L'ultima Battaglia di Ayr (/viewuser.php?uid=698095)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dancing with the Moonlight Knight ***
Capitolo 2: *** A reason to fight ***
Capitolo 3: *** Bittersweet Memories ***
Capitolo 4: *** Lucian Silverclaw ***
Capitolo 5: *** The last fight ***
Capitolo 1 *** Dancing with the Moonlight Knight ***
I
Dancing
with the Moonlight Knight
I've
gotta fight today
To live
another day
It's just
another kill
The countdown
begins to destroy ourselves
"Cittadini
di Speranza e Gloria, vi diamo un caloroso benvenuto all'incontro che
deciderà
chi sarà degno di accedere alla semi finale del Torneo delle
Due Ere, indetto
dal magnanimo re Eldor per celebrare l'avvento della nuova era.
È il momento
migliore della vostra vita: dopo sangue e guerre è
subentrata un'era di pace e prosperità,
in cui la tecnologia ha reso migliore la vita di tutti!
Benvenuti
nella nuova era!"
Duncan
riservò alle parole gracchiate attraverso i megafoni il
tempo necessario per
maledire tra i denti questa fantomatica nuova era che, per quanto lo
riguardava,
si presentava esattamente come quelle che l'avevano preceduta: piena di
vuote
promesse e merda. I ricchi potevano avere il lusso di inneggiare alle
magnifiche sorti e progressive che avevano permesso l'avvento di
aeronavi,
treni e armi da fuoco, mentre i poveri versavano sangue e sudore per
strappare
con le unghie e con i denti un giorno di vita in più alla
morte.
Fino
a quel momento Duncan era riuscito a tenere testa alla Nera Signora:
una di
quelle infernali macchine volanti gli aveva portato via una gamba,
rischiando
di farlo morire dissanguato sui campi di battaglia del Westeron, ma
erano
riusciti a fermare l'emorragia in tempo e la gamba era stata sostituita
da un
congegno di metallo che gli permetteva di camminare, correre per brevi
distanze
e perfino di saltare. Duncan si era domandato spesse volte come
funzionasse
quell'ammasso di ferraglia legato al resto di lui con una cinghia di
cuoio, ma
nessuno era riuscito a farglielo capire e alla fine aveva concluso che
l'importante era che facesse il suo dovere senza intoppi.
Era
una persona estremamente pratica e realista, che non si faceva
illusioni sul
futuro e badava a sopravvivere nel presente; viveva alla giornata e
cercava di
trarre quanto più profitto possibile da qualsiasi occasione
gli si presentasse.
Caratteristiche che gli avevano permesso di arrivare fino a
lì tutto intero, o
quasi: Cavaliere dell'Ordine dell'Aquila Rossa caduto in disgrazia dopo
la
Guerra delle Due Ere, si era guadagnato il pane vendendo la propria
abilità con
la spada a chiunque ne avesse avuto bisogno e potesse permettersi di
pagarla. Con
il tempo aveva affiancato alla sua attività di mercenario
quella di gladiatore,
in combattimenti tanto legali quanto, la maggior parte delle volte,
illegali,
guadagnandosi il nome di Duncan Cavaliere della Luna. Solitamente si
trattava
di incontri al primo sangue, che lasciavano come ricordo solo qualche
graffio, ma
a volte poteva trattarsi di scontri mortali, come in quel caso.
Il
compenso per il vincitore era stato troppo allettante per fare lo
schizzinoso e
rifiutarsi di partecipare, e per quanto detestasse dare spettacolo di
sé per il
divertimento di quei topi di fogna che si fregiavano del titolo di
baroni e
conti, non si era pentito della sua scelta: fino a quel momento aveva
guadagnato svariati tagli e cicatrici, cinquanta grifoni d'oro e il
favore di
diverse dame che non perdevano occasione per ricoprirlo di omaggi e
promesse.
Alcune
di loro, al suo ingresso, avevano gettato narcisi e rose che Duncan si
era
premurato di raccogliere, per poi offrirne una alla dama più
bella che si
trovava più vicino a lui. Quest'ultima era arrossita e aveva
accettato la rosa
con un timido sorriso, il Cavaliere aveva sorriso a sua volta: il suo
fascino
aveva mietuto una nuova vittima.
Nonostante
la bassa statura, aveva una corporatura armoniosa, robusta ma non
tozza, a
differenza di molti altri della sua razza; i lunghi capelli castano
scuro,
striati di grigio,incorniciavano come una criniera il volto dai tratti
duri e
severi, ombreggiati da una corta barba scura. Sotto due folte
sopracciglia,
brillavano due occhi castani, magnetici e irresistibili. Duncan era ben
consapevole
di possedere un aspetto selvaggio e intrigante, che assieme al suo
atteggiamento
galante e cavalleresco, mandava in visibilio le nobili dame, e ne
approfittava.
Erano queste ultime, infatti, che fornivano armi e armature ai loro
beniamini, pagavano
loro l'alloggio e l'eventuale trasporto, e non era raro che truccassero
gli
incontri per far sì che fosse il loro preferito a vincere;
era anche grazie a
loro se in questo momento il Cavaliere si trovava ad affrontare
l'energumeno
che davanti a lui roteava la scimitarra, latrando come un ossesso.
Si
concesse qualche secondo per esaminarlo: si trattava di uno di quei
tipici
idioti con più muscoli che cervello, era alto il doppio di
lui e altrettanto
largo, la scimitarra era lunga quanto Duncan e incrostata di sangue
rappreso;
probabilmente stava pensando che sarebbe stato semplicissimo fare fuori
un
essere piccolo,insignificante e con una gamba di metallo.
Duncan
sorrise di nuovo, la bassa statura e la menomazione si erano rivelate
più volte
un vantaggio: quasi tutti i suoi avversari avevano fatto l'errore di
sottovalutarlo, ritrovandosi poi con un cubito di terra sopra di loro.
Il
gong suonò, accolto dal boato della folla: lo scontro era
iniziato.
Il
gorilla ringhiò e caricò, come Duncan aveva
previsto, il gigante avrebbe sfruttato
la sua stazza e la sua potenza con attacchi caricati e affondi
poderosi, lui
avrebbe cercato di sfiancarlo schivando i suoi assalti grazie alla sua
velocità
e agilità, nettamente superiori.
Si
spostò di lato e la lama dell'avversario fendette l'aria in
un gemito
raccapricciante, già quel primo tentativo l'aveva
destabilizzato e impiegò
qualche secondo per ritrovare l'equilibrio; lanciò uno
sguardo di fuoco a
Duncan, emettendo un verso gutturale più vicino a quello di
una bestia che di
un uomo. Un nuovo attacco sibilò nell'aria a pochi
centimetri dalla testa di Duncan,
ma il nano scartò abilmente, evitando di venire tranciato a
metà come un quarto
di bue al mercato.
Il
gorilla, visibilmente contrariato, sollevò la lama sopra la
testa e preparò un
nuovo assalto, ma il nano, per l'ennesima volta, lo schivò
con un fluido
spostamento laterale.
Ogni
assalto del gigante veniva vanificato da un movimento repentino di
Duncan che
pareva danzare attorno all'energumeno, senza che la lama l'avesse
sfiorato una
sola volta: era uno spettacolo che poteva risultare gradito per i primi
minuti
ma ben presto il pubblico iniziò a rumoreggiare, annoiato.
«Ho
pagato il biglietto per vedere un combattimento, non la danza della
festa del
raccolto!» urlò qualcuno dalle tribune.
«Sembra
una di quelle vergini che la prima sera d'estate ballano attorno al
falò»
ridacchiò un altro.
«Smettila
di piroettare nanetto, non è una gara di ballo!
Attacca!» rincarò un terzo, ma
il Cavaliere non diede loro retta: aveva la sua strategia e l'avrebbe
seguita
fino in fondo.
