Salvation - I am legend di Sephirah (/viewuser.php?uid=24052)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
i am legend
Prologo:
Un
colpo sulla porta, e poi un altro ancora, e di nuovo, sempre
più forte. Per fortuna
era blindata. Eppure chissà quanto ancora avrebbe retto
sotto quei colpi.
Ma
in quei lunghi e solitari anni Beatrice aveva imparato che bisognava
sempre
guardare il lato positivo delle cose. Per esempio quei colpi
così violenti
sulla porta
impedivano
agli altri rumori di raggiungerla. Non sentiva i lamenti e le grida
inumane che
venivano da fuori, appena oltre le finestre sigillate.
Beatrice
rimaneva ferma, senza fare il minimo rumore, nascosta dietro alla
cassettiera
della camera da letto con tutte le luci spente, immersa nella
più totale
oscurità. Aveva le gambe raccolte al petto e stringeva in
mano una piccola
torcia agli ultravioletti, che non le sarebbe servita a niente in
termini
pratici, ma che le avrebbe regalato, in caso, un'ultima soddisfazione.
Un
altro colpo, poi niente. Dalla porta non arrivava più nessun
suono. La ragazza
rimase ad ascoltare, e alla fine decise che era andato via, che aveva
rinunciato, e provò a rilassare i muscoli, scoprendo, con
sua somma sorpresa,
che non aveva muscoli da rilassare. Così si accorse di non
aver avuto paura.
Il
tempo del terrore era finito quando il flagello di Cripping aveva reso
il mondo
un luogo silenzioso, perché avere paura era diventata una
norma. Beartice poggiò
la piccola torcia a terra, accanto a lei, e cercò con la
mano, senza alzarsi,
l'interruttore della luce appena sopra di lei, tastando il muro nel
buio.
Quando
la finestra sussultò la ragazza si ritrasse ancora di
più nell'ombra,
afferrando di nuovo la torcia e stringendola in grembo. La finestra
subì
un'altro colpo, più violento del precedente. Beatrice
escluse che avesse potuto
sentirla: li separavano tre centimetri di acciaio, e comunque lei non
si era
mossa. Ma quello continuava a sferzare il metallo con sempre maggior
violenza,
e aveva cominciato ad incrinarlo. Gli occhi ambrati della ragazza
scivolarono
nel buio verso il letto. ci si sarebbe potuta nascondere sotto. Oppure
sarebbe
potuta uscire di soppiatto dalla stanza, ben attenta a non far rumore,
e
raggiungere il ripostiglio delle scope, dove il padre due anni prima
aveva
riposto un fucile a pompa, poco pratico ma letale, e le aveva detto di
usarlo
per le emergenze, solo per quelle.
Così
Beatrice analizzò le varie alterative alla propria morte
certa e scoprì di
averne diverse in grado di darle almeno qualche possibilità
in più di non
crepare.
Invece
non si mosse, rimase a guardare incantata l'acciaio piegarsi e
sformarsi sotto
i colpi violenti.
Cinque
anni prima il mondo era cambiato drasticamente, e lei e tutti gli altri
non
avevano potuto far altro che accettarlo, e abituarsi. Due anni prima
lei era
rimasta sola. Ora aveva la voce arrochita dal silenzio,
perché non c'era più
nessuno con cui parlare.
E
quando arrivò un altro colpo possente e si sentì
l'acciaio schioccare si rese
conto che poteva andare bene anche così. Aveva resistito,
era stata in grado di
abituarsi a vedere il mondo cambiare e diventare muto, si era abituata
a
sopravvivere e aveva accettato la realtà in cui viveva come
una disgrazia ma
anche come la sua vita, aveva deciso che avrebbe protetto quello che
considerava importante e che avrebbe continuato a vivere,
perché la vita era
diventata una cosa di valore.
Ma
adesso era rannicchiata nel buio come uno scarafaggio e si accorse che
non le
importava. Che le avevano portato via tutto e che se volevano potevano
prendersi anche quello.
La
finestra non avrebbe retto ancora per molto. Se volevano entrare, che
fosse. se
volevano entrare, potevano farlo. Sarebbe morta, e le andava bene, ma
decise
che
li
avrebbe lo stesso bruciati con la torcia, quegli stronzi.
L'acciaio
si incrinò irreparabilmente, un altro colpo ancora e poi
sarebbe tutto finito,
ma dall'ingresso esplose un boato e la casa si illuminò a
giorno.
Beatrice
sobbalzò e la investì un calore insopportabile e
l'odore del fuoco che brucia.
Sentì delle voci arrivare dall'atrio, voci umane. Dopo un
istante di sgomento
cercò di raggiungerle, ma la finestra cedette e quello che
una volta era un
uomo riuscì ad entrare nella sua casa, si eresse in piedi e
la fissò con i suoi
occhi neri e affamati. La ragazza si rese conto in un solo istante, con
una
lucida consapevolezza, che non poteva scappare. Abbandonò le
braccia lungo i
fianchi, mentre la creatura allungava una mano glabra e diafana verso
di lei.
