La baita che annusava la vita

di Rosmary
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** I. Annusavano la vita, sapevano d’errore ***
Capitolo 3: *** II. Sapevano di vita, annusavano l’errore ***
Capitolo 4: *** III. Seguitavano a errare, eppure fuggivano loro stessi ***
Capitolo 5: *** IV. Continuavano a fuggire, ed erravano a ogni passo ***
Capitolo 6: *** V. Accettavano i peccati, si perdevano comunque ***
Capitolo 7: *** VII. Perduti, muovevano i primi passi ~ Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


I personaggi presenti in questa storia sono proprietà di J.K. Rowling;
la storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.


 

Prologo
 
Hogwarts dicembrina era sempre stata caratterizzata dalla neve, dalla pioggia e dal gelo. Quell’anno, invece, a ricoprire prati e tetti era un manto bianco meno spesso, il sole inorgogliva le giornate e il freddo calava mansueto sulla popolazione del castello. In molti erano convinti che la Natura avesse donato ai reduci di una guerra cruenta un mite inverno, capace di scaldare i cuori ancora ghiacciati dal dolore.
Mancava appena più di una settimana a Natale e quasi ogni studente sarebbe tornato a casa per festeggiare in famiglia la prima festività senza il tanfo di terrore e morte; malgrado ciò, gli insegnanti avevano dato ordine di addobbare l’intera scuola con luci e ghirlande incantate – era desiderio comune che si respirasse gioia.
Tra coloro che avrebbero fatto ritorno a casa c’erano anche Ginny e Hermione, che quella sera erano sedute intorno a un tavolino tondo della Sala Comune, con gli occhi curiosi puntati sulla lettera inviata loro da Molly. Mamma Weasley annunciava a entrambe le ragazze che avrebbero trascorso il Natale tutti insieme nella baita di montagna della – finalmente defunta – zia Muriel.

“Passeremo il Natale nelle Highlands scozzesi! È meraviglioso!” esclamò Hermione.

“Mamma e papà mi hanno raccontato che in passato passavamo lì ogni Natale, poi Fred e George hanno iniziato a fare magie spontanee e… beh, puoi immaginare. Io non ricordo niente, ero troppo piccola, ma Bill e Charlie mi hanno detto che, zia Muriel a parte, era un posto molto bello,” spiegò Ginny.

Hermione annuì con un sorriso mite: nonostante avesse avuto modo di conoscere zia Muriel e la sua totale mancanza di tatto, non riusciva a spiegarsi come fosse possibile che nessuno, da Bill a Ginny, avesse versato anche una sola lacrima per la sua morte – era stata una sorpresa per tutti che avesse lasciato la baita in eredità a Bill e Fleur, soprattutto per la giovane francese, convinta che la prozia del proprio marito non avesse mai realmente gradito l’ingresso di una non-inglese in famiglia.
Proseguirono nella lettura della lettera e appresero che sarebbero partiti il ventidue dicembre da casa Granger e che avrebbero utilizzato mezzi di trasporto babbani – un’idea di Arthur per far sentire a proprio agio i genitori di Hermione, almeno così scriveva Molly.

“Come no,” commentò scettica Ginny, “papà non vedeva l’ora di salire su un ariopacco.”

“Si dice aeroplano,” corresse divertita Hermione. “La trovo una pessima idea, i miei genitori avrebbero potuto spostarsi assieme a me con una passaporta, così non ci sarebbero stati rischi di nessun tipo. Senza offesa,” guardò di soppiatto l’amica, “ma la tua intera famiglia in mezzo ai babbani temo possa essere un pochino vistosa.”

Ginny scoppiò a ridere, dicendosi più che concorde. “Chiuderanno papà al San Mungo babbano, vedrai. Lo prenderanno per pazzo, e Fred e George si faranno arrestare!”

Hermione poté figurarsi con facilità entrambe le situazioni e rise a sua volta. Uno sguardo all’ora tarda convinse entrambe a ritirarsi in dormitorio e rimandare al mattino seguente l’invio della risposta.
Quando Hermione, raggiunta la stanza e il letto, poggiò la testa sul cuscino e tirò su le coperte, avvertì una sensazione aliena invaderla: la serenità. Dopo anni, pensò, avrebbe trascorso un vero e inaspettato Natale in compagnia dei genitori ritrovati, della famiglia Weasley, di Harry e di Ron, il suo fidanzato Ron.
S’addormentò con un beato sorriso in viso, convinta che niente sarebbe andato storto – non quella volta, non in tempo di pace.

 
*

“Mamma non ne sarà contenta, affatto.”

Il commento di Ginny, come era prevedibile, dipinse una smorfia sul volto di Hermione. Erano trascorsi quattro giorni da quando avevano risposto entusiaste alla lettera di Molly, eppure la situazione era già cambiata. Quel pomeriggio, difatti, al termine della lezione di Trasfigurazione, la professoressa McGranitt – che proprio non aveva voluto rassegnarsi a smettere d’insegnare per svolgere la sola mansione di preside – aveva chiesto a Hermione di trattenersi e le aveva comunicato che gli elfi domestici di Hogwarts avevano acconsentito ad ascoltarla, giù nelle cucine, nel pomeriggio del ventidue dicembre. La ragazza non aveva potuto fare altro che accettare la decisione degli elfi, conscia che non le avrebbero mai concesso un’altra possibilità se avesse disertato quell’invito.
Erano mesi, ormai, che Hermione tentava invano di convincere gli elfi a prendere in considerazione i diritti dei lavoratori, ma non aveva avuto fortuna, nonostante l’appoggio insperato di Winky addolorata dalla morte di Dobby – malgrado gli elfi avessero preso parte alla battaglia di Hogwarts, agendo in autonomia e non su ordine di un mago o di una strega, non erano ancora pronti all’idea di poter essere trattati da pari e non da schiavi. Hermione li aveva più volte avvicinati nelle cucine e aveva spiegato loro cosa fossero i diritti, i doveri, cosa fosse la libertà di scelta e di disporre della propria vita; qualcuno aveva iniziato ad ascoltarla e nessuno, aveva notato, scappava più quando lei arrivava – piccole vittorie che la inducevano a ben sperare.

“Per me è molto importante dialogare con gli elfi domestici. Abbiamo combattuto una guerra in nome della libertà e dell’uguaglianza per tutti e tutti devono beneficiare di questa società rinata, o vincere non avrà avuto alcun senso,” spiegò Hermione.

Ginny si strinse nelle spalle: avrebbe davvero voluto capire il sentimento che animava Hermione, ma proprio non ci riusciva. Per lei, nata e cresciuta tra maghi, gli elfi non solo non dovevano essere liberati, ma non volevano essere liberati, e di questo era più che certa.

“Dobby era un’eccezione,” commentò sull’onda dei propri ragionamenti.

“Dobby era coraggioso, lo era abbastanza da sfidare la schiavitù e vivere la propria vita.”

Ginny era in disaccordo, ma preferì tacere, per nulla intenzionata a subire l’ennesima filippica dell’amica in stile C.R.E.P.A.; prese quindi a scrivere alla madre per avvisarla che Hermione li avrebbe raggiunti la sera del ventidue dicembre o, al più tardi, la mattina del ventitré.
Hermione scrisse righe identiche ai propri genitori, che aveva scoperto essere in rapporti confidenziali con Molly e Arthur, i quali avevano fatto visita più volte ai Granger, vogliosi di conoscerli e di creare coesione tra le famiglie – “ora che la cara Hermione è fidanzata col nostro Ron sarebbe stato sconveniente non approfondire la conoscenza dei suoi genitori” erano state le parole scritte dalla signora Weasley a Ginny.

“Anche questa è fatta.”

Hermione annuì, guardando i due gufi della voliera di Hogwarts allontanarsi con le missive tra le zampe. Le ragazze andarono via svelte da quel luogo maleodorante e si diressero alla Sala Grande per la cena.
Ginny, come ogni volta che giungeva sull’uscio della Sala, rallentava l’incedere, torceva le mani e s’ammutoliva. Hermione, anche quella sera, le strinse le dita sudaticce, le sorrise e l’accompagnò silenziosa sino al tavolo dei Grifondoro, dove Neville le accolse con un gran sorriso e abbandonò un bacio tra i lunghi capelli di Ginny. Entrambi sapevano bene quale immagine rievocasse nella mente della più piccola la Sala intera ed entrambi non potevano fare altro che confortarla in silenzio.
Fred Weasley non era morto in quel maggio di sangue, eppure tutti lo avevano creduto esanime. Erano dovute trascorrere nove lunghe, estenuanti e dolorose ore prima che il respiro tornasse ad abitare il corpo martoriato da calcinacci caduti – una morte apparente, così l’avevano chiamata i guaritori del San Mungo. Hermione ricordava ancora George, distrutto, insultare il gemello colpevole di essere quasi morto senza di lui, di averlo lasciato solo e in balia dei fantasmi per nove dannatissime ore – “Cos’è, Forge? Pensavi sul serio che prima o poi non avrei giocato un tiro mancino anche a te?!” erano state le prime parole di Fred, a seguito della quali Molly era scoppiata in un pianto liberatorio e felice.

“Perché sorridi?” chiese Ginny, notando l’espressione apparsa sul volto di Hermione.

“Nulla,” mentì lei. “Pensavo alla baita di montagna.”

“Ti piacerà, ne sono certa.”

Hermione annuì, bevendo colpevole del succo di zucca. Non avrebbe saputo spiegarne il motivo, né aveva mai pensato di parlarne con qualcuno, ma ogni volta che pensava al risveglio di Fred un calore particolare la invadeva e un adrenalinico sollievo le incurvava le labbra verso l’alto. Anche in quell’occasione, come in tutte le precedenti, spinse via i pensieri molesti e si dedicò ad altro.

*

Il ventidue dicembre giunse più in fretta di quanto avessero creduto. Ginny era allegra oltre ogni dire: finalmente avrebbe rivisto Harry.
Hogwarts, quell’anno, aveva aperto i battenti sfinita e in pezzi nella seconda metà di ottobre, su insistenza di un numero considerevole di famiglie di maghi, concordi nel preferire i figli in una scuola diroccata piuttosto che in casa a rigirarsi i pollici senza apprendere la magia. La McGranitt aveva acconsentito a seguito di una lunga e ponderata riunione con tutto il corpo insegnanti. Il risultato era stato una scuola abitabile e funzionale, ma non accogliente come lo era stata in passato: il campo di Quidditch era ancora in ricostruzione – con la conseguenza che non erano state formate le squadre e il campionato non era iniziato –, grosse porzioni del parco e degli interni del castello versavano ancora in condizioni disastrate, la Stanza delle Necessità era impraticabile e tutte le torri, a eccezione di quella Corvonero e Grifondoro – restaurate in fretta e furia per accogliere gli studenti –, erano inagibili, difatti le lezioni di Astronomia avevano luogo nella Sala Comune Corvonero.
Ron e Harry non avevano neanche ipotizzato un ritorno a scuola, entrambi avevano scelto di intraprendere la carriera di Auror approfittando che per i reduci di guerra non ci sarebbe stato alcun sbarramento: né diploma da esibire né test da superare – dopotutto, aver sconfitto il più grande mago oscuro di tutti i tempi era una referenza piuttosto importante. Hermione aveva manifestato la stessa risolutezza, seppure indirizzata verso il sentiero opposto: per lei quel settimo anno non era un semplice tassello per completare gli studi, era una pausa di serenità dalle brutture e dalle preoccupazioni – un anno, s’era detta, solo un anno come una ragazza normale, che frequentava la scuola, gli amici, il fidanzato, senza tanfo di morte a intossicare i polmoni. Ron non aveva mai capito realmente la sua scelta, era riuscito tuttavia a rispettarla e accettarla e Hermione gli era stata grata. Anche a Ginny non era dispiaciuto riprendere gli studi, era desiderosa di rivivere Hogwarts così come l’aveva sempre conosciuta – “non voglio che i miei ultimi ricordi di questo posto siano i Mangiamorte che ci insegnano a uccidere i babbani” erano state le sue esatte, e a detta di Hermione sagge, parole.

“Buona fortuna con gli elfi domestici,” salutò Ginny.

“Grazie. Saluta tutti da parte mia, vi raggiungerò al più presto.”

“Vi raggiungeremo, vorrai dire!”

“Fred!”

L’urletto eccitato di Ginny fece voltare più di una testa. Hermione scosse il capo rassegnata quando vide l’amica fiondarsi tra le braccia del fratello, che non tardò a stringerla in un caloroso abbraccio. Poco dopo, Fred si avvicinò anche a lei e la salutò con una pacca sulla spalla che Hermione, per qualche strano motivo, trovò fastidiosa – non che si aspettasse un abbraccio in grande stile, ma un po’ di calore umano forse sì.

“Cosa ci fai qui?” chiese Ginny. “E cosa dicevi prima a Hermione?”

“Parto anche io tra stasera e domani, devo sbrigare degli affari alla filiale che stiamo aprendo qui a Hogsmeade. Fornitori da incontrare, operai a cui dare le ultime dritte...”

“George?” domandò curiosa Hermione.

“Ci siamo giocati a gobbiglie chi dei due sarebbe rimasto a rompersi le pluffe prima di partire. Ho perso,” spiegò con un’alzata di spalle.

Le due ragazze non nascosero un ghigno divertito che Fred ignorò stoicamente.
Pochi minuti dopo, le carrozze con gli studenti in partenza erano pronte per mettersi in marcia. Hermione e Fred, all’esterno dei cancelli di Hogwarts, salutarono Ginny con la convinzione di rivederla di lì a un paio d’ore.

“Tu sai dell’idea idiota dei miei di viaggiare con roba babbana, vero?”

“Ovviamente,” rispose Hermione, senza sentirsi in dovere di difendere i signori Weasley – insomma, quell’idea era stata davvero idiota. Fred dovette registrare il mancato rimprovero, perché sorrise soddisfatto. “Quindi?”

“Quindi, io e te ci muoviamo con la magia. Passaporta fino a un paesino a metà strada e poi smaterializzazione.”

“E se io non fossi d’accordo? Non so quanto sia affidabile il tuo senso dell’orientamento.”

“Hermione, o ti sta bene o viaggi da sola, a te la scelta!”

Hermione arricciò le labbra infastidita. “E va bene,” acconsentì, “ma solo perché da sola rischierei di perdermi, con te il rischio è lo stesso, ma almeno siamo in due.”

Fred scosse il capo divertito. “Felice di avere la tua completa sfiducia! Mi faccio vivo io con un gufo per dirti quando si parte. A più tardi, donna di poca fede!”

Hermione lo guardò allontanarsi con quell’aria scanzonata di chi, la vita, la viveva con una spensieratezza illegale.
Dal risveglio dalla morte apparente, Fred era parso a tutti più vivo che mai: allegro, energico, spericolato – senza limiti –, impegnato a ripetere a oltranza che i sopravvissuti erano destinati a una vita più intensa, perché avevano sfidato la signora Morte e avevano vinto. Hermione, nel silenzio dei pensieri più audaci, lo invidiava: lei, diversamente, ancora percepiva nelle narici il lezzo della signora, ancora temeva che il male potesse tornare a germogliare in fretta e furia, ancora si sentiva ingabbiata in quei cerimoniali imposti dalla società – istruzione, lavoro, famiglia – che, alle volte, riuscivano a strizzarle il collo. Ron viveva i suoi stessi patemi, lo sapeva bene, e ogni bacio, carezza e abbraccio era un momento dal duplice volto: da un lato il desiderio di amarsi, dall’altro il bisogno di consolarsi. Hermione delle volte pensava che vi fosse qualcosa di profondamente sbagliato in quel bisogno, ma spaventata allontanava il pensiero da sé all’istante e s’imponeva di dimenticarlo.
In una manciata di minuti per la ragazza non fu più possibile seguire la figura di Fred, ma sapere che di lì a breve l’avrebbe rivisto le regalò un sorriso. Fu con evidente buonumore che Hermione si apprestò a raggiungere le cucine per affrontare gli elfi domestici.







 
Note dell’autrice: un saluto e un grazie a tutti coloro che sono giunti sin qui, spero abbiate apprezzato il prologo di questa nuova storia! Sono consapevole di avere una long in sospeso su Fred e Hermione, ma questa è stata un’idea improvvisa e non ho potuto fare a meno di darle vita. Molto probabilmente il racconto si snoderà in cinque capitoli e, nonostante tra i generi non vi sia il solito “commedia”, vi assicuro che non mancherà l’umorismo di Fred, semplicemente i temi portanti del racconto saranno più vicini a un registro “drammatico/introspettivo”. Concludo ringraziando ancora una volta chiunque stia leggendo queste note!
Un abbraccio,
Rosmary

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Capitolo 2
*** I. Annusavano la vita, sapevano d’errore ***


I
Annusavano la vita, sapevano d’errore

 
 
Te l’avevo detto, ecco quali sarebbero state le parole di Ginny: poteva immaginare l’espressione impietosa e il sorrisetto dispettoso, un insieme che sarebbe stato corredato da Ron e Harry che avrebbero concordato con la piccola Weasley e sogghignato sotto quei quattro peli che avevano come baffi – Hermione s’irrigidì contrariata al solo pensiero.
Con un colpo di bacchetta riversò vestiti e accessori in valigia e poi la valigia nella fidata borsa di perline, che s’appesantì all’istante. Sbuffando come una teiera in ebollizione, infilò il cappotto e, data un’ultima occhiata alla porzione di stanza riservatale, uscì dal dormitorio e si diresse a passo svelto all’esterno dei cancelli di Hogwarts, ignorando tutti: la Signora Grassa che cantava Din, don, dan! Che felicità!, Sir Nicholas che pomposo le augurava di trascorrere liete festività, qualche studente che le augurava Buon Natale e persino Gazza che le intimava di rallentare il passo.
Appena giunta a destinazione s’accorse con disappunto che Fred, inaffidabile come al solito, non era ancora arrivato. Sbuffò per l’ennesima volta, strizzò la borsa con entrambe le mani e, similmente a una vedetta, guardò ovunque sperando di veder apparire il ritardatario.
Il gufo del ragazzo l’aveva raggiunta poco dopo aver abbandonato, sfinita e arrabbiata, le cucine della scuola: quegli stupidi elfi seguitavano a non capire di essere creature libere – ma lei non si sarebbe arresa, l’aveva già deciso, aveva solo bisogno di studiare una tattica alternativa, qualcosa che convincesse gli elfi domestici a riporre la loro preziosa fiducia in lei.
Sempre più contrariata, si strinse nel cappotto e maledisse se stessa per non aver indossato sciarpa, guanti e cappello. Diversamente dai giorni precedenti, infatti, quel ventidue dicembre era piombato sulla popolazione di Hogwarts completo di gelo e momenti di pioggia, e in quell’istante, con l’imponente orologio dell’ingresso che aveva quasi scoccato le venti, Hermione avvertiva su di sé il freddo pungente.
Tra tortuosi ragionamenti e manie da vedetta trascorsero ben quaranta minuti, a seguito dei quali Fred Weasley e la sua faccia da schiaffi ritennero opportuno arrivare, ritrovandosi dinanzi una Hermione Granger ghiacciata e nervosa.
 
“Lo so, sono in ritardo,” esordì veloce Fred, “ma ho una spiegazione.”
 
“Una spiegazione? Mi lasci qui a trasfigurarmi in un ghiacciolo, pregando i fondatori di Hogwarts perché non inizi a piovere, e tu… tu hai una spiegazione?” reagì con voce acuta Hermione, tutta rossa in viso.
 
Fred si concesse una risata divertita. “Se hai finito, ti spiego.” Lei annuì. “La ditta che deve occuparsi dei lavori ha sparato un prezzo assurdo… Trecentoquarantasette galeoni, sedici falci e ventotto zellini per tirare su due pareti e imbiancarne quattro… Roba da matti, da matti proprio.”
 
“Sembri arrabbiato,” notò lei.
 
“Lo sono. Voleva raggirarci, capisci? A noi, Fred e George Weasley. Alla fine ci siamo accordati per cinquanta galeoni. Gli ho detto ‘o cinquanta o niente, amico, io non sono mica l’ultimo Troll’, abbiamo discusso per un po’, ma alla fine ha accettato, anche perché ha capito che ci avrei messo due minuti a trovare un’altra ditta. Senza modestia, i Tiri Vispi Weasley sono famosi in tutta Londra.”
 
Hermione sorrise, annuendo a quella che, doveva concederglielo, era a tutti gli effetti una spiegazione. “Dobbiamo andare o si preoccuperanno, avremmo dovuto essere già lì da un pezzo.”
 
“Poche paranoie, Granger!” la canzonò Fred, per poi stringerle la mano e smaterializzarsi senza il minimo preavviso. Se Hermione non fosse stata costretta ad abituarsi alle fughe veloci, quella partenza improvvisa le avrebbe causato non poche conseguenze.
 
Non durò molto il viaggio dei due ragazzi. La prima smaterializzazione li aveva portati nel magazzino dei Tiri Vispi di Diagon Alley, dove c’era una Passaporta ad attenderli. Hermione studiò scettica la scatola di biscotti vuota, tuttavia decise di fidarsi, sperando che Fred conoscesse sul serio il tragitto per arrivare alla baita di montagna. Approdarono in un paesino molto piccolo e molto innevato – entrambi notarono che da Hogwarts a Londra e da Londra a quell’angolo di mondo, il cielo s’era fatto sempre più cupo, il vento sempre più forte e la temperatura sempre più bassa. Si smaterializzarono una seconda volta e con sollievo di Hermione apparvero all’esterno di una splendida baita innevata, peccato che ad accoglierli vi fosse una vera e propria bufera.
Istintivi, presero a correre e raggiunsero l’ingresso della struttura. Fred bussò due o tre volte, battendo con insistenza le nocche contro la porta in legno, ma nessuno si degnò di aprire.
 
“Hai le chiavi?” chiese Hermione, tentando di trovare riparo al di sotto della tettoia che copriva il porticato.
 
“No.”
 
“Fantastico. Possiamo almeno usare la magia? Ci sono protezioni, che tu sappia?”
 
“Probabile, ma forse un membro della famiglia può aprire.”
 
“Allora, muoviti, Fred! Ho freddo!”
 
“Quanti capricci!”
 
Lei storse le labbra in una smorfia, lui invece si preoccupò di tirare via la bacchetta dalla tasca del cappotto ed eseguire l’incantesimo. Trattennero il fiato per lunghi istanti, rilassando i lineamenti in un sorriso rincuorato solo quando udirono la serratura scattare. Entrarono in fretta e furia e un’occhiata fugace fu sufficiente a spiegare il motivo per cui nessuno aveva aperto loro: la baita era vuota.
 
“Dove sono tutti?” gracchiò Fred.
 
“Tu sei sicuro che questa sia proprio la baita di tua zia?”
 
“Ma certo che sono sicuro,” replicò offeso. “Mi hai preso per quell’idiota del tuo ragazzo?!”
 
“Lascia stare Ron.”
 
Fred sogghignò. “Era solo una battuta innocente!”
 
“Sì, sì, certo. Ora sta’ zitto e lascia che risolva questa situazione,” disse seccata, appellando un oggetto di dimensioni simili a quelle di un’agendina, rettangolare e grigio.
 
“Hai intenzione di tirare fuori i parenti da quella scatola grigia?!” chiese Fred divertito.
 
“No, genio, con questa scatola grigia ho intenzione di mettermi in contatto con loro.”
 
“Il freddo ti ha congelato il cervello?! Servono i gufi per questo!”
 
“Oh, non dire sciocchezze,” disse Hermione annoiata, ridendo persino dell’ingenuità di Fred. “Non abbiamo un gufo e se anche l’avessimo… dico, ma hai visto che tempaccio? Ci impiegherebbe ore. Meglio fare alla babbana. Fred caro, ti presento il cellulare!”
 
Fred strabuzzò gli occhi e fissò con diffidenza il cellulare tra le mani della ragazza. Seguì ogni suo movimento: la vide pigiare dei tasti, portarselo all’orecchio e… e parlare da sola. Pensò che Hermione avesse sul serio il cervello congelato, così le strappò dalle mani la scatoletta babbana e l’accostò al suo di orecchio, sobbalzando come un undicenne che incontra Gazza per la prima volta quando una voce misteriosa gli perforò il timpano. Hermione rise come non ricordava d’aver mai fatto, rapì il telefono dalle dita sudaticce del ladro e spiegò alla madre che quello stupido di Fred non aveva la più pallida idea di come funzionasse l’aggeggio.
Quando la telefonata terminò seguì un minuto imbarazzato di silenzio in rispetto dell’aria stranita di Fred e degli incisivi di Hermione che mordevano il labbro inferiore nel disperato tentativo di non scoppiare a ridere di nuovo.
 
“Sei proprio un idiota!” scoppiò infine la ragazza, ridendo così di gusto da contagiare anche Fred.
 
“Ma come funziona questo coso? L’hai stregato? Deve esserci il tuo zampino, la voce di tua madre era qui,” disse perplesso, fissando con rinnovata diffidenza il cellulare.
 
“I babbani la chiamano tecnologia, non magia, Fred. Ti assicuro che non c’è il mio zampino, e se avessi studiato Babbanologia lo sapresti!”
 
“Oh, ma sei peggio di mamma. Allora, che t’ha detto? Dove diamine sono tutti? E dov’è George con la mia valigia? E perché siamo ancora tutti zuppi?”
 
Hermione temette che non avrebbe mai smesso di far domande: teatrale il ragazzo, su questo non v’erano dubbi. Quando tacque, lo informò che le pessime ‘condizioni metereologiche’ che avevano attanagliato Londra quel giorno avevano impedito al gruppo di partire, perché i voli erano stati sospesi per precauzione. Nonostante George e Ron avessero insistito per spostarsi con la magia, Molly e Arthur erano stati irremovibili.
 
“Adesso dove sono?”
 
“A casa mia. Potremmo raggiungerli.”
 
“Tu vuoi raggiungerli?” chiese Fred con un sorrisetto sghembo.
 
Hermione si concesse un istante sin troppo breve di riflessione e con un sorriso molto simile a quello di Fred rispose: “no.”
 
Nelle ore successive cambiarono quegli abiti inzuppati dalla tempesta che li aveva accolti. Hermione ancora una volta non trattenne le risate quando vide Fred con indosso il pantalone di una tuta consunta dal tempo e un maglione marrone con una renna rossa cucita sul davanti – non era riuscito a trovare altro e per orgoglio aveva rifiutato l’aiuto della ragazza, che si era detta disponibile ad asciugargli gli abiti bagnati con un colpo consapevole e studiato di bacchetta. Fred aveva poi acceso il fuoco, mentre Hermione decideva che avrebbero cenato con della cioccolata calda. L’ambiente divenne piacevole e familiare in poco tempo, e i due ragazzi, seduti sul prezioso divano di zia Muriel, bevevano la cioccolata bollente e zuccherina parlottando e ridendo, dimentichi della bufera che imperversava all’esterno.
Hermione avvertiva dentro sé calore e adrenalina, quelle sensazioni che le facevano visita ogni volta che la mente indugiava sul ritorno alla vita di Fred. Era stata una decisione istintiva quella di restare lì anziché raggiungere la famiglia – e Ron. Dei sensi di colpa mascherati da nausea l’avevano colta alla sprovvista mentre preparava la cioccolata, ma poi i minuti erano trascorsi e la presenza di Fred aveva scacciato via tutto il marcio, seminando spensieratezza ovunque.
In compagnia di quel matto era sempre stato così: sorrisi, ammonimenti, scherzi, vita. Ma erano momenti irrisori e sfuggenti, destinati a non avere futuro.
 
“Devo essere onesto?”
 
“Assolutamente sì.”
 
Malgrado lo sbuffo poco lusinghiero di Fred, Hermione aveva intavolato il discorso elfi domestici, e lui le aveva prestato attenzione. Tuttavia, ora la giovane strega attendeva un parere.
 
“Hai sbagliato tutto.”
 
Hermione impallidì. “Come?”
 
“Hai capito benissimo: hai sbagliato tutto, e ti spiego anche perché. Primo: il nome. Parola di imprenditore, quel crepa fa veramente schifo!”
 
“Ma non è crepa!” s’infervorò lei, “è C.R.E.P.A. e va detto proprio così, proprio Ci-erre-e-pi-a! È una sigla.”
 
“Vedi che sei matta? Ma come ti viene in mente che un poveraccio legga Ci-erre-eccetera?! Tutti leggono crepa, che fa veramente cag…”
 
“Fred!”
 
Crepare, volevo dire crepare!” completò lui sarcastico, ghignando impertinente.
 
“E va bene. Vai avanti, dai,” concesse lei, indecisa se continuare a mostrarsi offesa o accettare quelle critiche forse sensate.
 
