ringraziarti di avermi portato il pacchetto».

Fleur inarcò appena un sopracciglio.

«Sci stai provondo con me?».

Tonks sgranò gli occhi.

«Sei scema?» esclamò. «Oddio, perché voi francesi siete sempre sessualmente attivi?».

«Non non siamo...» iniziò a protestare l'altra. «Cosa?».

«Non cercare di fregarmi. Ho fatto sesso con uno di Marsiglia, qualche anno fa. So che vi piacciono i giochetti strani...».

Fleur arricciò le labbra.

«Hai mai ponsato che forse lui ti ha detto così per fare scioghetti strani con una stupida credulona englose?».

«Quindi a te non piacciono i giochetti strani?».

«Mais oui, scerto che mi piasciono» affermò con candore Fleur. «Ma ponso che tu sia una stupida credulona englose e che lui ti abbia fregato lo stesso».

Risero entrambe. Fu una sensazione stranamente piacevole. Tonks era quasi sicura che si stesse divertendo anche Fleur.

«Bièn, ti aspetto ai Tre Manisci di Scopa per farmi pagare da bere».


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Capitolo 9
*** Capitolo Nove ***


Documento senza titolo

Sono mortificata per questo ritardo, avevo ampiamente sopravvalutato la mia capacità di trovare del tempo libero. Purtroppo sto lavorando a questi capitoli un po' di getto, un po' perché sennò non ne esco più viva e un po' in ricordo della prima versione di questa storia, quando avevo sedici anni ed era tutto un premere sulla tastiera senza esattamente curarsi di cosa stavo combinando... vogliate perdonare il mio ritorno all'adolescenza.

 

 


Quando si era ritrovato per la prima volta al cospetto dei Figli aveva appena diciotto anni e ogni suo tentativo di convincerli ad appoggiare Silente nella guerra contro Voldemort era stato vano. Erano considerate le più sagge autorità della civiltà dei licantropi anche fuori dalla Fossa, nei pochi clan rimasti in piedi dopo l'irrigidimento delle leggi del Ministero della Magia, ma Remus aveva sempre riconosciuto lo spettro della paura in ognuna delle loro decisioni più ponderate.

Erano dei vecchi, erano polverosi – erano destinati a sparire – ma al momento rimanevano ancora l'unica possibilità che Remus avesse di farsi davvero ascoltare all'interno della Fossa.

Lo spettro della paura, si ripeté per l'ennesima volta mentre avanzava oltre le fila di catacombe a sud, ecco cosa davvero distruggerà questo posto.

Il Senato dei Figli si riuniva oltre le tombe, dove l'aria era più rarefatta e la pietra più gelida e scura. Non vi era altro modo di raggiungerli se non quello di superare i morti.

“È tradizione” gli aveva spiegato Gerwulf molti anni prima. “Il Senato decide chi va e chi resta, chi ha ragione e chi ha torto: nessuno mente di fronte a loro, perché lo sguardo dei morti segue ogni menzogna per farcela pagare nell'aldilà”.

“Decidete tutto voi?“ aveva chiesto cautamente Remus. ” E la gente qui sotto... non dice mai nulla”.

“Sono passati molti anni da quando qualcuno ha sollevato obiezioni contro i Figli”.

“Cosa gli è accaduto?”.

Remus non avrebbe mai dimenticato il sorriso storto sul volto allora più giovane di Gerwulf.
“Mi hanno sbattuto fuori per quindici anni”.

«Li avete sepolti qui?» domandò all'improvviso Remus mentre superavano le ultime file di tombe.

Gerwulf gli rivolse un'occhiata eloquente. Non c'era bisogno di chiedere di chi stesse parlando.

«Certo che sì».

Un uomo dal viso butterato e una giovane con i capelli legati in due piccole trecce rossicce facevano la guardia al largo arco di pietra che conduceva al Senato. Remus non riconobbe l'uomo, ma la ragazza gli rivolse un sorriso amichevole, scoprendo i denti sporgenti.

«Ben tornato, Mastro Lupin» gli disse.

«È bello rivederti, Ardesia».

