pitchblack

di Honeymouth
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La foresta ***
Capitolo 2: *** Ricordi sotto il letto ***
Capitolo 3: *** L'ultimo ricordo ***
Capitolo 4: *** Il mostro e la bambina ***
Capitolo 5: *** Il signore degli Incubi ***



Capitolo 1
*** La foresta ***


PREMESSA

La seguente fanfiction contiene numerosi riferimenti ad altre opere, tra cui quelle da cui è stato tratto il film “Rise of the Guardians” (“Le 5 leggende”), ovvero “The Man on the Moon” e “Guardians of Childhood”. Tuttavia io non ho letto questi ultimi e ciò che ho elaborato è il frutto di una catena di pensieri che, per questioni di logicità, ha finito inevitabilmente per sovrapporsi, in alcune dinamiche inerenti alla trama, all’opera originale. Questo aspetto è emerso in seguito, quando gran parte della struttura narrativa era già stata elaborata. Voglio assicurare che qualsiasi eventuale somiglianza, sia con le opere originali (a cui comunque questa fanfiction, per via indiretta, fa riferimento), sia con qualsiasi altra fanfiction presente, non è voluta. Tale fanfiction, in fin dei conti, oltre che narrare una storia, è un pretesto per parlare di altre tematiche, alcune di esse piuttosto delicate. Questa fanfiction è cronologicamente posta dopo la fine del film "Le 5 leggende". Buona lettura.




«Children have You ever met the Bogeyman before? No, of course You haven’t for You’re much too good, I’m sure.»

“Hush, Hush, Hush, Here comes the Bogeyman”, canzone del 1932 scritta da Lawton, Brown, Smith, Lang e Benson. È stata poi registrata da Henry Hall e la sua orchestra, con la voce di Val Rosing.

La catapecchia abbandonata aveva un aspetto sinistro e scheletrico. Il tetto di paglia, sfondato, sembrava una bocca sdentata, le pareti in asticelle di legno ancora in piedi sembravano pezzi di stoffa stracciata e stinta, corrosa dal tempo e nera di muffa. All’interno, le travi erano marcite ed erano cadute in pezzi. I pavimenti erano stati lacerati dallo scorrere degli anni. Solo il telaio di un vecchio letto in massello ancora si distingueva tra le macerie. Emergeva dalle ombre e si delineava, vivido, sotto la luce della luna piena. Un raggio di luce filtrò attraverso le assi spezzate e colpì l’oscurità che si trovava al di sotto, incontrando degli occhi aperti, che guardavano fisso negli abissi della morte, spalancati eppure ciechi. Il nero stinto dell’iride si chiazzò di bianco, al passaggio di quel raggio di luce lunare e la creatura si risvegliò dal suo sonno eterno.

Il fondo dell’abisso era buio e silenzioso. Pitchblack sembrava morto, disteso sulla terra grigia. Teneva gli occhi chiusi, mentre lungo il collo, sotto la pelle, una sostanza nera e viva sembrava pulsare. L’aspetto era rivoltante e pareva essere doloroso: vene nerastre e violacee, lucide, che sembravano composte da una sostanza simile al petrolio, ma mescolata con granelli e schegge di sabbia vetrosa si muovevano sottopelle. Pitchblack gemette e girò la testa da un lato, digrignando i denti. All’improvviso, aprì gli occhi, gli occhi di una bestia crudele appostata nell’ombra, piena di fame e di odio. A fatica, con movimenti rigidi, senza riuscire a muovere il collo, si mise a sedere. Piegò la testa all’indietro e urlò, un grido lacerante, colmo di dolore e disperazione. Il buio calò più profondo, e poi, come un’onda, defluì lasciando solo ombre e incubi in fuga. Gli occhi abbaglianti, come quelli di animale notturno, saettarono in tutte le direzioni. Pitchblack, curvo su se stesso, teneva scoperti i denti aguzzi, cercando qualcosa o qualcuno su cui sfogare la sua furia. Ma non c’era niente intorno a lui: solo il grigiore spento del suo covo, ricolmo di ombre frementi.

La bambina poteva avere circa otto anni. Aveva corti capelli neri, a caschetto, un viso tondo con al centro un naso piccolo, grandi occhi grigio acciaio, che quel giorno sembravano neri per via del crepuscolo e per i vestiti che portava, una felpa e un paio di pantaloni corti, entrambi neri. Stringeva tra le braccia un orsacchiotto di peluche, consumato sulle zampe e sulle orecchie. «Joey! Joey!» una voce femminile, in lontananza, la chiamava, ma la ragazzina proseguì nella sua marcia, con una luce di ferrea determinazione negli occhi. I piccoli piedi calpestavano le foglie secche, facendole scricchiolare come se fossero state ossa rotte. «Papà!» mormorò la ragazzina, sentendo un fruscio alle sue spalle. Si guardò intorno. Nella luce di quel tardo pomeriggio autunnale e carico di nubi, le forme e i colori si confondevano e apparivano meno accesi e distinti. Tutto era ombra e grigia foschia. «Papà!» chiamò sussurrando, come se non volesse farsi sentire dalla madre che la cercava, ma allo stesso tempo farsi sentire da lui. «Joey? Dove sei?» La voce della donna era molto distante, la bambina poteva a malapena sentirla. Continuò ad andare avanti, facendosi strada tra gli alberi neri di muschio e tra i sassi ricoperti di fragili licheni. Davanti a lei, notò un’ombra muoversi. «Papà?» chiese alla figura in movimento, a una ventina di metri da lei. Iniziò a correrle incontro. «Papà!» Quello che si trovò di fronte, nella radura, seduto su un masso, in mezzo a foglie morte e circondato da alberi che sembravano soldati di vedetta o magri e affilati giudici, non era suo padre. Era una creatura dalla pelle grigiastra, i capelli neri come il carbone e il fumo dei camini, una figura che sembrava ammantata da una notte senza luna. L’entità alzò lo sguardo: due occhi che sembravano due pallide lune la fissavano. Sembrava stanco. Il braccio destro pendeva floscio, la mano sinistra, che fino a poco tempo prima aveva retto la fronte aggrottata, si muoveva lentamente, come se ogni movimento gli costasse una grande fatica. La bambina fissò il collo di quella strana persona. Delle sottili linee nere lo attraversavano. «Sei ferito?» chiese, parendole segni di graffi. Il volto di Pitchblack si contrasse in una strana espressione, un misto di sofferenza e di stupore. «Tu, puoi vedermi?» domandò, per tutta risposta. «Sei l’uomo nero?» disse la bambina, implicando una risposta positiva alla domanda di Pitchblack. Il Signore degli Incubi sorrise in modo crudele e poi rise. «Ovviamente. Ti sei persa, bambina?» disse, già pregustando lo sguardo di terrore nel volto di Joey. «No, affatto. Stavo cercando il mio papà. Fa la guardia forestale. La mamma dice che è un uomo cattivo, quindi, se tu sei l’uomo nero, forse lo conosci oppure lo hai visto. Si chiama Robert, è alto… come… Come quell’albero là!» disse, indicando l’arbusto ai margini della radura con il ditino, stringendo a sé l’orsacchiotto. «Ha gli occhi e i capelli castani. Ti somiglia molto, a parte la pelle, gli occhi e i capelli.» concluse la bambina, fissando senza paura Pitchblack. Quest’ultimo era rimasto senza parole e non si era nemmeno accorto di stare molto meglio: era meno debole e sofferente, ma aveva dimenticato di prestare attenzione alle sue condizioni. Aveva alzato interdetto un sopracciglio, il sorrisetto gli era svanito dalla faccia. Che ironia: la prima bambina che credeva di nuovo in lui, era una che non ne aveva paura. Era stufo di trovarsi in quella situazione: perdente ancora prima di aver cominciato la partita. Mise una mano sulla faccia, spossato dalla frustrazione. «Allora, l’hai visto il mio papà?» Joey guardava Pitchblack con la determinazione di chi non ammette il silenzio al posto di una risposta. L’uomo nero la squadrò. Si alzò e si avvicinò alla bambina, che non si spostò di un passo. L’ombra di lui ormai incombeva su di lei, ma niente, le gambe non le tremavano, il respiro non accelerava, gli occhi non si sgranavano. «Se vedessi un uomo da queste parti, non vivrebbe per raccontarlo.» disse Pitchblack, con un sorriso cattivo, abbassando la testa verso di lei e scoprendo le zanne bianche e aguzze. Joey distolse lo sguardo, riflettendo corrucciata. «Cosa vuoi dire?» domandò, alla fine, con le lacrime agli occhi. «Che tuo padre io non l’ho visto, e se l’avessi visto l’avrei ucciso.» aggiunse, facendo un passo avanti. Joey arretrò e deglutì, lo sguardo un po’ appannato. «Io sono solo una bambina.» si ritrovò a dire, lo sguardo triste, ma stranamente non terrorizzato. «Io non uccido i bambini.» disse Pitchblack. «Dimmi ragazzina… Hai qualche programma per il prossimo anno?»

Joey non capì come aveva fatto a trovarsi lì. Ricordava vagamente che tutto era diventato buio all’improvviso. Quando un po’ di luce era tornata, il paesaggio era cambiato. Non era nemmeno più un paesaggio. Piccola com’era, a Joey parve una caverna con molte scale e molte gabbie come quella in cui in quel momento era rinchiusa. Era grande abbastanza perché si potesse sedere o raggomitolarsi, ma era stretta come solo una trappola sa essere. Un occhio più adulto avrebbe visto in quel posto una sorta di labirintica, oscura e angosciante stanza della relatività, un posto dove la porta d’uscita è allo stesso identico istante anche quella d’entrata, dove uscire significa rientrare, in un circolo impossibile da rompere. Un luogo dove, come negli incubi più terrificanti, più tenti di correre avanti, più rimani inchiodato nello stesso posto, dove dopo una porta, se ne apre sempre un’altra, all’infinito. Un posto fuori dal tempo e fuori dalla razionalità. Un abisso senza fine che a spirale scende sempre più in basso, un pozzo che arriva in un universo parallelo, isolato ed emarginato. Joey riuscì solo vagamente ad intuire di che natura sia la tenebra che avvolgeva quel non-luogo, ma era troppo piccola per riuscire a comprenderla appieno. Alle volte, è meglio rinunciare a comprendere l’impossibile e accettarlo per quello che è. Così fece Joey. Tutto era strano, ma Joey ignorò l’incomprensibile e si concentrò sulla situazione presente. «Hai paura?» chiese una voce. Joey non rispose. Non ne aveva, ma si sentiva piena di tristezza. Pitchblack emerse dalle ombre: sembrava essere costituito dalla loro stessa sostanza. «Non rivedrai mai più la tua mamma.» disse, sorridendo. Joey stava per mettersi a piangere. Strinse l’orsacchiotto più forte e si sforzò di inghiottire le lacrime. «Allora era vero che non avevi visto il mio papà.» disse lei, con la voce rotta. Pitchblack la guardò e per un istante esitò. «Io non dico mai bugie.» disse l’Uomo nero con un sorriso tagliente che in realtà voleva dire l’esatto contrario. Joey gli lanciò un’occhiata corrucciata, con l’aria di chi abbia capito che l’avversario sta cercando di truffarlo. «La mia mamma dice che tu dici sempre le bugie. Io credo alla mia mamma.» replicò Joey, risoluta. «Oh, davvero?» chiese sardonicamente Pitch «Dimmi un po’, e come fai a sapere che la mamma non ti abbia mentito?» «La mamma non lo farebbe mai! Lei mi vuole bene!» si arrabbiò Joey. Pitchblack sorrise per l’ennesima volta, con aria canzonatoria. «Uh, che sguardo assassino! Che paura che mi fai! Sto tremando dalla testa ai piedi!» Joey si zittì e continuò a fissarlo con gli occhi pieni di furia omicida: essendo molto piccola, quell’atteggiamento non le dava un’aria minacciosa, ma piuttosto buffa. Lei pensava di dargli filo da torcere, ma Pitch rideva di lei, sapendo che non poteva fargli niente, a parte fissarlo a morte. Una cosa però irritava l’Uomo nero: che la ragazzina non avesse nessuna paura, né di trovarsi lì, né di lui. Non aveva chiesto la mamma, non aveva chiesto di riportarla a casa, né si era messa a piangere o a frignare. Invece di stringersi al suo orsacchiotto, l’aveva lasciato cadere sul fondo della gabbia e rimaneva lì, in piedi, a guardare Pitchblack con uno sguardo di sfida. «Tu non mi fai paura. Mio padre è più spaventoso di te.» proclamò lei. Nella sua testa, pensava di farlo arrabbiare e di farlo smettere di ridere. Cosa che in effetti successe. Il sorriso soddisfatto dell’Uomo nero gli morì in faccia, e il suo volto si contrasse in un’espressione contrariata. «Nessuno… NESSUNO… è più spaventoso di me!» sibilò lui, in faccia a Joey, comparendole davanti, a pochi centimetri di distanza, all’improvviso, svanendo e ricomparendo dall’ombra. Joey non batté ciglio. Puntò i suoi occhi scuri in quelli dell’Uomo nero. Pitchblack scoprì le zanne, in un ghigno serafico, ritrovando un’apparente calma. «Allora… ti credi una tosta, eh?» «Io sono una bambina cattiva. E i bambini cattivi sono dei duri.» spiegò lei, con una certa aria strafottente. «Tu saresti una bambina cattiva? E che cosa hai fatto per esserlo, sentiamo? Hai detto brutte parole al tuo orsacchiotto?» disse lui e mentre lo diceva il suo tono di voce era quello che assumono i ragazzini quando vogliono sottolineare la tua stupidità. «Voglio bene ad un uomo cattivo.» rispose lei, senza fare una piega. «Se voglio bene ad una persona cattiva, devo essere cattiva anch’io. Per questo mi hai portato via.» aggiunse, con una certa urgenza, come se avesse voluto dimostrare una tesi incontrovertibile, ma avesse avuto paura che l’altro non sarebbe stata ad ascoltarla se non si fosse sbrigata a spiegarsi. Pitchblack alzò un sopracciglio, con l’aria di chi non abbia mai sentito delle assurdità simili in vita sua. «Guarda che io non faccio distinzioni tra buoni o cattivi. È una cosa che non mi interessa.» disse lui. «Oh.» fece la bambina, quasi con un’aria delusa. Abbassò il capino e si sedette accanto all’orsacchiotto, facendo ondeggiare la gabbia. Non disse nient’altro, rimase lì, seduta, in silenzio. Pitchblack non era mai stato una creatura paziente e in quel momento si sentiva anche piuttosto debole. Si massaggiò l’attaccatura del naso, in un gesto di frustrazione e sospirò. «VUOI COMPORTARTI COME UNA RAGAZZINA QUALUNQUE!?» urlò all’improvviso, colpendo la gabbia con un pugno. Joey sobbalzò e sgranò gli occhi, ma non ebbe nessun’altra reazione. Divenne solo molto triste. «…Me lo diceva sempre anche il mio papà.» Tirò su con il naso e non disse nient’altro. «Argh!» fece Pitchblack, alzando lo sguardo al cielo, esprimendo tutta la sua rabbia con dei gesti che volevano dire “ma perché proprio a me”. Le voltò le spalle, mise le mani sui fianchi, come per valutare la situazione. «Non vuoi proprio tornare a casa? Neanche un po’?» chiese poi, quasi costernato dalla prospettiva che avrebbe dovuto tenersela lì per chissà quanto tempo. Joey fece spallucce, in segno di diniego. I bambini non li sopportava, non avrebbe saputo curarli. Lui era capace di spaventare e basta, era quello che gli riusciva meglio. Non sarebbe stato capace di tenerla lì per un anno intero, come le aveva detto. Avrebbe potuto usare qualche trucchetto per far sembrare che invece di qualche ora fossero passati mesi – la manipolazione del tempo era una delle sue specialità – ma già così aveva i nervi a fior di pelle. L’unica cosa che gli piaceva nei bambini era quando gli si dipingeva in faccia il terrore. Gli sembrava di essere in uno dei suoi incubi: tutti i bambini che riuscivano a vederlo, non avevano paura di lui. Gli sembrava una condanna assurda, quella, un contrappasso tremendo. Iniziò a camminare nervosamente, avanti e indietro, con le mani dietro la schiena, borbottando e mugugnando tra sé e sé. Gli incubi che lo avevano quasi distrutto, facendolo diventare uno di loro, una creatura di sabbia, soltanto uno dei tanti brutti sogni che tormentavano i bambini, se n’erano andati, ma lui si sentiva ancora debole e avvilito. Aver incontrato Joey gli sembrava l’ennesimo smacco, come se tutte le forze terrestri si coalizzassero contro di lui. Pensava addirittura che quella potesse essere una mossa dei Guardiani per condurlo nella trappola definitiva. Razionalmente, però, non aveva senso: se aveva ragione, era stata quella bambina a salvarlo dall’oblio perpetuo, credendo in lui. La guardò. Joey se ne stava lì, nella gabbia, tranquilla e triste. «Mi dici perché non hai voglia di tornare a casa?» chiese, irritato. Joey alzò lo sguardo. «La mamma non mi capisce. E mi sento sola a casa. Vorrei che il mio papà tornasse a casa, ma la mamma non vuole perché è stato cattivo con noi.» rispose, alla fine. «Pensavo di trovarlo, nella foresta, anche se la mamma ha detto che il papà era lontano. Ho pensato, magari si è sbagliata. Qualche volta la mamma si sbaglia.» continuò. Pitchblack rimase in silenzio. Era già capitato che qualcuno gli togliesse l’ultima parola, ma quello era un caso molto strano e diverso da tutti gli altri. «Tuo papà è stato cattivo con te e la tua mamma, ma lo vuoi lo stesso a casa?» disse lui, un po’ perplesso dalla contraddittorietà di quelle affermazioni. «È sempre il mio papà! Non era così cattivo prima! Ci divertivamo tanto insieme. Io gli voglio bene, anche se mi fa paura.» rispose lei, con una grande tristezza nella voce. “Così non va” pensò Pitchblack. La ragazzina doveva essere terrorizzata, non triste. Un bambino triste è la cosa peggiore che può capitare a una creatura sovrannaturale come lo era anche lui: uomo nero o guardiano, un bambino triste o deluso è la cosa peggiore. Un bambino triste non ha nemmeno paura. Che cosa può fare l’Uomo nero con qualcuno che non prova altro che tristezza? Pitchblack si grattò il collo, a disagio. Poi si strofinò la testa, passandosi una mano tra i capelli e poi sulla nuca. Sospirò, vinto. «Ti riporto a casa.» disse, scuotendo la testa. Joey non disse niente.