“Agli ordini, miss crepa!”
 
“Smettila!”
 
“Ma se stai ridendo!”
 
“Non sto ridendo!”
 
“Invece sì.”
 
“Vai avanti.”
 
“Ammetti che stai ridendo.”
 
“No!”
 
“E allora sto zitto!”
 
“Fred!”
 
“Ah, quanto sei petulante!” scherzò ancora lui, e lei s’aprì in una risata. “Vedi? Stai palesemente ridendo!”
 
“Qual è il punto due?”
 
“Il punto due è l’approccio con gli elfi. Prima ti presenti come una che in loro onore ha fondato un comitato che sembra invitarli tutti a crepare alla svelta, poi ti metti a distribuire calzini… Insomma, li terrorizzi!”
 
“Ma io voglio liberarli! Come dovrei fare? Ho spiegato e rispiegato ogni cosa, ma non capiscono o non vogliono capire…”
 
“Sei tu che devi capire,” riprese sereno Fred. “Gli elfi domestici sono abituati a servire i maghi e questo li rende felici, realizzati. È il loro scopo, riesci a capire questo?” Lei annuì, lui sorrise. “Se capisci questo, capisci anche perché li terrorizzi.”
 
“Ron e Ginny mi dicono questo da anni, ma allora cosa dovrei fare? E non dirmi anche tu ‘lasciali perdere’, perché è una cosa che non farò mai.”
 
“Non ho intenzione di dirtelo, anche perché sono d’accordo con te!”
 
“Molto divertente,” commentò scettica.
 
“Sono serio,” ribadì. “Hai ragione. Non è giusto che vengano trattati come schiavi, anche se quelli di Hogwarts vivono bene: nessuno li maltratta, hanno cibo a sufficienza e riposano quando ne sentono il bisogno… Ma sono i privilegiati, tutti gli altri non se la passano mica così.”
 
“Sei la prima persona che capisca la mia lotta,” disse Hermione, senza nascondere la perplessità.
 
“Per tua fortuna, io valgo mille, quindi è come se avessi mezza Londra magica dalla tua parte!”
 
“Sempre modesto, Fred.”
 
“La modestia è una virtù sopravvalutata! Allora, vediamo di risolvere il tuo problemino.”
 
“Hai sul serio un’idea?”
 
Lui ghignò. “Granger, devo ricordarti che hai davanti il co-inventore dei Tiri Vispi?” chiese retorico. “La cosa è molto semplice: devono essere loro a venire da te, non tu a elemosinare il loro tempo.”
 
“E come credi sia possibile?”
 
“Collaborando con loro.”
 
“Nelle cucine?”
 
“Quando hai tempo, anche un’ora a settimana. Ogni tanto vai lì, inizia a preparare qualcosa e poi fingi di fare un macello e chiama uno di loro per aiutarti. Si sentiranno utili e soprattutto indispensabili.”
 
“Tu vuoi che loro imparino a stimarsi,” convenne Hermione.
 
“Esattamente. Gli elfi sono terrorizzati all’idea di trovarsi per strada, senza scopo e senza lavoro, in pratica senza vita. E questo perché non hanno la benché minima autostima. Non sono consapevoli di ciò che possono fare. Dobby l’aveva capito e questo l’aveva reso indipendente.”
 
“Harry era amico di Dobby…”
 
“Vedo che inizi a capire, miss crepa! Harry aveva conquistato l’amicizia di Dobby, non solo la sua fiducia o il suo rispetto. E questo perché Harry lo trattava da pari senza volere nulla in cambio, era disinteressato.”
 
“Ma anche io sono disinteressata!”
 
“Perché ragioni da strega, non da elfo. Per loro non sei disinteressata, perché pretendi la loro libertà. Vuoi qualcosa in cambio, capisci? Sei gentile e parli con loro solo perché vuoi che si liberino, non perché ti fa piacere stare con loro.”
 
“Ma parliamo di libertà, Fred! Io voglio la loro libertà, come possono detestarmi per questo?”
 
“Perché sono elfi, e gli elfi sono abituati a diffidare dai maghi. La tua libertà per loro si chiama disoccupazione, e la disoccupazione è ciò che di peggio possa toccare a un elfo. Un elfo disoccupato è un elfo senza dignità e senza vita.”
 
“Per noi uomini non è così diverso,” considerò Hermione.
 
“No, infatti. Ma noi siamo, o dovremmo essere, consapevoli delle nostre possibilità, e questo ci consente di cercare altre opportunità. Un elfo non ha questa percezione di sé.”
 
“Quindi, io sarei l’imprenditore che vuole licenziarli tutti?”
 
“Più o meno sì,” rispose sorridendo Fred, “a breve fonderanno un comitato per difendersi da te!”
 
“Grazie.”
 
“Di cosa?”
 
“Di avermi capita.”
 
“È stato un piacere, miss crepa.”
 
Hermione lo vide alzarsi dal divano con un’espressione strana in viso, quasi confusa. Le scompigliò i capelli e s’avviò al piano superiore dicendole d’aspettarlo.
La ragazza si strinse nella coperta in cui s’era avvolta e s’accomodò ancora meglio sul divano, godendo di quella pace ristoratrice, tentando di scacciare i sensi di colpa che di tanto in tanto le facevano visita – perché non le mancava niente e nessuno in quel momento, e la ragione sapeva quanto questo fosse sbagliato. Eppure, in quel frangente, riusciva solo a vivere la sensazione generata dalla consapevolezza di essere stata ascoltata e capita. Il fatto che il primo a comprendere realmente la sua importante battaglia fosse stato proprio Fred Weasley, il re degli scherzi, non riusciva a destabilizzarla come avrebbe creduto: a ben pensarci, il ragazzo non era mai stato poco assennato – lui stesso aveva ammesso, prima di abbandonare Hogwarts, quanto lui e il gemello avessero negli anni ragionato su ogni bravata, stando bene attenti a non oltrepassare un certo limite –, ma solo molto dedito alla spensieratezza e alla vita vissuta e da vivere a tutti i costi.
Fred riapparve pochi attimi dopo, con aria serena e un piccolo sacchetto di carta in cui, a occhio, avrebbero potuto stare una ventina di caramelle. Si sedette di nuovo accanto a lei e pretese una porzione di coperta. Hermione arrossì a tanta vicinanza, ma evitò di chiedersi se fosse un rossore dettato da semplice imbarazzo o da una inquieta aspettativa.
 
“Ora è il tuo turno di renderti utile,” esordì Fred, “ho portato con me quattro nuovi Tiri Vispi. Io e George ne vogliamo mettere in commercio almeno uno subito dopo Natale.”
 
“E vuoi che scelga io?”
 
“Non dire idiozie! Voglio solo un consiglio: una cliente diffidente e rompi-bolidi come te da quale sarebbe attratta di più?”
 
Le passò il sacchetto e Hermione evitò di fargli notare di non aver affatto detto una sciocchezza: Fred aveva affidato a lei la scelta – pochi giri di parole, mister Tiri Vispi!
Li studiò tutti: erano quattro caramelle tonde, all’apparenza sembravano essere di gomma. Piccole e colorate. Fred le spiegò che la rossa trasfigurava i piedi in pàttini e aveva la durata di un’ora, la gialla rendeva completamente invisibili per quindici minuti e la verde amplificava l’udito per trenta minuti.
 
“E la bianca?”
 
“Questa è il nostro gioiellino!”
 
“Cosa fa? Fa ricrescere i capelli in due minuti?”
 
“Sei proprio una babbana!” scherzò. “Questa ha un effetto molto simile al Veritaserum: cinque minuti di verità assoluta. Solo che, non essendo l’originale, è più facile resistere al suo effetto. Un occlumante alle prime armi potrebbe resistere senza troppi problemi.”
 
“Quindi è un prodotto scadente,” commentò spiccia.
 
“Lo sarebbe se la gran parte dei maghi fosse occlumante. Ma io e te sappiamo bene quanto sia poco diffusa questa abilità, e ciò rende la nostra caramella un prodotto vincente.”
 
“Ma non è illegale?”
 
“Vuoi provarla?” chiese Fred, eludendo la domanda sulla legalità. “Hermione Granger ha abbastanza coraggio?!” provocò.
 
Hermione fece vagare lo sguardo da Fred alla caramella bianca. La coscienza le suggerì di rifiutare la proposta, ma ancora una volta prevalse l’istinto e con un rapido movimento della bacchetta divise in due il Tiro Vispo – o tiro mancino?. Fred capì subito quali fossero le intenzioni altrui e ghignò soddisfatto, mangiando la propria metà di caramella.

“Ha un buon sapore,” commentò Hermione.
 
“È diverso per ogni persona, come quasi tutti i Tiri Vispi.”
 
“Cioccolata,” disse allora.
 
“Anche la mia è a cioccolata!”
 
“Chi inizia?”
 
“Inizia tu!”
 
“Dove avete preso i soldi per aprire il negozio?”
 
Fred strabuzzò gli occhi e rischiò di strozzarsi con la propria saliva pur di non rispondere. “Harry. Harry ci ha ceduto la sua vincita al Torneo. In cambio può prendere tutto ciò che vuole senza pagare, a vita ovviamente,” confessò controvoglia. “Sei proprio una str…”
 
“Fred!”
 
Strega! Sei proprio una strega!”
 
“Dai, vendicati pure!” l’incitò lei, eccitata all’idea d’aver finalmente scoperto il gran segreto.
 
Lui inarcò le sopracciglia e la guardò col piglio di un predatore affamato. “Ron mi ha raccontato delle selezioni di Quidditch al sesto anno e ho sempre sentito puzza di Granger. C’entri niente con la sua ammissione in squadra?”
 
Hermione strinse le labbra, ma le parole, traditrici, erano tutte sulla punta della lingua. “Ho confuso McLaggen per farlo entrare in squadra. Ma era veramente insopportabile!”
 
Fred rise di gusto. “Questo è amore!”
 
“Cosa ne saprai mai tu dell’amore,” disse infastidita.
 
“Pensi che non sia mai stato innamorato?”
 
“Non è così, forse?”
 
“No, in effetti è così. Ma so cosa significa essere molto attratto dalla ragazza sbagliata.”
 
“Perché sbagliata?”
 
Fred aprì bocca per parlare, ma s’accorse in fretta di riuscire a trattenere il flusso di parole. “Credo che i nostri due minuti di verità siano finiti.”
 
“Non erano cinque?”
 
“L’hai divisa a metà.”
 
“Perché non mi rispondi lo stesso?”
 
“Perché tanto interesse? Due cognate non ti bastano?!”
 
Hermione pensò a Ginny e Fleur e convenne con se stessa che fossero sufficienti. In più, una piccola parte di lei aveva avvertito una fitta di profondo fastidio nell’apprendere che Fred fosse molto attratto da una ragazza. Immaginò i motivi per cui potesse essere ‘sbagliata’ e riuscì solo a ipotizzare un coinvolgimento di George: forse, erano attratti dalla stessa persona – in fondo erano gemelli, no? I gemelli non hanno gli stessi pensieri e gli stessi gusti in tutto? Scosse il capo: era un ragionamento più che stupido, e poi a lei cosa importava?
S’addormentò cullata da queste riflessioni, mentre Fred accanto a lei fissava il soffitto. Era pensieroso, elettrizzato e spaventato: la guerra aveva stravolto tutte le sue priorità, il bisogno di divertimento era diventato bisogno di sopravvivere e il bisogno di sopravvivere, con la pace, era evoluto in bisogno di vivere – vivere tutto. La ragazza sbagliata apparteneva a questo tutto, ma volere lei, si ripeteva spesso, era troppo folle anche per lui – troppo sbagliato anche in nome della vita da vivere. S’addormentò anche lui sul divano di zia Muriel.
 
*
 
In lontananza, avvertiva un suono insistente e fastidioso, intenzionato a turbare in maniera irreversibile la sua quiete. Sollevò pigramente le palpebre, ritrovandosi dinanzi il viso di Hermione. Dormiva serena, con i capelli scompigliati, la mano ad artigliare il suo maglione con la renna e una gamba tra le sue. Fred s’accorse che le proprie braccia erano attorno a lei, strette in un abbraccio possessivo. Non s’erano addormentati abbracciati, di questo era più che certo.
Sorridendo sghembo, risalì con una mano il corpo della ragazza dalla vita sino al volto, acciuffandole il mento tra due dita.
 
“Miss crepa, svegliati, ché il tuo ragazzo sta buttando giù la porta!”
 
Hermione, già catapultata nel dormiveglia dall’insistente bussare, rivelò gli occhi scuri, arrossì e con uno scatto rapidissimo s’allontanò da Fred, rifilandogli anche un’involontaria testata.
 
“Oh, scusa!”
 
“Buongiorno, eh! Peggio di una elefante!”
 
“Ha parlato la farfalla,” lo canzonò infastidita e imbarazzata. Sistemando malamente i capelli, s’avviò alla porta, che aprì dopo aver rimosso gli incantesimi di protezione eseguiti la sera prima.
 
“Finalmente,” commentò Ginny.
 
“Cari, vi abbiamo svegliato,” disse invece Molly, scoccando uno sguardo all’aria arruffata di Hermione e a Fred che si stiracchiava e sbadigliava.
 
Hermione salutò calorosa i propri genitori, gli altri Weasley e Harry. Solo alla fine s’avvicinò a Ron, che l’aspettava in disparte e sorridente.
 
“Mi sei mancata,” le sussurrò abbracciandola.
 
“Anche tu,” rispose, stringendosi a lui.
 
Non li vide Hermione, due occhi chiari che assistevano infastiditi, ma tornò a percepire quella spiacevole nausea, maschera di sensi di colpa. Ripeteva a se stessa di non aver mentito: Ron le era mancato sul serio. E ancora ripeteva che era lì che doveva e voleva stare, tra le braccia di Ron, contro le sue labbra, avvolta dal suo profumo – non in sorrisi impertinenti che annusavano la vita e sapevano1 d’errore.



 
1: il verbo sapere ha qui il significato di avere il gusto di. Ho trovato un solo riferimento in tal senso sul vocabolario online Treccani, malgrado abbia sempre attribuito anche questo significato al verbo in questione. Ho avuto dunque il dubbio che potesse trattarsi di una estensione di significato di origine dialettale o colloquiale, di conseguenza segnalo qui sia l'eccezione, che il significato inteso.

NdA: al più presto rispondo a tutte le bellissime recensioni lasciate al prologo! Vi anticipo i miei ringraziamenti, spero che il primo capitolo vi sia piaciuto! Un bacio

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Capitolo 3
*** II. Sapevano di vita, annusavano l’errore ***


II
Sapevano di vita, annusavano l’errore


 
Quale fosse e se esistesse la differenza tra giusto e sbagliato, Hermione lo aveva chiesto spesso a se stessa nel corso della sua giovane vita. La prima volta che s’era posta quella domanda aveva undici anni e la professoressa McGranitt era appena andata via da casa Granger: aveva scoperto di avere dei poteri che i suoi genitori non avevano – “sei speciale, Hermione,” le aveva detto quella donna dal cipiglio severo, e lei si era chiesta se essere speciale, diversa da mamma e papà, fosse giusto o sbagliato. L’amicizia con Harry le aveva poi messo dinanzi sin dalla tenera età il dilemma della scelta: giusto o sbagliato infrangere le regole per scovare un assassino, giusto o sbagliato stregare a insaputa di tutti la pergamena dell’Esercito di Silente, giusto o sbagliato modificare la memoria dei propri genitori – tanti, troppi, interrogativi. E malgrado in ogni occasione avesse fatto la sua scelta, il seme del dubbio non l’aveva mai abbandonata completamente.
Da quando la guerra era finita, però, scegliere tra giusto e sbagliato era stato molto più semplice e lei, desiderosa di serenità, aveva messo via la questione. Tuttavia, c’era qualcosa nell’aria festosa e familiare della baita di zia Muriel che in quei giorni aveva costretto Hermione a ricominciare a porsi quella domanda. Il qualcosa era un formicolio alle mani, una morsa allo stomaco, dei peli drizzati, un calore sparso in tutto il corpo… Un insieme di reazioni fisiche ed emotive che s’impadronivano di lei quando una persona le parlava, si avvicinava o la guardava anche solo di sfuggita – giusto o sbagliato? Sbagliato, si diceva, assolutamente sbagliato. Ma quando ripeteva a se stessa sbagliato non poteva fare a meno di tremare all’idea che la sua vita era stata segnata da scelte catalogate dalla morale come sbagliate: sbagliato infrangere le regole per scovare un assassino, sbagliato stregare a insaputa di tutti la pergamena dell’Esercito di Silente, sbagliato modificare la memoria dei propri genitori – eppure, aveva compiuto ognuna di quelle singole azioni, assieme a tante altre reputate egualmente sbagliate. Quando quella consapevolezza s’impadroniva di lei, Hermione fissava il proprio riflesso e in silenzio ammoniva se stessa: no, sbagliato, punto, punto e basta.
 
“Hermione, posso?”
 
La ragazza non fece in tempo a rispondere che Ron entrò nella camera riservata a lei e Ginny, così si limitò a sollevare la testa dal cuscino e a sorridergli. Lui, chiusa la porta alle proprie spalle, raggiunse in poche falcate il letto e temporeggiò in piedi, fissando un po’ Hermione, un po’ il soffitto e un po’ le proprie scarpe.
 
“Puoi sederti, se vuoi,” disse lei, facendogli posto. “O… o sdraiarti…”
 
Le guance arrossate di Hermione rilassarono Ron, che si sentiva meno insicuro all’idea di non essere l’unico nervoso e in imbarazzo in quella stanza. Così le restituì il sorriso e si distese accanto a lei, stringendole una mano nella propria; avrebbe voluto baciarla e stringerla a sé, ma quando erano soli si sentiva sempre impacciato e sperava fosse lei a prendere l’iniziativa, proprio come faceva Lavanda, ma Hermione era più rigida di lui e questo faceva sì che avvicinarsi richiedesse sempre qualche indugio.
 
“Harry e Ginny?” chiese Hermione.
 
“Li ho lasciati soli.”
 
“Hai fatto progressi!”
 
Ron abbozzò un sorriso colpevole. “Non proprio, però... insomma… se neanche mamma e papà si lamentano che si appartino, non posso mettermi a urlare… Poi parliamo di Harry, Harry è il meglio che potesse capitare a Ginny.”
 
“Lo dici solo perché è il tuo migliore amico.”
 
“Beh, sì,” ammise lui. “Ma meglio Harry che un altro. E comunque non sono qui per parlare di Harry e mia sorella.”
 
“No?”
 
Ron scosse il capo, si sollevò di poco dal materasso e si voltò verso di lei, sovrastandola quanto bastava perché potesse arrivare alle sue labbra. Hermione ricambiò il suo bacio e strinse tra le dita della mano destra la stoffa del maglione di lui, invitandolo ad avvicinarsi. Ron, incoraggiato dalla reazione della ragazza, si calò di più su Hermione e smise di temporeggiare, intenzionato a dimostrarle quanto tenesse a lei e soprattutto quanto la desiderasse. 
Dalla fine della guerra ad allora, era stato un continuo riscoprirsi e conoscersi in maniera diversa. Erano stati amici per così tanto tempo che delle volte, in situazioni più intime, un imbarazzo inspiegabile prendeva il sopravvento e scacciava via ogni ombra di romanticismo o passione – come se avessero condiviso troppo per reinventarsi amanti. Hermione, più cerebrale di Ron, diceva a entrambi che fosse solo questione di tempo: tra loro era sempre stato tutto lento e macchinoso, quindi non c’era da stupirsi se anche come coppia erano meno disinibiti di altri. Tuttavia, la verità che Hermione taceva persino a se stessa era che per quanto amasse Ron – lei amava Ron, sul serio – non riusciva a sentirsi attratta sino in fondo da lui. Attrazione, passione, adrenalina erano tutte sensazioni assenti in massa quando baciava il suo fidanzato, e più si stringeva a lui più un campanello d’allarme le intimava di fermarsi – fermarsi perché non provava ciò che avrebbe dovuto provare.
 
“Ron, ci stanno chiamando…”
 
“Ignoriamoli.”
 
“Vuoi che mio padre ti trovi sdraiato su di me?”
 
Ron sgranò gli occhi e arrossì di vergogna al solo pensiero. Svelto si scostò da lei e si alzò in piedi, mentre Hermione faceva altrettanto.
La voce di Jean Granger, proveniente dal piano di sotto, smise di chiamarli solo quando la strega urlò stizzita che di lì a breve avrebbero raggiunto tutti nella sala da pranzo per il cenone. Gli ospiti della defunta zia Muriel, infatti, non avevano dovuto attendere molto il ventiquattro dicembre. Complice il ritardo forzato, il ventitré era volato via tra bagagli da disfare, stanze da ripulire e preparativi di ogni tipo. Hermione e Ginny avevano aiutato Molly in tutte le faccende, mentre a Jean era stato proibito qualsiasi lavoro – “mia cara, tu e tuo marito siete nostri ospiti, non vi permetterò neanche di affatturare uno gnomo!” aveva affermato calorosa la signora Weasley poco dopo l’arrivo alla baita, costringendo Hermione a tradurre in babbanese il monito ai perplessi genitori. Fleur e Bill, con sommo disappunto della famiglia di lui, avevano scelto di trascorrere le vacanze natalizie in Francia – “dopo la guerre non sciamo tornoti dai miei jenitori, mi mancano, William”, e Bill aveva accondisceso. Percy e Charlie, invece, avevano disdetto ogni impegno per raggiungere la famiglia la mattina della Vigilia. Per Hermione era stato un vero toccasana avere tante faccende da sbrigare e molte persone con cui relazionarsi, perché questo aveva ridotto ai minimi storici il tempo libero per riflettere sulla nottata trascorsa in compagnia di Fred, quel Fred che da quando la baita s’era popolata aveva fatto il possibile per ignorare Hermione.
Quando Ron giunse in sala da pranzo assieme alla fidanzata, Scott Granger scoccò un’astiosa occhiata in direzione del giovane Weasley, che tossicchiando s’allontanò da Hermione e corse a prendere posto accanto a Harry, sulla cui “sopravvissuta” testa pendeva lo sguardo minaccioso di Arthur, probabilmente meno tollerante di quanto credesse il figlio nei riguardi di Harry e Ginny appartati.
 
“Buona Vigilia a tutti e soprattutto ai nostri graditi ospiti!” affermò sorridente Molly, stemperando con del buon cibo la contrarietà dei due padri.
 
L’intera serata e una parte della nottata trascorsero in allegria e serenità. Tra vivande e regali, la guerra sembrava così lontana da essere impalpabile. Nessuno, tuttavia, aveva avuto abbastanza coraggio da ricordare a voce alta i caduti, eppure Ginny aveva dovuto raggiungere Harry e stringerlo in un abbraccio lungo minuti quando, allo scoccare della mezzanotte, aveva tirato fuori dalla tasca dei pantaloni una foto regalatagli da Remus che ritraeva Remus stesso, Sirius, James e Lily l’ultimo giorno di scuola – “Minus?” “Peter ha scattato la foto. Aveva un brutto raffreddore quel giorno e non voleva essere fotografato con il naso rosso.” “Posso tenerla?” “Devi tenerla, Harry. È l’unico regalo che posso permettermi, temo.” “È anche il più prezioso. Grazie.”, una conversazione, quella, che sembrava appartenere a un passato più che remoto; Harry aveva fatto di tutto per convincere Andromeda Tonks a trascorrere il Natale con loro, ma la donna aveva rifiutato e, irremovibile, non aveva accondisceso neanche quando il ragazzo le aveva fatto notare che a Teddy sarebbe piaciuto essere circondato da persone.
 
“Sì, zia Muriel aveva buon gusto.”
 
Hermione si voltò di scatto e, colta in flagrante, pensò bene di smettere di fissare quella grossa cornice sul caminetto che custodiva una vecchia foto di Fred e George poco più che undicenni.
 
“Credevo fossi fuori a giocare con la neve,” disse lei.
 
Fred si strinse nelle spalle, dando uno sguardo alla finestra chiusa dalla quale si intravedevano i profili dei fratelli e di Harry. “Non mi andava.”
 
“Come mai?”
 
“Ho freddo. E la tua scusa qual è?”
 
“Chi ti dice che mi occorra una scusa?”
 
“Intuito.”
 
“Ho freddo.”
 
Fred sorrise sghembo e Hermione pensò che sarebbe stato molto saggio uscire e raggiungere Ron oppure andare in cucina e unirsi agli adulti che giocavano a carte babbane, come espressamente richiesto da un Arthur Weasley eccitato come un bambino. Eppure, non fece né l’una né l’altra cosa, anzi temporeggiò lì, in piedi dinanzi al camino del lussuoso salotto di zia Muriel, a pochi passi dal divano dove lei e Fred avevano dormito durante quell’unica notte solitaria. Fu proprio fissando il divano che le tornò alla mente la “caramella della verità” che avevano testato assieme e la confessione ambigua del mago circa una ragazza sbagliata che gli interessava molto – come allora, una morsa che somigliava tanto a gelosia prese ad attanagliarla.
S’accorse con una punta di fastidio che Fred se ne stava zitto e immobile a osservarla, come se studiasse le espressioni del suo volto o, chissà, riuscisse a scovare quelle verità che Hermione negava anche a se stessa.
 
“Come mai non parli più?” chiese allora lei.
 
“Sto riflettendo.”
 
“Su cosa?”
 
“Sui gatti.”
 
“I gatti?”
 
“Precisamente, sul tuo gatto.”
 
“Cosa vuoi fare al povero Grattastinchi?” domandò preoccupata.
 
Fred rise, decidendo di sedersi sul divano. “Io niente, ma quel demonio peloso ha fatto la pipì sulla felpa di George, quindi, a occhio e croce, credo che George lo ammazzerà entro Capodanno!”
 
Hermione si sedette accanto a lui. “Deve solo provarci,” disse cupa e con la fronte aggrottata nel tentativo di apparire minacciosa. Fred rise ancora di più. “Guarda che non scherzo. Se il tuo gemello torce un solo pelo al mio gatto, si ritroverà schiantato!”
 
“Non è così facile schiantare un Weasley, signorina Granger, soprattutto se si tratta dei mitici Fred e George!”
 
Mitici. Come no!”
 
“Giusto! Per te siamo solo fastidiosi, o sbaglio, signorina Granger?!”
 
“Smettila di chiamarmi a quel modo!”
 
“E perché? Le formalità ti piacciono tanto!”
 
“Idiota!” l’apostrofò lei.
 
“Antica!”
 
“Irritante.”
 
“Saccente.”
 
“Bambino.”
 
“Vecchia.”
 
“Troll.”
 
“Gnoma!”
 
Hermione aprì la bocca per ribattere, ma si ritrovò a ridere come una matta. Gnoma aveva una sua originalità, doveva riconoscerlo. Fred la seguì a ruota, ridendo sino a sentire un forte dolore all’addome. Quando entrambi tornarono seri, s’accorsero di essere vicini quanto quella mattina al risveglio e s’accorsero anche che la situazione fosse molto ambigua e fraintendibile. Hermione umettò involontariamente le labbra, mentre le guance arrossate dalle risa mitigavano il rossore figlio dell’imbarazzo. Fred, estraneo alla vergogna, era soggiogato dal senso di colpa per un’attrazione che, lo sapeva bene, non avrebbe dovuto provare neanche nel più sconsiderato degli incubi.
 
“Non riflettevo sul serio sui gatti prima,” ammise lui.
 
“E… e su cosa?”
 
“Su cosa è giusto e cosa è sbagliato.”
 
“E sei arrivato a una conclusione?”
 
“Sì.”
 
“Qual è?”
 
“È che non posso.”
 
C’era frustrazione nella sua voce, e lei non ricordava d’averlo mai sentito intonare le frasi a quel modo. Ma Hermione non fece in tempo a porgli un’altra domanda – a chiedergli se, per caso, quei pensieri funesti riguardassero la misteriosa ragazza – che lui s’alzò con ritrovato buon umore, come se non le avesse confidato nulla, e si diresse verso il guardaroba, l’aprì e tirò fuori due cappotti, uno lo indossò e l’altro lo lanciò in direzione della ragazza, beccandola in pieno viso.
 
“Fred” gemette lei.
 
Lui sogghignò. “Avanti, Granger, vieni a giocare con le palle di neve!”
 
“Tu sei tutto matto. Ho freddo!”
 
“Ah, quante storie!”
 
