Sciarada

di darkrin
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il mio primo è il mare ***
Capitolo 2: *** Il mio secondo è un nome ***
Capitolo 3: *** Il mio intero ***



Capitolo 1
*** Il mio primo è il mare ***


Note: Ho iniziato questa storia tantissimo tempo fa, per una challenge di maridichallenge e non l'ho mai finita fino a questa mattina quando, mentre creavo bacheche su pinterest su Silena, ho realizzato che: ooops e ho deciso che era giunto il momento di mettere un punto a questa storia. Sono tre capitoli, breve, brevissimi e un'altra versione - ancora più breve - che forse pubblicherò su lj perché è completa a modo suo. 
La challenge per cui questa storia è stata iniziata richiedeva che si scrivesse una storia con una serie di temi, di cui uno era: Lima in Perù, poi il mare e qualcos'altro, da lì le cose hanno preso una strana piega e ne è uscita questa cosa. 
- Mama Quilla è una divinità della mitologia Inca  qui qualche info in inglese e in questa storia è il corrispettivo di Ebe.
nene vuol dire bambino o almeno così mi dicono le mie ricerche internet; non ho idea se l'ospedale di Lima sia davvero specializzato nelle ustioni, ma non credo.
- Ho deciso di seguire quella teoria che vuole che Silena sia in grado di cambiare il suo aspetto.
NO BETA quindi segnalatemi tutto quello che non va. 

 

Sciarada
 
 
 
sciarada s. f. [dal fr. charade, e questo dal prov. charrado «chiacchierata, conversazione», der. di charrá «chiacchierare» di origine onomatopeica come l’ital. ciarlare]. –
In enigmistica, gioco di parole in cui si chiede di indovinare una parola sulla base di definizioni generiche e allusive della parola stessa e dei due o più elementi semanticamente autonomi in cui essa può essere scomposta, segnalati con nomi convenzionali (rispettivam. intero o totale, primiero, secondo, ecc.) o con puntini o segni tipografici speciali (sciarade diagrammatiche), per es.: rosario (intero) si scompone in rosa (primiero) e rio (secondo)
 
 
 
Il mio primo è il mare,
il secondo è un nome.
il mio intero è –
 
 
 
In una terra lontana come la luna, Mama Quilla, che ti protegga e circondata da un mare di mostri, c'era una volta un eroe che si chiamava Nessuno, come te, gli racconta un'infermiera. La donna il volto segnato da rughe e gli occhi grigi e forse non è davvero un'infermiera. Alcuni dicono che non abbia l'abilitazione, altri che non abbia neanche la laurea e che non dovrebbe stare lì, ma poi la donna arriva e tutti improvvisamente dimenticano le loro rimostranze. È sempre stata lì, in quella stanza? Dove altro dovrebbe trovarsi quell'anziana donna che sorride sotto i baffi? E neanche li tocca i pazienti, si limita a sedere accanto a loro e raccontare. Perché mai dovrebbe andarsene?
Non è necessario avere un nome per salvare il mondo, continua a raccontare.
 
C'è una stanza bianca e c'è un'infermiera che racconta miti di altre terre come fossero suoi. La donna ha il volto segnato da rughe e gli occhi grigi, animati da una viva intelligenza e i capelli bianchi - e forse sono suoi.
C'è un letto e c'è un ragazzo che vi è disteso. Ha una benda su un occhio e un braccio fasciato; quando è arrivato nella stanza, aveva ustioni che gli ricoprivano gran parte del corpo ma sono lentamente sparite, ne rimangono solo cicatrici di pelle nuova e sottile.
I medici gli dicono che forse non recupererà più la mobilità che aveva un tempo, che forse le dita non si piegheranno più come devono e resteranno rigide come sottili bastoncini lavati dal mare e seccati dal sale. Bastoni che sembrano ossa bianche. Od ossa come bastoni. Il ragazzo annuisce: non ricorda come si muovano le dita, come sappiano piegare il metallo e plasmare l'acciaio, come siano in grado di creare armi e gioielli.
Non ricorda più neanche il suo nome. Ha perdite più grandi di cui preoccuparsi.
 
