Mein Herz Brennt (il mio cuore brucia)

di Pandroso
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Solo per te, fratellino. ***
Capitolo 2: *** Non spiare il fenicottero. ***
Capitolo 3: *** Lasciarti andare... mai. ***
Capitolo 4: *** Tamburi di guerra: la Famiglia si riunisce. Parte prima di due ***



Capitolo 1
*** Solo per te, fratellino. ***


Mein Herz Brennt

1. Solo per te, fratellino.

 

 

 

“Nun liebe Kinder gebt fein acht
ich bin die Stimme aus dem Kissen
ich hab euch etwas mitgebracht
hab es aus meiner Brust gerissen”

 

 

«Kaki!»

«Cracker, sono io»

«Oh, Rosinante, meno male! Cominciavo a preoccuparmi… »

«Ho delle importanti informazioni da comunicarti e preparati perché sono brutte»

«Ti ascolto»

«Quel carico di armi rubato, i tuoi uomini non sono riusciti a recuperarlo, come saprai, ma adesso si trova qui, allo stoccaggio, pronto per essere piazzato nel mercato nero. Le scatole dell’imballaggio sono tracciate con la seguente sigla: C. O. M. A., sotto dicitura di industria farmaceutica. Non ho ancora identificato l’acquirente ma te lo comunicherò al più presto»

«Mi auguro che questa sia la notizia peggiore della lista»

«Aspetta di sentire il resto»

«Continua»

«L’isola… comincia a stargli stretta, mio fratello ha intenzione di allargare il contrabbando oltre la Reverse Mountain, in direzione sud-est. E si mobilita in fretta, tra pochi giorni la ciurma salperà»

«Negli ultimi mesi la Famiglia si sta facendo particolarmente attiva; ci creerà problemi. Rinforzerò il confine con nuove navi, avviserò il viceammiraglio Tsuru. C’è altro?»

«Sì, ne è arrivato uno nuovo. È giunto qui una settimana fa »

«È un bambino?»

«L’ennesimo»

«Sai come devi procedere, fallo desistere »

«Sì, ma questo non è come gli altri »

«Perché?»

«Te la ricordi quella città che, insomma… Lui proviene proprio da… »

«Cosa stai cercando di dirmi?»

«… »

«Rosinante, sei ancora in linea?»

«Ammiraglio Sengoku, purtroppo devo interrompere la nostra comunicazione»

«D’accordo, resterò in attesa di un tuo nuovo rapporto, ricorda di mettere tutto per iscritto. E per quanto riguarda quel bambino, chiunque egli sia e da qualunque posto provenga, tu cerca di rispedircelo, prima che diventi anche lui un elemento pericoloso, ne abbiamo già troppi a scorrazzare in libertà »

«… Ricevuto»

Terminata la conversazione, il tenente colonnello Donquijote Rosinante respirò profondamente. Un peso gli gravava sul petto: si fidava ciecamente dell’Ammiraglio, eppure, il suo istinto gli aveva suggerito di non rivelare nulla su identità e provenienza del nuovo arrivato. Quel bambino non aveva né un posto in cui tornare né il tempo per diventare pericoloso.
Pensò fosse meglio mantenerlo ancora segreto.

Il tenente mise via il mini lumacofono e con uno schiocco di dita fece sparire lo scudo fonoisolante che era intorno a lui; lo creava ogni volta che doveva mettersi in contatto con la Marina, per non essere udito da orecchie indiscrete – per non giocarsi la testa,  che se fosse stato scoperto gliel’avrebbero recisa e appesa in bella mostra nel salotto di suo fratello – tale abilità gli era stata donata dal frutto Taci Taci, ed era ottima per svolgere la sua missione di agente infiltrato.
Sistematosi sulla testa il cappuccio di boia dalle punte penzolanti, e ironicamente a forma di cuore, per il marine era tornato il momento di calarsi nuovamente nel ruolo di Corazon: ufficiale della Famiglia Donquijote, braccio destro del pirata Doflamingo.

 

***


La zona portuale di Spider Miles, una località del Mare Settentrionale, accoglieva una enorme discarica, in cui rottami e pattume ne costituivano un’isola a sé: un organismo vivente fatto di sporcizia, e dove nella sporcizia si confondevano alcuni individui, anche loro scarti dell’umanità, che lì si raccoglievano e mimetizzavano.
Di notte il porto era poco illuminato, ad eccezione del faro che, col suo occhio ciclopico, lanciava ad intermittenza un veloce raggio di luce sui relitti abbandonati, e sbiancava il piccolo borgo situato vicino alla costa; questo era un neo se veniva paragonato alle dimensioni della discarica cresciutagli accanto, come un tumore.
Corazon attraversò il ponte che univa le due parti limitrofe; l’acqua che scorreva sotto gli archi del viadotto era inquinata: i liquami rilasciati dai rifiuti, che per negligenza venivano gettati anche in mare, emanavano terribili zaffate, di un odore simile a quello dello zolfo. Camminandovi in prossimità, non si poteva non essere colpiti dal lezzo nauseabondo.
L’Ufficiale era diretto verso i capannoni della DDF, una zona off limits che sorgeva esattamente nel centro della discarica; la gente normale se ne teneva alla larga, in paese tutti sapevano che era un covo di pirati, e che sotto copertura veniva utilizzato come base e punto di ricettazione.

Quest’odore non se ne andrà mai…

Pensò il marine; oltre alla sporca acqua salmastra, pure l’aria era appestata. Difatti, anche se gli inceneritori della discarica venivano spenti dalle sei del pomeriggio, e già da tre ore non erano in funzione, i fumi tossici di tutto quello che veniva bruciato in giornata avevano da tempo contaminato l’atmosfera. E la puzza non si attenuava nemmeno quando la brezza marina soffiava verso l’entroterra.
Per questi spiacevoli aspetti, il porto di Spider Miles era poco frequentato, isolato; e gli abitanti del borgo avevano tutti un’espressione arricciata sul volto, complice proprio il tanfo che si respirava. Non se ne faceva mai l’abitudine, o al limite il naso.

In prossimità dell’ingresso del covo, illuminato solo da sbilenchi lampioncini, i quali innaffiavano di luce arancione l’area sottostante, e che pendevano come uomini impiccati, fissati male sulle mura della struttura;  il marine avvistò Baby 5 e Buffalo: si stavano rincorrendo, giocavano, come era giusto che accadesse tra bambini. Entrambi erano bambini… Bambini disgraziati in mezzo ad una discarica, in un luogo che persino Dio, qualora fosse mai esistito e fosse stato un “buon” Dio, avrebbe preferito dimenticare. 

«Cora-san, ma dove sei stato?! Non sai che tra poco si cena! Jora sta facendo la pizza con le acciughe! Mangeremo pizza col pesce stasera! Sei contento?», quella che gli stava venendo in contro entusiasta era Baby 5, una bambina che quando sorrideva lo faceva anche con gli occhi.
Eccola, arrivava contenta, pronta a donargli un caloroso bentornato.
Un suono simile ad un colpo di frusta si librò nell’aria. E baby 5 non correva più.
Con lo scatto di un nibbio, Corazon aveva calato su di lei uno schiaffo crudele, arrestandone la corsa gioiosa, fatta di quell’allegria che solo i bambini sapevano concedere.
Piume nere si staccarono dal cappotto indossato dal pirata. Danzarono lente, poi, caddero delicate come carezze sul corpicino della bimba stesa al suolo.

Baby 5 alzò a fatica lo sguardo, per cercare quello dell’Ufficiale. Lei aveva occhi adoranti, la terra ad imbrattarle il viso grazioso e una guancia tumefatta: «Cora-san, mi dispiace, non volevo farti arrabbiare, scusami, tu puoi venire a cena quando vuoi… Ti imbocco io se ti fa piacere», la piccola gli era affezionata, e continuava ad adorarlo; era una bambina completamente fuori di testa.
All’Ufficiale diede il voltastomaco. Non lei, ma la consapevolezza che quella sua fragilità era al servizio di chi ne faceva abuso, di chi ne ricavava piacere, di suo fratello maggiore, di un orco.
Corazon le rifilò uno sguardo raggelante, ignorando anche la mano che la piccola gli tese.
Aveva un aspetto truce il Tenente Colonnello, quando indossava i panni di Corazon; aggravato dal trucco di clown che portava sul volto: col cerone che lo impallidiva, donandogli il lucore della morte; le labbra disegnate che si spingevano alle estremità del viso, formando un finto ghigno rosso;  e gli occhi, anche questi, macchiati, con occhiaie bluastre che sull’occhio destro abbozzavano una specie di stella.
Questa era la sua maschera, quella dell’Ufficiale Re di Cuori: un affascinante Pierrot dall’aspetto tetro ma fedele.
Degno, per stare vicino al Joker.
Giusto, per camuffare la propria e vera identità… che complottava di gettare ogni carta del mazzo, compreso il jolly, nelle profondità più remote di Impel Down.

L’altro, Buffalo, un ragazzino con l’aria da gonzo, si precipitò verso la sua amichetta; non per soccorrerla, ma per vedere quanto male le era stato inferto e farsi sopra grasse risate, come grasso era lui del resto.
Egli s’accorse del sangue che le colava appena all’angolo del naso; sorrise maligno; Corazon lo picchiò, e col doppio della forza usata precedentemente.
I bambini dovevano smetterla di giocare a fare i pirati.  A costo di ridurli in fin di vita gli avrebbe fatto passare la voglia.
Li lasciò a terra, doloranti, e salì le scale arrugginite che conducevano all’entrata del covo, per recarsi nel ventre del male. La tana dell’orco.

 

 ***

 

«Visto, Buffalo?! Ha dato una sberla anche a te, non vedo l’ora di crescere e diventare adulta, così Corazon smetterà di odiarmi» disse Baby 5, con aria dolce e trasognata, mentre raccoglieva con minuziosa cura le piume nere sparse a terra.
«Eh eh, ma io so perché stavolta ci ha picchiati. È colpa di Law, lo ha fatto arrabbiare lui» rivelò il bambino grassoccio, incrociando le braccia al petto con espressione saccente.
«Davvero!? E perché?! Dimmelo dai! Dimmelo subito, voglio saperlo!»
Il ragazzino le sorrise stirando le labbra e mostrando una fila di dentoni da coniglio, alcuni cariati per via degli zuccherini che mangiava in quantità industriali, e che riceveva direttamente da 'Mingo: era così che il fenicottero del male viziava i più piccoli del clan.
«Te lo dirò solo se mi comprerai una gelato gigante, con otto gusti, più la panna »
«Vuoi che te lo compri?! Davvero posso?! Mi farebbe tanto piacere esserti utile! Ma adesso è tardi, dove lo andiamo a prendere?… Posso darti i soldi intanto! – la bambina frugò nella tasca del suo grembiule – Tieni, questi sono mille Berry!» 
Buffalo acchiappò le banconote,  stringendole tra le sue dita unte e sudaticce; e dopo aver messo al sicuro il bottino – precisamente nelle mutande – che aveva estorto col ricatto venutogli facile grazie anche alla ingenuità di Baby 5, il ragazzino si mise più eretto, con la carica di chi era pronto ad annunciare l’avviso del coprifuoco, o l’arrivo di un eminente cataclisma.
Borioso della verità di cui era a conoscenza, e la stava per dire, il moccioso si schiarì la voce; Baby 5 era in visibilio: attendeva ansimando, con le mani fortemente giunte.
«Oggi pomeriggio mi trovavo proprio qui, stavo tentando di catturare una lucertola quando ho visto Law. Inizialmente, non avevo capito cosa stesse facendo, ma aveva un’aria spaventosa, poi ho seguito la traiettoria del suo sguardo, e mi sono accorto che stava osservando Corazon, che invece leggeva il giornale, guarda, stava seduto più o meno laggiù – e indicò un punto in mezzo al mare di rifiuti – dopo sono tornato a guardare Law e l’ho visto prendere la rincorsa, aveva un coltello in mano, e sai che ha fatto?! È andato da Corazon e lo ha colpito alle spalle! Così!» rivelò Buffalo, concitato, imitando la stilettata inferta da Law alla schiena dell’Ufficiale.
«Cosa?! Ma è impazzito, non la conosce la regola del sangue?!»
Baby 5, scandalizzata dal racconto, gettò a terra le piume raccolte con tanta attenzione e si coprì la bocca con le mani. La regola del sangue da lei accennata era una specie di codice a cui tutti i membri della Famiglia dovevano attenersi: nessun ufficiale doveva essere ferito, nemmeno alla sua dignità, sarebbe stata un’offesa per l’intero clan; pena la tortura.
«Aspettiamo di vedere cosa accadrà quando il Capo verrà a saperlo», negli occhi di Buffalo brillò un sadico lumino: non aveva mai sopportato Law. Per quanto lo riguardava, una punizione gli stava più che bene.
«Povero Law, sarà sicuramente torturato, mi dispiace per lui» la ragazzina al contrario era un burro scioltosi al sole.
«Naah, non verrà solo torturato, sarà ucciso! Per aver riso di Pica, io ci ho quasi rimesso le penne. Ma ora si tratta di Corazon, del fratello minore del Capo!»
«Oh, non voglio neanche pensarci, subirà una punizione terribile! Ma… tu sei davvero sicuro che Law sia riuscito a ferirlo?», baby 5 forse aveva un debole per Law e sperava con tutto il cuore che Buffalo le stesse raccontando solo bugie.
«Certo che sono sicuro, vogliamo andare a vedere se in quel punto c’è rimasto del sangue?» la invitò il moccioso, indicando un luogo lontano una ventina di metri da dove si trovavano.
«No, non ci vengo, adesso è buio laggiù!»
«Ah, sei una fifona Baby 5! Va bene, allora verifichiamo se Corazon ha lasciato qualche macchia sulle scale»

 

 ***

 

Ed ecco il salotto dei baccanali della Famiglia: un magazzino in mattoni di tufo, tramutato in sala ricevimenti, ma arredato con un gusto ai limiti del kitsch: dalle tende in velluto color porpora, aventi una pesante e finemente decorata gualdrappa, alle preziose porcellane, fino ai brillanti quadri ad olio raffiguranti regge e castelli su scorci mozzafiato. 
Solo un dipinto stonava con l’intera collezione, quello sulla cui tela stavano immolate quattro persone raccolte intorno ad una poltrona. Seduta su questa c’era una donna, che in braccio aveva un neonato; accanto a lei un uomo in piedi le teneva la mano, e vicino a lui, fiero di esserci, c’era un bambino. Indossava un paio di occhiali scuri.
Sembravano l’immagine della serenità. Appunto, sembravano: la cornice del dipinto era scheggiata, i bordi della tela anneriti, come se avesse corso il rischio di andare in fiamme, e la faccia dell’uomo era stata strappata via; al suo posto, la trama e l’ordito del tessuto, completamente sfilacciato, lasciavano un luttuoso spazio vuoto.
Tracce di tempi andati, che il Signorino gelosamente conservava appese alla parete.

A troneggiare nell’elegante sala, e a fare a pugni con l’alta classe, uno stendardo nero, immenso, stava inchiodato alla parete di fondo, coprendola interamente, e calava sui presenti come una maledizione.
La bandiera era il personale Jolly Roger di Doflamingo, riconoscibile dall’ inconfondibile simbolo: uno smile sbarrato. Sì, perché quel jolly a molti avrebbe tolto il sorriso.

I componenti della Famiglia erano quasi tutti presenti: in un angolo stavano Señor Pink, Lao G e Gladius, impegnati a contare mazzette di banconote infilate in otto sacchi di juta, alcuni di questi bucati o sporchi di sangue; seduti attorno ad un grande tavolo quadrato, ma vicini, c’erano Trebol e Diamante. Loro giocavano a carte.
Di tutta quella gente, nonché esemplari della più disonesta pirateria, nessuno poteva abbinarsi al lusso sfrenato posto lì ad ostentare opulenza.
Ogni volta che Corazon metteva piede in quel teatro del grottesco, si rendeva conto dell’utopia scellerata e senza controllo che stava mettendo in opera suo fratello maggiore: fuori una discarica, dentro la corte di un principe, ma fatta di assassini, ricattatori, ladri, psicopatici, i freak della peggior specie e bambini, quelli che riuscivano a sopravvivere.
Attualmente, l’orco non stava occupando la poltrona a lui riservata e piazzata in alto a tre gradini; un trono fatto apposta per lui, il diavolo rosa, il fenicottero del male, il così detto Joker dal perenne sorriso.

«Eeehi eeehi, Diamante, tu stai barando!» disse Trebol, l’ufficiale di fiori, tirando su del moccio disgustoso che gli colava dal naso.
«Non è vero, io ho solo carte vincenti!»
Il Diamante  in questione, anche lui ufficiale, ma di quadri, oltre ad essere uno spietato assassino, era un abile e scorretto truffaldino.
«Tu hai sempre carte vincenti perché ti nascondi gli assi nella manica! Eehi eehi, Corazon, sei qui!»
Trebol si accorse del suo arrivo. Per un breve momento si girarono tutti verso di lui, mostrandogli un impercettibile saluto e il dovuto rispetto.
«Corazon, come è andata con quelle scatole? – gli domandò Diamante, abbassandosi gli occhiali da sole e osservandolo meglio – Sono tutte pronte, le hai già fatte smistare?»
L'ufficiale di cuori, non potendo parlare, alzò un pollice affermativo. E sì, Corazon non parlava, si fingeva muto; ogni componente del clan, compreso il fratello, pensava fosse dovuto ad un grosso trauma accaduto durante l’infanzia. Così raccontava Doflamingo, che aveva motivo di crederlo per un sostanzioso elenco di cause. Queste, però, il fenicottero del male non le specificava a nessuno, ne era a conoscenza solo Trebol.
«Bene, allora appena il Signorino concluderà l'affare ti diremo a chi bisognerà spedirle» l’ufficiale di quadri gli sorrise bieco, strizzando le palpebre di due occhi minuti, occhi di topo.
«Riprendiamo a giocare Diamante, e tira fuori quegli assi, lo so ce li hai! Eeehi eeehi!»

Corazon aggirò il tavolo velocemente, aveva una certa urgenza: doveva raggiungere la sua stanza e chiudersi una ferita che sentiva stare sanguinando. Dopo che Law lo aveva accoltellato, non aveva avuto il tempo di curarsi senza destare sospetti – il carico di armi appena arrivato doveva essere controllato immediatamente – si era passato un semplice giro di garze; la ferita però continuava a sanguinare e andava ricucita; e prima che i “compagni” se ne accorgessero, altrimenti lo avrebbero tempestato di domande o, peggio, lo avrebbero comunicato direttamente al fratello.
Il suo passo era svelto ma non così accorto: inciampò sui suoi stessi piedi, travolgendo l’ufficiale Diamante, con una impietosa carambola.
Volarono un cappello, piume nere e alcune carte da gioco.
«Eehi eehi, che sono quei due assi di fiori? Con quanti mazzi stiamo giocando? Allora avevo ragione io, tu stai barando Diamante! » gridò Trebol, dopo aver scoperto la magagna.
Il capitombolo aveva fatto uscir fuori le carte che l’Ufficiale di quadri teneva davvero inguattate nella manica.  
«Me li ha messi addosso Corazon, io non se so niente!»
«Non prendermi in giro e restituiscimi subito i soldi!»
Fortunatamente, i due ufficiali erano così presi a litigare che non s’accorsero della macchia scura che stava sporcando la camicia di Corazon. In fretta, lui afferrò i lembi del suo cappotto corvino per celarsi e andar via.
Gli altri non fecero caso al trambusto, erano abituati a certe scene demenziali, e poi, dovevano finire di contare il denaro, e farlo bene: era l’introito ottenuto in tre mesi di ricatti , ricavato dal pizzo richiesto a tutti i commercianti dell’isola.

 

 ***

 

La dimora di Doflamingo non aveva solo il salotto a rispecchiare i suoi estri di decaduta nobiltà e sfrenato capriccio, anche i corridoi erano ammobiliati con pezzi pregiati, addirittura con alcuni manufatti  realizzati con il leggendario legno dell’albero Adam.

Ancora con questa robaccia! Ma quando la smetterà di sparpagliarla in giro?!

Pensò l’Ufficiale, formulando un giudizio che però non era rivolto ai mobili e soprammobili, ma ad una raccolta, apparentemente innocente, che suo fratello maggiore aveva da poco iniziato: Doflamingo collezionava gabbie vuote per uccelli. Le appendeva ovunque, anche nei corridoi, facendone un uso improprio come porta candele; e quando queste ultime venivano accese, la luce della fiamma  proiettava sul soffitto e sulle pareti le ombre delle inferriate. Come stava accadendo in quel momento: la sensazione di un’asfissiante claustrofobia attanagliava chiunque vi camminasse, perché gli interni del covo assumevano l’aspetto di una prigione, di condotti infernali, di una voliera in cui ci si muoveva credendo di essere liberi.
L’Ufficiale sapeva benissimo cosa nascondeva quell’inquietante ornamento: rispecchiava il terribile potere posseduto dal fratello e da tutti temuto, e che accresceva a dismisura  l’empietà di cui il diavolo rosa era già forgiato.

Siamo uccelli nella sua gabbia…

Rosinante inorridì. Nessuno era mai uscito vivo da quell’inferno fatto di fili.

Arrivato davanti alla sua stanza, Corazon trovò la porta accostata. Particolare di cui non si curò. Vi entrò diretto. Completamente immerso nel  buio, sapeva che sul comò, dove stava lo specchio, ossia l’angolo per il make-up, c’erano due lampade ad olio. Con l’accendino che di solito usava per le sigarette, Corazon girò la rondella avvicinandolo agli stoppini infiammabili.
Le lampade emisero un leggero bagliore, che andò intensificandosi man mano che la fiamma prendeva corpo.
Stava per togliersi dalle spalle il mantello di piume nere, quando, buttando uno sguardo distratto sullo specchio di fronte a lui, scoprì di non essere solo: un volto puntuto, nascosto nella penombra e illuminato appena dal baluginio tremolante delle lampade, era riflesso nello specchio. Suo fratello Doflamingo era lì, seduto sul letto.

 

 ***

 

«Ciao, Corazon »
Esordì con voce sterile il Joker. Egli sembrava avere un’espressione pacata, ma gli immancabili occhiali dalle impenetrabili lenti rosse costituivano un muro che sbarrava la fuoriuscita di ogni emozione da lui provata.
Del sudore si raccolse sotto le ascelle dell’Ufficiale, complice l’adrenalina arrivata alle stelle per l’inattesa sorpresa.
Cosa voleva suo fratello?
Doflamingo aveva con sé un libro, di cui teneva il segno col dito indice, infilato nel mezzo delle pagine. Dalla copertina spiegazzata, poteva leggersi distintamente un titolo: Flevance.
Corazon se ne accorse.
«Scusami l’improvvisata – riprese  ‘Mingo – non volevo disturbarti, ma c’è una cosa importantissima che devo annunciare e vorrei che tu fossi la prima persona a saperla»
Raccontare direttamente ogni cosa al fratellino era ciò che il Joker faceva da quando lui era tornato a casa. A parte un’eccezione: la missione di Vergo, un altro membro della Famiglia, l’ex Corazon di cui Rosinante aveva preso il posto; be’, l’Ufficiale  non ne sospettava nemmeno lo scopo, non era riuscito tuttora a scoprirlo.
Trovare il fratello nella propria camera, e con quel libro, non lasciava presagire nulla di buono.

«Ho deciso che Law diventerà un membro ufficiale del nostro clan… »

Il peggio del peggio, Corazon se lo aspettava, e se conosceva bene da quale genio del male il fratello era invaso, già sapeva che quel bambino, diventando uno dei pirati Donquijote, sarebbe stato solo una delle tante pedine che il fenicottero avrebbe manovrato con divertimento, e sacrificato per i suoi diabolici scopi.
«Vedi… in quel moccioso, nei suoi occhi rivoltanti, in essi ho riconosciuto bruciare la stessa rabbia che mi ha nutrito, cullato come una madre affettuosa per tutti questi anni» e quando il Jolly accennava il passato e inseriva nei discorsi la parola madre, restava solo pregare e sperare di nuovo in Dio, o in qualsiasi entità, purché fosse in grado di fermare la sua irrefrenabilità.
Come Drago Celeste decaduto, che rivendicava la sua divina provenienza, egli era destinato a diffondere il caos nel mondo; ragion per cui il tenente colonnello Rosinante aveva il dovere morale e civile di impedirglielo, come marine e soprattutto come fratello. 