E senza darle tempo, di nuovo, di parlare, la tirò su dal divano e se la caricò in spalla come un sacco di patate. Hermione, che rideva, per non dargli altra soddisfazione scalciava e mormorava improperi al rapitore, che ridendo a sua volta la ignorava.
Non appena furono fuori, Ron e Harry si piegarono in due dalle risate, mentre George e Charlie raccolsero in fretta e furia tanta neve e presero a colpire il fratello e la rapita, che caddero in terra dopo una manciata di secondi, ridendo fracidi nella neve. Ginny si unì poco dopo a George e Charlie, abbandonando il proposito di infilare altra neve nel maglione del povero Percy, che malediceva se stesso per aver preferito la compagnia dei fratelli a quella degli adulti – “Ma chi me l’ha fatto fare?” ripeteva ogni volta che la neve lo colpiva, ben conscio di essere la vittima prediletta di tutti.
 
“Hai intenzione di levarti di dosso o restiamo qui tutta la notte?”
 
Il tono di Fred, suo malgrado, era malizioso oltre ogni dire. Hermione, che si era ritrovata distesa su di lui nel barcollare e cadere, boccheggiò stupidamente, si scostò da lui e, aiutata da Ron corso in suo soccorso, si rimise in piedi. Fred scoccò un’occhiata infastidita, e involontaria, al fratello minore, come ormai gli capitava sempre più spesso. Non avrebbe saputo dire perché il destino gli avesse tirato un tiro tanto mancino, ma era ben consapevole che dopo la guerra, tra la puzza di sangue e le macerie da ricostruire, aveva conosciuto meglio Hermione e s’era accorto che la studentessa saccente del tempo dell’Esercito di Silente era un ricordo lontano e che al suo posto c’era ormai una donna che conosceva abbastanza la vita da saper ridere quando il caso lo richiedeva e stringere i denti, senza piangere né sbraitare, quando intorno tutto sembrava destinato ad andare in frantumi. L’attrazione era scattata un giorno, senza che lui potesse frenarla, e da allora s’era detto che avrebbe dovuto starle alla larga e indirizzare altrove le proprie attenzioni – lei no, lei è di Ron. Tuttavia, in quei pochi giorni festivi non aveva potuto fare a meno di notare che Hermione non fosse affatto immune a lui, e questo aveva allarmato il lato più istintivo, egoista e folle della sua indole – più i giorni passavano, più tenere a bada quel lato diveniva complicato, troppo. George, che conosceva Fred più di quanto Fred conoscesse se stesso, aveva solo scosso il capo e mormorato un “non puoi”.
Fu con quei pensieri che, schivando un colpo penoso di Percy, l’allegro Fred Weasley annunciò a tutti di avere voglia di una doccia calda e rientrò. Hermione, tra le braccia di Ron, lo fissò finché non scomparve oltre la porta d’ingresso della baita.
 
“Vuoi tirargli una palla di neve a tradimento?” domandò eccitato Ron, fraintendendo lo sguardo della fidanzata.
 
“Non essere sciocco, Ron,” l’ammonì lei, senza avvedersi degli occhi chiari di George che, diversamente da quelli del fratello minore, avevano colto l’interesse eccessivo con cui Hermione aveva osservato Fred andare via.
 
*
 
Girarsi e rigirarsi nel letto era una delle cose che più odiava al mondo, fu per quello che tirò via le coperte, infilò le pantofole e un golfino di lana rossa e uscì dalla camera in punta di piedi per non svegliare Ginny. Erano le cinque del mattino, il sole non s’intravedeva neanche e l’intera baita dormiva da poco meno di un’ora. I signori Weasley e Granger erano andati nelle camere da letto pochi minuti prima dei ragazzi – Molly e Jean più che assonnate e Arthur e Scott intontiti dal vino elfico che tra una chiacchiera e un partita a carte si era volatilizzato dalla bottiglia. Percy, infreddolito e irritato con i fratelli, s’era addormentato sbraitando e con un forte dolore alla schiena; Charlie, che condivideva la camera con lui, aveva incantato le pantofole del fratello cosicché si ghiacciassero non appena indossate ed era andato a dormire beato. Harry, Ron e i gemelli avevano semplicemente chiuso le porte alle loro spalle e si erano infilati nei rispettivi letti.
Quando Hermione raggiunse la cucina, quindi, non si aspettava di trovarvi qualcuno. Eppure, alla timida luce di una candela, la ragazza riconobbe il profilo di Fred. Si fissarono tacendo, lei sull’uscio e lui poggiato alla tavola con una confezione di biscotti tra le mani. Nel silenzio il rintoccare delle lancette dell’orologio era assordante, ma Hermione ringraziò quel rumore molesto che senza saperlo sovrastava il rumore indegno del suo cuore in affanno – era un’adrenalina, quella, che sapeva di paura e di sbagliato.
 
“Non dormi?” chiese lui.
 
“Evidentemente no.”
 
“Neanche io.”
 
“L’avevo notato.”
 
“Simpatica anche in piena notte.”
 
Tecnicamente è pieno giorno,” corresse, alludendo all’orario mattutino. Fred si concesse uno sbadiglio impertinente. “Ti annoio?” domandò scherzosa.
 
“Non immagini quanto, Granger!” rispose scherzando a sua volta. La vide sorridere e ghignò impertinente. “Ma quanto ti diverto?!”
 
“Molto poco, a dire il vero.”
 
“Certo, certo. È per questo che quando sei con me sembri vittima di un ridi-che-ti-passa!”
 
“Un che?”
 
Ridi-che-ti-passa, uno dei Tiri Vispi Weasley di maggior successo! Lo mastichi per due minuti e ridi a crepapelle per un’ora intera!”
 
“Ma è orribile, si soffoca!”
 
“È esilarante!”
 
Hermione portò gli occhi al cielo. “Come no,” considerò sarcastica. “I vostri prodotti dovrebbero essere illegali.”
 
“Hai ragione, Hermione, penso lo stesso anche della mia bellezza!” scherzò, ammiccando in sua direzione.
 
Hermione lo guardò senza dir nulla, schiaffeggiata dalla propria mente, malsana, che aveva concordato con Fred. Non voleva dirlo, eppure lo disse: “Posso chiederti una cosa?”
 
“Dimmi.”
 
Hermione morse le labbra, le schiuse, le serrò di nuovo e ancora le morse. Fred la fissava incuriosito, ma qualcosa gli suggerì di non invogliarla a parlare, così tacque, senza però andare via o smettere di osservarla. Lei avvampò accorgendosi di quello sguardo, ma a sua volta non riuscì ad allontanarsi da lì, ad essere saggia e fuggire via da quella che, ormai a se stessa non poteva negarlo, era un’attrazione nata senza educazione né morale e cresciuta a sua insaputa, tra uno scherzo, una conversazione e un battibecco. Non aveva neanche ben chiaro cosa volesse chiedergli – forse… forse perché era sveglio, oppure chi fosse quella ragazza sbagliata… forse era Fleur… oppure chiedergli… cosa? Non lo ricordava più –, così taceva. E più taceva più si avvicinava. Si ritrovò a un passo da lui senza che l’avesse voluto. Il capo chino e gli occhi scuri fissi sulla confezione di biscotti la facevano somigliare a una sonnambula in trance. Fred, messi via i dolci, le cinse i gomiti con le mani e la obbligò a guardarlo in volto – quel lato istintivo, egoista e folle della sua indole s’era impossessato di ogni centimetro del suo corpo e macchia della sua coscienza.
 
“Cos’è che non puoi?” chiese lei a voce bassa.
 
Lui, a cui la vita aveva offerto in dono poca saggezza e ancor meno autocontrollo, sibilò “Questo,” contro le sue labbra e la baciò come non avrebbe dovuto né potuto fare in nessuna vita che gli fosse appartenuta. E non si stupì affatto quando lei artigliò la stoffa del suo maglione e si strinse a lui, ricambiando un bacio che sapeva di vita, ma puzzava terribilmente d’errore. Gemette contro le labbra di lui quando Fred, usando quel tavolo come appoggio, vi si sedette su trascinando Hermione sulle proprie gambe, costringendola a stringergli i fianchi tra le ginocchia. E fu lui a gemere quando lei, stanca della stoffa del maglione, insinuò le dita sottili al di sotto di quella, sfiorandogli la pelle ghiacciata.
Quando, minuti più tardi, dei passi che percorrevano veloci le scale allarmarono i due ragazzi, il golfino di lei era a terra assieme al maglione di lui. Si allontanarono scambiando un ultimo frettoloso bacio. Hermione uscì dalla cucina con ancora tutti i capelli in disordine e le guance arrossate, George le scoccò un’occhiata di rimprovero prima di fissare muto il gemello che, ancora seduto sul tavolo, aveva la testa tra le mani – sbagliato.
 
 
 


NdA: è trascorso davvero troppo tempo dall'ultimo aggiornamento, né so dire quando arriverà il prossimo. Ma questo capitolo si è scritto da solo e ho voluto pubblicarlo. Mi dispiace avervi lasciato in attesa e mi dispiace non aver risposto ancora alle recensioni, cosa che farò al più presto. Spero che, qualora questa storia abbia ancora un lettore, questo lettore non resti deluso dal secondo capitolo. Un bacio e alla prossima

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Capitolo 4
*** III. Seguitavano a errare, eppure fuggivano loro stessi ***


Dedicato a tutti coloro che, malgrado le attese, ancora credono in questa storia e nella mia scrittura. Grazie di tutto ❤


 

III
Seguitavano a errare, eppure fuggivano loro stessi


 

Non c’è nulla che tu possa fare, nulla.”
Invece sì, io posso, io devo… io...”

Bugiarda.”
No!”
Bugiarda.”

~

 

“NO!”

Il respiro in affanno, il cuore impazzito, le pupille dilatate – un incubo. Hermione annaspava seduta sul proprio letto, con la schiena involontariamente curvata in avanti e i palmi appiccicati alle tempie. Ginny, svegliata dall’urlo dell’amica, era scattata a sedere a sua volta e fissava Hermione con apprensione, indecisa se avvicinarsi o meno.
Era la terza notte di seguito che un incubo mandava in rovina il riposo notturno delle due streghe e, malgrado le insistenze di Ginny, Hermione non le aveva raccontato neanche uno stralcio di quel sogno molesto, ma si era preoccupata di convincerla a insonorizzare la stanza per evitare di svegliare anche gli altri ospiti della baita.

“Questa notte mi dirai cos’hai sognato?”

“Ginny, ti prego...”

“Ron lo sa?”

“No.”

“Harry?”

“No.”

Ginny sospirò amareggiata. “Posso fare qualcosa per te?”

“Non farmi domande.”

La giovane Weasley ingoiò il disappunto e tornò supina. Non aveva intenzione di forzare l’amica, ma quella situazione era strana oltre che destabilizzante: dalla notte di Natale Hermione era cambiata, era taciturna, pensierosa, colpevole e insonne. Per quanto Ginny ripetesse a se stessa che tre giorni di malumore fossero ben poca cosa, non riusciva a ignorare una pressante sensazione di sventura – come se, d’un tratto, la lieta atmosfera natalizia fosse stata risucchiata via da qualcosa di indefinito, e nessuno a parte lei sembrava rendersene conto. Ron e Harry, complice il perenne baccano che popolava la baita, non avevano prestato la giusta attenzione allo sguardo cupo di Hermione né credevano che le timide occhiaie potessero essere causate da qualcosa di diverso dallo studio.
Tuttavia, per quanto Ginny fosse una buona osservatrice, non era riuscita a cogliere quanto anche Fred fosse stato diverso in quei tre giorni. Non aveva incubi a tormentarlo, ma lo sguardo incupito e l’atteggiamento astioso nei confronti di George erano segnali che chiunque avrebbe potuto captare – peccato che nessuno avesse la forza né la voglia di rintracciare il buio impigliato nelle luci di Natale.


 

Sei completamente impazzito.”

Posso spiegarti.”

Fred, non devi spiegare, devi troncare. Ora.”

George, io non prendo ordini neanche da te, questo lo sai.”

E tu sai che stai facendo una grandissima cazzata.”

Con la vecchiaia hai scoperto di avere una coscienza?”

Scoparsi la ragazza di nostro fratello è troppo anche per uno di noi due. E lo sai.


 

Quante volte aveva discusso con George in quei tre giorni? Troppe. Buttò giù un altro sorso del whisky incendiario che per anni era stato custodito gelosamente nella dispensa e indirizzò lo sguardo chiaro dinanzi a sé, ritrovandosi a fissare la parete odiosamente giallognola di zia Muriel. Con una smorfia di disappunto nei riguardi della parete, del whisky e di se stesso, bevve ancora – in quel momento, avrebbe desiderato essere astemio e andare in tilt con un goccio di liquore.
Lì in salotto, stravaccato sul divano in piena notte, Fred ignorava che Hermione, due piani più su, fosse stata svegliata da un incubo che aveva lui come protagonista. Né avrebbe dovuto interessargli, George aveva ragione: lui doveva stare alla larga dalla fidanzata di Ron.
In verità, contrariamente a quanto credeva lo stesso George, a eccezione di quel bacio irragionevole, non l’aveva sfiorata né lei sembrava essere disponibile a intrattenersi ancora con lui; anzi, da quella notte era stata bravissima a ignorarlo e a negargli persino un buongiorno. Un atteggiamento che faceva imbestialire la parte più istintiva di lui e che rasserenava quella più razionale.
Tuttavia, in quelle trentasei ore non erano mancati momenti in cui Fred avrebbe voluto strattonare Hermione contro di sé e darle dell’ipocrita – perché stai con lui se è così palese che vuoi me?, una domanda che aveva dovuto ingoiare più e più volte. Non che fosse una persona cattiva, al contrario: Fred Weasley era una gran brava persona; peccato che fosse anche molto giovane, molto irruento, molto irrazionale e decisamente incapace di adattarsi alle regole del buon costume – a lui della morale della gente non importava niente, l’unica morale cui era disposto a concedere credito era la propria, fatto che in quella circostanza rappresentava un problema di proporzioni gigantesche, dato che per la morale della gente era inammissibile essere attratti dalla fidanzata di un fratello, mentre per la sua morale era solo successo e ad essere inammissibile era che Hermione mentisse a Ron e respingesse lui.

La testa, quella gli scoppiava.

Strinse le tempie tra medio e pollice sperando che smettessero di pulsare. Non ricordava di aver mai patito così tanto per una situazione sentimentale né in realtà ricordava di averla mai vissuta, una situazione sentimentale. E anche quella volta non poteva fare a meno di etichettare come attrazione il tumulto di sensazioni ed emozioni che lo travolgevano quando era con Hermione – innamorato no, mai, fuori discussione.

“Non sapevo fossi anche un alcolizzato.”

Quelle parole colsero del tutto alla sprovvista Fred, che sobbalzò e rovesciò qualche goccia di whisky sul pregiato tappeto ai propri piedi.

“E distratto, aggiungo.”

“Io invece sapevo benissimo che fossi una ficcanaso rompiboccini, pensa un po’.”

Hermione distolse lo sguardo da lui infastidita e a disagio, dandosi della stupida per aver deciso di palesarsi quando aveva capito che quello seduto sul divano fosse proprio Fred.

“Che ci fai qui?” chiese lui.

“Dobbiamo parlare,” disse invece lei.

“In piena notte? No, grazie.”

“In pieno giorno non possiamo.”

“Hai ragione, sei troppo impegnata a fingere che non esista.”

“Non essere infantile.”

“E tu non essere scocciante.”

“Fred, per favore...”

“Hermione, sul serio, non dobbiamo parlare di niente. Sta’ tranquilla, io ho già dimenticato tutto, puoi comportarti con me come facevi prima, non devi preoccuparti di niente.”

Se l’avesse schiaffeggiata, probabilmente le avrebbe causato meno dolore. Hermione capì solo in quell’istante, al cospetto dell’indifferenza altrui, quanto ascendente lui avesse su di lei; erano state sufficienti poche parole e uno sguardo di sufficienza per farle avvertire dei crampi allo stomaco e un forte cerchio alla testa – che si fosse ammalata di lui?
Fred chiuse la bottiglia e si tirò su dal divano. Per un attimo Hermione s’illuse che volesse avvicinarsi a lei, invece lo vide riporre la bottiglia di whisky nella dispensa e dirigersi al piano superiore senza degnarla di uno sguardo né di un saluto – indifferente, ancora.
Rimasta sola, s’accasciò contro la parete giallognola e coprì il volto con le mani, immune al freddo e ai crampi sempre più acuti. Era stata così sciocca e illogica a cercarlo quella notte, a porgli quella domanda e a baciarlo con spregiudicata irruenza; tra le sue braccia, stretta a lui, s’era sentita giusta. Il senso di colpa nei confronti di Ron l’aveva investita nell’immediato, non appena i passi di George li avevano costretti a separarsi. Rifugiatasi a letto, aveva pianto come non le accadeva da mesi, singhiozzando contro il cuscino, nascondendo la testa sotto la coperta di lana. Ma le lacrime non avevano lavato via le colpe né i ricordi peccaminosi di quegli irrisori momenti, e una parte di lei era fermamente convinta che neanche il tempo avrebbe rimesso le cose al loro posto, perché era andato tutto in pezzi: la sua presunta alta moralità, il suo millantato amore per Ron, il suo futuro certo, l’onestà dei suoi sentimenti… in pezzi. Pezzi che però sembravano avere un incastro tutto loro: Fred – s’era allora chiesta se l’amore potesse essere immorale e la risposta cui era arrivata non l’era piaciuta affatto.

Dormire, doveva solo dormire.

*

“Tesoro, cosa sono quelle occhiaie?”

“Io ho sempre le occhiaie, mamma.”

Jean rivolse uno sguardo di ammonimento alla figlia, che sbuffò e uscì dal bagno dove la madre, appena terminato il pranzo, le aveva chiesto di seguirla. Non aveva nessuna intenzione di confidarsi né con i genitori né con nessun altro, quell’infamante segreto doveva tormentare soltanto lei.
Con la voglia di mettere più distanza possibile tra sé e l’intuito ficcanaso della madre, seguì il vociare della baita e raggiunse i ragazzi in cucina; lì adocchiò Harry e Ginny giocare a scacchi, Charlie e George tormentare Percy con battute di dubbio gusto sulla sua prestanza fisica e, più appartati, Ron e Fred confabulare.

“Hermione,” chiamò Ron con un gran sorriso.

Hermione si sforzò di sorridere e si avvicinò al ragazzo. Non appena gli fu vicina, Ron allungò il braccio per circondarle la vita, l’attirò a sé e le stampò un bacio sulle labbra. Erano piccoli gesti affettuosi che non mancavano mai tra loro, eppure Hermione quella volta percepì un forte imbarazzo – sapeva che Fred li stava guardando e quando sollevò controvoglia lo sguardo arrossì di colpo dinanzi a degli occhi inquisitori e a delle labbra mute. Lo vide deglutire e si chiese per quale motivo sembrasse addirittura geloso, dopotutto era stato lui a scaricarle addosso tutta la propria indifferenza.

“Che avete?” chiese Ron, resosi conto della tensione tra i due.

“Cosa dobbiamo avere, Ronnie?!” domandò retorico Fred.

“Di cosa parlavate?” domandò invece Hermione.

Ron s’illuminò e, accantonata la perplessità, le mostrò la pergamena che aveva tra le mani. “Guarda qui! Ho inventato un nuovo tipo di merendina marinara!”

“Oh, è fantastico, Ron.”

“Non devi dirlo per farmi contento, so cosa pensi delle merendine di Fred e George, però sono orgoglioso di me stesso!”

“E cosa penseresti delle merendine mie e di George?” s’intromise Fred.

“Che sono roba illegale, schifezze… lo sai lei com’è,” considerò Ron distrattamente, rileggendo il procedimento.

Hermione avvampò ancora di più quando si avvide delle sopracciglia inarcate di Fred e della sua espressione divertita.

“In effetti non lo so com’è, ora che ci penso,” disse Fred al fratello. “Non sai mai cosa può piacere alla Granger!”

“Concordo in pieno, fratello. Sembrava tanto intelligente e abbiamo scoperto che le piace Ronnie!” intervenne George dall’altro lato della cucina, facendo ridere tutti di gusto – tutti eccetto Hermione e Fred, colpiti in pieno dalla pungente stoccata di George Weasley.

Hermione, certa di non essere a proprio agio neanche lì, rivolse un’involontaria occhiata di biasimo a George, rubò i dolcetti di Percy e si diresse a passo di marcia in camera propria, non prima di aver dato un bacio a Ron e giustificato la propria fuga con delle traduzioni di Rune arretrate.
Aveva quasi raggiunto la stanza, poteva sentire l’eco del chiacchiericcio di sua madre e Molly, quando delle dita si strinsero attorno al suo polso.

“Per la cronaca, il fatto che tu abbia traduzioni arretrate è una scusa poco convincente.”

“Per la cronaca, non sono affari tuoi.”

S’era divincolata senza voltarsi ed era entrata in camera, sperando che lui non la seguisse. Invece eccolo infilarsi nella stanza e chiudere la porta.

“Perché mi hai seguita?”

Fred ghignò. “Cosa te ne fai di tutti questi perché?”

“Tu non sei sano di mente,” considerò Hermione, ripensando alla freddezza del ragazzo di quella stessa notte.

“Non ho mai detto di avere dei difetti.”

“Non essere sano di mente è un difetto, Fred.”

“È questo il tuo problema, Hermione, guardi tutto dal punto di vista sbagliato.”

Era pronta a ribattere, ma le braccia di lui che l’abbracciavano e la sua bocca che la baciava azzerarono tutto. Lei dimenticò qualsiasi cosa dovesse dirgli e ricambiò ogni suo gesto, stringendosi a lui come era accaduto quattro giorni addietro.
Abituata all’istinto impacciato di Ron, boccheggiò sorpresa quando percepì le labbra di Fred saggiare la pelle del proprio collo e il suo corpo spingerla sul letto più vicino. Cadde con tanta irruenza che le sembrò di cozzare contro la pietra anziché cascare su un materasso, eppure non era il dolore ad animarla, ma delle forti scariche di elettrica adrenalina. Fred, a cavalcioni su di lei, non le dava tregua: tra baci e audaci carezze, sembrava intenzionato a imprimersi dentro di lei per sempre.

“Fred,” chiamò, “Fred,” ripeté negandosi alle sue labbra e cercando di spingerlo via.

“Cosa c’è?”

Hermione non rispose, si limitò a fissarlo, agguantando quei residui di autocontrollo che le avevano concesso il lusso di vincere l’attrazione e respingerlo. Lui la guardò e la vide col viso arrossato, gli indumenti stropicciati, i capelli stravolti e le labbra rosse. Sgranò gli occhi e guardò anche se stesso, a cavalcioni su di lei e con le dita ad artigliarle i fianchi. Nauseato da se stesso, si sollevò immediatamente, sistemando controvoglia la propria camicia semiaperta; le diede le spalle, incapace di incrociarne lo sguardo certamente allucinato e disorientato.
Non avrebbe voluto tramutarsi in una sorta di animale privo di senno, ma vederla con Ron aveva risvegliato una gelosia latente, che da troppi mesi teneva a bada. Forse aveva ragione Hermione e lui non era sano di mente, o forse aveva ragione lui e quella a non essere sana di mente era proprio Hermione, che più di lui si ostinava a portare avanti una farsa.
Fred Weasley detestava non seguire i propri istinti, a suo avviso razionalizzare persino i sentimenti era l’immorale passaporto per l’infelicità. Tuttavia, per amore del fratello aveva tentato, e ancora tentava, di reprimere la sua indole ed era proprio questo sforzo a farlo apparire del tutto fuori di testa quando, sordo alla logica, rispondeva ai richiami della propria natura indolente.

“Cosa ti è preso?” domandò roca Hermione.

“E a te?” chiese lui di rimando, ancora voltato.

“Perché mi hai seguita?”

“Perché non mi hai fermato?”

“Mi seguirai ancora?”

“Mi fermerai mai?”

“Fred, insomma, rispondimi!”

“Miss Granger, sei tu quella che ha la risposta per ogni domanda, da sempre.”

Hermione non avrebbe creduto di sorridere in una circostanza simile, eppure si ritrovò a scuotere il capo divertita, con gli occhi lucidi di lacrime che sapevano di eccitazione, rimpianto e colpa. Fred allora si voltò e sorrise sghembo, sedendosi accanto a lei e dandole un buffetto sulla testa. Tra loro, se ne resero conto entrambi in quel momento, c’era sempre stata una tensione fatta di malizia e contrarietà – incontri e scontri – che nel tempo, a loro insaputa, s’era nutrita di ogni sguardo e parola, divenendo un’attrazione tanto sbagliata da essere assolutamente desiderabile e irresistibile, soprattutto per un’anima ribelle come Fred, abituato ad avere tutto e a non rimpiangere niente. Quei giorni di convivenza forzata avevano fatto esplodere tutta la tensione che, lenta, s’era alimentata nel tempo – la vicinanza li aveva messi a nudo.

“Hermione? Hermione, vieni a guardare la televisione? Papà e tuo padre l’hanno comprata ora al paese, dicono che sia una bella cosa!”

La voce e i passi di Ron, provenienti dal corridoio e chiaro segnale che il ragazzo si stesse avvicinando, allarmarono sia Fred che Hermione. Lei serrò istintivamente la porta con la magia, mentre lui balzò di nuovo in piedi e fissò indeciso la porta.

“Devi andartene, per favore,” sussurrò lei.

Fred non tardò a smaterializzarli, ma Hermione poté vedere con chiarezza la contrarietà balenata in quelle iridi chiare.
Quando, pochi minuti dopo, si ritrovarono tutti in salotto dinanzi al televisore che un orgoglioso Arthur aveva messo in funzione, Hermione seduta tra Ron e Harry si sentì a disagio: per la prima volta in vita sua, pensò che quello non fosse il suo posto, non più. Poco lontano da lei, Fred fingeva indifferenza, ma dentro di sé aleggiava lo stesso pensiero: lei, , era sbagliata. Nonostante questo, entrambi recitarono la propria parte e s’interessarono ai programmi televisivi che divertivano tanto il signor Weasley, eccitato come un bambino dinanzi a Babbo Natale – Percy storse più e più volte le labbra, chiedendosi per quale ragione dovessero trascorrere un pomeriggio così babbano quando avrebbero potuto intrattenere interessanti conversazioni sulle nuove politiche ministeriali; ovviamente, nessuno dei fratelli perse la ghiotta occasione di schernire i suoi borbottii insofferenti.
Fu proprio approfittando di una battuta di Ron sulla, a suo avviso, depressione da ferie di Percy che Hermione sgattaiolò nuovamente via, questa volta prediligendo l’esterno innevato della baita, dove solo qualche giorno prima avevano giocato con la neve e lei era cascata su Fred – si chiese se avesse iniziato a inciampare in lui solo dopo la guerra o da sempre, ma neanche questa risposta le piacque.

“Disturbo?”

“No.”

Harry le sorrise e le porse una tazza di cioccolata calda. “L’ha preparata Ginny,” spiegò, “dice che ti ha messo tanto zucchero, come piace a te.”

Hermione accettò la cioccolata intenerita da tanta premura. “Quando non affattura, Ginny è molto dolce,” scherzò.

“Puoi dirlo forte!” si accodò Harry. “Cosa ti succede?” chiese a bruciapelo, guardandola dritto negli occhi.

“Sono confusa,” ammise, conscia che mentirgli sarebbe stato inutile. Harry la conosceva benissimo e l’aveva già vista a pezzi. “Molto confusa.”

“Non puoi controllare tutto, Hermione, non può farlo nessuno, neanche tu. E tu sei decisamente la persona più brillante che io conosca.”

Il sorriso buono di Harry riuscì a rasserenarla. Forse aveva intuito tutto, forse qualcosa, forse niente, eppure era lì a darle il proprio appoggio, senza giudicarla. Una parte di lei si sentì in colpa anche per quello – quante volte aveva giudicato la condotta e le scelte di Harry? Tante. Sempre sicura di essere nel giusto, di sapere cosa fosse sbagliato, di sapere ogni cosa – che sciocca.

“Grazie, Harry, di tutto.”