 
 
Il mio primo è il mare
 
 
 
Quando il ragazzo apre gli occhi, la luce lo acceca e - c'è un'esplosione - sente il terrore pervadergli il corpo e tenta di alzarsi, di scappare, ma non riesce a muoversi, non riesce ad alzarsi e sente dolore ovunque e -
- Calmati, nino. -
C'è una donna che lo guarda dall'alto con gli occhi grigi e una leggera cuffietta sul capo. Gli posa una mano sulla spalla e lo spinge con delicatezza verso il materasso, lo aiuta a distendersi in modo che le sue gambe non brucino, che la spalla non gli tiri come se volesse staccarsi.
- Ti hanno messo dei punti - gli spiega, quando lo sente esalare un gemito di dolore e voltare il capo verso l'arto traditore.
- Eri messo piuttosto male, quando ti hanno portato qui, nene. -
La voce della donna ha una cadenza che gli è estranea e che sembra scivolargli addosso come una carezza, come lo sciabordare del mare che culla i pescatori, rannicchiati in minuscole cabine.
- Il mare ti ha sputato fuori, una mattina. Non saresti dovuto finire qui - continua la donna, controllandogli le fasciature e rimboccandogli il lenzuolo. - Non è certo l'ospedale più vicino alla costa, ma questo era l'unico luogo in cui potessero fare qualcosa per una persona con le tue ustioni - continua.
- Qui dove? -
È una sorpresa, sentire quella voce così roca e aspra, e rendersi conto che è la sua. Che sa ancora parlare, anche se non ricorda le parole, se non ricorda di averlo fatto.
La donna sorride e gli accarezza, delicatamente, la mano coperta dal lenzuolo.
- Siamo a Lima, in Perù. -
E il ragazzo non ricorda, ma c'è qualcosa, nel suo stomaco, che gli dice che è lontanissimo da casa, che non dovrebbe essere lì. La donna sorride e gli posa una mano sulla guancia.
- Sei stato forte, nene, ma ora devi riposare. -
C'è qualcosa nel modo in cui lo dice e gli sorride, che gli fa pensare che la donna non si riferisca solo alle sue ferite, ma è un pensiero ridicolo ed è, improvvisamente, così stanco. Il ragazzo chiude gli occhi e –
 
 
 
Sogna il volto di una donna: ha i capelli biondi e gli occhi azzurri e gli sorride, sorpresa, quando lo vede e chiama un nome che lui non riconosce e non ricorda. Quando gli tende la mano, la donna ha lunghi boccoli scuri che le incorniciano il volto.
 
 
 
I medici entrano nella stanza con passo sicuro, hanno le spalle ampie e la schiena dritta e sono accompagnati da un'infermiera e un codazzo di studenti dai volti incerti, che si trascinano dietro le cartelle dei pazienti.
- Buongiorno - lo saluta uno. Capelli bianchi e occhiali tondi su un naso prominente. - Come si sente oggi? -
Il ragazzo ha metà del corpo fasciato, l'altra metà dolorante e quella mattina ha sentito un'infermiera loquace raccontare di come vengano trattati i pazienti ustionati, di come la pelle morte venga raschiata dal corpo.
- Sono stato meglio - afferma, infine.
Il medico sorride e spinge gli occhiali con la punta delle dita, mentre studia con occhio critico la sua cartella clinica, accompagnato dai versi di assenso e dissenso della sua schiera di seguaci.
- Vedo che non hai perso il tuo spirito. è un buon segno - afferma, mentre indica qualcosa ai colleghi, che annuiscono, convinti.
Il ragazzo ha la sensazione - perché non è un ricordo, è più sottile e volatile, di un ricordo, è come un leggero frullare d'ali nella pancia, come la carezza di quel mare che l'ha risputato fuori e l'ha trasformato in leggenda, racconterò di te, ai ragazzi che verranno dopo, gli parlerò del nuovo nessuno, gli ha promesso l'infermiera, asciungandogli la fronte sudata, dopo una notte particolarmente difficile - che le cose dovrebbero andare diversamente: che i medici dovrebbero essere più giovani e dovrebbero guardarlo negli occhi e sorridergli e dargli da bere qualcosa che sa di casa. Questi invece si limitano a studiare la sua cartella, redatta dai ragazzini che, al mattino, gli prendono la pressione, il sangue, il battito cardiaco e, tremanti, trascrivono ogni cosa, e a prescrivergli farmaci dai nomi complicati e dal sapore asettico. Si limitano a spiegargli che è frequente assistere a casi di amnesia, dopo un trauma come il suo e che non sanno - il cervello è ancora un territorio sconosciuto, gli dicono - se e quanto recupererà la memoria. Potrebbe essere domani, tra tre giorni o tra un mese. Potrebbe recuperarla per intero o avere solo lampi, solo scarne immagini in un mare di vuoto. Insistono che è un miracolo che sia vivo e che si sia ripreso a quel modo. Sottintendono che dovrebbe essere grato. Che ha tutta la vita davanti, che i suoi ricordi non erano poi così tanti.
Il ragazzo ha la sensazione che le cose dovrebbero essere diverse.
 