Lei sollevò appena le sopracciglia, come se fosse stupita di scoprire che dopo tutti quegli anni ricordava ancora il suo nome. Remus rispose con un sorriso gentile. Non aveva mai dimenticato nessuno dei suoi studenti – maghi o licantropi che fossero.

«Immagino che tu non conosca Ford, Damerino» disse Gerwulf. «Si è unito a noi dopo che te ne sei andato. Risparmia i convenevoli, tanto non gli piaceresti comunque».

L'uomo chiamato Ford emise un grugnito arrabbiato. Mentre oltrepassavano l'arco, Remus si avvicinò a Gerwulf.

«Ed è sempre così amichevole con tutti?».

«Di solito non grugnisce».

«È una cosa buona?».

«No, ma almeno non ti ha steso. Tu non piaci a molti qua sotto, Damerino» gli ricordò lapidario. «Non stupirti se la tua fama di cane corre più svelta delle tue moine».

Remus sospirò rassegnato, ma decise di lasciare perdere. Aveva problemi più seri dei quali curarsi.

Sopra le loro teste si apriva un soffitto che svaniva nell'oscurità di quella grotta scavata dai secoli. Poche torce circondavano il perimetro circolare e illuminavo le figure curve dei tre Figli seduti sui loro troni. L'ultimo era vuoto, ma Gerwulf, come da triste abitudine, non si accomodò e si appoggiò stancamente alla parete rocciosa.

I Figli non sembravano cambiati nel loro grigiore: saldi e rigidi sui loro troni di pelle e lacera stoffa, con la vecchiaia ad appesantirgli lo sguardo e a rendergli gracchiante la voce.
I capelli di Odéon, il più anziano fra i tre, erano talmente lunghi da sfiorargli i piedi nudi che spuntavano oltre la lunga veste scura.

«Quando ci hai convocati, Gerwulf, non ci hai detto che era per lui» proclamò con voce grave Odéon.

«Certo che no, o non lo avreste mai ascoltato» rispose lui con tono sfacciato.

Remus storse il labbro. E meno male che Gerwulf gli aveva garantito di aver sistemato la situazione prima del suo incontro. Portò una mano al petto e si inchinò in avanti, come aveva imparato tanti anni prima.

«I miei omaggi al Senato al quale domando udienza».

«Non ti è stata concessa alcuna udienza» proclamò Argon, seduto alla sinistra del cugino più anziano.

Era più basso di Odèon e la barba grigia copriva il corpo scarno e vecchio. Si artigliava al trono con mani tanto sciupate da sembrare avvizzite in uno stagno verdastro. Dall'altra parte Callista lo scrutava con espressione curiosa. Gli rivolse un sorriso talmente leggero da svanire nell'intrigo di rughe che le solcavano il volto.

«Giovane Lupin, temevo che non sarei vissuta abbastanza a lungo per vederti seppellito dalla tua stessa scelleratezza».

Remus rispose al suo sorriso. Era una vecchia profondamente saggia, sebbene artigliata alle leggi della Fossa con la stessa cieca dedizione del fratello maggiore e del cugino più giovane.

«E ora quella scelleratezza lo ha riportato qui» brontolò Argon, picchiettando nervosamente le dita.

Remus sospirò e mostrò loro i palmi con quieta rassegnazione.

«Miei signori, se solo poteste--».

«No» lo interruppe secco Odéon. «Questo Senato ti ha già perdonato molto. Non abbiamo alcuna intenzione di ascoltarti. Torna a--».

«Io intendo ascoltarlo» tagliò corto Callista. «Per quale motivo sei tornato, ragazzo?».

Remus fece un respiro profondo. Per quale motivo girarci attorno?

«Greyback è vivo».

Il silenzio piombò fra di loro come la lama gelata di una ghigliottina.

«E così Lord Voldemort. Pare che siano già in procinto di stringere una nuova alleanza che vedrà presto le fila del nostro nemico rinfoltite dalle decine di Esclusi che bramano vendetta nei confronti della Fossa».

«Greyback è morto. Le voci del suo ritorno sono solo chiacchiere e bugie» dichiarò Argon.

«Non è morto più di quanto lo siamo noi» continuò Remus. «Dovete credermi, è--».

