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Per uno come Stefano, abituato a
immortalare l’attimo, una sola notte potrebbe non essere sufficiente per
lanciarsi.
L’esito di quell’ultima sera ruota
esclusivamente attorno a Elisa che, come una fotografia del suo autore
preferito, ha impedito al ragazzo di imparare a ignorarla.
– In
un metro e mezzo –
All’apparenza
non c’era nulla di diverso rispetto alle sere precedenti. Il cielo scuro,
limpido, era rischiarato qua e là dalle molteplici luci che brillavano in tutta
l’area della festa, sollevandosi dai ristoranti, dalle piste da ballo e
sportive, dalle bancarelle, dai bar e dagli stand. Le persone, moltitudini di
persone, affollavano ogni angolo riempendolo di chiacchiere, risate e opinioni.
Stefano
si faceva largo fra tutto ciò per l’ennesima volta, come aveva fatto ogni sera
precedente nelle ultime tre settimane. Quella, però, sarebbe stata l’ultima
volta. Il festival – enorme – che lo aveva assunto insieme a Giorgio, suo
collega e migliore amico con il quale aveva aperto una piccola attività di
fotografia, era giunto all’ultima sera. Ed era proprio questo a cambiare
l’atmosfera, a renderla diversa, malinconica, a chi come lui aspettava,
lavorava e amava quella grande festa che ogni anno, per tre settimane, rendeva
la città in cui era nato e cresciuto viva e magica. Dentro di sé il ragazzo
aveva un leggera inquietudine, un misto di preoccupazione e voglia di fare, che
cresceva mano a mano che si avvicinava a passo sicuro verso l’arena concerti,
il pass da fotografo al collo e il braccialetto con il nome della band, per
poter entrare, al polso destro. L’ultimo giorno di festa non significava solo
la fine di quel miscuglio di persone, profumi, suoni e colori, ma anche che non
avrebbe più visto tutti quei volti che aveva ritrovato o conosciuto proprio lì.
Fra tutti quei nomi e quei visi, uno più degli altri spiccava: quello di Elisa.
Lei
era uno di quei fotografi sempre presenti sotto palco, che ogni sera,
indipendentemente dall’artista, scattava con la sua reflex. Lavorava come
volontaria per il bar gestito dai giovani che riforniva di birra e panini il
pubblico dei live, fotografando con la stessa passione sia le persone sopra lo
stage, che quelle sotto e quelle che dietro il bancone dispensavano bere di
ogni genere. Si erano conosciuti lì, sotto quel palco, in quel metro e mezzo di
larghezza in cui ogni sera almeno sette fotografi si dovevano muovere in una
danza ben orchestrata, nel tentativo di non intralciarsi a vicenda ma cercando
comunque di ottenere degli scatti migliori degli altri.
Quella
strana sensazione nel petto sia allargò ulteriormente appena vide stagliarsi
oltre le porte d’ingresso, ancora chiuse al pubblico, la sagoma del palco su
cui rodie e fonici stavano sistemando la strumentazione per la prima delle tre
band. Avvicinandosi cercò con lo sguardo la figura ormai conosciuta della
ragazza e la trovò appoggiata a una transenna, intenta a conversare con un
addetto alla sicurezza. Ora sì che quell’inquietudine gli esplodeva dentro, misteriosa,
ma al tempo stesso chiara. Non gli servivano chissà quali spiegazioni per
capire cosa significava, era fin troppo palese; era stato palese da subito e
aveva continuato a esserlo per tutte le sere successive. Anche se, in realtà, non
l’aveva vista per tre intere settimane, ma per un giorno in meno. La prima sera
in assoluto, all’inaugurazione della festa, lei non c’era. Quando Stefano aveva
lasciato l’arena concerti per andare a post-produrre le fotografie in lui era
tutto normale. Aveva rivisto vecchi amici, aveva incrociato sguardi nuovi, ma
niente che lo avesse affascinato più di quanto meritava.
Tuttavia
il secondo giorno lei era là. La vide perché era impossibile non vederla,
specie per uno con il suo spirito di osservazione. Era seduta in terra, sul
calpestabile in legno impolverato e scheggiato in quel metro e mezzo che
separava le transenne dietro cui la gente si accalcava per la prima fila, dal
palco. Era seduta lì, la schiena appoggiata ai subwoofer impilati uno
sull’altro, le gambe strette al petto e la reflex appoggiata sulle ginocchia,
protetta e coccolata fra le sue mani. Avrebbe voluto farle una foto perché la
trovò bellissima. Non solo era bellissima quell’immagine, ma per lui anche lei
lo era. I capelli castani, lunghi fin sotto le spalle, le ricadevano avvolgendosi
su se stessi in leggeri e accennati boccoli. I lineamenti precisi del viso
accentuavano gli occhi luminosi e leggermente allungati. Con le dita
affusolate, molte delle quali con sottili anelli argentati, tamburellava sul
corpo della macchina fotografica mentre faceva oscillare la testa di qua e di
là seguendo il ritmo della canzone che stavano passando in attesa della band,
le labbra che ricamavano appena le parole del testo. Lei era un fotogramma di
quella musica, uno scatto perfetto, quello da diaframma aperto e da sfondo
sfocato. Stefano non l’aveva fotografata, ma si era impresso quell’immagine in
mente con una tale forza che chiudendo gli occhi avrebbe potuto vederla in
qualsiasi momento. Elisa aveva avuto su di lui un effetto che nessun’altra gli
aveva mai fatto e la cosa era incredibile e sorprendente al tempo stesso.
Il
giorno dopo, il terzo, si erano rivisti sotto allo stesso palco, sullo stesso
calpestabile. Durante il concerto, mentre scattavano ciascuno le proprie fotografie,
Stefano l’aveva accidentalmente urtata. Quel contatto debole, la morbidezza
della pelle di lei, avevano fatto scattare nel ragazzo qualcosa. Quando si era
scusato e lei aveva risposto sorridendogli per fargli capire che non era
successo niente, qualcosa in lui gli impose di conoscerla.
Le
aveva rivolto la parola alla scadenza del quarto giorno. L’aveva avvicinata
prima che il concerto principale iniziasse, chiedendole qualche informazione
sulla band anche se non ne aveva bisogno. Era rimasto affascinato dalle sue
iridi color cioccolato, che riverberavano di blu per colpa delle luci dello
stage, e l’aveva ascoltata con attenzione. Dal modo spigliato in cui gli aveva
risposto, guardandolo, sorridendo e arricchendo le frasi di dettagli, Stefano
aveva intuito che avrebbe potuto tranquillamente instaurare una conversazione
con lei.
E
avvenne. Ogni sera facevano amicizia un po’ di più e ogni sera il ragazzo
raggiungeva il palco prima, così da avere più minuti, secondi, da trascorrere
con lei.
Tuttavia
una sera era comparso Giorgio. Aveva visto l’amico chiacchierare con Elisa e si
era intromesso. Con il suo modo di fare alla mano sembrava aver affascinato la
ragazza in quei pochi minuti molto più di quanto Stefano era riuscito a fare in
sei sere.
In
uno strano miscuglio di gelosia, invidia e desiderio la verità era venuta a
galla praticamente subito e per opera dello stesso Gio.
Stefano lo ricordava ancora alla perfezione. Si ricordava la sua ricerca della
macchina fotografica, del suo dirigersi dal corridoio al piccolo studio che
condivideva con l’amico e in cui lavoravano insieme.
«Gio, hai visto la mia reflex?» aveva chiesto.
«È
qui. Ho scaricato le foto proprio ora.»
In
quel momento il tempo che si fermava non aveva avuto suono nelle orecchie di
Stefano, era stato come il battito d’ali di una farfalla. Aveva raggiunto l’altro
e lo aveva trovato davanti al pc, a fare quello che non avrebbe dovuto fare:
guardare le sue foto. Non c’era niente di male in realtà, Gio
guardava sempre le foto Stefano e anche lui guardava quelle di Gio. Tuttavia, proprio la sera precedente, il ragazzo aveva
fotografato Elisa. Non c’era stato un motivo particolare, lo aveva fatto perché
voleva farlo, perché lei era distratta e completamente rapita da altro. Perché
era bellissima e lui non aveva saputo trattenersi per l’ennesima volta. La
trovava intrisa d’arte, farcita di una naturalezza di cui le sue fotografie
erano avide di nutrirsi.
Era
rimasto impietrito a guardare Gio che faceva scorrere
una dopo l’altra le due, tre, quattro foto di lei sullo schermo del pc, finché
l’amico non aveva spezzato il silenzio.
«Ma
questa è Elisa» aveva detto, con un tono lievemente sorpreso. Il lungo silenzio
che ne era seguito valeva quanto una risposta. Giorgio si era voltato verso
Stefano – metà sulla porta, metà nel corridoio – l’aveva analizzato con un
sopracciglio inarcato e aveva detto: «Ti piace, per caso?»
Il
balbettio costellato di “beh”, “ehm”, “no, è solo che” di Stefano era stato un’ammissione
più che sufficiente.
Da
quella mattina, però, le cose si erano semplificate. I due amici si erano
accordati per permettere a Stefano di passare quanto più tempo possibile con la
ragazza. Invece che alternarsi sotto il palco, delle foto dei concerti si
sarebbe occupato soltanto Stefano, mentre Giorgio avrebbe approfittato di quel
lasso di tempo per andare a immortalare le persone in giro per la festa.
Tutto
ciò aveva permesso a Stefano di poter trascorrere diverso tempo ogni sera
insieme a Elisa, nella speranza di riuscire a ottenere qualcosa.
A
conti fatti, arrivato all’ultima sera aveva la sua amicizia su Facebook e una moltitudine di cuori su Instagram,
cosa che poteva essere sia positiva che negativa in base al punto di vista.
Fatto
sta che ora lei era là, ancora appoggiata alle transenne, ancora intenta a
conversare con l’addetto alla sicurezza. Lui, invece, era immobile, semi
nascosto dalla penombra, continuando a guardarla con quella sensazione nel
petto – quel misto di preoccupazione e voglia di fare – che stava andando
ingigantendosi. Si lisciò la barba passandovi le mani un paio di volte, poi,
come sovrappensiero, prese ad arricciare una corta ciocca di capelli intorno
all’indice che, appena venne liberata, tornò liscia esattamente com’era prima. Infine
si sistemò la camicia, la sua camicia preferita che aveva indossato senza
neanche rendersi conto. Si era ritrovato vestito, con in dosso quel capo e il
suo subconscio che gli diceva che quella era la cosa giusta da indossare, che
se uno come lui, se Stefano, voleva ottenere qualcosa in una sola sera, non
avrebbe dovuto indossare nient’altro se non quella
camicia. Indipendentemente da come sarebbe andata a finire si impose di
registrare nella sua mente quante più immagini possibili della ragazza, nel
caso non l’avesse più vista. Alcune le aveva già immagazzinate in quel caos di
luci, colori e fotogrammi che era il suo cervello, come il modo in cui lei
impugnava la reflex, avvolgendosi la tracolla al polso anziché al collo, come
si alzava in punta di piedi per scattare alcune foto, o il modo in cui si
scostava i capelli quando voleva rivedere ciò che aveva appena scattato.
Comunque
sia non avrebbe combinato nulla stando immobile al centro del prato su cui si ergeva
il palco, soprattutto perché quello non era il suo posto. Si fece forza e
riprese a camminare, dirigendosi verso lo stage, verso Elisa.
*
Rientrando
nell’arena concerti tutto appariva desolato. Era passata l’una di notte ormai e
in giro erano rimaste poche persone, che sciamavano a piccoli gruppi dal prato
al bar e dal bar alle uscite. Sul prato davanti al palco centinaia di bicchieri
vuoti e bottigliette erano sparsi sull’erba, come i caduti di una lunga
battaglia. Sopra al palco, invece, gli unici rumori provenienti erano ora
quelli dei rodie che smontavano, spostavano e si davano indicazioni per
smantellare ciò che per tre settimane aveva fornito musica di qualità a volumi
altissimi. Stefano scrutò con gli occhi fra i pochi presenti, in cerca di
Elisa.
Si
erano lasciati al termine delle prime tre canzoni – su richiesta della band
stessa che non voleva avere fotografi oltre quei pochi pezzi. Avevano lasciato
insieme quel metro e mezzo di calpestabile, fra palco e pubblico in cui si
erano conosciuti, per l’ultima volta, rimanendo a parlare ancora un po’ fuori
dal backstage, le rispettive macchine fotografiche strette fra le mani. Alla
fine, però, il senso del dovere di Stefano aveva avuto la meglio e lui,
scusandosi, aveva detto alla ragazza di dover andare, raggiungere Giorgio e
immortalare le ultime ore di quella grande festa conclusiva. Era già convinto
che non avrebbe rivisto la ragazza tanto presto che lei aveva annuito con il
capo, dicendo semplicemente: «Beh, allora se mai ci vediamo dopo. Stasera mi
fermo fino alla chiusura.»
Rinvigorito
da quella frase, appena le persone erano calate in giro per la festa, Stefano
si era incamminato nuovamente verso l’arena e arrivato lì, davanti al
dispiacere che solo la fine di un concerto sapeva provocargli, si era messo a
cercare con gli occhi Elisa.
La
trovò seduta sul prato, le gambe incrociate, la schiena dritta, lo zaino rosso
posato accanto a sé. Se avesse tracciato una linea si sarebbe reso conto che la
ragazza era seduta esattamente in corrispondenza del centro del palco, immobile
come una bambola a fissare i roadie che si muovevano sotto i fari di luce
gialla.
La
raggiunse. Quando Elisa sollevò lo sguardo per identificarlo sorrise subito.
«Hai
fatto delle belle foto?» gli chiese.
«Qualcuna,
forse» rispose lui mentre si sedeva sull’erba alla destra di lei. Si tolse di
spalla lo zaino contenente la sua attrezzatura e distese le gambe.
Accanto
a lui la ragazza sospirò. «Mi dispiace che sia finito. Ogni anno non vedo l’ora
che inizi e poi,» indicò in direzione del palco, «è già tutto finito.»