«Hai visto da dove viene? – proseguì il fenicottero, sventolando il libro che teneva stretto fra le lunghe dita affusolate – Flevance! La città bianca, la città dello splendore…  Dello splendore della morte. Fu fu fu! A causa dell'avvelenamento da piombo ambrato il Governo Mondiale, temendo che il morbo potesse essere contagioso, prima li ha messi in quarantena e poi li ha uccisi, ha sterminato tutta la popolazione! Che peccato, mi sono perso uno spettacolo coi fiocchi: esseri umani che uccidono altri esseri umani. Stasera ricordami di brindare al massacro della plebaglia, fu fu fu!»
Il diavolo rosa si passò una mano tra i capelli, tirando indietro lunghi ciuffi biondi, e sorrise pago. Gli occhiali erano sempre lì, con le lenti rosse a proiettare l’anarchia che, sovrana, governava il regno della sua disumanità.
«E lui è l'unico sopravvissuto, anche se ha i minuti contati… Una storia che ha dell'incredibile! È un insignificante moscerino privo di speranza, ma lo aiuteremo noi. Ho un piano per lui, se sarà fortunato. E ho un piano anche per questo mondo, vedrai. Ce ne andremo da questa fogna puzzolente, e li faremo inginocchiare uno per uno, costringendoli ad ammazzarsi tra loro. Questa terra diventerà una valle di lacrime, e farà inorridire anche i cani lassù, che ancora si fanno chiamare Dei. Ti giuro che molto presto avremo pure le loro teste! Fu fu fu… »

Corazon tremava, senza darlo a vedere; la terribilità di suo fratello non aveva limiti, il rancore nei confronti di Marijoa pulsava ancora vivo e ruggiva assetato di vendetta.  E se la sarebbe presa, senza scampo per nessuno.
Il piccolo Law era solo l’inizio di una escalation verso il genocidio dell’umanità intera. Per il fenicottero quel bambino rappresentava la preda perfetta, materia pregiata da cesellare con lo scalpello della brutalità, terra fertile dove impiantare il seme dell'odio.

So a cosa stai pensando fratello mio, io non te lo permetterò.

Rosinante aveva capito: Law e suo fratello, entrambi avevano assistito e subito atroci violenze, erano stati perseguitati, e tutti e due si ostinavano a non morire. Ma una differenza c’era, Doflamingo era un assassino, nato malvagio, sin da bambino; Law era un innocente da preservare.
Il Tenente Colonnello ebbe chiara la sua missione: salvare quel bambino, ad ogni costo, dalla malignità di suo fratello che, altrimenti, ne avrebbe fatto un mostro a sua immagine e somiglianza. 

Ammaliato dall’orrore sviscerato da Doflamingo, e stando troppo vicino alla fiamma che alimentava una delle lampade ad olio, Corazon non si accorse che le piume del suo cappotto stavano prendendo fuoco. Appena vide del fumo andargli negli occhi e avvertì un calore troppo intenso sulla spalla sinistra, intervenne per spegnere l’incendio. Suo fratello, però, non si fece distrarre: Doflamingo non poteva pretendere dal fratellino una risposta, ma un cenno di approvazione sì, questo lo pretendeva e lo stava aspettando. Lo scrutò con l’accortezza clinica di uno psichiatra. Corazon si accorse di essere nel suo mirino, nonostante non potesse guardarlo direttamente negli occhi e, a parte preoccuparsi di non rendere troppo evidente la sua identità fedifraga, non mosse un muscolo. Gli girava la testa, a tratti vedeva doppio. Aveva un’emorragia in corso: la ferita dietro la schiena continuava a sanguinare. Sentiva che, oltre la camicia, il sangue gli stava colando giù, inzuppandogli anche i jeans.

‘Mingo si alzò, seguito dal cigolio del letto. Chiamò il fratellino: «Ros’… »
Un attimo dopo: Corazon sentì cadere il libro che trattava la tragedia di Flevance, e il respiro di suo fratello vicinissimo a sfiorargli l’orecchio. Il diavolo rosa gli era addosso, alla distanza di un palmo e con l’alito caldo che odorava di vino.
«Ros’ – ripeté nuovamente il fenicottero – sai, non te l’ho mai detto, ma ogni volta che lasci Spider Miles, durante una missione per esempio, mi sembra che tu fugga da me, non so perché… ho il timore perenne che tu possa girarmi le spalle, scomparire da un momento all’altro, come accadde quattordici anni fa…»
Doflamingo appoggiò le mani ad incorniciare il viso bello e perfetto di Corazon e, spingendolo, lo costrinse ad indietreggiare e sbattere contro il canterano che aveva alle spalle.
Forse Rosinante nemmeno respirava più: non gli piaceva ciò che stava ascoltando, sapeva quanto suo fratello amasse giocare col cervello delle sue vittime, e se la sua copertura stava saltando, da come intuiva che fosse, non aveva scampo: doveva stare al suo gioco.
«Fu fu fu, lo so, lo so che dopo torni sempre a casa, non avresti mai il coraggio di voltare le tue zanne contro di me. Fratellino»
Non lasciandogli spazio, Doflamingo lo abbracciò. 
Per Corazon fu come essere cinto dalle spire di uno serpente stritolatore: iniziava piano, faceva male alla fine. Si moriva alla fine.
Le mani di suo fratello erano un vero problema, perché quando iniziavano a toccarlo non stavano mai ferme, si intrufolavano dove preferiva il diavolo rosa e senza chiedere permesso.
Fu inevitabile:
«Che cos’è?!»
‘Mingo si staccò da lui.
«Sangue? Rosinante, stai sanguinando… Sei ferito?!»
Andato in stand-by a causa delle malvagità pronunciate dal fratello, e dell’accusa di potenziale tradimento, ma anche per le fusa che si trovava costretto a subire; l’Ufficiale recuperò miracolosamente se stesso e col palmo aperto fece capire al fratello di aspettare. Si voltò, per cercare sul ripiano un pezzo di carta dove poter scrivere. Là sopra trucchi da donna sparpagliati, una vaschetta aperta che conteneva cerone seccato, pacchetti di sigarette vuoti, con le rispettive cicche ammucchiate in un posacenere (che ne conteneva troppe), libri, cartine arrotolate, ogni oggetto presente lasciato in pieno disordine. Corazon strappò comunque l’angolino di una carta nautica, e non avendo inchiostro disponibile, afferrò un rossetto. La punta grassa e rossa scivolò morbida sulla carta, consumandosi velocemente.

«È stato... Un... Nemico» lesse Doflamingo.
«Spero che tu gliel’abbia fatta pagare… »
Corazon annuì debolmente, immaginando cosa sarebbe potuto succedere se suo fratello avesse avuto modo di scoprire la verità, che era stato il marmocchio a pugnalarlo. 

«Non lo accetto. Non voglio che tu ti faccia ferire da qualcun altro – gli disse ‘Mingo, a sottintendere che unicamente lui ne possedeva il privilegio – Ros’ se ti fanno del male, se qualcuno ti uccide, o ti sfregia soltanto, io gli faccio vivere l'inferno », come c’era da aspettarsi.
Il diavolo rosa gli tornò addosso, spietato.
«Lo faccio a pezzi per te. Con la sua pelle mi ci acconcio un abito e i suoi occhi me li porto incastonati in anelli da mettere su ogni dito medio. Solo per te, fratellino»
Un respiro rabbioso, un ringhio per la precisione, fu il primo avviso di ciò che stava per accadere: Doflamingo infilò una mano sotto il cappuccio di Corazon, e gli accarezzò i capelli della nuca, erano leggermente umidi. Glieli tirò d’improvviso, indietro, violentemente, obbligandolo a seguire quel movimento con la testa.
«Ah, fratellino, al folle che oserà toccarti taglierò via la testa – soffiò fuori le parole. Intanto, con una mano ancora sporca di sangue, il Joker gli accarezzò il collo pulito, eccitandosi nel sentire l’aorta pulsare sotto la pelle – ne farò una coppa da cui bere il suo sangue. Il sangue di chiunque osi torcerti un solo capello, perché il mio fratellino non può toccarlo nessuno, non può averlo nessuno»
Il diavolo rosa era in delirio. Corazon ne riconobbe in volto l’espressione di parricida. Non si era cancellata, non poteva cancellarsi.
In un secondo, dalle mani del fratello, al suo collo, nelle sue vene, fino alla sua testa, in un flusso diretto, il passato tornò aggressivo, grattando via con unghie e denti la parete in cui era stato murato vivo per essere dimenticato.
A Rosinante parve di sentire odore di bruciato, e non erano le sue piume ad andare a fuoco.
Qualcuno stava gridando?
Sbagliato: quelle che sentiva erano le sue grida, mescolate a quelle d’una folla di gente che urlava di massacrarli. Lui, suo fratello Doflamingo, e c’era anche un’altra persona.  Lo scenario si stava orrendamente sovrapponendo a ciò che aveva di fronte a sé: la luce delle lampade gli ricordò quella di un rogo spaventoso. E suo fratello stava impazzendo… no, lo era sempre stato pazzo, anche quando aveva giurato vendetta a chi lo voleva morto.

Con gli occhi, Rosinante osservava la follia di suo fratello. Col corpo ne avvertiva la perversione farsi largo attraverso le mani… e la lingua, che gli stava impastando il collo leccandolo quasi fosse stato commestibile.
«Tu sei buono, fratellino, sei buono come la mamma »
La voce di Doflamingo sembrò vibrare sulle note del tritono del Diavolo.
Corazon non poteva sottrarsi in alcun modo a lui: fu costretto con la forza ad avvicinare il proprio viso contro quello del fratello; che con la sua bocca avida e velenosa gli profanò le labbra colorate di rosso.
Il rossetto si spalmò sulla pelle di entrambi.
Nella stanza si udirono i succhiotti, il rumore appiccicoso della saliva che passava da una bocca all’altra, lo schiocco di una lingua prepotente.
Corazon non era obbligato a ricambiare, bastava fargli spazio… e resistere al sapore rancido di vino rosso. 
Continuando a strofinare il viso contro quello del fratellino, tentando di fondersi con lui, Doflamingo riprese a parlare, muovendo le labbra sporche e bagnate, facendole vibrare su quelle di Rosinante «Oggi ho sognato, non accadeva da molti anni »; gli tolse il cappotto di piume nere, per abbracciarlo meglio ed essere in contatto diretto col suo corpo. «Ho sognato proprio lei, te la ricordi la mamma? Era bella. E papà, lui l'ha fatta morire. Papà, quell’idiota... – Doflamingo gorgogliò qualcosa che però restò impigliato nella profondità della sua gola - Papà è morto, fu fu fu»

Perché mi fai questo? Smettila. Dofy, smettila… Ti prego!

Corazon era caduto in una sorta di ipnosi, i ricordi resuscitati erano vividi e gli sfilavano tutti davanti agli occhi in un corteo funebre. Non mancò quel giorno di molti anni fa.

Dofy, non sparare! È papà, non ucciderlo! È papà!

Papà è morto.

Un altro bacio, gli venne strappato via con ferocia. Era sempre stato così sua fratello, gli piaceva strappare tutto, anche la vita degli altri.
Corazon, schifato, cercò di sottrarsi, provando a mettere le mani avanti, con l’intenzione di spingere via anche il passato; ma il fratello gli morse le labbra e mosse le mani su di lui, con mire incestuose.
I fili, sarebbero arrivati i fili. Poteva usarli. Sulle pareti ancora c’erano i segni di quella volta, e sulla schiena l’Ufficiale di cuori aveva una cicatrice che raccontava come si era risolta la questione.
Ma il fenicottero si fermò.
Doflamingo non sopportava la riluttanza, quando usciva fuori, detestava essere rifiutato. E il suo fratellino lo stava rifiutando con un’arma molto scorretta: le lacrime. Di odio, lo sapeva, e che stavano sciogliendo il trucco del suo pagliaccio preferito.
A parte il pianto, muto pure questo, Rosinante mantenne un’aria fredda e distaccata; aveva gli occhi appannati e il trucco sfatto.
Quelle non erano più le lacrime di un bambino: Doflamingo aveva d’innanzi  un uomo, un marine per l’esattezza, allevato e addestrato da Sengoku. Questo ovviamente il fenicottero non lo sapeva.
Adorava il suo fratellino, perché era l’unico che poteva capirlo e che aveva condiviso il suo stesso male, le stesse botte, e lui aveva veramente visto cosa era capace di fare. Il loro era un legame che andava oltre il sangue.
«Fu fu fu,  ho esagerato, stavolta voglio darti ragione»
Il diavolo rosa sorrise cinico e lasciò andare Corazon, che si ritenne graziato.
Fanatico, Doflamingo si specchiò dandosi una sistemata ai capelli e, con dei fazzoletti trovati sul mobile, in mezzo al casino, si ripulì le labbra dal rossetto di suo fratello e strofinò via il sangue che gli sporcava le mani.
Si puliva, appallottolava il fazzoletto e lo gettava sul pavimento, andò così per tre volte, finché non ritenne di aver tolto ogni macchia.
Corazon era abbandonato sulla sedia, perso a guardare il niente, nell’attesa che suo fratello se ne andasse via. Si era acceso una sigaretta nel frattempo, e la stringeva nervosamente tra le labbra gonfie e dal rossetto consumato, di cui era rimasto un contorno roseo e sbiadito a segnargli metà del viso.

«Non sopporto sapere che sei ferito e che non ti stai curando – il fenicottero si rivolse di nuovo a suo fratello – non mi sei utile se non riesci a reggerti in piedi. Provvederò io a te»
Dei fili uscirono direttamente dalle mani di Doflamingo. Era tremendo assistervi.
«Togliti la camicia e voltati»
Corazon fece come gli era stato ordinato, rischiare di farlo innervosire maggiormente era una mossa da evitare.
I bendaggi si presentarono rossi, intrisi, pieni, da strizzare; ‘Mingo li strappò via e iniziò a muovere veloce la dita. Trapassò la carne aperta del fratello, bucando le labbra della ferita da parte a parte, tirando e ricongiungendo. Con dei movimenti oscillatori da sinistra a destra. Uguale ad un ragno che tesseva la tela.
Eseguì un perfetto lavoro di sutura, aveva acconciato la pelle di suo fratello con l’abilità di un sarto.
Corazon dovette solo stringere i denti. E per un attimo, ripensò al malcapitato a cui il Joker avrebbe fatto la pelle, e si rese conto della potenzialità di quelle parole, che non erano affatto parole. Pensò anche a Law... ne avrebbe fatto macinato per pescicani.

«Fatto. Adesso va’ a farti una doccia e mettiti una camicia pulita, questa è da buttare. Ti aspetto a cena, ma sbrigati che Jora ha preparato la pizza per voi»
‘Mingo voltò le spalle al fratello, per andar via.
«Dimenticavo – si fermò davanti alla porta, e si voltò verso Corazon – mi hanno comunicato che Law oggi pomeriggio stava tentando di darsela a gambe, l’hanno trovato nelle vicinanze del porto. Ho ordinato di riportarlo subito qui»
L’Ufficiale rimase sorpreso e deluso dalla notizia: quel ragazzino aveva provato a scappare, a mettersi in salvo, epperò, non c’era riuscito.
Stava per chiedere a suo fratello che cosa gli era stato fatto, la fuga era seconda al tradimento, ma si trattenne, ricordandosi che non poteva parlare.
Il diavolo rosa osservò accuratamente la sua reazione, gli apparve insolitamente sbigottito e dispiaciuto.
«Rosy, prima ti ho trattato male…  Voglio essere perdonato, stanotte dormirai con me. Fu fu fu»
Perfido e perverso, Doflamingo rise spalancando le labbra con una smorfia che gli segava in due la faccia. Finito lo spettacolo, sparì dietro la porta perdendo piume dal cappotto, come le perdeva Corazon, ma le sue erano nere. Queste appartenevano al fenicottero, erano rosa.

Le cose stavano accadendo con troppa fretta, Rosinante si sentiva impotente. Privo di controllo.
Nella sua camera non c’erano gabbie per uccelli a fare quel terrificante gioco di luci; però, si sentiva ugualmente prigioniero.
Doveva resistere, faceva parte della missione. Era suo dovere far sparire la Famiglia. Una finzione, la Famiglia, una creazione che esisteva per puro capriccio del fratello. Doflamingo aveva inventato dei ruoli, le persone erano interpretanti, morto un membro si sostituiva tranquillamente con un altro. Nessun dolore, nessun rimpianto. E il Drago Celeste non aveva mai provato rimpianti; neppure dopo aver ucciso il proprio padre, Donquijote Homing.
Corazon chiuse gli occhi, sapeva di essere seduto su una polveriera, se non vi avesse fatto più attenzione, il suo posto sarebbe potuto tornare vacante. 
Nello sforzo di rimettere a posto anche quei fantasmi che non sarebbero dovuti uscire dal luogo in cui erano stati rinchiusi; l’Ufficiale saltò in piedi, agitato. Aprì con foga l’armadio e scelse abiti nuovi. 
Sistemata in fretta la sua personale uniforme, una camicia con cuori stampigliati dappertutto, si coprì le spalle col cappotto di piume nere e si ripassò veloce il rossetto che suo fratello gli aveva precedentemente succhiato via dalle labbra.
Non aveva tempo di pensare a cosa lo avrebbe atteso nella notte, perché s’era aggiunta un’altra gravità a cui badare, da mettere avanti a tutte le altre, e che il Tenente Colonnello non poteva ignorare.

Law, ti farò uscire io dalla sua gabbia, non temere, fosse l’ultima cosa che faccio prima di morire. 
È una promessa.

 

 

 

“Mit diesem Herz hab ich die Macht
die Augenlider zu erpressen
ich singe bis der Tag erwacht
ein heller Schein am Firmament
Mein Herz brennt”

 

 

 

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Da ascoltare assolutamente: LINK cliccate!

È la canzone che ho scelto, struggente, drammatica nel testo e nell’arrangiamento. È la Mein herz brennt dei Rammstein, ma nella versione al pianoforte. Lindemann starebbe bene in un teatro e guarda caso nel video è truccato un po’ come Corazon! *__*
Io vi metto anche la versione normale, magari vi piace di più e la potete ascoltare QUI.
Se il carattere del testo dovesse presentarsi troppo piccolo, abbiate pazienza che sto facendo tutto dal tablet, comunque vi ricordo che EFP dispone di tasti in alto a destra che ingrandiscono il carattere automaticamente. Usufruitene!

Ora, cominciamo con calma: nella conversazione lumacofonica tra Rosinante e Sengoku, come ben sapete, voi lettori del manga cartaceo,  Kaki e Cracker sono parole in codice che usano per riconoscersi quando i due sono in contatto. Chi legge il manga pubblico in rete, invece, avrà letto altre parole, a seconda delle diverse traduzioni che ci sono in giro. Stessa cosa per il frutto Taci Taci nella versione cartacea, e sarebbe invece Nagi Nagi. Ma sorvoliamo, anche su come vengono scritti i nomi propri: Rosinante/Rocinante; Do Flamingo/Doflamingo (passatemi i soprannomi come diavolo rosa e fenicottero del male) e su di lui ho scelto la forma tutt’attaccata, perché Do Flamingo mi sa di mafioso, anche se lo stile di vita non si allontana dall’esserlo. Almeno qui però teniamo fuori la mafia.
Ho deciso di aprire questa raccolta sulla Famiglia Donquijote, in specie sul rapporto tra i due fratelli, per iniziare,perché volevo provare ad immergermi nel dramma che li lega, e la parte un po’ incestuosa, se vi è possibile, vedetela per quello che è: non un’attrazione tra i due (che trovo davvero impossibile, ma c’è chi ci crede e lo rispetto) piuttosto il controllo ossessivo di Doflamingo su suo fratello. Per questo non volevo inserire l’avvertimento di una Yaoi, perché non lo è.
Comunque siete liberi di insultarmi.
Per quanto riguarda le gabbie per uccelli, il fenicottero non le colleziona, me lo sono inventato, ispirandomi però a quella sua mossa, la gabbia che non lascia vie di fuga. Ora mi sfugge il nome specifico… ma mi avete capito lo stesso.
Il legno dell’albero Adam è quello che Franky ha usato per la Sunny, e Tom per la Oro Jackson di Roger.
Mi sono presa anche la libertà ( me ne sono prese tante di libertà) di fare sì che fosse il fenicottero a curare la ferita che Law ha inferto a Corazon. Nel manga, in un flashback vediamo che ‘Mingo se ne accorge  passando davanti alla camera del fratello(?) scoprendolo a curarsi, nell’Anime invece ci fa caso mentre comunica a Law di volerlo nella sua banda (era così, no?).
Io gliela faccio direttamente ricucire! Oh! È o non è  suo fratello maggiore, e così deve comportarsi. Responsabilità! ^_^ ma non fatevi ingannare…
E altra cosa, in proposito, mi sono immaginata che il Joker facesse sapere la sua decisione prima al fratellino e poi al resto della Family.
Il sogno che poi gli racconta è quello che nel manga viene usato per presentare il burrascoso passato di Dofy.
Preciso che in questo capitolo Corazon ancora non è a conoscenza dell’intero nome di Law. Io più o meno seguo la cronologia originale.
Il ritratto di famiglia descritto, rappresenta ovviamente la famiglia Donquijote, per chi non ci avesse fatto caso. Mi piace pensare che 'Mingo se lo tenga tipo reliquia.
Il tritono del Diavolo esiste veramente, è una sequenza di note, andatevelo a cercare se siete curiosi.
Attendo come sempre vostri pareri, impressioni… insulti… contenuti però, eh. ^^
Stavolta niente illustrazione, sono in pausa. Ma riprenderò.

Vi elenco le altre mie storie pubblicate:

Curami (Zoro/Perona/Mihawk) NEW: pubblicato IV CAPITOLO!
Una convivenza forzata, un addestramento in corso e forse un’attrazione accidentale che non vuole nessuno. L’isola Kuraigana non è solo un luogo di morte; e Perona e Zoro non sono soltanto una coppia di disgraziati spediti sulla stessa macchia di terra.
Facciamo luce su due anni di buio.
Buona lettura.
III capitolo on-line
Pubblicata: 11/09/13 | Aggiornata: 31/08/16 | Rating: Arancione
Genere: Azione, Romantico | Capitoli: 4 | In corso
Tipo di coppia: Het | Note: Missing Moments | Avvertimenti: Nessuno
Personaggi: Drakul Mihawk, Perona, Roronoa Zoro
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Loverman…
Sanji non avrebbe mai dovuto provarlo, non avrebbe mai voluto scoprirlo, non avrebbe mai dovuto desiderarlo. Anche la più piccola mancanza di volontà verso se stessi è ripagata con un tormento peggiore; a meno che si accetti la propria natura.
Consiglio: lasciate perde’ sto trip di parole, buona lettura.
Pubblicata: 15/08/16 | Aggiornata: 15/08/16 | Rating: Arancione
Genere: Angst, Introspettivo | Capitoli: 1 | In corso
Tipo di coppia: Yaoi | Note: Nessuna | Avvertimenti: Nessuno
Personaggi: Mugiwara, Roronoa Zoro, Sanji | Coppie: Sanji/Zoro
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L’impensabile inaspettato (Zoro/Sanji) 
Sanji ha un urgente problema. Zoro… beh, lui fa quello che può.
One Shot che disturba persino chi l’ha scritta, attenzione alle note. E a voi la lettura.
Pubblicata: 03/11/13 | Aggiornata: 03/11/13 | Rating: Rosso
Genere: Angst, Introspettivo | Capitoli: 1 - One shot | Completa
Tipo di coppia: Yaoi | Note: Lime | Avvertimenti: Nessuno
Personaggi: Nico Robin, Roronoa Zoro, Sanji | Coppie: Sanji/Zoro 
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Ultime previsioni prima di Dressrosa (Rufy/Nami/Trafalgar Law) 
Meno di un giorno all’arrivo sulla prossima isola. A bordo della Sunny chi può si riposa, altri non dormono: si incontrano casualmente, o per mistico volere.
Una One Shot breve e indolore, e con i personaggi IC; però spetta a voi valutarlo.
Buona lettura.
Pubblicata: 20/10/13 | Aggiornata: 20/10/13 | Rating: Giallo
Genere: Sentimentale | Capitoli: 1 - One shot | Completa
Tipo di coppia: Het | Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
Personaggi: Monkey D. Rufy, Nami, Trafalgar Law | Coppie: Rufy/Nami
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Capitolo 2
*** Non spiare il fenicottero. ***


ATTENZIONE: questa One Shot è sconsigliata ai minori di 14 anni. 
Inoltre, onde evitare fraintendimenti che credo potranno verificarsi, Law avrà 14 anni, due in più rispetto all'età originale. Bambino sarà un termine in alternativa a ragazzino, ma l'età è 14.
E no, l’immagine che vedete qui sotto è solo un assaggino, l’illustrazione completa la trovate alla fine del racconto.

 

 photo dofy rosy law_zpsyqyune9m.jpg

Mein Herz Brennt
 

2. Non spiare il Fenicottero.

  

 

 

Sarà un lavoro facile, gli avevano detto. Da eseguirsi tranquillamente, gli era stato spiegato a parole; lui doveva solamente introdursi nel covo dei pirati, togliere di mezzo i componenti della ciurma – sua era la scelta se lasciarli in vita o meno, poco importava – individuare il Capitano, catturare il Capitano. O prendere la sua testa (il che sarebbe stato più comodo in fase di trasporto), non faceva differenza, sull’avviso di taglia la riscossione del denaro era garantita sia che l’uomo ricercato fosse stato consegnato vivo oppure morto. 
Insieme a Baby 5, Law era stato fatto sbarcare sull’isola Orenji; grazie alla mappa che gli era stata lasciata, il ragazzino aveva localizzato il luogo da assaltare.

