Shadows

di Lost Hediphe
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


La vita, si sa, è molto strana. Essa ti può dare le gioie più belle e i dolori più forti. Ti può dare tutto quello che desideri per poi portartelo via in un attimo. Ci dicono che la vita è un percorso da seguire, con tante vie e ostacoli da superare, difficili e pericolosi. Si può andare solo avanti, è questa forse la fregatura. E se non si riesce a superare l'ostacolo? Si rimane lì in eterno? È lì che finisce la vita? E molto spesso, per andare avanti si deve soffrire, farsi ferire e strisciare nel fango. E per cosa? Tutti dicono che prima o poi tutto si supera per inseguire il proprio scopo. Ma questo vale per le anime bianche. E le ombre invece? Le ombre non hanno uno scopo, probabilmente non dovrebbero esistere, ma invece esistono, e per cosa? Solo per soffrire. La vita è una madre crudele e spietata per i propri figli non voluti, le ombre. Io sono una di loro, anche se per circa undici anni ho vissuto senza saperlo. Ho vissuto undici anni come una finta anima bianca con una finta felicità. Ma già da sempre ero consapevole che era tutto finto, e alla fine anche la finzione si ruppe in mille pezzi… Mi chiamo Emily Anderson, ho 17 anni e non sarei dovuta esistere. Di sicuro la mia storia non importa a nessuno, come sempre. A nessuno è mai importato di me, ma andiamo con ordine.

Sono una ragazza che purtroppo non passa mai inosservata, mio malgrado. Ho i capelli lisci, tenuti corti fino alle spalle e la pelle pallida, non riesco mai a prendere colore. Nonostante io mi metta sotto il sole, resto comunque pallida e questo già mi rende diversa dalle altre ragazze. Ma questo non è tutto, purtroppo. La mia particolarità sono gli occhi, uno azzurro come il cielo e l'altro nero come la notte più buia. A detta di mia sorella Katerine, mia madre rimase inorridita quando mi vide per la prima volta, quando la vita aveva deciso di incominciare la mia tortura. Sono l'unica così in famiglia. Mio padre ha i capelli scuri, ma ha gli occhi chiari, così come mia madre e mia sorella, più grande di me di cinque anni. Non ho nemmeno un ricordo felice con mia madre, non mi dava l'affetto che una madre dovrebbe dare alla figlia. Cercava di farmi apparire diversa, lei sapeva che ero un'ombra e questo era molto sconveniente per lei che voleva inserirsi in un contesto sociale più alto, ma ero troppo piccola per accorgermene. Mi riempiva di bei vestiti e accessori vari, e io ero felice perché credevo che mi volesse bene. Da bambina mia madre mi faceva tenere i capelli lunghi, così che li potesse sistemare in modo che l'occhio sinistro, quello nero, venisse del tutto celato. Non mi era permesso parlare con nessuno, né uscire di casa. Lei diceva che era per il mio bene, che voleva proteggermi dal mondo esterno. Ma il suo scopo era un altro: fare in modo che nessuno vedesse la figlia che la faceva vergognare. E le cose peggioravano quando mamma dava delle feste in giardino, una volta ogni due settimane. La nostra casa era molto grande e piena di oggetti costosi ovunque. Avevamo un ampio giardino con una fontana, ma come ho detto, non mi era permesso uscire e farmi vedere da qualcuno. Mi riempivano di tanti giocattoli pur di farmi stare dentro casa, non potevo neanche avvicinarmi alle finestre. Ma io ovviamente non obbedivo a questo, mi mettevo vicino alla porta-finestra che dava al giardino facendo attenzione a non farmi vedere. C'erano sempre molte persone vestite in modo elegante e vistoso e con loro c’erano alcuni bambini. Li fissavo attentamente, ma non notavo differenze tra me e loro. Mia sorella maggiore era sempre in mezzo a loro, sembrava a suo agio. Sorrideva e parlava con tutti in modo impeccabile nonostante la sua giovane età. Con me invece era sempre molto fredda, non mi parlava quasi mai e non giocava mai con me. Solo le rare volte in cui era papà ad obbligarla. Lui era l’unico che mi voleva veramente bene e cercava di darmi tutto l’affetto che poteva, ma anche lui era restio a farmi uscire e vedere dagli altri. Non avevo nessun amico, nessuno con cui parlare se non i miei peluche e le mie bambole. Spesso facevo finta che fossero persone e cercavo di parlare con loro come faceva mia sorella. Ero come loro e lo avrei dimostrato, così decisi che anche io avrei partecipato alla prossima festa. Mi ero messa il vestito più bello che avevo, mi ero sistemata i capelli, mi ero coperta l’occhio, ero perfetta. Mi presentai in giardino a testa alta, salutando i presenti con eleganza. Tutti mi guardavano in modo ostile, compresa mia sorella, ma io non volevo arrendermi. Cercai di fare amicizia con un gruppo di bambini e quelli cominciarono a ridere di me e uno di loro mi fece anche cadere a terra. Sentivo gli adulti dire strane cose su di me che io non capivo. “È lei la figlia strana di Elisa?”. “Guardatela, è davvero strana”. “È la vergogna della sua famiglia”. “Povera stupida, non avrà alcun futuro”. Non capivo, guardavo tutti e non capivo. Poi vidi mia madre, lo sguardo furente puntato intensamente su di me. Durò poco poiché mio padre mi riportò dentro casa, in silenzio. Da quel giorno, ogni volta che c’era una festa mi chiudevano in camera in modo che non potessi più uscire; non capivo.
 
