L'infinito è dietro lei

di piccolo_uragano_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


L'infinito è dietro lei. 

Lui e lei hanno quel destino, 
scritto da altri altre vite fa;
è l'unica cosa che hanno, o almeno, 
è l'unica cosa in eredità.
(Salviamoci la pelle - Luciano Ligabue)



Prologo. 


Mi sistemo al mio posto in questo aereo anonimo e uguale a tanti altri, in mezzo a persone anonime e in trepida  attesa. Io osservo questa città grande, chiassosa e addormentata e so che non la rivedrò per un po’ di tempo, e questo mi fa sentire sollevata. So che non dovrei: devo tutto a questa terra ma non riesco a fare a meno di sorridere quando le porte si chiudono e viene annunciato l’imminente decollo.
La signora accanto a me mi guarda, con occhi privi di vita e sguardo pieno d’invidia. Che ci va a fare in Inghilterra una così?
Che ci vado a fare io in Inghilterra?
Sfrego le mani e sorrido di nuovo: a ricominciare.

«Principessa, fai la brava a scuola, intesi?»
Wylda mi guarda e mi sorride, e io sono il papà più felice del mondo quando mi sorride così. «Sì, papà.» mi dice.
Le bacio la testa e vedo Sam, mia moglie, dietro dei lei che ci osserva. «Ti devo parlare.» mi dice.
Io annuisco mentre Wylda esce di casa, il cane abbaia, il microonde suona e la vita in casa nostra scorre lentamente: sono i suoi occhi, i grandi occhi di Sam ad essere fermi e tristi. La guardo e mi preoccupo, senza nasconderlo. La porta sbatte, Wylda è uscita e Sam ha ancora gli occhi vuoti. Mi guardo attorno e cerco di scacciare un presentimento orribile, ma quando  vedo due valigie accanto al divano sento lo stomaco chiudersi. Mi giro verso Sam, la donna che amo e che ho sposato, e sono sicuro che anche i miei, di occhi, in questo momento siano vuoti.
«Che cosa vuol dire, Sam?»





Capitolo primo. 

Non mi era mai capitato di vedere una fermata della metro vuota: mi guardo attorno per i lunghi corridoi della Piccadilly Line e mi sembra di stare in un vecchio film dell’orrore. Sarebbe anche divertente, se io non fossi io e se oggi non fosse oggi.
Già, oggi.
Oggi è stato probabilmente uno dei giorni più catastrofici di sempre. Non solo dei trent’anni della mia misera e fantastica vita, no, di tutta la storia di Londra, del Regno Unito e probabilmente anche del mondo intero.  Stringo il pugno nella tasca del vecchio giaccone grigio, sentendo ancora le nocche bruciare.
Questa volta ha vinto il muro.
Percorro l’ultimo immenso corridoio prima di arrivare al binario della metro, sentendo ancora le parole di Sam. ‘Sei cambiato’ , ha detto. Ha detto che sono cambiato, e se n’è andata. Sparita. È uscita dalla porta di casa senza nemmeno voltarsi indietro. Dopo cinque anni insieme, cinque anni d’amore, cinque anni di noi, solo noi, lei se n’è andata. E grazie tante.
Il primo pensiero che mi travolge quando arrivo al binario della metro è ‘non è possibile’. Il secondo è ‘sono impazzito?’.
Ciò che mi trovo davanti è ai limiti dell’assurdo: è assolutamente impossibile che una sola persona abbia addosso così tanti colori. Sono certo che sia una ragazza, vista l’altezza e la corporatura mingherlina, probabilmente giovane e in viaggio qui come tanti altri. Mi da le spalle, vedo solo il suo maglione rosso fuoco e i capelli biondi, lunghi e con le punte azzurre. I pantaloni sono la cosa più strana che abbia mai visto: sono righe orizzontali di colori sempre diversi l’uno dall’altro e ciascuna riga ha un diverso motivo geometrico bianco.
È terribile, ma, allo stesso tempo, fantastica.
Sto ancora cercando di capire come funzionino i suoi pantaloni quando si gira e mi guarda.
«Ciao.» mi dice, inclinando leggermente la testa.
Mi accorgo che ha anche una tracolla marrone, rovinata e rattoppata e che ha due bellissimi occhi azzurri.
«Credo di essermi persa. Tu sei di qui?»
«Come possono averti persa, con quei pantaloni?» rispondo, istintivamente.
Lei sorride, mostrando un sorriso bello quasi quanto gli occhi. «In effetti, hai ragione questi pantaloni non hanno fatto il loro dovere. Ma sono sola, sto solo cercando di tornare a casa.» mi spiega.
Io alzo il mento e mi guardo attorno. «Come fai a tornare a casa se non sei di qui?»
«Giusto, ehm. Sono atterrata tre giorni fa, e starò qui sei mesi.»
«E di dove sei?» domando, curioso. Non so cosa sia, ma questa bionda ha qualcosa, nello sguardo o nel sorriso, che mi tiene incatenato a lei. Non sarei dell’umore per parlare con nessuno, ma lei è come una calamita e io sono incollato ai suoi occhi da una forza maggiore.
«Forse non lo so più nemmeno io.» mi risponde, facendo una smorfia. «Ma non mi hai risposto: tu sei di qui?»
«Non ti piace che non ti si risponda?» le chiedo, fingendo un sorriso.  Mia sorella dice sempre che fingere di sorridere è la cosa che mi riesce meglio. Non voglio fare vedere a questo intruglio di colori che è stata una giornata di m …
«Perché fingi di sorridere?» mi domanda.
Ecco, appunto. Ma come fa?
«Non stavo fingendo.» replico, immediatamente.
«Si, invece, fingevi. Comunque, odio la gente che non mi risponde: sei di qui
La sua espressione non è minimamente cambiata, ma la sua voce ha assunto una leggera nota di irritazione.
«Sì» rispondo allora. «Sono di Londra.»
«Oh!» esclama lei, aprendo la sua borsa gigante e piena di toppe. «Allora puoi aiutarmi!»
Io scuoto la testa. «Posso provarci, ma …»
Ma sinceramente adesso non mi sento in grado di aiutare nessuno.
Lei tira fuori dalla borsa una cartina della metro stropicciata e piena di scritte a matita. «Il mio college è qui.» mi dice, indicando la fermata di Stradford.
Io le indico che davanti a noi, dall’altra parte delle rotaie, c’è scritto dove siamo: in Russel Square. «Fai una fermata di questa linea, poi scendi e prendi quella rossa.» le dico, alzando le spalle. «Che intendi con ‘il college’?»
«Il college è un posto in cui gli studenti vivono per un po’.» mi risponde, riponendo la cartina nella borsa.
«Ma non mi dire?» le rispondo, mentre sento la metro arrivare.
«Tu dove te ne vai?» mi chiede, mentre noto che il cappellino azzurro che porta ha l’etichetta che si perde nei suoi capelli biondi.
«Ti accompagno a Holborn e poi prendiamo la linea rossa, se ti va.» butto lì.
«Non hai una casa dove tornare?»
«Sinceramente, non lo so. Che intendi per ‘casa’?» chiedo, salendo sulla metropolitana.
«Hai ragione: in effetti ‘casa’ può essere anche una persona.» mi dice, sedendosi e incrociando le gambe sul sedile.
«Ecco» rispondo, prendendo posto davanti a lei. «allora io non ho più una casa.»
Sam. Non ho più Sam, non ho più una casa. Sento lo stomaco riempirsi del vuoto che lei ha lasciato. Sam, l’amore, i ricordi, i progetti, i capelli lunghi e gli occhi grandi che se ne sono andati con lei.
«Lei se n’è andata, vero?» mi chiede. Il suo tono è dolce: non vuole impicciarsi, non sembra. Il suo tono ricorda più la compassione.
«Lei se n’è andata.» rispondo.
«Pochi giorni fa, immagino.»
«Stamattina, a dire il vero.»
«E giri per Londra da stamattina?»
Scuoto la testa e distrattamente mi guardo il polso per controllare che ore sono: strabuzzo gli occhi quando mi rendo conto che è mezzanotte. «Oh, Dio!» esclamo.
«Vedi? Anche tu hai una casa dove tornare.» mi dice, alzandosi.
Faccio per alzarmi anche io, ma lei mi ferma con una mano, una mano piccola e pallida. «No, non ce n’è bisogno: posso farcela. E poi, hai appena scoperto che hai un posto dove tornare, non potrei mai impedirtelo.»
Istintivamente, le sorrido: ha i tratti gentili, dolci e delicati. Il suo sorriso, invece, è tutt’altro che delicato: è luminoso, accecante quasi,  e parla di vita e di cose belle.
«Come si chiama il tuo college?» le chiedo, alzandomi per essere quasi dieci centimetri più alto di lei.
«Oh, non te lo dirò: se sarà destino, ci ritroveremo.»
La metro si ferma. «Dimmi almeno come ti chiami!»
«No» risponde. «No, non ci sarebbe gusto. Ora, torna a casa.»  mi strizza l’occhio e scende dalla metro. Io la guardo perdersi nella stazione di Holborn, mischiarsi tra le poche persone presenti senza mai confondersi e poi, veloce com’è arrivata, sparire.


