midnight in Gotham

di heather16
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** toc toc. ***
Capitolo 2: *** suicide night ***
Capitolo 3: *** bloody love ***
Capitolo 4: *** fire ring ***
Capitolo 5: *** the QUINN of hearts ***
Capitolo 6: *** sucker for pain ***
Capitolo 7: *** black and white ***
Capitolo 8: *** bang bang ***
Capitolo 9: *** mad love ***
Capitolo 10: *** red dawn ***



Capitolo 1
*** toc toc. ***


La Lamborghini viola1 sfrecciava nella notte di Gotham, schiacciando fogli, lattine e  qualuqnue altra cosa che, viva o morta che fosse, si trovava sulla strada. Al numero cinque di Fifth Avenue, al primo piano di una palazzina fatiscente, non c’erano finestre; solo una porta di ferro sul retro, che unicamente chi sapeva bene a cosa stava andando incontro poteva conoscere. Lui sorrise abbassando i finestrini neri e fissando il numero civico.
-Aspettami qui tu, non ti muovere.-
-Oh, Puddin, perché non mi lasci venire con te?- la donna bionda dalla pelle biancastra gli si avvicinò, cercando di avvinghiarcisi con le sue deliziose braccia ingioiellate. –Lo sai, in due io e te ci divertiamo di più.-
-Pasticcino, papà ha un lavoretto veloce da fare, non ti piacerebbe. Ti ricordi il trafficante di armi in quel locale? Ci eravamo tanto divertiti! Ma questa volta ci metterò solo un secondo, è così noioso. Aspetta qui.-
Sgusciò fuori dalla macchina. Era alto, con le spalle larghe che si incurvavano sotto il peso del lungo cappotto viola. I capelli sporchi e lunghi erano di un colore indefinito, tendente al verdastro, marci. Ricadevano sul collo. La sua pelle era bianca, ma aveva alcune chiazze sul viso che mantenevano un incarnato quasi… normale. Del suo viso, ancora più di una grande bocca sorridente dipinta con una strana sostanza rossa, due occhi scuri e cerchiati di nero mettevano i brividi. Aprì il bagagliaio, tirò fuori una MAC-11A1 e si diresse verso il retro. Picchiò una volta contro la porta di ferro, non gliene fregava un cazzo di quale fosse il codice per entrare, lui poteva e faceva ciò che voleva. Una fessura si aprì, e quando i due occhietti verdi che guardavano fuori videro chi stava bussando, subitò la serratura scattò.
-Mister J. Che ci fa qui, non sono ancora arrivate…-
-Chi è morto dice cosa!-
-Cosa?-
Il Joker gli scaricò una raffica di colpi nel cranio, che esplose come una noce di cocco, schizzando cervello sulle strette pareti del cunicolo di entrata. –Ci cascano sempre tutti, eh?- al rumore degli spari, l’intera compagnia si presentò armata. Lui, ridendo, lui , ballando in cerchio con la sua mitraglietta,lui, colpendo tutti, uno dopo l’altro, si stava davvero divertendo.
-Sono un campione di freccette io!- quando ormai intorno a lui si era formata una piccola tribù di morti, proseguì dritto, verso un altro corridoio. Aprì una botola, scese le scale. Un piccolo magazzino. Centinaia di casse.
-Allora, il piatto del giorno è... vediamo… Sì, cocaina! Ma ce n’è per tutti gusti! Oh, ma questa roba è più sintetica di un paio di pantaloni, volete provare la cucina biologica? Ho dei papaveri, ma non sembrano fiori … ma in fondo chi non ama le ricette un po’ più elaborate?- il Joker scoperchiava casse, senza un criterio logico. –Eppure quello che mi piace di più non c’è! Non sia mai che il nostro ristorante non serva i…-
All’ultima cassa, finalmente si zittì. –Forse davvero non era ancora arrivata la mia roba.-
Di colpo, una spina bollente gli si conficcò nel braccio con quel sibilo vellutato che solo un silenziatore può produrre. Poi un altro colpo, questa volta sordo, e infine un tonfo. Solo allora lui si girò.
-Harley? Harley che hai fatto?- non curante della ferita il Joker camminò in direzione della ragazza, che aveva appena sparato un colpo in testa al suo attentatore. Alzò il tono di voce, era arrabbiato.
-Ho sentito gli spari, ho pensato ci…-
-TU! Tu hai pensato? E che dovevi pensare? Gli uccellini cantano, le botti traboccano di vino, i bambini dormono felici nei loro lettini a forma di automobile, tutto va bene, la città è in festa, no? NO? E allora perché la tua testolina doveva mettersi a pensare, PERCHÉ Harley?!-
Con il braccio sano spinse la ragazza da un lato, contro il muro. Le si avvicinò tanto che i loro nasi si toccavano, le labbra dell’uno potevano percepire il respiro dell’altra. Le strinse il visino pallido fra le mani. –Te l’ho sempre detto Harley, che non dovevi provare a capirmi. E ora, Tu hai appena cercato di farlo.-
La voce di lei era un flebile gemito. –Io cercavo solo di aiutarti. Poteva essere divertente…-
-Harley, lo sai anche tu. Il guaio della comicità è che finisci per essere colpito… da chi non ha capito il tuo scherzo.2-
Con un altro spintone la fece cadere in mezzo alle casse. Poi sparò. Il rumore dei suoi passi fu l’ultima cosa che Harley sentì prima che tutto… piombasse… nell’oscurità.
 
1: dalla canzone “Purple Lamborghini”
2: Joker pronuncia per la prima volta questa frase nel fumetto intitolato “Mad Love”, del 1990.

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Capitolo 2
*** suicide night ***


Harley riaprì gli occhi. Si sentiva strana, debole. La spalla le bruciava. Il braccio destro si ritrovò a tastare carne viva fradicia di sangue. Un’altra volta lui l’aveva abbandonata.si alzò. La testa girava, e anche il pavimento, le pareti, e tutte quelle decine e decine di casse.
-è ora di farsi un drink.- superò le casse, tenendo la mano premuta contro la ferita. Piangeva, ma non per il dolore. Con il Joker le succedeva sempre qualcosa di brutto. Ma lui la amava, certo che l’amava. Era solo fatto a modo suo. E aveva ragione. Lei non doveva provare a capirlo. Sarebbe stata una lunga notte. Uscita da quel luogo si ritrovò in strada, completamente sola. L’aria fredda e umida della sera la schiaffeggiava con forza, come se una pallottola in corpo non bastasse. Traballava su quei tacchi troppo alti. Quella pistola era troppo pesante perché la sua spalla ferita la reggesse, così la buttò. Il suo cuore era troppo vuoto senza il Joker. Camminò senza meta per un paio di isolati, poi vide l’insegna luminosa di un locale. Era un postaccio, pieno di spacciatori e giocatori d’azzardo. C’erano tante persone che ballavano, e questo a lei bastava. Al bancone, affianco a lei, c’era un uomo. Era sulla quarantina, capelli brizzolati, occhiali. Sembrava un tipo a posto. Troppo a posto per un locale del genere. Era decisamente bizzarro, strano e inappropriato. Per questo a lei piaceva. Si sistemò i capelli di lato, per coprire la ferita.
-Hey, tortino di miele, sei carino! Non mi offri da bere?-
Lui la guardò. Una donna bellissima, avvolta in un abito fatto unicamente di piastre di ferro a forma di rombi. Tra una piastra e l’altra si intravedeva la pelle bianchissima. Le braccia erano piene di orologi e bracciali. Gli occhi azzurri truccati di nero lo fissavano con uno sguardo sensuale, ma tremendamente… strano.
-Io… Certo. Come ti chiami?-
-L’ho chiesto prima io!-
-Veramente non….-
-Ma insomma, cowboy, perché queste domande? Ti importa davvero? Ah, voi uomini siete tutti uguali, non vi interessa davvero il nome di una ragazza!- come al solito, le sue tendenze sociopatiche avevano preso il sopravvento, accentuate dal dolore.
Vedendo che stava per andarsene, l’uomo la trattenne per un braccio. Lei fece una smorfia di dolore.
-Ti… senti bene?-
-Siete tutti uguali, ferite solo le donne!-  fu come un lampo. Harley chiuse la mano a pugno, l’uomo vide scintillare la punta di una lama su un anello, e si ritrovò una guancia squarciata dal mento all’orecchio. Prima che qualcuno capisse cosa fosse successo, quella bionda da schianto era già sulla pista da ballo. Trovarla tra la folla sarebbe stato impossibile.
Si muoveva con sensualità volgare oltre misura, strusciandosi prima contro un uomo, poi un altro. Nessuno capiva in realtà che nella sua testa tutto c’era tranne che uomini da conquistare. In quel momento i suoi folli neuroni volevano che lei si muovesse, ballasse, e lei li accontentava.  I suoi occhi non vedevano uomini, donne e drink, ma fumo, luci e tante tante ombre. Le sue gambe non potevano reggere per molto senza tutto quel sangue che stava scivolando fuori dal suo corpo, ma a lei non importava.
Puddin, Puddin, Puddin…
Basta, non voleva più ballare. Lui non era più lì con lei, lui non la stava guardando, lui non l’avrebbe chiamata per andare via, a rubare in una gioielleria o a picchiare qualche passante.
Le luci diventarono fari colorati, le ombre persone, il fumo svanì. No, non voleva stare lì. Iniziò a muoversi verso l’uscita della pista da ballo, ma la gente non le prestava attenzione, non le faceva strada. Era inchiodata lì. Harley si inginocchiò. Chiuse gli occhi. Non sapeva cosa fare, si sentiva totalmente spaesata. Era tutto inutile, non riusciva a fare nulla da sola. Decise che avrebbe usato le maniere forti, come le aveva sempre detto…. Puddin. Una giarrettiera sotto il vestito nascondeva un pugnale. Lo strinse fra le mani, facendo per sfilarlo, quando…
Una mano. Bianca. Le unghie spezzate, nerastre. Solo lui.
-Ti senti bene?- Non era lui. Non era lui. Solo uno stupido essere umano gentile. Era stata ingannata. Come una stupida. Con un impeto di rabbia sfilò il pugnale dalla fascia sulla coscia, si avventò sul ragazzo che le offriva un aiuto, sfregiando brutalmente il braccio di quella orrida mano che l’aveva tradita.
-Traditori! Tutti! Bastardi!-  la folla intorno a loro si accorse di cosa stava succedendo, ma era troppo tardi. La ragazza era già fuggita sgusciando agile fra la folla. Riuscì ad uscire. In quel momento passava un auto. Lei si buttò in mezzo alla strada. Non aveva paura di morire, la sua vita apparteneva a qualcun altro. La macchina riuscì a frenare appena in tempo. Ne uscì un tipo sulla ventina.
-Si può sapere che cazzo fai?-la furia psicopatica era stata liberata. Harley si gettò su quel corpo come per divorarlo. E questa volta non usò armi. Quando si rialzò in piedi la sua bocca era piena di sangue, la gola di lui squarciata. Salì in macchina. dentro c’era una bottiglia di vodka. In quella notte suicida non si sarebbe fermata.

