Il Fascino Delle Cose Usate

di yua
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il Fascino Delle Cose Usate ***
Capitolo 2: *** l'odore delle cose nuove ***
Capitolo 3: *** come le luci di Natale ***



Capitolo 1
*** Il Fascino Delle Cose Usate ***


allora, note iniziali probabilmente inutili: questa storia nasce intorno al titolo, sopraggiunto causa noia dal momento che fissare le macchinette scrostate e piene di graffi sembrava molto più interessante che studiare quello che avrei dovuto studiare. Seconda nota inutile, questa storia non doveva essere pubblicata, anzi, questo account non doveva più pubblicare. Proposito evidentemente fallito.
Alla fine l'ho passata pc anche se ho detto un sacco di volte che non l'avrei fatto, ma non ho nulla da fare e di nuovo dovrei studiare ed è evidente che di nuovo io non ne abbia nessunissima voglia.
L'ooc ci sta, non sono proprio riuscita a liberarmene; forse è per l'au, boh. Comunque sono ooc.
Perciò ecco il figlio della noia e della mia estrema capacità di distrarmi con il niente e della mia scarsa decisione nel prendere posizioni XD








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Il Fascino delle Cose Usate








Kuroo aveva sempre considerato le cose usate assolutamente piene di fascino; la sua macchina, ad esempio, aveva probabilmente più anni di lui. Aveva dovuto assolutamente comprarla – per due spicci, ovviamente, e solo per l'intervento di suo padre non si era messo a discutere, indignato col rivenditore per il prezzo così basso. Quella macchina aveva una storia, una personalità ben definita e migliaia di chilometri di strade percorse. C'erano state persone prima di lui sedute in quella vettura, e durante i lunghi viaggi si divertiva a fantasticare su di loro.
Aveva dovuto lavorare per ore su quella macchina, spesso erano necessarie ancora piccole operazioni per permetterle di continuare a vivere.
I suoi amici lo prendevano in giro per tutto il tempo che doveva dedicare alla manutenzione, ma a lui non era mai importato molto dei giudizi altrui: quella macchina era fantastica, e se non lo capivano era peggio per loro, si sentiva autorizzato a non scarrozzarli in giro.
A quell'acquisto ne erano seguiti altri sullo stesso genere: il suo appartamento era pieno di vecchi mobili e suppellettili trovate in giro per mercatini, i quaranta metri quadri scarsi in cui viveva erano stati riempiti di storie e di vite.
Non erano molte le persone che portava lì, quello era il suo personalissimo rifugio: il suo migliore amico, l'unica ragazza con cui avesse provato ad avere una storia seria, qualche persona a cui potesse dire di tenere davvero – sua madre, per esempio, che aveva storto il naso ed evitato di commentare quanto fosse piccolo quel monolocale strapieno in modo inverosimile di cose di dubbio gusto e utilità.
Per le sue avventure, per esempio, preferiva di gran lunga andare altrove – a casa del tipo o della tipa, per dirne una, non si poneva limiti in ambito sessuale ma ne metteva decisamente tanti per quanto riguardava l'intimità.
Molto banalmente, bisognava guadagnarselo l'ingresso in casa sua.

Il giorno del ventiseiesimo compleanno di Bokuto, il suo migliore amico, erano usciti a festeggiare con un gruppo di amici decisamente numeroso. La festa era cominciata subito dopo cena, ed era proseguita per ore, contando in effetti numerose perdite sulla loro strada. Talmente tante che alla fine erano rimasti solo loro due.
Non avrebbe saputo dire come fossero finiti in uno dei peggiori quartieri della città, né tantomeno quando avessero cominciato a trovare divertente l'idea di ingaggiare una prostituta. Per far cosa, poi, rimaneva un mistero dal momento che nessuno dei due avrebbe avuto bisogno di pagare per ottenere quel particolare genere di servizio – Bokuto aveva un ragazzo, e lui parecchi numeri nella rubrica del telefono da chiamare in caso di noia.
Era quasi l'alba ormai, ridacchiavano ancora in preda al residuo di alcool che non avevano smaltito quando cominciò a far rallentare la macchina, rendendosi conto di trovarsi in una zona in cui battevano esclusivamente ragazzi, per lo più giovanissimi. Non volevano trovarsi lì, non sapevano nemmeno come avevano fatto ad arrivarci.
Cominciò a guardarsi intorno sentendosi addosso un senso di disagio mai effettivamente sperimentato, e poi – e poi – il suo sguardo fu attirato come una calamita su un ragazzo che stava evidentemente contrattando con un cliente che parlava con lui attraverso il finestrino aperto. Lo osservò annuire, lo vide girare attorno alla vettura per salire sul sedile del passeggero – alzò lo sguardo, puntò gli occhi dorati nei suoi.
Kuroo ne rimase folgorato: come era successo per la sua macchina, per il suo appartamento, per tutte le cose che aveva voluto davvero nella sua vita gli era bastato uno sguardo per sapere che non sarebbe stato felice finché non avesse saputo tutto di lui, finché non lo avesse avuto. Quel ragazzino aveva lo stesso fascino antico di quegli oggetti che lo facevano impazzire, aveva il fascino di chi ha una storia da raccontare. E non era un oggetto, stavolta, era una persona; tutto sembrava più interessante così.
La macchina col ragazzino partì velocemente, sparendo presto nelle ombre residue di quella notte che andava consumandosi.
«Bro» la voce di Bokuto lo riscosse da quello stato di trance e si rese conto di essersi completamente irrigidito, con le mani che stringevano il volante come una morsa.
«Ohi» provò a rispondere «andiamo» non lasciò all'amico il tempo di aggiungere nulla e ripartì in fretta, in testa solo la voglia di tornare a casa; la serata era finita, aveva davvero bisogno di fermarsi e farsi passare quella strana frenesia che gli ballava nelle vene.

Tornò ancora in quella strada, tornò ancora sullo stesso punto, tornò a osservare il ragazzino con gli occhi dorati e i capelli chiari, tornò a guardare da lontano quella figura esile e sottile che si sporgeva verso le automobili, che senza cambiare espressione parlava a bassa voce con uomini che lo avrebbero portato chissà dove, che avrebbero fatto di lui un giocattolo o poco più per forse un paio d'ore per scaricarlo subito dopo sul ciglio di un marciapiede - ormai non servi più.
Tornò a osservare il ragazzino lavorare, tornò ad osservare quella persona che lo aveva letteralmente incantato in maniera assolutamente esagerata e inopportuna, a cercare di immaginare la sua vita di tutti i giorni.
Dopo oltre una settimana, quando cominciava ormai ad accusare la stanchezza – ci aveva provato, ma non riusciva a dormire immaginando il ragazzino con le movenze da gatto e gli occhi pieni di sfiducia nei confronti del mondo che viveva la sua vita nel quartiere della prostituzione, salendo su macchine di estranei che sceglievano proprio lui in mezzo a quella masnada di anime perse – trasalì al suono di un bussare feroce. Abbassò il finestrino e nell'esatto momento in cui lo fece si rese conto di una serie di terribili errori fatti in quei giorni che avrebbero potuto portarlo con buona probabilità ad un ricovero in ospedale con un paio di costole rotte. Come minimo. Quando aveva pensato che fosse una buona idea rimanere in una macchina parcheggiata sempre nello stesso punto a guardare per tutta la notte minorenni che si prostituivano?
Il gorilla che aveva bussato aveva cominciato a chiedergli chi fosse e cosa volesse, cosa ci facesse lì, che loro non volevano problemi o scocciatori.
La mente di Kuroo lavorava frenetica per cercare una soluzione, ma non riusciva a trovare una risposta che gli sembrasse abbastanza valida da scongiurare la visita in ospedale.
«Ehi. Lui è con me. Garantisco io per lui» il ragazzo aveva i capelli lunghi, per la maggior parte biondi: era comparso al suo fianco senza che si accorgessero di nulla, in silenzio. Aveva posato una mano sul braccio del gorilla – come sembrava piccola e morbida, come sembrava delicata quella mano!
Kuroo stava impazzendo, era evidente, se si perdeva in considerazioni di quel genere. Era ancora piuttosto spaesato per quello che non poteva che considerarsi un salvataggio in piena regola da parte dell'estraneo che spiava da giorni.
Il gorilla se ne andò dopo aver scambiato un altro paio di battute con il ragazzo, e quando fu abbastanza lontano anche quest'ultimo fece per allontanarsi – Kuroo fu letteralmente preso dal panico «Aspetta!» il giovane si voltò di nuovo, veloce, i capelli sottilissimi gli frustarono il collo «credo tu mi abbia appena salvato la vita.» Gli rivolse il suo miglior sorriso, che parve però non sortire alcun effetto «e non ci conosciamo nemmeno» continuò «permettimi di ringraziarti in qualche modo.»
Il ragazzo parve valutare – l'eccentrico – proprietario di quella – eccentrica – macchina che da giorni sostava davanti al suo solito posto.
«Stai cercando di rimorchiarmi?» chiese non riuscendo da solo a darsi una risposta logica al perché perdesse tanto tempo lì.
Kuroo tossicchiò, preso alla sprovvista dalla domanda inaspettata «no, no! Volevo solo offrirti una colazione come si deve. Mi sembra il minimo.»
Il biondo strinse le labbra e dopo quella che all'altro parve un'eternità buttò fuori l'aria «sto lavorando. Se non passa nessuno tra mezz'ora ho finito. Poi vado sempre a fare colazione al bar all'angolo, quello con la scritta arancione che sta qualche strada più in là» disse indicando col braccio la direzione che avrebbe dovuto prendere.
Non poteva saperlo, Kuroo, ma quello era probabilmente uno dei discorsi più lunghi che il ragazzo avesse mai fatto spontaneamente.
«E adesso te ne devi andare. Non ci piace la gente che gira qui intorno a curiosare» nonostante il tono piatto e l'espressione rimasta praticamente invariata, a Kuroo parve cogliere una vena di ironia sul fondo di quelle parole. Gli sorrise e annuì, ed il ragazzo lo lasciò lì mentre riprendeva il suo posto in strada.
Avrebbe voluto rimanere al suo posto, Kuroo, avrebbe voluto far salire l'altro in macchina e portarlo lontano, avrebbe voluto impedire a chiunque di avvicinarsi – come una bestiola abbandonata a cui chi si avvicinava tirava un calcio bisognava portarlo via prima che diventasse cattivo – ma intervenne il suo residuo di razionalità ad impedirgli di fare qualcosa di davvero stupido e che lo indusse a lasciare quella strada.
Andò direttamente a cercare quel famoso locale indicatogli dal ragazzo ancora senza nome, con addosso la fastidiosa sensazione di essere un perfetto idiota: non sapeva se si sarebbe presentato, non capiva perché volesse tanto vederlo ancora – Yaku probabilmente gli avrebbe tirato le orecchie fino a staccargliele se avesse saputo quella storia.
Che poi, cosa voleva effettivamente da quel ragazzino? Per il momento voleva conoscerlo. Per il momento doveva conoscerlo.
Si era seduto ad un tavolo da quattro persone proprio vicino alla finestra che dava sulla strada. Era incredibile quanto sentisse salire l'attesa e l'aspettativa mentre osservava lo scorrere lentissimo dei minuti sull'orologio a parete, e restava fermo in quel locale che sembrava lontano anni luce dalla strada appena lasciata: era un posticino caldo, accogliente, pulito e curato in ogni aspetto. Cominciò a fantasticare sul ragazzo che passava lì dentro il suo tempo libero, tra i cuscini di quello stesso divanetto con qualcosa di caldo per difendersi dal freddo di quella fine di ottobre con una compagnia di amici. Cercò di immaginare la sua risata, il suo pianto – si stupì a non riuscire a farlo. Cercò di immaginare la sua vita, la sua storia – proprio come faceva coi suoi oggetti, solo che stavolta aveva la possibilità di chiedere davvero, di sapere davvero.
Quando vide il giovane varcare la soglia del locale scattò in piedi: il nuovo arrivato storse il naso in una smorfietta adorabile mentre occhieggiava un altro tavolo. Kuroo rifletté sul fatto che probabilmente aveva un tavolo preferito, ma non fece in tempo a sentirsi in qualche modo in imbarazzo che il ragazzo lo aveva raggiunto e si era seduto.
Si scrutarono per qualche secondo «Tetsurou Kuroo, piacere di conoscerti» decise di rompere il ghiaccio.
«Kenma. Kenma Kozune, ma per tutti sono solo Kenma.»
Il cameriere si avvicinò al loro tavolo dopo una manciata di minuti con una fetta di torta e una tazza di cioccolato che non avevano ordinato: il ragazzo doveva avere più o meno la sua stessa età, considerò Kuroo, ma gli aveva anche incoerentemente dato l'impressione di essere una mamma che si occupa del suo pulcino. Capelli bianchi e occhi marroni, il ragazzo posò le cose davanti a Kenma «hanno fatto la torta di mele che ti piace tanto» gli disse con un sorriso estremamente caldo. Poi si voltò verso Kuroo e parve passarlo ai raggi X «è uno dei tuoi ̶ »
«è un amico, Suga, tranquillo» gli rispose accennando ad un sorriso stanco ma evidentemente sentito e rivolto solo a lui. Kuroo si rese conto di essere già stato rapito, completamente.
«Mh. Vedi di fare il bravo con questo piccoletto, qui.» lo minacciò il ragazzo-mamma, puntando l'indice contro di lui, che sollevò le mani come per arrendersi «ovvio amico. Non vedi come sono un bravo ragazzo?»
Il cameriere aveva un'espressione assolutamente scettica, completata da un sopracciglio alzato «sembri uno stronzo, altroché. Kenma, per qualunque cosa sai dove trovarmi» gli disse dandogli una carezza sulla testa e guardando ancora male Kuroo e i suoi capelli neri, sparati in aria da un tentativo evidentemente riuiscito di battere la forza di gravità.
«Certo Suga» gli disse quasi con un pigolio che tranquillizzò il ragazzo-mamma, che li lasciò soli – Kuroo col suo caffé ormai freddo.
«Suga mi fa un po' da mamma» gli spiegò stringendo la tazza calda fra le mani e inspirando profondamente l'odore del cioccolato con un'espressione terribilmente rilassata.
Cominciarono a chiacchierare, e Kuroo scoprì che Kenma ne aveva anche una vera, di mamma, e un patrigno che si occupava di loro – in che modo non lo aveva ancora detto, ma non faceva fatica ad immaginarlo. Scoprì che Kenma adorava i cibi estremamente dolci, le giornate di piggia senza tuoni quando non doveva passarle in strada, i videogiochi e i romanzi. Scoprì che non gli piacevano le persone e che avrebbe volentieri passato intere giornate a letto. Scoprì che aveva lasciato la scuola appena possibile, che aveva dovuto cominciare a fare il lavoro di sua madre quando il padre era morto ammazzato.
Kuroo si accorgeva che quel ragazzino – non aveva ancora diciannove anni – non era abituato a parlare in quel modo. Le frasi gli arrivavano alle labbra a stento, e sul suo viso si susseguivano un migliaio di espressioni nascoste appena sotto un velo di indifferenza e insofferenza.
Anche Kuroo aveva parlato, anche se aveva scelto di lasciare il suo discorso sui toni leggeri della normalità: aveva parlato di Bokuto, dell'università, delle sue passioni, di sua madre e del padre che era stato presente a intermittenza. Ma soprattutto aveva bevuto le parole di Kenma, tutte, fino all'ultima, le aveva raccolte tutte le parole di quel ragazzo che sembrava non sprecarne mai una di troppo.
E avrebbe continuato ad ascoltarlo ancora – avrebbe continuato per tutta la vita – ma si rese conto che l'alba di fine ottobre era stata sostituita dalla piena mattinata: quando si era riempito a quel modo il locale?
Erano le otto passate, per più di tre ore avevano parlato senza accorgersi che il mondo intorno a loro si era messo a girare al ritmo frenetico di un mercoledì mattina e lui doveva andare a lavorare.
Pagò il conto per entrambi, salutò Kenma come fossero stati amici da una vita intera.
Solo quando arrivò in ufficio – quaranta minuti di ritardo e nemmeno dieci di sonno – si rese conto di non avergli chiesto il numero di telefono.
Quella giornata fu disastrosa, fu sgridato dal suo responsabile e non ebbe tempo di pranzare per rimediare ai suoi errori della mattina; si accorse di aver lasciato il portafogli nella giacca in macchina, quindi non poteva prendere nemmeno un caffè; il telefono si era scaricato chissà quando nella notte e la macchina era praticamente senza benzina. Eppure quando tornò a casa sua non riuscì a smettere di sorridere all'idea di Kenma che soffiava sulla tazza di cioccolato e continuava a cercare parole per spiegare qualcosa che forse non capiva nemmeno lui. Kenma che assaporava quella bevanda terribilmente dolce, che raccoglieva il residuo col cucchiaino, che parlava mentre mangiava la sua fetta di torta con evidente soddisfazione.
A casa accese il cellulare mentre si scolava una birra presa dal frigo e si accorse che c'erano una marea di messaggi. Gli unici importanti erano quello di sua madre e le centinaia che gli aveva mandato Bokuto chiedendogli se era vivo o se doveva chiamare la polizia per far dragare il lago. Quale lago poi sarebbe stato carino saperlo, ma era troppo stanco anche per pensare. Che poi, ancora più interessante sapere come mai Bokuto conosceva quella parola: doveva ricordarsi di chiederlo a lui.
Mangiò qualcosa al volo mentre guardava la televisione – mise la sveglia alle cinque del mattino: doveva assolutamente incontrare Kenma di nuovo, lo avrebbe aspettato in quel locale.

