Ricordi di un Cantastorie

di elfin emrys
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


Ricordi di un Cantastorie
 
“Ti ricorderai del nostro amore, quando non sarò più? Quando la Storia cambierà il suo corso?”
Il ragazzo posò una carezza sul volto dell’amato, guardandolo negli occhi azzurri. Si avvicinò al suo viso, deponendovi un bacio.
“Sempre.”
-Signor Vargas? Signore?
Feliciano aprì gli occhi, guardando con espressione pigra la giovane che l’aveva svegliato. La luce filtrava attraverso le tapparelle abbassate solo a metà e la finestra aperta faceva entrare un vento caldo. L’anziano spostò lo sguardo verso l’orologio appeso sulla parete bianca e sobbalzò capendo quanto aveva dormito.
-Mi dispiace disturbarla, signore, ma il medico è venuto a visitarla.
Feliciano sorrise all’infermiera.
-Ah, certo. Mi attende da un po’, immagino.
Si alzò lentamente, rifiutando l’aiuto della giovane, che tuttavia si premurò di seguire con le mani i suoi movimenti stanchi. La ragazza gli porse il bastone intagliato e Feliciano lo prese, dirigendosi lentamente verso la grande porta a vetri che dava sul corridoio. Fra le pareti risuonavano le risate roche di alcune signore che si erano radunate in una delle sale a giocare a carte.
-Ah, signor Vargas! Venga anche lei, la prego.
L’anziano sorrise loro dolcemente, accennando a un piccolo inchino.
-Mi rincresce di dover rifiutare l’invito di voi belle signore -le donne ridacchiarono, guardandosi fra di loro- ma, purtroppo, i doveri della vecchiaia mi chiamano.
L’infermiera coprì con la mano il sorriso che le era nato spontaneamente vedendo il rossore sulle guance delle signore. Anche se un tempo alcune di loro erano state distaccate nei confronti dell’altro sesso, l’anzianità, il tempo e, forse, un briciolo di saggezza in più avevano ricucito lo strappo che avevano considerato così tanto prezioso. Il signor Vargas era sempre molto galante con tutte le donne della casa. Aveva una cortesia particolare, tutt’altro che sgradevole, che lo rendeva così simpatico e piacevole a tutti coloro che entravano in contatto con lui.
Feliciano salutò con un inchino accennato le signore e continuò a camminare con calma, girandosi ogni tanto per vedere se l’infermiera lo seguiva. Uscì dal corridoio verde e salì sulle scale, che scricchiolarono in maniera assordante al suo passaggio. Ogni giorno dicevano che qualcuno avrebbe dovuto sistemare quelle scale, ma nessuno sentiva davvero il bisogno di curare i malumori di una casa così antica. L’anziano si fermò qualche secondo a metà del tragitto, riprendendo fiato (questo facevano il caldo afoso e la vecchiaia!). Ogni tanto diceva che ci sarebbe morto su quelle scale e le persone ridevano, cercando di coprire il fatto che, alla sua età, sarebbe anche stato possibile. Riprese la salita, tenendo il bastone per camminare stretto nella mano sinistra e scorrendo la destra sulla ringhiera di legno.
-Le do una mano, signore?
-Grazie per la cortesia, Anna, ma credo di reggermi ancora. Forse.
La ragazza annuì poco convinta e continuò a osservare con apprensione i movimenti del vecchietto. Il signore arrivò incolume fino in cima alle scale e si avviò con calma verso la stanza dove, di solito, facevano ricevere il medico. Un tempo vi era un dottore di trent’anni che alloggiava nella casa, ma era morto tempo prima in un brutto incidente durante un viaggio: un giorno era uscito e, semplicemente, non era più tornato. La tristezza allora aveva investito l’intero edificio e tutti i suoi abitanti, poiché un uomo così giovane era morto così improvvisamente, mentre loro, vecchi e malandati, erano ancora vivi. Da allora veniva direttamente il medico della cittadina a pensare a loro. Un uomo con più esperienza del povero deceduto e altrettanto simpatico.
-Ah, eccola, signor Vargas! Come sta oggi?
-Come sempre, caro Sergio. Queste ossa sono come quelle scale: potete sentire quando vengono usate a chilometri di distanza.
Il medico rise, facendogli cenno di sedersi sul lettino, e chiedendo all’infermiera di avvicinarsi.
-Ho sentito dire in paese che lei, signor Vargas, c’era quando l’Italia è caduta!
-Ah, dovrei essere molto più vecchio di così, non crede?
-Certamente, ma queste leggende hanno un ché di affascinante, non trova?
L’anziano sorrise.
-Tutte le leggende hanno un fondo di verità.
-Ma, così lei le alimenta, signor Vargas!
-Non ci trovo nulla di male nel farlo.
Feliciano si sdraiò sul lettino, seguendo i movimenti del dottore.
-Già nessuno sa cosa facesse prima di venire qui: ho sentito moltissime storie su come sia arrivato fin quaggiù. Qualcuno dice addirittura che lei fosse un soldato nella guerra in cui la Germania venne smembrata l’ultima volta, quella definitiva.
L’anziano sussultò a quelle parole. Mormorò un “Davvero?” con voce rotta e distolse lo sguardo.
-Signor Vargas, si sente bene?
L’uomo non rispose. Fece cenno con la mano di continuare tranquillamente la visita e si mise a fissare la parete bianca e lievemente crepata.
-È evidentemente una falsità, però… sì, questi miti a suo riguardo in qualche maniera le stanno bene addosso. Davvero.
Il medico si sentì morire la voce, vedendo l’espressione del suo paziente. Guardò l’infermiera, che scosse la testa con aria addolorata.
-Davvero… davverobene…
 
Feliciano strinse più forte le spalle nude di Ludwig, lasciandosi sfuggire un sospiro pesante. Poteva sentire le sue mani sui propri fianchi e il suo bacino scontrarsi con la sua pelle velocemente e con un ritmo quasi irregolare. Tentò di andargli incontro, ma il suo corpo stanco gli obbedì poco, spossato dal piacere raggiunto pochi secondi prima. Ludwig si piegò ancora di più sopra di lui, sentendo i muscoli dell’amante aprirsi e chiudersi al suo passaggio. Feliciano lasciò andare la testa indietro e sussultò sentendo l’altro liberarsi dentro di sé.
Il tedesco cadde vicino a lui e gli baciò le labbra. Feli gli passò una mano fra i capelli biondi scompigliati e rispose al bacio, posandogliene altri sugli angoli della bocca e sul mento. Rise, sentendo Ludwig stringerlo a sé e cercare con il viso il suo collo.
Una vibrazione d’avvertimento e il cellulare posato sul comodino cominciò a intonare l’Inno alla Gioia.
“Ve, no, non rispondere…”
“Ha suonato almeno quattro volte anche prima, mentre...”
Feliciano sorrise davanti a quell’imbarazzo ingiustificato e seguì con il palmo della mano il braccio dell’altro, teso a prendere il telefono. La poggiò delicatamente sul suo polso, mentre Ludwig rispondeva cercando di sembrare il più tranquillo possibile.
“Hallo. Ja.”
Feliciano gli baciò la giugulare e accennò a un morso sul collo. Il tedesco gli sorrise e con la mano libera sulla sua faccia lo allontanò.
“Ja. Was ist los?”
Il ragazzo cercò di lottare per liberarsi di quella mano e continuare il suo lavoro.
“…Was?!”
L’italiano smise di giocare, vedendo il sorriso sul volto di Ludwig scemare.
“Che è successo?”
“Prendi il tuo telefono!”
Feliciano scattò in aria sentendo il tono allarmato della voce dell’altro e cercò il proprio cellulare nella tasca dei pantaloni lasciati a terra. L’aveva messo in silenzioso appena si era spogliato e quindi non aveva sentito nien… Feliciano sbarrò gli occhi. Sette chiamate perse dal proprio capo e altre otto da Lovino.
Guardò indietro e cercò con lo sguardo Ludwig, che si stava rivestendo velocemente e stava quasi gridando al cellulare.
Cosa era successo?
Feliciano si riscosse, sentendo le voci dei volontari del paese risuonare nella stanza dall’atrio della casa. Guardò l’orologio e sorrise. Sempre in perfetto orario quei ragazzi. Venivano quattro volte a settimana ad aiutare le infermiere e a tenere compagnia a loro anziani: erano sempre straordinariamente gentili, con tutta la gioia della giovinezza. Era un piacere vederli e sentirli parlare e tutti loro sentivano una profonda felicità nel vedere quanto quei giovani sembrassero lontani dai tragici eventi che avevano sconvolto i secoli prima. Neppure loro, per quanto vecchi, avevano vissuto le profonde guerre che avevano segnato la fine delle nazioni, poiché la vicenda si era dichiarata chiusa quando i loro genitori erano ancora molto, molto piccoli (alcuni, neppure erano nati!). Ma l’educazione impartita loro dai nonni e dai nonni ai genitori era rimasta per molto, molto tempo, prima che l’età li rendesse troppo deboli per continuare a essere severi. Invece, quei giovanissimi avevano una dolcezza tutta diversa, di chi ancora si ricordava quanto facilmente si potesse cadere nel fango e di chi si era ripromesso che non sarebbe accaduto mai più. Avevano la speranza di un futuro diverso e credevano davvero di poter riuscire a cambiare il corso della storia con quell’approccio così entusiasta, così fresco e gioioso.
Una giovane ragazza si affacciò dalla porta a vetri del salotto e mosse la mano in segno di saluto in direzione dei signori e delle signore. Aveva portato con sé un vecchissimo libro e voleva sapere se uno di quegli anziani volesse leggerlo con lei. Dietro apparvero lentamente tutti gli altri. Alcuni portavano antichi giochi da tavolo, altri dei gomitoli o dei ferri per continuare a imparare quelle piccole cose che la signora Daria insegnava loro, altri ancora avevano portato delle caramelle o dei dolci fatti da loro per rallegrare un po’ l’umore, altri avevano portato semplicemente le loro orecchie per ascoltare qualche fantastica storia.
Feliciano sorrise alla giovane Angela, che si sedeva sempre vicino a lui ogni volta che veniva.
-Buongiorno, come sta oggi?
-Molto bene, grazie, cara. Prego, siediti qui vicino a me.
-Grazie, signore.
La ragazza si accomodò sulla sedia di legno e frugò nella tasca dei pantaloni.
-Allora, cosa mi hai portato oggi?
-Ecco, ho trovato questa foto dentro un libro nella cantina di quella casa abbandonata prima della Guerra Totale… È stato un po’ difficile tenerla perché è molto delicata, ma l’ho messa dentro una scatoletta e spero si sia mantenuta bene.
Angela tirò fuori un piccolo contenitore di metallo e la aprì. Dentro c’era una foto in bianco e nero, probabilmente ritagliata da un libro di storia visto che pareva successiva al periodo che ritraeva.
Feliciano la prese delicatamente e la avvicinò al viso. Annuì.
-Sì, è una foto dalla Seconda Guerra Mondiale.
La ragazza spalancò gli occhi.
-Seconda Guerra Mondiale?
-Sì, vedi?
L’anziano si avvicinò alla ragazza e le indicò un uomo nella foto.
-Vedi questa uniforme? È un’uniforme italiana di quel periodo. Stiamo parlando del 1940 circa.
-1940! È così tantoantica?
-No, la foto no, è più moderna, probabilmente dell’inizio ventunesimo secolo.
Angela prese la foto, guardandola come si poteva guardare un fantasma.
-Ventunesimo secolo… È antichissima!
Feliciano rise, coprendosi gli occhi con una mano.
-Sì, se vuoi vederla così. A me sembra così recente…
La ragazza rimise la foto dentro la scatola con ancora più cura e la guardò come se fosse la cosa più preziosa che avesse mai avuto fra le mani.
-Mi racconta la Seconda Guerra Mondiali, signore?
-Mh?
-La Seconda Guerra Mondiale. L’ho letta in qualche libro molto vecchio, ma nessuno sa dirmi precisamente cosa sia successo.
-E cosa ti fa pensare che io lo sappia?
-Beh, lei mi ha detto che questa foto ne ritrae un’altra di allora. E poi lei sa sempre tutto, signor Feliciano! Le potremmo portare anche qualcosa del, non so, del diciottesimo secolo e lei saprebbe dirci che cos’è e da dove viene e saprebbe raccontarci la storia di quel periodo come se lei fosse stato là. Si sapevano così tante cose prima della Guerra Totale, ma poi è andato quasi tutto perduto, tranne che per lei.
L’anziano distolse lo sguardo da quello della ragazza e sorrise tristemente.
-È così che nasce la leggenda che io abbia davvero vissuto tutti quei periodi, vero?
-Credo di sì, signore. Lei racconta tutto con precisione, come se l’avesse vissuto veramente e, invece, a noi paiono tutte favole che appartengono a un mondo lontano lontano.
Feliciano si sistemò meglio sulla poltrona, mentre vedeva qualche altro curioso avvicinarsi per sentire la storia. Angela si protese in avanti, facendo cenno alla sua amica Ofelia di venire a sentire quello che l’anziano signore aveva da raccontare. Qualche altro vecchio mosse leggermente la sedia nella sua direzione, pronto ad ascoltare cose che da giovane aveva sentito solamente alla lontana, oppure non aveva sentito affatto, persi com’erano da generazioni nel solo pensiero di sopravvivere. Feliciano li guardò tutti e attese che ci fosse abbastanza silenzio per cominciare.
-Allora, per parlare della Seconda Guerra Mondiale dobbiamo andare molto indietro, anche prima del suo effettivo scoppio, nel 1939. Dobbiamo arrivare, addirittura, al 1883, vicino Forlì, dove nacque un uomo di cui forse i più anziani fra noi avranno sentito parlare…
Li guardò tutti, notando le loro facce confuse e già rapite dalla storia. Feliciano si fermò un attimo, chiuse gli occhi e, sospirando, iniziò a raccontare.
 
