Dark Crow.

di Valka
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Did I let you Know ***
Capitolo 3: *** My Medicine ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


notes: Okay premetto che il prologo è "leggermente" più corto e triste del resto della fic (almeno più corto e triste del primo capitolo). Spero comunque che non risulti noioso. Buona lettura e se volete... fatemi sapere che ne pensate ♥


Black crow. – prologo.
 

La sala d’attesa era vuota.
Sul tavolo nero al centro di essa, sostavano delle riviste vecchie e dall’aria consumata, buttate lì sopra alla bell’e meglio. Erano riviste che comunque venivano mosse di rado.
Sul tavolo, nemmeno un granello di polvere, come d’altro canto ovunque in quella micro saletta.
Un tempo poteva essere stato un posto accogliente, ma le tende che coprivano le enormi vetrate si erano ingiallite e avevano assunto l’aria consunta tipica degli oggetti a cui non si presta troppa attenzione.
Anche la luce di tanto in tanto tremolava e il riscaldamento – troppo basso per sembrare acceso – era pressoché inutile. Le mani del ragazzo stavano ghiacciando, le sentiva intorpidite nelle grandi tasche del giaccone.
Erano strette a pugno. Provò ad aprirne una, poi la richiuse, ma la fastidiosa sensazione fece sì che non provasse un’altra volta l’esperimento. Era al diciassettesimo piano, gli pareva di ricordare, e di tanto in tanto si udivano rumori dei clacson e della strada.
Tirò fuori le mani dalle tasche, le guardò. Erano bianche, bianchissime, come se l’estate non fosse mai esistita.  In alcuni punti erano più arrossate, e per il resto, semplicemente gelide.
Provò a poggiarle sulle guancie, ma anche quelle erano troppo fredde, perciò le infilò nuovamente in tasca.
Si chiese scioccamente se, buttando fuori l’aria dai polmoni, sarebbero uscite le solite nuvolette di condensa causate dal freddo. Ma non provò nemmeno, abbassando invece lo sguardo al pavimento.
Era uno di quei fastidiosi pavimenti a puntini.
Diverse sfumature di puntini grigi che si sovrapponevano e accostavano in maniera decisamente soffocante.
Scosse la testa. Avrebbe dovuto portarsi un libro, ma non c’era stato tempo materiale.
Era tanto che non poteva permettersi il lusso di leggere un libro: si era infatti buttato sui testi scolastici, nel tentativo disperato di distrarsi dal resto e leggere lo aiutava a ricordargli la sua condizione.
Proprio mentre pensava a questo, il suo sguardo venne catturato da una stampa veramente brutta.
Era un uomo sgraziato, grasso e dal naso che sembrava arrossato (nonostante fosse una banale stampa in bianco e nero); se ne stava piegato sulle ginocchia, con un irritante sorriso in volto ed accarezzava un cane in piedi sulle due zampe posteriori.
L’uomo al braccio aveva un ombrello, stretto in cima e decisamente sproporzionato in fondo.
Dietro di lui, solo colline e un sole con gli occhi chiusi che tramontava.  
Il cane era decisamente l’unica cosa che avrebbe salvato di quel quadro. Proprio in quel momento, la porta dello studio si spalancò, facendolo sobbalzare come se fosse stato colto durante una rapina. - Allora grazie. E… e a mercoledì! – la voce tremante dell’omuncolo che stava uscendo non gli lasciava presagire nulla di buono.
Con un sospiro si preparò. Una signora sulla quarantina fece capolino dalla stessa porta.
Aveva una nuvola di capelli neri raccolti attorno alla testa, e un sorriso innaturale per il genere di situazione.
Anche se, si disse il ragazzo, non vedeva perché non avrebbe dovuto sorridere.
Non era lei che stava andando dal dottore per pazzi. Lei ci lavorava, per il dottore per pazzi.
Gli venne in mente sua madre che gli diceva che non era un dottore per pazzi, che è normale prendere un appuntamento del genere e una sfilza incredibile di stronzate per farlo sentire okay col resto del mondo.
La cosa non gli restituì nemmeno un po’ di vigore, così si limitò a prendere aria nei polmoni, restituendo alla signora il tentativo di un sorriso gentile ma decisamente incerto.  - Signor… Harry Styles? – domandò la donna, consultando un foglio che doveva essere la lista degli appuntamenti.
- Sì. – rispose Harry, con un cenno della testa.
- Oh caro, mi spiace averla fatta aspettare qui al gelo. Questa è la sala d’attesa comune anche con gli altri dottori, sa… - disse, rimanendo ferma con la testa ma indicando con un’occhiataccia furtiva la porta che recitava il nome di un certo K. Emerson.
- Accomodati pure qui, il dottore la farà entrare tra qualche istante.  – assicurò poi, con più garbo.
L’altra stanza era completamente diversa.
Sembrava una di quelle sale che si trovano nei locali.  Era illuminata da una luce quasi arancione, e sopra ogni divanetto d’attesa vi erano affissi quei quadri che ormai si trovavano ovunque, ove vi erano raffigurate le città famose come New York, Londra, Parigi o Tokyo.
Insomma, un classico. - Siamo stati informati delle sue condizioni e il dottore mi ha pregato di dirle che non ha di che preoccuparsi. – Harry annuì, senza capire davvero.
Cosa avrebbe dovuto importare a lui che i suoi amici, i parenti o chi per loro sapessero dove stava andando? Ormai sapevano tutto.
La vita gli era completamente scivolata via dalle mani.
Suonò un qualche campanello, come quelli che si sentono spesso nelle hall degli hotel, e la segretaria scattò. - Il dottore è pronto a riceverla. – Insieme percorsero un corridoio lungo appena qualche metro. Poi lei, con un’ostentata cortesia, gli aprì la porta, rivolgendogli infine un sorriso, prima di richiudersela alle spalle. Il cambiamento più piacevole, dalla prima sala d’attesa a questa sala, era sicuramente il riscaldamento. Sentiva di poter di nuovo serrare le mani a pugno, e il sangue affluire alle guancie, forse arrossandogliele un po’ troppo. Nello studio c’era il parquet, un bel cambiamento dai pallini grigi.
Tutte le sedie erano in pelle nera, compresa chaise longue da psicologo. Non gli veniva in mente nessun altro nome per quella specie di poltrona oblunga. Probabilmente doveva esserci un termine specifico, ma di certo lui non ne era a conoscenza.
Infine una grande scrivania in mogano troneggiava sulla stanza. Sopra vi erano sparpagliati dei fogli, e vi era poggiato anche uno strano fermacarte a forma di conchiglia,  probabilmente di marmo.
Era brutto. - Buonasera – sorrise l’uomo dietro la scrivania. E Harry, che fino a quel momento si era aspettato di vedere qualcuno sulla sessantina con una marea di capelli canuti, rimase sorpreso. Piacevolmente sorpreso. L’uomo che aveva di fronte non dimostrava più di trent’anni.
Aveva la pelle pallida, tipica degli abitanti di Londra, e una zazzera di capelli castani gli fluttuava attorno al viso, morbida.  Anche gli occhi, verdi e nascosti da dei sottili occhiali da lettura, erano occhi intelligenti e gioviali. Harry sospirò, un sospiro di mero sollievo. - Buonasera – disse a sua volta, lasciandosi sfuggire un sorriso più rilassato, e accomodandosi su una delle seggiole in pelle.
- Allora iniziamo, vuole? –  Harry annuì, dunque l’uomo gli sorrise, cordiale.
- Allora, Harry, io sono il dottor Trevyn Harvey, e da oggi lei condurrà le sedute con me. Mio padre avrebbe dovuto averla come paziente, ma un’altra donna ha insistito per tornare sotto le sue cure e non aveva proprio più spazio. Certamente lui ha più esperienza di me, ma spero non se ne rammarichi troppo. –  Harry, in quella sorta di caldo tepore afrodisiaco, scosse la testa.
- Avrei giurato che fosse Londinese. – disse poi.
L’uomo rise. - Vengo dal Galles – specificò – come mai tanta convinzione? –
- Non saprei. La pelle, forse? – il sorriso si fece ancora più incerto sul volto di Harry, mentre lo psicologo ne sfoggiò uno tutto denti.
- Ascolti, per iniziare, dovrebbe sdraiarsi lì. Le sedute dureranno due ore, e poi sarà libero di scappare a gambe levate dallo studio, glielo prometto. – con un indice affusolato e ben curato, affatto come quello dall’unghia mangiucchiata di Louis, gli indicò la chaise longue.
Si morse il labbro, perché ci aveva pensato di nuovo. Louis.
Rapidamente – forse un po’ troppo - si accomodò sulla poltrona, rimanendo prima seduto per qualche istante e poi, notando che il dottore stava aspettando che si mettesse comodo, sdraiandosi.
- Si trova a suo agio? – Seduto in quella maniera, senza avere la più pallida idea di dove mettere le braccia, come sistemare le mani o se tenere gli occhi chiusi o meno, no, non si sentiva affatto a suo agio. Non sapeva neanche se prima avrebbe dovuto togliersi le scarpe.
Ma soprattutto non sapeva dov’era il dottore, perché tenendo la testa dritta di fronte a sé, non vedeva altro che la bella scrivania. Era sicuro che gli stesse accanto, ma non poteva osservarlo senza sentirsi ancora più a disagio.
No, non si trovava a suo agio.  -  Sì, è perfetto. –
- Benissimo. – ebbe l’impressione che il dottore stesse sorridendo ancora.
- Ora si rilassi. –
Harry chiuse gli occhi, ma non era nemmeno certo di come rilassarsi.
Pensò di essere a casa, la casa dei suoi, in quelle domeniche dove correva nella sala della colazione in mutande e Gemma lo implorava affinché si coprisse, e poi litigavano tutta la giornata.
In quel momento gli mancavano quelle litigate, gli mancavano quelle domeniche spensierate e gli mancava la sua casa.
La loro casa.
- Prefetto, bravissimo. Ora possiamo iniziare a parlare. Qual è stata la causa che l’ha spinta a frequentare queste sedute? –
Harry sospirò.
E poi, come se l’uomo fosse un pescatore in grado di estrargli le parole di bocca con un amo veramente poco allettante, cominciò a raccontargli tutto dal principio.