Un
lampo, un colpo, il rumore di uno sparo, e poi lei volava, sospesa
nell'aria, e
poi di nuovo a terra ma molto più in là di prima.
C'era qualcosa che la
bloccava,
che
le impediva di muoversi. Sembravano braccia.
L'avevano
presa, l'avrebbero uccisa, ed improvvisamente non andava più
bene,
improvvisamente sopravvivere era tornato ad essere una cosa importante.
Urlò,
cercò di liberarsi, ma la presa attorno a lei si fece
d'acciaio e una mano le
scivolò sulla bocca. Beatrice si paralizzò: un
comportamento troppo complesso
per essere uno di loro.
Poi
sentì una voce, la prima dopo troppo tempo, la prima davvero
reale, che non
fosse delle sue allucinazioni, bella e calda, limpida, umana.
"Fai
silenzio. Va tutto bene"
Anna
ricaricò in fretta, perché sapeva che ne
sarebbero venuti parecchi altri, ma la
finestra sfondata poteva essere un problema serio. Sfilò una
bomba fumogena
dalla cintura e la lanciò nel vuoto. Istantaneamente la
stanza si riempì del
disgustoso odore dell'aglio. Almeno così potevano stare
tranquilli per un paio
di minuti. Cercò i compagni nell'ombra e fece loro rapidi
cenni. Quelli
eseguirono, dividendosi. Lei si diresse di nuovo verso l'atrio, dove
avevano
fatto saltare la porta blindata, ed imbracciò il fucile.
Dodici,
forse quindici infetti avanzavano come fulmini verso di loro. Anna si
mise
sulla soglia della porta e premette il grilletto, osservandoli
stramazzare al
suolo.
L'ultimo
di loro arrivò pericolosamente vicino, ma cadde a terra come
tutti gli altri.
Ma già ne arrivavano di nuovi, e bisognava sbrigarsi
perché tutto quel chiasso
ne avrebbe attirati ancora di più. Poi gli altri due membri
della squadra le
scivolarono accanto e insieme lasciarono la postazione per dirigersi al
furgone
blindato.
Non
era più importante non farsi vedere. Quello che avevano
potuto fare lo avevano
fatto. Impiegarono pochi secondi per arrivare al mezzo, e quando fu a
pochi
centimetri dalla portiera Anna sfilò un altro fumogeno
all’aglio contro l’orda
di creature che li stavano inseguendo. Sentì dei colpi di
mitragliatrice
affianco a lei e vide con la coda dell’occhio che li stavano
circondando.
Dovevano andarsene.
“Dove
sono gli altri?!” gridò nel buio, senza vedere i
compagni.
Ma
nel caos degli spari nessuno le rispose.
Poi
qualcosa le scivolò di fianco. Fulminea Anna
puntò la pistola, ma una mano più
veloce della sua afferrò l’arma e la
scansò, lasciando intravedere nel buio
degli occhi smeraldi dal taglio affilato.
“Con
quella rischi ancora di farmi male, sai?”
I
muscoli della ragazza si rilassarono. Allora notò che il
compagno portava
qualcuno in spalla. Una ragazza dall’aria smarrita,
totalmente immobile. Non
fecero in tempo a scambiare una parola di più. Una delle
creature superò il
muro di proiettili e li raggiunse. Anna venne morsa al braccio,
riafferrò la
pistola e sparò alla testa del nemico. Dall’altro
lato del furgone esplose
l’ennesimo fumogeno all’aglio. Il compagno dagli
occhi smeraldi si coprì il
viso, infastidito.
“Andate
via, me la sbrigo io”
Anna
obbedì immediatamente, senza discutere, e diede
l’ordine di salire sul mezzo.
Prese posto sul sedile del passeggero, ed ascoltò immobile
il rombo del motore
e i ruggiti delle creature che si scagliavano nel vuoto nel tentativo
di
fermarli.
C’era
un odore pungente di sangue secco e terra. Erano in molti, non ci mise
tanto a
capire che erano in toppi. Quella città era loro.
Le
luci della macchina furono presto lontane, ma nel buio così
fitto erano ancora
ben visibili. Ma lui era lì per questo, per evitare che li
seguissero. Cominciò
a correre nella direzione opposta, cercando di fare più
rumore possibile,
rovesciando tutto quello che gli capitava a tiro. In meno di dieci
secondi lo
circondarono, bloccandogli ogni via d’uscita.
Inarcò
un sopracciglio: un comportamento complesso, insolito per loro.
Ma
non importava. Non gli servivano uscite.
Rimanevano
immobili a guardarlo, come se aspettassero qualcosa, poi uno di loro
balzò in
avanti e gli fu addosso.