«Che prove puoi portare a sostegno di questa tua ennesima follia?» chiese Odéon.

Remus tacque.

«Ah, capisco...» riprese il Figlio. «Silente».

«Solo un sordo non darebbe ascolto alle sue spie».

«Silente non è mai stato nostro nemico» ricordò con calma Gerwulf. «Non che lo reputi amico, ma... è indubbio come non sia schierato dalla parte del Ministero e dei Loschi».

«Sono d'accordo con Gerwulf» annuì Callista. «E ho intuito il motivo del tuo ritorno, Lupin...».

«In tutta umiltà, mia signora, temo di no».

Lei sollevò cauta un sopracciglio bianco.

«Silente mi ha inviato per chiedervi di schierarvi dalla sua parte quando la guerra scoppierà nuovamente – e ormai è davvero questione di pochi mesi, forse poche settimane. Non intendo chiedervelo» disse in fretta, cercando di placare gli animi già in disaccordo dei Figli. «Non è per questo che sono qui. Greyback avrà presto il sostegno degli Esclusi: sfonderà i cancelli prima di quanto non potremmo difenderli e per allora la Fossa sarà perduta. Non sopravviverà nessuno».

«La Fossa non è mai stata violata».

«Ed è questo ad aver reso indolenti le sue difese» ribatté deciso Remus, ignorando una parte di sé che iniziava a domandarsi se non stesse superando il limite. «Quando vi rifiuterete di schierarvi con Lord Voldemort – e so che lo farete con la stessa insistenza con cui non vi siete mai schierati con Silente – non risparmieranno nessuno».

«Mi è difficile crederti, Remus Lupin. Tu stesso hai sostenuto di fronte a noi di aver veduto Fenrir Greyback cadere in battaglia».

«Ho paura di averlo solo visto cadere, mio signore. Nessuno ha mai trovato il suo corpo».

«Dunque, cosa suggerisci di fare, giovane Lupin?» lo derise Odéon. «Vuoi prendere la spada e uccidere il drago? Il nostro popolo non è un popolo di guerrieri. Aspetti che i tuoi amici con le bacchette vengano in nostro soccorso?».

«No, niente del genere. Vi sto suggerendo di scappare prima che sia troppo tardi».

Dopo una pausa raggelante, Argon scoppiò in una risata derisoria, seguito a ruota dal cugino.

Questa è la più grossa follia che ti abbia mai sentito dire».

«Non c'è altra scelta».

«Abbandonare la Fossa...» ripeté Argon con aria sconcertata. «E per andare dove, di grazia?».

Remus intercettò lo sguardo d'avvertimento di Gerwulf, ma voltò il capo e li fissò uno ad uno con espressione risoluta.

«A nord».

«A nord?».

Aveva temuto quel momento più di ogni altra cosa avesse detto in precedenza. Quando parlò, cercò di imporre alla sua voce un tono quanto meno esitante possibile.

«A Jura. Oltre i confini magici che proteggono le terre di--».

«Dai Pelle di Lupo?». Questa volta fu Callista a esprimere sconcerto. «Quelle terre sono popolate da selvaggi».

«Sono Lupi Mannari».

«No, non lo sono!» replicò indignato Argon. «Sono privi di fede e morale, vivono al di sopra delle nostre leggi, compiono sacrifici di sangue alla luna!».

«Lo credevo anche io, mio signore, ma le posso assicurare che non è affatto così».

Di nuovo, piombò il silenzio. Remus capì solo in quell'istante di aver commesso un errore madornale. Perfino Gerwulf lo stava fissando come se non riuscisse a credere a quanto aveva appena udito.

Remus sapeva che ormai era troppo tardi per tornare indietro.

«Ciò che credete di conoscere del popolo del nord non è nemmeno lontanamente vicino alla realtà».

«Hai avuto contatti con i Pelle di Lupo?» domandò Callista con voce atona.

Gerwulf si passò una mano sulla faccia, ma Remus annuì.

«Sì, mia signora».

«Pur sapendo che è assolutamente contro le nostre leggi?».

«Sì, mia signora».

«E pur sapendo che per chi trasgredisce a queste leggi c'è una punizione esemplare?».

«Sì, mia signora».