Angela si girò l’ultima volta a salutare il signor Feliciano, che, affacciato alla finestra, li osservava. Non vedeva l’ora di tornare dopo due giorni: la storia di quel pomeriggio era stata davvero avvincente e davvero strana. C’erano tante cose che non era sicura di aver capito e tante su cui aveva molte domande. Per esempio, già si stava dimenticando alcune delle nazioni che erano state nominate.
-Ofelia?
-Sì?
-Stavolta faccio il giro lungo. Devo passare prima dal dottore ché la signorina Gabriella mi ha detto che una signora s’è sentita poco bene questa mattina.
L’amica annuì e la salutò, mentre Angela girava sulla strada per i campi. Camminò dritta sulla strada sterrata, mentre le voci dei suoi amici cominciavano a non distinguersi più, finché non le perse del tutto. Si fermò a guardare l’orto degli Esposito, poi continuò a camminare approfittando del sole estivo che stava tramontando. Angela tagliò in mezzo alle piante di rosmarino che crescevano selvatiche ai lati della strada e cominciò a camminare in a una viottola stretta che tagliava a metà il campo di tulipani rossi. In realtà le venivano un po’ i brividi quando vi passava: la leggenda diceva che un tempo su quella terra si era svolta una terribile battaglia in cui erano morti quasi tutti i soldati di entrambe le fazioni. Una volta terminata, gli abitanti di un villaggio vicino erano andati sul posto a vedere e avevano trovato, come unica cosa rimasta viva, un tulipano rosso. Da allora la popolazione coltivava quei fiori in quel preciso luogo, come ricordo della vita che continuava anche quando tutto sembrava perduto.
In realtà quell’anno avevano avuto una fioritura piuttosto insolita e longeva, che aveva portato grande gioia e speranza all’intera popolazione.
Angela guardò il sole. Il cielo arancione lasciava come dei riflessi sui fiori, il cui colore sembrava ancora più vivo. Lontano, dall’altra parte, a est, già si vedeva spuntare un azzurro cupo che lentamente diventava blu mano a mano che scendeva verso il suolo.
La ragazza sorrise e continuò a guardare avanti, intravedendo in lontananza la casa del medico, che era stata costruita tanto tempo prima poco fuori il villaggio per evitare il dilagare di malattie.
Angela si fermò pochi secondi a guardare il tramonto e già una lieve brezza notturna le accarezzava il viso. La giovane fece pochi passi avanti e sobbalzò appena rigirò lo sguardo sulla stradina.
Un giovane uomo vestito di scuro stava in mezzo alla via. Si stagliava alto e robusto sopra il rosso del tulipani e il giallo striato del cielo.
-Mi scusi… Non… non l’avevo vista…
Angela fece un passo indietro, stringendo le mani dentro le tasche. L’uomo si tolse il cappello, mostrando dei capelli biondi ordinati e un paio d’occhi azzurri e severi.
-Buonasera, Fräulein.
Aveva un accento strano. La giovane lo guardò con diffidenza.
-Io… non mi chiamo “Froilain”.
L’uomo accennò a un sorriso.
-Lo so.
Sembrava un uomo rispettabile, ma quegli abiti strani, quel cappello rigido, dalla visiera scura e lucida le mettevano angoscia, addirittura terrore. C’era qualcosa che non andava in quello straniero, come se non dovesse trovarsi lì. L’uomo ricominciò a camminare, le passò vicino con passo pesante e lei poté vedere meglio il suo viso ben definito. Angela fece qualche passo in avanti velocemente, poi si girò –troppa era la curiosità oltre al timore- a guardare lo sconosciuto. Lo vide camminare con calma, risistemarsi il cappello sulla testa. Batté le palpebre una, due volte, continuò a fissarlo. Guardò in avanti, verso la sua destinazione, poi si rigirò e sussultò. Iniziò a correre verso la casa del medico.
L’uomo era scomparso.
 
Feliciano si lasciò andare all’angolo della strada. Le persone quasi correvano andando da una parte all’altra della città. Era l’Inferno. Sapevano che presto anche quel luogo, con la sua storia, i suoi monumenti, la sua bellezza, sarebbe stato buttato giù. La popolazione, divisa fra chi sarebbe morto con la propria città e chi la avrebbe abbandonata al suo destino, lottava, ognuno per andare dove doveva andare.
Feliciano sentì gli occhi inumidirsi e bruciargli. Tirò su col naso, tentò di alzare la testa, ma la lasciò ricadere lungo lo stipite del portone di quel palazzo. Con il piede spinse un pezzo di vetro, in cui si vide riflesso. Stanco, era, e sporco di terra sulle braccia, sui vestiti e su parte della faccia.
Quanto tempo era stato sdraiato accanto a quella tomba? Quanto tempo era stato senza mangiare, né bere? Feliciano aveva visto il sole e la luna scambiarsi molte e molte volte. Aveva sentito i morsi della fame e la secchezza della sete nella gola. Mal di stomaco, mal di testa. Si era sentito troppo stanco per alzarsi o per muoversi. Solo, ogni giorno girava la testa verso la scritta sulla lapide. Ogni notte guardava i riflessi di quelle lettere metalliche.
Non aveva mai visto una nazione morire, Feliciano.
Sarebbe voluto morire vicino a lui, ma il tempo era passato senza che la morte lo prendesse. Perché? Perché nonostante non mangiasse, bevesse o dormisse, continuava a vivere, a respirare?
Perché la sua nazione era ancora viva, mentre quella di Ludwig era ormai sepolta con lui?
“Feliciano?”
Sentendosi chiamato, alzò gli occhi. Sbatté le palpebre, cercando di riconoscere il viso che gli stava di fronte.
“…Romano?”
Si svegliò, tossendo spasmodicamente. Si batté la mano sul petto, cercando di tornare a respirare bene. Feliciano allungò la mano verso il campanello sul comodino, ma lo urtò facendolo cadere. Sudava freddo, sentiva un peso sullo stomaco. Il campanello fece un rumore assordante che rimbombò nella sua testa, fin dentro le ossa del cranio. Tossì ancora, cercando di rialzarsi, di respirare regolarmente. Poi il peso passò esattamente come era arrivato.
Un’infermiera entrò a tutta velocità dentro la stanza, rossa in viso.
-Signore!
Feliciano le fece cenno con la mano.
-Sto bene, ora, sto bene.
-Dio, Signor Vargas!
La donna gli si avvicinò con aria angosciata.
-Cosa è successo?
Dietro di lei apparve un giovane infermiere. La collega lo guardò.
-Corri a chiamare il medico.
Feliciano le prese la mano.
-Sto bene, ora. Il dottore mi ha visitato l’altro ieri.
-Allora il dottore dovrà rivisitarla.
La donna guardò il viso pallido dell’anziano e gli strinse la mano. Era la prima volta che il signor Vargas si sentiva male.
 
-Non capisco.
L’infermiera guardò il medico con aria preoccupata.
-Non capisco, pare che stia benissimo. È un po’ più acciaccato dell’altro ieri, ma… respira regolarmente, il cuore batte come quello di un giovincello. Forse dovrei fare degli esami più approfonditi.
Feliciano sorrise al dottore.
-Sto benissimo, Sergio.
-Benissimo non direi: ha avuto una crisi respiratoria durante la notte, signor Vargas. Non sono cose da sottovalutare.
L’anziano si alzò dal lettino aiutato dall’infermiera. Il medico stava scrivendo sulla sua cartella. Diede un foglio alla donna e le diede delle istruzioni che Feliciano non capì: troppi paroloni. Sergio gli diede una pacca sulla spalla e gli sorrise.
-Non si preoccupi. Nonostante l’età, lei è sempre stato sano come un pesce.
Il vecchio rise, scuotendo la testa. Era vero, era sempre stato bene. Sempre, anche quando non voleva. Eppure, quella notte… per la prima volta aveva davvero sentito come se avesse fatto un passo più vicino alla propria ora. Per la prima volta aveva sentito il respiro morirgli, come se qualcuno gli stesse stringendo i polmoni, impedendo loro di allargarsi per ricevere aria.
Feliciano uscì dallo studio del medico, cominciando a scendere per andare nella grande sala da pranzo a fare colazione. Salutò con un sorriso e un complimento una signora che stava invece salendo e la sua accompagnatrice.
Sentì un giramento di testa.
-Tutto bene?
Guardò l’infermiera che lo stava scortando.
-Credo di sì.
Ricominciò a camminare.
 
