Tourniquet

di mairileni
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Largo ***
Capitolo 2: *** Larghetto ***
Capitolo 3: *** Adagio ***
Capitolo 4: *** Adagietto ***
Capitolo 5: *** Andante Moderato ***
Capitolo 6: *** Andantino ***
Capitolo 7: *** Andante ***
Capitolo 8: *** Con Moto ***



Capitolo 1
*** Largo ***


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Buonasera, uiii (~*v*)~


Già, già, lo so, sono sparita per quasi un anno, mh. Chiedo scusa a tutte le lettrici delle mie storie ancora in corso, lo so che sono una brutta persona [si bastona].
Non so da cosa nasca questa nuova storia — che ormai dovrebbe essere tipo la numero 22, se non mi sbaglio —, ma fatto sta che mi andava di scriverla e niente, l'ho fatto. Oh, e non ho nemmeno preparato una scaletta (chi mi legge sa che lo faccio SEMPRE), quindi reggetevi forte, perché a partire dal terzo capitolo circa non ho la benché minima idea di che cosa accadrà *v* [felice]

Il capitolo è molto breve, perché in realtà questo vorrebbe essere una sorta di “prologo”.

Uh, ancora due cose. La storia è scritta a metà tra il presente e il passato, e questo perché volevo rendere l'idea del racconto in lingua inglese (sapete che quando un inglese racconta qualcosa lo fa sempre al presente, no?), perciò non preoccupatevi, non sono impazzita. E poi tenete anche a mente che il tutto si ambienta ai giorni nostri (di sicuro l'avreste capito anche da voi ma boh, io vi avviso).

So, uhm, yeah, credo di aver detto tutto.

DISCLAIMER: scrivo per arricchirmi, scrivo solo cose vere e i My Chemical Romance mi appartengono, anzi, scrivo sotto dettatura di Gerard Way stesso, anzi, scrive Gerard Way e io copio in bella, anzi, Gerard Way SONO IOok no, sono povera e scrivo scemenze.

Beeene, spero tanto tanto tanto che vi piaccia, io l'impegno ce l'ho messo tutto. Se poi vi va, lasciatemi anche un commento, mi fa piacere sapere chi passa di qui!

Buona lettura ♡


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TOURNIQUET

 

 

 

 

 

 

 

 

*

 

 

Largo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La prima volta che ho visto Gerard lui indossava un boa con piume bianche e nere che per forza di cose da lontano sembrava grigio. In mano aveva  un drink rosa acceso che secondo me aveva scelto solo per il colore, perché il bicchiere era ancora pieno fino all’orlo e il vetro già bagnato per la condensa. Non parlava con nessuno, però ogni tanto si guardava attorno con l’aria di un re catapultato per la prima volta nella rozza quotidianità dei suoi sudditi, sguardi a destra e a manca con quegli occhi verdi che per forza di cose da lontano sembravano neri. Il locale era pieno, forse duemila persone, o forse duemila no, ma comunque tante. Nel divanetto accanto al mio un tipo tutto muscoli che puzzava di steroidi ci provava con una ragazzina di almeno dieci anni meno di lui, mentre poco più avanti due tizi con i capelli rasati arrivavano alle mani dopo chissà quale accesa discussione. Il volume della musica era insostenibile, e nel frattempo uno dei due ragazzi rasati cadeva a terra e l’omone in giacca e cravatta della sicurezza impediva che il compare gli saltasse sopra per ammazzarlo definitivamente a suon di pugni.
    Io in tutto ciò avevo visto solo Gerard. Pazzesco, non gli toglievo gli occhi di dosso. Non credo che quel giorno lui si sia accorto di me, anonimo avventore di quel locale in cui lui sembrava essere nato, tanto si trovava a suo agio. Io ci ero andato da solo, o forse ero in compagnia di qualcuno, ma sinceramente questo non me lo ricordo. Mi ricordo solo di Gerard, e di come a un certo punto si è passato la mano tra i capelli tinti di biondo con un gesto tragicamente femminile e teatrale assieme, roba che se avessi chiesto a un bravo attore di rifarlo non ci sarebbe riuscito nemmeno dopo sei ore di prove.
    Dopo essersi passato la mano tra i capelli si è girato, mi ricordo anche questo, si è girato verso la grossa finestra che dava sulla strada e ha sospirato. Mio dio, mi sembra quasi di poterlo ancora sentire; eppure non l’ho sentito nemmeno quella sera, ho già parlato di quanto era alta la musica. Gerard mi aveva stregato, non so nemmeno come spiegarlo senza sembrare un completo imbecille. Ma fatto sta che Gerard indossava quel boa con piume bianche e nere che per forza di cose da lontano sembrava grigio, e io guardavo quella figurina dai capelli tinti che a dirla tutta era certamente pacchiana, ma che per forza di cose da lontano sembrava meravigliosa. E lo era anche da vicino, ma questo l’avrei capito solamente più tardi. Sia benedetto il giorno in cui ho deciso di entrare per la prima volta in quel locale dalla fama non felicissima, perché in quello stesso giorno ho visto per la prima volta Gerard, e ne sono rimasto incantato. L’avrei incontrato di nuovo a distanza di giorni, ma forse, se non l’avessi visto prima, quella sera, con gli occhi verdi e il drink rosa acceso e il boa di cui ho già parlato più del necessario, non sarebbe stato lo stesso. Mi ricordo anche il giorno, un 12 settembre che se avessi perso anche quell’ultimo briciolo di dignità che mi è rimasto segnerei sul calendario con un pennarello indelebile rosso. O magari rosa acceso, come il drink che Gerard si ostinava a lasciare nel bicchiere.
    Questa precisione ossessiva nel descrivere quella sera, o meglio, nel descrivere Gerard come l’ho visto quella sera, ha anche delle motivazioni, e le principali sono due, una conseguente all’altra. La prima, che quella sera è stata la sera in cui per la prima volta ho visto Gerard. La seconda, che quella sera è stata la sera in cui ho realizzato di essere attratto da lui.

 

 

 

 

 

 


 

La seconda volta che ho visto Gerard è stata su un fermo immagine preso dalla telecamera a circuito chiuso dell'emporio di mio padre. Del Gerard che avevo visto la prima volta in quel locale c'era ben poco — niente boa, niente drink —, ma il suo viso l'avevo riconosciuto subito, sebbene ridotto a una sorta di confusa nebulosa a causa della cattiva qualità della telecamera. Il fermo immagine lo immortalava mentre con una mano reggeva una boccetta d'inchiostro e con l'altra si apriva la giacca per nascondercelo dentro, magari ficcandolo in qualche tasca interna.
    Non c'era ombra di dubbio, Gerard aveva taccheggiato nel negozio di mio padre, e mio padre indicava con l'indice il fermo immagine, la prova schiacciante. Nel frattempo scuoteva anche la testa. La seconda volta che ho visto Gerard non erano passate nemmeno ventiquattr'ore dalla prima, e il ricordo di lui mentre si passava la mano tra i capelli tinti e si girava da un lato sospirando era ancora troppo vivido perché non prendessi subito le sue difese, sebbene questo mi rendesse automaticamente un delinquente (un complice). A mio padre io ho detto che il fermo immagine non era abbastanza nitido per poter inchiodare un ragazzo, e a me mio padre ha detto che il fermo immagine era fin troppo nitido, e che dovevo stare zitto. Effettivamente.
    Gerard aveva taccheggiato nel negozio di mio padre rubando una boccetta d'inchiostro, e io non riuscivo ad amarlo nemmeno un goccio di meno, per questo. Era bellissimo anche mentre rubava, lo giuro. Mio padre mi aveva detto che avrebbe trovato quel “ladruncolo da quattro soldi” a tutti i costi, ma tre giorni dopo si era già dimenticato di cercarlo. In tutto ciò, il primo giorno di scuola era alle porte e io non me ne rendevo nemmeno conto, perché l'unica cosa che avevo in testa era Gerard seduto sul divanetto del locale, con il drink rosa acceso in mano e il boa attorno al collo.

 

 

 

 

 

 

La gente dice che Dio ha un piano preciso per ognuno di noi. Io all’inizio non ci credevo, nel senso che mi suonava strana l’idea di Dio chino su una scrivania a lavorare a sei miliardi di progetti contemporaneamente. Non perché avessi sfiducia in Dio o cose simili, eh, intendiamoci. Il problema era che non riuscivo a immaginarmi una scrivania abbastanza grossa – voglio dire, provateci voi, a far stare sei miliardi di fascicoli su una scrivania sola. Poi, però, ho incontrato Gerard per la terza volta, e allora ho capito: Dio si scoccia. Lui porta avanti il nostro progetto fino a un certo punto, lo avvia, potremmo dire, e poi lo molla lì, come a dire “bene, adesso tocca a te”. Dio ha portato avanti il mio progetto fino alla terza volta che ho visto Gerard. Ci scommetto le palle, che ha fatto così. Perché a partire dalla terza volta che ho visto Gerard, le cose hanno cominciato a degenerare, a degenerare forte.
    Ah, e comunque io mi chiamo Frank. In caso ve ne freghi qualcosa.

 

 

 

 

 

 

Se c'è una materia che fa proprio schifo al cazzo, quella è la matematica. Fa schifo, ragazzi, schifo proprio. La nostra insegnante si chiamava Lana Hitchman, e se non è morta immagino che si chiami ancora così. Anzi, spero per lei che non sia morta, perché quella quando muore va all'inferno, ve lo dico io, lei davanti e la sua matematica di merda dietro. Vi parlo della signora Hitchman perché la signora Hitchman diceva sempre che ci sono quattro motivi per cui dovresti sempre accogliere un nuovo compagno di scuola nel migliore dei modi. Il primo, che questo nuovo compagno potrebbe anche diventare il tuo migliore amico. Il secondo, che questo nuovo compagno potrebbe anche diventare il tuo peggiore nemico. Il terzo, che questo nuovo compagno potrebbe anche diventare il tuo ragazzo. Il quarto, che Dio ti guarda sempre — che detta così è un po' inquietante, ma voi dovete sapere che la signora Hitchman faceva sempre un sacco di discorsi su Gesù e la Bibbia e Dio e San Pietro e la Madonna. Il quinto motivo poi non me lo ricordo, ma questo perché la signora Hitchman, a parer mio, doveva fare liste più corte, se voleva che noi studenti ce le ricordassimo. Quando ho visto Gerard per la terza volta, lui aveva il collo libero da boa e i capelli neri, ma io l'ho riconosciuto lo stesso. In quel momento la signora Hitchman stava ripetendo per l'ennesima volta la lista di cui vi ho parlato, quella dei motivi per cui uno dovrebbe sempre accogliere un nuovo compagno con un sorriso grande così stampato in faccia, e intanto Gerard si annoiava e studiava con gli occhi la sua nuova classe.
    Io me ne stavo zitto.
    Riuscivo solo a pensare che il nostro nuovo compagno era Gerard e che i capelli neri gli donavano e che volevo sapere come si chiamava e sentirlo parlare e vederlo dormire e baciarlo. Con la sfiga che ho, ho pensato, con la sfiga che ho, di sicuro questo corso di matematica è l'unico corso uguale al mio che ha scelto di frequentare. Avrei scoperto più tardi che non era così. Gerard si è presentato alla classe e si è seduto all'unico banco libero, in prima fila. Per tutta la lezione ha guardato fuori dalla finestra con la stessa aria sognante che dovevo avere io mentre guardavo lui. E forse in quel momento la stessa aria sognante ce l'aveva anche Dio, mentre archiviava il mio progetto e cominciava a fantasticare su che cosa sarebbe successo senza di Lui.

 

 

 

 

 

 

Gerard faceva pompini a pagamento nei bagni della scuola. Perdonatemi per la schiettezza, davvero, ma almeno arriviamo dritti al punto. Gerard faceva pompini a pagamento nei bagni della scuola, e dovete credermi quando vi dico che, intorno alla fine del primo quadrimestre, in quei bagni ci erano passati praticamente tutti, anche i più insospettabili. Non che fossero gay: solo che, da quando si era diffusa la voce, tutti volevano provare, perché chi aveva provato diceva che Gerard era dannatamente bravo.
    Beh, confermo.
    Avevo sentito di questa faccenda per puro caso, durante il mio turno pomeridiano al bar in cui lavoravo part-time. Mi ricordo perfettamente la scena: io ho appena finito di lavare delle stoviglie e ho in mano un bicchiere, lo sto asciugando con un vecchio straccio. Entra Henry White, della squadra di basket, e assieme a lui ci sono due ragazze e Steven Dowett. Quando Steven menziona “Gerard Way” e “pompini a pagamento” nella stessa frase, per poco non mi cade a terra il bicchiere (per poco non cado a terra io, a dire la verità), e comincio a origliare. Colgo qualche altro dettaglio, sto ancora strofinando il bicchiere. Dopo circa quaranta secondi ho già capito tutto e vorrei fiondarmi a casa di Gerard e supplicarlo di concedermi un servizio fuori orario, ma tutto quello che posso fare è ascoltare, mordermi il labbro e asciugare il bicchiere.

 

 

 

 

 

 

Il giorno dopo prendo tutti i soldi che ho e vado da Gerard. Sono talmente confuso ed eccitato che non riesco a vergognarmi neanche un po', quando mi siedo di fronte a lui durante la pausa pranzo e gli porgo trenta dollari sotto al tavolo.
    «Sei libero, oggi?», chiedo.
    Lui finisce con calma di masticare un boccone di pizza e con altrettanta calma si pulisce la bocca. Guarda me, guarda sotto al tavolo. Prende i soldi. Li conta velocemente. Poi fa sparire le banconote in una tasca interna del giaccone, e io penso disordinatamente che quello è lo stesso identico gesto che ha fatto quando ha rubato l'inchiostro nell'emporio di mio padre, con la sola differenza che nel video era biondo, mentre adesso è moro. Mi guarda di nuovo.
    «Dopodomani.»
    Sono quasi certo che stia scherzando; lo dico.
    «Sono quasi certo che tu stia scherzando.»
    «Come, scusa?», ribatte lui impassibile.
    «Stai scherzando, vero?»
    «Ho la faccia di uno che scherza, Iero?»
    Boom. Infarto. Quando dice “Iero” il mio cuore si lascia esplodere, e per un attimo temo che lui possa averne sentito il rumore. Mi scoppia il cuore, giuro su Dio che mi scoppia il cuore. Tipo esplosione atomica, tipo kamikaze, tipo “Allah Akbar!”, tipo... tipo boom. Infarto.
    «Come sai il mio nome, Gerard?»
    «Come sai il mio prezzo, Iero?»
    «Mi sono informato.»
    «Già, esatto. Lo faccio sempre anch'io. Arrivederci, Iero.»
    «Puoi chiamarmi “Frank”.»
    Alza di nuovo lo sguardo su di me, lo riabbassa.
    «Arrivederci, Iero».

 

 

 

 

 

 

Due giorni dopo sono davanti all’aula 124, terzo piano della scuola. Il terzo piano della scuola l’hanno chiuso diversi anni fa, perché per riempire tre piani ci vogliono le persone, e le persone non ci sono – o almeno, in questo buco di culo di posto in cui abito, di gente ce n’è poca. Allora il preside Higgins ha chiuso a chiave tutte le aule del terzo piano e ha fatto piazzare dei cartelli al principio di ogni rampa di scale, ognuno con una scritta tipo “andatevene”, “divieto di accesso” o cose simili. Una mossa inutile, ve lo assicuro. Con tutta la droga che gira in questo posto, la gente ha di meglio da fare che avventurarsi fino al terzo piano di questa schifosissima scuola superiore. Per il resto, non so quanto ci abbia messo Gerard a trovare le chiavi dell’aula 124, ma deve averci messo poco, perché i racconti relativi a quello che fa qui erano già sulla bocca di tutti intorno alla metà di ottobre.
    Mentre aspetto sono stranamente calmo, e allora per ammazzare il tempo prendo a leggere i volantini appesi alla parete opposta. Riguardano tutti l’anno scolastico 2001/2002, per darvi un’idea di quanto tempo è passato da quando qualcuno del personale scolastico ha messo piede qui. In particolare, mi colpisce una locandina azzurra con sopra il faccione grasso del preside Higgins; la qualità della stampa è pessima, così il preside Higgins ha un colorito a metà tra il rosso e il viola (tipo cianosi, per intenderci). Sotto al signor Higgins ci sono i suoi numerosi menti e sopra al signor Higgins c’è un fumetto con la scritta “GRAZIE DI AVER SCELTO LA NOSTRA FANTASTICA SCUOLA! LAVOREREMO INSIEME E LA RENDEREMO MIGLIORE, GIORNO DOPO GIORNO!”. Se devo essere del tutto sincero, è davvero delizioso che il signor Higgins abbia il talento di dire quattro enormi cazzate in due sole frasi. La prima cazzata è quella del “grazie di aver scelto”: nessuno ha scelto questa stradannatissima scuola superiore, è solo che questa è l’unica scuola superiore della città. La seconda cazzata è il “fantastica scuola”. La terza è “lavoreremo insieme”, perché qui gli unici coglioni che lavorano siamo noi, non mi pare di aver mai visto il preside Higgins con la faccia stanca o con la fronte imperlata di sudore. L’ultima cazzata è quella della parte in cui si dice che questa scuola viene resa migliore giorno dopo giorno, e io dico che è una cazzata perché a me sembra che nessuno stia rendendo migliore alcunché. Anzi, se proprio volete saperlo qui fa schifo tutto. Scuoto la testa e porto gli occhi al pavimento.
    «Iero.»
    C’è Gerard. Non so da dove sbuchi, esattamente, ma c’è Gerard. Ha la giacca verde militare, i jeans neri e l’aria di chi si trova in una situazione scocciante ma sa di dover pazientare.
    «Gerard. Non ti ho sentito arrivare.»
    «Spostati», ordina monocorde.
    Fa scattare la serratura, mi invita ad entrare con un cenno della testa e poi chiude di nuovo a chiave quando entrambi siamo dentro. I raggi del sole che filtrano dalle finestre illuminano l’aula 124 solo per metà.

 

 

 

 

 

 

Ci sono io, c’è l’aula 124 e c’è Gerard, e abbiamo finito da poco. O meglio, io ho finito da poco. Credo che lui nemmeno si ecciti, quando fa queste cose. Ridendo e scherzando, questa è l’ottava volta che lo pago, e tutto ciò nel giro di tre settimane e mezzo circa. Lui fuma una Winston dal filtro bianco e io fumo una Winston dal filtro giallo. Io sono ancora sdraiato sulla cattedra (le prime volte stavo in piedi, ma poi mi sono detto che per trenta dollari a servizio ho tutto il diritto di starmene sdraiato) e lui si è appena seduto per terra; si sta massaggiando il collo. È strano che non mi abbia ancora cacciato, normalmente mi caccia appena abbiamo finito. Lo fa sempre. Dice che lui in vendita mette la bocca, mica la compagnia.
    Rompo il silenzio.
    «Perché qui?», gli chiedo.
    Lui prende una lunga boccata dalla sua Winston col filtro bianco e all’inizio non risponde. Non ho ancora capito se queste esitazioni che ha siano pause teatrali oppure semplici momenti di riflessione, ma ciò che ho capito è che se esita non è per incertezza, anzi. Dev’essere perfettamente a suo agio. Gerard funziona così. È sempre a suo agio.
    Risponde alla mia domanda con un’altra domanda (anche questa è una cosa che fa spesso).
    «Intendi in quest’aula? O in questa scuola?»
    «Entrambe.»
    «Di quest’aula mi piace il numero. E anche l’illuminazione. Sì, l’illuminazione. Credo che sia per quello.» Si volta verso la finestra e solleva pigramente un braccio verso un punto indefinito al di là del vetro. «Vedi la casa che c’è davanti?» Gli dico che sì, la vedo. «Ecco. E l’albero che sta di fianco alla casa. Per un qualche motivo fisico che non mi interessa approfondire, di pomeriggio quest’aula è sempre illuminata a metà, non importa la stagione. Forse anche di mattina, ma di mattina non ci vengo mai. Vedi?» Adesso indica la parete su cui sono affisse le lavagne, e io ruoto la testa sul legno della cattedra per seguire il suo dito. «Ombra…» Indica dietro di sé. «…e luce. Mi piace che sia così. Uno può stare dove accidenti vuole senza che il clima costituisca un problema rilevante, capisci? Uno può stare con il sole in faccia oppure al fresco, lì, vicino alle lavagne.»
Annuisco lentamente.
    «E il motivo per cui faccio questa cosa qui e non a casa mia», continua Gerard, «beh, quello è solo perché qui posso sporcare quanto voglio, ma a casa mia dovrei pulire tutto. E sinceramente non ho voglia di togliere dal pavimento il vostro sperma schifoso ogni santo giorno. Senza offesa, eh.»
    «No, è ragionevole.»
    Vorrei fargli altre mille domande ma mi dico che è già un mezzo miracolo che abbia risposto a questa qui senza cacciarmi come fa sempre. La sua Winston con il filtro bianco si è consumata tutta già da un po’, ma ce l’ha ancora ben salda tra pollice e indice, e ora nell’aria c’è odore di sesso e di filtro bruciato. O forse è il profumo di Gerard, e forse il profumo di Gerard ha una confezione a forma di drink rosa acceso. A riprendere la conversazione sono ancora io.
    «Non hai altri…?»
    «No, tu per oggi sei l’ultimo», scorcia.
    Gerard non prova nessuna vergogna per le cose che fa e per il modo in cui le fa. Credo che sia questo, ciò che più mi affascina di lui. Gerard potrebbe anche staccare la testa a un uomo davanti ai tuoi occhi, ma io scommetto che lo farebbe con una tale eleganza che tu non potresti far altro che pensare “Dio, se è bravo”. Parla piano, sceglie bene le parole. Potrebbe venderti qualsiasi cosa. Penso di poter dire con certezza che se il signor Gaunt sapesse di lui lo assumerebbe nel suo pulcioso negozio di stoffe senza pensarci due volte. Il negozio di stoffe del signor Gaunt sta per fallire perché la gente di questo posto schifoso è troppo impegnata a pensare che questo posto è proprio schifoso, per avere anche voglia di cucirsi le cose da sé. Ma se Gerard cominciasse a lavorare per il signor Gaunt, oh, beh, il signor Gaunt sarebbe sistemato a vita. Gerard potrebbe venderti qualsiasi cosa.
    A Gerard arriva un messaggio; il tin della suoneria rimbomba fastidiosamente in tutta la stanza. Lui estrae il telefono dalla giacca, e con l’altra mano lascia finalmente cadere a terra il mozzicone della sua Winston. Guarda lo schermo e sorride, poi ci passa sopra il pollice per pulirlo alla bell’e meglio e digita la sua risposta sui tasti grandi. È un vecchio telefono, di quelli che non si rompono nemmeno se li getti sotto a un treno.
    «Con chi ti scrivi?»
    «Con i cazzi miei, Iero.»

 

 

 

 

 

 

Quella è stata l’ultima volta che io e Gerard ci siamo incontrati nell’aula 124 del terzo piano. Non c’è mai stata una nona volta, e questo perché dopo l’ottava sono cominciati i casini. Ma io non mi accorgevo di nulla, e secondo il mio punto di vista stavamo gestendo ogni cosa alla grande. Non ragionavo, ma io credo che possiate capirlo. Magari ogni tanto facevo qualche pensiero intelligente e ne deducevo addirittura delle conclusioni accettabili, ma poi compariva Gerard e io mi rincoglionivo del tutto. E pensavo che non sarebbe stavo male, rivederlo seduto sul divanetto del locale, con il drink rosa acceso in mano e il boa attorno al collo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



 

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Capitolo 2
*** Larghetto ***


Il capitolo due di Tourniquet, yeee.Sono contenta. Davvero. Scrivere questa storia è molto divertente e al tempo stesso mi viene naturale. È come se i personaggi sapessero già cosa fare e si muovessero da sé, non so se mi spiego.

Ad ogni modo, il capitolo due è un po' l'inizio di tutto. Il vero e proprio punto di partenza, potremmo dire. Da questo momento in poi, comincerà l'azione vera e propria, e l'intento è quello di iniziare piano piano per poi aggiungere sempre più dinamismo (da qui i titoli dei capitoli, presi dalla scala dei ritmi musicali). Non so se mi spiego. Non so MAI se mi spiego, lo so.

 

E poi, un'altra cosa IMPORTANTISSIMISSIMA. Non sapevo se dirvi o meno quanto sto per dirvi, ma la verità è che mi fa piacere che le cose siano messe in chiaro fin da subito: dato che questa storia è narrata da Frank in prima persona, sto usando un registro piuttosto basso per rendere il suo personaggio (e, di conseguenza, il suo modo di pensare) più realistico. Perciò sì, troverete effettivamente alcuni errori di sintassi, parolacce, ripetizioni, lunghi periodi senza virgole e così via, ma vi assicuro che si tratta di un qualcosa che è totalmente voluto. E, beh, nulla, ora ve l'ho detto ~

 

Un grazie speciale a chi ha usato qualche minuto del proprio tempo per recensire lo scorso capitolo. Mi sono sentita molto incoraggiata, perciò ecco a voi dei cuori -----> ♥♥♥♥♥

 

Bene, direi che ho detto tutto. Grazie di essere qui a leggere!

 

Enjoy (ノ◕ヮ◕)ノ*:・゚✧

 

 

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Larghetto

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non so se avete presente che quando uno va in lavanderia deve pagare in anticipo e poi andare a riprendersi i vestiti due o tre giorni dopo. Gerard è come la lavanderia: gli sganci trenta bigliettoni di lunedì e lui ti dice di ritornare di mercoledì. Io da Gerard sono già andato otto volte e secondo me mi meriterei anche qualche privilegio, ma si dà il caso che qui quello che decide sia Gerard, e che secondo lui invece non mi merito proprio niente — arrivederci e grazie. E così, adesso sono nel bel mezzo di quelle ventiquattr'ore di vuoto che congiungono il giorno del pagamento al giorno del servizio vero e proprio. E mi annoio.

    Sono in classe, c'è la signora Hitchman che è tutta contenta. La signora Hitchman è tutta contenta perché sta succedendo una cosa che secondo lei è bellissima, e cioè che noi il coseno dell'angolo β non lo conosciamo, però i lati AB e BC li conosciamo, e quindi il coseno ce lo possiamo ricavare, ma tu guarda. La Hitchman è una donna entusiasta. Voglio dire, è sempre contenta di tutto, è sempre serena, felice, mai che si lamenti, mai che si arrabbi, mai che faccia ironia su qualcosa — un incubo, praticamente. Ci dà cinque minuti per trovare il coseno dell'angolo β e i cinque minuti finiscono.

    «Iero», dice la signora Hitchman.

    «Sì, cosa?», dico io.

    «Iero, qual è il coseno dell'angolo β?»

    «Eh?»

    «Il coseno dell'angolo β. Non l'hai trovato?»

    Io le dico che mi dispiace davvero tantissimo e che l'ho cercato ovunque, ma del coseno dell'angolo β non c'è traccia da nessuna parte. Mi aspetto che la signora Hitchman rida, ma lei non ride. In ogni caso non si arrabbia nemmeno, e io l'ho già detto ma lo ridico: mai che si arrabbi, questa donna. Poi magari mi sbaglio, ma secondo me è strano. In tutto ciò, Gerard ha il gomito sul banco e la testa sulla mano. E guarda fuori. È buffo dirlo, ma è come quei pupazzetti con dietro la chiave a molla, che tu giri la chiave a molla e loro ti fanno un paio di saltelli prima di ritornare completamente immobili. Gerard qui a scuola fa lo stesso. Se ne sta sempre là annoiato come se il mondo non fosse affar suo, ma poi magari tu ti distrai per un attimo e quando torni a guardarlo lui sta facendo i suoi quattro saltelli pomeridiani. È una cosa che io suppongo e basta, intendiamoci. Non ho mai visto Gerard fare i suoi quattro saltelli pomeridiani e non l'ho mai visto senza la sua perenne espressione d'insofferenza. Un paio di volte mi è sembrato di vederlo con gli occhi rossi, ma io credo che ogni tanto qualche canna se la faccia, quindi tutto normale. E poi io non ce lo vedo, a piangere.

    Qualcuno bussa alla porta della classe. Toc, toc, toc e toc. Quanto mi dà fastidio la gente che vuole strafare e bussa più di tre volte, non potete capire.

    Io sinceramente mi aspettavo che entrasse Bidello Di Cui Non Mi Ricordo Mai Il Nome ad annunciarci qualche nuovo, insulso progetto scolastico, e invece mi sbagliavo: tre poliziotti, uno davanti e due dietro. Si vede subito che i poliziotti che stanno dietro sono agenti inutili, ovvero quegli agenti che di lavoro non lavorano ma che in qualche modo sono sempre tra i piedi.

    «Oh, buongiorno agente.»

    Ecco, che cosa vi dicevo? La signora Hitchman gli agenti inutili nemmeno li saluta.

    «Non è un buon giorno, signora», ribatte l'ufficiale.