Gli
attacchi del suo avversario avevano già perso la loro forza
ed erano divenuti
più lenti e impacciati, l'energumeno ansimava e goccioline
di sudore
scivolavano lungo la fronte e le tempie: portarsi appresso il peso di
tutti
quei muscoli per l'arena l'aveva stancato, i suoi riflessi sarebbero
stati
rallentati.
Un
nuovo tentativo dell'altro, quasi totalmente privo di forza e
ovviamente finito
a vuoto, fece intendere al nano che era giunto il momento di mettere
fine al
combattimento.
Duncan
estrasse la sua lama: era una spada di acciaio ripiegato, a una mano e
mezza;
la guardia d'argento, dalla fattura pregiata e raffinata, opera di
elfi, era decorata
con pietre di luna e granati color sangue e aveva un pomo a forma di
giglio. Aisinril
era il suo nome, "fiore sbocciato alla luce della luna"; era una
spada che univa la resistenza del migliore acciaio nanico alle forme
eleganti e
ricercate dei più abili maestri armaioli elfici, un'arma
degna di un Cavaliere
dell'Aquila Rossa.
«Finalmente!»
esultò la folla, impaziente di godersi lo spargimento di
sangue.
Il
gorilla provò ad attaccare per l'ennesima volta, ma il nano
gli sfuggì di
nuovo, agile e veloce. Mentre schivava il colpo, con un rapido
movimento della
spada recise i legamenti del ginocchio dell'energumeno che si
accartocciò su se
stesso, lanciando un urlo di sorpresa e dolore.
Lo
sfidante cadde in ginocchio, non potendo più reggersi: ora
la sua gola era
all'altezza della lama di Duncan.
Il
gigante, però, accecato dal dolore e dalla rabbia,
cercò di menare un ultimo,
disperato fendente: un attacco alla cieca, come quello di una fiera
ferita, e
come tale molto pericoloso e troppo imprevedibile. Duncan venne colto
alla
sprovvista, cercò di schivarlo ma la lama della scimitarra
gli aprì uno
squarcio cremisi sul braccio, lacerando la giubba di cuoio bollito e la
maglia
sottostante; un dolore bruciante si irradiò dalla spalla
come le fiamme di un
incendio, facendo digrignare i denti al nano.
Duncan
imprecò: non si aspettava che il gorilla colpisse ancora,
aveva dato per
scontato che sarebbe rimasto troppo sconvolto dal dolore repentino per
rispondere.
«Stupido
vecchio nano» mormorò tra i denti
«È il momento di dare il colpo di grazia a
questo scimmione prima che lo faccia lui.»
Non
aveva alcuna intenzione di farsi infilzare da una montagna di muscoli
ringhiante, così, con un unico ed elegante movimento della
mano, recise la gola
dell'altro, in uno spruzzo vermiglio.
L'energumeno
strabuzzò gli occhi e si afferrò la gola,
cercando di fermare l'emorragia, la
sua scimitarra cadde nella sabbia, dimenticata. La folla trattenne il
respiro e
un silenzio di tomba calò sull'arena.
Con
un gemito straziante si afflosciò, sollevando una nuvola di
polvere, la sabbia
dell'arena si tinse di rosso. Il corpo dell'avversario fu scosso dagli
ultimi
spasmi prima di giacere completamente immobile.
"Duncan,
il Cavaliere della Luna, vince l'incontro e si qualifica per il turno
successivo" annunciò una voce metallica dagli altoparlanti,
spezzando la
cappa di silenzio che era calata sull'arena.
Un
boato esplose dalle tribune, le dame lanciarono fiori e fazzoletti
dagli spalti,
Duncan, con un enorme sforzo, rivolse loro un sorriso radioso e
raccolse
qualche rosa e un fazzoletto, con cui si tamponò la ferita:
non voleva perdere
il favore del pubblico, non ora che si trovava ad un passo dallo
scontro
decisivo.
Gli
altoparlanti continuavano a gracchiare: "Dopo aver battuto il temibile
Kalavar, l'Immenso, campione dei regni barbari del sud, tra due giorni
disputerà lo scontro che gli permetterà di
accedere in semifinale, affrontando
il letale Assassino Bianco... "
Il
nano strinse i denti e diede un'occhiata allo squarcio sul braccio: non
sembrava troppo profondo, fortunatamente, ma bruciava come l'inferno:
quel
bastardo era riuscito a fare un bel lavoretto,
dopotutto;gettò un ultimo
sguardo a ciò che rimaneva di Kalavar l'Immenso e
imprecò di nuovo.
"Non perdetevi l'incontro,
signori, se volete ancora vedere danzare il Cavaliere della Luna".
Con
passo claudicante il Cavaliere della Luna si allontanò
dall'arena.
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Capitolo 2 *** A reason to fight ***
II
A reason
to fight
I’ve
got a reason to fight
Every
day we choose
We
might win or lose
This
is the dangerous life
«I
miei complimenti!»
Duncan
non si sprecò nemmeno ad alzare lo sguardo dal suo boccale
di birra, conosceva
perfettamente quella fastidiosa vocina melliflua e non aveva alcuna
intenzione
di incrociare lo sguardo del suo possessore.
«Sei
a un passo dalla finale» continuò quest'ultimo,
imperterrito «Il modo in cui
sei riuscito a battere l'Assassino Bianco è stato davvero
magistrale.»
Duncan
aveva un vago ricordo del famigerato Assassino Bianco: un arrogante
pallido e
biondo che estraeva pugnali dalla palandrana scura e li lanciava a
velocità
impressionante; purtroppo non era stato abbastanza veloce per deviare
il
fendente che gli aveva staccato la testa dal collo, con grande
entusiasmo del
pubblico.
«E
tu sei a un passo dall'avere i tuoi soldi» rispose il nano in
tono aspro.
«Suvvia,
perché queste maniere così brusche?»
L'uomo
che sedette davanti a Duncan era alto e ben vestito: indossava
un'elegante
giacca di velluto bordeaux con code, rifiniture di seta nera e bottoni
dorati,
abbinata ad un panciotto di seta nera da cui proveniva il lieve
scintillio
dorato di una catena di orologio;il cappello a cilindro e un bastone da
passeggio dal pomolo in ottone potevano far pensare che si trattasse di
un
ricco e raffinato borghese, ma Loyd lo Sciacallo era tutto
fuorché un raffinato
borghese.
Nessuno
avrebbe potuto sospettare che quell'uomo magrolino, dall'aria distinta,
lo
sguardo mite e i capelli candidi, fosse in realtà il
peggiore usuraio di tutta
Westlebrook, il più meschino e spietato, che aveva fondato
il suo ingente
patrimonio sulla disperazione altrui e la speculazione disonesta.
Come
sempre era accompagnato da due scimmioni armati di schioppo, che si
posizionarono ai lati della sedia su cui Loyd prese posto; l'uomo
appoggiò il
bastone al tavolo e ordinò alla cameriera che gli passava
accanto un bicchiere
di whisky.
«Non
annacquato, per favore. L'unico posto dove tollero l'acqua è
il bagno» ci tenne
a precisare, prima di tornare a puntare i suoi piccoli occhi di un
azzurro
slavato su Duncan.
«Forse
perché sono indebitato con te di almeno ventimila grifoni
d'oro e non perdi
occasione per ricordarmelo» riprese il discorso il nano.
Le
labbra sottili di Loyd si piegarono in un sorriso sgradevole, creando
una
ragnatela di rughe sul viso pallido, rasato di fresco.
«In
realtà, il debito è salito a ventimila grifoni e
duecento... Per gli interessi,
sai» lo corresse con noncuranza.
Duncan
si trattenne dallo strozzarlo con il fazzoletto di seta che gli
avvolgeva il
collo: prima di potersi anche solo avvicinarsi all'usuraio si sarebbe
trovato
un proiettile piantato in fronte. Così il nano si
limitò a digrignare i denti
sotto lo sguardo divertito dell'altro.