«Vale
anche per me» rispose lui.
«Oltretutto
dopodomani devo anche riprendere con il tirocinio» sbuffò. «Mi mancano due
settimane ma non ho più voglia di andare là ogni giorno.»
«Quando
hai finito cosa pensi di fare?»
La
domanda gli uscì prima che potesse pensarci. Il suo subconscio aveva agito
nuovamente da solo. Gli era chiaro che il quesito fosse direttamente collegato
alla speranza di incontrare di nuovo Elisa in qualche modo, in qualche posto.
La vide stringersi nelle spalle.
«Non
so di preciso. Immagino che ricomincerò a cercarmi un lavoro. Uno vero, con lo
stipendio, non un tirocinio che fa curriculum» marcò le ultime parole con una
nota di stizza.
«Cercherai
come fotografa?»
Non
era sicuro di sapere in che direzione stava portando la conversazione. Attese
la risposta della ragazza quasi contando i secondi.
«Può
darsi» disse lei, con tono pensieroso. Si bloccò, voltandosi a guardare Stefano
attentamente. Lui si sentì colto in flagrante, sollevò le sopracciglia e
rispose allo sguardo di Elisa.
«Cos’è,
tu e Giorgio avete bisogno di un tirocinante?»
La
sua domanda traboccava di quella sottile vena sarcastica che lui, in pochi giorni,
aveva imparato a riconoscere e ad apprezzare ogni volta che usciva dalle sue
labbra. Si mise a ridere e subito dopo lo fece anche lei.
«Non
intendevo questo» si corresse lui. «È solo che sei molto brava a fare
fotografie e secondo me dovresti farlo di mestiere.»
Lo
pensava davvero.
Lei
sorrise. «Beh, se mai ci penso su. Detto da te è un bel complimento.»
«Non
esagerare.»
«No,
non esagero. Insomma, vogliamo parlare delle foto che hai fatto ai Two Door Cinema Club? Spettacolari, davvero. E anche
Giorgio non è da meno. Ci credo che la vostra attività sta andando a gonfie
vele.»
Le
parole di Elisa scatenarono in lui una sensazione frizzante. Una lattina ben
agitata era appena stata aperta in un punto imprecisato dentro di sé. La ringraziò
per il complimento e la naturalezza con cui lei gli disse che era convinta
fosse la verità rese tutto ancora più semplice. Cominciarono a parlare dei
giorni trascorsi in festa, delle persone che avevano incrociato, delle band
fotografate in quello stretto metro e mezzo al di sotto del palco. Per la prima
volta riuscirono a conversare senza doversi urlare reciprocamente nelle
orecchie, senza dover ripetere le cose più volte, senza che fossero gli sguardi
a doversi far capire più delle parole. Davanti a loro il palco si svuotava
lentamente, i roadie continuavano a fare avanti e indietro e le poche persone ancora
presenti divennero sempre meno. I due rimasero seduti sul prato a chiacchierare
ancora, salutando gli addetti alla sicurezza che se ne andavano per il cambio
di turno, sdraiandosi e rimettendosi a sedere, mentre le luci intorno a loro
venivano abbassate o spente.
Le
ore trascorsero in fila, una dietro l’altra. Il ragazzo le sentiva scorrere via
con una fretta innaturale, come se fossero in fuga dal tempo. Era consapevole
che avrebbe fatto meglio ad andare, che doveva lavorare per il mattino,
sistemare le foto che aveva scattato in quell’ultima sera e pubblicarle in
fretta sulle pagine Facebook della festa.
Non
ci riuscì. Prima di allontanarsi da Elisa voleva avere la certezza che quello
non sarebbe stato il loro ultimo incontro, che avrebbe potuto rivederla da
qualche parte, in qualche posto. In fondo vivevano vicini. Solo, lui in città e
lei in provincia. Forse era proprio quello a impedirgli di alzarsi e salutarla.
Il dubbio, in quel momento, era più forte del senso del dovere.
Sopra
di loro il passaggio del tempo veniva scandito dal chiarore del cielo, che in
quel finire di agosto cominciava a farsi timidamente largo ancora troppo
presto. Quando il blu scuro della notte cominciò a sfaldarsi sulle loro teste,
quando le ore trascorse uno accanto all’altra divennero palesi, quasi palpabili,
le parole da dirsi vennero meno. Si fecero più rade, calarono ulteriormente e
alla fine, i due, si zittirono dopo un’intera notte di frasi.
Fu
allora che accadde. Accadde che nel silenzio sospeso che si era formato fra loro,
mentre si guardavano senza parlare, si avvicinarono fino a baciarsi. Lo fecero
insieme, senza che nessuno dei due si sporgesse per primo. Tuttavia in entrambi
si istillò fin da subito la preoccupazione di essere respinti ed entrambi si
concentrarono per assaporare il primo momento, quello che anticipa tutto,
l’antipasto.
In
quel lunghissimo primo momento Elisa si ritrovò curiosamente a ringraziare di
non aver fatto mettere le cipolle nel kebab che aveva mangiato a cena, di non
aver bevuto troppa birra e di aver masticato così tante chewingum
da essere certa di poter avere l’alito profumato di menta per giorni. Stefano
aveva ancora addosso il leggero profumo di pulito della sua camicia, che in
quelle ore si era mescolato all’odore della sera e a quello delle sigarette
fumate da altri. La sua bocca sapeva di liquirizia e la cosa era per lei insolitamente
piacevole. Non aveva mai baciato un ragazzo con la barba; uno con un accenno di
barba, quella di due, tre giorni sì, ma non uno che avesse una bella barba come
quella di Stefano. Era morbida e le solleticava il mento e le guance. Nella
posizione in cui si trovavano fu lui il primo a spostarsi perché fossero più
comodi. Torse il busto, puntellandosi sull’erba con la mano sinistra. Anche
nella sua mente si accavallavano le sfumature di lei, come la leggera nota
d’arancia nascosta fra la menta che aveva sulle labbra, o il profumo dei suoi
capelli, sempre il solito e sempre buonissimo. Fece scorrere la mano destra
fino alla nuca di Elisa, cominciando ad avvolgersi intorno alle dita i suoi
capelli, accarezzandole la testa mentre intrecciava alla mano lunghe ciocche
morbide. Elisa venne scossa dai brividi a quel gesto, li sentì scivolare lungo
la schiena, ricongiungendosi a quelli provocati dal contatto delle sue labbra
con quelle di Stefano. Decise di muovere il proprio braccio destro, rimasto
sollevato a mezz’aria da prima. Con la mano raggiunse il mento del ragazzo, affondò
le dita nella sua barba fino a sentirne la pelle e lì cominciò a disegnare
piccoli cerchi leggeri. Stefano ebbe un fremito; assurdamente immaginò che
dovesse sentirsi così il suo cane quando lui lo grattava dietro l’orecchio e
nei suoi occhi si leggeva perfettamente quel piacere e quella speranza che non
finisse mai.
Nessuno
dei due sapeva dire da quanto era iniziato quel bacio, ma una volta superato il
primo momento, superata la paura di vedersi respingere, fecero in modo di farlo
durare il più a lungo possibile.
Quando
si separarono lei sorrise, dolcemente, come a dirgli di non preoccuparsi, che,
sì, era accaduto e che andava benissimo così. Lui avrebbe voluto fotografarlo
quel sorriso, imbrigliarlo a sé, registrarlo così da poterlo conservare per
sempre, anche se una loro ipotetica storia fosse finita per il verso sbagliato.
«Che
ore sono?» chiese Elisa, alzando gli occhi sul cielo tenue. Attese paziente il
breve istante in cui Stefano si riprese dal leggero stupore per la domanda
inattesa.
«Le
sei meno dieci» fu la risposta.
Lei
arricciò le labbra, guardò il ragazzo e domandò: «Ti va di andare a fare
colazione? Ho troppa fame.»
Lui
sorrise divertito da quella domanda così naturale, resa ancora più speciale per
via del momento in cui venne pronunciata. Acconsentì e i due si alzarono,
diretti verso l’uscita del festival, insieme. Stefano sapeva perfettamente che
aveva altro da fare, che doveva sistemare le foto per quella stessa mattina e
che Giorgio lo aveva cercato più volte quella notte, facendo vibrare il suo
cellulare anche nei momenti meno opportuni. Ma Gio
avrebbe capito, lo sapeva; glielo avrebbe spiegato appena avuta l’occasione,
appena Elisa sarebbe stata distratta da qualcosa o momentaneamente assente.
Avrebbe detto tutto a Gio, lo avrebbe fatto, così
come sapeva che lui sarebbe stato contento e che lo avrebbe perdonato, dopotutto.
In fin dei conti era quella l’amicizia e, non a caso, Giorgio era il suo
migliore amico.
Nelle
case dei fuori sede c’è sempre un orologio fermo.
Camilla, studentessa
universitaria pendolare, è piuttosto sicura che il mondo ce l’abbia con lei
quando, a conclusione di una serata in compagnia, scopre che l’ultimo treno a
sua disposizione è stato cancellato. In preda alla rabbia e vittima di un
acquazzone appena scoppiato, incontrerà
per caso Andrea, suo compagno di corso per cui ha sempre provato una sospetta
attrazione.
– Sei e tre quarti. Ora
esatta –
Nelle
case dei fuori sede c’è sempre un orologio fermo. Sono entrata in quattro
diverse case di studenti fuori sede e in ciascuna di esse vi ho trovato un
orologio fermo. Anche qui. In casa di Andrea l’orologio della cucina segna le
sei e tre quarti, e so per certo che si sbaglia: devono essere almeno le undici
passate. Andrea mi ha lasciata sola nella cucina dicendomi di aspettarlo qui
mentre va a prendermi qualcosa perché mi possa asciugare. Sono fradicia,
bagnata dalla testa ai piedi, e tutto ciò non sarebbe successo se il mio ultimo
treno possibile per tornare a casa non fosse stato cancellato. Sono arrivata in
stazione al termine del – lungo – aperitivo con i miei amici solo per scoprire
che il treno delle 22:45 non sarebbe mai passato. Le alternative che mi
rimanevano erano due soltanto: aspettare in stazione il treno successivo,
ovvero quello delle 04:40, oppure incamminarmi verso casa di uno dei miei
compagni di corso fuori sede e chiedere asilo per la notte. Come ho messo piede
fuori dalla stazione, però, il cielo cupo che era calato sulla città si è
scatenato e ha cominciato a piovere. È stato proprio mentre ero ormai convinta
che il mondo ce l’avesse con me che, innervosita, infreddolita e bagnata, ho
incontrato Andrea. “Camilla, che fai in giro così?” mi ha chiesto.Gli ho raccontato tutto e lui ha insistito
affinché lo seguissi a casa – dove stava andando – e che mi fermassi per la
notte, così da asciugarmi, riscaldarmi e riposare.
Sono ancora intenta a osservare l’orario
immobile quando Andrea torna in cucina: «Ti ho portato un asciugamano,
intanto.»
Mi tende l’asciugamano e io lo ringrazio,
cominciando a tamponare i capelli bagnati.«Vieni con me, ti do qualche vestito asciutto.»
Lo seguo lungo il corridoio per il breve
tratto che distanzia la cucina – vicina all’ingresso – dalla sua camera, la
prima porta sulla destra. Come entro anche io Andrea si toglie il pullover,
sollevando anche un po’ della maglietta che porta sotto di esso. Guardo di
sfuggita quei centimetri di pelle, la linea della schiena, per poi sollevare
gli occhi quando riprende a parlare:
«Puoi mettere questi, sono usciti dalla
lavatrice questa mattina.»
Da una pila di vestiti solleva un paio di
capi e me li allunga. Li afferro: «Non ci sono i tuoi coinquilini?», chiedo.
Pare rimanere sorpreso dalla domanda: «No. I
week end tornano entrambi a casa. Rimango sempre solo.»
Annuisco, dopodiché sollevo appena i vestiti
che mi ha dato per fargli capire che mi riferisco a questi: «Ti ringrazio. Sei
stato davvero gentile, mi hai salvata.»
«Ci mancherebbe. Non potevo certo lasciarti
sotto la pioggia, che amico sarei stato?», sorride e gli rispondo allo stesso
modo. Mi indica dove si trova il bagno, informandomi anche di avermi lasciato
in vista il phon.
«Fai con comodo», conclude.
Mi chiudo la porta del bagno alle spalle e
subito mi sfilo gli abiti bagnati, lasciandoli sul bordo della vasca da bagno.
In casa di Andrea c’è un tepore meraviglioso e nonostante sia poco fuori dalla
città c’è calma; si sente solo la pioggia che scende e che probabilmente
continuerà così per tutta la notte. Mi fa uno strano effetto essere qui, in
casa di Andrea di sera. Anche se siamo in corso insieme da quattro anni, anche
se ci possiamo definire amici, ho sempre provato un’attrazione per lui,
nell’ultimo periodo addirittura più intensa del solito. È una persona come non
ne avevo mai conosciute prima: acculturato, interessato e al tempo stesso alla
mano. Ha conoscenze approfondite in arte e musica quanto in storia e
letteratura e ascoltarlo mentre racconta di personaggi storici o musicisti per
me è qualcosa di davvero piacevole. Ho sempre adorato ascoltarlo fin dalle
prime volte; mi piace rimanere a guardarlo mentre parla, tormentandosi la barba
corta e scura, quando i suoi occhi e il suo sorriso si distendono e lui pare
chiaramente rilassato. Mi si stringe appena lo stomaco ripensando a ieri, a
quando Andrea si è messo a recitare un breve sonetto in risposta a
un’osservazione del nostro professore. Io, che ero praticamente di fronte a
lui, sono rimasta ad ascoltarlo come sempre e quando i nostri sguardi si sono
incrociati ha continuato a guardarmi come se stesse parlando esclusivamente a
me, come se fossimo stati solo noi due. A pensarci bene non credo di aver mai
avuto a che fare con qualcuno in grado di affascinarmi quanto lui, qualcuno con
cui vorrei parlare solo per il piacere di ascoltare sia il suono della sua voce
sia ciò che ha da dire, con la consapevolezza che sarebbe certamente qualcosa
di interessante. Improvvisamente l’idea di essere in casa di Andrea, sola con
lui, non mi fa più solo uno strano effetto, quasi mi rende felice; così come il
fatto che il mio treno sia stato cancellato e i miei vestiti inzuppati d’acqua
mi infastidisce meno.
