Tetragrammaton

di Madison Alyssa Johnson
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Quel Maggiordomo, Viaggiatore ***
Capitolo 2: *** Quel Maggiordomo, Bellicoso ***
Capitolo 3: *** Quel Maggiordomo, Sadico ***
Capitolo 4: *** Quel Maggiordomo, Intransigente ***
Capitolo 5: *** Quel Maggiordomo, Inarrestabile ***
Capitolo 6: *** Quel Maggiordomo, Premuroso ***
Capitolo 7: *** Quel Maggiordomo, Patteggiatore ***
Capitolo 8: *** Quel Maggiordomo, Efficiente ***
Capitolo 9: *** Quel Maggiordomo, Autoritario ***
Capitolo 10: *** Quel Maggiordomo, Acuto ***
Capitolo 11: *** Quel Maggiordomo, Tempestivo ***
Capitolo 12: *** Quel Maggiordomo, Orgoglioso ***
Capitolo 13: *** Quel Maggiordomo, Scettico ***
Capitolo 14: *** Quel Maggiordomo, Feroce ***
Capitolo 15: *** Quel Maggiordomo, Sorpreso ***
Capitolo 16: *** Quel Maggiordomo, Audace ***
Capitolo 17: *** Quel Maggiordomo, Sospettoso ***
Capitolo 18: *** Quel Maggiordomo, Sorprendente ***



Capitolo 1
*** Quel Maggiordomo, Viaggiatore ***








 
Il treno correva. Tagliava la campagna sulla scia delle rotaie e si lasciava alle spalle una coda di fumo denso e nero. Il suo fischio ancora rimbombava nelle orecchie di Ciel.
Il Conte Phantomhive scoccò un’occhiata svogliata al paesaggio che sfocava in lontananza, ma non ottenne alcun giovamento per il proprio mal di testa. Tornò a guardare la lettera della regina. L’aveva letta fino a impararla a memoria. Dietro il velo di leziosa condiscendenza che la sovrana insisteva a usare con lui, sentiva netto e acre il tanfo della sfiducia. Qualcosa era cambiato, dopo la vicenda del Noah’s Ark Circus. Non era un caso, se per poco non aveva rischiato una condanna per omicidio. L’aveva scampata grazie a Sebastian, ma senza di lui sarebbe finito a marcire nella London Tower fino alla fine dei sui giorni ‒ per decapitazione, supponeva. Ogni volta che ci pensava gli venivano i brividi. Strinse i denti e rafforzò la presa sul bastone da passeggio. Non si sarebbe mai mostrato debole davanti al suo demone. Poteva sentire il suo sguardo addosso e non aveva voglia di immaginare quale genere di pensieri si celasse dietro quel sorriso ieratico. Di certo, erano riflessioni su quanto fosse gustosa la sua anima, o giù di lì. Arricciò le labbra in un macabro sorriso. Mancava ancora tanto al giorno del pagamento e, fino ad allora, lo avrebbe fatto sudare. Se voleva divorarlo, avrebbe dovuto giocare ogni asso nella sua manica inamidata. « Smettila di mangiarmi con gli occhi, Sebastian. »  
Il demone sorrise. « Come desiderate, padroncino. » rispose. Accavallò le lunghe gambe e rivolse lo sguardo all’esterno. 
« Hai già preso i biglietti per il traghetto? »
« Naturalmente. Ci imbarcheremo domattina e saremo a Dublino per metà pomeriggio. Per la notte alloggeremo al Poseidon, nella zona portuale. Con così poco preavviso non ho potuto fare di più. »
Il ragazzo gli scoccò un’occhiata gelida. « Mi auguro non sia una bettola, Sebastian. » disse, torvo. « Mi seccherebbe molto dormire tra le tarme. »
« Il Poseidon gode di ottima reputazione e non ho visto tarme, quando ho fatto la prenotazione. »
Ciel gli concesse un assenso svogliato. Chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie. Continuava a pensare che a Dublino non avrebbe potuto avvalersi dei suoi soliti contatti: Lau non sarebbe stato a portata di mano e nemmeno Undertaker. Non che avrei potuto comunque chiedergli nulla. ricordò. Con quello che era successo con i cadaveri semoventi, poteva depennarlo dalla lista dei suoi alleati. Scosse la testa e nascose uno sbadiglio con la mano. Non aveva niente di meglio da fare e dormire lo avrebbe aiutato a liberarsi dell’emicrania, se non altro. Si stese sul divanetto foderato di damasco. « Svegliami solo se arriva qualcuno o se raggiungiamo la stazione. » ordinò.
« Sì, padroncino. » rispose Sebastian. Attese che il ragazzo chiudesse l’occhio e raccolse la lettera caduta. 

 

La regina era, come sempre, avara di informazioni e di aiuti, ma si aspettava che il suo Cane da Guardia compisse l’ennesimo miracolo. Nascondeva le minacce dietro inutili amenità, talvolta, ma in quel caso si era accontentata di utilizzare un tono condiscendente e infarcire l’apertura e la chiusura del testo con qualche riferimento alle vacanze che il conte non avrebbe potuto godersi. Se stava cercando di punirlo per i fatti della Weston, ci stava riuscendo bene.
Sebastian sapeva quali dubbi Ciel avesse iniziato a nutrire a proposito della sanità mentale della donna, ma non li condivideva. Avrebbe potuto elencare diversi difetti della sovrana, ma era pronto ad affermare con sicurezza che la trovava del tutto sana di mente e, per questo, ancora più pericolosa. Ripose la lettera e si mise comodo. Il viaggio era lungo e la veglia non sarebbe stata da meno. 

La stazione di Liverpool era tutt’altra cosa, rispetto a quella di Londra. Non poteva vantare lo stesso lustro, né la stessa ampiezza. Non era abituata a gestire il medesimo flusso di viaggiatori e il numero di addetti ai lavori lasciava a desiderare. Era il caos.
L’anticamera di Dite. pensò Ciel, ma ebbe il buon gusto di non dirlo. Non voleva che Sebastian gli ridesse in faccia. Odiava la libertà con cui il suo dannato maggiordomo lo faceva, senza nemmeno tentare di trattenersi. Corrugò le sopracciglia e stirò le labbra in una smorfia di disappunto. « Sebastian, il mio bagaglio. »
« Sì, signorino. » Il demone sparì nella folla per una manciata di secondi appena, quanto bastava a procurare un carrello. Vi caricò il proprio baule e quello del padroncino senza preoccuparsi di nascondere la propria forza, ma una volta fuori dalla stazione riprese la solita compostezza. Fermò una vettura a nolo e caricò i bagagli, quindi restituì il carrello e aiutò il padroncino a salire.
Il postiglione era abituato a tutti quei maneggi e non protestò per la lentezza dell’operazione, ma quando li aiutò a scaricare i bagagli davanti al Poseidon chiese una mancia extra.
Ciel lo fulminò con un’occhiata, ma fece comunque cenno a Sebastian di dargli quanto richiesto. Nonostante avesse dormito per buona parte del viaggio, sembrava propenso a dormire ancora, eppure gestì il check-in con totale lucidità e non senza alterigia. Ritirò la chiave e precedette il maggiordomo lungo la scala che portava al piano superiore mentre quello trafficava con il montacarichi.
La stanza centotredici era al primo piano, nel corridoio destro. Non era proprio un bugigattolo, ma quasi. Ospitava a stento i due letti singoli con i rispettivi comodini e il bagno era più una specie di scatola di cartongesso. Era un vero e proprio miracolo che avessero una finestra ciascuno. Le lenzuola sembravano pruriginose solo a guardarle, ma la cosa peggiore era l’odore di pescheria che saliva dalla strada su cui si affacciava la stanza.
« Dannato Sebastian. » ringhiò Ciel. L’odore di mare non gli dispiaceva, ma la puzza del pescato che poco a poco marciva sotto al sole lo faceva vomitare.
« Qualcosa non va, padroncino? » chiese il diavolo, entrato in quel momento.
Ciel lo fulminò con un’occhiata. « Giudica tu stesso. »
Sebastian si portò la mano destra al mento. « Oh, cielo. » disse. « Le mie scuse, padroncino, per questo increscioso inconveniente. »
« Risolvi la cosa. Subito. »
« Come desiderate. » rispose il maggiordomo. Si affacciò alla finestra.
Per fortuna, la pescheria era già chiusa e la strada era in penombra. La causa della puzza erano i resti del pesce che giacevano abbandonati in un cassonetto poco distante.
Saltò giù dalla finestra come un gatto e spostò il cassonetto in fondo alla strada, abbastanza distante dalla finestra affinché l’odore non disturbasse il suo contraente. Per precauzione, lavò anche la strada e spruzzò un gradevole deodorante all’aroma di lavanda per depurare l’aria. Rientrò in camera così come ne era uscito e appese alcuni sacchetti di lavanda sulla finestra per tenere fuori l’odore.
Ciel non commentò. Un padrone normale avrebbe ne forse elogiato l’operato, ma, per come la vedeva lui, non aveva fatto niente di eccezionale. « Preparami il bagno, Sebastian. » ordinò invece.
Il demone non protestò. « Sì, padroncino. » Accennò un inchino e mise a scaldare l’acqua. Riempì la vasca di acqua calda e fredda per regolare la temperatura come piaceva al ragazzo e sistemò la finestra nello stesso modo dell’altra. « Il bagno è pronto, padroncino. » annunciò.
Il Conte, steso sul letto ancora vestito, aprì l’occhio con il sigillo e borbottò. Si lasciò spogliare e lavare senza dire una parola, più che altro perché doveva lottare con la sonnolenza che lo invogliava ad assopirsi, cullato dal calore dell’acqua e dal tocco abile e delicato di Sebastian. Si costrinse a restare sveglio per semplice orgoglio, ma quando il demone lo vestì per la notte e lo mise a letto non fece le solite storie. Crollò addormentato come un sacco di patate e basta, in barba alle coperte fastidiose, al materasso bitorzoluto e al cuscino sgonfio.
Sebastian sorrise, disteso sul proprio letto. Il padroncino non era poi così irritante, quando stava zitto.

 

Saldarono il conto di mattina presto.
L’assonnato portiere non gradì dover maneggiare i soldi con gli occhi ancora mezzi chiusi, ma fece il suo dovere. Se avesse saputo chi aveva davanti, forse avrebbe ringraziato tutti i santi di sua conoscenza che il Conte non avesse riversato su di lui le sue lamentele.
L’unico motivo per cui Ciel si era accontentato di trucidarlo con gli occhi era stata la fretta. Si sentiva del tutto sveglio e criticare era uno dei suoi passatempi preferiti, ma non poteva rischiare di perdere il traghetto. Non intendeva passare un minuto di più in quel tugurio, il cui unico merito era essere vicino al molo. « Se ti azzardi a trascinarmi di nuovo in un simile postaccio, giuro che come minimo ti cavo gli occhi. » disse, una volta fuori dall’edificio. Altro che ottima reputazione! Era stato uno scherzo di pessimo gusto e l’avrebbe fatta pagare a quel dannato.
Sebastian non si scompose. « E cosa ve ne fareste, poi, di un demone cieco? » chiese, beffardo.
Ciel si voltò e sorrise. « Sono abbastanza sicuro che tu possa cavartela egregiamente anche senza la vista. » rispose, mellifluo, quindi riprese a camminare.
Il maggiordomo inarcò un sopracciglio, ma non rispose. Un paio di volte dovette indirizzare il padroncino ‒ che si ostinava a voler “guidare” anche se non aveva idea di dove andare ‒ sul giusto percorso, ma riuscirono a raggiungere il traghetto senza perdersi.
Il St. Anne non era una nave da crociera. Rispetto al Campania era quasi minuscolo. Restava comunque più massiccio di un battello da fiume, ma avrebbe potuto portare appena un terzo dei passeggeri del transatlantico su cui si era consumata la tragedia dei cadaveri semoventi.
Ciel arricciò il naso. Quel viaggio si stava dimostrando ancor più ostico di quanto avesse supposto all’inizio. Scosse la testa.
La ressa intorno alle passerelle di terza classe appariva opprimente già a distanza, mentre per la prima le cose sembravano funzionare con più calma. I passeggeri erano disposti in una fila ordinata, già muniti di biglietto, e il censimento pareva fluire con una certa rapidità.
Conte e servitore si unirono alla coda. Nessuno dei due parlò, per tutto il tempo dell’imbarco, che fu lungo e tedioso.
« Avete la cabina diciassette, Conte Phantomhive. Ponte di passeggiata, verso prua. Seguite i cartelli. » disse l’attendente, una volta ritirato il biglietto. « Partiremo tra un’ora al massimo. »
Ciel si morse le labbra e annuì. Era stato paziente fino a quel punto; non poteva esplodere proprio alla fine, anche se sentiva l’irritazione gorgogliare nel suo stomaco ‒ o era la fame? Decise di non volerci pensare e si mise in cerca della cabina.
I cartelli erano a prova di idiota, tanto che persino quei tre svampiti dei suoi domestici sarebbero riusciti a seguirli. Mancavano solo i disegnini.
Il Conte sbuffò e inserì la chiave nella toppa.
Se non altro, la cabina era all’altezza delle aspettative. Non più grande della stanza dove aveva trascorso la notte, era di certo meglio arredata, con un’allegra carta da parati a righe bianche e azzurre e un bel letto comodo nell’angolo.
Sebastian si dovrà accontentare della poltrona, stavolta. pensò, con un sorrisetto. Si fece da parte per permettere al maggiordomo di portare dentro i bagagli, quindi chiuse la porta. « Una volta a Dublino, dovremo subito iniziare le ricerche. » disse. Sedette all’indiana sul letto e appoggiò la schiena contro la parete.
Il maggiordomo lo guardò.
« Come prima cosa, dovrai procurarmi i verbali della polizia e una lista completa delle vittime. Voglio sapere quando sono spariti, dove e quando sono stati ritrovati e se c’era qualche legame tra di loro. » ordinò il Conte.
« Sarà fatto. »
« Inoltre, voglio sapere tutto di questa storia di Molly Mangiauomini e cosa aveva di speciale il visconte per essere trattato con tanto riguardo. »
« Naturalmente, padroncino. » Il demone annuì. « Pensate c’entrino qualcosa i cadaveri semoventi di Undertaker? » s’informò.
Ciel increspò le labbra e mugugnò. « No. » decise. « Non credo che Undertaker avrebbe liberato un’orda di non morti in giro per Dublino dopo quanto successo sulla Campania e alla Weston. E, se fosse stato qualcun altro, avrebbe fatto fatica a controllarli. » spiegò. « Inoltre, restituire un cadavere significa esporsi ad un pericolo inutile. Non è il modus operandi di qualcuno intenzionato a condurre esperimenti sui non morti. »
Sebastian annuì, senza smettere di trafficare con gli strumenti da cucina sull’unico tavolo libero. « E se non fosse stata Molly Mangiauomini a restituire il cadavere del visconte? »
« È quello che spero. » ammise Ciel. « Vorrebbe dire un elemento di disturbo per il criminale. Potrebbe tornare a mio vantaggio. »
« Molto scaltro, padroncino. »
Ciel si concesse un sorrisetto soddisfatto, quindi tornò a farsi serio. « Perché Molly Mangiauomini? » rifletté a voce alta. Doveva togliersi quel vizio, ma a volte non riusciva a farne a meno.
« Voi siete troppo piccolo per saperlo, padroncino, ma è così che sono chiamate le donne molto... esperte. » gli rispose il maggiordomo, senza smettere di sbattere le uova. « E se non sbaglio c’è una leggenda che parla proprio di una donna di quella risma che si chiamava appunto Molly, Molly Malone[1]. Pare le abbiano anche dedicato una canzone[2], di recente. »
« Jack lo Squartatore era una donna... e mezza. » obiettò Ciel. Era arrossito, ma non avrebbe comunque permesso a quel dannato demone di metterlo in ridicolo.
« Certo. » assentì Sebastian.
« E una donna sola non potrebbe sopraffare un uomo di media corporatura. »
« Non se fosse umana... ma non ne avrebbe bisogno. »
Ciel arrossì di nuovo e nascose il viso tra le spalle nella speranza che il demone non lo notasse. « Pensi possa essere stato un demone, o qualcosa di simile? »
« Ci sono demoni che preferiscono la carne alle anime, sì. » ammise Sebastian. « Ma è presto per fare supposizioni. »
Il Conte annuì e gettò un’occhiata al mare attraverso l’oblò. Di casi strani ne aveva visti molti, in tre anni, e non aveva mai esitato nel gestirli, ma quella volta era diversa. Sentiva una strana inquietudine strisciargli nelle viscere. Se il nemico si fosse davvero rivelato inumano, il potere di Sebastian sarebbe stato sufficiente?
 
[1] Non si sa molto di Molly Malone in quanto personaggio storico. Secondo alcuni, si tratterebbe di una donna morta il 13 giugno 1699 e battezzata nella chiesa di Sant’Andrea.
[2] La canzone, intitolata Molly Malone, o Cockles and Mussels, è una canzone tradizionale irlandese e inno ufficioso della città di Dublino. La data di composizione è ignota, ma si ritiene risalga alla seconda metà dell’Ottocento. Nonostante ciò, il personaggio era precedente, in quanto già nel Settecento il nome della donna compare in un testo. 
 
 




E niente. L'ho fatto. Contrariamente ai pronostici, sono di nuovo qui con una nuova fan fiction - una long, per di più! 
Come si può intuire dal prologo, questa storia si ispira al manga e si colloca subito prima dei fatti della Green Witch, per cui, se non ci siete ancora arrivati, potrebbe contenere spoiler. Non so se e quanto accennerò ai fatti del manga, ma potrebbe capitare, perciò se non volete spoiler, vi tocca o fermarvi, o recuperare. 
Per quanto riguarda rating e avvertimenti, ho messo giallo di base, ma potrebbe salire e ho messo l'avviso Violenza perché si parla di omicidi e poi perché spesso e volentieri Sebastian è costretto a combattere per difendere il suo Bocchan (amo come il doppiatore dell'anime pronuncia questa parola, ma non la userò nel testo, purtroppo ;w;) e già nel prossimo capitolo ci sarà la prima scena sanguinolenta. Non troverete, invece, Lemon, per quanto abbia messo Yaoi come indicazione, perché Ciel ha tredici anni e il regolamento vieta di descrivere rapporti tra un adulto e un minorenne, anche se l'adulto in questione è "ageless" come Sebastian. ç_ç Ma non temete: se dovesse venirmi il colpo di genio per qualcosa di focoso, potrete trovare i capitoli non censurati altrove, su una piattaforma dove non sono vietati. uwu Per ora non faccio promesse, comunque, perché prima di arrivare a quello voglio sviluppare per bene il rapporto tra Sebastian e Ciel e rendere credibile il loro avvicinamento sentimentale. 
So, thsi is it. Se la storia vi piace, fatemelo sapere e farete di me una scribacchina felice. :3

Anche se mi è costato, ho epurato ogni traccia di "Yes, my Lord." ewe Mi mancherà non poterlo usare. Faceva tanto "Sebastian". Dava quel tocco di figagine in più, ma la logica è la logica.
 

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Capitolo 2
*** Quel Maggiordomo, Bellicoso ***


Ciel studiò i fogli di fronte a sé, quindi il volto sorridente di Sebastian. « Tutto qui? »
Il maggiordomo annuì. « A quanto pare, la polizia locale non è interessata a stilare rapporti dettagliati come Yard. Ho fatto del mio meglio con quello che avevo. »
Il Conte inarcò il sopracciglio destro e accavallò le gambe. « Riassumi. » ordinò. Non aveva voglia di perdere tempo a leggere, se poteva ascoltare. Era convinto che la memoria uditiva fosse molto più efficace di quella visiva, o almeno era quello che sosteneva di solito.
« Sì, padroncino. » rispose il demone. « Pare che i primi a sparire siano stati due scaricatori di porto, Keeran Murphy, di quarantasei anni, e Sean O’Sullivan, di trentotto. Il primo è sparito a fine marzo, ma la sua scomparsa è stata denunciata solo ai primi di aprile, mentre il secondo è sparito tre giorni dopo di lui. Entrambi risultano tutt’ora scomparsi, nonostante siano passati due mesi dalla loro sparizione. Potrebbero non avere niente a che fare con il caso. »
« Mh-mh. Continua. »
« Una settimana dopo è stato ritrovato un borseggiatore della Northside con il ventre squarciato. Il rapporto diceva che probabilmente si trattava di una rissa finita male e dava per scontato che a mangiarlo fossero stati i randagi della zona, ma... »
« Mangiarlo? »
« Sì, signorino. » confermò Sebastian. « Il referto del medico legale descriveva un corpo in buona misura spolpato, con segni di morsi persino sulle ossa. Tuttavia, qualcosa deve aver interrotto il divoratore, perché il corpo era ancora riconoscibile, al momento del ritrovamento. »
Il Conte sogghignò. « Quindi era questo che intendevano con Mangiauomini, non le sciocchezze di cui parlavi tu. » commentò, compiaciuto.
Il demone non lo contraddisse, ma il sorrisetto che rivolse al padroncino fu piuttosto chiaro su quello che pensava della sua ingenuità e bastò a innervosire Ciel.
« C’è altro? »
Il maggiordomo tornò serio. « Abbastanza. » ammise. « Questa altalena di sparizioni e ritrovamenti va avanti da due mesi, senza uno schema preciso. I corpi ritrovati non sono che una minima parte, ma non è possibile dire se sia perché gli scomparsi sono ancora vivi o perché il colpevole è diventato più abile a occultarli. Quello che è certo è che i tempi si stanno allungando. Thomas Walsh, il borseggiatore, è stato trovato morto due giorni dopo essere sfuggito a un inseguimento, ma tra la scomparsa di Blaine Doherty e il ritrovamento del suo cadavere sembra sia passato quasi un mese. È sparito poco prima del figlio del duca, forse una settimana, ma è stato ritrovato nello stesso giorno. » spiegò. « È passato quasi inosservato, ma il fatto è piuttosto insolito: è il primo cadavere del caso nella Southside. »
Ciel annuì. « Peccato che i morti non parlino. » commentò. Un sorrisetto distese le sue morbide labbra da bambino, così simile a quelli del suo maggiordomo da fare quasi paura. « Gli Shinigami, in compenso, possono dimostrarsi piuttosto loquaci, con il giusto incoraggiamento. »
« Siete sicuro di quello che volete fare, padroncino? » chiese Sebastian, più divertito che preoccupato. La prospettiva di saldare qualche conto aperto non gli dispiaceva per niente.
« Naturalmente. »
Il demone sorrise. « Come desiderate, allora. »


 

Il quartiere di Ballymun era di certo il più malfamato di Dublino. La sua cattiva fama era stata rinforzata da decenni di stupri, omicidi e crimini d’ogni sorta e gravità.
Sebastian aveva scelto il quartiere seguendo il proprio naso. Il profumo delle anime in quella zona si mescolava a quello del sangue. Gli solleticava l’olfatto e titillava la sua fame. Se fosse stato, come certi altri demoni, più propenso all’abbandono ferale che al rigido controllo della ragione, avrebbe già ceduto da un pezzo a quel richiamo, ma lui era vecchio, troppo perché potesse importargli qualcosa di anime di bassa lega come quelle. Ne bramava una soltanto e non si sarebbe nutrito fino al giorno in cui l’avrebbe potuta gustare, così il suo banchetto sarebbe risultato ancor più delizioso. Abbassò lo sguardo nel vicolo alla propria sinistra.
Vestito da garzone, il suo padroncino era irriconoscibile. Non aveva la sua stessa grazia nei movimenti, ma era preciso come un chirurgo. Soprattutto, si muoveva con sicurezza. Non avrebbe ingannato lui, ma per chiunque altro da quelle parti sarebbe stato convincente.
Avrebbe preferito non portarlo con sé, ma sarebbe stato più facile quello che non trascinare uno Shinigami recalcitrante fino al King Lear.
Tre tetti più avanti, seminascosto da un comignolo, un luccichio catturò la sua attenzione.
« Ci siamo. » sussurrò, più a se stesso che al padroncino. Saltò in strada e lo prese in braccio in un unico movimento fluido. « Tenetevi. » raccomandò e tornò a volteggiare tra i tetti.
Un intenso odore di sangue lo colpì in quel momento e la luce sprigionata dai Cinematic Record inondò il vicolo.
Lo Shinigami era stato più veloce del previsto, ma, dalla lentezza con cui esaminava i ricordi del defunto, non doveva essere troppo pratico.
Il demone gli fu addosso in un attimo. Lo colpì alla schiena con un calcio che lo mandò dritto nel muro. Mise giù il ragazzi e sorrise allo sfortunato novizio. « Chiedo scusa per la rudezza, ma ci serve un’informazione. » disse, con quel tono gentile che tanto disorientava i suoi avversari. Da buon maggiordomo, avrebbe continuato a sorridere anche mentre teneva quel moccioso inchiodato a terra con un piede sulla gola, perché quelle erano le regole del gioco.
« U-Un... informazione? » chiese il dio della morte. Era un giovanotto dall’aria davvero ammodo, lontano dagli eccessi dei suoi colleghi. Forse si sarebbe rivelato ancora più pazzo di Grell Sutcliffe, una volta che avesse preso confidenza con il proprio mestiere, ma per il momento sembrava indifeso.
Sebastian annuì. « E se sarete così gentile da fornircela eviteremo che questa conversazione diventi... spiacevole. »
« Vogliamo sapere chi ha raccolto l’anima di Blaine Doherty. » intervenne Ciel. Si interpose tra lo Shinigami e la sua perduta Death Scythe e scoprì il sigillo che nascondeva dietro la benda.
Il novizio sgranò gli occhi. Non aveva la più pallida idea di chi diavolo fosse Blaine Doherty e ancor meno di quale dei suoi colleghi potesse aver preso la sua anima. « Q-Questo è il mio primo giorno! » urlò. Si fece scudo al viso con le braccia e strizzò gli occhi, quasi si aspettasse di essere colpito.
Conte e maggiordomo di scambiarono uno sguardo.
« Piano B. » disse Ciel. « Sebastian, pestalo fino a che qualcuno dei suoi superiori non viene a salvarlo. »
« No, vi prego! Vi prego! Parliamone! » implorò lo sfortunato.
Sebastian ignorò le sue suppliche. « Sì, padroncino. » rispose e lo colpì al mento con un calcio. « Vi avverto: potrebbe volerci un po’. » precisò, ma non si fermò. C’era una misteriosa eleganza nella compostezza con cui infliggeva dolore. Era misurato, sorridente, eppure centrava il bersaglio con implacabile precisione. Rispetto a quando aveva affrontato Grell per l’omicidio di Madame Red, sembrava quasi ci stesse andando piano, nonostante avesse già ridotto il viso della sua preda a una maschera di sangue ed ematomi. « È una fortuna che gli umani non possano né vederli, né sentirli. » commentò.
Nonostante in strada non ci fosse nessuno a parte loro tre, lo Shinigami non smetteva di gridare. Piangeva e invocava aiuto come un marmocchio. Era patetico.
« Già. » riconobbe Ciel, annoiato. « Mettici più impegno, Sebastian. Non voglio stare qui tutta la notte. »
« Sì, signorino. » rispose il demone. Premette il tacco del mocassino sul dorso della mano sinistra del novellino e fece forza fino a mandare in pezzi le ossa. Premette ancora e sentì le schegge d’osso grattare contro la suola  e forare la pelle.
Ormai, lo Shinigami era in shock. Se fino a quel momento aveva pianto e invocato pietà, a quel punto non era più in grado di gestire il dolore. Scoppiò a ridere, isterico, e a sciorinare nomi. Era impossibile dire se fossero le anime che aveva mietuto quel giorno o suoi colleghi, anche perché, dopo il terzo, quarto nome, le parole si mescolarono tanto al riso da diventare incomprensibili.
« Ho sempre saputo che voi demoni siete delle bestie, ma questo... supera persino i miei incubi peggiori. »
« S-Signor Spears! » squittì il novizio, che aveva riconosciuto la voce del superiore. Se non fosse stato inchiodato al terreno dal piede di Sebastian, gli sarebbe di certo saltato al collo, o almeno ci avrebbe provato.
Will lo ignorò. « Prendersela con un novellino! » sputò e con la Death Scythe mirò al petto del maggiordomo.
Il demone schivò il colpo e con un balzo raggiunse lo Shinigami sul tetto.  « Desolato, ma questo era il solo modo per farvi uscire allo scoperto. » disse e con una gomitata mirò allo sterno.
Il supervisore della Sezione Amministrativa lo schivò con un’aggraziata rotazione e calò la Death Scythe sulla nuca dell’avversario, ma il colpo non andò a segno.
Sebastian la bloccò con la destra e ruotò su se stesso per tornare a guardarlo negli occhi. « In effetti, non avremmo potuto desiderare di meglio. »
« Farnetichi, demone. » ribatté William, infastidito. Se c’era una cosa che odiava ‒ e ormai anche il Conte lo sapeva ‒ era fare gli straordinari.
« Affatto. » gli assicurò il maggiordomo. Saltò per evitare l’affondo della Death Scythe e ricambiò la cortesia con un’ondata di lucidissima argenteria. « Chi meglio di voi può sapere chi ha preso l’anima di Blaine Doherthy? »
William sgranò gli occhi e quell’istante di esitazione gli valse una ginocchiata in pieno stomaco.
Sebastian ne approfittò per inchiodarlo contro il tetto facendo forza sulla Death Scythe, posta di traverso tra i loro corpi, ma lo Shinigami lo ricacciò indietro con tutta la forza del proprio peso.
« Che cosa barbarica la lotta a mani nude. » commentò, una volta riguadagnata la distanza di sicurezza. Puntò l’arma contro il demone e si aggiustò gli occhiali. « E in ogni caso quell’anima è stata prelevata dall’Unità di Raccolta. È decisamente fuori dal tuo raggio d’azione. » precisò. Fece allungare la Death Scythe per colpire il suo avversario, ma quello aveva ormai familiarità con l’arma.
« Non voglio mangiarla. » ribadì il maggiordomo. Bloccò l’attacco con entrambe le mani e usò l’asta per darsi la spinta per una capriola.
Lo Shinigami schivò il doppio calcio di un soffio. « E cosa vorresti farci, allora? »
Sebastian atterrò alle sue spalle e caricò un colpo di taglio con il braccio sinistro, che tuttavia si abbatté contro il ferro dell’arma. « Voglio scoprire chi l’ha ucciso. »
Will si bloccò per un attimo, quindi emise un verso che, con molta ‒ moltissima ‒ immaginazione avrebbe potuto essere una risata strozzata. Guardò prima Sebastian, poi Ciel, quindi saltò in strada e agguantò il novizio per la collottola. « Gli Shinigami non sono al vostro servizio. » disse, rivolto al Conte. « Se non sapete fare il vostro mestiere, datevi all’ippica. » Tirò su il novizio e quasi lo strozzò nel rimetterlo in piedi. « Sei nei guai, Silverstone. E con te anche quel degenerato del tuo supervisore. »
Sebastian fece cenno di tornare all’attacco, ma Ciel lo precedette.
« È strano. Ero convinto che Undertaker fosse proprio uno di voi. »
William lasciò andare di scatto il colletto del novizio e si voltò verso di lui. « Questi non sono affari che ti riguardano, moccioso. » sibilò. « Solo perché quel folle si è venduto, non vuol dire che noi altri faremmo lo stesso. »
Ciel sogghignò. « Molto bene. » disse. « Se non volete trovare un accordo, posso solo augurarvi buona fortuna, ma quando cambierete idea sarà troppo tardi. Andiamo, Sebastian. »
« Sì, padroncino. »
Lo Shinigami assottigliò lo sguardo, dietro le lenti rettangolari, ma non lo fermò. Era certo che Ciel stesse bluffando. Cosa mai avrebbe potuto offrire un misero mortale ad uno come lui? 

 

Sebastian versò l’acqua calda nel filtro del tè. « Svegliatevi, padroncino. È ora. » chiamò, con il solito tono vellutato.
Ciel emise un mugugno infastidito, ma si tirò comunque su a sedere. Nascose uno sbadiglio con la mano e si stropicciò gli occhi per rimettere a fuoco la camera da letto. Tese la mano per ricevere il tè e si portò la tazza alle labbra. Aggiungere caldo su caldo non era l’ideale, ma non avrebbe mai rinunciato all’unica cosa in grado di svegliarlo. « Ceylon. »
« Il Royal Doulton, per la precisione. » confermò il maggiordomo. « E per contorno potete scegliere tra scones e focaccine dolci con crema e frutta fresca. »
Il Conte sorseggiò il tè. « Scones. » decise.
« Come desiderate. »
Ciel consumò la colazione con calma. Dopo il fallimento della sera prima, doveva ripensare la propria strategia. Non era stato del tutto inutile, perché con un po’ di fortuna era riuscito a mettere la pulce nell’orecchio di quello Shinigami, ma non aveva fatto progressi con il caso. In un certo senso, non era più abituato a fare le cose come i normali umani, da quando aveva Sebastian al suo servizio. Chiuse gli occhi e sorseggiò il tè per mandare giù l’ultimo boccone di scones. « Il fatto che solo il figlio del duca e Blaine Doherthy siano stati ritrovati nella Southside lascia pensare che il cannibale operi solo nella Northside, di norma. » disse. « Tuttavia, questo rende difficile spiegare perché un nobile sia finito nel suo mirino. »
« Potrebbe aver trovato qualche fonte di interesse nella sua area di caccia. » suggerì Sebastian. Raccolse i resti della colazione in un vassoio e li mise via. « Qualcosa di cui i Duchi non fossero a conoscenza. »
Ciel mugugnò. « Parlare con loro sarebbe inutile. » commentò e si accarezzò il mento. Se riuscissimo a circoscrivere l’area d’azione e a trovare il movente, potremmo tracciare un profilo del cannibale. rifletté. « Hai detto che i corpi erano stati spolpati con cura? »
« Così diceva il referto dell’autopsia, padroncino. »
« Quindi è da dare per scontata l’ipotesi che lo faccia per nutrirsi. » proseguì il Conte. « Ma quale umano avrebbe bisogno di mangiare i propri simili? »
« I Niam Niam africani sono soliti praticare cannibalismo rituale e gli Agori indiani sono necrofagi. »
Il Conte strinse le labbra. « Pensi a qualche setta? » chiese, inespressivo, sebbene sul fondo del suo occhio sinistro danzasse una scintilla di inquietudine. Aveva ben chiaro come fosse fatta una congrega di squilibrati e l’esperienza del Noah’s Ark Circus glielo aveva ricordato con dolorosa chiarezza.
« Qualcosa del genere. » ammise Sebastian. I suoi occhi ripresero per un attimo il loro reale aspetto e così la bocca, dischiusa in un ghigno.
Quell’espressione mise i brividi a Ciel, che strinse i pugni. « Spiegati. » ordinò.
Il maggiordomo annuì. « Come vi ho accennato, non tutti i miei simili si nutrono di anime. Alcuni preferiscono... qualcosa di più solido, per dirlo gentilmente. Carne e sangue. Sono demoni minori, più bestie che creature senzienti, ma certi umani sembrano convinti che siano loro i più potenti. » Sorrise. « Non nego che abbiano una certa potenza bellica, ma i loro istinti sono primitivi. Non sono in grado di stipulare contratti come il nostro. Qualcuno con un minimo di cervello esiste persino tra loro, comunque, ma sono davvero pochi e comunque privi della magia necessaria per i contratti. »
Il Conte si incupì. « Se anche fosse come dici, mi aspetto comunque che tu riesca a risolvere la questione. » disse. La strana sensazione che aveva provato quella mattina sul St. Anne tornò a bussare alla sua nuca, ma la represse con forza. Aveva venduto la sua anima a quel demone e non avrebbe accettato nulla si meno della perfezione da lui. Non gli avrebbe permesso di deluderlo, né di tradirlo.
« Mi sembra ovvio. »
Ciel sorrise, sprezzante. « Scopri dove sono state le vittime prima di sparire. » ordinò. « Voglio sapere cosa hanno fatto, chi hanno incontrato e soprattutto cosa ha portato il figlio del duca nella Nothside. »
« Sì, padroncino. »
 


Ed  eccomi qui, di ritrono dal regno dei morti.
Come vi avevo preannunciato, è stato versato il primo sangue. Non pensate che sia stata solo una scusa per far intervenire Will (non lo avevo nemmeno previsto, io! Volevo metterci Ronald, invece è spuntato ui ewe), perché molto presto scoprirete il vero motivo della sua presenza. :3 Beh, presto... circa. In ogni caso, spero che questo capitolo vi sia piaciuto. Fatemelo sapere e farete di me una scribacchina felice. <3  

Anche qui, ho epurato ogni traccia della battuta di Sebastian. Ah, la coerenza! Che brutta bestia.

