Quando mi troverai - Storie di girasoli e papaveri

di _LilianRiddle_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ringraziamenti e Dediche ***
Capitolo 2: *** 1. Capitolo I ***
Capitolo 3: *** 2. Capitolo II ***
Capitolo 4: *** 3. Capitolo III ***
Capitolo 5: *** 4. Capitolo IV ***
Capitolo 6: *** 5. Capitolo V ***



Capitolo 1
*** Ringraziamenti e Dediche ***


Ringraziamenti e dediche.




Per prima cosa, volevo dire che questo racconto, come tutti i racconti, ha una storia.
Che è stata a volte felice – ma in fondo la felicità è un attimo-, forse un po’ troppo malinconica, rabbiosa e anche masochista, ma pur sempre una storia bella.
Una storia che comincia in uno dei periodi più brutti che abbia vissuto finora e che continuo a vivere a momenti alterni.
Comincia con l’idea di un regalo per una persona importantissima, forse anche troppo, ma non so mai cosa regalare ai compleanni e una storia mi è sembrata un’idea bella – che questa bellezza c’è ovunque, in tutte le cose.
E quindi ho iniziato a scriverla, tra un dramma e l’altro, tra la depressione e l’apatia, tra picchi di felicità e la sensazione che, senza la persona a cui questa storia è dedicata – e scritta –, questa felicità sia superflua.
Poi, come sempre accade, le cose sono precipitate velocemente, è scoppiato un terremoto che ha lasciato dietro di sé ben poco della persona che ero stata.
E proprio come dopo un terremoto, il mio mondo non tremava più, ma io tremavo ancora.
Perché la tranquillità in cui mi ero rifugiata faceva forse più paura del terremoto stesso.
E questo racconto è stato lasciato da parte, arenato su una frase che diceva tutto e niente, speranzosa, in un periodo in cui non mi potevo permettere di lasciarmi andare alla speranza.
Poi il giorno del compleanno di Francesca è arrivato e io non avevo una storia da regalarle. Così decisi di regalarle tutte le mie storie, che forse sarebbe andato bene lo stesso.
Le piacque il regalo, o almeno, questo è quello che credo io.
E questo racconto – e la sua relativa storia - decisi di non farglieli leggere mai, non prima di averli finiti, almeno, e forse neanche allora.
Per una serie di circostanze fortuite, però, ne lesse le prime pagine.
M’intimò di finirlo.
E in modo felice, anche.
Così ho fatto.
Ho lasciato che la storia arrivasse alla sua fine naturale, anche se a lungo ho pensato che non ci sarebbe mai stata una fine adatta per questa storia.
Con il senno di poi, con la tranquillità acquisita, ho capito che una fine c’è sempre.
Che le cose cambiano e finiscono.
E poi, incredibilmente, con una forza irresistibile, ricominciano e si riscoprono sempre nuove.
È successo anche a me e alla destinataria di questa storia, Francesca.
La nostra amicizia è sopravvissuta a tanti scossoni, a tante litigate, a tanti momenti incredibilmente felici e a tanti momenti ugualmente tristi.
È cambiata in un modo che io, personalmente, non mi aspettavo.
È bella ancora come prima, anche se così diversa.
Forse perché c’è davvero bellezza ovunque, anche in due testone come me e lei.

In secondo luogo, ringrazio tutte le persone che mi sono sempre accanto, prima fra tutte Lucia.
Anche se per leggere la fine di questa storia prima del tempo, dovrà passare sul mio cadavere.
E poi Elena, che non riesce a credere di essere bellissima perché i ragazzi non sanno vedere la bellezza che c’è in lei.
Non a caso dovrebbe passare definitivamente al lato oscuro :’)
Infine, ringrazio Giulia, Serena, Antonia e Giulia, che ci sono sempre, nonostante tutto.

Per finire, i girasoli.
A me non piacciono.
A me piacciono i papaveri.
Però piacevano a Francesca.
E quindi, nulla.
Alla fine di questa spiegazione sconclusionata e che non spiega nulla, mi sento di dire solo una cosa.
Questa storia parla di girasoli e papaveri.
Il resto è a vostra libera interpretazione.

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Capitolo 2
*** 1. Capitolo I ***


A Francesca,
perché i girasoli possono essere belli quanto i papaveri.
E forse anche di più.





 

-Capitolo 1-







 

Passò un colpo di spugna sul suo ricordo, lo
cancellò del tutto,
e nello spazio che occupava la sua memoria
lasciò che fiorisse un campo di papaveri.

Gabriel Garcia Marquez.



 

Tatto.


Il lenzuolo che l’avvolgeva aveva la leggerezza delle cose speciali, come se dovesse coprire un oggetto prezioso, che il mondo, con la sua ruvidezza, avrebbe potuto rovinare.
 

Olfatto.


Intorno a lei percepiva l’asprezza della salsedine e la dolcezza della brezza che spirava da quello che doveva essere un mare calmo. Come se il mare, con il suo andare e venire, sarebbe mai potuto essere calmo.
 

Gusto.


Sulle labbra sentiva il sapore del sudore e del sale, un sapore strano, contraddittorio, che le apparteneva e che le ricordava casa, ma che, allo stesso tempo, le era sconosciuto, come quello di una vita nuova.
 

Udito.


Sentiva le onde del mare che si infrangevano sulla spiaggia, mentre giocavano coi gabbiani, da sempre loro chiassosi compagni.
 

Vista.


Finalmente aprì gli occhi, tentando di mettere a fuoco il mondo che la circondava. Le pareti della camera in cui si trovava riflettevano i colori della natura appena fuori da lì. Girasoli che si spingevano quasi fino al mare, il turchese che sembrava abbracciare il giallo come se fosse un vecchio amico.
Nell’aria un profumo di fiori che sapeva di lei, che le apparteneva.

Era bello, tutto intorno a lei.
C’era bellezza ovunque.
E come ogni volta che la bellezza riempiva i suoi occhi, lei si spaventò a morte.
Il cuore, prima silenzioso spettatore della sua indagine sensoriale, tornò a farsi sentire, battendo in maniera furiosa, aritmica.
Come se tutta quella bellezza non facesse per lui. Come se non fosse abituato a tanta bellezza.
Guardandosi intorno, notò che era circondata da libri.
Sorrise, di un sorriso che si regala solo agli amici più sinceri.
Era assediata dai libri e, al posto del senso di claustrofobia che tutti avrebbero provato, lei si sentì protetta.
Difesa.
Il sole faceva capolino appena sopra la linea del mare, rivestito di quella timidezza che solo le cose più belle hanno. L’unica stella che aveva l’ardire di bruciare di giorno.
La luce del sole colpiva la sabbia in mille e mille modi, creando luccichii che solo occhi attenti avrebbero colto nelle loro innumerevoli diversità.
Si sentì pervadere da una sorta di frenesia, che la obbligava a rincorrere tutte quelle luci, tutti quei piccoli soli, per riuscire a catturarne almeno uno che la illuminasse. Voleva essere riempita dal sole come se fosse stata una luna.
Alzandosi in piedi, si trascinò fino alla grande porta-finestra che occupava una parte di quella stanza di mare e girasoli.
Turchese e giallo colpirono ancora i suoi occhi, lottando l’uno contro l’altro come antichi amanti, mai sazi l’uno dell’altro, troppo orgogliosi per lasciare la loro personalissima guerra.
All’improvviso sentì la sabbia sotto i suoi piedi, di una morbidezza inaudita.
Era una sensazione così bella – c’era bellezza ovunque – che il suo cuore aritmico sembrò quasi impazzire e le guance le si colorarono di rosso – come sempre quando la bellezza la colpiva.
Si sentì rivestire di straordinaria dolcezza, mentre le onde lambivano le sue caviglie, quasi a convincerla che il suo posto fosse con loro, giocando a rincorrersi coi gabbiani, irretendo gli uomini con la propria bellezza nascosta.
Una folata di vento più forte la incuriosì tanto da spostare la testa verso est, dove nere nubi avanzavano portando la minaccia di un temporale.
La calma che il mare le aveva donato cedette il posto ad un’agitazione che doveva essere tipica del suo carattere, vista la fiducia con cui il suo corpo vi si abbandonò, come se tornasse a casa dopo lungo tempo.
Quelle nubi che promettevano di riversare su di lei la loro furia la spaventavano tanto quanto la bellezza che stava contemplando poco prima, ma non riusciva a staccare gli occhi dallo spettacolo che promettevano.
Bello e terribile.
Improvvisamente, come il vento, una mano si strinse alla sua.
Voltandosi verso quel calore inaspettato, fu investita dalla luce del sole che combatteva contro le tenebre delle nubi che volevano soffocarla.
La prima cosa che vide fu un sorriso uguale ai girasoli. Un sorriso che sembrava seguire il sole e che si fermò proprio quando incontrò i suoi occhi.
La bellezza che vi lesse dentro cancellò definitivamente la calma del mare, rendendola quello che le onde cercavano di dirle da quando l’avevano sfiorata: agitata.
Non sapeva se fu il tuono o le sue labbra che chiamavano il suo nome – Vita - a spaventarla di più. Non riuscì ad impedirsi di trasalire, di fronte a tanta bellezza. Dovette lasciare quella mano che riscaldava la sua, che scioglieva la freddezza congenita che doveva caratterizzarla. Forse come l’agitazione.
Non fece in tempo ad allontanarsi che quegli occhi, dello stesso colore del mare, bloccarono ogni sua via di fuga.
Si vestì del rosso scarlatto così tipico della sua frenesia e la sua voce spaccata risuonò sopra le onde e le nubi.
- Sei come il mare e i girasoli.
La persona di fronte a lei scosse la testa, spostandole i capelli lambiti dai venti.
- Sei come la pioggia e i papaveri.

Era scappata da quell’insostenibile bellezza che la rivestiva.
Si era guardata per la prima volta, e quello che aveva visto l’aveva spaventata.
Aveva scoperto chi era guardando dentro lo sguardo di un’altra persona, cercando di carpirne i segreti per avere una sorta di vantaggio nella lotta che avrebbero dovuto sostenere.
Cercava di difendersi, e si era ritrovata disarmata.
Era scappata e le nubi l’avevano punita con le loro stille ghiacciate, che si infrangevano sulla sua pelle come a volerla tirare via, per scoprirne una nuova, vera, pallidissima.
Ma aveva visto troppa bellezza per restare calma. Era sempre stato quello il suo problema. Chi vede troppo inevitabilmente finisce per agitarsi. E lei era più che agitata.
E il rossore, così familiare alla sua pelle, mangiava anche quella nuova, appena scoperta dalla pioggia.
Non c’era scampo dall’estate che la stava divorando se non dentro un sorriso di girasoli, che le ridonava l’inverno che l’aveva sempre vestita così bene.
Ancora una volta riconobbe il mare dentro uno sguardo che aveva una luce che sarebbe bastata per illuminare tutte le estati che le restavano, proprio come se fosse stata una luna.
Nulla aveva di quell’astro irriverente, ma un sole l’aveva scelta, forse molto tempo prima, e lei aveva lasciato che esso la scegliesse, forse solo per la curiosissima vita che ne sarebbe potuta derivare.
- Vita.
Il suo nome pronunciato da quel sorriso di mare e girasoli prendeva tutto un altro significato, colorandosi di colori che prima non avrebbe neanche immaginato.
Turchese e giallo.
Uno specchio adamantino la stregò mentre la sua mano s’incastrava nuovamente in quella di un’altra persona, che non sembrava spaventata dalla bellezza – c’era bellezza ovunque.
Rimase pietrificata dall’immagine che colpì i suoi occhi.
Per la prima volta, si ritrovò a pensare di essere bella anche lei, di una bellezza che sembra la nota stonata e perfetta di una lunga sinfonia, l’armonia discorde di un cuore troppo agitato e una mente troppo curiosa.
Si ritrovò a pensare che, forse, poteva essere una di quelle storie che nessuno ha il coraggio di finire, perché non raccontano una bugia dorata a cui tutti crederanno, ma la verità che sta dietro solo alle realtà difettose, quasi sbagliate.
Si ritrovò a pensare che, forse, avrebbe concesso alla bellezza di renderla calma.

