Storie di vite diverse

di donteverlookback
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Time to begin ***
Capitolo 2: *** Mise Luenne ***
Capitolo 3: *** Copacabana ***
Capitolo 4: *** Improvviso Fantasia ***
Capitolo 5: *** Reality and Fantasy ***
Capitolo 6: *** Ci serve un piano ***
Capitolo 7: *** Per via degli strati ***
Capitolo 8: *** E' vivo, è vivo, è vivo ***
Capitolo 9: *** You don't want to be alone ***
Capitolo 10: *** Nel nome del padre ***
Capitolo 11: *** Anyway the wind blows ***



Capitolo 1
*** Time to begin ***


Luca De’ Domini amava il suo paese.
Amava il modo in cui tutti si conoscono, sono collegati, in cui i nomi dei tuoi familiari si rincorrono di bocca in bocca e qualcuno può sempre aggiungere qualcosa alla loro storia- qualcosa che non hai sentito, un’addizione della memoria che non puoi avere quando hai diciotto anni e ami il mondo, ma ne hai visto meno di un millesimo. Amava la bruma mattutina degli appennini toscani, che nascondono ma non rubano e restituiscono volta per volta quel poco, fino a dare indietro i gloriosi paesaggi di morbide colline e vallate, e mucche e pecore e cavalli che non puoi non sorridere quando li vedi. Amava tutto questo – e amava Eleonora, con la certezza gloriosa del primo amore. Ed Eleonora non lo ricambiava e voleva Enrico, con lo sguardo fiero e il cervello fino. Ma Enrico l’aveva messa incinta e senza sapere nulla se n’era andato, e allora Luca aveva detto che l’avrebbe fatto lui il padre del bambino: a tanto era disposto per la sua Ele. Ma Ele era andata dai suoi nonni a Siena e non l’aveva più vista. E con la forza dell’amore giovane e distrutto Luca aveva guardato avanti.
Era nato da una coppia giovane e sposata da poco, gente semplice che faceva un lavoro onesto, ristoratori per i turisti amanti dell’aria fredda che batteva loro sul viso già da settembre, quando la montagna esige il suo prezzo e riporta tutto come vuole, e il vento sembra il potentissimo soffio di una divinità aliena; ci viveva Luca coi suoi, la sorellina di sette anni e la nonna sdentata che era più saggia di tutti loro fino a che non l’avevano trovata davanti al televisore che dormiva, di un sonno che non aveva niente di pacifico e molto di definitivo, di quelli che non ridanno indietro niente se non i ricordi…a chi resta. Quelli che dormono li hanno visti uscire coi piedi in avanti, tutti, uno per uno. Casa loro era ora più smorta e silenziosa, ma lo spettro della nonna indugiava nei ninnoli e nei centrini della sala, nell’odore di cera d’api che appestava i mobili, nella scorta nascosta di caramelle che amava regalare ai nipotini. Quando Luca sa che sua nonna poteva essere salvata, compra dei libri di preparazione e si ostina a voler entrare a Medicina.
Le brutte esperienze spesso plasmano le menti più forti: come allenatori dei muscoli mentali sono degli inflessibili istruttori, fino a che la più alta delle montagne degli altri non sembra che una collinetta. Cosa vuoi che siano gli Appennini delle menti altrui quando tu, con la tua, sai scalare l’Everest?
 
Cassandra Callisto detestava il suo nome.
Partendo dal presupposto che Callisto era così ridondantemente greco da farle venire il voltastomaco, i suoi genitori avevano avuto l’ardire di chiamarla Cassandra, Cassie per gli amici. Il tutto la faceva sembrare una principessina viziata che tutti vedevano bene a lettere antiche o in un’altra facoltà simile. Invece Cassandra Callisto detestava la letteratura e amava la scienza, ma viveva la scuola con una vacuità quasi invidiabile per chi ha diciotto anni e il peso di grandi aspettative addosso: non può essere altrimenti quando tua madre è un avvocato e tuo padre un architetto, e molti ti invidiano il fisico sì ben fatto – i boccoli castani lunghi quasi fino ai reni, gli occhi grigioverdi e il fisico ben modellato della ballerina- e la posizione sociale di chi fa almeno due vacanze l’anno. Cassie odiava la vacuità della sua vita e voleva riscattarsi, far capire che lei era più di un bel visetto e un vestito firmato, e coi soldi di mamma e papà, con la quale si pagava le feste e gli svaghi, decide di comprare i libri di preparazione.
Dopo la maturità, Cassie vuole la medicina.
 
Otto settembre è cerchiato a fuoco nella mente di entrambi: il momento della resa dei conti in cui il campagnolo e la ragazzetta viziata dimostreranno a tutti di che pasta sono fatti, mostrando due innegabili lati della giovinezza: un ideale vago e la voglia di riscattarsi. Rivoluzioni incredibili sono partite con molto meno.
Si divorano i libri, da tutti e due i lati. La giornata è scandita da studio e test, ripasso, riposo e da capo, un circolo senza fine con cui vuoi renderti invincibile o col quale cadrai miseramente. Si allenano a essere svegli e veloci e imbattibili, e imparano e incamerano con un andamento cerebrale quasi bulimico, un apprendimento che comincia a sbafo da svegli e si ripercuote su sogni fatti di cellule e di biochimica, di matematica e di fisica. Luca ha affrontato la maturità con la calma determinazione che lo contraddistingue, studiando seduto sui rami degli Alberi, tra i suoi pascoli e i suoi campi; Cassie si è concessa una notte di discoteca e alcol giurando a sé stessa di non rifarlo fino a medicina. Poi si è chiusa in casa con determinazione, pantaloncini e canotta e il bel viso sudato e struccato chino sui libri; quintali di cioccolata per lei per nutrire il cervello e silenzio grazie alla mamma in vacanza col fratello e il padre a lavoro che fa tarda notte tutte le sere.
La sera della discoteca, l’ultimo giorno di scuola, Cassie è andata a ballare al class col suo nuovo paio di scarpe di un rosso peccaminoso, il tacco non altissimo che ne slancia la figura, i pantaloncini e la canotta che fanno altrettanto. Ha rilanciato sguardi e sorrisi Cassie, il cervello sempre più anestetizzato dalla sua vodka alla pesca che va giù che è una meraviglia, liscia come seta e calda nel suo stomaco, dove si attorciglia come un serpente soddisfatto. Si lancia in una pista di aria e sguardi bollenti, resa sciolta e provocante nei suoi movimenti fluidi, quelli di chi si sente il corpo potente e presente a sé stesso dalla testa ai piedi, la capacità di muoversi di una pantera, sciolta e maliziosa. Ha ballato con le sue amiche, scherzando e lasciandosi andare sulle note degli Avicii e cantando con forza sugli Imagine Dragons, la sua icona, il suo idolo. È tornata a casa alle 5, puzzando di sudata gioventù e libertà agli sgoccioli e alcol e erba fumata a occhi chiusi che lei non ha toccato, ché cosa te ne fai dell’erba quando i tuoi voli mentali e pindarici li puoi fare muovendoti a occhi chiusi al ritmo di un battito frenetico – cuore cervello e giovinezza.
La sera della discoteca, l’ultimo giorno di scuola, Luca è andato a fare un falò coi suoi amici, Luca Giovanni Emilio Elisabetta e Francesca, una famiglia atipica dove confessarsi i desideri e i sogni e le speranze va bene e non è una cosa paurosa. Emilio ed Elisabetta si scambiano quegli sguardi affamati che caratterizzano chi si assaggerebbe la pelle e le labbra volentieri, chi è pronto ad esplorare il futuro insieme. Giovanni chiede il silenzio sugli astanti e poi li guarda da sotto quelle ciglia lunghissime, che sono l’invidia delle sue amiche, e con un bel sospiro esclama “Sono gay!”. Attimo di silenzio degli amici e poi scrollate di spalle e un “Ah, ok” che mette fine a ogni discussione. Giovanni è sempre sé stesso, e non importa a nessuno se non cerca le curve generose di una ragazza ma la solida presenza di un ragazzo al suo fianco. E va bene così: si cresce e si impara e si cambia, e gli amici sono lì pronti ad accogliere ogni cosa. L’amicizia, per i cinque semplici ragazzi di montagna, è un porto sicuro, un prato verde privo di insidie, pieno di rose senza spine. Passano la serata a ridere, a fare progetti e a giurare che non si separeranno mai – promesse vuote in cui credere sul serio. Giuramenti fatti su un sangue che non condividono, ma che scorre in loro come una pozione di gioventù, un tacito legame che accomuna.
 
Così, per il ragazzo tranquillo e la ragazza determinata, era cominciata l’ultima estate prima del futuro, quello vero che ti cade addosso non sai nemmeno perché. Cassie aveva preso una casa in affitto con le amiche a Palma di Maiorca, in una zona piena di discoteche da spiaggia e relazioni di un minuto, dove un ballo lega un amore destinato a sciogliersi col palpito del primo sole: caldo e sudore si mischiano, e Cassandra respira le emozioni con la paura del condannato a morte, pensa ai libri che la aspettano a casa e ad ogni drink che si nega, a ogni ballo che rifiuta, può vedere una nuova ragazza forte che si spiana la strada, un aratro di vita che non è ancora abituata a trascinare e che per questo pesa il doppio. Ma c’è Debbie, la sua Debbie, che le insegna come tirare.  I genitori di Debbie sono operai, e lei si sa arrangiare bene; si sono trovate sulla stessa linea Debbie e Cassie, nomi inusuali e aspetti simili, pronte a condividere il pane senza pensare a chi lo paga. Debbie sta per andarsene a Bologna a fare matematica, con una borsa di studio per le eccellenze: il suo cervello, nascosto sotto la chioma di riccioli rosso-oro, è una calcolatrice prodotta a incastro perfetto. Hanno condiviso sogni e progetti in maniera così intensa da fare quasi male.
 
Luca e la sua famiglia – non quella di sangue, l’altra famiglia – hanno preferito Dublino e l’Irlanda, un’estate all’insegna dell’esplorazione di una terra bellissima e misteriosa, lontana dai fumi grigi di Londra e Manchester e Liverpool – un posto bello, chiaro, tranquillo, dove ovunque ritrovano gli U2. Camminano per le strade di Dublino a notte alta, un po’ brilli, cantando “One” con sentimento e dividendosi le parti corali come viene, ridendo e dandosi la mano per formare una catena. Visitano tutti i pub che incontrano, flirtando in quell’inglese bleso della pronuncia irlandese. Si danno di gomito davanti agli sguardi insistenti, sfoggiando jeans e magliette, tacchi e gonne che nella loro montagna non sarebbero adatti. Si divertono e progettano, pronti a dividersi fisicamente e non dividersi mai. Una serata difficile è la penultima, in cui cerca con tutto il tatto di cui è capace, di eludere il corteggiamento di un brillo Giuseppe che gli confessa di aver sempre provato per lui una certa attrazione. È difficile tenere le amicizie e i loro fili quando altri, incredibili e non individuati, appaiono di botto e mischiano le matasse, confondono i colori, formano nodi lì dove prima il filo era diritto e lucido. Ma Giovanni non se la prende e Luca rilega a sé l’amico di sempre. Sono risaliti sull’aereo cantando, loro, il personale inno d’addio “Love is a temple, love is a higher law you ask for me to enter and then you make me crawl and I can’t keep holding on”*.
 
Il ritorno a casa per entrambi vuol dire studio, intenso e continuo. Luca al fresco nelle sue montagne, vestito coi pantaloni grezzi di cotone e le camicie tipiche, in giro con le pecore e con Buddy, il vecchio cane pastore di famiglia. Ogni pascolo è un incanto di verde così intenso che vorrebbe solo osservare, Ipod nelle orecchie, per tutto il giorno per imprimersi nella memoria ogni filo d’erba, ogni cima di montagna, ogni fiore profumo e sensazione e stamparli nella pelle e nella memoria perché possa richiamarli quando sarà lontano. Luca abbassa il libro e guarda in lontananza. Ha un po’ paura di lasciare casa sua, le sue montagne e il suo passato. Il futuro fa paura.
Poi rivede sua nonna, il tono con cui gli ha detto “Sono un po’ stanca, guardo un po’ di tv”, il freddo della sua mano, il pallore della sua pelle di pergamena.
Abbassa la testa e ricomincia a studiare.
 
Cassandra si terge il sudore dalla fronte: Roma è bollente ad agosto, cinque milioni di persone fuori stanno premendo tutte sulla sua finestra, o così le pare. Fa molto caldo, troppo. Vuole fare una doccia. “Un’altra pagina” si dice. E un’altra. Un’altra ancora. Quando finisce il capitolo si premia e si lancia in doccia. Nell’iscrizione ha messo Roma come prima scelta, spinta dai suoi e, a dirla tutta, anche dalla voglia di rimanere a casa dove tutto è più facile. Ma poi… poi è Siena.* E lei in realtà Siena la vuole, ma non sa il perché: la attira perché non è Roma, perché è tranquilla e silenziosa e arroccata sulle colline e sa di calma. Esce dalla doccia e lascia liberi i capelli umidi. Si guarda intorno, la camera di una ragazza quasi donna che cercava ovunque l’approvazione quando ha capito di poterla trovare dentro sé – questo è diventata Cassie: un profumo un sorriso un passo una voce che raccontano di quella sensualità discreta, silenziosa e sorprendente. Da piccola donna.
Da fiore appena sbocciato.
Accende il computer, davanti agli occhi il corso storico di Siena, un medioevo immerso nel caos moderno, e accede al suo account sul sito dell’iscrizione. Guarda i termini: ha solo cinque giorni per cambiare l’ordine delle destinazioni. Si mordicchia pensierosamente l’interno di una guancia e sta per lasciar perdere; Ma il suo cervello, che è una radio sempre accesa che dimentica di spegnere, le rilancia i suoi adorati Imagine Dragons “And now it’s time to build from the bottom of the hill right to the top, don’t look back.”*. Canticchiando il ritornello di “It’s time” assiste al breve e doloroso confronto mentale tra la Cassie che vuole rimanere a casa e quella che pensa che è ora di cominciare davvero a crescere.
Prima di ripensarci Cassie fa un semplice click.
E adesso Siena e Roma sono scambiate nella sua lista di precedenze.
 
 
Cassandra si guarda intorno nell’enorme Aula Magna di Siena, volgendo lo sguardo intorno. “E’ così buio qui” pensa guardando il soffitto privo di finestre; ci sono solo neon ovunque, e questo la rende triste. Non si capisce nemmeno se sia giorno o notte fuori. Le piace l’aria che si sente lì, che odora di sapienza e conoscenza e alrte virtù che le scaldano l’anima, a cui non sa dare un nome. Osserva un po’ degli avversari che si trova intorno: non sa come considerare tutti quelli che la circondano. Li sente stranamente alleati nella prova che stanno per superare, ma allo stesso tempo sa che chiunque di loro entri segnerà un posto in meno per lei, e Cassandra questo non lo vuole. Vorrebbe cercare conforto in Debbie, ma le hanno tolto il telefono prima di entrare. La sua amica di sempre le ha inviato un “in bocca al lupo” molto presto quel mattino, poi è partita alla volta di Bologna per cercare una casa. Si blocca mentre cammina, un sorriso obliquo sul volto. E’ davvero contenta per Debbie, e incredibilmente orgogliosa della sua amica di sempre e di come faccia valere la sua incredibile mente matematica…ma le mancherà così tanto che le viene da piangere. Si mordicchia nervosamente l’interno della guancia, in un punto che ultimamente ha torturato così spesso che sente quasi subito il sapore del sangue; prende una sorsata dalla bottiglietta d’acqua che ha portato con se. Quella, la carta di identità e una penna: non ha potuto portare dietro nient’altro e si sente quasi nuda senza il peso familiare del cellulare e dell’iPod; per riflesso ogni pochi secondi la mano sale a controllare la tasca dove li tiene sempre, e deve sforzarsi di ricordare a sé stessa che non li ha persi. Sta di nuovo sopprimendo quest’istinto quando un ragazzo la chiama “Scusa!” le dice. Parla con lei, e girarsi e sgranare gli occhi è un solo movimento. Il ragazzo tiene in mano quella che è, senza ombra di dubbio, la sua carta di identità. Il primo, prepotente istinto, è controllare la tasca in cui l’aveva messa, come se in quel modo potesse farla sparire dalla mano del ragazzo e farla ricomprarire nella sua. Ovviamente trova la tasca vuota e ringrazia la sua buona stella che la carta sia ancora in condizioni perfette mentre il ragazzo gliela porge. “Ecco a te, Cassandra” dice e le fa un enorme sorriso. Ha un paio di pantaloni neri e una t-shirt bianca che fanno risaltare la pelle abbronzata di chi ha passato molto tempo al sole.
Ha gli occhi di un bel castano chiaro, che sembra sfumare nel color ambra; un sorriso aperto e i capelli scuri. Cassandra prende la sua carta e la guarda con intensità, persa nei suoi pensieri. Che fortuna ha avuto, stavolta. Non può non ricambiare quel sorriso e abbassa lo sguardo, lei che non ha mai avuto vergogna di nulla, e studia le Vans colorate in cerca di domande da porre e risposte da dare senza trovare né le une né le altre. A risolvere quel momento di impasse è una voce che proviene dall’altoparlante. Devono sedersi.
E’ ora di combattere.