    Ah, ma allora è un poliziotto severo! Mi fa un po' ridere. Cioè, questo porta i capelli con la riga di lato e viene qui a fare la parte dell'ombroso poliziotto in lotta con la città criminale. Qui. A Belleville. A Belleville, che se ci abiti e vedi su una cartina quanto è scritta in piccolo ti viene la depressione per vent'anni. La signora Hitchman non si arrabbia (e ora tutti in coro: mai che si arrabbi!) e chiede cordialmente a Poliziotto Severo di che cosa abbia bisogno. Lui si gira verso Gerard. Gerard ricambia lo sguardo. E poi, come se niente fosse, apre la cerniera dello zaino, tira fuori la sua giacca, se la infila rapidamente e si alza in piedi. Non faccio nemmeno in tempo a pensare ma che cazzo...? che subito Poliziotto Severo mette i bei bracciali di metallo ai polsi di Gerard e gli dice che è in arresto per possesso di droga. Possesso di che?, penso io, ma in realtà credo di aver sentito benissimo. E alla parola “droga” facciamo tutti la stessa cosa nello stesso momento, e cioè sbarriamo gli occhi con aria sconvolta, io e tutti quelli che stanno in quest'aula — tranne i poliziotti, perché loro sono qui apposta e quindi lo sapevano già. E allora Poliziotto Severo dice a Gerard che ha il diritto di rimanere in silenzio e che ogni cosa che dirà potrà essere usata contro di lui in tribunale, e poi anche che ha diritto a un avvocato, e che se non può permetterselo gliene sarà assegnato uno d'ufficio. E che Dio mi salvi, ma Gerard è bello anche quando lo arrestano. Ma non “bello” tipo “ah, ok, bello” — e ve lo spiego perché ci tengo che capiate bene il concetto —, io intendo “bello” tipo il Sublime di Edmund Burke, non so se avete presente; il Sublime è quella sensazione che provi quando una cosa è talmente pazzesca che tu non riesci a pensare ad altro, e allora resti lì come un fesso e sei affascinato e impaurito allo stesso tempo. Beh, sì, così è spiegato in breve, però il concetto è quello. E fatto sta che Gerard è sublime e ammanettato, ma la cosa che mi salta all'occhio è che, mentre Poliziotto Severo gli chiede se ha capito bene quali sono i suoi diritti, lui ha l'aria scocciata. E voglio dire, se uno ti arresta perché hai guidato ubriaco magari ti scocci pure, ma se uno ti arresta perché hai della droga in casa dovresti cagarti sotto, perché nel New Jersey ti posso dare anche venticinque anni di galera, per un reato del genere. Gerard dice che sì, ha capito bene quali sono i suoi diritti. È piegato in due sul banco ma per una frazione di secondo Poliziotto Severo lo spinge ancora più giù. Spingerlo ancora più giù gli serve a darsi la forza per tirarlo di nuovo su subito dopo, perché a volte da lontano non sembra, ma le persone sono pesanti (e non solo nel senso che sono noiose). La Hitchman ha gli occhi sbarrati tipo palle da biliardo e la mano sulla bocca, non muove un dito. Cristo santo, signora Hitchman, stanno arrestando un suo alunno, ma è mai possibile che lei se ne stia lì impalata? Niente, non si muove. Se non altro, ora che ci penso, la signora Hitchman a Gerard potrebbe anche tornare utile; nel senso che scommetto che da stasera in poi la signora Hitchman si metterà a pregare per lui per tipo centomila ore al giorno finché il Signore sarà talmente esasperato che le darà ascolto e tirerà Gerard fuori dai guai.

    La classe non fiata nemmeno per sbaglio, e intanto Poliziotto Severo resta dietro a Gerard e gli tiene fermi i polsi (anche se lui non gli sta affatto opponendo resistenza). Poi, proprio mentre tutto il gruppetto sta per prendere la porta, a Gerard finisce sugli occhi una ciocca di capelli. Lui fa una smorfia perché probabilmente quella ciocca gli fa il solletico al naso e così, di scatto, compie un movimento con la testa per togliersela dagli occhi e... crac, dove crac è il rumore del naso di Poliziotto Severo che viene preso in pieno dalla testa di Gerard.

    C'è un momento di gelo.

    Gente, se nel giro di due secondi non riesco a pensare a qualcosa di brutto, scoppio a ridere. Giuro su Dio che se non mi concentro scoppio a ridere, e che in galera mettono anche me per affronto a pubblico ufficiale. Nel frattempo, Gerard ha capito di aver sbattuto la testa su Poliziotto Severo, ma per lui resta ancora da capire su quale parte di Poliziotto Severo abbia sbattuto la testa. Si sforza di voltarsi il più possibile (perché, nel frattempo, non dimentichiamoci che è sempre ammanettato) e con la coda dell'occhio nota i due rivoletti di sangue che colorano a Poliziotto Severo la striscia di faccia che sta tra il naso e la bocca. Gerard, adesso, ha capito; schiude le labbra in una piccola O, alza le sopracciglia e... e poi tutto succede in un batter d'occhio: Gerard riesce a malapena a dire “oh mio Dio, mi scu...”, che subito scoppia a ridere. Forte, istericamente, con la bocca aperta. Agente Inutile 2 tira fuori un fazzoletto e lo piazza sul naso del ferito, e intanto, come Gerard, scoppio a ridere anch'io, perché con quel quadratino di sangue tra il naso e la bocca Poliziotto Severo sembra la versione psichedelica di Hitler. La Signora Hitchman, dal canto suo, sviene e cade a gambe all'aria; tutta la classe si gira verso di lei, Susan Bayle si alza subito per soccorrerla, io sto ancora guardando Gerard. Il tutto nel giro di cinque secondi, o forse sei. Io che rido, Gerard che ride, Poliziotto Severo che urla, Susan Bayle che fa aria alla signora Hitchman e la signora Hitchman che mugola “oooh” e “oh, mamma”. E vi sembrerà pazzesco ma sì, in tutto questo casino io guardo solo Gerard, e a un certo punto anche lui guarda me. Un ultimo spasmo della sua risata lo scuote, e l'occhiata che ci scambiamo sembra dire “ma hai visto quanto è stato buffo?”. Ma poi poliziotto Severo si preme il fazzoletto sul naso, imprecando, e porta fuori Gerard con una spinta stizzita. E non mi invento nulla quando vi dico che, prima di uscire definitivamente, Gerard mi ha guardato di nuovo e mi ha sorriso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Se fossimo in un film romantico francese, in questo momento sarei seduto per terra con aria malinconica, avvolto nella penombra della mia stanza, intento a dipingere il viso di Gerard su una delle pareti. E magari sospirerei e poi guarderei le stelle addensate oltre al vetro della mia finestra, ripensando ai momenti trascorsi con lui e lasciandoli scorrere nella mente come i fotogrammi di un capolavoro cinematografico.

   Fatto sta che invece non siamo in un film romantico francese manco per il cazzo, e che comunque anche se sapessi disegnare non mi metterei certo a fare la faccia di Gerard sul muro, perché va bene tutto, ma diciamocelo, sarebbe angoscioso. E poi cazzo vuoi che si addensino le stelle in un posto inquinato come l'America, che qui l'unica cosa che si addensa è il latte quando scade.

    Non mi manca. Lo giuro, non mi manca.

    Però ci penso. È da tre giorni che ci penso, e no, non è perché gli ho dato trenta dollari in anticipo per un servizio di cui alla fine non ho usufruito. È che devo ancora fargli tante di quelle domande che un libro intero non basterebbe. Perché ti droghi?, perché taccheggi?, perché ti sei trasferito?, perché ti tingi i capelli?, perché in mensa non prendi mai la carne?, è forse perché non ti piace la carne?, e perché non ti piace la carne? Per un attimo penso disordinatamente che se l'hanno messo in gattabuia potrei andare a trovarlo e parlargli attraverso il vetro con quella specie di telefono marrone che si vede anche nei film, ma accantono l'idea quasi subito. Non credo che lui sia interessato a me. O piuttosto, non credo che lui sia interessato alla gente in generale. O forse gli interessa solo il mittente quel messaggio che pochi giorni fa ha fatto fare tin al suo telefono dai tasti grandi, un telefono di quelli vecchi che non si rompono nemmeno se eccetera eccetera. Sì, ve ne ho già parlato.

    Domani è venerdì, e poi ci sarà weekend. Beh, grazie al cazzo, dopo il venerdì c'è sempre, il weekend. Però sto pensando che se domani riuscissi a capire dove abita Gerard, magari sabato potrei fare una capatina a casa sua. Potrebbe essere lì; potrebbero averlo rilasciato per mancanza di prove o per mancanza di precedenti; sì, e magari lui potrebbe, che so, essere assente da tre giorni solo perché magari si vergogna troppo della faccenda dell'arresto per tornare a scuola. Annuisco per darmi ragione da solo, come i matti, e quando mi giro su un fianco l'orario segnato sullo schermo luminoso della sveglia mi ricorda che forse sarebbe il caso di dormire. Ma comunque sì, potrei scoprire l'indirizzo di Gerard e poi presentarmi alla sua porta. Potrei portargli degli appunti vecchi di cent'anni e dirgli che sono le ultime cose che abbiamo fatto a scuola. Potrei chiedergli se voglia prendersi un caffè assieme a me, da qualche parte. Sperare che non mi pianti un coltello tra gli occhi. Quante cose che potrei fare, già. Ma fatto sta che non siamo in un film romantico francese manco per il cazzo, e che mi dispiace dirlo, ma nella vita reale le idee geniali che ti vengono prima di addormentarti si rivelano delle grandi cazzate non appena ti svegli.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

    «No, non mi pare che sia lui, papà.»

    «Ma come no?! È lui, ne sono certo! Guardalo bene, Frank!»

    Ci sono io, c'è mio padre, c'è il tavolo apparecchiato per la colazione ed è domenica, e credo che sia superfluo dire che alla fine, com'era prevedibile, ieri non ho fatto nessunissima “capatina a casa di Gerard”. Avrei voluto, davvero. Ma il fatto è che venerdì ho chiesto un po' in giro, e... beh, nessuno ha la più pallida idea di dove stia Gerard di casa; forse perché tutto sommato si è trasferito qui a Belleville da appena un mese e mezzo.

    «Frank! Ma come puoi essere così cieco?», continua mio padre.

    Ieri mio padre ha guardato cinque puntate di Law & Order di seguito, una dietro l'altra. Alle sei e dieci si è piantato sul divano con una scodella piena di popcorn e alle nove e un quarto si è alzato dal divano con una scodella vuota e un gran mal di testa. Tutto questo per dire che dopo tre ore trascorse a lessarsi il cervello con Law & Order mio padre si è fatto un bel sonno ristoratore, e stamattina, mentre facevamo colazione, ha sbattuto il pungno sul tavolo e ha detto: “Perdio!”. Proprio così, sì, “perdio!”, con tanto di punto esclamativo in fondo. “Come ho potuto dimenticarmene?”, ha aggiunto subito dopo. Dopo aver detto questo, si è alzato, ha preso un altro sorso dal suo bicchiere di succo d'arancia, si è pulito velocemente le labbra con il tovagliolo e infine è sparito nella sua stanza, lasciandomi solo con il mio toast al formaggio e con il monito “sarà questione di un istante, tu non muoverti di lì!”. Dalla sua stanza è riemerso quasi cinque minuti dopo, un sorriso trionfante sul viso e l'annuario scolastico dello scorso anno in mano.

    E così, ecco spiegato come siamo arrivati qui: io, mio padre, il tavolo apparecchiato per la colazione e la fotografia di Paul MacPherson, che per la cronaca è a pagina 84, terza riga dal basso.

    «Guardalo! Guardalo bene, Frank! Guardalo bene!»

    «Papà...»

    «Lo stai guardando bene, Frank? Potrebbe essere lui, il ladro del mio negozio, non credi? Guarda qui...»

    Prende il foglio su cui ha stampato il fermo immagine che inchioda Gerard e lo appoggia accanto alla foto del povero MacPherson, per poi stirarlo un poco con i palmi delle mani. Mi dispiace per papà, ma se crede di aver trovato il metodo vincente per trovare il ladro del suo emporio ha proprio sbagliato tattica. No, non è vero, come tattica potrebbe anche funzionare. Ma il punto è che Gerard sull'annuario dell'anno scorso non c'è. Non può esserci, perché si è trasferito qui soltanto un mese e mezzo fa. E comunque, se anche ci fosse, mio padre la sua fotografia non la guarderebbe neanche: sono quaranta minuti che stiamo prendendo in analisi soltanto i biondi.

    «Aspetta un attimo, però», pondera mio padre. «E se invece fosse stato questo qui? Dai tratti del viso sembra lo stesso del video!»

    Guarda me, guarda la fotografia di James Mall, guarda di nuovo me e poi annuisce lentamente, come a dire “adesso sì che ce lo abbiamo in pugno”. D'accordo, direi che ne ho abbastanza.

    «Sai cosa ti dico papà? È vero, potrebbe essere lui!»

    «Anche a me pare, sai?»

    «Oh, sì. Tieni a mente che non puoi accusarlo così dal nulla, ti servono altre prove. Ma tieni gli occhi su di lui. È il tuo uomo.»

    Papà arriccia le labbra e assume un'espressione molto assorta.

    «Ottimo», è il suo verdetto. «Grazie, Frank, hai ragione; sì, lo terrò d'occhio. Ma se scopro che davvero è stato lui, perdio, gli faccio un discorsetto di quelli che si ricordano tutta la vita!»

    «Giusto», lo assecondo io.

    «Vero», ribadisce lui. «E ora finisci il tuo toast. Dobbiamo essere in chiesa tra meno di venti minuti.»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

    L'andare a messa ogni domenica non mi pesa più di tanto. La verità è che io in Dio ci credo abbastanza. Oddio, non che di sera mi getti a terra a pregare o cose simili, però credo che il mondo un supervisore ce l'abbia, e se la gente lo chiama “Dio”, va bene, chiamiamolo pure “Dio”. Io ci credo.

    Papà, dopo questa cosa che vi ho già detto, cioè che secondo lui il ragazzino che ha rubato nel suo emporio è James Mall, si è messo il cuore in pace. Ascolta la predica del reverendo Kemp con gran fervore religioso e ogni tanto grida anche “sì, ben detto!” assieme agli altri presenti, ma questo solo quando il reverendo Kemp dice qualcosa di davvero giusto e fantastico. Io, invece, ascolto e basta. Il mio momento preferito è alla fine, quando si canta, perché voi scherzate, ma i testi delle canzoni di chiesa sono davvero trascinanti. Voglio dire, ti fanno davvero venir voglia di ballare ed essere allegro e fare un sacco di bei pensieri, tipo che Dio è stato proprio bravo ad aver creato le persone e l'amore e la musica e tutto il resto. Quando il reverendo Kemp finisce di farci la predica siamo tutti contenti. La più contenta, comunque, è la signora Scarlet, che è questa signora di colore che è sempre allegra e fiduciosa in Dio.

    «Gloria a Dio!», grida la signora Scarlet dalla panca più prossima all'altare.

    Anche gli altri gridano cose simili a questa, e alcuni alzano anche le braccia al cielo — insomma, in parole povere, siamo tutti d'accordo che Dio è proprio buono e simpatico e tutto quanto.

    Quando arriva il momento delle preghiere io esco a prendermi un po’ d’aria. C’è il sole solo a metà, il cielo è bianco di nuvole e anche se Dio è proprio buono e simpatico e tutto quanto questo posto fa sempre schifo, però del clima non posso lamentarmi. Fa freddo ma non troppo, e a me il clima così piace. Respiro a fondo e guardo il fioraio che c’è di fronte alla chiesa sistemare delle calle in un grosso vaso appoggiato a terra. Bravo, signor fioraio, lei fa proprio un bel lavoro allegro e secondo me a Dio i lavori allegri piacciono, penso, e sì, oggi sono fissato con Dio, che volete farci. Per il resto, la strada è deserta. Qui a Belleville, di domenica, la gente se ne va in chiesa e chi s’è visto s’è visto.

    E poi succede una cosa che io giuro, giuro che non mi regge il cuore: mi giro a sinistra e bum. Gerard. Forse sto sognando – non lo escludo –, ma no, non sto sognando. È Gerard, è proprio lui, è Gerard con i capelli tinti di nero e la bocca che non sorride e la giacca verde militare e tutto il resto. Apro la bocca. La chiudo. La riapro e la richiudo. Non riesco a pensare ad altro: è Gerard. Lui non mi ha visto. Sta accovacciato a terra davanti alla zingara che si accampa sempre sui gradini della chiesa e parla. Lui dice delle cose alla zingara e la zingara dice delle cose a lui. Non so che cosa si stiano dicendo, da qui non sento.

    E così l’hanno rilasciato. È pazzesco, ragazzi, da queste cose, da queste cose vedi che Dio è proprio buono e simpatico e tutto quanto. L’unica cosa che mi viene in mente è che Gerard dev'essere stato beccato con della droga in casa per la prima volta in vita sua, e che quindi la polizia deve averlo rispedito al suo indirizzo con una pacca sulla spalla e la raccomandazione di non farlo più. Nel New Jersey, se ti beccano con della droga in casa e tu hai la fedina penale pulita, ti lasciano andare o al massimo ti costringono a frequentare dei gruppi di recupero per un po’; poi la fedina penale ti diventa sporca e se ti beccano di nuovo sei bello che fottuto, ma se è la prima volta lo Stato ti dà l’opportunità di tornartene dove abiti e riprendere a comportarti bene. È come una seconda chance, e… è Gerard, ragazzi, è proprio lui! Mi guardo le scarpe, sorrido tra me e me come un ebete (è Gerard!), forse è anche spuntato il sole. O forse sono solo io che quando c’è Gerard divento isterico pazzo. Però c’è Gerard (è Gerard!), e voi dovete capire che quando c’è Gerard ogni cosa diventa più bella. Per me è così. La zingara gli porge un foglietto, lui se lo mette in tasca. È tutto così strano e surreale e meraviglioso che forse in un film romantico francese ci siamo davvero. Gerard saluta la zingara, e solo adesso noto che Gerard è strano.

    Sì, è strano. In faccia. Oggi Gerard è strano in faccia, e oserei quasi dire che oggi Gerard sembra preoccupato. Di cosa, per chi, in che modo, in che misura, queste sono tutte cose che non so. E forse sarà solo un’idea mia, ma se Gerard è preoccupato non è preoccupato per l’arresto. È per qualcos’altro. Ma cosa? Non lo so. Non lo so ma mi turba. Perché quando ti abitui a credere che qualcuno sia indifferente a tutto, appena ti accorgi che non è così – o che non è ragionevole che sia così –, ci resti di stucco. E io ci sono restato così: di stucco. Gerard si allontana a passo talmente sicuro che a vederlo così, di spalle, uno penserebbe “ecco un ragazzo sereno e senza problemi”. E la penserei così anch’io, se poco fa non l’avessi visto anche in faccia. Però in faccia l’ho visto. Anche se di lui non so nulla, e anche se non ho sentito una sola parola di quanto ha detto a quella zingara, io gli occhi glieli ho visti. E magari con i gesti e con il modo di fare puoi anche fingere il contrario, ma se hai qualcosa che non va dagli occhi si capisce sempre. È una cosa che mi dice spesso anche mio padre. Se vuoi davvero controllare che una persona stia bene, allora devi guardarla negli occhi. Dagli occhi si capisce sempre, se qualcosa non va.

    Dagli occhi si capiscono un sacco di cose.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** Adagio ***



Buonasera ~


Sì, ebbene sì, LO AMMETTO, ho preparato la scaletta. E se tutto va bene, questa storia dovrebbe avere, udite udite, 19 capitoli – o 18 più un breve epilogo finale, ancora questo non lo so.


Spero che vorrete restare con me fino alla fine e vi lascio al capitolo, ché qui cominciano a succedere cose.


Buona lettura,


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Adagio














Davanti al cancello di casa mia c'è Gerard seduto a terra con le gambe incrociate e gli occhi bassi. Si è stretto nel cappotto per il freddo e sui capelli gli si sono accumulati tanti pallini bianchi di neve — non so se avete presente i pallini bianchi di neve, sono tipo quegli aggregati di fiocchi di neve che quando nevica e tu non hai l'ombrello ti finiscono sui capelli e fanno sembrare che tu abbia la testa a pois o cose simili. Fatto sta che c'è Gerard seduto a terra con le gambe incrociate e lo sguardo basso, e che qui i casi sono tre. Uno, Gerard voleva andare da un suo amico e ha sbagliato indirizzo. Due, questa non è casa mia, ma io a casa mia ci sto spesso, e sono proprio sicuro che sia questa qui con scritto “Iero” sopra alla cassetta della posta. Tre, Gerard in realtà è morto e qualcuno lo ha trasportato qui davanti per incastrarmi — e io potrei anche crederci, visto che sono qui come un cretino da secoli e lui non ha nemmeno alzato la testa per salutarmi. E allora lo guardo meglio e vedo che non si è stretto nel cappotto per il freddo, è solo molto impegnato a disegnarsi qualcosa sul palmo della mano. Da qui non vedo che cosa. Mi dispiace molto interromperlo, tanto più che lo adoro e lo idolatro e tra poco me lo sogno di notte e tutto quanto, ma in questo momento io sto morendo di freddo.

    «Gerard?»

    «Oh, Iero!»

Alza la testa di scatto e comincia a mettersi in piedi. Fa fatica perché deve essere lì seduto da molto, e non so se avete presente che se stai seduto per troppo tempo alla fine le gambe ti si addormentano; allora tu ti rialzi tutto baldanzoso e pieno di voglia di alzarti e invece i polpacci ti mandano a quel paese e tu cadi come un coglione. Fatto sta che Gerard adesso è in piedi, e dato che non sta dicendo nulla io suppongo che stia aspettando qualcuno. Prendo un tiro dalla sigaretta e glielo chiedo.

    «Stai aspettando qualcuno?»

    «Sì, in realtà aspettavo te.»

    «Non sembri molto convinto.»

    Non lo dico per fare lo splendido, è che Gerard non sembra molto convinto per davvero. Si guarda attorno e negli occhi ha ancora quell'aria di preoccupazione e di paura che non se ne va. La stessa che ho notato anche ieri e che spero di non dover notare di nuovo domani o tra cinque minuti. O forse devo solo arrendermi all'evidenza dei sillogismi e mettermi in testa che se le persone hanno dei sentimenti e se Gerard è una persona allora anche Gerard deve avere dei sentimenti. Sarà.

    «Che intendi, scusa?»

    «Boh, guardi a destra e a manca come se avessi paura di essere scoperto.»

    È che un po' mi sono offeso. A guardarlo così, Gerard sembra quasi che si vergogni di stare qua, davanti al cancello di casa mia e alla cassetta della posta con scritto “Iero”. Ad ogni modo, ignora completamente quello che gli ho detto e prende a frugarsi nelle tasche dei pantaloni. Tira fuori qualcosa e me lo porge — sono trenta dollari, a occhio e croce due banconote da dieci e dieci da uno. Non capisco. Lo dico.

    «Non capisco.»

    «I tuoi soldi. Mi hai pagato, lunedì scorso. E poi mi hanno arrestato.»

    C'è Gerard e ci sono io, e siamo in piedi a due metri l'uno dall'altro. Lui sotto la neve con il braccio teso e i soldi in mano, io sotto l'ombrello con lo zaino di scuola e la sigaretta in bocca. Lui fradicio, io perfettamente asciutto. Siamo la copertina di un libro. Scuote i soldi con un gesto seccato, poi alza le sopracciglia.

    «I soldi si stanno bagnando, Iero.»

    Non capisco che cosa voglia questo ragazzo da me; più che altro, non capisco se realmente voglia qualcosa da me. E ciò che mi dà fastidio è che probabilmente Gerard da me non vuole proprio niente, mentre io me ne sto qui ad analizzare ogni suo gesto in cerca significati nascosti che non esistono. Ad ogni modo non ho nessuna intenzione di riavere i miei soldi indietro, e Gerard sembra averlo finalmente capito. Lascia ricadere il braccio lungo il fianco e sospira come una donna, con tanto di ciglia sbattute due volte. Io giuro su Dio che questo ragazzo è uno spettacolo.

    «Senti, Iero, io non so se tu nuoti nei soldi o cose simili, ma che ti piaccia o no questi trenta dollari ti spettano di diritto. E io non voglio avere debiti in giro.»

    «Beh, valgono per la prossima volta che ci vediamo, no?»

    «Non ci vediamo, Iero. Ho chiuso con quella roba. Prendi i soldi e facciamola finita. Magari entro oggi, che ho delle faccende da sbrigare.»

    Quando Gerard mi dice che ha chiuso con quella roba io mi sento ferito come se stessimo assieme e lui avesse appena rotto con me. “Ma scusa tanto”, vorrei dirgli, “ma scusa tanto, come puoi lasciarmi così dopo tutto quello che abbiamo passato assieme?”. Ma la verità è che io e Gerard assieme non abbiamo passato proprio un bel niente o quasi, e che ciò che sta facendo lui ora è porre fine a un business, non a una relazione. Mi prendo i soldi e li arrotolo. Si muore di freddo, io muoio di freddo, e c'è Gerard che sta in piedi a due metri da me — lui fradicio, io perfettamente asciutto, anche se questo l'ho già detto.

    «Bene», sbottona brevemente lui. «Allora ci vediamo.»

    Ficca il pollice sotto alla tracolla della borsa e se ne va. Mi lascia qui come un cretino.

    ...

    ...

    ...Eh, no. Ma proprio no. Ok, ho capito che non gli interesso e ok, forse non l'ho capito, l'ho sempre saputo, ma a me non va giù — che non gli piaccia è un conto, ma che se ne vada così no, non mi va bene. Ha quasi raggiunto l'angolo della strada, senza voltarsi indietro e senza salutare, e io sono sempre qui davanti a casa mia, guardando il punto di marciapiede su cui si era seduto ad aspettarmi e a disegnarsi un paio di scarabocchi sul palmo della mano. Gli sono così indifferente che lo prenderei a botte. Beh, no, d'accordo, magari non lo prenderei a botte, però gli afferrerei le spalle e poi lo scuoterei un paio di volte nello stesso modo in cui lui ha scosso quei trenta dollari per farmeli prendere. E dopo averlo scosso mi farei dire che cazzo devo fare per ottenere un minimo di considerazione. Tutte queste cose le penso nel giro di due secondi e so che può sembrare strano perché sono davvero tantissime cose, ma fatto sta che a questo punto mi giro verso la figurina fradicia di Gerard e la chiamo.

    Mi ha sentito, si gira; all'inizio è un po’ spaesato perché non ha capito chi abbia gridato il suo nome, ma poi vede che qui non c’è un cazzo di nessuno a parte me, e allora capisce e mi guarda da lontano senza avvicinarsi, in attesa.

    «Stasera c’è una festa», improvviso.

    Stasera c’è davvero una festa, ma l’idea di invitarlo mi è venuta esattamente adesso. Che bravo, eh? È un’idea stupida, a dire il vero. Specie perché la festa non è mia e specie perché a questa festa io non sono nemmeno stato invitato. Gerard non risponde ma continua ad ascoltare, immobile, in piedi a venti metri da me. Questo è già un ottimo segno. Se Gerard non è interessato a qualcosa lui non è che se ne stia lì a sentire per educazione, lui se ne va e basta, arrivederci e tante belle cose. Lui non è tipo da moine. Parlo ancora, a voce molto alta perché possa sentirmi bene anche da dov'è.

    «Alle dieci», gli dico. «Dalle dieci. A casa di Craig Russell.»

    Inclina la testa, si lecca il labbro inferiore, continua a non avvicinarsi. Con Gerard devi scegliere bene le parole, perché se ne dici una sbagliata o che per qualche motivo non gli va giù, allora lui perde interesse. E l’ho già detto che quando Gerard perde interesse se ne va e basta. È un po’ come con i gatti, non so se avete presente: tu vedi un gatto per strada e allora sei tutto contento e con aria allegra vai là per accarezzarlo, però il gatto scappa via. E allora tu cominci a pentirti di non aver usato maggiore cautela, ma dopo qualche metro di corsa il gatto si ferma, si gira, si siede e ti fissa. In attesa. Solo a quel punto ti ricordi che i gatti sono diffidenti e che solitamente ai gatti le persone troppo allegre ed entusiaste non vanno giù. E a quel punto siete lì, a venti metri di distanza, tu e il gatto, e tu cerchi di riavvicinarlo facendo ogni gesto a rallentatore, perché sai che un movimento troppo brusco potrebbe spaventarlo e farlo scappare via. Fa’ un passo falso e il gatto scappa via. Fa’ un passo falso e Gerard se ne va e basta.

    La parte difficile dello scegliere le parole da dire a Gerard è che lui non ti interrompe, né cambia mai espressione — come un gatto, scusate se insisto. Gerard ascolta quello che hai da dire senza fiatare o cambiare espressione, dopodiché decide se andarsene o restare a sentire che altro hai da dirgli. Di solito, comunque, se ne va. E tu resti lì come un cretino.

    «Sai dov’è la casa di Craig Russell?»

    Gerard fa cenno di no con la testa.

    «È in fondo a Jauncey Ave. Al 75. In realtà non sono stato invitato, ma…»

    Lascio la frase a metà perché di solito nei film questo è il tipo di frase che il protagonista non riesce a completare perché il suo amato la completa per lui. In ogni caso Gerard non completa proprio un bel niente. Anzi.

    «“Ma”?», incalza.

    «Ma forse potremmo imbucarci assieme. Craig fa diciotto anni, a quella festa ci sarà praticamente tutta la scuola. Non ci noterà nessuno.»

    Continua a nevicare; non credo che Gerard potrebbe essere più zuppo di così, e per un attimo mi immagino un simpatico scenario in cui passo a prenderlo a casa sua per andare assieme alla festa e lo trovo morto di broncopolmonite sul pavimento. Che poi non credo che nel 2014 si possa ancora morire di broncopolmonite. O forse sì, ma che mi frega. Mi conviene sbrigarmi, se non voglio che accada davvero – ma ve lo immaginate, quanto sarebbe ironico?

    «Allora? Che ne pensi?», gli chiedo.

    Trattengo il respiro come se così facendo avessi qualche possibilità in più e aspetto che si decida finalmente a rispondermi. Nevica ancora. Gerard si morde l’interno delle guance, guarda per terra, guarda alla sua sinistra e infine guarda me; e prende un lungo respiro.

    «Non sarà così male.»

    Ha detto di sì. Cioè, non era proprio un “sì” di quelli pieni di brio, però era la perifrasi di un “sì”. Decido che mi va più che bene. Ragazzi, Gerard mi ha detto di sì e io fino a poco fa stavo per lasciarmelo scappare come un gatto, un gatto di quelli che tu sei tutto contento e con aria allegra vai là per accarezzarli eccetera eccetera.

    Mi chiedo in che genere di famiglia abiti Gerard. Se in una di quelle con i quadri di Gesù appesi alle pareti oppure in una di quelle con le armi da fuoco nascoste nei materassi. Sarei più per la seconda ipotesi. Nel senso che se Gerard vivesse nella mia famiglia, in cui siamo tutto sommato abbastanza religiosi e cose simili, non credo che in questo momento sarebbe qui. Per la cosa dell'arresto, intendo. Poi non lo so, ma credo che se un giorno dovessero arrestarmi, mio padre l'ergastolo me lo farebbe fare in casa, nel senso che verrei privato del permesso di uscire per tipo il resto della mia vita, non so se mi spiego. Ma se Gerard è lì di fronte a me, allora significa che qualcuno gli ha dato il permesso di farlo. Tutto questo ragionamento lo faccio in un secondo, e so che adesso voi sarete davvero increduli e tutto quanto perché ancora una volta ho dato prova della mia capacità di pensare a moltissime cose in pochissimo tempo. Fatto sta che io questo ragionamento l'ho fatto e che le conclusioni che ne ricavo sono uno, che io in questa faccenda dell'arresto non ci capisco proprio un cazzo; due, che se Gerard abita con i suoi, com'è altamente probabile che sia, loro sanno per forza dell'arresto. E a meno che i suoi non siano tipo dei narcotrafficanti abituati ad avere i familiari in galera, se non altro non credo che gli permetteranno di stare fuori fino a molto tardi, vista la sua... inaffidabilità. 

    «A che ora devi essere a casa, Gerard?»