Vita.
Il suo nome le riecheggiava nelle orecchie come un’eco lontana.
Aveva un nome strano. Ma non strano strano. Strano bello.
Vita.
Rimbombava nella sua testa con i suoi spigoli di verità e oblio, di caos e menzogna.
Non c’erano vie di scampo.
Mosse una mano sul lenzuolo leggero, mentre le sensazioni raccolte durante quei minuti lontani le sembravano il ricordo di un sogno, o forse il sogno di un sogno.
Sentiva il mare, vicino a sé.
Decise di aprire gli occhi per accertarsene e si ritrovò in una stanza di mare e girasoli, piena di libri.
C’era qualcosa di familiare in quegli scaffali, nella macchina da scrivere sulla scrivania, nei fogli sparsi, ma non ricordava dove avesse già visto tutto quello.
Qualcosa, dentro di lei, le diceva che aveva vissuto, tutto quello.
Fece leva sui palmi delle mani e si mise seduta.
Fu in quel momento che la vide.
Guardava il mare che si vedeva dall’ampia vetrata, tempestoso e terribile.
Un fulmine spaccò in due il cielo, mentre il tuono che ne seguì le mandò in corto circuito il cuore, già alle prese con la sua agitazione abituale.
La ragazza che guardava il mare in tempesta non sembrò turbata dalla furia degli elementi, anzi, aprì la porta-finestra, lasciando entrare il vento, ora libero di giocare con i suoi capelli rossi.
Quel rosso contrastava talmente tanto con il colore del mare e dei girasoli che ne era totalmente incantata. Non ricordava di aver mai amato un colore così forte.
In quel momento, la ragazza si girò verso di lei, osservandola con il suo sguardo di mare.
Il suo cuore aritmico perse un colpo.
- Ti sei svegliata. – disse, nella voce la stessa stanchezza dei girasoli piegati dal vento.
Pur di fuggire ai suoi occhi, volse lo sguardo alla distesa di turchese e giallo davanti a lei, ma quello che notò con agitazione fu che il vento aveva scoperto, sotto quelle coltri di petali solari, il rosso vivo dei papaveri.
Pur di non guardare ancora una volta la ragazza davanti a lei, vagò con gli occhi sulle figure familiari e rassicuranti dei suoi libri, che la scrutavano con i loro occhi attenti di carta ed inchiostro.
- Vita.
Ancora una volta il suo nome riempì l’aria intorno a lei, vibrando di mille note diverse, tutte discordi.
- Guardami.
Non poteva guardarla.
Era troppo bella.
C’era bellezza ovunque.
- Rimani con me, Vita. Guardami.
Un panico mal celato pervadeva la voce della ragazza davanti a lei, inaspettato, strano.
La guardò, sforzandosi di far cessare la corsa del suo cuore aritmico, spaventato, solo.
Ancora una volta si lasciò colpire dalla bellezza del suo sorriso di girasoli, ora incrinato da quella malcelata paura; dai suoi occhi come il mare, che la scrutavano ansiosi, cercando chissà che cosa; dai suoi capelli come i papaveri, troppo intensi per non lasciare segni.
Aprì la bocca, come per dire qualcosa, ma nessun suono fuoriuscì dalle sue labbra.
La ragazza la guardava come si guarda un animale strano allo zoo, con quel misto di timore e attrazione che hanno tutte le cose pericolose.
Si rese improvvisamente conto che non ricordava nulla di se stessa.
Riaprì la bocca e, questa volta, le parole uscirono in un sussurro dalle sue labbra.
- Sono una creatura pericolosa?
Non era questo che voleva chiedere e sicuramente non era questo che la persona di fronte a lei si aspettava.
La ragazza sospirò.
- Sì e no. Ti ricordi come ti chiami?
- Vita.
- Che altro ricordi, Vita?
Fece per parlare, ma non riuscì ad articolare nessuna frase.
Non ricordava nulla, a parte questo strano nome che le riecheggiava nella testa come un’eco lontana.
- Ti ricordi come mi chiamo io?
Sentiva il suo cuore battere furiosamente.
Si domandò perché andasse così veloce.
Si rese conto di star stringendo troppo le lenzuola.
Domandarsi perché lo stesse facendo era superfluo.
Sentiva le guance invase da quel fuoco che così spesso doveva divampare in lei, di ansia e paura, familiarissimo al suo corpo e alla sua mente.
Abbassò gli occhi sulle sue mani contratte, proprio mentre la ragazza di fronte a lei le serrava le mani intorno al viso, costringendola a guardarla.
- Vita, ti ricordi come mi chiamo?
Cercò di svicolare da quegli occhi che le paralizzavano i pensieri, ma la ragazza non glielo permise.
- Tergiversare non è da te.
- Non… non so cos’è da me.
- Lo so io. Ti conosco.
Scosse la testa, confusa, cercando di allontanarsi dalle sue mani.
Ma non aveva vie di scampo, non più.
E lo sapeva.
- Vita, devi ascoltarmi.
- Perché?
- Perché io ti conosco.
- Come ti chiami?
- Erica.

 

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Capitolo 3
*** 2. Capitolo II ***


-Capitolo 2.2-




La guardava, mentre si lasciava riscaldare dal calore della tazza di the tra le sue mani.
La guardava muovere le labbra, rosse di un rossetto del colore dei papaveri.
La guardava, incantandosi sulle volute di fumo che come impalpabili mani disegnavano immagini sempre nuove.
- Vita.
Bastava quel nome – il suo nome – a trascinarla fuori dai mondi bellissimi che la sua mente inventava sempre nuovi per lei.
- Sì, scusa, dicevi?
- Che cosa ti ha distratta?
- Il fumo che esce dalla mia tazza di the.
Erica annuì, spostando lo sguardo sul campo di girasoli tutto intorno a loro.
Anche Vita si lasciò distrarre da fiori che raccontavano molto più di lei, di una bellezza che non le sarebbe mai appartenuta, che apparteneva solo alle cose fragili.
- Sono così belli – disse, una mano a sorreggerle il mento, proprio dove prima altre mani le scaldavano il viso.
- Quali ti piacciono di più?
- Quelli che si nascondono sotto i fiori gialli come il sole. Quelli che sembrano una goccia di sangue in un mare di luce.
- I papaveri?
- Si chiamano così?
- Sì. Ti sono sempre piaciuti.
- Davvero?
- Sì, a me piacciono i girasoli.
- Quali sono i girasoli?
- Quelli lì gialli. Quelli che si lanciano nel mare e sembra che lo abbraccino.
- Son più belli i papaveri.
- Questo discorso lo avremo affrontato mille volte.
- Non me ne ricordo neanche una.
Il sussurro fu quasi impercettibile, nascosto dal fragore dolcissimo del mare in tempesta.
Ma Erica aveva imparato a distinguere le parole anche tra i silenzi più caldi e le urla più gelide di Vita.
- Qual è l’ultima cosa che ti ricordi, Vita?
- Il mio nome.
- E basta?
- Sì.
Il silenzio abbracciò entrambe le ragazze, mentre un sospiro di Vita ne spezzava l’abbraccio.
- Erica, che cosa mi è successo?
- Non lo so. Non di preciso, almeno. Conosco solo una parte della storia.
- E l’altra parte chi la conosce?
- Tu.

L’alba donava al mare una luce specialissima, vestendolo di mille sfumature di rosa.
Vita si lasciava calmare e agitare dalle onde bianche, che le sfioravano i piedi scalzi con lievi carezze.
Una brezza leggera le agitava il vestito etereo e i capelli sciolti, mentre con gli occhi chiusi cercava di ricordare chi era stata.
Mille e mille voci le danzavano nella testa, ma nessuna di quelle le era familiare.
- Vita.
Il modo in cui Erica la chiamava e l’eco che la sua voce creava nella sua mente era l’unico suono familiare che sentiva addosso.
- Erica, come ci siamo conosciute?
Le labbra della ragazza si aprirono nel suo sorriso di girasoli che illuminava d’innumerevoli luci i suoi occhi come il mare.
- È una bella storia, questa.
- Sì?
- Oh, sì. Avevi questo modo di camminare, come se stessi sempre scappando da qualcosa, o da qualcuno, e non guardavi mai negli occhi nessuno, tu che hai occhi così belli. E non parlavi mai, ti vedevo osservare la vita senza dire nulla, senza una sola parola. Eri avvolta da una bellezza così strana e particolare, così diversa… avevi un’aura di nulla e mistero attorno a te che affascinava chiunque ti avesse vicina. Ma tu eri gelida come una mattina di gennaio, non davi confidenza a nessuno, non sorridevi mai.
- Non sorridevo mai?
- Prima di conoscerti non avevo mai visto un tuo sorriso, non avevo mai sentito la tua risata. Era come se tu non ci fossi. Tutti ti volevano scoprire, ma era come se non ci fosse nulla da scoprire. Eri un mistero troppo grande per noi poveri e semplici esseri umani.
Però mi piacevi. Mi piaceva il modo in cui ti muovevi nel mondo, senza una parola, senza disturbare. Io ero il contrario, tu rappresentavi tutto quello che non ero e che non sarei mai stata.
Per molto tempo non mi hai permesso di avvicinarti, finché non ho scoperto la tua debolezza.
- Ho debolezze?
- Come tutti. La tua debolezza, in particolare, è una delle debolezze più affascinanti: la curiosità. Basta renderti curiosa di qualcosa o qualcuno e tu ci andrai dietro finché non avrai soddisfatto la tua curiosità. – Erica sorrise. – Vedi? Ti ho incuriosita ancora una volta e ancora una volta il tuo sguardo si è illuminato di una luce specialissima.
- Che hai fatto, quindi, per incuriosirmi?
La risata di Erica risuonò cristallina intorno a lei.
- Eri seduta in mezzo al giardino della nostra università e scrivevi, scrivevi forsennatamente su una moleskine nera, così mal ridotta che non sono mai riuscita a capire come facessero i fogli a restare attaccati tutti insieme. Mi piaceva il modo in cui non ti accorgevi di niente, intorno a te. Non ti accorgevi delle foglie degli alberi che ti cadevano intorno come una pioggia dorata, non ti accorgevi degli sguardi della gente sulla tua pelle chiara, non ti accorgevi di nulla.
Io avevo la mia chitarra sulla spalla e ho pensato che se avessi cominciato a suonare, forse… ho pensato che, se avessi cominciato a suonare, forse tu ti saresti accorta di me. Erano settimane che cercavo un modo per avvicinarmi a te, una scusa qualsiasi… così, mi sono seduta su una panchina lì vicino e ho iniziato a suonare. Ho suonato per quelle che mi sono sembrate ore e mentre le mie dita
scivolavano sulla tastiera della chitarra, i miei occhi ti scrutavano cercando di non farsi scorgere da te, che piano piano avevi smesso di scrivere, affascinata forse dalla mia musica.
Ti voltasti verso di me completamente, dimentica della penna e della moleskine e rapita completamente dalle mie mani. Io guardavo il tuo viso e tu guardavi le mie mani e in quel momento mi venne spontaneo sorridere e scuotere la testa.
- E continuasti a suonare?
- Oh, no. – Erica scoppiò in una piccola risata. – Certo che no, ormai avevo la tua totale attenzione e curiosità. Smisi di suonare a metà del brano che avevo cominciato e la smorfia di disappunto dipinta sul tuo viso me la ricordo ancora, tanto mi fece ridere.
- Non si smette di suonare a metà di un brano!
- E tu come fai a saperlo?
- Lo so e basta.
- Questa non è una risposta.
Vita alzò gli occhi al cielo.
- E poi cosa successe?

