A Mad Love...

di PanStitch
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1. - Il corridoio. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2. - Il primo Incontro. ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3. Uno strano sogno. ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4. - Problemi in ufficio. ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


L’autunno era arrivato in fretta quell’anno, ogni viale era coperto di foglie colorate e ad ogni passo poteva sentire quel dolce fruscio che tanto le piaceva.
Era un giorno come un altro a Gotham: il sole era sorto verso le sei di mattina, un chiurlo cinguettava fastidiosamente alla finestra del suo studio e le urla disperate dei detenuti squarciavano la tranquillità dello splendido giardino alberato; Harleen si stava prendendo un po’ di tempo per sé stessa, come ogni mattina da quando aveva accettato il lavoro.
Le servivano dieci minuti di riflessione prima di varcare l’enorme portone di legno, o avrebbe rischiato di vederselo chiudere alle spalle e non poter più ammirare lo splendido cielo che sovrastava come un' immensa distesa azzurra tutta la città.

Guardò l’orologio e dopo qualche passo incerto verso l’antico salice che sembrava vegliare su di lei e dominare il piccolo laghetto, si decise ad entrare.
“Buongiorno dottoressa Quinzel.”
“Buongiorno Sophie. Puoi portarmi un caffè? Non ho dormito molto questa notte.”
“Ancora i suoi incubi?”                     
“Questa volta erano più strani del solito. Comunque, Sophie, ormai ci conosciamo da quasi due anni…dovresti darmi del tu.”
“Sì, dottoressa Quinzel…quasi dimenticavo: il signor Arkham la sta aspettando.”
Harleen si battè un colpetto con il palmo della mano sulla fronte, poi si diresse verso lo studio del suo datore di lavoro, bussò tre volte e girò lentamente la maniglia d’ottone.
“Voleva vedermi?”
“Sì, Harleen. Sta per arrivare un ospite speciale, volevo metterla in guardia: è la persona più pericolosa che abbia mai varcato la soglia dell’ Arkham Asylum. Farebbe meglio a stare alla larga dalla sua stanza. Segua il mio consiglio…”

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Capitolo 2
*** Capitolo 1. - Il corridoio. ***


La notte calò improvvisamente su Gotham portando con sé un venticello autunnale che le fece salire un brivido su per la schiena.
Chiuse la finestra dello studio e nella stanza cadde un silenzio glaciale.
Sentì il monumentale portone aprirsi e corse fuori, nel corridoio, per scorgere almeno per un secondo l’uomo di cui il signor Arkham aveva così timore.
Il tempo sembrava essersi fermato, il cuore le batteva forte in gola e dovette deglutire con forza per rimandarlo al suo posto.
L’Arkham era sempre stato un luogo abbastanza spettrale: un' enorme villa vittoriana all’esterno, un labirinto dipinto di bianco ed ingrigito dagli anni all’interno…spesso Harleen si chiedeva se quello strano colore fosse dovuto alla malinconia soffocante dei pazienti.
All’improvviso, nella penombra del corridoio, apparve un uomo legato su una sedia a rotelle con al seguito cinque poliziotti e tre fra i più importanti specialisti della città.
Era uno spettacolo orrendo per la donna ma non potè fare a meno di osservarlo dalla testa ai piedi: uno splendido viso dai lineamenti delicati si intravedeva sotto una maschera troppo simile ad una museruola che lasciava scoperti solo due splendidi occhi azzurri e strani capelli verdi evidenziatore; delle cinghie strettissime erano avvolte attorno ai suoi polsi ed alle caviglie procurandogli orribili segni ad ogni piccolo movimento.

“Joker…” sussurrò terrorizzata appoggiandosi al muro, quasi il solo pronunciare il suo nome potesse ucciderla.
Per un momento i profondi e glaciali occhi del nuovo paziente intrappolarono i suoi, poi sparì dietro la porta numero 37.
Quella sera Harleen non riuscì a dormire. La sua mente era invasa da una lunga serie di pensieri astratti ed illogici; e quello sguardo…aveva terrorizzato migliaia di persone ma non lei.
Si convinse che la sua fosse stata una richiesta d’aiuto, in fondo era stato trattato come una bestia ed era sicura di aver visto dentro di lui qualcosa di buono, intrappolato dietro ad un muro di malvagità.
Quello sguardo le trasmise solitudine, inquietudine ed un' infinita tristezza nascosta da un velo di misticità e sicurezza.

