Il peso di un colibrì

di Voglioungufo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 47.1 Kg ***
Capitolo 3: *** 46.5 Kg ***
Capitolo 4: *** 46.3 Kg ***
Capitolo 5: *** 46.6 Kg ***
Capitolo 6: *** 47.8 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


L’anoressia non è come un raffreddore. Non passa così, da sola.
Ma non è nemmeno una battaglia, che si vince. L’anoressia è un sintomo. Che porta allo scoperto quello che fa male dentro. La paura, il vuoto, l’abbandono, la violenza, la collera. È un modo per proteggersi da tutto ciò che sfugge al controllo. Anche se a forza di proteggersi si rischia di morire.
 
Io non sono morta”
 
(“Volevo essere come una farfalla – Michele Marzano)
 
 
 
 
 
Il peso di un Colibrì
 
 
 
 
 
PROLOGO
 
 
 
“Sono passati dieci anni. Per dieci anni non ti ho più vista, sono rimasta lontana per ben dieci anni e ora che sei, sei...” Non trova le parole ma non è questa la cosa importante. Calypso è lì –con il viso incorniciato da cortissimi ciuffi chiari, quand’è che si è tagliata i capelli? – davanti a Zoe che davvero non riesce a concepire, ma nemmeno in minima parte come possa essere passato così tanto tempo dall’ultima volta che ha visto quegli occhi a mandorla e quei capelli color caramello, anzi, a dir la verità gli sembra solo ieri di averla lasciata in lacrime quando estremamente determinata abbandonava di nascosto villa Ogigia. Se ci pensa bene, quella è davvero l’ultima immagine che ha di Calypso, poi non l’aveva più incontrata.
“Cosa sono, Zoe?” chiede la ragazza con voce mesta occupando il silenzio sconfortante lasciato dalla frase a metà della sorella.
Preferisce ignorare la sua domanda perché non riesce davvero a dirlo. “Cosa ci fai qui?” domanda invece. Calypso abbassa le ciglia lunghe sfiorandosi le guance come se ci stesse pensando su, ma poi ripunta lo sguardo verso la donna.
 “Non ero pronta ad accettare quella situazione. Mi sono sentita tradita ed esclusa proprio dalla persona in cui avevo risposto tutta la mia fiducia, a cui avevo permesso di sbirciare dentro la mia corazza. Non riuscivo a capire, anzi, meglio: non volevo capire. L’unica soluzione giusta per me era andarmene e questo ho fatto, ma se pensi che sia più appropriato dire che sono scappata allora ti dirò che è vero, sono scappata. Sono scappata davanti alle mie responsabilità, davanti alla mia famiglia e a tutto quello che i miei genitori avevano costruito per me. Sì, sono scappata, non nel modo in cui lo hai fatto tu ma la mia si può definire in ogni caso una fuga. La fuga di una codarda.”
Zoe tuffa il viso fra le mani e scuote la testa perché tutto quello che sta dicendo la sua sorellina minore non ha senso, almeno per lei che non la vede da dieci anni e non sa nulla di quello che sia capitato da allora alla famiglia che si è lasciata alle spalle. “Sei scappata da Villa Ogigia anche tu?” chiede alla fine, l’unica ipotesi che quella cascata di parole le ha dato, almeno questo spiegherebbe perché sia andata da lei.
“No” dice abbassando il viso e incupendosi “Per quanto ci abbia provato, non sono mai riuscita a compiere un gesto così estremo”
“Ma hai appena detto che sei scappata anche tu!”
“Non nel modo comune in cui intendiamo di solito” sbotta, prende una corta ciocca di capelli chiari e la liscia distrattamente come se stesse cercando tra sé e sé le parole esatte da usare. “E’ difficile da spiegare” risolve infine.
Zoe scuote la testa borbottando qualcosa talmente sottovoce che Calypso non riesce a capire, sembra stia maledicendo una qualche divinità. Poi, rialza lo sguardo su di lei. “Senti, ma com’è che mi hai trovata?” è abbastanza sicura che nessuno della sua famiglia conosca la sua attuale ubicazione, quando è fuggita ha fatto le cose per bene rendendosi non rintracciabile.
“Oh” questa domanda sembra far precipitare la sorella minore direttamente dal mondo sulle nuvole e lascia cadere la ciocca di capelli sulla sua spalla, adesso la guarda con occhi grandi e incerti. “Ecco... conosci Will Solace?”
Zoe aggrotta la fronte pensierosa. “Solace? Intendi il figlio di Apollo? Ma! Lo sai che lui, lui...” spalanca gli occhi e si sorprende quando l’altra annuisce senza battere ciglio per nulla turbata dalla cosa. Al che si schiarisce la voce con una leggera tosse un poco a disagio, ma poi continua nelle sue domanda. “Come lo conosci?”
Calypso si morde il labbro con gli incisivi, apre la bocca per dire qualcosa ma sembra ripensarci e la chiude guardandola con sguardo colpevole. “...è difficile da spiegare”
A questo punto, tutto ciò che Zoe può fare e lasciarsi andare in un sonoro sospiro, non sa proprio come capire quella situazione. È tutto così inaspettato, dopo dieci anni ha davanti la sua sorellina che parla per enigmi; si chiede se non sia tutto un piano ideato da loro padre Atlanta ma le basta guardare dentro gli occhi della sorella per capire che non è così.
Sposta lo sguardo alla finestra dove i timidi raggi del sole autunnale bussano sul vetro chiedendo il permesso di entrare per riscaldare la casa.
“Ti preparo il tè, ok? No, almeno ti fa bene e fai discorsi un pochino più sensati” blatera alzandosi e si dirige verso il piano cucina.
 
“Senti Zoe, ma secondo te è possibile programmare le benedizioni?” la voce limpida e dolce di Calypso emerge attraverso il rumore di stoviglie mentre la donna continua a fare tutto quel chiasso cercando chissà cosa negli stipetti. Lei le rivolge uno sguardo di sbieco di pochi secondi prima che il pentolino pieno d’acqua calda ri-catturi la sua attenzione.
“Certo che no” risponde “Le benedizione scendo dal cielo per grazia di qualche volubile dio fancazzista. Se proprio ce le facessimo da soli saremmo tutti più contenti” e mentre lo dice indica con un dito il soffitto per indicare metaforicamente quel dio che si diverte a far dannare questi piccoli e teneri e inutili esseri umani.
Calypso si limitare ad allungare le labbra  in un morbido sorriso e guarda attentamente la sorella maggiore come se volesse imprimersi nella mente ogni singolo particolare di quel viso che non ha visto per molti – troppi – anni.
Zoe aveva sempre avuto quella postura sicura tipica delle guerriere con le spalle larghe, i muscoli definiti sulle braccia e la sua considerabile altezza, ma è anche armoniosa così che la pelle scura e i tratti delicati del viso la fanno assomigliare a una principessa persiana. Da piccola l’aveva invidiata, perché era quella grande e poteva fare più cose che a lei erano precluse ma ora riesce a comprendere quanto in realtà la vita della sorella fosse stata piena di rinunce. Come la sua. Però ora Zoe è una donna, una donna vera forgiata dalla vita e con i fianchi morbidi e sensuali e si chiede distrattamente se anche lei avrà quelle dolci forme o se resterà impigliata in quel corpo gracilino. Sorride al pensiero rendendosi conto che forse le cose possono davvero cambiare.
“Tutto quello che è successo non era nei miei piani, ma proprio per questo è stato una benedizione” mormora sfiorando dolcemente le vene sul legno chiaro della cucina “Ma non credere che io l’abbia capito subito, eh, se così fosse stato non sarei mai venuta qui, starei ancora vagando per Los Angeles completamente sola” aggiunge mentre sorride socchiudendo gli occhi scuri.
Zoe si lascia scappare un mezzo sospiro, forse di stanchezza o di esasperazione, magari no, magari è solo il sollievo di riavere quella piccola sorellina con sé, e intanto continua a osservare l’acqua sul pentolino bollire, si stanno già formando le prime bolle ma sta andando comunque troppo lenta per i suoi gusti.
“Senti” dice grattandosi una guancia, di guardare Calypso negli occhi non ha la forza e quindi resta girata a darle la schiena con sul volto una leggera smorfia di preoccupazione  “Che è successo?”
La Nightshade più giovane si irrigidisce appena e le sue labbra ancora tirate in un sorriso tremano un poco, tamburella con le dita della mano sinistra sul tavolo – sorride al ricordo di chi le ha attaccato questo vizio – mentre appoggia il viso sul palmo della mano destra. “Ecco, mhh— quando sei andata via di case le cose non andavano proprio bene, sai... Papà era furioso, ti hanno cercata per tutto il continente” inizia decidendo di prenderla alla lontana, ma molto lontana. “Le cose sì, erano proprio pessime. Tu sei stata proprio pessima, non hai lasciato nemmeno un bigliettino” continua a blaterare mentre il cuore le batte velocissimo: non ha mai raccontato a qualcuno quello che è successo, mai di prima persona, altri raccontavano ad altri solitamente. “Io... sono stata male. Parecchio male. Ero tipo depressa, una roba simile” borbotta mangiandosi le parole e attorcigliandosi una ciocca tra le dita “All’inizio non ci ha fatto caso nessuno, erano tutti troppo occupati a cercarti. Poi, però, hanno iniziato a farsi qualche domanda, a notare che non toccavo cibo e che non parlavo con nessuno e—“
“Mi dispiace” la interrompe Zoe prendendo due tazze da un ripiano “Non era mia intenzione farti stare così male, lo sai” ha un groppo in gola e il senso di colpa le attorciglia le budella.
“Lo so” conferma Calypso, poi prende un grande respiro “Hai mai sentito parlare del College Olympus?”
Zoe si volta a guardarla spandendo qualche goccia d’acqua fuori dalla tazza, ha un’adorabile espressione confusa sul viso. “Ah-ah” conferma “Ci ho lavorato otto anni fa. È lì che ho conosciuta Artemide. Ma cosa c’entra?” domanda mentre mette le bustine da tè dentro le tazze. Ne porge una alla sorella che l’accetta con un tenue sorriso.
“L’Olympus non è solo una scuola. O meglio, lo è ma...”
“E’ una scuola un po’ speciale” annuisce Zoe soffiando sopra il liquido della sua tazzina. “Vuoi dello zucchero? Miele? Latte?” elenca poi guardando tra gli stipetti.
La più piccola spalanca gli occhi e si morde l’interno guancia a disagio mentre l’altra prende fuori un barattolo di miele e chiede ancora. “Ne vuoi? Io lo metto”.
“No” dice pianissimo, poi scuote la testa e si schiarisce la voce “Anzi sì. Cioè, no. Sì. Io—“
“Lo vuoi o non lo vuoi?” vocia Zoe “E’ semplice: o lo vuoi o non lo vuoi”.
Calypso sorride a quella frase, con nostalgia, come se le abbia ricordato qualcosa di estremamente dolce e doloroso insieme, stringe la presa sulla tazzina e scuote la testa, lentamente. “No, grazie”
Zoe annuisce, come se avesse capito tutto quello che frulla nella testa della sorellina. “Allora, si diceva dell’Olympus. Tu come lo conosci?”
Distoglie lo sguardo e inizia a mescolare con il cucchiaino. “Io... quando la situazione è diventata critica mi hanno mandata lì”
“Calypso” la ferma con determinazione “Che situazione? Cosa avevi? Eri triste, ok, ma cos’è successo da mandarti in un centro per ragazzi problematici?”
Adesso la guarda con gli spalancati e pieni di incertezza e timore, sembrano dire: posso fidarmi di te? Perciò un morbido sorriso compare sulle labbra della maggiore, ammorbidisce lo sguardo e dice: “Sono tua sorella” se non ti fidi di me, di chi allora?
“N—on... non mangiavo... più” tentenna con una voce piccola e piccola, proprio come lei, nota Zoe, che ha la pelle pallida e molte ossa che sporgono.
È il suo turno di spalancare gli occhi. “Sei anoressica?” sbotta ad alta voce.
Le labbra di Calypso si stirano in una linea sottile, priva di qualsiasi sorriso, e gli occhi si incupiscono. “E’ un po’ più complicato di così” sibila. Ha sempre odiato chi si liquidava con quella parola davanti a lei, come se bastasse quella a spiegare tutto quello che aveva dentro, come se bastasse a rinchiuderla dentro una definizione che, se ci pensate, è un po’ come una prigione. L’ennesima in cui qualcuno la metteva quando, no, a lei era semplicemente sembrata l’unica soluzione, l’unica chiave alla sua libertà.
“Semplicemente, da quando te ne sei andata ogni cosa si è definitivamente distrutta, fondamentalmente mi hai abbandonata in una prigione togliendomi ogni possibilità di fuga. Come potevo anche solo pensarlo dopo tutto il dolore che avevi creato a nostra madre? Fondamentalmente ho creato una falsa me per adattarmi all’ambiente che mi circondava, a quella situazione che tu avevi creato. Fondamentalmente, mi sono sottomessa per sopravvivere. Inizialmente, desideravo di smettere di respirare per non essere un peso agli altri. Poi, ho desiderato di essere così leggera da essere spazzata via da un colpo di vento e smettere, definitivamente, di essere un peso. Alla fine, tutto quello che chiedevo era di avere lo stesso peso di un colibrì per volare via da quella prigione”. Respira affannosamente come se avesse appena corso la maratona di New York quando ha solo detto una cosa che si portava dentro da troppo tempo alla diretta interessata.
“Dopo la tua fuga, mamma e papà erano terrorizzati che io potessi fare lo stesso. Erano terrorizzati dal mondo fuori la villa e credevano che lo fossi anche io. Spaventata, intendo. Ma... non si trattava di accettare il mondo esterno, anzi quello lo agognavo fin troppo. Il fatto è che non potevo accettare me stessa. Perché lo ha fatto? Mi domandavo. Io non le bastavo? Io... non ho mai rifiutato il mondo, rifiutavo solo me stessa. Ma loro non lo hanno mai capito, almeno finché le cose non sono diventate troppo gravi e hanno pensato che l’unica soluzione ormai fosse il College Olympus.”
“E lo è stato?” chiede, poi aggiunge pensierosa. “E’ pieno di bambini disagiati, là dentro”
Calypso fa una smorfia di malcontento davanti a quelle parole, non perché lei ci sia stata – beninteso, sa di essere stata alquanto disagiata – ma quei bambini disagiati là dentro sono tutti i suoi amici (o erano, non lo sa. Adesso che è scappata le cose sono confuse).
“Il College è un bel posto” riprende a parlare “Sul serio, ma non credo sia stata propriamente la scuola ad aiutarmi. O meglio, sì: lo scopo del college è maggiormente quello, ma non ha agito in prima persona. Forse sono stata solo io a mettermi in gioco, avevo bisogno di una spintarella, tutto qui. O forse no, non saprei dirlo con certezza. Non saprei nemmeno dire se sono... guarita da me stessa.”
 Zoe prende un lungo respiro, poi la guarda con occhio critico mentre l’altra sorride alla tazza e riprende a parlare.
“Più che altro lì dentro ho conosciuto molte persone. Sai, è stato difficile all’inizio: non mi fidavo di nessuno, avevo il terrore di vedere tutti scomparire improvvisamente dalla mia vita e perciò non ho mai dato fiducia a nessuno. Però ho incontrato Rachel, che forse è disagiata – molto – ma non nel senso che intendi tu; poi ho trovato Percy, che ai miei occhi era come un eroe, forse un po’ tonto ma un eroe perché era lì a salvare la sua fidanzata; c’era anche Nico, che forse è quello che mi ha capita meglio subito perché anche lui aveva questo piccolo problema di fiducia verso gli altri, anche lui aveva perso la sorella –ma per sempre; c’erano Hazel, Will, Annabeth, Jason, Chirone, Estia, Frank, Piper.... ma soprattutto c’è stato lui” ha un sorriso così dolce sul volto che sembra fatto di zucchero filato, o forse è la stessa consistenza delle nuvole “Nonostante tu te ne sia andata ho scoperto che non ti eri portata via con te anche il mio cuore, come credevo all’inizio. Tutt’altro, altrimenti non mi spiegherei come sia così facile amare Leo, credo sia la cosa più facile di questo stupido mondo”
Zoe fa una smorfia di disappunto piegando impercettibilmente le labbra mentre Calypso continua a guardare la tazza con quegli occhi pieni di luce e un sorriso spontaneo sulle labbra, di quelli che puoi nascondere solo abbassando il viso e mettendo una mano davanti alla bocca.
“Non volevo metterti in imbarazzo, ehm! Dico solo quello che penso, proprio come mi hai insegnato tu!” Schiude la bocca e ride chiudendo gli occhi, già l’aria nella cucina torna più leggera, ma non di tanto. La maggiore si è appena vista catapultata nel passato e davanti ha una Calypso più piccola con i capelli più lunghi e un viso rotondo come la luna lavato dalle lacrime, può anche sentire quella dolorosa sensazione  degli addii muti.
“Scusami” prorompe interrompendo quella risata che le ricorda che davanti a lei adesso c’è una Calypso più alta con i capelli corti e un viso magro e quel sorriso amabilmente ipocrita.
“Eeh? Perché me lo chiedi? Non devi?” mormora confusa, o forse è solo stupita, ma con quel sorriso sul volto che non ha intenzione di far cedere.
“Se non me ne fossi andata, se fossi restata tu non saresti mai caduta in questa situaz...”
“Oh, con i se e con i ma la storia non si fa” vocia perentoria, addirittura irritata, e adesso non sorride proprio più, la guarda con occhi colmi di rimprovero. “Mi hai già chiesto scusa”
“Non mi sembra abbastanza” ammette mortificata “Io, davvero, Cal, ti chiedo perdono per essermene andata e per tutto quello che è successo, che ti ho fatto soffrire. Sono stata solo una povera idiota”
“Ma insomma!” sbotta facendo colpire con un rumore secco il fondo della tazzina sul tavolo “Smettila di prenderti tutte le responsabilità di questo mondo! Specialmente se non ce n’è il bisogno. Cosa avresti fatto, altrimenti? Preferivi passare tutta la vita chiusa in una casa odiata a fingere ciò che non sei, prigioniera non solo in una villa, ma nella tua stessa famiglia e nel tuo stesso corpo? No, hai fatto fin troppo bene. Che poi io abbia usato la cosa come scusa per arrendermi è affare mio, piuttosto sono io l’idiota che si è chiusa frignando in sé stessa perché non aveva più la sorellona a darle attenzioni. Oh, sì! Sono stata davvero una grandiosissima scema che ha preferito addossare le colpe ad altri che a sé stessa, quando erano solo sue.” Continua a voce alta ed aspra puntandosi il petto con una mano per sottolineare le sue parole “Sono io l’idiota, Zoe, sono io che non ha nemmeno provato a fuggire quando era prigioniera ma che invece è fuggita senza pensarci due volte quando ha visto la libertà perché ne ha avuto paura. Come se fossi l’eroina di chissà quale scadente libro. Guarda sorellona, hai davanti a te la più grande e gigantesca idiota che sia apparsa in questo mondo!”
Cala il silenzio per qualche secondo mentre la più giovane la guarda infervorata, ma poi Zoe annuisce. “Sì, se la metti in questo modo ha proprio ragione” e si passa una mano tra i capelli in un timido sorriso che dovrebbe stare a significare che sì, va bene così. Anche se non è vero perché non saranno quelle parole a cancellare dieci anni di rimorsi.
Calypso guarda fuori dalla finestra gli alti grattacieli della città e il sole che fa capolino tra di essi, da lì può vedere il traffico cittadino. È una giornata ventosa ma anche estremamente calda lì, a San Francisco. Il sorriso di mediazione della sorella le ha ricordato una cosa che le avevano detto tempo prima.
 
A volte ho la sensazione che le nostre vite non siano altro che una gara a chi collezione più rimorsi e sensi di colpa nel cuore rispetto all’altro.
Se così fosse, Jason, comunque, per ora sta vincendo.
Maledetta sindrome del supereroe.
 
“Senti” la richiama Zoe, ha il viso mollemente appoggiato sul palmo della mano e fa di tutto per non guardarla “Perché sei qui?” che alla fine è la domanda a cui hanno girato intorno per tutto il tempo.
Calypso si prende qualche secondo per pensarci studiando le decorazione sulla tazza, il tè si è raffreddato del tutto ormai. Poi alza lo sguardo. “Zoe, ti va se ti racconto una storia?”
 

 

 

 

 

 

 

Angolino dell’autrice:

E così, dopo tanto tempo, approdo nuovamente in questo fandom con questa sottospecie di long-fic. Sì, lo so che ormai mi davate per dispersa, ma sono tornata!

Questa idea è saltata fuori da un’enorme bisogno di leggere una Caleo, o almeno una storia con Leo protagonista, ma ahimè, sembrano essere rare quanto gli struzzi in technicolor c__c Ormai il sito è sommerso dalle Solangelo! E dal momento che la mia autrice preferita su questa coppia sembra essersi volatilizzata nel nulla (Mikiriseeee, dove seeei!) ho deciso di intervenire in prima persona peccando decisamente di ubris.

 

Quindi sì, questa è una Caleo ma ci saranno anche i Solangelo e i Percabeth perché sì. E come avete visto, non tratta di cose proprio leggere (amo complicarmi la vita). Mi rendo conto che l’anoressia sia un argomento complicato, frainteso e spesso liquidato con un “ma mangia, basta quello!”. È un argomento a cui sono molto legate, anche, e spero quindi spero di poterlo rendere bene. Ovviamente, non è pro-ana o pro-tuttoquellochesuccederà. Semplicemente, considero la scrittura un modo come un altro per schiaffeggiare al mondo certe verità che si tende ad ignorare o a liquidare con i soliti luoghi comuni.

Ovviamente parte II, mi rendo conto che non posso fare una cosa totalmente cruda, cercherò di renderlo in maniera leggere (anche se è pesante come un macigno in realtà) per non far star male le persone troppo empatiche come me – vi capisco!

 

Questo è il prologo e può risultare un pochino incasinato per via del fatto che tutta la storia sarà un flashback di Calypso (anche se sarà narrata in terza persona), quindi la storia parte in media res, molte cose sono già avvenute ma i lettori non le conoscono, quindi sì: la confusione iniziale è tutta programmata!

 

Un’ultima precisazione: il College Olympus. Ecco, mi sono informata in giro e ci sono varie strutture che ospitano ragazzi con determinati problemi (odio definirli così, ma non so come altro spiegarmi!). possono variare dai disturbi alimentari all’autolesionismo e altre mental illness. Io ho optato per fare una cosa più easy (sì, usiamo l’inglese alla cazzo!), perciò nasce questo College adibito sia all’insegnamento, ma che ospita questi ragazzi aiutandoli a ritrovare sé stessi e a guarire. Ho aggiunto, che in estate – periodo in cui è ambientata la storia – esso diventi un campus estivo cosicché i ragazzi possano trovare una casa per tutti i giorni dell’anno nel caso i propri genitori o non ci siano o non siano in gradi di aiutarli/mantenerli. Altra cosa che ho aggiunto: sempre in estate, c’è la possibilità che degli esterni possano aiutare i prof nella gestione del Campus, queste persone vengono chiamate Magliette arancioni (spoiler: Will e Percy sono dei loro)

 

 

Spero di aver detto subito. Come al solito, recensioni, pareri e critiche possono aiutarmi non solo a capire se la storia sia apprezzata ma anche a migliorare nello scrivere. Perciò, non siate timidi!

Sappiate che regalo biscotti a chi recensisce xD

 

A presto!

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Capitolo 2
*** 47.1 Kg ***


Attenzione! La storia seguente presenta tematiche delicate. Vorrei precisare che non promuovo nessun tipo di disordine alimentare. Pertanto, se si è facilmente influenzabile sconsiglio la lettura, non voglio avervi nella coscienza.
 
 
 
 
 
I
 
Quarantasettepuntouno
**
 

“Bevi acqua ghiacciata.

 Il tuo corpo brucerà calorie per riportare
 l’acqua a una temperatura adatta alla digestione.
È anche ottimo per la tua pelle”
 
 
 
 
Era una stanza ampia e spaziosa, grandi finestre in vetro la illuminavano lasciando entrare i raggi aranciati del sole prossimo al tramonto. Quel colore caldo si rifletteva sul marmo bianco del pavimento e rimbalzava sui muri  ─sempre bianchi – infilandosi tra le poche persone presenti. Quella hall invece di sembrare l’entrata di un college le ricordava quella di un museo, complici le copie di antiche statue in marmo che costeggiavano alcuni lati delle stanza. Ma la cosa che aveva rapito lo sguardo di Calypso era il soffitto alto e imponente da cui poteva ammirare estasiata un bellissimo affresco rappresentante, se non errava, gli dei dell’Olimpo nel loro regno di nuvole; al centro esatto capeggiava Zeus accompagnato dall’algida sposa. Da lì in basso non poteva vedere tutti i particolari di quel mirabile dipinto ma poteva ben comprendere la maestria di chi lo aveva affrescato. Ne fu estasiata, ma anche un po’ invidiosa.
Accanto a lei stavano due valigie, troppo grandi per essere sollevate insieme, e i ragazzi che entravano e uscivano la spiavano con la stessa espressione curiosa che si rivolge ai nuovi arrivati. I suoi genitori stazionavano non molto lontano, si sporgevano sul bancone di legno lucido dietro quale una donna parlava con aria professionale immersa tra fogli, penne e le brochure del college. La donna parlava con sicurezza e i due coniughi Nightshade annuivano in maniera posata e aristocratica sebbene conoscessero già a memoria ogni possibilità che quella prestigiosa scuola offriva a gente come lei. Anche Calypso le conosceva tutte, queste possibilità, motivo per cui aveva deciso di piazzarsi lontano dal bancone e dalla fastidiosa voce della segretaria.
Il College Olympus non era solo una scuola prestigiosa che aveva sfornato ottimi avvocati o medici – più o meno quello che dicevano i volantini – ma era anche un ottimo luogo dove ragazzi problematici –come lei – potevano essere seguiti nei giusti modi e ritrovare la retta via – questo a citare le parole di suo padre.
Avevano passato la maggior parte dell’inverno, almeno da quando avevano iniziato a preoccuparsi della figlia, a ricercare strutture che potessero accoglierla nel modo giusto senza far cadere la famiglia in certe maldicenze e allo stesso tempo non dovendosi occupare della questione in prima persona delegando ad altri il problema. Era un normalissimo college sotto certi punti di vista, la differenza stava sulla tipologia di alunni che lo frequentava e che d’estate si trasformava in un campo estivo con numerose attività.
“Calypso, tesoro” la chiamò la madre facendole cenno di avvicinarsi con un gesto elegante della mano, gli innumerevoli gioielli sul polso tintinnarono. La ragazza ignorò le valige avvicinandosi con sguardo indifferente ai suoi genitori, la segretaria le sorrise come se fosse davvero felice di vederla, aveva degli occhiali rettangolari che non le donavano affatto: le facevano il viso troppo allungato.
“Tu devi essere Calypso” disse la donna rimarcando l’ovvio con così tanta enfasi che non rispose nemmeno.
Sua madre le sistemò alcune ciocche che fuggivano dalla treccia con piccoli e studiati gesti borbottando elegantemente alcune raccomandazioni che lei si premurò di non ascoltare minimamente. Suo padre si stagliava dietro la signora Nightshade in silenzio come un’inquietante figura. La solita e inquietante figura della sua infanzia.
“Si troverà bene da noi” continuò la segretaria, non capì bene a chi, forse a sua madre “I corsi estivi sono da poco iniziati, presentiamo una grande varietà di attività nelle quali muoversi. Spesso la scuola offre alla sera anche ottime attività extra-scolastiche per migliorare il rapporto tra ragazzi...” riprese a dire come un disco rotto. Suo madre annuì convinta nonostante avesse sentito quella cantilena ormai mille volte.
“Va bene, tesoro” disse quando la segretaria terminò l’ennesimo elogio all’Olympus “chiamaci ogni tanto, ok? Lo faremo anche noi. Cerca di divertirti e se ci dovesse essere qualsiasi tipo di problema non esitare a parlarne” aggiunse sistemando con un colpetto la camicia bianca della figlia.
“Va bene” disse incolore.
 “Comportati bene” fu l’unico commento del padre. Atlante non era mai stato un tipo di molte parole, lasciava brevi ma lapidarie sentenze.
Le braccia secche di sua madre la strinsero brevemente in un abbraccio privo di calore. “Mi mancherai”.
La ragazza percepì una morsa allo stomaco mentre un ragazzo la aiutava con le valigie e i suoi genitori la vedevano andarsene, forse fu la spiacevole sensazione di passare da una gabbia dorata all’altra, sempre prigioniera, sempre incapace di librarsi lontano, tra le nuvole.
 
**
 
Will Solace era fiducioso. Diamine se lo era. Aveva vent’anni, tutta la vita davanti, e finalmente si sentiva pronto a fare qualcosa di buono e giusto dopo un inverno passato tra le pagine dei libri di medicina sballottato da un esame all’altro. Ma adesso gli si prospettava davanti un’ottima estate a fare ciò che davvero voleva fare, certo forse era un desiderio un po’ (tanto) insolito per un ragazzo della sua età che aveva passato mesi immerso nello studio ma, davvero, Will voleva fare questo.
La facciata del College Olympus lo sovrastava ma lui lo guardava spavaldo per nulla impressionato dalla sua imponenza. Un venticello estivo gli spettinava i capelli biondi e lunghi arruffandoli leggermente, un sorrisetto a labbra strette gli deformava leggermente gli angoli del viso in una fossetta. Will conosceva bene quel posto, sapeva bene che genere di persone lo frequentassero e per questo aveva fatto richiesta al preside di essere assunto come aiutante per i corsi estivi. A rispondere alla sua domanda era stato invece il vice-preside, un certo signor Chirone che sotto uno sguardo stupito e corrucciato aveva accettato la sua richiesta; avrebbe aiutato i professori nel disciplinare i ragazzi. Non era insolito che esterni partecipassero al progetto del college, a lasciar perplesso il vice-preside era stata la giovane età del candidato.
“Perché ?” aveva chiesto.
Will aveva scrollato le spalle. “Tutti meritano una seconda possibilità”.
Lo credeva fermamente e voleva aiutare chiunque stesse cercando la seconda possibilità. Lui stesso in primis.
“Signore?” un addetto alla scuola era uscito dal portone studiandolo con curiosità“Ha bisogno di aiuto?”
“Sono una maglietta arancione” disse con tono cordiale, ricevette un breve sguardo scettico a tale frase ma si operò subito ad aiutarlo con le valige.
“Avverto il signor Chirone” disse una volta dentro “Che nome devo riferire?”
Il biondo guardò la hall con attenzione, studiando particolarmente le poche persone che si aggiravano.
“Solace” rispose dopo un attimo alla domanda dell’uomo “William Solace”
Sì, tutti meritano una seconda possibilità, pensò.
 