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Capitolo 3
*** bloody love ***


Le pareti della stanza erano viola. Due grossi armadi neri, alti fino al soffitto, con teste di mostri sulla cima e una lamina di specchio al centro larga quanto un pollice si ergevano sulle due pareti opposte. Le finestre erano grandissime, ma al posto del vetro c’erano lamine di ferro, piene di scritte. Tante, tante scritte.  Alla parete opposta un grosso camino. Spento. Dentro al camino una porta montata al contrario. Al centro della stanza c’era un tavolo, con le gambe nere e il piano di vetro. Il pavimento era nero. L’unica luce era quella di un grande lampadario con una sola unica lampadina accesa, fatto di gocce di cristallo, fissato al pavimento, in corrispondenza del centro del tavolo. A quella strana mensa erano sedute quattro persone.  Due uomini, dipinti in viso come il pierrot, uno di fronte all’altro. Un uomo pelato, con gli occhiali da sole sulla testa e una giacca di pelle. Infine, a capotavola, seduto su una sorta di trono nero dall’altissimo schienale sormontato da ridenti gargoyle, il Joker. Aveva gli occhi chiusi, le mani giunte in segno di meditazione.
-Lei dov’è?-
Il pelato parlò: -Ho mandato i ragazzi a cercarla, non è dove l’hai lasciata. Stanno perlustrando tutta la zona. La troveranno.-
-Non è in zona. La mia bimba ha le gambe. Fate a pezzi la città, sbucciatela come una mela matura. La dovete trovare.-
-Appena i miei ragazzi la troveranno gliela porteranno qui, mister J.-
Il Joker aprì gli occhi, sollevandoli in direzione dell’uomo, che stava seduto di fronte a lui. Poi rise. I due pierrot si alzarono e uscirono dalla stanza.
-Oh no! Mio bello scimpanzè, stupido bongo bongo, non capisci. Voi me la dovete trovare. E poi dovete ucciderla. uccidimela, oppure ti faccio fare la fine dei nostri commensali.-
-Ma… sono appena andati via.-
-Già. Per sempre.- Il Joker rise così tanto, mentre l’uomo deglutiva sconvolto. Era un killer a pagamento, certo, ma i due uomini che si erano appena alzati erano due tirapiedi di quel pazzo, che gli erano sempre stati fedeli come cani. Non aveva alcun senso. Ma c’è forse un criterio nella follia?
-Dio, quanto la amo. È il fuoco della mia anima.-
Perché ucciderla allora? la paura e il buon senso spinsero il suo commensale a non chiedere niente al Joker.
-Adesso lasciami. Voglio stare solo.-
Quando l’altro se ne fu andato, quello scherzo vivente respirò a fondo.
-Oh, mia piccola Harleen, quanto ti amo. Eri così sola in quel brutto postaccio. Ti ho fatto uscire da un mondo finto, come tu hai fatto uscire me da Arkham.-
Ricordava ancora quando, una volta evasi, l’aveva portata lì, in quello strano circo dove lui viveva. L’aveva lasciata in una sontuosa camera da letto. Com’era stato bello guardarla mentre dormiva. Com’era stato bello vederla svegliarsi, quando l’aria le era rimasta in gola senza scendere più, perché lui la stava strangolando con una cravatta. Sembrava così spaventata. Ma lo amava così tanto. Dio, era così… buona.
Non riusciva a capire se lo eccitasse di più il suo corpo o il suo delizioso cuoricino. Era così bello sapere di averlo in pugno, di poterlo trafiggere con spilli e punte in ogni modo. Il Joker tirò un pugno al tavolo di cristallo. Andò in mille pezzi.
-gli uomini e le donne urlano quando fanno l’amore. Il dolore è l’apice… ultimo… del piacere.- parlava con una voce impastata e rilassata, mentre con una scheggia apriva uno squarcio nel palmo della propria mano. Era bello vedere come  da una pelle apparentemente normale, il sangue disegnasse le linee dei tagli. Con i rasoi era più divertente. Le incisioni erano meno profonde, e il sangue usciva a gocce, disegnando lungo la ferita una catena di perle rosse. Il sangue sapeva di ferro.
La sua piccola Harleen, al freddo, di notte. Chissà che paura doveva avere, tutta sola a Gotham. No, la sua bimba era forte, ma soffriva quando era troppo lontana dal proprio cuoricino sanguinante.
I lembi della mano si tendevano e raggrinzivano, obbedendo ai movimenti dei muscoli. Il fenomeno lo divertiva, ma la beatitudine di quel momento era tale che si limitò a sorridere inclinando la testa all’indietro.
 Se Harleen era disposta ad essere sua, sarebbe anche morta per lui. Era una giusta prova d’amore.
Avvicinò la lastra di vetro ancora sporca di sangue al viso. La lingua che ci scorreva sopra scivolava su una superficie liscia che apriva un taglio che si mescolava alla saliva. La bocca era un tripudio di sangue.
Oh, quanto amava la sua Harley.
Mentre il denso liquido rosso gli colava sul collo, sui vestiti, il clown rideva, in preda al più macabro degli orgasmi.
 

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Capitolo 4
*** fire ring ***


Harleen aveva fatto l’amore per la prima volta a diciannove anni. Lui si chiamava Guy, era alto e imbranato. Le voleva un mondo di bene. Era stato bellissimo, lui era dolce, la faceva sentire a proprio agio. Questo non aveva però convinto Harleen ad amarlo fino in fondo. La storia era presto finita. L’università era troppo importante per le distrazioni, questa era stata la scusa che la giovane studentessa aveva dato a se stessa; la verità era un’altra, lei non era innamorata fino in fondo. Non ricordava di esserlo mai stata.
Harley correva con quell’auto rubata per le strade di Gotham City, senza una direzione precisa. Come un lampo, le immagini del suo Puddin le passavano davanti agli occhi, che si gonfiavano sempre di più di lacrime. Frenò di colpo. Prese la bottiglia e uscì, lasciando la macchina in mezzo alla strada. Si trovava nel quartiere degli uffici legali, che era avvolto dall’oscurità e dal silenzio. Per un attimo, solo per un attimo, il suo cervello tentò di ragionare. Lei aveva ancora una casa,da qualche parte. Poteva tornare lì. In fondo erano passati solo sei mesi, e quel posto le apparteneva di diritto. La sera, presa dal lavoro ad Arkham, tornava sempre a casa tardi, i vicini non sapevano nemmeno che faccia avesse. Non aveva chiavi, ma forse poteva forzare la serratura. Ma se avesse scassinato la porta avrebbero pensato ad un ladro, sarebbero entrati per controllare, e lei non poteva farsi vedere…. Clare! La sua vecchia amica Clare, una delle poche che aveva mai avuto, che non vedeva… da Puddin.
Forse abitava ancora in quel piccolo appartamento. Poteva andare a trovarla. Delle moto stavano arrivando, si sarebbero scontrate contro la sua macchina. “grandi fuochi d’artificio” pensò Harley. Non fu così. Il gruppo di moto illuminò con i fari il suo corpicino che camminava sul marciapiede, e si fermò con una derapata davvero d’effetto. La bionda si avvicinò ai motociclisti, che indossavano strani caschi rosa e vestiti da clown.
-Ciao ragazzi! Che ci fate qui a quest’ora della notte?-
Nessuno le rispondeva. Pensò che forse erano solo le sue solite visioni, ma tentò di nuovo. Si avvicinò all’uomo che le stava a due metri e gli porse la mano. “Harley Quinn, piacere di conoscerti!”
-Sì ragazzi, è lei.-
Gli altri motociclisti camminarono nella sua direzione, tirando fuori chi coltelli, chi mazze chiodate appese a cinturoni di pelle. Harley rise, incurante del pericolo.
-Volete ballare? Oh, balliamo!-
Erano in tutto cinque uomini, armati, e lei era una, con solo un coltello. Ma se c’era una cosa che Harley Quinn sapeva fare, quella era dare spettacolo. Iniziò a roteare su se stessa, spandendo vodka a due metri da lei. Gli accendini non le mancavano. Un diabolico cerchio di fuoco si innalzò come una gabbia, rinchiudendola insieme a due dei motociclisti. Gli altri erano rimasti ustionati, tranne uno che si era nascosto, in attesa di vedere cosa sarebbe successo. Oltrepassare il cerchio di fuoco d’altra parte sarebbe stato un inutile suicidio. La donna era una furia. Rideva, ringhiava, con il coltello in mano. Aspettava che qualcuno facesse la prima mossa. Il capo dei motociclisti, con cui aveva parlato prima, fece per lanciarlesi contro, ma l’altro lo anticipò. Aveva una grande mazza chiodata, che sollevò come per scagliarla contro la bionda, che immediatamente spiccò un salto altissimo, gettandosi come una tigre contro di lui e aprendogli il cranio con il solo coltello. Il corpo morto cadde a terra. Harley raccolse in fretta la mazza chiodata.
-Vieni qui bambino, Harley vuole giocare con te!-
Il superstite aveva un coltello. Lui era forte, ma lei era pazza. Lui stava attento a non finire troppo vicino alle fiamme, lei non si sarebbe preoccupata nemmeno di ballare nel fuoco.  come una belva sul gladiatore, Harley prese la rincorsa e si gettò contro Axel, che così si chiamava prima di diventare solo un pezzo di carne arrostita. Lo usò come scudo per attraversare le fiamme. Con l’intero peso del suo corpo lo gettò nel cerchio di fuoco, sfruttando la sua massa per non bruciarsi. Era salva. Vide un ragazzo correre veerso una delle moto.
-Un superstite… bambino, chi ti manda? Rispondi!-
Il ragazzo era terrorizzato da ciò che aveva appena visto. Una sola ne aveva uccisi quattro. Non voleva aiutarla a battere un record, pensava solo a scappare.
-Il mio capo si chiama Bill, non so per chi lavorava. Te lo giuro, non so altro!- La verità l’avrebbe potuta far impazzire ancora di più, sempre che questo fosse possibile.
Harley lasciò cadere la mazza. Lei lo conosceva Bill. Era il capo di una banda di sicari. Mister J lo chiamava sempre quando voleva fare paura a qualche gruppo di spacciatori o trafficanti d’armi che non lo soddisfacevano. Lui aveva dato ordine di ucciderla? Lui?
-Dì a Bill… Dì al mio Puddin che sto bene! Vattene prima che cambi idea!-
La moto partì veloce con un rombo. Solo allora Harley si accorse del pugnale conficcato nel petto. Con calma salì in macchina, chiuse le portiere, mise in moto. Era arrivata ad un punto tale per cui nulla, proprio nulla, poteva più ucciderla.