Alle sette in punto, ancora vestita e truccata dalla mattina precedente per andare a lavoro, si catapultò all’Arkham con una sola idea in mente: farselo affidare come paziente.
Bussò con insistenza alla porta del capo.
“Signor Arkham, ho bisogno di parlarle con urgenza! Apra questa maledettissima porta.”
Sentì la chiave girare nella serratura e si fiondò all’interno della stanza, poi prese a camminare avanti ed indietro cercando di trovare le parole giuste da dire.
“Signor Arkham voglio essere la responsabile del signor Napier. So che mi ha detto di stargli alla larga ma vede, io sono convinta di poterlo aiutare. L’ho letto nei suoi occhi ieri sera…lui ha bisogno di me. Non è giusto che sia costretto a stare legato come un animale…io posso parlare con lui, ne sono sicura. Inoltre… ho sempre desiderato scrivere un libro su di lui e questa potrebbe essere la svolta decisiva che aspettavo da tutta la vita. La prego, non mi neghi questa opportunità.”
Il signor Arkham rimase in silenzio per un lungo istante, poi aggrottò le folte sopracciglia grigie e scosse la testa.
“Assolutamente no, dottoressa Quinzel. E’ per il suo bene.”
Harleen, infuriata, uscì sbattendo la porta alle sue spalle. Si diresse verso la sua stanza a passo pesante ma una volta arrivata alla numero 37 si fermò di colpo.
Una stranissima sensazione la avvolse in un abbraccio, non era curiosità ma qualcosa in più. Sapeva di non comportarsi in modo professionale ma fu come se una strana forza invisibile la costringesse a dare una sbirciatina…e così fece: si avvicinò al piccolo vetro e si incantò ancora a guardare quegli splendidi occhi color del ghiaccio per pochi istanti prima di essere interrotta da un colpo di tosse alle sue spalle.

“Harley! Che stai facendo?”             
Harleen sobbalzò e si premette forte le mani al petto, non aveva sentito nessuno arrivare, tanto era presa dai suoi pensieri.
“David! Mi hai spaventata, non farlo mai più! E comunque il mio nome è Harleen…non Harley!”
“Certo, Harley. Cosa ci fai davanti alla stanza del signor Napier?”
Harleen sospirò, si osservò le mani ed alzò lo sguardo verso gli occhi verdi del suo interlocutore.
“Stavo curiosando. Sono anni che aspetto un caso come questo fra le mani ma il signor Arkham pensa che sia troppo pericoloso per me.”
“So bene delle tue aspirazioni, ci conosciamo da tanto di quel tempo che ormai ti conosco come le mie tasche. C’è qualcosa di più...”
“Io penso di poterlo curare.”
David, un ragazzo prestante dalla pelle scura e dagli occhi smeraldo, scoppiò in una grossa risata facendo arrossire e vergognare la biondissima dottoressa, che alzò i tacchi e tornò nel suo studio.
Passarono i giorni, ogni cittadino di Gotham parlava della cattura del re della criminalità: ogni telegiornale, ogni programma televisivo parlava di lui e spesso una troupe televisiva si fermava per ore davanti al manicomio criminale per intervistare i suoi medici.
Nella sua mente la psichiatra non faceva che ripetersi quanto fosse ingiusto non poter avere un suo momento di fama, in fondo era la migliore in tutta la città nel suo campo. La routine e la solitudine la stava logorando, ogni giorno le sembrava uguale al precedente e la noia la divorava…il suo unico piccolo sfogo era guardare quegli occhi così intensi dietro al vetro della stanza numero 37.

Arrivò il venerdì e con lui una fitta pioggia ed il suo turno di fare la notte.
Si preparò come ogni altro giorno, si recò a lavoro e percorse il sinistro corridoio fino alla sua stanza preferita per osservarlo un po’ prima di cominciare a sgobbare.
L’uomo tremava leggermente, coperto solo da un paio di pantaloni di cotone ed una camicia di forza legata stretta dietro la schiena; alla sua vista Harleen non resistette e decise di tornare il più in fretta possibile nel suo studio.