«Ci sono circa quindici uomini armati là fuori…» parlò Law, guardando attraverso un binocolo rivolto in direzione di un’abitazione, questa era nascosta tra la vegetazione.
«Sicuramente quelli che vedi non sono tutti i membri della ciurma, ce ne saranno altri anche all’interno» gli disse Baby 5.
Law si girò verso di lei digrignando i denti, la guardò astioso: «Lo immagino anche io, non sono stupido!»
Diventava spaventoso e cattivo, quando faceva così, e la sensibile Baby 5 ne restava vittima, zitta e coi lacrimoni a riempirle gli occhi.
«Ho deciso, provochiamoli e facciamo uscire anche gli altri pirati allo scoperto. Tu mi coprirai le spalle, Baby 5, io attaccherò direttamente il capitano Wellington» spiegò Law, seriamente determinato.
Dalla tasca dei suoi bermuda il ragazzino prese un foglio piegato in quattro parti. Lo aprì e guardò bene la brutta faccia che c’era stampata sopra, di un uomo nerboruto e dall’espressione minacciosa, con una vistosa cicatrice sulla fronte. Indimenticabile.
La taglia del pirata ammontava a dieci milioni di Berry, una sommetta cospicua da incassare, che però sarebbe stata divisa con un venti per cento a ciascuno dei bambini e la parte rimanente ad impinguare i fondi della Famiglia; così avevano promesso Trebol e Diamante. Naturalmente, dopo essersi occupati di Wellington, i due mocciosi avrebbero dovuto portar via anche il suo tesoro, ma di questo non avrebbero visto un centesimo.
«Allora, pensi di farcela?» domandò Law a Baby 5. La bambina non rispose, lui si voltò  e…  poveraccia! Con gli occhi luccicanti che aveva, le si leggeva chiaro in viso che non vedeva l’ora di essergli utile. Ma almeno lei era affidabile.
Law si sistemò meglio il cappello bianco sulla testa; il binocolo non gli serviva più, in mano stringeva un lungo pugnale, lo stesso che aveva usato per ferire Corazon, ed era passato un anno e mezzo da allora.
Baby 5, anche lei, cominciò a prepararsi, trasformando il suo corpo in un’arma letale. Un potere, il suo, che aveva assunto mangiando un particolare frutto del Diavolo, detto Arma Arma.

Erano pronti.

Quei manigoldi assonnati, che bivaccavano ignari davanti alla loro tana e che, presto, sarebbe diventata pure la loro tomba, non capirono nemmeno da quale parte cominciarono a provenire i colpi d’arma da fuoco.
Avevano appena il tempo di vedere il sangue schizzare dal proprio corpo, o da quello del compagno che avevano accanto mentre veniva impallinato.
«Ci stanno attaccando!» urlò uno di loro, prima che gli venisse aperto un terzo occhio sulla fronte con un proiettile sparato da Baby 5.  Lei aveva un’infallibile mira di cecchino.

Una pioggia di piombo fece piazza pulita di tutta quella marmaglia, in soli centoottanta secondi d’azione.
Del fumo bianco aveva annebbiato l’aria; qualcuno ancora in vita si lamentava strisciando a terra; Law ne approfittò per avvicinarsi al covo dei pirati. Fece un cenno a Baby 5 per indicarle di cessare il fuoco ed aspettare che venissero fuori pure gli altri: li sentiva che si stavano mobilitando per il contrattacco. 
Ma dovevano essere poco furbi i pirati della ciurma di Wellington, perché si catapultarono fuori con spade sguainate e pistole alla mano, senza studiare la posizione del nemico… Altri bersagli facili in arrivo per la bimba assassina.
Il Capitano, comunque, non era tra loro. Law non lo vide.
«Venite fuori pezzi di merda!» gridò un pirata con fare intimidatorio, però tradito dalla mano che traballava rendendogli instabile la presa sulla pistola. Egli tremava scioccato dal macabro spettacolo che gli si parava davanti: la terra era tinta di rosso, e i suoi compagni, riversi al suolo, erano sporchi dello stesso colore. Quella doveva essere opera di professionisti; i pirati si aspettavano numerosi nemici da affrontare.

Eseguendo un attacco frontale, Baby 5 uscì allo scoperto insieme a Law; si avventarono contro una ventina di uomini, i quali, vedendo arrivare due insospettabili bambini, rimasero increduli ed immobili.
Quei ragazzini, invece, si rivelarono essere piccole iene scatenate.
L’addestramento a cui Law era stato sottoposto si stava scoprendo utilissimo, grazie all’agilità appresa da Lao G e alle tecniche di spada dell’ufficiale Diamante, i nemici cadevano uno dopo l’altro, tagliuzzati dai suoi rapidi fendenti.
Un lavoro davvero facile: la carneficina era stata compiuta.
«Nessuno dei tuoi uomini è rimasto in piedi, Wellington! Ti conviene uscire e arrenderti, oppure vuoi che veniamo ad ucciderti?!»
Law era molto sicuro di sé. Baby 5, al suo fianco, aveva una pistola carica, nata modificando il suo braccio destro. Con quella, teneva sotto tiro la porta del covo.
«Ah ah, e chi saresti tu per minacciarmi?!»
Una voce gutturale li sorprese alle spalle. Law non ebbe il tempo di voltarsi, una mano gigante gli afferrò la testa. Venne sollevato e lanciato via.
«Attento Law!» Baby 5 urlò e sparò contro quel bestione, ma i suoi proiettili rimbalzarono, probabilmente anche il pirata aveva mangiato un frutto del Diavolo.

 

***

 

“Capito, Law…  Hai l’occasione per iniziare a sfogare la tua rabbia e dimostrare di cosa sei capace. Non  deludermi…”

Le parole di Doflamingo battevano riecheggiandogli nella testa, o forse era il dolore quello che premeva più forte. Con lo schianto, Law aveva trapassato una delle pareti in legno della fatiscente tana di Wellington, e giaceva in mezzo ad assi spezzate e chiodi sporgenti. Ad un occhio vedeva rosso e percepiva del liquido caldo colargli dalla fronte. Una costola si era sicuramente incrinata, faticava a prendere il respiro.
Ebbe ugualmente la forza di rimettersi in piedi. Il cappello morbido era volato lontano, da qualche parte, lo avrebbe recuperato dopo.
Raccolse il coltello.

“Non deludermi…”

«Sto arrivando, bastardo!»
Corse verso Wellington, mirando alla sua schiena, cercando di pugnalarlo a morte. Il pirata si accorse di lui e lo afferrò ancora, per il collo, e con forza bruta lo sbatté a terra.
«Volevi uccidermi eh, piccolo parassita! Adesso ti sbudello io e dopo ammazzo pure la tua amica»
Wellington tirò fuori un pugnale.
«Lascialo andare! Lascialo!» Baby 5 era disperata e sparava inutilmente.
Law armeggiava il coltello nel tentativo di infilzare il pirata e liberarsi. Quell’armadio lo stava soffocando.

“Law… ti ho convocato qui per un motivo. Ho deciso che farò di te un membro ufficiale del clan Donquijote”

Ancora parole di ‘Mingo, gli tuonavano nel cervello gravi e dispotiche.
Law non poteva arrendersi, non adesso che, finalmente, era stato accettato nella Famiglia. La sua nuova famiglia, tutto quello che possedeva, l’unico scopo della sua misera vita a breve scadenza.

 

  ***

 

La nave della DDF si trovava ormeggiata ad un chilometro dalla costa di Orenji, in attesa.
Sul ponte di coperta, affacciato al parapetto di tribordo, Corazon guardava l’isola visibilmente preoccupato. Era arrivato ad accendersi la sesta sigaretta, e tamburellava velocemente le dita sulla balaustra, come sfogo all’impazienza.
È successo qualcosa.
Law, ci stai mettendo troppo tempo...
L’idea di precipitarsi laggiù gli era incontenibile, ma non poteva muoversi di sua iniziativa. Il Demone Celeste, suo fratello, aveva affidato la missione a Law e a Baby 5.
Una scelta calcolata, quella del fenicottero: i due insieme erano forti, ma così... si faceva prima a spedirli al macello; Corazon sapeva che il suo pazzoide fratello era un fanatico del criterio vigente tra il più forte e più debole, e che, quando ne aveva l’occasione, si divertiva a metterlo in atto. Poco gli importava chi fosse a sperimentarlo.
Se si fosse fatto uccidere, Law avrebbe dimostrato di essere un debole; e ‘Mingo se ne sarebbe riempito la bocca dicendo che il destino aveva scelto per il moccioso, poiché solo ai più forti era concessa una morte prediletta.
Tieni duro, Law!

Doflamingo, intanto, se ne stava comodo su una sedia, a centellinare champagne d’annata, mangiando ostriche fresche, mentre Trebol gli riferiva i termini del contratto che avrebbero presentato ad un ingegnere edile, una volta finito il lavoro in corso sull’isola Orenji.
«Per avviare questo progetto abbiamo bisogno di fabbriche di un certo tipo, eehi eehi. Ho travato le mappe di quella che sarà la nostra nuova sede, mappe del palazzo reale, o forse potremmo installare la fabbrica su Flower Hill... Eehi! Ed ho trovato l’uomo che opererà per noi. Se ci prepariamo già da adesso, saremo pronti per un veloce impianto della struttura, appena riprenderai il tuo onorevole posto, Dofy» argomentò Trebol, il suo moccio colante era sempre lì, e dondolava.

L’informazione che l’Ufficiale di Fiori aveva appena riferito al Capitano era una succulenta notizia per Rosinante; ma il tempo passava spietato e la vita di quei bambini era più importante per il Tenente Colonnello.
‘Mingo ascoltava Trebol attentamente; però, stava anche osservando il fratellino, dal momento stesso in cui lo aveva visto inchiodarsi là sopra a guardare fisso l’orizzonte.
Possibile che fosse preoccupazione? Rosinante odiava i bambini.
Il fenicottero lo conosceva bene, così bene che pure da lontano capiva quanto era agitato.
E questo lo infastidiva, lo turbava, lo faceva proprio incazzare.
Succhiò rumorosamente un’altra ostrica, ingollandola satollo.
«Trebol, quanto tempo abbiamo prima dell’appuntamento con questo tizio?» domandò il diavolo rosa al suo fedele servitore.
«Tre ore e mezza Signorino, la prossima isola non è molto lontana da qui, ci vorranno due ore per arrivare, eehi!»
«Perfetto»
Doflamingo si alzò, dirigendosi da Corazon. Gli arrivò alle spalle, ed insinuando il naso aquilino fra i ciuffi biondi che coprivano le orecchie di suo fratello minore, bisbigliò suadente:

«Non farmi ingelosire... Rosy»

Scandì le poche parole con una calma contrastante all’urgenza che si era impadronita e scalpitava nel cuore di Rosinante. 
Sbigottito dalla sua voce, arrivata troppo vicina ed imprevista, il Pierrot di Cuori si girò e sfiorò il viso del fratello, per poco, il tempo limite per avvertirne il calore della pelle. 
Doflamingo si scansò subito, a scrutare meglio il cielo, in cerca di… nuvole.
Ce n’erano abbastanza fino alla costa, secondo i suoi calcoli.
«Pica, Diamante e anche tu Corazon, io vado avanti, voi seguitemi, sono stanco di aspettare quei due impiastri»
Saltò in equilibrio sulla balaustra e, articolando le dita dinoccolate, tirò i suoi fili.
Questi arrivarono lontani, penetrarono le nuvole; in breve, il cielo venne invaso da uno sciame di filamenti. Brillavano al sole, articolati ad intelaiare una strada invisibile che correva tra la luce, l’aria e il vapore acqueo.
Il fenicottero volò via, leggero.
Fu così rapido che Corazon lo vide diventare un punto nel cielo, e già planava sull’isola.
Poteri divini, al servizio di un demone. Del Demone Celeste.

 

***

 

«Basta, fermati!» la piccola Baby 5 mitragliava Wellington senza riuscire a toglierlo di dosso da Law, il quale aveva lasciato la presa sul coltello e non reagiva.
Le urla della compagna gli giungevano ovattate, stava perdendo i sensi e sarebbe stato sventrato; quell’animale gli stava schiacciando la gola.
Il ragazzino annaspava scosso da movimenti involontari, i suoi occhi vagavano senza senso alla ricerca di aria ma, guardando casualmente oltre l’orribile faccia del pirata, tra le chiome degli alberi, egli vide il sole emanare una luce abbacinate e paradisiaca, poi, apparve qualcosa lassù, Law ne fu testimone: proprio lì, nel cielo sopra di lui, c’era una creatura, era sospesa nel vuoto.
Il piccolo Trafalgar pensò di star  morendo, ne era sicuro, quella figura ultraterrena doveva essere un angelo giunto per traghettarlo dai suoi genitori; o probabilmente no, era diventato cattivo lui, oramai. Non meritava più il paradiso.
Tanti sforzi per nulla, però, si sentiva soddisfatto, non sarebbe schiattato nel dolore provocatogli dalla malattia. Sapeva che fare il pirata gli avrebbe regalato una morte diversa.
«No!!!» la bambina gridò a squarciagola, la punta del pugnale brandito dal pirata stava per conficcarsi nello stomaco di Law.
Baby 5 si coprì gli occhi.

Un colpo di tosse cacciò fuori del sangue scuro e denso, mischiato con della saliva.
Law si ritrovò a guardare l’ingombrante corpo di Wellington penzolargli sopra la testa; dalla bocca barbuta del pirata stava gocciolando del sangue, che finì ad insozzargli il viso.
Con uno scatto, il bestione venne issato, portato in alto, come quando si pesca una balena, arpionandola.
Law non capì cosa stesse accadendo: l’uomo aveva il torace trafitto da… fili?!
La carcassa ingombrante di Wellington fu scaraventata lontano e l’angelo ricomparve, era ancora in cielo. Law lo osservò scendere su di lui, a braccia aperte, in un vortice di piume rosa.
Perse i sensi.

 

***

 


Corazon si sarebbe volentieri enucleato gli occhi con le proprie mani, ma gli servivano e, purtroppo, non poteva fare a meno di osservare suo fratello maggiore stare chino, a tenere il corpicino ferito del piccolo Trafalgar: lo aveva fra le braccia, accoccolato sulle cosce, e gli accarezzava i capelli sconvolti ed impolverati, sistemandoglieli da un lato.
Addirittura, Doflamingo gli toglieva dal viso alcune schegge di legno; gli si erano conficcate nella pelle a causa dei bestiali trattamenti del “fu” pirata Wellington; e con un fazzoletto, il fenicottero ripuliva il sangue che quest’ultimo aveva sputato addosso a Law.

'Mingo lo faceva apposta, l’Ufficiale di Cuori ne era convinto. Non era apprensione quella a cui Corazon stava assistendo, il diavolo rosa non possedeva un briciolo di umanità, e tutti i suoi gesti, apparentemente premurosi, erano privi d’amore. 
Somigliavano di più ai tocchi sapienti di un medico legale, che cercava di scoprire a causa di quali agenti era dovuto il rigor mortis della vittima.
Ma, fortunatamente, Law respirava ancora.
In quelle condizioni, il ragazzino era solo uno strumento che il fenicottero usava per irritare Rosinante. Riuscendovi.
«Non preoccuparti, Ros’ – se ne uscì ‘Mingo, stirando un ghigno sulla guancia destra – ti prometto che stringerò anche te, tra le mie ginocchia, quando ne avrai voglia. Fu fu fu»
Al Demone Celeste non sfuggiva nulla. Corazon abbassò gli occhi, remissivo, e andò a dare una mano agli altri ufficiali, per raccattare il maltolto.
Doveva stare molto attento, Sengoku aveva ragione, quel ragazzino, a lungo andare, lo avrebbe fatto scoprire.

Tepore... C’era un calore che da molto tempo Law non avvertiva attorno a lui, gli ricordava i suoi genitori.
Le carezze, le sentiva, erano delicate, sembravano quelle di sua madre. Udì pure delle voci, ma non riuscì a riconoscerle. Certo era che qualcuno lo stava abbracciando. Voleva aprire gli occhi per vedere chi fosse e si aspettava di incontrare un viso familiare; poco importava se era stato spedito nell’aldilà, a lui quel calore piaceva, gli serviva.
Rinsavì lentamente, la vista era annebbiata, non distingueva bene le figure. Protese le mani alla ricerca di un contatto rassicurante, ed arrivò a sfiorare un volto. Si aggrappò al collo di questa persona e, contemporaneamente, spezzò il cuore di chi da lontano lo stava osservando con gli occhi straziati, nascosti dietro un trucco pesante come quello di una prostituta.

«Law, sei cosciente...»

Law era finalmente cosciente, e circondato da un morbido nido di piume rosa, e stretto dalle mani di Doflamingo.
Le piume emanavano un asfissiante profumo di fiori, molto intenso, lo stesso che poteva trovarsi all’interno di una camera ardente.
La faccia del fenicottero gli era così vicina che, per la prima volta, Law poté distinguere la forma degli occhi che quell’uomo nascondeva sempre dietro lenti scure. 
Provò un acuto brivido di paura.
Le nostalgiche sensazioni sgorgarono via all’istante, seguendo il ruzzolo col quale Law si divincolò per scappare dalle grinfie del fenicottero.
Gli occhi che aveva appena scorto erano così... così…
«Stavi per essere ucciso, Law» ‘Mingo parlò, mozzandogli i pensieri con la sua voce.
Wellington…  già, ma dov’era?
Law fece un girotondo su se stesso e lo trovò poco lontano, annegato in una pozza di sangue. Capì che doveva essere stato Doflamingo a stecchirlo, però, non ricordava come; era svenuto.
«I-io ho fallito, mi dispiace» disse costernato, la voce impastata.
«Fu fu fu, tu e Baby 5 avete fatto un ottimo lavoro: nessuno tra questi scarti è ancora in vita, e l’oro è nostro, tieni»
Il fenicottero, con un sorriso bianchissimo, gli porse il cappello perduto durante la battaglia. Law lo prese, incerto, e se lo ficcò in testa, con l’orlo a coprirgli gli occhi perché stava per mettersi a piangere. E lui non doveva, non era mica stupido come Baby 5, che era andata ad aggrapparsi direttamente alla gamba del Capo. Che frignona!
Law non pianse.

«Dofy, abbiamo preso tutto il tesoro, che ne facciamo di Wellington?» domandò Pica, l'Ufficiale di Picche; era un colosso con una voce squittente. Ridicolo, ma guai a prenderlo in giro.
«Lo lasciamo alle mosche» rispose ‘Mingo.
«Come? Lasciamo qui dieci milioni di Berry?!» proruppe Diamante, avido da fare schifo.
Il fenicottero si girò a guardare nuovamente il cadavere del pirata: «Quel sacco di letame non ce lo voglio sulla mia nave», tono perentorio, nessuno discusse.
Diamante si limitò a fare spallucce e sbuffò sommessamente, dieci milioni erano dieci milioni, porca miseria!
«Avanti, muoversi, si torna a bordo! Corazon, dammi una mano a portare questi forzieri. Ah, spero davvero che dentro non ci siano solo spade arrugginite, ma qualche bel pezzo d’oro!» era sempre Diamante a fare la parte dell’accattone.

 

  ***

 

Nel tardo pomeriggio, il clan Donquijote sbarcò sull’isola Kōsei, come programmato da Trebol, non un minuto di ritardo.
Doflamingo e gli ufficiali erano in “visita” presso la villa del bravo ingegnere.
Baby 5 continuava a ripeterlo: «I grandi hanno detto di aspettare qui!», lei era la più ubbidiente in quel trio di marmocchi “sotto naia”.
«Ma così ci annoieremo, giochiamo a qualcosa!» propose Buffalo.
«Va bene, Law tu a cosa vorresti giocare?» gli chiese Baby 5, per tentare di inserirlo nel discorso.
«... A niente», il ragazzino se ne stava seduto su una panchina fuori dall’ingresso della lussuosa villa, ricurvo dalla solita tristezza, e anche dall’ansia: era indeciso se dire o non dire, probabilmente loro non lo avrebbero capito, certe cose non si posso immaginare, te le devi trovare davanti e farci i conti; e Law, in quel giorno, aveva scoperto lo sguardo del fenicottero restandovi impreparato.
«Sei davvero noioso tu, allora raccontami come è andata oggi, si vede che ti hanno pestato per bene, eh eh!»
Buffalo tentò di provocarlo, ridendo dei cerotti e dei lividi che spopolavano addosso al sopravvisuto di Flevance; era invidioso di lui, che era stato scelto al suo posto per una missione con Baby 5. Insomma, chi si credeva di essere?! Era solo una gavetta idiota che si stava montando la testa perché il Capo aveva manifestato un po’ di simpatia nei suoi confronti!
«Non mi va di dirti nulla, Buffalo, se ti interessa fattelo raccontare da lei che ha visto tutto, io ad un certo punto sono pure svenuto» Trafalgar lo liquidò in breve.
Sì, Buffalo odiava l’intero pacchetto, con anche quel modo di fare arrogante. 
Law si allontanò da loro, senza dire dove stava andando e facendo intendere che non desiderava essere seguito; non si girò neppure quando Baby 5 gli rammentò di tornare presto, per non fare arrabbiare il Signorino.

 

***

 

Una sfumatura di nero più intensa del solito gli dipingeva l’umore, Law aveva un muso tanto lungo che se non ci faceva attenzione poteva inciamparci sopra. 
Camminava nel cortile della villa, nel giardino; questo era gradevolmente curato, con le siepi alte che componevano un labirinto intorno all’edificio e sulle quali crescevano bianchi gelsomini.
Law avanzava accarezzandone distrattamente i petali, o meglio, sradicava tutti quelli che gli capitavano tra le dita; non gli piaceva il bianco che si diffondeva a piccole macchie sul verde brillante delle siepi, ce n’era troppo.
Decapitando i fiori, lasciava ai suoi piedi una scia di petali morti, sembrava un macabro rituale.
Ma attorno a lui, si armonizzava il suono della natura viva, come lo scrosciare dell’acqua da una sorgente che non vedeva, e che doveva essere nei paraggi, il ronzio di alcune api, il canto eufonico degli uccelli.
Law li vide volare oltre il labirinto. 
Loro erano liberi. Lui no. 
Non bastava viaggiare, muoversi, e fare cose cattive per vendicarsi e provare a credersi libero.
Lei era sempre lì, a divorarlo lentamente dall’interno, a lucidargli  la mezza luna di ferro.
Un singhiozzo spontaneo, un accumulo di sofferenza, lo colpì a sorpresa. Lui lo ricacciò dentro, c’era abituato.

Giunto di fronte ad un arco rivestito di rose, pure queste bianche, Law lo attraversò e, passando oltre la siepe che lo obbligava a scegliere la sinistra o la destra, si trovò in uno spazio largo e circolare con al centro una fontana.
S’avvicinò a questa e vi guardò dentro, c’erano persino i pesci rossi nella vasca; ma ciò che lo incuriosì  fu la scultura di un’esile figura femminile: si ergeva nel mezzo della vasca, la posa immobile, ed era vestita con un peplo leggero. La statua teneva in mano uno specchio. Lo specchio era vero.
Law vide il suo riflesso chiudersi nella lastra riflettente; guardandosi, si accorse che macchie eburnee avevano iniziato a scolorirgli la pelle del viso, come albugine su un frutto da buttare, e le iridi scure dei suoi occhi avevano cambiato colore, erano diventate di un grigio innaturale e mortifero.
Si toccò le guance e le sentì gelate, ruvide al tatto.
No, Lei non era affatto nascosta, anzi, gli porgeva la clessidra del tempo, vuotandogliela contro.
Law non voleva più specchiarsi, si sentì ripugnante. Lo specchio lo metteva in trappola.

Sparisci, sparisci adesso!

Raccolse da terra alcuni sassi e cominciò a scagliarli mandando in pezzi il suo riflesso.
Gridò ad ogni sasso lanciato. Ogni urlo bruciò la sua gola, bombardandogli l’anima senza pietà.
Non aveva nulla in cui credere. E nella disperazione, si era rivolto ad uomo che aveva riacceso in lui la speranza: era questa la disgrazia, averla ritrovata faceva più male che averla perduta:

“Se avrai fortuna… Tra i frutti del diavolo che ti capiteranno potrebbe esserci quello che ti salverà la vita”

Un’idiozia.
Sperare di poter sopravvivere… doveva toglierselo dalla testa.
«Mamma, papà, Lami… io non ce la faccio! Io… Io ho… »
Il piccolo Law era esausto, si strinse fra le proprie braccia. Crollò in ginocchio.
Credeva d’aver consumato tutte le sue lacrime a Flevance, in quella notte infausta, invece, scoprì di averne ancora e di non aver, purtroppo, perduto la sua umanità. La paura di morire.