 
Note di Elfin
E finalmente ce l’ho fatta :D Questa storia ha fatto un giro che neppure vi immaginate: credo sia una delle poche cose che io abbia mai scritto che era partita come Originale… ed è finita fanfiction XD Di solito è il contrario, ma pazienza.
Commento di Vale alla storia: “Questa storia è piena di panzeresce!” XD
Spero vi piaccia! Originariamente doveva essere una one-shot, ma poi ho visto che erano 26 pagine e mi sono detta che… che no. Tre capitoli in tutto, già rivisti, corretti, eccetera. Il secondo capitolo ci sarà sabato prossimo!
Lasciate una recensione, mi raccomando, così che mi rialzi il morale ;D E così che mi ritorni la pace, che ho un esame fra cinque giorni e a causa dell’impulso creativo di questa fanfiction sto ancora a carissimo amico -.-“
Grazie intanto per aver letto, ci sentiamo sabato prossimo (o, se commentate, appena vi rispondo XD) ^-^
Kiss

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Capitolo 2
*** 2 ***


Ricordi di un Cantastorie

 

Feliciano sorseggiò il caffè, guardando il libro che aveva trovato nella piccola biblioteca della villa. Era un libro di storia, uno dei pochi rimasti, e raccontava come si era svolta la Guerra Totale. Immaginava che cambiare argomento e passare a eventi più recenti avrebbe fatto bene ai ragazzi e ad Angela. Avrebbe potuto raccontargliela direttamente lui, ma, a causa dei terribili sentimenti che accompagnavano i suoi ricordi, aveva preferito un approccio più distaccato. Se la Seconda Guerra Mondiale gli sembrava vicina, la Guerra Totale ancora gli sembrava si stesse combattendo nella sua testa. Non faceva altro che vivere e rivivere quei momenti, ogni notte, ogni volta che si addormentava.

Era qualcosa che non avrebbe mai dimenticato.

Feliciano guardò l’orologio. Un solo minuto e sarebbero arrivati, puntuali come al solito. Era sorprendente quanta buona volontà ci mettessero. Alcuni di quei giovani volontari avevano nella casa i nonni, alcuni addirittura i bisnonni, era vero, ma per persone come lui, che non erano nessuno, era straordinario.

Eccoli, ne sentì le voci, come sempre, nell’atrio. Li sentì ridere alla battuta di un infermiere, forse Michele. Sorrise mentre li vedeva entrare nella sala, portando dietro di sé gli oggetti della giornata. Angela entrò per ultima e si avvicinò lentamente a Feliciano, salutandolo e sedendosi vicino a lui con aria pensierosa. C’era qualcosa che non andava e l’anziano glielo leggeva in viso, tuttavia cercò di apparire il più rilassato possibile: sapeva –e sperava- che Angela gli avrebbe raccontato cosa l’angosciava, se fosse stata una cosa importante.

-Guarda oggi che t’ho portato.

L’uomo tese il libro verso la ragazza. I suoi occhi si illuminarono e lei sorrise, guardando Feliciano.

-Che cos’è?

-È un libro di storia.

-Della Seconda Guerra Mondiale?

-No, la Guerra Totale. Ho pensato che andare più avanti col tempo non facesse male, ma se preferisci qualcosa di più antico…

-No no, va benissimo! Parliamo così poco della Guerra Totale. Sembra quasi un tabù. Sarà perché è passata da poco?

Feliciano annuì: era straordinario quanto quella considerazione che pareva così innocente nascondesse in realtà qualcosa di vero, un errore che era stato ripetuto e ripetuto e ripetuto nel tempo. Le guerre, vinte o perse, bruciavano sempre per molto tempo nell’animo dei popoli che vi avevano combattuto.

Angela aprì il libro, sfogliando le pagine e fermandosi ogni tanto a leggere le didascalie alle immagini.

-Lo posso portare a casa? Oggi avrei tante domande da farle su quello che ci ha raccontato la volta scorsa e forse il tempo non ci basterà per questo.

-Ma certo. Possiamo parlare della Guerra Totale quando vuoi. Basta che chiedi se puoi portarti il libro a casa a una delle infermiere: si appunteranno il tuo nome, il titolo del libro e la data, in maniera da essere sicuri che il libro ritorni (anche se sappiamo tutti che lo riporterai perfettamente intatto). Intanto vedilo un po’, mentre io finisco il caffè, così potremo parlare con calma.

La ragazza annuì, andando all’indice. Cercò una sezione sulle divise. Le uniformi le interessavano sempre moltissimo. Avevano un qualcosa di affascinante e potevano essere di così tanti colori e generi che la divertiva cercare di impararle a memoria, così da poterle riconoscere bene come faceva il signor Feliciano.

Angela cominciò a saltare le pagine cercando il pezzo che le interessava e si fermò all’inizio del capitolo. Cominciò a sfogliare il libro lentamente, guardando bene tutte le divise, soprattutto quelle femminili. Erano tutte molto simili, molto diverse da quelle più antiche che aveva visto. Osservò bene le nazioni corrispondenti. Si fermò un attimo a osservare le divise francesi, poi girò pagina e si bloccò. Impallidì.

-Tutto bene?

Angela annuì in direzione di Feliciano, poi ricominciò a fissare l’immagine. Accarezzò con le dita la figura. Controllò la nazione corrispondente: “Germania”.

Quell’abito, quel cappello… Angela rivide l’uomo che aveva incontrato nel campo di tulipani. Lo rivide benissimo, ricordò la leggenda della battaglia che s’era svolta su quel suolo, si ricordò come era apparso e come era sparito. Poteva essere auto persuasione, ma era davvero convinta che l’uomo fosse vestito esattamente come quello dell’immagine.

-Figliola, sei pallida come un cencio.

-No… Sto bene, credo. Sì, sì, sto bene. Solo, mi sembrava… Niente di importante.

Tentò di sorridere all’uomo, che la guardava attentamente da dietro la tazzina. Non poteva spiegargli quello che aveva visto. Piegò l’angolo della pagina e, cercando di riprendersi, fece mente locale sulle domande da fare.

Avrebbe visto poi cosa pensare di quell’avvenimento.

 

“È una missione troppo importante. Da questo potrebbe dipendere l’esito della guerra, non posso assolutamente evitarlo.”

“È troppo pericoloso persino per noi nazioni, non posso permettertelo!”

“Italia! Non mi pare di star parlando di qualcosa di facoltativo.”

“Ma…”

“Nessun ‘ma’!”

“Ma se non dovessi ritornare più?”

Ludwig si girò verso di lui. Lo prese fra le braccia, sorridendo davanti alla faccia angosciata dell’altro.

“…Feliciano, io tornerò sempre per te. Sempre.”

Il respiro si fece improvvisamente pesante, sempre di più. Sentì come una mano calcargli sul petto, impedirgli di prendere fiato.

L’anziano cercò nuovamente con la mano il campanello, cercando di non farlo cadere questa volta. Lo prese e lo scosse violentemente, mentre cercava di respirare. Forse gli serviva dell’acqua, forse gli serviva solo sollevarsi di più dal letto. Cercò di chiamare anche a voce l’infermiera, ma non uscì nessun suono dalle sue labbra. Il panico si impossessò di lui.

Qualcuno aprì la porta con forza e gli venne vicino, ma la sua mente annebbiata non riuscì bene a riconoscere il volto che gli stava di fronte. Sentì delle istruzioni, cercò di seguirle al meglio, ma non servirono a nulla. Una seconda persona entrò, poi una terza che corse fuori subito dopo. Feliciano cercò ancora di respirare, si portò una mano sul petto.

Poi la crisi, come era arrivata, da sola, passò.

 

Feliciano si rigirò nel letto. Alla fine avevano deciso di fare qualcosa a metà: il medico sarebbe arrivato la mattina prestissimo, durante la notte solo se ci sarebbero stati altri problemi. Sergio teneva moltissimo alla salute di tutti i suoi pazienti, ma sapeva bene che non c’era bisogno di un suo aiuto impellente e, probabilmente, sarebbe stato meglio controllare la salute del signor Vargas quando sarebbe stato più sveglio e riposato. Ordinò tuttavia che il campanello fosse avvicinato ulteriormente al letto dell’anziano.

Gli infermieri facevano dei gruppi a turno per controllare che stesse bene. Feliciano continuò a far finta di dormire, cercando di convincersi che, prima o poi, il sonno gli sarebbe tornato. Si sistemò meglio, continuando ad ascoltare le chiacchiere sommesse degli infermieri di quel turno.

-Il povero Valente sta dando proprio di matto. Da quando è morta sua madre, poverino…

-Sì. Il dottore gli ha consigliato di prendersi un lungo riposo. Pensate che ha addirittura affermato di aver visto un fantasma.

-Un fantasma, veramente?

Si sentirono dei mormorii preoccupati. Valente era sempre stato molto triste e nervoso dal suo lutto familiare: era diventato lunatico e un po’ più maldestro, era vero, ma matto non lo era mai stato. Era un uomo tutto d’un pezzo sotto certi punti di vista, sanissimo, e raramente si ingannava quando vedeva qualcosa. Era, insomma, una di quelle persone che avevano quasi sempre ragione. Dire che quell’uomo aveva visto un fantasma… non era solo straordinario, era singolare.

-Dice di averlo incontrato che usciva dal campo di tulipani.

-Il campo di tulipani?

-Sì sì, pare che questo fantasma gli sia passato accanto e aveva una divisa proveniente dalla Guerra Totale.

-C’è la sartoria che un tempo apparteneva alla signora Daria che ha ancora delle uniformi di allora: qualcuno ha voluto fare uno scherzo idiota e lui, a causa della sua situazione non totalmente stabile, ci ha ricamato sopra.

-Valente dice di essere andato a chiedere e che gli hanno detto che nessuna uniforme manca e che, in generale, non le danno a nessuno. Dice anche che l’uomo è praticamente apparso e scomparso. Insomma, un vero e proprio spirito che s’aggira per le campagne.

Feliciano sentì qualcosa stringergli il petto. Un fantasma era una cosa anomala di per sé e quel racconto aveva qualcosa di particolare… Il suo intuito gli diceva di fare molta attenzione alle parole che sentiva, perché c’era qualcos’altro sotto che poteva non essere chiaro.

-Io non ci credo.

-Non si può essere inventato tutto, ma sicuramente quelli della sartoria si sono sbagliati.

-Forse era qualcuno che aveva la divisa a prescindere.

-Povero Valente…

L’anziano sentì il cambio del turno e le voci sommesse degli infermieri lasciare la stanza. Sospirò di sollievo capendo che quelli del turno dopo non avevano nessuna voglia di chiacchierare. Sperò di riuscire finalmente a prendere sonno, ma così non accadde.

L’immagine del fantasma del campo di tulipani lo perseguitò per tutta la notte.