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Capitolo 5
*** the QUINN of hearts ***


-Bill, ti devo parlare.-
-Vieni a casa del clown. L’avete trovata?-
-Sì, ma amico, è successo un casino.-
-Spiegati meglio.-
-Vediamoci da qualche parte. Quello mi ammazza se scopre cos’è successo!-
-Stan, ti ho detto di venire qui. Mister J è proprio davanti a me in questo momento, vuole sapere da te cosa è successo.-
-Oh cazzo… Bill, Cristo santo, quello mi ammazza! non vengo a farmi uccidere!-
Silenzio. Stan era fermo a una stazione di servizio. Il telefono gli tremava fra le mani. Aveva lasciato che la ragazza se ne andasse. Il Joker lo avrebbe fatto a pezzi. La voce che sentì gracchiare dall’altro capo del telefono non era più quella di Bill. Un respiro, poi un altro. –Vieni qui, ragazzo. Voglio solo giocare. Ci facciamo una bella partita a carte, e mi spieghi quello che è successo. Non provare a scappare. Tanto ti trovo. Non ti farò nulla se obbedirai, ma lo sai anche tu che i peggiori giocatori sono quelli che abbandonano ancor prima di vedere le carte che hanno in mano. E io odio i cattivi giocatori.- la linea si interruppe.
-Oh cazzo…. Oh cazzo.-
Il ragazzo frugò nelle tasche della grossa giacca da clown, che mister J aveva voluto che lui e la sua banda indossassero. Ne estrasse un pacchetto di sigarette, ma le mani gli tremavano tanto che non riusciva nemmeno ad accenderne una.
In quel momento una limousine si fermò proprio di fianco a lui. Un uomo, con un grosso costume d’orso addosso si sporse dal finestrino.
-Vieni con me.- Stan non ci pensò due volte, e iniziò a correre verso il bosco che si trovava oltre la strada. Un proiettile lo prese sul ginocchio, con precisione da cecchino. Inciampò, e di nuovo venne colpito all’altra gamba. Con tutta calma, l’orso scese dalla macchina, lo raggiunse e lo trascinò all’interno della limousine.
-Ti prego, lasciami andare! Non dirò nulla, ti darò tutto quello che vuoi! Ho tanti soldi messi da parte..o armi, ho tantissime armi, ma ti prego non portarmi lì!- l’orso alzò il separatore fra l’autista e il retro della limo. Stan era in trappola. Non aveva armi, il coltello gli era caduto scappando via dalla donna del Joker. Non poteva muoversi per tentare di scappare, e d’altra parte le portiere erano sicuramente chiuse e i vetri antiproiettile, impossibili da rompere con una pallottola, figuriamoci con un pugno. Piangere era perfettamente inutile, ma fu decisamente l’unica cosa che gli riuscì di fare. Pensava a quanto era stato stupido; ormai non poteva fare più nulla. Gli venne in mente Taylor. Era laureata in legge, ma non trovando un posto come avvocato era stata costretta a lavorare in quella bettola dove facevano le salsicce piccanti che a Stan piacevano tanto. Si erano conosciuti lì, si erano innamorati e lui aveva anche una mezza idea di sposarsela una ragazza così dannatamente perfetta. Quando aveva scoperto il lavoro di Stan, Taylor voleva lasciarlo, così lui le aveva promesso, giurato, che una volta accumulati abbastanza soldi per comprarsi una casa e iniziare un’attività avrebbe mollato tutto. Lei lo aveva perdonato,lo amava troppo; però lo diceva sempre che sarebbe finito nei guai… figuriamoci se avesse saputo chi era il pazzo in cima alla piramide degli uomini per cui lui, Stan, lavorava. Pensò a quell’anello carino che aveva visto in una gioielleria. Era decisamente al di sopra delle sue possibilità economiche, ma aveva deciso di risparmiare, perché Taylor era una ragazza decisamente al di sopra delle sue aspettative. E adesso che poteva fare, se non sperare che quel pazzo del Joker si mostrasse particolarmente magnanimo? Versate lacrime per una decina di minuti, cominciò a guardarsi intorno. Il soffitto della macchina era interamente rivestito di aghi spessi circa tre centimetri. I sedili erano foderati di pelo maculato e il pavimento, su cui anche il ragazzo era sdraiato, era coperto di cellofan. Quando Stan capì il perché di quel tappeto di plastica rabbrividì, ma non fece nemmeno in tempo a pensare a tutti gli uomini che erano diventati solamente corpi sul pavimento di quell’auto, perché la macchina si fermò con una brusca frenata. La portiera si aprì, e le ultime cose che Stan vide furono quel grosso faccione da orso che gli si avventava contro e il lampo biancastro di un teaser.
-Sveglia! Avanti svegliati tesoro, devi andare a scuola!-
Lentamente il ragazzo aprì gli occhi, ritrovandosi un viso biancastro e una sorridente bocca insanguinata davanti. Appena realizzò che cosa era appena successo e ipotizzò cosa stava per succedere, tentò di dimenarsi, ma si rese conto di essere legato braccia e gambe ad una sedia. Davanti a lui un piccolo tavolo. Per terra tante, tantissime schegge di vetro. Ed infine Lui, che sorridente gli stava seduto di fronte, con un mazzo di carte in mano.
-Ti prego, lasciami, non ho fatto nulla! Sarei venuto subito da te!-
-Allora.. perché sei scappato?-
-Non sono scappato! Non sapevo chi ci fosse nella macchina, cos..-
-Non mi prendere in giro. Quella del bluff è un’arte in cui pochi si sanno davvero destreggiare. Allora, a cosa vuoi giocare?-
-Io… cosa?-
-Avanti! Poker, briscola, bridge, Gin Ramin… oh! Non sai che fare? Hai forse… le mani legate?-
Stan lo vide dimenarsi sulla sedia mentre rideva soddisfatto della propria battuta. A quel punto vide che nell’oscurità di quella stanza, illuminata dall’unica lampadina di un lampadario di gocce di cristallo fissato al pavimento, c’era un uomo. Il Joker vide il suo sguardo perso nel buio, ed indovinò i suoi pensieri. Continuando a fissarlo negli occhi disse:-Oh, sei furbo. Hai scoperto il mio di bluff. Bill, vieni qui.-
La figura possente di Bill emerse dalle tenebre. Per un attimo lo sguardo del ragazzo si illuminò di una flebile fiammella di speranza.
-Bill è venuto solo a dire ciao. Di’ ciao, Bill!-
-Mi spiace ragazzo, davvero.-
Le urla di Stan non fermarono l’uomo che se ne andava a passi pesanti e veloci.
-Siamo solo io e te, ragazzo. Com’è eccitante! Mi sento come al mio primo appuntamento!! È ancora valida quella regola del sesso solo alla terza uscita, eh?-
Mentre parlava, il clown si avvicinava al viso dell’altro ridacchiando, alitandogli contro un respiro che sapeva di ferro, sangue, morte.
-Ascoltami, ho visto la tua donna. Eravamo in cinque. Lei ha acceso un cerchio di fuoco, li ha fatti fuori tutti. Io ho provato ad ucciderla, ma lei mi ha disarmato, poi mi ha detto di venire da te, per dirti solo che stava bene.- guardando il viso di Joker che si contrariava sempre di più continuò- Però è ferita, mister J, te lo giuro! Prima che mi togliesse la mazza, sono riuscito a ferirla. Aveva un pugnale conficcato nel petto. Non farà molta strada, probabilmente a quest’ora è già morta dissanguata! Il mio lavoro l’ho fatto!- mentendo, ritenendosi il responsabile della ferita forse mortale dell’arlecchino biondo, il ragazzo sperava di salvarsi.
Il Joker sorrise.
-Sai, le carte da gioco hanno illimitati significati. Alcuni ci leggono il futuro, altri creano divertenti spettacolini di magia. So di un gruppo di matti che ha istituito un calendario che si orienta seguendo il mazzo delle cinquantadue figure. In moltissimi giochi da tavolo, carte comprese, ci sono sempre il personaggi  principali di una corte reale. Il re, la regina, il fante ed infine il giullare.-
Parlando il clown aveva disposto ben in ordine davanti a Stan quattro carte: il re di picche, la regina di cuori, il fante di fiori e un Joker , senza seme o colore.
-C’è una storia intorno a queste quattro carte. Come in tutte le favole, si comincia con un regno, e di conseguenza con un re. Il re sposa la regina. Lui è felice, la donna è fuoco per i suoi lombi, smania per il suo inguine, potere nelle sue mani. Ma la donna non ride. La plebe, i nobili di corte, perfino i forestieri che vengono a chiedere udienza al palazzo la iniziano a chiamare “la regina triste”. Così il re, che non vuole stare al fianco di una donna infelice, fa arrivare un… giullare a corte.- le carte venivano mostrate e posizionate in bilico con maestria e velocità- Subito il Joker porta l’allegria nel cuore della regina, e il sorriso sulle sue labbra. Purtroppo però il re si ingelosisce, la regina vuole il giullare tutto per sé, non passa un secondo senza di lui. E così arriva lui... il Jack. Il fante è la migliore delle carte. Bello come il re, è solamente un povero cavaliere al suo servizio, e di prezioso ha solo il suo fedele cuore d’oro. Il fante, per ordine del re, deve sorvegliare la regina, seguendola ovunque vada con il giullare. Sfortunatamente il pover uomo è troppo innocente, e la regina troppo bella. Non ci vuole molto, e la donna si innamora perdutamente del cavaliere. Il re non è sciocco, e ben presto scopre che il cuore della sua regina è stato rubato così, dimentico dell’invidia per il giullare, ordina di far imprigionare il povero fante. La donna, disperata, si butta dalla torre più alta del castello. Con il cuore spezzato per la morte del suo unico amore, il re fa tagliare la testa al cavaliere, la cui unica colpa è stata quella di essere stato amato dalla moglie del sovrano.- Il Joker rise- ma questa è solo una storia, non è vero? Qui il giullare e il re sono la stessa persona, e la regina, viva o morta che sia ora, non si è uccisa da sola. Però due cose in comune leggenda e realtà ce l’hanno: lei muore per colpa del fante, e lui muore per colpa della regina.-
-No, aspet..- un sibilo, e dalla fronte di Stan colò un rivolo di sangue. Il clown ripose la pistola nella fondina.
La testa del morto ricadde in avanti. Il Joker si alzò in piedi, guardando il cadavere con disprezzo.
-Nessuno deve toccare la mia regina.-

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Capitolo 6
*** sucker for pain ***