Termino di asciugarmi i capelli, anche se
rimangono leggermente umidi sulle punte, dopodiché spiego i vestiti che mi sono
stati dati e comincio a infilarli. È incredibile come gli abiti siano
caratterizzati dall’odore che la persona che è solita indossarli ha. I vestiti
di Andrea hanno il suo profumo, fresco ma delicato al tempo stesso.
Torno dal ragazzo, ancora nella sua stanza:
«Ho fatto», dico appena entro.
Si volta verso di me, come mi vede sorride:
«Come vanno i vestiti?»
Alzo le spalle: «Leggermente larghi. Ma per
il resto sono perfetti» rispondo, facendogli notare i risvolti fatti alle
maniche del maglioncino. «I miei vestiti bagnati li ho lasciati nella vasca da
bagno. Non sapevo dove metterli.»
«Hai fatto bene. Vado a stenderli, così si
asciugano per domani. Torno subito.»
Mi supera ed esce dalla stanza, lasciandomi
sola. Mi siedo quasi subito sul bordo del letto – addossato a una parete e che
si trova proprio di fronte a una porta a vetri che dà su un piccolo terrazzino
– e mi guardo intorno. La sua camera da letto lo rispecchia molto, come
comprensibile. Su una stretta libreria ci sono una quantità di libri di varia
natura, romanzi, saggi, volumi di storia. Noto le dispense dell’università, un
po’ di disordine qua e là, il computer in standby sulla scrivania. Nell’insieme
non è niente male, questa stanza possiede una propria personalità.
Andrea torna. Si affaccia alla porta,
rimanendo per metà sul corridoio. Mi cerca per un breve momento con gli occhi,
trovandomi infine seduta sul suo letto.
«Mi piace la tua stanza.» gli faccio sapere
prima che possa dire qualsiasi cosa. Sorride:
«Buono a sapersi. C’è un po’ di disordine,
però.»
Alzo le spalle: «Non mi infastidisce.»
Si passa una mano sul collo, entrando
finalmente nella stanza: «Vuoi che ti prepari qualcosa di caldo? O preferisci
dormire?»
Mi spiazza leggermente. In verità non ho
sonno. Non so se è colpa della doccia fredda che ho fatto prima di arrivare
qui, o se è per via del fatto che mi sono resa conto di avere veramente voglia
di parlare con lui, ma proprio dormire è l’ultimo dei miei interessi.
«Ti dirò, nessuna delle due cose. Non ho
molto sonno e neanche voglia di qualcosa di caldo.» rispondo. Andrea solleva le
sopracciglia, infine sorride: «Ho della birra.»
«Questa è già meglio.»
Ride: «Aspetta qui.»
Scompare di nuovo. Sento il frigorifero
aprirsi e poi rumori di vetro. Il ragazzo ricompare in fretta, tendendomi una
delle bottiglie di birra che ha in mano. Si siede accanto a me, appoggiando la
schiena al muro e io lo imito, mettendomi a sedere più comodamente. Avvicino la
mia birra alla sua: «Ti devo un enorme favore.», lo informo. Batte il collo della sua bottiglia con
quello della mia, guardandomi: «Ti ho già detto di non preoccuparti. Una volta
ogni tanto non è male avere un ospite in casa.»
«Non ne avevi da un po’?» chiedo dopo aver
bevuto il primo sorso.
Scuote la testa: «No. Ultimamente passo i
week end solo. Infatti stasera sono uscito così da poter fare qualcosa.»
Beve dalla bottiglia, poi guarda verso il
computer: «Ti va se metto della musica?»
«Molto volentieri.»
Si alza dal letto e raggiunge il computer,
che pare risvegliarsi dal letargo appena Andrea lo tocca. Il ragazzo apre una
serie di cartelle: «Hai delle richieste in particolare?» mi chiede. Guardo
fuori dalla porta finestra che ho davanti, pensando alla sua domanda. Piove
ancora e le luci della città, che si propagano in lontananza, sono qualcosa di
suggestivo. Considerando che dev’essere quasi mezzanotte l’unica musica che
avrei voglia di ascoltare adesso deve essere rilassante; perché è così che mi
sento io ora: rilassata.
«Non saprei. Qualcosa di tranquillo, su cui
si possa chiacchierare.» rispondo.
Andrea, ancora di spalle, annuisce con la
testa: «Che ne dici di un po’ di jazz?»
Abbiamo parlato in più occasioni di musica
noi due. Quando lui ha scoperto che ho cominciato ad avere un vero e proprio
debole per l’atmosfera che la musica jazz e soul sono in grado di creare, mi ha
subito confessato di essere lui stesso amante del genere e di ascoltare artisti
del calibro di Louis Armstrong, John Coltrane e Miles Davis.
«Direi che è proprio il genere che ci vuole
ora.»
«Ho gli album di Ella e Louis.»
«Vai con il play. Non potrei chiedere di
meglio.» dico, sollevando la mia birra.
Fa partire la musica e torna a sedersi
accanto a me. Bastano pochi secondi della prima traccia perché io mi senta
incredibilmente bene. Sono a sedere accanto ad Andrea, una birra in mano e due
grandi artisti della musica jazz a cantare per noi. Davanti ai nostri occhi la
città bagnata dalla pioggia, le cui luci dei lampioni la fanno brillare come un
gioiello. Noto l’interruttore della luce alla mia sinistra e senza pensarci due
volte la spengo. Andrea mi guarda.
«Così possiamo rilassarci.» gli dico.
Sorride e beve dalla sua bottiglia: «Allora,
dove siete andati di bello prima che il tuo treno venisse cancellato?» mi
chiede, per nulla punzecchiandomi.
Gli racconto della serata, dell’aperitivo
improvvisato al termine della lezione a cui lui non aveva preso parte e che si
è poi protratto un po’ troppo a lungo, finendo con l’essere la causa della mia
presenza in questa stanza. Di tutta risposta mi racconta della sua serata,
trascorsa per un paio di ore in uno dei tanti localini della città, a parlare
con un amico ascoltando il concerto in acustico di un altro loro conoscente. Da
qui la nostra conversazione si spiana con tranquillità. Iniziamo a parlare di
musica, di amici che fanno musica, di amici in generale. Ridiamo mano a mano
che gli aneddoti si fanno più assurdi ma comunque veri, finendo la birra praticamente
insieme. Non ho idea di che ore si siano fatte, ma non mi importa. Mi sento a
mio agio accanto ad Andrea e l’atmosfera che si è creata grazie alla musica,
alla penombra, alla birra e al ragazzo mi rilassa completamente. Sento che
potrei stare qui fino all’alba.
Andrea si solleva gli occhiali da vista sopra
la testa, passandosi una mano sul viso mentre sorride, intento a terminare di
parlarmi dell’ultima cosa tanto comica quanto assurda che gli è capitata nei
giorni precedenti. Rimango ad ascoltarlo guardandolo, mentre si ricompone e
termina di raccontarmi tutto, scoppiando a ridere insieme a me sul finire
dell’ultima frase. Aspetta che mi ricomponga, cosa che, fra un’esclamazione di
incredulità e l’altra, mi richiede più tempo del previsto. Mi guarda sorridendo
finché non ho completamente smesso di ridere, gli occhi marroni che paiono
ancora più scuri nella penombra della camera. Poi all’improvviso si fa serio
continuando ugualmente a guardarmi e io non so più cosa fare o cosa dire. E
come tutte quelle volte che non so che fare, anche se le conseguenze non sempre
sono le migliori, mi lascio andare. Probabilmente
trascinata dall’atmosfera mi lascio guidare dal mio corpo e senza troppe
esitazioni mi avvicino ad Andrea fino a baciarlo. Appena la mia bocca arriva a
contatto con la sua lo sento inspirare, per poi ricambiare il mio bacio con
sicurezza sempre maggiore. Stringe il corpo al mio, almeno quel tanto che la
posizione cha abbiamo – seduti uno accanto all’altra sul letto – gli permette,
fa scorrere la mano destra fino al mio collo, schiudendo le labbra. Il suo
profumo, lo stesso che sale leggero anche dai vestiti che indosso, mi avvolge,
sulla sua bocca c’è il sapore di birra che certamente si trova anche sulla mia.
Perdo la cognizione del tempo, il conto dei respiri che si sovrappongono,
completamente presa dal bacio che io e Andrea ci stiamo scambiando, tanto dolce
quanto perfetto, desiderando fra me e me che non finisca mai.
Però, come comprensibile, finisce. Andrea si
separa con lentezza, allontana la mano dal mio corpo, fa scivolare un momento
gli occhi sulle mie labbra e abbozza un sorriso. Sorrido anche io, soddisfatta
dell’esito che la mia impulsività di pochi minuti fa ha avuto. Andrea non mi ha
respinta e ciò significa che, in un modo o nell’altro, ricambia il mio
interesse. Tuttavia ora non so cosa dire. Come altre volte in cui un bacio si è
appena concluso non so cosa fare. Il ragazzo continua a guardarmi, cominciando
a muovere leggermente la testa a seguire il ritmo della canzone che Ella e Louis
hanno iniziato da poco a cantare e che è anche una delle mie preferite in
assoluto.
«Stars
fading but I linger on, dear…»
Riconosco le parole e mi unisco al suo canto,
tornando a rivolgere lo sguardo fuori dalla porta finestra e posando la testa
sulla spalla di Andrea, che mi accoglie con dolcezza senza smettere di
canticchiare, esattamente come me.
*
Apro
gli occhi dopo essere stata leggermente scossa. Davanti a me la città è ancora
avvolta nel buio, con la pioggia che continua a scendere lieve. Mi ricordo che
sono a casa di Andrea. Sollevo lo sguardo rendendomi conto di avere ancora la
testa appoggiata sulla sua spalla. Sospetto fortemente di essermi addormentata,
probabilmente per merito della musica, o della birra, o dell’insieme delle
cose. Mi allontano dal ragazzo che si volta a guardarmi: «Non volevo
svegliarti, scusa. Mi sono mosso troppo» dice.
La musica non risuona più, non ho
idea di quanto sia passato dal momento in cui mi sono addormentata.
«Che ore sono?» domando.
Controlla l’orario sul telefonino:
«Le sette meno un quarto.»
Mi passo una mano fra i capelli,
pensando che l’orologio della cucina di questa casa almeno in questo momento
segna l’ora esatta. Provo a pensare a quante ore possano essere passate, ma è
difficile trarre delle conclusioni. Finisco anche con il chiedermi se davvero è
successo tutto veramente, se sul serio io sia riuscita a baciare Andrea. Lui,
al mio fianco, è talmente tranquillo da lasciarmi supporre che mi sia sognata
tutto quanto: a volte i sogni hanno un aspetto talmente reale. Mi alzo in
piedi, stirandomi per bene. Il ragazzo mi guarda, in attesa.
«Stavo pensando che potrei andare.
Ho un treno intorno alle 07:30. Almeno sarei a casa sufficientemente presto da
non dover disdire gli impegni che avevo in programma questa mattina» dico. Si
alza anche lui: «Sì, ok. Allora vado a vedere se i tuoi vestiti si sono
asciugati, altrimenti tieni i miei» esce dalla stanza, lasciandomi sola nella
sua camera ancora immersa nel buio. Accendo la luce, sempre più convinta di aver
sognato tutto. Con molta probabilità sono crollata parecchio prima di quanto mi
sia immaginata.
Andrea rientra nella stanza con i
miei pantaloni in mano: «Paradossalmente si sono asciugati solo questi» dice,
tendendomeli. «Vorrà dire che ti lascerò maglia e maglioncino» conclude con un
sorriso.
«Te li farò riavere, promesso»
scherzo.
«Lo spero per te. Anche perché so
dove vai a scuola» risponde, con lo stesso tono.
Vado a cambiarmi per poi
ricongiungermi con il ragazzo nella cucina di casa sua, la più vicina alla
porta d’ingresso, in cui ho abbandonato le cose ieri sera appena arrivata qui e
dove l’orologio segna nuovamente l’ora sbagliata. Mi vesto, sentendo lo sguardo
di Andrea addosso.
«Ti ringrazio ancora per
l’ospitalità» dico appena termino di infilarmi la giacca.
«Non ringraziarmi. Sono abbastanza
sicuro che avresti fatto lo stesso» replica.
«Senz’altro. Ma ci tengo a
ringraziarti, ecco tutto.»
Si limita a sorridermi e io mi avvio
verso la porta d’ingresso, aprendola. Mi volto verso di lui per salutarlo,
incuriosita e in attesa di quella che potrebbe essere la sua prossima mossa.
Lui non pare essere interessato a fermarmi o ad aggiungere qualcosa, finché non
abbasso un momento la testa.
«Camilla, senti.»
Alzo
gli occhi su di lui, tuttavia non incontro i suoi. Si sta guardando intorno, ma
dopo essersi stretto nelle spalle torna a rivolgersi a me: «Per quello che è
successo stanotte?»
La mia bocca si fa improvvisamente
asciutta e il pensiero di non essermi sognata assolutamente nulla si presenta
intenso nella mia testa.
«Cioè?» domando, per nulla convinta.
Pare sorprendersi dalla mia
reazione: «Ci… ci siamo baciati» risponde, dopo aver allontanato lo sguardo per
un solo momento. Un sorriso si appropria forzatamente del mio volto. Mi chiudo
la porta d’ingresso alle spalle, avvicinandomi così di un passo ad Andrea, che
pare attendere la mia risposta preoccupato.
«Beh, per me è abbastanza chiaro»
inizio. «Io… a me piacerebbe molto se potessimo cominciare a uscire insieme,
magari per…»
«Per vedere se può funzionare»
conclude lui. Lo guardo, sorridendo: «Esatto.»
