Il peso di un colibrì di Voglioungufo (/viewuser.php?uid=371823)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 47.1 Kg ***
Capitolo 3: *** 46.5 Kg ***
Capitolo 4: *** 46.3 Kg ***
Capitolo 5: *** 46.6 Kg ***
Capitolo 6: *** 47.8 ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
“L’anoressia
non è come un raffreddore. Non passa così, da
sola.
Ma
non è nemmeno una battaglia, che si vince.
L’anoressia
è un sintomo. Che porta allo scoperto quello che fa male
dentro. La paura, il
vuoto, l’abbandono, la violenza, la collera. È un
modo per proteggersi da tutto
ciò che sfugge al controllo. Anche se a forza di proteggersi
si rischia di
morire.
Io
non sono morta”
(“Volevo
essere come una farfalla –
Michele Marzano)
Il
peso di un Colibrì
PROLOGO
“Sono passati
dieci anni. Per dieci anni non ti ho più vista, sono rimasta
lontana per ben
dieci anni e ora che sei, sei...” Non trova le parole ma non
è questa la cosa
importante. Calypso è lì –con il viso
incorniciato da cortissimi ciuffi chiari,
quand’è che si è tagliata i capelli?
– davanti a Zoe che davvero non riesce a
concepire, ma nemmeno in minima parte come possa essere passato
così tanto
tempo dall’ultima volta che ha visto quegli occhi a mandorla
e quei capelli
color caramello, anzi, a dir la verità gli sembra solo ieri
di averla lasciata
in lacrime quando estremamente determinata abbandonava di nascosto
villa Ogigia.
Se ci pensa bene, quella è davvero l’ultima
immagine che ha di Calypso, poi non
l’aveva più incontrata.
“Cosa sono,
Zoe?” chiede la ragazza con voce mesta occupando il silenzio
sconfortante
lasciato dalla frase a metà della sorella.
Preferisce
ignorare la sua domanda perché non riesce davvero a dirlo.
“Cosa ci fai qui?”
domanda invece. Calypso abbassa le ciglia lunghe sfiorandosi le guance
come se
ci stesse pensando su, ma poi ripunta lo sguardo verso la donna.
“Non
ero pronta ad accettare quella
situazione. Mi sono sentita tradita ed esclusa proprio dalla persona in
cui
avevo risposto tutta la mia fiducia, a cui avevo permesso di sbirciare
dentro
la mia corazza. Non riuscivo a capire, anzi, meglio: non volevo capire.
L’unica
soluzione giusta per me era andarmene e questo ho fatto, ma se pensi
che sia
più appropriato dire che sono scappata allora ti
dirò che è vero, sono
scappata. Sono scappata davanti alle mie responsabilità,
davanti alla mia
famiglia e a tutto quello che i miei genitori avevano costruito per me.
Sì,
sono scappata, non nel modo in cui lo hai fatto tu ma la mia si
può definire in
ogni caso una fuga. La fuga di una codarda.”
Zoe tuffa il viso
fra le mani e scuote la testa perché tutto quello che sta
dicendo la sua
sorellina minore non ha senso, almeno per lei che non la vede da dieci
anni e
non sa nulla di quello che sia capitato da allora alla famiglia che si
è
lasciata alle spalle. “Sei scappata da Villa Ogigia anche
tu?” chiede alla
fine, l’unica ipotesi che quella cascata di parole le ha
dato, almeno questo
spiegherebbe perché sia andata da lei.
“No”
dice
abbassando il viso e incupendosi “Per quanto ci abbia
provato, non sono mai
riuscita a compiere un gesto così estremo”
“Ma hai appena
detto che sei scappata anche tu!”
“Non nel modo
comune in cui intendiamo di solito” sbotta, prende una corta
ciocca di capelli
chiari e la liscia distrattamente come se stesse cercando tra
sé e sé le parole
esatte da usare. “E’ difficile da
spiegare” risolve infine.
Zoe scuote la
testa borbottando qualcosa talmente sottovoce che Calypso non riesce a
capire,
sembra stia maledicendo una qualche divinità. Poi, rialza lo
sguardo su di lei.
“Senti, ma com’è che mi hai
trovata?” è abbastanza sicura che nessuno della
sua
famiglia conosca la sua attuale ubicazione, quando è fuggita
ha fatto le cose
per bene rendendosi non rintracciabile.
“Oh”
questa
domanda sembra far precipitare la sorella minore direttamente dal mondo
sulle
nuvole e lascia cadere la ciocca di capelli sulla sua spalla, adesso la
guarda
con occhi grandi e incerti. “Ecco... conosci Will
Solace?”
Zoe aggrotta
la fronte pensierosa. “Solace? Intendi il figlio di Apollo?
Ma! Lo sai che lui,
lui...” spalanca gli occhi e si sorprende quando
l’altra annuisce senza battere
ciglio per nulla turbata dalla cosa. Al che si schiarisce la voce con
una
leggera tosse un poco a disagio, ma poi continua nelle sue domanda.
“Come lo
conosci?”
Calypso si
morde il labbro con gli incisivi, apre la bocca per dire qualcosa ma
sembra
ripensarci e la chiude guardandola con sguardo colpevole.
“...è difficile da
spiegare”
A questo
punto, tutto ciò che Zoe può fare e lasciarsi
andare in un sonoro sospiro, non
sa proprio come capire quella situazione. È tutto
così inaspettato, dopo dieci
anni ha davanti la sua sorellina che parla per enigmi; si chiede se non
sia
tutto un piano ideato da loro padre Atlanta ma le basta guardare dentro
gli
occhi della sorella per capire che non è così.
Sposta lo
sguardo alla finestra dove i timidi raggi del sole autunnale bussano
sul vetro
chiedendo il permesso di entrare per riscaldare la casa.
“Ti preparo il
tè, ok? No, almeno ti fa bene e fai discorsi un pochino
più sensati” blatera
alzandosi e si dirige verso il piano cucina.
“Senti Zoe, ma
secondo te è possibile programmare le
benedizioni?” la voce limpida e dolce di
Calypso emerge attraverso il rumore di stoviglie mentre la donna
continua a
fare tutto quel chiasso cercando chissà cosa negli stipetti.
Lei le rivolge uno
sguardo di sbieco di pochi secondi prima che il pentolino pieno
d’acqua calda
ri-catturi la sua attenzione.
“Certo che
no”
risponde “Le benedizione scendo dal cielo per grazia di
qualche volubile dio
fancazzista. Se proprio ce le facessimo da soli saremmo tutti
più contenti” e
mentre lo dice indica con un dito il soffitto per indicare
metaforicamente quel
dio che si diverte a far dannare questi piccoli e teneri e inutili
esseri
umani.
Calypso si
limitare ad allungare le labbra in
un
morbido sorriso e guarda attentamente la sorella maggiore come se
volesse
imprimersi nella mente ogni singolo particolare di quel viso che non ha
visto
per molti – troppi – anni.
Zoe aveva
sempre avuto quella postura sicura tipica delle guerriere con le spalle
larghe,
i muscoli definiti sulle braccia e la sua considerabile altezza, ma
è anche
armoniosa così che la pelle scura e i tratti delicati del
viso la fanno
assomigliare a una principessa persiana. Da piccola l’aveva
invidiata, perché
era quella grande e poteva fare più cose che a lei erano
precluse ma ora riesce
a comprendere quanto in realtà la vita della sorella fosse
stata piena di
rinunce. Come la sua. Però ora Zoe è una donna,
una donna vera forgiata dalla
vita e con i fianchi morbidi e sensuali e si chiede distrattamente se
anche lei
avrà quelle dolci forme o se resterà impigliata
in quel corpo gracilino.
Sorride al pensiero rendendosi conto che forse le cose possono davvero
cambiare.
“Tutto quello
che è successo non era nei miei piani, ma proprio per questo
è stato una
benedizione” mormora sfiorando dolcemente le vene sul legno
chiaro della cucina
“Ma non credere che io l’abbia capito subito, eh,
se così fosse stato non sarei
mai venuta qui, starei ancora vagando per Los Angeles completamente
sola”
aggiunge mentre sorride socchiudendo gli occhi scuri.
Zoe si lascia
scappare un mezzo sospiro, forse di stanchezza o di esasperazione,
magari no,
magari è solo il sollievo di riavere quella piccola
sorellina con sé, e intanto
continua a osservare l’acqua sul pentolino bollire, si stanno
già formando le
prime bolle ma sta andando comunque troppo lenta per i suoi gusti.
“Senti”
dice
grattandosi una guancia, di guardare Calypso negli occhi non ha la
forza e
quindi resta girata a darle la schiena con sul volto una leggera
smorfia di
preoccupazione “Che
è successo?”
La Nightshade
più giovane si irrigidisce appena e le sue labbra ancora
tirate in un sorriso
tremano un poco, tamburella con le dita della mano sinistra sul tavolo
–
sorride al ricordo di chi le ha attaccato questo vizio –
mentre appoggia il
viso sul palmo della mano destra. “Ecco, mhh—
quando sei andata via di case le
cose non andavano proprio bene, sai... Papà era furioso, ti
hanno cercata per
tutto il continente” inizia decidendo di prenderla alla
lontana, ma molto
lontana. “Le cose sì, erano proprio pessime. Tu
sei stata proprio pessima, non
hai lasciato nemmeno un bigliettino” continua a blaterare
mentre il cuore le
batte velocissimo: non ha mai raccontato a qualcuno quello che
è successo, mai
di prima persona, altri raccontavano ad altri solitamente.
“Io... sono stata
male. Parecchio male. Ero tipo depressa, una roba simile”
borbotta mangiandosi
le parole e attorcigliandosi una ciocca tra le dita
“All’inizio non ci ha fatto
caso nessuno, erano tutti troppo occupati a cercarti. Poi,
però, hanno iniziato
a farsi qualche domanda, a notare che non toccavo cibo e che non
parlavo con
nessuno e—“
“Mi
dispiace”
la interrompe Zoe prendendo due tazze da un ripiano “Non era
mia intenzione
farti stare così male, lo sai” ha un groppo in
gola e il senso di colpa le
attorciglia le budella.
“Lo so”
conferma Calypso, poi prende un grande respiro “Hai mai
sentito parlare del
College Olympus?”
Zoe si volta a
guardarla spandendo qualche goccia d’acqua fuori dalla tazza,
ha un’adorabile
espressione confusa sul viso. “Ah-ah” conferma
“Ci ho lavorato otto anni fa. È
lì che ho conosciuta Artemide. Ma cosa
c’entra?” domanda mentre mette le
bustine da tè dentro le tazze. Ne porge una alla sorella che
l’accetta con un
tenue sorriso.
“L’Olympus
non
è solo una scuola. O meglio, lo è ma...”
“E’ una
scuola
un po’ speciale” annuisce Zoe soffiando sopra il
liquido della sua tazzina.
“Vuoi dello zucchero? Miele? Latte?” elenca poi
guardando tra gli stipetti.
La più piccola
spalanca gli occhi e si morde l’interno guancia a disagio
mentre l’altra prende
fuori un barattolo di miele e chiede ancora. “Ne vuoi? Io lo
metto”.
“No”
dice
pianissimo, poi scuote la testa e si schiarisce la voce “Anzi
sì. Cioè, no. Sì.
Io—“
“Lo vuoi o non
lo vuoi?” vocia Zoe “E’ semplice: o lo
vuoi o non lo vuoi”.
Calypso
sorride a quella frase, con nostalgia, come se le abbia ricordato
qualcosa di
estremamente dolce e doloroso insieme, stringe la presa sulla tazzina e
scuote
la testa, lentamente. “No, grazie”
Zoe annuisce,
come se avesse capito tutto quello che frulla nella testa della
sorellina.
“Allora, si diceva dell’Olympus. Tu come lo
conosci?”
Distoglie lo
sguardo e inizia a mescolare con il cucchiaino. “Io... quando
la situazione è
diventata critica mi hanno mandata lì”
“Calypso”
la
ferma con determinazione “Che situazione? Cosa avevi? Eri
triste, ok, ma cos’è
successo da mandarti in un centro per ragazzi problematici?”
Adesso la
guarda con gli spalancati e pieni di incertezza e timore, sembrano
dire: posso fidarmi di te?
Perciò un morbido
sorriso compare sulle labbra della maggiore, ammorbidisce lo sguardo e
dice:
“Sono tua sorella” se non
ti fidi di me,
di chi allora?
“N—on...
non
mangiavo... più” tentenna con una voce piccola e
piccola, proprio come lei,
nota Zoe, che ha la pelle pallida e molte ossa che sporgono.
È il suo turno
di spalancare gli occhi. “Sei anoressica?” sbotta
ad alta voce.
Le labbra di
Calypso si stirano in una linea sottile, priva di qualsiasi sorriso, e
gli
occhi si incupiscono. “E’ un po’
più complicato di così” sibila. Ha
sempre
odiato chi si liquidava con quella parola davanti a lei, come se
bastasse
quella a spiegare tutto quello che aveva dentro, come se bastasse a
rinchiuderla dentro una definizione che, se ci pensate, è un
po’ come una
prigione. L’ennesima in cui qualcuno la metteva quando, no, a
lei era
semplicemente sembrata l’unica soluzione, l’unica
chiave alla sua libertà.
“Semplicemente,
da quando te ne sei andata ogni cosa si è definitivamente
distrutta,
fondamentalmente mi hai abbandonata in una prigione togliendomi ogni
possibilità di fuga. Come potevo anche solo pensarlo dopo
tutto il dolore che
avevi creato a nostra madre? Fondamentalmente ho creato una falsa me
per
adattarmi all’ambiente che mi circondava, a quella situazione
che tu avevi
creato. Fondamentalmente, mi sono sottomessa per sopravvivere.
Inizialmente,
desideravo di smettere di respirare per non essere un peso agli altri.
Poi, ho
desiderato di essere così leggera da essere spazzata via da
un colpo di vento e
smettere, definitivamente, di essere un peso. Alla fine, tutto quello
che
chiedevo era di avere lo stesso peso di un colibrì per
volare via da quella
prigione”. Respira affannosamente come se avesse appena corso
la maratona di
New York quando ha solo detto una cosa che si portava dentro da troppo
tempo
alla diretta interessata.
“Dopo la tua
fuga, mamma e papà erano terrorizzati che io potessi fare lo
stesso. Erano
terrorizzati dal mondo fuori la villa e credevano che lo fossi anche
io.
Spaventata, intendo. Ma... non si trattava di accettare il mondo
esterno, anzi
quello lo agognavo fin troppo. Il fatto è che non potevo
accettare me stessa. Perché lo ha
fatto? Mi domandavo. Io non le
bastavo? Io... non ho mai
rifiutato il mondo, rifiutavo solo me stessa. Ma loro non lo hanno mai
capito,
almeno finché le cose non sono diventate troppo gravi e
hanno pensato che
l’unica soluzione ormai fosse il College Olympus.”
“E lo
è
stato?” chiede, poi aggiunge pensierosa.
“E’ pieno di bambini disagiati, là
dentro”
Calypso fa una
smorfia di malcontento davanti a quelle parole, non perché
lei ci sia stata –
beninteso, sa di essere stata alquanto disagiata – ma quei bambini disagiati là dentro
sono tutti i suoi amici (o erano, non
lo sa. Adesso che è scappata le cose sono confuse).
“Il College
è
un bel posto” riprende a parlare “Sul serio, ma non
credo sia stata
propriamente la scuola ad aiutarmi. O meglio, sì: lo scopo
del college è
maggiormente quello, ma non ha agito in prima persona. Forse sono stata
solo io
a mettermi in gioco, avevo bisogno di una spintarella, tutto qui. O
forse no,
non saprei dirlo con certezza. Non saprei nemmeno dire se sono... guarita da me stessa.”
Zoe
prende un lungo respiro, poi la guarda con
occhio critico mentre l’altra sorride alla tazza e riprende a
parlare.
“Più
che altro
lì dentro ho conosciuto molte persone. Sai, è
stato difficile all’inizio: non
mi fidavo di nessuno, avevo il terrore di vedere tutti scomparire
improvvisamente dalla mia vita e perciò non ho mai dato
fiducia a nessuno. Però
ho incontrato Rachel, che forse è disagiata –
molto – ma non nel senso che
intendi tu; poi ho trovato Percy, che ai miei occhi era come un eroe,
forse un
po’ tonto ma un eroe perché era lì a
salvare la sua fidanzata; c’era anche
Nico, che forse è quello che mi ha capita meglio subito
perché anche lui aveva
questo piccolo problema di fiducia verso gli altri, anche lui aveva
perso la
sorella –ma per sempre; c’erano Hazel, Will,
Annabeth, Jason, Chirone, Estia,
Frank, Piper.... ma soprattutto c’è stato
lui” ha un sorriso così dolce sul
volto che sembra fatto di zucchero filato, o forse è la
stessa consistenza
delle nuvole “Nonostante tu te ne sia andata ho scoperto che
non ti eri portata
via con te anche il mio cuore, come credevo all’inizio.
Tutt’altro, altrimenti
non mi spiegherei come sia così facile amare Leo, credo sia
la cosa più facile
di questo stupido mondo”
Zoe fa una
smorfia di disappunto piegando impercettibilmente le labbra mentre
Calypso
continua a guardare la tazza con quegli occhi pieni di luce e un
sorriso
spontaneo sulle labbra, di quelli che puoi nascondere solo abbassando
il viso e
mettendo una mano davanti alla bocca.
“Non volevo
metterti in imbarazzo, ehm! Dico solo quello che penso, proprio come mi
hai
insegnato tu!” Schiude la bocca e ride chiudendo gli occhi,
già l’aria nella
cucina torna più leggera, ma non di tanto. La maggiore si
è appena vista
catapultata nel passato e davanti ha una Calypso più piccola
con i capelli più
lunghi e un viso rotondo come la luna lavato dalle lacrime,
può anche sentire
quella dolorosa sensazione degli
addii
muti.
“Scusami”
prorompe interrompendo quella risata che le ricorda che davanti a lei
adesso
c’è una Calypso più alta con i capelli
corti e un viso magro e quel sorriso
amabilmente ipocrita.
“Eeh?
Perché
me lo chiedi? Non devi?” mormora confusa, o forse
è solo stupita, ma con quel
sorriso sul volto che non ha intenzione di far cedere.
“Se non me ne
fossi andata, se fossi restata tu non saresti mai caduta in questa
situaz...”
“Oh, con i se e con i
ma la storia non si
fa” vocia perentoria, addirittura irritata, e
adesso non sorride proprio
più, la guarda con occhi colmi di rimprovero. “Mi
hai già chiesto scusa”
“Non mi sembra
abbastanza” ammette mortificata “Io, davvero, Cal,
ti chiedo perdono per
essermene andata e per tutto quello che è successo, che ti
ho fatto soffrire.
Sono stata solo una povera idiota”
“Ma
insomma!”
sbotta facendo colpire con un rumore secco il fondo della tazzina sul
tavolo
“Smettila di prenderti tutte le responsabilità di
questo mondo! Specialmente se
non ce n’è il bisogno. Cosa avresti fatto,
altrimenti? Preferivi passare tutta
la vita chiusa in una casa odiata a fingere ciò che non sei,
prigioniera non
solo in una villa, ma nella tua stessa famiglia e nel tuo stesso corpo?
No, hai
fatto fin troppo bene. Che poi io abbia usato la cosa come scusa per
arrendermi
è affare mio, piuttosto sono io l’idiota che si
è chiusa frignando in sé stessa
perché non aveva più la sorellona a darle
attenzioni. Oh, sì! Sono stata
davvero una grandiosissima scema che ha preferito addossare le colpe ad
altri
che a sé stessa, quando erano solo sue.” Continua
a voce alta ed aspra
puntandosi il petto con una mano per sottolineare le sue parole
“Sono io
l’idiota, Zoe, sono io che non ha nemmeno provato a fuggire
quando era
prigioniera ma che invece è fuggita senza pensarci due volte
quando ha visto la
libertà perché ne ha avuto paura. Come se fossi
l’eroina di chissà quale
scadente libro. Guarda sorellona, hai davanti a te la più
grande e gigantesca
idiota che sia apparsa in questo mondo!”
Cala il
silenzio per qualche secondo mentre la più giovane la guarda
infervorata, ma
poi Zoe annuisce. “Sì, se la metti in questo modo
ha proprio ragione” e si
passa una mano tra i capelli in un timido sorriso che dovrebbe stare a
significare
che sì, va bene così. Anche se non è
vero perché non saranno quelle parole a
cancellare dieci anni di rimorsi.
Calypso guarda
fuori dalla finestra gli alti grattacieli della città e il
sole che fa capolino
tra di essi, da lì può vedere il traffico
cittadino. È una giornata ventosa ma
anche estremamente calda lì, a San Francisco. Il sorriso di
mediazione della
sorella le ha ricordato una cosa che le avevano detto tempo prima.
A
volte ho la sensazione che le nostre vite non
siano altro che una gara a chi collezione più rimorsi e
sensi di colpa nel
cuore rispetto all’altro.
Se
così fosse, Jason, comunque, per ora sta
vincendo.
Maledetta
sindrome del supereroe.
“Senti”
la
richiama Zoe, ha il viso mollemente appoggiato sul palmo della mano e
fa di
tutto per non guardarla “Perché sei
qui?” che alla fine è la domanda a cui
hanno girato intorno per tutto il tempo.
Calypso si
prende qualche secondo per pensarci studiando le decorazione sulla
tazza, il tè
si è raffreddato del tutto ormai. Poi alza lo sguardo.
“Zoe, ti va se ti racconto una
storia?”
Angolino
dell’autrice:
E così, dopo
tanto tempo, approdo nuovamente in questo fandom con questa sottospecie
di
long-fic. Sì, lo so che ormai mi davate per dispersa, ma
sono tornata!
Questa idea è
saltata fuori da un’enorme bisogno di leggere una Caleo, o
almeno una storia
con Leo protagonista, ma ahimè, sembrano essere rare quanto
gli struzzi in
technicolor c__c Ormai il sito è sommerso dalle Solangelo!
E dal momento che
la mia autrice preferita su questa coppia sembra essersi volatilizzata
nel
nulla (Mikiriseeee, dove seeei!) ho deciso di intervenire in prima
persona
peccando decisamente di ubris.
Quindi sì,
questa è una Caleo ma ci saranno anche i Solangelo e i
Percabeth perché sì. E
come avete visto, non tratta di cose proprio leggere (amo complicarmi
la vita).
Mi rendo conto che l’anoressia sia un argomento complicato,
frainteso e spesso
liquidato con un “ma mangia, basta quello!”.
È un argomento a cui sono molto
legate, anche, e spero quindi spero di poterlo rendere bene.
Ovviamente, non è
pro-ana o pro-tuttoquellochesuccederà. Semplicemente,
considero la scrittura un
modo come un altro per schiaffeggiare al mondo certe verità
che si tende ad
ignorare o a liquidare con i soliti luoghi comuni.
Ovviamente
parte II, mi rendo conto che non posso fare una cosa totalmente cruda,
cercherò
di renderlo in maniera leggere (anche se è pesante come un
macigno in realtà)
per non far star male le persone troppo empatiche come me –
vi capisco!
Questo è il
prologo e può risultare un pochino incasinato per via del
fatto che tutta la
storia sarà un flashback di Calypso (anche se
sarà narrata in terza persona),
quindi la storia parte in media res,
molte cose sono già avvenute ma i lettori non le conoscono,
quindi sì: la
confusione iniziale è tutta programmata!
Un’ultima
precisazione: il College Olympus. Ecco, mi sono informata in giro e ci
sono
varie strutture che ospitano ragazzi con determinati problemi
(odio definirli così, ma non so come altro spiegarmi!).
possono variare dai disturbi alimentari all’autolesionismo e
altre mental illness. Io ho optato
per fare
una cosa più easy
(sì, usiamo
l’inglese alla cazzo!), perciò nasce questo
College adibito sia
all’insegnamento, ma che ospita questi ragazzi aiutandoli a
ritrovare sé stessi
e a guarire. Ho aggiunto, che in estate – periodo in cui
è ambientata la storia
– esso diventi un campus estivo cosicché i ragazzi
possano trovare una casa per
tutti i giorni dell’anno nel caso i propri genitori o non ci
siano o non siano
in gradi di aiutarli/mantenerli. Altra cosa che ho aggiunto: sempre in
estate,
c’è la possibilità che degli esterni
possano aiutare i prof nella gestione del
Campus, queste persone vengono chiamate Magliette arancioni (spoiler:
Will e Percy
sono dei loro)
Spero di aver
detto subito. Come al solito, recensioni, pareri e critiche possono
aiutarmi
non solo a capire se la storia sia apprezzata ma anche a migliorare
nello
scrivere. Perciò, non siate timidi!
Sappiate che
regalo biscotti a chi recensisce xD
A presto!
|
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Capitolo 2 *** 47.1 Kg ***
Attenzione!
La storia seguente presenta tematiche delicate. Vorrei precisare che
non
promuovo nessun tipo di disordine alimentare. Pertanto, se si
è facilmente
influenzabile sconsiglio la lettura, non voglio avervi nella coscienza.
I
Quarantasettepuntouno
**
“Bevi acqua ghiacciata.
Il tuo corpo
brucerà calorie per riportare
l’acqua a una
temperatura
adatta alla digestione.
È
anche ottimo per la tua pelle”
Era una stanza
ampia e spaziosa, grandi finestre in vetro la illuminavano lasciando
entrare i
raggi aranciati del sole prossimo al tramonto. Quel colore caldo si
rifletteva
sul marmo bianco del pavimento e rimbalzava sui muri ─sempre
bianchi – infilandosi tra le poche
persone presenti. Quella hall
invece
di sembrare l’entrata di un college le ricordava quella di un
museo, complici
le copie di antiche statue in marmo che costeggiavano alcuni lati delle
stanza.
Ma la cosa che aveva rapito lo sguardo di Calypso era il soffitto alto
e
imponente da cui poteva ammirare estasiata un bellissimo affresco
rappresentante, se non errava, gli dei dell’Olimpo nel loro
regno di nuvole; al
centro esatto capeggiava Zeus accompagnato dall’algida sposa.
Da lì in basso
non poteva vedere tutti i particolari di quel mirabile dipinto ma
poteva ben
comprendere la maestria di chi lo aveva affrescato. Ne fu estasiata, ma
anche
un po’ invidiosa.
Accanto a lei
stavano due valigie, troppo grandi per essere sollevate insieme, e i
ragazzi
che entravano e uscivano la spiavano con la stessa espressione curiosa
che si
rivolge ai nuovi arrivati. I suoi genitori stazionavano non molto
lontano, si
sporgevano sul bancone di legno lucido dietro quale una donna parlava
con aria
professionale immersa tra fogli, penne e le brochure
del college. La donna parlava con sicurezza e i due coniughi Nightshade
annuivano in maniera posata e aristocratica sebbene conoscessero
già a memoria
ogni possibilità che quella prestigiosa scuola offriva a
gente come lei. Anche
Calypso le conosceva tutte, queste possibilità, motivo per
cui aveva deciso di
piazzarsi lontano dal bancone e dalla fastidiosa voce della segretaria.
Il College
Olympus non era solo una scuola prestigiosa che aveva sfornato ottimi
avvocati
o medici – più o meno quello che dicevano i
volantini – ma era anche un ottimo
luogo dove ragazzi problematici –come lei –
potevano essere seguiti nei giusti
modi e ritrovare la retta via
–
questo a citare le parole di suo padre.
Avevano
passato la maggior parte dell’inverno, almeno da quando
avevano iniziato a
preoccuparsi della figlia, a ricercare strutture che potessero
accoglierla nel
modo giusto senza far cadere la famiglia in certe maldicenze e allo
stesso
tempo non dovendosi occupare della questione in prima persona delegando
ad
altri il problema. Era un normalissimo college sotto certi punti di
vista, la
differenza stava sulla tipologia di alunni che lo frequentava e che
d’estate si
trasformava in un campo estivo con numerose attività.
“Calypso,
tesoro” la chiamò la madre facendole cenno di
avvicinarsi con un gesto elegante
della mano, gli innumerevoli gioielli sul polso tintinnarono. La
ragazza ignorò
le valige avvicinandosi con sguardo indifferente ai suoi genitori, la
segretaria le sorrise come se fosse davvero felice di vederla, aveva
degli occhiali
rettangolari che non le donavano affatto: le facevano il viso troppo
allungato.
“Tu devi
essere Calypso” disse la donna rimarcando l’ovvio
con così tanta enfasi che non
rispose nemmeno.
Sua madre le
sistemò alcune ciocche che fuggivano dalla treccia con
piccoli e studiati gesti
borbottando elegantemente alcune raccomandazioni che lei si
premurò di non
ascoltare minimamente. Suo padre si stagliava dietro la signora
Nightshade in
silenzio come un’inquietante figura. La solita e inquietante
figura della sua
infanzia.
“Si
troverà
bene da noi” continuò la segretaria, non
capì bene a chi, forse a sua madre “I
corsi estivi sono da poco iniziati, presentiamo una grande
varietà di attività
nelle quali muoversi. Spesso la scuola offre alla sera anche ottime
attività
extra-scolastiche per migliorare il rapporto tra ragazzi...”
riprese a dire
come un disco rotto. Suo madre annuì convinta nonostante
avesse sentito quella
cantilena ormai mille volte.
“Va bene,
tesoro” disse quando la segretaria terminò
l’ennesimo elogio all’Olympus
“chiamaci ogni tanto, ok? Lo faremo anche noi. Cerca di
divertirti e se ci
dovesse essere qualsiasi tipo di problema non esitare a
parlarne” aggiunse
sistemando con un colpetto la camicia bianca della figlia.
“Va
bene”
disse incolore.
“Comportati
bene” fu l’unico commento del
padre. Atlante non era mai stato un tipo di molte parole, lasciava
brevi ma
lapidarie sentenze.
Le braccia
secche di sua madre la strinsero brevemente in un abbraccio privo di
calore.
“Mi mancherai”.
La ragazza
percepì una morsa allo stomaco mentre un ragazzo la aiutava
con le valigie e i
suoi genitori la vedevano andarsene, forse fu la spiacevole sensazione
di
passare da una gabbia dorata all’altra, sempre prigioniera,
sempre incapace di
librarsi lontano, tra le nuvole.
**
Will Solace
era fiducioso. Diamine se lo era. Aveva vent’anni, tutta la
vita davanti, e
finalmente si sentiva pronto a fare qualcosa di buono e giusto dopo un
inverno
passato tra le pagine dei libri di medicina sballottato da un esame
all’altro.
Ma adesso gli si prospettava davanti un’ottima estate a fare
ciò che davvero
voleva fare, certo forse era un desiderio un po’ (tanto)
insolito per un
ragazzo della sua età che aveva passato mesi immerso nello
studio ma, davvero,
Will voleva fare questo.
La facciata
del College Olympus lo sovrastava ma lui lo guardava spavaldo per nulla
impressionato dalla sua imponenza. Un venticello estivo gli spettinava
i
capelli biondi e lunghi arruffandoli leggermente, un sorrisetto a
labbra
strette gli deformava leggermente gli angoli del viso in una fossetta.
Will
conosceva bene quel posto, sapeva bene che genere di persone lo
frequentassero
e per questo aveva fatto richiesta al preside di essere assunto come
aiutante
per i corsi estivi. A rispondere alla sua domanda era stato invece il
vice-preside,
un certo signor Chirone che sotto uno sguardo stupito e corrucciato
aveva
accettato la sua richiesta; avrebbe aiutato i professori nel
disciplinare i
ragazzi. Non era insolito che esterni partecipassero al progetto del
college, a
lasciar perplesso il vice-preside era stata la giovane età
del candidato.
“Perché
?”
aveva chiesto.
Will aveva
scrollato le spalle. “Tutti meritano una seconda
possibilità”.
Lo credeva
fermamente e voleva aiutare chiunque stesse cercando la seconda
possibilità.
Lui stesso in primis.
“Signore?”
un
addetto alla scuola era uscito dal portone studiandolo con
curiosità“Ha bisogno
di aiuto?”
“Sono una maglietta arancione” disse con
tono
cordiale, ricevette un breve sguardo scettico a tale frase ma si
operò subito
ad aiutarlo con le valige.
“Avverto il
signor Chirone” disse una volta dentro “Che nome
devo riferire?”
Il biondo
guardò la hall con
attenzione,
studiando particolarmente le poche persone che si aggiravano.
“Solace”
rispose dopo un attimo alla domanda dell’uomo
“William Solace”
Sì,
tutti meritano una seconda possibilità, pensò.
**
Stanza
123, ala C.
Questa sarebbe
stata la sua nuova casa per lungo tempo. Calypso sfiorò con
lo sguardo la
targhetta d’ottone al centro della porta meditando
chissà quale sciocchezza
prima di posare le dita sulla maniglia e spingerla dolcemente.
Notò che il
colore predominante all’interno era l’azzurro e gli
ultimi raggi di sole che
filtravano da dietro delle tende leggere creavano la sensazione di
trovarsi
all’interno del ventre marino, sotto l’oceano.
Accarezzò pigramente quell’idea
che, se non altro, rendeva la sua futura prigionia un po’
più accettabile.
Nella stanza erano presenti solo due letti, uno dei quali a castello.
Di quest’ultimo,
il materasso in basso era occupato da una ragazza da dei crespi e
ricciuti
capelli di un bel color rosso che sembravano intenzionati a sfuggire
dalle
grinfie dell’elastico grazie a cui aveva cercato di
imprigionarli in una
sommaria coda alta. Rimase a guardarla sull’uscio come se
fosse un curioso
folletto mentre un addetto alla scuola sistemava le sue due valigie
all’interno
della stanza, vicino al letto ad una sola piazza con il copriletto
azzurro
chiaro.
L’altra
ragazza che pareva avere pochi anni più di lei muoveva la
testa avanti e
indietro in un ritmo dettato, probabilmente, dalle grandi cuffie che le
coprivano le orecchie, motivo per cui, forse, non l’aveva
sentita entrare.
“Io
ho fatto, miss” disse l’addetto – il
bidello – che l’aveva aiutata con le valigie, lei
annuì distrattamente. Lo
sbattere della porta sembrò catturare l’attenzione
della rossa che girò la
testa verso la nuova venuta. A vederla spalancò gli occhi
con mite sorpresa,
fece un sorriso e contemporaneamente si mise a sedere verso la nuova
arrivata
togliendosi le cuffiette con un gesto secco.
“Tu devi
essere quella nuova, Haz me ne aveva parlato” disse annuendo
come se stesse
seguendo il filo di un proprio pensiero ad alta voce, poi:
“Io sono Rachel
Dare, molto piacere” ed accentuò il sorriso. Aveva
l’aria di essere molto
contagioso, soprattutto per via di certe lentiggini che le puntellavano
le
guance come certe costellazioni. Peccato che Calypso fosse stata
vaccinata dai
suoi genitori contro i sorrisi spontanei.
“Calypso
Nightshade” disse con voce flebile e veloce, in netto
contrasto con il tono
usato dall’altra ragazza, e si strinse i gomiti con le mani
incurvando la schiena.
Questo
atteggiamento schivo non sembrò intimidire Rachel che si
alzò dal letto, notò
che i jeans erano strappati in più punti ed era una macchia
di pittura quella
che vedeva sulla maglietta stropicciata?
