L'ultima Battaglia

di Ayr
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dancing with the Moonlight Knight ***
Capitolo 2: *** A reason to fight ***
Capitolo 3: *** Bittersweet Memories ***
Capitolo 4: *** Lucian Silverclaw ***
Capitolo 5: *** The last fight ***



Capitolo 1
*** Dancing with the Moonlight Knight ***





I

Dancing with the Moonlight Knight




I've gotta fight today 
To live another day 
It's just another kill 
The countdown begins to destroy ourselves[1]

 

"Cittadini di Speranza e Gloria, vi diamo un caloroso benvenuto all'incontro che deciderà chi sarà degno di accedere alla semi finale del Torneo delle Due Ere, indetto dal magnanimo re Eldor per celebrare l'avvento della nuova era. È il momento migliore della vostra vita: dopo sangue e guerre è subentrata un'era di pace e prosperità, in cui la tecnologia ha reso migliore la vita di tutti!
Benvenuti nella nuova era!"
Duncan riservò alle parole gracchiate attraverso i megafoni il tempo necessario per maledire tra i denti questa fantomatica nuova era che, per quanto lo riguardava, si presentava esattamente come quelle che l'avevano preceduta: piena di vuote promesse e merda. I ricchi potevano avere il lusso di inneggiare alle magnifiche sorti e progressive che avevano permesso l'avvento di aeronavi, treni e armi da fuoco, mentre i poveri versavano sangue e sudore per strappare con le unghie e con i denti un giorno di vita in più alla morte.
Fino a quel momento Duncan era riuscito a tenere testa alla Nera Signora: una di quelle infernali macchine volanti gli aveva portato via una gamba, rischiando di farlo morire dissanguato sui campi di battaglia del Westeron, ma erano riusciti a fermare l'emorragia in tempo e la gamba era stata sostituita da un congegno di metallo che gli permetteva di camminare, correre per brevi distanze e perfino di saltare. Duncan si era domandato spesse volte come funzionasse quell'ammasso di ferraglia legato al resto di lui con una cinghia di cuoio, ma nessuno era riuscito a farglielo capire e alla fine aveva concluso che l'importante era che facesse il suo dovere senza intoppi.
Era una persona estremamente pratica e realista, che non si faceva illusioni sul futuro e badava a sopravvivere nel presente; viveva alla giornata e cercava di trarre quanto più profitto possibile da qualsiasi occasione gli si presentasse. Caratteristiche che gli avevano permesso di arrivare fino a lì tutto intero, o quasi: Cavaliere dell'Ordine dell'Aquila Rossa caduto in disgrazia dopo la Guerra delle Due Ere, si era guadagnato il pane vendendo la propria abilità con la spada a chiunque ne avesse avuto bisogno e potesse permettersi di pagarla. Con il tempo aveva affiancato alla sua attività di mercenario quella di gladiatore, in combattimenti tanto legali quanto, la maggior parte delle volte, illegali, guadagnandosi il nome di Duncan Cavaliere della Luna. Solitamente si trattava di incontri al primo sangue, che lasciavano come ricordo solo qualche graffio, ma a volte poteva trattarsi di scontri mortali, come in quel caso.
Il compenso per il vincitore era stato troppo allettante per fare lo schizzinoso e rifiutarsi di partecipare, e per quanto detestasse dare spettacolo di sé per il divertimento di quei topi di fogna che si fregiavano del titolo di baroni e conti, non si era pentito della sua scelta: fino a quel momento aveva guadagnato svariati tagli e cicatrici, cinquanta grifoni d'oro e il favore di diverse dame che non perdevano occasione per ricoprirlo di omaggi e promesse.
Alcune di loro, al suo ingresso, avevano gettato narcisi e rose che Duncan si era premurato di raccogliere, per poi offrirne una alla dama più bella che si trovava più vicino a lui. Quest'ultima era arrossita e aveva accettato la rosa con un timido sorriso, il Cavaliere aveva sorriso a sua volta: il suo fascino aveva mietuto una nuova vittima.
Nonostante la bassa statura, aveva una corporatura armoniosa, robusta ma non tozza, a differenza di molti altri della sua razza; i lunghi capelli castano scuro, striati di grigio,incorniciavano come una criniera il volto dai tratti duri e severi, ombreggiati da una corta barba scura. Sotto due folte sopracciglia, brillavano due occhi castani, magnetici e irresistibili. Duncan era ben consapevole di possedere un aspetto selvaggio e intrigante, che assieme al suo atteggiamento galante e cavalleresco, mandava in visibilio le nobili dame, e ne approfittava. Erano queste ultime, infatti, che fornivano armi e armature ai loro beniamini, pagavano loro l'alloggio e l'eventuale trasporto, e non era raro che truccassero gli incontri per far sì che fosse il loro preferito a vincere; era anche grazie a loro se in questo momento il Cavaliere si trovava ad affrontare l'energumeno che davanti a lui roteava la scimitarra, latrando come un ossesso.
Si concesse qualche secondo per esaminarlo: si trattava di uno di quei tipici idioti con più muscoli che cervello, era alto il doppio di lui e altrettanto largo, la scimitarra era lunga quanto Duncan e incrostata di sangue rappreso; probabilmente stava pensando che sarebbe stato semplicissimo fare fuori un essere piccolo,insignificante e con una gamba di metallo.
Duncan sorrise di nuovo, la bassa statura e la menomazione si erano rivelate più volte un vantaggio: quasi tutti i suoi avversari avevano fatto l'errore di sottovalutarlo, ritrovandosi poi con un cubito di terra sopra di loro.
Il gong suonò, accolto dal boato della folla: lo scontro era iniziato.
Il gorilla ringhiò e caricò, come Duncan aveva previsto, il gigante avrebbe sfruttato la sua stazza e la sua potenza con attacchi caricati e affondi poderosi, lui avrebbe cercato di sfiancarlo schivando i suoi assalti grazie alla sua velocità e agilità, nettamente superiori.
Si spostò di lato e la lama dell'avversario fendette l'aria in un gemito raccapricciante, già quel primo tentativo l'aveva destabilizzato e impiegò qualche secondo per ritrovare l'equilibrio; lanciò uno sguardo di fuoco a Duncan, emettendo un verso gutturale più vicino a quello di una bestia che di un uomo. Un nuovo attacco sibilò nell'aria a pochi centimetri dalla testa di Duncan, ma il nano scartò abilmente, evitando di venire tranciato a metà come un quarto di bue al mercato.
Il gorilla, visibilmente contrariato, sollevò la lama sopra la testa e preparò un nuovo assalto, ma il nano, per l'ennesima volta, lo schivò con un fluido spostamento laterale.
Ogni assalto del gigante veniva vanificato da un movimento repentino di Duncan che pareva danzare attorno all'energumeno, senza che la lama l'avesse sfiorato una sola volta: era uno spettacolo che poteva risultare gradito per i primi minuti ma ben presto il pubblico iniziò a rumoreggiare, annoiato.
«Ho pagato il biglietto per vedere un combattimento, non la danza della festa del raccolto!» urlò qualcuno dalle tribune.
«Sembra una di quelle vergini che la prima sera d'estate ballano attorno al falò» ridacchiò un altro.
«Smettila di piroettare nanetto, non è una gara di ballo! Attacca!» rincarò un terzo, ma il Cavaliere non diede loro retta: aveva la sua strategia e l'avrebbe seguita fino in fondo.
Gli attacchi del suo avversario avevano già perso la loro forza ed erano divenuti più lenti e impacciati, l'energumeno ansimava e goccioline di sudore scivolavano lungo la fronte e le tempie: portarsi appresso il peso di tutti quei muscoli per l'arena l'aveva stancato, i suoi riflessi sarebbero stati rallentati.
Un nuovo tentativo dell'altro, quasi totalmente privo di forza e ovviamente finito a vuoto, fece intendere al nano che era giunto il momento di mettere fine al combattimento.
Duncan estrasse la sua lama: era una spada di acciaio ripiegato, a una mano e mezza; la guardia d'argento, dalla fattura pregiata e raffinata, opera di elfi, era decorata con pietre di luna e granati color sangue e aveva un pomo a forma di giglio. Aisinril era il suo nome, "fiore sbocciato alla luce della luna"; era una spada che univa la resistenza del migliore acciaio nanico alle forme eleganti e ricercate dei più abili maestri armaioli elfici, un'arma degna di un Cavaliere dell'Aquila Rossa.
«Finalmente!» esultò la folla, impaziente di godersi lo spargimento di sangue.
Il gorilla provò ad attaccare per l'ennesima volta, ma il nano gli sfuggì di nuovo, agile e veloce. Mentre schivava il colpo, con un rapido movimento della spada recise i legamenti del ginocchio dell'energumeno che si accartocciò su se stesso, lanciando un urlo di sorpresa e dolore.
Lo sfidante cadde in ginocchio, non potendo più reggersi: ora la sua gola era all'altezza della lama di Duncan.