«Nelson?» chiamo, entrando in casa.
Chiamerei Sam, normalmente. Le chiederei scusa per il ritardo, mi inventerei una scusa, lei si irriterebbe quel tanto che basta a farla diventare ancora più bella e poi io la abbraccerei da dietro mentre si lava i denti o mentre si pettina, le bacerei il collo e le direi che la amo e che mi dispiace, mi dispiace mi dispiace e mi dispiace, e poi faremmo l’amore fino a diventare una cosa sola.
No, invece, nella casa più vuota fredda e silenziosa della storia di Londra, entrando il primo nome che faccio è quello del mio cane.
Nelson è un Jack Russel Terrier di un carattere dannatamente vivace, e io mi sono perso in giro per Londra, dimenticandomelo qui.
«Nelson, dai: da oggi saremo solo io e te.» dico, levandomi il giubbotto  e mollando le chiavi di casa sul bancone della cucina.
Dove diamine si è cacciato quel cane?
«Nelson, ti prego, non rendiamola più difficile di quanto già non sia!»
Apro la porta del bagno, quella dello studio, della camera per gli ospiti, della camera di Wylda (Dio, Wylda, dove sei? Come stai?)e del secondo bagno: niente. Scendo le scale pensando a quella volta in cui Sam è scivolata, torno in cucina e non trovo ancora nulla; faccio il giro del divano in salotto e, di nuovo, mi ritrovo a cercarlo sotto al divano, ricordando quando Sam perse il telefonino e lo ritrovò poche ore dopo esattamente sotto questo divano.
«Sei cambiato.» ha detto. Che vuol dire cambiare? Forse la risposta ce l’hanno solo persone come la ragazza della metro.
«Nelson, dai, non è divertente!» dico, salendo di nuovo le scale: Sam odia – ehm – odiava che il cane entrasse nella nostra stanza.
«Sei cambiato.»
«E quindi?»
«Rivoglio il ragazzo di cui mi ero innamorata.»

Okay, okay forse alcune cose sono cambiate. Ma siamo cresciuti, siamo grandi e vaccinati, abbiamo una bella casa, una bella vita, una bambina bellissima, stiamo bene e ci amiamo: perché andarsene? Perché non dire ‘abbiamo un problema, tesoro’? Perché scappare davanti a un problema? Perché non affrontarlo?
«Sono qui, Samantha.» le ho detto. Non le è bastato. Ha scosso la testa, mi ha posato una mano sul viso e mi ha baciato le labbra. Piangeva, ma piangeva in silenzio. «Abbi cura di te.» e se n’è andata.
Come prevedibile, Nelson è sul letto matrimoniale: sembra essersi rotolato più volte nelle lenzuola, aver mordicchiato un po’ i cuscini e ha buttato a terra i vestiti che stavano sulla mia sedia. Mi guarda come se capisse cosa è successo stamattina: mi guarda come per dire che gli dispiace, ma due maschi soli in una casa grande come questa possono fare grandi cose.
«Hai un altro?»
«Ha importanza?»
«Sì.»
«No, non ne ha.»
«E Wylda?»
«Un giorno mi capirà.»
Mi levo i pantaloni e li getto nel cesto delle cose da lavare: come farò a lavare i vestiti, ora? Lei aveva un altro? E mi toccherà imparare a cucinare. E la bambina? La mia bambina. No, davvero, era importante sapere se avesse un altro. Davvero importante. Che ne sarà del mio rapporto con la bambina? Crescerà senza di me. Le dirò scusa, scusa ma la mamma un giorno di ottobre mi ha lasciato. Lascio che il getto d’acqua gelida faccia chiarezza, ma non porta altro se non nuove domande. Domande, domande, domande. Voglio risposte. Sam, cosa è successo? Hai un altro? È colpa mia? Chi è? Da quanto tempo? Che ne sarà di noi? Del nostro futuro? Che vuol dire cambiare? Sono cambiato? Mi ami? Lo hai mai fatto? E io? Io si, dannazione, mi dico. Se fa così male, io la amo davvero. L’ho amata pian piano, l’ho amata col tempo, l’ho amata dopo qualche settimana, ma quando mi sono innamorato ero sicuro: era lei. Era lei con cui cercare casa, era lei da presentare ai miei, era lei con cui avere dei progetti, era lei quando mi ha detto di aspettare la bambina, era lei quando le ho lasciato scegliere il nome, era lei quando guardavamo Wylda dormire appena nata, era lei, era lei in ogni momento.
Era lei.
Eri tu.
E ora?
 Mi sembra di essere tornato ad avere diciassette anni. Allora avevo poche domande, ma non erano così specifiche, tipo: chi sono io?
Uscito dalla doccia, con l’asciugamano legato in vita e i capelli tirati indietro, mi guardo nello specchio: grandioso,quasi trent’anni e non so ancora chi diamine io sia. 






Okaaaaaay, allora. Ho un paio di cose da dire, come all'inizio di ogni storia. 
Prima di tutto chi mi conosce sa che non amo l'accoppiata tempo presente/prima persona, ma ho voglia di sperimentare e quindi eccomi quiiiii. Vi dico subito che il caro Aaron non sarà sempre il narratore, a volte sarà la ragazza (no, non lo dico il nome :D) a volte sarà esterno, insomma, lo scopriremo solo vivendo. 
Aaron e Sam hanno due bambine, Wylda Rae e Romy Hero, ma mi sono presa la licenza poetica di 'dimenticarmi' di Romy, non odiatemi, ma con due bambine la separazione sarebbe stata troppo pesante per la storia, oscurando il tema principale. che poi si vedrà.
Ultima cosa, Aaron Johnson ha attualmente ventisei anni, quindi la storia è ambientata nel 2018, così ne avra ventotto. 
Okay, credo di aver detto tutto, spero che questo primo capitolo vi piaccia. 

xx 

 

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Capitolo 2
*** 2. ***



Ma le parole che ti sono avanzate 
sono finite tutte nella valigia 
e lì ci sono restate. 
(Il peso della valigia - Luciano Ligabue)


Capitolo secondo.

