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di Madame_Bovary
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. Confusion ***
Capitolo 2: *** Personaggi ***
Capitolo 3: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Prologo. Confusion ***


Confusion

 

Apro gli occhi a causa di un sobbalzo. Non riesco a distinguere niente, ho la vista annebbiata. Dovrei essere nel retro di un furgone, ma anche i miei pensieri sono annebbiati. Il veicolo su cui mi trovo procede molto velocemente. Ad ogni sobbalzo temo che si ribalti. Non c’è molta luce, ma credo di distinguere delle sagome intorno a me. Solo che non si muovono. Non ho tempo di interrogarmi sulla questione che il veicolo frena di botto. Degli uomini aprono il retro e l’improvvisa ondata di luce mi ferisce gli occhi. Faccio finta di essere svenuta, mentre tirano fuori gli altri corpi. Sento afferrarmi con una stretta decisa da sotto le ascelle e appena sono fuori dal furgone cerco di colpire l’uomo con le gambe, ma i miei movimenti sono lenti, deboli, imprecisi, infatti rafforza semplicemente la presa. Provo a dimenarmi, quando qualcuno mi inietta del liquido nel collo e chiudo di nuovo gli occhi, precipitando nell’incoscienza.

 

Mi risveglio di soprassalto, la testa mi gira, non capisco dove mi trovo. Chiudo gli occhi e provo a mettere a fuoco. Davanti a me si staglia un tempio antico avvolto da una fitta coltre di rampicanti, circondato da quella che sembra una vera e propria giungla. Attorno a me ci sono ragazzi e ragazze, alcuni visibilmente spaventati, altri più spavaldi e altri ancora semplicemente guardinghi, in attesa. Indossano tutti degli indumenti aderenti neri, con delle zone grigie traspiranti sulle spalle, il petto e i fianchi. Ora che ci faccio caso anche io lo indosso, solo che ho una piccola spilla d’argento a forma di gufo. All’improvviso una voce metallica, asettica, forse femminile, interrompe il silenzio generale: 

 

Buongiorno e benvenuti al primo test di idoneità per semidei. Siete stati selezionati tra i tutti i vostri fratelli e sorelle e scelti come i migliori rappresentanti della progenie divina. Sarete sottoposti ad una serie di prove per valutare le vostre capacità, il vostro spirito di sopravvivenza, la vostra adattabilità. Ad ogni prova qualcuno sopravviverà, qualcun altro perirà, fino a quando non ne resterà solo uno, il campione indiscusso. Nel tempio di fronte a voi si trovano cibo, equipaggiamenti, armi. Vi consiglio di farne scorta, ne avrete bisogno in seguito. Vi consiglio inoltre di non provare a scappare. Ogni tentativo di fuga verrà soppresso.

Che la prima prova abbia inizio!

 

 

Ciao a tutti! Questa è la mia prima interattiva e spero che la trama in stile Hunger Games vi sia piaciuta! 

Sarà un’interattiva molto… interattiva! Infatti ognuno di voi avrà un ruolo decisivo nella sopravvivenza del proprio personaggio. Nel corso della storia si troveranno di fronte a delle scelte cruciali e voi deciderete quale decisione prendere (in modo coerente rispetto al personaggio che avrete inventato). Per ogni scelta che farete ci saranno delle conseguenze che io avrò stabilito prima ancora di sapere la vostra risposta. Spero che sia tutto chiaro, ma se avete delle domande, non esitate!

 

Come negli Hunger Games, per ogni dio ci sarà un OC maschio e uno femmina. 

Di seguito l’elenco degli dei (tutti del pantheon greco) e la scheda da inviarmi per messaggio privato. Se volete partecipare scrivete nella recensione sesso, età e genitore divino del vostro/a OC. Potete creare minimo due OC fino ad un massimo di quattro. Avete una settimana di tempo, fino al 22 maggio.

 

Zeus re degli dei, dio del cielo, del fulmine e dei fenomeni atmosferici

Poseidone dio del mare,di tutte le acque,dei terremoti, della navigazione e dei cavalli  

Ade dio che governa l’Oltretomba, dio dei morti e delle ombre

Demetra dea della fertilità, dell’agricoltura e delle piante

Dioniso dio del vino, delle feste, dell’impulso vitale, della follia e dell’ebrezza

Apollo dio delle arti, della musica, della poesia, della profezia, della divinazione, della scienza, della conoscenza, della malattia, della medicina, della luce, dell’ordine e del tiro con l’arco

Hermes messaggero degli dèi, dio del commercio, dell’eloquenza e dei ladri

Atena dea della saggezza, dell’ingegno, della guerra strategica e della strategia (ragazza già presa)

Ares dio della guerra, della violenza, della rabbia e dello spargimento di sangue

Afrodite dea dell’amore, della bellezza e del desiderio amoroso

Efesto fabbro degli dèi, dio del fuoco, della metallurgia, della tecnologia e delle armi appena forgiate

Ate dea dell’inganno, della rovina, della dissennatezza, della follia (ragazzo già preso)

Ecate dea della magia, della luna, della profezia

 

Scheda

Nome: 

Secondo nome:

Cognome:

Soprannome:

Età: dai 13 ai 18 anni

Genitore divino:

Aspetto fisico:

Prestavolto:

Carattere:

Abilità:

Arma/i:

Rapporto con gli altri OC: è disposto a fare lavoro di squadra? preferisce stare da solo? si fida? è incline al tradimento? Diciamo che vorrei sapere questo più o meno

Orientamento sessuale:

Relazione sentimentale:

Poteri speciali: (non esagerate)

Storia:

Altro:

 

N.B. Tutti i campi sono obbligatori eccetto “Altro”
 

I miei OC

Sophie Ramirez, 16 anni, figlia di Atena


Ethan Thompson, 18 anni, figlio di Ate


 

 

Un bacio e a presto!

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Capitolo 2
*** Personaggi ***


Ciao, mi spiace di avervi fatto aspettare così tanto, ma finalmente ecco tutti i personaggi! Sono davvero un bel po' e cercherò di dare ad ognuno di loro lo spazio che si merita. Vorrei complimentarmi con tutti voi, non c'è un solo personaggio "brutto" o banale e mi scuso ancora per tutti quelli che ho dovuto scartare. Bando alle ciance (dei, ma c'è ancora qualcuno che usa questa espressione!?) e passiamo alle presentazioni!
 
James Lawrence, 18 anni, Figlio di Zeus di Alexiel94


Cora Parker, 16 anni, Figlia di Zeus di shutupseaweedbrain


Alexander Ulysse Baston, 14 anni, Figlio di Poseidone di Zoey Charlotte Baston

 
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Zoey Charlotte Baston, 14 anni, Figlia di Poseidone di Zoey Charlotte Baston
 
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Timothy Alexander Wraith, 16 anni, Figlio di Ade di Luthien Felagund


Ciel Tessa Kirkland, 17 anni, Figlia di Ade di Aki_and_Ami


Emil Lukas Lajier, 17 anni, Figlio di Demetra di Saroyan


Rosemary Thea Baker, 14 anni, Figlia di Demetra di Fe_


Parker Harley Hurricane, 17 anni, Figlio di Dioniso di Pendragon


Mariska Jeanne Foster, 17 anni, Figlia di Dioniso di Inazumiana01

 
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William Harvery, 18 anni, Figlio di Apollo di TheTORNgirl


Shayla Arianne Morgan, 15 anni, figlia di Apollo di C o c o


Brad Hopless, 17 anni, figlio di Ermes di Sabaku No Konan Inuzuka


Erza Maddlen Loonswart, 17 anni, Figlia di Ermes di Phebe Junivers


Winter Soul Mulder, 18 anni, Figlio di Atena di DarkDemon


Sophie Ramirez, 16 anni, Figlia di Atena di Madame_Bovary


Duncan Achilleas Dowson, 18 anni, Figlio di Ares di Luthien Felagund

 
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Harsha Sarasvati Rujula, 16 anni, Figlia di Ares di Saroyan


Wiktor Igor Bronislawa, 18 anni, Figlio di Afrodite di Saroyan


Nicole Queen, 17 anni, Figlia di Afrodite di Aphrodite_son


Luciano Allen De Margassi, 17 anni, Figlio di Efesto di Saroyan

 
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Jessica Elizabeth Bennet, 17 anni, Figlia di Efesto di La_Figlia_Delle_Maschere


Ethan Thompson, 18 anni, Figlio di Ate di Madame_Bovary


Aysha Meghara, 17 anni, Figlia di Ate di TheTORNgirl


Yuki Tooru Yamada, 16 anni, Figlio di Ecate di Zuria


Helen Spring Parrish, 16 anni, Figlia di Ecate di DarkDemon

 
Vi ringrazio per essere arrivati fin qui e per aver assecondato la mia insana ossessione per le gif (mi fanno sentire in Harry Potter, che ce volete fà)
Ci vediamo al prossimo aggiornamento, baci 
 


 

 
 
 
 
 

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Capitolo 3
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1

 

Quando la voce smise di parlare, calò un silenzio attonito tra i giovani semidei.
Almeno fino a quando una ragazza dalla carnagione ambrata e il fisico longilineo si incamminò a passo deciso verso il tempio, seguita da altre persone.
«Ehi, che state facendo?» urlò una ragazza dai capelli neri e gli occhi azzurri. L’altra ragazza tornò sui suoi passi solo per risponderle a tono
«Quella voce è stata molto chiara. Non resterò qui come una rincoglionita quando lì dentro ci sono delle armi che mi aspettano»
«Certo, entrare in un luogo sconosciuto senza neanche sapere cosa ti aspetta, solo perché te l’ha detto una voce, mi sembra un ottimo piano» rispose pungente l’altra.
Il tutto sarebbe di certo sfociato in un litigio in piena regola, se un ragazzo dai capelli castani e gli occhi verdi non si fosse intromesso allegramente, accompagnando le sue parole con un gesticolare esagerato
«Detesto interrompere un litigio tra gattine, ma forse è meglio se non ci uccidessimo durante i primi trenta secondi»
Lui non aveva nessuna intenzione offensiva o denigratoria, era solo un vezzeggiativo, un nomignolo, ma questo non fermò la ragazza dalla pelle ambrata dall’afferrarlo per il colletto con una sola mano e soffiargli a pochi centimetri dalla faccia, scandendo bene le parole per risultare più minacciosa
«Chiamami gattina un’altra volta e ti stacco le palle a morsi»
Lo lasciò andare all’improvviso, tant’è che lui si ritrovò con il sedere per terra
«Come devo chiamarti, allora?» le disse con il suo dolce sorriso stampato sulla faccia, non affatto turbato dalla minaccia appena ricevuta
«Harsha» e se ne andò, caparbia, verso la sua meta.
«Il mio nome è Parker, comunque» mormorò rialzandosi, più a se stesso che a lei, che ormai era già sparita.
Altri seguirono il suo esempio, decidendo di esplorare il tempio per conto proprio.
«Bene, mentre quegli incoscienti vanno a farsi ammazzare, è meglio se ci organizziamo» riprese seccata la ragazza dai capelli neri
«Non ricordo, quando ti abbiamo nominata capo?» chiese petulante una ragazza dalla pelle olivastra con una folta chioma riccia castano scuro e gli occhi verde torbido
«Puoi sempre andartene da sola come hanno già fatto altri prima di te, nessuno ti costringe a rimanere qui»
«È esattamente quello che farò» e anche lei abbandonò il gruppo, impettita.
«Fantastico, qualcun altro se ne vuole andare?» ironizzò una bionda dagli occhi verdissimi.
Nonostante tutto erano rimasti in tanti, circa una ventina. Fin troppi, considerato il fatto che erano dei perfetti sconosciuti, pensò Ciel, leggermente scoraggiata dai litigi iniziali con quelle due ragazze. Prese immediatamente in mano la situazione, cercando di analizzarla con calma e lucidità.

Da qualche parte nel tempio

Helen aveva sempre amato le avventure, i rischi, i pericoli. Adorava la scarica di adrenalina che le pervadeva tutto il corpo, il nodo che si formava nello stomaco, per cui non ebbe alcuna esitazione quando si buttò a capofitto in quella nuova impresa. Per di più, non aveva alcuna intenzione di portarsi dietro delle zavorre, preferiva di gran lunga la solitudine.
Non sapeva da quanto tempo stesse camminando lì dentro, ma doveva essere passata almeno un’ora e non era successo niente di eclatante. Se da fuori il tempio dava l’impressione di un luogo abbandonato da tempo, dall’interno era difficile da stabilire: le pareti, costituite da grossi mattoni in pietra gialla, erano attraversate da crepe in cui si erano infiltrati dei rampicanti e le innumerevoli ragnatele e l’occasionale passaggio di piccoli mammiferi non identificati contribuivano a dargli un’aria tetra e trascurata. Solo che le torce che illuminavano i corridoi erano tutte accese ed emanavano un calore tremendo. Dei, si soffoca qui dentro, pensò Helen mentre si scostava dalla fronte i capelli corvini impregnati di sudore.
Continuò a trascinarsi esausta, fatto di per sé strano data la sua ottima resistenza fisica. Si sentiva delusa e demoralizzata: dopo quelle che sembravano ore di vagare senza meta, non aveva trovato né una trappola, né un trabocchetto, né un passaggio segreto, né tantomeno armi o cibo. Niente di niente. Solo una sequenza infinita di corridoi tutti dannatamente uguali. Le sembrava di girare in tondo, di non andare da nessuna parte. Desiderava soltanto uscire da lì, ma aveva perso il senso dell’orientamento e non aveva la più pallida idea di dove si trovasse. Prima che potesse fare un altro passo, la struttura cominciò a tremare, come scossa da un forte terremoto. Dal tetto cadeva della polvere giallastra, le pareti si avvicinavano pericolosamente a lei da tutte le direzioni, quasi la volessero schiacciare. Non poteva scappare da nessuna parte, era in trappola. Sentì il pavimento cedere sotto i suoi piedi. Si concesse un sorrisetto divertito, prima che franasse del tutto.
Peccato, avevo appena cominciato a divertirmi.