Loyd
sapeva che il suo lavoro poteva, la maggior parte delle volte,
risultare
pericoloso e sgradito, per questo si era munito di quei due scimmioni
che aveva
l'ardire di chiamare "guardie del corpo"; non tutte le persone con
cui aveva il piacere di trattare erano ragionevoli e calmi, anzi, per
la stragrande
maggioranza si trattava di teste calde imbottite di alcol e
disperazione, con
una spiacevole tendenza a prendere in mano più velocemente
il coltello del
portafogli.
«Non
c'è alcuna necessità di essere così
scontroso nei miei confronti. In fondo io
non c'entro nulla: tu sei venuto a
cercarmi, è stata una tua
scelta.
L'unica persona che puoi biasimare e con cui prendertela è
te stesso» gli
ricordò Loyd, prendendo un sorso del suo whisky.
Duncan
si trovò costretto ad ammettere che aveva maledettamente
ragione.
Più
volte si era domandato cosa lo avesse spinto a rivolgersi proprio a
lui: la
disperazione, probabilmente, e la totale mancanza di un appiglio. Dopo
essere
fuggito dai campi del Westeron, Duncan si era ritrovato privato del
titolo di
Cavaliere e di tutti i privilegi annessi a esso, era diventato un
comune
soldato, povero, mutilato, in fuga e con una taglia sulla propria
testa. Loyd
era stato il primo relitto capace di farlo galleggiare che si era
trovato
davanti, e per non affogare si era aggrappato a lui con tutte le sue
forze.
E
ora lo Sciacallo chiedeva di essere pagato per averlo salvato.
Duncan
aveva creduto che non sarebbe stato un problema restituire i soldi
presi in
prestito, ma a quei primi cinquemila grifoni, necessari per poter
ricominciare,
se n'erano aggiunti sempre di più, i debiti si erano
accumulati e assommati,
mentre gli interessi erano saliti alle stelle, fino ad arrivare a dover
restituire a Loyd più del doppio di quanto gli avesse
prestato. All'inizio
l'usuraio credeva che Duncan l'avrebbe pagato presto e senza problemi,
sapeva
che era un uomo d'onore e di parola; ma quando dopo mesi non era
arrivato
ancora nulla, aveva aspettato fino a quando non si era sistemato,
dopodiché si
era premurato di ricordare al suo debitore a quanto ammontasse il
favore che
gli doveva e grazie al quale possedeva una casa confortevole e tutto
ciò di cui
aveva bisogno per vivere decentemente.
Purtroppo
Duncan non era ancora riuscito a racimolare la cifra necessaria e aveva
chiesto
a Loyd più tempo, l'usurario gliel'aveva concesso e il nano,
lentamente e a
fatica, aveva iniziato a estinguere il suo debito: circa tre quarti di
quello
che guadagnava con il suo lavoro di mercenario e gladiatore finiva
nelle casse
dello Sciacallo, lasciando a Duncan e alla sua compagna lo stretto
indispensabile per non morire di fame.
Il
debito, però, si era ingrossato sempre di più:
più veniva trascinato negli
anni, più gli interessi crescevano, creando un circolo
vizioso da cui Duncan
non sarebbe mai riuscito a uscire; Loyd era un osso duro che non
mollava
facilmente la presa e aveva continuato a pretendere che quei soldi gli
venissero restituiti, fino all'ultimo cacio di rame.
«Mi
sembrava di essere stato abbastanza chiaro allora: do
ut des, io ho aiutato te e ora tu ripaghi me per l'aiuto che
tu
mi hai chiesto» gli ricordò per l'ennesima volta
Loyd.
E me ne pento
ogni singolo giorno della mia vita pensò
Duncan, guardando in tralice
l'usuraio, che si era messo comodo sulla sedia sgangherata, una mano a
reggere
il bicchiere di peltro e l'altra a giocherellare con un bottone della
giacca,
con un sorriso sornione che si allargava sulle labbra, consapevole di
avere il
nano in pugno.
«Vorrei
ricordarti che non c'è solo la tua vita in gioco»
continuò, infatti, l'usuraio
dopo qualche momento di silenzio, bevendo l'ultimo goccio di whisky.
Loyd
era totalmente privo di scrupoli e morale: per far sì che
Duncan restituisse i
soldi che gli doveva, con annessi interessi, era stato capace di
arrivare a
rapire Selene e ricattare il nano, per dargli un "incentivo", come
diceva lui. L'incentivo lo aveva spinto a partecipare al torneo:
ventimila
grifoni erano un premio spropositato, ma era quanto serviva a Duncan
per
saldare, finalmente, il conto che aveva con lo Sciacallo e liberare
Selene.
«Se
hai osato torcerle anche solo un capello, giuro che ti stacco le mani e
te le
faccio ingoiare!» si accese Duncan, balzando in piedi; i due
energumeni misero
subito mano agli schioppi.
«Non
mi sembri nella posizione per potermi minacciare» rispose
pacatamente l'uomo,
facendo cenno agli scimmioni di abbassare le armi «Selene sta
bene ed è al
sicuro, e vi rimarrà fino alla fine del torneo, quando
verrai da me con la
somma pattuita. In contanti sonanti, mi raccomando... Altrimenti, sai
perfettamente cosa ne farò di lei» aggiunse in
tono lugubre.
Il
nano si risedette, mordendosi le labbra fino a farle sanguinare: se
Duncan non
avesse restituito in tempo il denaro, Selene sarebbe stata venduta come
schiava.
Duncan
non poteva sopportarlo: Selene era la sua unica figlia e l'unica
persona cara
che gli fosse rimasta dopo la morte di Althea. Avrebbe fatto qualsiasi
cosa pur
di sottrarla alle grinfie di quell'uomo avido e infido, persino
lasciarsi
coinvolgere in quell'assurdo bagno di sangue che avevano l'ardire di
chiamare
spettacolo, un ricettacolo di criminali e disperati che pur di ottenere
quei
ventimila grifoni erano disposti a mettere in gioco la propria vita.
Ma
a Duncan non era importato quando si era iscritto, ciò che
aveva contato
davvero per lui era che il torneo si era presentato come una
possibilità per
salvare Selene, impossibile e mortale, ma l'unica fino a quel momento,
e lui
l'aveva afferrata senza pensarci troppo.
L'aver
vinto gli incontri gli aveva acceso la speranza che non fosse
un'impresa così
irrealizzabile come aveva pensato all'inizio, forse sarebbe riuscito ad
arrivare alla finale e a guadagnare quei dannati ventimila grifoni.
«Avrai
i tuoi soldi, Loyd, e tu dovrai mantenere la parola: non appena avrai
in mano i
tuoi grifoni me la restituirai, e spera che non le sia successo nulla
nel
frattempo» sibilò il nano con tono deciso e
minaccioso.
«Quando
mai ho mancato alla mia parola?» rispose Loyd con il suo
solito sorriso
enigmatico.
L'usuraio
cercò di racimolare le ultime gocce di whisky dal fondo del
bicchiere e non
riuscendoci sbuffò, gettò un paio di caci
sbeccati sul tavolo e si alzò.
«Buona
fortuna per il prossimo incontro, Cavaliere della Luna» lo
salutò lo Sciacallo
recuperando il bastone «E ricordati per chi stai
combattendo.»
La
bocca di Duncan si piegò in un sorriso amaro: nessuno si
sarebbe spinto a quel
suicidio senza motivo, più o meno tutti i partecipanti ne
avevano uno; per lui
era Selene: era sceso in campo per lei, era lei che lo faceva sentire
invincibile,un terremoto, potente come un maremoto, era lei che lo
rendeva
forte e lo faceva resistere. Ogni volta che era caduto nella polvere
dell'arena, il pensiero di lei l'aveva fatto alzare e continuare a
lottare.
Era
lei la ragione per cui combatteva.