Nonostante i forti singhiozzi, che gli sconquassavano le membra deboli e stanche, un rumore attirò la sua attenzione; Law ne cercò con gli occhi la fonte, e guardando in alto si accorse che, dalla finestra di una delle facciate della villa, che dava proprio su quello spicchio di giardino, c’era Corazon. 
Il pagliaccio stava affacciato. Era l'unico spettatore silenzioso e indesiderato di quel dramma.
«Che cosa ci fai lassù, si può sapere?! Dannato spione, vattene via!»
Law provò vergogna, era stato colto nel suo più intimo momento di debolezza.
«Ma chi ti credi di essere, eh?! Anche se un anno fa non hai detto nulla, non pensare che questo mi metta in soggezione, potrei riprovarci, capito Corazon!»
Si stava riferendo al giorno in cui l’Ufficiale, non dicendo a Doflamingo da chi in realtà era stato pugnalato, gli aveva salvato la vita da morte certa; cioè, immediata, perché a morire quel ragazzino doveva morire.

«Oltre ad essere muto sei anche sordo?! Vattene, smettila di guardarmi! Sparisci anche tu!»
Law afferrò un sasso e lo tirò verso la finestra, ma era troppo alta, non ci arrivò. Continuò lo stesso a lanciarne altri, voleva mandare in frantumi anche il pirata imbellettato, non sopportava la sua faccia, in essa vi vedeva riflessa la gravità della sua condizione. E non gli serviva la compassione di nessuno.
«Perché non te vai?! Eh?! Perché non mi lasci in pace?! PERCHÉ?!»

Raccolse l'ennesima pietra e poi, uno, due, tre spari, soverchiarono le sue grida con un fragore assordante.
Law rimase immobile, col pugno chiuso a mezz’aria.
Tornò a mirare la finestra: Corazon era sparito; al suo posto c’era il vuoto e una tenda che veniva scomposta in malo modo dal vento. 

 

***

 

«Vi prego, non fateci del male, io non posso garantirvi nulla, non posso firmare questo progetto, va contro le leggi del Governo Mondiale!»: fu l’appello di un uomo in lacrime.
«Sentito Pica? Le leggi del Governo Mondiale! Forse lo sciocco ancora non ha capito con chi ha a che fare, ah ah ah! Siamo noi la legge, qui! E adesso, firma!» e questa fu l’arringa intimidatoria di Diamante, seguita dalle risate acute dell’ufficiale di picche.
La sala in cui si discuteva non era molto grande, tuttavia, Señor Pink si stava fumando il terzo sigaro, riempiendo l’ambiente di fumo. Gladius andò ad aprire le finestre.
«Eehi eehi, te lo diciamo per un’ultima volta: firma il contratto!», stavolta era stato Trebol a far la voce grossa. Aveva preso i fogli con le sue luride mani appiccicose e li aveva sbattuti sul tavolino basso posto di fronte all’uomo incravattato che non voleva apporre su di essi alcun nome.
Da più di due ore, la Famiglia aveva occupato la villa e cercava di portare avanti una trattativa impossibile col padrone di casa poco collaborativo. L’ostinazione portava a conclusioni inimmaginabili, ma anche no: il maggiordomo e la servitù giacevano sgozzati sul lucido pavimento in marmo, erano stati i primi a pagarne le conseguenze.
Pensare a quale sarebbe stata la prossima mossa di quella banda di assassini, era scontato.
«Vi prego, rivolgetevi a qualcun altro, io non posso, non posso firmare!»
«Ah, quindi non puoi – Doflamingo non aveva prestato attenzione alla conversazione fino a quel momento, era rimasto in disparte ad osservare la libreria presente nel salottino mentre rifletteva sulla momentanea assenza di Corazon; c’era anche un orologio a pendolo ad attirare la sua curiosità; ma quei continui no, no e ancora no, in sottofondo, lo avevano annoiato – Di’ la verità:  tu puoi ma non vuoi firmare»
L’uomo piangeva sommesso, muoveva la testa a far intendere l’ennesimo diniego. Al suo fianco c'era una donna che lo abbracciava, era terrorizzata ed inerme quanto lui.
Il fenicottero piegò la bocca, nauseato; gli esseri umani e il loro finto perbenismo, quanta viltà.
«Ehi – ‘Mingo raggiunse il povero ingegnere, gli era di fronte, lo osservava dall’alto verso il basso come più gli piaceva – Tu credi di essere un uomo giusto, vero? E noi siamo i cattivi. Allora lascia che ti spieghi un concetto molto semplice: i tuoi sani princìpi, che difendi con tanto coraggio, hanno costretto i miei uomini a comportarsi in modo atroce, guarda, guarda come sono dispiaciuti per colpa tua – fra i membri della ciurma si diffuse un brusio di maligne sghignazzate – Su, contiamole: uno, due… cinque persone sono morte, e si sono sacrificate per te. Tutte queste preziose vite sprecate per una semplice firma. Un po’ egoista da parte tua, non trovi? E ancora non ti basta. Adesso mi chiedo, dov’è la giustizia quando serve?! Quest’uomo vuole il sangue di altri innocenti per salvare la sua onestà!... Fu fu fu, sai... mi ricordi mio padre. Ma tu sei fortunato, perché si dà il caso che anch’io sia un egoista, come te – Doflamingo infilò una mano sotto le piume rosa, dai pantaloni tirò fuori la sua pistola, quella delle esecuzioni – Quest’affascinante signora è tua moglie?»
«No! No! Ti prego! Lasciala stare, prendi me! Prendi me, ma la-»

BANG! - BANG! - BANG!

«Sì, era tua moglie. Fu fu fu… Bene, ragazzi aiutatelo a firmare e ripulite lo schifo, ci fermeremo qui per qualche giorno prima di ripartire. Mi piace questa casa, pacchiana ma accogliente»

Trattativa conclusa.

 

***

 

Trafalgar Law tornò alla villa dopo essersi calmato.
Il cielo era  buio, col sole tramontato da un pezzo.
Trovò alcuni membri della Famiglia indaffarati a spostare preziosi oggetti, che venivano accatasti fuori dall’ingresso dell’edificio: quello era il momento della razzia, c’era anche un orologio a pendolo lì in mezzo.
«Alla buonora Law! Che fine hai fatto?» gli chiese Jora andandogli incontro. La donna aveva in mano un pacco chiuso con la carta e legato con dello spago.
«Mi ero perso» mentì, senza curarsi d’essere convincente; e non ce ne fu bisogno, Jora passò oltre: «Va’ a mangiare qualcosa, sembri non reggerti in piedi, e trovati un posto dove dormire, ci fermeremo qui per alcuni giorni, ordini del Signorino... A proposito, ti ha lasciato questo, prendi»
Jora gli mollò il pacco che aveva in mano. Era pesante. Law lo aprì immediatamente; Doflamingo aveva pensato a lui, magari poteva trattarsi della cura per la sua patologia.
Sfilato lo spago e strappata la carta, Law trovò solamente dei libri. Ne lesse distrattamente alcuni titoli: anatomia, chirurgia, chimica. Gli scintillarono gli occhi, tra quelli ce n’era uno che ricordava avere visto anche nella biblioteca di suo padre.
«Il Signorino ha detto che sono un regalo per te, ricordati di ringraziarlo, non capita spesso che faccia certi doni, deve volerti molto bene»
 A Law era tornato un timido sorriso, tuttavia insufficiente: a che serviva studiare se doveva morire? Tutto quel sapere non lo avrebbe salvato, e non aveva nemmeno il tempo per diventare un medico chirurgo.
Sembrava una presa in giro.

Nonostante, pensò lo stesso di andare a cercare un posto dove iniziare a leggerli, lo avrebbero distratto.
Di appetito non ne aveva; ne sentiva sempre meno, probabilmente era colpa della malattia che incombeva; così, in cerca di una camera tranquilla, Law salì le scale del terzo piano e arrivò in un lungo corridoio.
Finestre a sinistra, camere a destra, soffitto alto: l’architettura  si diffondeva in profondità a comporre una suggestiva prospettiva frontale.
Law provò ad abbassare la maniglia della prima stanza, era chiusa a chiave. Passò alla seconda, chiusa anche questa; stava per sfondare la porta di quella a seguire, ma si bloccò. 
Udì dei rumori, provenivano proprio da quella camera. Doveva essere occupata.
Incuriosito, Law si avvicinò alla porta e poggiò l’orecchio su di essa, a contatto con la pelle il legno era freddo e fastidioso.
Sentì qualcuno parlare:

«Credi di essere stato carino?… Me ne sono accorto anche sulla nave. Vieni qui»

La voce era troppo bassa, Law non capì a chi potesse appartenere.

«Mi prendo quello che voglio, quello che è mio... E voglio tutta Dressrosa»

Poi un tonfo, e silenzio.
Law tirò via l’orecchio, pareva non vi fosse più nulla da ascoltare ma, dopo pochi minuti, sentì altro provenire da quella stanza: un cigolio reiterato, non solo, qualcuno, lo distingueva bene, stava respirando con affanno, come quando si correva troppo o si salivano le scale velocemente.
Curioso, col corridoio vuoto alle sue spalle che sembrava volerlo inghiottire nella penombra, cercò di guardare dal buco della serratura: le luci all’interno della camera erano accese, si vedeva una poltrona, su cui era adagiata una informe macchia nera, e si scorgeva l’angolo di un letto.
I rumori non cessavano: divennero intensi con un ritmo opprimente.
Inaspettatamente, nella sua stretta visuale, spuntarono due mani, ad aggrapparsi sul ciglio del letto che vedeva di scorcio. Law seguì le braccia tese che sostenevano un torace nudo e ricurvo verso il basso.
I particolari anatomici appartenevano ad una sola persona, che aveva la schiena deturpata da numerose cicatrici.

Ma, se non stava guardando un mostro e non stava sognando ad occhi aperti, doveva esserci sicuramente una seconda persona lì dentro; Law si accorse di un altro paio di braccia: sbucarono da un lenzuolo e si chiusero a stringere il corpo sfregiato.
Continuò a guardare spinto da un bizzarro interesse.
Una debole vocina dentro di lui gli suggerì di andarsene, Law non la ascoltò. Fu un errore: per pochi secondi, scorse e riconobbe la faccia di un uomo. Non portava gli occhiali, ma era lui
Law lo vide muoversi agitato, a fare pressione col torace sul corpo deturpato ch'era sotto di lui, e che dondolava resistendo con fatica alle spinte. 
Ogni movimento era accompagnato da uno scricchiolio del letto e da un gemito, o viceversa.
Law non capì cosa di quel che stava guardando lo impressionasse, o forse aveva capito ma non voleva pensarci. Era capitato nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Provò il bisogno di vomitare la cena che non aveva mangiato.
Distratto e scioccato, allentò la presa sui libri che teneva fra le braccia; ne caddero due, che rovinarono pesantemente sul pavimento.
Il cigolio cessò.
Law allontanò il viso dalla serratura.
Temette di essere stato scoperto; non ce la faceva a muoversi e scappare, era impaurito e le sue gambe si erano ancorate al pavimento.
Sbirciò nuovamente nel piccolo foro: adesso, qualcuno lo stava guardando, e da vicino, c’era solo la porta a dividerli. Sì, era un occhio quella sfera lucida con le palpebre che sbattevano ripetutamente ogni due secondi. Un occhio dalla pupilla piccola come la cruna di un ago e con l'iride mostruosamente bianca.
Law ne riconobbe la forma immediatamente, sapeva bene chi c’era dall’altra parte.
Soffocò in tempo le sue urla tappandosi la bocca con la mano.
Via, via, via! Doveva andarsene subito da lì.
Si piegò per raccogliere i libri che gli erano caduti, e orrore, da incubo: la porta cominciò a tremare, dei fili lunghi e neri come capelli si allungarono passando sotto di essa. Uscivano anche dal buco della serratura, in una matassa inquietante che si stava avvicinando a lui. Sembrava che fosse la porta stessa a sputarli fuori, minacciando di spalancarsi all’improvviso. E questo non doveva accadere.
Law lasciò perdere i libri, i fili lo stavano per catturare, una ciocca gli si annodò attorno alla caviglia. Dio, come stringeva! E… erano affilati! Quei maledetti fili lo stavano tagliando. Vide il sangue sgorgare appena e macchiargli il calzino.

Aiuto!

Sfilando il piede dalla scarpa – che raccolse appena fu libero –  senza preoccuparsi di ferirsi ulteriormente,  Law riuscì a scappare; il suo istinto di sopravvivenza ebbe la meglio sul panico.
Claudicante e col cuore che non batteva più, fuggì spaventato ed estremamente confuso.
Alle sue spalle udì diffondersi l’eco di una sottile risata da Joker.

Il corpo di Wellington, trafitto e tagliato...  Law non riusciva a non pensarci.

 

***

 

Per due lunghi giorni Trafalgar Law resistette al bisogno di raccontare ciò che aveva visto e non parlò con nessuno.  
Durante le quarantotto ore non ebbe neanche l'occasione di incontrare Doflamingo. Una fortuna, perché ne era a dir poco terrorizzato. 
Corazon anche sembrava essere sparito.
Tenendosi lontano dal terzo piano, il ragazzino aveva però trovato un posto dove rintanarsi: era lo studio dell’ingegnere edile.
Law non sapeva neppure che faccia egli avesse, non lo aveva mai visto, poiché, a detta di Buffalo, l’uomo era stato portato via da Lao G e Machvise mentre urlava frasi come “è colpa mia, sono un uomo cattivo, firmerò tutto quello che volete”.
La stanza era pulita e ordinata, gli ricordava lo studio medico di suo padre, mancava  l’odore del disinfettante.
Lì, poteva stare tranquillo e studiare.
Alcuni argomenti non gli erano nuovi, li aveva già trattati, ma erano studi che andavano oltre la portata di qualunque ragazzino della sua età, e lui aveva solamente quattordici anni; possedeva un quoziente intellettivo al di fuori della norma, smisurato.
Un'intelligenza rara che aveva  impressionato persino il diavolo rosa, il quale, dopo essersene accorto, aveva insistito, mostrando un ignoto e morboso interesse, affinché il piccolo Trafalgar completasse la sua formazione.

Law stava per riprendere a leggere dal capoverso, quando sentì dei passi provenire dal corridoio esterno.
La porta si aprì alle sue spalle; lui non si voltò. Sapeva chi era, lo immaginò dall’intenso profumo di fiori – di rose soprattutto – che invase la stanza.
«Ciao Law, ti stavo cercando... Ho trovato questi, avevo detto a Jora di consegnarteli e mi pare che l’abbia fatto, perché vedo che gli altri ce li hai tu»
Doflamingo sbatacchiò sul tavolo un paio di libri. Law non fiatò. C’era rabbia nell’aria. 
I tomi che ‘Mingo gli aveva portato erano quelli che aveva abbandonato davanti alla porta dei segreti inconfessabili.
Era stato riconosciuto... Ora, Aveva paura di ricevere una punizione.

«Law, tu non lo sai, ma tra le cose che non sopporto di questa detestabile fogna che è il mondo, c’è il disordine… e ci sono anche i ficcanaso, cerca di non dimenticarlo»
Doflamingo gli poggiò una mano sul cappello, come ad accarezzare un animaletto ubbidiente. Un animaletto che avrebbe mantenuto il silenzio.
Il piccolo Trafalgar avvertì la nausea lievitare, gli tornarono in mente i gemiti da mal di pancia, l'occhio, il cigolio... i fili. Trattenne il respiro; strizzò le palpebre contando mentalmente fino a dieci e sperò che il fenicottero sparisse.
Purtroppo la magia non esisteva, e le fate che aiutavano i bambini in difficoltà erano bugie a cui lui non credeva più da molto tempo.
«Cosa stai studiando?» gli chiese ‘Mingo.
«L’iper…  l’ipertrofia ventricolare»
Le sue labbra tremavano senza che riuscisse a fermarle.
«Fu fu fu… Tu diventerai un bravo chirurgo, se sopravvivrai»

Le fate non esistevano ma, al loro posto, c’era un clown un po’ sbadato e dal tempismo impeccabile.
Corazon entrò nello studio dell'ingegnere, attualmente studio del dott. Trafalgar Law
Aveva in mano un lumacofono e un bigliettino.
Quando Law lo vide arrivare, il suo cuore si riempì inaspettatamente di gioia.
«Che c'è?», lo accolse Doflamingo. Rosinante prima gli passò il bigliettino, che il fenicottero lesse velocemente, e poi il lumacofono. 
Doflamingo compose un numero, passarono una decina di secondi e qualcuno alzò la cornetta. Chiunque ci fosse dall’altra parte, non ebbe il tempo di parlare.
«Hai accettato la mia offerta. Ti consegnerò il contratto firmato, tu fammi trovare pronto quello che ti ho chiesto» disse 'Mingo, allontanandosi di qualche metro da suo fratello.

Law, perdonami. Mi dispiace che tu sia capitato in questa maledetta Famiglia.

Pensò Rosinante. Aveva l’animo a brandelli, perché negli occhi dell'unico sopravvissuto alla tragedia di Flevance c’era un’altra sofferenza a cui rimediare.
L’Ufficiale gli sorrise col vero volto del Tenente Colonnello. In quel momento, oltre ad essere l’ombra di suo fratello maggiore, Rosinante non poteva fare di più.  
Law ne restò spiazzato, non gli aveva mai visto una simile espressione sul volto.

«Corazon, avresti dovuto farmelo sapere prima. Ce ne andiamo da qui, oggi!»
Doflamingo aveva smesso di parlare al lumacofono, uscì in fretta dallo studio.

L’Ufficiale di Cuori ne approfittò per fare un simpatico occhiolino al ragazzino, prima di sparire inseguendo suo fratello.
Law capì: era nuovamente in debito con quel bislacco pagliaccio: lo aveva salvato per la seconda volta da un fenicottero cattivo.

Forse a lui potrò raccontare tutto... 

 

 

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EDIT del 29/09/2016 c'è un brano che ho scovato e va a braccetto col momento in cui Law vaga per il labirinto della villa, solo musica, niente testo, io ve lo consiglio: LINK CLICCA

Non odiatemi se questa One-Shot è venuta fuori tanto lunga, ma era mia intenzione torturarvi.
E stavolta, abbiamo anche Law attivo (anzi, è proprio in azione).
Dunque: Wellington, Law e Baby 5 in missione, il contratto da firmare, e i libri che Doflamingo dà a Law, ho estrapolato tutto dalle vignette dei flashback (potete trovarle nel volume 76 del manga italiano, e al capitolo n. 763 Dichiarazione di umanità, del fumetto in rete) e con queste però ci ho farcito la mia pappa acida, legando gli avvenimenti tra loro.
I nomi delle isole sono inventati, ed hanno significato se tradotti dal giapponese.
Le frasi di ‘Mingo pensate da Law sono state prese dal manga.
Scopo del capitolo: infittire il legame tra i tre, mi piace credere che sia Mingo che Corazon stiano lì a contendersi Law e che il ragazzino cominci a temere il fenicottero (l’ho fatto troppo cattivo? Ma lui è cattivo, il fenicottero intendo).
Ok, dati i contenuti che potrebbero essere male intesi, mi era d'obbligo modificare l’età di Law a anni 14.
Ma comunque per rendere più soft gli avvenimenti ho tentato di mantenere un'aria implicita. Se ho intaccato la vostra sensibilità mi tolgo da ogni responsabilità, visti gli  avvertimenti fuori dalla storia e nella storia.
Dofy è uno psicopatico omicida, ho voluto mantenermi su questa linea. Inoltre, non potevo non incominciare ad introdurre i suoi loschi piani per Dressrosa.
A proposito del Fenicottero, quando parla all’ingegnere e dice “mi ricordi mio padre” fate caso che sembra ricalcare la scena del Joker di Heath Ledger, nel film The Dark Knight, e lui diceva così: «You remind me of my father, I hate my father!». Cioè, è stata pura casualità. Ma mi fa ridere. ^^
Non so perché mi sono fissata col fatto che Doflamingo voglia tutto pulito, ricordate: nella scorsa One Shot si ripuliva dal trucco e dal sangue del fratello, in questa pulisce il sangue dal viso di Law, e poi ordina ai suoi uomini di togliere i cadaveri a terra... è un uomo sporco dentro e pulito fuori.
Per gli occhi di Law: sono convinta che il grigio delle sue iridi sia dovuto al progredire della malattia, e che dopo aver mangiato il frutto Ope Ope, siano rimaste così, come anche le occhiaie sotto i suoi occhi.
Per gli occhi di 'Mingo: oddio cosa darei per vederlo senza occhiali! *__* Io mi sono immaginata che li abbia bianchi, magari poco più scuri del bianco della sclera. Ma comunque impressionanti.
Chi se ne intende di iconografia, avrà riconosciuto nella statua con lo specchio, la figura della Prudenza, gli manca  il serpente. Però mi sono ispirata a lei (perché c’ha lo specchio ^^ e mi serviva, ah ah ah)!
Sì, l’illustrazione è mia, dedicata alle fan del trio (ma perché a ‘Mingo ho messo l’anello all’anulare sinistro? Boh! ^^) Io spero vi piaccia, ho tentato di riassumere la tensione in un'immagine.
Attendo vostri pareri, non fatemi male. E un GRAZIE ENORME a chi legge, recensisce, preferisce, segue, ricorda e sostiene questa storia!

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Capitolo 3
*** Lasciarti andare... mai. ***


Importante: come segnalato nelle note, la storia tratta contenuti forti e violenti; il genere è angst, drammatico, introspettivo. Ed è sconsigliata la lettura ai minori di 14 anni. Grazie per la Vostra attenzione. Illustrazione a fine pagina, dopo le note.

 

 

Mein Herz Brennt
3. Lasciarti andare… mai.

 

 

“Everybody knows,

Everybody knows,

That you cradle the sun,

Living in remorse

Sky is over 

Dont you want to hold me baby

Disappointed… going crazy!

Even though we can’t afford

The sky is over

I don’t want to see you go

The sky is over”

 

 

Un altro conato gli incurvò la schiena, lasciandolo senza respiro.
Lui gli tenne la testa, opponendo la propria mano alla sua fronte.
Un grumo di bile nera galleggiava disgustoso, non aveva più nulla da espellere se non le interiora…
Law s’era aggravato. Le piaghe bianche, aumentate, ne facevano inesorabile testimonianza.
Era questo il piano?
Si chiese il tenente colonnello Rosinante.
Vagabondare in cerca di una cura per quel bambino ed incontrare solo codardi fantocci in camice di medico?
Non uno aveva voluto visitarlo, non uno aveva avuto il coraggio di sfiorarlo.
Law sentì le lacrime bruciargli gli occhi, le vide cadere nel buco maleodorante davanti al quale stava inginocchiato; la gola corrosa non gli permetteva nemmeno di deglutire, e i violenti spasmi gli comprimevano il petto, sfinendolo.
 
“Avviseremo la Marina e vi faremo catturare entrambi! Lei per averlo portato qui, come atto terroristico, e il bambino per fare sì che il Governo se ne disfi definitivamente!” 
 
“Porti via questo mostro, ci infetterà tutti!”
 
“Il morbo da piombo ambrato è un pericolo per l’intera umanità, chi ne è contagiato va assolutamente soppresso!”
 
Così avevano sentenziato i “dottori”.
Rosinante s’era trovato costretto a ricorrere al suo potere per far tacere le bocche di quegli stolti; e poco c’era mancato che finisse a stozzarne più di uno con lo stetoscopio che i finti medici portavano appeso al collo. Esseri come loro erano il vero male per l’umanità.
Ma gli occhi spauriti di Law; che prima guardavano i dottori condannarlo e dopo, colmi di rassegnazione, si voltavano verso il marine comunicandogli “lo vedi che avevo ragione io, per me non c’è speranza”; questi erano stati lo schiaffo peggiore alla giustizia che Rosinante aveva sempre difeso e per la quale continuava a battersi.
Perché i giusti esistevano, lui ne era la prova vivente, era stato salvato. A parte Dofy, tutti potevano essere salvati. Anche Law.
Ciononostante, la gente soffriva e i bambini venivano abbandonati a morire nell’indifferenza generale.
 
“Mi dispiace, ma non puoi fare niente per il piccolo. E non dimenticare lo scopo della tua missione.” 
 
Gli aveva detto Sengoku, proprio lui che lo aveva tirato fuori dall’inferno.
Rosinante era solo, si sentiva solo, e credere nel bene cominciava a metterlo a dura prova: il mondo gli stava crollando addosso, non era riuscito a trovare una cura, ogni giorno che passava, Law scompariva; e Doflamingo aveva sicuramente compreso la natura del suo allontanamento dalla Famiglia, dopo cinque mesi di assenza, non dando più alcuna notizia di sé, come un traditore.
Presto, il fenicottero gli avrebbe dato la caccia per ucciderlo e riprendersi il ragazzino di Flevance.
 