Un numero imprecisato di tempo prima, nel tempio

«Sicuro di sapere dove stiamo andando?»
«Sì»
«Secondo me stiamo girando in tondo»
«No, non stiamo girando in tondo»
«Guarda che avevamo già passato quella ragnatela»
«Questo posto è pieno di ragnatele»
«Sarà, ma a me quella sembra familiare»
«È una ragnatela, come fai a distinguerla dalle altre!?»
«Volete farla finita!»
Avevano continuato così per tutto il tempo e alla povera Ciel scoppiava la testa. Come aveva potuto pensare che sarebbe stata una buona idea stare con un orgoglioso e freddo figlio di Zeus e un iperattivo e logorroico figlio di Dioniso? Quest’ultimo corse via saltellando, probabilmente attirato da qualcosa.
Non passò molto che sentirono un rumore sinistro, poco rassicurante. Parker tornò affannato verso di loro e, prima che potesse anche solo dire una parola, fu prepotentemente interrotto da Ciel
«Cosa hai combinato?»
«Niente!»
Un’occhiataccia da parte della ragazza fu sufficiente a farlo continuare
«Sono inciampato e per rialzarmi mi sono aggrappato alla parete e ho sentito un rumore bruttissimo e…»
TUM. I tre semidei si voltarono all’unisono e videro che dietro di loro delle grate scendevano in rapida successione a sbarrare il passaggio.
Fecero l’unica cosa plausibile in quel momento: cominciarono a correre per salvarsi la vita, come non avevano mai fatto in vita loro, ma nonostante gli sforzi, ogni grata che scendeva sembrava sempre più vicina.
Respiro affannato, sudore che attacca i vestiti alla pelle, muscoli al limite della sopportazione, polmoni in fiamme, cuore che batte all’impazzata, un pensiero fisso nella mente: sopravvivere.
Sarebbero state queste le loro ultime sensazioni?

Un po’ di tempo dopo

Quando le pareti cominciarono a spostarsi, lui si ritrovò intrappolato fra quattro mura, da solo. Non capiva perché si fossero fermate prima di schiacciarlo, lasciandogli uno spazio molto ristretto, circa due metri per tre. Sapeva solo che detestava quella situazione, perché gli dava fin troppo tempo per pensare: quella voce aveva detto che erano stati scelti tra i loro fratelli e sorelle come migliori rappresentati della progenie divina. Cosa di cui dubitava parecchio, almeno nel suo caso. Davvero io sono il meglio che i figli di Apollo hanno da offrire? Sì, aveva un’ottima mira, ma tra i suoi fratelli divini è una dote abbastanza scontata. Sapeva anche suonare la chitarra e il pianoforte. Abilità molto utili in battaglia. Inoltre, nonostante la maggiore età, aveva un fisico minuto, per niente portato nei combattimenti corpo a corpo, per di più accompagnato dai tratti infantili del viso come il naso piccolo con qualche lentiggine sopra, le orecchie da elfo, gli occhi nocciola e i ricci capelli biondo scuro. Riteneva di non essere nulla di speciale, eppure era lì, rinchiuso in quel minuscolo spazio.
La torcia che fino a quel momento aveva illuminato la sua “cella” si spense di colpo, come se la fiamma fosse stata risucchiata dal legno. La parete alle sue spalle si scostò lentamente, lasciando filtrare una lama di luce bluastra. Il ragazzo si avviò titubante, incerto sul da farsi. La luce era accecante, non gli permetteva di distinguere ciò che si trovava davanti a sé, ma quando mise un piede all’interno del nuovo ambiente, questa diminuì la sua intensità.
Non poteva credere ai suoi occhi.

Nel tempio

Da quando si era scontrato con quella ragazza, avevano continuato a vagare in quel tempio dall’apparenza immenso. Gli aveva detto che le pareti le avevano ostruito il passaggio, costringendola a separarsi dai suoi compagni. Sperava così di avere un po’ di compagnia, ma lei si era dimostrata taciturna e pensierosa. Ogni tanto si girava a controllarla, solo per osservare la sua faccia corrucciata. Alla luce delle torce le goccioline di sudore sulla sua fronte brillavano come piccole perle, quasi fossero prodotte dalla sua attività cerebrale.
Stanco di quel silenzio, si arrestò di botto e si voltò. Lei non se ne accorse neanche, talmente era concentrata, e andò a sbattere contro il suo petto
«Scusa…» disse evidentemente in imbarazzo
Lui non ci fece minimamente caso
«A cosa stai pensando?» semplice, schietto, diretto.
A quella domanda la ragazza rimase spiazzata: lo conosceva a malapena, sapeva solo che si chiamava Luciano ed era un figlio di Efesto. Non erano informazioni sufficienti per capire se poteva fidarsi di lui oppure no. Alla fine si convinse che la cosa peggiore che potesse capitare sarebbe stata quella di essere presa per pazza o che le ridesse in faccia.
«Ricordi la tua vita? Prima di essere gettato in questo posto, intendo» chiese incerta, torturandosi una ciocca di capelli biondi
«Certo, io…» esordì lui sicuro di sé, per poi rendersi conto di non sapere come continuare la frase. Fece appello alla sua formidabile memoria, ma era come annebbiata. Sapeva di aver appreso molte nozioni di meccanica in una fabbrica, ma non ricordava perché avesse passato molto tempo lì da bambino. Quando cercava di focalizzarsi per trovare una risposta, il suo cervello sembrava che si rifiutasse. Ogni volta che cercava di scavare più affondo, la sua mente si ritraeva. La ragazza, vedendolo spaesato, ebbe conferma dei suoi timori
«Ci pensi e ci ripensi, ma i tuoi ricordi continuano a sfuggirti. È strano, so come usare un pugnale, ma non ricordo chi me l’abbia insegnato è…» iniziò la ragazza
«Come se ci avessero lasciato solo le capacità utili alla nostra sopravvivenza e avessero cancellato tutto il resto, ma…» la interruppe lui
«Perché fare una cosa del genere?» conclusero all’unisono.
Si guardarono negli occhi, bisognosi di risposte che non potevano avere. Chi li aveva portati lì? A quale scopo? Come avevano fatto a sottrarre loro i ricordi? Perché? Queste e tante altre domande si affollavano nelle loro menti, interrogativi destinati a rimanere senza risposta. Senza alcuna memoria del suo passato, Sophie si sentiva una persona incompleta.
Tutto accadde molto velocemente: delle tenaglie di metallo, spuntate chissà da dove, afferrarono entrambi i semidei per i polsi. La stretta era davvero molto vigorosa, tanto che si procurarono subito delle ferite, alcune anche abbastanza profonde.
Vennero trascinati lungo il corridoio mentre i due si dibattevano energicamente per liberarsi. Notarono subito che più si opponevano, più la morsa aumentava d’intensità, perciò, almeno fisicamente, si arresero. La loro menti, però, cominciarono subito ad elaborare un piano per uscire da quella situazione. E ci sarebbero anche riusciti probabilmente, se non avessero iniettato loro una sostanza che li fece precipitare nell’incoscienza. Durante gli ultimi attimi di lucidità, Sophie riuscì solamente a pensare: No, non di nuovo!



Hello! (si, sono cosciente del fatto di avervi appena fatto perdere la facoltà della vista con questo colore così acceso)
Mi dispiace di avervi fatto aspettare così tanto, ma la settimana scorsa è stata un delirio!
Che poi questo capitolo non è che sia eccezionale...
So di aver completamente ignorato l'esistenza di un bel po' di personaggi, ma gestirne Ventisei (ripetiamo per dare più enfasi) Ventisei (ok, la smetto), si sta rivelando più difficile del previsto! Ad alcuni ho dato più spazio, altri sono stati vagamente accennati (della serie che dicono solo un frase, ma vabbè), ma vi prometto che avranno il loro momento!
Questa storia è molto importante per me, mi sto mettendo in gioco e sto provando cose nuove. So di avere molti difetti (tipo che non so descrivere gli edifici, i personaggi sembrano caratterizzati da una bambina di dieci anni e i dialoghi sono tremendi), ma mi sto impegnando molto e spero di migliorare, soprattutto col vostro aiuto! Infatti non esitate a criticarmi, l'importante è che siano critiche costruttive. 
Se avete dubbi, domande, cose che non sono chiare (perché non so scrivere), chiedete pure!
Vi ringrazio se vi siete sorbiti/e questo pippone multicolor e alla prossima!

                                                 

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Capitolo 4
*** Capitolo 2 ***


Per favore, leggete l'angolo autrice! 
Buona lettura :-*

 

Capitolo 2

 

«Credi che questa tuta mi ingrassi?»
«Ma è aderente!» rispose divertita e vagamente perplessa la ragazza, scuotendo i suoi voluminosi capelli ricci.
Emil alzò gli occhi al cielo, irritato da quel seccante figlio di Afrodite. Da quando aveva preso confidenza con quella ragazza, forse una figlia di Dioniso, non avevano fatto altro che parlare. E parlare, parlare, parlare, senza smetterla neanche per un secondo. Discorrevano perlopiù di argomenti futili: lui un po’ si vantava del fatto che quell’indumento gli facesse risaltare il culo, un po’ si lamentava dei colori smorti che facevano a pugni con il suo incarnato, mentre lei prorompeva con delle battute di uno squallore imbarazzante. Fin da subito li aveva distanziati e camminava loro pochi metri più avanti, osservandoli costantemente con la coda dell’occhio. Non che li ritenesse pericolosi, avevano un aspetto mite e, anche se il ragazzo era un po’ sopra le righe, non c’era niente di cui preoccuparsi. Lei, che aveva intuito si chiamasse Mariska, era bassina, piuttosto formosa, dalla pelle color cioccolato, con una folta chioma riccia molto scura, quasi nera. Per quel poco che aveva potuto scorgere, aveva un volto piccolo e aggraziato, con una fronte ampia, lunghe ciglia che contornavano dei grandi occhi castano scuro e labbra carnose perennemente incurvate in un sorriso. Non stava ferma un attimo e spesso e volentieri inciampava chissà dove per poi rialzarsi con nonchalance. Lui, invece, che rispondeva al nome Wiktor, era un ragazzo dalla carnagione chiara, con un fisico androgino privo di muscoli, molto alto e magro. Aveva dei capelli biondi lisci lunghi fin poco sopra le spalle, che incorniciavano dei grandi occhi verde smeraldo. Se non fosse stato per il suo pizzetto biondo, lo avrebbe facilmente scambiato per una femmina.
«Sono così sudato che i miei capelli sono diventati un corpo unico con la mia faccia!» si lagnò ancora con quella sua voce che di mascolino aveva ben poco.
Emil cominciò a prendere seriamente in considerazione l’opzione di farli fuori. L’idea gli solleticava piacevolmente il cervello, immaginandosi i diversi modi con cui poteva metterli a tacere e concedendosi un sorrisetto sardonico.