 

***


- Perché ti sei fermata? – il disappunto nel suo tono di voce ti fece scoppiare a ridere, complice l’euforia nel sentire la sua voce rivolgerti a te.
- Perché ridi? – l’avevi notata già da un po’, quella sua curiosità un po’ infantile per tutto ciò che la circondava.
- Perché hai l’espressione di una bambina a cui è stata tolta la bambola preferita. – le rispondesti senza pensarci, un sorriso sghembo ad incurvarti le labbra.
Lei non rispose e non si avvicinò, ma il sorriso che tentò di nasconderti fu sufficiente per farti capire che ormai, eri riuscita a conquistarti la sua attenzione. Almeno per il momento.
- Allora, che ci fai tutta sola a scrivere nel bel mezzo di un parco?
- Probabilmente la stessa cosa che ci fai tu.
- Cerchi anche tu di conquistare l’attenzione di una ragazza distratta?
Il rossore che si diffuse sulla sua pelle fu un regalo impagabile per il tuo ego.
- No, non esattamente. E come sta andando la tua conquista?
- Dipende tutto dalla ragazza distratta.
- Cosa vorresti da lei? Potrei trovare il modo di farvi incontrare.
- Oh, vorrei tante cose da lei.
- Tipo?
- Conoscerla.
- È un progetto a lungo termine, questo.
- Sono una persona paziente.
- Riferirò la tua richiesta alla ragazza distratta e ti farò sapere che ne pensa.
Si alzò all’improvviso, afferrando le sue cose e tu iniziasti ad intuire che non solo la curiosità era un suo aspetto particolare, ma anche l’imprevedibilità.
- Posso almeno sapere come ti chiami?
L’unica risposta che ricevesti fu l’eco di un suo sorriso.

Ti accorgesti di lei non appena entrò nella stanza, con il suo vestito a fiori ed un sorriso distratto ad abbellirle le labbra.
Non ti rendesti conto che si era avvicinata a te e al tuo gruppo di amiche finché non te la vidi davanti agli occhi, lo sguardo che per un momento sfiorò il tuo, prima di puntarsi sulle tue mani da musicista.
- Ho voglia di mangiare giapponese. – ti disse, portandosi una ciocca di capelli scuri dietro l’orecchio.
- La ragazza distratta mi sta invitando ad uscire?
Alzò le spalle, mostrando indifferenza.
- La ragazza distratta potrebbe volerti rivelare qual è il suo nome.
- Non devo perdere quest’occasione, allora.
- Direi di no.
Ti alzasti, quindi, lasciando le tue amiche a guardarti stralunate, mentre le salutavi con la mano e seguivi la ragazza fuori dalla stanza.
I suoi capelli corti le sfioravano il collo in una carezza nera, languida e brillante come una notte senza Luna, e tu avresti voluto appoggiarci la mano per sentire se fossero davvero così morbidi come sembravano.
Ti rendesti conto che si era fermata solo quando le andasti a sbattere contro. Alzasti lo sguardo e notasti che eravate arrivate davanti ad un ristorante giapponese minuscolo, nel centro di una piazzetta che non ricordavi di avere mai visto prima.
Eri così presa da lei che non avevi idea di come foste arrivate fino a lì, né di dove vi trovaste.
Il cameriere vi fece sedere ad un tavolino un po’ staccato da tutti gli altri, un posacenere e una rosa in mezzo ad esso.
- Non mi piacciono le rose. – dicesti, storcendo le labbra.
- Neanche a me piacciono. – ti rispose, sfiorando piano i petali del fiore.
- E che fiori ti piacciono?
- I papaveri.
Le tue sopracciglia scattarono verso l’alto, mentre la guardavi recuperare il pacchetto di sigarette dal fondo della borsa.
- I papaveri?
- Quelli rossi come il sangue.
Il suo modo di fumare ti mandò in corto circuito il cervello, assolutamente affascinata da come si portava le sigarette alle labbra rosse e aspirava lentamente, senza fretta alcuna.
- A te che fiori piacciono? – ti chiese.
- I girasoli.
Storse il naso a quell’affermazione, aprendo il menù prima che tu potessi dire qualsiasi cosa.
Apristi il menù anche te, cercando di non sorridere come una bambina.
Da quanto tempo non ti sentivi così eccitata, così viva?
- Allora, ti va di dirmi come ti chiami?
- Sì, mi andrebbe molto.
Alzasti un sopracciglio, attendendo la sua risposta, che non arrivò.
Decidesti, quindi, di prendere l’iniziativa.
- Mi chiamo Erica.
Il sorriso che le comparve sul viso ti fece capire che non aspettava altro che quello, per parlare.
- Mi chiamo Vita.
Ti sentisti fregata.
Le sorridesti.

 

***


- Eravamo amiche?
- Non siamo mai state amiche, Vita.
- E allora cos’eravamo?
Erica rise, chiudendo per un attimo gli occhi chiari.
- Perché ridi? – chiese Vita, le sopracciglia aggrottate.
- Perché te lo chiesi per mesi e per mesi tu non mi hai risposto.
- Prima o dopo avrò sicuramente ceduto. Non sembri una che si accontenta di una risposta vagamente accennata.
- No, infatti, non sono una che si accontenta.
- E quindi? Che cosa ti dissi?
- Che mi amavi.
Vita distolse lo sguardo, tornando a guardare il mare calmo.
Cercava, nella sua testa, un segno di quello che la ragazza accanto a lei le stava raccontando, invano.
Nella sua testa c’era solo l’eco lontana del suo nome.

 

***


Eri andata a sbattere contro qualcuno, che ti aveva immediatamente stretta a sé.
Il tuo corpo si era irrigidito subito, mentre la tua pelle si colorava del colore di papaveri vivissimi.
- Scusami, scusami… non ti ho visto proprio, io… - tentasti di spiegare, mentre gesticolavi con le mani ora libere dalla costrizione di braccia sconosciute.
- Dovresti imparare a camminare in questo mondo, Vita.
Alzasti lo sguardo, finalmente, sulla persona che ti stava davanti, e notasti che le mani che ti avevano colorato di rosso le guance erano quelle di Erica.
Osservasti con curiosità come intorno a lei ci fosse sempre gente.
Come lei non fosse mai sola.
Ti chiedesti che cosa si dovesse provare ad avere sempre qualcuno intorno, ad avere sempre voci a riempirti la testa di calore.
- Dove stavi andando, così di fretta? – ti chiese, non ricevendo alcuna risposta da parte tua.
- Non sono di fretta.
- Sembra sempre che tu stia scappando da qualcuno.
Alzasti le spalle, non sapendo cosa risponderle.
Ti stringesti i libri al petto ancora più forte, cercando di calmare il battito furioso del tuo cuore.
Sentivi gli occhi di tutte le sue amiche addosso.
Sentivi voci, dentro la tua testa, cattive, fredde, terribili, di verità e menzogna, logorarti come acido.
Erica dovette notare il vuoto che improvvisamente ti aveva tolto le parole dagli occhi e la luce dal sorriso, perché guardò le sue amiche e ti prese per mano, allontanandoti dalle tue paure.
- Non mordono, sai? Sono persone normali, come me e te.
- Lo so.
- E allora? Di che hai paura?
Distogliesti lo sguardo, abbassandolo sulle mani che ti stavi torturando.
- Non mi piace essere guardata.
- È normale essere guardate, Vita. Soprattutto se sei una delle ragazze più belle ed intriganti dell’università.
Alzasti lo sguardo, un sopracciglio sollevato scetticamente.
- Non sono una delle ragazze più belle dell’università.
Alzò gli occhi al cielo, scuotendo la testa, un sorriso incredulo ad incresparle le labbra.
- Perché ridi, ora?
Scosse la testa, senza risponderti.
- Che corso hai? – ti chiese, invece.
- Storia della psicologia.
- Sei una di psicologia?
Alzasti le spalle, iniziando a camminare.
- Io seguo legge.
- E non hai lezione, ora?
Ti sorrise, una luce furba negli occhi.
- No, sono libera.
Scuotesti la testa, alzando lo sguardo su di lei.
- Non ho bisogno della guardia del corpo, Vita.
- Lo so. Infatti non ti sto facendo da guardia del corpo. Mi sto solo accertando che la ragazza distratta arrivi sana e salva a lezione.
Alzasti lo sguardo al cielo ancora una volta, mentre notavi con terrore e piacere come il battito aritmico del tuo cuore agitato si fosse calmato tanto da permetterti di non avere le guance in fiamme come sempre ti succedeva davanti alle cose – alle persone – che ti colpivano.
- Devo andare. – dicesti, accennando con la testa all’interno dell’aula ormai piena.
- Buona lezione, ragazza distratta. – ti disse, mentre si avvicinava a te e ti posava un bacio sulla guancia.
Credesti di morire, mentre ti coloravi ancora del colore dei papaveri, senza renderti conto del sorriso incredulo che ti illuminava le labbra.

 

***


- Ricordi qualcosa?
- A volte, alcune cose.
- Tipo cosa?
Vita sorrise vagamente, spostando dietro l’orecchio una scura ciocca di capelli.
- Ti guardavo suonare, nella luce cristallina di un pomeriggio qualunque, incantata dalla velocità con cui le tue dita lunghe pizzicavano le corde della tua chitarra sgangherata, che ne doveva aver passate tante, proprio come noi.
Ti guardavo suonare, mentre le mie dita scorrevano veloci sulla macchina da scrivere, a cui mancavano le lettere dell’amore, ché ne aveva passate tante anche lei, proprio come la tua chitarra, proprio come noi.
Ti guardavo suonare, mentre ti perdevi dietro ad una nota, dietro ad un’armonia a me sconosciuta. Perdendomi io stessa dietro ad una musica che mi faceva dimenticare solo per un attimo l’armonia
discorde che mi bloccava la testa e i pensieri, che mi bloccava le parole e mi arrossava la pelle fino a farla bruciare.
Ricordo poco altro, per lo più sensazioni.
Ricordo che una volta ti chiesi se avresti continuato a suonare anche se io fossi morta.
Non mi ricordo quello che mi hai risposto.
E ricordo che a me piaceva scrivere mentre tu suonavi, perché quando dovevo descrivere l’amore, usavo le note delle tue melodie, visto che alla mia macchina da scrivere mancano le lettere dell’amore.
Erica la guardava, lo sguardo lontano e la fronte leggermente aggrottata.
- Non ti ricordi nulla di concreto?
- Quel poco che ricordo sono cose concrete, Erica. Sono cose importanti.
- Sì, ma non sono il motivo per cui non ricordi null’altro!
Vita si alzò, voltando la testa, le mani chiuse a pugno.
- Vorrei tanto… vorrei tanto sapere che cosa mi è successo. Guardarti e sentire nel mio corpo la voglia di baciarti, ma non riuscire a muovermi perché la mia testa non sa chi sei è frustrante. Sentire che questa casa è piena di me e di te, di cose mie e tue, ma non saperle riconoscere, fa male. Sentirsi bloccati in un limbo da cui non so uscire mi sta logorando. Ma non so che altro fare se non parlare con te. Se non ascoltare quella che, per me, è solo una storia. Non la mia vita. Però tu mi fai ritornare i ricordi. Non c’era nulla prima che tu iniziassi a raccontarmi di noi. Non c’era nulla, ma adesso qualcosa c’è. Non è molto, ma è già qualcosa. Quindi ho bisogno che tu continui a raccontarmi di me. Ho bisogno che tu
mi racconti la mia storia.