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Capitolo 3
*** Quel Maggiordomo, Sadico ***


Sebastian mise via le stoviglie del pranzo.  « Ho le informazioni che mi avete chiesto, padroncino. » disse. Finì di sparecchiare e gli pose davanti diverse pagine scritte nella sua grafia ordinata e tondeggiante, molto più morbida dei tratti spigolosi e severi della regina.
Ciel prese i fogli e accavallò le gambe, ma si incupì subito. « Sebastian, perché hai scritto in latino? » chiese. Interpretarli non gli avrebbe richiesto particolare fatica, ma di sicuro gli avrebbe provocato un’emicrania e trovava irritante la libertà con cui il maggiordomo si faceva beffe di lui.
« Perché in questi giorni non avete occasione di studiare, signorino, e come maggiordomo è mio dovere provvedere anche alla vostra istruzione. » rispose il demone, imperturbabile.
Il Conte digrignò i denti e desiderò tirargli addosso il rapporto con ogni fibra del suo essere, ma si trattenne. « Questa me la paghi, demone. » dichiarò e cominciò a leggere. A tratti gli capitava di incontrare parole che non conosceva, ma il suo orgoglio gli impediva di ammettere la propria difficoltà. « Sebastian. » chiamò, dopo due ore su quei dannati fogli.
« Sì, padroncino? »
« Portami qualcosa di dolce. » ordinò. « Il tuo scherzo mi ha fatto venire fame. »
Sebastian controllò l’orologio da taschino. « È un po’ presto per... »
Ciel lo fulminò. « È un ordine, Sebastian. » scandì.
Il maggiordomo sorrise. « Come desiderate, allora, padroncino. » Si inchinò e si ritirò per scendere nelle cucine dell’albergo a preparare il dolce da servire insieme all’aftrernoon tea.
Il Conte attese che la porta si chiudesse alle spalle del demone per sbuffare in pace. « Dannato bastardo. » borbottò, corrucciato, e riprese a leggere.
A quanto pareva, le vittime erano tutti uomini di una certa età. Il più giovane era proprio il giovane Cavendish, di soli ventisette anni, mentre il più anziano era un barbiere di quarantadue, George Dallas. Conducevano vite molto diverse e non si erano mai incontrati. A quanto riferivano i conoscenti, non c’era stato nessun cambiamento evidente nei loro atteggiamenti, prima della sparizione, ma tutti erano stati visti aggirarsi per il molo a sera tarda. Se per uno come Finn Lukas ‒ proprietario di una birreria da quelle parti ‒ non sembrava poi così strano, lo sprovveduto aristocratico era stato notato a dispetto dei suoi abiti dimessi. Continuava a guardarsi le spalle « come se avesse il diavolo alle calcagna » aveva riferito uno dei marinai che l’aveva visto ‒ Sebastian si era divertito a sottolineare quelle parole con una linea rossa ‒ e per questo era rimasto nella memoria dei testimoni. Era stato visto salire a bordo della Perla del Nord, un vascello a tre alberi ormai inutile per navigare, ma ancora buono per ospitare una bisca nella cambusa e affittare le cabine.
« Padroncino. » lo chiamò Sebastian.
Ciel non lo avrebbe mai ammesso, ma fu grato di quell’interruzione. Cominciava a non distinguere le lettere e a dover rileggere le frasi più volte prima di afferrarne il senso.
« Oggi abbiamo tè Darjeeling Margareth’s Hope e gâteaux au chocolat. » elencò il maggiordomo edispose il tè e il piattino con i dolci sulla scrivania.
Il Conte gli scoccò appena un’occhiata, prima di infilzare la fetta. L’impasto era così morbido da sciogliersi in bocca e la crema all’interno, ancora calda, nascondeva piccoli pezzi interi di cioccolata fondente che facevano la gioia del suo palato. In retrogusto asprigno del tè si combinava bene con la delicatezza del dolce e l’odore che saliva dalla tazza gli solleticava l’olfatto con una sinfonia di aromi intensa e familiare. « Sei stato sulla Perla del Nord, Sebastian? »
Il demone annuì. « Non c’è niente di insolito, su quella nave. Gli scomparsi non sono lì. »
Ciel se lo aspettava, ma strinse le labbra. « Quindi siamo punto e a capo. »
« Non esattamente. »
Il Conte assottigliò lo sguardo. L’espressione soddisfatta di Sebastian non gli piaceva per niente.
« C’è una donna, a bordo della Perla del Nord. Una mangiauomini. » svelò il maggiordomo. Non lo aveva scritto nel rapporto apposta per potersi godere la deliziosa irritazione del padroncino quando glielo avesse riferito.
« Una prostituta. » lo corresse Ciel, rigido. Stava iniziando a odiare la parola “mangiauomini” con tutto se stesso.
Sebastian annuì.
« E perché mi dovrebbe interessare? »
« Perché, signorino, la chiamano La Sirena. » sussurrò il demone. « E voi sapete cosa si dice delle sirene nelle leggende, no? »


 

Anche senza tutta la feccia che girava per Ballymun, il porto di Dublino non era un bel posto per una passeggiata al chiaro di luna. Il Liffey poteva anche essere zona grigia, ma quei moli sempre avvolti dalla nebbia erano come un altro mondo. I pochi che si avventuravano da quelle parti giravano armati e certo non si sforzavano di nascondere il proprio arsenale, forse nella speranza di scoraggiare i malintenzionati.
Ciel si strinse nelle spalle. « Non mi hai ancora detto perché questa Sirena è così speciale. » disse, rivolto al maggiordomo. « Sempre che non sia solo per il suo nome evocativo. »
Sebastian, che per l’occasione aveva abbandonato la divisa da maggiordomo in favore di un completo più dimesso, sogghignò. « È stata l’ultima a vedere viva la vittima. »
Ciel fu tentato di ordinargli il suicidio, ma il buonsenso gli suggerì di evitare di rendersi ridicolo. « Capisco. » rispose, annoiato ad arte, e rivolse al maggiordomo un sorriso beffardo. « E quando avevi intenzione di dirmelo? »
« Quando me lo aveste chiesto, padroncino. »
Forse il suicidio non era abbastanza, si disse il Conte. Sarebbe stato molto più appagante ammazzarlo con le proprie mani e togliergli quell’espressione dalla faccia a suon di schiaffi. Era stato davvero gradevole colpirlo mentre si spacciava per morto, ricordò. « Come pensi di farmi ricevere da lei? » domandò. « Non rientro proprio nell’età media dei suoi “clienti”. » Se si fosse presentato come Conte Phantomhive, sarebbe stato diverso, ma l’abbigliamento scelto per l’occasione non gli permetteva di incutere il timore reverenziale che il suo nome portava con sé. 
« Di questo non dovete preoccuparvi, padroncino. » disse Sebastian, ieratico. « La signorina Mary non è quel genere di puritana. Finché pagate, a lei interessa solo fornire la prestazione. »
Ciel si irrigidì. « Lo dici come se ci fossi andato a letto. »
« Queste non sono cose che posso dire a un bambino della vostra età, padroncino. »
Il Conte lo fulminò. « Non osare trattarmi con uno stupido marmocchio, Sebastian. » ordinò. Immaginarlo impegnato in qualcosa di così egoistico come giacere con una donna lo irritava. Ogni goccia della sua energia doveva essere votata a lui e al suo benessere; il suo unico desiderio doveva essere solo per l’anima che un giorno avrebbe divorato. Fino ad allora, doveva essergli fedele come un cane.
« Ma certo, padroncino. » acconsentì, sebbene il tono lasciasse intravedere un’ombra di divertimento. Lo precedette sulla passerella che conduceva a bordo del veliero.
L’immensa nave aveva un solo ponte, attrezzato per le cabine solo nella zona di poppa. La prua, in passato apprezzata dai passeggeri come area d’incontro e passeggiata, era deserta. Dalla cambusa saliva il vociare della bisca e la musica di un organetto.
Coprirà il chiasso che faremo noi. pensò Ciel. Affiancò il maggiordomo e allungò il passo. Non prestò grande attenzione alle cabine, ma gli bastò un’occhiata per capire che chi le abitava non navigava nell’oro: già dalle porte avevano un’aria triste, con la vernice graffiata e mangiata dalle tarme o dalla salsedine.
Quella di Mary sembrava messa un po’ meglio, ma di certo aveva visto giorni migliori. La vernice rossa cominciava a stingere in un poco gradevole marroncino e qualunque cosa fosse scritta sulla targhetta d’ottone non era più visibile.
Il demone bussò alla porta della cabina e scoccò un’ultima occhiata canzonatoria al padroncino prima di mettere su l’espressione più pacata del proprio repertorio.
Dovettero attendere diversi secondi, prima che l’inquilina si decidesse ad aprire, ma l’attesa valse la visione del suo corpo giunonico, strizzato in un negligé color champagne ben oltre il limite dell’indecenza. I suoi seni prosperosi erano ben più appariscenti del volto a forma di fragola e, se i capelli non fossero stati più rossi di quelli di Grell, Ciel non li avrebbe nemmeno notati. La donna, d’altro canto, non fece alcun caso a lui. I suoi occhi azzurri erano puntati su Sebastian e sembravano divorarlo a generosi bocconi. « Sebastian, mio caro. » lo accolse, leziosa. « Già di ritorno, vedo. » Si fece da parte per lasciarlo entrare e per poco non chiuse la porta in faccia a Ciel, ma il ragazzo fu più veloce della sua mano e sgusciò dentro.
Fu talmente precipitoso che quasi le cadde addosso, ma la presa decisa del diavolo sul suo braccio lo salvò dal capitombolo. Tossicchiò. « Allora, donna... » cominciò, ma la prostituta non gli permise di aggiungere una parola di più.
« Che ci fa un moccioso come te nella mia cabina? » chiese, con le braccia incrociate sotto al seno. Superato il momento di confusione, si era fatta guardinga. « Sebastian, è con te? »
Il demone sogghignò. « Sì, si può dire così. »
Ciel corrugò le sopracciglia e borbottò una protesta, ma a voce troppo bassa perché uno dei due “adulti” riuscisse a sentirlo. Arricciò il naso. Non riusciva a riconoscere la puzza tremenda che aleggiava in quella stanza, ma tutto ‒ incluso il mobilio ‒ ne sembrava pregno. È questo si chiese l’odore del sesso? Considerato il mestiere della donna, non riusciva a immaginare cos’altro potesse essere. È orribile. Perché non fa arieggiare?
L’oblò sulla sinistra non sembrava bloccato. Sarebbe stato semplice aprirlo e lasciar cambiare l’aria, ma alla donna quel tanfo doveva piacere. L’aura di decadimento di quella cabina ‒ che un tempo doveva essere stata affittata a passeggeri di lusso ‒ non era, però, altro che incuria. Sarebbe bastato mettere i vestiti nella cassapanca e rifare il letto, perché sembrasse almeno agibile.
Quanto degrado. pensò il giovane Phantomhive. Come si può vivere così?
La meretrice si piegò in avanti in modo da guardarlo negli occhi ‒ o forse per esporre la merce ‒ e gli sorrise maliziosa. « Un’anima candida come te cosa potrebbe mai volere da una sirena tentatrice? » sussurrò.
Le labbra del tredicenne si distesero in un sorrisetto. Non rideva più da tanto tempo, ormai, ma ci andò vicino. « Niente che riguardi le tue “grazie”, Sirena. » le assicurò. « Voglio sapere di Victor Cavendish. » chiarì e le sventolò davanti agli occhi una foto recente del deceduto.
Gli occhi quasi uscirono dalle orbite di Mary e l’imprecazione che sfuggì alle sue labbra era quanto di più colorito la sua professione le potesse suggerire.
« Dovete riconoscere che è appropriato. » commentò Sebastian, fin troppo divertito per i gusti del Conte.
« L’importante è che siano appropriate le informazioni, o questa sirena dovrà farsi spuntare pinna e branchie molto presto. » rispose il ragazzo, come se la donna non fosse lì.
La prostituta inarcò un sopracciglio, quindi scoppiò a ridere. « È inutile minacciarmi, moccioso. » disse, seria. « Sono un pesce troppo grosso per te. »
Ciel non la contraddisse. Sfilò soltanto la benda e guardò il suo maggiordomo. « Sebastian, questo è un ordine: strappale qualunque informazione in suo possesso. »  
« Sì, mio Lord. » rispose il demone. Prese la donna per il collo e la legò all’unica sedia presente nella stanza. « Sono desolato, mia cara, ma gli ordini sono ordini. » disse, quindi si rivolse al ragazzo. « La cosa potrebbe diventare piuttosto sanguinosa, padroncino. Mettetevi sul letto, o rischierete di sporcarvi. »
Il Conte arricciò le labbra. L’idea di toccare il tavolo da lavoro della donna lo disgustava, ma era comunque meglio che macchiarsi del suo putrido sangue. Sedette sulle coltri sfatte, spalle al muro, e incrociò le gambe.
« Non vi dirò niente. » affermò la donna.
Sebastian dischiuse le labbra in un ghigno ferino. « Non sarà necessario. » le assicurò. Si sfilò i guanti e impose la sinistra sulla sua testa, con il palmo premuto sulla fronte e le dita tra i capelli. Con la destra le tappò la bocca, quindi chiuse gli occhi e inspirò.
Per diversi secondi non sembrò che stesse accadendo nulla, ma Ciel si accorse che la meretrice aveva iniziato a sanguinare da tutti gli orifizi. I rivoli, piccoli all’inizio, si facevano poco a poco più abbondanti. Il sangue colava denso dagli occhi, dalle orecchie, dal naso e tra le cosce. Le insudiciava pelle e capelli nella sua caduta libera verso il pavimento e la soffocava oltre le labbra serrate. Il poco che ancora le restava in corpo era raccolto nelle guance ormai paonazze.
Sebastian la lasciò andare e le permise di vomitarsi addosso quel poco che restava dei propri fluidi. « Non vi piacerà, padroncino. » disse, tetro in volto.
« Come al solito. » commentò il Conte. « Piuttosto, cosa le hai fatto? »
« Le ho estratto i ricordi dell’ultimo anno dalla mente, padroncino. » spiegò il demone. « È ancora viva e, almeno fisicamente, potrebbe guarire, se qualcuno le prestasse le necessarie cure mediche, ma dubito che abbia la forza necessaria a recuperare la lucidità. »
Ciel si accarezzò il mento. « Ripuliscila, assicurati che sia in grado di camminare e mandala a Ballymun. I bassifondi la toglieranno di mezzo. »
« Come desiderate, padroncino. »
« Tornando ai suoi ricordi, » riprese il ragazzo « cosa hai visto? »
« È stata ingaggiata sei mesi fa da un uomo. Indossava abiti dimessi, ma aveva l’aria di un nobile, come voi ora. Ha comprato i suoi clienti per saziare la bestia che aveva evocato, all’inizio in contanti, ma di recente sembra che le abbia offerto di unirsi al suo circolo: quindici vittime in cambio del diritto a venerare la creatura e a chiederne il favore. Lei gliene ha procurati undici, fin ora, ma tra questi non ho visto né Blaine Doherty, né Thomas Walsh. » raccontò Sebastian, mentre ripuliva la donna dal sangue. Le curò le ferite fisiche e la vestì alla meglio con quello che trovò. « Forse non è l’unica a procurare olocausti. » suggerì, prendendola in braccio. « Ha indicato il figlio del duca in un momento di rabbia, dopo un alterco, senza sapere chi lui fosse in realtà. »
La donna, in uno stato di semicoscienza, si aggrappò al suo collo.
« Torno subito, padroncino. Aspettate qui. » disse. Aprì la porta e corse via prima che Ciel potesse anche solo annuire. 


 

Sebastian rimosse il vassoio dal tavolo e lo sostituì con una copia del Tè Echo. « Il giornale di oggi, padroncino. »
Il Conte annuì e gli fece cenno di ritirarsi, quindi lo aprì. In prima pagina non c’era niente, ma più avanti trovò ciò che cercava.
Era poco più di un trafiletto, giusto due colonne in basso a destra, ma di certo avrebbe attirato l’attenzione dei suoi “colleghi”.

 

« Idioti. » commentò Ciel. « Tutti idioti. » Che Scotland Yard non fosse sinonimo di efficienza era una delle poche certezze della sua vita, ma la polizia di Dublino li batteva di larghissima misura. Scosse la testa e ripose il giornale. « Sebastian. » chiamò.
« Sì, padroncino? »
« Se quei mentecatti hanno visto questo, molto presto manderanno qualcuno alla Perla del Nord per cercare di scoprire cos’è successo alla loro esca. » disse il Conte. « Pedinalo e trova il loro nascondiglio. »
« Sì, padroncino. »
« E un’altra cosa. » aggiunse. « Mi aspetto una visita degli Shinigami a proposito dei Cinematic Record della Sirena. » Sorrise. « Assicurati che non ti intralcino e portali da me. »
Sebastian ghignò. « Riceveranno un’accoglienza degna di Casa Phantomhive. »



 

Well, rieccomi. Sapete, è quasi un miracolo che riesca ad essere così puntuale, tra la tesi e gli altri casini. Non fateci l'abitudine, perché da un giorno all'altro potrebbe venirmi il blocco, o potrei morire schiacciata dallo studio. Fatto sta, che almeno questa domenica va tutto bene.
Altro sangue è stato versato, ma soprattutto habemus copertinam!  Sì, il mio ordine delle priorità non è proprio "convenzionale", ma che qualcuno muoia o sanguini in questa fan fiction non è affatto straordinario. Spero che il trafiletto di giornale vi sia piaciuto - ho passato mezz'ora a sistemarlo su Word e poi in due tocchi è venuto con Paint. Bah.
Anywway, non so che altro aggiungere. 
Fatemi sapere se il capitolo vi è piaciuto e farete di me una scribacchina felice. See ya! <3
 
 

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Capitolo 4
*** Quel Maggiordomo, Intransigente ***


Gli Shinigami gli piombarono addosso prima del previsto. Erano in due e avevano l’aria più infastidita del solito.
« Ciel Phantomhive, sei accusato di aver danneggiato i Cinematic Record di Mary Quinn e aver, così, compromesso la sua valutazione. » gli comunicò William. « Pertanto... »
« Pertanto nulla. » lo interruppe il Conte. « Quella donna è stata complice di ben undici omicidi, negli ultimi sei mesi. Di certo la sua vita non avrebbe portato alcun beneficio al genere umano. »  
Il burocrate si sistemò gli occhiali e non rispose.
« Come immaginavo. » riprese il ragazzo. « Mi chiedo cosa ne sia stato di quelle undici persone. Se il demone ha mangiato solo i loro corpi, non dovrebbe aver preso anche le loro anime, ma come siete riusciti a recuperarle? Raccontatemi, avanti: sono curioso. »
Gli Shinigami impallidirono.
« Non le avete prese, vero? »
William strinse i pugni. « Non è affar tuo, umano. » ribatté, ma nella sua voce c’era qualcosa di diverso dal solito, che stonava con la sua composta alterigia.
Ciel sogghignò. « Può darsi. » concesse. « Ma questo umano ha risolto anche i problemi della vostra agenzia. » Appoggiò il mento sulle dita intrecciate delle mani e lo fissò. « Direi che siete in debito. »
Gli occhi dello Shinigami dardeggiarono fiamme, oltre le lenti rettangolari. « Noi non saremo mai in debito con te, Phantomhive. »
Il Conte non si oppose. « Sarebbe troppo umiliante dovere qualcosa a qualcuno che ha venduto l’anima ad un demone, giusto, Spears? »
Il dio della morte non rispose.
« In ogni caso, spazzerò via quella banda di fanatici al più presto. » Li fissò. « Cercate almeno di non starmi tra i piedi. » Buoni a nulla. « Sebastian, mostra loro l’uscita. »
« Sì, padroncino. »
« Non è necessario. » lo fermò William. « Ti avverto, moccioso: se sparisce qualche anima, ti riterrò responsabile. Tieni al guinzaglio il tuo cane. » minacciò, ma i suoi occhi non si posarono mai su Ciel. Erano fissi su Sebastian.
Il demone scosse la testa. « Quante volte ancora dovrò ripete che non mi interessano le anime di bassa lega? » chiese, ma venne ignorato.
« Non costringetemi a fare gli straordinari. » raccomandò lo Shinigami, con uno sguardo che avrebbe terrorizzato più d’uno dei suoi colleghi. Saltò fuori dalla finestra prima che il ragazzo potesse strappargli il piacere dell’ultima parola, seguito a ruota dal suo collaboratore.
Ciel li guardò sparire tra le nubi di Dublino e si volse verso il demone.  « Aggiornami. »
Sebastian annuì. « Ho sorvegliato la Perla del Nord come mi avete ordinato e ho passato al setaccio tutte le anime su di essa e nei dintorni. Erano tutte innocue, così ne ho approfittato per rientrare e servirvi il pranzo, ma quando sono tornato al molo ho notato un ragazzino circa della vostra età che si aggirava da quelle parti. È salito sulla nave e ha gironzolato un po’ a caso tra le cabine, prima di cercare quella della Sirena. Ha forzato la serratura, ma non ha trovato niente di compromettente: avevo pulito tutto mentre lo aspettavo. » Scoprì la dentatura in un sorriso sinistro. « In compenso, ha trovato una provvidenziale lettera d’amore che chiedeva alla Sirena un romantico incontro qui al King Lear. »
Ciel inarcò un sopracciglio. « Hai agito di tua iniziativa e li hai messi sulle mie tracce. » commentò. Accavallò le gambe e tamburellò con le unghie limate di fresco sul bracciolo della poltrona. « Dovrei punirti per questo. »
« Forse, » concesse il maggiordomo « ma prima dovreste ascoltare la fine della storia. »
« Continua, allora. »
« Il ragazzo si è messo la lettera in tasca ed è corso qui nella Southside, tra le braccia non proprio amorevoli di Gerald  Fitzgerald[1], che non ha esitato a farlo cacciare a bastonate. »
« E questo come mi aiuterebbe? » chiese il Conte, brusco.
Il demone sorrise. « Fidatevi di me, mio Lord. » disse. « A breve sarà tutto finito. »
Un ghigno da lupo distese le labbra efebiche. « Mi fiderò della tua fame. »

Non avrebbe potuto esserci momento peggiore per un temporale estivo, ma nemmeno tutta la magia demoniaca dell’universo avrebbe potuto fermare il diluvio che si accaniva su Dublino.
Riparato dall’ombrello di Sebastian, Ciel sbuffò. « Che razza di tempo! » borbottò tra i denti.
Le strade della Southside erano deserte, se non per qualche carrozza e un paio di frettolosi pedoni bardati nei propri giacconi. Il vento picchiava sui muri e faceva oscillare le insegne come se volesse svellerle insieme ai loro supporti. La luce, oltre le vetrine dei pochi negozi aperti, era di un’invitante sfumatura ocra.
« Sei sicuro che si riuniranno a casa del duca, Sebastian? »
« Lord Leinster è stato molto chiaro in proposito. »
Il ragazzo si corrucciò. « O sono molto stupidi, » disse « o stanno cercando di nascondere il rifugio della loro creatura. » Batté il bastone sul marciapiede. « Tuttavia, non temono la polizia, o avrebbero scelto un luogo meno appariscente. » Gettò un’occhiata sprezzante alla nuova Leinster House[2].
Rispetto a Villa Phantomhive era piccola, eppure riusciva ad apparire pacchiana. Le semi colonne, smaltate di un bianco abbacinante, appesantivano la facciata senza riuscire a riprendere l’eleganza degli stili in voga nel continente. I rampicanti posticci che dalla base salivano fino alle finestre del primo piano, lungi dal restituire l’eleganza del barocco seicentesco, riuscivano solo a incupire quell’insieme già sovraccarico.
« Se qualcuno riducesse così la mia casa di città, gli farei mangiare la laurea da architetto. » commentò Ciel, disgustato. Scosse la testa. « Entriamo, Sebastian. »
« Sì, signorino. » Il maggiordomo toccò il pesante cancello in ferro battuto con la sinistra e fece scattare la serratura. « Intendete passare dall’ingresso principale o dal retro? » si informò, mentre percorrevano il vialetto di ghiaia.
Il Conte ghignò. « Dall’ingresso principale, è ovvio. » disse. « Tanto non potranno fermarci in ogni caso. »
Sebastian annuì. Aprì il pesante portone blindato con una carezza del palmo aperto e mise via l’ombrello.
La dimora gentilizia era immersa nel silenzio. L’interno manteneva il medesimo cattivo gusto della facciata. Gli specchi dalla cornice dorata riflettevano la luce emessa dal lampadario a gas con il solo risultato di accecare chiunque fosse abbastanza incauto da guardarli. La Proserpina sulla sinistra era solo una volgare imitazione dell’opera di Rossetti.
Forse, si disse il giovane Phantomhive, la colpa non era tutta dell’architetto. Percorse il corridoio fino all’unica porta chiusa, in fondo a destra.
Dall’interno provenivano voci troppo basse perché si capisse cosa dicevano, ma dal tono concitato. 
Abbassò la maniglia e spinse. « Buona sera, signori. »
I presenti lo fissarono e lasciarono cadere i bicchieri di vino ancora colmi. Le risate si spezzarono in acuti stridii. L’orrore gonfiò gli occhi e ne dilatò le pupille. Quei due o tre che poterono agguantarono i rampolli e li nascosero dietro i loro flaccidi corpi. I più pronti sguainarono le spade.
Topi in trappola. li catalogò Ciel. Ma almeno hanno un briciolo d’orgoglio. Sogghignò. « Non affannatevi, signori. Siamo gentiluomini, non belve. » li sbeffeggiò. « Beh, quasi tutti. » Scoccò un’occhiata divertita a Sebastian e sciolse la benda. Sapeva che effetto avrebbe fatto la vista del sigillo e si compiacque nel sentirli trattenere il respiro. « Se mi rivelate dove avete nascosto il demone, non vi ucciderò, ma... »
« Non credetegli. » lo interruppe Lord Leinster.  Gli occhi, neri come la chioma, brillavano d’acume e la fossetta del doppio mento contribuiva a dare ai suoi tratti un’aria volitiva. Teneva in pugno la pistola, che appariva troppo piccola per la sua mano callosa. Un’ascia o una mazza chiodata sarebbero state armi più indicate alle sue proporzioni da vichingo.
Il Conte si tolse la tuba e gli scoccò un’occhiata beffarda. « E perché non dovrebbero, Fitzgerald? » gli chiese. « Non trarrei alcun vantaggio dal versare sangue nobile. »
« Giusto. » intervenne un dinoccolato ragazzino dalla zazzera rossa. Aveva sì e no l’età di Ciel, ma almeno una dozzina di centimetri in più. « Guadagnereste di più a venderci alla regina come ribelli. » specificò. Nonostante i modi formali, il suo tono grondava disprezzo.
« Tenete a bada il vostro erede, Boyle[3], o la prima testa a cadere sarà la sua. »
Lo scozzese arrossì. « P-Patrick[4]...! » farfugliò, ma non osò schierarsi. I suoi piccoli occhi, di un grigio acquoso, schizzarono più volte dal figlio al Cane da Guardia della Regina.
« Ma, padre... »
« Zitto! » Lo afferrò per un braccio e sollevò una mano, pronto a schiaffeggiarlo.
« Oh, cielo. Che comportamento indecoroso. » intervenne Sebastian. « Signorino, desiderate che provveda come con la signorina Mary? »
Ciel si leccò le labbra e scosse la testa. « Non mi va di spiegare a Sua Maestà lo sterminio di sei lord irlandesi, uno scozzese e relativa prole. »
Un fremito di terrore percorse la sala.
« Idioti! » li rimproverò Fitzgerald. « Sta bluffando! Non ci torcerà un capello. È solo uno stupido ragazzino. »
« Oh, non illudetevi. » lo corresse il Conte. « Ci sono cose peggiori della morte. Giusto, Sebastian? »
« Sì, signorino. » confermò il maggiordomo. Si avvicinò al lord e gli sottrasse la pistola con la stessa ferma cortesia con cui avrebbe sfilato la bottiglia dalle mani di un ubriaco. « Lasciate che ve ne dia un assaggio. » disse. « Avete dato dello stupido al mio padrone e, come maggiordomo della famiglia Phantomhive, proprio non posso consentirvelo. »
Gli altri uomini lo guardarono, attoniti, ma la voce da baritono del loro leader li riscosse. Accerchiarono Sebastian e caricarono.
Il demone lasciò che si avvicinassero, schivò i loro colpi scoordinati e li atterrò uno alla volta. Li immobilizzò bocconi e li addormentò con un soffio di magia. « Ora, come stavo dicendo, devo punirvi. » mormorò, rivolto al loro capo. « Avete preferenze, padroncino? »
Lui scosse la testa. « Niente di letale, comunque. » raccomandò. « Dovrà essere lucido, quando Sua Maestà lo farà impiccare. »
Quei quattro che non avevano osato intervenire rabbrividirono.
« Andremo al patibolo? » chiese Patrick Boyle. La paura che gli sgranava gli occhi aveva cancellato ogni traccia di boria dal suo tono.
Ciel inclinò la testa da un lato e lo osservò. « Ve lo meritereste tutti. » ammise. « Ma mandare al macello dei ragazzini sarebbe un inutile atto di barbarie. » Si accarezzò il mento. « Metterò una buona parola, ma solo se mi direte dov’è nascosto il demone. »
Gli aristocratici si guardarono.
« Non fatelo! » li richiamò Lord Leinster. « Non appena lo saprà, ci ucciderà tutti. »
« Ma che sciocchezza! » intervenne Sebastian. « Non torcerò un capello a nessuno di voi, senza l’ordine del padroncino. » Sorrise e tornò a rivolgersi alla sua preda. « Quanto a voi, temo proprio che dovrò usarvi come esempio. » Lo trascinò al centro della sala, sotto il grande lampadario in vetro di Murano smaltato d’azzurro. « Signori, vi prego di osservare con attenzione. » disse. « Questo è quello che accade a chi si oppone al padroncino. » Con la destra tenne l’uomo per la collottola e con l’ausilio dei denti si sfilò il guanto dalla sinistra. Slacciò il fazzoletto da collo e sbottonò la camicia del gentiluomo con pochi gesti rapidi e precisi. Con l’unghia nera e ben limata gli incise la carne del petto e dell’addome.
L’uomo urlò, ma fu subito messo a tacere dalla mano del maggiordomo, che continuò a lavorare imperterrito sulla sua carne.
« Questo dovrebbe bastare. » affermò e si fece da parte.
I solchi impressi a fondo nel torace componevano la parola TRADITORE in almeno sei lingue e quattro alfabeti diversi. Il sangue colava copioso dai solchi ancora freschi e sarebbe caduto sul tappeto persiano, se non fosse stato fermato dalla mano dell’aguzzino, che vi fece scorrere un panno imbevuto di acqua e sale.
Gli ospiti dell’uomo erano ormai pallidi come cenci. A dispetto dei luoghi comuni sul loro sesso, sarebbero tutti svenuti da un momento all’altro, senza eccezione.
Ciel, invece, era calmissimo. « Ti avevo detto di non ucciderlo. » disse soltanto, freddo.
« Non morirà, infatti. » assicurò Sebastian. Passò la sinistra sulle lacerazioni e quelle cicatrizzarono in un istante, fino a sembrare vecchie di anni. « Se ci dirà dov’è il demone, le farò sparire. »
Fitzgerald non si trattenne più. « Non è un demone! » esclamò. « Non può esserlo. Non ha mai realizzato i nostri desideri; anzi, ha cominciato a minacciare le nostre famiglie per avere tributi. »
Gli altri uomini annuirono in coro.
« E allora perché continuate a nasconderlo? » chiese il Conte.
« Cos’altro possiamo fare? » chiese un nerboruto gentiluomo, biondo come un norvegese.
Ciel sorrise. « Lasciare che ce ne occupiamo noi, ad esempio. »

La fabbrica abbandonata incombeva su di lui come la pelle lasciata da un gigantesco serpente dopo la muta. L’insegna a forma di pesce spada della Fish & Friends resisteva a malapena al suadente richiamo della gravità. Le vetrate erano state sbarrate dall’interno e ben tre assi alte quanto il suo avambraccio sprangavano la porta.
« È davvero lì dentro? » chiese il Conte, rigido. Il modo in cui i lord si erano arresi gli appariva sospetto, affrettato. Possibile che per una volta potesse essere davvero facile?
Sebastian annuì. « Sento il suo odore. » confermò. « E si è nutrito di recente. »
Il ragazzo represse un conato di vomito. « Stacca quelle assi ed entriamo. » ordinò.
« Sì, padroncino. » Il demone provvide a eliminare l’ostacolo con la stessa facilità con cui la mattina preparava il tè. Appoggiò le tavole contro il muro e precedette il ragazzo nell’edificio.
Era troppo pulito, notò Ciel, ma la puzza di sangue era quasi asfissiante. Permeava ogni angolo di quell’enorme capannone sventrato dal fuoco. Persino i drappi scuri appesi ai muri e al soffitto erano ormai permeati dal tanfo. La mobilia si limitava a una distesa di cuscini e coperte in tutti i toni del nero e del grigio, ma al centro della stanza era stato eretto un enorme altare ricoperto di sigilli e di rune tipici della magia nera.
Il Conte strinse i pugni fino a farsi sbiancare le nocche. « È il posto giusto. » sussurrò. « Ma do... » Non riuscì a finire la frase.
Due grossi, viscidi tentacoli neri lo afferrarono sotto le ascelle e lo tirarono verso l’alto, più veloci persino dei riflessi di Sebastian.
Il ragazzo non fece nemmeno in tempo ad urlare. Si ritrovò in quello che sembrava un nido sospeso, fatto di una strana sostanza appiccicosa e scura che gli ricordò per un attimo una ragnatela gigante.
La creatura di fronte a lui, però, non era un ragno. Somigliava più a un geco, solo che era almeno un migliaio di volte più grande, e quelli che aveva scambiato per tentacoli non erano altro che le sue lingue. Avrebbe potuto ingoiarlo intero, sempre che non avesse voluto prendersi il disturbo di usare la doppia fila di denti da squalo che gli ornava l’orrenda bocca. Il sangue rappreso sul muso spiccava contro le squame lattiginose, ma nulla era più inquietante di quegli occhi giallo senape che lo scrutavano con ingordigia.
Il giovane Phantomhive trattenne il fiato.
Le lingue strapparono la camicia e si avventarono sul suo corpo. Lo coprirono di saliva e saggiarono il ventre morbido e tondeggiante. « Umano. » disse il bestione. « Buono. »
Ciel deglutì. Se quello era il massimo della comunicazione di cui il mostro era capace, non avrebbe mai potuto cavarsela con le parole come al solito. Il suo cuore accelerò, a quel pensiero, e attrasse l’attenzione della creatura. « Se... Sebas... tian. » gemette, in preda la panico. Tentò di arretrare, ma la parete alle sue spalle glielo impedì. « Sebastian. »
La creatura lo guardò come se volesse ammonirlo, ma non smise di leccarlo e spogliarlo.
Mi sta lubrificando. capì. Così potrà ingoiarmi meglio. Gli tornò la nausea. « Sebastian! » strillò, ormai in preda al panico. Che diamine stava aspettando, quello stupido diavolo?
« Signorino! » rispose, da sotto la voce del demone, accompagnata da suoni di lotta.
Ce n’è un altro? Com’è possibile? Doveva sfuggire al demone e controllare. Ignorò le lingue che gli si avvolgevano intorno al torace e che, ormai, lo avevano lasciato in biancheria. Si aggrappò alla ragnatela appiccicosa sotto di sé e scalciò nel tentativo di colpire la creatura. La pistola gli era caduta quando la cosa l’aveva preso, ma non si sarebbe mai arreso senza combattere. Si sporse più che poté verso l’ingresso del nido e guardò in basso. 
 

[1] Gerald Fitzgerald (1851 –  1893), quinto duca di Leinster, sposò Hermione Wilhelmina Duncombe (30 marzo 1864 – Mentone, Francia, 19 marzo 1895) ed ebbero tre figli: Maurice, Desmond ed Edward. 
[2] La “vecchia” Leinster House, che oggi è sede del Parlamento irlandese, è stata venduta nel 1815 alla Royal Dublin Society dal terzo duca di Leinster, August Fitzgerald.
[3] David Boyle  (31 maggio 1833 – 13 dicembre 1915), settimo conte di Glasgow, sposò Dorothea Elizabeth Thomasina Hunter Blair ed ebbero otto figli: cinque maschi (Patrick James, Edward George, James, John David e Alan) e tre femmine (Augusta Helen Elizabeth, Alice Mary e Dorothy).
[4] Patrick James Boyle (18 giugno 1874 – 14 dicembre 1963), ottavo conte di Glasgow, sposò Hyacynthe Mary Bell il 29 maggio 1906 ed ebbe con lei cinque figli: David William Maurice, Grizel Mary, Hersey Margareth, Patrick James e Margareth Dorothea.
 


E anche stavolta, il miracolo si è compiuto. Questa storia mi sta prendendo davvero tanto. Sì, lo so che è violenta, ma amatela lo stesso. >w<
Passando a cose più serie, eravate sorpresi che fino ad ora Ciel non fosse stato ancora rapito? Beh, eccovi accontentati. Sappiate che questo sarà molto importante, per i prossimi capitoli, perché... beh, insomma, essere mangiati non è proprio una bella sensazione e in aggiunta alle turbe mentali che Ciel ha già, potrebbe avere qualche conseguenza interessante.
Per il resto, non saprei proprio cosa aggiungere, ma spero che il capitolo vi sia piaciuto! Fatemelo sapere e sarò una scribacchina felice. ^w^
 

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Capitolo 5
*** Quel Maggiordomo, Inarrestabile ***


Sebastian era in trappola. Aveva tentato in tutti i modi di sfondare le difese della sua avversaria, ma ogni volta lei lo ricacciava indietro e rideva.
« Cos’hai, Sebastian? Il digiuno ti ha reso debole, forse? » lo schernì la demone. Il suo corpo flessuoso emanava l’aura demoniaca come immense ali di luce nera, che circondavano l’area in cui si stavano combattendo. I suoi capelli fulvi ondeggiavano nell’aria e gli occhi scuri assorbivano tutta la luce che riusciva a filtrare in quella gabbia.
Il maggiordomo ringhiò. « Lasciami passare, Hana’el! »
« E permetterti di fare del male al mio cucciolo? Nemmeno per idea! »
Le iridi del demone passarono dal mogano al magenta e un’ondata di aura si abbatté con violenza sulle mura che lo imprigionavano. « Non ti permetterò di danneggiare l’anima che ho allevato con tanta cura, immonda creatura. » mormorò. Richiamò la propria energia e la scagliò contro di lei come un enorme pugno.
La demone lo tagliò in due e diede fuoco alla terra sotto i suoi piedi.
Sebastian disperse le fiamme e diede un colpo di tacco al suolo, che tremò e sia aprì in una ragnatela di crepe e voragini.
La donna le schivò. Aveva lo stesso passo aggraziato di una ballerina di danza classica, ma il suo sorriso era freddo. « Ah-ha, Sebastian. » lo rimproverò, beffarda. « Non è così che si trattano le signore! »
Lui sorrise e si inchinò per schivare una lama di ghiaccio. « Sono desolato, ma devo informarti che tu non lo sei, schifosa ghoul. » Con uno scatto, le afferrò la gola e affondò la mano nel suo petto, ma non trovò ciò che cercava. Le costole marce cedettero con un tonfo sordo, ma le dita non incontrarono altro che i polmoni mollicci e ormai inutili.
La demone sorrise. « Se cerchi il mio cuore, perdi il tuo tempo. » disse. « L’ho nascosto. » Lo spinse indietro e lo imprigionò con robusti tentacoli di tenebra. « E, visto come hai osato chiamarmi... ti farò provare l’ebbrezza di essere uno di loro. » Gli strappò panciotto e camicia e con i pollici gli tastò il torace.
Sebastian colpì la sua avversaria al mento con un calcio e la respinse due metri più indietro. Spezzò le corde che lo imprigionavano e si ripulì le maniche del frac. « Forse hai dimenticato chi sono io, mocciosa. » disse. Lui era più vecchio di lei e di tutti gli altri demoni messi insieme. Era il più potente. Se i suoi simili fossero stati capaci di organizzarsi in una società come quella umana, avrebbe dovuto esserne a capo.
La donna si pulì il sangue che le colava dalle labbra. « Oh, no, Abraxas. » rispose. « Ricordo bene chi sei. » Gli scagliò addosso tre serie di pugnali da lancio in rapida successione.
Sebastian schivò la prima e la seconda e prese al volo la terza. « Chi credi di spaventare? » Rilanciò le lame alla mittente e caricò un attacco frontale. Con la mano aperta tentò un colpo di taglio al collo, ma Hana’el riuscì a respingerlo con un pugno al ventre.
« Non devo spaventarti. » disse. « Devo solo dare a Yzneth il tempo di consumare il suo spuntino. Ormai avrà finito di pulirlo. »
Il maggiordomo inorridì.
Sopra di loro, Ciel urlò. « Sebastian! » chiamò. La sua voce sapeva di pianto.
Il padroncino non piange mai. Il suo stomaco si annodò e l’odio divampò nei suoi occhi. Batté le mani, le sfregò e le impose sul terreno.
Bastò un istante perché da questo spuntassero tentacoli d’acciaio sotto i piedi della demone. Si avventarono su di lei e la stritolarono in un abbraccio feroce.
Sebastan strinse i pugni, li congiunse e li separò.
I tentacoli morsero gli arti della sua avversaria e li strapparono dal torace. Si bagnarono del sangue marcio della necrofaga e con le loro piccole bocche dentate si aggrapparono alle ferite.
La demone urlò, si dimenò e tentò in tutti i modi di toglierseli di dosso, ma era ormai incapace di sfuggire a tanta furia. Scoppiò a ridere. « Non morirò per così poco, Abraxas! » gridò.
Il diavolo la ignorò. « Resistete, signorino! » urlò. Saltò e si aggrappò alle travi. Con una capriola fu dentro la tana e tirò un sospiro di sollievo.
Ciel era nudo, ma ancora vivo. Tirava calci al demone per tenerlo a distanza. I suoi colpi erano sempre più deboli, ma non si sarebbe arreso senza lottare.
Sebastian sorrise, ma non c’era tempo per compiacersi. Con uno strattone, sottrasse il ragazzo alle lingue della mostruosa creatura e lo nascose dietro di sé.
La belva non gradì l’interruzione. Ruggì e lo frustò con le lingue.
Il maggiordomo le afferrò al volo. Se le avvolse intorno alla mano e tirò.
Le appendici si staccarono dalla bocca con uno schiocco secco e un gorgoglio. Il sangue spumeggiò roseo e colò oltre quelle labbra oscene. La bestia, resa folle dalla rabbia e dal dolore, caricò a testa bassa.
Il maggiordomo non esitò. Ne circondò la gola con un braccio e la costrinse supina. Affondò la mano destra nel ventre morbido e scavò fino a trovare il cuore. Lo estrasse, ancora pulsante, e con un lieve sussurro gli diede fuoco.
La creatura rantolò e si contorse. Agitò le zampe in una grottesca imitazione del nuoto e frustò l’aria con la coda. Si indebolì in fretta e persino i suoi gemiti si spensero del tutto, prima che il suo corpo si dissolvesse insieme alla tana.
Senza più il supporto della sostanza gommosa sotto di sé, Ciel rischiò di cadere, ma Sebastian lo prese in braccio e lo nascose contro il proprio petto. Il giovane Conte rabbrividì. Il profumo forte e muschiato di quel corpo caldo premuto contro il suo gli invase le narici. È lo stesso odore di papà. pensò. Lo aveva plasmato apposta perché assomigliasse a lui, eppure talvolta se ne stupiva ancora. Si aggrappò alle spalle del demone con le poche forze che ancora gli restavano e nascose il viso nell’incavo del suo collo.
Sebastian non protestò. Gli accarezzò la nuca con una mano e saltò a terra. Rivolse un ultimo sguardo ad Hana’el, che si dibatteva nella sua prigione, e scosse la testa. Si sfilò il frac senza lasciare nemmeno per un istante quel corpo minuscolo e lo posò sulle spalle frementi del ragazzo. Era così grande da stargli come coperta. « Riposate, signorino. » sussurrò. « Andrà tutto bene. »

 

Convincere Ciel a lasciare la presa sulle sue spalle non fu semplice. Le sue piccole e fragili dita non ne volevano sapere e nemmeno l’offerta di un buffet di dolci riuscì a persuaderlo.
« Signorino, non potete restare così per sempre. »
« Posso, invece. » obiettò il ragazzo. « Ho freddo. » Si aggrappò ancor di più a lui e nascose il viso contro il suo petto. Chiuse gli occhi e inspirò a pieni polmoni. « Preparami un bagno. » ordinò. Così, forse, la sua pelle avrebbe smesso di prudere.
« Come desiderate, signorino, ma dovrete lasciarmi andare. »
Ciel annuì, imbronciato. Si lasciò deporre sulle lenzuola ancora in ordine e si appallottolò nel frac come un gatto. L’odore di Sebastian – l’odore di suo padre – era abbastanza forte da mantenerlo calmo, ma non del tutto sufficiente. Si aggrappò ad un cuscino e chiuse gli occhi, nella speranza che almeno quello gli desse un’illusione di contatto fisico. Non riusciva a dimenticare la sensazione di quelle lingue addosso, che lo spogliavano e assaggiavano. Gli dava i brividi. È passato. È passato. Sebastian l’ha ucciso. Mugolò e affondò il viso nel cuscino, ma la sensazione non accennava a sparire. Piccole stille salate corsero lungo le sue guance. Le scacciò con rabbia e si sforzò di non fare rumore nel tirare su con il naso. Non voleva sembrare debole, anche se aveva paura. Non poteva permettere né a Sebastian, né a nessun altro di vedere quanto fosse profondo l’abisso nel suo cuore.
« Il bagno è pronto, signorino. »
Il Conte si riscosse. Alzò gli occhi verso il maggiordomo e annuì. Si tirò su, avvolto nella giacca del demone, e si trascinò fino alla vasca. Non avrebbe voluto privarsi della sua protezione, ma si costrinse ad abbandonarla per affidarsi all’acqua. È più calda del solito. notò, ma la cosa non gli dispiacque. Era gradevole e lo faceva sentire leggero. « Sebastian, lavami. »
« Sì, signorino. » Il demone gli fece chinare il capo all’indietro e, con una brocca, gli versò l’acqua calda sui capelli, quindi cominciò a insaponarli. Il suo tocco era delicato e attento come al solito, eppure aveva qualcosa di strano.
Ciel chiuse gli occhi e sospirò. Si schiarì la voce, ma non riuscì a trovare le parole necessarie per cancellare quel silenzio opprimente.
« Qualcosa non va, padroncino? »
« No. » mentì il Conte. « Stavo solo pensando. » Abbassò lo sguardo sulle proprie mani. Tremavano, di nuovo. « Dammi il sapone. »
Sebastian annuì e fece colare via la schiuma. « Volete che vi lasci solo? »
« No. Resta. »
« Sì, padroncino. » Il demone gli porse il flacone di sapone e rimase al suo fianco, in attesa.
Ciel si strofinò il panetto sulle braccia e sulle gambe con rabbia, ma non riuscì a fermare il tremore. Gli occhi gli pizzicarono e quella sensazione acre e pesante gli gonfiò il petto. Oh, no. Oh, no. No, no, no. Doveva fermare le lacrime. Non poteva piangere, soprattutto davanti a Sebastian. Si morse le labbra con forza, ma non servì. Gli sfuggì un singhiozzo e qualcosa si spezzò in lui. Mise la testa sott’acqua, per nascondere altri versi, ma la mano pronta del maggiordomo lo riagguantò subito e lo tirò fuori. « L-Lasciami, Sebastian! » urlò, stridulo. La sua voce era ormai spezzata e nei suoi occhi spiccava la paura.
« No. »
« Come osi? Questo è un ordine, Sebastian. Lasciami. »
« No. » Il tono del maggiordomo era pacato, ma deciso. I suoi occhi erano calmi, eppure la piega delle sopracciglia e delle labbra era dura e aveva il sapore acre del rimprovero. « Non posso permettervi di fare del male a voi stesso, padroncino. Va contro la mia estetica. »
Ciel sgranò gli occhi. Si alzò in piedi, incurante della propria nudità, e lo schiaffeggiò. « Allora avresti dovuto salvarmi prima. » disse. « Ora lasciami solo. Devo pensare. »
« Sì, mio Lord. » Sebastian si inchinò e uscì dal bagno.
Il Conte guardò la porta chiudersi senza battere ciglio, ma restare solo non gli diede affatto la pace a cui anelava. Si strinse le gambe al petto e posò il mento sulle ginocchia. Le lacrime sgorgarono prima che potesse trattenerle e a quel punto non tentò più di fermarle: non ne valeva la pena. Le lasciò uscire e si crogiolò in quel dolore sordo e pulsante. Era da così tanto che nessuno lo consolava più, che iniziava a dimenticare che effetto facesse abbandonarsi tra le braccia di qualcuno e affidarsi senza timore alle sue cure. Il tempo in cui suo padre gli assicurava che non aveva nulla da temere dopo aver messo la testa nell’armadio era lontano e gli mancava da morire, ma aveva giurato di non ammetterlo mai. Tremò. Forse, chiedere a Sebastian di assumere il suo aspetto non è stata poi una grande idea. rifletté, ma ormai era fatta. Si appoggiò al bordo della vasca, distese le gambe e poco alla volta si lasciò scivolare nell’acqua, fino a sfiorarla con il mento. Chiuse gli occhi e rimase in ammollo finché non divenne fredda. Solo allora si costrinse ad uscire. Si deterse meglio che poté con il grande asciugamano e indossò la camicia da notte. Si mise a letto, ma le lenzuola erano troppo leggere per dargli il calore che desiderava. Benché l’aria di Dublino non fosse affatto fredda, il suo corpo sembrava incapace di rendersene conto. Continuava a tremare e a rigirarsi nel letto senza trovare requie.
Sebastian lo trovò così, quando, due ore dopo, rientrò in camera. « Siete ancora sveglio, signorino? »
Ciel annuì. « Non riesco a prendere sonno. » disse. « Fa troppo freddo. »
Sebastian chiuse le finestre. « Volete anche del latte e miele? »
Il ragazzo annuì di nuovo. Quello funzionava sempre e, se fosse riuscito ad addormentarsi, sarebbe stato libero. 