Le luci della casa erano accese e la madre di Joey molto preoccupata. L’aveva chiamata e l’aveva cercata in giardino e nella foresta vicina, senza ottenere risultati. Aveva iniziato a chiamare i vicini, preoccupata, chiedendo se per caso fosse a casa da loro. Era la terza telefonata che stava facendo, quando il campanello suonò. Corse alla porta e la spalancò, trafelata. Davanti a lei c’era Joey, con il suo orsacchiotto preferito in braccio. «Joey! Oh, cielo, meno male!» strillò la madre, sollevata, e la abbracciò stretta. «Non farlo mai più! Hai capito? Mi hai fatto preoccupare a morte!» la rimproverò, continuando a stringerla a sé. «Dai, andiamo a letto…» disse, la voce piena di gioia, sollievo e tenerezza, facendola entrare in casa. Sbirciò fuori, prima di chiudere la porta. La sera era calata velocemente e tutto era nero. Le sembrò di scorgere una sagoma nera e degli occhi luminosi, al di là della staccionata, per un istante. L’impressione passò e la donna, scuotendo la testa, chiuse la porta. Pitchblack, al di là del recinto, rimase per qualche momento a guardare la casa e poi svanì.

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Capitolo 2
*** Ricordi sotto il letto ***


«Ninna nanna, ninna oh, Questo bimbo a chi lo do? […] Lo darò all’uomo nero che lo tiene un anno intero.»

Filastrocca popolare italiana

Pitchblack ancora non credeva di stare per fare quello che stava per fare. Dopo l’ultima brutta esperienza, avrebbe dovuto essere estremamente codardo. Invece, la curiosità, la necessità di avere delle risposte fu più forte di qualsiasi incertezza. Del resto, si era introdotto nel regno di Dentolina già una volta in passato, non c’era motivo per dubitare che ci sarebbe riuscito anche questa volta. Certo, era stato aiutato ed aveva sfruttato un momento di distrazione della guardiana dei denti, ma credeva sufficientemente nelle sue capacità per non tirarsi indietro proprio in quel momento. Non si affidò agli incubi: sperava di poter trovare quello che cercava senza doversi confrontare faccia a faccia con la fatina dei denti e le sue piumate assistenti e non avere bisogno dei suoi tirapiedi. Da solo avrebbe celato meglio la sua presenza. L’incontro con quella ragazzina lo ossessionava. Era certo che non potessero esistere dei ragazzini così, tristi, sconsolati e disperati. Che qualcuno che credesse in lui, ma che di lui non avesse paura già c’era ed erano sempre di più. Erano bambini fiduciosi, allegri, entusiasti e indipendenti, dei piccoli esseri umani pieni di gioia e speranza. Avevano un atteggiamento così positivo verso la vita che era difficile potessero avere paura di qualcosa. A quell’età si sentono tutti così bene, in forze, in salute, che niente li preoccupa: si sentono invincibili. Immaginano di saltare fiumi di lava incandescente, di percorrere sentieri impervi, di scalare montagne verticali. Pensano soltanto a giocare e a divertirsi. Pitchblack li odiava, ma comprendeva la loro refrattarietà al suo potere. Quella ragazzina, invece, pur avendo un’idea così nera di se stessa e della vita, non aveva comunque paura. L’uomo nero voleva capire perché. Voleva capire perché le ricordasse qualcosa. Pitchblack per poco non si fece scoprire da un’assistente di Dentolina, in volo verso l’Australia. La piccola notò una fugace ombra nera che si muoveva, ma quando andò a controllare dietro al pinnacolo iridescente, non trovò nessuno. Pitchblack sospirò, guardandola allontanarsi, facendo capolino dal basamento inferiore. A testa in giù, cercò di orientarsi in quel luminoso dedalo di stalattiti vetrose e lampeggianti di luce. I colori erano abbaglianti, gialli, rossi, rosa. All’Uomo nero non piaceva quel posto: troppo vivo. La sua sagoma comparve su un’altra struttura di roccia e vetro, e poi su un’altra e un’altra ancora, saltando dall’una all’altra, di ombra in ombra, per arrivare al cuore del deposito. La prima volta che era stato lì, aveva rubato tutti i ricordi dei bambini, ma non aveva fatto molto caso a come erano stati catalogati. Per poco, nello spaesamento, non si fece scoprire di nuovo. Dentolina, dalla sua postazione, aveva notato un lampeggiare di occhi e aveva stretto i suoi, cercando di vedere meglio. Tuttavia, quella sfuggente apparizione fece appena in tempo ad essere notata che subito si era dissolta. Dentolina sentì dentro di sé una strana sensazione. Le piume sul suo capo si drizzarono, come in allarme. Intanto, Pitchblack osservava il movimento delle fatine. In quell’apparente caos, tutto era dominato dalla logica. Non ci mise molto ad individuare la zona in cui conservavano i ricordi della stessa regione geografica di Joey e ci mise ancora meno a trovare il suo contenitore. C’era poco movimento in quell’area, in quel momento della giornata: erano tutti svegli a casa di Joey. La parte asiatica invece, era in totale fermento. Qualche fatina disoccupata, per il termine del turno, vagava comunque da quelle parti. Pitchblack non voleva correre rischi. Lanciò una scheggia di sabbia nera verso l’area Europea, per distrarre le fatine. Il frammento si schiantò contro la griglia decorativa di un pinnacolo roccioso poco distante. Le fatine, preoccupate, corsero immediatamente a vedere che cosa fosse successo. Pitchblack, veloce come la notte, si avvicinò ai ricordi ed estrasse il contenitore di Joey. Lo afferrò e si nascose. Appena in tempo: qualcuna di loro aveva capito che c’era qualcosa che non andava, per via delle tracce lasciate dalla scheggia d’incubo; stavano correndo ad avvisare Dentolina. Passarono proprio sopra il nascondiglio dell’Uomo nero. Appena si furono allontanate, la nera creatura le distanziò, nascondendosi ai margini della caverna che ospitava il palazzo. Aprì il cilindro. Quello che accadde dopo nemmeno Pitchblack l’avrebbe immaginato. I ricordi di Joey fino all’incontro nella foresta lo colpirono per la loro diversità: c’era una bambina felice, sulle spalle del padre, che rideva serena in una giornata di sole. Era festosa, allegra e piena di fiducia. Aveva tanti amici. I ricordi lieti iniziavano a confondersi con urla e pianti di paura e di tristezza. La madre e il padre di Joey, figure quasi indistinte attraverso la fessura di una porta, litigavano furiosamente. Una giornata di pioggia, di lampi e tuoni, durante la quale Joey, nel panico, dopo aver rotto un vaso che giaceva sul pavimento, in frantumi, correva per tutta la casa, rincorsa da un padre fuori di sé dalla rabbia, che la voleva punire picchiandola a sangue, se lei non si fosse rifugiata sotto al letto e la madre non si fosse messa in mezzo. I lampi dei fulmini cambiarono natura, sembravano luci che esplodevano direttamente negli occhi di Pitchblack. Il frammento di un altro ricordo lo investì. Era diventato un ragazzino che correva in una vecchia casa di legno, in affanno, pieno di terrore, inseguito da un uomo grande e grosso. Si rifugiava sotto al letto, insieme alla sua sorellina più piccola che piangeva per la paura. Tutto era fumoso ed indistinto, di un grigiore cinereo. Credette di trovarsi nella sua tana, ad un certo punto, se un altro ricordo di Joey non si fosse sovrapposto. La bambina piangeva di tristezza perché delle amichette l’avevano presa in giro. Sotto un forte sole di marzo, tutti gli altri ragazzini ridevano e giocavano, rotolandosi nell’erba, mentre Joey li guardava da lontano, triste, stringendo il suo orsacchiotto. Un altro ricordo, privo di colori e di dettagli distinguibili si agganciò a quello che aveva appena visto. Il ragazzino di prima guardava con rabbia altri bambini, meditando vendetta per i loro soprusi. Pitchblack sentiva la testa esplodergli. Lasciò cadere il cilindro dei ricordi di Joey. L’Uomo nero si afferrò la testa con entrambe le mani: la sentiva pulsare in maniera dolorosa, mentre schegge di ricordi gli si conficcavano nel cervello, causandogli altre fitte lancinanti. Stringeva gli occhi, nel tentativo di scacciare quelle immagini dagli occhi. Si trovò ad urlare, senza rendersene conto. «PITCHBLACK!» Quel nome riuscì in qualche modo a interrompere il flusso di scene che gli lampeggiavano davanti agli occhi. Intontito, non vide arrivare il colpo. Venne sbalzato via dalla piattaforma su cui si trovava, andando a sbattere sulla parete di un pinnacolo. Cadendo in verticale, rotolò sull’ombrello colorato che faceva da pavimento, finendo bocconi sul suo margine. La testa aveva iniziato a girare vorticosamente, colori e forme si sfocavano e si intrecciavano le une alle altre. Sentì, più che vedere, Dentolina, che si era gettata in picchiata su di lui. In un gesto istintivo parò il colpo successivo con la sua falce di sabbia, che si dissolse in una nube di polvere, mentre lui veniva scagliato nuovamente lontano e verso il basso. Cadde sulla piattaforma inferiore di un’altra torre a stalattite. Cercò di richiamare la sua arma, ma non ci riusciva, confuso e debole com’era. «TEMPO!» urlò, senza sapere dove guardare. «Tempo, tempo, tempo, per favore tempo!». Dentolina, che era un’anima buona – forse anche troppo buona – si era bloccata a mezz’aria, lei con un molto nutrito gruppo di sue assistenti, ma rimanevano in guardia, mentre Pitchblack cercava di rialzarsi. L’Uomo nero barcollò per un istante sul posto, rigirò gli occhi all’indietro e poi… cadde di schiena con un tonfo sordo, a braccia e gambe aperte e ben distese. «È… morto?» chiese Dentolina perplessa alle sue amiche. Le fatine che erano con lei squittirono incredule e alzarono dubbiosamente le piccole spalle. Dentolina strinse le labbra. Piano piano, fluttuò fino al punto in cui Pitchblack era caduto. Aveva gli occhi chiusi, la bocca semiaperta e sembrava decisamente deceduto. Diede un’occhiata ad una delle sue fatine, con uno sguardo interrogativo, che lei rimandò pari pari. Dentolina allungò la mano, puntando l’indice verso la mascella di Pitchblack. Strinse le labbra. Con la punta del dito gli toccò la guancia. L’Uomo nero aprì improvvisamente gli occhi. «AH!» Dentolina strillò spaventata, sussultando e indietreggiando in volo. «Non sono ancora morto.» disse Pitchblack, constatando un fatto. «Tu… devi… Devi andartene subito! Altrimenti…» «…Altrimenti cosa? Mi caverai tutti i denti a forza di pugni?» rispose lui, ma stranamente senza nessun tono ironico. La fatina dei denti rimase interdetta, ma per il motivo opposto rispetto all’altra occasione durante la quale Pitchblack si era introdotto nel suo regno: invece di rimanere colpita dalla sua battuta pungente, si spaventò all’idea che avrebbe potuto effettivamente seguire il suo suggerimento. «…N… No! Io non sono così! Non sono come te! Ti butterò fuori di qui a forza, se necessario, m... Ma non… ecco…» «Non vuoi farmi del male?» completò lui, alzando la testa e ghignando sarcasticamente. «Dammi ancora un minuto.» disse, alzando debolmente un braccio e indicando il numero con l’indice. «P…Per cosa?» chiese Dentolina. «Per alzarmi. Non mi sento più le gambe.» replicò Pitchblack, con tono piatto e lo sguardo stralunato. «Oh…» fece lei, quasi mortificata per esserci andata giù così pesante. Si spostò per poterlo guardare meglio negli occhi. Pitchblack rimaneva disteso a terra, in un atteggiamento apatico in modo bizzarro. Poi, diventando paonazza, ancora in atteggiamento di guardia, interpellò nuovamente l’Uomo Nero. «S-Si può sapere che ci fai qui?!» Pitchblack girò leggermente la testa verso di lei, ruotando gli occhi nella sua direzione, ma non rispose nulla. Sembrava perfino depresso. «Si può sapere che ti prende? A quest’ora avresti fatto almeno dieci battute ironiche!» urlò Dentolina, irritata non tanto per il fatto che lui fosse lì, a quel punto, ma che avesse un comportamento tanto strano. «Ti scoccia abbassare la voce? Hai degli acuti tremendi e io ho mal di testa.» fece lui, per tutta risposta. «Scusa, scusa, mi dispiace!» disse Dentolina. Poi scosse la testa e mormorò: «Ma che sto facendo?» Puntò l’indice con decisione su di lui. «Pitch, è l’ultima volta che lo dico, vattene subito…» «Vattene subito o chiamo la polizia!» ripose l’Uomo Nero, motteggiandola. Dentolina, suo malgrado, arrossì. Stava per rispondere qualcosa, ma lui la precedette. «Me ne vado, me ne vado. Non ti agitare.» aggiunse Mister Boogeyman, tirandosi su a fatica e con un movimento che ricordava una mummia che risorga dal regno dei morti. Dentolina si irrigidì, quando lui si rimise in piedi. Pitchblack, con calma, si spolverò il vestito con noncuranza e tranquillamente fece due passi. Dentolina non lo perdeva d’occhio. «Bu!» fece Pitchblack all’indirizzo di Dentolina, la quale sobbalzò e si ritrasse istintivamente, mentre le fatine si nascondevano dietro di lei. Pitchblack ridacchiò, per poi sparire nell’ombra e ricomparire sulla piattaforma adiacente. «Sei capace di mettermi a tappeto, ma riesco ancora a spaventarti, Dentolina! Avresti dovuto vedere la tua faccia!» ghignò maligno Pitchblack, per poi darle le spalle. «Sei sempre il solito Pitchblack! Non cambierai mai!» lo sgridò Dentolina, furiosa. «Cambiare? Per fare cosa? Dovrei davvero desiderare di essere diverso da quello che sono? Dovrei fare come Jack Frost? Vendere la mia libertà o la mia identità per un posto da guardiano? Non sto al guinzaglio di nessuno, io» replicò Pitchblack, pieno di rancore. «Jack Frost non sapeva chi era, prima di diventare un guardiano» uscì detto a Dentolina, che, nonostante le apparenze, non era una alla quale piaceva lasciare all’avversario l’ultima parola. «Io so bene chi sono» disse Pitchblack, scandendo bene le parole. «Ne sei sicuro?» Dentolina lo guardava con uno sguardo stranamente fisso. «Perché sei venuto qui, Pitch?» chiese. «Che te ne importa?» sbottò lui, aggrottando le sopracciglia nude. «Senti, è stata un’amabile chiacchierata, sei la migliore tirapugni verbale con la quale abbia mai avuto il piacere di conversare, ma ho dei grossi, grossissimi impegni in agenda, tutti molto urgenti. Mi piacerebbe sbrigare qualche altro piano diabolico prima di cena, se non ti dispiace.» disse lui, con un sorriso cattivo e mellifluo, voltandosi nuovamente per andarsene. «Pitch, aspetta!» Dentro di sé, Dentolina sapeva che quello che stava per fare era un grave errore, ma era un’anima tenera, un po’ ingenua e abbastanza sicura di sé da non vedere in Pitch una minaccia. Pitchblack la guardò, con un sopracciglio inarcato, aspettando, paziente.
«Ehm… Magari… ecco… Io potrei… insomma… avere i tuoi ricordi conservati nella sezione segreta» Dentolina disse le ultime parole tutte d’un fiato, come se dovesse sputarle fuori prima di cambiare idea. Pitchblack rimase impassibile, in silenzio, per alcuni istanti che sembrarono eterni. «Non sapevo tu avessi una sezione segreta» constatò, alla fine. «Beh… È segreta.» spiegò Dentolina. Ci fu una lunga pausa, durante la quale l’Uomo Nero parve riflettere. «Mmm… Ha… senso» ammise Pitchblack. «Vogliamo andare?» chiese lei.