“Puoi prendere
quel letto. Hazel –l’altra ragazza –
dorme sopra di me perciò non lo usa
nessuno” le indicò l’oggetto e poi:
“Ti serve un aiuto con le valigie?”
Calypso nel
corso della sua breve esistenza non aveva mai avuto tanti contatti
umani (se si
vuole escludere sua madre, suo padre, le sorelle, la tata e il
precettore) e
quei pochi attimi fugaci che aveva ottenuto dai ricevimenti a villa
Ogygia
erano stati scarni e controllati, privi di tutta quella esuberanza che
ci
metteva la rossa nel dire una semplice parola. Ma,
d’altronde, Calypso sapeva
bene di non conoscere affatto come fosse il mondo al di fuori delle
mura della
sua enorme villa.
So
di non sapere. Socrate sarebbe fiero di me.
“Nihtshade”
stava intanto ripetendo Rachel tra sé e sé come
se misurasse quel nome sulle
proprie labbra “Nightshade... è per caso lo stesso
cognome della ditta che
vende armi?” chiese alla fine puramente curiosa.
Calypso le
lanciò uno sguardo diffidente. “Sì...
mio padre ne è il fondatore”.
La cosa non
parve turbare per nulla la ragazza, anzi fece un altro sorriso.
“Ho presente,
sì. Mio padre ha fatto parecchi affari con lui”.
Un piccolo
accenno di curiosità si accese nella timida nuova arrivata.
Era anche quella
stramba ragazza figlia di ricconi?
Rachel sembrò
leggere la domanda dentro gli occhi scuri e annuì con un
piccola risata. “Sì,
mio padre è uno degli uomini più ricchi degli
Stati Uniti. Mi ha mandato qui
perché— be’”
fece una smorfia buffa
“Non rientro nella sua categoria di dama sofisticata in cerca
di marito. Non
sono fatta per queste cose ma lui non si dà affatto per
vinto. Così mi ha
spedita qui. La cosa mi va bene, eh”
ci tenne a precisare mettendo le mani davanti “Prima di
finire qui ero stata in
uno stupida scuola dove controllavano pure quanta aria respirassi ogni
giorno.
Poi è arrivato il signor Chirone –sai, il
vice-preside – e ha proposto ai miei
genitori questa scuola. È stata una benedizione, mi trovo
davvero bene qui. Ho
conosciuto molta gente simpatica con cui posso parlare di tutto, non
devo
temere punizioni ingiuste per il mio modo di fare e... sì,
è una pacchia”
Calypso si
chiede distrattamente se qualcuno l’avesse pagata per dire
tutte quelle belle
cose di un luogo che iniziava già a sentirlo come una
prigione.
“E tu,
perché
sei qui?” riprese a parlare Rachel staccandola dai suoi
pensieri
claustrofobici. Strinse con più forza le dita sui gomiti
mordendosi per un
breve attimo l’interno della guancia –un suo brutto
vizio – ma poi buttò fuori
l’aria in un lieve sospiro. “Più o meno
per il tuo stesso motivo. Non sono
esattamente come i miei vorrebbero e hanno preferito accollare la
risoluzione
del problema ad altri” disse. Non era una bugia ma nemmeno la
verità, qualcosa
che sta nel mezzo insomma e che ti permette di non crogiolarti troppo
nel senso
di colpa. Per una ragazza abituata a mentire la vita è fatta
di mezze verità.
Rachel annuì
con sguardo serio come a dire sì,
capisco
benissimo quando no, era ovvio lontano un miglio che non
capiva e non
avrebbe mai potuto capire. Ma forse era semplicemente meglio
così, di sicuro
risultava più facile. Si schiarì la voce per
rompere quel silenzio pieno di
parole sottointese.
“Quindi...
puoi spiegarmi come funzionano le cose qui?” chiese con
quella sua voce dolce e
delicata giusto per dire qualcosa. Sembrò la cosa giusta
perché lo sguardo
della ragazza si illuminò nuovamente animato di un nuovo
entusiasmo.
“Ma certo!
Prima ti conviene sistemare le tue cose, almeno sommariamente...
Nell’armadio
puoi mettere tutti i vestiti che vuoi, è mezzo vuoto. E ci
sono due cassetti
liberi, se vuoi puoi prendere anche quelli... e oh, quel comodino...
sì, questo
qui –vicino al tuo letto – è
completamente vuoto. Puoi usarlo tu. Io e Haz
usiamo la scrivania di solito.”
Calypso sbatté
le palpebre un paio di volte mentre la rossa le vomitava quella cascata
di
parole, indicava costantemente attorno a sé facendo
ondeggiare i capelli rossi
come un ventaglio.
“La sveglia
è
alle otto –ovviamente se vuoi puoi svegliarti prima, eh – e alle mezza si fa la
colazione tutti insieme nella sala da
pranzo. La mattina abbiamo i corsi, scegli tu quelli che preferisci,
c’è un
foglio all’entrata in cui segni il tuo nome per
l’adesione, devi sceglierne
cinque, uno per ogni ora. Abbiamo un intervallo di venti minuti alle
dieci, poi
si continua fino all’ora di pranzo dove abbiamo due ore di
libertà. Il
pomeriggio si fa sport oppure ci portano in gite qua attorno. La cena
è sempre
alle sette e mezza, il signor D dà di matto se si arriva in
ritardo, piuttosto
non scendere proprio. Dopo... mh,
la
sera sei libero di fare quello che vuoi, ogni tanto ci sono feste nel
pub del
paese e con il permesso degli insegnanti possiamo andare. Deve esserci
sempre
almeno una maglia arancione” fece una smorfia di disappunto
“E ovviamente, il
coprifuoco è a mezzanotte”
Le spiegò
tutto quanto mentre, con le valigie aperte, impilava ordinatamente i
propri
vestiti all’interno dei cassetti disponibili, alcuni li
appese agli
attaccapanni dell’armadio. Preferì lasciare i
propri libri all’interno della
valigia, li avrebbe sistemati più avanti in un luogo sicuro.
Quando li vide
Rachel lanciò un fischio di apprezzamento “Sono
tantissimi” commentò.
Il fatto è che
quando passi la tua intera vita in solitudine racchiusa tra quattro
mura, i
libri non diventano solo la tua unica finestra per il mondo ma anche
veri e
propri amici fatti di carta e inchiostro. Non sono più delle
fantastiche figure
che scompaiono una volta chiuso il tomo, sono delle presenze
rassicuranti che
puoi percepire attorno a te anche solo tenendo il libricino in tasca.
Forse è
da pazzi, ma non importa. I libri avevano sempre risposto a Calypso,
l’avevano
sempre cullata offrendole mondi dove le ragazze non erano vittime delle
decisioni dei propri genitori, ma delle eroine. Era affascinata da
quella
visione, dove non c’erano né abiti stirati da
sera, nessun sconosciuto da
incontrare in un piccolo ricevimento o sorrisi preconfezionati per
avere
l’approvazione del proprio padre, nessuna scelta influenzate.
Le eroine
indossavano abiti da uomo, cavalcavano i propri cavalli sotto il cielo
notturno, erano algide e avevano stuoli di amanti. Nessuno poteva
ostacolarle.
“Per
il bagno?” chiese con la sua voce da fata
quando ebbero finito di riporre il vestiario nel giusto posto. Calypso
odiava
il disordine, aveva la mania di riordinare ogni cosa. No, forse era
mania del controllo
e basta.
Rachel indicò
con un gesto della testa una porticina alle sue spalle, non lontano dal
letto a
castello. “Eccolo lì” sbuffò
per togliersi un ciuffo ribelle da davanti alla
faccia “E’ un po’ piccolo,
bisognerà rifare i turni della doccia. E... ehm,
non fare caso alla biancheria in
giro. Oggi toccava a me sistemare ma, ecco... mi sono
distratta” e con
imbarazzo indicò il proprio letto dove giaceva abbandonato,
oltre l’i-pod con
le ingombrantissime cuffie, anche un album da disegno. In altre
circostante la
castana si sarebbe soffermata qualche secondo a fissare i contorni
perfetti
tracciati con la matita – Calypso amava l’arte
– però al momento c’era qualcosa
che le importava di più.
Annuendo
distrattamente alle parole della Dare (aveva storto il naso nel punto
della
biancheria) entrò dentro la stanza dell’igiene
personale richiudendosi dietro
la porta. Come aveva già detto l’altra ragazza, la
stanza era molto piccola e
lo stesso colore dell’altra colorava le mattonelle in marmo
dei muri mentre il
pavimento era composto da grandi e lucide piastrelle di un color
verde-mare
indefinito e alcuni tappetini bianchi le ricoprivano. Una sola finestra
a
sinistra illuminava
la stanza con dei
vetri opachi, sotto di essa stava il gabinetto con accanto il bidet.
Davanti a
lei le restituiva la propria immagine uno specchio dagli angoli un
po’
scrostati e pieno di impronte, sotto il lavandino perdeva qualche
goccia
d’acqua creando un fastidioso plic regolare mentre gli
spazzolini stavano abbandonati
sul lavabo. A destra stava la doccia, piccola e funzionale con una
tenda verde
pisello con motivi floreali a proteggere il piatto da sguardi
indiscreti. E
ovviamente, a completare il tutto, reggiseni e mutande erano sparsi per
il
pavimento.
Con la schiena
appoggiata alla porta fece scivolare le lunghe dita magre verso la
toppa dove
incontrando il freddo metallo della chiave si chiuse dentro. Subito
dopo si
mise a cercare minuziosamente dentro la stanzina ripetendosi nella
testa:
Questa
mattina pesavo
quarantaseipuntosette chili, non ho fatto
colazione ma ho bevuto
un bicchiere di latte (92 Kcal). A pranzo l’insalata di riso
fatta dalla cuoca,
non ho idea di quante calorie l’abbia fatta, non me lo ha
voluto dire....Però
ho mangiato due carote, dovrebbero aver fatto qualcosa, no? Anche
portare
quelle pesanti valigie. Adesso sono le sette, mi sembra un buon orario
per
controllare...
Trovò
l’oggetto delle sue ricerca dietro la porta, vicino alla
doccia. Tirò fuori la
bilancia guardandola con criticità, era una di quelle con i
numeri che compaiono
di un display, e la mise in un punto più comoda.
Dopodiché si diresse verso la
toilette per eliminare la bottiglia d’acqua che aveva bevuto
durante il viaggio
spogliandosi man mano che avanzava. Compiuto tutto questo, fiduciosa di
essersi
alleggerita abbastanza si mise in piedi sopra la bilancia e attese
paziente che
i numeri smettessero di cambiare a una velocità vertiginosa.
Quarantasettepuntouno.
Fissò con
attenzione chirurgica quei numeri spigolosi finché non
sparirono lasciando
dietro di sé il vuoto, rimase lo stesso là in
piedi con lo sguardo corrucciato
e deluso. Si passò sovrappensiero una mano sulla pancia
pallida sentendola
gonfia, provò a trattenere il respiro per un po’
avvertendo sotto i polpastrelli
gli spigoli delle costole. Era una bella sensazione.
“Calypso?”
Gridò Rachel bussando
dall’altro lato della porta facendola sobbalzare di colpo e
spezzando così quel
momento astratto. Velocemente la castana scese dalla bilancia
spingendola verso
l’angolo in cui l’aveva trovata, il cuore le
batteva furiosamente nel petto e
con leggera ansia nella voce chiese:
“Dimmi, che
c’è?”
“Sono quasi le
sette, fra poco dobbiamo scendere. Non so, se vuoi farti una doccia
dovresti
farla adesso... Ti ho detto, non è il caso di fare tardi con
il signor D”.
Calypso annuì,
ma poi ricordandosi che l’altra non poteva vederla aggiunse:
“D’accordo! Faccio
veloce” Con gesto agile fece scivolare le mutandine dalle
gambe e le calciò
poco prima di entrare in doccia e accendere l’acqua.
Regolarmente
ghiacciata, ovviamente.
**
La palla lo
aveva colpito, come sempre, nel centro della faccia. Uno di quei giorni
si
sarebbe rotto il suo splendido naso, lo sapeva e non doveva
assolutamente
permettere che il suo bel faccino si rovinasse: questo avrebbe spezzato
il
cuore di un sacco di ragazze.
Non che le
ragazze mostrassero apertamente il potere che il suo fascino da bel
tenebroso
scaturiva in loro, sempre che insulti come “vattene
nano” non fossero in realtà velate
parole di apprezzamento. Sicuramente era
così.
Ah,
le ragazze di oggi. Così timide...
Ma comunque,
si parlava del rugby, o meglio del pallone, ancora meglio del pallone
che
quell’idiota di Travis Stoll gli aveva tirato in faccia.
Questa
è l’ultima volta che faccio un piacere a
Jason,
si
lamentò mentre con una mano spalancava la porta della loro
camera e con l’altra
si teneva il ghiaccio che molto pietosamente la signora Sally Jackson
gli aveva
dato.
“Spero per voi
che la doccia sia libera” sbottò con finto tono
minaccioso mentre si richiudeva
con fare teatrale la porta alle spalle. Ma d’altronde, in Leo
Valdez tutto era
estremamente teatrale. Un Messicano basso, magro con una propensione a
bruciare
ogni cosa e alla tragicomicità. Tendeva a trasformare con la
sua ilarità ogni
cosa, anche la più banale (vedi fare una doccia), una
questione di vita o
di morte. Forse era per questo che
quasi nessuno lo
prendeva sul serio.
“C’è
Jason” a
rispondergli con tono monocorde fu un ragazzo minuto disteso sul
proprio letto
con in mano un fumetto e completamente vestito di nero. Non aveva
nemmeno
alzato lo sguardo dalle pagine quando il compagno di stanza era
entrato, aveva
solo fatto una smorfia di disappunto all’idea di perdere la
quieta assoluta.
Come
dire, Leo Valdez e silenzio vanno in due
direzione opposte.
Il suddetto
disturbatore a sentire le parole di quel ragazzino (oddio, non che
fosse molto
più piccolo di lui) fece una smorfia carica di disappunto e
gonfiando il petto
iniziò a berciare contro la porta che divedeva i due dal
bagno.
“Uomo ingrato!
È così che tratti un uomo ferito?
L’uomo che molto coraggiosamente ha deciso di
sostenerti in quella battaglia? Che ha lottato contro i tiri infami
degli
Stoll? Colui che ti ha sorretto in tutta la lotta? Gli rubi la meritata
doccia?
Traditore! Infame! Lurido Babba...”
“Leo, dacci un
taglio” lo interruppe Jason, il suo biondo migliore amico,
che dal bagno aveva
sentito tutto, i muri di quelle stanze erano così leggeri da
impedire qualsiasi
concetto di privacy. “E smettila di urlare, ti
avrà sentito anche Percy dal
piano di sopra!”
“...no!”
terminò il messicano ignorandolo completamente le proteste
dell’altro ragazzo,
anzi sbuffò più rumorosamente a sentire il nome
di Percy Jackson. Perché ovvio,
Jackson e quel suo bel faccino da idiota c’entravano sempre.
Sempre in mezzo
alle palle. Non è che non lo sopportasse, anzi
sì. È solo che quello là prima
gli aveva portato via Annabeth rincretinendola con i suoi occhi verdi,
poi come
se non bastasse stava cercando di subentrare al ruolo di Leo come
migliore
amico di Jason.
Percy
di qua, Percy di là... grugnì infastidito.
“E comunque ho
finito” riprese il suddetto migliore amico aprendo la porta
del bagno con una
faccia seccata. Aveva i capelli biondi completamente umidi e gli
occhiali
quadrati appannati dal vapore, si era legato alla vita un asciugamano e
lasciava i propri addominali al vento. Subito dopo, però,
guardò con
apprensione colpevole il viso dell’altro. “Come sta
la faccia?”
Leo sfoderò un
sorriso a trentadue denti e tolse il ghiaccio rivelando una botta sotto
l’occhio sinistro. “Alla grande!”
assicurò nonostante tre secondi prima
sembrasse in punto di morte.
Come ho detto,
Leo Valdez amava la teatralità.
“Tu fai la
doccia, Nico?” domandò Jason all’altro
occupante della stanza mentre il
suddetto teatrante se la svignava in bagno.
“L’ho
già
fatta” sospirò quello chiudendo il fumetto e
appoggiandolo sul comodino conscio
che non sarebbe più riuscito a leggerlo in santa pace.
“Non hai fatto
attività, oggi?” continuò a domandargli
con aria inquisitoria frizionando i
capelli biondi con l’asciugamano.
“Non avevo
voglia” rispose ancora monocorde facendo comparire sul volto
del maggior un
espressione di disappunto.
“Dovresti
iscriverti a qualche corso, Neeks” lo rimproverò
“Uno, il signor D potrebbe
perdere la pazienza e, due, non puoi startene sempre bloccato qua in
camera,
devi socializzare!” aveva un’insopportabile voce da
saputello.
Nico alzò gli
occhi neri al cielo. “Va bene mamma” anche se
ovviamente, se ne sarebbe fregato
come al solito. Il signor D poteva dire tutto quello che voleva, ma non
l’avrebbe mai buttato fuori. E preferiva di gran lunga
restare in camera che
sottostare agli sguardi curiosi e intimoriti degli altri ragazzi.
“Dico sul
serio”
“E tu dovresti
vestirti, dico sul serio” gli fece il verso piccato e dal
bagno sentì la risata
di Leo che ovviamente aveva seguito tutta la conversazione.
Stupidi
muri di cartapesta.
Jason fece un
sorrisetto di scusa e si accucciò in un cassetto per
prendere una maglietta,
quando si rialzò guardò fuori dalla finestra il
giardino del College dove dei
ragazzi si stavano fermando prima della cena. Il sole, prossimo al
tramonto,
tingeva il cielo di colori caldi e rassicuranti.
“Sapete”
disse
ispirato infilandosi la maglia “Questa sarà
un’estate speciale”
“Lo dici tutti
gli anni, Grace, e poi non succede mai un cavolo” lo
raggiunse la voce
divertita di Leo ma lui scosse la testa, convinto.
“No,
quest’estate sarà diverso. Me lo sento”
**
“Non lo mangi,
il pollo?”
La mensa era
una stanza grandissima e ben curata, nonostante Calypso avesse
abbondantemente
letto del College si aspettava un self-service dai muri grigi e tristi
con
lunghi tavoli di metallo e tovagliette di carta. Invece, appena era
entrata
un’aria festosa l’aveva investita, i ragazzi che
precedentemente li aveva
immaginati chiusi e schivi berciavano fra di loro creando una bolla di
confusione dorata, complice anche il sole rosso fuoco che si
intravedeva dalle
grandi vetrate. Molte tavole rotonde con tovaglie colorate riempivano
la sala
creando un vivace caleidoscopio che le faceva girare la testa mentre al
centro
esatto della sala stava una tavolata più grande piena di
cibo e stuzzichini,
probabilmente degli antipasti per chi arrivava troppo in anticipo.
Calypso
aveva deciso immediatamente che non avrebbe mai sfiorato quelle portate.
Il tavolo
degli insegnanti a differenza di quello per gli alunni era rettangolare
e
lunghissimo, posto ai confini della stanza sotto dei grandi quadri che
rappresentavano tre signori in giacca e cravatta molto simili. Anche in
quella
stanza il soffitto era affrescato in stile classico.
Ma, cosa più
importante, a suo parere, era il fatto che delle donne vestite con
camici
arancioni li servissero direttamente al tavolo con un menù
fisso per tutti.
Quello costituiva un problema: sia il fatto che fosse fisso e che
quindi non
poteva contare le calorie nel modo esatto, sia che così
rifiutare il cibo
sarebbe stato molto più plateale. Non voleva scatenare
domande.
Tipo adesso,
arrivati alla seconda portata dopo una pasta al pomodoro Calypso non
voleva
assolutamente continuare a mangiare, per questo aveva spostato
leggermente il
piatto dalla sua vista scatenando così la domanda di Hazel
Lovasque.
Hazel era
l’altra compagna di stanza, quella che dormiva nel letto
sopra a quello di
Rachel perché era claustrofobica; era piccola e minuta con
la pelle scura e dei
vaporosi ricci color cannella, gli occhi erano grandi e vivaci,
sembravano
fatti d’oro fuso, e ti guardavano come se potessero scoprire
ogni tuo segreto.
Per questo nonostante la voce gentile e il sorriso dolce metteva una
grande
soggezione a Calypso. Questa guardò il pollo, sembrava
buono, e improvvisò:
“Sono
vegetariana!” Non era vero, ma si chiese perché
non ci avesse pensato prima.
Era un ottimo modo per eliminare la carne senza destare sospetti.
Hazel spalancò
gli occhi, aveva delle ciglia lunghissime, poi sorrise convinta mentre
Rachel
le toccava una spalla entusiasta:
“Grande! Anche
io ci pensavo, ma non so se potrei rinunciare
all’hamburger”.
Calypso
strinse le labbra imbarazzata mentre Hazel annuiva. “Sai,
anche Piper è
vegetariana” indicò un tavolo lontano dal loro
dietro la testa del ragazzo
cinese seduto vicino a lei. Se aveva ben capito si chiamava Frank Zhang
ed era
il suo ragazzo. La
Nightshade allungò il
collo per vedere chi fosse questa Piper, immaginò fosse la
ragazza con la
treccia e il profilo affilato che sedava in un tavolo vicino
all’entrata, era
talmente bella che sentì una fitta di gelosia. Accanto a lei
c’era un ragazzo
occhialuto dai capelli biondi e le spalle larghe, teneva la mano della
ragazza
con la treccia da sotto il tavolo mentre chiacchierava animatamente con
un
ragazzo accanto a lui. E qui, Calypso sentì il cuore battere
forte. Sebbene
fossero parecchio lontani riusciva comunque vedere quanto belli fossero
gli
occhi verdi del ragazzo moro, rimase imbambolata a fissare quel viso
che
gridava libertà da tutti
i pori
vagamente incredula.
“Chi è
quel
ragazzo? Quello moro” domandò a Rachel in un
sussurro. Sia Hazel che Frank si
girarono verso la tavola, il ragazzo cinese corrucciò le
sopracciglia.
“Dubito tu
intenda Nico o Leo”
“E’
Percy”
disse invece Hazel con un sorriso spontaneo a dire il suo nome
“E’ fantastico
ma... la vedi la bionda? È la sua ragazza”.
In effetti
accanto a questo Percy c’era una ragazza dai capelli mossi e
chiari, per essere
più precisi era quella che gli aveva appena colpito la nuca
con uno schiaffetto
leggero e divertito.
“Quindi, gira
alla larga” terminò la ragazza con gli occhi
d’oro.
“Andiamo,
Haz”
rise invece Rachel “Tutti hanno avuto una cotta per Percy.
Anche Jason ha avuto
una cotta per Percy”.
Hazel alzò gli
occhi al cielo, poi riprese a tagliare il suo petto di pollo dicendo:
“In ogni caso,
dovresti dire in cucina che sei vegetariana così quando
fanno la carne ti
portano qualcos’altro. Con Piper fanno
così”. Effettivamente la ragazza con la
treccia aveva qualcosa di verde nel piatto che poteva essere qualsiasi
cosa ma
sicuramente non del pollo.
“Lo
farò”
disse leggermente Calypso. Rimase ancora un po’ a guardare
l’altro tavolo
distante, in particolare Percy –aveva un sorriso davvero
carino che le ricordava
il mare – finché con un colpo del gomito Rachel la
costrinse a partecipare a
una conversazione con gli altri due commensali.
Hazel le aveva
chiesto da quanto fosse vegetariana.
“Da
poco” precisamente da cinque minuti.
Era molto
vivace come ragazza, non ai livelli di Rachel, ma ci metteva trasporto
in
quello che diceva. Tutti i ragazzi in quella scuola sembravano molto
felici,
così normali, totalmente opposti da quello che lei si era
immaginato.
Improvvisamente si sentì l’unica strana, si
sentì irrimediabilmente nel posto
sbagliato e una voglia di fuggire via le attanagliava lo stomaco quasi
volesse
farle vomitare il poco che aveva mangiato.
“Ehi, Ragazza
D’Oro!” una voce squillante la risvegliò
dallo stato di trance in cui era
entrata mentre due braccia magre stringevano Hazel da dietro facendola
sussultare. “Scusate se non ci siamo seduti con voi, Jason ci
ha fatto arrivare
tardi!”
“Leo!”
sbottò
quella riconoscendo la piovra che l’aveva assalita.
“Mi hai fatto prendere un
colpo”
Lo sconosciuto
ricciuto rise mentre Frank sbuffava e assottigliava gli occhi a
mandorla.
Quell’avversione non fece tentennare il nuovo arrivato che
invece gli rivolse
un sorriso strafottente.
“Che cosa ti
sei fatto alla faccia?” domandò Rachel lasciando
stare i pezzi di pane che
stava smangiucchiando.
“Oh, nulla di grave.
È soltanto stata un’epica
battaglia tra me e la palla da rugby. È stata dura e ho
sudato sangue, ma alla
fine la mia faccia ha impedito ai gemelli di prendere la base. Mi sono
sacrificato per il bene della squadra!”
A sentire
quelle parole la piccola Hazel se lo scostò di dosso
afferrandogli il viso con
le mani, attentamente studiò il livido sotto
l’occhio sinistro.
“Qualcuno ha
finalmente tentato di ucciderti?” domandò
speranzoso Frank.
“Va’
in infermeria” lo apostrofò invece
perentoria la ragazza.
“Ci sono
già
stato!” protestò, poi aggiunse sognante
“la signora Jackson mi ha dato del
ghiaccio. Ragazzi, quella donna è proprio
bellissima...”
“Leo!
È la
mamma di Percy”
“Questo non la
rende meno bella” annuì convinto mentre il resto
dei ragazzi con cui aveva
cenato si avvicinava al loro tavolo, tra di essi anche Percy. A vederlo
da
vicino Calypso si sentì avvampare. Forse fu proprio il rosso
acceso che colorò
le sue guance ad attirare l’attenzione su di sé.
“E tu chi
sei?” chiese Leo ignorando le proteste di Frank mentre si
sedeva proprio in
braccio al ragazzo cinese.
“Lei è
quella
nuova” rispose al suo posto Rachel con trasporto.
“Ciao Quella
Nuova!” la salutò come un militare, poi aggiunse:
“Non lo mangi, il pollo,
Quella Nuova?” chiamarla in quel modo sembrava divertirlo
immensamente, invece
il nomignolo sembrava infastidire Calypso che rispose inacidita:
“Sono
vegetariana”
“Allora non
è
un problema se lo mangio io, no?” il tono della ragazza non
lo aveva minimamente
scalfito e senza attendere una risposta le rubò il piatto da
sotto il naso
iniziando a ingozzarsi. Meglio così.
“Davvero?
Anche io sono vegetariana!” si intromise nella conversazione
la ragazza con la
treccia “Piacere, io sono Piper Mclean. Il tuo vero nome
è...?”
“Calypso”
rispose velocemente decidendo deliberatamente di ignorare il suo
fastidioso e
odioso cognome.
“Sono davvero
felice di aver trovato una persona che mi capisca. Questi idioti non
fanno
altro che cercare di refilarmi hamburger” ed
indicò con la testa i ragazzi dietro
di lei “Non trovo minimamente giusto come vengano trattati
gli animali da
macello, non credi?” continuò seria.
“Ehm...
sì”
disse timidamente che fino a quel momento non ci aveva mai fatto caso.
“Ma
dai!”
protestò Leo dando una gomitata in faccia al povero Frank
che per tutto il
tempo aveva cercato di toglierselo di dosso. E per la cronaca, aveva
tutta la
bocca sporca di pezzi di pollo come un cavernicolo “Tanto
stanno per morire,
chi se ne frega di come vengano trattati prima. Giusto, Miss
Mondo?”.
Gli occhi di
Piper lo fulminarono, adesso che era vicina notava il loro colore
particolare,
erano caleidoscopici. “Ma certo!” berciò
“Quindi a cosa ti serve respirare?
Tanto morirai lo stesso, ti conviene lasciar perdere questa fatica
sprecata”
terminò sarcasticamente.
“Abbiamo fatto
questo discorso già un milione di volte”
troncò sul nascere le proteste di Leo
la ragazza bionda “Le nostre opinioni le conosciamo, non
iniziamo un dibattito
inutile”
“Ascoltate la
Ragazza Saggia” annuì Leo con
solennità, sembrava avesse il soprannome giusto
per ognuno.
Quella lo
ignorò e con un sorriso gentile si sporse verso Calypso.
“Io sono Annabeth
Chase. E non fare caso a Leo, è un coglione”
“Ehi!”
sbottò
offeso il suddetto coglione, specialmente perché Frank era
riuscito a
scrollarselo dalle gambe ed era caduto a terra.
“Traditore!” aggiunse
portandosi una mano al cuore come se la cosa lo facesse soffrire
terribilmente.
“Sei in camere
con Hazel e Rachel?” domandò Percy interrompendo
l’elegia di Valdez “Io sono
Percy Jackson. Invece il mio bro
è
Jason Grace”
Il ragazzo con
gli occhiali gli mise un braccio sulle spalle mentre annuiva dicendo:
“Bro”
In quel
momento Calypso capì perché Rachel avesse detto
che Jason aveva (avuto) una
cotta per Percy. Non che potesse dargli torto, il sorriso del moro ti
mozzava
il fiato e faceva agitare le farfalle nello stomaco.
“Be’,
benvenuta” terminò Annabeth con lo stesso sorriso
di poco prima “Spero che tu
ti possa trovare bene al College Olympus”.
**
Quando
Leo aprì la porta della camera Nico si
immobilizzò immediatamente chiudendo la bocca. Era seduto
suo letto con la
stanza completamente buia, solo la finestra era aperta lasciando
scivolare
dentro una leggera arietta.
“Oh”
disse il
messicano notando che fosse solo “Credevo fossi con Jason, ti
ho sentito
parlar—” e si bloccò rendendosi conto
con chi stesse parlando Nico.
“Non fa
niente” disse il più piccolo distogliendo lo
sguardo e puntandolo fuori dalla
finestra.
“E sono... uh,
andati via?” si informò Leo richiudendo la porta
non mostrando il disagio che
lo aveva assalito alla realizzazione.
Nico sospirò.
“Non vanno mai via” dichiarò lugubre.
“Giusto”
annuì
allora come se lo avesse appena ricordato. “La cosa mette un
po’ d’ansia, no?
Pensa, anche sotto la doccia...” il suo tentativo di
sdrammatizzare gli morì in
gola davanti all’occhiataccia dell’altro. Rimasero
qualche secondo in silenzio
prima che Valdez riprendesse la parola.
“Stavo
cercando Jason, ma deve essersi imboscato da qualche parte con Pips.
Siamo
tutti nella Sala Comune con Quella Nuova” e fece una smorfia
“E’ una
smorfiosetta”.
Nico rimase in
silenzio e allora Leo lo guardò di sottecchi prima di
continuare nel suo
sproloquiare. È inutile, per Leo Valdez stare zitto
è inconcepibile.
“Non ti sei
nemmeno presentato a lei, giù alla mensa”
precisò.
Scrollò le
spalle. “Perché farlo se tanto non le
parlerò mai?”
Leo si buttò
sul proprio letto completamente vestita soppesando le parole del suo
compagno
di classe, poi disse: “Ho una proposta da farti”
“Sentiamo”
sospirò sconfitto. Magari se lo accontentava per un
po’ poi si toglieva dalle
palle.
“Vorrei che tu
spiegassi a Quella Nuova come comportarsi per sopravvivere
qui”.
Strabuzzò gli
occhi preso totalmente contropiede, che razza di proposta era quella?
“Perché
dovrei
farlo?”
“Prima in
mensa ha mentito” spiegò pazientemente girandosi
su un fianco per guardarlo.
Nico indossava già il pigiama, rigorosamente nero e per
questo era difficile
distinguerlo nel buio. “Puoi accendere la luce?”
“Quand’è
che
avrebbe mentito?” lo ignorò.
“Ma
prima”
fece vago sprofondando la testa sul cuscino “Quando ha detto
che non ha
mangiato il pollo perché è vegetariana”
“E quindi? Qui
tutti mentono, non capisco il problema” disse seccato da quei
discorsi.
“Lo so”
borbottò “Ed è anche dannatamente brava
a farlo, è tutto prima che spara bugie
e nessuno se ne accorge”.
“Allora di
cosa ti preoccupi? Ha già capito tutto, quella
là” per Nico, il discorso era
chiuso lì motivo per cui si gettò anche lui
disteso cercando di mettersi sotto
le coperte.
“Non
dormire”
gli ordinò lo scocciatore “Devi spiegarle le
regole per sopravvivere qui, non
ti chiedo tanto! È troppo ingenua, la sbraneranno viva in un
attimo”.
“Perché
ti
preoccupi per lei?” piagnucolò, poi aggiunse
sconfortato “Perché dai a me
questo ingrato compito?”
Leo mise sul
volto da folletto un sorriso petulante estremamente simile a certi che
faceva
Jason. “Perché devi socializzare”.
“Per gli
dei!”
imprecò “Non ti sarai alleato con Grace,
spero!”
L’altro rise
di gusto mettendosi a sedere sul letto.
“Allora, lo
farai? Spiegherai a Quella Nuova le Regole D’Oro?”
“Ma
sì!”
borbottò sprofondando ancor di più tra le coperte
“Basta che tu la smetta di
rompere”
“Bravo
bambino”
disse, si alzò e diede leggeri colpetti sulla coperta che il
corvino aveva
usato come scudo, poi si incamminò verso la testa.
“Comunque, Quella Nuova è proprio un
soprannome del
cazzo” ci tenne a fargli notare Nico prima che uscisse dalla
porta.
“Dici?”
domando fermandosi sulla soglia.
“Dovresti
pensare ad altro di più appropriato”.
Al che Leo
mise sulla faccia un’espressione pensosa, appoggiò
anche una mano sotto il
mento per dare maggior enfasi alla sua posa da pseudo-filosofo. Poi
schioccò la
lingua soddisfatto contro il palato:
“Che ne dici
di Raggio Di Sole?”
Wow, non
immaginavo che la storia ricevesse tutto questo entusiasmo! Ringrazio
moltissimo
le quattro persone che con le loro recensioni mi hanno spronata a
continuare.
Mi ero dimenticata
di dire nello scorso capitolo una questione tecnica, ovvero gli
aggiornamenti
avverranno di sabato ogni due settimane per via di altre storie che
devo
pubblicare.
Sul capitolo:
vi piace? Vi aspettavate qualcosa del genere? La parte con Will
è stata una
improvvisata perché doveva comparire nel prossimo, ma poi mi
sembrava brutto
non introdurlo essendo uno dei protagonisti (Sì, nello
scorso capitolo mi sono
sbagliata a scrivere: l’altra coppia è la
Solangelo, non Valdangelo –anche se
un po’ li shippo xD)
Questo
capitolo è sempre un po’ di introduzione, volevo
solo mostrarvi come appaiono i
nostri protagonisti visti da fuori. In fondo, come Calypso, anche voi
siete i ‘nuovi
arrivati’ e li conoscerete man mano. Però
già nel prossimo ci sarà più
introspezione.
I capitoli di
questa lunghezza vanno bene? (Sono quindici pagine, senza le mie note)
Sono
molto logorroica e tende a divagare molto nelle descrizioni allungando
notevolmente i testi.