L’Ufficiale prese Law in braccio. Il bambino si reggeva in piedi a stento, era leggerissimo.
Lo adagiò piano sul letto.
«Hai freddo?»
Scosso dai brividi, Law fece sì con la testa.
Rosinante si tolse dalle spalle il cappotto di piume per coprirlo.
«Ecco, così starai caldo… Vuoi provare a mangiare o a bere qualcosa?» cercò di convincerlo, perché della cena che gli aveva portato, rimasta sul comodino a fianco a letto e ormai freddatasi, Law non aveva toccano nulla. 
Il bambino la guardò stomacato.
«D’accordo, mangerai quando ti sentirai meglio»
 
E quando?
Chiese una voce, che in realtà era la coscienza stessa del marine.
Appena  un medico lo visiterà.
Davvero pensi che, pur ottenendo l’attenzione di un dottore, questo riesca a salvarlo? Non ci sono terapie adatte per la sua patologia. Nessuno si è mai occupato del caso.
Questa era purtroppo una possibilità, un timore che gli frullava fra i pensieri da tempo, e repentinamente tentava di buttarlo giù.
Ci sarà sicuramente qualcuno, lo troveremo, continueremo a cercare!
Credi gli sia rimasto tempo a sufficienza? 
Guardalo, ti sta morendo sotto gli occhi… E tu non fai altro che aumentare la sua sofferenza!
 
Rosinante si allontanò da Law, amareggiato dalle sue riflessioni e con l’immotivata paura che il piccolo potesse captare i suoi pensieri.
Gli veniva da piangere, avrebbe volentieri sbattuto la testa contro un muro… inutilmente.
Si avvicinò all’unica finestra presente nella stanza e dalla quale poteva osservare la strada; stare di vedetta, tenerla sotto controllo.
Sul suo polso era allacciato un mini-lumacofono nero, per le intercettazioni; lo attivò.
 
Nella trascorsa giornata, dopo aver banalmente tentato di chiedere assistenza in ospedale, in città si era diffusa la notizia che un sopravvissuto di Flevance era a piede libero e andava assolutamente catturato.
La Marina, ora, stava cercando entrambi. Avrebbero dovuto lasciare l’isola immediatamente; tuttavia, Law non era nelle condizioni per affrontare subito un altro viaggio in mare; e, per precauzione, il Tenente aveva deciso di trovare rifugio in periferia, in uno dei quartieri più malfamati e poco frequentati della città.
Dovevano nascondersi; e non era da sottovalutare la loro identità pirata, qualcuno avrebbe potuto riconoscerli come appartenenti al clan Donquijote. Pur essendo un marine, per Rosinante era meglio evitare grane e non far arrivare sue notizie al Quartier Generale.
 
Quando l’anziana signora che gestiva la locanda li aveva visti entrare si era mostrata indifferente e, pur trovandosi di fronte un uomo che portava in spalla un bambino, non aveva fatto domande. Non era stato un gesto di cortesia il suo, piuttosto l’abitudine alla presenza di ladri e tagliagole, che costituivano la normale clientela; finché pagavano lei poteva fingersi sorda, orba e muta.
 
Un piccolo bip destò l’attenzione di Rosinante:
 
«Negativo, Capitano, non li abbiamo trovati… abbiamo perso le loro tracce. Potrebbero aver abbandonato l’isola, alcuni testimoni giù al porto ci hanno riferito di aver visto una coppia sospetta prendere il largo, for-»
 
E almeno questa è andata.
 
Pensò il marine, tirando un sospiro di sollievo, mentre chiudeva la lumachina senza finire di ascoltare il rapporto; aveva intercettato esattamente ciò che le sue orecchie speravano di udire.
Per quella notte, avrebbero goduto di un sonno tranquillo. Sempre che Law non si sentisse nuovamente male.
 
Il clima placido venne però guastato da alcuni tipacci sulla strada in fondo al vicolo: si stavano dando ai bagordi notturni, alzavano la voce sbraitando frasi senza senso e si divertivano a lanciare bottiglie che facevano esplodere con un colpo di pistola. Erano ubriachi fradici.
«Silent!»
Con uno schiocco di dita, una barriera invisibile discese sul piccolo Law a proteggergli il sonno dagli schiamazzi molesti. Si era addormentato e sembrava respirare in modo regolare.
Rosinante colse l’occasione per uscire dalla camera e rollarsi una sigaretta.
Appena fuori, appoggiò la schiena al muro del corridoio e si dedicò al suo vizio migliore. Ne aveva bisogno.
Intanto che fumava, si guardò in torno: quel posto era davvero raccapricciante: il verde scuro dell’intonaco era pieno di crepe e infiltrazioni di umidità, mura marce, uno strato di sudicio pavimentava il corridoio, e c’era odore di pipì. Da una fessura sul battiscopa face capolino un ratto.
 
Solo per una notte…
 
Non poteva aspettarsi di meglio: aveva pagato quel tugurio meno di cento Berry.
Chiuse gli occhi, godendosi la nicotina che gli intasava i bronchi e che si infiltrava tossica nel sangue, donandogli un lieve attimo di pace.
Poi, udì delle voci. Queste provenivano da una delle camere presenti sul piano; erano le risate licenziose d’una donna, seguite dai brontolii di un uomo.
Una delle porte in fondo al corridoio si aprì; e come su una scena teatrale, uscirono il suddetto uomo, d’aspetto loffio, con un cilindro alto e la giacca inamidata, e la suddetta donna, volgare negli abiti e nel trucco.
Lei sorrideva maliziosa mentre afferrava le banconote che quello gli passava allargando il portafogli. L’uomo le baciò la mano e si congedò prendendo la direzione delle scale.
Rosinante, guardandoli, ricordò che l’ultima volta in cui era stato in un bordello fu quella per riscuotere il gruzzolo di un protettore finito nel mirino di Doflamingo. Il fenicottero si teneva debitamente alla larga da certi ambienti – ma non dalle lucciole, specie quelle di alto borgo –  il lavoro sporco lo faceva sbrigare agli altri.
Però, in quell’occasione, il marine s’era divertito e tolto parecchie soddisfazioni nel prendere a pugni la faccia dell’infame sfruttatore di turno.
 
Corazon non s’accorse di essere rimasto ad osservare la scena oltre il necessario, anche dopo che l’uomo se n’era andato; la donna, sentendosi fissata, gli era arrivata quasi sotto il naso.
«Ehi, biondino, sei solo?»
Strinse le labbra attorno al filtro e prese un altro tiro, illuminando la cicca. La ignorò totalmente.
«Be’ devi esserlo, anche se mi pare strano che un tipo affascinante come te se ne stia qui senza avere nessuno a tenergli compagnia» disse lei, con voce gracidante, avvicinandosi sufficientemente da fargli sentire il suo odore di femmina e di letto consumato.
«Io potrei rimediare… » gli sorrise peccaminosa, distendendo due labbra lucide e rosa, in un sorriso stretto stretto da ridurre la bocca ad una fessura orizzontale, che a stento le foderava i denti.
Quelle sue labbra sottili davano l’impressione di stare per strapparsi.
 
Non ricevendo in cambio alcuna risposta, la donna, palesatasi come una di facilissimi costumi, azzardò a mostrare la merce sbottonandosi il décolleté indecente: liberò due seni bianchi, che sbordarono sgraziati e pesanti da un corpetto blu tanto stretto che le disegnava un vitino da vespa.
Continuava a sorridergli, beffarda e senza vergogna. Rosinante non vedeva altro che le sue labbra tese e sottili.
Labbra rosa.
Truccate di rosa.
Che gli sorridevano.
Troppo vicine.
Sempre sottili, troppo sottili.
Riusciva a vederne la forma.
Dei denti. Sotto la pelle.
 
«Uno come te non me lo farei mai scappare»
 
Che aveva detto?
 
«Rosy» 
 
«Sei di poche parole, ma mi piaci»
 
«Non parli più. È colpa mia. Mi dispiace…»
 
Lei lo stava toccando.
Sorrideva ancora.
Sorrideva all’infinito.
Che c’era di divertente?!
 
«Dopo tutto questo tempo…» 
 
I profondi occhi ambrati di Rosinante assunsero un velo opaco; si lasciò cadere la sigaretta dalla bocca, aveva perduto in un baleno ogni sensibilità: il suo corpo era lì, ma la propria volontà era migrata in un passato non troppo lontano.
 
«... è fiutando il tuo stesso sangue che mi hai trovato»
 
«Sarai il cliente più carino della serata»
Sussurrò languidamente la prostituta, spostando le mani esperte per palpare la zona dei miracoli contro la legge di gravità.
«Rilassati che ti faccio divertire»
 
Togli le mani.
 
«Lo senti?… Quanto mi sei mancato»
 
Fa schifo.
 
La donna fece scorrere le sue unghie lunghe giù e su per un binario isolato, che non accennava la partenza di alcun treno.
 
«Fratellino perduto, giuramelo…»
 
Andrai all’Inferno, Dofy. 
 
«Il tuo cuore mi appartiene e batterà solo per me, fu fu fu»
 
La smetterai di ridere.
 
«Non mi lascerai mai più, Corazon»
 
Non ti lascerò uccidere nessun altro, pirata Doflamingo.
 
Appena le mani collose di quella sgualdrina dal ghigno sgradevole provarono a spantalonare parti che non le appartenevano, Rosinante se la scrollò di dosso.
«Ma che diavolo fai?» sbottò lei.
La spinse via, garbatamente, e aprì in fretta la porta della camera in cui Law stava dormendo, e la richiuse con la medesima velocità, prima che quella specie di anguilla provasse ad intrufolarsi. 
«Oh, ma insomma, che modi sono questi?! Apri la porta maledetto! Che ci sei venuto a fare qui se non ti va di farlo, eh?! Apri, finocchio!!»
Indignata, la donna batteva alla porta come un’invasata… e sarebbe potuta rimanere là per ore, giorni, perché nessuno l’avrebbe udita: toccandola, Rosinante aveva compiuto su di lei una piccola, leggera, silenziosa magia.
 
 

 

***

 
 
Morti. 
 
Potevano esser deceduti in mare.
O uccisi da qualche balordo per vendicarsi sulla Famiglia; il fenicottero già meditava sui possibili responsabili e su come organizzare per loro una macabra fine.
Oppure, poteva esser morto solo Law – lui era malato – ma con la sua scomparsa andavano a sfumare piccoli e indispensabili progetti.
Ipotesi, unicamente ipotesi, che però si erano accaparrate un posto in prima fila fra le paranoie del diavolo rosa.
Centocinquanta giorni... Neanche una chiamata.
Se Law aveva tirato le cuoia, perché Rosinante non faceva ritorno?
No, Rosinante certamente non era morto, non era accaduto per quattordici lunghi anni. E Law era insieme a lui.
 
Vivi.
 
Il dolce fratellino aveva abbandonato...  cioè, si era momentaneamente allontanato dal clan… da lui.
E lo aveva fatto per far guarire il moccioso, cercando un’improbabile cura in un imprevisto, malriposto, afflato di filantropia che il Demone Celeste non concepiva, non capiva. Non se lo aspettava. 
L’Ufficiale di Cuori aveva preso una decisione in libero arbitrio, non consultando il Capitano, non chiedendo il permesso a suo fratello maggiore. Uscendo deliberatamente fuori dal suo controllo.
 
Scappati.
 
 
«Da quanto sta là dentro?»  domandò Lao G, arrivando alle spalle di Jora e Baby 5.
«Da ieri sera, e non ha voluto mangiare nulla neanche a pranzo, siamo molto preoccupate per il Signorino» disse la donna rammaricata.
«Sì, e poi gli altri ufficiali non sono ancora tornati dalla missione, e lui con noi non vuole parlare», aggiunse la bambina, che in mano teneva un vassoio con del tè e dei biscotti a forma di fiore fatti da lei con tanto affetto per il Signorino.
«Eh, temo che la causa sia sempre…» Jora non finì la frase, lasciando intendere il resto nel silenzio.
«Sì, ho capito – proseguì Lao G, togliendosi dalla testa le sue singolari orecchie di coniglio - Dovevamo aspettarcelo, è suo fratello. Dofy gli vuole un bene così grande con la G, che quel codardo di Corazon neanche si immagina. Comunque, isolarsi non lo farà stare meglio»
«Lao, ti prego, parlaci tu!» lo implorò Baby 5, a lei mancavano le attenzioni del Signorino... ovvero gli incarichi per svolgere missioni mortali.
«Reggimi questo – Lao G posò il copricapo sulla testolina della bambina, le orecchie lunghe e blu la resero particolarmente graziosa – adesso allontanatevi e non entrate per nessun motivo» le avvisò serio, perché il Capo era psichicamente instabile e bastava poco per compiere un passo falso. In passato alcuni sfortunati ci avevano rimesso uno o più arti.
 
L’uomo bussò deciso alla porta, attendendo una risposta, che arrivò subito con un verso monosillabo privo di significato
«Dofy sono io, Lao» si annunciò l’Ufficiale, aprendo l’uscio e richiudendolo alle sue spalle.
La camera si presentò anche peggio di come se la aspettava: soffitto, pareti e pavimento sul lato sinistro, più qualsivoglia oggetto ad arredare la stanza, erano stati tranciati di netto, in cinque parti.
Sembravano i postumi del passaggio di una tigre gigante, che aveva deciso di affilarsi gli artigli proprio lì.
Era molto grave: il Signorino difficilmente si lasciava andare alle passioni.
Seguendo gli squarci, Lao G trovò il Capitano appoggiato alla parete in fondo, immerso nell’ombra.
Accanto a lui c’era un tavolino, scampato alla furia, con sopra un lumacofono.
Squadrandolo meglio, l’Ufficiale s’accorse che il Signorino era impegnato ad accartocciare un foglio: lo stringeva spasmodicamente nella mano destra, producendo un crepitante rumorio.
«Voglio farli a pezzi… tu che ne dici?» parlò il Demone Celeste, con tono cheto, inadatto.
«Che chiunque venga a mettersi contro la famiglia Donquijote, non ha speranze. E io sarei tra i primi a fargliela pagare» rispose l’Ufficiale, iniziando a sistemare lo scempio che era in terra e decidendo cosa era da buttare e cosa da riparare.
Doflamingo assunse un’espressione satanica, galvanizzato dai versi di quel fedelissimo Credo perorato in suo favore.
«Il mio fratellino se ne è andato, lo ha fatto ancora» continuò il fenicottero.
«Vorrei poterti dire che tornerà Dofy, ma non ne possiedo la certezza»
«Non ci si comporta così... io lo avevo riaccolto nella Famiglia»
«Hai ragione Dofy, non è meritevole della tua misericordia»
Il fenicottero tirò all’insù gli angoli della bocca:

«Quante volte, fratellino, dimmi quante volte…»
 
… Avrai intenzione di punirmi.
 
Doflamingo si passò una mano sulla fronte, a sorreggersi la testa, quasi pesasse tonnellate e stesse per spezzargli l’osso del collo.
«Devi sapere, Lao, che perdendo mia madre alla tenera età di otto anni, fui certo sul da farsi. Solo mio fratello non accettò la mia decisione, lui non era pronto a capire»
 
Nostro padre meritava di morire.
 
Dal volto contratto di ‘Mingo si dissipò ogni accenno di sorriso.
Scomodi ricordi, di macerie ingrigite dal tempo, tornarono a fargli visita insolenti e perniciosi.
 
 
Diciotto anni prima:
il cuore  batteva così forte da rimbombargli nelle orecchie, il braccio teso ancora tremava e il dito sembrava essersi amalgamato col grilletto della pistola.
Le armi erano pesanti. Non lo immaginava, aveva visto gli adulti maneggiarle sempre con molta facilità. La polvere da sparo puzzava. Perché Trebol non glielo aveva detto?
Davanti a lui, la realtà si presentava eccessiva, inferma, ombrata. Colpa delle lenti nere.
Vedeva suo fratello Rosinante, non vedeva più suo padre. Certo, gli aveva appena fatto saltare il cervello cancellandogli quel sorriso bonario mostrato persino con una pistola puntata sulla nuca.
Dofy ne era disgustato.
Sì, doveva per forza essere il disgusto verso le ultime e affettuose parole pronunciate da quell’uomo – che aveva avuto il coraggio di chiedere perdono ai suoi figli – che Dofy avvertiva lo stomaco contorcersi nel tentativo di espellere un rigurgito di nausea incontenibile.
Sì, doveva essere questo a provocargli malessere, e non la chiazza vermiglia che si allargava accanto ai suoi piedi.
Non capiva perché suo fratello continuasse ad urlare.
«Rosy, piantala. L’ho ucciso, è finita»
Disse calmo, a voce bassa. Ma il fratellino non lo ascoltava, era sotto shock.
«Perché continui a frignare?! Ormai è morto!»
‘Mingo serrò i denti, scavalcò il cadavere del padre, schiacciandogli col piede tre di dita di una mano, e si fiondò contro il disperato fratellino.
«Ascoltami bene: è colpa sua se nostra madre non c’è più, è colpa sua se stiamo soffrendo, è colpa sua se tu piangi! Capito?!»
Anche berciandogli contro, Rosinante non lo ascoltava: piangeva così forte da diventare cianotico.
«Io tornerò a Marijoa con la sua testa... Tu verrai con me! Andremo a vivere nel posto in cui tutti ci mostreranno il rispetto che meritiamo!»
Con la mano che non stringeva la pistola, ‘Mingo afferrò quella di suo fratello.
Rosy parve riprendere lucidità, perché la ritirò fulmineo; non smise di singhiozzare.
Dofy ritentò.
Niente, il suo fratellino non voleva muoversi, non gli dava retta e gridava, gridava forte.
‘Mingo non lo sopportava; lo buttò a terra colpendolo con un pugno in faccia, e gliene diede altri fino a gonfiargliela, fino a stancarsi, fino a scoppiare anche lui in lacrime.
Ma non voleva fargli del male, non gliene aveva mai fatto, gli voleva troppo bene.
Lo dimostravano gli anni tortuosi passati ad arrancare sulla terra dei comuni mortali: Dofy si era sempre preso cura di lui, beccandosi anche le botte del fratellino, togliendosi il pane di bocca per farlo mangiare.
E adesso, Doflamingo non capiva, perché lo stava abbandonando? Erano fratelli, dovevano stare insieme.
«Io… riprenderò i miei poteri, il mio posto tra i Draghi Celesti!... Gli esseri umani sono cattivi... Non voglio morire qui! Rosy - ‘Mingo ridusse la voce in un rantolo sofferto - ti prego, andiamo via»
Riafferrò il fratellino, che non si ritirò come aveva fatto prima, al contrario, la sua mano era pesante e dondolava a seconda di come Dofy gli teneva il polso.
Rosinante sembrava più morto di suo padre; non si muoveva, eccetto che per i singhiozzi causati dal pianto, che lo scuotevano ad intermittenza sin nelle viscere.
Impaziente, arrabbiato, e con addosso un’inspiegabile senso di vacuità, Doflamingo lasciò andare il polso del fratellino. Non c’era più nulla da fare per lui, per loro.
Afferrò il cadavere del padre tirandogli un braccio, guardò per un’ultima volta Rosy.
 
...
 
Trascinando con sé la sua colpa, Doflamingo se ne andò senza voltarsi più indietro. 

Lasciandosi alle spalle le lacrime del fratellino.
 
In quel lontano e crudele giorno, il Drago Celeste smarrì il suo cuore per sempre.
 
Anche allora mi lasciasti solo.
 

 

***

 
 
 
«Dofy?… Dofy, tutto bene?»
Da oltre dieci minuti, il diavolo rosa non rispondeva a niente, tremava e rideva, rideva senza motivo. Rideva e faceva paura. Con dei mugolii bassi e profondi schiacciati tra i denti.
L’Ufficiale era preoccupatissimo.
«Dofy, vado a chiamare un medico!»
«No... uh, uh, non c’è bisogno, uh, uh, uh, – ‘Mingo tornò al presente, rallentando il motore della sua risata –  non preoccuparti, è tutto chiaro adesso»
E cosa fosse chiaro lo sapeva solo lui, Lao G non gli pose domande.
«… di che stavamo parlando?»
«Di… di tuo fratello» rispose l’Ufficiale, esitando; non gli piaceva quando il Signorino si comportava come un pazzo.
«Giusto… Lao, dimmi, quale è la pena per il tradimento?»
«Se qualcuno osa tradirti, Dofy, sarà ripagato con la morte»
«Esattamente, è così che lo perdonerò, stavolta sarà questa la mia misericordia… Semmai qualcuno dovesse tradirmi» disse in ultimo, restituendo vaghezza all’entità del soggetto.
«Hai intenzione di uccidere entrambi?» chiese secco Lao G, riportando la conversazione su due bersagli definiti: Trafalgar Law e l’Ufficiale di Cuori, Corazon.
Doflamingo, che nel frattempo si era andato a stravaccare su una poltrona in pelle, su quello che era rimasto della poltrona, inclinò la testa in direzione del suo devoto interlocutore, compiaciuto  dall’attenzione che gli stava mostrando.
«Oh, no. No. Io, no… Poco fa, attraverso il lumacofono, un mio fedele uccellino  mi ha riportato un’importante notizia, fu fu fu, prendi questo»
«Che cos’è?» chiese Lao, afferrando il foglio di carta che il fenicottero aveva tenuto stretto tra le dita arrivando a macerarlo.
«Adesso non è più niente, puoi anche buttarlo»
L’Ufficiale srotolò la carta e lesse quanto vi era scritto sopra, anche se l’inchiostro s’era sbiadito e cancellato in diversi punti, era ancora visibile una frase scritta con un corsivo grossolano e tremolante:
 

 

- Vado a guarire la malattia di Law.
 
                                                 Cora.

 
 

 

***


 

  
Law si svegliò di soprassalto, aveva avuto un incubo, non lo ricordava, ma la sensazione che aveva addosso lo metteva in stato di allarme.
Riconoscere la forma della stanza spoglia in cui Rosinante lo aveva portato lo rasserenò un po’.
Quando sentì qualcosa di tiepido e leggero sfiorargli la fronte, alzò lo sguardo e nel buio si accorse di Corazon: stava dormendo accanto a lui, col capo appoggiato sul suo cuscino.
Intorno a sé, Law non sentiva nulla a parte il respiro di quell’uomo, c’era una quiete tale che lo rilassava lenendo ogni suo dolore.
 
«Ti salvo io ti salvo io!»
 
Era stato Rosinante a parlare.
«Cora-san, sei sveglio?» domandò Law, ma il marine russava e, involontariamente, gli passò un braccio sulla testa, schiacciandolo.
«Ehi, Cora’ togliti! Togliti su-»
«Non avere paura Law... Ci sono io con te, ci sono... io»
Law sgranò gli occhi, al buio non vedeva molto, ma sembrava veramente che Corazon continuasse a parlare nel sonno.
Avvertì una stretta al cuore: da quando aveva perduto tutto, la casa, i genitori, Lami, gli amici, la sua vita,  non si era più sentito al sicuro in nessun luogo; ma, ora, c’era quell’uomo, con le sue piume a coprirlo, che si stava dannando per lui. L’unico a trattarlo ancora come un normale essere umano.
 
Avevi ragione tu, Sorella…
 
Il piccolo Trafalgar ripensò alle lontane parole di una povera suora; anche lei uccisa a Flevance; gli aveva detto di avere speranza e che prima o poi avrebbe trovato qualcuno pronto ad aiutarlo.
Sulla bocca di Law si allargò un timido sorriso; prese il braccio di Corazon e se lo sistemò meglio attorno a sé. Si avvicinò a lui, abbracciandolo. E nascose il viso contro il petto dell’Ufficiale, per sentire il battito forte del suo cuore.
Ecco, Law non aveva bisogno d’ altro.
Di morire non gli importava, perché finalmente non era più solo.
 
«Ti voglio bene, Cora-san»
 
E io voglio bene a te, piccolino.
 
Una lacrima dolce e silenziosa colò, lasciando una traccia sottile e bagnata sulla guancia del clown.
Non era solo per la D che lo stava aiutando, non era più per la D, non lo era mai stato.
Quel bambino era un dono del cielo, degli Déi, incarnava la salvezza stessa: Law era il fratello che Rosinante aveva perduto da bambino.
Il marine lo strinse forte a sé, non lo avrebbe lasciato più andare.
 
 

 

***

 
 
 
Lo scotch di quel nightclub non era di ottima qualità, ma aiutava a riflettere e andava giù facile.
Doflamingo osservò i due cubetti di ghiaccio contenuti nel bicchiere restare attaccati, ad abbracciarsi, e iniziare a sciogliersi insieme, lentamente, annegati in tre dita di whisky.
 
È questa la fine che ti sei scelto, Ros'?
  