**
Stanza 123, ala C.
Questa sarebbe stata la sua nuova casa per lungo tempo. Calypso sfiorò con lo sguardo la targhetta d’ottone al centro della porta meditando chissà quale sciocchezza prima di posare le dita sulla maniglia e spingerla dolcemente. Notò che il colore predominante all’interno era l’azzurro e gli ultimi raggi di sole che filtravano da dietro delle tende leggere creavano la sensazione di trovarsi all’interno del ventre marino, sotto l’oceano. Accarezzò pigramente quell’idea che, se non altro, rendeva la sua futura prigionia un po’ più accettabile. Nella stanza erano presenti solo due letti, uno dei quali a castello. Di quest’ultimo, il materasso in basso era occupato da una ragazza da dei crespi e ricciuti capelli di un bel color rosso che sembravano intenzionati a sfuggire dalle grinfie dell’elastico grazie a cui aveva cercato di imprigionarli in una sommaria coda alta. Rimase a guardarla sull’uscio come se fosse un curioso folletto mentre un addetto alla scuola sistemava le sue due valigie all’interno della stanza, vicino al letto ad una sola piazza con il copriletto azzurro chiaro.
L’altra ragazza che pareva avere pochi anni più di lei muoveva la testa avanti e indietro in un ritmo dettato, probabilmente, dalle grandi cuffie che le coprivano le orecchie, motivo per cui, forse, non l’aveva sentita entrare.
 “Io ho fatto, miss” disse l’addetto – il bidello – che l’aveva aiutata con le valigie, lei annuì distrattamente. Lo sbattere della porta sembrò catturare l’attenzione della rossa che girò la testa verso la nuova venuta. A vederla spalancò gli occhi con mite sorpresa, fece un sorriso e contemporaneamente si mise a sedere verso la nuova arrivata togliendosi le cuffiette con un gesto secco.
“Tu devi essere quella nuova, Haz me ne aveva parlato” disse annuendo come se stesse seguendo il filo di un proprio pensiero ad alta voce, poi: “Io sono Rachel Dare, molto piacere” ed accentuò il sorriso. Aveva l’aria di essere molto contagioso, soprattutto per via di certe lentiggini che le puntellavano le guance come certe costellazioni. Peccato che Calypso fosse stata vaccinata dai suoi genitori contro i sorrisi spontanei.
“Calypso Nightshade” disse con voce flebile e veloce, in netto contrasto con il tono usato dall’altra ragazza, e si strinse i gomiti con le mani incurvando la schiena.
Questo atteggiamento schivo non sembrò intimidire Rachel che si alzò dal letto, notò che i jeans erano strappati in più punti ed era una macchia di pittura quella che vedeva sulla maglietta stropicciata?
“Puoi prendere quel letto. Hazel –l’altra ragazza – dorme sopra di me perciò non lo usa nessuno” le indicò l’oggetto e poi: “Ti serve un aiuto con le valigie?”
Calypso nel corso della sua breve esistenza non aveva mai avuto tanti contatti umani (se si vuole escludere sua madre, suo padre, le sorelle, la tata e il precettore) e quei pochi attimi fugaci che aveva ottenuto dai ricevimenti a villa Ogygia erano stati scarni e controllati, privi di tutta quella esuberanza che ci metteva la rossa nel dire una semplice parola. Ma, d’altronde, Calypso sapeva bene di non conoscere affatto come fosse il mondo al di fuori delle mura della sua enorme villa.
So di non sapere. Socrate sarebbe fiero di me.
“Nihtshade” stava intanto ripetendo Rachel tra sé e sé come se misurasse quel nome sulle proprie labbra “Nightshade... è per caso lo stesso cognome della ditta che vende armi?” chiese alla fine puramente curiosa.
Calypso le lanciò uno sguardo diffidente. “Sì... mio padre ne è il fondatore”.
La cosa non parve turbare per nulla la ragazza, anzi fece un altro sorriso. “Ho presente, sì. Mio padre ha fatto parecchi affari con lui”.
Un piccolo accenno di curiosità si accese nella timida nuova arrivata. Era anche quella stramba ragazza figlia di ricconi?
Rachel sembrò leggere la domanda dentro gli occhi scuri e annuì con un piccola risata. “Sì, mio padre è uno degli uomini più ricchi degli Stati Uniti. Mi ha mandato qui perché— be’” fece una smorfia buffa “Non rientro nella sua categoria di dama sofisticata in cerca di marito. Non sono fatta per queste cose ma lui non si dà affatto per vinto. Così mi ha spedita qui. La cosa mi va bene, eh” ci tenne a precisare mettendo le mani davanti “Prima di finire qui ero stata in uno stupida scuola dove controllavano pure quanta aria respirassi ogni giorno. Poi è arrivato il signor Chirone –sai, il vice-preside – e ha proposto ai miei genitori questa scuola. È stata una benedizione, mi trovo davvero bene qui. Ho conosciuto molta gente simpatica con cui posso parlare di tutto, non devo temere punizioni ingiuste per il mio modo di fare e... sì, è una pacchia”
Calypso si chiede distrattamente se qualcuno l’avesse pagata per dire tutte quelle belle cose di un luogo che iniziava già a sentirlo come una prigione.
“E tu, perché sei qui?” riprese a parlare Rachel staccandola dai suoi pensieri claustrofobici. Strinse con più forza le dita sui gomiti mordendosi per un breve attimo l’interno della guancia –un suo brutto vizio – ma poi buttò fuori l’aria in un lieve sospiro. “Più o meno per il tuo stesso motivo. Non sono esattamente come i miei vorrebbero e hanno preferito accollare la risoluzione del problema ad altri” disse. Non era una bugia ma nemmeno la verità, qualcosa che sta nel mezzo insomma e che ti permette di non crogiolarti troppo nel senso di colpa. Per una ragazza abituata a mentire la vita è fatta di mezze verità.
Rachel annuì con sguardo serio come a dire sì, capisco benissimo quando no, era ovvio lontano un miglio che non capiva e non avrebbe mai potuto capire. Ma forse era semplicemente meglio così, di sicuro risultava più facile. Si schiarì la voce per rompere quel silenzio pieno di parole sottointese.
“Quindi... puoi spiegarmi come funzionano le cose qui?” chiese con quella sua voce dolce e delicata giusto per dire qualcosa. Sembrò la cosa giusta perché lo sguardo della ragazza si illuminò nuovamente animato di un nuovo entusiasmo.
“Ma certo! Prima ti conviene sistemare le tue cose, almeno sommariamente... Nell’armadio puoi mettere tutti i vestiti che vuoi, è mezzo vuoto. E ci sono due cassetti liberi, se vuoi puoi prendere anche quelli... e oh, quel comodino... sì, questo qui –vicino al tuo letto – è completamente vuoto. Puoi usarlo tu. Io e Haz usiamo la scrivania di solito.”
Calypso sbatté le palpebre un paio di volte mentre la rossa le vomitava quella cascata di parole, indicava costantemente attorno a sé facendo ondeggiare i capelli rossi come un ventaglio.
“La sveglia è alle otto –ovviamente se vuoi puoi svegliarti prima, eh – e alle mezza si fa la colazione tutti insieme nella sala da pranzo. La mattina abbiamo i corsi, scegli tu quelli che preferisci, c’è un foglio all’entrata in cui segni il tuo nome per l’adesione, devi sceglierne cinque, uno per ogni ora. Abbiamo un intervallo di venti minuti alle dieci, poi si continua fino all’ora di pranzo dove abbiamo due ore di libertà. Il pomeriggio si fa sport oppure ci portano in gite qua attorno. La cena è sempre alle sette e mezza, il signor D dà di matto se si arriva in ritardo, piuttosto non scendere proprio. Dopo... mh, la sera sei libero di fare quello che vuoi, ogni tanto ci sono feste nel pub del paese e con il permesso degli insegnanti possiamo andare. Deve esserci sempre almeno una maglia arancione” fece una smorfia di disappunto “E ovviamente, il coprifuoco è a mezzanotte”
Le spiegò tutto quanto mentre, con le valigie aperte, impilava ordinatamente i propri vestiti all’interno dei cassetti disponibili, alcuni li appese agli attaccapanni dell’armadio. Preferì lasciare i propri libri all’interno della valigia, li avrebbe sistemati più avanti in un luogo sicuro.
Quando li vide Rachel lanciò un fischio di apprezzamento “Sono tantissimi” commentò.
Il fatto è che quando passi la tua intera vita in solitudine racchiusa tra quattro mura, i libri non diventano solo la tua unica finestra per il mondo ma anche veri e propri amici fatti di carta e inchiostro. Non sono più delle fantastiche figure che scompaiono una volta chiuso il tomo, sono delle presenze rassicuranti che puoi percepire attorno a te anche solo tenendo il libricino in tasca. Forse è da pazzi, ma non importa. I libri avevano sempre risposto a Calypso, l’avevano sempre cullata offrendole mondi dove le ragazze non erano vittime delle decisioni dei propri genitori, ma delle eroine. Era affascinata da quella visione, dove non c’erano né abiti stirati da sera, nessun sconosciuto da incontrare in un piccolo ricevimento o sorrisi preconfezionati per avere l’approvazione del proprio padre, nessuna scelta influenzate. Le eroine indossavano abiti da uomo, cavalcavano i propri cavalli sotto il cielo notturno, erano algide e avevano stuoli di amanti. Nessuno poteva ostacolarle.
 “Per il bagno?” chiese con la sua voce da fata quando ebbero finito di riporre il vestiario nel giusto posto. Calypso odiava il disordine, aveva la mania di riordinare ogni cosa. No, forse era mania del controllo e basta.
Rachel indicò con un gesto della testa una porticina alle sue spalle, non lontano dal letto a castello. “Eccolo lì” sbuffò per togliersi un ciuffo ribelle da davanti alla faccia “E’ un po’ piccolo, bisognerà rifare i turni della doccia. E... ehm, non fare caso alla biancheria in giro. Oggi toccava a me sistemare ma, ecco... mi sono distratta” e con imbarazzo indicò il proprio letto dove giaceva abbandonato, oltre l’i-pod con le ingombrantissime cuffie, anche un album da disegno. In altre circostante la castana si sarebbe soffermata qualche secondo a fissare i contorni perfetti tracciati con la matita – Calypso amava l’arte – però al momento c’era qualcosa che le importava di più.
Annuendo distrattamente alle parole della Dare (aveva storto il naso nel punto della biancheria) entrò dentro la stanza dell’igiene personale richiudendosi dietro la porta. Come aveva già detto l’altra ragazza, la stanza era molto piccola e lo stesso colore dell’altra colorava le mattonelle in marmo dei muri mentre il pavimento era composto da grandi e lucide piastrelle di un color verde-mare indefinito e alcuni tappetini bianchi le ricoprivano. Una sola finestra a sinistra  illuminava la stanza con dei vetri opachi, sotto di essa stava il gabinetto con accanto il bidet. Davanti a lei le restituiva la propria immagine uno specchio dagli angoli un po’ scrostati e pieno di impronte, sotto il lavandino perdeva qualche goccia d’acqua creando un fastidioso plic  regolare mentre gli spazzolini stavano abbandonati sul lavabo. A destra stava la doccia, piccola e funzionale con una tenda verde pisello con motivi floreali a proteggere il piatto da sguardi indiscreti. E ovviamente, a completare il tutto, reggiseni e mutande erano sparsi per il pavimento.
Con la schiena appoggiata alla porta fece scivolare le lunghe dita magre verso la toppa dove incontrando il freddo metallo della chiave si chiuse dentro. Subito dopo si mise a cercare minuziosamente dentro la stanzina ripetendosi nella testa:
Questa mattina pesavo quarantaseipuntosette chili, non ho fatto colazione ma ho bevuto un bicchiere di latte (92 Kcal). A pranzo l’insalata di riso fatta dalla cuoca, non ho idea di quante calorie l’abbia fatta, non me lo ha voluto dire....Però ho mangiato due carote, dovrebbero aver fatto qualcosa, no? Anche portare quelle pesanti valigie. Adesso sono le sette, mi sembra un buon orario per controllare...
Trovò l’oggetto delle sue ricerca dietro la porta, vicino alla doccia. Tirò fuori la bilancia guardandola con criticità, era una di quelle con i numeri che compaiono di un display, e la mise in un punto più comoda. Dopodiché si diresse verso la toilette per eliminare la bottiglia d’acqua che aveva bevuto durante il viaggio spogliandosi man mano che avanzava. Compiuto tutto questo, fiduciosa di essersi alleggerita abbastanza si mise in piedi sopra la bilancia e attese paziente che i numeri smettessero di cambiare a una velocità vertiginosa.
Quarantasettepuntouno.
Fissò con attenzione chirurgica quei numeri spigolosi finché non sparirono lasciando dietro di sé il vuoto, rimase lo stesso là in piedi con lo sguardo corrucciato e deluso. Si passò sovrappensiero una mano sulla pancia pallida sentendola gonfia, provò a trattenere il respiro per un po’ avvertendo sotto i polpastrelli gli spigoli delle costole. Era una bella sensazione.
Calypso?” Gridò Rachel bussando dall’altro lato della porta facendola sobbalzare di colpo e spezzando così quel momento astratto. Velocemente la castana scese dalla bilancia spingendola verso l’angolo in cui l’aveva trovata, il cuore le batteva furiosamente nel petto e con leggera ansia nella voce chiese:
“Dimmi, che c’è?”
“Sono quasi le sette, fra poco dobbiamo scendere. Non so, se vuoi farti una doccia dovresti farla adesso... Ti ho detto, non è il caso di fare tardi con il signor D”.
Calypso annuì, ma poi ricordandosi che l’altra non poteva vederla aggiunse: “D’accordo! Faccio veloce” Con gesto agile fece scivolare le mutandine dalle gambe e le calciò poco prima di entrare in doccia e accendere l’acqua.
Regolarmente ghiacciata, ovviamente.
 
**
 
La palla lo aveva colpito, come sempre, nel centro della faccia. Uno di quei giorni si sarebbe rotto il suo splendido naso, lo sapeva e non doveva assolutamente permettere che il suo bel faccino si rovinasse: questo avrebbe spezzato il cuore di un sacco di ragazze.
Non che le ragazze mostrassero apertamente il potere che il suo fascino da bel tenebroso scaturiva in loro, sempre che insulti come “vattene nano” non fossero in realtà velate parole di apprezzamento. Sicuramente era così.
Ah, le ragazze di oggi. Così timide...
Ma comunque, si parlava del rugby, o meglio del pallone, ancora meglio del pallone che quell’idiota di Travis Stoll gli aveva tirato in faccia.
Questa è l’ultima volta che faccio un piacere a Jason, si lamentò mentre con una mano spalancava la porta della loro camera e con l’altra si teneva il ghiaccio che molto pietosamente la signora Sally Jackson gli aveva dato.
“Spero per voi che la doccia sia libera” sbottò con finto tono minaccioso mentre si richiudeva con fare teatrale la porta alle spalle. Ma d’altronde, in Leo Valdez tutto era estremamente teatrale. Un Messicano basso, magro con una propensione a bruciare ogni cosa e alla tragicomicità. Tendeva a trasformare con la sua ilarità ogni cosa, anche la più banale (vedi fare una doccia), una questione di vita o di  morte.  Forse era per questo che quasi nessuno lo prendeva sul serio.
“C’è Jason” a rispondergli con tono monocorde fu un ragazzo minuto disteso sul proprio letto con in mano un fumetto e completamente vestito di nero. Non aveva nemmeno alzato lo sguardo dalle pagine quando il compagno di stanza era entrato, aveva solo fatto una smorfia di disappunto all’idea di perdere la quieta assoluta.
Come dire, Leo Valdez e silenzio vanno in due direzione opposte.
Il suddetto disturbatore a sentire le parole di quel ragazzino (oddio, non che fosse molto più piccolo di lui) fece una smorfia carica di disappunto e gonfiando il petto iniziò a berciare contro la porta che divedeva i due dal bagno.
“Uomo ingrato! È così che tratti un uomo ferito? L’uomo che molto coraggiosamente ha deciso di sostenerti in quella battaglia? Che ha lottato contro i tiri infami degli Stoll? Colui che ti ha sorretto in tutta la lotta? Gli rubi la meritata doccia? Traditore! Infame! Lurido Babba...”
“Leo, dacci un taglio” lo interruppe Jason, il suo biondo migliore amico, che dal bagno aveva sentito tutto, i muri di quelle stanze erano così leggeri da impedire qualsiasi concetto di privacy. “E smettila di urlare, ti avrà sentito anche Percy dal piano di sopra!”
“...no!” terminò il messicano ignorandolo completamente le proteste dell’altro ragazzo, anzi sbuffò più rumorosamente a sentire il nome di Percy Jackson. Perché ovvio, Jackson e quel suo bel faccino da idiota c’entravano sempre. Sempre in mezzo alle palle. Non è che non lo sopportasse, anzi sì. È solo che quello là prima gli aveva portato via Annabeth rincretinendola con i suoi occhi verdi, poi come se non bastasse stava cercando di subentrare al ruolo di Leo come migliore amico di Jason.
Percy di qua, Percy di là... grugnì infastidito.
“E comunque ho finito” riprese il suddetto migliore amico aprendo la porta del bagno con una faccia seccata. Aveva i capelli biondi completamente umidi e gli occhiali quadrati appannati dal vapore, si era legato alla vita un asciugamano e lasciava i propri addominali al vento. Subito dopo, però, guardò con apprensione colpevole il viso dell’altro. “Come sta la faccia?”
Leo sfoderò un sorriso a trentadue denti e tolse il ghiaccio rivelando una botta sotto l’occhio sinistro. “Alla grande!” assicurò nonostante tre secondi prima sembrasse in punto di morte.
Come ho detto, Leo Valdez amava la teatralità.
“Tu fai la doccia, Nico?” domandò Jason all’altro occupante della stanza mentre il suddetto teatrante se la svignava in bagno.
“L’ho già fatta” sospirò quello chiudendo il fumetto e appoggiandolo sul comodino conscio che non sarebbe più riuscito a leggerlo in santa pace.
“Non hai fatto attività, oggi?” continuò a domandargli con aria inquisitoria frizionando i capelli biondi con l’asciugamano.
“Non avevo voglia” rispose ancora monocorde facendo comparire sul volto del maggior un espressione di disappunto.
“Dovresti iscriverti a qualche corso, Neeks” lo rimproverò “Uno, il signor D potrebbe perdere la pazienza e, due, non puoi startene sempre bloccato qua in camera, devi socializzare!” aveva un’insopportabile voce da saputello.
Nico alzò gli occhi neri al cielo. “Va bene mamma” anche se ovviamente, se ne sarebbe fregato come al solito. Il signor D poteva dire tutto quello che voleva, ma non l’avrebbe mai buttato fuori. E preferiva di gran lunga restare in camera che sottostare agli sguardi curiosi e intimoriti degli altri ragazzi.
“Dico sul serio”
“E tu dovresti vestirti, dico sul serio” gli fece il verso piccato e dal bagno sentì la risata di Leo che ovviamente aveva seguito tutta la conversazione.
Stupidi muri di cartapesta.
Jason fece un sorrisetto di scusa e si accucciò in un cassetto per prendere una maglietta, quando si rialzò guardò fuori dalla finestra il giardino del College dove dei ragazzi si stavano fermando prima della cena. Il sole, prossimo al tramonto, tingeva il cielo di colori caldi e rassicuranti.
“Sapete” disse ispirato infilandosi la maglia “Questa sarà un’estate speciale”
“Lo dici tutti gli anni, Grace, e poi non succede mai un cavolo” lo raggiunse la voce divertita di Leo ma lui scosse la testa, convinto.
“No, quest’estate sarà diverso. Me lo sento”
**
 
“Non lo mangi, il pollo?”
La mensa era una stanza grandissima e ben curata, nonostante Calypso avesse abbondantemente letto del College si aspettava un self-service dai muri grigi e tristi con lunghi tavoli di metallo e tovagliette di carta. Invece, appena era entrata un’aria festosa l’aveva investita, i ragazzi che precedentemente li aveva immaginati chiusi e schivi berciavano fra di loro creando una bolla di confusione dorata, complice anche il sole rosso fuoco che si intravedeva dalle grandi vetrate. Molte tavole rotonde con tovaglie colorate riempivano la sala creando un vivace caleidoscopio che le faceva girare la testa mentre al centro esatto della sala stava una tavolata più grande piena di cibo e stuzzichini, probabilmente degli antipasti per chi arrivava troppo in anticipo. Calypso aveva deciso immediatamente che non avrebbe mai sfiorato quelle portate.
Il tavolo degli insegnanti a differenza di quello per gli alunni era rettangolare e lunghissimo, posto ai confini della stanza sotto dei grandi quadri che rappresentavano tre signori in giacca e cravatta molto simili. Anche in quella stanza il soffitto era affrescato in stile classico.
Ma, cosa più importante, a suo parere, era il fatto che delle donne vestite con camici arancioni li servissero direttamente al tavolo con un menù fisso per tutti. Quello costituiva un problema: sia il fatto che fosse fisso e che quindi non poteva contare le calorie nel modo esatto, sia che così rifiutare il cibo sarebbe stato molto più plateale. Non voleva scatenare domande.
Tipo adesso, arrivati alla seconda portata dopo una pasta al pomodoro Calypso non voleva assolutamente continuare a mangiare, per questo aveva spostato leggermente il piatto dalla sua vista scatenando così la domanda di Hazel Lovasque.
Hazel era l’altra compagna di stanza, quella che dormiva nel letto sopra a quello di Rachel perché era claustrofobica; era piccola e minuta con la pelle scura e dei vaporosi ricci color cannella, gli occhi erano grandi e vivaci, sembravano fatti d’oro fuso, e ti guardavano come se potessero scoprire ogni tuo segreto. Per questo nonostante la voce gentile e il sorriso dolce metteva una grande soggezione a Calypso. Questa guardò il pollo, sembrava buono, e improvvisò:
“Sono vegetariana!” Non era vero, ma si chiese perché non ci avesse pensato prima. Era un ottimo modo per eliminare la carne senza destare sospetti.
Hazel spalancò gli occhi, aveva delle ciglia lunghissime, poi sorrise convinta mentre Rachel le toccava una spalla entusiasta:
“Grande! Anche io ci pensavo, ma non so se potrei rinunciare all’hamburger”.
Calypso strinse le labbra imbarazzata mentre Hazel annuiva. “Sai, anche Piper è vegetariana” indicò un tavolo lontano dal loro dietro la testa del ragazzo cinese seduto vicino a lei. Se aveva ben capito si chiamava Frank Zhang ed era il suo ragazzo.  La Nightshade allungò il collo per vedere chi fosse questa Piper, immaginò fosse la ragazza con la treccia e il profilo affilato che sedava in un tavolo vicino all’entrata, era talmente bella che sentì una fitta di gelosia. Accanto a lei c’era un ragazzo occhialuto dai capelli biondi e le spalle larghe, teneva la mano della ragazza con la treccia da sotto il tavolo mentre chiacchierava animatamente con un ragazzo accanto a lui. E qui, Calypso sentì il cuore battere forte. Sebbene fossero parecchio lontani riusciva comunque vedere quanto belli fossero gli occhi verdi del ragazzo moro, rimase imbambolata a fissare quel viso che gridava libertà da tutti i pori vagamente incredula.
“Chi è quel ragazzo? Quello moro” domandò a Rachel in un sussurro. Sia Hazel che Frank si girarono verso la tavola, il ragazzo cinese corrucciò le sopracciglia.
“Dubito tu intenda Nico o Leo”
“E’ Percy” disse invece Hazel con un sorriso spontaneo a dire il suo nome “E’ fantastico ma... la vedi la bionda? È la sua ragazza”.
In effetti accanto a questo Percy c’era una ragazza dai capelli mossi e chiari, per essere più precisi era quella che gli aveva appena colpito la nuca con uno schiaffetto leggero e divertito.
“Quindi, gira alla larga” terminò la ragazza con gli occhi d’oro.
“Andiamo, Haz” rise invece Rachel “Tutti hanno avuto una cotta per Percy. Anche Jason ha avuto una cotta per Percy”.
Hazel alzò gli occhi al cielo, poi riprese a tagliare il suo petto di pollo dicendo:
“In ogni caso, dovresti dire in cucina che sei vegetariana così quando fanno la carne ti portano qualcos’altro. Con Piper fanno così”. Effettivamente la ragazza con la treccia aveva qualcosa di verde nel piatto che poteva essere qualsiasi cosa ma sicuramente non del pollo.
“Lo farò” disse leggermente Calypso. Rimase ancora un po’ a guardare l’altro tavolo distante, in particolare Percy –aveva un sorriso davvero carino che le ricordava il mare – finché con un colpo del gomito Rachel la costrinse a partecipare a una conversazione con gli altri due commensali.
Hazel le aveva chiesto da quanto fosse vegetariana.
“Da poco” precisamente da cinque minuti.
Era molto vivace come ragazza, non ai livelli di Rachel, ma ci metteva trasporto in quello che diceva. Tutti i ragazzi in quella scuola sembravano molto felici, così normali, totalmente opposti da quello che lei si era immaginato. Improvvisamente si sentì l’unica strana, si sentì irrimediabilmente nel posto sbagliato e una voglia di fuggire via le attanagliava lo stomaco quasi volesse farle vomitare il poco che aveva mangiato.
“Ehi, Ragazza D’Oro!” una voce squillante la risvegliò dallo stato di trance in cui era entrata mentre due braccia magre stringevano Hazel da dietro facendola sussultare. “Scusate se non ci siamo seduti con voi, Jason ci ha fatto arrivare tardi!”
“Leo!” sbottò quella riconoscendo la piovra che l’aveva assalita. “Mi hai fatto prendere un colpo”
Lo sconosciuto ricciuto rise mentre Frank sbuffava e assottigliava gli occhi a mandorla. Quell’avversione non fece tentennare il nuovo arrivato che invece gli rivolse un sorriso strafottente.
“Che cosa ti sei fatto alla faccia?” domandò Rachel lasciando stare i pezzi di pane che stava smangiucchiando.
“Oh,  nulla di grave. È soltanto stata un’epica battaglia tra me e la palla da rugby. È stata dura e ho sudato sangue, ma alla fine la mia faccia ha impedito ai gemelli di prendere la base. Mi sono sacrificato per il bene della squadra!”
A sentire quelle parole la piccola Hazel se lo scostò di dosso afferrandogli il viso con le mani, attentamente studiò il livido sotto l’occhio sinistro.
“Qualcuno ha finalmente tentato di ucciderti?” domandò speranzoso Frank.
 “Va’ in infermeria” lo apostrofò invece perentoria la ragazza.
“Ci sono già stato!” protestò, poi aggiunse sognante “la signora Jackson mi ha dato del ghiaccio. Ragazzi, quella donna è proprio bellissima...”
“Leo! È la mamma di Percy”
“Questo non la rende meno bella” annuì convinto mentre il resto dei ragazzi con cui aveva cenato si avvicinava al loro tavolo, tra di essi anche Percy. A vederlo da vicino Calypso si sentì avvampare. Forse fu proprio il rosso acceso che colorò le sue guance ad attirare l’attenzione su di sé.
“E tu chi sei?” chiese Leo ignorando le proteste di Frank mentre si sedeva proprio in braccio al ragazzo cinese.
“Lei è quella nuova” rispose al suo posto Rachel con trasporto.
“Ciao Quella Nuova!” la salutò come un militare, poi aggiunse: “Non lo mangi, il pollo, Quella Nuova?” chiamarla in quel modo sembrava divertirlo immensamente, invece il nomignolo sembrava infastidire Calypso che rispose inacidita:
“Sono vegetariana”
“Allora non è un problema se lo mangio io, no?” il tono della ragazza non lo aveva minimamente scalfito e senza attendere una risposta le rubò il piatto da sotto il naso iniziando a ingozzarsi. Meglio così.
“Davvero? Anche io sono vegetariana!” si intromise nella conversazione la ragazza con la treccia “Piacere, io sono Piper Mclean. Il tuo vero nome è...?”
“Calypso” rispose velocemente decidendo deliberatamente di ignorare il suo fastidioso e odioso cognome.
“Sono davvero felice di aver trovato una persona che mi capisca. Questi idioti non fanno altro che cercare di refilarmi hamburger” ed indicò con la testa i ragazzi dietro di lei “Non trovo minimamente giusto come vengano trattati gli animali da macello, non credi?” continuò seria.
“Ehm... sì” disse timidamente che fino a quel momento non ci aveva mai fatto caso.
“Ma dai!” protestò Leo dando una gomitata in faccia al povero Frank che per tutto il tempo aveva cercato di toglierselo di dosso. E per la cronaca, aveva tutta la bocca sporca di pezzi di pollo come un cavernicolo “Tanto stanno per morire, chi se ne frega di come vengano trattati prima. Giusto, Miss Mondo?”.
Gli occhi di Piper lo fulminarono, adesso che era vicina notava il loro colore particolare, erano caleidoscopici. “Ma certo!” berciò “Quindi a cosa ti serve respirare? Tanto morirai lo stesso, ti conviene lasciar perdere questa fatica sprecata” terminò sarcasticamente.
“Abbiamo fatto questo discorso già un milione di volte” troncò sul nascere le proteste di Leo la ragazza bionda “Le nostre opinioni le conosciamo, non iniziamo un dibattito inutile”
“Ascoltate la Ragazza Saggia” annuì Leo con solennità, sembrava avesse il soprannome giusto per ognuno.
Quella lo ignorò e con un sorriso gentile si sporse verso Calypso. “Io sono Annabeth Chase. E non fare caso a Leo, è un coglione”
“Ehi!” sbottò offeso il suddetto coglione, specialmente perché Frank era riuscito a scrollarselo dalle gambe ed era caduto a terra. “Traditore!” aggiunse portandosi una mano al cuore come se la cosa lo facesse soffrire terribilmente.
“Sei in camere con Hazel e Rachel?” domandò Percy interrompendo l’elegia di Valdez “Io sono Percy Jackson. Invece il mio bro è Jason Grace”
Il ragazzo con gli occhiali gli mise un braccio sulle spalle mentre annuiva dicendo: “Bro
In quel momento Calypso capì perché Rachel avesse detto che Jason aveva (avuto) una cotta per Percy. Non che potesse dargli torto, il sorriso del moro ti mozzava il fiato e faceva agitare le farfalle nello stomaco.
“Be’, benvenuta” terminò Annabeth con lo stesso sorriso di poco prima “Spero che tu ti possa trovare bene al College Olympus”.
 
**
 
 Quando Leo aprì la porta della camera Nico si immobilizzò immediatamente chiudendo la bocca. Era seduto suo letto con la stanza completamente buia, solo la finestra era aperta lasciando scivolare dentro una leggera arietta.
“Oh” disse il messicano notando che fosse solo “Credevo fossi con Jason, ti ho sentito parlar—” e si bloccò rendendosi conto con chi stesse parlando Nico.
“Non fa niente” disse il più piccolo distogliendo lo sguardo e puntandolo fuori dalla finestra.
“E sono... uh, andati via?” si informò Leo richiudendo la porta non mostrando il disagio che lo aveva assalito alla realizzazione.
Nico sospirò. “Non vanno mai via” dichiarò lugubre.
“Giusto” annuì allora come se lo avesse appena ricordato. “La cosa mette un po’ d’ansia, no? Pensa, anche sotto la doccia...” il suo tentativo di sdrammatizzare gli morì in gola davanti all’occhiataccia dell’altro. Rimasero qualche secondo in silenzio prima che Valdez riprendesse la parola.
“Stavo cercando Jason, ma deve essersi imboscato da qualche parte con Pips. Siamo tutti nella Sala Comune con Quella Nuova” e fece una smorfia “E’ una smorfiosetta”.
Nico rimase in silenzio e allora Leo lo guardò di sottecchi prima di continuare nel suo sproloquiare. È inutile, per Leo Valdez stare zitto è inconcepibile.
“Non ti sei nemmeno presentato a lei, giù alla mensa” precisò.
Scrollò le spalle. “Perché farlo se tanto non le parlerò mai?”
Leo si buttò sul proprio letto completamente vestita soppesando le parole del suo compagno di classe, poi disse: “Ho una proposta da farti”
“Sentiamo” sospirò sconfitto. Magari se lo accontentava per un po’ poi si toglieva dalle palle.
“Vorrei che tu spiegassi a Quella Nuova come comportarsi per sopravvivere qui”.
Strabuzzò gli occhi preso totalmente contropiede, che razza di proposta era quella?
“Perché dovrei farlo?”
“Prima in mensa ha mentito” spiegò pazientemente girandosi su un fianco per guardarlo. Nico indossava già il pigiama, rigorosamente nero e per questo era difficile distinguerlo nel buio. “Puoi accendere la luce?”
“Quand’è che avrebbe mentito?” lo ignorò.
“Ma prima” fece vago sprofondando la testa sul cuscino “Quando ha detto che non ha mangiato il pollo perché è vegetariana”
“E quindi? Qui tutti mentono, non capisco il problema” disse seccato da quei discorsi.
“Lo so” borbottò “Ed è anche dannatamente brava a farlo, è tutto prima che spara bugie e nessuno se ne accorge”.
“Allora di cosa ti preoccupi? Ha già capito tutto, quella là” per Nico, il discorso era chiuso lì motivo per cui si gettò anche lui disteso cercando di mettersi sotto le coperte.
“Non dormire” gli ordinò lo scocciatore “Devi spiegarle le regole per sopravvivere qui, non ti chiedo tanto! È troppo ingenua, la sbraneranno viva in un attimo”.
“Perché ti preoccupi per lei?” piagnucolò, poi aggiunse sconfortato “Perché dai a me questo ingrato compito?”
Leo mise sul volto da folletto un sorriso petulante estremamente simile a certi che faceva Jason. “Perché devi socializzare”.
“Per gli dei!” imprecò “Non ti sarai alleato con Grace, spero!”
L’altro rise di gusto mettendosi a sedere sul letto.
“Allora, lo farai? Spiegherai a Quella Nuova le Regole D’Oro?”
“Ma sì!” borbottò sprofondando ancor di più tra le coperte “Basta che tu la smetta di rompere”
“Bravo bambino” disse, si alzò e diede leggeri colpetti sulla coperta che il corvino aveva usato come scudo, poi si incamminò verso la testa.
“Comunque, Quella Nuova è proprio un soprannome del cazzo” ci tenne a fargli notare Nico prima che uscisse dalla porta.
“Dici?” domando fermandosi sulla soglia.
“Dovresti pensare ad altro di più appropriato”.
Al che Leo mise sulla faccia un’espressione pensosa, appoggiò anche una mano sotto il mento per dare maggior enfasi alla sua posa da pseudo-filosofo. Poi schioccò la lingua soddisfatto contro il palato:
“Che ne dici di Raggio Di Sole?”
 
 
 
 
 
 
 
Wow, non immaginavo che la storia ricevesse tutto questo entusiasmo! Ringrazio moltissimo le quattro persone che con le loro recensioni mi hanno spronata a continuare.
 
Mi ero dimenticata di dire nello scorso capitolo una questione tecnica, ovvero gli aggiornamenti avverranno di sabato ogni due settimane per via di altre storie che devo pubblicare.
 