    «All'ora che mi pare.»

    Ah. Non avevo capito proprio un cazzo. Bene. 

    «Non hai un coprifuoco?»

    Fa schioccare la lingua una volta.

    «E tu?», chiede.

    «Nemmeno io. Senti, se mi dici dove abiti posso passare a prenderti verso le dieci e un quarto.»

    «No. Vediamoci direttamente lì alle dieci e mezza.»

    «...Oh. Beh, d'accordo.»

    Lo capisco. Questa cosa dell'indirizzo, dico, la capisco, perché alla fine lui che ne sa? Cioè, magari io sono un assassino pazzo o uno della squadra antidroga sotto copertura o cose simili, e questo lui non può saperlo — in ogni caso non sono nessuno dei due. Immagino che non non si fidi, e dico “immagino” perché Gerard non ha mai cambiato espressione facciale da quando abbiamo cominciato questa conversazione. Gerard non cambia mai espressione. Ormai ci faccio poco caso; quello a cui faccio caso, invece, è che stiamo parlando da almeno cinque minuti e lui non ha l'ombrello e ha la testa piena dei pallini che ho già detto, quelli che fanno sembrare che tu abbia la testa a pois o cose simili, eppure è ancora lì. Potrei montarmi la testa. Ad ogni modo ci sono io e c'è Gerard, ma adesso siamo troppo lontani per sembrare la copertina di un libro. Lui mi studia per un altro paio di secondi e poi fa dietrofront. All'angolo con Greylock Parkway tira dritto, e poi continua a camminare velocemente senza mai voltarsi indietro.










Tra un minuto saranno passati esattamente quarantacinque minuti da quando mi sono seduto su questo muretto ad aspettare Gerard come un cretino. Gli avevo detto alle dieci e mezza. Gli avevo detto alle dieci e mezza e adesso sono le undici e un quarto, ma fatto sta che di Gerard non c'è traccia e che a questo punto io mi sentirei anche un po' preso in giro. Tanto più che a me Gerard piace da impazzire e tutto quanto mentre invece io a lui sono del tutto indifferente, tipo che l'ho pagato otto volte per farmi fare uno pompino e lui non mi ha mai concesso privilegi nemmeno in quel senso.

    Ok, straparlo. Cioè, strapenso, se così si può dire. Fa un freddo, ma un freddo che giuro su Dio che se mi chiudo dentro a un congelatore mi scaldo. E Gerard non c'è, mentre lì a due passi la festa di Craig Russell è cominciata da secoli e continua alla grande, con tanto di musica e piscina e cibo e sigarette. C'è da dire che dal tipo di gente che vedo entrare e uscire dal retro della casa di Craig Russell ho come l'impressione che quella più che una festa sia l'Oktoberfest, però che cazzo. Che cazzo. Mi dico che quando arriverà Gerard glielo dirò — glielo dirò eccome. Farò la faccia arrabbiata e tutto, e poi lo guarderò un con un cipiglio pieno di disapprovazione e gli dirò: “Che cazzo”, (gli dirò proprio così), “che cazzo, Gerard”. Oh, potete giurarci. Gli dirò così e poi magari subito dopo mi accenderò una sigaretta e guarderò lontano facendo la stessa faccia che fanno i tizi dei film quando devono sbollire la rabbia. E allora Gerard temerà di aver perso un potenziale amico e a quel punto si getterà a terra e tra le lacrime e dirà...

    «Bel posto di merda.»

    C'è Gerard. Ha i jeans e una giacca a vento nera e se non stesse guardando la casa di Craig con aria contrita sembrerebbe quasi etero.

    «Dov'eri finito?», chiedo.

    Quella cosa del “che cazzo” mi sa che non gliela dico. Metti che poi si infastidisca e allora se ne vada e basta.

    «A casa mia.»

    Non si scusa per il ritardo e fa un cenno con la testa verso casa Russell. Piega gli angoli della bocca verso il basso e ribadisce quanto ha già detto.

    «Bel posto di merda.»

    «Tutta Belleville lo è», ritorco io. «Vieni.»

    Giriamo attorno alla casa fino ad arrivare sul retro. La porta è aperta, un tizio fuma sulla soglia e guarda lo schermo del cellulare. In questo buco di culo di paese entrare alle feste senza essere stati invitati è uno scherzo, ve lo assicuro. È uno scherzo perché di solito alle feste uno ti dice “porta chi vuoi”, e qui si conoscono tutti, quindi io potrei benissimo essere un amico di un amico di un amico di un amico del festeggiato – probabilmente lo sono anche. Gerard tiene il naso all’insù e mi segue passivamente mentre superiamo il tizio che fuma ed entriamo. È una casa che si sviluppa per lungo, di quelle che

stanno in mezzo a due strade – La porta sul retro dà accesso alla cucina e la cucina dà accesso al salotto e il salotto dà accesso alla porta principale, non so se avete presente.

    «E così Craig Russell è carico di soldi.»

    Siamo dentro da meno di otto secondi e Gerard ha già in mano una cornice con dentro una foto di famiglia. Me la agita sotto al naso con sguardo eloquente, ma io non capisco cosa dovrei capire. Un’altra cosa tipica di Gerard è che lui fa un sacco di pensieri complessi e poi, dopo essersene stato in silenzio per minuti interi, si gira verso di te, ti guarda e fa la sua considerazione ad alta voce. Il punto è che spesso le cose che dice ad alta voce sono il risultato di una lunga riflessione che la maggior parte delle volte non c’entra un tubo con ciò di cui si stava parlando, e allora tu non sai a che cosa si riferisca e resti lì come un cretino. E adesso lo sta facendo di nuovo: con un dito indica la famiglia di Craig Russell immortalata nella foto e alza le sopracciglia come se la considerazione che ha appena fatto fosse scontata. E io resto lì come un cretino. Tanto più che la musica è altissima e schifosa e ogni due secondi vengo investito da qualche ubriaco che non riesce a camminare in linea retta, quindi è difficile rimanere concentrati su Gerard e sui suoi voli pindarici.

    «Che intendi?», gli chiedo.

    Sospira, come se fosse tutto così ovvio.

    «Intendo che Craig Russell è ricco sfondato.»

    «Sì, ma perché pensi che sia ricco sfondato?»

    In questa casa non c’è nulla di prezioso. A dire il vero, le uniche cose che ci sono in questa casa a parte me e Gerard sono la musica altissima e schifosa e gli ubriachi che non riescono a camminare in linea retta.

    «Ma ti prego, Iero. Guarda qui. Ha la foto di famiglia. In una cornice

    «E cosa c’è di così strano, scusa?»

    «Questa qui», (e qui indica la foto con davvero tantissima enfasi), «Questa qui è una di quelle foto che ti fanno i fotografi in cambio di vagonate di soldi, e poi guarda lo sfondo: è azzurro. Cioè, questo significa che come minimo la famiglia di Craig Russell un mattino si è svegliata tipo alle sei e poi è partita alla volta di uno studio fotografico. Capisci?»

    «Sì.»

    Inutile dire che in realtà non ho capito niente. Gerard adesso guarda di nuovo la foto e potrei quasi giurare che sia malinconico.

    «Ma te li immagini?», chiede. «Un bel giorno questi si svegliano alle sei, si mettono tutti eleganti e poi si fanno tutta l’autostrada di merda fino a Kearny o che so io solo per farsi scattare una dannatissima foto di famiglia. Robe da matti.»

    Io ve lo dicevo, che quando Gerard fa qualche ragionamento il novanta percento delle volte non si capisce niente. Rimette la foto sul ripiano con un’espressione schifata e poi si volta verso di me.

    «Questo qui caga i soldi che è una bellezza e poi fa tante storie per trenta dollari di pompino.»

    «…Ah. Ecco dove volevi arrivare.»

    «Mh-mh. Quando gli ho detto quanto costava un mio pompino, ha cercato in tutti i modi di farsi fare uno sconto; ho fatto bene a non farglielo.»

    «Il… il pompino?»

    «No, lo sconto. Il pompino gliel’ho fatto.»

    «Ah.»

    Quanto candore, eh? Io lo vedo così. Non sono volgari nemmeno i pompini, quando li fa lui, non so se mi spiego. La canzone cambia, la festa continua, la musica è sempre altissima. E Gerard continua ad avere qualcosa che non va. Negli occhi. Lo so dagli occhi, che ha qualcosa che non va. E sto per chiedergli che cosa sia, ma poi il suo telefono vibra dentro alla tasca della giacca e Gerard esce dalla porta sul retro per rispondere alla sua chiamata.










Per qualche motivo credo fermamente che in questo momento Gerard stia parlando con la stessa persona che gli ha mandato un messaggio quando eravamo nell’aula 124 del terzo piano. Se è il suo ragazzo è l’uomo più fortunato al mondo. Giuro su Dio che se è il suo ragazzo è l’uomo più fortunato al mondo, tanto più che Gerard sta attaccato a quel dannatissimo telefono con tutta la guancia e sorride anche un pochino. E io lo so perché da qui lo vedo benissimo – mi pare di aver già detto che questa è una casa che si sviluppa per lungo, e che quindi se uno sta in salotto vede benissimo chi sta sul retro. È un po’ frustrante sapere che al mondo c’è qualcuno in grado di catturare tutta l’attenzione di Gerard. No, beh, più che altro è frustrante sapere che questo qualcuno c’è e che questo qualcuno non sei tu. E così resto qui. Come un cretino.  È difficile non restare lì come dei cretini quando accanto a voi c’è Gerard, e penso che ormai questo l’abbiate dedotto tutti. È che mi dà noia sapere che dietro a quel telefono c’è qualcuno che sa esattamente cosa dire a Gerard e come comportarsi con lui per non farselo sfuggire. È come quando vedi un gatto per strada, e allora sei tutto contento e con aria allegra vai là per accarezzarlo, però il gatto scappa via. E mentre tu te ne stai lì (come un cretino, appunto), arriva qualcun altro, dice quattro parole in croce e subito il gatto si gira e va da lui.

    Dopo qualche minuto Gerard annuisce tre volte come se chi sta dall’altra parte del filo potesse vederlo, borbotta ancora qualche altra cosa e infine mette giù. Quando mi raggiunge di nuovo in sala io ho in mano il telefono e faccio finta di essere molto impegnato, tipo che sono proprio un ragazzo fantastico se nonostante tutti i miei impegni trovo anche il tempo di uscire con Gerard. È più o meno l’idea che vorrei dare in questo momento, ma ad ogni modo lui non ci casca. Anzi, non nota nulla e basta. Viene da me camminando velocemente, mi indica la cassa per farmi capire che la musica è troppo alta per riuscire a parlare e infine mi prende per una manica e mi trascina fuori, facendomi sbattere contro tutte le persone che troviamo lungo percorso. A questo punto non so voi che ne pensate, ma io direi che è abbastanza evidente che non riesco a sembrare un ragazzo impegnato. Gerard mi porta fuori e poi mi lascia la manica. Si morde continuamente il labbro inferiore e guarda a destra e a sinistra, e io giuro su Dio che mi cago sotto dalla tenerezza, perché è la prima volta che lo vedo così... agitato, credo. Gerard ha sempre l'aria annoiata. Sempre. E ce l'ha talmente... beh, sempre, che non appena cambia espressione tu non capisci nemmeno che espressione sia perché riesci solo a pensare “oh Cristo, ha cambiato espressione”. E resti lì come un cretino. Però dura solo un attimo, perché non faccio neanche a tempo a fare tutto questo ragionamento che Gerard si calma e riprende tutto quel poco contegno che si era permesso di perdere.

    «Che... Gerard, che c'è?»

    «Ti piace questa festa, Iero?»

    «Cosa?»

    «Ti piace questa festa?»

    «Io...»

    «Iero, sono due i casi, sì o no. Ti piace questa festa, sì o no?»

    «N-Non particolarmente, credo.»

    Ma come fai a rispondere lucidamente a una domanda che Gerard ti fa alle undici e mezzo di sera durante una festa che non è tua e a cui non sei stato nemmeno invitato? Come fai, che non giochi nemmeno in casa? Non puoi, dico io. Non puoi proprio.

    «Movimentiamo la festa, Iero», mi dice, e adesso sul suo viso c'è di nuovo quello sguardo che lo fa sembrare molto più grande della sua età. «Ti va?»

    «Che intendi?»

    «Che cazzo, Frank.»

    Lo dice stancamente, come se avesse a che fare con un completo idiota. “Che cazzo” avrei dovuto dirglielo io, quando si è presentato davanti a casa di Craig con quarantacinque minuti di ritardo. E invece ora me lo dice lui. Mi ruba anche le battute, ma vi sembra normale?

    «Che cazzo», continua Gerard, «hai sempre le solite due opzioni. Sì o no. E allora, vuoi movimentare questa serata morta, sì o no?»

    «Io... sì.»

    E mentre dico di sì lo guardo bene negli occhi e ci ritrovo una traccia di quell'agitazione che fino poco fa gli aveva mangiato tutto il viso. Che Gerard mi proponga qualcosa, lui a me, è grandioso, sul serio. L'unico vero problema è che io non so che cosa intenda lui con “movimentare la serata”. O lo so e non voglio saperlo. E allora mi viene in mente che Gerard la settimana scorsa aveva un bel paio di manette attorno ai polsi, e che Gerard un mese e mezzo fa aveva la faccia in un fermo immagine della telecamera a circuito chiuso del negozio di mio padre. Ma la verità è che Gerard ha gli occhi grandi grandi come i gatti che quando ti avvicini scappano, e io ho una specie di debole per gli occhi di Gerard e per Gerard in generale. Lui mi dice che conosce un posto dove non ci disturberà nessuno, e io lo sto a sentire mentre cerco di capire dove voglia arrivare. Però non ci riesco. E resto lì come un cretino.










L'Albergo Delle Puttane è un albergo che io chiamo così perché prima che lo costruissero in quel punto della strada c'era un bordello. Cioè, ufficialmente doveva essere un centro massaggi, presente no?, di quelli che tu paghi ottanta dollari e una tizia ti mette dei sassi sulla schiena per aprirti i chakra o chiuderteli o quello che è. Fatto sta che in quel centro massaggi non maneggiavano proprio nessun chakra, al massimo maneggiavano qualcos'altro (non credo di dover essere più esplicito). Poi un bel giorno la polizia se n'è accorta e sbam, tutto chiuso.

    Gerard mi ha portato all'Albergo Delle Puttane e io per un attimo mi lascio trasportare dalla deliziosa ipotesi che abbia intenzione di maneggiarmi i chakra come si deve — non so se mi spiego —, e invece Gerard gira l'angolo dell'edificio e va a infilarsi sotto una specie di portico che dà sulle stanze al pianterreno.

    «Che significa?», gli chiedo.

    Ovviamente mi ignora.

    «Queste stanze qua non sono occupate», dice. «Se arriva qualcuno, il signor Humphrey, che è il gestore di questa merda, gli dà una delle stanze all'ultimo piano, e quando tutto l'ultimo piano è pieno allora passa a quello sotto. Ma tanto l'ultimo piano non è mai pieno. Quindi se ci mettiamo qui non ci vede nessuno. E poi questo è uno dei pochi punti che le telecamere dell’albergo non riescono a riprendere.»

    «E tu come lo sai, scusa?»

    «Ho lavorato qui.»

    «Cosa? Quando?»

    «Appena mi sono trasferito.»

    «E poi? Te ne sei andato?»

    «Beh, grazie tante, il signor Humphrey mi ha fatto arrestare.»

    Si siede con la schiena addossata a una delle portefinestre e picchietta il palmo accanto a sé, per terra. Mi siedo lì.

    «Come sarebbe a dire che ti ha fatto arrestare, scusa?»

    Se il signor Humphrey ha fatto arrestare Gerard allora è proprio una bella merda. Come fai a fare la spia su una cosa che ha fatto Gerard? I casi sono due, e cioè uno, sei scemo, oppure due, sei folle. Tanto più che Gerard ha solo sedici anni. Mi accendo una sigaretta e aspetto che Gerard risponda alla mia domanda.

    «In realtà è leggermente più complicata di così», dice. «Io lavoravo qui nel senso che alcuni giorni alla settimana, di pomeriggio, stavo dietro al bancone della reception e prendevo le prenotazioni. E poi, all’occorrenza, tornavo anche di sera e facevo sesso a pagamento con i clienti che lo volevano; e lui si prendeva una percentuale.»

    Ora probabilmente sembrerò cattivo, però io dico che se Gerard al posto di trovarsi un lavoro normale va in giro a prenderlo in bocca o altre cose a quelli che lo pagano, allora evidentemente un po' gli piace. Me lo tengo per me.

    «Al signor Humphrey andava bene, tanto più che gli affari di questo posto procedono veramente da schifo. E a me anche, nel senso che sinceramente se posso guadagnarci qualcosa non mi frega più di tanto prendere in bocca un paio di...»

    «Sì, ho capito.»

    Mi getta una brevissima occhiata stranita.

    «Dicevo. Dopo quattro giorni circa lui comincia a farmi avance varie, tipo che arriva da dietro e cerca di appoggiarsi, cose così.»

    «Non sapevo che il signor Humphrey fosse gay.»

    «Non si tratta di essere gay o meno. È che sono giovane. E poi mio fratello mi dice sempre che ho la faccia da donna.»

    «Aspetta, tu hai un frat...?»

    «Il signor Humphrey ha cominciato a farmi delle avance e a quel punto io gli ho detto che se se lo voleva far prendere in bocca allora doveva pagare, esattamente come tutti gli altri.»

    Mi sono accorto del modo in cui mi ha interrotto appena ho menzionato suo fratello, ma anche questa volta non dico nulla. Tanto, se Gerard non vuole parlare, non parla e basta.

    «Una sera il signor Humphrey mi è praticamente saltato addosso», continua. «Mi ha detto che c'era un cliente per me e invece non c'era proprio nessun cliente. C'era solo lui.»

    «Ma... e quindi ti ha...?»

    «“Mi ha...”?»

    «Beh... violentato

    «Ah, quello. No, non mi ha violentato. Però ci ha provato. Mi ha afferrato per le spalle e mi ha sbattuto contro al muro. Lì accanto c'era il caminetto, e allora io ho preso un vaso che era appoggiato lì sopra e gliel'ho rotto in testa.»

    Sorrido, probabilmente fuori luogo. È che mi diverte il fatto che finora tutti quelli che hanno provato a immobilizzare Gerard sono finiti con qualche cosa di sanguinante — Poliziotto Severo il naso, il signor Humphrey la testa.

    «E allora ti ha denunciato per questo?»

    «Certo che no. Cosa avrebbe potuto dire? Non poteva mica uscirsene con una frase tipo “questo ragazzo che stavo cercando di stuprare mi ha rotto un vaso in testa, mettetelo in prigione”. Io mi sono licenziato la sera stessa, ovviamente. E allora lui mi ha fatto la bastardata: ha preso un paio di nastri delle telecamere a circuito chiuso dell'albergo e li ha spediti alla polizia. E il giorno dopo... lo sai già. C'eri anche tu, no?»

    Non mi torna. A parte che se fai prostituire un ragazzino con i clienti del tuo albergo e ti beccano, quello che va in prigione non è certo il ragazzino, ma piuttosto sei tu, per favoreggiamento alla prostituzione. E poi in tutta questa storia la droga non c'entra niente. Sembra che Gerard mi legga nel pensiero, perché subito dopo riprende a parlare.

    «Nelle riprese che quello stronzo ha mandato alla polizia la mia faccia si vede benissimo. E lo so perché quelle riprese quando mi hanno interrogato me le hanno mostrate tutte. Tre giorni diversi e la stessa identica scena: io entro dalla porta principale dell'albergo, mi infilo tra le due piante accanto al bancone della reception, tiro fuori un po' di special K da una bustina trasparente, me la spalmo sul dorso della mano e tiro.»

    «…Ketamina

    «Mh-mh.»

    Lo dice così. Come se niente fosse. Come se avesse appena risposto a una domanda come tante altre. “Tutto ok?”, “sì”, “Hai fratelli?”, “sì, due”, “Ti fai di ketamina?”, “mh-mh”. Così. Mi chiedo come possa un ragazzino di appena sedici anni avere già tanta familiarità con una delle droghe più forti in commercio, ma poi decido che non voglio saperlo. Penso al Gerard che ho visto io per la prima volta, quello biondo; quello con il drink rosa acceso in mano e il boa con piume bianche e nere attorno al collo che per forza di cose da lontano sembrava grigio. Però quella volta era da lontano. Adesso Gerard è qui. Ce l'ho qui e non mi scappa. Né lui né i suoi occhi pieni di cose meravigliose e spaventose allo stesso tempo. Penso disordinatamente che forse è proprio per questo che Gerard ha gli occhi così grandi: probabilmente, se fossero stati più piccoli, non ci sarebbero entrate tutte le cose meravigliose e spaventose che invece ora ci sono, e che fanno sembrare Gerard più grande. E a tratti anche più triste.

    «Non...»

    Sono stato io a rompere il silenzio. Però non so cosa dire. Vorrei andare da chiunque abbia venduto quella roba a Gerard e prenderlo a calci e dirgli che non si doveva permettere di fare qualcosa di così orrendo a un ragazzino come lui.

    «“Non”?»

    «Non... ma... insomma, in polizia non si sono chiesti com'è che nelle riprese è sempre notte fonda? Non hanno pensato che il signor Humphrey possa averti ricattato, o... non hanno pensato a qualcos'altro? Una seconda ipotesi, o...»

    «Non c'è nessuna seconda ipotesi, Iero. In tutti quei video è pieno giorno. Nei giorni in cui lavoravo, quando uscivo di scuola andavo lì; facevo il mio normale turno lavorativo fino alle sei e poi, se c'erano clienti interessati, tornavo anche la sera per offrire il mio servizio. Sempre che si possa chiamare così, ovvio. Ma io la special K non la prendevo di sera. La prendevo di pomeriggio, quando cominciavo il turno.»

    Sono completamente incantato. È notte, sono da solo con Gerard e Gerard mi sta parlando di sé come se fossi un suo vecchio amico, quando fino a stamattina credevo che sarei morto congelato dal suo sguardo pieno di profonda misantropia. E io giuro su Dio che in questo momento sono talmente preso a pensare a questo che detto proprio tra noi la cosa della droga passa quasi in secondo piano. Per dirvi come sono messo.

    «La ketamina se presa in certe dosi è un analgesico, che non so se lo sai ma vuol dire che è una cosa che fa passare il dolore.»

    Gli dico che lo sapevo, ma lui non mi sente e continua con il suo discorso.

    «Quando avevo qualche cliente andavo all'albergo verso le dieci di sera, facevo quello che dovevo fare e poi verso l'una di notte tornavo a casa e crollavo subito dal sonno. Ma il giorno dopo ero sempre pieno di dolori. Alcuni di quei vecchi ci davano proprio dentro, sai?»

    «E quindi è successo che qualche volta tu sia venuto a scuola mentre eri... sotto l'effetto di quella roba?»

    Mi prende la sigaretta dalle dita e ne ruba un tiro, poi me la rimette in mano. Sbuffa il fumo lentamente, gettando la testa all'indietro.

    «No, mai», risponde. «La gente avrebbe cominciato a insospettirsi. E a scuola c'erano troppe persone. Se dovevo farmi una striscia me la facevo appena tornavo a casa da scuola oppure appena venivo qui a lavorare. E i video lo confermano.»

    Annuisco. Credo che da quando ce ne siamo andati dalla festa sia passata almeno un'ora; per quanto mi riguarda può essere passato anche un anno, a dire la verità, ma questo è solo per farvi capire come vola il tempo con Gerard, anche se lui ti sta dicendo che fa sesso per soldi e che si droga e che il signor Humphrey è uno stronzo che manda alla polizia le prove per incastrarlo. È pazzesco.

    «E quindi», concludo io, «e quindi, ricapitolando, ogni giorno che eri di turno, tu ti svegliavi, andavi a scuola, dopo scuola correvi qui e appena arrivato ti facevi una striscia?»

    «Più o meno. La striscia me la facevo solo quando la notte precedente qualcuno mi aveva aperto il culo.»

    Candidamente.

    Gerard cerca ancora la mia sigaretta con la mano e quando realizza che l'ho spenta arriccia le labbra in una vaga espressione di disappunto. Una cosa che — se proprio vogliamo usare dei paroloni — mi spaventa, per così dire, è che del fatto che Gerard si faccia di ketamina per non sentire dolore dopo il sesso a me frega fino a un certo punto. Per carità di Dio, intendiamoci, c'è anche di meglio, tipo che c'è un sacco di gente che al mattino si sveglia alle cinque per andare a correre o che di pomeriggio va in chiesa e mette un sacco di soldi in quell'affare di stoffa per le offerte. Però se ho capito bene Gerard usa la ketamina solo come analgesico, e allora è molto diverso — cioè, sì, senza nessun documento che ti autorizzi a farlo è illegale anche così, ma adesso è inutile star qui a fare i cavillosi. Ad ogni modo sia che non si droghi e sia che si droghi io pendo dalle sue labbra. È impossibile non farlo. E mi dispiace dirlo, (no, in realtà non mi dispiace affatto, però mio padre mi ha detto che aggiungere espressioni come queste alle frasi offensive è buona educazione); dicevo, mi dispiace dirlo, ma io non credo che esista qualcun altro che sia così incantevole e allo stesso tempo così cupo quanto lo è Gerard in ogni cosa che fa. Come adesso, per esempio: ha raccolto un ciuffo d'erba da una crepa sul pavimento, alla sua destra, e si è messo a strapparla in tanto piccoli pezzettini, lo sguardo annoiato e perso nel vuoto. Lo guardo bene e sì, confermo: non ce n'è per nessuno.

    «Iero.»

    «Dimmi.»

    «Tu sei uno stronzo?»

    Mentre me lo chiede mi guarda dritto negli occhi. È molto serio.

    «N-no, non direi.»

    «Sicuro?»

    «Sì, perché?»

    «Perché sto per fidarmi di te.»

    Io continuo a non capire e lui a guardarmi negli occhi, e poi Gerard abbassa la cerniera della sua giacca e fruga da qualche parte all'interno finché non tira fuori una bustina trasparente con dentro qualcosa. Sulle prime non ho idea di che cosa abbia intenzione di fare e allora resto lì, come un cretino. Poi però non è che ci voglia molto a capire che ciò che ha appena tirato fuori Gerard è una polvere, e che plausibilmente Gerard ha tutta l'intenzione di farsi finire quella polvere su per il naso e magari di farla finire su per il naso anche a me. Giuro su Dio che il problema più grande che ora mi si pone è come dirgli che io non ho nessuna intenzione di provare a drogarmi senza farlo arrabbiare. O senza farlo scappare via come i gatti, se preferite. Fatto sta che c'è Gerard con il sacchettino e con la polvere dentro al sacchettino, e se io non trovo una scusa nel giro di un secondo so già che Gerard vorrà chiedermi di unirsi a lui. Decido che è meglio parlare piano, con cautela.

    «Gerard.»

    «Mh?»

    «Quella… quella è cocaina?»

    Scoppia a ridere. Non so se sia un buon segno, perché questa è solo la seconda volta che lo vedo ridere, e la prima è stata quando ha rotto il naso a un agente di polizia che lo aveva appena dichiarato in arresto.

    «Sei fuori di testa, Iero?», mi chiede.

    Ha ancora un sorriso a metà, e anche se non ci sto capendo un cazzo sorrido anch'io allo stesso modo. Per riflesso.

    «No, io... non so, mi era sembrato che fosse cocaina», mi giustifico.

    «Sei matto», sfiata lui scuotendo la testa e cominciando ad aprire il sacchettino. «Cocaina, certo.»

    «E allora cosa?»

    Si volta verso di me e io giuro che adesso mi verrebbe da alzarmi in piedi e fargli una foto così com'è, con il volto impassibile e la luce che gli proietta una specie di aureola luminosa sui capelli neri. Dice una parola sola, con tutta la tranquillità di questo mondo.

    «Ketamina.»

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Capitolo 4
*** Adagietto ***


Adagietto

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ci sono io e c'è Gerard, e Gerard sta aprendo il sacchettino che tiene tra le dita con l'aria assorta e i capelli sugli occhi e la giacca a vento nera che quasi quasi se lo vedi di profilo sembra etero. Apre il sacchettino, dalla tasca interna della giacca estrae uno specchietto di quelli che usano le donne quando stanno alla fermata del bus e per ammazzare il tempo si rimettono il rossetto. In tutto ciò, io non so che pesci prendere. Gerard è davvero affascinante e meraviglioso è stupendo e tutte le altre cose belle, ma non mi infilerò quella polvere nel naso, ed è bene che lui lo sappia. Glielo dico.

    «Non mi infilerò quella polvere nel naso, ed è bene che tu lo sappia.»

    «Nessuno ti ha chiesto di farlo», ribatte calmo lui.

    Sostanzialmente è vero, ma praticamente non lo è. Nel senso che se ora Gerard mette la polvere sullo specchietto e si aspetta che io stia qui a guardarlo, allora si sbaglia di grosso, tanto più che io in vita mia non mi sono mai drogato e adesso ci manca solo che la polizia mi arresti solo perché sono stato accanto a uno che invece si drogava.

    Sto per mettermi in piedi.

    Mi andrebbe di dire a Gerard che se invece di sniffare ketamina cominciasse a guardarsi un po' intorno scoprirebbe che a volte il mondo non fa nemmeno così schifo, però me lo tengo per me.

    Adesso giuro che mi metto in piedi e me ne vado.

    Gerard non mi degna di uno sguardo e tira fuori dalla giacca uno spray nasale con la confezione bianca e le scritte rosa, e le scritte rosa dicono che se te lo metti riscopri il piacere di respirare. Ora come ora vorrei riscoprirlo io, il piacere di respirare. Sono a metà tra due estremi ugualmente orrendi. O mollo qui Gerard e me ne vado, rischiando che qualcun altro lo trovi e lo porti fino alla centrale di polizia tenendolo per la collottola; oppure resto qui a guardarlo mentre esce di testa, e allora sì, potrei fargli da palo, ma se arrivasse un poliziotto io sarei fottuto, ma con la F maiuscola, proprio, del tipo che mi arrestano e tanti cari saluti.

    Adesso mi alzo, giuro che lo faccio. Giuro che adesso mi metto in piedi e me ne vado.