Ho una
ragione per lottare/ ogni giorno che scegliamo/ potremmo vincere o
perdere /questa
è la vita pericolosa (Skillet, Feel invincible)
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Capitolo 3 *** Bittersweet Memories ***
III
Bittersweet
memories
Soffriamo
di ricordi,
ricordi dimenticati,
che non ci dimenticano.
Nella
soffusa luce crepuscolare una figura minuta si stagliò
contro le enormi
sporgenze di basalto che si irradiavano dall'altopiano su cui sorgeva
la Rocca.
Si
trattava di un cavaliere solitario, piuttosto basso, avvolto in una
cappa
sdrucita marrone, piegato su un pony dal mantello dello stesso color
caffè.
Mentre il cavallo aveva il muso piegato verso terra, alla ricerca di
qualche
erba o cespuglio commestibile in mezzo al fango e ai ciottoli, il
cavaliere
guardava gli artigli di roccia che affioravano dalla piana polverosa e
sterile,
pronti a ghermire qualsiasi incauto viandante si fosse spinto fino ai
recessi
di Daramia, la Rocca Grigia, che dominava sulla piana di Westeron.
Il
cavaliere socchiuse gli occhi per cercare di distinguere il castello
dall'ammasso roccioso che lo circondava e lo proteggeva: per secoli
quegli
affioramenti erano stati la sua difesa, rendendolo inespugnabile.
Ma
ormai nessuno più abitava la Rocca: da quando la
guerra,bruciando la
vegetazione e facendo fuggire le creature che la abitavano, aveva reso
quella
piana, una volta verde e fertile, morta e desolata,e togliendole
qualsiasi
possibilità di rinascita.
Il
grande lago da cui affioravano gli artigli di basalto si era
prosciugato,
lasciando solo qualche lingua d'acqua limacciosa e insana, oltre che
quelle
poderose strutture di lava vulcanica solidificata: l'Artiglio di
Folbert, come
era chiamato dagli Uomini; Tankara, per i nani, la Mano di Strega.
Voci
circolavano sul quel luogo ormai abbandonato: si diceva che fosse
maledetto e
nella piana si aggirassero i fantasmi dei soldati caduti nella Guerra
delle due
Ere, mentre la Rocca fosse abitata dallo spirito di re Folbert, che
vagava per
i suoi corridoi di pietra invocando vendetta.
La
Rocca di Daramia era minacciosa, cupa e sinistra come il paesaggio
circostante:
le mura antracite, solide e spesse, erano alte almeno trentacinque
piedi, e gli
imponenti torrioni di basalto,irti di guglie e torrette, svettavano
fino al
cielo,simili a mani scheletriche protese a graffiare le nubi; una volta
esibivano con fierezza gli stendardi con l'aquila e il grifone, ma ora
erano
rimasti nudi e desolati, gli stendardi andati perduti, forse portati
via dal
vento o dal tempo.
Il
cavaliere diede un delicato colpo di talloni ai fianchi del cavallo e
lo fece
girare attorno all'Artiglio, fino a trovarsi sul suo fianco orientale;
Duncan
tirò le redini e fece fermare Biancospino proprio sotto una
di quelle dita scheletriche,
su cui si riusciva a riconoscere una torre dalla forma ottagonale: la
Torre del
Guado, distinguibile dalle altre proprio per la sua forma particolare,
dalla
cui sommità si poteva dominare l'intera piana; il nano aveva
amato essere di
presidio in quella torre, trascorrendo le giornate a fumare la pipa e a
osservare il territorio circostante.
Duncan
trovò piuttosto ironico tornare nel luogo da cui era fuggito
dieci anni prima
con un'accusa di alto tradimento che pendeva sulla sua testa.
Dopo
l'Ultima Battaglia se n’era andato, aveva cambiato nome e si
era fatto crescere
barba e capelli, tutti quelli che lo conoscevano o erano morti o, come
lui,
erano fuggiti, prendendo il largo su una nave diretta alle Isole
Mattren o a
Fossar, dall'altre parte del Mare di Smeraldo. Duncan non aveva avuto
il
coraggio di abbandonare il Continente a cui era legato in maniera quasi
viscerale, sentiva che andando con gli altri avrebbe in un certo senso
tradito
la fiducia di re Folbert,suo compagno d'infanzia e di battaglie.
Secondogenito
del Barone del Westernmark, era stato destinato fin dalla sua nascita a
rendere
più stretti e amichevoli i legami tra il Westernmark e il
vicino Regno di Vest,
già coinvolti in fiorenti ma fragili rapporti commerciali;
così all'età di dodici
anni venne mandato a Daramia, capitale del Regno, come pegno per la
fedeltà al
patto stipulato tra il Barone e l'allora re Stereon che, a sua volta,
aveva
mandato nel Westernmark il suo secondogenito, Eldor, perché
venisse educato
nell'arte della spada e del combattimento dai nani.
Duncan
aveva iniziato come semplice scudiero del re e compagno di giochi del
suo
primogenito, Folbert, più giovane di lui di un anno; erano
stati allenati e
istruiti assieme nell'arte della spada, avevano giocato di nascosto a
scacchi
durante le noiosi lezioni di storia del Reverendo Breick e avevano
fatto la
corte alle fanciulle del castello, sia che si trattasse di duchesse o
di
semplici sguattere di cucina.
A
venti anni, la morte di suo padre aveva costretto Duncan a tornare nel
Westernmark e il principe Folbert gli era stato vicino, andando con lui
e
vivendo cinque anni nel territorio dei nani, approfittandone per
affinare la
tecnica e imparare il loro modo di combattere.
Poi
anche re Stereon era morto e Folbert aveva dovuto fare ritorno a
Daramia per
presiedere ai funerali ed ereditare la corona e tutte le
responsabilità a essa
connesse. Aveva voluto accanto a sé Duncan in veste di Primo
Cavaliere e il
nano aveva prestato giuramento, diventando Cavaliere dell'Ordine
dell'Aquila
Rossa, la guardia personale del sovrano, e suo fratello di sangue; era
stato in
quell'occasione che Folbert gli aveva fatto dono di Aisinril, la sua
inseparabile spada, gemella di quella portata dal re, Avestenril: "il
fiore sbocciato alla luce dell'alba".
Insieme
avevano combattuto diverse battaglie: avevano respinto i Lamarkiani che
avevano
invaso i territori a nord, i Rubaspini del freddo ovest e i Bruti del
profondo
sud; avevano discusso assieme di questioni politiche ed economiche,
finendo,
nella maggior parte dei casi, con il litigare e l'insultarsi
pesantemente, e
spesso Folbert lo aveva raggiunto sulla Torre del Guado per fumare
assieme (un
vizio che aveva acquisito in quegli anni nel Westernmark e non era
più riuscito
ad eliminare) e chiacchierare del più e del meno, facendo
commenti sulle dame
di corte e sul lungo naso del Reverendo Breick, rievocando i tempi
spensierati
della giovinezza e rivelandosi reciprocamente le paure più
profonde e i
desideri più nascosti. Duncan aveva apprezzato
particolarmente quei momenti, in
cui il re si spogliava dei suoi abiti di sovrano
e
tornava a essere solo Folbert, il compagno di una vita.
Poi
era arrivata la Guerra delle due Ere che aveva posto fine a tutto,
colpendoli e
sconvolgendoli come un fulmine in una giornata serena: era stata uno
scontro
lungo, sanguinoso e spossante che aveva significato la morte per re
Folbert.
Nella
mente di Duncan era impresso ancora bene quel momento terribile: nugoli
di
aeronavi avevano infestato il cielo, scaricando indistintamente sui
soldati i
loro carichi di palle di cannone e bombe di gas nocivo; un puzzo
tremendo di
decomposizione e acido appestava l'aria. Duncan sentiva il loro odore
appiccicarsi alla pelle, mefitico e letale, non credeva che i nemici si
sarebbero avvalsi di quella tecnologia avanzata ancora in fase
sperimentale.
