Hollywood Girl

di Aqua_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Note dell'autrice:
Ahem, salve a tutti! Giusto un paio di cosine prima di lasciarvi al capitolo: primo, la storia si ispira - più o meno evidentemente - a Lucky, di Britney Spears (se la conoscete potete già farvi un'idea di questa storia); secondo, vi prego di perdonarmi eventuali errori cronologici e/o geografici, ho cercato di documentarmi il meglio possibile, in modo da non scrivere troppe cavolate (sapevate che esiste un paese di nome Hollywood vicino a Miami? Io no :/), ma è possibile che qualcosa mi sia sfuggito, quindi se vi capita di incrociarne, fatemelo pure notare (ma non linciatemi, please).
Detto questo, se già non vi ho annoiato, vi lascio alla storia.
Buona lettura, 
Aqua_

P.S. fatemi sapere cosa ne pensate, non siate timidi!




Hollywood Girl
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Parte Prima: Isn't she lovely, this Hollywood girl?


Capitolo 1

 

Hollywood, 20 Settembre 1985

 

La casa era silenziosa. Nancy era seduta sul divano, immobile, intenta a rileggere il biglietto che aveva trovato sul tavolo poco tempo prima. Aveva immediatamente riconosciuto la grafia del padre, e la firma posta in un angolo del foglio non era stata altro che la conferma di ciò che temeva. Dopo mesi di continui litigi con la moglie, se n'era andato. Diceva che le voleva bene, che lei non aveva nessuna colpa, che le augurava una vita meravigliosa e che sarebbe sempre stato lì per lei, di qualunque cosa avesse bisogno. Accartocciò il foglio e lo gettò nel caminetto che aveva di fronte e rimase a guardare la carta bruciare, senza distogliere lo sguardo dalle fiamme nemmeno per un istante.

Si alzò, lisciandosi la gonna, e si avvicinò alle scale, diretta nella camera della madre. Come sospettava, era vuota. Il letto era rifatto, il che indicava che nessuno avesse dormito lì. Non che la cosa la stupisse, chiaro. Sua madre, Carol Hoggins, la sera precedente non era rientrata, cosa che succedeva oramai da qualche settimana. Evidentemente suo padre aveva aspettato che nessuna delle due fosse in casa, prima di andarsene.

Nancy aveva passato la notte a casa della sua migliore amica (“per studiare”, quella era stata la scusa ufficiale) e, al suo ritorno, aveva trovato le serrande ancora abbassate e la porta chiusa con tre giri di chiave. All'inizio aveva pensato che suo padre fosse uscito presto per andare al lavoro – era un produttore cinematografico, e spesso accadeva che dovesse uscire anche nel bel mezzo della notte per incontrare i suoi collaboratori -, ma poi, una volta posate le chiavi sul tavolino di vetro che si trovava in entrata e arrivata in soggiorno, aveva visto il biglietto.

Aprì tutti gli armadi, per controllare che la decisione del padre fosse effettivamente definitiva, e si ritrovò di fronte a nient'altro che gli abiti di sua madre. Chiuse le ante, per poi sedersi sul bordo del letto e lasciarsi cadere sul materasso. Rimase a fissare il soffitto per qualche istante, mentre la consapevolezza di quell'abbandono iniziava a farsi strada dentro di lei. Senza che se ne rendesse conto, le prime lacrime iniziarono a scenderle lungo le guance. Quando vi fece caso, era troppo tardi per provare a fermarle.