 

Angela salutò i suoi amici, cominciando a camminare verso casa. Ormai il sole era tramontato del tutto e i suoi genitori la aspettavano per cena, nonostante il cielo non fosse ancora scuro. La strada era illuminata dai lampioni e dalla luce che proveniva dalle case.

Angela passò in mezzo alla piazza dove il bellissimo pozzo bianco spiccava in mezzo ai san pietrini scuri. Sorrise alle anziane signore sedute intorno al tavolo davanti alla casa dei Fregoli: stavano finendo di fare la pasta fresca che sarebbe stata cotta a breve. La ragazza si fermò un attimo a vedere gli annunci sulla bacheca del paese, cercando un piccolo lavoretto estivo che potesse ben conciliarsi con il volontariato a Villa Geranio (non avrebbe rinunciato per nulla al mondo alle visite al signor Feliciano).

-Niente anche stavolta…

Scosse le spalle e si allontanò dalla bacheca. Salutò il signor Valente che, col viso pallido e l’espressione pensierosa, si stava bevendo una birra seduto sulla panchina davanti all’unica taverna del paese. Angela aveva sentito delle voci, sul fatto che non stesse più bene, che forse si sarebbe preso un periodo di riposo dalla sua occupazione alla villa. Qualcuno diceva addirittura sarebbe partito verso il sud, per cambiare aria e vedere luoghi nuovi. Il motivo di quelle voci, tuttavia, la ragazza non lo sapeva e non lo voleva sapere: i pettegolezzi non erano mai buoni, specialmente per avere informazioni su una situazione triste e delicata come quella del signor Valente.

Angela si riscosse improvvisamente dai propri pensieri. Sentì un gran rumore, delle risate maschili, la voce di un bambino spaventato e quella di una donna che sgridava gli uomini divertiti. La ragazza si guardò intorno, cercando l’origine di tutto quello schiamazzo, e vide un gruppo di persone a cerchio all’angolo della via. Fece qualche passo dalla parte opposta, ma poi si fermò. Sembrava davvero che gli uomini si stessero divertendo, come se stessero ascoltando la storia più buffa del mondo: i bambini avevano un modo tutto loro di raccontare anche l’avvenimento più sciocco. Lo rendevano magico, in qualche maniera, lo abbellivano e decoravano con la loro fantasia. Probabilmente qualche stupidaggine era stata ingigantita così tanto da poter rappresentare a malapena la realtà. Angela si girò di nuovo, decidendo di tornare indietro e sentire la storia del ragazzino. Saltò un po’ dietro la piccola folla, cercando di capire chi fosse il bambino in questione.

Il piccolo Domenico Esposito stava al centro del cerchio. Una signora lo stringeva fra le proprie braccia, guardando male gli uomini che la circondavano.

-Angela!

Il figlio del macellaio le diede una lieve pacca sulla spalla. Il viso era talmente rosso da potersi dire viola. Le sue guance alzate sembravano fargli male mano a mano che cercava di smettere di ridere.

-Domenico, racconta ancora la storia del signore che hai incontrato.

Il bambino lo guardò con aria scocciata.

-Non era un signore, era un fantasma!

Un’altra risata.

-Non esistono i fantasmi, Menico.

-Beh, questo esisteva eccome! Stava lì e poi è scomparito!

Angela si coprì la bocca con la mano, cercando di non sottolineare con la propria ilarità l’errore del bambino.

-Valente t’ha raccontato la sua storia, eh?

La ragazza sobbalzò a quella domanda. Valente non era mai stato un uomo da raccontare storie, cosa mai avrebbe dovuto dire?

-Valente non m’ha raccontato popio nulla, io ho visto un uomo altissimo camminare sulla strada fra casa mia e il villaggio e basta.

Impallidì. La casa degli Esposito era sulla via per il campo di tulipani.

-Non capisco pecché ridete, uffa! A me mi pare possibile che ci fosse un fantasma.

Uno dei contadini, sorridendo, lo corresse.

-A me pare possibile, Domenico.

Il bimbo lo guardò.

-Eh, e anche a me!

Tutti risero all’equivoco. Qualcuno, asciugandosi le lacrime dagli occhi, mormorò un “Geniale”, mentre cercava di riprendere fiato. Rise anche Angela, ma la storia del fantasma non le piaceva. “Stava lì e poi è scomparso”, aveva detto Domenico. Era scomparso. E da quello che alla giovane sembrava di aver capito dalla conversazione e da alcuni commenti sentiti a caso in mezzo alle sghignazzate generali, anche Valente –quell’uomo tutto d’un pezzo- aveva raccontato, col cuore in gola, una storia simile.

La ragazza si sentì improvvisamente poco bene, pensando alle coincidenze fra quello che aveva vissuto e quello che sembrava avesse visto il bambino e, supponeva, anche un uomo.

Frugò dentro la borsa, prendendo il libro che il signor Feliciano le aveva dato. L’aveva portato per farlo leggere anche ai suoi amici, ma in quel momento le sembrava avere un’utilità maggiore. Lo aprì e sfogliò le pagine cercando quella con l’angolo piegato.

-Menico, per favore, guarda questa immagine. Era vestito così l’uomo che hai visto?

Il bambino la guardò, asciugandosi le lacrime di rabbia dalle guance. Diresse lo sguardo verso la pagina e i suoi occhi si illuminarono. Col ditino puntò l’immagine che aveva davanti, urlando che era proprio in quella maniera che era vestito lo spirito.

Angela, a quel punto, sgusciò via.

 

“Come hai potuto farmi questo.”

Non era una domanda. Feliciano guardò il fratello con lo sguardo scuro e corrucciato, con le labbra che tremavano dalla rabbia.

“Cosa? Farti sopravvivere? Oh, fidati, non cambierei quello che ho fatto per nulla, nulla in questo mondo.”

“Io non ce la faccio più, Lovino. Guardati intorno. Stanno morendo tutti, uno per uno e, un giorno, non molto lontano, toccherà anche a noi. Almeno… almeno sarei voluto morire vicino alla persona che amo.”

Romano poggiò le mani sopra il tavolo, guardando il fratello negli occhi.

“Non potevo lasciartelo fare. Abbiamo una nazione insieme, ricordi? E io non ho intenzione di morire, non ora.”

Feliciano abbassò lo sguardo.

“Se anche Antonio morisse, quale sarebbe il tuo desiderio? Continuare o raggiungerlo?”

Fissò il fratello e improvvisamente sentì un peso ulteriore al petto. Lovino aveva chiuso gli occhi e si era portato una mano alla spalla sinistra, come a coprire il cuore. Feliciano capì che era stato via troppo a lungo per poter sapere gli ultimi sviluppi della guerra e chinò il capo in segno di lutto. Non poteva sapere prima di quel momento che anche la Spagna era caduta, quasi un mese prima.

Romano si allontanò dal tavolo e guardò fuori dalla finestra, dando le spalle al fratello. Aprì le labbra più volte per parlare, ma non uscì fuori che un respiro mozzato. Si aprì un po’ la camicia, e unì le mani dietro la schiena.

“Cosa faresti se, improvvisamente, restassi da solo? Ricordare non scalda e non consola. Tu sai cosa si prova il giorno in cui una persona a te così tanto cara viene a mancare: ti senti perso in questo mondo troppo vasto. Un abisso dentro il cuore inghiottiva e rigettava le mie ore con lui. Quella notte non mi addormentai. Mi sembrava di essere tornato a molto, molto tempo fa… Però…”

Lovino alzò lo sguardo verso il sole.

“Oh, Feli, io… io non voglio lasciare nulla di intentato. Sento che il mio compito non si è ancora concluso. Qualcuno sopravvivrà a questa guerra e io voglio essere là a vedere quelle persone.”

Sospirò e la sua voce si piegò.

“Che gente di cuore, sarebbe! Un popolo davvero, davvero coraggioso.”

Il fratello lo guardò mentre il sole ne illuminava i contorni.

Feliciano passò un’ulteriore pennellata di blu sulla tela.

Quella mattina, quando il medico era arrivato, aveva avuto un’altra piccola difficoltà respiratoria. Si era accorto di non avere neppure tanta fame e aveva mangiato pochissimo da quella mattina. Nonostante Sergio non riuscisse bene a comprendere le ragioni fisiche di quell’improvviso peggioramento, in realtà gli era sembrato piuttosto sicuro di cosa fare. L’anziano era certo che la causa di quei problemi non fosse nient’altro che la vecchiaia: nella sua vita aveva visto un gran numero di persone andarsene senza alcun motivo particolare, abbandonando semplicemente il proprio corpo. Probabilmente, stava giungendo la sua ora.

Feliciano guardò il quadro, inclinando la testa.

Pensarci, tutto sommato, non faceva così male.

 

Angela scese le scalette della vecchia chiesa. Quando era andata a Villa Geranio quel pomeriggio le era stato riferito che il signor Feliciano non poteva uscire da camera sua per un po’ perché doveva fare degli accertamenti. Si era sentito male e, dal loro viso, Angela aveva capito che la situazione non sembrava troppo grave ma che era perlomeno curiosa. Le situazioni curiose erano sempre le peggiori, da come avevano imparato in tutti quegli anni: la fine della guerra aveva messo in luce molte malattie e la loro nuova ignoranza aveva riportato indietro problemi che prima erano stati dimenticati. Per questo, al ritorno, aveva deciso di fermarsi alla parrocchia per fare un piccolo Padre Nostro: sapeva bene che questo non avrebbe probabilmente aiutato il signor Vargas, ma valeva sempre la pena tentare.

Il prete, l’unico del villaggio, le aveva detto che era stato informato dalla signorina Gabriella e che alla messa del giorno dopo avrebbero fatto una preghiera perché il signor Feliciano si riprendesse. Angela era uscita un po’ più sollevata.

Sistemò il nuovo oggetto che aveva portato per l’anziano dentro la borsa e alzò lo sguardo. Intorno alla taverna c’era una grande folla. La ragazza fermò un ragazzino che stava entrando correndo in chiesa.

-Che è successo?

-È tornato Alfonso! Ha portato anche uno straniero, un bambino e un cavallo!

Angela lasciò il ragazzino, che ricominciò a correre chiamando il prete. Iniziò a camminare velocemente verso la taverna. Alfonso se n’era andato quasi cinque anni prima. Era tornato, ogni tanto, per un giorno solo a portare regali e a raccontare cosa aveva visto in giro per il mondo. L’ultima volta aveva portato con sé degli oggetti molto belli, vasi e gioielli e il signor Vargas aveva riso e aveva raccomandato a tutti loro di trattarli con cura perché erano più antichi di quanto potessero immaginare. Portarsi dietro uno sconosciuto, però, non era mai successo.

Angela si fece strada in mezzo alla folla. Alfonso era seduto sul tavolino con un bel bicchierone di acqua e, accanto a lui, c’erano un giovane uomo e un bambino piccolo. Lo straniero non era molto alto, ma aveva un’espressione davvero saggia, nonostante non avesse più di trent’anni. Il bambino (il figlio forse?) gli stava sulle ginocchia e si guardava intorno con aria curiosa.