Da quando si erano scambiati i numeri si sentivano praticamente in continuazione.
Al contrario di Kuroo, Kenma era un tipo decisamente abitudinario. Aveva i suoi rituali, non gli piaceva il contatto con gli altri, non dava mai confidenza. Ma Kuroo aveva stravolto tutto, senza saperlo, senza capirlo.
Erano passate due settimane da quando avevano cominciato a sentirsi con regolarità, e Kuroo sentiva la sua vita riempita di qualcosa di nuovo. Aveva parlato con Bokuto che aveva riso e non aveva capito esattamente quello che gli stava succedendo, ma gli aveva dato una pacca sulla spalla e tutto il suo sostegno: andava bene così, non capiva fino in fondo nemmeno lui.
Stava mandando un messaggio a Kenma mentre stava facendo la spesa, ridendo come un cretino in mezzo alle scatole dei cereali. Fu allora che lo vide, e si accorse di essere felice in maniera sinceramente sproporzionata; ma non lo aveva mai incontrato per caso e in quel momento ebbe la sensazione che, semplicemente, il cuore gli sarebbe scoppiato in gola da un momento all'altro. Gli girava leggermente la testa al pensiero che lui, proprio lui fosse lì in quel momento, sapeva che esisteva anche quando non stava lavorando, anche lontano da quella strada e quel bar, ma vederlo coi suoi occhi era stata tutt'altra cosa.
«Ehi micetto!» Lo chiamò con un sorriso enorme che gli si allargava sul viso.
L'altro si voltò sorpreso e spaventato, mentre stringeva al petto una scatola di biscotti al cioccolato. Quando lo riconobbe si rilassò, e lasciò posto sul viso ad una smorfia strana e dolcissima che doveva essere di rimprovero.
Appena il maggiore gli fu abbastanza vicino gli scompigliò i capelli per godersi la sua espressione indignata. Indicò la scatola «quella non è la tua cena, vero?»
Kenma abbassò gli occhi e borbottò qualcosa, facendo ridere il moro «Senti, io abito proprio qui vicino. Se ne hai voglia vieni a casa con me, così quelli li tieni per domani» si accorse che il più giovane si era irrigidito tutto, che sotto allo schermo dei capelli lunghi sino alla fine del viso aveva cambiato ancora espressione – si rese conto di quello che poteva sembrare.
«Ehi... ehm... non sto cercando di abbordarti, lo giuro. Voglio solo offrire una cena ad un amico a casa mia. E poi se dopo devi... lavorare... ti porto io. Non ho secondi fini, lo giuro» Kenma era arrossito appena: alzò lo sguardo e puntò gli occhi dorati nei suoi come a voler capire quanto di vero ci fosse, come a voler capire se poteva davvero esistere qualcuno che non avesse intenzione di approfittarsi dell'unica cosa che aveva: le persone erano cattive, le persone facevano paura. Ma Kuroo lo aveva chiamato amico, e gli aveva già dimostrato di non essere come gli altri. Gli aveva già dimostrato che di lui non doveva avere paura «va... va bene.» sussurrò, sorridendo impercettibilmente al suono brillante della risata di Kuroo.
Stava bene con lui.
Aveva sentito il cuore andare in pezzi quando, per quell'attimo infinito, aveva pensato che fosse alla fine come tutti gli altri, che voleva portarlo a letto, che era solo un altro cliente che aveva semplicemente cominciato quel rapporto in maniera diversa. Aveva davvero pensato che fosse stato tutto un modo per portarselo a letto, un modo per scoparsi un ragazzo che si prostituisce e non pagarlo.
Ma poi Kuroo lo aveva guardato, e aveva usato quel tono di voce, e non era proprio riuscito a non credere nella sua sincerità.
Sicuramente non avrebbe dovuto. Sicuramente non era un rapporto che avrebbe dovuto coltivare.
Fu davvero strano, per Kenma, salire al quarto piano di quel palazzo dall'aspetto malandato. Fu davvero strano, per Kenma, entrare nell'appartamento di quel ragazzo che aveva preteso di entrare nella sua vita e sapere che non ci sarebbe stato nessun rapporto sessuale.
Fu quasi incredibile, per Kenma, sentirsi completamente a proprio agio.
Cucinarono insieme, risero insieme, parlarono insieme come se dalla vita non avrebbero potuto chiedere niente di meglio.
L'appartamento di Kuroo era piccolo e più simile ad un bazar che a qualsiasi altra cosa Kenma avesse mai visto: era assurdo, caotico, era difficile muoversi senza rischiare di buttare giù qualcosa. Non aveva nessun senso ed era stupendo.
Quando si accorse dell'interesse che aveva per quel suo piccolo e delirante spazio privato, Kuroo gli spiegò che aveva scelto ogni cosa personalmente, con cura. Che ogni oggetto aveva una storia, e che le cose con qualcosa da raccontare erano le uniche che valesse davvero la pena avere intorno a sé «così come le persone. Non le sopporto le persone senza carattere, senza nulla da dire che... che parlano tanto e non sanno niente. Sai cosa intendo, no? All'università era pieno di gente così. E, oddio, avresti dovuto davvero vedere Bokuto quando questi gli si avvicinavano... lui è così spontaneo che non ci pensa al fatto che dovrebbe evitare di dire tutto quello che pensa. Quando uno gli sta sul cazzo deve dirlo e basta, senza pensare che forse sarebbe meglio evitare... non sai quante volte abbiamo finito per fare a botte perché lui non ci vedeva niente di male a dire esattamente quello che pensa di qualcuno» gli raccontò ridendo mentre mangiavano, praticamente arrampicati intorno ad un tavolo troppo piccolo per due: il tavolo da pranzo era stato eliminato per lasciar posto al letto – troppo grande e troppo occidentale – che fungeva anche da divano, di cui Kuroo si era innamorato qualche mese prima: aveva tipo duecento anni, gli aveva detto. Il più giovane era convinto che fosse un'esagerazione, ma lo aveva capito già che era una persona esagerata.
Kenma adorava quei discorsi di Kuroo, gli piaceva sentite com'era la vita normale di quel ragazzo fuori dal comune.
Quella bolla di semplicità esplose quando Kenma si rese conto che doveva tornare nel suo mondo; Kuroo, che non voleva lasciarlo andare, lo convinse a permettergli di accompagnarlo. Si sentiva felice, stupido e felice, troppo a suo agio con un ragazzo che conosceva appena.
E Kenma sentiva il cuore sul punto di esplodere anche solo nel ricevere un suo messaggio – ed era sbagliato, Dio se era sbagliato, ed era rischioso e pericoloso per entrambi. Ed era strano, al di là di ogni immaginazione, che lui si sentisse così vivo, così entusiasta per qualcosa – meglio, qualcuno: aveva smesso di emozionarsi per qualunque ragione da bambino, quando i suoi genitori lo avevano buttato tra le braccia di un uomo che aveva dato loro un mucchio di soldi per portarlo in uno squallido motel di periferia per ventiquattro ore.
Non credeva davvero che dopo una vita passata così, a trascinarsi fra i giorni sempre uguali cercando di annullare la propria coscienza potesse sentirsi ancora sinceramente felice all'idea di passare il proprio tempo in compagnia di un altro essere umano.
Si accorse solo dopo che la macchina fu ripartita di aver lasciato la scatola di biscotti da Kuroo. Gli scrisse un messaggio con un mezzo sorriso, poi mise via il telefono: i clienti non potevano certo trovarlo che messaggiava, o non si sarebbe mai fermato nessuno.
Diverse ore più tardi si accorse che gli aveva risposto: sarebbe dovuto andare a riprenderla a casa sua. Kenma era ancora felice: l'altro aveva mandato un altro messaggio dicendo che sarebbe passato a prenderlo alle quattro del pomeriggio al solito posto, che per pagare il riscatto dei biscotti tenuti in ostaggio avrebbe dovuto offrirgli un caffè.
Quando rientrò nell'appartamento di sua madre fu grato di non trovarla in giro o non avrebbe saputo spiegarle il motivo di un sorriso completamente fuori luogo che non riusciva a mandar via da quando era rimasto da solo.

Passare il tempo libero insieme era diventata un'abitudine.
Kenma restava a casa di sua madre solo il tempo di dormire, poi usciva e aspettava che Kuroo finisse di lavorare.