 

Ciel si svegliò urlando. Calciò via le lenzuola e si mise a sedere. Con gli occhi ancora chiusi, cercò l’arma che nel sogno gli era caduta di mano. Il suo cuore accelerò i battiti e i brividi corsero lungo la schiena fradicia. Sentì le guance umide e le nascose con le mani prima ancora di verificare se fossero lacrime o sudore. Che spettacolo penoso stava dando al suo maggiordomo! Non poteva permettere che la paura lo dominasse, eppure non riusciva a respingerla. Che mi succede? Da quando sono così debole? Fece diversi respiri profondi. Non posso lasciarmi abbattere. Io sono Ciel Phantomhive, Cane da Guardia della Regina. Devo portare a termine la mia vendetta. Ho venduto la mia anima per questo. Non posso lasciarmi schiacciare dalla paura. Per quanto se lo ripetesse, non riusciva a smettere di tremare.
Le mani di Sebastian si posarono sule sue spalle e gli occhi dell’altro incontrarono i suoi. « Di cosa avete paura, padroncino? » Il suo tono pacato non poteva definirsi gentile. Era metodico, piuttosto.
Il Conte desiderò sottrarsi a quel contatto, ma il suo corpo si rifiutava di obbedire. Alzò gli occhi verso il viso del servitore e strinse i pugni. Dovette deglutire tre volte, prima di riuscire a ritrovare la voce. « Non ho paura. » mentì, strozzato.
« E allora perché tremate, padroncino? » sussurrò il diavolo. « Perché vi siete svegliato urlando? »
« Un... un incubo. Solo uno stupido incubo. » rispose il Conte. Si imbronciò e incrociò le braccia in petto.
« Ma davvero? » Il maggiordomo gli sollevò il mento con due dita e gli accarezzò le labbra con il polpastrello del pollice. « Eppure, avete l’aria di un coniglio in trappola, padroncino. »
« E tu saresti il lupo che mi divorerà, giusto? » lo rimbeccò Ciel, con un ghigno che per un attimo parve davvero il suo, ma non avrebbe potuto usare verbo peggiore. Lo stomaco si contorse e gli occhi pizzicarono di nuovo, ma non avrebbe pianto. Non era un simile mollaccione.
« Quando verrà il momento, sì, signorino. » confermò il demone. « Ma fino ad allora sarò tutto ciò di cui avrete bisogno. »
Il Conte lo fissò. « Tu... puoi farmi dimenticare, Sebastian? » chiese. « Puoi cancellare quel ricordo dalla mia mente per sempre? » La sua voce si incrinò e spezzò, troppo acuta persino per un bambino.
Il maggiordomo sospirò. « Potrei provare, padroncino. » disse. « Ma gli incantesimi di memoria sono sempre complicati... e pericolosi. La vostra mente cercherà di riempire quel vuoto con qualcosa e potrebbe anche essere peggio di ciò che volete far sparire. » spiegò. « E nulla vieta che in futuro quel ricordo non riemerga in qualche modo. »
« Capisco. » Ciel si passò una mano tra i capelli. « Ma non posso continuare così, o impazzirò e sai che non posso permettermelo. »
Il demone annuì.
« Devi impedirmi di sognare, Sebastian. » riprese il ragazzo. « Posso combattere questa cosa, da sveglio, ma devo poter dormire. »
Sebastian non rispose subito. Si portò le dita al mento e increspò le labbra. Corrugò le sopracciglia e scosse la testa. « Non posso farlo, signorino. » decise. « Senza quello sfogo, la vostra mente collasserebbe ancora più in fretta. »
« Allora cosa puoi fare? »
Il maggiordomo lo abbracciò. « Questo, padroncino. » rispose. Aveva constatato l’effetto terapeutico che, in quel momento, il contatto fisico sembrava avere sul ragazzo e non era poi tanto diverso dal dargli lo sciroppo per la tosse.
Il Conte tentò di respingerlo, ma quel calore, per effimero e falso che fosse, era ciò che gli serviva. Si aggrappò al suo torace ampio e si acciambellò sul suo ventre. Chiuse gli occhi. « Solo per stanotte. » sussurrò.
« Ma certo, signorino. » rispose Sebastian. « Solo per stanotte. » Gli spazzolò i capelli con le dita e sorrise.
Ciel, cullato dal suo tocco meticoloso, si rilassò poco a poco. Il torpore si impadronì di lui e lo condusse in un sonno profondo e privo di incubi.
Il demone capì che il suo piano aveva funzionato, ma nonostante ciò non osò muoversi. Il padroncino era minuto, come continuava a ricordargli ad ogni occasione buona, e il peso della sua carne era irrisorio. Avrebbe potuto spendere quella notte in maniera più utile, ma aveva giurato di proteggere il contraente fino allo scadere del contratto e in quel momento il suo posto era lì, tra quelle lenzuola. 

 


Habemus capitulum!
Sì, in ritardissimo, me ne rendo conto, ma l'importante è il risultato, no? ù_ù
Bene, prima di lasciarvi alle recensioni, lasciatemi dire solo un paio di cosette.
Primo: la scelta del nome da demone è del tutto arbitraria. In genere non mi spingo così "oltre" nella manipolazione del materiale originale, ma in questo caso era un dettaglio necessario. Quasi di sicuro, tale nome non sarà più usato in seguito (odio uscire dal seminato), ma devo confessare che con l'andare di questi capitoli sto aggiungendo sempre di più del mio sacco, perché in fondo Yana ci ha dato davvero poche informazioni su Sebastian e sui demoni in generale e io su qualcosa devo pur costruire la trama. ewe Perciò, perdonatemi le licenze poetiche e non sbranatempi, please!
Secondo: spero che la scena finale sia riuscita bene. Scriverla à stato un parto difficile, ma spero che risulti gradevole e di non aver annientato l'ethos dei personaggi al primo colpo di interazione "insolita" tra loro. Tra l'altro, mentre la scrivevo fangirlavo indecentemente, quindi sono terrorizzata da cosa potrei averne fatto. Vi prego, rassicuratemi, perché ho paura a farli interagire ancora.
In ultimo, vi ricordo che vi adoro. Siete fantastici, anche se passate solo a sbirciare.
Ogni recensione fa di me una personcina felice, ricordatelo!

 

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Capitolo 6
*** Quel Maggiordomo, Premuroso ***


La prima cosa che Ciel sentì, quando aprì gli occhi, fu il profumo di suo padre.  La seconda fu il tocco gentile della sua mano che gli accarezzava i capelli. Per uno splendido istante si illuse di essere a Villa Phantomhive e che i suoi genitori non fossero mai morti, ma la speranza si affievolì con il riemergere dei ricordi della sera precedente. La mente ripercorse a ritroso quei momenti e le sue guance si tinsero di un rosso intenso. Si era comportato come un marmocchio spaventato dalla propria ombra. Era stato vergognoso. Tossicchiò e si mise a sedere. Scivolò via dal corpo di Sebastian e assunse la espressione più dignitosa. « Sebastian, perché sei a poltrire a letto invece di preparare la colazione? »
Il maggiordomo sogghignò, lieto di vedere il padroncino di nuovo in sé. « Ho ritenuto più importante vegliare il vostro sonno, signorino. » rispose, con la consueta compostezza. Si levò dall’intrico di lenzuola e si chiuse in bagno con gli abiti puliti. In meno di due minuti tornò ad essere il solito, efficiente servitore a cui il ragazzo si era abituato. « Preparerò immediatamente la colazione. »
Ciel annuì. Si acciambellò in poltrona e portò le gambe al petto sotto l’enorme camicia da notte. Ad occhi chiusi poteva sentire ancora quel profumo di muschio bianco e pino attaccato alla pelle. Sfregò il volto contro il proprio braccio e inspirò a fondo. Trattenne l’aria più a lungo che poté, prima di lasciarla andare. Smettila, stupido. Sei il Conte Phantomhive, non un marmocchio con i denti da latte. si rimproverò, conscio di quanto fosse sbagliato – e pericoloso – indulgere in simili desideri. Scosse la testa e distese le gambe. Le accavallò e guardò fuori.
Il cielo sopra Dublino era di un azzurro limpido e attraverso i vetri socchiusi filtrava il profumo della pioggia che si asciugava sul selciato. Non una nuvola interrompeva quella linda perfezione, spezzata solo dal volo pigro di qualche piccione che nulla di meglio aveva da fare.
Non doveva essere una brutta vita, rifletté, almeno finché non terminava in modo brusco a causa di qualche gatto. « Dannate palle di pelo. » borbottò. Appoggiò il gomito su un bracciolo e il mento sul palmo. Non tollerava che a Sebastian potessero piacere al punto da nasconderli in casa, quando sapeva benissimo che lui era allergico. « Non dovrebbe pensare prima al mio benessere, quel dannato demone? »
« Lo faccio, signorino. » rispose il diretto interessato, alle sue spalle.
Ciel saltò su come se fosse stato morso da uno sciame di vespe impazzite. « Ti ho detto mille volte di non prendermi alle spalle! » lo rimproverò, rosso in viso.
« Le mie scuse, padroncino. » Il diavolo si inchinò e sorrise. « Venite, vi aiuto a prepararvi. » Gli tolse la camicia e gli fece indossare i calzoncini color crema, dentro i quali infilò la camicia. Abbottonò con cura il panciotto azzurro e legò il fazzoletto in un perfetto nodo Mail Coach.
Il Conte si lasciò vestire e pettinare in silenzio. Più che docile, era assente. La quiete sul suo viso tradiva la distanza dei suoi pensieri. « Voglio tornare a Londra, Sebastian. » annunciò, quando anche la marsina fu ben abbottonata sul suo petto.
« Sarebbe la scelta più saggia, signorino. » riconobbe il maggiordomo. « Fagottini o cheescake? »
« Fagottini. »
Sebastian ne mise uno ancora caldo in un piattino. « Tuttavia, » riprese « non credo che la regina sarebbe lieta di vedervi tornare così presto, senza che la questione sia risolta. »
Ciel sospirò e sorseggiò il tè. « Non credere che non lo sappia. » disse. « Se anche le mandassi quei quattro ribelli male assortiti... » Deglutì. « Se anche lo facessi, Molly continuerebbe ad uccidere. » Addentò il fagottino per fermare il tremito della mano. Il boccone pesò sulla lingua, ma lo inghiottì comunque e alzò lo sguardo verso il diavolo. « Dobbiamo eliminare lei e tutti i suoi animaletti. »
« Temo proprio di sì, signorino. »
Il Conte gli scoccò un’occhiata da dietro la tazza di Earl Grey. « Dimmi, Sebastian, » sussurrò « come si uccide un demone? »
« Dipende dal demone, signorino. » rispose il diavolo. « Se anche distruggeste questo corpo, io continuerei ad esistere. » Sorrise. « Potrei plasmarne un altro senza difficoltà, uguale a questo, o magari diverso. » I suoi occhi si accesero per un istante del sanguigno lucore demoniaco, ma subito tornarono al consueto castano ramato. « Con i demoni corporei è più facile: bisogna distruggerne il cuore. »
Ciel si corrucciò. « Strapparlo dal petto non basta? »
Sebastian scosse la testa. « Il cuore non serve a mantenere in vita il corpo pompando il sangue, infatti non batte. Serve a custodire l’essenza. Deve comunque restare nelle vicinanze del corpo che deve alimentare, ma più il demone è vecchio e potente, maggiore è la distanza massima. »
Il ragazzo finì il dolcetto e si leccò le dita. « E questa demone deve essere molto vecchia e potente, per averti messo in difficoltà. » dedusse. Benché si sforzasse di nasconderlo, nella sua voce c’era una vena sotterranea di acredine che non riusciva a reprimere.
Il diavolo se ne accorse, ma non osò ristabilire il contatto fisico. « Purtroppo sì, signorino, e non è nemmeno stupida. » ammise. « Si è strappata il cuore e lo ha nascosto da qualche parte qui a Dublino. »
« Di bene in meglio, insomma. » commentò il giovane Conte. Si appoggiò allo schienale, gettò il capo all’indietro e sospirò. Non aveva nessuna voglia di rivedere lei o i suoi mostruosi animaletti da compagnia, ma tornare a Londra senza aver finito il lavoro non era un’opzione valida. Scosse la testa e si massaggiò le tempie. « Sarà una lunga, lunga giornata. » disse. Si alzò e prese la tuba e la cappa dall’appendiabiti. « Andiamo, Sebastian. »
« Sì, signorino. »

L’ultima cosa che Lord Gerald Fitzgerald, quinto duca di Leinster, si sarebbe aspettato, quella mattina di metà giugno, era che il suo cameriere personale gli annunciasse la visita del conte Phantomhive e del suo tetro maggiordomo. Le ferite bruciavano ancora, benché la magia di Sebastian le avesse cicatrizzate, e il pensiero di rivedere quell’inquietante duo gli fece cadere di mano il sigaro che stava per accendere. Non aveva osato dire a nessuno cosa era successo il giorno prima e si era consolato con la certezza che la belva che avevano evocato li avrebbe divorati. Quella speranza era stata l’unica cosa in grado di calmare gli altri. Si costrinse a dare ordine di riceverli e servire un rinfresco, ma nemmeno il belletto di sua moglie sarebbe riuscito a celare il colorito terreo con cui fece la sua comparsa nel salotto giallo.
Fu la prima cosa che Ciel notò. «Votre traitement a eu un effet, Sebastian.[1] »
« Il semble donc, jeune maître.[2] » confermò il maggiordomo. Sorrise e si inchinò all’uomo come se non lo avesse torturato meno di ventiquattro ore prima.
« Non avete nulla da temere, duca. » disse il ragazzo, che anche in quel tripudio di senape, ocra, limone e canarino spiccava come una candela in una stanza buia. « Sebastian non vi torcerà un capello, a meno che io non glielo ordini. »
L’uomo deglutì. « Mi perdonerete, spero, se la cosa non mi fa sentire affatto rassicurato. » disse, ma si costrinse comunque a prendere posto in una poltroncina di fronte al ragazzo. « A cosa devo il dispiacere di rivedervi, conte? »
Ciel scostò una ciocca dal viso e accavallò le gambe, ma non diede cenno di voler abbandonare quella posa di irriverente languore. « Non lo immaginate, Fitzgerald? » chiese, sornione. « Se volete almeno una possibilità di uscire vivo da questa storia, farete bene a fornirmi i nomi di tutte le altre esche che avete disseminato per Dublino. »
« E cosa mi garantisce che non verrò decapitato comunque? »
« Scriverò alla Regina e le parlerò appena tornerò a Londra. » ripeté Ciel, quindi spinse carta e penna verso di lui. « Nomi, indirizzi e vittime. Se loro penzoleranno dalla forca, voi e gli altri ne uscirete vivi. »
Il duca prese la stilografica e se la rigirò tra le dita. « A una condizione. » disse. « Tenete mia moglie e i miei figli fuori da questa storia. Loro non ne sanno niente, non hanno sentito una parola e non voglio che sappiano cosa ho fatto. »
« Accordato. »
Il duca annuì. Si piegò sul basso tavolino inarcando la schiena e scrisse la lista di buona lena. Di tanto in tanto dovette fermarsi per fare mente locale, ma l’elenco fu chiaro e completo fino all’ultimo punto.
Il Conte fece scivolare il foglio in una tasca della marsina. « Ancora una cosa. » disse. « Avete fornito al demone altri rifugi sicuri, oltre alla fabbrica, o conservato qualcosa per suo conto? »
Fitzgerald scosse la testa. « Non che io sappia, almeno. »
Ciel inarcò un sopracciglio, ma non commentò. « Molto bene. » disse. « Vi consiglio di preparare delle scuse convincenti per Sua Maestà... e per l’opinione pubblica. » Si sistemò la tuba sui capelli corti e lasciò l’uomo a riflettere, affossato in quel mare di giallo che faceva a pugni con il suo completo verde mela. Si trovò faccia a faccia con un valletto in livrea che spingeva un piccolo portavivande. Lo squadrò e fu sul punto di dirgli che non era più necessario, ma lasciò perdere. Passò davanti al giovanotto e imboccò la porta. Inspirò l’aria fresca di Dublino e guardò le nuvole scorrere pigre. Se tutto fosse andato nel modo giusto, non avrebbe più rimesso piede in quella dannata casa.
« Vi sentite bene, padroncino? »
« Sì, certo. » gli assicurò il ragazzo. « Perché non dovrei? »
Sebastian non rispose. Aveva la sensazione che quella freddezza fosse solo una posa, ma, senza il consenso del giovane Lord, non avrebbe potuto fare nulla.
« Interroga le donne della lista. Elimina quelle che sanno troppo e consegna la versione ripulita alla polizia. » ordinò il Conte. « Dopo di che ci occuperemo di trovare quel maledetto cuore. »
« Sì, mio Lord. » rispose il demone. Si inchinò e ricevette la lista dalle piccole mani del ragazzo. Ne colse il tremito e ne sfiorò piano il dorso, quasi per caso.
Una luce sfarfallò nell’iride azzurra del suo padrone, ma le labbra rimasero serrate, contratte nella linea dura dell’alterigia.
« Volete che vi riporti al King Lear, signorino? »
Ciel scosse la testa. « Voglio camminare un po’. Ho bisogno di pensare. »
« Siete sicuro che sia una buona idea? Potrebbe essere pericoloso. »
« Non finché resto nella Southside. » gli assicurò il ragazzo. « Raggiungimi quando hai fatto. »
« Sì, signorino. »
Il Conte lo guardò allontanarsi verso nord e sospirò. Non riusciva spiegarsi il motivo, ma la presenza del demone lo metteva a disagio. Forse, ragionò, era perché non si era mai affidato a lui fino a quel punto, ma non poteva permettere che una cosa tanto insignificante lo condizionasse. Doveva essere al di sopra di tutto, anche delle normali emozioni umane. Non aveva tempo per provare imbarazzo, né per i traumi. Aveva già passato troppe cose perché essere quasi divorato vivo potesse scalfirlo; o, almeno, era ciò di cui doveva convincersi. Si avviò lungo Dundrum Road e superò il ponte sul fiume Dodder. Svoltò a destra su Miltown Road e proseguì nella sua passeggiata senza prestare grande attenzione a dove stesse andando, o ai passanti che gli scorrevano accanto. Da che aveva siglato il patto con Sebastian, era la prima volta che si concedeva una tregua. Tregua, poi. pensò. È solo una stupida passeggiata. Scosse la testa. A breve il demone sarebbe tornato e avrebbe dovuto dargli i nuovi ordini, ma ancora non aveva preso una decisione. Si massaggiò le tempie. Se avesse ammesso di non avere un piano, sarebbe apparso debole, nel momento peggiore possibile. Prese posto su una panchina lì vicino e guardò il fiume.
Scorreva placido, con il suo mormorio leggero e i baci del sole che si rifrangevano sulla sua superficie.
Ciel si perse a guardarlo con tanta intensità che quasi non si accorse di Sebastian, in piedi di fronte a lui.
« Signorino? »
Il Conte si riscosse. « Pensavo. » si giustificò.
« A cosa, signorino? »
« A come trovare il cuore di quella immonda creatura. » ammise, con una smorfia infastidita a raggrinzirgli il viso e si appoggiò allo schienale con le spalle. « Puoi fiutarlo, o cercarlo con la magia? »
« Potrei provare, signorino. » concesse il demone. « Ma, se Hana’el lo ha nascosto bene come credo, non basteranno né il mio olfatto, né i miei incantesimi. »
Il giovane Lord sbuffò. « Lo immaginavo. » Si allentò la cappa. « Chiedere ai Lord è inutile. Se sanno qualcosa, saranno loro a venire da noi, ora che hanno capito che la creatura è stata sconfitta, ma, se la sua padrona è furba come dici, non si sarà affidata a loro per nascondere il proprio cuore. »
Sebastian annuì.
« Ciò significa che l’unica a sapere dove si trova è lei, che non ce lo dirà mai. »
« Temo sia corretto, signorino. »
Ciel si morse le labbra. Non poteva tornare lasciando indietro una simile bomba. « Puoi leggerle la mente come hai fatto con la Sirena? »
« Posso provare, signorino. » ripeté il diavolo. « Tuttavia, la signorina Mary era umana e invadere la sua mente non allenata è stato facile. Hana’el è una demone vecchia quasi quanto me e nei secoli ha accumulato più potere degli altri corporei. Si mormora che abbia divorato altri demoni, invece di limitarsi agli umani, ma non ci sono prove di questo. Fatto sta che combatterà e potrebbe anche fornirmi informazioni false. »
Il Conte si rabbuiò. « Tenterai. » decise. « E dopo, per precauzione, distruggeremo il suo corpo. »
« Come desiderate, padroncino. »

Il capannone della Fish & Friends era uguale a come lo avevano lasciato, con le assi inchiodate davanti alla porta e l’insegna che minacciava di cadere da un momento all’altro.
« Finiamo questa cosa al più presto. » disse Ciel. La sola idea di rimettere piede lì dentro gli dava la nausea. Stava facendo del suo meglio per trattenerla, ma solo guardare Sebastian staccare le assi dal muro fece aumentare i battiti del suo cuore. Il sangue gli pulsò nelle tempie e un’ondata di gelo gli percorse la spina dorsale. Stinse i pugni, deglutì, eppure non riuscì a mandare giù nemmeno una goccia di saliva. Muoviti, Sebastian. pensò. Muoviti, prima che mi venga un accidente. Non voglio svenire come una ragazzina. Quel pensiero gli riportò alla mente Lizzie. Sulla Campania lei lo aveva difeso dagli zombie e se avesse saputo che aveva usato “ragazzina” come un insulto gli avrebbe tenuto il muso per un mese. La morsa allo stomaco si allentò e il ragazzo si concesse un rapido sorriso. Precedette Sebastian a testa alta, ma attento a restare a portata di braccio.
Al primo colpo d’occhio, la stanza sembrava identica al giorno prima, ma il corpo abbandonato supino accanto all’altare non era lo stesso che vi avevano lasciato.
Il giovane Patrick Boyle era riverso nel suo sangue, spolpato dal ventre in giù. L’orrore era ancora visibile nei suoi occhi sbarrati e la camicia da notte era stappata in più punti e macchiata di sangue e di una sostanza marroncina su cui Ciel preferì non indagare. Abbandonate in un angolo c’erano le ciabatte del giovane e un coltello insanguinato che sembrava essere stato usato per aprire uno squarcio nel polso destro.
Le gambe di Ciel si fecero di burro e gli scappò un singhiozzo.
Sebastian, dietro di lui, lo afferrò e gli coprì gli occhi con una mano, ma l’orrido spettacolo era già penetrato nella mente del suo padrone. Era riuscito a salvarlo dalla vista delle vittime di Jack lo Squartatore, ma non da quello. « Mi dispiace, padroncino. » sussurrò.
Il ragazzo non lo stava ascoltando. Piangeva e basta, aggrappato al suo braccio. Non sembrava nemmeno rendersi conto di cosa questo voleva dire.
Il maggiordomo lo prese in braccio come il giorno prima e lo strinse al proprio petto nella speranza che il potere calmante del suo profumo agisse di nuovo su di lui. Doveva portarlo via, ma, se avesse lasciato lì il corpo dello scozzese e qualcuno lo avesse trovato, la polizia avrebbe seguito la pista della magia nera e la Regina avrebbe potuto fiutare qualcosa. « Vi riporto al King Lear, signorino. » decise. Lo avrebbe messo al sicuro e poi sarebbe tornato a pulire quel disastro, sempre che Hana’el non li trovasse prima. Ormai non importava più dove fosse il suo cuore, pensò. Distruggere il suo corpo sarebbe stato altrettanto efficace, almeno per un centinaio di anni. Se ne sarebbe assicurato di persona.   

 
[1] Il tuo trattamento gli ha fatto effetto, Sebastian.
[2] Così pare, padroncino.
 

 
Sto crollando dal sonno, ma ci tenevo a pubblicare prima di andare a letto, come se fosse ancora domenica, anche se ormai è - purtroppo - lunedì e I've failed my record. Sapevamo che questo giorno sarebbe arrivato, ma pensiamo che ci saranno ancora tempi felici in cui posterò in tempo. Dobbiamo essere ottimisti e positivi, come Finnian.
Detto questo, vorrei fare una piccola precisazione: io e il francese ci odiamo cordialmente dalla seconda elementare, quando mi costringevano a studiarlo leggendo un brutto fumetto su un giocattolo di pezza di nome Gaston. Tutto ciò per dire che quelle due frasette, lì, sono copiate ari pari da Google Translate, quindi non assicuro che siano corrette. Fate finta che lo siano, please! Purtroppo, Ciel e Sebastian parlano francese, quando vogliono giocare al Club Subersegretissimo, perché Ciel parla tedesco bene quanto me e non ci sono altre lingue disponibili.
Lasciando perdere questo, non so bene come definire questo capitolo. Non lo chiamerei "di passaggio" perché la situazione è rimasta invariata. Spero non sia risultato noioso, perché credo che i vari personaggi avessero bisogno di questa pausa e, purtroppo, c'è pure scappato il morto. Mi rendo conto che è lento e devo ammettere che anche il prossimo non sarà velocissimo, ma dal settimo le cose ricomincieranno a farsi movimentate e poi... buh e poi dovrò trovare un nuovo titolo per la fanfiction, ma un problema alla volta.
Per il momento vi lascio così, nella speranza di non avervi annoiato.
Se vorrete farmi sapere cosa ne pensate del capitolo, sappiate che farete di me una scribacchina felice. 

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Capitolo 7
*** Quel Maggiordomo, Patteggiatore ***


Rientrarono all’albergo senza incidenti. Ovunque fosse Hana’el,  non li stava cercando; non ancora. Magari era troppo debole per agire, ma Sebastian non ci avrebbe scommesso: se aveva mangiato di recente, le forze non dovevano mancarle. Era più probabile che si stesse riorganizzando per attaccarli nella maniera più distruttiva che le fosse venuta in mente.
Depose il ragazzo in poltrona e gli riordinò i capelli con le dita.
Ciel non diede cenno di essersene accorto. Lo guardò senza vederlo, con gli occhi vitrei come quelli delle bambole. « Quel moccioso... lui... aveva la mia età. » sussurrò. « E... e un giorno anch’io... »
« Non farete quella fine, signorino. » lo interruppe il demone. « Tutto ciò che prenderò sarà la vostra anima, ma il corpo sarà illeso. » Forse non era il momento di parlarne, né il modo migliore per consolarlo, ma la gentilezza non era il suo campo e poi aveva giurato di non mentirgli.
Il Conte esibì un debole sorriso, nient’altro che una pallida eco di ciò che il suo servitore era abituato a vedere. « Alla zia Frances verrà comunque un colpo e anche a Lizzie. » commentò, ma nella su voce non c’era ilarità e nemmeno sarcasmo. Scosse la testa. « Ma ora non abbiamo tempo di pensare a questo, no? »
Sebastian annuì. Si tolse i guanti e si punse il polpastrello dell’indice destro con un ago. Con il proprio sangue scrisse lungo tutti e quattro i bordi della finestra una fitta serie di rune demoniache, molto diverse da quelle che Ciel conosceva, più lunghe e spigolose. Fece lo stesso sulla porta e con l’intero perimetro della stanza. « Queste terranno fuori qualunque demone eccetto me, padroncino. Hana’el potrebbe radere al suolo l’intero edificio e comunque non riuscirebbe toccarvi con un dito. »
Ciel lo guardò e schiuse le labbra, ma non disse nulla. Annuì e basta. « Vai, prima che qualcuno lo trovi. » disse. « E vedi di essere celere. » Agguantò il libro sul tavolino, ma i racconti di Poe erano l’ultima cosa che serviva alla sua mente suggestionabile, in quel momento. Lo rimise a posto con una smorfia e rimpianse di non aver portato con sé qualcosa di più allegro. « Portami qualcosa di dolce, quando torni. » ordinò, ad occhi chiusi.
« Sì, signorino. » rispose il maggiordomo. Uscì dalla finestra e si inoltrò per le vie di Dublino. Raggiunse la fabbrica in un paio di minuti appena, ma non ripulì subito tutto. Senza il signorino, poteva approfittarne per esaminare meglio il capannone.
Sulla soglia c’erano le impronte delle ciabatte del ragazzino, quindi era arrivato lì con i propri piedi, magari sotto ipnosi. Le mani del cadavere erano sporche di sangue, mentre i resti dei suoi serpenti giacevano dove poche ore prima c’era stata la demone, carbonizzati. Intorno, lì dove in precedenza avevano sanguinato le articolazioni della donna, ancora restavano ampie macchie di icore.
Si è liberata e ha attirato a sé il ragazzino? Ma perché proprio lui? Deve aver faticato molto per attirarlo dalla Southside, invece di prendere l’umano più vicino. In qualche modo, questo marmocchio era speciale. Si inginocchiò accanto al corpo e lo ribaltò. Rimosse la camicia da notte, ma non trovò niente.
La pelle bianchissima era intonsa come quella del signorino, almeno nelle parti su cui la ghoul non si era accanita. Non c’erano rune, né sigilli. Non era stato consacrato né a lei, né ai suoi animaletti da compagnia.
Allora perché? Gli tornarono alla mente le parole del signorino e il suo viso abbattuto. Che fosse quello il motivo? Voleva mandare un messaggio al padroncino? Poteva essere. Magari non si aspettava che fosse proprio il ragazzo a trovarlo, ma solo che lo sarebbe venuto a sapere dai giornali. Forse non le interessava nemmeno traumatizzarlo così tanto. Se così era, non poteva lasciarlo solo troppo a lungo. Doveva sbrigarsi a tornare da lui. Si tolse i guanti e lasciò esposto il sigillo e le unghie nere. Con la sinistra toccò le macchie di sangue, l’altare, i drappi e i sigilli e li fece sparire.
La Fish & Friends tornò ad essere solo una fabbrica abbandonata.
Con il cadavere ebbe più difficoltà. Non poteva farlo sparire o distruggerlo, altrimenti suo padre – quello scozzese dalla testa calda – avrebbe battuto la città palmo a palmo per trovarlo e c’erano ottime possibilità  che bussasse anche alla loro porta. Lo prese in braccio e si arrampicò fin sul tetto. Dalla cupola vetrata saltò ad un capannone e di lì a quello che sembrava un condominio. Attraversò la Northside tetto in tetto, non visto, fino a raggiungere il Liffey.
Il fiume scorreva placido sotto la dozzina di ponti che connettevano le due zone della città. I riflessi del sole si perdevano nella spuma prodotta dai traghetti, ma superarlo non sarebbe stato un problema.
« Che hai fatto a quel ragazzo, demone? »
Come non detto. Si voltò e fronteggiò a mento alto l’occhiata accusatrice di William T. Spears. « Proprio nulla. » rispose. « Ha già provveduto più che a sufficienza la ghoul che gli dèi della morte non sono stati in grado di fermare. »
Lo Shinigami contrasse la mascella e gli puntò contro la falce. « Non mi sembra abbiate fatto di meglio. » notò, duro. « Eppure siete quelli che avrebbero dovuto risolvere tutti i nostri problemi. »
Il demone inarcò un sopracciglio. « Voi burocrati non avete niente di meglio da fare che infastidire me? »
William si calcò gli occhiali sul naso. « Non sprechiamo certo il nostro tempo ad inseguire te, infatti. » rispose. « Sei sempre sulla nostra strada nei momenti peggiori. »
Diavolo e Shinigami si fissarono. In un altro momento si sarebbero scontrati, forse, ma in quello erano entrambi presi dalle rispettive incombenze per ostacolarsi.
« La demone che cercate si chiama Hana’el. Il solo modo di ucciderla è trovare il suo cuore, nascosto da qualche parte qui a Dublino, e distruggerlo. »
« Perché me lo dici, bestia nociva? »
« Al contrario di me, lei uccide con frequenza, mossa da una fame indisciplinata e primitiva. Affogherà la città nel sangue e la popolerà di spettri, mentre voi perdete tempo a raccogliere i cocci che si lascia dietro. »
« Mentre con questa informazione potremmo fermarla, anche nel tuo interesse. »
« Do ut des. » rispose Sebastian. « E anche questo è un modo di risolvere i vostri problemi. » Gli rivolse il suo migliore sorriso da lupo e saltò al tetto successivo prima che lo Shinigami potesse fermarlo.


 

Ciel era dove lo aveva lasciato: acciambellato in poltrona. Accanto aveva due pile di giornali e un enorme quotidiano aperto sulle gambe. La mano che portava gli anelli di famiglia di tanto in tanto tamburellava sul bracciolo con le unghie, ma le rughe sulla fronte tradivano la concentrazione nella lettura. « Sei sporco di sangue. » disse, senza nemmeno abbassare il giornale.
Sebastian sorrise. Lo preferiva così, piuttosto che ridotto ad un marmocchio tremante. « Ho buone notizie, padroncino. »
Il Conte mise giù il giornale.
« Mentre tornavo, ho incontrato quello Shinigami che ci sta sempre tra i piedi, Spears. » disse. « E gli ho suggerito, per così dire, di cercare il cuore di Hana’el. »
Le labbra del piccolo Lord fremettero in un tenue ghigno. « Magari, per la prima volta in vita loro, serviranno a qualcosa. » commentò e accavallò le gambe. « Potremmo tornare a Londra anche subito, ma voglio assicurarmi che non combinino disastri. »
Il maggiordomo si inchinò. « Come desiderate, signorino. » Si tolse la giacca e la camicia. Aveva un fisico tonico, ma dalla muscolatura appena accennata. Nonostante si fosse ferito più volte, in quei tre anni, non un segno era rimasto sulla sua pelle chiarissima. Dalla valigia estrasse vestiti puliti e li abbottonò con cura.
Ciel lo guardò senza commentare, affascinato dalla cura certosina con cui le dita affusolate si muovevano tra asole e bottoni. « In ogni caso, con quello che è successo non mi fido a tenere i Lord qui a Dublino. »
Il diavolo corrugò le sopracciglia.
« Non fraintendere. » lo avvertì il ragazzo. « Sono innocui, ormai, ma se cominciassero a morire la Regina potrebbe insospettirsi e tentare di nuovo un tiro come quello di marzo. » Arricciò le labbra. « Riuniscili, con tanto di mogli e figli, e mettili sul primo traghetto per Londra. Dirai a Tanaka di andarli a prendere di persona e scortarli a Villa Phantomhive. Saranno nostri graditi ospiti finché non farò rapporto a Sua Maestà. In questo modo avranno almeno un minimo di protezione ed eviteremo altri... incidenti. »
« Sì, mio Lord. »
« E non dimenticare il mio dolce. »
Sebastian sorrise. « Così vi rovinerete l’appetito per il pranzo, signorino e, come vostro maggiordomo e tutore... »
« Mi spiace rovinare il quadretto familiare, » li interruppe la voce di Ronald Knox « ma avrei una certa fretta. Sapete, le ragazze. » Sfoggiò il suo migliore sorriso smagliante, con le gambe a penzoloni sulla strada e la schiena appoggiata alla cornice della finestra. « Will mi ha mandato a dirvi che, solo per questa volta, collaboreremo con voi. »
Ciel e Sebastian si scambiarono una rapida occhiata.
« Ma ci servono più informazioni. » Si tolse di tasca un foglietto e lo porse al maggiordomo, che lesse la lista e la passò al suo padrone.
Il ragazzo la scorse e annuì.
« Uh, se poteste scrivere tutto sarebbe molto meglio. »
« Nessun problema. » assicurò il diavolo, senza fare una piega. Sul retro del foglio scrisse tutto ciò che gli dèi della morte avevano bisogno di sapere a proposito di Hana’el e del suo cuore, quindi lo restituì.
Ronald lo prese e lo infilò in tasca, quindi saltò fuori dalla finestra e si arrampicò sul tetto.
Ciel scosse la testa. « Giusto per capire, ma voi soprannaturali che problemi avete con le porte? »
Sebastian ridacchiò. « Nessuno, signorino. » assicurò. « Ma così è molto più veloce. »
Il Conte sbuffò. « Sarà. »
Il maggiordomo sorrise. « Visto che avete fame, vi preparerò il pranzo, signorino. »
« E non dimenticare il dolce. »

 

William T. Spears odiava i demoni più di qualunque altro Shinigami. Nessuno aveva idea del perché, ma nessun altro, in tutta la Divisione Britannica, sarebbe stato altrettanto implacabile nel dare loro la caccia. Per questo era stato messo a capo dell’Operazione Dublino, da quando quel dettaglio era venuto fuori. Aveva previsto che non sarebbe stato facile; quel che non aveva messo in conto era finire a collaborare con un altro demone e con il suo spocchioso padroncino.
Ronald Knox bussò alla porta aperta. « Ho le informazioni. » annunciò, sorridente.
Il suo capo alzò gli occhi dalle scartoffie sparse sulla scrivania e lo fulminò con un’occhiataccia. « Perché ho la sensazione che la cosa ti diverta? »
L’altro fece spallucce. « Almeno io non mi annoio. » Si lasciò cadere su una sedia e gli porse il bigliettino. « Se questa demone ha un minimo di cervello, avrà già spostato il cuore. Io lo farei. » Accavallò le gambe e appoggiò i gomiti sulla scrivania. « Voglio dire, se è davvero intorno alla fabbrica, lo troveremmo in un attimo. Non è sicuro lasciarlo lì. Per la verità, non lo sarebbe nemmeno se a cercare ci fosse solo quel maggiordomo in nero. »
William corrugò le sopracciglia, senza staccare gli occhi dalla grafia tondeggiante di Sebastian. « E dove lo nasconderesti tu? »
« Io me lo terrei addosso. » ammise lo scozzese. « Ma, se proprio dovessi nasconderlo, sceglierei la costa, per svignarmela più in fretta nel caso le cose si mettessero male. »
Il supervisore dovette ammettere che la cosa aveva una certa logica, ma doveva anche riconoscere che una predatrice di quel tipo difficilmente avrebbe rinunciato alla caccia, una volta che aveva puntato il bersaglio. Rilesse l’anamnesi e si alzò. « Raduna la squadra. »
Ronald gli scoccò un’occhiata dubbiosa, ma non replicò. Lasciò quella specie di ufficio malmesso – in pratica, poco più di un sottotetto – e scese al piano inferiore a chiamare gli altri sciagurati che erano stati assegnati a quell’ingrato compito.
Si erano sistemati in un condominio abbandonato nella Northside, dalle parti di Shanard Avenue. Non era un bell’edificio, ma nemmeno aveva ancora quell’aria fatiscente che spingeva i ragazzini a inventare storie di fantasmi e improbabili prove di coraggio. I solai reggevano e le macchie di muffa erano – a dire di William, almeno – trascurabili. L’unico ingresso, che dava sulla strada, proprio all’incrocio con Shanard Road, era stato sprangato con cura e gli appartamenti erano stati divisi tra i vari membri della squadra, come la poca mobilia raccattata. Il sottotetto, con il suo abbaino solitario come unica fonte di luce, era stato adibito a ufficio e sala riunioni.
Will mise via le carte e, con un pezzo di carboncino, scrisse sul muro ormai stinto i punti di quella riunione.
La porta si aprì e cinque Shinigami sciamarono nella stanza.
« Allora, capo? » chiese Ronald. « Qual è il piano? »
Il dio della morte lo ignorò e disegnò sul muro un cerchio tagliato da una linea. « I luoghi dove è più probabile che sia nascosto il cuore sono la costa e il fiume Liffey. » Tracciò una croce dove avrebbe dovuto trovarsi il porto e un’altra al centro del cerchio. « Perciò, ci divideremo in due squadre. Knox, tu andrai al porto con Barrie e Irvine. Tucker e Sutcliffe, voi due verreteal fiume con me. » Si aggiustò gli occhiali sul naso e guardò i suoi sottopoti come se dovesse mangiarli vivi da un momento all’altro. « Prima chiudiamo con questa storia, prima potremo ripulire Dublino dai fantasmi, per cui vedete di non fare errori. »
« Ah, lo sapevo che mi avresti voluto con te, Will! » chiocciò Grell, esuberante come al solito.
« Per quanto mi riguarda, spero solo che ci paghino tutti questi straordinari. » intervenne Jonathan Tucker. Era entrato nella Divisione Britannica solo da una dozzina d’anni, ma già aveva imparato il disgusto per gli straordinari e, con la sua aria distinta e i suoi mustacchi lucidi, era facile immaginare perché il supervisore lo avesse preso in simpatia.
« Se speri in uno sconto di pena, sei un ingenuo. » gli rispose Barrie. Si mostrava come un sedicenne, ma aveva quasi la stessa anzianità di servizio di Ronald. « Siamo condannati, ricordi? »
Tucker sbuffò.
William batté le mani per richiamarli all’ordine e si schiarì la voce. « Lawrence Anderson ha fatto questi per noi. » Da dietro la scrivania estrasse  una scatola e ne fece saltare le chiusure.
Sei paia di occhiali erano adagiati sul cuscinetto di raso.
« Con questi riusciremo a individuare le tracce della magia demoniaca. Secondo le indicazioni del signor Anderson, sarà come un alone rosso, più o meno scuro a seconda di quanto siamo vicini. » Li distribuì e tenne per sé un paio dalla montatura rettangolare molto simile a quelli che aveva già.
« Ah, Will! Ti sei ricordato che mi piace il rosso! » esclamò Grell, troppo languido per i gusti del supervisore. Attraverso le lenti nuove, gli fece gli occhi dolci e si spinse addirittura a mandargli un bacio, indifferente alle occhiate disgustate degli altri quattro e del destinatario.
« Falla finita! » lo zittì quello. Aprì le imposte e uscì per primo. Richiamò la sua squadra con un’occhiata truce e saltò giù.