Bastò
scostarsi appena, scivolare di lato, la sua mano si chiuse sul collo
della
creatura e ne accompagnò il movimento, scaraventandolo via.
Poi, in un soffio
di vento, gli furono tutti addosso.
La
mano libera andò alla cintura ed estrasse un fumogeno. Lo
lanciò in aria, poi
le braccia tornarono raccolte accanto al corpo. Colpì alla
gola quello
immediatamente davanti a sé, lo scavalcò e
scivolò tra gli altri come un ombra,
sfuggendo ai loro attacchi, sfiorandoli appena. Nell’istante
in cui fu
sufficientemente lontano, il fumogeno toccò terra, e
l’odore di sangue e terra
venne scansato da quello pungente dell’aglio.
La
ragazza continuava a stringersi a lui saldamente, ma non sarebbe andato
troppo
lontano con quel carico così prezioso, così
delicato.
Svoltò
a sinistra, cercando di recuperare il furgone corazzato dei compagni, e
passò
le mani attorno alle gambe della ragazza per sorreggerla. Corse
più veloce che
poteva, ma non riusciva a seminarli. Dovevano essere così
affamati che nemmeno
l’aglio li aveva fermati.
“Devi
fare una cosa, te la senti?” domandò alla
sconosciuta. Lei annuì contro la sua
schiena.
“C’è
una pistola nella fondina a sinistra, sulla cintura. Prendila e
spara”
Lei
scosse la testa.
“Non
ti preoccupare” cercò di rassicurarla lui. Aveva
già il fiato corto. “Sono
talmente tanti che almeno uno lo prendi”
Dopo
un lungo istante di esitazione la ragazza eseguì. Si
levò il suono del suo
sparo, una, due, tre volte, e caddero dei corpi, e gli altri li
scavalcarono.
Beatrice
eseguiva l’ordine che le era stato impartito senza rendersene
davvero conto. In
una sorta di trance sentiva il rumore attutito dei corpi che cadevano,
orribilmente vicini. Troppo vicini. Aveva la vista appannata,
cercò di mettere
a fuoco. Riuscì a distinguerli appena mentre si muovevano
veloci nel buio. Uno
di loro le arrivò ad un soffio dal braccio e la
graffiò. Sembrò come se tanti
spilli le pungessero la pelle, il dolore si diffuse ed
arrivò fino alla punta
delle dita. Allora si rese conto che non avrebbero resistito a lungo,
che tra
poco li avrebbero presi. Ma anche il tempo della disperazione era
finito da
tanto, e così provò solo una rabbia prepotente.
Era arrabbiata per non essersi
portata il fucile, arrabbiata per il dolore al braccio, arrabbiata per
l’orrore
di Cripping e tutto il male che aveva portato, ma soprattutto
arrabbiata perché
le avevano rovinato l’unico cazzo di vestito buono che aveva,
e adesso le
toccava crepare con la maglietta sgualcita e macchiata di sangue. Era
così
arrabbiata che prese la mira con cura e aspettò
finché non fu assolutamente
sicura di centrare il bersaglio. Sparò a quello che
l’aveva morsa, e lo mancò.
Beatrice bestemmiò Dio, poi tirò la pistola in
testa all’infetto e questa volta
lo prese. Si lasciò sfuggire un sorriso di soddisfazione,
poi cominciò a
piangere in silenzio.
Erano
quasi arrivati, sentiva lontano il rumore del furgone che correva sulla
strada.
Poi altri due infetti gli tagliarono la strada e gli si scagliarono
contro.
Cercò di scartarli ma portava un fardello troppo pesante e
non ci riuscì. Lo
colpirono in pieno e cadde a terra. Sentì la ragazza perdere
la presa e cadere
più in là. Non sarebbe riuscita a salvarla.
Di
nuovo l’aria si impregnò dell’odore
dell’aglio, e le creature si ritrassero un
istante prima di ucciderli. Il fumogeno era caduto proprio a fianco
della
ragazza, che stava inerme a terra, forse svenuta o forse rassegnata. La
voce di
uno dei suoi compagni gli giunse dall’ombra dietro di lui.
“Giù
la testa!”
Obbedì.
Una scarica di proiettili illuminò l’asfalto a
giorno, e i volti sfigurati
degli infetti, tirati come teschi. Alcuni caddero, ma nessuno si mosse.
Avevano
fame. Dovevano mangiare. Avrebbero mangiato.
Afferrò
la ragazza e se la rimise in spalla, un peso morto che gravava inerte
sulle sue
spalle. Riprese a correre, cercando di ignorare l’odore
disgustoso della bomba
fumogena. Lasciò indietro il compagno.
Così
avrebbero mangiato.
I
lampi della mitragliatrice si fecero sempre più lontani, e
alla fine si
spensero. Impugnò un’altra granata e la fece
esplodere dietro di sé. Vide i
fari del furgone guizzare davanti a lui. Corse più che
poteva. C’era quasi. Ma
quelli già tornavano, perché il cibo non era
bastato, non li aveva saziati. E
ora che avevano assaggiato ne volevano ancora. Ma ormai era arrivato.