«Questo è inaccettabile!» gridò Argon. «Non meriti altro che l'esilio!».

«Siete ciechi» continuò Remus, ormai certo di non aver altro da perdere. Si rivolse a Callista e le mostrò i palmi. «Mia signora, siete l'unica che forse può capire la gravità di questa situazione. Se non riuscirete a trovare il coraggio di guardare oltre le pietre della Fossa, ciò che sta fuori vi ucciderà tutti. Sì, è vero...» continuò, ignorando le proteste di Argon e lo sguardo accusatore di Odèon, «...è vero, mia signora, ho deliberatamente trasgredito alle vostre leggi, ma guardatemi: sono qui, davanti voi, vivo. Ho passato diverso tempo al nord - dovevo sapere - e ora posso garantirglielo. C'è speranza di vedere il cielo, mia signora. È una terra vasta e incontaminata, protetta da antiche magie che tengono gli umani ben lontani dalle coste».

«Che eresia! Dovremmo tagliarti la testa» esordì ancora Argon.

«Fatelo!» esclamò con un moto di rabbia Remus. «Tagliatemi la testa e aspettate che Greyback venga a prendersi le vostre».

«Che diavolo...» mormorò Gerwulf. «Qui non si tagliano le teste da almeno cinque secoli».

«Questo Senato ti ha già perdonato molte volte, Lupin...» disse Odèon. «E non intende farlo ancora».

«Lo capisco, signore, ma--».

«Chi è a favore dell'esilio a vita nel mondo di sopra?» concluse con tono insindacabile, alzando un indice. «Io sono a favore».

Argon annuì con espressione severa.

«A favore».

Si rivolsero entrambi nella direzione di Gerwulf, che sembrava intento a recitare un lungo mantra di bestemmie e insulti. Il più giovane dei Figli scosse il capo e allargò le braccia, rivolgendo a Remus un'occhiata infastidita.

«Per quel diavolo che può contare... contrario».

Argon emise uno sbuffo indignato, ma non disse altro. Gli sguardi di tutti si posarono su Callista, che ora teneva in mano le sorti della votazione.

«Sei sempre stato molto abile nel pesare ogni parola, giovane Lupin» disse. «Eppure quest'oggi ti sei espresso senza l'ombra di esitazione, ignorando ogni conseguenza delle tue azioni. Non è da te».

«C'è una guerra che bussa al vostro cancello, mia signora. Il tempo di pesare le parole è ormai finito».

Callista fece un lieve cenno del capo e rimase in silenzio diversi istanti, scrutandolo con feroce intensità.

«Tu non temi l'esilio. Il mondo di sopra è la tua casa più di quanto non lo sarà mai la Fossa... dunque permettimi di dubitare che l'esito del nostro giudizio possa in qualche modo fermarti».

«Non mi fermerò, mia signora».

«Forse dovremmo realmente riconsiderare l'idea di tagliarti la testa».

Remus sorrise con tristezza.

«Forse dovreste».

Callista abbassò lo sguardo.

«A lungo abbiamo lavorato affinché la pace e la serenità dimorassero fra queste pietre e tu potresti essere la voce che le farà crollare. Sono a favore dell'esilio» dichiarò con voce apatica dopo un lungo istante di pausa. «Ma devi credermi, ragazzo... ti auguro tutta la fortuna possibile nel tuo cammino».

Remus infilò le mani in tasca.

«E io la auguro a voi».

Voltò loro le spalle e uscì a passo svelto dall'arco, ignorando la voce di Ardesia che gli domandava come fosse andata l'udienza. Era ormai giunto a metà delle catacombe quando Gerwulf gli piombò addosso come una tigre, scagliandolo con la schiena contro la parete rocciosa.

«Cosa diavolo pensavi di fare, eh!?» ruggì furibondo.

«La cosa giusta».

«La cosa giusta? Ah!». Lasciò la presa e scosse il capo come se fosse stordito. «E cosa speravi di ottenere? Diavolo, Lupin... i Pelle di Lupo!? Quando pensavi di dirmelo?».

«Ora» rispose con ovvietà Remus. «O non mi avresti mai portato dagli altri Figli».