Kenma rideva, quel giorno.
Rideva di cuore mentre con Kuroo correva sotto un diluvio torrenziale di metà marzo verso il palazzo in cui viveva il maggiore.
Erano usciti per cena e all'improvviso il cielo si era oscurato, era esploso un tuono che aveva fatto saltare il più giovane che era intimamente terrorizzato dai temporali: la catapecchia in cui viveva si riempiva di acqua e i vetri tremavano quando pioveva a quel modo, e sin da bambino ricordava solo i tuoni e la paura che il tetto sarebbe crollato sotto il peso dell'acqua – e nessuno li avrebbe cercati, nessuno li avrebbe trovati, loro, gli ultimi tra gli ultimi.
Quando Kuroo lo aveva visto sobbalzare gli aveva sorriso e gli aveva preso la mano «ehi... va tutto bene. È tutto okay» Kenma lo aveva guardato con occhi enormi e poi aveva capito che era vero, che finché fosse rimasto con lui sarebbe andato tutto bene.
Erano usciti dal locale che scendeva ancora il diluvio.
«Micetto, mi sa che dobbiamo correre. Casa mia è qua dietro e non sembra che il cielo abbia intenzione di schiarirsi» gli aveva detto scrutando i nuvoloni neri che sovrastavano la pioggia. Kenma non aveva fatto una piega al nomignolo che ogni tanto gli affibbiava, aveva imparato ad ignorare quell'aspetto di lui, anche perché se avesse detto qualcosa non avrebbe mai più smesso di discutere.
«Ma sta piovendo! Ci bagneremo! E non mi va di correre...»
Kuroo aveva sorriso e aveva annuito «Dammi la mano. Al tre corriamo. Tra cinque minuti saremo a casa, al caldo!» gli aveva detto allungando la mano verso la sua. Kenma l'aveva guardata un istante e poi l'aveva stretta, ancora un po' scettico ma Kuroo aveva gridato “tre!” prima che fosse pronto. Lo aveva trascinato sotto l'acqua scrosciante, costringendolo a chiedere alle sue gambe uno sforzo immane; Kuroo era alto e veloce, ma Kenma non sarebbe potuto rimanere indietro nemmeno volendo – la mano dell'altro, grande e calda contro la sua, non sembrava volerlo lasciar andare nemmeno per sogno.
Dopo i primi passi impacciati divenne più semplice, correre con lui per le stradine di una città che sembrava paralizzata da quel piovoso imprevisto.
Kuroo non si sarebbe fermato per così poco, e non lo avrebbe permesso nemmeno a lu. Fu allora che cominciò a ridere.
La pioggia che gli scivolava sul corpo portava via la paura dei tuoni e degli esserei umani, portava via la noia delle giornate sempre uguali della sua vita prima di Kuroo, portava via le ansie, le preoccupazioni, le speranze abortite del bambino che aveva smesso troppo presto di essere. Kenma rideva di una risata che arrivava dritta al cuore dell'altro, che non aveva mai sentito un suono così bello.
«Vuoi fare una doccia?» gli chiese il maggiore una volta entrati nel suo appartamento, con una leggera tensione nella voce, con un impaccio che veniva dal fatto che ormai ne era sicuro: i sentimenti che provava erano del tutto fuori luogo – inaspettati e violenti erano esplosi senza che riuscisse davvero a rendersi conto di come la sua curiosità si fosse trasformata nella voglia di non lasciarlo andare mai più.
Il più giovane, che era riuscito a recuperare un certo contegno, provò a scuotere la testa per non abusare della sua ospitalità.
«E così ti prenderai un raffreddore. Non se ne parla. Aspetta, ti prendo un asciugamano... e qualcuno dei miei vestiti, così puoi cambiarti. È evidente che non puoi tenerti addosso i tuoi.» «Ma... saranno enormi per me!»
«devi tenerli addosso solo il tempo di far asciugare i tuoi. Giuro sul mio onore che farò di tutto per non farti ammalare» promise, sottolineando la frase mettendosi solennemente una mano sul cuore. Kenma ridacchiò «e tu?»
«Io sono un ragazzone grande e forte, me la caverò» disse facendogli l'occhiolino ed entrando in bagno.
Non chiuse bene la porta, era abituato a stare da solo e non lo faceva mai.
Nonostante sapesse che non era giusto, Kenma si spostò un poco per spiarlo mentre buttava in un cesto i vestiti bagnati tenendosi addosso solo i boxer prima di avvolgersi in un grosso asciugamano: aveva le spalle larghe e la vita sottile, e muscoli che guizzavano appena sotto lo strato della pelle leggermente più scura della sua. I capelli gocciolavano sulle sue spalle, e finalmente avevano un aspetto umano. Lo vide gettarsi un secondo asciugamano, più piccolo, intorno al collo.
Kenma era arrossito completamente nel rendersi conto che no, proprio non ci riusciva a smettere di guardare se non si imponeva di farlo.
Fu in quel momento che, per la prima volta, rifletté seriamente sulla sua sessualità: aveva sempre avuto solo rapporti con uomini, ma quello era lavoro e passava quasi tutto il tempo a cercare di annullarsi per non sentire nulla, per non sentire lo schifo di mani estranee sul suo corpo, per non sentire l'odore di sudore misto a quello del preservativo che aveva sempre preteso fosse utilizzato – era una delle poche cose che si potesse dire sua madre gli aveva insegnato.
Kenma Kozume non aveva mai pensato di poter essere attratto da qualcuno, di poter provare sentimenti per qualcuno ma stava succedendo; quali non avrebbe saputo dirlo. Dei sentimenti nessuno gli aveva mai detto nulla, e anche quelli più naturali aveva con gli anni imparato a reprimerli o non sarebbe riuscito a convivere con se stesso. Eppure Kuroo, in qualche modo, gli piaceva. Gli piaceva più di Suga, gli piaceva più di chiunque.
«Ti lascio i vestiti puliti e l'asciugamano in bagno. Fa con calma» Kuroo non gli aveva fatto notare che si era come bloccato. Si riscosse al suono della sua voce e si affrettò ad entrare in bagno chiudendo bene la porta. Era strano, erano strane le sensazioni che provava, voleva solo tornare al suo stato di tranquilla apatia e dimenticarsi di tutto quel caos che gli si agitava tra il cuore e il cervello.
Kuroo si asciugò i capelli come poteva con un asciugamano troppo piccolo e si vestì nuovamente prima di sedersi sul letto-divano e si mise a guardare qualcosa in tv senza seguirlo davvero: Kenma era nel suo bagno, a una distanza irrisoria, e solo questa consapevolezza bastava a scombussolarlo completamente. Provò a distrarsi leggendo qualche messaggio ma si accorse che lo infastidiva il fatto che gli avesse scritto di nuovo la ragazza con cui si sentiva prima di cominciare a vedere Kenma, ragazza che aveva semplicemente cominciato ad ignorare e che a quel punto doveva aver capito: non voleva avere più niente a che fare con lei, e si sentì un po' Bokuto quando le scrisse le cose chiare e tonde, senza mezzi termini. Lo stesso fece con il tipo che gli scriveva se aveva voglia di andare a trovarlo a casa; a lui scrisse che non si sarebbero visti per un po', in caso lo avrebbe contattato lui. Si accorse che erano quattro mesi che non cercava rapporti occasionali.
Kenma riemerse dal bagno in una nuvola di vapore, apparentemente minuscolo con addosso una sua maglia e un paio di calzoncini della tuta che gli arrivavano fino a metà polpaccio.
«Ho freddo» si lamentò arricciando il naso e socchiudendo gli occhi.
«Vieni qui. Devi asciugare bene i capelli e poi ti do una felpa» gli disse facendogli segno di raggiungerlo sul letto. Non aveva pensato a come avrebbe potuto prenderla, perché il ragazzino non protestò quando prese posto accanto a lui.
Kuroo lo convinse a spostarsi tra le sue gambe lunghe, in modo da potergli asciugare i capelli, frizionandoli con cura «cosa stiamo guardando?» gli chiese il biondo che si godeva quelle attenzioni come se fossero la cosa più naturale del mondo.
«Un film sui supereroi. Adoro queste cose» confessò mentre asciugava bene le punte di quei capelli tinti. Tra le braccia e le gambe di quel ragazzone, col suo petto praticamente a contatto con la schiena, Kenma si sentì rilassato e protetto come non mai.
«Ma questo non ha senso!» Sbottò il più giovane all'ennesima scena assolutamente esagerata.
«Sssh! È stupendo!»
Kenma si era girato verso di lui in quello che ormai era un abbraccio vero e proprio per guardarlo male, ma il moro era davvero troppo preso da quelle scene senza senso che continuavano a susseguirsi in un climax delirante: come facevano le bombe a buttare giù solo quello che serviva al protagonista?! Andiamo! Visto che tanto non lo degnava di nessuna attenzione si accoccolò meglio tra le sue braccia, borbottando di tanto in tanto contro lo stupido film.
Kuroo lo strinse meglio, beandosi del suo calore e del profumo del suo shampoo che saliva dai capelli dell'altro. C'era qualcosa di incredibilmente giusto a stringerlo tra le braccia, a sentirlo borbottare contrariato per il film, a sentire il profumo dei suoi capelli puliti.
Solo alla fine del film si rese conto che si era addormentato. Sorrise intenerito e non resistette alla tentazione di dargli un bacio sulla fronte, sentendosi poi subito dopo una specie di ladro: non gli bastava, non voleva solo quello, voleva tenerlo con sé per sempre.
Sapeva che avrebbe dovuto svegliarlo, ma si mosse in modo da non farlo, lo sistemò meglio nel suo letto troppo grande per lui solo e lo coprì con cura dopo aver spento la tv. Si alzò a bere un bicchiere d'acqua, perché la sua mente gli stava giocando dei brutti scherzi: tra lui e Kenma non ci sarebbe stato più di una bella amicizia, non avrebbe mai – e per nessun motivo – osato chiedergli qualcosa di diverso. Lo sapeva che non glielo avrebbe mai perdonato.
Era solo una manciata di mesi che si frequentavano, ma già sentiva di aver bisogno di lui nella sua vita, anche se solo come un amico. Perché avrebbe fatto qualunque cosa per quel piccoletto, anche soffocare quello che effettivamente si era sentito nascere dentro dal primo momento in cui lo aveva visto per offrirgli l'amicizia che fino a quel momento non aveva avuto.
Avrebbe dormito sul pavimento, quella notte, era meglio non complicare ulteriormente le cose.

Il giorno dopo si era svegliato e aveva visto gli occhi di Kenma aprirsi lentamente su di lui.
Dormiva tutto raggomitolato su un fianco, minuscolo e avvolto nella coperta coi capelli sparsi sul suo cuscino. Ci mise un po' a riprendere conoscenza, ma era domenica mattina e lui non aveva fretta: poteva osservarlo svegliarsi pigramente, poteva osservarlo sbadigliare e mugugnare prima di arrotolarsi meglio la stoffa intorno, poteva osservarlo stropicciarsi gli occhi e stiracchiarsi sbadigliando ancora. Poi Kenma parve rendersi conto di non essere a casa sua, e sbattè le palpebre un paio di volte prima di realizzare che c'era Kuroo in piedi con una tazza di caffè che lo guardava sogghignando «buongiorno» gli disse ammiccando.
Poi Kenma si mise a sedere, ancora stropicciandosi gli occhi «non ho cioccolata calda. Solo caffè e the verde, ma si possono sempre zuccherare molto» gli disse prima che lui potesse aprire bocca.
«Caffè» pigolò il biondo «dolce» aggiunse avvolgendosi di nuovo nelle coperte.
Poi vide il cuscino a terra, e la coperta accanto a letto – lo capì subito che gli aveva lasciato il suo letto, che aveva trovato uno spazio sul proprio pavimento per non metterlo a disagio. Sorrise segretamente contro il cuscino che aveva l'odore dell'eccentrico proprietario di quell'eccentrico appartamento – stupendi entrambi.
«Ha smesso di piovere giusto poco fa, ha continuato tutta la notte» lo informò sedendosi sul bordo del letto e porgendogli la tazza calda il moro che ridacchiava ancora «tieni micetto.»
Kenma si stiracchiò di nuovo, contro le sue gambe stavolta, e si rimise a sedere e dopo averlo guardato negli occhi con espressione serissima disse semplicemente «miao» prima di prendere il suo caffè – Kuroo dovette mordersi l'interno della guancia molto forte per costringersi a rimanersene buono e al suo posto.
Mentre beveva lo informò che i suoi vestiti erano di nuovo asciutti.
Mugugnò qualcosa «devo tornare a casa.»
Kuroo annuì «lo immaginavo. Ci vediamo domani?» gli chiese riprendendo la tazza ormai vuota e mettendola nel lavandino. A Kenma piacque da morire quella domanda, quella richiesta in quel momento e annuì.
«Allora in bagno ti ho messo uno spazzolino nuovo. Lo tenevo per Bokuto, ma non lo ha mai usato quindi se vuoi diventa tuo.» gli disse.
Il biondo si alzò un po' a malincuore e raccolse le sue cose per portarle in bagno.
Tornare alla sua vita di tutti i giorni non era mai stato così difficile.