L’intero locale era sotto il controllo della Famiglia Donquijote: di guardia all’ingresso c’erano Pica e Trebol, e dentro, a tener compagnia al Capitano, assicurandosi che nessun mentecatto troppo alticcio provasse ad avvicinarsi a lui, stavano Diamante, seduto a tre tavoli di distanza dal bancone, e Lao G, appoggiato a una colonna. Lui aveva insistito affinché il Signorino non fosse lasciato mai da solo, e aveva trovato alto consenso fra gli altri ufficiali che in quella sera si erano mossi insieme accompagnando Doflamingo.
Naturalmente, il Demone Celeste non aveva bisogno di guardie del corpo attorno a sé; no, ma era necessario fargli sentire la vicinanza della Famiglia, e loro costituivano la sua unica famiglia.
Nell’ambiente, la luce fioca, proveniente da lanterne opache disseminate sopra ogni tavolo, stemperava cautamente l’oscurità, ma non l’aria fumosa condensatasi a metà altezza.
Raccolti in un angolo, tre musicisti intrattenevano i clienti con ritmi jazz, assecondando il vociferare di sottofondo; nel locale c’erano pure altre persone: il barman, che con un canovaccio strofinava diversi bicchieri, lucidandoli, senza però perdere d’occhio quello di Doflamingo che, appena si vuotava, andava subito riempito di tre quarti; e una ventina di pirati, stavano attenti ad evitare di incrociare gli occhi con i membri della Famiglia.
La fama del clan Donquijote era dilagata ovunque nel Mare Settentrionale, si erano fatti un nome, e non solo nella “normale” pirateria, ma anche nel crimine organizzato. Persino i mozzi della più sprovveduta delle bagnarole sapevano che con loro non c’era da scherzare
 
‘Mingo non smetteva di guardare i cubetti di ghiaccio, fantasticandoci sopra, dentro e fuori.
Quando venivano pizzicate, le corde massicce del contrabbasso sembravano creare una scala su cui i pensieri del fenicottero precipitavano flemmaticamente. E i tocchi gravi aggiunti dal pianoforte davano loro la spinta per non potersi fermare.
 
Lo ami?...
Io amo te!
Così tanto che ti darò l’occasione per poterti sacrificare.
 
Turbine della follia.
 
«Vogliamo parlare con lui, fateci entrare!»
Il sassofonista si bloccò; un gruppo di ragazzi stava cercando di passare forzando l’ingresso, ovvero andando a sbattere contro il corpo catafratto dell’Ufficiale di Picche e quello mucoso di Trebol.
«Che avete intenzione di fare? Eehi Eehi, non sapete chi siamo? È meglio per voi che ve ne torniate tranquilli a casa o rischierete di farvi molto male questa sera!»
L’Ufficiale di Fiori interpose il suo lungo scettro d’oro tra loro e l’entrata, ma un giovane alto, con le spalle larghe e dal fisico robusto, si fece avanti senza paura dicendo: «Sappiamo chi siete! Clan Donquijote, voi siete l’orgoglio del Mare Settentrionale!»
Vi fu un attimo in cui tutti tacquero, i musicisti immobili.
«Che ha detto il tipo?! Trebol, togliti e fallo entrare! Abbiamo un ammiratore!»
Gridò Diamante, animando la sua bocca larga. Tra i pirati Donquijote lui era il più cedevole alle lusinghe, non importava da chi provenissero o come fossero, un narciso come lui non ci faceva caso.
Pica e Trebol si spostarono; d'altronde, il Signorino non aveva accennato il contrario ed era rimasto indifferente a quel fracasso. Ma non alla musica che si era fermata, infatti, voltò poco il capo per fare capire a quelli in fondo di riprendere. Il pianista rimise le mani sulla tastiera, il resto della banda a seguire.
Gli ufficiali fecero passare il gruppo di adolescenti cresciuti, accogliendoli all’interno del bistrot.
Erano verginelli alle prime armi, esaltati  dall’essere in un locale per soli adulti, per veri pirati. Si guardavano intorno curiosi ed eccitati.
Uno tra loro, però, stava puntando l’uomo giusto: quello in smoking bordeaux che, placidamente seduto su uno degli sgabelli alti posti di fronte al bancone, se ne stava comodo a sorseggiare il suo brandy, anzi, a fissarlo manco fosse stato una palla di cristallo.
Il ragazzo guardava unicamente lui, stregato dall’aura solenne e austera che vedeva irradiarsi attorno all’uomo; meravigliato dalla riverenza che gli ufficiali mostravano nei suoi confronti.
Pareva un Dio.
E che classe: indossava una pelliccia di piume del colore della follia, che cadevano spioventi come un lungo mantello, guanti in pelle nera, orecchini d’oro ai lobi delle orecchie. Doflamingo era il Principe dei corsari.
Il ragazzo lo adorava, gli avrebbe fatto una statua seduta stante, un vitellino d’oro, lo avrebbe osannato in eterno.
 
«Da dove venite?» chiese l’Ufficiale di Fiori, che già vedeva in loro del potenziale: buoni da usarsi come spacciatori, o sicari sacrificabili.
 
«Siamo del Mare Settentrionale, veniamo da Nortis»
 
Ti sei nascosto bene.
 
Doflamingo invece non li ascoltava. A parte godersi la musica, fatta di quella calma che preludiava la tempesta, era assorto nelle sue congetture, pensava unicamente a Law e a suo Fratello, surrogati momentaneamente da due cubetti di ghiaccio quasi completamente discioltisi nell’alcol.
 
Ma adesso io ho qualcosa che presto ti farà tornare da me.
 
Non badò a nulla, finché, dalle domande che Trebol pose alla banda di sbarbatelli, ‘Mingo venne attratto inevitabilmente dalle parole del moccioso che gli aveva fatto il calco visivo.
Pronunciandosi a nome di tutti, il ragazzo gli stava chiedendo di accettarli nel suo clan.
Doflamingo dedicò agli ospiti tre secondi della sua preziosa attenzione: l’incondizionata lealtà era ciò che più lo divertiva, lo stavano idolatrando perché era un pirata e non avevano capito. La pirateria era un escamotage per ottenere altro. Ma era affascinante lasciarli e vederli convinti a credere in una menzogna. Erano un’opera d’arte che si faceva da sola.
L’illusione sul volto degli innocenti… quale raro dono. Era controllo. E per il Demone Celeste il controllo era la transustanziazione del piacere puro, estatico.
 
«Vi concedo il mio simbolo… ma se qualcuno vi sconfiggerà me lo restituirete»
 
Parlò una sola volta, lasciando i suoi ufficiali sorpresi e ammutoliti.
I pivellini non credevano alle loro orecchie.
Il sassofonista osò una nota alta e lunga.
L’illusione cominciò a girare i suoi dentati ingranaggi.
La macchina infernale era pronta.
Doflamingo fece finta di brindare a quei ragazzi e scatenò la sua ordalia contro Rosinante:
bevve in un sorso tutto il suo whisky.
 
Voglio vederti morire per lui e anche per me, soprattutto per me, fratellino. 
 
 
 

 

“Not even from the sun
Not even from the sun
Not even from the sun
Dont you want me to run…”

 

 
 
Track BOMBA scelta: CLICCATE PER ASCOLTARE
Sto pezzo sulla One Shot ci sta bene come il pollo con le patate! ^_^
(scommetto che, dal testo inserito all’inizio e alla fine, qualcuno tra voi avrà capito subito di chi si tratta, scappelliamoci tutti dinnanzi alla voce di quest’uomo!)
Da ascoltare durante o dopo la lettura. O quando volete. Io mentre scrivevo ci sono andata a ruota libera.
Ed eccoci al terzo giro.
Arrivati qui siete ancora freschi dell’ultima parte, quindi affronterei questa per prima.
1) So bene che sapete chi è il ragazzo che proviene da Nortis, io non lo nomino solo perché non mi serve, comunque, trattasi di Bellamy.
Essì, qui fa un breve cameo. Ricordate il volume 77 del manga, in cui scorrendo cinque, sei vignette, viene presentato il momento in cui la Iena incontra ‘Mingo e gli chiede di poter far parte del suo clan. Ecco, poiché in quel frangente il fenicottero ci viene mostrato vestito in un certo modo e coi capelli portati in un certo modo, mi è venuto facile pensare che fossero incontrati nel periodo in cui ancora c’era Corazon. Inoltre, ‘Mingo lo si vede fissare un bicchiere di whisky (o quello che è), mi sono chiesta ma chissà a cosa stava pensando? (ovviamente ascoltava Bellamy, ma io ci ho voluto vedere di più). Quindi, ho fatto due più due e ho deciso di unire i due momenti del passato: la fuga di Corazon e l’incontro con Bellamy. Può funzionare? Boh… ditemelo voi. ^^
Tornando a Bellamy, ai suoi occhi ‘Mingo è un gran figo, una celebrità, non mi pare sconveniente  farlo fermare a guardare lo stile del fenicottero (che io preferisco in questa veste “invernale”).
2)  Trattando l’inizio: il tempo della storia si aggira intorno ad un mese prima che Dofy contatti il fratello per informarlo sul frutto Ope Ope.
3) Quando entra in scena la prostituta, c’è una parte in cui si sovrappongono due momenti, quello presente, con la prostituta che allunga le mani su Ros’ (beata lei), e quello passato, in cui Ros’ ricorda frasi di suo fratello. Ho voluto introdurre appena il loro primo incontro dopo quattordici anni, sono poche battute, lo so. Ma so che devo ritornarci in una prossima One Shot, che sarà incentrata solo su questo, quindi per adesso fatevelo bastare.
4) Andiamo avanti, ho messo le mani su quel momento tanto atroce che è l’omicidio di Doquijote Homing, la separazione dei due fratelli, il crack definitivo, e il momento in cui il fenicottero mostra e abbandona in un sol colpo la sua umanità. Almeno a me piace vederlo così. La pistola gliel’ha data Trebol, come anche il frutto filo filo.
E che Dofy senta l’allontanamento di Rosy come una punizione è una mia convinzione, a mio parere quel fenicottero sa bene quello che ha fatto.
5) Poi, quando Mingo dice a Lao G che un uccellino gli ha comunicato una cosa attraverso il lumacofono, non scervellatevi, trattasi di Vergo (attualmente spia nella marina)  che gli ha comunicato la possibilità di ottenere il frutto Ope Ope (questo l’ho dedotto io, non è mai stato dichiarato apertamente nel manga, ma si fa presto a intuirlo).
6) Il foglietto che Mingo passa a Lao G.  è quello che Cora’ lascia sulla sua amaca, mi piace credere che Mingo se lo sia tenuto per tanti mesi a pensarci sopra. Povero fenicottero che soffre.
7) E mi pareva giusto dare spazio alla Famiglia, in questa shot è più nitido l’affetto che nutrono per il signorino,  e che loro si preoccupino veramente per lui, ci credono tutti.
8)Ah, il colore rosa è il colore della follia. Altro che il colore delle femminucce, mica una coincidenza, caro Oda. ^_^
Insomma, cavoli vostri, questa One Shot è più corta rispetto alle precedenti ma è tosta da sorbire.
Comunque, spero di essere stata capace di affrontare al meglio gli argomenti.
Ringrazio  tanto i lettori, chi recensisce, preferisce, segue, ricorda e sostiene questa storia!
Senza di voi, salvo agenti esterni, gli aggiornamenti delle mie fanfiction diminuirebbero fino a sparire. Per i lettori che stanno aspettando gli aggiornamenti della altre storie (Loverman e Curami aggiornata al IV capitolo il 31/8/16), abbiate pazienza. Non le ho abbandonate.
Per quanto riguarda il l’immagine qui sotto, non ho resistito e ho disegnato ‘Mingo con addosso lo smoking bordeaux… e la pelliccia di piume, mi ha fatto dannare, però… ammazza che figo vestito così! Oda, saresti un ottimo stilista qualora volessi buttarti nel campo.
Dedicata a tutti gli infoiati per Dofy e Rosy.  ^^

 photo Doflamingo e Rosinante_zpsatzykgrc.jpg

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Capitolo 4
*** Tamburi di guerra: la Famiglia si riunisce. Parte prima di due ***


  

Mein Herz Brennt

 

 

4. Tamburi di guerra: la Famiglia si riunisce.

Parte prima di due

 

"I will save
you from yourself
Time will change everything about this Hell.."



Dal passato non si poteva scappare. Rosinante lo sapeva.
Era diventato Capitano di Fregata, un ufficiale superiore; la nuova giacca bianca con le controspalline dalle nappe dorate gli conferiva smodata severità, ingessandolo un po’.
L’anziana sarta che gli aveva confezionato la divisa lo aveva ricoperto di complimenti: alto quasi tre metri, spalle larghe, membruto ma asciutto, una bella branda; così ammantato assomigliava ad una colonna in marmo, col viso di un angelo. Lui era arrossito.  
La promozione non era un problema unicamente sartoriale, significava guai più grandi da affrontare, decisioni pericolose da prendere...
Se qualcuno fosse stato a conoscenza della sua storia, delle sue origini, vedendolo ora marine, lo avrebbe elogiato ricoprendo il giovane capitano di futili panegirici: “bravo ragazzo, sei riuscito a superare il trauma, hai dimostrato d’avere forza d’animo e coraggio, complimenti!”

Ma nessuno conosceva il suo passato e la tragedia che era stato. 
Le congratulazioni arrivarono lo stesso, il grado lo aveva guadagnato: era uno dei migliori uomini di cui Sengoku poteva vantare. Forte, sincero, d’animo buono... smisuratamente buono; aveva sempre combattuto in prima linea senza tirarsi mai indietro. Esemplare.
I suoi genitori sarebbero stati orgogliosi di lui. Anche se, se fossero rimasti in vita, forse Rosinante non sarebbe stato marine. 
Ed erano morti.
La Marina non l’aveva scelta, era stata lei a trovarlo e ad accoglierlo. Un colpo di fortuna che lo aveva messo al sicuro. 
Lui non sapeva a chi rendere grazie, se ai genitori finiti male o all’uomo che lo aveva tolto dalle braccia della morte. 
Quello a cui però Rosinante non credeva affatto, era di aver ricevuto grazia gratuita. Se lui era lì, c’era un motivo. Il suo passato, appunto. Impossibile dimenticarlo, o confonderlo tra passi di marcia e gradi militari; non lo poteva ingannare, né mutarne l’eredità, e credere di potervi riuscire era una scappatoia rassicurante adatta ai vigliacchi. Rosinante non cercava scorciatoie. 
Il “neo” Tenente Colonnello lo aveva lasciato esattamente lì dov’era, il passato, in implicita attesa; mentre lui veniva cullato e addestrato nel bene per difendere e fare del bene. 


Quel mattino, al Quartier Generale della Marina, la giornata si presentò gloriosa, indorata dal sole e resa più bella dal sorriso del giovane marine.
Vedere Sengoku, l’Ammiraglio, suo padre adottivo, arridergli fiero e commosso, scaldava il cuore.
Per un attimo, così breve da non poterlo pensare, sentendosi felice, Rosinante permise alla luce di entrare, di illuminare le ombre antiche che celava dentro di sé. Commise uno sbaglio, il peggiore.
Le ombre, infastidite come chirotteri sorpresi dal sole, si svegliarono, infransero la loro immobilità, si scatenarono contro di lui.
Era stata un’ingenua disattenzione la sua, che non tardò ad essere punita.
La pena arrivò puntuale, da lontano, scortata dal vento della tempesta, nelle sembianze di una nave da guerra di ritorno a Marineford.
La nave portava con sé nembi neri, latori di un atroce messaggio, un memento mori che emanava i miasmi d’una carogna imputridita.

Ciò che Rosinante aveva da sempre temuto e sapeva... stava per accadere.


 

***

 

Strofinò le dita sulla carta ruvida del manifesto umido di pioggia, l’inchiostro venne via sporcandogli la pelle dei polpastrelli. Il manifesto era terribilmente vero, ma Rosinante continuava lo stesso a saggiarne la concretezza, dubbioso. 
Aveva preso il manifesto dalle mani di uno dei marine scampati all’eccidio e ora operato d’urgenza; anche stando fuori dall’infermeria, Rosinante poteva udirne le grida: al sopravvissuto i dottori stavano amputando una gamba, resa irrecuperabile a causa delle numerose ferite riportate. Gli aveva detto bene, in fondo, a lui e ad altri sei compagni rimasti in vita; il resto dell’equipaggio, invece, era stato trovato ovunque sparso sulla nave, da prua a poppa. 
I pezzi dei cadaveri erano stati già raccolti, ma non senza ripetute perdite di coscienza da parte dei poveri malcapitati incaricati di ripulire lo scempio. Nessuno però aveva avuto l’accortezza di suddividerli, i pezzi, né di abbinarli e metterli in sacchetti separati; sarebbe stato un rompicapo per i medici riunire le parti, come in una sorta di macabro puzzle. 

Sul manifesto, Rosinante lesse il suo cognome stampato in grandi caratteri: Donquijote. Si chiamava così e faceva senso leggerlo lì sopra. 
Rosinante Donquijote, nome e cognome. 
Di quest’ultimo, nessuno in Marina ne era a conoscenza. Era parte del passato che non aveva mai rivelato. 
A seguire il cognome, c’era un nome... come dimenticarlo questo! Naturalmente, non era il suo. 
Sull’avviso di taglia, perché questo riportava il manifesto, campeggiava una foto. 
La foto ritraeva il primo piano di un volto sconosciuto, ma a lui decifrabile. 

Dofy...

Pensò, e la patina che fino a quel momento aveva ricoperto e nascosto gli scheletri della sua infanzia venne spazzata via: il passato era vivo, mai stato passato, e stava tornando con la frenesia di volersi rivelare, rivendicando il suo posto, il trono, e non soltanto nella vita del marine, ma nel mondo intero, per sovvertirlo, fagocitarlo nel male. Distruggerlo.
Rosinante guardò ancora la foto, dopo arrotolò il foglio con cura e lo custodì nella nuova giubba. 
Aveva preso una decisione, doveva comunicarla all’Ammiraglio.


 

***


 

Sengoku guardava con attenzione lo scafo della nave, seguiva con gli occhi i profondi solchi che dilaniavano il legno spesso. L’albero di trinchetto non c’era più, il parapetto a babordo divelto. Non era stata opera di uomini normali, neanche di mostri marini. V’era meticolosità chirurgica in ogni squarcio.
I medici avevano contato in tutto quarantun vittime e sei feriti, uno era morto da poco, aveva perso parecchio sangue e la trasfusione non era stata sufficiente a salvarlo. 
Quella stessa nave, circa una settimana prima, era partita per controllare alcuni movimenti sospetti nelle rotte che collegavano tra loro piccole isole poco distanti dal Mare Settentrionale, e che, sicuramente, stavano diventando punto di scambio per i pirati. 
Non avrebbe dovuto essere una missione pericolosa, ed erano stati inviati la maggior parte dei novizi.
A morire. 

Sengoku non si dava pace.

«Questo non ci lascerà indifferenti, Ammiraglio» una voce attirò l’attenzione dell’uomo, non gli fu necessario voltarsi, l’interlocutore lo raggiunse; era il viceammiraglio Tsuru. 
«Non mi aspettavo nulla di simile» confessò l’Ammiraglio.
«Li fermeremo, i nostri agenti stanno indagando sui possibili responsabili» disse lei con volto cinico e sprezzante.
«E li giustizieremo – aggiunse l’uomo – Salperai oggi, Viceammiraglio?» le domandò.
«Non starò qui a piangermi addosso»
Sengoku abbozzò una smorfia, «Sta’ attenta, Tsuru»
«Riserva le tue preoccupazioni per qualcun altro. Siamo marine, abbiamo un compito da svolgere: stroncare la pirateria, in ogni sua forma, esattamente per evitare questo genere di truculenti accadimenti. Il pericolo è il nostro mestiere, lo sai, non fartene una colpa» finì lei, sciogliendo le braccia che teneva perennemente conserte. 
Tsuru era una donna di ferro e dal temperamento inamovibile, l'Ammiraglio poteva contare ciecamente su di lei.

I due alti ufficiali furono raggiunti da Rosinante; la donna marine si girò e il ragazzo le mostrò il saluto con rispetto. 
«Stagli vicino, mi raccomando» disse lei, strizzando gli occhi; aveva parlato a bassa voce per non farsi sentire da Sengoku. 
Di rimando, il ragazzo abbassò la testa nascondendo lo sguardo. Già sapeva che non avrebbe potuto ottemperare tal richiesta. 
Tsuru li lasciò soli, se ne andò scortata dalle sue fedeli ufficiali per raggiungere il galeone che la attendeva.

«Rosinante... » proferì Sengoku. Il ragazzo guardò il volto dell’Ammiraglio: aveva gli occhi lucidi e sulle sue guance le gocce della lieve pioviggine che stava lambendo il porto di Marineford si confondevano forse a un paio di lacrime. Era affranto per i caduti, perché amava i suoi subordinati come fossero dei figli. Senza dubbio, era un uomo dabbene, anche se mostrava spietatezza nei confronti di chi non rispettava la legge.
E pensare che poco prima gli stessi occhi si erano commossi per Rosinante, ma di gioia.
L’Ammiraglio si tolse gli occhiali, col dorso della mano s’asciugò l’umidità che gli appannava la vista, poi, riprese la compostezza adatta al suo rango, «Volevo dire, tenente colonnello Rosinante... Hai scoperto qualcosa interrogando i sopravvissuti?» gli chiese. 
«Sì – rispose il ragazzo, e frugando nella tasca della sua divisa tirò fuori quell’avviso di taglia – uno di loro aveva questo. Mi ha riferito che sono stati attaccati da un gruppo di pirati guidati dall’individuo qui riportato» 
L’Ammiraglio srotolò il manifesto: «Donquijote Doflamingo, 50.000.000 Berry  – lesse – il nome non mi è nuovo... Donquijote, mi pare di averlo già sentito, anzi, ne sono sicuro, dovrebbe essere il nome di un’antica fami-»
«Quando è stata emessa?!... Questa taglia, quando è stata emessa?!» 
Sbottò il ragazzo, interrompendo bruscamente l’Ammiraglio. 
Sengoku lo guardò stupito, Rosinante era visibilmente alterato, come impaziente, e pallido in volto.
«Perché ti interessa tanto? Se lui è il responsabile aumenteremo la cifra nella misura che merita» 
«Vorrei sapere quando è stata emessa» 
«Due mesi fa circa, pensavamo fosse uno dei tanti cacciatori di pirati, ne ha fatti fuori parecchi di bastardi... invece fa parte della loro stessa immonda spazzatura – Sengoku parlava ma il giovane marine s’era incantato, non smetteva di fissare il manifesto, l’Ammiraglio se ne accorse – Rosinante... tu conosci quest’uomo?» 


Tick-tock- tick-


L’orologio a pendolo, ovvero la vita del ragazzo, si fermò.

 

-tock-tick-tock


E iniziò a oscillare al contrario. Da lì il tempo venne segnato, limitato. Non sarebbe più andato avanti, a Rosinante non rimaneva che percorrere una strada senza uscita. 
Lo sapeva che per lui non c’erano scorciatoie e vie di fuga.

Ros’ rifletté sulla domanda: non lo conosceva, no, in quella forma adulta non lo aveva mai visto. Ma era esattamente come se lo sarebbe immaginato: un demonio senza rimpianti e umanità.

«Mio fratello... »

Sussurrò, stretto fra le sue labbra, incomprensibile, soffocante. 

Poi, prese coraggio: «Ammiraglio, il ricercato è mio fratello» 

Pronunciarlo ad alta voce fu come dargli vita, evocarlo, riprendere il bandolo perduto e ricucire tra loro fili tranciati, rattoppando gli strappi, con punti di sutura, che divennero cicatrici ancora sanguinanti nella memoria del ragazzo.

I due marine rimasero immobili sul bordo della banchina, onde lievi si infrangevano contro lo scafo della nave massacrata, oltre alla voce del mare, e al sibilo della pioggia che scendeva, il resto era silenzio. 
Rosinante guardava intensamente la carcassa di legno che aveva di fronte: la nave era come uno specchio sul quale vedeva riflesso il proprio destino. 
Sengoku, a sua volta, osservava il ragazzo con un sinistro sentore: non avrebbe avuto più modo, in futuro, di averlo così vicino, quel figlio trovato era già lontano.

 

 

***


 

Tuffato nel tè, il limone cangiò il colore della bevanda, rischiarandola e mutandone il sapore.
Nell’Ammiraglio, Rosinante aveva compiuto la medesima reazione, nella considerazione che l’uomo aveva di lui.
«Perché non mi hai mai raccontato di avere un fratello?» chiese Sengoku, girando lentamente il cucchiaino per far sciogliere quattro zollette di zucchero, e nonostante il tè restava amaro.
Dopo la rivelazione, Sengoku aveva costretto il ragazzo a seguirlo nella fortezza di Marineford, nel suo studio personale, dove poter parlare indisturbati.
«Non me lo hai più chiesto, a parte quell’unica volta che risale a molti anni fa» rispose Rosinante, che subito riprese a parlare: «Questa volta però sono intenzionato a dirti tutto... Io e mio fratello, Doflamingo, abbiamo discendenza divina, la mia famiglia faceva parte dei Draghi Celesti»

«Draghi Celesti?! Hai detto Draghi Celesti?! – Sengoku era sconvolto, come ci si poteva aspettare – ... Certo, ora ricordo, i Donquijote, però sapevo che... » 

«Sì, mio padre scelse di rinunciare al suo titolo, per vivere una vita umile fra la gente comune, era un uomo tanto buono e semplice, non sopportava i privilegi e la differenza sociale... Purtroppo, non andò bene, cademmo in disgrazia, venimmo perseguitati, e anche se avevamo perduto il nostro status ci odiavano tutti. Come ben sai, la gente nutre profondo rancore verso quelli della mia stirpe... »

«Continua», lo esortò Sengoku.