All’inizio di
ogni capitolo ho intenzione di inserire una delle... regole delle
ragazze
anoressiche. Loro le chiamano Ana rules
(Tumblr docet, prendetelo con le
pinze). Naturalmente, non dovete considerarle né delle perle
di scrittura né il
verbo di Dio sceso in terra. È solo per mostrarvi quanto la
vita di una ragazza
pro-ana sia vincolata a delle regole bizzarre –
sì, parlo anche per esperienza
ma non divaghiamo.
Invece il
titolo, come avrete ben capitolo, riprende proprio il peso di Calypso
man mano
che prosegue la storia fino ad arrivare ai 21 grammi, il peso di un
colibrì.
Eeee, credo di
aver detto tutto(?) Se volete che espliciti altro non esitate a
chiedere.
Se avete da
criticare, non siate timidi ma spietate.
Se avete da
dire qualsiasi cosa io sono qui.
Se volete fare
soltanto i complimento (Seeeeh, magari) vi offro biscotti.
In realtà
offro biscotti in ogni caso ^^ sono una persona buona.
Ultima ma non
ultima, vi lascio il mio account faisbuk, è sempre un
piacere
conoscere/stalkerare gente nuova.
Hatta
Hatake
|
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Capitolo 3 *** 46.5 Kg ***
Attenzione! La storia seguente presenta
tematiche delicate. Vorrei precisare che
non promuovo nessun tipo di disordine alimentare. Pertanto, se si
è facilmente
influenzabile sconsiglio la lettura, non voglio avervi nella coscienza.
II
Quarantaseipuntocinque
**
“Mangia
cibi piccanti.
Accelerano il
metabolismo”
Piper
amava la domenica, la considerava
seriamente il suo giorno della settimana preferito per svariati motivi.
Certo,
a tutti sta simpatica la domenica: è il giorno in cui la
pigrizia regna
sovrana!
Come
ogni domenica in cui era dentro quella
scuola si svegliò ancor prima di Annabeth, per ora la sua
unica compagna di
stanza – quello stesso giorno sarebbe arrivata Reyna che
partecipava solamente
al campo estivo – e approfittando del vantaggio si chiuse in
bagno ignorando i
turni che avevano fissato. Solitamente non curava molto il proprio
aspetto,
anzi spesso tendeva a nascondere la propria bellezza, ma –come ogni
domenica – fece un’eccezione
passando una crema idratante sulle gambe secche per poi pettinare i
capelli in
una treccia ordinata e vagamente elegante, si mise pure un filo di
mascara
appositamente rubato dal beauty-case di Annabeth e nascose un brufolo
con un po’
di correttore. Scelse con cura i vestiti optando per una canottiera che
le
risaltava gli occhi al posto delle solite maglie spiegazzate e poi si
guardò
allo specchio facendo una giravolta. Piper amava la domenica.
Quando
uscì dal bagno Annabeth aveva appena
spento la sveglia e si stropicciava gli occhi con fare assonnato.
“Buongiorno
e buona domenica!” trillò la mora con
un sorrisone.
“’Giorno”
mugugnò invece Annabeth che riusciva a
mettere insieme due parole di senso compiuto solo dopo una tazza di
caffè.
“Io
scendo giù” la avvertì aprendo la porta
e
l’altra annuì, ma probabilmente avrebbe annuito
anche se le avesse detto che il
signor D s’era deciso ad andare in pensione.
La
domenica era un giorno speciale, non solo per
Piper, ma per tutto il College Olympus: la colazione non aveva un
orario fisso
–ergo non c’erano problemi di ritardo e quindi di
incappare nelle ire del
signor D –, non c’era attività e
– ciò che mandava su di giri Piper –
veniva
consegnata la posta.
Tutte le
lettere che i genitori spedivano ai
propri figli venivano ritirate la domenica, essendo il college
collocato in un
luogo praticamente sperduto e irraggiungibile i tempi erano molto
lunghi; era
anche il giorno in cui si poteva ricevere le visite dai propri parenti.
Piper
sperava, come ogni domenica del resto, di avere qualche notizia di suo
padre
che le mancava enormemente.
Il
venerdì era ufficialmente terminato l’anno
scolastico e l’indomani sarebbero iniziate le
attività estive per chi restava e
per chi veniva, motivo per cui la hall quella mattina era,
già alle otto di
mattina, piena di ragazzi che andavano e venivano accompagnati da
ingombranti
valige e con genitori o tutori annessi. I bidelli avevano un gran da
fare e la
segretaria svampita che stava al bancone aveva già iniziato
a parlare come una
macchinetta inceppata. Quel pomeriggio sarebbero arrivati anche alcuni
suoi
amici che frequentavano altre scuole ma passavano lì
l’estate. Sorrise
rassicurante a un ragazzino titubante che fissava le statue di marmo
degli dei
ai lati della stanza come se fossero pronte a balzare fuori dai loro
piedistalli per ghermirlo e sbranarlo. Ricordava molto bene il suo
primo giorno
all’Olympus e di come fosse spaventata e stravolta, motivo
per cui non fu avara
di sorrisi.
Approfittando
di un momento in cui Robot – questo
era il nomignolo che Leo aveva dato alla segretaria –
prendeva fiato tra un
genitore e l’altro si avvicinò alla scrivania.
“Buongiorno
e buona domenica!” trillò ancora una
volta con un sorriso cortese.
“Signorina
McLean” esclamò fingendosi, senza
riuscirci, sorpresa di vedersela davanti, ma d’altronde dopo
così domeniche di
agguati la sua comparsa risultava fin troppo prevedibile. A dir la
verità,
guardando l’orologio notò che la giovane ragazza
era di qualche minuto in
anticipo rispetto alle altre domeniche.
“Sono
qui per la posta” la informò come un
bambino che ti informa che oggi è natale e che quindi vuole
il suo regalo.
“Naturalmente”
sospirò sfiancata la segretaria.
Erano solo le otto di mattina ma lei era in piedi da due ore per
accogliere i
genitori e sistemare altre faccende.
“C’è
qualche lettera per me?” continuò Piper
ignorando lo sguardo della segretaria che implorava pietà.
“Dunque...”
fece quella iniziando a guardare nei
propri registi per vedere se ci fosse qualche corrispondenza per McLean
ma,
come ogni domenica, trovò il nulla. Ogni volta che doveva
alzare gli occhi su
quelli pieni di speranza della ragazza per dirle che no, ovviamente non
c’era
nessuna lettera per lei, le si spezzava il cuore all’idea di
procurare
indirettamente l’ennesime delusione per quella povera anima.
“Ne
è proprio sicura?” chiese mentre il suo
sguardo si faceva duro.
“Purtroppo”
sospirò.
Piper si
fece imperscrutabile e si sentì idiota
in quella canottiera leggermente aderente e per tutte le speranze che
si era
costruita quella mattina. Come ogni domenica, del resto.
“Grazie
mille” disse con un tono di voce di
qualche ottava più basso rispetto a prima e il viso
più serio, meno sorridente.
“Mi
dispiace” si sentì in dovere di dire la
segretaria che dopotutto un robot non lo era affatto visto che
conosceva i
sentimenti, specialmente quello della delusione.
“Non
è colpa sua” fece un sorriso più freddo
e
con tono educato continuò “Buona
domenica”.
Sembrò
tanto una presa in giro detto in quel
momento.
Piper
decise di andare a fare colazione, si
sarebbe consolata con le brioche e l’ottima marmellata di
fragole che offriva
la scuola. Nonostante tutto, amava quel posto, era lì che
aveva conosciuto
Jason e tutti gli altri. Non poteva odiarlo solamente perché
suo padre, il
famosissimo attore di Hollywood Tristan McLean, era troppo impegnato
nella sua
carriera per preoccuparsi del problema
– così la considerava Jane, la segretaria di suo
padre: un problema – e quindi
di spedirla lontano chilometri da sé. Ovviamente lo capiva,
in fondo era
veramente sommerso da una quantità abnorme di impegni
essendo un importante
attore, quindi non poteva biasimargli la sua assenza in certi momenti
della sua
vita ma nonostante questo qualche secondo per scriverle doveva
trovarlo. O se proprio non riusciva a venire a farle visita
la domenica almeno una telefonata poteva farla, anche solo due minuti
per
ricordarle che era la sua preziosa bambina e che le voleva un bene
dell’anima.
Piper si
chiedeva spesso perché nella sua vita le
cose fossero così complicate. Sua madre aveva ben deciso di
scappare da qualche
parte quando lei aveva appena pochi mesi lasciandola ovviamente a
carico del
padre senza dire niente, nemmeno ora poteva dire chi o dove fosse sua
madre.
Poi, ovviamente, gli anni della sua infanzia erano anche gli anni in
cui suo
padre era un neo-attore che per emergere era costretto a seguire anche
i
contratti più esasperanti e lei veniva lasciata alle cure
della baby-sittere di
turno. Le odiava tutte, lei voleva solo il suo papà, motivo
per cui si
impegnava a farle scappare via tutte. Ci metteva lo stesso impegno che
impiegava per farsi espellere dalle scuole che suo padre trovava adatte
a lei.
Con il senno del poi era ovvio che il suo comportamento potesse
risultare
egoista e sbagliato agli occhi di estranei ma combinare guai era
l’unico modo,
lo aveva imparato con il tempo, con cui poteva catturare
l’attenzione del
genitore. Motivo per cui era anche diventata una cleptomane. Una
cleptomane
molto scadente che si faceva beccare subito apposta.
“Perché
lo hai rubato? Lo sai che ti regalerei
pure il mondo!” le chiedeva sempre suo padre, al che lei
pensava: lo so, ma io voglio solo te.
Mentre si
recava alla mensa le venne in mente l’ultimo giorno passato
con il padre. Il
giorno prima lei aveva messo a segno il suo colpo meglio riuscito,
ovvero
rubare una BMW e poi, ovviamente, farsi espellere
dall’ennesima scuola per
ragazze snob. Ma la mattina seguente, quando suo padre era venuto a
svegliarla
con la proposta di fare un pic-nic in spiaggia, né lui
né Jane sapevano cosa
aveva combinato. Nonostante le sue bravate a Piper bastavano tre
secondi per
farsi venire i sensi di colpa, aveva anche l’intenzione di
confessare il tutto
a suo padre quella mattina ma quella sorpresa le aveva fatto talmente
piacere
che non poteva permettersi di rovinare uno dei pochi momenti con il
genitore.
Avevano
trascorso una mattinata perfetta a fare
surf, non era troppo caldo e le onde erano perfette, lei era riuscita a
stare
in piedi sulla tavola per più di qualche minuto senza cadere
e nessun paparazzo
li aveva sorpresi. Piper non era una persona molto fortunata, ma fino
in quel
momento erano riusciti a stare solo loro due e l’oceano come
era stato
programmato.
Avevano
pranzato con le onde del mare che gli
sfioravano i piedi sul bagnasciuga mentre Tristan raccontava leggende
indiane
essendo lui stesso un nativo americano. A Piper piacevano tanto quelle
storie,
le ricordavano un mondo lontano a cui sentiva di appartenere nonostante
non lo avesse
mai sperimentato di prima persona. Suo padre raccontava le leggende con
quegli
occhi tristi che facevano perdere la ragione anche a molte donne
sposate e
mature.
Ma in
quel momento era solo il suo papà.
L’idilliaco
momento venne ovviamente distrutto
dalla poco fantasiosa entrata in scena della temibile segretaria venuta
a
conoscenza dalla polizia dell’ultima
bravata compiuta da quella scellerata della figlia ed era ovviamente
lì per
informare il padre della scellerata figlia la situazione. Jane la
faceva sempre
sentire come il pezzo di sterco che certi insetti fanno rotolare.
“Avevi
detto che ci avresti provato...” l’uomo
aveva perso ogni traccia di entusiasmo ed energia, Piper non sopportava
quello
sguardo, come se la stesse accusando di aver tradito la sua fiducia.
Aveva
provato a ribattere, a scusarsi, a dire qualsiasi cosa ma gli occhi di
suo
padre erano freddi e le parole irremovibili.
“Perché
ti comporti sempre così?” la interrompeva
“Io faccio del mio meglio, Piper, lo sai. Abbiamo
già avuto questo
conversazione milioni di volte” continuava ma non era vero
perché quella
conversazione l’avevano iniziata
milioni di volte ma lui la interrompeva sempre, da anni.
Ma a
quanto pare quella volta Jane aveva già
trovato la soluzione: non ci sarebbero state denunce se la ragazza
avesse
iniziato a frequentare il College Olympus.
“E’
una scuola prestigiosa” aveva detto con aria
professionale “Specializzata per... ragazzi
problematici”.
Perché
Piper lo sapeva, lo aveva sempre saputo:
lei era quello, un problema. Aveva guardato il cesto da picnic sulla
sabbia e
aveva sentito il forte desiderio di piangere, un pomeriggio perfetto
svanito
perché lei era un problema. Non riusciva a credere che suo
padre avesse ceduto
così facilmente all’idea di Jane, non su una cosa
così importante come mandarla
in un Istituto di correzione comportamentale.
Jane,
ovviamente, aveva sistemato e programmato
tutto, l’aspettava già con una valigia spartana e
un biglietto d’aereo con lo
sguardo scocciato di chi non vede l’ora di depennare
l’ennesimo problema della
giornata dalla propria lista.
“Ehi,
Miss Mondo!”
Il
ricordo di quell’ultimo pomeriggio con suo
padre sfumò davanti agli occhi della ragazza quando senti
una voce familiare
chiamarla, senza rendersene conto, troppo presa ad auto-commiserarsi ,
era
arrivata al padiglione della mensa. La tavolata al centro mostrava
tutte le
opzioni che la cucina offriva per la colazione –tutte cose
buonissime e
biologiche, solo il meglio per i nostri
studenti – e le donne delle pulizie avevano optato
per delle tovaglie di un
rosa pallido su tutti i tavolini che davano un tocco delicato alla
stanza.
Un tocco
delicato che veniva miseramente
distrutto dalla poca grazia con cui Leo Valdez si abbuffava nei propri
cereali,
solo per salutarla aveva sputacchiato.
“Leo”
disse lei più contenuta decidendo di
prendere posto accanto a lui, il ragazzo aveva già portato
al proprio tavolo
abbastanza cibo da poter sfamare un reggimento perciò decise
che nessuno
sarebbe morto se gli avesse rubato una brioche. Lui
inghiottì un grosso boccone
di cereali annacquati e poi le rivolse un sorrisetto.
“Niente
posta la domenica?” borbottò in una
imitazione riuscita.
“Niente
posta la domenica” confermò prima di
appoggiare la fronte sulla tovaglia rosa sconfortata. “Mi
chiedo cosa dovesse
fare di così importante da
non riuscire
a buttare giù due righe. Qualcosa tipo: ehi,
come stai? Scusa se per un anno ho praticamente finto di non avere una
figlia”
continuò con ironia pungente. Leo avrebbe potuto dire che
magari l’avrebbe
chiamata quel pomeriggio con il telefono pubblico della scuola ma
entrambi
sapevano quanto fosse improbabile e quindi preferì ficcarsi
in bocca un’altra
cucchiaiata di cereali e masticarli come un ruminante.
“Poi non
è
che non abbia nessun motivo per scrivermi –oltre al
particolare che sono sua
figlia, ovvio – visto che gli ho mandato milioni di lettere a
cui potrebbe
rispondere. A questo punto mi chiedo se le abbia lette. Anzi, vedrai
che
sicuramente quell’arpia di Jane le avrà bruciate
appena visto il mio nome”
Leo
annuì, masticando ancora in maniera rumorosa
–talmente tanto che alcune ragazze si girarono a guardarlo
basite – e riempì un
bicchiere di succo d’arancia.
Qualcun
altro si sarebbe infastidito per quel
gesto prendendolo per uno scarso interessamento ma non Piper che sapeva
bene
quanto Leo amasse dormire fino a tardi nel week-end ma nonostante
questo si
svegliasse prima dei suoi compagni di stanza perché sapeva
che lei avrebbe
avuto bisogno di lui. Valdez era stato il suo primo amico quando era
arrivata,
appena l’aveva vista corrucciata in un angolo a programmare
stermini di massa
lui si era avvicinato dicendole con aria cospiratoria che se voleva lui
avrebbe
potuto costruirle la Morte Nera.
Piper, che non aveva mai visto Star Wars
e non sapeva nulla al riguardo, lo guardò stralunata
chiedendo un poco gentile
“Cosa?”.
Il
giovane, appurato in quel modo che non aveva
la più pallida idea di cosa fossero le Guerre Stellari,
aveva finto di
arrabbiarsi sostenendo che ad una tale mancanza bisognava assolutamente
rimediare e l’aveva così invitata quella sera
stessa nella propria camera per
una maratona di film. “Ne uscirai una donna nuova”
aveva sostenuto annuendo
come se avesse detto una verità inconfutabile. Per il resto
della giornata le
era stato accanto parlando in continuazione a macchinetta del
perché Star Wars fosse
meglio di Star Trek, di droni e
spade laser e
navicelle spaziali. Piper
aveva
osservato quel buffo ragazzo che sorrideva sempre, troppo per essere un
ragazzo
in un Istituto per ragazzi problematici, e non riusciva a tenere mai le
mani
ferme: tamburellava con le dita ovunque, le metteva in tasca o si
portava delle
ciocche ricce dietro le orecchie leggermente a punta, gliele scoccava
davanti
al viso quando credeva di non essere ascoltato, le sventolava per
salutare
gente a caso....
In
più, aveva notato i suoi occhi sfuggenti come se
non si soffermassero mai più di un secondo sullo stesso
particolare, spostava
lo sguardo in continuazione senza mai guardarla direttamente negli
occhi come
le persone che hanno qualcosa da nascondere; ne era rimasta colpita
perché
nonostante avesse scoperto quel particolare, Piper si reputava molto
brava a
comprendere le persone a pelle, non capiva che bugia stesse
nascondendo. Aveva
anche notato che tra una descrizione per la perfetta spada laser e le
migliorie
da applicare alla famigerata Morte Nera
Leo le stava rivelando come muoversi in quell’ambiento
dandole piccoli consigli
su come comportarsi con chi, su chi fidarsi e chi invece ignorare,
quali corsi
fossero meglio di altri e cose del genere. Piccole accortezze che le
avrebbero
risparmiato tempo e figuracce. In quel momento aveva rivalutato
l’idea di
ragazzino superficiale e idiota che aveva avuto all’inizio.
Glielo aveva detto
e per un attimo era rimasto in silenzio, preso in contropiede, poi
aveva fatto
un altro sorriso da giullare. “Hai perfettamente ragione.
Sono meraviglioso e
ben presto sottometterò l’intera
umanità al mio volere. Tremate, plebei!”
Aveva
anche capito che con Leo Valdez gli
argomenti seri erano tabù.
Grazie a
quella sera a tema Star Wars aveva
conosciuto Jason – le sarebbe piaciuto dire anche
Nico ma ancora oggi per lei quel ragazzino era un mistero – e
pian piano tutti
gli altri.
In quel
momento, provò una forte ondata di
affetto – così
tanto che voleva
abbracciarlo fino a spezzargli le ossa e piangere – per quel
folletto riccio che
pazientemente l’ascoltava sfogarsi –come ogni
domenica – e le versava il succo
d’arancia e cercava di stendere la marmellata sui toast senza
sporcarsi le
dita. Ogni tanto annuiva come se fosse distratto e la stesse ascoltando
soltanto a metà ma lei sapeva di avere la sua piena
attenzione e che stava
valutando ogni singola parola. Si sentì anche una misera
idiota mentre un senso
di colpa le attanagliava lo stomaco all’idea che lui la
stesse ascoltando
lamentarsi del proprio padre che non era certamente il migliore del
mondo ma
almeno era vivo mentre Leo era rimasto completamente solo e non avrebbe
non
solo mai potuto ricevere una lettera dalla propria famiglia ma anche un
abbraccio o una carezza perché non aveva più una
madre o un padre, erano tutti
morti e lui era rimasto solo e... si sentì fisicamente male,
chissà che idea da
ragazzina viziata stava facendo ancora una volta. Non riuscì
a terminare la
filippica che stava portando avanti e la voce le morì in
gola.
“....io
lo— ” tacque doppiamente sconfortata
mentre nascondeva il viso fra le mani. Leo attese paziente che
continuasse ma
quando vide che sembrava intenzionata a lasciare la frase si
affrettò ad
inghiottire ilo boccone e chiese:
“Tu
lo..? Lo detesti? Lo odi?”
Piper
lasciò il suo rifugio di mani e spalancò
gli occhi guardandolo sorpresa da quella domanda, poi rispose con voce
mesta e
tranquilla, quasi vinta. “Certo che no... come potrei? Voglio dire, lui
è il mio papà...”
Leo si
pulì qualche briciola di pane e marmellata
dalle labbra guardandola dubbioso. “Be’, visto come
ti ignora...”
“Non
potrei mai odiarlo” ripeté con quella stessa
vocina “E’ il mio papà, nonostante tutto
gli vorrò sempre bene. Qualsiasi cosa
succederà non potrei mai odiarlo, è il mio
papà.”
La
guardò con il cuore pesante desideroso di
prendere a sberle tutto quello che la rendeva così fragile
nonostante il suo
essere alto un metro e una banana. Non era giusto, sotto
l’aspetto da dura e la
sua forza d’animo e la testardaggine Piper aveva un cuore fin
troppo gentile e
non era giusto che una persona così buona stesse male. Era
semplicemente
sbagliato.
Intanto
la stanza attorno a loro si era
progressivamente riempita e il chiacchiericcio aumentato, sulla porta
videro
entrare Annabeth con Percy e la stanza di Hazel.
“Sai
che fine ha fatto Jason?” gli domandò allora
Piper con l’aria di chi riteneva chiuso l’argomento
e voltava pagina.
Fece
spallucce. “Provo a indovinare? In camera a
scongiurare Nico di svegliarsi e scendere a fare colazione. Stupida
mamma
chioccia” borbottò alla fine.
Piper
fece un sorriso sincero e pigro. “Dai,
questo pomeriggio arriva Reyna. Almeno, lei
l’ascolta”
Leo si
ammutolì prima di rivelare: “Quella donna
mi terrorizza” e Piper scoppiò a ridere.
“Allora,
vado a recuperare i due dispersi”
aggiunse quando terminò di ridere e si alzò,
magari si sarebbe anche cambiata
con qualcosa di più comodo e più da lei.
Leo,
stringendo la tazza di latte tra le mani
annuì solennemente e la guardò come se si
appropinquasse a combattere una
battaglia impossibile. “Va’ Spartano!”
disse con solennità “E torna con il tuo
scudo, o su di esso”
Decisamente,
Leo guardava troppi film.
**
“Come
mai così felice?”
Calypso
nascose il proprio sorriso spontaneo
dietro la tazza di tè che stava tenendo in mano e
spostò lo sguardo su Hazel
che la guardava carica di aspettativa.
“Non
lo so” mentì compiaciuta “Forse
è solo una
bella giornata” Di sicuro era iniziata molto bene da quanto
diceva la bilancia:
quarantaseipuntocinque! Praticamente
più quarantasei che quarantasette. Un ottimo risultato per
essere in un luogo
che avrebbe dovuto metterla all’ingrasso, vero che era
lì da appena un giorno e
nessuno sapeva niente di lei ma era comunque un passo in più
verso il suo
traguardo. Doveva solo continuare in quella direzione e tutto sarebbe
andato
liscio.
“Non
assaggi un po’ di marmellata, Raggio di
Sole?”
Arricciò
il naso schifata davanti al porcile che
stava creando quel Valdez, quando era scesa il ragazzo stava
già mangiando – perdon,
ingurgitando – ogni genere di
alimenti e considerando il pasticcio sul tavolo doveva aver iniziato
molto
presto. Guardando quel corpo mingherlino e secco si chiese dove diavolo
andasse
a finire tutta quella roba.
“Il
mio intestino è direttamente collegato ad un
buco nero” le confidò quello indovinando i suoi
pensieri e le rivolese un
sorriso saccente. Aveva il mento completamente sporco di latte e
cornflakes.
“Sembri
un bambino” lo informò allora Annabeth
seria “E anche tu Percy, mangia come si deve”
L’interpellato
alzò confuso la testa dalla
ciotola di cerali e guardò la propria fidanzata perplesso.
“Sto mangiando come
si deve!” al che lei indicò il disastro di cereali
annacquati che aveva creato
nella fretta di metterli nello stomaco.
“Non
sono sempre così” tentò di rassicurarla
Hazel.
“Infatti”
annuì Leo pulendosi la bocca con la
manica, se sua madre fosse stata presente avrebbe avuto come minimo un
infarto.
“Siamo anche peggio”.
Annabeth
gli tirò una gomitata direttamente tra le costole e lo
fulminò con gli occhi
grigi, poi decise che la cosa migliore fosse distrarli cambiando
argomento.
“Oggi pomeriggio viene Reyna, vero?”
“E
anche Grover!” Sorrise Percy movimentando le
farfalle nello stomaco di Calypso. Era davvero carino anche con i
capelli
spettinati per via della piega del cuscino.
“Chi
è Grover?” gli chiese giusto per avere una
scusa per parlare con lui. Sentì al proprio fianco Rachel
trattenere una
risatina. Lo sguardo del moro era illuminato, probabilmente si trattava
di una
persona a lui molto cara.
“E’
il mio migliore amico da quando avevo...”
aggrottò la fronte “Undici, dodici anni? Comunque.
È un tipo davvero forte, un
po’ fissato con le piante e la natura ma... è uno
a posto. Anche lui è
vegetariano, sai?”
Che
carino, si ricordava la sua bugia.
Sembrava
sul punto di aggiungere qualcos’altro
quando Annabeth alzò gli occhi dalla colazione e fece cenno
a qualcuno.
“Finalmente
sono scesi”
“Chi?
Chi?” si dimenò Leo Valdez sulla propria
sedia come un bambino di cinque anni, poi spalancò la bocca.
“Udite, udite!
Mister Morte è sceso fra noi esseri viventi!”
“Non
sei divertente, Valdez” una voce cupa fece
sobbalzare Calypso che quasi si lasciò scivolare la tazza di
ceramica dalle
dita. Si girò verso la nuova presenza dietro di
sé proprio mente Rachel alzava
un sopracciglio con sguardo giocoso.
“Devi
ammettere però che è strano vederti qui,
Neeks”
Nella
mensa erano appunto appena arrivati Jason e
Piper accompagnati da uno strano ragazzino dai capelli neri e
arruffati, sul
volto pallido delle occhiaie preoccupanti e un’espressione da
gatto scontento.
“Seriamente,
cose gli avete detto per
convincerlo?” continuò la rossa incredula mentre
la Nightshade si ricordava
finalmente di averlo visto la sera prima in mensa ma se ne era stato
talmente
in disparte da non averlo minimamente considerato.
Il
corvino, appunto, guardò male Leo Valdez come
se avesse un conto in sospeso con quello poi, sorprendentemente, le
mise una
mano su una spalla –facendola nuovamente sobbalzare
– e con voce piatta le
intimò di alzarsi e andare con lui.
In
sincrono su ogni viso dei presenti si alzò un
accigliato sopracciglio, l’unico che non ne sembrò
sorpreso fu proprio il
riccio che si mise a ridere poco elegantemente. Non lo avrebbe mai
ammesso ad
alta voce, ma quel ragazzino la inquietava abbastanza da non voler
contraddire
un suo ordine così esplicito. Frettolosamente si
alzò e lo seguì fuori dal
padiglione lanciandosi una breve occhiata alle spalle, solamente Leo la
salutò
mentre usciva, tutti gli altri parevano troppo sorpresi. Nico la
guardava
spazientito facendole capire che doveva sbrigarsi e lei decise che non
era
proprio il caso di contrariarlo, aveva già
l’impressione di essere abbastanza
scazzato. All’uscita andò fatalmente a sbattere
contro il ragazzo cinese e
fidanzato di Hazel –Frank, giusto? – al quale
rivolse un sorriso timido prima
di tuffarsi nel corridoio.
Frank
rimase per qualche secondo all’entrata a
guardare la ragazza correre dietro a Nico, poi scosse la testa come se
avesse le
traveggole e raggiunse gli amici al tavolo.
“Ho
davvero visto Nico sveglio alle nove? E
inseguito da Calypso?” domandò giusto per
assicurarsi di non aver avuto un
miraggio. Le espressioni sconvolte degli altri erano una risposta
più che
sufficiente. Poi, Jason batté il pugno sulla tavola
emozionato e contento.
“Sì!
Nico ha parlato ad un essere umano! Sta
cominciando a socializzare” la cosa sembrava renderlo davvero
felice.
“Valdez”
disse invece Annabeth minacciosa “Perché
mi sembra che la cosa non ti sorprenda?”
L’interpellato
sorrise vago e si stiracchiò
godendosi l’attenzione che aveva catturato, poi disse
flemmatico. “Diciamo che
gli ho chiesto un favore. E voi lo sapete: so essere molto
convincente”.
“Io
direi irritante” lo corresse Frank, poi:
“Sono avanzati dei cereali?”
**
Timidamente
si portò un ciuffo di capelli color
cannella dietro un orecchio e guardò curiosa e intimidita la
schiena dell’altro
ragazzo. Certo, era abbastanza ridicolo essere intimidita da quel corpo
pelle e
ossa ma aveva davvero uno sguardo da brivido e il silenzio fra loro era
teso;
lui assomigliava sicuramente ai ragazzi problematici della sua fantasia.
“Smettila
di guardarmi come se fossi chissà quale
raro Pokémon”
e Nico si girò
cogliendola in fragrante nella sua ispezione.
Calypso
sussultò ed arrossì, distolse lo sguardo
e contrariata chiese: “Cos’è un Pokémon?”
Nico
spalancò gli occhi e la guardò sorpreso.
“Allora la cosa è davvero grave” lo
disse come se avesse chissà quale malattia
e questo la fece offendere, motivo per cui si strinse le braccia al
petto
tenendosi i gomiti.
“Che
vuoi dire?” borbottò a disagio.
Lui
rimase zitto a guardarla, perché voleva
inquietarla così tanto? Nervosa passò una mano
tra i capelli districando alcuni
nodi e si guardò attorno, alcuni ragazzi li guardavano
curiosi, o meglio dire
guardavano curiosi il suo compagno.
“Mi
chiamo Nico Di Angelo” la sorprese
improvvisamente il ragazzo. Alzò gli occhi scuri su di lui e
sorrise dolce
rendendosi conto del disagio dell’altro, sembrava addirittura
più imbarazzato
di lei dietro la frangia corvina. Come se si trovasse in una soluzione
a lui
estranea, come se non fosse abituato a interagire con i suoi coetanei.
Lei e
Nico avevano una cosa in comune a quanto pare.
Gli
sorrise incoraggiante. “Io sono Calypso
Nightshade” e tese la mano verso di lui. Era un gesto di
educazione, giusto?,
però lui lo guardò confuso e indeciso se
afferrarla o no. Guardandolo meglio
sembrava si trovasse in una dimensione diversa dalla sua, come se
soltanto il
suo corpo fosse presente nella terra. Era una sensazione difficile da
spiegare,
ma il corvino sembrava non essere reale, anzi sembrava non vedere
Calypso come
reale. I suoi occhi erano neri,così tanto da non distinguere
la pupilla e si
guardavano attorno come se vedessero qualcos’altro, qualcosa
che lei non
poteva. Ed era una cosa che lo spaventava.
“Smettila”
La voce
gelida di Nico la riscosse ancora una
volta e lei sbatté le palpebre fintamente confusa.
“Di fare che?”
“Stai
facendo esattamente quello che fa lui,
cerchi di capire il mio meccanismo. Smettila, è
snervante”.
Calypso
davvero non capiva e stava per ribattere
ma poi decise che no, non voleva capire a chi la stesse paragonando e
sospirò.
Si strinse nelle spalle e gli chiese invece:
“Perché mi hai chiesto di
seguirti?”
Nico si
studiò i lacci della alla star nere
consumate e sporche, poi alzò la testa riacquistando
l’aria scocciata. “Diciamo
che un amico mi chiesto un favore” rimarcò ironico.
Lei era
sempre più confusa. “Che genere di
favore?” senza volerlo assunse un’aria difensiva e
strinse le mani a pugno. La
sua reazione sembrò divertire Nico visto l’accenno
di sorriso ironico che fece.
“Allora,
come ti sembra il College Olympus?”
domandò spiazzandola.
Lo
guardò incerta. “Diverso. Da come me lo
immaginavo io, intendo”.
Nico
annuì come se avesse detto una cosa
giustissima, poi riprese a camminare senza dire niente, non si era
nemmeno
accorta che si fossero fermati in mezzo al corridoio.
“Perché
questa domanda?” lo rincorse e attese
pazientemente la risposta, che però non arrivò.
"Come lo
immaginavi?"
Storse
il naso scontenta. "Non si risponde a
una domanda con un'altra domanda. E comunque non lo so, ecco,
sicuramente non
così" continuò incalzata da una sua occhiata.
"Ci sono
due cose che devi sapere"
disse allora Nico alzando appunto due dita della mano e
sventolandogliele
davanti alla faccia. Sembrava stesse imitando qualcuno. "Uno: non
ficcanasare negli affari degli altri" e abbassò un dito.
Calypso
inarcò uno sopracciglio.
"Due:
mai dire la verità" terminò e la
guardò in attesa che assimilasse bene le sue parole, lei
scosse la testa
confusa non riuscendo a comprendere quello strano ragazzino e
perché le dicesse
quelle regole.
"Calypso"
la richiamò lei. Sembrava
davvero in difficoltà, come se non riuscisse a trovare le
parole per spiegare
un concetto difficile e complicato a un bambino in maniera
comprensibile.
"Dunque. Tutti voi siete qui" e indicò con un dito il
corridoio come
se tutti gli alunni di quell'egocentrica scuola fossero concentrati in
quell'unico punto "perché siete dei problemi" e
scandì l'ultima
parola. Strinse le labbra in una smorfia indecisa. "Problemi per la
famiglia, per lo stato, per voi stessi o non lo so. Ma siete dei
problemi che
non si possono risolvere e quindi venite mandati qui"
"Grazie"
si lasciò sfuggire offesa.
"Non
c'è di che. Il fatto è che non potendo
risolvere voi stessi volete risolvere per forza qualcun altro. Come se
trovando
la soluzione al problema di qualcun altro possiate risolvere il vostro,
di
problema"
Ripresero
a camminare arrivando all'imbocco delle
scale verso i dormitori. "Ma hai appena detto che è vietato
ficcanasare
negli affari degli altri"
"Esatto,
ma nessuno rispetta questa
regola" sembrò che la cosa lo seccasse terribilmente.
"Motivo per cui
bisogna mentire. Per evitare che gli altri ficcanasino, capisci?"
"No"
ammise "Se vogliono aiutare
perché impedirlo? Ti fanno solo un favore"
"Vediamo"
finse di pensarci, poi
aggiunse con aria saccente "Tu vorresti essere aiutata?"
Calypso
si fece istintivamente sospettosa.
"Che domanda è? Non ho bisogno di essere aiutata, io non ho
nessun
problema"
"Eppure
sei qui" la incalzò.
Strinse
le labbra e lo guardò astiosa. "Sono
qui perché sono un peso per i miei genitori".