Passa un giorno e ne passano due. Telefono a Sam e non mi risponde. Il telefono squilla a vuoto e a me manca persino il suono della sua voce dietro la cornetta. Telefono a sua sorella e mi dice che mi passa la bambina. Wylda mi chiede quando ci vediamo, e io non so risponderle. Le dico che le voglio bene, e lei mi dice che me ne vuole anche lei. Quando mi sveglio mercoledì mattina, la cosa non migliora: anzi. Sembra quasi peggiorare. La testa mi fa male e le sigarette sono finite. Ho dormito poco, ho dormito male: mi sveglio arrabbiato. Mi sveglio confuso. Mi sveglio vuoto: il letto è terribilmente grande, freddo e vuoto senza di lei.
Lei.
Lei ha lasciato il suo elastico nero sul comodino. Forse lo ha fatto apposta. Forse voleva che lo trovassi, che lo tenessi, o forse no: comunque l’ho al polso, come un ragazzino, come se i capelli dovessi legarmeli io – ipotesi anche plausibile, tra l’altro.
Mi sveglio perché sento il telefono vibrare sul comodino. Distrattamente, lo afferro e premo verde senza nemmeno badare al mittente, mentre Nelson salta sul letto.
«Pronto?»
«Ehi, fratellino.»
Accarezzo Nelson mentre riconosco la voce di mia sorella Gemma.
«Ciao.» le dico. «È successo qualcosa?»
«No, figurati. Volevo solo sapere come stai.»
Oh, fantastico. Sam avrà detto a lei perché ci siamo lasciati, non a me.
«Dormivo, Gemma.» dico.
«Ma se è mezzogiorno e trenta!»
«Fa nulla: dormivo lo stesso.»
Gemma si interrompe e la sento sospirare. «Ma certa gente come va in giro?»
«Che hai visto?» chiedo, sorridendo appena: mia sorella è troppo rigida con sé stessa e con il mondo intero.
«Una ragazza con i capelli blu.» sussurra, con tono schifato. «E dei pantaloni pieni di colori.»
Io mi metto a sedere di scatto nel letto, scoprendo di avere fame.
Hai appena scoperto di avere un posto dove tornare.
La voce della ragazza dai capelli blu mi risuona in testa.
Ricordo i suoi occhi così pieni di pensieri e penso ad una sola cosa: la devo trovare.
«Ma tutti blu o solo le punte?» le chiedo.
«Solo le punte, ma erano comunque blu!» replica lei.
«Sei a Stratford?»le chiedo, alzandomi.
«Sì, è appena salita. Ma cosa c’entra?»
«Seguila.» le ordino, infilandomi un paio di pantaloni. «Ti spiego dopo, Gemma, ma ti prego seguila e dimmi esattamente dove scende e poi dove siete, okay?»
«Perché dovrei seguire una ragazza dai capelli blu, per l’amor del cielo?» sbotta lei.
Scendo le scale con Nelson che mi segue senza capire. «Lei sa tante cose, Gemma, fidati di me.»
«Fidarmi di te non è mai stata una buona idea.»
Trangugio un po’ di latte dal cartone pensando a tutte le volte in cui Gemma ha decisamente sbagliato scegliendo di fidarsi di me: la prima volta fu senz’altro quando le assicurai che i pennarelli non avrebbero rovinato i muri della casa, se lei avesse usato solo il giallo ed il viola. Lei mi credette e iniziò a fare avanti ed indietro per il corridoio con il pennarello in mano. Le urla di nostra madre le ricordiamo entrambi ancora benissimo. E forse le se ricorda anche mio padre.
«Okay, su questo hai ragione. Ma ti prego, fa’ ciò che ti dico.»
Non è difficile immaginarla mentre alza gli occhi al cielo. «Ho visto tua figlia, ieri pomeriggio.»
Mi fermo, con la giacca infilata solo a metà. «Beata te.» cerco di ironizzare.
«Sam mi ha detto tutto.»
«Immaginavo.» replico, uscendo di casa.
«Ha detto che ti risponderà quando se la sente.»
«Mi hai chiamato per farle da portavoce?»
«Ti ho chiamato perché sei mio fratello.»
«E perché ti avrà fatto un favore e tu odi sentirti in debito.»
«No, è solo che … mi dispiace, ecco.»
«Sei dispiaciuta per me o perché devi dire a tutti che la favola d’amore di tuo fratello è finita?»
«Ma per chi mi hai preso, razza di idiota?!»
Sorrido, sedendomi in macchina. «Ti conosco come il palmo della mia mano, Gemma Johnson.» Di nuovo, non è difficile immaginarla mentre alza gli occhi al cielo e sbuffa, probabilmente seduta nella metro in una delle sue migliori pose composte e regali. «So che mi vuoi bene e che …»
«Illuso. Hai detto alla mamma che stai divorziando?»
Tocca a me stare in silenzio. «Okay, uno pari.»
«Con te non si è mai pari, fratellino caro.»
«No, contro di me si perde e basta, giusto?»
«Holborn.» sussurra.
«Che hai detto?»
«Sta scendendo a Holborn.» ripete.
«Sono in Warren Street.»
«E chi te lo ha chiesto?» scherza.
«Era per avvisarti che sto arrivando.»
«Okay: sto per prendere la Piccadilly Line.»
«Okay.» ripeto, parcheggiando la macchina il più vicino possibile alla fermata della metro con la giacca ancora slacciata. «Sei un angelo.»
«Perché facciamo ciò?»
«Perché non siamo mai stati al telefono così tanto.» ironizzo.
«Chi è questa ragazza?»
«Una ragazza che studia poco lontano da Stratford.»
«Sappiamo solo questo?»
Annuisco e mi guardo attorno, mentre la vita di Londra scorre veloce.  «Sì.»
È per questo che avverto il chiaro bisogno di saperne di più.