Il giorno successivo Kenma non si fece vedere. Kuroo gli scrisse diversi messaggi, ma non ottenne nessuna risposta, e non osò chiamarlo per paura di fare qualche danno.
Il giorno dopo ancora non sapeva nulla, così come quello dopo ancora.
Si decise ad andare in quel bar dove si erano parlati la prima volta, quello in cui andava praticamente ogni mattina; individuò subito il cameriere dai capelli bianchi – solo in quel momento cominciò a temere per la propria incolumità, di fronte a quel ragazzo-mamma al quale avrebbe dovuto dire che non riusciva a comuncicare con Kenma, che lo aveva perso da qualche parte.
Non arrivò la sgridata che si aspettava, ma uno sguardo pieno di compassione – per chi, poi, non avrebbe saputo dirlo.
«No, non l'ho visto nemmeno io da qualche giorno. Ma non è la prima volta che succede, e se ti interessa davvero di lui forse dovresti lasciarlo perdere. O trovare il modo di portarlo via. E comunque adesso è inutile che lo cerchi, per un altro paio di giorni non lo vedrà nessuno, poi apparirà di nuovo come al solito.» Non aveva capito nulla, Kuroo, ma quel ragazzo aveva l'aspetto di uno di cui ci si poteva fidare, di uno che prendeva sul serio a cuore le persone.
Kuroo aveva annuito e se ne era andato dopo avergli chiesto di dire a Kenma che lo aveva cercato, nel caso lo avesse visto; era tornato però il giorno successivo a vedere se per caso poteva trovarlo al solito posto – si era fatto prestare la macchina da Bokuto: gli aveva spiegato la situazione e come al solito si era mostrato disponibile ad aiutarlo come poteva. Ma Kenma non c'era, e continuava a non rispondere, e lui aveva di nuovo smesso di dormire.

Ci volle più di una settimana perché lo vedesse di nuovo.
Era quasi l'alba quando una macchina lo scaricò al suo posto sul marciapiede: aveva il viso stanco e gli occhi spenti, e Kuroo si sentì improvvisamente furioso. Si avvicinò a lui e lo guardò senza sapere cosa aspettarsi «sali» gli disse.
E Kenma era troppo stanco per rispondere, si strinse il corpo con le braccia e scosse la testa «sto lavorando.»
Fu allora che Kuroo lo vide, il livido che usciva dal bordo della maglietta. E quello che il trucco non riusciva a coprire sullo zigomo, e quello sul collo che sembrava tanto simile alla morsa di una mano.
«Sali» sibilò sentendo la rabbia che gli montava dentro. Stringeva il volante con entrambe le mani e teneva gli occhi fissi davanti a sé, dove decine di altri ragazzi come Kenma continuavano a cercare di attirare l'attenzione di clienti.
«Sali!» Ringhiò con un tono spaventoso – Kenma non seppe far altro che obbedire. Kuroo era arrabbiato? No, non sembrava rabbia la sua, ma qualcosa di intimo e diverso. Era partito a tutta velocità, subito, senza aspettare neppure un istante. Aveva guidato per andarsene da lì, per portare la macchina lontano – non importa dove, solo non qui.
Kenma era leggermente spaventato per quella reazione, non sapeva come comportarsi né dove guardare: i muscoli delle braccia del moro eran tesi e gonfi, come se lui stesse facendo uno sforzo enorme. Si rannicchiò sul sedile per guardare fuori, cercando di ricordare che c'era Kuroo al suo fianco e che non doveva aver paura.
Il cielo si schiariva mentre loro uscivano dalla città.
«Cos'è successo?» La domanda lo colpì con forza, nonostante se la fosse sinceramente aspettata. Kuroo aveva fermato la macchina in uno spiazzo in mezzo al nulla, e Kenma sentiva i suoi occhi insistenti sulla nuca pur ostinandosi a non voler incrociare il suo sguardo: doveva smettere, doveva smettere di vederlo e sentirsi vivo, doveva smettere di vederlo e sentirsi al sicuro.
«Niente.» rispose, lo sguardo fisso sul proprio riflesso.
«Kenma, che cosa è successo? Chi è stato?» Lo sentiva che si stava sforzando il più possibile per rimanere calmo, e fu costretto a reprimere qualunque emozione verso quel bizzarro ragazzo col sorriso ambiguo e l'abbraccio più bello del mondo.
«Chi ti ha... » Kuroo insisteva, Kenma si voltò di scatto «nessuno. Nessuno mi ha fatto niente.» la voce era uscita appena, un miagolio strozzato per niente credibile anche alle sue orecchie.
Kuroo allungò le dita verso la sua gola, dove il suo protettore – l'uomo di sua madre – aveva stretto fortissimo solo pochi giorni prima, togliendogli l'aria e la voglia di provare a respirare. Cominciò a tremare, ma il tocco di Kuroo era delicato e non faceva male: uno sfiorare gentile e premuroso, preoccupato. Ma non poteva aspettarsi nulla nemmeno da lui, in fondo.
Distolse lo sguardo dal suo viso e voltò la testa.
«Cos'è successo?» Insisteva ancora, ma Kenma sembrava aver finito di nuovo le parole.
Sentì che il maggiore sospirava come a cercare di mantenere ancora la calma «Sono giorni che ti cerco e non riesco a trovarti. Il ragazzo-mamma di quel bar ha detto che non è la prima volta, che devo lasciarti perdere o portarti via» eh sì, erano parole di Suga quelle. Erano parole di un Suga che aveva classificato Kuroo come una brava persona, una persona di cui fidarsi.
«Sono giorni che penso che è colpa mia, che ti cerco e non riesco a raggiungerti...» Kenma si accorse che era difficile continuare a non reagire, e per una volta nella sua vita fu costretto ad imporsi il silenzio, una totale indifferenza «devi davvero dirmi qualcosa, o non riuscirò a fare altro. Devi dirmi qualcosa o impazzirò... sei così minuscolo che chiunque potrebbe farti a pezzi e buttarti in un secchio della spazzatura» ma Kenma continuava a tacere, costringendosi a non guardarlo.
«Yaku dce che sono uno stupido, che sono io che sbaglio, che non avrei dovuto nemmeno rivolgerti la parola che non si comincia un rapporto con uno che fa il tuo mestiere per poi aspettarsi qualcosa di serio o di vero.» Kenma sentì il proprio cuore andare in frantumi, aveva stretto gli occhi fortissimo per non piangere.
«Dice che sarà sempre così se continuo a starti dietro, se continuo a cercarti. Dice che sparirai ancora, perché non ti importerà mai davvero»
Solo a quel punto, molto lentamente, Kenma si girò di nuovo. Non capiva bene quali sentimenti gli stessero facendo bruciare il petto, ma si impose freddezza nel parlare «allora forse dovresti dar retta a Yaku.»
Non pensava potesse succedere, ma negli occhi di Kuroo vide il suo cuore spezzarsi «vuoi che lasci perdere? Tu vuoi che me ne vada?»
Distintamente, Kenma percepì che gli occhi gli si riempivano di lacrime, e che il viso arrossiva, e il naso cominciava a pizzicare – segni inequivocabili di un pianto imminente a cui non aveva intenzione di abbandonarsi. Annuì, troppo insicuro della voce per parlare.
«Non ci credo. Non ci credo, devi dirmelo.» Tremava appena la sua voce. Tremava appena anche se cercava di infondere nel suo tono una sicurezza che, evidentemente, non aveva più.
«Sì. Devi andartene, devi lasciarmi perdere. Non capisci, tu non puoi capire... l'uomo di mia madre non ha problemi ad ammazzarmi se pensa che gli ho mancato di rispetto mentre sto lì. Sono un suo giocattolo, e continuerà ad essere così fino a che starò a casa sua... e non ho un altro posto dove andare. Non finisce solo perché tu sei una brava persona, non gli importa di questo né di altro. Tutto questo me l'ha fatto capire bene.» La voce era uscita strascicata e portarsi la mano destra alla gola era stato istintivo.
Kuroo rimase in silenzio per un momento che era sembrato infinito «vieni a vivere con me» la frase era sembrata salirgli improvvisamente alle labbra.
«Non ho bisogno della tua pietà» rispose istintivamente.
«Non sarebbe pietà. Potresti vivere con me» disse con ancora più convinzione.
«Non ci sarebbe spazio nemmeno volendo» Kenma stava cercando con tutte le proprie forze di rimanere razionale.
«Ma vorresti?» Avrebbe voluto? Non gli era dorse mai stato chiesto, così rimase in silenzio abbastanza perché l'altro decidesse di insistere «devi solo dirmi che lo faresti, me la vedo io poi» Kenma non parlava ancora, così Kuroo continuò «conosci già il mio appartamento, e sei l'unico al mondo che può muoversi lì dentro con tanta disinvoltura»
«Non ho un lavoro.»
«Bokuto ha bisogno di una mano al pub» la sicurezza con cui aveva risposto non lasciava assolutamente intendere che in realtà non avesse la più pallida idea della quantità di personale impiegata in quel locale.
«Non so come funziona, non ho mai lavorato, non mi assumerebbe nessuno.»
«Non mi importa e non importa a Bokuto, lo capisci?!» Kenma sobbalzò: l'altro aveva alzato la voce. Voleva solo buttarsi tra le sue braccia, in realtà, voleva solo buttarsi tra le sue braccia e chiedergli di proteggerlo, di portarlo via, di dirgli che sarebbe andato tutto bene. Uscì di corsa dalla macchina e cominciò ad allontanarsi – quanto, poi? Erano in un'area di sosta n mezzo al nulla, nel sole tiepido di una mattina di fine marzo.
Kuroo lo aveva raggiunto presto, lo osservava in quel momento subito alle sue spalle. Molto lentamente percepì le mani risalirgli lungo le braccia, come fosse indeciso se stringerlo a sé o meno. Kenma lasciò passare quei secondi lunghi come ore, con tutti i sensi attivi a tal punto che gli sembrava di poter percepire qualunque cosa. Kuroo era lì, era immobile alle sue spalle e non lo toccava ancora, gli lasciava tempo ancora. Non lo aveva mai nemmeno sfiorato senza essere sicuro che fosse pronto, che fosse a suo agio – gli aveva portato nella vita qualcosa che non pensava nemmeno potesse esistere.
Si girò per trovarsi praticamente con il viso sul petto dell'altro, stretto in quell'abbraccio senza contatto; lo osservò bene negli occhi e si sollevò sulle punte dei piedi per posargli un bacio sulle labbra.
Fu un bacio un po' strano, infantile e curioso – occhi spalancati e labbra serrate – di un'intensità devastante.

Kuroo aveva sempre considerato le cose usate assolutamente piene di fascino; la sua macchina, per esempio, quella probabilmente più vecchia di lui, quella per cui aveva quasi litigato col rivenditore per un prezzo che non le rendeva giustizia, se ne stava in quel momento dimenticata in un'area di sosta chissà dove fuori città con gli sportelli spalancati – non importava più e basta.
Non importava nulla, ed era la prima volta: fin da quando era molto giovane era andato a cercare gli oggetti più strani, quelli più malridotti , quelli dimenticati da tutti. E bisognava lavorarci sopra, prendersi tempo per conoscerli per poi farli tornare all'antico splendore – e che soddisfazione quando tornavano ad essere la meraviglia di prima!
Aveva cercato sempre qualcosa, ma non in quel momento.
«E così sono una brava persona?» Ridacchiò Kuroo stringendo per bene il più giovane, che lo guardava attraverso le palpebre socchiuse con occhi che brillavano come stelle.
«Pff! Sta zitto» sbuffò Kenma prima che Kuroo lo baciasse di nuovo – seriamente, stavolta.










Io ci provo anche stavolta: se ci sono errori fatemeli presenti. Anche per quanto riguarda la gestione dei personaggi, è la prima volta che scrivo una KuroKen.
Grazie!