Uno
degli infetti li raggiunse, morse la ragazza al collo e lei
gridò di dolore, ma
riuscì a dimenarsi e ricacciarlo indietro.
Saltò,
in alto, nonostante gli bruciassero i muscoli delle gambe, sul tetto di
un
garage, e poi su un altro. A frotte lo seguirono. Erano sempre di
più.
Ma
ormai era arrivato.
Ripose
tutte le sue energie nell’ultimo salto. Uno di loro gli
graffiò appena una
gamba, un istante prima dello stacco, poi lui atterrò sul
furgone.
Anna
sentì il tonfo sul metallo e capì che era il suo
compagno. Premette
l’interruttore installato al posto della radio ed
azionò i fari
all’ultravioletto in cima al furgone blindato. Inondando la
strada di luce
nera.
Il
ragazzo dagli occhi smeraldi fece scattare la maniglia del portellone
posteriore e si infilò nella vettura, richiudendo
immediatamente. Li sentì
gridare di dolore mentre la luce li feriva, li uccideva. Rimase ad
ascoltarli.
Poi depositò il suo carico prezioso, la fece sdraiare a
terra, mentre Anna gli
chiedeva dove fossero gli altri due compagni che erano rimasti fuori.
Ma
lui non rispose. Li stava ascoltando morire.
“Avevano
fame. Dovevano mangiare”
|
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Capitolo 2 *** Capitolo secondo ***
i am legend 2
I
tentativi dello scarafaggio:
Beatrice
aprì gli occhi lentamente e rimase ad ascoltare il silenzio.
Era giorno.
Si
alzò dal materasso sudicio ed incavato e si
guardò attorno. Non passava nemmeno uno spiraglio di luce
tra le porte del furgone, ma c’era silenzio, e allora era
certa che fosse giorno. Il veicolo era immobile, con il motore spento.
Vicino a lei c’era qualcuno che respirava pesantemente.
La ragazza
si mise a sedere ed incrociò le gambe, cercando di abituare
gli occhi al buio, invano.
Gli eventi
di quella notte sembravano non essere stati suggellati dallo scorrere
del tempo, come se potessero sparire, come se il mondo se li potesse
riprendere. Ma c’era una persona che respirava pesantemente
di fianco a lei, e quindi il mondo non si era ancora ripreso nulla.
Guardò
il buio. Rievocò la sua corsa sfrenata nella
città. La prima voce che fosse umana dopo due anni di
silenzio. Beatrice si era dimenticata di come si parla, Beatrice si era
dimenticata che viso potesse avere una persona.
Dopo alcuni
minuti, o forse dopo un’ora, il sedile del passeggero ebbe
uno scossone e la persona che lo occupava prese ad armeggiare con dei
tasti, da qualche parte. Poi il furgone sibilò e fu inondato
di luce.
“Sveglia,
siamo in ritardo con le tabelle di marcia”
La persona
al fianco di Beatrice sbadigliò con un rumore indecente.
“Allora
metti in moto. Mica ti serve tutta la squadra no?”
“Datti
da fare e prendi la colazione” intervenne un’altra
voce impastata dal sonno, dal sedile del guidatore.
Il furgone
si mise in moto rombando furioso. E mentre l’uomo accanto
Beatrice si muoveva verso degli scatoloni in coda alla vettura la
ragazza sul sedile del passeggero si voltò verso di lei.
Era bella,
con i capelli lunghi e biondi, gli occhi celesti, la pelle chiara e il
viso gentile, magro, perfetto.
“Stai
bene?”
La sua voce
vibrò nel furgone armonica, ma aveva un timbro basso, deciso.
Attese la
risposta di Beatrice, ma la ragazza non riusciva a trovare nulla da
dire. Così le porse la mano.
“Io
sono Anna”
Quel gesto
era famigliare. Si rese conto che sapeva cosa rispondere.
“Io
sono Beatrice”
Anna le
sorrise, maledettamente bella. “Piacere”
Beatrice
sorrise a sua volta, come un automatismo.
“Ora
sei tra amici, non ti devi preoccupare più”
continuò Anna. La ragazza dagli occhi ambrati
però rimaneva in silenzio, come se non capisse esattamente
cosa stesse accadendo. Così lei decise che doveva continuare
a parlare.
“Quanto
tempo sei rimasta sola?”
Nessuna
risposta.
Anna si
arrese, cambiò discorso. Sollevò un indice ed
indicò l’uomo al volante. Beatrice
seguì il suo gesto, e non fece affatto caso al tachimetro
che segnava i 160 chilometri orari.