Sul capitolo: vi piace? Vi aspettavate qualcosa del genere? La parte con Will è stata una improvvisata perché doveva comparire nel prossimo, ma poi mi sembrava brutto non introdurlo essendo uno dei protagonisti (Sì, nello scorso capitolo mi sono sbagliata a scrivere: l’altra coppia è la Solangelo, non Valdangelo –anche se un po’ li shippo xD)
Questo capitolo è sempre un po’ di introduzione, volevo solo mostrarvi come appaiono i nostri protagonisti visti da fuori. In fondo, come Calypso, anche voi siete i ‘nuovi arrivati’ e li conoscerete man mano. Però già nel prossimo ci sarà più introspezione.
I capitoli di questa lunghezza vanno bene? (Sono quindici pagine, senza le mie note) Sono molto logorroica e tende a divagare molto nelle descrizioni allungando notevolmente i testi.
All’inizio di ogni capitolo ho intenzione di inserire una delle... regole delle ragazze anoressiche. Loro le chiamano Ana rules (Tumblr docet, prendetelo con le pinze). Naturalmente, non dovete considerarle né delle perle di scrittura né il verbo di Dio sceso in terra. È solo per mostrarvi quanto la vita di una ragazza pro-ana sia vincolata a delle regole bizzarre – sì, parlo anche per esperienza ma non divaghiamo.
Invece il titolo, come avrete ben capitolo, riprende proprio il peso di Calypso man mano che prosegue la storia fino ad arrivare ai 21 grammi, il peso di un colibrì.
 
Eeee, credo di aver detto tutto(?) Se volete che espliciti altro non esitate a chiedere.
Se avete da criticare, non siate timidi ma spietate.
Se avete da dire qualsiasi cosa io sono qui.
Se volete fare soltanto i complimento (Seeeeh, magari) vi offro biscotti.
In realtà offro biscotti in ogni caso ^^ sono una persona buona.
 
Ultima ma non ultima, vi lascio il mio account faisbuk, è sempre un piacere conoscere/stalkerare gente nuova.
Hatta Hatake

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Capitolo 3
*** 46.5 Kg ***


Attenzione! La storia seguente presenta tematiche delicate. Vorrei precisare che non promuovo nessun tipo di disordine alimentare. Pertanto, se si è facilmente influenzabile sconsiglio la lettura, non voglio avervi nella coscienza.
 
 
 
 
II
 
Quarantaseipuntocinque
**
“Mangia cibi piccanti.
Accelerano il metabolismo”
 
 
 
 
 
Piper amava la domenica, la considerava seriamente il suo giorno della settimana preferito per svariati motivi. Certo, a tutti sta simpatica la domenica: è il giorno in cui la pigrizia regna sovrana!
Come ogni domenica in cui era dentro quella scuola si svegliò ancor prima di Annabeth, per ora la sua unica compagna di stanza – quello stesso giorno sarebbe arrivata Reyna che partecipava solamente al campo estivo – e approfittando del vantaggio si chiuse in bagno ignorando i turni che avevano fissato. Solitamente non curava molto il proprio aspetto, anzi spesso tendeva a nascondere la propria bellezza, ma  –come ogni domenica – fece un’eccezione passando una crema idratante sulle gambe secche per poi pettinare i capelli in una treccia ordinata e vagamente elegante, si mise pure un filo di mascara appositamente rubato dal beauty-case di Annabeth e nascose un brufolo con un po’ di correttore. Scelse con cura i vestiti optando per una canottiera che le risaltava gli occhi al posto delle solite maglie spiegazzate e poi si guardò allo specchio facendo una giravolta. Piper amava la domenica.
Quando uscì dal bagno Annabeth aveva appena spento la sveglia e si stropicciava gli occhi con fare assonnato.
“Buongiorno e buona domenica!” trillò la mora con un sorrisone.
“’Giorno” mugugnò invece Annabeth che riusciva a mettere insieme due parole di senso compiuto solo dopo una tazza di caffè.
“Io scendo giù” la avvertì aprendo la porta e l’altra annuì, ma probabilmente avrebbe annuito anche se le avesse detto che il signor D s’era deciso ad andare in pensione.
La domenica era un giorno speciale, non solo per Piper, ma per tutto il College Olympus: la colazione non aveva un orario fisso –ergo non c’erano problemi di ritardo e quindi di incappare nelle ire del signor D –, non c’era attività e – ciò che mandava su di giri Piper – veniva consegnata la posta.
Tutte le lettere che i genitori spedivano ai propri figli venivano ritirate la domenica, essendo il college collocato in un luogo praticamente sperduto e irraggiungibile i tempi erano molto lunghi; era anche il giorno in cui si poteva ricevere le visite dai propri parenti. Piper sperava, come ogni domenica del resto, di avere qualche notizia di suo padre che le mancava enormemente.
Il venerdì era ufficialmente terminato l’anno scolastico e l’indomani sarebbero iniziate le attività estive per chi restava e per chi veniva, motivo per cui la hall quella mattina era, già alle otto di mattina, piena di ragazzi che andavano e venivano accompagnati da ingombranti valige e con genitori o tutori annessi. I bidelli avevano un gran da fare e la segretaria svampita che stava al bancone aveva già iniziato a parlare come una macchinetta inceppata. Quel pomeriggio sarebbero arrivati anche alcuni suoi amici che frequentavano altre scuole ma passavano lì l’estate. Sorrise rassicurante a un ragazzino titubante che fissava le statue di marmo degli dei ai lati della stanza come se fossero pronte a balzare fuori dai loro piedistalli per ghermirlo e sbranarlo. Ricordava molto bene il suo primo giorno all’Olympus e di come fosse spaventata e stravolta, motivo per cui non fu avara di sorrisi.
Approfittando di un momento in cui Robot – questo era il nomignolo che Leo aveva dato alla segretaria – prendeva fiato tra un genitore e l’altro si avvicinò alla scrivania.
“Buongiorno e buona domenica!” trillò ancora una volta con un sorriso cortese.
“Signorina McLean” esclamò fingendosi, senza riuscirci, sorpresa di vedersela davanti, ma d’altronde dopo così domeniche di agguati la sua comparsa risultava fin troppo prevedibile. A dir la verità, guardando l’orologio notò che la giovane ragazza era di qualche minuto in anticipo rispetto alle altre domeniche.
“Sono qui per la posta” la informò come un bambino che ti informa che oggi è natale e che quindi vuole il suo regalo.
“Naturalmente” sospirò sfiancata la segretaria. Erano solo le otto di mattina ma lei era in piedi da due ore per accogliere i genitori e sistemare altre faccende.
“C’è qualche lettera per me?” continuò Piper ignorando lo sguardo della segretaria che implorava pietà.
“Dunque...” fece quella iniziando a guardare nei propri registi per vedere se ci fosse qualche corrispondenza per McLean ma, come ogni domenica, trovò il nulla. Ogni volta che doveva alzare gli occhi su quelli pieni di speranza della ragazza per dirle che no, ovviamente non c’era nessuna lettera per lei, le si spezzava il cuore all’idea di procurare indirettamente l’ennesime delusione per quella povera anima.
“Ne è proprio sicura?” chiese mentre il suo sguardo si faceva duro.
“Purtroppo” sospirò.
Piper si fece imperscrutabile e si sentì idiota in quella canottiera leggermente aderente e per tutte le speranze che si era costruita quella mattina. Come ogni domenica, del resto.
“Grazie mille” disse con un tono di voce di qualche ottava più basso rispetto a prima e il viso più serio, meno sorridente.
“Mi dispiace” si sentì in dovere di dire la segretaria che dopotutto un robot non lo era affatto visto che conosceva i sentimenti, specialmente quello della delusione.
“Non è colpa sua” fece un sorriso più freddo e con tono educato continuò “Buona domenica”.
Sembrò tanto una presa in giro detto in quel momento.
 
Piper decise di andare a fare colazione, si sarebbe consolata con le brioche e l’ottima marmellata di fragole che offriva la scuola. Nonostante tutto, amava quel posto, era lì che aveva conosciuto Jason e tutti gli altri. Non poteva odiarlo solamente perché suo padre, il famosissimo attore di Hollywood Tristan McLean, era troppo impegnato nella sua carriera per preoccuparsi del problema – così la considerava Jane, la segretaria di suo padre: un problema – e quindi di spedirla lontano chilometri da sé. Ovviamente lo capiva, in fondo era veramente sommerso da una quantità abnorme di impegni essendo un importante attore, quindi non poteva biasimargli la sua assenza in certi momenti della sua vita ma nonostante questo qualche secondo per scriverle doveva trovarlo. O se proprio non riusciva a venire a farle visita la domenica almeno una telefonata poteva farla, anche solo due minuti per ricordarle che era la sua preziosa bambina e che le voleva un bene dell’anima.
Piper si chiedeva spesso perché nella sua vita le cose fossero così complicate. Sua madre aveva ben deciso di scappare da qualche parte quando lei aveva appena pochi mesi lasciandola ovviamente a carico del padre senza dire niente, nemmeno ora poteva dire chi o dove fosse sua madre. Poi, ovviamente, gli anni della sua infanzia erano anche gli anni in cui suo padre era un neo-attore che per emergere era costretto a seguire anche i contratti più esasperanti e lei veniva lasciata alle cure della baby-sittere di turno. Le odiava tutte, lei voleva solo il suo papà, motivo per cui si impegnava a farle scappare via tutte. Ci metteva lo stesso impegno che impiegava per farsi espellere dalle scuole che suo padre trovava adatte a lei. Con il senno del poi era ovvio che il suo comportamento potesse risultare egoista e sbagliato agli occhi di estranei ma combinare guai era l’unico modo, lo aveva imparato con il tempo, con cui poteva catturare l’attenzione del genitore. Motivo per cui era anche diventata una cleptomane. Una cleptomane molto scadente che si faceva beccare subito apposta.
“Perché lo hai rubato? Lo sai che ti regalerei pure il mondo!” le chiedeva sempre suo padre, al che lei pensava: lo so, ma io voglio solo te.
 Mentre si recava alla mensa le venne in mente l’ultimo giorno passato con il padre. Il giorno prima lei aveva messo a segno il suo colpo meglio riuscito, ovvero rubare una BMW e poi, ovviamente, farsi espellere dall’ennesima scuola per ragazze snob. Ma la mattina seguente, quando suo padre era venuto a svegliarla con la proposta di fare un pic-nic in spiaggia, né lui né Jane sapevano cosa aveva combinato. Nonostante le sue bravate a Piper bastavano tre secondi per farsi venire i sensi di colpa, aveva anche l’intenzione di confessare il tutto a suo padre quella mattina ma quella sorpresa le aveva fatto talmente piacere che non poteva permettersi di rovinare uno dei pochi momenti con il genitore.
Avevano trascorso una mattinata perfetta a fare surf, non era troppo caldo e le onde erano perfette, lei era riuscita a stare in piedi sulla tavola per più di qualche minuto senza cadere e nessun paparazzo li aveva sorpresi. Piper non era una persona molto fortunata, ma fino in quel momento erano riusciti a stare solo loro due e l’oceano come era stato programmato.
Avevano pranzato con le onde del mare che gli sfioravano i piedi sul bagnasciuga mentre Tristan raccontava leggende indiane essendo lui stesso un nativo americano. A Piper piacevano tanto quelle storie, le ricordavano un mondo lontano a cui sentiva di appartenere nonostante non lo avesse mai sperimentato di prima persona. Suo padre raccontava le leggende con quegli occhi tristi che facevano perdere la ragione anche a molte donne sposate e mature.
Ma in quel momento era solo il suo papà.
L’idilliaco momento venne ovviamente distrutto dalla poco fantasiosa entrata in scena della temibile segretaria venuta a conoscenza dalla polizia  dell’ultima bravata compiuta da quella scellerata della figlia ed era ovviamente lì per informare il padre della scellerata figlia la situazione. Jane la faceva sempre sentire come il pezzo di sterco che certi insetti fanno rotolare.
“Avevi detto che ci avresti provato...” l’uomo aveva perso ogni traccia di entusiasmo ed energia, Piper non sopportava quello sguardo, come se la stesse accusando di aver tradito la sua fiducia. Aveva provato a ribattere, a scusarsi, a dire qualsiasi cosa ma gli occhi di suo padre erano freddi e le parole irremovibili.
“Perché ti comporti sempre così?” la interrompeva “Io faccio del mio meglio, Piper, lo sai. Abbiamo già avuto questo conversazione milioni di volte” continuava ma non era vero perché quella conversazione l’avevano iniziata milioni di volte ma lui la interrompeva sempre, da anni.
Ma a quanto pare quella volta Jane aveva già trovato la soluzione: non ci sarebbero state denunce se la ragazza avesse iniziato a frequentare il College Olympus.
“E’ una scuola prestigiosa” aveva detto con aria professionale “Specializzata per... ragazzi problematici”.
Perché Piper lo sapeva, lo aveva sempre saputo: lei era quello, un problema. Aveva guardato il cesto da picnic sulla sabbia e aveva sentito il forte desiderio di piangere, un pomeriggio perfetto svanito perché lei era un problema. Non riusciva a credere che suo padre avesse ceduto così facilmente all’idea di Jane, non su una cosa così importante come mandarla in un Istituto di correzione comportamentale.
Jane, ovviamente, aveva sistemato e programmato tutto, l’aspettava già con una valigia spartana e un biglietto d’aereo con lo sguardo scocciato di chi non vede l’ora di depennare l’ennesimo problema della giornata dalla propria lista.
 
“Ehi, Miss Mondo!”
Il ricordo di quell’ultimo pomeriggio con suo padre sfumò davanti agli occhi della ragazza quando senti una voce familiare chiamarla, senza rendersene conto, troppo presa ad auto-commiserarsi , era arrivata al padiglione della mensa. La tavolata al centro mostrava tutte le opzioni che la cucina offriva per la colazione –tutte cose buonissime e biologiche, solo il meglio per i nostri studenti – e le donne delle pulizie avevano optato per delle tovaglie di un rosa pallido su tutti i tavolini che davano un tocco delicato alla stanza.
Un tocco delicato che veniva miseramente distrutto dalla poca grazia con cui Leo Valdez si abbuffava nei propri cereali, solo per salutarla aveva sputacchiato.
“Leo” disse lei più contenuta decidendo di prendere posto accanto a lui, il ragazzo aveva già portato al proprio tavolo abbastanza cibo da poter sfamare un reggimento perciò decise che nessuno sarebbe morto se gli avesse rubato una brioche. Lui inghiottì un grosso boccone di cereali annacquati e poi le rivolse un sorrisetto.
“Niente posta la domenica?” borbottò in una imitazione riuscita.
“Niente posta la domenica” confermò prima di appoggiare la fronte sulla tovaglia rosa sconfortata. “Mi chiedo cosa dovesse fare di così importante da  non riuscire a buttare giù due righe. Qualcosa tipo: ehi, come stai? Scusa se per un anno ho praticamente finto di non avere una figlia” continuò con ironia pungente. Leo avrebbe potuto dire che magari l’avrebbe chiamata quel pomeriggio con il telefono pubblico della scuola ma entrambi sapevano quanto fosse improbabile e quindi preferì ficcarsi in bocca un’altra cucchiaiata di cereali e masticarli come un ruminante.
 “Poi non è che non abbia nessun motivo per scrivermi –oltre al particolare che sono sua figlia, ovvio – visto che gli ho mandato milioni di lettere a cui potrebbe rispondere. A questo punto mi chiedo se le abbia lette. Anzi, vedrai che sicuramente quell’arpia di Jane le avrà bruciate appena visto il mio nome”
Leo annuì, masticando ancora in maniera rumorosa –talmente tanto che alcune ragazze si girarono a guardarlo basite – e riempì un bicchiere di succo d’arancia.
Qualcun altro si sarebbe infastidito per quel gesto prendendolo per uno scarso interessamento ma non Piper che sapeva bene quanto Leo amasse dormire fino a tardi nel week-end ma nonostante questo si svegliasse prima dei suoi compagni di stanza perché sapeva che lei avrebbe avuto bisogno di lui. Valdez era stato il suo primo amico quando era arrivata, appena l’aveva vista corrucciata in un angolo a programmare stermini di massa lui si era avvicinato dicendole con aria cospiratoria che se voleva lui avrebbe potuto costruirle la Morte Nera. Piper, che non aveva mai visto Star Wars e non sapeva nulla al riguardo, lo guardò stralunata chiedendo un poco gentile “Cosa?”.
Il giovane, appurato in quel modo che non aveva la più pallida idea di cosa fossero le Guerre Stellari, aveva finto di arrabbiarsi sostenendo che ad una tale mancanza bisognava assolutamente rimediare e l’aveva così invitata quella sera stessa nella propria camera per una maratona di film. “Ne uscirai una donna nuova” aveva sostenuto annuendo come se avesse detto una verità inconfutabile. Per il resto della giornata le era stato accanto parlando in continuazione a macchinetta del perché Star Wars fosse meglio di Star Trek, di droni e spade laser e navicelle spaziali.  Piper aveva osservato quel buffo ragazzo che sorrideva sempre, troppo per essere un ragazzo in un Istituto per ragazzi problematici, e non riusciva a tenere mai le mani ferme: tamburellava con le dita ovunque, le metteva in tasca o si portava delle ciocche ricce dietro le orecchie leggermente a punta, gliele scoccava davanti al viso quando credeva di non essere ascoltato, le sventolava per salutare gente a caso....
In più, aveva notato i suoi occhi sfuggenti come se non si soffermassero mai più di un secondo sullo stesso particolare, spostava lo sguardo in continuazione senza mai guardarla direttamente negli occhi come le persone che hanno qualcosa da nascondere; ne era rimasta colpita perché nonostante avesse scoperto quel particolare, Piper si reputava molto brava a comprendere le persone a pelle, non capiva che bugia stesse nascondendo. Aveva anche notato che tra una descrizione per la perfetta spada laser e le migliorie da applicare alla famigerata Morte Nera Leo le stava rivelando come muoversi in quell’ambiento dandole piccoli consigli su come comportarsi con chi, su chi fidarsi e chi invece ignorare, quali corsi fossero meglio di altri e cose del genere. Piccole accortezze che le avrebbero risparmiato tempo e figuracce. In quel momento aveva rivalutato l’idea di ragazzino superficiale e idiota che aveva avuto all’inizio. Glielo aveva detto e per un attimo era rimasto in silenzio, preso in contropiede, poi aveva fatto un altro sorriso da giullare. “Hai perfettamente ragione. Sono meraviglioso e ben presto sottometterò l’intera umanità al mio volere. Tremate, plebei!”
Aveva anche capito che con Leo Valdez gli argomenti seri erano tabù.
Grazie a quella sera a tema Star Wars aveva conosciuto Jason – le sarebbe piaciuto dire anche Nico ma ancora oggi per lei quel ragazzino era un mistero – e pian piano tutti gli altri.
In quel momento, provò una forte ondata di affetto –  così tanto che voleva abbracciarlo fino a spezzargli le ossa e piangere – per quel folletto riccio che pazientemente l’ascoltava sfogarsi –come ogni domenica – e le versava il succo d’arancia e cercava di stendere la marmellata sui toast senza sporcarsi le dita. Ogni tanto annuiva come se fosse distratto e la stesse ascoltando soltanto a metà ma lei sapeva di avere la sua piena attenzione e che stava valutando ogni singola parola. Si sentì anche una misera idiota mentre un senso di colpa le attanagliava lo stomaco all’idea che lui la stesse ascoltando lamentarsi del proprio padre che non era certamente il migliore del mondo ma almeno era vivo mentre Leo era rimasto completamente solo e non avrebbe non solo mai potuto ricevere una lettera dalla propria famiglia ma anche un abbraccio o una carezza perché non aveva più una madre o un padre, erano tutti morti e lui era rimasto solo e... si sentì fisicamente male, chissà che idea da ragazzina viziata stava facendo ancora una volta. Non riuscì a terminare la filippica che stava portando avanti e la voce le morì in gola.
“....io lo— ” tacque doppiamente sconfortata mentre nascondeva il viso fra le mani. Leo attese paziente che continuasse ma quando vide che sembrava intenzionata a lasciare la frase si affrettò ad inghiottire ilo boccone e chiese:
“Tu lo..? Lo detesti? Lo odi?”
Piper lasciò il suo rifugio di mani e spalancò gli occhi guardandolo sorpresa da quella domanda, poi rispose con voce mesta e tranquilla, quasi vinta. “Certo che no... come potrei?  Voglio dire, lui è il mio papà...”
Leo si pulì qualche briciola di pane e marmellata dalle labbra guardandola dubbioso. “Be’, visto come ti ignora...”
“Non potrei mai odiarlo” ripeté con quella stessa vocina “E’ il mio papà, nonostante tutto gli vorrò sempre bene. Qualsiasi cosa succederà non potrei mai odiarlo, è il mio papà.”
La guardò con il cuore pesante desideroso di prendere a sberle tutto quello che la rendeva così fragile nonostante il suo essere alto un metro e una banana. Non era giusto, sotto l’aspetto da dura e la sua forza d’animo e la testardaggine Piper aveva un cuore fin troppo gentile e non era giusto che una persona così buona stesse male. Era semplicemente sbagliato.
Intanto la stanza attorno a loro si era progressivamente riempita e il chiacchiericcio aumentato, sulla porta videro entrare Annabeth con Percy e la stanza di Hazel.
“Sai che fine ha fatto Jason?” gli domandò allora Piper con l’aria di chi riteneva chiuso l’argomento e voltava pagina.
Fece spallucce. “Provo a indovinare? In camera a scongiurare Nico di svegliarsi e scendere a fare colazione. Stupida mamma chioccia” borbottò alla fine.
Piper fece un sorriso sincero e pigro. “Dai, questo pomeriggio arriva Reyna. Almeno, lei l’ascolta”
Leo si ammutolì prima di rivelare: “Quella donna mi terrorizza” e Piper scoppiò a ridere.
“Allora, vado a recuperare i due dispersi” aggiunse quando terminò di ridere e si alzò, magari si sarebbe anche cambiata con qualcosa di più comodo e più da lei.
Leo, stringendo la tazza di latte tra le mani annuì solennemente e la guardò come se si appropinquasse a combattere una battaglia impossibile. “Va’ Spartano!” disse con solennità “E torna con il tuo scudo, o su di esso”
Decisamente, Leo guardava troppi film.
 
**
“Come mai così felice?”
Calypso nascose il proprio sorriso spontaneo dietro la tazza di tè che stava tenendo in mano e spostò lo sguardo su Hazel che la guardava carica di aspettativa.
“Non lo so” mentì compiaciuta “Forse è solo una bella giornata” Di sicuro era iniziata molto bene da quanto diceva la bilancia: quarantaseipuntocinque! Praticamente più quarantasei che quarantasette. Un ottimo risultato per essere in un luogo che avrebbe dovuto metterla all’ingrasso, vero che era lì da appena un giorno e nessuno sapeva niente di lei ma era comunque un passo in più verso il suo traguardo. Doveva solo continuare in quella direzione e tutto sarebbe andato liscio.
“Non assaggi un po’ di marmellata, Raggio di Sole?”
Arricciò il naso schifata davanti al porcile che stava creando quel Valdez, quando era scesa il ragazzo stava già mangiando – perdon, ingurgitando – ogni genere di alimenti e considerando il pasticcio sul tavolo doveva aver iniziato molto presto. Guardando quel corpo mingherlino e secco si chiese dove diavolo andasse a finire tutta quella roba.
“Il mio intestino è direttamente collegato ad un buco nero” le confidò quello indovinando i suoi pensieri e le rivolese un sorriso saccente. Aveva il mento completamente sporco di latte e cornflakes.
“Sembri un bambino” lo informò allora Annabeth seria “E anche tu Percy, mangia come si deve”
L’interpellato alzò confuso la testa dalla ciotola di cerali e guardò la propria fidanzata perplesso. “Sto mangiando come si deve!” al che lei indicò il disastro di cereali annacquati che aveva creato nella fretta di metterli nello stomaco.
“Non sono sempre così” tentò di rassicurarla Hazel.
“Infatti” annuì Leo pulendosi la bocca con la manica, se sua madre fosse stata presente avrebbe avuto come minimo un infarto. “Siamo anche peggio”.
 Annabeth gli tirò una gomitata direttamente tra le costole e lo fulminò con gli occhi grigi, poi decise che la cosa migliore fosse distrarli cambiando argomento. “Oggi pomeriggio viene Reyna, vero?”
“E anche Grover!” Sorrise Percy movimentando le farfalle nello stomaco di Calypso. Era davvero carino anche con i capelli spettinati per via della piega del cuscino.
“Chi è Grover?” gli chiese giusto per avere una scusa per parlare con lui. Sentì al proprio fianco Rachel trattenere una risatina. Lo sguardo del moro era illuminato, probabilmente si trattava di una persona a lui molto cara.
“E’ il mio migliore amico da quando avevo...” aggrottò la fronte “Undici, dodici anni? Comunque. È un tipo davvero forte, un po’ fissato con le piante e la natura ma... è uno a posto. Anche lui è vegetariano, sai?”
Che carino, si ricordava la sua bugia.
Sembrava sul punto di aggiungere qualcos’altro quando Annabeth alzò gli occhi dalla colazione e fece cenno a qualcuno.
“Finalmente sono scesi”
“Chi? Chi?” si dimenò Leo Valdez sulla propria sedia come un bambino di cinque anni, poi spalancò la bocca. “Udite, udite! Mister Morte è sceso fra noi esseri viventi!”
“Non sei divertente, Valdez” una voce cupa fece sobbalzare Calypso che quasi si lasciò scivolare la tazza di ceramica dalle dita. Si girò verso la nuova presenza dietro di sé proprio mente Rachel alzava un sopracciglio con sguardo giocoso.
“Devi ammettere però che è strano vederti qui, Neeks”
Nella mensa erano appunto appena arrivati Jason e Piper accompagnati da uno strano ragazzino dai capelli neri e arruffati, sul volto pallido delle occhiaie preoccupanti e un’espressione da gatto scontento.
“Seriamente, cose gli avete detto per convincerlo?” continuò la rossa incredula mentre la Nightshade si ricordava finalmente di averlo visto la sera prima in mensa ma se ne era stato talmente in disparte da non averlo minimamente considerato.
Il corvino, appunto, guardò male Leo Valdez come se avesse un conto in sospeso con quello poi, sorprendentemente, le mise una mano su una spalla –facendola nuovamente sobbalzare – e con voce piatta le intimò di alzarsi e andare con lui.
In sincrono su ogni viso dei presenti si alzò un accigliato sopracciglio, l’unico che non ne sembrò sorpreso fu proprio il riccio che si mise a ridere poco elegantemente. Non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma quel ragazzino la inquietava abbastanza da non voler contraddire un suo ordine così esplicito. Frettolosamente si alzò e lo seguì fuori dal padiglione lanciandosi una breve occhiata alle spalle, solamente Leo la salutò mentre usciva, tutti gli altri parevano troppo sorpresi. Nico la guardava spazientito facendole capire che doveva sbrigarsi e lei decise che non era proprio il caso di contrariarlo, aveva già l’impressione di essere abbastanza scazzato. All’uscita andò fatalmente a sbattere contro il ragazzo cinese e fidanzato di Hazel –Frank, giusto? – al quale rivolse un sorriso timido prima di tuffarsi nel corridoio.
Frank rimase per qualche secondo all’entrata a guardare la ragazza correre dietro a Nico, poi scosse la testa come se avesse  le traveggole e raggiunse gli amici al tavolo.
“Ho davvero visto Nico sveglio alle nove? E inseguito da Calypso?” domandò giusto per assicurarsi di non aver avuto un miraggio. Le espressioni sconvolte degli altri erano una risposta più che sufficiente. Poi, Jason batté il pugno sulla tavola emozionato e contento.
“Sì! Nico ha parlato ad un essere umano! Sta cominciando a socializzare” la cosa sembrava renderlo davvero felice.
“Valdez” disse invece Annabeth minacciosa “Perché mi sembra che la cosa non ti sorprenda?”
L’interpellato sorrise vago e si stiracchiò godendosi l’attenzione che aveva catturato, poi disse flemmatico. “Diciamo che gli ho chiesto un favore. E voi lo sapete: so essere molto convincente”.
“Io direi irritante” lo corresse Frank, poi: “Sono avanzati dei cereali?”
 
**
Timidamente si portò un ciuffo di capelli color cannella dietro un orecchio e guardò curiosa e intimidita la schiena dell’altro ragazzo. Certo, era abbastanza ridicolo essere intimidita da quel corpo pelle e ossa ma aveva davvero uno sguardo da brivido e il silenzio fra loro era teso; lui assomigliava sicuramente ai ragazzi problematici della sua fantasia.
“Smettila di guardarmi come se fossi chissà quale raro Pokémon” e Nico si girò cogliendola in fragrante nella sua ispezione.
Calypso sussultò ed arrossì, distolse lo sguardo e contrariata chiese: “Cos’è un Pokémon?”
Nico spalancò gli occhi e la guardò sorpreso. “Allora la cosa è davvero grave” lo disse come se avesse chissà quale malattia e questo la fece offendere, motivo per cui si strinse le braccia al petto tenendosi i gomiti.
“Che vuoi dire?” borbottò a disagio.
Lui rimase zitto a guardarla, perché voleva inquietarla così tanto? Nervosa passò una mano tra i capelli districando alcuni nodi e si guardò attorno, alcuni ragazzi li guardavano curiosi, o meglio dire guardavano curiosi il suo compagno.
“Mi chiamo Nico Di Angelo” la sorprese improvvisamente il ragazzo. Alzò gli occhi scuri su di lui e sorrise dolce rendendosi conto del disagio dell’altro, sembrava addirittura più imbarazzato di lei dietro la frangia corvina. Come se si trovasse in una soluzione a lui estranea, come se non fosse abituato a interagire con i suoi coetanei. Lei e Nico avevano una cosa in comune a quanto pare.
Gli sorrise incoraggiante. “Io sono Calypso Nightshade” e tese la mano verso di lui. Era un gesto di educazione, giusto?, però lui lo guardò confuso e indeciso se afferrarla o no. Guardandolo meglio sembrava si trovasse in una dimensione diversa dalla sua, come se soltanto il suo corpo fosse presente nella terra. Era una sensazione difficile da spiegare, ma il corvino sembrava non essere reale, anzi sembrava non vedere Calypso come reale. I suoi occhi erano neri,così tanto da non distinguere la pupilla e si guardavano attorno come se vedessero qualcos’altro, qualcosa che lei non poteva. Ed era una cosa che lo spaventava.
“Smettila”
La voce gelida di Nico la riscosse ancora una volta e lei sbatté le palpebre fintamente confusa. “Di fare che?”
“Stai facendo esattamente quello che fa lui, cerchi di capire il mio meccanismo. Smettila, è snervante”.
Calypso davvero non capiva e stava per ribattere ma poi decise che no, non voleva capire a chi la stesse paragonando e sospirò. Si strinse nelle spalle e gli chiese invece: “Perché mi hai chiesto di seguirti?”
Nico si studiò i lacci della alla star nere consumate e sporche, poi alzò la testa riacquistando l’aria scocciata. “Diciamo che un amico mi chiesto un favore” rimarcò ironico.
Lei era sempre più confusa. “Che genere di favore?” senza volerlo assunse un’aria difensiva e strinse le mani a pugno. La sua reazione sembrò divertire Nico visto l’accenno di sorriso ironico che fece.
“Allora, come ti sembra il College Olympus?” domandò spiazzandola.
Lo guardò incerta. “Diverso. Da come me lo immaginavo io, intendo”.
Nico annuì come se avesse detto una cosa giustissima, poi riprese a camminare senza dire niente, non si era nemmeno accorta che si fossero fermati in mezzo al corridoio.
“Perché questa domanda?” lo rincorse e attese pazientemente la risposta, che però non arrivò.
"Come lo immaginavi?"
Storse il naso scontenta. "Non si risponde a una domanda con un'altra domanda. E comunque non lo so, ecco, sicuramente non così" continuò incalzata da una sua occhiata.
"Ci sono due cose che devi sapere" disse allora Nico alzando appunto due dita della mano e sventolandogliele davanti alla faccia. Sembrava stesse imitando qualcuno. "Uno: non ficcanasare negli affari degli altri" e abbassò un dito.
Calypso inarcò uno sopracciglio.
"Due: mai dire la verità" terminò e la guardò in attesa che assimilasse bene le sue parole, lei scosse la testa confusa non riuscendo a comprendere quello strano ragazzino e perché le dicesse quelle regole.
"Calypso" la richiamò lei. Sembrava davvero in difficoltà, come se non riuscisse a trovare le parole per spiegare un concetto difficile e complicato a un bambino in maniera comprensibile. "Dunque. Tutti voi siete qui" e indicò con un dito il corridoio come se tutti gli alunni di quell'egocentrica scuola fossero concentrati in quell'unico punto "perché siete dei problemi" e scandì l'ultima parola. Strinse le labbra in una smorfia indecisa. "Problemi per la famiglia, per lo stato, per voi stessi o non lo so. Ma siete dei problemi che non si possono risolvere e quindi venite mandati qui"
"Grazie" si lasciò sfuggire offesa.
"Non c'è di che. Il fatto è che non potendo risolvere voi stessi volete risolvere per forza qualcun altro. Come se trovando la soluzione al problema di qualcun altro possiate risolvere il vostro, di problema"
Ripresero a camminare arrivando all'imbocco delle scale verso i dormitori. "Ma hai appena detto che è vietato ficcanasare negli affari degli altri"
"Esatto, ma nessuno rispetta questa regola" sembrò che la cosa lo seccasse terribilmente. "Motivo per cui bisogna mentire. Per evitare che gli altri ficcanasino, capisci?"
"No" ammise "Se vogliono aiutare perché impedirlo? Ti fanno solo un favore"
"Vediamo" finse di pensarci, poi aggiunse con aria saccente "Tu vorresti essere aiutata?"
Calypso si fece istintivamente sospettosa. "Che domanda è? Non ho bisogno di essere aiutata, io non ho nessun problema"
"Eppure sei qui" la incalzò.
Strinse le labbra e lo guardò astiosa. "Sono qui perché sono un peso per i miei genitori".
"Sì. Abbastanza convincente" e non aggiunse altro, ignorò le scale e si diresse verso la Hall. Non le restò che seguirlo.
"E' la verità" protestò e gli afferrò senza pensarci una spalla ossuta.
"Senti, Nightshade" improvvisamente Nico si era fatto aggressivo e se l'era scrollata di dosso con un movimento brusco e la guardava inspiegabilmente astioso. "Del motivo per cui sei qui non me ne frega niente, quindi non perdere tempo a convincermi. Non me ne frega" ripeté "Sinceramente, non me ne frega nemmeno che tu sia qui o se entro una settimana verranno portati alla luce tutti i tuoi più sporchi segreti. Ma un seccatore mi ha chiesto un favore, quindi dovresti convincere lui che non hai nessun problema".
Lo guardò spaventata da quel brusco cambio di carattere, i suoi occhi erano pieni d'odio in quel momento; si chiese se fosse bipolare. In ogni caso terrorizzata si affrettò ad annuire.
"Bene".
La portò fino ad un angola della hall dove era appesa una bacheca piena di corsi e firme. "Qui ti iscrivi per i corsi estivi. Rachel ti avrà già spiegato come funziona"
Annuì temendo che una negazione ritirasse fuori una reazione arrabbiata.
“Bene. I corsi iniziano domani mattina”
“Ma la segretaria mi ha detto che sono già cominciati” protestò ricordando la donna al banco del giorno prima.
“Quella là è una svampita, non ascoltarla” borbottò infastidito.
“Ok” assicurò innervosita.
"Bene." ripeté "Scegli con attenzione. Da questo momento ricominci da zero. Qui nessuno ti conosce, nessuno sa niente di te e puoi essere chiunque tu voglia. Devi creare una nuova te stessa e per farlo devi scegliere ogni cosa con cura, ogni dettaglio. La verità è solamente una grande casa priva di mobili ma che ha i merletti alle finestre"
"Co-cosa?" rimase spiazzata da quella perla filosofica.
"Lo dice sempre Valdez"
"E vale a dire?" domandò infastidita dalla comparsa di quel nano nella conversazione.
Alzò le spalle. "La verità è una grande bugia convincente" la guardò "Se ti è tutto chiaro io me ne vado"
Non le era per niente chiaro ma annuì lo stesso stringendosi nelle braccia, però gli chiese perplessa: "Perché prima usavi il voi? Non sei anche tu stato mandato qui per lo stesso motivo?"
Nico si prese qualche secondo per rispondere. Che buffo, era più basso di lei eppure se ne accorgeva solo ora. "Diciamo che io non sono stato mandato qui. Piuttosto la scuola è stata mandata da me" e se ne andò ancor prima che potesse comprendere il sottointeso di quelle parole ironiche.
Spalancò la bocca fissando la maglietta nera sparire nuovamente per il corridoio. Negli opuscoli c'era scritto che la scuola era stata costruita da tre fratelli, uomini d'affari e milionari, dopo una serie di incidenti familiari. Da quel che aveva capito il motivo principale era l'improvvisa pazzia del figlio minore di uno di questi in seguito ad un incidente che aveva ucciso la madre e la sorella; non trovando strutture in grado di aiutarlo il padre insieme agli altri due fratelli aveva iniziato il progetto del College Olympus perché il figlio potesse essere seguito nella giusta maniera. Non spiegava altro.
"Oh mio Dio" respirò "Non ci posso credere".
Aveva appena conosciuto il famoso figlio.
 