«Tu sei pazzo... e ora sei anche un Escluso, gran bel colpo. A cosa accidenti sarà contato quando quel figlio di una cagna di Greyback scenderà quaggiù, eh?».

«Tu mi credi?».

«Sì, razza di imbecille».

Remus si umettò le labbra.

«Vieni con me a nord dai Pelle di Lupo. Aiutami a trovare un modo per far fuggire gli abitanti della Fossa».

«...prego?».

«Questa è la tua casa, la tua gente... vuoi davvero aspettare che distruggano ogni cosa?».

Gerwulf scosse le mani in segno di diniego.

«No, no, no... io là sopra non ci vengo. E tu sei pazzo – pazzo! La situazione è ancora gestibile, non--».

«Molto bene» tagliò corto. «È il momento di rendere la situazione ingestibile».

Scattò in direzione dell'uscita e iniziò a correre attraverso le catacombe, con le fiamme delle torce che tremavano al suo passaggio. Le urla di Gerwulf non gli arrivavano troppo distanti: voltò indietro il capo e vide il profilo dell'altro licantropo inseguirlo come una furia.

Sbucò nella piazza del Mercato, rischiando di travolgere un paio di uomini lì davanti. Si aprì un varco fra la gente quasi a spintoni, ignorando ogni protesta, e si catapultò davanti alla tenda di Wallace O'Leary.

«Ehi, Lupin!» esclamò l'uomo. «Che stai--?».

«Prendo questa in prestito!».

Afferrò una cassa di legno alta almeno sessanta centimetri e la trascinò quasi fino al centro del Mercato. Vi salì sopra con un salto agile nello stesso momento in cui Gerwulf usciva dalla galleria delle catacombe con il fiato rotto dalla corsa.

«Lupin...!» strepitò invano. «Non farlo!».

Remus gli rivolse un'occhiata di scuse. Aveva deciso di farlo ancor prima di parlare con i Figli. Certo, non aveva pensato che lo avrebbero esiliato, ma aveva messo in preventivo che mai e poi mai avrebbe potuto vantare del loro appoggio. C'era solo una cosa che poteva salvare la Fossa: la paura.

«Uomini e donne della Fossa!» urlò a gran voce. «Sono Remus Lupin e so che molti di voi non vorrebbero ascoltarmi, ma temo di non potervi lasciare altra scelta». Fece un respiro profondo. «Fenrir Greyack è vivo». Un boato di esclamazioni spaventate si levò dalla folla che si era radunata attorno a lui. «Sta radunando un nuovo branco che si arricchirà presto delle decine di Esclusi che sono stati esiliati dalla Fossa negli ultimi quattordici anni. E quel che è peggio...».

«Lupin!» urlò ancora Gerwulf. «Non statelo a sentire, non--».

«...è che anche Lord Voldemort è vivo. Sì, proprio lui. Il mostro che appendeva per i piedi i Lupi Mannari che si rifiutavano di seguirlo e li faceva scuoiare da Macnair – il boia dei Loschi, esatto, a quanti di noi la sua ascia ha già mozzato la testa?».

«Quel figlio di puttana!» strillò una donna. «Dicono abbia appeso la testa di mio fratello al Ministero della Magia!».

«Lui è il cane di Silente!» protestò un vecchio. «Non dategli ascolto, lo hanno mandato i Loschi! È qui per fregarci!».

«Sì, è vero, sono il cane di Silente» rispose con prontezza Remus. «Ma non sono io il bastardo che quattordici anni fa ha convinto i vostri ragazzi che avrebbero conquistato il mondo di sopra insieme a Voldemort. Non sono io, il bastardo che si è riparato con i loro corpi durante le battaglie, non sono io che li ho venduti ai Mangiamorte come carne da macello». Indicò con decisione le tortuose scale di pietra che conducevano fuori dalla Fossa. «Quando Greyback sfonderà i nostri cancelli si porterà dietro decine e decine di Mangiamorte. Cosa farete contro le loro bacchette magiche? Di questo posto non rimarranno che polvere e cenere».

Nonostante gli sguardi spaventati, la maggior parte della gente sembrava ancora decisa a non fidarsi di lui. Remus non poteva dar loro torto: erano trascorsi anni da quando era rimasto sotto terra abbastanza a lungo da farsi qualche vero amico e anche allora la diffidenza verso di lui era stata tanta.