Il laghetto tranquillo sul fondo della caverna era illuminato dalla luce del sole. Pitchblack strizzava gli occhi, un po’ infastidito, la testa che ancora un po’ gli doleva. «Ci siamo» disse Dentolina. «Senti, Dentolina, ripensandoci, non credo che sia il caso…» iniziò a dire l’Uomo nero, ma Dentolina non voleva sentire ragioni. «Seguimi!» ordinò, tuffandosi dentro il lago. Pitchblack sospirò, rassegnato. La seguì, facendo un passo in avanti, le braccia dietro la schiena, in una posa imperiale e rigida. All’interno dell’acqua del lago, Pitchblack continuava a cadere, come se invece di trovarsi nell’acqua, si trovasse a galleggiare nell’aria e stesse lentamente, ma costantemente, precipitando verso il fondale. Tutto intorno a loro era azzurro e cristallino. Toccò lievemente il terreno con un piede e gli sembrò di riacquistare tutto il suo peso. «Qui conservo alcuni contenitori un po’… particolari» spiegò Dentolina. Pitchblack si guardò intorno. Nell’atmosfera azzurra, blu cobalto e verde acqua, emergevano scintillanti, in un grande cilindro d’ottone, una ventina di contenitori, un paio dei quali evidentemente corrosi dal tempo. «In che senso, particolari?» fece lui. «Ecco… insomma… importanti e… incompleti» disse lei. «Sono delle… sinfonie speciali, diciamo. Qui conservo le storie più incredibili che mi sia mai capitato di conoscere… i bambini loro proprietari non sono ormai più bambini. Riesco sempre a recuperare tutti i denti, anche quando un bambino non riesce a metterli sotto il cuscino o ne perde qualcuno. Tuttavia, di uno in particolare, invece… ecco… non so proprio il dente dove sia.» Dentolina guardò Pitchblack di sbieco, arrossendo visibilmente. Lui la fissava con una certa irritazione. «Vuoi dirmi che non hai tutti i miei ricordi?» «Ecco… no. Ne manca uno.» Pitchblack alzò gli occhi al cielo con l’aria di chi se lo stava aspettando, un colpo di scena simile. «Ecco il perché della sezione segreta.» commentò lui. «Se si sapesse in giro che ti è sfuggito un dente…» «Senti, non è del tutto colpa mia, ok? E…Ero ancora molto giovane! E l’archivio non era all’altezza!» disse Dentolina, piccata. «Un paio di questi sono stati i miei primissimi bambini. Allora non avevo neanche un’assistente, non ero nemmeno un guardiano!…» La fatina dei denti s'interruppe e sembrò immergersi nelle memorie di un tempo lontano. Pitchblack iniziò a guardare i contenitori. In uno di quelli riconobbe il contenitore di Jack Frost. Aveva delle incrostazioni causate dal freddo del Polo Nord. Dentolina non lasciava mai niente in sospeso. A parte quell’unico dente, della cui perdita lei si vergognava moltissimo. Si fermò davanti al ritratto di un ragazzino con i capelli e gli occhi neri e la faccia un po’ cattiva: un bambino arrabbiato e vendicativo. Era un contenitore molto vecchio: segni di ossidazione lo ricoprivano e sembrava essere stato maneggiato molte volte, forse nel tentativo di Dentolina di recuperare anche l’ultimo dente. «Questi contenitori sono quelli che contengono i ricordi più gioiosi, ma anche i più tristi…» soggiunse Dentolina, parlando più a se stessa che a Pitchblack. «…Forse è per questo che ho smesso di…» continuò, interrompendosi bruscamente. L’Uomo nero prese il cilindro metallico tra le sue mani. I ricordi gli tornarono in mente come se fossero avvenuti il giorno prima. Era un bambino piccolo e viveva in una casa di legno, con il tetto di paglia, in mezzo ad una fitta foresta di abeti, in una valle in pendenza, con declivi scoscesi, burroni e fiumi. C’erano vaste praterie intorno alla foresta e strade in terra battuta che attraversavano il villaggio. Più lontano, al di là di una fila di colline, Pitchblack sapeva che c’era il mare. Suo padre era un uomo violento e crudele. Tanti lo erano in quell’epoca oscura e priva di pietà verso i deboli, ma qualche padre riusciva a trattare amorevolmente i propri figli. Non il suo. Jonah – era quello il suo nome – correva a nascondersi sotto il letto, cercando di proteggere la sua sorellina, mentre la madre cercava di dar loro tempo di scappare. Suo padre riusciva sempre a raggiungerlo, a tirarlo fuori dal letto e a picchiarlo, mentre la sorella piangeva disperata, accucciata nel buio, sotto il giaciglio. I ragazzini del villaggio non lo lasciavano in pace: era scontroso, timido e riservato, e per questo era il bersaglio preferito degli scanzonati e dei prepotenti. Il padre trovava quell’atteggiamento un buon motivo per fargli altro male, così Pitch decise di fare scherzi spaventosi agli altri bambini, perché almeno loro lo lasciassero in pace. Avendo nel padre un buon maestro, prima di aver perso il suo primo dente, aveva già burlato due ragazzini di sette anni, sfidandoli ad una prova di coraggio e facendoli scappare a gambe levate da una casa abbandonata. Aveva catturato dei corvi e quando i due erano entrati nell’abitazione, li aveva liberati, con grande schiamazzo e puro terrore dei due. Quando aveva perso il suo primo dentino e aveva mostrato orgoglioso al padre la piccola gemma che aveva ricevuto in dono, il padre lo aveva malmenato, accusandolo di averla rubata. A niente valsero le parole di Jonah “Pitch” Black, che assicurava di averla trovata sotto il cuscino al posto del dente che gli era caduto durante la notte. Perdere un altro dente da latte fu l’effetto della punizione ricevuta. Pitch giurò di tenere nascosto il regalo successivo – se mai fosse arrivato – e di usarlo per comprarsi un nuovo temperino. Ricordò che il padre lo sorprese ad utilizzare l’attrezzo, gli chiese dove l’avesse preso, lo picchiò accusandolo di averlo tolto a qualcuno e glielo sequestrò. A Natale, Pitch non riceveva nessun regalo. “Sei un bambino cattivo, non te li meriti!”. Un anno, Pitch fece tutto quello che poteva per essere un bravo bambino. Il padre, poco prima di Natale, iniziò a sorridergli in modo inquietante. “Sei stato bravo, quest’anno, Pitch” gli disse. “San Nicola potrebbe farti un bel regalo” aggiunse. Jonah aspettò con ansia il fatidico giorno, desiderando ad alta voce che il santo gli portasse un paio di guanti di pelle morbida. Alla mattina, scese di corsa giù dalle scale e vicino al camino trovò il suo regalo, avvolto in un telo. Lo scoprì e i guanti c’erano, ma erano vecchi, rotti, screpolati, con i buchi sulle dita e odoravano di muffa e di stantio. Il padre rise alla sua faccia delusa e continuò a ridere per giorni e giorni. Non fece mai più nessuno sforzo per essere un bravo bambino. Continuò a spaventare gli abitanti del villaggio e divenne un adulto maligno e rancoroso. Tutti davano la colpa a lui per qualsiasi cosa e lo usavano per far rigare dritto i loro figli. “Se non fai il bravo chiamo Pitchblack e te la vedrai con lui!”. Lui rideva sempre quando veniva a sapere di quei ricatti. Non era uno strumento che serviva a sistemare le mancanze dei genitori, ci pensassero loro ad educare i loro figli. Eppure, suo malgrado, spesso si ritrovava a rimettere in riga proprio i più scapestrati, i più ribelli e i più prepotenti. I ricordi finirono. In realtà non c’era quasi niente che, in qualche modo, non sapesse già. Ricordava tutto già prima, ma l’intensità delle emozioni che aveva provato nello scoprire il contenuto delle memorie di Joey non si era manifestata. Aveva la sensazione mancasse qualcosa. «Ero un giovane talento, non c’è che dire» disse Pitchblack, con un sorriso sardonico, all’indirizzo di Dentolina, occultando abilmente gli altri sentimenti che lo attraversavano: rabbia, rancore, odio. Quei ricordi avevano riaperto una vecchia ferita, accendendo una nuova vivida luce su tutto il male che aveva dovuto subire, dai suoi coetanei, da suo padre. Non c’era stato niente di positivo nella sua esistenza. O forse sì? «Non c’è un modo per recuperare i ricordi persi?» chiese l’Uomo nero, senza preavviso. Dentolina si riscosse dai suoi pensieri. «Se… Se troviamo il dente mancante, sì. Ma è passato tanto tempo e per riuscirci, penso che avremo bisogno di aiuto.» «Tu che cosa suggerisci?»