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Capitolo 4
*** 3. Capitolo III ***


-Capitolo 3.3-



 

Aveva tirato fuori una chitarra da dietro la porta, piena di adesivi colorati.

C’era una scritta, tutta intorno ad essa, che le ricordava qualcosa.

Come tutto in quella casa.

- Se te lo stai chiedendo, e so che te lo stai chiedendo, sì, hai scritto tu questa frase.

Vita la sfiorò con le dita, assaporando quelle parole sulla punta della lingua.

Sapevano di casa.

- We can be heroes, just for one day. È una canzone. Una delle tue preferite.

- La sapevo suonare?

Erica rise, scuotendo la testa.

- Oh, no. Non sono mai riuscita a fartela imparare.

Vita la guardò, lo sguardo che scrutava ansioso quello di Erica.

- Ti va di suonarmela? – chiese.

Erica abbassò gli occhi, passandosi una mano tra i capelli assurdamente rossi, il suo sorriso di girasoli come spento dalle parole che non volevano uscirle dalle labbra.

- Sei sempre stata brava a fare le domande sbagliate.

- Perché è una domanda sbagliata?

- Perché porta a galla tante cose.

- Tipo cosa?

- Sei una bambina, Vita.

- Rispondimi.

 

***

 

Eri riuscita a convincerla a venire a casa tua e l’avevi fatta bere.

Non avevi messo in conto che anche lei ti avrebbe fatto bere.

Che ti avrebbe fregata ancora e ancora, con quel suo sorriso distratto.

La bottiglia di tequila che era passata così spesso dalle tue mani alle sue, adesso giaceva abbandonata in mezzo a voi.

Lei ti guardava, con gli occhi scuri come l’inchiostro e le labbra ancora sporche del rossetto rosso di cui erano state vestite.

Tu non riuscivi a staccarle gli occhi di dosso.

Le porgesti l’ennesima bottiglia di alcol, mentre lei scoppiava a ridere.

E tu con lei.

Fregata.

- È questo che fanno le brillanti studentesse di legge? – ti chiese, buttando giù il contenuto della bottiglia con una lieve smorfia.

Sorridesti anche tu, prendendo la bottiglia che lei ti passava.

- È questo che fanno le ragazze distratte?

Scosse la testa, portandosi poi una mano alla fronte.

- Questo non avrei dovuto farlo.

Scoppiò a ridere e tu con lei, mentre sentivi la testa galleggiare e la razionalità abbandonarti.

- Vuoi sentire una cosa? – chiedesti.

- Certo.

Ti alzasti lentamente, mentre ti avvicinavi allo strumento abbandonato in fondo alla stanza.

- Pensavo che quella del parco fosse solo una finta.

- Pensi sempre così male, ragazza distratta?

- Sempre.

- Tu non suoni?

- Una volta.

Non aggiunse altro e tu iniziasti a muovere le dita sulla chitarra senza sapere che cosa stessi suonando.

Ti rendesti conto con stupore che lei canticchiava la melodia che stavi suonando.

- We can be heroes, just for one day.

- Sei così bella.

L’avevi sussurrato, ma lei ti guardò con gli occhi sgranati e le labbra dischiuse.

- Anche tu. – rispose, mordendosi un labbro.

Le ultime note risuonarono nella stanza, mentre tu appoggiasti la chitarra al tuo fianco, delicatamente.

Chiudesti gli occhi e lentamente ti avvicinasti a lei, fino ad esserle di fronte, le gambe incrociate.

- Sei bella. – ripetesti, portandole una ciocca di capelli scuri dietro l’orecchio.

Lei sorrise lievemente, fuggendo il tuo sguardo.

Poggiò la fronte alla tua, mentre ti passava le gambe magre intorno al bacino.

Vi guardaste, il tuo sorriso di girasoli e il suo sorriso distratto.

Vi baciaste, lentamente, le mani a scoprire piano piano il corpo l’una dell’altra.

La prendesti in braccio, alzandoti con un po’ di fatica e poco equilibrio.

Lei rise lievemente, smettendo di baciarti solo per vedere affiorare sulle tue labbra il tuo sorriso di girasoli.

La portasti in camera tua, bloccandoti sopra di lei.

Lei ti guardò, senza dire nulla.

Una muta domanda negli occhi.

La baciasti con più irruenza e passione di prima, abbandonando la delicatezza dei modi.

Lei sospirò contro le tue labbra, rispondendo allo stesso modo.

Notasti che si era colorata ancora del colore dei papaveri e non riuscisti a trattenere un sorriso.

- Hai un sorriso di girasoli.

- Tu hai il colore dei papaveri.

Non ci fu posto per altre parole, quella notte, mentre le vostre mani scoprivano strati di pelle prima sconosciuti.

Mentre tu ti perdevi nel rosso dei papaveri e lei si perdeva nel giallo dei girasoli.

Sentivate il mare, dentro e fuori, turchese tutto intorno a voi.

Vi sentiste fregate entrambe.

 

***

 

La guardava, mentre le ultime sillabe del suo racconto uscivano dalle sue belle labbra.

- Che successe dopo? – chiese Vita, portandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

- Mi svegliai la mattina e tu non eri più di fianco a me. Sapevo che sarebbe finita così, avevo sperato di svegliarmi e trovarti accanto a me… ma sapevo che sarebbe finita così. Non mi accorsi subito della scritta sulla mia chitarra. Forse perché ero troppo presa dal cercare di capire perché te ne fossi andata. Che cosa avesse significato per te. Se ti eri accorta… - Erica scosse la testa. – Poi notai la chitarra appoggiata alla poltrona del mio soggiorno, una scritta che prima non c’era tutta intorno ad essa.

Hai questa scrittura bellissima, tutta tonda, morbida. Come le onde del mare. Non avevo mai visto la tua scrittura da vicino e mi chiesi se ci fosse qualcosa di te che non avrei amato alla follia. Se ci fosse qualcosa che avrei odiato. Non sapevo ancora… - Erica scosse di nuovo la testa, senza dire una parola.

- Non sapevi cosa?

- Nulla.

- Erica, non sapevi cosa?

- Dei tuoi problemi.

- Che problemi avevo?

- Non voglio dirtelo, Vita.

- Perché?

- Perché è ancora presto.

- Ma io lo voglio sapere, Erica.

- Non ho detto che non te lo dirò. Ho detto che non è ancora giunto quel momento della storia. Siamo ancora all’inizio, nella parte felice e nuova e bella.

- Non è sempre stata felice, nuova e bella, la nostra storia?

- No, poche volte è stata una storia felice, la nostra. È stata nuova, certo. E sempre, sempre bella. Ma felice. In fondo, che cos’è la felicità? Minuscoli, minuscoli attimi di cosa? Di un nulla che diventa tutto, tutto il tuo mondo, solo per un attimo, solo per un momento.

- Non ti avevo mai vista così.

- Come?

- Sembri triste, Erica. Come i girasoli in un giorno di pioggia.

Gli occhi di Erica si riempirono di lacrime.

Onde dentro quegli occhi come il mare.

Onde che non s’infransero contro le ciglia e non scivolarono sfrontate lungo i suoi zigomi.

Onde che fecero male comunque, nell’immensità del loro mare vuoto.

Vita guardava con orrore le lacrime che Erica non avrebbe mai versato.

Una sola domanda, terribile, le danzava sulle labbra.

- Che cosa ti ho fatto?

 

Vita guardava i girasoli da vicino, il sole a colorarle le iridi scure.

- I girasoli continuano a non piacermi.

- Perché?

- Sono troppo grandi. E il giallo non mi piace.

- Non ricordi nulla di te, ma sai che non ti piace il giallo?

- Non è vero che non ricordo nulla di me.. dopo ieri sera, è tornato qualcosa.

- Come la tua avversione per i girasoli?

- Come la mia avversione per i girasoli. Ma di quella ero consapevole anche prima.

- Sei strana.

- Non è la prima volta che me lo dici.

- Ti ricordi anche tutte le altre?

- Non so se sono tutte. Però sì, mi ricordo le altre.

- Ti ricordi anche le volte che te lo dicevi da sola che sei strana?

- Me ne ricordo solo una.

 

***

 

- Io sono strana, Erica.

- Tutti lo sono.

- Ma io sono strana strana, Erica. Davvero.

Avevi le gambe incrociate e la bocca imbronciata e sembravi una bambina, in quel momento.

Cercavi disperatamente di convincere la tua nuova amica che non avevi assolutamente bisogno di conoscere nuove persone.

Di fare amicizia.

- Vita. – tu la guardasti negli occhi, sperando di averla piegata. Sapevi che di speranza, prima o dopo, saresti morta. – Ti passo a prendere alle 21.00 – ti disse invece, sorridendo ed alzandosi.

- Ma! – tentasti di dire, ma Erica era già sparita dalla tua visuale, lasciandoti sola.

Accendesti una sigaretta, consapevole che non sarebbe servita a placare le tue ansie.

Ti aggrappasti a quella piccola stecca di catrame e nicotina, pensando a quanto tu fossi strana.

Non ti era mai piaciuto stare in mezzo agli altri.

Relazionarti.

Poi avevi notato quella ragazza, molto prima che lei attirasse la tua attenzione suonando per te in mezzo ad un prato d’autunno. E, improvvisamente, ti eri ritrovata a sperare che lei, in qualche modo, si relazionasse a te. E quando finalmente l’aveva fatto, avevi provato un sollievo tale da stupirti del tuo stesso corpo.

Sapevi che Erica sarebbe stata per te quello che l’alcol è per un alcolista.

L’eroina per un eroinomane.

Il suicidio per un depresso.

Ma, in fondo, sapevi gestire i tuoi problemi.

Quello che non sapevi gestire erano le persone come Erica.

Quello che non sapevi gestire erano i sentimenti che le persone come Erica ti suscitavano.

Con un gesto stizzito, buttasti lontano da te la sigaretta fumata solo a metà e ti alzasti di scatto, allontanandoti dal quel parco deserto.

Spesso ti sentivi in trappola, all’aria aperta.

Lontana dall’unica droga che non ti avrebbe mai fatto del male: i libri.

Quando, finalmente, chiudesti la porta di casa alle tue spalle, tirasti un sospiro di sollievo.

Molti avrebbero creduto di soffocare, con tutte quelle librerie, tutta quella carta, tutte quelle grandi finestre. Tu sorridesti lievemente, chiudendo gli occhi ed ascoltando il battito frenetico del tuo cuore acquietarsi piano piano.

Dovevi assolutamente trovare una soluzione al panico che ti prendeva ogni volta che uscivi di casa. Stava diventando difficile costringerti ad affrontare il mondo.

Magari il giorno successivo saresti potuta rimanere a casa.

Per riprenderti.

Scuotesti la testa. Sapevi che cosa ti avrebbe detto la psichiatra. Eppure, potevi concederti un giorno di pausa dal mondo, visto che quella sera avresti dovuto affrontare le amiche di Erica.

Come eri arrivata a quel punto?

Decidesti che trascinarti in bagno a fare una doccia sarebbe stata la scelta giusta. Dovevi solo trovare la forza di alzarti dal pavimento e di aprire gli occhi.

Bastava poco.

Il primo passo sarebbe stato quello di alzare le palpebre, stranamente pesanti. Vedevi il mondo sfuocato e ci mettesti un po’ per capire che un velo di lacrime ti copriva gli occhi.

Una volta aperti gli occhi e asciugate le lacrime, avresti dovuto alzarti.

Oppure, avresti potuto avvicinare le gambe al petto.

Sì, decisamente meglio.

Ora, dovevi solo scivolare al contrario lungo il muro, fino a ritrovarti in posizione eretta.

Non era stato troppo difficile rimettersi in piedi, ma ci avevi comunque messo più del previsto. Dovevi ancora farti la doccia e mangiare e poi Erica sarebbe venuta a prenderti per portarti da qualche parte insieme alle sue amiche.