"Sì.
Abbastanza convincente" e non
aggiunse altro, ignorò le scale e si diresse verso la Hall.
Non le restò che
seguirlo.
"E' la
verità" protestò e gli afferrò
senza pensarci una spalla ossuta.
"Senti,
Nightshade" improvvisamente
Nico si era fatto aggressivo e se l'era scrollata di dosso con un
movimento
brusco e la guardava inspiegabilmente astioso. "Del motivo per cui sei
qui
non me ne frega niente, quindi non perdere tempo a convincermi. Non me
ne
frega" ripeté "Sinceramente, non me ne frega nemmeno che tu
sia qui o
se entro una settimana verranno portati alla luce tutti i tuoi
più sporchi
segreti. Ma un seccatore mi ha chiesto un favore, quindi dovresti
convincere
lui che non hai nessun problema".
Lo
guardò spaventata da quel brusco cambio di
carattere, i suoi occhi erano pieni d'odio in quel momento; si chiese
se fosse
bipolare. In ogni caso terrorizzata si affrettò ad annuire.
"Bene".
La
portò fino ad un angola della hall
dove era appesa una bacheca piena
di corsi e firme. "Qui ti iscrivi per i corsi estivi. Rachel ti
avrà già
spiegato come funziona"
Annuì
temendo che una negazione ritirasse fuori
una reazione arrabbiata.
“Bene.
I corsi iniziano domani mattina”
“Ma
la segretaria mi ha detto che sono già
cominciati” protestò ricordando la donna al banco
del giorno prima.
“Quella
là è una svampita, non ascoltarla”
borbottò infastidito.
“Ok”
assicurò innervosita.
"Bene."
ripeté "Scegli con
attenzione. Da questo momento ricominci da zero. Qui nessuno ti
conosce,
nessuno sa niente di te e puoi essere chiunque tu voglia. Devi creare
una nuova
te stessa e per farlo devi scegliere ogni cosa con cura, ogni dettaglio. La verità è solamente una
grande casa priva
di mobili ma che ha i merletti alle finestre"
"Co-cosa?"
rimase spiazzata da quella
perla filosofica.
"Lo dice
sempre Valdez"
"E vale
a dire?" domandò infastidita
dalla comparsa di quel nano nella conversazione.
Alzò
le spalle. "La verità è una grande
bugia convincente" la guardò "Se ti è tutto
chiaro io me ne
vado"
Non le
era per niente chiaro ma annuì lo stesso
stringendosi nelle braccia, però gli chiese perplessa:
"Perché prima usavi
il voi? Non sei anche tu stato
mandato qui per lo stesso motivo?"
Nico si
prese qualche secondo per rispondere. Che
buffo, era più basso di lei eppure se ne accorgeva solo ora.
"Diciamo che
io non sono stato mandato qui. Piuttosto la scuola è stata
mandata da me"
e se ne andò ancor prima che potesse comprendere il
sottointeso di quelle
parole ironiche.
Spalancò
la bocca fissando la maglietta nera
sparire nuovamente per il corridoio. Negli opuscoli c'era scritto che
la scuola
era stata costruita da tre fratelli, uomini d'affari e milionari, dopo
una
serie di incidenti familiari. Da quel che aveva capito il motivo
principale era
l'improvvisa pazzia del figlio minore di uno di questi in seguito ad un
incidente che aveva ucciso la madre e la sorella; non trovando
strutture in
grado di aiutarlo il padre insieme agli altri due fratelli aveva
iniziato il progetto
del College Olympus perché il figlio potesse essere seguito
nella giusta
maniera. Non spiegava altro.
"Oh mio
Dio" respirò "Non ci posso
credere".
Aveva
appena conosciuto il famoso figlio.
La
scelta dei corsi si rese conto ben presto
essere una impresa. Come aveva detto quello era il primo modo per
costruirsi
una verità credibile, doveva assolutamente scegliere come
apparire agli altri.
Guardò il corso di tiro con l'arco, doveva essere la ragazza
risoluta che
prendeva a pugni i ragazzi? No.
Corso di
pittura, l'artista incompresa che se ne
va in giro con i jeans sporchi di pittura come Rachel? No.
Corso di
chimica avanzato, la secchiona? No,
assolutamente no.
Sospirò
passandosi una mano sul collo, si chiese
che impressione avesse dato in quella mezza giornata e che cosa aveva
fatto
capire di sé stessa.
Non ho
parlato molto, quindi ragazza timida. Mh, meglio evitare le cose troppo
violenti.
Sono
vegetariana, quindi in teoria amo gli animali, mi serve qualcosa che mi
faccia
stare a contatto con la natura.
Rachel ha
visto i libri, sa che amo leggere. Magari c'è un corso di
letteratura o
scrittura...
"Scelta
difficile, vero?"
Sussultò
sentendosi una ladra e si girò verso la
voce venendo travolta dal sorriso accecante di Percy.
"Uh,
sì" bofonchiò arrossendo e l'altro
rise. Si sentì in imbarazzo nell'essere da sola con lui ma
anche molto felice,
soprattutto perché nei dintorni non vedeva nessuna fidanzata.
"Mi
ricordo" continuò il ragazzo ignaro
dello scoppio di emozioni che causava la sua vicinanza "che la prima
volta
mi iscrissi a troppi corsi rischiando di non partecipare nemmeno a uno"
e
rise ancora.
"Non ho
molte idee" ammise giusto per
dire qualcosa e non lasciarsi scappare quel bellissimo momento.
"Allora
ti consiglio il corso di nuoto"
annuì lui "E non lo dico perché sono il capitano
della squadra di
pallanuoto, eh".
Calypso
sbottò spontaneamente a ridere, una bella
risata limpida e cristallina per nulla forzata, era da tanto che non lo
faceva.
"Potrei
pensarci su" disse fingendosi
sostenuta alzando gli occhi al cielo pensosa. Fintamente pensosa. In
realtà era
già pronta a mettere la propria firma.
"E'
molto bello il corso di botanica"
continuò Percy scrutando le varie attività "Te lo
dico perché hai la
faccia di una a cui piacciono i fiori".
"E come
lo sai che è buono? Ci hai
partecipato?" lo stuzzicò provando ad avvicinarsi
leggermente a lui.
Percy
non arretrò scosse solo la testa divertito
per la sua affermazione. "Grover" disse solo a mo' di spiegazione
"Lui è fissato con la natura, mi ha costretto ad andarci una
volta. Che a
proposito io ero sceso proprio per andargli incontro. Sai, sta
arrivando"
sorrise ancora.
"Non
vedo l'ora di conoscerlo" mentì
ricambiando il sorriso.
"Fantastico.
Allora io vado, ci si vede a
pranzo".
In
realtà Calypso voleva trovare un nascondiglio
e saltarlo ma il buono proposito sfumò davanti agli occhioni
verdi di Percy.
"Certo, ovvio che sì"
"Ci
conto, eh" e le fece un segno di
saluto con la mano. Lo guardò di sottecchi mentre spariva
inghiottito dalle
magliette colorate, poi spostò nuovamente lo sguardo sulla
bacheca. Calypso non
aveva avuto molte cotte, i signori Nightshade le avevano presentato
ragazzi di
alti lignaggio in continuazione nella speranza di poter usufruire di un
matrimonio combinato ma nessuno di quei ragazzini rigidi nei propri
abiti da
nobili con la brillantina sui capelli l’avevano convinta. Non
erano persone con
cui le sembrava di poter affidare sé stessa,
all’epoca aveva un’idea molto
romantica dell’amore e si vedeva come una principessa
incarcerata in una torre
altissima con il drago – suo padre – a far la
guardia alla finestra con i suoi
artigli, immaginava un principe coraggioso capace di liberarla e
portarla
lontana in un palazzo fatto di nuvole e a vedere il mondo. La favola
più banale
ma bella del mondo.
Ovviamente,
non era accaduto. Nessun principe,
nessuna principessa e l’unica che davvero era fuggita alla
fine era stata sua
sorella; lei si era ritrovata sola a giocare a puzzle con la propria
anima nel
tentativo di ri-assemblarla. Aveva capito che i principi su cavalli
bianchi non
esistono e se li inventano le persone che hanno la necessità
di aggrapparsi a
qualcuno, deboli fanciulle che non sanno prendere le proprie
responsabilità.
Lei non
era più così, lei si stava salvando da sola.
**
In
realtà l’unica regola per sopravvivere Leo
l’aveva
imparata in fretta: se fai vedere quanto ti fa male, è
finita. La sofferenza si
sposa con la solitudine in una stanza vuota, al buio per non guardarsi
mentre
si muore. È semplice. È giusto così.
Il cielo
in quel momento si tingeva di rosso, nel
pomeriggio aveva piovuto ma ormai nell’aria si avvertiva solo
il ricordo della
pioggia, ogni cosa era immobile e le nuvole che pesavano sopra la sua
testa si
tingeva una dopo l’altra di colori caldi. A Leo piaceva il
rosso, rosso fuoco,
e amava il tramonto per questo: il mondo intero prendeva fuoco.
Seduto
sul cornicione del tetto, in un angolo
facilmente accessibile dove nessuno metteva mai piede, faceva scattare
la
fiamma dell’accendino e sorrideva al vuoto, l’aria
era gelida ma confortante
per un cuore così agitato. Mancavano poco più di
dieci minuti alla cena e se
non voleva arrivare in ritardo o saltarla doveva proprio andare, anche
perché
gli si stavano gelando le chiappe, però non aveva nemmeno
voglia di andare lì e
di scendere con gli altri. La maggior parte dei suoi amici erano
interscambiabili, nessuno veramente fondamentale, riconosceva le facce,
assegnava un nome e magari gli voleva pure bene, ma non provava niente.
(Non
come Percy al quale bastava aver parlato una volta per avere un nuovo
migliore
amico.)
Amici
intercambiabili un po’ come lui con sé stesso:
potevano essere tutti o nessuno, di sicuro nessuno era invitato al mega
party
nel suo inferno personale. La fiamma dell’accendino gli
bruciò le dita ma
continuò a giocarci finché i suoi polpastrelli
non iniziarono ad odorare di
carne bruciata e cuoio.
Il
passato di Leo faceva schifo tanto quello di
Nico e Jason, forse anche peggio, ma tutti tendevano a scordarlo
perché
sorrideva di continuo. Marinava le lezioni, portava scompiglio in
classe, aveva
sempre qualcuno da seccare eppure tutti gli volevano un grande bene
perché era
un terremoto tascabile di vita; era consolante conoscere in un posto
del genere
qualcuno così tanto allegro, che lo fosse davvero o fosse
solo un ruolo non
importava, si salva solo l’apparenza. Il resto finisce nel
cesso. Sul tetto
mancava qualche tegola e un
gabbiano aveva fatto il proprio nido poco lontano, nessuno poteva
vederlo
mentre era lì e come diceva sempre Nico: se
nessuno ti vede non occorre che tu sia qualcuno.
Era ora
di andare. Con agilità conquistata in anni
di pratica si mise in piedi su cornicione in equilibrio, si
stiracchiò e la
corta maglietta rossa lasciò intravedere un livido sul
fianco.
“Sono
caduto” aveva riso ad Annabeth “Fuggivo da
una bella ragazza che mi voleva baciare”
L’ironia
l’aveva sempre salvato, era sempre
sopravvissuto alle situazioni difficili usando il cervello. Era il
buffone
della classe, il giullare di corte, perché aveva imparato
che se scherzavi e
ridevi non le prendevi. Come già detto, tutti vogliono avere
accanto una
persona con un sorriso così spontaneo. L’umorismo
era un buon modo per
nascondere il dolore. Avere sempre la risposta pronta e un sorriso in
tasca era
il modo migliore per sopravvivere ed evitare domande.
L’importante era non
lasciare che gli altri notassero i particolare e in quel caso
rispondere subito
senza esitazione.
Le
braccia di Leo erano piene di polsini con nomi
di gruppi musicali.
“Che
vuoi farci, adoro alla follia gli Slipknot!”
rideva lui quando veniva preso in giro da qualcuno per quello buffa
mania. Non aveva
mai ascoltato una delle loro canzoni. Né degli Iron Maiden e
dei Bullet For My
Valentine, comunque. Dei Metallica giusto quelle che Nico metteva
sempre in
camera. Ma tanto la maggior parte del tempo indossava solo maglie a
maniche
lunghe.
Leo lo
sapeva che la verità si rivela solo con il
silenzio più nudo, ma lui aveva sempre la risposta pronta. E
nessuno si
chiedeva se era una bugia.
La porta
del lucernario che portava al tetto si
aprì proprio in quel momento facendo trattenere brevemente
il sospiro a Leo che
poi lasciò andare per il sollievo notando che era solo
quella strana ragazza
appena arrivata.
Appena
Calypso lo vide si bloccò con la boccuccia
spalancata come se
fosse stata colta
nella scena di un crimine.
“Che
ci fai qui, Raggio di Sole?” le chiese con
un sorriso da briccone e lei si riprese dalla sorpresa incenerendolo
con un’occhiataccia.
“Potrei
chiederti la stessa cosa, Omuncolo” lo
apostrofò.
Leo rise
facendo scivolare l’accendino nella
tasca dei jeans sperando di non essere visto.
“Segreto” rispose con sguardo cospiratorio
e continuò a guardarla con gli occhi sorridenti fino a farla
imbarazzare.
“Mi
sono persa” borbottò distogliendo lo sguardo.
“E
dove stavi andando?” continuò a prendersi
gioco di lei perché era fin troppo palese dalla reazione che
aveva avuto vedendolo
che non si era persa; probabilmente stava cercando un posto per
starsene un po’
in pace.
“A-alla
cena” rispose titubante.
“Mi
dispiace dirtelo, ma hai toppato di un paio
di piani” la informò beffardo “ Prova a scenderle,
le scale, quando esci dal dormitorio invece di salirle”.
Vederla
diventare di diversi rossi diverse fu una
bella soddisfazione, gli sembrò che lo insultasse anche a
fior di labbra in un’imprecazione
totalmente fuori luogo per una ragazzina così snob.
Quando
l’aveva vista Leo aveva pensato che fosse
davvero bella, di una bellezza oggettiva intendo, e che sembrava un
po’ una
delle statue greche che i fratelli Olympus avevano messo in ogni dove.
I lunghi
capelli lisci erano come quelli di Hazel, color cannella, ma la
somiglianza fra
le due finiva lì. Il viso della Nightshade era pallido come
il latte, con occhi
scuri a mandorla e labbra carnose. Era ovale e magro con gli zigomi
alti e fieri.
Decisamente sì, era molto bella ma con tutte le espressioni
arrabbiate che gli
aveva rivolto gli ricordava soltanto la ragazza più bella
della classe: la viziata
figlia di papà che lo prendeva in giro, che spettegolava
senza pietà, che si
sentiva superiore a chiunque e che, nella pratica, faceva ogni cosa in
suo
potere per rendergli la vita un inferno. Insomma, l’antipatia
era subito
scattata come forma di difesa. Ovviamente tutto questo aumentava
solamente il
divertimento che provava a farla uscire dalle sue composte staffe.
Calypso
sembrava finalmente aver deciso come
rispondere ma la precedette ancora una volta. “Ti
accompagnerei io –è compito
di ogni meraviglioso cavaliere come me salvare una dama in
difficoltà – ma temo
che l’orario sia passato. Non so te, ma io non voglio
incappare nelle ire di Mister D”.
Gli
occhi scuri, che appena aveva iniziato a
parlare si erano incupiti, si schiarirono brevemente per il sollievo,
ma poi
tornarono freddi. “Sei proprio inutile”
terminò.
“Potrei
sempre accompagnarla nelle cucine e prepararle
io stesso un ottimo piatto vegetariano. Sono uno chef molto ambito da
queste
parti” e fece un teatrale inchino.
Questa
volta gli occhi di Calypso si spalancarono
per il terrore, probabilmente temeva che potesse avvelenarla, e
boccheggiò: “Non
importa. Non ho molta fame”
Scrollò
le spalle, il cielo sopra di loro nel
frattempo si era fatto scuro, il sole era tramontato quasi del tutto e
le
nuvole si mimetizzavano nell’oscurità. Niente
stelle quella notte. Le ombre si
allungarono sui loro volti e Leo dovette tirare fuori
l’accendino per rischiarare
la zona. Alla luce della fiamma gli occhi di Calypso tremolavano
inquieti come
se fossero animati da un fuoco interiore, avevano una forma davvero
bella e
particolare, da principessa orientale.
La
fissò con la testa leggermente piegata di lato
come i peluche nei
negozi per bambini
che cercano di accaparrare l’attenzione di un futuro
possessore. L’aria era
davvero gelida per essere estate e mostrava crudele gli sbuffi dei loro
respiri
che si intrecciavano e tradivano la loro vicinanza. Improvvisamente
calò il
buio e rimase solo la luce dell’accendino.
Poi
Calypso fece un passo indietro e tutto tornò
normale.
Leo fece
scattare ancora qualche volta la fiamma
cercando di chiedersi cosa fosse quella strana sensazione di buio che
gli aveva
preso lo stomaco, come se invece di guardare dentro gli occhi scuri di
Calypso
stesse guardando allo specchio vedendo solo il vuoto.
“Ti
accompagno di sotto?” domandò giusto per
spezzare il silenzio e regolare il respiro, che buffo non si erano
nemmeno
sfiorati ma gli era sembrato di aver messo un dito nella presa della
corrente e
zap,
l’elettricità aveva creato un
cortocircuito. Se il suo cuore fosse stato come quello di una macchina
avrebbe
già capito come ripararlo.
“No,
adesso conosco la strada”
disse lei avvelenata, il tono nuovamente
antipatico e sprezzante, però notò che si teneva
un braccio con la mano come se
fosse appena stata colpita da una corrente calda. Sorrise.
Non si
penseranno più per tutta la notte, ma
ormai il danno era stato fatto: si erano buttati, precipiteranno
insieme.
Ed
eccomi qui puntuale!
Lo so
che i tempi di postaggio sono molto lunghi,
ma ci tengo a fare le cose fatte bene (anche se devo ammettere, uhm,
delle
parti di questo capitolo non mi convincono molto). E soprattutto
sarò sempre puntuale
– calamità naturali permettendo.
Dunque,
non ho molto da dire. Lo so, non compare
Will ma io sono anti tivedosubitoemiinnamoro. Le trovo un po’
irreali, già con
la Caleo mi sembra di velocizzare troppo, voglio dare più
spazio e tempo alla
Solangelo, anche perché stiamo parlando di Nico
(è questo che non mi piace
della coppia nell’originale: non ha molto fondamento. Conto
sulle sfide di
Apollo per maggiori spiegazioni). Vi
prometto però che nel prossimo capitolo il nostro biondo
sarà molto più
presente c:
E nulla,
lascio la parola e i commenti a voi.
Ringrazio
tutte quelle meravigliose anime che
hanno recensito e riempito il mio cuore di gioia. Siete fantastiche,
spero di
rivedervi anche qui!
Al
prossimo sabato,
Hatta.
|
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Capitolo 4 *** 46.3 Kg ***
Attenzione! La storia seguente presenta
tematiche delicate. Vorrei precisare che
non promuovo nessun tipo di disordine alimentare. Pertanto, se si
è facilmente
influenzabile sconsiglio la lettura, non voglio avervi nella coscienza.
III
Quarantaseipuntotre
**
“Non
mangiare nulla per quattro
ore prima di
coricarti a dormire.
Può
fare grande differenza”
Il
padiglione per la colazione era pieno di
ragazzi seduti ai propri posti e nell’aria c’era un
composto chiacchiericcio
tipico delle prime ore dopo la sveglia, tutti erano ancora intontiti
dal sonno
per la solita vivacità e preferivano concentrarsi sulle
proprie tazze di caffè
o cornflakes. Tranne Leo Valdez. No, l’ispanico manteneva la
sua solita
iperattività agitandosi sul posto come se fosse sveglio da
ore e perfettamente
riposato nonostante la sera prima fosse rientrato in camera alle due
passate.
A volte
vorrei sapere dove gironzoli...
Certamente
Jason era abbastanza sicuro che il suo
migliore amico o si facesse di una particolare droga molta pesante o
avesse
della caffeina naturale in circolo nelle vene, era umanamente
impossibile
essere sempre così agitato. Cioè, anche Percy
soffriva di ADAH, ma erano due
cose completamente diverse.
“Smettila
di tirarmi calci” si lamentò Piper
esasperata. Leo staccò un morso dalla propria mela e la
guardò con sfida, gli
occhi spalancati.
“Non
è colpa mia se hai delle gambe lunghissime,
Reginetta di Bellezza”
Si
massaggiò la radice del naso intenzionato ad
estraniarsi dal battibecco tra la sua ragazza e il suo migliore amico,
quella
mattina avevano rischiato di arrivare tardi (come al solito aveva
tentato di
far scendere Nico senza riuscirci) e si erano seduti sul primo tavolo
disponibile appena in tempo, il resto della truppa stazionava qualche
metro più
in là. Li guardò corrucciato, in quel momento
voleva Annabeth e la sua
straordinaria capacità di far zittire Leo; la bionda
sembrava avere un
particolare superpotere che le permettesse di farlo tacere per qualche
secondo,
cosa che necessitava assolutamente in quel momento. Gli doleva troppo
la testa.
Leo gli
schioccò le dita davanti al naso
facendolo sobbalzare. “Ehi, amico. Resta con noi”.
Jason
sbatté le palpebre un paio di volte sotto
lo sguardo attento di Piper. “Sì, sono
qui” assicurò. Lei lo guardò ancora,
poi
fece il respiro, quello che faceva
da
preludio a un discorso serio.
“Jason”
lo chiamò quando distolse l’attenzione da
lei “Lo sai che non è colpa tua se Nico non vuole
scendere. Sai com’è fatto,
Nico è...” tentennò cercando la parola
giusta.
“Strano”
le venne in soccorso allora Leo
sputacchiando pezzi di cornflakes “Inquietante. Fuori di
testa. Fissato. Pazzo.
Psicopatico” continuò ad elencare
finché non gli fu scoccata un’occhiataccia
degna di Annabeth e allora alzò le mani in segno di resa.
“Ehi,
mi limito a descrivere la verità”.
“Quello
che Leo sta cercando di dirti” lo
interruppe Piper prima che potesse dire qualcos’altro
“E’ che Nico ha delle...”
“Fissazioni
inquietanti”
“Leo!”
sbottò colpendolo alla testa con uno
schiaffetto, poi riprese da dove era stata interrotta “delle
piccole
fissazioni. A lui non piace stare in posti affollati, no? Tu non hai
fatto
nulla di sbagliato”
“Sono
suo amico, però” decise di farle notare. In
realtà odiava quell’argomento, lo avevano iniziato
centinaia di volte ma alla
fine non lo finivano mai e ognuno restava convinto delle proprie tesi.
Jason
capiva perché Piper gli dicesse certe cose, ma era comunque
frustrante non
venire capito a sua volta; si passò una mano fra i corti
capelli biondi a
disagio.
“Essere
suo amico non significa cercare di
risolvere necessariamente tutti i suoi problemi”
spiegò con pazienza Piper
cercando di afferrargli la mano sul tavolo.
“Ah,
no?” si lasciò sfuggire “Credevo
significasse proprio questo essere amici. Aiutarsi a vicenda”
“Jason!”
“E’
mio compito aiutarlo. Se non lo faccio io, chi?
Voi
che lo considerate uno stramboide?”
aggiunse spostando la mano sotto il tavolo e facendo sospirare la
ragazza che
gli rivolse uno sguardo sconfortato. I suoi occhi dicevano a chiare
lettere che
stava solo cercando di farlo stare meglio.
Si
sentì infinitamente in colpa.
“Scusami”
sussurrò abbassando lo sguardo, non
riusciva proprio a farne una giusta.
“Va
tutto bene” lo rassicurò Piper prendendo
finalmente quella mano e avvicinandosi un po’ di
più al fidanzato senza
smetterlo di cercare un contatto visivo. Lui ricambiò la
stretta sbirciando
verso di lei. “Non volevo risponderti così
male”
“Lo
so” sorrise “E so anche che Nico è
davvero
fortunato ad avere un amico come te. Sei una persona fantastica, Jason
Grace”
gli ricordò solo per cancellare dalla faccia quel sorriso
triste. Avrebbe tanto
voluto baciarla in quel momento.
Del
latte si sparse per il tavolo scivolando a
terra e bagnando i pantaloni di Piper la quale fece un balzo presa in
contropiede.
“Ops,
ho rovesciato il latte” rimarcò l’ovvio
Leo
con un sorriso da folletto.
“Valdez!”
“Scusa,
Miss Mondo”
Scosse
la testa divertito notando che Leo lo
guardava con la coda nell’occhio. Non era arrabbiato, in
fondo era fin troppo
facile quando era con la sua ragazza dimenticare la presenza di terzi.
Nella
sala scese improvvisamente il silenzio e
anche i due ragazzi smisero di litigare spostando lo sguardo verso il
tavolo
degli adulti, Jason li imitò. Chirone si era alzato dal suo
posto al centro
della tavolata rettangolare e abbracciava con sguardo paterno
l’intera sala
soffermandosi su ogni viso.
“Buongiorno”
iniziò e i più coraggiosi nella sala
risposero al saluto con enfasi, inutile dire che Leo fu uno di essi.
Il
riccio prese la coppa di cereali e la alzò
verso il cielo come un trofeo. “Alla sua salute,
vecchio!”
Chirone
li tacitò tutti con un sorriso bonario.
“Come sapete, oggi con l’inizio dei corsi estivi
abbiamo facce nuove tra noi.
Spero, anzi: so che saprete accoglierli nel modo più
appropriato che aspetta ai
nuovi membri di una famiglia. Perché sì, come vi
dico sempre il College Olympus
è la nostra famiglia, una casa dove poter costruire i propri
legami”
Jason
ebbe la sensazione che lo sguardo di
Chirone si posasse prima su di lui e poi nel resto della stanza alla
ricerca di
una scarmigliata chioma corvina. Il pensiero gli strinse le viscere.
Dopo un
attimo di silenzio l’uomo riprese a
parlare: “Ora, vorrei solo ricordare le poche cose che la
maggior parte di voi
già conosce. Gli orari dei pasti sono infissi davanti alla
mensa e il nostro
direttore richiede la vostra puntualità. Tutti gli studenti
che salteranno i
corsi o si troveranno fuori dalle proprie stanze oltre
l’orario del coprifuoco
verranno puniti” e lo sguardo che lanciò a Leo fu
più che palese a tutti nella
sala “Per conoscere più dettagliatamente le regole
dell’istituto potrete
chiedere il documento alla nostra segretaria Melly. Anche se so che
nessuno di
voi lo farà” una leggera risata collettiva si
sparse nell’aria “Vi chiedo
comunque di comportarvi bene e nel rispetto verso gli altri.
Nella
hall sono già stati fissati i turni per le
regolari visite mediche, siete pregati di prenderli in esame e
presentarvi in
infermeria nel tempo prestabilito. Alcune gite che faremo nel corso
dell'estate
sono già state programmate, se avete piacere sono sempre
infisse in bacheca.
Non ho
altro da aggiungere, se non darvi il mio più caloroso
benvenuto. I corsi
inizieranno fra venti minuti, quindi orsù eroi, affrettatevi
nella vostra
colazione” e con un sorriso paterno si sedette al suo posto
mentre i ragazzi
prorompevano in un applauso.
“Che
grand’uomo” si finse commosso Leo battendo
le mani con fin troppa enfasi, fu uno degli ultimi a interrompere
l’applauso.
**
“Signorina
Nightshade”
Calypso
si era appena alzata dal suo posto nella
mensa quando una signora con una sgargiante maglia arancione
l’aveva chiamata.
La guardò con un punto interrogativo stampato in faccia
mentre i ragazzi che
erano con lei si alzavano e allineavano frettolosamente.
“Signora
Jackson” arrossì Frank.
“Mamma!”
disse invece Percy con un sorriso che
venne ricambiato dalla donna.
“Ciao
tesoro” lo salutò, poi posò nuovamente
lo
sguardo su Calypso che ancora la guardava confusa.
“Scusami
cara, ma c'è stato un problema con i
corsi che hai scelto" disse facendole segno di allontanarsi dagli altri
per parlare con più privacy.
"Che
genere di problema?" domandò con
una punta d'ansia. Gli occhi della signora Jackson avevano la stessa
forma di
quelli del figlio ma i suoi scintillavano e cambiavano alla luce,
pareva stesse
vedendo in lei tutte le cose belle dimenticando quelle cattive. Qualche
ciuffo
argentato striava la sua capigliatura castana.
La donna
lanciò uno sguardo al gruppetto di
ragazzi dietro di loro che, poteva scommetterci, stavano facendo di
tutto per
origliare senza farsi notare. La cosa la infastidì non poco.
"In
realtà è una sciocchezza" cercò di
rassicurarla "Per via del motivo per cui sei qui" continuò
facendole
capire che lei lo sapeva ma non la giudicava "Devi seguire alcune... regole, possiamo chiamarle
così, in più
rispetto agli altri" le passò un foglio "Per questo l'orario
che ti
sei scelta è stato un po' modificato".
Calypso
lasciò uno sguardo di sbieco al foglio,
era molto diverso dal programma che aveva dovuto seguire nel centro
ospedaliere
di riabilitazione intensiva. C'era stata dentro novanta giorni, i
novanta
giorni più brutti della sua vita. Prima avevano distrutto
tutti i suoi sforzi
per raggiungere il suo traguardo facendola tornare nel suo cosiddetto peso base, l'avevano tenuta lontana da
bilancia o da qualsiasi metodo che potesse aiutarla a controllare il
peso, era
stato terribile. Ancor più orribile era stato al termine del
mese salire
finalmente su una bilancia e vedere quei numeri. Si era messa a
piangere per la
prima volta da quando era entrata là dentro, prima non
l'aveva mai fatto per
non dare nessuna soddisfazione ai suoi aguzzini. Nei successivi due
mesi,
ovvero nella seconda e terza fase del programma, avevano cercato di
ristabilire
i normali schemi di alimentazione e i normali atteggiamenti nei
riguardi del
peso e della forma del corpo e a risolvere i quadri psichiatrici di
depressione, ansia e disturbo ossessivo - compulsivo. Inizialmente si
era
ribellata, aveva tentato di scappare, gridava di lasciarla andare e che
non capivano
ma poi aveva compreso che l'unico modo era fingersi docile e
collaborativa,
prima credevano che fosse guarita (anche se lei non era malata, erano
gli altri
che non lo capivano) e prima poteva uscire da quell'inferno. Dopo tre
mesi era
tornata a casa e la sua bilancia segnava cinquantasei chili. Aveva
comunque
deciso di non perdersi d’animo ricominciando da capo, nel
corso dell’inverno
era riuscita a perdere dieci chili e a dimenticare quel posto orribile.
Fu
davvero felice leggendo il programma datole da Sally di notare che non
assomigliasse in nulla a quello dell’ospedale.
Però
aveva frequenti visite mediche di ogni
genere, ogni due giorni doveva vedere la psicologa della scuola e certi
corsi
che aveva scelto erano stati cancellati e sostituiti da altro.
Guardò con odio
il corso di cucina che compariva al posto di quello di nuoto.
“Era
proprio necessario?” si lamentò riguardo a
quei cambiamenti. Oh, c’era pure uno stupido corso
sull’autostima.
La
signora Jackson si strinse nelle spalle.
“Abbiamo comunque tentato di non stravolgere troppo e
lasciarlo il più
possibile uguale a quello che ti eri scelta”.
Calypso
dovette fare uno smorzo immane per non
gonfiare le guance offesa e pretendere che la lasciassero in pace,
annuì e
basta cercando di capire se c’era un modo per evitare certi
corsi senza essere
beccata. Chirone aveva parlato di punizioni e lei voleva mantenere un
profilo
basso.
“Va
bene” disse con un filo di voce e
inghiottendo tutto il disappunto. Sally le mise una mano sulla spalla e
la
guardò piena di fiducia.
“Ti
troverai bene qui” le promise. Era la
centesima persona che glielo diceva in appena due giorni.
Appena
la donna fu a distanza di sicurezza e i
suoi compagni che per tutto il tempo avevano finto neanche troppo bene
di farsi
gli affaracci loro si gettarono su di lei per sapere quali importanti
segreti
si fossero scambiate le due.
Nico aveva
ragione, sono delle pettegole, si rese conto
mentre Percy le sfilava senza chiedere il foglio con
il suo orario dalla mano o lo fissava.
“Ti
hanno cambiato alcuni corsi?” le chiese.
“Perché
devi fare tutte queste visite? Hai problemi di salute?”
domandò Annabeth
spiando da dietro le spalle del ragazzo.
“Fate
vedere, fate vedere” si dimenò Rachel
saltellando.
“Cambiato
i corsi? Spero non quello di botanica,
mi sarebbe piaciuto farla insieme a te” disse invece Hazel
alzandosi sulle
punte per sbirciare. Frank si limitava a fissarla curioso.
“Hai
molte ore dalla psicologa Estia” notò Reyna
accigliandosi. Al che Calypso arrossì e cercando di fingere
indifferenza annuì,
poi aggiunse per rispondere ad Annabeth:
“Non
proprio, ma mi ammalo facilmente e ho la
pressione bassa” mentì decidendo di prevenire
domande in caso di futuri
svenimenti, quando aveva lo stomaco tanto vuoto ed era sfinita le
capitava.
Rachel
si allontanò scherzosa. “E non è
contagiosa, vero?”
La
battuta fece ridere tutti, anche lei accennò
un sorriso, poi Annabeth prese il controllo della situazione.
“Forza, si sta
facendo tardi. Dobbiamo andare ai corsi”
**
Nico se
ne stava affacciato alla finestra del
corridoio con le braccia appoggiate sul davanzale a guardare i ragazzi
della
scuola partecipare agli sport in giardino. In teoria avrebbe dovuto
essere lì
con loro, in pratica non si era nemmeno sforzato di segnare il proprio
nome per
qualche corso. Era rimasto tutta la mattina in camera a dormire e a
giocare con
i videogiochi, era sceso a pranzo solo per mangiare e adesso voleva
approfittare
dei corsi per fare una passeggiata tra i corridoi in perfetta
solitudine.
Solitudine...
Jason,
Percy, Hazel e perfino Reyna lo
rimproveravano di questo suo atteggiamento schivo, loro non volevano
che
restasse solo ma quello che non capivano era che Nico non era mai solo,
non
poteva nemmeno volendo restare da solo. Scoccò uno sguardo
all'ombra del suo
campo visivo senza nessuna emozione, ormai abituato a vederlo.
Il
fantasma lo guardava con un sorriso serafico,
ovviamente aveva capito subito cosa stava pensando. "Non
possono capirti" gli ricordò "Al
massimo possono fingere di farlo".
Si
chiamava Minosse e lui diceva di essere
l'antico re di un antica isola caduta in disgrazia perché la
figlia lo aveva
tradito. Non sapeva esattamente cosa ci facesse lì in
America e nemmeno perché
lo seguisse ovunque, ma la paura iniziale era del tutto passata.