Dopo pochi minuti sentì qualcuno bussare con delicatezza alla sua porta ed andò ad aprire.
“Dottoressa…la stavo cercando.” mormorò l’uomo grattandosi la testa.
“Sì? E cosa voleva chiedermi, dottor Arkham?” chiese sorpresa.
“Purtroppo mi vedo costretto ad acconsentire alla sua richiesta.
Nessun medico vuole più lavorare con il paziente numero 104, gli ultimi che ci hanno provato sono diventati i pazienti numero 304, 305… siamo arrivati al paziente numero 317.
Se lei è davvero convinta di volerci provare, non posso impedirle di farlo…in fondo è il nostro dovere di medici curare i pazienti, le chiedo solo di stare attenta.” si chiuse la porta dietro le spalle e sparì nel corridoio.

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2. - Il primo Incontro. ***


“Devi essere forte, Harley…se entri lì dentro. La sua follia è contagiosa.
Dicono che gli basti un minuto per farti crollare, spingerti nel fondo del baratro e renderti incapace di risalirlo.
Lui riesce a leggere nella mente di una persona meglio di quanto noi tutti, dopo anni di studi alle spalle, potremmo mai riuscire a fare…”

“Non preoccuparti, David. So quello che faccio.” accennò un sorriso, piegò la maniglia e varcò la porta lasciandosi il mondo alle spalle.
La stanza era totalmente bianca, di un bianco tanto innaturale da inquietarla; era vuota, ad eccezione di un letto, un piccolo tavolo centrale e due sedie, una delle quali già occupata.
La poca luce che entrava le pungeva gli occhi, costringendola ad abbassare lo sguardo.
Si sedette e poggiò la cartella clinica ed un piccolo blocco di appunti alla sua sinistra.

“Con chi ho il piacere di parlare?”
Non aveva ancora avuto il coraggio di guardarlo, da quando era entrata nella stanza, ma dovette costringersi a farlo.
Aveva ancora quella camicia di forza ormai sudicia addosso, la stava guardando e storceva leggermente la testa da un lato.
Non aveva più la maschera a coprirgli il volto, pensò che fosse veramente attraente.

“Sono la dottoressa Harleen Frances Quinzel. Può chiamarmi Harleen.” rispose con tono professionale, aggiustandosi gli occhiali.
“E’ un piacere conoscerla, dottoressa Quinzel.” disse con voce burlesca, ostentando il suo sdegno per la professione.
“Perché non parliamo un po’ di lei?” chiese con voce dolce ma al contempo autoritaria.
“E perché non parliamo di lei, invece, dottoressa?” replicò lui, fischiettando una versione inquietante di Itsy Bitsy Spider.
“Siamo qui per cercare di aiutarla, signor Napier.”
“NON…” scattò con voce furiosa. “Mi chiami con quel nome, la prego.” terminò in tono pacato.
“Come preferisce che io la chiami?” chiese la dottoressa, cominciando a prendere appunti.
“The Itsy Bitsy Spider… climbed up the water spout.
Down came the rain… and washed the spider out!
Out came the sun… and dried up all the rain…
But the itsy bitsy spider died with PAIN!”
La donna rimase in silenzio ad ascoltarlo.
Cominciava ad avere paura, ma era un brivido piacevole.
Quella voce così calda, in qualche assurdo modo, le procurava una sensazione mai provata prima: un misto fra paura, curiosità ed un nodo alla gola; quello che in genere si prova a guardare un film horror, se ti piace il genere.

“C..come posso chiamarla? Le piace Mr. J?”
Lui annuì con un sorriso, uno di quelli talmente folli da risultarle buffo e grottesco al tempo stesso.
"Molto bene Mr. J.” disse cercando di mantenersi professionale, qualcosa nella sua mente si era smosso: sarà stato per quello splendido viso deturpato dalle cicatrici, sarà stato per l’innegabile charme che lo contraddistingueva dagli altri pazienti…ma quell’uomo così ambiguo si era velocemente infiltrato nella sua testa e nel suo cuore.
Era eccitante parlare con lui.