*

I pochi giorni che separavano gli abitanti della baita dall’ultimo giorno dell’anno erano trascorsi molto rapidamente. I genitori di Hermione e dei ragazzi Weasley erano molto affiatati tra loro e sempre più spesso avevano lasciato i figli soli per recarsi in paese o per fare piacevoli passeggiate; i Granger erano curiosi di conoscere altri maghi oltre la propria figlia e i Weasley erano interessati al mondo dei babbani visto dai babbani – Arthur non credeva che la vita potesse riservargli una gioia tale: “babbani in casa mia!”, usava ripetere spesso, come se non credesse sul serio di poter soddisfare tutte le proprie curiosità sugli affascinanti aggeggi non magici; aveva infatti scoperto che Scott, oltre a essere un gran bravo babbano, era anche un appassionato di tecnologia e motori.
I più giovani avevano invece preferito non allontanarsi mai troppo dalla baita, quel luogo li aveva stregati e lì, al riparo dalle brutture della guerra, sembravano aver ritrovato se stessi. Harry e Ginny, soprattutto quando suo padre non era in casa, si appartavano sempre più spesso, mentre Ron e Hermione non s’intrattenevano quasi mai da soli – lei adduceva sempre qualche motivazione e Ron, che non credeva di avere motivi per dubitare della buona fede della fidanzata, ingoiava il disappunto e la delusione, adeguandosi a lei.
Harry non aveva più tentato di parlare con Hermione, mentre Ginny aveva cercato a più riprese di capire cosa le stesse accadendo. Ma lei aveva sempre negato qualsiasi cosa e si era impegnata a ignorare di nuovo Fred, a sua volta nuovamente padrone di se stesso – almeno in apparenza.
Quel pomeriggio si erano recati tutti nel piccolo paesino vicino alla baita per fare gli ultimi acquisti in visione della cena di quella sera. Hermione aveva detto di avere delle lettere da scrivere prima della mezzanotte – auguri da fare – e che quindi preferiva non unirsi al gruppo e approfittare di un paio d’ore di solitudine. Ron non voleva lasciarla sola e soprattutto voleva capire se tra i mittenti ci fosse anche Krum, era dovuta intervenire Molly per convincerlo a venire via e a lasciare Hermione alle sue lettere. Tutti gli altri l’avevano semplicemente salutata, ecco perché la ragazza sobbalzò sorpresa quando, raggiunta la cucina per mettere qualcosa tra i denti, si accorse di non essere sola.

“Tu cosa ci fai qui?”

“Ci abito, temporaneamente.”

Hermione alzò gli occhi al cielo, spazientita. “Non dovresti essere con gli altri?”

“Sei un tribunale o cosa? Volevo dormire e sono rimasto qui. Anzi, siccome mi sono svegliato da tipo dieci minuti, tieni a freno la lingua e abbassa quella voce stridula.”

Dovette stringere le labbra per evitare di rispondergli a tono. In effetti, aveva l’aria ancora intontita dal sonno e i capelli tutti scompigliati. Se non fosse stato per i denti che masticavano la fetta di crostata, avrebbe pensato che dormisse a occhi aperti.

“Beh, buongiorno allora.”

“Buongiorno anche a te, cara cognata!”

Hermione non rispose, piuttosto tagliò una fetta di crostata anche per sé. “Questa è quella di mia madre,” considerò. L’altro annuì.

“Cucina bene.”

“Lo so.”

“Rilassati, non ti chiederò niente.”

“Però potresti insultarmi, ma di certo non ti sforzeresti di capire.” Aveva parlato con troppo astio, se ne avvide quando sbirciò il fastidio sul volto dell’interlocutore. “Scusa.”

“Non è con me che dovresti scusarti.”

“Dovrei scusarmi con Fred, non è così?”

“Dovresti scusarti prima con Ron,” disse George, “e dirgli la verità.”

“Non sono affari tuoi, ma grazie dell’interessamento… e di non avergli detto niente,” ammise controvoglia, arrossendo al ricordo del suo sguardo di rimprovero nel sorprenderla assieme a Fred.

“Non l’ho fatto per te, ma per i miei fratelli.”

“Grazie ugualmente.”

“Figurati.”

“Credi che sia colpa mia? Credi lo abbia fatto di proposito?” chiese dopo un po’.

“No. Credo che sia successo e basta e che dovresti comportarti di conseguenza, ma non lo farai. Sei pur sempre Hermione Granger, dopotutto.”

“E questo cosa vorrebbe dire?”

“Che non faresti mai qualcosa che possa mettere in discussione la tua immacolata condotta e moralità. E, diciamocelo chiaramente, Hermione, prendere una sbandata per il fratello del tuo ragazzo è troppo compromettente per te.”

“Non sono come mi descrivi tu.”

“I fatti sono d’accordo con me, invece.”

Consapevole di non voler ascoltare altro e di non avere nessun elemento in propria difesa, negò il proprio sguardo a George, mise via la crostata e ritornò in camera, chiudendo la porta con tanta violenza da far vibrare i gingilli posti sulle mensole.
La fredda pacatezza di George era riuscita a innervosirla, le aveva snocciolato con assoluta calma ciò che da giorni e forse da mesi la tormentava – giusto o sbagliato, morale o amorale? – e le aveva dato dell’ipocrita e della codarda, e lei non aveva nessun fatto utile a smentirlo.
Sdraiatasi sul letto, si chiese per l’ennesima volta se a quel punto non fosse davvero più giusto confessare tutto, ma c’era una parte di lei – codarda o speranzosa? – che le intimava quantomeno di ritornare a Hogwarts per prendere una decisione; forse Fred era solo una malsana attrazione passeggera, e se così fosse stato come avrebbe potuto non pentirsi di aver lasciato andare Ron, l’amore della sua vita?

“Non ci credi neanche più tu, Hermione,” sussurrò a se stessa.

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Capitolo 5
*** IV. Continuavano a fuggire, ed erravano a ogni passo ***


IV
Continuavano a fuggire, ed erravano a ogni passo

 

Era raro che l’atmosfera tra Fred e George fosse tesa, perché in genere non avevano neanche bisogno di discutere o litigare o spiegarsi, era sufficiente uno sguardo per individuare la strada da percorrere – per capirsi. Quella volta, però, Fred non voleva accontentarsi di uno sguardo, anche se era certo che sarebbe stato sufficiente a chiarirgli ogni cosa. Quella volta, Fred voleva che George parlasse con tutta la sincerità di cui era capace.
Quel trentuno dicembre, non appena i familiari erano rincasati dagli ultimi acquisti, George aveva chiamato a sé Fred e gli aveva fatto cenno di seguirlo nella stanza che li ospitava durante il soggiorno festivo. Fred l’aveva seguito senza esitare, rintracciando nell’espressione cupa del proprio gemello un motivo più che valido per assecondarlo in silenzio. Entrati nella camera, s’erano seduti sui rispettivi letti l’uno di fronte all’altro. La porta era stata chiusa a chiave da George, che in meno di cinque minuti aveva messo al corrente Fred della gelida discussione avuta con Hermione qualche ora prima – “è giusto che tu sappia”, aveva esordito. Fred lo aveva ascoltato paziente, condividendo tra sé e sé ogni singola parola e riflessione del gemello – dopotutto George aveva ragione da vendere nel sostenere che Hermione fosse troppo cerebrale e quadrata per accettare con facilità l’ipotesi di mettere a soqquadro la propria vita e le proprie certezze. Tuttavia, il silenzio che aveva seguito le parole di George suggeriva tensione, non complicità, ed entrambi sembravano timorosi di spezzarlo, come se a essere in bilico fossero loro due e non una manciata di parole.

“Non dici niente? Ti dà così fastidio che mi sia intromesso?”

Fred sollevò lo sguardo sul fratello e dalla sua espressione capì quanto gli fossero costate le parole dette in precedenza e le domande appena poste. Desideroso di tranquillizzarlo, di fargli capire che per nessun motivo al mondo avrebbe potuto infastidirlo, gli sorrise sornione, mettendo su quell’espressione tutta loro che riuscì a far sorridere complice George.

“Allora perché te ne stai zitto?” incalzò George.

“Sto aspettando che tu mi dica tutto,” rispose pacato Fred.

“Ti ho già detto tutto, non c’è altro, sul serio.”

“George… non puoi mentire a me, lo sai.”

Il volto di George s’incupì di nuovo, mentre le mani del ragazzo si strofinavano contro le proprie ginocchia – teso, nervoso, spaventato. Non aveva bisogno di chissà quali spiegazioni per capire a cosa stesse alludendo Fred, gli erano stati sufficienti il tono di voce usato – grave – e l’espressione con cui aveva parlato – seria. Hermione era ormai una questione sfocata, priva di importanza, perduta in un tempo che appariva a entrambi remoto. No, quello di Fred non era un invito a parlare di ragazze, forse non ne avevano parlato neanche nei minuti precedenti al blackout, quello di Fred era un invito – o un’imposizione? – ad affrontare un discorso specifico che riguardava soltanto loro due.
Ma George non aveva nessuna voglia di affrontare quel discorso, lo aveva fuggito per giorni, settimane, mesi, e lo avrebbe voluto fuggire per anni, secoli, millenni – in eterno. Continuava a ripetersi, nel silenzio dei propri pensieri, che Fred non potesse davvero costringerlo ad affrontarlo ora, alla vigilia del nuovo anno – un nuovo anno senza tanfo di morte.

“George,” lo richiamò Fred, sordo al mutismo altrui, “parliamone.”

“Tu lo sai già,” sputò controvoglia. “Non ne voglio parlare.”

A quella ostinata ritrosia, Fred chiuse gli occhi e chinò il capo. La verità era che quel discorso non piaceva neanche a lui, e in quei mesi lo aveva fuggito al pari del gemello, ignorando la necessità di parlarne, il bisogno di superare un trauma che li aveva messi a dura prova e che nessuno dei due aveva voluto affrontare. Il solo pensarci gli provocava un dolore fisico, percepiva delle fitte che lo percuotevano da capo a piedi, mandandolo letteralmente in tilt.

“Dobbiamo parlarne,” insistette Fred, “o non lo supereremo mai.”

George incrociò lo sguardo del gemello, che s’era obbligato a riaprire gli occhi per dare maggiore peso alla propria scelta, e capì che non gli avrebbe permesso di uscire di lì in silenzio, non quella volta. Capì che, se necessario, avrebbe costretto entrambi a perdere lo scoccare della mezzanotte e tutti i festeggiamenti a seguire. Fred aveva deciso di non lasciargli scelta, e forse era giusto così – perché George dentro di sé lo sapeva, che aveva ragione lui.

“Sono sempre stato protettivo con te, come tu lo sei sempre stato con me. A modo nostro, ma lo siamo sempre stati,” esordì allora George. Trasse un lungo respiro, ingoiò a vuoto e proseguì. “Ora lo sono di più, lo so, sono quasi maniacale, me ne accorgo. È che quando… quando tu… quando tu…” deglutì a vuoto ancora una volta, “quando tu… quando è successo… quella cosa...”

“Quando sono morto,” chiarì incolore Fred.

“Non dirlo,” sputò a denti stretti George. “Non dire quella parola.”

“È quello che è successo,” insistette Fred. “Quando sono morto. Ripetilo.”

“No,” negò risoluto George. “No, non lo dirò mai.”

“George.”

Lo sguardo fermo di Fred, e il dolore che vi traspariva, provocò un forte capogiro a George, che ricacciò indietro delle lacrime moleste e ben poco consoni alla sua personalità.

“D’accordo,” riprese George dopo lunghi istanti. “Quando… quando… quando sei morto,” la voce era strozzata, estranea, “io sono morto con te.”

Il capogiro s’impossessò anche di Fred, capiva di cosa stesse parlando suo fratello. Era la stessa fetida sensazione che l’aveva attanagliato quando l’aveva visto riverso sul divano, sporco di sangue, preda di quello che credeva essere un delirio. Adocchiandolo da lontano, col sangue a coprirgli tutta la testa, Fred aveva addirittura pensato che fosse morto o stesse per morire – l’hanno colpito alla testa, è finita. Un terrore durato una manciata male assortita di secondi che era stato in grado di scaraventarlo nel dolore più acuto, nero, insopportabile. Ricordare quegli attimi gli provocava una sofferenza sino ad allora sconosciuta – ma dovevano parlarne.

“Era finito tutto, Fred, tutto. Tu eri lì, a terra, morto. Fine, finito, era finito tutto. Tu, io, noi. Credo di aver pianto come un disperato… Ero distrutto, ero morto. Cosa… cosa avrei fatto senza di te? A terra non c’era solo Fred, c’erano i gemelli, c’eravamo noi, morti. Mi sono sentito solo, abbandonato, senza di te… Mi sentivo in colpa perché ero vivo, perché ti avevo lasciato solo… Io non te lo so spiegare, ma sono morto insieme a te. In quel momento, io ho capito che non siamo inseparabili, che uno di noi può morire e l’altro sopravvivere. In quel momento, io ho dovuto capire che può esistere un mondo dove io ci sono e tu no, dove io sono solo, dove tu non tornerai più. E a me questo mondo fa schifo… fa schifo...”

Nessuna di quelle parole colse Fred alla sprovvista. Sapeva cosa aveva provato George, l’aveva provato anche lui. Ma questo non gli impedì di subire l’offensiva di un’acuta sofferenza, prendendo su di sé la propria e quella del gemello, palesemente devastato da quella confessione. Non se n’era neppure accorto George, che aveva pianto mentre parlava.

“Saresti andato avanti,” disse Fred, con la voce arrochita dallo sforzo di mettere in fila sillabe di senso compiuto. “Lo avresti fatto per me.”

“No,” reagì George scuotendo il capo. “No, non sarei mai andato avanti. Mai. Credimi.”

“Invece sì, lo avresti fatto, altrimenti sarei morto due volte.”

“Fred, eri già morto due volte, perché io ero a terra con te,” ribadì. “Mentre… mentre duellavo, una parte di me voleva vendicarti, ma l’altra… l’altra voleva morire. È una sensazione devastante… ti ritrovi a sperare, a pregare, di essere colpito… Che senso aveva sopravvivere se tu eri morto?”

Era una domanda retorica, per la quale Fred non aveva una risposta: lui s’era sentito allo stesso modo quando aveva creduto di aver perso George. Tacquero così per altri istanti, fissandosi l’un l’altro come sfidandosi a contraddire la verità scomoda che stava emergendo.

“Saresti andato avanti, George, per forza,” sibilò Fred.

“Sai che non è così. Sì, forse dopo un certo periodo avrei intrapreso una vita che altri avrebbero creduto normale. Avrei mandato avanti il negozio, mi sarei sposato con una che ti conosceva così avrei potuto parlarle di te dalla mattina alla sera, forse avrei avuto anche dei figli e uno l’avrei chiamato col tuo nome per accontentare le aspettative di tutti. Ma non avrei vissuto. Non ci sarebbe stata vita in nessuna mia azione, decisione, niente. Perché io ero morto, Fred, ero morto dentro. Si è spezzato qualcosa dentro di me quando ti ho visto a terra, senza vita, freddo. Si è spezzato e non si è ancora rimesso insieme. Perché ora lo so, tu potresti morire senza di me, e io non potrei sopportarlo. Io non voglio sopportarlo. Un mondo dove tu non ci sei non è un mondo per me… Noi siamo nati insieme, siamo cresciuti insieme, io… tu sei il mio migliore amico, il mio alleato, l’altra parte di me… la parte migliore di me… lo sei sempre stato. Ed eri morto, senza di me.”

Aveva smesso di piangere, avevano smesso entrambi, c’era una terribile consapevolezza nelle parole di George, e Fred non poteva fare altro che continuare a capirla e a condividerla.

“Io ti capisco,” disse infatti Fred, “ma tu… tu devi capire me.” George si limitò a guardarlo e Fred seppe di poter continuare. “L’abbiamo sempre saputo, dentro di noi, che non siamo collegati. Se tu muori, non muoio io. Se muoio io, non muori tu. L’abbiamo sempre saputo, ma abbiamo fatto finta di niente, abbiamo ignorato questa cosa e ci siamo buttati nella mischia come se non rischiassimo di perderci. Ma era chiaro a tutti e due che non era così… è che non abbiamo mai voluto guardare la realtà per quella che era… L’abbiamo capito quando hai perso l’orecchio e sei sopravvissuto per miracolo… già lì abbiamo fatto i conti con questa cosa. Ma tu sei sopravvissuto e noi abbiamo continuato a fare finta di niente. Poi è successo quello che è successo… e sei andato in pezzi, più di quanto abbia fatto io. Ma c’è una cosa che devi capire, una cosa che io stesso sto cercando di capire: finché uno di noi sopravvive, noi ci siamo. Io non ti avrei mai lasciato solo, come tu non avresti mai lasciato solo me. Se fossi morto, la mia sola consolazione sarebbe stata saperti vivo, sapere viva la nostra famiglia. Non sono la parte migliore di te, siamo noi la nostra parte migliore… e finché c’è uno c’è l’altro… siamo gemelli… ci saremmo ritrovati un giorno. La morte non ci avrebbe separati, non ce l’avrebbe fatta… Niente ci può separare.”

George s’alzò d’istinto e fece una cosa che faceva molto di rado: l’abbracciò. Il loro ultimo abbraccio risaliva al risveglio di Fred dalla morte apparente, ed era stato un abbraccio disperato in cui George aveva annegato tutta la sofferenza di quelle ore – tutti i pezzi in cui s’era spaccato.
Fred lo abbracciò a sua volta, stremato da quel discorso che aveva prosciugato le energie di entrambi.
Lo aveva sempre saputo, che prima o poi avrebbero dovuto parlarne. George in quei mesi era stato più apprensivo di sua madre; certo, in apparenza non si comportava in modo diverso dal solito, ma Fred che lo conosceva più di quanto conoscesse se stesso rintracciava il terrore nel suo sguardo, la preoccupazione nei suoi gesti, l’ansia nelle sue parole. Persino la sottospecie di relazione con Hermione lo aveva messo in allerta, perché sicuro che lei avrebbe scelto di restare con Ron e avrebbe fatto soffrire lui – e George, che aveva l’assoluta convinzione che Fred in quella vita avesse già sofferto troppo, riteneva che dovesse tenersi alla larga da situazioni che avrebbero potuto causargli dolore.

“Mi dispiace,” disse George, rimettendosi seduto. “Sono stato una palla al piede dalla fine della guerra.”

“Non più del solito,” scherzò Fred, rubando un sorriso stanco al gemello. “Anche io sono stato eccessivo… questa smania di vivere… è paura, credo.”

“Di morire,” affermò George, intuendo senza difficoltà i pensieri dell’altro. “Mi sento meglio.”

“Anche io.”

“Non ne parliamo più,” impose categorico.

“No, una volta basta e avanza,” concordò. “Ci voleva una tresca con la Granger per farti parlare.”

George sogghignò, dando uno sguardo all’ora. “Almeno è servita a qualcosa.”

“Sei maligno.”

“Sono George Weasley, l’aureola non me l’hanno ancora data!”

Fred sogghignò a sua volta, mettendosi in piedi. “Non l’hanno data neanche a me. Com’è quel detto babbano? Mal comune, mezza allegria!”

“Non mi sembra… Forse era Sorte comune, portaci via.”

“Ma no, che dici… Sorte comune, mezzo gaudio… sì, doveva essere così!”

“Ce l’ho! Sorte comune, mezza allegria!”

Sorte comune, mezza allegria… sì, era decisamente questo!”

Tra un detto e l’altro, in apparenza dimentichi dell’implosione di emozioni avvenuta solo qualche istante prima, raggiunsero gli altri in sala da pranzo. Era questo, tra le altre cose, il bello del loro rapporto: potevano soffrire, litigare, gioire, confrontarsi, fare qualsiasi cosa, ma un attimo più tardi erano di nuovo loro, con quella leggerezza complice che li caratterizzava e univa, con quei sorrisi sghembi che spazzavano via tutto, perché loro due erano loro due – e niente avrebbe mai mutato questo stato delle cose, né la guerra né il terrore né la morte.
 

*


“Ehi, Perce, cosa ci fai con un diavolo per capello?!”

Malgrado la signora Weasley li stesse rimbeccando da circa un’ora, Fred e George non avevano alcuna intenzione di interrompere il loro personalissimo esperimento: rendere reali i detti babbani. Nessuno in quella stanza poteva immaginare quanto avessero bisogno di essere loro in quel frangente e di scacciare tutti i cattivi pensieri con scherzi e ilarità, tuttavia a nessuno parve anormale o sospetto che i ragazzi di divertissero ai danni di uno dei fratelli, soprattutto se il fratello in questione era Percy. Inaspettatamente, a essere d’aiuto in quel proposito era stata un’ignara Jean Granger che, istigata proprio dai gemelli, aveva deliziato i commensali di quel trentuno dicembre con una carrellata di proverbi e motti noti ai babbani e completamente sconosciuti ai maghi – “Jean ama i modi di dire, dice che sono folcloristici” aveva spiegato allegramente Scott –, stuzzicando così la spregiudicata fantasia dei due Weasley più scapestrati della storia.

“Qualcuno faccia evanescere questi diavoli!” sbottò Percy, a cui Ginny aveva nascosto la bacchetta.

Hermione, solidale con il ragazzo e con il suo rossore imbarazzato, agitò la bacchetta e i due piccoli diavoletti rossi si ritrasformarono in due innocue posate. Molly ringraziò con un gran sorriso la ragazza, mentre Fred e George le indirizzarono occhiatacce bellicose.

“Che dolci,” commentò sarcastico George, “i Prefetti perfetti si aiutano fra loro!”

“Siete due scansafatiche irritanti,” s’intromise Percy ancora tutto rosso.

La madre di Hermione sorrise dolcemente in direzione di Percy, rivedendo in quel cipiglio impettito e severo un aspetto della figlia. “Percy, temo di essere stata complice di questi due simpatici birbanti e di doverti delle scuse!” commentò serena, ammiccando poi verso Fred e George, i quali contraccambiarono con un ghigno.

“Lei sì che ci capisce, signora, quanto avrei voluto essere suo figlio!”

“Fred!” sbottò Molly.

“Scusa, ma’!”

Ma Jean rise allegra. “Temo che avresti fatto impazzire la mia Hermione,” commentò ironicamente. “Ma basta con questo signora, chiamatemi Jean!” esclamò rivolta a tutti i ragazzi.

“Ti prendo in parola, Jean!” disse subito George, mentre Percy esibiva una smorfia di assoluto disappunto.

Le risate che seguirono quella scena impedirono a gran parte dei commensali di notare il rossore apparso sul viso di Hermione alle parole della madre – non poteva saperlo Jean, quanto Fred facesse effettivamente impazzire la giovane Granger.
Sfortuna volle che a intercettare le guance imporporate di Hermione fosse proprio Ron, seduto a qualche sedia di distanza dalla ragazza. Stranito da un imbarazzo che gli sembrava eccessivo, s’accigliò fissandola, cercando anche di catturarne lo sguardo per chiederle tacitamente per quale ragione fosse in quello stato – ma Hermione non guardava mai lui. Hermione, Ron se ne avvide solo in quegli istanti, guardava continuamente in direzione di Fred. Stranito, il più piccolo dei maschi Weasley si disinteressò completamente del chiacchiericcio, dimenticando persino di bere lo champagne che Scott gli aveva versato con grande entusiasmo allo scoccare della mezzanotte – “ragazzo, devi abituarti anche alle usanze dei non maghi! Da noi si brinda e si beve champagne, ecco a te!” –, il suo unico interesse era difatti lo sguardo della fidanzata, che giudicava perso. Osservandola con sempre crescente attenzione, s’accorse anche di quanto apparisse preoccupata e in ansia, ma non ne capiva il motivo; ipotizzò che Fred potesse averle giocato qualche scherzo di cattivo gusto o che l’avesse infastidita in qualche modo.

“Hermione,” chiamò Ron.

“Ron! Tanti auguri!”

“Sì, tanti auguri,” ribatté incolore. “Che hai?”

“Come?”

“Che hai? Cosa ti succede?” ribadì Ron.

“N-niente,” balbettò Hermione.

“Non mi sembra proprio,” insistette lui.

Ron la fissava con un’espressione un po’ preoccupata e un po’ sospettosa, e Hermione percepì un fastidiosissimo prurito alla schiena e alle mani e alle gambe e ovunque, come se fosse stata scaraventata nuda su di un pagliericcio rinsecchito. Per lei fu istintivo cercare Fred tra la folla e per Ron fu altrettanto istintivo serrare la mascella – il prurito, ora, infastidiva anche lui.

“Chi cerchi?” chiese. “Te lo dico io?”

“Non sto cercando nessuno,” mentì lei.

“Fred ti ha fatto qualcosa?”

“Fred?”

“Fred. Mio fratello, il gemello di George, quello che hai fissato per tutta la sera e che ora sta fissando noi. Quel Fred.”

“Ma cosa blateri?”

Ron sbuffò. “Se ti ha fatto qualche scherzo o ti ha infastidita, me lo dici e ci parlo io.”

“Gli parli tu?”

“Sì, gli dico che deve lasciarti in pace perché non sopporti i suoi scherzi. Conosco Fred, ci va giù pesante, ma non lo fa con cattiveria... è solo che non capisce quando è il momento di dire basta. Se ha esagerato dimmelo e gli parlo io. Non mi piace vederti così...”

Il prurito di Hermione sparì di colpo, lasciando in eredità un opprimente senso di colpa che le mozzava il respiro. Per un solo e folle istante, aveva creduto che Ron fosse venuto a conoscenza di quello che era stato a tutti gli effetti un tradimento. Se fosse riuscita a essere razionale come suo solito, avrebbe scartato da subito questa ipotesi: Ron era irruento, se avesse saputo una cosa simile, non avrebbe esitato a dare di matto in pubblico.
Conscia di non avere parole da dirgli, si fiondò su di lui con un impeto che non faticava a giudicare ipocrita e lo baciò. Ne strinse i capelli tra le dita e ne morse con dolcezza le labbra. Quando lui, mettendo via le remore, si lasciò andare a quell’incontro stringendola a sé con forza e ricambiando il suo bacio, il cuore di Hermione prese a battere con maggiore insistenza – non per l’emozione, ma per un senso di colpa che s’ingigantiva secondo dopo secondo.
Non riusciva a capire cosa ci fosse di sbagliato tra loro – o in lei –, ma era chiaro che qualcosa non funzionasse come avrebbe dovuto. Perché non c’era adrenalina, la bocca e le mani di Ron la intenerivano ma non la appassionavano, le sensazioni che provava non erano totalizzanti – la sua mente riusciva a soffermarsi su altro senza difficoltà alcuna. L’unica certezza che aveva era che a spingerla tra le braccia del suo fidanzato era stata l’incapacità di portare avanti il discorso iniziato da lui unita alla colpa che aveva rischiato di strozzarla quando Ron, completamente ignaro, s’era addirittura preoccupato per lei.
Quando si allontanarono e lui le rivolse sorriso felice, Hermione si disse di essere una pessima persona. Ma quando Fred fece un irriverente fischio indirizzato a loro, credette di poter sprofondare da un momento all’altro – quell’azione inopportuna era anche la prima attenzione che Fred le rivolgeva quella sera, per il resto l’aveva completamente ignorata.

“Ragazzo, tieni le mani al loro posto!” scherzò Scott in direzione di Ron.

“C-certo, signore,” rispose celere Ron, conquistandosi una pacca sulla schiena da parte del suocero. In quei giorni, con sua grande sorpresa, Ron era riuscito a catturare la simpatia di Scott, che giorno dopo giorno era sempre più entusiasta del fidanzato della figlia.

“Sei un bravo ragazzo,” disse infatti l’uomo e Ron gli sorrise grato, indirizzando poi uno sguardo felice a Hermione, che si sforzò di apparire a sua volta gioviale.

Qualche ora dopo, erano ancora tutti in giro per la baita. I gemelli avevano dato spettacolo con i loro Fuochi Forsennati, guadagnandosi l’incredulità e la stima dei genitori di Hermione, che non avevano mai visto nulla di simile. Charlie era riuscito a far ubriacare Percy a tradimento, alterando con la magia il gusto di qualsiasi cosa bevesse, rifilandogli così tre o quattro bicchieri di whisky incendiario; il povero Percy, tra le grinfie del fratello – a cui si erano uniti gongolanti Harry e Ginny –, stava confessando di tutto e di più, dai tiri mancini ai danni dei colleghi a un bacio rubato a una stagista. Arthur e Scott avevano parlottato fitto, pianificando di stregare la macchina babbana di Scott all’insaputa delle rispettive mogli. Molly, invece, aveva raccontato a Jean del matrimonio di Bill e le aveva mostrato i fatidici centrini, facendo andare di traverso lo champagne a Ron, che aveva adocchiato sospettoso le due donne.
A quel baccano Hermione aveva contribuito molto poco – malgrado gli sforzi, non riusciva a pensare a nulla di diverso da Fred: Fred e la sua impertinenza, Fred e i suoi baci, Fred e la sua indifferenza. Un’indifferenza che, dal punto di vista prettamente razionale, era quanto di meglio potesse esserci tra loro, peccato che la giovane strega perdesse pezzi di razionalità di secondo in secondo.
Così, dopo un lasso di tempo che giudicò utile a non diffondere sospetti, dicendosi stanca del chiacchiericcio che riempiva quelle mura, Hermione scoccò un bacio sulle labbra a Ron, infilò il cappotto e uscì all’esterno della baita, raggiungendo con poche falcate un ragazzo che se ne stava in piedi a osservare il buio e che lei aveva adocchiato da circa quindici minuti.