Lei mi guarda e non solo è bellissima, ma anche tremendamente fragile. È piccola, magra – forse troppo magra – il suo sorriso sprizza allegria ma i suoi occhi chiedono aiuto. Come ho fatto a non rendermene conto, l’altra sera? I suoi occhi sono una continua richiesta d’aiuto. Mi avvicino al tavolo di Starbucks che lei e la sua amica stanno occupando, rendendomi conto che le sue dita, strette attorno a quella tazza di caffè, sono lunghe e magre. È tutto magro, ma nel momento in cui lei si gira e mi guarda io mi sento pieno. Completo.
«Ehi, io ti conosco.» mi dice, guardandomi. «Sei il ragazzo di Russel Square, giusto?»
Io le sorrido. «Pare di sì. Tu sei la ragazza che studia vicino a Stratford.»
Lei accenna un sorriso. «Pare di sì.»
Alla luce del locale, mi rendo conto che è sorprendentemente giovane. I suoi occhi chiedono ancora aiuto al mondo intero, e posso solo immaginare cosa abbiano visto, ma sono occhi giovani. «Posso sedermi?» le chiedo, senza pensarci.
«Certo» mi dice l’amica «Ci vediamo là. Ricordati il coprifuoco.» ha uno strano accento spagnolo, mentre la ragazza dai capelli blu sembra più francese o italiana.
«Grazie.» risponde lei, per poi tornare a guardarmi. «Hai trovato una casa dove tornare, alla fine?»
Io mi siedo sullo sgabello e poso le mani sul tavolo. «Mia moglie mi ha lasciato.» le dico.
«Sei così vecchio da avere una moglie?» scherza lei. «Ti davo al massimo venticinque anni.»
«Questo perché ne ho ventisette.» rispondo, sorridendo.
«E da quanto eravate sposati?»
«Cinque anni.» rispondo, di nuovo.
«E sono stati cinque anni felici?»
«Per me, sì.»
«Lei era felice?»
«Sono qui per capirlo.» le rispondo. «Credo che tu sappia la risposta.»
Lei regge il gioco. «Perché io?»
«Perché le persone piene di colori sanno sempre tutto.» le dico, osservando la strana coda in cui ha raccolto i capelli dietro la testa.
«Okay, allora, sono la persona più piena di colori che tu abbia mai conosciuto in questi lunghi e noiosi ventisette anni?»
Io le sorrido. «Diciamo che oltre ad essere la ragazza più piena di colori che io abbia mai visto, mi sembri anche una che sa il fatto suo.»
Questa volta è lei a sorridermi. «Va bene, Occhi Blu, ti ascolto volentieri.»
«Non so se lei fosse felice. Come fai a capire se una donna è felice?»
Lei si osserva le mani per qualche secondo, poi, guardami, si porta una ciocca ribelle di capelli dietro l’orecchio pieno di strano orecchini. «Spesso non lo capisce nemmeno lei. La felicità non è statica, non è che sei felice e punto. Sei felice per qualche ora, qualche minuto, o anche qualche secondo, e poi sorridi per il ricordo della felicità pura che ti ha riempito il cuore e che tu porti dentro. Tutto si riduce a ciò a cui pensi l’attimo prima di addormentarti. Non puoi sapere a cosa pensasse lei in quel momento, con la testa sul cuscino, per quanto tu possa dire di conoscerla. Quindi non saprai mai se lei era davvero felice.»
A che pensavi, Sam? Pensavi a me? A un altro? Alla bambina? Al lavoro? Al cane? Pensavi a me. Ti prego, dimmi che pensavi a me. Io pensavo a te? Io pensavo che era bello dormire accanto a te. Svegliarmi accanto a te. Vivere accanto a te, giorno dopo giorno.
«Sai, spesso le persone si innamorano dei progetti, delle idee, di un futuro insieme piuttosto che delle altre persone.» aggiunge. «E non dire che non è così perché saresti noioso, e perché a tutti capita.»
Annuisco pensieroso. «Credo che tu abbia ragione.»
«Certo che ho ragione!» esclama. «Sono una persona piena di colori che sa il fatto suo, no?»
Io la guardo e mi riempio gli occhi di lei. È davvero bellissima. «Quanti anni hai?» le chiedo.
Lei storce il naso. «Non si chiede l’età a una signora, Occhi Blu.» mi risponde. Il telefono che sta accanto alla sua tazza, ormai vuota, inizia a vibrare e io leggo il nome Michele. Lei rimane per un po’ a fissare il nome e poi torna a guardare me.
«Rispondi, giovane bionda.»
«Non voglio rispondergli.» mi dice, con tono freddo. «Vedi? Le persone sono abbastanza semplici. Non voglio rispondere, non voglio sentire la sua voce, non voglio che mi addossi i suoi sensi di colpa chiedendomi come sto. Lui tra poco attaccherà e penserà che sto studiando, che sto dormendo, o che sto al bar con uno sconosciuto sexy. La verità, pura e semplice, è che io non voglio rispondergli.»
«Ci rimarrà male.»
Lei alza le spalle.  «Se ne farà una ragione, immagino.»
Io continuo a guardarla, senza riuscire a staccare gli occhi dai suoi. Ha detto sexy? Lei lo è. Posa il viso su una di quelle sue mani esili e si perde a guardarmi. «Come faceva tua moglie a non essere felice accanto a te?»
Scuoto la testa. «Non lo so. Chiedilo a lei.»
Lei mi sorride. «Certo, avevamo giusto intenzione di prendere un tè insieme, domani.»
Vorrei dirle che Sam il tè lo beve raramente, ma, diamine, che le importa?
«Voi inglesi e il vostro maledetto tè. Sai quanti ne ho già bevuti, da quando sono qui?»
«Che intendi con ‘noi inglesi’?» chiedo, facendo la voce grave.
«Voi persona nate in Inghilterra, cresciute in Inghilterra e che vivono in Inghilterra. Tu sei l’inglese per eccellenza, Occhi Blu, guardati, con la maglia scura, la giacca seria e la sciarpa di cotone.»
Vorrei dirle che la maglia è quella del pigiama e che la sciarpa l’ho trovata in macchina e l’ho messa perché mi dava fastidio lì, a fare nulla, ma mi limito a scuotere la testa e a sfilarmi questa dannata sciarpa di cotone chiaro. «Accetteresti questa sciarpa da parte di uno sconosciuto sexy?»
Lei sorride e afferra la sciarpa. «Sarebbe un onore, Occhi Blu, ma non ho nulla da donarti in cambio.»
Io penso alle parole che mi ha appena regalato e abbasso lo sguardo. «Mi hai illuminato sull’infelicità di mia moglie. È già moltissimo.»
«Lieta di aver condiviso parte della mia saggezza con te.» mi dice, con una nota di ironia. «Hai intenzione di continuare a tartassarla di telefonate?»
Io sgrano gli occhi. «Non …» provo a obbiettare, ma lei spalanca gli occhi a mo’ di rimprovero. «Okay, forse un paio.» ammetto, distogliendo lo sguardo. «Come fai a saperlo?»
«È tipico.»
«Anche per te e Michele è così?»
«No.» risponde, perdendo il sorriso. «Il suo senso di colpa non riguarda una storia d’amore finita senza spiegazioni.»
«E che cosa riguarda?»
«Me.» dice, in un sussurro. «E forse anche il fatto che io sia partita senza dirgli nulla, ma questi sono dettagli insignificanti.»
«Di dove sei?» chiedo, sorridendo per quei dettagli accantonati.
«Molto lontano da Russell Square.»
«Si, intendevo, dove sei nata?»
«In una capanna con il bue e l’asinello che mi scaldavano la mangiatoia.» risponde, sorridendo.
«Sono altri dettagli insignificanti, vero?»
«Non sono del tutto insignificanti, solo che questo non è ancora il loro momento.» risponde, prendendo la sua larga borsa scusa dallo sgabello accanto al suo e legandosi la sciarpa al collo. «Devo andare, Occhi Blu.»
Come andare? Non andare, ti prego, o tornerò a sentirmi vuoto.
«Andare?» domando, corrugando la fronte.
«Andare: sai, tutti prima o poi lo fanno, e si dà il caso che io sia in ritardo.» salta giù dallo sgabello e lascia che la guardi negli occhi, tenendo comunque ben nascosti i suoi pensieri ed il suo passato.
«Mi ha fatto piacere parlare con te. Possiamo rivederci?»
Lei mi scruta per qualche instante con i suoi pesanti occhi azzurri. «Certo che sì, se elimini le frasi di circostanza come quella che hai appena detto. Hai da fare domenica pomeriggio?»
Io la guardo perplesso per un attimo. «Che … che giorno è oggi?»
Lei sembra divertita. «Giovedì dodici ottobre duemiladiciassette.»  tira fuori il telefono dalla tasca. «Sono le sei e trentasette dei pomeriggio  e io sono in un ritardo terribile.» aggiunge, infilandosi una giacca di jeans con un alieno cucito accanto a un bottone. Mi posa una mano sulla spalla e mi bacia dolcemente la guancia. «Domenica alle tre a St. James’s Park, sul ponte. Ciao Occhi Blu, non combinare guai senza di me.»
Non mi lascia il tempo di dire nulla – nemmeno una sillaba – che è già uscita, e io rimango qui, seduto ad un tavolo scuro davanti a una tazza di cioccolata che porta il segno del suo burrocacao. E mi rendo conto di una cosa tanto terribile quanto divertente: non so il suo nome.