Il gigante, però, accecato dal dolore e dalla rabbia, cercò di menare un ultimo, disperato fendente: un attacco alla cieca, come quello di una fiera ferita, e come tale molto pericoloso e troppo imprevedibile. Duncan venne colto alla sprovvista, cercò di schivarlo ma la lama della scimitarra gli aprì uno squarcio cremisi sul braccio, lacerando la giubba di cuoio bollito e la maglia sottostante; un dolore bruciante si irradiò dalla spalla come le fiamme di un incendio, facendo digrignare i denti al nano.
Duncan imprecò: non si aspettava che il gorilla colpisse ancora, aveva dato per scontato che sarebbe rimasto troppo sconvolto dal dolore repentino per rispondere.
«Stupido vecchio nano» mormorò tra i denti «È il momento di dare il colpo di grazia a questo scimmione prima che lo faccia lui.»
Non aveva alcuna intenzione di farsi infilzare da una montagna di muscoli ringhiante, così, con un unico ed elegante movimento della mano, recise la gola dell'altro, in uno spruzzo vermiglio.
L'energumeno strabuzzò gli occhi e si afferrò la gola, cercando di fermare l'emorragia, la sua scimitarra cadde nella sabbia, dimenticata. La folla trattenne il respiro e un silenzio di tomba calò sull'arena.
Con un gemito straziante si afflosciò, sollevando una nuvola di polvere, la sabbia dell'arena si tinse di rosso. Il corpo dell'avversario fu scosso dagli ultimi spasmi prima di giacere completamente immobile.
"Duncan, il Cavaliere della Luna, vince l'incontro e si qualifica per il turno successivo" annunciò una voce metallica dagli altoparlanti, spezzando la cappa di silenzio che era calata sull'arena.
Un boato esplose dalle tribune, le dame lanciarono fiori e fazzoletti dagli spalti, Duncan, con un enorme sforzo, rivolse loro un sorriso radioso e raccolse qualche rosa e un fazzoletto, con cui si tamponò la ferita: non voleva perdere il favore del pubblico, non ora che si trovava ad un passo dallo scontro decisivo.
Gli altoparlanti continuavano a gracchiare: "Dopo aver battuto il temibile Kalavar, l'Immenso, campione dei regni barbari del sud, tra due giorni disputerà lo scontro che gli permetterà di accedere in semifinale, affrontando il letale Assassino Bianco... "
Il nano strinse i denti e diede un'occhiata allo squarcio sul braccio: non sembrava troppo profondo, fortunatamente, ma bruciava come l'inferno: quel bastardo era riuscito a fare un bel lavoretto, dopotutto;gettò un ultimo sguardo a ciò che rimaneva di Kalavar l'Immenso e imprecò di nuovo.
"Non perdetevi l'incontro, signori, se volete ancora vedere danzare il Cavaliere della Luna".
Con passo claudicante il Cavaliere della Luna si allontanò dall'arena.

 


[1] Devo combattere oggi/ per vivere un altro giorno/ è un'altra uccisione/ il conto alla rovescia inizia a distruggerci (Skillet, Hero)

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Capitolo 2
*** A reason to fight ***




II

A reason to fight



I’ve got a reason to fight
Every day we choose
We might win or lose
This is the dangerous life[1]

 