“Ciao,” disse Hermione.

“Buon anno,” rispose Fred.

Hermione gli indirizzò uno sguardo confuso: le aveva parlato senza degnarla di uno sguardo, con un tono del tutto incolore – non da lui. A ben pensarci, neanche starsene lì da solo, immobile e immerso nell’innaturale quiete di quel panorama notturno era granché da lui.

“Dov’è George?” chiese vogliosa di spezzare il silenzio.

“È andato di sopra a cambiarsi, i Fuochi gli hanno sporcato tutti i vestiti.”

“Un Gratta e Netta sarebbe stato più sbrigativo.”

“A noi piace perdere tempo.”

Hermione lo fissò di nuovo confusa. L’atteggiamento di Fred continuava a urlare distanza. Si ripeté ancora una volta che un atteggiamento simile avrebbe dovuto rasserenarla, perché facilitava tutto, eppure non riusciva a sentirsi né serena né felice. Anzi, si sentiva quasi tradita da lui e dalla sua apparente indifferenza. Solo il giorno prima l’aveva seguita in camera e s’era fatto pregare per andare via prima che Ron entrasse, e ora la degnava a malapena di uno sguardo – perché?

“Che ci fai qui?” domandò lui, più lesto di lei a esigere spiegazioni.

“Non lo so,” disse sincera. “Forse volevo solo stare un po’ con te.”

Fred si voltò a guardarla. La conversazione con George risuonava ancora nella sua testa e lui era ancora stremato da tutta quella sofferenza. Eppure, al di là della stanchezza e del dolore, non aveva potuto fare a meno di concordare con il fratello e convenire che volere lei fosse uno sforzo improduttivo – gliel’aveva confermato qualche istante prima Hermione stessa, quando s’era comportata da brava fidanzata e s’era stretta a Ron. Se a tutto quello univa quel fastidioso senso di colpa che l’attanagliava ogni volta che incrociava lo sguardo del fratello tradito, arrivava alla conclusione che, probabilmente, non ne valesse così tanto la pena.
Per quanto lei lo attraesse in una maniera che Fred giudicava del tutto insensata, per quanto persino in quell’istante l’istinto gli suggerisse di chinarsi su di lei e prendersi ciò che voleva – era certo che lei non si sarebbe negata –, decise di porre un freno alle proprie sensazioni indisciplinate e, a dispetto di se stesso, provare a ragionare.

“Ho sbagliato con te,” disse allora Fred. “Sei la ragazza di mio fratello, non dovevo fare quello che ho fatto.”

“Cosa?”

“Hai capito. Facciamo finta che non sia successo niente.”

Se c’era una cosa che Hermione aveva capito di lui, era che Fred sapesse essere lapidario. Andava dritto al punto, sempre. Non sapeva neanche cosa fossero i giri di parole né l’incertezza: sapeva cosa voleva e lo esternava nella maniera più inequivocabile possibile. Era un tratto di lui che apprezzava molto, per quanto sapesse essere brutale in alcune circostanze, perché era impossibile fraintenderlo e, di conseguenza, era impossibile fuggire allo stato delle cose.
Non s’era smentito neanche quella volta e lei non aveva parole adatte a controbattere – né sapeva cosa dovesse controbattere. Le parole di Fred erano sensate e giuste, ed erano quelle più convenienti per lei, che in tal modo non avrebbe dovuto affrontare né lui né Ron né chiunque altro, avrebbe anzi potuto fingere che non fosse mai accaduto nulla di sconveniente, riprendendo a vivere la sua vita serena e ben programmata.
Eppure, Hermione lo percepiva chiaramente, qualcosa non andava in quel puzzle tanto razionale. Forse, era lei stessa a non andare. O forse era Fred a non andare, che in quei giorni l’aveva cercata e rifiutata, e poi di nuovo cercata – obbligando lei a viverlo e se stesso a sopportare la consapevolezza del tradimento.

“Hai parlato con George?” chiese Hermione, dando voce a un dubbio appena sorto.

“Sì,” ammise Fred.

“Per questo hai parlato così.”

“No.”

“Non era una domanda.”

“E la mia non era una risposta.”

Fred,” disse perentoria.

Hermione,” ribatté lui con un ghigno, “è davvero un piacere conoscerti!”

“Non fare l’idiota.”

“Assolutamente no, mi sto presentando!”

Suo malgrado, Hermione sorrise. “Sto cercando di portare avanti un discorso serio,” disse, “sul serio.”

Fred inarcò le sopracciglia. “Sì, l’ho capito che è un discorso serio sul serio,” disse schernitore, facendola arrossire di disappunto. “Ma non abbiamo più nulla di serio da dirci, sul serio. Quello che dovevo dirti, te l’ho detto.”

Il tono di Fred non rinunciava alla nota schernitrice e Hermione si riscoprì a esserne felice, perché le stava dedicando qualcosa di diverso dall’indifferenza. Tuttavia, era più che decisa a ribadire il proprio punto di vista, che lui lo volesse o meno.

“Tornando a quanto stavamo dicendo,” riprese infatti, “George, presumo, ha detto a te ciò che ha detto a me. A seguito di questo discorso, tu muti atteggiamento nei miei riguardi e mi dici che è stato tutto un errore. Giusto?”

“Giusto.”

“E George non c’entra.”

“No.”

Hermione inarcò scettica le sopracciglia. Era evidente che credesse alla propria versione dei fatti, ma Fred la contraddiceva con la tranquillità di chi era certo di non mentire – e in effetti non mentiva: le poche parole di George avevano messo in evidenza fatti che lui aveva già registrato ma che sino ad allora non aveva voluto considerare.

“Non ti credo.”

“Che importanza ha?”

“Che ti creda o meno?”

“Se c’entri o meno George,” chiarì Fred.

La domanda implicita costrinse Hermione a fare qualche passo in avanti, allontanandosi da lui e dall’ingresso della baita. Lo sapeva, cosa le avesse appena chiesto. Fred non le aveva chiesto sul serio che importanza avesse l’eventuale influenza di George nella decisione presa, Fred le aveva chiesto perché le importasse. Aveva la sensazione di essere prossima a impazzire – o ad annegare nei propri dubbi, nelle proprie colpe, nei propri errori.
Persa in quei ragionamenti e alla disperata ricerca di una risposa consona, s’accorse di avere Fred alle proprie spalle solo quando le sue braccia la strinsero, obbligandola ad appoggiare la schiena al suo petto. Quando le labbra di Fred le sfiorarono la guancia, Hermione chiuse gli occhi – non per fuggirgli, ma per perdersi in quella carezza così intima, così rassicurante, così giusta.
Pensò allora che dovesse esserci sul serio qualcosa di sbagliato in lei se bastava un qualsiasi gesto sciocco di Fred a farla rabbrividire e a farle percepire un’intensa fitta al basso ventre – perché il suo corpo non reagiva in quel modo anche alla vicinanza di Ron?

“Hai appena detto di stare lontani,” riuscì a dirgli. “Hai cambiato di nuovo idea?”

“Sei tu che mi fai cambiare idea, che mi fai impazzire,” spiegò lui. “Tu, che invece di ringraziarmi per averti tolto dall’impiccio, vuoi sapere perché non ti voglio più.”

Quello di Fred era un sussurro che sapeva di malizia. Le sue labbra erano di certo incurvate in un sorriso sghembo, lei poteva percepirle modellarsi contro la propria pelle. In quell’istante, Hermione si chiese se fossero entrambi vittima di un incantesimo che li intrappolava in una realtà fatta di mosse e contromosse, condannati a contraddirsi di minuto in minuto, incapaci di individuare una sola strada da percorrere.
Consapevole di essere per l’ennesima volta incapace di controbattere, decise di assecondare il proprio istinto molesto e di voltarsi verso Fred, ritrovandosi a un palmo dalla sua bocca, schiacciata contro di lui.
L’inaspettata vicinanza fece deglutire entrambi. Fred, tuttavia, voglioso di tenere fede – almeno in parte – al proposito che s’era imposto, tentò di allontanarsi da lei prima di ricascare dritto dritto in un errore già commesso, ma Hermione fu più spregiudicata di lui quella volta e corse veloce ad artigliare i suoi gomiti per trattenerlo e a cercare le sue labbra.
Lo baciò come l’aveva baciato quella notte, con un impeto totalizzante che le faceva pulsare le vene e tremare le gambe. Fu lui, di propria ferrea volontà, ad allontanarla, a impedire a quel bacio di tramutarsi in qualcosa di smodato e rovente, che avrebbe fatto a pezzi i freni inibitori che Fred si era sforzato di tenere in piedi.

“Fred, io...”

“Non posso essere l’altro, Hermione,” l’interruppe lui. “Non voglio essere l’altro.”

Si fissarono per alcuni istanti, durante i quali Hermione capì che in quel momento non sarebbe stata in grado di dirgli ciò che lui, così risoluto, voleva – e che forse doveva essere detto. Così chinò il capo e tornò svelta all’interno della baita. Quando Fred rientrò a distanza di qualche minuto, scoprirono assieme che George aveva sfidato a scacchi Ron non appena aveva raggiunto gli altri e aveva capito chi mancasse all’appello. Nello sguardo che George lanciò a Hermione, la ragazza vi lesse la stessa precisazione di qualche ora prima – Non l’ho fatto per te, ma per i miei fratelli” – e, ancora una volta, si disse di essere una pessima persona.
 

*
 

“Cari, è stato un piacere avervi nostri ospiti!”

“Il piacere è stato nostro, Molly, e siamo impazienti di avervi ospiti a casa nostra!”

“Siete proprio sicuri di non potervi trattenere?” chiese Arthur.

“Impossibile,” rispose affranto Scott. “Eviterei volentieri i parenti di mia moglie, credimi,” sussurrò al consuocero, facendo ridacchiare Arthur e insospettire Jean e Molly.

Erano trascorsi solo due giorni dal Capodanno ricco di emozioni. I Granger si preparavano alla partenza anticipata a causa di Jean, che aveva assicurato ai propri parenti di trascorrere gli ultimi giorni festivi in loro compagnia.
Hermione era ancora in camera in compagnia di Harry e Ron, che avevano tentato di convincerla a restare lì con loro. Ormai certo che lei non avrebbe cambiato idea, Harry uscì dalla stanza per lasciare soli i due amici prima della partenza. Hermione sorrise a Harry e, rimasta sola con Ron, si accinse a chiudere la valigia.

“Hermione, c’è qualcosa che non va?”

“Certo che no, va tutto benissimo.”

“Sei sicura?”

Ronald, se credi di dovermi dire qualcosa, parla.”

L’aveva detto guardandolo dritto in volto, d’improvviso infastidita da quei giri di parole che usava fare per chiederle qualcosa – non era come Fred.
Al suo tono spiccio, Ron assunse un’aria infastidita e sembrò indeciso se dirle ciò che aveva in mente o rimbeccarla per quei modi di fare così scortesi. Nell’indecisione, borbottò qualcosa circa il pessimo carattere della propria fidanzata e uscì dalla stanza curandosi di chiudere la porta in un tonfo, facendo tremare i gingilli affissi alle pareti.
Hermione ricacciò indietro delle lacrime ipocrite e stette immobile a fissare la porta chiusa, finché quella stessa porta non si aprì, lasciando che una nuova figura entrasse in quella stanza.

“Vuoi augurarmi di fare buon viaggio?” chiese astiosa.

“Voglio dirti che parto anche io,” rispose pacato lui. “Quindi, se vai via per me, puoi anche restare.”

“Dove vai?”

“Torno a Londra, dobbiamo aprire il negozio. Anticipo George di qualche giorno.”

“Se lo fai per me...”

“Sei fuori strada,” chiarì lui.

“Meglio così.”

“Allora resti?”

“No,” rispose. “Neanche io vado via per te,” tenne a precisare.

Fred ghignò. “Granger, non sai mentire.”

Weasley, fuori di qui.”

Fred la guardò con un’espressione irriverente, ma annuì. “Come vuoi.”

“Aspetta,” chiamò Hermione quando lui era ormai in procinto di abbassare la maniglia della porta. “Aspetta.”

“Cosa c’è?”

Hermione tentennò. “Mi dispiace... di tutto,” confessò a voce bassa.

Fred le dava le spalle, lei aveva il capo chino. Non si voltò, si limitò ad annuire di nuovo senza dirle nulla e a uscire da quella piccola stanza. Solo quando i suoi passi smisero di essere udibili Hermione si portò le mani alla testa e s’accasciò contro la parete.
Nei giorni che avevano seguito il punto fermo che Fred aveva imposto a quell’inspiegabile rapporto che s’era instaurato tra loro, Hermione era stata fisicamente male – spossatezza, emicrania, nausea. Tutti erano concordi nel ritenere quei sintomi il campanello d’allarme di un’influenza in arrivo, ma la ragazza dubitava che la sua fosse un’influenza, era anzi certa che quel malessere fosse causato dal forte stress emotivo di quei giorni. Ron aveva tentato di trascorrere sempre più tempo con lei, ma lei aveva fatto di tutto per sabotare le intenzioni del fidanzato, al punto tale che Harry si era sentito in dovere di chiederle se ci fossero problemi con il comune amico. Hermione aveva mentito anche a Harry. Ma in fondo mentiva anche a se stessa. Fred non aveva cercato di parlarle né di ritagliarsi dei momenti da trascorrere con lei, un atteggiamento che non l’aveva stupita, ma che di certo l’aveva ferita – lui le mancava. In compenso, George aveva ripreso a rapportarsi con lei come aveva sempre fatto, in apparenza dimentico di quanto accaduto con Fred.
Avrebbe tanto desiderato inaugurare il nuovo anno colma di serenità e gioia, invece s’era ritrovata schiava di un’alchimia che l’aveva destabilizzata, di sensazioni – o sentimenti? – che s’erano risvegliati senza chiederle il permesso, di un’adrenalina che riusciva a farle assaporare la vita. Schiava, in ultimo, del dilemma più grande di sempre: lui valeva una guerra di sentimenti? Valeva la messa in discussione di tutte le certezze e di tutti gli equilibri?
Deglutendo, riuscì a fissare la porta chiusa che Fred s’era lasciato alle spalle. Gli aveva detto che le dispiaceva, ed era vero. Ma c’era una cosa che non aveva avuto il coraggio di dirgli e che forse l’avrebbe trattenuto lì con lei. Una cosa che sussurrò al nulla rimasto in quella stanza, certa che nessuno ormai potesse sentirla: Mi mancherai”.






 


NdA: userò questo spazio per poche ma doverose parole. Mi dispiace che questo aggiornamento arrivi con tanto ritardo, ma tra questioni di ispirazione e di tempo non è stato possibile aggiornare prima. Spero che il capitolo sia piaciuto a chiunque lo abbia letto (ammesso che qualcuno segua ancora questa storia!). Stando a quanto avevo preannunciato nel prologo, questo qui doveva essere l'ultimo capitolo, ma i miei personaggi esigono qualche pagina in più – l'ultimo capitolo potrebbe essere il prossimo, ma non ne sono certa.
Il modo di dire stravolto da Fred e George, che arrivano trionfanti alla conclusione sbagliata, è ovviamente Mal comune, mezzo gaudio – ma i miei due Weasley preferiti riescono a sbagliarlo completamente! Riguardo al dialogo tra i due gemelli, non ho molto da dire, forse avevo bisogno di elaborare assieme a loro il trauma e bearmi della finzione del mio racconto dove tutto è andato come avrei voluto andasse nella saga.
Grazie a chiunque abbia letto, alla prossima!

 

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Capitolo 6
*** V. Accettavano i peccati, si perdevano comunque ***


V
Accettavano i peccati, si perdevano comunque

Il baccano aveva sempre avuto un effetto balsamico su Fred, riusciva a quietarlo e a distrarlo come niente altro al mondo – schiamazzi, risate fragorose, schianti erano quanto di meglio potesse esserci quando il suo umore brancolava nel buio. Le persone normali, lo sapeva bene, nei momenti peggiori esigevano tranquillità e silenzio, ma Fred era tutto fuorché una persona normale. Una persona normale, infatti, non avrebbe intrapreso una pseudo-relazione clandestina con la fidanzata di un proprio fratello. Una persona normale, inoltre, che a causa di fatalità si ritrova invischiata nella suddetta pseudo-relazione non avrebbe agito in continua contraddizione con se stessa. Una persona normale preda di una tale situazione, infine, avrebbe fatto una valutazione razionale, agito di conseguenza e perseverato nella propria scelta. Ma siccome Fred Weasley non era una persona normale, non solo era stato contraddittorio e irrazionale durante il soggiorno alla baita, ma appena giunto a Londra aveva inviato un gufo a casa di Hermione.

«Quindi, sei a casa o no?»

Il contenuto della missiva era stato a dir poco stringato, Fred non si era neanche firmato, convinto che lei non avrebbe avuto alcun dubbio sull’identità del sintetico mittente. E in effetti Hermione non solo non aveva avuto dubbi, ma aveva anche ripagato il ragazzo con la sua stessa moneta.

«Sì.»

Il monosillabo era riuscito a far sogghignare Fred, ammirato dinanzi allo stoicismo bugiardo di Hermione. Le aveva risposto, a modo loro.

«Va bene.»

A Hermione era sfuggito uno sbuffo divertito leggendo quella risposta. E, stupidamente, si era ritrovata a tracciare con l’indice destro le linee di inchiostro scritte da Fred, immaginando la piuma stretta tra le sue dita scorrere rapida sulla pergamena, così rapida da lasciare ineducate gocce di inchiostro ai margini della carta. A quel punto, se almeno Hermione fosse stata una persona normale, avrebbe interrotto l’inutile corrispondenza e utilizzato quei pochi giorni che la separavano dal rientro a Hogwarts per chiarirsi con se stessa e con le proprie emozioni. Ma siccome neanche Hermione Granger, checché ne dicessero, poteva vantare di essere una persona del tutto normale, aveva intinto la piuma nell’inchiostro e aveva risposto di nuovo.

«Bene che vada bene.»

La notte era calata sull’Inghilterra senza che né l’uno né l’altra se ne avvedessero, rapiti da quello strambo gioco che aveva costretto il povero gufo dei Tiri Vispi a volare da una finestra all’altra – Fred, a un certo punto, aveva chiamato in causa il gufo di riserva, permettendo a un ormai nervoso e affamato Pix di rifocillarsi.
Entrambi i ragazzi avevano accumulato cinque o sei stringate missive sulle proprie scrivanie. Hermione si era barricata in camera, con lo sguardo orientato alla finestra chiusa, in attesa che Pix tornasse a bussare contro il vetro ancora una volta. Fred, immerso nel baccano che gli restituiva il buonumore, aveva trascorso la giornata alternando lo sguardo tra la finestra nei pressi del bancone e i clienti che affollavano i Tiri Vispi.
Alla fine, era stato lui a interrompere la comunicazione, smettendo di risponderle quando anche il secondo gufo aveva iniziato a beccargli le mani innervosito. Dall’altra parte, Hermione si era addormenta con ancora indosso gli abiti del viaggio e con il volto in direzione della finestra.

*

“Hermione, ti ricordo che abbiamo la cena con gli zii questa sera, non tardare.”

L’ammonimento di Jean infastidì non poco la strega, abituata com’era a gestire le giornate sulla base delle proprie necessità e dei propri desideri. Tuttavia, annuì in direzione della madre e si smaterializzò, piombando dritta dritta in pieno centro magico: Diagon Alley.
Malgrado le festività fossero ancora vivaci, la strada non pullulava di persone serene e gioiose. La gran parte avanzava a gruppi, presumibilmente famigliole o amici, con passo svelto e aria guardinga; in ogni gruppo, notò Hermione, c’era almeno una persona con la bacchetta alla mano. I negozi di Diagon Alley erano tutti vinti dalla penombra e dal silenzio, alcuni erano ancora chiusi o addirittura distrutti, solo i Tiri Vispi di Fred e George spiccavano in tutto quel grigiore: insegne colorate, clienti che s’affollavano all’interno e la radio ad alto volume.

Hermione sorrise prima ancora di entrare.

“Buongiorno, signorina Granger, posso esserle utile?”

Verity l’aveva avvicinata prima che Hermione potesse chiudersi la porta del negozio alle spalle. Contraccambiò il sorriso gentile rivoltole dalla commessa e con un cenno di diniego la congedò.
Come accadeva spesso dalla fine della guerra, in tanti le rivolgevano saluti o semplici occhiate curiose, fatto che permise a Fred di notare nell’immediato la sua presenza.

“Ma guarda, sono più attratti da te che dalle pasticche vomitose,” salutò Fred.

“Così sembra,” rispose mesta Hermione.

“Cosa ci fai qui?”

“Voglio regalare una puffola pigmea a mia madre, magari col pelo marroncino, così può dire che si tratti di un incrocio tra un criceto e… non so… qualche altro roditore,” improvvisò.

Fred sogghignò, infilando le mani nelle tasche. “Signorina Granger, temo che le puffole pigmee dal pelo marroncino siano un pelo inesistenti. Le assegnerei volentieri una T, mi creda, ma sono un uomo perspicace e so che se blatera sciocchezze è solo per non ammettere di essere qui per visionare il nostro articolo migliore: me.”

Hermione sorrise divertita, senza preoccuparsi di smentire né confermare la supposizione del ragazzo che le era dinanzi. Fred allora le prese la mano e la guidò rapido tra scaffali e clienti sino ad arrivare al bancone della cassa, dove una folla non troppo paziente aspettava di pagare i prodotti scelti.
Hermione seguì in silenzio e interessata l’interfacciarsi di Fred con i clienti. Era molto svelto e cordiale, rivolgeva sorrisi a ognuno mentre incartava gli acquisti e incassava i galeoni. E ognuno contraccambiava quei sorrisi amichevoli: i bambini con occhi ammirati e splendenti, le ragazze con sguardi maliziosi e ammalianti, gli adulti con espressioni benevole e allegre. Era come se quel luogo fosse stato immune alla guerra, un’oasi di pura pace in cui trovare riparo sempre, in ogni tempo.

“È sempre così?” chiese Hermione tra un incasso e l’altro.

“Anche peggio,” rispose Fred, “il fatto che non ci sia George non aiuta a velocizzare le cose.”

“Se vuoi posso aiutarti.”

Fred le indirizzò un’occhiata stranita. “Lo faresti? Tu? Qui?”

“Cosa c’è di così strano?”

“Non sei una grande fan dei Tiri Vispi, e non è un mistero.”

“Ma sono attenta e precisa, posso gestire senza alcuna difficoltà la cassa.”

“Capisco, è la secchiona che è in te a scalpitare!”

“Oppure un’amica che vuole esserti utile.”

Fred incassò con un sorriso amaro la parola amica, ma non rifiutò l’offerta di Hermione. Anzi, le sfiorò con un fugace bacio la fronte e la spinse al proprio posto, dinanzi alla folla impaziente e alla cassa ghiotta di monete tintinnanti. Hermione, stordita dall’inaspettato gesto, non tardò ad avvertire un’onda di gratificazione e calore quando comprese che lui aveva scelto di fidarsi di lei e affidarle, sia pure per poco, una piccola fetta del suo amato progetto imprenditoriale. Poco dopo, infatti, Fred era già tra gli scaffali per aiutare Verity, sereno come non lo era da giorni.

“Stanca?”

“Per niente.”

“Annoiata?”

“Neanche.”

“Allora ti è piaciuto!”

“Ora non esagerare, Weasley.”

Fred sogghignò e Hermione distolse lo sguardo da lui – d’improvviso in imbarazzo. Il negozio aveva ormai chiuso i battenti, Verity era andata via da un po’ e loro due, rimasti soli, avevano svolto le azioni di fine giornata che in genere Fred condivideva con George. Non senza stupore, Hermione aveva constatato di essere stata a proprio agio in ogni più insignificante istante di quella giornata, da quando il campanello d’ingresso ne aveva annunciato l’arrivo sino all’ultimo zellino conteggiato nell’incasso giornaliero.
Ora che le luci erano più fioche e il silenzio regnava sovrano, l’imbarazzo sfacciato che l’aveva sorpresa a tradimento non accennava a diminuire, e anzi si univa a una sgradevole sensazione di colpevolezza per essersi precipitata da Fred – come se Ron non esistesse.

“Non avrei dovuto raggiungerti,” disse più se a se stessa che a lui.

“E io non avrei dovuto scriverti,” aggiunse Fred. “E tu non avresti dovuto rispondermi, poi.”

Il tono canzonatorio e l’espressione sghemba furono sufficienti a far capire a Hermione che lui non era affatto d’accordo con quella sorta di ammissione di colpa.

“Dovrei tornare a casa, abbiamo ospiti a cena.”

“Sono le nove passate, la cena sarà già iniziata.”

“Un motivo in più per affrettarmi.”

“Un motivo in più per restare,” corresse lui. “Resta,” proseguì, “non succederà niente, fidati di me.”

Hermione lo fissò attenta. C’era irrequietezza in lei, e sfiducia – nei riguardi di se stessa, non di Fred –, e la paura di accettare quell’invito. Tuttavia non poté fare a meno di accettare quando Fred le strinse le mani nelle sue e le sorrise amichevole, senza alcuna malizia.
Alcuni istanti dopo erano all’esterno di un locale babbano di Londra, seduti su una panchina con un panino al bacon tra le mani. Il freddo di gennaio non era il migliore amico di una cena all’aria aperta, ma nessuno dei due aveva osato proporre un ristorante o, peggio, la casa di Fred. Di comune e tacito accordo avevano preferito trascorrere quella serata nel luogo meno intimo possibile.

Così si erano ritrovati nel caos serale londinese, circondati da gruppi chiassosi di amici e di coppie in cerca di riparo. Le strade, ancora addobbate a festa, erano splendenti di luci artificiali e il cielo privo di nubi prometteva un indomani altrettanto luminoso. Il viavai di gente riusciva a rilassare entrambi, che tra un boccone e l’altro chiacchieravano come se fossero stati due semplici amici senza un passato turbolento né un futuro da ricostruire.
Per la prima volta dalla fine della guerra, nessuno dei due tremava sotto al peso dei ricordi più indicibili – il dolore, la rabbia, la paura erano sensazioni lontane e sfocate.

“Quindi questa è la tua giornata tipo,” disse Hermione.

“Più o meno,” replicò Fred, “in genere non mi congelo su una panchina in centro babbano, ma devo ammettere che questo posto è carino, i babbani non sono male.”

Hermione gli sorrise. “Babbani e maghi non sono poi così diversi!”

“Non l’ho mai pensato,” ammise, “non dimenticare con chi stai parlando, ragazzina, sono il figlio di Arthur Weasley, il re delle papere di gomma!”

“E delle domande imbarazzanti,” s’accodò lei ridendo. “Tu non immagini neanche cos’ha chiesto a mio padre!”

“Di fare il bagno con la papera?!”

“Non proprio,” rispose mesta, arrossendo anche un po’.

“Ora sono decisamente curioso!”

“Ehm, ecco… gli ha chiesto cosa fosse un… un preservativo.”

Il rossore di Hermione e il suo sguardo che vagava ovunque eccetto che su Fred fecero immaginare al ragazzo che si trattasse di un oggetto molto imbarazzante – forse scabroso – di cui i babbani erano abituati a non parlare. Una sorta di tu-sai-chi babbano, insomma. Il problema era che lui di questo tu-sai-chi non sapeva proprio niente, né ricordava di aver mai sentito o letto quella parola da qualche parte. Si ritrovò così ad aggrottare la fronte nel vano tentativo di apparire comprensivo – immaginò che ridere fosse fuori luogo – e di camuffare la totale ignoranza sull’argomento.

“Ehm,” iniziò Fred dopo un po’, “davvero… davvero fuori luogo, ecco.”

“Infatti!” reagì subito Hermione, “l’ho pensato anche io.”

Fred annuì, certo di aver trovato l’argomentazione giusta. Il problema però restava: cosa accidenti era questo tu-sai-chi? Doveva svelare l’arcano. “Allora, tuo padre cos’ha risposto?”

“Ha riso, era convinto che tuo padre scherzasse. Insomma, un uomo adulto e sposato lo sa,” disse sicura. “Certo, forse i sette figli sono un indizio del contrario,” soppesò pensierosa.

Il boccone di Fred, all’ultima considerazione di Hermione, sbagliò decisamente traiettoria e costrinse lui a tossire.

“Fred! Tutto bene?”

“Sì… sì… devo solo bere qualcosa… torno subito.”