Ringrazio moltissimo _werewolf_ e Distretto_9_e_34 per aver recensito il primo capitolo, e vi annuncio che tra pochi giorni partirò per una vacanza studio proprio in Inghilterra. Non credo troverò anche io Aaron Johnson ad aspettarmi alla fermata della metro, ma se dovessi sparire, sappiate che è per quello u.u in caso contrario, ci sentiamo dopo il nove aprile!
xx

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Capitolo 3
*** 3. ***



E in quel disordine apparente 
la paura di restare sola.
(Noemi - la borsa di una donna)


Capitolo terzo. 
Guardo Sam con le lacrime agli occhi. È bella, come sempre, ma sembra pallida e stressata. Wylda gioca di là, insieme a sua cugina, mentre noi, seduti al tavolo della cucina, a quanto pare, discutiamo della fine del nostro matrimonio.
“Sei sicura?” le chiedo, cercando di non far tremare troppo la mia voce.
“Mi dispiace, Aaron.” risponde, con voce fredda.
“Non vuoi neanche provare con la terapia di coppia? O con un periodo di pausa, o qualsiasi cosa?”
“No.” dice. “Sono sicura. Potrai vedere la bambina quando vorrai, ovviamente, e dovresti tenerla ogni due finesettimana più una sera infrasettimanale.”
Scuoto la testa. “Immagino che tu abbia già parlato con un avvocato.”
Lei non ha bisogno di rispondermi: i suoi occhi dicono tutto.

Non ho bisogno di cercare molto: sono in ritardo di dieci minuti buoni, ma vedo dei pantaloni rossi fuoco stretti su due gambe lunghe e magre sfiorare dei capelli blu che si uniscono a una chioma biondissima. Accanto a lei c’è uno zaino da campeggio che sembra stracolmo.
Mi aspetta al ponte come promesso. Cerco di scacciare le brutte cose che l’incontro con Sam mi ha lasciato, ma non ce la faccio, così mi avvicino e senza pensarci dico “Sto per divorziare.”
Lei annuisce piano. “Ciao, Occhi Blu.”
“Scusa.”le dico subito, e mi rendo conto che con lei non ho filtro, evidentemente dico solo quello che mi passa per la testa.
“Beh, che si fa appena divorziati, di solito?” sospira.
“Non sono ancora divorziato.” Preciso, con un nodo in gola.
Lei annuisce di nuovo. “Giusto. E che vuoi fare?”
“Non lo so.”
“Vuoi ubriacarti?”
“Hai una sigaretta?” chiedo in risposta.
Lei sorride e annuisce. “Certo.”mette le mani in quella borsa piena di colori e ne estrae un pacchetto di carta azzurra. Mi porge una sigaretta e se ne appoggia una sulle labbra, poi mi fa segno di avvicinarmi e me la accende in un secondo.
“Sai” dico, buttando giù il fumo. “mi sono reso conto di una cosa.”
Lei mi guarda curiosa.
“Non so il tuo nome.”
“Nemmeno io so il tuo.”
“Aaron.” rispondo, immediatamente.
Lei annuisce piano. “Lola.”
“Non può essere il tuo vero nome.” dico, mentre assaporo quelle quattro lettere.
“Nessuno conosce il mio vero nome, Occhi Blu, sfondi una porta aperta.”
“Ma io non sono nessuno.” dico, indicandole una panchina vuota. “Io sono un quasi divorziato.”
“Già. Sicuro di non volerti ubriacare? Sarebbe divertente.”
Io scuoto la testa. “Come faremo adesso?” sospiro.
“Firmerai le carte e piangerai un po’. Poi, piano piano, ti rialzerai e sorriderai.”
Io la guardo e trovo due occhi pieni di pensieri.

Quando Aaron ordina la terza tequila, il suo sorriso è già più che brillo. Mi ha raccontato ogni cosa di quello che sembrava un matrimonio perfetto: una casa grande, con tante stanze, la cucina luminosa, una stanza in più perché volevano dare a Wylda un fratellino, un cane, e persino un terrazzo con il dondolo per guardare le stelle con sua moglie.
Era tutto perfetto.
Tutto come lo sognavo anche io.
Come lo sognavo prima.
Prima che il mio mondo crollasse. Prima che i colori smettessero di esistere. Prima che smettessi di essere felice. Prima che sentissi la necessità di scappare da una piccola città in cui tutti mi guardavano storto perché conoscevano la mia storia.
Prima.
“Lola” mi richiama Aaron. “Dimmi di te.”
Il suo tono tradisce un livello di alcol in circolo superiore a quello a cui è abituato.
Mi tornano velocemente in mente immagini delle ultime dodici ore. Gente che indica. Sguardi delusi. Sussurri. Persone che improvvisamente vengono a sapere chi sono davvero. Una decisione non così sbagliata di scappare senza lasciare traccia.
“Sono scappata dal college dove stavo.” Dico, come se non avesse importanza, come se stessi dicendo che oggi, a Londra, piove.
Lui non smette di sorridere e mi offre un altro giro di tequila. Il sole ormai è tramontato e Londra sembra essersi svegliata. “Perché?”
“Le persone hanno scoperto chi sono.”
“E chi sei?”
“Un mostro.” Rispondo, prima di mandare giù la tequila.
“Non sei un mostro.”
Lo guardo. È bello. È davvero bello. È uno di quegli uomini che se li incontri per strada ti giri a guardarlo. E lui sta seduto in uno squallido pub a bere tequila con me. Mi ha appena detto che non sono un mostro.
Ma non sa.
Non sa di chi ero prima.
Oh, prima ero un mostro di gran lunga peggiore.
“Ti credo solo perché sei brillo.” Sorrido, scacciando via certi pensieri.
“Hai un posto dove stare?”
Scuoto la testa.
“Vuoi venire a stare da me?”
Io annuisco prima di rendermi conto di volerlo davvero.

Mi sveglio con un mal di testa assurdo. Non faccio nemmeno in tempo ad aprire gli occhi che sento dolore ovunque e il bianco soffitto della mia stanza sembra accecarmi.
Calmati, Aaron. Che hai fatto ieri sera?
Ieri sera. Ieri sera. Dove sono stato?
In un locale di Warren Street.
Che ci facevo in Warren Street?
Ho bevuto. Questo è poco ma sicuro.
Sento Nelson che abbaia al piano di sotto e mi allarmo: perché non è qui? Perché non mi è corso incontro quando si è reso conto che mi sono svegliato?
Divorzio. Questo me lo ricordo. Sam vuole divorziare. Sarò un padre a ore.
Mi alzo dal letto facendo finta di non fare fatica a stare in piedi.
Divorzio. Assaporo la parola. È tagliente, mi fa male. Non va giù.
Divorzio.
Scendo le scale. “Nelson?” chiamo.
Divorzio. Forse potrei prendere un altro cane e chiamarlo ‘divorzio’ per abituarmi all’idea.
No, che direi a Wylda?
Wylda. Questo si che è un suono dolce. Il nome di mia figlia rende dolce ogni cosa.
Wylda. Apro la porta della sua stanza, piena di giocattoli e poster. La stanza rosa. La stanza di Wylda.
Wylda, mamma e papà divorziano.
Wylda, mamma e papà non saranno più una famiglia.
Famiglia. Questa ha un suono strano. Aspro.
Scendo ancora le scale e quando la vedo in piedi in cucina ho un brutto presentimento.
Lola.
Oh, questo si che è un bel suono. Spumeggiante. Quasi quanto lei.
Lola ha i capelli raccolti in una treccia che parte praticamente dalla sua fronte, indossa un pigiama di pile rosso con le casette colorate e una felpa che credo sia mia.
Lola.
Famiglia.
Wylda.
Divorzio.