Pasqua era passata da circa sei mesi, ma Calmoniglio diceva che ne mancavano soltanto sei alla prossima: così era già in fermento, provava nuove miscele di colori, nuove decorazioni, curava le piantine che sarebbero sbocciate a pasqua, generando le loro uova. Stava facendo degli esperimenti perché uscissero dal bocciolo con il guscio già colorato. Per questo qualche ovetto saltellava di qua e di là. A quanto pare uscire dall’incubazione con il colore già applicato dava qualche effetto collaterale: le uova rosse erano bollenti, quelle blu erano pigre e appena potevano si distendevano sull’erba a dormire, le gialle non smettevano un solo secondo di ballare il tip tap, le verdi correvano di qua e di là, cercando un nascondiglio, per poi cambiarlo subito dopo, le viola non facevano altro che incespicare e cadere. Queste ultime non riuscivano a fare molta strada, prima di rompersi da sole. Il coniglietto di pasqua voleva che la festività successiva fosse memorabile. La precedente, del resto, era stata un fiasco totale e ancora a Calmoniglio quella sconfitta bruciava. Ad un certo punto si sentì il rumore di qualcosa che si rompe e un suono viscido subito dopo. «Urgh…» fece una voce, alle spalle del coniglietto di Pasqua. «…Devo aver appena pestato un uovo…» Calmoniglio drizzò le orecchie, spalancò gli occhietti e si voltò, furibondo. Avrebbe riconosciuto quella voce tra mille. «Pitchblack…» ringhiò. Se qualcuno non l’avesse visto in quel momento, non avrebbe mai detto che un coniglio potesse essere così minaccioso, ma Calmoniglio era grosso e in quel momento si sentiva molto cattivo. «Ehi, ciao Calmoniglio! Calmati, calmati, siamo venuti qui in pace!» disse una vocetta dolce. Distratto com’era dalla presenza di Pitchblack, Calmoniglio non aveva notato Dentolina, che ora gli svolazzava davanti, nel tentativo di rassicurarlo. «Tu… l’hai portato tu qui!?» esclamò, costernato, il volto che si contraeva in una smorfia di delusione e rabbia. «Ehm… posso spiegare…» «Non c’è niente da spiegare, Dentolina! Quella… COSA…» e guardò con disgusto Pitchblack (l’Uomo nero aveva l’espressione di chi si trovi perfettamente a suo agio) «…ha distrutto la Pasqua e ci ha quasi sconfitto, o te lo sei forse dimenticato?» «A giudicare dalle botte che Dentolina mi ha dato non se l’è dimenticato, no…» si intromise Pitchblack. «Non sto parlando con te!» gli gridò Calmoniglio di rimando, puntandogli il dito contro. «Senti, Calmoniglio, ascolta… Lo so che non ti fidi, non mi fido neanch’io, ma, ti assicuro, lo giuro su tutti i dentini del mondo, in questo momento…» e abbassò la voce in un sussurro «…non è in grado nemmeno di stendere una mosca…» «Guarda che ti sento lo stesso.» fece Pitchblack, inarcando le sopracciglia, comparendo improvvisamente lì, di fianco a loro. «Ti credi spiritoso? Forza, andiamo, fatti sotto!» lo incitò Calmoniglio, con aria bellicosa, e in quel momento sembrava davvero un canguro pugile sul ring. «Non credo che sia il caso…» fece Dentolina. «Dentolina ha ragione, i vecchi conigli devono stare attenti ai loro acciacchi» «A chi hai dato del vecchio?» «Su, su, andiamo, cerchiamo di stare calmi…» «Ha cominciato lui!» disse Pitchblack, anche se era palesemente falso. «PITCHBLACK, FINISCILA!» urlò Dentolina, gonfiandosi tutta, drizzando tutte le penne che aveva sul corpo, raddoppiando la sua stazza e allargando gli occhi già grandi, mentre le pupille si stringevano. Aveva un aspetto così spaventoso che Pitchblack, memore di quanto potesse essere tosta la fatina, sgranò gli occhi, si ritrasse istintivamente e si zittì. Calmoniglio, dal canto suo, aveva tirato indietro le orecchie e ritratto le zampe. Guardava Dentolina come si guarda una bomba pronta ad esplodere. Dentolina sospirò e poi disse, rivolta all’Uomo Nero: «Lascia parlare me, va bene?» «Va… bene.» rispose lui, esitando. «Calmoniglio, possiamo andare a parlare un po’ più in là, ti dispiace?» Il coniglietto di Pasqua scosse la testa, dicendo: «No, no, nient’affatto!» Quando si furono allontanati abbastanza, lasciando Pitchblack a guardarsi intorno con aria annoiata, Calmoniglio disse: «Dovrò ricordarmi di non farti mai arrabbiare, sai.» «Calmoniglio… ci serve una mano» «Ci? A te e a Pitchblack, intendi? Non ho nessuna intenzione di aiutare quello là, di qualsiasi cosa si tratti» «Dobbiamo ritrovare il suo ricordo mancante. Si comporta in modo un po’ strano… io credo che se ritrovasse quell’ultimo ricordo magari potrebbe… non lo so… cambiare il suo modo di vedere le cose» Calmoniglio diede un’occhiata a Pitchblack. «Cambiare? Quello là? Io non credo proprio» replicò il coniglio, recisamente. «Sì, lo so, sembra impossibile, ma… tentare non nuoce, non credi? Non nutrivi grandi aspettative neanche in Jack Frost» «Jack Frost era una canaglia, ma non ha mai tentato di aggredirci, né di eliminarci. Non c’è paragone. Pitchblack è un nemico e tu, Dentolina, come al solito sei troppo buona» Calmoniglio incrociò le braccia e la squadrò con aria severa. «Ti prego, Calmoniglio… Fallo per me, almeno! Ogni dente perso è per me una sconfitta» disse lei, cercando un ultimo appiglio per convincerlo. «Non ti costringerò a farlo, se non vuoi… Ma per la nostra amicizia…» «Oh, e va bene!» Calmoniglio si arrese. Il problema delle creature buone è che lo sono troppo. Sempre. «L’importante è che lo portiamo lontano da qua. La sua presenza qui dentro mi irrita» fece Calmoniglio. «Dentolina, sei sicura che il nostro tenero coniglietto ci potrà dare una zampa?» chiese Pitchblack, subito dopo, facendo un velato riferimento all’aspetto adorabile di Calmoniglio durante l’ultima epica battaglia. «Senti, brutto mascalzone, non so chi tu ti creda di essere, ma devi sapere che IO, oltre ad essere un mago nel nascondere le uova, sono anche un drago nel trovarle! Lo vedi questo naso?» e lo indicò, muovendolo a destra e a sinistra. «È in grado di fiutare qualsiasi cosa!» «Bene, cosa preferisci annusare, per ritrovare la traccia? Le mie ascelle o i miei piedi?» buttò lì Pitch. Calmoniglio prese aria nei polmoni, puntò il dito contro l’Uomo Nero e stava per rispondergli qualcosa, ma Dentolina prevenne tutti e due. «AHI!» gridò Pitchblack, mentre Dentolina teneva, come in trionfo, tra due dita, una ciocca di capelli che gli aveva appena strappato.

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Capitolo 3
*** L'ultimo ricordo ***


«…and everything that’s under the sun is in tune but everything is eclipsed by the moon.»

“Eclipse” dei Pink Floyd, dall’album “Dark side of the Moon”

Il posto era quello, l’atmosfera che gli trasmetteva il paesaggio aveva qualcosa di familiare, ma le case di legno erano scomparse da tempo. Tutto era cambiato: al posto delle vecchie capanne, erano sorte case di mattoni e ordinati tetti di tegole. I lampioni da poco accesi sembravano delle guardie di fronte alla dimora della regina d’Inghilterra, con le loro facce accese e immobili, che tutto osservavano. Le vie erano pulite e ordinate. Ben presto, però, seguendo le tracce, uscirono dalla zona abitata, per avvinarsi alla campagna, alla foresta e al fiume, che scorreva placido, al di là delle abitazioni. Dietro una fila di colline, piuttosto lontano dal centro abitato, c’era l’oceano. La cittadina era piccola e circondata da valli e da colline. «Senti un po’, da quant’è che non ti fai uno shampoo? I tuoi capelli puzzano peggio di un uovo andato a male!» disse Calmoniglio, dopo aver annusato il campione di riferimento. Pitchblack non si scompose. «Disse il coniglio che non si lavava mai i denti» fece lui, con noncuranza. «Quanti ricordi!» esclamò Dentolina, in maniera del tutto inaspettata e a voce molto alta, nel tentativo di interrompere l’inutile schermaglia. «All’epoca, per la scarsità di monete, spesso dovevo arrangiarmi con qualche altro oggettino prezioso…» disse, vagando di qua e di là, osservando il paesaggio che ora cambiava, riempiendosi di grandi alberi, di abeti e querce, con aria allegra, mentre le altre fatine la seguivano cinguettando. Poi allargò gli occhi, e all’improvviso disse, agitandosi e confabulando con le sue assistenti: «Seattle, area nord, settore tredici, Las Vegas, quadrante est, settore dieci…» Pitchblack inarcò un sopracciglio. L’aria da pazza che aveva Dentolina quando dava indicazioni sul recupero dei denti lo lasciava sempre un po’ spiazzato. Calmoniglio, intanto, fiutava in giro, mettendosi in piedi sulle zampe posteriori e correndo in avanti sulle quattro zampe. «Un odore così schifoso lo riconoscerei anche con il raffreddore…» mugugnava, intanto. «Da questa parte!» disse, precipitandosi verso la foresta. Dentolina e Pitchblack lo seguirono attraverso i fitti alberi e il sottobosco ricoperto di arbusti, muschi e foglie marce. In un punto, lo spazio si apriva su una radura. Il cielo grigio lasciava filtrare una luce fioca attraverso i rami spogli, illuminando un recinto di pietre spezzate. Pitchblack si avvicinò al centro del recinto. Quel posto lo angosciava. Calmoniglio si era fermato in un punto dove la terra nera era diventata compatta, ma sulla quale non era cresciuto nemmeno un filo d’erba. «C’è un tanfo tremendo qui. Il posto dev’essere questo.» disse Calmoniglio, senza preoccuparsi di offendere Pitchblack. L’Uomo nero rimosse la terra. Sotto, un teschio con le orbite vuote li fissava. Calmoniglio e Dentolina si ritrassero istintivamente, invece Pitch continuò a togliere quella coperta di humus da quello che restava del suo corpo. Al collo doveva avere avuto una collana di qualche tipo: denti di lupo, ossa e frammenti di pietra dura erano disposti intorno al torace. Pitchblack allungò la mano all’interno della cassa toracica, nel punto in cui una volta c’era stato il cuore. Sul suo palmo ora c’era un dente, diviso in due. Un piccolo pezzetto di metallo che non era ancora stato dissolto dall’ossidazione suggeriva che quel dentino era parte della collana. «Oh!» sussurrò Dentolina. Pitchblack la guardò e lei annuì. L’Uomo nero mise i due pezzi dell’ultimo dente nel contenitore.

Era ancora un ragazzino, e quella era una giornata grigia, di inizio primavera, come tante. L’inverno stava per finire, ma faceva ancora freddo e il clima era uggioso. Una pioggerella sottile gli pizzicava la faccia. Se ne stava nascosto dietro un cespuglio, aspettando che qualcuno si facesse vivo per poterlo spaventare a morte. Sentì dei passi sul sentiero. Si mise la maschera di corteccia, radici e foglie sulla faccia e aspettò. Conosceva la ragazzina. Si chiamava Betty ed era una bella bambina di circa nove anni, dai lunghi e ricci capelli corvini e gli occhi verde chiaro. Non piaceva alle altre ragazzine del villaggio. Betty era strana. Jonah “Pitch” Black la seguì, muovendosi attraverso i cespugli. Lei udì il fruscio e si voltò, cercando di vedere se qualcuno, dietro di sé, la stesse seguendo. Mosse gli occhi in direzione dei cespugli e degli alberi, cercando di individuare un’ombra, un animale, una persona. Si voltò e Pitchblack era di fronte a lei, ricoperto da una maschera spaventosa e con il corpo ricoperto di pelli e pelo. «AAAARGH!» urlò lui. Betty fece un balzo all’indietro quando lo vide e chiuse gli occhi quando urlò. Quando lui ebbe finito il suo numero, Betty aprì un occhio. «AAAAARGH!» ripeté lui, alzando di nuovo le braccia. «Dai, Pitch, smettila, lo so che sei tu!» disse lei, richiudendo gli occhi per la sorpresa, ma con un’espressione rassegnata e riaprendoli subito dopo. La sua espressione placida e tranquilla non lasciava trasparire il minimo sgomento. Jonah abbassò le braccia e poi si tolse la maschera. «Come hai fatto a…» «Ormai ti conosciamo tutti al villaggio. Anche se la maggior parte continua a spaventarsi, se gli fai degli scherzi del genere.» disse lei, con semplicità. «Questo costume è nuovo?» chiese. Jonah la guardò di sbieco, evidentemente deluso. «…Sì.» rispose lui, che per qualche bizzarro motivo non riuscì a trovare un motto sarcastico. «È molto bello.» fece lei. Lui la guardò di rimando, con un’aria cupa, aggrottando le sopracciglia. «Mi prendi in giro?» domandò. «No, niente affatto! Lo credo sul serio.» fece lei, sorridendo, in modo sincero. «Sai, penso che ci voglia una grande abilità… I tuoi scherzi mi piacciono… Soprattutto quando le vittime sono persone che mi stanno antipatiche.» aggiunse lei, con un sorriso, ma anche con un po’ di dolore nella voce. Jonah sorrise di rimando. Era la prima volta che gli capitava di avere una conversazione di quel tipo con qualcuno. Normalmente non riceveva complimenti, né il tono con cui gli si rivolgevano era così gentile. Stava per aggiungere qualcosa, quando sentì dei passi che si avvicinavano a loro. Era un gruppo di ragazzini del villaggio, i più stupidi, prepotenti e cattivi. Facevano combriccola, ma a Pitch non l’avevano più toccato, almeno non fisicamente, da quando li aveva giocati con un tiro mancino leggendario. «Guarda un po’ chi si vede! Betty. Non sapevo che ti piacessero gli sfigati.» dissero, all’indirizzo della ragazzina e adocchiando Pitch. Lui cercò di ribattere, ma Betty lo lasciò a bocca aperta, senza che potesse emettere una sillaba. «Sentite…» iniziò, piccata. Lanciò un’occhiata a Jonah e lui abbassò la testa, deluso e amareggiato, aspettandosi già che la ragazzina negasse di avere niente a che fare con lui. Più di una volta, dei bambini che gli avevano parlato in amicizia, gli avevano voltato le spalle perché era “sconveniente” avere a che fare con lui. «…Che cosa interessa a voi di chi piace a me? Meglio stare con uno sfigato che con degli stupidi.» rispose Betty. Jonah alzò lo sguardo, meravigliato. La ragazzina aveva lo sguardo fermo e determinato, guardava in faccia i ragazzini con aria di sfida, i pugni chiusi, come se avesse intenzione perfino di prenderli a botte, se avessero continuato a offendere lei o il suo amico. «Com’è che ci hai chiamato?» fece il capobanda. «Siete pure sordi? Siete degli stupidi, stupidi, STUPIDI!» gridò lei. «E tu sei solo una femmina!» urlò il ragazzino, dandole una spinta. Betty finì a terra. Jonah non perse tempo: si scagliò sul prepotente, iniziando a tempestarlo di pugni. Era la prima volta che si comportava così, la prima volta che sentiva un leone ruggirgli in petto. Era la prima volta che voltava le spalle alla sua natura codarda per difendere qualcuno. Ben presto, però, gli altri gli andarono addosso. Lo buttarono a terra e venne tempestato da calci e pugni. Mezzo intontito, con un occhio nero, pieno di terra e polvere sul suo costume, Jonah non fece nemmeno uno sforzo per rialzarsi, preferendo fingere di essere già svenuto. Il leader del gruppo gli sputò addosso e poi se ne andò, insieme agli altri. Tutto era avvenuto in fretta, così in fretta che Betty non aveva neanche avuto il tempo di rialzarsi. «JONAH!» chiamò lei, chinandosi su di lui. «Jonah, Jonah, come ti senti?» Jonah alzò la testa. L’occhio si stava gonfiando a vista d’occhio. «Jonah…» mormorò Betty. «…grazie.» disse, evidentemente commossa. Il ragazzo sorrise e si rialzò. «Sono io che ti devo ringraziare.» fece lui. «Per cosa?» chiese lei. «Per non avermi voltato le spalle.» Il viso di Betty si illuminò di un sorriso splendente e gioioso. «Ora devo andare, la nonna mi ha chiesto di darle una mano e mi sta aspettando… Ci vediamo domani?» chiese lei. Jonah annuì. Betty sorrise di nuovo, in modo aperto e sincero e si avviò lungo il sentiero, proseguendo il cammino che Pitch aveva interrotto. Jonah la guardò allontanarsi, i capelli corvini che brillavano e l’orlo della gonna che ondeggiava. Jonah la vide scomparire nella bruma. Si toccò la guancia dolorante. Portò una mano alla bocca e sputò il suo ultimo dente da latte.