    ...Ovviamente resto. Gerard ha sempre i capelli davanti agli occhi e la giacca a vento nera che quasi quasi se lo vedi di profilo sembra etero, e adesso sta pulendo lo specchietto con un fazzolettino di stoffa che forse sono malato io a notarlo, ma si intona perfettamente con la confezione di spray nasale. Dovrei dirgli di non farlo. Dovrei dirgli che è già stato arrestato una volta e che ha già avuto la sua seconda chance. Se adesso arriva la polizia e lo becca con le mani nel sacco, se gli va proprio benone, Gerard viene processato e finisce in prigione per almeno tre anni. Questo se gli va proprio molto bene. Se gli va proprio molto male, invece, lo ingabbiano per trent'anni e via la chiave, grazie di aver scelto il nostro carcere minorile.

    «Non credo che sia una buona idea.»

    A parlare sono stato io. Non avevo nessuna intenzione di dire questo e soprattutto non avevo nessuna intenzione di aprir bocca, e sarà che Gerard ha gli occhi grandi grandi e le sigarette con il filtro bianco, ma io quando c'è lui non ho piena coscienza di me stesso. Lui mi guarda stranito, per la seconda volta da quando ci siamo seduti qui. Dura solo un attimo, dopodiché torna al suo lavoro come se non avessi detto nulla.

    «Gerard. Sto parlando con te.»

    «Ah sì?», chiede sarcasticamente, senza sollevare la testa di un millimetro.

    «Sì.»

    «E allora dimmi, Iero.»

    «L'ho già detto: non credo che sia una buona idea. Questa cosa della droga, intendo.»

    «Mh-mh. E...?»

    Così. Come se stessi parlando di un altro, uno a caso; come se in questo preciso istante lui non stesse controllando la superficie dello specchietto per verificare che sia perfettamente pulito e per potersi finalmente infilare quella dannatissima roba su per il naso. Mi devo fare violenza per continuare con il mio discorso senza lasciarmi sedurre dall'opzione sempre valida di alzarmi e tirarmene fuori definitivamente.

    «Hai dei precedenti. Ti hanno già arrestato una volta, e tra l'altro è stato solo la settimana scorsa. Se adesso ti beccano con questa roba, tu...»

    «“Tu”...?»

    Io ve l'avevo detto che quando uno parla, Gerard non lo interrompe mai. Al massimo Gerard lo incalza. Sì, ecco che cosa fa Gerard: incalza.

    «Tu finiresti in prigione, e con una droga come quella potresti finire in prigione anche per vent'anni», concludo io.

    È un attacco piuttosto blando, ma giuro che è blando solo nella forma. Non so in quanti non resterebbero di stucco, a sentirsi dire che rischiano vent'anni di prigione. Adesso Gerard mi sta guardando. Non solo negli occhi. Anche sulle labbra, e poi anche più giù, ma forse è solo una mia impressione perché ora come ora ho il terrore che questa serata si trasformi in un incubo, e allora non sono molto lucido — e tutto d'un tratto penso disordinatamente che forse è vero, forse Craig Russell e la sua famiglia un bel mattino si sono svegliati alle sei e sono andati a Kearny soltanto per farsi scattare una foto di gruppo.

    E allora Gerard si avvicina un pochettino con la testa e intanto ha sempre le gambe incrociate e lo specchietto perfettamente lucidato in mano, sento il suo profumo e no, non sa di sesso e di filtro bruciato, è più a metà tra quello delle pesche e quello di qualche altra cosa di cui adesso non mi sovviene l'immagine. Appoggia piano piano la sua fronte sulla mia, inclina la testa da un lato mentre io sono immobile e paralizzato e innamorato perso. Irrazionalmente potrei quasi credere che tutto questo durerà all'infinito, Gerard che posa la fronte sulla mia, Gerard che inclina la testa di lato, Gerard che si avvicina, si avvicina, si avvicina, si avvicina senza mai raggiungermi del tutto — ed è come quel paradosso di Achille dietro alla tartaruga o della tartaruga dietro alla lepre o qualunque cosa fosse.

    «Gerard...»

    Faccio fatica a tenere gli occhi aperti perché quando sto per baciare qualcuno li chiudo in automatico, e adesso questo è un problema, perché Gerard è sempre lì con la sua fronte sulla mia e le sua labbra a un centimetro da dove dovrebbero stare, cioè contro le mie, ed è sempre lì, e non mi bacia. Mi dice qualcosa, da lì dov'è, talmente vicino che ogni volta che sbatte le ciglia io lo so perché mi sfiorano la pelle.

    «Mi faresti questo?», chiede.

    «C-cosa...?»

    «Mi lasceresti qui? Con il pericolo che qualcuno arrivi e mi scopra? Con il pericolo che io finisca in prigione? Lo faresti? Lo faresti davvero?

    Mi fa tutte queste domande una dietro l'altra, senza prendere mai fiato, e ha sempre le labbra a tanto così da me e la fronte appoggiata alla mia e il profumo che è a metà tra quello delle pesche e quello di qualche altra cosa di cui adesso non mi sovviene l'immagine. Aspetta che risponda e intanto mi guarda, e io non sono lucido per niente ma adesso giuro su Dio che mi alzo, rispondo alle sue domande e poi mi siedo di nuovo, e Gerard mi ha fatto cinque interrogativi in meno di dieci secondi e vuole che io risponda, e quando Gerard ti fa le domande tu devi rispondere e basta — poco importa se lui ha la fronte sulla tua e il profumo a metà tra quello delle pesche eccetera eccetera. Ha gli occhi inchiodati ai miei ed è agitato, negli occhi, e non so perché lo sia, ma Gerard è agitato negli occhi e io posso solo starmene qui a guardare (adesso mi alzo e me ne vado, adesso lo faccio) e a chiedermi perché.

    «Io...», balbetto pateticamente.

    Cerco di staccare la fronte dalla sua ma sembra quasi che qualcuno dietro di me mi stia tenendo una mano sulla nuca per non farmelo fare. Gerard non ripete quanto mi ha appena chiesto, non incalza (strano), ma pazienta ancora, e questo perché secondo me sa benissimo che adesso non stiamo più parlando di cazzate, adesso stiamo parlando di lui con la ketamina in mano e nel naso e di me accanto a lui, e se ci beccassero, ah, se ci beccassero!, “complici”, comincerà a dire la gente, “sporchi complici”, e magari qualcuno dirà anche “chi l'avrebbe mai detto?”.

    È il momento buono; adesso prendo la mia roba, mi alzo e me ne vado, giuro che lo faccio. Mi alzo e me ne vado via e se beccano Gerard io dirò solo che ho provato a fermarlo, o che non ne so nulla, o comunque qualche cazzata me la inventerò.

    C'è Gerard e ci sono io, e non ho idea di quanto tempo sia passato da quando lui ha sbattuto la sua fronte sulla mia, o di quanto tempo sia passato da quando ci siamo seduti qui, o di quanto tempo sia passato da quando sono nato — mi pare quindici o sedici anni fa, ma ora come ora non ci giurerei.

    «Mi lasceresti qui, Frank? Lasceresti me e la mia fedina penale sporca? Mi lasceresti qui, sotto l'effetto di una droga? In balia di chiunque passi? E se arrivasse un poliziotto, Frank? E se avessi un bad trip e sotto l'effetto della droga cominciassi a pensare di suicidarmi? Mi lasceresti qui, sapendo che potrebbe succedermi di tutto? Lo faresti?»

    È troppo. Gerard tace di nuovo, e per qualche strano motivo so che queste domande saranno le ultime che mi porgerà stasera. E allora sarà che Gerard ha un profumo che è a metà tra quello delle pesche e quello di qualche altra cosa di cui ora non mi sovviene l'immagine, ma è solo adesso che mi ricordo di come si parla, e allora gli rispondo.

    «No. Non ti lascerei», sfiato, e non appena ho finito di dirlo mi sono già dimenticato di averlo detto perché al momento sono talmente rincoglionito che può darsi che me lo sia solo immaginato.

    E allora per sicurezza glielo ripeto. Più volte, forse sei o sette, e gli dico che no, non lo lascerei, e scandisco piano piano perché lo capisca bene. Gli dico che non lo lascerei e che deve stare tranquillo, perché qui ci sono io, e che se mentre sarà sotto l'effetto di quella roba si sentirà male non sarà un problema, perché qui ci sarò io. Gerard annuisce rapidamente con i suoi occhi grandi grandi spalancati per l'agitazione e dice che ok, ha capito, ma ora devo solo stare tranquillo, e poi mi ringrazia, proprio del tipo che mi sorride e dice “grazie” e tutto quanto.

    Credo che mi abbia fregato. Che volesse sortire questo effetto fin da prima, quando ha posato la fronte sulla mia e mi ha chiesto “mi lasceresti?”, “mi lasceresti, Frank?”. Fatto sta che c'è Gerard che annuisce rapidamente con i suoi occhi grandi grandi spalancati per l'agitazione, e io me ne sto lì come un cretino e intanto lo guardo mentre si prepara a farsi male al cervello.

    «Ne prenderai tanta?», chiedo io.

    «Quanta ne basta», sbottona lui.

    Gerard posa a terra lo specchietto quello che ho già detto, quello che usano le donne quando stanno alla fermata del bus e per ammazzare il tempo si rimettono il rossetto. Potrei quasi giurare che adesso Gerard sia spaventato — e anzi, lo giuro, giuro su Dio che Gerard è spaventato, anzi, giuro su Dio che Gerard si sta proprio cagando sotto. Ovviamente non dico nulla. Lui si sdraia per terra, prono, e pianta i gomiti sul pavimento per non farsi tremare le mani mentre versa piano piano un po' di polvere sullo specchietto. Le mani gli tremano lo stesso.

    «Mi aiuti?»

    Come sarebbe a dire. Come. Sarebbe. A dire, scusa? C'è Gerard e ci sono io, e ci sono la ketamina dentro al sacchetto e le mani di Gerard che tremano attorno al sacchetto. Se ci pensate è buffo, no? Gerard non riesce a versare la polvere perché quella stessa polvere gli fa tremare le mani. Gerard non riesce a prendere la ketamina perché si fa di ketamina. Non lo aiuterò. È folle.

    «Iero?»

    C'è una nota di disperazione, nella sua voce e — ah, no, non è una nota, è proprio un concerto, di quelli con i violini e i tromboni e la grancassa, e Gerard è il maestro d'orchestra mentre io sono il coglione che voleva solo andare al cinema e invece ha sbagliato strada e si è ritrovato al teatro dell'opera. Non ci capisco un cazzo, ma non lo aiuterò. No, no, no, no, no...

    «Iero, mi aiuti?»

    ...No, no, no, no...

    «Frank

    «Sì.»

    «...»

    «Sì, adesso ti aiuto, Gerard.»

    Annuisce. Ha paura, si vede, di cosa hai paura, Gerard?, ho paura anch'io, abbiamo paura tutti ma facciamo quello che dobbiamo fare anche se in realtà non dobbiamo affatto farlo. Non per forza. Non è per forza che mi sdraio accanto a lui, la pancia sul pavimento e le mani sulle sue per togliergli il sacchetto dalle dita, e non è per forza che metto una mano in cima al sacchetto e una mano in fondo per avere più controllo sulla quantità di polvere che verso sullo specchietto. Gerard mi guarda e mi dice “basta” una frazione di secondo dopo.

    «Ne basta poca. Poca poca.»

    Io faccio sì con la testa e appoggio il sacchetto da qualche parte in quei quattro centimetri che separano il mio fianco destro dal suo fianco sinistro.

    «E adesso?», chiedo.

    Non risponde. Si tira su con un gesto fluido, mi ficca una mano gelida tra la nuca e il cappuccio della felpa e mi tira via di lì.

    «Non farlo mai più», mi intima.

    Ha gli occhi inchiodati ai miei e la mano gelida ancora sulla mia nuca. Non dovrebbe fare questo genere di cose, perché questa è già la seconda volta nel giro di tre minuti che ci troviamo a tanto così, tanto così l'uno dall'altro, e quando stiamo a questa distanza minima a me viene subito voglia di baciarlo molto forte e infinitamente piano, tutt'e due per non farci mancare niente, ma non posso proprio farlo, e allora me ne sto qui a torcermi nella speranza di riuscire a dominarmi quanto più mi è possibile. No, decisamente. Gerard non dovrebbe fare questo genere di cose. E in tutto ciò ancora mi sfugge che cosa io abbia fatto di tanto riprovevole da meritarmi il paio di occhi gelidi che Gerard mi ha scaraventato in faccia.

    «Che intendi?»

    Parla piano, come si parla ai cretini completi.

    «Intendo che appena versi la special K, o qualsiasi altra polvere, su uno specchietto, poi devi allontanarti. Perché se ci soffi sopra per sbaglio, la polvere vola via. E con essa volano via anche tantissimi soldi. Hai capito?»

    Gli dico che ho capito. Gerard allenta la presa sul mio colletto, riporta la mano a posto e nel farlo mi sfiora leggermente una spalla. E a quel punto si infila una mano nella tasca interna della giacca e fa per estrarne qualcosa, ma evidentemente non trova ciò che cerca. Si tasta i jeans, si tasta la felpa, va in panico.

    «Che cosa stai cercando?»

    «La tessera.»

    «Quale tessera?»

    «Quella della patente, Iero. Per fare le strisce. Non la trovo. Non la trovo, cazzo, non la trovo!»

    Io vi giuro che è pazzesco. Gerard ha solo un'espressione, quella annoiata e insofferente, e quando dico che ha solo un'espressione intendo dire che è proprio così, ha solo un'espressione, e non la cambia mai. Poi però ci sono gli occhi. Gerard è tutto occhi. Negli occhi non ha una sola espressione, ne ha dieci, mille, milioni di milioni, e tu all'inizio non ci fai caso, perché te ne accorgi solo quando ne vieni sommerso. È così che si legge Gerard, guardandolo negli occhi o al massimo guardando se ha le labbra un po' più serrate del solito. E fatto sta che in questo momento Gerard è nel panico perché non trova la sua tessera, e capiamoci bene, quella tessera gli serve per prepararsi delle strisce di ketamina, ma io ormai sono con lui, e...

    «Tieni la mia.»

    Siamo di nuovo la copertina di un libro, però questa volta è il sequel, e non è più Gerard a tendermi qualcosa con la mano, ma piuttosto sono io che gli piazzo la mia patente di guida sotto al naso aspettando che la prenda. E lo fa. La prende, sbattendo tre volte le ciglia — e io lo noto perché ormai posso giurarvi che io gli occhi di Gerard non smetto mai più di fissarli. Poi Gerard comincia ad accarezzare la superficie dello specchietto con la mia patente, piano piano, e tutto questo fa un po' ridere perché lì sotto c'è della polvere di ketamina e lì sopra c'è la mia fototessera tutta sorridente. Da lì in poi succede tutto molto più velocemente di quanto mi aspettassi. Gerard ricontrolla di avere lì con sé lo spray nasale, si incanta per un paio di secondi come se stesse pensando a qualcosa di davvero profondo o importante o cose simili e infine si tappa una narice e si china sullo specchietto. È una striscia piuttosto lunga, ma lui se la fa sparire nel naso in meno di un attimo, ed è lì che mi viene un colpo al cuore di quelli brutti. Non so se avete presente i colpi al cuore di quelli brutti; sono quei colpi al cuore che ti vengono quando vedi qualcosa di terribile, orrendo, che non vorresti vedere, e allora ti senti un enorme peso nel petto, un peso che da lì esplode e ti finisce su per il collo e poi nelle tempie. Non avrei dovuto farlo. Non avrei mai dovuto farlo.

    Gerard ha appena sniffato della ketamina qui davanti a me — che bella serata, eh? —, e ora si massaggia forte il lato destro della fronte. E se voleva movimentare la serata, beh, l'ha fatto. Cazzo, se l'ha fatto. Cerca a tentoni qualcosa, capisco che è lo spray nasale e glielo passo perché tanto ormai — oh, sì, che bella serata! — è andato tutto a puttane, ma sì, chi se ne fotte. Si spruzza lo spray su per la stessa narice che ha usato per sniffare, e intanto sorride, sorride, sorride con gli occhi chiusi e la testa gettata all'indietro.

    «Cosa... cosa senti?», gli chiedo.

    «Sento te», mi risponde, e poi ride una risata artificiale ed estatica. «Che botta, che sto per prendermi, Iero. Che botta. Non hai idea della botta che sto per prendermi, Iero.»

    «Io...»

    «Dammi solo tre minuti», continua lui, imperterrito, «tre minuti e comincia tutto, Iero. Tre minuti.»

    All'inizio credo quasi che mi stia prendendo in giro, perché a me è capitato di vedere certa gente sotto l'effetto di una droga, e non credo proprio che in soli tre minuti uno possa passare da uno stato di perfetta lucidità a uno stato di... beh, qualsiasi sia la definizione calzante per ciò a cui ho già assistito io in questo paesino di merda. E invece alla fine mi ricredo. Io glieli do, i suoi tre minuti, centottanta secondi in cui mi ritrovo a stare in compagnia e completamente solo allo stesso tempo. Gerard comincia a ridacchiare in modo un po' stupido, e intanto versa ciò che è rimasto sullo specchietto di nuovo nella busta trasparente. Si lascia cadere all'indietro e io lo sorreggo mettendogli due mani sulla schiena, e Gerard continua a sorridere e a stare seduto con le gambe incrociate e a oscillare di qua e di là, di qua e di là, di qua e di là. I tre minuti passano, per un attimo mi incanto a guardare il me stesso della foto tessera della patente che mi fissa dal pavimento. Gerard continua a oscillare e a borbottare, i tre minuti sono passati e la ketamina monta, monta, monta. Poi Gerard smette di borbottare e il suo ansimare si fa più forte, e allora ride, spalanca gli occhi, fa uno strano verso rantolato, riserva al soffitto del portico un sorriso agghiacciante. E va fuori di testa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

C'è Gerard e ci sono io, e Gerard ha gli occhi spalancati e “ketamina” stampato in faccia, mentre io sono qui impalato a guardarlo e a sorreggerlo ogni volta che si sbilancia troppo di lato. Praticamente è come se fossi da solo. Gerard straparla, ride, torna subito serio, ride di nuovo. Sto qui come un fesso, lo tengo in equilibrio e intanto la modella sulla confezione dello spray nasale mi guarda tutta sorridente, tipo che è proprio contenta di non essere nella mia situazione di merda e che me lo merito, ah-ah, ti sta proprio bene. Gerard farfuglia qualcosa, gli chiedo di ripetere.

    «L'energia degli oggetti, Frank. L'energia, la senti?»

    No che non la sento. Qui non c'è proprio nessuna energia, manco per il cazzo. Ci siamo solo io e Gerard e il freddo cane e il portico dell'Albergo Delle Puttane e il rumore di una televisione da qualche parte alla nostra sinistra. Gerard ha gli occhi grandi grandi con le pupille dilatate al massimo e dice che ciò che devo fare ora è sentire l'energia degli oggetti, captarla mentre lascia gli oggetti ed entra in me. La cosa che mi fa sentire un po' un coglione è che io credevo che la ketamina ti desse i trip quelli forti, che sono tipo quelli in cui proprio ti si ribaltano gli occhi e cose varie, e invece se non fosse per i gesti che fa e per alcune delle cose che dice Gerard sembrerebbe totalmente lucido. Il punto è che io di gente drogata ne ho vista, e so che tante volte quando un tizio va fuori di testa basta che lo metti sdraiato a terra e lo tieni d'occhio, perché tanto di solito il tizio ha il sangue talmente pieno di schifo che non riesce nemmeno a rialzarsi. Però Gerard ci riesce eccome, anzi; è quasi impossibile tenerlo fermo. Si vuole alzare, dice che sta benissimo e che dovrei provarla, farmi una sniffata e via.

    «Gerard, no.»

    «Ti senti bene, Frank. Oddio... oddio... oddio...»

    «Cosa?»

    Scoppia a ridere di nuovo, oscilla pericolosamente verso destra, lo tiro indietro quando la sua testa è a tanto così dal pavimento e gli dico che dobbiamo andarcene. Lui spalanca gli occhi ancora di più, la bocca si apre in una piccola O e il suo indice si appoggia pesantemente alle mie labbra.

    «Ssssshhh. No, no, noi restiamo qui. Restiamo proprio qui. Qui. Qui.»

    «Gerard.»

    «Sssh, sssh, sssh...»

    Giuro su dio che esco di testa anch'io, ma non per la ketamina che non ho nessuna intenzione di prendere. C'è Gerard, o meglio, c'è una versione di Gerard e ci sono io e c'è la droga che è rimasta nel sacchetto sotto gli occhi vigili della modella sullo spray nasale e del me sorridente sulla patente di guida. Poi Gerard dice che i colori sono bellissimi e scurissimi e chiarissimi, e a quel punto mi sfiora seriamente l'idea di mollarlo lì, prendere la mia roba, tirarmene fuori per sempre e non pensarci mai più.

    Giuro che adesso mi metto in piedi e me ne vado. Giuro che adesso lo faccio.

    E lo so che l'ho già detto tantissime volte e che quindi ora come ora sarà poco credibile, ma questa volta lo faccio sul serio. Allungo la mano fino alla mia tessera della patente, soffio via i residui di questo schifo che Gerard si è messo nel naso e me la ficco in tasca. Lui si volta un po' per guardarmi con le sue pupille da cartone animato e sorride lievemente.

    «Che cosa fai, Iero?»

    «Me ne vado.»

    Lo so che faccio schifo, me ne rendo conto, ma qui tra me che sono un vigliacco e Gerard che si fa di ketamina è una gara a chi fa più schifo, e non è per dire, ma forse vince lui. Non gli piace l'idea che me ne vada, e lo so perché quando mi chiudo la giacca dopo essermi assicurato di aver preso tutta la mia roba lui mi afferra per una manica e ci si appende con tutto il suo peso, finché non perdo l'equilibrio rischiando di cadergli addosso. Ma ve lo immaginate? Io mi metto in tutto 'sto casino senza volerlo, e poi per sbaglio cado addosso a Gerard e gli spezzo il collo. Fatto sta che Gerard si appende alla mia manica con tutto il suo peso, e anche se non mi sta dicendo nulla io ho capito benissimo che vuole che resti. Non c'è bisogno di essere dei geni. Per un attimo i suoi occhi divorati dalle pupille si fissano nei miei in modo talmente perfetto e profondo che potrei quasi pensare che in realtà Gerard sia perfettamente lucido. Ma non lo è, e se adesso arriva qualcuno qui io rischio di finire in manette per qualcosa che non ho fatto.

    «No, Gerard.»

    Gli tolgo la mano dalla mia manica, separando le dita dalla stoffa una a una.

    «Lasciami.»

    Fa no con la testa, cocciuto, ma quando riesco a liberarmi dalla presa non prova più ad afferrarmi di nuovo.

    «Fa' come vuoi», sentenzia gelido, e poi sorride, scuote la testa. «Non sai che ti perdi, Iero. Non lo sai, non lo sai e non lo sai.»

    «Non voglio saperlo.»

    Sono arrabbiato, confuso, quasi quasi vorrei non averlo mai invitato alla dannatissima festa di Craig Russell con la gente ubriaca che non camminava in linea retta e la musica altissima e schifosa. C'è Gerard e ci sono io, e io questa volta io me ne vado davvero, camminando in fretta e girandomi a riguardarlo più volte di quanto vorrei ammettere. Fa un freddo cane, e io giuro su Dio che sto per svoltare l'angolo e perdere definitivamente di vista Gerard e i suoi capelli neri che sotto alla luce brillano in un modo che forse nemmeno gli angeli, ma poi sento una risata, e allora mi fermo in mezzo alla strada e mi giro verso di lui per l'ennesima volta. Non è Gerard. Gerard sorride, si è sdraiato a terra e agita le braccia sopra di sé in modo stupido, ma non sta affatto ridendo. La risata si sente di nuovo, questa volta è più vicina ed è corredata da un vago chiacchiericcio. Mi sporgo con la testa oltre i cespugli dell'albergo. Femmine, forse anche un paio di maschi. Ma soprattutto femmine. Vengono in questa direzione, sbucano da Main Street oscillando pericolosamente sui tacchi alti. Mi nascondo dietro a un albero come se fossi un criminale in fuga, e se guardo a sinistra c'è Gerard sdraiato a terra che agita le braccia a caso e sorride, se guardo a destra non c'è proprio un cazzo di niente, o almeno fino a quando quel gruppo di gente non sarà arrivato fino a qui. Faccio il punto della situazione perché in caso non l'abbiate ancora capito io sono di quella categoria di persone, non so se avete presente, quelli che quando c'è un'emergenza restano lì impalati come dei cretini perché se non fanno il punto della situazione non riescono a prendere proprio nessuna decisione. Fatto sta che il punto della situazione è il seguente: alla mia sinistra c'è Gerard che è nel bel mezzo di un trip da ketamina, alla mia destra si avvicinano le ragazze con i tacchi alti e i fidanzati e al centro ci sono io che sto dietro all'albero come un coglione. Penso a tutte le cose che potrebbero succedere da questo momento in poi. Uno, le ragazze passano e vedono me e Gerard, due, le ragazze passano e vedono solo Gerard, tre, le ragazze muoiono tutte all'improvviso per cause sconosciute e noi siamo salvi. Però non so voi, ma io nell'opzione tre non confido più di tanto. E allora mi chiedo che cosa accadrebbe a Gerard se adesso queste ragazze lo vedessero nelle condizioni in cui versa. E provo a immaginarmi infiniti scenari ipotetici, ma in ognuno di essi Gerard finisce invariabilmente prima davanti a un giudice e poi dietro alle sbarre. Ha dei precedenti, la sua seconda opportunità l'ha già avuta e sprecata, e se adesso lo prendessero io e lui ci rivedremmo tra quanti, vent'anni? Forse venticinque. Le risate si avvicinano, io mi attacco ancora di più al tronco dell'albero e mi sforzo di pensare a una soluzione il più velocemente possibile. E a quel punto Gerard fa la cosa più stupida, fuori luogo e pericolosa che potesse fare: si mette a cantare. Giuro su Dio, giuro su Dio che Gerard si mette a cantare, anzi, non a cantare, a canticchiare, ed è un motivetto che riconosco subito come “This Old Man”, che non so se lo sapete ma è una canzoncina popolare di quelle con centottanta strofe tutte uguali e le note facili facili che uno se uno la canta una volta non se la toglie mai più dalla testa. Mi viene quasi da ridere, sul serio, ma Gerard sta cantando “This Old Man” e tra un secondo potrebbe finire in prigione per venticinque anni, e io sono qui a pensare al da farsi perché sono talmente cretino da essere disposto a rischiare di essere arrestato, pur di aiutarlo. E le risate sono troppo vicine, e io sono troppo stupido, e Gerard è troppo fatto, ma fatto sta che io prendo a correre come un ossesso verso Gerard mentre in testa continuo a pregare che nessuno mi veda, e se qualcuno mi vede sono fottuto, oh, sissignore, fottuto come pochi, ma Gerard ha sedici anni, e a sedici anni uno prende la patente, non finisce in prigione fino a che non ne ha quarantuno. Ho quattro secondi, forse di meno — fa' che nessuno mi veda, fa' che nessuno mi veda, fa' che nessuno mi veda —, prendo Gerard per il colletto e lo tiro su come un bambolotto perché quando uno si sta cagando sotto è improvvisamente più forte.

    «Uh, Frank, sei tornato», dice lui con un gran sorriso.

    Lo ignoro, me lo carico su una spalla e con una mano sola prendo tutto ciò che è rimasto a terra; lo spray nasale, lo specchietto, la bustina con dentro la special K di merda, tutto in una mano che forse quando ti caghi sotto ti si ingrandiscono anche le mani. La cricca dei ragazzi che ridono è sempre più vicina, io punto all'angolo opposto dell'albergo per nascondermici dietro, Gerard è sulla mia spalla e riprende a cantare. Cerco di tappargli la bocca, ma sono tutto storto, ho tutta la sua roba in mano, sono in panico, e per sbaglio con lo spigolo dello specchietto gli faccio un taglio profondo sulla guancia. Apro la bocca per urlare, penso che ora come ora urlare sarebbe una gran cazzata, la richiudo. E Gerard sembra non accorgersi di nulla, anzi, canta ancora più allegramente, e la ragazza in capo al gruppo compare in fondo al portico e per grazia di Dio è girata verso i suoi amici e non verso di noi. Chiudo la bocca a Gerard con la mano, il suo sangue mi cola addosso — fa' che nessuno mi veda, fa' che nessuno mi veda, fa' che nessuno mi veda — l'angolo opposto dell'albergo è troppo lontano per riuscire a raggiungerlo prima che la ragazza si giri. E allora faccio l'unica cosa che mi resta: mi lancio a terra, alla mia sinistra, e resto in attesa. Gente, gente, gente, giuro su Dio che mi sto cagando sotto; la ragazza ora si volta in questa direzione, io smetto di respirare e premo talmente forte la mano sulla bocca di Gerard che forse tra poco lo soffoco. La ragazza non ci vede, il gruppo passa, continuano a ridere come se niente fosse. I cespugli dell'albergo ci hanno coperti. I cespugli dell'albergo ci hanno coperti, Dio, grazie. Dio, grazie. Dio, grazie.

    Sento uno sbuffo sulla pelle, è Gerard che ha ripreso a mugugnare il motivetto che gli piace tanto, realizzo solo ora che gli ho tenuto la mano sulla faccia per tutto questo tempo e che sono a cavalcioni su di lui, del tipo che se adesso passa un poliziotto mi arresta per stupro. Che cazzo di casino. Sono a più di mezz'ora a piedi da casa mia, Gerard è fuori di testa per la ketamina e ha una grossa ferita in faccia e io sono sudato, spaventato e coperto di sangue. Che serata di merda. Lascio la bocca di Gerard, piano piano nella speranza che non riprenda a cantare.

    «This old man...»

    Ecco, appunto.

    «...he played four, he played knick knack on my door, with the knick knack paddy whack, give the dog a bone...»

    «Gerard.»

    «...this old man came rolling home. This old man, he played five...»

    «Gerard, ti prego.»

    «...he played knick knack on my hive, with the knick knack paddy whack, give...»

    «Gerard, ti supplico, cazzo!»

    Smette di cantare, finalmente obbediente. Non sta più cantando. Dio, grazie. Gerard non sta più cantando e mi guarda, la ferita che continua a buttar fuori sangue. Ho bisogno di pensare. Mi frugo nelle tasche per vedere se trovo un fazzoletto, ma non ho niente. Frugo anche nelle tasche di Gerard, e lui ride.

    «Che audacia, Iero», insinua.

    «Non ti sto toccando, idiota. Sto cercando un fazzoletto. Ne hai uno?»

    «Mmmh di che?»

    Gli prendo la faccia tra le mani perché ho bisogno che mi ascolti, e giuro su Dio che se non collabora io me ne vado sul serio, me ne vado e non mi giro più indietro.

    «Un fazzoletto, Gerard! Un fazzoletto! Ce l'hai? Ne hai usato uno prima, dove l'hai messo?»