 

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Capitolo 2
*** Did I let you Know ***


2. Did I let you Know

 
- Se non ti sbrighi, giuro che ti lascio qui. – Harry sbuffò, perché Gemma l’aveva costretto a spegnere la Play Station – abbandonandolo nel bel mezzo del salvataggio di Sokolov, tra l’altro -, gli aveva urlato addosso che stavano facendo tardi, e ora non era pronta.
Anzi, frugava tragicamente nella borse, gridando che ‘era qui!’.
- Ge’, che diavolo cerchi? – le chiese, avvicinandosi a lei. Era spazientito. Non voleva andare a quella stupida festa e, se proprio doveva andare, sua sorella avrebbe fatto meglio a smettere di gridare come un’ossessa. Già gli scoppiava la testa, lo sentiva. Le tempie gli pulsavano in un modo alquanto fastidioso.
- Il mio lucidalabbra, mi serve, stasera Jake… - Harry sospirò, perché Gemma aveva il lucidalabbra tra le dita sottili, e perché Jake la stava solo usando. Le afferrò la mano, portandogliela di fronte agli occhi.
- Non è che cerchi questo, per caso? Lo so, sono un mago. Pensa, l’ho ritrovato tra le tue dita. E ora diamoci una mossa, o credo rimarrò qui a giocare a Metal Gear Solid… -
- No, dai che facciamo tardi! – Harry la fulminò con un’occhiataccia.
Persero un’altra ventina di minuti nel tragitto casa-scale-parcheggio-macchina, con grande sorpresa da parte di Harry. Ormai era convinto che sua sorella avesse un superpotere: quello del ritardo. Non solo arrivava sempre in ritardo, ma riusciva a far diventare una lumaca i compagni di viaggio, così da trasformare un ‘live ritardo’ in un ‘catastrofico ritardo’. Anche se in quel momento per Harry non era né lieve, né catastrofico. Voleva solo arrivare in quel posto e andarsene il prima possibile, anche se il tragitto in macchina sarebbe probabilmente stata la migliore parte della serata.
- Oh Dio, cos’è ‘sta roba? – domandò Gem dopo diversi minuti di viaggio, storcendo il naso alla radio.
Ad Harry piaceva quella roba, pur non sapendo cosa fosse, ma Gemma con un gesto veloce cambiò stazione, arrestandosi in una dove passavano per la millesima volta una canzone tremenda, che lo aveva perseguitato per tutta l’estate. Forse non sarebbe stato un bel viaggio.
Guardò fuori dai finestrini congelati. Le luci della città brillavano, ricordandogli un film che aveva visto tempo fa: i due protagonisti volavano sulle strade, di notte, per andare in un bosco nascosto da tutti.
Anche loro stavano guidando sulle strade, di notte. L’unica differenza era che loro erano diretti ad una festa piena di gente troppo ubriaca per sembrare simpatica, o troppo sobria per essere avvicinata.
 