«Mia madre s’ammalò presto e morì. Mio fratello – Ros' prese fiato – lui impazzì e due anni dopo, davanti ai miei occhi, uccise nostro padre convinto di poter far ritorno a Marijoa. Evidentemente...  non c’è riuscito»

Finì, sintetico e raggelante. 

Rosinante aveva esposto i fatti come dati matematici, non rendendosi emotivamente partecipe. Sengoku non lo riconosceva più, non capiva come riuscisse ad essere così privo di empatia persino verso se stesso, e dove avesse trovato la forza, fino ad allora, per reggere una simile sofferenza.
Oppure, era solo apparenza e si stava trattenendo per rispetto della divisa che portava. Ad ogni modo, era degno dell’ammirazione dell’Ammiraglio.

«Avrei dovuto dirtelo prima... – riprese parola il ragazzo – Credimi, ci sono state volte nelle quali avrei voluto rivelarti ogni cosa, ma avevo paura che, venendo a conoscenza delle mie vere origini, tu mi odiassi. Temevo di essere cacciato dalla Marina....Volevo che continuassi a trattarmi come un essere umano normale, sono stato un egoista... Perdonami»

L’Ammiraglio si tolse gli occhiali e li pulì col mantello della propria divisa, era un gesto che ripeteva spesso quando aveva da pensare, come se rimuoverli e pulirli lo aiutasse a ritrovare lucidità, come se questa passasse attraverso le lenti. 
Non parlò subito, il ragazzo gli aveva fatto franare addosso una vita di insospettate realtà. 

«Rosinante... non chiedermi scusa. Non mi fa piacere sapere la verità ora, però apprezzo come sempre la tua sincerità. Se tu me lo avessi detto prima, puoi stare certo che non ti avrei mai odiato o cacciato, come non lo farò adesso. Quando ti trovai quel giorno, smarrito e sporco di sangue... ah, piangevi così forte che ti mancava il respiro... e adesso, con rammarico, ne comprendo il perché; be’, decisi che avrei fatto di te un uomo forte. E so che ci sono riuscito! Non mi interessa chi sei, perché so quello che vali. Stai tranquillo, le tue origini rimarranno segrete. Ma sei stato uno sciocco – gli disse puntandolo ripetutamente col dito indice – ti sei portato dentro un grosso fardello... Mi dispiace per la tua famiglia – delucidate, Sengoku rimise a posto le lenti, posizionandole sopra la gobba del suo naso – Ora però, veniamo al caso, che si prospetta più pericoloso e urgente di quanto immaginassi: tuo fratello, Donquijote Doflamingo, un Drago Celeste decaduto diventato pirata, probabilmente sta cercando di inserirsi nei traffici clandestini ed è forse il responsabile della morte dei nostri soldati»

«È stato lui ne sono certo!» aggiunse Rosinante, fissando con intensità gli occhi l’Ammiraglio. 

«... Cosa pensi che voglia ottenere?» 

«Qualunque cosa sia in molti soffriranno se non lo fermiamo!» rispose con fermezza il ragazzo.

«Il viceammiraglio Tsuru sta partendo, se tu sei in grado di fornirci informazioni su come rintracciarlo ti propongo di collaborare con lei»

«No, questo sarà compito mio! Ammiraglio, io non qui per caso, e Doflamingo è mio fratello, spetta a me fermarlo! La avverto: la mia non è una richiesta, è un dovere che ho, devo impedirgli di compiere altri crimini!» 

Nuova fulgore aveva riacceso gli occhi del giovane marine, la sua fervida determinazione colpì la coscienza di Sengoku; l’Ammiraglio non ammetteva coinvolgimenti personali, questi portavano sempre alla distrazione, al soddisfacimento di un bene che non poteva essere universale; ma aveva di fronte un uomo ormai, che esigeva giustizia, che avrebbe agito per essa e non per vendetta, senza fermarsi davanti a nulla.

«Come pensi di poterlo incastrare?» gli domandò, facendogli intendere di stare appoggiando il piano.

«Mi infiltrerò nel suo covo e sarò per te occhi e orecchie. Ti comunicherò ogni suo singolo spostamento o sua intenzione e lo abbatteremo dall’interno»

Sengoku rifletté accigliato, «Vuoi diventare una spia?»

«Esattamente! I miei poteri mi aiuteranno» confermò Rosinante, che, in un piglio di smania, stava per prendere una sigaretta dal pacchetto che teneva nella giacca, ma si fermò: fumare davanti a Sengoku gli sembrava un gesto poco rispettoso.   

«Ros’, se dovessero scoprirti... » 

«Mi tortureranno. O forse mi uccideranno. Lo so. Ma questo non accadrà, fidati di me! È l’unico modo, io sono il solo che può fermarlo. Non fallirò, per il bene dell’umanità intera!»

Sengoku era rapito di meraviglia per quel giovane pienamente consapevole del pericolo a cui stava andando incontro. I toni che usava, l’atteggiamento, lo sguardo, sembrava non viver altro che per questo. Gli ricordava se stesso agli inizi della sua carriera. Mai, aveva incontrato una persona d’animo tanto nobile, pronta a sacrificarsi pur di lavare i peccati della propria famiglia. Stentava ad immaginarsi che quel ragazzo dalla coscienza adamantina potesse avere un fratello malvagio in egual misura.

«Va bene...» accordò l’Ammiraglio. Poi, s’alzò in piedi e, a passi solenni, raggiunse Rosinante.
Si guardarono seri. 
Sengoku annuì debolmente con la testa e parlò:
«Capitano di Fregata Donquijote Rosinante del Quartier Generale della Marina, io, Ammiraglio Sengoku, le conferisco l’incarico della missione per fermare il pirata Donquijote Doflamingo e i membri della sua ciurma. Agirà come agente segreto e avrà l’obbligo di riferirmi, quale funzionario di rango Superiore della Marina, ogni dettaglio appreso durante la missione. Qualsiasi iniziativa non discussa con i suoi superiori verrà considerata tradimento e in tal caso sarà radiato dall’incarico e sottoposto alla corte marziale. Ricordi sempre il fine della sua missione, la protezione dei civili anzitutto. Mi aspetto da lei un ottimo lavoro»

«Signorsì Ammiraglio! Adempirò con responsabilità e onore i miei doveri per servire la Marina!»

Recitarono entrambi la formula canonica del giuramento e si scambiarono il saluto militare. Dopo, Sengoku sciolse la tensione, ruppe le righe e strinse le spalle del ragazzo. Lo guardò da capo a piedi.

«Rosinante, sei un marine e te lo devi ricordare... Ma sei anche un figlio per me, questo non dimenticarlo mai»

«Non lo dimenticherò, te lo prometto»

 

 

***

 

 

«Dofy, siamo arrivati» comunicò Señor Pink al suo capitano. 
Il veliero della Famiglia aveva attraccato insinuandosi nel golfo affollato da altre imbarcazioni pirata, vicino all’alto promontorio dell’isola su cui era giunto. 
Doflamingo era in cabina a farsi il nodo alla cravatta rossa, intrecciò la stoffa con movenze eleganti, tirò su il piccolo cappio, prese il fermacravatta d’argento e lo fissò come si doveva, immobilizzando la cravatta contro il tessuto morbido della camicia in seta nera. 
Nemmeno gli abiti da lui indossati potevano sfuggire al suo controllo.
Infilata anche la giacca di piume di fenicottero, il Demone Celeste uscì sul ponte di coperta. Venne investito da un caldo bagno di luce. Non gli piacque. Il cielo era terso e azzurro da confondersi col mare, non una nuvola a sporcarlo. Questo lo mise di cattivo umore.
«Lui è arrivato?» domandò, guardandosi intorno circospetto.
«Non abbiamo ancora avvistato la sua nave», gli rispose un uomo alto con dei rimasugli di toast al formaggio appiccicati all’angolo sinistro della bocca. Anche lui portava occhiali scuri.
‘Mingo s’appoggiò al parapetto per sporgersi e dare un’occhiata giù al porto: pullulava di gente armata e pericolosa. Erano in buona compagnia.
«Così affollato sembra di andare ad una festa... C’è troppa feccia idiota, non voglio respirare la stessa aria di questa gentaglia. Scenderemo solo quando lo vedremo arrivare, dobbiamo assolutamente parlare con lui e non perdere l’occasione per diventare suoi unici fornitori. Se lo avvistate, avvisatemi subito, intesi?» ordinò, parlando ai suoi uomini che gli risposero in coro affermativi, eccetto uno: «Ehm, Dofy... io non ho capito» era Diamante, l’Ufficiale di Quadri, il quale, intanto, sgranocchiava arachidi sbriciolandole fra i denti e sputava le bucce in mare. 
«Se ancora non abbiamo “quella formula”, come pensi di riuscire a convincerlo a fidarsi di noi?»
‘Mingo rise scuotendo la testa.
«Tranquillizzati e ragiona, anzi, fatelo tutti: siamo in possesso di un frutto che lo attirerà per forza dalla nostra parte. Dandogli la certezza che abbiamo sempre quello che vuole, come è accaduto la scorsa volta e come accadrà adesso, verrà a cercarci lui stesso. Noi continueremo a cacciare la frutta, la migliore, e nel frattempo svilupperemo una strategia e un modo per produrre da soli la pappa buona. Vedrete, riusciremo a mettere il guinzaglio alla bestia! Fu fu fu... »
I membri del clan risero con lui, ammaliati dalle sue promesse di dominio, «Tu sì che sei il migliore Dofy, sono contento di avere un capitano scaltro come te!» disse ancora Diamante, spalancando la boccaccia con gli incisivi sporchi di noccioline masticate.
Doflamingo gli sorrise ancora, ma si voltò presto da un’altra parte schifato da quella visione tanto antiestetica e, nel farlo, venne attirato da altro: s’accorse di un dettaglio non trascurabile mirando meglio un punto preciso fra le navi affiancate e inserite in una fitta rete di pontili. Abbassò di pochi millimetri gli occhiali rossi, per avere una visione multicolore e più veritiera, «Interessante, questa non me la aspettavo, e così anche il bidone di sabbia è qui... » disse, senza specificare un nome. Ma aveva dardeggiato la lingua, e s’era leccato il labbro superiore, in pregustazione.

«Ci ho ripensato: mentre aspetteremo l’arrivo della bestiola, andremo a parlare con una persona non meno coinvolgente, scendiamo a terra».

 

 

***

 

 

Il mare aperto non era motivo di spavento per Rosinante, le conoscenze acquisite in Marina gli permettevano di muoversi senza complicazioni, sapeva orientarsi, era un esperto navigatore. Ad essere difficile era scovare suo fratello Doflamingo. 
Rosinante tracciò un cerchio sulla carta nautica che aveva in mano, circoscrivendo l’area in cui una vasta scia di ruberie, incendi e battaglie stava flagellando il Mare Settentrionale. Poteva trattarsi di suo fratello, ma non ne aveva la piena certezza. 
Purtroppo, ogni episodio sembrava essere causato da pirati differenti, come se venisse abilmente camuffato al fine di non ricondurre mai gli eventi ad un unico responsabile.
Il marine aveva anche provato a cercare testimoni, da interrogare nell’assoluta discrezione. E non c’erano mai testimoni. C’erano morti, parecchi; all’ex Drago Celeste probabilmente piaceva eliminare i possibili ficcanaso, quando non poteva corromperli. Mentre i corrotti non si lasciavano scappare neanche uno sputo, per paura di ritorsioni. 
Rosinante l’aveva testato facendo poche e mirate domande a persone che al solo sentire mormorare il nome Donquijote impallidivano e rispondevano convulsamente di non averlo mai visto o sentito nulla su di lui. 
Intanto, la taglia del demone era stata rettificata alla vertiginosa somma di 200.000.000 di Berry; una volta, per sbaglio, Ros’ s’era fatto scivolare il manifesto e la gente che lo aveva visto si era smaterializzata dal terrore. 
Ma tra il fumo e la terra bruciata lasciata da suo fratello, Ros' aveva individuato una costante immancabile, che giustificava la presenza dei pirati Donquijote: c’era sempre un fine proficuo. Che si trattasse di soldi, tesori o merce di vario genere da contrabbandare. Non erano mai azioni isolate, facevano tutte parte di un artificioso disegno. 
Inoltre, durante la sua ricerca, Rosinante era venuto a conoscenza di un luogo segreto persino alla Marina: l’isola Mītingu, dove la miglior feccia di cui il mare era abietto si incontrava per effettuare grandi scambi e vendite. Capitava che spesso vi partecipassero addirittura pezzi grossi come i Quattro Imperatori. La merce trattata andava dalle armi alle informazioni, in particolare quelle su come raggiungere Raftel; e si contrattavano anche schiavi e Frutti del Diavolo. 
L’isola si trovava ai confini del Mare Settentrionale, ma nella fascia di bonaccia, dove mai si sarebbe pensato a un traffico così intenso per via dei pericolosissimi mostri marini che pullulavano quelle acque. 
Rosinante stava puntando proprio verso l’isola Mītingu, a bordo del suo piccolo gozzo provvisto di vela. 

 

 

***

 

 

Nei pressi dell’isola.

Per evitare di essere avvistato, il marine virò verso una grotta sotto il promontorio. 
Abbandonata la microscopica imbarcazione sulla riva, Rosinante se la fece a piedi percorrendo una stretta e polverosa mulattiera che portava al porto. 
La sua divisa da alto ufficiale della Marina l’aveva ormai abbandonata, dispiacendosene. Non l’aveva sfruttata abbastanza, neanche una giornata intera e subito era partito all’inseguimento di suo fratello. Dal giorno della partenza erano trascorse tre settimane. 
Adesso, il marine indossava, sopra abiti di seconda scelta, una mantella grigia con cappuccio. La portava appuntata con una fibula sul petto. Completamente celato, doveva passare inosservato, come uno straccione invisibile ai pirati. 
L’isola non era uno sputo di terra, ma poco ci mancava, e non v’era una popolazione locale che la abitasse, le strutture che sbucavano numerose in cima al promontorio, e proseguivano disseminandosi disordinate dal porto all’entroterra, non erano case, ma luoghi di scambio per i pirati, locali di intrattenimento che esistevano con lo scopo di imbottire di rum i delinquenti che vi facevano visita e per far sfociare i loro incontri in risse e sparatorie.  

Camminando, Rosinante incontrò solo pirati, ovviamente, e questi ridevano tutti, gagliardi dei loro malaffari. 
Gli prudevano le mani, chiamare il Quartier Generale era stato un pensiero che lo aveva accarezzato svariate volte. Avrebbe potuto avviare l’ordine per una retata con navi da guerra sufficienti a far igiene di quel posto. Tuttavia, l’obbiettivo della sua missione era un altro. Scatenando il panico, avrebbe perso l’occasione di incontrare suo fratello, sempre che fosse presente sull’isola. 
Sperava di trovarlo. E se ‘Mingo era lì, la sua nave non poteva mancare. 

Ros’ iniziò la ricognizione dal porto: era un brulicare di persone che caricavano e scaricavano casse, legavano cime, gridavano e si maledicevano tra loro. 
«Ehi, tu! Levati da lì!», gli urlò contro un uomo con la faccia rossa spremuta dalla fatica. Il tizio stava sollevando un pesante forziere da agganciare su una gru.
Rosinante si allontanò senza replicare i modi scortesi, proseguì sulla banchina affollata e arrivò davanti ad un altro carico ingombrante. Ci girò intorno per poter passare oltre. Avrebbe proseguito avanti se un particolare rumore non l’avesse incuriosito. 
Giungeva dal carico a terra, che era coperto da un telo nero. 
Udì nuovi... colpi?
Si guardò intorno, nessuno aveva fatto caso a lui e a quello che stava per fare. Decise di sollevare il telo e... Mani veloci, aggressive, con unghie lunghissime, puntarono verso il suo volto per scavargli gli occhi! D’istinto, il ragazzo si fece scudo col braccio. Non venne colpito, nemmeno sfiorato; le unghie s’erano andate a conficcare contro una spessa parete in vetro, che scricchiolò in diversi punti ricoprendosi di crepe. 
Quella che il marine aveva davanti era una vasca, le mani intenzionate ad accecarlo appartenevano alla rara creatura che vi era rinchiusa. 
Rosinante rimosse il telo completamente e scoprì una sirena. Non ne aveva mai vista una, era bella, naturalmente, con la pelle chiara e la coda dalle pregiate squame crisoelefantine che brillavano al sole. 
La sirena, incurante delle ferite riportare alle dita dopo l’urto contro la parete della vasca, tentò di infrangere il vetro a forza di pugni, e di spaccarlo anche con la testa, battendola violentemente e senza tregua. Rosinante vide del sangue mescolarsi con l’acqua.
«Basta! Non continuare a ferirti!»
Non sapeva se liberarla fosse una buona idea, ma con gli occhi stava cercando un modo per infrangere la vasca e farla uscire.
La sirena si fermò, forse aveva ascoltato il suggerimento del ragazzo. Ros’ si sentì leggermente sollevato. 
Battendo un colpo di coda, lei si avvicinò al lato del ragazzo. 
Intercettò gli occhi del marine e li penetrò con i propri, profondi e blu come gli abissi dell’oceano.
Lei non batté più le palpebre.

Qualcuno stava cantando, Rosinante lo sentì ma solo nella sua testa. Provò a guardarsi intorno e si accorse di non potersi muovere: era bloccato, come pietrificato, non poteva distogliere lo sguardo da quello della sirena. Se ci provava sentiva una pressione tale che pareva ci fosse qualcuno a comprimergli le orbite, e gli occhi gli bruciavano. 
Inaspettatamente, le sue mani si mossero. Non era lui a controllarle. 
A terra, vicino ai suoi piedi, un palanchino era stato dimenticato; Ros’ lo afferrò deciso. Anche questa sicurezza non gli apparteneva.


Che... Che mi sta succedendo?

Alzò il braccio armato, guidato da una volontà estranea. Intanto, il canto incomprensibile insisteva imperterrito spremendogli i timpani, ed era mutato in un coro di urla sofferenti.
Lui storse la faccia per il fastidio e per la pressione interna che lo stava costringendo.
La sirena era un simulacro di ghiaccio, solo i capelli rossi le ondeggiavano attorno, come un’aura che la mandava in fiamme e che si confondeva al sangue che perdeva dalla fronte. 
Rosinante stava per colpire la vasca con la punta del palanchino. L’arnese brillò esposto alla luce. 

«Attento ragazzo, se la guardi troppo quella femmina viscida ti ipnotizza, non incrociare mai il suo sguardo se non vuoi finire mangiato vivo, questo me lo prendo io, grazie!»

Un uomo sbucato dal nulla gli tolse di mano l’attrezzo di ferro e, istantaneamente, il canto si arrestò. 
Ipnosi? Rosinante non l’aveva mai sperimentata, e non ci teneva a ripetere l’esperienza.
L’uomo appuntò il telo ricoprendo la vasca, e chiamò altra gente a sollevarla per trasferirla a bordo di una nave.

«Cosa... ne sarà di lei?» chiese Rosinante, ancora confuso sotto gli influssi dell’ipnosi. 
Non riusciva a cancellare dalla memoria il ritratto mesto della sirena e la disperazione che l’aveva condotta a far del male a se stessa pur di liberarsi.
«È stata appena venduta ad un nobile, probabilmente un Drago Celeste... Ma devi sapere che i Draghi qui non ci mettono mai piede, perché il posto non si confà alla loro regalità – disse quello, alzando il tono sulla parola accentata – questi mandano sempre qualcuno, non vogliono sporcarsi le mani, capito?! Così, se qualcosa va storto, sono gli altri a rischiare... Se potessi li farei scannare dagli squali a quei porci altezzosi, ahahahah!», l’uomo rise sguaiato, aprendo la bocca tanto da potergli sbirciare la trachea.
Rosinante rimase zitto, strinse i pugni: gli anni erano trascorsi e il mondo non era cambiato. Conosceva quegli insulti, da bambino non lo lasciavano dormire neanche durante la notte. 
Si allontanò in fretta dalla vasca e da quell’uomo, quasi correndo; abbandonò così la sirena ad un atroce destino, non avrebbe potuto fare altrimenti. Si stava sentendo male, credeva di essersi abituato, di aver superato le sue crisi. Contrariamente, aveva paura di essere colpito a morte, perché dopo gli insulti arrivava l’attacco, come sempre era accaduto quando lui e Doflamingo scappavano per non farsi catturare e uccidere, e allora Rosinante stringeva forte la mano del fratello e non la mollava più. 

Doveva trovarlo, al più presto.

 

 

***

 

 

Una nave con lo scafo intagliato ad assumere la forma di un fenicottero era un’evidenza che se ne andava in giro insufflando aria in una tromba: faceva casino. 
Impossibile non accorgersene.
Ros’ non immaginava di trovare tanta esagerata appariscenza. 
Camminò filo alla banchina, al punto da avere un’inquadratura frontale dell’imbarcazione: sulla vela quadra, e che veniva ammainata da un tizio in equilibrio sulla cima al pennone, era dipinto in rosso uno smile sbarrato. Sotto, il nome della sua famiglia, Donquijote. Spaventoso. 
Rosinante si sentì strano, elettrizzato, intimorito, tra l’eccitazione e il terrore, e altro di troppo intimo che solo suo fratello sicuramente avrebbe potuto comprendere. 
Indietreggiò, con l’intenzione di raggiungere una postazione riparata e non così direttamente esposta, per capire come poter entrare in azione. E capire, in specie, se Dofy fosse a bordo.
La polena della nave era una enorme testa di fenicottero, e pendeva minacciosa sopra il suo capo al pari di una ghigliottina. Rosinante la guardò col timore che potesse animarsi e divorarlo quasi fosse stato becchime.  
Mise un piede dietro l’altro, senza guardare, perché l’attenzione era impegnata a tener d’occhio il becco adunco e nero del fenicottero; distratto, inciampò su una bitta e non solo: andò a sbattere contro qualcuno alle sue spalle, a cui pestò anche un piede.
«Attento a dove vai, qui te la rischi grossa con la G!» lo intimidì un tipo tarchiato che indossava stupide orecchie di coniglio.

«Fu fu fu, non è nulla! Dai, alzati pezzente, e sparisci prima che ci ripensi»


Questa voce... perché mi sconvolge?


Rosinante si girò, occhi verso l’alto... la pressione sanguigna gli calò a picco, seguita da un gelido madore all’altezza delle spalle e da un buco nello stomaco: la vita intorno a lui cessò impercettibilmente, non sentiva alcun suono, e non stava usando i suoi poteri.

 

Tu-tum tu-tum tu-tum

 

Il passato stava indossando gli abiti del presente, là, davanti a lui, in pelliccia di piume, con gli occhiali porporini dal taglio malvagio. E gli esibiva anche un sorriso contratto. Ma non c’era nulla di divertente e Ros’ avrebbe voluto piangere.
Si portò una mano sulla testa assicurandosi di avere ancora il cappuccio a coprirlo. E fortunatamente era lì a proteggerlo, a nascondere la sua identità agli occhi del fratello Doflamingo.

«Non hai sentito che ti ha detto?! Vattene!» l’ufficiale Diamante gli allungò una pedata sul sedere, Ros’ cadde avanti sbucciandosi un ginocchio come un bimbo maldestro. 
Venne deriso, qualcuno gli sputò anche addosso.
Doveva andare via immediatamente, non si stava muovendo come avrebbe voluto, e stava compiendo troppi errori. 

Rialzandosi, sentì le gambe spezzarsi all’altezza delle ginocchia e il suo corpo crollare, un’impressione che coinvolse anche le braccia, diventate giunchi esanimi mossi dal vento, o dalla miscela di emozioni che lo avevano reso friabile. 

Dofy aveva già vinto il primo round.


Il gruppo di pirati si allontanò da lui, Doflamingo avanzò con loro, compì pochi passi.
«Qualcosa non va, Dofy?», gli domandò Vergo, l’Ufficiale di Cuori, quello con gli angoli della bocca perennemente sporchi di cibo; colui che, nella Famiglia, era l’elemento più vicino al fenicottero, il suo braccio destro. 

Vergo se n’era accorto subito, il volto del suo Capitano era mutato.
Doflamingo si era bloccato. Insolito: il suo cuore aveva iniziato a battere più forte nell’attimo esatto in cui quel ragazzetto imbranato gli era cascato addosso.

 

Tu-tum tu-tum tu-tum

 

E continuava a pompare in modo scellerato. 
Non andava. Gli capitava di sentirsi così solo quando qualcosa finiva per sfuggirgli... ma cosa, stavolta? La nave con la merce di scambio era al sicuro, non v’era ombra di marine, e l'acquirente stava per arrivare. 
Forse, non era lì che doveva cercare.
Si voltò indietro, il pidocchio era scomparso.  Non poté fare alcun confronto.