«Questa
è l'apocalisse!» aveva urlato uno dei suoi
compagni, un veterano nerboruto dal
viso deturpato da molte cicatrici, ricordi di tutte le battaglie che
aveva
combattuto, Duncan non aveva potuto che dargli ragione.
In
mezzo a quell'inferno aveva scorto la caduta di Folbert da cavallo,
l'uomo
ammantato di nero che lo raggiungeva, lo scintillio del pugnale e il
breve
combattimento tra i due che aveva fatto cadere il cappuccio del rivale,
rivelando
un volto noto; lo stupore lo aveva paralizzato, togliendogli il
respiro:di
fronte ai suoi occhi svettava il volto di Eldor, distorto in una
smorfia
crudele, con gli occhi iniettati di sangue e rabbia, mai si sarebbe
dimenticato
la ferocia con cui aveva piantato il pugnale nel collo del fratello,
appena
sotto l'allacciatura dell'elmo, nello spazio di gola scoperto tra il
morione e
la corazza, e lo spruzzo di sangue che aveva decretato la morte del
sovrano e
la fine della battaglia.
La
voce di Folbert, colma di stupore e disperazione, riecheggiò
nella sua mente:
aveva pronunciato due sole parole, «Perché,
Eldor?», prima di spirare.
A
quel punto Eldor si era voltato e aveva visto il nano, aveva capito che
lui
sapeva, che era a conoscenza del tradimento e si era precipitato verso
di lui.
C'era stato uno scontro breve ma violento, in cui Eldor era
intenzionato ad
assassinare il nano e il Cavaliere cercava di non ferire o uccidere
l'erede al
trono, ma nonostante i suoi sforzi, gli aveva aperto uno squarcio nella
parte
sinistra del volto, che partendo dalla fronte gli sfiorava l'occhio per
poi
scomparire oltre la mandibola; dal canto suo, Eldor, gli aveva
graffiato il
mento, lasciandogli una cicatrice che lo attraversava orizzontalmente,
rendendolo riconoscibile: per questo si era lasciato crescere la barba.
Duncan
aveva, infine, steso Eldor con un colpo di pomolo e aveva lasciato quel
teatro
degli orrori il più in fretta possibile. Ma mentre arrancava
tra polvere e
cadaveri, un rombo fin troppo vicino l'aveva scosso fin nelle ossa e si
era
trovato davanti uno di quei bestioni volanti con le cannoniere
spalancate, come
le fauci di una belva affamata.
C'era
stato un forte sparo che lo aveva lasciato rintronato, puzza di fumo e
carne
bruciata, e poi un dolore lancinante e terribile, esploso nella gamba e
irradiatosi per tutto il corpo, che aveva offuscato la sua vista,
rendendo
tutto improvvisamente rosso sangue e poi nero.
Si
era risvegliato tra cenere e polvere; era frastornato, confuso e preda
di un
dolore insopportabile, l'unica cosa che gli provasse che era ancora
vivo.
Doveva essere svenuto e uno scossone violento doveva averlo ridestato
dal suo
limbo di dolore: sentiva di venire trasportato, su una barella
probabilmente. I
due che la portavano correvano, facendolo ballonzolare e sobbalzare.
Duncan non
riusciva a vedere chi fossero, davanti a lui si spalancava solamente il
cielo,
di un intenso color vermiglio, sporcato di nubi sulfuree; nessuna
figura
slanciata di aeronave lo attraversava più. Un sole
scarlatto, incendiava la
linea dell'orizzonte: poteva essere tanto un'alba quando un tramonto,
il nano
non sapeva dire per quanto tempo fosse rimasto svenuto.
Aveva
gettato un'occhiata verso le sue gambe, da cui proveniva quel dolore
indicibile, e aveva represso un conato di vomito: ciò che
rimaneva della sua
destra era un labirinto di bende affogate nel sangue. Era svenuto di
nuovo.
Un
viso dolce, dai tratti fini e affilati, e il languore malinconico di un
paio di
occhi indaco erano state le prime cose che aveva visto quando si era
risvegliato la seconda volta. Una visione idilliaca dopo l'orrore della
battaglia e la palla di cannone che gli aveva tranciato la gamba fino a
metà
coscia; la donna gli aveva sorriso e si era presentata come Althea. Era
stata
lei a curarlo e a portarlo dall'ingegnere che gli aveva fabbricato la
gamba
bionica. Ed era stata sempre l'elfa dagli occhi indaco a fargli vivere
gli anni
più belli e sereni della sua vita, nonostante fosse a
conoscenza del fatto che
fosse un ricercato e pendesse una taglia sulla sua testa, aveva deciso
di
condividere con lui il suo destino di fuggiasco.
Per
qualche tempo si erano rifugiati nel Westernmark, presso il fratello;
ma per
evitare che quest'ultimo finisse nei guai e che i rapporti con il regno
si
logorassero ancora di più, aveva abbandonato la casa paterna
ed era fuggito nel
vicino Regno di Winterburn, assieme alla sua amata Althea, incinta di
tre mesi.
Ben presto i soldi che gli aveva fornito il fratello erano terminati e
Duncan
si era trovato costretto a chiedere un prestito a Loyd che gli aveva
permesso
di vivere degnamente e in tranquillità.
Fintanto
che, in una notte di mezza estate, tre anni dopo, il passato non aveva
bussato
alla porta, con la faccia lunga e mortalmente pallida di Loyd,
pretendendo il
saldo dei suoi debiti.
Duncan
si abbandonò a un lungo sospiro: era arrivato il momento
della resa dei conti,
non solo con Loyd ma anche, e forse soprattutto, con il suo passato,
perché era
più che certo che re Eldor avrebbe assistito allo
spettacolo, e non avrebbe
patteggiato per lui.
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Capitolo 4 *** Lucian Silverclaw ***
IV
Lucian
Silverclaw
Who's gonna help us survive
We're
in the fight of our lives
(And
we're not ready to die)
«Tu
devi essere Duncan...»
Duncan
alzò lo sguardo e si trovò davanti un drow
filiforme avvolto in una sopravveste
blu notte istoriata di ghirigori dorati, decisamente fuori luogo; il
nano
sollevò un sopracciglio domandandosi cosa volesse da lui
quell'elfo ben
vestito.
«Io
sono Lucian» si presentò il drow prendendo posto
davanti a lui, senza essere
stato invitato; Duncan aveva già sentito quel nome ma non si
ricordava dove, né
a cosa fosse riferito.
«Lucian
Artiglio d'argento, il tuo avversario nella finale del
torneo» spiegò l'elfo;
era un bel giovane, a differenza dei suoi simili, con i tratti del
volto decisi
ma non spiacevoli, corti capelli bianchi e penetranti occhi grigi. Il
nano non
si sorprese che fosse il favorito del torneo: era giovane, attraente e
probabilmente offriva un gran bello spettacolo con i suoi artigli
d'acciaio.
Duncan
tornò a fissare il boccale di birra, non era dell'umore
giusto per fare
conversazione, tantomeno con l'elfo che l'avrebbe squartato da
lì a due giorni;
ma il drow non sembrava dello stesso avviso. Fermò una
cameriera e ordinò da
bere.
«È
un onore per me conoscerti» riprese Lucian, imperterrito; il
silenzio di Duncan
non era riuscito a scoraggiarlo «Devi essere davvero un osso
duro per essere
arrivato fino a qui, Vlad non era un avversario per niente facile ma tu
sei
riuscito a batterlo in dieci minuti!»
Duncan
non aveva la più pallida idea di chi fosse questo Vlad.
«Se
non l'avessi ucciso io, mi avrebbe ucciso lui»
borbottò, odiava le adulazioni e
non vedeva l'ora che l'elfo facesse le domande per cui era venuto a
disturbare
la sua ultima birra prima di andare a dormire; Lucian
scoppiò a ridere, una
risata priva di allegria che mise in mostra la dentatura bianca e
perfetta, ma
non arrivò ai suoi occhi, rimasti freddi e imperscrutabili.