Riuscì a passare sotto la parete che stava per chiudersi per un soffio. Rimase per un po’ distesa a terra, cercando di riprendere fiato. Ancora con il fiatone, ripercorse con la mente gli avvenimenti di poco tempo prima: il suo fratellastro, William, che rimaneva inesorabilmente intrappolato tra quattro mura e il senso di frustrazione che l’aveva assalita per non essere riuscita a fare nulla. A niente le erano serviti la sua agilità e la sua prontezza di riflessi contro la struttura stessa del tempio che si ritorceva contro di loro. Le pareti si spostavano, tremavano; il soffitto sembrava dovesse cedere da un momento all’altro e il pavimento era infido e friabile. Sulla loro testa cadeva della polvere che non permetteva loro di capire dove stessero andando, tanto che perse di vista anche l’altra ragazza.
Si sentiva a pezzi, sia mentalmente che fisicamente. Le doleva ogni parte del suo corpo considerato fin troppo magro per la sua altezza leggermente inferiore alla media; gli occhi verdi e piccoli, che solitamente trasmettevano serenità, in quel momento erano stanchi e spenti; i capelli lunghi e mossi, color biondo fragola, erano sudati e appiccicaticci; gli zigomi pronunciati, arrossati a causa del calore, risaltavano sulla carnagione chiara e le labbra rosee e abbastanza carnose erano arricciate in una smorfia a metà fra la stanchezza e la frustrazione. Frustrazione che derivava dal fatto di non essere stata in grado di aiutare i suoi compagni nel momento del bisogno, di essersi messa in salvo senza curarsi di loro. Se avesse potuto sarebbe immediatamente tornata indietro a cercarli, ma il muro che poco prima aveva rischiato di schiacciarla, adesso le bloccava la strada, lasciandole una sola opzione: andare avanti. Sempre che esistessero un avanti e un dietro, in quel tempio che sembrava più un labirinto.
Finalmente si decise a rialzarsi, perché se fosse rimasta lì a rimuginare non avrebbe concluso niente. Non le piaceva quel posto, la inquietavano quelle piante rampicanti infiltrate tra gli interstizi dei mattoni, le sembravano delle dita che artigliavano e tentavano di stritolare le pareti, come se appartenessero ad un’entità che, tenendoli in pugno, le bastasse stringere un po’ la presa per annientarli; non sopportava il rimbombo dei suoi passi che si perpetrava all’infinito, facendola sentire ancora più sola e acuendo il mal di testa della ragazza, la cui sensazione era che il cranio pulsasse al ritmo della sua andatura. Come semidea era abituata a dover lottare per la propria vita, tra attacchi di mostri, divinità e profezie, ma niente l’aveva preparata al fatto di non potersi fidare nemmeno dell’ambiente che la circondava. Aveva la sgradevole sensazione che se avesse messo un piede nel punto sbagliato sarebbe successo qualcosa di brutto, difatti camminava come se dovesse evitare di fare rumore per non svegliare qualcuno. Non si era accorta di quanto fosse stanca, le palpebre minacciavano di chiudersi ma lei si ostinò a camminare. Sentì il suo piede sprofondare più del necessario, come se avesse schiacciato un pedale. Avvertì un repentino spostamento d’aria e un fascio di luce accecante proprio all’altezza del suo occhio sinistro. Qualcosa, o meglio qualcuno, la afferrò per il polso e la trascinò via dalla traiettoria di quell’affare appena in tempo. Questo qualcuno la teneva stretta a sé, tanto che lei, abbassando leggermente lo sguardo, poteva quasi toccare con la punta del naso la spilla a forma di caduceo, che non lasciava dubbi su chi fosse il suo genitore divino. La ragazza non capiva perché ancora non l’avesse lasciata andare, e non era neanche sicura che volesse che lo facesse, finché una dozzina di lame affilatissime non precipitarono dal soffitto, andandosi a conficcare nel punto in cui ci sarebbe stata lei. Qualcuno mollò la presa su di lei, che si accorse di aver trattenuto il fiato per tutto il tempo. Si girò per ringraziare qualcuno e si ritrovò davanti un ragazzo alto, abbastanza muscoloso e dalla pelle chiara. Aveva dei folti capelli castani brizzolati e dei grandi occhi verde foglia. Le labbra sottili erano piegate in un sorrisetto sarcastico e poco rassicurante, ma la semidea non ci fece caso.
«Grazie per avermi salvata, poco fa» disse esibendo un caloroso sorriso 
«Mi chiamo Shayla» continuò porgendogli la mano. Lui ricambiò la stretta, ma non disse il suo nome. La figlia di Apollo lo trovò un po’ strano, ma non fece nessun commento.
«Quindi adesso dovremmo proseguire insieme…» tentò ancora la ragazza. Niente, nessuna risposta. Anche un “Purtroppo!” le sarebbe andato bene
«Posso sapere almeno il tuo nome?» chiese gentilmente.
Il ragazzo sospirò, si voltò verso di lei e si indicò la gola, per poi fare un cenno di diniego. Shayla era confusa, non riusciva a capire che cosa le volesse dire. Dovette fare una faccia parecchio interrogativa, perché lui provò ad enfatizzare ancora di più la sua gestualità. Un barlume di comprensione si fece strada nella mente della ragazza
«Aspetta, quindi tu sei…, cioè voglio dire…» il ragazzo fece sì con la testa, mentre le mani e lo sguardo evasivo comunicavano un evidente “basta, lasciamo perdere questo argomento”.
La semidea si sentiva in colpa, non aveva nessuna intenzione di forzarlo a rivelarle la sua “condizione”.
«Scusa, sono una stupida, non…» esordì mortificata, ma il semidio la interruppe subito con un gesto che Shayla interpretò come un “tranquilla, è tutto ok”. Si sentì subito rincuorata e le sue labbra si distesero in un timido sorriso. Il ragazzo si accostò alla parete proprio sotto la luce della torcia, invitandola ad avvicinarsi. Lei si sporse oltre la sua spalla, mettendosi sulle punte dei piedi e vide che tracciava qualcosa con la punta del dito indice. Capì che stava componendo una parola e, quando fu sicura di aver capito, chiese
«Brad?» lui le rispose con un cenno affermativo.
Si incamminarono nei meandri del tempio, confortanti l’uno dalla presenza dell’altra.  


«Almeno il mio mondo non ruota attorno al mio didietro» sputò fra i denti il figlio di Demetra
«Invece di prendertela con il mio meraviglioso culo, potresti darti una mossa!» lo incalzò Wiktor.
La faceva facile, lui. Erano rimasti intrappolati in un piccolo ambiente, persino il tetto si era abbassato per aumentare la sensazione di claustrofobia, e quei due volevano che Emil facesse qualcosa sfruttando i rampicanti.
«Perché non provi con la lingua ammaliatrice? Magari le pareti si lasceranno sedurre dal tuo charm» lo provocò quest’ultimo.
Ci fu qualche secondo di silenzio, in cui il suo sguardo di sfida si scontrò con quello interdetto del figlio di Afrodite. 
«Ehi, belle pareti, che ne dite di liberarci?» tentò Wiktor, quasi per scherzo.
Dal canto suo, Emil era scioccato. Non può averci provato sul serio.
Contro ogni aspettativa, tutti e tre percepirono una lieve scossa.
«Sembra che abbiano gradito. Prova ancora, stavolta più… educato» suggerì Mariska
«Oh maestose pareti, ci lascereste proseguire il nostro cammino?» chiese solenne, con un tono aulico abbastanza ridicolo. Niente
«Per favore?» provò ancora senza convinzione.
La parete di fronte a loro si scostò lentamente, facendo cadere un bel po’ di polvere e lasciando libero il passaggio.
Per Wiktor, l’impercettibile smorfia di disprezzo sul viso del figlio di Demetra era impagabile. Gli era parso fin da subito interessante. Basso, magrolino, carnagione chiara e delicata, spalle strette e ben pochi muscoli, non diresti mai che sia un tipo suscettibile. Poi i corti capelli biondo chiaro, quasi bianchi, gli occhi azzurro-verde chiaro, le labbra carnose e le sopracciglia sottili ben curate gli davano un’aria vagamente misteriosa, peccato per il suo caratteraccio. Chissà cosa nasconde per non voler usare i suoi poteri…
Wiktor e Mariska si apprestarono ad oltrepassare il punto in cui prima c’era la parete, quando questa tornò di scatto al suo posto. Di per sé, era già incredibile che un muro di mattoni che probabilmente pesava diverse tonnellate si fosse mosso così velocemente, ma lo era ancora di più il fatto che subito dopo sentirono un suono flebile, una risata infantile di scherno che sembrava li stesse prendendo in giro. 
«Ambientazione tetra… c’è! Risata di bambina inquietante… c’è! Abbiamo quasi tutti gli ingredienti per girare un horror con i fiocchi!» proruppe la figlia di Dioniso.


Almeno era già qualcosa il fatto che si fosse liberata di quei patetici semidei. Li aveva seminati quando la struttura aveva cominciato a muoversi. Non erano in grado di difendere se stessi, figuriamoci lei. Non valevano la pena di usare la lingua ammaliatrice, doveva trovare qualcun altro di più utile se voleva sopravvivere. Non era molto alta, aveva un fisico perfetto, pelle chiara, sul rosato, lunghi capelli castani che si sviluppavano in voluminosi boccoli e penetranti occhi castani. Come tutte le figlie di Afrodite, Nicole era molto bella e non mancava di sfruttare la cosa a suo vantaggio. Peccato che in quel momento non fosse necessario, dato che non aveva ancora incontrato nessuna minaccia. All’improvviso qualcuno le si buttò addosso, scaraventandola contro la parete.
«Guarda dove vai, idiota!» esclamò inviperita la ragazza.
Per contro, il ragazzo non le prestò la minima attenzione, preso com’era dal riprendere fiato dopo una corsa estenuante. Nicole si rialzò, cercando di scrollarsi di dosso la sporcizia di quel posto. Non aveva per niente apprezzato il modo in cui era stata trattata e se lui credeva di poterla passare liscia, si sbagliava di grosso. Nel frattempo, lui si era appoggiato alla parete, ancora col fiatone. Nicole gli si parò davanti e lo soppesò dall’alto in basso. Aveva la carnagione chiara, occhi azzurri, capelli corvini piuttosto spettinati, una cicatrice che gli tagliava il labbro superiore e un accenno di barba sul volto. Non era affatto male e quando si alzò, sovrastandola di almeno una ventina di centimetri, poté ammirare il suo fisico atletico, ma non troppo scolpito. Un sorrisetto compiaciuto le si dipinse sul volto quando notò, illuminata dai bagliori rossastri delle torce, una spilla a forma di saetta. Non avrebbe potuto chiedere di meglio. Il ragazzo l’aveva sorpassata, proseguendo per la sua strada, così lei mise su un sorriso fintamente innocente e cercò di attirare la sua attenzione, sfruttando la sua avvenenza. 
«Non ci siamo ancora presentati, mi chiamo Nicole» disse con voce suadente
«James» rispose secco senza degnarla di uno sguardo, per poi accelerare il passo. La figlia di Afrodite si sentì offesa per quel suo continuo tentare di ignorarla, così decise di smetterla con i giochetti. Gli si piazzò davanti, col chiaro intento di sbarrargli la strada.
«Che cosa vuoi? Spostati» ordinò lui, freddo e autoritario.
Se qualcun altro avesse potuto osservare la scena, avrebbe giurato di  aver intravisto un luccichio rosa nelle iridi della ragazza, mentre dalle sue labbra morbide le parole colavano invitanti come l’ambrosia, attirando il semidio nella loro trappola. Si lasciò cullare dolcemente e si abbandonò al loro volere.
Si potrebbe dire che si fece soggiogare troppo facilmente, ma pochi sanno che la lingua ammaliatrice incanta chi non comprende l’amore, chi si lascia vincere da false e lussuriose promesse, chi non può opporre un vero sentimento. Cosa avrebbe potuto fare, sprovvisto dei suoi ricordi?