Clare camminava sul marciapiede, schiacciando le foglie che di tanto in tanto le volavano sotto i piedi.
L’aria della notte le faceva chiudere il giacchetto striminzito che si era messa per uscire quella sera. Stava tornando da una cena con gli ex compagni di scuola. Lei non c’era più. Clare ed Harleen non erano state mai particolarmente affettuose, ma si volevano un bene da impazzire. L’una capiva i problemi dell’altra. Non si separavano mai. Erano sempre state due ragazze particolari, con qualcosa di più dei classici problemi dell’adolescenza. A Clare mancavano quelle interminabili chiacchierate, quei pianti che non faceva mai da sola. Anche finita la scuola non si erano separate. Mentre una volava dritta a medicina, sognando di conoscere e scoprire ogni pertugio della mente umana, l’altra aveva deciso di studiare le lingue. Forse quella facoltà non le avrebbe spianato la strada per un futuro lavorativo certo come quello di Harleen, ma Clare era una ragazza determinata, nel tempo aveva acquisito un po’ di quella sicurezza che le era mancata nell’adolescenza. Non si era mai pentita della sua scelta. Era riuscita a comprarsi uno squallido monolocale in un quartiere povero ma pulito e sicuro. Era felice. Harleen si era laureata due anni dopo di lei, aveva subito trovato lavoro presso uno studio; lei, Clare, era impiegata come traduttrice di manuali di strumenti musicali per una grande società, guadagnava abbastanza per pagare l’affitto di un appartamento più bello e godersi uno spettacolo a teatro di tanto in tanto. Non avevano smesso di uscire insieme, ritagliando il tempo fra un paziente schizzofrenico e la presentazione ai giapponesi di un organo elettrico. Poi la grande notizia: Harleen aveva trovato lavoro ad Arkham. Quando le due si erano riviste, Clare aveva notato che c’era qualcosa di sbagliato, di strano, nell’amica. Aveva profonde occhiaie, il viso pallido e stanco sorrideva ma lei sembrava tutt’altro che felice.
Parlava solo di lavoro: un paziente difficile, ma dannatamente intelligente. Aiutarlo era diventato il suo unico scopo e chiodo fisso. Si vestiva in modo volgare; aveva sempre amato i vestitini attillati che mettevano in mostra la sua figura sottile e slanciata, ma durante le loro ultime uscite era mezza nuda, scosciata, e aveva sempre quello sguardo misterioso, distratto…. Strano. Mai prima d’ora Clare l’aveva vista così turbata, ma non aveva chiesto nulla, non voleva forzare l’amica, che già di suo tendeva a chiudersi molto facilmente. E poi…
Sparita. I giornali ne parlavano, la dottoressa Harleen Quinzel non si era più presentata al lavoro e non si avevano sue notizie da settimane, ma subito dopo la notizia che il Joker era fuggito da Arkham era su tutti i giornali e della ragazza scomparsa non si era più parlato. I genitori erano disperati. In seguito erano cominciate a girare delle voci, durante una rapina una ragazza era stata vista correre via in compagnia del famoso criminale con il viso da clown, e sembrava in tutto e per tutto la promettente psichiatra scomparsa. Solo pettegolezzi, ma Clare riconosceva la sua amica nelle riprese della video sorveglianza. L’aveva chiamata almeno trecento volte, ma il telefono squillava inutilmente. Aveva perso le speranze. Aveva cercato di dimenticare. Eppure, la figura alta e snella della ragazza continuava ad apparirle nella mente. A volte la sognava, oppure si ritrovava a leggere gli articoli sulla imprendibile Harley Quinn, o ancora la vedeva camminare per strada, per poi rendersi conto di averla ancora confusa con l’ennesima stangona bionda. Con il tempo aveva imparato a convivere con quella piccola ossessione, ma una parte di lei si sentiva in colpa per non aver mai chiesto nulla, per aver pensato che lasciar perdere fosse l’idea migliore.
La chiave girò nella toppa. Una volta aperta la porta, l’aria calda della stufa elettrica avvolse Clare in un abbraccio. Prima ancora di accendere la luce, la ragazza si sfilò le scarpe e lasciò cadere per terra la borsa. Era davvero distrutta. il click dell’interruttore le permise di osservare l’orologio in legno d’acero, regalo della zia dal Canada, che segnava le due e venticinque di notte. Camminò trascinando i piedi stanchi fino alla cucina. Solo quando varcò la porta si accorse di non essere sola. Le ante della credenza erano spalancate, il forno acceso. Sul fornello borbottava un bollitore. Sul tavolo una tazza e sette piattini disposti in cerchio. Sul piano di lavoro gli involucri di tre bustine di tè, nel lavandino quattro cucchiaini ancora incrostati di zucchero. Dall’armadio dei piatti spalancato si poteva vedere che su ogni bicchiere era stato sistemato un biscotto. Una barretta mezza mordicchiata giaceva sul pavimento, vicino alla gamba del tavolo.
Il bollitore fischiò, mentre Clare terrorizzata rimaneva immobile incapace di fare qualsiasi mossa.
-Clare, l’acqua fischia! Spegnila per favore!-
La gola della ragazza era piena di parole da gridare, ma non riuscì a pronunciarne nemmeno una. Dei passi che si avvicinavano. Una voce dietro di lei, vicinissima. Quella voce.
-Non mi hai sentito?- solo allora Clare si girò. I suoi occhi incontrarono quelli ridenti, allegri e sarcastici che tanto conosceva. Quello  sguardo che aveva spesso incrociato durante le ore di scuola, nei locali la sera, il giorno della laurea fra la folla. Harleen la guardava come se fosse lei la matta, con  la stessa aria divertita di un tempo.
-Scusa, non trovavo il caffè. Si può sapere perché non lo compri mai? È così buono!- la bionda le passò di fianco, prendendo la tazza che era sul tavolo e versandoci dentro l’acqua bollente. Le dava le spalle mentre sorseggiava calma il suo tè. Finalmente Clare parlò.
-Harl, cosa ci fai qui?-
-Mi mancavi!-
-Ti prego, non farmi del male.-
Harleen fece cadere la tazzina per terra. Poi si girò. Aveva addosso la giacca a vento di Clare, quella che lei aveva lasciato sul letto prima di uscire. La teneva allacciata fino alla gola. –Come puoi anche solo pensarlo?-
Clare fece un profondo sospiro.-Tutto questo.-
-Perché sono entrata in casa tua? Dai, la finestra sul balcone era aperta, non volevo rimanere fuori al freddo ad aspettarti.-
-Harley non è questo! Sei sparita! E tutti parlano di te come di una pazza assassina! Cosa dovrei pensare?-
-Andiamo, e tu credi a tutto quello che dicono? I capelli rossi ti stanno bene con quel vestito. Te lo dicevo che dovevi indossare più spesso il blu.-
-Sei una criminale! Cosa dovrei fare adesso? Chiamare i tuoi genitori? Dir loro che sei viva? Loro non ci vogliono credere che sei tu quella di cui parlano i giornali! Oppure dico subito alla polizia che la famigerata Harley Quinn mi tiene in ostaggio in casa mia?-
-Clare, perché fai così?-
La rossa non capiva più niente. Cosa fare? In fondo quella era, o almeno era stata la sua Harleen. Come poteva averne paura?
-Cristo, Harl… dove sei sparita? Perché fai quello che fai?-
-Sai, io e il mio Puddin ci divertiamo così. Secondo… la Società non sono cose belle.-
-Cosa ci fai qui?-
-Io… mi sono nascosta. E volevo sapere come stavi. Sai, l’altro giorno ho visto una ragazza alla stazione della metro, tutta sola. Aveva i capelli proprio come i tuoi, mi sei venuta in mente.-
Clare aveva sentito di quella diciottenne trovata uccisa a martellate alla fermata. No, quella non era la sua amica. Non più.
-Tu sei pazza.-
-Tutti i migliori sono pazzi, lo hai sempre detto anche tu!- Harleen era sopra le righe, la sua voce era finta e impostata. Sfoggiava il più esagerato e teatrale dei sorrisi.
-Non così! Fai del male alle persone! Tu NON sei normale!-
La bionda smise di sorridere. Cominciò a camminare verso l’amica, che arretrava di conseguenza. Parlò, e la sua voce era rotta e furiosa: -Tu… tu credi che sia facile? Non lo è mai stato per me! Non ero come le altre bambine da piccola, e non sono come le altre persone ora! Cosa vuoi sentirti dire? Che hai ragione? Io vorrei non essere così! Io vorrei avere una bella casa, un buon lavoro, vorrei tornare a scrivere poesie come facevo un tempo, vorrei!- iniziò a singhiozzare- Ma io lo amo! Lo capisci? Nessuno lo capisce! Mi piace fare del male, lo so che è sbagliato! Mi sarebbe sempre piaciuto non essere così! Ma lui mi fa arrabbiare, devo sfogarmi in qualche modo! LUI mi ha resa così, ed è così maledettamente perfetto! Lui mi ama, come nelle favole!-
Clare non resistette. Per un attimo quel mostro che un tempo era la sua migliore amica ritornò un essere umano, la donna che lei aveva conosciuto e con cui era diventata grande. La strinse tra le braccia, come tante volte prima di allora, nello stesso modo, come se da quella serata d’estate sul tetto di nove anni prima, mentre fumavano e lei piangeva perché rischiava di perdere l’anno, non fosse passato nemmeno un istante. Harleen non oppose resistenza, ma le ferite fresche le provocarono una fitta di dolore che Clare non finse di ignorare. L’ultima volta che lo aveva fatto, Harleen era sparita e aveva lasciato il posto ad Harley Quinn. Ora non poteva abbandonare anche quella nuova creatura.
-Cos’hai?-
-Niente.-
-Harl, per favore… ti prego.-
La bionda la guardò negli occhi. Per un attimo la ragione, i ricordi, la normalità si rimpossessarono del suo corpo. Si slacciò la giacca, e lasciò che Clare vedesse. Quella pallottola, la ferita profonda che aveva in petto, la testimonianza della presenza di Lui nella sua vita.
-Cazzo! Cosa ti è successo? Oddio Harl…. -
-Clare, non puoi capire. Lui mi ama. Solo che.. è fatto così.-
-Stai dicendo… quella storia è vera allora. Stai parlando davvero del jok…-
-Lo so cosa pensi. Io glielo devo. Lui mi ha fatta svegliare. Vivere.-
-Harl non è vero! Uccidi le persone! Io non ti riconosco Harleen! Lui non può amarti in questo modo… è lui che ti ha fatto questo? È così?-
La follia rianimò quegli occhi, che si accesero di un’isterica insensata furia. Harley cominciò a ridere.-Ma come? Sono sempre io! Non mi vedi? Sotto questa bella pelle? È il mio vero corpo, sono la vera IO! Lui mi ha solo levato gli strati superficiali dell’anima… e anche dell’epidermide, era necessario! Sono bella, non trovi? Il bianco non mi dona? È bruciato solo un poco!-
-Harley calmati per favore! Lascia che ti aiuti, chiamo un’ambulanza!-
Gli occhi azzurri lampeggiarono di terrore. Dentro quelle iridi marine c’erano due donne, una cerbiatta terrorizzata e una leonessa morente. –NO! Niente ambulanze! Puddin me lo ha insegnato, quando sei un jolly fuori dal mazzo non ci sono ospedali che ti possono davvero aiutare! Tutti, tutti sono contro ai poveri Joker fuori dalla società!-
Con uno spintone, la bionda sbattè Clare di lato. Corse fino alla porta finestra sul balcone, tirò un pugno al vetro, che si frantumò. Le schegge le si conficcarono nelle dita, ma non fece una smorfia. Gli occhi erano gonfi di lacrime. Clare fece per correrle dietro, ma Harleen era già in bilico sulla ringhiera.
Mosse le labbra, per un attimo. Poi giù. Sparì nel buio gettandosi all’indietro. La ragazza si sporse e guardò in basso. Una figura alta e sottile stava correndo verso una macchina con i fari accesi, parcheggiata dall’altra parte della strada.
Nell’aria echeggiava ancora quel sussurro, più sottile di un filo di paglia, più leggero di una piuma nell’aria. Harleen a malapena aveva emesso suoni pronunciando quella frase, ma a Clare era chiara, chiara come quella pelle di luna di quella ragazza di fuoco.
-Ti voglio bene.-

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Capitolo 7
*** black and white ***


-I tuoi uomini sono degli incompetenti.-
-La tua signora è forte.-
-Hai ragione.-
-Quindi? Che si fa?-
-La troverò da solo.-
-Bene. Faccio preparare la macchina.-
-Andiamo a farci un bel giretto.-
-Prima però vado a cambiarmi.-
Bill guardava in silenzio il suo boss. Mister J amava parlare da solo. Amava ascoltare la propria voce. Amava rispondersi. Finalmente il clown alzò la testa verso l’unico altro uomo nella stanza. L’unico altro uomo vivo, s’intende. Il cadavere di Stan era ancora legato alla sedia, la testa reclinata verso il basso. Il sangue gocciolava ancora sul pavimento. Stavolta il Joker si rivolse a Bill.
-Non mi hai sentito? Prepara la macchina.-
-Subito.- lui esitò- Riguardo al ragazzo, lo… faccio portare via?-
L’uomo fece una rapida riflessione fissando il corpo morto che gli stava davanti, come un commensale silenzioso. –No. Mi ci voglio divertire, più tardi. Oggi, come ogni bravo scolaretto, voglio scoprire dove si trova il pancreas.-
Bill deglutì, poi se ne andò. L’altro si alzò, camminando verso uno dei grandi armadi neri. Aprì un’anta, entrò. La sua camera da letto aveva tutto, tranne che un letto. Le pareti erano ricoperte da un legno scuro sulle sfumature del rosso. Un lungo divano verde ad un lato della stanza, un armadio all’altro. Una gabbia di ferro pendeva dal soffitto. Era un’autentica macchina di tortura. I condannati vi venivano chiusi per giorni, settimane, finchè il caldo e la fame non li divoravano completamente. All’interno c’erano quattro pettirossi che cinguettavano soavemente. Un camino acceso. Una pelle d’orso sul pavimento. Il Joker arrivò davanti all’armadio.
-La mia bella merita tutto. Tutto.-
Lo smoking nero gli stava a pennello, se non fosse stato per quella macchia di sangue che non se ne era mai andata dal panciotto immacolato.
 