Hermione, che era pronta a porgli la bottiglia d’acqua comprata in precedenza, lo guardò stranita, ma immaginò che aver rischiato di soffocare lo avesse mandato in confusione.
In realtà, Fred ne aveva profittato per rientrare nel locale, comprare una di quelle famose burrobirre babbane che Lee tanto adorava e svelare l’arcano del tu-sai-chi, così da tornare da Hermione e proseguire la conversazione senza apparire idiota come suo padre – non aveva ancora capito perché, ma Hermione era convinta che lui fosse a conoscenza di questo misterioso e indicibile aggeggio babbano.

Peccato che a frantumare il suo piano perfetto fosse lo stesso barista, che, al pari del padre di Hermione, rise della domanda e gli consigliò di portare altrove il suo senso dell’umorismo. Più che irritato, Fred fece ritorno alla panchina senza burrobirra babbana e risoluto ad avere risposte.

“Hermione,” disse quando tornò da lei. “Cosa accidenti è un preservativo?”

Hermione strabuzzò gli occhi e rinunciò ad addentare il panino – Fred non stava scherzando. “Non lo sai? Come puoi non saperlo?” chiese con voce stridula.

Fred, che iniziava a irritarsi, si sedette di nuovo accanto a lei, distese il braccio sulla spalliera della panchina così da tamburellare le dita sul legno all’altezza dell’orecchio di Hermione – nel chiaro intento di manifestare impazienza – e aggrottò la fronte. Infine, un più che plateale sbuffo rispose alle domande stridule della ragazza.

“Sbuffare non è una risposta,” notò lei.

“Invece lo è,” ribatté sfrontato.

“Sul serio non lo sai?”

“No. Non sono a conoscenza del tu-sai-chi babbano.”

“Il cosa?!”

“Beh, la versione babbana del colui-che-non-deve-essere-nominato. Tuo padre ha riso in faccia a mio padre, e il barista ha riso in faccia a me. Tu arrossisci quando lo nomini. Mi sembra di capire che sia una cosa da non nominare.”

Hermione avrebbe dovuto apprezzare il tentativo di Fred di dare una spiegazione logica a quella serie di equivoci, ma riuscì solo a ridere di gusto – come suo padre e il barista –, riuscendo per la prima volta nella storia a irritare Fred Weasley con una risata. Lui, infatti, smise di tamburellare con le dita sulla spalliera della panchina e le allungò alla treccia di lei, facendole scappare un “ahi” tra le risate.

“S-scusa… davvero,” disse Hermione, singhiozzando un po’ nel tentativo di smettere di ridere. “Solo che pensavo… sì, pensavo… che tu lo sapessi, ecco!”

“Quando avrai smesso di divertirti alle mie spalle, gradirei una risposta,” incalzò Fred, seppure un’ombra di sorriso stesse per affacciarsi sul suo volto. Aveva visto di rado Hermione così spensierata, e ogni volta era con lui. Si chiese se fosse davvero un proposito così egoista volerla per sé.

“Hai ragione, ora ti spiego. Il tu-sai-cosa serve a evitare di avere brutte sorprese quando due persone hanno un rapporto… intimo. In parole molto povere, protegge la coppia da malattie e… e da gravidanze. Capisci, ora?” domandò mesta, e di nuovo tutta rossa in volto. “Io pensavo… sì insomma… ero convinta che tu… avessi già… sì insomma… e quindi sapessi… hai capito.”

Dopo un attimo di silenzio, imbarazzato da un lato e pensieroso dall’altro, fu la volta di Fred di scoppiare a ridere, cosa che lo costrinse a piegarsi in due sulla panchina. Quando, rinvenuto, spiegò a Hermione che i maghi usassero un semplice incantesimo a tale scopo e che per tale motivo né lui né suo padre né qualsiasi altro Purosangue potesse essere a conoscenza della controparte babbana, Hermione si sentì profondamente stupida e ingenua per non essere giunta lei stessa a una conclusione tanto ovvia.

“Questa conversazione imbarazzante è stata illuminante, però,” disse Fred, riempiedo il silenzio in cui erano piombati. Hermione lo fissò senza capire e lui, magnanimo, ghignò e proseguì. “La tua ignoranza in materia suggerisce che tra te e Ron non ci sia stato ancora niente.”

“E questo sarebbe illuminante?”

“Decisamente,” rispose. “Non ne parlate neanche, altro elemento a mio favore.”

“Non è una gara, Fred.”

“E allora perché mi sento in competizione con lui?”

Rotta. Né infranta né rovinata, l’atmosfera era rotta. Le ultime affermazioni di Fred furono letali per Hermione.
Perché in quelle ore trascorse in sua compagnia, Hermione s’era illusa che tutto fosse stato accantonato, che potessero condividere una semplice amicizia, che potessero essere solo il fratello e la fidanzata di Ron. S’era illusa di poter passare un colpo di spugna sulle proprie colpe e il proprio tradimento, sul sudiciume che il profumo di Fred le aveva cucito addosso quando l’aveva sfiorata per la prima volta.

S’era illusa di poter affrontare il proprio demone e vincerlo.
E non lo capiva, che Fred s’era illuso quanto lei. Illuso che cercarla fosse stato un tentativo di riparare al danno fatto, di mettere via l’imbarazzo e la tensione che s’erano cementati tra loro, di redimersi agli occhi ignari del fratello minore dimostrando di poter relazionarsi con Hermione senza fare un passo falso.

S’era illuso di poter affrontare la propria debolezza e vincerla.
Ma avevano appena perso entrambi – e la sconfitta pendeva su teste chini e sguardi colpevoli, su mani tremanti e corpi scossi dal torpore del gelo.

“Non lo sei,” sussurrò Hermione, “non lo sei mai stato.”

Le parole giunsero dopo alcuni minuti – pesanti e bugiarde – e schiaffeggiarono Fred, che ancora seduto su quella panchina s’avvicinò a Hermione e le afferrò le spalle, affondando i polpastrelli nel tessuto del pesante cappotto. Lo sguardo, calato all’altezza di quello della ragazza, era incattivito da bugie che – lo capì completamente in quell’istante – non era più disposto a sopportare.
Perché non solo non poteva essere l’altro, ma non poteva neanche essere nessuno per lei, né lo voleva. Una consapevolezza nutritasi nell’inconscio e giunta finalmente allo scoperto – una consapevolezza che Fred scelse di accettare.

“Perché sei venuta da me?”

Hermione deglutì, sapeva che prima o dopo le avrebbe posto quella domanda, era inevitabile. Ciò nonostante era comunque spaventata dall’unica risposta che avrebbe potuto dargli; l’ipotesi di mentirgli, in quella circostanza, era quantomai remota – e Fred fiutava le bugie prima che lei potesse scaraventargliele addosso. Scelse allora una strada alternativa sia alla bugia che alla verità: l’attacco.

“Perché mi hai scritto ieri? Sei stato incoerente.”

Fred sbottò in una risata senza allegria. “Incoerente. Questa è bella.”

“Lo sei,” incalzò Hermione a denti stretti. “Lo sei stato sin dall’inizio. Un giorno sì, l’altro no, l’altro ancora forse e poi di nuovo sì, no, forse. Se non è incoerenza questa...”

“E tu cosa sei, Hermione, una persona coerente?” insinuò con impertinenza.

“No,” ammise lei. “Ho commesso molti errori in questi giorni. Troppi. E sì, sono stata incoerente anche io… Ma almeno ho il buon gusto di ammetterlo.”

“Non hai capito niente.”

S’alzò in piedi, privandola del calore del suo corpo. Hermione avvertì subito il gelo abbracciarla, rabbrividì su quella panchina e si strinse ancora di più in se stessa, fissando lo sguardo sulla schiena dritta di Fred. Dentro di sé ripeteva l’accusa rivolta a entrambi, negando persino ai pensieri l’ardire di etichettare in maniera diversa da incoerenza le sensazioni impazzite che li tenevano in pugno – aveva paura.
Intanto, intorno a loro il baccano sembrava essere diventato inesistente, come se fossero piombati soli in una dimensione fatta di niente. Umori e sensazioni non erano mai stati tanto altalenanti.

“Odio parlare troppo,” riprese Fred quando capì che lei s’era barricata nel silenzio. Ma non si voltò, continuò a darle le spalle. “Soprattutto quando devo dire una cosa così ovvia.”

Hermione abbassò lo sguardo. “Sono io il problema, non è così?”

“Sì,” ammise, ricacciando le mani nelle tasche. “Non mi è mai piaciuto controllarmi, e dopo aver rischiato di morire mi piace ancora meno. Ma tu stai con Ron, ci continui a stare, e Ron è mio fratello, lui vale almeno lo sforzo. Ma poi tu mi cerchi, mi vuoi, mi dimostri che stare con Ron è una specie di dovere che non fa bene né a lui né a te, e i miei buoni propositi vanno in pezzi… E penso che, alla fine, se avessi seguito il mio istinto tutta ‘sta storia si sarebbe già risolta da un pezzo.”

“Ieri mi hai cercato tu,” sussurrò, nella vana speranza di schermarsi da quel fiume in piena.

“Volevo sapere se fossi rimasta con lui. E volevo anche dimostrare a me stesso di poterti gestire.”

Hermione indirizzò di nuovo lo sguardo su di lui, su quella schiena sempre più tesa – le sembrava di poter vedere i muscoli in tensione nonostante il cappotto –, su quel capo ostinatamente dritto orientato al nulla. Schiaffeggiando la paura che continuava a pulsare a ritmi insopportabili, si alzò dalla panchina e mosse i passi sino a entrare nel campo visivo di Fred, fermandosi dinanzi a lui, esigendo di nuovo il suo sguardo su di sé.
Percepiva le proprie labbra secche e le dita intorpidite dal freddo, tuttavia si impose comunque di parlare e di tirare via le mani di Fred dalle tasche per intrecciarle alle proprie. Forse, era una follia quella che stava per fare, o forse era la prima azione davvero sensata da quando s’erano ritrovati alla baita – non avrebbe saputo dirlo, e per la prima volta non le importava.

“Mi mancavi,” confessò. “Per questo sono venuta da te. Mi mancavi anche se non avevi alcun diritto di mancarmi.”

Fred non nascose un sorriso tronfio. “Ci voleva tanto?” chiese retorico. “Ma dopo questo non puoi pretendere che mi trattenga.”

“Fred,” ammonì.

Ma Fred ignorò l’ammonimento, fece un passo verso di lei e le baciò i capelli e poi la fronte e il naso, arrestando lì la corsa delle sue labbra. Poteva percepire il corpo di Hermione rabbrividire, la sua pelle scaldarsi, il suo respiro sempre più rapido. Avrebbe potuto baciarla di lì a un secondo, ma le concesse un’ultima possibilità di negarsi, di fuggire da lui – da loro –, un’ultima possibilità per mentire a se stessa.

“O vai via o succede,” sibilò infatti Fred. “Alla fine, Granger, è sempre una scelta.”

È sempre una scelta e, pensò lei, alla fine scelgo sempre te.
Nei giorni trascorsi e sino a quel momento, Hermione era stata davvero convinta che allontanarsi da lui e ignorare i sentimenti provati fosse la scelta più corretta, ma in quell’istante non solo non riuscì a negarsi come era già accaduto in passato, ma si accorse di non avere alcuna intenzione di separarsi da lui. Difatti non si mosse, anzi strinse ancora di più le sue mani e si avvicinò di un passo, inclinando il capo verso l’alto nel tentativo di assottigliare la differenza d’altezza che li separava.

Fu dinanzi a gesti tanto eloquenti che Fred, conscio delle conseguenze che quella volta sarebbe stato d’obbligo affrontare, pretese le sue labbra sulle proprie, e tutta l’attenzione e il calore che Hermione potesse dargli.
Erano così stretti che lei riusciva a sentire lo sterno di Fred alzarsi e abbassarsi a ritmo sempre più elevato. Lui l’abbracciò, e le dita di entrambi erano artigli che legavano per non lasciare andare.

Quando s’allontanarono si sorrisero complici, sereni, per la prima volta giusti, in apparenza dimentichi di tutti i dubbi e gli scontri e i sensi di colpa che li avevano tenuti in ostaggio sino ad alcuni minuti prima. E l’aria, quella lì notturna e londinese e babbana, così diversa da quella cui erano abituati, non puzzava di tradimento né di colpa. Somigliava sul serio all’aria scanzonata e fuori dal mondo della baita di montagna di zia Muriel; e la panchina abbandonata sembrava il divano dal tessuto pregiato su cui s’erano ritrovati per la prima volta.
Tutto in quell’istante sembrava intoccabile – e le ripercussioni erano un’eco così lontana da essere inudibile.

*

Gennaio 1999, Hogwarts

“Hermione, credo che tu abbia sbagliato...”

Neville parlò cauto, guardando stranito la compagna di Casa seduta accanto a lui a quel tavolo della biblioteca. Hermione, il cui volto era rivolto agli scaffali dinanzi a sé, saettò lo sguardo su Neville e arrossì d’imbarazzo nel notare che, ancora una volta, aveva confuso delle banali definizioni.
Il ragazzo le sorrise incoraggiante e tornò a concentrarsi sul proprio tema, evitando sia di porle domande indiscrete sia di sottolinearne la sbadataggine. Hermione, tra sé se sé, non poté evitare di ringraziare Neville e la sua infinita delicatezza.

Da quando era tornata a Hogwarts, circa una settimana prima, la sua concentrazione aveva raggiunto picchi di disorientamento a lei sconosciuti. In più di un’occasione gli insegnanti avevano dovuto ripeterle domande che non aveva sentito, gli amici avevano dovuto raccontarle di nuovo episodi già detti, in troppi si erano trovati nella scomoda situazione di farle notare errori commessi affinché potesse porvi rimedio.
Tuttavia, quasi nessuno s’era realmente preoccupato per lei. Erano tutti portati a credere che stesse vivendo una sorta di stress post-traumatico, che stesse finalmente sfogando tutto il dolore e il terrore vissuti in guerra. In fondo, pensavano, anche Hermione Granger doveva avere un limite di sopportazione.
Gli unici ad aver messo in discussione la solida spiegazione erano stati quelli che, in quel castello, la conoscevano di più: Ginny e Neville. E se il secondo aveva troppo a cuore il garbo e la riservatezza per forzare Hermione a parlare, la prima le aveva più e più volte posto domande, chiedendole se, per caso, la fuga dalla baita non c’entrasse qualcosa in quel suo umore così strano.
Hermione aveva negato, a oltranza.

Ginny, non sono fuggita, ho solo scelto di seguire i miei genitori.”

Rinunciando agli ultimi giorni con Ron e Harry.”

Volevo recuperare un po’ di tempo perduto, tutto qui.”

Stai mentendo, lo sento. Ma non capisco perché.”

E aveva mentito, a oltranza.
Alle volte domandava a se stessa se potesse ancora riuscire a non mentire, ad accettare di convivere con la verità che le martellava il respiro secondo dopo secondo.

Neanche in guerra s’era sentita a quel modo. Lì c’era una linea di demarcazione invalicabile tra giusto e sbagliato, buoni e cattivi, eroi e nemici. Fuori dalla guerra, invece, nulla era così demarcato, così netto, così inequivocabile. Nella vita quotidiana era tutto grigio e sfocato – e il bianco e il nero erano colori senza significato alcuno.

“Ho finito, tu?”

Si voltò di nuovo verso Neville. Aveva un sorriso gentile in volto e la solita cicatrice sul sopracciglio sinistro a tentare invano di indurirgli i lineamenti. Hermione gli sorrise d’istinto, rassicurata da quello sguardo che non esigeva spiegazioni né pronunciava giudizi.

“Non ancora,” rispose.

“Ti aspetto?”

“Non è necessario, ci vediamo in Sala Comune.”

Neville annuì e andò via. Al suo passaggio, tutti i presenti in biblioteca alzarono il capo dai libri per rivolgergli chi un saluto, chi un sorriso, chi uno sguardo ammirato, chi un sospiro imbarazzato. Ma Neville sorrideva a tutti amichevole, ignorando adulazioni e malizia, invidie e opportunismo. Hermione avrebbe tanto voluto avere una tempra simile, s’illudeva che quella avrebbe potuto schermarla dagli attacchi subdoli dell’istinto – si ostinava a non capire.
Quando s’allontanò anche lei dalla biblioteca, scelse di aggirarsi per i corridoi anziché raggiungere la Sala Comune. Senza averlo voluto, si ritrovò nei pressi di una delle torri ancora distrutte, lontana da quella di Grifondoro. Non senza stupore s’accorse di non essere sola; nei pressi di quei cumuli di pietra sostava uno degli spettri di Hogwarts – una figura altera e malinconica, adornata di una beltà che, forse, aveva sedotto persino la morte. Hermione, che non le era mai stata così vicina, indugiò lo sguardo su di lei.

“È incauto sorvegliare i defunti.”

Hermione sobbalzò e Helena Corvonero si voltò in sua direzione. I rovi neri, lunghi e lucenti, celavano una ferita vecchia di secoli, mentre gli occhi scrutavano offesi quella che, a loro avviso, non era altro che un inaccettabile fastidio.

“Mi dispiace, non credevo ci fosse qualcuno qui.”

La flessione della voce di Hermione riuscì a rendere meno ostili i lineamenti del fantasma. C’era arrendevolezza, e colpa, in quel tono mesto e in quello sguardo perso, sensazioni che Helena aveva conosciuto bene durante la sua breve vita.

“Sei Hermione Granger,” disse allora. “Sono in molti a parlare di te, ma le gesta narrate non si confanno alla giovane donna che ho dinanzi. O sono i molti a essere mendaci o lo sei tu, non scorgo altra verità.”

Hermione torse le dita tra loro, irrequieta dinanzi a parole tanto insinuanti. “Non ho una verità alternativa da proporle,” si difese.

“La menzogna è un veleno seducente, secoli addietro lo bevvi e non vi fu salvezza per me.”

“Lei è morta per un tradimento,” precisò Hermione, prima di riuscire a frenare le proprie parole. Rivolse uno sguardo di scuse a Helena, ma il fantasma era dolente, non in collera.

“No,” negò Helena, “il tradimento fu conseguenza della menzogna, lo compresi a seguito della mia dipartita. Mentii a mia madre, la mia eccelsa madre,” precisò sdegnosa, “su quanto soffrissi esserle inferiore. Non le confessai mai i miei sentimenti, e ne morimmo entrambe quando il tradimento s’abbatté su di noi. I tradimenti sono solo maschere cadute, giovane Grifondoro, rivelano chi siamo e cosa desideriamo sopra ogni cosa. Io ebbi a desiderare che ella soffrisse quanto me, e la tradii perché ciò avvenisse. E tu, nemica di maghi oscuri, cos’è che desideri sopra ogni cosa?”

L’interrogativo allusivo di Helena, così come la sua espressione intrisa di consapevolezza, scossero Hermione al punto tale da indurla al silenzio più muto. Come le era già accaduto alla baita, il malessere emotivo non tardò a divenire malessere fisico – gambe tremule, gola arsa, addome dolente s’impadronirono del suo corpo. E un ricordo martellante s’affacciò prepotente in lei, annebbiandole la vista.
In altri tempi avrebbe pianto.

§

Gennaio, prima del ritorno a Hogwarts

Era tardi, tardissimo. Non aveva neanche avvertito i propri genitori del mancato rientro in orario. Fred l’aveva risucchiata nel suo mondo, e lei non aveva fatto resistenza. Dopotutto, raggiungerlo a sorpresa ai Tiri Vispi era già stata una dichiarazione di intenti – armi deposte, almeno per un giorno.
Quando lo aveva salutato, rubandogli l’ennesimo bacio, s’era smaterializzata con un sorriso sulle labbra e una sensazione di assoluta leggerezza. Hermione sapeva che i sensi di colpa mescolati alla preoccupazione per ciò che sarebbe accaduto di lì in avanti fossero in agguato, ma credeva di essere pronta a tutto, persino ad affrontare Ron – non ne avevano parlato, lei e Fred, ma non era necessario dire tutto: l’evidente non andava sottolineato. Ne era più che certa ormai: Fred valeva una guerra di sentimenti, valeva la messa in discussione di tutte le certezze e tutti gli equilibri.

Tuttavia, quando sua madre le aprì la porta di casa, Hermione non avrebbe mai pensato di scorgere la figura allampanata di Ron nel proprio corridoio, in piedi accanto a suo padre. Una visione che ruppe la felicità trafugata con Fred.

“Ron?” chiese stranita.

Ron agitò la mano in sua direzione con gli occhi intrisi di interrogativi. I genitori di Hermione salutarono la figlia in tutta fretta, entrambi più interessati a capire dove fosse stata che a dilungarsi in convenevoli. Quando la ragazza liquidò tutto con un “in giro”, sia Jean che Scott le rivolsero occhiate di rimprovero, ma decisero che in presenza di Ron non fosse il caso di redarguire oltre la figlia.
Alcuni minuti dopo, i due Grifondoro rimasero soli nel corridoio illuminato da quella che Ron chiamava luce babbana. Hermione si spogliò del cappotto e degli accessori per il freddo e sistemò tutto con estrema lentezza sull’appendiabiti evitando lo sguardo del fidanzato; solo quando non trovò altro da fare si costrinse a lasciare che le braccia le ricadessero rigide lungo il corpo e che il viso si proiettasse in direzione di quello altrui.

“Dove sei stata?”

Secco, spazientito, duro. Ron era arrabbiato. Hermione ragionò rapidamente sulle opzioni che aveva a disposizione. Avrebbe potuto – e dovuto – dirgli la verità come si era ripromessa. Oppure, avrebbe potuto mentirgli – un’ultima volta – e rubare altro tempo utile a preparare un discorso che avesse senso e riuscisse a spiegargli tutto nella maniera meno dolorosa possibile.
Scegliere era un’impresa terribilmente ardua, nonostante una sola tra le alternative fosse quella giusta.

“A Diagon Alley.”

“Perché?”

Hermione si avvicinò di un passo. Fissò quel volto familiare, amato, conosciuto, e vi lesse un terrore che trapelava malgrado la maschera di risolutezza che Ron aveva indossato. La scelta che credeva di essere prossima a fare si frantumò tra le sue dita.

“Volevo solo vedere com’era,” disse allora. “Com’erano quelle strade dopo la guerra in tempo di festa.”

“E com’erano?”

“Tristi.”

“Perché ci sei andata da sola? Avrei potuto raggiungerti.”

“Non volevo guastarti le vacanze con brutti ricordi.”

“Brutti, ma nostri,” considerò Ron. “Perché sei stata lì fino a quest’ora?”

“Ho incontrato Fred, ho cenato con lui.”

“E poi sei rientrata.”

“Se mi avessi avvisata, mi avresti trovata qui.”

“Volevo farti una sorpresa.”

Una sorpresa. Lei e Ron avevano avuto la stessa idea, ma mentre lui correva da lei, lei correva da un altro. Hermione avrebbe voluto sentirsi ancora una volta in colpa, ma si sentì peggio – schiacciata, in trappola, sporca. E il fatto che Ron continuasse a fissarla indagatore, che fiutasse il fitto strato di bugie, non l’aiutava.
In altri tempi lui avrebbe sbraitato e preteso che fosse sincera, avrebbe dato sfogo alla rabbia e a tutti i dubbi. In quei tempi, invece, Ron scelse di sospirare e abbracciarla, stringendola a sé. Hermione contraccambiò quell’abbraccio senza enfasi, ripetendosi per l’ennesima volta di essere una pessima persona.

“Sei diversa, ti sento lontana da quando ci siamo rivisti. E non mi piace quello che penso.”

“Cosa pensi?”

Lui la strinse ancora di più, le baciò i capelli e annusò il loro profumo. Non era mai stato molto romantico né un grande oratore, spiegare le proprie ragioni e i propri sentimenti era sempre stato difficile per lui, perché incespicava tra una parola e l’altra nel disperato tentativo di non apparire senza tatto. Con Hermione aveva sempre creduto che i gesti bastassero, perché lei lo conosceva. Un abbraccio, un bacio, un sorriso, una scrollata di spalle erano sempre stati abbastanza per capirsi.
Ma adesso non lo erano.

Lei chiedeva spiegazioni a lui. Lui le chiedeva a lei. A Ron non serviva altro per capire che qualcosa si fosse rotto – se irrimediabilmente o meno, non lo sapeva ancora.

“Il primo fine settimana dopo il ritorno a Hogwarts...” riprese Ron, “potremmo andare in un posto, io e te, schiarirci le idee, parlare… di noi.”

“Parlare di noi?”

“Sì. Avrei voluto farlo oggi, ma se parlo ora finisce che parlo a sproposito. A guerra finita mi sono ripromesso di non fare più trollate, quindi meglio che sto zitto adesso.”

“Va bene.”

Ron non indugiò oltre, e salutati i genitori di Hermione andò via da quella casa e soprattutto da lei, d’improvviso così estranea, portando con sé la rabbia non sfogata e i dubbi sempre più pressanti, ma anche la piccola soddisfazione di essere riuscito a gestire le proprie emozioni con maturità – suo padre aveva ragione: la guerra cambiava le persone, se in meglio o in peggio era poi un fatto personale.
Rimasta sola, Hermione fuggì in camera propria e si gettò di nuovo sul letto, come aveva fatto la sera precedente. Non pianse. Tutto ciò che riusciva a percepire era ansia – per un’altra bugia, per un errore, per troppe verità da affrontare. Il cuore batteva forsennato, prossimo a impazzire o esplodere, e tutto il corpo sembrava martellare – organi contro organi, tessuti contro tessuti, ossa contro ossa. Si disse che avrebbe dovuto avvisare Fred, dirgli che ancora una volta era stata codarda.

Ma non confusa.
Solo e semplicemente codarda.
Ripensò anche alle parole di Ron, al suo atteggiamento, al terrore che gli aveva avvelenato lo sguardo. Affiorò allora un altro interrogativo, più insinuante del precedente: in nome dei propri egoistici sentimenti era giusto infliggere a Ron una sofferenza così grande? La risposta suggeritale dalla ragione, ancora una volta, non le piacque per niente.
Dopotutto, Hermione non poteva immaginare che una vera e propria ferita s’era già aperta in Ron, che da giorni s’interrogava su di lei, su quel qualcosa per lui indefinibile che s’era frapposto tra loro due. Nonostante non potesse immaginare che il qualcosa fosse Fred, aveva infatti intuito che i sentimenti di Hermione erano cambiati – o forse avevano mostrato il loro vero aspetto: affetto, amicizia, non amore.
A scuotere Hermione dal proprio limbo fu un inaspettato e irritato gufo che picchiettò alla finestra. Lei corse ad aprirla e lasciò che il gufo trovasse riparo e riposo lì nella stanza. La pergamena non recava che poche parole, Hermione le fissò con sguardo vacuo.

«Chiariremo tutto, promesso.»

S’addormentò stringendo le parole di Fred tra le mani. L’indomani, si ripromise, gli avrebbe raccontato di Ron.

§

Il ricordo svanì così come era piombato: improvviso. E il buio della torre in macerie le offuscò gli occhi di nuovo vacui. L’impietosa domanda di Helena aveva richiamato alla memoria l’ultimo giorno in cui aveva visto Fred e Ron – felicità e infelicità s’erano fuse, e lei era esplosa. Nei pochi giorni che l’avevano separata dal rientro a Hogwarts non aveva fatto altro che rimuginare sui propri gesti avventati e sulla propria codardia – lei, lei che aveva affrontato tutto era stata incapace di affrontare le emozioni, di scegliere sino in fondo –; rientrata a Hogwarts, infine, aveva scritto due volte a Fred senza dilungarsi e senza andare oltre i convenevoli, mentre a Ron aveva scritto solo quella mattina, confermandogli che si sarebbero visti il giorno dopo, domenica.
Tradimenti e maschere cadute – e lei cosa, o chi, desiderava sopra ogni cosa?
La risposta la indusse a fuggire anche dalla Dama Grigia. Ma la fuga portò con sé una consapevolezza: non poteva più continuare a ignorare la verità, a negarla, a rifugiarsi nelle bugie – o quella domanda l’avrebbe divorata –, e per uscire dalla gabbia di falsità che s’era costruita avrebbe dovuto confessare tutto a qualcuno, a voce alta, rendendo reale ciò che le era accaduto in quei giorni. Così, ansimante per aver camminato in tutta fretta, raggiunse la Sala Comune, salì le scale dei dormitori e si fiondò in camera di Ginny, trovandola sola, seduta alla scrivania intenta a scrivere una lettera.

“Hai un po’ di tempo per me?” chiese Hermione.

Ginny la guardò sorpresa, sia perché non s’era accorta del suo ingresso sia perché Hermione le stava chiedendo di parlare – cosa che in quel periodo era una vera e propria rarità. Di conseguenza, la giovane Weasley non tardò ad annuire e a mettere via pergamena e piuma, a Harry avrebbe risposto più tardi.