Sposò Betty. Betty, figlia di una donna rimasta vedova quando lei aveva otto anni, piano piano aveva perso tutte le sue amiche, su consiglio delle loro madri. Circolavano cattive voci sulla madre di Betty e su di lei. Nessuno avrebbe mai voluto sposarla. Nessuno tranne Jonah. Suo padre morì quando lui aveva tredici anni. Come fosse morto precisamente nessuno lo seppe mai, ma le malelingue dicevano che l’avesse ucciso lui. La verità era un’altra, ma nessuno la scoprì. Con la famiglia liberata dalla cattiva influenza di quel padre cattivo e violento, Jonah poté affrancarsi anche dalla parte peggiore di sé. Lui e Betty ebbero una figlia, una pargoletta dai capelli neri e gli occhi grigio acciaio. La chiamarono Jill. Jonah “Pitch” Black si sentiva felice: una sensazione che per tutta la sua giovinezza gli era totalmente mancata. Nessuno aveva mai creduto in lui e non aveva mai sperimentato un tale senso di appartenenza. L’inadeguatezza era sparita, non si sentiva più un buono a nulla. Alle volte, però, durante la notte, si svegliava con il cuore che gli scoppiava, e aveva paura che se avesse voltato la testa, non avrebbe trovato sua moglie lì, accanto a lui. Aveva paura di perdere Betty e Jill e aveva il terrore che quella felicità che ora provava non sarebbe durata. Certi giorni, si ritrovava a vagare per la foresta, incapace di avere ragione di quel panico che sentiva dentro di sé. Ogni volta che attraversava quei momenti, Betty aveva sempre la cosa giusta da dire. Betty sapeva quello che provava, perché l’aveva sentito e a volte lo sentiva ancora anche lei. Aveva fiducia in suo marito e Jill amava suo padre. Eppure, quasi quelle sensazioni fossero state una premonizione, tutto finì.

Una sera, da dietro le scogliere e le colline che nascondevano il mare, si videro luci fiammeggiare. La notte calò rapida sulla foresta e centinaia di fuochi la incendiarono. Il villaggio era in subbuglio, tutti gli uomini presero le armi e andarono alle colline, per difendere la loro casa dall’invasione. Pitch era tra loro. Nella luce cruda delle torce che venivano lasciate cadere a terra nell’impeto dello scontro, nella confusione di quella lotta durante la quale la foresta iniziò a bruciare, Pitchblack rimase ferito al fianco dal nemico e, accecato dal terrore e cosciente della disfatta, iniziò a correre attraverso la foresta. Il cuore gli martellava in petto e i pezzi della sua collana suonavano, come fossero gli strumenti in una macabra danza di ossa e annunciassero la marcia della fine. Incespicò, cadde, si rialzò. I suoi piedi scivolavano sulle foglie bagnate e sul muschio, sulle lisce radici e sui rami semisepolti. Poi, la sua ansia, se possibile, aumentò. Il respiro gli rimase in gola, soffocandolo. «Papà!» una voce infantile chiamava dall’oscurità e Jonah la riconobbe: era quella di sua figlia Jill. Ricominciò a correre, questa volta dirigendosi verso l’origine del richiamo. «Papà!» Jill continuava a chiamarlo e ogni volta che la sua voce echeggiava attraverso la foresta, Jonah sentiva una pugnalata al cuore. «Jill!» chiamò alla fine, ritrovando finalmente il fiato e sua figlia. «Jill, che ci fai qui?» ansimò, con urgenza. «Ti stavo cercando…» «Vattene. Vattene subito. Qui non è sicuro» «Io non me ne vado senza di te» «VA VIA!» urlò Pitch e la rabbia, la frustrazione e il terrore deformarono il suo volto in una maschera orrenda. Jill trattenne il fiato e i suoi occhi si riempirono di lacrime. Fece un passo indietro. «VATTENE!» gridò Pitch «O NON RIVEDRAI PIÙ TUA MADRE!». Jill urlò di paura, arretrò, si voltò, cadde e poi si rialzò, iniziando a correre il più velocemente possibile lontano da suo padre, tornando al villaggio. Pitch la guardò correre lontano e mentre la vedeva sparire nelle tenebre, si sentì svuotato e confuso. Nei suoi occhi gli era rimasta impressa la faccia terrorizzata di Jill: un tempo avrebbe gioito nel vedere un volto deformato dalla paura, ma in quel momento quell’espressione lo atterriva e avvertì nel petto una morsa di ferro che gli dilaniava il cuore. Si allontanò il più possibile da quel punto, perdendo sempre più sangue dalla ferita aperta. Cercò di tamponare l’emorragia con una mano. Li sentì avvicinarsi. Poi la vide. La capanna abbandonata, con il tetto squarciato, era lì, di fronte a lui. Sapeva di non poter continuare così, quasi non riusciva più a muovere le gambe. Aggrappandosi alla soglia, lasciando orme di sangue sul legno imputridito si mosse in direzione della camera al piano terra. Lo scheletro di un letto era ancora là in un angolo e si distingueva appena, in quell’oscurità notturna. Pitch si rintanò sotto di esso. Aveva il respiro pesante e la ferita pulsava dolorosamente. Udì passi massicci, fasciati da stivali, che si muovevano là fuori. Nel buco delle finestre sfondate, ombre ricoperte da armature scintillanti scivolavano nella notte. Torce dalle fiamme baluginanti ammiccavano nel buio. Il legno scricchiolò e Pitch il fiato gli rimase intrappolato in gola, soffocandolo. Poi, in lontananza, gli parve di sentire un urlo. Tutto il sangue che gli era rimasto in corpo gli si ghiacciò nelle vene, perché un pensiero gli aveva attraversato la mente: “Jill!” Non si accorse che una figura si era avvicinata al suo nascondiglio. Vide troppo tardi il riverbero letale della punta della lancia. I suoi occhi si riempirono di puro terrore. Il nero della notte, che riempiva i suoi occhi, a quel punto, colmò anche la sua anima. L’arma calò su di lui e gli trapassò il cuore.

«Pitch?» I ricordi erano finiti, ma l’Uomo nero aveva ancora lo sguardo assente. Teneva debolmente in mano il contenitore. «Le… le avevo dimenticate…» sussurrò, tra sé e sé. «Chi?» chiese Calmoniglio. Dentolina gli lanciò un’occhiata significativa e scosse la testa. «Vorrei stare da solo» disse Pitchblack, consegnando il contenitore dei suoi ricordi a Dentolina. Senza aggiungere un’altra parola, se ne andò. La fatina dei denti e il coniglietto di pasqua lo guardarono allontanarsi tra gli alberi secchi e laconici. «Beh, credo… credo che sia meglio tornare al quartier generale…» suggerì Dentolina.

Pitchblack era seduto di fronte allo stagno della sua gioventù. Da ragazzo, andava spesso da quelle parti per pescare rane e pesci. Ricordava che alle volte le canne erano così fitte che si finiva per perdersi e spesso si finiva al centro del laghetto, invece che raggiungere la riva. In quel momento si sentiva così, come quando era bambino: solo, confuso e incerto sulla strada da prendere. “Io… appartenevo a qualcosa… a qualcuno…” Ancora non riusciva a credere di aver avuto anche lui una famiglia. La cosa che più aveva desiderato al mondo, l’aveva avuta e poi l’aveva dimenticata. Tutto il buono che aveva avuto dalla sua vita si era perso la notte in cui era morto e gli erano rimasti soltanto i brutti ricordi. La cosa che più lo faceva stare male era che l’ultima cosa che Jill avesse provato nei suoi confronti fosse stata paura. Dentro di sé, credeva che non avrebbe potuto fare altrimenti. Eppure, pensava anche che se avesse preso un’altra decisione, se fosse stato più coraggioso, magari avrebbe potuto salvarla. Magari avrebbe potuto difenderla. Ora sapeva: oltre a non essere capace di fare altro che spaventare, non aveva salvato nessuno con quello che sapeva fare meglio. Era la solitudine il suo destino. L’ultima cosa che aveva provato prima di morire era stata la disperazione ed era l’unica cosa che era in grado di far provare agli altri, per sentirsi meno vuoto e meno solo. Voleva incutere lo stesso terrore che aveva provato lui, in quella notte tremenda e forse qualcuno avrebbe capito che cosa si prova, avrebbe compreso quale panico ci invade quando guardiamo in faccia la morte. Sapere che cosa aveva passato non lo aiutava, in quel momento. Pensava mancasse ancora qualcosa. Ricordò Joey e come tutto quanto era cominciato. Nella sua mente, il viso di Joey e quello di sua figlia Jill si sovrapposero. “Si somigliano molto” pensò. Si alzò un vento freddo, fastidioso, ma pulito e frizzante. L’Uomo nero alzò lo sguardo. «Pitchblack? Che cosa ci fai qui?» Jack Frost si trovava su un ramo alto, appoggiato mollemente al tronco, ma teneva il bastone nella mano destra, come se cercasse di avere un atteggiamento rilassato, ma al primo movimento brusco potesse ingaggiare una battaglia spietata. Era bastata la sua presenza per far congelare il laghetto, che ora sembrava un gioiello di diamanti: cristalli di ghiaccio avevano creato elaborati e magnifici disegni. Sui tronchi, sui rami e sul terreno, si era formato uno strato di brina scintillante che rendeva tutto bianco, opaco e sontuoso. «Jack Frost, come mai non sono sorpreso?» disse Pitchblack, con un sorrisetto, e allargando le braccia, alzandosi dal masso che gli aveva fatto da seggio e facendo per andarsene. «Ehi, dove stai andando?» fece Jack Frost. «Al mio covo, questo posto è diventato troppo affollato per i miei gusti» replicò l’Uomo nero, allontanandosi, tenendo le braccia dietro la schiena. Jack Frost fece una smorfia, perplessa, curiosa e dubbiosa. «Se sei qui, dev’esserci una ragione» punzecchiò il ragazzo del gelo, quasi urlando, per via del fatto che Pitchblack si era già allontanato parecchio. Nessuna risposta venne dall’Uomo Nero. «Pitchblack!» chiamò Jack Frost. L’Uomo nero sembrò confondersi con gli alberi e svanire. Tutto era silenzio. Jack, con un balzo e impugnando il bastone con entrambe le mani, andò a controllare dietro l’albero: Pitchblack non era lì dietro, né in nessun altro angolo di quel bosco. Se n’era andato.

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Capitolo 4
*** Il mostro e la bambina ***


«…I am the shadow on the moon at night Filling your dreams to the brim with fright»

“This is Halloween” canzone dal film “Nightmare Before Christmas”.