 
 
Quando chiude gli occhi, vede sempre la stessa donna. Ogni volta ha un volto diverso - questa volta ha i capelli blu e gli occhi verdi ed è quasi certo che sia sbagliato, che sia... -, ma lui sa che è sempre lei e se soltanto potesse ricordarne il nome.
 
 
 
Il fisioterapista insiste perché provi a piegare le dita intorno a una pallina rossa e morbida.
- Non ci riesco - gli dice.
Pensa a pezzi di legno bianco, lavati dal mare e dalla sabbia, e l'immagine si sovrappone a quella dell'asta di una freccia, intagliata da dita esperte.
L'uomo annuisce, comprensivo.
- Devi continuare a provare, se vuoi che i muscoli si riprendano. Un millimetro alla volta. –
 
 
 
Un millimetro alla volta. Continua ad insistere, ma non riesce a recuperare il nome della ragazza.
 
 
 
- Poco dopo il tuo arrivo, un enorme uragano ha attraversato gli Stati Uniti - gli racconta l'infermiera.
Ora che la storia di Nessuno è terminata e l'eroe è tornato a casa dalla moglie che lo attendeva, tessendo, e dal figlio cresciuto, è passata a narrargli di fatti più recenti. Gli ha raccontato degli Incas e del dio Sole, di come siano state ritrovate delle orrende poesie in tre versi, incise sulle mura di alcuni templi, e di come i peruviani abbiano accusato gli invasori stranieri. Sarebbe stato un motivo originale per far scoppiare una guerra, ha chiosato, con un ghigno sdentato, galeotti furono gli haiku. Neanche si chiamavano ancora così a quell’epoca, in quella parte di mondo, ma a lui non importava. Si è sempre divertito così.
- In molti hanno pensato che fosse l'Apocalisse, è il vento sollevato dagli zoccoli dei Quattro Cavalieri, ho sentito gridare per le strade - esala un grugnito di scherno, mentre continua a sbucciare con estrema attenzione una mela. - Altri pensavano che fosse la giusta punizione per i peccati degli Stati Uniti. -
La donna ha le labbra sottili piegate in una smorfia divertita ed è quasi certo che lei sappia esattamente cosa stesse accadendo.
 
 
 
Sogna il vento e il fuoco e c'è la ragazza, in piedi, in mezzo alle macerie. Ha il volto bruciato, come lo è metà del suo corpo e gli occhi rossi di pianto. Tende la mano, per consolarla ed abbracciarla, ma il vento lo trascina via, come fossero onde, e, nella lontananza, sente il rumore di zoccoli che si avvicinano.
 
 
 
 

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Capitolo 2
*** Il mio secondo è un nome ***


Note: forse avrei dovuto spiegare all'inizio che questa più che una storia è un accenno, è poco più di un sogno con qualche spruzzo di trama qua e là. Spero che la rapidità con cui si svolgono gli eventi non sia troppo deludente, ma non sapevo come altro rendere tutto, rimanendo fedele alla voce che volevo avesse questa storia. 