“Lui
è Andrej, l’addetto alla guida. Ha una patente
speciale per i veicoli militari, una cosa del genere”
Andrej si
voltò appena. Aveva i capelli così biondi che
sembravano trasparenti, e gli occhi azzurri come il ghiaccio, il naso
dritto e un bel sorriso. L’indice di Anna si
spostò oltre.
“Quello
che sta trafficando là dietro è Baptiste, lui si
occupa di cariche esplosive ed affini”
Baptiste
salutò con la mano da uno degli scatoloni, completamente
immerso nella ricerca della colazione. “Non crederesti mai
quanta roba bisogna far saltare in aria oggigiorno, ragazzina”
Anna
continuò. “Io invece sono il tiratore scelto della
squadra, tutte le armi che richiedono una certa maestria sono
affidate a me. Naturalmente mi occupo anche del recupero degli arsenali
che rinveniamo” Infine l’indice di Anna si
spostò verso l’unico angolo in ombra della
macchina. Da lì non venivano rumori.
“Lui
invece è Nicholas”
Nella
penombra Beatrice intravide alcune ciocche di capelli bianchi dondolare
davanti ad un viso diafano. Gli occhi verdi smeraldo la osservavano
senza ombra d’emozione, quasi disinteressati.
Riuscì ad intravedere anche le sue labbra, livide. Erano
belle. Sorrideva.
“Lui
si occupa dei casi di emergenza, diciamo. Quindi come puoi vedere siamo
bene attrezzati. Non devi più preoccuparti”
Beatrice non
si voltò verso Anna, rimase a guardare incantata quegli
occhi verdi, che rimasero impassibili anche quando lei
cominciò a piangere in silenzio, e poi sempre più
forte, fino a ridursi come una bambina, aggrovigliata su sé
stessa nel tentativo di sentire meno male.
Baptiste le
tirò la scatola di plastica con dentro la colazione.
Beatrice non provò nemmeno a reagire e venne colpita sulla
guancia grondante di lacrime. Anna afferrò dal cruscotto un
mazzo di chiavi e lo tirò al compagno di squadra, urlando.
“Cerca
di usare un po’ più di garbo con questa signorina,
brutto francese puzzolente, altrimenti ti sparo ad un ginocchio, e vedi
se non lo faccio davvero!” poi si rivolse di nuovo alla
ragazza. “Non curarti troppo di lui, gliela faccio passare io
la voglia di fare il simpatico… lo so, l’aspetto
non è dei migliori” aggiunse indicando il piatto
di plastica sigillato che Beatrice osservava apatica. “Ma
dovresti provare a mangiare qualcosa. Tappati il naso e non pensarci,
potresti scoprire di essere più affamata di quanto tu non
creda”
La ragazza
osservò il piatto. In effetti aveva fame, ma le mancava
qualcosa, e non riusciva a ricordare. Poi la mano villosa e sporca di
Baptiste le porse un cucchiaino da tè.
“Non
abbiamo altro. Abbiamo fatto confusione e non ci siamo portati le
posate”
“No,
Anna ha fatto confusione” rispose Andrej. Ora il tachimetro
segnava i 180 chilometri orari.
“Piantatela
con questa storia” disse Anna. “Può
capitare a tutti di sbagliarsi”
“Ma
a te non capita mai, quindi fatti prendere un po’ in
giro”
La ragazza
sbuffò, sorridendo. Beatrice afferrò il
cucchiaino che Baptiste continuava pazientemente a porgerle. Poi
l’uomo cominciò a distribuire altre confezioni di
plastica ai compagni. Tutti meno che a quello nascosto
nell’angolo buio.
“Allora,
Beatrice” esordì Andrei, un po’
esitante. “Noi costituiamo una squadra di recupero. Siamo
attrezzati per viaggiare anche di notte, quindi possiamo coprire grandi
distanze. Così andiamo a recuperare i sopravvissuti nelle
città che possiamo raggiungere nel giro di un paio di
giorni. Missioni di salvataggio”
“Era
da un po’ che giravamo per la tua città,
veramente” proseguì Anna. “Appena ti
abbiamo trovata però abbiamo pensato che fosse il caso di
andare. Dopo tutto quel putiferio”
Baptiste, da
dietro il furgone, scoppiò a ridere. Si era seduto con una
certa pesantezza vicino a Nicholas, che però non si era
mosso di un millimetro, gli occhi smeraldi che galleggiavano nel buio.
“Abbiamo
fatto” disse il francese tra le risate. “Davvero un
casino”
il suo
accento non era pesante. Doveva essere da tanto che conviveva con gente
d’altra nazionalità.
Beatrice si
decise in fine di aprire il coperchio della sua poco invitante
colazione. Sembravano fiocchi di latte, disgustosamente compatti e
biancastri. Decise di non farci caso: affondò il cucchiaino
e mise in bocca. Schifoso, ma niente in confronto all’odore
che era acido nella gola, quello dei cadaveri sulla strada a
mezzogiorno.