Ho un terribile flashback. Credo di essermi ubriacato dopo aver visto Sam (Sam – oh, questo suono si che fa male) per via del divorzio. Credo di essermi ubriacato con Lola, una ragazza che conosco appena che adesso è in piedi nella mia cucina ed è in pigiama.
Cazzo. Che ho fatto?
Mi basta sforzarmi pochi secondi per avere una sfocata immagine di me che la bacio.
“Cazzo!” strillo, tirando un calcio al muro.
Lei si gira di colpo e notandomi scoppia a ridere. Mi sono fatto male al piede.
“Buongiorno a te. Stavo cercando del caffè.”
“Ci siamo baciati, ieri sera?” chiedo, allarmato.
Lei trasforma la sua risata in un sorrisetto malizioso. “Non portare le mani così avanti, Occhi Blu. Tu hai baciato me, ma eri così ubriaco che hai vomitato sulle scarpe di uno sconosciuto dopo mezzo secondo.”
Mi mordo un labbro cercando di ricordare. Ho un vago ricordo del suo viso che si fa sempre più vicino, di un buon sapore sulle labbra, ma poi più niente. Niente. Zero.
Niente. Lola.
No, il nome di Lola non sta bene accanto a ‘niente’. Lola merita un ‘tutto’.
Io ho baciato te?” chiedo, cercando di metterla sul ridere.
“Sì.” Risponde lei sicura. “Ma te l’ho detto, hai vomitato subito dopo. Grazie, a proposito. Non mi era mai capitato che uno vomitasse dopo avermi baciato senza neanche un po’ di lingua.”
“Neanche un po’?” domando, sedendomi su uno sgabello mentre la guardo cercare il caffè con Nelson che la insegue. Le indico lo scaffale sopra il lavandino e lei trova le cialde. Mi chiede con uno sguardo se ne voglio una e io annuisco, mentre lei accende la macchinetta.
“E dopo che ho vomitato?”
“Ho chiesto scusa da parte tua a quel tipo.”
“Oh, grazie.” Ironizzo.
“Non c’è di che. Hai dei biscotti? O del pane tostato?”
Le indico di nuovo lo scaffale contenente le cose con cui io (e Sam) faccio colazione di solito.  Lei annuisce e ride.
“E poi?” chiedo, ancora.
“Ho chiesto al tipo di chiamarci un taxi. A casa so guidare, ma qui è tutto al contrario, dannati inglesi, e non sarei stata in grado di arrivare qui.”
“Al contrario?” domando sorridendo, mentre mi passa la mia tazza piena di caffè. Lei, senza saperlo, ha preso la tazza preferita di Sam.
“Lato sbagliato della macchina, lato sbagliato della strada.”risponde lei, mescolando il caffè con aria assonnata. “Comunque non ti preoccupare, dopo il viaggio in taxi la serata si è spenta. Il tuo cane mi ha quasi aggredita, ma poi abbiamo fatto pace. Il taxi lo hai pagato tu, a proposito, io non avevo un centesimo e rubare il portafoglio ad uno così ubriaco è un gioco da ragazzi.”
Quanto ubriaco?”
Molto ubriaco.”
Scuoto la testa. “E poi? Perché sei rimasta con me?”
Lei ci mette un attimo per rispondere. “Inizialmente te lo avevo chiesto, perché sono scappata dal college. Quando ti ho rimboccato le coperte, invece, mi hai chiesto di restare con te. Poi mi hai chiamata Sam, e ti sei addormentato come un bambino.”
Umiliante. Lola. Tutto. Sam. Niente.
Rido e scuoto la testa. “Mi dispiace, Lola, davvero. Avresti meritato una serata migliore.”
Lei alza le spalle. “No, io mi sono divertita. Insomma, non capita spesso di dover chiedere scusa a uno sconosciuto per il vomito altrui.”
Mangio un biscotto e combatto contro il mal di testa cercando di ricordare qualcos’altro, ma i ricordi sono come sigillati da qualcosa di più grande.
“Come mai sei scappata dalla scuola?”
Lola perde il sorriso. E nel momento in cui il suo viso si spegne, io vorrei non averlo mai chiesto.
“Questa è un’altra storia.” Risponde, mentre i suoi occhi si offuscano di pensieri.
“E me la racconterai mai?”
“Hai davvero bisogno di saperlo?”
“Ti fa stare tanto male?”
Lei fissa un biscotto che ha lasciato cadere nel letto e poi annuisce. “Sono un mostro.”
Istintivamente, mi alzo e raggiungo l’altro lato del tavolo. Le prendo il viso tra le mani e le bacio la fronte, mentre vedo i suoi occhi azzurri riempirsi di lacrime. Nel momento in cui poso la sua testa contro il mio petto e le stringo le spalle, lei ricambia l’abbraccio e scoppia a piangere.
Mi stupisco di me stesso per averla abbracciata: è una cosa che faccio davvero di rado. Sam si lamentava sempre del fatto che non la abbracciassi mai. Mia sorella Gemma poco tempo fa mi ha rinfacciato di averla abbracciata solo quando si è laureata. Invece con Lola, in questo momento, è la cosa più naturale del mondo: la tengo stretta al mio petto e lascio che mi rovini la maglietta del pigiama con le sue lacrime mentre le accarezzo i capelli e lei sembra liberarsi di qualcosa di più grande di lei.
“Scusami, Aaron …” dice, tra i singhiozzi.
Io scuoto la testa. “Non ti devi scusare.”  Le bacio i capelli e mi rendo conto che ha davvero un buon profumo.
Qualsiasi cosa le sia successa, so che dovrò salvarla dalle ombre che la perseguitano.
“Sono un m-mostro.” Singhiozza.
“No.” le dico, sicuro. “Forse è quello che pensa la gente, ma a me è bastato parlare con te un paio di volte per rendermi conto che non sei affatto un mostro.”
“Tu non sai niente!” mi dice, sciogliendo l’abbraccio.
Vedere il suo viso rigato dalle lacrime mi procura un groppo in gola. “Allora raccontami. Tu sai tutto di me. Di Sam. Del divorzio. Di Wylda. Della mia famiglia. Sai tutto, Lola. Io di te non so niente.”
Eccole. Le parole su cui non ho fatto altro che rimuginare ora stanno fluttuando tra me e lei.
“È stata tutta colpa mia. Solo colpa mia!” si copre il viso con le mani – e si, è decisamente la mia felpa. Le sta larga e le mani sono coperte dalle maniche, ma nulla, nemmeno la mia felpa nasconde il suo dolore. La abbraccio di nuovo. Mi arriva a malapena alle spalle. Lei mi stringe con le sue braccia flebili mentre trema. Nelson abbaia. Sono le nove e trenta del mattino. Londra vive attorno a noi mentre Lola piange.
Sento un telefonino che vibra. Lei si allarma, e guarda il tavolo, raccogliendo l’iPhone su cui appare di nuovo il nome di Michele. Lei lo guarda per un po’, senza smettere di piangere. Rifiuta la telefonata e spegne il telefono.
Poi mi guarda e ripete “Fu solo colpa mia.”

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Capitolo 4
*** 4. ***


Capitolo quarto.