Come prospettato, la villa era colma di gente. Facendo il loro ingresso dalla porta principale, la prima cosa che saltò all’occhio ad Harry erano le tende color cremisi tirate su dal pavimento, coperto di briciole di pop-corn e altre schifezze che avrebbe volentieri evitato.
Erano arrivati in ritardo, la mezzanotte sarebbe scoccata a breve, ma nessuno fece storie. Anzi, nessuno sembrò accorgersene – non che ad Harry importasse, anzi. -
Appena giunti in quella casa colossale, Gemma l’aveva abbandonato a sé stesso, e così si era messo a vagare per la casa, tanto per ficcanasare in qualcosa che lui non avrebbe mai e poi mai potuto permettersi. Con passo leggero aveva salito la prima gradinata e si era ritrovato di fronte ad un bel corridoio. Ci si affacciavano quelle che dovevano essere parecchie stanze, ognuna di esse colma di gente, tanto da fargli pensare che tutta Londra si fosse riunita in quella casa che era sì grande, ma non tanto da contenerli tutti.
Avvicinandosi ad una grande portafinestra non potè fare a meno di notare che persino il prato e la piscina erano pieni. Una volta deciso che non c’era più nulla di interessante da guardare – metà delle porte erano sbarrate e l’altra metà era piena di gente fino a scoppiare -, decise di scendere di nuovo al pian terreno, per dare un’occhiata anche a quello.
Con sua grande meraviglia scoprì che per l’occasione era addirittura stato allestito un piano bar. Un tizio dai capelli biondicci, armeggiava con lo shaker pronto a servire bevande a tutti. Era affascinante vedere con quale maestria e velocità muoveva le mani, grazie anche ad una coordinazione non indifferente.
Harry rimase a guardarlo in silenzio per diversi minuti e poi gli chiese qualcosa. Certo, non aveva ancora i fatidici ventuno, ma non era il solo lì dentro e quel tizio non sembrava voler fare molte domande.
Difatti Hannabeth, una sua vecchia compagna delle elementari, stava cercando di uscire dalla piscina, totalmente zuppa, e continuava ad inciampare sempre sullo stesso gradino, causando una tremenda ilarità tra i presenti (non meno ubriachi di lei!).
Perfino ad Harry venne da ridere, ma cercò di trattenersi, ringraziando il bartender, e iniziando a sorseggiare qualsiasi-cosa-fosse dalla cannuccia. Una bella cannuccia rosa.
Chic, wow. Sorrise ancora, a sé stesso. Guardare quelle persone ridicole mettersi ancora èiù in ridicolo in un certo senso lo faceva stare bene. Lo faceva sentire superiore. Sapeva che si sarebbe ubriacato e allo stesso tempo sapeva, ne era certo, che non sarebbe mai diventato come uno di loro.
Il suo filo di pensieri venne spezzato da alcuni ragazzi che stavano giocando con un pallone. Uno di questi, troppo ubriaco anche solo per pensare di camminare, cadde all’indietro nella piscina, con ancora tutti i vestiti addosso.
Subito un altro uomo, che doveva essere quello che si era assunto la responsabilità di salvare la vita a tutti gli idioti che avessero fatto cose simili, si lanciò al recupero.
Un altro, un ragazzo tondo come una sfera, si stava occupando del barbecue. Aveva larghi riccioli biondi, e le guancie arrossate dall’alcol e dal caldo.
Attorno a lui stavano diverse persone, e ridevano come se fosse il più divertente degli ospiti.
Un’altra ragazza stava ballando, ma era così scoordinata e confusa da non sapere bene come dovesse mettere i piedi, con quei suoi tacchi dodici.
- Che bel quadretto. – un tipo, che aveva affatto l’aria di uno che stava guardando un bel quadretto, si appoggiò al bancone, ordinando qualcosa da bere.
Stava parlando con lui? Harry si voltò a guardarlo.
- E pensare che avevano detto che sarebbe stata una grande festa. – non aveva l’aria molto contenta, a dire il vero.
Harry si ritrovò a guardarlo sorseggiare ciò che stava bevendo come se si trattasse di un bicchiere d’acqua, e lui fosse un atleta particolarmente assetato. In breve, quello che stava bevendo, era sparito.
Di scatto abbassò la testa sul suo, di drink: non era nemmeno a metà, e non gli stava neanche tanto piacendo.
- Già – lo assecondò, non sapendo che altro dire e limitandosi piuttosto ad osservarlo. Dopotutto sembrava un tipo in vena di chiacchiere.
Il broncio che aveva gli faceva perdere gran parte del fascino che poteva potenzialmente avere; era alto, forse più alto di lui, e magro come un chiodo. Possedeva spalle abbastanza larghe da appartenere ad uno che pratica sport, una cascata di capelli castani e, forse la cosa più bella, occhi color verde acqua marina, incorniciati da ciglia incredibilmente lunghe.
Viso allungato, labbra sottili e collo nervoso.
Complessivamente bello, decisamente irritato e molto, molto più sobrio di quanto avrebbe voluto essere.
- Che maleducato, pardon. – nella sua voce c’era una nota di amara ironia. - Mi chiamo Louis. Piacere. – gli tese la mano grande e callosa. Una mano da musicista. O almeno, era l’ipotesi a cui voleva credere.
- Piacere mio. – gli strinse la mano, fissandolo ancora. E poi sbattè le palpebre un paio di volte.
- Harry. – aggiunse.
Si può essere più idioti?
- Scusa, non è che beva spesso – spiegò, mostrandogli il bicchiere.
Lo straniero gli concesse un bel sorriso, il primo che aveva fatto da quando gli si era messo vicino.
- Non hai l’aria di uno che si sta divertendo troppo. –
Pensò a Gemma, chiusa da qualche parte con Jake. Pensò alla gente ubriaca che ben presto si sarebbe trasformata in gente in fila per il bagno, o per un luogo dove vomitare senza essere visti da quello o da quella.
- Be’, nemmeno tu così contento, o sbaglio? –
L’affermazione parve pungere Louis nel vivo. - Nah, ma scherzi? Mi sto divertendo da impazzire! Guarda, sono venuto qui con la mia ragazza. – gli indicò la moretta che poco prima si muoveva in maniera scoordinata. Ora si era sfilata le scarpe, ed era avvinghiata ad un tipo, tanto stretta che Harry, sulle prime, non era nemmeno stato in grado di distinguerli come due corpi separati.
- Oh. Oh. – adesso quello messo male era lui.
- Quanto vorrei levarmi di qui e basta. –.
- A chi lo dici. – commentò Harry, rimanendo a guardare invece la sua fidanzata. Quella aveva un volto familiare, per quanto riuscisse a vedere.
- Potremmo iniziare con lo spostarci da un’altra parte. Ho visto che c’è un’ala del giardino, e ci sono solo una ventina di persone vomitanti – ironizzò Louis. Harry ridacchiò. – E va bene, possiamo anche spostarci. Ma solo perché non sopporto questo odore di carne bruciata. – Harry storse il naso. Quella puzza ero ovunque, perché il meraviglioso angelo grasso che faceva la guardia alle costolette a quanto pareva aveva deciso di filare a farsi un bagno.
E tutti erano parecchio decisi ad ignorare quella povera carne.
- Andiamo, allora –
 