La Lamborghini viola partì con un rombo di fuoco. Bill era seduto al posto del passeggero.
-Dove si va?-
Silenzio. Il Joker sembrava sempre convinto di ciò che faceva, la pazzia lo spingeva ad una spregiudicatezza ed irresponsabilità tali da permettergli di prendere decisioni in un attimo di riflessione.
Vorrei potervi dire che in realtà  non era assolutamente convinto di quello che faceva, che nanzi si abbandonava all’istinto, ma sarebbero solo supposizioni pericolose; nel momento esatto in cui si cerca di dare un criterio alla follia si è andati completamente fuori strada.
La macchina inchiodò nella zona industriale, dove si trovavano gli uffici legali. Un camion dei vigili del fuoco stava per ripartire. Per terra ancora le tracce di un cerchio di fuoco. Delle moto a una decina di metri più in là. Un’ambulanza. Quattro sacchi neri.
-Oh, la mia piccola!- il clown era estasiato, e sinceramente orgoglioso.
-Capo, cosa facciamo? Da qui si perdono le tracce, è inutile restare, non sapremmo nemmeno dove andare a cercare.-
-Volevo solo vedere il lavoretto della mia caramellina al miele. La maestra sarà orgogliosa del mio dolce prodigio.- dai finestrini abbassati il Joker guardava sorridendo lo spettacolo, dalle sgommate lasciate dalle ruote di una macchina da corsa, alle tracce dell’incendio, ai quattro cadaveri coperti di plastica.
-So dove è andata.- mentre parlava, non guardava nemmeno in faccia l’altro. Era concentrato sull’uomo con la divisa del pronto soccorso, che stava camminando verso la macchina. Aveva appena trent’anni, alto e magro. Capelli scuri, occhi verdi; il tipo di ragazzo che avrebbe fatto impazzire la sua Harley. Per questo lo odiava. Quando lo vide avvicinarsi si ritirò all’interno dell’auto, tenendo il finestrino abbassato. Non poteva lasciare che quel ragazzo lo vedesse.
-Mi spiace, c’è stato un incidente, qualcosa non è chiaro e la polizia sta arrivando. Per favore, se deve passare, potrebbe prendere la parallela di questa strada?-
-Cinque morti, eh?-
-No, quattro…. Una vera tragedia.-
-Signorino, una vera tragedia è che tu non sappia la matematica. Dovresti ripetere la quarta elementare, solo che non puoi… Perché sei morto!-
-Cos..-
A quel punto il Joker si sporse fuori dal finestrino, scaricando sulla faccia del paramedico una raffica di colpi. Il corpo con il cranio completamente aperto cadde all’indietro, mentre la macchina ripartiva veloce. Il Joker rideva di se stesso; era geloso di un morto. Bill non parlò. Corsero spediti dall’altra parte della città. Il locale era particolare, uno dei più bizzarri dungeon di Gotham City. Al clown non interessavano le torture, le donne chiuse nelle gabbie appese al soffito. Non senza la sua regina. Quando il proprietario del locale lo vide arrivare, lo portò come al solito in quello che in una banale discoteca sarebbe stato un privè. Ma il Joker non era un uomo banale. La sala in questione era completamente rivestita di velluto nero. Al centro un tavolo bianco, con due sedie nere. Ai lati della stanza quattro cariatidi, due bianche e due nere, sembravano reggere il soffitto. In bocca tenevano dei bulbi luminosi. Contro una parete un divano, rosso.
-Cosa le porto, mister J?-
-Non è qui?-
-Chi, signore?-
-Appena arriva, portatemela qui.-
-Sì, signore… ma di chi sta parlando?-
A quel punto intervenne Bill, che per tutto il tempo era rimasto in disparte. –La sua signora, quella signora, dovrebbe arrivare da un momento all’altro. Sorvegliate le entrate, anche quelle del personale, lui la vuole vedere.-
-Certo.-
Bill osservò il clown, seduto elegantemente sul divano rosso. Al posto del bastone, il gentleman del circo mortale teneva fra le mani una mitragliatrice.
-Mister J, non possiamo essere certi che lei venga qui. In fondo lei sta cercando di ucciderla, anche la ragazza se ne sarà accorta. L’ultima cosa che vorrebbe è infilarsi in questa fossa dei leoni, dato che almeno due persone su tre  in questo posto lavorano per lei.-
-Conosco la mia bimba. Lei ha bisogno di me, di sentire il mio odore, di toccare la mia pelle. Verrà. E io sarò qui ad aspettare.-
Bill non capiva quel ragionamento, ma l’importante quando si aveva a che fare con il Joker era essere pagati ma soprattutto vivi; di trovare un senso alle azioni e ai servizi non se ne parlava.
Il proprietario riapparve poco dopo, con un bone dry Martini su un vassoio di plastica nera. Appoggiò il vassoio sul tavolo, poi se ne andò con un gesto di servile riverenza.
Passarono le ore, passarono i drink sui vassoi neri, passarono gli sbadigli di Bill. Ad un tratto la porta si aprì. Quando il Joker alzò lo sguardo, vide una donna alta e sottile, bionda. Il suo cuore ricominciò a battere, il sangue che scorreva nelle vene ribollì. Ma non era lei.
-Buonasera mister J!- la sua voce era lagnosa, come un dolce con troppo caramello. Dovevano avergliela mandata per tenerlo occupato. La donna gli si avvicinò, e si sedette accanto a lui. Totalmente disinibita e offuscata da chissà quale acido, ogni sua mossa era ad alto contenuto erotico. Una bomba ad orologeria di pornografia scadente. –Sono venuta a tirarti un po’su di morale…-
Il clown sorrise:-Ah sì? Ma vedi piccola, aspetto visite.-
-Oh, ma lo so! Ma finchè sei tutto solo… ci possiamo divertire, no?-
Lui rise. Anche lei. Non sapeva perché, ma assecondare gli uomini era il suo mestiere e la sua virtù. inoltre la pagavano bene. Il Joker le prese il visino tra le mani, schiacciandolo con forse troppa foga. Le parlava come se fosse una bestiolina domestica.
-Sei proprio brava, lo sai?-
-Oh, sì mister J! E non mi merito una ricompensa?-
-Oh, beh, potrei farti una bella, bellissima festa…-
La bionda rise. Il platino della sua chioma era falso. Harleen aveva i capelli color del sole. Il clown amava guardare le luci del fuoco che scoppiettava nel camino che giocavano infilandosi fra quei fili setosi, intrecciando riflessi dorati. Amava godersi quel suo visino addormentato che si rilassava, assumendo un’aria beata. Amava trovare tutti i segni delle cicatrici, delle scottature, dei graffi e dei tagli che le aveva procurato, sparsi sul suo sinuoso corpo nudo abbandonato sulla pelle di orso.
Avrebbe fatto di tutto per vederla sorridere. L’avrebbe persino uccisa.
-Bill, esci. Ti va?-
-Sissignore.-
La porta si richiuse con un cigolio. I suoni ovattati della musica arrivavano fino alle orecchie delle due creature chiuse in quella stanza in bianco e nero. La bionda gli si strusciava contro, mentre armeggiava con i bottoni della sua camicia.
Il Joker parlò:-Sai, somigli tanto ad una persona che conosco. Ha i tuoi stessi capelli d’oro, le tue stesse gambe lunghe, il tuo stesso…. Seno sodo soave, la tua stessa boccuccia di rosa…-
La bionda rise:-Ma io non sono lei, giusto?-
il clown se la mise a cavalcioni sulle ginocchia:-No, tu non sei lei.-
La donna cominciò a baciargli il collo, e fra un sorrisetto e l’altro si spostava dalle gambe di lui, cercando di mettersi in ginocchio. La sua lingua scendeva sul torace, mentre le mani scendevano ancora più in basso.
Lui la lasciò fare, continuando a parlare tranquillamente:- Sai, quella ragazza è davvero una testa calda. Però mi capisce come nessun altro. Se n’è andata, e io speravo di trovarla, ma non si è presentata. È davvero terribile. Oh, se solo fosse qui… schiaccerei quel suo bel visino sul pavimento e romperei quel cranio delicato con il tacco della mia scarpa. Solo che poi soffrirei. La amo troppo capisci? Non posso vivere senza quella donna. E ora tu sei qui, con i tuoi capelli d’oro, le tue gambe lunghe, il tuo seno perfetto e la tua boccuccia di rosa, sei qui esattamente come doveva essere lei ora. Vedi, io non potrei mai uccidere Harley.- la bionda, che ormai aveva slacciato il bottone dei pantaloni alzò lo sguardo verso di lui, che le sorrise- Ma tu non sei lei… giusto?-
Bill sentì un gran trambusto per la mezz’ora successiva. Infine la porta si aprì. Il Joker era una maschera di sangue, i capelli grondavano rosso, sui vestiti c’erano tracce di materiale celebrale. Nella mano sinistra un coltello da macellaio, che probabilmente aveva tenuto nascosto chissà dove.
-Mi porteresti una salviettina? Vedi, mi sono rovesciato il vino sulla camicia. Ah, e un’altra cosa- sollevò uno strano ammasso giallognolo, anch’esso pieno di sangue, che teneva nella mano destra- ho trovato questo sotto al tavolo. Dì a Joe di tenermelo pulito questo posto, odio vedere grumi di capelli in giro!-
Bill guardò meglio l’ammasso giallo.
Era uno scalpo. Uno scalpo biondo.

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Capitolo 8
*** bang bang ***


Mentre il corpo sventrato della donna veniva portato via, mentre un ragazzo puliva i rimasugli del cuoio capelluto biondo rimasto sul pavimento, mentre una cameriera portava l’ennesimo bone dry Martini per poi allontanarsi di corsa trattenendo un conato, il Joker se ne stava seduto sul divano a pensare. E chiaramente non rifletteva in silenzio.
-Quando un corpo si può definire morto? Me lo domando spesso. Non posso sapere con certezza quando da un uomo vola via l’ultimo rivolo di vita. Lei- parlava della bionda, che bionda non era più-  ha urlato per un po’, poi ha smesso. Ma come posso sapere che era morta? Quando un corpo è costretto a sopportare un dolore estremo il battito cardiaco modifica la sua intensità, che diventi più veloce o rallenti non lo so, sono affari dei medicastri in erba,  ma in ogni caso la vittima perde i sensi; il che è un vero peccato. Perché non sfruttarli appieno gli ultimi attimi di vita che ti restano? Perché non partecipare alla tua personale carneficina? In fondo, ho donato a molti una morte spettacolare. Un corpo che non vive non può far più nulla, o al massimo versare qualche disinibita lacrimuccia a parenti e amici. Ma un morto come quelli che uccido io…. Dio, è uno spettacolo. Un vero delirio, una prima della Scala; creo qualcosa di più potente di un behemot degli abissi, di più incredibile delle pagine di un decronomicon. E così, la gente che vede la mia opera, ne rimane scioccata, sconvolta, schifata. L’immagine di quel corpo, di quelle decorazioni di organi interni, rimangono scolpite nella mente di coloro che la osservano da vicino, si presenta di notte nei loro incubi. Io sono lo scultore della gloria eterna. Un morto che fa provare qualcosa a un vivo ha vinto. Vinto!-
-Sono quasi del quattro del mattino. Cosa facciamo? La tua donna non verrà, mister J.-
Il clown si girò verso Bill. –Oh sì, lei verrà! Dalle il tempo, arriverà come un uccellino torna dal suo padrone!-
-Io non…-
-Ehm… è permesso?-
-Cosa vuoi?- il gorilla ringhiò contro quel piccolo ometto del proprietario che indugiava terrorizzato alla porta.
-La sua signora, mister J. È qui. Io la porterei da lei, ma i miei uomini non sanno se… insomma, hanno paura che lei faccia qualcosa di terribile… non che sia una donna terribile, è meravigliosa, solo..-
-Bill, saresti così gentile da far chiudere la bocca a questo gnomo imbottito di neve dicembrina?-
-E… con la sua donna?-
Il Joker sorrise. –Lo sapevo che sarebbe venuta.-
 