Aprì lentamente gli occhi, cercando di mettere a fuoco l’ambiente che la circondava. Un tenue bagliore verdognolo in lontananza le permetteva di intravedere che si trovava su un mucchio di macerie. Si lasciò scivolare sui detriti, fino a toccare il terreno e mettersi in piedi. Ebbe un lieve capogiro, le gambe malferme la reggevano a malapena e la testa le pulsava ritmicamente. Mosse qualche passo esitante, ma poggiò male il piede su un frammento di roccia e cadde pesantemente sulle ginocchia, con le mani avanti. Trattene un gemito di dolore, fece un respiro profondo e tossì. L’aria era secca, piena di minuscole particelle di polvere, assolutamente irrespirabile. Deglutì e recuperò la posizione eretta. Davanti a lei, un imponente arco di pietra rudemente abbozzato incorniciava un ponte di corda sospeso di parecchi metri su una fitta foresta.
Ma è… è impossibile! Pensò costernata Helen, il viso contorto in una muta maschera di stupore. Ricordava perfettamente di essere precipitata, sarebbe dovuta finire nelle fondamenta nel tempio, ma lo spettacolo di fronte a lei era fin troppo tangibile per dubitarne, poteva persino sentire l’odore del fogliame. Si accostò alla parete e si accasciò lì, esausta. Da vicino, il ponte non era affatto rassicurante. Il legno delle tavole era marcio, pieno di buchi e le corde erano consunte. Sembrava che la minima folata di vento gli sarebbe stata fatale. All’altro capo poteva distinguere l’unica fonte di luce presente e la ragazza credette di aver visto delle ombre muoversi e di aver udito dei suoni metallici. 
Fece un respiro profondo e si rialzò risoluta. Raddrizzò la schiena, cercando di darsi un tono. Il suo volto assunse un cipiglio determinato. 
Si reggeva a malapena in piedi, i suoi muscoli erano doloranti, era debole, stanca, fisicamente e mentalmente provata. Eppure, contro ogni principio logico e razionale, decise di fare quello che le riusciva meglio: rischiare la vita. 
Poggiò con estrema cautela un piede sulla prima tavola, mentre con l’atro rimase sul solido pavimento di pietra, pronta a scattare all’indietro nel caso il ponte non l’avesse retta. Il legno emise uno scricchiolio sinistro e il ponte si abbassò sotto il suo peso, ma sembrava abbastanza stabile. Stava per posare anche l’altro piede, quando gettò una fugace occhiata verso il basso. Grosso errore.
Un brivido le percorse la schiena, un misto tra terrore e folle eccitazione; il sudore le scendeva copioso sulle tempie; i muscoli erano rigidi, in tensione; il respiro si fece corto, affannato; il cuore prese a palpitare forsennato, i battiti che si susseguivano alla stessa velocità delle ali di un colibrì. Le vennero le vertigini, temette di svenire e strinse le corde convulsamente fino a farsi sbiancare le nocche, procurandosi diversi tagli superficiali sui palmi. Sentì la sua presa farsi più viscida, a causa del sangue che già fuoriusciva dalle sue ferite. Contemplò, come ipnotizzata, il percorso di una goccia vermiglia, che dallo spazio fra il pollice e l’indice, cadde sulla tavola. Si riscosse dal suo stato e scosse il capo, come a voler scacciare un pensiero particolarmente molesto. Cercò di riprendere il controllo di se stessa e lasciò che l’adrenalina la pervadesse. In quel preciso momento, decise che non si sarebbe lasciata più sopraffare dalla paura, che sarebbe diventata la sua arma. In uno sconsiderato gesto di sfida verso chiunque l’avesse messa in quella situazione, chiuse gli occhi. Una brezza lieve le scompigliava i lunghi e ondulati capelli color dell’ebano, mentre un passo alla volta arrivò fino a metà del ponte. Poggiò il piede, sempre lentamente e con cautela, quando sentì uno scricchiolio più forte dei precedenti e la tavola cedette. Si aggrappò alle corde con tutte le sue forze, mentre il suo piede penzolava nel vuoto. Tenne gli occhi serrati, ostinata a non aprirli fino a quando non fosse arrivata dall’altra parte del ponte. Spinse con tutte le sue forze e, faticosamente, riuscì ad issarsi sulla tavola successiva. Di nuovo relativamente al sicuro, si concesse un attimo per riprendere fiato. In quel frangente, temette seriamente di morire. Aveva ancora la pelle d’oca per la terribile sensazione di vuoto che l’aveva assalita poco prima. Riprese il suo cammino con accortezza, ma spedita. 
Quando sotto la pianta del piede, invece del solito scricchiolio, sentì un solido, rassicurante pavimento di pietra, emise una risata liberatoria. Nello stesso momento, calde lacrime cominciarono a colarle sulle guance e, nonostante si rendesse conto che fosse un pianto di nervosismo, si diede della stupida. Aveva affrontato sfide ben peggiori di un ponte sospeso, bastava davvero così poco per farla cedere? Certo, contro un mostro puoi combattere, ma contro le tue paure? Cosa si fa quando il vero nemico sei proprio tu?
Si lasciò andare a quello sfogo scomposto, disordinato, incoerente e contraddittorio. Tentò di urlare, ma dalla sua gola arsa uscì solo un verso strozzato di frustrazione, perché intrappolata in un luogo che sembrava prendersi gioco di lei. Prese a singhiozzare e ridere ancora più forte, senza più curarsi di nulla.


Spesso si pensa all’identità di una persona come ad un ritratto o una fotografia. A volte, si opta anche per un puzzle. Ad Erza, però, non era mai piaciuto quel tipo di schema mentale: le prime due sono troppo statiche, trasmettono l’idea che l’identità sia qualcosa di immutabile e già predefinita; mentre un puzzle, è sì qualcosa che piano piano si compone, ma è comunque formato da pezzi creati per incastrarsi perfettamente ed ineluttabilmente fra loro, come se non potesse essere altrimenti. Lei aveva sempre preferito immaginarsi un mosaico, con innumerevoli tasselli di forme, colori e materiali diversi. Probabilmente non formeranno un’immagine chiara e nitida, i contorni non saranno ben definiti e qualche parte potrebbe presentare delle crepe, ma non potrebbe esserci rappresentazione più vera.
Era sotto quest’ottica che osservava di sottecchi il ragazzo accanto a lei. Era molto alto, dal corpo tonico e ben formato, i capelli ricci biondo cenere e dei magnetici occhi azzurri. Procedeva a grandi falcate. Il suo incedere era calmo e sicuro, quasi baldanzoso. Sembrerebbe un comportamento tipico per un figlio di Ares, ma Erza non ne era affatto convinta. Aveva un cipiglio fiero ed era, evidentemente, fiducioso delle proprie capacità, nonostante non avesse nessun’arma con sé. Un suono diverso dagli altri, un movimento repentino, uno spostamento d’aria, causavano un immediato quanto quasi impercettibile irrigidimento dei suoi muscoli, che però non era sfuggito allo sguardo attento della figlia di Ermes. Un ottimo combattente corpo a corpo, ipotizzò. Calmo, ma pur sempre vigile. L’aspetto che l’affascinava di più, era quel suo sorrisetto scaltro e compiaciuto, che metteva su specialmente dopo averle lanciato un rapido sguardo con la coda dell’occhio.
D’altro canto, lui era consapevole che quella ragazza lo stesse studiando. Esattamente come stava facendo con lei. Il suo fisico slanciato e longilineo, dalle curve morbide e prorompenti, sfiorava il metro e ottanta. Aveva delle gambe lunghe e snelle, il collo elegante e fine, la pelle chiara ma resistente. Sul naso e sulle spalle una spruzzata di lentiggini rosee, come se fossero state disegnate con un pennello. Sul volto ovale, le labbra di un rosa scuro ed intenso erano piegate in una smorfia maliziosa. Malizia che si estendeva anche agli occhi dal taglio felino e allungato, di uno strano miscuglio azzurro-verde acqua. Infine, i capelli rosso scuro, un ramato i cui riflessi sanguigni erano illuminati dalle fiaccole sulle pareti, le conferivano un’aura di mistero, da affascinate tentatrice. Era rimasto particolarmente colpito dal tatuaggio a forma di croce dietro il collo della ragazza. Un soggetto piuttosto singolare per la figlia di un dio greco, pensò Duncan. 
Entrambi osservavano con attenzione ogni singolo particolare dell’altro. Si studiavano a vicenda, con circospezione, come due predatori. Immersi in un silenzio carico di tensione, aspettavano. Aspettavano che l’altro facesse la sua mossa. O meglio, che sbagliasse, cha cadesse in fallo, che si esponesse rivelando qualcosa di utile a comprenderlo. 
Lui, un fiero e possente leone, dall’atteggiamento sornione, spavaldo. È il re della savana, in cima alla catena alimentare, non ha niente da temere. Eppure, non abbassa mai la guardia, sempre vigile e pronto ad attaccare.
Lei, una pantera nera, agile e aggraziata. Grazie al manto scuro, rimane acquattata nell’ombra, in attesa del momento propizio; ma pronta a sfoderare gli artigli, se necessario. 
È ironico come ambedue, in realtà, celino la loro natura sibillina. Camaleontiche serpi, infide ed astute. 
Si infiltrano in qualunque anfratto.
Sfuggenti, sgusciano via, non si lasciano catturare.
Carismatiche incantatrici, ti avvolgono nelle loro spire, ti circuiscono e, prima che tu te ne accorga, sei in trappola. 
Cosa farà mai un serpente di fronte ad un suo simile?
Siamo tutti impostori in questo mondo, noi tutti facciamo finta di essere qualcosa che non siamo.


L’acqua penetrava da ogni singolo orifizio delle pareti e già arrivava alle caviglie dei tre semidei. Aveva cominciato a sgorgare pochi secondi dopo che la risata finisse di echeggiare. Il piccolo spazio in cui erano rinchiusi si riempiva velocemente, fin troppo. Il panico prese il sopravvento e la paura si impossessò delle loro facoltà. Si guardarono intorno ed iniziarono a tempestare disperatamente di pugni le pareti che li tenevano rinchiusi. Urlarono con tutto il fiato che avevano in corpo, senza alcuna cognizione di causa, dato che nessuno li avrebbe potuti udire. All’improvviso, Mariska strattonò con impeto il figlio di Demetra, e tra le lacrime che sgorgavano copiose, strillò
«Fà qualcosa, dannazione!»
Emil ne fu talmente sorpreso che non disse nulla, non rispose neanche a tono come suo solito. Forse perché il terrore aveva ottenebrato le sue capacità di ragionamento, forse perché non si sarebbe mai aspettato di vedere la figlia di Dioniso in quello stato, fatto sta che rimase immobile, congelato sul posto. 
«Lascialo perdere, è solo un frocio cagasotto!» sputò Wiktor con disprezzo
Emil si avvicinò, conficcandosi le unghie nei palmi, e gli soffiò a pochi centimetri dalla faccia, scandendo ogni parola
«Meglio di te, l’arrivista caricatura di un trans. Sei talmente concentrato su te stesso, da non notare quanto sei ridicolo»
Prima che l’altro potesse replicare, intervenne Mariska, sull’orlo di una crisi isterica
«Smettetela! Pensate a come uscire da qui, piuttosto!»
Si lanciarono un’ultima occhiata, carica di disgusto.
Nel frattempo, il livello dell’acqua era salito ulteriormente, fino a ricoprire il petto dei giovani. Questo continuava ad aumentare sempre di più, finché non si trovarono a dover ingerire più aria possibile prima di essere del tutto sommersi.
Emil chiuse gli occhi, nello sforzo di concentrarsi ed estraniarsi da quello che aveva intorno. Si focalizzò sui rampicanti, ma questi, come se possedessero una sorta di spirito d’iniziativa, lo condussero in un viaggio extrasensoriale, quasi un sogno. Percorse ogni singolo centimetro del tempio, ad una velocità strabiliante, seguendo il percorso che le piante gli imponevano. Scorse molti dei semidei che aveva intravisto all’inizio: due ragazze ed un ragazzo, tutti sui quattordici anni, intenti a bisticciare; molte persone sole, alcune sicure, altre spaventante, altre guardinghe o sospettose. Procedeva troppo in fretta per poter riuscire a distinguerne i volti e, comunque, non sarebbe servito a molto, dato che non conosceva nessuno di loro. Ad un certo punto, sfrecciò verso il basso attraverso un buco sul pavimento. Scese sempre più giù, nell’oscurità più totale, la sensazione del vento che gli scompigliava i capelli come unica compagna. All’improvviso, venne abbagliato da una luce verdastra, che illuminava un’immensa foresta di salici. Nella discesa, poté solo vedere di sfuggita un ponte di corda ed udire il flebile pianto di una ragazza. Si addentrò tra gli alberi, fino a quello che sembrava essere il centro e cuore pulsante dell’edificio. 
Arrivato lì, lo sentì. Percepì distintamente una fonte di potere. Capì che i rampicanti non si erano semplicemente infiltrati tra le crepe delle mura, ma ne erano il principale sostegno. Per il tempio, costituivano struttura, scheletro e fondamenta. 
I salici erano alti e maestosi, irradiavano potere, ma allo stesso tempo erano profondamente antichi, testimoni di eventi ancestrali.
Avevano foglie di un verde brillante ed intenso, quasi irreale.
Quel posto trasmetteva armonia, ti invogliava alla calma e alla spensieratezza. Nessun problema poteva raggiungerti finché rimanevi lì. Emil, estasiato, sbatté le palpebre. L’immagine davanti a sé parve tremolare, come se il segnale non prendesse bene. Solo allora notò, ai piedi dell’albero più imponente, delle ossa. Tibie, costole e teschi, ammassate a grandi mucchi vicino alle radici, mal si sposavano al contesto idilliaco in cui erano calate. Note stonate in una sinfonia altrimenti perfetta.
Sentì un po’ di solletico sul collo e, abbassando lo sguardo, vide che le piante lo stavano avviluppando, stringendolo nella loro morsa soffocante.
Non gli dispiacque affatto quando fece marcire tutto.