Come ci si relaziona con le amiche della persona che frequenti?

Decidesti che rispondere a quella domanda sarebbe stato troppo complicato, così ti dirigesti verso il bagno. Salutasti con un sospiro l’acqua calda che ti avvolse la pelle e ti liberò la mente. Era incredibile come l’acqua ti calmasse immediatamente. Avresti dovuto trasferirti al mare.

Venti minuti dopo, cercavi qualcosa da metterti con un’espressione imbronciata ad oscurarti il volto. Non sapevi dove sareste andate e, di conseguenza, non avevi idea di quello che avresti dovuto metterti.

Sportiva?

Elegante?

Avresti voluto infilarti uno dei maglioni larghissimi che indossavi di solito per andare a scuola, ma non ti sembrava il caso.

Notasti un vestitino nero, in fondo all’armadio. Sapevi a chi apparteneva. Lo sfiorasti con le dita, pensando che ti sarebbe stato bene.

I tuoi pensieri furono interrotti dal suono un po’ metallico del campanello di casa tua.

Il tuo cuore sobbalzò, abbracciando di nuovo quell’agitazione di cui avresti proprio dovuto liberarti, mentre i tuoi occhi correvano all’orologio.

Erano le nove.

Come avevi fatto a perdere la cognizione del tempo in quel modo?

Andasti alla porta e l’apristi senza pensare al fatto che eri mezza nuda.

Erica alzò un sopracciglio, mentre un sorriso sghembo le piegava la bocca.

- Esci così?

- Ti piace?

- Molto, ma potrei in tal caso decidere di rimanere a casa.

- Non so cosa mettermi.

- Siamo in ritardo.

- Lo so.

Erica scosse la testa, entrando in casa. Si guardò un po’ intorno, forse prendendo nota del disordine e dei libri, poi individuò il corridoio e si diresse verso la tua stanza.

- Dove andiamo? – chiedesti, sperando in una risposta che non sapevi se sarebbe arrivata o no.

- In un posto normale.

Alzasti gli occhi al cielo.

- “Normale” non mi aiuta nella scelta del vestito da mettermi, Erica.

La ragazza diede un’occhiata all’armadio e ai vestiti sparsi in giro per la stanza.

- Questo? – chiese additando il vestito nero che stavi osservando poco prima.

Scuotesti la testa.

- No, quello no.

- Perché no?

- Perché no.

Erica stava per riaprire bocca, ma qualcosa dovette trattenerla. Forse perché incrociò il tuo sguardo.

Sfiorò il vestito proprio come avevi fatto tu pochi minuti prima e ti chiedesti che cosa avesse letto dentro le tue iridi. Ti rendesti conto in quel momento che ti eri fermata sulla porta della tua camera, non riuscendo a muoverti da quando Erica aveva messo gli occhi su quell’abito.

- Vita. – il suono del tuo nome raggiunse le tue orecchie inaspettatamente, ma ti riscosse tanto da permetterti di riprenderti. Ti passasti una mano tra i capelli, mentre chiudesti l’altra in un pugno per far cessare il tremolio che l’aveva colta.

Sollevasti un angolo della bocca verso Erica, forse per rassicurarla.

- Penso che metterò questo. – dicesti, afferrando un vestitino azzurro malamente appoggiato sul letto e chiudendoti in bagno.

Quando finalmente fosti pronta, non trovasti Erica in camera, ma ferma davanti alla libreria.

- Che fai? – chiedesti prendendo la borsa e le chiavi di casa.

- Leggo i titoli dei libri della tua libreria.

- Ce n’è qualcuno che t’ispira?

- La maggior parte. – si girò verso di te, un sorriso di girasoli sulle labbra. Ti sentisti subito meglio. – Andiamo? – ti chiese porgendoti la mano.

Tu l’afferrasti, sorridendo.

Il viaggio in macchina fu veloce e silenzioso. Incredibilmente, non trovavi le parole per parlare, quella sera.

Il locale in cui le amiche di Erica vi aspettavano era davvero carino. Aveva l’edera che cresceva sui muri e sembrava molto antico. C’era una luce che ti piaceva.

Anche le amiche di Erica sembravano simpatiche. Ti tiravano in mezzo e non ti facevano sentire sola. Era una strana sensazione.

Il battito del tuo cuore peggiorava minuto dopo minuto e tu non capivi che cosa fare per calmarti almeno un pochino.

Inaspettatamente, Erica si mise a passarti le dita sulla schiena, dal collo fino alla base, con lenti cerchi concentrici. Ti calmasti in un momento, tanto che ti avvicinasti di più a lei, permettendole di abbracciarti.

Alzasti lo sguardo per guardarla, e rimasti incantata dal sorriso di girasoli che già le solcava il viso. Sorridesti anche tu di rimando, baciandola.

Ti chiedesti che cosa ti aveva fatto, per renderti così.

Preferisti non darti una risposta.

 

***

 

Erica era seduta sugli scalini della veranda, una tazza di the tra le mani e lo sguardo perso tra le onde.

Si chiedeva come avrebbe fatto a raccontare a Vita di problemi di cui neanche lei sapeva veramente la causa. Ma Vita l’aveva fregata molto tempo prima ed Erica non si sarebbe di certo tirata indietro. Doveva solo trovare un modo.

Uno spostamento d’aria le annunciò che non era più sola.

- Sei pensierosa, oggi.

- Vero.

- Come mai?

Sorrise, davanti alla curiosità di Vita.

- Nulla d’importante.

Vita alzò un sopracciglio, un’espressione scettica a danzarle sul volto.

- Oh, e va bene. – disse Erica, bevendo un sorso del suo the. – Pensavo al nostro primo bacio.

- Il nostro primo bacio? Non è quello di cui mi hai raccontato l’altro giorno? Quello sulla guancia, davanti alla mia classe di storia della psicologia?

- Cosa? Oh, no di certo.

- Ah. E quindi, è una bella storia, quella del nostro primo bacio?

- Certamente. È successo qualche giorno dopo quel primo appuntamento e di quel bacio di cui ti ho raccontato. Tu eri completamente sparita dalla circolazione. Per giorni non ti facesti vedere né in università né da qualsiasi altra parte. – Erica sorrise in modo strano, scuotendo la testa. – Ti cercai un po’ ovunque, inconsciamente. Mi ritrovavo a scrutare le persone per vedere se i tuoi capelli apparivano magicamente nel mio campo visivo.

- Ma dov’ero finita?

- A casa, suppongo.

- Supponi?

- A casa. Eri a casa. Ne sono sicura. Ma non è questo il punto. Un giorno tornasti in università. Come se nulla fosse, come se non fossi mancata per giorni, come se non ti fossi più fatta sentire senza alcuna ragione. Però sapevo che qualcosa non andava, perché mi evitavi. Mi ci volle una vita per riuscire a fermarti, in mezzo ad un corridoio.

- Non ne fui contenta, vero?

Erica si girò verso di lei, scrutandola attentamente.

- Ti ricordi cosa successe?

- Non ne sono sicura.

- Ti discostasti da me come se la mia mano ti avesse scottata. Ora capisco che, da qualche parte nella tua mente, qualcosa ti doveva aver davvero detto che la mia mano ti aveva scottato. – Erica scosse la testa. – Sto divagando. Ti allontanasti da me di qualche passo, ma non andasti via. Ti chiesi come stavi, se andava tutto bene. Mi hai risposto che ti piacevano le giornate come quella, con il sole e l’aria frizzante. Io non capivo, non capivo. Ti vedevo triste, ma non volevo immischiarmi nella tua tristezza. Mi sembrava troppo presto. Avevo paura che scappassi.

- E per non farmi scappare mi hai baciata?

- Sì, beh. Mi è sembrata una cosa sensata, al momento.

- Effettivamente, non è stato così male.

- Ti ricordi?

- Il tuo sorriso di girasoli che bacia il mio sorriso distratto? Sì, ricordo. Ricordo.

Un sorriso incerto illuminava le labbra e gli occhi di Vita, a quel ricordo inaspettato.

Erica le sfiorò una guancia.

- L’hai fatto anche quella volta. Mi hai sfiorato la guancia.

- Poi cos’è successo?

- Io mi sono avvicinata, così… - rispose Vita, mentre scivolava lentamente verso Erica.

- E io ti ho passato le mani dietro al collo per sfiorarti i capelli appena sopra la nuca.

- All’epoca avevo i capelli corti.

- Avevi i capelli corti, sì. E poi?

- Poi io mi sono avvicinata ancora e allora tu…

Vita non finì la frase, perché le labbra di Erica le bloccarono il resto delle parole in gola.

Il corpo di Vita non aveva mai dimenticato il sapore che le labbra di Erica lasciavano sulle sue, come di mare e girasoli.

Vita sorrise, inconsciamente, appena la bocca di Erica lasciò la sua.

- Sai di mare e girasoli, Erica.

- E tu di papaveri e pioggia, Vita.

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Capitolo 5
*** 4. Capitolo IV ***


-Capitolo 4.4-




Vita aprì gli occhi, aggrottando le sopracciglia davanti ai raggi del sole che, sfrontati, le colpivano il viso.
Era voltata su un fianco ed un braccio bianco le avvolgeva la vita.
Sorrise, pensando al curioso gioco di parole che quella parola creava.
Il profumo di Erica l’avvolgeva e notò con stupore che il suo cuore, solitamente impazzito, quella mattina era calmo, leggero, come addormentato.
Silenzioso.
Le piaceva, quella sensazione.
Le piaceva sentire il calore di Erica sulla sua pelle. Le ricordava l’amore.
Sorrise ai ricordi che le vennero in mente.
La sera prima si erano baciate.
E lei si era resa conto di anelare le labbra di Erica solo quando queste si erano posate sulle sue.
La ragazza, dietro di lei, si mosse.
- Sei sveglia? – chiese Vita, in un sussurro.
- Diciamo di sì.
Il silenzio le avvolse, il rumore delle onde che s’infrangevano sulla sabbia arrivava appena.
Quel giorno anche il mare era calmo, silenzioso.
Il profumo dei girasoli e dei papaveri le riempiva le narici, la salsedine le bagnava le labbra.
Erica piangeva, abbracciata a lei.
La sentiva.
Sentiva il suo respiro irregolare, le lacrime che le sfioravano la pelle.
Il battito disarmonico del suo cuore.
Forse era stato troppo anche per lei, quel bacio.
Forse aveva tirato anche lei fuori ricordi che non ricordava più di avere.
Erica le baciò la spalla, lasciando un segno umido.
La bacio ancora, e ancora, con sempre più urgenza, mentre le mani cominciavano a muoversi sul suo corpo.
Vita si girò a guardarla.
Erica non disse nulla.
I suoi occhi chiari dicevano già tutto quello che Vita avrebbe dovuto sentire per capire.
La baciò, lentamente, frenando il bisogno di lei con la sua calma silenziosa.
Le sfiorò il viso, i capelli.
Non fermò Erica quando si posizionò sopra di lei.
Né quando le sue mani iniziarono a vagare sopra di lei, in cerca di qualcosa che non avrebbero trovato.

 

Tatto.


Il lenzuolo che l’avvolgeva aveva la leggerezza delle cose speciali, come se dovesse coprire un oggetto prezioso, che il mondo, con la sua ruvidezza, avrebbe potuto rovinare. Una mano scostò quel lenzuolo da lei, ma non ebbe il tempo di provare freddo o solitudine, privata di quel velo che la copriva dal mondo. Un altro velo, di carne e ossa, di terminazioni nervose ed elettricità, l’avvolse, facendola sentire sicura.
E calda.

 

Olfatto.