D'altro canto
ormai vedeva i fantasmi dei morti da quando sua madre e sua sorella
erano morte
e la cosa aveva perso ogni sorpresa, vedere i morti camminare fra i
vivi era la
normalità per lui. E in fonda era felice che Minosse fosse
sempre con lui, lo
aiutava sempre dandogli consigli. In fondo, i morti potevano capire la
sua
solitudine meglio di chiunque altro.
"Perché
siamo qui?" domandò il re fantasma agitandosi,
non era trasparente,
sembrava fatto di carne e sangue ma quando lo toccava si accorgeva che
aveva la
consistenza delle ombre.
Fece
spallucce. "Aspetto Valdez e Grace, fra
poco è il nostro turno per i controlli in infermeria" il
viso si distorse
in una smorfia di insofferenza, odiava andare in quel posto. Minosse lo
capì al
volo.
"Non
sei costretto ad andarci" gli fece notare. Il ragazzino
accarezzò
l'idea piacevole di tornare nella propria stanza e restare
lì per il resto del
pomeriggio ma poi pensò alla predica che Jason gli avrebbe
fatto, non voleva
che si preoccupasse per lui.
"No,
vado. Tanto c'è la mamma di Percy, è
gentile" ricordò.
"Parli
da solo?"
Nico
sussultò perché si era aspettato la voce
giocosa di Valdez, ma quella era più chiara e ferma, sicura
e maschile. Si girò
verso il nuovo arrivato. Era una delle magliette arancioni, un ragazzo
poco più
grande di Percy dai capelli biondi e una abbronzatura da Californiano
che
faceva risaltare gli occhi azzurri come due pietre opalescenti. Doveva
essere
uno nuovo perché non
l'aveva mai visto.
In ogni caso, in risposta alla sua domanda scrollò le spalle
deciso di ignorarlo
finché non se ne fosse andato.
"Cosa
fai qui, non dovresti essere ai
corsi?" gli chiese la maglietta arancione e vedendo che non rispondeva,
continuò "Lo sai che è vietato saltare i corsi?"
Alzò
gli occhi neri come l'inchiostro al cielo
scocciato prima di dire stizzito. "Aspetto dei miei compagni di stanza.
Abbiamo il turno per l'infermeria. Lo sai, i controlli" disse imitando
il
su tono di voce da maestrina. Quello lo guardò scettico.
"Sto
andando proprio lì. Ti accompagno
subito".
Con un
gesto stizzito e brusco Nico si staccò
dalla finestra premurandosi di guardarlo male. "Grazie, ma conosco la
strada" disse senza nessuna gentilezza nella voce. Lo superò
deciso ad
aspettare i due compagni davanti all'infermeria, fortunatamente non lo
seguì.
"La gente
deve sempre impicciarsi" borbottò Minosse e lui
fu estremamente
d'accordo, insomma aveva scritto in faccia 'non
parlate con me, lasciatemi stare', perché la gente
non lo faceva mai?
Leo e
Jason lo raggiunsero dieci minuti dopo che
lui arrivò alla porta, ovviamente erano in ritardo e questo
dimostrava che non
era colpa sua se i due facevano sempre tardi. Motivo per cui quando
arrivarono
scoccò loro un'occhiata infastidita, Leo aveva i
pantaloncini corti e le
ginocchia completamente sporche di terra per non parlare dei capelli
ricci
incollati alla fronte. Jason aveva solo la maglia sudata e attaccata al
petto
largo. Uno dei tanti motivi per cui a Nico non piacevano gli sport.
Jason
fece per aprire la bocca, sicuramente per
scusare il ritardo ma Nico non gliene diede tempo aprendo la porta e
infilandosi dentro.
Leo lo
guardò profondamente ferito.
"Ingrato" disse in tono melodrammatico posando una mano sul cuore,
Jason si limitò a fissare la sua schiena che entrava dentro
la stanza
chiedendosi cosa avesse fatto di male adesso. Lo seguirono scambiandosi
uno
sguardo.
L'infermeria
era un posto semplice dai muri
bianchi e le mattonelle quadrate lucide e brillanti, una fila di letti
la
costeggiava fino
alla zona destinata
all'ambulatorio. Sally li aspettava già lì mentre
una maglietta arancione con
un camice bianco sopra l'aiutava a sistemare il lettino e i vari
strumenti
usati poco fa.
"Ciao"
li salutò ricevendo un coro di Salve,
signora Jackson che fece voltare
la maglietta arancione. Nel vedere il suo volto se possibile Nico si
accigliò
ancor di più.
"Allora
non mi avevi raccontato una balla,
stavi davvero venendo qui" si stupì.
Nico
grugnì in risposta.
"Will!"
lo riprese Sally "Non
usare certe parole" poi
fece un
sorriso bonario agli altri ragazzi. "Lui è Will Solace, ha
studiato
medicina e quindi mi aiuta qui in infermeria. Mentre finisco di
sistemare
andate da lui per le solite cose. Sapete, le domande di routine".
Leo si
scambiò con gli altri uno sguardo che
significava solo una cosa: aveva in mente qualcosa di assolutamente
divertente
(Questo secondo lui, Nico non ne era tanto sicuro).
"Inizio
io!" disse appunto alzando una
mano come un bimbo lagnoso "Io! Io!"
Will
sbatté le palpebre preso completamente
contropiede. "Va bene" acconsentì e subito iniziò
a cercare fra delle
schede su un tavolino.
"Leo
Valdez" lo precedette indovinando
cosa stesse per chiedergli, il sorriso furbetto non abbandonava il suo
volto.
Will
annuì senza alzare il viso della carte
mentre cercava la sua scheda, quando la trovò la
sistemò in ordine sopra le
altre e prese una penna iniziando già a segnare alcuni punti
automatici.
“Anni?”
aveva una voce molto professionale e
sicura ma questo non sembrava intimorire in qualche modo il messicano.
“Diciotto”
disse mettendo le mani nelle tasche dei
calzoncini e vantando un sorriso da mascalzone.
Will si
limitò ad un’occhiata scettica al suo
corpo magrolino prima di scarabocchiare quattordici.
Leo lo guardò con gli occhi fuori dalle orbite.
“Ehi!”
sbottò offeso.
“Tu
non puoi avere diciotto anni” gli spiegò con
tranquillità.
“Ma non ne
ho nemmeno quattordici! Sono sedici. Se-di-ci!”
sillabò.
Will
fece un sorrisetto e poi corresse quanto
scritto in precedenza, con la penna indicò un metro
attaccato alla parete
bianca e con voce sicura, probabilmente convinto che il riccio non gli
avrebbe
più tirato tiri mancini, disse solo:
“Altezza?”
“No,
tranquillo. La gente preferisce chiamarmi Maestà”.
Ci volle
qualche secondo prima che il biondo
capisse la battuta e lo fissasse prima basito spalancando pure la bocca
e poi
lo incenerisse con un’occhiataccia.
“Puoi
essere serio, per favore?”
sibilò.
“Eh, se me
lo chiedi con quegli occhioni...” acconsentì con
magnanimità. Sia Nico che
Jason che la signora Jackson gli rivolsero uno sguardo intimidatorio e
allora
si diresse con docilità verso il metro per lasciarsi
prendere le misure,
purtroppo aveva un righello di misurazione europea quindi dovette
aspettare il
verdetto di Solace.
“167
centimetri” borbottò il biondo, poi aggiunse
ad alta voce “5’6’’”
Leo
alzò le braccia in segno di vittoria. “Evvai! Sono cresciuto un
pochino” la sua
esuberanza fece sollevare gli occhi azzurri di Will al cielo.
“Ok,
adesso passiamo al peso” dopo aver segnato
il numeretto e appena lo disse Leo salì sulla bilancia
completamente vestito e
con le scarpe facendolo accigliare. “Dovresti
spogliarti” gli fece notare
pignolo.
Leo
alzò le mani davanti in segno di resa.
“Senti, bello. So che sono una meraviglia della natura, ma
non ti sembra di
correre tropp? Mi vuoi già vedere bello come mamma
m’ha fatto?”
Jason si
spiaccicò una mano alla fronte
vergognandosi per lui, Nico si limitò a spostare lo sguardo
disinteressato ma
maledicendo comunque Valdez che gli stava facendo perdere tempo con le
sue
pagliacciate.
“Prego?”
fece Will sicuro di aver travisato le
parole del ragazzino, poi scosse la testa deciso a ignorarlo e
ripeté:
“Potresti spogliarti?”.
“Io
non mi spoglio per soddisfare i bisogni di un
vecchio pedofilo frocio” continuò cocciuto Valdez
incrociando anche le braccia
per dare più enfasi alla sua presa di posizione.
Il
biondo serrò le dita sulla penna e digrignò i
denti. “Smettila di giocare” il suo tono di voce si
era fatto gelido e lo
sguardo minaccioso.
“Tzé”
commentò per nulla intimorito, anzi dovette
sforzarsi per non ridergli in faccia. Dovette intervenire la signora
Jackson
affinché Will non compiesse un Valdezcidio.
“Basta,
così” disse perentoria rivolgendo
un’occhiataccia a Leo “Will, occupati di Jason e
Nico. Tu, vieni con me”
aggiunse verso il riccio indicando con un gesto una porta per un
ambulatorio
più piccolo e privato.
“Agli
ordini, signora!” scattò sull’attenti
con
una mano alla fronte come se fosse un soldatino, un soldatino molto
ridicolo,
poi zampettò fino all’altra stanza sotto lo
sguardo severo di Sally.
“Ma
signora...” protestò Will sconfortato ma lei
lo tranquillizzò con un sorriso.
“E’
Leo Valdez, devi prenderlo con polso fermo”
gli spiegò “Non preoccuparti, con loro te la
caverai egregiamente” e seguì
l’ispanico nell’altra stanzina.
Will
aveva sul volto uno sguardo imbronciato
leggermente adorabile, poi sospirò sconfortato e volse gli
occhioni azzurri
verso gli altri due ragazzi.
“Chi
vuole per primo?” domandò ancora tentando di
riprendere il controllo sui propri nervi. Sì, se non eri
abituato a trattare
con Leo poteva diventare davvero estenuante, Nico poteva capirlo molto
bene
visto che erano compagni di stanza da secoli.
“Vengo
io” acconsentì il corvino che non vedeva
l’ora di tornarsene nella sua camera al buio.
“Tu
sei...?”
“Di
Angelo. Nico Di Angelo” e cercò di ignorare
come meglio poteva lo sguardo stupito che gli rivolse
l’aspirante dottore.
Cercò anche di nascondere senza successo il proprio rossore
perché purtroppo
Jason lo notò e iniziò a ridacchiare sotto i
baffi.
L’ambulatorio
privato era una stanza piccola
dalle pareti verde chiaro che sfumavano verso il bianco man mano che lo
sguardo
saliva verso il soffitto, una delle lampade a neon era fulminata, per
lui
sarebbe stato un gioco da ragazza aggiustarla se solo avesse avuto un
cacciavite e una scala. A riempire gli spazi erano i pochi mobili
presenti
anche nell’altra stanza: un lettino spartano, una bilancia
con il metro, una
scrivania e una dispensa per le medicine e i vari utensili. In fondo
alla
stanzetta c’era anche un letto d’ospedale ma al
momento non poteva essere visto
perché nascosto da una tenda bianca, lui lo sapeva esserci
perché quando aveva
preso la varicella lo avevano trasferito lì.
“Dovresti
evitare di dire certe cattiverie alle
persone” gli fece notare la signora Jackson chiudendo la
porta che li collegava
agli altri, in mano teneva la sua cartellina clinica.
Leo
sollevò una sopracciglia seguita da un angolo
della bocca in un sorriso un po’ sbilenco. “Stavo
solo scherzando” si schernì.
“Tu
prendi sempre in giro tutti, come se non ti
importasse dei loro sentimenti” gli fece notare guardandolo
con sguardo severo.”Sembra
che a te scivoli sempre tutto addosso, ma non siamo tutti come te. Devi
essere
più gentile”.
“Uhm,
l’ho già sentita questa”
borbottò
distogliendo lo sguardo e corrucciando le sopracciglia. La signora
Jackson,
dopo sua madre si intende, era la donna più buona e bella
che avesse
incontrato: era gentile e con un cuore grande ma nonostante questo
aveva un
polso di ferro e sapeva farsi rispettare. Era impossibile non volerle
bene, molti
dei ragazzi lì spesso avevano sognato che lei fosse la loro
madre. Sally
Jackson era stata la moglie di uno dei tre fratelli che avevano
costruito quel
posto, ovvero Poseidone Olympus, ma a differenza degli altri due signor
Olympus
Leo non lo aveva mai potuto conoscere perché, quando Percy
era ancora piccolo,
il signor Poseidone era caduto vittima di un incidente marino che lo
aveva
portato ad uno stato di coma molto profondo dal quale i dottori
dicevano si
sarebbe risvegliato con scarse probabilità. Nonostante
questo dolore la donna
aveva continuato a portare avanti la famiglia permettendo a Percy di
avere una
vita felice e lavorando in quel grande College costruito dal marito con
tutta
la sua forza d’animo e determinazione. Sally Jackson era la
miglior cosa che
potesse capitare a quella scuola, una benedizione, perché
lei conosceva i
segreti di tutti e sapeva mantenerli. Per questo aveva preferito
portare Leo
nell’ambulatorio privato, perché conosceva il suo
segreto.
“Coraggio,
spogliati” lo spronò mentre apriva i
vari stipetti e tirava fuori alcuni strumenti dandogli la schiena.
Dandogli volontariamente la schiena
in mondo che
potesse prendersi tutto il tempo del mondo senza essere troppo a
disagio.
Leo si
era spogliato molto volte davanti allo
specchio o alle ragazze, ma sempre con la luce spenta perché
al buio il dolore
non si vede e se non si vede si può fingere che non ci sia.
Solo due persone lo
avevano visto con la luce accesa, una gli aveva chiesto con gentilezza
di non
farlo più, l’altra era scappata via ferendolo.
Giocò
distrattamente con il bordo della maglietta
sudata prima di sedersi sul lettino e slacciarsi le scarpe con
lentezza, disfò
le ciocche e le scalzò, poi tolse i calzini bianchi restando
con i piedi nudi.
Li fece dondolare come un bambino imbronciato leggermente ingobbito
studiando
di sottecchi le spalle della signora Jackson, poi serrò gli
occhi e afferrò i
bordi della maglietta. La tolse con un gesto secco e la
buttò per terra
dispettoso.
“Anche
i calzoncini?” domandò fissando ostinatamente
le lampade in neon sul soffitto.
“Non
occorre, vai pure e dimmi tutto” lo
rassicurò.
Lui
annuì anche se non poteva vederlo e scese dal
lettino dirigendosi verso la bilancia, attese che i numeri smettessero
di
vorticare poi riferì il risultato alla donna che lo
segnò con attenzione. Si
girò a guardarlo solo quando Leo era tornato a sedersi sul
lettino, dondolava
ancora le gambe e la guardava con un misto di aspettativa e senso di
colpa
perfettamente leggibile sul suo viso.
Leo
Valdez aveva un corpo magrolino, il torace era
sudato per l’attività fisica appena compiuta e
ossuto, si potevano intravedere
gli addominali e il contorno di qualche altro muscolo ma non era
particolarmente possente da quel punto di vista. Gli occhi apprensivi
di Sally
si soffermarono su ogni cicatrice o bruciatura che riempiva il suo
torace, sembrava
un quadro pieno di schizzi rossi violenti, lui continuava a spiarla in
attesa
di una reazione di qualche tipo ma come al solito la donna si
limitò a
sospirare, prendere lo stetoscopio e andargli alle spalle per
appoggiarlo sulla
sua schiena. Quello era l’unico punto del ragazzo libero di
ferite, se non una
spalla leggermente ustionata, perché lì con le
mani non ci arrivava.
La carne
era rovinata in più punti, la pelle
bianca delle cicatrici più vecchie spiccava in rilievo sulla
pelle leggermente
scura e le croste di sangue rappreso verranno sbriciolate quando il
prurito
diventerà troppo forte. Le ferite più profonde
erano chiuse male ed erano
slabbrate, rosso scuro, pronte a riaprirsi per vomitare sofferenza.
Alcune
cicatrici erano metodiche, in alcuni punti erano perfettamente
parallele come
se avesse preso le misure con il righello, strisci rossi e lunghi,
quelle più
profonde erano più larghe con i contorni rosa acceso dove la
cute si era
irritata.
In altri
punti erano irrazionali come se il dolore
fosse stato improvvisamente troppo forte per poterlo ordinare in
qualche modo,
andavano in tutte le direzioni, si sovrapponevano e dove i due tagli si
incontravano a vicenda si erano aperti buchi rossi. Faceva male anche
solo
guardarle.
Sally
posò il dito su una recente, leggermente
frastagliata come se la lama si fosse incastrata, e ne seguì
la breve
lunghezza. Leo sobbalzò, il suo cuore nello strumento
accelerò. Leo non stava
quasi mai in silenzio, aveva sempre una battuta pronta per schernirsi,
per
sdrammatizzare o minimizzare la situazione ma in quel momento restava
zitto
sentendo lo sguardo della donna bruciare ogni angolo della sua carne
più
dolorosamente di quanto potesse fare l’accendino che teneva
sempre in tasca.
“Credevo
non l’avresti fatto più” disse alla fine
quando tolse lo stetoscopio e tornò a metterlo via.
“Avevo
detto che ci avrei dato un taglio”
e rise malizioso ma con gli
occhi vuoti. Dare un taglio
all’autolesionismo, ahaha. Capito il gioco di parole?
Non è
divertente, Valdez.
“Parlo
sul serio” disse lei senza risultare
brusca, solo preoccupata come dovrebbe esserlo una mamma quando il
proprio
figlio ha quasi fatto un incidente con la macchina.
Leo
avrebbe voluto dire che non è una cosa che può
fare e basta, avrebbe potuto
provarci ma non era una cosa che poteva garantire poi tanto. Si cresce
convinti
che ci sia il bianco e il nero, il bene che combatte sempre il male. Il
buono è
un eroe che brandisce spade lucenti contro le forze delle tenebre che
cercano
di soggiogare il mondo con la loro oscurità, tutti i bambini
vogliono essere un
eroe. Lo stesso valeva per Leo che in fondo nonostante i sedici anni
era ancora
un bambino che voleva combattere i cattivi e permettere al bene di
trionfare.
Ma quando il male viene da dentro di te come fai a combatterlo?
La prima
volta che la signora Jackson aveva visto
tutti i lividi, le ustioni e le cicatrici preoccupata aveva chiesto chi
fosse
stato a picchiarlo. Aveva già in testa una mirabolante
storia di lui che veniva
bloccato in un vicolo cieco da teppistelli di strada armati di coltelli
alti
due metri ma poi aveva soltanto scrollato le spalle con un sorriso
impertinente. “Me stesso”.
Per un
breve attimo aveva temuto che la donna
potesse chiamare qualcuno, il direttore, un insegnante o la psicologa
per
gestire la situazione; invece era stata zitta a fissarlo critica prima
di
iniziare a disinfettare tutte le ferite e ricucire le più
gravi. Non era una
vera dottoressa, ma ne sapeva abbastanza da poter stare
nell’infermeria a
sistemare lesioni del genere.
“Perché?”
aveva chiesto come se bastasse solo
quello a far tornare il corpo del ragazzo pulito come una tela bianca,
non
aveva risposto. Occorre davvero un perché per spiegare tutto
quello? Leo
credeva di no.
“Forza
e coraggio” la voce di Sally eruppe
cristallina nell’aria spezzando la tensione “Se
facciamo veloce riuscirai a
partecipare senza problemi all’ultimo corso della
giornata”
**
Calypso
non voleva essere lì. Né nel corso né
nella scuola né in quella stato a dirla tutta, al momento il
suo più grande
desiderio era rubare le chiavi della macchina di qualcuno e scappare
via, poco
importava se non sapeva neppure guidare. Al massimo si sarebbe messa a
correre,
ecco correre era una cosa buona: avrebbe perso calorie nel farlo.
Con il
meno appoggiato sul palmo della mano
lanciò uno sguardo fuori dalle grandi vetrate dove i raggi
del sole filtravano
fra le foglie di un melo. L’insegnante era entrato da poco ma
aveva già preso a
parlare.
Corso di
pasticceria, il luogo dove le avrebbe
insegnato come costruire torte ripiene di calorie che avrebbe assunto
anche
solo guardandole.
Sì,
Calypso in quel momento voleva suicidarsi
sbattendo ripetutamente la testa sul tavolo. Ne aveva scelto uno vicino
alle
grandi vetrate che ornavano un lato della stana-cucina che gli
aspiranti cuochi
– con i quali lei non voleva avere nulla a che fare
– occupavano per i loro
grassi e calorici lavori; era in fondo, lontano il più
possibile
dall’insegnante e la grande lavagna alle sue spalle e aveva
accuratamente
guardato male chiunque aveva tentato di sedersi vicino a lei per nulla
bendisposta verso l’umanità. Sul ripiano da lavoro
era stata adibita una
piccola cucina con tanto di fornelletti elettrici, lavandino, pentole e
altri
strani arnesi. Calypso non aveva mai cucinato in vita sua, quello era
un lavoro
che aspettava ai servitori e sua madre non le aveva mai chiesto di
preparare
una torta insieme a lei. Figuriamoci, la signora Nightshade che si
sporca le
mani con la ferina e il tuorlo dell’uovo è
credibile quanto un asino volante.
“Oggi
è il primo giorno del corso estivo e tra
noi abbiamo molte facce nuove” diceva intanto il piccolo
insegnato dalla pelata
lucida e una voce stridula “Sono felice di vedervi qui nel
nostro corso, spero
possiate trovarvi a vostro agio e...”
Blablabla. Non
c’era un modo per spegnerlo? In un momento
di esasperazione acuta sprofondò con la testa fra le braccia
sul tavolo
serrando decisa gli occhi sperando che con la vista se ne andasse anche
il
senso dell’udito. Purtroppo
nell’oscurità poteva sentire chiaramente ogni
rumore così oltre a quella vocina stridula
percepì anche il cigolio della porta
che si apriva, qualche passo e il tonfo della porta che si richiudeva
secca.
“Signor
Valdez!” interruppe l’insegnante la sua
tiritera e Calypso alzò di poco la testa dalle braccia
giusto per sbirciare con
un occhio il ragazzo ricciuto con una mise sportiva e sudata
sull’uscio.
“Mi
scusi, capitano” sorrise rilassato il
sedicenne con un sorriso sbruffone “Ho avuto qualche
contrattempo. Sa, c’era
questa bella fanciulla che non trovava la strada per la sua prossima
aula e io
non potevo venire a meno dei miei doveri da cavaliere così
l’ho coraggiosamente
scortata. Come dire, era così desiderosa di ringraziarmi che
non potevo fare
altrimenti, ma sa: non mi aspettavo un tale ardore, aha-ha”
e per spiegare ancora meglio quello che aveva lasciato
sottointeso nell’ultima frase fece ondeggiare oscenamente il
bacino e alzò
maliziosamente le sopracciglia. “Ha presente,
prof?” aggiunse facendo scoppiare
a ridere alcune delle persone nella classe. Calypso si
limitò a nascondere la
testa fra le braccia nuovamente.
“Tollero
questo ritardo e la vostra indecenza
soltanto per esasperazione. Ma la prossima volta ti mando a pulire le
cucine,
sono stato chiaro?”
“Agli
ordine Capo-Chef!”
L’uomo
pelato borbottò altre parole che non capì,
poi aggiunse. “Va a sederti nel posto libero. Quello
là in fondo”
Ci mise
qualche secondo a capire a quale posto si
riferiva, precisamente quando sentì qualcuno scostare lo
sgabello girevole
accanto a lei. Alzò di scatto la testa trovando il volto
sorridente di Leo
vicino.
“Ma
salve, Raggio di Sole!”
Gli
scoccò un un’occhiata malevola rizzando la
schiena e allontanando un poco la sedia trascinandola sul pavimento.
“Vedo
che come tuo solito sprizzi gioia da ogni poro
alla mia vista. Mi raccomando, tutto questo entusiasmo potrebbe
lasciarmi
ustionato. Sei così amichevole con tutti o è uno
speciale trattamento che
elargisci solo a me? Tranquilla, non sono un tipo geloso. Condivido
volentieri
le mie gioie con altri più sfortunati”
sproloquiò con sentito sarcasmo.
“Se
il signor Valdez ha finito di socializzare”
lo interruppe dal suo monologo la vocetta dell’insegnante che
per tutto il
tempo lo aveva fissato con sguardo rassegnato “Stavo appunto
dando le
indicazioni per il lavoro di oggi”.
“Si
figuri, nessun disturbo” lo rassicurò Leo
alzando una mano come se lo stesse benedendo “Vada avanti e
illumini il mondo
con il suo verbo”.
L’ometto
roteò gli occhi, poi riprese a parlare
da dove era stato interrotto. “Essendo la prima lezione non
ho intenzione di
darvi incarichi troppo difficili. Anzi, vi chiedo di scegliere un dolce
a
vostra scelta da presentare alla classe. Potrete scegliere voi,
purché sia un
dolce!” li guardò severo, poi sospirò
solenne “ Lavorerete con il compagno che
avete al vostro fianco e avete tempo fino alla fine della lezione. Mi
raccomando: non avvelenate nessuno!” chissà
perché ma l’ultima raccomandazione
sembrava essere rivolta proprio a Valdez. Il quale con un sorriso
preoccupante
–uno di quelli che ti suggerisce di non lasciare a portata
qualcosa di
infiammabile a un piromane, per intenderci—fece ruotare lo
sgabello per
guardarla senza dover girare la testa e disse con sentito trasporto.
“Compagna”.
Calypso
si limitò a fare un verso di disappunto,
ormai il suo odio per quel posto era cresciuto a livello esponenziale. Il ragazzo sorrise come se
dalle sue labbra
fosse uscito un singulto di gioia che di disgusto, poi si fece serio.
Allegramente serio, ma comunque era già un miglioramento
rispetto prima.
“Ok,
bisogna scegliere qualcosa di fatto bene”
disse come se stesse progettando delle strategia di guerra.
“Non possiamo
scegliere un dolce a caso, e non dobbiamo fare nemmeno qualcosa di
troppo
semplice. Dobbiamo vincere questa competizione”
“Non
sapevo fosse una gara” aggrottò la fronte
confusa.
“Tutto
in questa vita è una gara” annunciò
solenne “Una gara di vita e morte”
“Smettila
di scherzare” si accigliò seccata, se
Leo aveva contato bene lei era la decima persona che glielo diceva nel
giro di
una giornata.
“Congratulazione,
hai appena vinto un premio!” le
informò allegro, poi si toccò con un dito la
punta del naso pensoso. “Dunque,
tu sei vegetariana... Dobbiamo fare un dolce vegano”
annuì come se avesse
trovato la soluzione e iniziò a sfogliare il ricettario di
dolci appoggiato sul
ripiano da lavoro. Calypso non lo aveva nemmeno visto.
“Ma
vegani e vegetariani non sono due cose
diverse?” chiese confusa.
“Ehi,
sono lo stesso della stessa razza”
fischiettò mentre voltava le varie pagine di buon umore. Si
perse a fissargli i
ciuffi più corti che si arricciavano sulla base della nuca.
“Torta
vegana ai frutti rossi” lesse improvvisamente con
tono esaltato “Questa qui
mi ispira, tu che ne dici?” strinse la copertina fra le dita
mettendo il segno
“Ehm...”
“Perfetto”
disse senza darle tempo materiale per
ribattere e lesse gli ingredienti, poi annuì fra
sé “Dovremmo avere tutto nella
dispensa. Aspetta qui” e si alzò senza lasciarle
ancora una volta la
possibilità di protestare. Sbuffò scocciata,
aveva anche portato il ricettario
con sé quindi non aveva assolutamente nulla da fare.
Odiava
quel corso e ancora di più odiava
quell’omuncolo maleducato!
Quando
Leo fu di ritorno dispose con ordine
maniacale ogni ingrediente sul ripiano, continuava a fischiettare la
stessa
melodia di poco prima e aveva lo sguardo acceso di aspettativa. Doveva
piacergli molto cucinare, considerò.
“Ok,
prima cosa: mani” disse e le mise sul
ripiano con i palmi rivolti verso l’alto in bella mostra,
Calypso lo imitò
velocemente e Leo le studiò con moderata
curiosità. Se le era aspettate lisce
delicate come quelle di una nobile principessa invece erano un poco
callose e
con qualche piccola vescica e aveva le unghie un po’ sporche
di terra umida.
Non che lui potesse vantarsi di avere mani migliori, erano callose con
piccoli
taglietti sui polpastrelli e molto, ma molto sporche. In fondo aveva
avuto
anche il corso di meccanica quella mattina.
“Ok,
bisogna lavarle!” disse contento come un
bambino e aprì il rubinetto per sciacquarsele. Calypso lo
imitò con la testa
inclinata leggermente di lato per la curiosità, aveva legato
i capelli chiari
indietro in una elegante coda di cavallo che faceva risaltare i suoi
occhi a
mandarlo come se fossero ancora più grandi, sottostare al
suo sguardo lo
metteva un poco in soggezione. Sì,
Calypso era davvero carina, peccato avesse sempre
quell’espressione schifata
quando lo guardava.
Quando
le mani furono linde e pulite si mise
subito a dare ordini. “Allora, sai prepara la confettura di
bacche di goji?”
chiese studiando la ricetta.
“Bacche
di cosa?” domandò confusa mentre si
asciugava le lunghe dita.
“Uhm,
fa niente. Allora, tu devi fare questo:
prima metti i frutti rossi dentro dell’acqua tiepida
così li ammorbidiamo e poi
sciogli lo smalto dei mais mettendoli in bagnomaria finché
non sono ben
morbidi. Aspetta” fu colto da un dubbio atroce “Sai
cosa vuol dire bagnomaria,
vero?”
Calypso
gli rivolse un’occhiataccia. “Mi hai
presa per stupida?”
“No,
no” assicurò con un sorrisetto. “Bene,
al
lavoro” annunciò facendo il gesto di rimboccarsi
le maniche. Calypso era una
buona aiutate, capiva tutte le direttive e dopo un po’
iniziò a seguire la
ricetta senza che le spiegasse ogni volta cosa fare, era precisa e
veloce.
Peccato fosse così silenziosa e continuasse a guardarlo male
di tanto in tanto,
specialmente quando le rivolgeva qualche battutina per far avviare una
conversazione. Fischiettò un altro motivetto mentre
mescolava energeticamente
l’impasto dentro la ciotola e quando fu ben amalgamato fece
aggiungere da
Calypso il resto degli ingredienti.
Una
volta finito il tutto versarono l’impasto in
una teglia circolare ricoperta da carna da forno e poi la infornarono
facendo
attenzione a non farla cadere. Leo inserì una temperatura
statica di
centosessanta gradi.
“Fatto.
Ora dobbiamo solo aspettare quaranta
minuti” la informò totalmente rilassato. Con le
dita tamburellò sul tavolo ma a
un ritmo diverso da quello che stava fischiettando, erano dei battiti
precisi
come se stesse scandendo delle lettere. Quando era piccola sua madre
gli aveva
insegnato il codice morse, cose semplici per comunicare, era tipo il
loro
linguaggio segreto; Leo lo usava ancora ticchettando di tanto in tanto
“I love you”
come se sua madre potesse
ancora sentirlo. Pensare a sua madre fece scivolare un’ombra
sul suo viso e per
distrarsi tirò fuori l’accendino dalla tasche dei
calzoncini iniziando a far
scattare distrattamente poche scintille mentre Calypso iniziava a
ripulire il
ripiano di lavoro. Attirata dallo sferragliare dello scatto di
fermò a fissare
cosa stesse facendo, il suo sguardo corrucciato sembrò
essere catturato
dall’oggetto, in effetti era lo stesso accendino che aveva
usato la sera prima
sul tetto.
“Che
cosa ci facevi ieri sera lì?” gli
domandò
infatti.
“Te
lo ho detto: segreto” ripeté usando lo stesso
tono misterioso e fece scattare la fiamma dell’accendino
ridacchiando. Calypso
adesso lo stava guardando in cerca di un contatto diretto con i suoi
occhi,
come se volesse usarli per spiargli dentro l’anima. La cosa
lo mise a disagio.
“Che
fai?” domandò.
Lei
continuò a fissarlo penetrante per un altro
secondo, prima di scuotere la testa e volgere lo sguardo dalla parte
opposta.
Gli venne in mente il momento in cui si erano ritrovati vicinissimi e
con la
fiamma degli accendini a raschiare i loro volti, era stata una cosa
strana come
se in quel momento avesse davanti una ragazza diversa da Calypso.
L’idea lo
turbò allora mise le mani dentro le tasche dei calzoni
iniziando a tirare fuori
vite e bulloni, le dita si muovevano da sole in automatico mentre lui
si
lasciava trasportare dai suoi pensieri.
Il timer
del forno squittì un secondo dopo che
l’insegnante aveva dato lo stop. Velocemente tirarono fuori
la teglia armati di
guanti da cucina e l’appoggiarono sul bancone da lavoro
perfettamente pulito.
L’insegnante
decise che ad assaggiarli per primi
dovessero essere i creatori dei dolci, probabilmente temeva davvero una
morte
per avvelenamento; Leo preso un lungo coltello e appoggiò la
punta sulla torta,
aveva un colore caldo e il guscio leggermente screpolato, alcuni dei
frutti
rosso che avevano inserito si notavano. La ragazza fece un sorriso
educato e
scosse la testa. “No, per me niente. Grazie”
Alzò
un sopracciglio scettico. “Andiamo,
l’abbiamo fatta assieme” cercò di
convincerla “E’ la nostra torta.” E per
dimostrare di quanto fosse fiero di averla fatta si ritagliò
una fetta enorme.
“Non
vorrei rovinarmi l’appetito” mormorò.
Quell’improvvisa inclinazione educata nella sua voce metteva
i brividi a Leo,
era fintissima e inquietante.
“Una
fetta non ha mai ucciso nessuno” e la guardò
con tanto d’occhi “Andiamo, non ti convincono
nemmeno i miei occhioni color
caffè?” e per amplificare la cosa
sbatté ripetutamente le ciglia. Sembrava che
qualcosa gli fosse scivolato nell’occhio però
ottenne il risultato di farla
ridere; soddisfatto ritagliò una fetta fina dalla torta e
gliela porse con un
sorriso sincero.
“Dai
Raggio di Sole, con questa non ti rovinerai
l’appetito”.
Calypso
abbassò lo sguardo sulla piccola fetta,
attraverso le lunghe ciglia riusciva a intravedere uno sguardo
colpevole mentre
l’afferrava con le dita titubante.
“Me
lo prometti?” tentò di scherzare anche se la
voce le tremava leggermente.
Leo
inclinò la testa chiedendosi che cosa non
andasse in quella ragazza ma annuì con un sorriso convinto.
“Ti prometto anche
la luna” fischiettò. “Non ti rovinerai
all’appetito. Questa sera potrai
mangiare la tua erbivora cena in tranquillità”.
Eppure,
qualche ora più tardi, Leo non la vide
nella mensa, nemmeno quando setacciò l’intera
stanza con lo sguardo. A cena non
c’era nessuna traccia di Calypso.
Chiedo
venia per il mio ritardo di un giorno T_T
ma ieri non mi ero resa conto che fosse sabato, tutta colpa
dell’estate! Ma
eccolo qui, prometto di essere più puntuale in futuro.