Avevo sette anni quando mia madre rimase incinta, e furono tutti felici quando nacque. Era perfetta, occhi di un azzurro chiaro e i capelli biondi. Laura era la figlia che volevano. La riempirono tutti di affetto, tutti erano dolci con lei e non ci misero molto a scordarsi di me. Forse fu proprio alla nascita della mia sorellina che io ebbi per la prima volta la consapevolezza di essere un’ombra, un qualcosa di indesiderato. Ma io, da piccola bambina ingenua, non lo accettai, volevo tenermi ancora stretta quella finta felicità. Non so dire il perché di quella scelta stupida, probabilmente volevo semplicemente essere accettata. A mia madre non importava più di comprarmi bei vestiti e tanti giocattoli, tutte le attenzioni erano riservare alla piccola nascitura. Non ero gelosa o invidiosa, ero contenta per lei. Laura era un’anima bianca, la più pura che io abbia mai visto, lei meritava di vivere…

L’unica cosa buona del fatto che in casa tutti mi ignoravano era il fatto che nessuno mi dava il tormento. Passavo il mio tempo in camera mia in tutta tranquillità, tra i libri di scuola. In poco tempo ero diventata una tra i migliori della mia scuola. Mi impegnavo costantemente e questo piaceva ai miei genitori che cominciarono a parlarmi di più. Certo, i toni erano sempre freddi, ma era una grande soddisfazione. Ovviamente mio padre era l’unico con un tono più amorevole e ogni tanto mi dava anche degli abbracci. Ma la gioia più grande è stata quando Laura disse la sua prima parola: Emy. Non ci potevo credere, ripeteva sempre il mio nome e quando piangeva, l’unica che riusciva a consolarla ero io. Voleva giocare sempre con me ed era sempre felice di vedermi; questo, ovviamente, faceva arrabbiare mia madre, ma non mi importava. Ero felicissima, la mia vita sembrava aver preso una piega positiva! Credevo di essere riuscita a diventare anche io un’anima bianca. Ero proprio ingenua. Un’ombra non può cambiare la propria natura, non può e non deve. La vita sa proprio essere crudele, mi fece credere che sarebbe andato tutto per il meglio. E invece tutto crollò in quella maledettissima notte di Aprile, non la potrò mai scordare, poiché ne porterò sempre i segni sia fisicamente sia moralmente…