Il secondo è un nome
 
 
 
- Per Charlie – mormora Silena, prima di chinare il capo e raccontare ogni cosa, ogni inganno, ogni bugia, ogni vuota promessa fattale da Crono.
Percy è tornato quella mattina: si è trascinato con passi incerti e stanchi sulla riva del Campo Mezzosangue e per un istante tutti hanno trattenuto il fiato in attesa che l’acqua salmastra sputasse fuori anche il corpo di Charlie Beckendorf. Ma Charlie non è riemerso e non c’era nessun corpo da sputare. Non c’è nessun resto da bruciare, nessuna mano priva di polso da stringere tra le dita mentre si porta il lutto.
Silena guarda il mare e non riesce neanche a piangere, non riesce a far altro che udire il gemito che le lascia le labbra come se fosse qualcun altro ad emetterlo. Qualcuno che non è colpevole, che ha il diritto di piangere Charlie, qualcuno che…
Corre via prima che uno dei suoi compagni possa tentare di consolarla e si nasconde tra le fronde degli alberi, dove la voce compassionevole delle ninfe la culla in un sonno agitato dagli incubi in cui rivede Charlie vivo e lo rivede morto e lo rivede morire e sente la voce di Luke e quella di Crono mischiarsi e avvolgerlesi intorno come le spire di un serpente. Quando riapre gli occhi, è già calata la notte e gli studenti si sono riuniti per mangiare. Silena avanza tra i tavoli con la testa alta e la schiena ritta di chi non teme più nulla, di chi non ha più nulla da perdere.
- Devo confessare una cosa – afferma, di fronte a Chirone, a Percy ad Annabeth. A Clarisse.
Un brivido sembra percorrere l’intera adunata di studenti a quelle parole. Il cozzare di forchette e coltelli sui piatti e il tenue brusio che animava i tavoli si acquieta.
- Per Charlie – aggiunge con un mormorio, chinando il capo sulle venature del legno della tavola.
Per Charlie, sospira.
- Andiamo nella Casa Grande – afferma Chirone, posandole una mano sulla spalla e guidandola nell’ombra del sentiero, seguito dai capo cabina.
Per Charlie racconta ogni cosa, ogni colpa, ogni errore, ogni parola che ha detto a Luke, nel cuore della notte e del campo, ogni segreto che gli ha svelato, ogni parola e indizio che il ragazzo le ha rivelato.
 
 
 
Quando i semidei si riuniscono alle radici dell’Empire State Building, Clarisse stringe una mano di ferro intorno alla spalla di Silena.
Da qualche parte, il cielo è solcato dai figli di Apollo sul loro carro.(Il nostro ringhia Clarisse ogni volta che qualcuno grida estasiato: Guardate il carro dei figli d’Apollo!)
In un altro momento, la disputa che era sorta al Campo su chi fosse il vero, degno proprietario della biga, avrebbe portato Clarisse a disertare il campo di battaglia come una novella Achille, ma l’ira che la donna cova nei confronti di Crono e Luke dopo quello che hanno fatto a Silena è superiore anche al suo orgoglio.
- Potete usarlo durante la battagliaaveva concluso con un ringhio dopo innumerevoli liti e trattative con i ragazzi della Cabina Sette, sbattendo i pugni sul tavolo e facendo sobbalzare metà dei presenti. - È meglio che siate voi a condurlo e a usarlo per colpire le armate di Crono dall’alto. Almeno avremo delle nullità in meno di cui preoccuparci sul Campo – aveva sputato con astio la donna.
Will aveva sopito ogni protesta da parte dei suoi compagni di casa con un leggero cenno del capo e un sorriso sulle labbra sottili.
- Li faremo a pezzi – le promette solennemente la figlia di Ares, stringendole la spalla.
Silena le lancia un sorriso timido da sopra la spalla.
Odia la battaglia: il sangue le imbratta le vesti e i semidei che le cadono intorno come fuscelli e che le ricordano Charlie - Charlie che è morto e disperso in mare per colpa sua -, odia il fatto di non cadere con loro. Sua madre sostiene che amore e guerra siano le due facce di una stessa medaglia; qualcuno dei suoi fratelli sostiene che il rito di passaggio nella casa di Afrodite sia stato istituito per ricordare ai figli della dea che l’amore è una battaglia, che possono esservi feriti e morti ed è naturale che sia così. È giusto che sia così, le sembra di sentire la voce di Drew sussurrarle nell’orecchio.
Silena guarda i volti dei suoi compagni, dei mostri che si scagliano loro addosso in ondate continue e non vede amore da nessuna parte. Non ne vede neanche una traccia, neanche un’ombra.
Quando l’enorme drago le si scaglia davanti, Silena ha solo un istante – solo il tempo di un battito di ciglia e di cuore – per sentire un brivido percorrerle la schiena, prima che il mostro le sia addosso e i suoi artigli le lacerino la carne.
Ci sono cose da cui neanche un buon amico che ti guarda le spalle può salvarti. Uno di questi è il dolore di tua propria fattura, l’altro è il veleno sputato da un drago che ti schiaccia al suolo.
Quando Clarisse riesce a staccarle la bestia di dosso e a scagliarla a qualche metro di distanza, il volto di Silena è già divorato dal veleno bruciante. Negli occhi sbarrati dell’amica, la figlia di Afrodite legge la sua morte, ma la voce di Will Solace che le si getta a fianco, trafficando con fiale e unguenti che estrae freneticamente fuori dalla bisaccia che porta sulla spalla, la distrae.
- Andrà tutto bene – le dice il ragazzo.
Lei e Will non sono mai stati vicini, ma a Clarisse piace, Clarisse si fida di lui e il figlio di Apollo emana una tale sicurezza, mentre la guarda dall’alto, con il sole che gli si riflette sui capelli biondi, che quando il ragazzo le stringe la mano tra le sue e ripete: andrà tutto bene, Silena si ritrova annuire con gli occhi bagnati di lacrime. Le bruciano le ferite e non sa più se stia piangendo per il dolore, per Charlie o per la guerra
 