    Non posso gridare ma glielo dico lo stesso con tutta la forza che ho in corpo, calcando le consonanti, scandendo ogni singola parola. In risposta solo le sue silenziose pupille gigantesche e vuote. Non c'è con la testa. Gerard non c'è con la testa, ha della droga pesante in corpo e sanguina per colpa mia. Ci rifletto su per pochissimi secondi, ma è solo per finta perché sappiamo tutti che in realtà ho già deciso. Mi levo la sciarpa e gliela avvolgo attorno alla faccia lasciando fuori solo il naso. Stringo il nodo più che posso, e intanto lui mi guarda concitato, non capisce. È fuori di testa. O forse quello fuori di testa sono io che lo sto aiutando.

    «Adesso ascoltami bene, ok?», gli sussurro. «Stai sanguinando e... sì, lo so che non ti fa male, ma quando l'effetto di questa merda sarà svanito ti farà male. Molto male. Adesso ti porto a casa mia e...»

    Lui socchiude gli occhi. Sta ridendo di nuovo, sotto ai tre strati di lana con cui gli ho tappato la bocca. Non c'è verso. E allora mi dico che dovrò fare da solo, e con un colpo di reni lo tiro su e lo metto a sedere. Che cazzo di casino. Prendo lo specchietto e me lo ficco in tasca così, ancora completamente coperto del sangue di Gerard. Recupero lo spray nasale, Gerard riprende a mugugnare la sua canzoncina tradizionale. Non so se ridere o piangere, ma fatto sta che c'è Gerard e ci sono io, e qui o facciamo qualcosa oppure finiamo dietro le sbarre entrambi, e quand'è così non c'è proprio un cazzo da ridere. Ci tiriamo su. Qua e là sul pavimento ci sono ancora macchie di sangue, l'unica buona notizia è che se lo sostengo un pochino Gerard riesce a stare in piedi in discreto equilibrio. Mi fissa con il solito sguardo vacuo, ma forse è solo perché ho cominciato a piangere e a ridere insieme, e visto da fuori ora come ora devo sembrare un pazzo completo. Va bene così.

    Guardo il telefono, è mezzanotte. Mio padre va letto al massimo alle undici, e al mattino esce di casa molto prima di me. Basterà entrare in casa il più silenziosamente possibile, far dormire Gerard nel mio letto e pregare Dio che domattina a papà non venga la bella idea di passare in camera mia prima di andare in negozio. Gerard oscilla di nuovo rischiando di cadere di lato, io lo sorreggo con entrambe le mani e lo rimetto dritto.

    «Gerard...»

    «Mh-mh-mh-mh-mh-mh-mh...»

    «Questa canzone del cazzo, Gerard!»

    Adesso sto proprio piangendo, è inutile raccontarsela. Ho gli occhi pieni di lacrime e non ci vedo un cazzo, è mezzanotte, ho aiutato un ragazzino a farsi una striscia di ketamina e in tutto ciò il ragazzino in questione continua a canticchiare una strafottutissima canzone tradizionale che mi sta facendo uscire di testa. Mi asciugo le lacrime con il dorso della mano, ma il risultato è che adesso oltre che di lacrime il mio occhio destro è pieno di sangue di Gerard. Scoppio a ridere e intanto continuo a piangere, isterico.

    Che serata di merda.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Rientrare in casa senza che mio padre se ne accorga è sempre facile, tanto più che mio padre dorme come un ghiro e una volta che si è messo a ronfare nel suo letto tu non riusciresti a svegliarlo nemmeno se prendessi a suonare la grancassa accanto a lui. È per questo che, quando entriamo dalla porta sul retro, Gerard e la sua “This Old Man” non mi preoccupano più di tanto. Di certo mi preoccupa di più il sangue che ha cominciato a gocciolare dalla mia sciarpa. Quello sì. Gli faccio cenno di fare silenzio con un dito sulle labbra, ma anche se non fosse fatto non vedo come potrebbe esaudire la mia richiesta, visto che tra i due quello con l'aria più disperata sono io, del tipo che prima di entrare in casa ho intravisto il mio riflesso sul finestrino di un'auto e ho subito desiderato di non averlo fatto. Gerard si lascia cadere su una sedia della cucina, senza fare quasi nessun rumore. Gli tolgo la sciarpa dalla faccia: è sudato, insanguinato e infreddolito, e l'effetto della ketamina sta già scemando, perché con una mano si tocca il taglio sulla guancia e fa una smorfia infastidita. Le pupille non sono più così grandi, e allora mi chiedo se non sia il caso di limitarmi a buttare la sciarpa nella spazzatura e cacciare di casa Gerard con due bei calci nel culo.

    Ovviamente non lo faccio.

    «Vieni qui», gli dico.

    In realtà non voglio che venga qui dove sono io davvero, è tipo un “vieni qui” di quelli che vogliono dire “vieni qui che adesso a te ci penso io”, e non so se mi spiego, ma secondo me si è capito. E a Gerard lo dico proprio così, mentre lui guarda con l'aria instupidita e confusa e fa le sue smorfie infastidite per via del taglio alla guancia.

    «A te ci penso io.»

    Il sangue glielo pulisco con un po' d'acqua, ma per il taglio c'è bisogno di una garza. Teniamo la cassetta del pronto soccorso in un armadietto della cucina, dentro ci sono delle garze. Le prendo.

    «Che ore sono?», chiede Gerard.

    «Le... è mezzanotte e mezza. Più o meno.»

    Quando gli appoggio la garza sul viso mi aspetto che gridi, o si agiti, o dica qualcosa, ma lui se ne sta buono. Mi guarda come se non avesse mai visto un essere umano.

    «Che ore sono?»

    «C-cosa?»

    Mi guarda ancora, attende una risposta.

    «È... è mezzanotte e mezza, Gerard. Te l'ho appena detto.»

    «Oh. Sul serio!»

    «Sì.»

    «Ah. È la special K, credo.»

    «...S-sì, credo di sì.»

    Gli metto del cicatrizzante giallo sul taglio, glielo farà guarire prima. Il cicatrizzante giallo è una cosa fantastica, giuro. Mettiamo che tu ti squarci il corpo, cosa che a me è quasi successa quando ero piccolo e mi sono lanciato con la bici dal muretto dietro casa, e allora ti metti il cicatrizzante giallo dappertutto e il giorno dopo sei come nuovo. Giuro su Dio che il cicatrizzante giallo è un portento, e non lo dico per fargli pubblicità, tanto più che non ho idea di quale sia il suo nome ufficiale. Tutto questo per dire che metto del cicatrizzante giallo sul taglio di Gerard, e poi copro tutto con un paio di garze mentre lui continua a osservare cautamente ogni mio movimento. Butto la sciarpa nella spazzatura, chiudo il sacchetto e lo lascio in strada. Domani lo porteranno via. C'è Gerard e ci sono io, e al momento mi sento come se avessi appena nascosto un cadavere. Gerard ridacchia, lo ignoro. Mi sciacquo dal suo sangue sfregandomi le mani nel lavabo il più velocemente possibile, lo guardo mentre mi guarda. Mi asciugo.

    «Frank.»

    «Sì?»

    «È casa tua, questa?»

    «Sì. Su, alzati, ti aiuto.»

    Si appoggia su di me quasi a peso morto, camminiamo silenziosamente verso la mia camera.

    «È carina. Casa tua, dico.»

    Gli tolgo la giacca e lo lascio cadere sul letto. Resto lì a guardarlo per un po', al buio, e sì, lo ammetto, sto cercando di fare di nuovo il punto della situazione, ma al momento non riesco a pensare a nulla. Se stamattina qualcuno mi avesse detto qualcosa tipo “ehi, amico, prevedo che stasera Gerard Way dormirà nel tuo letto” gli avrei riso in faccia; o magari mi sarei gasato al massimo, una delle due. Ma questo, questo chi se lo sarebbe mai aspettato? Io no di certo. Lo sistemo a forza in una posizione che non lo faccia sembrare morto, lui mugola qualcosa a proposito di quanto vorrebbe farsi una bella dormita e poi chiude gli occhi. Ok. D'accordo, Gerard, dormi pure. Mi siedo a terra davanti al letto ed estraggo il cellulare dalla tasca per puntare la sveglia. Domani di andare a scuola non se ne parla, ma se non altro mi sveglierò prima di mio padre e nasconderò Gerard da qualche parte, magari sotto al letto, così in caso lui entrasse non vedrebbe altri che me, bello tranquillo tra le lenzuola. Punto la sveglia alle cinque e mezza e dopo aver tolto dalla tasca lo specchietto insanguinato di Gerard getto i pantaloni tra le cose da lavare, tanto più che in questa casa il bucato è compito mio. Il vetro dello specchietto è scheggiato; butto anche quello, nascondendolo il più possibile sotto a tutte le cartacce che ci sono già nel mio cestino.

    Bene. Bene. Tutto a posto.

    Sì, certo, ho quattro ore precise per dormire e un drogato nel letto, ma è tutto a posto. Bene. Chiudo gli occhi nella speranza di prendere sonno, anche se vorrei vedere voi, a dormire seduti in terra con cinque ore precise a disposizione e un drogato nel letto.

    «Frank?»

    «...Sì?»

    «Che ore sono?»

    Un sospiro. Il mio.

    «Cerca di dormire, Gerard. Ci pensiamo domattina.»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Stasera l'angolo autrice l'ho messo giù, hu-huu, innovazioni su innovazioni! Buonasera.

Sono abbastanza soddisfatta di questo capitolo, anche se non è uscito esattamente come volevo che uscisse — ma è sempre così, eh, quindi tutto normale.

AH GIÀ, il titolo di questa cosina qui è preso da una canzone di Marilyn Manson (“Tourniquet”, appunto), ed è importante precisarlo perché mi pare che sia tra le regole del sito.

Vi ringrazio di aver letto fino a qui; se questa storia vi sta facendo emozionare almeno un pochino, mi ritengo già molto soddisfatta.

 

Ci vediamo con il prossimo capitolo (ノ◕ヮ◕)ノ*:・゚✧

 

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Capitolo 5
*** Andante Moderato ***


Buonasera (。・ω・)ノ゙

E così siamo già al capitolo 5, eh, come passa il tempo [fissa la pagina con aria meditabonda]. Sono molto affezionata a questo capitolo perché per me ha un grande significato, quindi in un certo senso sono un po' più emozionata del solito. E niente, spero che vi piaccia!

Un enorme grazie ai recensori e a tutti coloro che hanno già inserito questa storia tra le preferite (in ordine alfabetico, eh): Anan, ashleyofsuburbia, Bli, bloodypieiero, Falloutgirlsdivision, GerardaWay_Antisocial, IronRailway, SonOfYesterday, Tommm_, Virgyl Item, _lethemusicbeyourmaster_ e Leviathan.

Buona lettura,


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Andante moderato















C'era Gerard sdraiato nel mio letto e c'ero io seduto contro il mio letto, e anche se era passata più di un'ora, da quando ci eravamo messi lì, io non riuscivo a dormire nemmeno per sbaglio. Era quella situazione odiosa, non so se ce l'avete presente: tu stai nel letto ma non riesci a dormire perché hai un sacco di pensieri che ti girano per la testa, e allora stai là come un fesso con gli occhi sbarrati mentre pensi a come avresti potuto gestire conversazioni passate o a come gestirai conversazioni future che in realtà non avverranno mai. E stai sveglio. Io stavo così: sveglio. Pensavo a Gerard che tirava su la polvere senza nemmeno usare una cannuccia, una banconota arrotolata o che so io. E poi pensavo alla ragazza che ci aveva quasi visti e al fazzoletto di Gerard che si intonava con lo spray nasale e alla canzone “This Old Man” con le sue strofe tutte uguali. Che roba, mi dicevo. E stavo sveglio. E fatto sta che a un certo punto, proprio dal nulla, ho sentito un dito toccarmi la spalla e una voce sussurrata farmi “ehi”, e giuro che quasi sono svenuto, proprio del tipo che per poco non mi accasciavo a terra e tanti cari saluti. Era Gerard. Mi sono voltato di centottanta gradi e ho visto solo i suoi capelli tinti di nero che emergevano dai quattro strati di coperte. E allora, tanto per giocare d'anticipo perché sapevo già che me l'avrebbe chiesto, ho lanciato un'occhiata alla radiosveglia che non ho mai usato né come radio né come sveglia: le due e ventitré.
    «Che ore sono?»
    Appunto.
    «Le due e ventitré.»
    «Mh.»
    L'ho sentito rotolare verso sinistra nel tentativo di trovare una posizione più comoda, ma il mio letto era piccolo, e quindi c'era poco da rotolare verso sinistra. Ad ogni modo dopo qualche secondo una posizione comoda l'ha trovata, e allora ha smesso di mugolare e di fare casino e si è fermato lì dov'era, immobile come un morto, del tipo che non lo sentivo nemmeno respirare eccetera eccetera. E insomma, dato che erano le due e ventitré e che in quel momento non avevo niente di meglio da fare mi sono messo a immaginare come avrebbe reagito mio padre se fosse entrato in camera mia e avesse visto Gerard nel mio letto, perché a me piace sempre valutare tutte le possibili conseguenze delle mie azioni, tanto per essere pronto. Gente, il casino che avrebbe fatto. Giuro su Dio che se in quel momento mio padre fosse entrato e avesse visto Gerard sarebbe impazzito come poche volte. Fatto sta che non avevo niente di meglio da fare eccetera eccetera, e allora mi sono immaginato più di una versione, e in ognuna di esse mio padre faceva la stessa identica cosa: entrava, guardava me, guardava dietro di me, boccheggiava un po' e infine indicava la figurina accoccolata nel mio letto. L'unica cosa che cambiava da scena a scena (tra quelle che mi stavo immaginando, dico) era la frase che mio padre diceva indicando Gerard — perché come vi ho già detto secondo me se mio padre fosse entrato avrebbe fatto proprio così, sarebbe andato in panico e poi avrebbe indicato Gerard. Nel primo scenario che mi sono immaginato mio padre indicava Gerard e diceva “e quello chi è?”; nel secondo scenario che mi sono immaginato mio padre indicava Gerard e diceva “ma è un drogato!”; nel terzo diceva “ma è un barbone!”, nel quarto “ma è il ladro del negozio!” e così via. Man mano che andavo avanti a elucubrare, la frase di mio padre diventava sempre più improbabile, perché si stava facendo tardi e la mia capacità di inventare scenari razionali andava scemando. Tutto ciò che posso dirvi è che nell'ultima versione che mi sono immaginato mio padre alzava il dito verso Gerard e diceva: “il drink rosa acceso l'ha scelto solo per il colore, vero?”.









    «Sei sveglio?»
    È Gerard. Dal modo in cui mi arriva la sua voce capisco che è girato di spalle, con la faccia rivolta verso il muro, e che ha il lenzuolo che gli copre un po' la bocca. Guardo la radiosveglia, segna le tre e diciotto. La casa è immersa nel silenzio più assoluto, è tutto ciò che si sente è il ritmato (e rassicurante) russare di mio padre dalla stanza accanto. Sta dormendo, non ci ha scoperti, non sa nulla, non ci scoprirà. Fino a qui tutto bene.
    «Sì», rispondo.
    Gerard rotola sul fianco opposto. Ora è girato verso di me.
    «Che o...?»
    «Le tre e diciotto.»
    «Ah.»
    Silenzio.
    Silenzio.
    Mio padre che russa dalla stanza accanto.
    «Iero.»
    «Mh?»
    «Dov'è la special K?»
    Devo fare uno sforzo di entità considerevole per non gridargli in faccia la mia risposta.
    «In casa mia non sniffi un cazzo, Gerard.»
    «Voglio solo sapere dov'è.»
    «...»
    «L'hai buttata?!»
    Non ha alzato la voce, ma anche se sussurra posso avvertire l'angoscia che gli provoca l'idea di questa eventualità. Ad ogni modo gli dico che no, non ho buttato la sua ketamina di merda, l'ho soltanto nascosta in un posto sicuro.
    «Quale?», vuole subito sapere.
    Sospiro. Tanto vale dirglielo. Tanto, ormai.
    «Dietro ai libri di scuola. In quello scaffale in alto a destra.»
    «Ok.»
    E con quell'“ok” la situazione degenera. Non so che cosa mi prenda quando Gerard pronuncia quell'“ok” grondante di apatia, e sarà che è notte fonda, o sarà che ho appena rischiato di farmi arrestare per possesso di droga, ma appena Gerard mi dice “ok” io salto prima in piedi e poi addosso a lui, e per qualche strano motivo adesso la mia mano destra è attorno al suo collo e quella sinistra è chiusa a pugno accanto al mio viso. E ora come ora se mio padre entrasse gli direi di aiutarmi a spaccare in due la faccia di Gerard a suon di botte, magari usando anche qualche oggetto contundente, o magari usando la mia mazza da baseball, che è sempre rimasta inutilizzata, ma che adesso, ripensandoci, potrebbe tornarmi utile. Vorrei davvero dargli questo pugno. Vorrei tantissimo darglielo. Però la mia mano sinistra è ancora lì, ferma a mezz'aria, e l'istinto omicida sta già illanguidendosi. Gerard mi guarda. Aspetta che io prenda la mia decisione: prenderlo a pugni oppure tornare subito in me e scusarmi. Gli sto ancora stringendo il collo, forse anche più di prima, ma lui non accenna a muoversi. Non si difende. Non prova a difendersi nemmeno per un istante.
    Torno in me, ma non mi scuso. Mi lascio cadere verso destra, rimbalzo un paio di volte quando atterro sul materasso morbido. Poggio la schiena contro il muro e adesso eccoci qui: io seduto, Gerard sdraiato. Io tra il muro e le gambe di Gerard, Gerard tra me e il bordo del letto. Gerard il quasi detenuto, Frank il quasi assassino. Bene. Benissimo. Mio padre continua a russare. La luce che filtra dalle tende della finestra illumina gli occhi di Gerard, due pallini luminosi che galleggiano in questo buio totale in cui mi oriento solo perché ormai le pupille ci si sono abituate. Dal riflesso riesco a capire a che cosa è rivolto lo sguardo di Gerard, e adesso Gerard sta guardando il soffitto. Sta in silenzio. Nessun commento sul fatto che ho appena tentato di strangolarlo; come se niente fosse, come in questo momento avesse problemi più importanti da risolvere di un compagno di scuola con tendenze omicide. Poi Gerard parla dal nulla con gli occhi inchiodati sul pavimento della mia camera, come se volesse nascondermi la sua espressione.
    «Sì, ho un fratello.»
    Io ve lo dicevo che Gerard dice le cose così, dal nulla. Tu magari sei lì che stai pensando a che cosa mangerai per cena e lui arriva, ti si siede davanti, ti risponde a una domanda che gli hai posto dieci anni fa e infine se ne va con la stessa rapidità con cui è arrivato. E tu resti lì. Come un cretino. Resti lì e cerchi di capire a che cosa si sia riferito o a quale anno risalga la domanda a cui ha appena deciso di rispondere. Ad ogni modo questa volta capisco subito; si sta riferendo alla domanda che ho cercato di porgli ieri e che lui ha immediatamente eluso. Gerard ha menzionato il fatto di avere un fratello, io gliene ho chiesto conferma e lui è andato avanti a parlare fingendo di non sentirmi. Annuisco, ma poi realizzo che Gerard è sempre girato dall'altra parte, e che quindi non può vedermi.
    «Come si chiama?», chiedo.
    «Ti ho detto che ho un fratello, mica che voglio raccontarti la storia della mia vita.»
    Scortese ma legittimo.
    «È con lui che ti scrivi?»
    «No.»
    Va bene. Se posso essere sincero ci speravo, ma solo fino a un certo punto. Lascio passare qualche altro attimo di silenzio, la scritta luminosa della radiosveglia segna le tre e trentuno. Di bene in meglio. Improvvisamente mi dico che se ho appena salvato il culo a Gerard, allora come minimo mi devo aspettare che risponda a tutte le mie domande, e non tanto perché io sia curioso o cose simili (che poi è così, sono curioso come la merda), ma perché in un certo senso me lo deve. Tanto più che non ha sonno, o in ogni caso non riesce a dormire. 
    «Perché lo fai?»
    «Cosa?»
    «Lo sai, cosa.»
    Non risponde, un sospiro. Sono sempre io. Non risponderà a nessuna delle mie domande, e questo perché Gerard non mi sembra uno che mente. Credo che in generale preferisca evitare le domande, oppure fare scena muta quando gliene viene posta una, ma non mi sembra uno che mente. L'ultima domanda gliela pongo con lo spirito di chi sa di aver già perso ma vuole tornare a casa con la consolazione di aver fatto tutto il possibile.
    «Hai un ragazzo?»
    Patetico, lo so. Ma del resto cose così o le chiedi o le chiedi. Della vita privata di Gerard non capisci un cazzo finché lui non decide di sua spontanea volontà di rivelarti qualcosa. Non risponde, insisto.
    «Gerard.»
    «Mh?»
    «Hai un ragazzo?»
    «E una volta che lo sai che fai?»
    «...»
    «E una volta che lo sai che fai, lo ammazzi e poi mi chiedi di sposarti?»
    «Era tanto per sapere.»
    «Nessuno fa domande tanto per sapere.»
    Mi piace. Da impazzire. Giuro su Dio che ci impazzisco. Sono come quei malati nel cervello, quei maniaci, quei pazzi da legare che più tu li picchi e più sono contenti — masochisti, li chiamano. Sono così anch'io. Con Gerard sono masochista. Credo che sia perché quando Gerard parla con me lo fa in tre modi che sono tutti ugualmente spiacevoli: o mi parla per affrontare argomenti dolorosi, o mi parla per insultarmi in qualche modo o mi parla perché io parlo a lui e quindi deve rispondere anche se non ne ha voglia. E uno dovrebbe essere tutto meno che contento, a sentirsi parlare in uno di questi tre modi, ma a me non frega proprio nulla, perché a me basta che Gerard mi parli, e questo fa di me uno di quei malati nel cervello. Mi piace. Gerard mi piace. Da impazzire. Si ostina a eludere le domande, si ostina a stare sveglio e a darmi le spalle, sepolto sotto quattro strati di coperte che ora come ora se ce le avessi addosso io annegherei nel sudore. Ma lui è freddoloso e bellissimo, e lo so che sembra strano detto da uno che fino a dieci minuti fa stava per prenderlo a pugni e poi strangolarlo, ma io quando in giro c'è Gerard non ragiono, e quando la gente non ragiona fa sempre cose strane. E adesso io non ragiono, e o lo amo alla follia e rischio anni di prigione per lui o lo odio con tutto il cuore e cerco di ammazzarlo a mani nude. Le vie di mezzo non esistono. Fatto sta che c'è Gerard che è sepolto sotto quattro strati di coperte che ora come ora se ce le avessi addosso io annegherei nel sudore, e non risponde, anche se io la risposta l'ho già capita benissimo. Certo, che ha un ragazzo. Ovviamente, ha un ragazzo. Se uno come Gerard è ancora libero allora dev'essere solo perché Dio ha fatto un incantesimo a tutti gli altri esseri umani per non farli innamorare di lui. Perché altrimenti non si spiega. Che poi Dio non fa gli incantesimi, casomai fa i miracoli, ma adesso non è importante. Adesso l'unica cosa importante è che sono le tre e quaranta e Gerard è nel mio letto, lui e il suo profumo che è a metà tra quello delle pesche e quello di qualche altra cosa di cui adesso non mi sovviene l'immagine. Così come poco fa gli sono saltato addosso con lucidissima furia omicida, adesso vorrei saltargli addosso e fargli di tutto. Ma proprio di tutto, del tipo che chiuderei la porta a chiave e ci metterei sopra un cartello con scritto “torno subito”, o più probabilmente “non torno mai”. Ci impazzisco. 
    È ancora sveglio, gli occhi bene aperti fissi sulla parete opposta della camera. Gli darei tutto quello che ho per sapere a che cosa sta pensando. E restiamo così per una mezz'ora buona, io seduto, Gerard sdraiato, io con tutte le carte per farmi venire una buona erezione e lui con tutte le carte per concludere che sono un idiota. Continua a tacere e a fissare qualche punto imprecisato di fronte a sé, ogni tanto sbatte le ciglia e si sistema le coperte sulle spalle. Mi piace. Da impazzire.









Sono le quattro e trentadue. Gerard è sveglio, io anche. Nessuno dei due proferisce parola da più di quaranta minuti, la mia sveglia suonerà tra meno di un'ora. Di bene in meglio, ancora una volta. Mio padre continua a russare sonoramente, è una macchina a vapore.
    Non credo di aver mai passato una notte in bianco come questa. Di non dormire per più di ventiquattr'ore mi è già capitato, ma di certo non mi è mai capitato di passare una notte intera seduto sul mio letto a fissare il vuoto — o a fissare Gerard, che dir si voglia. 
    Poi Gerard parla, di punto in bianco, come fa lui.
    «Una specie.»
    «Eh?»
    «Ho una specie di ragazzo. Credo.»
    Me lo immaginavo. Lo dico.
    «Me lo immaginavo.»
    Si volta verso di me, facendo frusciare le lenzuola con un rumore lieve che in questo silenzio quasi quasi sembra il rumore di una bomba. Mio padre continua a russare nella stanza accanto, io ho gli occhi di Gerard piantati in faccia e l'irrazionale desiderio di dirgli “ehi”. Vorrei dirgli “ehi”, e so che sembra stupido, ma quando ti piace tanto qualcuno e questo qualcuno non si spreca in espressioni facciali, allora tu dal nulla hai voglia di fargli “ehi”, come per scuoterlo, nella speranza che reagisca in qualche modo. O come a dire “ehi, sono qui, e anche tu sei qui, è bello, no?”. Non so se mi spiego, ma probabilmente no. Non sono molto bravo a spiegarmi. Ci sono io e c'è Gerard, e lui mi guarda con quel suo viso che Dio. Dio, il viso di Gerard. Potrei scriverci trenta libri e la sceneggiatura per un film. E fatto sta che sono le quattro e trentaquattro, ho appena rischiato diversi anni di prigione e Gerard sta offrendo ai miei occhi stanchi la vista del suo viso, il suo viso che Dio, mi piace da impazzire.
    «Davvero lo immaginavi?», chiede.
    «Sì.»
    «Perché?»
    Assume un' aria vagamente corrucciata e pensosa, e io giuro su Dio che la sua aria corrucciata e pensosa non ha prezzo. Eccolo lì, il viso di Gerard. Spaventosamente vuoto, incredibilmente espressivo. Alzo le spalle, e questa volta non è inutile, perché Gerard può vedermi chiaramente. Mi concedo di riflettere per qualche istante, concludo che è molto meglio dirgli chiaramente che cosa penso. Tanto tutto quello che non gli dico lui lo capisce da solo.
    «Non so», mormoro. «È che... lo so che potrei pensare l'opposto, visto ciò che facevi nei bagni della scuola, ma credo che tu sia una persona fedele. Anzi, lo so. Si vede.»
    Non mi interrompe né altro, aspetta solo che continui a parlare.
    «Mh... cioè, in qualche modo si vede. Non sto parlando solo del tuo ragazzo, dico in generale. Forse è una cosa mia, ma secondo me le persone fedeli si vedono subito. Dagli occhi, credo. Nei tuoi occhi ci sono un sacco di cose, e c'è anche molta fedeltà. E allora... forse mi sbaglio, ma credo che la fedeltà stia solo negli occhi delle persone che hanno qualcuno con cui usarla. Anche il fatto che tu sia così riservato su tutto, voglio dire... ogni volta che ti chiedo qualcosa riguardo alle persone della tua vita diventi molto aggressivo, come se avessi paura di... esporle a qualche cosa.»
    «...»
    «Ah, lascia perdere. È tardi, probabilmente sto straparlando.»
    Stacco gli occhi dalle mie gambe incrociate — non mi ero reso conto di averli tenuti fissi lì per tutto questo tempo — e aspetto pazientemente che Gerard mi distrugga con una battuta sarcastica o con uno dei suoi sguardi gelidi. Non succede. Mi volto a guardarlo e lo trovo esattamente come l'avevo lasciato qualche secondo fa: spaventosamente vuoto, incredibilmente espressivo. La sua bocca non si muove di un millimetro, ma le mascelle sono serrate, le sopracciglia corrugate in un lievissimo cipiglio assorto. Mi fissa forte, e forse si aspetta che io aggiunga qualcos'altro, ma è tutto qui. Non credo di essere mai stato più sincero di così, con lui. Gerard schiude un po' le labbra, pochissimo; le chiude nuovamente, poi le riapre. 
    «Mi dispiace tanto», dice.
    È l'ultima frase che mi rivolge questa notte.









Quella notte mi sono addormentato alle cinque e alle cinque e mezza la sveglia mi ha tirato di nuovo in piedi. Sono crollato per appena trenta minuti, ma a Gerard sono bastati, e quando mi sono svegliato lui non c'era già più. Non l'ho sentito andare via. Sono andato in cucina in fretta e furia, l'ho trovata vuota e identica a come l'avevo lasciata prima di uscire la sera precedente. Ho cercato anche nelle altre stanze, niente di niente, ho ficcato la mano dietro ai libri di scuola e sulle dita non ho sentito la consistenza di nessuna bustina piena di polvere. Gerard ha preso la sua ketamina e se n'è andato, senza dire nulla, senza fare rumore, come se non fosse mai stato lì. In camera mia era tutto esattamente identico, compreso il russare lento e ritmato di mio padre dalla stanza accanto. L'unica differenza era un biglietto che Gerard aveva lasciato sulla mia scrivania prima di sgattaiolare fuori con la sua giacca a vento nera e i suoi occhi grandi grandi pieni di paura e di cose che non ho mai capito, un biglietto scritto sul retro di uno scontrino della spesa che lui si era preso la licenza di tirare fuori dal contenitore in cui li riunivamo.

    Scusa per tutto lo schifo. Ci vediamo in giro.

    L'avrei capito solo dopo, che quello era il suo modo di dirmi “grazie”.

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Capitolo 6
*** Andantino ***


Eeeeeeeeeeeeee – ok ho provato a scrivere una frase di apertura decente trenta volte ma sono tutte orrende, quindi partiamo subito con il concetto di fondo, e cioè – faccio schifo. Sono stata via davvero tanto, lo so, ma d’ora in poi proverò ad aggiornare con frequenza più regolare.

Vorrei ringraziare tutti coloro che hanno messo tra le seguite/ricordate/preferite questa storia oppure proprio me come autrice (siete tantissimi, è un onore) e soprattutto i miei recensori! Grazie di cuore per tutto il vostro sostegno e scusate se a tanti di voi non ho ancora risposto – lo farò appena pubblicato il capitolo.