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Capitolo 2
*** l'odore delle cose nuove ***


Okay, quella delle storie usate era nata come one shot, ma poi ho deciso di provare a scrivere una KuroTsukki, e se Kenma è una cosa usata Tsukki non può che essere quella nuova. È sempre parte, ovviamente, della stessa au e infatti la storia è diventata a capitoli, e probabilmente potrebbe concludersi davvero con questa, anche perché quella sulle cose rotte mi è stato tipo imposto di non scriverla...
Insomma, l'avevo promessa ed eccola qui.
Provo nuovamente a chiedere una qualunque reazione da parte di chi legge, ma soprattutto da parte di chi l'ha aggiunta tra preferiti et similia. Nel senso, mi fa tanto piacere se qualcuno apprezza quello che scrivo, ma davvero sarei felicissima di sapere perché. Ancora di più sarei felice di ricevere critiche e consigli per migliorare. Va beh.
Potrebbero esserci errori di battitura o di altro genere, ho provato a rileggerla ma non sono convinta di aver tolto tutto. E, sono ancora convinta che Kuroo sia finito ooc, soprattutto nella parte finale.
NB, i personaggi non sono cambiati, quindi–







L'Odore delle Cose Nuove






Kenma non usava profumo, dopobarba, acqua di colonia; quell'informazione lo raggiunse come uno schiaffo improvviso mentre sbottonava il colletto della camicia di Tsukishima Kei.
Kenma odorava di buono, di sapone per vestiti e di shampoo al muschio bianco, e la sua pelle aveva un odore delicato che gli riempiva il cervello la notte, quando lo stringeva appena approfittando del fatto che lui dormisse già e gli spostava leggermente i capelli dalla nuca per inspirare profondamente proprio lì, dove il suo odore si annidava maggiormente. Lo faceva perché sarebbe rimasto un segreto per sempre, Kenma non lo avrebbe saputo e lui non avrebbe avuto paura di fargli del male in quel modo. Lo faceva perché Kenma non lo avrebbe saputo mai e si sentiva un ladro, un ladro che si stava appropriando di qualcosa che non era suo e che non avrebbe neppure dovuto volere.
Dopo quella mattina, dopo quel bacio, dopo quella stretta, Kuroo non aveva più avuto il coraggio di ripetere quel gesto e si era convinto di aver fatto qualcosa di terribilmente sbagliato – era debole, era fragile in quel momento, hai approfittato di un momento di cedimento che non avresti nemmeno dovuto vedere.
Ebbe lo scoordinato pensiero che fosse sbagliato – non aveva esattamente chiaro cosa – mentre mordeva il collo del biondo che non aveva saputo difendersi a lungo dal suo gioco di seduzione. Tsukishima era un bel ragazzo, completamente impreparato al mondo reale nonostante la feroce ironia che permeava ogni suo gesto e ogni sua frase fosse condita da battute velenose. Era arguto e brillante, ma non sapeva proprio nulla di passioni e angoscia, e sentimenti violenti e travolgenti. Se ne accorgeva dai suoi gesti impacciati, dalla sua passione trattenuta: non era abituato a incontri del genere. Era un oggettino nuovo nuovo che nessuno aveva mai avuto modo di toccare – era una vita che Kuroo non aveva niente di nuovo, era una vita che non desiderava qualcosa di nuovo e adesso che lo stringeva tra le mani, che si riempiva la bocca del suo sapore, non capiva che cosa ci fosse di sbagliato. Gli dava un gusto quasi sadico il sapere che poteva averlo, che lo stava sporcando lui per primo.
Gli mancava qualcosa, però, e non era riuscito a capire che cosa nemmeno dopo, quando aveva spento il cervello e si era lasciato trascinare dall'istinto, nemmeno quando aveva cominciato ad affondare nel calore bollente del suo corpo con mille attenzioni: le cose nuove una volta rotte non valgono più nulla.

Kuroo aveva conosciuto Tsukishima in una giornata di qualche settimana prima, in pausa pranzo; era stato assunto nella sua stessa azienda e si era divertito a stuzzicarlo nel tentativo di incrinare quella sua impostata rigidità. Era beffardo, era saccente, era altezzoso, era sarcastico, ed era diventata una questione di principio riuscire a farlo suo.

A casa, a Kenma aveva raccontato la cosa senza accennare però al fatto che lo aveva trovato estremamente interessante. Non era una menzogna, si ripeteva – è solo un modo per farlo stare tranquillo, solo perché non pensi male.

Tra lui e Kenma non c'era praticamente nulla: il più giovane si era trasferito da lui, che gli aveva fatto spazio nell'armadio, in bagno, in cucina, nel letto. Kenma era silenzioso e tranquillo, aveva lavorato con Bokuto per un po' ma poi – come sostanzialmente si aspettava – era andato a lavorare per Suga, il ragazzo-mamma. La sera, quando erano entrambi a casa, passava ore a cercare di capirlo mentre guardavano un film o giocavano a qualche videogioco, e aveva imparare leggere ogni espressione sul suo viso apparentemente apatico, aveva imparato ad accorgersi delle tempeste violente che nessuno sembrava vedere.

Kenma, a Bokuto, era piaciuto un sacco – non a caso Kuroo aveva temuto che lo avrebbe fatto scappare con le sue esplosioni di vitalità, con le sue assurde idee, con la sua curiosità e i suoi sbalzi d'umore – non si accorgeva, Kuroo, che erano loro due insieme ad essere La Vitalità fatta persona, non si rendeva conto che Kenma invece lo sapeva bene e non aveva nessuna voglia di scappare. Kuroo se ne sarebbe anche accorto se solo avesse guardato come avrebbe dovuto – come avrebbe voluto.

Invece aveva cominciato a vedere Tsukishima, e il gioco era diventato una sorta di sfida: non sapeva neppure per quale motivo avesse deciso di prendervi parte – bugiardo, vuoi Kenma e non hai il coraggio di dirlo, vuoi Kenma e non hai il coraggio di dirtelo, e prendi questo ragazzo che è un giocattolo nuovo e anneghi nella menzogna che è il tuo desiderio di lui.

Kuroo si ricordava di quando da bambino chiedeva, come tutti i bambini, di avere giocattoli nuovi. Dio, quanto li desiderava! Per mesi non c'era altro se non quel desiderio devastante, e alla fine sua madre cedeva e, solo in occasioni speciali come il suo compleanno, gli faceva trovare un pacchetto impeccabile con un bel fiocco e la carta brillante. Lui vedeva il pacchetto scintillante e bellissimo e lo scartava bramoso, certo come solo un bambino può essere che quello che c'era al suo interno lo avrebbe reso felice per sempre.
Nel migliore dei casi dopo due settimane si annoiava e lo dimenticava nel baule, che era un cimitero di oggetti ancora nuovi o usati giusto quel tanto che avrebbe giustificato la prossima richiesta; poi tornava dalla vecchia palla regalatagli da un padre che ancora si ostinava a considerare il suo eroe, e dalle macchinine che di tanto in tanto gli aveva portato quando, di ritorno da un lungo periodo di assenza voleva farsi perdonare in qualche modo. E quel bambino assetato dell'amore di lui le metteva tutte da parte, e finiva sempre per rivolgere la sua attenzione a quegli oggetti scrostati, rotti, rattoppati.

Inadeguatamente, pensava a questo la seconda volta che aveva spogliato Tsukishima Kei, pensava alla mattina di Natale in cui sua madre, per rendergli meno pesante la mancanza del padre gli aveva regalato proprio quel gioco che tutti volevano. Non ricordava cosa fosse, nonostante ci stesse provando – è un momento inopportuno, non puoi farlo mentre ti spingi tra le cosce di un ragazzo che hai tanto intensamente rincorso – no. Non/è/lui.
Sperngere il cervello e concentrarsi su quello che stava facendo era necessario ma difficile, e spingeva con forza come sentisse la necessità di arrivare da qualche parte. La voce di Tsukki cominciò ad arrivare alle sue orecchie, e solo in quel momento si rese conto di dover pensare anche a lui, che doveva essere molto vicino all'orgasmo.
Nel momento in cui gli venne tra le dita emise un gemito strozzato e Kuroo ebbe la testa improvvisamente piena della voce di Kenma, della sfumatura che doveva assumere la sua voce mentre faceva l'amore; dietro le palpebre serrate vide i suoi occhi lucidi di piacere, vide il suo volto senza maschere né veli, troppo coinvolto da quello che stava succedendo per poter pensare di sembrare indifferente, vide il suo corpo abbandonato sotto le sue mani e le labbra socchiuse appena per riempire d'aria i polmoni in quel momento di massimo coinvolgimento.
Fu quasi inaspettato l'orgasmo che lo colse, e poté solo sperare di non averlo chiamato mentre veniva; ma Tsukki non gli stava dicendo nulla, e il bacio che Kuroo gli diede fu un bacio di disperata consapevolezza, fu un bacio di scuse che lui, ignaro, non poteva sapere di avere il diritto di pretendere.
Era ora di farla finita con quella farsa, Kuroo lo sapeva che quella sorta di bugia non avrebbe più retto, non dopo quella presa di consapevolezza così violenta – ma in fondo lo sapevi dal primo momento in cui l'hai visto che la tua vita non sarebbe mai più stata la stessa, smettila di prenderti in giro, smetti di fingere di non saperlo, smettila di rifiutarlo.
Stringeva un corpo nudo e per la prima volta non gli bastava.
Mentre Tsukki recuperava un battito cardiaco regolare lui cercava di convincersi che era tutto quello che voleva, che aveva tra le mani esattamente la persona che voleva. Sfregò il naso sulla pelle del suo collo e sentì la traccia residua del dopobarba che doveva aver usato al mattino, ed era un odore pungente e brillante e ancora una volta ebbe un'immagine chiara, Tetsurou, di se stesso da bambino alle prese coi pacchetti della mattina di Natale.
«Te ne devi andare?» e in quella domanda Kuroo non volle sentire l'implicita richiesta a rimanere. Si tirò sui gomiti sogghignando e dandogli un giocoso bacio sul naso «sì, bel biondino. Devo tornare a casa da...» Kenma. Ma ebbe un lampo di folle certezza: se l'avesse nominato Tsukki avrebbe capito ogni cosa.
Il biondo aggrottò le sopracciglia a quella frase sospesa «non sapevo vivessi con qualcuno» quel discorso non gli piaceva, così gli diede un altro bacio e cominciò a rivestirsi rapidamente: voleva tornare da Kenma il prima possibile, era già tardi e lui non dormiva mai bene da solo. Doveva essere rientrato da un paio d'ore e probabilmente si stava chiedendo dove fosse. Probabilmente aveva scaldato l'acqua per farsi una tisana bollente, e poi doveva aver fatto la doccia. In quel momento, probabilmente, stava giocando a qualche videogioco nella speranza di non addormentarsi – o forse dormiva già, Kuroo sperava di no perché aveva incubi tutte le notti e doveva abbracciarlo forte e svegliarlo per fargli capire che non c'era nulla di male, che nessuno gli avrebbe più fatto male. Poi, il giorno dopo, avrebbero finto che non fosse mai successo nulla.
«Ti... ti scrivo. Presto» gli disse per cacciare quei pensieri dalla sua testa – il viso di Kenma pallido e le guance rosse, e gli occhi lucidi la mattina in cui gli hai chiesto di andare a vivere con te, e la dolcezza infinita della sua voce, e la morbidezza delle sue labbra quella mattina, e il profumo sottile e tiepido della sua pelle – e praticamente scappò via da quella casa.

Non poteva tornare da lui, non in quel modo; se avesse visto Kenma probabilmente si sarebbe messo ad urlare a pieni polmoni tutta la sua frustrazione.

Rimaneva solo Bokuto, Bokuto in cui sperava per risolvere quell'impiccio, Bokuto che lo aveva sempre aiutato nei momenti difficili. Era tardissimo, ma non aveva importanza in quel momento, doveva solo risolvere quella situazione e liberarsi di quel peso.
Quasi di corsa arrivò al suo appartamento e si mise a suonare al citofono, del tutto indifferente alla possibilità che stesse dormendo.
Fu dopo diversi minuti che ricevette risposta – la voce era assonnata e gracchiante, irriconoscibile al vecchio citofono. Salì le scale di corsa, senza aspettare l'ascensore; erano solo due piani, in fondo, e aveva energia in eccesso da smaltire.
Alla porta dell'amico vide Akaashi ma non ci fece caso, si fiondò dentro andando direttamente in cucina a prendere una birra che sapeva essere in frigo.
«Kuroo...»
«Ehi... Bokuto?» Chiese aprendola e attaccandosi alla bottiglia per tirarne giù metà con due sorsate. «Sta lavorando...» gli rispose Akaashi decisamente perplesso.
«Mh?» Mugugnò prendendo un'altra abbondante sorsata.
«Kuroo, mi spieghi che ci fai qui alle...» controllò velocemente l'orologio che faceva bella mostra di sé sulla parete «alle due e mezza?!» La nota infastidita nel fondo della sua voce era difficilmente ignorabile, ma a Kuroo non importava, sinceramente. Non aveva modo di concentrarsi su qualcosa che non fosse lui, che non fosse Tsukki o Kenma.
«Sto cercando Bokuto. Ho bisogno di parlare con lui, adesso» spiegò sbrigativo. Finì la birra e andò a prenderne un'altra mentre Akaashi, con un sospiro rassegnato si metteva a sedere al tavolo della propria cucina massaggiandosi gli occhi con una mano.
«Che problema c'è? Te l'ho detto, Bokuto non c'è. Vuoi dire a me?» Provò con una pazienza a dir poco stoica: Kuroo era il miglior amico del suo uomo, era sempre fin troppo attivo e vederlo in quello stato effettivamente era strano. Certo, sarebbe stato più portato alla compassione se non lo avesse svegliato nel cuore della notte per finirsi le sue birre, ma non era disposto nemmeno a pensarci in quel momento.
«Eh? No, no, non... non fa nulla» disse dopo aver buttato giù altra birra.
«Senti, cosa sei venuto a fare? Lo sai che lavora la notte, di solito. Mi hai tirato giù dal letto, tra tre ore devo alzarmi per andare a lavorare. Dimmi quello che vuoi o lasciami perdere.»
Kuroo aveva gli occhi stralunati, sembrava davvero fuori di sé ma Akaashi non aveva nessuna voglia di fargli da balia a quell'ora.
«Sì, scusami, io... io... vado, scusa ancora» disse alzandosi con la sua bottiglia stretta in mano. Se ne uscì quasi di corsa, lasciando l'altro talmente perplesso da non riuscire nemmeno a sentirsi troppo irritato: se ne tornò a letto con la strana consapevolezza che era successa una cosa davvero strana e che il giorno dopo avrebbe dovuto ricomprare le birre.