Harley aveva guidato senza controllo per una decina di chilometri, poi era andata a sbattere contro una cabina del telefono. La macchina non si decideva a ripartire. Nemmeno lei avrebbe voluto farlo, ma la strada non le era sconosciuta. A due isolati c’era la sua casa. Non l’appartamento di Harleen Quinzel, la sua nuova casa.
Aveva chiuso gli occhi: poteva sentire il dolce respiro del suo Puddin solleticarle il collo. Poteva vedere i suoi denti scintillanti. Poteva toccare il suo gelido corpo e la sua pelle, di quella consistenza così strana che l’acido gli aveva saputo dare. Aveva bisogno di sentirlo. Non poteva incontrarlo, lui la voleva morta, però poteva stare in quei luoghi che sapevano di lui, e l’ Iced Nightmare era uno di quei luoghi.
Il locale era buio e caldo. Tra gabbie, stanze e pareti piene di cinghie e fruste, una pista da ballo. Il pavimento era di piastre di vetro blu notte. Le luci erano dei piccoli faretti blu, che non bastavano ad illuminare quel luogo. Harley pensò che se l’inferno fosse esistito, avrebbe avuto esattamente gli stessi colori dell’Iced Nightmare. E questo le piaceva. Mentre liberava il suo corpo ferito in pista, incurante della spalla dolorante e del petto che ancora sanguinava, inalava con forza quell’aria che sapeva di Puddin. Poi, per un attimo, il buio. il sangue che aveva perso le stava causando sempre più mancamenti. Barcollando si diresse verso il bar. Voleva bere.
-Cosa ti porto bellezza?-
-perché non mi dai un po’ di te, bel maschione, con qualche oliva e tanto tanto ghiaccio?-
-Beh, io stacco fra mezz’ora…. Se resti qui con me adesso poi andiamo a farci un bel giretto, eh?-
La bionda arricciò il naso, poi sorrise tirando fuori la lingua. –Perchè non adesso? Gioca con me, mi sto annoiando! Sai,-si fece triste- questo posto mi ricorda una persona tanto cattiva…. Perché non me la fai dimenticare? Portami… un bone dry Martini. Era il suo preferito.-
-Un… bone dry martini?-
Il bareman impallidì. Solo una persona richiedeva quel cocktail, chiaramente non in lista. Solo una persona poteva voler bere una polvere di ossa di pollo. Solo una persona poteva conoscere il bevitore di ossa.
-Te lo porto subito tesoro… fammi andare a prepararlo!-
-Torna presto cowboy. Ho sete.-
Il ragazzo corse via dal bancone. Poco gliene importava di lasciare la sua collega da sola a servire. Arrivò davanti alla porta dell’ufficio del capo. Niente buone maniere, aprì sbattendo la porta.
-Amico, quella è lì! Mi sta parlando! Io non ci sto. Me lo hanno detto cosa è successo alla lingua dell’ultimo che ha servito da bere a quella pazza. Ma.. che ti prende?-
L’uomo stava vomitando in un cestino della carta straccia. Quando rialzò la testa il suo viso era pallido.
-Alissa….-
-Alissa? E chi è?-
-Una delle mie ragazze.-
-E che ha?-
-Quel pazzo. Le ha… fatto cose spaventose.-
-Ma chi? Oddio… è qui oggi? Allora capisco. È stato violento?-
-No, lui l’ha… cosa capisci?-
-Perché la sua ragazza è qui.-
-La sua ragazza?-
-La matta. Ma mi stai a sentire?-
-Harley Quinn è qui?-
-è quello che ti ho appena detto.-
Ed, così si chiamava il basso capo del locale e dei giri di droga e prostitute annessi ad esso, si alzò dalla sua poltroncina, poggiando a terra il cestino della carta pieno di vomito. Non disse una parola e uscì di corsa dall’ufficio.
-Aspetta, io che cazzo ci faccio con quella?-
L’uomo rispuntò sulla soglia della porta.-Trattienila ragazzo. Qualsiasi cosa succeda, non lasciare che se ne vada. Ne va della mia e della tua vita. E non dirle che lui è qui.- Salendo i gradini le gambe di Ed tremavano. Sentì due voci discutere, e timidamente scostò la porta.
-Ehm… è permesso?-
-Cosa vuoi?- l’uomo pelato che lavorava per il pazzo gli si rivolse con un ringhio rabbioso.
Ed deglutì. -La sua signora, mister J. È qui. Io la porterei da lei, ma i miei uomini non sanno se… insomma, hanno paura che lei faccia loro qualcosa di terribile- suonava come un insulto. Oddio, lo avrebbe ucciso. Doveva riuscire a cavarsela in qualche modo. Offendere quella donna equivaleva a offendere il clown, e nessuno offendeva il clown.-  non che sia una donna terribile, è meravigliosa, solo..-
Il Joker alzò lo sguardo. Ecco, era arrabbiato. Il sangue si gelò nelle vene di quel ratto dei quartieri bassi di Gotham. Quegli occhi da clown però si rivolsero al gorilla.
-Bill, saresti così gentile da far chiudere la bocca a questo gnomo imbottito di neve dicembrina?-
-E… con la sua donna?-
Il pazzo sorrise. –Lo sapevo che sarebbe venuta.-
 
Nathan deglutì, e tornò al bancone. C’era bisogno di lui. Sperò che nell’attesa la bionda da brivido se ne fosse andata, a spararsi una pera o a scoparsi qualcuno in un bagno, o qualsiasi altra cosa potesse fare una ragazza in un locale la sera.
-Hey, piccolo cowboy! Il mio drink?- un sussurro di miele all’orecchio. La ragazza aveva il trucco colato, puzzava di sangue e sorrideva.
-Arriva subito signorina.-
-“Signorina”?-  Harley si sporse oltre il bancone.
Il ragazzo arretrò, portando d’istinto le mani avanti, come se bastassero per proteggersi da quel demonio. –Tortino di miele, io pensavo fossimo amici! Non siamo amici?-
-Certo Harley, certo che lo siamo!-
-Allora perc…. Aspetta.- il cuore di Nathan batteva all’impazzata- Come sai chi sono?-
-Io… -
- Oh, ma aspetta, certo! Io venivo sempre qui con il mio Puddin! Ovvio che lo sai! Che sciocca, a volte la mia testolina non si ricorda delle cosucce!-
Il sangue rallentò. Il ragazzo sospirò. Lei rideva, tutto sarebbe andato bene.
-Sei un bimbo carino. Quindi non ti voglio fare niente. Anche se non hai voluto giocare con me.-
Harley fece per andarsene. Nathan stava per rilassarsi; avrebbe staccato dopo dieci minuti, si sarebbe fatto uno spinello, e magari ci avrebbe provato con quella mora del drive-in aperto tutta la notte vicino a casa sua. Poi ricordò. Quelle parole, pronunciate di fretta, così teatrali ma così dannatamente, incontrovertibilmente serie. “Qualsiasi cosa succeda, non lasciare che se ne vada. Ne va della mia e della tua vita.”
Quella notte sembrava non finire più.
-Aspetta!-
La bionda si girò. Il viso era rigato di lacrime, ma sorrideva come una scolaretta all’ultimo giorno di scuola.
-Dimmi tortino di miele!-
-Resta con me. Ti… ti offro da bere, ti va?- la bionda lo studiò per un momento. Barcollando su quegli spilli louboutin gli si avvicinò di nuovo. Si piegò sul bancone. Il suo viso era ad un centimetro da lui. Un profumo di vaniglia lo pervase in un istante, ma sempre persisteva quell’odore di sangue rappreso.
-Ti dico un segreto cowboy. Io. Non ti voglio… più!- iniziò a ridere, poi si girò di nuovo.
-Ti prego, resta qui! Fatti un giro in pista, la notte è ancora lunga.-
Non era un bravo parlatore. La bionda ritronò vicino a lui.
-Lui è qui, vero?- Lei guardava in basso, lui si abbassava per guardarla.
–“Lui” chi, piccola?- Finse di non sapere. Ma lei sapeva.
Harley rimaneva lì, zitta. Le mani lungo i fianchi, invisibile dalla vita in giù, il corpo sparito al di là del bancone e il volto dietro alle ciocche dorate.
Trovare oggetti pericolosi in un dungeon non era solo facile, ma scontato. Le mazze da cricket, così utili per le sculacciate di flaccidi ricchi vecchi sederi avevano innumerevoli usi; uno di questi lo scoprì Harley quella sera, quando lo utilizzò per spiaccicare la faccia del barista contro il muro, rompendo con un delizioso effetto domino le bottiglie di un intero scaffale.
La bionda con estrema agilità saltò oltre il bancone. Il ragazzo era per terra, cercò di rialzarsi e fuggire. Inutilmente. La ragazza gli fu addosso in un istante, con un'altra mazzata ben assestata lo costrinse definitivamente a rimanere su quel lurido pavimento. La gente al banco fece finta di non vedere: non giocare a nessun gioco con la giovane donna del Joker.
-Ti piace mentire, cowboy? Ti piace giocare con il fuoco? e allora… gioca!-
Nathan riuscì solamente a vedere il lampo di un fiammifero, prima che quella belva sparisse e che l’alcol rovesciato a terra prendesse fuoco intorno a lui. Stavolta la reazione degli altri fu inevitabile. La bionda non rise, non si stava più divertendo. Solo allora lo vide tra la folla. Bill era lì, e stava venendo verso di lei. Spinse il là la gente, correndo con quel poco di forze che le rimanevano. Una volta uscita, come in un doppio sogno, si ritrovò a dover di nuovo cercare un’auto. Stavolta non ci fu bisogno di buttarsi in mezzo alla strada. Un ragazzo era appena entrato in compagnia di due rosse in una Porsche metallizzata. Harley si gettò nella macchina, e mentre le due prostitute scappavano nel locale alla ricerca di clienti meno morti, la bionda sgozzava in tutta fretta il malcapitato. Gettato il cadavere fuori dall’auto, cercò frettolosamente le chiavi, che erano cadute sul tappettino dell’auto. Cercò di mettere in moto. La mano tremava. La chiave cadde ancora. La ritrovò, la rimise nella toppa, il motore partì. Era salva.
In quel preciso istante, qualcuno picchiò sul finestrino. Harley d’istinto si girò.
Quella parola, che diceva da tutta la sera, ma che mai avrebbe voluto pronunciare in quel momento, per quella ragione. Fu come un brivido.
“Puddin!”