Tornando a noi, il capitolo che segue è più lungo del solito – 17 pagine di parole italiane, uiiiii – e ovviamente spero che questo vi faccia piacere. Fatto sta che c’è Gerard e a un certo punto ci sono anche un toast e una fermata del bus, e tutto questo per dire che se proprio volete saperlo vi auguro una buona lettura e spero che continuerete a seguire [ride].

 

Enjoy!

 

 

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Andantino

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il bar in cui lavoro si chiama “Bar di Hank” anche se in realtà non è affatto il bar di Hank perché Hank è morto. Due anni fa, se non sbaglio, o dodici, mi pare. Hank era andato a farsi una di quelle arrampicate in montagna, che non so se avete presente, ma sono tipo quelle gite che piacciono tanto alla gente che vuole complicarsi la vita, e che invece di fare i picnic e guardare le nuvole scala le montagne aggrappandosi agli spunzoni. Fatto sta che Hank era andato a farsi una di quelle arrampicate in montagna, e io ora non conosco bene la dinamica di ciò che è successo dopo, ma tant'è che per farla breve Hank è caduto ed è morto. A quel punto il bar è passato nelle manone grasse di sua moglie Ginger, che è davvero brutta come il peccato, e adesso tenetevi forte perché quella che segue è una cosa simpaticissima: La signora Ginger di cognome fa Rogers. Ragazzi, quando l'ho scoperto ho riso tipo per dieci minuti, perché la moglie di Hank è davvero brutta unta orrenda, e non so se avete presente quant'era bella Ginger Rogers nei film, tutta carina con i ricciolini e le guance rosse. Tutto questo per dire che la signora Rogers è l'attuale proprietaria del bar di Hank e che io nel bar di Hank ci lavoro.

    C'è il tavolo dodici, c'è una coppia e ci sono io che aspetto pazientemente che questa tizia con i capelli rossi si decida a ordinare qualcosa.

    «Ma fate solo i toast, qui?»

    «Sì.»

    «Non fate la pasta?»

    «Solo toast.»

    «Verdura?»

    «Toast.»

    «Dolcetti?»

    «Toast.»

    Annuisce, forse finalmente ha capito. Non è la prima cliente sconvolta dalla povertà del nostro menù, ma è divertente lo stesso. Ogni volta la gente arriva qui con l'idea di divorarsi una di quelle insalatone tutte salute e crostini di pane, oppure una di quelle torte a cento strati cioccolato panna cioccolato panna cioccolato panna cioccolato panna, e invece niente, qui facciamo solo i toast, molto spiacente, signorina. Apro il blocchetto delle ordinazioni con un solo gesto, proprio che sono davvero un bravo cameriere e tutto quando ad aprire il blocchetto delle ordinazioni con un solo gesto, e sopra ci scrivo quello che ha appena ordinato la signorina con i capelli rossi.

    Poi entra Gerard. Cammina piano e con la testa incassata tra le spalle, ha quella giacca a vento nera che su di lui mi piace tanto. "Bentornato", vorrei dirgli, però non glielo dico. Fuori c'è un freddo cane. Si sente perché c'è Gerard che è appena entrato, e Gerard è gelido. Non c'è bisogno di toccarlo, per rendersene conto. Si siede al tavolo sette, attaccato alla parete che sta di fronte al bancone, vicino al jukebox che sta là solo per bellezza.

    Stevie si avvia verso di lui mentre con un piccolo scatto del polso apre il blocco delle ordinazioni (questo perché anche lui è davvero un bravo cameriere); io gli dico che quello lo servo io, è un mio amico, faccio in un attimo. Stevie se ne va. Non serviva che gli facessi tutti questo gran discorso, perché a Stevie i dettagli e le dinamiche non interessano. A Stevie basta che lo paghino a fine mese. Gerard non guarda verso di noi.

    «Ti sei rimesso in piedi». 

    Lo saluto così.

    «A quanto pare.»

    C'è Gerard e ci sono io, e io aspetto con il blocchetto in mano la sua ordinazione. Spero che sappia che qui facciamo solo toast, nel dubbio glielo dico.

    «Qui facciamo solo toast.»

    «Sì, lo so.»

    «Bene.»

    «Già.»

    Tira su il menù con due dita, come se non gli interessasse, o come se gli facesse schifo. È pallido, ha le occhiaie. Sono due giorni che non lo vedo, potrei quasi dire che in questo intervallo di tempo non ha più dormito. Sa di freddo — e di pesche, ma ormai questo posso anche non dirlo perché se c'è una cosa che ho ripetuto fin troppo è che Gerard sa di pesche e di qualche altra cosa di cui non mi sovviene l'immagine. Scorre rapidamente la lista stampata in grassetto ma giurerei in tribunale che la testa ce l'ha da qualche altra parte. Forse ha sniffato ancora. 

    «Prendo quello con il ripieno bianco e rosa», sentenzia, dopo essersi concesso una lunga pausa di riflessione.

    «Eh?»

    «Quello con il ripieno bianco e rosa», ripete candidamente.

    Gli sfilo il menù da sotto il naso, pensando che forse l'hanno cambiato e adesso ci sono solo le foto dei toast, che non so se avete presente ma sono tipo quelle foto che i proprietari dei bar mettono sui menù per far venir fame ai clienti, ma che poi non assomigliano ai veri toast nemmeno per sbaglio, tipo che in quelle foto i toast sono tutti gustosi e splendidi e nella realtà invece i toast sono mollicci e schifosi. Fatto sta che c'è Gerard e ci sono io, e di foto di toast sul menù non c'è nemmeno l'ombra, proprio zero, solo le scritte con i nomi. Mi arrendo.

    «Quale... quale sarebbe il toast con il ripieno bianco e rosa?», domando.

    «Boh. Ha il ripieno bianco e rosa. E il pane, sopra e sotto. Tostato.»

    «Sì, ma dentro che cosa c'è?»

    «Il ripie...»

    Io dico che qui è meglio andare avanti a tentativi, perché altrimenti giuro su Dio che non finiamo più, tipo che da vecchi saremo ancora qui a cercare di metterci d'accordo sul toast bianco e rosa e tutto quanto.

    «Dici fontina e prosciutto?»

    «No, quello è giallino e rosa chiaro.»

    «Crescenza e speck?»

    «Bianco e marrone.»

    «Ah, forse dici...»

    Tira su un dito, lo punta verso un vecchietto seduto a un tavolo alle mie spalle. Io inizialmente guardo solo il dito, e non perché sono scemo, ma perché trema, e con il dito trema anche tutto il braccio. Improvvisamente spero che abbia sniffato ancora. Perché se Gerard trema oggi per quel paio di grammi sniffati tre giorni fa allora Gerard è fottuto, non per dire.

    «Il suo. Voglio il suo, quello che sta mangiando quel vecchino.»

    «Ah, crescenza e mortadella.»

    «Boh. Voglio il suo», ripete testardamente.

    «D'accordo.»

    «Cioè...» Mi guarda dritto negli occhi e  da quando è entrato qui questa è la prima volta che lo fa. «Cioè...» fa oscillare un po' la testa, come se stesse tenendo il tempo di una musica che sente solo lui. «Cioè non è che voglio proprio il suo toast personale... io... basta che me lo fai uguale. Hai capito che cosa intendo.»

    Io giuro su Dio che non ho mai avuto così tanta paura per qualcuno in vita mia. Gerard sembra scappato da uno di quei centri in cui i dottori mettono la gente con le malattie mentali, quelle che entrano nei manicomi che hanno una brutta cera ed escono che sembrano degli eroinomani a causa di tutte le medicine schifose di cui li imbottiscono. Tutto questo per dire che io giuro su Dio che non ho mai avuto tanta paura per qualcuno in vita mia e che Gerard è meraviglioso e lento e scoordinato e pallido. Mi chiede ancora se ho capito quello che mi ha detto, gli rispondo che no, al vecchietto non ruberò il toast, mi limiterò solo a prepararne uno uguale al suo.

    Comunico l’ordinazione di Gerard a Finn, che se proprio volete saperlo è quello che sta dietro al bancone a fare i toast, e poi torno al tavolo sette. Dovrei stare in piedi e girare per il locale a chiedere ai clienti se hanno bisogno di qualcosa e se i loro toast sono buoni, ma giuro su Dio che non me ne frega proprio niente se i toast dei clienti sono buoni o fanno schifo. Non quando c’è Gerard al tavolo sette con i capelli tinti e la giacca a vento nera che se lo guardi di profilo quasi quasi sembra etero. Stevie mi fissa distrattamente mentre prendo posto di fronte a Gerard, ma tanto a Stevie i dettagli e le dinamiche non interessano. A Stevie basta che lo paghino a fine mese. Fatto sta che ci sono io e c’è Gerard, e improvvisamente ho l’insensato timore che mio padre sappia che è stato a casa nostra. Mio padre non sa nulla, eppure basterebbe annusare l’aria e sentire quel profumo a metà tra le pesche e qualche altra cosa di cui ora non mi sovviene l’immagine. Nessuno ha un profumo che è a metà tra le pesche e qualche altra cosa di cui ora non mi sovviene l’immagine, solo Gerard.

    Mio padre non sa nulla.

    «Non ci torni più a scuola?»

    Non mi risponde, non sono neanche sicuro che ci sia con la testa. Tamburella pigramente le dita sul tavolo.

    «…Gerard?»

    «Non sapevo che lavorassi qui.»

    Non c’entra niente con ciò che gli ho chiesto, ma almeno ora sta parlando. Ho una mezza sensazione che parlare gli faccia bene, e ho anche una mezza sensazione che non lo faccia spesso.

    «Solo part-time», rispondo. «È comodo perché dai la disponibilità solo nei giorni che vuoi e alle ore che preferisci, e loro ti regolano gli orari in base a quanto riesci a fare. Così puoi continuare a studiare e tutto quanto.»

    «Oh.»

    Una mano gli piazza un bicchiere di Coca di fronte, la mano è di Stevie. Gerard dice che non ha ordinato nessuna Coca, solo un toast con il ripieno bianco e rosa.

    «Boh, bevila lo stesso», gli dice Stevie. «Tanto è alla spina, non credo che facciano controlli incrociati tra i millilitri di coca venduti e gli scontrini. Non credo che facciano controlli proprio in generale. La vita è già abbastanza complicata senza i controlli, figuriamoci con. E poi sembra che ti sia passato sopra un treno – senza offesa, eh , almeno ti rimetti in piedi. Nella Coca-Cola c’è lo zucchero.»

    Stevie se ne va. Mi piace, Stevie. A Stevie i dettagli e le dinamiche non interessano. Gerard prende un piccolo sorso dal bicchiere, lo rimette sul tavolo. Poi ci ripensa e lo riprende, questa volta beve quasi tutto quello che c’è dentro. Quando finisce si pulisce le labbra con una nocca.

    «No.»

    «“No” cosa?»

    «Non ci torno, a scuola. O almeno, non credo.»

    Rilasso i muscoli delle spalle, non mi ero accorto di averli tenuti contratti finora.

    «Se non ti vedono per un po’ il preside Higgins chiamerà i tuoi.»

    «Ho dato il numero sbagliato.»

    «Allora verrà a casa tua.»

    «Ho dato l’indirizzo sbagliato.»

    Ha pensato proprio a tutto, non c’è che dire. In qualche modo tutto ciò è geniale. Lo dico.

    «In qualche modo tutto ciò è geniale.»

    «Grazie.»

    Stevie arriva con il toast di Gerard tagliato a metà, una metà sopra all’altra per rendere il tutto più tristemente coreografico. Gerard fa un cenno con la testa, credo che sia un altro modo che ha di dire “grazie”. Toglie le posate dal piatto e dà il primo morso tenendo il toast con le mani. Sta zitto. È uno di quei momenti in cui senti che la cosa più logica da fare sarebbe togliere il disturbo, ma allo stesso tempo resti perché hai l’impressione che stia per succedere qualcosa, e tu questa cosa non vuoi proprio perdertela. Fatto sta che ci sono io e c’è Gerard al tavolo sette accanto al jukebox che sta là solo per bellezza, e quello che succede è che Gerard mangia con troppa educazione per essere un sedicenne allo sbando che si fa di droghe pesanti. Ha la testa bassa e non usa le posate, ma è educato. In modo discreto e sottile, come se non volesse farlo notare.

    Mi lascio andare all’indietro, contro lo schienale della sedia. Il viso di Gerard sta riprendendo colore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

    Nella nostra scuola c’è un professore che si chiama George Mitchell ma che per rendersi più interessante dice sempre che possiamo chiamarlo solo “George”. Credo che sia una di quelle cose che fanno i professori per farsi amici gli studenti o che so io. Quello che so io è che io lo chiamo “signor Mitchell”, e su questo non ci piove. Non siamo mica amici – brava persona e tutto quanto, eh, per carità di Dio, ma non siamo mica amici. Il signor Mitchell ha due figlie e un cane, ed è uno di quelli che credono che se ti impegni abbastanza puoi anche dominare il mondo. Tutto questo per dire che il signor Mitchell ha due figlie e un cane, e che una volta, dopo il suono della campanella, mi ha chiamato alla cattedra e mi ha chiesto di sedermi di fronte a lui. Davanti alla cattedra non c’erano sedie, ma mi ricordo di aver pensato che questo non mi impediva di stare comunque di fronte a lui. Lui mi ha detto che su una sedia sarei stato più comodo, e io gli ho detto che sarei stato comodo anche in piedi. Il signor Mitchell ha cominciato a parlare prendendosela comoda. Io sto sempre all’erta quando le persone se la prendono comoda, perché se uno prima di arrivare al punto deve fare un lungo discorso di solito significa che ciò che ha da dirti non ti piacerà. Fatto sta che il signor Mitchell ha due figlie e un cane, e questa è stata la prima cosa che mi ha detto quel giorno. La tentazione di dirgli che trovavo quest’informazione assolutamente inutile era piuttosto forte. È andato avanti, mi ha parlato delle sue passioni, mi ha detto che gli piace collezionare statuette di tartarughe e stampe degli anni cinquanta. Poi è arrivato al punto, e quando lo ha fatto ha appoggiato gli avambracci sulla cattedra e ha intrecciato le dita. Aveva un cerotto appena sotto all’orecchio sinistro.

    «Non arriverai mai da nessuna parte se non hai la motivazione di farlo», mi ha detto.

    Io gli ho detto “Ah”. Poi il signor Mitchell ha aggiunto che se volessi potrei essere il primo della classe, e io gli ho risposto “Ok”. Quel giorno il signor Mitchell ha parlato per quasi venti minuti di seguito, ogni tanto si grattava la spalla sinistra. Mi ricordo che a un certo punto ho cominciato a pentirmi di non aver preso in considerazione l’idea della sedia, perché le gambe cominciavano a farmi male. Fatto sta che alla fine il signor Mitchell ha finito di parlare, e di quanto aveva detto io avevo capito soltanto il succo. Il succo era che dovevo muovere il culo e fare qualcosa della mia adolescenza mediocre. È stato quel giorno che per la prima volta sono andato a esplorare il luna park abbandonato a Est della città. Proprio così, niente scherzi. Ho preso la bici e ci sono andato, e se non sbaglio ho anche cancellato un appuntamento, per andarci. Mi sono reso conto solo in un secondo momento che quello che stavo facendo, in sostanza, era seguire il consiglio del professor Mitchell a modo mio, ma mentre pedalavo a perdifiato non pensavo proprio a nulla. Sono arrivato al cancello sfondato del luna park e per un attimo mi sono chiesto che cosa stessi facendo, tipo come quando ti vengono quelle idee folli e a un certo punto di fermi e pensi “E qui come ci sono arrivato”? Da quel giorno ho cominciato ad andare al luna park abbandonato quasi ogni settimana, senza nessun motivo apparente. Vado, sto un po’ e torno. Non è una di quelle cose che fanno nei film francesi, non è che andando al luna park mi viene l’ispirazione per scrivere poesie o per dipingere quadri. Il luna park abbandonato fa schifo, sia chiaro. Però da quando ho cominciato ad andare lì un po’ sono cambiato. Non tipo che adesso sono più alto o ho i capelli rossi con la frangia, dico proprio che sono cambiato io, il mio modo di fare. Il signor Mitchell mi ha detto che avrei dovuto cominciare a controllare attivamente la mia vita, io ho smesso di controllare in generale. Vivo in un paesino minuscolo e orrendo, non ho nessun talento in particolare e con ogni probabilità tutto ciò che il futuro mi riserva è un posto dietro a una scrivania e uno stipendio mensile che a malapena mi basterà per coprire le bollette della luce. E allora ho smesso di controllare, e giuro, giuro su Dio che il consiglio del signor Mitchell mi ha cambiato la vita, proprio perché mi sono curato di non seguirlo. Ho cominciato a prendere quello che mi veniva, senza opporre resistenza. Il lavoro al bar di Hank, l’aumento sul prezzo delle sigarette. Gerard. Sì, Gerard, anche lui. Se Gerard fosse arrivato tre anni fa, di sicuro non mi sarei nemmeno avvicinato per dirgli “ciao”. Invece Gerard è arrivato quest’anno e guarda un po’, l’ho già aiutato a farsi una striscia di ketamina. Credo che il ragionamento che sta alla base di tutto ciò, di tutto questo cambio di atteggiamento, dico, sia che la mia vita è talmente noiosa che tanto vale buttarmi a capofitto in qualsiasi cosa la smuova un po’. È per questo che aiuto Gerard, anche se mi cago sotto per me e per lui e per la polizia e per Dio che poco ma sicuro quando muoio mi butta giù all’inferno con un calcio in culo. Perché in questo sono come Stevie. A Stevie basta che lo paghino a fine mese.

    E fatto sta che il signor Mitchell ha due figlie e un cane, e il mio turno finisce tra trenta secondi precisi. Gerard ha mangiato il suo toast, ha pagato con una banconota da dieci e si è messo le monetine di resto nella tasca davanti della giacca.

    Si alza.

    «Devo proprio andare», notifica.

    «I tuoi ti stanno aspettando?»

    «No, perché?»

    Alzo le spalle. «Non so, hai detto che devi proprio andare.»

    Gerard arriccia le labbra e ci pensa su per qualche istante. «No, l’ho detto così per dire. Non mi sta aspettando nessuno, ma le persone quando se ne vanno dicono sempre che devono proprio andare. Mi andava di dirlo.»

    Gli dico che ho capito. Ha ripreso completamente il suo colorito naturale, i suoi movimenti sono ancora un po’ intorpiditi, ma non è più tragicamente lento in ogni cosa. Forse è stato il toast, la signora Rogers ne sarebbe contenta. Il mio turno è ufficialmente finito. Vado a prendere le mie cose nella speranza che Gerard mi aspetti per uscire dal locale insieme a me, ma Gerard sta già camminando verso la porta. Rivolge a Stevie un altro cenno della testa, Stevie abbozza un saluto militare e torna a ciò che stava facendo. Quando Gerard è ormai scomparso dalla visuale di entrambi Stevie va a voltare il cartellino che c’è sul vetro per far sapere a chi sta fuori che adesso il bar è chiuso e se avete sete buonanotte. Sto lì come un cretino, voglio tornare a casa ma allo stesso tempo non mi va di uscire. Controllo il cellulare, nessun nuovo messaggio.

    «Ketamina, vero?»

    Mi volto di scatto. Stevie sta tornando verso il bancone, ha un vassoio sotto al braccio e dei bicchieri sporchi che tiene con due mani. Mi chiedo se ho sentito bene, mi chiedo perché stia tenendo i bicchieri in mano anziché metterli direttamente sul vassoio. Ho sentito benissimo, e questo lo so, però per sicurezza glielo chiedo lo stesso.

    «…Cosa?»

    Sistema i bicchieri nella lavastoviglie, oggi tocca a lui chiudere il bar. Quando si piega per mettere a posto il vassoio il ciuffo biondo cenere gli ricade sulla fronte, e gli occhiali da nerd gli scivolano dal naso. Li blocca prima che cadano piazzando un indice sul ponticello che c’è tra le due lenti, poi indica il punto dove fino a un attimo fa c’era Gerard.

    «Dico, il tuo ragazzo. Si fa di ketamina, no?»

    «Cosa? …I-io… non… non è il mio ragazzo!», sbotto.

    «Ah. Beh, d’accordo, non c’è mica bisogno che ti fai venire un infarto, sai?»

    È tutto talmente surreale che forse adesso mi sveglio e mi trovo davanti il signor Mitchell che mi chiede se mi sono addormentato perché il suo discorso mi stava annoiando. Cerco di fare mente locale, devo fare mente locale. Punto uno, l’idea è che nessuno sappia che sono gay, o almeno non qui e non ora. Tanto più che questo è un paese molto piccolo, e si sa che più i paesi sono piccoli più la gente che ci abita chiacchiera. Punto secondo, trovo che sarebbe molto carino mantenere segreta la questione di Gerard. Tanto più che questo è un paese molto piccolo, e si sa che eccetera eccetera. Punto terzo, se Stevie mi sembrava già un ragazzo piuttosto intelligente, ora come ora mi sento quasi in dovere di gettarmi ai suoi piedi chiedendo misericordia. Stevie sta ancora aspettando una risposta, ma decido che può aspettare ancora un po’.

    «Stevie, io non sono gay.»

    Ovviamente lo sono, manco a dirlo, e se possibile da quando c’è Gerard sono ancora più gay, tipo che non sono mai stato così gay in tutta la mia vita. Stevie mi lancia un’occhiata in tralice e finalmente smette di trafficare con piatti e posate. Esce da dietro il bancone e si issa su uno degli sgabelli girevoli accanto a me.

    «Volevo solo dire che…»

    «Stevie», ripeto. «Stevie, io non sono gay.»

    «Sì, senti, ascolta, Frank…»

    «No, ascoltami tu, Stevie.»

    Mi è uscito un tono nervoso, ma la verità è che non sono affatto nervoso. Voglio solo vedere fino a dove mi porteranno le mie pressoché inesistenti abilità recitative, e se proprio volete saperlo sono quasi sicuro che non mi porteranno da nessuna parte, perché Stevie non si smuove di un millimetro. Stevie non ha proprio nemmeno un dubbio. Deve solo dirmi qualcosa che non gli sto permettendo di dirmi, e ho l’impressione che rispetto all’importanza di ciò che deve dirmi la mia sessualità sia un dettaglio. A Stevie non interessano i dettagli. Ha gli occhi inchiodati nei miei, mi ascolta con attenzione ma non pende dalle mie labbra. Tra i suoi occhi e i miei ci sono le lenti dei suoi occhiali e qualche spanna d’aria.

    «Ascoltami tu», dico ancora. «Se hai qualche problema con me dimmelo subito.»

    Adesso sono davvero un po’ nervoso. Mi lascio trasportare. Tanto per far qualcosa.

    «No, Frank, non hai capito», replica tranquillamente Stevie. Nella sua voce non c’è nessuna traccia di ostilità. «Non ti sto provocando, non ci penso nemmeno a provocarti. Ti ho solo fatto una domanda, ma sei libero di non rispondere. Tutto qui.»

    Fa ruotare il sedile rotondo dello sgabello in senso orario per appoggiare entrambi i gomiti sul bancone. Si massaggia il collo con le mani.

    «Stevie, tu pensi che io sia gay?»

    «Perché, tu pensi di non esserlo?»

    «…»

    «Perché in tal caso scusa se ti ho rovinato la sorpresa, ma è ora che tu lo sappia – sei gay, Frank.»

    «Sì, lo so, grazie.»

    Non so se avete presente quell’espressione che dice tipo “e qui casca l’asino”; si usa quando si parla di un errore molto stupido ma allo stesso tempo molto comune, e praticamente uno dice “e qui casca l’asino” per dire che se sei scemo fai la stessa fine dell’asino, ovvero cadi. Tutto questo per dire che l’asino sono io.

    Stevie mi scocca un sorriso che sembra dire “Lo vedi che sei gay?”, poi si rimette le mani sul collo e continua a massaggiarsi. Chapeau, sul serio, proprio chapeau.

    «Da cosa l’hai capito?», gli chiedo.

    «Dal fatto che Britney Hall te la sbatte in faccia un giorno sì e l’altro anche e tu non ti accorgi di niente come un fesso.»

    «Cosa? Britney ci prova con me?»

    «Appunto. Era insopportabilmente ovvio ma tu non ci facevi nemmeno caso, quindi ho pensato “O è gay o è scemo”. Ma secondo me non eri scemo – puoi non ringraziarmi.»

    È ancora tutto surreale, ma lo è già un po’ meno di prima. Stevie estrae un piccolo quadratino di stoffa blu dalla tasca del grembiule e si sfila gli occhiali per pulire le lenti.

    «Ad ogni modo sta’ tranquillo, non vado mica a raccontarlo in giro.»

    «Sul serio?»

    «Se avessi voluto dirlo a qualcuno l’avrei fatto tre anni fa, Frank. Ad ogni modo non è questo il punto. Per la storia della ketamina…»

    «Io non mi faccio di ketamina», lo interrompo. «E nemmeno Gerard.»

    «Non ricominciamo tutto da capo, Frank. Lascia perdere. Lo so che tu non ti fai di ketamina. Però so che questo problema ce l’ha Gerard – si chiama così, no? –, e se siamo arrivati fin qui è solo perché voglio dirti che, alla luce di questo, se avessi bisogno di aiuto a gestire la cosa o se fosse anche solo per parlare un po’, puoi chiamarmi. Il mio numero è sulla tabella degli orari dello staff. Che poi capirai che staff, siamo in tre. E niente, tutto qui, non voglio mica farmi gli affari tuoi. Era solo per farti sapere questo.»

    Stevie si rimette in piedi con un sospiro stanco, io ho la bocca un po’ aperta e scommetto che in questo momento la mia faccia sembra incredibilmente stupida.

    «E non preoccuparti», aggiunge Stevie. «Se starà attento a non farsi beccare, nessuno riuscirà a scoprirlo. Io l’ho capito solo perché mio fratello ha avuto lo stesso problema.» Qui sorride, sembra sinceramente divertito. «Ho l’occhio allenato. Comunque è superfluo dire che sarebbe meglio se smettesse e basta. Io ho dei contatti con alcuni gruppi di recupero, o di sostegno, o qualunque sia il modo in cui li chiamano. Fanno schifo, certo, ma non fanno poi così schifo. Sul serio. In caso dovessero servirti sai dove trovarmi.»

    E così Stevie voleva dirmi questo. Non me lo aspettavo, ma ora tutto ha più senso. Specie la parte in cui la mia omosessualità è diventata un dettaglio. In un paese come Belleville l’omosessualità non è mai un dettaglio. Per Stevie lo è. A Stevie non interessano i dettagli.

    «Mi dispiace per tuo fratello.»

    «Non ha importanza. Ha fatto i suoi errori e ora li sta pagando tutti. Ma questi sono dettagli. Ciò che conta è il punto d’arrivo, e il punto d’arrivo è che finalmente ora mio fratello si è messo la testa a posto.»

    «E ora che succede?»

    È una domanda imprecisa, potrei averla posta riferendomi a tante cose diverse e questo Stevie lo ha capito. E allora risponde a tutte.

    «Ora succede che mio fratello è in prigione, ma uscirà di lì tra poco più di un anno. Ogni settimana gli porto un libro di quelli classici, sai tipo “Cime tempestose” e “Orgoglio e pregiudizio”. Se li divora, e dire che prima di entrare lì dentro odiava leggere. E poi un’altra cosa che succede ora è che io mantengo il tuo segreto e tu stai molto attento a non fare cazzate. O meglio, qualche cazzata falla, questo sì, ma cerca di stare attento quel che basta a non finire in guai seri. Gerard capirà che si sta sbagliando, è solo questione di tempo. Fino a quel momento, tu usa il buonsenso.»

    «Intendi… stargli lontano, aspettare che rinsavisca?»

    Stevie ha già finito di pulire tutto il bancone. Adesso deve solo mettere le sedie sui tavoli e poi per oggi il suo lavoro sarà finito.

    «No, questo è impossibile. Non riuscirai a stargli lontano, se per te è una persona importante. Quello che dico è… vicino, ma non troppo. A distanza di cortesia. Stacci assieme, sostienilo, amalo o quello che vuoi, ma stai con i piedi per terra, perché altrimenti perdi la testa.»

    «In che senso?»

    Ha una sedia in mano, sta per posarla sul tavolo ma poi blocca le braccia a mezz’aria come se improvvisamente non avesse più la forza necessaria per completare quel gesto. Sorride leggermente, si riprende, la sedia adesso è sul tavolo, le gambe all’aria.

    «Una volta mio fratello ha voluto provare l’eroina. E lo sai io che cosa ho fatto?»

    «…»

    «Mi sono seduto accanto a lui e gli ho passato il cucchiaino, e il cotone, e il laccio emostatico. Quella notte lui è finito in ospedale. Quando i dottori ci hanno detto che era sospeso tra la vita e la morte mi sono sentito talmente in colpa che ho pensato di uccidermi.» Fa una pausa, ma la sua espressione pacata non abbandona il suo viso nemmeno per un attimo. È una cosa che si impara esercitandosi. Mi chiedo quante volte Stevie sia stato costretto a fingere che andasse tutto bene. «Quindi, sì, questo è quello che intendo per “perdere la testa”. Stagli vicino, ma fagli anche capire che se vuole continuare a drogarsi non avrà il tuo appoggio. Se l’hai già aiutato, non farlo di nuovo. Come ho già detto... buonsenso.»

    Il “grazie” che biascico mi fa sentire uno schifo. Vorrei fare tutto un discorso, cominciare dall’inizio con tutta calma ed elencare a Stevie i motivi per cui è appena diventato una delle mie persone preferite al mondo. Sederci davanti a un caffè così, io che continuo con il mio discorso di ringraziamento e lui che mi ascolta massaggiandosi il collo. Però dico solo “grazie”, e va bene così, perché tanto il succo è quello, e il resto sono tutti dettagli. A Stevie non interessano i dettagli.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

    Gerard aspetta il bus accanto al palo della fermata, Stevie sta ancora sistemando le sedie sui tavoli. Lo so perché la strada è talmente deserta e silenziosa che in lontananza posso sentire il rumore del legno contro il legno. Nevica, anche abbastanza forte, Gerard mi vede e anche se siamo a tipo due metri di distanza l’uno dall’altro lui mi fa ciao con la mano, tipo che deve considerarmi proprio importante se si è preso la briga non solo di alzare una mano, ma pure di agitarla. All’improvviso mi viene in mente di chiedermi dove cazzo sono finiti tutti. È come in quel film in cui la notte escono i vampiri, o i mostri o quel che è, e allora il sindaco mette un coprifuoco tipo all’ora del tramonto. O forse era Obama. E fatto sta che c’è questo coprifuoco – nel film, dico –, e che ora come ora io sembro quel fesso che nel film si dimentica del coprifuoco e comincia a vagare tra le strade deserte della città come un cretino. Poi può anche darsi che questo film non esiste e che me lo sto inventando, oppure che sono due film diversi e io li ho fusi assieme perché ho la memoria di un grillotalpa. E fatto sta che nevica, e io dovrei tirare dritto e andarmene a casa, tanto più che domani c’è il test di scienze e io il libro di scienze non so nemmeno com’è fatto. Non sono neanche sicuro di averlo comprato, se proprio volete saperlo. Faccio due passi verso di là e poi mi fermo di nuovo, come un cretino. Che poi non so se l’avete notato, ma gira che ti rigira in ogni circostanza sembro sempre un cretino. Tutto questo per dire che nevica e che Gerard mi ha fatto ciao con la mano, e io tutto d’un tratto non ho proprio nessuna voglia di andarmene a casa. Non mi va e basta. E vaffanculo anche a scienze, se proprio devo dirlo.