«Vi dico che lo mandano i Loschi! Guardatelo, guardatelo! Con quegli occhi da Losco che ha, io dico di non fidarsi!».

«Invece ha ragione!» strillò un'altra donna. «Dobbiamo fare qualcosa! Non possiamo permettere a quei maghi di entrare!».

«Però abbiamo fatto entrare lui» commentò con ferocia un uomo dai baffi scuri vicino a lui. Remus non ricordava di averlo mai visto. «Non è uno di noi, lui usa la magia!».

«È vero!».

«Sì, buttiamolo fuori!».

La folla iniziava a scaldarsi e Remus iniziò a pensare che quella non era stata esattamente una delle sue idee migliori.

«Vi imploro di ascoltarmi, non--».

«Cane! Cane! Cane!».

«Ora basta».

La vecchia Mabel si fece largo fra la gente accalcata e si fermò a pochi passi da Remus, rivolgendogli uno sguardo perplesso.

«Scendi da quel trespolo, Lupin: non sei un pappagallo».

Remus alzò le mani in segno di resa e saltò giù dalla cassa.

«Statemi bene a sentire, tutti voi!» tuonò con voce decisa. «Vent'anni fa questo piscialetto è venuto fra noi per avvertirci che Fenrir – il nostro dannato Capo di Caccia, non un moccioso qualunque – stava progettando di far fronte comunque con dei maghi. E non lo abbiamo voluto ascoltare, perché aveva il puzzo del cane addosso... e avevamo ragione, puzza ancora di cane».

Remus stava per aprire la bocca, quando si sentì agguantare alla spalle. Gerwulf gli piantò un pugno nei reni che gli mozzò il fiato e lo fece piegare in due.

«Gerwulf, sto parlando!» protestò Mabel.

«E allora piantala subito e non aumentare le rogne».

I due licantropi si squadrarono l'un l'altro con aria minacciosa.

«Fottiti, Gerwulf: Lupin ha ragione» tagliò corto la vecchia. «Aveva ragione anche la prima volta, anni fa!» si rivolse ancora agli altri Lupi Mannari. «Ma, dicevo, non lo abbiamo ascoltato. E Greyback si è portato via trenta dei nostri ragazzi! Voi non c'eravate, non siete saliti con lui per riportarli a casa... siete rimasti qua, ad aspettare che altri muovessero il culo al posto vostro».

Si levò qualche leggera protesta.

«E poi, quando è venuta quell'epidemia di febbre e i nostri bambini hanno iniziato a morire... questo damerino è tornato quaggiù pieno di stramberie fatte con la magia, e quella magia li ha salvati. Ed è rimasto qua, ha insegnato a leggere e scrivere ai ragazzi – pure a me, e sono diventato perfino brava». Storse il naso con aria prepotente. «Sì, avete ragione: è un cane della peggior specie. Si veste come un umano, puzza di umano, scommetto che se ne è perfino scopato qualcuna, di quelle là... ma non azzardatevi a dire che è qui per fotterci. Remus non ci ha mai voltato le spalle, non ci ha mai mentito. Forse non è uno di noi, ma di sicuro è con noi... e ora lo ascolterete, o prenderò a calci ognuno dei vostri sederi».

Incrociò le braccia al petto e si voltò con fierezza verso Remus, che stava giusto iniziando a riprendere fiato dopo il pugno di Gerwulf.

«Allora, Lupin?» insistette la donna di poco prima. «Cosa proponi di fare?».

Alle sue spalle, Gerwulf emise un verso saccente. Evidentemente fremeva dalla voglia di vederlo spiegare al resto della Fossa la sua malsana idea di viaggiare verso nord.

«Non possiamo combattere né Greyback né Voldemort. Dobbiamo fuggire. Ho bisogno di volontari che abbiano la forza e il coraggio di seguirmi nel mondo di sopra, alla ricerca di una terra lontana dagli umani in cui possiamo trovare rifugio».

Un fremito sbalordito scosse la folla, ma Remus continuò.