Aaron non sa.
è tutto quello a cui penso da due ore seduta a gambe incrociate sul dondolo che sta sul tetto di casa sua. Gli auricolari collegati all’iPod che si sta scaricando, ma scendere per caricarlo non è tra le opzioni. Due ore di musica. Due ore  di pensieri.
Sono due ore che evito il suo sguardo. Due ore che sto seduta qui a guardare il cielo farsi sempre più nuvoloso.
Tra poco pioverà. Bene, mi dico, almeno il mio cervello ed il cielo avranno qualcosa in comune. La tempesta.
Aaron non sa.
E come diamine mi è venuto in mente di piangere davanti a lui?
Io ero quella forte. Quella che anche il giorno del funerale non ha versato una lacrima. Quella con l’espressione dura e la risposta pronta. Non avevo mai pianto davanti a qualcuno. Credo che l’ultima volta in cui piansi davanti a qualcuno fu quando mi sbucciai il ginocchio cadendo dall’altalena, in terza elementare. Fu colpa di Michele, però: stava spingendo troppo forte. Dare la colpa a Michele era il mio hobby preferito al tempo. Era sempre colpa di Michele, per conto mio, ma in realtà non lo era mai. Michele era colpevole solo delle piccole cose, io ero quella tremenda, quella che non stava mai ferma e mai zitta, quella che si sporcava con il cibo e bagnava il letto. Michele aveva la colpa di essere ‘quello bravo’.
Aaron non sa.
Non sa chi ero. Non sa come ho mandato la mia famiglia allo sfacelo. Non sa quanto mi costi leggere il nome di mio fratello Michele sul display ogni volta che cerca di chiamarmi. Perché lui è ancora ‘quello bravo’. Io no. Non sa quanto male facessero le voci e le dita puntata al college. Non sa quanto faccia male guardarsi nello specchio e vedere un mostro.
Accendo una sigaretta mentre le nuvole corrono sopra la mia testa e il dondolo non ha più bisogno della mia spinta per cullarmi. Alzo il volume di Holding Out For A Hero e muovo la testa a ritmo. Potrei chiudere gli occhi e addormentarmi qui. Potrei chiudere gli occhi e sparire, ma per la prima volta dopo mesi sento che a qualcuno nel mondo importerebbe.
Ad Aaron probabilmente importa.
Chissà  perché, poi.

Ed è esattamente Aaron, con un maglione grigio come la felpa che gli ho rubato e dei capelli ancora umidi dalla doccia, che appare sul tetto della sua stessa casa dopo qualche secondo. Non dice niente. Non sorride. Non tradisce emozioni. Mi guarda, mi osserva, con quei suoi occhi meravigliosi e si siede accanto a me.
“A te importa, di me.” Dico, dopo qualche tiro, togliendomi una cuffietta per porgergliela.
“Pare sia così.”
“E perché ti importa di me?”
“Non lo so. A te importa di me?”
“Si.” Rispondo, sicura.
“Ecco. E sapresti trovarmi un perché?”
Ci penso qualche secondo. Perché non ha mai chiesto nulla, nulla del mostro che sono o di quale sia la mia storia. Perché ha gli occhi di chi è stato appena ferito ma il sorriso luminoso di chi si merita un nuovo inizio. Perché mi ha chiesto di restare accanto a lui quando gli ho rimboccato le coperte. Perché ha una tazza per ogni giorno della settimana, nella credenza, e i miei cereali preferiti.
“Per le piccole cose.” Concludo, alzando le spalle.
“Per le piccole cose.” Ripete lui. “Però, se ci pensi, non sappiamo nulla l’uno dell’altra.”
“No, hai ragione.” Ammetto. “Quale è il tuo colore preferito?”
“Il giallo.  Il tuo?”
“Il rosso. Però amo anche il grigio.”
“E quale è il tuo nome di battesimo?”
Io sorriso. “Oh, vola basso, Occhi Blu, non lo sa nessuno. Davvero. E poi, ‘Lola’ va più che bene.”
“’Lola’ è anche solo lontanamente simile al tuo nome vero?”
“Può essere. Era il nome della mia bambola preferita, per quello lo adoro.”
“Quanti anni hai?”
Io guardo la data sul telefono. “Oggi diciotto. Domani diciannove.”
“Scherzi? Domani è il tuo compleanno?”
Io annuisco. “Si, ma non ti preoccupare, non è niente di importante.”
“Eccome se lo è!” si alza in piedi e si porta le mani nei folto capelli ricci. “Hai amici qui?” scuoto la testa. “E a casa tua?” Scuoto di nuovo la  testa, mio malgrado. “Ehi, aspetta, dove è casa tua, esattamente?”
“Non ne ho una.”
“E la casa dove sei cresciuta, dove è?”
“In Italia.” Rispondo, sicura. “Sud Italia. Una casa grande con le finestra piccole e le porte tutte bianche.”
“ Vuoi tornare a casa, per il tuo compleanno?”
“Aaron?”
“Sì.”
“Non voglio tornarci mai più, in quel posto.”
Lui si fa serio. “Okay. Ti va di dirmi perché?”
“Non ne ho motivo.”
“Come no?”
“No.”
“E quel Michele che continua a chiamarti?”
Sorrido per come pronuncia il nome con la cadenza inglese. “Non è lui a chiamarmi, ma il suo senso del dovere. Lui è ‘quello bravo’, lo è sempre stato. Troppo senso del dovere.”
“Senso del dovere?”
Io annuisco.  “Michele è mio fratello.” Ammetto poi. “Era il mio responsabile e tutore legale, fino a un anno fa.”
“E ora?”
“Ora sono io responsabile e tutore legale di me stessa.”
Aaron annuisce. “Ovvio. Okay,ora concentrati. Cosa vorresti fare per il tuo compleanno?”
“Niente. Puoi dimenticare che te lo abbia detto?”
“Assolutamente no. Adoro i compleanni.”
Io gli sorrido. “Non farai a tempo a riprenderti da ieri sera.”
“A proposito, cosa stavamo festeggiando ieri sera?”
“Il divorzio.” Rispondo, spegnendo la cicca.
“E si festeggia bevendo?”
Io alzo le spalle. “Non lo so, non ho mai divorziato.”
Lui si sforza di sorridere. “Nemmeno io. E mi sono ripreso!”
“Davvero?” domando, ridendo.
“Davvero!”
Scuoto la testa, aspetto qualche secondo e poi mi avvicino lentamente al suo orecchio, urlando a squarciagola. Il modo in cui si butta giù dal dondolo e si copre l’orecchio mi fa scoppiare a ridere.
“Non ridere! Non fa ridere! Lola, dannata ragazza, sono sordo!”

Lola ha trovato nella sua valigia un completo sportivo azzurro come i suoi capelli. Si è gasata da morire e se lo è provato, per poi decidere che saremmo andati a correre, totalmente incurante del maltempo.
Io l’ho guardata e ho riso, mettendomi una mano nei capelli. “Ho possibilità di scelta?” le ho chiesto.
Lei ha scosso la testa e ha riso, e io giuro che non so cosa sia questa cosa che ho nello stomaco ogni volta che lei ride. So solo che è dannatamente automatico sorriderle in risposta.
“Aaron!” strilla, fermandosi. “Aaron, siamo a Camden Town!”
Io mi guardo attorno e vedo la fermata della metro che lei sta indicando, mentre corre sul posto.
“Si.” Le dico, concedendomi di fermarmi a prendere fiato. “Abbiamo corso … tantissimo!”
Lei controlla il telefono. “Qui dice poco più di venti chilometri.” Dice, alzando le spalle.
Io strabuzzo gli occhi. “Ah, si, giusto, roba da niente.”
“Ho fatto di meglio.  Hai fame? Prendiamo una frittella?”
“Dopo aver corso venti chilometri una frittella?” chiedo, appoggiandomi con la schiena al muro. “Tu sei fuori di testa!”
Lola annuisce e sorride. “Si, non sei il primo e non sarai l’ultimo a dirlo.”
La guardo e la vedo: diciotto anni dipinti su un viso che ne dimostra molti di più, due occhi che sembrano aver visto il mondo, il corpo fragile e troppo magro di chi ha appena corso troppo con il sorriso di un bambino a cui è stato regalato lo zucchero filato.
Lola.
 Tutto e niente.
“Sai, la cugina  di Wylda è andata a Disneyworld per il suo compleanno.”
Lola annuisce. “Bella idea. Porta anche Wylda, però aspetta che sia abbastanza grande per ricordarselo.”
“Ma se ha già cinque anni!” mi lamento, mentre lei ricomincia a correre e io la seguo.
“Ah si? Elencami cinque nitidi ricordi di quando avevi cinque anni!” urla, prendendo una via che non conosce.
Io ci penso una attimo, rallentando involontariamente. Cinque anni.
Avevo un amico che si chiamava Jack. Ora lavora nella City, e credo si sia sposato.
“Il mio amico del cuore si chiamava Jack.” Dico, fissando la sua coda di cavallo.
Lei alza una mano e mostra quattro dita.
Jack mi regalava le figurine di quel cartone che guardavamo sempre. Come si chiamava?
“Non ricordo … come si chiamava il cartone che guardavamo sempre?”
Lei si gira e mi sorride. “Aaron, quando avevi sei anni io non ero nata, perché lo chiedi a me?”
Sbatto le palpebre. Non ci avevo pensato.
Gemma. Gemma è più grande di me, aveva dieci anni. Che faceva Gemma a dieci anni?
Aveva una bambola che preferiva rispetto alle altre, l’aveva ricevuta a Natale.
Io cosa avevo ricevuto quel Natale? Il robot? No, ero già più grande.
“Vedi?” mi dice Lola, girandosi. “A cinque anni dai importanza a talmente tante cose che più passa il tempo, più te ne dimentichi.”
Io mi fermo.
Wylda ha cinque anni.
Divorzio. Famiglia. Niente.