Duncan
si trovò costretto a sollevare lo sguardo sul drow: cosa
aveva trovato di così
divertente nelle sue parole?
«Un
ragionamento che non fa una piega» constatò l'elfo
dopo che si fu ripreso,
Duncan ebbe la certezza che lo stesse prendendo in giro.
La
cameriera s'intromise tra i due, posando sul tavolo un bicchiere pieno
di un
liquido dorato: whisky, probabilmente; Duncan detestava quella roba e
storse il
naso all'odore dolciastro e penetrante.
«Allora,
Duncan, qual è la tua storia?» domandò
improvvisamente Lucian, portando il
bicchiere alle labbra.
«La
mia storia?» quel repentino cambio di argomento aveva
lasciato spiazzato il
nano.
«Ci
deve essere un motivo per cui hai deciso di partecipare al
torneo» spiegò
Lucian prendendo un sorso della sua bevanda «Solo i pazzi, i
disperati e i
vanagloriosi potrebbero partecipare a una cosa del genere.»
«E
tu in quale categoria rientreresti?» domandò
Duncan, per eludere la domanda.
«Penso
tutte e tre» rispose l'elfo e scoppiò in una nuova
risata, il nano iniziava a
trovarlo irritante, «Allora perché sei
qui?» ritornò alla carica il drow.
«Non
penso possa interessarti, in realtà, è un motivo
piuttosto banale» il nano
quasi si strozzò con le sue ultime parole, bevve un sorso di
birra per mandare
giù il groppo che gli era risalito fino in gola;
pensò che la risposta sarebbe
bastata a frenare qualsiasi altro tentativo da parte dell'elfo di
approfondire
la questione. Ma lo sguardo di Lucian non l'aveva abbandonato per un
momento:
si era avvinghiato a lui, quasi che potesse strappargli le informazioni
che
cercava con gli occhi, come se potesse leggergli nel pensiero, il nano
si
sentiva braccato da quello sguardo d'acciaio.
«Sono
un cavaliere caduto in disgrazia in cerca di
riscatto» dichiarò alla fine,
stringendosi nelle spalle, sicuramente non era la storia completa e non
si
avvicinava nemmeno a un riassunto a grandi linee, ma sperava che
avrebbe
accontentato l'elfo.
«Non
sei un uomo di molte parole» annuì il drow,
prendendo un altro sorso di whisky
«Non vuoi sapere perché io sono qui?»
Sinceramente avrei
preferirei farmi prendere a calci nel sedere da un maiale pensò
il nano,
ma forse avrebbe potuto trovare qualcosa di utile nelle sue parole:
questo
Lucian dava l'impressione di essere un giovane egocentrico e
megalomane, che
amava parlare di sé, e magari si sarebbe lasciato sfuggire
qualcosa d'importante,
quindi, se l'elfo era in vena di chiacchierare, perché non
approfittarne?
«Noi
drow non siamo mai andati molto a genio agli altri, la nostra razza ha
subito i
peggiori soprusi: è stata perseguitata, schiavizzata e
decimata. Re Eldor ha
raggiunto una soluzione di compromesso: ci ha segregato nelle Terre
dell'esilio» iniziò Lucian e a Duncan non
sfuggì il sarcasmo e il disprezzo che
trasudavano dalle sue parole «È una terra desolata
e sterile, in cui cresce
poco o nulla, in pratica ci ha condannato a morte in maniera
più subdola e
lenta. Quel poco di cibo che riusciamo a produrre viene conteso, e
spesso si
arriva a scontri sanguinosi e letali. Questo torneo è
l'occasione per
guadagnare quanto basta perché io e la mia famiglia possiamo
vivere degnamente,
almeno per un po'. È l'unico modo che abbiamo per
sopravvivere in un mondo che
ci detesta e ci perseguita.»
Il
nano vide gli occhi del giovane offuscarsi di lacrime, si
domandò quanto di quello
che avesse detto fosse vero: era una storia triste e terribile, ma non
era
sicuro che fosse la verità, sembrava piuttosto una storiella
costruita a
pennello per muoverlo a compassione.
«Mi
dispiace, ragazzo» borbottò il Cavaliere con voce
atona, non si sarebbe fatto
abbindolare da queste storie per dame dal cuore sensibile.
«Non
dispiacerti per me, nano» rispose l'elfo, l'ombra delle
lacrime scomparsa dal
suo sguardo «Immagino che anche tu abbia una storia tragica
alle spalle, non
saresti qui, altrimenti. Siamo entrambi sopravvissuti che durano,
stiamo
lottando per la nostra vita, e non siamo pronti a morire. Ti capisco,
ma non
credere che per questo avrò pietà di te...Quindi,
quando sarà il momento, non
averne tu per me.»
Lucian
bevve l'ultimo sorso di whisky e si alzò dal tavolo, gli
rivolse un rispettoso
cenno del capo e sparì, inghiottito dalla folla di
avventori, in uno svolazzo
di stoffa blu.
Duncan
lo seguì con lo sguardo, e ripensando a quello che aveva
detto si ritrovò, suo
malgrado, d'accordo con lui: solo pazzi, vanagloriosi e disperati
potevano
partecipare a questo genere di torneo e lui faceva decisamente parte di
questi
ultimi.
—
Lucian
uscì dalla locanda sorridendo soddisfatto: la storiella
strappalacrime del drow
povero e perseguitato funzionava sempre: faceva breccia tanto nei
teneri cuori
delle nobili dame quanto in quelli apparentemente più duri
dei suoi avversari,
ed era sicuro che avesse colpito anche quello di quel nano scontroso e
poco
loquace, nonostante non avesse dato segni di sorta. Probabilmente
durante lo
scontro sarebbe stato frenato dalla compassione, avrebbe esitato, non
combattendo al suo meglio.
Il
nano si era rivelato un avversario formidabile e stimolante, Lucian
l'aveva
osservato diverse volte: la sua tecnica era impeccabile, segno di anni
e anni
di addestramento militare; non aveva paura di morire ma non ne aveva
nemmeno
l'intenzione, era un uomo d'onore che sarebbe caduto combattendo,
sapeva il
fatto suo ed era abituato a lottare per sopravvivere; sarebbe stato
divertente
misurarsi con un rivale finalmente alla sua altezza, che non se la
faceva sotto
non appena estraeva le sue lame.
Lucian
si domandò quanto sarebbe resistito: si era dimostrato un
tipo tosto, che non
si arrendeva facilmente e probabilmente tutta la sua forza derivava dal
motivo
per cui combatteva; a riguardo aveva sentito le storie più
disparate e
strampalate, non credendo a nessuna. Aveva sperato che il nano, dopo un
paio di
boccali di birra del vecchio Gerard, si sarebbe sbottonato di
più, ma non
gliene aveva dato la soddisfazione; anche in quel caso si era rivelato
un osso
duro.
Il
sorriso di Lucian si allargò: pregustava già lo
scontro e non vedeva l'ora che
arrivasse l'ultimo giorno di primavera.
Un
po' gli dispiaceva doverlo uccidere, gli era simpatico, apprezzava la
sua
riservatezza e la sua diffidenza, ma il re gli aveva dato un compito e
Lucian
doveva portarlo a termine: il nano doveva morire, era a conoscenza di
troppe
cose che dovevano rimanere nascoste,era stato testimone di troppi
avvenimenti
scomodi e pericolosi, che non dovevano venire diffusi. Era compito del
drow far
sì che rimanessero nel silenzio.
Il
torneo si era rivelata un'ottima copertura: nessuno avrebbe sospettato
che
dietro l'uccisione del nano c'era l'ordine del re. Lucian, inoltre, era
l'assassino migliore in circolazione, la missione non sarebbe potuta
fallire,
anche perché le conseguenze per lui sarebbero state ben poco
piacevoli.