 
La guerra finisce, i morti si piangono e gli alleati del Campo Mezzosangue e degli dei ripartono per le loro terre, lasciando i semidei a gestire, soli, i loro morti e i loro onori. E le eventuali punizioni per aver disobbedito ai dodici grandi del pantheon.
I primi a sparire, trasportati dalla brezza che è rimasta come unico ricordo della marcia di Tifone, sono i Pegasi.
Quando Annabeth domanda a Percy come mai siano ripartiti con tale velocità, come se qualcuno avesse dato loro fuoco alla coda, senza neanche chiedere una carota o una mela per il viaggio, il ragazzo scuote il capo.
- Blackjack ha detto che doveva rispondere a una chiamata di un’amica – afferma.
 
 
***
 
 
Blackjack atterra con grazia davanti al portone dell’ospedale, facendo scattare l’allarme solo di quindici macchine e dell’ambulanza contro il cui tetto sbatte uno zoccolo nella discesa. Stupidi umani e il loro scandaloso modo di parcheggiare.
- Ciao, vecchio mio – lo saluta la donna.
È invecchiata dall’ultima volta che si sono visti – è una cosa che, ha notato, accade di frequente agli umani e ai semidei -: le rughe che le segnano il volto sono sempre più profonde e i capelli le ricadono in ciocche bianche intorno al viso ovale, ma gli occhi grigi sono vispi e divertiti come l’ultima volta che l’ha portata a volare lungo la costa del Sud America. All’epoca la donna non aveva ancora difficoltà a camminare o a salirgli in groppa e la sua risata estasiata si era mischiata al fischiare del vento contro le sue orecchie.
Un’altra cosa che ha notato accadere di frequente è che i semidei sono soliti non raggiungere la maggiore età o la maturità. Alcuni tra satiri e ninfe hanno passato secoli a fare studi statistici per confermare la loro tesi e dimostrare che è vero, i figli degli dei hanno il vizio di morire giovani, ma ci sono eccezioni a questa regola. Ci sono figli di divinità minori, così prive di potere o importanza, che persino i mostri considerano disonorevole combatterli e ucciderli.
Non si è mai vista una gorgone affermare di aver ucciso un figlio di Ebe senza venir sbeffeggiata dalle sorelle perché tanto valeva dare la caccia a un pesce rosso, no? Perché non iniziare ad uccidere anche i vermi, visto che ci sei?
Ci sono, dunque, figlie di Ebe sparse per il mondo. Le puoi trovare, con i loro volti giovanili, tra le corsie degli ospedali, mentre trattano le ferite dei malati, come la madre ha fatto millenni prima con quelle di Diomede, o mentre ne lavano le piaghe, alleviando il dolore come Ebe fece per suo fratello. Ci sono figli di Geras, seduti, silenziosi, sulle panchine dei parchi, intenti ad osservare il tempo che scorre e a criticare i coetanei.
A volte le figlie di Ebe (- Non si chiamava Ebe, quel giorno, BlackJack lo sai anche tu –) si ritrovano anche a giocare un ruolo nella grande storia del mondo. A volte, finiscono con il salvare gli eroi che i Fati scagliano sul loro cammino.
 