Intorno a lei percepiva l’asprezza della salsedine e la dolcezza della brezza che spirava da quello che era un mare calmo. Come se il mare, con il suo andare e venire, sarebbe mai potuto essere calmo. Si era illusa di poter essere calma anche lei, ma il suo cuore aritmico aveva preso il ritmo forsennato di un altro cuore, che batteva proprio sopra il suo, stordito dall’odore che avvertiva intorno a sé.
Di mare e girasoli.
Di papaveri.

 

Gusto.


Sulle labbra sentiva il sapore del sudore e del sale, un sapore strano, contraddittorio, che le apparteneva e che le ricordava casa, ma che, allo stesso tempo, le era sconosciuto, come quello di una vita nuova. E proprio una Vita nuova si stava riscoprendo, nuda, sotto le mani di Erica, che riscoprivano qualcosa che non aveva mai smesso di appartenerle. Sulla lingua il vago sapore della sua pelle.
 

Udito.


Sentiva le onde del mare che si infrangevano sulla spiaggia, mentre giocavano coi gabbiani, da sempre loro chiassosi compagni. E sentiva le loro voci rotte bisbigliare parole irripetibili, nel silenzio dei loro gemiti.
 

Vista.


Aprì gli occhi, ma non riuscì a mettere a fuoco il mondo che la circondava. Sapeva che le pareti della camera in cui si trovava riflettevano i colori della natura appena fuori da lì. Girasoli che si spingevano quasi fino al mare, il turchese che sembrava abbracciare il giallo come se fosse un vecchio amico. Ma non riusciva a vedere altro che il viso trasformato dal piacere di Erica.
Vedeva i suoi occhi, annegati dentro di lei.
Erica cercava sul suo corpo qualcosa che neanche Vita sapeva se fosse ancora presente.
Nell’aria un profumo di fiori che sapeva di lei, che le apparteneva.

Gli occhi di Erica erano azzurri come una mattina di primavera.
Azzurri come il cielo fuori dalla stanza in cui si trovavano.
La sua mano si mosse da sola verso il volto di Erica, spostandole una ciocca di capelli rossi dallo zigomo.
Il suo cervello registrò con stupore che i capelli rossi della ragazza erano morbidi proprio come sembravano.
Le dita sfiorarono piano la pelle candida, fino ad arrivare a quella morbida del fianco, nuda sotto il suo tocco leggero.
Erica sospirò, avvicinandosi piano verso la sua fronte e posandovi un leggero bacio.
Vita si spinse un poco più vicino alla ragazza, accoccolandosi contro di lei.
- Quanto ti ho amata? – chiese in un sussurrò.
Sentì Erica trattenere il respiro.
- Tanto. Tantissimo.
- E tu?
- Anche io.
- Penso che non sia cambiato nulla.
- Eppure è cambiato tutto.
- Io ti amo ancora come prima.
- Anche io.
- Però non mi ricordo niente di quello che sono stata.
- Niente? Ricordi il nostro primo bacio.
- Continuo a pensare che baciarmi in quel modo non sia stata una buona idea.
- Eppure sei qui.
Il silenzio aleggiò leggero intorno a loro, che ogni tanto si scambiavano piccoli baci a fior di labbra, sul collo, sulla mandibola, come per scacciare quella malinconia che permeava le loro parole.
- Anche se non fossi qui, ti amerei ancora come prima. – disse Vita.
- Lo so. Ti conosco.
- E tu mi ameresti anche se non fossi qui?
- Probabilmente cercherei di farmela passare.
- Come?
- Con qualcun altro.
- Ma qualcun altro non sarà mai come me.
- Sì, lo so. Però a volte serve una distrazione dalle persone che ci fanno male.
- Ti ho fatto male?
- Mentirei se ti dicessi che non me ne hai fatto, Vita.
- Mi dispiace. Sono certa che non volevo.
- No, infatti. Non volevi.
- Anche tu mi hai fatto male, Erica?
- Sì, certo. Ce ne siamo fatte a vicenda.
- Magari capita questo, a chi si ama tanto.
- Magari, sì.
Il silenzio riempì ancora la stanza.
Nessuna delle due voleva affrontare per prima quell’argomento.
Erica aspettava che fosse Vita a chiederglielo.
Sapeva che era solo questione di tempo.
Vita aspettava che fosse Erica a parlarne.
Nessuna delle due, per quella mattina, ebbe il coraggio di rompere il silenzio con parole che avrebbero portato a galla, forse, ricordi troppo dolorosi.
Con un ultimo bacio, Erica si alzò, scappando da quel silenzio carico di frasi non dette.
Vita la seguì con lo sguardo, abbracciando tutta la stanza.
Durante la notte, un nome l’aveva tormentata.
Mia.

Guardava i girasoli che abbracciavano il mare incuranti di tutto.
Guardava il mare che allungava le sue braccia fino quasi a sfiorarli.
C’era bellezza ovunque.
Turchese e giallo.
Profumo di mare, profumo di fiori.
Temeva di annegare in tutta quella bellezza.
La brezza le ricordò che i girasoli e il mare non erano soli nel loro abbraccio silenzioso.
I papaveri spuntavano inaspettatamente, una macchia forse troppo brillante in quel mare di colori pastello.
Chissà com’era possibile che riuscissero a crescere sotto l’ombra di fiori così alti.
Sfiorò i petali con le mani, mentre tornava verso casa.
Mentre tornava verso Erica.
Lei stava cucinando.
Vita pensò di entrare, si appoggiò allo stipite della porta.
Guardava Erica.
Cercava di liberare le briglie del suo passato e, allo stesso tempo, sperava di non ricordare nulla.
Quello che era successo quella mattina, quel perdersi nel corpo dell’altra, le aveva mostrato con chiarezza quanto Erica fosse stata distrutta da tutto quello che era successo e che lei non ricordava.
Non voleva guardare negli occhi di Erica e vederci ancora il vuoto.
Preferì scappare, non affrontarla.
Preferì tornare in camera, avvolta, soffocata, da libri che sapeva essere suoi.
Ce ne erano ovunque.
Si avvicinò alla grande libreria e sfiorò i dorsi dei libri come aveva sfiorato i petali dei papaveri poco prima.
Con la stessa delicatezza reverenziale.
Al profumo di mare e girasoli e papaveri si aggiungeva ora quello di carta e inchiostro, pungente e profondo.
Sapeva, da qualche parte dentro di lei, di aver letto tutti quei libri.
Non riusciva a ricordarne neanche uno.
Chiuse gli occhi, lasciandosi guidare dal tatto e dall’odore.
Quando la sua mano si fermò, aprì gli occhi.
Le sue dita non si erano fermate su un vero e proprio libro.
Sembrava più una cartelletta di pelle nera contenente dei fogli.
Tantissimi fogli.
Era stranamente familiare.
Un tuono la scosse, mentre apriva quella cartelletta.
- Vedo che non hai perso l’abitudine di trovare cose che non dovresti trovare.
Vita alzò lo sguardo su Erica, appoggiata allo stipite della porta.
- Che cos’è?
- Non te lo ricordi?
- No.
Erica non rispose.
Andò ad aprire la grande porta finestra della loro camera da letto e si sedette davanti ad essa, lasciando che il vento disegnasse l’aria con i suoi lunghi capelli rossi.
Vita l’aveva vista così, la prima volta che aveva aperto gli occhi.
- Erica, che cos’è?
- Tu scrivevi. Tantissimo. Qualsiasi cosa e su qualsiasi superficie. Tu scrivevi.
Vita la guardò.
- Sono le mie storie?
- Sono la tua storia.
- Anche quello che non ricordo?
- Anche quello che neanche io so.
Vita si avvicinò ad Erica, posandole la cartelletta sulle gambe.
- Qual è la tua preferita?

 

***


Stranamente, ai fornelli c’eri tu.
Non cucinavi mai per lei.
Non perché non ti piacesse o non ne fossi capace.
Ma perché ti piaceva guardarla cucinare.
Guardarla impegnarsi in qualcosa di così normale.
Familiare.
Sin dalla prima volta che l’avevi vista cucinare per te, la sensazione di familiarità non ti aveva abbandonata.
Ma a te piaceva cucinare.
Anche tu volevi cucinare per lei.
Era per questo che Erica era seduta sulla sedia della tua piccola cucina, mentre tu cercavi di non fare troppi danni ai fornelli.
Il problema di fondo è che la cucina richiede una certa dose di concentrazione.
E tu eri più che concentrata.
A guardare come il sole si rifletteva sui capelli rossi di Erica.
- Vita, l’acqua bolle.
- Lo so. Me ne sono accorta.
Vedesti Erica trattenere una risata.
Dopo rocambolesche avventure, eri riuscita a preparare la pasta.
Senza farti del male.
E senza distruggere la cucina.
- Buona, però. Non pensavo.
La guardasti alzando un sopracciglio.
- Dai, Vita, anche tu avevi dubbi sul fatto che saresti riuscita a prepararmi il pranzo!
- Io non ho mai avuto dubbi sulle mie capacità di cuoca, Erica.
- Davvero?
- Certamente. Quando non sono distratta da altro sono particolarmente brava.
Fu la volta di Erica di alzare un sopracciglio.
Un sorriso furbo le spuntò sulle labbra.
- E da che cosa eri distratta?
- Non credi che il tempo sia eccezionalmente bello, oggi?
- Non sei brava a tergiversare, Vita, te l’hanno mai detto?
Non le desti nessuna risposta.
Avevi paura di scoprirti troppo.
Mettesti i piatti vuoti nel lavello, andasti in salotto.
Quella frase detta con leggerezza ti aveva turbata.
Erica ti seguì, senza spezzare il tuo silenzio.
Si avvicinò ai mille vinili che avevi accumulato negli anni, leggendone i titoli.
Ne sfilò uno quasi alla fine, ti sembrò di scorgere il nome del cantante.
David Bowie.
Le note di “Heroes” iniziarono a riempire la stanza.
L’agitazione a cui il tuo corpo e la tua mente erano così abituati ti faceva mancare il respiro.
- Vita.
Ti sentisti chiamare, da qualche parte dentro la tua testa.
Ma c’era troppo casino per poter ascoltare tutte le voci che s’inseguivano dentro di te.
Il tuo cervello registrò un tocco delicato intorno alle spalle e sotto le ginocchia.
Sentisti uno spostamento d’aria e il profumo di Erica tutto intorno a te.
Ma non riuscivi a dar voce ai tuoi pensieri.
Erano troppi, ti vorticavano in testa troppo velocemente.
Ti rendesti conto che eri sdraiata.
Pensasti che chiudere gli occhi e dormire avrebbe aiutato.
Accanto a te qualcuno ti sfiorava i capelli.

Ti svegliasti con il cuore che batteva violentemente contro la tua gabbia toracica.
Non ricordavi di esserti mai svegliata con il cuore tranquillo.
Silenzioso.
Il suo battito aritmico ti bloccava il respiro in gola.
E sentire la presenza di Erica accanto a te non ti calmò.
Sentivi il suo respiro regolare, doveva essersi addormentata insieme a te.
Ti alzasti lentamente, il più piano possibile, per non svegliarla.
Era così bella quando dormiva.
C’era bellezza ovunque.
E come sempre quando la bellezza ti colpiva, il viso ti si colorò di rosso.
Chissà se era lo stesso colore dei capelli di Erica.
Il colore dei papaveri.
Mettesti sul fuoco l’acqua per fare il the e rimanesti a fissarla finché non bollì.
Il the ti bruciò la gola, ma ti convincesti che quel liquido caldo e profumato avrebbe sciolto la freddezza che sentivi in mezzo alla gabbia toracica.
C’era qualcosa in fondo alla tua mente.
Ricordi, sensazioni, che giravano e giravano, sempre più veloci.
Sempre gli stessi.
Sapevi che cos’erano, a chi si riferivano.
E non volevi pensarci, non ora.
Non con Erica nell’altra stanza, non senza il modo di fermarli, una volta lasciati liberi.
Avevi bisogno di uscire.
Di fermare i tuoi pensieri.
Lo sguardo corse alla tua camera.
Erica ti guardava, il panico negli occhi.
Tu afferrasti la borsa, volgendo lo sguardo alla porta.
- Non farlo.
Non le rispondesti.
- Perché?
Non rispondesti neanche a quella domanda, cercando di non pensare alla paura che traspariva dalle parole di Erica.
La ragazza ti si avvicinò, cercò di sfiorarti il braccio.
Forse cercava di non farti andare.
Ma tu sapevi come fuggire e lei non aveva mai tenuto nessuno.
Uscisti da casa tua con il tuo nome nelle orecchie, un sussurro soffocato nell’aria.
Il tuo cuore aritmico perse un battito.