Si tocca la barba con la mano
sinistra, annuendo leggermente con il capo: «Piacerebbe anche a me.»
Ci scambiamo semplicemente uno
sguardo, senza aggiungere altro. È fatta. Ciò che è accaduto questa notte, in
quell’atmosfera da film, è avvenuto veramente e le conseguenze non possono che
rendermi ulteriormente felice. Andrea riprende parola: «Possiamo parlarne
meglio, comunque. Non vorrei che perdessi il treno ora.»
Mi riporta alla realtà con questa
frase. Non ho voglia di tornare a casa adesso che so che anche lui vuole ciò
che voglio io. Mi piacerebbe chiedergli di rimettere un po’ della sua musica
jazz e tornare con me a sedersi sul letto in attesa dell’alba – che oggi
sicuramente non si vedrà per via del tempo. Tuttavia il mio senso del dovere mi
ricorda che ho degli impegni questa mattina e che se non voglio fare tardi o,
peggio, non rispettarli mi conviene uscire da questa casa in fretta.
Sospiro: «Hai ragione. È meglio che
vada. Però riparliamone di questo, d’accordo?»
Lui sorride: «Senz’altro.»
Apro nuovamente la porta d’ingresso
e mi volto verso il ragazzo un’ultima volta. Sollevo la mano per salutarlo e
lui, di tutta risposta, si avvicina per darmi un leggero bacio sulla bocca: «Ci
sentiamo», dice. Annuisco con la testa e lo saluto, stavolta uscendo
definitivamente dal suo appartamento.
Scendo le scale ed esco nella città
che via via si anima sempre più. Mi sento incredibilmente leggera, come se
nulla potesse andare storto in questa giornata, nata da una notte come non
avrei mai pensato di viverne.
Curt ha ventisei anni ed è la copia
perfetta di Buster Keaton, come una reincarnazione
moderna. Anche se lui stesso ha dovuto ammettere di assomigliargli non ha mai
indagato ulteriormente il personaggio. Appassionato di computer e cibernetica
per lui il cinema muto è superato e senza interesse e Buster
Keaton solo un divo dei tempi andati.
Per Shannon, invece, non è assolutamente
così, lei che nel 2015 ancora si perde nello sguardo di Keaton.
Sarà suo compito convincere Curt a
“dare” una possibilità a Buster, così che lui possa
finalmente accorgersi della magia custodita dal cinema in bianco e nero e da
quell’uomo, da cui Curt sembra essere stato riprodotto.
–
Keaton –
I
rumori erano quelli delle posate che si toccano, che colpiscono la porcellana,
che vengono abbandonate sul tavolo. Seduti uno di fronte all’altra, quasi al
centro della piccola tavola calda, Shannon e Curt stavano conversando, come il
resto dei presenti. Lei rigirava distrattamente le verdure grigliate, uniche
superstiti del suo filetto di pollo; lui continuava a piluccare, una foglia
alla volta, l’insalatone che ancora gli riempiva il
piatto per metà. Curt ingoiò il boccone che stava masticando, senza smettere di
scuotere la testa: «Non capisco perché ti ostini a insistere tanto» disse,
abbandonando la forchetta che vibrò di quel suono che si sentiva spesso nella
stanza in cui erano.
La
ragazza non si scompose; il suo sorriso si allargò di un altro po’ prima di
rispondere: «Potrei dirti la stessa cosa»
«No.
Questo no» la corresse. «Sei sempre tu a tirare fuori l’argomento ogni volta
che puoi»
«Perché
voglio provare a capire per quale motivo ti rifiuti di vedere almeno uno di
quei film»
Curt
riprese in mano la forchetta, ricominciando a punzecchiare le foglie di
lattuga: «Te l’ho detto, non fa per me. Non è il mio genere enon mi appassiona. Anzi, non mi incuriosisce
nemmeno»
«Ecco,
è questo che non capisco»
«Oh,
andiamo, Shannon. Viviamo nell’era digitale, gli anni dei computer. Ora sono in
grado di girare film come Avatar,
Jurassic World, o Interstellar. Per
quale motivo dovrei andare a guardare un film in cui la tecnologia massima era
la pellicola al nitrato?»
Lei
non replicò subito, si lasciò semplicemente sfuggire un nuovo sorriso. Ancora
una volta lei e Curt erano uno di fronte all’altra, a esporre reciprocamente le
proprie perplessità su ciò che rendeva il mondo dell’altro unico. Da una parte
Shannon che passava ore a sognare a occhi aperti, che continuamente
fantasticava su cose che sapeva irrealizzabili; così tanto con la testa fra le
nuvole che aveva imparato a tenere i piedi saldamente a terra per evitare di
soffrire delle illusioni che lei stessa si creava. Dall’altra Curt, per cui ieri non esisteva e tutto era solo
davanti, nel domani. Lui che era
consapevole che il mondo andava vissuto razionalmente e che se una cosa non si
poteva spiegare era solo dovuto al fatto che non era stata ancora studiata
nella maniera migliore. Due figure esattamente
opposte l’una all’atra, ma proprio per questo tanto interessati a chi avevano
di fronte. Lui era profondamente affascinato da lei, dalla sua visione del
mondo, dalla capacità di trovare la bellezza anche nelle cose più
insignificanti. Lei, invece, si era sempre trovata a suo agio con Curt, a tal
punto da arrivare a invidiare la sua logica razionale, lui che non aveva
bisogno di sognare a occhi aperti per essere felice, che non aveva bisogno di
aggrapparsi alla fantasia per poter apprezzare le cose.
Shannon
rimase a guardarlo per un lungo momento, come a cercare l’esitazione, anche
minima, negli occhi di lui. Ma non riuscì a trovarla, perché Curt era
totalmente sicuro di quello che aveva detto, dannatamente certo delle sue
convinzioni. Eppure per Shannon sembrava impossibile che il ragazzo che aveva
davanti non potesse essere interessato, neanche in piccola parte, a tutta
quella produzione cinematografica che aveva fatto la storia. Lui che agli occhi
di chiunque – e anche per sua stessa ammissione, una volta – era la copia
perfetta di Buster Keaton, come un gemello separato
alla nascita, ma dal tempo. Davvero non si capacitava di come fosse possibile
che, in simili circostanze, lui non avesse mai desiderato andare a indagare una
figura a cui sembrava misteriosamente legato, di andare a scoprire quel suo
“gemello” attraverso i film che lo avevano reso celebre. Ma per Curt non aveva
mai avuto importanza, aveva sempre liquidato la faccenda dicendo che la loro
era “solo una somiglianza” e che poteva benissimo succedere. Ma era una
somiglianza che aveva dell’incredibile e Shannon sapeva perfettamente che erano
stati gli occhi di Curt – così uguali a quelli di Keaton, in cui lei si perdeva
ancora e ancora ogni volta che guardava i suoi film – ad attirarla da lui la
prima volta che si sono incontrati, anche se poi, con il passare dei giorni,
lei era rimasta affascinata dalla personalità del ragazzo che aveva davanti,
così reale da sposarsi perfettamente alle sue fantasie.
«Cosa
posso fare per farti cambiare idea?» chiese infine la ragazza, lasciando cadere
la forchetta nel piatto, disinteressandosi totalmente delle verdure che ancora
le rimanevano da finire.
«Direi
niente. Sai come la penso»
Lei
sbuffò: «Sì, lo so, ma per me non ha senso. Voglio dire, fra ottant’anni
saranno superati anche film come Avatar e Interstellar, allora cosa farai? Non li considererai più dei
capolavori? Li etichetterai come “privi di interesse”?»
«Sì»
Shannon
aprì bocca per parlare, ma non le riuscì di dire nulla. Fu Curt a riprendere
parola: «Fra ottant’anni ci saranno tecnologie nuove e inimmaginabili e quelle
di Avatar saranno superate. Ogni cosa
lascia il tempo che trova. È così da sempre»
La
ragazza non replicò, rimase a guardare lui che masticava vittorioso.
«E,
invece, io cosa posso fare perché tu la smetta di insistere con questa cosa
ogni volta che ne hai la possibilità?» chiese lui, dopo aver deglutito.
Lei
sollevò un sopracciglio: «Davvero lo vuoi sapere?»
«Potrei
pentirmene?»
«Per
me no»
Lui
la guardò, serio, facendo scorrere gli occhi sugli ondulati capelli nocciola
che, come una cascata, scendevano morbidi sulle spalle di Shannon.
«Sentiamo»
disse infine.
«Un
film. Se vuoi che smetta di ammorbarti con il cinema muto dovrai guardare uno
dei film che lo hanno reso celebre» rispose lei, sollevando l’indice.
Curt
si fece sfuggire un lungo sospiro: «Non è uno scambio equo»
«Come
no? Accetti di guardare un film muto e io, in cambio, non insisterò più
affinché tu lo faccia»
«Per
questo non è equo. Sarebbe semplicemente una vittoria per te»
«Perciò
non ci stai?»
Lui
ci pensò: «Cambiamo le condizioni. Io faccio una cosa che non mi va di fare e
tu fai altrettanto»
«Sarebbe?»
«Io
guarderò uno dei tuoi amati film muti, ma tu, in cambio, mi permetti di
mostrarti le potenzialità della cibernetica. Io faccio qualcosa che piace a te
e tu fai qualcosa che piace a me. Alla fine di tutto siamo pari»
Lei
sorrise: «Ma io non ci capisco niente di cibernetica»
«Appunto,
io te la posso spiegare. Ho già tenuto diverse lezioni private a dei ragazzini
delle scuole superiori. Il tuo quoziente intellettivo è almeno dieci volte
superiore, quindi capirai perfettamente»
Shannon
ci pensò un momento, ma non a lungo. Quando incontrò gli occhi di Curt si rese
conto che quella era l’occasione migliore – e l’unica – per far vedere al
ragazzo tutta la magia racchiusa nel cinema in bianco e nero e di farlo attraverso
il lavoro di un uomo che Curt non avrebbe mai potuto ignorare. «Ok, ci sto. Da
cosa vogliamo cominciare? Lezioni di cibernetica o film?»
Lui
non esitò: «Facciamo film. Così almeno mi levo subito il dente»
La ragazza rise: «Perfetto, allora. Mi organizzo
e troviamo un giorno, d’accordo?»
Curt
annuì, facendo semplicemente segno di sì con la testa. Shannon rimase a
guardarlo un momento, mentre lui portava i suoi occhi sul verde del suo piatto.
Alla fine la ragazza afferrò la forchetta e tornò a dedicarsi alle sue verdure.
Era convinta di aver vinto, incredibilmente sicura di essere riuscita nel suo
intento. Dentro di sé sentiva che Curt avrebbe finito con l’apprezzare il
cinema muto e, con esso, tutte le storie che attraverso le pellicole ha sempre narrato.
Per lei era l’occasione perfetta e il modo migliore per mostrare al ragazzo
quel mondo unico, senza il quale lei si sarebbe sentita tremendamente
incompleta. Sapeva già quale titolo sottoporgli, certa che lo avrebbe
affascinato nello stesso modo in cui aveva affascinato lei la prima volta che
lo aveva guardato.
*
Conosceva
la strada a memoria. Sapeva perfettamente che, appena entrata, doveva superare
il bancone dei prestiti a sinistra, proseguire lungo il corridoio che si
trovava davanti e poi infilarsi nuovamente a sinistra. Lì si trovava una
piccola stanza, proprio la piccola stanza in cui si stava dirigendo. Per
l’ennesima volta Shannon raggiunse quel posto dove, ordinati uno accanto
all’altro, stavano libri, saggi e dvd del primo cinema. Ricordava perfettamente
anche lo scaffale e la fila in cui il dvd che stava cercando si trovava. Non
cercò nemmeno la lettera. La sua mano destra scorse sicura sui dorsi delle
custodie dei film e ne estrasse uno senza esitazione. Era quello che cercava.
Il dvd che aveva tra le mani conteneva due dei suoi film preferiti, entrambi
perfetti per mostrare a qualcuno la bellezza di quel cinema di quasi cent’anni
fa, reso celebre e ancora apprezzato da artisti come Charlie Chaplin, Harold
Lloyd e il suo preferito: Buster Keaton. Proprio
quest’ultimo sembrava intento a guardare la ragazza dalla copertina del dvd,
perché proprio di quest’ultimo erano i film che più di tutti lei amava. Andava
sempre in quella stessa biblioteca; compiva il tragitto a memoria, arrivando nella
piccola stanza a sinistra e cercava il film di cui aveva più voglia. Ma il dvd
che aveva inmano era quello che
prendeva più spesso; lo aveva guardato così tante volte da averne perso il
conto, consapevole che se fosse stata una videocassetta l’avrebbe consumata
fino a smagnetizzarla. Rimase a guardare la foto della copertina, quel primo
piano di Buster Keaton e ripensò a Curt. Come poteva
essere possibile una tale somiglianza fra sue persone che non si sarebbero mai
potute incontrare? E come poteva Curt rimanere indifferente proprio di fronte a
tale somiglianza? Era la seconda domanda a confonderla maggiormente. Aveva
cercato di capire per quale motivo al ragazzo non era mai interessato niente di
quello che lui definiva “antiquato”. A lui non importava delle fotografie a
pellicola, delle auto d’epoca, dei dischi in vinile e dei film muti. Avrebbe
potuto capirlo da qualche altra persona, ma non da Curt, curioso per natura
come dimostrava il fatto che indagava le profondità dei computer e della
cibernetica per trovare spiegazioni. Ma forse era proprio dovuto a quello.
Forse il fatto che lui non si fosse mai soffermato a lungo sulla pazzesca
somiglianza che aveva con Buster Keaton era dovuto al
fatto che non avrebbe mai trovato una spiegazione degna di essere chiamata tale
e per questo motivo non aveva mai trovato la faccenda interessante. Tuttavia,
per Shannon, etichettare il cinema muto come “privo di interesse” quando non si
è mai guardata una sola opera che lo ha reso celebre era un grossolano errore,
una cosa che non si sarebbe mai aspettata da un ragazzo intelligente come Curt.