L’aula è soffocante mentre ascoltano le istruzioni ripetute una due quattro volte, e Luca si passa la mano sulla fronte, appena sotto l’attaccatura dei capelli scuri, per tergersi il sudore. Guarda più giù e vede la schiena di Cassandra, un viso un nome che per ora gli sono rimasti nella testa. Ha un’aria decisa quella ragazza quasi donna e Luca vorrebbe che si girasse: paradossalmente tra quegli sconosciuto l’unica cosa cui può legarsi è il viso di una ragazza con cui ha dialogato venti secondi in tutto. Un’altra sconosciuta un po’ meno anonima. Si guarda il polso: c’è un bracciale con un’ancora, che Giovanni ha regalato a tutti loro: l’ancora li costringerà a tornare a casa perché li tiene legati e lui non romperà la promessa.
Le spiegazioni sono finite. Cassandra si gira e gli lancia un sorrisetto: lui vuole che entri, ha paura che lo faccia. Mai come oggi capisce cosa vuol dire “Mors tua, vita mea” certo nel modo meno letterale del termine. I fogli arrivano anche a lui che apre il plico.
Scende nell’arena Luca, in questi Hunger Games d’altri tempi. Dove si uccide o si muore anche se si lotta con una penna. Con un sorriso, pensa che “la penna ferisce più della spada, ed è molto più comoda per scrivere” citando mentalmente il mitico Igor. *
Afferra la sua spada e comincia a ferire.
 
 
Cassie scorre la lista delle domande. E’ difficile, maledettamente difficile quel test e a lei sembrano vane le ore che ha passato a studiare: non c’è una sola domanda che le torni, della quale si senta al cento per cento sicura e questo la spaventa. Sbircia il foglio della ragazza accanto a lei: non vuole copiare, visto che oltre ad essere inutile sarebbe dannoso perché le domande sono messe in ordine diverso in ogni foglio, ma solo rendersi conto se sia l’unica ad essere disperata. La sua vicina sembra messa ancora peggio di lei, con la metà delle domande ancora da fare. Torna alle sue: questa sarà C o D? E questa è giusta oppure sta di nuovo confondendo tutti quei dannati nomi? Fino ad un attimo prima si sentiva capace di giurare di sapere dove si trovasse l’acrosoma: adesso non ne è più sicura. Tutto le sembra sbagliato.
Prende un profondo respiro per calmarsi, chiude gli occhi e lascia per un attimo la penna: sente il cuore come una presenza ingombrante nel petto e si sforza di rallentarne il ritmo prendendo lunghi respiri regolari. Ossigenare il cervello è importante per calmarsi, lo sa bene lei che faceva lunghissimi respiri -regolari prima delle partite di tennis, la sua droga, la sua passione. Va avanti stringendo i denti, cercando di calmarsi e ragionare in modo pulito, una cosa per volta, una parola per volta, finché non si sente pronta a lasciare il test così com’è. Si morde le guance per nascondere un sorriso inopportuno, si alza ed esegue tutti i passaggi che le hanno spiegato fino allo stremo prima del test, per poi firmare e chiudersi la porta alle spalle. Lancia uno sguardo al ragazzo di prima che sembra tranquillo, ha una posa rilassata e sembra riflettere su qualcosa, perché ha la fronte appena aggrottata. Si domanda distrattamente quale domanda lo stia bloccando prime di chiudersi la porta alle spalle e lasciare andare un luuungo sospiro.
Ora, per un mese, non saprà nulla. E sa già che sarà il mese più lungo e spensierato allo stesso tempo della sua vita.
 
Luca, in aula, sta ancora pensando a due domande. Ha lasciato stare una di quelle di cultura generale e sta riflettendo su quelle di matematica, le uniche rimaste senza risposta, perché non riesci a decidere se provarci o lasciar perdere. Alla fine, scocciato da quell’indecisione, lascia le domande in bianco e va a consegnare. Ne ha lasciate solo tre e la cosa lo consola. Magari non saranno tutte giuste, ma forse gli consentiranno di entrare a Siena senza dover attendere. Per fortuna non vive lontano da lì e ha deciso che farà avanti e indietro con la sua macchina all’inizio, finché non si sarà ambientato; ha già un paio di amici che hanno un appartamento e che gli hanno detto che hanno un posto per loro quando vorrà. I piani per il futuro sono cose che lo tranquillizzano: a Luca piacciono i punti fermi e le sicurezze su cui appoggiarsi, aggrapparsi alle certezze è la cosa più intelligente che si possa fare a suo parere. Esce dall’aula sorridendo, sicuro di aver dato il massimo come gli è successo dopo l’orale della maturità.
Un mese, si dice. Un mese e poi saprò quali certezze potranno andare a formare i miei punti di appoggio.
E così comincia l’attesa del porto sicuro.
 
 
7 Ottobre.
Un giorno come tanti, pensa Cassie quando si svegli quel mattino. Non ha fatto quasi nulla se non nascondere ai suoi che Roma è dopo Siena nelle sue scelte. Per il test è riuscita a inventarsi il ripasso insieme a un’amica dell’ultimo minuto e un pigiama party per scaricare i nervi. Adesso dovrà vedere che succede.
È quando prende in mano l’iPhone che si rende conto di che giorno è. Escono le graduatorie, maledizione, e lei è lì in pigiama e coi capelli spettinati che si stira come se niente fosse. Niente panico, si dice. Andrà bene, e poi partirai e non dovrai più preoccuparti dei coprifuoco di mamma o delle paure di papà perché sarai padrona della tua vita e…
E’ un messaggio a bloccarla. E’ Debbie che le chiede com’è andata e Cassie non lo sa, vuole saperlo e lo teme, come il bambino che ha paura di controllare se c’è il mostro sotto il letto: guardare è spaventoso, non guardare lo è di più.
Cassie respira profondamente mentre il suo Asus si accende e lei accede al sito dell’iscrizione. Inserisce le credenziali con le mani che le tremano e un masso nello stomaco; si morde nervosamente un labbro mentre preme su “invio” e chiude gli occhi mentre carica: apre un occhio solo e la comparsa di una schermata verde la convince a leggere. Un enorme sorriso esultante le si forma sul viso, mentre legge le parole più belle del mondo “Come da lei richiesto, è stata assegnata alla sede di Medicina e Chirurgia dell’Università degli studi di Siena”.
 
Il 7 Ottobre non è un giorno come tanti per Luca, che si sveglia in preda all’ansia e afferra subito il telefono con trepidazione. Non vuole guardare da solo e si infila un paio di jeans e una maglietta di cotone nera prima di uscire a cercare Giovanni.
Giovanni abita a cinquanta metri da casa sua, in una villetta con giardino che dà una magnifica vista sulle colline intorno e dove sovente Luca e gli altri si sono fermati a dormire, parlare e ridere fino all’alba. Il suo arrivo è segnalato dall’abbaiare di Rocket, il border collie di Giovanni, che lo accoglie sulla soglia con la contentezza evidente che solo i cani possono mostrare. Giovanni gli sorride sereno, conoscendo le ansie dell’amico e invitandolo dentro con un cenno del capo. “Allora?” chiede “Diventi Dottor House?”.
“Non lo so non lo voglio sapere voglio farlo ma non voglio ho una paura fottuta” pensa Luca tutto insieme accennando un timido sorriso prima di prendere il telefono e porgerlo all’altro “Non sono riuscito a guardarlo, fallo tu”. Giovanni scuote la testa con un sorrisetto mesto “No, non io. Insieme, quantomeno” e Luca annuisce rassicurato. Con una certa dose di nervosismo cliccano su “Accedi” e prima di rendersene conto Luca riesce a sentire il sangue che pompa potente nelle vene come se avesse corso un chilometro.
Per Luca il 7 Ottobre è il giorno più bello di sempre.
 
 
Luca, con il senno di poi, si domanderà se una nonna morta è una buon motivazione per scegliere medicina, perché la gioventù non aiuta a fare scelte ponderate che solo il senno di poi rivelerà giuste o sbagliate.
La vita è fatta di scelte. E’ un dato di fatto. Ma cosa scegli? E in base a cosa? Come fai a sapere che non te ne pentirai? Ho paura. E se non fosse la strada giusta? E se non fosse la persona giusta? E’ questo il posto in cui devo vivere? E’ questo il momento per avere un figlio? E’ questa la donna che voglio per moglie?
Quando si è piccoli, si pensa che gli adolescenti abbiano capito tutto. Gli adolescenti credono che gli universitari abbiano le risposte ma non è vero, e chi finge di averle fa solo un buon lavoro di convinzione. Gli universitari pensano che studiare darà loro futuro, e che gli adulti non abbiano più dubbi o timori. Ma quando si diventa adulti? Perché tutti, a quanto pare, avranno dubbi per sempre. Gli adulti pensano che gli anziani, che hanno vissuto e visto, abbiano le risposte, ma non ce l’hanno neanche loro. E così in paradiso abbiamo schiere di angeli che ci guardano con la consapevolezza che andremo per sempre in tondo a cercare risposte che non troveremo. Ecco come ti frega la vita, tutta, in ogni sua parte. Come ogni cosa tornerà esattamente come l’hai lasciata e sarà come hai temuto che fosse. Non ci sono risposte, non si estraggono e non si apprendono, ci sono solo brandelli di verità che si mischiano e ogni tano appaiono, ci fanno capire che esistono e svaniscono di nuovo. Ecco cosa diavolo è la vita.
Una dannata fregatura.
 
Il primo giorno di lezione è ansiogeno per entrambi: Cassie è stata per un’ora davanti all’armadio a decidere quali vestiti indossare, optando per jeans, maglietta bianca e converse rosse; Luca ha infilato jeans e maglietta ed è partito di casa di buon’ora, in vaga apprensione. Si fanno domande entrambi, chiedendosi come sarà e cosa faranno e se questa non sia un’avventura troppo grande per entrambi. Quando entrano in aula e si riconoscono, Cassie rivolge lui un sorriso immediatamente ricambiato e si siedono vicini. “Cassandra Callisto” saluta lui in tono divertito. Lei inclina appena la testa “Non so ancora come ti chiami” e lui si presenta tendendole la mano.
Mentre si girano per osservare l’insegnate appena entrato non sanno che hanno un’altra domanda in comune: chissà quanto si incroceranno le loro strade d’ora in poi.
Mentre si girano per osservare l’insegnante appena entrato non sanno che hanno anche una risposta in comune: sperano il più possibile.
 
 
 
*1 One degli U2 “L’amore è un tempio, l’amore è una legge più alta. Mi ha chiesto di avvicinarmi, ma poi mi hai fatto strisciare, e io non posso più andare avanti”
*2 Piccolo appunto per chi non conosce il meccanismo di entrata a medicina. Bisogna sottoporsi ad un test di ammissione e, in base al punteggio, si viene inseriti in una gtraduatoria Nazionale. Al momento dell’iscrizione al concorso si può mettere un numero pressochè infinito di destinazioni, e la città viene assegnata in base al punteggio: si parte dalla prima richiesta e, se la città desiderata è piena, viene assegnata la seconda, con la seconda piena si dà la terza e così via.
*3 It’s time degli Imagine Dragons. Questo pezzo precisamente dice “E adesso è l’ora di costruire dall’inizio della collina fino in cima”, che sta più o meno a dire di rimboccarsi le maniche e cominciare il lavoro da zero.
*4 Il domestico Igor di Frankenstein Junior <3
 
 
Saaaaaalve a tutti e grazie in anticipo per essere passati di qui. Questa è un storia senza pretese, che ho inserito come One-shot perché la vedo abbastanza autoconclusiva, ma non so se farne una long perché mi sono affezionata a questi ragazzi! Mi fareste un piacere enorme se mi scriveste una recensione, anche con critiche che sono sempre ben accette, commenti eo suggerimenti.
Donteverlookback

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Capitolo 2
*** Mise Luenne ***


E’ una gelida mattina di metà Dicembre e io me ne sto in maglietta a mezzemaniche a pulire il mio terrazzino: ci deve essere qualcosa che non va in me, sicuramente; sarà la menopausa o semplicemente il fatto che sto tirando la casa a lucido da quando mi sono svegliata e non mi sono fermata un secondo. Ho quasi posticipato le pulizie di primavera di qualche mese, ma ne vale la pena: il pensiero di dover ospitare a Natale mia sorella con la sua famigliola da cartolina e mia mamma, che non fa che rinfacciarmi mia sorella e il suo adorabile marito con i suoi magnifici bambini, mi ha spinto su una specie di crisi nevrastenica dal quale solo il Pronto, l’Ajax e una massiccia dose di Rio Casamia possono tirarmi fuori. Mentre spingo la scopa avanti e indietro sento dei passi leggeri e lo sbattere della porta di una camera mi dice che mia figlia è sveglia; mi raggiunge preceduta da uno dei suoi fragorosi sbadigli allungandosi come un gatto. Del padre, Gioia ha preso la pigrizia e la capacità di dormire delle ore; oltre quella è, con mia malcelata soddisfazione, la mia copia identica. Si passa una mano sugli occhi, coperti appena dai suoi capelli corvini, e mi lancia un sorriso mentre domanda con voce assonnata: «Pulizie di primavera in ritardo, mà?». Vedete, ecco da che si vede che è mia figlia: pensiamo anche le stesse frasi.
Le lancio uno sguardo finto ammonitore mentre le indico la cucina con la mazza di legno che ho in mano: «Va a fare colazione, tu, e poi pulisci camera tua che l’ultima volta che ci sono passata pure i batteri sapevano che ti stavi per beccare un cazziatone» e mi rimetto a pulire di buona lena, decidendo poi di concedermi una pausa caffè. Mentre vado in cucina mi immagino la faccia di un eventuale fotografo nel vedere me, la direttrice di un giornale di moda (per quanto locale, sempre di moda) vestita con una mise a dir poco sciatta, la tuta così usata che chiede disperatamente di essere rammendata o uccisa, i capelli legati in un modo che mi avrebbe fatto imprecare quando avrei tentato di tirarli fuori dall’elastico e la faccia splendidamente struccata a mostrare una bella cera sana da cadavere. Mi scrivo anche una piccola didascalia:


-Milano- La direttrice e giornalista di “Mise Luenne” Monica Casteldiani nella sua casa di Milano, dove sembra impegnata a fare pulizia. La giornalista, da poco separata dall’ex marito Pietro, indossa una tuta della stagione autunno inverno di MiuMiu, ha legato i capelli in una crocchia e si presenta senza trucco né inganno.