-…Ed è stato allora che ho incontrato i miei nuovi compagni di viaggio! Mi hanno aiutato nei momenti di difficoltà e il giovane signore qui presente mi ha spiegato moltissime cose sulle rovine che vedevo. Mi ha detto “Conosci il villaggio così cosà?” e io gli ho detto “Ma certo, mio caro amico!” e siamo partiti insieme. Abbiamo incontrato molti piccoli villaggi, ma lui voleva raggiungere proprio questo! Quando capirò cosa è venuto a fare qui…!

Tutti risero e guardarono curiosi lo sconosciuto, che li fissò a sua volta in silenzio.

-E non solo, ho incontrato proprio prima di entrare nel villaggio un altro straniero. Un bambolone alto, tutto vestito di nero, con un cappello con la visiera lucida. Era tutto serio. Ma che attrattiva ci sarà mai in questo paese per attirare così tanti stranieri? La cosa più emozionante qui è la fila per andare a fare la comunione la domenica! Marce’, salti ancora la coda per arrivare primo, eh?

Marcello arrossì e abbassò lo sguardo, riconoscendo la propria colpa, e tutti risero intorno a lui. Qualcuno si guardò intorno, iniziando a sussurrare al vicino “Un uomo alto vestito di nero? Non è come l’uomo di Valente e di Domi? Non sta costeggiando il villaggio?”. Angela strinse le mani intorno alla borsa. Non riusciva a capire chi potesse essere o se era davvero un fantasma o meno. L’unica cosa su cui ormai era certa era che, spirito o meno, non se l’erano immaginato.

Nessuno di loro.

 

Angela aprì la porta lentamente, sbirciando attraverso la fessura. Feliciano stava leggendo vicino alla finestra. La ragazza entrò, chiudendo la porta dietro di sé.

-Buongiorno, signore.

L’anziano alzò lo sguardo e i suoi occhi si illuminarono vedendola.

-Ah, Angela! Buongiorno.

-Ho saputo che non sta molto bene…

-Già. Crisi respiratorie…! Ma nulla di troppo grave, non ti preoccupare, cara.

La giovane lo guardò in viso e impallidì: sembrava molto più vecchio dell’ultima volta in cui lo aveva visto. L’infermiera l’aveva avvertita, che a causa delle crisi non dormiva molto e che mangiava anche poco perché non aveva fame, ma non si aspettava qualcosa di così evidente. In pochi giorni era diventato più magro e le sue rughe si erano fatte più profonde. Come era possibile invecchiare così tanto in così poco tempo?

-Signore, io vorrei rimanere qui un po’ più del solito. Avrei… Tante cose da dirle. Mi servirebbe… non un consiglio, ma qualcosa del genere.

Feliciano rimise il segnalibro fra le pagine e poggiò il romanzo sul davanzale.

-Dimmi.

Angela esitò un attimo, poi iniziò il suo racconto. L’anziano la guardava sorpreso e incuriosito. La sua espressione si fece sempre più indecifrabile, incomprensibile al suo sguardo. La ragazza gli raccontò la storia dello spirito, del campo di tulipani, di Valente, di quello che aveva scoperto, del piccolo Menico e di Alfonso. Gli descrisse in maniera approfondita il fantasma, come era fatto, come era vestito, il fatto che l’aveva chiamata con quel nome strano… il suo accento curioso…

Feliciano sorrise, alla fine del racconto.

-“Io tornerò sempre per te. Sempre.”

-Come ha detto?

-Ve, mi stai venendo a prendere?

Angela spalancò gli occhi. Il sole accarezzava il viso dell’uomo, riempiendo le rughe di luce e inondandogli i capelli bianchi di raggi ramati, il ciuffo ribelle vibrava alla leggera brezza del tramonto. Sì, ecco… quell’uomo così anziano, per pochi secondi, era tornato giovane.

 

Feliciano guardò l’orizzonte. Tenne stretto il cestino coi dolci e si sistemò il giacchetto leggero per andare contro al vento, che si stava facendo sempre più freddo man mano che la sera avanzava. Sussultò, sentendo una mano poggiarsi sulla sua spalla. Si girò.

“Signora Ungheria…”

“Torna a casa, Feliciano.”

“Ma io… io devo aspettarlo.”

Elizabetha sorrise tristemente e gli accarezzò il viso, che cominciava a farsi più fino e meno infantile.

“Vedrai che tornerà domani…”

Feliciano cominciò a seguire la donna, col capo chino e con la morte nel cuore. Poi la vista di Ungheria e della casa si trasformarono, divenne tutto buio, stretto. Si guardò intorno non capendo cosa fosse successo. Si rese conto di essere dentro un contenitore e toccò le pareti, sentendole di legno. Sentiva urlare da fuori e vedeva una fessura far entrare un po’ di luce. Il panico si impossessò di lui.

“Ehm… Non ti avvicinare! Sono… Sono una scatola di pomodori fatata!”

Vide qualcosa di metallico entrare nella fessura, allargarla e scardinare il coperchio del contenitore, poi sentì quelle che sembravano delle mani cercare di aprire.

Italia guardò in alto, vedendo una figura stagliarsi contro la luce del sole. L’uomo si alzò leggermente il cappello, scoprendo bene il viso. Feliciano gli vide diventare le orecchie rosse, probabilmente per la fatica o forse…

Il vecchio spalancò gli occhi.

 

Angela si sistemò meglio sulla sedia. Aveva richiesto di poter rimanere là fuori fino a sera, un po’ per pensare, un po’ per preoccupazione. L’infermiere si era assentato un attimo per aiutare la signora Daria con le medicine che doveva prendere. Alzò lo sguardo, sentendo un rumore da dentro la camera del signor Feliciano. Si mise in piedi e aprì la porta, vedendo l’anziano portarsi le mani sul petto. Corse fuori, giù dalle scale, chiamando aiuto. Si scontrò con lo sconosciuto amico di Alfonso.

-Il signor Feliciano si sente male, si sente male!

Lo straniero sbarrò gli occhi e cominciò a correre su per le scale, seguito dalle infermiere che lo stavano scortando chissà dove e dal bambino che lo seguiva il più velocemente possibile. Angela corse loro dietro. Vide lo sconosciuto andare vicino al signor Vargas, prenderlo per le spalle.

-Feliciano! Feliciano, sono io!

Le infermiere allontanarono l’uomo e la ragazza, chiudendoli fuori dalla stanza e mandando una di loro a chiamare il medico, che ormai aveva deciso di alloggiare lì, vista la situazione del vecchio.

L’anziano guardò lo sconosciuto, con gli occhi umidi e persi. Alzò la mano verso di lui.

-…No…Nonno…?

Poi la porta si chiuse.

 

Note di Elfin

Eccomi qui :) Scusate se ho aggiornato oggi e non ieri, ma ero fuori città e non sono riuscita a tornare in tempo ^^”

Spero davvero che anche questo capitolo vi sia piaciuto ^-^ Il piccolo Domenico è il mio eroe *^* Nel prossimo capitolo ci sarà qualche spiegazione a… a robbaH. Sarà anche l’ultimo capitolo, quindi incrociamo le dita :)

Voglio assolutamente ringraziare Betchi_ che ha recensito lo scorso capitolo! Spero che anche questo abbia raggiunto le tue aspettative ;) Ringrazio, ovviamente, anche tutti i lettori silenziosi ^-^

Ci risentiamo sabato prossimo :*

Kiss

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Capitolo 3
*** 3 ***


Ricordi di un Cantastorie

 

Feliciano stava davanti alla tomba. Fissava il nome sopra la lapide, respirando in maniera irregolare e veloce. Lasciò scivolare lo sguardo sulle bandiere ai lati, sui fiori, su un unico fiordaliso poggiato davanti al sepolcro.

Si sdraiò lì vicino.

Non riusciva neppure più a piangere, ormai.

-…perché, non lo so. Ci sono tante cose che ancora non abbiamo ripreso da dopo la guerra. Ho attrezzature trovate che non ho idea a cosa servano. Per quel che sappiamo, potrebbe anche essere entrato in contatto con qualcosa di inquinato: lo sa, siamo uno degli ultimi villaggi prima della ex zona di guerra. Ma non le voglio mentire, questo improvviso invecchiamento, che è per lo meno curioso, mi preoccupa mol… Ah, si è svegliato!

Feliciano si guardò intorno. Una luce delicata entrava dalla finestra: era l’alba. Sentì un debole dolore al braccio e vide una puntura. Gli avevano fatto un’iniezione? Un bambino stava seduto su una sedia poco lontano a mangiare un biscotto e lo guardò con aria incuriosita. Non l’aveva mai visto.

-Feliciano?

L’anziano girò lo sguardo e vide Nonno Roma guardarlo con aria speranzosa.

-Vi lascio soli: immagino che sia da tanto che non vi vedete.

Sergio sorrise ai due uomini e uscì dalla stanza. Feliciano vide Angela addormentata all’angolo della stanza, su una poltrona. Sorrise.

-È voluta per forza rimanere qua. Ha mandato uno degli infermieri ad avvertire la famiglia. Ti deve volere molto, molto bene.

L’anziano annuì e cominciò a fissare l’uomo. Ora che lo guardava bene… probabilmente non era il nonno. Aveva le stesse linee del viso, lo stesso colore di capelli, aveva perfino quasi lo stesso sguardo, ma, no, non era lui. E poi la voce, aveva una voce diversa, meno profonda, con una strana inflessione che un tempo conosceva molto bene.

L’uomo rise, avvicinandosi al letto.

-Cazzo, davvero sembro così tanto il nonno?

Feliciano piegò la testa, iniziando a sorridere.

-Lovino?

-Già, ti sei invecchiato così tanto che non riconosci neppure tuo fratello? Anche se, a dirla tutta, anch’io sono diventato cresciutello.

L’anziano rise, tendendo le braccia a Romano per abbracciarlo. Non lo vedeva da molto prima della fine della guerra. L’altro gli si avvicinò, dandogli un bacio sulla guancia e stringendolo a sé. Feliciano sentì le lacrime scendergli sul viso: suo fratello era diventato così forte, così forte! Gli sembrava si fosse addirittura alzato di qualche centimetro (o forse era lui che si era abbassato).

-Sono così contento di vederti.

-Anche io, Feli.

Lovino gli sorrise, asciugandogli le lacrime con un fazzoletto e ignorando le proprie.

-Come…

Feliciano si soffiò il naso.

-Cosa hai fatto da quando ci siamo lasciati? Come sta il resto d’Italia? Come hai fatto a trovarmi?

Lui rise.

-Sono tante domande e la storia è davvero molto lunga.

Lovino si sedette al bordo del letto.

-Da quando ci siamo lasciati ho continuato a fare quello che avevo fatto fino a quel momento. Fra un combattimento e l’altro parlavo dell’Italia alle persone, credendo che questo potesse mantenerci in vita a entrambi. È stato difficile. I tempi erano davvero duri e io… ammetto che non avrei mai creduto di riuscire a sopravvivere. A un certo punto ho perso contatto con tutti gli altri. L’ultima notizia che ho avuto è stata quella della scomparsa di Francia, poi più niente.