«So che è una follia... ma l'unica altra scelta è la morte».

«E dove andremo?» chiese Wallace O'Leary.

Remus si grattò incerto la barba.

«Dai Pelle di Lupo» rispose al suo posto Gerwulf. «Oh, sì, avete sentito bene. Questo imbecille vuole portarci fra i ghiacci del nord, insieme ai Pelle di Lupo!».

«Cazzo, Lupin» commentò Wallace. «Questo è folle pure per te».

«No, no, no, aspettate!» li interruppe Remus. «Io li ho visti. Sono stato al nord, ho conosciuto le loro abitudini... non sono le creature spaventose che riempiono le storie. Erano spaventati quando mi hanno visto. Capite? Avevano paura di me. Avete passato tutta la vita a temere i Pelle di Lupo, mentre il vero nemico sono le pietre che vi tengono qua sotto. Quante volte avete desiderato vedere il cielo? Quante volte la rabbia vi ha vinto mentre pensavate a quanto ingiusta fosse questa vita arrangiata con scarti degli uomini? Quante volte?».

Nessuno rispose.

«Possiamo aiutarci a vicenda: fra di voi ci sono abili conciatori, fabbri, mastri cerusici. Loro hanno imparato a coltivare la terra più sterile e cacciano davvero, non rubano il cibo dai cassonetti degli umani». Indicò il mosaico di stelle che si allargava sulle loro teste. «Potreste vederlo ogni notte per tutte le notti in cui vivrete... o potreste restare e aspettare Greyback».

Gerwulf schioccò la lingua.

«E chi ti dice che saranno d'accordo con il tuo progetto di gloria e prosperità?».

Remus gli rivolse uno sguardo eloquente.

«Figlio di cagna...» mormorò Gerwulf. «Ne hai già discusso con i Pelle di Lupo. Era il tuo piano fin dall'inizio!».

«Almeno lui ce l'ha, un piano» replicò acida Mabel.

«Servono volontari che mi accompagnino nel viaggio verso Jura, dalla quale poi potremmo organizzare i primi gruppi che lasceranno la Fossa» li ignorò Remus. «Non vi mentirò: non sarà facile. Dovremmo mescolarci fra gli umani senza attirare l'attenzione dei Loschi – o che Dio non voglia, di Greyback e Voldemort – e dovremmo farlo in fretta. Capirò chiunque vorrà tirarsi indietro».

«Aye, io vengo» proclamò deciso Wallace, battendo una mano sul grosso addome. «Non sia mai che ti infili in un altro casino».

«Grazie, amico mio».

«Vengo anche io!» esclamò entusiasta Ric, sbucando alle spalle di Wallace.

«Te lo scordi, ragazzo. Tu stai qua a mandare avanti la fornace. Che credi? Che ammazzeremo Greyback con un bel sorriso?».

Il ragazzo abbassò deluso lo sguardo. Remus gli posò una mano sulla spalla.

«Ti sono grato, Ric, ma Wallace ha ragione: la Fossa va armata e ora sei l'unico che può organizzare un'armeria. Puoi farcela?».

Ric sorrise, facendo comparire un'orrenda piega sulla faccia, dove la cicatrice gli divideva la guancia.

«Aye, Mastro Lupin, ai suoi ordini».

«Chi è il prossimo, branco di cacasotto?» esclamò Mabel. «Io andrei, ma la mia anca non si muove più come una volta».

«Io!» esclamò una vocetta acuta fra la folla.

I licantropi si scansarono per far passare Lydia, che aveva ancora la bocca sporca del cibo che aveva mangiato a colazione.

Wallace scoppiò a ridere.

«Lydia, non--» le disse Remus con tono gentile, ma lo sguardo della bambina si era già accigliato. «C'è un compito speciale per te. Vedi quel ragazzo alto dietro di me?» le sussurrò in un orecchio. «È tanto bravo quanto pigro... il tuo compito è quello di farlo lavorare duramente, pensi di farcela?».

Lydia non sembrava molto convinta, ma non protestò oltre e si avvicinò a Ric, che sembrava estremamente divertito.

«Hai capito?» gli disse con voce impavida. «Io ti faccio lavorare».

Ric rise.