Reprimo a malapena un sorriso sardonico rientrando in cucina, dove Gioia si sta versando del latte sui suoi cereali al cioccolato e nel frattempo invia messaggi alla velocità massima che può avere una diciottenne appena sveglia con una mano libera sola; mi siedo davanti a lei e decido di instaurare uno di quei bei momenti madre-figlia che le piacciono così poco
«Come va a scuola allora? L’hai ripresa chimica?».
Mi rivolge uno sguardo bruciante. Ecco cos’altro ha preso mia figlia da suo padre: la capacità di guardare la gente come se fosse scema, cosa che dà uno spassoso effetto tragicomico alle sue parole qualsiasi cosa lei dica.
«Sì, mà, sì. Dopodomani abbiamo un altro compito e domani pomeriggio ripasso con Giada, te l’ho anche detto che pranziamo qui. Tu? L’hai ripreso papà?». La domanda è palesemente sarcastica, perché io e suo padre ci siamo lasciati senza rimpianti e di comune accordo. Ci eravamo sposati felici e pieni di desiderio di saltare nella vita matrimoniale che sognavamo entrambi, e invece l’incantesimo è finito. Dopo quindici anni, certo, ma è finito, e stare insieme “per nostra figlia” poteva essere giusto per una bambina, ma Gioia è una ragazza disincantata che aveva capito l’antifona da un bel pezzo.
«Sì, ripreso e legato in cantina. Se i vicini lo cercano è partito per le Galapagos.».
«Non so se è una buona idea Mamy, se lo ritrovano e non è abbronzato si capisce che era una bugia.».
«Se lo ritrovano è già morto, amore».
Ride. E’ divertita. Scherziamo sempre sul tenere la gente chiusa in cantina: suo padre, la vicina impicciona, la parrucchiera che le ha sbagliato il taglio, l’idraulico che ha fatto il lavoro malissimo e che abbiamo dovuto chiamare altre due volte. E’ viva, mia figlia, con un carattere forte ma rispettoso dell’autorità e la capacità di non lasciarsi abbattere mai da nulla, al contrario di me. Mi lancia uno sguardo, ora sveglio e limpido, dall’altra parte del tazzone con le papere prima di borbottare che sta andando a farsi una doccia e che chiude la porta. Io, con un sospiro, mi rialzo e mi avvio verso il soggiorno, dove lucido con furia le ante del mio enorme mobile nero laccato lucido, il mio vanto, pensando alle mille commissioni da fare. Questo natale sarà temuto per via della presenza di parenti pronti a sparlare, ma anche desiderato per concedermi un’isola di pace dopo i tre mesi da delirio appena passati. La mia preoccupazione maggiore, cercare un sostituto per la mia collega appena andata in pensione, viene inframmezzata da un paio di telefonate veloci che riesco abilmente a terminare in appena un minuto. Sto per dedicarmi alla colossale impresa che è la pulizia dei bicchieri di cristallo nella vetrinetta quando bussano alla porta. Il campanello trilla con insistenza mentre mi alzo sentendo le anche cigolare –Ma ho solo quarantatré anni, per Giove, non posso essere così malandata! - e, alternando magistralmente rassicurazioni sul fatto che non sono morta alla persona al di là del muro e imprecazioni, arrivo fino alla porta blindata e guardo dallo spioncino: non ci vuole molto a riconoscere il viso truccato e i capelli perfettamente tinti di mia madre. Alzo gli occhi al cielo, continuando un rituale che non è mai cambiato da quando ero adolescente, e le apro preparandomi a quella che sarà una lunga, faticosa e ripetitiva battaglia con mia madre.
Entra con la sua solita baldanza da prima donna. O da regina. Sì, la regina madre cattiva di Biancaneve.
Al contrario di me, che sono conciata come un porco, indossa un tailleur magnifico color crema, scarpe con un leggero tacco ed è praticamente truccata col goniometro. Mi fulmina con lo sguardo, come d’abitudine, e si siede senza essere stata invitata neanche ad entrare, comportandosi, come sempre, come se la casa fosse la sua.
«Ciao mamma» dico mentre mi passa davanti baciandomi una guancia: nonostante le sue maniere sprezzanti, si dà spessissimo ai gesti affettuosi; peccato che le sue parole non siano mai altrettanto gentili. La raggiungo sul divano d’angolo e mi siedo proprio di fronte a lei, aspettando una ramanzina che, per ora, non arriva. Mi lancia una specie di sorriso: i suoi continui cambi d’umore mi destabilizzano come sempre. «Gioia?» allunga il colle oltre me, come se si aspettasse di vederla sbucare alle mie spalle. Proprio mentre sto per dirle che è occupata, la voce di mia figlia irrompe con un contento «Nonna!» prima di correre ad abbracciarla, con ancora i capelli bagnati. Mia madre è stata per mia figlia un’ottima nonna: Gioia le va benissimo… è sua madre che non approva.
Mentre vado a preparare un the leggerissimo per la mia augusta genitrice, sento che mia madre chiede a mia figlia come va la preparazione della sua maturità tecnica, dopo la quale Gioia vuole fare veterinaria e per cui mi ha riempito la casa di animaletti delle specie più disparate. Al momento abbiamo tre pesci rossi, due criceti, un coniglio in un’enorme gabbia nel giardinetto, un gatto e anche un’iguana. Indovinate chi se ne deve occupare? Sì, proprio io, avete indovinato.
The caldo alla mano, torno in salotto giusto in tempo per sentire Gioia che va in camera sua per asciugarsi i capelli e ne prendo il posto sul divano, accoccolandomi nell’aroma del bagnoschiuma alla vaniglia. Mia madre sembra ammorbidita dalla conversazione con sua nipote e mi interroga con più gentilezza del solito sui soliti tre argomenti: lavoro, casa e uomini.
“Allora? Al giornale come va? Avete trovato il sostituto che vi mancava?”
“Al giornale tutto ok, un redattore di Verona mi ha chiamata per sapere se potevamo stilare un accordo per la condivisione degli articoli: ha detto che è stato qui a Milano ed ha apprezzato molto il nostro stile. Per il sostituto ancora niente purtroppo, speriamo bene…”
Ancora qualche domanda sull’accordo posticipa l’argomento casa, sul quale si sbilancia brevemente per dirmi che le piace molto lo stile del salotto e chiedermi il menu di Natale. Poi decide di passare all’argomento bruciante, che è anche quello che le interessa di più.
“Perché non ti cerchi un uomo, Monica? Sei ancora giovane, una donna di successo e una persona interessante. Sicuramente troveresti qualcuno… non conciata così, ovviamente” Termina la frase lanciando uno sguardo al vetriolo alla mia aria sciatta. Faccio un breve cenno di diniego col capo, che so non bastarle, prima di continuare con “Non mi va, mamma. Ricominciare da capo coi fiori, le uscite, i vestiti eleganti… sto bene così.”
L’aria seccata che assume non l’abbandona fino a che non va via, un’ora più tardi, promettendo che tornerà presto: sembra una minaccia. Vado a cercare mia figlia e la trovo al telefono con in braccio uno dei criceti e l’iguana appiccicata a un braccio: solo lei è capace di trovarsi in queste situazioni da simil Biancaneve e sembrare perfettamente a suo agio. Le faccio cenno di ok ed esco da camera sua per andare a pulire.
Mi arriva un sms da Cristina, mia collega e socia alla direzione del giornale “Ehi! Domani non posso esserci per il colloquio per il sostituto al giornale: Lucas si è beccato la febbre a calcio e sembra sul letto di morte. Ci vediamo martedì e ti farò sapere se sono vedova. In bocca al lupo!”. Bene, mi dico. Dovrò affrontare da sola questo signor… Diego Qualcosa e decidere se sia più meritevole degli altri aspiranti giornalisti. Cerco di scacciare i pensieri mettendo su un po’ di musica dalla riproduzione casuale dell’iPod di Gioia e canto a squarciagola, fino a liberare la mente, fino a non sentire più niente.

Lunedì è sempre un giorno terribile, al giornale, perché c’è da fare il punto delle sfilate e delle tendenze dei personaggi famosi che ci siamo persi nel fine settimana. Non faccio neanche in tempo a carburare che sono le nove e un quarto e l’aspirante giornalista entra, rivolgendomi un sorriso. Un bel sorriso.
In realtà, c’è poco di non bello in Diego Marsili: dal suo curriculum risulta che è solo qualche mese più vecchio di me, è di Modena ed ha un paio di occhi verdi dal quale non riesco a staccare lo sguardo accompagnati da una chioma biondo scuro tenuta un po’ lunga. Ha lavorato per molte riviste importanti di moda e attualità
“Perché, con questo curriculum così…importante” ed importante è un eufemismo “Vorrebbe lavorare per noi? Il nostro non è un giornale d’alto rilievo”. Mi lancia uno sguardo fermo da sotto i capelli spettinati. E’ vestito in modo informale, con una giacca blu marine su dei jeans scuri, e apparte per i capelli ha un aspetto molto ordinato; mi dà l’aria di una persona intelligente e amichevole senza un motivo particolare. Non posso nascondere a me stessa che quest’uomo non mi è indifferente e devo sforzarmi di tornare alla conversazione e di non perdere la mia professionalità.
“Ho lavorato sia in giornali di rilievo che in giornali più modesti come il suo. Ovviamente non voglio che questa le risulti un’offesa: ammiro molto il livello di giornalismo che viene raggiunto qui.” lo invito ad andare avanti con un cenno della mano per fargli capire che non sono offesa: forse non è stato molto gentile, ma apprezzo molto le persone che dicono sempre quello che pensano. “E nelle sedi di giornali di alto calibro ho trovato una freddezza e un’asetticità che non mi sono piaciute. Mi piace lavorare con persone con cui mi sento a mio agio e in posti che mi trasmettono questa sensazione e spero di trovare quest’atmosfera qui.”. Prendo nota annuendo e faccio un’altra serie di domande più professionali sui suoi studi e le esperienze che vedo elencate sul curriculum prima di fare domande più personali: hobby (risulta essere un uomo affezionato al nuoto, ma solo a livello amatoriale), libri preferiti (mi cita autori che mi danno un panorama di lettura molto ampio, altro lato che apprezzo) e matrimonio. Mi comunica che è separato dalla moglie e che sta ottenendo il divorzio, e qui le mie antenne si alzano di nuovo: un uomo bello e fascinoso, giornalista e disponibile mi è praticamente piombato addosso e questa cosa mi rende elettrizzata e timorosa in parti uguali. E’ praticamente raro trovare uomini che, almeno ad una prima occhiata, siano così… così; d’altra parte non sono io quella che ieri diceva di non volersi impegnare? E adesso che mi prende? Bastano un bell’uomo e perdo la testa come una ragazzina? Sono adulta, posso votare e bere alcolici…ehi, posso bere alcolici! Che bella la vita. Una volta che ho finito di parlare con il Signor Marsili lo saluto dicendogli che gli farò sapere, invito mia sorella per un aperitivo per questo pomeriggio e rifletto su di lui. Assumerò quest’uomo: non perché mi intriga…cioè, non solo. Lo farò perché è sicuramente una persona competente e preparata e con più esperienza degli altri candidati che ho visto. Scrivo alla mia socia preparandomi, con un fremito, a rincontrare quegli occhi verdi. 

Angolo dell'autrice: Salve a tutti! Ho deciso di scrivere questa serie di OS perchè purtroppo al momento non riesco a concentrarmi su nessun tipo di long e mi focalizzo solo su storie brevi. I capitoli di questa raccolta non sono in nessun modo collegati gli uni agli altri, quindi non troverete legami tra i personaggi che presenterò di volta in volta. Ringrazio chiunque sia passato di qui e vi prego di lasciarmi un commento positivo se la storia vi è piaciuta e negativo o neutro se avete qualche correzione\appunto da fare, che sono sempre ben accetti e aiutano a migliorare. Grazie mille di nuovo, Donteverlookback

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Capitolo 3
*** Copacabana ***


 
Copacabana
 
Rio De Janeiro è stupenda sotto il sole caldo dell’emisfero australe. Elena, Lorenzo, Luisa e Francesco girano tutto il giorno per la città ammirandone il calore, il movimento continuo, i bambini che giocano a pallone per strada e i giovani che ballano in ogni angolo. “Tutti qui sembrano felici” sospira Luisa nel suo solito tono sognante, guardando il gestore di un locale che li invitava a entrare a grandi gesti, rivolgendo loro parole in un portoghese che solo Francesco sembra comprendere; i sorrisi più ampi del loro repertorio non abbandonano mai i loro volti, specie quando si trovano sulle spiagge bianche e magnifiche e si lanciano nell’acqua cristallina ridendo e pensando ai loro parenti ed amici che, dall’altra parte del mondo, soffrono il freddo del vicino Capodanno. Hanno girato il Brasile in lungo e in largo, fermando a San Paolo per Natale e proseguendo poi per risalire la costa in una macchina presa a noleggio: erano arrivati a Rio tre giorni prima e avevano anche assistito all’arrivo delle atlete delle nazionali di ginnastica artistica. Era stato tutto magnifico fino a quel momento e si godevano alla grande quella vacanza tra coppie.
Appoggiati gli uni agli altri per asciugarsi dopo il bagno, si erano interrogati sul programma da seguire poi:
“Dove andiamo ora?”
“Lorenzo, c’è qualche città bella che non abbiamo ancora visto? Apparte Brasilia, si intende”
“Non so, abbiamo girato così tanto che ho perso l’orientamento. Controllo dopo.”
“Stasera invece che facciamo?”
“Lù, ma lanciarla una proposta ogni tanto?”
“Siete voi quelli dei piani”  sbuffa lei di risposta prima di afferrare l’iPhone e cercare qualche attrazione interessante.
“Zitti, zitti che si è mossa addirittura!”
“Elena spegniti.”
“Mmmm come sei scorbutica… Francy la tua ragazza è scorbutica!”
“Non usare quel tono lagnoso con me, non sono quel pappamolle del tuo ragazzo”
“Come ti permetti, dannato figlio di una marmotta?”
Mentre il battibecco prosegue con i soliti toni scherzosi Luisa si gira con un gran mulinare di capelli biondi e sorride alzando lo smartphone con aria vittoriosa:
“Ragazzi TripAdvisor dice che non possiamo assolutamente perderci il “El Copa”. Pare che sia un locale magnifico”  tutti si fanno attenti e Elena si fa passare il telefono, curiosa “E dov’è?” .
“Copacabana, ovviamente!”  trilla Luisa eccitata: quando si parla di locali si risveglia improvvisamente. Si alza e comincia a parlare a grandi gesti spiegando come non veda l’ora di andarci per bere, ballare e conoscere qualche bel brasiliano; Francesco, con la sua solita ed invidiabile flemma l’ammonisce solo con lo sguardo prima di controllare la mappa e rendersi conto che il locale è giusto a due passi dal loro albergo. In un attimo il piano della serata è deciso e le ragazze cominciano a parlare di vestiti e scarpe mentre tutti insieme ripiegano i teli da mare e vanno in hotel eccitati alla prospettiva del programma, convinti che si divertiranno moltissimo.
Sono le 22:30 quando Lorenzo ed Elena, nella loro stanza d’albergo, cominciano a prepararsi per uscire: la notte Brasiliana è afosa e umida come sempre e scelgono i vestiti più leggeri a loro disposizione.
“Amore, scarpe nere o dorate?”
“Cosa?”
“Le scarpe”  ripete lei alzando un paio di sandali nero alla schiava e uno dorato con perline e esortandolo a decidere con lo sguardo impaziente di chi ha bisogno del consiglio della sua vita. Lorenzo si gira arrotolando le maniche della leggera camicia blu, ancora a piedi nudi, per poi dire “Neri” con indifferenza. Lei, non proprio soddisfatta per via della mancanza di entusiasmo, comincia comunque a legarsi i sandali sotto il vestitino rosso e intanto domanda:
“Come te lo aspetti questo locale?”
“Non so: se ne dicono meraviglie, ma non capisco che cosa ci possa essere di così straordinario… è solo un locale.”
“Dio, come sei depressivo…”
“Tuttalpiù deprimente”
“Sembri Francesco quando fai così.”
Lorenzo continua a non rispondere ed Elena avverte uno strano senso di tensione farsi strada in lei. Posa il rimmel e si gira verso il ragazzo.
“Lorenzo, mi dici che cos’hai? È da oggi in spiaggia che sei strano.”
Lorenzo sospira e le si avvicina, prendendole poi una mano e sentendo gli occhi azzurri di lei cercare sul suo volto l’indizio di qualcosa che non riesce a cogliere.
“Elena, io ti amo.”  dice piano e lei sorride dolce prima di annuire.
“Lo so, anche io. E allora qual è il problema?”
“Sono così strano perché non riesco a trovare un modo che esprima tutto quello che sei per me, non riesco a trovare le parole per dirtelo e non vorrei farlo qui, in mezzo ai nostri accappatoi bagnati e i tuoi trucchi. Ma...”
Dicendo queste parole, si inginocchia davanti a lei e prende un anello dalla tasca dei pantaloni. Niente astuccio blu, solo un piccolo anellino con una perla al centro.
“Mi vuoi sposare?”