 

Avrei dovuto postare ieri, lo so. Vi chiedo perdono in ginocchio sui ceci per il ritardo, ma almeno non vi ho fatto aspettare mesi. Sto tenendo il ritmo, per il momento. owo Sì, nnon riesco a crederci nemmeno io, quindi rendetevi conto di quantosia miracoloso. >w<
Ma passiamo alle cose interessanti. Come avevo preannunciato, questo capitolo è ancora lentino, ma - come vedete - sono successe un paio di cosucce interessanti. A parte Ciel che si strugge, abbiamo una curiosa alleanza tra il nostro bel duo e gli Shinigami. Ammetto che la loro scena mi ha messo parecchio in difficoltà, perché temevo di allontanarmi troppo dalla storyline principale, ma capirete presto il perché di questa scelta.
A proposito dell'ultima scena, ho una precisazione da fare: Lawrence Anderson non è un personaggio creato da me, ma un "prestito" dall'OVA "La storia di Will lo Shinigami", che potete trovare qua. In teoria, mischiare manga e anime non è una buona idea, ma era meglio questo che forzare la creazione di radar improbabili, no? Almeno, io credo sia meglio. Preciso, comunque, che i fatti raccontati nell'OVA non sono considerati come parte della storyline della fan fiction, perché non sembrano coincidere con quello che Yana ha dato a intendere nel capitolo 105 del manga. In ogni caso, il personaggio mi faceva comodo e questo è quanto. ù_ù
Non ho altro da aggiungere, perciò la parola a voi. :3

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Capitolo 8
*** Quel Maggiordomo, Efficiente ***


Sorvolarono la città di tetto in tetto. La Squadra Knox si diresse verso il quartiere di Howth, da cui avrebbero iniziato a percorrere tutta la costa, mentre la Squadra Spears puntò verso Liffey Street Lower, da cui si sarebbero mossi a spirale.
William diede ordine di fermarsi a due tetti dal fiume. « Tucker, costa sud, da qui verso il porto e ritorno lungo la costa nord. Sutcliffe, costa nord da qui a Palmerstown e ritorno per la costa sud. »
Tucker annuì, assestò gli occhiali e si mise all’opera.
Grell lo guardò andare via, quindi scoccò a Will un’occhiata maliziosa che fece accapponare la pelle del burocrate. « Mh, a quanto pare siamo rimasti soli, signor Spears. » disse. Si strusciò su di lui. « Che ne dici di approfittarne, capo? » sussurrò al suo orecchio. « Potremmo divertirci come ai vecchi tempi. Ah, mi manca essere tuo! »
William lo fulminò con un’occhiata gelida. « L’unica cosa che sarai è sospeso di nuovo, se non ti metti al lavoro. » lo ammonì. « E tu sai cosa succede agli Shinigami inefficienti, Sutcliffe, non è vero? »
Il dio della morte tremò. « Sarò una Shinigami talmente efficiente che ti innamorerai di me! » esclamò. « Dopotutto, io sono la bella rossa dell’Unità di Raccolta. » Si mise in spalla la Death Scythe e fece l’occhiolino al suo superiore.
« Sei disgustoso. »
« Dici così solo per fare il prezioso, ma io lo so che mi ami! » ridacchiò Grell, imperterrito. Avrebbe continuato fino al tramonto a dargli il tormento, se l’altro non lo avesse buttato a calci giù dal tetto.
« E non osare farti rivedere senza aver fatto il tuo dovere! » sbottò Spears. Scosse la testa, borbottò una collaudata lista di insulti all’indirizzo di quel fastidioso imbecille e si mise all’opera. Entrò ed uscì da ogni appartamento, ufficio, negozio, ristorante, cantina e mansarda di quella zona, sia d nord che a sud del Liffey, senza trovare nulla. Maledì la polvere, i ratti e i dublinesi ad ogni buco nell’acqua. Sarebbe tornato apposta per le loro anime, se solo non avesse odiato con tanta intensità il lavoro sul campo. Non era un’iperbole affermare che lo detestasse con ogni fibra del suo essere. Più ancora trovava fastidiosi gli umani – i vivi – e uno in particolare. Sarebbe stato un piacere immenso riscuotere la sua anima solo per strapparla al suo ripugnante mastino.
« Nessuna traccia a est, signor Spears. »
« Grazie, Tucker. » Sistemò gli occhiali sul naso e si schiarì la voce. « Controlliamo la zona di Sutcliffe. » decise. « Non mi fido di quel piantagrane. »
« Sì, signore. »
William prese la riva nord, Jonathan la sud e di nuovo frugarono in ogni angolo alla ricerca del dannato cuore, ma, se era lì, la demone lo aveva nascosto davvero bene. Raggiunsero Grell, intento a mettere a soqquadro il magazzino di una sala da tè.
« Temo proprio che il cuore che cerchi non sia qui, mio algido principe, ma puoi provare a cercare nel mio petto. Ti assicuro che troverai un caldo cuore palpitante per te. »
« Non dire idiozie. » lo freddò il supervisore. « Siamo morti, ricordi? »
« Non dovresti essere così duro con me, mio adorato. » Gli accarezzò il braccio con la punta delle dita e gli fece gli occhi dolci. « Se vuoi, posso suggeriti io un paio di modi più piacevoli. »
William tremò. « Non ti azzardare a riprovarci, o giuro che ti farò pentire di esserti suicidato più di quanto non potranno fare mille anni di raccolta delle anime. »
Se a minacciarlo fosse stato un altro dio della morte, Grell non avrebbe esitato a ricordargli che lui amava riscuotere anime o non sarebbe diventato complice di Madame Red, ma nutriva un sacrosanto terrore nei confronti del burocrate, profondo quanto la viscerale ammirazione per la sua efficienza. Deglutì e fece un passo a destra per staccarsi da lui.
« Molto bene. » commentò Spears. « Non ci resta che controllare le fogne e potremo tornare alla base. »
« Ma le fogne sono sporche! E puzzano! »
« Non ricordo di aver chiesto la tua opinione, Sutcliffe. »
Lo Shinigami non osò replicare e strinse a sé la Death Scythe.
Nessuno degli altri due parve incline a dargli conforto, ma era evidente che nemmeno morivano dalla voglia di infilarsi in un tombino. Come lui, forse, erano troppo spaventati per opporsi al loro capogruppo.
Trovare l’ingresso al sistema fognario non fu difficile e ancor meno lo fu forzarlo. Infilarsi nei cunicoli risultò un po’ più complesso, a causa della loro strettezza. Procedettero in fila indiana e piegati a centoventi gradi, finché la puzza li costrinse a dividersi. Più in fretta avessero coperto quell’area, meglio sarebbe stato. Esplorarono ogni cunicolo con cura certosina, ma il cuore non sembrava essere nemmeno lì.
« Raggiungiamo la Squadra Knox. » ordinò William, al termine dell’ispezione.
« Aspetta! » lo fermò Grell, che, nella frettta di attirare la sua attenzione, finì per sbattere la nuca contro un tubo. « Ahi, ahi! » si lamentò, con le lacrime agli occhi.
« Smettila di frignare, Sutcliffe. » lo ammonì Spears. « Cos’hai visto per agitarti tanto? »
« Mi è sembrato ci fosse qualcosa, lì! » spiegò Grell, senza smettere di massaggiarsi la parte lesa, e con la Death Scythe indicò l’imbocco del cunicolo in fondo a destra.
Era troppo buio per dire cosa fosse, ma si intravedeva uno sfarfallio rossiccio, annidato quell’ombra.
« Vado a controllare. » decise il burocrate. « Tucker, resta con il piantagrane. » ordinò. Puntò la Death Scythe in avanti, pronto ad attaccare, e si affacciò nel canale buio.
Non c’era nessuno, ma non era un’illusione.  Un bauletto poco più grande di un portagioie se ne stava acquattato sotto a un tubo come un gatto, ammantato di un intenso alone borgogna.
Lo prese con la mano libera e si voltò per tornare indietro, ma questo attivò il sistema di sicurezza.
Grosse sbarre scure apparvero intorno a lui e il sibilo di una ghigliottina orizzontale lo costrinse ad abbassarsi.
« Ero sicura che ti saresti fatto vivo, Sebastian. » disse una voce femminile, carica di disprezzo. « Non uscirai da lì per un bel po’, temo. Quanto basta perché io banchetti con il tuo contraente, almeno. »
« Spiacente di deluderti, sudicia bestia, ma io non sono della tua risma. » la informò William. Con un colpo di Death Scythe spazzò via la trappola e fronteggiò la demone. « Immagino che qui dentro non ci sia davvero il tuo cuore, ma in ogni caso, meglio non correre rischi. » Aprì la scatola e affondò l’arma nell’organo pulsante al suo interno, che esplose come una bolla di sapone.
Hana’el era ancora lì. « Per essere uno Shinigami, sei meno stupido di quanto si dica in giro. » constatò. Ghignò e si picchiettò piano la guancia con l’unghia. « Non avevo previsto che avrebbe coinvolto voi. » ammise. « È stata una mossa furba. » Scrollò le spalle. « Oh, beh, vorrà dire che toglierò di mezzo un po’ di mosche, prima di sistemarlo. » Attaccò a testa bassa, frontalmente, e mirò al petto.
William parò il colpo  con la Death Scythe e arretrò fino ad uscire dal cunicolo.
Jonathan e Grell gli furono subito accanto, con le armi ben alte.
La demone sogghignò e voltò loro le spalle per tornare da dove era venuta.
« Non lasciatela scappare! » ordinò Spears.
« Ci penso io, capo. » rispose Tucker e le corse dietro nel cunicolo, seguito da Grell. Nonostante la sua stazza, era veloce. Saltò addosso alla demone e la placcò come un orso, indifferente al liquame che li inzuppò nel momento in cui vi caddero. « L’ho presa, signore! » esultò, tenendole ferme le braccia e il busto con l’ausilio del proprio peso.
William li raggiunse dall’altro lato del cunicolo. Aveva imboccato il parallelo per togliere alla necrofaga ogni via di fuga e teneva pronta la Death Scythe. « Ora vediamo se Ronald aveva ragione. » disse. « Tucker, tienila ferma. Sutcliffe, scoprile il petto. »
I due Shinigami annuirono, ma quasi la lasciarono scappare quando videro cosa si nascondeva sotto le vesti della demone.
Il petto era una ragnatela di cicatrici nerastre e carne putrida che di un seno aveva ormai solo una lontana parvenza. I capezzoli erano neri e più simili a sassi che a ciliegie, mentre le mammelle sottostanti erano ormai flosce come sacchetti svuotati in buona parte del loro contenuto.
« Non gradite la vista? » li sbeffeggiò la demone. « Allora lasciate che la migliori. » Chiuse gli occhi e il suo intero corpo parve ringiovanire, fino a tornare ad essere quello di un’avvenente fanciulla, dotata del più bel seno che un uomo potesse sognare.
William la ignorò. « È solo una disgustosa illusione. » disse. Si chinò su di lei e prese in prestito il falcetto di Jonathan, più maneggevole delle sue enormi cesoie. Con un colpo netto lo affondò nel petto della demone.
I Cinematic Record della creatura li abbagliarono per un attimo e scorsero rapidi davanti ai loro occhi. Erano molto più lunghi di quelli di Sebastian, ricchi di sangue, violenza e sofferenze di ogni genere, per lo più portate da lei, ma avevano in comune il brusco inizio. La creatura non ricordava come fosse divenuta ciò che era, nemmeno nella coscienza profonda, ma era evidente che in tutto quel tempo non aveva mai avuto padroni, né divorato anime umane. Ancora ricordava qualcosa della sua vita da donna, però. Tra uno sterminio e l’altro, comparvero brevi frammenti della sua infanzia, in un piccolo cottage immerso nel verde, e della sua adolescenza, in una polverosa città di provincia. Ogni tanto comparivano uomini e donne che le somigliavano e altri che, invece, le parlavano in tono rude.
« Questa non è nostra. » constatò William. « Dovremo mandare il suo fascicolo alla Divisione Ucraina. » Tagliò i suoi Cinematic Record come un cordone ombelicale, con fermezza, e guardò il suo corpo sparire senza lasciare traccia. « Sutcliffe, vai tu ad avvertire l’immonda bestia e il suo padrone. Noi rientriamo al quartier generale. »


 

Sebastian versò l’acqua calda nel filtro con le foglie di tè Ceylon fino a riempire due terzi della tazza e sbirciò verso il padroncino con la coda dell’occhio. Da che Knox aveva lasciato la stanza, il ragazzo non aveva aperto bocca, immerso nei giornali, e questo lo rendeva inquieto. Zuccherò il tè e versò il latte senza perdere d’occhio il Conte, ma la posa delle spalle rimase morbida e la sua maschera imperturbabile.
Ciel inarcò un sopracciglio. La piega della bocca tradiva nervosismo, eppure non un suono lasciò le sue labbra. Sorseggiò il tè ad occhi socchiusi, troppo lontano con la mente persino per il suo maggiordomo. Prese fiato, ma un suono alla finestra interruppe il momento.
« Oh, ma che mortorio! » squittì Grell Sutcliffe, a cavalcioni sulla finestra come un’amazzone scarlatta. I suoi colori così accesi spiccavano contro il cielo di Dublino che iniziava a imbrunire. I lunghi capelli rossi si confondevano nell’impermeabile sottratto a Madame Red e i nuovi occhiali scivolavano sulla punta del naso, trattenuti solo dalla catenella di perline. « Dovreste essere allegri, sapete? » disse, con un sorriso da squalo. « Soprattutto tu, Sebby. » precisò, con un’occhiata languida che fece rabbrividire il demone. « Adesso sei di nuovo l’unico demone sulla piazza e tutto il resto. Mi dovresti un bel bacio passionale, per aver ucciso quella sgualdrinella da due soldi! Se non ci fossi stata io, sarebbe ancora viva. » raccontò, strusciandosi sul maggiordomo come un gatto. « Era proprio brutta, sai? Non poteva proprio competere con me. » continuò e sbatté le lunghe ciglia finte verso di lui.
Il diavolo lo spinse via senza pensarci due volte e si spazzolò il frac con le mani. Era pronto a scommettere l’anima del padroncino che quel maledetto Spears avesse mandato apposta lo svitato per infastidirlo. « Avete fatto solo il vostro dovere, niente di più. » lo smontò. « La nostra collaborazione finisce qui. »
« Ah, come sei crudele, Sebby! » piagnucolò Grell, tirando su con il naso per fare più scena.
« Taci. » lo zittì Sebastian. « Avverti piuttosto il tuo capo che le anime sono ancora qui a Dublino. Il vincolo con la Fish & Friends si indebolirà, a lungo andare, e allora si disperderanno. Farete bene a ripulire tutto prima che accada. »
Lo Shinigami lo guardò a bocca semiaperta e inclinò il capo da un lato.
« Con questo, siamo pari. » chiarì il demone. « Né io, né il padroncino siamo vincolati a riconoscenza nei vostri confronti, d’ora in poi. »
Grell sogghignò. « Ho capito tutto, Sebby, non temere. » gli assicurò. « Per questa volta ti lascio andare, ma la prossima sarai mio e ci divertiremo da morire. »
Sebastian sorrise. « Vedremo. Ora sparisci, prima che ti uccida. »
L’altro accennò un saluto militare con la Death Scythe e si tuffò all’indietro fuori dalla finestra.
« È pazzo. Completamente suonato. » commentò Ciel, atono. Rigirava il tè senza apparente intenzione di berlo, ma il suo viso sembrava aver ripreso colore almeno in parte.
Il demone annuì. « Come buona parte degli Shinigami, signorino. »
Il Conte assentì. « Se non altro, si sono rivelati utili, una volta tanto. » commentò. Spinse via la tazza e accavallò le gambe. « Fai le valige, Sebastian: è ora di tornare a casa. »
« Sì, signorino. » Il demone si inchinò, ma il ragazzo lo trattenne con uno scatto della mano.
« I lord e le loro famiglie sono già partiti? »
Sebastian controllò l’orologio da taschino. « Partiranno a momenti, signorino. » rispose. « Ho spaventato a sufficienza Lord Leinster perché prendessero tutti il traghetto entro stasera. Se non si sono già imbarcati, lo faranno entro poco. »
Il Cane da Guardia della regina corrugò le sopracciglia, ma annuì. « Meglio così. Vorrà dire che li porteremo direttamente da Sua Maestà. Assicurati che il nostro arrivo preceda il loro. »
« Sì, mio Lord. »
Ciel sorrise e si rilassò nella poltrona. Niente più incubi. pensò. Non c’è nulla di cui aver paura, a casa.


 

La stazione di Liverpool sembrava più affollata del solito, quel venerdì mattina. Uomini e donne di tutte le età salivano e scendevano in continuazione dai treni e dalle scale che portavano ai sottopassaggi. Si stringevano addosso bagagli di tutte le forme e dimensioni e si affrettavano verso le rispettive mete senza prestare attenzione a chi rischiavano di travolgere nella loro urgenza.
« Barbari. » commentò Ciel, appoggiato ad una delle colonne che sostenevano la pensilina tra il quarto e il quinto binario. Picchiettava su una mattonella con il bastone di ebano e continuava a sistemarsi la tuba sui capelli anche senza avere uno specchio.
« Sono lavoratori e piccoli borghesi, signorino. Tornano a casa dalle famiglie. » intervenne Sebastian, alla sua sinistra.
Il Conte gli scoccò un’occhiata pigra e non rispose. Da che avevano lasciato l’Irlanda, si sentiva più leggero, eppure ancora faticava a dormire, se lui non era nei paraggi. Aveva preteso camere separare, nell’albergo che avevano preso la sera precedente, e si era svegliato urlando il nome del maggiordomo nel cuore della notte. Come avrebbe fatto, una volta tornato a Villa Phantomhive, a restare solo nella sua stanza? Scosse la testa. « Sono comunque barbari. »
Sebastian sogghignò. « Fortuna che gli scompartimenti sono separati, allora. »
Ciel annuì. « Meglio salire. Il treno dovrebbe partire a momenti. »
« Sì, mio Lord. » Il maggiordomo sospinse il carrello con i bagagli fino all’ingresso della loro carrozza e chiamò un facchino perché lo portasse via una volta caricate a bordo le valige. Aprì lo sportello dello scompartimento, su cui spiccava una targa ovale d’ottone con inciso il numero quattro, e le caricò sulle rastrelliere. « Arriveremo a Londra entro sera. Ho già avvertito Tanaka che dovrà farsi trovare alla stazione con la carrozza. »
« Molto bene. » approvò il giovane Conte. « Domani dovrai contattare i due Charles per il rapporto alla regina. Non credo riuscirò a vederla prima che arrivino le famiglie dei lord, quindi dovrai assicurarti anche che le camere degli ospiti siano pronte per i nostri ospiti. »
« Sì, padroncino. »
Il treno fischiò e lo scampanare del capotreno annunciò che il mezzo si sarebbe messo in moto a breve.
« Un’altra cosa. » aggiunse Ciel, ma dovette attendere che il fragore della partenza scemasse, prima di poter parlare, o il caos avrebbe coperto la sua voce.
« Cosa, signorino? »
Il ragazzo incrociò le braccia e accavallò le gambe. « Devi trovare una soluzione ai miei incubi. Non posso continuare a svegliarmi nel cuore della notte in quel modo. »
Il diavolo si accarezzò il mento. « Vi ho già spiegato che quelle soluzioni sono pericolose, padroncino. » gli fece notare. « Dovete dare alla vostra mente il tempo di elaborare i ricordi e assorbire il trauma. »
« E nel frattempo? »
« Nel frattempo, signorino, veglierò il vostro sonno finché ne avrete bisogno. » promise il maggiordomo, con quel suo sorriso ferino che aveva terrorizzato generazioni di umani, ma non il suo giovane padrone.
Ciel strinse le palpebre intorno all’iride azzurra e si alzò. Rischiò di perdere l’equilibrio, ma riuscì a sedere accanto al maggiordomo e ad accoccolarsi contro il suo corpo. « Sarà meglio ch ti sbrighi a trovare un’alternativa, o la servitù inizierà a chiacchierare. » borbottò, con l’occhio che già si chiudeva.
Sebastian lo abbracciò. « Riposate, signorino. » sussurrò. « Penserò a tutto io. » 

 
 

Lo so, lo so. Sono in tremendo, indignitoso ritardo e merito la gogna. Non tenterò di accampare scuse, ma purtroppo devo scordarmi il sogno di una regolarità negli aggiornamenti. Disgraziatamente, la mia vita è diventata un tale caos, che ormai il tempo per scrivere è ridotto all'osso e la cosa mi fa impazzire. Sono una scribacchina triste, sapevatelo.
Detto questo, lasciatemi dire giusto due cosucce sul capitolo.
So che magari vi aspettavate un'epica battaglia tra il nostro bel maggiordomo e quella bruttona di Hana'el, ma questa morte mi è sembrata più adatta a lei. La odiavo particolarmente e ho pensato che morire in una fogna, pugnalata con un falcetto da giardinaggio da un buroctate fosse una morte peggiore, oltre che più umiliante. Tra l'altro, mi ha dato modo di infilarci quella faccenducola che i demoni siano in realtà umani "corrotti". Sì, l'idea me l'ha data Supernatural, ma ho intenzione di manipolare la cosa a modo mio, sperando di non tirarne fuori uno sgorbio totale. >w< E qui mi fermo, sennò spoilero, il che non sarebbe una buona cosa.
A proposito di Grell, gli ho fatto dire "Sebby" invece di "Sebas-chan" e non gli ho fatto dire "death" alla fine delle frasi per lo stesso motivo per cui Sebastian non dice "Yes, my Lord.": sono in Inghilerra e si presume che parlino inglese, mentre "Sebas-chan" e "death" funzionano solo in giapponese, in quanto sono entrambi giochi di parole fonetici. Insomma, un inglese non avrebbe nessun motivo di chiamare qualcuno con il suffisso "-chan", che non appartiene alla sua lingua e per lui "death" significa morte e basta, ma non potrà mai essere "sono". Lo so, la coerenza è una noia e rende il testo meno mimetico, ma è una fanfiction, non il manga. Tutte queste cose, inserite fuori contesto, non funzionano.
Spero di essermi fatta perdonare con la scena fluffosa finale, anyway. >w<
Concludo dicendo che qui finisce Book of Dublin. Dal prossimo capitolo inizierà Book of London e... non ve lo dico! Stay tuned e pregate che trovi il tempo per continuare a scrivere. Oh, e sappiate che vi amo dal profondo del mio cuore, se siete ancora qui a leggere, ma anche se siete appena arrivati. Insomma, se state leggendo queste righe, io vi adoro. 
That's all.

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Capitolo 9
*** Quel Maggiordomo, Autoritario ***


Villa Phantomhive era ancora in piedi. Nonostante fosse stata lasciata alla mercé di quei quattro scriteriati per più di una settimana, non aveva riportato danni permanenti. Muri, finestre e tetto erano ancora al loro posto e non c’erano tracce d’incendio o di demolizione.
Il merito, si disse Ciel, doveva essere di Tanaka.
Il vecchio steward era stato il maggiordomo di suo padre e, nonostante l’età avanzata, continuava ad essere vigile sia nel corpo che nella mente. In più, era avvolto da un alone di autorevolezza meno terrificante di quello di Sebastian, ma altrettanto efficace. Non doveva aver faticato molto a tenere in riga Finnian, Bardroy e Mey Rin.
Un sorriso divertito gli stirò le labbra. « Finalmente a casa. » commentò. « Non ne potevo più di quella camera d’albergo. »
« Vi sono mancati i vostri compiti, mio giovane Lord? » chiese Sebastian, mentre Tanaka li precedeva in casa. Il suo volto era il ritratto dell’innocenza, ma il Conte, ormai, lo associava a un fuoco di fila di incombenze alle quali non sarebbe riuscito a sfuggire.
« Per niente. » rispose. Salì i gradini della grande villa a testa alta e varcò il portone senza altro cenno di gioia sul viso che un lieve tremore delle labbra.
La servitù, schierata ai due lati del corridoio, ruppe i ranghi non appena le porte si richiusero alle spalle del maggiordomo. Se non fosse stato per il suo sguardo imperioso, sarebbero saltati addosso a entrambi, ma il ritorno del gatto aveva messo fine alle danze dei topi.
« Sebastian, mi ritiro nelle mie stanze. Chiamami solo per la cena. »
« Temo che ciò non sia possibile, padroncino. » lo fermò il demone. « Ci sono dei documenti urgenti che dovete controllare ad attendervi nel vostro studio e dovete stendere il rapporto da consegnare alla regina. »
Il ragazzo sbuffò. « Dannazione. » borbottò tra i denti. « Portami del tè, allora. » Lasciò il demone a ripristinare la routine della casa e raggiunse lo studio.
Lo scrittoio era in perfetto ordine, sebbene ingombro di documenti e di posta. Anche il resto della stanza era pulito e non c’era odore di chiuso. Un delicato aroma di limone aleggiava tra gli scaffali. Le tende ocra erano tirate per tenere fuori il sole, ma passava comunque abbastanza luce perché riuscisse a leggere.
Non avrebbe potuto evitare quell’incombenza, quindi sedette in quella poltrona troppo grande per lui e forzò la prima busta.
La maggior parte della posta era costituita da inviti per ricevimenti e feste di vario genere. Alcune erano lettere di Lizzie, in vacanza con la famiglia nel Continente; tutte le altre erano dei partner commerciali della Funtom o delle sue filiali all’estero, in cerca del suo parere per questioni grandi e piccole. C’erano anche pacchi con i prototipi dei nuovi giocattoli, ma li avrebbe lasciati per l’indomani: voleva liberarsi prima di tutto dell’incombenza di tutte quelle noiose scartoffie. Rendiconti settimanali e mensili, progetti e verbali erano la sua croce. Si massaggiò le tempie e aprì il primo fascicolo.
Un bussare leggero alla porta lo interruppe prima ancora di cominciare.
« Avanti! »
« Il vostro tè, signorino. » annunciò il maggiordomo. Depose il vassoio sulla scrivania e preparò l’infuso con una delicatezza e una precisione che affascinarono Ciel.
Non aveva mai badato a come le grandi mani del demone riuscissero ad essere gentili, oltre che letali, fino a quel momento. Scosse la testa e prese la tazza che gli veniva porta.
« È tè Keemun, un regalo di Lau. »
Il Conte inarcò un sopracciglio. « Non è quello che chiamano “il tè dei bambini”? » chiese, stizzito.
« Sì, signorino, ma solo perché è leggero e nonostante ciò ha un ottimo bouquet. »
Le labbra del ragazzo si arricciarono in una smorfia che gli restituì per un attimo i suoi anni. Tese la mano e scrutò corrucciato il tè nero dentro la tazza bianca a stampe azzurre. « Spera che sia buono. » borbottò e sorseggiò la bevanda calda senza troppo entusiasmo. « Passabile. » dichiarò, a labbra strette.
Sebastian sogghignò. « Vi serve altro, padroncino? »
Ciel scosse la testa. « Vai pure. » rispose. Restituì la tazza vuota e riaprì il fascicolo abbandonato.
Il diavolo si inchinò e si allontanò in religioso silenzio. 

« Sebastian, devi smettere di dormire con me. »
Il demone alzò la testa dal vassoio. « Perché mai, signorino? » domandò. « Non c’è rischio che ci scoprano e voi ne avete bisogno. »
Ciel assottigliò le labbra in una smorfia di disappunto. « Non mi importa. » rispose. « Non voglio che tu mi creda debole. Prima o poi gli incubi passeranno da soli. »
« E fino ad allora intendete consumarvi nel terrore? » Il maggiordomo gli porse il piatto con la fetta di torta cioccolato e pere. « Se i nostri ospiti vi sentissero urlare, sarebbe più male che bene, no? »
« Non importa. » ripeté il Conte. « Vedrò Sua Maestà domani e in breve sapremo quale destino li attende. Vada come vada, non resteranno con noi ancora per molto. » Spezzò la punta del dolce e vi affondò i denti della forchetta. « Piuttosto, come si stanno comportando? »
« Sono spaventati, signorino. Persino i bambini hanno capito che non è una gita di piacere. »
Il ragazzo gli scoccò un’occhiata annoiata.
« Sono stati alloggiati nelle camere migliori, ma si comportano come prigionieri. Non osano parlare con nessuno, tranne che tra loro. Passano le giornate nel salotto grande e per lo più i lord discutono di come spiegare alla regina ciò che è successo. Le lady e i bambini, invece, trascorrono le giornate esplorando il giardino o la casa, per cui ho esortato la servitù a non mettere in pericolo le loro vite. »
Ciel sogghignò. « E i lord? Hanno trovato una spiegazione ragionevole? »
« Non ancora, signorino. »
« Dovremo fornirgliene una noi, allora. » considerò il Conte. L’idea di toglierli dall’impiccio senza che se lo meritassero non gli piaceva, ma l’alternativa era che la sovrana scoprisse l’esistenza dei demoni e del loro potere. Questo lo avrebbe costretto a fornirle delle spiegazioni che non intendeva dare, nel caso migliore; nel peggiore, la stessa regina avrebbe messo le mani su quel potere e una simile concorrenza era l’ultima cosa che voleva in quel momento.
« Temo di sì, signorino. »
Il Cane da Guardia masticò a lungo l’ultimo boccone e si pulì le labbra. « Convoca i lord nel mio studio, immediatamente. » ordinò. « Dubito che vorranno discuterne a cena. »
« Sì, signorino. » Il maggiordomo recuperò il piatto, le posate e il tovagliolo e si congedò con un inchino.
Dieci minuti più tardi, i lord entrarono nello studio del conte, schierati a ventaglio dietro il duca di Leinster, che ancora si ostinava a definirsi loro portavoce.
Ciel li fissò uno ad uno, puntellò i gomiti sulla scrivania e congiunse i polpastrelli. « Domani pomeriggio farò rapporto alla regina. » disse. « Le racconterò una precisa versione dei fatti e, quando verrà il vostro turno di essere ascoltati, farete bene a non distaccarvene. »
I lord si fissarono tra loro e lo stesso Lord Leinster preferì tacere.
L’unico a non apparire intimorito era David Boyle, conte di Glasgow. Aveva lo sguardo spento di chi non ha più nulla da perdere. La zazzera rossa, che cominciava a ingrigire, non vedeva un pettine da almeno tre giorni e gli immensi mustacchi pendevano flosci ai lati della bocca, abbandonati a loro stessi. « Perché dovremmo farlo? » biascicò. « La regina dovrebbe sapere che esistono quei mostri. Tutti dovrebbero saperlo e sapere come combatterli! » esclamò, con più vigore. « Altrimenti altri finiranno come il mio ragazzo. Il mio Patrick... » Gli occhi azzurri si gonfiarono le lacrime e l’uomo non fece alcuno sforzo per trattenerle.
Ciel non si lascò impressionare. « Non avete imparato niente da questa esperienza? » chiese, freddo. « Se rivelassimo al mondo l’esistenza dei demoni, molti commetterebbero l’imprudenza di evocarli come avete fatto voi e il mondo cadrebbe nel caos. I demoni in grado di stringere patti sono pochi e non rispondono a tutte le chiamate. I ghoul, invece, vanno ovunque ci sia carne fresca. Userebbero i varchi per raggiungere il nostro universo, divorerebbero chiunque sia così stupido da aprirli e farebbero del mondo il loro buffet. » chiarì, senza mezzi termini. « È questo che volete? »
« No, certo che no. » ammise lo scozzese. « Però non possiamo tacere la verità alla regina. Lei deve sapere, o... »
« O farà saltare le vostre teste? » Il Conte sorrise e poggiò il mento sulle dita intrecciate. « Per questo ho già una soluzione. » 

 

Charles Gray e Charles Phipps non erano fratelli, né cugini. Non avevano parenti in comune nemmeno nei più remoti rami dei rispettivi alberi genealogici e, prima di iniziare a lavorare per la regina, non si erano mai incontrati. Tutto ciò era risaputo, eppure erano come gocce d’acqua. Erano conosciuti anche come Double Charles e nei salotti si mormorava che avessero deciso di sembrare identici la prima volta che si erano visti. Furono loro ad aprire le porte della sala del trono al Conte Phantomhive.
Il giovane si inginocchiò davanti alla regina e chinò il capo.
« Caro bimbo nostro. » lo salutò lei, dall’alto del suo scranno. Sorrideva, ma il fatto che avesse voluto un incontro formale aveva messo in allarme Ciel fin dalla sua lettera. « Ti troviamo bene. Dicci, com’è andata la permanenza nella graziosa Dublino? »
Il giovane lord deglutì e fu tentato di cercare lo sguardo di Sebastian, ritto contro il muro alla sua destra. Strinse i pugni fino a incidere piccole mezzelune rosee nei palmi delle mani. « Tutto tranquillo, Vostra Maestà. » mentì, con consumata freddezza. « I lord non avevano intenti di ribellione e sono pronti a rifare formale atto di sottomissione alla corona come prova della loro fedeltà. »
« Dunque come si spiega l’incidente? »
« Con il ricatto. » rispose il Cane da Guardia. « Un pazzo era riuscito a rapire il giovane Patrick Boyle e alcuni dei suoi amici. Sosteneva di avere accesso alle case dei lord e minacciava di restituire i loro figli nello stato in cui ha poi ridotto il ragazzo. Quando hanno tentato di ribellarsi la prima volta, ha preso il figlio del duca come prova di forza, per dimostrare che poteva arrivare a chiunque e ovunque. Questo li ha spaventati abbastanza perché la situazione tornasse come prima. Mi spiace dire che la morte del giovane Boyle è stata causata dal nostro intervento, ma siamo stati in grado di riportare i bambini alle loro madri. »
« Oh, poveri piccoli. » commentò l’anziana sovrana. « Speriamo si stiano riprendendo. »
« Sono ragazzi coraggiosi. » assicurò Ciel, con un cenno del capo.
« Vorremmo esprimere loro la nostra più profonda simpatia. » affermò la regina. « Credi sarà possibile, caro ragazzo? »
« Naturalmente, Vostra Maestà. » assicurò il Conte. « In verità, speravano di potervi ringraziare di persona per aver mandato aiuto. »
La regina sorrise. « Questo è molto bello da parte loro. »  
Ciel assentì.
« Dovremmo organizzare un ballo. » decise. « Per alcuni sarà forse un po’ presto per partecipare, ma in questo caso faremo un’eccezione. » Sorrise. « Oh, il nostro caro Albert[1] sarebbe d’accordo. Adorava i balli! » sussurrò, con tono sognante, prima di scoppiare in lacrime. Si gettò a terra, invocando il defunto marito.
I due Charles le furono subito accanto, a distrarla da quegli infelici ricordi con l’illusione che il suo amato le fosse ancora al fianco.
Funzionò e la regina si riscosse. « Un ballo, come dicevamo. » riprese, di nuovo assisa in trono. « Lo organizzeremo per il sei agosto, in occasione del compleanno del nostro caro Alfred, così i nostri coraggiosi bambini avranno tutto il tempo di ritrovare il sorriso. »
E di imparare a mentire. « Ne saranno entusiasti, Maestà. »
« È deciso, allora. » La sovrana gli fece cenno di alzarsi. « Puoi andare, caro ragazzo. »
Il Conte si alzò.
« Naturalmente, invieremo le nostre felicitazioni ai lord per lettera, » aggiunse la regina « se sarai così gentile da fornirci i loro indirizzi. »
Ciel gelò. « Al momento sono miei ospiti. » rispose. Era pronto a scommettere che la sovrana lo sapesse bene, visto che la carovana di carrozze che li aveva portati alla villa era stata la chiacchiera preferita dei salotti londinesi per giorni.
« Ancora meglio, allora. » rispose la regina. « Potremo invitarli al più presto per un tè. »
« Come desiderate, Vostra Maestà. » rispose il ragazzo. Sperando che non usiate il cianuro al posto dello zucchero. Si inchinò di nuovo e scoccò un’occhiata imperativa al demone appostato nell’ombra.
Il maggiordomo lo raggiunse in poche, fluide falcate per seguirlo fuori dalla sala.

 

La porta della biblioteca si aprì di schianto e un turbine di chiffon rosa e boccoli biondi piombò su Ciel. Lo abbracciò come se non lo vedesse da mesi e gli stampò un rumoroso bacio sulla guancia destra. « Ciel! » trillò Elizabeth Midford. « Sei diventato ancora più carino, lo sai? »
 Il Conte arrossì. « L-Lizzie...! » balbettò. « Ti sembrano cose da dire davanti alla servitù? »
« Oh, non badate a me. » ribatté Sebastian. « Fate come se non ci fossi. »
Lizzie lo prese in parola, ma Ciel era così rigido che abbracciare lui o una statua non avrebbe fatto differenze, per cui rinunciò al progetto.
Il ragazzo recuperò la distanza di sicurezza e si schiarì la voce. « Allora, posso sapere che ci fai qui? »
« Volevo vederti, ovvio! » esclamò la sua fidanzata, allegra. Non aveva una brutta voce, ma quando era eccitata per qualcosa diventava acuta e gli perforava i timpani. « La mamma mi ha detto del ballo a Buckingham Palace e... »
« Non verrai. »
La temperatura nella stanza si abbassò di diversi gradi.
Gli occhi della ragazza affettarono il cugino in striscioline e coriandoli più in fretta della sua spada e la sua voce riecheggiò come un colpo di frusta. « Perché? »
Il cuore di Ciel saltò un battito e i suoi occhi scattarono per un secondo verso il maggiordomo alla sua destra. « È troppo pericoloso. » rispose. « E non come sulla Campania. Di più. »
« Ma è Buckingham Palace! » protestò le ragazza. « Come può essere pericoloso? »
Il Conte si passò una mano tra i capelli. « Fidati di me, Lizzie. Qualcosa andrà storto ed è meglio che tu ne stia fuori. »
« Scordatelo! » insistette lei. « Poter debuttare a corte con tre anni d’anticipo è una grande fortuna. Non posso sprecarla! »
« Sì, invece, se in cambio avrai quella di vedere il tuo prossimo compleanno. » la rimbeccò il giovane lord. Non sapeva dire perché fosse tanto convinto che qualcosa sarebbe andato storto. Le lezioni di menzogna ai figli dei lord erano già iniziate e procedevano a gonfie vele, Hana’el era morta e nessuno dei lord era stato soffocato dagli amaretti di Sua Maestà. Tutto lasciava pensare che quel ricevimento sarebbe stato sicuro, eppure si sentiva inquieto. Per quanto continuasse a ripetersi che la regina Vittoria adorava i bambini e non avrebbe mai commesso una barbarie davanti ai loro occhi innocenti, non poteva fare a meno di attendersi una carneficina da quella serata.
« Verrò. » ribadì Lizzie, caparbia. « La mamma lo ha promesso e lei mantiene le promesse. E poi siamo stati noi a salvare la situazione, sulla nave. Se qualcosa andrà storto, il nostro aiuto potrà solo esserti utile. »
Ciel strinse i pugni fino a farsi sbiancare le nocche. « Se proprio dovete, pretendo che veniate armati. » disse. « Non mi importa come, ma dovrai convincere zia Frances a portare un’arma a testa, o giuro che romperò il fidanzamento davanti a tutta la corte. »
Lizzie sgranò gli occhi. « Non oseresti. »
« Oh, sì, invece. » Se serve a proteggerti.
« La mamma non te lo permetterà. »
Ciel la ignorò.
« Se vuoi che venga armata, dovrai darmi qualcosa in cambio. »
Il Conte sudò freddo, ma mantenne l’espressione severa. « Non tentare di contrattare. » rispose. « Ti ho già dato qualcosa. »
« Darmi il “permesso” di venire non è abbastanza. » obiettò la giovane Midford. « Mi devi almeno un ballo. »
Ciel impallidì. « Neanche morto. » rifiutò. Era escluso che si rendesse ridicolo davanti all’aristocrazia di metà Impero Britannico.
Lizzie si imbronciò. « Sei crudele. » disse. « E se non balli con me dirò a tutti che ti ho salvato la vita dai mostri, durante la crociera. » Gli fece la linguaccia e batté a terra il suo grazioso piedino.
Il Conte si fece cereo.
« Credo dovreste accettare il contratto, signorino. » intervenne Sebastian, che ormai era sul punto di uccidersi dalle risate, dietro la sua solita maschera di imperturbabilità. « La signorina Elizabeth mi sembra molto determinata. »
Le ragazza assunse un’espressione soddisfatta.
Vai al diavolo, demone. pensò il Conte. Avrebbe preferito di gran lunga abbracciare un alligatore, ma non era il caso di far sapere in giro che il Cane da Guardia di Sua Maestà si era nascosto dietro le gonne di una tredicenne, specie se si trattava della sua fidanzata. « D’accordo. » cedette. « Ma un ballo solo, non di più. » E sarà bene che il mio onore ne esca illeso.
Sebastian sorrise.
 