La parte del giardino era davvero bella. Non c’era nessuno perché per scendervi bisognava percorrere una rampa di gradini in legno. E nessuno era tanto abile da poterlo fare. In più, se a Harry girava già la testa dopo un qualsiasi-cosa-fosse, gli altri ospiti dovevano proprio essere messi male. Quel posto era completamente immerso nel buio, e la musica arrivava ovattata e decisamente più tollerabile. Da lì si vedevano bene le luci della città, in lontananza.
- Non ti ho mai visto ad una festa di Mike – esordì il moretto, dopo essersi messo seduto sull’erba fresca, e probabilmente bagnata dagli idranti che dovevano essere stati in funzione fino a qualche istante prima, constatò.
Harry lo seguì, solo che più cautamente. Non avrebbe fatto le solite figuracce che lo portavano a non voler uscire di casa per secoli. Nossignore.
- Perché non ci sono mai venuto, e non so chi sia questo Mike. Mia sorella è stata invitata qui dal suo ragazzo, e sono stato costretto ad accompagnarla. Cioè, più che altro, le reggo il gioco. Mia madre si incazza sapendola a questi festini, perciò le diciamo che stiamo andando a casa di amici ed ecco fatto. – scrollò le spalle, strappando qualche filo d’erba che al buio non era più verde.
- Almeno ti paga? – Louis si lasciò sfuggire una grande risata, prima di scuotere la testa. - Hai una faccia familiare. Magari conosco tua sorella. –
- Gemma Styles. Il ragazzo si chiama Jake-qualcosa
- Ah. Ge’. Certo, Eleanore esce spesso con lei. –
Ecco chi gli ricordava la ragazza di Louis. Harry arrossì di botto, memore di una figura di merda tremenda che aveva fatto con la ragazza dell’altro.
Non sapendo che era rimasta a dormire per la notte da loro, quando la mattina dopo Harry si era diretto in bagno, non si era nemmeno preso il disturbo di chiudere la porta a chiave. Così si era fatto una doccia e lei era entrata proprio quando lui, totalmente nudo, stava per mettersi addosso un asciugamano.
- Ah. Eleanore, dici? –
- La conosci? –
- Diciamo di sì… -
Harry gli raccontò di quella cosa.
Non sapeva nemmeno perché, in realtà non ci teneva molto ad informare sconosciuti dei suoi fatti più o meno privati, ma forse Louis aveva bisogno di essere tirato su, e Harry non vedeva altre via se non quella di mettersi in ridicolo. In senso positivo, più o meno.
Fortunatamente, alla fine della storia abbozzò una smorfia. O forse stava tentando di trattenere una risata?
- Be’, comunque io sono affiliato alle figure di merda. – Harry scrollò le spalle, buttando la testa all’indietro per ispirare l’aria fresca della notte. – Sono rassegnato. -
Sentiva gli occhi dell’altro che bruciavano, sulla sua pelle.
- Del tipo? – chiese Louis, distendendosi su un fianco, senza smettere di osservarlo. Da piccolo avevano insegnato ad Harry che ‘quando parli con una persona, devi guardarla negli occhi’. Ma così era… troppo.  
- Dai, quella che è capitata a tutti almeno una volta nella vita… hai presente, specchiarsi sui finestrini di qualcuno e dopo un po’ accorgersi che il proprietario è all’interno? –
Harry si bloccò, perché Louis stava ridendo.
Rideva. Di nuovo.
L’alcol stava dando i suoi frutti?
- Ti giuro che non mi è mai successo! –
- Non è possibile. Allora non ti è nemmeno mai successo di dover salutare qualcuno e finire col baciarlo sulle labbra. –
- Quello sì, è stato tremendo. Hai presente il tipo che stava cuocendo le salsicce? –
- No, non dirmi che… -
- Oh sì. Giuro. Ah, e poi un’altra volta ero a Camden Town, e stavo aspettando la mia ex. Insomma, ad un certo punto la vedo girata di spalle, mi avvicino e le cingo la vita con le braccia. Poi si è girata, e ti giuro che non avevo mai visto quella tipa in vita mia. Mai. –
Anche Harry abbozzò un sorriso, scuotendo la testa.
Gli bruciavano le guance, e se l’altro avesse continuato a guardarlo probabilmente sarebbe andato a fuoco.
- Aspetta qui. – annunciò Louis, tirandosi su.
- Dove vai? –
- Siamo ad una festa con superalcolici gratuiti, meglio approfittare. – Louis gli strizzò un occhio, risalendo per le scalette e lasciandogli finalmente un secondo di tregua.
Harry non riuscì a capacitarsi di quegli occhi, che brillavano anche al buio.
Gemma lo prendeva sempre in giro perché si impallava quasi maniacalmente con i dettagli, e forse poteva essersi un po’ fissato sui suoi occhi. Magari non era Louis che lo stava guardando così tanto, magari era solo lui a sentirsi in imbarazzo, e un po’ in colpa, perché stava continuando a spiarlo e guardarlo di nascosto. Anzi, no, era così per certo.
Quando il moretto tornò, reggeva tra le mani due bicchieri pieni fino all’orlo.
Uno era di un verdino inquietante, l’altro bianco.
- Quale preferisci? – gli chiese Louis. Harry, andando totalmente a casaccio, indicò quello dal colore più normale. Probabilmente era vodka, e alui la Vodka faceva schifo, ma cercò di non pensarci troppo su. Dopotutto, erano ad una festa con dei superalcolici gratuiti.
Louis gliela porse, tornando a sedersi accanto a lui e, proprio in quell’istante, la canzone che aveva sentito in macchina con Gemma, riprese a suonare.
- Questa canzone… - scattò Harry, cercando di assimilare il testo.
- Did I let you know? – gli domandò Louis, inarcando le sopracciglia in un’espressione che ancora non aveva avuto il tempo di conoscere.
- Non ho idea di come si chiami, ma mi piace. –
- Sono i Red Hot, a chi non piacciono i Red Hot? – chiese Louis, con un mezzo sorriso indignato.
- A mia sorella. – Harry ridacchiò – Te ne intendi di musica? – gli domandò, con un insolito coraggio. Era una cosa abbastanza stupida da chiedere, ma se poteva distrarlo dal pensiero della sua ragazza… - Più o meno. Suono la chitarra. O meglio, la suonavo, ultimamente ho lasciato un po’ perdere. –
- Mi piacerebbe suonare la chitarra – sussurrò Harry, più a sé stesso che a Louis. In cambio si ritrovò gli occhi verdi puntati nei suoi, pronti a ribattere – Magari posso insegnarti. Potremmo diventare amiconi, dopo stasera – le guancie di Louis si piegarono in due adorabili  fossette, un istante prima di portare la cosa che stava bevendo alle labbra.
Di nuovo, quando Harry arrivò a metà, si ritrovò a fissare il bicchiere di Louis. Totalmente vuoto
Il ragazzo si strinse  nelle spalle, lasciandosi poi cadere sul prato.
- Perché da qui non si vedono le stelle? – e da quella domanda Harry intuì che non gli stava chiedendo per quale motivo scientifico non potessero vedere le stelle. Gli stava chiedendo per quale ingiustizia divina o celeste, in quel momento non potesse vederle. Che cosa avesse fatto di male per non poterle vedere.
Harry non seppe trovare una risposta precisa, ma anche a lui sarebbe piaciuto vederle. Provò a balbettare qualcosa, ma finì come al solito in una delle sue figure, e allora si rassegnò a non dire un bel niente. Louis sbuffò un altro po’, ma poi sembrò riprendersi e, un po’grazie al dialogo e un po’ grazie alla Vodka che ancora stringeva tra le dita, Harry riuscì a trovare l’audacia di porgergli un’ altra domanda.
- Hai parlato con… con lei? – gli domandò, prendendo un’altra sorsata.
Gli bruciava nella gola, gli bruciava da morire, e la sensazione di bruciore cresceva ad ogni sorsata.
In teoria dovrebbe diminuire. O no?
- Sì, ma lei ha detto che vuole divertirsi e io le sto troppo addosso. – spiegò – Così ora ha la sua libertà. Spero la sfrutti bene. –
- Le darai una seconda possibilità, non è vero? – Harry si distese accanto a lui. Louis strinse le labbra e socchiuse gli occhi, sospirando. Nella sua voce si fece spazio la rassegnazione.
- … sì. –
- Non dovresti. –
- Ma lo farò. –
- La ami così tanto? –
- Affatto. – Louis scoppiò in una risata – Amare Eleanore, amico? Spero scherzi. Lei è bella, è simpatica, è sexy. È tutto quello che per anni ho voluto. Solo che la vittoria ha un sapore amaro. –
Harry non credeva di capire.  - Tu ce l’hai una ragazza? –
- Eh? – Harry si sentì stupido. Aveva capito la domanda, ma non aveva trovato un modo migliore per rispondere. Inoltre, stava per aprire bocca sul fatto che avesse appena cambiato discorso, quando fu interrotto da un’altra domanda del ragazzo.
- E allora com’è lui? – chiese infatti Louis.
Harry sgranò gli occhi, alzandosi di scatto a sedere.
- No, no! Non c’è nessun lui! – scosse la testa così forte che la cascata di ricci che aveva in testa gli franò sugli occhi.
- E potrebbe esserci? – anche Louis tornò a sedersi, sporgendosi verso di lui. Probabilmente si stava divertendo un mondo, ad osservare le sue reazioni a quelle frecciatine.  Harry avrebbe voluto sembrare anche un po’ più intelligente, ma la stupida Vodka non aiutava, e il fatto che continuasse a balbettare senza sosta… be’, nemmeno. Si ritrovò ancora una volta a fissare gli occhi dell’altro, colpevole. Non avrebbe potuto fare diversamente. Lui era così vicino, e quelli erano di gran lunga in lizza per il concorso ‘Gli occhi preferiti di Harry Styles’.
Si ritrovò a domandarsi come avesse potuto chiedergli una cosa del genere. Magari stava solo facendo dell’ironia, o magari pensava davvero che ad Harry interessassero i ragazzi. In preda al dubbio, decise che non voleva saperlo e che soprattutto non gli importava. Inoltre non era pronto a rispondere ad una domanda del genere neanche con se stesso, figurarsi con lui.
- No. – sbottò Harry, quasi cacciando via i propri pensieri. – Certo che no.  – aggiunse dopo qualche secondo, giusto per sembrare più convinto.
Harry guardò l’orologio. Erano già le tre? Ma come diavolo c’erano arrivati, alle tre?
- Merda. Merda, questa è la volta buona che Thomas mi ammazza… - mugolò, prendendosi la testa tra le mani.
- Che ore sono? –
- Le tre. E saranno le quattro prima che riesca a prendere le chiavi da Gemma. –
- Ti porto io. A casa, o dove devi andare. –
- No, davvero, non c’è bisogno che ti disturbi… -
- Sono le tre e la mia ragazza è capitata per caso sulla bocca di un altro. Quanta voglia ho, secondo te, di restare qui? – Harry fissò la città luminosa per qualche istante, indeciso sul da farsi. Sentì ancora gli occhi di Louis sulla sua pelle, bucarlo ed esaminarlo fino ai più reconditi desideri della sua anima. Se accettare un passaggio da un semi-sconosciuto significava poterlo salvare, nel senso più sciocco e meno importante del termine, allora l’avrebbe fatto.
- D’accordo, accetto. –
Louis gli porse una mano callosa, aiutandolo a tirarsi su. Harry gliel’afferrò con forza. Il giramento di testa era passato, e anche il sapore disgustoso che aveva avuto in bocca fino a poco prima. Adesso era rimasta solo l’ansia di non poter rivedere quegli occhi per molto, molto tempo.