Ricordava
ancora nitidamente il giorno in cui l'aveva convocato, la lunga sala
del trono
di marmo nero e pietra, con alte colonne ritorte su loro stesse e gli
sguardi
severi dei re precedenti che osservavano ogni suo movimento con i loro
occhi di
alabastro; era una stanza cupa e austera, creata apposta per
intimorire.
Il
re sedeva sul trono di pietra nera e acciaio, in una posizione
autoritaria e
solenne, avvolto nella penombra creata dalla luce soffice e rosata del
tramonto; sulle spalle portava un mantello bordato di pelliccia dello
stesso
colore dei suoi occhi, la parte destra del volto era immersa
nell'ombra, su
quella sinistra, illuminata, risaltava una sottile linea biancastra che
la
attraversava dalla fronte alla mandibola forte e allungata, sui capelli
corvini
brillava la corona di bronzo dorato e oro rosso, colpita dalla luce
obliqua che
filtrava dalle alte finestre a sesto acuto. Anche il re incuteva timore
e
rispetto, ma Lucian non si era lasciato suggestionare, almeno
all'inizio.
Ciò
che l'aveva colpito di più era stato il tono con cui aveva
proferito l'ordine:
duro e perentorio, sottolineato dalla voce gutturale; aveva emesso una
condanna
a morte che doveva essere eseguita senza esitazioni né
discussioni.
«Hai
fama di essere il sicario migliore» aveva detto
«Non deludermi, o mi ritroverò
costretto a trovarne uno più capace...ma il suo obiettivo
non sarà il nano...»
Quella
minaccia aveva fatto rabbrividire Lucian e aveva compreso
perché Eldor fosse
così temuto e perché nessuno aveva mai osato
mettere in discussione i suoi
ordini.
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Capitolo 5 *** The last fight ***
V
The
last fight
I'm
gonna fight for what's right
And if it
kills me tonight
I will be
ready to die
Duncan
si trovava su uno di quegli aggeggi infernali che chiamavano
"ascensore": una zattera sostenuta da un sistema di corde e pulegge
che avrebbe dovuto portarlo fino all'arena che era stata allestita per
il
grande scontro. Come quel complesso di cavi e travi riuscisse a
sostenere un
nano in armatura completa era un mistero per lui. Sospettoso per natura
nei
confronti di ogni forma di tecnologia, aveva dovuto adeguarsi alle
manie di
spettacolarizzazione del re, nonostante avrebbe preferito di gran lunga
fare il
suo ingresso nell'arena in un altro modo.
Come
se non bastasse, si era trovato costretto a intabarrarsi in
un'armatura con intarsi d'argento che ricordavano le forme sinuose di
gigli; ma
non poteva permettersi di deludere le dame che gliel'avevano offerta in
dono: il
rifiuto sarebbe stato interpretato come un'offesa e avrebbe perso il
loro
favore, assolutamente fondamentale in quella fase.
Duncan
esaminò per l'ennesima volta il filo di Aisinril, aspettando
impaziente che quell'ascensore entrasse in funzione: non vedeva l'ora
di
mostrare a quel damerino presuntuoso di cosa era capace; non si sarebbe
fatto
umiliare e sconfiggere da un ragazzino che puzzava ancora di latte e
che
probabilmente non aveva mai visto una battaglia in vita sua.
La
zattera sobbalzò, segno che stava per mettersi in moto, e
lentamente,
iniziò a salire; i cavi gemevano producendo un rumore
insopportabile e
coprivano le parole strillate dagli altoparlanti.
Duncan
chiuse gli occhi e fece un respiro profondo.
«Ricordati per chi combatti»
gli aveva detto Loyd qualche giorno prima.
«Per
Selene!» esclamò, stringendo l'elsa di Aisinril
fino a farsi
sbiancare le nocche: era pronto per dare il via alle danze.
Ad
accoglierlo, assieme ad un boato che fece tremare gli spalti, fu la
pioggia: una pioggia sottile e fredda ma che in poco tempo aveva
trasformato la
sabbia dell'arena in un pantano.
Il
cavaliere imprecò tra i denti: con quell'armatura e il
terreno in
quelle condizioni sarebbe finito gambe all'aria in due minuti; dentro
di sé
maledisse le dame che gli avevano fornito quell'impiccio.
Fortunatamente
si era rifiutato di indossare l'elmo o a quest'ora non
avrebbe visto nemmeno la sua mano pur scuotendola a due pollici dal
naso.
L'arena
era una struttura circolare di legno chiaro, rinforzata da
puntelli in metallo, costruita nel cortile interno delle Rocca, per
questo il
campo era ampio poco più di quattro metri quadrati, uno
spazio davvero scomodo
ed esiguo se paragonato a quello di altre arene.
Dal
momento che lo scontro si svolgeva di notte, l'arena era illuminata
da sfarfallanti faretti a energia elettrica; il re si godeva lo
spettacolo da
una tribuna protetta da teli che esibivano i colori della sua casata,
verde
smeraldo e nero. Duncan gli gettò una rapida occhiata,
incontrando uno sguardo
ostile e penetrante; come da etichetta si sprofondò in un
inchino ossequioso,
senza distogliere lo sguardo dal sovrano. Poi lo spostò
verso la folla vociante
e scorse tra gli astanti assetati di sangue il volto lungo e pallido di
Loyd e
accanto a lui quello spaurito di Selene. Il suo cuore perse un battito.
Un
nuovo boato indicò l'ingresso nell'arena di Lucian, nemmeno
l'elfo
aveva badato a spese e aveva deciso di fare la sua apparizione in
grande stile:
ostentava un'armatura semplice ma di grande effetto, la parte sinistra
era
decorata con spuntoni d'acciaio che somigliavano vagamente alla cresta
di un
drago, come se la creatura si fosse avvolta attorno al braccio e si
fosse
addormentata su di esso; il volto del ragazzo era nascosto da un elmo
con
intarsi di un blu brillante, su cui, al posto del cimiero, un drago
spalancava
le sue fauci d'oro.
Come
sempre, il nano trovò l'abbigliamento dell'elfo esagerato e
completamente fuori luogo.
Lucian
salutò la folla e s'inchinò al re; con un
elegante gesto della
mano si sfilò l'elmo, lasciando libera la chioma nivea. Un
coro di sospiri e
acclamazioni si levò dalla folla.
Duncan
per tutta risposta sputò nella sabbia e allargò
le gambe,
mettendosi nella posizione di guardia.
«Hai
fretta di cominciare, nano» osservò Lucian,
facendo scattare gli
artigli.
«Prima
iniziamo, prima finiamo» rispose il cavaliere. Era
già stanco e
sudato, la pioggia gli entrava negli occhi impedendogli di vedere bene
e quello
schifo di stivali di metallo non facevano presa sul terreno
sdrucciolevole come
avrebbero dovuto. Per l'ennesima volta mandò al diavolo
tutti quelli che lo avevano
costretto in quella situazione.
Sia
l'elfo sia il nano aspettavano il segnale del re, che avrebbe dato
inizio allo scontro.
«Questo
è lo scontro decisivo che decreterà il guerriero
che sarà degno del titolo di
Eroe delle due Ere e del premio di ventimila grifoni in palio. Fate
sentire la
vostra vicinanza e il vostro calore» un fragore assordante
esplose dalla folla,
quando si fu placato, Eldor riprese a parlare «Che lo scontro
abbia inizio e
che vinca il migliore!»
Un
gong risuonò da qualche parte, spandendo il suo canto grave
nell'aria umida
della notte.
I
due contendenti rimasero a studiarsi per qualche secondo, nell'attesa
che
l'altro facesse la prima mossa. Duncan non si fidava ad attaccare,
l'armatura
era ingombrante e lo impacciava nei movimenti, girò in
tondo, cercando una
falla nella guardia di Lucian, ma l'elfo era coperto su ogni lato.