 
 
Il ragazzo vede cavalli volanti atterrare nel parcheggio dell’ospedale in cui si trova da settimane e crede che sia un sogno, come quelli della donna che cambia ogni notte volto e rimane sempre la stessa. E come quelli crede che non sia solo un sogno.
Chiude gli occhi e se li strofina con i palmi delle mani, quando li riapre non c’è più nessun animale mitologico a scorazzare tra le macchine. Tira un sospiro di sollievo e non capisce perché senta quella morsa gelata in fondo al petto, come se avesse perso un’occasione, come se…
La porta si apre e la sua infermiera entra, con un sorriso profondo come una delle rughe che le ricoprono il volto incartapecorito.
- Degli amici sono venuti a trovarti, nene – annuncia, con lo stesso tono con cui era solita iniziare uno dei suoi racconti.
È seduto sul letto, con le gambe distese. La rieducazione prosegue al meglio, dicono i medici, ma i progressi sono lenti a venire: certi giorni trova impossibile anche solo alzarsi in piedi, altre volte trova insopportabile il giacere disteso, chiuso in quella stanza che sembra essere diventata tutto il suo mondo. In cui non ha altro da fare oltre a chiedersi da cos’altro fosse composto il suo universo prima del suo arrivo in quell’ospedale, prima che i suoi ricordi sparissero nel bianco di quella stanza.  
Alle spalle della donna spunta il muso di uno dei cavalli alati che il ragazzo ha visto atterrare. L’animale avanza, al passo, verso il suo letto e il giovane rimane paralizzato dal terrore, dalla sorpresa, dal…
È impossibile.
 
 
Ogni volta che chiude gli occhi, vede il volto di una donna: certe volte lei sembra guardarlo e sorridergli, a volte è di profilo e guarda davanti a sé o è china ad annusare dei fiori o ad ammirare le decorazioni di una conchiglia, con le gote arrossate. Neanche una volta, Charlie ricorda il suo nome.
 
 
Il cavallo avanza e non parla, perché gli animali non parlano e non dovrebbero neanche volare e il ragazzo pensa che dovrebbe essere terrorizzato, che nulla di tutto ciò dovrebbe esistere e che sta impazzendo, che…
- È venuto a riportarti a casa – annuncia la donna.
È rimasta sulla soglia e lo guarda con quel sorriso che le piega le labbra ogni volta che, nei suoi racconti, giunge a narrare il colpo di scena. Quel sorriso che le piega le labbra quando sa che sta per accadere qualcosa che sconvolgerà ogni cosa e di cui solo lei è a conoscenza.
- È giunto il momento – conclude.
Il cavallo non parla, si limita a guardarlo e a scuotere il muso
Il ragazzo pensa che è una follia, che è impazzito, che…

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Capitolo 3
*** Il mio intero ***


Note: 
- Questo capitolo partecipa alla M2 della terza settimana del COWT di Lande di Fandom. Prompt: Era una fresca limpida giornata d’aprile e gli orologi segnavano l’una. (George Orwell, 1984)
- Niente beta, quindi tutti gli errori sono miei. \o/



 
Il mio intero è –
 
- Charlie! –
Una ragazza dai corti capelli neri e gli occhi spalancati dalla sorpresa grida, quando il cavallo – pegaso, l’ha chiamato l’infermiera dando leggere pacche sul collo dell’equino, non dargli del cavallo o potrebbe abbandonarti nell’oceano. È un animale permaloso  – atterra con aria tronfia al suolo e Charlie vorrebbe continuare a guardarla perché è la ragazza più bella che abbia mai visto nonostante la cicatrice che le segna metà del volto, ma gli viene da vomitare. Non è stato fatto per volare.
 