 

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Capitolo 3
*** My Medicine ***



Boo, so che sono brutta e cattiva perché non ho mai continuato questo progetto e sono ancora di più una testa di you-know-what perché avevo scritto almeno altri 4 capitoli.
Comunque sono tornata! E sto anche meditando di farlo diventare un progetto a quattro mani, forse, in un futuro remoto ma non troppo. Questo capitolo non mi piace un granchè, ma è necessario ai fini della trama.
Spero possa essere di vostro gradimento, si accettano consigli/critiche (costruttive, ovviamente) e anche commenti, obvs.
Peace ♥
Valka

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Il rumore delle posate che tagliavano il cibo e del telegiornale che, ad un volume moderato come al solito, trasmetteva le notizie del giorno,  la famiglia Styles stava consumando un’abbondante cena.
La famiglia Styles e il compagno di Anne, come al solito.
Nel religioso e interessato silenzio col quale stavano tutti ascoltando la tv, non fu nemmeno possibile udire Gemma poggiare le posate accanto al piatto.
La ragazza si chiarì la voce, e a quel punto il fratello le rivolse un’occhiata interrogativa.
Ma lei lo liquidò con un gesto della mano.
- Mamma… ? – Anne si girò, uno sguardo curioso sul volto, molto più eloquente di ogni altro ‘Sì, cara?’.
Anne, oltre ad essere una madre fantastica era infatti un’ottima ascoltatrice.
Aveva sposato Robin e lui si era istallato a casa loro, ma era sempre stata chiara su una cosa: i figli prima di tutto.
E così Harry e Gemma non avevano avuto alcuna difficoltà ad abituarsi a lui.
Anzi, tante volte Harry si era ritrovato a pensare al fatto che, se per qualche strano motivo Robin avesse fatto i bagagli e se ne fosse andato, avrebbe perso quell’idea di famiglia che aveva.
- Senti, devo chiederti una cosa. Però fammi fine. – aggiunse.
La conosceva tanto da sapere che la dolce Anne era un’ottima madre, sì, ma un po’ troppo rigida talvolta.
- E va bene. – acconsentì Anne, lasciandole carta bianca.
Lei si schiarì la voce ancora una volta, come se stesse annunciando chissà che. Per un attimo Harry inorridì al pensiero che magari la sua sorellina potesse essere incinta di quel tizio, quel Jake.
Ma il pensiero venne scacciato subito da un paio di occhi verdissimi.
Harry socchiuse i suoi, di occhi, sospirò con convinzione e tornò a concentrarsi sull’importantissimo discorso di Gemma.
- Io ed Eleanore Calder, hai presente quella ragazza tanto a modo che venne da noi tempo fa?, be’ ecco, noi due vorremmo andare fuori per una settimana. In vacanza. A… New York. Sai, dato che ho festeggiato da poco i fatidici ventuno… -
- Gemma, ascoltami… -
- Non ho finito. – esordì la sorella
Ma chiaramente aveva esaurito le argomentazioni, perciò lasciò la parola alla madre.
- Posso parlare ora? Onestamente tesoro, non me la sento di lasciare andare voi due ragazze da sole a New York. So che sei maggiorenne e tutto, ma non si sa mai. E tu non sei mai stata lontana da casa. –
- Sarebbe un’occasione per imparare. –
- Lo sarebbe se con voi ci fosse qualcuno di responsabile. –
- Ma… mamma, voleva venire anche Harry. –
Ed Harry non riuscì a trattenere la smorfia interrogativa sul volto.
Però, guardando la sorella, trovò i suoi occhi imploranti. E in quel momento capì di non poterla tradire.
- Davvero, Harry? Vuoi davvero andare a New York? – sua madre era stupita.
Da quando aveva passato l’ultimo ‘brutto periodo’, così la sua famiglia aveva denominato la leggera forma di depressione attraversata dal ragazzo, tutto era cambiato.
Anne si sentiva ancora in colpa per non aver capito prima i problemi del figlio.
Ma come avrebbe potuto? Si chiese Harry, guardandola con tenerezza.
Evitava sempre le domande, con loro rideva e si comportava come tutti i ragazzi adolescenti si comportano in famiglia.
Forse anche troppo bene, aveva detto sua madre.
Ma quando aveva iniziato a calare di peso lei non aveva esitato a scoprire la causa del disturbo, stroncato sul nascere a dire dello psicologo.
Harry non si sentiva tanto diverso da prima. Certo, gli attacchi di panico erano stati sostituiti da una più brutale apatia, e le nottate insonni colmate da quelle piccole pasticche per dormire.
Una sola, mi raccomando! Gli ripeteva Anne.
Ma una sola non bastava a fargli chiudere gli occhi, né a tranquillizzarlo.
Comunque stava migliorando, non vedeva più il vecchio dottore tanto spesso e si sentiva dire da tutti quanto stesse meglio, ma Anne desiderava ardentemente che si divertisse. Lo mandava alle feste con Gemma, lo impegnava in progetti assurdi.
E lui faceva tutto, tutto per non far preoccupare sua mamma. Gemma un po’ ne approfittava, ma Harry sapeva che era genuinamente preoccupata. Anche perché altrimenti, non l’avrebbe mai portato a New York con lei.
- Mi piacerebbe vedere New York. – sentì la fossetta sulla guancia. Non sapeva come, ma era in grado di sentirla, quando sorrideva.
- Oh Harry… io sarei contentissima di mandarvi ma così, da soli… -
- Mi sono dimenticata di dirti che viene anche il cugino di Eleanore. – Anne sbattè le palpebre un paio di volte, con aria interrogativa.
- Quanti anni ha, questo cugino? –
- L’età di Eleanore. – Gemma sorrise. L’aveva in pugno.
- Suppongo che prima o poi i pulcini debbano lasciare il nido. Ebbene, ma voglio prenotare l’aereo, i biglietti e tutto il resto con te, signorina. –
 