“Ai futuri sposi!”  Brinda contenta Luisa agitando il suo cocktail e rischiando di versarlo tutto per terra. Lorenzo ed Elisa sorridono e si fissano per un attimo, limitando il loro mondo a l’altro e basta.
“E non diventate smielati ora, se dovete passare la serata a farvi gli occhi dolci io cambio bar”  si lamenta Lorenzo. La fidanzata lo guarda male, mormorando “Sei la morte del romanticismo tu” Con tono risentito, per poi rigirarsi verso i due sposini “E allora? Quando dove come? Io posso fare la testimone vero? O la damigella almeno, vi preeeeego!” . Comincia anche a saltellare sul posto con le mani giunte all’altezza del petto, come una bimba impaziente. Tutti ridono e non fanno nemmeno in tempo a risponderle che nell’aria si diffondono le note de La isla bonita di Madonna.
“Oooooh adoro questa canzone!”  Esclama Elisa cominciando ad ancheggiare a ritmo “Lù forza, balliamo!”  l’altra non fa una piega annuendo per poi prendere per mano Francesco, che fa appena in tempo a sillabare “Ma io…”  prima di essere trascinato via dalle altre. Lorenzo non ama ballare ed Elisa lo sa, quindi è contento che non abbia insistito. Si guarda intorno studiando le pareti colorate e il bancone lucidato da tutti i boccali che ci sono passati prima per poi mettersi a guardare i ballerini. Da una parte del locale nota un vestito di quelli paillettati e una serie di lunghe penne gialle; accanto troneggia un cartello con scritto “Lola”. Accaldato, tenta di ordinare un altro Martini al barista, un nerboruto quarantenne dalla risata facile, usando le sue scarse riserve di inglese.
“I…I just want…”  e gli scappa un “maledizione” tra i denti che l’altro uomo sente bene, poiché con un sorriso domanda “Italiano?”. Sorride rasserenato prima di annuire, al che il barista caccia fuori una grassa risata per poi esclamare “La mia Mama era italiana, che Dio l’abbia in gloria” .
Chiacchierano del più e del meno per una ventina di minuti prima di essere raggiunti da Elisa, ancora adrenalinica per il ballo. Ordina da bere al barista, che si è presentato come Alfredo, prima di chiedere spiegazioni sul costume e le piume che Lorenzo ha notato poco prima. Alfredo sorride con l’aria di un Babbo Natale buono; quando comincia a raccontare la sua voce diviene a un tratto carezzevole, molto diversa dal ruggito divertito che aveva tenuto fino a quel momento.
“Quello? E’ di Lola”  e grazie al cavolo pensa Lorenzo, fin qui si capiva.
“Ma chi è Lola?”  domanda per lui Elisa impaziente; Alfredo indica una foto attaccata alla parete: una ragazza di non più di vent’anni, incredibilmente bella, sorride di un sorriso che non le arriva agli occhi. A Lorenzo quello sembra il viso di chi ha perso tutto.
“Lola era una ballerina qui a “El Copa” negli anni ’30. Aveva appena diciotto anni quando tutto le fu portato via. Poverina…”  E, scuotendo il capo, Alfredo comincia a raccontare la loro storia, quella di Lola e di Tony che…

Lavoravano a “El Copa”. L’anno era il 1930 e il locale era al suo punto massimo grazie proprio a quella ballerina. Lola, anzi, era molto di più: ballava sinuosa come una gatta e aveva una voce cristallina che non sbagliava mai una nota; i suoi canti attiravano un numero sempre più alto di uomini, donne e bambini che amavano guardarla cantare e ballare con le altre ragazze del locale ogni sera, tutte le sere. Tutte le sere quella ragazza col viso d’angelo incorniciato da lunghi capelli neri si esibiva con piume gialle infilate nelle trecce e un vestito che lasciava scoperte le lunghe gambe magre e abbronzate. E, tutte le sere ad ammirarla dal bancone del bar c’era Tony che bruciava di passione per lei. All’inizio fu solo l’amicizia che legava una ragazzina giovane e bella a un ragazzo non molto più grande di lei ad avvicinarli, ma ci volle poco perché i due contraessero una febbre dei lombi tale da non permettergli di staccarsi gli occhi di dosso mai. Lu la guardava ballare tutte le sere, senza piegare mai lo sguardo, una notte intera, e lei ad ogni giravolta lo cercava, lanciando messaggi intangibili. La passione è la musica erano di quanto meglio potesse offrire “El Copa”. E, a “El Copa”, i due ragazzi si innamorarono perdutamente.

“Ma allora questa è una storia felice…”  il tono di Elisa è a metà tra la domanda e l’affermazione perché la felicità dei due giovani non combacia con l’affermazione di Alfredo. Il barista però fa cenno di no con la testa.
“No perché una sera arrivò qui a “El Copa”…”

Rico, un uomo incredibilmente elegante che indossava sempre un enorme anello di diamante. Ogni sera veniva a guardare Lola, la studiava ed era come intossicato dalla presenza di lei. I suoi occhi erano torbidi di desiderio: inespresso, certo, ma pur visibile e troppo a lungo insoddisfatto. Il padrone del locale, Esteban, tutte le sere si sedeva con lui, onorato di avere un ospite così importante per il quale provava un’ammirazione viscerale per via della posizione di prestigio che l’avventore occupava in società. Non fu quindi difficile per Rico farsi presentare Lola una sera giocando proprio sul rispetto che incuteva nell’uomo: lei si avvicinò bella come un mattino d’estate guardandolo vergognosa da sotto le ciglia scure. Rico le offrì da bere e lei, intimidita dallo sguardo del padrone, accettò di sedersi e bere. Tony dal bancone guardava i due schiumando di gelosia e tenendo lo sguardo fisso in maniera maniacale sul suo nuovo nemico. I suoi occhi sul viso di lei, le sue mani su quelle piccola della ragazza erano già un duro colpo al suo autocontrollo. Ma quando Rico si spinse a baciarle una guancia per poi posarle una mano su una coscia Tony non potette più resistere: con un solo salto fu al di là del bancone, vedendo rosso per la furia. Fece appena in tempo ad afferrare una sedia con una mano prima di scagliarsi contro Rico; con l’altra mano spostò Lola dalla zuffa e poi…

“…cominciarono a picchiarsi con ferocia, rotolandosi per terra. La sedia che aveva in mano Tony si ruppe, insieme ad un’altra impugnata durante lo scontro da Rico. Durante un duro corpo a corpo infine si sentì un colpo di pistola. Tony si alzò in piedi…”

…Tony era intontito, poiché la detonazione era stata a una decina di centimetri dal suo orecchio. Qualcuno urlò e lui guardò giù: sotto Rico si allargava una macchia di sangue che partiva dal foro sulla fronte del morto; il colpo doveva essere partito dalla pistola che ora stava a terra, accanto alla mano destra di Rico. Una donna piangente si fece il segno della croce. Lola spostava lo sguardo tra i contendenti a occhi sbarrati, l’espressione terrorizzata e colpevole. Dopo pochi minuti di panico arrivò la guardia cittadina; Lola fu affidata ad un medico e Tony fu arrestato e…

“…impiccato il mattino dopo. “  Elisa si porta le mani alla bocca a quest’ultima frase, con lo sguardo incredibilmente triste. “Non ci furono processi ne testimonianze visto che nessuno sapeva con esattezza cosa fosse successo”. Lola, gli dice, era rimasta nel locale ma stava perennemente seduta, lo sguardo nel vuoto: aveva perso Rico e Tony e alla fine, schiacciata dal senso di colpa, aveva perso la ragione.
“Ecco perché ci sono il suo costume e quella targa: è l’unica cosa che faceva, scrivere quella frase ovunque” . Lorenzo si gira verso il cartello indicatogli da Alfredo e rendendosi conto di non sapere cosa vuol dire ne chiede la traduzione.
Col senno di poi si dice che la sorte certe volte ci tiene a mandarti segnali che non sai se devi interpretare come ammonitori, specie quando ti sei appena fidanzato ufficialmente. Ha smesso di parlare con Alfonso e anche gli altri sono tornati dalla pista e ascoltano incuriositi Elisa che racconta loro dei due amanti sventurati; Lorenzo invece continua a fissare il cartello che è venuto fuori dalla mente traviata di una ragazza pazza di dolore, pensando al significato che adesso conosce.

“Non innamorarti mai a El Copa“.
 
Angolo dell’autrice
Buonasera a tutti! Se ve lo state chiedendo sì, mi sono ispirata alla canzone Copacabana di Barry Manilow con personale reinterpretazione (?). Eeee niente, non mi viene niente da aggiungere. Per spiegazioni, commenti o correzioni scrivete una bella recensioncina o un messaggio provato e mi renderete molto felice.
Un abbraccio,
Donteverlookback

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Capitolo 4
*** Improvviso Fantasia ***


 
Improvviso Fantasia
 
Matteo si siede al pianoforte e accarezza i lucidi tasti neri e bianchi, sentendo la ben nota sensazione delle dita sull’ebano. Sorride cercando una nota, e un’altra e un’altra ancora. In poco le sue mani ricompongono l’Improvviso Fantasia e la musica celestiale di Chopin si propaga nel salotto, esce fuori dalla porta finestra e si spande tutto intorno, come una cascata d’acqua, leggera come aria. Muove la testa a ritmo e vola con la mente, solca i cieli di tutte le nazioni e i mari di ogni angolo del mondo, è aquila e serpente, ghepardo e squalo e poi è un animale che non sa definire ma che vola e nuota e corre nello stesso momento mentre le note scivolano leggere. Una lacrima, una sola, scivola sul suo viso e lui deve fermarsi per asciugarla, quella che dà l’inizio a una serie di singhiozzi infinita che non sa non può e non vuole controllare. Cerca il bastone a tentoni accanto a sé. Perché Matteo non vede.
Il glaucoma raro che ha contratto da bambino l’ha lentamente fatto peggiorare: dapprima vedeva le forme, poi solo le ombre. Sa che, alla fine, il suo mondo diventerà buio.


Cominciò a studiare pianoforte a cinque anni, sulle ginocchia di suo padre che era un importante e rinomato pianista e concertista: aveva dimostrato un’ottima padronanza del ritmo e una buona adattabilità alla tecnica. Si era applicato con divertimento, stupito e divertito dalla gamma di cose che poteva fare con le sue mani e con quei tasti: il divertimento era sfociato in passione travolgente quando aveva compreso bene che cosa fosse un pianoforte. Aveva imparato in breve come incanalare tutto ciò che provava nei tasti, dedicando il romanticismo all’impetuoso Chopin, i momenti importanti a Mozart, la gioia pura a Liszt e così via, cadendo sempre più in profondità in un vortice dove i suoi sentimenti e il piano erano due cose diverse e la stessa cosa.
Mentre tutto questo accadeva lui cresceva e la sua vita diventava sempre più un film dai colori non definiti: faceva finta di niente con gli amici, e faceva finta di niente con Giorgia che l’aveva colpito come non era mai successo con nessuno prima d’allora. Giorgia è stata sicuramente colpita da lui, bello e intelligente e con quel tocco in più che il piano dava. Lui aveva deciso di invitarla a casa sua un giorno e lì, imbarazzato, era rimasto a parlare del più o del meno mentre lei sorrideva e rispondeva, spiritosa e attenta. Poi l’aveva interrotto con gentilezza “Senti, Matteo… me lo suoni qualcosa al piano?”. Lui si era imbarazzato e aveva cominciato ad accavallare scuse su scuse: non ti piacerà, non mi viene niente… “Non sono così bravo” aveva concluso infine abbassando lo sguardo imbarazzato sulle sue mani intrecciate. Lei aveva inclinato da un lato la testa e lui, incapace di distinguere le forme precise, rimase comunque estremamente colpito dal modo che aveva lei di muoversi, affettato ed elegante, e dalla sua lunga massa di capelli biondi che scivolava in avanti catturando la luce. Non aveva potuto fare altro che accettare e sedersi al pianoforte. E poi… era partito con l’Improvviso Fantasia di Chopin. E lei era rimasta silenziosa al suo fianco, respirando piano come se temesse di disturbare mentre le note le entravano dentro. Fu un viaggio fatto in due, in direzioni diverse ma senza mai perdersi di vista. Alla fine lui abbassò lentamente le mani sulle gambe e lei ne osservò il profilo regolare, il naso diritto e gli zigomi alti “Matteo…” e allora, solo allora, lui la guardò: così vicino riusciva a scorgere i suoi dettagli senza la disturbante patina confusa che aveva di solito. Lei allora sorrise e gli poggiò un bacio sulle labbra, così leggero che non era nemmeno esistito. E lui le aveva poggiato una mano sulla nuca e l’aveva baciata di nuovo.

Quello era stato uno dei periodi più belli della sua vita: la malattia per un po’ si era stabilizzata, le lezioni di piano andavano sempre meglio e lui era felice. Era innamorato e Giorgia lo ricambiava e tutto era perfetto. E, come sempre, la vita venne a presentare il conto: la vista peggiorò di nuovo e lui ebbe un incidente. Una costola incrinata e il piede rotto.
Ma il peggio non era quello. Il peggio era che Giorgia aveva scoperto della malattia.
Era arrivata a casa sua preoccupatissima, avendo saputo tardi dell’incidente e priva di notizie com’era. Entrò in camera sua come una furia.
“Matt! Matt, come stai? Che è successo?” domandò spalancando gli occhi mentre passava le mani su tutto il corpo alla ricerca del problema, come se pensasse che le ossa rotte potessero dirlo a voce alta.
“Costola incrinata, piede rotto. Niente di che.” e si girò sorridendo. Solo che sbagliò direzione. Perché Matteo…Oh, Matteo si era girato verso sua madre, che era anche lei alta e bionda ma era più vicina a lui rispetto alla ragazza. E lei si accorse dubito di qualcosa che non andava.
“Oddio Matty… non vedi più amore?”  domandò lei in un sussurro disperato, con una voce sottile come un vetro. Si prospettava davanti a lui la possibilità di dirle finalmente la verità, di spiegarle perché non usciva mai solo e perché quando uscivano loro due lui non la lasciava un secondo e le stava così appiccicato, perché le sue risposte a frasi come “Guarda quello!” erano sempre così neutre. Avrebbe potuto spiegare tutto e non sapeva da dove partire.
“Io… Giorgia, siediti.” e lei lo fece, accanto a lui e fissandolo nei suoi occhi verdi. E allora lo vide, qualcosa che non andava nell’occhio di lui che non si era mai lasciato guardare fisso in viso e portava sempre occhiali da sole.
Lui prese un grosso respiro e cominciò a raccontare. Alla fine, lei era furibonda: il suo viso solcato dalle lacrime di paura iniziali era deformato dalla rabbia scottante.
“Come hai potuto non dirmelo? Ti rendi conto? Come hai potuto nascondermi una cosa del genere?!” Al che lui aveva ribattuto: “Perché sarebbe successo proprio questo! Tu non mi avresti mai amato, tu non ti saresti mai innamorata di un cieco! Anche adesso sei disgustata, non è vero?”.
Giorgia si era avvicinata a lui e gli aveva dato uno schiaffo che gli aveva fatto voltare il capo “Non è quello, maledizione! Non è quello il problema! Mi ritieni così superficiale? Io ti amo per quello che sei, a prescindere da quello che vedi! Non posso prendermela con te per una cosa così fuori dal tuo controllo! Avresti dovuto dirmelo perché avresti dovuto essere sincero dall’inizio, e basta! Perché, maledizione, perché non me l’hai detto?! Prima o poi l’avrei scoperto comunque, perché nascondermelo?” la sua voce si era piano piano ridotta ad un sussurro e poi aveva ricominciato a singhiozzare; si era girata ed aveva preso la porta senza voltarsi. Lui, dietro, la chiamava disperatamente.
Ogni urlo era una crepa nel suo cuore.