Ciao a tutti ragazzi, spero che il capitolo vi piaccia. la vita di Emily è molto incasinata. E non solo la sua, conoscerete gli altri personaggi nel corso della storia. Ringrazio chi la leggere e invito a tutti coloro che voglio di lasciarmi un commento per farmi sapere cosa ne pensate, le vostre opinioni o semplicemente per fare quattro chiacchiere. mi scuso se ci sono degli errori e vi prego di segnalarli così che io possa correggerli.
A presto
-Lost Hediphe
 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Era la notte del 12 Aprile, me lo ricordo benissimo, è impossibile per me dimenticare quella data. Il 12 Aprile è il giorno della mia nascita. La vita è una stronza e me l’ha fatta pagare nei peggiori dei modi, in un giorno già non molto felice. Era il mio undicesimo compleanno e stranamente i miei genitori decisero di festeggiarlo. Cosa molto strana dal momento che non ricordavo neppure la mia ultima festa di compleanno. Probabilmente era stato per i miei continui successi su tutti i fronti, sicuramente fu solo per questo che quella sera festeggiammo. E non a casa come di consueto, ma in un bellissimo ristorante lontano da casa. Vita, fai proprio schifo! La serata era andata bene, Katerine rideva e Laura era contentissima. Si era seduta vicino a me e non faceva altro che guardarmi. La cosa che mi fece commuovere fu che mi aveva fatto un regalo, aiutata da nostra sorella maggiore. Era un bellissimo fermaglio con disegnato una rosa rossa. Laura me la mise raccogliendo e portando indietro i capelli che mi coprivano l’occhio sinistro. “Sei più bella così” mi disse sorridendo. Io avevo le lacrime agli occhi e la abbracciai forte, lei ricambiò l’abbraccio mentre tutti gli altri ci guardavano. Katerine e mio padre sorridevano e anche mia madre sembrava più addolcita. Laura era una bambina d’oro, capace di dare felicità a chiunque. I miei sensi di colpa non finiranno mai di divorarmi…

La festa finì tardi e noi entrammo in macchina. Io e mia sorella maggiore ci eravamo sedute dietro, mentre Laura si era addormentata tra le braccia di mia madre che la mise sdraiata vicino a me per poi sedersi davanti con mio padre che mise in moto la vettura. Il viaggio era lungo e tutti eravamo stanchi. Sia mia sorella che mia madre si addormentarono e piano piano anche io mi stavo assopendo piano piano. Furono i movimenti strani della macchina che mi fecero riprende e mi spaventai vedendo che la macchina stava sbandando, mio padre si era addormentato alla guida. Cercai di svegliarlo scuotendolo e chiamandolo a gran voce, alla fine quello si svegliò e fece girare velocemente il volante prima che l’auto colpisse l’albero. Il movimento improvviso fece però perdere il controllo dell’auto che si mise a slittare nella strada a doppio corsia. mio padre cercò di riprendere il controllo ma ormai era tardi. Con orrore vidi un camion che veniva a tutta velocità verso di noi. Non sapevo cosa fare, avevo paura. E fu in quel momento che capii ogni cosa, come un allarme, mi voltai verso Laura, adesso era sveglia ed impaurita così come tutti. Lo schianto era inevitabile ed io feci il più grosso errore che avessi mai potuto fare. Presi Laura in braccio e la strinsi a me, poi fu un attimo. Lo schianto tremendo, le urla, le mie urla, qualcosa che mi schiacciava il corpo, sangue dolore, altre urla, pianti e poi… il buio.
 