Doveva
attaccare, fare una finta e provare a costringere l'avversario a
scoprirsi, ma
era rischioso: se si fosse avvicinato troppo Lucian avrebbe potuto
infilzarlo.
Il
nano strinse la presa sulla spada, una goccia di sudore, o di pioggia,
rigò la
tempia e andò a infilarsi nell'armatura.
Senza
preavviso Lucian attaccò: con un agile balzò si
lanciò verso di
lui, gli artigli sguainati che puntavano verso la gola non protetta, ma
Duncan
riuscì a schivare all'ultimo e ripristinò la
distanza di sicurezza con una
goffa piroetta, facendo perno sulla gamba di metallo, che emise uno
scricchiolio preoccupante, ma non cedette.
L'elfo
caricò di nuovo, sempre mirando alla gola del nano e questa
volta
fu il terreno scivoloso a salvare il cavaliere: lo stivale
slittò nel fango e
Duncan si trovò in una posizione di semi-spaccata con il
balenio argenteo degli
artigli che scintillava sopra di lui, dove poco prima si trovava la sua
testa.
Approfittò della situazione e mosse la spada dal basso verso
l'alto, Lucian
riuscì ad evitare l'assalto ma perse l'equilibrio e
finì con la faccia nella
melma; l'elfo riemerse imprecando e sputacchiando, un coro di risate si
levò
dalla folla. Duncan ne approfittò per rimettersi in piedi.
Era
consapevole di avere lo sguardo di tutti su di sé, in
particolare gli occhi di
re Eldor non lo avevano perso un solo istante, così come
quelli di Loyd. Si
sentiva come se avesse un bersaglio sulla schiena, come se lo avessero
nel
mirino. Era consapevole del fatto che il re lo volesse morto e iniziava
a
sospettare che Lucian fosse il sicario designato per lui. Il nano
gettò uno
sguardo ostile e determinato al suo sovrano: non sarebbe morto senza
combattere.
L'elfo
caricò per la terza volta, aveva il volto ricoperto di fango
e
gli occhi accesi di rabbia, Duncan riuscì a schivarlo di
nuovo con una
piroetta.
«Questi
gentili signori non vogliono una danza pittoresca, Duncan»
sibilò l'elfo «vogliono il sangue»
«Non
il mio» rispose seccato il nano
«Allora
smettila di fare la principessina e attacca!»
replicò Lucian «O
forse hai paura di me?»
Duncan
capì cosa stava cercando di fare: non potendo colpirlo con
le
lame lo colpiva nell'orgoglio, lo provocava, pungendolo sull'onore e
sul
coraggio, voleva farlo arrabbiare e voleva che attaccasse alla cieca.
Ma ci
voleva ben altro per fargli perdere la testa.
Lucian
puntò i piedi, pronto per un altro assalto, per lui
l'armatura
pareva non avere alcun peso, si muoveva agile e sinuoso come un felino,
gli
occhi ridotti a due fessure, luminosi, come quelli di un predatore e un
sorriso
sardonico che gli increspava le labbra.
Un
rapido guizzo, una finta che spiazzò Duncan e gli artigli
d'argento
che portarono con sé parte della sua guancia destra e del
naso. Il nano si
morse la lingua fino a sentire il sapore metallico del sangue, il
dolore era
esploso improvvisamente in una miriade di scintille brucianti.
L'elfo
danzò lontano da lui e si permise di fare lo sbruffone: con
fare
baldanzoso soffiò sulle punte degli artigli macchiate di
cremisi e finse di
lucidarsele sull'armatura, scatenando un ovazione da parte del pubblico.
Il
Cavaliere ripulì il viso dal sangue come meglio
poté e strinse i
denti, la parte destra del volto bruciava maledettamente, ma ancora di
più
bruciava l'umiliazione di permettere che quel ragazzino lo prendesse in
giro
così spudoratamente, questo non lo avrebbe più
permesso.
Strinse
i denti e si rimise in posizione di guardia, l'elfo gli rivolse
un sorriso di scherno e lo invitò ad attaccare.
Duncan
caricò, eseguì una finta e un affondo che
però andò a vuoto,
Lucian era riuscito abilmente a evitarlo, il sorriso dell'elfo si
allargò, era
più determinato che mai a finire il nano.
Duncan
riuscì a schivare l'attacco successivo e, approfittando
della
distanza ravvicinata, con uno scatto del polso colpì il
fianco sinistro di
Lucian, rimasto scoperto. La lama della spada incontrò la
resistenza
dell'armatura, ma sulla coscia, protetta solo da uno strato di cuoio,
si fece
largo tra la pelle e la carne. Lucian uggiolò di dolore e si
allontanò,
reggendosi con una mano la gamba offesa.
«Non
fai più tanto lo sbruffone, adesso» lo prese in
giro Duncan.
L'elfo
emise un ringhio bestiale e scattò, il nano lo
seguì a ruota, la
spada dritta davanti a sé come una lancia: entrambi erano
consapevoli del fatto
che quello sarebbe stato l'ultimo, letale assalto.
Prima
si erano solo punzecchiati, avevano giocato un po' per saggiare
ciascuno la tecnica dell'altro, per scovarne i punti deboli e le
mancanze,
questo era il momento decisivo.
Un
dolore lancinante esplose alla spalla sinistra, dove gli artigli di
Lucian erano riusciti a penetrare oltre lo spallaccio, il nano
digrignò i denti
mentre un urlo atroce, di sofferenza, squarciò l'aria.
Lucian
abbassò lo sguardo verso il suo addome e tra le piastre che
componevano l'armatura scorse con orrore la lama della spada di Duncan
che si
stava imbevendo del suo sangue. Il nano rigirò la lama e un
rivolo scarlatto
colorò le labbra dell'elfo.
«Non
è ancora finita, nano» gemette, mostrando i denti
in un grottesco
sorriso cremisi, e con un movimento fulmineo dall'alto verso il basso,
tagliò
l'aria davanti a sé e puntò alla trachea di
Duncan. Il nano riuscì ad
allontanarsi in tempo, estraendo la spada con un colpo secco, ma
dimenticandosi
degli artigli conficcati nella sua spalla sinistra, che si tennero un
bel po'
di stoffa e carne. L'elfo era crollato a terra agonizzante e guardava
attonito
le sue viscere fuoriuscire assieme al sangue e mischiarsi alla pioggia
e al
fango.
Duncan
si teneva la spalla e respirava a fatica; il suo rantolio di
sorpresa si mozzò a metà, così come il
suo respiro. Con orrore portò una mano
alla gola e la trovò coperta di sangue. Gli artigli erano
riusciti ad aprire
uno squarcio. Duncan si afferrò il collo, cercando di
fermare l'emorragia. Gli
occhi gli si riempirono di lacrime, che presto si confusero con la
pioggia.
Cadde,
mordendo la terra fangosa
con le labbra
insanguinate e la bocca gli si riempì di melma. Impotente
sentiva la vita
fluire da lui assieme al suo sangue e al suo respiro. Nessuno sarebbe
venuto a
salvarlo, l'avrebbero lasciato morire, completamente svuotato.
Sentì
l'altro spirare in un patetico rantolio. Volse la testa verso le
tribune e
cercò con lo sguardo la sua Selene, voleva vederla per
un'ultima volta. Una
lacrima gli rigò il volto, facendosi largo tra il sangue e
il fango; la
consapevolezza di aver fallito lo devastò, prostrandolo
più di un colpo di
spada.
Duncan spirò, il nome di Selene rimasto sospeso sulle labbra.
Angolo
dell'autrice:
In caso vi
siate domandati che aspetto avessero i personaggi, e anche se non ve lo
siete chiesti, vi lascio le immagini da cui ho tratto ispirazione ^^
Duncan
Lucian
Althea
Selene
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