“Tutto il tempo che vuoi.”

Hermione avvertì un’acuta fitta al petto, e le gambe presero a girare in tondo, sorde all’immobilità. Era lì per parlare, sfogarsi, confessare, e temporeggiare ancora non avrebbe portato a nulla, se non ad altre infruttuose remore. Dopotutto, o Ginny o nessuno.

“Ti chiedo solo una cortesia,” disse Hermione. “Quando ti avrò detto tutto, cerca di non giudicarmi.”

Ginny la guardò perplessa, ma preferì tacere e ascoltare; aveva la netta sensazione che anche la parola più innocua avrebbe fatto desistere Hermione.
Così, senza mai sedersi ma continuando a girare in tondo in quella stanza, Hermione parlò. Fu molto onesta con Ginny, le raccontò tutto; le disse di quella felicità smodata e martellante che l’assaliva ogni volta che ripensava al risveglio di Fred dalla morte apparente; le disse di quell’adrenalina calda ed elettrica che l’avvolgeva quando era con lui; le disse della baita e dei baci e dei sensi di colpa e dei passi indietro e degli errori commessi di nuovo e di quella giornata a Londra e dei tormenti di Ron e della decisione presa. Le disse tutto, senza risparmiarle niente. E più lei parlava, più Ginny sprofondava in se stessa – in un silenzio che aveva rovi affilati e graffi ovunque, un silenzio tradito.

Quando toccò a Hermione tacere, s’accorse finalmente dell’espressione impressa sul volto dell’amica – sapeva di disgusto e sconcerto. Con gli occhi lucidi e le dita tremanti, Hermione provò ad avvicinarsi a lei, ma Ginny si scansò rapida, fissandola come avrebbe fissato una sconosciuta. Tuttavia, proprio l’istintiva Ginny trasse un lungo respiro e tardò a prendere parola, come se stesse provando con tutte le forze a ragionare sul cosa dire.

“Non ti giudico,” disse dopo un po’. “Ma sono… credo delusa. Lo ucciderai. Li ucciderai. Devi dire la verità, a entrambi. Non è facile, lo capisco, ma sei una persona onesta e troverai il coraggio di farlo.”

Hermione non si stupì né della maturità dimostrata da Ginny né dell’istinto di protezione nei confronti dei fratelli. Né si meravigliò quando la ragazza uscì dalla stanza per allontanarsi da lei: era il solo modo che Ginny aveva per non sfogare la delusione solo accennata; persino in una circostanza simile era riuscita a essere una grande amica.
Rimasta sola, Hermione non si lasciò andare al pianto né si trattenne oltre in quella camera, ma rientrò nella propria. Lì ragionò sulle lapidarie parole di Ginny, sull’ammonimento inaspettato della Dama Grigia – sul cosa desideri sopra ogni cosa –, e di nuovo sul rapporto d’affetto e fiducia costruito con Ron nel corso degli anni e su quello folle e senza passato nato con Fred.

Ancora una volta richiamò a sé i vecchi tempi, quelli dove era tutto bianco o nero, dove non poteva esserci nessuno nella propria orbita a eccezione di Harry e Ron – perché non c’era tempo, c’erano cose più importanti –, quelli dove il lezzo di sangue e terriccio e morti non le aveva ancora contaminato la pelle, quelli dove la burrasca era una condizione naturale e l’assenza di pace non riusciva a terrorizzarla, quelli dove Ron era la certezza di tutta la vita.
Ripensò anche al sentimento nutritosi negli anni per Ron – giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno. Lui, che conosceva tutto di lei, che l’aveva ferita e resa felice, che assieme a Harry l’aveva salvata da un Troll e dalla solitudine. Lui, che c’era sempre stato.
Solo allora ebbe il reale coraggio di prenderne atto e accettarlo: quello che provava per Ron era unico e irripetibile, e si chiamava affetto smodato, amicizia senza tempo e senza fronzoli. E lei l’aveva confuso con qualcosa di diverso – intenso, irrequieto, irrazionale.
Qualcosa come Fred.

Perché mi hai seguita?”

Perché non mi hai fermato?”

Mi seguirai ancora?”

Mi fermerai mai?”1

Ma Fred era fuori da ogni logica e buonsenso. Era fuori dall’affetto nutrito per Ron. Era un tradimento troppo grande, un dolore che non avrebbe potuto infliggere a quello che credeva ancora di essere il proprio fidanzato.
Si disse, non senza tremare, che la sola soluzione possibile fosse la più dolorosa, quella che l’assillava da quando aveva rivisto Ron a casa propria, la stessa che aveva confidato pochi attimi prima a Ginny: avrebbe rinunciato a entrambi in nome dell’affetto e della lealtà nutritisi negli anni.
Se questo avesse senso o meno, preferì non chiederselo.
Si sedette allora alla scrivania e scrisse a Fred, e a differenza delle stringate missive prive di contenuto dei giorni precedenti affrontò la realtà per ciò che era. Gli rivelò infatti dell’incontro con Ron, riportandogli cosa s’erano detti e dicendogli che l’indomani l’avrebbe rivisto per chiarire tutto. Gli anticipò che avrebbe lasciato andare Ron, ma che non gli avrebbe confessato il tradimento, così da evitargli un’inutile sofferenza e una lite con suo fratello. Infine lo salutò, per un giorno e tutta la vita, chiedendogli di non cercarla più e di considerarla una parentesi aperta in un punto sbagliato e chiusa non appena possibile per rimediare al danno.
Si congedò con un «so che capirai» che sapeva di speranza e non di convinzione.

*

Il mattino dopo un gufo planò sul tavolo Grifondoro e Hermione si ritrovò a leggere e rileggere incredula poche righe.

«Più che una parentesi, sei un terremoto. Ma veniamo alle cose serie: no, non capisco. No, non cambio idea. Sì, ne riparliamo.»

 


 


1: dialogo tratto dal III capitolo Seguitavano a errare, eppure fuggivano loro stessi.

NdA: è trascorso così tanto tempo dall’ultimo aggiornamento che mi sembra impossibile essere qui a pubblicare il nuovo capitolo – ci sono stati momenti, seppure fugaci, in cui io stessa ho creduto che non avrei mai messo la parola fine a questa storia. Ma dell’evoluzione di questa minilong ne parlerò a seguito dell’ultimo capitolo; la buona notizia è che l’ho già scritto ed è il prossimo, devo solo rivederlo (la mia idea è di aggiornare tra circa una settimana). Spero proprio che questo aggiornamento a distanza di mesi vi sia piaciuto, che sia valso la lunga attesa. In ultimo ma non ultimo, un grazie enorme a chi mi segue ancora, a distanza di anni, con recensioni, letture silenziose, interazioni sul social, messaggi privati. Grazie davvero, perché se questa storia avrà il suo The end è anche grazie a voi che non l’avete mai abbandonata.
Un abbraccio e al prossimo capitolo!
Rose

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Capitolo 7
*** VII. Perduti, muovevano i primi passi ~ Epilogo ***


VI
 Perduti, muovevano i primi passi ~ Epilogo

Il chiacchiericcio in Sala Grande aumentava man mano che gli studenti arrivavano per la colazione della domenica, ma Hermione era del tutto immune al baccano; infatti aveva ancora gli occhi e l’attenzione fissi sulle parole di Fred quando Ginny prese posto accanto a lei. La più piccola aveva lo sguardo stanco di chi aveva dormito molto poco e nessuna intenzione di mangiare, si limitò infatti a versarsi qualcosa di caldo nella tazza e portarla alle labbra violacee di freddo – gennaio s’era svegliato con gli aculei velenosi in bella mostra, quella mattina. Hermione non nascose né la sorpresa di vedere Ginny al proprio fianco né la pergamena che l’aveva tanto scossa, anzi la poggiò sulla superficie del tavolo in maniera tale che l’amica potesse leggerla senza fatica – nessun segreto, mai più.

“È di Fred,” constatò Ginny. “Gli hai parlato, allora.”

“Sì, gli ho scritto ieri sera. Questa è la sua risposta.”

Ginny si lasciò sfuggire un sorriso. “Vedo, è proprio da lui.”

Anche Hermione accennò un’espressione meno cupa. “Capisco la tua rabbia, non sei costretta a parlarmi.”

“Non sono arrabbiata con te,” precisò. “Sono preoccupata per i miei fratelli, e anche per te. Avremmo meritato un po’ di pace, tutti quanti.”

Hermione incassò quelle preoccupazioni sorelle delle proprie senza meraviglia, la guerra era un fantasma ancora troppo vicino per chiunque l’avesse vissuta in prima persona. “Ieri hai parlato di delusione,” accennò a voce bassa.

“È stata la reazione del momento, mi dispiace, lo sai che non penso mai prima di parlare.”

“Ti sbagli. Nonostante tutto ieri hai pensato molto, sei stata una vera amica.”

Ginny non commentò, si limitò a indirizzare un sorriso stanco a Hermione, che lo ricambiò rincuorata. “Avrei dovuto accorgermene, sono stata più zuccona di Percy,” esordì d’un tratto.

“No, non avresti potuto.”

“Invece sì. Avrei dovuto accorgermi di come guardavi Fred.”

“E come lo guardavo, scusa?”

“Come se volessi mangiartelo,” disse ghignando. L’altra arrossì e distolse lo sguardo dall’espressione insinuante di Ginny, ma dentro di sé percepì un grande calore: s’erano ritrovate, Ginny era riuscita ad andare oltre. “Non dovresti rinunciare a lui,” riprese la Weasley. “Con la sincerità e il tempo si sistemerà tutto, vedrai.”

Hermione non rispose, ma uno sguardo carico di gratitudine abbracciò Ginny, che poté essere soddisfatta di se stessa e del modo in cui aveva gestito la rivelazione dell’amica – dopotutto, Hermione si era confidata con lei, non avrebbe potuto abbandonarla.
A distogliere entrambe dall’oggetto della conversazione fu l’arrivo di Neville, che come ogni mattina prese posto accanto a loro. In un lasso di tempo irrisorio il nuovo argomento di discussione fu l’ultimo scherzo che Pix aveva rifilato a Gazza. Hermione godé di quella quotidianità apparente più che poté, ma allo scoccare dell’orario fatidico si congedò assieme a Ginny – e mentre quest’ultima aveva in programma un semplice appuntamento col fidanzato, ad attendere Hermione c’era la confessione più dura di tutte.

Un respiro, si disse Hermione, il tempo di un respiro e finirà tutto.

Poco più di un’ora dopo Ron era seduto dinanzi a lei, a separarli era solo il tavolo tondo della locanda di Madama Rosmerta. Anche Harry e Ginny avevano cercato riparo e calore in quel luogo tanto familiare, ma avevano preferito sedersi a diversi tavoli di distanza per dare a loro due modo di parlare in privato e chiarirsi – Harry, in particolare, era teso e impaziente, e anziché dedicare attenzioni a Ginny non faceva altro che allungare lo sguardo in direzione dei suoi più grandi amici, timoroso che una rottura irreparabile stesse per abbattersi sulle loro vite; Ginny, che conosceva la verità, era già pronta a sostenere il crollo che sarebbe seguito, risoluta come sempre.

“Sei così tesa...” constatò Ron. “Vuoi che inizi io?”

Hermione lo guardò sorpresa, ma negò col capo. “No, sono io che ti devo spiegazioni, è giusto che sia io a parlare per prima.”

“Bene, ti ascolto.”

Rosmerta arrivò sorridente con i biscotti e il tè che avevano ordinato. Hermione attese che la donna andasse via prima di prendere parola, mentre Ron non degnò di un solo sguardo la locandiera, anzi non distolse neanche per un istante le iridi azzurre da Hermione, né smise di tenere le mani chiuse a pugno poggiate sul tavolo – aveva tutti i nervi in tensione e le labbra strette, era chiaro a chiunque lo conoscesse che stesse mascherando l’ansia con un atteggiamento stoico a lui estraneo.

“Non è facile per me affrontare questo discorso, in realtà non so neanche da dove iniziare...”

“Inizia dalla fine,” l’interruppe Ron.

Hermione lo guardò con occhioni spauriti e lesse sul suo volto il bisogno spasmodico di sapere. “Non ti amo,” disse allora, sorprendendo persino se stessa. “Ti voglio bene, un bene infinito, ma è il bene che si vuole al proprio migliore amico… E... sì, c’è stato un momento della mia vita in cui ho frainteso questo bene… Noi… noi non funzioniamo come coppia, Ron, siamo così amici che non riusciamo a essere anche altro.”

Tacque, stordita dalla propria risolutezza e del tutto incapace di dire altro – nonché convinta di non potergli dire altro. Asciugò con le dita gelide le lacrime che le avevano arrossato gli occhi, tentando di celare agli sconosciuti ospiti di Rosmerta la crepa che s’era aperta tra i due celebri salvatori del mondo magico. Si impose di non fuggire dallo sguardo di Ron, che muto continuava a fissarla; avrebbe dato qualsiasi cosa per leggere la sua mente e capire cosa realmente stesse pensando di lei, di loro, di quella verità disorientante.
Dopo un lungo lasso di tempo, Ron calò lo sguardo per un solo istante, prese un biscotto, lo bagnò nel tè e lo mangiò. Compì la stessa azione tre, quattro, cinque volte sino a ingurgitare tutti i biscotti su quel tavolo e a essiccare il tè nella tazza. Hermione seguì i suoi gesti senza comprenderli, non capiva se fosse un modo di sfogare la rabbia o una punizione – d’ora in poi t’ignorerò? –, tuttavia cercò di convincersi di dovergli almeno quello, almeno il tempo di elaborare.

“I biscotti di Rosmerta sono sempre i migliori,” disse Ron d’un tratto.

“Smettila,” reagì Hermione, incapace di tollerare oltre quell’indifferenza bugiarda.

“Di fare cosa?”

“Di fingere che non ti abbia detto niente.”

“Giusto,” concordò retorico, facendo scattare un piccolo allarme in Hermione. “Se Hermione Granger dice qualcosa, tutti dobbiamo sentire e prendere atto. È così che funziona, non è vero?”

“Non ho detto ques...”

“E cos’hai detto?” incalzò ancora Ron. “Mi hai forse chiesto cosa ne penso? Ti sei confrontata con me prima di decidere che dobbiamo mollarci? No, ovviamente no. Hermione Granger decide per tutti. Quindi se Hermione Granger dice che siamo solo amici, noi siamo solo amici. Ma ti senti? Ma hai capito cosa mi hai detto? Mi vuoi veramente far credere che dopo sette anni e dopo tutto quello che abbiamo passato insieme, dopo quel bacio in mezzo a una guerra, ti sei svegliata una mattina e hai capito che io sono come Harry per te? Mi credi così idiota?”

Hermione lo sapeva, che presto o tardi l’irruenza di Ron avrebbe fatto la sua comparsa, ma questo non le impedì di soffrirne comunque. Lui aveva provato a controllarsi, a essere ragionevole e maturo, ma alla fine era esploso, e assieme a lui erano esplosi tutta la frustrazione e il dolore che le parole di Hermione gli avevano procurato. Aveva parlato così stizzito e a voce così alta che tutti in quel locale avevano lanciato occhiate in loro direzione – in molti, poi, avevano alternato lo sguardo tra loro due e Harry, che aveva assistito atterrito alla scena, conscio che uno dei suoi più grandi incubi fosse sul punto di materializzarsi.

“Non ti credo idiota,” s’affrettò a dire Hermione. “E so come ti senti...”

“No, non lo sai. Non sai cosa significa sentirti dire non ti amo dalla persona per cui faresti tutto.”

“Ron...”

“C’è un altro?”

Hermione incrociò lo sguardo di Ron e vi lesse speranza e paura – speranza che non fosse così, paura che invece lo fosse, che fosse tutto perduto. Un lato di lei le suggerì di dirgli la verità, di non alimentare false speranze, di far sì che Ron facesse i conti con la realtà. Ma l’altro lato la implorò di non infliggergli anche quella sofferenza, di concedergli il tempo d’abituarsi a poco a poco al distacco. Peccato che i secondi rubati alle parole per riflettere furono più eloquenti di qualsiasi risposta per Ron, che con un’espressione di tetra consapevolezza s’alzò dal tavolo e fuggì da lei – c’è un altro? Sì.
Hermione nascose il volto tra le mani, curva su se stessa, raggomitolata nei propri sensi di colpa. Le parole di Ron erano martellanti, e un lato di lei temeva sul serio che lui avesse ragione, che fosse stata troppo precipitosa nel credere di nutrire per lui un semplice affetto da amica – ma poi a essere martellanti subentravano le sensazioni provate, le emozioni vissute, e il timore d’aver commesso un errore sbiadiva.
Quando allontanò le mani dal volto con sorpresa notò di non essere sola al tavolo: c’era Harry seduto accanto a lei, con il sorriso rassicurante e lo sguardo comprensivo.

“Ginny ha preferito seguire Ron,” le spiegò. “E mi ha raccontato tutto.”

Hermione lesse nel tono eloquente di Harry un so di Fred che in quel luogo, circondati da occhi e orecchie ormai indiscreti, non era il caso di pronunciare a voce alta.

“Sei arrabbiato?”

“Mi dispiace che abbia dovuto affrontare tutto da sola, lo sai che a me puoi dire tutto.”

“Non volevo costringerti a mentire a Ron,” ammise. “So che non ci riesci, sarebbe stato uno sforzo enorme.”

Harry le strinse le mani nelle proprie. “Uno in più, uno in meno… cosa mi cambia?” domandò scherzoso, rubando un sorriso a Hermione. “Ron è stato di pessimo umore da quando sei andata via dalla baita, era preoccupato, diceva che eri distante e non capiva perché. Non voleva neanche forzarti però… Non siamo così bravi nei rapporti di coppia, eh? Funzioniamo meglio con Mangiamorte e draghi,” considerò con ironia, nel chiaro tentativo di alleggerire l’atmosfera e far capire a Hermione che per quanto quella situazione non gli piacesse neanche un po’ non l’avrebbe mai lasciata sola. “Lo conosci, devi solo dargli tempo. Alla fine capirà che hai fatto la cosa giusta.”

“Non credo potrà mai considerare quello che è successo oggi come la cosa giusta.”

“Invece lo farà,” ribatté sicuro. “Continuare a fingere sarebbe stato sbagliato, illuderlo, mentirgli… queste sono cose sbagliate. Pensa a me, a quanto sono stato in collera con Silente per non avermi confidato tutto… la verità è dura, ma è quella che ci tiene uniti. Ron lo capirà, lo sai che lo farà, ti vuole bene.”

“Grazie.”

Harry le sorrise incoraggiante, espressione smorzata poi dal mormorio percepito attorno a loro. “Ora però andiamo via da qui, altrimenti schianto qualcuno,” disse infatti, infastidito dagli estranei che li circondavano e facevano di tutto per origliare. Hermione annuì rivolgendogli un sorriso senza gioia ma ricco di gratitudine: Harry era lì, nonostante tutto.

*

George non credeva fosse una buona idea incontrare Hermione a Hogsmeade quella domenica mattina, ma il gemello era di parere diverso. Ecco perché Fred l’aveva salutato e aveva raggiunto il piccolo villaggio magico.
Non aveva idee chiare sul cosa dirle né sul come comportarsi nel caso in cui ci fosse stato anche Ron, sapeva solo di dover rivendicare il proprio ruolo in tutto quel caos. Aveva riflettuto a lungo, più di quanto credeva fosse umanamente possibile, sulla situazione creatasi, conscio di non avere alcun diritto né voglia di distruggere la vita del fratello. Era tuttavia giunto a una conclusione piuttosto banale e intuitiva, la stessa che l’aveva animato sin dall’inizio: non era possibile scegliere la persona per cui provare attrazione, e l’unica colpa che lui e Hermione avevano era quella di non essere stati onesti sin dal principio – ingannando loro stessi e illudendo Ron. Per il resto, aveva concluso Fred, si trattava solo di accettare di vivere, vivere tutto, e farsi carico di gioie e dolori, senza paure né sensi di colpa ipocriti.
Non dovette camminare a lungo prima di trovarla, era nei pressi dei Tre Manici di Scopa in compagnia di Harry. Entrambi, notò Fred, avevano espressioni cupe: lei contrita, lui preoccupato. Dedusse che Hermione avesse già parlato con Ron – che il bombarda fosse già esploso. Senza temporeggiare, mosse i passi verso di loro, agitando la mano in segno di saluto.

“Fred,” esordì stupito Harry. “Cosa ci fai qui?”

“Qualcosa mi dice che puoi arrivarci anche da solo,” rispose Fred, indirizzando un sorriso sghembo al ragazzo. “Lasciaci soli.”

Harry rifilò un’occhiata infastidita a Fred, si rivolse poi a Hermione, cercando in lei un assenso o un diniego all’imposizione dell’altro.

“Vai pure, non preoccuparti,” gli disse Hermione, cogliendo l’interrogativo muto dell’amico. Harry si sforzò di sorriderle incoraggiante e, prima di andare via, si preoccupò di indirizzare uno sguardo d’ammonimento a Fred.

“Sai, sono sempre stato convinto di essergli simpatico,” considerò Fred con sarcasmo quando Harry s’era ormai allontanato. “Immagino sappia tutto.”

“Cosa ci fai qui?” chiese invece Hermione.

“Lo sai.”

“No, non lo so.”

“Non hai ricevuto il mio gufo?”

“Certo che l’ho ricevuto.”

“Allora sai benissimo perché sono qui.”

“Ho appena parlato con Ron, non ho voglia di parlare anche con te.”

“Lusinghiero, grazie.”

“Il tuo sarcasmo è del tutto fuori luogo, Fred.”

“Come il tuo atteggiamento.”

Hermione sbuffò, Fred era in grado di irritarla anche in una situazione di estremo sconforto. Fred, dal canto suo, non aveva alcuna intenzione di andare via, era anzi determinato a ottenere ciò che voleva – lei –, ne aveva abbastanza di passi indietro e parole ipocrite.

“Ti rendi conto che quello che mi hai scritto non ha senso?” riprese Fred.

“Perché non lo avrebbe?” ribatté Hermione. “Non voglio far soffrire Ron più di quanto non abbia già fatto. Non starò con te, sei suo fratello.”

“E perché l’hai lasciato?”

“Lo sai benissimo.”

“No, non lo so,” disse, usando volutamente la stessa espressione usata da lei poco prima. Hermione incassò il sottinteso – continui a mentire – e indurì i lineamenti del volto.

“Non voglio essere un’egoista, Fred, sono già stata una bugiarda e una traditrice, non voglio essere anche un’egoista.”

Fred le si avvicinò, strisciando le scarpe sulla neve che aveva imbiancato la stradina che li ospitava. Hermione lo guardò con occhi sbarrati, immobile e timorosa e trepidante per la vicinanza pretesa, per le mani di lui che le artigliarono i polsi, per il calore del suo corpo che prese a fare ombra al proprio. In un solo istante sparì tutto dalla mente della ragazza: Ron, Harry, il viavai di passanti, l’ingresso non troppo lontano dei Tre Manici, i buoni propositi – ed esplose l’egoismo, la necessità di vivere le emozioni che pulsavano insistenti.

Ma Fred non provò a baciarla né ad abbracciarla, le impose semplicemente la propria vicinanza, stringendole quei polsi per impedirle di allontanarsi. Le impose di mentire con lui lì, a un palmo da lei, se ancora ci riusciva. Le impose di toccare con mano l’assurdità che s’era convinta di dover perseguire.
Hermione lesse quegli intenti uno dopo l’altro, come se fossero stati parole scritte in uno dei suoi amati libri, e ancora una volta detestò se stessa per ciò che provava – e lui perché non le consentiva di fuggire.

“Fred, per favore.”

“Ammettilo, Ron c’entra fino a un certo punto,” incalzò. “Tu hai paura di me, hai paura di quello che provi.”

“Io non temo niente,” mentì.

“Buon per te, io invece ho una esagerata paura di smettere di vivere.”

“Non c’è nulla che possa ucciderci ormai...”

“Si muore in tanti modi. Se io e te non ci viviamo questa cosa sarà un po’ come morire, non credi? Lo vogliamo, lo vogliamo tutti e due, ma ce ne priviamo lo stesso.”

Hermione si accorse di essere di nuovo prossima a piangere, non avrebbe mai capito perché il proprio corpo dovesse sfogare ogni frustrazione e dolore attraverso le lacrime – così trasparenti alla fragilità. Tuttavia le ricacciò indietro, tutte e una alla volta, tentando di apparire padrona della situazione e soprattutto delle proprie emozioni. Non avrebbe saputo dire se le accuse di Fred fossero fondate, se fosse anche quel timore a bloccarla, ma sapeva di non essere intenzionata a fare un passo indietro, di essere certa di avere ragione da vendere sull’impossibilità di portare avanti quel rapporto. S’era sentita così sporca in quei giorni da convincersi che l’unico colpo di spugna possibile fosse allontanarsi da Fred – quello che le aveva stravolto tutti gli equilibri e le certezze –, nonché l’unico modo per evitare a Ron un’ulteriore sofferenza.

Spiragli, nessuno, non ne vedeva.

Si sforzò di incrociare lo sguardo di Fred, sopportando quelle iridi chiare – più scure di quelle di Ron – che la scrutavano con impazienza e insistenza. Passò poi alle labbra sottili, di poco schiuse e pronte e ribattere ancora. Fissò ancora ogni singola efelide, i capelli rossi e scarmigliati, l’espressione seria schizzata di impertinenza. Scoprì di conoscere quel volto a memoria, e di esserne inevitabilmente attratta – ma non poteva essere abbastanza.

“Mi dispiace, non posso, è la mia ultima parola.”

Fred sorrise amaro. “Non è mai l’ultima parola.”

Febbraio 1999, Hogwarts

“Neville, potresti dire a quei bambini del primo anno di non parlare?”

“Hermione, non posso dire a qualcuno di non parlare.”

“Sei Caposcuola, certo che puoi. Dì’ loro di fare silenzio.”

Neville scosse il capo, impotente dinanzi ai malumori della compagna di Casa. Per evitare che intervenisse lei, si diresse dai piccoli Grifondoro che chiassosi occupavano un angolo della Sala Comune e con garbo chiese loro di parlare a voce più bassa, tramutando l’imposizione di Hermione in una cortesia. Incrociò poi lo sguardo di Ginny, appena rientrata in Sala, indicandole col capo la figura di Hermione, seduta impettita su una delle poltrone vicino al camino. Ginny emise un sospiro affranto e raggiunse svelta l’amica.

“Cosa succede?”

“Niente.”

“Questo niente va avanti da troppo tempo, Hermione, ora basta.”

Hermione non si voltò a guardarla, continuò a fissare le fiamme del cammino, inghiottita dalle proprie riflessioni.
Da quella infausta domenica era trascorso un mese e lei non aveva fatto altro che pensare e ripensare a ogni singolo frammento che l’aveva composta: dalla confessione fatta a Ron sino al confronto con Fred. Era tornata a Hogwarts con gli occhi arrossati, il corpo tremante e l’umore – o il cuore? – a pezzi. Da allora ogni attimo vissuto era stato peggiore del precedente – più pesante, pressante, infinito –, tanti macigni che secondo dopo secondo la costringevano a raggomitolarsi in se stessa.
Ginny le era stata accanto, aveva cercato di capirla e confortarla, persino di convincerla a cercare Fred. Neville, che tra un brandello di conversazione e un’espressione affranta aveva capito tutto, le era stato vicino in silenzio, senza mai chiedere niente. Hermione era grata a entrambi, ma la gratitudine non scacciava il nervosismo né l’angoscia.
Quanto a Ron, non l’aveva cercata e Hermione non s’era aspettata nulla di diverso. A detta di Harry, il suo nome era ancora un tabù in presenza del comune amico.

Neanche Fred l’aveva cercata.

Almeno sino a quella mattina.
Hermione era in Sala Grande per la colazione quando un gufo come tanti altri era volato sino a lei. Tra le piccole zampe stringeva una missiva al cui interno la strega aveva trovato una caramella dei Tiri Vispi – piccola, tonda, bianca – e un messaggio brevissimo – «Cosa desideri sopra ogni cosa?» –, in cui lei aveva letto una condanna. Turbata perché consapevole di quale significato avesse quella domanda associata a quell’infido regalo, aveva accartocciato tutto, se l’era infilato in tasca e aveva raggiunto in fretta e furia l’aula della prima lezione del giorno, sfuggendo a occhiate e parole curiose.
E ora, che l’imbrunire aveva fagocitato tutto e non restava altro che rifugiarsi tra le coperte, era lì, seduta in Sala Comune, a fissare le lingue di fuoco e a rigirarsi la caramella bianca tra le mani, mentre il messaggio di Fred continuava a invaderle i pensieri.