Da fuori, i genitori di lui sentivano solo il rumore attutito delle parole di Matteo e quello, più leggero ed irregolare, dei singhiozzi di Giorgia, poi urla di lei e infine di nuovo singhiozzi. Poi lui che la pregava di fermarsi e di aspettare, lei che correva via sbattendo la porta. Lucia, la madre di Matteo, era entrata di corsa nella camera del figlio e lo trovò in lacrime sul letto che fissava la trapunta “Mi odia, Mamma, mi odia e mi odio anche io perché ho sbagliato tutto con lei!” si era poggiato le mani sugli occhi e poi aveva cominciato a imprecare “Sono questi maledetti occhi! I miei dannati occhi il problema! Se non fossero così non sarei in questa situazione!”. Sua madre si era avvicinata e gli aveva afferrato le mani togliendole dal suo viso, per poi dire con voce calma e dura “Non sono i tuoi occhi il problema, Matty. Il problema è che tu non solo non hai accettato il tuo problema, che fa male a te: hai omesso una cosa così importante di te a Giorgia, che si fidava di te. Va’ da lei, chiedile scusa e parlale, spiegale tutto e stavolta non omettere nulla.”. Matteo aveva sorriso, rincuorato, e aveva chiamato Giorgia.

Giorgia, a casa sua, aveva pianto disperatamente per più di un’ora con dei singhiozzi forti: un momento era arrabbiata, poi terrorizzata per l’incidente, poi timorosa del futuro che la poteva attendere accanto a Matteo, un ragazzo che non poteva avere una vita normale. Non raccontiamoci balle, si diceva, chi non è bello, bravo o ricco non farà molta strada, figurati chi non vede. Riesce a vedere come sarebbe stata la sua vita con Matteo: casa, figli, viaggi, cene, pranzi, baci, macchine e foto. Cose che non avranno, o forse sì, ma non come lei si è immaginata.
Poi la porta si apre, ed è Matteo.
Lui non è mai stato da lei, non sa che aspettarsi. La sensazione che ne riceve è quella di una casa spaziosa e ordinata, un po’ lasciata andare fino a rendere l’ambiente familiare, così diverso dall’asettica pulizia che regna a casa sua. Quando, con la sedia a rotelle che si muove piano spinta da sua madre, era entrato in camera di Giorgia, aveva visto la sua sagoma sul letto e aveva capito che stava piangendo dal rumore di piccoli singhiozzi che pervadeva la stanza. Si era avvicinato piano, muovendosi da solo con esitazione. Alla fine si era schiarito la gola e aveva cominciato a parlare con le parole che si accavallavano tra loro. Si era fermato più volte, incerto, e alla fine le aveva detto tutto. Le aveva parlato della malattia, della paura, della vista, delle speranze e le terapie e i medici. Aveva parlato e parlato fino a non sapere più da dove era partito, fino a perdersi del tutto mentre cercava lei.
“Matteo, ascoltami. Non devi mentirmi mai più. Sono seria. Se mi nascondi di nuovo una cosa del genere, quella sarà l’ultima volta che mi vedrai.” si era inginocchiata davanti alla sedia a rotelle per guardarlo negli occhi direttamente e, cosa a cui doveva ancora abituarsi, permettergli di vederla bene in viso “Ma ti amo. E voglio stare con te. Forse non ce la farò, forse questo per me sarà troppo. Ma ti prometto che finché avrò forza ti starò accanto, dandoti tutto quello che ho, facendo tutto quello che posso. Ma, ripeto, solo se prometti di non mentirmi mai più.”. Lui aveva avuto solo il tempo di mormorare “Ti amo così tanto”.
Un sola tocco sul viso a carezzarla.
Un solo abbraccio a dare e chiedere protezione.
Un solo bacio a sugellare una promessa.
L’Improvviso Fantasia a risuonare nella testa di entrambi.
 
Angolo dell’autrice
Salve a tutti! Qui abbiamo un po’ di sano Angst. E anche Chopin e malattie: dove si possono inserire musica e medicina avrete Donteverlookback felice. Non sono certa dell’accuratezza della descrizione da cecità da glaucoma (sì, di tutte le malattie che conosco ne ho messa una che non riesco bene a spiegare…un genio) ma mi sono attenuta quanto più possibile a quello che ho letto nei libri. Per quello che riguarda l’Improvviso Fantasia è uno dei brani di Chopin che più amo e mi piaceva molto l’idea del ragazzo che suona il piano e conosce proprio quello. E…scusate per le note confusionarie, ma purtroppo sono in overdose da caffeina preesame e la mia testa è una specie di frullatore adesso. Critiche, commenti, annotazioni, anche lancio di pomodori sono sempre ben accette.
Arrivederci alla prossima!

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Capitolo 5
*** Reality and Fantasy ***


Reality and Fantasy
 

Someone upon that wall
Is just gonna spend the night
With my girl
That’s what I’m talking about
That’s why I’m gonna play this shout


Sorrido sollevando lo sguardo verso la finestra sopra la mia testa mentre la voce di Raphael Gualazzi mi canta nelle orecchie, morbida come velluto, e ripeto le parole anche io: la luce della camera di Giulia è soffusa, come se avesse acceso la lampada celeste che tiene sul comodino. La canzone ha ragione: qualcuno sta per passare la notte con la mia ragazza.
Chiudo gli occhi piano, mordendomi il labbro inferiore: Non riesco a non pensare a Giulia tra le braccia del dannato figlio di papà che l’ha accompagnata tutta la sera a cena e a bere e a ballare. E adesso lei l’ha anche invitato a salire. Che stronza.
Ripercorro i mesi precedenti dondolando la testa al suono della musica, penso a me, a lei e a loro. E una sola domanda mi attraversa la mente: come siamo arrivati a questo?

I've looked into your eyes 
And it should make me feel so bright, satisfied 
The only thing I've learned 
Is just to fall, and fall, and fall! 


E sì che li ho guardati I suoi occhi, a lungo e spesso. Lei non si faceva remore a propinarmi di bugie e bugie… e la cosa mi stava bene. Ho continuato a bermi le sue stronzate anche quando sapevo che erano tutte bugie perché lei me lo diceva con quegli occhi, Dio, quegli occhi! Una lucentezza stupefacente, erano smeraldi e erba, gli uni e l’altra, senza distinzione. L’unica cosa che ho imparato in tutti i mesi mentre bevevo miele e veleno con le sue parole è stata rimanere ai suoi piedi e lì strisciare permettendole di spadroneggiare su di me, dannata lei e maledetto io.

Sometimes our life is strange 
And it seems you gotta do it all by yourself
To arrange sensations never felt that's why
My soul I'll never sell!


Aveva legato le nostre anime, diceva, incatenandomi con mille promesse. Mi aveva stregato e io, nei suoi baci io sentivo il sapore di una verità che poi avrei scoperto essere solo la mia; “per sempre” è troppo sottovalutato, mi dico permettendo a me stesso un sorrisetto amaro: tutti pensano che i sentimenti possano durare o non se ne curano promettendo che lo faranno. Ancora non mi è ben chiaro quando ha smesso di stare solo tra le mie braccia per cercare quelle di un altro: forse quando sono stato via tre mesi per lavoro e sono riuscito a tornare da Copenaghen solo una volta; forse prima, quando le avevo raccontato di Elisa che voleva riallacciare il nostro rapporto; forse solo il mese scorso, quando le avevo chiesto di sposarmi? Non si sentiva pronta, diceva. E io avevo annuito, pensando che ero un debole e un illuso e che avrei cercato di dimostrarle quanto valevo.
Ho fatto degli errori con lei, inutile negarlo: ma perché rimanere insieme? Io non riesco a capire: che senso ha continuare a giocare sull’altalena di un rapporto che sai essere rotto? Scendi e basta.
Spengo l’iPod su un pezzo degli Spandau Ballet e mi rimetto in macchina, lasciando quella luce soffusa come una candela alla finestra. Per un attimo mi sembra di vedere un’ombra passare davanti alla finestra: forse mi sbaglio o forse no, chissà. Decido che non mi importa, non mi deve importare e non voglio più saperne niente di lei e di lui e dello Stefano che era innamorato di lei.
 
Il mattino dopo in palestra c’è confusione: le mie ragazze si allenano per l’entrata nella squadra nazionale e non fanno altro che passare da una postazione all’altra chiamandomi per farsi guardare o correggere. Sto cercando di convincere Delia a non fare l’Arabian di entrata alle parallele, guardando il suo scarso metro e cinquanta: è quasi troppo alta per la ginnastica artistica ma compensa ampiamente in bravura e dedizione. Ha il viso arricciato nella sua solita espressione di sfida con la mano destra sul fianco e il peso del corpo sul piede sinistro, come fa sempre quando deve sostenere le sue posizioni. E io mi accorgo solo in quel momento che è bella – di una bellezza strana ma che colpisce: il vecchio Stefano viene messo a tacere dentro di me perché non ne posso più di cercare Giulia nei visi delle altre; la mia parte più razionale però mi dice che non posso intrattenere una relazione con una quindicenne, visto e considerata un’enorme differenza di età – dieci anni per me sono fin troppi – e il fatto che sono il suo allenatore.
“So farlo, l’Arabian con rondata!” mi ripete lei di nuovo irritata. Sospiro e mi passo una mano tra i capelli tentando di uscire da una spirale di pensieri morbosi, cercando di riportarla alla ragione: “Il tuo punteggio di base è già abbastanza alto così, Delia, e poi l’hai imparato da troppo poco per poterlo fare in una gara ufficiale, specie importante come questa.” poi mi giro e la invito ad andare alla trave cercando le altre ragazze con lo sguardo. Non ce la faccio a mentire a me stesso: voglio riinnamorarmi.
Dopo un mese di allenamenti intensi, sveglie all’alba per preparare le ragazze e le gare – Delia si è classificata, Lucia no, Francesca è la prima riserva -  in palestra ho conosciuto Amelia, la figlia di uno dei soci e l’ho invitata a uscire. E lei ha accettato.

Mi sembrano secoli che non esco con una ragazza e non so neanche come conciarmi. Una cosa molto informale, mi ha detto ridendo, un caffè o un drink a seconda dell’estro del momento; ma sono uscito dalla doccia da venti minuti e mi sono praticamente congelato cercando cosa mettermi nell’armadio. Vaglio senza entusiasmo le mie camicie decidendo poi che una camicia è troppo formale e scegliendo una t-shirt. No, forse la camicia è meglio. Ma andiamo in un posto informale, meglio la t-shirt. Però se lei si mette elegante poi faccio una figura del cavolo. E adesso? No, basta. Una bella T-shirt e non se ne parla più; ho anche letto che sono fatte apposta per evidenziare le forme e io sono stato un ginnasta, cavolo, fisicamente sono ben piazzato. Finisco di prepararmi ed esco di casa precipitosamente: nonostante mi sia messo a prepararmi un’ora prima dell’appuntamento sono in ritardo e se non mi sbrigo farò una pessima figura.
Guidare mi ha sempre divertito molto, ma adesso il nervosismo rende i miei movimenti quasi rabbiosi; riesco a trovare miracolosamente parcheggio e faccio di corsa i cinquecento metri che mi separano dal caffè dove ci siamo dati appuntamento.
Mi guardo intorno cercandola, ma lei non è lì: sono arrivato prima o mi ha dato buca? L’ansia mi assale e stacco gli occhi dalla folla solo per controllare l’orologio. Lei, alla fine, i capelli sciolti e mossi e i Jeans scuri che si accompagnano perfettamente al top rosso, si presenta sorridendo splendidamente.
“Ciao, scusa il ritardo” mi dice baciandomi una guancia con gentilezza “Ho fatto tardi perché stavo battendo mio fratello a Fifa.”.
Dio mio, penso, la donna della mia vita. E sorrido.
 

Note dell’autrice
Dunque dunque. Vi dirò che questo capitolo non mi convinceva tantissimo. E’ stata la mia beta a convincermi a pubblicarlo e quindi è d’obbligo ringraziarla per supportare me, la mia impazienza e i miei viaggi mentali.
La canzone, nel caso non la conosceste, è la bellissima “Reality and Fantasy” di Raphael Gualazzi: andate e amatelo.
La traduzione della prima strofa è pressappoco “Qualcuno su quel muro/ sta per passare la notte con la mia ragazza/E’ questo di cui sto parlando/E’ per questo che sto per cantare questo grido”; della seconda “Ho guardato nei tuoi occhi/e questo dovrebbe farmi sentire così contento e soddisfatto/L’unica cosa che ho imparato/ è cadere, cadere, cadere”; la terza “Qualche volta la vita è strana/ e sembra che tu debba fare tutto da solo/ per orchestrare sensazioni mai sentite/è per questo che non venderò mai la mia anima”.
Come sempre, spero nei commenti. Ma voglio comunque ringraziare coloro che seguono senza dire niente, perché anche vedere salire di poco il numero delle visualizzazioni mi riempie d’orgoglio e mi fa amare ognuno di loro. Quindi, voi che leggete: a voi va tutto il mio affetto, spero che lo sentiate.
Donteverlookback




 

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Capitolo 6
*** Ci serve un piano ***


 
 
Ci serve un piano
 
 
 
“Ci serve un piano.”
“Ci serve una cameriera.”
“Ma il piano ci serve adesso!”
“Anche la cameriera.”
Sventolandole davanti i cartoni della pizza Walter si siede al tavolo di legno della colazione. Irene lo segue irrequieta, osservano gli altri mentre si siede a sua volta sulla panca di cedro al tavolo della casa delle vacanze dei genitori di Walter.
Giacomo sta fissando la tazza, i capelli spiaccicati sulla testa da un lato e alzati dall’altro; Caterina ravana svogliatamente nella tazza col cucchiaio alla ricerca di cereali; Arianna fissa il the come se non lo vedesse; Elia è piombato con la testa su tavolo e sta di nuovo dormendo.
“Insomma, i tuoi arrivano tra due ore e la casa è uno scempio! Dobbiamo fare qualcosa! Vuoi che arrivino e la trovino così e…”
Il cervello di Walter elimina il suono della voce di Irene che si riduce a un lieve mormorio mentre manda immagini di spiagge, sole, e Irene priva di lingua. Che poi come diavolo fa a stare così sveglia se ha alzato la testa da cinque minuti dal cuscino che poi è già vestita, ma quando ci è riusci…ehi, è una macchia di marmellata quella? Che poi la marmellata non si leva bene e…
“Ehi! Ma mi ascolti?!”
Eh no, no che non l’ascolta. Walter la guarda domandandosi perché lo stressasse di prima mattina, e poi la supplica di fargli almeno fare colazione. Lei sbuffa prima di cominciare a mangiare a sua volta.
Dopo colazione però Irene  ci si rimette e alla fine, con la sua solita mente pragmatica, espone il piano di pulizie che salverà loro dalla strigliata e Walter dalla lunga, ennesima discussione con i suoi.
Peccato che il piano di Irene non prevedesse la svogliatezza dei suoi amici, che piano piano si disperdono per casa a far finta di lavorare. Elia è ripiombato sul materasso rispondendo a domanda che sta stirando manualmente le lenzuola; Arianna si è messa a prendere il sole con la scusa di stare ritirando i vestiti asciutti e Caterina sta facendo la stessa cosa mentre fa finta di piegarli; Giacomo e Walter sono stati a fare la spesa e dopo essersi gavettonati a vicenda – perché a sentir loro in bicicletta si sono accaldati – sono tornati al market.
In tutto ciò Irene sta pulendo instancabile. Le basta un po’ di musica e potrebbe anche correre la maratona con addosso casse d’acqua e sci ai piedi, cantando a squarciagola. Al momento sta sculettando su Don’t stop me now, ma nel contempo la cucina che era la sua zona è perfettamente pulita. Decide di andare a controllare gli altri e per poco non le viene una sincope nel constatare che nessuno ha fatto niente. Dopo diverse urla da parte sua, e lagne in risposta, riesce a rimetterli in riga e un’ora e mezza dopo la casa risplende e loro sono tutti esausti.
 
Irene aggiusta le calamite sul frigo mentre Walter aiuta i suoi a salire, appena arrivati dopo cinque ore di macchina. Dopo pochi minuti caricano le valigie nel minivan di Carlo e Elvira e si fanno portare alla stazione.
Ma il loro treno è già partito.