Avrebbe accettato qualunque giudizio sui film di Buster
Keaton una volta che lui ne avesse visto almeno uno, ma era certa che terminata
la proiezione le parole di Curt sarebbero state solo positive. Non a caso lei
era innamorata dei film di quegli anni e delle interpretazioni di quell’attore.
In quei film lei ancora trovava magia e spensieratezza, due cose che chiunque
spera di trovare nella vita, anche i più razionali. Shannon sollevò lo sguardo sul resto dei dvd
ancora sullo scaffale, immobili, come in attesa che la ragazza prendesse la sua
decisione. Lei rigirò fra le mani il film che teneva, indecisa. Si chiese se
era sufficiente quello che aveva già o se, magari, prenderne un altro. Forse a
Curt quello da lei scelto sarebbe piaciuto a tal punto di fargli venire voglia
di vederne un altro e poi un altro ancora. Tuttavia sapeva di sbagliarsi. Anche
se a Curt il film fosse piaciuto tanto da voler approfondire sia il cinema muto
che Buster Keaton, il ragazzo non gliel’avrebbe mai
data vinta tanto facilmente, non avrebbe mai ammesso di sperare di poter vedere
ancora un film. Inoltre quel dvd conteneva già tre film, era più che
sufficiente. Alla fine la ragazza si voltò, sistemandosi la borsa sulla spalla
e incamminandosi per compiere a ritroso la strada che le aveva permesso di
arrivare fin lì. A metà del corridoio, però, si fermò.
*
Sabato
pomeriggio Shannon e Curt si erano dati appuntamento alla solita tavola calda
dove pranzavano insieme tre giorni a settimana. Nella borsa che la ragazza
teneva a tracolla era custodito il film che, a breve, avrebbe sottoposto
all’amico, nella speranza di convincerlo a cambiare idea sul mondo del cinema
muto da lei tanto amato. Curt arrivò puntualissimo, alle tre spaccate. Si salutarono e subito Shannon si incamminò,
affiancata dal ragazzo: «Esattamente dove stiamo andando?» chiese lui dopo aver
regolato il passo a quello di Shannon. Lei si voltò a guardarlo, sorridendo: «Per
guardare un film muto per la prima volta ci vuole il posto giusto»
Curt
inarcò un sopracciglio: «Non hai intenzione di dirmelo, vero?»
La
ragazza si limitò a sorridere, annuendo. Proseguirono lungo il tragitto
chiacchierando di tutt’altro, Curt seguendo Shannon lungo vie che lo
confondevano, rendendolo incapace di capire dove esattamente la ragazza lo
stava trascinando. Poco più di dieci minuti dopo lei si fermò, voltandosi verso
di lui. «Eccoci»
Curt
sollevò lo sguardo sull’edificio. Si trattava di un cinema, uno di quelli
piccoli, dimenticati da tempo e surclassati dalle grandi multisale; un posto in
cui sempre meno spettatori entravano e che, con molta probabilità, avrebbe
potuto chiudere presto. Il ragazzo non ricordava quel luogo, forse non ci era
mai passato neanche accanto essedo cresciuto in un quartiere diverso da quello
di Shannon, ossia quello in cui si trovavano ora. Notando che lui non accennava
a dire niente, ma continuava a guardare la facciata dell’edificio – con quel
suo sguardo velatamente malinconico così uguale a quello di Buster
Keaton – Shannon prese parola: «Ho pensato che sarebbe stato bello farti vedere
il film in un cinema, uno di quelli che ancora mantiene l’atmosfera di tanti
anni fa» Si strinse nelle spalle: «Il proiezionista è un mio amico. Per questo
posso farlo»
Curt
rimase a guardarla per un lungo momento.
«Vieni
spesso qui?» chiese poi.
«Sì,
abbastanza. Seguo i loro cineforum perlopiù. È grazie a quelli che riescono
ancora a rimanere aperti»
Gli
fece cenno di seguirla, indicando l’ingresso. Mentre entravano lui ne
approfittò per guardare bene quel piccolo cinema il cui stile era di chiaro
influsso Art Nouveaueuropeo. Era piccolo, accogliente, con moquette a ricoprire il
pavimento che lui trovò più pulita di quanto si fosse immaginato e legno scuro,
non più lucido come un tempo, a rivestire biglietteria e altre parti
aggettanti. Dentro i due incontrarono il proiezionista, l’amico a cui si
riferiva prima Shannon. Quest’ultima lo presentò a Curt come Kyle, il quale lo
scrutò attentamente da cima a fondo un paio di volte prima di dire: «Ti ha mai
detto nessuno che sei uguale a…»
Ma
Curt lo fermò prima: «Buster Keaton. Sì, lo so»
Kyle
si voltò verso Shannon, soddisfatto: «Due gocce d’acqua» Dopodiché si avvicinò
alla tenda che certamente copriva l’ingresso nella sala: «Se volete
accomodarvi. La proiezione sta per iniziare» Batté con la mano il dvd che
Shannon gli aveva allungato pochi minuti prima e a cui Curt sfuggì la
copertina. Shannon si avviò nella sala, seguita dal ragazzo che lanciò
un’ultima occhiata a Kyle prima di tirarsi la tenda dietro. La sala, deserta, era piccola, esattamente
come il cinema. Avrebbe potuto ospitare sì e no un centinaio di persone. Curt
notò l’espressione di gioia dipinta sul volto della ragazza, come se fosse
incredibilmente felice di essere lì. Lui non riuscì a spiegarselo; gli
risultava ancora difficile capire come potesse, quella ragazza, essere così
appassionata di qualcosa scomparso e superato da ormai novant’anni. Eppure era
stato quel suo amore per il cinema muto a convincerlo – seppur controvoglia – a
seguirla fin lì, il modo in cui ne parlava, in cui lo raccontava. Dentro di sé
Curt sapeva perfettamente che, al termine di quella proiezione, il suo giudizio
verso i film in bianco e nero non sarebbe cambiato, ma quello nei confronti di
Shannon sì: si sarebbe certamente innamorato un po’ di più della ragazza
proprio perché avrebbe capito che lei possedeva realmente la capacità di
sognare che per lui era tanto difficile da trovare. Mentre lui era perso nei
suoi pensieri non si era accorto che Shannon aveva già salito almeno quattro
gradini. La ragazza si fermò, voltandosi a guardarlo: «Che fai ancora lì?»
chiese.
Curt
alzò lo sguardo su di lei, riprendendosi dalla sua estraniazione: «Che film hai
scelto?» le chiese, ignorando la domanda.
Lei
alzò le spalle: «È una sorpresa»
Lui
sospirò: «È di Buster Keaton, vero? Non solo vuoi
propinarmi un film muto, ma vuoi anche propinarmi un suo film muto»
«Anche
se fosse, cosa c’è che non va?» chiese lei, rendendosi conto che nella voce di
Curt c’era una piccola nota di rassegnazione.
Il
ragazzo non rispose, distolse semplicemente lo sguardo.
«Senti,
Buster Keaton è il mio attore preferito, i suoi film
sono i miei preferiti. Per farti vedere la bellezza del cinema muto non avrei
scelto nessun altro, lui è perfetto per questo. Il fatto che tu sembri la sua
copia identica non c’entra nulla, lo avrei scelto comunque» riprese Shannon
alla fine.
«Dici
sul serio?»
Lei
portò una mano sul petto: «Mai stata tanto seria. Ora, vuoi sederti?»
Questa
volta Curt sorrise, raggiunse la ragazza e si sedette accanto a lei all’altezza
del centro della sala.
«Almeno
ora me lo vuoi dire il titolo?» domandò lui.
«Sherlock Jr.»
«Ci
siete ragazzi?»
La
voce provenne alle loro spalle, all’altezza della cabina di proiezione: era
Kyle. Shannon rispose con un cenno, tendendo il braccio verso l’alto e
sollevando il pollice. Pochi minuti dopo le luci in sala si abbassarono.
Come
suo solito, quando era alle prese con qualcosa che non lo soddisfaceva, Curt
era partito prevenuto. Si sentiva infastidito dalla musica usata a
completamento delle immagini al punto di non rendersi conto dell’originalità e
dell’astuzia di Keaton. Ma con il passare dei minuti non poté più rimanere
indifferente alle immagini che gli scorrevano davanti e ai gesti compiuti
dall’attore. Era come se stesse vedendo se stesso compiere le azioni che
l’attore compieva, come se si fosse dimenticato di aver interpretato il
personaggio che stava osservando. Ma era consapevole di non essere lui. Lui era
più altro, di questo poteva esserne certo, e il suo naso era leggermente
diverso, sospettava di non avere quel profilo così sicuro, quasi ricercato. Ma
quegli occhi. Ogni volta che Curt si soffermava a guardarli avrebbe potuto
giurare di osservare il suo riflesso. Accanto
a lui Shannon riviveva quelle scene che aveva già visto innumerevoli quantità
di volte, provando le stesse emozioni che aveva provato la prima volta. Di
tanto in tanto lanciava un’occhiata a Curt, concentrato sullo schermo,
rendendosi conto che Sherlock Jr. aveva
colpito ancora. Lo sguardo di Curt era perso nelle immagini e il sorriso
leggero, velato sulle sue labbra, la conferma che il film lo aveva catturato e
conquistato. La proiezione proseguì minuto dopo minuto e Curt fu totalmente
inglobato da essa a tal punto che il suo scettiscismo e il suo disinteresse nei
confronti del cinema muto sembravano essere scomparsi. Avrebbe dovuto ammettere
di essersi sempre sbagliato su ciò che quel tipo di film era in gradi di
trasmettere e anche sul fatto che essere tanto simile a Buster
Keaton si era improvvisamente rivelato interessante.
Quando
il film terminò la luce ricomparve leggera nella sala, aumentando via via la
sua intensità. Shannon si voltò verso il ragazzo: «Che ne pensi?» domandò. «Non
fingere che non ti sia piaciuto perché non ci credo. Ti ho sentito ridere»
Curt
sorrise: «Avevi ragione» ammise. «È stato bellissimo»
Anche
Shannon sorrise, soddisfatta. Per lei quell’ammissione era la cosa più bella
che potesse sperare di sentirsi dire da lui in quel momento. Le bastò quello
per sentirsi felice dopo che era riuscita a dimostrare al ragazzo che nel suo
mondo c’era posto per tutti, anche per i più razionali. Si alzò in piedi: «Bene»
disse. «Ora, come da accordi, andiamo a parlare un po’ di cibernetica»
Curt
spalancò gli occhi a quelle parole. Non ne aveva voglia. Non voleva alzarsi da
lì, né tantomeno andare a parlare di qualcosa di tanto reale. Non gli
dispiaceva il luogo in cui stava, né il modo in cui aveva trascorso la sua
ultima ora. Afferrò Shannon per il polso: «No, aspetta» la fermò. Lei si voltò
a guardarlo, sorpresa.
«Non
ti andrebbe di vederne un altro?» le chiese.
Sul
volto della ragazza si fece largo un enorme sorriso: «Vuoi vederne un altro?»
chiese, felice.
Lui
annuì: «Se ne hai un altro, sì»
Shannon
sorrise nuovamente, leggermente imbarazzata: «Ho la borsa piena di suoi film»
mormorò.
«Perfetto»
La
ragazza distolse lo sguardo, domandandosi cosa le stesse prendendo. Si mise in
ginocchio sul sedile, voltata verso la postazione del proiezionista: «Kyle»
chiamò.
Il
ragazzo si affacciò dall’apertura: «Dimmi pure» rispose.
«Ti
dispiace far partire One Week?»
«Assolutamente
no»
«Grazie.
E poi scendi, lo guardiamo tutti e tre insieme» concluse, tornando a sedersi
compostamente. «Vedrai che ti piacerà anche questo» disse, rivolgendosi a Curt.
Lui
si limitò a sorridere, guardando Shannon nei suoi occhi marroni, prima che il
buio – che stava nuovamente calando – gli impedì di ammirare a fondo le
iridescenze color mogano che essi possedevano. Kyle li raggiunse nella sala, sedendosi
accanto a Shannon. Quest’ultima si sentì profondamente soddisfatta dell’esito
di quel pomeriggio. Buster Keaton era riuscito a
mostrare la sconfinata bellezza del cinema degli anni ’20 anche a una persona
scettica come Curt. Novant’anno dopo Buster aveva
conquistato anche il suo gemello lontano, attirandolo a sé, e Shannon era
sicura che, anche volendo, Curt non sarebbe mai più riuscito a dimenticarlo.
Tessa, giovane ma già esperta fotografa,
è stata incaricata di fotografare la finale di un contest musicale di cui ha
seguito ogni fase precedente.
In quella sola serata si troverà a
contatto con Jack, intrigante chitarrista di una delle band e Ian, cantante dell’altra il qual è riuscito a leggere nel
più profondo della ragazza.
Ma per Tessa i triangoli sono una forma e
una relazione nati nel modo sbagliato.
–
Attraverso –
La
macchina si ferma, il motore viene spento e, con esso, anche le luci. La
portiera si apre e le Vans nere si appoggiano a
terra. Tessa scende dall’auto dopo aver afferrato l’attrezzatura dal sedile del
passeggero e chiude la macchina a chiave. Si infila il cappuccio della felpa,
incamminandosi verso l’ingresso del locale senza prestare attenzione agli
sguardi delle persone davanti a cui sfila. I lunghi capelli tinti di nero e
liscissimi le nascondono il profilo, lei vede solo davanti a sé, dove si sta dirigendo.