[1] Albert di Sassonia-Coburgo-Gotha (Castello di Rosenau, 26 agosto 1819 – Windsor, 14 dicembre 1861) era il cugino e marito della regina Vittoria, con la quale ebbe nove figli: Victoria, Edward, Alice, Alfred, Helena, Louise, Arthur, Leopold e Beatrice.

 

Che dire del capitolo? Beh, visto che odio lasciare cose in sospeso, ci vorrà un po' a riallacciare tutti i fili e chiudere la partita della parte precedente, ma ho già in mente un paio di cosucce interessanti per questa. 
Abbiate fede e, se vi va, fatemi sapere cosa pensate di questo capitolo! 
See ya!

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Capitolo 10
*** Quel Maggiordomo, Acuto ***


Buckingham Palace scintillava di vita. Le lampade a gas ai lati del cancello erano state accese e la loro luce si rifletteva sui nastri di candida seta che decoravano le inferriate. Altri si arrampicavano tra i rami dei pini da vaso che disegnavano il viale fino all’ampia scalinata d’ingresso. Le guardie all’ingresso controllavano una a una le carrozze in entrata.  
« I lord e i loro figli saranno annunciati secondo l’etichetta. Lord Boyle sarà il primo, in quanto pari di Scozia, quindi seguiranno gli irlandesi, come avete disposto. » ricapitolò Sebastian. Se solo la regina non lo avesse già visto, avrebbe osato indossare la tenuta da tutore, ma Sua Maestà non si sarebbe lasciata ingannare da un taglio diverso e un paio di occhiali, quindi avrebbe accompagnato il signorino nelle sue solite vesti.
Ciel annuì e accavallò le gambe. « Quindi è tutto nelle mani dei marmocchi, ora. Se dovessero sbagliare... »
« Non lo faranno. »
« Sarà meglio per loro. » Non che gli importasse delle sorti di ragazzini sconosciuti, ma essere spogliati del titolo da un giorno all’altro a causa dell’avventatezza di un genitore era peggio che ritrovarsi orfani. Gli aristocratici, secondo lui, non erano fatti per precipitare tra la gente comune. Tra l’altro, se loro avessero fallito, c’era il rischio che la su stessa testa facesse una brutta fine per aver tentato di raggirare Sua Maestà e non aveva nessuna voglia di scoprire come il demone sarebbe intervenuto, in quel caso.
Sebastian gli sfiorò la spalla, tanto rapido che il contatto fu quasi nullo.
Il Conte gli scoccò un’occhiata ammonitrice, ma non lo respinse. Solo perché aveva smesso di avere gli incubi, non voleva dire che fosse sazio di quelle attenzioni.
Il maggiordomo sorrise con la sua solita imperturbabilità. « Non permetterò che qualcosa vada storto, signorino. » sussurrò, ed era la migliore assicurazione che il ragazzo potesse avere.
Una guardia in uniforme scarlatta bussò al finestrino per chiedere i documenti, ma la vista del giovane Phantomhive lo fece scattare sull’attenti. Farfugliò un benvenuto frettoloso e si tolse dai piedi. Se anche non avesse avuto un ricordo nitido della freddezza di quel moccioso, la fama di cui era ammantato sarebbe bastata a far arretrare i suoi stessi superiori. Quasi gelò quando il lord lo trattenne per dargli indicazioni circa il suo nutrito seguito e sospirò di sollievo nell’essere liberato dalla morsa del suo sguardo.
« Ora togliti dai piedi. »
« S-Sì, milord. »
La carrozza li lasciò all’ingresso e fu dirottata verso la stalla dagli addetti di corte.
Il Conte temporeggiò nell’atrio quanto bastava a riunire il suo gruppetto e si diresse verso la sala da ballo.
Era stata addobbata con sobrietà e raffinatezza in blu, bianco e oro, i colori dello stemma degli Hannover, che dominava la parete alle spalle del trono. Delicati bouquet di gigli e calle abbellivano i drappi azzurri che sormontavano le immense vetrate a tutto sesto. Le tende scarlatte che di solito le contornavano erano state rimosse, così che la luce potesse entrare e riflettersi sugli stucchi d’oro che ne abbellivano il muro e il soffitto e sul pavimento lucido che ne riprendeva i toni.
« Mamma, è bellissima! » commentò una delle bambine alle sue spalle. « Sembra di essere dentro una stella! »
« Hai proprio ragione, tesoro. » approvò la genitrice.
Ciel scosse la testa. Per quanto lo riguardava, tutto quell’oro era eccessivo e la luce abbacinante. Se Sua Maestà non glielo avesse imposto, non avrebbe mai messo nemmeno un dito in quella stanza, men che meno per rendersi ridicolo davanti agli altri nobili. « Sebastian, hai risolto quella cosa? » chiese  denti stretti, mentre il banditore lo annunciava.
« Sì, signorino. » assicurò il maggiordomo. « Ma conoscete vostra zia Frances. »
Il Conte annuì, rigido. Non osava immaginare cosa la duchessa sarebbe stata in grado di escogitare, pur di portare sua figlia a corte, né aveva voglia di scoprirlo. Si mise in fila con gli altri nobili e porse i suoi omaggi alla regina e al principe Alfred, quindi si fece da parte. Il palco non faceva per lui.
Gli succedettero i lord e le lady scampati alla forca, con i loro pargoli. Dovettero dare una spintarella ai prescelti, perché il gruppetto si facesse avanti.
Erano tre bambini di sette, nove e dieci anni e due bambine di otto e dodici. La presenza delle ragazzine era un azzardo, secondo Ciel, ma erano attrici migliori degli altri tre e sembravano aver compreso con eccezionale lucidità in che guaio si trovavano le loro famiglie.
« Vostra Maestà, » iniziò Susan[1], la maggiore « tenevo tanto a ringraziarvi per aver mandato il Conte Phantomhive ad aiutarci. » Sorrise, dietro il velo di candido tulle, e si torturò le mani guantate di pizzo. « Principe Alfred, sono onorata di potervi incontrare. Se non fosse stato per voi, io e la mia famiglia non saremmo qui, oggi. »
La regina Vittoria sorrise. « Oh, cara bambina. » disse. « Non hai più nulla da temere. Sii felice e riempi il mondo della bellezza che hai dentro. »
« Lo farò, Vostra Maestà. » promise lei e si ritirò con una riverenza.
Dopo di lei, toccò a Isabelle e in seguito ai tre maschietti, in ordine di età. Incoraggiati dalla forza della maggiore, recitarono le loro battute con una sicurezza mai mostrata nelle prove.
La regina li confortò tutti e ad ognuno fece un augurio diverso, ma ad ogni riverenza ed inchino il suo sguardo finiva su Ciel. Sembrava quasi sussurrargli all’orecchio “Questi li hai addestrati bene, ma il prossimo?”, o qualche altra cosa simile.
Il giovane lord rimase rigido fino alla fine della processione e dovette sforzarsi per non guardare verso Sebastian. Si concesse a malapena un’occhiata, quando Michael tornò dai suoi genitori, ma non osò annuire.
« Che si aprano le danze! » comandò la sovrana.
L’orchestra iniziò a suonare e le coppie scalpitanti invasero la pista.
Di Lizzie non c’era traccia.
Ciel lo constatò con sollievo, ma al tempo stesso con una fitta di colpa. Aver costretto la sua fidanzata a perdersi il ballo più importante dell’anno solo per non fare la figura dello stupido era una crudeltà. No. si corresse. È un male necessario. Prese un respiro profondo e, come d’abitudine, si cercò un angolino solitario in cui eclissarsi. Intendeva rimanervi per tutta la durata delle danze, ma la sua tranquillità non durò a lungo.
« Conte Phantomhive. » lo chiamò Susan, con la sua voce flautata.
« Sì? »
« Volevo ringraziarvi per tutto ciò che avete fatto, sia a Dublino che qui a Londra. » Si scoprì il capo e rivelò un viso delicato, a forma di fragola, dall’incarnato chiaro come quello delle bambole. I suoi occhi neri possedevano una profondità insolita per una giovane della sua età, come se davvero avessero visto troppo.
« Ho fatto solo il mio dovere, signorina Beresford. »
« Non eravate tenuto ad ospitarci per tutto questo tempo. » obiettò la marchesina. « Avete fatto più del dovuto ed io... vi ammiro per questo, Conte. » Gli prese le mani tra le proprie e le sue gote si tinsero di rosa.
Ciel non seppe cosa risponderle. Scoccò uno sguardo a Sebastian, ma il diavolo sembrava distratto dalla composizione di un bouquet all’altro lato della sala.
« Oggi non posso esservi utile, ma un giorno, magari, spero di poter ricambiare il favore. »
« Non ve lo auguro, signorina. » ribatté il ragazzo, in un impeto di lucidità. « Meno avrete a che fare con me, meglio sarà per voi. »
« Perché vi ostinate a murarvi dietro la vostra solitudine? » domandò la sua interlocutrice, con un tono così pacato e dolce che Ciel cominciò a pensare di poter ascoltare per ore la sua voce senza annoiarsi.
« Non faccio niente del genere. »
« Come dite voi. » cedette Susan. « Ma in caso cambiaste idea... sapete dove trovarmi. » Gli baciò la guancia in un lieve, timido sfioramento e arrossì quasi quanto lui. Mormorò un saluto frettoloso e corse via, da suo fratello[2].
Il Conte si toccò il punto sfiorato dalle sue labbra ed ebbe la netta impressione di avere addosso uno sguardo di biasimo. Non potevano essere i lord, si disse, perché non avrebbero mai osato criticare il loro salvatore, e nemmeno la regina, che aveva ben altro a cui pensare. Si guardò intorno in cerca di Lizzie, ma si sarebbe accorto del suo arrivo. Chi poteva essere?
« La signorina Elizabeth non sarà felice di sapere che amoreggiate con altre ragazze quando lei non c’è. »
Ciel sobbalzò.
Sebastian, alle sue spalle, sorrise. « Sapete bene che è così, signorino. »
« Io non amoreggiavo! » protestò il giovane Phantomhive. Guardò la marchesina, intenta a conversare con i genitori dall’altro lato della sala, e pensò che fosse diversa da Lizzie quanto la notte dal giorno.
A differenza della sua effervescente fidanzata, era pacata e sembrava fragile come una statua d’argilla, ma doveva aver camminato nel fuoco, perché i suoi piccoli piedini si erano fatti di porcellana. La forza nel suo sguardo era diversa da quella che la futura Lady Phantomhive mostrava in caso di bisogno. Non avvampava all’improvviso per poi sparire: era sempre presente, come un velo di brina nascosto in fondo allo sguardo.  Era come una stella, bella e irraggiungibile, eppure si era avvicinata a lui.
« Signorino? »
Il Conte si riscosse. Quei pensieri non erano da lui.
« Le anime dei Midford si stanno avvicinando, signorino. Cosa volete che faccia? »
« Niente. » rispose lui. « Se zia Frances è riuscita ad arrivare fin qui, non c’è modo di farla tornare indietro. » sospirò. L’idea di rendersi ridicolo davanti all’intera corte lo rendeva felice quanto essere rapito dal pazzo di turno. « Scopri tutto ciò che puoi su Susan Beresford. » ordinò.
Sebastian annuì e si inchinò. « Sì, mio Lord. »

Dieci minuti più tardi, il banditore di corte annunciò Lord Alexis Leon Midford con sua moglie e i suoi due figli.
Ciel desiderò con tutto se stesso scomparire, ma non poteva lasciare Buckingham Palace per almeno un centinaio di valide ragioni e tantomeno poteva ignorare pubblicamente la sua fidanzata. La zia Frances lo avrebbe ridotto in un mucchietto di cenere, se avesse osato, Sebastian o non Sebastian. Fece un bel respiro profondo, ingoiò la saliva in eccesso e si fece largo tra i nobili per raggiungere l’unica famiglia che gli restava, che aveva appena reso omaggio a Sua Maestà e al festeggiato. « Buona sera. » salutò, compito.
Il duca di Midford ricambiò con un cenno della testa il suo rapido inchino e lo salutò con un sorriso.
Edward fece lo stesso.
La duchessa assottigliò le labbra e non nascose il disappunto per la trasandatezza della sua chioma,  ma si attenne all’etichetta e, per quella sera, lo lasciò in pace.
Lizzie lo salutò per ultima e dovette trattenersi dal saltargli addosso come al solito. « Ancora non riesco a credere di essere stata presentata alla regina con tre anni di anticipo! » esclamò. Stritolava il suo ventaglio di pizzo con entrambe le mani e gli occhi scintillavano estatici dietro la retina che le nascondeva il viso dalla fronte al naso. Vestiva d’azzurro, il colore delle debuttanti, ad eccezione degli accessori, di un candido bianco panna, che risaltava sulla seta color fiordaliso.
Il Conte avrebbe preferito che non fosse così entusiasta. Si aspettava lo scoppio di un putiferio da un momento all’altro e li avrebbe voluti tutti a miglia da lì. « Almeno avete fatto come vi ho detto? »
« Non preoccuparti, Ciel. » assicurò la ragazza. « Ci siamo organizzati. »
Questo lo fece sentire un po’ meglio, ma ancora non abbastanza. « Ora scusami, Lizzie, ma... »
Lei non lo lasciò finire. « Io ho fatto la mia parte. » protestò. « Ora tu devi fare la tua. »
Il giovane Phantomhive fu tentato di invocare Sebastian, ma neanche lui avrebbe potuto fare niente: non c’era scampo all’orribile tortura. Deglutì. « Solo un ballo, Lizzie. Non di più. » cedette. E prega che ne esca vivo. Si lasciò trascinare sulla pista da ballo come un condannato a morte al patibolo e si inchinò alla fidanzata. Le posò la sinistra sul fianco destro e tenne il braccio destro piegato ad angolo retto. Avanzò il piede destro, mentre il cuore batteva in petto come un tamburo impazzito.
Lizzie arretrò. Era brava a farsi guidare. Sembrava persino capace di anticipare i suoi errori e sorrideva con la grazia di una fata.
Ciel non aveva idea di come riuscisse a calmarlo con un gesto così infimo. Il suo cuore passò dal galoppo al piccolo trotto e si placò, mentre la musica filtrava nella sua mente come in una spugna. Riuscì persino a sorridere. « Questa sera sei molto bella, Lizzie. » azzardò. Non osava guardare in basso per paura di perdere quello stato di grazia che aveva avvolto il suo corpo, ma riconosceva la mano di Nina Hopkins in quel vestito.
La sua fidanzata arrossì. « Davvero? »
Il Conte annuì.
« La mamma mi ha permesso di farmi confezionare questo vestito apposta per il ballo a corte, sai? » raccontò. « E Nina è stata bravissima ad aggiungere certe piccole modifiche... solo che adesso la gonna pesa più di me. » Ridacchiò. Non le dispiaceva portare un po’ di peso in più, per far stare tranquillo il ragazzo e poi era così ben distribuito che i mille strati di tulle e seta ondeggiavano come una nuvola sospinta dal vento.
« L’importante è che siate al sicuro. » ribadì il Cane da Guardia della Regina, mentre le ultime note sfumavano nell’aria. Si inchinò di nuovo e condusse Elizabeth fuori dalla pista. « Ho pagato la mia libbra di carne. » disse. « Ora, se vuoi danzare, dovrai obbligare Edward. »
Lizzie gonfiò le guance come uno scoiattolo e si imbronciò. « Sei un egoista. » borbottò, a braccia conserte.
« Non dovreste dire così, signorina Midford. » Susan sorrideva, con le mani giunte in grembo e quell’espressione quieta e distante dipinta in viso.
« E voi chi sareste? » domandò lei. Non era ostile, ma sul suo viso lampeggiava il sospetto.
Ciel si fece avanti. « Elizabeth, ti presento Susan Beresford. » disse. « Susan, lei è la mia fidanzata, Elizabeth Midford. »
Susan sorrise e le fece la riverenza.
Elizabeth ricambiò, ma faticava a rinunciare alla diffidenza nei confronti della ragazza. Voleva chiederle cosa volesse dal suo fidanzato, ma non osava.
« Desideravate parlarmi, signorina Beresford? » domandò il Conte.
La giovane scoccò un’occhiata incerta ad Elizabeth. « Un’altra volta, magari. » rifiutò. Salutò entrambi con una riverenza e svanì tra le gonne delle lady, silenziosa come il volteggiare di una piuma.
Un silenzio teso caricò l’aria tra Ciel e la sua promessa sposa.
« Adesso capisco perché hai evitato che incontrassi i tuoi ospiti irlandesi. » fece lei. In genere si fidava di Ciel e sapeva bene quanto fosse sconveniente per una lady fare scenate, però non poteva fare a meno di essere gelosa. Quella ragazza irlandese era tanto più graziosa di lei!
« Ma no, Lizzie. » rispose il giovane lord. Non aveva idea di come rassicurarla, forse perché una parte di lui era davvero affascinata da Susan. O forse, si disse, perché non voleva ingannare la ragazza con la stessa favola che aveva imbastito per il resto del mondo. I suoi occhi trovarono quelli di Sebastian e seppe di non avere scelta.

 
 
[1] Figlia di John Henry de la Poer Beresford, V marchese di Waterford (21 maggio 1844 – 23 ottobre 1895) e Blanche Somerset (1854-22 febbraio 1897), Susan Beresford (1877 – 1947) aveva una gemella, Mary, che non superò il primo anno di vita.
[2] Henry de La Poer Beresford, VI marchese di Waterford (28 aprile 1875 – 1º dicembre 1911) il 5 Agosto 1889 aveva quattordici anni.


 

 


Buonsalve, pipol!
Non so se qualche anima buona si ricorda di me, ma sono tornata. >w< Sono anche un po' emozionata, al pensiero di riprendere la pubblicazione di Tetragrammaton qui su EFP, sapere? :3 
Ad ogni modo, mi sembra giusto spiegarvi perché sono sparita: ho revisionato tutta la storia (più volte, peraltro, perché non sono mai soddisfatta di niente) e ho iniziato a pubblicarla su Wattpad come MaddieLys (sì, tranquilli, sono sempre io), spezzando i capitoli, perché come sono ora sarebbero troppo lunghi per i lettori di Wattpad, che usano soprattutto il cellulare. Per questo motivo, gli aggiornamenti andranno di pari passo: aggiornerò su EFP ogni due o tre settimane, a seconda della lunghezza del capitolo, a mano a mano che concludo la pubblicazione su Wattpad, così da non spoilerare niente. 
Non mi aspetto che qualcuno si ricordi questa storia (o che, nel caso, mi perdoni mesi e mesi di sparizione), ma nel mezzo si è messo anche un bruttissimo blocco, per cui... pazienza, olio di gomito e ricominciamo.
Sono così contenta di essere di nuovo qui! L'impaginazione di EFP era una delle cose che mi manca di più, su Wattpad, anche se ha l'indubbio vantaggio che non puoi copiare il testo e quindi è a prova di plagio. Ora la smetto di sproloquiare, giuro.
See ya!

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Capitolo 11
*** Quel Maggiordomo, Tempestivo ***



Un bussare incerto strappò Ciel alle proprie letture.
Alzò gli occhi dalla lettera di Klaus, dalla filiale italiana della Funtom. « Avanti. »
La porta si aprì e rivelò la figura minuta di Susan Beresford. « Perdonatemi, Conte, » sussurrò la ragazza « ma c’è qualcosa di cui devo parlarvi. »
Il giovane lord annuì. « Volete che faccia portare del tè? »
La marchesina scosse il capo. « Preferirei che fossimo soli. »
« Come preferite, signorina Beresford. » le concesse. « Cosa desiderate dirmi? » Non aveva sedie da offrirle, ma, a giudicare dall’ansia con cui si torceva le mani, non le importava.
« Presto partiremo tutti per tornare in Irlanda e questa brutta storia sarà conclusa. » sussurrò. « Io... non potrò parlarne con nessuno, allora, e... non so nemmeno se mi prenderete sul serio. » Si morse il labbro inferiore e abbassò lo sguardo sull’orlo di mussola della vaporosa gonna. « Mi sento sciocca io stessa a crederci, però... però questa cosa va avanti da prima che la storia di Molly Mangiauomini uscisse sui giornali. »
Ciel si fece attento.
Susan fece un respiro profondo. « Faccio sempre lo stesso sogno, tutte le notti. Non so bene dove sono, ma sembra una specie di bosco e devo scappare o l’ombra mi prenderà. So che sembra stupido, ma ho controllato tutti i libri che ho letto, gli spettacoli teatrali, qualunque cosa... e non c’è niente che abbia potuto ispirarmi una simile paura. La cosa peggiore è che so che è un sogno, ma non riesco a svegliarmi e devo scappare per forza. » Si strinse le mani al petto e fu sul punto di aggiungere altro, ma cambiò idea. Arrossì e scosse il capo. « Mi... mi dispiace di avervi fatto perdere tempo, Conte. » si scusò. Gli volse le spalle e guadagnò l’uscita prima che il giovane lord potesse fermarla.
« Sebastian! »
« Sì, signorino? »
« Cosa hai scoperto su quella ragazza? »
« La figlia del marchese di Waterford? » Il demone si accarezzò il mento. « Nulla di fuori dall’ordinario, signorino. È nata a Dublino nel 1877 da parto gemellare. La sorella, Mary, non ha superato l’anno, mentre lei sì. Ha avuto prima una nutrice, poi una tata, congedata l’anno scorso, e studia in casa con una precettrice. Sa suonare il piano, dipinge acquerelli e ricama. » riferì. « Ma perché vi importa? »
Ciel lo ignorò. « Tutto questo non mi interessa. » disse, secco. « Voglio sapere se nella sua vita c’è qualcosa di fuori dall’ordinario. » Qualcosa come te.
« Temo di no, signorino. » ammise il diavolo. « Tuttavia, la sua anima sembra davvero deliziosa. È così candida, eppure sanguina. »
Il Conte fulminò il maggiordomo con un’occhiata. « I tuoi gusti alimentari non sono rilevanti, né pertinenti. » sbottò. « Ora portami qualcosa di dolce. »
Sebastian si inchinò. « Sì, mio Lord. » Si inchinò e si voltò per lasciare la stanza, ma si interruppe a metà del movimento. « Siete preoccupato per la ragazza, signorino? »
Ciel non rispose. Il suo rapporto con Sebastian era cambiato, in quell’ultimo periodo, ma non era ancora disposto a mostrarsi debole davanti a lui di proposito. Un conto, si diceva, era affidarsi alle sue cure, un altro ammettere di non essere indistruttibile.
Sebastian sorrise. « Capisco, signorino. » gli assicurò. « Tra pochi giorni la signorina Susan e la sua famiglia torneranno in Irlanda e questa storia sarà conclusa. Non avete motivo di preoccuparvi. »
Il Conte annuì e appoggiò il mento sul palmo della destra. « Lo so. » ammise. Ma questo non mi rende meno inquieto. « Se percepisci qualcosa di strano, avvertimi subito. »
« Sì, signorino. »

 

Il giardino di Villa Pantomhive era bellissimo.
Finnian adorava prendersene cura, anche se spesso e volentieri finiva per distruggerlo o mutilarlo. In effetti, era più corretto dire che gli piaceva il fatto di passare buona parte del suo tempo all’aperto, ma questo non toglieva nulla al fatto che lo trovasse anche bellissimo. Prima o poi, si prometteva tutte le mattine, avrebbe imparato ad essere davvero un buon giardiniere. Anche se era solo una copertura, stava diventando quasi una sfida con se stesso. Voleva dimostrare che, oltre a distruggere, era anche in grado di prendersi cura di altri esseri viventi, fossero anche solo piante. Per quello leggeva tanti libri sull’argomento, anche se spesso capiva poco o niente e si limitava a guardare le figure.
« Tosa il prato e innaffia i roseti. » gli aveva ordinato Sebastian, quella mattina. « Con delicatezza. »
« Sì, signor Sebastian! » gli aveva risposto, con il suo solito entusiasmo. Gli aveva fatto un saluto militare e si era messo all’opera. Spingere uno di quegli aggeggi provenienti dall’America per lui era una bazzecola. La prima volta che lo aveva provato ci aveva messo troppa forza e aveva quasi investito il signorino, ma Sebastian era stato lesto a evitare il peggio – e a fargli la peggiore lavata di testa della sua vita. Ormai, però, riusciva a portarlo quasi senza fare danno. Fischiettò allegro e fece un’inversione a U intorno ad un grosso pino. Per poco non investì una delle ospiti del padroncino.
La ragazzina fece un salto indietro di almeno mezzo metro e urlò.
« M-Mi.. mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace! » urlò Finnian, rosso in volto. Se Sebastian lo avesse scoperto, lo avrebbe usato come concime per le ortensie, o qualche altra cosa orribile. Perché non poteva stare più attento? Proprio quando la giornata sembrava andare bene! « Perdonatemi, signorina! Vi siete fatta male? »
« N-No, sto b-bene. » fece lei, con una vocetta sottile e graziosa che gli fece venire voglia di abbracciarla. I suoi lunghi capelli scuri erano arruffati dal vento e aveva le guance rosse quasi quanto le sue, ma anche così si vedeva che assomigliava al padroncino.
« Non dovevo distrarmi. Perdonatemi. » si scusò ancora il giardiniere, che non ricordava di aver mai visto creatura più carina. Nemmeno la signorina Elizabeth aveva un volto così grazioso e lei doveva essere la fanciulla più bella del pianeta, per essere la fidanzata del signorino.
La giovane ospite sventolò la mano e sorrise. « Sto bene, davvero. » giurò. « Ero venuta a cercare un posticino all’ombra per leggere un po’. Di solito sto sotto il pino, perciò... » Arrossì di nuovo e si schiarì la gola. « Posso... posso restare o do fastidio? »
« No! Cioè, sì! I-Insomma, potete restare. Non... non c’è problema. » spiegò il giardiniere, nervoso. Ricordava di averle già parlato e di sapere anche quale fosse il suo nome, solo che era troppo nervoso per ricordarselo. Aveva combinato un altro dei suoi pasticci e, in un certo senso, sentiva che fosse qualcosa di ancora più grave. « Io... Io vado, sì. State pure quanto volete. » Recuperò il tosaerba e lo spinse via di gran carriera, per paura che lei gli parlasse ancora. Rischiava di travolgere qualcun altro, ma non riusciva a preoccuparsene. Voleva solo svignarsela.
Lei lo seguì.
Il giardiniere non aveva idea di cosa volesse e non era sicuro di volerlo scoprire. Di solito, approcciare con persone nuove gli piaceva, ma con lei aveva la netta impressione che non fosse il caso. Guardarla lo faceva sentire strano, ma non come quando era in presenza di Sebastian. Era più come vivere il più bel sogno e il peggiore incubo nello stesso istante.
« Aspetta! »
Spinse il tagliaerba a tutta birra, ormai nel panico, e non vide in tempo la fioriera sul suo cammino. La travolse e i pezzi di ceramica distrutti volarono in tutte le direzioni. Si protesse il viso con le braccia, ma non abbastanza in fretta per evitare che diverse schegge lo graffiassero.
« Stai bene? Sei ferito? »
Si voltò verso la sua caparbia inseguitrice e le sorrise come se bastasse a nascondere gli enormi lacrimoni agli angoli degli occhi. Nonostante quello che i medici gli avevano fatto, sentiva ancora il dolore e non era bravo a nasconderlo come il padroncino. « Solo qualche graffio. »
La ragazza gli sorrise a propria volta. « Scusami, » disse « non volevo spaventarti. » Era più piccola di lui, ma parlava come un’adulta, proprio come il padroncino.
Forse, pensò, era una cosa tipica dei nobili, o degli amici del signorino. « È che... » Si interruppe. Non aveva voglia di dirle che la trovava spaventosa, solo che non era bravo con le bugie. Era pessimo a dirle, come a tenere i segreti. « Dovevo tagliare il prato. » Sembrava una cosa stupida da dire, ma era sempre meglio che restare a fissarla come un allocco.
« Oh, sì. Ho visto. » rispose lei. Le tremavano le labbra nello sforzo di trattenere una risata e dovette darsi diversi pizzicotti per trattenersi. « A proposito, io sono Susan. »
« Fi... Finny! » esclamò il ragazzo, di nuovo rosso in viso. « Cioè, Finnian. Finny è il diminutivo. » si corresse, nel panico. Non era mai stato così vicino a un aristocratico che non gli desse ordini o gli urlasse in testa e non aveva idea di come doveva comportarsi. Quelli come lui non erano amici di quelli come lei, anche se si trattava solo di bambini.
Susan giunse le mani in grembo e piegò la testa di lato come un uccellino. « Scusa se ti ho disturbato. Volevo solo dirti che hai un bel sorriso. » disse e volteggiò via con il suo libro ancora stretto tra le dita.

 
 
Susan correva. Doveva scappare, o l’Ombra l’avrebbe presa. Si guardò intorno, in cerca di un riparo, ma intorno a sé non vide altro che buio e i profili degli alberi. Più volte aveva tentato di raggiungerli e nascondersi dietro i loro tronchi, ma non era mai riuscita a sfiorarli. Poteva solo continuare a farsi largo tra radici e rami bassi perché poteva toccare quelli e non il resto, dannazione? con la camicia da notte di lino che garriva al vento come una bandiera. Si protesse il volto con le braccia e le lacrime le appannarono la vista. Sapeva, che era un sogno, ma non riusciva a sfruttare quell’informazione. Aveva provato a pensare a sua madre, suo padre, o chiunque potesse aiutarla, ma non era mai riuscita a farlo apparire. Era sempre sola, in fuga dall’ombra. Pensò al Conte, ma nemmeno lui apparve. « A... Aiuto! » gridò al nulla.
L’Ombra si fece più vicina, più grande.
« Aiuto! » ritentò. Era la prima volta che riusciva a fare qualcosa di diverso dal correre e basta. « Che qualcuno mi salvi! »
Un fuoco candido divampò di fronte a lei. Era poco più alto del suo pollice, quindi doveva essere molto lontano, ma non importava. Era qualcosa. La sua mente doveva averlo prodotto, dopo mesi di paura, per scacciare l’incubo, e tanto bastava. « Io posso salvarti. » le disse. Aveva una voce femminile, dolce e pacata. « Ti aiuterò, ma devi invitarmi ad entrare. »
« C-Che? Co... me? »
« Invitami ad entrare. » ripeté la voce e il fuoco ebbe un guizzo. « Non posso aiutarti, senza il tuo permesso. »
Susan esitò. Gli adulti le dicevano sempre di non fidarsi degli estranei troppo gentili, ma aveva paura.
« Io non sono un’estranea. » disse la voce, risentita. « E lo sai. »
La bambina si sentì in colpa. Se l’aveva chiamata lei, dal fondo della sua mente, scacciarla sarebbe stato stupido. « Scusa. »
« Non temere. » le disse la voce. « Io non sono tua nemica. »
Susan deglutì. « A-Allora... t-ti... ti invito a entrare. »
« Brava ragazza. »
 
Il meccanismo interno della finestra scattò e le ante si aprirono verso l’interno. Le tende di candida organza ondeggiarono, sospinte dal venticello estivo, e il profumo dei fiori e degli alberi inondò la stanza.
Susan aprì gli occhi. Aveva un sonno molto leggero e detestava il freddo. Anche in piena estate aveva bisogno di un lenzuolo in cui avvolgersi. Tese le orecchie.
Alle sue spalle, qualcosa emanò un forte ronzio. Non era un semplice insetto, ma qualcosa di più grosso.
La ragazzina nascose la testa sotto il lenzuolo e si appallottolò su se stessa. Odiava gli insetti ronzanti. Le sembravano più aggressivi e pericolosi degli altri.
“Non avere paura.” le sussurrò all’orecchio la voce del sogno.
Susan non si mosse. Stava impazzendo? Non poteva sentire le voci dei sogni nella realtà, specie se erano una rappresentazione del suo subconscio.
“Non stai impazzendo.” le assicurò la voce. “E io non sono il tuo subconscio. Sono vera.”
« Ma mi leggi nella mente. » sussurrò la ragazzina, che non aveva nessuna voglia di uscire da sotto la sua debole protezione.
“So fare anche altre cose... ma non le rivelerò a una fifona.”
« Io non sono fifona. » protestò Susan. « Sono cauta. »
La voce ridacchiò. “Ah, beh, allora...” disse e rise di nuovo.
Susan fu tentata di voltarsi e dirgliene quattro, ma aveva ancora troppa paura. Non era la prima volta che le capitava qualcosa di strano, ma fino ad allora aveva sempre fatto finta di non accorgersene. Finché se ne fosse tenuta fuori, si diceva, niente di male le sarebbe potuto accadere. « Cosa... cosa vuoi da me? »
“Sono venuta a salvarti, come promesso.”
« Salvarmi? » sussurrò la bambina. « Ma ora sono sveglia. »
“Sì.” concordò la voce. “Ma l’Ombra non si accontenterà di inseguirti per sempre nei sogni. Presto o tardi verrà a prenderti e noi non potremo fare nulla per impedirglielo, se non vieni con noi.”
« Venire con voi? E dove? »
“In un posto dove sarai al sicuro.”
« Ma... ma io sono al sicuro con la mia famiglia. » obiettò Susan. « E poi... è solo un sogno. »
“Ah, sì?” le chiese la voce. “Eppure stai parlando con me. Anche io ero nel tuo sogno e ora sono qui.”
La marchesina esitò. Non faceva una piega, dopotutto. « Quindi... quindi è reale? » chiese, titubante. Si sporse di qualche centimetro da sotto il lenzuolo, ma non ebbe il coraggio di voltarsi a guardare la sua interlocutrice. Non era del tutto sicura di volersi voltare e scoprire che era tutto frutto della sua fantasia.
“Sì, bambina. E anche noi.”
« Ma... ma cosa siete voi? »
“Ancora non lo hai capito, bambina?” rise la voce. Il suo tono era caldo e avvolgente come una coperta di pelliccia, di quelle che sua madre teneva sempre in carrozza. “Siamo fate.”

 

Mey Rin sbadigliò. Era esausta, ma la giornata si era trascinata fino a notte inoltrata, per la servitù. Da che erano arrivati tutti quegli ospiti, era diventato impossibile andare a letto prima di mezzanotte. Anche se il signor Sebastian era sempre velocissimo ed efficientissimo, anche lei, Bardroy e Finnian arrivavano esausti a fine giornata, con tutte le cose che avevano da fare. Non vedo l’ora che tornino a Dublino. pensò. Se non altro, poteva finalmente andare a coricarsi. Non avrebbe dormito molto, ma non ne aveva mai avuto bisogno. Non avrebbe vissuto abbastanza da diventare la domestica dei Phantomhive, altrimenti.
Un rumore alla sua sinistra la bloccò. Dall’altro lato della porta veniva la voce della signorina Susan. Sembrava stesse parlando con qualcuno, ma era troppo grande per gli amici immaginari e l’ora troppo tarda.
Che parli nel sonno?
La voce della ragazzina era troppo nitida per appartenere ad una dormiente e così anche il modo in cui si esprimeva. Abbassò la maniglia ed entrò.
Intorno al letto della marchesina si affaccendava almeno una dozzina di minuscole donne alate, non più alte della sua mano. Emanavano luce propria dalla pelle e dalle ali colorate e ronzavano piano. Avevano avvolto la ragazzina nel lenzuolo e lo tenevano dai quattro bordi per sollevarlo come una specie di fagotto.
La signorina Susan non sembrava affatto spaventata dalla cosa. Sorrideva, ma, a un’ispezione più attenta, il suo sguardo risultava vitreo.
« Allontanatevi da lei! » ordinò. Sollevò la gonna della divisa con una mano e la agganciò al fianco, mentre con l’altra si tolse gli occhiali. Li gettò a terra ed estrasse la pistola dalla giarrettiera. Sparò alle minuscole creature, ma i suoi colpi rimbalzarono contro uno scudo di luce dorata.
“Questa storia non ti riguarda, umana.” disse la più grande e luminosa del gruppo. “Non puoi impedirci di riprenderci ciò che è nostro.” La barriera partiva dalle sue ali e isolava il letto e la finestra.
« Quella bambina non vi appaltiene. » rispose la domestica e sparò di nuovo alla creaturina dorata. Non si fermò a chiedersi cosa fosse, o se fosse umana. Aveva visto davvero troppe cose, in quei tre anni, per porsi quel problema. La sua priorità era non deludere il signorino Ciel.
I colpi rimbalzarono una seconda volta e la fata sorrise. “Ingenua umana.” disse. “Niente di quello che farai ci impedirà di portare via la nostra creatura.”
Alle sue spalle, le fate avevano ormai portato il fagotto oltre la finestra e prendevano quota.
Oh, no. pensò Mey Rin. E adesso chi lo dice al padrone? Non sarebbe stato contento di scoprire che un’ospite era stata rapita sotto il suo tetto e proprio alla vigilia del ritorno dei lord in Irlanda. Le restava una sola cosa da fare. « Signol Sebastian! Signol Sebastian! » urlò con quanto fiato aveva in gola.
“Cosa credi di fare, umana?” le chiese la fata. “Nessun umano può ferirci.”
« Un umano no. » confermò Sebastian, accorso a quel richiamo. « Ma io sì. »
La fata ronzò più forte. “La cosa non ti riguarda, mostro.” disse, aspra. “La ragazza è nostra.”
Alle sue spalle, le fate erano ormai fuori dalla finestra, sempre più alte nel cielo notturno. Era impossibile dire dove stessero portando la marchesina, ma aveva qualche sospetto. Volavano sicure, nonostante il peso della ragazza non dovesse essere proprio irrisorio.
Si sfilò il guanto sinistro e rivolse il palmo contro la creatura. Rilasciò un’ondata di energia demoniaca che si abbatté come un pugno sulla barriera dorata e la mandò in pezzi.
La fata vacillò e perse quota.
Sebastian si slanciò in avanti e la rinchiuse in un barattolo, troppo in fretta perché Mey Rin potesse capirci qualcosa, ma era una vittoria a metà: le fate erano sparite e, con loro, la signorina Susan.


 

Buondì, giovani. 
Come promesso, sono di nuovo qui a postare. Visto come sono brava? Il lavoro procede bene - almeno sembra; non voglio cantare vittoria troppo presto. Sono riuscita a mettere su EFP questo capitolo e già lo considero un piccolo trionfo, che per il momento mi basta. Voglio fare un passetto alla volta.
Passando ad argomenti più importanti, spero innanzitutto che l'impaginazione vi piaccia e sia leggibile. Se devo ingrandire il carattere, fatemelo sapere e provvederò. Allo stedo modo, mi auguro che la trama vi stia interessando e anche in questo spero non siate timidi: recensire è cosa buona e giusta e rende felici noi scribacchini.
Non so bene cosa aggiungere, perché sono fuori allenamento con le note a fine capitolo, ma ricordate che vi voglio tanto bene già solo perché state leggendo queste parole e niente... ci vediamo presto, lo prometto! 