“do…”
ingoiò. “Dove andiamo?”
Anna la
osservò per qualche istante. “Sei la prima che non
diventa verde, dopo aver ingurgitato quella porcheria. Andiamo
nell’ultima cittadina fortificata del genere umano, a due
giorni di viaggio da qui”
Beatrice
mise in bocca un’altra cucchiaiata.
“Non
esistono città degli uomini”
“Beh”
si intromise Andrej “No, se intendi nel senso stretto del
termine –città-. Era una vecchia base militare,
con le mura di cemento armato pressoché indistruttibili,
altre più di 15 metri. Quei cosi non saltano così
in alto. Non sappiamo esattamente a cosa servisse, ma serve
perfettamente allo scopo attuale. Quelli che la scoprirono trovarono al
suo interno un impianto di trasmissione satellitare, e una piccola
radio a onde corte. Hanno cominciato a chiamare. Oggi siamo
centoventisei sopravvissuti”
La ragazza
dagli occhi d’ambra rimase in ascolto. Il suo cuore avrebbe
dovuto fare un guizzo di gioia. Non era sola, qualcuno era
sopravvissuto. Rimase in ascolto, ma niente, e così si
limitò ad infilarsi in bocca un’altra cucchiaiata
di quel rancio disgustoso, nella più totale indifferenza.
Beatrice si
riavviò i capelli, e nel riportarli dietro
l’orecchio sfiorò qualcosa di ruvido e umido.
“Non
toccarti le bende, ragazzina” le disse Baptiste.
“Hai le mani sporche. Anche se ci abbiamo messo tanto di quel
disinfettante che ti potrebbe guarire l’appendicite, non
è una buona idea farci entrare i microbi”
Aveva il
collo fasciato, e dopo alcuni istanti si ricordò
perché: quei mostri l’avevano morsa.
“Non
mi fa male”
“Se
ti ho detto che ci abbiamo messo una boccetta intera di disinfettante,
che dolore dovresti sentire ancora?”
“Non
me ne sono nemmeno accorta”
“Sono…
un uomo delicato”
“Ma
sta zitto, Baptiste! Tu sei un macellaio, da te non mi farei mettere
nemmeno un cerotto!” Anna si girò a guardarli dal
sedile del passeggero. “Ti ho bendata io, figurati se ti
facevo toccare da uno che ha le mani sozze di
terra…”
“Ok,
ok, prendevo solo un po’ in giro la nostra nuova arrivata!
Per mettere un po’ di buonumore!”
“Se
ti prude, se ti dà fastidio” riprese Anna.
“Ti posso mettere altro antisettico. Purtroppo non abbiamo
molto altro”
“Non
mi avete ucciso”
Le ruote del
furgone blindato ebbero un lieve sussulto mentre scavalcavano una buca
nell’asfalto, i feticci appesi allo specchietto retrovisore
tintinnarono contro il vetro e rimasero a ciondolare sospesi
nell’aria.
“E
perché avremmo dovuto?” chiese Anna.
“Mi
hanno morsa”
Baptiste
fece frullare le labbra in una specie di pernacchia spazientita.
“Ehi, non è così drastica la cosa, sai?
Abbiamo aspettato un paio d’ore. Tu sei rimasta buona buona,
e allora abbiamo capito che sei immune anche al ceppo ematico”
La ragazza
sollevò lo sguardo, ed indagò gli occhi,
straordinariamente caramellati, di Baptiste. “Avete
pensato… che potevo essere immune?”
“E’
piuttosto raro, forse per questo pensi di possedere una caratteristica
unica. Tutti noi qui preseti siamo immuni ad entrambi i ceppi, e
così anche la metà degli abitanti della nostra
città fortificata” Rispose Andrej.
“Anche a me parve strano, a suo tempo. E non solo gli uomini:
i canidi, per esempio, sono immuni al ceppo aereo, e gli equini ad
entrambi. Felini ed uccelli invece non sono adatti ad ospitare il
virus, e quindi quando lo contraggono muoiono e basta, non subiscono
mutazioni. Nessuno sa perché, ma è una bella
notizia no?”
“Ma
ci sono certo numerosi casi anomali. A noi è capitato un
cavallo, una volta, che ha subito persino la trasformazione”
si intromise Baptiste. Forse perché stava mangiando, il suo
accento si fece più marcato.
La vettura
doveva aver curvato, ma Beatrice non ci aveva fatto caso. Ci
rifletté solo quando la luce cambiò direzione e
le ferì gli occhi. Si spostò.
“Chiudi
il finestrino”
La voce che
giunse dall’angolo non più in ombra del furgone,
dove stava Nicholas, Beatrice la riconobbe come quella che le aveva
sussurrato all’orecchio. La sua prima voce umana, dopo troppo
tempo.
Andrej
borbottò qualcosa in russo e fece cenno ad Anna di girare la
manovella per alzare il vetro.