Rise amaramente.

-Ci siamo così tanto distrutti a vicenda da aver distrutto l’intero mondo che avevamo costruito. La gente era così presa dalle fughe e dalla fame che smise di studiare, smise di raccontare, smise di cercare di tenersi stretto quello che era il mondo prima della guerra. La sopravvivenza era l’unica cosa che contava, capisci bene: le persone si rintanavano fra le macerie come topi prima che facesse buio. Molte città sono andate distrutte totalmente e la gente cominciò a spostarsi nelle compagne e sulle montagne, sperando di non essere trovata. A un certo punto tutto era andato così tanto alla malora da non riuscire più a capire chi stesse attaccando chi o cosa e perché: fra nazioni non comunicavamo più e alcune… molte erano andate perse. Era il caos più totale. Feli, io non so dove tu fossi in quel periodo, ma io non ho mai visto nulla del genere e prego ogni giorno che nessuno debba più sopportare una guerra come quella. Ormai non era più una guerra fra nazioni. Cioè, lo era in principio, ma poi si è trasformata ed è diventata guerra civile e dopo ancora semplicemente anarchia, una guerra gli uni contro di altri, a prescindere da chi fossero.

-Papà?

Il bambino tirò la manica di Lovino.

-Posso avere un foglio per disegnare?

L’uomo lo accarezzò.

-Certo, vallo a chiedere all’infermiere all’inizio del corridoio.

-Gazie!

Romano attese che il bimbo uscisse dalla stanza. Feliciano lo guardò con aria interrogativa e l’altro fece cenno, facendogli capire che ci sarebbe arrivato a breve.

-Poi un giorno, improvvisamente, la guerra è finita. La gente era troppo stanca di combattere e ormai era talmente poca che un gruppo di esseri umani raramente ne incontrava un altro. E poi, non c’era più nulla per cui lottare. L’onore? La gloria? A che ti servono queste cose in un contesto come quello… Vuoi difendere la tua nazione? La tua nazione morta? No… La gente ormai combatteva solo perché non aveva conosciuto altro e così decise di smetterla. Da allora ho cominciato a viaggiare per cercare i superstiti. Ogni tanto trovavo qualcuno che non riusciva a credere che fosse finito tutto.

Lovino sospirò, cercando di riprendere il controllo della voce, che si stava piegando al pensiero di quegli uomini e quelle donne.

-Per un po’ mi sono chiesto come cazzo era stato possibile che tutto fosse crollato, ma le chiese fossero rimaste più o meno in piedi ancora. Dopo, sai, col tempo, uno ci pensa e ammette quello che non vuole ammettere e ciò che la religione, come sempre, esce dalla porta e rientra dalla finestra: ho capito che quando erano tanti gli uomini si sentivano potenti, poi appena hanno cominciato a sentirsi un pochino soli hanno avuto paura. Che specie di codardi leccaculo.

Feliciano sorrise, riconoscendo la parlata elegante di suo fratello.

-Sono invecchiato un po’ in quel periodo, sai, e sono diventato così.  Non sono sicuro del motivo per cui sia successo né perché tu sia invecchiato così tanto… Forse è perché il nostro popolo ci vede come qualcosa di antico, qualcosa che non gli appartiene più. Credevo davvero che avrei continuato a invecchiare fino alla mia morte, che il mio tempo da nazione fosse finito. Poi è successo.

Lovino arricciò il naso, tentando di trattenere un’espressione di dolore. Si alzò e gli diede le spalle.

-Non so se fosse un sogno. Una notte qualcuno mi ha svegliato e quando ho aperto gli occhi lui era lì. Mi parlava, con quel suo solito sorriso del cazzo. Ah, mi ha detto che sarei dovuto stare qui per ancora molto tempo, che avevo ancora cose da fare. Tonio… Tonio mi ha detto che aveva aperto un passaggio per parlare con me in maniera che anche altre nazioni potessero farlo. Mi ha detto che dovevo andare verso la Spagna, che qualcuno mi stava aspettando. Devo dire che stavo un po’ strippando perché non avevo idea di chi dovessi andare a trovare. Avevo passato da poco i Pirenei quando ho visto un bambino giocare in mezzo a un prato. Capii subito che era lui quello che dovevo recuperare. Allora gli ho chiesto chi fosse e lui sai che mi ha risposto?

Lovino rise, vedendo il bambino rientrare con un bellissimo foglio grande e dei pastelli.

-Vieni qua, di’ allo zio qual è il tuo nome.

Il bimbo si avvicinò e sorrise all’anziano.

-Io sono l’Europa.

Romano rise ancora più forte, scompigliandogli i capelli.

-Ti rendi conto? L’Europa! Credo di aver riso per settimane. Anzi, ancora rido.

Si asciugò le lacrime dagli occhi.

-Proprio quando siamo tutti morti e a veramente nessuno frega più un fico secco, ecco che nasce l’Europa. Alla faccia di chi dice che Dio non ha senso dell’umorismo!

Feliciano rise un po’ con lui, poi Lovino riprese il discorso.

-Quella notte ho sognato il nonno. Sai…

L’uomo fece accomodare il bimbo al tavolino, poi si mise a guardare fuori dalla finestra.

-Mi sono sempre chiesto cosa avessi io del nonno. Tu… Tu eri il favorito di tutti, avevi il suo sorriso. Grecia aveva i suoi ciuffi ribelli. Addirittura quel cretino di Francia (pace all’anima sua!) aveva la sua barba. Antonio… Perfino Antonio aveva qualcosa di suo… ma io… A me non sembrava di avere qualcosa. Perfino nella morte andava a trovare molto più te che me! Credevo davvero di non contare un cazzo per lui, tanto che, durante la Guerra Totale, mi aveva abbandonato. Non ho mai ricevuto nulla che per me fosse importante da lui. Non un aiuto, non un buon consiglio, non una parola di incoraggiamento, nulla, o almeno fino a quel momento. Quella notte il nonno mi ha detto che gli era stato impedito di venire a trovarci per lo stesso motivo per cui erano morti in così tanti di noi: perché la gente non pensava più a lui. Però qualcosa stava cambiando, qualcosa si stava scuotendo all’interno dei villaggi di superstiti sparsi per il mondo. Mi ha detto che era fiero di me, che avrei guidato un popolo di coraggiosi e che aveva sempre saputo che “avevo la stoffa”, che era per questo che mi aveva lasciato Roma in eredità. Ah, per me erano tutte cazzate, ma l’aveva detto con uno sguardo così serio, così… così sincero, capisci? Mi venne in mente in quel momento, non so se ti ricordi, quello scritto di… Seneca, mi pare, che dice che si lascia andare il figlio del servo, ma che il proprio figlio lo si tratta severamente. Non che tu sia il figlio del servo, intendiamoci. Ma quella mattina mi sono svegliato e mi sono guardato specchiato in un corso d’acqua e ho visto quello che avevi visto tu: ho visto nostro nonno. Dio, non hai idea di quanto mi sia sentito forte in quel momento.

Feliciano gli sorrise.

-Lovino, tu sei sempre stato quello che più assomigliava a nostro nonno. A volte sembravi proprio lui. Il tempo ha solo fatto notare anche a te quello che a tutti noi era già ovvio.

Il fratello annuì.

-Forse è come dici tu, ma non era importante quello che vedevate voi. Era importante quello che pensavo io di me stesso. Dopo quell’ultima, insperata, visita ci fu il silenzio. Non mi apparve più nessuno per molti anni e io tornai in Italia con questo fagottino; mi rifugiai in Sicilia e scoprii che la città di Agrigento stava da incanto, scoprii che si ricominciava ad andare per mare. Andai su una barca e in mezzo al Mediterraneo incontrai una nave straniera e vi salii sopra. Puoi immaginare la gioia di vedere altri esseri umani in questo mondo ormai desolato. Non indovinerai mai chi ho incontrato lì e non hai idea della felicità che mi ha dato vederlo. Stava lì, vecchio quanto te, circondato dai suoi gatti. Anche Grecia mi guardò e si stupì nel vedere nostro nonno: gli ho dovuto far notare che non ero lui e che non potevo esserlo. Lui ha riso come un matto e mi ha iniziato a piangere addosso perché credeva di essere l’ultimo rimasto. Mi ha detto che l’ultima persona che aveva visto era stata Russia, ma molto tempo prima, quando c’era ancora la guerra, e che non era sicuro fosse ancora vivo. Credo che Europa abbia coccolato tutti i suoi gatti, comunque.

Il bimbo rise e ripeté “Gatti!”. I due fratelli scossero la testa.

-Poi sono salito un po’ e sono andato in quella che un tempo era la Campania perché stavo cercando quello che rimaneva di Napoli quando trovai una strada fatta da poco su quella che un tempo era una ferrovia. Scoprii che Napoli e Roma si erano di nuovo collegate, che ora gli abitanti di quelle microcittà che un tempo erano dei luoghi così vasti e popolosi si stavano aiutando a vicenda, anche se distanti. Ammetto che mi sono sentito orgoglioso di loro.

Lovino sospirò.

-E mentre stavo soggiornando a Roma, qualcun altro mi venne a fare visita.

Guardò il fratello e la sua espressione divenne improvvisamente triste.

-Sognai Germania. Mi disse di raggiungere questo posto e che sarebbe venuto a prenderti. Mi disse di cercare tale Alfonso e di farmi accompagnare da lui. Si raccomandò di fare in fretta, perché si sarebbe mosso solo in determinate ore del giorno e che avrebbe tentato di fare piano per farmi arrivare e per fare in modo che anche Europa ti conoscesse e salutasse. Ti pareva che quel crucco doveva portarmi solo una cattiva notizia!

-Ludwig ti ha parlato?

Gli occhi di Feliciano si illuminarono.

-Sì. Mi ha detto che non poteva parlare con te perché ormai sei una nazione troppo debole per riuscire a stabilire un qualunque tipo di contatto. Mi ha detto di dirti…

Lovino deglutì, come per mandare giù un boccone di una pietanza disgustosa.

-Mi ha detto di dirti che ti ama.

Le guance dell’anziano si colorirono e i suoi occhi si inumidirono.

-Ve, anche io, non ho mai smesso.

-Ugh, potevi aspettare di dirlo direttamente a lui, no? No, proprio a me dovevi dire questa schifezza sdolcinata.

Feliciano rise, nonostante le lacrime gli scendessero sul volto.

-Mi ha chiesto anche un’altra cosa.

Lovino gli prese una mano.

-Mi ha detto di chiederti se puoi raccontare qualcosa a Europa. Le ricorderà come favole della buonanotte, ma… Ma le favole sono insegnamenti che rimangono per sempre.

L’anziano gli sorrise e annuì, guardando la piccola nazione continuare a colorare.

Angela richiuse gli occhi, continuando a fingere di dormire. Non aveva capito nulla di tutto quello che era stato detto.