 

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Capitolo 12
*** Quel Maggiordomo, Orgoglioso ***



L’aria nello studio era satura di tensione.
Ciel camminava avanti e indietro, scuro in volto, e si tormentava il mento con una mano.
Il diavolo non era abituato a vederlo così e nemmeno Mey Rin, ma nessuno dei due osava parlare.
Il Conte si bloccò di colpo e li fissò. « Raccontatemelo di nuovo. »
« Elano una dozzina di signoline miscole, signorino. Avevano le ali e blillavano di luci cololate. Hanno detto che la signolina Susan apparteneva a lolo e l’hanno portata via, mentre una è limasta indietlo a combattere. » spiegò la domestica. Non aveva più gli occhiali a ingentilirle il viso e il rossore sulle sue guance contrastava con i tratti duri del sul viso. Non riusciva ad accettare lei per prima che la sua mira perfetta si fosse rivelata inutile contro quelle strane creaturine.
« In compenso, » intervenne il maggiordomo « siamo riusciti a catturare la fastidiosa intrusa. » Indicò il barattolo in cui la fata si dimenava come un’ossessa e sorrise: poteva provarci quanto voleva, ma non sarebbe riuscita ad abbattere la barriera magica che la imprigionava.
Il ragazzo si piegò in avanti e la guardò. « Come ha fatto una cosina tanto piccola a battere voi due, grandi e grossi come siete? »
« Non mi ha battuto, signorino. » si difese il demone. « Altrimenti non sarebbe lì dentro. »
« Ma le sue compagne sono fuggite con la signorina Beresford. »
Mey Rin abbassò gli occhi e si torse le mani. « I miei ploiettili limbalzavano, signolino. Non capisco pelché. »
Ciel non si disturbò a spiegarglielo. Tamburellò con il bastone sul pavimento e li fissò. « Sarete voi a spiegarlo ai suoi genitori. » decise. « La colpa è vostra, perciò assumetevene la responsabilità. E adesso andatevene: devo pensare. »
La domestica uscì di corsa, con sollievo.
Sebastian, invece, rimase dov’era.
« Non mi hai sentito? » gli chiese Ciel. « Vattene. »
« Non desiderate interrogare la prigioniera, signorino? »
Ciel si piegò verso il barattolo. « Perché, parla? »
“Certo che parlo!” esclamò la fata, offesa. “Solo, non a uno sclábhaí [1] come te.”
« Attenta a come ti rivolgi al mio padrone, moscerino. »
“Come se potessi aver paura di un diabhail [2]!” rise lei. “Non siete altro che parassiti.”
« Questo parassita ti ha chiuso in un barattolo, lucciola. » intervenne Ciel. In genere era il primo della fila, quando c’era da dare il tormento a Sebastian, ma in qualche modo lo infastidiva che qualcun altro potesse prendersi tanta libertà con il suo servitore.
La fata fece frullare le ali e incrociò le braccia. “Ha avuto solo fortuna.”
« Può darsi, » le concesse il Conte « ma questo non cambia il fatto che sei nelle nostre mani, ora, perciò... ti conviene cominciare a parlare, se tieni a quelle ali. »
“Non ti dirò proprio niente!” esclamò la prigioniera. “La ragazza ci appartiene e voi non ce la porterete via.”
« Siete voi che l’avete rapita e strappata ai suoi genitori. » la corresse il giovane lord.
“Ha! Questa è bella!” disse la creatura. “Lei ha scelto di venire con noi. È stata lei a invitarci a entrare e a chiederci di salvarla dall’Ombra.”
Ciel assottigliò lo sguardo. « Dunque siete state voi a istillarle quel sogno. L’avete terrorizzata fino a irretirla. »
“Non essere stupido!” lo rimproverò la fata. “Sognare l’Ombra è qualcosa che non augurerei nemmeno a te o quello spilungone lì. Figurarsi se avremmo mai potuto fare una cosa del genere ad una nostra sorella!”
« E cosa sarebbe quest’Ombra? » la incalzò il ragazzo. « Non vorrai farmi credere che anche le fate hanno i loro babau. »
“Nemmeno noi sappiamo cosa sia.” ammise la minuscola donna. Alzò lo sguardo verso di lui attraverso il vetro e sedette all’indiana al centro del barattolo. “Sappiamo solo che da secoli ci dà la caccia per rubare la nostra luce.”
« E cosa dovrebbe farsene della signorina Beresford? Lei non mi sembra abbia alcuna luce fatata da rubare. »
La fata si morse le labbra.
« Credo di averlo capito, signorino. » intervenne Sebastian. « La figlia del marchese è una changeling, una bambina scambiata. »
« Vuoi dire che è una fata? »
« Solo per metà. » chiarì il demone. « È figlia di una creatura fatata e di uno degli umani rapiti prima di lei. Non è abbastanza fatata per dominare e lo è troppo per essere dominata. Per le fate, quelli come lei sono pericolosi. Per questo, quando nasce uno spriggan ­­– è questo il termine irlandese, no, lucciola? – viene subito scambiato con un neonato umano, che invece può essere allevato come schiavo. »
“Non è vero!” sbottò la minuscola creatura. “Noi mandiamo gli spriggan tra di voi per proteggervi, stupidi umani ingrati! E gli umani che vivono con noi sono felici!”
« Quindi la signorina Beresford è davvero una changeling. » la zittì Ciel. Si accarezzò il mento e fece il giro della stanza diverse volte. « Dubito che ai genitori possa importare. Rivorranno la figlia e basta, fata o non fata. »
“È fuori discussione.” disse la prigioniera. “Riportarla tra gli umani significa condannarla a diventare preda dell’Ombra. Mi rifiuto di fare una cosa del genere!”
« Allora temo che resterai in quel barattolo per molto, molto tempo. »

 

Susan si lasciò cadere sul prato, supina e con le mani intrecciate dietro la nuca. Non si sarebbe mai abituata a quel profumo di fiori così intenso, né al cielo ocra con i suoi due soli. Ne aveva subito amato i colori brillanti, ma non era casa. Per quanto ci provasse, non riusciva proprio a vederla come tale. Sospirò e poggiò le spalle contro il tronco del grande alberò. Chissà come stanno a casa. pensò. Quanto sarà passato? Sapranno già che sono sparita? Cosa ne penseranno mamma e papà? E il Conte? Passerà dei guai per questa storia? Oh, non potrei sopportarlo!
Le sue riflessioni vennero interrotte da una palla di cuoio marrone che atterrò a poche spanne dal suo piede.
« Scusa, puoi lanciarcela? » le gridò un ragazzino di un paio d’anni al massimo più grande di lei. Aveva una zazzera di capelli castani tendenti al rossiccio e lentiggini su buona parte del viso. Gli mancavano almeno un paio di denti, ma questo non rendeva il suo sorriso meno allegro.
La marchesina si alzò, spazzolò la gonna candida e gli tirò la palla con tutta la propria forza, ma senza mirare.
Il passaggio fu comunque debole e il ragazzo dovette sporgersi  in avanti per prenderla. Le sorrise e le mostrò il pollice alzato.
« Ehi, perché non vieni a giocare anche tu? » gridò una ragazzina che poteva essere sua sorella, con quel mare di lentiggini che si estendeva sotto gli occhi azzurri. I suoi capelli erano una cascata di ricci color carota e le scendevano fin’oltre le spalle.
Susan annuì e corse verso il gruppetto.
Erano in cinque, tutti più o meno della sua età e indossavano tutti la stessa veste candida, una versione più raffinata del chitone greco, che lasciava scoperte le gambe dal ginocchio in giù e lasciava libere le braccia. Tutti avevano al polso un braccialetto simile al suo,a ognuno con un fiore e una pietra diversi.
« Io sono Aiden. » si presentò il ragazzo più grande e le tese la mano libera.
La ragazza la strinse. « Io sono Susan. »
Ad uno ad uno, si presentarono anche Bianca, Daniel, François e Brigit.
Susan strinse le mani a tutti. « Allora, come si gioca? »
« È facile. » le rispose Bianca. « Ci mettiamo tutti in cerchio e ci passiamo la palla in questo modo. » La prese da Aiden e la palleggiò sopra la testa un paio di volte, prima di ripassarla al ragazzo. « Ad ogni passaggio contiamo a voce alta e a dieci possiamo colpire la palla più forte, in modo che l’altro non possa prenderla, perché chi fa cadere la palla è eliminato e vince l’ultimo che resta in gara. »
« Sembra facile. » commentò la nobile, anche se non aveva mai giocato.
Le fecero spazio nel cerchio e cominciarono a passarsi la palla, gridando ad alta voce i numeri. Era più difficile di quel che sembrava, perché a volte il tiro usciva storto e per recuperare la palla bisognava lanciarsi. Erano soprattutto i maschi a rischiare i recuperi più spericolati, ma anche Bianca e Brigit non esitavano più di tanto a rotolarsi nell’erba morbida per non farsi eliminare.
Il primo a uscire dal cerchio fu Daniel, che finì con le natiche a terra nel tentativo di salvare un lancio troppo lungo. « Oh, beh, farò il tifo! » dichiarò e fece spallucce. Si asciugò il sudore che colava dalle ciocche bionde e sedette all’indiana poco distante. Tifava per tutti e li incoraggiava senza fare preferenze. Aveva uno strano accento sibilante che sembrava arricciare le parole e teneva le mani a coppa ai lati della bocca per amplificare il suono. Le sorrise, quando uscì dal cerchio due decine più tardi, e batté sull’erba accanto a sé per invitarla a sedersi.
« Grazie. » accettò la marchesina. Sedette a sirenetta accanto a lui e si unì al tifo. Era piacevole stare in compagnia di altri ragazzi, dopo tanti giorni passati da sola. Non sapeva perché non ci avesse pensato prima. Forse, si disse, era perché si sentiva spaesata, in quel mondo così diverso dal suo, che con quel cielo giallo ocra le ricordava di non essere nemmeno parte della Terra.
« Scusa se te lo chiedo, » le disse Daniel, mentre Brigit salvava la palla dal tiro di Aiden. « ma tu sei nuova, vero? »
Susan annuì. « Sono arrivata solo una settimana fa. »
« Mi sembrava. » commentò il ragazzo. Aveva un sorriso gentile e gli occhi verdi catturavano ogni goccia di luce.
Susan inclinò il capo da un lato e schiuse le labbra a formare una piccola “O”.
Daniel si grattò la nuca. « Hai l’aria spaesata. » le spiegò. « E poi il tuo braccialetto... posso? »
La marchesina gli porse il polso.
« Ecco, lo sapevo. » commentò l’altro, con fare esperto. « Hai un lapislazzuli al centro della rosa[3], quindi sei una changeling. Se non sbaglio, la tua famiglia è quella dei Syheel. Sono... » Strinse gli occhi, nello sforzo di ricordare. « Qualcosa che ha a che fare con i sogni, mi pare. »
La ragazza continuava a non seguirlo.
« Oh, giusto! » esclamò l’altro e si batté la fronte con il palmo della mano. « Questi non sono solo decorativi. Dal fiore puoi capire qual è il nostro Paese di origine e dalla gemma incastonata al centro sai anche se siamo umani o changeling. » le spiegò e le mostrò il proprio bracciale. Aveva al centro un garofano, riprodotto fin nei più minimi dettagli, con un diamante incastonato tra i petali. « Gli umani sono gli unici ad avere i diamanti, perché noi siamo “puri”, mentre i changeling hanno una pietra diversa a seconda della famiglia d’origine. Famiglia fatata, intendo. » Sorrise. « Io sono nato in Spagna, però ho vissuto tutta la vita qui. Avrei dovuto prendere il posto del mio changeling sulla Terra, ma lui ha deciso di non mandarmi dalla sua famiglia, per paura che mi succedesse qualcosa. » Si portò le gambe al petto e posò il mento sulle ginocchia. « Sai, anche noi umani abbiamo addosso l’odore delle fate, dopo tutti questi anni, e l’Ombra potrebbe venire a prenderci, perciò io gli sono grato, però... »
« Di che state parlando? » li interruppe Bianca, che era appena uscita dal cerchio e li aveva raggiunti.
« Daniel mi stava spiegando il significato dei braccialetti. » le rispose Susan. « Non pensavo ci fosse un sistema così ingegnoso dietro. »
« Oh, sì! » esclamò l’altra. « L’ha spiegato anche a me! » Alzò il polso e le mostrò con orgoglio il proprio bracciale. Incastonato nel ciclamino brillava un occhio di tigre che risaltava ancora meglio con il colorito ambrato della pelle della ragazza. « Io sono qui da un mese e ancora non ho imparato nemmeno un briciolo di quello che sa lui! »
Il ragazzo arrossì e borbottò qualcosa a proposito del fatto che era solo perché viveva con le fate da più tempo. « E poi io non so niente della Terra, anche se ci sono nato. » mormorò. « Mi sarebbe piaciuto vederla. »
« Beh, ma quando il pericolo dell’Ombra sarà passato non è detto che tu non possa andarci! » lo consolò Bianca, con un sorriso che andava da un orecchio all’altro.
La faceva facile lei, si disse Susan, perché sapeva che, alla fine, sarebbe tornata a casa, ma cosa ne sarebbe stato dei loro umani? Ancora non aveva deciso se mandare l’altra se stessa dai suoi genitori e, dopo quello che aveva scoperto, era ancora più indecisa. E se fosse successo qualcosa all’altra Susan mentre era con i suoi genitori? Se fosse morta mentre lei era via? Non voleva pensarci, proprio no. « A proposito, » disse, per cambiare argomento « ma come facciamo a parlare tra noi, se veniamo da Paesi diversi? »
« Beh, è l’aria di questo posto. Vi aiuta a ricordare la lingua fatata e la usate senza accorgervene. » le rivelò Daniel. « Io l’ho imparata da piccolo, insieme allo spagnolo. »
« Ecco Daniel il maestrino che riparte alla carica! » intervenne François, eliminato da Brigit. Sedette tra lui e Susan e gli appoggiò un braccio sulla spalla. « Io cerco in tutti i modi di fargli capire che così finirà per sterminarci tutti con la noia, ma lui insiste! »
« Eppure mi sembra di ricordare che sei stato tu a riempirmi domande, più di tutti gli altri messi insieme. » lo rimbeccò quello, che pure non scostò il braccio dalla propria spalla.
« Dettagli, dettagli. » ribatté il changeling, che sembrava esagerare l’accento francese per farsi bello agli occhi della comitiva. Avendo quindici anni, era anche il più grande del gruppetto e superava lo stesso Aiden di tutta la testa. Si sarebbe detto un bel ragazzo, se solo fosse stato meno sbruffone. Gli occhi grigi e i capelli neri si sposavano a meraviglia con i tratti delicati del viso, che già iniziavano a perdere i segni della fanciullezza, ma non erano ancora adulti come avrebbe voluto.
« Ah, sì? » gli chiese Daniel, con un ghigno. « Allora d’ora in poi dovrai pagarmi per ogni domanda che mi farai, così vediamo se sono dettagli o no! »
« È uno sporco ricatto! »
« È giusto, invece. » lo corresse Bianca. « Se disprezzi quel che vuoi comprare, è giusto che lo paghi più di chi loda apertamente quella stessa cosa. »
« Ma non ha senso! »
« Beh, ne ha per me. » gli assicurò Daniel, con un sorrisetto furbo che non prometteva niente di buono. « E poi io non ti obbligo a chiedermi niente, se i miei prezzi sono troppo onerosi. »
François sbuffò e voltò lo sguardo dall’altro lato, eppure non gli venne in mente che avrebbe anche dovuto spostare il braccio dalla spalla dell’altro. « Che avete deciso per i vostri umani? » domandò alle ragazze, come se nulla fosse. « Io ho dovuto mandare per forza il mio a casa, o mia madre sarebbe morta di dolore. »
« Io pure. » ammise Bianca. « Siamo una famiglia numerosa e io e mia sorella dobbiamo aiutare in casa, perché mamma lavora fino a tardi e da sola non ce la fa. Anche i miei fratelli più grandi già lavorano. » raccontò. Giocherellava con l’erba, mentre lo diceva, e non aveva l’aria molto felice, ma si sforzava di non darlo a vedere.
« Io ancora non ho deciso. » confessò Susan. « Conosco una persona, sulla Terra, che potrebbe aiutarci, e ho paura che non lo farebbe, se l’altra me tornasse a casa. »
Gli altri ragazzi la guardarono, ma nessuno disse niente.
« Ehi, voi! » li chiamò Brigit, che sembrava averla spuntata nella finale. « Venite a giocare! »

 

Ciel si stiracchiò come un gatto e suonò il campanello per chiamare Sebastian. Sciolse la benda e la posò con cura sul comodino, mentre la porta alla sua destra si apriva e la figura allampanata del maggiordomo ne riempiva il vano. « Ancora niente dalla prigioniera? »
Il diavolo si richiuse la porta alle spalle e posò il lume sul tavolo. « Non ancora, signorino. » rispose e si chinò a slacciargli la giacca. « Sembra determinata a “proteggere” la signorina Susan da questa Ombra che tanto la spaventa. »
« Ci crede davvero, dunque. » rifletté il Conte. « Hai mai sentito parlare di una cosa del genere, Sebastian? Se esiste da secoli, tu che sei tanto vecchio dovresti saperne qualcosa. »
« Non necessariamente, signorino. » lo contraddisse il demone, mentre provvedeva a sfilargli camicia e calzoni. « Noi e le fate non siamo in buoni rapporti e a nessuno della mia specie interessa se quelle fastidiose creature vengono decimate. Per di più, loro fanno tutto il possibile per nascondere le proprie debolezze e rivelare di avere un nemico tanto pernicioso farebbe più bene che male, immagino. »
« È un modo per dire che non l’hai mai incontrata? »
« Se volete metterla in questi termini, signorino, sì. »
Il ragazzo sogghignò e inclinò il capo da un lato. « Nemmeno tu sei infallibile, dopotutto. » commentò, divertito. Sollevò le braccia per farsi infilare la camicia da notte e si mise a letto.
« O magari » ribatté Sebastian, con il suo incrollabile sorriso « quest’Ombra non esiste. »
Ciel sbadigliò. « Sì, può darsi anche questo. » ammise. « Ad ogni modo, prova a fare una ricerca nel folklore. E se non salta fuori niente, vorrà dire che dovremo trovare un modo per andare a riprenderci la signorina Beresford e basta. »
« Immaginavo mi avreste chiesto qualcosa del genere, signorino. » rispose il maggiordomo, dando un’occhiata all’orologio da taschino. « La sola Ombra che ho trovato, però, è l’Uomo Nero, uno spauracchio per bambini che cambia nome e aspetto di Paese in Paese, ma sembra essere una costante della cultura umana. Secondo alcuni vive sotto i letti o negli armadi, per altri entra da finestre e camini; in alcune leggende mangia i bambini, mentre in altri li rapisce e basta, ma in generale i genitori lo usano per convincere i bambini più piccoli ad obbedire. »
Ciel annuì. Lo conosceva, come tutti i ragazzini. Ricordava che la tata, quando era molto piccolo lo aveva usato per spaventarlo, una volta, e ci era riuscita così bene da fargli avere gli incubi per una settimana. Aveva persino bagnato il letto, a causa di quei brutti sogni, per cui la donna si era guardata bene dal nominarlo di nuovo, ma quel ricordo era rimasto a languire nella sua mente, pronto a punzecchiarlo. « Potrebbe essere una rimanenza nella coscienza di quest’Ombra che rapisce i bambini fatati. » suppose. « E i genitori, non sapendo cosa avessero di speciale i loro figli, si sono convinti che fosse un rapitore di bambini in generale. » Sbadigliò. « Oppure potrebbe essere un’invenzione delle fate, che hanno trasmesso il loro mostro per l’infanzia agli umani. »
« Tutto è possibile, signorino. » concordò il demone. « Ma, se esistesse, dovrebbe essere un demone... »
« E tu sei troppo orgoglioso per accettare di non conoscere un tuo simile, specie se tanto potente da terrorizzare tutte le fate, giusto? » finì l’altro per lui.
Sebastian stirò le labbra in una smorfia. « Più che questo, mi chiedo cosa se ne faccia. »
« Non ne ho la più pallida idea. » rispose il ragazzo, con gli occhi già chiusi. « Dovete saperlo tu e la lucciola. Siete voi i non umani, qui. »
Il demone sorrise. « Avete ragione, signorino. » gli concesse. « Vorrà dire che lo scopriremo. » Gli rimboccò le coperte e prese il lume dal comodino.
« Sebastian? » lo richiamò il Conte. Non aggiunse altro, ma il tono basso e appena vibrante che usò era ben noto al suo servitore. Era meno intenso, meno saturo di paura, ma era quel tono.
« Come sempre, mio lord. » rispose il diavolo, immobile accanto alla porta. Abbassò la luce del lume fino al minimo, così da non infastidire il suo padroncino, e attese, in piedi accanto alla porta, al suo posto.
 
[1] Schiavo.
[2] Demone.
[3] Anche se il simbolo dell’Irlanda è il trifoglio e non la rosa, alla fine dell’Ottocento era ancora parte dell’Impero Britannico, quindi è come se Susan fosse inglese e non irlandese.

 

Lo so, lo so. Mi sono fatta un po' prendere la mano con la seconda scena. Spero non risulti noiosa, ma era la prima nel mondo delle fate e non ho resistito alla tentazione di infilarci di tutto. Più che lo spiegone sui braccialetti (per il quale mi scuso <_<), volevo mostrare i nuovi amici di Susan. Vi prego dal profondo del cuore: posate i pomodori. >w< Ricordate che vi amo. 
Scemenze a parte, spero che il capitolo nel suo insieme vi sia piaciuto, anche se stavolta la povera Mey Rin ci è andata di mezzo senza che fosse colpa sua. Sebastian, dal canto suo, non crede all'Ombra, ma spero che vi piaccia il collegamento con il folklore dell'Uomo Nero - che ha un senso, giuro! Ogni volta che vado fuori dal seminato e invento qualcosa di mio, ho sempre una paura bestia di combinare un pasticcio e questa volta mi sono buttata proprio a pesce sull'aspetto fantasy di Black Butler, più che sul giallo, per cui ditemi che sto procedendo bene, vi prego! >.< O correggetemi, se sta venendo una schifezza: non mi offendo.
Ad ogni modo, fatemi sapere cosa ne pensate, se volete fare di me una screbacchina felice! 
Ci sentiamo nelle recensioni! See ya!

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Capitolo 13
*** Quel Maggiordomo, Scettico ***



La porta dello studio si aprì di schianto, spinta con forza da un uomo sulla quarantina alto e magro, con ordinati baffetti castani. I capelli, tagliati corti e pettinati con una sobria fila a destra, erano in disordine, e le guance accese d’ira. « Che vuol dire che mia figlia è stata rapita dalle fate, Conte? Che razza di scherzo è mai? »
Ciel posò la tazza di tè davanti a sé e fece un cenno a Sebastian. « Non dovreste stupirvi, Marchese. » rispose. « Esistono i demoni, quindi perché non le fate? »
« Non è questo il punto! » sbottò l’uomo. « Mi avevate fatto intendere che fosse stata una banda di rapitori e che la stavate cercando! E invece ora viene fuori che sono state quelle! »
« Credetemi, Marchese, se un essere umano avesse tentato di rapire vostra figlia, i miei domestici lo avrebbero impedito senza sforzo. » gli assicurò il ragazzo. « Ma posso assicurarvi che la stiamo cercando. Sebbene, lo capirete, non è così facile. »
« Sì, ma le fate! Perché dovrebbero rapire la mia bambina? »
« Questo è... »
« Signolino, signolino! » Mey Rin entrò nello studio correndo a perdifiato e sarebbe inciampata addosso al Marchese, se Sebastian non l’avesse impedito. Essere presa per un braccio dal maggiordomo le fece venire il batticuore e per un attimo dimenticò quello che stava per dire, ma lo sguardo raggelante del suo giovane padrone le fece tornare subito la memoria. « L-La signolina Susan è tolnata! È in camela sua e ha detto che vuole pallale con voi, signolino. Dice anche che non vuole vedele nessun altlo, plima di avelvi detto “alcune cose impoltanti”. »
« Cosa? Che vuol dire “è tornata”? » si agitò Lord Waterford.
« Stavo andando in camela sua ambiale le lenzuola, signole, e l’ho tlovata lì, che si ligilava una lettela tla le mani. » La tolse dal grembiule. « Ha detto che è pel il signolino Ciel e che deve leggella lui, plima di andale a pallalle. »
Il Marchese era livido.
« Non temete, » lo rassicurò Ciel « sono sicuro che chiariremo tutto. Devo pregarvi di uscire, però. Mey Rin, dammi la lettera. » Porse la mano verso di lei e attese che gli altri uscissero, prima di romperne il sigillo di ceralacca – una rosa stilizzata che non ricordava di aver mai visto.

 

Ciel richiuse la lettera e chiamò Sebastian. « Anche se è una bambina scambiata, continua a considerarsi figlia dei marchesi. » disse, mentre usciva dalla stanza per raggiungere quella della ragazza. « E crede davvero che l’Ombra esista. » Arricciò le labbra. « Questa cosa sta andando troppo oltre. »
« Come spiegherete ai Beresford tutto questo? »
« Non lo farò. » rispose il Conte. « Lo farà lei. » Aprì la porta della stanza e rimase colpito dalla somiglianza tra la ragazza seduta sul letto e quella che aveva conosciuto nelle settimane precedenti.
L’umana che gli sorrideva dalla sua posizione scomposta aveva una carnagione appena più dorata della sua doppelgänger fatata e i capelli le arrivavano appena sopra i fianchi. Il viso a fragola era lo stesso e anche le labbra sottili, ma la serenità di quello sguardo conferiva all’insieme  una dolcezza che all’altra mancava. « Conte Phantomhive. » lo salutò. « L’altra me mi ha parlato tanto di voi. Ha detto che potete aiutarci e i suoi ricordi lo confermano. »
Il ragazzo si irrigidì. « Vi prego di essere più chiara, signorina... come volete che vi chiami? »
« Anthea andrà bene. Così non potrete confondermi con Susan. »
Il giovane lord annuì e le fece cenno di continuare.
« Susan voleva che vi convincessi ad aiutare le fate e tornassi subito a casa, ma non posso farlo: non è giusto che io sia al sicuro, mentre alcuni dei miei amici sono in giro per il mondo, con il rischio di essere rapiti e... » Rabbrividì nel suo vestitino azzurro e si portò le gambe al petto. « No. » Scosse il capo. « Voglio aiutare. »
Ciel scoccò un’occhiata al demone e si rigirò l’anello di famiglia intorno al dito. « Allora vi prego di riferirmi quanto dovete, signorina. »
La ragazza annuì. « Io e mia sorella siamo nate da un parto sfortunato: saremmo morte entrambe, se le fate non mi avessero salvato. Tra noi, io ero la più debole, per cui hanno deciso di portare me nel loro mondo e lasciare che Mary provasse a salvarsi da sola. Di fatto, ci sarebbe anche riuscita, se non fosse stato per quella brutta polmonite. » raccontò. « Ma aiutare così tanto una famiglia non sarebbe stato giusto, per cui non intervennero. »
Il ragazzo inarcò un sopracciglio.
« Non stupitevi, Conte. » rispose l’umana. « Gli spriggan sono angeli custodi per le famiglie in cui vengono inseriti. »
« E perché i Beresford ne avrebbero bisogno? »
« Davvero c’è bisogno di chiedermelo, con quello che è successo? » Sue sorrise. « Se non fosse stato per la presenza di Susan, il demone avrebbe fatto davvero ciò che avete raccontato alla regina, invece il suo odore di fata faceva apparire repellente lei e chi le stava intorno abbastanza a lungo. »
« Strano, » si inserì Sebastian « io la trovavo deliziosa. »
La giovane alzò lo sguardo verso di lui e inclinò appena il capo. « Susan non mi ha parlato bene di voi. » ammise. « Ha detto che la guardavate come un bignè. »
Ciel scoccò un’occhiata di rimprovero al diavolo, che non negò, né confessò.
« Voi siete un demone diverso da Hana’el. » spiegò la ragazza. « La sua luce vi attrae, così come attrae l’Ombra. » Sorrise e scoccò al suo padrone uno sguardo divertito, che nessuno dei sue capì. Rideva di una battuta divertente solo per lei. « Ad ogni modo, » riprese « le fate mi hanno cresciuto insieme ad altri bambini umani, in quello che potreste considerare un collegio. Ci insegnano le lingue del nostro mondo, la sua storia e tutto quello che vogliamo, fino ai diciotto anni. Dovrei essere lì, ora, ma questa è un’emergenza. Una volta adulti possiamo scegliere se restare nel mondo delle fate, o tornare sulla Terra. »
« Al posto degli spriggan? »
Sue scosse la testa. « Come persone nuove, o al posto di altre morte senza che nessuno lo sappia. Dobbiamo cambiare aspetto, per non intralciare i nostri spriggan, ma non ci importa: possiamo fare la differenza, usare quello che sappiamo per migliorare il mondo. »
Il Conte non poté evitare di guardare di nuovo il diavolo: tutto ciò sembrava troppo bello per essere vero e contrastava con ciò che il maggiordomo aveva detto dei changeling. « E quelli che decidono di restare con le fate? » chiese. « A loro che succede? »
« Si integrano. Il mondo delle fate non è poi troppo diverso da quello degli umani. Semmai, è... come dire? Ci sono meno pressioni, ecco. Ognuno è libero di vivere come vuole. »
Il giovane lord arricciò le labbra. Perché le fate non avevano preso anche lui? Su che basi sceglievano chi meritava la felicità e chi no? Strinse i pugni e ricacciò indietro quelle domande. Lui si era votato alla vendetta e aveva scelto di perseguirla a costo di consumarsi. La felicità era fuori dalla sua portata.
« C’è altro che volete sapere, Conte? »
« Solo come proteggervi. »

 

Susan richiuse lo specchietto a conchiglia e si lasciò cadere distesa sul divano. Esercitare i suoi poter fatati era faticoso, ma l’aria di quel mondo la aiutava e in quel caso ne era valsa la pena. Si sentiva molto più tranquilla, a sapere che il Conte Phantomhive era dalla loro parte. Poggiò le gambe sul bracciolo e le accavallò in un gesto pigro. Non poteva fare a meno di essere preoccupata per Anthea, ma voleva credere nel suo coraggio. Aveva visto la sua luce e sperava potesse fare breccia nella torre d’avorio del Conte, che dietro la facciata pacata era, glielo aveva letto negli occhi, sempre più solo e disperato di giorno in giorno.
Un bussare leggero la strappò ai suoi pensieri.
« Avanti! » rispose e con una lieve rotazione del polso aprì la porta di ciliegio.
Era Bianca. « Ti disturbo? »
La spriggan si mise seduta e scosse la testa. « Posso offrirti qualcosa, piuttosto? Del succo di frutta o un po’ di tè? »
« Il tè mi piacerebbe. » ammise la ragazzina. Non ne aveva mai bevuto, essendo cresciuta in una famiglia di proletari, ma ne aveva tanto sentito parlare e la incuriosiva che gli inglesi lo bevessero tutti i giorni. « Ma non sono venuta per questo. » ci tenne a precisare.
La marchesina le sorrise e suonò una campanella per chiamare la governante.
Non era una donna vera, ma una bambola di ceramica magica a cui aveva dato l’aspetto di Bessy, la vera e incontrastata padrona di Curraghmore. Le somigliava molto, se non fosse stato per il viso liscio e la pelle lucida. Della donna aveva di certo il talento nelle faccende di casa, con in più il vantaggio di non sentire la fatica, ma nessuna di queste qualità avrebbe mai potuto compensare il dono della parola.
« Bessy, per favore, portaci un po’ di tè. »
La bambola si inchinò e obbedì.
« Non mi abituerò mai a vedere queste cose. » ammise Bianca. « Anche se sono molto utili. » Si acciambellò sul divano, scomposta, e guardò la ragazzina di fronte a sé. Più la osservava, più si rendeva conto di quanto fosse diversa da lei, con quei capelli scarmigliati e le mani callose già alla sua età. Poteva nasconderle quanto voleva, ma non sarebbe servito a farle crescere dritte le unghie.
« Sono un po’ inquietanti, sì. » concordò Susan. « Allora, a cosa devo il piacere di questa visita? »
« Tra pochi giorni è il compleanno di David. » spiegò la ragazzina. « E visto che non abbiamo soldi, né sapremmo dove comprargli un regalo, io ed Aiden abbiamo pensato di organizzargli una festa a sorpresa... e aiutarlo con la sua cotta per François. »
« François? » le fece eco la marchesina. « Ma è un maschio! »
« E allora? »
« Non possono stare insieme! Cioè, sono maschi. »
Bianca batté le palpebre. « Questo lo so, » rispose « ma che c’entra? »
« Be’, ecco... » Susan si bloccò. Proprio non sapeva cosa risponderle. « Lo dicono gli adulti. » borbottò alla fine. Lo aveva sentito dire diverse volte, ma non si era mai fermata a chiedersi perché fosse una cosa tanto brutta e terribile, che due maschi – o due femmine – stessero insieme.
« Sono adulti stupidi, allora. » decretò l’altra ragazza, senza pensarci due volte. I suoi genitori erano sempre troppo stanchi, quando tornavano a casa la sera, per perdersi in chiacchiere. Solo la sera si sedevano tutti a tavola e si parlava, ma per lo più degli impegni per il giorno dopo o altre cose importanti, non certo di chi si innamorava di chi altro, quindi lei non aveva mai sentito quei discorsi e quelle volte che aveva visto coppie dello stesso sesso non ci aveva mai trovato niente di strano: sembravano imbranati e felici come tutti gli altri e a lei bastava.
« Però... » mormorò Susan. « E i bambini? »
Bianca la guardò interrogativa.
« Come farebbero ad avere dei bambini? »
« Perché averne di loro quando ce ne sono tanti negli orfanotrofi? Ce n’è uno enorme vicino casa mia e io li vedo sempre giocare in cortile e fare tanto d’occhi quando passa un adulto, le volte che vado a fare la spesa. »
La giovane lady non seppe cosa rispondere. Non sapeva quali obiezioni avessero gli adulti ed era troppo giovane per riuscire a immaginarne di sue. Di fatto, gli omosessuali non le avevano mai fatto niente di male e finché continuavano così, per lei potevano fare quello che volevano. « E... » Esitò. « Sei sicura che Daniel e François si piacciano? »
« Sicurissima. » affermò la ragazzina. « François sta sempre appiccicato a Daniel e quell’altro fesso lo guarda come uno stoccafisso quando pensa che nessun altro se ne accorga. »
« Oh. » commentò Susan, che non si era accorta di niente, nonostante la sua spiccata sensibilità. « E come... come pensi di fare? »
Bianca le rivolse un sorriso da folletto. « Ovvio. » rispose. « Dobbiamo solo farli ingelosire abbastanza perché uno dei due si dichiari. »
« Ma siamo troppo piccole! »
« Oh, non noi. » rivelò la spriggan. « Aiden. »

 

Sebastian chiuse la porta dello studio a chiave e rimase immobile al centro della stanza, in attesa di ulteriori ordini del suo padrone.
Il ragazzo sedette dietro la scrivania e ruppe il sigillo della seconda lettera con un gesto brusco. Aveva lo sguardo fosco e la fronte corrugata, ma le dita agili mantenevano l’usuale fermezza.

 

Ciel sospirò e porse la lettera al suo maggiordomo. Non vedeva come quelle informazioni potessero aiutarli, ma capiva le buone intenzioni della ragazza. Se tutti erano convinti che quest’Ombra esistesse, non poteva fare altro che accettarlo a propria volta, si disse, ma ciò non gli diceva ancora come sconfiggerla. Potevano ucciderla con le capacità di Sebastian, oppure era meglio catturarla e rinchiuderla per farla morire di fame? Si massaggiò le tempie.
« Non crucciatevi, signorino. » gli disse Sebastian. « Sono tutte sciocchezze. »
« Come puoi esserne sicuro? »
Il maggiordomo sorrise ferino e si piegò in avanti sulla scrivania fino a guardarlo negli occhi alla stessa altezza, così vicino da poter sentire il profumo del suo respiro. « Semplice. » rispose. « Perché noi demoni non amiamo e nessuno della mia razza sarebbe tanto pazzo da toccare una di quelle lucciole. » Bruciò la lettera con un gesto pigro e lasciò che si consumasse fino a sparire. « Perciò l’Ombra non può... »
Un urlo lo interruppe. Veniva dalla camera di Anthea.

 

Anche oggi ce l'ho fatta. Stiamo sfidando la sorte, con questa cosa. Wow. 
Innanzitutto, mi rendo conto che è un capitolo ricco, ma spero non sia noioso. Ho cercato di fare le lettere con un font leggibile, ma le ho fatte in momenti diversi e quindi non sono uguali. <_< (Sì, sono pigra. Chiedo perdono.) 
Più importante, avrei voluto evitare il cliché di tutti gli yaoi (dove c'è sempre qualcuno che dice "Ma siamo/sono due maschi!"), perché lo odio, ma sarebbe stato un falso storico: nell'epoca vittoriana l'omosessualità era punibile per legge - pure le pietre sanno che Wilde è finito in galera per questo - e una bambina nobile non può non averlo sentito dai genitori. Per fortuna Bianca le ha chiarito le idee. (Sì, ho scelto apposta la bambina italiana, che tra l'altro porta un nome che io amo molto.) Ciel, invece, non lo dirà, perché tanto lui è già dannato. Un "crimine" (e le virgolette sono d'obbligo) in più o in meno non gli cambia la vita. Certo, prima deve capire che è attratto da Sebastian, ma non ho scritto questa fanfiction solo perché avevo voglia di scrivere uno storico pieno di sangue.
Inoltre, avete sentito l'universo ridere quando Sebastian ha detto che i demoni non amano? Le fujonshi di tutto il mondo si sono sganasciate - io per prima. 
Beh, per ora è tutto, credo. Fatemi sapere cosa ne pensate, se vi va. 
Ci sentiamo nelle recensioni. See ya!


 
 

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Capitolo 14
*** Quel Maggiordomo, Feroce ***



Ciel scattò in piedi. « Dicevi? » sibilò e si precipitò fuori dallo studio e su per le scale a due a due, verso la camera della ragazza. Aprì la porta come una furia, ma tutto ciò che vide era Anthea accucciata in un angolo, che tremava come una foglia.
Non c’era nessun altro.
« State bene, signorina? » le chiese, mentre la aiutava ad alzarsi.
La ragazza gli rivolse uno sguardo vitreo, ma si sforzò di annuire. « L’Om... bra... » biascicò, ma le parole successive furono incomprensibili, sconvolte dai singhiozzi e dal pianto.
« Sebastian, portale del latte e miele. » ordinò. La fece alzare e con cautela l’aiutò a sedersi sul letto.
Anthea accettò l’aiuto e si raggomitolò su se stessa nel tentativo di proteggersi da qualunque cosa la spaventasse.  
La porta si aprì di nuovo prima che il maggiordomo potesse anche solo sfiorare il pomello e il marchese di Waterford entrò nella stanza. « Ora basta! » esclamò. « Esigo di vedere mie figlia. » Le si avvicinò e il suo volto parve raddolcirsi nello sfiorare la chioma morbida della ragazza, che fu troppo stupita da quel gesto per scostarsi. « Stai bene, Sue? »
« I-Io... » balbettò la bambina, a disagio. « È... È stato solo un brutto sogno. »
Il padre le sedette accanto e la abbracciò con dolcezza, così da farle posare il capo sulla propria spalla. « Non preoccuparti, piccola. Ci sono io. Adesso passa. » le assicurò, mentre anche la marchesa e il primogenito entravano nella stanza per unirsi a quelle carezze.
Anthea vi si abbandonò e lasciò che quegli sconosciuti la confortassero, eppure sapere che quelli erano i suoi genitori naturali non la fece sentire al sicuro tra le loro braccia come quando a prendersi cura di lei erano le fate. Altre braccia l’avevano stretta dopo un brutto sogno, altre voci le avevano cantato nenie rassicuranti ed era quelle che voleva, non i genitori che non aveva mai visto prima. Non li accusava di nulla, ma per lei erano e restavano estranei. Smise di piangere un po’ alla volta e tirò su col naso, asciugandosi il viso con il dorso delle mani. « Ora sto meglio. » assicurò, nonostante tremasse ancora. « Conte, avete dato loro la lettera? »
« Non ancora: il vostro problema mi è sembrato più urgente. » si scusò Ciel. Sfilò dalla tasca interna della marsina la lettera di Susan e la porse all’uomo, che se la rigirò tra le dita con espressione nervosa.
« Che diamine vuol dire? » chiese, torvo. « Qualunque cosa sia, può dirmela a voce. Voglio dire, è qui davanti a me. Che bisogno c’è di una lettera? »
« Vi prego di leggerla. » gli disse Anthea, che non riusciva proprio a chiamarlo “padre”. « Dopo sarà tutto più chiaro. »
Lord Waterford scosse la testa, ma intuiva che la figlia desiderava restare sola con il loro anfitrione, per qualche motivo che gli sfuggiva. Rivolse al ragazzo e al maggiordomo uno sguardo severo e uscì, seguito dalla moglie e dal figlio.
Solo quando la porta si richiuse alle loro spalle la giovane si concesse un sospiro di sollievo. « Io... » mormorò, ma Ciel la fermò con un cenno.
« Non dovete spiegarmi niente. » le disse. « Non siete obbligata a stare in loro compagnia, se non volete. »
« Grazie, Conte. »
Il ragazzo le sedette accanto. « Ora... ve la sentite di raccontarmi il vostro sogno, signorina? »
Anthea impallidì, ma si fece forza. « Mi sono assopita solo per un attimo, mentre leggevo, ma... » Strinse le mani in grembo e prese un respiro profondo. « L’Ombra... l’ho sognata. » mormorò. « È la prima volta, ma l’ho subito riconosciuta d-dai ricordi di Susan. »
« Era lo stesso sogno? »
« N-No... no. » La giovane tirò di nuovo su con il naso e deglutì. « Ero a letto e a un certo punto la finestra si è aperta. Le davo le spalle e non potevo girarmi (ero come paralizzata, legata al letto... non so, qualcosa del genere), però sentivo che era entrato... q-qualcosa e che si trattava dell’Ombra. Mi sono venuti i brividi. » Si strinse le gambe contro il petto e poggiò il mento sulle ginocchia. « Quella cosa... si è avvicinata a me e io ho chiuso gli occhi, sperando che finisse tutto al più presto. Avevo paura che mi facesse qualcosa, ma si è solo piegata su di me – era così fredda! – e... e ha detto che verrà a prendermi, che grazie a me riuscirà a entrare a Lyressa. » Strinse le mani tra loro con forza, fino a farsi sbiancare le nocche. « Non posso permetterlo. » mormorò. « Ci sono i miei amici, laggiù. C’è Sue. »
Ciel le posò una mano sulla spalla. « Non lo permetteremo. » le assicurò. Non solo la voce, ma il viso e la postura emanavano una sicurezza che convinse la ragazza.
Annuì. « Farò da esca, se necessario. » si offrì. Negli occhi scuri ardeva lo stesso fuoco, alimentato da un nuovo coraggio. « Non permetterò che l’Ombra faccia del male ai miei cari. »
Il giovane lord le rivolse un’occhiata penetrante, quindi si rivolse al diavolo. « Valla a prendere. » ordinò. « È il momento di una lunga chiacchierata tutti insieme. »
« Sì, mio lord. » Il maggiordomo si inchinò e lasciò la stanza senza aggiungere altro. Tornò due minuti più tardi, con in mano il barattolo in cui era imprigionata la fata che una settimana prima aveva aiutato le sue simili a portare via Susan.
La sua luce si era fatta fioca e i colori una volta brillanti della pelle e delle ali iniziavano a sbiadire.
« Tallulah! » esclamò Anthea, non appena la riconobbe. Balzò in piedi, dimentica di ogni sofferenza di un attimo prima, e non esitò a togliere il barattolo dalle mani del demone e ad aprirlo.
La fata le sorrise e tentò di volare fino alla sua spalla, ma le ali non la ressero e sarebbe caduta al suolo, se la ragazza non l’avesse presa. “Grazie, bambina.” le disse. Sorrise e si appallottolò nelle sue mani in posizione fetale.
La ragazza le accarezzò i capelli con un dito e tornò a sedersi sul letto, canticchiando una melodia bassa che tranquillizzasse la fata. « Non avreste dovuto rapirla. » rimproverò i due. « Le fate non sono più abituate alla Terra e la loro aria corrotta le fa soffrire e ammalare. Tallulah potrebbe morire. »
« Non avevamo scelta. » le rispose Ciel, con una lieve smorfia. « Susan era sparita e non avevamo altri mezzi per scoprire cosa le fosse successo, se non interrogare lei... non che sia servito a molto. »
« Per fortuna siete arrivata voi, signorina. » si inserì Sebastian.
Anthea annuì. « Tallulah, devi tornare a casa. » le sussurrò, senza smettere un attimo di accarezzarla e cullarla con dolcezza. « Se resti ancora qui, potresti morire. »
“Lo so, bambina.” le rispose la fata, che le accarezzò un dito con la mano minuscola. “Ma sono troppo debole per viaggiare... e aprire il passaggio per Lyressa in un momento come questo sarebbe troppo pericoloso.”
« Non con un po’ d’aiuto. » la corresse Ciel. « E attirare l’Ombra in trappola non è quello che vogliamo? »
“Non sulla pelle di innocenti!”
« Ma qualcosa dobbiamo fare! » esclamò Anthea. « E poi l’Ombra verrà a prescindere. Per me o per te non fa differenza. »
La luce della fata sfarfallò e la sua mente toccò quella dei due umani per leggerne i ricordi.
Sebastian si mosse per impedirglielo, ma Ciel lo fermò con un gesto imperioso della mano.
La creatura si limitò a leggere i ricordi dei giorni successivi alla sua cattura, anche perché era troppo debole per tentare di più, ma le bastò. “Siete degli sciocchi!” sbottò. “Tu per essere venuta fino a qui senza uno straccio di protezione e tu... tu per non avermi creduto fin dall’inizio!”
« È inutile gettarci le colpe addosso a vicenda in questo modo. » le rispose Ciel. « Ora abbiamo cose ben più importanti di cui occuparci. » Guardò Sebastian. « Puoi ucciderla? »
Il demone ghignò. « Senza ombra di dubbio. »
Le labbra del Conte tremarono, ma l’espressione rimase impassibile. « Allora ho un piano. »