 
- Charlie – mormora di nuovo la ragazza e ha la voce piena di acqua e Charlie – è questo il suo nome? – è chino su sé stesso con la gola piena di bile e il corpo ancora scosso da singulti acri.
Le dita della ragazza indugiano a pochi centimetri dalla sua pelle, Charlie ne sente il calore e l’aria che li separa, come se non fosse certa di poterlo toccare, di essere autorizzata a stringergli le braccia intorno al corpo e sparire contro la sua pelle.
Intorno a loro si è fatto il silenzio: il Campo sembra essersi fermato, paralizzato nel tempo e nell’attesa di un verdetto: è davvero Charlie? E come può essere vivo? E cosa devono fare? Schiere intere di ragazzi sono fermi, come in un cerchio immaginario, con ancora in mano le spade e gli archi con cui si stavano allenando, le pinze con cui stavano lavorando il ferro nell’armeria.
- Beckendorf! –
La voce autoritaria e aspra di Clarisse spezza il silenzio.
- Dove diavolo sei stato? –
Ogni domanda sembra quasi un ordine, quando emessa dalle labbra della figlia di Ares. E sembra violenta come la manata che la ragazza fa calare sulla spalla di Charlie che annaspa e ondeggia sotto la forza dell’impatto.
- Clarisse – interviene Will Solace, posandole delicatamente una mano sul braccio.
Il Campo intero sembra essere stato svegliate dalle parole di Clarisse e ora lo spazio è pieno del mormorio sommesso di centinaia di voci che si guardano e chiedono spiegazioni e ipotizzano teorie strampalate per spiegare quel miracolo. Per giustificare quel ritorno come se non fossero tutti figli di un mito.
- Lascia che io gli dia uno sguardo prima di malmenarlo – afferma, indicando con lo sguardo l’incertezza con cui Charlie sembra muoversi e stare in piedi, il sudore che gli imperla la fronte e il tremore che gli scuote le braccia.
Se fosse stato chiunque altro a mormorare quelle parole, sarebbe finita in una rissa, ma è Will e Clarisse si limita a guardarlo con severità, annuire bruscamente e allontanarsi con gli stessi passi violenti e decisi con cui si era avvicinata.
 
 
 
- Dice di essere stato trovato su una spiaggia e di essere stato per tutto questo tempo in un ospedale in Perù, fino a quando BlackJack non è andato a prenderlo – spiega Will a Silena, Percy, Annabeth e Clarisse.
- Sembra che la sua infermiera fosse una semidea e conoscesse BlackJack. Non ricorda nulla prima del giorno in cui si è svegliato nell’ospedale e non so se recupererà mai la memoria – mormora. – Mi dispiace – aggiunge, rivolgendosi a Silena.
La ragazza scuote il capo e serra i denti per trattenere le lacrime che le riempiono gli occhi.
- Non importa – dice. – Forse è meglio così – aggiunge sottovoce.
 
 
 
Gli abitanti del CampoMezzosangue sono abituati alle stranezze e il ritorno di Charles Beckendorf non è certo l’evento più incredibile che sia mai accaduto - Percy Jackson è molto fiero del fatto che il suo arrivo sia ancora considerato tra le tre cose più sconcertanti mai avvenute. La vita riprende rapidamente come prima di quel pomeriggio in cui BlackJack è atterrato portando con sé quella spoglia di guerra.
Charlie impara le lettere del suo nome, il modo in cui si arrotolano sulla sua lingua, quando le prova come un abito nuovo e di cui è ancora incerto, e quello in cui gli scivolano nell’orecchio quando sono altri a pronunciarle. Impara a ricordarsi di rispondere.
Continua la sua riabilitazione con Will, continua a cercare di recuperare i fili di quell’universo che esisteva prima della caduta, guidato dai racconti dei suoi compagni di casa, e continua a cercare il volto della ragazza che vede ogni notte, quando chiude gli occhi.
 