 

Feliciano sorrise, guardandosi indietro. Avevano dovuto lottare un po’ per convincere medico e infermieri a lasciarlo andare, ma alla fine avevano ceduto: dallo sguardo dell’anziano avevano capito che era una specie di ultimo desiderio, che non importava tutto quello che loro avrebbero fatto, perché lui si sarebbe semplicemente lasciato andare. Angela e Romano, che dovevano parlare riguardo allo spirito, lo guardavano da in cima alla collina di Villa Geranio, mentre si allontanava lentamente con Europa.

Alle orecchie del bambino, tutto pareva nuovo e incredibile e risuonava nella sua testa come echi, ai suoi occhi quelle storie erano solo profili di un mondo che era. La sua fantasia impreziosì i racconti, li trasformò e mutò.

Avrebbe pensato alla storia del Grande Imperatore, che aveva ingoiato il cosmo così che dai suoi occhi si poteva vedere l’intero universo, e i suoi due nipoti, cui regalò la terra prima di andarsene (per dove, nessuno lo sapeva).

La storia del Re degli Elfi che viveva sopra un albero d’oro che segnava il punto dove le due metà della terra si univano, gli era piaciuta. Il giovane re aveva forgiato la sua armatura splendente fondendo cinquanta stelle e grazie al potere da loro derivato era diventato un cavaliere tanto forte da poter spostare le montagne a mani nude.

E che dire del Principe Fenice, del leggero Spirito delle Nuvole dai lunghi capelli scuri e di suo nipote, lo Spirito delle Acque? Lo Spirito della Terra, che faceva nascere i suoi frutti cantando e suonando, insieme a uno dei due nipoti del Grande Imperatore. Come dimenticare il Principe Ranocchio, che aveva imparato l’arte della trasformazione per fuggire ai propri nemici ma che, in forma umana, era uno dei principi più belli che la terra avesse mai visto? Senza parlare del Re dell’Isola e dei suoi fratelli, potenti principi delle fate.

Avrebbe narrato, il bambino, del bel Principe amato da uno dei nipoti del Grande Imperatore: il suo più grande desiderio era trovare la Fonte della Felicità e partì. Ma ecco che, durante il viaggio, venne mangiato da un drago a quattro braccia e i cavalieri e i principi lo sconfissero solo grazie all’aiuto del Solitario Gigante della Neve, che ghiacciava col suo sospiro ogni fiamma sputata dal drago. Il Principe uscì dalla pancia tagliata del mostro e si lavò del sangue della creatura come segno di purificazione.

E, infine, avrebbe ricordato come un giorno una strega aveva lanciato una maledizione per far cadere buio su tutta la terra e di come i cavalieri, impazziti, si fossero uccisi a vicenda o si fossero lasciati morire, annientati dal dolore, invecchiando fino a scomparire.

Aveva imparato quelle storie e forse, un giorno, le avrebbe comprese, avrebbe alzato il velo di leggenda di cui le aveva ricoperte e avrebbe capito qual era la verità. Ma fino ad allora lo zio Feliciano sarebbe sempre rimasto il nipote cantastorie del Grande Imperatore e suo padre lo sposo dello Spirito della Terra.

 

Angela si affrettò, tornando indietro sulla strada che costeggiava il villaggio. Era il calar del sole. Era andata a casa, quella mattina, per prendere due vestiti e chiedere ai genitori se poteva rimanere qualche giorno ospite alla villa, per vegliare sul signor Feliciano. Sapeva che non le avrebbero mai detto di no, perché sapevano quanto gli voleva bene. Aveva saltato l’orario di visita comune a tutti i volontari perché aveva anche dovuto avvertire Alfonso che il suo nuovo amico sarebbe rimasto alla villa col figlio. Gli aveva detto che lui e il signor Vargas erano parenti e sapeva di non aver mentito. Tuttavia… Era ovvio intendesse fossero nonno e nipote, eppure dal discorso che aveva origliato i due avevano parlato come se fossero stati fratelli. Non era ovviamente possibile, ma del resto l’intero dialogo aveva un ché di straordinario e di singolare. Avevano parlato di nazioni come se fossero state persone, persone che non invecchiavano col passare degli anni, ma secondo altri parametri; avevano parlato di visioni, di un nonno e della Guerra Totale come se l’avessero vissuta direttamente per intero. Era stato un racconto curioso, da pazzi, eppure era stato così coerente da sembrare reale.

Del resto, avrebbe potuto spiegare come mai il signor Feliciano aveva vissuto così tanti anni per poi essere invecchiato tutto di un colpo.

Angela sentì un brivido attraversarle la schiena. Guardò avanti, vedendo Villa Geranio in lontananza. Cercò di dare una cadenza regolare al proprio passo, per essere sicura di non rallentare mentre era in sovrappensiero.

C’erano così tante cose che voleva sapere, così tante cose che non aveva capi…

-Ma quello…

Si bloccò, guardando a pochi metri di distanza lo spirito camminare con passo lento verso la villa.

“Mi disse che sarebbe venuto a prenderti.”

Angela continuò a fissarlo, mentre, con le mani in tasca, continuava sul suo percorso.

“Mi ha detto di dirti che ti ama.”

La ragazza arrossì al pensiero di aver sentito quella frase. Non avrebbe dovuto ascoltare qualcosa di così intimo del signor Feliciano, ma non poteva sapere che ne avrebbero parlato.

“Anche io, non ho mai smesso.”

Angela provò a gridare per chiamare lo spirito, ma non le uscì la voce. Anche se sapeva che era un fantasma buono, che non le avrebbe fatto del male, una forte paura le prendeva lo stomaco e le stringeva la gola. Ritentò, ma nuovamente non ce la fece. Si rese conto di essere terrorizzata, anche se avrebbe dovuto capire che non doveva temerlo. Ma invece lo faceva. Terribilmente.

Perché quell’uomo rappresentava la morte, per lei.

Poi, lentamente, lo vide svanire.

 

Feliciano provò a piangere. Provò a dirsi che non era sangue, che era solo il tramonto che tingeva il suo viso di rosso. Provò a gridare, ma uscì solo un suono strozzato. Gli prese il volto fra le mani, fissando i suoi occhi chiusi, le labbra che già si stavano facendo troppo livide.

-L… Lu…

Lo sentì, fra le proprie mani. La sua carne farsi improvvisamente rigida, fredda, come un pezzo di roccia.

Si piegò sopra il corpo. Faceva troppo male per riuscire a pensare.

Feliciano aprì gli occhi. Tentò di riprendere fiato, sentendo un grande peso sul cuore. Si toccò le guance bagnate. Cercò con la mano un fazzoletto per asciugare le lacrime. Aveva risognato spesso la morte di Ludwig durante tutti quegli anni.

Si mise le mani intorno la testa, sentendola scoppiare. Gli sembrava che il cuore pulsasse dentro le sue tempie. Si guardò intorno, alla ricerca di un bicchiere d’acqua, che fortunatamente trovò sopra il comodino.

Lovino stava seduto addormentato sulla poltrona, con Europa fra le braccia. Angela l’avevano portata in una stanzetta adiacente a quella di Feliciano.

L’anziano sorrise dolcemente, mentre il dolore alla testa si faceva un po’ più leggero. Sapeva che l’avrebbe accompagnato per tutto il resto della notte, ma non era sgradevole come quando si era appena svegliato.

Poggiò il capo sul cuscino, cercando di modulare il respiro.

Non vedeva l’ora di rincontrarlo.

 

-Ma io l’ho visto!

-Calmati, Ofelia, calmati!

-Come diamine avete fatto a non vederlo?!

L’infermiere cercò di tenere la ragazza.

-È tutto a posto, ti sarai sbagliata e avrai visto male.

-Non dirmi che mi sono sbagliata: io so cosa ho visto e ti dico che è scomparso davanti ai miei occhi.

Angela guardò i due, cercando di capire cosa era successo.

-Di cosa state parlando?

-Angela, Santo Cielo, di’ anche tu a questo cretino che io ci vedo benissimo! L’ho visto, per quanto è vero Iddio. Stava lì, con la sua bella divisa ed è sparito! Stava sulla strada che porta qua alla villa e la guardava, diamine, lo so!

-Calma, Ofelia, calma…

-Non ditemi di calmarmi perché ho appena visto qualcosa di impossibile!

Angela separò l’infermiere e l’amica e la guardò negli occhi.

-Calmati e raccontami cosa hai visto.

-Stavo guardando dalla finestra prima di andarmene e l’ho visto, cavolo, era impossibile non vederlo! Questa figura nera, scura, che camminava vicinissimo a qui.

Ofelia prese un profondo respiro, cercando di tranquillizzarsi e quietare i singhiozzi.

-Dio Santo, pareva l’angelo della morte. E poi è scomparso, diamine, proprio come dicevano Valente, Domi e tutti gli altri che dicono di averlo visto. O anche io sto impazzendo o quello era davvero un fantasma!

L’infermiere sospirò.

-Questa cosa ci sta sfuggendo di mano. Tra un po’ uscirà fuori che questo fantasma è sempre stato qui e che semplicemente avevamo paura di raccontarlo in giro! La gente è matta.

-Matto ci sarai te!

Angela bloccò Ofelia che era scattata verso il ragazzo.

-Ofelia, fermati, lascialo perdere. Non parlare a nessuno di questa cosa. Se non ha fatto nulla a nessuno non c’è niente da temere.

-Facile dirlo per te, non l’hai visto! Mi sono venuti i brividi solo a guardarlo da lontano.

Angela fece per parlare, ma si zittì. Non avrebbe avuto senso dirle che lei l’aveva visto due volte e non avrebbe avuto senso neppure spiegarle perché era lì e che presto se ne sarebbe andato. Non avrebbe avuto neppure senso rassicurarla, perché pure lei, sebbene sapesse, non era riuscita neppure a chiamarlo.

-Torna a casa, Ofelia. Michele qui presente ti ci accompagnerà, così sarai al sicuro. Ricorda, non raccontare a nessuno quello che hai visto, sennò la gente entrerà nel panico e sarebbe inutile. Probabilmente fra poco se ne andrà o, se non è mai esistito, la gente lo dimenticherà.

La ragazza guardò l’amica e annuì. La salutò e uscì, guardando male l’infermiere.

Angela guardò fuori dalla finestra, fissando le ultime luci del tramonto. Sentì gli occhi bruciarle e la gola chiudersi. Cercò di trattenere il pianto, ma alla fine cedette e si dovette sedere.

Sarebbe arrivato il giorno dopo.

Lei non avrebbe mai più rivisto il signor Feliciano.

 

Angela chiuse il libro di storia con forza.

-Non dovevamo permettergli di provare ad alzarsi.

Il signor Romano (così aveva deciso di chiamarlo) la guardò e le sorrise.

-Placati, ché l’ho preso al volo.

-Non conta che lei l’abbia preso al volo, conta che lui ha tentato di alzarsi e dopo neppure un passo è svenuto. Mi chiedo come abbia fatto a fare quella passeggiata con il bambino.

-Probabilmente erano le sue ultime forze.

La ragazza guardò il piatto che stava sopra il comodino.