    Non ci penso due volte, e Gerard ha il vento che gli scompiglia i capelli.

    «Ti va di fare un giro?»

    Ragazzi, che invito fiacco. Gerard lo soppesa, quasi quasi posso sentire gli ingranaggi di quel suo cervello impossibile che si mettono in moto. Ha gli occhi grandi e acquosi, non sta meglio di prima ma non sta neanche peggio. Gerard è così e basta, Gerard si fa di ketamina e o compri tutto il pacchetto oppure grazie tante e cari saluti. Con due dita della destra prende a srotolarsi la manica sinistra della giacca, come se in questo momento la sua preoccupazione principale fosse quella di coprirsi bene tutte le nocche e poi tutte le dita, ha sempre il vento che gli scompiglia i capelli. Sospira con discrezione. Sta respirando più forte di prima, si vede perché le spalle si alzano e si abbassano velocemente, quasi quasi assieme agli ingranaggi del suo cervello impossibile posso anche sentire il tum-tum del cuore. Si gela.

    «Sì», dice.

    «“Sì” cosa?»

    «Sì mi va di fare un giro.»

    Annuisco. Gerard è come i gatti. Forse non ho realizzato che mi ha detto di sì, o forse ho solo paura di mostrare troppo entusiasmo. Mi chiede quando, gli dico adesso. Andiamocene adesso, a fare un giro, a vedere un po' di niente. Il sole è tramontato da poco. C'è già una fetta di luna, in alto a destra, cominciamo a camminare verso il parco. 

    «Dove stiamo andando?», chiede.

    «Al luna park.»

    «Iero, lo sai che il luna park è chiuso da tredici anni?»

    «Sì, e allora?»

    Gerard alza le spalle e si ficca le mani in tasca.

    «Boh», dice, «non so, è che sarà pieno di drogati.»

    «Ma non mi dire.»

    Mi giro verso di lui, non credo che si sia reso conto di quanto è ironica la frase che ha appena detto. Gli sorrido, continua a non capire e mi guarda spaesato.

    «Che c'è?», chiede.

    «Niente.»

    «Che c’è?», chiede ancora, questa volta con un tono più stridulo.

    «"Pieno di drogati"?»

    Gerard smette di camminare, mi osserva attentamente inclinando la testa da un lato. Forse siamo su due lunghezze d’onda totalmente diverse, ma secondo me no. E infatti Gerard capisce. Comincia a stirare gradualmente le labbra tenendole tra i denti come per trattenersi, ma non ci riesce, e allora cede e lancia un sorriso fugace all’asfalto, e poi alla fine ride e basta, ma piano, cercando di non essere troppo sguaiato nel silenzio mortale di questo paesino di merda. Ha la bocca aperta e si passa la lingua sui denti cercando di filtrare al massimo quell’espressione che forse secondo lui lo fa uscire troppo dal personaggio. Me lo mangio con gli occhi. Si volta di profilo e le ciglia sono una virgola nera stagliata contro il bianco del cielo invernale, la punta del naso si muove leggermente in perfetta sincronia con i movimenti delle sue labbra. È quell’espressione adorabile che fanno solo le persone adorabili subito dopo aver incassato una battuta giocata bene e subito prima di dire “touché”. Lo dice.

    «Touché, Iero.»

    «Oh, beh, per carità, se pensi che sia pieno di drogati allora andiamo da qualche altra parte», rincaro.

    «Ah, sì? E io che pensavo che avessi una passione fetish per i drogati.»

    «Ti sbagli, è gente poco raccomandabile, quella.»

    Per un attimo il suo sorriso brilla un po’ di meno, calcia un sassolino, si stringe nelle spalle.

    «Già. È gente poco raccomandabile.»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

    C’è un capanno dove in un’epoca che potrebbe risalire a cinquant’anni fa le donnine con il rossetto rosso e la vita stretta si facevano accompagnare dai fidanzati per provare a tirare giù una piramide di lattine con una pallina da tennis. Il luna park è stato chiuso poco più di un decennio fa, ma la sua esistenza è sempre stata piuttosto inquieta, e non lo dico per fare il poeta maledetto che esplicita in versi la cadente bellezza dell’abbandono. Quelle giuro su Dio che sono cazzate, e non c’è niente di bello nel luna park abbandonato o nel capanno dove in un’epoca eccetera eccetera le donnine con il rossetto rosso eccetera eccetera. Però che l’esistenza del luna park è stata un’esistenza inquieta, questo è vero. Il luna park è venuto su come vengono su i McDonald’s, non so se avete presente. Un attimo prima sei in una landa desolata e un attimo dopo ti giri e puff – proprio così, puff -, ecco che compare il McDonald’s. Avete mai visto un McDonald’s in costruzione? No, esatto. Perché non esistono, i McDonald’s compaiono e basta. Anche i luna park. O almeno, questo luna park è comparso così, e non c’è vecchietto che possa darvi dettagli più precisi. Prima non c’era e da un certo momento in poi c’è stato, fine della storia arrivederci e grazie. Fatto sta che il luna park è apparso e tutto quanto, e all’inizio c’erano solo quella cosa che gira con i cavalli e la musichina di merda e il capanno con le lattine, e poi mano a mano sono comparse anche le altre cose tipo la ruota panoramica e l’omino dello zucchero filato. Quello che so è che a un certo punto un tizio molto ricco e anche molto pazzo che si chiamava Christopher Bryar ha deciso che il luna park aveva bisogno di rinnovarsi, e allora ha investito un sacco di soldi per buttare giù le cose vecchie e costruire cose nuove. Solo che questo Christopher era molto pazzo, cosa che mi pare di aver già detto, e quindi questa cosa del rinnovare il luna park gli saltava in testa praticamente ogni sei mesi. Tutto questo per dire che ogni due secondi il luna park aveva qualcosa di diverso, e le giostre duravano sei mesi al massimo e poi venivano subito rimpiazzate da qualcos'altro. Il capanno del tiro a segno è durato circa un decennio, tipo che se è stato aperto nel 1956 è durato fino al 1966, non so se mi seguite. Capite bene che nel luna park del signor Bryar se qualcosa durava più di tre mesi allora voleva dire che quella cosa era proprio una cosa bellissima e pazzesca. Ad ogni modo il tiro a segno non era né bellissimo né pazzesco, quindi secondo me il signor Bryar se l’era solo dimenticato, e allora per un po’ ha evitato di demolirlo o bruciarlo o che so io.

    Queste cose le racconto a Gerard, forse Gerard mi sta anche ascoltando. Ha sempre le ciglia nere che formano quella virgola che ho già detto, quella nera che si staglia eccetera eccetera, però il vento tra i capelli non ce l’ha più, perché adesso siamo nel capanno e qui il vento non arriva. Penso che questo capanno potrebbe crollarci sulla testa da un momento all’altro - forse anche adesso. Fatto sta che ci sono io e c’è Gerard, e lui mi chiede come faccio a sapere tutte queste cose.

    «La signora Patchett mi fa tagliare l’erba del suo giardino in cambio di soldi», rispondo in breve. «Solo che la signora Patchett parla tanto e quindi mi racconta tutte queste storielle su cosa succedeva ai suoi tempi.»

    «Oh.»

    Si slaccia il giubbotto, lo fisso stolidamente mentre si tira giù la zip. Vorrei dirgli che fa freddo e che non mi pare proprio il momento di slacciarsi il giubbotto, ma me ne sto zitto. Estrae le sue sigarette con il filtro bianco dalla tasca interna della giacca.

    «Sei una persona fedele, Iero?»

    Così, dal nulla. Gerard spinge il pollice sulla rotellina metallica dell’accendino ma fa cilecca. Ci riprova, nulla, Un’altra volta. Due, tre, quattro. Alla quinta la punta della sigaretta diventa rossa. Posa l’accendino accanto a sé.

    «Sì», rispondo. «Credo di sì.»

    Gerard fa sì con la testa come se dovesse metabolizzare un’informazione delicata.

    «Già. Anch’io. Bella fregatura, eh?»

    «In che senso?»

    «Nel senso che è una fregatura. Essere fedeli, dico. È una forma di autolesionismo non indifferente.»

    «Dipende da chi è la persona con cui stai», dico io.

    «Sì, è vero. Dipende da quello.»

    La conversazione finisce qui, abbiamo avuto i nostri trenta secondi filosofici. Gerard si stende lentamente sulla schiena e per qualche motivo stupido che non mi spiego noto che si è steso subito, senza prima controllare con una mano se il pavimento il legno fosse bagnato, o marcio o che so io. Adesso ha gli occhi puntati sul soffitto, io ho gli occhi puntati su di lui. Questo capanno potrebbe crollarci sulla testa da un momento all’altro, forse anche adesso. Nevica ancora. Sospiro forte e poi mi sdraio anch’io. Eccoci qui, con la schiena sul pavimento marcio di un capanno abbandonato da Dio in un parchetto abbandonato da Dio in un paese abbandonato da Dio, a chiederci l’un l’altro se siamo fedeli e ad amareggiarci perché entrambi abbiamo risposto sì. Due cretini, la definizione più calzante che mi sovviene. Questo capanno potrebbe crollarci sulla testa da un momento all’altro. Forse anche adesso.



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Capitolo 7
*** Andante ***


Uuuh, il nuovo capitolo di Tourniquet, eccolo qui (/*O*)/

Premesso che è un periodo in cui sono incasinata più o meno in tutto, e che quindi non sono del tutto certa di avere il controllo sulle cose che faccio/dico/scrivo, penso di potermi dire abbastanza soddisfatta di com’è uscito il capitolo che segue. Ma come al solito aspetto il vostro verdetto.

Grazie a tutti coloro che stanno continuando a seguire e ci vediamo con il prossimo aggiornamento.

Buona lettura ♥,


pwo_

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Andante

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Siamo sdraiati dentro a questo capanno da quarantacinque minuti e in quarantacinque minuti che sono passati né io né Gerard abbiamo detto una sola parola. Avrei motivo di credere che Gerard si sia addormentato, se non fosse che ogni tanto mi giro verso di lui e gli guardo il profilo e gli occhi e la giacca a vento che non smette mai di togliersi e rimettersi, togliersi e rimettersi. Gerard fuma le sue sigarette col filtro bianco e guarda su, e non gliene frega niente se forse tutto questo silenzio non è normale. E se proprio volete saperlo non frega niente nemmeno a me. Fatto sta che c’è Gerard e ci sono io, e al quarantaseiesimo minuto—e lo so perché io sono uno che fa molta attenzione agli orari e agli orologi e al tempo che passa e tutto quanto—dicevo, al quarantaseiesimo minuto Gerard si mette a sedere, si guarda un po’ attorno e poi se ne esce con la sua idea dei chiodi.  

«Dico che dovremmo mettere dei chiodi lì, sulla parete accanto alla porta», spiega, come se questo bastasse a farmi capire. «Li mettiamo tipo solo fino a metà, senza spingerli tutto fino in fondo nel legno, e poi li lasciamo lì così quando torniamo è più comodo.»

«Che cosa è più comodo?»

«Le giacche.»

«Cosa?»

Mi tiro a sedere anch’io, tanto per sviare l’attenzione dalla mia faccia che sono sicuro che deve apparire piuttosto stupida. Fa un freddo cane ma in questo momento Gerard la giacca non ce l’ha. Sbuffa, fa dei gesti in aria che non vogliono dire assolutamente nulla ma che evidentemente per lui sono piuttosto esplicativi.

«Le giacche», ripete. «Prendiamo dei chiodi e un martello e poi i chiodi li ficchiamo nel muro, e così la prossima volta che veniamo qui sappiamo dove appendere le giacche. Sai, in caso volessimo levarcele.»

In quest’ultima frase di Gerard mi piacerebbe poter cogliere un’implicazione, possibilmente voluta, possibilmente sessuale. Tipo un invito a spogliarci per darci alla pazza gioia e tutto quanto. Mi permetto di immaginarmi la scena per un secondo o due e nel frattempo Gerard cerca di sfregare via una macchia dalla punta in gomma delle sue Converse. Fatto sta che nella frase che ha detto non c’è nessuna implicazione e che questa storia dei chiodi non ha alcun senso. Lo dico.

«Questa storia dei chiodi non ha alcun senso.»

«Come vuoi», ribatte lui un po’ offeso.

Si rimette sdraiato e mi rimetto sdraiato anch’io, da qui si vedono il soffitto mezzo crollato che potrebbe caderci in testa da un momento all’altro e poi il cielo, che è grigio e schifoso e pieno di neve. Sbadiglio. Mi viene voglia di fare qualcosa. Non so cosa, qualcosa. Tipo alzarci e muoverci e correre e andarcene. Ruoto la testa contro le assi dure del pavimento e c’è Gerard che fuma e guarda su. Forse non vuole parlarmi perché vive male questa cosa che secondo me la sua idea dei chiodi non ha alcun senso.

«Parlami del tuo ragazzo.»

Non mi sono reso conto di averlo detto ad alta voce, giuro. Giuro che non me ne sono reso conto. È che a volte penso troppe cose tutte assieme e finisce che una di quelle cose me la lascio sfuggire, come se a tenermela in testa creassi troppo ingombro con il resto dei miei pensieri. Spero che Gerard non abbia sentito, ma ovviamente Gerard ha sentito benissimo. Finisce la sua sigaretta e poi si volta su un fianco. Se non lo conoscessi—poco—potrei quasi pensare che si sia messo così per provocarmi. Mi guarda con un’aria stanca, pigra, mi dà quasi l’impressione che se allungassi un braccio il braccio lo attraverserebbe. Mi guarda con quell’aria lì e io penso che non ho assolutamente idea di che cosa potrebbe dirmi adesso.

«Perché», chiede, ma senza punto di domanda.

Forse non ha capito che io con i giochetti psicologici non sono bravo. Le cose deve dirmele in faccia perché altrimenti io non capisco. Continua a guardarmi con la sua espressione totalmente anonima, aspetta che mi spieghi e io mi sento messo all’angolo. Ma tanto vale.

«Non lo so. Mi va che me ne parli», ammetto.

«Cosa vuoi sapere.»

Metti i punti di domanda, Gerard.

«Quello che puoi dirmi.»

Sorride, chissà a che pensa. Colgo un’espressione in particolare, ed è l’espressione che fai quando uno ti chiede una cosa cretina e tu pensi “ah, quant’è cretino”, e allora sorridi perché sei contento di non essere cretino anche tu. L’espressione che ha Gerard ora è proprio questa qui che ho detto. Si volta di nuovo sulla schiena e io penso che vorrei tanto chiedergli di stilare una lista delle domande che posso e non posso porgli. Tanto per essere sicuri di non essere indiscreti. Tanto per non fare sempre la parte di quello che è cretino. Fatto sta che c’è Gerard e ci sono io, e da fuori sembriamo due barboni vestiti bene e dall’alto sembriamo due puntini inutili. Mi arrendo. Io mi arrendo e lascio il gioco, addio, fate voi. Questo ragazzo non lo capirò mai. Mi metto di nuovo a sedere perché all’improvviso mi ricordo che ho una gran voglia di fare qualcosa tipo muovermi e correre e tutte le cazzate che ho detto poco fa. Appena esci dal cancello del luna park se vai a destra c’è un ponte, prima passava su un fiume ma ora il fiume è secco o cose simili. Gli chiedo se vuole che andiamo lì. Tanto per far qualcosa.

«No.»

«Perché?»

«L’ultima volta che sono andato lì volevo buttarmi di sotto.»

«…Intendi...?»

«Sì.»

Molto bene, Frank, stai andando alla grande. Salvatemi. Butto fuori un sospiro e penso a quando Gerard aveva i capelli biondi e il boa attorno al collo. Chissà perché ero finito in quel bar squallido.

«Si chiama William.»

Mi volto, ho sentito bene?, ho sentito bene. C’è Gerard che risponde senza sorridere più. Sembra concentrato, come se se lo stesse inventando—però è tutto vero, e adesso io devo starlo a sentire. E morire un pochino ad ogni parola che pronuncia e che mi costringe a pensare a lui assieme a un altro.

«Si chiama William però io lo chiamo Will», continua. È distaccato, freddo, sembra che stia leggendo la lista della spesa e parla piano, lunghe pause tra ogni frase e la successiva. «È più grande. Ha i capelli neri. Si mette sempre una giacca nera che se non sbaglio è della Blomor, la usa durante l’inverno—e in primavera, se in primavera fa ancora freddo. Ha gli occhi marroni. Gli piacciono i formaggi ma non sulla pizza. Ha provato a diventare vegetariano ma poi la carne gli piaceva troppo. Ha un neo sull’anulare sinistro…»

«…Gerard?»

«Odia la Pasqua perché non cade mai uguale», continua a elencare meccanicamente. «Ha un portasigarette della Jack Daniel’s. Odia i gatti ma odia anche i cani. Suo zio è morto di tumore due anni fa. È del sagittario…»

«Gerard.»

«…gli piacciono le auto. Da piccolo faceva nuoto. Odia i ragni…»

«Gerard, basta.»

Finalmente Gerard la smette. Mi guarda, voltando piano la testa verso di me e inchiodandomi addosso quegli occhi che sarà ma secondo me ogni tanto cambiano colore. Non ha nessuna espressione particolare, aspetta solo che dica qualcosa ma sono sicuro che se stessi zitto per lui sarebbe uguale identico.

«Che cosa stai facendo?»

«Ti sto dicendo quello che posso dirti.»

«Non…»

«Non ti interessa?»

Riporto il viso al soffitto. Un’altra cosa in cui faccio schifo è sostenere gli sguardi, specie se gli sguardi in questione sono quelli di Gerard.

«Non è che non mi interessi…»

È che mi aspettavo qualcos’altro, completo mentalmente. Qualcos’altro e forse qualcosa in più. Qualcosa da poter usare come riferimento per riuscire a cogliere il come parlare con Gerard. Il come afferrarlo abbastanza forte da non farlo mai più andar via. Mi sento il suo sguardo addosso—non so come, ma lo sento chiaramente. Quando riprende a parlare è solo per indirizzarmi un’altra delle sue sferzate, ed è sempre voltato verso di me con i suoi occhi pieni di cose.

«Dovresti smetterla di chiedere.»

«Dovresti smetterla di illudermi.»

Questa volta l’ho detto ad alta voce di proposito. Non so cosa ne verrà, ma a questo punto della battaglia vale tutto. Anche giocare sporco. Anche prendere il coraggio a due mani e sbattere sul tavolo una verità scomoda. Gerard lascia cadere il mio contrattacco da qualche parte nello spazio che ci separa e non risponde. Incassa. Non mi interessa sapere cosa dirà, né mi spaventa l’idea di come potrebbe reagire. Sono come il fantino in testa, il mio cavallo corre veloce e anche se dopo aver tagliato il traguardo mi schianto non me ne frega assolutamente nulla. Con Gerard mi sono schiantato molte volte. È un continuo schiantarsi. Ormai so come cadere per limitare i danni, da che parte inclinarmi, che muscoli contrarre, tutta quella roba, lo so già. Ho le redini e sono in testa.

«Sei tu che mi hai invitato qui.»

«Sei tu che hai accettato.»

Con la coda dell’occhio riesco a captare l’eleganza tutta femminile dell’unico gesto con cui si rimette a sedere. Si rinfila la giacca, forse sta pensando a come rispondere ma forse no.

«Hai ragione», risolve, alzandosi in piedi. «Magari l’errore è stato proprio accettare.»

Si alza la cerniera fino al mento e non gli vedo più la bocca e non c’entra niente ma penso che è davvero un peccato perché la bocca è una delle cose che preferisco della sua faccia. Quando sta per infilare la porta del capanno lo chiamo indietro. Lui si ferma dov’è, i capelli scompigliati e le mani nelle tasche. Lui guarda me ma io non guardo lui. Forse è sempre per quella cosa che ho detto prima, e cioè che faccio schifo a sostenere gli sguardi e tutto quanto. Io guardo il soffitto, sono ancora sdraiato con le braccia aperte e le mani vicino alle orecchie.

«Cosa c’è?», incalza.

«Ho ragione, vero?»

«Su cosa?»

«Mi stai illudendo, vero?»

«…»

«Gerard.»

«…Sì.»

Annuisco quanto la mia posizione me lo permette, lo sapevo ma sapere non è come sentirsi dire.

«Ok», dico.

«Mi dis…»

«Risparmiatela.»

Gerard resta sulla soglia del capanno per una manciata di secondi, ma non trova nient’altro che valga la pena aggiungere. Quando se ne va lo fa in silenzio e io ascolto il rumore lievissimo dei suoi passi sull’erba con distrazione, come se non mi riguardasse. Sono tagliato fuori e forse ora voglio anche esserlo. Mi andrebbe di fare così, di lasciar passare qualche tempo e di gettarmi tutto alle spalle. Vorrei essere il tipo di persona che si dimentica, l’amico dell’amico dell’amico che sa le cose per sentito dire—“La sai l’ultima di Gerard?”, “Gerard chi? Ah, già, quel Gerard”. Forse potrei provarci. Fare come in quel film in cui il tizio viene tipo lasciato o cose simili e allora beve e poi passa, ma io ho una memoria di merda e quindi non posso garantire che fosse un film e non un libro. Impiego il quarto d’ora successivo a catalogare mentalmente tutti i superalcolici di cui potrei affogarmi stasera. Mi ubriaco e magari scopro che sono come il tizio del film. Magari bevo e poi passa. Vorrei essere il tipo di persona a cui passa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Gli alcolici li prendo in un negozio della periferia che sta per fallire. Li prendo sempre lì perché io gli alcolici non potrei prenderli, ma se tu hai un negozio di alcolici e stai fallendo che è una bellezza non fai troppo il sottile, quando si tratta di vendere. E tanto per la cronaca il negozio si chiama “Baroque”, ma non so perché, quindi per il Baroque non ho una storia avvincente come per il Bar di Hank. Non so nemmeno che cosa sto facendo, però io ai film e ai libri ci credo, e in questa cosa che se bevo poi passa sto momentaneamente riponendo ogni mia speranza. Quando entro nel negozio la porta a vetri sbatte su un campanello e fa tin.

«Buonasera.»

«Buonasera.»

Il tizio al bancone sembra quello che sta sul tappo della confezione del Monopoli, non so se ce l’avete presente. Mi chiede che cosa voglio e gli rispondo che voglio ubriacarmi. Io quando posso sono schietto. Lui ride come se ci fosse qualcosa di cui cazzo ridere e poi mi chiede quanti soldi ho. Gli rispondo pochi.

«Allora ho quello che fa per te», mi informa, ma ora è serio perché si è accorto che lui ride ride ma io non rido manco per sbaglio.

Piazza sul bancone due bottiglie con un gesto che ha un nonsoché di tronfio e soddisfatto, come se l’aver piazzato due bottiglie sul bancone facesse di lui un eroe.  Una è una bottiglia di Absolut Vodka, l’altro è un whiskey ma lo capisco solo dal colore perché sulle prime il nome che sta sull’etichetta è troppo lungo per leggerlo tutto—Buffalo Trace Kentucky Straight Bourbon Whiskey, ditemi voi se è un nome normale. Tizio Del Monopoli mi squadra dall’alto del suo metro e novanta e poi fa la sua domanda inutile, ma tanto sapevo che l’avrebbe fatta.

«Ragazzo», comincia solennemente, come se stesse cercando di evocarmi dal mondo degli spiriti o che so io. «Tu ce li hai ventun anni, vero?»

«Certo che sì.»

Certo che no. Ovvio che no. Sono minorenne come la merda. Ce l’ho praticamente scritto in fronte. Ma tanto qui siamo in due e tutti e due vogliamo la stessa cosa, prendiamoci ciò che ci spetta e non creiamoci problemi inutili. A me gli alcolici, a te i soldi. E siamo tutti contenti. Tizio Del Monopoli mi guarda e fa “mmh” perché secondo me si diverte molto all’idea di tenermi sulle spine o cose simili, ma giuro su Dio che proprio non attacca. In questo momento specialmente. Fatto sta che c’è Tizio Del Monopoli e ci sono io, e quando io imbraccio il mio sacchetto di carta con dentro le bottiglie lui mi dice che se voglio ubriacarmi per davvero allora devo alternare la vodka e il whiskey. “Per prenderti una bella sbornia”, sono le sue parole. Ad ogni modo la sbornia me la prenderei lo stesso, visto che il buon Dio non mi ha donato la capacità di reggere l’alcol, ma questo me lo tengo per me. Tizio Del Monopoli mi dice arrivederci e io gli dico arrivederci e grazie.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

All’inizio resto lì come un cretino. Ho sempre le mie amate bottiglie in mano nel sacchetto di carta e sono fermo in mezzo alla strada—come un cretino, appunto, ma tanto finiamo sempre lì. Sono in mezzo alla strada ma non rischio di morire perché in questo paesino inutile ci sono a malapena le persone, figuriamoci le macchine, e lì davanti, a meno di dieci metri da me, c’è una casa con un porticato e una porticina rossa che dev’essere appena stata ridipinta perché sembra l’unica cosa brillante in tutta Belleville e forse anche in tutto il mondo. Davanti alla porticina rossa c’è Gerard. Lui guarda me e io guardo lui. Lui non ha nessuna espressione come le bambole e io un’espressione ce l’ho ed è quella dei cretini. E ora mi verrebbe da chiedermi: perché? Perché sempre io e sempre così? Perché vado nel mio negozio di alcolici e non solo scopro che Gerard ci abita di fronte, ma me lo trovo pure lì, un’ora scarsa dopo essermi sentito dire—e molto chiaramente—che se ci ho sperato ho fatto male? Uno non può neanche più ubriacarsi in pace, vi pare mai possibile. Sospiro e scuoto la testa come se servisse a farmi capire perché a me. Non mi viene da piangere, ho già pianto un’ora fa quando Gerard se n’è andato, e anche se in quel capanno ero completamente solo mi sono sentito un imbecille lo stesso. E ho la netta sensazione che Gerard lo sappia, come se sulla fronte oltre a “Sono minorenne come la merda” avessi scritto anche “Ho pianto come la merda”. Gerard ha la bocca un po’ aperta perché dev’essersi sorpreso di trovarmi qui esattamente quanto mi sono sorpreso io di trovarlo lì, e mi chiedo stupidamente se ora sia davanti alla porta rossa di casa sua perché deve entrare o perché deve uscire. Mi dico che forse non è nemmeno casa sua ma il nome scritto sulla cassetta delle lettere dice no no, è proprio casa sua, invece. Non succede nient’altro. Gerard prende fiato come se stesse per dirmi qualcosa ma prima che possa proferire verbo io ho già preso a camminare verso sinistra e verso casa mia. Quando ormai sono a più di venti metri di distanza da lui e dai suoi capelli tinti di nero e dalle sue sigarette col filtro bianco sento una porta che sbatte e mi volto automaticamente verso quel rumore. Se non altro ora so che Gerard doveva entrare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La settimana successiva Gerard è tornato a scuola. Stavo passando in corridoio per raggiungere la biblioteca scolastica con l’intenzione di trascorrere lì la mia ora buca e l’ho intravisto dalla finestrella di vetro della porta di un’aula. Storia. Stava facendo storia ma non stava ascoltando. Ho pensato di essermi sbagliato, ma il giorno dopo l’ho visto di nuovo e allora ho pensato che o ero diventato completamente scemo oppure Gerard era ancora lì, sempre lì, eternamente lì, annoiato e distratto nel modo in cui solo lui poteva essere annoiato e distratto. Ho tenuto le distanze, sono stato al gioco quando in sala mensa i miei compagni di corso hanno cominciato a sparare ipotesi su quale fosse la droga di cui si faceva Gerard. Loro dicevano cocaina e io dicevo mah, può darsi. Durante le ore di matematica lo guardavo arrivare tardi e prendere posto nel banco più vicino alla cattedra, l’unico libero, e poi Gerard guardava fuori e io guardavo lui e mi sentivo come se non fosse mai successo nulla. Un giorno mi ricordo di aver pensato che era come quella cazzata matematica o fisica per cui non conta la traiettoria, ma contano solo il punto di partenza e il punto di arrivo, e se il punto di partenza e il punto di arrivo coincidono allora il risultato è zero, ma non garantisco perché a me le materie scientifiche fanno schifo. Gerard guardava fuori e io pensavo che tra me e lui il risultato era stato zero, e lui aveva ripreso a offrire i suoi bei servizi nell’aula 124 del terzo piano. Non ci sono più tornato. Lo evitavo come non avevo mai evitato nessuno in tutta la mia vita, pensavo alla ketamina e al suo specchietto e allo spray nasale e ogni volta che ci pensavo mi sembrava di sentirmi male. Prima dell’episodio del capanno, mi ero chiesto tante volte come mi sarei sentito quando finalmente mi avesse respinto—perché sapevo che prima o poi mi avrebbe respinto, era solo questione di tempo e questione di trovare il coraggio di chiederglielo senza tanti giri di parole. Avevo pensato che probabilmente avrei sentito un dolore al petto, una specie di morsa attorno alle costole e ai polmoni e al cuore. E invece no. Il dolore l’avevo sentito allo stomaco. Gerard non colpiva al cuore, colpiva allo stomaco. E la cosa più ironica era che di questo lui non si rendeva nemmeno conto. Ho continuato a sentirmi stringere lo stomaco per settimane. Quando facevamo lezione nella stessa aula, quando ci incrociavamo nei corridoi, quando lo vedevo da lontano e a volte anche solo quando pensavo a lui. Non mi ero ancora ubriacato perché per qualche motivo avevo l’impressione che il peggio dovesse ancora arrivare. L’Absolut Vodka e il whiskey di cui non avevo nessuna intenzione di imparare il nome erano rimasti nella loro busta di carta da qualche parte sotto al mio letto. Non si sa mai, mi dicevo. Sentivo che doveva ancora succedere qualcosa, qualcosa di molto peggio, e aspettavo solo che quel qualcosa succedesse. Mi chiedo ancora come facessi a esserne così sicuro.