Non ricordo altro di ciò che successe. Mi svegliai in ospedale circa una settimana dopo l’incidente. Avevo una maschera per l’ossigeno sul viso ed ero attaccata ad una macchina che segnalava il battito del mio cuore. Non osai muovermi di un solo centimetro, mi guardai solo attorno. Vicino al mio letto c’era Katerine, aveva un braccio fasciato, alcuni tagli sul viso e molti lividi su tutto il corpo. Mi accorsi che era da sola, dov’erano i nostri genitori? E Laura? Come stava lei? Ero molto preoccupata, stavo per chiedere, ma lei mi anticipò dandomi il fermaglio con la rosa che adesso era spaccata a metà. La guardai, non ci volevo credere, lei scosse la testa e io scoppiai a piangere e ad urlare per il dolore che mi straziava il cuore. Mia sorella aspettò che io mi sfogassi e poi mi desse ogni cosa. Il camion ci aveva colpiti in pieno facendo accartocciare l’aiuto su se stessa. Mio padre e mia madre erano usciti illesi, mentre lei si era ferita al braccio. Le più gravi eravamo io e Laura, abbracciate e schiacciate dalle lamiere. Ci volle un po’ di tempo per liberarci; io ero in fin di vita, ma per lei non c’era più nulla da fare. Era morta sul colpo, io mi sentii morire. Era colpa mia, volevo proteggerla e invece… avevo causato la sua morte, lei che si meritava più di me di vivere, lei che aveva poco più di quattro anni, lei così pura ed innocente. “Non è stata colpa tua” aveva provato a consolarmi, ma invano; così aveva continuato a parlare anche se io la ascoltavo appena. Le mie ferite erano gravissime, avevo alcune costole rotte, un polmone perforato e le gambe, i tendini e i muscoli erano stati recisi e le ossa schiacciate, bastava poco e le avrei perse. Ma in quel momento avevo solo un pensiero in mente: sarei dovuta morire io. Mi disse che i medici non sapevano se sarei riuscita a camminare di nuovo, avevano fatto tutto il possibile, salvando il salvabile, ma non avevano certezze sul futuro. Avrei dovuto fare molta fisioterapia  per molto tempo, e per molto tempo sarei rimasta lì in ospedale. Poi mi disse che mamma e papà erano al funerale di Laura e che lei era rimasta per vedere come stavo e per darmi conforto. Ma io non sentivo altro che il vuoto dentro di me, un vuoto senza fine creato dai sensi di colpa che non finiranno mai di divorarmi.
 
Le cose andarono di male in peggio, io rimasi ricoverata e sotto osservazione per alcuni mesi mentre a casa una tempesta si era abbattuta distruggendo tutto al suo passaggio. I miei litigavano spesso, molto spesso per ciò che era successo, non venivano mai a trovarmi. L’unica a venire era sempre Katerine, ogni giorno più distrutta e preoccupata. Mia madre mi odiava, dando a me la colpa di tutto, a me e a mio padre. Tutto stava crollando come un castello di carta dentro un tornado. Bastava poco per accendere una scintilla, e ancora meno a fare esplodere l’incendio tra di loro. Erano entrambi straziati dal dolore, ma mia madre era soprattutto piena di furia. Il suo cuore ormai era diventato gelido e vuoto, e quel vuoto si riempiva costantemente di odio puro. Non passò molto tempo che mia madre chiese il divorzio. Non so molto di cosa successe, dopotutto non potevo muovermi dal mio letto ed era quasi sempre intontita dagli antidolorifici. So solo che mia madre vinse tutto, la casa, parte del denaro e non so cos’altro. Io e mia sorella eravamo minorenni e quindi saremmo dovute andare via con lei, ma mia madre fece di tutto per abbandonarmi e ci riuscì.

Quella giornata stavo meglio, finalmente riuscivo a respirare da sola. Katerine era lì con me, stavamo giocando a carte quando mia madre si presentò aprendo di scatto la porta; entrambe la guardammo. “Katerine, andiamo via, subito!” disse urlando. Guardai mia sorella, era sorpresa quanto me. “Muoviti, non rimarrò in istante di più!”, poi guardò me. “E tu, stronzetta, spero che tu non possa più camminare! Mi hai sempre fatto schifo, dovevi essere tu a morire, non la mia bambina! Me l’hai uccisa, sei stata tu ad averla uccisa! E la pagherai per questo! Ti auguro una vita di dolore e sofferenza, perché è solo questo che meriti!”. Detto questo se ne andò, ancora furiosa. Mia sorella mi guardò, aveva la tristezza negli occhi, si avvicinò a me e mi accarezzò i capelli. Fu questo il suo saluto prima di andare via. Quella fu l’ultima volta che la vidi. E io? Be’, io rimasi in silenzio per tutto il tempo. Cosa avrei potuto dire? Mia madre aveva ragione. Ero rimasta sola col mio dolore e le mie lacrime. Si, aveva ragione: sarei dovuta morire io…

Heylà amici, siamo arrivati ad uno dei momenti più significativi della vita della povera Emily. Be' uno dei tanti, ne succederanno di cose. A ogni modo, spero che il capitolo vi piaccia, se ci sono errori fatemelo sapere e se volete lasciate un commento per farmi sapere cosa ne pensate, o anche solo per fare quattro chiacchiere.
A presto col prossimo capitolo ^^
-Lost Hediphe

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