-Non ha neppure mangiato…

Romano scostò la tenda, guardando fuori. Quel giorno si erano svegliati e avevano visto un cielo nuvoloso, grigio e cupo. Non aveva piovuto fino a quel momento, ma non si poteva dire non l’avrebbe fatto entro la fine della giornata. Col passare delle ore si era cominciato a rivedere qualche sporadico raggio di sole, ma era un sole freddo, strano per un’estate che fino a quel momento era stata così calda.

Feliciano si svegliò lentamente e girò lo sguardo per la stanza, cercando il fratello, il bambino e la ragazza. Sorrise, sentendosi in difficoltà nel respirare.

-Cos’è questo rumore?

Angela aprì la porta, sentendo un gran baccano giù dalle scale, al piano terra. Scese in fretta, sentendo qualcuno gridare.

-Oh mio Dio. Oh mio Dio mio Dio mio Dio…

Michele guardava fuori dalla finestra. Dietro tre infermiere si guardavano spaesate fra di loro. Un’anziana era seduta e si teneva il petto con una mano. Un infermiere le stava vicino e cercava di rassicurarla, nonostante fosse ovviamente terrorizzato.

-Angela!

-Che è successo?

Michele le si avvicinò, con aria sconvolta, pallido in viso.

-È lui, è qui. Ofelia aveva ragione. Sta davanti alla porta! Il fantasma!

Si sentirono dei colpi alla porta e tutti sobbalzarono. La ragazza li guardò tutti, pensando a cosa fare. La paura le stringeva lo stomaco, ma non doveva cedere. Doveva farlo entrare, perché era questo che era venuto a fare, perché era questo che il signor Feliciano voleva accadesse.

-Non vi preoccupate… Lasciate stare il fantasma: si è sempre visto solo durante il tramonto. Andate tutti nel salotto con gli altri e rassicurate gli anziani, non fate capire loro che c’è qualcosa che non va.

Le infermiere si guardarono, cercando di farsi forza a vicenda, dicendosi di seguire l’ordine che aveva dato la ragazza, l’unica che pareva aver preso in mano la situazione. Si allontanarono senza parlare, portando con sé l’anziana signora e facendole cenno di fare silenzio. Michele guardò Angela.

-E te?

-Io tornerò di sopra, non ti preoccupare. Ora vai in salotto con gli altri.

-Ma…

-Vai. In. Salotto.

Il ragazzo sobbalzò, sentendo la voce ferma della giovane. Guardò la porta, poi Angela. Sospirò, facendo dei passi indietro.

-Non fare stupidaggini.

Lei annuì, vedendolo andarsene e chiudere la porta del corridoio verde che portava ai salotti. Si mise di fronte alla porta e respirò profondamente. Allungò lentamente la mano verso la maniglia.

-Devi aprire. Devi aprire. Devi aprire.

Sentiva del sudore freddo scenderle dalla fronte. Aveva paura. Aveva avuto paura la prima volta che l’aveva incontrato, aveva avuto paura l’ultima volta che l’aveva visto e aveva paura in quel momento.

-Basta il coraggio di un attimo… di un attimo…

Tremò, chiuse gli occhi, poi afferrò la maniglia e velocemente spalancò la porta. Aprì le palpebre. Non c’era nessuno. La ragazza si guardò intorno, cercando il fantasma con lo sguardo. Sentiva un’aria fredda colpirla in viso, ma lui non c’era. Ci aveva messo troppo? Richiuse la porta, pensando a cosa dire a Michele e gli altri il giorno dopo per farli nuovamente andare via. Improvvisamente, sentii un cigolio. Sobbalzò, girandosi verso le scale. Le scale che facevano rumore quando qualcuno ci passava sopra, che erano così vecchie che nessuno aveva mai riparato. Cigolavano, come se un peso ci stesse passando sopra.

Angela corse davanti alle scale. Guardò in alto e le sembrò di vedere un riflesso che sparì in un attimo. Cominciò a correre su, tentando di non pensare che avrebbe potuto attraversare lo spirito. Corse verso la camera del signor Feliciano e spalancò la porta, bloccandola con una sedia.

-È qui.

L’anziano sorrise, guardando verso la parete a sinistra del letto.

-Lo so.

Angela si sedette lontano, davanti al letto, cercando di vedere quello che vedeva il vecchio. Continuò a guardare la parete, poi pensò, dal viso di Feliciano, che lo spirito fosse più vicino e che semplicemente lui non le apparisse.

Il signor Romano prese il bambino fra le braccia, accostandosi alla ragazza in silenzio. Nessuno di loro tre, spettatori, aveva il coraggio di parlare.

La voce di Feliciano era debole, quasi divertita.

-Ero convinto che quando… quando il tempo sarebbe passato, la natura avrebbe coperto il mio corpo vicino al tuo sepolcro, e la terra l’avrebbe fissato per sempre, quanto Feliciano amò Ludwig, che si sdraiò vicino a lui, lasciò che la morte arrivasse, perché non poteva sopportare di perderlo ancora una volta. Non mi importava più di niente, neanche del mio cadavere, che potevano razziare gli animali, perché l’amore aveva già incatenato da tempo il mio corpo al tuo; così avrei abbandonato questo mondo, la mia anima mi avrebbe lasciato per sempre e la nostra storia sarebbe stata una piega del terreno, sporca della polvere della storia.

Il discorso fu rotto da un breve singhiozzo.

-Ludwig… Mi sarebbe sembrato di morire un po’ di meno se fossi morto con te…

Feliciano tirò un respiro più pesante e roco.

-Ve, mi sono sentito così solo… così tanto solo…

Angela sbarrò gli occhi umidi. Ora le sembrava di vederlo, lì, sorridente, al lato del letto. Lo vide togliersi un guanto, accarezzare dolcemente il capo del signor Feliciano. La luce gialla filtrò dalla finestra, mentre le nuvole si diradavano. Le sembrò di cogliere il luccichio di una lacrima sulla guancia. Lo vide chinarsi, come per dare un bacio sulle labbra del suo amato morente.

Feliciano chiuse gli occhi, come a ricevere quel bacio.

Non li riaprì più.

 

Era stato difficile. Faceva male. Angela aveva pianto tutta la notte e buona parte della giornata successiva. L’intera città era stata in lutto e anche la natura sembrava star piangendo una grave perdita. Fu nuvoloso per due giorni, anche se non aveva piovuto neanche una goccia. Tuttavia, al funerale del signor Feliciano, il sole splendeva come mai prima di quel momento.

Il signor Romano aveva danzato, la notte della morte del parente, con il figlio che cercava di stargli dietro. Angela l’aveva visto, dalla finestra, perché non riusciva a dormire. Sembrava stesse esorcizzando il proprio dolore.

Non aveva mai creduto di vedere il suo fratellino invecchiare e morire, Lovino. Per così tanti anni era stato convinto che se ne sarebbe andato lui per primo, che avrebbe controllato Feliciano con il nonno dall’alto. Invece, le cose erano andate molto diversamente e l’invecchiamento delle nazioni non coincideva con il tempo che passavano sulla terra. Aveva visto suo fratello nascere (se lo ricordava ancora, così piccolo e rosa) e, in poco tempo, l’aveva visto andarsene.

Tutti avevano versato due lacrime. La morte di Feliciano non era solo la perdita di un anziano: era la perdita di una grande ricchezza, di un uomo gentile, cortese, saggio. Era la perdita di qualcuno che sembrava non se ne dovesse andare mai. E nonostante tutti, al sapere della malattia, si fossero preparati a ricevere la triste notizia, nessuno aveva mai seriamente pensato che sarebbe morto. Sembrava impossibile, una cosa incredibile e terribile.

Ofelia raccontò di uno strano sogno che aveva fatto. Aveva dormito in mezzo al campo del padre perché faceva troppo caldo dentro casa e aveva sognato di svegliarsi e vedere lo spirito allontanarsi tenendo per mano un giovane ragazzo, che gli camminava dietro.

Il fantasma non si vide più. Qualcuno diceva che non era mai esistito e qualcun altro, più a ragione, per quel che sapeva Angela, credeva che il signor Feliciano fosse un uomo tanto importante e saggio che la Morte stessa si fosse scomodata a venirlo a prendere di persona.

Fu seppellito dentro la chiesa e il giovane Leonardo finì le nuove decorazioni per la parrocchia in tempo apposta per il funerale. Venne creata una targhetta, con nome e cognome, senza anno di nascita. Si ripromisero tutti che Feliciano non sarebbe mai davvero morto: i suoi racconti sarebbero sempre vissuti e loro l’avrebbero narrati alle generazioni successive, per sempre.

Angela guardò il signor Romano chiudere lo zaino.

-Se ne va davvero, allora.

L’uomo annuì.

-Devo andare più a sud a controllare la ricostruzione delle antiche città, delle strade che le collegano. Poi, chissà, magari mi imbarcherò su una nave mercantile e farò nuovi incontri. Rivedrò i luoghi che vidi molto, molto tempo fa. Ho terminato il mio compito qui. Ho avvertito Feliciano, gli ho detto quello che dovevo dirgli, l’ho visto morire, l’ho seppellito. Ho finito.

La ragazza sorrise. Lo accompagnò fino alla porta, dove il bambino lo attendeva col proprio, piccolo bagaglio, già in spalla. Li salutò, baciandoli sulle guance, con un po’ di amarezza nel cuore.

-Signor Romano.

L’uomo si girò.

-Non verrà dimenticato. Da nessuno, mai.

L’uomo annuì e rispose.

-Credo che sia l’unico cantastorie il cui nome verrà ricordato più di quello dei suoi eroi.

Cominciò a camminare, scortando il bimbo per mano.

-Signore?

-Sì?

-Io…

La ragazza cercò le parole adatte, senza trovarle.

-Grazie per averci insegnato a ballare come fa lei, signore.

Lovino rise, capendo quello che voleva dirgli, poi si allontanò, sparendo all’orizzonte.

 

 

Note di Elfin

Finito! Spero che la storia vi sia piaciuta almeno quanto è piaciuto a me scriverla. Ho avuto delle difficoltà (voi immaginate di scrivere una roba del genere quando il vicino di casa ascolta Barbie Girl ad alto volume senza alcuna ragione); ho dovuto cambiare spesso i tempi verbali di interi pezzi, quindi spero di non essermeli persi in giro :P

Lovino… Lovino ha fatto il suo spiegone. Ho dovuto tagliare dei pezzi più espliciti per non allungare ulteriormente la storia, purtroppo, ma spero di non aver saltato cose. Non ho raccontato qual è stato il casus belli appositamente. Diciamo che lo voglio lasciare a voi ^^”

Mi ha divertito molto creare personaggi favolistici basandomi sui personaggi di Hetalia! Purtroppo non li ho potuti scrivere tutti tutti… Spero che si capisca chi è chi e ditemi qual è stato il vostro preferito :)

Recensite e fatemi sapere quello che ne avete pensato, per favore :3

Ringrazio Betchi_ che ha recensito lo scorso capitolo! Ringrazio anche tutti i lettori silenziosi e tutte le persone che hanno messo la storia fra le preferite, fra le seguite o “da ricordare”, perché siete stati tanti e mi avete reso davvero contenta! :D

Kiss

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