La scelta dei corsi si rese conto ben presto essere una impresa. Come aveva detto quello era il primo modo per costruirsi una verità credibile, doveva assolutamente scegliere come apparire agli altri. Guardò il corso di tiro con l'arco, doveva essere la ragazza risoluta che prendeva a pugni i ragazzi? No.
Corso di pittura, l'artista incompresa che se ne va in giro con i jeans sporchi di pittura come Rachel? No.
Corso di chimica avanzato, la secchiona? No, assolutamente no.
Sospirò passandosi una mano sul collo, si chiese che impressione avesse dato in quella mezza giornata e che cosa aveva fatto capire di sé stessa.
Non ho parlato molto, quindi ragazza timida. Mh, meglio evitare le cose troppo violenti.
Sono vegetariana, quindi in teoria amo gli animali, mi serve qualcosa che mi faccia stare a contatto con la natura.
Rachel ha visto i libri, sa che amo leggere. Magari c'è un corso di letteratura o scrittura...
"Scelta difficile, vero?"
Sussultò sentendosi una ladra e si girò verso la voce venendo travolta dal sorriso accecante di Percy.
"Uh, sì" bofonchiò arrossendo e l'altro rise. Si sentì in imbarazzo nell'essere da sola con lui ma anche molto felice, soprattutto perché nei dintorni non vedeva nessuna fidanzata.
"Mi ricordo" continuò il ragazzo ignaro dello scoppio di emozioni che causava la sua vicinanza "che la prima volta mi iscrissi a troppi corsi rischiando di non partecipare nemmeno a uno" e rise ancora.
"Non ho molte idee" ammise giusto per dire qualcosa e non lasciarsi scappare quel bellissimo momento.
"Allora ti consiglio il corso di nuoto" annuì lui "E non lo dico perché sono il capitano della squadra di pallanuoto, eh".
Calypso sbottò spontaneamente a ridere, una bella risata limpida e cristallina per nulla forzata, era da tanto che non lo faceva.
"Potrei pensarci su" disse fingendosi sostenuta alzando gli occhi al cielo pensosa. Fintamente pensosa. In realtà era già pronta a mettere la propria firma.
"E' molto bello il corso di botanica" continuò Percy scrutando le varie attività "Te lo dico perché hai la faccia di una a cui piacciono i fiori".
"E come lo sai che è buono? Ci hai partecipato?" lo stuzzicò provando ad avvicinarsi leggermente a lui.
Percy non arretrò scosse solo la testa divertito per la sua affermazione. "Grover" disse solo a mo' di spiegazione "Lui è fissato con la natura, mi ha costretto ad andarci una volta. Che a proposito io ero sceso proprio per andargli incontro. Sai, sta arrivando" sorrise ancora.
"Non vedo l'ora di conoscerlo" mentì ricambiando il sorriso.
"Fantastico. Allora io vado, ci si vede a pranzo".
In realtà Calypso voleva trovare un nascondiglio e saltarlo ma il buono proposito sfumò davanti agli occhioni verdi di Percy. "Certo, ovvio che sì"
"Ci conto, eh" e le fece un segno di saluto con la mano. Lo guardò di sottecchi mentre spariva inghiottito dalle magliette colorate, poi spostò nuovamente lo sguardo sulla bacheca. Calypso non aveva avuto molte cotte, i signori Nightshade le avevano presentato ragazzi di alti lignaggio in continuazione nella speranza di poter usufruire di un matrimonio combinato ma nessuno di quei ragazzini rigidi nei propri abiti da nobili con la brillantina sui capelli l’avevano convinta. Non erano persone con cui le sembrava di poter affidare sé stessa, all’epoca aveva un’idea molto romantica dell’amore e si vedeva come una principessa incarcerata in una torre altissima con il drago – suo padre – a far la guardia alla finestra con i suoi artigli, immaginava un principe coraggioso capace di liberarla e portarla lontana in un palazzo fatto di nuvole e a vedere il mondo. La favola più banale ma bella del mondo.
Ovviamente, non era accaduto. Nessun principe, nessuna principessa e l’unica che davvero era fuggita alla fine era stata sua sorella; lei si era ritrovata sola a giocare a puzzle con la propria anima nel tentativo di ri-assemblarla. Aveva capito che i principi su cavalli bianchi non esistono e se li inventano le persone che hanno la necessità di aggrapparsi a qualcuno, deboli fanciulle che non sanno prendere le proprie responsabilità.
  Lei non era più così, lei si stava salvando da sola.
 
**
 
 
In realtà l’unica regola per sopravvivere Leo l’aveva imparata in fretta: se fai vedere quanto ti fa male, è finita. La sofferenza si sposa con la solitudine in una stanza vuota, al buio per non guardarsi mentre si muore. È semplice. È giusto così.
Il cielo in quel momento si tingeva di rosso, nel pomeriggio aveva piovuto ma ormai nell’aria si avvertiva solo il ricordo della pioggia, ogni cosa era immobile e le nuvole che pesavano sopra la sua testa si tingeva una dopo l’altra di colori caldi. A Leo piaceva il rosso, rosso fuoco, e amava il tramonto per questo: il mondo intero prendeva fuoco.
Seduto sul cornicione del tetto, in un angolo facilmente accessibile dove nessuno metteva mai piede, faceva scattare la fiamma dell’accendino e sorrideva al vuoto, l’aria era gelida ma confortante per un cuore così agitato. Mancavano poco più di dieci minuti alla cena e se non voleva arrivare in ritardo o saltarla doveva proprio andare, anche perché gli si stavano gelando le chiappe, però non aveva nemmeno voglia di andare lì e di scendere con gli altri. La maggior parte dei suoi amici erano interscambiabili, nessuno veramente fondamentale, riconosceva le facce, assegnava un nome e magari gli voleva pure bene, ma non provava niente. (Non come Percy al quale bastava aver parlato una volta per avere un nuovo migliore amico.)
Amici intercambiabili un po’ come lui con sé stesso: potevano essere tutti o nessuno, di sicuro nessuno era invitato al mega party nel suo inferno personale. La fiamma dell’accendino gli bruciò le dita ma continuò a giocarci finché i suoi polpastrelli non iniziarono ad odorare di carne bruciata e cuoio.
Il passato di Leo faceva schifo tanto quello di Nico e Jason, forse anche peggio, ma tutti tendevano a scordarlo perché sorrideva di continuo. Marinava le lezioni, portava scompiglio in classe, aveva sempre qualcuno da seccare eppure tutti gli volevano un grande bene perché era un terremoto tascabile di vita; era consolante conoscere in un posto del genere qualcuno così tanto allegro, che lo fosse davvero o fosse solo un ruolo non importava, si salva solo l’apparenza. Il resto finisce nel cesso.  Sul tetto mancava qualche tegola e un gabbiano aveva fatto il proprio nido poco lontano, nessuno poteva vederlo mentre era lì e come diceva sempre Nico: se nessuno ti vede non occorre che tu sia qualcuno.
Era ora di andare. Con agilità conquistata in anni di pratica si mise in piedi su cornicione in equilibrio, si stiracchiò e la corta maglietta rossa lasciò intravedere un livido sul fianco.
“Sono caduto” aveva riso ad Annabeth “Fuggivo da una bella ragazza che mi voleva baciare”
L’ironia l’aveva sempre salvato, era sempre sopravvissuto alle situazioni difficili usando il cervello. Era il buffone della classe, il giullare di corte, perché aveva imparato che se scherzavi e ridevi non le prendevi. Come già detto, tutti vogliono avere accanto una persona con un sorriso così spontaneo. L’umorismo era un buon modo per nascondere il dolore. Avere sempre la risposta pronta e un sorriso in tasca era il modo migliore per sopravvivere ed evitare domande. L’importante era non lasciare che gli altri notassero i particolare e in quel caso rispondere subito senza esitazione.
Le braccia di Leo erano piene di polsini con nomi di gruppi musicali.
“Che vuoi farci, adoro alla follia gli Slipknot!” rideva lui quando veniva preso in giro da qualcuno per quello buffa mania. Non aveva mai ascoltato una delle loro canzoni. Né degli Iron Maiden e dei Bullet For My Valentine, comunque. Dei Metallica giusto quelle che Nico metteva sempre in camera. Ma tanto la maggior parte del tempo indossava solo maglie a maniche lunghe.
Leo lo sapeva che la verità si rivela solo con il silenzio più nudo, ma lui aveva sempre la risposta pronta. E nessuno si chiedeva se era una bugia.
 
La porta del lucernario che portava al tetto si aprì proprio in quel momento facendo trattenere brevemente il sospiro a Leo che poi lasciò andare per il sollievo notando che era solo quella strana ragazza appena arrivata.
Appena Calypso lo vide si bloccò con la boccuccia  spalancata come se fosse stata colta nella scena di un crimine.
“Che ci fai qui, Raggio di Sole?” le chiese con un sorriso da briccone e lei si riprese dalla sorpresa incenerendolo con un’occhiataccia.
“Potrei chiederti la stessa cosa, Omuncolo” lo apostrofò.
Leo rise facendo scivolare l’accendino nella tasca dei jeans sperando di non essere visto. “Segreto” rispose con sguardo cospiratorio e continuò a guardarla con gli occhi sorridenti fino a farla imbarazzare.
“Mi sono persa” borbottò distogliendo lo sguardo.
“E dove stavi andando?” continuò a prendersi gioco di lei perché era fin troppo palese dalla reazione che aveva avuto vedendolo che non si era persa; probabilmente stava cercando un posto per starsene un po’ in pace.
“A-alla cena” rispose titubante.
“Mi dispiace dirtelo, ma hai toppato di un paio di piani” la informò beffardo “ Prova a scenderle, le scale, quando esci dal dormitorio invece di salirle”.
Vederla diventare di diversi rossi diverse fu una bella soddisfazione, gli sembrò che lo insultasse anche a fior di labbra in un’imprecazione totalmente fuori luogo per una ragazzina così snob.
Quando l’aveva vista Leo aveva pensato che fosse davvero bella, di una bellezza oggettiva intendo, e che sembrava un po’ una delle statue greche che i fratelli Olympus avevano messo in ogni dove. I lunghi capelli lisci erano come quelli di Hazel, color cannella, ma la somiglianza fra le due finiva lì. Il viso della Nightshade era pallido come il latte, con occhi scuri a mandorla e labbra carnose. Era ovale e magro con gli zigomi alti e fieri. Decisamente sì, era molto bella ma con tutte le espressioni arrabbiate che gli aveva rivolto gli ricordava soltanto la ragazza più bella della classe: la viziata figlia di papà che lo prendeva in giro, che spettegolava senza pietà, che si sentiva superiore a chiunque e che, nella pratica, faceva ogni cosa in suo potere per rendergli la vita un inferno. Insomma, l’antipatia era subito scattata come forma di difesa. Ovviamente tutto questo aumentava solamente il divertimento che provava a farla uscire dalle sue composte staffe.
Calypso sembrava finalmente aver deciso come rispondere ma la precedette ancora una volta. “Ti accompagnerei io –è compito di ogni meraviglioso cavaliere come me salvare una dama in difficoltà – ma temo che l’orario sia passato. Non so te, ma io non voglio incappare nelle ire di Mister D”.
Gli occhi scuri, che appena aveva iniziato a parlare si erano incupiti, si schiarirono brevemente per il sollievo, ma poi tornarono freddi. “Sei proprio inutile” terminò.
“Potrei sempre accompagnarla nelle cucine e prepararle io stesso un ottimo piatto vegetariano. Sono uno chef molto ambito da queste parti” e fece un teatrale inchino.
Questa volta gli occhi di Calypso si spalancarono per il terrore, probabilmente temeva che potesse avvelenarla, e boccheggiò: “Non importa. Non ho molta fame”
Scrollò le spalle, il cielo sopra di loro nel frattempo si era fatto scuro, il sole era tramontato quasi del tutto e le nuvole si mimetizzavano nell’oscurità. Niente stelle quella notte. Le ombre si allungarono sui loro volti e Leo dovette tirare fuori l’accendino per rischiarare la zona. Alla luce della fiamma gli occhi di Calypso tremolavano inquieti come se fossero animati da un fuoco interiore, avevano una forma davvero bella e particolare, da principessa orientale.
La fissò con la testa leggermente piegata di lato come i peluche  nei negozi per bambini che cercano di accaparrare l’attenzione di un futuro possessore. L’aria era davvero gelida per essere estate e mostrava crudele gli sbuffi dei loro respiri che si intrecciavano e tradivano la loro vicinanza. Improvvisamente calò il buio e rimase solo la luce dell’accendino.
Poi Calypso fece un passo indietro e tutto tornò normale.
Leo fece scattare ancora qualche volta la fiamma cercando di chiedersi cosa fosse quella strana sensazione di buio che gli aveva preso lo stomaco, come se invece di guardare dentro gli occhi scuri di Calypso stesse guardando allo specchio vedendo solo il vuoto.
“Ti accompagno di sotto?” domandò giusto per spezzare il silenzio e regolare il respiro, che buffo non si erano nemmeno sfiorati ma gli era sembrato di aver messo un dito nella presa della corrente e zap, l’elettricità aveva creato un cortocircuito. Se il suo cuore fosse stato come quello di una macchina avrebbe già capito come ripararlo.
“No, adesso conosco la strada”  disse lei avvelenata, il tono nuovamente antipatico e sprezzante, però notò che si teneva un braccio con la mano come se fosse appena stata colpita da una corrente calda. Sorrise.
Non si penseranno più per tutta la notte, ma ormai il danno era stato fatto: si erano buttati, precipiteranno insieme.
 
 
 
 
Ed eccomi qui puntuale!
Lo so che i tempi di postaggio sono molto lunghi, ma ci tengo a fare le cose fatte bene (anche se devo ammettere, uhm, delle parti di questo capitolo non mi convincono molto). E soprattutto sarò sempre puntuale – calamità naturali permettendo.
Dunque, non ho molto da dire. Lo so, non compare Will ma io sono anti tivedosubitoemiinnamoro. Le trovo un po’ irreali, già con la Caleo mi sembra di velocizzare troppo, voglio dare più spazio e tempo alla Solangelo, anche perché stiamo parlando di Nico (è questo che non mi piace della coppia nell’originale: non ha molto fondamento. Conto sulle sfide di Apollo per maggiori spiegazioni).  Vi prometto però che nel prossimo capitolo il nostro biondo sarà molto più presente c:
E nulla, lascio la parola e i commenti a voi.
 
Ringrazio tutte quelle meravigliose anime che hanno recensito e riempito il mio cuore di gioia. Siete fantastiche, spero di rivedervi anche qui!
 
Al prossimo sabato,
Hatta.

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Capitolo 4
*** 46.3 Kg ***


Attenzione! La storia seguente presenta tematiche delicate. Vorrei precisare che non promuovo nessun tipo di disordine alimentare. Pertanto, se si è facilmente influenzabile sconsiglio la lettura, non voglio avervi nella coscienza.




 
 
 
III
Quarantaseipuntotre
**
“Non mangiare nulla per quattro
ore prima di coricarti a dormire.
Può fare grande differenza”
 
Il padiglione per la colazione era pieno di ragazzi seduti ai propri posti e nell’aria c’era un composto chiacchiericcio tipico delle prime ore dopo la sveglia, tutti erano ancora intontiti dal sonno per la solita vivacità e preferivano concentrarsi sulle proprie tazze di caffè o cornflakes. Tranne Leo Valdez. No, l’ispanico manteneva la sua solita iperattività agitandosi sul posto come se fosse sveglio da ore e perfettamente riposato nonostante la sera prima fosse rientrato in camera alle due passate.
A volte vorrei sapere dove gironzoli...
Certamente Jason era abbastanza sicuro che il suo migliore amico o si facesse di una particolare droga molta pesante o avesse della caffeina naturale in circolo nelle vene, era umanamente impossibile essere sempre così agitato. Cioè, anche Percy soffriva di ADAH, ma erano due cose completamente diverse.
“Smettila di tirarmi calci” si lamentò Piper esasperata. Leo staccò un morso dalla propria mela e la guardò con sfida, gli occhi spalancati.
“Non è colpa mia se hai delle gambe lunghissime, Reginetta di Bellezza”
Si massaggiò la radice del naso intenzionato ad estraniarsi dal battibecco tra la sua ragazza e il suo migliore amico, quella mattina avevano rischiato di arrivare tardi (come al solito aveva tentato di far scendere Nico senza riuscirci) e si erano seduti sul primo tavolo disponibile appena in tempo, il resto della truppa stazionava qualche metro più in là. Li guardò corrucciato, in quel momento voleva Annabeth e la sua straordinaria capacità di far zittire Leo; la bionda sembrava avere un particolare superpotere che le permettesse di farlo tacere per qualche secondo, cosa che necessitava assolutamente in quel momento. Gli doleva troppo la testa.
Leo gli schioccò le dita davanti al naso facendolo sobbalzare. “Ehi, amico. Resta con noi”.
Jason sbatté le palpebre un paio di volte sotto lo sguardo attento di Piper. “Sì, sono qui” assicurò. Lei lo guardò ancora, poi fece il respiro, quello che faceva da preludio a un discorso serio.
“Jason” lo chiamò quando distolse l’attenzione da lei “Lo sai che non è colpa tua se Nico non vuole scendere. Sai com’è fatto, Nico è...” tentennò cercando la parola giusta.
“Strano” le venne in soccorso allora Leo sputacchiando pezzi di cornflakes “Inquietante. Fuori di testa. Fissato. Pazzo. Psicopatico” continuò ad elencare finché non gli fu scoccata un’occhiataccia degna di Annabeth e allora alzò le mani in segno di resa.
“Ehi, mi limito a descrivere la verità”.
“Quello che Leo sta cercando di dirti” lo interruppe Piper prima che potesse dire qualcos’altro “E’ che Nico ha delle...”
“Fissazioni inquietanti”
“Leo!” sbottò colpendolo alla testa con uno schiaffetto, poi riprese da dove era stata interrotta “delle piccole fissazioni. A lui non piace stare in posti affollati, no? Tu non hai fatto nulla di sbagliato”
“Sono suo amico, però” decise di farle notare. In realtà odiava quell’argomento, lo avevano iniziato centinaia di volte ma alla fine non lo finivano mai e ognuno restava convinto delle proprie tesi. Jason capiva perché Piper gli dicesse certe cose, ma era comunque frustrante non venire capito a sua volta; si passò una mano fra i corti capelli biondi a disagio.
“Essere suo amico non significa cercare di risolvere necessariamente tutti i suoi problemi” spiegò con pazienza Piper cercando di afferrargli la mano sul tavolo.
“Ah, no?” si lasciò sfuggire “Credevo significasse proprio questo essere amici. Aiutarsi a vicenda”
“Jason!”
“E’ mio compito aiutarlo. Se non lo faccio io, chi? Voi che lo considerate uno stramboide?” aggiunse spostando la mano sotto il tavolo e facendo sospirare la ragazza che gli rivolse uno sguardo sconfortato. I suoi occhi dicevano a chiare lettere che stava solo cercando di farlo stare meglio.
Si sentì infinitamente in colpa.
“Scusami” sussurrò abbassando lo sguardo, non riusciva proprio a farne una giusta.
“Va tutto bene” lo rassicurò Piper prendendo finalmente quella mano e avvicinandosi un po’ di più al fidanzato senza smetterlo di cercare un contatto visivo. Lui ricambiò la stretta sbirciando verso di lei. “Non volevo risponderti così male”
“Lo so” sorrise “E so anche che Nico è davvero fortunato ad avere un amico come te. Sei una persona fantastica, Jason Grace” gli ricordò solo per cancellare dalla faccia quel sorriso triste. Avrebbe tanto voluto baciarla in quel momento.
Del latte si sparse per il tavolo scivolando a terra e bagnando i pantaloni di Piper la quale fece un balzo presa in contropiede.
“Ops, ho rovesciato il latte” rimarcò l’ovvio Leo con un sorriso da folletto.
“Valdez!”
“Scusa, Miss Mondo”
Scosse la testa divertito notando che Leo lo guardava con la coda nell’occhio. Non era arrabbiato, in fondo era fin troppo facile quando era con la sua ragazza dimenticare la presenza di terzi.
Nella sala scese improvvisamente il silenzio e anche i due ragazzi smisero di litigare spostando lo sguardo verso il tavolo degli adulti, Jason li imitò. Chirone si era alzato dal suo posto al centro della tavolata rettangolare e abbracciava con sguardo paterno l’intera sala soffermandosi su ogni viso.
“Buongiorno” iniziò e i più coraggiosi nella sala risposero al saluto con enfasi, inutile dire che Leo fu uno di essi.
Il riccio prese la coppa di cereali e la alzò verso il cielo come un trofeo. “Alla sua salute, vecchio!”
Chirone li tacitò tutti con un sorriso bonario. “Come sapete, oggi con l’inizio dei corsi estivi abbiamo facce nuove tra noi. Spero, anzi: so che saprete accoglierli nel modo più appropriato che aspetta ai nuovi membri di una famiglia. Perché sì, come vi dico sempre il College Olympus è la nostra famiglia, una casa dove poter costruire i propri legami”
Jason ebbe la sensazione che lo sguardo di Chirone si posasse prima su di lui e poi nel resto della stanza alla ricerca di una scarmigliata chioma corvina. Il pensiero gli strinse le viscere.
Dopo un attimo di silenzio l’uomo riprese a parlare: “Ora, vorrei solo ricordare le poche cose che la maggior parte di voi già conosce. Gli orari dei pasti sono infissi davanti alla mensa e il nostro direttore richiede la vostra puntualità. Tutti gli studenti che salteranno i corsi o si troveranno fuori dalle proprie stanze oltre l’orario del coprifuoco verranno puniti” e lo sguardo che lanciò a Leo fu più che palese a tutti nella sala “Per conoscere più dettagliatamente le regole dell’istituto potrete chiedere il documento alla nostra segretaria Melly. Anche se so che nessuno di voi lo farà” una leggera risata collettiva si sparse nell’aria “Vi chiedo comunque di comportarvi bene e nel rispetto verso gli altri.
Nella hall sono già stati fissati i turni per le regolari visite mediche, siete pregati di prenderli in esame e presentarvi in infermeria nel tempo prestabilito. Alcune gite che faremo nel corso dell'estate sono già state programmate, se avete piacere sono sempre infisse in bacheca.
 Non ho altro da aggiungere, se non darvi il mio più caloroso benvenuto. I corsi inizieranno fra venti minuti, quindi orsù eroi, affrettatevi nella vostra colazione” e con un sorriso paterno si sedette al suo posto mentre i ragazzi prorompevano in un applauso.
“Che grand’uomo” si finse commosso Leo battendo le mani con fin troppa enfasi, fu uno degli ultimi a interrompere l’applauso.
 
**
“Signorina Nightshade”
Calypso si era appena alzata dal suo posto nella mensa quando una signora con una sgargiante maglia arancione l’aveva chiamata. La guardò con un punto interrogativo stampato in faccia mentre i ragazzi che erano con lei si alzavano e allineavano frettolosamente.
“Signora Jackson” arrossì Frank.
“Mamma!” disse invece Percy con un sorriso che venne ricambiato dalla donna.
“Ciao tesoro” lo salutò, poi posò nuovamente lo sguardo su Calypso che ancora la guardava confusa.
“Scusami cara, ma c'è stato un problema con i corsi che hai scelto" disse facendole segno di allontanarsi dagli altri per parlare con più privacy.
"Che genere di problema?" domandò con una punta d'ansia. Gli occhi della signora Jackson avevano la stessa forma di quelli del figlio ma i suoi scintillavano e cambiavano alla luce, pareva stesse vedendo in lei tutte le cose belle dimenticando quelle cattive. Qualche ciuffo argentato striava la sua capigliatura castana.
La donna lanciò uno sguardo al gruppetto di ragazzi dietro di loro che, poteva scommetterci, stavano facendo di tutto per origliare senza farsi notare. La cosa la infastidì non poco.
"In realtà è una sciocchezza" cercò di rassicurarla "Per via del motivo per cui sei qui" continuò facendole capire che lei lo sapeva ma non la giudicava "Devi seguire alcune... regole, possiamo chiamarle così, in più rispetto agli altri" le passò un foglio "Per questo l'orario che ti sei scelta è stato un po' modificato".
Calypso lasciò uno sguardo di sbieco al foglio, era molto diverso dal programma che aveva dovuto seguire nel centro ospedaliere di riabilitazione intensiva. C'era stata dentro novanta giorni, i novanta giorni più brutti della sua vita. Prima avevano distrutto tutti i suoi sforzi per raggiungere il suo traguardo facendola tornare nel suo cosiddetto peso base, l'avevano tenuta lontana da bilancia o da qualsiasi metodo che potesse aiutarla a controllare il peso, era stato terribile. Ancor più orribile era stato al termine del mese salire finalmente su una bilancia e vedere quei numeri. Si era messa a piangere per la prima volta da quando era entrata là dentro, prima non l'aveva mai fatto per non dare nessuna soddisfazione ai suoi aguzzini. Nei successivi due mesi, ovvero nella seconda e terza fase del programma, avevano cercato di ristabilire i normali schemi di alimentazione e i normali atteggiamenti nei riguardi del peso e della forma del corpo e a risolvere i quadri psichiatrici di depressione, ansia e disturbo ossessivo - compulsivo. Inizialmente si era ribellata, aveva tentato di scappare, gridava di lasciarla andare e che non capivano ma poi aveva compreso che l'unico modo era fingersi docile e collaborativa, prima credevano che fosse guarita (anche se lei non era malata, erano gli altri che non lo capivano) e prima poteva uscire da quell'inferno. Dopo tre mesi era tornata a casa e la sua bilancia segnava cinquantasei chili. Aveva comunque deciso di non perdersi d’animo ricominciando da capo, nel corso dell’inverno era riuscita a perdere dieci chili e a dimenticare quel posto orribile. Fu davvero felice leggendo il programma datole da Sally di notare che non assomigliasse in nulla a quello dell’ospedale.
Però aveva frequenti visite mediche di ogni genere, ogni due giorni doveva vedere la psicologa della scuola e certi corsi che aveva scelto erano stati cancellati e sostituiti da altro. Guardò con odio il corso di cucina che compariva al posto di quello di nuoto.
“Era proprio necessario?” si lamentò riguardo a quei cambiamenti. Oh, c’era pure uno stupido corso sull’autostima.
La signora Jackson si strinse nelle spalle. “Abbiamo comunque tentato di non stravolgere troppo e lasciarlo il più possibile uguale a quello che ti eri scelta”.
Calypso dovette fare uno smorzo immane per non gonfiare le guance offesa e pretendere che la lasciassero in pace, annuì e basta cercando di capire se c’era un modo per evitare certi corsi senza essere beccata. Chirone aveva parlato di punizioni e lei voleva mantenere un profilo basso.
“Va bene” disse con un filo di voce e inghiottendo tutto il disappunto. Sally le mise una mano sulla spalla e la guardò piena di fiducia.
“Ti troverai bene qui” le promise. Era la centesima persona che glielo diceva in appena due giorni.
Appena la donna fu a distanza di sicurezza e i suoi compagni che per tutto il tempo avevano finto neanche troppo bene di farsi gli affaracci loro si gettarono su di lei per sapere quali importanti segreti si fossero scambiate le due.
Nico aveva ragione, sono delle pettegole, si rese conto mentre Percy le sfilava senza chiedere il foglio con il suo orario dalla mano o lo fissava.
“Ti hanno cambiato alcuni corsi?” le chiese.
 “Perché devi fare tutte queste visite? Hai problemi di salute?” domandò Annabeth spiando da dietro le spalle del ragazzo.
“Fate vedere, fate vedere” si dimenò Rachel saltellando.
“Cambiato i corsi? Spero non quello di botanica, mi sarebbe piaciuto farla insieme a te” disse invece Hazel alzandosi sulle punte per sbirciare. Frank si limitava a fissarla curioso.
“Hai molte ore dalla psicologa Estia” notò Reyna accigliandosi. Al che Calypso arrossì e cercando di fingere indifferenza annuì, poi aggiunse per rispondere ad Annabeth:
“Non proprio, ma mi ammalo facilmente e ho la pressione bassa” mentì decidendo di prevenire domande in caso di futuri svenimenti, quando aveva lo stomaco tanto vuoto ed era sfinita le capitava.
Rachel si allontanò scherzosa. “E non è contagiosa, vero?”
La battuta fece ridere tutti, anche lei accennò un sorriso, poi Annabeth prese il controllo della situazione. “Forza, si sta facendo tardi. Dobbiamo andare ai corsi”
 
**
 
Nico se ne stava affacciato alla finestra del corridoio con le braccia appoggiate sul davanzale a guardare i ragazzi della scuola partecipare agli sport in giardino. In teoria avrebbe dovuto essere lì con loro, in pratica non si era nemmeno sforzato di segnare il proprio nome per qualche corso. Era rimasto tutta la mattina in camera a dormire e a giocare con i videogiochi, era sceso a pranzo solo per mangiare e adesso voleva approfittare dei corsi per fare una passeggiata tra i corridoi in perfetta solitudine.
Solitudine...
Jason, Percy, Hazel e perfino Reyna lo rimproveravano di questo suo atteggiamento schivo, loro non volevano che restasse solo ma quello che non capivano era che Nico non era mai solo, non poteva nemmeno volendo restare da solo. Scoccò uno sguardo all'ombra del suo campo visivo senza nessuna emozione, ormai abituato a vederlo.
Il fantasma lo guardava con un sorriso serafico, ovviamente aveva capito subito cosa stava pensando. "Non possono capirti" gli ricordò "Al massimo possono fingere di farlo".
Si chiamava Minosse e lui diceva di essere l'antico re di un antica isola caduta in disgrazia perché la figlia lo aveva tradito. Non sapeva esattamente cosa ci facesse lì in America e nemmeno perché lo seguisse ovunque, ma la paura iniziale era del tutto passata. D'altro canto ormai vedeva i fantasmi dei morti da quando sua madre e sua sorella erano morte e la cosa aveva perso ogni sorpresa, vedere i morti camminare fra i vivi era la normalità per lui. E in fonda era felice che Minosse fosse sempre con lui, lo aiutava sempre dandogli consigli. In fondo, i morti potevano capire la sua solitudine meglio di chiunque altro.
"Perché siamo qui?" domandò il re fantasma agitandosi, non era trasparente, sembrava fatto di carne e sangue ma quando lo toccava si accorgeva che aveva la consistenza delle ombre.
Fece spallucce. "Aspetto Valdez e Grace, fra poco è il nostro turno per i controlli in infermeria" il viso si distorse in una smorfia di insofferenza, odiava andare in quel posto. Minosse lo capì al volo.
"Non sei costretto ad andarci" gli fece notare. Il ragazzino accarezzò l'idea piacevole di tornare nella propria stanza e restare lì per il resto del pomeriggio ma poi pensò alla predica che Jason gli avrebbe fatto, non voleva che si preoccupasse per lui.
"No, vado. Tanto c'è la mamma di Percy, è gentile" ricordò.
"Parli da solo?"
Nico sussultò perché si era aspettato la voce giocosa di Valdez, ma quella era più chiara e ferma, sicura e maschile. Si girò verso il nuovo arrivato. Era una delle magliette arancioni, un ragazzo poco più grande di Percy dai capelli biondi e una abbronzatura da Californiano che faceva risaltare gli occhi azzurri come due pietre opalescenti. Doveva essere uno nuovo perché  non l'aveva mai visto. In ogni caso, in risposta alla sua domanda scrollò le spalle deciso di ignorarlo finché non se ne fosse andato.
"Cosa fai qui, non dovresti essere ai corsi?" gli chiese la maglietta arancione e vedendo che non rispondeva, continuò "Lo sai che è vietato saltare i corsi?"
Alzò gli occhi neri come l'inchiostro al cielo scocciato prima di dire stizzito. "Aspetto dei miei compagni di stanza. Abbiamo il turno per l'infermeria. Lo sai, i controlli" disse imitando il su tono di voce da maestrina. Quello lo guardò scettico.
"Sto andando proprio lì. Ti accompagno subito".
Con un gesto stizzito e brusco Nico si staccò dalla finestra premurandosi di guardarlo male. "Grazie, ma conosco la strada" disse senza nessuna gentilezza nella voce. Lo superò deciso ad aspettare i due compagni davanti all'infermeria, fortunatamente non lo seguì.
"La gente deve sempre impicciarsi" borbottò Minosse e lui fu estremamente d'accordo, insomma aveva scritto in faccia 'non parlate con me, lasciatemi stare', perché la gente non lo faceva mai?
 