 

La luna sembrava piena, quella sera. Solo gli occhi di Sebastian e quelli di Tallulah riuscivano a riconoscere l’inizio della decrescita nel fianco destro. Illuminava il giardino della villa col suo lucore lattiginoso e dava forza alla fata, che ne assaporava i raggi appollaiata sulla spalla di Anthea.
« Sebastian, è tutto pronto per il rito? » chiese Ciel. Non portava la benda sull’occhio destro e il sigillo del demone era ben visibile.
« Sì, signorino, anche se a quest’ora voi dovreste essere a letto, non qui fuori a prendere freddo. »
« Intendo essere presente, ora che chiuderemo questa storia una volta e per sempre. »
Il maggiordomo sospirò e accese il falò al centro del sigillo senza ribattere. Quando il padroncino si metteva in testa qualcosa, non c’era verso di dissuaderlo.
“Sei pronta, Anthea?”
« Lo sono. »
Tallulah si libro davanti a lei e appose le minuscole mani sulla sua fronte. « Don mháthair Solas agus don athair Spéir, a thabhairt dom ar ais cad a bhaineann leis dom! [1] » esclamò, con la sua vera voce, che alle orecchie umane di Ciel suonava come un tintinnio di campanelli e nient’altro. Le costava un certo sforzo parlare in quel mondo, ma altrimenti la magia non avrebbe fatto effetto e non era importante che gli altri la capissero o meno: era un rito, non stavano prendendo il tè.
Una pallida luce dorata sfarfallò intorno alle sue mani e poco a poco avvolse l’intero corpo di Anthea. Pulsava come un cuore enorme, che ad ogni battito si indeboliva. Era troppa per essere assorbita tutta in una volta sola, ma la fata la inghiottiva ad una velocità insospettabile, per una creaturina così piccola. 
Dal canto suo, la ragazza non sembrava risentirne. Sorrideva appena, mentre tutti quegli strati di luce si staccavano dal suo corpo, che si faceva poco a poco meno candido e sembrava diverso da quello della changeling, più opaco.
“Non ti toglierò tutta la luce.” le spiegò Tallulah. “Ti lascerò qualche strato, così che ti protegga dall’oscurità di questo mondo.” Nel dirlo rivolse uno sguardo di rimprovero a Sebastian. “Quando tornerai a Lyressa per un po’ ti sentirai strana, più emotiva del solito, ma ti passerà in un paio di giorni e tutto tornerà come prima.”
Anthea annuì. « Ho capito. »
“Bene.” La fata ritrasse le mani. “Ora va’ dentro e chiuditi in camera: l’Ombra è mezza fata e non può entrare senza invito.”
« Ma... »
“Niente ‘ma’! Devo essere concentrata, ora.”
« Va bene. » La ragazzina chinò il capo e tornò verso la villa trascinando i piedi. Capiva che era per la sua sicurezza, ma le sembrava di non aver fatto abbastanza e poi Ciel aveva solo un anno più di lei, ma poteva restare. Discutere in quel momento non era il caso e, se aveva perso quella battaglia già nel pomeriggio, quando avevano discusso il piano, protestare ancora non avrebbe cambiato le cose, ma solo fatto perdere a tutti tempo prezioso.
La fata aspettò che fosse al sicuro, quindi volò sopra il falò, stese le braccia in perpendicolare con i palmi verso l’alto e prese fiato. « Lyressa, oscail do gheataí ach dom.[2] » ordinò e sprigionò la luce che aveva raccolto in piccoli fasci, che andarono a intrecciarsi sopra la sua testa per formare quella che poteva sembrare la cornice di uno specchio.
Al suo interno si intravedeva uno spicchio di cielo stellato dominato da due lune gemelle, che riversavano la loro luce su quella che sembrava una città di alberi, diversa da qualunque costruzione umana Ciel avesse mai visto. Sembrava immerso in un’atmosfera sognante, intangibile per chiunque non vivesse sotto quel cielo.
« Signorino... » sussurrò Sebastian, alle sue spalle.
Il Conte alzò gli occhi e intravide appena la figura filiforme che calava in picchiata verso di loro. Non avrebbe saputo dire se fosse un maschio o una femmina, ma di certo non era umana, con quella pelle grigio fumo e le ali da libellula che brillavano alla luce della luna. « Vai. » ordinò, a denti stretti.
« Sì, signorino. » Saltò in avanti per tagliare la traiettoria della figura, che però riuscì a deviare per evitare l’impatto. Le scagliò dietro tre coltelli da cucina, al posto della solita argenteria. Li aveva preparati quel pomeriggio, in previsione di quello scontro, con la lama in ferro, che era un metallo nocivo per le fate. Con un’altra forma sarebbero forse stati più aerodinamici, ma dei coltelli da cucina rientravano di più nel personaggio che interpretava tutti i giorni come maggiordomo del padroncino e aveva tutta la forza necessaria per compensare l’attrito.
L’Ombra riuscì a schivare due dei proiettili, ma il terzo si conficcò nel fianco destro per metà, poco sopra la vita. Urlò e se lo sfilò con rabbia dalla carne. Non faceva male come se fosse stato un fatato puro, ma bruciava come l’inferno. Gettò il coltello dell’erba e atterrò. « Come osi guastarmi i piani, demone? » chiese. La sua voce, così come il corpo snello, era maschile, ma non ancora del tutto adulta. Sganciò la frusta dalla cintura e la fece schioccare. Più che spaventosa, era disgustosa: era fatta di piccole ossa tenute insieme da degli anelli di ferro, eppure non sembrava affatto fragile.
« Desolato, ma come maggiordomo della famiglia Phantomhive non posso permettere un simile comportamento sotto la mia supervisione. » rispose il diavolo, per nulla toccato da quella vista. Scattò in avanti e caricò un pugno diretto al volto dell’avversario, che gli attorcigliò la frusta intorno al polso.
« Sono quasi tutti ossi di fata o di spriggan. » spiegò l’Ombra. « Ma penso aggiungerò volentieri qualche falange di demone, insieme a quelle del tuo contraente. »
« Per farlo dovresti continuare a respirare, lucciola. » rispose il maggiordomo, con una smorfia ferina a corrugargli i lineamenti. Prese in mano quella cosa orripilante come se non gli stesse bruciando la pelle e strattonò. Con l’altra mano prese il fatato per la gola e lo sollevò. « Ora scoprirai cosa succede a pestare i piedi sbagliati. » sibilò. I suoi occhi ripresero la sfumatura magenta, mentre soffocava quel collo sottile con le dita affusolate.
Il fatato ansimò e graffiò il guanto candido nel tentativo di allentare la morsa, ma quella restava ferrea. Gli vennero le lacrime agli occhi, ma riuscì a trovare la forza di prendere a calci il nemico e a colpirlo in faccia.
« Razza di moccioso. » ringhiò il diavolo, infastidito da quella ostinazione che lo metteva in cattiva luce davanti al suo padrone. Caricò un nuovo assalto, ma l’Ombra non si lasciò sorprendere e volò fuori dalla sua portata.
Lo attaccò di nuovo dall’alto con la frusta, che sibilò a pochi millimetri dal naso di Sebastian, che si piegò all’indietro per schivare e completò il movimento con una capriola all’indietro per recuperare la distanza di sicurezza.
Gli scagliò contro tre coltelli in rapida successione e spiccò un balzo per colpirlo con un calcio.
L’Ombra schivò di nuovo in un battito d’ali e sorrise. « Ancora non hai imparato la lezione? » chiese. « Puoi ferirmi, ma nessuno dei tuoi trucchi può uccidermi. »
« Questo lo vedremo. »
Le labbra cineree del folletto si stirarono in un sorriso beffardo. Ruotò su se stesso e descrisse un ampio cerchio nel cielo nel sorvolare il giardino.
Sebastian non capì subito cosa avesse in mente, ma sgranò gli occhi quando lo vide puntare a Ciel a tutta velocità. Scattò verso il ragazzo, ma anche il dannato ibrido era veloce. Si gettò su di lui per proteggerlo con il proprio corpo e si scagliò alle spalle un altro coltello. Sospirò nel constatare che il ragazzo era illeso, ma quando si voltò per cercare il suo avversario, quello era sparito.
 
[1] Per la madre Luce e il padre Cielo, restituiscimi ciò che è mio.
[2] Lyressa, apri le tue porte solo per me.


E anche stavolta ce l'abbiamo fatta, per miracolo. Anche il villain è uscito allo scoperto, ma - al contrario di Hana'el - non ha fatto la fine che meritava. E' riuscito anche a catturare Tallulah, che era la sua intenzione fin dall'inizio. Per riuscirci, se l'è presa con Ciel, come chiunque abbia capito che il conte è la sua debolezza. Del resto, sta morendo di fame, visto che si nutre della luce delle fate e non è rimasto nemmeno un bambino fatato in tutta la Terra. Chiaro che appena la vede pensa "Buffet!", un po' come Sebastian ogni volta che guarda Ciel.
Detto ciò, non so bene cosa aggiungere. Ho voluto dedicare l'intero capitolo al villain perché, dopo millemila capitoli che tutti parlavano di lui, era ora che venisse fuori, anche se stavolta le cose non sono andate come voleva Ciel. Beh, nella vita si vince e si perde. ù_ù
Per ora è tutto. Ci sentiamo nelle recensioni, se vi va!

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Capitolo 15
*** Quel Maggiordomo, Sorpreso ***


Sebastian si chinò su Ciel e lo aiutò ad alzarsi per controllare che non fosse ferito.
« Sto bene. » gli assicurò il ragazzo. « La fata? » Si guardò intorno alla sua ricerca, ma la sua luce dorata era sparita: l’Ombra l’aveva rapita. Strinse i pugni e rivolse a Sebastian uno sguardo di fuoco, ma non poteva condannare del tutto il demone: sapeva bene che in caso di pericolo avrebbe scelto lui; anche sulla Campania aveva abbandonato lo scontro con Undertaker per correre a salvarlo. Quel pensiero gli diede una scossa al petto. « Per ora non possiamo fare niente. » disse. « Domattina decideremo il da farsi. »
Il maggiordomo annuì. « Vi accompagno in camera, signorino. È ora che andiate a dormire. »
Il Conte non protestò. Si lasciò condurre nella propria stanza e sedette sul letto mentre l’altro prendeva una camicia da notte dalla cassettiera. Si sentiva strano, ma si disse che era solo la stanchezza per quella giornata più lunga del normale; eppure il corpo non era stanco. Era un languore strisciante che gli faceva formicolare i muscoli e tutto il sistema nervoso.
Le mani delicate del suo servo gli sollevarono il viso per sciogliere il nodo della benda e il sangue colorò le gote del ragazzo.
Da quando quelle dita sottili erano così calde? Non lo sapeva. Ma perché stava pensando a una cosa così stupida? Era solo Sebastian, si disse, eppure il suo profumo così familiare gli faceva venire la pelle d’oca. Non era normale. Il cervello cercò di dirgli che doveva avere paura, ma il corpo non voleva saperne. Continuava a provare quella strana attrazione e nient’altro. Doveva dire qualcosa? E cosa?
Sebastian non dava cenno di aver notato niente, mentre gli sfilava la marsina e sbottonava la camicia.
Batté le palpebre. Si sentiva meglio, senza tutta quella stoffa addosso. Si alzò per farsi sfilare anche i pantaloncini e sollevò le braccia.
Il maggiordomo gli fece indossare la camicia da notte e gliela lisciò addosso. Era così vicino che il suo odore gli arrivava al cervello come un colpo di cannone ad ogni respiro. « Ora, signorino... » disse, ma Ciel non lo lasciò finire.
Lo prese per il colletto della camicia e lo tirò verso di sé finché le sue labbra sottili non incontrarono le sue, più piccole. Non aveva mai baciato nessuno, nemmeno Lizzie, eppure l’istinto lo guidava come se lo avesse fatto mille altre volte. Fu molto più ardito di quanto si sarebbe aspettato da se stesso, semmai avesse osato immaginare una cosa del genere. Leccò le labbra del demone e fece pressione in un muto ordine.
Il diavolo obbedì e permise a quella lingua non più infantile di esplorare i suoi denti appuntiti e superarli per cercare un contatto più profondo. Si appoggiò al letto con entrambe le mani e strinse le lenzuola con forza mentre la fame che coccolava da mesi ruggiva in fondo allo stomaco, o un po’ più a sud. Contrasse ogni muscolo e si chiese se quello fosse un test o la punizione più strana che avesse mai subito. Con quel ragazzo tutto era possibile. « Signorino... » ringhiò sulle sue labbra.
« Sta’ zitto, demone, e baciami. »
Il suo corpo approvò in una vampata di eccitazione che fece cadere la maschera del perfetto maggiordomo dal viso, mai tanto ferino. Gli era capitato che i suoi contraenti fossero attratti da lui, in passato, e non aveva mai esitato ad approfittarne, ma che lui fosse attratto da un umano in quel modo era un’esperienza del tutto nuova. Prese il ragazzo per i fianchi e lo baciò di nuovo. Lo depose al centro del letto, attento a non separarsi di nuovo da quelle labbra così dolci.
Ciel approvò l’idea e si aggrappò alla sua nuca, mentre la lingua calda dal suo servo esplorava la sua bocca e gli solleticava il palato. Rabbrividì e gli sfuggì un versetto acuto, ben poco virile, nel sentirsi stuzzicare dietro ai denti. Lo stomaco si contorse. Non era preparato a quelle sensazioni, ma ne voleva ancora. « Sebastian... » ansimò, ignaro dello stato in cui si stava mostrando. Aveva le guance arrossate e gli occhi lucidi, seminascosti dalle palpebre.
« Cosa desiderate che faccia, signorino? » sussurrò il maggiordomo, roco come non lo aveva mai sentito prima.
« Io... » Non seppe cosa rispondere: essere consapevole dell’esistenza del sesso e del suo scopo era ben diverso dall’immaginare come funzionava. Arrossì e voltò il volto verso la spalla destra.
« Ma certo. » mormorò Sebastian. « Siete troppo piccolo per sapere queste cose. »
Il Conte si voltò verso di lui per fulminarlo con un’occhiata assassina. « Non osare trattarmi come un dannato marmocchio. » lo rimproverò, nonostante una parte di lui sapesse di esserlo, in fondo. Poteva anche essere cresciuto troppo in fretta, ma mai abbastanza.
Il diavolo sorrise. « Non preoccupatevi, signorino. » promise, a un soffio dal suo orecchio. « Vi insegnerò anche questo. » Mordicchiò il lobo e ci giocò con la lingua, prima di scendere su quel collo morbido e bianco che sembrava fatto apposta per essere morso. Non avrebbe potuto lasciargli segni in punti visibili, ma il corpo minuto del ragazzo gli lasciava ampia scelta, quanto ad alternative. Inspirò il suo profumo ad occhi chiusi. Era sempre delizioso, ma c’era una nota acidula che stonava. Si scostò per guardarlo in viso e si impose di andare oltre la maschera di lussuria che gli vedeva in volto.
« Sebastian, cosa...? » biascicò il ragazzo, infastidito da quella brusca interruzione.
« L’Ombra vi ha fatto qualcosa, signorino. » spiegò. Gli sedette accanto e si sfilò il guanto dalla sinistra, che stese sul corpo del ragazzo. Una magia diversa dalla sua pulsava nelle vene del ragazzo e gli toglieva i freni inibitori. « Sono dolente, signorino. Avrei dovuto accorgermene subito. » si scusò e premette il palmo sulla sua fronte. Chiuse gli occhi. Squarciò quella magia aliena come un velo di tulle e la divorò con la propria fino all’ultimo brandello. Lo disgustava che qualcuno di diverso da lui avesse osato toccare il padroncino, fosse anche a distanza. Avrebbe fatto pentire l’Ombra di esistere. « Come vi sentite, signorino? » chiese, come se nulla fosse successo.
Ciel gli avvampò. Non si fidava abbastanza della propria voce per provare a rispondere e guardarlo non era nemmeno un’opzione. Cosa aveva fatto? Doveva essere impazzito! Non poteva desiderare di baciare quel dannato demone. Lui aveva una fidanzata; se voleva baciare qualcuno, doveva essere lei, no? E allora perché quando la guardava vedeva solo sua cugina? Si coprì il viso con le mani. Aveva dato il suo primo bacio al suo maggiordomo, a un demone che avrebbe divorato la sua anima. No, decise. Non era stato lui. Era stato l’incantesimo. Alzò lo sguardo verso il diavolo, gelido e distante. « Tutto questo non è mai successo. » disse. « E non succederà in futuro. »
« Come desiderate, mio lord. » rispose Sebastian, con un lieve sorriso. « Domattina verrò a svegliarvi un’ora più tardi, ma non di più. » disse e, preso il lume, uscì dalla stanza. 

 

Anthea sedeva rigida nella poltroncina di velluto. Anche se il maggiordomo le aveva detto che il conte l’avrebbe raggiunta presto, ogni secondo passato a sorseggiare tè le sembrava sprecato. Si impose di mandare giù almeno una tortina alle more, perché non poteva restare a digiuno fino all’ora di pranzo.
La porta si aprì mentre finiva di mangiare e il padrone di casa entrò nella stanza, seguito dal suo fedele maggiordomo. Aveva un accenno di occhiaie, ma per il resto sembrava lo stesso ragazzo che aveva conosciuto il giorno prima. Come la sera prima, non indossava la benda e il sigillo spiccava sull’iride azzurra. « Signorina, devo darvi una brutta notizia. » disse, sedendo sul divano davanti a lei.
« Tallulah è stata rapita dall’Ombra. » lo anticipò lei. « Lo so già. »
Ciel corrugò le sopracciglia.
« L’ho vista in sogno. » spiegò la ragazza. « Mi ha spiegato cos’è successo e mi ha detto dove si trova: l’ha capito subito, perché tutte le fate conoscono l’albero di Blodwedd. Mi ha mostrato il percorso che hanno fatto, però... » Si torse le mani. « Era una visione dall’alto e non sono sicura... »
« Non preoccupatevi, signorina. » le disse Ciel. « Qualunque informazione ci darete sarà preziosa. »
La ragazza si mordicchiò il labbro inferiore. « Beh, ecco, hanno superato il bosco dietro casa vostra e hanno tirato dritto tutta la notte, finché sono arrivati in una zona collinare e piena di boschi. Sono scesi verso una macchia molto fitta, su una di queste colline. Ha detto che non lontano c’è un borgo che si chiama Devil’s Bridge... e ha riso. »
« Beh, è davvero un’ironica coincidenza. » ammise il Conte, ma tenne per sé il proprio ghigno e scoccò un’occhiata al demone.
« Per me è sufficiente, signorino. Cominceremo raggiungendo il paesino e poi dovremo solo battere la foresta. »
Ciel annuì. « Non preoccupatevi, signorina, » disse « risolveremo questa cosa prima che possiate avere nostalgia di casa. » Si alzò. « Vi chiedo solo di non uscire dalla villa, se non è indispensabile. »
La ragazza annuì. « E... i miei genitori naturali? »
« Non siete costretta a stare con loro, se non volete. »
Anthea abbassò lo sguardo. Si sentiva in colpa a rifiutarli in quel modo, ma loro non erano la sua famiglia. Non erano stati loro a crescerla e non avrebbe saputo cosa dire per confortarli, perché non aveva osato chiedere a Susan cosa avesse scritto nella lettera per loro.
« Per qualunque necessità, la servitù è a vostra disposizione. » Le fece un inchino con il capo lasciò la stanza. « Fai venire i marchesi nel mio studio e prendi i biglietti per il prossimo treno per Birmingham. » ordinò, mentre si dirigeva verso la stanza che meno amava nella grande villa. La giornata era appena cominciata e già il suo umore era sceso sotto le suole delle scarpe.
« Sì, signorino. »

 

I signori Beresford lo raggiunsero dieci minuti dopo, confusi e per nulla felici di quella convocazione. La marchesa aveva profonde occhiaie che nemmeno la cipria riusciva a nascondere e il marchese non era riuscito a combattere il vizio di mangiarsi le unghie fino alla carne viva.
« Spero vorrete darci una spiegazione, conte. » esordì l’uomo. « Siamo stanchi di questi giochetti. » Gli mostrò la lettera di Susan, spiegazzata per essere passata di mano in mano e segnata da diverse lacrime. « Prima nostra figlia viene rapita nel cuore della notte sotto la vostra tutela dalle fate e ora viene fuori che quella non è nostra figlia? A che gioco state giocando, ragazzino? »
Ciel lo fulminò con un’occhiata gelida. « Non sto giocando a nessun gioco, marchese. » rispose. « Sta a voi decidere se vostra figlia è quella sotto questo tetto o quella che avete cresciuto e amato per dodici anni. »
La donna represse un singhiozzo con la sinistra e si appoggiò al marito con la mano libera.
Il ragazzo la guardò. « Vi riporterò vostra figlia, Lady Waterford. » le disse, non per confortarla, ma come un semplice dato di fatto.
« Mi ridarete la mia Sue? » mormorò la signora Beresford, che nel suo cuore doveva aver già fatto la propria scelta, che lo ammettesse o meno.
Il conte annuì. « Quando avrò eliminato ciò che la perseguita, la riabbraccerete. » le assicurò. « Ed è di questo che devo parlarvi. » Congiunse le mani sulla scrivania e li guardò non come un adolescente, ma come l’adulto che dentro di sé era ormai da troppo tempo. « È ora che torniate in Irlanda. Questa casa è troppo pericolosa per voi, in mia assenza. »
« Ma... » tentò di protestare il marchese, interrotto da un gesto della mano del ragazzo.
« I miei domestici sono addestrati a difendere la proprietà ad ogni costo, ma purtroppo non hanno il minimo senso della misura e non è escluso che potreste restare feriti in un eventuale scontro. Per questo vi chiedo di prendere il primo traghetto per Dublino, entro stasera. Riporterò io stesso Susan da voi al più presto. »
« E... e Anthea? » domandò la marchesa. « Verrà con noi? »
« Forse, se glielo chiederete nel modo giusto. »
I due adulti si guardarono.
« Se non mi riporterete la mia bambina sana e salva, vi considererò personalmente responsabile, conte. » lo minacciò Lord Waterford.
« Avete la mia parola di gentiluomo che sarà come se non se ne fosse mai andata. »

 

Sebastian bussò piano, prima di aprire la porta. « Ho prenotato i biglietti, fatto i bagagli e istruito la servitù. » riferì. « Inoltre, i signori Beresford si sono fatti accompagnare a Londra da Tanaka pochi minuti fa e la signorina Anthea ha deciso di andare con loro. Ha detto di volerlo fare per proteggerli e perché era curiosa di vedere l’Irlanda. Mi ha chiesto di riferirvelo. »
Ciel annuì, senza staccare gli occhi dall’ultimo verbale della Funtom.
Il maggiordomo sorrise. « Credo abbia una cotta per voi. » aggiunse, ma la pacatezza del tono non raggiungeva gli occhi, che invece mandavano lampi.
Il ragazzo trasalì. « Ho già una fidanzata. » gli ricordò, brusco. Che accidenti si era messo in testa quello stupido demone? Solo perché lo aveva baciato, non voleva dire che fosse attratto da lui o cosa, anche perché non era in sé, in quel momento.
Il diavolo si chinò sulla scrivania e gli prese il mento tra le dita. « Forse avete dimenticato, signorino, che voi appartenete a me. » mormorò, a un soffio dalle sue labbra – vicino, ma non abbastanza.
« Solo la mia anima. » ribatté il conte. « E solo quando avrai assolto alla tua parte del contratto. »
Sebastian sorrise e mordicchiò quelle labbra piccole, pallide, rese ancora più dolci dalla colpa che si agitava in fondo all’anima del padroncino.
« S-Sebastian...! Cosa stai...? »
« Dovreste finire il vostro lavoro, signorino. » mormorò il maggiordomo, mellifluo. « Appena Tanaka rientrerà con la carrozza, ci accompagnerà alla stazione di Paddington. » Si inchinò e lasciò la stanza come se nulla fosse successo.
Ciel digrignò i denti e strinse i pugni. Aveva un insano desiderio di urlare o picchiare quell’irriverente maggiordomo – o, perché no, tutte e due le cose – fino a togliersi quei maledetti pensieri dalla testa, ma non poteva farlo. Tornò a fissare i fogli che aveva davanti. Le lettere si confondevano davanti ai suoi occhi, appannate dall’errata distanza del foglio. Batté le palpebre per metterle a fuoco e riprese a leggere, ma le parole si rifiutavano di significare qualcosa di più di un’accozzaglia di sillabe a caso. Quello era troppo, si disse. Che diamine gli prendeva? Possibile che anche il suo cervello gli facesse strani scherzi? Non doveva importargli cosa pensava quel demone, o se si era convinto di un mucchio di idiozie. Nemmeno sapeva quando la sua vendetta sarebbe stata compiuta; poteva essere di lì a un mese, come a dieci anni. Poteva anche avere tutto il tempo di sposare Lizzie e avere dei figli a cui tramandare il suo cognome. Oppure no. Si schiaffeggiò le guance. Doveva smettere di perdere tempo con quelle sciocchezze. Aveva un lavoro da finire, maledizione! Questa te la faccio pagare, demone. si promise. E con gli interessi. Maledì il suo servo un’altra dozzina di volte e immaginò le più tremende punizioni per tutte le libertà che si era preso in quelle dodici ore. Gli avrebbe fatto rimpiangere i tempi in cui gli versava il tè bollente sulle mani.


 

Bene, bene, bene. E anche questo capitolo è online. Dato lo stato semi-vegetativo in cui mi trovo (ho bisogno di una vcacanza per riprendermi da questa vacanza! xD), stiamo sfiornado il miracolo, per cui... festeggiamo! *Passa lo champagne a tutti.* Brindiamo, anche perché Ciel e Sebastian si sono finalmente baciati e il nostro bel maggiordomo ha finalmente detto quello che pensiamo tutti: Ciel è suo e di nessun altro. ù_ù
Parlando di cose serie, mancano pochi capitoli alla fine, poi mi prenderò una pausa dalle fanfiction per dedicarmi a un progetto originale, poi non so. Magari, quando avrò elaborato il luto per The Cursed Child forse scriverò qualcosa che renda giustizia al Potterverse, oppure mi dedicherò al seguito di Tetragrammaton. Non so ancora. Vedremo. Ora vado, ma mi raccomando: fatemi sapere cosa ne pensate della storia! Ci sentiamo nelle recensioni.  

 

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Capitolo 16
*** Quel Maggiordomo, Audace ***


Colmore Row era una strada ampia, pensata per il traffico abbondante di una città che ambiva a trasformarsi in metropoli. Il suo solo difetto era che offriva ben poco riparo dal sole di agosto agli stanchi viaggiatori che si lasciavano alle spalle la stazione di Snow Hill – un grande edificio in mattoni rossi dal sapore neoclassico.
« Signorino, dovreste stare all’ombra, mentre cerco una carrozza. » disse Sebastian. Nonostante avessero viaggiato insieme, non gli aveva rivolto la parola, né lo aveva guardato per tutto il viaggio. Era irritante quasi quanto rendersi conto che di colpo le sue azioni avevano tanta rilevanza.
« Sbrigati. » gli rispose e andò a sedere sull’unica panchina libera che trovò. Anche con addosso solo una camicia a mezze maniche e una marsina estiva, moriva di caldo. Si fece vento con la tuba e si soffiò via il ciuffo dagli occhi.
Il maggiordomo era poco più in là, che contrattava con un vetturino appoggiato con le spalle ad una carrozza coperta, che di tanto in tanto si lisciava i baffi cespugliosi. « Signorino, ha detto che per oggi può portarci solo fino a Ludlow e domattina continuare fino a Devil’s Bridge. »
« Va bene, digli di caricare i bagagli. »
« Sì, signorino. »
Umano e demone tirarono su le valigie e le caricarono la berlina, quindi uno montò a cassetta e l’altro aiutò il ragazzo a entrare nella vettura.
« Sarà un lungo viaggio. » disse Sebastian, mentre la pariglia di bai si metteva in moto. « Perciò, signorino, vi consiglio di usare questo tempo per studiare. E poiché sarebbe davvero scortese pugnalare le orecchie del vetturino con la vostra “musica”... » Gli porse Le Metamorfosi di Ovidio. « Aprite a pagina trecentotredici e cominciate a leggere in metrica. »
« Ma...! »
« Niente “ma”, signorino. Gli esametri sono la base della letteratura latina. Non potete non saperli leggere. »
Ciel gli strappò il libro di mano. « Da che verso? »
« Cinquecentonovantadue. »
Il conte sfogliò fino a trovare il passo in questione, che descriveva la grotta del sonno. Essendo un libro da studio, non aveva accanto la traduzione in inglese e mettere segni sulle sillabe da accentare non era possibile. Non poteva barare. « Èst propè Cimmèrios lò... »
« Cimmeriòs. » lo corresse Sebastian. « Ve l’ho detto cento volte, signorino: le parole terminanti in -as, -es, -is, -os e -us sono sempre lunghe. »
« Lo so. » lo rimbeccò il ragazzo, piccato.
« Eppure continuate a sbagliare. Da capo. »
« Èst propè Cimmeriòs longò spelùnca recèssu
mòns cavùs, ignàvi domùs et penetràlia Sòmni,
quò numquàm radiìs orièns mediùsve cadènsve
Phoèbus adìre potèst; nebulaè calìgine mìxtae
èxhalàntur humò dubiaèque crepùscula lùcis. »
« Se siete in grado di farlo, non dovreste lamentarvi. La pigrizia non si addice a un lord. » commentò il maggiordomo. « Ora traducete. »
« Sta’ zitto. » protestò Ciel, nonostante il colorito pallido tradisse un accenno di rossore. « C’è presso i Cimmeri una grotta nel profondo recesso di un monte cavo, dimora e penetrale del Sonno imbelle, dove mai Febo può entrare con i suoi raggi, né quando nasce, né quando è a metà, né quando muore; fumi misti a polvere sono esalati dal terreno e ci sono penombre di debole luce. »
« Abbastanza letterale. » concesse il demone. « Continuate. »
Ciel sospirò e riprese la lettura con voce stentorea. Nonostante la tendenza ad ammorbidire troppo i suoni e a leggere certe parole “all’inglese”, aveva una buona pronuncia. Continuava a sbagliare l’accentazione, specie quando accelerava troppo e perdeva il ritmo nella lettura, ma almeno nella traduzione se la cavava bene. Riusciva a non tentennare e a non farsi riprendere dal demone, che almeno su quella non aveva da ridire.
« Potete fare una pausa, signorino. » gli concesse il demone, cinquanta versi più tardi. Controllò l’orologio e gli porse un bauletto di cristallo in cui si intravedevano dei dolci. « È un po’ presto, ma per la merenda di oggi vi ho preparato dei macaron. State attento a non sporcarvi. »
« Non sono un bambino, Sebastian. »
« Lo so bene, signorino. » gli assicurò il diavolo, con un sorrisetto che riuscì a farlo arrossire.
« Allora smettila di trattarmi come tale » protestò il giovane lord e aprì il bauletto con delicatezza.
I dolci erano tutti di colori diversi e, oltre al bell’aspetto, avevano anche un profumino che faceva venire l’acquolina in bocca. Erano troppo grandi per metterli in bocca interi e poteva scommetterci che il maggiordomo li aveva fatti apposta di quella grandezza per impedirglielo.
Ne addentò uno verde, menta e cioccolato. Il biscotto gli si spaccò tra le dita e la crema gli sporcò le labbra e le dita.
Sebastian si irrigidì e strinse le palpebre, ma non aveva motivi per trattenersi. « Siete un disastro, signorino. » mormorò, e gli prese la mano. Gli tolse il dolcetto e si portò alla bocca quelle piccole dita, che prese a leccare e succhiare piano. Non provava nessuna attrazione per il cibo umano, ma sulla pelle del ragazzo faceva tutto un altro effetto.
« S-Se... Sebastian... c-cosa... » tentò di protestare Ciel, rosso in viso come mai in vita sua. Cosa stava facendo quel demone perverso? Non era normale! Doveva smetterla subito! Schiuse le labbra per dirglielo, ma la lingua che le ripulì lo paralizzò. Forse avrebbe dovuto morderlo, per ricordargli chi comandava, ma non era così spiacevole come avrebbe voluto. Se solo lo fosse stato, avrebbe trovato la forza di respingerlo, invece era già tanto se riusciva a trattenere i versetti indecenti della sera prima.
Del resto, quel maledetto demonio non sembrava curarsi delle sue tenui proteste. Gli ripulì le dita fino a lasciarle lucide di saliva e si impossessò delle labbra. Le leccò con la punta della lingua, quasi a ridisegnarne i contorni, e le mordicchiò piano.
Ciel sospirò. Come poteva essere attratto da una cosa del genere? E perché provava quella strana sensazione al bassoventre?
« Siete delizioso, signorino. » commentò il diavolo, che scese a giocare con il suo collo. « Ma sto dimenticando il mio dovere e ciò non è degno di un maggiordomo. » mormorò al suo orecchio, che addentò e succhiò piano.
« S-Se... Sebas... tian... » mugolò il ragazzo, che ormai non capiva più nulla, travolto da quel piacere a cui non era preparato. Chiuse gli occhi e voltò il capo per sfuggire a quegli occhi che riuscivano a leggergli dentro, ma così facendo espose il collo.
« Sono qui per voi, signorino. » gli assicurò quello, con una voce calda che non gli aveva mai sentito fare prima. « Per accontentare ogni vostro capriccio. » Gli poggiò il resto del dolcetto sulla lingua e con la punta della lingua disegnò i contorni del collo.
Il giovane lord schiuse le labbra per ricevere il dolce. Il boccone era piccolo e non fu l’unica cosa ad accarezzargli la lingua: l’indice del diavolo ne sfiorò la punta in un tocco casuale, leggero. Rabbrividì e, per una ragione sconosciuta a lui stesso, leccò quel polpastrello sporco di crema.
Il suo servitore ghignò e ritrasse il dito per dargli il tempo di masticare il macaroon, ma continuò a giocare con il suo corpo efebico. Lo prese in braccio e lo tirò sulle proprie gambe per avere migliore accesso alla sua pelle chiara. « Rilassatevi, signorino: penserò a tutto io. »
Il conte lo spiò con la coda dell’occhio. Lo aveva sempre fatto, specie in quei mesi, eppure in qualche modo si sentiva inquieto, al pensiero di lasciarsi andare. Era piacevole, non lo negava, ma non poteva permettere che il demone prendesse il controllo su di lui. Non voleva diventare il suo giocattolo. Lo spinse via. « Fermati, Sebastian. È un ordine. »
Il maggiordomo si interruppe e incrociò il suo sguardo. « Sì, mio Lord. » rispose. « Finite pure con calma di mangiare. »
Ciel non rispose. Sgusciò via dal suo abbraccio e tornò a sedersi sul sedile di fronte, ma quello strano formicolio non gli dava tregua. Perché, con tutti gli umani che c’erano al mondo, doveva essere attratto proprio dal mostro che avrebbe divorato la sua anima? Perché non poteva innamorarsi di Lizzie, se proprio doveva? « Cosa mi hai fatto, Sebastian? »
« Signorino...? »
« Hai usato qualche incantesimo su di me, per farmi sentire così? »
Il demone sorrise. « Ovviamente no, signorino. » Gli prese il mento delicato tra indice e pollice e lo costrinse a incrociare il suo sguardo. « Non mi serve la magia per questo. »
Il giovane lord arrossì, ma sostenne il suo sguardo. « Ti vieto di riprovarci. » disse e si sporse in avanti. « Sono ancora io a comandare, demone. Non devi mai dimenticarlo. »
Sebastian chinò il capo e gli prese la sinistra. « Non potrei mai, signorino. » mormorò e ne baciò il dorso senza interrompere il contatto visivo.
« Sarà meglio. » Ciel ghignò e ribaltò la presa. « Tu sei mio, ma io non sono ancora tuo. Se mi vuoi, dovrai sudare. »
Il maggiordomo annuì e avvicinò le labbra a quelle del ragazzo. « Lo farò, signorino. Non c’è niente che non farei per avervi. »
« Staremo a vedere, demonio. »

 

Il boscaiolo li fissò come fossero pazzi. « E perché dovreste voler entrare nella Foresta del Non Ritorno? » chiese, incapace di accettare l’idea che qualcuno potesse fare una cosa del genere senza essere costretto.
« Nessun motivo di cui dobbiate preoccuparvi. » gli assicurò Sebastian. « Non dovrete nemmeno farci da guida. Diteci solo dov’è. »
« Ma vi perderete! » obiettò l’uomo, che, in coscienza, proprio non se la sentiva di mandare un ragazzino a morire in quel modo.
« Sebastian, utilise la force, si vous devez, mais dépêchez.[1] » ordinò Ciel. «  Je ne veux pas manquer une minute de plus avec ce rustre.[2] »
« Vous ne devriez pas parler comme ça, jeune maître.[3] » lo rimproverò il maggiordomo, con un sorrisetto divertito. « La violence est inutile dans ces cas.[4] » Mostrò all’uomo una ghinea e gli sussurrò poche parole all’orecchio.
Il taglialegna deglutì. Se il ragazzo voleva così tanto andarci, voleva dire che sapeva proteggersi, no? E, se non glielo avesse detto lui, lo avrebbe fatto qualcun altro. « P-Prendete il sentiero a ovest, quello che scende verso valle, e proseguite per due miglia. La foresta sarà alla vostra destra. » spiegò. « È fitta come poche e non ci sono sentieri. Noi usiamo corde attaccate al confine per ritrovare la strada, ma non ci addentriamo mai più dell’indispensabile. »
Il conte sogghignò, ma tenne per sé i propri commenti. Se gli avesse spiegato quanto aveva intenzione di inoltrarsi, quel pavido omuncolo sarebbe morto di terrore, ma un ibrido come l’Ombra non era certo la cosa più spaventosa che avesse mai visto, specie dopo essere stato quasi mangiato vivo. Face cenno al demone di andare.
Sebastian lasciò cadere la moneta tra le dita tozze dell’umano e seguì il padroncino. « Di recente siete diventato impaziente, signorino. » disse, mentre aiutava il ragazzo a montare il pezzato che avevano noleggiato alla Locanda del Sole.
Il giovane lord arricciò le labbra. « Voglio tornare a casa il prima possibile. » rispose. « Non mi fido a lasciare Anthea senza protezione e la signorina Beresford in mano alle fate più del necessario. »
« Siete preoccupato per loro? » chiese il diavolo, dando gambe al baio che aveva scelto per sé. Avrebbe preferito andare a piedi, ma non poteva destare sospetti nemmeno in un angolo di mondo tanto isolato dalla modernità incombente.
Ciel annuì. « Se questo ibrido è riuscito a rapire la fata, non sappiamo fin dove si potrebbe spingere e non intendo correre rischi. »
« Di questo non dovete preoccuparvi, signorino. » gli assicurò Sebastian. « Si tratta di poche ore, ormai. Sarà tutto finito prima ancora che possiate rendervene conto. »
Il conte gli scoccò una rapida occhiata e sospirò. « Sarà meglio per te che sia vero. » 

 