«I miei complimenti!»
Duncan non si sprecò nemmeno ad alzare lo sguardo dal suo boccale di birra, conosceva perfettamente quella fastidiosa vocina melliflua e non aveva alcuna intenzione di incrociare lo sguardo del suo possessore.
«Sei a un passo dalla finale» continuò quest'ultimo, imperterrito «Il modo in cui sei riuscito a battere l'Assassino Bianco è stato davvero magistrale.»
Duncan aveva un vago ricordo del famigerato Assassino Bianco: un arrogante pallido e biondo che estraeva pugnali dalla palandrana scura e li lanciava a velocità impressionante; purtroppo non era stato abbastanza veloce per deviare il fendente che gli aveva staccato la testa dal collo, con grande entusiasmo del pubblico.
«E tu sei a un passo dall'avere i tuoi soldi» rispose il nano in tono aspro.
«Suvvia, perché queste maniere così brusche?»
L'uomo che sedette davanti a Duncan era alto e ben vestito: indossava un'elegante giacca di velluto bordeaux con code, rifiniture di seta nera e bottoni dorati, abbinata ad un panciotto di seta nera da cui proveniva il lieve scintillio dorato di una catena di orologio;il cappello a cilindro e un bastone da passeggio dal pomolo in ottone potevano far pensare che si trattasse di un ricco e raffinato borghese, ma Loyd lo Sciacallo era tutto fuorché un raffinato borghese.
Nessuno avrebbe potuto sospettare che quell'uomo magrolino, dall'aria distinta, lo sguardo mite e i capelli candidi, fosse in realtà il peggiore usuraio di tutta Westlebrook, il più meschino e spietato, che aveva fondato il suo ingente patrimonio sulla disperazione altrui e la speculazione disonesta.
Come sempre era accompagnato da due scimmioni armati di schioppo, che si posizionarono ai lati della sedia su cui Loyd prese posto; l'uomo appoggiò il bastone al tavolo e ordinò alla cameriera che gli passava accanto un bicchiere di whisky.
«Non annacquato, per favore. L'unico posto dove tollero l'acqua è il bagno» ci tenne a precisare, prima di tornare a puntare i suoi piccoli occhi di un azzurro slavato su Duncan.
«Forse perché sono indebitato con te di almeno ventimila grifoni d'oro e non perdi occasione per ricordarmelo» riprese il discorso il nano.
Le labbra sottili di Loyd si piegarono in un sorriso sgradevole, creando una ragnatela di rughe sul viso pallido, rasato di fresco.
«In realtà, il debito è salito a ventimila grifoni e duecento... Per gli interessi, sai» lo corresse con noncuranza.
Duncan si trattenne dallo strozzarlo con il fazzoletto di seta che gli avvolgeva il collo: prima di potersi anche solo avvicinarsi all'usuraio si sarebbe trovato un proiettile piantato in fronte. Così il nano si limitò a digrignare i denti sotto lo sguardo divertito dell'altro.
Loyd sapeva che il suo lavoro poteva, la maggior parte delle volte, risultare pericoloso e sgradito, per questo si era munito di quei due scimmioni che aveva l'ardire di chiamare "guardie del corpo"; non tutte le persone con cui aveva il piacere di trattare erano ragionevoli e calmi, anzi, per la stragrande maggioranza si trattava di teste calde imbottite di alcol e disperazione, con una spiacevole tendenza a prendere in mano più velocemente il coltello del portafogli.
«Non c'è alcuna necessità di essere così scontroso nei miei confronti. In fondo io non c'entro nulla: tu sei venuto a cercarmi, è stata una tua scelta. L'unica persona che puoi biasimare e con cui prendertela è te stesso» gli ricordò Loyd, prendendo un sorso del suo whisky.
Duncan si trovò costretto ad ammettere che aveva maledettamente ragione.
Più volte si era domandato cosa lo avesse spinto a rivolgersi proprio a lui: la disperazione, probabilmente, e la totale mancanza di un appiglio. Dopo essere fuggito dai campi del Westeron, Duncan si era ritrovato privato del titolo di Cavaliere e di tutti i privilegi annessi a esso, era diventato un comune soldato, povero, mutilato, in fuga e con una taglia sulla propria testa. Loyd era stato il primo relitto capace di farlo galleggiare che si era trovato davanti, e per non affogare si era aggrappato a lui con tutte le sue forze.
E ora lo Sciacallo chiedeva di essere pagato per averlo salvato.
Duncan aveva creduto che non sarebbe stato un problema restituire i soldi presi in prestito, ma a quei primi cinquemila grifoni, necessari per poter ricominciare, se n'erano aggiunti sempre di più, i debiti si erano accumulati e assommati, mentre gli interessi erano saliti alle stelle, fino ad arrivare a dover restituire a Loyd più del doppio di quanto gli avesse prestato. All'inizio l'usuraio credeva che Duncan l'avrebbe pagato presto e senza problemi, sapeva che era un uomo d'onore e di parola; ma quando dopo mesi non era arrivato ancora nulla, aveva aspettato fino a quando non si era sistemato, dopodiché si era premurato di ricordare al suo debitore a quanto ammontasse il favore che gli doveva e grazie al quale possedeva una casa confortevole e tutto ciò di cui aveva bisogno per vivere decentemente.
Purtroppo Duncan non era ancora riuscito a racimolare la cifra necessaria e aveva chiesto a Loyd più tempo, l'usurario gliel'aveva concesso e il nano, lentamente e a fatica, aveva iniziato a estinguere il suo debito: circa tre quarti di quello che guadagnava con il suo lavoro di mercenario e gladiatore finiva nelle casse dello Sciacallo, lasciando a Duncan e alla sua compagna lo stretto indispensabile per non morire di fame.
Il debito, però, si era ingrossato sempre di più: più veniva trascinato negli anni, più gli interessi crescevano, creando un circolo vizioso da cui Duncan non sarebbe mai riuscito a uscire; Loyd era un osso duro che non mollava facilmente la presa e aveva continuato a pretendere che quei soldi gli venissero restituiti, fino all'ultimo cacio di rame.
«Mi sembrava di essere stato abbastanza chiaro allora: do ut des, io ho aiutato te e ora tu ripaghi me per l'aiuto che tu mi hai chiesto» gli ricordò per l'ennesima volta Loyd.
E me ne pento ogni singolo giorno della mia vita pensò Duncan, guardando in tralice l'usuraio, che si era messo comodo sulla sedia sgangherata, una mano a reggere il bicchiere di peltro e l'altra a giocherellare con un bottone della giacca, con un sorriso sornione che si allargava sulle labbra, consapevole di avere il nano in pugno.
«Vorrei ricordarti che non c'è solo la tua vita in gioco» continuò, infatti, l'usuraio dopo qualche momento di silenzio, bevendo l'ultimo goccio di whisky.
Loyd era totalmente privo di scrupoli e morale: per far sì che Duncan restituisse i soldi che gli doveva, con annessi interessi, era stato capace di arrivare a rapire Selene e ricattare il nano, per dargli un "incentivo", come diceva lui. L'incentivo lo aveva spinto a partecipare al torneo: ventimila grifoni erano un premio spropositato, ma era quanto serviva a Duncan per saldare, finalmente, il conto che aveva con lo Sciacallo e liberare Selene.
«Se hai osato torcerle anche solo un capello, giuro che ti stacco le mani e te le faccio ingoiare!» si accese Duncan, balzando in piedi; i due energumeni misero subito mano agli schioppi.
«Non mi sembri nella posizione per potermi minacciare» rispose pacatamente l'uomo, facendo cenno agli scimmioni di abbassare le armi «Selene sta bene ed è al sicuro, e vi rimarrà fino alla fine del torneo, quando verrai da me con la somma pattuita. In contanti sonanti, mi raccomando... Altrimenti, sai perfettamente cosa ne farò di lei» aggiunse in tono lugubre.
Il nano si risedette, mordendosi le labbra fino a farle sanguinare: se Duncan non avesse restituito in tempo il denaro, Selene sarebbe stata venduta come schiava.
Duncan non poteva sopportarlo: Selene era la sua unica figlia e l'unica persona cara che gli fosse rimasta dopo la morte di Althea. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di sottrarla alle grinfie di quell'uomo avido e infido, persino lasciarsi coinvolgere in quell'assurdo bagno di sangue che avevano l'ardire di chiamare spettacolo, un ricettacolo di criminali e disperati che pur di ottenere quei ventimila grifoni erano disposti a mettere in gioco la propria vita.
Ma a Duncan non era importato quando si era iscritto, ciò che aveva contato davvero per lui era che il torneo si era presentato come una possibilità per salvare Selene, impossibile e mortale, ma l'unica fino a quel momento, e lui l'aveva afferrata senza pensarci troppo.
L'aver vinto gli incontri gli aveva acceso la speranza che non fosse un'impresa così irrealizzabile come aveva pensato all'inizio, forse sarebbe riuscito ad arrivare alla finale e a guadagnare quei dannati ventimila grifoni.
«Avrai i tuoi soldi, Loyd, e tu dovrai mantenere la parola: non appena avrai in mano i tuoi grifoni me la restituirai, e spera che non le sia successo nulla nel frattempo» sibilò il nano con tono deciso e minaccioso.
«Quando mai ho mancato alla mia parola?» rispose Loyd con il suo solito sorriso enigmatico.
L'usuraio cercò di racimolare le ultime gocce di whisky dal fondo del bicchiere e non riuscendoci sbuffò, gettò un paio di caci sbeccati sul tavolo e si alzò.
«Buona fortuna per il prossimo incontro, Cavaliere della Luna» lo salutò lo Sciacallo recuperando il bastone «E ricordati per chi stai combattendo.»
La bocca di Duncan si piegò in un sorriso amaro: nessuno si sarebbe spinto a quel suicidio senza motivo, più o meno tutti i partecipanti ne avevano uno; per lui era Selene: era sceso in campo per lei, era lei che lo faceva sentire invincibile,un terremoto, potente come un maremoto, era lei che lo rendeva forte e lo faceva resistere. Ogni volta che era caduto nella polvere dell'arena, il pensiero di lei l'aveva fatto alzare e continuare a lottare. 
Era lei la ragione per cui combatteva.