Il fascio di
luce che aveva colpito Nicholas fu sufficiente a lasciar intravedere il
suo viso: così bianco da sembrare trasparente, e le labbra
livide che non sorridevano più. I capelli
d’argento gli dondolavano sugli occhi come braccia morte. Con
una mano cercava di proteggersi il volto. Dove prima lo aveva colpito
la lama di luce adesso figurava una ferita, un segno di bruciatura.
Beatrice
sentì le dita diventare rigide e perdere la presa sul
cucchiaio. Lo sentì cadere in terra, un tintinnio di
plastica.
La pelle
bianca, la mancanza d’appetito, l’esagerata
reazione agli ultravioletti.
Era uno di
loro.
Uno degli
abomini di Cripping.
Ma come
poteva essere? Era senziente, e parlava. Lo tenevano lì con
loro come se niente fosse. L’aveva protetta.
Lasciò
cadere a terra il piatto della colazione, ormai vuoto, e si
rannicchiò istintivamente nel punto più luminoso
del furgone.
Eppure quei
mostri non avevano capelli, e i loro occhi erano inespressivi. Invece i
suoi erano penetranti come lame di coltello.
E
così, anche se si rendeva conto che non poteva essere uno di
loro, Beatrice urlò di terrore, e cercò di
fuggire, ma non c’erano vie di fuga. E tutto prese a girare.
Anna si
slacciò al cintura. “Va tutto bene,
calmati!” passò dietro, nel vano del furgone,
cercando di calmarla. “Non devi avere paura!”
Ma Beatrice
lo sentiva schizzare nelle vene, quell’istinto che ormai,
dopo cinque anni, si era impossessato di lei. Fuggire, salvarsi.
Preservare la propria esistenza. Gridò con quanto fiato
aveva in gola, fino a farsi male. Anna l’afferrò.
In quel
momento Beatrice si sentì in trappola. Non poteva scappare.
Uno scarafaggio. Uno scarafaggio che sa di dover morire. Il suo corpo
si irrigidì, trattenne il fiato. Sentiva le mani di Anna
sulle sue braccia che la imprigionavano.
Poi, altre
mani, più fredde, gelide, si accostarono al suo viso. E
quella voce che l’aveva salvata.
“Va
tutto bene. Non ti faccio del male”
Beatrice
rimase immobile. Aspettava qualcosa. Aspettava di vivere, o di morire,
non lo sapeva. Ma in quel furgone non si muoveva nulla, tranne i
feticci dello specchietto retrovisore che tintinnavano appena
colpendosi tra di loro.
Quante
lacrime aveva pianto? Quanto erano lontane le risate della gente, i
clacson delle macchine, il rumore di passi sul marciapiede?
È possibile contare i raggi di luce? Vale la pena di vivere
per poter percepire ancora quel senso di bello e meraviglia? Un
paesaggio, una canzone, il cielo di notte con tutte quelle stelle,
può valere la pena d’essere scarafaggi per poter
guardare il cielo di notte con tutte le stelle come aghi di luce nel
vuoto? Piangere di gioia, o per la bellezza, valeva la pena vendere la
propria dignità alla sopravvivenza?
Quelle mani
erano gelate, ma la voce era limpida e senza brutture.
Beatrice
sentì le gambe cedere, e il suo corpo prese a tremare
incontrollabilmente. Nicholas si chinò su di lei.
“Guardami.
Non ti faccio del male. Non ti sto facendo del male. Avanti,
guardami”
Solo qualche
ora prima aveva deciso di morire, e ora era pronta a lottare per
sopravvivere. Ma come poteva lottare? Non poteva fare nulla contro
quella presa invincibile e ghiacciata come la pelle di un cadavere. Non
voleva morire.
“Avanti,
guardami”
Era un voce
così bella, così dolce.
Come poteva
una di quelle creature possedere una voce così armoniosa?
Come poteva un uomo che possedeva una voce così armoniosa
essere in grado di uccidere?
E
così Beatrice cercò di ritrovare sé
stessa e con uno sforzo titanico si costrinse a fare ciò che
la voce le aveva ordinato. Lo guardò.
Lì,
di fronte a lei, non c’era un mostro. Non c’era un
corpo divorato dal morbo. C’erano solo quegli occhi verdi
profondi come l’universo. Tutto il terrore scomparve
all’improvviso.
Non la stava
aggredendo. Non le aveva fatto del male. L’aveva protetta,
l’aveva salvata. E quello sguardo, e la sua espressione, e il
modo in cui le teneva il viso tra le mani. Non c’era nulla di
cui aver paura.
Nicholas
continuò a guardarla ancora qualche istante, poi
allentò la presa e lasciò scivolare le mani lungo
le braccia della ragazza.
“Va
meglio?” le chiese.
Beatrice
annuì lentamente.