“Maledizione. Mia madre è furiosa.”
Giacomo si lascia cadere accanto ad Arianna, passandosi una mano tra i capelli scuri ancora disordinati. I suoi occhi castani sono cerchiati per la stanchezza.
“Era molto arrabbiata?” Arianna non lo guarda, ma Giacomo sa che in realtà lo sostiene. Lei è sempre così: un parere oggettivo e tutto l’appoggio che riesce a dare.
“Si è messa ad urlare in francese. In francese. Quella donna mi dà i brividi.”.
Lei lo guarda è nel vedere la sua espressione non può fare a meno di scoppiare a ridere. Caterina piomba accanto a loro con l’aria di una che capita lì per caso: quella ragazza non sembra mai sapere perché finisca dove si trova.
“La mamma di Giacomo è poliglotta e la cosa lo disturba.”
“Non dovrebbe, sembra molto divertente. Anche io voglio fare lingue all’università. O la veterinaria. O quello sport dove si scia mentre si spara.”
“La chiamavano “La donna dalle idee chiare”“ dice Giacomo in tono pomposo mimando con le mani il titolo di una locandina. Caterina gli dà una spinta e in breve finiscono a discutere, svegliando Elia che sta praticamente dormendo in piedi, neanche fosse un cavallo o robe del genere.
Irene piomba su di lui e lo sveglia dolcemente, tenendo d’occhio Water al telefono e Arianna che tenta di separare Giacomo e Caterina.
“Stai sveglio?”
Lui apre un occhio e sorride con aria malandrina prima di richiuderlo e commentare “E’ colpa tua” le dà un pizzico centrando la guancia anche senza vederla “la passeggiata al chiaro di luna l’hai voluta fare la sera prima di partire. Poi mi stanco. Sai che sono uno che ha bisogno di dormire molto.”
“Seh. Mo cadere in coma si dice “dormire molto”. Ma va là. Comunque” la voce di lei si abbassa a un sussurro “Parla piano. Non avevamo detto di non dirlo agli altri per un po’?”. Lui le prende un polso e abbassa lo sguardo un attimo, come se riflettesse. “E se ti baciassi?”
“Tu non-”
“Ehi voi due!” Arianna si avvicina prima di assumere un’espressione stranita “Ma che fate?”.
Irene interviene pronta “Facciamo a chi ride prima e…” continua indicando Giacomo che sogghigna “Ho vinto.”. Arianna si gira e li precede chiacchierando del treno che ha trovato Walter per tornare a casa.
Irene lascia un bacio sulla guancia di Elia veloce come un battito di ciglia.
“Ci serve un piano.”
“Già.”.
 
Note dell’autrice
Boh, a me queste storie divertono così. Spero anche a voi.
A questo proposito: me la lasciate una recensioncina piccola piccola? Non è che voglia sentirmi dire che sono magnifica e che i miei capelli sono stupendi(?), ma almeno sapere che ne pensate… Mi farebbe piacere insomma. Anche se un enorme ringraziamento va a chi legge. Sempre. Perché voi, miei piccoli lettori, mi riempite d’orgoglio (Ecco da dove sono arrivati i miei quattro chili in più! Svelato l’arcano) e mi fate comunque incredibilmente felice.
Un bacio
Donteverlookback

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Capitolo 7
*** Per via degli strati ***


 
Per via degli strati
 
Venticinque anni e laureato in psicologia. Un fisico prestante, ma nascosto da maglioni informi. Dei magnifici occhi grigi, nascosti da occhiali insignificanti. Un carattere timido e vergognoso, ma capace di difendere ciò che ama con tutto il cuore.
E, avrebbe scoperto lei, di amare con trasporto.
Questo aveva intuito di Tommaso in un paio d’ore. La serata si stava dipanando tranquilla e divertente in quel pub del centro in cui erano entrati quando fuori aveva cominciato a piovere con violenza e d’improvviso costringendoli a cercare riparo. Il posto era quantomeno carino, con divani di pelle blu e mobili di un legno che a occhio sembrava di noce. C’erano molti altri ragazzi intorno a loro e quasi tutti tracannavano birre.
Silvia li guardò di nuovo, i suoi amici e le sue amiche. Deborah e Giovanni, la coppia d’oro, vivevano praticamente in simbiosi e anche in quel momento stavano appiccati, con i capelli di lei – che Silvia aveva sempre invidiato, lunghi e dorati e boccolosi – sparsi sulla spalla di lui e le mani unite; Eleonora e Cheyenne stavano discutendo del Trono di Spade o di Harry Potter o di una qualunque delle duemila saghe che conoscevano, scambiandosi indiscrezioni e aneddoti e facendo teorie su chi doveva salire al trono uccidendo Horcrux o qualcosa del genere; Filippo sorrideva all’indirizzo di tutti con la sua solita espressione quasi maniacale, come uno che si è fatto di caffè endovena.
E poi c’erano lei e Tommaso, seduti l’uno accanto all’altra, che si scambiavano solo sorrisi. Lui non aveva quasi mai parlato e lei invece cercava di includerlo nella conversazione ottenendo solo rossori. “E pensare che è così carino” si disse lei guardandolo, la curva attraente delle spalle, un accenno di barba scura e i capelli corti.
“Allora” disse lei girandosi verso di lui con un sorrisetto “Come mai psicologia?”.
Ottenne in risposta uno sguardo sconcertato, come chi accusa di essere stato indelicato. Ma dopo un attimo lui si schiarì la voce e cominciò a parlare. “Ho…ho sempre pensato di essere un buon osservatore.”si aggiustò gli occhiali e riprese a parlare con tono un po’ più sicuro “Gli esseri umani si comportano secondo schemi individuali ma ripetuti costantemente. Individuare questi schemi e capire come questi regolino il rapporto altrui con il mondo e come questi decadano davanti alle difficoltà…” si accorse di stare parlando un po’ troppo di fretta e arrossì un po’ “Beh, è un lavoro affascinante.”.
Lei comprese che quell’argomento poteva aiutarlo a sbloccarsi un po’ e continuò a fargli domande sul corso di studi, e la psicologia, e questi “schemi mentali” individuabili. Lo osservò ammorbidirsi pian piano, sorridendo sempre più apertamente e parlando sempre più ad alta voce. Dopo quindici minuti di questa conversazione lo sguardo di lui si fece attento e atteggiò il viso a stupore misto ad accusa “Tu sei molto intelligente, e intuitiva”.
Lei rimase a bocca semiaperta, senza capire, al che lui continuò “Hai capito che sono, beh…molto timido e che parlare di queste cose mi piace molto. E’ per questo che mi stai facendo tutte queste domande”. Lei si appoggiò più comoda sul divanetto d’angolo che stavano occupando loro e rispose “Ti faccio queste domande perché è interessante. E anche perché ho capito che ti piace, ma non è che ti stia facendo parlare a vanvera, perciò continua. Mi interessa sul serio.”.
 
Tommaso non capiva. Silvia era la prima ragazza che incontrava che sembrava interessarsi a lui. Di solito le ragazze si accorgevano subito di quanto fosse introverso e gettavano la spugna. Lei invece no, continuava a farlo parlare e a ridere e lui la trovava magnifica per questo. La osservò, i capelli scuri e gli occhi chiari in così magnifico contrasto, le lentiggini che non le erano andate via neanche a Novembre, e pensò che era bella, bella davvero, e che voleva conoscerla e capirla. Non come psicologo, ma come ragazzo che vuole una ragazza. Lei lo aveva colpito, e molto. Quelle labbra sarebbero state così belle da baciare… e un attimo dopo arrossì per il pensiero e cercò di concentrarsi su di lei che gli raccontava della laurea vicina.
Proprio mentre pensava che non voleva che si separassero e immaginava di offrirle un passaggio in moto solo per avere la possibilità di stare solo con lei senza sentirsi osservato, che Cheyenne venne a rapirla per farsi accompagnare in bagno mentre Eleonora cercava di staccare Deborah e Giovanni e minacciandoli di usare il piede di porco.
Bevendo un altro sorso di birra, sorrise tra sé decidendo che Silvia valeva la pena di essere scoperta e elaborando un piano per farsi dare il suo numero.  Poi si disse che era troppo timido per farlo.
Perso nelle sue riflessioni, guardò Filippo. Si erano conosciuti in università: Fil era quel genere di persona che ti travolge e basta, e che si diverte a diventare amica di persone che erano esattamente il suo opposto. Tommaso lo osservò – i capelli chiari, gli occhi nocciola, la t-shirt che ostentava nonostante il freddo novembrino- e desiderò di essere come lui. Se non fosse stato così timido avrebbe chiesto il numero a Silvia, ma se fosse stato come Filippo sarebbe stata Silvia a chiedere il numero a lui o a lasciare il suo su un fazzoletto o un bigliettino, come succedeva nei film e nei libri.
Notando il suo sguardo perso Filippo troncò la conversazione con Giovanni (che dal canto suo non sembrò dispiaciuto. Specie quando si girò verso Deborah. Specie quando lei lo baciò con trasporto cominciando a dare spettacolo) e gli si avvicinò.
“Allooora, Tommy!” e lui non riuscì a dire “Non chiamarmi così” che l’altro continuò “Ti piace proprio Silvia, eh?!” e poi cominciò a battergli una mano tra le scapole con divertimento quando Tommaso rischiò di affogarsi con la birra. Dopo essersi ripreso si girò verso di lui, ansante “Ma io…cavoli, io veramente…” e Filippo ruggì una risata prima di rassicurarlo “Guarda che tu le interessi” per poi proseguire davanti allo sguardo stupito dell’amico “La conosco, so come fa quando le piace uno. E’ una persona che sa mettere a proprio agio chi si trova davanti, lei. E lo fa con te perché vuole conoscerti. Perché non le chiedi di uscire?” e in quella, sempre sotto lo sguardo incredulo e un po’ spaventato di Tommaso, Silvia e Cheyenne uscirono dal bagno.
“Pensaci.” si congedò Filippo.
 
“Allora, ti piace Tommaso?”
Cheyenne stava davanti allo specchio a bocca aperta mentre si ripassava la linea nera sopra gli occhi. Silvia si aggiustò i capelli mentre rispondeva. “E’ interessante. Non si capisce che tipo è… per via degli strati.”.
“Gli strati?”
“Beh, sì. A prima vista sembra tutto timido e pauroso. Ma quando parla di cose che gli piacciono si apre un po’ di più. L’ho notato quando prima parlava della moto, e un altro strato si è… ”sollevato” quando gli ho chiesto della psicologia. E’ fatto a strati, insomma.”.
Cheyenne la guardava come se le fosse spuntato un tentacolo sulla fronte.
“Silvia… ma quanto ti pace esattamente questo tizio?”
“Te l’ho detto, è…”
“Non propinarmi la balla dell’interessante per cortesia. Tu lo hai studiato. Lui ti attrae. L’hai messo a suo agio, hai cercato di capire bene com’è fatto… e lo fai solo se le persone ti piacciono molto. Ti piace maledettamente, Silvietta mia cara”
“Ma che dici? Lo conosco da sì e no un paio d’ore!”
“E con questo? Non vuol dire un cavolo e tu lo sai. Ti piace” poi si girò con indifferenza verso lo specchio e si mise il rossetto. “Escici” e, superatala come se non esistesse, uscì dal bagno.
Silvia sperava che Tommaso le desse un passaggio. Tommaso sperava che Silvia glielo chiedesse. E Filippo, che non era stupido come sembrava ma aveva capito tutto, disse “Ehi Tom, porti a casa tu Silvia? Io vado dall’altro lato”e Tommaso si sentì sollevato e terrorizzato insieme. “Certo” aveva detto poi con un mezzo sorriso “Ci penso io” e si era girato verso di lei “Non hai paura della moto, vero?” e lei aveva scosso la testa, mordendosi le labbra per non scoppiare a ridere.
Perché Cheyenne aveva maledettamente ragione.
Il viaggio era stato breve, giusto cinque minuti dal centro prima che Silvia smontasse. Lui si era sciolto u po’ sulla moto, col vento che frustava forte; almeno, pensò, la pioggia aveva smesso. Il che era anche un peccato perché se fossero stati bagnati magari lei lo avrebbe invitato a salire e…
E qui la sua fantasia si bloccava, perché non voleva non doveva non riusciva neanche a pensarci.
Sotto casa di Silvia scese dalla moto. “Bella serata, eh?” Aveva chiesto lei mentre cercava distrattamente le chiavi con una mano che girava a vuoto nella borsa. C’era stato un attimo di silenzio e poi Tommaso esordì con: “Immagino che tu voglia…” e lei lo interruppe “Solo se va a te”. Il che lo lasciò un po’ perplesso perché lui voleva dire “Immagino che tu voglia salire ci vediamo ciao” o qualsiasi altra cosa potesse congedarlo magari permettendogli di baciarle una guancia. Silvia aveva allungato una mano e aveva preso il telefono di lui dalla tasca del giubbotto, per porgerglielo poi un minuto dopo con una specie di sorrisetto di scuse abbassando lo sguardo per un secondo. “Mandami un messaggio un giorno di questi se ti va un caffè”; poi l’aveva baciato e era entrata nel palazzo.
Lui si era girato quasi barcollando come ubriaco, incredulo per quello che era appena successo.
Scorse la rubrica e fece una cosa che non pensava di fare mai in vita sua. Il messaggio che inviò diceva “Domani, 19:30? Passo a prenderti io”.
Cinque secondi dopo lei rispose con “Speravo in questa richiesta”.
 
L’autrice
Boh.
No, sul serio. Non so da dove sia uscito. Avevo già un altro capitolo in correzione e poi mi è uscito questo. E’ che mi sono rotta le scatole dei bei misteriosi fighi tutti loro che fanno sciogliere le donne con la forza del loro sguardo e le mettono incinte con le loro parole. Uomini così non esistono, dai. Tommaso è l’antitesi dei ragazzi sicuri e divertenti che vengono propinati quasi ovunque. Ma spero che vi sia piaciuto perché a me piace molto. Ok, no, non ha più un senso quello che vi scrivo e mi dispiace. Spero che chi passi da qui lasci un commento! Un abbraccio.
Donteverlookback

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Capitolo 8
*** E' vivo, è vivo, è vivo ***


 
Attenzione: nei limiti del rating imposto a questa storia, quello che segue è il racconto di una coppia omosessuale. Se qualcuno fosse sensibile all’argomento consiglio di non leggere.

 
E’ vivo, è vivo, è vivo
 


Il giorno del funerale pioveva.
Una pioggia fuori luogo in quel luglio caldo, nel bel mezzo di un’estate torrida, in uno degli anni più irrespirabili di sempre.
Eppure anche quel cielo, carico di nuvole grigie, piangeva per quella morte violenta. Ingiustificata, definitiva e irreale come solo la morte sa essere.
Adele è in prima fila, e tiene il capo chino, le mani giunte che continuano a tremarle per il freddo e la shock; sua madre le sta a destra e piange di un suono basso e lamentoso, il richiamo di un animale che soffre; Edoardo è alla sua sinistra e non sta permettendo a sé stesso di far scendere neanche una lacrima: non ha mai pianto dalla telefonata che ha cambiato la vita di tutti loro.
Dall’altra parte, disposti in maniera speculare, stanno Francesco, Emilio e Lucrezia. Gli ultimi due sostengono il primo, che è così bianco e stravolto da far paura, gli occhi enormi e fissi, la bocca semiaperta e il viso devastato dal pianto. Sta rivivendo ogni bacio, ogni carezza, ogni minimo momento della sua vita insieme a lui, a lui, a lui.