“Aveva un buon rapporto con i suoi genitori?”
La risata del pagliaccio riempì la stanza. Era lenta, spenta…per niente buffa.
“Eravamo una bella famiglia. Mamma…papà… ed il piccolo Jack. Una normale, comune famigliola…papino andava a lavoro, mammina badava alla casa…”
Aveva lo sguardo perso nel vuoto, sembrava essere stato risucchiato dai suoi ricordi.
Terminata la frase si chiuse in un minuto di silenzio, mentre lei lo osservava impaziente.

“Perché li ha uccisi, allora?”
“Ha mai notato quanto sono noiose le classiche, comuni famiglie borghesi?” un ghigno soddisfatto si aprì sul suo volto.
Harleen non parlò, si limitò a prendere appunti.
“Sa, non mi piace essere studiato.”
"Sto solo cercando di aiutarla, di capirla... Mr. J." tentò di chiarire la donna in evidente stato confusionale, col cuore a mille.
"Lei è…” sussurrò facendo uno strano grugnito “la dottoressa più bella di tutto l’ospedale e…”
“Davvero? Volevo dire… grazie, ne sono lusingata.” Lo interruppe, arrossendo.
Era abituata ai complimenti, era una splendida donna e molti uomini tentavano un approccio con lei, ma quella volta fu presa di sprovvista.

“NON. MI. INTERROMPA.” Sbottò lui con rabbia per poi calmarsi in pochi secondi.
Harleen desiderò rimpicciolirsi e diventare grande quanto una formica.
“Non tenti di capirmi, dottoressa Quinzel...impazzirebbe."
Quell’ultima frase risuonò nella sua testa per tutto il giorno, come un orribile cantilena che soffocava ogni pensiero utile.







“Buongiorno dottoressa Quinzel, lo sa che ha davvero un bel culo?”
Era appena entrata nella stanza, si era svegliata con il piede sbagliato e lui accortasi del suo nervosismo non poteva non mettere il dito nella piaga.
“Buongiorno Mr. J.” rispose seccata.
“Perché non mi slega?” si morse il labbro “ho davvero voglia di sculacciarla per bene…”
“Mr. J. non potremmo continuare le nostre normali sedute?”
“E’ così eccitante con quella coda ed il camice...”
“La prego, Mr. J.”
“Potremmo fare un bel gioco…oggi.”
“Per l’amor del cielo stia zitto!” sbottò, offesa.
“Cosa c’è dottoressa Quinzel? Le danno fastidio i miei complimenti? Sa, se mi slegasse saprei essere molto più…piacevole.” ghignò malizioso, facendole intendere come si sarebbe preso cura di lei. “Perché non si prende un po’ cura di me?” guardò in basso, sul cavallo dei propri pantaloni “In fondo non è a questo che servono le INFERMIERE?”
Harleen battè con forza i palmi delle mani sul tavolo.
Non sopportava i maschilisti e non sopportava essere sminuita nel suo ruolo.

“STAI ZITTO FIGLIO DI PUTTANA O TI FACCIO FRIGGERE IL CERVELLO!”
Lui rise di gusto, era riuscito nel suo intento.
"Così poco professionale da parte sua…” le sussurrò, soddisfatto. “Così la volevo, dottoressa Quinzel! Combattiva, piena di quella rabbia che tanto reprime. Libera. Libera da quella maschera che indossa ogni giorno. La maschera della perfetta, professionale dottoressina." sorrise in modo macabro, sporgendosi verso di lei.
Si liberò come per magia dalla camicia di forza e la sbattè contro il muro, stringendole il collo con una mano.

Le sue labbra erano così vicine da sfiorarle l'orecchio, provocando in lei uno strano brivido di eccitazione.
Le spostò una ciocca di capelli dietro l'orecchio, poi passò un dito sul suo labbro inferiore, scoprendole leggermente i denti.
La stava guardando dritto negli occhi, intrappolando il suo sguardo nel loro pozzo di ghiaccio. Lei non potè fare altro che tremare.

"Qual è il suo problema, dottoressa Quinzel? Dentro il suo minuscolo cervellino sa che la sua vita è troppo squallida ed ordinata, troppo triste e per nulla divertente...si sente offesa se sminuisco il suo ruolo, forse perché è l’unica cosa che una frigida puttanella bionda come lei può vantare con la società. Secondo me avrebbe bisogno di una bella scopata."
Gli infermieri piombarono nella stanza e lo ammanettarono alla sedia.
Lei scappò nel suo studio, mentre una grottesca risata risuonava per tutto il corridoio.