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Capitolo 9
*** mad love ***


Un anno prima
Harleen rideva davanti allo specchio. Guardava i segni sul suo corpo. Lividi, graffi. Il più fresco era una macchia violacea all’altezza dello zigomo. Si accarezzava, come se le sue dita sottili avessero potuto guarire l’amore violento del Joker. Lo amava così tanto. Era bello vederlo sempre presente su di lei, come un marchio. Il sesso con il clown era un incubo ad occhi aperti. Immagini spaventose correvano nella mente di lei, mentre l’adrenalina aumentava, fino a prorompere in un terrorizzante orgasmo, che proiettava nella sua mente scene cruente, creature demoniache. E lui, che la voleva così tanto. Mai Harleen si era sentita tanto desiderata. L’uomo aveva bisogno di lei, come l’aria che respirava. Non la poteva lasciare sola. Quella notte era uscito prima di lei. Le aveva detto di raggiungerlo all’alba nel loro locale preferito, l’Iced Nightmare. La bionda sorrise soddisfatta. La vecchia Harleen non sarebbe mai andata in un posto del genere. Indossò un completo elegante bianco e nero, quello che portava quando aveva fatto evadere il Joker da Arkham. Si osservò nello specchio. Era ancora alta e snella, aveva ancora lo stesso meraviglioso portamento. Il suo viso era ancora roseo, nonostante conservasse il pallido candore della sua carnagione. i capelli ricadevano in disordine sulle spalle. Quella sera Harleen ci pensò: poteva tornare indietro. Sarebbe potuta uscire da quella folle casa, con il suo tailleur e la sua camicia stropicciata, avrebbe potuto prendere un taxi, tornare a casa. Chiamare la mamma, gli amici, Clare, dire loro che stava bene, che era solo andata via per un po’, magari inventando la storia di una gita in montagna, avrebbe potuto, poteva, poteva ancora essere Harleen! Poi vide quel livido, quella macchia violacea all’altezza dello zigomo. Vide i suoi occhi, quel lampo di follia che li attraversava, come se da un momento all’altro avesse potuto sgozzare un agnello a mani nude. Toccò la superficie dello specchio. Liscia come la pelle del suo Puddin. La prima volta che lo aveva toccato, in quello studio ad Arkham, si era spaventata.
-Non aver paura, dottoressa Quinzel.- le disse.
-Paura? E di cosa?-
-Non aver paura del dolore. Lo sai perché il mio corpo è così, conosci la mia storia.-
-Ecco, so del suo incidente nel..-
-Nell’acido, dottoressa. Ma non è stato un incidente.-
-Lei… lo ha fatto di proposito?-
-Harleen, cosa c’è di più bello di portare i segni del dolore sul proprio corpo? Le persone non temono i pericoli, ma le conseguenze del cadere nelle loro trappole, del capitare nelle situazioni sbagliate al momento sbagliato. Dimmi, se io tenessi una tanica di acido proprio qui, nelle mie mani,- la camicia di forza gli era stata tolt; ,Harley aveva cercato di convincere la dottoressa Quinzel che una volta slegato il Joker si sarebbe trovato maggiormente a suo agio- di cosa avresti paura? Della bottiglia? Del liquido? Oppure di cosa potrebbe succedere se una colata di acido si rovesciasse sul tuo bel faccino?-
-Delle… reazioni dell’acido, credo.-
Il Joker sorrise, estasiato. –Esattamente!- Harleen si sentì in paradiso, come se avesse dato la risposta esatta al più difficile dei quesiti. Il paziente, il suo paziente, era soddisfatto.
-Io sono diventato la conseguenza  di un pericolo, la vera parte spaventosa di tutta la materia! –
 
Il Joker entrò nella stanza.
-Puddin, perché sei tornato tanto presto?-  zoppicando, il clown si sedette sul divano verde.
-I bambini più grandi mi hanno rubato i soldi del pranzo, piccola, tutto qui.-
-Oh, la faremo pagare a quei bambini cattivi…- la giovane donna gli si avvicinò, porgendogli un bicchiere. Dentro, fra tintinnannti cubi di ghiaccio, oscillavano tre tremolanti dita di Gin. Il Joker guardò con attenzione il liquido nel bicchiere, studiando concentrato le forme che il ghiaccio disegnava sulla superficie. Poi lo scagliò contro il muro, in un impeto di rabbia.
-Puddin, che succede?- parlava mugulando come un violino alla sua nota più acuta.
-Bazzecole cara, bazzecole.- la sua voce era una corda di contrabbasso tirata allo stremo.
-Ma che cosa ti fa tanto ar…-
-Zitta!- la mano guantata di bianco scivolò con uno schiocco sulla pelle chiara della ragazza, che si ritrovò a terra. Lei cominciò a ridere. Ultimamente non riusciva a piangere, il clown le aveva dato una lezione a riguardo.
- Perché piangi?- il Joker teneva ancora la lametta fra le mani. Sembrava colpito. La bocca era piena di sangue, leccato via dalla schiena della ragazza, su cui aveva inciso con precisione una “J”.
Harleen si girò, le guance rigate di lacrime. –Perché mi fai questo?-
-Perché ti amo, piccola.- 
Come una ragazzina, la bionda cominciò a singhiozzare. –Se mi amassi, soffriresti nel vedermi così, nel farmi del male! Tu… tu ti stai divertendo con il mio corpo. Comese fosse uno dei tuoi cadaveri.-
Il clown sorrise. Dio, quanto era crudele il suo sorriso. –Zucchero, io rido solo esteriormente. Il mio sorriso è solo a fior di pelle. Se tu potessi vedermi dentro, io sto piangendo!- Si avvicinò a lei. Il suo respiro le solleticava il collo. Le sue parole un sottile sussurro di sangue. -Puoi unirti a me per un singhiozzo?-1
Lei lo guardò. Davanti a lei un uomo, sorridente. Liquido rosso che colava dal mento. Lui sognava, voleva che lei capisse. Lui la amava. E condivideva con lei tutto. E per lui il dolore era l’apice ultimo del piacere. E Harleen capì.
Rise, e da quel momento non si fermò più. Il Joker la baciò con foga, lei poteva assaporare il proprio sangue in quella bocca dai denti d’argento.
Si rialzò dal pavimento dove lo schiaffo l’aveva scaraventata, senza smettere di ridere. Camminò lentamente verso il Joker, che la guardava incapace di reagire in qualsiasi modo. Sul tavolino, davanti al divano, c’era un vaso. Con un gesto rapidissimo, la bionda lo prese, scaraventandolo contro la faccia del clown. La sua testa si rovesciò all’idietro, contro lo schienale del divano. Quando tornò a guardarla, il suo viso era una maschera di sangue, costellato di piccoli e grandi schegge di porcellana blu. Harley non lo lasciò parlare. –Avanti, è questo che vuoi, vero?- gli montò  sulle ginocchia, mentre lui restava fermo e sul suo viso si dipingeva un sorriso.
-Vuoi solo dolore, solo rabbia, non è così?- con foga Harley si levò la giacca, strappò la camicia stropicciata. Staccò dalla faccia del clown un frammento del vaso, che si era ben bene conficcato nella carne. Lui non si mosse.
-Vuoi solo sangue, violenza?- prese la scheggia, iniziò ad incidere la sua stessa carne. La punta insanguinata scorreva a fatica tagliando i lembi di pelle, dal collo e poi giù, giù, lungo lo sterno, fra i seni, fino all’ombelico.
Finito il lavoro con la porcellana, Harley prese la mano dell’uomo, facendola scorrere lungo la ferita, riempendola di sangue. Era la prima volta che reagiva in quel modo. La prima volta che della donna del Joker c’era solo quella nuova creatura, Harley Quinn.
Il clown non sorrideva più. In silenzio, spostò un’ansimante Harleen tinta di rosso dalle sue ginocchia. Si alzò, camminando fino al centro della stanza.
-Batman. Lui. Il mio unico fallimento eterno. Lui, mi ricorderà per sempre chi sono, da dove vengo. Lui sarà sempre lì, a mostrarmi l’umanità, la caducità degli esseri viventi. La mia. A dirmi che una volta che un corpo è morto, è esattamente come gli altri. Esattamente come gli altri. Anche se nella mia testa c’è qualcosa di spaventoso, che nessuno potrà vedere mai, da morto sarò solo un pezzo di carne come gli altri.-
Si girò,e guardò Harley, si mostrò ad Harley, donandole qualcosa di unico, che lei non avrebbe mai più visto da allora.
È forse una lacrima il simbolo dell’impossibile, malato, folle, eterno amore? 2
Da allora Harleen fu solo, totalmente sua.
Furono il re e la regina di Gotham City.3
 
1= frase del joker di Jack Nicholson.
2= ho voluto inserire questo dettaglio perché nel Joker di Brian Azzarello viene proprio detto che Harley si ostina a restare con lui, perchè è l’unica ad aver visto il Joker piangere.
3= dal film “suicide squad”

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Capitolo 10
*** red dawn ***