Quella sera Kuroo tornò a casa completamente ubriaco; Kenma stava già dormendo, ovviamente, e lui non ebbe il coraggio di mettersi a letto. La cosa più intelligente che gli venne in mente fu andare a dormire nella doccia.


Il giorno dopo, quando lo vide lì, il cuore di Kenma si strinse in maniera estremamente dolorosa: si era rotto qualcosa, era ormai impossibile fingere di non accorgersene. Ma che si aspettava, alla fine? Aveva avuto pietà di lui e se lo era portato a casa, ma ormai era ora di sloggiare: era diventato solo un peso che gli impediva di vivere la sua vita come avrebbe voluto, come aveva sempre fatto.
Uscì di casa in fretta, avrebbe usato il bagno di Suga come era successo spesso nella vita di prima. Aveva un'incredibile voglia di spegnersi, di avvolgersi nelle coperte e rimanere a non far nulla; magari avrebbe anche pianto un po' nascosto nell'appartamento di Suga – non sarebbe stato uno sforzo eccessivo a fronte di una giornata di ozio ed autocommiserazione.
Non poteva farlo, ovviamente, doveva andare a lavorare e Suga non gli avrebbe mai permesso di lasciarsi andare a quel modo.
Prima di uscire aveva guardato Kuroo una volta ancora: non sapeva come avrebbe fatto ad abituarsi nuovamente alla vita senza di lui, di lui che gli era entrato sotto la pelle riattivando un'emotività che pensava spenta per sempre. Non era pronto a lasciarlo andare, non era pronto a dimenticarsi della meraviglia costante di quei mesi in cui aveva avuto una vita normale per la prima volta da quando aveva memoria.
Non sapeva come, ma in qualche modo sarebbe riuscito a ricominciare ancora.

Per la prima volta da quando conosceva Kuroo, quel giorno Kenma fece di tutto per non incontrarlo. Non aveva voglia di far nulla, così si rintanò in un piccolo cinema che gli faceva da nascondiglio dalle brutte giornate sin da quando aveva dodici anni.
Quando ne uscì era già notte.
Per un attimo pensò di nuovo di scappare da Suga, ma poi avrebbe dovuto spiegargli per quale motivo non tornava a casa e sarebbe stato davvero troppo impegnativo, troppo faticoso.
Mentre camminava verso l'appartamento in cui viveva si rese conto di non riuscire a capire se sperava di trovare l'altro già lì oppure no; quando rientrando trovò la porta chiusa e tutto spento la delusione che lo colpì allo stomaco gli rese evidente la risposta.
Si rannicchiò nel letto senza forze, abbandonandosi a quella voglia di non fare assolutamente nulla che lo assediava da giorni: doveva parlare con Kuroo, che era senz'altro troppo buono per dirgli chiaramente che non lo voleva più lì. Aveva una storia, Kenma se ne era accorto da giorni dall'odore che aveva quando si infilava a letto la sera, dal modo in cui lo trattava, dalle assenze prolungate e dalle stupide giustificazioni che provava a rifilargli. Kuroo aveva una storia da settimane, e non poteva viverla davvero a causa sua che era troppo chiuso e troppo apatico per convincerlo ad averne una assieme, di relazione.
In quel momento ogni singolo gesto gli dava l'impressione di richiedere troppo: troppa energia, troppo sforzo, troppa volontà. Così aspettò il ritorno dell'altro in quella posizione e al buio, fissando la porta da cui avrebbe potuto non entrare per ore, con le ginocchia strette al petto e la testa completamente vuota.
Sentì il rumore delle chiavi nella serratura, sentì lo scatto e vide il fascio di luce del pianerottolo che sconfinava nell'ombra che lì regnava sovrana – il profilo degli strani oggetti accumulati da Kuroo negli anni aveva un aspetto malinconico ora che aveva la consapevolezza che presto avrebbe lasciato per sempre quel posto. Sì, sarebbe stato davvero strano considerare casa un altro posto, uno meno caotico, meno delirante – meno stupendo, meno casa di quello.
Si tirò a sedere prima che l'altro potesse accorgersi di lui, prima che potesse accendere la luce: si sentiva improvvisamente tranquillo, sereno, in un certo senso. Semplicemente, era finita quella partentesi della sua vita, che sarebbe stato un ingenuo a pensare sarebbe potuta durare a lungo.

Quando lo vide così, seduto con le gambe incrociate Kuroo si lasciò sfuggire un'espressione sorpresa «Ehi... ciao» disse.
Kenma rimase in silenzio a fissarlo, erano sparite tutte le parole dalla sua mente durante quel tempo senza inizio né fine in cui era rimasto ad aspettarlo.
Aveva un'espressione stranissima, e Kuroo si sentì colpire dal suo sguardo indecifrabile con la forza di un pugno in mezzo allo sterno: gli mozzò il respiro, gli annebbiò la mente e crollò sotto quegli occhi. Chiuse la porta e corse verso di lui – aveva fatto cadere un paio di cose nel tragitto e Kenma ebbe il tempo di vedere la scena a rallentatore e di stupirsi di quella scarsa cura – e gli fu vicino in un attimo. Scivolò in ginocchio davanti al letto e sollevò le mani come per toccarlo, fermandosi un attimo prima.
«Kenma, io... ho qualcosa da dirti» il suo cervello era stato svuotato dalla consapevolezza che, quel giorno, non solo non era riuscito a fare sesso con Tsukki, ma che non ci sarebbe riuscito con nessuno. Il suo cervello era stato interamente occupato dalla consapevolezza schiacciante che non era Tsukki il problema. L'avrebbe spiegato a Kenma e avrebbe pregato come non aveva mai fatto che non sarebbe scappato inorridito. Il cuore gli batteva così forte che aveva la sensazione di sentirlo nella testa, e l'aria nei polmoni era diventata improvvisamente così scarsa che pensava seriamente sarebbe potuto collassare da un momento all'altro. Ma doveva parlare, gli doveva quella spiegazione che si rifiutava di offrirgli da settimane «io... Kenma, io... è successa una cosa, devo...» Kuroo era in difficoltà e Kenma aveva la sensazione di poter vedere ad una ad una tutte le incertezze che lo stavano assalendo in quel momento.
«Kuro, lo so.» “Lo so che hai una storia, lo so che stai con qualcuno, lo so che non la stai vivendo come vorresti. E mi sono accorto dell'attenzione che ci stai mettendo perché io non me ne accorga.” questo non lo aveva detto ma Kuroo ebbe la sensazione di leggergli quelle parole direttamente negli occhi, nonostante la devastante speranza di sbagliarsi «Sta tranquillo, davvero» non sarebbe stato da lui aggiungere quelle frasi, lo sapevano entrambi. Non era da lui e tanto valeva sforzarsi ancora un po' per farlo stare tranquillo: nonostante tutto Kenma sapeva dare un nome a quello che lo aveva avvolto da quando lui e Kuroo avevano cominciato a conoscersi, lo aveva visto con Suga, lo aveva visto con altri ragazzi come lui – si era probabilmente innamorato di quel ragazzo incredibile, pieno di passione e di vita, di quel ragazzo così diverso da lui.
Provò a sforzarsi di sorridere, e Kuroo scattò in piedi, disorientato. Anche Kenma si alzò, piano, lentamente, come se fosse lo sforzo più grande che potesse immaginare «ti prometto che ti lascerò il tuo appartamento, presto. Devi solo darmi qualche giorno per organizzarmi, magari Suga può...» Kuroo aveva il viso coperto da una strana ombra, gli occhi attraversati da una turbinio che Kenma non aveva previsto di trovarvi; e Kuroo si accorse che il viso di Kenma era pieno di una quantità incredibile di parole, che raccontavano la sua insicurezza e la sua paura di essere abbandonato, e della sua sensazione di non essere abbastanza, e della sua certezza di non essere all'altezza; dopotutto Kenma non era un ragazzo di molte parole, probabilmente le aveva perse tutte anni prima e aveva deciso che non era più importante comunicare con chi non voleva capire. Ma Kuroo voleva farlo, e quello che sentiva in quelle parole silenziose erano emozioni che non voleva Kenma provasse.
«No» rispose istintivamente.

Erano vicini, erano estremamente vicini come quella mattina in cui gli aveva cambiato completamente la vita. E lo sentiva, lo sentiva forte l'odore dell'altro – un dopobarba di ottima qualità che Kuro non usava, un dopobarba che si era attaccato al suo corpo dal corpo di un altro.
Kenma chiuse forte gli occhi incerto su come procedere.
«No, non voglio... Kenma, non... no!» Kuroo non riusciva a comunicare come faceva l'altro, e allo stesso tempo non riusciva a trovare parole che potessero mettere ordine in quello che provava.

Il più piccolo lo guardò di nuovo, e fu assalito da una frustrazione fortissima quando si accorse che le mani dell'altro erano a pochi millimetri dal suo viso, prive della forza di oltrepassare quella barriera invisibile che sentiva sempre tra loro quando Kuro non lo toccava mentre chiunque altro lo avrebbe fatto; quando più che mai Kenma voleva quel contatto, quando come mai prima gli era capitato desiderava quelle mani sulla sua pelle, o quelle labbra sulle sue.
Kenma voleva che Kuro avesse il suo odore addosso, non quello di uno sconosciuto qualsiasi che non sapeva dove trovare il caffè, o quanto ci tenesse Kuro a quella tazza scheggiata con gli occhi del gatto; non uno che usasse un prodotto dall'odore tanto alla moda, tanto nuovo e impersonale. Kenma non voleva lasciarlo a nessuno, non voleva essere guardato in quel modo, non voleva avere le sensazione che avesse paura di toccarlo – non voleva pensare ad altro, non voleva pensare che avesse schifo di lui, che gli facesse ribrezzo toccare il suo corpo, centinaia di volte toccato, centinaia di volte sporcato da individui senza volto e senza nome, niente di più che corpi sudati che si sfregavano sul suo, niente di più che mani che tiravano fuori denaro per toccarlo, per averlo. Non voleva ma ci pensava, non voleva ma non riusciva a rispondersi altrimenti.
Prese una di quelle mani, grandi e incredibilmente calde e se la mise sulla guancia, inclinando appena il viso per sentirla di più e socchiuse gli occhi, nonostante sentisse una minima resistenza provenire dal maggiore. Lo guardò attraverso le palpebre semi abbassate e sospirò appena cercando di fargli capire che poteva toccarlo, poteva trattarlo come una persona e non come una delle sue statuette di vetro; cercò con quel gesto di fargli capire che era fatto di carne, e ossa, e sangue proprio come il resto delle persone che frequentava, che non lo avrebbe rotto in mille pezzi con una parola di troppo, che non sarebbe stato Bokuto a frantumarlo, che non si sarebbe fatto distruggere da lui né da nessun altro «Puoi toccarmi. Puoi dirmi che non mi vuoi più qui. Puoi dirlo che ti riprendi la tua vita» disse soltanto con un filo sottilissimo di voce, sperando che tutto il resto fosse arrivato comunque a destinazione. Non avrebbe saputo in che altro modo farsi capire.
Sentiva una voglia incredibile di piangere, sentiva che era davvero ad un passo dall'abbandonare ogni contegno ed ogni difesa, sentiva tutte le parole ballare tra le sue corde vocali ma non riusciva a dar loro nessuna forma: poteva solo sperare che Kuro capisse, che avesse voglia di ascoltare quelle urla silenziose che non avevano nessun suono per tutti gli altri.
E in quel momento successe qualcosa che non si sarebbe sinceramente aspettato: Kuroo spinse il proprio viso verso il suo per baciarlo come non succedeva da quella mattina, lo baciò e in quel bacio Kenma si sentì nascere di nuovo. E quando si separarono, Kuroo non lo lasciò andare, lo strinse in un abbraccio immenso e strettissimo in cui non c'era spazio nemmeno per l'odore dell'altro, in cui Kenma ebbe la sensazione di respirare davvero per la prima volta in vita sua. Era diverso dalla prima volta, era una stretta piena di una consapevolezza che fino a quel momento non c'era mai stata. Si aggrappò a lui come non aveva mai fatto, sollevandosi leggermente sulla punta dei piedi per sentire il suo corpo – tutto – e tentare di sparire tra quelle braccia e quel petto. La mano destra di Kuroo era tra i suoi capelli e lo teneva premuto contro la propria spalla, e un leggero tremore lo percorreva tutto, Kenma lo sentiva attraverso i vestiti, lo sentiva passargli sotto la pelle e scorrergli nel sangue: non aveva mai pensato, come in quel momento, che la sua casa potesse essere tra le braccia di qualcuno.
Non sapeva cosa stesse succedendo, ma era avvolto da un calore perfetto.
Non lo sapeva, Kenma, che in quel momento stavano piangendo entrambi, ma giusto un po'.
Non lo sapeva che erano mesi che entrambi non volevano altro che sentirsi completi a quel modo.