Wylda non si ricorderà di quanto io e Sam ci siamo amati. Non si ricorderà del bacio a fior di labbra quando tornavo a casa. Non si ricorderà del maglione uguale che avevamo a Natale, non ricorderà gli sguardi complici o i film del sabato sera sul divano. Non si ricorderà di quelle mattine in cui faceva a gara con Nelson per stare nel lettone.
Niente.
Non se lo ricorderà.
Arriverà all’età di Lola e non si ricorderà di tutto questo.
Mi fermo.
Wylda non se lo ricorderà.
Sento un enorme groppo in gola.
“Aaron?”
La voce di Lola è lontana.
Posso fare a pugni con il mal di stomaco che mi hanno dato le parole di Sam. Posso combattere con la sua assenza. Posso ignorare i ricordi di noi, di lei che gira per la casa. Posso spostare tutte le fotografie. Posso fingere che non mi importi.
Ma non posso permettere che Wylda dimentichi.
“Aaron, guardami.”
Alzo gli occhi e trovo Lola preoccupata.
“Aaron, cosa è successo?”
“Wylda non se lo ricorderà.”
“Che cosa?”
“Di quanto io e Sam ci siamo amati.”
Lola rimane ferma qualche secondo. “L’hai amata davvero, Sam?”
Sam. Sam – la prima donna che abbia guardato con la consapevolezza di volerla accanto fino a quando mi fossi dimenticato anche il mio nome.
“In qualche modo non ho mai smesso.”
“Allora Wylda se lo ricorderà.”
“Come lo sai?”
Lola sorride. “Le cose belle te le porti dentro. Per sempre.” posa una mano sulla mia guancia e inclina la testa. “Promettimi che non lascerai mai che si dimentichi che la adori. Anche quando sbaglierà, quando ti deluderà, quando porterà a casa un ragazzo che non ti piace, quando tornerà tardi la sera e magari sarà pure un po’ ubriaca, o quando prenderà un brutto voto o si metterà a piangere e non vorrà dirti perché. Promettimi che non lascerai che si dimentichi del bene che le vuoi, promettimi che non smetterai mai di ricordarglielo, perché è terribile.”
“Dimenticarsene?”
“Dimenticarsene e non avere più la possibilità di chiederglielo.”

“Lola?”
“Un attimo, Occhi Blu, non ho ancora messo piede in casa!” mi lamento.
Ore fa è corso via da Camden Town per andare da Wylda. E ha fatto bene. Avrà corso tantissimo (e non lo ammetterà mai, ma so che un pezzo lo ha fatto in metro) ma vederlo correre via ricaricato dall’amore per la figlia è stato bellissimo.
Mi chiedo se mio padre lo avrebbe mai fatto per me.
Mi chiedo come sarebbe mio padre, ora.
Scaccio il pensiero quando Nelson mi corre incontro. “Ciao, stupido cane!” esclamo.
“Lola!” vengo richiamata.
“Che vuoi farci, è stupido!” mi giustifico. Tolgo le scarpe e le vedo. Accanto alle scarpe da corsa di Aaron, ci sono due paia di scarpe da bambina.
Poso una mano sul muro, nel momento in cui Aaron raggiunge l’ingresso. “Ci sono qui Wylda e Mary, la sua amichetta del cuore.” Sussurra, mentre noto che si è fatto una doccia e ha addosso un grembiule da cucina macchiato di farina.
“E non hai pensato di dirmelo?” rispondo, shockata. “E perché ti sei messo a cucinare?!” domando.
“Perché stiamo facendo i biscotti.”
“Ma è ora di cena!”
“Per te, forse. Per due bambine di cinque anni è quasi ora di andare a dormire.”
Mi tolgo gli auricolari e lo guardo storta. “Non posso conoscere tua figlia, Aaron.”
“Perché no?”
“Perché la prima cosa che farà sarà andare a dire a sua madre che una ragazza con i capelli blu vive con te. Perché non ci arrivi?”
Lui si gratta la nuca. “Non ci avevo pensato. Perché non ci avevo pensato? Di solito sei tu quella che agisce senza pensare.”
“Non ci hai pensato perché sei stupido come il tuo cane, e non è il momento di dirmi una cosa del genere!” Dico, mentre Nelson gioca con le tue scarpe.
“Però non m’importa di ciò che pensa Sam, insomma, mi ha lasciato, e …”
“Non t’importa di ciò che pensa Sam ma hai il dovere di preoccuparti di ciò che pensa la bambina!” esclamo. “Come fai a non arrivarci?”
“Come fai a conoscer così bene i bambini?”
“Avevo una sorellina.” Rispondo, d’istinto.
Perché non pensa alla bambina? Perché non la tutela? Perché lui, che è l’uomo che pensa troppo, non pensa a cose importanti come questa?
Avevi?” risponde lui, basito.
Io trattengo il respiro.
Sono un mostro, Aaron. Avevo una sorellina, un padre, e una madre. Ora ho tre tombe a cui mio fratello porta i fiori. Ora ho un fratello che mi chiama ogni giorno ma io non ho il coraggio di rispondere. Avevo una famiglia, degli amici, un ragazzo. Avevo tante cose. Ora ho tanti ricordi. Alcuni belli, altri un po’ meno. Ma tutti bruciano.
Avevo, si.” Ripeto. “Dio, Aaron, il mondo di tua figlia è appeso a un filo, i suoi si sono appena lasciati e lei ha traslocato, se mi vedesse entrare in casa tua il suo mondo crollerebbe.”
“Cosa vuol dire che avevi una sorellina?”
“Non lo so, quanti significati ci leggi?” rispondo, alzando la voce ma stando comunque attenta a non farmi sentire dalle bambine in cucina. “Rimane a dormire?”
“Sì, poi le porto a scuola io domani mattina.” Replica. “Hai intenzione di darmi delle spiegazioni oppure no?”
“No!” gli dico, raggiungendo un tono di voce più o meno normale. “Nelson, lascia andare la mia scarpa. Nelson!” recupero la scarpa dalla bocca del cane e me la infilo alla velocità della luce.
Aaron mi afferra un braccio. “Tu non vai da nessuna parte, Lola, ti pare di poter sviare un argomento del genere?”
Lo guardo e vedo la preoccupazione nei suoi occhi.
E faccio una cosa che non avrei mai pensato di fare.
Seguo l’istinto più naturale del mondo.
Gli poso una mano sul viso e gli bacio le labbra.
“Torna a fare i biscotti, Aaron, sei un brav’uomo.”
Mi libero velocemente della sua presa ed esco.
 

 

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