 
 
- Non esiste più – gli annuncia una mattina un ragazzo.
Clovis, gli sembra che si chiami.  
Non è grasso, ma c’è qualcosa in lui, una morbidezza nei suoi tratti, che fa sembrare tondo tutto quello che gli sta intorno. Compresa la già tonda ciambella che stringe tra le dita.
- Cosa? – alita Charlie.
Ha un’incudine in mano e cerca di costringere le sue dita a stringersi, stringersi, stringersi, abbastanza da avere una presa salda, da poterla usare.
- La ragazza che vedi nei tuoi sogni – risponde, tra un boccone e l’altro. – Tu eri morto e lei ci aveva traditi – scuote le spalle con scarsa convinzione. – Sono cose che ti cambiano, se sei sveglio. -
- Ma forse – aggiunge sovrappensiero.
Charlie sente per la prima volta lo sguardo del ragazzo addosso ed è così strano sentirsi improvvisamente guardati e visti da qualcuno che ti sta parlando già da diversi minuti e pensare: è questo il momento in cui si è svegliato.
- È meglio così perché anche tu sei cambiato – conclude e nonostante la voce del ragazzo si soffermi sul tu, Charlie non la sente come un’accusa – non è neanche certo che il ragazzo sia abbastanza sveglio per accusare qualcuno ché ci vuole energia per farlo -, ma solo come una mera constatazione.
È cambiata. Sei cambiato.
Il ragazzo si è voltato per andarsene con passi incerti e gambe pesanti di sonno, quando Charlie gli posa una mano sul braccio per fermarlo.
- Sai chi è? – domanda, quando gli occhi opachi del ragazzo gli si posano addosso.
Clovis inclina leggermente il capo di lato e Charlie è quasi certo che sarebbe sorpreso, se solo non fosse di nuovo così stanco.
- Lo sai anche tu – afferma. – Lo so perché l’ho visto nei tuoi sogni. –
 
 
 
Vede un volto di donna, quando sogna (- Troppo forte – pensa Clovis ogni volta che inciampa nei sogni di Charlie). Nel suo inconscio la ragazza cambia aspetto ogni volta e non ha mai il volto segnato da una cicatrice di quel che resta della pelle bruciata dal veleno di un drago e che si estende dal bordo esterno del sopracciglio e scende giù, giù, giù fino all’angolo della bocca e all’ala del naso, ma, Clovis gli ha detto: sai chi è. Charlie pensa che l’ha sempre saputo, che non importa il volto che indossa, ogni volta che i suoi occhi si posano su di lei, sente lo stesso calore che emanava da quelle dita che non avevano osato posarsi sulla sua spalla, lo stesso calore che prova ogni volta che guarda la vecchia Capo Cabina di Afrodite, la ragazza che aveva rinunciato al suo incarico perché non si sentiva più degna di guidare nessuno.
Lo sai, sente la voce di Clovis, quando la incontra in una fresca e limpida giornata di aprile e da qualche parte nel mondo gli orologi battono l’una.
- Silena – la chiama e non si stupisce di come le lettere che compongono il suo nome scivolino sulla sua lingua con una familiarità che le sillabe di Charlie non avranno mai.
La schiena della ragazza si ferma come paralizzata da un incantesimo e quando volta il capo a guardarlo, i suoi occhi sembrano fatti della stessa sostanza dell’incertezza, della vergogna, della –
Il ragazzo si passa una sulla nuca – ancora gli tremano le dita e non riesce mai a stringerle, stringerle, stringerle, abbastanza intorno all’incudine. Gli occhi di Silena seguono ogni suo movimento e c’è uno strano dolore nel riconoscere ogni gesto e la nuova fragilità delle membra di Charlie.
- Will mi ha detto che faranno dei fuochi d’artificio e volevo sapere se… - si ferma, inala dal naso, esala un sospiro imbarazzato. – Volevi venire a vederli con me – sputa tutto d’un fiato.
Silena sa che dovrebbe dire di no, che Charlie merita di meglio di lei, del suo volto distrutto e del suo tradimento che gli è quasi costato la vita, che forse gli è costato tutto quello che lo rendeva un figlio di Efesto, ma è Charlie ed è vivo ed è tutto così simile a quella volta e si ritrova ad annuire convulsivamente prima di potersi fermare.
Le lacrime le bruciano la pelle, quando scivolano lungo la guancia distrutta dal veleno del drago e quasi rischia di perdere il sorriso splendente che illumina il volto di Charlie.
 
 
Forse è meglio così.

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