La vodka e il whiskey sono rimasti sotto al mio letto per tre settimane che a me sono sembrate tre anni. La morsa attorno al mio stomaco aveva cominciato ad allentare la presa. Se pensavo a Gerard mi sentivo morire ma ogni tanto riuscivo anche a non pensarci, e anche se l’idea non mi piaceva affatto stavo riuscendo, piano piano e con il contagocce, a levarmelo dalla testa. Le tre settimane successive alla nostra breve parentesi del capanno le ho passate così. Tenendomi assieme, in attesa che quel qualcosa di molto peggio succedesse e mi spazzasse via definitivamente, con uno schiaffo in pieno volto che mi avrebbe lasciato soltanto la forza necessaria per chinarmi a raccogliere i pezzi. Doveva solo succedere.

E poi, all’inizio della mia quarta settimana fuori dalla vita di Gerard, è successo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NEL PROSSIMO CAPITOLO

E realizzo tutto all’improvviso, una cosa dietro l’altra, a raffica come i proiettili delle mitragliatrici e il brainstorming. Ho in mano il telefono di Gerard, Gerard non c’è, Gerard non può vedermi, potrei farmi gli affari suoi, Gerard non può vedermi, Gerard non c’è, ho il suo cellulare, Gerard non può vedermi. Sposto la casellina luminosa sull’icona dei messaggi, una bustina gialla sopra alla scritta “SMS”, in maiuscolo come se gridasse. Spingo “ok”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

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Capitolo 8
*** Con Moto ***


AHAHAHAHAHAHA CHI NON MUORE SI RIVEDE, EH? EH??? Ok no.

Oh, povera me. O povere voi, a seconda dei punti di vista. Ho aggiornato questa storia per l'ultima volta un anno fa, U N  A N N O  F A. Non credo nemmeno che ci sia ancora qualcuno interessato a leggerla. God, probabilmente questa storia finirà nell'oblio delle pagine a due cifre di questa sezione (!!!), ma cosa posso dirvi. Ci riprovo? Ci riprovo. L'amore ce l'ho messo, spero si veda.
E fatto sta che, beh, niente. Potrei raccontarvi che l'anno che è passato è stato un brutto anno—il più brutto, a dire il vero—che la maturità non mi ha fatta respirare e che con l'inizio dell'università—ammesso che passi, chiaro—aggiornerò più regolarmente, ma sappiamo tutti che sono parole all'aria e che ciò che conta è che in qualche modo con stasera (stanotte) mi sono rimessa in carreggiata. 
La verità è che ormai mi sento troppo vecchia per scrivere fanfiction [guarda fuori dalla finestra con aria nostalgica], però nulla, alla fin fine presto o tardi ritorno sempre qui. È che mi piace scrivere. Che cosa ci posso fare. Che dire. Ci riprovo? Ci riprovo.
Grazie a chiunque passerà a leggere, a chiunque troverà il tempo di recensire e a chiunque non abbia dimenticato questa storia che è stata a nanna fin troppo a lungo. Con la speranza di ricordarmi qualcosa di come funziona l'html,

EDIT DI DUE ORE E MEZZA DOPO SONO LE QUATTRO CHE COSA STO FACENDO CON LA MIA VITA ad ogni modo: ho avuto molti problemi a pubblicare il capitolo. Il sito continua a cancellarlo e a modificarlo e fa lo stesso con le recensioni. Se aveste problemi nel leggere correttamente il testo del capitolo, vi prego di segnalarmi il problema via messaggio IO. STO. IMPAZZENDO DEVO DORMIRE HO UN TEST DI INGRESSO DOPODOMANI YAAAA! Grazie della collaborazione e tanti bacini.

Enjoy,

Lula xoxo










Con Moto





    «Mi fanno male le gambe. Tanto per cominciare. Tanto per cominciare mi fanno male le gambe.»
    Infermiera Mora mi guarda con tanto d'occhi come se le avessi detto che è stronza. Che poi è pure stronza, ma io questo non glielo dico.
    «E...?», incalza.
    «Poi ho mal di testa. Sono arrabbiato. Ho la nausea e ho sonno.»
    Lei annuisce quattro volte. Anche lei dev'essere una di quelle a cui piace strafare perché bastava che annuisse una volta sola, ma non le dico nemmeno questo. Spero che non gliene freghi niente di avere la faccia appesa al tabellone dell'impiegato del mese e che mi lasci qui a riposare in pace anche se non sono un malato grave.
    «Senta, posso stare qui e basta? Non mi va di stare in classe.»
    Mi sa che a Infermiera Mora è scattato qualcosa da qualche parte del cervello perché adesso sembra improvvisamente preoccupata e si siede sul lettino accanto a me facendo scricchiolare la carta sopra al materasso. Mi guarda come se fossi suo figlio e se volete proprio saperlo io non sono affatto suo figlio, non so nemmeno come si chiama.
    «Frank», ah, lei sa come mi chiamo io però, «Frank», dice, «sei in qualche modo vittima di bullismo?»
    È serissima. È così seria che forse le rido in faccia ma invece no, resto serissimo anch'io perché voglio lasciarla sulle spine, tanto per far qualcosa.
    «... No», rispondo titubante. Non sono titubante per davvero, è solo così per fare qualcosa.
    «Sei sicuro, Frank? Se ti sta accadendo qualcosa non devi aver paura di parlarne. Io e il resto del personale scolastico siamo qui apposta.»
    In realtà non credo di poter dire che sono vittima di bullismo se l'unica cosa che succede è che Gerard ha cominciato a seguirmi dal nulla e adesso non posso più vivere perché lui si imbuca alle mie lezioni e mi guarda da lontano e cerca di fermarmi nei corridoi e io non ce la faccio più al punto che pur di non doverci parlare mi infilo in infermeria sperando che a lei non gliene freghi niente di avere la faccia appesa al tabellone dell'impiegato del mese e che mi lasci qui a riposare in pace. Mi chiedo quali parti di questo infinito discorso possa realmente dirle in faccia, mi rispondo nessuna e allora butto lì una frase sincera.
    «Non sono vittima di bullismo.»
Silenzio.
    «Molto bene», conclude lei. «Spero che sia così. In ogni caso, per qualsiasi cosa, sai dove trovarmi.» Mette su un'espressione dolce dolce come se fosse mia madre e mi viene il dubbio che questa pensi davvero di essere mia madre. «D'accordo?», chiede.
    «D'accordo.»
    Infermiera Mora borbotta qualcosa sul fatto che ora è meglio che vada perché deve proprio fare una cosa urgente e mi dice che se voglio posso restare qui sul lettino a non fare un cazzo—“a non fare un cazzo” è mio, lei non l'ha detto—e io le dico grazie tante e penso che forse alla fine non è così stronza. L'infermeria sa di roba sterilizzata e pomata cicatrizzante. 
    Fuori piove.










    Sono giorni che scappo da Gerard e non so neanche perché, ma forse è perché lui sul serio mi insegue e non so voi ma io se uno mi insegue scappo e meno male che c'è Stevie, che detto così sembra che io sia ubriaco o cose simili e che non sappia mettere insieme due frasi logicamente correlate, ma giuro, giuro su Dio, meno male che c'è Stevie. Perché Stevie non capisce mai la situazione generale ma capisce sempre il concetto di fondo. Il concetto di fondo è che se Stevie è con me Gerard non si avvicina. Stevie ha capito questo e ha capito che al momento sono in fuga da Gerard e quindi fatto sta che sono giorni che Stevie non mi molla un attimo. Io adoro questo ragazzo, non so se rendo l'idea.
    Intravedo la sua testa bionda piegata sul cellulare, mi aspetta all'entrata della mensa come ha fatto ogni giorno da cinque giorni a questa parte. 
    «Ehi», gli faccio.
    «Ehi», mi fa. «Se non sbaglio ci sono dei posti liberi nel tavolo degli sfigati degli scacchi, possiamo mangiare lì. Di solito è pieno ma mi sa che l'influenza ne ha falciati almeno due.»
    Ci facciamo strada tra la gente già seduta e da lontano vedo Gerard che è in fila per le verdure con la faccia soprappensiero e la schiena dritta, ma tanto io sto con Stevie e se c'è Stevie Gerard non si avvicina.
    «Grazie, Stevie.»
    «Di cosa, Frank?»
    «Che mi stai attaccato al culo perché così Gerard non si avvicina.»
Stevie chiede a uno degli sfigati degli scacchi se possiamo sederci e si siede senza aspettare la risposta. «Capirai quanto mi costa», risponde. «Che poi dove cazzo sei stato per tutta la mattina?»
    «In infermeria.»
    «Ah.»
    «Sì, grazie, sto bene, non preoccuparti per me!»
    «Lo vedo che stai bene, sfigato. Stai meglio di me.»
    Mi metto a ridere come un cretino e penso che un giorno mi farò insegnare da Stevie l'arte di avere sempre la risposta pronta.
    Quando la campanella suona Stevie si alza lentamente e dice che adesso deve andare perché ha scienze e lui odia scienze ed effettivamente la odio anch'io ma darei qualsiasi cosa per potermi imbucare a lezione con lui. Perché c'è Gerard che è seduto al tavolo accanto alla porta, e so che aspetta solo che Stevie vada via. Ci scambiamo uno sguardo da lontano, Stevie lo intercetta mentre solleva la sedia per sistemarla sul tavolo come da regolamento. Mi alzo anch'io, sistemo le mie cose.
    «Frank?» È Stevie.
    «Sì?»
    «Hai lezione adesso?»
    Ha le mani a mezz'aria, sta ancora tenendo la sedia ma si è bloccato lì, non la mette giù sul tavolo e per un attimo penso che se qualcuno mi chiedesse di immaginarmi Stevie mentre fa qualcosa io me lo immaginerei mentre sistema le sedie sul tavolo perché tra bar e scuola questa è la cosa che gli vedo fare più spesso oltre che prendere A+ in qualsiasi test.
    «No, non ho lezione.»
    «Perché mi sa che neanche lui abbia lezione.»
Non fa nessun cenno con la testa ma sappiamo entrambi di chi sta parlando.
    «E quindi?»
    «E quindi siamo a novembre e secondo me entro la fine dell'anno scolastico dovrai affrontarlo. Forse è meglio togliersi subito il pensiero. Just sayin', ya kno'.»
    Stevie che ha A+ in inglese anche se fuori dalla classe usa più slang che parole vere appoggia finalmente la sedia sul tavolo e si sistema gli occhiali che gli stavano scivolando giù per il naso. 
    Prima che possa dire qualcosa di sensato lui è già scomparso oltre la porta della mensa e Gerard aspetta solo pochi secondi prima di alzarsi con il vassoio in mano per muoversi nella mia direzione.
    C'è Gerard che non guarda me ma guarda il piatto. È impassibile ma sta cercando qualcosa da dire e io mi chiedo che cosa possa volermi dire di più dopo l'ultima volta che ci siamo visti. Vorrei dirgli che forse mi ha già detto abbastanza, ma lui lo dice prima di me.
    «Penserai che ti ho già detto abbastanza.»
    Sta ancora guardando giù e non mi guarda, guarda il piatto. Lo ha detto al piatto, non a me. Parla col piatto. Gerard non parla più e a me va bene così perché in questo modo ho il tempo di stamparmi nello stomaco l'odio che provo verso di lui. Questo odio devo ricordarmelo perché è l'unica arma che ho, devo studiarlo, farlo mio, archiviarlo per utilizzarlo più tardi. Mi ripeto tutti i motivi per cui lo odio, uno per uno. Sono più di quanto mi aspettassi e mi vengono in mente uno dietro l'altro. Ti odio perché non mi dici mai niente. Ti odio perché vai con chiunque ti paghi.
    «Le cose che ti ho detto», comincia. Lo sento appena.
    Ti odio perché ti droghi.
    «Le cose che ti ho detto sono vere solo a metà.»
    Ti odio perché non sei mai chiaro.
    «Non...»
    Ti odio perché non sai dire “grazie”.
    «Non vorrei...»
    Ti odio perché sei fedele a un altro.
    «Non vorrei...»
    Ti odio perché non riesco ad arrabbiarmi con te.
    «Frank, io...»
    Ti odio perché non mi dai mai spiegazioni.
    «...»
    «Tu cosa?», incalzo. «Tu cosa, Gerard?»
    Il tono è cattivo, ma la mia voce resta calma. Sento le parole che mi vibrano in gola e poi accade tutto in un secondo perché Gerard abbassa ancora di più la testa sul suo stradannatissimo piatto, la inclina leggermente e sul viso ha ancora il segno del taglio che gli ho procurato io stesso mentre gli paravo il culo. Un attimo. Tutti i muscoli del mio corpo si rilassano. Mi scordo tutti i motivi per cui lo odio con la stessa velocità con cui mi sono venuti in mente e Cristo, davanti a me c'è Gerard che sa di pesche e ha la pelle così bianca che sembra finta e io non ho aspettato altro per quattro settimane. Quattro. Cazzo. Di settimane. Lo guardo così com'è, con la pelle bianca e le ciglia lunghe che sono una virgola sdraiata, la giacca nera, le mani ai lati del vassoio come se non ci fosse il tavolo sotto. Mi viene da vomitare e da ridere insieme. E poi mi chiedo se si soffra di più a rinunciare o a farlo e basta. Mi rispondo che si soffre uguale. Io soffro uguale.
    Gerard si alza, borbotta qualcosa che sembra una scusa, non garantisco, annuisce velocemente come se stesse pensando a tante cose insieme, come se avesse tutto sotto controllo. Fa dietrofront, fa un passo avanti.
    «Gerard.»
    È la mia voce. Sono abbastanza sicuro che sia la mia voce. Lui si ferma ed espira, lo so perché per poco non si contorce su se stesso. 
    «Sì?» Lo ha detto al piatto.
    «Siediti.»
    Non so da dove arrivi tutta questa autorevolezza ma fatto sta che poco importa da dove arriva quando la destinazione è la mia voce. Gerard si gira piano con gli occhi vuoti e la bocca leggermente aperta, la lingua che preme da qualche parte su un dente dell'arcata superiore. Rimorso? Cos'è, Gerard. A cosa pensi. Si siede piano come per non far rumore e adesso mi guarda con due occhi che vogliono che dica vattene. A cosa pensi, Gerard.
    «Stai commettendo un errore, Iero.»
    «Non mi interessa.»
    Scuote forte la testa, abbassa la voce e adesso il suo tono è basso, ansioso, pieno di urgenza.
    «No, ascoltami, ti prego. Io...»
    «È libera questa?»
    C'è Gerard e ci sono io, e Gerard è chinato in avanti come se fosse l'unico modo per calcare ciò che sta per dirmi. C'è Gerard e ci sono io e c'è anche una ragazza bionda che vedo solo di striscio perché col cazzo che stacco gli occhi da Gerard. Registro Britney Hall. Registro che ci prova con me. Registro che me l'ha detto Stevie. Passo in rassegna le informazioni. Niente di rilevante.
    «Sì, è libera. Vattene.»
    Registro che sgrana gli occhi perché evidentemente pensava di usarla per sedersi accanto a me. Registro i suoi passi che fanno toc toc perché indossa i tacchi. Passo in rassegna le informazioni. Niente di rilevante. Verso Gerard: «Dicevi.»
    Lui ha seguito tutta la scena facendo rimbalzare lo sguardo tra me e Britney, sta ancora guardando lei mentre se ne va. Poi guarda di nuovo me, ma so già che ormai il momento è rovinato, che qualunque cosa volesse dirmi ora non me la dirà più.
    «Non ha preso la sedia.»
    Infatti.
    Non rispondo.
    «È venuta qui per la sedia e non l'ha nemmeno presa», ripete Gerard anche se era già stato chiaro la prima volta.
    «Non mi interessa. Dicevi.»
    Gerard è impassibile e ha gli occhi pieni di cose. 
    «Niente», risponde.
    Ovviamente. La mensa continua a svuotarsi della gente che alla prossima ora ha lezione.
    «Gerard, sono stanco, sai.» Glielo dico in tutta sincerità. «Non capisco a che gioco tu stia giocando e non capisco che cosa tu voglia da me. Eppure quello che voglio io mi sembra fin troppo chiaro.»
    «È chiaro», risponde piano.
    «E allora mi dici che cosa vuoi tu? Per favore? Devo scoprirlo io? Cosa devo fare? Dimmelo e basta.»
    Gerard resta in silenzio per un po' ma io ormai mi sono abituato a lui che non risponde alle cose se prima non ha pensato bene a come rispondere. Picchietta il muffin sul suo vassoio con il cucchiaio e noto distrattamente che sta cercando di disegnarci sopra qualcosa, se non sbaglio una spirale.
    «Vorrei passare del tempo con te», sfiata.
    «Vorresti passare del tempo con me?»
    «Sì. A prescindere.»
    «A prescindere da cosa?»
    «A prescindere da...»
    «Da...?»
    «Da tutto», conclude faticosamente.
    Mi chiedo che cosa significhi questo “a prescindere da tutto” perché se c'è una cosa che so per certo è che Gerard non sceglie mai le parole a caso, ma non so rispondermi.
    «Da tutto cosa?», ritento.
    Gerard scuote la testa e io noto solo ora che il nostro tavolo è vuoto e che lo sono anche tutti quelli nelle immediate vicinanze, sento Britney che da qualche parte dietro di me si lamenta con le amiche di qualcuno che probabilmente sono io. 
    «Vuoi fare con me il progetto di matematica?»
    Dal nulla. Me ne sono uscito così, dal nulla, non lo so, a volte lo faccio. Forse a volte faccio anche bene, però non sempre. Non so se adesso ho fatto bene. Gerard mi guarda ancora negli occhi e se ho capito anche solo tanto così di come funzionano i suoi occhi ora sono abbastanza sicuro che stia pensando a tantissime cose insieme, come se dalla sua risposta a questa domanda inutile dipendesse il destino degli Stati Uniti. È solo un momento di confusione che dura pochi secondi, perché poi i suoi occhi tornano e immobili e lui dice okay. Mi tolgo un ultimo dubbio.
    «Lo sai che fare con me un progetto di matematica significa non fare nessun progetto e prendere F, vero?»
    Lui dice sì e poi dice che gli va bene lo stesso.









    «Scusa per il casino.» 
    Gerard alza le spalle e occhieggia la montagna di vestiti sulla seggiola che ha conosciuto per la prima volta mentre era in trip da ketamina. Tiene la borsa a mezz'aria, il braccio piegato come se fosse in dubbio se lasciarla cadere a terra e basta oppure trovarle un posto più adeguato.
    «Mettila dove vuoi.»
    Gerard la lascia cadere e basta. Tonk. È solo quando ho finito di sistemare la scrivania per fare spazio ai libri di matematica che tanto non useremo mai che mi accorgo che Gerard ha ignorato bellamente il mio invito a usare la sedia e si è seduto in terra con le gambe incrociate come quando l'ho trovato davanti a casa mia perché doveva ridarmi i miei soldi. Oscilla un po' con la testa e mi chiedo se si sia fatto altre volte come se la risposta non fosse già ovvia.
    «Puoi metterti qui, Gerard», ribadisco.
    «Sto comodo per terra.»
    Bene così. Lo raggiungo sul pavimento e nel frattempo lui apre la tracolla e tira fuori il libro di testo di matematica che riconosco solo perché sopra c'è scritto che è il testo di matematica.
    «Cosa dovremmo fare?», chiede.
    «Mostrare la bellezza della matematica.»
    «Eh?»
    «Mostrare la bellezza della matematica. Dobbiamo preparare un progetto che mostri la bellezza della matematica.»
    «Ma fa schifo.»
    «A me, lo dici?» 
Cinque minuti dopo il libro di matematica è ancora per terra e fa da ripiano per le tazze di cioccolata che ci ho messo io sopra. Una per me e una per Gerard.
    «Ho trovato un lavoro al supermercato», annuncia lui, monocorde.
    «Al supermercato?»
    «Aha. Fa sempre schifo ma fa meno schifo di quello dell'albergo di Mr. Humphrey.»
    «È pur sempre un progresso», considero.
    «Suppongo di sì.»
Gerard prende un altro sorso di cioccolata e si lecca le labbra prima di rimetterla giù.
    «Sai...», comincia, ma non solleva gli occhi neanche di tanto così.
    Non so perché abbia questa mania di parlare alle stoviglie, quando deve dire qualcosa di importante. Perché è qualcosa di importante, lo capisco dal tono e dal fatto che non sa nemmeno come proseguire la frase.
    «Sai... quella sera che sono stato qui, che sono rimasto a dormire qui?»
    Faccio sì con la testa e sopprimo la mia voglia di prendergli le spalle e urlargli in faccia che non mi scordo facilmente una notte in cui ho rischiato vent'anni di prigione.
    «Io... volevo dirti che è stata la prima volta che ho pensato seriamente di smetterla, con questa roba.»
    «Con la ketamina?»
    «Con tutto. Non avevo mai visto le cose da un'altra prospettiva. Quella è stata la prima volta e sì, ci ho pensato sul serio.»
    La cioccolata che mi stavo portando alle labbra si ferma dov'è e io penso che effettivamente per smettere basta smettere, e lo dico anche.
    «Effettivamente per smettere basta smettere.»
    «Più o meno sì», concorda lui.
    «Tu lo ami, vero?»
    Me ne esco così, dal nulla. L'ho già detto che a volte io me ne esco così dal nulla e che a volte faccio anche male come adesso che vorrei spaccarmi la tazza in faccia e ustionarmi con la cioccolata perché gira che ti gira le domande che faccio a Gerard sono sempre le domande che so di non potergli fare. Però tanto vale. Gerard mi guarda con gli stessi occhi con cui mi ha già guardato Infermiera Mora meno di dodici ore fa e non risponde, però almeno mi guarda. È solo dopo qualche secondo che riesce a riprendere il controllo del suo corpo e comincia a scuotere piano la testa come fanno le persone che non possono credere a ciò che sta accadendo.
    «N-non c'entra niente con il progetto di matematica», azzarda.
    «Neanche la ketamina c'entra niente con il progetto di matematica», ritorco io subito. Stevie sarebbe fiero di me, se mi vedesse rispondere così in fretta.
    «Ma...»
    «Neanche il fatto che adesso lavori al supermercato c'entra niente con il progetto di matematica.» 
    Mi prendo il tempo che mi serve per bere un altro sorso di cioccolata perché tanto io non mi muovo di qui e nemmeno Gerard si muoverà di qui. Ma lui non può rispondere a questa domanda, perché la risposta non la conosce nemmeno lui. Accantono a malincuore il mio progetto di indagine sulla sua vita sentimentale, ma le mie domande non sono finite neanche per il cazzo e oh, se mi risponderà.
    «Perché sei sempre gelido con tutti?»
    La risposta alla prima domanda mi interessava di più ma anche questa mi va bene perché giuro su Dio che io non ci dormo la notte all'idea che uno come Gerard non abbia nemmeno uno straccio di amico che gli tenga aperta la porta dell'armadietto quando sistema i libri.
    «Perché non mi interessano i problemi degli altri. E non mi piace che gli altri ficchino il naso nei miei.»
    «Magari gli altri si preoccupano e basta.»
    Sbuffa una risata dal naso ma non mi sembra che si stia divertendo particolarmente e io ne approfitto per continuare a difendere la mia tesi perché secondo me ne vale la pena.
    «Gli altri hanno bisogno di sapere in che cazzi sei prima di poterti dare una mano. La maggior parte delle volte l'obiettivo è solo darti una mano. Io stesso lo farei, se solo sapessi qualcosa di te.»
    Gerard ha quasi finito la sua cioccolata. Dice che non è questo il punto e io gli chiedo quale sia il punto. 
    «Il punto... il punto è che a volte ci sono delle situazioni da cui ci si deve tirare fuori da soli.»
    «Un problema di droga non è un problema da cui ci si debba tirare fuori da so-»
    «Non parlo di quello.»
    Ora Gerard non parla più alle stoviglie o al pavimento, ora parla a me e ha inchiodato gli occhi ai miei come ha fatto pochissime altre volte da quando ci conosciamo, forse mai. Mai così forte. Sento che in qualche modo tutte le cose che deve dirmi sono lì, e che lui vuole dirmele, una dietro l'altra, ma c'è qualcosa che lo blocca e io giuro su Dio che non so che cos'è e che morirò cercandola. A volte bisogna trovare le crepe, partire da quelle e poi rompere il resto, ma io le crepe non le trovo e non so più su che piano cercare di leggere Gerard per trovarle.
    «E allora di che cosa parli, Gerard?»
    Lo guardo con gli stessi occhi con cui lui guarda me, ma io non vedo niente. Gli parlo piano come se dovessi spiegargli le cose con calma, come se fosse la mia ultima possibilità di farlo, e credo che lui mi stia ascoltando più di quanto non abbia mai fatto.
    «Gerard, io lo so che stai cercando di dirmi qualcosa che per qualche motivo che Dio solo sa qual è non puoi dirmi a parole. Lo so. Lo so, cazzo. Lo so. Ma io non riesco a capire che cosa stai cercando di dirmi. Ci provo, te lo giuro. Sono mesi che ci provo, ma non capisco, ok? Non...» Scuoto la testa, provo a pensare ancora, non mi viene in mente niente. «Non capisco», concludo.
    Gerard si incupisce, rilassa tutti i muscoli del viso insieme, mi sembra di poter vedere l'espressione del suo viso che mi si scioglie davanti come cera e adesso i suoi occhi mi dicono che anche lui ci prova, sono mesi che ci prova, ma non riesce a farmi capire quello che dovrei capire. Poi passa tutto, ancora, il suo viso riprende colore. Annuisce, come a dire ho capito. Annuisco anch'io, anch'io ho capito. 
    E parte un motivetto. È un motivetto irritante, di quelli che ti entrano in testa già dopo la prima volta che li hai sentiti, un motivetto da telefono dei primi 2000. Gerard mi guarda ancora un po' prima di tirare fuori il cellulare dalla tasca per fissarlo finché non smette di suonare. Quando smette Gerard mi guarda di nuovo, e forse, forse ora capisco qualcosa. Capisco qualcosa di quello che sta cercando di dirmi, ma è solo un flash, un nulla che in confronto a tutto quello che non so quasi non si vede. Gerard fa per rimettersi il telefono in tasca, ma il telefono fa tin. Un messaggio per te, Gerard. 
    Risponde brevemente, riporta il cellulare nella tasca della giacca, mi guarda ancora con i suoi occhi che forse un giorno capirò di che colore sono, sempre che sia un colore di quelli che hanno un nome. È serissimo. È tanto serio e sceglie le parole con attenzione, le sbottona piano piano per farmi capire, oggi siamo uguali e forse abbiamo finalmente capito qual è l'unica frequenza su cui possiamo comunicare.
    «D'accordo», sfiata. Parla a bassa voce, lo sento appena. «Quello che posso dirti, giusto?»
    «Quello che puoi dirmi», ripeto.
    Annuisce, pianissimo, si morde le labbra mentre pesa le parole. 
    «Hai delle opzioni.» Pausa. «Opzione numero uno, puoi smettere di cercare risposte. Se scegli questa opzione, devi lasciarmi fare e io continuerò per la mia strada e tu per la tua; se tutto va bene nel giro di un paio di mesi non sentirai più parlare di me. Opzione numero due, puoi cercare di aiutarmi. Se scegli questa opzione dovrai fare tutto da solo. Se io ti aiuto, siamo nella merda. Se tu ti muovi male, siamo nella merda. Ed è bene che tu sappia che hai poche probabilità di riuscire a muoverti bene. Quasi nessuna.» Poi mi guarda forte, come ha fatto prima, gli occhi che mi urlano troppe cose perché io riesca a capirle tutte o anche solo una. «Adesso io andrò in bagno, e tu dovrai scegliere che cosa fare. In fretta.»
    Aggrotto le sopracciglia come per chiedere ulteriori spiegazioni o anche solo più tempo ma lui si è già alzato e ha una mano appoggiata sopra la tasca, in modo così innaturale che quasi sembra che non abbia mai imparato come alzarsi da terra. Preme ancora sulla tasca e io sto per dire qualcosa ma poi il suo telefono esce dalla tasca, cade a terra, e io lo guardo rimbalzare per un paio di volte prima di sollevare nuovamente lo sguardo su di lui. E lui guarda me, non ha mai staccato gli occhi da me. 
    «Ora andrò in bagno», ripete lentamente, e finalmente esce dalla stanza lasciandomi seduto per terra a fissare quel telefono che ha fatto cadere apposta proprio lì, davanti a me, a portata di mano perché io potessi prenderlo e farne ciò che voglio. E io tanto per cominciare lo prendo in mano sperando che anche se adesso ho preso questo dannato telefono, anche se ho già scelto la seconda opzione prima ancora che Gerard me la presentasse, avrò il tempo di cambiare idea in un secondo momento. Mi dico che è assurdo pensare che un semplice telefono possa cambiarmi la vita e penso velocemente a che cosa fare mentre fisso lo sfondo paesaggistico di questo schifo di cellulare, e nel frattempo penso anche che se questo è il suo sfondo Gerard non ha nemmeno una foto sul telefono. Gerard che è andato in bagno. Gerard che adesso non c'è. E realizzo tutto all'improvviso, una cosa dietro l'altra, a raffica come i proiettili delle mitragliatrici e il brainstorming. Ho in mano il telefono di Gerard, Gerard non c'è, Gerard non può vedermi, potrei farmi gli affari suoi, Gerard non può vedermi, Gerard non c'è, ho il suo cellulare, Gerard non può vedermi. Sposto la casellina luminosa sull'icona dei messaggi, una bustina gialla sopra alla scritta “SMS”, in maiuscolo come se gridasse. Spingo “ok”. 
    Due messaggi. Uno nella cartella dei messaggi ricevuti e uno nella cartella dei messaggi inviati. Gerard ha cancellato tutti gli altri e poi ha svuotato il cestino, leggo ciò che resta.



[14/11/13, 5.43 PM]
From: Will
Done?

[14/11/13, 5.44 PM]
To: Will
Done.



    Rileggo entrambi i messaggi almeno quattro volte e poi metto giù il telefono come se scottasse. Lo rimetto esattamente dov'era prima, come se Gerard non l'avesse lasciato cadere lì apposta. Poi lui torna, mi guarda attentamente mentre raccoglie il telefono da terra e se lo rimette in tasca, le gambe di nuovo incrociate e una domanda sulle labbra. 
    «Done
    «Done.»


 

 

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