 

***


Quel nome – Mia – le vorticava nella testa.
Le rimbombava dentro dolorosamente, una stilettata di dolore a cui non sapeva abituarsi.
L’agitazione congenita che la caratterizzava la portò a pensare di chiedere a Erica se quel nome volesse dire qualcosa o se fosse solo il ricordo di un sogno.
C’era qualcosa che le bloccava quella parola sulle labbra.
Una strana agitazione, uno strano cambiamento del battito del suo cuore.
Come se il suo stesso corpo fosse terrorizzato dallo scoprire di più.
Come se non volesse scoprire di più.
Ma quel nome significava qualcosa, lo sapeva.
Quel nome era importante.
La cartelletta di pelle nera attirò la sua attenzione.
L’avevano abbandonata sul tavolo in salotto.
Chissà se davvero c’era tutta la sua vita, lì dentro.
Chissà se davvero c’era tutta Vita quella che era, quella che era stata, quella che non sapeva di essere – lì dentro.
Si sedette in poltrona, voltando la copertina pesante.

Non seppe quanto tempo rimase a leggere.
Quando Erica la trovò era nella stessa posizione di molte ore prima.
Vita non era neanche arrivata a metà di quel libro strano, ma una marea di ricordi - voci, sensazioni – stava tornando dagli abissi della sua mente.
Erica le si avvicinò da dietro, sbirciando da dietro la sua spalla la storia che stava leggendo.
Aveva uno strano sguardo.
Come se l’agitazione congenita di Vita fosse passata anche a lei.
- Non sei ancora arrivata alla mia preferita.
- Qual è?
- Penso che lo capirai da sola, quando ci arriverai.
- Perché?
- Perché lo capirai.
Rimasero in silenzio, Vita guardando i fogli tra le sue mani, Erica guardando il mare fuori dalla finestra.
Era così calmo che faceva paura.
- Tu le hai lette tutte, le mie storie?
- Sì, tempo fa.
- Quindi conosci tutta la mia storia.
- Più o meno.
- Perché sei rimasta?
- Non sono rimasta.
- Sei qua.
- Me ne sono andata, tempo fa.
- Chi è Mia?
A lungo si è scritto e parlato del silenzio.
Della sua presenza-assenza.
Del suo vuoto pesantissimo.
Eppure nulla può prepararti alla sua forza distruttrice.
Erica non parlava.
Aveva aperto la porta finestra che girava tutto intorno alla casa senza dire nulla.
Forse aspettava che il vento le portasse le parole che non sapeva dire.
- Continua a leggere.
- No.
Erica sospirò.
Non rispose, uscendo dalla stanza.
Non voleva raccontarle quella parte della sua storia.
Della loro storia.
Raccontarle di Mia, della depressione.
Dei problemi.
Si era detta che non aveva ancora raccontato nulla a Vita perché non era ancora pronta ad affrontarlo, perché aveva ricordato troppi pochi momenti belli.
In realtà era lei a non essere pronta, a non riuscire a ricordare quello che era successo.
L’aveva chiuso in una scatola della sua mente e aveva lasciato tutto lì, evitandolo e basta.
Tirò fuori una sigaretta dal pacchetto, aspirandone il fumo acre mentre l'accendeva.
Teoricamente, aveva smesso di fumare tempo fa.
Praticamente, a volte aveva ancora bisogno che nicotina e catrame riempissero di fumo i suoi polmoni e i suoi problemi.
Si chiese che cosa sarebbe successo se fosse scappata.
Se avesse preso le sue cose e avesse abbandonato la sua casa.
La sua vita.
Vita stessa.
Si passò una mano sul volto, scompigliandosi i capelli tanto amati da Vita.
E dal vento.
Il profumo di mare e girasoli stava iniziando a darle la nausea.
Tornare in casa, d’altra parte, era impossibile.
Avrebbe dovuto affrontare il suo passato.
Il suo, quello di Vita.
Avrebbe dovuto farlo, prima o poi.
Pensava solo di avere più tempo.
Rimaneva sempre fregata dal tempo.
- Mia aveva gli occhi scuri e i capelli chiari.
Erica sussultò.
Non si era accorta di avere di fianco Vita.
Sapeva che le lacrime riempivano i suoi occhi.
- Hai trovato le foto?
- Me lo ricordo.
- Ti ricordi anche il resto?
Vita annuì, lo sguardo traballante e un sorriso spento.
- Conoscevo Mia da sempre, eravamo cresciute insieme. L’una per l’altra eravamo tutto quello di cui avevamo bisogno. Prima amiche, poi amanti. L’amavo in un modo… non penso di poter amare qualcuno come ho amato lei.
Aveva i capelli biondi e gli occhi scuri, grandi. Aveva sempre un sorriso distratto ad incorniciarle il volto, come se stare al mondo, come se il mondo stesso, la deliziasse.
Siamo state insieme diciotto anni.
Era tutto, per me.
Una sera siamo uscite con i nostri amici. Al ritorno eravamo in macchina, guidava lei perché io avevo bevuto un po’. Era brava a guidare. Un’auto passò col rosso, ad una velocità assurda. Ce ne accorgemmo troppo tardi. Quando mi risvegliai ero in ospedale. La prima persona che vidi fu mia madre. Piangeva, continuando a sussurrarmi che le dispiaceva tanto. Mi faceva male la testa, le luci mi davano fastidio. Entrò un dottore, che scoprii dopo essere un neurochirurgo. Mi disse che aveva dovuto operarmi alla testa, che c’erano state delle complicazioni, ma che era andato tutto bene, alla fine. Mi chiese se riuscissi a parlare. La prima cosa che dissi fece piangere mia madre ancora di più.
Dov’è Mia?
Il dottore aveva detto che non c’era stato nulla da fare. Che avevano provato di tutto per tenerla in vita, ma che i danni riportati erano troppo gravi. Non ce l’aveva fatta.
Guardai il dottore, poi mi rannicchiai su me stessa.
Da quel momento non mi ricordo molto.
So di essere stata nel reparto di chirurgia per una settimana e che ne passai altre tre in psichiatria. So che mano a mano che la mia coscienza tornava, Mia se ne andava dalla mia mente.
Quando uscii da lì, partii per l’università. Il più lontano possibile che potei. Speravo di scappare dai miei fantasmi, ma mi seguirono anche qua. Fu quando capii che non sarei fisicamente riuscita a scappare da quello che mi era successo che iniziai a drogarmi.
La prima volta che mi feci una dose, rividi Mia.
Era nitida davanti a me, gli occhi scuri e i capelli chiari, il sorriso distratto. Sembrava ancora deliziata dal mondo. Io la bellezza non riuscivo più a vederla, ma vedere lei mi faceva bene.
Sapevo i rischi che mi avrebbe portato la droga. Ho iniziato a farmi di LSD. I trip in cui cadevo erano sempre diversi, ma in tutti c’era Mia.
In alcuni mi parlava, ma una volta che la coscienza tornava in me di lei non c’era traccia. Farmi era diventato l’unico modo per sentirmi viva ancora.
Presi l’abitudine di calarmi una dose la mattina, appena mi svegliavo. Così, per quando uscivo di casa, Mia era accanto a me.
Non mi resi subito conto dei vuoti di memoria. Una mattina mi sveglia e di quello che avevo fatto il giorno prima ricordavo solo Mia. Sapevo che non era normale, sapevo che avevo un problema.
Ero una tossicodipendente, una drogata. Avrei potuto far del male a qualcuno e probabilmente non me ne sarei nemmeno resa conto.
Ma era l’unico modo per rivedere Mia, Erica, capisci?
Era l’unico modo per non sentirmi sola.
Quando suonasti per me al parco, ero fatta. Eppure, nonostante questo, ti vidi. Vidi te, Erica. Davanti a me, con una chitarra in mano. Pensavo che nessuno avrebbe mai potuto tirarmi fuori dal baratro in cui ero caduta. E poi sei arrivata tu e io ti ho vista e Mia è sparita. Io ero fatta, ma tu ti sei messa a suonare ed è come se fossi tornata a respirare dopo tanto tempo. -
Vita fermò il movimento errante delle mani.
Erica piangeva.
Piangeva tanto, gli occhi che sembravano davvero il mare.
E nessun sorriso di girasoli ad illuminarli.
- Non sono pronta per sentire questa parte della tua storia, Vita. Non sono pronta. Smettila.
- No.
- Ti prego.
- Tergiversare non è da te.
- Non… non so cos’è da me.
- Lo so io. Ti conosco.

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Capitolo 6
*** 5. Capitolo V ***


-Capitolo 5.5-
 
 
 
- Mi piace questa, Erica.
- Ma ce ne sono di molto più nuove, Vita. Questa casa ha sicuramente bisogno di una ristrutturazione.
- Non m’importa. Questa sarà casa nostra. Nessun’altra potrebbe esserlo.
Erica pensava che fossi una testona.
Non smentisti mai questa descrizione di te.
- Con che soldi pensi di poterla ristrutturare?
- Con i nostri, Erica. Sai che possiamo permettercela.
Due giorni dopo, tu ed Erica vi trasferiste nella grande casa in riva al mare che avevate comprato.
La grande veranda circondata dalle colonne aveva bisogno di essere riverniciata, la cucina doveva essere rifatta e nella casa non c’era nessuna biblioteca, cosa che a tuo dire era assolutamente impensabile.
Vi metteste al lavoro, comprando materiali e assumendo operai che trasformassero la grande casa in riva al mare nella casa che avevate sempre sognato.
Era lontana dall’università, per arrivarci dovevate per forza prendere la macchina.
Erica aveva brontolato, all’inizio.
Così tu l’avevi portata nella veranda davanti al mare e le avevi mostrato il campo di girasoli che si vedeva da lì.
- Prima o poi il mare mangerà tutta la sabbia fino a che non arriverà ai girasoli. Allora, i girasoli impareranno a nuotare e il mare si riempirà di giallo. – le dicesti.
- Vita, ma li hai visti i papaveri sotto i girasoli?
- Sì.
- Dici che dovranno imparare a nuotare anche loro, per sopravvivere all’abbraccio del mare?
- I papaveri non hanno bisogno di nuotare.
- Perché?
- Perché i girasoli hanno imparato a proteggere i papaveri.
- Mi sa che avevi ragione, Vita.
- Riguardo cosa?
- Non potremmo vivere da nessun’altra parte.
 