[1]Ho una ragione per lottare/ ogni giorno che scegliamo/ potremmo vincere o perdere /questa è la vita pericolosa (Skillet, Feel invincible)

 

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Capitolo 3
*** Bittersweet Memories ***


III

Bittersweet memories

Soffriamo di ricordi,
ricordi dimenticati,
che non ci dimenticano.
[1]

 

Nella soffusa luce crepuscolare una figura minuta si stagliò contro le enormi sporgenze di basalto che si irradiavano dall'altopiano su cui sorgeva la Rocca.
Si trattava di un cavaliere solitario, piuttosto basso, avvolto in una cappa sdrucita marrone, piegato su un pony dal mantello dello stesso color caffè. Mentre il cavallo aveva il muso piegato verso terra, alla ricerca di qualche erba o cespuglio commestibile in mezzo al fango e ai ciottoli, il cavaliere guardava gli artigli di roccia che affioravano dalla piana polverosa e sterile, pronti a ghermire qualsiasi incauto viandante si fosse spinto fino ai recessi di Daramia, la Rocca Grigia, che dominava sulla piana di Westeron.
Il cavaliere socchiuse gli occhi per cercare di distinguere il castello dall'ammasso roccioso che lo circondava e lo proteggeva: per secoli quegli affioramenti erano stati la sua difesa, rendendolo inespugnabile.
Ma ormai nessuno più abitava la Rocca: da quando la guerra,bruciando la vegetazione e facendo fuggire le creature che la abitavano, aveva reso quella piana, una volta verde e fertile, morta e desolata,e togliendole qualsiasi possibilità di rinascita.
Il grande lago da cui affioravano gli artigli di basalto si era prosciugato, lasciando solo qualche lingua d'acqua limacciosa e insana, oltre che quelle poderose strutture di lava vulcanica solidificata: l'Artiglio di Folbert, come era chiamato dagli Uomini; Tankara, per i nani, la Mano di Strega.
Voci circolavano sul quel luogo ormai abbandonato: si diceva che fosse maledetto e nella piana si aggirassero i fantasmi dei soldati caduti nella Guerra delle due Ere, mentre la Rocca fosse abitata dallo spirito di re Folbert, che vagava per i suoi corridoi di pietra invocando vendetta.
La Rocca di Daramia era minacciosa, cupa e sinistra come il paesaggio circostante: le mura antracite, solide e spesse, erano alte almeno trentacinque piedi, e gli imponenti torrioni di basalto,irti di guglie e torrette, svettavano fino al cielo,simili a mani scheletriche protese a graffiare le nubi; una volta esibivano con fierezza gli stendardi con l'aquila e il grifone, ma ora erano rimasti nudi e desolati, gli stendardi andati perduti, forse portati via dal vento o dal tempo.
Il cavaliere diede un delicato colpo di talloni ai fianchi del cavallo e lo fece girare attorno all'Artiglio, fino a trovarsi sul suo fianco orientale; Duncan tirò le redini e fece fermare Biancospino proprio sotto una di quelle dita scheletriche, su cui si riusciva a riconoscere una torre dalla forma ottagonale: la Torre del Guado, distinguibile dalle altre proprio per la sua forma particolare, dalla cui sommità si poteva dominare l'intera piana; il nano aveva amato essere di presidio in quella torre, trascorrendo le giornate a fumare la pipa e a osservare il territorio circostante.
Duncan trovò piuttosto ironico tornare nel luogo da cui era fuggito dieci anni prima con un'accusa di alto tradimento che pendeva sulla sua testa.
Dopo l'Ultima Battaglia se n’era andato, aveva cambiato nome e si era fatto crescere barba e capelli, tutti quelli che lo conoscevano o erano morti o, come lui, erano fuggiti, prendendo il largo su una nave diretta alle Isole Mattren o a Fossar, dall'altre parte del Mare di Smeraldo. Duncan non aveva avuto il coraggio di abbandonare il Continente a cui era legato in maniera quasi viscerale, sentiva che andando con gli altri avrebbe in un certo senso tradito la fiducia di re Folbert,suo compagno d'infanzia e di battaglie.
Secondogenito del Barone del Westernmark, era stato destinato fin dalla sua nascita a rendere più stretti e amichevoli i legami tra il Westernmark e il vicino Regno di Vest, già coinvolti in fiorenti ma fragili rapporti commerciali; così all'età di dodici anni venne mandato a Daramia, capitale del Regno, come pegno per la fedeltà al patto stipulato tra il Barone e l'allora re Stereon che, a sua volta, aveva mandato nel Westernmark il suo secondogenito, Eldor, perché venisse educato nell'arte della spada e del combattimento dai nani.
Duncan aveva iniziato come semplice scudiero del re e compagno di giochi del suo primogenito, Folbert, più giovane di lui di un anno; erano stati allenati e istruiti assieme nell'arte della spada, avevano giocato di nascosto a scacchi durante le noiosi lezioni di storia del Reverendo Breick e avevano fatto la corte alle fanciulle del castello, sia che si trattasse di duchesse o di semplici sguattere di cucina.
A venti anni, la morte di suo padre aveva costretto Duncan a tornare nel Westernmark e il principe Folbert gli era stato vicino, andando con lui e vivendo cinque anni nel territorio dei nani, approfittandone per affinare la tecnica e imparare il loro modo di combattere.
Poi anche re Stereon era morto e Folbert aveva dovuto fare ritorno a Daramia per presiedere ai funerali ed ereditare la corona e tutte le responsabilità a essa connesse. Aveva voluto accanto a sé Duncan in veste di Primo Cavaliere e il nano aveva prestato giuramento, diventando Cavaliere dell'Ordine dell'Aquila Rossa, la guardia personale del sovrano, e suo fratello di sangue; era stato in quell'occasione che Folbert gli aveva fatto dono di Aisinril, la sua inseparabile spada, gemella di quella portata dal re, Avestenril: "il fiore sbocciato alla luce dell'alba".
Insieme avevano combattuto diverse battaglie: avevano respinto i Lamarkiani che avevano invaso i territori a nord, i Rubaspini del freddo ovest e i Bruti del profondo sud; avevano discusso assieme di questioni politiche ed economiche, finendo, nella maggior parte dei casi, con il litigare e l'insultarsi pesantemente, e spesso Folbert lo aveva raggiunto sulla Torre del Guado per fumare assieme (un vizio che aveva acquisito in quegli anni nel Westernmark e non era più riuscito ad eliminare) e chiacchierare del più e del meno, facendo commenti sulle dame di corte e sul lungo naso del Reverendo Breick, rievocando i tempi spensierati della giovinezza e rivelandosi reciprocamente le paure più profonde e i desideri più nascosti. Duncan aveva apprezzato particolarmente quei momenti, in cui il re si spogliava dei suoi abiti di sovrano e tornava a essere solo Folbert, il compagno di una vita.