Passa dalla biglietteria, mostra il tesserino di riconoscimento e si abbassa il
cappuccio. Di risposta le danno l’ok con il pollice alzato e la fanno
passare.Dopo aver spinto la porta viene
introdotta nella sala principale del locale; una sala non tanto grande e non
tanto alta, resa vagamente claustrofobica dai pannelli insonorizzanti presenti
su soffitto e pareti. Il palco, agghindato, è illuminato a giorno dai faretti
colorati, già ingombro di amplificatori e batteria. L’occasione è la finale del
contest musicale della contea di Swansea. Due band sono rimaste in gara. Avendo
fotografato tutte le fasi eliminatorie del concorso Tessa ha ormai capito quali
sono i suoi soggetti, qual è il modo per raffigurarli al meglio e cosa
aspettarsi dalle loro esibizioni. È quello il motivo per cui si trova nel
locale, per fotografare, è il suo mestiere.
Fa
scorrere lo sguardo sui presenti in cerca dell’unica persona che le interessa
veramente: Jack, chitarrista di una delle band in finale. Il motivo per cui le interessa
non è legato a sentimenti profondi o seri. È legato esclusivamente adun’attrazione, un magnetismo che lui possiede
quando sale sul palco, chitarra alla mano, per lasciarsi andare alla sua
musica. Nei due concerti precedenti, entrambi fotografati da Tessa, lei ha
avuto modo di rendersi conto di quell’aura unica emanata da Jack. L’obiettivo
della sua reflex si spostava quasi automaticamente sul corpo del chitarrista.
Attraverso il mirino della macchina fotografica lei ha visto l’anima di quel ragazzo,
ha visto l’arte che lo caratterizza, quella di cui è composto e ne è rimasta
stregata. Non innamorata, ma affascinata. Jack la intriga e Tessa non ha mai
trovato niente di più eccitante di un uomo in grado di intrigarla.
Non
riesce a trovarlo, nella sala non c’è. Probabilmente era una di quelle persone
davanti a cui è passata per entrare nel locale, una di quelle figure a cui non
ha prestato particolare attenzione.
«Tessa,
ben arrivata»
Lei
si volta verso la voce, riconoscendo il suo caro amico, nonché organizzatore
del contest per cui lavora: «Steve, felice di rivederti»
Si
abbracciano, dopodiché lui posa la mano sulla schiena della ragazza: «Vieni con
me, sei nostra ospite questa sera»
Lei
lo segue, dopo un sorriso, silenziosa. Lancia appena un’occhiata all’ingresso
sperando di veder comparire il ragazzo che tanto sta cercando, ma invano.
*
Le
immagini scorrono sul display della reflex, una dietro l’altra. Da dentro
l’edificio proviene il suono della musica, sparata dalle casse del dj. I
concerti ormai sono finiti; la band di Jack non ce l’ha fatta, è stata battuta
dall’altra in concorso. L’altro gruppo, con quel cantante – un tipo magro e dal
consumato fascino poetico – che Tessa ha scoperto più volte ad osservarla
durante la sua esibizione, mentre lui cantava e lei fotografava. Non stava
guardando la macchina fotografica, lui – Ian, questo
è il suo nome – stava guardando lei
attraverso l’obiettivo. Tessa è una fotografa; sa distinguere quando qualcuno
guarda solo la reflex e quando invece la usa come tramite per cercare di
guardare dentro di lei e non c’è niente che la faccia sentire più violata nell’intimo
di questo. Da sempre ragazza chiusa, a volte perfino scontrosa, ha permesso
solo a poche e fidate persone di conoscerla veramente, di capire fino in fondo
che tipo di persona sia in realtà. Soltanto quando fotografa lei mostra se
stessa, soltanto in quell’occasione le persone, estranee o no che siano, hanno
la possibilità di vedere nel più profondo delle sue passioni, nel più profondo
della sua anima. Ma bisogna essere in grado di farlo. Si deve essere capaci di
leggere i gesti e gli sguardi della ragazza quando si isola dal mondo che la
circonda per immergersi nel suo. Ian dev’esserci
riuscito e la cosa fa sentire Tessa improvvisamente vulnerabile. Tuttavia
smette di pensarci. Appoggiata con la schiena alla parete, vicino all’uscita
sul retro, continua a guardare le foto scorrere sullo schermo della macchina.
La sigaretta stretta fra le labbra sbuffa delicati e argentei sospiri, il
sapore del fumo inonda la gola della ragazza.
Freme.
Sente un leggero tremito scuoterla dentro. Ha scattato centinaia di foto,
centinaia, e non sa quante solo di Jack. È successo anche stanotte, anche
durante il concerto da poco conclusosi. Lui ha impugnato la sua chitarra nera e
l’ha conquistata per la terza volta consecutiva. Ma per Tessa, e non solo per
la sua passione per musica e fotografia, Jack è irresistibile. Il modo in cui
suona, quello in cui si muove sul palco, quello in cui si mette a nudo davanti
agli estranei facendo ciò che ama. Forse solo lei nota tutto questo, forse solo
lei che ricerca l’arte per fotografarla è riuscita a trovare quella emanata da
lui.
Spegne
la macchina, improvvisamente infastidita. Striscia la sigaretta, iniziata da
poco, contro la parete in modo da uccidere la fiamma e la infila dietro
all’orecchio. Spinge la porta dell’ingresso sul retro, la reflex aggrappata
alla spalla grazie alla tracolla e rientra nel locale, notando che caldo è
gente sono aumentati. Si avvicina al bancone e ordina un amaro; le serve
qualcosa di immediato da ingerire. Allunga i soldi al barista ma lui non li
vuole. Beve subito l’amaro, in un sorso, lasciando il bicchiere ormai vuoto sul
bancone. Si volta verso la sala, per poco la reflex non sbatte contro una delle
persone che ha accanto. Lo nota di sfuggita, mentre si fa largo lungo la pista,
a testa alta, evitando accuratamente tutti coloro che sono impegnati a ballare:
è Jack. Tessa sente il suo corpo muoversi da solo, si avvia verso il ragazzo e
lo ferma. Lui la guarda, sorpreso; rimane sulla difensiva finché lei non gli fa
i complimenti per l’esibizione appena conclusa, ricordandogli di averlo già
visto tre volte, nelle serate del contest. Allora il ragazzo si rilassa,
l’ascolta e sorride – incurvando leggermente l’angolo destro della bocca –
cominciando a parlare della lavorazione del nuovo disco, su richiesta di Tessa,
che rimane ad ascoltarlo vagamente attenta alle sue parole. Lo guarda negli
occhi e lui fa lo stesso, ma la ragazza è concentrata anche su altro. L’odore
acre del fumo che Jack emana si mescola al profumo della t-shirt pulita che si
è infilato al termine del concerto, in un contrasto tutt’altro che sgradevole. Gesticola
poco mentre parla, la schiena dritta e il portamento sicuro. La voce è
leggermente roca, forse per colpa delle sigarette, e Tessa trova che si intoni
perfettamente ai capelli corvini, dolcemente ondulati ma ancora cortie selvaggi. L’osserva attentamente mentre
parla; mentre le spiega fra quanto entreranno in sala prove lei inizia a
pensare ad altro. Comincia a farsi delle domande. Jack è un ragazzo normale,
senza nulla di rilevante o di notevole rispetto ad altri. Con molta probabilità
ha circa ventisette anni – ossia due in più di Tessa – e non è certo avvenente
quanto un attore hollywoodiano. Allora
perché lei è così attratta da lui? Per quale motivo sta sperando con tutta se
stessa di assaporare ancora un po’ di quell’arte che, lei sa, lui possiede?
«Grazie
per averlo chiesto, comunque. Basta che tu tenga d’occhio il sito» dice lui,
posando una mano sul braccio della ragazza.
Istintivamente
lei abbassa lo sguardo sulla mano, proprio mentre Jack è sul punto di ritrarla.
«Figurati»
risponde Tessa, sperando che sia la risposta corretta.
Pare
di sì; lui sorride un’ultima volta e la saluta, allontanandosi. Lo guarda
mentre scompare fra la folla, sempre intenta a ballare al centro della pista.
Ha appena parlato con lui, con Jack. Ha appena avuto il suo viso, il suo corpo,
incredibilmente vicino a sé. Ha respirato la stessa aria, sentito il suo
profumo e si è persa in quegli occhi in cui ha notato lo stesso bagliore che
posseggono mentre lui suona. Il fremito dentro di lei pare aumentare, una leggera
morsa tenta debolmente di impossessarsi del suo stomaco. Distoglie lo sguardo
dal punto in cui Jack è scomparso, stringe a sé la macchina fotografica e si
avvia verso l’uscita, sentendo un bisogno viscerale di fumare la sigaretta
ancora custodita dietro al suo orecchio. Esce dall’ingresso principale e si
allontana abbastanza dalle persone rimaste impalate davanti alla porta; trovato
un pezzo di muro libero vi si appoggia con la schiena, si alza il cappuccio e
accende la sigaretta. Si abbandona ai pensieri, contorti e incomprensibili che
siano. Cerca risposte alle domandeche
si è posta poco prima, per poi rendersi conto, fra una boccata di fumo e
l’altra, che non le interessano. Lei è
umana. E come tutti gli esseri umani si sente attratta da qualcosa, da
qualcuno.
Quel
qualcuno è Jack. L’ha stregata, letteralmente e, sicuramente, nessuno dei due
ne sa il motivo.
Sente
un rumore accanto a lei, immediatamente si volta e vede Ian,
il cantante della band vincitrice. «Ti disturbo?» chiede lui.
Tessa
abbassa il cappuccio della felpa, facendo spallucce: «Direi di no»
Il
ragazzo sorride: «Volevo solo
ringraziarti per tutte le fotografie che ci hai fatto fino ad oggi. Sei molto
brava» si avvicina di qualche passo mentre parla.
Lei
alza nuovamente le spalle: «È il mio
lavoro, ma grazie»
Ian abbassa lo sguardo,
posandolo sulla punta delle dita. Non dice niente, probabilmente sta pensando
alle parole giuste.
«Vuoi
una sigaretta?» domanda Tessa poco dopo. In parte infastidita da quel silenzio.
Lui
punta nuovamente gli occhi su di lei, leggermente sorpreso: «Non fumo, grazie»
Nuovamente
cala il silenzio. Il cantante prende fiato, sforzandosi di mantenere gli occhi
su quelli delle fotografa: «Ti andrebbe di andare a bere qualcosa?» chiede,
togliendosi apparentemente di dosso un macigno.
Lei
solleva un sopracciglio: «È davvero la proposta che sembra?»
Ora
è lui ad alzare le spalle: «Credo proprio di sì»
«Non
sono il tuo tipo» taglia corto la ragazza.
Ripensa
al concerto, all’esibizione di Ian. Le torna alla
mente l’attimo in cui si è resa conto che lui l’aveva vista per quello che era
realmente, il momento in cui lui era riuscito a vedere oltre la protezione che
lei si era, faticosamente, costruita intorno.
«E
come fai a dirlo?»
«Lo
so e basta, fidati»
Lui
non demorde: «Ti è mai capitato di sentirti attratta da qualcuno,
inspiegabilmente? È per questo che sono qui. Ti ho vista fotografare e non
credo serva aggiungere altro. Va oltre al fisico, puoi capirlo?»
La
ragazza sorride, pensando istintivamente a Jack. Va oltre al fisico.
«Perfettamente»
risponde.
Decide
di chiudere così la conversazione. Non ha nessuna intenzione di proseguire quel
teatrino. Ian è interessato a lei per lo stesso
motivo per cui lei è così interessata a Jack. Tessa ha sempre pensato che i
triangoli non possano funzionare, uno dei tre è sicuramente di troppo. Si avvia
verso l’ingresso del locale, fermandosi un attimo accanto a Ian.
«Credimi,
non posso essere io il tuo tipo» gli confida.
Si
lascia tutto alle spalle e rientra nel locale, decisa a prendersi da sola da
bere. Vuole provare a non pensare a niente. Quando arriva al bancone, però,
sospetta che il karma le deva un favore. Anche Jack è lì, la birra stretta
nella mano sinistra, gli occhi scorrono annoiati sullo schermo dello smartphone.
Per un momento la ragazza è indecisa se provare o no ad avvicinarsi, se tentare
o meno di parlare nuovamente con lui.
Decide di lasciar fare al caso, o al destino, che dir si voglia. Si ferma
accanto al ragazzo e ordina la sua bionda. Come gliela portano, il chitarrista
alza lo sguardo e incontra quello di Tessa. Lui infila il cellulare in tasca: «Tu
sei la fotografa» esordisce.
«L’hai
dedotto dalla reflex?» chiede lei.
Jack
sorride, incurvando appena l’angolo destro della bocca. «Non sono molto fisionomista,
non ricordavo fossi tu la fotografa del contest» spiega.
Tessa
approfitta di quella situazione e si avvicina a lui: «Non preoccuparti» dice.
«Ho
visto su internet le foto che ci hai fatto la volta scorsa. Sei davvero brava»
«Ti
ringrazio»
Beve
un sorso di birra, cercando di non prestare particolare attenzione a Jack, che
ticchetta con le dite sul legno del bancone. Poco dopo lui prende fiato e
domanda: «C’è modo di poter avere alcune foto di stasera? In formato originale
dico, non compresso»
Lei
solleva le sopracciglia e il ragazzo le da delucidazioni prima che lei possa
chiedergliene: «Gestisco io il nostro sito internet. Mi piacerebbe metterne
alcune. Ovviamente scrivendo i tuoi crediti»
«Come
minimo» mormora la ragazza, strappando un sorriso all’altro.
«Ti
lascio il contatto della band, ti va?» le chiede.
Tessa
annuisce, semplicemente scuotendo la testa. Una scusa per risentirlo, magari
per rivederlo. Non avrebbe potuto chiedere di meglio.
Il
chitarrista ferma uno dei baristi, chiedendogli una penna. Appena gli viene
consegnata afferra un sottobicchiere in carta dalla pila che ha vicino e segna
l’indirizzo e-mail. Lo allunga a Tessa quando finisce e lei legge ciò che c’è
scritto. Il fremito che sente dentro di sé non si è ancora arrestato, probabilmente
c’è un solo modo perché si plachi. Prende fiato accuratamente prima di dire: «Quando
suoni sei incredibile»
Il
ragazzo si mostra preso alla sprovvista, ma per poco. Si dipinge un sorriso sul
volto: «Spiegati» dice.