« Siamo arrivati, padroncino. » Sebastian smontò per primo e aiutò il ragazzo a scendere. Ordinò ai cavalli di restare nei dintorni e aspettarli, quindi diede un’occhiata a quella famigerata Foresta del Non Ritorno. Forse ne aveva viste troppe, ma era meno imponente di quanto si aspettasse. Almeno secondo i suoi standard, non reggeva il confronto con i boschi che fino a pochi secoli prima terrorizzavano i viaggiatori, così fitti e bui che mostri d’ogni sorta potevano trovarvi riparo e banchettare con le carni ancora calde degli incauti viaggiatori che osavano inoltrarsi fino al loro cuore. « Gli umani, al giorno d’oggi, sono davvero pavidi. »
« Lo dici come se voi mostri non li preferiste così. » gli rinfacciò Ciel, che lo precedeva di pochi passi e di guardava attorno come fosse del tutto a proprio agio in quell’ambiente ostile.
« Che cosa crudele da dire, signorino. » chiocciò il demone, beffardo. « E poi la paura vi rende più cauti... a volte. »
Il giovane lord rise e voltò il capo verso di lui. « Perché dovrei essere cauto, se ho te? »
Il maggiordomo ghignò. « Perché no? » rispose e lo prese in braccio. « Aggrappatevi a me: così faremo prima. » Strinse a sé quel corpicino minuto, inspirò a fondo e corse, attratto dall’odore dolciastro della fata e da quello più aspro dell’Ombra, che si intrecciavano tra loro e disegnavano una pista invisibile tra gli alberi, fino a una radura tre miglia a ovest del villaggio.
Al centro di essa stava un rovere secolare, che con la sua sola stazza dominava metà dello spiazzo e il laghetto sotto di esso. Da uno dei rami più spessi pendeva la gabbia di Tallulah, in ferro battuto.
La prigioniera sedeva su una specie di fazzoletto piegato e non osava muoversi, per paura di ustionarsi. Premeva il viso tra le ginocchia e non si accorse di loro.
« Saluta i nostri ospiti, cugina. » le ordinò l’Ombra, a proprio agio nello studiare la scena dallo stesso ramo, con la schiena appoggiata al tronco e le gambe penzoloni.
Tallulah sobbalzò, si guardò intorno e sobbalzò, quando li riconobbe, ma non riuscì a dire nulla.
Il suo rapitore attirò a sé la gabbia con una rotazione pigra del polso. La aprì e ne trasse la creaturina tremante, che non somigliava affatto alla caparbia fanciulla che aveva tenuto testa a entrambi. « Proprio non capisco perché un demone sia venuto in soccorso di questa cosa inutile. » dichiarò annoiato. « Non ne vale la pena. »
« Infatti non siamo qui per questo. » lo corresse Ciel. « È per la tua testa che abbiamo fatto tutta questa strada. »
« Oh, capisco. » rispose l’Ombra. « Allora non vi spiacerà se... » Strinse la presa sul corpo minuscolo e ne graffiò il petto, dal quale zampillò il sangue dorato.
La fata neanche tentò di lottare.
Se la portò alle labbra e bevve quella linfa acquosa e zuccherina fino all’ultima goccia. « Deliziosa. » commentò e gettò via il cadavere come fosse un fazzoletto usato.
Sebastian non attese oltre. Balzò in avanti mentre l’ibrido saltava via dal ramo e lo inchiodò contro il tronco con la mano destra. « Finiamo in fretta questa cosa. » sussurrò, scoprendo la dentatura demoniaca in un ghigno beffardo. Affondò la mano sinistra nel petto dell’Ombra, che si dibatté e lo infilzò con il manico della frusta. Sputò sangue, ma non lasciò la presa sul collo dell’avversario e continuò a scavare nel torace fino a trovare il cuore.
Batteva più in fretta di quello di un normale umano ed emanava l’aura in ondate di calore che avrebbero potuto sciogliere la mano di una persona normale. Quell’energia corrotta manteneva ancora un che di fatato, che chissà come riusciva a mantenersi in equilibrio con la dominante nota demoniaca.
La risucchiò, strappandola a forza dalla sua sede.
L’Ombra urlò e spinse più a fondo la lama d’argento nel torace del maggiordomo.
Il diavolo strinse i denti e serrò la presa sul collo, mentre quella dannata luce lo avvelenava dall’interno. Lo avrebbe sopportato e si sarebbe rifatto la bocca più tardi, ma il vero problema era la tenacia della preda, che non la smetteva di lottare.
Poco a poco, la sua pelle sbiadiva e si raggrinziva, eppure aveva ancora la forza di rigirare il pugnale e spingerlo nella carne con tutta l’elsa.
« Muori... in silenzio. » ringhiò il maggiordomo, strappando con forza l’ultimo lembo di vita da quel corpo maledetto. Lo gettò via e saltò a terra. Gli fischiavano le orecchie e aveva le tempie umide, ma sarebbe tornato tutto a posto appena avesse eliminato il veleno. Strappò la frusta dalla propria schiena e la gettò sul cadavere dell’Ombra, che andava dissolvendosi.
« Sbrighiamoci a tornare. » ordinò Ciel. « Prima chiudiamo questa storia, meglio sarà. »

 

Tallulah riposava sul davanzale. Non aveva aperto bocca, da che l’avevano raccolta dall’erba umida, e l’unica ragione a cui Ciel riusciva a pensare era che l’Ombra l’avesse torturata.
« Venite, signorino. Vi preparo per la notte. » lo chiamò Sebastian.
« Arrivo. » rispose e si lasciò condurre nella propria camera, adiacente a quella del maggiordomo. Avrebbe preferito ripartire subito per Londra, ma Frederick – il cocchiere – aveva paura a guidare col buio su strade che non conosceva. Sbuffò, mentre il servitore gli sbottonava la camicia e la sfilava dalle spalle minute.
« Qualcosa non va, signorino? »
« Non è niente. » negò il conte. « Voglio solo tornare a casa. »
« Domani sera sarete a Villa Phantomhive. » gli assicurò il demone, che ormai non nascondeva più il proprio desiderio.
Il ragazzo deglutì. Avrebbe potuto impedirgli di toccarlo con una sola parola, eppure il suo corpo rispose a quello sguardo con un fremito d’aspettativa. Voleva ciò che l’altro gli stava offrendo.
« Vi basta una parola, signorino. »
Arrossì, ma si lasciò distendere al centro di quel letto piccolo e duro. « B-Ba... Baciami. »
Sebastian assaggiò le sue labbra con le proprie, le leccò e le mordicchiò. « Soltanto? »
« I-Io... » ansimò il ragazzo. Essere mezzo nudo sotto un demone millenario che un giorno avrebbe divorato la sua anima non avrebbe dovuto eccitarlo, eppure non poteva negare le reazioni del suo corpo. Quei bacetti a fior di labbra non bastavano affatto. « C-Come hai osato mettermi sotto? » sbottò. « Sono io il tuo padrone. Dovrei stare sopra. »
Il maggiordomo ghignò. « Avete ragione, signorino. Vi porgo le mie scuse. » Invertì le posizioni con un colpo di reni e lo fece sedere su di sé, a contatto con il suo corpo, che reagiva come quello di un qualunque umano. « Meglio, ora? »
Il giovane lord sussultò, sorpreso dalla situazione, ma soprattutto da se stesso. L’eccitazione lo stava facendo sragionare, forse? Perché si offriva a quel modo alla bocca dell’altro, che si appropriava del collo e delle spalle a colpi di lingua? « N-Non... non osare lasciare segni. » ordinò, preoccupato che il servitore potesse morderlo o marchiarlo in qualche modo.
« Come desiderate. » replicò quello. « Ma farete bene a tener bassa la voce. » aggiunse, prima di calare su un capezzolo minuscolo quanto turgido. Lo titillò con la punta della lingua, mentre provvedeva a finire di spogliare il ragazzo, che alla luce della luna appariva più pallido e grazioso che mai.
« C-Che...? » tentò di chiedere il ragazzo, che faceva del proprio meglio per trattenere quei versetti così strani. Non se ne sarebbe preoccupato, se non fosse stato per le parole del diavolo, ma era meglio che nessuno lo sentisse. « N-Non puoi trattarmi... come il tuo spuntino. » protestò, nonostante il suo tono suonasse tutt’altro che offeso.
« Ma siete delizioso. » obiettò il demone, intento a leccare e mordicchiare anche il ventre morbido. Inspirò il profumo di quella pelle liscia che avrebbe morso volentieri, se non fosse stato per l’ordine del ragazzo. « E meritate di essere gustato a pieno. »
« I-Il giorno in cui p-potrai mangiarmi è... ah... ancora m-molto lontano. » lo rimbeccò Ciel, che aveva sempre più difficoltà a mostrarsi fermo e intoccabile come al solito.
« Divorarvi così è molto più interessante, signorino. » gli assicurò Sebastian. « E adesso tacete, o potrei cambiare idea. »
 
[1] Sebastian, usa la forza, se devi, ma sbrigati.
[2] Non intendo perdere un minuto di più con questo zotico.
[3] Non dovreste parlare così, padroncino.
[4] La violenza è inutile in questi casi.
 

Come sempre, buona domenica, cari. <3 Non mi sono dimenticata di voi. 
Come avevo preannunciato, Sebasrian ha capito di essere attratto da Ciel e non ha intenzione di lasciarselo sfuggire - pervertito! Non che il suo padrone sia da meno. Fanno coseh, belle coseh. Ho deciso di concentrare tutto il blocco di Devil's Bridge in un unico capitolo - con annessa morte dell'Ombra - perché, a differenza che a Dublino, non avevano niente da scoprire in senso proprio. Dovevano solo andare e ammazzare, come hanno fatto. Insomma, un lavoro semplice e veloce - ma soprattutto velice, per evitare che la regina Vittoria scopra cose che non deve.
Spero che la storia vi stia piacendo e che continuerete a seguirla. Come sempre, se avete voglia di chiacchierare, ci sentiamo nelle recensioni. Kissini!

 

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Capitolo 17
*** Quel Maggiordomo, Sospettoso ***



Ciel mise giù il telefono e si lasciò andare contro lo schienale della poltrona. Informare i Beresford che non correvano più alcun pericolo era stato semplice. Spiegare a Lord Waterford perché, allora, sua figlia non poteva tornare subito a casa aveva richiesto molta più energia.
« La lucciola ha accettato di portare il vostro messaggio alle fate, signorino, se la lasceremo tornare al suo mondo. » annunciò Sebastian, venuto a chiamarlo per la cena.
Il conte fece un gesto stanco con la mano. « Tutto quello che vuole, purché questa storia si chiuda una volta e per tutte. »
« Come ordinate, signorino. » rispose il maggiordomo. « Ora venite, prima che il pranzo si freddi. » Lo scortò in sala da pranzo, quindi si recò nella stanza che era stata di Anthea, per vedere come stesse Tallulah.
La fata era distesa al centro del cuscino e faceva galleggiare sulla propria testa una pallina di luce che continuava a cambiare colore. Voltò il capo verso di lui, quando la porta si aprì, ma subito smise di prestargli attenzione.
« Ha acconsentito. » la informò. « Ti aiuterò a preparare il rituale. »
“Non è necessario.” rispose lei. “Ho già mandato loro un messaggio.”
« E...? »
“E hanno detto che verranno a prendermi stanotte... e a parlare con il ragazzo.”
Sebastian inarcò un sopracciglio. « Chi ti ha dato il permesso di chiamarlo così? »
La fata sorrise beffarda. “Me lo sono preso.” Si tirò su e si sgranchì. “Spero lo convincano a liberarsi di te.”
Il demone ghignò. « Non è possibile, lucciola. Dovrai fartene una ragione. » La ingabbiò tra le proprie ombre e la schiacciò sotto il peso del proprio potere fino a farla ansimare. « Il padroncino avrà sempre bisogno di me, fino al giorno in cui divorerò la sua anima. » La lasciò andare e riprese l’aspetto del pacato, impeccabile servitore di casa Phantomhive. « Tu e gli altri insetti farete bene a tenerlo a mente. » Tornò dal ragazzo, che stava finendo il dolce, e rimase sulla soglia in rispettosa attesa.
« Che ha detto? » domandò Ciel, senza alzare gli occhi dal piatto.
« Le fate non si fidano a far aprire un portale da questo mondo, quindi verranno a prenderla loro, stanotte... e vogliono parlarvi. »
Il conte si fece attento. « Di cosa? »
« Non ha voluto dirmelo, signorino, ma vi consiglio di fare attenzione. Ho uno strano presentimento. »

 

Bianca posò gli stuzzichini sul tavolo e tornò in cucina a vedere come se la stesse cavando Susan.
« Ho quasi finito le tartine al prosciutto. » le disse la ragazza, che aveva capito come infilzarle con gli spiedini senza pungersi le dita. « Non pensavo che cucinare fosse così divertente. »
« È perché lo stiamo facendo insieme. » rispose, sorridente. Era felice di aver proposto di preparare loro qualcosa, invece di servirsi della loro badante magica. Avevano qualcosa da fare, mentre aspettavano gli altri.
« Dove hai imparato a fare queste cose? » chiese Susan, intenta a fare ciuffetti di crema al formaggio sui quadratini di prosciutto.
« Quando posso, lavoro a giornata in qualche villa di signori. »
« Di già? E come fai con lo studio? »
Bianca arrossì. « Ogni tanto Alessia mi insegna un po’. Adesso riesco a leggere benino e a scrivere anche, più o meno, però le mie parole sembrano zampe di gallina. »
Susan non seppe bene cosa risponderle. Non aveva nemmeno pensato che al mondo potesse esistere qualcuno che non aveva i suoi stessi privilegi.
« Non importa. » le assicurò la ragazza. « Non è una brutta vita. I signori Solari sono abbastanza gentili con me e a casa è normale dare tutti una mano. »
Il trillò in quel momento e Susan lo accolse come una benedizione. Corse ad aprire e sorrise ad Aiden.
« Ho portato i bignè. Spero che a voi ragazze non dispiaccia. » le disse, mostrando la scatola. « I miei genitori hanno una pasticceria, perciò... »
« Certo che no. » rispose la changeling. « Mettila pure insieme alle altre cose. » Gli indicò il tavolo e giocherellò per qualche secondo con una ciocca di capelli. « Q-Quindi... quindi sei d’accordo con il piano di Bianca? » chiese, con un tono così basso che non sembrava volesse essere sentita.
« Be’, sì, più o meno. Spero solo che funzioni. »
« Funzionerà, malfidente! » lo rimbeccò la sua ideatrice, che portava un vassoio carico di spuntini. Sorrise e gli offrì di sistemarsi sul divano, intanto che aspettavano gli altri. « Devi solo essere convincente. » Si sistemò accanto a lui, mentre Susan prendeva posto dall’altro lato, e gli rivolse un sorriso furbo. « Magari prova a far finta che Dan sia la ragazza che ti piace. Ne avrai una, in America. »
Aiden arrossì, ma fu salvato dal campanello.
Era Brigit, che aveva preparato una bottiglia intera di limonata. Doveva averci messo tutta la mattina, ma sembrava piuttosto fiera del suo lavoro. « Il festeggiato non è ancora arrivato? »
« Meglio così. » le rispose Bianca. « Abbiamo più tempo per ripassare il piano. »
« Hai coinvolto anche lei? » domandò Susan, sorpresa.
« Ovvio! Non sarebbe stato carino tagliarla fuori. »
Susan scosse la testa, ma provava un piacevole solletico alla bocca dello stoma, a lasciarsi coinvolgere da quei ragazzi che conosceva a malapena, ma che sembravano i suoi migliori amici da sempre.
Bianca ripeté di nuovo il piano ed ebbe il tempo di approfondire nei dettagli le parti di ognuno, prima che Daniel e François si facessero vivi.
Arrivarono insieme, ben attenti a non guardarsi nemmeno con la coda dell’occhio. Il festeggiato aveva portato torta e candeline, mentre il changeling si era incaricato di preparare una scatola di giochi.
« Alla buon’ora! Sto morendo di fame! » li rimproverò Aiden, massaggiandosi la pancia.
« Tu hai sempre fame. » lo zittì Brigit. « Il tuo non è uno stomaco: è Lilliput. »
Scoppiarono a ridere e si sistemarono sui due divanetti con i piattini davanti.
Come da indicazioni, Aiden prese posto accanto a Daniel e lo trascinò in una lunga conversazione sulla pasticceria, su quale fosse il modo migliore di preparare una perfetta crema ganache e se fossero meglio le torte o le paste.
Daniel, che a Barcellona faceva il garzone in una piccola pasticceria vicino a Plaça del Sol, si infervorò tanto nel descrivere l’importanza di una buona pasta frolla che arrossì tutto e per buoni dieci minuti non toccò cibo.
Aiden non poteva negare che fosse grazioso e, se solo fosse stato una ragazza, lo avrebbe baciato seduta stante. Proprio non poteva spingersi a tanto, ma il piano doveva andare avanti, altrimenti Bianca non gli avrebbe più rivolto la parola, perciò prese lo spagnolo per il mento e avvicinò le labbra alle sue.
« Perché non giochiamo? » esclamò François, che non li aveva persi di vista neanche un secondo. Non riusciva più a nascondere le occhiate minacciose che scoccava all’americano ogni due minuti, né quel continuo digrignare i denti tra un boccone e l’altro.
« Ma sì! » approvò Bianca. « Spostiamo i mobili e giochiamo a mosca ceca! »
« Ottima idea! » raccolse subito Brigit. « Il festeggiato sta sotto. »
Lo bendarono con il fazzoletto da collo di Aiden e Susan lo fece girare su se stesso. Si sparpagliarono e ognuno cominciò a chiamarlo da una parte per poi spostarsi.
Daniel rideva, un po’ fingendo e un po’ tentando davvero di acchiapparli. Non aveva nessuna fretta di far finire il gioco e si stupì quando le piccole mani di Bianca lo spinsero in avanti. Temette di perdere l’equilibrio, ma trovò a bloccarlo un corpo caldo e ampio.
« Ti ho preso. » gli sussurrò François all’orecchio, prima di togliergli la benda.
« Ma non dovevo essere io a prendere te? »
« Non essere pignolo. » lo rimbeccò il changeling e lo baciò.
Daniel si irrigidì, ma non riuscì a trovare una sola ragione per non ricambiare quel bacio, che aveva desiderato di nascosto dalla prima volta che aveva visto il ragazzo. Lo strinse a sé e saggiò la sua lingua calda con la propria, sorpreso da quanto tutto ciò gli sembrasse naturale. Avrebbe dovuto farlo molto prima, invece di perdere tutto quel tempo a guardarlo e basta.
« Forse dovremmo lasciarli soli. » sussurrò Susan agli altri tre cospiratori.
Annuirono, ma un energico scampare li fece trasalire.
« Aspettavamo qualcuno? » chiese Aiden, confuso.
Susan fece spallucce, ma andò ad aprire.
Oltre la soglia c’era una fata, molto diversa da come appariva nel mondo mano. Aveva ancora le ali e la pelle manteneva un lucore azzurrino, ma era alta quanto un’umana adulta e incombeva su di lei con la sua faccia severa.
« Le serve qualcosa? » domandò, cauta, sebbene la fascia dorata che portava al braccio destro la connotasse come messaggera di corte.
« No. » le rispose infatti. « Vengo a portare buone notizie a te e agli altri changeling. L’Ombra è stata eliminata, perciò molto presto potrete tornare sulla Terra. » Si inchinò e andò via prima che la marchesina potesse pensare ad una risposta qualsiasi.
Susan richiuse la porta.
« Che voleva? » domandò Brigit.
« Solo farci sapere che presto torneremo a casa. »
Un silenzio teso cadde sulla stanza. Brigit lasciò cadere le candeline che avrebbe dovuto mettere sulla torta, Aiden sbiancò e François abbracciò Daniel come se non dovesse più lasciarlo andare, mentre l’umano nascondeva il capo nell’incavo del suo collo.
« Ma quindi... non ci vedremo più? » mormorò Bianca, con gli occhi sbarrati.
« M-Ma no. » tentò di risponderle Aiden. « Possiamo scambiarci gli indirizzi e tenerci in contatto per lettera. »
« Ma non sarà come vederci tutti i giorni. » precisò François, che non riusciva a nascondere il tremito delle mani nell’accarezzare i capelli chiari di Daniel. « Non voglio andare. » gli sussurrò. « Li convincerò a lasciarmi restare. »
« Non sarebbe giusto. »
« Ma... »
« È solo un anno di pazienza. » continuò Daniel. « Appena compirò diciotto anni, ti raggiungerò sulla Terra. Studierò francese e li convincerò a mandarmi in Francia. »
François si mordicchiò il labbro inferiore. « Ma come farò a riconoscerti? »
« Di questo non devi preoccuparti: ti troverò io. Tu devi solo promettermi che ti piacerò lo stesso, qualunque aspetto io abbia. »
« Q-Questo è ovvio. » borbottò il francese, imbarazzato da tanta sicurezza.
« Ehi, voi due, non pensate di imboscarvi. » li rimbrottò Bianca. « Dan, devi venire a trovare anche noi, quando scenderai sulla Terra. »
« Sciò, sciò, mascalzoni. Lui è solo mio. » finse di scacciarli François, con una linguaccia che fece ridere tutto il gruppo. « E ora spegniamo queste candeline, prima che questa bella torta si rovini. »

 

Ciel scoccò l’ennesima occhiata al quadrante della pendola e strinse i denti per trattenere uno sbadiglio. « Se le fate non si sbrigano ad arrivare, giuro che me ne vado a letto. » dichiarò, stropicciandosi gli occhi. Era più che passata l’ora di andare a dormire, ma non poteva certo accogliere le sue “ospiti” in camicia da notte. Non sarebbe stato degno del conte Phantomhive.
« Dovreste farlo a prescindere, signorino. » rispose Sebastian. « Con le lucciole potrei trattare io. »
Il ragazzo scosse il capo e si stropicciò gli occhi. « Potrebbero rifiutarsi di parlarti e dovresti comunque svegliarmi. » obiettò. « Tanto vale aspettare. »
Il maggiordomo annuì e rimase ritto al suo fianco, in silenziosa attesa.
Non dovettero attendere ancora a lungo, prima che un nugolo di puntini luminosi apparisse nel vano della finestra. La piccola delegazione ronzava piano e atterrò sul basso tavolino di cristallo senza intaccare la formazione a stella.
La fata più alta e luminosa superò il piccolo muro protettivo per andare incontro a Tallulah, che sedeva su un cuscinetto per gioielli. La abbracciò si prese qualche secondo per controllare il suo stato, prima di parlare. « Sono felice che tu stia bene. » le disse, nel loro idioma, nonostante l’altra fosse poco più di un mucchietto di ossa coperte dalla pelle secca e pallida. « Ti ho portato una cosa. » Fece cenno a due del suo seguito, che porsero alla sopravvissuta un piccolo scrigno.
Al suo interno era contenuta una goccia di rugiada che sembrava emanare luce propria.
Tallulah sorrise raggiante e vi immerse subito le mani. La assorbì tutta e poco alla volta la sua pelle riprese un minimo di tonicità e riuscì ad emanare un velo dell’antica luminescenza.
L’altra le sorrise. Le accarezzò il viso e volteggiò fino a una spanna dal volto di Ciel. La sua pelle sembrava più verde che turchese, da vicino, e tra i capelli candidi si riusciva a intravedere un piccolo diadema d’oro. “Io sono Sheedi, terzogenita di Oberon e Titania, sovrani di Lyressa, e vengo a nome dei miei genitori per porgervi i nostri rispetti, conte. Teniamo molto a ringraziarvi per quanto avete fatto eliminando l’Ombra e pertanto ci auguriamo che vorrete essere nostro ospite per un ricevimento in vostro onore.”
Il giovane lord sorrise. « Ci saremo. » rispose.
Sheedi scoccò un’occhiata apprensiva al demone, ma non si oppose. “Sempre che riesca a passare le barriere.” concesse, riluttante.
« Oh, ci riuscirò. » assicurò il diavolo, che non aveva nessuna intenzione di perdere di vista il ragazzo, specie in presenza di quelle fastidiose lucciole. Poggiò una mano sulla sua spalla e lo invitò ad alzarsi. « Se non c’è altro, è ora che il conte vada a dormire. »
“In realtà, ci sarebbe un’altra questione.” ammise la fata. “Troppi umani sanno di noi, con quello che è successo, perciò abbiamo deciso che per sicurezza cancelleremo i ricordi di chiunque sia venuto in contatto con la nostra gente.”
« Immagino vorrete vedere la mia domestica, allora. »
La principessa annuì.
« Sebastian, mostrale la camera di Mei Rin... e anche di Bard e Finnian, per sicurezza. » Si alzò. « Ti aspetto in camera. »
« Sì, mio lord. » rispose il maggiordomo. Rivolse alla principessa un’occhiata beffarda e le indicò la porta. « Da questa parte, principessa. »
Sheedi raddrizzò la schiena, alzò il mento e lo seguì, circondata dalle sue fedeli ancelle. “Fai strada, diabhail.”


 

Ormai ci siamo (purtroppo). Mi dispiace doverlo dire, ma il prossimo capitolo sarà l'epilogo. ;_;
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e che amerete il prossimo quanto me, ma il momento di dare l'arrivederci ai SebaCiel sta per arrivare. Sarà un arrivederci temporaneo, tuttavia, perciò non disperate: appena avrò finito con l'originale di cui vi accennavo, riprenderò i nostri adorati piccini. <3 
A proposito dell'originale, avevo deciso di pubblicarla su Wattpad, ma sto pensando di pubblicarla anche qui, se la cosa vi fa felici. >w< Battete un colpo, se la cosa vi interessa.
Sulla mia pagina Facebook e sul mio profilo troverete tutte le informazioni del caso. Ad ogni modo, questo non è l'addio. Ci sentiamo presto per l'epilogo. 
Se nel frattempo volete scambiare due chiacchiere, io sono qui per voi.
Ricordate sempre che vi amo, nonostante la lentezza. >w< See ya!

 

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Capitolo 18
*** Quel Maggiordomo, Sorprendente ***



Un febbrile chiacchiericcio si diffuse tra i nobili, non appena mise piede nella sala.
Ciel se ne accorse subito, abituato alle chiacchiere che il Bel Mondo londinese si scambiava anche in sua presenza. Che fosse per il suo aspetto, o per Sebastian che lo seguiva come un’ombra, non gli importava. Non avrebbe messo neanche un’unghia in un mondo sconosciuto, senza il suo maggiordomo.
« Il conte Ciel Phantomhive di Londra. » lo presentò il banditore, ritto accanto ai troni in fondo alla sala. « Viene a porgere i suoi rispetti alle Loro Fatate Maestà accompagnato dal demone Sebastian Michaelis, suo servitore. »
Si inchinò con tutto il busto e rivolse ai sovrani un’occhiata di sottecchi.
Titania era molto più bella di come la disegnasse la letteratura, con i lunghi capelli rossi che le incorniciavano il viso bronzeo e scendevano oltre le spalle sottili. Gli occhi azzurri – senza sclera, né pupilla – riuscivano ad apparire gentili persino nel posarsi sul maggiordomo, che restava in posizione eretta senza la minima intenzione di mostrare deferenza.
Lo stesso Oberon, con i suoi tratti spigolosi e le lunghe dita affusolate, poteva vantare una grazia pacata, ma non effimera, che ben sposava il candore della chioma e la sfumatura argentea dell’incarnato. I suoi occhi neri avevano un che di vacuo, eppure davano a Ciel la sensazione che potessero scavare a fondo nella sua anima. « Nostro giovane ospite » disse, in perfetto inglese « ti siamo grati per aver spazzato via una piaga che nei secoli si è fatta sempre più virulenta. Da oggi in poi, i nostri discendenti potranno vivere in pace nel tuo mondo e questo solo grazie a te. Per questo, il nostro popolo è in debito con te e abbiamo deciso di ripagarti con un dono di pari valore. »
Il conte si irrigidì e dovette farsi violenza per non guardare Sebastian.
Il re chiamò un paggio, che portò al ragazzo un’ampollina colma di polvere dorata, posata su un cuscino di seta rossa. « Questa polvere contiene il potere della nostra famiglia. Se la verserai su tua moglie, tutti i tuoi figli e discendenti avranno la benedizione della natura e saranno protetti da ogni forma i oscurità. » Rivolse una rapida occhiata al demone, quindi tornò a guardare Ciel. « Non è un dono che concediamo a cuor leggero, perciò ti preghiamo di usarlo con saggezza. »
« Lo farò, Maestà. » rispose il conte, con un nuovo inchino. Fece un passo indietro, pronto a ritirarsi, ma regina lo trattenne.
« La via che percorri è tortuosa, insanguinata ed è destinata a una brusca conclusione. » mormorò, con un tono dolce che riusciva a rendere meno amare quelle parole. « Ma con quella stessa polvere potreste liberarvi dal giogo che portate e vivere una vita piena e felice. Dovete solo desiderarlo. »
Ciel sorrise e si rigirò l’ampollina tra le dita. « Lo terrò a mente, Maestà. » rispose. « Prometto che ne farò buon uso. » Si inchinò ancora e prese congedo per mescolarsi con gli altri invitati. Non c’era nessuno, tra questi, con cui potesse parlare, per cui si relegò in un angolo, come al solito. Non osava rivolgere la parola nemmeno a Sebastian, mentre il suo sguardo vagava tra un volto e l’altro della nobiltà fatata – che, contro ogni sua aspettativa, vantava anche qualche umano.
Attratta dalla sua ispezione, una fata gli venne incontro. Aveva la pelle lattea, incorniciata da una cascata di riccioli azzurri, e ad ogni movimento delle ali d’ape faceva ondeggiare l’ampia gonna turchese. « E così voi sareste il nostro liberatore. » lo salutò, in un inglese incerto, arrugginito.
« Così pare. » confermò il ragazzo, sempre più consapevole di ogni sguardo che si posava su di lui e sul suo servitore. « In realtà, ho fatto solo ciò che era necessario. »
« Via, signorino, non fate il modesto. » si inserì il demone. « Non è certo un male che lo abbiate fatto per la signorina Beresford. »
La fata assottigliò le labbra, ma fu costretta ad accettare l’esistenza di quell’essere ripugnante. « Siete amico della changeling dublinese? »
« Per così dire. »
« E solo per lei siete arrivato a scontrarvi con l’Ombra? » lo incalzò la fata, che, dal diadema di foglie di fragola, supponeva fosse una duchessa.
« Era l’unico modo per farla tornar a casa dai genitori, perciò... sì. »
« Ed è stato un duro scontro? »
« Non tanto. » le assicurò il ragazzo, che forse era paranoico, ma non riusciva a credere al candore di quelle domande. « Avevamo già lottato con lui e sapevamo che i metodi normali non avrebbero funzionato, perciò Sebastian lo ha prosciugato dell’energia vitale. » raccontò. « È stato tutto molto veloce, in realtà. Più di quanto mi aspettassi, almeno. »
Gli occhi dell’aristocratica si riempirono di lacrime. Si gettò sul ragazzo con un ululato di dolore e lo prese in braccio per poi prendere quota, verso la cupola.
Non voleva fuggire, capì Ciel. Qualunque fosse il suo piano, era pronta a morire per realizzarlo – e lui l’avrebbe seguita nella tomba. « Neutralizzala, Sebastian! » ordinò al maggiordomo, attento a non dimenarsi troppo per non rischiare di cadere. Sebastian lo avrebbe salvato, come sempre, ma non sarebbe riuscito a fermare la fata.
« Sì, signorino! »
« State indietro! » ordinò la donna, stringendogli le dita attorno alla gola.
Ciel si irrigidì e strinse i denti. « Cosa credi di fare, maledetta pazza? » ringhiò, esasperato dalla frequenza con cui i pazzi che l’universo metteva sulla sua strada tendessero a rapirlo.
« Solo regolare i conti. » rispose lei, che volteggiò sulle teste dei presenti per schivare i coltelli di ferro del maggiordomo. « Voi avete ucciso il mio Labhras e adesso io ucciderò voi. »
Il conte non obiettò. Era animato dallo sentimento, perciò lo capiva, ma non riusciva a spiegarsi perché una fata dovesse tenere all’Ombra.
La duchessa compì un nuovo volteggio prima che potesse chiederglielo e iniziò a salmodiare un incantesimo tra i denti.
L’aria crepitò e si squarciò. Una frattura verticale si aprì al centro della sala, sottile come un capello. Vomitava un’aura rossastra che emanava un intenso tanfo di rancido. Crebbe in fretta, allargandosi fino a permettere ad un braccio di farsi largo per cercare un appiglio.
Sebastian la riconobbe subito. Altre volte l’aveva vista stando dall’altra parte della barricata, ma mai prima di allora una fata aveva tentato una cosa del genere, che lui sapesse. Si sfilò i guanti, stese i palmi verso il portale e recitò l’incantesimo opposto.
La magia della fata si oppose alla sua e tese alla mano di tenebra che si affacciava una gemella di luce a cui ancorarsi. Era potente e sarebbe riuscita a tirare fuori chiunque stesse richiamando, se solo fosse riuscita a stabilire un contatto.
Doveva disperderla. Rilasciò le proprie tenebre, che si allargarono alle sue spalle come dita e si tuffarono sul bersaglio. Lo fecero esplodere in migliaia di frammenti, mentre il demone recitava l’incantesimo sempre più in fretta.
Il portale si chiuse con uno sfrigolio e il braccio, che non aveva fatto in tempo a ritrarsi, evaporò sotto gli occhi dei presenti, paralizzati dalla paura.
La duchessa urlò e avvolse Ciel in un bozzolo di luce nera, che tuttavia non nascondeva agli sconvolti spettatori la vista della sua espressione sofferente, né il suo istintivo toccarsi la gola e spalancare le bocca in cerca d’aria.
Sebastian balzò verso di lei, ma la fata lo respinse con uno scudo di luce che la avvolse come una bolla.
« Fermati, Blodwen! » gridò una voce maschile sotto di loro. « Figlia mia, cosa stai facendo? »
« Quello che è giusto, padre. » rispose lei, impassibile. « Vendicare mio nipote. »
« Tuo nipote era un mostro e ci avrebbe uccisi tutti, se il ragazzo non lo avesse tolto di mezzo! » la rimbeccò con astio una fata più giovane.
« Ed era ciò che avreste meritato! » sbottò la duchessa, allentando la presa su Ciel. « Sapete tutti che è stata mia madre a ordinare l’omicidio della mia amata sorella e ancora vi raccontate la favoletta che sono stati i demoni! È colpa vostra se Labhras è diventato l’Ombra! » strillò e, in un impeto di rabbia, scagliò su di loro il diadema, lasciando andare Ciel.
L’impatto tra il bozzolo e la bolla fece esplodere entrambi gli incantesimi, scatenando un’onda d’urto che sbalzò di lato sia il ragazzo, sia la fata.
Sebastian si lanciò verso di lui e lo prese al volo. « State bene, signorino? » domandò, mentre lo posava a terra.
Il conte non rispose, troppo impegnato a tossire, ma gli rivolse un’occhiata truce.
Il maggiordomo gli massaggiò la schiena per applicargli una lieve magia curativa, senza perdere di vista Blodwen, che era stata circondata e imprigionata dagli altri nobili. « Cosa volete che faccia, padroncino? »
Ciel arricciò le labbra. « Andiamo via. » decise. « Non voglio più vedere una fata in vita mia. »
« Sì, mio lord. » Il demone lo prese in braccio e con la sinistra aprì un passaggio per la Terra.  

 

Ciel si lasciò cadere sul letto e stirò le braccia il più possibile. Quella specie di festa in suo onore era stata la più breve a cui avesse mai preso parte, eppure si sentiva esausto, non nel tanto nel fisico, quanto nella mente. Si massaggiò le tempie. « I pazzi devono smetterla di rapirmi, una buona volta. » borbottò, irritato da quel pulsare sordo delle tempie.
« Davvero disdicevole, signorino. » concordò Sebastian, che aveva già tirato fuori la camicia da notte. « Ma del resto... sembrate fatto apposta per questo. » aggiunse, con un ghigno.
Il ragazzo gli rivolse un’occhiata assassina e si tirò a sedere.
L’altro ridacchiò e si inginocchiò davanti a lui per cominciare a sbottonargli la redingote.
« E comunque, le fate non sono minuscole, di norma? » chiese il conte, che temeva quello strano silenzio per un motivo che nemmeno lui riusciva a decifrare.
« In questa dimensione sì, signorino. » rispose il maggiordomo, sfilando la giacca. « Sono creature connesse all’energia dell’universo in cui si trovano e il loro aspetto fisico riflette la sintonia che hanno con essa. Pur essendo nate in questa dimensione, il loro legame con questo mondo si è sfilacciato sempre di più e loro si sono... rimpicciolite. Per questo hanno creato Lyressa, un universo artificiale in cui possono prosperare, con le conseguenze che avete visto. »
Il giovane lord sospirò. « Beh, spero di non vederne mai più. »
« E del loro dono cosa avete intenzione di fare? »
« Per ora niente. » ammise il ragazzo, con un lieve sbadiglio. Si alzò per farsi sfilare i pantaloncini e alzò le braccia per farsi infilare la camicia da notte. « Ma forse la darò a Lizzie, prima o poi. O, se dovessi morire prima di farlo, provvederai tu. »
« Sì, signorino. » promise il demone e gli lisciò addosso la stoffa candida. « Ora mettetevi a letto... prima che decida di tenervi sveglio. »
Il giovane lord gli rivolse un sorrisetto furbo e lo prese per i rever della giacca. « E se fossi io a non voler dormire? » chiese, con una malizia inequivocabile.
« Signorino... »
Ciel si sporse verso le sue labbra e mordicchiò piano quello inferiore.
« Siete sicuro di quello che state per fare? » insistette il maggiordomo.
« Dannatamente. » gli assicurò il conte, che non aveva nessuna intenzione di cambiare idea. « Rischio di morire tutti i giorni e prima o poi tu divorerai la mia anima, quindi perché no? Sono adulto, ormai. »
« Non per la legge, signorino. » obiettò Sebastian. « Dopo il putiferio di quattro anni fa[1], l’età del consenso è stata alzata a sedici anni. »
« Pensi che ci scoprirebbero? » lo stuzzicò Ciel, sornione. « E comunque ti preoccupi di quisquilie: l’omosessualità è reato a tutte le età. »
Il demone ghignò e lo prese per i fianchi. « Come desiderate, signorino. » disse e lo baciò con la lingua. Lo prese in braccio e lo distese al centro del letto.
« Come se tu potessi disobbedirmi. »

 

Che ora era? Doveva essere tardi, si disse Ciel, ma non aveva importanza. Svegliarsi l’indomani sarebbe stato una tragedia, ma nemmeno questo aveva importanza. Si sentiva bene – indolenzito, forse, ma attraversato da una sensazione soffusa di languore.
« Non addormentatevi, signorino. » gli disse Sebastian. « Devo togliervi il sudore di dosso. » Si rivestì in un attimo e uscì dalla stanza per prendere una bacinella d’acqua calda e due panni morbidi.
Il conte si mise seduto e rivolse alla porta un’occhiata assente. Aveva sonno, ma non poteva rischiare un’influenza. Sbadigliò e si stiracchiò, lasciando dondolare una gamba oltre il bordo del letto, mentre l’altra era piegata sotto la prima.
« Vi ho detto cento volte di sedere composto, signorino. » lo rimproverò il maggiordomo, appena tornato. Posò la bacinella ai piedi del letto, vi immerse un panno e con delicatezza iniziò a passarglielo sul corpo.
« Sì, sì. »
« Dico sul serio. » insistete il demone. « O non vi bacerò più. »
Il ragazzo arrossì. « N-Non puoi ricattarmi. È sleale. » protestò, deciso a non guardarlo in segno di protesta.
Il maggiordomo ghignò e gli sollevò il mento. « Sono un demone. Non ho bisogno di essere leale. » gli ricordò e lo baciò a stampo, solo per farlo imbarazzare un altro po’, quindi riprese a pulirlo, attento a non far raffreddare il panno. Una volta finito, aiutò il ragazzo a indossare la camicia da notte e lo mise a letto.
« Resta. » ordinò il conte, trattenendolo per una manica.
« Non avevo intenzione di andarmene. » gli assicurò Sebastian, mentre si spogliava di nuovo. Si mise a letto e abbracciò il ragazzo come aveva fatto nei mesi precedenti, accarezzandogli piano i capelli, le spalle e la schiena.
Ciel si lasciò sfuggire un versetto soddisfatto e chiuse gli occhi. « Bene. E sappi che se ci scopriranno sarà solo colpa tua. » borbottò, prima di abbandonarsi al sonno.

 

Sebastian aprì la porta dello studio con la sinistra. La destra reggeva il vassoio con la merenda del signorino, che in quel momento appariva tetro.
« Sebastian, dobbiamo andare in Germania. » gli comunicò il conte, con un tono da funerale.
« In Germania, signorino? » gli fece eco il maggiordomo, sorpreso, mentre gli metteva davanti la torta al caffè e noci e la tazza di tè fumante.
« A-ha. » confermò il ragazzo, corrucciato. « Sua Maestà mi ha ordinato di investigare su una serie di morti inspiegabili avvenute là. »
« È necessaria la presenza del Cane da Guardia della Regina? »
« Già! Eppure il casato Phantomhive ha il compito di tenere sotto controllo la malavita britannica. » sbottò il ragazzo, che con il tedesco non aveva affatto un buon rapporto. Non riusciva a immaginare lingua più spregevole e impossibile da pronunciare – ma, come gli ripeteva sempre il maggiordomo, quella era la sua opinione da scolaro pigro su tutto ciò che non gli riusciva al primo tentativo. « Perché dobbiamo andare fino in Germania? » Lanciò la lettera della regina sulla scrivania, irritato, ma consapevole di non poter disobbedire a un ordine diretto.
Sebastian prese i fogli e li spiegò. 

 

Rispetto alle lettere che la sovrana era solita inviare al conte, quella era più un biglietto, un ordine sbrigativo scribacchiato in tutta fretta tra un’incombenza e l’altra.
Qualunque cosa si nascondesse in Germania, ne dedusse il demone, doveva interessarle ben al di là di qualunque premura verso i parenti tedeschi. « Dato che non ha ricevuto risposta, non può mandare inviati ufficiali. Presumo sia per questo che ha incaricato voi, signorino. »
Ciel masticò il boccone di torta e lo ingoiò. « Mi è successo soltanto in un’occasione di andare all’estero inseguendo una pista, » ammise « ma questa volta non riesco proprio a capire la necessità di mandare me. » Mise in bocca un altro pezzo di torta e lo masticò piano, per assaporare l’impasto morbido che quasi gli si scioglieva in bocca.
« Perché non provate a chiedere delucidazioni? »
« Anche se lo facessi, mi risponderebbe vagamente. » rifiutò Ciel. « Il lavoro è rincorrere con gioia l’osso che gli viene lanciato, no? »
Sebastian annuì. Così era per lui verso il suo padrone e lo stesso era per il conte e la regina. Nessuno dei due poteva sfuggire al proprio guinzaglio, ma almeno lui non intendeva farlo.
« La rete occulta degli informatori del casato Phantomhive si estende dall’Europa all’Asia. Posso immaginare che abbia intenzione di fare affidamento su di essa. » riprese il ragazzo. « Soprattutto, in Germania c’è quel contatto che ho ereditato dal mio predecessore. » Sorseggiò il tè. « Manderò Klaus da lui. » decise. « Chiamalo. »
« Ai vostri ordini. » 


 
 
[1] Nel 1885, William Thomas Stead, giornalista investigativo della Pall Mall Gazette ha scoperchiato il mondo sotterraneo della prostituzione minorile a Londra. Con l’aiuto di Rebecca Jarrett, una ex-prostituta, e dell’Esercito della Salvezza, ha “creato” il caso di Eliza Armstrong. La tredicenne, figlia di uno spazzacamino, è stata venduta dalla madre alcolizzata al prezzo di cinque sterline (circa seicento sterline moderne) e sottoposta a una visita medica per certificarne la verginità, dopo di che è stata portata in un bordello e drogata. Qui il giornalista l’ha “comprata”. In seguito, con l’aiuto del Secondo Generale dell’Esercito della Salvezza Bramwell Booth, che l’ha mandata in Francia, da una famiglia che se n’è presa cura. Stead ha usato la vicenda per scrivere The Maiden Tribute of Modern Babylon, una serie di articoli che ha messo in subbuglio l’opinione pubblica vittoriana. Preoccupato che potessero causare problemi su scala nazionale, il Segretario di Stato per gli affari interni William Harcourt tentò di convincere Stead a cessare la pubblicazione, ma un gruppo di manifestanti marciò fino ad Hyde Park per chiedere che venisse alzata l’età del consenso e il governo fu costretto a emanare il Criminal Law Amendment Act 1885.

 

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