Poi era arrivata la Guerra delle due Ere che aveva posto fine a tutto, colpendoli e sconvolgendoli come un fulmine in una giornata serena: era stata uno scontro lungo, sanguinoso e spossante che aveva significato la morte per re Folbert.
Nella mente di Duncan era impresso ancora bene quel momento terribile: nugoli di aeronavi avevano infestato il cielo, scaricando indistintamente sui soldati i loro carichi di palle di cannone e bombe di gas nocivo; un puzzo tremendo di decomposizione e acido appestava l'aria. Duncan sentiva il loro odore appiccicarsi alla pelle, mefitico e letale, non credeva che i nemici si sarebbero avvalsi di quella tecnologia avanzata ancora in fase sperimentale.
«Questa è l'apocalisse!» aveva urlato uno dei suoi compagni, un veterano nerboruto dal viso deturpato da molte cicatrici, ricordi di tutte le battaglie che aveva combattuto, Duncan non aveva potuto che dargli ragione.
In mezzo a quell'inferno aveva scorto la caduta di Folbert da cavallo, l'uomo ammantato di nero che lo raggiungeva, lo scintillio del pugnale e il breve combattimento tra i due che aveva fatto cadere il cappuccio del rivale, rivelando un volto noto; lo stupore lo aveva paralizzato, togliendogli il respiro:di fronte ai suoi occhi svettava il volto di Eldor, distorto in una smorfia crudele, con gli occhi iniettati di sangue e rabbia, mai si sarebbe dimenticato la ferocia con cui aveva piantato il pugnale nel collo del fratello, appena sotto l'allacciatura dell'elmo, nello spazio di gola scoperto tra il morione e la corazza, e lo spruzzo di sangue che aveva decretato la morte del sovrano e la fine della battaglia.
La voce di Folbert, colma di stupore e disperazione, riecheggiò nella sua mente: aveva pronunciato due sole parole, «Perché, Eldor?», prima di spirare.
A quel punto Eldor si era voltato e aveva visto il nano, aveva capito che lui sapeva, che era a conoscenza del tradimento e si era precipitato verso di lui. C'era stato uno scontro breve ma violento, in cui Eldor era intenzionato ad assassinare il nano e il Cavaliere cercava di non ferire o uccidere l'erede al trono, ma nonostante i suoi sforzi, gli aveva aperto uno squarcio nella parte sinistra del volto, che partendo dalla fronte gli sfiorava l'occhio per poi scomparire oltre la mandibola; dal canto suo, Eldor, gli aveva graffiato il mento, lasciandogli una cicatrice che lo attraversava orizzontalmente, rendendolo riconoscibile: per questo si era lasciato crescere la barba.
Duncan aveva, infine, steso Eldor con un colpo di pomolo e aveva lasciato quel teatro degli orrori il più in fretta possibile. Ma mentre arrancava tra polvere e cadaveri, un rombo fin troppo vicino l'aveva scosso fin nelle ossa e si era trovato davanti uno di quei bestioni volanti con le cannoniere spalancate, come le fauci di una belva affamata.
C'era stato un forte sparo che lo aveva lasciato rintronato, puzza di fumo e carne bruciata, e poi un dolore lancinante e terribile, esploso nella gamba e irradiatosi per tutto il corpo, che aveva offuscato la sua vista, rendendo tutto improvvisamente rosso sangue e poi nero.
Si era risvegliato tra cenere e polvere; era frastornato, confuso e preda di un dolore insopportabile, l'unica cosa che gli provasse che era ancora vivo. Doveva essere svenuto e uno scossone violento doveva averlo ridestato dal suo limbo di dolore: sentiva di venire trasportato, su una barella probabilmente. I due che la portavano correvano, facendolo ballonzolare e sobbalzare. Duncan non riusciva a vedere chi fossero, davanti a lui si spalancava solamente il cielo, di un intenso color vermiglio, sporcato di nubi sulfuree; nessuna figura slanciata di aeronave lo attraversava più. Un sole scarlatto, incendiava la linea dell'orizzonte: poteva essere tanto un'alba quando un tramonto, il nano non sapeva dire per quanto tempo fosse rimasto svenuto.
Aveva gettato un'occhiata verso le sue gambe, da cui proveniva quel dolore indicibile, e aveva represso un conato di vomito: ciò che rimaneva della sua destra era un labirinto di bende affogate nel sangue. Era svenuto di nuovo.
Un viso dolce, dai tratti fini e affilati, e il languore malinconico di un paio di occhi indaco erano state le prime cose che aveva visto quando si era risvegliato la seconda volta. Una visione idilliaca dopo l'orrore della battaglia e la palla di cannone che gli aveva tranciato la gamba fino a metà coscia; la donna gli aveva sorriso e si era presentata come Althea. Era stata lei a curarlo e a portarlo dall'ingegnere che gli aveva fabbricato la gamba bionica. Ed era stata sempre l'elfa dagli occhi indaco a fargli vivere gli anni più belli e sereni della sua vita, nonostante fosse a conoscenza del fatto che fosse un ricercato e pendesse una taglia sulla sua testa, aveva deciso di condividere con lui il suo destino di fuggiasco.
Per qualche tempo si erano rifugiati nel Westernmark, presso il fratello; ma per evitare che quest'ultimo finisse nei guai e che i rapporti con il regno si logorassero ancora di più, aveva abbandonato la casa paterna ed era fuggito nel vicino Regno di Winterburn, assieme alla sua amata Althea, incinta di tre mesi. Ben presto i soldi che gli aveva fornito il fratello erano terminati e Duncan si era trovato costretto a chiedere un prestito a Loyd che gli aveva permesso di vivere degnamente e in tranquillità.
Fintanto che, in una notte di mezza estate, tre anni dopo, il passato non aveva bussato alla porta, con la faccia lunga e mortalmente pallida di Loyd, pretendendo il saldo dei suoi debiti.
Duncan si abbandonò a un lungo sospiro: era arrivato il momento della resa dei conti, non solo con Loyd ma anche, e forse soprattutto, con il suo passato, perché era più che certo che re Eldor avrebbe assistito allo spettacolo, e non avrebbe patteggiato per lui.