Comunque,
piccola parentesi doverosa.
Autolesionismo.
Già. Come i due di voi che hanno
recensito avevano supposto – credo. Non sprecherò
parole vuote perché quello
che avevo da dire lo ha già fatto Leo, spero di non aver
urtato la sensibilità
di nessuno trattando la cosa in maniera così... semplice? Ma
in verità alla
fine è una cosa semplice. Sicuramente Leo risulta oltremodo
OOC con questo ma
spero di averlo reso comunque in un modo abbastanza in linea con il
personaggio, non vorrei renderlo troppo una forzatura.
E
niente, questa è la realtà che ci piaccia o
meno. A me non piace e credo nemmeno a voi.
Lasciando
da parte argomenti depressivi....
Finalmente
è comparso Will e ha interagito con Nico! Lo so, non
è molto ma a differenza di
un certo scrittore non voglio affrettare le cose (Sì, Rick,
sto parlando con
te). In futuro ci saranno molti sviluppi tra i due, già nel
prossimo capitolo.
Non vedo l’ora di scriverlo, penso che il prossimo sia uno
dei miei capitoli
preferiti *^*
La
ricetta usata da Leo e Calypso è questa:
http://www.vegolosi.it/ricette/torta-vegana-ai-frutti-rossi/
Ho visto
che in parecchi state seguendo la
storia, ma allora perché le recensioni sono così
poche? Dai, dai! Fatevi
sentire e fatemi felice. Ho un sacco di biscotti e abbraccia virtuali
per voi
c:
A presto,
Hatta.
|
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Capitolo 5 *** 46.6 Kg ***
Attenzione! La storia seguente presenta
tematiche delicate. Vorrei precisare che
non promuovo nessun tipo di disordine alimentare. Pertanto, se si
è facilmente
influenzabile sconsiglio la lettura, non voglio avervi nella coscienza.
IV
Quarantaseipuntosei
**
La prima
settimana al College Olympus passò velocemente e senza
problemi, il ritmo di
quella nuova routine si adeguò subito a quello di Calypso
come una seconda
pelle. Ormai il dirigersi ai corsi, alla mensa o ai punti di ritrovo
era
diventato una cosa normale. Le sembrava di vivere in
quell’immensa scuola da
sempre e così come si era abituata ai nuovi orari si era
abituata anche ai
nuovi amici e alle nuove bugie che ogni giorno inventava.
L’unico
lato negativo della faccenda consisteva nel suo peso, aveva
sì un numero
soddisfacente e non era ingrassata, ma non era nemmeno riuscita a
dimagrire di
più. La colpa era sicurissima appartenere a Leo Valdez che in quella lunga
settimana aveva
preso il vizio di venirla a prendere la maggior parte delle volte in
camera per
portarla alla mensa, oppure compariva sempre quando cercava di saltare
i pasti
senza essere notata. Purtroppo non era mai riuscita a trovare una scusa
abbastanza convincente per scollarselo di dosso senza fargli venire dei
sospetti. Era sicurissima che in realtà lui non sapesse il
vero motivo per cui
non si presentasse a volte ai pasti, lo capiva dal modo in cui non la guardava.
Ma
doveva
stare attenta.
In ogni
caso, il week-end arrivò senza intoppi e senza nessuna
potenziale minaccia,
anche la psicologa non s’era vista, probabilmente volevano
lasciarle il tempo
per abituarsi. Il sabato avevano corsi solo la mattina ed era felice di
prendersi un pomeriggio tutto per sé. Decise di scendere in
giardino a leggere
e godersi l’ombra di un melo, guardò le copertine
dei suoi libri e alla fine
scelse qualcosa di leggero, una piccola storia d’amore che le
avrebbe permesso
di riposare per un po’. Con Orgoglio
e
Pregiudizio sottobraccio e un piccolo vestitino estivo color
crema scese le
scale verso il giardino, poche nuvole bianche macchiavano il cielo di
un blu
acceso.
Il
giardino
era già stato occupato da alcuni ragazzi che giocavano a
baseball con dei
cappelli a frontino calati sul viso, tra di essi riconobbe Percy e
ricordò di
come la mattina a colazione avessero parlato di una sfida che volevano
fare con
dei certi fratelli Stoll.
Si
sedette
sull’erba fresca sistemando la gonna attorno a sé,
il libro della Austen al
sicuro sul grembo e guardò distrattamente i ragazzi correre
per prendere tutte
le basi. Non ne sapeva molto di baseball, suo padre considerava quello
e la
maggior parte degli sport esercizi legati alla plebaglia, esercizi che
la gente
del loro rango poteva solo disprezzare. L’unico sport che
andasse bene a suo
padre in effetti era la caccia, o comunque cose più nobili
come la danza e
l’equitazione.
Subito
si
immerse nella lettura dimenticando i ragazzi che correvano poco
distante, le
sue orecchie si fecero sorde alle loro grida esaltate e tutto il suo
essere si
concentrò su quelle piccole parole d’inchiostro e
sul frusciare delle pagine
quando le sfogliava rapita.
È
verità universalmente riconosciuta che uno scapolo
in possesso di un solido patrimonio debba essere in cerca di moglie, lesse il
famoso incipit. Sicuramente era una verità riconosciuta da
suo padre visto il
suo modo di valutare i rampolli dell’alta società;
forse era quello il motivo
per cui amava quel libro. Jane Austen non era una delle sua autrici
preferite
ma aveva un suo modo semplice e spontaneo di descrivere un luogo o un
semplice
fatto, leggere le sue parole era molto piacevole e scorrevole.
Certamente
desiderava con tutta sé stesse avere un padre simpatico e
amorevole come il
signor Bennet.
Era
proprio
arrivata al punto in cui faceva la sua famigerata comparsa George
Wickham e le
sue odiose bugie sul conto del signor Darcy quando Hazel la interruppe
dalla
lettura salutandola.
“Scusami,
credevo stessi guardando la partita. Non credevo leggessi”
disse la più piccola
notando il libro che teneva sul grembo.
“Non
importa” l’assicurò gentile.
“Come mai qui?”
“Faccio
il
tifo per i nostri ragazzi” sorrise “Posso sedermi
con te?”
Annuì
volentieri. Con Hazel frequentava il corso di botanica e si era
facilmente
affezionata ai suoi modi gentili e delicati, in confronto agli altri
suoi amici
lei e Frank erano due cose a parte, calmi e riflessivi e meno
scalmanati. Stare
vicino a loro era in qualche modo rassicurante.
“Oh,
leggevi orgoglio e pregiudizio!” la distrasse sbirciando la
copertina, poi
nascose un piccolo sorriso con la mano “In effetti sei il
tipo”
“Cosa
intendi dire?” le domandò indecisa se si trattasse
di un complimento o un
insulto.
“Che
sembri
sbucata fuori dalle pagine di un romanzo della Austen” si
spiegò meglio “Hai un
modo di essere così delicato e discreto da appartenere ad un
altro tempo”.
Senza
rendersene conto Hazel aveva usato una frase che calzava a pennello con
sé
stessa perché in effetti la riccia non sembrava affatto una
tipica ragazzina
d’oggigiorno, dentro i suoi occhi dorati c’era lo
stesso scintillio sbiadito
che potevi scrutare negli sguardi delle vecchie fotografie in bianco e
nero,
quelle foto vecchie che trovi un po’ per caso e che
guardandole ti ritrovi a
pensare a come le cose dovessero essere belle e semplici un tempo
nonostante
tutto e quindi una forte nostalgia per quell’epoca che non
hai nemmeno vissuto
ti assale. Stare con Hazel era più o meno la stessa cosa: ti
faceva provare una
forte e dolce nostalgia.
La
pallina
da baseball si schiantò contro l’albero al quale
erano appoggiate ed entrambe
le ragazze sussultarono colte alla sprovvista.
“Ehi,
scusate!” la voce era quella inconfondibilmente fastidiosa di
Leo e la sua
sagoma correva verso di loro con un sorriso birichino sulla faccia.
Hazel sospirò
divertita e prese la pallina appoggiata ora inerme sull’erba.
“Leo”
disse
solo come per rimproverarlo, poi con una mossa repentina
lanciò la palla
incriminata contro il ragazzo con uno scintillio di malizia negli occhi
gialli,
lui cercò di evitarla colpendola con la mazza ma la
mancò e venne colpito al
petto.
“Ouch!” si lamentò
tenendosi il punto
leso e piegandosi in avanti con melodrammaticità.
“Bel
tiro”
si congratulò Calypso.
“Già,
la
piccola Hazel ha una mira migliore del suo ragazzo. Dovresti giocare al
suo
posto, sai?” e mentre lo diceva si accucciò per
afferrare la palla.
Lei
alzò
gli occhi al cielo. “Dovresti smetterla di prenderlo in giro.
Non è
divertente”.
Con un
colpo del polso fece andare in aria la pallina e poi la
riafferrò al volo. “Dovrei,
ma diventa troppo adorabile e,
indovina un po’, è
divertente” poi si voltò verso Calypso, aveva un
cappello da fantino con la
frontiera leggermente storta e alcuni ricci incollati alla fronte per
colpa del
sudore. “Ma guarda un po’, la nostra principessa
nella torre si è presentata
tra noi mortali. Quale onore” è accennò
un buffonesco inchino.
Un moto
di
rabbia e insofferenza le salì al petto, era tutta la
settimana che il riccio la
perseguitava con certe uscite. Non si degnò nemmeno di
rispondere.
“Ci
farai
l’onore anche questa sera? Al pub?”
arricciò un angolo della bocca.
Sbatté
le
palpebre confusa. “Pub?” domandò.
Hazel
sorrise diplomaticamente. “Non ha pranzato con noi,
Leo” gli ricordò.
“Già,
giusto!” fece finta di ricordare improvvisamente
“La principessa non scende mai
alla mensa della plebaglia”.
Strinse
i
pugni. “Sono arrivata tardi
e ho dovuto
mettermi in un tavolo in fondo” mentì senza
esitazione.
“Ah
sì?
Perché non ti ho vista, sai?” non si
lasciò scoraggiare.
“Che
c’è,
mi spii?” scherzò sprezzante al che Leo si
accodò di buon grado. Abbassò
la testa con un sorrisetto malizioso mentre
cercava al contempo di fare uno sguardo penetrante e seducente fallendo
miseramente, sembrava che qualcosa gli fosse finito
nell’occhio.
“Anche
mentre dormi” sussurrò.
“Quello
che
Leo intendeva” sbottò Hazel impedendo a Calypso di
rispondere per le rime “E’
che giù al paese c’è
l’inaugurazione di un nuovo Pub”
“Ergo, festa gratis”
specificò Leo
appoggiando la mazza da baseball alla spalla mentre giocherellava con
la
pallina.
“E
noi
pensavamo di andarci” terminò Hazel.
Calypso
li
guardò poco convinta. “Pensavo che per uscire
dalla scuola servisse almeno una
Maglia Arancione”
“Infatti”
concordò Leo “E noi l’abbiamo”
e indicò con la punta della mazza una persona ai
lati del parco che controllava i ragazzi come se stesse prendendo la
mira. Lo
guardò, non sembrava avere molti anni più di loro
e aveva dei capelli biondi e
un’abbronzatura hawaiana che non passava di certo inosservata.
“Quello
è
Solace” ricordò Hazel a Calypso“il tipo
che ci ha visitate all’infermeria”
“Ah”
considerò “E come siete riusciti a
corromperlo?”
“Nico”
spiegò semplicemente Leo con una scrollata di spalle
“A quanto pare il biondino
prova un certo sentimento per Mister Morte”
“Sentimento?”
si informò Hazel “Che sentimento?”
Se
Calypso
aveva capito bene i due dovevano essere parenti, cugini o qualcosa del
genere;
la parentela a quanto pare era complicate e lei non aveva voluto
indagare.
Leo
annuì
solennemente. “Compassione”
A quella
parola il viso di entrambe le ragazze si oscurò, le labbra
di Hazel si
arricciarono verso il basso e guardò male Leo come se fosse
lui la causa di
quella pena.
“Andiamo”
continuò noncurante della reazione delle due ragazze
“Come puoi negare un
favore a un ragazzino con un passato così tragico? Sarebbe
meschino”
“Tu
sei
meschino” gli fece notare Hazel “Usare Nico e il
suo passato come scusa....”
“Ehi,
chi
ha menzionato quello? Nico è solo andato a chiedere per favore, il resto è venuto
da solo”
“E’
comunque una cosa spregevole” sentenziò
“Non puoi manovrare le persone in
questo modo. Non siamo macchine”
“Sono
secoli che non usciamo da questo posto” si
giustificò “Abbiamo bisogno di
uscire, di andarcene per una sera e dimenticare i nostri problemi.
Abbiamo
bisogno di vedere le persone normali, di
fingerci persone normali”
Hazel si
alzò in piedi stringendo i pugni. “Noi siamo
persone normali!”
Sul
volto
di Valdez comparve una smorfia che mal s’accostava al solito
sorriso
giocherellone. “Invece no, e lo sai anche tu”
Ma lei
scosse la testa chiudendo gli occhi, sembrava che non fosse la prima
volta che
discutevano su quell’argomento.
“Noi non
siamo sbagliati, Leo, siamo dei ragazzi normali”
guardò Calypso “Io torno in
stanza, fra un po’ iniziano i turni della doccia”
“Va
bene”
disse solo, si sentiva tanto un’estranea mentre la guardava
allontanarsi.
Leo
invece
rimase lì, con il suo solito sorriso sarcastico e la pallina
che faceva
rimbalzare a terra.
“E
tu?” le
chiese inarcando una sopracciglia “La pensi come
lei?”
Strinse
il
libricino fra le dita. “Non c’è nulla
che vada male in me” sancì decisa e senza
esitazione.
Leo si
limitò a ridere senza guardarla negli occhi,
afferrò la pallina al volo. “E’
esattamente quello che diciamo tutti alla psicologa, no?” e
detto questo rise
ancora, si voltò e tornò dai suoi compagni che
ancora lo aspettavano pazienti.
**
Annabeth
fissava il foglio bianco sulla scrivania con sguardo assente, teneva
ancora
stretta in pugno la gomma consumata. Nella stanza era sola, sia Piper
che Reyna
erano scese in giardino per dare man forte ai ragazzi contro gli Stoll
e
Clarissa; anche Annabeth amava il baseball, quando era piccola aveva
visto
molte partite ed era sempre solita indossare un cappello della sua
squadra
preferita che in quel momento stazionava abbandonato sul copriletto.
L’unica
cosa in disordine.
Guardando
la stanza della tre ragazze risultava semplicissimo tracciare una linea
immaginaria a sancire il confine fra la parte destinata a Piper e Reyna
e
quella invece utilizzata da Annabeth. La bionda utilizzava specialmente
la
parte vicino alla scrivania addossata alla finestra con il letto
singolo e in
quello spazio non una cosa –tranne il berretto, come
già detto – era fuori
posto. Il letto era fatto con le coperte ben stirate e prive di pieghe,
solo
una sveglia digitale semplicissima da un colore non troppo sgargiante
occupava
il comodino, i cassettini erano tutti chiusi e i libri o i vestiti al
loro
interno era piegati con cura e precisione. Sulla scrivania ogni cosa
era posta
in maniera funzionale, un portatile stava aperto perfettamente a
novanta gradi
in un angolo a portata ma comunque non occupava troppo spazio, le
matite
stavano poste in riga con la punta perfettamente temperata da quella
con il
tratto più fino a quello più grosso, i righelli
erano allineati a seconda della
grandezza e la lampada puntata sul foglio bianco che aveva posto
perfettamente
dritto.
Sbatté
le
palpebre e con la gomma riprese a cancellare sul foglio ogni traccia
appena
visibile dello schizzo che aveva fatto, poi prese una scopetta per
pulire la
scrivania e per terra da ogni residuo di gomma. Forse
la sua ossessione nel tenere ogni cosa
in ordine era maniacale, anzi, sicuramente lo era ma non poteva proprio
farne a
meno. La sua mente tendeva a riflettere l’ambiente che la
circondava, il
disordine equivaleva a un’accozzaglia rumorosa di pensieri
assolutamente
impossibile da decifrare che le causava una certa isteria, oltre che un
sostanzioso mal di testa. Al contrario, un luogo asettico e ordinato le
permetteva di analizzare le cose con calma e sicurezza mostrando una
mente
molto organizzata e intelligente.
Ad
Annabeth
piaceva migliorare e progettare palazzi, passava ora sui suoi album da
disegno
a calcolare, misurare e schizzare con fare professionale, era certa che
prima o
poi sarebbe riuscita a realizzare il suo sogno di diventare architetta.
Aveva
già progettato cinque migliorie per il college. Quel
pomeriggio era partita con
l’intenzione di riprodurre un arco di trionfo ma si era
presto accorta che
alcuni conti non tornavano minando la sicurezza della costruzione e
aveva
cancellato tutto presa da un attimo di panico. Gli attacchi di panico
erano
normalissimi per lei e potevano scatenarsi in qualsiasi momento per
qualsiasi
cosa, ma nonostante questo ormai era una vera esperta
nell’arginarli prima che
fosse troppo tardi, conosceva tutti i trucchi. In ogni caso, da quel
momento
non era più riuscita a ideare qualcosa, ogni volta che
qualche idea le veniva
in mente la cancellava subito dopo senza pietà
finché il foglio non tornava
bianco immacolato. Probabilmente Leo avrebbe trovato la soluzione, Leo
era
bravissimo con i conti e sapeva sempre trovare la soluzione ad ogni
problema,
la sua mente era un ingranaggio perfettamente oliato. Peccato non
funzionasse
allo stesso modo con le questioni umani, anzi ogni volta che si trovava
in una
situazione di empatia andava in tilt e fuggiva via. Oppure se ne usciva
con
battute idiote. No, Leo necessitava quanto Nico di una lezione sulla
questione.
Si
passò
una mano sulla fronte massaggiandosela, poi si alzò di colpo
dalla sedia
girevole e prese un profondo respiro contando fino a dieci. Fatto
questo prese
il cappello dal letto e lo rimise al suo posto dentro
l’armadio, anche lì i
vestiti erano disposti per colore e perfettamente in ordine. Quando
rinchiuse
le ante si sentì meglio, volendo avrebbe ordinato anche la
parte destinata a
Piper e Reyna ma ricordava ancora bene la reazione delle due ragazze
quando una
volta lo aveva fatto, meglio evitare. Reyna non era veramente un
problema, era
ordinato sommato tutto, ma Piper tendeva a dimenticare sempre le ante
degli
armadi aperti e a disseminare vestiti per tutta la sua parte di stanza,
era una
disordinata cronica.
In
realtà
Annabeth non sapeva esattamente da dove nascesse quel bisogno maniacale
di
ordine che esigeva la sua mente, secondo la psicologa Estia era il suo
unico
modo per mantenere un certo controllo sulla realtà,
probabilmente era per non
cadere nella stessa situazione di suo padre, un uomo brillante ma che
spesso
tendeva a perdere la presa sulla realtà confondendo presente
e passato. Il
disordine era confusione e irrazionalità, l’ordine
invece razionalità e
controllo.
Sistemò
la
matita al suo posto accanto alle altre, la guardò un pochino
e poi la riprese
insieme al temperino perché la punta si era consumato e non
andava bene.
Stonava con le altre.
Teneva
la
lampada spenta perché i raggi del sole illuminava
direttamente la scrivania
dalla finestra aperta, da lì poteva vedere uno sprazzo di
cielo celeste e
sentire gli schiamazzi dei ragazzi in giardino. Erano fastidiosi e la
deconcentravano. Sentì chiaramente un urlo di vittoria di
Percy e un sorriso
spontaneo le curvò le labbra. Percy non era solo il suo
ragazzo, era anche il
suo migliore amico e il suo rivale e la sua meta; un po’
tutto il suo mondo,
insomma. Quando anni fa l’aveva conosciuto lo
aveva trovato insopportabile, Percy era il disordine allo
stato pure,
non poteva essere controllato ed
era
irrazionale e infantile; le ricordava tanto il mare con le sue onde
impossibili
da ordinare, non poteva essere imbrigliato o catturato, si agitava, si
ribellava,
era libero e basta. Percy era testardo, si comportava sempre in maniera
stupida, non faceva mai quello che gli diceva e la prendeva sempre in
giro. Ma
era gentile e leale, la consolava sempre dopo uno dei suoi attacchi di
panico e
non si faceva scoraggiare dal suo bisogno maniacale di ordine.
Inevitabilmente,
erano diventati amici. Poi migliori amici. Alla fine si era accorta di
essersi
innamorata di lui e l’aveva baciato perché se
avesse aspettato lui a quell’ora
sarebbero stati ancora in quella imbarazzante situazione di stallo.
Percy era
una certezza, nonostante tutto.
Percy
non
aveva nulla di eccessivamente strano, frequentava il College Olympus
solo
perché la sua iperattività e insolenza lo avevano
fatto espellere parecchio
volte, una volta aveva pure distrutto una palestra e conoscendolo non
era
difficile crederci. Bastava pensare a tutti i guai che combinava
lì. In ogni
caso era liberissimo di andarsene almeno durante il periodo estivo, ma
lui
restava lì non perché fosse la scuola di suo
padre o perché ci lavorasse sua
madre.
Per lei.
D’altro
canto nemmeno Annabeth aveva chissà quale patologia che le
impediva di lasciare
la scuola in estate, gli attacchi di panico ormai sapeva gestirli
abbastanza
bene e la convivenza con Piper le avevano insegnato a sopportare il
disordine
altrui (almeno in una certa misura), semplicemente il College Olympus
era la
sua casa. Tornare in California da suo padre e dalla sua matrigna era
assolutamente fuori discussione, da tempo aveva smesso di etichettare
quel
posto come ‘casa’,
precisamente da
quando aveva sette anni.
Lanciò
un’occhiata distratta al giardino, un fascio di luce le
illuminava una parte di
viso e alcuni ciuffi biondi. Da lì poteva vedere i ragazzi
giocare, Leo stava
tornando proprio in quel momento dopo essersi allontanato brevemente
dal campo,
tutti lo aspettavano impazienti. Poco distanti altri ragazzi giocavano
a
pallacanestro o si riposavano sull’erba
Quella era la sua casa.
**
“Calypso!”
Il grido
di
Rachel attraversò le pareti sottili che dividevano la stanza
dal bagno
raggiungendo chiaramente le orecchie dell’interpellata, la
quale si prese un
secondo per respirare e passarsi una mano sul viso pallido e magro
prima di
dire:
“Ho
quasi
finito!”
Dall’altra
parte della porta si sentì un grugnito ma la castana non ci
fece troppo caso e
riprese sollecitamente a ripulire la doccia. Era una scena che si
ripeteva
quasi ogni sera. Passò la mano sul muro in mattonelle
chiare, poi nel ripiano
doccia; non era una cosa molto gradevole ma doveva farla se non voleva
attirare
domando indiscrete.
D’altronde,
ormai aveva iniziato a perdere fin troppi capelli.
**
Will si
chiedeva se avesse fatto la scelta giusta, ne aveva parlato anche con
la
signora Jackson per un suo parere anche perché non era del
tutto sicuro di
poter acconsentire ad una cosa del genere. In fondo era anche il nuovo
venuto,
davvero poteva prendersi la responsabilità di acconsentire e
accompagnare un
gruppo di scalmanati adolescenti in una gita fuori sede?
Be’,
tecnicamente stanno al paese. In un pub. Ma
comunque...
La
signora
Jackson non lo aveva rimproverato per la sua scelta, gli aveva solo
consigliato
di avvertire il vice-direttore e magari portare qualche altra Maglia
Arancione
con sé.
“Verrei
io
se non fossi già impegnata a sistemare le faccende per la
prossima settimana”
gli aveva detto, poi con cipiglio serio “Fa’
attenzione, però”
Lui era
scattato come un soldatino.
Anche
Chirone non aveva avuto nulla da ridire, gli aveva solo ripetuto di
fare
attenzione e di farli tornare tutti al College entro il coprifuoco, gli
aveva
anche detto quali Maglie Arancioni portare con sé.
Sarà
divertente, si disse
cercando di risultare il
più possibile convincente. Quando andava al liceo non era
mai stato dentro ai
pub di sera, a dir la verità non aveva mai attraversato la
fase di ribellione
adolescenziale. Era sempre stato un ottimo studente paziente e
comprensivo con
i propri compagni, nei primi anni era stato eletto
all’unanimità come
rappresentante di classe. I professori lo adoravano in ugual misura e
procedeva
un’esistenza placida e tranquilla. Almeno fino a quella cosa ma si rifiutava di accettare quel
periodo come una fase
dell’adolescenza, era stato qualcosa di più
complesso e particolare. Se non
fosse stato per quello, il suo ultimo anno di liceo lo avrebbe passato
allo
stesso modo dei precedenti: rappresentante di classe, ottimi voti e
buoni amici
con cui sorseggiare tazze di tè.
Il
tè,
l’unico che non lo avrebbe mai tradito.
Dopo
essersi fissato per buona mezzora allo specchio decise che tentare di
domare la
sua chioma bionda era pressappoco impossibile e indossò una
felpa azzurra che
faceva orribilmente a pugni con la sua maglia arancione. Ma
d’altro canto Will
non aveva mai avuto buon gusto in fatto di vestiti, suo padre glielo
ripeteva sempre.
Suo
padre,
Apollo, un quarantenne con una crisi di mezz’età
leggermente anticipata ancora
convinto di essere un ragazzo. Su certe cose era fantastico avere un
padre del
genere, come per i biglietti a tutti i concerti disponibili e
immaginabili; su altre
era leggermente imbarazzante, molto spesso Will si era ritrovato a
dover fare
la parte della persona responsabile e rimproverare il genitore per le
sue
bravate. Forse era per questo che tutti dicevano che era sempre
sembrato più
grande e maturo per la sua età. Pensare a suo padre gli fece
comparire una ruga
sulla fronte, esattamente nel punto in cui aveva aggrottato le
sopracciglia. Se
ben sapeva quell’estate aveva ben pensato di passarla in giro
per l’America in
un furgone con solo la chitarra. Sì, stava passando la sua
fase hippie.
Si
passò un
mano sul mento, quella sera era stranamente pensieroso. In
realtà era uno che
pensava sempre e troppo, spesso la cosa gli veniva rimproverata, ma
quando era
agitato diventava ancor più riflessivo quasi a voler
escludere il resto del
mondo rifugiandosi nella propria testa. Più che essere
agitato, si sentiva
vagamente ridicolo a dover controllare dei ragazzi che erano
pressoché suoi
coetanei.
Ma è
il mio dovere, punto e stop.
Insomma,
si
era già immaginato di dover avere compiti del genere, anche
se non si sentiva
propriamente come nelle sue fantasie. Non era affatto sicuro di
sé stesso,
tanto per cominciare. Per il resto, poteva aspettarsi con precisione
matematica
che qualcuno dei ragazzi sarebbe riuscito a fare qualche bravata sotto
il suo
naso. In particolare lo preoccupava quel Valdez, oltre al loro primo e
infelice
incontro aveva avuto molte altre occasioni per tastare la sua ironia
pungente e
a tratti offensiva. Lo rassicurava sapere che altre Magliette Arancioni
lo
avrebbero accompagnato.
Questa
è la prima e ultima volta che acconsento di
prima persona, si promise.
Poi, senza altri preamboli uscì dalla stanza
assegnategli.
Nell’atrio,
il punto di ritrovo, erano già presenti gruppi di ragazzi
che chiacchieravano
allegramente fra loro, alcuni anche vestiti molto bene.
Guardò l’orologio,
all’orario stabilito per andare al paese mancava poco meno di
cinque minuti e
quindi lanciò uno sguardo attorno per capire in quanti
sarebbero stati. In un
angolo vide Nico con uno sguardo omicida, strano visto che era stato
proprio
lui a proporre quella serata. Stava seduto in una panca vicino ai suoi
compagni
di stanza e altri amici ma non sembrava per nulla essere interessato
all’animata conversazione degli altri. Sembrava essere
lì contro la sua
volontà.
Uno
degli
uomini con la maglietta arancione lo guardò, poi indico il
proprio orologio sul
polso sillabando qualcosa con le labbra. Will annuì in
risposta, era quasi ora
di andare. Posò lo sguardo sugli ultimi ritardatari che
velocemente scendevano
le scale, poi fece un cenno agli altri adulti.
Nonostante
la situazione paradossale in cui si trovava non riuscì a non
provare una sorta
di soddisfazione interiore quando mosse dal suo ordine silenzioso le
Maglie
Arancioni avevano iniziato ad avvertire i ragazzi che si partiva.
Si
sentì
potente.
Calypso
non
era mai stata ad una vera festa, tutte quelle a cui aveva presenziato
si erano
svolte direttamente nella Villa Ogygia ed erano state sempre
organizzate dai
suoi genitori. In genere erano dei ricevimenti mirati per convincere
l’imprenditore Tizio o Caio che fosse ad entrare in affari
con la società ed
erano per questo sontuosi ed eleganti con i migliori vini e migliori
musicisti.
Ogni volta se ne stava in un angolo con un bicchiere di analcolico in
mano in
silenzi mentre l’ennesimo figlio dell’alta
società che le era stato presentato
enumerava i propri svariati pregi.
Motivo
per
cui aveva sempre immaginato le feste che frequentavano i ragazzi della
sua età
come enormi discoteche piene di luci colorate, foschia e musica
martellante. Una
sala bui illuminata
solo dalle luci psichedeliche dove si ballava e ci si ubriacava con
estrema
facilità. In certi libri che leggeva erano sempre
raffigurate in quel modo,
solitamente era sempre lì che la protagonista incoronava il
suo sogno d’amore.
Ecco, lei si era immaginata una cosa del genere.
Nulla di
più lontana dalla realtà.
Il pub
era
confortevole e dai colori caldi, la luce era soffusa ma rischiarava
bene il
luogo per nulla caotico. I tavoli erano quasi tutti riparati da dei
separé per
una migliore privacy ed erano stati ritagliati dal legno di pino. Il
bancone
era addossato un
parete piena di mensole
su cui erano disposti in ordine tutti gli alcolici, le etichette ben in
vista. Più
appartata c’era una stanza semicircolare dove si poteva
ballare e una band
locale suonava dal vivo ma a sentire gli altri era ancora troppo presto
perché
la gente si mettesse in pista.
“E
questo
avverrà quando noi dovremmo tornarcene al College”
ava aggiunto triste Rachel.
A quel punto Piper l’aveva guardata meglio in maniera
critica, poi aveva
sopraggiunto:
“E’
la luce
o i tuoi capelli non sono crespi?”
La rossa
fece un sorriso orgoglioso mostrando tutta la dentatura.
“E’ stata Calypso. O
meglio, Cal possiede una piccola industria di balsami per capelli di
ogni
genere!” spiegò “Ha anche tantissime
creme per il corpo e il viso”
“E
tu nei
hai approfittato” ironizzò Piper.
“Ma
certo,
guardate” e allungò il mento in direzione degli
altri “Le sue creme fanno
miracoli, in tre giorni mi è sparito George, il brufolo che
aveva sul mento”.
“Ave atque vele, George!”
proclamò
solennemente Leo alzando il menù “Propongo un
brindisi per la sua coraggiosa
morte.
Jason
storse il naso ma fu Reyna a prendere la parola al suo posto.
“Vale. Ave
atque vale², Valdez. Se vuoi usare il latino almeno
non dire
certi strafalcioni” lo corresse pedante, lui
sventolò la mano incurante.
“Sì,
sì.
L’importante è che arrivi il messaggio”
“Gli
adulti
ci stanno controllando” gli ricordò Annabeth,
stava comodamente seduta accanto
a Percy, spalla contro spalla “Non fare
stupidaggini” aggiunse.
A
Calypso
Annabeth non stava molto simpatica, nonostante avesse i capelli ricci
li teneva
sempre in ordine e vestiva in maniera impeccabile ma senza essere
appariscente,
tutto in lei era impeccabile in realtà, senza contare che
aveva della lunghe
gambe snelle. Per questo, e per essere la fidanzata di Percy, provava
sempre
forti fitte d’invidia e odio per lei.
“E
chi fa
mai stupidaggini” protestò aprendo il
menù e scorrendo con gli occhi vispi il
listino, la cosa bella era che per quella sera tutti i prezzi erano
dimezzati.
Hazel gli tirò dispettosa una ciocca di capelli ricci
facendogli comparire sul
volto una smorfia che era un misto tra l’offesa e il
divertita. Sembrava che il
piccolo diverbio avuto poche ore prima fosse completamente dimenticato.
“Voglio
una
pizza. Anche Frank vuole una pizza” disse il riccio alzando
finalmente gli
occhi dal menù.
L’interpellato
assunse un’espressione esasperata. “Abbiamo appena
finito di mangiare”
“E
adesso
ci vuole lo spuntino” continuò imperterrito
“Dai, bisogna farlo, lo spuntino.
Pizza, pizza, pizza. Raggio di Sole è
d’accordo”
Pizza.
Calorie. Grasso. Cicciona. “No” disse secca senza
aggiungere altro, preferì controllare
se servissero qualcosa di meno calorico.
“A
me la
pizza non dispiacerebbe” disse Percy mettendo con noncuranza
un braccio attorno
le spalle di Annabeth.
Leo
sorrise
e lo indicò. “L’Uomo Pesce
approva”
“Non
chiama...”
“Potremmo
prendere delle bruschette. Sono più leggere, vista
l’ora” lo interruppe Piper.
Continuarono
a discutere su cosa fosse meglio prendere o meno e finì per
annoiarsi a sentire
il loro battibeccare allegro, si appoggiò con il mento alla
mano pensando che
tanto qualsiasi cosa avesse preso lei non l’avrebbe mangiata.
Sembravano tutte
cose fin troppo caloriche. I rumori e le luci soffuse le stavano
facendo venire
una sorta di sonnolenza nonostante non fosse troppo tardi,
posò lo sguardo sul
volto di tutti i presenti studiandoli senza troppa partecipazione.
Anche Jason
era molto bello, aveva i lineamenti perfetti da principe azzurro ma
c’era
qualcosa nel suo sguardo che la lasciava un pochino perplessa. Gli
occhi
azzurri erano attenti e vigili, non calcolatori, questo no... ma
sembrava che
facessero fin troppa attenzione a ciò che li circondava,
come se controllassero
che tutto andasse bene. Anche i suoi movimenti erano controllati, come
se si
stesse muovendo in un mondo fatto di ceramica e lui temesse di rompere
tutto in
mille pezzi affilati come lame. Stava vicino a Piper e la guardava
attento come
se volesse assicurarsi che lei stesse davvero bene, gli stava vicino in
una
posizione di inconsapevole protezione. Allo stesso modo ogni tanto
spostava lo
sguardo dallo sua fidanzata per scandagliare gli altri assicurandosi
che tutto
stesse andando bene. Quando si posarono su di lei fece un timido
sorriso e
assentì con il capo. Non lo seppe precisamente
perché, forse voleva solo
rassicurarlo che tutto andava bene.
“Jason,
Jason” lo chiamò con voce lamentosa Leo e nel
mentre lo colpì alla testa con lo
spigolo del menù che teneva in mano. Il biondo distolse lo
sguardo da lei per
fissare offeso l’amico, nel mentre si portò anche
una mano sul punto leso.