Diede un pugno al muro, ferendosi le nocche. Fu un gesto molto stupido da parte sua, ma non le importava. Mormorò tra i denti un “cazzo” trattenuto a stento, mentre prese a succhiarsi il sangue dalle ferite. Dire che era furiosa è un eufemismo. Non pensava fosse possibile odiare uno sconosciuto (o degli sconosciuti, infatti sospettava che fossero stati più individui a portarla lì). Eppure, era un odio senza criterio, poiché non aveva la più pallida idea di chi o cosa ci fosse dietro tutto. Non sapeva se fosse uomo, donna, dio o mostro. Il che lasciava ampio spazio alla fantasia, che prese a galoppare senza freni: una donna di mezza età, le prime rughe a solcarle il volto piccolo, dai lineamenti duri. Indossava un tailleur semplice e raffinato, di un blu profondo e intenso che si abbinava perfettamente ai capelli corvini con qualche ciocca grigia, raccolti in una crocchia ordinata. Camminava rigida, impettita e, ad ogni suo passo, risuonava un fastidioso tic tic tic, a causa dei tacchi alti che portava per compensare la sua bassa statura. La immaginava in una stanza ampia, moderna e asettica, dalle pareti e pavimentazione chiare e lucide, attorniata da grandi schermi ultra tecnologici, da cui si divertiva ad osservarli, con un sorriso sadico dipinto sul volto, mettendo in mostra i denti bianchi e perfetti e sorseggiando dello champagne. Gli occhi piccoli e arcigni le brillavano, ebbri di gioia, come di fronte ad un giocattolo nuovo e bellissimo, mentre la sua mente già elaborava altri modi per mettere in difficoltà i semidei, estenuarli, logorarli, spezzarli. 
Sospirò pesantemente. Indugiare su quelle fantasie non l’avrebbe aiutata di certo. Gliel’avrebbe fatta pagare comunque. Se fosse sopravvissuta a quel caldo infernale. Quelli che una volta erano i suoi capelli, in quel momento erano una scura massa informe, appiccicata e sudaticcia. In realtà, ogni parte del suo corpo era appiccicata e sudaticcia. Inoltre, la tuta aderente, che fasciava il suo fisico non magrissimo, ma con le sue forme, che si manteneva decente grazie ai costanti allenamenti, non traspirava proprio un cazzo. Avrebbe potuto evocare un leggero venticello, ma non voleva rischiare di spegnere le torce, la sua unica fonte di luce. 
Cercò di distrarsi, pensando ad altro, magari a come si sarebbe vendicata. Rise amaramente. Vendicata di chi? Contro chi stava combattendo? Rise di nuovo, un suono basso e lugubre. Lei non stava combattendo, era alla sua mercé, il suo giocattolo. Il trastullo di uno spettro, di un’ombra, un nemico a cui non poteva neanche dare un volto. Un nemico che le aveva tolto ogni appiglio. L’aveva privata dei suoi ricordi, della sua identità. Per quanto si sforzasse, niente riusciva a riaffiorare dalla sua mente, ormai ridotta ad un buco nero, vuoto. 
Delle lacrime le pungevano gli occhi scuri con delle pagliuzze dorate nell’iride, ma si morse con forza il labbro inferiore, carnoso e screpolato, per ricacciarle indietro. Non gli avrebbe dato questa soddisfazione.
Lei era Cora Parker, figlia di Zeus. Era tutto quello che aveva e se lo sarebbe fatto bastare.


Correre. Panico. Bianco. Fuggire. Terrore. Bianco. Scappare. Paura. Bianco. Un assalto. Lampi bianchi spuntavano da tutte le parti, lo graffiavano, lo mordevano, lo beccavano, ma lui continuava a correre. Sempre così, senza un inizio, senza una fine. Correre. Panico. Bianco. Fuggire. Terrore. Bianco. Scappare. Paura. Bianco. Il dolore era lancinante, ogni fibra del suo corpo urlava, grondava sangue, voleva fermarsi, mettere fine a quell’agonia. Ma lui continuava a correre. Anche senza speranza, senza via di scampo, lui continuava a correre. Anche se gli dolevano i muscoli delle gambe, anche se i polmoni bruciavano, lui continuava a correre. Senza un inizio, senza una fine. Però sapeva che non poteva fuggire per sempre. Che ad un certo punto si sarebbe dovuto fermare, arrendersi all’inevitabile. Non sapeva perché o da quanto tempo scappasse, sapeva solo che doveva farlo, nonostante sembrasse che non si muovesse di un passo. Sempre così, senza un inizio, senza una fine. Un fascio bianco attraversò il suo campo visivo, serrandogli la gola. Si accasciò a terra, con i muscoli del collo che si contraevano alla disperata ricerca di ossigeno. Gli si annebbiava la vista, sentiva un sibilo nelle orecchie, mentre le belve gli squarciavano le membra. Sopra tutto il caos, il sangue, il dolore, si erse una risata acuta, spaventosa. L’essere allentò la presa sulla sua trachea. 
Urlò.
Si risvegliò di soprassalto, ansimante. Fece per spostarsi, ma delle tenaglie ai polsi e alle caviglie gli bloccavano ogni movimento. Era legato ad una sorta di lettino di metallo, posto in posizione verticale. Si guardò intorno: si trovava in un piccola stanza, dalle pareti viscide e il soffitto basso. A destra c’era un enorme banco da lavoro addossato al muro, stracolmo di utensili d’ogni tipo, recipienti contenenti strani liquidi, tutti perfettamente ordinati. A sinistra, dei macchinari, puliti e lucidati a dovere, dallo scopo ignoto. Luciano si sentiva piuttosto spaesato: non aveva riconosciuto neanche la metà degli oggetti presenti lì dentro e non sapeva se esserne rincuorato o preoccupato. Proprio accanto a lui, nella medesima situazione, c’era Sophie. Era ancora in stato d’incoscienza e, per un attimo, Luciano temette per il peggio, ma, notando il suo respiro lento e regolare, seppur flebile, si tranquillizzò. La ragazza aveva la fronte corrugata e si agitava debolmente, in preda ai suoi incubi.
Nella parete di fronte al figlio di Efesto, si stagliava gigantesco il disegno di un occhiolino, dai tratti infantili ed incerti, tracciati con della vernice verde fluorescente.


Questi semidei sono così… noiosi! È giunta l’ora di movimentare un po’ le cose




Ehi gente!
Non ci si sente da un po', eh? *si gratta la nuca imbarazzata*
Non ci sono parole per dirvi quanto mi dispiaccia avervi fatto aspettare così tanto, ma ho dei buoni motivi! Fino al 15 Luglio, giorno del mio spettacolo, sono stata impegnata con prove di 7/8 ore, quindi ho avuto davvero pochissimo tempo per scrivere! Per di più, domani parto per una vacanza studio ad Edimburgo e torno l'8 Agosto, quindi dovrete aspettare ancora di più... 
Come sempre, spero che il capitolo vi piaccia! Io non mi esprimo, ché tanto mi fà schifo tutto quello che scrivo a prescindere...
Anche se non me lo merito, sarebbe fantastico se recensiste, perché mi semplifichereste la vita! Se devo chiedervi qualcosa in merito alla storia, non sono costretta a fare come nel dialogo riportato sotto:

 

«Ciao! Hai letto il mio nuovo capitolo?»
«No
»
«Ah, ok... Quando hai fatto fammi sapere, d'accordo?»

Converrete con me che è piuttosto avvilente e ridicolo, right? 

P.S. Quanto è pucciosissima Dory da piccola!? 








 

 


 

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Capitolo 5
*** Capitolo 3 ***


Per favore, leggete l'angolo autrice! Grazie e buona lettura❤ #aridaje

Capitolo 3

 

I’ve got that summertime, summertime sadness
S-s-summertime, summertime sadness
Got that summertime, summertime sadness
oh, oh, oh, oh, oh
La voce del figlio di Ade rimbombava all’interno della struttura, avvolgendolo con le sue note basse e gutturali. Si muoveva per inerzia in quel dedalo senza fine, schiacciato dal peso opprimente dei pensieri negativi, che avevano ormai dimora fissa nella sua mente. Capì piuttosto in fretta che c’era qualcosa che non andava con i suoi ricordi: erano rimaste solo le voci. Presenze accennate, volti sfocati, scene confuse; ma chiare, nitide e prorompenti, si stagliavano voci dal sapore familiare, ma al contempo sconosciute.
Inutile! Senza carattere! Arrendevole! Sottomesso!
I suoni rimbalzavano nella sua scatola cranica, producendo un eco assordante. Ogni parola, una stilettata all’anima, alla quale si aggiungevano nuove e sanguinanti ferite, senza alcuna speranza di guarigione. Ben presto, cominciò a sentire sempre più caldo. Fiamma alte e vermiglie lambivano il suo fisico magro, ricoprendolo di gravi ustioni. Si gettò immediatamente a terra, urlante, in preda alle convulsioni. Con gli occhi scuri, quasi dello stesso colore del fumo che si insidiava prepotente nei suoi polmoni, vide con terrore la sua fine: solo, in un luogo sconosciuto, succube di un gioco crudele, in attesa di essere bruciato vivo.
Chiuse gli occhi, lacrimanti a causa della fuliggine, arrendendosi all’inevitabile. Velocemente come era apparso, il fuoco scomparve. Timothy si rialzò circospetto, lo sguardo che saettava da tutte le parti. Sul suo corpo non c’era alcuna traccia dell’avvenimento di poco prima, nessuna ferita o bruciatura. Niente che potesse testimoniare l’accaduto. Si passò una mano tra i capelli scuri, disorientato e confuso. Possibile che fosse solo un’allucinazione?
Riprese a canticchiare sottovoce, nel vano tentativo di distrarsi. Era tutto inutile, non riusciva a far altro che tornare, con la mente, a quello che era successo. Gli era parso così reale: le fiamme, il calore, il fumo, la paura, il dolore. Soprattutto il dolore. Ogni singola cellula che ribolliva, si agitava. L’impulso irrefrenabile, quasi animalesco, di strapparsi la cute, pur di far cessare la sofferenza. Le sue urla assordanti che gli facevano ardere la gola, portando allo stremo le corde vocali e costringendolo ad inalare vagonate di fumo nero e denso, che a sua volta scendeva dritto nei polmoni, in un circolo vizioso soffocante e deleterio. 
«Non muoverti» ordinò perentorio un ragazzo, senza alcuna particolare inflessione nella voce.
Timothy si arrestò immediatamente. La situazione che gli si parava davanti era piuttosto stramba: un ragazzo, del quale poteva distinguere solo la schiena magra ma muscolosa e il voluminoso ciuffo color carota, in una posizione gobba, accucciato con la gambe piegate, era addossato alla parete sinistra del corridoio, intento ad osservarne la pavimentazione.
«Smettila con quella lagna, sto cercando di pensare» soffiò con una leggera punta di fastidio nella voce.
Il figlio di Ade non si era nemmeno reso conto del fatto che stesse ancora canticchiando, ma assecondò la sua richiesta. 
In effetti, il pavimento presentava delle caratteristiche… curiose: era costituito da grandi mattonelle quadrate color ocra, alcune visibilmente più scure di altre. Sopra qualcuna di quelle più chiare, erano tracciati dei numeri un po’ sbiaditi, dai colori smorti, ma con un certo rigore, quasi costituissero una sorta di schema: il numero uno, in presenza massiccia rispetto agli altri, in blu; il due, anch’esso abbastanza ricorrente, in verde; il tre, assai meno comune in rosso; infine, un unico, solitario quattro, in viola. Ciò nonostante, Timothy non riusciva proprio a spiegarsi l’interesse dell’altro.
Ci mancava solo questa…, pensò seccato il figlio di Atena. Oltre a non morire, doveva anche preoccuparsi che quel tipo rimanesse al suo posto. Non riusciva a capacitarsi di quanto la gente potesse essere lenta di comprendonio. Insomma, era talmente palese! Fin dal primo momento in cui aveva calpestato una mattonella di quel passaggio, aveva intuito che ci fosse qualcosa di diverso. Ricordava perfettamente la sensazione degli ingranaggi che si muovevano sotto di lui, il cigolio di macchinari che riprendono la loro funzione, i rumori di assestamento. Poi, quando si rivelarono i numeri, riconobbe subito quel pattern inconfondibile: prato fiorito, il gioco per pc tanto famoso, che quasi tutti giocano impropriamente. Al contempo, arrivò anche la consapevolezza di quanto fosse in pericolo, considerato che in origine il nome era “campo minato”. Quando mise l’altro piede avanti, sentì distintamente una voce, poco più di un sussurro.
Suggerimento: attento a dove metti i piedi!
Svanì con una risatina e capì che sarebbe bastato un solo passo falso e… BOOM! Non aveva nessuna voglia di scoprire cosa succederebbe se dovesse sbagliare.
Winter sforzò gli occhi color ghiaccio e, mantenendo i piedi nella “casella”, cercò di sporsi per vedere il numero dell’altra parte del corridoio. Nel farlo, perse l’equilibrio e riuscì a non cadere per un soffio. Si concesse un breve sospiro di sollievo, prima di ricominciare a pensare a come uscire da quella situazione. Non poteva andare avanti, poiché non c’erano abbastanza numeri per stabilire quale mattonella fosse sicura.
Guardò di sottecchi il ragazzo dietro di lui. Avrebbe potuto usarlo come cavia, ma non conosceva la potenza della detonazione, sempre che non ci siano altri tipi di trappole, e avrebbe rischiato di rimanerci secco anche lui.
Pensieroso, prese a mordersi le nocche come suo solito. 
La struttura tremò leggermente e il panico lo assalì, ma cercò di rimanere calmo e tranquillo, specialmente con quello lì che lo osservava. Spostò lentamente lo sguardo verso l’alto, come se il minimo spostamento d’aria potesse essere fatale. Calcinacci vennero giù dal soffitto e a Winter sembrò che il tempo rallentasse durante la loro caduta, dilatando all’infinito quei brevi istanti. Il tonfo delle macerie scandiva i suoi ultimi momenti, ne era certo. Eppure, non successe nulla. Rilassò i muscoli, dalla mascella squadrata fino alla punta dei piedi, sollevato per lo scampato pericolo.
Illuso
Sopraggiunse improvvisa una scossa molto più violenta della precedente, che fece inciampare entrambi i semidei in fallo. Per qualche secondo non accadde nulla, un attesa snervante per Winter, mentre Timothy era sempre più confuso dalla condotta di quest’ultimo. Prima che potessero rendersene conto, del materiale filamentoso fuoriuscì dal pavimento e li avvolse in una sorta di bozzolo bianchiccio, per loro sfortuna, molto resistente. Da lì dentro, l’esterno appariva come un confuso ammasso di ombre. Qualcosa cominciò a trascinarli, incurante dei lividi e dei graffi che gli stava procurando. Proseguì per un bel po’, fino a quando non li gettò rudemente in un angolo. Sentirono distintamente dei passi che si allontanavano. 
Li abbandonò lì, mentre nell’aria risuonavano le note di “Black Sabbath”.