Lei
scrolla le spalle: «Non so come spiegarlo, in verità. Ci sono molti chitarristi
bravi in giro; io ne ho visti e li ho fotografati, ma mainessuno come te. Tu hai qualcosa, emani,
trasmetti qualcosa che agli altri manca»
Jack
pare pesarci per un secondo, l’espressione che si è dipinta sul suo volto è un
misto di divertimento e lusinga: «Emano, che so, arte, vuoi dire?» ammicca.
«Sì»
si limita a rispondere la ragazza.
Lui
si blocca un momento, leggermente sorpreso dalla fermezza del sì appena pronunciato dall’altra: «E tu
come fai a esserne sicura?» domanda, fattosi improvvisamente serio.
«Perché
sono una fotografa e io ricerco proprio l’arte nelle persone. Non ho mai avuto
problemi a trovarla in te»
Lui
solleva un sopracciglio e sorride nuovamente, mettendo finalmente in mostra la
dentatura perfetta: «Eccitante»
Il
loro contatto visivo non si è mai interrotto dall’inizio della conversazione.
Rimangono a guardarsi per svariati secondi, in silenzio. Jack è il primo a
spostare lo sguardo: «Beh, grazie» inizia. «Mi fa piacere sapere una cosa del
genere» ammette.
Tessa
si limita a sorridere. Lui raddrizza la schiena: «Spero di risentirti. Magari
non solo per le foto»
Indica
il sottobicchiere scritto, ancora sul bancone accanto alla birra della
fotografa. «Io devo andare» conclude.
«Fra
poco vado anche io» risponde lei.
Jack
sorride un’ultima volta: «Allora alla prossima»
Le
fa un cenno con la mano e si incammina verso il backstage. Questa volta Tessa
non rimane a guardarlo mentre scompare fra le persone; afferra il
sottobicchiere, leggendo l’indirizzo e-mail mentre beve un sorso di birra. Ha
tutto quello che le serve: la scusa per risentire Jack, il suo invito a farlo e
un contatto, anzi, molto più di un semplice contatto. Perché girando il
sottobicchiere, in un gesto innocuo e spontaneo, si rende conto che il
chitarrista non le ha lasciato soltanto l’indirizzo e-mail della band, ma anche
il suo personale numero di cellulare.
Aidan è un
giovane giocatore di rugby della squadra di Edimburgo.
Al termine
del derby appena concluso contro la squadra di Glasgow, il ragazzo è costretto a
dover affrontare i suoi ricordi e il suo passato, non appena si trova davanti
agli occhi due delle figure a cui è profondamente legato.
– Aidan –
La prima cosa che fece come fu fuori, prima ancora
di respirare a pieni polmoni l’aria della sera autunnale di Edimburgo, fu
allentarsi il nodo alla cravatta e sbottonare i primi due bottoni della
camicia. La stoffa si era stropicciata nei punti in cui David vi aveva
affondato le dita, ma non era niente di che: si poteva tranquillamente fare
finta non fosse accaduto nulla semplicemente stendendo le pieghe. Sospirò,
passandosi prima una mano in volto, poi facendola scivolare fino ai capelli
biondi. Gli sembrava ancora di vedere davanti a sé il volto dell’amico,
l’espressione contratta dalla rabbia che gli era montata in fretta, forse anche
per via dell’alcol. Aidan non pensava di poter arrivare a tanto con una
semplice provocazione, ma quando aveva visto di essere vicino a scalfire la
corazza dell’ex compagno di squadra, quando quest’ultimo gli aveva mostrato il
fianco, lui aveva dato l’affondo decisivo. Visto da fuori, con il suo
sorrisetto beffardo, doveva essere sembrato particolarmente stronzo mentre
continuava a provocare David, cercando di sollecitarlo a parole, invitandolo a
darsi una mossa prima che qualcuno più furbo di lui gli soffiasse via tutto da
sotto il naso. Quando l’altro aveva reagito, afferrandolo per il colletto della
camicia e spingendolo contro al muro, il silenzio era calato tutt’intorno a
loro. Nella reazione di David, Aidan, aveva visto il gesto estremo, l’ultima
cosa che si può fare prima di arrendersi completamente alla realtà. E lui non
poteva dargliela vinta. Mantenendo il sangue freddo, consapevole che l’amico
non gli avrebbe mai fatto niente, lo aveva guardato ancora una volta negli
occhi con aria di sfida: «Di’ un po’» aveva detto. «Come puoi pretendere di
parlare di lei come se fosse tua, se non hai neanche il coraggio di dirle
quello che provi?»
A quelle parole David aveva stretto ancora di più
la presa sull’ abito, guardando Aidan con occhi di fuoco. Poi erano intervenuti
i compagni di squadra a separare i due. I giocatori di Edimburgo avevano
allontanato Aidan e quelli di Glasgow David. Appena smise di pensare a tutto
ciò, ricordandosi anche l’ultima occhiata lanciatagli da David, il ragazzo
tornò ad abbottonarsi la camicia e a stringere il nodo della cravatta,
sovrappensiero. Ormai, era fatta. Qualunque cosa fosse accaduta, da quel
momento in poi, non poteva più tornare indietro. La breve, ma intensa, diatriba
avuta con il suo ex compagno di squadra aveva smascherato i suoi sentimenti e
quelli di David. Una persona furba, consapevole che non si aveva niente da
perdere, avrebbe approfittato della situazione per cercare di dare una svolta a
tutto, ma non era il caso di Aidan. A lui, farsi avanti, non sarebbe servito.
Ivy era il motivo del loro screzio. David non
aveva mai fatto mistero di essere interessato seriamente alla ragazza, ma non
era ancora riuscito a trovare il modo migliore per dirglielo. Anche per Aidan
era così, più o meno. Ivy aveva cominciato a lavorare come fisioterapista per i
Glasgow Warriors tre anni prima, quando lui ancora giocava per quella stessa
squadra. Essendo coetanei i due avevano inevitabilmente finito con il fare
amicizia e i sentimenti di lui si erano poi evoluti in fretta in qualcos’altro.
Ma l’anno dopo era subentrato David. Non solo
giocava nel suo stesso ruolo – cosa che portava spesso entrambi a contendersi
la maglia numero dieci – ma più loro due facevano amicizia, più Aidan capiva
che, anche David, iniziava a essere interessato a Ivy, sempre di più. Mano a
mano che i giorni passavano lui migliorava nel leggere i segnali. Le attenzioni
che la ragazza riservava a David, i suoi sguardi, erano il palese messaggio
che, il nuovo arrivato, non aveva surclassato Aidan solo sul campo da rugby, ma
anche fuori. Così, a fine stagione, quando la squadra di Edimburgo aveva
proposto al giocatore di diventare il nuovo numero dieci della formazione,
Aidan aveva accettato. Aveva deciso di fare ritorno nella città in cui era
nato, consapevole che, a Glasgow, non gli era rimasto niente di più di amicizie
e innumerevoli sentimenti avvilenti.
L’aria della sera lo aiutò appena a schiarirsi le
idee, ma il ragazzo continuava a chiedersi con che coraggio avrebbe potuto
ripresentarsi davanti ai compagni di squadra e a tutti i presenti al terzo
tempo. Per gli altri lui era sicuramente apparso un provocatore, un infame, quello
che deve, e vuole, averla vinta sempre. Ma non aveva agito sotto quest’ottica
e, probabilmente, l’unico a saperlo era proprio lui. Voleva semplicemente dare
una scossa a David, spronarlo a farsi avanti con la ragazza, così che potessero
essere felici entrambi. Perché a lui l’idea di aver accantonato i suoi
sentimenti per Ivy perché lei potesse stare con David,faceva male ogni giorno più del precedente,
proprio perché David non accennava a dichiararsi. Voleva soltanto questo, che
si facesse avanti dando alla ragazza quello che voleva: una storia.
«Aidan» Qualcuno lo chiamò. Nel silenzio surreale
della distesa del locale, quella voce penetrò fra i suoi pensieri,
costringendolo a voltarsi. Ivy stava camminando verso di lui; a vederla sentì
un tuffo al cuore, mentre i suoi occhi scivolavano sul corpo della ragazza fino
a soffermarsi sul suo viso. Aidan si limitò a sorriderle, incurvando appena un
angolo della bocca.
«Che cosa è successo?» chiese lei, come fu davanti
al giocatore.
Anche se si erano già incontrati il giorno prima e
quello stesso pomeriggio, lui rimase a guardarla, come a voler recuperare tutti
i mesi in cui era rimasto senza averla avuta davanti come avrebbe voluto. Ivy
non era cambiata, era sempre perfetta. I capelli biondi, mossi, tagliati a
caschetto sembravano rilucere anche con i neon. Sulle labbra carnose aveva
steso un leggero strato di rossetto e, quando incontrò i suoi occhi, le iridi
ambra sembravano scrutare fin nel profondo il ragazzo.
«A cosa ti riferisci?» chiese lui, con fare
innocente, distogliendo lo sguardo e allontanandosi appena da Ivy. Lei non
esitò un solo momento: «Lo sai a cosa mi riferisco. Che cos’è successo fra te e
David?»
Il ragazzo alzò le spalle: «Niente di che. Non
dirmi che ti sei preoccupata»
«Certo che mi sono preoccupata. Gli altri
giocatori hanno detto che eravate sul punto di fare a pugni» esclamò Ivy. Aidan
tornò a guardarla, lasciandosi sfuggire uno sbuffo: «Hanno esagerato»
La ragazza non replicò. Rimase a fissare il
giocatore per fargli capire che quella risposta non era sufficiente. Lui,
allora, scrollò le spalle: «Ok, d’accordo. Abbiamo avuto un battibecco, ma
niente di più. Diciamo che è stata una… scaramuccia da pari ruolo. Sai, siamo
entrambi due numeri dieci, può succedere»
Lei continuava a guardarlo, non perfettamente
convinta delle sue parole: «Davvero?»
«Sì, non ti fidi di me?»
Aidan cercò di mantenere il contatto visivo, così
da non smascherarsi dato che non aveva raccontato alla ragazza l’esatto
andamento delle cose. La causa della lite con David non era certo dovuta al
loro contendersi una posizione di gioco. Quando gli occhi azzurri del ragazzo furono
sul punto di cedere, per sua fortuna, Ivy prese parola: «D’accordo. Forse sono
io che mi sono preoccupata troppo. È che, da come ne avevano parlato, sembrava
una cosa ben più grave»
Lui sorrise: «No, non lo era. Ma ne hai parlato
con David, almeno?»
«No, sono venuta prima da te»
Il ragazzo non replicò subito, rimase sorpreso per
ciò che lei aveva appena detto. Tuttavia sapeva perfettamente che quella di Ivy
era semplice curiosità da amica. È vero che era andata prima da lui a cercare
di capire cosa poteva essere successo, ma era anche vero che questo lasciava
intendere che le preoccupazioni maggiori della ragazza erano rivolte a quello
che lui avrebbe potuto aver fatto a David.
«Dovresti andarne a parlare con lui» riprese dopo
poco Aidan. «Ha senz’altro qualcosa da dirti»
«Che intendi dire?»
Lui si mise a ridere, una risata poco convinta,
che usò principalmente per smettere di guardare Ivy in volto. Tutta quella
storia stava cominciando a fargli male.
«Prova a sentire, no?»
«Devo preoccuparmi?»
«Non credo»
Lei lo guardò ancora, sospettosa, lui si limitò a
sorriderle.
«Andrò a sentire cos’ha da dire David a riguardo»
esordì Ivy, poi puntò un dito contro il giocatore, ma, data la differenza di
statura, dovette puntarlo piuttosto in alto per riuscire a mirare alla sua
faccia. «Se scopro che mi hai presa in giro, Aidan, ti uccido»
Lui alzò le braccia: «Mi saprai dire»
Ivy gli lanciò un’ultima occhiata, dopodiché gli
diede le spalle e rientrò nella sala in cui si stava svolgendo il terzo tempo.
Il calore della stanza quasi la ridestò. Si chiese come facesse, Aidan, a
rimanere fuori dal locale per tanto tempo, si congelava. Si mise a cercare David
fra le persone presenti, sperando di riuscire a trovarlo in fretta. Aidan non
era stato sincero fino in fondo con lei, lo sapeva; conosceva troppo bene il
ragazzo, anche se da sei mesi, ormai, lui viveva a Edimburgo. Fra loro due
c’era un legame di intesa forte, un’amicizia, e quando il ragazzo non diceva la
verità, lei lo capiva. L’unico indizio che Aidan le aveva dato era quello di
parlare con David, lui, certamente, avrebbe potuto raccontarle com’erano andate
realmente le cose, bastava solo riuscire a trovarlo. E lo trovò. David era
seduto a un tavolo, un bicchiere d’acqua davanti agli occhi, i gomiti
appoggiati alle ginocchia, le mani conserte. Ivy si sedette nella sedia libera
che lui aveva vicino e il ragazzo alzò lo sguardo su di lei appena se la trovò
accanto. Si guardarono. Lei non distolse lo sguardo dagli occhi marrone scuro di
lui; conosceva perfettamente il suo volto e non le serviva indagarlo
ulteriormente. Sapeva delle labbra sottili, della barba incolta e dei
cortissimi capelli castani.
David respirò: «Che cosa ti hanno detto?» le
chiese. Non era necessario specificare niente. Sapeva che Ivy lo aveva
raggiunto con il chiaro intento di parlare con lui di quanto appena successo.
Lo screzio con Aidan gli aveva fatto fare la parte di quello che reagisce alle
provocazioni; un ruolo che non avrebbe mai voluto interpretare, ma che quella
sera, anche per colpa dell’alcool che aveva in corpo – non troppo, ma
sufficiente ad allentare i freni inibitori – gli si era dipinto addosso
perfettamente.