Una volta calmatasi, quando il cuore smise di ballarle nel petto, aprì la cartella dell’uomo.
"Psicosi cronica caratterizzata dalla persistenza di sintomi di alterazione del pensiero, del comportamento e dell'affettività...disturbo antisociale di personalità...disturbo istrionico di personalità...”
Di impulso, la strappò.
"La sua mente è ben lontana dall’essere compresa. E' come un immenso tunnel, ricco di misteri e così complesso ed intenso che puoi perderti nella sua follia."

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Capitolo 4
*** Capitolo 3. Uno strano sogno. ***


“Adesso disegnate un grande arco con le gambe ed unite i vostri piedi...questa sarà la vostra ancora, il vostro lucchetto, la vostra sicurezza. Rilassatevi e portate una mano alla volta al petto…bravissime. Adesso lasciate andare le braccia e tenete i palmi verso l’esterno. Inspirate…espirate…sentite la colonna che si allunga...”
Harleen si trovava in un’enorme stanza bianca, vuota ad eccezione di nove grandi amache colorate sul quale erano appese altrettante donne. Un enorme specchio copriva ogni parete permettendo ad ogni allieva di osservare l’istruttrice. Con il dorso delle mani poteva sentire il freddo pavimento di finto parquet fin troppo vicino alla sua testa. Una musica rilassante che sembrava provenire dal nulla si diffondeva in tutto l’ambiente creando un’atmosfera unica, indescrivibile.
Cominciò a sentirsi la testa pesante, poi leggera...come una piccola piuma bianca trasportata in alto dal vento. Le sembrò di librarsi fra le nuvole, come un'aquila che plana dolcemente su una verde valle solcata da un fiume; quasi riusciva a vedere le ombre argentee sotto di lei.
Chiuse gli occhi e cominciò a meditare…







Si trovava al centro della stessa grande stanza ma gli specchi, le amache, le compagne di corso...ogni cosa era scomparsa.
Fece qualche passo in avanti ma non si mosse di un solo centimetro. Provò ancora, poi ancora e di nuovo...niente.
L'ansia cominciò lentamente a scavarle il petto, rendendole difficile respirare.
Cominciò a correre ma la stanza sembrava non avere limiti, ovunque guardasse vedeva solo un bianco accecante. Non riusciva a capire se fosse colpa di tutto quel bianco, che creava attorno a lei un' ansiogena illusione ottica, o se davvero stava correndo sul posto.
Si guardò i piedi per assicurarsi di non essere impazzita e solo allora si accorse che anche il pavimento era sparito.
Cadde.
Cadde nel vuoto per metri e metri, per poi trovarsi ancora in piedi al centro della stessa stanza.
Si mise ad urlare, ma dalla sua bocca non uscì nemmeno un sibilo.
Lacrime argentee cominciarono ad accarezzarle le guance, mentre un calore fastidioso le corrodeva i polmoni.
"Perchè stai piangendo?" una voce conosciuta, dal nulla, sembrò rimbombare per tutta la stanza.
"Dove sei?" pensò ed il suono della sua voce riecheggiò nel nulla.
Una mano bianca, fredda, le afferrò la spalla. Aveva un tocco delicato, rassicurante...ma al tempo stesso spaventoso.
Si voltò alla ricerca del suo interlocutore ma non vide nessuno.
"Fatti vedere!" pensò ancora.
Un arco nero comparve per qualche secondo nella parete di fronte a lei, lasciandolo entrare per poi sparire nel nulla. Aveva un bastone da tip tap in mano e lo roteava con disinvoltura; portava un cilindro nero in testa ed un vecchio smoking viola, sgualcito e scolorito, in contrasto con le lucidissime scarpe da cerimonia. I capelli verdi, i denti di metallo e le cicatrici lo rendevano grottesco ma al tempo stesso affascinante.
La sua risata malata echeggiò nel bianco.
"Siamo dentro la sua testa, dottoressa Quinzel." disse con un grosso sorriso impresso sul volto. "Si sente impotente, vero? Non potersi muovere, non essere in grado di parlare e sentire l'aria che si fa pesante, che ti soffoca...deve essere frustrante." continuò, con tono divertito.
Lei si sdraiò a terra in posizione fetale. Si sentiva completamente impotente, l'aria era diventata talmente pesante da schiacciarle il petto.
"Vedi, Harleen..." cominciò a camminare verso di lei con passo lento ma deciso, la girò, le afferrò il mento e le sollevò il viso portandolo al suo. "Questa è la rappresentazione della tua vita. Ogni giorno ti senti soffocare dalla monotonia, ti senti impotente davanti alle leggi etiche e sociali...tu sei malata ed io sono la tua medicina."
La donna tentò di opporsi, muovendo la testa e contorcendosi come un verme preso all'amo.
"Avanti piccola, così! Mi piace quando si ribellano..." esclamò l'uomo accarezzandole la guancia con il dorso della mano. "Siamo fatti l'uno per l'altra, a me piace punire ed a te essere punita..."
"Smettila! NON TOCCARMI!" trillò lei, alzandosi in piedi e scoprendo di poter finalmente parlare. "Sei solo uno psicopatico..."
"Mi costringi a dimostrartelo..."
Sentì le mani dell'uomo stringerle il collo e le sue capole batterono violentemente contro qualcosa che prima non c'era: un muro sembrava essersi materializzato dietro di lei.
Lo vide ghignare con soddisfazione, avvicinare il viso al suo e ricominciare a parlare; i battiti del suo cuore aumentarono rapidamente.
"Ti ricorda qualcosa questo, Harleen?"
Sentì il pavimento tremare...chiuse gli occhi e quando li riaprì si rese conto di essere tornata nella stanza numero 37. Ancora pareti bianche...e quella luce accecante che le pungeva gli occhi.
Tentò di divincolarsi; il suo respiro si affievoliva, la gola bruciava come dopo aver fumato una sigaretta per la prima volta ed il cuore sembrava volergli esplodere nelle orecchie.
"Non ti lascerò andare via, bambina...tu sei mia adesso."
Lei smise di lottare, lui si avvicinò ancora a lei. Il calore del suo corpo, in contrasto con le sue mani gelate, le regalò un brivido piacevole lungo la schiena.
"Hai paura di me?" domandò, guardandola dritta negli occhi.
"No." rispose con voce ferma e decisa, eliminando il piccolo spazio che separava le loro labbra.