[1]Ángel de Frutos Salvador


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Capitolo 4
*** Lucian Silverclaw ***


IV

Lucian Silverclaw

 


Who's gonna help us survive 
We're in the fight of our lives 
(And we're not ready to die)[1] 

 

«Tu devi essere Duncan...»
Duncan alzò lo sguardo e si trovò davanti un drow filiforme avvolto in una sopravveste blu notte istoriata di ghirigori dorati, decisamente fuori luogo; il nano sollevò un sopracciglio domandandosi cosa volesse da lui quell'elfo ben vestito.
«Io sono Lucian» si presentò il drow prendendo posto davanti a lui, senza essere stato invitato; Duncan aveva già sentito quel nome ma non si ricordava dove, né a cosa fosse riferito.
«Lucian Artiglio d'argento, il tuo avversario nella finale del torneo» spiegò l'elfo; era un bel giovane, a differenza dei suoi simili, con i tratti del volto decisi ma non spiacevoli, corti capelli bianchi e penetranti occhi grigi. Il nano non si sorprese che fosse il favorito del torneo: era giovane, attraente e probabilmente offriva un gran bello spettacolo con i suoi artigli d'acciaio.
Duncan tornò a fissare il boccale di birra, non era dell'umore giusto per fare conversazione, tantomeno con l'elfo che l'avrebbe squartato da lì a due giorni; ma il drow non sembrava dello stesso avviso. Fermò una cameriera e ordinò da bere.
«È un onore per me conoscerti» riprese Lucian, imperterrito; il silenzio di Duncan non era riuscito a scoraggiarlo «Devi essere davvero un osso duro per essere arrivato fino a qui, Vlad non era un avversario per niente facile ma tu sei riuscito a batterlo in dieci minuti!»
Duncan non aveva la più pallida idea di chi fosse questo Vlad.
«Se non l'avessi ucciso io, mi avrebbe ucciso lui» borbottò, odiava le adulazioni e non vedeva l'ora che l'elfo facesse le domande per cui era venuto a disturbare la sua ultima birra prima di andare a dormire; Lucian scoppiò a ridere, una risata priva di allegria che mise in mostra la dentatura bianca e perfetta, ma non arrivò ai suoi occhi, rimasti freddi e imperscrutabili.
Duncan si trovò costretto a sollevare lo sguardo sul drow: cosa aveva trovato di così divertente nelle sue parole?
«Un ragionamento che non fa una piega» constatò l'elfo dopo che si fu ripreso, Duncan ebbe la certezza che lo stesse prendendo in giro.
La cameriera s'intromise tra i due, posando sul tavolo un bicchiere pieno di un liquido dorato: whisky, probabilmente; Duncan detestava quella roba e storse il naso all'odore dolciastro e penetrante.
«Allora, Duncan, qual è la tua storia?» domandò improvvisamente Lucian, portando il bicchiere alle labbra.
«La mia storia?» quel repentino cambio di argomento aveva lasciato spiazzato il nano.
«Ci deve essere un motivo per cui hai deciso di partecipare al torneo» spiegò Lucian prendendo un sorso della sua bevanda «Solo i pazzi, i disperati e i vanagloriosi potrebbero partecipare a una cosa del genere.»
«E tu in quale categoria rientreresti?» domandò Duncan, per eludere la domanda.
«Penso tutte e tre» rispose l'elfo e scoppiò in una nuova risata, il nano iniziava a trovarlo irritante, «Allora perché sei qui?» ritornò alla carica il drow.
«Non penso possa interessarti, in realtà, è un motivo piuttosto banale» il nano quasi si strozzò con le sue ultime parole, bevve un sorso di birra per mandare giù il groppo che gli era risalito fino in gola; pensò che la risposta sarebbe bastata a frenare qualsiasi altro tentativo da parte dell'elfo di approfondire la questione. Ma lo sguardo di Lucian non l'aveva abbandonato per un momento: si era avvinghiato a lui, quasi che potesse strappargli le informazioni che cercava con gli occhi, come se potesse leggergli nel pensiero, il nano si sentiva braccato da quello sguardo d'acciaio.
«Sono un cavaliere caduto in disgrazia in cerca di riscatto» dichiarò alla fine, stringendosi nelle spalle, sicuramente non era la storia completa e non si avvicinava nemmeno a un riassunto a grandi linee, ma sperava che avrebbe accontentato l'elfo.
«Non sei un uomo di molte parole» annuì il drow, prendendo un altro sorso di whisky «Non vuoi sapere perché io sono qui?»
Sinceramente avrei preferirei farmi prendere a calci nel sedere da un maiale pensò il nano, ma forse avrebbe potuto trovare qualcosa di utile nelle sue parole: questo Lucian dava l'impressione di essere un giovane egocentrico e megalomane, che amava parlare di sé, e magari si sarebbe lasciato sfuggire qualcosa d'importante, quindi, se l'elfo era in vena di chiacchierare, perché non approfittarne?
«Noi drow non siamo mai andati molto a genio agli altri, la nostra razza ha subito i peggiori soprusi: è stata perseguitata, schiavizzata e decimata. Re Eldor ha raggiunto una soluzione di compromesso: ci ha segregato nelle Terre dell'esilio» iniziò Lucian e a Duncan non sfuggì il sarcasmo e il disprezzo che trasudavano dalle sue parole «È una terra desolata e sterile, in cui cresce poco o nulla, in pratica ci ha condannato a morte in maniera più subdola e lenta. Quel poco di cibo che riusciamo a produrre viene conteso, e spesso si arriva a scontri sanguinosi e letali. Questo torneo è l'occasione per guadagnare quanto basta perché io e la mia famiglia possiamo vivere degnamente, almeno per un po'. È l'unico modo che abbiamo per sopravvivere in un mondo che ci detesta e ci perseguita.»
Il nano vide gli occhi del giovane offuscarsi di lacrime, si domandò quanto di quello che avesse detto fosse vero: era una storia triste e terribile, ma non era sicuro che fosse la verità, sembrava piuttosto una storiella costruita a pennello per muoverlo a compassione.
«Mi dispiace, ragazzo» borbottò il Cavaliere con voce atona, non si sarebbe fatto abbindolare da queste storie per dame dal cuore sensibile.
«Non dispiacerti per me, nano» rispose l'elfo, l'ombra delle lacrime scomparsa dal suo sguardo «Immagino che anche tu abbia una storia tragica alle spalle, non saresti qui, altrimenti. Siamo entrambi sopravvissuti che durano, stiamo lottando per la nostra vita, e non siamo pronti a morire. Ti capisco, ma non credere che per questo avrò pietà di te...Quindi, quando sarà il momento, non averne tu per me.»
Lucian bevve l'ultimo sorso di whisky e si alzò dal tavolo, gli rivolse un rispettoso cenno del capo e sparì, inghiottito dalla folla di avventori, in uno svolazzo di stoffa blu.
Duncan lo seguì con lo sguardo, e ripensando a quello che aveva detto si ritrovò, suo malgrado, d'accordo con lui: solo pazzi, vanagloriosi e disperati potevano partecipare a questo genere di torneo e lui faceva decisamente parte di questi ultimi.


Lucian uscì dalla locanda sorridendo soddisfatto: la storiella strappalacrime del drow povero e perseguitato funzionava sempre: faceva breccia tanto nei teneri cuori delle nobili dame quanto in quelli apparentemente più duri dei suoi avversari, ed era sicuro che avesse colpito anche quello di quel nano scontroso e poco loquace, nonostante non avesse dato segni di sorta. Probabilmente durante lo scontro sarebbe stato frenato dalla compassione, avrebbe esitato, non combattendo al suo meglio.

Il nano si era rivelato un avversario formidabile e stimolante, Lucian l'aveva osservato diverse volte: la sua tecnica era impeccabile, segno di anni e anni di addestramento militare; non aveva paura di morire ma non ne aveva nemmeno l'intenzione, era un uomo d'onore che sarebbe caduto combattendo, sapeva il fatto suo ed era abituato a lottare per sopravvivere; sarebbe stato divertente misurarsi con un rivale finalmente alla sua altezza, che non se la faceva sotto non appena estraeva le sue lame.
Lucian si domandò quanto sarebbe resistito: si era dimostrato un tipo tosto, che non si arrendeva facilmente e probabilmente tutta la sua forza derivava dal motivo per cui combatteva; a riguardo aveva sentito le storie più disparate e strampalate, non credendo a nessuna. Aveva sperato che il nano, dopo un paio di boccali di birra del vecchio Gerard, si sarebbe sbottonato di più, ma non gliene aveva dato la soddisfazione; anche in quel caso si era rivelato un osso duro.
Il sorriso di Lucian si allargò: pregustava già lo scontro e non vedeva l'ora che arrivasse l'ultimo giorno di primavera.
Un po' gli dispiaceva doverlo uccidere, gli era simpatico, apprezzava la sua riservatezza e la sua diffidenza, ma il re gli aveva dato un compito e Lucian doveva portarlo a termine: il nano doveva morire, era a conoscenza di troppe cose che dovevano rimanere nascoste,era stato testimone di troppi avvenimenti scomodi e pericolosi, che non dovevano venire diffusi. Era compito del drow far sì che rimanessero nel silenzio.
Il torneo si era rivelata un'ottima copertura: nessuno avrebbe sospettato che dietro l'uccisione del nano c'era l'ordine del re. Lucian, inoltre, era l'assassino migliore in circolazione, la missione non sarebbe potuta fallire, anche perché le conseguenze per lui sarebbero state ben poco piacevoli.
Ricordava ancora nitidamente il giorno in cui l'aveva convocato, la lunga sala del trono di marmo nero e pietra, con alte colonne ritorte su loro stesse e gli sguardi severi dei re precedenti che osservavano ogni suo movimento con i loro occhi di alabastro; era una stanza cupa e austera, creata apposta per intimorire.
Il re sedeva sul trono di pietra nera e acciaio, in una posizione autoritaria e solenne, avvolto nella penombra creata dalla luce soffice e rosata del tramonto; sulle spalle portava un mantello bordato di pelliccia dello stesso colore dei suoi occhi, la parte destra del volto era immersa nell'ombra, su quella sinistra, illuminata, risaltava una sottile linea biancastra che la attraversava dalla fronte alla mandibola forte e allungata, sui capelli corvini brillava la corona di bronzo dorato e oro rosso, colpita dalla luce obliqua che filtrava dalle alte finestre a sesto acuto. Anche il re incuteva timore e rispetto, ma Lucian non si era lasciato suggestionare, almeno all'inizio.
Ciò che l'aveva colpito di più era stato il tono con cui aveva proferito l'ordine: duro e perentorio, sottolineato dalla voce gutturale; aveva emesso una condanna a morte che doveva essere eseguita senza esitazioni né discussioni.
«Hai fama di essere il sicario migliore» aveva detto «Non deludermi, o mi ritroverò costretto a trovarne uno più capace...ma il suo obiettivo non sarà il nano...»
Quella minaccia aveva fatto rabbrividire Lucian e aveva compreso perché Eldor fosse così temuto e perché nessuno aveva mai osato mettere in discussione i suoi ordini.