Leo e Jason lo raggiunsero dieci minuti dopo che lui arrivò alla porta, ovviamente erano in ritardo e questo dimostrava che non era colpa sua se i due facevano sempre tardi. Motivo per cui quando arrivarono scoccò loro un'occhiata infastidita, Leo aveva i pantaloncini corti e le ginocchia completamente sporche di terra per non parlare dei capelli ricci incollati alla fronte. Jason aveva solo la maglia sudata e attaccata al petto largo. Uno dei tanti motivi per cui a Nico non piacevano gli sport.
Jason fece per aprire la bocca, sicuramente per scusare il ritardo ma Nico non gliene diede tempo aprendo la porta e infilandosi dentro.
Leo lo guardò profondamente ferito. "Ingrato" disse in tono melodrammatico posando una mano sul cuore, Jason si limitò a fissare la sua schiena che entrava dentro la stanza chiedendosi cosa avesse fatto di male adesso. Lo seguirono scambiandosi uno sguardo.
L'infermeria era un posto semplice dai muri bianchi e le mattonelle quadrate lucide e brillanti, una fila di letti la costeggiava  fino alla zona destinata all'ambulatorio. Sally li aspettava già lì mentre una maglietta arancione con un camice bianco sopra l'aiutava a sistemare il lettino e i vari strumenti usati poco fa.
"Ciao" li salutò ricevendo un coro di Salve, signora Jackson che fece voltare la maglietta arancione. Nel vedere il suo volto se possibile Nico si accigliò ancor di più.
"Allora non mi avevi raccontato una balla, stavi davvero venendo qui" si stupì.
Nico grugnì in risposta.
"Will!" lo riprese Sally "Non usare certe parole"  poi fece un sorriso bonario agli altri ragazzi. "Lui è Will Solace, ha studiato medicina e quindi mi aiuta qui in infermeria. Mentre finisco di sistemare andate da lui per le solite cose. Sapete, le domande di routine".
Leo si scambiò con gli altri uno sguardo che significava solo una cosa: aveva in mente qualcosa di assolutamente divertente (Questo secondo lui, Nico non ne era tanto sicuro).
"Inizio io!" disse appunto alzando una mano come un bimbo lagnoso "Io! Io!"
Will sbatté le palpebre preso completamente contropiede. "Va bene" acconsentì e subito iniziò a cercare fra delle schede su un tavolino.
"Leo Valdez" lo precedette indovinando cosa stesse per chiedergli, il sorriso furbetto non abbandonava il suo volto.
Will annuì senza alzare il viso della carte mentre cercava la sua scheda, quando la trovò la sistemò in ordine sopra le altre e prese una penna iniziando già a segnare alcuni punti automatici.
“Anni?” aveva una voce molto professionale e sicura ma questo non sembrava intimorire in qualche modo il messicano.
“Diciotto” disse mettendo le mani nelle tasche dei calzoncini e vantando un sorriso da mascalzone.
Will si limitò ad un’occhiata scettica al suo corpo magrolino prima di scarabocchiare quattordici. Leo lo guardò con gli occhi fuori dalle orbite.
“Ehi!” sbottò offeso.
“Tu non puoi avere diciotto anni” gli spiegò con tranquillità.
“Ma  non ne ho nemmeno quattordici! Sono sedici. Se-di-ci!” sillabò.
Will fece un sorrisetto e poi corresse quanto scritto in precedenza, con la penna indicò un metro attaccato alla parete bianca e con voce sicura, probabilmente convinto che il riccio non gli avrebbe più tirato tiri mancini, disse solo: “Altezza?”
“No, tranquillo. La gente preferisce chiamarmi Maestà”.
Ci volle qualche secondo prima che il biondo capisse la battuta e lo fissasse prima basito spalancando pure la bocca e poi lo incenerisse con un’occhiataccia.
“Puoi essere serio, per favore?” sibilò.
 “Eh, se me lo chiedi con quegli occhioni...” acconsentì con magnanimità. Sia Nico che Jason che la signora Jackson gli rivolsero uno sguardo intimidatorio e allora si diresse con docilità verso il metro per lasciarsi prendere le misure, purtroppo aveva un righello di misurazione europea quindi dovette aspettare il verdetto di Solace.
“167 centimetri” borbottò il biondo, poi aggiunse ad alta voce “5’6’’”
Leo alzò le braccia in segno di vittoria. “Evvai! Sono cresciuto un pochino” la sua esuberanza fece sollevare gli occhi azzurri di Will al cielo.
“Ok, adesso passiamo al peso” dopo aver segnato il numeretto e appena lo disse Leo salì sulla bilancia completamente vestito e con le scarpe facendolo accigliare. “Dovresti spogliarti” gli fece notare pignolo.
Leo alzò le mani davanti in segno di resa. “Senti, bello. So che sono una meraviglia della natura, ma non ti sembra di correre tropp? Mi vuoi già vedere bello come mamma m’ha fatto?”
Jason si spiaccicò una mano alla fronte vergognandosi per lui, Nico si limitò a spostare lo sguardo disinteressato ma maledicendo comunque Valdez che gli stava facendo perdere tempo con le sue pagliacciate.
“Prego?” fece Will sicuro di aver travisato le parole del ragazzino, poi scosse la testa deciso a ignorarlo e ripeté: “Potresti spogliarti?”.
“Io non mi spoglio per soddisfare i bisogni di un vecchio pedofilo frocio” continuò cocciuto Valdez incrociando anche le braccia per dare più enfasi alla sua presa di posizione.
Il biondo serrò le dita sulla penna e digrignò i denti. “Smettila di giocare” il suo tono di voce si era fatto gelido e lo sguardo minaccioso.
“Tzé” commentò per nulla intimorito, anzi dovette sforzarsi per non ridergli in faccia. Dovette intervenire la signora Jackson affinché Will non compiesse un Valdezcidio.
“Basta, così” disse perentoria rivolgendo un’occhiataccia a Leo “Will, occupati di Jason e Nico. Tu, vieni con me” aggiunse verso il riccio indicando con un gesto una porta per un ambulatorio più piccolo e privato.
“Agli ordini, signora!” scattò sull’attenti con una mano alla fronte come se fosse un soldatino, un soldatino molto ridicolo, poi zampettò fino all’altra stanza sotto lo sguardo severo di Sally.
“Ma signora...” protestò Will sconfortato ma lei lo tranquillizzò con un sorriso.
“E’ Leo Valdez, devi prenderlo con polso fermo” gli spiegò “Non preoccuparti, con loro te la caverai egregiamente” e seguì l’ispanico nell’altra stanzina.
Will aveva sul volto uno sguardo imbronciato leggermente adorabile, poi sospirò sconfortato e volse gli occhioni azzurri verso gli altri due ragazzi.
“Chi vuole per primo?” domandò ancora tentando di riprendere il controllo sui propri nervi. Sì, se non eri abituato a trattare con Leo poteva diventare davvero estenuante, Nico poteva capirlo molto bene visto che erano compagni di stanza da secoli.
“Vengo io” acconsentì il corvino che non vedeva l’ora di tornarsene nella sua camera al buio.
“Tu sei...?”
“Di Angelo. Nico Di Angelo” e cercò di ignorare come meglio poteva lo sguardo stupito che gli rivolse l’aspirante dottore. Cercò anche di nascondere senza successo il proprio rossore perché purtroppo Jason lo notò e iniziò a ridacchiare sotto i baffi.
 
 
L’ambulatorio privato era una stanza piccola dalle pareti verde chiaro che sfumavano verso il bianco man mano che lo sguardo saliva verso il soffitto, una delle lampade a neon era fulminata, per lui sarebbe stato un gioco da ragazza aggiustarla se solo avesse avuto un cacciavite e una scala. A riempire gli spazi erano i pochi mobili presenti anche nell’altra stanza: un lettino spartano, una bilancia con il metro, una scrivania e una dispensa per le medicine e i vari utensili. In fondo alla stanzetta c’era anche un letto d’ospedale ma al momento non poteva essere visto perché nascosto da una tenda bianca, lui lo sapeva esserci perché quando aveva preso la varicella lo avevano trasferito lì.
“Dovresti evitare di dire certe cattiverie alle persone” gli fece notare la signora Jackson chiudendo la porta che li collegava agli altri, in mano teneva la sua cartellina clinica.
Leo sollevò una sopracciglia seguita da un angolo della bocca in un sorriso un po’ sbilenco. “Stavo solo scherzando” si schernì.
“Tu prendi sempre in giro tutti, come se non ti importasse dei loro sentimenti” gli fece notare guardandolo con sguardo severo.”Sembra che a te scivoli sempre tutto addosso, ma non siamo tutti come te. Devi essere più gentile”.
“Uhm, l’ho già sentita questa” borbottò distogliendo lo sguardo e corrucciando le sopracciglia. La signora Jackson, dopo sua madre si intende, era la donna più buona e bella che avesse incontrato: era gentile e con un cuore grande ma nonostante questo aveva un polso di ferro e sapeva farsi rispettare. Era impossibile non volerle bene, molti dei ragazzi lì spesso avevano sognato che lei fosse la loro madre. Sally Jackson era stata la moglie di uno dei tre fratelli che avevano costruito quel posto, ovvero Poseidone Olympus, ma a differenza degli altri due signor Olympus Leo non lo aveva mai potuto conoscere perché, quando Percy era ancora piccolo, il signor Poseidone era caduto vittima di un incidente marino che lo aveva portato ad uno stato di coma molto profondo dal quale i dottori dicevano si sarebbe risvegliato con scarse probabilità. Nonostante questo dolore la donna aveva continuato a portare avanti la famiglia permettendo a Percy di avere una vita felice e lavorando in quel grande College costruito dal marito con tutta la sua forza d’animo e determinazione. Sally Jackson era la miglior cosa che potesse capitare a quella scuola, una benedizione, perché lei conosceva i segreti di tutti e sapeva mantenerli. Per questo aveva preferito portare Leo nell’ambulatorio privato, perché conosceva il suo segreto.
“Coraggio, spogliati” lo spronò mentre apriva i vari stipetti e tirava fuori alcuni strumenti dandogli la schiena. Dandogli volontariamente la schiena in mondo che potesse prendersi tutto il tempo del mondo senza essere troppo a disagio.
Leo si era spogliato molto volte davanti allo specchio o alle ragazze, ma sempre con la luce spenta perché al buio il dolore non si vede e se non si vede si può fingere che non ci sia. Solo due persone lo avevano visto con la luce accesa, una gli aveva chiesto con gentilezza di non farlo più, l’altra era scappata via ferendolo.
Giocò distrattamente con il bordo della maglietta sudata prima di sedersi sul lettino e slacciarsi le scarpe con lentezza, disfò le ciocche e le scalzò, poi tolse i calzini bianchi restando con i piedi nudi. Li fece dondolare come un bambino imbronciato leggermente ingobbito studiando di sottecchi le spalle della signora Jackson, poi serrò gli occhi e afferrò i bordi della maglietta. La tolse con un gesto secco e la buttò per terra dispettoso.
“Anche i calzoncini?” domandò fissando ostinatamente le lampade in neon sul soffitto.
“Non occorre, vai pure e dimmi tutto” lo rassicurò.
Lui annuì anche se non poteva vederlo e scese dal lettino dirigendosi verso la bilancia, attese che i numeri smettessero di vorticare poi riferì il risultato alla donna che lo segnò con attenzione. Si girò a guardarlo solo quando Leo era tornato a sedersi sul lettino, dondolava ancora le gambe e la guardava con un misto di aspettativa e senso di colpa perfettamente leggibile sul suo viso.
Leo Valdez aveva un corpo magrolino, il torace era sudato per l’attività fisica appena compiuta e ossuto, si potevano intravedere gli addominali e il contorno di qualche altro muscolo ma non era particolarmente possente da quel punto di vista. Gli occhi apprensivi di Sally si soffermarono su ogni cicatrice o bruciatura che riempiva il suo torace, sembrava un quadro pieno di schizzi rossi violenti, lui continuava a spiarla in attesa di una reazione di qualche tipo ma come al solito la donna si limitò a sospirare, prendere lo stetoscopio e andargli alle spalle per appoggiarlo sulla sua schiena. Quello era l’unico punto del ragazzo libero di ferite, se non una spalla leggermente ustionata, perché lì con le mani non ci arrivava.
La carne era rovinata in più punti, la pelle bianca delle cicatrici più vecchie spiccava in rilievo sulla pelle leggermente scura e le croste di sangue rappreso verranno sbriciolate quando il prurito diventerà troppo forte. Le ferite più profonde erano chiuse male ed erano slabbrate, rosso scuro, pronte a riaprirsi per vomitare sofferenza. Alcune cicatrici erano metodiche, in alcuni punti erano perfettamente parallele come se avesse preso le misure con il righello, strisci rossi e lunghi, quelle più profonde erano più larghe con i contorni rosa acceso dove la cute si era irritata.
In altri punti erano irrazionali come se il dolore fosse stato improvvisamente troppo forte per poterlo ordinare in qualche modo, andavano in tutte le direzioni, si sovrapponevano e dove i due tagli si incontravano a vicenda si erano aperti buchi rossi. Faceva male anche solo guardarle.
Sally posò il dito su una recente, leggermente frastagliata come se la lama si fosse incastrata, e ne seguì la breve lunghezza. Leo sobbalzò, il suo cuore nello strumento accelerò. Leo non stava quasi mai in silenzio, aveva sempre una battuta pronta per schernirsi, per sdrammatizzare o minimizzare la situazione ma in quel momento restava zitto sentendo lo sguardo della donna bruciare ogni angolo della sua carne più dolorosamente di quanto potesse fare l’accendino che teneva sempre in tasca.
“Credevo non l’avresti fatto più” disse alla fine quando tolse lo stetoscopio e tornò a metterlo via.
“Avevo detto che ci avrei dato un taglio” e rise malizioso ma con gli occhi vuoti. Dare un taglio all’autolesionismo, ahaha. Capito il gioco di parole?
Non è divertente, Valdez.
“Parlo sul serio” disse lei senza risultare brusca, solo preoccupata come dovrebbe esserlo una mamma quando il proprio figlio ha quasi fatto un incidente con la macchina.
 Leo avrebbe voluto dire che non è una cosa che può fare e basta, avrebbe potuto provarci ma non era una cosa che poteva garantire poi tanto. Si cresce convinti che ci sia il bianco e il nero, il bene che combatte sempre il male. Il buono è un eroe che brandisce spade lucenti contro le forze delle tenebre che cercano di soggiogare il mondo con la loro oscurità, tutti i bambini vogliono essere un eroe. Lo stesso valeva per Leo che in fondo nonostante i sedici anni era ancora un bambino che voleva combattere i cattivi e permettere al bene di trionfare. Ma quando il male viene da dentro di te come fai a combatterlo?
La prima volta che la signora Jackson aveva visto tutti i lividi, le ustioni e le cicatrici preoccupata aveva chiesto chi fosse stato a picchiarlo. Aveva già in testa una mirabolante storia di lui che veniva bloccato in un vicolo cieco da teppistelli di strada armati di coltelli alti due metri ma poi aveva soltanto scrollato le spalle con un sorriso impertinente. “Me stesso”.
Per un breve attimo aveva temuto che la donna potesse chiamare qualcuno, il direttore, un insegnante o la psicologa per gestire la situazione; invece era stata zitta a fissarlo critica prima di iniziare a disinfettare tutte le ferite e ricucire le più gravi. Non era una vera dottoressa, ma ne sapeva abbastanza da poter stare nell’infermeria a sistemare lesioni del genere.
“Perché?” aveva chiesto come se bastasse solo quello a far tornare il corpo del ragazzo pulito come una tela bianca, non aveva risposto. Occorre davvero un perché per spiegare tutto quello? Leo credeva di no.
“Forza e coraggio” la voce di Sally eruppe cristallina nell’aria spezzando la tensione “Se facciamo veloce riuscirai a partecipare senza problemi all’ultimo corso della giornata”
 
**
Calypso non voleva essere lì. Né nel corso né nella scuola né in quella stato a dirla tutta, al momento il suo più grande desiderio era rubare le chiavi della macchina di qualcuno e scappare via, poco importava se non sapeva neppure guidare. Al massimo si sarebbe messa a correre, ecco correre era una cosa buona: avrebbe perso calorie nel farlo.
Con il meno appoggiato sul palmo della mano lanciò uno sguardo fuori dalle grandi vetrate dove i raggi del sole filtravano fra le foglie di un melo. L’insegnante era entrato da poco ma aveva già preso a parlare.
Corso di pasticceria, il luogo dove le avrebbe insegnato come costruire torte ripiene di calorie che avrebbe assunto anche solo guardandole.
Sì, Calypso in quel momento voleva suicidarsi sbattendo ripetutamente la testa sul tavolo. Ne aveva scelto uno vicino alle grandi vetrate che ornavano un lato della stana-cucina che gli aspiranti cuochi – con i quali lei non voleva avere nulla a che fare – occupavano per i loro grassi e calorici lavori; era in fondo, lontano il più possibile dall’insegnante e la grande lavagna alle sue spalle e aveva accuratamente guardato male chiunque aveva tentato di sedersi vicino a lei per nulla bendisposta verso l’umanità. Sul ripiano da lavoro era stata adibita una piccola cucina con tanto di fornelletti elettrici, lavandino, pentole e altri strani arnesi. Calypso non aveva mai cucinato in vita sua, quello era un lavoro che aspettava ai servitori e sua madre non le aveva mai chiesto di preparare una torta insieme a lei. Figuriamoci, la signora Nightshade che si sporca le mani con la ferina e il tuorlo dell’uovo è credibile quanto un asino volante.
“Oggi è il primo giorno del corso estivo e tra noi abbiamo molte facce nuove” diceva intanto il piccolo insegnato dalla pelata lucida e una voce stridula “Sono felice di vedervi qui nel nostro corso, spero possiate trovarvi a vostro agio e...”
Blablabla. Non c’era un modo per spegnerlo? In un momento di esasperazione acuta sprofondò con la testa fra le braccia sul tavolo serrando decisa gli occhi sperando che con la vista se ne andasse anche il senso dell’udito. Purtroppo nell’oscurità poteva sentire chiaramente ogni rumore così oltre a quella vocina stridula percepì anche il cigolio della porta che si apriva, qualche passo e il tonfo della porta che si richiudeva secca.
“Signor Valdez!” interruppe l’insegnante la sua tiritera e Calypso alzò di poco la testa dalle braccia giusto per sbirciare con un occhio il ragazzo ricciuto con una mise sportiva e sudata sull’uscio.
“Mi scusi, capitano” sorrise rilassato il sedicenne con un sorriso sbruffone “Ho avuto qualche contrattempo. Sa, c’era questa bella fanciulla che non trovava la strada per la sua prossima aula e io non potevo venire a meno dei miei doveri da cavaliere così l’ho coraggiosamente scortata. Come dire, era così desiderosa di ringraziarmi che non potevo fare altrimenti, ma sa: non mi aspettavo un tale ardore, aha-ha” e per spiegare ancora meglio quello che aveva lasciato sottointeso nell’ultima frase fece ondeggiare oscenamente il bacino e alzò maliziosamente le sopracciglia. “Ha presente, prof?” aggiunse facendo scoppiare a ridere alcune delle persone nella classe. Calypso si limitò a nascondere la testa fra le braccia nuovamente.
“Tollero questo ritardo e la vostra indecenza soltanto per esasperazione. Ma la prossima volta ti mando a pulire le cucine, sono stato chiaro?”
“Agli ordine Capo-Chef!”
L’uomo pelato borbottò altre parole che non capì, poi aggiunse. “Va a sederti nel posto libero. Quello là in fondo”
Ci mise qualche secondo a capire a quale posto si riferiva, precisamente quando sentì qualcuno scostare lo sgabello girevole accanto a lei. Alzò di scatto la testa trovando il volto sorridente di Leo vicino.
“Ma salve, Raggio di Sole!”
Gli scoccò un un’occhiata malevola rizzando la schiena e allontanando un poco la sedia trascinandola sul pavimento.
“Vedo che come tuo solito sprizzi gioia da ogni poro alla mia vista. Mi raccomando, tutto questo entusiasmo potrebbe lasciarmi ustionato. Sei così amichevole con tutti o è uno speciale trattamento che elargisci solo a me? Tranquilla, non sono un tipo geloso. Condivido volentieri le mie gioie con altri più sfortunati” sproloquiò con sentito sarcasmo.
“Se il signor Valdez ha finito di socializzare” lo interruppe dal suo monologo la vocetta dell’insegnante che per tutto il tempo lo aveva fissato con sguardo rassegnato “Stavo appunto dando le indicazioni per il lavoro di oggi”.
“Si figuri, nessun disturbo” lo rassicurò Leo alzando una mano come se lo stesse benedendo “Vada avanti e illumini il mondo con il suo verbo”.
L’ometto roteò gli occhi, poi riprese a parlare da dove era stato interrotto. “Essendo la prima lezione non ho intenzione di darvi incarichi troppo difficili. Anzi, vi chiedo di scegliere un dolce a vostra scelta da presentare alla classe. Potrete scegliere voi, purché sia un dolce!” li guardò severo, poi sospirò solenne “ Lavorerete con il compagno che avete al vostro fianco e avete tempo fino alla fine della lezione. Mi raccomando: non avvelenate nessuno!” chissà perché ma l’ultima raccomandazione sembrava essere rivolta proprio a Valdez. Il quale con un sorriso preoccupante –uno di quelli che ti suggerisce di non lasciare a portata qualcosa di infiammabile a un piromane, per intenderci—fece ruotare lo sgabello per guardarla senza dover girare la testa e disse con sentito trasporto. “Compagna”.
Calypso si limitò a fare un verso di disappunto, ormai il suo odio per quel posto era cresciuto a livello esponenziale.  Il ragazzo sorrise come se dalle sue labbra fosse uscito un singulto di gioia che di disgusto, poi si fece serio. Allegramente serio, ma comunque era già un miglioramento rispetto prima.
“Ok, bisogna scegliere qualcosa di fatto bene” disse come se stesse progettando delle strategia di guerra. “Non possiamo scegliere un dolce a caso, e non dobbiamo fare nemmeno qualcosa di troppo semplice. Dobbiamo vincere questa competizione”
“Non sapevo fosse una gara” aggrottò la fronte confusa.
“Tutto in questa vita è una gara” annunciò solenne “Una gara di vita e morte”
“Smettila di scherzare” si accigliò seccata, se Leo aveva contato bene lei era la decima persona che glielo diceva nel giro di una giornata.
“Congratulazione, hai appena vinto un premio!” le informò allegro, poi si toccò con un dito la punta del naso pensoso. “Dunque, tu sei vegetariana... Dobbiamo fare un dolce vegano” annuì come se avesse trovato la soluzione e iniziò a sfogliare il ricettario di dolci appoggiato sul ripiano da lavoro. Calypso non lo aveva nemmeno visto.
“Ma vegani e vegetariani non sono due cose diverse?” chiese confusa.
“Ehi, sono lo stesso della stessa razza” fischiettò mentre voltava le varie pagine di buon umore. Si perse a fissargli i ciuffi più corti che si arricciavano sulla base della nuca.
Torta vegana ai frutti rossi” lesse improvvisamente con tono esaltato “Questa qui mi ispira, tu che ne dici?” strinse la copertina fra le dita mettendo il segno
“Ehm...”
“Perfetto” disse senza darle tempo materiale per ribattere e lesse gli ingredienti, poi annuì fra sé “Dovremmo avere tutto nella dispensa. Aspetta qui” e si alzò senza lasciarle ancora una volta la possibilità di protestare. Sbuffò scocciata, aveva anche portato il ricettario con sé quindi non aveva assolutamente nulla da fare.
Odiava quel corso e ancora di più odiava quell’omuncolo maleducato!
Quando Leo fu di ritorno dispose con ordine maniacale ogni ingrediente sul ripiano, continuava a fischiettare la stessa melodia di poco prima e aveva lo sguardo acceso di aspettativa. Doveva piacergli molto cucinare, considerò.
 
“Ok, prima cosa: mani” disse e le mise sul ripiano con i palmi rivolti verso l’alto in bella mostra, Calypso lo imitò velocemente e Leo le studiò con moderata curiosità. Se le era aspettate lisce delicate come quelle di una nobile principessa invece erano un poco callose e con qualche piccola vescica e aveva le unghie un po’ sporche di terra umida. Non che lui potesse vantarsi di avere mani migliori, erano callose con piccoli taglietti sui polpastrelli e molto, ma molto sporche. In fondo aveva avuto anche il corso di meccanica quella mattina.
“Ok, bisogna lavarle!” disse contento come un bambino e aprì il rubinetto per sciacquarsele. Calypso lo imitò con la testa inclinata leggermente di lato per la curiosità, aveva legato i capelli chiari indietro in una elegante coda di cavallo che faceva risaltare i suoi occhi a mandarlo come se fossero ancora più grandi, sottostare al suo sguardo lo metteva un poco in soggezione.  Sì, Calypso era davvero carina, peccato avesse sempre quell’espressione schifata quando lo guardava.
Quando le mani furono linde e pulite si mise subito a dare ordini. “Allora, sai prepara la confettura di bacche di goji?” chiese studiando la ricetta.
“Bacche di cosa?” domandò confusa mentre si asciugava le lunghe dita.
“Uhm, fa niente. Allora, tu devi fare questo: prima metti i frutti rossi dentro dell’acqua tiepida così li ammorbidiamo e poi sciogli lo smalto dei mais mettendoli in bagnomaria finché non sono ben morbidi. Aspetta” fu colto da un dubbio atroce “Sai cosa vuol dire bagnomaria, vero?”
Calypso gli rivolse un’occhiataccia. “Mi hai presa per stupida?”
“No, no” assicurò con un sorrisetto. “Bene, al lavoro” annunciò facendo il gesto di rimboccarsi le maniche. Calypso era una buona aiutate, capiva tutte le direttive e dopo un po’ iniziò a seguire la ricetta senza che le spiegasse ogni volta cosa fare, era precisa e veloce. Peccato fosse così silenziosa e continuasse a guardarlo male di tanto in tanto, specialmente quando le rivolgeva qualche battutina per far avviare una conversazione. Fischiettò un altro motivetto mentre mescolava energeticamente l’impasto dentro la ciotola e quando fu ben amalgamato fece aggiungere da Calypso il resto degli ingredienti.
Una volta finito il tutto versarono l’impasto in una teglia circolare ricoperta da carna da forno e poi la infornarono facendo attenzione a non farla cadere. Leo inserì una temperatura statica di centosessanta gradi.
“Fatto. Ora dobbiamo solo aspettare quaranta minuti” la informò totalmente rilassato. Con le dita tamburellò sul tavolo ma a un ritmo diverso da quello che stava fischiettando, erano dei battiti precisi come se stesse scandendo delle lettere. Quando era piccola sua madre gli aveva insegnato il codice morse, cose semplici per comunicare, era tipo il loro linguaggio segreto; Leo lo usava ancora ticchettando di tanto in tanto “I love you” come se sua madre potesse ancora sentirlo. Pensare a sua madre fece scivolare un’ombra sul suo viso e per distrarsi tirò fuori l’accendino dalla tasche dei calzoncini iniziando a far scattare distrattamente poche scintille mentre Calypso iniziava a ripulire il ripiano di lavoro. Attirata dallo sferragliare dello scatto di fermò a fissare cosa stesse facendo, il suo sguardo corrucciato sembrò essere catturato dall’oggetto, in effetti era lo stesso accendino che aveva usato la sera prima sul tetto.
“Che cosa ci facevi ieri sera lì?” gli domandò infatti.
“Te lo ho detto: segreto” ripeté usando lo stesso tono misterioso e fece scattare la fiamma dell’accendino ridacchiando. Calypso adesso lo stava guardando in cerca di un contatto diretto con i suoi occhi, come se volesse usarli per spiargli dentro l’anima. La cosa lo mise a disagio.
“Che fai?” domandò.
Lei continuò a fissarlo penetrante per un altro secondo, prima di scuotere la testa e volgere lo sguardo dalla parte opposta. Gli venne in mente il momento in cui si erano ritrovati vicinissimi e con la fiamma degli accendini a raschiare i loro volti, era stata una cosa strana come se in quel momento avesse davanti una ragazza diversa da Calypso. L’idea lo turbò allora mise le mani dentro le tasche dei calzoni iniziando a tirare fuori vite e bulloni, le dita si muovevano da sole in automatico mentre lui si lasciava trasportare dai suoi pensieri.
Il timer del forno squittì un secondo dopo che l’insegnante aveva dato lo stop. Velocemente tirarono fuori la teglia armati di guanti da cucina e l’appoggiarono sul bancone da lavoro perfettamente pulito.
L’insegnante decise che ad assaggiarli per primi dovessero essere i creatori dei dolci, probabilmente temeva davvero una morte per avvelenamento; Leo preso un lungo coltello e appoggiò la punta sulla torta, aveva un colore caldo e il guscio leggermente screpolato, alcuni dei frutti rosso che avevano inserito si notavano. La ragazza fece un sorriso educato e scosse la testa. “No, per me niente. Grazie”
Alzò un sopracciglio scettico. “Andiamo, l’abbiamo fatta assieme” cercò di convincerla “E’ la nostra torta.” E per dimostrare di quanto fosse fiero di averla fatta si ritagliò una fetta enorme.
“Non vorrei rovinarmi l’appetito” mormorò. Quell’improvvisa inclinazione educata nella sua voce metteva i brividi a Leo, era fintissima e inquietante.
“Una fetta non ha mai ucciso nessuno” e la guardò con tanto d’occhi “Andiamo, non ti convincono nemmeno i miei occhioni color caffè?” e per amplificare la cosa sbatté ripetutamente le ciglia. Sembrava che qualcosa gli fosse scivolato nell’occhio però ottenne il risultato di farla ridere; soddisfatto ritagliò una fetta fina dalla torta e gliela porse con un sorriso sincero.
“Dai Raggio di Sole, con questa non ti rovinerai l’appetito”.
Calypso abbassò lo sguardo sulla piccola fetta, attraverso le lunghe ciglia riusciva a intravedere uno sguardo colpevole mentre l’afferrava con le dita titubante.
“Me lo prometti?” tentò di scherzare anche se la voce le tremava leggermente.
Leo inclinò la testa chiedendosi che cosa non andasse in quella ragazza ma annuì con un sorriso convinto. “Ti prometto anche la luna” fischiettò. “Non ti rovinerai all’appetito. Questa sera potrai mangiare la tua erbivora cena in tranquillità”.
Eppure, qualche ora più tardi, Leo non la vide nella mensa, nemmeno quando setacciò l’intera stanza con lo sguardo. A cena non c’era nessuna traccia di Calypso.
 