- Chi diavolo è il cugino di Eleanore? –
- È… un tizio. Non lo conosci, lascia perdere. Adesso non è il momento, te lo presento quando… Oh Eleanore! Mia madre ha detto di sì! – Gemma si chiuse la porta alle spalle, lasciando un Harry con i capelli all’aria e lo sguardo interdetto.
La copro e nemmeno mi ringrazia. Che ingrata.
Harry si avviò nella sua stanza, pronto per dormire. Dopotutto se lei non voleva dargli alcuna spiegazione, non avrebbe avuto di meglio da fare.
Il letto di ottone scricchiolava. Era un letto così vecchio e consumato dal tempo che il ragazzo temeva che prima o poi avrebbe perso misteriosamente una zampa, quella che di tanto in tanto sentiva traballare, e lui si sarebbe ritrovato a terra.
La sua stanza era la più grande e luminosa della casa.
Aveva una finestra enorme che dava sulla via, e quando si dimenticava di tirare le tende veniva svegliato alle cinque del mattino dai primi albori del giorno.
Delle volte lo faceva apposta, per vedere l’alba, ma ancora più spesso capitava che lasciandole aperte Anne venisse a chiudergliele, stampandogli anche un bacio sulla tempia.
Si svegliava quasi sempre, visto il suo sonno di carta, nonostante le pasticche.
Si sedette sul bordo, per poi sdraiarsi supino.
New York. L’idea lo terrorizzava e gli piaceva allo stesso tempo. C’erano così tante cose da vedere e da fare, a New York.
A labbra strette e sottovoce, cominciò a canticchiare il motivetto di un musical che da bambino aveva amato, West side story.
Al pensiero sorrise, interrompendo la canzone. Un sorriso che comunque scomparve quasi subito, distrutto dalla vista delle pasticche sul comodino.
Allungò una mano per afferrare il tubetto. Lo osservò.
Era bianco e arancione, e prometteva sonni tranquilli.
Sapeva quasi a memoria quello che c’era scritto nelle indicazioni sul retro.
Il farmaco è indicato nel trattamento dell'ansia.
È anche indicato per bloccare o attenuare gli attacchi di panico e le fobie nei pazienti affetti da agorafobia. Le benzodiazepine sono indicate soltanto quando il disturbo e'grave, disabilitante o sottopone il soggetto a grave disagio.
Harry sospirò, rovesciandosi due compresse nella mano.
Appena mandate giù, si infilò sotto le coperte. Magari quella notte l’avrebbe passata senza incubi.
 
- Grazie per avermi coperto, ieri. –
- Solo ieri, Gemma? Dovresti iniziare a dirmele prima le cose. –
- Era un piano di riserva. –
- Dovresti iniziare a dirmeli prima, i piani di riserva. – commentò lui allora.
Alla luce delle dieci, sua sorella si era fatta viva in camera sua. Dopo essersi sdraiata accanto a lui, avevano iniziato a discutere.
- Se vuoi puoi anche restare a casa. Sono certa che Tom sarebbe felice di ospitarti per… -
- Non voglio rimanere a casa, Gemma. E smettila di vedermi solo come una zavorra pesante. Non sono una zavorra, sono tuo fratello. –
- Hai ragione. Non ti vedo come una zavorra, Harry. Ti vedo come il mio fratellino che ha passato un brutto periodo e… perdonami se delle volte non so come comportarmi. – I suoi begli occhi erano caduti sulle pasticche.
- Quella roba funziona? – gli chiese
- Non molto, a dire il vero. – rispose Harry, afferrando il tubetto e chiudendolo nel cassetto del comodino.
Quel cassetto era pieno di figurine e cianfrusaglie di quando era bambino.
Qualcosa risaliva addirittura all’epoca nella quale i suoi erano ancora sposati.
- A proposito, l’hai detto a papà? –
- Sì. Ha detto che non ci sono problemi. –
- Anche se c’è il cugino di Eleanore? –
- Gli ho detto che è gay. – alzò le spalle e ridacchiò.
Harry inarcò un sopracciglio, ma poi decise di lasciar perdere.
- Vuoi dirmi chi è questo cugino misterioso? – le domandò, sdraiandosi su un fianco.
Tutti i ricci gli crollarono sugli occhi, pizzicandogli le guance.
- Harry, sai mantenerlo un segreto? – il ragazzo la guardò come se avesse appena fatto una domanda retorica, quale in effetti era.
- Be’… non è il cugino. È il fidanzato. Ma mamma non ci avrebbe mai mandati, altrimenti. –
Harry annuì, lentamente. Il destino aveva deciso di giocargli un brutto scherzo, non c’era dubbio.
Ma no, idiota. È solo una stupida coincidenza. Cose del genere capitano sempre. E poi, per quale ragione dovrebbe toccarti?
Perciò si limitò a mettere su una faccia compunta, e a continuare ad ascoltare i vaneggiamenti di sua sorella.
 
I vestiti con i quali era arrivato avevano deciso di soffocarlo.
La maglietta gli si era totalmente appiccicata al corpo, i pantaloni gli si erano magicamente ristretti addosso, e la stupida felpa era totalmente zuppa di sudore, tanto che Harry dovette sfilarla.
- Gemma, ma tu sapevi che era così caldo? – mugolò, trascinando il bagaglio fuori dall’aeroporto.
Eppure avevano camminato solo per una quindicina di minuti.
La sorella, colta di sorpresa quanto lui, scosse la testa, quasi boccheggiando.
- A Londra non è così . –
- A Londra piove sempre – aggiunse, fermandosi di fronte a quella che doveva essere la strada.
Estrasse il cellulare e compose un qualche numero, poi parlò per qualche istante in tono troppo formale.
Sicuramente non era Eleanore.
O Louis.
- Ci viene a prendere un taxi tra poco. – commentò poi soddisfatta, riprendendo a frugare nella borsa alla ricerca di uno specchietto.
Entrambi erano in condizioni disastrose dopo il volo, ma mentre ad Harry non interessava affatto, sua sorella stava rischiando una crisi isterica.
- Appena arriviamo in Hotel mi faccio una doccia infinita. –
Hotel.
Anne, Gemma, Eleanore e persino Louis avevano litigato una settimana intera sulla questione.
Anne non voleva infatti che Harry fosse costretto a dormire con uno sconosciuto. Gemma voleva stare in stanza da sola, o in alternativa con Eleanore.
Eleanore inizialmente aveva combattuto – all’insaputa di Anne – per dormire con Louis, ma proprio due giorni prima di partire avevano avuto un’altra litigata.
Così era stato stabilito che le ragazze avrebbero dormito assieme e, dopo mille rassicurazioni da parte di Harry, si era deciso che i ragazzi avrebbero fatto lo stesso.
Con la cosa delle pasticche e tutto avrebbe preferito di certo dormire solo, ma…
Gli occhi verdi di Louis tornarono prepotenti al centro dei suoi pensieri.
Da quella strana notte i due non si erano più visti. Solo sentiti una volta al telefono, visto che Gemma gli aveva chiesto di rispondere per lui.
‘Gemma, parla tu con la Clader perché io sto impazzendo!’ aveva gridato Louis, al cellulare.
‘Problemi in paradiso?’ aveva dunque chiesto Harry.
Sulle Prime Louis non l’aveva riconosciuto, ma poi si era messo a ridacchiare.
‘Il riccetto del party dell’anno!’ era riuscito ad esordire dopo un po’, in tono sarcastico.
‘Lo scontroso del party dell’anno!’ aveva dunque risposto Harry, con una certa ilarità.
Ma la conversazione era durata ben poco perché le dita con le unghie ben curate di Gemma gli avevano strappato via il cellulare dalle mani, escludendolo per sempre da quella conversazione, senza nemmeno la possibilità di salutare.
Ma era sicuro che il ragazzo che stava all’altro capo del telefono fosse riuscito ad afferrare lo ‘stronza’ che Harry le aveva lanciato.
- Eleanore e Louis hanno risolto? – chiese Harry, di punto in bianco. Doveva essere informato, dopotutto.
Ma sua sorella gli rivolse uno sguardo di terrore puro.
- Ho paura che questa vacanza segnerà il punto di rottura. Ma è anche ora, voglio dire, è una storia che non sta in piedi… -
Harry si limitò ad assimilare.
Non riusciva a pensare ‘Povera Eleanore’ o ‘Povero Louis’, dopo quello che il ragazzo stesso gli aveva detto.
Quando il taxi arrivò, i due fratelli lo caricarono con i loro bagagli e salirono sui sedili di pelle, che si appiccicarono a loro come fanno le farfalle sulle ragnatele.
- Vedrai quando dovremo alzarci… - borbottò Harry, strappando una risatina alla sorella, che gli afferrò la mano e gli poggiò la testa sulla spalla.
I suoi capelli scottavano, forse più della sua pelle. E per un istante Harry non invidiò affatto le ragazze – o i ragazzi – dalle chiome fluenti.
I suoi si erano ammosciati, nonostante i litri di schiuma applicati. Ora gli ricadevano sulla fronte e sugli occhi.
Cercò di riavviarseli, mente l’autista guidava.
Era strano perché lì il guidatore era al contrario.
Harry tentò di guardarlo per un po’, ma proprio non riusciva ad abituarsi alla sensazione.
In più, l’uomo al volante aveva evidentemente deciso di farli ammazzare, perché guidava come se fosse inseguito.
Di fatto Harry si voltò, ma oltre a una fila di macchine veramente poco sospette non notò nulla.
Quando si voltò di nuovo, la vide.
Di fronte ai suoi occhi scintillava una soleggiata New York. 
My Medicine.
 