[1] Chi ci aiuterà a sopravvivere/ siamo in lotta per le nostre vite/ e non siamo pronti a morire (Skillet, Hero)

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Capitolo 5
*** The last fight ***


V

The last fight

 

I'm gonna fight for what's right
And if it kills me tonight
I will be ready to die[1]

 
Duncan si trovava su uno di quegli aggeggi infernali che chiamavano "ascensore": una zattera sostenuta da un sistema di corde e pulegge che avrebbe dovuto portarlo fino all'arena che era stata allestita per il grande scontro. Come quel complesso di cavi e travi riuscisse a sostenere un nano in armatura completa era un mistero per lui. Sospettoso per natura nei confronti di ogni forma di tecnologia, aveva dovuto adeguarsi alle manie di spettacolarizzazione del re, nonostante avrebbe preferito di gran lunga fare il suo ingresso nell'arena in un altro modo.
Come se non bastasse, si era trovato costretto a intabarrarsi in un'armatura con intarsi d'argento che ricordavano le forme sinuose di gigli; ma non poteva permettersi di deludere le dame che gliel'avevano offerta in dono: il rifiuto sarebbe stato interpretato come un'offesa e avrebbe perso il loro favore, assolutamente fondamentale in quella fase.
Duncan esaminò per l'ennesima volta il filo di Aisinril, aspettando impaziente che quell'ascensore entrasse in funzione: non vedeva l'ora di mostrare a quel damerino presuntuoso di cosa era capace; non si sarebbe fatto umiliare e sconfiggere da un ragazzino che puzzava ancora di latte e che probabilmente non aveva mai visto una battaglia in vita sua.
La zattera sobbalzò, segno che stava per mettersi in moto, e lentamente, iniziò a salire; i cavi gemevano producendo un rumore insopportabile e coprivano le parole strillate dagli altoparlanti.
Duncan chiuse gli occhi e fece un respiro profondo.
«Ricordati per chi combatti» gli aveva detto Loyd qualche giorno prima.
«Per Selene!» esclamò, stringendo l'elsa di Aisinril fino a farsi sbiancare le nocche: era pronto per dare il via alle danze.
Ad accoglierlo, assieme ad un boato che fece tremare gli spalti, fu la pioggia: una pioggia sottile e fredda ma che in poco tempo aveva trasformato la sabbia dell'arena in un pantano.
Il cavaliere imprecò tra i denti: con quell'armatura e il terreno in quelle condizioni sarebbe finito gambe all'aria in due minuti; dentro di sé maledisse le dame che gli avevano fornito quell'impiccio.
Fortunatamente si era rifiutato di indossare l'elmo o a quest'ora non avrebbe visto nemmeno la sua mano pur scuotendola a due pollici dal naso.
L'arena era una struttura circolare di legno chiaro, rinforzata da puntelli in metallo, costruita nel cortile interno delle Rocca, per questo il campo era ampio poco più di quattro metri quadrati, uno spazio davvero scomodo ed esiguo se paragonato a quello di altre arene.
Dal momento che lo scontro si svolgeva di notte, l'arena era illuminata da sfarfallanti faretti a energia elettrica; il re si godeva lo spettacolo da una tribuna protetta da teli che esibivano i colori della sua casata, verde smeraldo e nero. Duncan gli gettò una rapida occhiata, incontrando uno sguardo ostile e penetrante; come da etichetta si sprofondò in un inchino ossequioso, senza distogliere lo sguardo dal sovrano. Poi lo spostò verso la folla vociante e scorse tra gli astanti assetati di sangue il volto lungo e pallido di Loyd e accanto a lui quello spaurito di Selene. Il suo cuore perse un battito.
Un nuovo boato indicò l'ingresso nell'arena di Lucian, nemmeno l'elfo aveva badato a spese e aveva deciso di fare la sua apparizione in grande stile: ostentava un'armatura semplice ma di grande effetto, la parte sinistra era decorata con spuntoni d'acciaio che somigliavano vagamente alla cresta di un drago, come se la creatura si fosse avvolta attorno al braccio e si fosse addormentata su di esso; il volto del ragazzo era nascosto da un elmo con intarsi di un blu brillante, su cui, al posto del cimiero, un drago spalancava le sue fauci d'oro.
Come sempre, il nano trovò l'abbigliamento dell'elfo esagerato e completamente fuori luogo.
Lucian salutò la folla e s'inchinò al re; con un elegante gesto della mano si sfilò l'elmo, lasciando libera la chioma nivea. Un coro di sospiri e acclamazioni si levò dalla folla.
Duncan per tutta risposta sputò nella sabbia e allargò le gambe, mettendosi nella posizione di guardia.
«Hai fretta di cominciare, nano» osservò Lucian, facendo scattare gli artigli.
«Prima iniziamo, prima finiamo» rispose il cavaliere. Era già stanco e sudato, la pioggia gli entrava negli occhi impedendogli di vedere bene e quello schifo di stivali di metallo non facevano presa sul terreno sdrucciolevole come avrebbero dovuto. Per l'ennesima volta mandò al diavolo tutti quelli che lo avevano costretto in quella situazione.
Sia l'elfo sia il nano aspettavano il segnale del re, che avrebbe dato inizio allo scontro.
«Questo è lo scontro decisivo che decreterà il guerriero che sarà degno del titolo di Eroe delle due Ere e del premio di ventimila grifoni in palio. Fate sentire la vostra vicinanza e il vostro calore» un fragore assordante esplose dalla folla, quando si fu placato, Eldor riprese a parlare «Che lo scontro abbia inizio e che vinca il migliore!»
Un gong risuonò da qualche parte, spandendo il suo canto grave nell'aria umida della notte.
I due contendenti rimasero a studiarsi per qualche secondo, nell'attesa che l'altro facesse la prima mossa. Duncan non si fidava ad attaccare, l'armatura era ingombrante e lo impacciava nei movimenti, girò in tondo, cercando una falla nella guardia di Lucian, ma l'elfo era coperto su ogni lato. Doveva attaccare, fare una finta e provare a costringere l'avversario a scoprirsi, ma era rischioso: se si fosse avvicinato troppo Lucian avrebbe potuto infilzarlo.
Il nano strinse la presa sulla spada, una goccia di sudore, o di pioggia, rigò la tempia e andò a infilarsi nell'armatura.
Senza preavviso Lucian attaccò: con un agile balzò si lanciò verso di lui, gli artigli sguainati che puntavano verso la gola non protetta, ma Duncan riuscì a schivare all'ultimo e ripristinò la distanza di sicurezza con una goffa piroetta, facendo perno sulla gamba di metallo, che emise uno scricchiolio preoccupante, ma non cedette.