«Sai North, Pitchblack non mi convince». Jack Frost, subito dopo l’incontro con l’Uomo nero nella foresta, si era recato da Babbo Natale, per consiglio e aiuto. «Mmm. Beh, Jack, Io non sente niente in mia pancia. Sarà tua impressione» rispose Babbo Natale, in modo svogliato, mentre eseguiva il suo regolamentare giro per controllare l’avanzamento dei lavori. Mancavano poco meno di sessantaquattro giorni a Natale e l’attività attorno ai regali era, se possibile, ancora più frenetica del solito. Anche se North avesse avuto delle sensazioni negative, non avrebbe certamente dato loro ascolto, non quando mancavano così pochi giorni a Natale. All’improvviso, si sentì un certo trambusto e un paio di yeti, con l’aria minacciosa e il passo pesante, gridando nella loro lingua, si avvicinarono a Babbo Natale, trascinando una figura familiare per le braccia. «Ragazzi, ragazzi, sono qui soltanto in visita!» disse una voce sarcastica, prima di essere bruscamente interrotta dallo sguardo assassino degli yeti. La figura venne buttata a terra, ai piedi di Babbo Natale. «…Pitch?» Pitchblack si rialzò con calma, spolverandosi la manica destra con la mano sinistra. «In persona. Non una delle mie migliori entrate in scena, ma mi dovrò accontentare. Come te la passi, North?» disse casualmente l’Uomo nero, mettendo le braccia dietro la schiena, in una posa rilassata e un sorriso strafottente. «Che ci fa tu qui?» disse North, incrociando le braccia tatuate sul petto e aggrottando minacciosamente le sopracciglia. «Lieto che tu l’abbia chiesto. Non è facile da spiegare» rispose Pitch, con l’aria di un professore che si accinga ad una spiegazione lunga e complicata, alzando il dito indice. «Volevo parlare faccia a faccia con te e sapendo quanto poco manchi a Natale, ero cosciente del fatto che uno dei miei soliti trucchetti non ti avrebbe distolto dai tuoi programmi» “Anche perché non me ne è rimasto nemmeno uno” pensò Pitch, ma avrebbe preferito morire – di nuovo – piuttosto che ammetterlo ad alta voce. “Anche perché non gliene è rimasto nemmeno uno” pensarono nello stesso momento Jack Frost e Nicholas S. North. “Oouga tooga iga” pensarono gli yeti, intendendo la stessa cosa. Era stato fin troppo facile acchiapparlo, e ciò si spiegava soltanto in due modi: o si era fatto catturare apposta oppure non aveva più l’abilità e le forze necessarie per entrare nel palazzo di Babbo Natale di nascosto. C’era, in verità, una terza opzione: si era fatto catturare apposta proprio perché non aveva più assi nella manica. Provare ad eludere la sorveglianza di due covi magici nel giro di due giorni non era proprio una passeggiata, anche se Pitchblack aveva l’aria di farla sembrare tale, sempre, anche quando era in un’evidente posizione di svantaggio. I suoi poteri andavano diminuendo di giorno in giorno. «Come fa io a sapere che non è proprio questo uno di tuoi trucchetti?» chiese North, squadrando dubbiosamente Pitchblack, con il portamento che hanno i vecchi lupi di mare quando ascoltano storie assurde dai marinai al porto. «Se fosse uno dei miei trucchetti…» rispose Pitchblack, sottolineando le sue parole con l’indice della mano sinistra, mentre teneva ancora la destra dietro la schiena, «…A quest’ora non avresti più regali da consegnare» concluse, con una provocatoria, ma finta, minaccia. North ci ragionò sopra, alzando le sopracciglia e lanciando uno sguardo significativo a Jack Frost, che spalancò gli occhi e fece spallucce. Rimasero in silenzio per un po’, guardandosi intorno con un’espressione in parte di disagio e in parte di attesa, come se si aspettassero lo scoppio di una bomba da un momento all’altro, eppure giudicando impossibile un tale evento. Intanto Pitchblack rimaneva lì, in piedi, senza muovere un muscolo, ma spostando gli occhi a destra e a sinistra, come se volesse lasciare i due a macerare ancora un po’ nel dubbio. «Quindi…» disse l’Uomo nero, prendendo fiato e congiungendo le mani. «…Torniamo all’argomento principale, se non vi dispiace» concluse, con un sorrisetto provocatorio. «Dipende dall’argomento» commentò Jack Frost, che se ne stava accovacciato sulla cima del suo bastone. «Nessuno ha chiesto il tuo parere» disse Pitchblack, con una smorfia di superiorità. Jack alzò gli occhi al cielo. «Poiché ammetto di non essere particolarmente portato per i bambini…» iniziò l’Uomo nero «…è un eufemismo» si inserì Jack. «…grazie per il tuo fondamentale contributo alla narrazione, Jack, ma penso tu faccia meglio a startene zitto» sibilò Pitch, all’indirizzo del ragazzo del gelo. «Nervosetto, eh?» provocò Jack, con un sorriso di scherno. «Io?» fece Pitchblack, assumendo un’aria innocente e indicandosi. Con gesti pacati, ma precisi, iniziò ad esprimere il senso di assurdo che aveva quella situazione, dicendo: «Perché dovrei essere nervoso? Sono soltanto nel covo di uno dei miei più acerrimi nemici a chiedere un favore! Chiaro che non sono nervoso! Perché dovrei esserlo?» Guardò Jack con occhi accesi e poi sussurrò, in una pacata minacciata, cambiando la postura del suo corpo che divenne più rigido: «In questo momento non sono nervoso, ma non ti conviene vedere quanto lo posso diventare, se continui a interrompermi.» Jack Frost si zittì, per un istante. «Oh, finalmente! Un istante di silenzio! Non speravo tanto! Caro North…» incominciò, di nuovo. «…Mi piacerebbe risollevare l’umore di una ragazzina di nome Joey e data la mia scarsissima esperienza in materia, vorrei chiederti un parere in merito». North sgranò gli occhi. Non si sarebbe mai aspettato che una tale sequenza di parole, sebbene così infelicemente scelte per dichiarare un così nobile e positivo intento, potessero uscire dalle fauci di Pitch. Le sue sopracciglia si alzarono talmente tanto, che Jack credette avrebbero potuto lasciare la sua fronte. Jack Frost e North si guardarono a lungo, intensamente, a vicenda, poi guardarono di nuovo Pitch, poi di nuovo se stessi e… «Che cosa c’è?» chiese bruscamente Pitchblack. «Uhm… Ecco… beh… niente. Niente, davvero. Tu ha… sorpreso me» fece North, grattandosi la testa, perplesso. «C’è o non c’è un modo per fare felice Joey?» insistette Pitchblack. North era sempre più meravigliato, ma lo stupore era il suo centro, per cui si riprese immediatamente e iniziò a ridere di quella sua bella, grassa, allegra risata che tanto lo rendeva amato. «Certo che c’è! C’è sempre modo di fare felice bambino!» disse, entusiasta. «Tu potrà noi dare una mano!» aggiunse, sottolineando la frase con un occhiolino. «Io? Dare una mano?» Pitchblack iniziò a ridere, di una risata fredda, distante, sarcastica, l’opposto di quella di North. «Tu stai scherzando» affermò, le palpebre abbassate, lo sguardo di chi non abbia tempo da perdere e sia già stanco di tutte quelle schermaglie. Fece per andarsene. «Un momento!» La manona di North calò sulla spalla di Pitchblack. «Dove tu crede di andare?» domandò l’omone barbuto. «Via?» rispose Pitch, alzando un’arcata sopraccigliare. Babbo Natale riprese a ridere. «No, no, tu non va da nessuna parte. Tu resterai qui, a dare mano a elfi!» L’Uomo nero diede un’occhiata agli esserini che North gli indicava con la sua ampia mano: uno di loro si era infilato delle grosse lampadine colorate in ciascuno degli orifizi liberi, ad eccezione della bocca, e gli rivolse uno sguardo beato e idiota; un altro aveva preso una pila di biscotti e correndo, cercava di portarli verso lo studio di Babbo Natale, perdendoli tutti, tranne quello che reggeva in mano (e che prontamente si mangiò, come i suoi compagni si erano mangiati gli altri persi per strada). L’angolo sinistro della bocca di Pitchblack si contrasse in una smorfia di disgusto. “Alla prima occasione me la filo” pensò l’Uomo nero, sapendo tuttavia che questo sarebbe stato molto difficile. I suoi poteri non l’avrebbero sostenuto abbastanza. «E perché tu non te la fili a prima occasione…» disse North «…Jack Frost guarderà te a vista!» Jack Frost e Pitchblack sgranarono gli occhi allo stesso momento, ma il ragazzo del ghiaccio fu più lesto nel protestare. «Come?! North! E chi si occuperà delle bufere di neve? Ho delle nevicate importanti in programma e…» «Jack, Jack, Jack!» lo interruppe North, mettendo le sue grandi mani sulle spalle del ragazzo. «Non c’è problema, Phil e Gustav daranno te mano in sorveglianza! Farete turni, così tu potrai occuparti di tue tempeste! Costa me molto darti due miei yeti per dare te mano, ma io so che userai bene risorse che io do te» fece North, aggiungendo un po’ di senso di colpa a quella che, a tutti gli effetti, era un’imposizione. «Rifletti, Jack Frost…» aggiunse poi, abbassando molto la voce e avvicinando il suo faccione al ragazzo «…se noi teniamo qui lui sotto stretta sorveglianza, potremmo impedirgli di fare danni. Potrebbe tramare qualcosa: ma non potrà fare niente, se noi teniamo prigioniero lui» Jack Frost ci pensò su. «Non hai paura che possa… non so… distruggerti i giocattoli, se lo tieni qui?» «Tu scherzi?» esclamò North, per poi riprendere a sussurrare «Lui è solo e debole, si vede. Se noi non cogliamo opportunità di tenerlo lontano da suoi piani per un po’, potrebbe riprendere suoi piani diabolici… diventare più forte…» si guardò intorno, guardingo, assicurandosi che un seccato e cupo Pitchblack fosse ancora nel punto in cui l’aveva lasciato, con Phil e Gustav ai suoi lati come due guardie del corpo, o due secondini. «…potrebbe essere stato sincero quando lui detto che vuole rendere felice una bambina, ma io ancora non essere del tutto sicuro». Diede una pacca sulla spalla di Jack, che gli rimandò uno sguardo seccato, ma non discusse oltre, sapendo che era sempre meglio fare come North diceva, non perché le conseguenze avrebbero potuto essere terribili, ma perché – forse per via della sua esperienza – aveva sempre ragione. Jack Frost lanciò uno sguardo d’odio a Pitchblack, perfettamente ricambiato da quest’ultimo. «Forza ragazzi, rimettiamo noi a lavoro!» esclamò North, con un’immensa gioia nella voce.