«Sembra molto facile, ora che ne stiamo solo parlando...» brontolò Gerwulf.

«È per questo che verrai con noi» gli disse Remus.

«Scordatelo».

«Sei l'unico a parte me che abbia studiato gli umani abbastanza a lungo da attraversare l'intero paese senza farci scoprire. Credevo che anche tu nutrissi il desiderio di lasciare la Fossa».

«È stato molto tempo fa, Damerino».

«Hai davvero smesso di desiderarlo?».

Gerwulf lo squadrò con un piglio infastidito, ma non rispose.

«Verrò anche io».

Remus sentì il sangue gelare mentre Anita faceva un passo in avanti con espressione fiera. Il Mercato piombò nel silenzio. Lo sguardo della donna faceva presupporre che fosse già pronta per la battaglia, ma l'attenzione di tutti era ormai su Remus. Lui inclinò piano il capo, incerto sul da farsi.

L'ultima volta in cui si erano incontrati, quattordici anni prima, Anita aveva cercato di ucciderlo. Remus non era rimasto a guardare: sapeva che entrambi portavano ancora i segni di quel duello.

«Che dici, Lupin?» insistette lei.

«Va bene» disse brevemente. Avrebbe avuto un sacco di tempo per rimpiangerlo. «Nessun altro?».

«Viene pure Gordon» annunciò Mabel.

«Eh? Cosa?» protestò l'uomo con espressione scioccata. «Oh, no, maledetta vecchia, io no non mi faccio prendere dai Loschi!».

«Ho detto che vai, piantala».

«Partiremo fra un paio di giorni» disse loro. «Datemi il tempo di procurare un po' di documenti falsi per non insospettire gli umani».

Un mormorio insistente si levò dalla folla – difficile stabilire se fosse più d'approvazione o di biasimo per la scelta fatta.

«Gerwulf?».

«Che vuoi, Damerino?».

Remus si guardò le mani.

«L'ultima volta in cui ho promesso che sarei andato di sopra a sistemare le cose ho fallito... non voglio fallire di nuovo».

Nonostante la stizza, Gerwulf parve colpito.

«Non è stata colpa tua. Greyback se li è portati via... te almeno ne hai portato indietro qualcuno».

«Morti».

«Anita era viva».

Remus lanciò un'occhiata distratta alla donna, che si era appartata in un angolo a fumare con aria placida da una lunga pipa.

«A tal proposito, Gerwulf...».

«No, non credo che ti ammazzerà, ma di sicuro ci renderà il viaggio un inferno».

«Ci renderà?» ripeté Remus, mentre un largo sorriso di gratitudine gli illuminava il viso.

«Oh, vaffanculo, Damerino».

Remus si passò una mano fra i capelli. Gordon gli fu addosso in un lampo, agitato e spaventato, e iniziò a elencargli i motivi per cui sarebbe stato un peso per tutto il gruppo.

«Mi spiace, Gordon» mormorò Remus in tono sincero. «Non me la sento di far arrabbiare Mabel».

Mentre piano piano la folla si disperdeva, Remus notò una curva figura bianca che lo fissava dall'ingresso della gallerie delle catacombe. Non ne era certo, ma credette di scorgere un leggero sorriso soddisfatto sul viso della vecchia Callista.








°°°

 

 

 


Inutili note di fine capitolo:

    1. Nella (brutta) versione originale, Remus si reca nell'isola di Jura, a nord della Scozia e si infiltra nel clan di Greyback. Oggi, nonostante io sia ancora (molto) scema, ho deciso che quell'idea era assurda e dipingeva delle creature che per abitudini non sarebbero mai potute diventare personaggi potenzialmente positivi dal punto di vista morale, cosa che invece sto cercando di ottenere in questa nuova versione con licantropi decisamente più simili a Remus che a Greyback. Più o meno. Vabbe', tutto questo per dire che mi dispiaceva non poter sfruttare un po' di insana natura selvaggia, perciò... beh, Jura c'è ancora, ma non è più Jura, l'ho presa - poveretta - e l'ho spostata ancora più a nord, mantendendole comunque il nome. Eh, chiamatela nostalgia, chiamatela crisi di mezza adolescenza.



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