Vedendo
di
avere la sua attenzione il messicano continuò: “Mi
vai a prendere un Jack Daniels?”
“Vacci
tu”
lo apostrofò, poi aggiunse “E non bere quella
robaccia”
Leo ignorò
spudoratamente l’ultima parte e spiegò
paziente. “Devo ricordarti che l’ultima volta che
ho chiesto da bere mi hanno
riso in faccio dicendomi che aveva quattordici anni?”
“E
hanno
fatto bene” sbottò Annabeth “Sei
minorenne”
“Ma
Jason
non sembra minorenne, a lui non faranno storie” e
appoggiò con fare amichevole
un gomito sulla spalla dell’amico il quale lo
guardò con aria di rimprovero.
“Non
ti
compererò dell’alcol illegalmente”
Leo
alzò
gli occhi al cielo sbuffando. “Giusto, dimenticavo di star
parlando con Mister
Legalità”
“Vado
io”
Reyna parlò ancor prima che Jason potesse illustrargli gli
svariati motivi per
cui bere alcool fosse dannoso per la salute, per carità non
che avesse poi
torto ma trovava il suo rigido regime da astemio esagerato.
“Qualche bicchiere
non ha mai fatto male” aggiunse con una scrollata di spalle.
“Peccato
che per Leo non sia quasi mai qualche bicchiere”
sospirò funesta Hazel ma
talmente piano che nessuno la sentì.
“Senti,
senti” la richiamò Percy con il listino aperto
“A me prenderesti un laguna
blu?”
Annabeth
sgranò gli occhi e gli mollò un colpetto sulla
spalla. “Percy!”
“E’
blu!”
si giustificò l’interpellato.
“Be’,
già
che ci siamo...” sbuffò una ciocca rossa di
capelli Rachel “io scelgo un
caipiroska. Sono maggiorenne, e ha un contenuto alcolico
minimo” aggiunse prevenendo
l’occhiataccia di qualche astemio.
“Io
voglio
una pepsi” disse Frank scatenando
l’ilarità del riccio.
“Ma
davvero?” ribatté sarcastico “Stiamo
ordinando alcolici e tu te ne esci con una
pepsi?” e riprese a ridere.
“Be’,
anche
io scelgo la pepsi” lo sfidò la piccola Hazel in
difesa del fidanzato “E’ un
problema, Valdez?” aggiunse minacciosa al che Leo
alzò le mani in segno di resa
senza non smettere prima di ridere.
“Tu
prendi
qualcosa, Cal?” lo ignorò allora la sua compagna
di stanza.
Scosse
la testa,
non era il caso di bere un tè verde così vicini
all’ora di coricarsi, la teina
le avrebbe resa difficile dormire. “Magari
dell’acqua” disse piano. Leo sbuffò
ancora ma ancora fu ignorato.
“Nico?”
Calypso
non
si era nemmeno resa conto della presenza dell’inquietante
ragazzino sempre
vestito di nero, eppure era lì in un angolo a guardarli come
se fossero la
causa di tutti i loro mali. A dir la verità quando
notò di essere fissato la
sua espressione si fece ancora più corrucciata.
“Una
tequila”
“No!” dissero perentori Jason,
Hazel,
Reyna e Percy come se fossero un’unica entità con
una tale forza che sembrava
si stessero opponendo a una scelta di vita e di morte.
“Allora
niente” sbuffò inacidito.
“Senti,
Reyna” la chiamò Piper agitando la mano per
distrarre gli altri dalle loro
intenzioni iper-protettive verso il più piccolo “A
me prenderesti questo
analcolico alla frutt— ”
“Eh,
calma!” la interruppe brusca l’altra ragazza con un
cenno della mano alzando
gli occhi al cielo “Per chi mi avete presa? Per una
cameriera?”
Frank da
bravo gentiluomo si alzò subito di scatto colpendo con un
ginocchio la tavola
come un soldatino e si offrì di accompagnarla farfugliando.
“Vengo
anch’io” s’apprestò a dire
Jason, evidentemente dovevano soffrire di quella
sindrome maschile che porta i ragazzi a fare le capriole mortali per
aiutare le
giovani fanciulle in difficoltà. Anche se, per amor del
vero, Reyna poteva
essere qualsiasi cosa tranne che una giovane fanciulla indifesa. Aveva
tratti
del viso affilati e pungenti, due occhi scuri che brillavano di
un’intelligenza
bellicosa e il suo corpo era alto e muscoloso, leggermente androgino ma
comunque con delle curve prettamente femminili. In sostanza, sembrava
la tipica
ragazza capacissima di mandare a tappeto un boxer senza battere ciglio.
Tutto,
dal suo portamento alla piega delle labbra, le conferiva forza e
sicurezza; la
sua espressione era quella di chi era abituata ad ottenere qualsiasi
cosa con
le sue sole forze.
“Annabeth,
tu prendi qualcosa?” chiese Piper decidendo di accompagnare
anche lei gli altri
al bancone. In fondo dovevano anche prendere una teglia di pizza e per
quanto
Frank e Jason fossero possenti senza un altro aiuto la cosa sarebbe
stata
alquanto complicata.
La
bionda
scosse la testa con un sorriso gentile. “No” poi
aggiunse: “divido l’acqua con
Calypso” al che le sorrise dall’altra parte del
tavolo.
La
Nightshade si sforzò di ricambiare il sorriso, anche se le
sembrava di aver
ingoiato un limone acido, e strinse le mani a pugno sotto la tavola.
“Un
brindisi per George, il brufolo scomparso” esclamò
Leo alzando il suo bicchiere
di Jack Daniels e al contempo staccando un morso di pizza. Il risultato
fu
quello di spandere metà contenuto del bicchiere sui jeans di
Jason e
sputacchiare qualche pezzo di pomodoro.
Nico, dal suo angolino, alzò gli occhi al
cielo, ma nessun altro parve
farci caso; tutti sembravano più impegnati a onorare la
scomparsa del brufolo
di Rachel.
E dopo si
lamentano se vengono considerati pazzi...
L’unica
che
sembrava possedere un baluardo di intelligenza e amor proprio era
Calypso,
constatò, che mentre tutti gli altri ridevano come cretini
inventandosi i
brindisi più assurdi si limitava a sorrisi timidi e sguardi
fugaci. Ma questo
dipendeva dal fatto che era nuova, ergo doveva ancora integrarsi bene
in quella
loro compagnia. Tempo due settimane e sarebbe diventata la migliore
amica di
Leo Valdez, era disposto a scommetterci sia le sue carte rare di
mitomagia che
l’ultimo episodio di Games of
Thrones.
E se tirava in ballo il Trono di Spade,
la cosa era seria. E sempre parlando della Serie Tv lui era
lì solo perché era
stato ricattato dai suoi amorevoli compagni di stanza: a quanto pare
Leo poteva
fargli saltare la connessione Wifi e impedirgli di guardare il nuovo
episodio.
Quindi tutti potevano anche smetterla di cercare di farlo intervenire
nella
serata, al massimo avrebbe potuto brindare alla sua voglia di vivere.
Oh, ma guarda:
non esiste.
“Calypso,
non prendi una fetta di pizza?” chiese Piper con voce
talmente squillante da
distrarlo dai suoi piani omicidi.
“No,
grazie” la risposta era stata invece detta con voce leggera e
quasi si era
persa nel brusio generale della stanza. Sicuramente Leo doveva
essersela persa
perché con la bocca piena staccò
un
trancio di pizza e la spiaccicò sulla bocca della ragazza
castana.
“Ma
certo
che la vuole!” esclamò con fare ovvio sotto lo
sguardo assassino di Calypso che
si puliva la bocca dal pomodoro “E se anche non la volesse,
ormai è troppo
tardi” aggiunse con una faccia da schiaffi e Nico dovette
rivedere la sua
scommessa.
Ok, forse fra un
mese diventeranno migliori amici. E
se nel frattempo Leo maturerà.
“Non
fare
quella faccia, Cal” disse Percy in difesa del riccio
“E’ strano che tu non
voglia nemmeno una fetta” e per rimostranza di ciò
se ne prese una.
Lo
sguardo
della ragazza si fece lentamente incerto e poi titubante, infine parve
decidersi e timidamente, come se sperasse che qualcuno la fermasse,
allungò una
mano a prendere la fetta più piccola. La masticò
nel tempo in cui una persona
normale ne ingoia tre, ma poi se ne prese un’altra con una
strana espressione
indecifrabile.
Nessuno,
a
parte lui, sembrò farci caso. In realtà aveva la
sua teoria a riguardo perché
Leo era un pettegole e gli aveva raccontato di tutte le volte che non
la
vedevano alle mensa. Chiunque avrebbe fatto due più due. O
forse, era lui
troppo sospettoso.
“Che gente patetica” la voce
infastidita
di Minosse lo distrasse dalle sue elucubrazioni, il fantasma stava
cercando un
punto in disparte a abbastanza vicino a Nico, ma la sala era talmente
affollata
che le persone continuavano ad attraversarlo come se niente fosse. Il corvino si
limitò ad annuire, in
circostanze normali gli avrebbe pure rivolto la parola ma
c’era troppa gente e
non voleva che nel volto degli altri comparisse quello sguardo tra il
condiscendente e l’esasperato.
“A volte non capisco come tu possa
considerare queste persone amiche”
continuò sprezzante lo spettro “Non
fanno altro che trascinarsi il
situazioni che detesti”
Distolse
lo
sguardo puntandolo sul legno del tavolo, per quanto le parole di
Minosse
risultassero cattive era lui stesso a pensarle la maggior parte delle
volte.
Anche se si rendeva conto che loro si comportavano così solo
per aiutarlo.
“Tu
non hai
bisogno di aiuto” gli ricordò Minosse indovinando
i suoi pensieri “Sei solo più
sensibile”
I
dottori
invece dicevano che era solo traumatizzato e per questo vedeva la morte
ovunque; ma secondo Nico non era lui a immaginarsela: la morte era
davvero
nascosta ovunque e pareva che soltanto lui se ne accorgesse. Lo aveva
spiegato
una volta sola fiducioso che lo psichiatra comprendesse ma quello si
era subito
sprecato in discorsi filosofici che lo avevano messo alle strette
demolendo
tutto quello che aveva detto. Ma lui lo sapeva, anche se non riusciva a
spiegarlo in maniera completa sapeva di aver ragione. Lui non vedeva i
fantasmi
per un trauma infantile, ma perché aveva imparato ad
accettare la morte e
l’accoglieva come una vecchia amica. Forse, l’unico
motivo per cui non riusciva
a incontrare il fantasma della madre e della sorella, era proprio
perché
rifiutava la loro morte.
A Leo
girava già un po’ la testa, ma la cosa non lo
sorprendeva affatto. Il Jack
Daniels era molto alcolico e lui reggeva da schifo, probabilmente la
causa era
la sua bassezza e statura mingherlina. Non che per lui fosse un
problema,
chiaro, anzi si trovava molto economico e gli bastavano pochi bicchieri
per
andare fuori di testa. Di sicuro si divertiva più lui di
Reyna che reggeva come
un carro armato, ma quella donna era un carro armato quindi la cosa non
doveva
sorprenderlo più di tanto.
Agitò
il
bicchiere vuoto attendendo che si sciogliessero i cubetti di ghiaccio,
poi si
spalmò contro Jason come se fosse una comoda poltrona.
“Me
ne
prendi un altro?” miagolò stiracchiandosi e
rischiando di colpire l’amico al
viso.
Lui se
lo
scrollò pazientemente di dosso “Scordatelo, amico.
Sei già mezzo fuori”
“Non
è
vero” si lagnò “Guarda: sopra la panca
la capra campa, sotto la panca la capre
crepa!” lo guardò con espressione di trionfo
“Se fossi ubriaco non riuscirei a
dirlo”
Jason lo
guardò con rimprovero e Piper si sporse verso di lui severa.
“Se continui a
bere questa robaccia ti si rovinerà il fegato” lo
sgridò.
“Ma
sentitela, Miss Salutista” sbuffò contrariato.
Al
tavolo
erano rimasti solo loro e un incazzatissimo Nico –forse ce
l’aveva ancora con
lui per la questione del ricatto. Diamine, com’era rancoroso!
– mentre Percy e
Annabeth erano usciti a prendere un po’ d’aria e
gli altri erano tutti a
ballare sulla pista. Anche se era abbastanza sicuro che anche Reyna
avrebbe
avuto qualche remore a prendergli qualcos’altro.
“E
d’accordo” sbuffò abbandonando con un
tonfo il bicchiere sul tavolo “Vado io”
si alzò dalla panca e con sollievo constatò di
reggersi piuttosto bene sulle
gambe, erano solo quelle strani luci a confonderlo.
L’atmosfera rilassata che c’era appena
arrivati era stata sostituita da una più scatenata, da
discoteca, sicuramente
complice la canzone dei Green Day che avevano iniziato a suonare.
“Ok,
gente”
disse lisciandosi la camicia bianca, era una macchia d’olio
quella che aveva
sulla manica? “Papà Leo va a rimorchiare, non
fatemi preoccupare”
“Tu
non far
preoccupare noi” sussurrò Piper mentre quello si
allontanava leggermente
traballante e storto.
Secondo
la
signora Nightshade la danza era un’arte che qualsiasi
fanciulla di buona
famiglia doveva assolutamente conoscere con estrema
facilità, motivo per cui
Calypso aveva studiato per anni la danza classica ed era stata istruita
a
dovere sul valzer, il minuetto e altri balli. Evidentemente, il resto
del mondo
non aveva la stessa idea della famiglia Nightshade su cosa fosse la
danza,
Calypso ebbe modo di verificarlo di prima persona. Dopo che la cover
band aveva
terminato la sua esecuzione e un DJ aveva riempito l’aria di
una musica ritmica
e abbastanza martellante la maggior parte dei ragazzi presenti nel pub
si era
messa a ballare nella piccola pista. Ballare... pardon, saltellare a
ritmo.
Nonostante
le prime perplessità si era presto resa conto che quel
dimenarsi lasciandosi
trasportare da un
ritmo quasi sempre
uguale era divertente e non poté evitare un sorriso sulle
proprie labbra. Anche
Rachel sorrideva mentre saltellava rischiando di pestare i piedi a
tutti e i
capelli rossi si aprivano come tanti raggi solari attorno a lei, Reyna
invece
era più composta ma anche lei sorrideva amichevole e
divertita. L’impaccio
iniziale era totalmente svanito e ormai anche la castana aveva capito
quando
era ora di saltellare, alzare le mani
e
girare.
Hazel e
Frank si erano appartati poco distante, nonostante non si fosse ancora
fatta
un’idea precisa del ragazzo li trovava una coppia molto dolce.
Reyna
chiese qualcosa ma né lei che Rachel capirono cosa
intendesse.
“Vi
va di
bere qualcosa?” ripeté con parecchi decibel di
più “Io sto morendo di sete”
Insieme
sgusciarono tra la folla fino al bancone.
“Prendimi
qualcosa di leggero, fai tu” disse Rachel a Reyna, poi
guardarono con
aspettativa Calypso.
“Io
non...
non...” balbettò. Il fatto è che non
aveva mai pensato di bere qualcosa di
alcolico, non perché facesse male ma perché
sapeva quante calorie potessero
avere. Senza contare che la birra faceva venire pure la panza.
Rachel
le
mise una mano sulla spalla con familiarità. “Se
sei astemia dillo pure, ti
accettiamo senza problemi. Guardo, sopportiamo pure Jason che ogni
volta che
guarda come se soffrissimo di chissà quale malattia!
Sopporta solo Reyna perché
è maggiorenne”
“Calypso”
disse invece l’altra “non voglio influenzarti, ma
bere ogni tanto non fa male.
L’importante è essere coscienti dei propri limiti
e non esagerare mai. Come
diceva sempre Aristotele, virtus in medium stat”
La
Nightshade sorrise, conosceva quel detto, e decise che magari per
quella sera
poteva fare un’eccezione. “Che cosa mi
consigli?”
Lei ci
pensò su brevemente, poi disse: “Ti piace il
caffè?”
Gli
occhi
di Calypso di illuminarono. “Lo adoro” specialmente
perché era uno di quei
alimenti a caloria negativa, bruciava energia!
“Allora
il
White Russian ti piacerà. Ha lo stesso aspetto del
cappuccino” dopodiché si
fece largo tra la ressa al balcone.
Tornò
poco
dopo e si fece aiutare a trasportare i due bicchieri la birra che aveva
preso
per sé, Calypso costatò immediatamente che Reyna
aveva ragione. Quel cocktail
sapeva proprio come il suo adorato caffè, anche se aveva uno
strano retrogusto. Era
talmente buono che bevve un lungo sorso,
salvo poi rendersi conto di non aver fatto una mossa saggia: gli occhi
le
bruciavano.
“Piano,
piano” rise Rachel vedendola anche tossire. Si
sentì sprofondare dalla vergogna
e preferì fare i successivi sorsi con calma e cautela.
Funzionò.
Quando
tutte e tre ebbero finito tornarono alla pista da ballo dove Hazel e
Frank li
stavano cercando preoccupati.
“E’
che non
abbiamo l’orologio e non riusciamo a capire che ore
sono!” urlarono per
sovrastare la musica a mo’ di spiegazione. A Calypso quel
drink che sapeva di
caffè non aveva fatto nulla all’inizio ma adesso
si sentiva leggermente
instabile e la testa pesante, pensò che quello fosse il suo
limite. Forse
c’entrava anche ilo fatto che non aveva mai bevuto prima.
Rachel le prese una
mano facendole fare una giravolta cosa che non
l’aiutò molto, strizzò gli occhi
e per non cadere dovette aggrapparsi a un ragazzo lì vicino.
“Scusa!”
gridò Rachel al posto suo con una leggera risata, lo
sconosciuto scrollò le
spalle.
“Figuratevi,
siamo così appiccicati che è
inevitabile” poi aggiunse qualcosa sui piedi
pestati ma il volume della musica era troppo alto e lo
sovrastò. Però il
ragazzo sconosciuto aveva altri amici sconosciuti.
“Oh,
ma
quello è il motto della repubblica romana!”
gridò uno indicando la maglietta di
Reyna, era viola con la scritta SPQR. Fino a quel momento aveva pensato
si
trattasse di una marca, guarda un po’.
Reyna
spalancò gli occhi sorpresa e anche Frank che stava
lì vicino parve
impressionarsi, in senso positivo ovviamente.
“Studi
latino?” gli domandò la ragazza urlando.
“Studiavo”
la corresse “Ho seguito un corso qualche anno fa”
Anche
Calypso conosceva il latino, insieme a
un sacco di lingue morte, la sua insegnante era una donna
bassa e tozza
con il seno rifatto e un naso lunghissimo sempre truccata. Una volta
l’aveva
vista in vestaglia da notte con degli occhiali da lettura con la
montatura rosa
e la pantofole, ovviamente senza trucco, era stato uno spettacolo
agghiacciante. E non capiva perché le venisse in mente la
sua precettrice
proprio in quel momento.
Intanto
il
gruppetto di ragazzi stavano ancora conversando con Reyna e gli altri, motivo per
cui le sembrò molto
strano appoggiarsi brevemente a uno di quegli sconosciuti per
riprendere
l’equilibrio a dirla tutta il ragazzo ridacchiò e
le disse qualcosa porgendole
il bicchiere.
“Come,
scusa?” chiese educata. La musica si era fatta
così forte solo nella sua testa?
In effetti apprezzava molto di più quella classica.
Il
ragazzo
le mise in mano il bicchiere mezzo vuoto –o mezzo pieno,
dipende dalla
prospettiva – e ripeté con una risata soffocata.
“A me fa schifo, te lo
regalo!”
“Oh,
grazie” disse fissando il liquido ambrato “Che
cos’è?”
Quella
sua
domanda fece scoppiare definitivamente a ridere il ragazzo anche se lei
non
capiva cosa ci fosse di così divertente. “Non lo
so” ammise “Ho chiesto al
banco di farmi qualcosa di buono ma boh, fa schifo”
Calypso
bevve un sorso titubante ma riprese a tossire con le lacrime agli occhi.
“Ehi,
piano, piccola!” si preoccupò il ragazzo
sbattendole una mano sulla schiena e
aggiunse: “L’ho detto io che ‘sta merda
fa schifo”
In
realtà
dopo l’iniziale bruciore non lo trovò tanto
malaccio, forse era anche più buono
di quello che le aveva preso Reyna, aveva un retrogusto di liquirizia.
Per
questo si affrettò a rassicurarlo e bevve un altro sorso
cercando di cacciare
in gola la nuova ondata di tosse.
“E
brava,
la piccola” si congratulò il ragazzo arruffandole
i capelli e facendole versare
metà contenuto sui suoi piedi, poi si rivolse con un vocione
agli altri ragazzi
ancora intenti a parlare con Reyna e Rachel.
“O-i,
secchioni” strepitò “Qualcuno vuole
ballare o intendete formare un club della
cultura sul posto?”
Alla
fine Nico era uscito da quel pub. Un po’ perché la
musica gli stava facendo
venire il mal di testa, un po’ perché si vedeva
che Piper voleva starsene un
po’ da sola con il suo fidanzato per fare cose da...
sì, fidanzati. Così si era
alzato con la scusa del bagno e poi aveva imboccato l’uscita,
rispetto al caldo
umido che c’era dentro il pub l’aria estiva fuori
era fresca. Si chiese se
fosse il caso di andare a sedersi sul marciapiede in un punto appartato
e
aspettare gli altri o tornarsene da solo al College, in fondo non era
tanto
lontano e il letto era una buona prospettiva. Alzò lo
sguardo al cielo nero
leggermente nuvoloso e con la luna a metà, non si vedevano
che poche stelle.
Nella strada camminava il fantasma di un barista che guardava il pub
con
nostalgia, quando si accorse di essere fissato spalancò gli
occhi sorpreso e
poi si avvicinò al ragazzino.
“Credevo
che nessuno potesse vedermi” disse tutto felice.
“Normalmente
è così” si rassegnò, avrebbe
potuto fare finta di niente ma sapeva quanto i
fantasmi si sentissero soli, un po’ come lui.
“Perbacco!”
esclamò, poi tornò a fissare l’entrata
del pub “Sai, una volta mi apparteneva
questo posto. Era di mio nonno e pensavo che anche i miei figli
avrebbero
mandato avanti la tradizione e invece quei pusillanimi alla mia morte
hanno
venduto tutto e se ne sono andati in città. Bah”
fece una smorfia di disgusto
“Sono contento che qualcuno lo abbia riaperto, anche se hanno
ristrutturato un
pochino”
“Ah-ah”
non
seppe come altro commentare quel lungo monologo.
“E
dimmi,
ragazzo, la fanno buona la birra?”
“Non
l’ho
bevuta” riferì incolore “Sono minorenne,
non posso bere”
Il
fantasma
del pub aggrottò la fronte. “Oh, già.
Ai miei tempi era la migliore” garantì,
poi gli scoccò uno sguardo critico “Non mi sembri
molto felice”
Scrollò
le
spalle, ora ci mancava che anche i morti lo psicoanalizzassero. E a
proposito,
che fine aveva fatto Minosse?
“Animo,
animo” lo spronò il vecchio fantasma
“Almeno tu che sei in vita. Mi piacerebbe
tanto bere una birra, o fare l’ultimo tiro di sigaretta. Tu
fumi?”
Scosse
la
testa.
“Bravo,
non
iniziare mai. È solo un brutto vizio che non ti porta nulla
di nuovo, credi a
me. Ai miei tempi avere la sigarette in bocca era cool,
dopo siamo morti tutti con i polmoni neri. Bah”
tirò su con
il naso sdegnato “non iniziare mai”
ripeté.
“Da
quanto
tempo sei qui?” gli domandò.
La
faccia
del fantasma si fece pensierosa. “Oh, dunque, vediamo. Era il
1923 o 1932?
Ohibò, non rammento. In che anno siamo, ragazzo?”
Nico non
rispose dandosi mentalmente dello stupido, per i fantasmi il tempo
scorreva in
modo diverso dai mortali. Per alcuni anni erano solo pochi giorni e
certi non
si accorgevano nemmeno di essere morti.
“Sicuramente
un sacco di tempo” continuò quello a ruota libera
“Lo sai, questo pub passava
nella mia famiglia di generazione in generazione e io speravo che i
miei figli
ci lavorassero, così come i miei nipoti. Invece quegli
ingrati appena ho tirato
la cuoia hanno messo tutto in vendita” ripeté
amareggiato, evidentemente quella
storia non riusciva proprio a digerirla. Forse era quel fatto a
impedirgli di
raggiungere l’Oltretomba.
Capiva
che
il fantasma del pub volesse qualcuno con cui sfogarsi dopo decenni ma
Nico non
voleva ascoltare un vecchio fantasma con il disco incantato, per cui
con un
sorriso il più possibile cortese cercò di
svincolare da quella spinosa
situazione.
“Proprio
degli ingrati” lo assecondò “Mi
dispiace, ma ora io dovrei proprio
andarmene...”
“Andare
dove, esattamente?” a chiederlo però non era stato
il fantasma del pub, ma un
ragazzo biondo con un raccapricciante accostamento di arancione e
azzurro. Will
Solace evidentemente non sapeva vestirsi in maniera decente.
“Al
college” ribatté monocorde per nulla turbato.
“Oh,
è un tuo
amico? Può vedermi anche lui? Salve!” disse invece
vivacemente il fantasma del
pub, per quanto possa essere vivace un fantasma ecco.
Will che
ovviamente non poteva vederlo non rispose al saluto, si
limitò a inarcare una
sopracciglia sorpreso. “Manca un’ora al
coprifuoco” gli fece notare e fu una
costatazione così ovvia che Nico nemmeno si prese la briga
di rispondere
alcunché, per cui la Maglia Arancione continuò:
“Non ti stai divertendo?”
Mise le
mani in tasca e si ingobbì. “No”
“Mi
dispiace” disse sinceramente colpito il biondo quasi fosse
colpa sua “Credevo
ci tenessi”
Al che
alzò
gli occhi al cielo, pensando che erano gli altri a tenerci ma non disse
nulla
per buona pace di tutti.
“Ho
sonno”
disse invece e fece per allontanarsi lungo la strada.
“Ehi,
non
avrai intenzione di andare via da solo” esclamò
contrariato.
In
condizioni normali Nico si sarebbe limitato a un’alzata di
spalle o a qualche
battuta mordace, ma quella non era una condizione normale. Non lo
sapeva con
precisione, ma il fantasma del bar che continuava a guardarlo lo
turbava
profondamente, cioè non nel senso... no, non era turbato
dalla paura, era un
modo diverso di essere turbati. Quasi tristezza, ma nemmeno. Forse
vuoto? Quel
fantasma stava lì a guardare il tempo passare, gli umani
sbriciolare e lui
sarebbe restato ancora lì senza capire quanto tempo
effettivamente fosse
passato.. Era turbato perché nessuno se ne rendeva mai
conto, ecco. La vita è
proprio un buco nero.
Per
questo
invece di alzare le spalle o fare una battuta mordace –come
avrebbe fatto in
condizioni normali – disse senza nessuna particolare
emozione: “Non sono solo”
Will lo
guardò perplesso, poi guardò di nuovo la strada e
infine inclinò il capo
sospettoso. Come si guarda una verdura palesemente tale ma che tua
madre vuole
farti passare per la settima meraviglia culinare.
“Ma
non c’è
nessuno” gli fece infatti notare.
Nico
scosse
la testa cocciuto, una parte di lui continuava a gridargli di non dire
una
parola di più, che non era il caso di mettere
l’ennesimo sconosciuto a corrente
delle sue stranezze. Un’altra parte invece rideva sprezzante
e lo spronava a
continuare solo per vedere l’emozione dello sconcerto, poi
della paura e infine
del disagio sul volto di quel ragazzo troppo biondo. I capelli brillano
alla
luce dei lampioni in quel buio.
“Non
sono
solo” ripeté “Ci sono i
fantasmi”
Silenzio.
Nico aspettò pigramente una reazione dell’altro
lanciandogli uno sguardo di
sfida.
Forza, dillo che
non c’è niente. Dillo anche tu che
sono solo un visionario.
“Davvero?”
arricciò le labbra il biondo.
Alzò
gli
occhi al cielo. “Davvero”
“Oh,
e...
quanti sono?” si informò urbanamente.
La cosa
era
davvero scocciante, perché non lo guardava come il pazzo
quale era?
“Tantissimi,
la strada ne è piena” borbottò solo per
spaventarlo. In realtà oltre il
fantasma del pub c’era solo un ubriacone che attraversava di
continuo un
lampione, la cosa sembrava divertirlo. Aveva metà del busto
spappolato,
sicuramente era stato investito mentre camminava per quella via brillo.
E in
ogni caso c’era Minosse con lui, Minosse era e sarebbe stato
per sempre con
lui.
Will
rimase
in silenzio con la fronte corrucciata a valutare tutte quelle
informazioni,
probabilmente indeciso se chiamare il College o direttamente un
manicomio,
fissava la strada vuota e buia con la testa leggermente inclinata. Poi
parve
decidersi a parlare.
“Senza
offesa per i fantasmi, ma non mi sembrano degli accompagnatori
sicuri”
Nico lo
guardò storto mordendosi la lingua, come prego?
“Intendo”
ricominciò il più grande notando il suo sguardo
“intendo che i fantasmi sono
immateriali, no? Quindi se per strada incontri un maniaco come possono
aiutarti? Attraversandolo?”
aveva
inarcato così tanto le sopracciglia da farle sparire dietro
la frangia bionda
“Saranno pure di buona compagnia, ma preferisco
accompagnarti. Almeno io posso
tirare un pugno al
malintenzionato”
Strinse
le
labbra e i pugni, leggermente offeso, sicuramente Minosse si sarebbe
sentito
offeso, ma non ribatté nulla. Il ragionamento del biondo
aveva senso ed era
logico, solo lo lasciava perplesso il modo in cui aveva accettato
quella sua
capacità di vedere i morti. Come se fosse normale. No, non
si fidava.
“Devi
solo
aspettare un secondo” continuò Will sotto il suo
sguardo sospettoso “Avverto le
altre Magliette Arancioni e poi torno da te. E, Nico” lo
chiamò prima di
girarsi e andare via, lo fissò serio “Non
muoverti. Abbiamo alcune cose su cui
discutere durante la strada”
Oh, ovvio che
sì.
Alzò gli occhi al cielo.
Così imparava a spiattellare il suo segreto a
un’idiota de genere.
Al
bancone
c’era parecchia coda e per un ragazzo della statura di Leo
era abbastanza
difficile farsi largo fra quella moltitudine. Specialmente se il
pavimento
ondeggiava in quel modo. Comunque, la parte più difficile
non fu arrivare al
banco sano e salvo, ma convincere il barista che sì, era
maggiorenne ma
purtroppo aveva dimenticato la carta di identità a casa.
“Che
peccato” aveva esalato fintamente depresso “Me la
porto sempre dietro, che
disdetta”
“Ragazzo,
avrai sì o no quattordici anni” lo rimproverava il
bar-man accigliato. Al che
dovette mordersi la lingua per non gridargli dietro che erano sedici
–sedici!—e
mandare a monte il piano.
“No,
ne ho
diciotto. Lo so che sembro giovane, ma ehi, nessuno le vuole le rughe e
diciotto anni”
Mille
moine
dopo, supplice e un tentativo di corruzione aveva scocciato
così tanto il
barista da farsi allungare un bicchierino di whiskey. Non era quello
che aveva
in mente, ma a quanto pare il tizio non si era fidato a dargli qualcosa
di più
forte.
La
buttò
giù in un sorso nascondendo la smorfia per il bruciore che
aveva sentito lungo
la gola, nonostante tutto non riusciva ancora ad abituarsi a quel gusto
infuocato. Ma gli piaceva e poi era divertente, lo faceva sentire come
se tutte
le cinture di sicurezza si sganciassero mentre stava seduto su una
montagna
russa.
Fissò
quello che era rimasto sul bicchiere, un altro sorso piccolo a occhio e
croce,
e decise di custodirlo per un po’. Si stiracchiò e
lanciò uno sguardo in
direzione del loro tavolo, erano rimasti solo Piper e Jason a pomiciare
allegramente. Fece una smorfia. Era felice che loro fossero felici e
che
avessero trovato il grande amore e blablabla, ma quando i due erano in
procinto
di mettersi assieme Leo si era opposto fermamente. Era stato molto
egoista in
realtà, ma in quel momento si era reso conto che
così sarebbe restato solo.
Hazel
aveva
Frank, Percy aveva Annabeth e dopo c’era il loro trio. Che,
da un giorno
all’altro, era diventato un duo. Leo restava la ruoto di
scorta. Purtroppo, le
cose stavano così. Aveva un bel rapporto con Nico, era vero,
ma non quello che
aveva con Jason o Piper, il corvino era troppo riservato, troppo
schivo, troppo
chiuso in sé stesso e non avrebbe permesso a nessuno di
entrare nel suo mondo.
E Leo, giustamente, se ne stava fuori.
Si
batté
una mano sulla fronte, non era il caso di farsi venire una sbronza
triste, era
anzi meglio darsi da fare per rendere la serata interessante.
Iniziò a
camminare verso la pista da ballo tenendo ciò che restava
del suo sudato
Whiskey in alto come e fosse il Santo Graal ma il pavimento ondeggiava
ancora,
anche più di prima, e finì addosso a qualcuno.
“Ops”
rise
ed ebbe qualche difficoltà a inquadrare la persona contro
cui era andato a
sbattere. All’inizio non vide nessuno ma poi i suoi occhi
misero a fuoco e notò
la ragazza dal semplice vestito bianco primaverile che le lasciava le
lasciava
scoperte le spalle e sembrava catturare le fioche luci psichedeliche
mimetizzandosi perfettamente nell’ambiente. Aveva i capelli
di un colore
indefinito fra il marrone e il biondo, come se fossero color sabbia.
Non era
invisibile come aveva pensato all’inizio, ma si mimetizzava
perfettamente con
l’ambiente tanto era faticoso notarla. Aveva un viso
semplice, carino, ma ogni
volta che Leo sbatteva le palpebre lo dimenticava.
“Mi
d-dispiace” farfugliò la ragazza, aveva un voce
sottile sottile e a tratti
nemmeno si sentiva. Era una voce difficile da ricordare,
così uguale alle
altre.
In
quella
ragazza tutto era semplice e normale, così tanto da
risultare quasi banale.
Forse fu per questo che la trovò fantastica.
“Ma
tranquilla, è stata colpa mia” le
assicurò mettendo su un sorriso un po’
storto, poi si accucciò. Era più bassa di lui
–miracolo! – ma dai lineamenti
del viso sembrava essere più grande di lui di qualche anno.
“Sei da sola?” le
chiese. Era davvero difficile memorizzare il suo viso.
“Sola”
confermò la ragazza abbassando lo sguardo e Leo si
dimenticò subito di che
colore fossero i suoi occhi. Be’, quella poteva essere
un’occasione.
Inarcò
una
sopracciglia divertito. “Davvero?” poi
inclinò la testa “Io mi chiamo Leo
Valdez” e le tese la mano.
La
ragazza
la guardò sorpresa, poi fece un timido sorriso.
“Eco. Solo Eco”
“Solo
Eco?”
inarcò anche l’altra sopracciglia.