Non lo sapeva nessuno dei due che era tutto quello che serviva loro.

«Non andartene» la voce di Kuro era spezzata, ma Kenma sapeva con certezza di non aver mai sentito un suono tanto bello. Scosse la testa – solo in quel momento si rese conto di avere il volto bagnato di lacrime, e no, non se ne sarebbe andato più.











la conclusione non mi soddisfa, ma se fossi andata avanti sarebbero venute tipo altre quindici pagine, e non mi sembrava il caso.

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Capitolo 3
*** come le luci di Natale ***


Come le luci di Natale





Che Kenma amava il Natale, Kuroo lo aveva intuito presto.
Certo, non che il più giovane gli offrisse molte possibilità di parlarne, solo che, come per tutto il resto, aveva imparare a tradurre quel suo modo peculiare di comunicare nella lingua che chiunque altro avrebbe usato. Ma Kenma era così, e Kuroo si era accorto di essere intimamente fiero della propria capacità di trasformare in parole e discorsi gesti infinitamente piccoli che nessun altro pareva neppure notare.
Nelle settimane che precedevano quella strana festa, tutto il corpo di Kenma sembrava aver assunto una posa diversa, sembrava felice in una maniera ancora completamente inedita: per una volta tutti sembravano essersi accorti che per lui stava succedendo qualcosa di bello – anche Bokuto gli aveva chiesto che cosa avesse, con quel suo sorriso spensierato, sinceramente contento che qualcosa di buono evidentemente stava accadendo.
Per Kuroo, invece, il Natale non aveva mai avuto chissà quale attrattiva: era sempre stato anzi un giorno decisamente triste in cui mamma faceva di tutto per non fargli sentire la mancanza di papà, che non aveva tempo da perdere con loro nemmeno in quello che doveva essere un giorno di festa; mamma non se ne accorgeva, ma così non faceva che rendere quell'assenza ancora più enorme, ancora più ingombrante.
Da quando aveva lasciato la casa di mamma avevano anche smesso di festeggiarlo, lei andava da qualche amica, lui in giro ad ubriacarsi. Era stato probabilmente un sollievo per entrambi, anche se nessuno dei due aveva avuto il coraggio di dirlo a voce alta.
Era stato dunque un po' perplesso, Kuroo, nell'accorgersi dell'entusiasmo silenzioso di quello che ormai considerava a tutti gli effetti il suo compagno; ma se Kenma amava il Natale Kuroo avrebbe fatto qualunque cosa pur di farlo sorridere. E poi era sempre felice di costruire nuovi ricordi con lui, nuovi momenti speciali tutti per loro.


Kenma sapeva bene che quel piccolo segreto, il motivo profondo per cui era così affezionato a quella sera, lo condivideva soltanto con Suga e Daichi. E non per qualche motivo particolare, ma semplicemente perché erano stati loro due a regalargli quella possibilità.
Nessun altro avrebbe potuto sapere a che cosa fosse legato quel suo entusiasmo: come per la maggior parte delle cose che lo riguardavano, non vedeva per quale motivo avrebbe dovuto raccontarlo a qualcuno, rovinando la magia del ricordo e delle sensazioni con parole che non avrebbero potuto essere all'altezza... eppure si era reso conto di desiderare ardentemente che Kuroo lo capisse lo stesso.
Ci teneva così tanto a condividere quella piccola e preziosa giornata con lui che pensava davvero che avrebbe potuto sforzarsi, che per una volta avrebbe potuto rendergli le cose facili. Ma la verità era che gli si scioglieva il cuore ogni volta, ogni volta che quel buffo ragazzone gli dimostrava di capirlo, di capire davvero che cosa potesse volere dalla vita, che cosa potesse pensare, cosa sognava, cosa lo spaventava. Era diventato profondamente egoista, e profondamente dipendente da quelle sensazioni, da quelle conferme, da quelle piccole attenzioni che diventavano certezze necessarie alla sua sopravvivenza. Si sentiva felice ogni volta per il semplice fatto che ci provasse – e che ci riuscisse, a capirlo profondamente: nonostante tutto non riusciva ancora a credere completamente che quella sensazione che gli scaldava lo stomaco, che lo faceva sorridere come uno stupido, che lo faceva sentire a casa ogni volta che passava del tempo con l'altro fosse condivisa. E ogni volta che Kuroo scopriva un altro tassello di quel complicato puzzle che era la sua vita, Kenma sentiva il cuore impazzire e la paura e la diffidenza e la sensazione di dover rimanere costantemente in allerta allontanarsi.
Aveva dunque pensato davvero di parlare apertamente, per una volta: e l'occasione venne una sera, quando mentre erano a letto a guardare un film alla televisione Kuroo gli aveva chiesto chiaramente per quale motivo fosse così affezionato ad una festa che nemmeno apparteneva alla loro cultura. Come spesso accadeva, lo stava avvolgendo tra le sue braccia, e nella perfetta sicurezza che gli dava la consapevolezza della presenza di lui si era deciso a provare a rispondere.
Si era immobilizzato e aveva preso un piccolo respiro, aveva appena socchiuso le palpebre, e aveva sfogliato le pagine dei suoi ricordi per cercare attentamente le parole, al ritmo costante del cuore di lui: ma come spiegare la sensazione di quella sera quando, ancora decisamente troppo giovane, aveva ricevuto la chiamata di un cliente – ti supplico mamma... ti prego... - no tesoro, ha già pagato, è venuto e ha chiesto proprio di te, soldi in mano – una carezza sul viso e un sorriso di circostanza.
Che parole usare per spiegare che era Natale e sembrava uno stupido film di quarta categoria?
Come spiegare il viaggio in autobus fino a casa del cliente, con la sensazione di sporco che gli si irradiava già attraverso il corpo, come spiegare il modo in cui tentare di anestetizzare l'umiliazione, la disillusione, la voglia di vomitare? Come spiegargli che se il disgusto saliva già prima di arrivare allora dopo sarebbe stato insopportabile, la bile che minacciava di risalirgli nella gola, lo stomaco contratto? Che parole si usano per spiegare la propria vita a qualcuno che si desidera intensamente non la conosca mai?
Quella notte aveva salito le scale fino ad arrivare alla porta che gli era stata indicata: aveva pagato per tutta la notte, aveva detto lei, sperava solo di ritardare un pochino l'inizio di tutta quella lunghissima prova, mentre pensava che probabilmente l'uomo di mamma si era fatto dare più soldi visto che il quartiere era abbastanza decente, che lui era minorenne, che era aveva chiesto proprio lui, che era una notte di festa.
Come si spiega a qualcuno che ha avuto una vita normale che lui invece non aveva mai visto le luci sull'albero di natale brillare a quel modo fino a quando quello strano, strano uomo non aveva aperto la porta di casa?
«Scusami» gli aveva detto mentre rimaneva sull'uscio e gli lasciava il tempo di rendersi conto di quello che poteva star succedendo «non sapevo se avresti festeggiato. Ed è una festa così bella che... pensare a te che te la saresti potuta perdere mi faceva sentire molto triste».
Kenma non era mai stato a casa di Suga fino a quel momento: lo aveva sempre visto soltanto al locale, e con grande confusione si accorse che stava sbirciando oltre la porta ormai spalancata – Suga gli sorrideva quasi con timidezza stavolta, e dopo il primo passo all'interno si rese conto che c'era Daichi, il suo compagno, che stava apparecchiando la tavola per tre – dietro un enorme, magnifico, luminosissimo albero, uno più bello di tutti quelli che avesse mai visto, più bello di quelli dei negozi in centro, più bello di quelli nelle case di chi lo comprava per qualche ora.
Per un attimo solo, Kenma aveva tremato. Per un lunghissimo istante ci aveva creduto davvero che anche lui in fondo era come tutti gli altri, che tutti i sorrisi, tutte le premure e le gentilezze erano solo un modo per sentirsi meno in colpa in quel momento, quando lo avrebbe trattato esattamente come tutti gli altri. Era stato un istante solo, in cui si era accorto di quanto la delusione gli stesse spezzando il cuore e il fiato, era stato un istante solo in cui si era reso conto di quanta fiducia, lentamente, avesse affidato a quell'uomo. Di quanto ci aveva creduto, di quanto si fosse legato alla prima persona che gli aveva mostrato una gentilezze incomprensibili... di quanto piano piano l'affetto fosse diventato reale.
E allora Suga aveva sorriso, e Daichi lo aveva salutato, e si erano guardati, incerti per un momento ancora di quella che poteva essere la sua reazione. E Kenma sapeva poco della vita degli altri, conosceva solo frammenti rubati per caso, ma lo aveva capito che quello che volevano da lui non era niente di simile a quello che conosceva, e che nessuno quella notte lo avrebbe usato, che non sarebbe stato un oggetto, che non lo avrebbero umiliato, che non gli avrebbero chiesto di recitare una parte, che non avrebbe dovuto fingere un coinvolgimento o una passione che non credeva di poter provare davvero. Aveva capito che avevano davvero preparato una cena, che gli avrebbero dato davvero la possibilità di godere di una serata tranquilla.
E lo sapeva che a quel punto avrebbe dovuto rispondere che la carità non gli serviva, che non gli serviva la compassione, che non aveva bisogno di nessuna elemosina, che faceva quello che voleva; ma quella stanza profumava di casa, di caldo, di buono, di affetto, e il sorriso di Suga non parlava di pena, ma di un sentimento profondo e incondizionato e di una voglia altrettanto profonda di condividere la propria fortuna proprio con lui.
E Daichi aveva uno sguardo che parlava dell'amore radicato per il compagno, e di fiducia, e di un milione di possibilità che non aveva mai saputo di avere.
E allora per una volta non gli importava che Suga avesse pagato per il suo tempo, non gli importava che non gli avesse dato la possibilità di scegliere: quella sera era solo un ragazzino che per la prima volta sperimentava una famiglia, e il cibo fatto in casa, e le prese in giro bonarie, e le chiacchiere, e le risate. E poi i regali che Suga e Daichi si erano scambiati, e quelli fatti a lui, e poi giocare alla playstation di Daichi con i giochi che gli avevano regalato – puoi lasciarli qui e venire a giocare quando vuoi.
Kenma era stato felice. E l'amore spassionato di Suga era inspiegabile, era inspiegabile con quanta facilità lo avessero accolto pur essendo lui soltanto un ragazzo di strada. E Daichi aveva parlato con lui come non sapesse che mestiere faceva, e gli aveva spiegato come battere i mostri del gioco e solo dopo gli aveva dato il suo biglietto dicendogli di chiamarlo per qualunque cosa, per qualunque problema in qualunque momento. E Kenma aveva capito che era vero, che sarebbe arrivato davvero.

Come spiegare che quella, nella sua estrema semplicità, era stata fino a quel momento la sera più bella della sua vita? Loro lo sapevano, e non aveva mai creduto di voler dividere quel ricordo tanto prezioso con altri.
Ma come dirlo adesso, come spiegarlo a Kuroo che tutto lo schifo della sua vita di prima non poteva nemmeno immaginarlo? Come spiegare la bellezza di una giornata normale, di una cena in famiglia, con qualcuno che sorride solo perché è felice di averti lì?
Le parole si erano perse di nuovo, le emozioni e i ricordi si erano aggrovigliati in tal modo da sembrare inestricabili, e prima di farsi prendere dal panico si era stretto nelle spalle, aveva guardato Kuroo negli occhi e aveva fatto un minuscolo e appena intuibile sorriso.


Kenma si illuminava ogni volta che vedeva le luci natalizie in giro per la città, questo era un dato di fatto, e Kuroo doveva sapere il perché.
Nel locale di Suga avevano messo decorazioni ovunque, e Kuroo aveva notato in che modo il suo Kenma si era impegnato nel sistemarlo; certo, poteva dire di aver imparato da solo tutto quello che c'era da sapere sul biondino, ma stavolta davvero non riusciva a superare il muro che lo circondava. Si era accorto che c'era qualcosa da sapere, ma per una volta stava gettando la spugna e chiedendo aiuto per risolvere quel nuovo enigma.
Koushi Sugawara era una persona decisamente particolare: aveva un sorriso gentile e una lingua tremendamente velenosa, una generosità senza misura e il sangue freddo di chi ha a che fare con criminali da tutta la vita; ed il suo compagno, Sawamura Daichi, lo metteva ancora un po' in soggezione con la sua espressione seria da persona che non esiterebbe un attimo ad uccidere un uomo se avesse pensato che questo avrebbe potuto aiutare le persone che amava. E c'era da riconoscere che entrambi erano profondamente affezionati al piccolo Kenma.