Jack Frost guardava fisso Pitchblack, ma l’Uomo nero lo ignorava a bella posta, non gli parlava, né considerava la sua presenza. Si era seduto su uno sgabello e con aria annoiata, tenendo la mano chiusa a pugno sulla guancia a sostenere la testa, osservava con scarsa partecipazione le esilaranti avventure dei piccoli elfi che tintinnando correvano di qua e di là, senza portare a compimento nulla di concreto. Le loro facce rugose, da bambini vecchi, sempre sorridenti, ma non particolarmente sveglie, suggerivano gioia e letizia. Pitchblack, visto che aiutare gli elfi consisteva, di per sé, nel non fare nulla, preso dalla noia, aveva iniziato ad analizzare il loro comportamento: qualcuno di loro era, incredibilmente, più intelligente di altri e di qualcuno si sarebbe potuto dire che fosse maligno, se avesse compiuto i suoi scherzi in malafede; invece, come i bambini piccoli, gli elfi pensavano che le loro vittime potessero trovare le burle di cui erano oggetto divertenti, così come lo erano nella mente del loro ideatore. Non sempre era così. Agitando i pugnetti in aria, sotto lo sguardo indifferente di Pitchblack, un elfo iniziò a rincorrerne un altro, che l’aveva totalmente ricoperto di glassa per biscotti. Come ci fosse riuscito non era così importante. Si sarebbe potuto giudicare addirittura un fallimento, visto che il vero obiettivo era un altro elfo, che, rimasto illeso, continuava a fissare il vuoto con aria beata. Benché buffi, anche Jack Frost e i due yeti della sorveglianza (Gustav e Phil) si stavano annoiando a morte e guardavano con evidente desiderio i loro compagni che si trovavano indaffarati a occuparsi dei giocattoli. «Ragazzi…» disse Frost, rivolgendosi a loro «…qua ci penso io. Potete tornare al lavoro». Le grosse e pelose creature del nord si scambiarono un’occhiata, alzando le sopracciglia cespugliose. «Gouga?» dissero insieme, con voce gutturale e incerta. «A Babbo Natale non darà fastidio. Gli dirò che vi ho lasciati andare. Forza! Tornate dai vostri giocattoli» disse, con un sorriso divertito alla loro espressione titubante. Gli yeti si guardarono di nuovo, fecero spallucce, allargando le braccia e si allontanarono. Pitchblack li seguì con lo sguardo e un’espressione distaccata sul volto. Si risistemò sullo sgabello e lanciò un’occhiata di superiorità e di lontananza a Jack Frost. Ricominciò ad osservare gli elfi, senza proferire una parola. Il ragazzo del ghiaccio assottigliò le labbra e la sua fronte si corrugò, non senza un certo disappunto. Non aveva mai sopportato quel modo di fare di Pitchblack: quello di una persona che prima di qualsiasi cosa vuole essere sicura che tu sappia chi lei è e che tu, in ragione di ciò, inizi ad avere verso di lei un atteggiamento di ammirazione, reverenza e, perché no, perfino di terrore. Con un guardiano che ha già battuto il signore degli incubi una volta un atteggiamento del genere finisce per essere snervante. Nel tentativo di superare l’irritazione, Jack Frost si guardò intorno. Notò così che era arrivato qualcun altro, lì, nella sede di Babbo Natale. Un svolazzare di ali e uno scintillio di piume smeraldo attirarono la sua attenzione. “Dentolina?” pensò Jack Frost. Pensò che qualcosa di grave – o di importante – fosse successa, per giustificare la sua presenza lì. Diede una rapida occhiata a Pitchblack. Sembrava assorto nei suoi pensieri e Jack pensò che, comunque, non avrebbe potuto andare da nessuna parte, non con tutti quegli yeti nei paraggi. Nonostante il Natale fosse così vicino, tutti loro a volte distoglievano lo sguardo dal loro lavoro per assicurarsi che l’Uomo nero fosse sempre al suo posto, visibile e, soprattutto, innocuo. Jack Frost si diresse verso l’ufficio di Babbo Natale, certo di trovarvi lui e Dentolina, intenti in una discussione. Era proprio così. «Dentolina, che cosa ci fai qui?» Nicholas S. North e la fatina dei denti si voltarono, gli occhi spalancati. «Jack Frost! Sei anche tu qui! Molto bene, stavo giusto per raccontare a Nicholas la scoperta che ho fatto!» disse, con un’espressione nervosa. «Brutte notizie?» chiese subito Jack. Nicholas stava per dire qualcosa riguardo al fatto che avrebbe dovuto essere di là a sorvegliare Pitchblack, ma la fatina dei denti lo precedette e lui rimase con la bocca semiaperta e il dito alzato. «Non so come catalogare la cosa che sto per dirvi!» rispose Dentolina. «E la cosa un po’ mi innervosisce». Prese un profondo respiro e proseguì. «Quando Pitchblack si è indrotto nel mio palazzo…» «Pitchblack cosa?» chiesero all’unisono Jack Frost e Nicholas S. North, profondamente costernati. «…Ragazzi, non abbiate paura, tutto si è risolto per il meglio!» rassicurò lei, con un sorriso allegro. «Comunque, stavo dicendo, quando Pitchblack si è introdotto nel mio palazzo, non mi ha mai detto che cosa di preciso fosse venuto a fare lì. Pensavo fosse venuto per vendicarsi, ma ripensando al momento in cui l’ho colpito la prima volta, mi sono resa conto che era come… sembrava essere in difficoltà. Come se qualcosa di invisibile lo stesse picchiando forte, mirando alla testa. Se la stringeva con forza e la sua faccia era contratta per il dolore» Dentolina, come al solito, parlava velocemente, sparando una parola dietro l’altra come una macchina da pop corn fa schizzare i pop corn. La pausa che si prese servì giusto per prendere un rapido respiro e continuare nel racconto. «La cosa mi è sembrata piuttosto inusuale. Così sono tornata a controllare il punto in cui l’avevo sorpreso e ho scoperto che a terra c’era un cilindro fuori posto, di una bambina di nome Joey». Jack Frost e Babbo Natale si scambiarono un’occhiata, ma non dissero nulla, anche perché non ne ebbero il tempo. Dentolina aveva ricominciato a parlare dopo una pausa durata un battito di ciglia. «Ora, sono sicura al 98% che Pitchblack abbia in qualche modo visto parte dei ricordi di Joey e che questi, in qualche modo, abbiano riportato alla sua mente alcuni ricordi particolarmente dolorosi e con una vividezza inconsueta per entità come noi, come se li avesse rivissuti, con un carico emozionale eccessivo…» Dentolina fece una pausa più lunga, come se quegli istanti le servissero per riorganizzare i pensieri. Prima che potesse ricominciare a parlare, Jack, che era una mente fresca, sveglia e pronta, colse l’opportunità per porre una domanda: «Perché solo il 98%?» «Perché – e stavo per dirlo – gli unici che possono leggere i ricordi nei cilindri siamo io e colui o colei che li possiede. Quindi, sarebbe impossibile per uno come Pitchblack leggere un contenitore. A meno che…» «A meno che?» chiesero in coro Jack Frost e Nicolas S. North. «…A meno che chi prenda in mano il cilindro sia in qualche modo collegato ai ricordi, anche se non li ha vissuti personalmente» concluse. Ci fu un silenzio un po’ imbarazzato, a questo punto, ma Jack Frost, che non doveva dimostrare di essere un guardiano esperto, fece la successiva e legittima domanda: «Cioè?» Dentolina rispose immediatamente: «Deve essere un antenato o un discendente di colui o colei a cui i ricordi appartengono». Jack Frost ci ragionò sopra, mentre Nicolas S. North assumeva un’espressione di profonda meraviglia, mescolata con una certa e inspiegabile inquietudine. Jack Frost le diede forma, dicendo: «Quindi, significa che questa Joey è… una diretta discendente… di Pitchblack?» La sua costernazione era aumentata via via che le parole uscivano. Sgranò gli occhi, guardando dritto in faccia Dentolina. «Sì» ammise lei, flebilmente. «Beh…» cominciò Jack Frost «…questo è inaspettato. Penso che gli potrebbe fare piacere saperlo. Ammesso che a Pitchblack piaccia qualcosa…» concluse, con una battuta ironica. Jack Frost, però, sapeva che l’unica cosa che Pitchblack aveva mai voluto era una famiglia. O almeno qualcuno che lo facesse sentire meno solo e considerato, qualcuno che credesse in lui. Ora aveva la possibilità di averlo. «…Dobbiamo dirglielo» disse Jack, rivolto a Dentolina. La fatina dei denti sembrò esitare. Guardò Babbo Natale con un’aria spaventata. Poi parlò. «Non possiamo Jack». Il ragazzo del gelo la guardò stranito. «Come… Perché?» chiese, stupefatto. «Perché… perché Pitchblack è diventato quello che è ora perché ha sempre creduto di essere fatto per spaventare la gente e che questa sua abilità non abbia mai salvato la vita di nessuno, anzi! Pensa di essere bravo a rovinare l’esistenza delle persone! Se noi gli diciamo che quella notte lui ha salvato sua figlia…» «Quale notte?» chiese Jack Frost, incuriosito. «La notte in cui è morto» spiegò Dentolina, con un tono triste nella voce. «Jack, se Pitchblack scoprisse di aver salvato sua figlia… Ti rendi conto che in questo modo si renderebbe conto di aver fatto una cosa da guardiano?» domandò, improvvisamente spaventata. «Non esiste! Pitchblack non è un guardiano e non sarà sapere di aver salvato la vita di qualcuno…» «Di sua figlia, Jack. Ha salvato la vita di sua figlia, spaventandola a morte». Jack strinse le labbra e aggrottò le sopracciglia. «Non esiste che Pitchblack possa diventare un Guardiano» proclamò. «Certo che no» assentì Dentolina «ma questo fatto non si concilia con la sua natura. Il conflitto tra quello che è e quello che vorrebbe essere potrebbe consumarlo. Se dovesse scoprire che Joey è una sua discendente lui potrebbe…» «Vai avanti» «…potrebbe svanire per sempre». Un grande silenzio scese nella stanza. Rimasero così, per quasi un minuto, immersi ciascuno nei propri pensieri. «Non è… non è quello che noi guardiani abbiamo sempre sperato?» chiese Jack Frost, senza riuscire a mascherare l’incertezza nella sua voce. «In un’occasione come questa? Una possibilità di allontanare per sempre la paura dai bambini?» Dentolina scosse lentamente la testa. «Non funziona così Jack. Non è una cosa che un guardiano farebbe: non toglierebbe la vita ad un’altra entità. Io non lo farei. Un guardiano non uccide, un guardiano deve proteggere, un guardiano deve lottare, ma non deve coscientemente porre termine ad un’esistenza». Dentolina guardò con aria significativa North, che annuiva gravemente. «Quando Pitchblack è stato trascinato via dagli incubi però nessuno di voi si è preoccupato!» esclamò Jack. «Nessuno di noi pensava che Pitchblack morto veramente, quando noi sconfitto lui a Pasqua» dichiarò North con il suo possente vocione. «Noi abbiamo pensato che noi sconfitto lui e che dovevamo continuare a essere vigili, per impedire suo ritorno». Jack Frost abbassò la testa, in una tacita ammissione. Nemmeno lui aveva pensato che Pitchblack se ne fosse andato per sempre e non era rimasto poi così sorpreso nel rivederlo al lago. Però non aveva nessuna intenzione di lasciarsi scappare questa opportunità: se c’era una via per poterlo togliere di mezzo per sempre, lui l’avrebbe seguita. «Tu non doveva sorvegliare Pitchblack, Jack?» chiese North, la voce carica di severità e di minaccia come le nuvole pesanti che promettono tempesta. Jack ebbe un sussulto e si precipitò nella fabbrica dei giocattoli. Pitchblack era sparito. Jack Frost controllò dappertutto. Volava rapido e veloce in tutte le stanze e passava con un turbinio di vento attraverso i corridoi. Alla fine, decise di controllare in un ultimo posto: la stalla delle renne. Nel locale buio in cui venivano agganciate i fieri e maestosi animali, si trovava anche la slitta, luccicante e immota. Qualche elfo si aggirava da quelle parti, perché si era perso e non era ancora riuscito a ritrovare la strada per la fabbrica. Gli yeti che si occupavano delle renne erano appena andati in pausa pranzo. Non c’era nessuno nella rimessa della slitta. Nella grotta ghiacciata e scintillante era buio. Jack Frost si avvicinò alla slitta e per poco non urlò per lo spavento. «Jack Frost» Pitchblack era emerso dall’oscurità alle sue spalle e, più che chiamarlo, sembrava avesse semplicemente constatato la sua presenza. Si avvicinò lentamente alla slitta e poi si sedette. Si mise di fronte agli strumenti di bordo. Emanavano una leggera luminescenza e con quella luce verdastra sul volto, il volto di Pitchblack assumeva un’aria malsana, cadaverica. I suoi brillanti occhi bianchi dardeggiavano nella penombra. Le sue dita sottili picchiettavano leggermente sul pannello della slitta, mentre il suo sguardo era perso nel soffuso bagliore che emanava la bussola. Jack Frost lo osservò, con l’aria di chi abbia un lavoro molto importante da svolgere. Pitchblack però parlò per primo. «Io odio il Natale, sai» Jack Frost non poté trattenersi dal rispondere «Penso che lo sappiano anche i muri», ma l’Uomo Nero non si scompose. Il suo preambolo era un pigro tentativo di mettere i pensieri in ordine. «Nel momento più buio dell’anno, la gente sorride ed è felice. Le strade si riempiono di luci e di colori e c’è la stessa aria che si respira a primavera, o in estate. Eppure tutto è freddo, silenzioso e morto. Mi è sempre sembrato che fosse ipocrita, che la gente cercasse di coprire la realtà, che fuggisse dalla durezza che è la vita» Fece una pausa mesta, prima di continuare. «Io ho sempre amato l’inverno. Era la condizione perfetta per riempire di terrore, paura e del nero dell’abisso il mondo» Jack strinse le labbra. Con un brivido freddo lungo la schiena, ricordò le parole che Pitchblack gli aveva detto quel giorno, tra i ghiacci dell’artico. La rabbia ricominciò a rimontargli nel cuore, per tutto quello che era successo prima e in seguito. Improvvisamente, la stanza si riempì di un’aria glaciale. «Il Natale ha rovinato tutto. Ha portato un po’ di luce nell’inverno e quella luce è diventata così calda e brillante che mi sono ritrovato sconfitto prima ancora di iniziare la battaglia. Combattere contro qualcosa di forte come la speranza è un’ardua impresa. La speranza distrugge le incertezze, rende le persone tenaci e perfino coraggiose». Pitchblack aggrottò le sopracciglia. «Non so perché io ti stia dicendo queste cose, non è nella mia natura fare delle confidenze. Tu sei insieme la persona meno e più adatta che le possa sentire. Eppure, ecco qua, perfino io ho sperato, quando ero vivo. Ma la speranza che io ho avuto mi ha causato soltanto angoscia, quando alla fine si è infranta ed è morta con me. Le persone felici sono solo quelle i cui sogni e speranze non sono morti. Per quelli come me, che sanno quanto la vita può deludere, quanto può essere crudele e fredda, è impossibile essere felici». La morsa del gelo si attenuò. Jack Frost aveva un’espressione perplessa e un po’ incupita, ma non arrabbiata. «Non è un buon motivo per rendere infelici gli altri» disse, con decisione. Pitchblack ghignò. «Sapevo che l’avresti detto» disse, ma non aggiunse altro. Si alzò dalla slitta e si avviò verso la fabbrica dei giocattoli. «Vogliamo andare?» chiese, non senza una certa ironia. Jack Frost, di malavoglia, lo seguì.

La neve scintillava in grandi mucchi nei giardini, seppelliva sotto un mantello candido le siepi e i cespugli, decorava i rami scuri degli alberi. Strutture di ghiaccio cristalline ammiccavano nella notte e si coloravano dei colori delle luci natalizie appese alle grondaie e intorno alle cornici delle finestre. Sfavillanti alberi di Natale, coperti di neve, festoni e palline di vetro, si ergevano davanti agli usci delle case, alcuni più grandi e più decorati di altri, in una sorta di gara di vicinato per l’albero più maestoso e natalizio. Nell’aria fredda e pungente a volte si coglievano, a tratti, come in una specie di linguaggio morse dei profumi, vari odori, come quello della carne allo spiedo, delle patate arrosto, delle torte fumanti alla marmellata o al cioccolato, dei biscotti fragranti e un vago sentore di cipolle fritte. Tutto si mescolava con il profumo degli aghi di pino e della foresta resinosa. Le stalattiti sembravano piccoli gioielli, orecchini e collane di diamante, mentre i festoni e le ghirlande natalizie, con quel colore verde scuro avvolgente e con le loro foglie fitte, sembravano gli orli e i ricami di un sontuoso vestito bianco di cui si erano addobbate le case. Si respirava un’aria di festa e le risate, i discorsi e la musica, al sicuro nel chiuso delle case, ogni tanto uscivano a prendere un po’ d’aria nella strada, quando una porta si apriva per far entrare un invitato. Quasi timorosi del gelo, i suoni rientravano subito e si stringevano di nuovo attorno agli ospiti, riscaldando la già calorosa atmosfera. La serata della vigilia di Natale trascorse tranquilla e poi, poco a poco, gli ospiti, rifocillati da una lauta e ottima cena, tornarono ognuno alle proprie case calde e pacifiche. La musica si spense, così come le luci, “Buonanotte”, dissero, mentre i colori delle decorazioni natalizie continuavano ad ammiccare nella notte: “Non siamo ancora stanche” dicevano, “Vogliamo vedere Babbo Natale”. E Babbo Natale venne, sulla sua slitta tintinnante. In una casa, ai margini della foresta, le lucine balenavano nel buio come le altre, ma ad un tratto ebbero un tremolio, come se fossero deluse per qualche motivo e poi ripresero a lampeggiare, quasi più velocemente, forse per una sorta di sorpresa o di inquietudine. L’ombra scura passò e scivolò nelle ombre, e queste ultime la accolsero dentro l’abitazione buia. La nera figura era silenziosa e non faceva il minimo rumore mentre si spostava sul pavimento. Reggeva tra le mani un regalo, ma le sue mani non erano le grosse e forzute mani di Babbo Natale. Erano grigiastre e sottili. Entrò nella stanza di Joey. Era una stanza normale, all’apparenza, ma ad un’occhiata più attenta era spoglia e un po’ troppo ordinata. Era come se Joey non avesse giocato con nessuno dei suoi giocattoli da mesi. Joey dormiva e stringeva a sé il fedele orsacchiotto. Una matita, a terra, mostrava come Joey passasse la maggior parte del suo tempo a disegnare, sotto al letto, alla luce di una torcia. Lì sotto leggeva e disegnava, ma non giocava. Non aveva più la gioia di inventare storie e i soggetti dei suoi disegni erano come avrebbe voluto che la sua vita fosse (insieme a suo padre, colorata e felice), come la sua vita era stata (infelice) e come avrebbe voluto che la sua vita fosse andata. Per essere una bambina così piccola, era piena di rimpianti e dentro di sé non sentiva nessuna gioia. Sotto al letto si sentiva protetta, si sentiva al sicuro da un mondo che non la voleva. La creatura che era entrata nella stanza rimase interdetta da quel fatto e sbirciò sotto al letto. Era il posto in cui lui normalmente si sarebbe infilato, il luogo in cui di solito i mostri si nascondevano. Joey sembrava dire, così, che i mostri fossero suoi amici e che con loro potesse fare lunghi e prolifici discorsi. Forse, chissà, si sentiva un po’ mostruosa anche lei. Era una cosa triste per una bambina. Una luce di sabbia dorata era ancora sospesa sulla sua testa, segno che Sandman era passato da poco. Eppure, spontaneamente, senza che l’Uomo Nero facesse nulla, impossibilitato dal fatto che teneva un voluminoso pacco regalo in mano, avvolto in carta argentata e con un luminoso fiocco blu oltremare, il sogno di Joey si stava trasformando in un incubo. La sabbia si tingeva di nero e si contorceva e pulsava, si agitava nell’aria, finché non comparve un uomo, e la figurina di lei che lo inseguiva, incespicando, correndo senza riuscire mai a raggiungerlo; anzi la distanza tra loro aumentava. Pitchblack osservava Joey, che aggrottava le sopracciglia nel sonno e sudava. L’Uomo Nero convinse l’incubo a venire da lui. Lo trasformò in un lupo famelico, che ringhiando scappò dalla mente di Joey e si rintanò nella veste di Mr. Boogeyman. La bambina mugugnò rigirandosi nelle coperte, immersa ora, apparentemente, in un sonno senza sogni. Pitchblack mise il regalo sul baule che si trovava ai piedi del letto e fece per andarsene. «Uomo Nero?». La vocina assonnata lo colse di sorpresa. Joey si era svegliata e i suoi occhioni grigi erano lucidi. Ella lo fissava ostinatamente, come se gli stesse chiedendo in silenzio che cosa ci facesse lì. «Ti ho portato un regalo» spiegò bruscamente Pitchblack, prendendo il regalo e consegnandolo. Joey lo strinse tra le mani. Aveva una forma cubica e, nonostante fosse piuttosto grande, era anche piuttosto leggero. La piccola rimase incerta sul da farsi. Tutti e due erano piuttosto imbarazzati, l’uno perché voleva che lei aprisse il regalo così da poter andare via (come se la semplice consegna non fosse sufficiente per poter dire che aveva fatto un buon lavoro), mentre l’altra, nel suo cuore, giudicava sbagliato aprirlo in quel momento, senza aspettare la mattina. Eppure sentiva anche di fare un torto a chi le aveva portato il regalo a non scartarlo in quel momento. Se avesse continuato a dormire, non avrebbe avuto quel dilemma. «Perché non lo apri?» chiese piccato Pitchblack, senza riuscire ad occultare una certa impazienza e irritazione. «Se la mamma scopre che ho aperto un regalo senza aspettare la mattina…» «Oh, ma che importa?» fece l’Uomo Nero, costernato «Il regalo è tuo, puoi aprirlo quando vuoi!» Joey strinse le labbra, perplessa. Pitchblack sospirò. «Senti, aprilo, farò in modo che non sembri sia stato mai aperto, d’accordo?» disse poi, con una certa urgenza. «Ok» rispose Joey, per niente turbata dal suo tono. Una volta sciolto il nastro e liberato il pacco dalla carta argentata, Joey poté estrarre il suo dono: era un globo leggero, blu profondo, un modello della terra che non era descritto con i mari e le terre emerse, ma in base a quali costellazioni si potevano vedere a seconda della latitudine e della longitudine. Era un bell’oggetto e quello che Joey aveva desiderato che le regalasse suo padre. «Era... Era proprio quello che volevo» disse, in modo pensieroso. «Sai, il mio papà l’anno scorso mi ha regalato quello…» e indicò una sfera simile, che rappresentava la luna e la sua superficie. «Ti piace… l’astrologia?» chiese Pitchblack. «Astronomia!» corresse Joey, severamente. «È la scienza che studia i corpi celesti» spiegò, citando direttamente dalla sua definizione ufficiale che aveva imparato a memoria. «L’astrologia invece interpreta i movimenti delle stelle per fare previsioni. Le mie amichette leggono sempre l’oroscopo e ci credono. Per un po’ anch’io ho letto il mio, ma non mi succedeva mai niente di quello che diceva». Joey guardò il soffitto con un’aria un po’ trasognata. «Cose tipo: state attente alla vostra migliore amica, potrebbe mettervi nei guai, anche se le sue intenzioni erano buone. Peccato che io non abbia amiche». Pitchblack non disse niente. La sua espressione era indecifrabile. Anche quella di Joey lo era, ma una cosa era certa: non era felice. «Non ti piace ricevere regali?» chiese l’Uomo nero, all’improvviso, come se si fosse reso conto che quella era una domanda molto importante. «…Sì… però…» cominciò Joey «…però avrei voluto che questo regalo me lo avesse dato il mio papà». La bambina sembrava immersa in pensieri burrascosi e i suoi occhi si stavano inumidendo per la commozione. Suo padre le mancava così tanto che le sembrava ci fosse un buco, da qualche parte dentro di sé, una parte mancante, qualcosa che aveva a che fare con la sua stessa felicità, ma che allo stesso tempo suscitava in lei anche ricordi dolorosi. Si sentiva tirata da una parte e dall’altra, nel tentativo di capire che cosa provava veramente nei confronti di suo padre. «Grazie per il regalo, Uomo Nero, mi piace moltissimo» disse alla fine, tentando un flebile sorriso, gli occhi lacrimosi. Pitchblack non rispose. Risistemò il pacco, come le aveva promesso, così che sembrasse non fosse mai stato aperto e lo rimise al suo posto ai piedi del letto. Joey tirò su con il naso. «Dovresti chiudere gli occhi ora» disse l’Uomo Nero «altrimenti non me ne posso andare». Joey ubbidì. Con gli occhi chiusi, la bambina sussurrò, con un sorriso: «Puoi venire a trovarmi quando vuoi, Uomo Nero». Pitchblack se n’era già andato.