«Ho parlato con Aidan»
David non si scompose: «E lui?» Rimase a guardarla
negli occhi, aspettando che lei rispondesse, dandogli il colpo di grazia. David,
ormai, aveva capito i sentimenti che Aidan provava per Ivy, gli stessi che
sentiva lui. Dopo ciò che era accaduto, con molta probabilità, Aidan aveva
approfittato della situazione per fare la prima mossa, dichiarandosi alla
ragazza. A David parve passare
un’eternità prima che Ivy si decidesse a parlare: «Ha detto che non è successo
niente di che e che gli altri hanno esagerato nel raccontare la cosa»
Il ragazzo inarcò un sopracciglio: «Ha detto questo?»
«Sì. Che si è semplicemente trattato di una scaramuccia
da pari ruolo»
David sorrise, muovendosi sulla sedia: «Che
stronzo» mormorò, divertito. Aidan aveva preso le sue difese e lui, ci avrebbe
potuto giurare, non ne capiva il motivo. O forse sì. Molto più semplicemente,
l’amico non aveva preso le sue difese, bensì quelle di Ivy. Aidan non aveva
detto la verità a Ivy perché voleva fosse lui a farlo. In un modo o nell’altro,
il numero dieci di Edimburgo aveva costruito l’occasione ideale per permettergli
di dichiarare i proprio sentimenti alla ragazza. Una mossa astuta, da vero
mediano, ma che proprio non riusciva a capire. L’unica certezza che David aveva
era che se non si fosse dichiarato in
quel momento avrebbe solo dimostrato a Aidan di avere perfettamente ragione su
di lui.
Ivy continuava a guardare il ragazzo, in attesa di
una riposta. David si voltò a guardarla: «Quello che ti ha detto non è vero»
esordì, decidendosi, finalmente, a dirle la verità. «Le cose non sono andate
esattamente così»
La ragazza non riuscì a mascherare il suo
rammarico a quelle parole. Sentire che Aidan le aveva mentito era una
delusione.
«E allora che cosa è successo? Perché Aidan mi
avrebbe detto una bugia?» domandò.
Il giocatore non abbassò un solo secondo lo
sguardo, si limitò a prendere fiato: «Diciamo che… subito avevamo iniziato a
prenderci un po’ in giro reciprocamente, a punzecchiarci, ricordando i mesi
andati» Abbassò gli occhi: «Poi le cose sono un po’ degenerate»
Non le disse tutto quanto, ma le raccontò a sufficienza
affinché lei potesse capire tutto. Le disse che Aidan aveva cominciato a
parlare di lei, del fatto che, secondo lui, avrebbe dovuto seguirlo a
Edimburgo, di cosa aveva da offrirle che, a Glasgow, non c’era. David le disse
che, mano a mano che l’altro parlava, lui cominciava a spazientirsi, che aveva
chiesto all’amico di piantarla e che l’altro, invece, gli aveva dato il colpo
di grazia, facendolo infuriare. Non disse a Ivy le parole di Aidan, ma tornò a
guardarla:
«Mi ha semplicemente provocato affinché fossi
sincero con te»
Lei non capì: «Sincero in che senso?»
«Su quello che provo. Aidan mi ha fatto notare che
non ha senso che io tenti di impedire a qualcuno di provare a costruire
qualcosa con te se non ho il coraggio di dirti quello che sento»
Ivy spalancò gli occhi a quelle parole, mentre il
suo cuore accelerava freneticamente i battiti.
David respirò a fondo ora che era arrivato al
punto cruciale del suo discorso: «La verità è che mi piaci, e molto»
Calò il silenzio. La ragazza ci mise un po’ ad
accertarsi di aver capito bene. La dichiarazione che aveva appena ricevuto le
parve irreale per via del tempo da cui la stava aspettando. Dentro di sé, però,
capì che non poteva essere realmente felice della notizia finché non avesse
messo insieme ogni tassello, anche il più piccolo. Prima di gioire per quanto
David le aveva detto, voleva il quadro completo: «E Aidan cosa c’entra? Perché
ti ha detto tutte quelle cose e poi mi ha mentito?»
David scrollò le spalle, sorridendo. La reazione
di Ivy non fu quella che si era immaginato, ma si era tolto un tale peso che si
sentì ugualmente più leggero: «Perché anche lui prova lo stesso per te» Iniziò,
poi rispose alla seconda domanda della ragazza: «Dio solo lo sa perché l’ha
fatto. Giuro che, anche se penso di averlo capito, non ne sono assolutamente
convinto»
Ivy si fece pensierosa. Ripensò a quanto David le
aveva detto, prendendosi tempo a sufficienza per farlo. Non poteva negare di
essere rimasta scossa a ciò che le aveva raccontato il giocatore. In cuor suo
dovette ammettere di aver sospettato un paio di volte dell’interesse che Aidan
nutriva verso di lei – e di cui aveva appena avuto conferma –, ma aveva sempre
ignorato la cosa convinta di essersi immaginata tutto. Tuttavia non era così,
l’aveva finalmente scoperto, ma davvero non riusciva a capire per quale motivo
quella sera Aidan avesse agito di testa sua e, soprattutto, perché lo avesse
fatto in quella maniera. Chiunque, consapevole che qualcun’altro prova gli
stessi sentimenti per la medesima persona, avrebbe tentato di affossarlo prima
che fosse troppo tardi. Aidan invece aveva preso le difese di David e aveva
spinto lei fra le sue braccia, dando al ragazzo la motivazione migliore per
dichiararsi. David non disse nulla,
rimase a guardare Ivy aspettando che fosse lei la prima a parlare di nuovo.
«Quello che mi hai detto tu è vero?» chiese lei,
alcuni secondi dopo.
Lui annuì: «Tutto quanto»
«Anche quello che provi per me?»
«Soprattutto»
Ivy sorrise, abbassando lo sguardo. La sua mano
stava già scivolando verso quella del ragazzo, che non tardò ad accoglierla. Le
parve tutto perfetto, in fin dei conti era quello che aveva sempre desiderato.
Tuttavia il fatto di non aver fatto chiarezza continuava a perseguitarla e,
dentro di sé, sapeva perfettamente che non sarebbe stata pienamente soddisfatta
dell’esito di quella sera finché non avesse trovato una risposta all’unica cosa
che, in quel momento, le premeva sapere. Per quale motivo Aidan lo avesse
fatto.
*
Quasi due ore dopo Aidan era nuovamente nella
distesa esterna del locale, solo. Aveva tentato di passare una serata normale,
di divertirsi insieme ai compagni di squadra, di dimenticare l’esito negativo
della partita di quel pomeriggio bevendo un bicchiere o due. I suoi tentativi
erano serviti a poco; l’alcool non lo aveva aiutato a dimenticare un bel niente
e i suoi compagni di squadra continuavano a punzecchiarlo con frasi idiote
sulla sua breve lite con David. Era ancora fermo, il corpo appoggiato al
muretto che delimitava la distesa del locale, l’aria della sera che si era
fatta più fredda. Quando sentì scattare la porta si voltò in direzione
dell’ingresso e vide Ivy andargli incontro. Lei era impassibile, guardava
dritto davanti a sé, senza lasciare trapelare le sue emozioni. Aidan aspettò
che gli si fermò accanto e che aprisse bocca per capire come le erano andate le
ultime ore, per vedere se David, alla fine, era riuscito a svegliarsi. Ivy non
alzò neanche per un momento lo sguardo sul ragazzo, come smise di camminare,
assestò immediatamente un destro alla spalla di Aidan. Quest’ultimo spalancò
gli occhi, sorpreso.
«Aoh!» esclamò, più per
il gesto inaspettato che per il dolore.
«Scaramuccia da pari ruolo?» sbottò lei. «Cosa ti
avevo detto, Aidan? Dovrei ammazzarti»
Il ragazzo si mise a ridere, massaggiandosi appena
il punto del braccio destro in cui Ivy lo aveva colpito.
«Quindi, David che ti ha detto?» le chiese poco
dopo.
Lei non rispose immediatamente, prima si sedette
sul muretto che aveva vicino Aidan, poi si voltò a guardarlo, i loro occhi
erano quasi alla stessa altezza: «Secondo te cosa può avermi detto?»
Lui alzò le spalle: «Non ne ho idea. O meglio, ne
ho una e spero sia quella giusta» Sospirò, rendendosi conto che non avrebbe
ottenuto granché così: «Andiamo, Ivy. Che cosa ti ha detto?»
Lei abbassò lo sguardo sulle sue mani: «Mi ha
detto che gli piaccio» rispose, tornando a guardare il giocatore. «E che
piaccio anche a te»
Aidan sussultò: «Beh, questo se lo poteva
risparmiare» sentenziò.
Notò che Ivy lo stava ancora osservando. Si voltò
verso di lei, appoggiando il fianco al muretto. «Ed è vero?» gli chiese la
ragazza. Si limitò ad annuire con la testa, respirando.
«E perché non me l’hai mai detto?»
Lui puntò lo sguardo verso la porta che dava
all’interno del locale. Nel punto in cui si trovavano loro due si intravedevano
appena le figure ancora presenti dentro e che erano senz’altro meno rispetto a
inizio serata. Aidan buttò fuori buona parte dell’aria che aveva in corpo prima
di prendere parola: «A che scopo?»
Ivy lo guardò stranita, lasciando intendere che
non aveva capito cosa intendesse dire.
«Perché avrei dovuto dirti che mi piacevi se tu
eri già interessata a David?»
La ragazza spalancò gli occhi: «Lo sapevi?»
mormorò.
Lui abbozzò un sorriso: «Lo avevo capito»
«Come?»
«Quando sei particolarmente interessato a qualcuno
noti cose che prima non avresti mai pensato di vedere»
Fu Ivy la prima ad allontanare lo sguardo. Aidan
continuava a tenere il suo fisso sulla ragazza: «Semplicemente avevo imparato a leggere le
differenze fra gli sguardi che lanciavi a David e quelli che riservavi agli
altri giocatori, incluso me. È così che ho capito che non avrei avuto
possibilità con te. Ho semplicemente voluto risparmiarti il fatto di dovermi
respingere» ammise. Era la verità. Quando lui si era reso conto dei sentimenti
della ragazza aveva deciso di tenere i suoi a freno, preoccupato di rovinare
tutto. In fin dei conti David ricambiava Ivy, era solo questione di tempo prima
che i due lo scoprissero.
«É per questo che te ne sei andato?» gli chiese
lei, molti secondi dopo. Si stava riferendo alla scelta di Aidan di lasciare
Glasgow per far ritorno a Edimburgo, una scelta che, lei non ne aveva mai fatto
mistero, l’aveva colta impreparata.
Aidan sorrise, dolcemente: «Glasgow iniziava a
essere un po’ troppo stretta per me e David. Lui aveva più motivi di me per
rimanere»
«Perciò tu hai provocato David apposta? Affinché
si facesse avanti con me?»
Ivy finalmente cominciava a capire quello che
Aidan aveva portato avanti in una singola sera. Non sapeva se sentirsi
lusingata per gli sforzi del ragazzo o meno. Non sapeva neanche se essergli
grata per aver spronato David – con i suoi discutibili metodi – oppure essere
infastidita da tutta l’iniziativa che aveva preso.
«L’ho fatto per voi» mormorò il ragazzo poco dopo.
«Ah, davvero?» domandò la ragazza, ma le parole le
uscirono con un tono più stizzito di quanto avrebbe voluto.
Aidan non fece una piega: «Davvero»
Era serio, maledettamente serio. La sua
risolutezza colse impreparate perfino Ivy che conosceva bene il ragazzo che
aveva davanti. La ragazza si pentì immediatamente di quanto appena detto. Il
gesto che Aidan aveva compiuto nei suoi confronti lasciava perfettamente
intuire quanto lui tenesse a lei. Il giocatore ricominciò a parlare: «David è
un mio amico, aveva soltanto bisogno di svegliarsi un po’. Vorrei solo che ora
voi due poteste stare insieme e che noi potessimo rimanere amici. Tengo troppo
a te, Ivy. Non sopporterei di perderti per colpa di una sola sera»
La ragazza non riuscì a ribattere. Si sentì arrossire
a quelle parole e vi si trovò d’accordo: nemmeno lei voleva rischiare di vedere
il suo legame con Aidan distruggersi per colpa di una sera soltanto.
«Allora grazie per quello che hai fatto» gli disse
infine, non trovando parole migliori.
Lui sorrise: «Prego»
Il loro contatto visivo non si interruppe più.
Erano uno di fronte all’altra, gli sguardi alla stessa altezza. I rumori che
avevano intorno provenivano solo dall’interno della sala, fra di loro il
silenzio era totale. Ivy si avvicinò d’istinto al ragazzo e posò le labbra
sulle sue. Aidan non reagì, si limitò a chiudere gli occhi, così da poter
assaporare fino in fondo quel bacio, quel contatto delicato e lieve. Voleva
imprimere nel profondo della sua mente il sapore e l’odore di Ivy, consapevole
che, molto probabilmente, non avrebbe mai più avuto occasione simile. Quando
lei si allontanò da lui, ritornò immediatamente a guardarlo. Aidan fece lo
stesso: «È la bocca sbagliata» sussurrò, alludendo a David. Lei abbassò gli
occhi, scostandosi una ciocca di capelli, incastrandola dietro all’orecchio.
Scese dal muretto, si sistemò appena i vestiti e si avviò verso l’ingresso
della sala. A metà strada circa, si voltò verso il giocatore: «Perché non vieni dentro? Si gela qui fuori»
disse, per poi riprendere a camminare.
Aidan rimase immobile a osservare il punto in cui
lei era appena scomparsa, consapevole che, una volta rientrata nel locale, si
sarebbe certamente ricongiunta a David. Si spettinò i capelli con entrambe le
mani, ripensando a quel leggero bacio che si erano appena scambiati e che era
volutamente partito dalla bocca di Ivy. Aveva il caos dentro di sé, il caos più
totale. Non era sicuro di avere fatto le mosse giuste, non aveva assolutamente
idea se un giorno si sarebbe pentito o meno di ciò che aveva detto in quelle
ore. Aveva una sola certezza, che cominciava già a divorarlo dentro: per
dimenticare quella sera gli ci sarebbe voluto molto, molto tempo.