"Harley...HARLEY!" gridò preoccupata Scarlett, la sua vicina di casa, facendola cadere dall'amaca per lo spavento. "Va tutto bene? Sono quasi venti minuti che sei appesa a testa in giù! Sembravi in una specie di...trance...mi hai spaventata. Eri così...bianca..."
Harleen si alzò in piedi, massaggiandosi la schiena.
Osservò la folla radunata intorno alla sua postazione, si voltò verso la giovane donna pallida e slanciata, fissò la sua riccissima chioma rossa per qualche secondo e la guardò dritta nei suoi grandi occhi a palla. Era così bella e delicata, con quel fisico da ballerina classica ed il viso da volpe.
"Tutto bene Scarlett, va tutto più che bene..."

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Capitolo 5
*** Capitolo 4. - Problemi in ufficio. ***


"Dottoressa Quinzel...l'ho fatta convocare alla luce degli ultimi avvenimenti che mi sono stati riferiti dai suoi colleghi..." esordì il Signor Arkham guardando l'enorme quercia che si ergeva al centro del giardino, proprio davanti alla finestra del suo ufficio, e dandole le spalle.
Il suo tono era deciso e piuttosto indispettivo e si sfregava energicamente le mani sudate in segno di nervosismo.
Harleen era seduta su una sedia girevole di tessuto rosso ed avrebbe tanto voluto giocarci come una bambina, ma cercava di contenersi e mantenere un aspetto serio e professionale.
Il direttore si voltò verso la scrivania, afferrò una videocassetta e la inserì nel video registratore. Premette un tasto ed il video delle telecamere di sicurezza della stanza 37, datato tre giorni prima, dopo un secondo di intermittenza accompagnato da un fastidioso rumore bianco, partì....