L'elfo caricò di nuovo, sempre mirando alla gola del nano e questa volta fu il terreno scivoloso a salvare il cavaliere: lo stivale slittò nel fango e Duncan si trovò in una posizione di semi-spaccata con il balenio argenteo degli artigli che scintillava sopra di lui, dove poco prima si trovava la sua testa. Approfittò della situazione e mosse la spada dal basso verso l'alto, Lucian riuscì ad evitare l'assalto ma perse l'equilibrio e finì con la faccia nella melma; l'elfo riemerse imprecando e sputacchiando, un coro di risate si levò dalla folla. Duncan ne approfittò per rimettersi in piedi.
Era consapevole di avere lo sguardo di tutti su di sé, in particolare gli occhi di re Eldor non lo avevano perso un solo istante, così come quelli di Loyd. Si sentiva come se avesse un bersaglio sulla schiena, come se lo avessero nel mirino. Era consapevole del fatto che il re lo volesse morto e iniziava a sospettare che Lucian fosse il sicario designato per lui. Il nano gettò uno sguardo ostile e determinato al suo sovrano: non sarebbe morto senza combattere.
L'elfo caricò per la terza volta, aveva il volto ricoperto di fango e gli occhi accesi di rabbia, Duncan riuscì a schivarlo di nuovo con una piroetta.
«Questi gentili signori non vogliono una danza pittoresca, Duncan» sibilò l'elfo «vogliono il sangue»
«Non il mio» rispose seccato il nano
«Allora smettila di fare la principessina e attacca!» replicò Lucian «O forse hai paura di me?»
Duncan capì cosa stava cercando di fare: non potendo colpirlo con le lame lo colpiva nell'orgoglio, lo provocava, pungendolo sull'onore e sul coraggio, voleva farlo arrabbiare e voleva che attaccasse alla cieca. Ma ci voleva ben altro per fargli perdere la testa.
Lucian puntò i piedi, pronto per un altro assalto, per lui l'armatura pareva non avere alcun peso, si muoveva agile e sinuoso come un felino, gli occhi ridotti a due fessure, luminosi, come quelli di un predatore e un sorriso sardonico che gli increspava le labbra.
Un rapido guizzo, una finta che spiazzò Duncan e gli artigli d'argento che portarono con sé parte della sua guancia destra e del naso. Il nano si morse la lingua fino a sentire il sapore metallico del sangue, il dolore era esploso improvvisamente in una miriade di scintille brucianti.
L'elfo danzò lontano da lui e si permise di fare lo sbruffone: con fare baldanzoso soffiò sulle punte degli artigli macchiate di cremisi e finse di lucidarsele sull'armatura, scatenando un ovazione da parte del pubblico.
Il Cavaliere ripulì il viso dal sangue come meglio poté e strinse i denti, la parte destra del volto bruciava maledettamente, ma ancora di più bruciava l'umiliazione di permettere che quel ragazzino lo prendesse in giro così spudoratamente, questo non lo avrebbe più permesso.
Strinse i denti e si rimise in posizione di guardia, l'elfo gli rivolse un sorriso di scherno e lo invitò ad attaccare.
Duncan caricò, eseguì una finta e un affondo che però andò a vuoto, Lucian era riuscito abilmente a evitarlo, il sorriso dell'elfo si allargò, era più determinato che mai a finire il nano.
Duncan riuscì a schivare l'attacco successivo e, approfittando della distanza ravvicinata, con uno scatto del polso colpì il fianco sinistro di Lucian, rimasto scoperto. La lama della spada incontrò la resistenza dell'armatura, ma sulla coscia, protetta solo da uno strato di cuoio, si fece largo tra la pelle e la carne. Lucian uggiolò di dolore e si allontanò, reggendosi con una mano la gamba offesa.
«Non fai più tanto lo sbruffone, adesso» lo prese in giro Duncan.
L'elfo emise un ringhio bestiale e scattò, il nano lo seguì a ruota, la spada dritta davanti a sé come una lancia: entrambi erano consapevoli del fatto che quello sarebbe stato l'ultimo, letale assalto.
Prima si erano solo punzecchiati, avevano giocato un po' per saggiare ciascuno la tecnica dell'altro, per scovarne i punti deboli e le mancanze, questo era il momento decisivo.
Un dolore lancinante esplose alla spalla sinistra, dove gli artigli di Lucian erano riusciti a penetrare oltre lo spallaccio, il nano digrignò i denti mentre un urlo atroce, di sofferenza, squarciò l'aria.
Lucian abbassò lo sguardo verso il suo addome e tra le piastre che componevano l'armatura scorse con orrore la lama della spada di Duncan che si stava imbevendo del suo sangue. Il nano rigirò la lama e un rivolo scarlatto colorò le labbra dell'elfo.
«Non è ancora finita, nano» gemette, mostrando i denti in un grottesco sorriso cremisi, e con un movimento fulmineo dall'alto verso il basso, tagliò l'aria davanti a sé e puntò alla trachea di Duncan. Il nano riuscì ad allontanarsi in tempo, estraendo la spada con un colpo secco, ma dimenticandosi degli artigli conficcati nella sua spalla sinistra, che si tennero un bel po' di stoffa e carne. L'elfo era crollato a terra agonizzante e guardava attonito le sue viscere fuoriuscire assieme al sangue e mischiarsi alla pioggia e al fango.
Duncan si teneva la spalla e respirava a fatica; il suo rantolio di sorpresa si mozzò a metà, così come il suo respiro. Con orrore portò una mano alla gola e la trovò coperta di sangue. Gli artigli erano riusciti ad aprire uno squarcio. Duncan si afferrò il collo, cercando di fermare l'emorragia. Gli occhi gli si riempirono di lacrime, che presto si confusero con la pioggia.
Cadde, mordendo la terra fangosa con le labbra insanguinate e la bocca gli si riempì di melma. Impotente sentiva la vita fluire da lui assieme al suo sangue e al suo respiro. Nessuno sarebbe venuto a salvarlo, l'avrebbero lasciato morire, completamente svuotato.
Sentì l'altro spirare in un patetico rantolio. Volse la testa verso le tribune e cercò con lo sguardo la sua Selene, voleva vederla per un'ultima volta. Una lacrima gli rigò il volto, facendosi largo tra il sangue e il fango; la consapevolezza di aver fallito lo devastò, prostrandolo più di un colpo di spada.
Duncan spirò, il nome di Selene rimasto sospeso sulle labbra.



 



[1] Lotterò per ciò che è giusto/ E se stasera mi ucciderà/ Sarò pronto a morire (Skillet, Hero) 


Angolo dell'autrice:
In caso vi siate domandati che aspetto avessero i personaggi, e anche se non ve lo siete chiesti, vi lascio le immagini da cui ho tratto ispirazione ^^
Duncan
Lucian
Althea
Selene

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