 
 
Chiedo venia per il mio ritardo di un giorno T_T ma ieri non mi ero resa conto che fosse sabato, tutta colpa dell’estate! Ma eccolo qui, prometto di essere più puntuale in futuro.
Comunque, piccola parentesi doverosa.
Autolesionismo. Già. Come i due di voi che hanno recensito avevano supposto – credo. Non sprecherò parole vuote perché quello che avevo da dire lo ha già fatto Leo, spero di non aver urtato la sensibilità di nessuno trattando la cosa in maniera così... semplice? Ma in verità alla fine è una cosa semplice. Sicuramente Leo risulta oltremodo OOC con questo ma spero di averlo reso comunque in un modo abbastanza in linea con il personaggio, non vorrei renderlo troppo una forzatura.
E niente, questa è la realtà che ci piaccia o meno. A me non piace e credo nemmeno a voi.
Lasciando da parte argomenti depressivi....
 Finalmente è comparso Will e ha interagito con Nico! Lo so, non è molto ma a differenza di un certo scrittore non voglio affrettare le cose (Sì, Rick, sto parlando con te). In futuro ci saranno molti sviluppi tra i due, già nel prossimo capitolo. Non vedo l’ora di scriverlo, penso che il prossimo sia uno dei miei capitoli preferiti  *^*
La ricetta usata da Leo e Calypso è questa: http://www.vegolosi.it/ricette/torta-vegana-ai-frutti-rossi/
Ho visto che in parecchi state seguendo la storia, ma allora perché le recensioni sono così poche? Dai, dai! Fatevi sentire e fatemi felice. Ho un sacco di biscotti e abbraccia virtuali per voi c:
A presto,
Hatta.

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Capitolo 5
*** 46.6 Kg ***


Attenzione! La storia seguente presenta tematiche delicate. Vorrei precisare che non promuovo nessun tipo di disordine alimentare. Pertanto, se si è facilmente influenzabile sconsiglio la lettura, non voglio avervi nella coscienza.
 
 
 
IV
Quarantaseipuntosei
**
 
 
 
La prima settimana al College Olympus passò velocemente e senza problemi, il ritmo di quella nuova routine si adeguò subito a quello di Calypso come una seconda pelle. Ormai il dirigersi ai corsi, alla mensa o ai punti di ritrovo era diventato una cosa normale. Le sembrava di vivere in quell’immensa scuola da sempre e così come si era abituata ai nuovi orari si era abituata anche ai nuovi amici e alle nuove bugie che ogni giorno inventava.
L’unico lato negativo della faccenda consisteva nel suo peso, aveva sì un numero soddisfacente e non era ingrassata, ma non era nemmeno riuscita a dimagrire di più. La colpa era sicurissima appartenere a Leo  Valdez che in quella lunga settimana aveva preso il vizio di venirla a prendere la maggior parte delle volte in camera per portarla alla mensa, oppure compariva sempre quando cercava di saltare i pasti senza essere notata. Purtroppo non era mai riuscita a trovare una scusa abbastanza convincente per scollarselo di dosso senza fargli venire dei sospetti. Era sicurissima che in realtà lui non sapesse il vero motivo per cui non si presentasse a volte ai pasti, lo capiva dal modo in cui non la guardava.
Ma doveva stare attenta.
In ogni caso, il week-end arrivò senza intoppi e senza nessuna potenziale minaccia, anche la psicologa non s’era vista, probabilmente volevano lasciarle il tempo per abituarsi. Il sabato avevano corsi solo la mattina ed era felice di prendersi un pomeriggio tutto per sé. Decise di scendere in giardino a leggere e godersi l’ombra di un melo, guardò le copertine dei suoi libri e alla fine scelse qualcosa di leggero, una piccola storia d’amore che le avrebbe permesso di riposare per un po’. Con Orgoglio e Pregiudizio sottobraccio e un piccolo vestitino estivo color crema scese le scale verso il giardino, poche nuvole bianche macchiavano il cielo di un blu acceso.
Il giardino era già stato occupato da alcuni ragazzi che giocavano a baseball con dei cappelli a frontino calati sul viso, tra di essi riconobbe Percy e ricordò di come la mattina a colazione avessero parlato di una sfida che volevano fare con dei certi fratelli Stoll.
Si sedette sull’erba fresca sistemando la gonna attorno a sé, il libro della Austen al sicuro sul grembo e guardò distrattamente i ragazzi correre per prendere tutte le basi. Non ne sapeva molto di baseball, suo padre considerava quello e la maggior parte degli sport esercizi legati alla plebaglia, esercizi che la gente del loro rango poteva solo disprezzare. L’unico sport che andasse bene a suo padre in effetti era la caccia, o comunque cose più nobili come la danza e l’equitazione.
Subito si immerse nella lettura dimenticando i ragazzi che correvano poco distante, le sue orecchie si fecero sorde alle loro grida esaltate e tutto il suo essere si concentrò su quelle piccole parole d’inchiostro e sul frusciare delle pagine quando le sfogliava rapita.
È verità universalmente riconosciuta che uno scapolo in possesso di un solido patrimonio debba essere in cerca di moglie, lesse il famoso incipit. Sicuramente era una verità riconosciuta da suo padre visto il suo modo di valutare i rampolli dell’alta società; forse era quello il motivo per cui amava quel libro. Jane Austen non era una delle sua autrici preferite ma aveva un suo modo semplice e spontaneo di descrivere un luogo o un semplice fatto, leggere le sue parole era molto piacevole e scorrevole. Certamente desiderava con tutta sé stesse avere un padre simpatico e amorevole come il signor Bennet.
Era proprio arrivata al punto in cui faceva la sua famigerata comparsa George Wickham e le sue odiose bugie sul conto del signor Darcy quando Hazel la interruppe dalla lettura salutandola.
“Scusami, credevo stessi guardando la partita. Non credevo leggessi” disse la più piccola notando il libro che teneva sul grembo.
“Non importa” l’assicurò gentile. “Come mai qui?”
“Faccio il tifo per i nostri ragazzi” sorrise “Posso sedermi con te?”
Annuì volentieri. Con Hazel frequentava il corso di botanica e si era facilmente affezionata ai suoi modi gentili e delicati, in confronto agli altri suoi amici lei e Frank erano due cose a parte, calmi e riflessivi e meno scalmanati. Stare vicino a loro era in qualche modo rassicurante.
“Oh, leggevi orgoglio e pregiudizio!” la distrasse sbirciando la copertina, poi nascose un piccolo sorriso con la mano “In effetti sei il tipo”
“Cosa intendi dire?” le domandò indecisa se si trattasse di un complimento o un insulto.
“Che sembri sbucata fuori dalle pagine di un romanzo della Austen” si spiegò meglio “Hai un modo di essere così delicato e discreto da appartenere ad un altro tempo”.
Senza rendersene conto Hazel aveva usato una frase che calzava a pennello con sé stessa perché in effetti la riccia non sembrava affatto una tipica ragazzina d’oggigiorno, dentro i suoi occhi dorati c’era lo stesso scintillio sbiadito che potevi scrutare negli sguardi delle vecchie fotografie in bianco e nero, quelle foto vecchie che trovi un po’ per caso e che guardandole ti ritrovi a pensare a come le cose dovessero essere belle e semplici un tempo nonostante tutto e quindi una forte nostalgia per quell’epoca che non hai nemmeno vissuto ti assale. Stare con Hazel era più o meno la stessa cosa: ti faceva provare una forte e dolce nostalgia.
La pallina da baseball si schiantò contro l’albero al quale erano appoggiate ed entrambe le ragazze sussultarono colte alla sprovvista.
“Ehi, scusate!” la voce era quella inconfondibilmente fastidiosa di Leo e la sua sagoma correva verso di loro con un sorriso birichino sulla faccia. Hazel sospirò divertita e prese la pallina appoggiata ora inerme sull’erba.
“Leo” disse solo come per rimproverarlo, poi con una mossa repentina lanciò la palla incriminata contro il ragazzo con uno scintillio di malizia negli occhi gialli, lui cercò di evitarla colpendola con la mazza ma la mancò e venne colpito al petto.
Ouch!” si lamentò tenendosi il punto leso e piegandosi in avanti con melodrammaticità.
“Bel tiro” si congratulò Calypso.
“Già, la piccola Hazel ha una mira migliore del suo ragazzo. Dovresti giocare al suo posto, sai?” e mentre lo diceva si accucciò per afferrare la palla.
Lei alzò gli occhi al cielo. “Dovresti smetterla di prenderlo in giro. Non è divertente”.
Con un colpo del polso fece andare in aria la pallina e poi la riafferrò al volo. “Dovrei, ma diventa troppo adorabile e, indovina un po’, è divertente” poi si voltò verso Calypso, aveva un cappello da fantino con la frontiera leggermente storta e alcuni ricci incollati alla fronte per colpa del sudore. “Ma guarda un po’, la nostra principessa nella torre si è presentata tra noi mortali. Quale onore” è accennò un buffonesco inchino.
Un moto di rabbia e insofferenza le salì al petto, era tutta la settimana che il riccio la perseguitava con certe uscite. Non si degnò nemmeno di rispondere.
“Ci farai l’onore anche questa sera? Al pub?” arricciò un angolo della bocca.
Sbatté le palpebre confusa. “Pub?” domandò.
Hazel sorrise diplomaticamente. “Non ha pranzato con noi, Leo” gli ricordò.
“Già, giusto!” fece finta di ricordare improvvisamente “La principessa non scende mai alla mensa della plebaglia”.
Strinse i pugni. “Sono arrivata  tardi e ho dovuto mettermi in un tavolo in fondo” mentì senza esitazione.
“Ah sì? Perché non ti ho vista, sai?” non si lasciò scoraggiare.
“Che c’è, mi spii?” scherzò sprezzante al che Leo si accodò di buon grado. Abbassò  la testa con un sorrisetto malizioso mentre cercava al contempo di fare uno sguardo penetrante e seducente fallendo miseramente, sembrava che qualcosa gli fosse finito nell’occhio.
“Anche mentre dormi” sussurrò.
“Quello che Leo intendeva” sbottò Hazel impedendo a Calypso di rispondere per le rime “E’ che giù al paese c’è l’inaugurazione di un nuovo Pub”
Ergo, festa gratis” specificò Leo appoggiando la mazza da baseball alla spalla mentre giocherellava con la pallina.
“E noi pensavamo di andarci” terminò Hazel.
Calypso li guardò poco convinta. “Pensavo che per uscire dalla scuola servisse almeno una Maglia Arancione”
“Infatti” concordò Leo “E noi l’abbiamo” e indicò con la punta della mazza una persona ai lati del parco che controllava i ragazzi come se stesse prendendo la mira. Lo guardò, non sembrava avere molti anni più di loro e aveva dei capelli biondi e un’abbronzatura hawaiana che non passava di certo inosservata.
“Quello è Solace” ricordò Hazel a Calypso“il tipo che ci ha visitate all’infermeria”
 “Ah” considerò “E come siete riusciti a corromperlo?”
“Nico” spiegò semplicemente Leo con una scrollata di spalle “A quanto pare il biondino prova un certo sentimento per Mister Morte”
“Sentimento?” si informò Hazel “Che sentimento?”
Se Calypso aveva capito bene i due dovevano essere parenti, cugini o qualcosa del genere; la parentela a quanto pare era complicate e lei non aveva voluto indagare.
Leo annuì solennemente. “Compassione”
A quella parola il viso di entrambe le ragazze si oscurò, le labbra di Hazel si arricciarono verso il basso e guardò male Leo come se fosse lui la causa di quella pena.
“Andiamo” continuò noncurante della reazione delle due ragazze “Come puoi negare un favore a un ragazzino con un passato così tragico? Sarebbe meschino”
“Tu sei meschino” gli fece notare Hazel “Usare Nico e il suo passato come scusa....”
“Ehi, chi ha menzionato quello? Nico è solo andato a chiedere per favore, il resto è venuto da solo”
“E’ comunque una cosa spregevole” sentenziò “Non puoi manovrare le persone in questo modo. Non siamo macchine
“Sono secoli che non usciamo da questo posto” si giustificò “Abbiamo bisogno di uscire, di andarcene per una sera e dimenticare i nostri problemi. Abbiamo bisogno di vedere le persone normali, di fingerci persone normali
Hazel si alzò in piedi stringendo i pugni. “Noi siamo persone normali!”
Sul volto di Valdez comparve una smorfia che mal s’accostava al solito sorriso giocherellone. “Invece no, e lo sai anche tu”
Ma lei scosse la testa chiudendo gli occhi, sembrava che non fosse la prima volta che discutevano su quell’argomento.  “Noi non siamo sbagliati, Leo, siamo dei ragazzi normali” guardò Calypso “Io torno in stanza, fra un po’ iniziano i turni della doccia”
“Va bene” disse solo, si sentiva tanto un’estranea mentre la guardava allontanarsi.
Leo invece rimase lì, con il suo solito sorriso sarcastico e la pallina che faceva rimbalzare a terra.
“E tu?” le chiese inarcando una sopracciglia “La pensi come lei?”
Strinse il libricino fra le dita. “Non c’è nulla che vada male in me” sancì decisa e senza esitazione.
Leo si limitò a ridere senza guardarla negli occhi, afferrò la pallina al volo. “E’ esattamente quello che diciamo tutti alla psicologa, no?” e detto questo rise ancora, si voltò e tornò dai suoi compagni che ancora lo aspettavano pazienti.
 
**
Annabeth fissava il foglio bianco sulla scrivania con sguardo assente, teneva ancora stretta in pugno la gomma consumata. Nella stanza era sola, sia Piper che Reyna erano scese in giardino per dare man forte ai ragazzi contro gli Stoll e Clarissa; anche Annabeth amava il baseball, quando era piccola aveva visto molte partite ed era sempre solita indossare un cappello della sua squadra preferita che in quel momento stazionava abbandonato sul copriletto. L’unica cosa in disordine.
Guardando la stanza della tre ragazze risultava semplicissimo tracciare una linea immaginaria a sancire il confine fra la parte destinata a Piper e Reyna e quella invece utilizzata da Annabeth. La bionda utilizzava specialmente la parte vicino alla scrivania addossata alla finestra con il letto singolo e in quello spazio non una cosa –tranne il berretto, come già detto – era fuori posto. Il letto era fatto con le coperte ben stirate e prive di pieghe, solo una sveglia digitale semplicissima da un colore non troppo sgargiante occupava il comodino, i cassettini erano tutti chiusi e i libri o i vestiti al loro interno era piegati con cura e precisione. Sulla scrivania ogni cosa era posta in maniera funzionale, un portatile stava aperto perfettamente a novanta gradi in un angolo a portata ma comunque non occupava troppo spazio, le matite stavano poste in riga con la punta perfettamente temperata da quella con il tratto più fino a quello più grosso, i righelli erano allineati a seconda della grandezza e la lampada puntata sul foglio bianco che aveva posto perfettamente dritto.
Sbatté le palpebre e con la gomma riprese a cancellare sul foglio ogni traccia appena visibile dello schizzo che aveva fatto, poi prese una scopetta per pulire la scrivania e per terra da ogni residuo di gomma.  Forse la sua ossessione nel tenere ogni cosa in ordine era maniacale, anzi, sicuramente lo era ma non poteva proprio farne a meno. La sua mente tendeva a riflettere l’ambiente che la circondava, il disordine equivaleva a un’accozzaglia rumorosa di pensieri assolutamente impossibile da decifrare che le causava una certa isteria, oltre che un sostanzioso mal di testa. Al contrario, un luogo asettico e ordinato le permetteva di analizzare le cose con calma e sicurezza mostrando una mente molto organizzata e intelligente.
Ad Annabeth piaceva migliorare e progettare palazzi, passava ora sui suoi album da disegno a calcolare, misurare e schizzare con fare professionale, era certa che prima o poi sarebbe riuscita a realizzare il suo sogno di diventare architetta. Aveva già progettato cinque migliorie per il college. Quel pomeriggio era partita con l’intenzione di riprodurre un arco di trionfo ma si era presto accorta che alcuni conti non tornavano minando la sicurezza della costruzione e aveva cancellato tutto presa da un attimo di panico. Gli attacchi di panico erano normalissimi per lei e potevano scatenarsi in qualsiasi momento per qualsiasi cosa, ma nonostante questo ormai era una vera esperta nell’arginarli prima che fosse troppo tardi, conosceva tutti i trucchi. In ogni caso, da quel momento non era più riuscita a ideare qualcosa, ogni volta che qualche idea le veniva in mente la cancellava subito dopo senza pietà finché il foglio non tornava bianco immacolato. Probabilmente Leo avrebbe trovato la soluzione, Leo era bravissimo con i conti e sapeva sempre trovare la soluzione ad ogni problema, la sua mente era un ingranaggio perfettamente oliato. Peccato non funzionasse allo stesso modo con le questioni umani, anzi ogni volta che si trovava in una situazione di empatia andava in tilt e fuggiva via. Oppure se ne usciva con battute idiote. No, Leo necessitava quanto Nico di una lezione sulla questione.
Si passò una mano sulla fronte massaggiandosela, poi si alzò di colpo dalla sedia girevole e prese un profondo respiro contando fino a dieci. Fatto questo prese il cappello dal letto e lo rimise al suo posto dentro l’armadio, anche lì i vestiti erano disposti per colore e perfettamente in ordine. Quando rinchiuse le ante si sentì meglio, volendo avrebbe ordinato anche la parte destinata a Piper e Reyna ma ricordava ancora bene la reazione delle due ragazze quando una volta lo aveva fatto, meglio evitare. Reyna non era veramente un problema, era ordinato sommato tutto, ma Piper tendeva a dimenticare sempre le ante degli armadi aperti e a disseminare vestiti per tutta la sua parte di stanza, era una disordinata cronica.
In realtà Annabeth non sapeva esattamente da dove nascesse quel bisogno maniacale di ordine che esigeva la sua mente, secondo la psicologa Estia era il suo unico modo per mantenere un certo controllo sulla realtà, probabilmente era per non cadere nella stessa situazione di suo padre, un uomo brillante ma che spesso tendeva a perdere la presa sulla realtà confondendo presente e passato. Il disordine era confusione e irrazionalità, l’ordine invece razionalità e controllo.
Sistemò la matita al suo posto accanto alle altre, la guardò un pochino e poi la riprese insieme al temperino perché la punta si era consumato e non andava bene. Stonava con le altre.
Teneva la lampada spenta perché i raggi del sole illuminava direttamente la scrivania dalla finestra aperta, da lì poteva vedere uno sprazzo di cielo celeste e sentire gli schiamazzi dei ragazzi in giardino. Erano fastidiosi e la deconcentravano. Sentì chiaramente un urlo di vittoria di Percy e un sorriso spontaneo le curvò le labbra. Percy non era solo il suo ragazzo, era anche il suo migliore amico e il suo rivale e la sua meta; un po’ tutto il suo mondo, insomma. Quando anni fa l’aveva conosciuto lo  aveva trovato insopportabile, Percy era il disordine allo stato pure, non poteva essere controllato  ed era irrazionale e infantile; le ricordava tanto il mare con le sue onde impossibili da ordinare, non poteva essere imbrigliato o catturato, si agitava, si ribellava, era libero e basta. Percy era testardo, si comportava sempre in maniera stupida, non faceva mai quello che gli diceva e la prendeva sempre in giro. Ma era gentile e leale, la consolava sempre dopo uno dei suoi attacchi di panico e non si faceva scoraggiare dal suo bisogno maniacale di ordine. Inevitabilmente, erano diventati amici. Poi migliori amici. Alla fine si era accorta di essersi innamorata di lui e l’aveva baciato perché se avesse aspettato lui a quell’ora sarebbero stati ancora in quella imbarazzante situazione di stallo. Percy era una certezza, nonostante tutto.
Percy non aveva nulla di eccessivamente strano, frequentava il College Olympus solo perché la sua iperattività e insolenza lo avevano fatto espellere parecchio volte, una volta aveva pure distrutto una palestra e conoscendolo non era difficile crederci. Bastava pensare a tutti i guai che combinava lì. In ogni caso era liberissimo di andarsene almeno durante il periodo estivo, ma lui restava lì non perché fosse la scuola di suo padre o perché ci lavorasse sua madre.
Per lei.
D’altro canto nemmeno Annabeth aveva chissà quale patologia che le impediva di lasciare la scuola in estate, gli attacchi di panico ormai sapeva gestirli abbastanza bene e la convivenza con Piper le avevano insegnato a sopportare il disordine altrui (almeno in una certa misura), semplicemente il College Olympus era la sua casa. Tornare in California da suo padre e dalla sua matrigna era assolutamente fuori discussione, da tempo aveva smesso di etichettare quel posto come ‘casa’, precisamente da quando aveva sette anni.
Lanciò un’occhiata distratta al giardino, un fascio di luce le illuminava una parte di viso e alcuni ciuffi biondi. Da lì poteva vedere i ragazzi giocare, Leo stava tornando proprio in quel momento dopo essersi allontanato brevemente dal campo, tutti lo aspettavano impazienti. Poco distanti altri ragazzi giocavano a pallacanestro o si riposavano sull’erba
Quella era la sua casa.
 
**
Calypso!”
Il grido di Rachel attraversò le pareti sottili che dividevano la stanza dal bagno raggiungendo chiaramente le orecchie dell’interpellata, la quale si prese un secondo per respirare e passarsi una mano sul viso pallido e magro prima di dire:
“Ho quasi finito!”
Dall’altra parte della porta si sentì un grugnito ma la castana non ci fece troppo caso e riprese sollecitamente a ripulire la doccia. Era una scena che si ripeteva quasi ogni sera. Passò la mano sul muro in mattonelle chiare, poi nel ripiano doccia; non era una cosa molto gradevole ma doveva farla se non voleva attirare domando indiscrete.
D’altronde, ormai aveva iniziato a perdere fin troppi capelli.
 
**
Will si chiedeva se avesse fatto la scelta giusta, ne aveva parlato anche con la signora Jackson per un suo parere anche perché non era del tutto sicuro di poter acconsentire ad una cosa del genere. In fondo era anche il nuovo venuto, davvero poteva prendersi la responsabilità di acconsentire e accompagnare un gruppo di scalmanati adolescenti in una gita fuori sede?
Be’, tecnicamente stanno al paese. In un pub. Ma comunque...
La signora Jackson non lo aveva rimproverato per la sua scelta, gli aveva solo consigliato di avvertire il vice-direttore e magari portare qualche altra Maglia Arancione con sé.
“Verrei io se non fossi già impegnata a sistemare le faccende per la prossima settimana” gli aveva detto, poi con cipiglio serio “Fa’ attenzione, però”
Lui era scattato come un soldatino.
Anche Chirone non aveva avuto nulla da ridire, gli aveva solo ripetuto di fare attenzione e di farli tornare tutti al College entro il coprifuoco, gli aveva anche detto quali Maglie Arancioni portare con sé.
Sarà divertente, si disse cercando di risultare il più possibile convincente. Quando andava al liceo non era mai stato dentro ai pub di sera, a dir la verità non aveva mai attraversato la fase di ribellione adolescenziale. Era sempre stato un ottimo studente paziente e comprensivo con i propri compagni, nei primi anni era stato eletto all’unanimità come rappresentante di classe. I professori lo adoravano in ugual misura e procedeva un’esistenza placida e tranquilla. Almeno fino a quella cosa ma si rifiutava di accettare quel periodo come una fase dell’adolescenza, era stato qualcosa di più complesso e particolare. Se non fosse stato per quello, il suo ultimo anno di liceo lo avrebbe passato allo stesso modo dei precedenti: rappresentante di classe, ottimi voti e buoni amici con cui sorseggiare tazze di tè.
Il tè, l’unico che non lo avrebbe mai tradito.
Dopo essersi fissato per buona mezzora allo specchio decise che tentare di domare la sua chioma bionda era pressappoco impossibile e indossò una felpa azzurra che faceva orribilmente a pugni con la sua maglia arancione. Ma d’altro canto Will non aveva mai avuto buon gusto in fatto di vestiti, suo padre glielo ripeteva sempre.
Suo padre, Apollo, un quarantenne con una crisi di mezz’età leggermente anticipata ancora convinto di essere un ragazzo. Su certe cose era fantastico avere un padre del genere, come per i biglietti a tutti i concerti disponibili e immaginabili; su altre era leggermente imbarazzante, molto spesso Will si era ritrovato a dover fare la parte della persona responsabile e rimproverare il genitore per le sue bravate. Forse era per questo che tutti dicevano che era sempre sembrato più grande e maturo per la sua età. Pensare a suo padre gli fece comparire una ruga sulla fronte, esattamente nel punto in cui aveva aggrottato le sopracciglia. Se ben sapeva quell’estate aveva ben pensato di passarla in giro per l’America in un furgone con solo la chitarra. Sì, stava passando la sua fase hippie.
Si passò un mano sul mento, quella sera era stranamente pensieroso. In realtà era uno che pensava sempre e troppo, spesso la cosa gli veniva rimproverata, ma quando era agitato diventava ancor più riflessivo quasi a voler escludere il resto del mondo rifugiandosi nella propria testa. Più che essere agitato, si sentiva vagamente ridicolo a dover controllare dei ragazzi che erano pressoché suoi coetanei.
Ma è il mio dovere, punto e stop.
Insomma, si era già immaginato di dover avere compiti del genere, anche se non si sentiva propriamente come nelle sue fantasie. Non era affatto sicuro di sé stesso, tanto per cominciare. Per il resto, poteva aspettarsi con precisione matematica che qualcuno dei ragazzi sarebbe riuscito a fare qualche bravata sotto il suo naso. In particolare lo preoccupava quel Valdez, oltre al loro primo e infelice incontro aveva avuto molte altre occasioni per tastare la sua ironia pungente e a tratti offensiva. Lo rassicurava sapere che altre Magliette Arancioni lo avrebbero accompagnato.
Questa è la prima e ultima volta che acconsento di prima persona, si promise. Poi, senza altri preamboli uscì dalla stanza assegnategli.
Nell’atrio, il punto di ritrovo, erano già presenti gruppi di ragazzi che chiacchieravano allegramente fra loro, alcuni anche vestiti molto bene. Guardò l’orologio, all’orario stabilito per andare al paese mancava poco meno di cinque minuti e quindi lanciò uno sguardo attorno per capire in quanti sarebbero stati. In un angolo vide Nico con uno sguardo omicida, strano visto che era stato proprio lui a proporre quella serata. Stava seduto in una panca vicino ai suoi compagni di stanza e altri amici ma non sembrava per nulla essere interessato all’animata conversazione degli altri. Sembrava essere lì contro la sua volontà.
Uno degli uomini con la maglietta arancione lo guardò, poi indico il proprio orologio sul polso sillabando qualcosa con le labbra. Will annuì in risposta, era quasi ora di andare. Posò lo sguardo sugli ultimi ritardatari che velocemente scendevano le scale, poi fece un cenno agli altri adulti.
Nonostante la situazione paradossale in cui si trovava non riuscì a non provare una sorta di soddisfazione interiore quando mosse dal suo ordine silenzioso le Maglie Arancioni avevano iniziato ad avvertire i ragazzi che si partiva.
Si sentì potente.
 
 
 
Calypso non era mai stata ad una vera festa, tutte quelle a cui aveva presenziato si erano svolte direttamente nella Villa Ogygia ed erano state sempre organizzate dai suoi genitori. In genere erano dei ricevimenti mirati per convincere l’imprenditore Tizio o Caio che fosse ad entrare in affari con la società ed erano per questo sontuosi ed eleganti con i migliori vini e migliori musicisti. Ogni volta se ne stava in un angolo con un bicchiere di analcolico in mano in silenzi mentre l’ennesimo figlio dell’alta società che le era stato presentato enumerava i propri svariati pregi.
Motivo per cui aveva sempre immaginato le feste che frequentavano i ragazzi della sua età come enormi discoteche piene di luci colorate, foschia e musica martellante.  Una sala bui illuminata solo dalle luci psichedeliche dove si ballava e ci si ubriacava con estrema facilità. In certi libri che leggeva erano sempre raffigurate in quel modo, solitamente era sempre lì che la protagonista incoronava il suo sogno d’amore. Ecco, lei si era immaginata una cosa del genere.
Nulla di più lontana dalla realtà.
Il pub era confortevole e dai colori caldi, la luce era soffusa ma rischiarava bene il luogo per nulla caotico. I tavoli erano quasi tutti riparati da dei separé per una migliore privacy ed erano stati ritagliati dal legno di pino. Il bancone era addossato  un parete piena di mensole su cui erano disposti in ordine tutti gli alcolici, le etichette ben in vista. Più appartata c’era una stanza semicircolare dove si poteva ballare e una band locale suonava dal vivo ma a sentire gli altri era ancora troppo presto perché la gente si mettesse in pista.
“E questo avverrà quando noi dovremmo tornarcene al College” ava aggiunto triste Rachel. A quel punto Piper l’aveva guardata meglio in maniera critica, poi aveva sopraggiunto:
“E’ la luce o i tuoi capelli non sono crespi?”
La rossa fece un sorriso orgoglioso mostrando tutta la dentatura. “E’ stata Calypso. O meglio, Cal possiede una piccola industria di balsami per capelli di ogni genere!” spiegò “Ha anche tantissime creme per il corpo e il viso”
“E tu nei hai approfittato” ironizzò Piper.
“Ma certo, guardate” e allungò il mento in direzione degli altri “Le sue creme fanno miracoli, in tre giorni mi è sparito George, il brufolo che aveva sul mento”.
Ave atque vele, George!” proclamò solennemente Leo alzando il menù “Propongo un brindisi per la sua coraggiosa morte.
Jason storse il naso ma fu Reyna a prendere la parola al suo posto. “Vale. Ave atque vale², Valdez. Se vuoi usare il latino almeno non dire certi strafalcioni” lo corresse pedante, lui sventolò la mano incurante.
“Sì, sì. L’importante è che arrivi il messaggio”
“Gli adulti ci stanno controllando” gli ricordò Annabeth, stava comodamente seduta accanto a Percy, spalla contro spalla “Non fare stupidaggini” aggiunse.
A Calypso Annabeth non stava molto simpatica, nonostante avesse i capelli ricci li teneva sempre in ordine e vestiva in maniera impeccabile ma senza essere appariscente, tutto in lei era impeccabile in realtà, senza contare che aveva della lunghe gambe snelle. Per questo, e per essere la fidanzata di Percy, provava sempre forti fitte d’invidia e odio per lei.
“E chi fa mai stupidaggini” protestò aprendo il menù e scorrendo con gli occhi vispi il listino, la cosa bella era che per quella sera tutti i prezzi erano dimezzati. Hazel gli tirò dispettosa una ciocca di capelli ricci facendogli comparire sul volto una smorfia che era un misto tra l’offesa e il divertita. Sembrava che il piccolo diverbio avuto poche ore prima fosse completamente dimenticato.
“Voglio una pizza. Anche Frank vuole una pizza” disse il riccio alzando finalmente gli occhi dal menù.
L’interpellato assunse un’espressione esasperata. “Abbiamo appena finito di mangiare”
“E adesso ci vuole lo spuntino” continuò imperterrito “Dai, bisogna farlo, lo spuntino. Pizza, pizza, pizza. Raggio di Sole è d’accordo”
Pizza. Calorie. Grasso. Cicciona. “No” disse secca senza aggiungere altro, preferì controllare se servissero qualcosa di meno calorico.
“A me la pizza non dispiacerebbe” disse Percy mettendo con noncuranza un braccio attorno le spalle di Annabeth.
Leo sorrise e lo indicò. “L’Uomo Pesce approva”
“Non chiama...”
“Potremmo prendere delle bruschette. Sono più leggere, vista l’ora” lo interruppe Piper.
Continuarono a discutere su cosa fosse meglio prendere o meno e finì per annoiarsi a sentire il loro battibeccare allegro, si appoggiò con il mento alla mano pensando che tanto qualsiasi cosa avesse preso lei non l’avrebbe mangiata. Sembravano tutte cose fin troppo caloriche. I rumori e le luci soffuse le stavano facendo venire una sorta di sonnolenza nonostante non fosse troppo tardi, posò lo sguardo sul volto di tutti i presenti studiandoli senza troppa partecipazione. Anche Jason era molto bello, aveva i lineamenti perfetti da principe azzurro ma c’era qualcosa nel suo sguardo che la lasciava un pochino perplessa. Gli occhi azzurri erano attenti e vigili, non calcolatori, questo no... ma sembrava che facessero fin troppa attenzione a ciò che li circondava, come se controllassero che tutto andasse bene. Anche i suoi movimenti erano controllati, come se si stesse muovendo in un mondo fatto di ceramica e lui temesse di rompere tutto in mille pezzi affilati come lame. Stava vicino a Piper e la guardava attento come se volesse assicurarsi che lei stesse davvero bene, gli stava vicino in una posizione di inconsapevole protezione. Allo stesso modo ogni tanto spostava lo sguardo dallo sua fidanzata per scandagliare gli altri assicurandosi che tutto stesse andando bene. Quando si posarono su di lei fece un timido sorriso e assentì con il capo. Non lo seppe precisamente perché, forse voleva solo rassicurarlo che tutto andava bene.
“Jason, Jason” lo chiamò con voce lamentosa Leo e nel mentre lo colpì alla testa con lo spigolo del menù che teneva in mano. Il biondo distolse lo sguardo da lei per fissare offeso l’amico, nel mentre si portò anche una mano sul punto leso.
Vedendo di avere la sua attenzione il messicano continuò: “Mi vai a prendere un Jack Daniels?”
“Vacci tu” lo apostrofò, poi aggiunse “E non bere quella robaccia”
Leo  ignorò spudoratamente l’ultima parte e spiegò paziente. “Devo ricordarti che l’ultima volta che ho chiesto da bere mi hanno riso in faccio dicendomi che aveva quattordici anni?”
“E hanno fatto bene” sbottò Annabeth “Sei minorenne”
“Ma Jason non sembra minorenne, a lui non faranno storie” e appoggiò con fare amichevole un gomito sulla spalla dell’amico il quale lo guardò con aria di rimprovero.
“Non ti compererò dell’alcol illegalmente”
Leo alzò gli occhi al cielo sbuffando. “Giusto, dimenticavo di star parlando con Mister Legalità”
“Vado io” Reyna parlò ancor prima che Jason potesse illustrargli gli svariati motivi per cui bere alcool fosse dannoso per la salute, per carità non che avesse poi torto ma trovava il suo rigido regime da astemio esagerato. “Qualche bicchiere non ha mai fatto male” aggiunse con una scrollata di spalle.
“Peccato che per Leo non sia quasi mai qualche bicchiere” sospirò funesta Hazel ma talmente piano che nessuno la sentì.
“Senti, senti” la richiamò Percy con il listino aperto “A me prenderesti un laguna blu?”
Annabeth sgranò gli occhi e gli mollò un colpetto sulla spalla. “Percy!”
“E’ blu!” si giustificò l’interpellato.
“Be’, già che ci siamo...” sbuffò una ciocca rossa di capelli Rachel “io scelgo un caipiroska. Sono maggiorenne, e ha un contenuto alcolico minimo” aggiunse prevenendo l’occhiataccia di qualche astemio.
“Io voglio una pepsi” disse Frank scatenando l’ilarità del riccio.
“Ma davvero?” ribatté sarcastico “Stiamo ordinando alcolici e tu te ne esci con una pepsi?” e riprese a ridere.
“Be’, anche io scelgo la pepsi” lo sfidò la piccola Hazel in difesa del fidanzato “E’ un problema, Valdez?” aggiunse minacciosa al che Leo alzò le mani in segno di resa senza non smettere prima di ridere.
“Tu prendi qualcosa, Cal?” lo ignorò allora la sua compagna di stanza.
Scosse la testa, non era il caso di bere un tè verde così vicini all’ora di coricarsi, la teina le avrebbe resa difficile dormire. “Magari dell’acqua” disse piano. Leo sbuffò ancora ma ancora fu ignorato.
“Nico?”
Calypso non si era nemmeno resa conto della presenza dell’inquietante ragazzino sempre vestito di nero, eppure era lì in un angolo a guardarli come se fossero la causa di tutti i loro mali. A dir la verità quando notò di essere fissato la sua espressione si fece ancora più corrucciata.
“Una tequila”
No!” dissero perentori Jason, Hazel, Reyna e Percy come se fossero un’unica entità con una tale forza che sembrava si stessero opponendo a una scelta di vita e di morte.
“Allora niente” sbuffò inacidito.
“Senti, Reyna” la chiamò Piper agitando la mano per distrarre gli altri dalle loro intenzioni iper-protettive verso il più piccolo “A me prenderesti questo analcolico alla frutt— ”
“Eh, calma!” la interruppe brusca l’altra ragazza con un cenno della mano alzando gli occhi al cielo “Per chi mi avete presa? Per una cameriera?”
Frank da bravo gentiluomo si alzò subito di scatto colpendo con un ginocchio la tavola come un soldatino e si offrì di accompagnarla farfugliando.
“Vengo anch’io” s’apprestò a dire Jason, evidentemente dovevano soffrire di quella sindrome maschile che porta i ragazzi a fare le capriole mortali per aiutare le giovani fanciulle in difficoltà. Anche se, per amor del vero, Reyna poteva essere qualsiasi cosa tranne che una giovane fanciulla indifesa. Aveva tratti del viso affilati e pungenti, due occhi scuri che brillavano di un’intelligenza bellicosa e il suo corpo era alto e muscoloso, leggermente androgino ma comunque con delle curve prettamente femminili. In sostanza, sembrava la tipica ragazza capacissima di mandare a tappeto un boxer senza battere ciglio. Tutto, dal suo portamento alla piega delle labbra, le conferiva forza e sicurezza; la sua espressione era quella di chi era abituata ad ottenere qualsiasi cosa con le sue sole forze.
“Annabeth, tu prendi qualcosa?” chiese Piper decidendo di accompagnare anche lei gli altri al bancone. In fondo dovevano anche prendere una teglia di pizza e per quanto Frank e Jason fossero possenti senza un altro aiuto la cosa sarebbe stata alquanto complicata.
La bionda scosse la testa con un sorriso gentile. “No” poi aggiunse: “divido l’acqua con Calypso” al che le sorrise dall’altra parte del tavolo.
La Nightshade si sforzò di ricambiare il sorriso, anche se le sembrava di aver ingoiato un limone acido, e strinse le mani a pugno sotto la tavola.
 