Una mattina, nella casa che avevate da poco messo a posto, Vita ti aveva detto che si drogava.
Che non poteva fare a meno di farlo.
- Da quanto va avanti?
- Da un po’.
- “Da un po’” non è una risposta sufficiente, Vita.
Lei scosse la testa, tu aggrottasti le sopracciglia.
- Di che cosa ti fai?
- LSD, solitamente. Ho provato anche altro, ma… sì, LSD.
Eri rimasta immobile, cercando di conciliare l’immagine malata di una drogata con quella bellissima della ragazza di fronte a te.
- Prima o poi dovrai dirmi qualcosa, Erica.
Ma tu la guardavi muovere le labbra senza che le sue parole arrivassero al tuo cervello.
Credevi di averle detto tutto quello che dovevi dirle.
Lei aveva risposto a tutte le tue domande e tu sentivi di non avere più parole.
Riuscivi solo a guardarla, cercando d’imprimerti ogni suo più piccolo dettaglio dentro di te.
Cercavi di collegare i suoi comportamenti, cercavi di trovare un senso a tutto questo, cercavi di non guardarla negli occhi.
Poi ti alzasti.
E te ne andasti senza voltarti indietro.
Quando ritornasti a casa, lei non c’era più.
Ti chiudesti in casa per giorni, ora che l’università era finita potevi farlo.
Cercavi di studiare o di distrarti in qualunque altro modo ti venisse in mente.
Una mattina qualcuno bussò alla porta della casa sul mare che avevate comprato.
Ti ritrovasti davanti Vita, con gli occhi scavati e le occhiaie.
Magra come non l’avevi mai vista.
Ora riconoscevi in lei la drogata, la malattia.
Ti chiedevi se la persona che avevi conosciuto tu e questa Vita fossero la stessa persona e, nel caso, come poter conciliare le due cose.
- Ciao, Erica.
- Ciao, Vita.
- Mi fai entrare?
- Ho da fare, scusa.
Lei cercò il tuo sguardo, senza trovarlo.
Sospirò.
- Va bene, sì. Volevo solo dirti che sto partendo. Me ne vado.
- Dove?
Ti era uscito dalle labbra prima che potessi bloccarlo.
- Lontano, forse ritorno in città. Penso di aver bisogno di aiuto.
Non rispondesti a quella frase, con la paura di dirle qualcosa che ti avrebbe scoperta troppo.
Ma quel giorno voleva parlare lei.
- Mi dispiace tanto, Erica, davvero. Io… ho dei problemi che ho evitato per tanto tempo, dei problemi seri. Avrei dovuto parlartene, ho cercato tante volte di tirarmi fuori le parole, ma non ci sono mai riuscita. Perché, in fondo, sapevo che non volevo parlarti di questo. Ora i miei problemi sono scoppiati tutti insieme e io dovrò trovare il modo di sistemarmi, da sola. Senza cercare le risposte in te.
Però io ti amo, ti amo come non amavo da tanto tempo e come non amerò più, probabilmente.
Non ti dico dove sto andando.
Sappi che è un posto in cui starò bene.
Ma se mi cercherai, se vorrai cercarmi, ti prego, quando mi troverai, non farmi domande. Lascia che sia io a cercare di ricordarmi chi sei. Io non mi ricorderò di te, ma tu raccontami la nostra storia.  –
La sua voce si spense in un sussurro.
Tu allungasti la mano e le sfiorasti il viso, scostandole una ciocca di capelli.
La baciasti lievemente sulle labbra, chiudendo gli occhi, immaginando che non fosse un addio.
- Sei come il mare e i girasoli. – ti sussurrò sulla bocca Vita.
- Sei come i papaveri e la pioggia. – le rispondesti tu, chiudendo la porta.
 
Passarono gli anni e tu credesti di averla dimenticata.
Ti laureasti in legge, andasti a lavorare in uno studio di avvocati.
Eri brava nel tuo lavoro, molto.
Poi, come sempre accade quando la vita si mette d’impegno per tenere unite due persone, la ritrovasti.
Nel reparto psichiatrico di un ospedale qualunque, della città in cui entrambe avevate studiato e riso e amato.
All’inizio non volevi davvero credere che fosse lei.
Preferivi immaginare che fosse qualcuno col suo nome.
Poi entrasti nella stanza e la guardasti negli occhi.
Erano vuoti, ma erano inevitabilmente i suoi.
Ti facesti spiegare dai dottori che cosa fosse successo, perché fosse lì.
Tutto quello che sapevano era che l’aveva trovata che respirava appena il suo psicoterapeuta, andato a controllare nell’appartamento di Vita, preoccupato per la mancata risposta alle sue telefonate.
Da allora, non se ne era più andata dall’ospedale.
E non aveva mai parlato con nessuno.
Entrasti nella sua camera assolata lievemente, per non disturbarla.
Ma il medico si accorse subito che qualcosa stava cambiando.
Perché appena il suo sguardo vuoto si focalizzò su di te, Vita trasse un respiro profondo.
Un solo, semplice, respiro.
Eppure tutto.
Qualcosa le era sparito dal petto, un peso, e lei poteva ritornare a respirare nuovamente.
Tu non le ponesti domande.
Ricordavi ancora quello che ti aveva chiesto.
Non ponesti domande e chiedesti quando sarebbe uscita da quel reparto.
In quel momento arrivò sua madre, che ti guardò come sapendo chi fossi.
- Alla fine l’hai trovata. – ti disse con un sorriso triste.
Vita sorrideva allo stesso modo.
- Quando posso portarla via? – fu l’unica cosa che ti sentisti di chiedere.
La donna si fece portare dei fogli.
- Ti stava aspettando.
Non riuscisti a chiedere che cosa comportasse quella frase.
Così firmasti tutte le carte che c’erano da firmare per portarla via da lì, via con te.
Una volta tornate a casa, in quella casa al mare che avevate preso in un impeto di amore folle, ti chiedesti come saresti sopravvissuta a tutto il vuoto che vedevi nei suoi occhi.
Era così spenta che ti chiedevi se ci fosse ancora qualcosa della ragazza che avevi conosciuto.
Diventò presto una routine, prendersi cura di lei.
Ti alzavi la mattina e aspettavi che si svegliasse, per portarle la colazione.
Poi le facevi fare la doccia, la facevi camminare, le leggevi i libri che aveva lasciato in quella casa tanto tempo prima.
Neanche tu avevi avuto il coraggio di rimanere a vivere lì.
Avevi dovuto scegliere, così avevi chiuso tutto nella naftalina e avevi lasciato quella casa com’era l’ultima volta che ci eri entrata.
Un po’ come con i ricordi di lei.
Ma adesso che l’avevi trovata, non c’era altro posto in cui la sua mente sarebbe potuta guarire.
 
I medici parlavano di un grave trauma psicologico, di un’amnesia dovuta ad un forte dolore psicosomatico.
La mente cercava di proteggersi dai suoi stessi ricordi.
Per compensare, il corpo aveva smesso totalmente di agire.
Vita si era ritrovata chiusa nella scatola che era la sua mente distrutta.
In sette anni di lontananza da Erica, Vita ne aveva passati tre in ospedale, il resto sotto la supervisione di uno psicoterapeuta che diceva che rispondeva bene alle cure, prima che la trovasse in fin di vita nel suo piccolo monolocale.
Ma tu sapevi perfettamente quanto Vita fosse brava a mentire, come riuscisse a distrarti abbastanza dai suoi problemi da permetterle di vincere anche la sorveglianza più accanita.
Era riuscita a fregare anche te, con cui non solo aveva una relazione, ma con la quale viveva anche insieme.
Se Vita non voleva che qualcuno sapesse del suo dolore, nessuno sarebbe riuscito a scoprirlo.
Non che tu non conoscessi tutti i suoi trucchi.
Avevi letto i segni molto prima che tutto venisse fuori, che tutto vi precipitasse addosso con la sua forza distruttrice.
Eppure, avevi deciso di ignorare gli avvertimenti, di lasciar perdere, di crogiolarti nel suo sorriso distratto e nel suo sguardo perso.
Fin quando era con te, ti dicevi, sarebbe andato tutto bene.
Ma lei si dimenticava ogni volta un po’ di più, perdendo pezzi di sé stessa e lasciandoli lì, senza più cercare di raccogliersi, di sistemarsi.
Tu l’avevi notato, ma, ancora una volta, avevi preferito lasciar perdere.
A volte ti chiedevi se le cose sarebbero andate in modo diverso, se tu avessi lottato per lei, se avessi davvero provato a tenerla con te.
Eppure credevi in un destino, in un qualcosa che rendesse l’esistenza proprio com’era e che faceva accadere le cose perché così doveva essere, perché così era destinato.
Non avevi perso la tua fiducia nel destino neanche quando ti eri innamorata di una ragazza chiamata Vita.
 
***
 
Erica era andata via.
Era uscita dalla porta piangendo e non si era fatta vedere per tutto il giorno.
Vita si diceva che non poteva andare molto lontano, perché non c’era nulla intorno a loro.
Poi si chiese se la vecchia cabriolet che aveva intravisto nel garage fosse funzionante.
In quel caso, Erica sarebbe potuta andare ovunque e lei sarebbe rimasta sola.
Aveva bisogno che Erica tornasse da lei.
Era riuscita a chiederle di ritrovarla, quando era andata via la prima volta.
Ora che l’aveva davvero ritrovata, non aveva fatto in tempo a chiederle di tornare.
Doveva solo aspettare e sperare che avesse imparato a tenere le persone nella sua vita.
Lei aveva smesso di scappare.
Si costrinse a rimanere in casa, a non andare a cercarla e a lasciarle tutto lo spazio che voleva.
Riuscì a convincersi che fosse la cosa migliore da fare per le conseguenti due ore, ma quando l’orologio della sala batté mezzanotte, decise che sarebbe morta di ansia se non fosse andata a cercare Erica.
Non c’erano luci, oltre a quelle della veranda di casa loro, così nel cielo le stelle potevano riempire gli occhi di tutti coloro che alzavano gli occhi su di loro.
Vita trattenne la meraviglia e il vago terrore che già s’impadroniva della sua mente distratta e si costrinse a distogliere lo sguardo e a seguire il profilo dei girasoli e del mare finché non individuò quello di Erica, seduta in riva al mare, l’acqua che le lambiva le gambe.
Vita le si sedette accanto.
Si perse a guardare il cielo, respirando l’odore del mare.
Trattenne il respiro quando si rese conto che non c’era più un orizzonte e che davanti a lei si stendeva una distesa di stelle e di mare.
Un mare di stelle.
- Chissà dov’è finita tutta la spiaggia che c’era prima. – disse Erica in un sussurro.
Vita girò il volto verso Erica, che però guardava ancora il mare.
Non riuscì a distogliere lo sguardo da lei.
- Il mare se l’è mangiata, temo. – disse.
- Aveva fame?
- Forse voleva raggiungere i girasoli.
- Perché sono belli?
- Perché sono più belli dei papaveri.
Anche Erica voltò il viso verso Vita.
- C’è bellezza ovunque, Erica.
Era ancora lei, era ancora lì.
Erica aveva imparato a tenerla con sé, in tutti quegli anni lontana da lei.
E Vita aveva imparato a non scappare.
Erano cambiate tante cose.
- Vita, sai qual è la mia storia preferita?
- Penso di sì, Erica.
Erica annuì, sorridendole.
Anche Vita sorrise.
- Quella dei girasoli e dei papaveri.


 
Fine?


 
Piccolo, minuscolo angolo di un'autrice prolissa.
La storia è finita.
Questa storia, incredibilmente, è finita.
Volevo ringraziare nuovamente le persone che ho già ringraziato in precedenza e che, ognuna a modo loro, mi sono state sempre accanto.
Il viaggio che ha portato a questo storia è stato lungo e solo loro sanno quanto possa essere difficile uscire da certe situazioni e ritrovarsi completamente un'altra persona.
Inoltre, vorrei anche farmi le mie scuse.
Avevo detto che questa sarebbe stata la mia storia felice e romantica.
Quello che ne è venuto fuori è stata una storia malinconica e torbida.
Forse, non sono fatta per la felicità e il romanticismo.
O forse era questa storia a non essere fatta per qualcosa di così poco realistico.
Grazie ancora,
Lilian <3

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