«Penso che dovremmo andare a destra!» propose Zoey
«Bene» Alex fece una breve pausa ad effetto, per poi incamminarsi nella direzione opposta.
La giovane figlia di Poseidone alzò al cielo gli occhi ambrati, sbuffando infastidita. Dietro di lei, Rosie rideva divertita
«Dai Alex, torna indietro!» lo richiamò allegramente la figlia di Demetra. Passarono alcuni secondi, ma del figlio del dio del mare nessuna traccia. 
«Alex, smettila, non è divertente! Vieni subito!» urlò Zoey visibilmente preoccupata, il corpo magro e formoso proteso verso il vicolo da cui era sparito il semidio. Nel frattempo, Rosie scrutava il passaggio davanti a sé con i suoi brillanti occhi verdi, nella speranza di vederlo comparire. Gettò un’occhiata all’altra ragazza, che le sembrava davvero molto scossa. Le si avvicinò e le posò la mano sulla spalla, cercando di trasmetterle la sua vicinanza. Zoey ricambiò con un sorriso accennato e, dopo aver preso un respiro profondo, disse semplicemente
«Andiamo»


Si appostò all’angolo di svolta, in attesa del momento propizio. Chiuse gli occhi verde acqua, per focalizzare meglio la sua attenzione sul rumore dei passi in avvicinamento. Si mosse repentinamente e, con uno scatto felino, inchiodò il suo obiettivo al muro. La sua espressione, da feroce e soddisfatta del suo operato, divenne irritata in un batter d’occhio, appena si rese conto di chi si trovava di fronte.
«Gattina!» esclamò contento il ragazzo, per poi cambiare tono subito dopo e alzare le mani in segno di resa in risposta allo sguardo tagliente della figlia di Ares
«Harsha, Harsha!… Va bene, scusa!»
Quest’ultima sospirò pesantemente e si allontanò a grandi falcate.
«Ehi, aspetta! Non puoi sbattermi contro il muro in quel modo violento ed incredibilmente eccitante e andartene come se niente fosse!» la richiamò Parker scherzoso, ma con un pizzico di malizia.
Harsha, dandogli le spalle, strinse i pugni. Si voltò lentamente verso di lui, dando occasione alla sua rabbia di montare.
«Fammi capire, piccolo stronzo, per te sarei solo un oggetto sessuale?» disse a denti stretti, avvicinandosi sempre di più ad ogni parola che pronunciava.
«Certo che no!» rispose piccato, lo sguardo indignato come a voler dire: come puoi pensare questo di me? 
Si voltò offeso, poi tornò sui suoi passi e si rivolse di nuovo a lei
«Sono certo che saresti anche un’ottima casalinga!» aggiunse beffardo, con un sorriso da piantagrane stampato sulla faccia.
Harsha, che nel frattempo non aveva abboccato alla sua sceneggiata da orgoglio ferito, aveva continuato ad accorciare la distanza che li separava, fino a ritrovarsi molto vicina, troppo vicina, pericolosamente vicina. Infatti, gli sferrò una potente ginocchiata… proprio lì.
Il figlio di Dioniso si piegò in due dal dolore e, istintivamente, mise le mani a protezione dei gioielli di famiglia. Nonostante ciò, riuscì a mormorare, con voce stridula e leggermente infantile
«Dai, stavo solo scherzando, prometto che non lo faccio più!»
Lei si accostò al suo orecchio e con le sue labbra carnose sussurrò
«Vaffanculo»
Parker la osservò andare via, fiera ed indomabile. Per quanto fosse conscio di mettere a rischio i propri attributi, far incazzare quella ragazza lo divertiva tantissimo, specialmente quando allargava le narici infuriata. A quel pensiero, scosse la testa e rise leggermente, riprendendo a camminare, sperando che non ci fossero danni irreparabili lì in basso. 


Far marcire quello strano bosco costò molta fatica ad Emil. Spese quasi tutte le sue energie per riuscirci, poiché inconsciamente sentiva che andava fatto. Osservò intorno a sé le piante che si scurivano, si contorcevano, si avvizzivano. I rami pensili che si afflosciavano, come marionette a cui hanno tagliato i fili. Le foglie che cadevano, ondeggiando lievi nell’aria, per poi decomporsi al suolo. Gli era sempre parso crudele il destino delle foglie in autunno: costrette a cambiare colore, rinsecchirsi e farsi calpestare, solo per la sopravvivenza dell’albero, che le sostituirà in primavera e le abbandonerà nuovamente all’arrivo del freddo. 
Che alberi spietati ed egoisti!
Per non parlare delle foglie, che imperterrite, nonostante siano a conoscenza del destino a cui vanno incontro, ricrescono sempre. 
Estremi dedizione e spirito di sacrificio o semplice masochismo?
Che foglie sciocche! 
Il paesaggio deteriorato intorno a sé, lo fece sentire per un attimo… potente. La devastazione di cui era il solo testimone era opera sua, lui ne era l’artefice. Per quanto fosse stanco, per quanto non sentisse più in suoi muscoli, per quanto non riuscisse neanche a reggersi in piedi, l’euforia nei suoi occhi eclissava tutto il resto. 
Con violenza inaudita, venne sbalzato via e tornò nel suo corpo, che stava affogando. Aprì gli occhi di scatto, facendo arretrare Mariska e Wiktor dallo spavento. Si guardarono per un attimo, quando le pareti che li circondavano iniziarono a cedere. Emil lottò contro le sue palpebre che minacciavano di chiudersi, mentre enormi frammenti di roccia fendevano l’acqua. Le forze lo avevano abbandonato e gli mancava il respiro, ma lui si aggrappò strenuamente all’ultimo residuo di vita che aveva. Vide un grosso cumulo di macerie piombare su di lui, annaspò nel tentativo di spostarsi, ma era troppo provato dall’esperienza nel bosco. 
Chiuse gli occhi, esausto.


«Ti prego, smettila di parlare così tanto!» disse la figlia di Efesto, palesemente ironica dato il mutismo in cui si era chiuso il semidio, con un sorrisetto scaltro sulle labbra piene e rosee. Il figlio di Ecate rise, abituato all’umorismo della ragazza.
«Stavo solo pensando che è davvero strano che ancora non sia successo niente…» mormorò puntando i grandi occhi azzurri davanti a sé, come se si aspettasse un attacco da un momento all’altro.
Jessica abbassò il capo e aggrottò le sopracciglia spesse e scure, lasciando scivolare i lunghi capelli biondi, riflettendo sulle parole di Yuki. Effettivamente aveva ragione, vagavano tranquilli da ore e questo non faceva che aumentare l’inquietudine della ragazza. Fortunatamente, dopo essere riuscita ad andare oltre l’apparenza fredda e taciturna di Yuki, aveva trovato in lui un buon compagno. Non sapeva ancora se potesse fidarsi, ma finora le aveva fatto una buona impressione. Sentirono dei rumori alle loro spalle ed entrambi si voltarono, le orecchie tese a captare ogni minimo suono, i muscoli in tensione, gli occhi verdissimi di lei che cercavano di scrutare l’ambiente scarsamente illuminato. Scorsero una figura muoversi a fatica. Lui le si parò istintivamente davanti e si avvicinarono con cautela. Quando furono abbastanza vicini, poterono distinguere il suo aspetto sotto la luce delle fiaccole. Ci misero qualche secondo a riconoscere in quella ragazza bassa, magrolina, con la pelle spaventosamente pallida, la carismatica figlia di Ade che li aveva guidati e rassicurati all’inizio. Si poggiava alla parete, le gambe malferme incapaci di reggerla. Avanzava molto lentamente, con andatura claudicante. Era evidente il suo sforzo nel muoversi, per cui Yuki colmò lo spazio che li separava a grandi falcate. 
Un nome balenò nella mente di Jessica: Ciel. Ricordò di aver  pensato che fosse un nome strano per una figlia di Ade e probabilmente era per questo motivo che le era rimasto impresso.
Yuki notò subito che qualcosa non andava: l’odore metallico del sangue giunse pungente alle sue narici dal tessuto che ricopriva la gamba destra, divenuto color cremisi. Fece sedere a terra la ragazza e il suo viso si contrasse in una smorfia di dolore, ma non un gemito, né un lamento uscirono dalle sue labbra vermiglie.
«Io…» provò ad articolare con voce flebile, appena udibile
«Fà silenzio, non ti sforzare» la interruppe perentorio Yuki.
In condizioni normali, Ciel avrebbe ribattuto poiché non le piace che le dicano cosa deve fare, ma in quel momento la sofferenza prese il sopravvento. Il figlio di Ecate si abbassò per controllare la ferita, ma i suoi capelli biondi, lunghi e sbarazzini, gli erano d’intralcio, così li legò velocemente in una coda alta, con un laccetto di cuoio sul polso. Era un gesto talmente familiare ed inconscio, che non fece nemmeno caso al fatto che avesse un laccetto a portata di mano, inspiegabilmente. Sollevò il tessuto il più delicatamente possibile. Per quanto non avesse conoscenze mediche approfondite, riconobbe all’istante che quella ferita era infetta: il taglio non sembrava molto profondo, ma i bordi erano irregolari; la pelle, gonfia e arrossata, era incandescente e secerneva un liquido molto denso, di colore verde-giallastro.
«Non sono un medico, ma so che bisogna pulire la ferita e poi coprirla con un cerotto, ma non abbiamo niente di tutto questo!» disse Jessica, che si era apposta dietro di lui, lasciando trasparire la sua ansia dal tono di voce.
Yuki fece leva sul suo autocontrollo e prese le redini della situazione.
«Dobbiamo uscire da qui. Jessica, tu va' avanti, io aiuto Ciel a camminare»
Il suo tono era così sicuro, che la figlia di Efesto fece come le era stato detto, non prima di accertarsi che loro le venissero dietro.
Yuki aiutò la semidea ad alzarsi, le fece posare la mano sulla sua spalla, mentre con l’altro braccio la sorreggeva.
In quel momento, Jessica si rese conto di quanto fosse gravoso il suo compito: come avrebbe fatto a condurli fuori di lì?


Più tempo aveva a che fare con quella figlia di Afrodite, più la voglia di prenderla a pugni cresceva. Pensava davvero di aver già vinto solo  perché aveva “ammaliato” un figlio di Zeus? Purtroppo, per quanto la ritenesse insopportabile, poteva essere una valida alleata. La sua lingua ammaliatrice, sapientemente guidata, si sarebbe dimostrata estremamente utile. Avrebbe potuto creare zizzania, spezzare le alleanze, instillare dubbi, paure e sospetti nei suoi avversari senza alcuno sforzo. In più, il pacchetto includeva un figlio dei tre pezzi grossi, che non fa mai male! In quel frangente, Aysha agì da degna figlia di Ate. Per convincere Nicole, doveva mostrarsi ai suoi occhi utile, anzi meglio indispensabile
«Bè, non potrai sempre contare su di lui. Infatti, qui dentro è inutile»
L’altra alzò un sopracciglio e ribatté scettica
«Davvero? Vogliamo provare?» Aysha represse l’istinto di spaccarle il suo visino perfetto e ostentando un autocontrollo che non possedeva rispose
«Fai pure, ma sappi che non può evocare un fulmine perché squarcerebbe il soffitto, che ci crollerebbe addosso. Non avrebbe molto fortuna neanche con le correnti d’aria, il cui unico risultato sarebbe quello di lasciarci nell’oscurità più totale. Infine, è uno spadaccino senza la sua spada, quindi inoffensivo» disse tutto questo ad una tale velocità da confondere e impedire all’altra semidea di interromperla o replicare.
«Inoltre, non puoi fare affidamento su un potere che non funziona sempre con tutti» aggiunse, rigirandosi innocentemente tra le dita una cioccia riccia e scura e voltandole le spalle, come per andarsene. L’aveva fatto, aveva sganciato la bomba. Sperava solo di avere ragione.
«Cosa? Come fai a saperlo?» biascicò irritata Nicole. 
La figlia di Ate si umettò le labbra carnose, soddisfatta del suo operato. Si rivolse di nuovo a lei, con i piccoli occhi verde torbido raggianti e le sopracciglia inarcate in un’espressione arrogante.
«Semplice. Se avessi potuto, avresti già usato la tua lingua ammaliatrice su di me»
Lasciò l’altra senza parole, incapace di rispondere. Vista la situazione, Aysha continuò
«Ascolta: potremmo formare un bella squadra. Io sono agile, veloce, intelligente e… non dirò a nessuno che hai “schiavizzato” un povero figlio di Zeus. Sai, qualcuno potrebbe non gradire…»
«Mi stai ricattando!?» soffiò indignata Nicole
La riccia fece finta di pensarci
«Sì, credo proprio di sì!» ed esibì un sorriso trionfante.
«Ci stai?» chiese gongolante la figlia di Ate, allungando la mano olivastra. Nicole la strinse, a dir poco furiosa.
Se Aysha si fidasse della figlia di Afrodite? Certo che no! L’avrebbe sfruttata finché poteva, poi avrebbe trovato un modo per liberarsi di lei. Dal canto suo, anche Nicole cominciò subito a pensare a come uscire da quella scomoda situazione e a come trarne vantaggio.
Che bizzarra alleanza!