“Be’, solo Eco, ti dispiace farmi un po’
di
compagnia?”
Eco
parve
sentirsi un attimo a disagio per quella domanda, si guardò
la punta dei piedi
ma poi risollevò lo sguardo su di lui annuendo con un
accenno di sorriso.
Adesso che la guardava dritta negli occhi notò che questi
erano del colore
dell’acqua salata.
“Come
mai
qui?” le chiese buttando giù l’ultimo
sorso di whiskey che gli restava e
appoggiò il bicchiere su un tavolo a caso. Ok, ora era
sufficientemente brillo.
Eco si
guardò attorno nervosa, poi puntò lo sguardo sul
front-man della cover band che
aveva suonato fino a poco prima. “Per la musica.
Credo” disse distogliendo
velocemente lo sguardo. Aveva un modo particolare di parlare, quasi si
mangiasse le parole o avesse paura di dirne troppe.
Anche
Leo
guardò il cantante, era il tipico ragazzo bello che sapeva
di esserlo; aveva il
viso cesellato, con le labbra e gli occhi che sposavano alla perfezione
la
grazia femminile con la bellezza maschile, la fronte era incorniciata
da folti
capelli scuri e aveva la corporatura di un ballerino, flessuoso e
muscoloso in
un equilibrio perfetto e un atteggiamento regale. Sembrava essere un
modello di
una qualche rivista d’elite.
Lo
sguardo
rubato di Eco era stato veloce e sicuramente nessun altro ci avrebbe
fatto
caso, ma Leo conosceva benissimo lo sguardo che avevano le persone dal
cuore
spezzato. Quella alle quali qualcuno aveva spezzato il cuore, Leo
conosceva
molto bene la sensazione e inevitabilmente sentì una sorta
di collegamento con
quella ragazza.
Forse fu
per questo che mezz’ora dopo si trovavano nel retro del pub a
baciarsi. Non era
la prima volta che baciava una ragazza ma sempre si sentiva un
novellino, non
si sentiva adatto e capace e per questo finiva sempre per baciare un
po’ a
caso. A dir la verità anche Eco lo stava baciando un
po’ a caso. Gli aveva messo
le braccia sul collo e se lo premeva contro incastrando le dita fra i
riccioli,
era appoggiata con la schiena contro il muro di mattoni ma non sembrava
trovare
scomoda la posizione. Leo la teneva per la vita stretta con le mani
callose
stropicciandole il vestito senza stringere troppo per paura di farle
male o di
spezzarla come se fosse un delicato meccanismo.
Non
ricordava esattamente perché avessero iniziato a baciarsi,
non ricordava
nemmeno chi dei due avesse iniziato e nemmeno come ci fossero arrivati
nel
retro. Sapeva solo che ad un certo punto aveva sentito l’aria
fresca della sera
punzecchiarlo e il respiro della ragazza si era infranto sul suo collo
mentre
la stringeva un goffo abbraccio. Era snervante essere sempre
così goffo con le
ragazze.
La
linguetta
di Eco gli accarezzò il labbro inferiore e lui strinse gli
occhi ancor di più,
i loro nasi si sfioravano in continuazione e non sapeva chi avesse il
controllo
della situazione in mano, probabilmente nessuno dei due. Sicuramente
Leo aveva
perso ogni freno per colpa della sbronza. Scivolò con una
mano sulla schiena,
la mise in mezzo alle scapole premendosela contro e lei strinse con
più forza i
ricci tirandoli leggermente facendogli anche un po’ male.
Aveva il cuore che
gli batteva come un tamburo sul petto e nonostante la fresca aria
serale aveva
così caldo che temeva di andare in autocombustione. Le
baciò l’angolo della
bocca sfiorandogli con le ciglia la guancia, lei inspirò
forte e poi riprese a
baciarlo. Fece scendere le sue mani stringendo i capelli più
corti e ribelli
della nuca, poi le posò sulle sue guance stringendo il suo
viso e portandolo
più in basso e quasi perse l’equilibrio. Per
reggersi dovette staccare una mano
dal suo fianco ed appoggiarla al muro.
Poi,
improvvisamente Eco si staccò guardandolo stupefatta,aveva
le labbra rosse come
fragole e lucide come se ci avesse avena passato il lucidalabbra. Leo
si
accorse con un certo disagio che staccandosi gli era scivolata un
po’ di saliva
da un angolo della bocca.
Si
fissarono negli occhi a disagio e, per la prima volta, Leo
riuscì a vederla
chiaramente in viso; era davvero carina e i suoi occhi erano molto
più azzurri
di quanto si fosse reso conto, un blu oltremare. Perché non
era riuscito a
notarlo subito?
Eco
aveva
ancora le mani sul suo viso quando mormorò con quel suo modo
strano di
pronunciare le parole. “Scusa, io non...”
Anche se
era solo un flebile sussurro Leo capì immediatamente cosa
intendesse e fece un
sorriso, perché alla fine quella restava davvero la sua
unica arma. Quella ragazza
era già innamorata di un altro, lo aveva visto subito, e
ormai aveva donato
tutta sé stessa a quell’amore anche se senza
speranze. Probabilmente era una
cosa idiota.
“Hai
ragione” disse solo, pensandoci bene anche lui era un
perfetto idiota. Un
perfetto idiota al quale una principessa aveva congelato il cuore.
Forse fu per
questo che non si sentì né triste né
offeso, provò solo uno strano senso di
compatimento e affetto per quella ragazza. Aveva un viso veramente
bellissimo,
non era banale come aveva pensato all’inizio, in quel momento
era veramente
particolare e meraviglioso. Quegli occhi.
Eco
avvicinò
ancora il viso al suo ma questa volta lo baciò su una
guancia, poi lo scostò
con dolcezza. Lui la lasciò andare senza trattenerla con uno
strano sorriso
mesto e nostalgico, quando si girò per guardarla ancora
però era già lontana e
si confondeva con il paesaggio. Avrebbe voluto dirle qualcosa, qualcosa
di
importante ma non sapeva nemmeno lui cosa. Infine risolse di stare
zitto, mise
le mani in tasca e appoggiò la schiena al muro di mattoni
rossi. Gli tornò alla
mente quello che aveva pensato prima. La settima ruota, quella di
scorta.
Nonostante tutto, lui viveva in un mondo a parte rispetto ai suoi amici
ed era
solo. Scosse la testa e
si lasciò
scivolare fino a terra, doveva scacciare quei pensieri che da sempre
gli
martellavano in testa. Si sentiva strano, ma allo stesso tempo
conosceva quella
sensazione. Stava scivolando via dalla realtà, ben presto
perse la presa sul
pavimento e gli sembrò di sollevarsi dal proprio corpo e
fluttuare nel cielo
privo di consistenza. Si passò una mano sul viso e fu strano
perché non gli
sembrava che quella mano gli appartenesse. Gli sembrava di essere
dentro una
boccia dei pesci rossi con un spessissimo muro di vetro tra lui e il
resto del
mondo e lo isolava da qualsiasi rumore. Ben presto iniziarono a
fischiargli le
orecchie, appoggiò la testa al muro per guardare il cielo ma
il lampione
illuminava troppo e dava a tutto una luce fluorescente. O forse era lui
che
vedeva le cose troppo brillanti, chi lo sa. Sicuramente non avrebbe mai
dimenticato il viso di Eco, almeno una persona era riuscita a vederla
veramente
e si meritava che almeno una persona comprendesse il suo valore.
Leo
chiuse
gli occhi, ma il ricordo del sorriso di Eco stava già
scomparendo.
NON
SPARATE!
Vi
chiedo
scusa in ginocchio per avervi abbandonate per un mese ma sono stata in
vacanza
in un luogo dove internet veniva guardato con sospetto e il wifi era
considerato una creatura mitologica °-° non potevo
perciò aggiornare. Per farmi
perdonare vi ho preparato 30 pagine e c’è un bel
po’ di roba su cui pensare, si
entra nel vivo della storia ormai! Avete molto da commentare.
Vorrei
solo
focalizzare la vostra attenzione su due particolari.
La scena
di
Calypso in doccia. Molto breve e può creare confusione, I
Know, ma perdere
capelli è un sintomo dell’anoressia, e non sto
parlando dei quattro peli che si
perde al cambio di stagione. In questo caso cadono ciocche intere, e il
capello
è debole, opaco e facilmente spezzabile. Altri sintomi sono
l’acne, per la mancanza
di non mi ricordo cosa la pelle si irrita e ti ritrovi la faccia piena
di
brufoli, inoltre le eschimesi si creano con più
facilità ; i denti perdono lo
smalto e si cariano più facilmente. Insomma, diventi davvero
fragile. Motivo
per cui Calypso ha tutti quei prodotti per il corpo, la pelle e i
capelli.
Cerca di compensare, in qualche modo.
Altra
cosa:
l’alcool. Non potevo non metterlo perché
è un fatto strettamente in rapporto
con i giovani. Spero di non aver scritto cazzate e cose che possano
andare OOC.
Non volevo fare nelle solite ff dove l’alcool scorre a fiumi
e tutti si
ubriacano allegramente senza problemi, volevo dare un senso. Ed
è anche vero
che tratto tematiche delicate, quindi dovrei smetterla di giustificarmi
xD
Per il
resto, io sono d’accordo con Reyna. Bere è bello
ma fa male, non esagerate. Ci
sono più cose negative che positive alla fine.
Eeeee,
non
credo di aver null’altro da dire. Se non che la coppia
LeoxEco mi piace e ho
voluto inserirla brevemente. C’è anche
l’accenno di un’altra coppia che sarà
vitale per la storia ^^ ma nel prossimo sarà più
chiaro.
Spero
non
mi abbiate abbandonato tutte nel frattempo (tutti? Ci sono boyz? Non mi sembra, nel caso date un
colpo!)
|
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Capitolo 6 *** 47.8 ***
Attenzione! La
storia seguente presenta tematiche delicate. Vorrei precisare che non
promuovo
nessun tipo di disordine alimentare. Pertanto, se si è
facilmente influenzabile
sconsiglio la lettura, non voglio avervi nella coscienza.
V
Quarantasettepuntootto
**
Non si
può
dire che quella mattina Leo si svegliò di buon umore
perché non fu affatto
così, anzi una sorta di amarezza gli appesantiva il petto
quando con uno scatto
bloccò la sveglia prima che i suoi compagni di stanza
potessero sentirla.
Benvenuta
Domenica, pensò con stanchezza e sbuffò mentre si
districava dalle lenzuola
marroni. Sembrava che nella sua testa fosse stato organizzato un
mega-party
clandestino e quando chiudeva le palpebre pesanti poteva ancora vedere
Jason
che lo trovava seduto per terra nel retro del bar e gli diceva che era
ora di
tornare. Era triste, perché per quanto si sforzasse non
riusciva a ricordare i
lineamenti del volto di Echo nonostante ricordasse di essere stato
colpito
dalla sua bellezza.
Quindi
no,
non si può di certo dire che quella mattina Leo si fosse di
buon umore, ma si
finse di mostrarlo quando ammiccò alla propria immagine allo
specchio del
bagno. È
vero: in quel momento non era
felice, ma poteva fingerlo di esserlo.
Se
mostri
quanto ti fa male, hai perso. E in un gioco del genere non si
può perdere, c’era
gente che aveva scommesso su di lui. Sua madre, per esempio. Per questo
si
regalò un largo sorriso. Indossava ancora i vestiti della
sera precedente e la
stoffa era impregnata da una puzza mista sudore e fumo con quel
pizzicore acre
dell’alcool che punge le narici. I capelli si ingarbugliavano
sulla sua testa
in mille riccioli disordinati come al solito anche se nel lato sinistro
erano
leggermente schiacciati. Si passò una mano sul viso
stropicciandolo e
sbadigliò. Odiava svegliarsi così presto.
Per le
ciambelle calde questo e altro, si decise iniziando a slacciarsi i
jeans e
diede la schiena allo specchio quando fu il momento di sfilare la
maglia,
vedere le cicatrici sul suo torace allo specchio. Era strano, era
disturbante. Lo
turbava. Perché finché guardava quei tagli
direttamente non ne aveva una vera
coscienza perché era il suo corpo e quindi... non lo sa,
però non gli faceva
male, non lo faceva sentire in colpa. Invece lo specchio è
come, tipo, non so
come dire, un quadro. Un quadro al quale si vedeva la faccia e che
aveva la
sua, di faccia, ed è una cosa strana vedere una persona che
in teoria dovrebbe
essere sé stessa ridotta in quel modo.
(no, non
si
è spiegato, ma non importa. Fa lo stesso. È come
sempre. Quasi)
Si
lavò di
fretta e distrattamente, non si asciugò nemmeno i capelli e
i ricci gocciolavano
sulla maglietta rossa pulita ma alla fine non ci faceva nemmeno caso,
si regalò
solo l’ennesimo sorriso furbo alla specchio.
Uscì
e
camminò per il corridoio fischiettando e le mani ben
impiantate nelle tasche
dei jeans al ginocchio. Leo non era particolarmente felice, ma lo
sembrava ed
era questa la cosa importante. Il corridoio era deserto, tutti
approfittavano
della domenica per dormire. Tranne lui. E un’altra ragazza
che molto pratilmente
stava percorrendo un corridoi più basso verso la povere
segretaria per
stordirla a forza di richieste. Spesso si chiedeva se la segretaria
avesse una
vita al di fuori della reception, tipo un marito e una famiglia piena
di
poppanti urlanti. Se li immaginava:
“Come
è andato al lavoro, tesoro?”
“Il
solito, cara. E da te, nella scuola piena di
piccoli pazzi?”
“Il
solito, solo un ragazzino si è chiuso dentro una
classe convinto che il mondo cospirasse alle sue spalle”
“Capisco”
Se li
immaginava, e d’altronde era successo davvero qualche anno
fa. Uno dei ragazzi
aveva iniziato a urlare in piena notte e si era barricato
nell’aula di chimica
minacciando di creare un composto esplosivo se solo avessero tentato di
aprire
quella porta. Un tipo simpatico che soffriva di manie di persecuzioni e
ogni
tanto bisbigliava qualcosa contro tutti, Ottaviano se non sbagliava.
Quella volta
avevano dovuto chiamare i vigili del fuoco, s’era fatto un
sacco di risate. Esilarante
era stato quando una bambina, Meg se non sbagliava, aveva provato a
rapinare
uno dei negozi di verdure usando una bomba fatta di deodoranti.
Ovviamente non
aveva funzionato ma era bastata la piccola a mandare
all’ospedale il vecchio
commesso. Quello, non era stata divertente.
Dalle
finestre del corridoio entravano raggi immobili di luce diretta e
dovette
socchiudere gli occhi perché davano davvero fastidio. Aveva
mal di testa, ma
dopo tanti post-sbornia era talmente abituato da non farci nemmeno
caso. Tolse una
mano dalla tasca appoggiandola sul corrimano e si apprestò a
scendere le scale
quando una voce femminile alle sue spalle chiamò il suo nome.
Irrigidì
immediatamente
alle spalle artigliano il corrimano riconoscendo la familiare
inclinazione
delle sue lettere nella pronuncia francese.
“Non
mi
saluti nemmeno?” continuò quella voce con
meraviglia distaccata. Era sempre
difficile inquadrare le sue emozioni, era sempre così
incolore.
“Non
ti
avevo visto” rispose sinceramente rilassando la schiena e
distendendo lo
sguardo in una smorfia malinconica, un leggero sorriso rassegnato sulle
labbra.
“E credevo che non ti avrei rivista mai
più” continuò.
“Lo
credevo
anch’io” la voce femminile si fece più
chiara come se si stesse avvicinando
alle sue spalle, la percepiva sempre più vicina ma non osava
girarsi. “Speravo
di non tornare più qui, ma mio padre riteneva...”
e lasciò la frase sospesa
allungando di poco la lettera a. Leo poteva immaginarla chiaramente
alzare gli
occhi al cielo, la cosa lo fece sorridere un poco.
“Sono
appena arrivata, comunque.” Ora la sentiva chiaramente dietro
di sé, ma ancora
non voleva voltarsi. “E’ ancora tutto uguale a come
ricordavo”
“Dici?”
le
domandò inarcando un sopracciglio, gli tremavano leggermente
le punta delle
dita nella tasca dei jeans.
La voce
scoppiò in una breve risata derisoria. “Non
è cambiato niente” ripeté
“Sei
rimasto lo stesso anche tu”
Fu a
quel
punto che decise di voltarsi, si mordeva nervosamente
l’interno di una guancia
ma si sforzò di mantenere una luce vispa negli occhi color
caffè. Allargò il
viso in un sorriso dispettoso quando mise a fuoco la figura snella
della
pallida ragazza che aveva davanti, sembrava Biancaneve. Capelli neri
come l’ebano,
pelle bianca come la neve e le labbra rosse come il sangue.
“Chi
lo sa”
disse vivacemente con una leggera punta di rammarico “Potrei
perfino stupirti,
Chione”
**
Appena
quel
suono acuto e trillante iniziò spalancò gli occhi
alzandosi di scatto talmente
velocemente che le sembrò di ricevere un pugno al centro
dello stomaco, la
vista le si appannò e nella bocca le si propagò
un gusto acre che sapeva di
vomito. Strizzò gli occhi mentre tirando giù
qualche santo dal paradiso Rachel
spegneva la sveglia di Hazel, l’unica che non
l’aveva sentita e continuava a
dormire beatamente.
“Brutta—
sono le sette!” sbraitò la rossa sbattendo
più volte le palpebre una volta
accertatasi dell’ora improponibile “Ed è
domenica!” aggiunse come per rimarcare
quanto indecente fosse il fatto di una sveglia accesa.
Calypso,
dal canto suo, si gettò nuovamente sul cuscino con un grande
respiro e
chiudendo gli occhi, quel sapore acre e nauseabondo ancora sulla
lingua. Adesso
che era sveglia si accorse che il suo letto sembrava essere una
barchetta e la
sua testa era stata assalita da saette di emicrania come se nella sua
testa la
sveglia stesse ancora suonando implacabile. Un tonfo la
informò che anche
Rachel aveva seguito il suo esempio rigettandosi fra le coperte
speranzosa di
riprendere il sonno interrotto, peccato che lei ormai fosse
completamente
vigile. Il cuore le batteva ancora forte per lo spavento e quella
insopportabile ostruzione alla gola le faceva ribaltare lo stomaco. E
il mal di
testa, diamine se doloroso! Come se avesse sbattuto con la fronte
contro
qualcosa. Socchiudendo gli occhi spiò sul suo comodino dove
stazionava la sua
sveglia – furbamente disattivata la sera prima –
segnare le sette e qualche
minuto, i numeri spigolosi erano visibili
nell’oscurità della stanza.
Improvvisamente,
si accorse di avere la vescica piena. Sbuffò serrando gli
occhi con la speranza
di ignorare quel fastidiosissimo bisogno e si strinse ancora di
più nelle
coperte cercando una posizione che non le gravasse sulla pancia gonfia.
Ma
ormai il pensiero della pipì si era fatto pressante nella
sua mente forte e
doloroso quanto l’emicrania e combatterlo era assolutamente
inutile. Strizzando
gli occhi nel tentativo di mettere ben a fuoco la realtà si
alzò lentamente dal
letto abbandonando il calore delle coperte chiare; la prima cosa che
notò fu
che la sensazione di leggerezza che aveva provato per buona parte delle
notte
era sparita lasciando invece una pesantezza dolorosa come se qualcosa
l’avesse
appena investita, per contro il pavimento ondeggiava ancora un pochino
ma meno.
Forse era ancora la stanchezza sommata al frastorno per il brusco
risveglio.
Cercando le pareti con le mani (non voleva accendere la luce per
svegliare le
altre, anche se Hazel se lo meritava per non aver spento la sveglia e
non
essersene nemmeno accorta!) raggiunse la porta del bagno,
l’aprì e si intrufolò
dentro richiudendolo alle proprie spalle senza far rumore.
Subito
dopo, seduta sulla tazza con le mutande calate, pensò che
valesse la pena
vivere anche solo per fare la pipì, specialmente quando
l’avevi tenuta una
notte intera: che sensazione meravigliosa!
Una
volta
esaudito il bisogno si lavò le mani e guardandosi allo
specchio sopra il
lavandino notò di aver l’aspetto di una straccia
per pavimenti, aveva davvero
un aspetto orribile. Anche le ossa le facevano male come se un tir le
fosse
passato sopra, senza contare la sensazione di nausea che le comprimeva
lo
stomaco e la gola. Si gettò l’acqua gelata sulla
faccia e incastro le mani fra
le ciocche annodate sulla testa, quando le tolse si portò
via molte fili
castani. Li guardò con noncuranza appoggiandosi con tutto il
peso sul lavandino
e strizzando gli occhi ancora una volta, quel mal di testa non riusciva
a farla
pensare.
Prese un
grosso respiro e poi buttò fuori l’aria tutto in
un colpo, ripeté la cosa più
volte finché la vista non si snebbiò. Fatto
questo lasciò la presa dal
lavandino rizzandosi con la schiena, la spina dorsale
scricchiolò, la maglietta
si alzò lasciando scoperta un lembo di pelle chiara del
ventre con le ossa dei
fianchi sporgenti che sembravano sul punto di bucarla.
Afferrò l’orlo con le
dita e la tolse, sotto la pelle si vedeva il guizzo delle costole e dei
piccoli
muscoli.
Si
fissò
con un attenzione chirurgica allo specchio sfiorandosi con i
polpastrelli della
mano. Si toccò gli zigomi alti segnando una linea sulla
guancia come se li
volesse ancora più affilati, passò il dito lungo
il collo fino alla clavicola
sporgente, aveva le spalle ossute e i seni piccolissimi e bianchissimi,
si
intravedevano le costole ad ogni respiro e le gambe erano lunghe e affilate come le zampe di un
ragno. Passò la
mano sul bacino sentendolo più gonfio del solito e poi
guardò con criticità le
cosce.
Erano
ancora troppo grosse.
Si mise
di
profilo sempre con la mano sulla pancia e studiò la curva
della sua schiena,
trattenne il respiro facendo ritirare la pancia e marcando ancor di
più le
costole. Si morse il labbro mentre dal naso buttava fuori tutta
l’aria. Era così
che avrebbe dovuto essere, era così che sarebbe diventata.
Ci sarebbe riuscita,
a qualsiasi costo. Si studiò i polsi delle mani
così fini dai sempre fin troppo
fragili, fatti di un qualche cristallo. Accucciandosi tirò
fuori la bilancia e
ci salì per guardare a che punto fosse.
Quando
vide
il numeretto spigoloso il respiro le si mozzò nei polmoni.
47.8
Spalancò
gli occhi scendendo e allontanandosi, scuoteva la testa dicendosi che
non era
possibile. Era semplicemente impossibile. Attese un po’, poi
salì ancora e
quando il risultato fu lo stesso sentì un grido bloccarsi in
gola e gli occhi inumidirsi.
Si sedette per terra prendendosi la testa con le mani, aveva voglia di
urlare e
singhiozzare e sbattere la testa contro il muro. Si morde le labbra a
sangue
per non farlo, come può essere diventata improvvisamente
così cicciona? Per forza
aveva quella pancia e quelle cosce da tacchino. Era impossibile, fino
al giorno
prima era 46 chili, come aveva fatto a prendere più di un
chilo in una notte
soltanto?
Aveva
cenato, e dopo le avevano fatto mangiare la pizza. La pizza. Quante
calorie ci
sono in una sola fetta di pizza? Tante, troppo e ora erano
lì a manifestarsi in
quella ciccia sporgente. E i due bicchieri di alcool che aveva bevuto.
Gesù,
perché si era messa a bere? Eppure lo sapeva bene quanto
potesse essere calorico
e dannoso per il fisico, si era documentata. Stupida, stupida, stupida.
Come poteva
essere stata così incosciente? Aveva rovinato tutto il
lavoro che stava
facendo. In una sola notte. Iniziò a piangere desiderando di
mettersi a correre
e correre finché nono stramazzava al suo priva di energia,
cancellare quel
numero così alto e insopportabile e... voleva vomitare.
Devo vomitare.
Si
asciugò
le guance con il dorso della mano, si strofinò il viso e
gattonò verso la tazza
del wc. Non aveva
mai vomitato
volontariamente e non sapeva nemmeno bene come si facesse, ma quella
era un’emergenza
e doveva fare qualcosa. Si sporse verso il cesso e fissò
l’acqua, poi si
portò l’indice e il medio dentro nella
bocca appoggiandoli sulla lingua e li fece scorrere verso la gola. Era
una
sensazione bruttissima, le veniva quasi difficile respirare. Quando
toccò la
gola strinse gli occhi e spinse verso il basso con la punta delle dita,
fu
sgradevole e qualcosa le si mosse nello stomaco. Si stuzzicò
la gola con le
dita finché un forte conato non la fece quasi soffocare e
sfilò velocemente le
dita protendendosi ancor di più verso la tazza.
Vomitò una sostanza disgustosa
e salivata dall’odore nauseabondo, quasi bastò
quella a farla rimettere un’altra
volta. Ma aveva lo stomaco vuoto, ormai era troppo tardi.
Aveva
già
assorbito tutte le calorie.
La
faccia
si deformò in una smorfia orribile mentre riprendeva a
piangere e questa volta
senza nemmeno preoccuparsi di far piano, aveva ancora in gola quel
saporaccio
orribile e la sensazione di qualcosa che la soffocava e sul mento un
rivolo
della sostanza appiccicosa che aveva rimesso ma non se ne
curò, si sporcò la
faccia con le lacrime e quella saliva mentre si passava le mani sul
volto per
nascondere gli occhi. Si sentiva così ripugnante e in colpa
da non riuscire a
pensare, c’era solo un ceco terrore nella sua mente. Era come
se la avessero
tolto ogni forza. Era la stessa sensazione che aveva provato anche alla
clinica
specializzata ma qui era peggio. Lì aveva ripreso il peso
non per colpa sua, ma
dei medici che la ingozzavano in ogni modo come un maiale al macello,
invece
qui era stata lei. Nessuno l’aveva costretta a mangiare,
nessuno l’aveva
attaccata a degli integratori. Era colpa sua.
Era
colpa
sua se in quel momento era una balena piaggiata. Era stata lei a
buttare in una
solo sera tutti quei mesi di controllo, non aveva saputo controllare.
Si era
ingozzata come un’animale. Singhiozzò
più forte con le spalle ossute che
tremavano e le labbra martoriate mentre le stringeva negli incisivi per
non
urlare. Era una persona orribile, una persona grasse e orribile e
incapace di
controllarsi.
Quasi
non
si accorse della porta del bagno che si apriva finché non
sentì la compagna di
stanza lanciare un gridolino sorpreso facendola sussultare
più forte.
“Calypso!”
la chiamò Rachel immobilizzata al tuo posto “Va
tutto bene?!”
Domanda
stupida, no che va tutto bene, sono una cicciona obesa e sono
ingrassata ed è
colpa mia, sono una stupida obesa.
Si
portò le
mani al volto per asciugarsi gli occhi dalle lacrime nel tentativo di
apparire
meno miserabile ma l’unico risultato fu quello di sporcarsi
ancor di più la
faccia.
“M-m-i
v-vie-vien-e d-da... da vom-i-mitare-re—“
singhiozzò traballante inciampando in
ogni sillaba. Avrebbe
tanto voluto
vomitare tutto quello schifoso grasso che le appesantiva il corpo.
La rossa
spalancò gli occhi e si affacciò nuovamente nella
stanza chiamando Hazel a gran
voce, poi si accucciò accanto a lei cercando di tirarle
dietro i capelli.
“Va
tutto
bene, non preoccuparti” cercò di rassicurarla a
disagio, la vista di quel viso
sporco di lacrime e vomito la turbava tantissimo, soprattutto
perché aveva gli
occhi così rossi che sembravano sul punto di sciogliersi in
sangue. “Se devi
vomitare, fallo. Meglio fuori che dentro”
“Che
succede?” biascicò Hazel appoggiandosi assonnata
allo stipite della porta ma
appena vide l’amica accucciata con la testa nel cesso divenne
immediatamente
vigile. “Cal, cos’hai?”
“Le
viene da
vomitare” rispose al suo posto Rachel continuando a
pettinarle i capelli all’indietro
con le dita.
“Buon
Dio!”
esclamò Hazel con un lampo di comprensione negli occhi
“Cosa l’avete fatta bere?!”
e subito dopo sbadigliò.
“Ma
niente”
sbottò Rachel. Calypso intanto continuava tremare per quanto
si stesse
sforzando di trattenersi ma quel numero comparso sulla bilancia
appariva
davanti a lei ogni volta che sbatteva le palpebre e una voce maligna le
canticchiava nelle orecchie ‘cicciona’ in mille
tonalità diverse; dapprima
acuto, poi strascicata, in maniera beffarda, veloce e lapidaria,
delusa,
robotica, sprezzante. Quella di suo padre.
Ciicciooona.
“E’
strano
che le venga da vomitare adesso” sentì dire dalla
rossa “Solitamente non passa
tutto quel tempo”
Hazel
annuì
come se stesse ricordando qualcosa. “Hai già
vomitato?” le domandò.
Annuì,
non
aveva neanche un respiro di voce per parlare. Se avesse aperto lo
bocca, lo
sapeva, avrebbe urlato fino a svenire.
Ciicciooona.
“Ed
era...
ehm, consistente?”
Scosse
la
testa, aveva vomitato per lo più saliva e succhi gastrici.
“Forse
è
solo sfinita” ipotizzò Rachel continuando ad
accarezzarle la testa “Magari deve
mangiare qualcosa”
“Possiamo
andare a fare colazione” concordò Hazel.
A quelle
parole la mente di Calypso fu letteralmente invasa dal panico e smise
di
pensare lucidamente. Non poteva andare a mangiare, era già
abbastanza obesa
così, non doveva mangiare, non doveva mangiare, non doveva
mangiare, non doveva
mangiare! La sola idea il suo stomaco faceva mille capriole e la
sgradevole
sensazione dei conati tornava alla sua gola bloccandole il respiro come
se
stesse per vomitare ancora. Era soffocante. Si sentì
claustrofobica in quel
bagno.
“No”
ma
aveva la voce talmente roca che dovette tossire e ripeterlo
“No” la fissarono
perplessa e lei cercò di spiegarsi
“L’idea del cibo mi fa tornare la nausea”
il
che era del tutto vero. La sola idea del profumo della brioche la
faceva
rimettere.
“E
se fosse
un’influenza?” domandò retoricamente la
più piccola “Forse si è presa un virus.
Non lo so...”
“Bisognerebbe
chiamare la mamma di Percy” costatò nervosamente
l’altra.
“Sei
proprio sicura di non voler qualcosa? Magari potrebbe
aiutare...” la guardava
con gli occhi dorati ricolmi di preoccupazione come se fossero sorelle.
Fu un
pensiero che la fece stare sia bene che male allo stesso tempo, era da
tanto
che qualcuno non la guardava così.
Scosse
la
testa con forza.
“Con
la
nausea?” le domandò Rachel “Se si
è attenuata credo che tu debba tornare a
letto. Ma prima è la caso di pulirti un po’ il
viso”.
L’acqua
gelato fu un po’ un sollievo anche se la fece rabbrividire ma
almeno si tolse
quei succhi gastrici dalla faccia, si risciacquò anche la
bocca per scacciare
quel saporaccio. Quando Hazel le porse la sua maglia del pigiama si
accorse di
essere stata per tutto quel tempo solo negli slip e abbassò
lo sguardo
vergognandosi tantissimo. Non era abituata a girare senza vestiti, la
nudità la
facevano sentire esposta; nei vestiti poteva nascondersi.
“Cosa
facciamo, noi?” chiese Rachel mentre Calypso tornava fra le
lenzuola,
desiderava tirarle fin sopra la testa e nascondersi lì sotto
per sempre.
“Scendiamo,
tanto vale” rispose l’altra “E magari
passiamo per l’infermeria”
Quando
le
due compagne di stanza finirono si sistemarsi e uscirono dalla camera,
lei
ricominciò a piangere. Si promise che non sarebbe mai
successo mai più, che
avrebbe rimediato e tutto si sarebbe risolto, avrebbe saltato sia il
pranzo che
la cena e avrebbe fatto un po’ di sport.
Voleva
solo
scomparire.
**
Mentre
camminava con passo spedito e allegro per i corridoi, Piper si
intrecciava
distrattamente una ciocca di capelli e un sorriso timido le incurvava
le labbra
verso l’alto. Sentiva che quella era la domenica giusta,
sicuramente suo padre
le aveva spedito qualcosa. Forse
le
aveva scritto che aveva prenotato una vacanza solo per loro due lontano
dai
paparazzi e tutti i problemi. Sicuramente era così.
Pensò
distrattamente che se avesse trovato quella lettera lo avrebbe
perdonato, gli
avrebbe perdonato tutti quei mesi di silenzio e tutto sarebbe tornato a
posto.
Lo
pensava
con quel bellissimo sorriso timido e le dita che formavano una piccola
treccina
quando alzando gli occhi mise a fuoco una figura alla reception.
Una
ragazza
dalla camicetta bianca e una rigogliosa chioma
nera e lucente parlava con la segretaria inclinando la
testa di lato di
tanto in tanto. Era di spalle, ma non le ci volle molto per
riconoscerla.
Proprio
in
quel momento la ragazza si voltò e sembrò notarla
anche lei da come sogghignò.
Con passo sicuro la raggiunse, le labbra rosso scure distese in una
finta
espressione benevole.
“Vedo
che
anche tu sei ancora qui” le cinguettò quando le fu
vicino “McLean”
“Boreade”
costatò stringendo i pugni “Sei tornata”
Chione
fece
una smorfia come se avesse appena ingoiato qualcosa di schifoso come un
cavolino di bruxells. “Non che io ne sia felice,
l’ho già detto al piccolo
piromane”
Piper
spalancò gli occhi rendendosi conto di chi si riferiva.
“Sì,
anche
lui ha fatto quella faccia sconvolta” la informò
noncurante, poi la superò
altera iniziando a salire la scale “Ci vediamo”
Lei
rimase
qualche secondo immobile a fissare la reception con sguardo smarrito,
poi capì
cosa fare e si girò tornando indietro. Doveva cercare Leo.
**
NDA:
Questo
capitolo doveva essere più lungo, ma ho pensato di tagliarlo
in due perché...
be’, qui la situazione si fa un po’ più
seria e non vorrei appesantire troppo
la narrazione. Non lo so, avendo messo il rating arancione non vorrei
andare troppo
sul pesante, anche perché questa storia dovrebbe avere anche
un contorno fluff.
E nulla,
ditemi voi, qui compaiono solo i nostri due protagonisti alla fine. E
non lo
so, mi piacerebbe un pochino sapere anche l’idea generale che
vi siete fatti su
tutti i personaggi. Lo sapete, no, che sono paranoica e ogni tanto ho
davvero
la sensazione di star scrivendo una grande stupidata e/o di star
parlando in
maniera del tutto inappropriata.
Mi
dispiace
l’ora tarda ma con la scuola sono iniziati anche i mille
impegni c_c
E nel
caso
a qualcuno interessasse, ho anche pubblicato una piccola one-shot sulla
Caleo,
la trovate nel mio profilo se la volete^^
Spero di
leggere qualche vostro commento,
con
affetto
Hatta
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