Il vento freddo di Novembre non riusciva a penetrare la pesante sciarpa di lana che portava avvolta intorno alla bocca; i guanti di pelle e il cappello nero coprivano perfettamente il resto. Sotto quel cappello, dei riccioli castani; dietro quella sciarpa, occhi grigi e un accenno di barba; sotto quel cappotto, un fisico magro e ben delineato.
Francesco Cevenini correva verso casa sua, dopo le lezioni all’università di Bologna. Aveva il passo veloce, silenzioso, un’ombra che non esiste e un ragazzo che fa finta di non esistere.
Aveva le braccia cariche di libri e la tracolla rotta che gli pendeva da una spalla, il fondo lacerato: non era lontano da casa sua, per fortuna, quando i libri avevano strappato la fodera ed erano precipitati per terra con un tonfo, facendolo barcollare di lato. Li aveva recuperati e aveva accelerato il passo ancora di più.
Camminando si stringeva nelle spalle, come chi non vuol far notare la sua presenza: si sentiva triste, stanco e solo. Era triste perché stava via da casa sua da più di due mesi, stanco per via delle troppe notti passate a studiare e solo… da quando in università si era sparsa la voce che lui fosse… Dio, che cosa orribile. Adesso era additato nei corridoi, come se portasse la peste o qualcosa del genere. Per fortuna a casa non era così. Nel suo appartamento lì a Bologna c’era Gioia, che era rimasta tranquilla alla notizia; Emanuele all’inizio era stato un po’ imbarazzato ma poi si era ripreso ed era tornato l’amico di sempre; Gabriele invece aveva lasciato la casa in fretta e furia dopo tre giorni, dicendo che sapeva che non era colpa di Francesco, ma che semplicemente lui la considerava una cosa troppo contro natura per poterlo accettare. E così, se ne era andato.
Col senno di poi, che è un pessimo consigliere ma un ottimo osservatore, Francesco aveva deciso che era meglio così, che in questo modo poteva capire chi fosse davvero amico suo al di là di tutto. Gioia glielo aveva detto, d’altronde: “Ma che ti importa? A te pare giusto che persone che vivono la loro vita come gli pare, secondo i propri desideri, deve condannare te perché vivi la tua secondo i tuoi, di desideri? Ma un pacco di cazzi loro e la lingua in culo?” quando si agitava tendeva a diventare sempre più scurrile, cosa che stranamente lo faceva sempre ridere e lo tirava su anche se detestava il turpiloquio nelle donne.
Non che le donne non lo attraessero, in un certo qual modo. Hanno quel modo di reagire a tutto, di essere forti in qualunque situazione; hanno dei sorrisi e dei corpi bellissimi, ma… non era quello. Le considerava belle da osservare. Come si poteva fare con un quadro o una statua, niente di più e niente di meno.
Ma era gay. Assolutamente gay, e tante grazie.
Era in questo stato di cose che aveva continuato a stare, imparando ad accettare la realtà di amici veri e non, di prese in giro e punzecchiamenti. Perlopiù bonari, in realtà, quelle prese in giro che si fanno a chiunque, umoristiche e non offensive; le stesse che potevi fare a uno disordinato o pigro, per intendersi; aveva cominciato a scherzarci anche lui, prendendo alla sprovvista Emanuele dicendo ogni tanto, con aria da nobildonna ferita e trattenendo a stento le risate “Destino infelice! Io lo amo, amo quella sua testa da provola e quegli occhietti così vuoti, ma lui ahimè ha vuoto anche il cervello e non mi ricambia”; queste scene di solito finivano con Gioia a terra in preda a risa convulse ed Emanuele che gli lanciava un cuscino ridendo e dicendo di piantarla.
Quelli erano i momenti buoni.
Nei momenti cattivi, invece, era esattamente come quel giorno: si domandava perché cavolo perché si fosse complicato la vita così, quando sarebbe stato molto più facile mettersi, che so, con Gioia, e tanti saluti. Nei giorni cattivi i compagni di università praticavano nei suoi confronti una sorta di apartheid: alcuni erano incuriositi dal ragazzo toscano che stava sempre solo e si mormorava fosse “sì, insomma, gay, ma gay gay, ha anche sedotto quel professore, sì, quello li… quello moro, e per quello il voto del suo esame è tanto alto, che credevate?” e quel “che credevate?” lo dicevano con le sopracciglia inarcate e un’espressione scettica e insieme sicura, come di chi ha capito tutto. Quel genere di espressione, insomma, con cui chi fa finta di aver capito tutto mostra di non aver capito un cazzo.
“Non capiscono niente” si stava dicendo Francesco col viso atteggiato a rabbia inespressa sotto la sciarpa. Cercava di far finta che non gliene importasse niente, ma quelle voci avevano il potere di ferirlo nel profondo. In quel momento di profonda amarezza gli caddero i libri di mano e lui si sforzò di non mettersi a sbraitare, lacrime di rabbia impotente che si formavano all’angolo degli occhi.
E allora, solo allora, lì in mezzo alla strada inginocchiato davanti ai suoi appunti sparsi per terra in quel pomeriggio di Novembre, Francesco conobbe la felicità. E la felicità aveva un nome e un cognome: Roberto De Rosa.
Roberto era su quella stessa strada, a pensare alla cena da cucinare e ai genitori da chiamare quando aveva visto quel ragazzo, che camminava veloce come se volesse sparire, in piedi accanto alla pila di libri caduti per terra. E il modo in cui aveva esitato prima di raccoglierli, come di chi si chiede a cosa serva, gli aveva fatto pensare che quel poveretto si sentisse profondamente triste.
Si era chinato per aiutarlo e aveva visto gli occhi grigi, i capelli castano chiaro  e quell’enorme sciarpa rossa che copriva tutto il resto. Nello stesso momento, Francesco guardava i capelli neri e gli occhi caldi e castani e si sentiva come se l’aria si fosse fatta più calda e una candela gli fosse stata accesa ad un passo. Senza dirsi niente recuperarono tutti i libri prima di alzarsi e fissarsi di nuovo, pervasi all’improvviso da un imbarazzo denso come melassa. Francesco decise di ricorrere all’educazione per vincere quel momento di impasse.
“Grazie mille, questa dannata tracolla si è strappata e mi tocca portare i libri a mano.”
“Niente, figurati, cose che capitano. Vuoi che ti aiuti a portarli fino a casa?”
Nella testa di Francesco c’era une genuina curiosità di conoscere il ragazzo che si era fermato ad aiutarlo quando tutti gli altri passanti se ne erano fregati: dall’altra parte però risuonava la voce di sua madre che gli ripeteva che non bisogna fidarsi degli estranei, che quelli sembrano gentili e poi ti stuprano ti derubano ti ammazzano e vendono i tuoi organi. Nonostante tutto la prudenza ebbe la meglio e lui si ritrovò a declinare la proposta.
“No, grazie, ti ho già sfruttato abbastanza e tu sei fin troppo gentile, ma sono arrivato, casa mia è lì” aveva concluso la frase facendo un vago gesto alle sue spalle, senza fornire un’indicazione precisa. “Sono Francesco, comunque” e tese la mano, mostrando di nuovo l’educazione a cui si aggrappava ferocemente e sperando che il tizio si presentasse a sua volta. “Roberto, molto piacere” accennò un mezzo sorriso. Proprio quando Francesco stava per dire qualcosa per congedarsi, visto che non sapeva più che altro aggiungere, Roberto fece cenno di prendere qualcosa dalla borsa e quando tirò fuori la mano stringeva una biro. Si allungò a scrivere sugli appunti di Francesco un numero di cellulare per poi fare un sorriso completo, stavolta, e terminare la conversazione con un “Chiamami se ti va una birra, in ogni caso abito proprio qua sopra se mi cerchi. Buona serata!” e dopo aver indicato il tabaccaio alle sue spalle se ne era andato dandogli le spalle.
Erano delle belle spalle.
E Francesco aveva stretto quel foglio pensando che forse quella giornata, alla fine, potesse essere annoverata tra quelle buone.

Aveva rispettato la classica regola dei tre giorni prima di chiamare Roberto, adducendo come scusa che doveva proprio passare dal tabaccaio e che, se a Roberto andava, potevano anche andare a fare due passi e poi prendere una birra… sempre beninteso che gli andasse, eh, solo per fare due chiacchiere e un giro. Roberto aveva accettato con la traccia di un sorriso nella voce e poi avevano messo giù, solo per andare a prepararsi di corsa con un po’ di dubbi. Gioia, ridendo, gli aveva detto di mettere camicia e blazer e magari una minigonna; poi era tornata seria e aveva detto di mettere un paio di jeans chiari e una camicia blu, con le maniche arrotolate, gli aveva aggiustato i capelli personalmente e dissuaso dal farsi la barba, che quel tocco di scuro sulle guance gli conferiva un’aria accattivante.
Davanti allo specchio, Francesco ammise che Gioia aveva occhio: nell’insieme sembrava un ragazzo fresco, giovane e se non proprio bello sicuramente affascinante. Gioia continuava a girargli intorno, aggiustando ora un ciuffo, ora la manica, continuando a dire che era bellissimo.
Con un rinnovato senso di speranza in corpo, alla fine Francesco uscì di casa per arrivare dal tabaccaio all’ora pattuita. Neanche si fossero sincronizzati vide Roberto arrivare dall’altro lato della strada, il giaccone aperto e la sciarpa grigia intorno al collo. Lo trovò molto bello ed elegante nei movimenti, come un ghepardo a caccia o qualcosa del genere: Roberto lo aveva avvistato da lontano e aveva sorriso aumentando il passo fino a raggiungerlo; non sapevano come salutarsi e alla fine optarono per quella stretta maschile ad avambracci piegati che era più di una stretta di mano e meno di un abbraccio. Avevano girato insieme tutto i pomeriggio, fino a concedersi un hamburger e una birra, quando Roberto invitò Francesco a salire da lui per un ultimo bicchiere. Era finita che Francesco era rimasto a dormire da lui, usando uno dei pigiami dell’altro.
E, il mattino dopo, si erano baciati per la prima volta.
E quel bacio era stato un ritorno a casa, una canzone sussurrata, una melodia che tu ti sei scordato ma il tuo corpo no. Da quel bacio, erano diventati inseparabili: vacanze, concerti, spettacoli. Fino al matrimonio in Spagna. Fino a quando Roberto era tornato a casa un pomeriggio con la faccia più triste del mondo, facendo sedere Francesco e versandogli un whisky prima di parlare.
Al cervello, un cancro al cervello. L’aveva colpito con forza, e adesso rimaneva solo una corsa all’ospedale da fare, documenti e attese e dolore.
Roberto aveva vegliato su di lui, tenendogli la mano mentre il veleno che doveva salvarlo lo faceva gemere, imprecando a gran voce per il dolore, per quella sensazione di avere vetriolo nelle vene e cemento nei muscoli. Fino a che Francesco non aveva sentito quel bip, quel rumorino che sembrava dirgli ogni volta “è vivo, è vivo, è vivo…”, farsi sempre più lento. Aveva guardato Roberto che dormiva un sogno spossato, il viso ridotto a uno scheletro con la pelle lucida e tirata, la sfumatura gialla di chi non vede il sole da troppo tempo; l’aveva guardato e quello che aveva visto, l’amore della sua vita che andava via, l’aveva distrutto in più modi di quanti non se ne potessero contare. Il rumore che sussurrava vita all’improvviso divenne troppo fisso, mischiandosi al gemito di Francesco che sentiva lacrime pesanti cadere sulla sua camicia. Si sentì scoppiare di dolore mentre si piegava sul suo petto, sul petto di quello che era stato Roberto e che adesso era non più di un guscio freddo che non conservava niente dell’uomo che lo aveva abitato. Medici e infermieri gli avevano sciamato intorno ma lui non si era accorto di niente, sentiva solo quel bip lunghissimo che gli si era incastrato nel cervello e poi il vuoto, li bianco. In quel momento non si sentì più vitale del cadavere che stava guardando, e desiderò di morire. Poi si alzò e cominciò a urlare.

Nessuno ascoltava l’omelia del prete. Niente avrebbe potuto parlare di Roberto abbastanza, descrivere i suoi occhi dolci e il sorriso perenne, l’ingenuità e la facilità con cui si fidava di chiunque ed era sempre disposto a concedere un’altra possibilità; la sua curiosità inarrestabile e il suo carattere irritabile.
Francesco piangeva ed ogni lacrima era un tributo a lui. Desiderava tornare lì, a sentire quel suono di flebile vita.
“E’ vivo, è vivo, è vivo…”.



Note dell’autrice
Angst, me ne rendo conto. Triste. Ma purtroppo c’è anche questo: l’amore che se ne va. E in questa raccolta, che tocca l’amore nelle sue diverse forme, non poteva mancare. Spero che qualcuno mi dica cosa ne pensa. Un abbraccio a tutti voi che leggete, come sempre.
Donteverlookback
 
 

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Capitolo 9
*** You don't want to be alone ***


 
You don’t want to be alone


Seduta sul mio letto guardo la mia migliore amica e le passavo a seconda del momento birra, fazzoletti e orsetti gommosi. La formula perfetta per far smettere Margherita di piangere disperatamente perché Niccolò l’ha mollata.
Non che la cosa mi sorprenda, eh: erano secoli che si vedeva che tra loro non poteva funzionare; erano durati abbastanza da farmi quasi ricredere, ma questa è la prova che bisognerebbe sempre fidarsi delle sensazioni. Niccolò è il classico cattivo ragazzo, quelli che starebbero bene nelle risse da bar per intenderci, e Margherita una ragazza tranquilla per la maggior parte del tempo. La versione postuma di Babi e Step di Tre Metri Sopra Al Cielo; ecco perché quel libro mi sembrava tanto una merda: quei due sono così stereotipati e male assortiti che il finale è scontato.
Insomma sono qui che rifletto su come sia andato questo macello e intanto raccatto kleenex in giro e glieli passo a macchinetta mentre Marghe continua a pulirsi gli occhi mandando singhiozzi che sembrano squittii; per non passare da cinica e ridere ricomincio a parlare.
<< E perché ti ha lasciata? >>
Sembra strano ma non ho avuto ancora modo di farle questa domanda, impegnata com’ero ad arginare le sue crisi di nervi.
<< Non mi ha lasciata! >> se certo come no, eppure sono certa che tra un singhiozzo e un gemito abbia detto proprio “Quello stronzo mi ha lasciata” << Abbiamo deciso di rompere. >> ed è così sconvolta? Oh Dio ti prego fa’ che non debba mai fare ‘sta fine, per favore. << Perché…? >> cerco di saperne di più.
Marghe mi guarda un attimo, con gli occhi lucidi di pianto e cerchiati di nero – il suo mascara ora è diventato una specie di polvere nera che le ricopre tutte le guance – e poi gira il capo, allungandosi a prendere un altro orsetto di gomma.
<< Mi ha accusato di averlo tradito. >> Non ci credo. Non che non l’abbia accusata, a quello ci credo. E’ che non esiste al mondo che Marghe abbia tradito Niccolò: è fedele come un cane salvato dal canile. << E poi…? >> con lei è essenziale porre le domande senza dargli intonazioni interrogative, altrimenti dice che sono una pessima amica perché mi interessa solo fare gossip e non aiutarla e dire che si fidava di me… ma sto divagando.
<< E invece mi tradiva lui, quel sudicio… >> sequela di offese e singhiozzi. Le passo un altro fazzoletto e apro un’altra birra, sospirando. Qui lo so già, ci vuole uno di quei miei discorsi che piacciono tanto a Marghe, quelli che la tirano su. Mi alzo a prendere lo struccante e dei dischetti di cotone, poi mi siedo più vicina a lei, mi infilo in bocca un orsetto gommoso e lo mastico prima di aprire lo struccante: il discorsetto va fatto senza guardarla direttamente fino alla fine, che se la guardo negli occhi dice che le viene da piangere e poi le tremano le labbra e non mi può rispondere e quindi sono una pessima amica perché non sono brava a consolare… ma sto divagando di nuovo, alla faccia di Margherita che dice che non la ascolto quando parla mentre ormai i suoi discorsetti li so a memoria.
E’ il momento di cominciare con un Discorso Che E’ Fatto Col Cuore E Che La Tiri Su Di Morale. Tutte con le maiuscole. Un respiro profondo e comincio a struccarle la palpebra.
<< Marghe ascolta. Niccolò ha fatto una cosa schifosa e vigliacca. Per me è un vile e basta, con me non parlerebbe mai più. Ma questo è quello che farei io e tu sei ben diversa da me >> Passo a un lato dell’occhio << Tu sai perdonare e hai un cuore grandissimo e posso solo immaginare quanto tu stia soffrendo. Se tu pensi che lo ami, e lo fai abbastanza da passarci sopra e continuare a stare con lui, fallo. Continua la vostra storia. Non ho mai finto che mi piaccia e non comincerò ora, ma il mio parere è una cosa molto soggettiva che non ha niente a che vedere con me. Se vuoi continuare a stare con lui allora fallo, e io sarò qui a consolarti se va male o a gioire se va bene. >> Fin qui è stata quasi semplice, ma ora viene il difficile. Perché non sono capace di tenere per me quello che penso. Passo alla metà del viso ancora truccata << Ma secondo me, Margherita, tu non lo ami davvero lui. Neanche quanto pensi. Io ti conosco e so qual è la questione: tu non vuoi stare da sola. E’ per questo che vorresti perdonarlo, non è vero? So già che se ci pensi ti fa più paura l’idea di separarti da “un fidanzato” piuttosto che da Niccolò in persona. Tu se bella, simpatica, e hai un’infinita incapacità di amare: non farlo con qualcuno che sicuramente ti farà soffrire. >> A questo punto la devo guardare per forza negli occhi e continuo: << Forse mi sbaglio, ma io credo di no. Mi hai confessato tu stessa di aver avuto paura di rimanere sola altre volte, e io credo che questa volta sia una di quelle. Se è così, allora rinuncia: non è giusto soffrire così, prendere in giro il tuo ragazzo e continuare a farti andar bene una situazione che non porterà niente di buono. >> Adesso ha gli occhi pieni di lacrime. Finora l’ho solo intristita, quindi decido che ci vuole la sferzata di ottimismo finale.
<< Marghe >> le poggio le mani sulle spalle << Qualsiasi cosa tu decida io ti aiuterò, e sarò qui in ogni caso. Tu sei la mia roccia e io voglio essere un sostegno per te, nel bene e nel male. Tu sei magnifica, e là fuori c’è sicuramente qualcuno che ti amerà quanto tu amerai lui. Quindi adesso decidi cosa vuoi fare e io vado a comprare un sacco di gelato, così abbiamo qualcosa con cui festeggiare o su cui piangere. >> riempire di zuccheri qualcuno lo aiuta sempre, teorema di Elena – ossia il mio teorema personale. Lei annuisce e sorride, per poi asciugarsi gli occhi con la manica della maglietta e guardarmi con un’espressione così adorabile che non posso fare a meno di lasciarmi sfuggire un verso intenerito prima di abbracciarla.
<> mormora solo.
Che bella cosa le amiche.
 