“Un brindisi per George, il brufolo scomparso” esclamò Leo alzando il suo bicchiere di Jack Daniels e al contempo staccando un morso di pizza. Il risultato fu quello di spandere metà contenuto del bicchiere sui jeans di Jason e sputacchiare qualche pezzo di pomodoro.  Nico, dal suo angolino, alzò gli occhi al cielo, ma nessun altro parve farci caso; tutti sembravano più impegnati a onorare la scomparsa del brufolo di Rachel.
E dopo si lamentano se vengono considerati pazzi...
L’unica che sembrava possedere un baluardo di intelligenza e amor proprio era Calypso, constatò, che mentre tutti gli altri ridevano come cretini inventandosi i brindisi più assurdi si limitava a sorrisi timidi e sguardi fugaci. Ma questo dipendeva dal fatto che era nuova, ergo doveva ancora integrarsi bene in quella loro compagnia. Tempo due settimane e sarebbe diventata la migliore amica di Leo Valdez, era disposto a scommetterci sia le sue carte rare di mitomagia che l’ultimo episodio di Games of Thrones. E se tirava in ballo il Trono di Spade, la cosa era seria. E sempre parlando della Serie Tv lui era lì solo perché era stato ricattato dai suoi amorevoli compagni di stanza: a quanto pare Leo poteva fargli saltare la connessione Wifi e impedirgli di guardare il nuovo episodio. Quindi tutti potevano anche smetterla di cercare di farlo intervenire nella serata, al massimo avrebbe potuto brindare alla sua voglia di vivere.
Oh, ma guarda: non esiste.
“Calypso, non prendi una fetta di pizza?” chiese Piper con voce talmente squillante da distrarlo dai suoi piani omicidi.
“No, grazie” la risposta era stata invece detta con voce leggera e quasi si era persa nel brusio generale della stanza. Sicuramente Leo doveva essersela persa perché con la bocca piena staccò  un trancio di pizza e la spiaccicò sulla bocca della ragazza castana.
“Ma certo che la vuole!” esclamò con fare ovvio sotto lo sguardo assassino di Calypso che si puliva la bocca dal pomodoro “E se anche non la volesse, ormai è troppo tardi” aggiunse con una faccia da schiaffi e Nico dovette rivedere la sua scommessa.
Ok, forse fra un mese diventeranno migliori amici. E se nel frattempo Leo maturerà.
“Non fare quella faccia, Cal” disse Percy in difesa del riccio “E’ strano che tu non voglia nemmeno una fetta” e per rimostranza di ciò se ne prese una.
Lo sguardo della ragazza si fece lentamente incerto e poi titubante, infine parve decidersi e timidamente, come se sperasse che qualcuno la fermasse, allungò una mano a prendere la fetta più piccola. La masticò nel tempo in cui una persona normale ne ingoia tre, ma poi se ne prese un’altra con una strana espressione indecifrabile.
Nessuno, a parte lui, sembrò farci caso. In realtà aveva la sua teoria a riguardo perché Leo era un pettegole e gli aveva raccontato di tutte le volte che non la vedevano alle mensa. Chiunque avrebbe fatto due più due. O forse, era lui troppo sospettoso.
Che gente patetica” la voce infastidita di Minosse lo distrasse dalle sue elucubrazioni, il fantasma stava cercando un punto in disparte a abbastanza vicino a Nico, ma la sala era talmente affollata che le persone continuavano ad attraversarlo come se niente fosse.  Il corvino si limitò ad annuire, in circostanze normali gli avrebbe pure rivolto la parola ma c’era troppa gente e non voleva che nel volto degli altri comparisse quello sguardo tra il condiscendente e l’esasperato.
A volte non capisco come tu possa considerare queste persone amiche” continuò sprezzante lo spettro “Non fanno altro che trascinarsi il situazioni che detesti
Distolse lo sguardo puntandolo sul legno del tavolo, per quanto le parole di Minosse risultassero cattive era lui stesso a pensarle la maggior parte delle volte. Anche se si rendeva conto che loro si comportavano così solo per aiutarlo.
“Tu non hai bisogno di aiuto” gli ricordò Minosse indovinando i suoi pensieri “Sei solo più sensibile”
I dottori invece dicevano che era solo traumatizzato e per questo vedeva la morte ovunque; ma secondo Nico non era lui a immaginarsela: la morte era davvero nascosta ovunque e pareva che soltanto lui se ne accorgesse. Lo aveva spiegato una volta sola fiducioso che lo psichiatra comprendesse ma quello si era subito sprecato in discorsi filosofici che lo avevano messo alle strette demolendo tutto quello che aveva detto. Ma lui lo sapeva, anche se non riusciva a spiegarlo in maniera completa sapeva di aver ragione. Lui non vedeva i fantasmi per un trauma infantile, ma perché aveva imparato ad accettare la morte e l’accoglieva come una vecchia amica. Forse, l’unico motivo per cui non riusciva a incontrare il fantasma della madre e della sorella, era proprio perché rifiutava la loro morte.
 
A Leo girava già un po’ la testa, ma la cosa non lo sorprendeva affatto. Il Jack Daniels era molto alcolico e lui reggeva da schifo, probabilmente la causa era la sua bassezza e statura mingherlina. Non che per lui fosse un problema, chiaro, anzi si trovava molto economico e gli bastavano pochi bicchieri per andare fuori di testa. Di sicuro si divertiva più lui di Reyna che reggeva come un carro armato, ma quella donna era un carro armato quindi la cosa non doveva sorprenderlo più di tanto.
Agitò il bicchiere vuoto attendendo che si sciogliessero i cubetti di ghiaccio, poi si spalmò contro Jason come se fosse una comoda poltrona.
“Me ne prendi un altro?” miagolò stiracchiandosi e rischiando di colpire l’amico al viso.
Lui se lo scrollò pazientemente di dosso “Scordatelo, amico. Sei già mezzo fuori”
“Non è vero” si lagnò “Guarda: sopra la panca la capra campa, sotto la panca la capre crepa!” lo guardò con espressione di trionfo “Se fossi ubriaco non riuscirei a dirlo”
Jason lo guardò con rimprovero e Piper si sporse verso di lui severa. “Se continui a bere questa robaccia ti si rovinerà il fegato” lo sgridò.
“Ma sentitela, Miss Salutista” sbuffò contrariato.
Al tavolo erano rimasti solo loro e un incazzatissimo Nico –forse ce l’aveva ancora con lui per la questione del ricatto. Diamine, com’era rancoroso! – mentre Percy e Annabeth erano usciti a prendere un po’ d’aria e gli altri erano tutti a ballare sulla pista. Anche se era abbastanza sicuro che anche Reyna avrebbe avuto qualche remore a prendergli qualcos’altro.
“E d’accordo” sbuffò abbandonando con un tonfo il bicchiere sul tavolo “Vado io” si alzò dalla panca e con sollievo constatò di reggersi piuttosto bene sulle gambe, erano solo quelle strani luci a confonderlo.  L’atmosfera rilassata che c’era appena arrivati era stata sostituita da una più scatenata, da discoteca, sicuramente complice la canzone dei Green Day che avevano iniziato a suonare.
“Ok, gente” disse lisciandosi la camicia bianca, era una macchia d’olio quella che aveva sulla manica? “Papà Leo va a rimorchiare, non fatemi preoccupare”
“Tu non far preoccupare noi” sussurrò Piper mentre quello si allontanava leggermente traballante e storto.
 
Secondo la signora Nightshade la danza era un’arte che qualsiasi fanciulla di buona famiglia doveva assolutamente conoscere con estrema facilità, motivo per cui Calypso aveva studiato per anni la danza classica ed era stata istruita a dovere sul valzer, il minuetto e altri balli. Evidentemente, il resto del mondo non aveva la stessa idea della famiglia Nightshade su cosa fosse la danza, Calypso ebbe modo di verificarlo di prima persona. Dopo che la cover band aveva terminato la sua esecuzione e un DJ aveva riempito l’aria di una musica ritmica e abbastanza martellante la maggior parte dei ragazzi presenti nel pub si era messa a ballare nella piccola pista. Ballare... pardon, saltellare a ritmo.
Nonostante le prime perplessità si era presto resa conto che quel dimenarsi lasciandosi trasportare  da un ritmo quasi sempre uguale era divertente e non poté evitare un sorriso sulle proprie labbra. Anche Rachel sorrideva mentre saltellava rischiando di pestare i piedi a tutti e i capelli rossi si aprivano come tanti raggi solari attorno a lei, Reyna invece era più composta ma anche lei sorrideva amichevole e divertita. L’impaccio iniziale era totalmente svanito e ormai anche la castana aveva capito quando era ora di saltellare, alzare le mani  e girare.
Hazel e Frank si erano appartati poco distante, nonostante non si fosse ancora fatta un’idea precisa del ragazzo li trovava una coppia molto dolce.
Reyna chiese qualcosa ma né lei che Rachel capirono cosa intendesse.
“Vi va di bere qualcosa?” ripeté con parecchi decibel di più “Io sto morendo di sete”
Insieme sgusciarono tra la folla fino al bancone.
“Prendimi qualcosa di leggero, fai tu” disse Rachel a Reyna, poi guardarono con aspettativa Calypso.
“Io non... non...” balbettò. Il fatto è che non aveva mai pensato di bere qualcosa di alcolico, non perché facesse male ma perché sapeva quante calorie potessero avere. Senza contare che la birra faceva venire pure la panza.
Rachel le mise una mano sulla spalla con familiarità. “Se sei astemia dillo pure, ti accettiamo senza problemi. Guardo, sopportiamo pure Jason che ogni volta che guarda come se soffrissimo di chissà quale malattia! Sopporta solo Reyna perché è maggiorenne”
“Calypso” disse invece l’altra “non voglio influenzarti, ma bere ogni tanto non fa male. L’importante è essere coscienti dei propri limiti e non esagerare mai. Come diceva sempre Aristotele, virtus in medium stat”
La Nightshade sorrise, conosceva quel detto, e decise che magari per quella sera poteva fare un’eccezione. “Che cosa mi consigli?”
Lei ci pensò su brevemente, poi disse: “Ti piace il caffè?”
Gli occhi di Calypso di illuminarono. “Lo adoro” specialmente perché era uno di quei alimenti a caloria negativa, bruciava energia!
“Allora il White Russian ti piacerà. Ha lo stesso aspetto del cappuccino” dopodiché si fece largo tra la ressa al balcone.
Tornò poco dopo e si fece aiutare a trasportare i due bicchieri la birra che aveva preso per sé, Calypso costatò immediatamente che Reyna aveva ragione. Quel cocktail sapeva proprio come il suo adorato caffè, anche se aveva uno strano retrogusto.  Era talmente buono che bevve un lungo sorso, salvo poi rendersi conto di non aver fatto una mossa saggia: gli occhi le bruciavano.
“Piano, piano” rise Rachel vedendola anche tossire. Si sentì sprofondare dalla vergogna e preferì fare i successivi sorsi con calma e cautela. Funzionò.
Quando tutte e tre ebbero finito tornarono alla pista da ballo dove Hazel e Frank li stavano cercando preoccupati.
“E’ che non abbiamo l’orologio e non riusciamo a capire che ore sono!” urlarono per sovrastare la musica a mo’ di spiegazione. A Calypso quel drink che sapeva di caffè non aveva fatto nulla all’inizio ma adesso si sentiva leggermente instabile e la testa pesante, pensò che quello fosse il suo limite. Forse c’entrava anche ilo fatto che non aveva mai bevuto prima. Rachel le prese una mano facendole fare una giravolta cosa che non l’aiutò molto, strizzò gli occhi e per non cadere dovette aggrapparsi a un ragazzo lì vicino.
“Scusa!” gridò Rachel al posto suo con una leggera risata, lo sconosciuto scrollò le spalle.
“Figuratevi, siamo così appiccicati che è inevitabile” poi aggiunse qualcosa sui piedi pestati ma il volume della musica era troppo alto e lo sovrastò. Però il ragazzo sconosciuto aveva altri amici sconosciuti.
“Oh, ma quello è il motto della repubblica romana!” gridò uno indicando la maglietta di Reyna, era viola con la scritta SPQR. Fino a quel momento aveva pensato si trattasse di una marca, guarda un po’.
Reyna spalancò gli occhi sorpresa e anche Frank che stava lì vicino parve impressionarsi, in senso positivo ovviamente.
“Studi latino?” gli domandò la ragazza urlando.
“Studiavo” la corresse “Ho seguito un corso qualche anno fa”
Anche Calypso conosceva il latino, insieme a  un sacco di lingue morte, la sua insegnante era una donna bassa e tozza con il seno rifatto e un naso lunghissimo sempre truccata. Una volta l’aveva vista in vestaglia da notte con degli occhiali da lettura con la montatura rosa e la pantofole, ovviamente senza trucco, era stato uno spettacolo agghiacciante. E non capiva perché le venisse in mente la sua precettrice proprio in quel momento.
Intanto il gruppetto di ragazzi stavano ancora conversando con Reyna  e gli altri, motivo per cui le sembrò molto strano appoggiarsi brevemente a uno di quegli sconosciuti per riprendere l’equilibrio a dirla tutta il ragazzo ridacchiò e le disse qualcosa porgendole il bicchiere.
“Come, scusa?” chiese educata. La musica si era fatta così forte solo nella sua testa? In effetti apprezzava molto di più quella classica.
Il ragazzo le mise in mano il bicchiere mezzo vuoto –o mezzo pieno, dipende dalla prospettiva – e ripeté con una risata soffocata. “A me fa schifo, te lo regalo!”
“Oh, grazie” disse fissando il liquido ambrato “Che cos’è?”
Quella sua domanda fece scoppiare definitivamente a ridere il ragazzo anche se lei non capiva cosa ci fosse di così divertente. “Non lo so” ammise “Ho chiesto al banco di farmi qualcosa di buono ma boh, fa schifo”
Calypso bevve un sorso titubante ma riprese a tossire con le lacrime agli occhi.
“Ehi, piano, piccola!” si preoccupò il ragazzo sbattendole una mano sulla schiena e aggiunse: “L’ho detto io che ‘sta merda fa schifo”   
In realtà dopo l’iniziale bruciore non lo trovò tanto malaccio, forse era anche più buono di quello che le aveva preso Reyna, aveva un retrogusto di liquirizia. Per questo si affrettò a rassicurarlo e bevve un altro sorso cercando di cacciare in gola la nuova ondata di tosse.
“E brava, la piccola” si congratulò il ragazzo arruffandole i capelli e facendole versare metà contenuto sui suoi piedi, poi si rivolse con un vocione agli altri ragazzi ancora intenti a parlare con Reyna e Rachel.
“O-i, secchioni” strepitò “Qualcuno vuole ballare o intendete formare un club della cultura sul posto?”
 
  Alla fine Nico era uscito da quel pub. Un po’ perché la musica gli stava facendo venire il mal di testa, un po’ perché si vedeva che Piper voleva starsene un po’ da sola con il suo fidanzato per fare cose da... sì, fidanzati. Così si era alzato con la scusa del bagno e poi aveva imboccato l’uscita, rispetto al caldo umido che c’era dentro il pub l’aria estiva fuori era fresca. Si chiese se fosse il caso di andare a sedersi sul marciapiede in un punto appartato e aspettare gli altri o tornarsene da solo al College, in fondo non era tanto lontano e il letto era una buona prospettiva. Alzò lo sguardo al cielo nero leggermente nuvoloso e con la luna a metà, non si vedevano che poche stelle. Nella strada camminava il fantasma di un barista che guardava il pub con nostalgia, quando si accorse di essere fissato spalancò gli occhi sorpreso e poi si avvicinò al ragazzino.
“Credevo che nessuno potesse vedermi” disse tutto felice.
“Normalmente è così” si rassegnò, avrebbe potuto fare finta di niente ma sapeva quanto i fantasmi si sentissero soli, un po’ come lui.
“Perbacco!” esclamò, poi tornò a fissare l’entrata del pub “Sai, una volta mi apparteneva questo posto. Era di mio nonno e pensavo che anche i miei figli avrebbero mandato avanti la tradizione e invece quei pusillanimi alla mia morte hanno venduto tutto e se ne sono andati in città. Bah” fece una smorfia di disgusto “Sono contento che qualcuno lo abbia riaperto, anche se hanno ristrutturato un pochino”
“Ah-ah” non seppe come altro commentare quel lungo monologo.
“E dimmi, ragazzo, la fanno buona la birra?”
“Non l’ho bevuta” riferì incolore “Sono minorenne, non posso bere”
Il fantasma del pub aggrottò la fronte. “Oh, già. Ai miei tempi era la migliore” garantì, poi gli scoccò uno sguardo critico “Non mi sembri molto felice”
Scrollò le spalle, ora ci mancava che anche i morti lo psicoanalizzassero. E a proposito, che fine aveva fatto Minosse?
“Animo, animo” lo spronò il vecchio fantasma “Almeno tu che sei in vita. Mi piacerebbe tanto bere una birra, o fare l’ultimo tiro di sigaretta. Tu fumi?”
Scosse la testa.
“Bravo, non iniziare mai. È solo un brutto vizio che non ti porta nulla di nuovo, credi a me. Ai miei tempi avere la sigarette in bocca era cool, dopo siamo morti tutti con i polmoni neri. Bah” tirò su con il naso sdegnato “non iniziare mai” ripeté.
“Da quanto tempo sei qui?” gli domandò.
La faccia del fantasma si fece pensierosa. “Oh, dunque, vediamo. Era il 1923 o 1932? Ohibò, non rammento. In che anno siamo, ragazzo?”
Nico non rispose dandosi mentalmente dello stupido, per i fantasmi il tempo scorreva in modo diverso dai mortali. Per alcuni anni erano solo pochi giorni e certi non si accorgevano nemmeno di essere morti.
“Sicuramente un sacco di tempo” continuò quello a ruota libera “Lo sai, questo pub passava nella mia famiglia di generazione in generazione e io speravo che i miei figli ci lavorassero, così come i miei nipoti. Invece quegli ingrati appena ho tirato la cuoia hanno messo tutto in vendita” ripeté amareggiato, evidentemente quella storia non riusciva proprio a digerirla. Forse era quel fatto a impedirgli di raggiungere l’Oltretomba.
Capiva che il fantasma del pub volesse qualcuno con cui sfogarsi dopo decenni ma Nico non voleva ascoltare un vecchio fantasma con il disco incantato, per cui con un sorriso il più possibile cortese cercò di svincolare da quella spinosa situazione.
“Proprio degli ingrati” lo assecondò “Mi dispiace, ma ora io dovrei proprio andarmene...”
“Andare dove, esattamente?” a chiederlo però non era stato il fantasma del pub, ma un ragazzo biondo con un raccapricciante accostamento di arancione e azzurro. Will Solace evidentemente non sapeva vestirsi in maniera decente.
“Al college” ribatté monocorde per nulla turbato.
“Oh, è un tuo amico? Può vedermi anche lui? Salve!” disse invece vivacemente il fantasma del pub, per quanto possa essere vivace un fantasma ecco.
Will che ovviamente non poteva vederlo non rispose al saluto, si limitò a inarcare una sopracciglia sorpreso. “Manca un’ora al coprifuoco” gli fece notare e fu una costatazione così ovvia che Nico nemmeno si prese la briga di rispondere alcunché, per cui la Maglia Arancione continuò: “Non ti stai divertendo?”
Mise le mani in tasca e si ingobbì. “No”
“Mi dispiace” disse sinceramente colpito il biondo quasi fosse colpa sua “Credevo ci tenessi”
Al che alzò gli occhi al cielo, pensando che erano gli altri a tenerci ma non disse nulla per buona pace di tutti.
“Ho sonno” disse invece e fece per allontanarsi lungo la strada.
“Ehi, non avrai intenzione di andare via da solo” esclamò contrariato.
In condizioni normali Nico si sarebbe limitato a un’alzata di spalle o a qualche battuta mordace, ma quella non era una condizione normale. Non lo sapeva con precisione, ma il fantasma del bar che continuava a guardarlo lo turbava profondamente, cioè non nel senso... no, non era turbato dalla paura, era un modo diverso di essere turbati. Quasi tristezza, ma nemmeno. Forse vuoto? Quel fantasma stava lì a guardare il tempo passare, gli umani sbriciolare e lui sarebbe restato ancora lì senza capire quanto tempo effettivamente fosse passato.. Era turbato perché nessuno se ne rendeva mai conto, ecco. La vita è proprio un buco nero.
Per questo invece di alzare le spalle o fare una battuta mordace –come avrebbe fatto in condizioni normali – disse senza nessuna particolare emozione: “Non sono solo”
Will lo guardò perplesso, poi guardò di nuovo la strada e infine inclinò il capo sospettoso. Come si guarda una verdura palesemente tale ma che tua madre vuole farti passare per la settima meraviglia culinare.
“Ma non c’è nessuno” gli fece infatti notare.
Nico scosse la testa cocciuto, una parte di lui continuava a gridargli di non dire una parola di più, che non era il caso di mettere l’ennesimo sconosciuto a corrente delle sue stranezze. Un’altra parte invece rideva sprezzante e lo spronava a continuare solo per vedere l’emozione dello sconcerto, poi della paura e infine del disagio sul volto di quel ragazzo troppo biondo. I capelli brillano alla luce dei lampioni in quel buio.
“Non sono solo” ripeté “Ci sono i fantasmi”
Silenzio. Nico aspettò pigramente una reazione dell’altro lanciandogli uno sguardo di sfida.
Forza, dillo che non c’è niente. Dillo anche tu che sono solo un visionario.
“Davvero?” arricciò le labbra il biondo.
Alzò gli occhi al cielo. “Davvero”
“Oh, e... quanti sono?” si informò urbanamente.
La cosa era davvero scocciante, perché non lo guardava come il pazzo quale era?
“Tantissimi, la strada ne è piena” borbottò solo per spaventarlo. In realtà oltre il fantasma del pub c’era solo un ubriacone che attraversava di continuo un lampione, la cosa sembrava divertirlo. Aveva metà del busto spappolato, sicuramente era stato investito mentre camminava per quella via brillo. E in ogni caso c’era Minosse con lui, Minosse era e sarebbe stato per sempre con lui.
Will rimase in silenzio con la fronte corrucciata a valutare tutte quelle informazioni, probabilmente indeciso se chiamare il College o direttamente un manicomio, fissava la strada vuota e buia con la testa leggermente inclinata. Poi parve decidersi a parlare.
“Senza offesa per i fantasmi, ma non mi sembrano degli accompagnatori sicuri”
Nico lo guardò storto mordendosi la lingua, come prego?
“Intendo” ricominciò il più grande notando il suo sguardo “intendo che i fantasmi sono immateriali, no? Quindi se per strada incontri un maniaco come possono aiutarti? Attraversandolo?” aveva inarcato così tanto le sopracciglia da farle sparire dietro la frangia bionda “Saranno pure di buona compagnia, ma preferisco accompagnarti. Almeno io posso tirare un pugno al malintenzionato”
Strinse le labbra e i pugni, leggermente offeso, sicuramente Minosse si sarebbe sentito offeso, ma non ribatté nulla. Il ragionamento del biondo aveva senso ed era logico, solo lo lasciava perplesso il modo in cui aveva accettato quella sua capacità di vedere i morti. Come se fosse normale. No, non si fidava.
“Devi solo aspettare un secondo” continuò Will sotto il suo sguardo sospettoso “Avverto le altre Magliette Arancioni e poi torno da te. E, Nico” lo chiamò prima di girarsi e andare via, lo fissò serio “Non muoverti. Abbiamo alcune cose su cui discutere durante la strada”
Oh, ovvio che sì. Alzò gli occhi al cielo. Così imparava a spiattellare il suo segreto a un’idiota de genere.
 