-Puddin.-
Il Joker rise, mettendo in mostra quei denti che sapeva essere tanto terrificanti. –Ciao zuccherino!-
Harley non ci pensò due volte, e partì a tavoletta. Il clown la guardò sparire dietro l’angolo. Solo allora Bill lo raggiunse. La folla di gente nel locale, agitandosi come una mandria di pecore perché in preda al panico a causa  dell’incendio, lo aveva risucchiato impedendogli di uscire. Il Joker era passato dal retro. –Capo, se la sta lasciando sfuggire così?-
-Oh, no Bill. Affatto.Proprio per niente.-
In quel momento corse fuori dal locale rosso in viso e sudato Ed, che aveva tentato fino ad allora di sedare la folla dopo aver fatto spegnere l’incendio. Per il barista rimasto fra le fiamme non c’era tempo di chiamare un’ambulanza, la cosa più importante era far andare via il clown senza lesioni fisiche, dato che quelle economiche c’erano già state. Senza guardarlo, lo scherzo mortale parlò:- Portami la macchina. Hai due minuti.-
L’uomo sapeva che il suo non era un semplice modo di dire, così cercò di muovere le sue gambette il più veloce possibile. Proprio sul retro del locale c’era il parcheggio degli ospiti speciali, che erano perlopiù spacciatori e trafficanti di donne. In un attimo Ed arrivò alla macchina. Solo allora si ricordò di non poterla accendere senza chiavi. Tornò indietro, vide che Bill lo aspettava, prese la chiave, corse di nuovo alla macchina. Era solo una perdita di tempo. Se quel pazzo ci fosse andato da solo a quella sua accidenti di auto, a quell’ora sì che sarebbe stato alle calcagna di quella testa calda bionda.
-Ecco, ecco la sua macchina mister J.-
L’uomo dai capelli verdi salì a bordo della Lamborghini, poi si sporse dal finestrino. –Bravo! Ma… leggermente in ritardo.-
Partì con un rombo potente. Ed non fece nemmeno in tempo a girarsi, a pensare a cosa lo avrebbe aspettato. Nel collo gli era stata già iniettata una siringa spessa come uno spillone da maglia, che rispondeva a tutti i suoi dubbi sulle intenzioni del Joker. Cadde per terra, morto all’istante. Bill sospirò, poi si avviò sul retro. Quel viscido tappetto doveva pur avere una macchina, e lui per seguire il clown ne aveva bisogno una.
Harley viaggiava a cento chilometri all’ora, per le strette strade della città. Un gelido sudore di terrore le colava dalle tempie, ghiacciandole il viso. Il suo Puddin non si era nemmeno preoccupato di lei. Mentre mandava uomini ad ucciderla, lui si divertiva all’Iced nightmare. Avrebbe almeno potuto mostrarsi dispiaciuto. E adesso lei doveva solo scappare, e pregare di essere più abile a nascondersi di quanto lui non lo fosse stato a  trovarla. Alla quarta curva a sinistra, dopo aver tirato sotto una decina di sacchi della spazzatura e qualche pantegana che fuggiva da un tombino all’altro, la bionda riuscì a riprendere un ritmo respiratorio regolare. Il cuore batteva ancora a mille, per il dolore, l’edrenalina, la rabbia. Per un attimo pensò persino di essere salva.
Fu con un’incredibile gioia che Harley ritornò in preda al panico, vedendo quella bella Lamborghini viola che le stava alle calcagna. Non si chiese nemmeno come lui fosse riuscito a raggiungerla. L’importante era che lui la stava inseguendo. La voleva ancora, il motivo non le importava.
In preda ad un’eccitazione folle, il clown seguiva ad ogni curva la Porsche metallizzata. Riusciva a fiutare l’odore della sua paura, dalle curve, dalle sterzate, poteva vederla in preda al panico scalare una marcia dopo l’altra, se la immaginava a guardare ossessivamente nello specchietto.
-Ti prendo, bambolina!-
Harleen si rese conto di stare andando verso il Robert Kane Memorial Bridge. Una volta a Pettsburg si sarebbe nascosta meglio. Sì, in qualche modo ne sarebbe uscita. E poi? Cosa ci sarebbe stato senza Joker? Non era possibile una vita del genere. Meglio la morte, ma una morte per propria mano. Il clown la stava uccidendo in ogni caso. Lei scappava, perché lui la voleva morta, ma lei non poteva vivere senza di lui, quindi sarebbe stata la fine lo stesso.
L’auto inchiodò di colpo. Era esattamente davanti al  Memorial Bridge. La bionda cominciò a correre sul ponte. Avrebbe fatto più in fretta ad andarci in auto, ma una parte di lei aveva un necessario bisogno di vederlo, di potergli parlare un’ultima volta. Se lui l’avesse presa, Harley avrebbe potuto guardarlo ancora negli occhi.
Si fermò proprio dietro alla macchina di lei, che riposava abbandonata in mezzo alla strada. Alzò la cornetta del telefono dell’auto. La chiamata ad inserimento rapido venne attivata con un bip.
-Dimmi J.-
-Al Memorial. Vieni qui.-
-Sissignore, mi dia un attimo.-
Il Joker chiuse la comunicazione. Poggiò il telefono con calma. Aprì la portiera, scese. Dalla macchina aveva ripescato un bastone da passeggio, che roteava fischiettando. Cominciò a camminare lungo il ponte. Harley era una scheggia ormai a un centinaio di metri da lui. La sua voce era cantilenante, infantile, meschina.
-Harley… Harley sono qui!-
La bionda continuava a correre. Quelle urla lontane erano frecce che si conficcavano nel suo cuore. Il suo Puddin, di nuovo così vicino a lei. Quella notte che sembrava non finire più. In una decina di secondi, correndo nella direzione opposta, si sarebbe potuta gettare fra le sole  braccia che la facevano sentire davvero viva, braccia che forse l’avrebbero stretta fino a renderla un corpo morto.
 Lui non aveva voluto ucciderla con le sue mani. Aveva ingaggiato altre persone, come se lei fosse stata una di quelle noiose seccature di cui le parlava sempre. Anche l’ultima goccia della forza della disperazione che le era rimasta scivolò via dal suo corpo esausto. Il sangue perso l’aveva prosciugata di tutte le forze, e il Joker le aveva tolto ogni sorta di determinazione. Stremata, cadde a terra. Le gambe non ne sapevano di muoversi. Un vento violento si alzò da est. La testa le girava, sentiva un freddo salire dai lombi fino alla fronte. Inutilmente cercò di massaggiarsi le gambe, non riusciva a muoversi. La figura del clown si stagliava davanti a lei, illuminata solo dalla luce bianca dei lampioni. Oltre quelle piccole sfere di luce, il definitivo nero della notte.
Si muoveva piano, camminando con calma. Lo sapeva che lei era fuori gioco. Il rombo di un’automobile. Bill era arrivato.
Harley vide una macchina accostare di fianco al clown. Ne scese un uomo. Il suo cranio luccicava alla luce del lampione. Bill. Il suo Puddin aveva addiritura chiesto dei rinforzi?
Fu quando realizzò con orrore che il Joker non avrebbe proseguito che iniziò ad urlare. La sagoma del gorilla si avvicinava sempre di più, ma quella del demone alto e magro, avvolto in uno smoking leggero, era rimasta ferma e lontana.
-Bastardo! Guardami in faccia! Non vuoi nemmeno vedermi, mentre muoio?- le parole di lei venivano disperse dal vento. Le lacrime ricominciarono a sgorgare, ma stavolta nessun sorriso le accompagnava.
Non l’aveva mai amata. Nessun amore poteva terminare così. Harley era pazza del Joker, letteralmente. Avrebbe sopportato qualunque cosa. Sarebbe morta per lui. Avrebbe lasciato che lui la uccidesse lentamente, tagliandola a piccoli pezzi. Ma quello non era morire per lui. Non le stava regalando l’ultimo spettacolo che avrebbe mai potuto vedere. La stava eliminando. Senza nemmeno guardarla in faccia. E in quel momento, non c’era neanche un briciolo di follia in ciò che le stava facendo. Bill era un normale sicario. Lei era una normale vittima di un normale criminale. Non poteva accettare che finisse così.
-Vedi amico mio, io non ho nulla di preciso contro di te! Ma sai, quando si è innamorati si fa di tutto! Harley deve vedere  cosa vuol dire uccidere, capisci? Oh, dimenticavo,  lei è Harley Quinn. Harley, questo signore gentile sta per farti vedere come si fa a morire.-
L’uomo legato alla sedia, imbavagliato per bene, sudava e tentava invano di muoversi e urlare.
Harley indossava un completo da crocerossina, i capelli raccolti in due codini dorati. Si chinò sul malcapitato. –è un grande piacere, sono così contenta di conoscerla!-
Il Joker rise. Mai si era divertito tanto. Viveva una fusione delle tre cose che gli davano maggior piacere, uccidere, Harley, e dare spettacolo. –Ora pasticcino, presta attenzione. Ognuno merita una bella morte. E io faccio magie quando uccido, questo lo sai. Solo i seccatori vanno fatti ammazzare da altri, non si meritano di essere trasformati da me. Fare quello che faccio sul corpo di un fastidioso parassita sociale sarebbe come dipingere una perfetta riproduzione di un Monet su un foglio di quaderno.-
-Orribile, orribilissimo, mister J.-
-Esatto piccola. Avrei voluto mostrarti come fare davvero la festa a qualcuno, ma stasera voglio portarti fuori a cena. Non abbiamo tempo di far tutto. Sai come si dice, non si può avere la libertà condizionata e l’agente di sorveglianza fatto a pezzettini nel congelatore. Dunque, facciamo una cosa di giorno. Ma prima…. Mettiamo un bel sorriso su quel faccione.-  il clown si tirò su le maniche della camicia lilla. Finalmente tolse il bavaglio all’uomo, che presto avrebbe potuto dare fiato ai polmoni. Il fiocco verde si tinse di rosso, quando iniziò a lavorare con il coltello e la faccia della vittima. Harley guardava ammirata, e rideva.
Il Joker, una volta completata l’opera, si girò verso la compagna. Le prese dolcemente il mento fra le dita sporche di sangue. –Vedi dolcezza, prima di chiudere in bellezza, devo fargli una domanda. Io lo chiedo sempre a tutte le mie vittime... Sarà perché me ne piace il suono! E anche da questo simpatico mattacchione voglio una risposta. - detto ciò si rivolse all’uomo, la cui faccia era uno spettacolo rivoltante. Si schiarì con aria teatrale la voce. Uno psicopatico megalomane, il più pericoloso degli incubi. - Dimmi una cosa amico mio... danzi mai col diavolo nel pallido plenilunio?1-
Poi il rumore dello sparo.  Il Clown guardò la ragazza. –Strano eh? Nessuno mi ha mai dato una risposta. Forse… sono io che non l’ho mai voluta sentire.-
Bill era a due metri da lei. Dalla giacca estrasse una pistola. Il colpo in canna, la mano ferma. Un metro. Voleva proprio spararle in faccia, rovinare quei tratti delicati e quei capelli di seta?
-Avanti, non mi vuole nemmeno dire addio?-
-Mi dispiace.-
Quel cuore, che resisteva da troppo tempo, ormai non reggeva più. Ma continuava ad appartenere a lui.
-Aspetta! Digli.. digli solo che stasera non c’è la luna. Non posso nemmeno ballare.-
Bill non si pose domande. Delle frasi sconnesse di quella pazza non si curava più di tanto, soprattutto ora che l’aveva sotto tiro. Harley guardò quel bestione. No, non voleva morire per mano di un sicario. Lei non sarebbe stata una normale seccatrice, un fastidioso parassita sociale. Poteva ancora farcela.
-Ti prego cowboy, non mi fare morire così! Dammi almeno un bacio.-
-Ah no pupa, io non ci casco! Ho a che fare con il tuo mister J ogni santo giorno, questi trucchetti con me non funzionano. Addio bambola.-
La pistola fece click. Solo click. Entrambi ne rimasero piuttosto sconcertati.
-Oh Cristo, si è inceppata!- quella forza che non aveva più ritornò in un ultimo rantolo di energie. Il destino le stava dando un’ultima, mortale opportunità.  Harley si alzò di scatto, balzando sul parapetto del ponte.
-Questa sì che è un’uscita di scena!- le sue ultime parole furono pronunciate con una voce cristallina, allegra. A Bill ricordò la sua bambina, il giorno di Natale, con gli occhi lucidi e il sorriso stampato in viso.
Si lasciò cadere nel vuoto, con la sua ultima, raggelante risata. L’aria che incontrava la massa del suo corpo che volava verso il basso sembrava strapparle la schiena.
Nessuno potè conoscere il suo ultimo pensiero prima che cadesse nel fiume ghiacciato. Sicuramente il suo rimpianto non fu quello di non aver lasciato che quel ragazzo sparasse al Joker, cinque ore prima in quella cantina piena di droga. Lo avrebbe salvato ancora e ancora, fosse potuta tornare indietro mille volte. L’acqua fu uno schiaffo al corpo intero. La caduta non era stata abbastanza lunga da ucciderla. il gelo pian piano diventò un mortale tepore.
Harley Quinn aveva fatto la sua uscita dal sipario terrestre.
 
 
E poi, quelle braccia. Quelle braccia che l’avevano sempre fatta sentire viva, ora la riportavano lentamente verso la superficie, per salvarla realmente dalla morte. Harley vide la luce lontana dei lampioni, sentì il vento ferirle il viso fradicio, i capelli intrisi d’acqua. E finalmente la toccò, quella pelle mostruosa, e sorrise a quel sorriso, di nuovo finalmente suo. Non riuscì a parlare, non ne aveva le forze. E infine, lui parlò.
-Non vuoi ballare con il diavolo, all’ombra del primo sole del mattino?-
Stremata, finalmente viva, finalmente salva, Harley Quinn cadde nell’oblio fra le braccia del Joker, che l’aveva punita con il piacere e le aveva dato piacere con la sofferenza.2
All’orizzonte, tingendo l’acqua di rosso, spuntava l’aurora.
 
 
 
1= dal film “Batman” del 1989
2= tratto dalla canzone end of all days dei 30 seconds to mars
Considerazione personale
Sono le tre e trentasette del mattino, ma questa storia non potevo non finirla. L’ultima scena ricorda forse quella di Suicide Squad, ma il significato è ovviamente un altro. In questo caso il Joker non crea una nuova Harleen, ma dona ad Harley la possibilità di vivere.
Ed ora la mia piccola grande notizia. Quando mi sono ritrovata a scrivere un flashback nel capitolo precedente, ho trovato molto interessante parlare dell’evoluzione del personaggio di Harley Quinn. Perciò, se non c’è pane senza burro, se non c’è amore senza odio, allora non ci sarà nemmeno una storia…. Senza prequel.
 Non è finita qui, quindi spero seguirete la prossima serie, che pubblicherò prossimamente.
Una piccola chicca. Vi suggerisco caldamente di anagrammare le iniziali dei nomi dei morti di questa storia.
Spero il mio lavoro vi sia piaciuto. In caso contrario… why so serious?

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