“Gliel’hai detto tu?” chiese d’improvviso a Ginny.

“Di cosa stiamo parlando?”

“Di questo,” disse Hermione, tirando via la piccola pergamena dalla tasca e passandola a Ginny. “E di questa,” aggiunse, mostrandole anche la caramella. “La domanda di Fred,” spiegò mentre Ginny la leggeva, “è la stessa della Dama Grigia… eri l’unica a saperlo.”

Ginny chinò il capo, e annuì. “Ci siamo visti qualche settimana fa, non mi ha chiesto di te, sono stata io a parlare di voi.”

“Perché?”

“Perché sopravvivendo alla guerra abbiamo avuto tutti una seconda possibilità, lui più di altri, sprecarla è da stupidi.”

“E a Ron non pensi?”

“Ron ha solo bisogno di tempo, è di altre bugie che non ha bisogno. Quanto credi impiegherà prima di capire che sei innamorata di Fred?”

“Non sono innamorata,” si difese. “Non l’ho mai detto,” sottolineò dinanzi all’espressione scettica di Ginny.

“Alcune cose sono evidenti, e questa ormai lo è, che ti piaccia o no.”

Hermione non rispose, ma tornò a guardare la caramella bianca che continuava a rigirarsi tra le dita. “Sai questa cos’è?”

“Un Tiro Vispo, a giudicare dalla carta.”

“Non uno qualsiasi,” disse. “Cinque minuti di verità assoluta per chiunque la mangi. L’abbiamo testata insieme alla baita, quando eravamo soli.”

“Di certo lo stile non gli manca,” constatò Ginny.

Hermione accennò un sorriso e tornò a fissare le lingue di fuoco. Alcuni ricordi di quel periodo trascorso senza Fred né Ron iniziarono ad affollare la sua mente, scacciando per un istante l’angoscia scatenata dalla missiva di quella mattina.
Rivisse la sensazione di soddisfazione e gioia seguita a una piccola vittoria con gli elfi domestici – alla fine aveva infatti seguito i consigli di Fred e aveva iniziato a frequentare di tanto in tanto le cucine senza scopo apparente, solo per procacciarsi del cibo, di lì a chiedere l’aiuto degli elfi, a scacciare la loro diffidenza e a indurli ad ascoltarla il passo era stato brevissimo; ormai gli elfi la consideravano una sorta di amica e accettavano di buon grado di discutere con lei di diritti e doveri dei lavoratori –, sensazione che avrebbe tanto voluto condividere con Fred.
Ripensò anche ai momenti trascorsi tra le ceneri della Hogwarts ancora distrutta, al bisogno pulsante che i sacrifici fatti venissero ripagati da una vita senza catene – Fred e la sua smania di vivere, Fred e la sua etica del volere contro il dovere.
Ricordò ancora ogni istante trascorso nel parco innevato, lì dove i frammenti di due corpi che cascavano a terra e s’intrecciavano per la prima volta le annebbiavano la vista incredula – come se uno dei corpi non fosse stato il suo.
No, durante quel mese di solitudine e riflessione non c’era mai stato spazio per Ron, se non per i sensi di colpa e il dispiacere provati. Per il resto, c’era stato sempre e solo Fred, e Hermione scoprì di non esserne affatto stupita.
Proiettò di nuovo lo sguardo scuro sulla caramella dei Tiri Vispi e la strinse tra le dita. Di nuovo turbata, si chiese come l’istinto potesse percepire tanto giusta la persona che la ragione continuava a giudicare la più sbagliata.

“Ho bisogno di una pausa,” disse d’un tratto. “Tornerò a casa per un paio di giorni. I professori non mi negheranno un permesso.”

Ginny non mostrò stupore, le poggiò anzi una mano sulla spalla in segno di comprensione e conforto. “Sicura che tornare a casa sia una buona idea? I tuoi genitori ti riempiranno di domande.”

“Lo so,” concordò Hermione. “Ma non ho scelta. Non posso andare da Harry, rischierei di incontrare Ron… Devo tornare a casa mia.”

“Potresti andare alla baita!”

“Cosa?”

“Sì, è un’idea fantastica,” continuò Ginny. “Non c’è nessuno lì, è un posto isolato, è perfetto.”

Hermione fissò l’amica con sospetto. “Per caso c’è lo zampino di Fred in questa idea fantastica? Non voglio ritrovarmelo lì, Ginny… per favore.”

“Non essere paranoica,” ammonì Ginny.

“Scusa.”

“Scuse accettate... Allora, andrai lì?”

Hermione annuì. “Non sono così felice di rivedere quella casa, ma almeno sarò sola. Come faccio, però, con le protezioni?”

“Non preoccuparti, papà ha fatto qualche modifica, ora la baita riconosce anche te e Harry.”

Un sorriso amaro s’affacciò sulle labbra di Hermione, convinta di non meritare la fiducia di Arthur Weasley. Tuttavia, la Grifondoro decise di rimandare ogni riflessione a quando sarebbe stata sola tra le mura della baita. L’indomani, si ripromise, avrebbe parlato con la McGranitt per ottenere il permesso di allontanarsi da Hogwarts per due o tre giorni.


*

Qualche giorno dopo, Baita

Avere il permesso della McGranitt era stato anche più semplice di quanto si fosse aspettata. Era partita a distanza di pochissimi giorni, il tempo utile a organizzare lo studio e a esaminare con attenzione il tragitto assieme a Ginny.
E ora era lì, all’esterno di quella baita che le aveva stravolto la vita, con le dita ghiacciate nonostante i guanti in lana spessa a coprirle. L’atmosfera non era così diversa da quella del dicembre appena trascorso: non pioveva, ma delle nuvole s’erano addensate scure e minacciose sul paesaggio e la neve ricopriva ogni porzione di terreno.
Hermione indugiò più del necessario sull’uscio gelido, timorosa che i ricordi potessero aggredirla una volta entrata. Tuttavia, traendo un profondo respiro, si convinse a pronunciare l’incantesimo per forzare la serratura: quella scattò subito, in apparenza riconoscendo nella magia di Hermione una magia amica.
Hermione s’affacciò titubante all’interno della stanza di ingresso, chiudendo con lentezza la porta alle proprie spalle: una parte di lei era ancora convinta che Ginny le avesse teso un agguato e che avrebbe trovato Fred ad aspettarla, ma a quanto sembrava non era così – se fosse delusione o conforto la sensazione che l’invase, non lo volle capire.
Si decise allora a spogliarsi di cappotto, guanti, sciarpa e cappello, godendo del calore onnipresente in quella casa. Fu mentre sistemava il proprio piccolo bagaglio che un rumore di passi sulle scale la costrinse a sobbalzare e a impugnare guardinga la bacchetta. Tuttavia, prima che lei potesse ragionare sul da farsi, una figura maschile e familiare s’affacciò nella stanza.

“Fred...”

Fred Weasley indirizzò un sorriso pestifero all’attonita Hermione. Aveva le mani nelle tasche dei pantaloni, una felpa su cui spiccava il marchio dei Tiri Vispi e la solita aria scanzonata. Si allontanò dalla scalinata appena percorsa avvicinandosi alla ragazza, che continuava a fissarlo con occhi increduli e labbra schiuse – se fosse sul punto di urlargli contro o di scappare a gambe levate, Fred proprio non lo sapeva.

“Mi avete ingannata!” sbottò d’improvviso Hermione, risolvendo il dubbio del ragazzo.

“Ciao anche a te! È un piacere vederti!” scherzò lui.

“Non scherzare. Mi avete ingannata...”

“Non proprio,” ribatté Fred tranquillo. “Diciamo che noi abbiamo alterato un po’ le cose e tu non ci hai ragionato troppo.”

Hermione sbottò in una risata sdegnosa. “Non giocare con le parole, non con me.”

“Non ho nessuna intenzione di farlo, fidati,” precisò. “Questa baita appartiene a Bill e Fleur, parola di testamento di zia Muriel, quindi solo uno di loro due avrebbe potuto intervenire sulle difese della proprietà. Andiamo, Caposcuola Granger, non vorrai farmi credere che fossi all’oscuro di una legge magica tanto elementare?”

Diretto, canzonatorio, senza scampo. Ancora una volta le parole di Fred, e le sue espressioni e i suoi intenti, non ebbero pietà di lei né le concessero vie di fuga. Avrebbe potuto difendersi mentendo – avrebbe potuto dire che non sapeva del testamento, che ignorava quella legge così elementare –, ma accantonò quell’alternativa senza soppesarla neanche.
Basta bugie, per sempre.
Incrociò le braccia al petto, incurvandosi di poco in avanti, come se volesse trincerarsi in se stessa, nel proprio castello di sabbia spazzato via da un’onda energica. Non poteva negare di aver sentito il campanello d’allarme quando Ginny le aveva proposto di rifugiarsi alla baita, e di averlo risentito quando le aveva parlato dell’insensata iniziativa di Arthur, ma lo aveva messo a tacere – mentre l’inconscio lavorava e seminava speranze tra le macerie di sentimenti in affanno.

“Tu speravi che io fossi qui,” disse Fred, spezzando un silenzio che iniziava a essere scomodo anche per lui.

Hermione sollevò lo sguardo sul ragazzo, sospirò e si lasciò cadere sul divanetto a loro tanto familiare. In apparenza, era esausta.

“Come facevi a sapere che avrei voluto lasciare Hogwarts per qualche giorno?”

“Perché ti conosco.”

Così semplice. Ti conosco. Fred era sempre disorientante per Hermione: i suoi ragionamenti erano lineari, a loro modo estremamente razionali – se voglio una cosa la prendo, se penso una cosa la dico, se ti conosco so cosa farai –, così inoppugnabili da lasciarla sempre senza parole.
Lo guardò sedersi accanto a lei, sorriderle con malizia e soddisfazione, poté immaginare che dentro di sé stesse gongolando per essere riuscito a incastrarla – incastrarla tra lui e i suoi desideri.

“Quindi, mi hai mandato quel gufo per indurmi a questo? A raggiungerti qui?”

“Sì,” rispose. “Poi Ginny ha fatto la sua parte, è stata brava.”

“E cosa credi di avere ottenuto?” domandò di nuovo irritata, mentre le dita che avevano sfiorato la pergamena e il Tiro Vispo sembravano bruciarle d’ingenuità. “Se sono così confusa un motivo c’è.”

“Tu non sei confusa,” disse Fred. “Ne ho abbastanza delle tue patetiche giustificazioni,” aggiunse con tono fermo, incolore, definitivo.

“Patetiche?” gli fece eco Hermione. “Secondo te è patetico preoccuparsi per Ron? È patetico sentirsi in colpa per averlo tradito? È patetico cercare di evitargli altre sofferenze?”

Vomitò contro di lui delle domande che non esigevano risposta. Di nuovo in piedi, tutta rossa in viso per la rabbia e la stanchezza emotiva – verso Fred, se stessa, tutto –, con le mani strette a pugno e gli occhi assottigliati. Fred incassò ogni singolo quesito e tutto il livore di Hermione senza scomporsi, anzi s’accomodò ancora meglio sul divano, rilassando la schiena contro la morbida spalliera, e puntò lo sguardo annoiato su Hermione, come se stesse assistendo a uno spettacolo di dubbio gusto.
Hermione, dal canto suo, lo fissò irata, infastidita dal quell’atteggiamento che non le dava credito. Si decise allora a tacere, e fu solo allora che Fred si degnò di parlare, e lo fece affondando un ultimo e risolutivo colpo.

“Ci penso anche io a Ron,” disse lui. “È mio fratello nel caso l’avessi scordato,” precisò. “Infatti, ci ho parlato io.”

“Hai… hai parlato con Ron?” chiese attonita.

“Sì,” confermò. “Ho fatto quello che era giusto fare.”

§


Gennaio, due settimane dopo la rottura tra Hermione e Ron

Erano ormai trascorse due settimane da quando aveva incontrato Hermione – e lei aveva incontrato Ron –, due settimane che non avevano fatto altro che rafforzare l’idea che ormai s’era radicata in lui. Non esistevano eccezioni né scappatoie, la realtà era trasparente: lui e Hermione, per un motivo che ancora gli sfuggiva, s’erano trovati e avevano l’obbligo di viversi.
In quei quattordici giorni Fred aveva incontrato Ron poche volte, sia perché entrambi avevano impegni lavorativi pressanti, sia perché Ron s’era temporaneamente trasferito da Harry a Grimmauld Place. Tuttavia, quelle poche occasioni erano state sufficienti a schiaffeggiare Fred – suo fratello era a pezzi, come se qualcuno lo avesse scaraventato di nuovo in battaglia –, e il senso di colpa s’era affacciato di nuovo anche in lui, martellante, a ricordargli di essere un traditore impenitente, un bugiardo trincerato nelle bugie in attesa che qualcun altro risolvesse la situazione per lui. Era nauseante.

Ma non era legge che parlare spettasse solo a Hermione – avevano sbagliato, tradito, mentito in due.

L’idea di parlare con Ron tenne sveglio Fred un’intera notte, al punto tale che alle prime luci dell’alba cercò consiglio in George, che gli diede una pacca sulla spalla e lo incitò a essere onesto con Ron.
Convinto, Fred non perse tempo e si recò al Quartier Generale degli Auror, dove suo fratello e Harry seguivano il loro addestramento. Per fortuna, in quei tempi così prossimi alla fine della guerra, essere un Weasley gli permetteva di accedere senza problemi a quasi ogni sezione del Ministero della Magia, per cui fu facile raggiungere il piano che gli interessava; una volta lì scelse di non bussare a ogni porta alla ricerca di Ron, ma preferì appoggiare la schiena a una parete, infilare le mani in tasca e seguire con lo sguardo il viavai frenetico, aspettando di vedere la testa rossa di suo fratello spiccare tra tutte le altre anonime. Fu però una testa bruna la prima a notare l’inedito spettatore.

“Fred, che ci fai qui?”

“Ciao, Harry,” salutò Fred. “Devo parlare con Ron.”

“Non mi ha detto che saresti venuto.”

“Perché non lo sa,” disse. “C’è qualche problema?”

Harry titubò: una parte di lui voleva cacciare Fred a suon di schiantesimi, l’altra voleva credere che un confronto tra i due potesse essere il primo tassello sulla via della riappacificazione. “Più di uno, ma immagino tu questo lo sappia,” ammise con stanchezza. “Sei qui per parlargli di lei?”

Fred si limitò ad annuire, Harry sospirò.

“D’accordo, ma spostatevi nell’atrio, qui tutti si fanno gli affari di tutti, e io non voglio vedere i miei migliori amici sulla prima pagina della Gazzetta.”

Harry si congedò con quelle parole che sapevano di consenso, lasciando Fred stupito – considerato il loro ultimo incontro, era infatti convinto che l’avrebbe schiantato più che ascoltato; dovette ricredersi.
Un istante dopo, la figura di Ron raggiunse quella del fratello maggiore, salutata con un piccolo sorriso e un cenno del capo.

“Ehi, Fred,” esordì perplesso Ron. “È successo qualcosa a casa?”

“No.”

“Al negozio?”

“No.”

“George sta bene?”

“Certo che sta bene,” sbottò annoiato. “Sta’ zitto e vieni, ti spiego tutto appena lasciamo il piano.”

Il minore titubante, il maggiore deciso, raggiunsero l’atrio del Ministero come consigliato da Harry, dove la moltitudine affollava ogni spazio e il vociare era così pressante da confondere le parole. Lì, sperò Fred, nessuno avrebbe badato a loro due.

“Insomma, non sono ancora in pausa pranzo. Il Capitano è super disponibile con me e Harry, ma non voglio approfittare.”

“Quanta solerzia, fratello,” scherzò Fred.

“Fred, e dai…”

Fred percepì chiaramente quanto Ron iniziasse a spazientirsi, così come incassò il fatto che suo fratello non avesse il benché minimo sospetto che lui potesse essere lì per parlargli di Hermione. Per un solo e fugace istante soppesò l’idea di inventare una bugia qualsiasi ed evitare a Ron la penosa verità – rimproverò se stesso per quel pensiero, ma comprese del tutto, e finalmente, Hermione e le sue paure.

“Riguarda Hermione,” riuscì a dire, “e me.”

“Cosa?”

“Sono io l’altro. È successo all’improvviso, eravamo confusi. Abbiamo provato a stare lontani ma non ha funzionato. Siamo…” titubò, scartando la parola che le sue labbra suggerivano – innamorati. “C’è attrazione,” disse allora, “ci piacciamo. Hermione ha deciso di non dirtelo e di allontanarsi anche da me, invece è giusto che tu sappia. Ron, io ho intenzione di stare con lei.”

Diretto, essenziale, impietoso. Nessuna mezza misura per Fred, ma la verità nuda e cruda. Il suo sguardo non aveva mai vacillato, fisso sul fratello minore, in apparenza immune alla smorfia di delusione e dolore che, parola dopo parola, s’era impressa sul viso di Ron.
Trascorsero alcuni minuti di assoluto silenzio, un vuoto così assordante da riuscire a isolare i sensi di entrambi i ragazzi – come se fossero stati catapultati in un limbo di niente.
Ron impugnò la bacchetta che teneva nella tasca della divisa, ma non la estrasse, si limitò a far pulsare i polpastrelli contro quella, dalla cui punta iniziarono a fuoriuscire piccole scintille – fioche, ma roventi. I lineamenti del suo volto si indurirono sino a creare delle piccole fosse ai lati delle labbra e una ruga verticale a dividere la fronte in due sino al naso. Gli occhi azzurri, stretti nelle palpebre inferiori, non rinunciarono neanche per un istante a scaraventare tutto il disprezzo provato sulla figura di Fred. Le labbra, arricciate nell’offesa, rimasero sigillate sino a quando il cuore ferito di Ron non elaborò le parole più bieche e crudeli da rivolgere a quel fratello diventato d’improvviso un estraneo.

“Vorrei che non ti fossi mai svegliato.”

Una sola frase, una voce atona senza flessione – una dichiarazione d’odio. Ron non attese la reazione di Fred né attese di guardarlo creparsi a sua volta nel dolore – non l’avrebbe sopportato, nonostante tutto –, si limitò ad andare via nel più breve tempo possibile, lasciando Fred solo nell’immenso atrio. A fare compagnia al più grande fu solo la consapevolezza di dover chinare il capo e sopportare gli aculei affilati delle ferite di Ron – presto o tardi, si disse Fred, Ron sarebbe riuscito a perdonarlo, a perdonarli, a capire che i sentimenti e le emozioni non potevano avere né regole né morale.


§

Hermione aveva gli occhi lucidi, quelli di Fred erano invece asciutti e vispi. Le aveva raccontato tutto dell’incontro tra lui e Ron nell’atrio del Ministero della Magia, riportandole persino le parole livorose che il fratello gli aveva rivolto.

“È orribile,” sibilò Hermione. “Ron non pensa quello che ti ha detto, lo so.”

“Certo che non lo pensa,” disse Fred. “Una settimana dopo è venuto ai Tiri Vispi, si è scusato per quello che mi ha detto, poi mi ha accusato di avergli rubato la ragazza, abbiamo litigato e alla fine ha capito.”

“Ha capito?”

Fred scrollò le spalle. “Ha capito che non è stata colpa nostra, ma non vuole vederci insieme per adesso, e non è ancora pronto a rivederti. Per quanto riguarda me, mi tollera a malapena, ma il tempo aggiusterà tutto.”

Hermione asciugò le lacrime prima che le bagnassero il viso. In piedi, ancora attonita, non smise di guardare Fred con occhioni spauriti e consapevoli. Le sembrava assurdo che tutto potesse essersi risolto così, in una bolla di sapone, grazie a una verità scomoda confessata, a toni bruschi e corpi in grado di ferirsi e curarsi a vicenda nello stesso istante.
Fu assalita da un terrore sconosciuto – se potesse essere così semplice, così vero –, che la indusse a sedersi di nuovo accanto a Fred con movenze rigide, in tensione, e a guardarsi di nuovo attorno come se non conoscesse quelle mura a memoria. Uno strano freddo iniziò a percorrerle l’intero corpo, e un capogiro la scosse, alternandosi al pulsante dolore che le aveva invaso le tempie.
Era spossata – emozionata.

“Sai,” parlò Fred, “quella di tornare qui è stata un’idea di George. Ogni tanto anche lui si illumina di immenso come faccio io ogni giorno,” scherzò, riuscendo a strapparle un sorriso.

Quindi ora dobbiamo subirci Ronnie col cuore spezzato .”

Così pare, lobo solitario.”

Meglio essere un lobo che un cuore solitario.”

Bene, siamo già passati a fare battutine su Ronnie!”

Veramente facevo battute su di te, zombie.”

Se hai un’idea, parla.”

Ho un piano, altro che un’idea.”

“Credevo che George mi volesse fuori dalla vita di qualsiasi suo fratello,” ammise Hermione.

“No. Era solo convinto che non avresti mai lasciato Ron, con tutte le conseguenze del caso,” spiegò. “Poi hai messo le cose in chiaro e si è rilassato.”

Hermione annuì, mentre percepiva la spossatezza scemare e l’adrenalina avanzare. Dal canto suo, Fred sfruttò quell’ulteriore silenzio per rivivere il faticoso confronto che aveva trattenuto lui e George in una camera il trentuno dicembre appena trascorso; era stato lì che s’erano liberati di tutti i macigni, lì che George aveva riacquistato sul serio il sorriso e la serenità, lì che avevano imparato a esorcizzare i demoni con l’ironia – ed era nato zombie, compagno di lobo solitario, testimoni di sventure e tragedie vinte, di due sopravvissuti. Secondo Fred, quella baita doveva avere una magia speciale, una di quelle che ti mettevano a nudo e ti consentivano di vivere tutto, perché lui lì aveva visto il proprio desiderio smodato di sentirsi vivo evolvere in significato reale – vivibile.

“A cosa pensi?” chiese Hermione, accortasi degli occhi di Fred anneriti da pensieri lontani.

“A George,” ammise. “Ma non voglio parlare di questo.”

“So di cosa vuoi parlare, ma non credo di essere pronta.”

“Di cos’altro hai bisogno? Ci siamo noi due, con Ron è quasi tutto sistemato. Non dobbiamo mentire, non dobbiamo nasconderci… Che altro vuoi?”

“Non essere prepotente, adesso.”

“E tu non avere paura di me.”

“Fred, cambierà tutto. Noi due… noi due sembriamo così sbagliati insieme...”

“Vorrà dire che ci lasceremo,” suggerì con un sorriso sghembo. “Granger, ho finito la pazienza.”

“Non è un mio problema,” reagì ostinata Hermione. “Le cose vanno discusse, analizzate, capite, dobbiamo parlare.”

“No, parlare è l’unica cosa che non dobbiamo fare.”

A quelle parole, per quanto Hermione si ostinasse a tentare invano di razionalizzare – a considerare le conseguenze di abbandonarsi l’una all’altro in quel momento –, un rossore intenso e rivelatore affluì svelto alle guance, la lingua umettò istintiva le labbra, gli occhi frugarono il volto di Fred dalla bocca al naso alle iridi chiare, il corpo si protese verso di lui, un’adrenalina vibrante le percorse la schiena – tutto in lei urlò quel desiderio che la sorda ragione continuava a seppellire sotto strati di falsa moralità e insulse giustificazioni: sotto strati di paura per un’incognita gigantesca.
Fred, attento, riuscì a cogliere ognuno di quei segni del corpo, e non nascose un ghigno intriso di malizia e colmo di soddisfazione. Bastarono quei gesti a convincerlo ancora di più di non aver commesso un errore, a ripagarlo per l’attesa durata un intero mese. Quando quella domenica Hermione era fuggita da lui, Fred aveva capito che lei avesse bisogno di tempo per capire che le sarebbe mancato, che l’avrebbe cercato, che era con lui che avrebbe voluto condividere le sue giornate – e lui s’era allora improvvisato paziente, e le aveva negato tutto, persino un saluto tra la folla, sino a pochi giorni prima, quando era ormai certo che Hermione ne avesse abbastanza di fingere che lui non esistesse.
Non trascorsero neanche sessanta secondi esatti tra le ultime parole di Fred e le sue labbra su quelle di Hermione. Un contatto intimo, ma freddo. Labbra contro labbra, e occhi che non smettevano di fissare quelli altrui, in un muto contrasto tra desiderio di approfondire e necessità di fuggire. Fred lasciò che le proprie mani percorressero il corpo della ragazza dai fianchi sino all’ombelico, lì strinsero, massaggiarono, affondarono i polpastrelli nella stoffa che copriva l’addome, azzardando di tanto in tanto qualche falange più su.

“Finisce sempre così tra noi due,” sibilò Hermione.

Fred ghignò sulle sue labbra. “E questo non ti dice niente?”

“Mi dice che sei un tentatore.”

“Ammettilo, mi consideri il tuo peccato.”

Hermione inarcò le labbra in un sorriso sereno, vispo, come non accadeva da un intero mese e anche più. Esattamente come in passato, la vicinanza di Fred anneriva ogni cosa, e non restavano che loro due – soli – a dividere emozioni, sensazioni, sentimenti – amore? – e a costruire il loro personale castello di cemento e argilla – non di fragile sabbia.
Fuggire, non aveva più motivo di fuggire.

“Sì, credo proprio che tu sia il mio peccato, Weasley.”

Prima che Fred potesse avventarsi su di lei, fu Hermione a pretendere di più da quella vicinanza, sorprendendo lui per l’impeto ma non se stessa. Era sempre stata una ragazza intelligente, e non capire che dalle emozioni provate non si poteva fuggire l’avrebbe resa molto stupida. Era stata ostinata, e testarda nelle proprie convinzioni, lungo l’intero mese, ma ora che era lì – ora che era stata complice inconscia di un inganno pur di essere lì –, era giunto il momento di abbattere la torre di timori e giudizi che aveva costruito. Schiuse le labbra, lenta ma non titubante, e scacciò via il freddo.
Fu allora che Fred smise di chiedere il permesso, calò le palpebre assieme a lei e pretese il calore, l’intimità e l’adrenalina che Hermione gli aveva negato per minuti e ore e giorni.
Sgualcirono il pregiato divano di zia Muriel come avrebbero voluto fare sin dalla prima volta che s’erano ritrovati lì – lui a sovrastarla, lei a condurlo con sicurezza.
Forse, non sarebbe durata in eterno.
Forse, non era davvero amore quello che li ancorava l’uno all’altra.
Forse, lui non sarebbe stato l’ultimo.
Forse, non lo sarebbe stata neanche lei per lui.
Ma quello era di certo un inizio – lì, in quella baita che annusava la vita e l’errore, dove avevano seguitato a errare e avevano fuggito loro stessi, lontani dalla quale s’erano persi pur accettando tutti i peccati commessi.

Lì, loro due soli, in quella baita che annusava la vita.






 


NdA: eccoci arrivati alla fine di questa storia, dopo quasi tre anni. Era il settembre 2016 quando pubblicavo il prologo di questo racconto con la convinzione di portarlo a termine di lì a pochi mesi, non certo anni. In questo lungo periodo di tempo sono cambiate molte cose, tra cui in piccoli aspetti il mio stile di scrittura, a riguardo spero che non ci siano “scossoni stilistici” tra i capitoli più datati e gli ultimi due, io ho cercato di essere quanto più calibrata possibile, ma alcuni dettagli sono evidenti solo a un occhio esterno.
Non so quanti tra coloro che hanno iniziato a seguire questa storia nel 2016 oggi siano ancora interessati al suo epilogo, ma che sia uno, nessuno o centomila ha un’importanza relativa a questo punto. Ciò che spero è che la Baita sia riuscita a regalarvi anche un piccolissimo sprazzo delle emozioni vissute dai miei protagonisti, che anche voi vi siate sentiti fuori dal mondo tra le sue mura.
La conclusione è sempre stata questa, sapevo sin dall’inizio che ci sarebbe stato un lieto fine – aperto! – per Hermione e Fred, che si sarebbero ritrovati lì dove tutto è iniziato e che lì avrebbero iniziato la loro nuova vita insieme.
Non vi rubo altro tempo. Anzi, ringrazio chiunque sia giunto sin qui, dedicando del tempo alla Baita e alla mia scrittura. A questo punto posso finalmente dire “spero che la storia vi sia piaciuta!”, quindi, sì, sono banale e spero tanto che la storia vi sia piaciuta! E, soprattutto, che la conclusione tanto attesa sia stata all’altezza delle vostre aspettative.
Grazie di tutto e perdonate la lunga attesa.
Un abbraccio. ❤

 

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