Al bancone c’era parecchia coda e per un ragazzo della statura di Leo era abbastanza difficile farsi largo fra quella moltitudine. Specialmente se il pavimento ondeggiava in quel modo. Comunque, la parte più difficile non fu arrivare al banco sano e salvo, ma convincere il barista che sì, era maggiorenne ma purtroppo aveva dimenticato la carta di identità a casa.
“Che peccato” aveva esalato fintamente depresso “Me la porto sempre dietro, che disdetta”
“Ragazzo, avrai sì o no quattordici anni” lo rimproverava il bar-man accigliato. Al che dovette mordersi la lingua per non gridargli dietro che erano sedici –sedici!—e mandare a monte il piano.
“No, ne ho diciotto. Lo so che sembro giovane, ma ehi, nessuno le vuole le rughe e diciotto anni”
Mille moine dopo, supplice e un tentativo di corruzione aveva scocciato così tanto il barista da farsi allungare un bicchierino di whiskey. Non era quello che aveva in mente, ma a quanto pare il tizio non si era fidato a dargli qualcosa di più forte.
La buttò giù in un sorso nascondendo la smorfia per il bruciore che aveva sentito lungo la gola, nonostante tutto non riusciva ancora ad abituarsi a quel gusto infuocato. Ma gli piaceva e poi era divertente, lo faceva sentire come se tutte le cinture di sicurezza si sganciassero mentre stava seduto su una montagna russa.
Fissò quello che era rimasto sul bicchiere, un altro sorso piccolo a occhio e croce, e decise di custodirlo per un po’. Si stiracchiò e lanciò uno sguardo in direzione del loro tavolo, erano rimasti solo Piper e Jason a pomiciare allegramente. Fece una smorfia. Era felice che loro fossero felici e che avessero trovato il grande amore e blablabla, ma quando i due erano in procinto di mettersi assieme Leo si era opposto fermamente. Era stato molto egoista in realtà, ma in quel momento si era reso conto che così sarebbe restato solo.
Hazel aveva Frank, Percy aveva Annabeth e dopo c’era il loro trio. Che, da un giorno all’altro, era diventato un duo. Leo restava la ruoto di scorta. Purtroppo, le cose stavano così. Aveva un bel rapporto con Nico, era vero, ma non quello che aveva con Jason o Piper, il corvino era troppo riservato, troppo schivo, troppo chiuso in sé stesso e non avrebbe permesso a nessuno di entrare nel suo mondo. E Leo, giustamente, se ne stava fuori.
Si batté una mano sulla fronte, non era il caso di farsi venire una sbronza triste, era anzi meglio darsi da fare per rendere la serata interessante. Iniziò a camminare verso la pista da ballo tenendo ciò che restava del suo sudato Whiskey in alto come e fosse il Santo Graal ma il pavimento ondeggiava ancora, anche più di prima, e finì addosso a qualcuno.
“Ops” rise ed ebbe qualche difficoltà a inquadrare la persona contro cui era andato a sbattere. All’inizio non vide nessuno ma poi i suoi occhi misero a fuoco e notò la ragazza dal semplice vestito bianco primaverile che le lasciava le lasciava scoperte le spalle e sembrava catturare le fioche luci psichedeliche mimetizzandosi perfettamente nell’ambiente. Aveva i capelli di un colore indefinito fra il marrone e il biondo, come se fossero color sabbia. Non era invisibile come aveva pensato all’inizio, ma si mimetizzava perfettamente con l’ambiente tanto era faticoso notarla. Aveva un viso semplice, carino, ma ogni volta che Leo sbatteva le palpebre lo dimenticava.
“Mi d-dispiace” farfugliò la ragazza, aveva un voce sottile sottile e a tratti nemmeno si sentiva. Era una voce difficile da ricordare, così uguale alle altre.
In quella ragazza tutto era semplice e normale, così tanto da risultare quasi banale. Forse fu per questo che la trovò fantastica.
“Ma tranquilla, è stata colpa mia” le assicurò mettendo su un sorriso un po’ storto, poi si accucciò. Era più bassa di lui –miracolo! – ma dai lineamenti del viso sembrava essere più grande di lui di qualche anno. “Sei da sola?” le chiese. Era davvero difficile memorizzare il suo viso.
“Sola” confermò la ragazza abbassando lo sguardo e Leo si dimenticò subito di che colore fossero i suoi occhi. Be’, quella poteva essere un’occasione.
Inarcò una sopracciglia divertito. “Davvero?” poi inclinò la testa “Io mi chiamo Leo Valdez” e le tese la mano.
La ragazza la guardò sorpresa, poi fece un timido sorriso. “Eco. Solo Eco”
“Solo Eco?” inarcò anche l’altra sopracciglia. “Be’, solo Eco, ti dispiace farmi un po’ di compagnia?”
Eco parve sentirsi un attimo a disagio per quella domanda, si guardò la punta dei piedi ma poi risollevò lo sguardo su di lui annuendo con un accenno di sorriso. Adesso che la guardava dritta negli occhi notò che questi erano del colore dell’acqua salata.
“Come mai qui?” le chiese buttando giù l’ultimo sorso di whiskey che gli restava e appoggiò il bicchiere su un tavolo a caso. Ok, ora era sufficientemente brillo.
Eco si guardò attorno nervosa, poi puntò lo sguardo sul front-man della cover band che aveva suonato fino a poco prima. “Per la musica. Credo” disse distogliendo velocemente lo sguardo. Aveva un modo particolare di parlare, quasi si mangiasse le parole o avesse paura di dirne troppe.
Anche Leo guardò il cantante, era il tipico ragazzo bello che sapeva di esserlo; aveva il viso cesellato, con le labbra e gli occhi che sposavano alla perfezione la grazia femminile con la bellezza maschile, la fronte era incorniciata da folti capelli scuri e aveva la corporatura di un ballerino, flessuoso e muscoloso in un equilibrio perfetto e un atteggiamento regale. Sembrava essere un modello di una qualche rivista d’elite.
Lo sguardo rubato di Eco era stato veloce e sicuramente nessun altro ci avrebbe fatto caso, ma Leo conosceva benissimo lo sguardo che avevano le persone dal cuore spezzato. Quella alle quali qualcuno aveva spezzato il cuore, Leo conosceva molto bene la sensazione e inevitabilmente sentì una sorta di collegamento con quella ragazza.
Forse fu per questo che mezz’ora dopo si trovavano nel retro del pub a baciarsi. Non era la prima volta che baciava una ragazza ma sempre si sentiva un novellino, non si sentiva adatto e capace e per questo finiva sempre per baciare un po’ a caso. A dir la verità anche Eco lo stava baciando un po’ a caso. Gli aveva messo le braccia sul collo e se lo premeva contro incastrando le dita fra i riccioli, era appoggiata con la schiena contro il muro di mattoni ma non sembrava trovare scomoda la posizione. Leo la teneva per la vita stretta con le mani callose stropicciandole il vestito senza stringere troppo per paura di farle male o di spezzarla come se fosse un delicato meccanismo.
Non ricordava esattamente perché avessero iniziato a baciarsi, non ricordava nemmeno chi dei due avesse iniziato e nemmeno come ci fossero arrivati nel retro. Sapeva solo che ad un certo punto aveva sentito l’aria fresca della sera punzecchiarlo e il respiro della ragazza si era infranto sul suo collo mentre la stringeva un goffo abbraccio. Era snervante essere sempre così goffo con le ragazze.
La linguetta di Eco gli accarezzò il labbro inferiore e lui strinse gli occhi ancor di più, i loro nasi si sfioravano in continuazione e non sapeva chi avesse il controllo della situazione in mano, probabilmente nessuno dei due. Sicuramente Leo aveva perso ogni freno per colpa della sbronza. Scivolò con una mano sulla schiena, la mise in mezzo alle scapole premendosela contro e lei strinse con più forza i ricci tirandoli leggermente facendogli anche un po’ male. Aveva il cuore che gli batteva come un tamburo sul petto e nonostante la fresca aria serale aveva così caldo che temeva di andare in autocombustione. Le baciò l’angolo della bocca sfiorandogli con le ciglia la guancia, lei inspirò forte e poi riprese a baciarlo. Fece scendere le sue mani stringendo i capelli più corti e ribelli della nuca, poi le posò sulle sue guance stringendo il suo viso e portandolo più in basso e quasi perse l’equilibrio. Per reggersi dovette staccare una mano dal suo fianco ed appoggiarla al muro.
Poi, improvvisamente Eco si staccò guardandolo stupefatta,aveva le labbra rosse come fragole e lucide come se ci avesse avena passato il lucidalabbra. Leo si accorse con un certo disagio che staccandosi gli era scivolata un po’ di saliva da un angolo della bocca.
Si fissarono negli occhi a disagio e, per la prima volta, Leo riuscì a vederla chiaramente in viso; era davvero carina e i suoi occhi erano molto più azzurri di quanto si fosse reso conto, un blu oltremare. Perché non era riuscito a notarlo subito?
Eco aveva ancora le mani sul suo viso quando mormorò con quel suo modo strano di pronunciare le parole. “Scusa, io non...”
Anche se era solo un flebile sussurro Leo capì immediatamente cosa intendesse e fece un sorriso, perché alla fine quella restava davvero la sua unica arma. Quella ragazza era già innamorata di un altro, lo aveva visto subito, e ormai aveva donato tutta sé stessa a quell’amore anche se senza speranze. Probabilmente era una cosa idiota.
“Hai ragione” disse solo, pensandoci bene anche lui era un perfetto idiota. Un perfetto idiota al quale una principessa aveva congelato il cuore. Forse fu per questo che non si sentì né triste né offeso, provò solo uno strano senso di compatimento e affetto per quella ragazza. Aveva un viso veramente bellissimo, non era banale come aveva pensato all’inizio, in quel momento era veramente particolare e meraviglioso. Quegli occhi.
Eco avvicinò ancora il viso al suo ma questa volta lo baciò su una guancia, poi lo scostò con dolcezza. Lui la lasciò andare senza trattenerla con uno strano sorriso mesto e nostalgico, quando si girò per guardarla ancora però era già lontana e si confondeva con il paesaggio. Avrebbe voluto dirle qualcosa, qualcosa di importante ma non sapeva nemmeno lui cosa. Infine risolse di stare zitto, mise le mani in tasca e appoggiò la schiena al muro di mattoni rossi. Gli tornò alla mente quello che aveva pensato prima. La settima ruota, quella di scorta. Nonostante tutto, lui viveva in un mondo a parte rispetto ai suoi amici ed era solo. Scosse la testa  e si lasciò scivolare fino a terra, doveva scacciare quei pensieri che da sempre gli martellavano in testa. Si sentiva strano, ma allo stesso tempo conosceva quella sensazione. Stava scivolando via dalla realtà, ben presto perse la presa sul pavimento e gli sembrò di sollevarsi dal proprio corpo e fluttuare nel cielo privo di consistenza. Si passò una mano sul viso e fu strano perché non gli sembrava che quella mano gli appartenesse. Gli sembrava di essere dentro una boccia dei pesci rossi con un spessissimo muro di vetro tra lui e il resto del mondo e lo isolava da qualsiasi rumore. Ben presto iniziarono a fischiargli le orecchie, appoggiò la testa al muro per guardare il cielo ma il lampione illuminava troppo e dava a tutto una luce fluorescente. O forse era lui che vedeva le cose troppo brillanti, chi lo sa. Sicuramente non avrebbe mai dimenticato il viso di Eco, almeno una persona era riuscita a vederla veramente e si meritava che almeno una persona comprendesse il suo valore.
Leo chiuse gli occhi, ma il ricordo del sorriso di Eco stava già scomparendo.
 
 
 
 
 
 
 
NON SPARATE!
Vi chiedo scusa in ginocchio per avervi abbandonate per un mese ma sono stata in vacanza in un luogo dove internet veniva guardato con sospetto e il wifi era considerato una creatura mitologica °-° non potevo perciò aggiornare. Per farmi perdonare vi ho preparato 30 pagine e c’è un bel po’ di roba su cui pensare, si entra nel vivo della storia ormai! Avete molto da commentare.
Vorrei solo focalizzare la vostra attenzione su due particolari.
La scena di Calypso in doccia. Molto breve e può creare confusione, I Know, ma perdere capelli è un sintomo dell’anoressia, e non sto parlando dei quattro peli che si perde al cambio di stagione. In questo caso cadono ciocche intere, e il capello è debole, opaco e facilmente spezzabile. Altri sintomi sono l’acne, per la mancanza di non mi ricordo cosa la pelle si irrita e ti ritrovi la faccia piena di brufoli, inoltre le eschimesi si creano con più facilità ; i denti perdono lo smalto e si cariano più facilmente. Insomma, diventi davvero fragile. Motivo per cui Calypso ha tutti quei prodotti per il corpo, la pelle e i capelli. Cerca di compensare, in qualche modo.
Altra cosa: l’alcool. Non potevo non metterlo perché è un fatto strettamente in rapporto con i giovani. Spero di non aver scritto cazzate e cose che possano andare OOC. Non volevo fare nelle solite ff dove l’alcool scorre a fiumi e tutti si ubriacano allegramente senza problemi, volevo dare un senso. Ed è anche vero che tratto tematiche delicate, quindi dovrei smetterla di giustificarmi xD
Per il resto, io sono d’accordo con Reyna. Bere è bello ma fa male, non esagerate. Ci sono più cose negative che positive alla fine.
 
Eeeee, non credo di aver null’altro da dire. Se non che la coppia LeoxEco mi piace e ho voluto inserirla brevemente. C’è anche l’accenno di un’altra coppia che sarà vitale per la storia ^^ ma nel prossimo sarà più chiaro.
 
Spero non mi abbiate abbandonato tutte nel frattempo (tutti? Ci sono boyz? Non mi sembra, nel caso date un colpo!)
 

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Capitolo 6
*** 47.8 ***


Attenzione! La storia seguente presenta tematiche delicate. Vorrei precisare che non promuovo nessun tipo di disordine alimentare. Pertanto, se si è facilmente influenzabile sconsiglio la lettura, non voglio avervi nella coscienza.
 
 
 
 
 
V
 
Quarantasettepuntootto
**
 
Non si può dire che quella mattina Leo si svegliò di buon umore perché non fu affatto così, anzi una sorta di amarezza gli appesantiva il petto quando con uno scatto bloccò la sveglia prima che i suoi compagni di stanza potessero sentirla.
Benvenuta Domenica, pensò con stanchezza e sbuffò mentre si districava dalle lenzuola marroni. Sembrava che nella sua testa fosse stato organizzato un mega-party clandestino e quando chiudeva le palpebre pesanti poteva ancora vedere Jason che lo trovava seduto per terra nel retro del bar e gli diceva che era ora di tornare. Era triste, perché per quanto si sforzasse non riusciva a ricordare i lineamenti del volto di Echo nonostante ricordasse di essere stato colpito dalla sua bellezza.
Quindi no, non si può di certo dire che quella mattina Leo si fosse di buon umore, ma si finse di mostrarlo quando ammiccò alla propria immagine allo specchio del bagno.  È vero: in quel momento non era felice, ma poteva fingerlo di esserlo.
Se mostri quanto ti fa male, hai perso. E in un gioco del genere non si può perdere, c’era gente che aveva scommesso su di lui. Sua madre, per esempio. Per questo si regalò un largo sorriso. Indossava ancora i vestiti della sera precedente e la stoffa era impregnata da una puzza mista sudore e fumo con quel pizzicore acre dell’alcool che punge le narici. I capelli si ingarbugliavano sulla sua testa in mille riccioli disordinati come al solito anche se nel lato sinistro erano leggermente schiacciati. Si passò una mano sul viso stropicciandolo e sbadigliò. Odiava svegliarsi così presto.
Per le ciambelle calde questo e altro, si decise iniziando a slacciarsi i jeans e diede la schiena allo specchio quando fu il momento di sfilare la maglia, vedere le cicatrici sul suo torace allo specchio. Era strano, era disturbante. Lo turbava. Perché finché guardava quei tagli direttamente non ne aveva una vera coscienza perché era il suo corpo e quindi... non lo sa, però non gli faceva male, non lo faceva sentire in colpa. Invece lo specchio è come, tipo, non so come dire, un quadro. Un quadro al quale si vedeva la faccia e che aveva la sua, di faccia, ed è una cosa strana vedere una persona che in teoria dovrebbe essere sé stessa ridotta in quel modo.
(no, non si è spiegato, ma non importa. Fa lo stesso. È come sempre. Quasi)
Si lavò di fretta e distrattamente, non si asciugò nemmeno i capelli e i ricci gocciolavano sulla maglietta rossa pulita ma alla fine non ci faceva nemmeno caso, si regalò solo l’ennesimo sorriso furbo alla specchio.
Uscì e camminò per il corridoio fischiettando e le mani ben impiantate nelle tasche dei jeans al ginocchio. Leo non era particolarmente felice, ma lo sembrava ed era questa la cosa importante. Il corridoio era deserto, tutti approfittavano della domenica per dormire. Tranne lui. E un’altra ragazza che molto pratilmente stava percorrendo un corridoi più basso verso la povere segretaria per stordirla a forza di richieste. Spesso si chiedeva se la segretaria avesse una vita al di fuori della reception, tipo un marito e una famiglia piena di poppanti urlanti. Se li immaginava:
“Come è andato al lavoro, tesoro?”
“Il solito, cara. E da te, nella scuola piena di piccoli pazzi?”
“Il solito, solo un ragazzino si è chiuso dentro una classe convinto che il mondo cospirasse alle sue spalle”
“Capisco”
Se li immaginava, e d’altronde era successo davvero qualche anno fa. Uno dei ragazzi aveva iniziato a urlare in piena notte e si era barricato nell’aula di chimica minacciando di creare un composto esplosivo se solo avessero tentato di aprire quella porta. Un tipo simpatico che soffriva di manie di persecuzioni e ogni tanto bisbigliava qualcosa contro tutti, Ottaviano se non sbagliava. Quella volta avevano dovuto chiamare i vigili del fuoco, s’era fatto un sacco di risate. Esilarante era stato quando una bambina, Meg se non sbagliava, aveva provato a rapinare uno dei negozi di verdure usando una bomba fatta di deodoranti. Ovviamente non aveva funzionato ma era bastata la piccola a mandare all’ospedale il vecchio commesso. Quello, non era stata divertente.
Dalle finestre del corridoio entravano raggi immobili di luce diretta e dovette socchiudere gli occhi perché davano davvero fastidio. Aveva mal di testa, ma dopo tanti post-sbornia era talmente abituato da non farci nemmeno caso. Tolse una mano dalla tasca appoggiandola sul corrimano e si apprestò a scendere le scale quando una voce femminile alle sue spalle chiamò il suo nome.
Irrigidì immediatamente alle spalle artigliano il corrimano riconoscendo la familiare inclinazione delle sue lettere nella pronuncia francese.
“Non mi saluti nemmeno?” continuò quella voce con meraviglia distaccata. Era sempre difficile inquadrare le sue emozioni, era sempre così incolore.
“Non ti avevo visto” rispose sinceramente rilassando la schiena e distendendo lo sguardo in una smorfia malinconica, un leggero sorriso rassegnato sulle labbra. “E credevo che non ti avrei rivista mai più” continuò.
“Lo credevo anch’io” la voce femminile si fece più chiara come se si stesse avvicinando alle sue spalle, la percepiva sempre più vicina ma non osava girarsi. “Speravo di non tornare più qui, ma mio padre riteneva...” e lasciò la frase sospesa allungando di poco la lettera a. Leo poteva immaginarla chiaramente alzare gli occhi al cielo, la cosa lo fece sorridere un poco.
“Sono appena arrivata, comunque.” Ora la sentiva chiaramente dietro di sé, ma ancora non voleva voltarsi. “E’ ancora tutto uguale a come ricordavo”
“Dici?” le domandò inarcando un sopracciglio, gli tremavano leggermente le punta delle dita nella tasca dei jeans.
La voce scoppiò in una breve risata derisoria. “Non è cambiato niente” ripeté “Sei rimasto lo stesso anche tu”
Fu a quel punto che decise di voltarsi, si mordeva nervosamente l’interno di una guancia ma si sforzò di mantenere una luce vispa negli occhi color caffè. Allargò il viso in un sorriso dispettoso quando mise a fuoco la figura snella della pallida ragazza che aveva davanti, sembrava Biancaneve. Capelli neri come l’ebano, pelle bianca come la neve e le labbra rosse come il sangue.
“Chi lo sa” disse vivacemente con una leggera punta di rammarico “Potrei perfino stupirti, Chione”
**
 
Appena quel suono acuto e trillante iniziò spalancò gli occhi alzandosi di scatto talmente velocemente che le sembrò di ricevere un pugno al centro dello stomaco, la vista le si appannò e nella bocca le si propagò un gusto acre che sapeva di vomito. Strizzò gli occhi mentre tirando giù qualche santo dal paradiso Rachel spegneva la sveglia di Hazel, l’unica che non l’aveva sentita e continuava a dormire beatamente.
“Brutta— sono le sette!” sbraitò la rossa sbattendo più volte le palpebre una volta accertatasi dell’ora improponibile “Ed è domenica!” aggiunse come per rimarcare quanto indecente fosse il fatto di una sveglia accesa.
Calypso, dal canto suo, si gettò nuovamente sul cuscino con un grande respiro e chiudendo gli occhi, quel sapore acre e nauseabondo ancora sulla lingua. Adesso che era sveglia si accorse che il suo letto sembrava essere una barchetta e la sua testa era stata assalita da saette di emicrania come se nella sua testa la sveglia stesse ancora suonando implacabile. Un tonfo la informò che anche Rachel aveva seguito il suo esempio rigettandosi fra le coperte speranzosa di riprendere il sonno interrotto, peccato che lei ormai fosse completamente vigile. Il cuore le batteva ancora forte per lo spavento e quella insopportabile ostruzione alla gola le faceva ribaltare lo stomaco. E il mal di testa, diamine se doloroso! Come se avesse sbattuto con la fronte contro qualcosa. Socchiudendo gli occhi spiò sul suo comodino dove stazionava la sua sveglia – furbamente disattivata la sera prima – segnare le sette e qualche minuto, i numeri spigolosi erano visibili nell’oscurità della stanza.
Improvvisamente, si accorse di avere la vescica piena. Sbuffò serrando gli occhi con la speranza di ignorare quel fastidiosissimo bisogno e si strinse ancora di più nelle coperte cercando una posizione che non le gravasse sulla pancia gonfia. Ma ormai il pensiero della pipì si era fatto pressante nella sua mente forte e doloroso quanto l’emicrania e combatterlo era assolutamente inutile. Strizzando gli occhi nel tentativo di mettere ben a fuoco la realtà si alzò lentamente dal letto abbandonando il calore delle coperte chiare; la prima cosa che notò fu che la sensazione di leggerezza che aveva provato per buona parte delle notte era sparita lasciando invece una pesantezza dolorosa come se qualcosa l’avesse appena investita, per contro il pavimento ondeggiava ancora un pochino ma meno. Forse era ancora la stanchezza sommata al frastorno per il brusco risveglio. Cercando le pareti con le mani (non voleva accendere la luce per svegliare le altre, anche se Hazel se lo meritava per non aver spento la sveglia e non essersene nemmeno accorta!) raggiunse la porta del bagno, l’aprì e si intrufolò dentro richiudendolo alle proprie spalle senza far rumore.
Subito dopo, seduta sulla tazza con le mutande calate, pensò che valesse la pena vivere anche solo per fare la pipì, specialmente quando l’avevi tenuta una notte intera: che sensazione meravigliosa!
Una volta esaudito il bisogno si lavò le mani e guardandosi allo specchio sopra il lavandino notò di aver l’aspetto di una straccia per pavimenti, aveva davvero un aspetto orribile. Anche le ossa le facevano male come se un tir le fosse passato sopra, senza contare la sensazione di nausea che le comprimeva lo stomaco e la gola. Si gettò l’acqua gelata sulla faccia e incastro le mani fra le ciocche annodate sulla testa, quando le tolse si portò via molte fili castani. Li guardò con noncuranza appoggiandosi con tutto il peso sul lavandino e strizzando gli occhi ancora una volta, quel mal di testa non riusciva a farla pensare.
Prese un grosso respiro e poi buttò fuori l’aria tutto in un colpo, ripeté la cosa più volte finché la vista non si snebbiò. Fatto questo lasciò la presa dal lavandino rizzandosi con la schiena, la spina dorsale scricchiolò, la maglietta si alzò lasciando scoperta un lembo di pelle chiara del ventre con le ossa dei fianchi sporgenti che sembravano sul punto di bucarla. Afferrò l’orlo con le dita e la tolse, sotto la pelle si vedeva il guizzo delle costole e dei piccoli muscoli.
Si fissò con un attenzione chirurgica allo specchio sfiorandosi con i polpastrelli della mano. Si toccò gli zigomi alti segnando una linea sulla guancia come se li volesse ancora più affilati, passò il dito lungo il collo fino alla clavicola sporgente, aveva le spalle ossute e i seni piccolissimi e bianchissimi, si intravedevano le costole ad ogni respiro e le gambe erano lunghe e  affilate come le zampe di un ragno. Passò la mano sul bacino sentendolo più gonfio del solito e poi guardò con criticità le cosce.
Erano ancora troppo grosse.
Si mise di profilo sempre con la mano sulla pancia e studiò la curva della sua schiena, trattenne il respiro facendo ritirare la pancia e marcando ancor di più le costole. Si morse il labbro mentre dal naso buttava fuori tutta l’aria. Era così che avrebbe dovuto essere, era così che sarebbe diventata. Ci sarebbe riuscita, a qualsiasi costo. Si studiò i polsi delle mani così fini dai sempre fin troppo fragili, fatti di un qualche cristallo. Accucciandosi tirò fuori la bilancia e ci salì per guardare a che punto fosse.
Quando vide il numeretto spigoloso il respiro le si mozzò nei polmoni.
47.8
Spalancò gli occhi scendendo e allontanandosi, scuoteva la testa dicendosi che non era possibile. Era semplicemente impossibile. Attese un po’, poi salì ancora e quando il risultato fu lo stesso sentì un grido bloccarsi in gola e gli occhi inumidirsi. Si sedette per terra prendendosi la testa con le mani, aveva voglia di urlare e singhiozzare e sbattere la testa contro il muro. Si morde le labbra a sangue per non farlo, come può essere diventata improvvisamente così cicciona? Per forza aveva quella pancia e quelle cosce da tacchino. Era impossibile, fino al giorno prima era 46 chili, come aveva fatto a prendere più di un chilo in una notte soltanto?
Aveva cenato, e dopo le avevano fatto mangiare la pizza. La pizza. Quante calorie ci sono in una sola fetta di pizza? Tante, troppo e ora erano lì a manifestarsi in quella ciccia sporgente. E i due bicchieri di alcool che aveva bevuto. Gesù, perché si era messa a bere? Eppure lo sapeva bene quanto potesse essere calorico e dannoso per il fisico, si era documentata. Stupida, stupida, stupida. Come poteva essere stata così incosciente? Aveva rovinato tutto il lavoro che stava facendo. In una sola notte. Iniziò a piangere desiderando di mettersi a correre e correre finché nono stramazzava al suo priva di energia, cancellare quel numero così alto e insopportabile e... voleva vomitare.
Devo vomitare.
Si asciugò le guance con il dorso della mano, si strofinò il viso e gattonò verso la tazza del wc.  Non aveva mai vomitato volontariamente e non sapeva nemmeno bene come si facesse, ma quella era un’emergenza e doveva fare qualcosa. Si sporse verso il cesso e fissò l’acqua, poi  si portò l’indice e il medio dentro nella bocca appoggiandoli sulla lingua e li fece scorrere verso la gola. Era una sensazione bruttissima, le veniva quasi difficile respirare. Quando toccò la gola strinse gli occhi e spinse verso il basso con la punta delle dita, fu sgradevole e qualcosa le si mosse nello stomaco. Si stuzzicò la gola con le dita finché un forte conato non la fece quasi soffocare e sfilò velocemente le dita protendendosi ancor di più verso la tazza. Vomitò una sostanza disgustosa e salivata dall’odore nauseabondo, quasi bastò quella a farla rimettere un’altra volta. Ma aveva lo stomaco vuoto, ormai era troppo tardi.
Aveva già assorbito tutte le calorie.
La faccia si deformò in una smorfia orribile mentre riprendeva a piangere e questa volta senza nemmeno preoccuparsi di far piano, aveva ancora in gola quel saporaccio orribile e la sensazione di qualcosa che la soffocava e sul mento un rivolo della sostanza appiccicosa che aveva rimesso ma non se ne curò, si sporcò la faccia con le lacrime e quella saliva mentre si passava le mani sul volto per nascondere gli occhi. Si sentiva così ripugnante e in colpa da non riuscire a pensare, c’era solo un ceco terrore nella sua mente. Era come se la avessero tolto ogni forza. Era la stessa sensazione che aveva provato anche alla clinica specializzata ma qui era peggio. Lì aveva ripreso il peso non per colpa sua, ma dei medici che la ingozzavano in ogni modo come un maiale al macello, invece qui era stata lei. Nessuno l’aveva costretta a mangiare, nessuno l’aveva attaccata a degli integratori. Era colpa sua.
Era colpa sua se in quel momento era una balena piaggiata. Era stata lei a buttare in una solo sera tutti quei mesi di controllo, non aveva saputo controllare. Si era ingozzata come un’animale. Singhiozzò più forte con le spalle ossute che tremavano e le labbra martoriate mentre le stringeva negli incisivi per non urlare. Era una persona orribile, una persona grasse e orribile e incapace di controllarsi.
Quasi non si accorse della porta del bagno che si apriva finché non sentì la compagna di stanza lanciare un gridolino sorpreso facendola sussultare più forte.
“Calypso!” la chiamò Rachel immobilizzata al tuo posto “Va tutto bene?!”
Domanda stupida, no che va tutto bene, sono una cicciona obesa e sono ingrassata ed è colpa mia, sono una stupida obesa.
Si portò le mani al volto per asciugarsi gli occhi dalle lacrime nel tentativo di apparire meno miserabile ma l’unico risultato fu quello di sporcarsi ancor di più la faccia.
“M-m-i v-vie-vien-e d-da... da vom-i-mitare-re—“ singhiozzò traballante inciampando in ogni sillaba.  Avrebbe tanto voluto vomitare tutto quello schifoso grasso che le appesantiva il corpo.
La rossa spalancò gli occhi e si affacciò nuovamente nella stanza chiamando Hazel a gran voce, poi si accucciò accanto a lei cercando di tirarle dietro i capelli.
“Va tutto bene, non preoccuparti” cercò di rassicurarla a disagio, la vista di quel viso sporco di lacrime e vomito la turbava tantissimo, soprattutto perché aveva gli occhi così rossi che sembravano sul punto di sciogliersi in sangue. “Se devi vomitare, fallo. Meglio fuori che dentro”
“Che succede?” biascicò Hazel appoggiandosi assonnata allo stipite della porta ma appena vide l’amica accucciata con la testa nel cesso divenne immediatamente vigile. “Cal, cos’hai?”
“Le viene da vomitare” rispose al suo posto Rachel continuando a pettinarle i capelli all’indietro con le dita.
“Buon Dio!” esclamò Hazel con un lampo di comprensione negli occhi “Cosa l’avete fatta bere?!” e subito dopo sbadigliò.
“Ma niente” sbottò Rachel. Calypso intanto continuava tremare per quanto si stesse sforzando di trattenersi ma quel numero comparso sulla bilancia appariva davanti a lei ogni volta che sbatteva le palpebre e una voce maligna le canticchiava nelle orecchie ‘cicciona’ in mille tonalità diverse; dapprima acuto, poi strascicata, in maniera beffarda, veloce e lapidaria, delusa, robotica, sprezzante. Quella di suo padre.
Ciicciooona.
“E’ strano che le venga da vomitare adesso” sentì dire dalla rossa “Solitamente non passa tutto quel tempo”
Hazel annuì come se stesse ricordando qualcosa. “Hai già vomitato?” le domandò.
Annuì, non aveva neanche un respiro di voce per parlare. Se avesse aperto lo bocca, lo sapeva, avrebbe urlato fino a svenire.
Ciicciooona.
“Ed era... ehm, consistente?”
Scosse la testa, aveva vomitato per lo più saliva e succhi gastrici.
“Forse è solo sfinita” ipotizzò Rachel continuando ad accarezzarle la testa “Magari deve mangiare qualcosa”
“Possiamo andare a fare colazione” concordò Hazel.
A quelle parole la mente di Calypso fu letteralmente invasa dal panico e smise di pensare lucidamente. Non poteva andare a mangiare, era già abbastanza obesa così, non doveva mangiare, non doveva mangiare, non doveva mangiare, non doveva mangiare! La sola idea il suo stomaco faceva mille capriole e la sgradevole sensazione dei conati tornava alla sua gola bloccandole il respiro come se stesse per vomitare ancora. Era soffocante. Si sentì claustrofobica in quel bagno.
“No” ma aveva la voce talmente roca che dovette tossire e ripeterlo “No” la fissarono perplessa e lei cercò di spiegarsi “L’idea del cibo mi fa tornare la nausea” il che era del tutto vero. La sola idea del profumo della brioche la faceva rimettere.
“E se fosse un’influenza?” domandò retoricamente la più piccola “Forse si è presa un virus. Non lo so...”
“Bisognerebbe chiamare la mamma di Percy” costatò nervosamente l’altra.
“Sei proprio sicura di non voler qualcosa? Magari potrebbe aiutare...” la guardava con gli occhi dorati ricolmi di preoccupazione come se fossero sorelle. Fu un pensiero che la fece stare sia bene che male allo stesso tempo, era da tanto che qualcuno non la guardava così.
Scosse la testa con forza.
“Con la nausea?” le domandò Rachel “Se si è attenuata credo che tu debba tornare a letto. Ma prima è la caso di pulirti un po’ il viso”.
L’acqua gelato fu un po’ un sollievo anche se la fece rabbrividire ma almeno si tolse quei succhi gastrici dalla faccia, si risciacquò anche la bocca per scacciare quel saporaccio. Quando Hazel le porse la sua maglia del pigiama si accorse di essere stata per tutto quel tempo solo negli slip e abbassò lo sguardo vergognandosi tantissimo. Non era abituata a girare senza vestiti, la nudità la facevano sentire esposta; nei vestiti poteva nascondersi.
“Cosa facciamo, noi?” chiese Rachel mentre Calypso tornava fra le lenzuola, desiderava tirarle fin sopra la testa e nascondersi lì sotto per sempre.
“Scendiamo, tanto vale” rispose l’altra “E magari passiamo per l’infermeria”
Quando le due compagne di stanza finirono si sistemarsi e uscirono dalla camera, lei ricominciò a piangere. Si promise che non sarebbe mai successo mai più, che avrebbe rimediato e tutto si sarebbe risolto, avrebbe saltato sia il pranzo che la cena e avrebbe fatto un po’ di sport.
Voleva solo scomparire.
 
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Mentre camminava con passo spedito e allegro per i corridoi, Piper si intrecciava distrattamente una ciocca di capelli e un sorriso timido le incurvava le labbra verso l’alto. Sentiva che quella era la domenica giusta, sicuramente suo padre le aveva spedito qualcosa.  Forse le aveva scritto che aveva prenotato una vacanza solo per loro due lontano dai paparazzi e tutti i problemi. Sicuramente era così.
Pensò distrattamente che se avesse trovato quella lettera lo avrebbe perdonato, gli avrebbe perdonato tutti quei mesi di silenzio e tutto sarebbe tornato a posto.
Lo pensava con quel bellissimo sorriso timido e le dita che formavano una piccola treccina quando alzando gli occhi mise a fuoco una figura alla reception.
Una ragazza dalla camicetta bianca e una rigogliosa chioma  nera e lucente parlava con la segretaria inclinando la testa di lato di tanto in tanto. Era di spalle, ma non le ci volle molto per riconoscerla.
Proprio in quel momento la ragazza si voltò e sembrò notarla anche lei da come sogghignò. Con passo sicuro la raggiunse, le labbra rosso scure distese in una finta espressione benevole.
“Vedo che anche tu sei ancora qui” le cinguettò quando le fu vicino “McLean”
“Boreade” costatò stringendo i pugni “Sei tornata”
Chione fece una smorfia come se avesse appena ingoiato qualcosa di schifoso come un cavolino di bruxells. “Non che io ne sia felice, l’ho già detto al piccolo piromane”
Piper spalancò gli occhi rendendosi conto di chi si riferiva.
“Sì, anche lui ha fatto quella faccia sconvolta” la informò noncurante, poi la superò altera iniziando a salire la scale “Ci vediamo”
Lei rimase qualche secondo immobile a fissare la reception con sguardo smarrito, poi capì cosa fare e si girò tornando indietro. Doveva cercare Leo.
 
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NDA:
Questo capitolo doveva essere più lungo, ma ho pensato di tagliarlo in due perché... be’, qui la situazione si fa un po’ più seria e non vorrei appesantire troppo la narrazione. Non lo so, avendo messo il rating arancione non vorrei andare troppo sul pesante, anche perché questa storia dovrebbe avere anche un contorno fluff.
E nulla, ditemi voi, qui compaiono solo i nostri due protagonisti alla fine. E non lo so, mi piacerebbe un pochino sapere anche l’idea generale che vi siete fatti su tutti i personaggi. Lo sapete, no, che sono paranoica e ogni tanto ho davvero la sensazione di star scrivendo una grande stupidata e/o di star parlando in maniera del tutto inappropriata.
Mi dispiace l’ora tarda ma con la scuola sono iniziati anche i mille impegni c_c
E nel caso a qualcuno interessasse, ho anche pubblicato una piccola one-shot sulla Caleo, la trovate nel mio profilo se la volete^^
Spero di leggere qualche vostro commento,
con affetto
Hatta

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