"Buongiorno Mr. J. , le ho portato un caffè!" esclamò la donna con un grosso sorriso stampato sul volto, appoggiando due enormi bicchieri di carta sul tavolo.
"La ringrazio. E' sempre molto gentile con me, dottoressa Quinzel...al contrario di quei figli di puttana che mi vengono a trovare ogni pomeriggio..." rispose tranquillamente, guardando fisso verso la telecamera e ghignando con soddisfazione.
"Tuttavia non credo che potrò fare colazione con lei, oggi...sa, ho una nuova camicia e non vorrei mai sporcarla!" continuò con tono sarcastico.
La dottoressa chiamò quattro infermieri e gli ordinò di togliergli la camicia di forza ed ammanettargli la mano sinistra alla sedia.
L'uomo si guardò per un momento le mani, felice di poterle muovere, poi notò un'infermiera che si comportava in modo strano: lo guardava terrorizzata, infilava un lembo di coperta sotto il materasso del suo letto, lo guardava ancora vibrando come un cellulare e ricominciava.
"BU!" esclamò guardandola dritto negli occhi con il suo ghigno più terrificante, facendola scappare via a gambe levate.
La dottoressa Quinzel scosse la testa, cercando di trattenere una risata.







Il video venne interrotto da una seconda interferenza, svegliando la donna dal suo piccolo flashback.
"Le sembra il modo di interagire con un paziente di questo tipo, dottoressa Quinzel? Ha messo in pericolo l'incolumità di tutti noi!" tuonò l'uomo, rosso in viso per la rabbia.
Inspirò ed espirò profondamente, poi fece partire la seconda parte del video, rispedendola nel mondo dei sogni...







"Sa, sento di poter parlare con lei come non ho mai fatto prima, con nessuno. Visto che lei ha deciso di parlarmi della sua famiglia, io le parlerò della mia: odiavo anche io la mia famiglia..." sospirò la donna, prima di tuffarsi nel passato. "Mia madre...mia madre non ha mai avuto carattere. E' una donna debole e stupida...spero di non diventare mai come lei. Mio padre? Lui era troppo occupato ad entrare ed uscire di galera per badare ai suoi figli. E' per lui che ho deciso di diventare psichiatra...volevo capirlo, ma quando è giunto il momento di farlo ho capito soltanto che è  un uomo meschino ed incapace di provare del vero affetto per qualcuno...un vero pezzo di merda." una lacrima le accarezzò la guancia. "E' un violento, un ladro ed un sociopatico...ma gli voglio bene." abbassò lo sguardo, pensando a tutte le volte che le aveva fatto del male.
Guardò la piccola cicatrice di forma circolare che aveva sul braccio, ormai quasi invisibile ma assurdamente dolorosa.
Sentì, nella sua testa, le sue stesse urla echeggiare nel vuoto; scosse la testa, si asciugò le lacrime e lo guardò negli occhi.
"Mio fratello Barry invece..."guardò l'orologio e si ricordò di colpo che gli aveva promesso di andarlo a prendere a scuola. "Devo scappare! Ci vediamo nel pomeriggio!" esclamò, gli lasciò un dolce bacio sulla guancia ed uscì dalla stanza.







L'ennesima intermittenza chiuse il video.
"Come le è venuto in mente di dargli così confidenza? Non provi a giustificarsi. Ho una tonnellata di video che mostrano lei ed il paziente comportarsi come vecchi amici e diversi infermieri hanno giurato di averla vista arrossire ai suoi complimenti! Per non parlare del fatto che gli ha praticamente riarredato la stanza!" disse tutto d'un fiato il dottore. "Sarò costretto a toglierle il caso..."
"Le posso spiegare tutto, Signor Arkham. Sto utilizzando un metodo alternativo con lui...sto cercando di conquistare la sua fiducia, sono convinta che sia l'unico modo per riuscire ad ottenere risultati soddisfacenti." si giustificò Harleen, cercando di essere il più convincente possibile e dimostrando di possedere ottime doti recitative.
L'uomo si accarezzò la barba, pensieroso.
"Lei è geniale, dottoressa." affermò con convinzione, prima di farle cenno di uscire dallo studio.








→Angolino autrice←
Scusate se il capitolo fa un po' schifo...prometto di scrivere qualcosa di meglio nel prossimo! :)
Se vi può interessare ho scritto e pubblicato la storia (o meglio i primi capitoli per ora) anche dal punto di vista di Joker!
 

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