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Capitolo 5
*** Il signore degli Incubi ***


«Que viene el Coco»
Titolo di un’incisione di Francisco Goya

La stanza, parzialmente immersa nell’oscurità, aveva l’aspetto di una tomba. Le pareti grigiastre sembravano pietra viva scavata nella roccia e soltanto una fascia di luce arancione attraverso il vetro della finestra indicava che i lampioni erano accesi e pulsanti, là fuori, sulla strada. Il letto ampio era occupato. Le lenzuola erano gonfie là dove l’uomo giaceva, respirando sommessamente. Una vaga luce verdastra baluginava nel buio, mostrando l’ora. Era quasi mezzanotte. L’uomo russò. Un’ombra si mosse. Un paio di occhi brillarono diafani, come due distanti piccole lune disperse nell’infinità dell’universo. Della sabbia nera si librò nell’aria, frusciando lievemente, come se, invece di scorrere attraverso l’aria, scivolasse sul vetro. La linea di granelli diamantini, scintillanti di arancione e bianco contro il nero dell’oscurità, mentre intercettavano i raggi di luce filtranti dall’esterno, si diressero verso la sagoma dormiente. Forme indistinte presero a galleggiare sopra la testa dell’uomo. Esse si fecero sempre più distinte. Una bambina inseguiva un uomo, che le dava le spalle, indifferente ai suoi richiami. Dopo quelli che parvero istanti, la piccola figurina si dissolse, come se fosse fatta di fumo. L’uomo, distaccato finché la bambina lo inseguiva, si voltò. Sul suo volto sabbioso si riusciva a scorgere un’espressione inquieta e spaventata. Si era reso conto di ciò che aveva perso solo nell’attimo in cui era svanito, forse per sempre. La figurina si voltò a destra e sinistra, cercando la bambina, senza scorgerla. La sabbia si coagulò di nuovo. Ora, di fronte all’uomo, c’era una ragazza alta, con i capelli lunghi, che gli dava le spalle. L’uomo cercò di avvicinarsi, ma lei iniziò a camminare, indifferente ai suoi richiami, come lui era stato indifferente ai suoi prima. L’uomo iniziò a correre, tentando di raggiungerla, ma lei era sempre un passo avanti, con portamento altero. L’uomo incespicò e cadde, si rialzò e continuò a correre, ma, invece di ridurre le distanze, si allontanava sempre di più dalla ragazza. Un sogno dorato vagante, dalla forma sinuosa di una razza, entrò fluttuando nella stanza. «No…» sussurrò Pitchblack, il volto contratto dall’angoscia. «Non adesso…» mormorò ancora, mentre il sogno lo individuava e scivolava nella notte, per avvisare il suo padrone. L’uomo si agitava nel sonno, mentre l’incubo continuava il suo corso. La sabbia si agitava, mentre una terza figura pareva emergere di fronte alla ragazza. Pitchblack, lo sguardo sgranato, rimase a fissare l’incubo che si dipanava. Voleva essere sicuro che avesse successo. Un nastro dorato attraversò la finestra, come se non ci fosse stata, e l’Uomo Nero venne afferrato e scaraventato in strada. Urtò l’asfalto con la schiena, con un tonfo secco e doloroso. Pitchblack si rialzò a fatica e fece un passo zoppicante in avanti. Si strofinò il braccio sinistro, e rimase lì, in piedi, senza muoversi, come se si aspettasse di cadere se avesse arrischiato un altro passo. Era curvo in avanti, la testa dolorante sollevata. Davanti a lui, un ometto dorato dal cipiglio deciso e dal viso paffuto lo guardava severo, la frusta scintillante stretta nella sua mano destra, pronta a colpire di nuovo, se fosse stato necessario. «Sandman… Non è come sembra!» disse l’Uomo Nero, il terrore negli occhi. Pitchblack aveva paura quasi di ogni cosa, una cosa che non aveva mai detto a nessuno, ma che era vera. C’era però una graduatoria. Al primo posto di questa, almeno da quando era stato battuto a Pasqua, Pitchblack aveva messo Sandman, che se la giocava alla pari con i suoi stessi incubi. La voce di Mr. Boogeyman tremò leggermente quando disse: «Te lo giuro… Sandman… Davvero, non è come sembra!» Eppure Sandman non era convinto. Non era troppo incline a credergli, considerando che era un mago nel fingere emozioni che non aveva, per poi poter colpire alle spalle. Il piccolo sole di sabbia dorata che era il Signore dei Sogni alzò di nuovo la mano, cercando di colpire Pitchblack. Quest’ultimo riuscì a evitare qualche scudisciata, ma l’ultima lo centrò in pieno petto. Per un istante, una striscia di sabbia d’oro scintillante si aprì come una ferita in mezzo al suo petto. Pitchblack si lasciò sfuggire un gemito di dolore e si rannicchiò su se stesso. Il volto contratto dalla sofferenza, alzò di nuovo il viso verso Sandman, mentre la sabbia da oro diventava nera come pece e poi, faticosamente, si richiudeva. Un altro paio di colpi, forse, e non sarebbe più stato capace di mantenere la sua forma e sarebbe stato degradato a semplice incubo. Non sapeva se nella trasformazione avrebbe perso anche coscienza di sé e si sarebbe trovato a vagare senza scopo se non quello di inserirsi nelle menti dei bambini e spaventarli nel sonno. Sarebbe stata solo questione di tempo, poi e sarebbe stato trasformato in sogno da Sandman. Per un fugace momento, la prospettiva gli sembrò allettante. Poi, un urlo squarciò la notte. Sandman lanciò un’occhiata orripilata a Pitchblack e si gettò verso la fonte del rumore, volandoci incontro a cavallo di un pegaso alato. Entrò nella stanza buia dalla quale aveva buttato fuori Pitchblack, solo per trovarsi di fronte un uomo ansante, coperto di sudore freddo da capo a piedi, ritto a sedere sul suo letto, gli occhi grigi sgranati e i corti capelli neri dritti e arruffati. Per Sandman aveva un’aria familiare e rimase stupito: cosa ci faceva Pitchblack nella camera di un adulto? E come aveva fatto a spaventarlo in quel modo? Spaventare gli uomini adulti era cosa complicata e terrificante. L’uomo intanto si stava stropicciando gli occhi con una mano, si era alzato e aveva iniziato a camminare agitato in mezzo alla stanza, piangendo in silenzio. Sandman si riscosse e tornò in strada. Pitchblack era scomparso.

Joey era in cortile e giocava con dei rimasugli di neve. Natale era passato e le vacanze stavano per finire. La bambina aveva lo sguardo triste. Ogni tanto lanciava un’occhiata alla strada, come se si aspettasse di veder arrivare qualcuno. Tornò a concentrarsi sulla costruzione di una specie di castello di neve in un angolo del giardino. Aveva finito di costruire un ponte con dei corti rametti, quando alzò di nuovo lo sguardo. Dall’altra parte dello steccato c’era un uomo in piedi, che le sorrideva timorosamente, commosso. La bambina si alzò. «Papà?» L’uomo annuì, ma la bambina non si mosse. Rimase lì, in piedi, a fissarlo. Non sapeva cosa pensare e le emozioni che le attraversavano la mente l’avevano paralizzata. Aveva come paura che lui non fosse vero, che non fosse lì sul serio, aveva paura che fosse tornato per fare del nuovo del male a lei e alla mamma, ma allo stesso tempo i suoi occhi si stavano riempiendo di lacrime di gioia e una parte di lei aveva voglia di corrergli incontro e abbracciarlo e rimanergli in braccio per ore. Il padre aprì il cancello e fece qualche passo verso la figlia. Si inginocchiò nella neve. «Joey…» La bambina lo guardò fisso negli occhi e, come se solo in quel momento lo avesse veramente riconosciuto, lo abbracciò. «Papà!» disse, singhiozzando, mentre calde lacrime le scendevano sulle guance. Il padre la strinse forte a sé e la sollevò. La porta del cortile si aprì. La madre di Joey era sulla soglia con un lieve sorriso sulle labbra. Anche lei era commossa. Il padre di Joey, con la bambina in braccio, le si avvicinò e la baciò. Lei gli accarezzò la faccia, guardandolo negli occhi e poi chiuse la porta.
Pitchblack era al di là della staccionata, con una strana, nuova sensazione dentro di sé. «Sei venuto a controllare come andavano le cose, Pitch?» chiese una voce allegra e frizzante alla sua sinistra. Jack Frost era in equilibrio sulla staccionata. Sorrideva beffardo, come al solito. Pitchblack non seppe cosa rispondere. «Immagino di sì.» rispose, non senza una certa ironia. Il suo volto aveva un’espressione grave. «Joey non mi vede più.» disse poi. «La bambina che è appena entrata? È lei Joey?» L’Uomo Nero annuì. «Mentre tornava a casa l’ho salutata, ma lei non ha risposto al saluto. Non mi vede più. Era l’unica che mi riuscisse a vedere.» Jack Frost non disse niente. «Lei credeva in me. Eppure di me non aveva paura. Deve essere stato per quello che i miei poteri…» Pitchblack si interruppe improvvisamente. Non gli sembrava il caso di rivelare che era ormai un’ombra di se stesso, soprattutto non ad uno dei suoi più acerrimi nemici. Si rese conto, però, che ormai non aveva più molto senso. «Il mio tempo è passato.» aggiunse. «La paura c’è e ci sarà sempre, ma l’Uomo Nero è qualcosa che appartiene al passato. Io appartengo al passato.» C’era una punta di amarezza nella sua voce. Jack Frost lo guardò. Aveva l’espressione vagamente preoccupata. Iniziò a soffiare il vento, un vento freddo. Pitchblack stava iniziando a dissolversi. Lentamente, il suo corpo iniziava a sfaldarsi e leggeri frammenti grigiastri volteggiavano nell’aria, come cenere. «Non preoccuparti, Jack Frost. Dove c’è il bene, c’è sempre anche il male. Qualcuno prenderà il mio posto, la lotta non si fermerà mai. Ma la mia ora è arrivata. Addio, Jack Frost.» Il vento lo spazzò via. Jack Frost non ebbe il tempo di dire niente. Poté soltanto guardare il peggiore nemico dei guardiani svanire così, semplicemente. Suo malgrado, sentì del dispiacere. Un frullo d’ali smeraldo lo distrasse. «Dentolina… Io… Non è stata colpa mia, non gli ho detto niente!» «Lo so, Jack Frost.» rispose lei, anch’essa vagamente triste. «Alla fine ha fatto qualcosa da guardiano, dopotutto.» disse lei. Jack Frost la guardò con aria interrogativa. «Sandman ci ha detto che Pitchblack ha aizzato un incubo contro l’uomo che è appena entrato da quella porta. È il padre di Joey, non è così?» Jack Frost annuì, ancora scombussolato dalla sparizione di Pitchblack. «Il futuro non è mai scritto in modo indelebile, ma quello di Joey pareva segnato. Restituendole il padre, credo che Pitch l’abbia salvata.» spiegò Dentolina, con un lieve sorriso. I suoi grandi occhioni viola sembravano felici e tristi allo stesso tempo. Jack fissò la casa dove una famiglia si era riunita. «Era nostro nemico. Eppure… Mi dispiace.» «Questo significa che sei un vero guardiano, Jack Frost.» disse Dentolina, con un sorriso più ampio. Jack sorrise di rimando. «Forza Jack, andiamo, qualcosa mi dice che Babbo Natale ha bisogno di noi.» disse poi, indicando il cielo, dove all’improvviso era comparsa una scintillante aurora boreale. «D’accordo.» fece Jack.

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