Note dell'autrice
Alloooooooooora gente bella! Qui Donteverlookback sotto esame che non sa dove sbattere la testa. Penso che dopo questo capitolo ce ne sarà giusto un altro e poi una specie di epilogo. E basta. Perché… boh, l’ho deciso io. Che poi magari cambio idea, eh, chissà.Questo è un capitolo dedicato all'amicizia, che è comunque una forma d'ampre quindi andava omaggiata. Elena, la voce narrante, non è cattiva...giusto un po' cinica. Vogliatele bene.
Un abbraccio a tutti coloro che leggono ma in particolare a gabrilisa e ineedofthem che hanno aggiunto alle seguite. Grazie di cuore!
A presto,
Donteverlookback


 

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Capitolo 10
*** Nel nome del padre ***


 
Nel nome del padre
 
La mattina del ventiquattro Febbraio si apre come tutte le altre: l’aroma di caffè si è propagato su tutte le scale, ho sei chili di coperte addosso e il sole mi acceca.
E Federico non è accanto a me.
aggrotto la fronte, confusa. Di solito ci alziamo insieme quando Daniel, il maggiordomo, ci porta il caffè. Se ve lo state chiedendo: sì, è bella la vita da ricchi ereditieri.
Infilo le ciabatte rosse e mi avvolgo nella vestaglia-kimono di MiuMiu per poi scendere lo scalone verso il soggiorno.
Federico è al telefono e mi dà le spalle, avvolto nel vestito di alta sartoria e con i capelli scuri ancora umidi dopo il bagno; ci metto qualche secondo a capire che sta parlando in inglese in maniera abbastanza alterata. Questa scena si ripete spesso da quando ha cominciato a lavorare nella ditta del padre dopo la laurea, come responsabile dei rapporti internazionali: lingue orientali e inglese. Attacca dopo qualche minuto di insistente conversazione in tono sempre più nervoso per poi girarsi e inquadrarmi sulle scale. Mi sorride con quello sguardo che è al cento per cento suo, i denti bianchi contornati da un accenno di barba scura che gli dà un aspetto estremamente accattivante.
“Ciao amore” mi saluta salendo qualche gradino e posandomi un bacio sulle labbra.  Sento l’odore del bagnoschiuma alla lavanda che gli ho regalato io, un odore fresco che mi piace sentirmi vicino e che lui usa abbondantemente per questo. “Facciamo colazione?”

Il salone di casa nostra è arredato nello stile più moderno che sono riuscita a concepire. Per avere il tavolo di vetro nero smerigliato ho fatto il diavolo a quattro, per il televisore ultrasottile dai profili argentati ho imbastito lo sciopero del sesso. Quella volta almeno la vittoria era stata duplice. E il bellissimo divano ovale… Federico pensa che sia un regalo dei miei: la verità è un filo più scomoda.
Lui è il marito perfetto. E’ gentile, devoto, bello, ricco, molto intelligente ed estremamente dolce.
Ed è di una noia mortale.
Quello che desideravo io era il fascino della caccia, l’attesa, il brivido. Queste cose in mio marito non esistono: le ho dovute cercare altrove, e l’altrove che ho trovato era stato ben disponibile e regalarmi quel divano per il nostro soggiorno, considerandolo un atto quasi divertente nella sua spregiudicatezza.
Quando ho finito la colazione vado su in camera a prepararmi per l’incontro che abbiamo a pranzo: la domenica è così, non pranziamo mai a casa dal nostro fidanzamento ufficiale, sei mesi fa, e da dopo il nostro matrimonio, non più tardi di otto settimane fa. Dai miei, dai suoi, da amici…mai da soli per il pranzo della domenica. In biancheria intima osservo la mia cabina armadio scegliendo un vestito leggero, verde smeraldo, tanto a pranzo saremo al caldo. E poi, questo vestito… diciamo che mi evoca bei ricordi.
E’ mentre tiro su i leggerissimi collant neri che Federico mi raggiunge alla ricerca di una cravatta decente: “I miei ci aspettano per la messa. Vieni anche tu, vero?” mi giro verso di lui, mentre sono intenta ad allacciarmi le Louboutin sulla caviglia, e sorrido del mio sorriso più accattivante. Lui mi sorride di rimando, gli occhi verdi presi dal padre così familiari per me.
Ma io distolgo lo sguardo. 
La chiesa è la stessa dove ci siamo sposati.
Sono passati giusto due mesi dal quel giorno di dicembre dove la neve la faceva da padrone e tutto sembrava avvolto nello zucchero. In quel panorama i nostri visi ancora abbronzati dalle vacanze in Perù erano risaltati perfettamente, rendendo ogni sorriso candido come la neve alle nostre spalle.
Davanti alla chiesa Rosa e Andrea, i miei suoceri, ci aspettano immobili, il viso atteggiato a cortesia. Stanno a una distanza normale per due persone sposate da tanto, ma che io noto essere piena di imbarazzo: so che quel matrimonio non funziona, e lo so perché me l’ha detto lui.
Mi torna in mente la scena in modo nitidissimo mentre guardo Andrea negli occhi un attimo in più del lecito, rivedendoli nella sua camera matrimoniale, in mezzo al letto disfatto, vicinissimi ai miei.
Perché mio suocero, il padre di mio marito, l’uomo che ci ha regalato il divano del mio salotto è il mio amante.
 
Era iniziato tutto poco prima del fidanzamento ufficiale, a Giugno. Quel pomeriggio ero sola a casa, i domestici liberi per tutto il giorno e Federico impegnato in una riunione di lavoro; quando avevo visto mio suocero sui gradoni di marmo avevo pensato subito che fosse passato ad avvisarmi di qualche inconveniente e fosse venuto a prendermi. Ho passato tutta la vita tra autisti e fidanzati e non ho mai imparato a guidare perché c’era sempre qualcuno disposto a farlo per me.
Avevo fatto accomodare mio suocero sul divano che volevo cambiare, che nel suo verde smeraldo stonava con il resto dell’arredamento che avevo scelto. Era stato mentre parlavamo del più e del meno che mi era venuta questa idea: e se…
Se avessi usato entrambi?  Perché non diciamoci cazzate, dai, l’amore può esistere e colpire, essere forte e travolgente. Ma vuoi mettere con maggiordomo e limousine, con le Bahamas e la decapottabile, con lo shopping e i ricevimenti? Ecco perché stavo con Federico: lui era quel fidanzato noioso nella sua perfezione che però mi faceva quei regali…e quelle collane, quei vestiti, quei diamanti erano ciò che desideravo di più. Questo però prima che mi rendessi conto di Andrea. Perché sapevo che il matrimonio dei miei suoceri non andava granché bene, me l’aveva raccontato Fede, e Andrea era un uomo affascinante, molto bello, che aveva avuto Federico molto giovane e quindi manteneva ancora il ascino di un uomo di neanche cinquant’anni. E aveva mani grandi che sembrava fossero capaci ad accarezzare, labbra carnose e naso dritto, e occhi verdi e spalle forti… Insomma, Andrea aveva la stessa bellezza antica del suo figlio maggiore ma con il fascino di un uomo di successo. E prima di accorgermene stavo già programmando come avere quello che volevo usando padre e figlio… e godermi la situazione, ovvio. E avevo già indossato il mio sorriso più affascinante e inarcato la schiena ringraziando il mio corto e leggero vestitino rosso.
E un’ora dopo eravamo immersi nella seta delle lenzuola e io avevo già deciso come insinuare il bisogno del divano per poi fare lo sciopero del sesso per la tv. Sarebbe andato tutto bene.

Davanti alla chiesa saluto i miei suoceri ed entriamo insieme; per non tradirmi mentre gli altri fanno conversazione frugo nella borsetta e, proprio quando penso che devo trovare un altro modo per non farmi notare, mi arriva un sms. E’ Andrea.
“Ti devo parlare, dobbiamo smettere.”
Non se ne parla nemmeno, no no no. Non posso sopravvivere a questo matrimonio senza il mio amante. Troverò un modo.
LA messa comincia e io pronuncio distrattamente le formule rituali mentre cerco disperatamente un modo per non terminare la relazione così. Noto che Federico mi osserva incuriosito – forse si è a accorto che non sono molto concentrata – e chino il capo facendomi il segno della croce.
“Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo…”
Nel nome del padre…” Nel nome del padre… Nel nome del padre… Del padre
Troverò un modo, ne sono certa.
 
Angolo dell’autrice
Non mi piace. Ma sul serio. L’avevo cominciata con tanto spirito di iniziativa ma non so perché ho perso completamente l’ispirazione dell’inizio e ho continuato a scrivere come da programma originale ma non rende per niente come vorrei. Magari a voi piace di più…
Il prossimo capitolo sarà l’epilogo, e poi fine.
Spero che a questo – o al prossimo- vorrete dirmi la vostra opinione finale!
Un saluto da questa studentessa sommersa di studio,
Donteverlookback

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Capitolo 11
*** Anyway the wind blows ***


Anyway the wind blows

Luca e Cassie escono insieme adesso. Nessuno dei due ha voglia di correre troppo, quindi si limitano a sporadici caffè e uscite in biblioteca, dove studiano insieme. Cassie ha raccontato ai suoi genitori di quando è stata di nascosto a Siena e loro si sono infuriati, ma poi hanno capito.
Luca ha sentito i suoi amici, che stanno tutti bene e sono sparsi in Toscana a fare l’università. Hanno già deciso cosa faranno durante le vacanze e hanno organizzato il prossimo viaggio: hanno deciso di girare la Scozia e il Galles.

Monica Casteldiani è rimasta sola nella sua casa di Milano, ora che sua figlia è all’università a Padova. Ha passato un Natale orribile con le continue critiche di sua madre al suo disordine. A Pasqua, quando ha potuto presentare in famiglia Diego, è stato un po’ meglio. Adesso, stanno meditando di vivere insieme.

Lorenzo ed Elisa stanno preparando le loro nozze. La storia di Lola e del suo amore sfortunato l’hanno accantonata da una parte della memoria, ma tutte le volte che a Lorenzo torna in mente quel vestito così colorato che parla di un’altra epoca stringe più forte Elisa. Lei sta cercando di convincerlo a cominciare a prendere lezioni di ballo per vincere la sua idiosincrasia. Luisa non vede l’ora di fare la testimone e Francesco una volta tanto è uscito dalla sua apatia e si mostra contento.

Matteo ha ormai perso completamente la vista, ma continua a suonare il piano mentre riflette su cosa fare nel suo futuro. Giorgia soffre per lui e ha paura ad allontanarsi per l’università; la madre di Matteo le ha detto di non preoccuparsi e che lui sarà lì per lei in ogni caso. Nessuno sa cosa succederà dopo il diploma; Giorgia ha paura di scoprirlo.

Stefano e Amelia si sono lasciati. Lui non l’ha presa male come la volta prima, e Giulia si è ripresentata alla sua porta. Lui ha fatto un enorme sforzo per cacciarla via, ha ricominciato ad allenarsi e ha resettato l’iPod: ora non c’è nessuna canzone che lo fa ripensare a Giulia.

Walter è riuscito a convincere i suoi a farsi ridare la casa al mare per l’estate. Arianna ha trovato un ragazzo che, compensando lei, non apre quasi mai bocca; ma quando parla tutti, inclusa lei, non lo interrompono mai. Caterina ha perso un po’ della sua svagatezza, ma non il costante suo buonumore. Irene ed Elia hanno smesso di uscire di nascosto perché i loro amici gli hanno fatto presente che la loro pseudo-relazione è palese. Giacomo si è arreso alla prepotenza della sua mamma poliglotta e ora parla un francese fluente.

Tommaso e Silvia fanno ormai coppia fissa. Lui è un po’ meno timido e lei si è appassionata alla psicologia; per ora si sta limitando ai thriller di Wulf Dorne, ma Tommaso spera di poterle allargare un po’ gli orizzonti.
Filippo è ancora il sogno di molte ragazze dell’università; Giovanni e Deborah sono ancora attaccati con la supercolla; Eleonora e Cheyenne hanno cominciato a spacciarsi serie tv, e insieme hanno cominciato Scrubs. Sperano di finire in fretta e passare ad How I Met Your Mother.

Francesco è ancora solo. Sta ancora elaborando la sua solitudine, il modo con cui questa lo fa sentire di fronte agli altri. Si è promesso di non rimanere di umore così melanconico per sempre, ma purtroppo non riesce a uscire da solo da quella spirale di angoscia che lo tiene stretto. Per ora ha chiesto aiuto ad uno psicologo, poi chissà.

Margherita alla fine ha lasciato Niccolò e sta riflettendo se è sul serio solo innamorata dell’amore. Ha deciso che deve capirlo prima di mettersi con qualcun altro per non soffrire più, e per non far soffrire nessun altro. Nel frattempo Elena ha dato fondo ai suoi risparmi e ha preso i biglietti per i Red Hot Chili Peppers.
Perché riflettere sì, ma divertiamoci anche, eh.

La nostra ragazza ricca – Alice – per ora è riuscita a tenersi Andrea e Federico. Andrea ha troppi rimorsi e probabilmente prima o poi mollerà, ma Alice ritiene di poterlo fermare prima che mandi tutto a rotoli. Federico ha regalato alla sua mogliettina annoiata un viaggio per rilassarsi; lei ne approfitterà per…
Andare a caccia.

L’amore è ovunque. Ognuno di noi ama qualcuno, qualcosa, un posto o un momento: che sia un marito o una moglie, un figlio o un cane, il lavoro o il denaro, la propria casa o il passato. Non sappiamo, non ci rendiamo conto che c’è.
L’amore fa male, e bene. Cura e ferisce.
L’amore è importante, è fondamentale, muove il sole e le altre stelle.
Certe volte ci passa accanto e non ce ne accorgiamo, non lo riconosciamo per quello che è. Certe volte lo odieremo, ma passerà.
Non l’amore, no: quello non passa mai.  

Angolo dell’autrice
Siamo alla frutta. Sono davvero incredula di essere arrivata alla fine: quando ho cominciato ho pensato che non sarei andata avanti per molto. Certe volte volevo mollare. Alcuni capitoli li ho amati, altri meno, ma in ognuno c’è una piccola parte di me, di quello che ho visto e vissuto, immaginato e pensato. In ognuno dei personaggi c’è qualcosa di me, dei miei genitori e dei miei amici. Dei tipi di amore che ho visto e provato.
Spero che vi sia piaciuto il viaggio. Da qui, in ogni caso, è stato bellissimo.
Donteverlookback

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