Il rumore delle posate che tagliavano il cibo e del telegiornale che, ad un volume moderato come al solito, trasmetteva le notizie del giorno,  la famiglia Styles stava consumando un’abbondante cena.
La famiglia Styles e il compagno di Anne, come al solito.
Nel religioso e interessato silenzio col quale stavano tutti ascoltando la tv, non fu nemmeno possibile udire Gemma poggiare le posate accanto al piatto.
La ragazza si chiarì la voce, e a quel punto il fratello le rivolse un’occhiata interrogativa.
Ma lei lo liquidò con un gesto della mano.
- Mamma… ? – Anne si girò, uno sguardo curioso sul volto, molto più eloquente di ogni altro ‘Sì, cara?’.
Anne, oltre ad essere una madre fantastica era infatti un’ottima ascoltatrice.
Aveva sposato Robin e lui si era istallato a casa loro, ma era sempre stata chiara su una cosa: i figli prima di tutto.
E così Harry e Gemma non avevano avuto alcuna difficoltà ad abituarsi a lui.
Anzi, tante volte Harry si era ritrovato a pensare al fatto che, se per qualche strano motivo Robin avesse fatto i bagagli e se ne fosse andato, avrebbe perso quell’idea di famiglia che aveva.
- Senti, devo chiederti una cosa. Però fammi fine. – aggiunse.
La conosceva tanto da sapere che la dolce Anne era un’ottima madre, sì, ma un po’ troppo rigida talvolta.
- E va bene. – acconsentì Anne, lasciandole carta bianca.
Lei si schiarì la voce ancora una volta, come se stesse annunciando chissà che. Per un attimo Harry inorridì al pensiero che magari la sua sorellina potesse essere incinta di quel tizio, quel Jake.
Ma il pensiero venne scacciato subito da un paio di occhi verdissimi.
Harry socchiuse i suoi, di occhi, sospirò con convinzione e tornò a concentrarsi sull’importantissimo discorso di Gemma.
- Io ed Eleanore Calder, hai presente quella ragazza tanto a modo che venne da noi tempo fa?, be’ ecco, noi due vorremmo andare fuori per una settimana. In vacanza. A… New York. Sai, dato che ho festeggiato da poco i fatidici ventuno… -
- Gemma, ascoltami… -
- Non ho finito. – esordì la sorella
Ma chiaramente aveva esaurito le argomentazioni, perciò lasciò la parola alla madre.
- Posso parlare ora? Onestamente tesoro, non me la sento di lasciare andare voi due ragazze da sole a New York. So che sei maggiorenne e tutto, ma non si sa mai. E tu non sei mai stata lontana da casa. –
- Sarebbe un’occasione per imparare. –
- Lo sarebbe se con voi ci fosse qualcuno di responsabile. –
- Ma… mamma, voleva venire anche Harry. –
Ed Harry non riuscì a trattenere la smorfia interrogativa sul volto.
Però, guardando la sorella, trovò i suoi occhi imploranti. E in quel momento capì di non poterla tradire.
- Davvero, Harry? Vuoi davvero andare a New York? – sua madre era stupita.
Da quando aveva passato l’ultimo ‘brutto periodo’, così la sua famiglia aveva denominato la leggera forma di depressione attraversata dal ragazzo, tutto era cambiato.
Anne si sentiva ancora in colpa per non aver capito prima i problemi del figlio.
Ma come avrebbe potuto? Si chiese Harry, guardandola con tenerezza.
Evitava sempre le domande, con loro rideva e si comportava come tutti i ragazzi adolescenti si comportano in famiglia.
Forse anche troppo bene, aveva detto sua madre.
Ma quando aveva iniziato a calare di peso lei non aveva esitato a scoprire la causa del disturbo, stroncato sul nascere a dire dello psicologo.
Harry non si sentiva tanto diverso da prima. Certo, gli attacchi di panico erano stati sostituiti da una più brutale apatia, e le nottate insonni colmate da quelle piccole pasticche per dormire.
Una sola, mi raccomando! Gli ripeteva Anne.
Ma una sola non bastava a fargli chiudere gli occhi, né a tranquillizzarlo.
Comunque stava migliorando, non vedeva più il vecchio dottore tanto spesso e si sentiva dire da tutti quanto stesse meglio, ma Anne desiderava ardentemente che si divertisse. Lo mandava alle feste con Gemma, lo impegnava in progetti assurdi.
E lui faceva tutto, tutto per non far preoccupare sua mamma. Gemma un po’ ne approfittava, ma Harry sapeva che era genuinamente preoccupata. Anche perché altrimenti, non l’avrebbe mai portato a New York con lei.
- Mi piacerebbe vedere New York. – sentì la fossetta sulla guancia. Non sapeva come, ma era in grado di sentirla, quando sorrideva.
- Oh Harry… io sarei contentissima di mandarvi ma così, da soli… -
- Mi sono dimenticata di dirti che viene anche il cugino di Eleanore. – Anne sbattè le palpebre un paio di volte, con aria interrogativa.
- Quanti anni ha, questo cugino? –
- L’età di Eleanore. – Gemma sorrise. L’aveva in pugno.
- Suppongo che prima o poi i pulcini debbano lasciare il nido. Ebbene, ma voglio prenotare l’aereo, i biglietti e tutto il resto con te, signorina. –
 
- Chi diavolo è il cugino di Eleanore? –
- È… un tizio. Non lo conosci, lascia perdere. Adesso non è il momento, te lo presento quando… Oh Eleanore! Mia madre ha detto di sì! – Gemma si chiuse la porta alle spalle, lasciando un Harry con i capelli all’aria e lo sguardo interdetto.
La copro e nemmeno mi ringrazia. Che ingrata.
Harry si avviò nella sua stanza, pronto per dormire. Dopotutto se lei non voleva dargli alcuna spiegazione, non avrebbe avuto di meglio da fare.
Il letto di ottone scricchiolava. Era un letto così vecchio e consumato dal tempo che il ragazzo temeva che prima o poi avrebbe perso misteriosamente una zampa, quella che di tanto in tanto sentiva traballare, e lui si sarebbe ritrovato a terra.
La sua stanza era la più grande e luminosa della casa.
Aveva una finestra enorme che dava sulla via, e quando si dimenticava di tirare le tende veniva svegliato alle cinque del mattino dai primi albori del giorno.
Delle volte lo faceva apposta, per vedere l’alba, ma ancora più spesso capitava che lasciandole aperte Anne venisse a chiudergliele, stampandogli anche un bacio sulla tempia.
Si svegliava quasi sempre, visto il suo sonno di carta, nonostante le pasticche.
Si sedette sul bordo, per poi sdraiarsi supino.
New York. L’idea lo terrorizzava e gli piaceva allo stesso tempo. C’erano così tante cose da vedere e da fare, a New York.
A labbra strette e sottovoce, cominciò a canticchiare il motivetto di un musical che da bambino aveva amato, West side story.
Al pensiero sorrise, interrompendo la canzone. Un sorriso che comunque scomparve quasi subito, distrutto dalla vista delle pasticche sul comodino.
Allungò una mano per afferrare il tubetto. Lo osservò.
Era bianco e arancione, e prometteva sonni tranquilli.
Sapeva quasi a memoria quello che c’era scritto nelle indicazioni sul retro.
Il farmaco è indicato nel trattamento dell'ansia.
È anche indicato per bloccare o attenuare gli attacchi di panico e le fobie nei pazienti affetti da agorafobia. Le benzodiazepine sono indicate soltanto quando il disturbo e'grave, disabilitante o sottopone il soggetto a grave disagio.
Harry sospirò, rovesciandosi due compresse nella mano.
Appena mandate giù, si infilò sotto le coperte. Magari quella notte l’avrebbe passata senza incubi.
 