“Bene”
Concludendo
così il discorso si allontanò da lei e
tornò di nuovo nel suo angolo in ombra, passando appena le
dita sulla larga ferita che gli si era aperta nel braccio quando era
entrato nel fascio di luce per stringere Beatrice.
Anna
provò a sfiorare la ragazza.
“Vuoi
che ci fermiamo un attimo? Possiamo scendere per prendere un
po’ d’aria”
Beatrice
annuì di nuovo, sempre senza staccare gli occhi da Nicholas,
che si era seduto nella posizione di prima e che rimaneva perfettamente
immobile nel buio a ricambiare il suo sguardo.
Quando le
porte del furgone si aprirono sembrò che tutta la luce del
mondo si riversasse nella vettura e li investisse. Nicholas si era
avvolto dentro una coperta scura e rimaneva impassibile nel suo angolo,
Anna aveva imbracciato un fucile d’assalto sgangherato e si
era appostata sulla porta. Controllò che non ci fossero
pericoli all’esterno, poi diede il permesso di scendere.
Andrej prese Beatrice per un braccio, con gentilezza, e la condusse
sotto i raggi del sole.
Tirava un
vento leggero che le scompigliò i capelli castani, e
c’era odore di resina. Stavano percorrendo una strada stretta
affiancata da file di alberi, forse dei pini. Di fronte a loro, a pochi
metri, sorgeva una piccola casa diroccata, solitaria tra
l’erba alta, con le finestre inchiodate con assi di legno
marcio mezzo sfondate, la porta era stata scardinata e ridotta a pezzi.
Sul muro in mattoni anneriti c’era una scritta rossa
schiarita dal sole e dal tempo:
Quarantena.
Beatrice
fece un respiro profondo, cercando di assaporare quell’odore
così particolare e di fissarlo nella memoria. Il cielo era
chiaro e azzurro, senza nuvole. Erano i primi giorni di primavera, e il
sole era tiepido sulla sua pelle.
Andrej le si
avvicinò di nuovo, con le mani dietro la schiena; era
piuttosto alto.
“Mi
dispiace per quello che è successo nel furgone” le
disse. “Forse avremmo dovuto spiegartelo prima…
comunque non hai nulla da temere da lui”
Beatrice
alzò lo sguardo verso Andrej.
“Lo
so”
Risalirono
sul furgone dopo una ventina di minuti. Anche se erano in pieno giorno
non era saggio sostare troppo a lungo in una zona circondata da alberi.
Appena
richiusero tutte le portiere Nicholas si tolse la coperta e la
lanciò attraverso il furgone con aria infastidita. Baptiste
sbuffò.
“Ti
gira male, Nick?”
“No”
Il francese
rise. “Come vuoi tu”
Beatrice
raccolse la coperta che Nicholas aveva tirato a terra. Si sedette
vicino a lui, senza chiedergli il permesso, e se la poggiò
sulle gambe.
“Scusa
per prima” gli disse, dopo un po’.
“Di
cosa?”
“Non
volevo offenderti” la voce della ragazza aveva cominciato a
schiarirsi, dopo anni di raucedine dovuta al silenzio.
“Non
mi hai offeso”
“Sei
stato tu a proteggermi ieri notte”
Nicholas la
guardò inarcando le sopracciglia. Non capiva cosa volesse
esattamente da lui quella ragazza.
“Sì”
“Grazie”
“Dovere”
Beatrice lo
esaminò con maggiore attenzione. Nonostante stesse seduto
non sembrava essere molto alto, e non dimostrava che una ventina
d’anni. Aveva una camicia un po’ troppo grande per
lui, bianca e sporca, con la manica destra scurita da una grande
chiazza di sangue rappreso. I jeans invece erano della taglia giusta,
ma anche questi erano piuttosto sporchi e macchiati di sangue e terra.
Infine Beatrice fece un piccolo sorriso quando si accorse che portava
un paio di all star nere distrutte dall’usura e ingrigite
dalla polvere. I lacci avevano preso uno strano colore giallastro.
“Posso
restare qui?”
“Come
vuoi”
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Buonasera a
tutti! Sarà per via della sezione piuttosto trascurata o
della mancanza d’interesse da parte dei lettori, questa
storia non viene letta molto e non riceve recensioni, quindi avevo
perso un po’ la voglia di scriverla, nonostante a me piacesse
molto. Poi, ieri mi sono accorta che era stata inserita da qualcuno tra
i preferiti e ho fatto un salto di gioia! Allora a qualcuno
è piaciuta! Così mi sono rimessa a scrivere e ho
finito subito il secondo capitolo. Mi piace come sta venendo su la
storia, e Beatrice è un bel personaggio, anche se per ora
è rimasta per la maggior parte del tempo in una specie di
stato catatonico. Beh, come biasimarla? Poveraccia! Comunque,
continuate a leggere e commentate, mi raccomando! Arrivederci!
(proverò a postare il terzo capitolo entro un paio di
settimane)
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