Eppure l’aveva sentita, era stata come una scossa interna, gli fischiavano anche le orecchie e il carismatico Joker che era dentro di lui aveva smesso di ridere e di agitarsi, s’era raggomitolato in un angolo recondito delle tenebre che abitava e si lamentava insopportabilmente. Era diventato un patetico pierrot. 
Dofy pensò fosse tutta colpa della troppa esposizione al sole, non ci era abituato. 

 «Nulla... Muoviamoci, ho voglia di bere e di farlo con chi dico io»

Vergo annuì, ma non se la bevve, lui. Il Capitano gli stava nascondendo qualcosa.

 

 

***

 

 

Nel centro dell’isola c’era un locale non uguale agli altri chiamato Viper Room. Un posto da signori, con un casinò all’interno, che funzionava come una palestra per ridursi al lastrico; là, palco di lap dance e zone privé non mancavano per chi aveva voglia di una sveltina, a caro prezzo. 
Bisognava indossare il tight per entrare, ma non era obbligatorio per uscirvi. I piratucoli che puzzavano d’alcol non erano ammessi. Ma bastava anche solo avere cattivo odore e non si varcava la soglia di quel finto eden.

«Mr. One, trovami un posto decente, non affollato, e poco illuminato. Devo rilassarmi»

L’uomo che aveva appena parlato faceva parte dei benaccetti, i vip. Quelli che passavano senza fare la fila. La sua alta classe la suggeriva la costosa pelliccia di zibellino nero da lui indossata, la gridavano i diamanti vivaci incastonati agli anelli che ingioiellavano la sua mano destra, e sì, anche la presenza  di un grande uncino d’oro del peso di 25 kg aumentava la sua cifra.
«Subito», rispose il citato Mr. One, uno skinhead alto e corpulento, dallo sguardo bieco, respingente. Con lui era saggio non avere nulla a che fare.

La sala di lap sarebbe stata la migliore, dentro non c’era ancora nessuno, ed era quasi completamente ottenebrata, a parte alcuni candelabri con moccoli rossi squagliati. Erano posizionati in ogni angolo del locale ad illuminare quadri ad olio raffiguranti donne in pose oscene.
Crocodile – si chiamava così l’uomo adornato come un santo patrono – si accomodò su uno dei divani rossi in pelle di bufalo, comodi, di quelli che facevano rumorii assurdi appena vi si scivolava sopra o ci si alzava; ed erano disposti sotto e attorno alla pista da ballo.
Alle spalle di Crocodile, sostava Mr. One. Quest’ultimo non sedeva e non beveva l’acquavite dall’aroma vigoroso che il suo capo stava assaporando bagnandosene la bocca. La bottiglia era stata ordinata  e presa nel bar all’ingresso del Viper Room.
Mr. One era solo un cane da guardia, in attesa di un gustoso ossicino. 

Non passarono molti minuti che le luci del palco si accesero, tingendo lo spazio di toni rossi e blu. Qualcuno doveva averli visti entrare. 
Nell’ambiente si diffuse una melodia burlesque, s’udì un frettoloso scalpiccio di tacchi a spillo e Crocodile si trovò ad assistere, contro la sua volontà, all’entrata di tre ballerine spogliarelliste, di cui: ballerine al trenta per cento e spogliarelliste al settanta. 
Indossavano mascherine con piume e paillette colorate, calze, bikini, cappelli sui capezzoli, guanti in pizzo, e tanta altra roba inutile che avrebbero tolto.
Le ragazze iniziarono a prendere potere sui pali, arrampicandosi su di essi sinuosamente, con movimenti acrobatici, scuotendo i fianchi e inarcando la schiena. Somigliavano a vipere gravide e affamate.
Il pirata si accese un sigaro, aspirò e sbuffò fumo bianco dalla bocca. Crocodile era un pirata, un signor pirata, ed era scocciato: non gli interessava la carne seminuda di petti voluminosi strizzati in lembi di stoffa microscopici, ridicoli per contrarre l’abbondanza incontenibile.

Una delle ballerine, avvicinandosi, s’azzardò a spalancare le cosce davanti alla faccia seccata del pirata. 
«Vattene... » le disse lui, gentile. Crocodile aveva il pregio di essere chiaro sin dalla prima battuta.
Quella invece fece finta di non sentire, si protese dalla pista di lap dance, scese, e s’accovacciò tra le gambe dell’uomo. Gliele massaggiò energica e voluttuosa. 
L’atto coraggioso attirò anche le altre due ragazze: la loro amica s’era accalappiata il cliente migliore, il più ricco, l’unico presente in sala, a parte Mr. One (ma lui non le attirava, e l’avevamo detto che era solo un cane da guardia). Non potevano lasciarla giocare da sola, anche loro, come api ghiotte su miele, si precipitarono a vezzeggiare il maschio antipatico e refrattario, accarezzandolo tra i lucenti capelli corvini tirati indietro con un filo di gel. 

Una, la prima coraggiosa, si sedette in arcione sulla coscia del pirata, e lo cavalcò imitando la giostra veloce che avrebbe desiderato ardentemente compiere con lui. 
A guardarlo, Crocodile non era un uomo bello, ma possedeva eleganza e un fascino acuito dal taglio lungo dei suoi occhi incavati sotto l’arco sopraccigliare, una conformazione fisiognomica che proiettava sul suo sguardo un’ombra perenne e accattivante.

Le altre ballerine giocarono col grosso e duro uncino d’oro che sostituiva la mano sinistra perduta. Lo leccavano come fosse stato saporito; se lo passavano di bocca in bocca, striandolo di lucente saliva. Gliel’avrebbero sfilato volentieri. Non sapevano che l’oro era un rivestimento vuoto, e che sotto di esso si nascondesse un uncino avvelenato.

Per mandarle via, Crocodile doveva sganciare la grana. 
Lui era un pirata straricco, se le poteva permettere tutte e tre insieme... ma la sua essenza era quella di un coccodrillo, un rettile dal sangue freddo. Non si mosse: l’attacco andava sferrato solo quando la preda era ormai a portata di fauci.
La temeraria che gli stava in braccio non la smetteva di fare mosse rischiose, con le dita profumate lo solleticava sul mento marcato. Era passata a lisciargli le labbra rigorosamente serrate.  
A causa di quei giochetti stuzzicanti, Crocodile fu costretto a togliersi il sigaro dalla bocca, lo teneva fra le dita a consumarsi da solo. 
Lei stava per baciarlo, strinse le labbra truccate dando alla bocca una forma bizzarra, di grovigli di carne rosa stretti attorno a un buchino tutto nero.
Così non poteva proprio fumare! E che fastidio essere toccato!
A lui le donne piacevano, certo, ma zitte, immobili, mummificate sarebbe stata la loro forma migliore. 

Era completamente stufo.


«Whaaaaaa!»

Le inconsapevoli ragazze audaci gridarono all’unisono vedendo il pirata sgretolarsi e diventare sabbia chiara sotto i loro culetti abbronzati; quella che lo aveva montato scivolò finalmente a terra. 
Dalle loro bocche impastate di lucidalabbra e spalancate dal terrore, la sabbia entrò rapida, tanta, appiccicosa e impossibile. Le urla si diradarono sostituite da conati, respiri intasati, rochi, come di gole piene di sassi. 
I loro balli sinuosi mutarono in paonazzi spasmi da soffocamento. Dimenandosi, consumavano velocemente più aria. Erano brave, tutto sommato, morivano in fretta.
Lo spettacolo durò per oltre quattro minuti. E poi: finalmente zitte e immobili come lui le avrebbe volute sin dall’inizio.

Il sigaro fumante tornò al suo posto: baciato dalle labbra dell’arido uomo di sabbia che aveva in sé la potenza distruttrice del deserto. 

Mr. One, neanche a chiederglielo: raccolse le spogliarelliste decedute, infilandone una sotto il tavolo, e gettando le altre sul divano di fronte al suo capo, perché i loro corpi adesso intralciavano i piedi.

Il pirata ricompose completamente la sua forma umana  e si riempì d’alcol il cicchetto.

«Ma che morte ingiusta, sei proprio un coccodrillo senza pietà!»

In fondo alla sala. Da lì provenne la voce, che tossì... per finta.

«Non sai che questa è zona fumatori e le bambine come te non possono entrare!» parlò Crocodile, avendo già riconosciuto di chi si trattasse.

«Che fai da queste parti, mucchio di sabbia? Ho saputo che gli affari non ti sono andati molto bene ultimamente» disse ancora la voce, e chi la possedeva si era anche avvicinato al divano, dove si sedette, precisamente appollaiandosi sopra alla spalliera, mentre i mocassini lucidi che portava ai piedi si puntellavano sulle membra morte delle belle ballerine, schiacciandole. 
Con la sua presenza, Doflamingo stava oltraggiando la vista all’altro pirata.

«Pensa per te fenicottero, il motivo per il quale sono qui non deve interessarti, e attento a  come ti rivolgi, potresti rimetterci le tue piume rosa» rispose Crocodile, che mandò giù un sorso dal bicchiere, vuotandolo. Lo riempì ancora. 
Dietro di lui, Mr. One aspettava l’ordine per ammazzare l’ospite e ricavarne lo sperato ossicino da rosicchiare.
Il Demone Celeste aveva raggiunto il locale con i suoi uomini, ma li aveva costretti ad aspettarlo fuori, le quattro chiacchiere col sabbioso se le voleva fare in privato.

«Oh, come sei ostile!... Sai, ora che la guardo meglio, quella cicatrice che hai sul viso ti impreziosisce, davvero! Perché non mi racconti come è successo? Se ti va, eh, posso capire la vergogna che provi, la sconfitta è una pessima situazione in cui trovarsi... Fu fu, scherzavo, io la vergogna proprio non riesco a capirla!»

Il fenicottero aveva parlato troppo apposta, era un abile provocatore. La reazione di Crocodile deliziò le sue aspettative: in un secondo, la mano uncinata del pirata si smaterializzò in un vortice di vento sabbioso. 
Doflamingo sbuffò uno smile, mirò il piccolo bicchiere ricolmo d’alcol. Poteva essere un’idea.
Lo acchiappò rapidamente gettando il contenuto sulla faccia di Croc’. La trasformazione fu impedita: una volta bagnato, l’uomo di sabbia perdeva l’abilità di tramutarsi in essa. 

Dofy conosceva il segreto... e anche altri segreti.

«Scusami, ho pensato che stare sempre nel deserto debba mettere molta sete... Non ti senti più fresco, ora?» lo schernì nuovamente.
Crocodile era fradicio, la sua pelle assorbiva i liquidi in modo anomalo e si induriva. I ciuffi liberi che solitamente portava davanti agli occhi si erano appiccicati contro la fronte, assomigliavano ad alghe morte arenatesi sul suo viso ridotto a un’umida battigia violentata dal mare. 
Il pirata sabbioso p
ercepì alcune gocce fastidiose colargli dagli zigomi alla catenina d’oro che portava al collo. La sciarpa si era sporcata, l’avrebbe buttata. 
Doflamingo, l’unico che se la stava spassando, fiutò meglio l’aria: l’odore di alcol mescolato al dopobarba forte emanato dalla pelle rasata del coccodrillo gli faceva girare la testa. Lo stimolava pericolosamente, nonostante si sentisse ancora stranito  dall’incontro avvenuto al porto col tizio sconosciuto. 

Il demone cacciò fuori la lingua, assaggiò l’aria tiepida e fumosa immaginando di gustare il sapore della pelle del rettile ora condita all’acquavite. Doveva essere sicuramente un piatto prelibato.

Crocodile si strofinò gli occhi. Gettò uno sguardo indiavolato al fenicottero sornione che gli mostrava i denti e... la lingua.
L’avrebbe scuoiato volentieri, spennandolo piuma dopo piuma.

«Come hai osato?!» 

Doflamingo non trovò amichevole il tono, iniziava a perdere la pazienza, non era mica chiedere tanto parlare e bere qualcosa assieme?! 
Articolò le sue dita di burattinaio.
Croc’ avvertì una puntura fredda al collo e successivamente una stretta sottile. Quel bastardo di un fenicottero stava per tagliargli la gola con fili invisibili. Lo aveva fregato.

Durante la loro diatriba, Mr. One non rimase in panciolle: aveva fatto la sua mossa e pure lui, sfruttando i poteri del Frutto del Diavolo che aveva mangiato, aveva modificato parte delle sue braccia in lame taglienti, una stava puntata al collo di Doflamingo. Era pronto a recidere la testa al fenicottero, ma attendeva un cenno del padrone.

«Puoi dire al tuo amichetto di abbassare le lame? Sarebbe conveniente per entrambi, non credi?», consigliò il Demone Celeste a un Crocodile zuppo e in difficoltà: i fili stavano premendo di più contro la sua pelle. Non potendo ribellarsi, con un cenno degli occhi, il pirata di sabbia ordinò a Mr. One di fermarsi.

La situazione tornò “normale”.

‘Mingo sciolse i fili.

«Tieni, asciugati»

 Dofy porse a Crocodile della carta assorbente, l’aveva presa dal porta fazzoletti poggiato sul tavolo accanto; il pirata la afferrò strappandogliela dalle mani e si ripulì.

«Fattelo dire: con zio Eddie hai sbagliato strategia. Il nemico non va attaccato direttamente, devi corteggiarlo un po’ e dopo te lo metti sotto i tacchi!»

«Come speri di fare tu, vero? Cosa pensi, che basti allungare uno di quei tuoi odiosi sorrisetti e Kaido ti obbedirà come una sgualdrina?» 

«Fu fu fu, allora sai perché sono qui... Comunque, caro secchio di sabbia asciutta, Kaido farà di meglio: me lo succhierà tutti i giorni e gli piacerà farlo!»

Crocodile fece una smorfia disgustato.

«Sei volgare e completamente pazzo»

«Non sono pazzo, so essere persuasivo. E non negarlo, io e te siamo uguali, vogliamo le stesse cose! Se fossimo uniti la nostra sarebbe una collaborazione coi fiocchi! Che ne pensi?!», Doflamingo si sporse più avanti con la sua mole ingombrante, affondando meglio i tacchetti bassi delle sue scarpe nelle pance piatte delle ballerine morte.

«Khuahahah! Ne sei convinto, fenicottero? Allora speraci e chissà, io intanto me ne vado, se c’è una cosa che voglio è evitare di perdere altro tempo in tua compagnia. Ora ho altri progetti, il vecchio non mi interessa più»

«Peccato... ma quali sarebbero gli altri progetti?» domandò Dofy, versandosi un po’ di alcol e bevendolo dallo stesso bicchiere che Crocodile aveva precedentemente usato.

«Ovviamente, non sono affari che ti riguardano»

«Ah, capisco, è questo quello che succede quando si sta per entrare a far parte dei Shichibukai, si hanno segreti – Crocodile strabuzzò gli occhi, ‘Mingo continuò il discorso – Credevi che non sapessi della tua candidatura?! Non darti troppe arie, tra non molto saremo colleghi. Dovremmo impegnarci a diventare amici del cuore e condividere gli oneri della carica»

Crocodile restò un attimo a riflettere: e così, pure il fenicottero puntava a una posizione autorizzata dal Governo Mondiale.

«Che tu ne sia a conoscenza o meno, non ha importanza. Sappi che io non spartisco nulla con nessuno – Croc’ gettò sul tavolo i fazzoletti usati, ‘Mingo ne afferrò uno e se lo portò sotto il naso, annusandolo – Ah, sei stucchevole!... E togli quegli occhiali quando parli con qualcuno!»

«Non posso, se lo facessi, rischierei di farti innamorare di me!»

Il pirata di sabbia si alzò piccato, era troppo, ne aveva abbastanza. Mr. One lo seguì a sua volta.

«Spero di rivederti presto, Crocodile, futuro membro della Flotta dei Sette, e capo della Baroque Works... e anche tu Das Bornes, vale anche per te»

 

Das Bornes era il vero nome di Mr. One, la Baroque Works un piano perfetto che Crocodile stava usando per mettere in ginocchio il lontano regno di Alabasta.

...

«Figlio di una gran...» 

Lo sussurrò, il primo insulto scurrile che il pirata di sabbia s’era lasciato scappare. Ma non lo concluse, perché lui rimaneva un signore.
Sapeva troppe cose, quel fenicottero andava sistemato, Crocodile non aveva ancora scelto il come, il quando e il dove ma l’avrebbe fatto.
Stava per spingere i battenti della porta e andarsene per liberare la sua vista da quella faccia di jolly occhialuta, ma una montagna di muco gocciolante entrò spargendo moccio ovunque, impedendogli di uscire e sporcandogli anche la costosa pelliccia di zibellino. Questa non avrebbe potuto buttarla come la sciarpa. 

«Dofy, è qui! Lui è qui! Eeehi eeehi eeehi! Kaido è arrivato!»

«Fu fu fu, e adesso sta’ a guardare, coccodrillo, come si tirano i fili che dominano questo mondo»

 

 

 

 

“Are you lost?
Cant’t find yourself
You’re north of Heaven
Maybe somewhere west of Hell”

 

 

Non ve la consiglio, VI OBBLIGO AD ASCOLTARLA, Birth, CLICCATE QUI! Il brano su questo capitolo dà i brividi e ditemi se non è così!

‘Sera, mi scuso per il tempo che vi ho fatto aspettare prima di questa pubblicazione, e per aver diviso la IV One shot in due capitoli. Era necessario. Non solo perché altrimenti sarebbe stata un OS troppo lunga, ma per i temi e gli scenari trattati, andava dato un taglio.
Ho scelto di fare un salto indietro al momento in cui Rosinante è un Marine, questa è l’inizio di quella OS che vi anticipavo in Lasciarti andare... mai. 
Insomma, Oda non ce lo mostra come i fratelli si ritrovano, io me lo sono immaginato così: si incomincia dal giorno in cui Ros’ diventa Capitano di Fregata e viene a sapere di Doflamingo. Adoro le coincidenze fatali.
Poi, che Sengoku non sapesse delle vere origini di Ros’  e che lo venga a sapere da lui in quel momento, l’ho scelto io.
L’isola qui menzionata ha un nome al solo scopo d’essere utile e chiaro, meeting (sono banale a volte, lo riconosco ^^’).
Ok, le sirene di One Piece non sono aggressive e non hanno poteri incantatori, ma qui scrivo io e decido io.
Poi: ho approfittato di questa parte della One Shot per inserire Crocodile, che qui fa una breve comparsa (ma l’ho reso troppo cattivo?), non posso mica stare a trattare sempre Rosinante e Doflamingo, li ho tenuti a “distanza” anche se poi si sono indirettamente incontrati, ma l’incontro vero arriverà nel prossimo chap. ^^
Confesso che mi sono divertita a scrivere i loro battibecchi, ‘Mingo fa le “fusa” e Croc’ lo rifiuta. Se volete vederci attrazione accomodatevi, io per quanto mi riguarda la intendo così: il fenicottero è semplicemente attratto da qualcosa che gli assomiglia perché lui fondamentalmente è un narcisista.
Non potevo non calcare la voglio del fenicottero di stipulare già da adesso un’alleanza col sabbioso... oddio più che alleanza direi una subordinazione dove è chiaro che sarà l’uccellino rosa a comandare.
Curiosità: il Viper Room (The Viper Room) è un nome che ho preso da un locale realmente esistente, proprietà, e non so se lo sia ancora, dell’attore Johnny Depp. 
Ovviamente quando ‘Mingo menziona zio Eddie, si riferisce a Edward Newgate (qualcuno non sopporterà i miei neologismi, pazienza) e come sapete il coccodrillo con lui le ha prese e la cicatrice è proprio il risultato della battaglia che c’è stata. 
Mi divertiva il fatto che Dofy fosse a conoscenza di molti fattacci del sabbioso come il suo ingresso nella Flotta dei Sette e la Baroque Works. 
Il prossimo chap chiuderà questa quarta One Shot.
Ringrazio tanto voi lettori e recensori e del sostegno che mi date nel portare avanti questa FF, che spero sia stata gradita anche questa parte. 
Vi mando un forte e caloroso abbraccio a tutti! Le recensioni di qualunque natura sono benaccette, anche da parte dei nuovi arrivati, non lesinatevi! 
PS: non lo so perché, ma tutte le donne che tratto in questa raccolta o sono prostitute o ci si avvicinano e vengono trattate malissimo... 
PS: approfitto per invitarvi a votare nella sezione la coppia Dofy~Viola e Dofy~Rosy, affinché vengano inserite nella sezione potete farlo aprendo la graduatoria delle votazioni cliccando sul menu in alto a destra “aggiungi personaggio”  che trovate nella pagina generale della sessione One Piece, ma solo dal pc, col tablet e il cellulare il menu in alto a destra non si visualizza. 
Ah, allungate pure un voto su Cosette, la inserii per fare un piacere ad una scrittrice che la sta trattando in una sua storia. Oh, alla fine sono personaggi di One Piece mica ce li stiamo inventando. 
Grazie per la vostra partecipazione! ^_^


Come sempre vi linko le mie altre storie, c’è ne è una appena iniziata che tratta la coppia Dofy~Viola (come ci rivela l’autore Odacchi).

 

DAUGHTER (Dofy~Viola)

La Principessa Viola è maledetta, la Principessa Viola è un’assassina. La Principessa Viola è l'amante del Re di Dressrosa Donquijote Doflamingo.
Dal testo: «Violet, oggi abbiamo qui un uomo che si dichiara innocente. In verità, mi ha rubato cose che mi appartengono. Sai quanto io non sopporti i traditori. Viola... – Doflamingo la chiamò col suo vero nome – svelaci la sua colpevolezza, facci godere tesoro»
Coppia: Dofy ~ Viola (come Oda ci suggerisce, o qualcosa di più).
Buona lettura!
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Donquijote Doflamingo, Donquijote Family, Monet, Violet 
Note: Lemon, Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
LEGGI

 

A Zou si affrontano problemi ontologici (ZoSan) Aveva lasciato un biglietto, doveva sposarsi, prometteva di tornare. Tutti erano preoccupati per lui.
A Zoro non interessava.
One Shot breve, Yaoi della coppia ZoSan, per voi fan e per me felicemente disperata a riguardo delle sorti di Sanji. Contiene Spoiler.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Roronoa Zoro, Sanji | Coppie: Sanji/Zoro
Note: Lemon, Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler! LEGGI

Curami (Zoro/Perona/Mihawk) NEW: pubblicato IV CAPITOLO!
Una convivenza forzata, un addestramento in corso e forse un’attrazione accidentale che non vuole nessuno. L’isola Kuraigana non è solo un luogo di morte; e Perona e Zoro non sono soltanto una coppia di disgraziati spediti sulla stessa macchia di terra.
Facciamo luce su due anni di buio.
Buona lettura.
III capitolo on-line
Pubblicata: 11/09/13 | Aggiornata: 31/08/16 | Rating: Arancione
Genere: Azione, Romantico | Capitoli: 4 | In corso
Tipo di coppia: Het | Note: Missing Moments | Avvertimenti: Nessuno
Personaggi: Drakul Mihawk, Perona, Roronoa Zoro
LEGGI

Loverman… (ZoSan)
Sanji non avrebbe mai dovuto provarlo, non avrebbe mai voluto scoprirlo, non avrebbe mai dovuto desiderarlo. Anche la più piccola mancanza di volontà verso se stessi è ripagata con un tormento peggiore; a meno che si accetti la propria natura.
Consiglio: lasciate perde’ sto trip di parole, buona lettura.
Pubblicata: 15/08/16 | Aggiornata: 15/08/16 | Rating: Arancione
Genere: Angst, Introspettivo | Capitoli: 1 | In corso
Tipo di coppia: Yaoi | Note: Nessuna | Avvertimenti: Nessuno
Personaggi: Mugiwara, Roronoa Zoro, Sanji | Coppie: Sanji/Zoro
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L’impensabile inaspettato (ZoSan) 
Sanji ha un urgente problema. Zoro… beh, lui fa quello che può.
One Shot che disturba persino chi l’ha scritta, attenzione alle note. E a voi la lettura.
Pubblicata: 03/11/13 | Aggiornata: 03/11/13 | Rating: Rosso
Genere: Angst, Introspettivo | Capitoli: 1 - One shot | Completa
Tipo di coppia: Yaoi | Note: Lime | Avvertimenti: Nessuno
Personaggi: Nico Robin, Roronoa Zoro, Sanji | Coppie: Sanji/Zoro 
LEGGI 

Ultime previsioni prima di Dressrosa (Rufy/Nami/Trafalgar Law) 
Meno di un giorno all’arrivo sulla prossima isola. A bordo della Sunny chi può si riposa, altri non dormono: si incontrano casualmente, o per mistico volere.
Una One Shot breve e indolore, e con i personaggi IC; però spetta a voi valutarlo.
Buona lettura.
Pubblicata: 20/10/13 | Aggiornata: 20/10/13 | Rating: Giallo
Genere: Sentimentale | Capitoli: 1 - One shot | Completa
Tipo di coppia: Het | Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
Personaggi: Monkey D. Rufy, Nami, Trafalgar Law | Coppie: Rufy/Nami
LEGGI

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