Per quanto vagassero da tempo, senza nessuna traccia di Alexander, Rosie cercò di rimanere calma e positiva. Per tenere le mani occupate, aveva legato i suoi capelli castani in una treccia laterale. Aveva provato a rincuorare Zoey, ma quest'ultima era rimasta davvero turbata dalla scomparsa di Alex. Più di quanto la piccola figlia di Demetra si aspettasse. Anche lei era preoccupata per lui, ma l’altra era profondamente scossa, in un modo che non riusciva a spiegarsi, soprattutto per qualcuno che conosceva a malapena. 
Le due ragazze ebbero un sussulto quando qualcosa cadde rumorosamente davanti a loro. Si scambiarono un’occhiata e si avvicinarono per esaminare l’oggetto: era un piccolo scrigno, dello stesso colore dei capelli di Zoey, ovvero color cioccolato con dei riflessi rossi. Era finemente intagliato e lucidato, apparentemente nuovo, come se fosse fresco di verniciatura. Ai lati presentava degli eleganti ghirigori simili ad onde stilizzate. La cosa più stupefacente era che sul coperchio c’era un bassorilievo, raffigurante una ragazzina del tutto simile alla figlia di Poseidone. Chiunque l’avesse realizzato, era riuscito persino a dare l’illusione di movimento ai capelli della figura, rispecchiando fedelmente la chioma riccia, spettinata ed indomabile del modello reale. Zoey lo studiò attentamente con le mani chiare, indugiando sull’apertura in oro rosso, incerta sul da farsi. Alla fine, lo aprì, decisa a non farsi mettere in crisi da uno scrigno. Sollevò il coperchio lentamente, con cautela, quasi con paura. All’interno ci trovò una boccettina da circa venti ml, contenente un liquido denso e argenteo e chiusa con un piccolo tappo di sughero, e un foglio di carta ingiallita. Quest’ultimo recava queste parole:

Agisci come chi viaggiò in un mondo incantato
e segui le istruzioni di questo foglio dorato, 
per recuperare ciò che avevi,
fa' come ti dico: BEVI

Zoey era perplessa. Chi viaggiò in un mondo incantato? Per recuperare ciò che avevi? Che cosa voleva dire?
Anche Rosie rimuginò sul significato di quella breve filastrocca e, pensando al secco comando “BEVI”, le si illuminò una lampadina
«Alice nel paese delle meraviglie!» dissero le due ragazzine in coro e scoppiarono a ridere, di una risata pura e genuina, divertite dalla perfetta sincronia con cui erano arrivate alla stessa conclusione.
«Va bene, ma come può aiutarci? Alice doveva bere per rimpicciolirsi, mentre io, secondo quanto dice qui, dovrei recuperare qualcosa» aggiunge la figlia di Poseidone, sempre più confusa
«Magari, quelli sono i tuoi ricordi…» propose Rosie.
In realtà, era la prima cosa che aveva fatto capolino nella mente di Zoey alla lettura del terzo verso, ma era un’eventualità che la riempiva di dubbi. E se fosse una trappola? Possibile che le memorie accumulate in quattordici anni di vita, si potessero contenere in quella piccola boccetta?
Senza neanche rendersene conto, aveva cominciato ad arricciarsi sul dito una ciocca di capelli, mentre borbottava in francese. Stavolta, fu il turno di Rosie di guardare l’amica confusa e preoccupata
«Zoey, stai bene?»
«Sì, perché?»
«Stavi parlando in francese!»
Conosceva il francese. Conosceva il francese ma non sapeva perché. Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Stappò la boccetta e la bevve tutta d’un fiato.
Come in una nave in balìa di una tempesta le onde si infrangono a prua, sempre più alte, sempre più violente, così i ricordi investirono la mente della semidea.

«Dov’è la mamma?»
«Ecco… lei non c’è più»

«Forza bambini, ci sono due signori che vi vorrebbero adottare. Fate i bravi, mi raccomando!»

«Mamma! Mamma! Lys mi sporcato la bambola!»
«Non è vero, non sono stato io!»
«Alex, chiedi scusa alla tua sorellina»
«Uffa, la difendete sempre perché è la più piccola!»
«Alexander Ulysse Baston, vieni subito qui!»

«Papà, spingimi più forte!»
«Va bene, però tieniti»
«Anch’io voglio salire sull’altalena!»
«Io pure!»
«Anch’io! Anch’io!»
«Prima io però!»
«Tranquille bambine, una alla volta  farò fare un giro sull’altalena a tutte»

«Papà, andiamo a giocare a pallone?»
«Certo Alex, finisco di prendere il tè con le tue sorelle e arrivo»
«Tutte queste femmine saranno la nostra rovina…»

«Lys, ridammi subito la mia fascia!»
«Vienitela a prendere»
«Se ti acchiappo, te la faccio pagare!»
«Provaci!»

«Lys?»
«Sì, sorellina?»
«Alla fine, il Campo Mezzosangue non è poi così male»
«Già»
«E… sono contenta di essere in cabina con te…»
«Lo so, tutti vorrebbero essere in cabina con me. Considerati fortunata!»
«Idiota! Per una volta che volevo dirti qualcosa di carino…»

Pensò seriamente che la testa le sarebbe esplosa. Adesso tutto era più chiaro. La sua preoccupazione, il nodo alla stomaco che l’aveva attanagliata da quando Lys era scomparso, tutto acquistava un nuovo significato alla luce di quello che ricordava. Si guardò la fascia giallo-arancione che portava al polso sinistro, uguale a quella di suo fratello eccetto per la colorazione. Era incredibile come un particolare prima insignificante, con i suoi ricordi ripristinati acquistasse tutt’altro valore.
«Zoey! Zoey! Presto, dobbiamo andare!» la strattonò tra le lacrime Rosie
«Cosa? Perché? Che sta succedendo?» chiese disorientata
«Sta per crollare tutto, dobbiamo scappare!» urlò la figlia di Demetra con urgenza
«Ma Alex… non possiamo…»
«Non c’è tempo!»
Zoey si alzò in piedi, furiosa e allo stesso tempo supplicante
«È mio fratello, non possiamo lasciarlo qui!»
A questa rivelazione, Rosie non seppe cosa rispondere. Riuscì solo a guardarla con un immenso senso di colpa e dispiacere dipinti sul volto, gli occhi lucidi di pianto.
Ci fu una scossa tremenda e degli enormi massi caddero dal soffitto. Le ragazze si spostarono appena in tempo, salvate dai loro riflessi da semidee. 
La consapevolezza della situazione in cui si trovava colpì Zoey come un macigno. Non poteva cercare Alex senza morire nel tentativo e condannare a morte anche Rosie. Aveva appena ritrovato suo fratello e l’aveva già perso.
«Perdonami Lys» sussurrò.
Corse via, seguita da Rosie.


Spalancò gli occhi improvvisamente a causa di uno schiaffo. Era disteso supino a terra, ma per lo shock raddrizzò immediatamente la schiena, incontrando lo sguardo sorpreso di Mariska, che poco prima era arretrata per la repentina presa di coscienza del semidio. Insomma, un attimo prima è svenuto e adesso sembra perfettamente presente e attivo!, pensò la ragazza.
Emil si portò la mano alla guancia, lievemente arrossata. 
«Ma sei pazza!?» esclamò
«Sei tu quello che ha fatto il cosplay della bella addormentata nel bosco! Cosa avrei dovuto fare?» rispose a tono Mariska.
Il figlio di Demetra ripensò a quello che aveva fatto, al bosco, al quasi annegamento…
«Lasciamo perdere. Non posso spiegarti perché, ma dobbiamo uscire da qui»
Mariska percepì una certa urgenza nella sua voce, anche se appena accennata, per cui decise di fidarsi.
«Va bene» disse un po’ riluttante, lasciandosi sfuggire un sospiro
«Dov’è Wiktor?»
Quella domanda fuoriuscì dalle labbra di Emil prima ancora che potesse rendersi conto di averla formulata. Se ne pentì all’istante. Cosa gliene importava?
«È rimasto bloccato dall’altra parte» rispose la figlia di Dioniso, indicando un enorme cumulo di macerie.
Emil non seppe decifrare cosa provava. Dispiacere? Sollievo? Preoccupazione? Preferì semplicemente ignorare la cosa.
«Dai, sbrighiamoci» 