Era un giovedì sera quando Kuroo, entrato nel locale di Suga e trovandolo solo, aveva preso la sua decisione.
«Sugawara.»
Suga aveva alzato gli occhi dal bancone che stava ripulendo.
«Ho deciso di fare una sorpresa a Kenma».
Il sorriso che gli regalò Suga gli fece capire che aveva scelto le parole giuste, che aveva trovato un alleato. Allora aveva lasciato perdere con le pulizie, aveva dimenticato lo straccio e aveva preso posto accanto a lui; aveva invitato il moro a raccontargli quello che pensava di sapere e con la voce bassa e il sorriso sulle labbra gli aveva raccontato la storia, e Kuroo si era fatto spiegare il resto, si era fatto raccontare come avrebbe potuto rendere tutto perfetto – dal cibo alle decorazioni, ogni dettaglio che avrebbe reso tutto ideale.
Suga gli aveva scritto tutto, e Kuroo aveva di cominciare dallo sviluppare le sue sopite doti di pasticcere: quanto poteva essere difficile preparare una teglia di biscotti? Evidentemente molto più del previsto.
La sera, quando dopo il turno Kenma era tornato a casa, aveva cercato di mascherare il disastro che aveva combinato, ma l'odore di plastica bruciata era difficile da nascondere, soprattutto mentre cercava di tirarla via dal forno con uno strano attrezzo di metallo. Ma non era stata colpa sua, nessuno gli aveva detto che quel coso era di plastica, sembrava potesse davvero andare in forno!
Sicuramente Kenma aveva apprezzato meno di Bokuto l'originalità delle sue imprecazioni mentre tirava via plastica e impasto liquido di biscotti - che liquidi non avrebbero dovuto essere.
Sul tavolo della cucina, già pieno di roba normalmente, c'erano ingredienti sparsi e rovesciati, e lui si sentiva davvero stupido mentre cercava in qualche modo di non peggiorare la situazione. Non aveva avuto il coraggio di alzare gli occhi sull'altro, leggermente umiliato per aver fatto quel casino, ma se lo avesse fatto lo avrebbe trovato che gli rivolgeva un sorriso tenero e incredulo, e probabilmente avrebbe lasciato tutto lì e lo avrebbe portato a letto per farsi perdonare in un modo più consono a lui.
Aveva provato a giustificarsi, e solo allora aveva alzato lo sguardo: ma Kenma aveva arricciato il naso e si era mosso con la solita facilità nel loro piccolo appartamento per andare a spalancare le finestre.
Kuroo non lo sapeva che, sotto lo strato di nausea che aveva colpito il più giovane, il cuore gli si era sciolto quando aveva capito che cosa aveva provato a fare per lui.
Quel tremendo odore aveva infestato la stanza per giorni, e Kenma – che era estremamente sensibile agli odori, e spesso molto capriccioso – si era lamentato moltissimo a modo suo, facendogli notare che dovevano scegliere se morire assiderati o soffocati dalla puzza. Arricciava il naso e socchiudeva gli occhi ogni volta che rientrava, si appallottolava nelle coperte e lo guardava male ogni volta che gli chiedeva di uscire da lì.
Ma nonostante le frecciatine, in fondo era intimamente felice: aveva una scusa in più per stringersi contro il petto di Kuroo la notte, facendosi minuscolo contro il corpo di lui – è solo per non sentire quello schifo di puzza, sembrava un'ottima giustificazione – e giustificarsi sembrava ancora necessario, dal momento che non riusciva davvero a credere di meritarselo, un Kuroo nella sua vita. E continuava anche se erano passati giorni e di quello sgradevole odore davvero non c'era più traccia. Kuroo sorrideva e non faceva domande, annegava nel profumo del suo shampoo e si lasciava cullare dal suo respiro contro la propria pelle.

A Kenma il Natale piaceva moltissimo, e osservandolo nei giorni immediatamente precedenti Kuroo aveva anche pensato di aver capito il perché: sembrava ancora un bambino quando gli si riempivano gli occhi di meraviglia, quando la sua espressione si distendeva in un mezzo sorriso, quando socchiudeva gli occhi e muoveva appena la testa al ritmo di una qualche canzone occidentale dalle parole incomprensibili.
Kuroo avrebbe tanto voluto regalargli il mondo intero, avrebbe voluto bloccare quel momento e incartarlo in una brillante carta rossa, chiusa con un grosso fiocco solo per vederlo sempre così – Kenma lo aveva capito e aveva provato a dirgli che non voleva niente di più di quello che avevano, che non voleva niente se non stare a casa con lui sotto le coperte, a fare l'amore e a sentirlo parlare della sua vita normale e fantastica, a giocare a qualche videogioco senza doversi alzare, a viversi semplicemente ogni giorno. Kuroo, lui che capiva sempre tutto, sembrava non accorgersi di questa enorme e semplicissima verità: gli aveva permesso di riappropriarsi della vita, nessuno sarebbe mai stato in grado di fare altrettanto, non c'era nient'altro che potesse davvero interessargli.
Ma, di nuovo, non aveva parole per questo, quindi si accoccolava contro il suo corpo e sospirava con gli occhi chiusi.


Dopo l'incidente col forno e la plastica che aveva commesso l'indicibile reato di non aver avvertito in qualche modo Kuroo di non poter essere messo in forno, Kenma pensava che le sortite del compagno in cucina fossero finite.
Per questo mentre tornando a casa si rese conto che il pianerottolo era invaso dall'odore di biscotti, rimase immobile e perplesso davanti alla porta con le chiavi in mano.
Sentì che Suga stava sgridando qualcuno – evidente che dovesse essere Kuroo – e che si lamentava della quantità assurda di aggeggi completamente inutili riposti, poggiati, appesi, sparsi senza nessun criterio in quella che ci vuole davvero tanta fantasia a definire cucina!
Si decise ad entrare solo quando sentì Suga proporsi di sistemare almeno quel piccolo angolo – e Kenma aveva sentito sin fuori la porta i brividi che dovevano aver attraversato il corpo di Kuroo, terrorizzato da quello che avrebbe potuto fare lo strano barista dai capelli bianchi e il sorriso ingannatore in una sessione di pulizia intensiva in casa loro.
Appena aperta la porta le voci cessarono, e l'odore di biscotti lo investì letteralmente – ed era il profumo giusto, stavolta, erano proprio quelli che ricordava ancora bene da quella prima volta, erano proprio quelli che sapevano di festa: a confronto con l'atmosfera che c'era fuori, lì dentro era un delirante angolo di sogno, con un piccolo alberello appoggiato su una cassettiera e decorazioni appese in giro, con angeli e fiocchi di neve, e alberelli e renne appesi a fili drappeggiati in giro. Chiunque altro probabilmente si sarebbe impiccato solo a muoversi, ma per Kenma quella era una cosa davvero magnifica – anche se non stentava ad immaginare per quale motivo Suga lo avesse minacciato.
Suga aveva in una mano un mestolo abbozzato e un cucchiaio di legno scheggiato nell'altra con i quali sembrava minacciare Kuroo. Aveva un'espressione terribilmente decisa, e Kenma sapeva che difficilmente avrebbe cambiato idea a quel punto: non avrebbe voluto trovarsi al posto del compagno, considerando quanta fatica avrebbe fatto a fargli cambiare idea.
Rimase immobile sulla porta, con un sopracciglio alzato: il moro aveva un'espressione che era un inedito mix di sollievo e raccapriccio nel guardarlo.
«E tu che ci fai qui? Sono abbastanza sicuro che il tuo turno finisce alle nove e mezza» gli disse Suga, che non sembrava per niente sicuro della legittimità della sua presenza in quella che, a tutti gli effetti, era la casa in cui viveva.
«Sono le dieci» rispose sempre più perplesso, ma sicuro dell'orario.
Suga alzò gli occhi verso l'orologio a parete, che segnava le otto meno venti.
«Rotto» rispose Kenma alla domanda non formulata.
«Ma allora è tardissimo!» lanciò uno sguardo terribile a Kuroo «tu e la tua mania di accumulare cianfrusaglie e ciarpame! Almeno aggiusta le cose che... ma che te lo dico a fare! Un giorno entrerò qui e darò una bella sistemata. Oh sì, è inutile che mi guardi a quel modo, signorino. Ti pare il modo di far vivere un'altra persona?» Chiese indicando Kenma – che avrebbe anche detto che non gli interessava il disordine, se solo fosse stato interpellato. Ma ovviamente in quel momento per Suga non era importante. «Quando suona il timer, se almeno quello funziona, spegni il forno. E lascia tutto dentro per una mezz'ora. E nel frattempo metti via le cose a cui tieni, perché non saprai quando entrerò qui dentro e mi metterò a ripulire tutto. Oppure rendi questo posto abitabile, e allora ci posso ripensare. E adesso me ne vado, ho promesso a Daichi che... va beh, questo non vi interessa.» in un attimo aveva recuperato il cappotto e le scarpe, aveva sorriso a Kenma con affetto e aveva chiuso la porta alle proprie spalle.
Kenma aveva ancora la propria giacca in mano, e in qualche modo stava cercando spiegazioni a quella che era stata una scena al limite del surreale.
«Volevo farti una sorpresa» disse l'altro dopo svariati minuti di immobile silenzio, con gli occhi bassi sulle proprie scarpe. «Volevo mettere qualche decorazioni, e farti trovare pronti i biscotti, visto che sapevo che mangiavi al locale... e Suga aveva detto che era una ricetta facile, e che sono questi quelli che ti piacciono di più, e che mi avrebbe dato una mano, e che era una bella idea... e non pensavo di metterci tanto, e Suga mi ha sgridato perché ho comprato gli ingredienti sbagliati, e perché dice che così ho solo peggiorato il casino che c'è in questa casa e... e mi fa un po' paura a volte, ma dopo il disastro dell'ultima volta io... ma Daichi lo fermerà, vero? Gli impedirà di venire a buttar via tutto, vero?» Si guardò intorno allarmato.

Kenma non era bravo con i sentimenti, non riconosceva bene le emozioni e non sapeva come trattarle, come viverle; ma mai come in quel momento era sembrato necessario lasciare che una risata scivolasse fuori dalle sue labbra, o lasciar cadere il cappotto e dimenticarsi di togliere le scarpe per correre tra le braccia di quel Kuroo così preoccupato per la propria collezione di storie e di vite, di quel Kuroo che tanto si era impegnato per offrirgli qualcosa di cui non poteva capire fino in fondo l'enormità, che parlava tanto, che viveva intensamente, che rideva con gli occhi e che si agitava nel sonno.
Non era bravo con le parole, coi gesti, con le emozioni, eppure in quel momento si sentì libero di essere semplicemente grato al mondo per quello che gli era stato offerto – Kuroo che faceva i biscotti per lui, Kuroo che provava a decorare un appartamento piccolo e già pieno, Kuroo che cercava di comprenderlo senza chiedergli di parlare troppo, Kuroo che gli offriva il mondo e la vita.
Kuroo, che era quella notte di Natale, che era l'albero colorato, che era la cena fatta in casa, le luci che brillavano: Kuroo che era ogni cosa bella della sua vita e molto di più.
Kuroo, che doveva saperlo, era giusto che lo sapesse ma... erano troppe parole, e Kenma non ne aveva abbastanza, erano parole difficili e non le conosceva, non sapeva dirle; erano troppo intense, erano troppo in profondità radicate nel fondo della sua pancia, e del suo stomaco, e del cuore, e in ogni altro angolo del suo corpo.
Kenma non aveva parole per spiegarsi, non conosceva discorsi o argomenti per farsi comprendere: così decise semplicemente che avrebbe lasciato la parola ai suoi gesti, offrendosi completamente ad uno dei suoi abbraccia scaccia-paure, ad un bacio leggero proprio all'angolo del suo sorriso, alla promessa scritta negli occhi di una felicità sottile e bellissima, che non sarebbe stata spezzata mai.














Okay, è venuta una cosa molto più mielosa di quello che avevo inizialmente pensato per questa storia: nel senso, all'inizio Kuroo voleva davvero morire.
Nessuno sentiva il bisogno di questa storia, lo so, soprattutto considerando la quantità di reazioni ottenute alle precedenti storielle. Va beh, probabilmente non è importante. Mi dispiace per il piccolo Kenma, mi dispiace per il piccolo Yama, mi dispiace anche per Suga in realtà, ma anche se qualcuno dovesse leggere questa cosa non saprebbe a cosa mi riferisco, quindi... niente, poveri piccini, vorrei abbracciarli tutti.
Comunque, se qualcuno apprezza o non apprezza e volesse farmelo sapere sarei molto ben felice... ad ogni modo, mi sto un sacco affezionando a questa au, ho un sacco voglia di scrivere la tukkiyama e la (le) daisuga. Perché lo comunico? Boh.
Grazie a chi legge, a chi mette tra preferiti/seguiti/ricordati. So che ci siete, so chi siete, vi voglio un pochino bene anche se non mi fate sapere cosa c'è di buono o di non buono.
Bacibaci!
Ps, stavolta l'ooc è davvero evidente, lo so, ma non mi andava di sbatterci troppo la testa di nuovo, quindi niente, ormai è così. Ovviamente se qualcuno ha suggerimenti ben vengano, indi per cui probabilmente mi devo rivolgere solo a nanas, credo

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