- Grazie per avermi coperto, ieri. –
- Solo ieri, Gemma? Dovresti iniziare a dirmele prima le cose. –
- Era un piano di riserva. –
- Dovresti iniziare a dirmeli prima, i piani di riserva. – commentò lui allora.
Alla luce delle dieci, sua sorella si era fatta viva in camera sua. Dopo essersi sdraiata accanto a lui, avevano iniziato a discutere.
- Se vuoi puoi anche restare a casa. Sono certa che Tom sarebbe felice di ospitarti per… -
- Non voglio rimanere a casa, Gemma. E smettila di vedermi solo come una zavorra pesante. Non sono una zavorra, sono tuo fratello. –
- Hai ragione. Non ti vedo come una zavorra, Harry. Ti vedo come il mio fratellino che ha passato un brutto periodo e… perdonami se delle volte non so come comportarmi. – I suoi begli occhi erano caduti sulle pasticche.
- Quella roba funziona? – gli chiese
- Non molto, a dire il vero. – rispose Harry, afferrando il tubetto e chiudendolo nel cassetto del comodino.
Quel cassetto era pieno di figurine e cianfrusaglie di quando era bambino.
Qualcosa risaliva addirittura all’epoca nella quale i suoi erano ancora sposati.
- A proposito, l’hai detto a papà? –
- Sì. Ha detto che non ci sono problemi. –
- Anche se c’è il cugino di Eleanore? –
- Gli ho detto che è gay. – alzò le spalle e ridacchiò.
Harry inarcò un sopracciglio, ma poi decise di lasciar perdere.
- Vuoi dirmi chi è questo cugino misterioso? – le domandò, sdraiandosi su un fianco.
Tutti i ricci gli crollarono sugli occhi, pizzicandogli le guance.
- Harry, sai mantenerlo un segreto? – il ragazzo la guardò come se avesse appena fatto una domanda retorica, quale in effetti era.
- Be’… non è il cugino. È il fidanzato. Ma mamma non ci avrebbe mai mandati, altrimenti. –
Harry annuì, lentamente. Il destino aveva deciso di giocargli un brutto scherzo, non c’era dubbio.
Ma no, idiota. È solo una stupida coincidenza. Cose del genere capitano sempre. E poi, per quale ragione dovrebbe toccarti?
Perciò si limitò a mettere su una faccia compunta, e a continuare ad ascoltare i vaneggiamenti di sua sorella.
 
I vestiti con i quali era arrivato avevano deciso di soffocarlo.
La maglietta gli si era totalmente appiccicata al corpo, i pantaloni gli si erano magicamente ristretti addosso, e la stupida felpa era totalmente zuppa di sudore, tanto che Harry dovette sfilarla.
- Gemma, ma tu sapevi che era così caldo? – mugolò, trascinando il bagaglio fuori dall’aeroporto.
Eppure avevano camminato solo per una quindicina di minuti.
La sorella, colta di sorpresa quanto lui, scosse la testa, quasi boccheggiando.
- A Londra non è così . –
- A Londra piove sempre – aggiunse, fermandosi di fronte a quella che doveva essere la strada.
Estrasse il cellulare e compose un qualche numero, poi parlò per qualche istante in tono troppo formale.
Sicuramente non era Eleanore.
O Louis.
- Ci viene a prendere un taxi tra poco. – commentò poi soddisfatta, riprendendo a frugare nella borsa alla ricerca di uno specchietto.
Entrambi erano in condizioni disastrose dopo il volo, ma mentre ad Harry non interessava affatto, sua sorella stava rischiando una crisi isterica.
- Appena arriviamo in Hotel mi faccio una doccia infinita. –
Hotel.
Anne, Gemma, Eleanore e persino Louis avevano litigato una settimana intera sulla questione.
Anne non voleva infatti che Harry fosse costretto a dormire con uno sconosciuto. Gemma voleva stare in stanza da sola, o in alternativa con Eleanore.
Eleanore inizialmente aveva combattuto – all’insaputa di Anne – per dormire con Louis, ma proprio due giorni prima di partire avevano avuto un’altra litigata.
Così era stato stabilito che le ragazze avrebbero dormito assieme e, dopo mille rassicurazioni da parte di Harry, si era deciso che i ragazzi avrebbero fatto lo stesso.
Con la cosa delle pasticche e tutto avrebbe preferito di certo dormire solo, ma…
Gli occhi verdi di Louis tornarono prepotenti al centro dei suoi pensieri.
Da quella strana notte i due non si erano più visti. Solo sentiti una volta al telefono, visto che Gemma gli aveva chiesto di rispondere per lui.
‘Gemma, parla tu con la Clader perché io sto impazzendo!’ aveva gridato Louis, al cellulare.
‘Problemi in paradiso?’ aveva dunque chiesto Harry.
Sulle Prime Louis non l’aveva riconosciuto, ma poi si era messo a ridacchiare.
‘Il riccetto del party dell’anno!’ era riuscito ad esordire dopo un po’, in tono sarcastico.
‘Lo scontroso del party dell’anno!’ aveva dunque risposto Harry, con una certa ilarità.
Ma la conversazione era durata ben poco perché le dita con le unghie ben curate di Gemma gli avevano strappato via il cellulare dalle mani, escludendolo per sempre da quella conversazione, senza nemmeno la possibilità di salutare.
Ma era sicuro che il ragazzo che stava all’altro capo del telefono fosse riuscito ad afferrare lo ‘stronza’ che Harry le aveva lanciato.
- Eleanore e Louis hanno risolto? – chiese Harry, di punto in bianco. Doveva essere informato, dopotutto.
Ma sua sorella gli rivolse uno sguardo di terrore puro.
- Ho paura che questa vacanza segnerà il punto di rottura. Ma è anche ora, voglio dire, è una storia che non sta in piedi… -
Harry si limitò ad assimilare.
Non riusciva a pensare ‘Povera Eleanore’ o ‘Povero Louis’, dopo quello che il ragazzo stesso gli aveva detto.
Quando il taxi arrivò, i due fratelli lo caricarono con i loro bagagli e salirono sui sedili di pelle, che si appiccicarono a loro come fanno le farfalle sulle ragnatele.
- Vedrai quando dovremo alzarci… - borbottò Harry, strappando una risatina alla sorella, che gli afferrò la mano e gli poggiò la testa sulla spalla.
I suoi capelli scottavano, forse più della sua pelle. E per un istante Harry non invidiò affatto le ragazze – o i ragazzi – dalle chiome fluenti.
I suoi si erano ammosciati, nonostante i litri di schiuma applicati. Ora gli ricadevano sulla fronte e sugli occhi.
Cercò di riavviarseli, mente l’autista guidava.
Era strano perché lì il guidatore era al contrario.
Harry tentò di guardarlo per un po’, ma proprio non riusciva ad abituarsi alla sensazione.
In più, l’uomo al volante aveva evidentemente deciso di farli ammazzare, perché guidava come se fosse inseguito.
Di fatto Harry si voltò, ma oltre a una fila di macchine veramente poco sospette non notò nulla.
Quando si voltò di nuovo, la vide.
Di fronte ai suoi occhi scintillava una soleggiata New York. 

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