Le luci si spensero di colpo. Poi un faro si accese, accecando il figlio di Efesto, ancora legato. 
«Ben svegliato, semidio»
Una voce suadente, decisamente femminile, echeggiò in tutta la stanza, lasciando sospesa nell’aria la lieve vena canzonatoria di cui era intrisa la parola “semidio”.
Luciano rimase in silenzio, aspettando che continuasse.
«Come siamo taciturni! Dai, ho una sorpresa per te» disse ammiccante
Di fronte a lui, un cono di luce illuminò un uomo di mezza età, legato ed imbavagliato.
«Grazie, non dovevi. Preferisco i buoni regalo» scherzò Luciano per prendere tempo
«Cosa? Non ti piace? Ah già, non te lo ricordi…» e rise, come se avesse raccontato la barzelletta più divertente del mondo, di una risata cristallina, di quelle lunghe e prolungate che ti fanno dubitare della sanità mentale di una persona.
Luciano inarcò le sopracciglia folte e scure, piuttosto confuso ed inquietato allo stesso tempo.
«È l’ora di rinfrescarti un po’ la memoria»
La stanza intorno a lui prese a vorticare ad una velocità nauseante. Non riusciva più a distinguere i contorni della realtà. Finalmente il mondo smise di girare e lui cadde bruscamente in avanti, frenando la caduta con le mani. 
Si trovava in una fabbrica operaia, forse del settore siderurgico. Ogni cosa di quel posto gli era familiare: il sommesso vociare dei lavoratori, i rumori dei macchinari in funzione, la puzza di olio e di fumo, la sporcizia. Il tutto gli trasmetteva un tale senso di appartenenza, da essere quasi commovente. Si sentiva a casa.
Davanti a lui comparve un ragazzino. Aveva la carnagione ambrata, grandi occhi castano scuro e lunghe ciglia. Era sporco di olio sul viso, sulle braccia e anche sui vestiti malconci. Col dorso della mano si scostò dalla fronte imperlata di sudore dei ciuffi castano chiaro, macchiandosi ancora di più. In quel gesto, finalmente lo riconobbe: era se stesso, all’età di tredici anni. Nel tempo, Luciano era un po’ cambiato. La dolcezza dei tratti infantili aveva lasciato spazio a dei lineamenti morbidi, ma dalla mascella ben delineata. Inoltre, era aumentato di statura e il fisico era leggermente più scolpito. Il piccolo Luciano si avviò spedito, zigzagando in mezzo ai macchinari, piuttosto sicuro della sua direzione. Chiedendosi dove stesse andando, il figlio di Efesto lo seguì. Il Luciano tredicenne spalancò una porta che dava su un’altra sala macchinari. Rimase impietrito sul posto, come l’altro Luciano. 
In quel momento come allora, egli poté solo assistere, impotente. 
Un uomo, furente, spinse sua madre sui macchinari in funzione e lei cadde e agitava le braccia alla ricerca disperata di un appiglio, mentre cadeva inesorabilmente, e finì schiacciata e morì sul colpo e Luciano si coprì le orecchie per non sentire le urla del ragazzino, le sue urla, e l’odio e la rabbia repressa si impadronirono di lui, insieme al dolore e alla disperazione per aver perso la persona che amava di più al mondo.
Cambiò scenario. Era in un’aula di tribunale. Era vuota, ma la ricordava benissimo. Era l’aula in cui era stato processato l’uomo che aveva ucciso sua madre. L’aula in cui si era dichiarato innocente. L’aula in cui lui aveva esposto la sua testimonianza, che nessuno aveva considerato. Era l’aula in cui quell’uomo era stato assolto.
Tornò nella stanza da cui era partito, ancora intrappolato al lettino di metallo.
«L’uomo cattivo ti ha ucciso la mamma» cantilenò una voce infantile.
Luciano lo guardò, ma con occhi diversi. Julian Shackleford. Persino il suo nome gli dava il voltastomaco. Lo scorrere del tempo gli aveva solo imbiancato la radice dei suoi capelli bruni, ma quegli occhi, quei gelidi occhi chiaro-azzurri, avevano popolato le sue fantasie più cupe e violente. Si chiese come avesse potuto dimenticarli.
La sua sola vista, insieme al ricordo della morte di sua madre vivo nella mente più che mai, lo resero furibondo. Sentì la collera montare, i pugni serrarsi fino a conficcarsi a sangue le unghie nella carne, le narici dilatarsi, gli occhi inumidirsi, le labbra tremare, ogni fibra del suo essere tesa allo spasimo per il desiderio di vendetta. Come ad assecondare il suo volere, le tenaglie si aprirono. Si scagliò immediatamente contro Julian. Abbandonò ogni sorta di razionalità e raziocinio, lasciando che l’odio e la rabbia accumulati in quattro anni lo pervadessero. Lo tempestò di pugni e calci. Lo colpì alla mascella, allo stomaco, sul naso. Diede un calcio alla sedia a cui era legato, gettandolo a terra. Prese a dargli ripetuti e violenti calci allo stomaco, alle ginocchia. Si allontanò un istante per cercare un oggetto pesante. Trovato, lo usò per spaccare la sedia, che gli era d’intralcio. Schegge di legno volarono ovunque, conficcandosi anche nella pelle di Luciano, a cui però non importava. Sollevò l’uomo per il colletto della giacca, ormai intrisa di sangue, e lo sbatté al muro, aiutato dall’adrenalina che circolava nel suo corpo. Piantò gli occhi iniettati di sangue in quelli chiari di Julian, pieni di assoluto terrore.
«Finiscilo!» una sola parola, un comando dolce, allettante e Luciano si ritrovò in mano esattamente ciò di cui aveva bisogno in quel momento: un pugnale.   
Glielo conficcò nel petto, spingendo con il peso del suo corpo per piantarlo più in profondità, mentre le grida dell’uomo erano soffocate dal bavaglio. Quando la lama affondò completamente, Luciano la rigirò, per farlo soffrire ancora di più. Estrasse l’arma e il corpo di Julian Shackleford si accasciò a terra senza vita, mentre fuoriuscivano rivoli di sangue. 
Una lacrima cadde sul pugnale insanguinato, pesante come una sentenza di morte. A quella ne seguirono altre. Lacrime di disperazione, lacrime di soddisfazione, lacrime di sfogo.
Le luci si riaccesero in tutta la loro potenza e accecarono Luciano, che si coprì gli occhi con la mano. Quando li riaprì, tutto era tornato al suo posto, come se non fosse successo nulla. Il cadavere, il sangue, persino quello su di sé era sparito. Lui però era certo di ciò che era accaduto, poiché si sentiva svuotato, svuotato da anni di odio e rancore. Si sentì afferrare da dietro e si ritrovò di nuovo bloccato sul lettino, che si piegò fino a costringerlo in posizione supina. Il lettino si mosse velocemente, portandolo in uno spazio poco illuminato, dal soffitto altissimo.
«Prima che te ne vada, devi solo fare una scelta» scandirono insieme delle voci maschili, femminili e puerili
«Che cosa vuoi?» era esausto, non era in vena di giochetti
«Solo un semidio uscirà da qui»
A destra, apparve Sophie, anche lei immobilizzata. Ci fu assordante rumore di catene in movimento e qualcosa, di cui potevano solo distinguere il metallico scintillio, scese in picchiata su di loro.
Non c’era niente che il figlio di Efesto potesse fare e, seppur a malincuore, fece la sua scelta
«Uccidi lei»
Non avrebbe rischiato la vita per una ragazza che conosceva a malapena.
Le catene calarono sulla figlia di Atena.
«Aspetta!» urlò Luciano. Tutto si fermò, una lama a pochi centimetri dal cuore della ragazza. 
«Hai detto che solo un semidio uscirà da qui, giusto?» nonostante il cuore gli battesse all’impazzata, cercò di mantenere un tono calmo
«Sì, è quello che ho detto»
«Sophie non è un semidio, però. È una semidea» era il pretesto più ridicolo a cui potesse aggrapparsi, se ne rendeva conto, ma doveva almeno provarci, nella speranza di prendere tempo ed escogitare una soluzione migliore.
Dopo dei secondi che parvero interminabili, finalmente la voce rispose
«Hai ragione. Te lo concedo, per stavolta»
Li liberò davanti ad una porta spalancata, da cui penetravano dei raggi solari. Erano talmente storditi, che nessuno dei due azzardò un passo.
«Forza, andatevene» li esortò sbrigativa una voce maschile. Attraversarono veloci lo spazio. Uscirono, la luce del sole che li riscaldava. Un leggero venticello rendeva la temperatura gradevole, mite. Il cielo era di un azzurro abbagliante, specialmente dopo il buio del tempio.
Luciano si allontanò a grandi falcate, ma venne richiamato dalla voce di Sophie. Decise di non scappare, di affrontare la situazione. Si fermò e aspettò che lo raggiungesse. Aveva i capelli biondi un po’ scombinati dalla corsa e le guance arrossate.
«Grazie» disse semplicemente
«Per cosa?» chiese lui sbalordito e perplesso
«Per non esserti comportato da eroe»
Non c’erano disprezzo, rabbia, risentimento, delusione o tagliente sarcasmo nelle sue parole. Era… sincera. 
No, cazzo, pensò Luciano. Aveva ucciso un uomo, l’avrebbe lasciata morire per salvarsi, insomma, si era comportato da pezzo di merda. Lui voleva sentirselo dire. Avrebbe accettato qualunque reazione da parte sua, ma non la gratitudine.
«Sei scema!? Mi sono comportato da bastardo egoista e tu mi ringrazi!?» le sbraitò contro
«E pensi sia peggio che sacrificarti e lasciarmi col bruciante senso di colpa di una morte che non ho chiesto!?» rispose a tono, quasi sull’orlo delle lacrime
«Certo che è peggio! Qualunque persona normale penserebbe che è peggio!» ribatté furioso
«Ti assicuro che non è così, idiota!» replicò esasperata, andandosene via.


Molti semidei cominciarono ad uscire dal tempio in rapida successione. Nessuno sembrava aver trovato qualcosa. 
«Presto, un figlio di Apollo! È ferita!» urlò Yuki, riferendosi chiaramente a Ciel, che riusciva a reggersi in piedi solo grazie al suo aiuto. Shayla accorse immediatamente, determinata a rendersi utile. Esaminò la ferita, con fare esperto. Non era un taglio profondo, ma era necessario che fosse subito disinfettato. Peccato che non avesse neanche una goccia d’acqua, anche solo per pulirlo. Dannazione, imprecò mentalmente la ragazza. Guardò gli occhi di Yuki e Jessica, carichi di aspettativa. Si sentì morire, non voleva deluderli. La terra sotto i loro piedi tremò violentemente, mentre il tempio crollava, con la velocità di un castello di carte e il frastuono delle macerie. Nel frattempo, una zolla di terreno si divise in due, lasciando emergere una pedana d’acciaio, ricolma di ogni bene: armi, cibo, acqua, medicine e…
«Will!» la figlia di Apollo era così sollevata che stesse bene. Il suo fisico minuto si notava a malapena in mezzo ai viveri, ma i suoi capelli biondo scuro, illuminati dalla luce del sole, lo rendevano perfettamente riconoscibile.
Come le api sono attirate dal miele, così i semidei si diressero verso gli oggetti sulla pedana. C’erano abbastanza provviste ed armi per tutti, persino in sovrabbondanza. I più lungimiranti si rifornirono di cibo ed acqua, mentre altri andarono dritti verso le armi, per scegliere quella più consona. Strano notare come alcuni puntavano a certi tipi di armi piuttosto che altre, in particolare come la loro attenzione cadesse su oggetti all’apparenza insignificanti, ma che si dimostravano perfetti per loro. Come Cora, che prese un comune ciondolo a forma di fulmine, con la facoltà di diventare una spada in bronzo celeste, lunga circa un metro, di nome Keraiunos, “fulmine”; o Emil, che optò per una lunga lancia, mascherata sotto forma di un fermaglio di croce rovesciata; anche Nicole, che scelse una lima per unghie che all’occorrenza poteva trasformarsi in una pugnale, di nome katakliptica, “favoloso”. Quando tutti ebbero in mano un’arma, questa iniziò a sfrigolare nelle loro mani, provocando loro la comparsa di bolle, scariche di dolore al braccio e l’improvvisa colorazione verdognola delle vene. Mollarono la presa all’istante.
«Ironico, vero?» disse una voce, contemporaneamente la sovrapposizione di una maschile e una femminile. Dato che nessuno osò fiatare, troppo sgomenti e provati dal tempio, la voce continuò
«Insomma, tutta questa situazione: il figlio del dio della medicina, scienza nata per prolungare la vostra misera vita, vi ha portato la morte sotto forma di strumenti per dare la morte. Le vostre armi sono avvelenate. Se ci pensate bene, è ancora più divertente, perché voi umani dite spesso: “Il tempo guarisce tutte le ferite”.
Ahahahaha, in questo caso, è proprio il tempo ad essere il vostro peggior nemico! Più ne passa, più il veleno si fa strada nel vostro corpo, più la vostra fine si avvicina. Tranquilli, dato che sono clemente, esiste un antidoto. Dovete solo trovarlo»
Se il contesto non fosse abbastanza assurdo e surreale, partì un’altra voce, per cadenza e velocità uguale a quella che si sente alla fine degli spot pubblicitari dei farmaci:

Attenzione, il veleno presenta degli effetti collaterali anche gravi quali: febbre, insonnia, incubi, attacchi di panico, allucinazioni, aumento dell’aggressività, paranoia, follia, dolore e… morte. 






Ehilà! 


Eccomi qui a rompervi le scatole poco prima (o poco dopo per chi è già cominciata) l'inizio della scuola! 
Siamo tutti devastati da questo avvenimento #prayforstudents
Spero che il capitolo vi piaccia e considerate che sono stata buona, perché non è ancora morto nessuno. Volevo almeno far entrare in scena tutti i personaggi, prima di ucciderli. Perché sì, forse già dal prossimo capitolo, comincerà il massacro 
Prima di salutarvi una cosa importante: il bello delle interattive è l'interazione con gli altri utenti, appunto. Penso sia un bel gesto di fiducia consegnare nella mani di un estraneo un personaggio a cui probabilmente siete legati e in cui avete messo un po' di voi stessi. Ovviamente è una mia responsabilità trattarli con cura. Però, non vedo la stessa partecipazione da parte di tutti. Non pretendo che recensiate ogni singolo capitolo, sia chiaro, mi basta anche un semplice messaggio privato ogni tanto, giusto per capire che ci siete. Per cui, ho bisogno che rispondiate ad una domanda, per messaggio privato, in modo da capire chi c'è e chi non c'è.
Riguarda la morte: come la affronta? Il vostro personaggio è disposto ad uccidere? In che modo, rapido ed indolore o lento e doloroso? Per quali motivi o in quali situazioni sarebbe disposto ad uccidere? Proverebbe dei rimorsi? Vorrei sapere questo, con le dovute spiegazioni.
Siccome capisco che sta ricominciando la scuola e sarete tutti/e occupati/e, vi do due settimane di tempo, cioè fino al 26 Settembre. Chi non risponderà, non sarà interpellato nelle scelte del suo personaggio, che farà una fine prematura. 
Non potete capire quanto detesti fare così...
Visto che si guardano sempre gli aspetti negativi, adesso occupiamoci di quelli positivi: ringrazio tutti/e quelli/e che recensiscono, che seguono, preferiscono o ricordano questa storia.
Un grazie immenso, ve se ama 

Come sempre, i vostri pareri sono i benvenuti e ci vediamo al prossimo capitolo!
Baci :-*


P.S. che per l'uso che ne faccio, più che per Post Scriptum, sta per Personale Sclero.
Avete letto "Le sfide di Apollo - L'oracolo nascosto?
Ve lo chiedo perché ho letto varie recensioni di persone che ne sono rimaste entusiaste. Non è che non mi sia piaciuto, anzi! Anche solo per Apollo e la sua crescita e i Solangelo, questo libro è stupendo! Solo che alcuni aspetti non mi fanno impazzire e vorrei capire se sono l'unica... 
Se volete, possiamo anche parlarne per mp.
Ora smetto di rompere, bye 

 

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