Era passato poco meno di un giorno da quando lo aveva visto e vi aveva parlato e, nel profondo, si sentiva offesa dal fatto che avesse preferito lasciarle un biglietto piuttosto che salutarla. Entrambi sapevano che non avrebbe provato a fermarlo, che non avrebbe fatto sceneggiate per costringerlo a restare, eppure lui non si era fidato abbastanza da confidarle le sue intenzioni. Avrebbe voluto abbracciarlo per un ultima volta, prima che si trasferisse dall'altra parte della California. Nonostante non lo avesse mai detto esplicitamente, Nancy era sicura che suo padre si fosse trasferito a San Francisco. Fin da ragazzo – le aveva confidato, una volta, quando lei aveva circa sedici anni, dandole un buffetto affettuoso sulla guancia – aveva sognato di attraversare il Golden Gate Bridge su una decapottabile rossa, insieme alla donna della sua vita – e quando aveva sedici anni, Nancy aveva pensato che si riferisse a lei. Adesso, mentre lei rimaneva immobile sul letto, con le mani intrecciate posate sul grembo, riusciva perfettamente a immaginarselo, suo padre, su una decappottabile fiammante, mentre attraversa il ponte più famoso d'America, da solo. Una parte di lei si rifiutava di pensare che ci potesse essere qualcuno con lui: glielo avrebbe confessato, perché sapeva di potersi fidare. Quando si era infatuato della sua segretaria, di vent'anni più giovane, lei era stata la prima a saperlo. Era entrato in camera sua una volta che la moglie si era addormentata, e l'aveva svegliata. Le aveva raccontato tutto, di come Jodie – questo era il nome della ragazza – rappresentasse una boccata d'aria fresca per lui, sposato da trent'anni con una donna che aveva smesso di amare dopo pochi mesi; le aveva detto di come fosse stata lei a fare la prima mossa, di come lui avesse cercato di destreggiarsi tra la sua famiglia e la sua relazione clandestina in modo da non ferire nessuno, e di come si fidasse ciecamente della figlia, tanto da confessarle un segreto che avrebbe potuto distruggere non solo la sua famiglia, ma anche la sua carriera. «Voglio solo vederti felice, papà.» aveva risposto lei, dopo qualche secondo di silenzio, e, tirando un sospiro di sollievo, l'uomo era ritornato nella sua camera da letto, insieme alla moglie.

Era durata meno di un mese, la storia con Jodie. L'uomo si era reso conto che più che rappresentare una piacevole novità, per lui quella ragazza era l'ennesimo fattore di stress e stanchezza. Gli prosciugava le energie, quasi come una sanguisuga che si attaccasse al corpo di un uomo malato. Non ci era voluto molto perché decidesse di troncare quella relazione. Quando lo aveva detto alla figlia, lei aveva segretamente gioito. Nonostante suo padre non l'avesse mai trascurata, la fine di quella storia rappresentava per lei la possibilità di riavere tutta la sua attenzione per sé.

Mentre ripensava a quei fatti, Nancy si ritrovò a chiedersi se, per caso, suo padre non se ne fosse andato per lo stesso motivo. Era possibile che, inconsciamente, lei e sua madre fossero riuscite a prosciugare le sue energie?

Si spostò sul materasso, arrivando vicina al cuscino su cui l'uomo aveva dormito qualche notte prima, ancora ben sprimacciato come quando sua madre aveva rifatto il letto. Lo prese in mano, per poi stringerlo forte al petto. Mentre i dubbi la attanagliavano, si abbandonò al forte odore di pino che la federa emanava – il dopobarba preferito del padre, e anche il suo. Poi, piano piano, mentre le lacrime bagnavano il cuscino, si addormentò.

 

 

 

Chicago, 20 Settembre 1985

 

Non era riuscito a chiudere occhio per tutta la notte. Il giorno del suo compleanno era stato, come tutti gli anni, un disastro totale. Una parte di lui aveva sperato che, dopo ventitré anni, qualcosa sarebbe cambiato, ma non aveva fatto in tempo ad illudersi che potesse essere così che le sue speranze si erano infrante.

“Stai zitta, puttana.” era stata la prima frase che aveva udito quella mattina, quando era sceso in soggiorno.

Sua madre era ai fornelli, intenta a preparare la colazione, mentre suo padre sfogliava il giornale, continuando a portarsi il sigaro alla bocca.

«Buon compleanno, caro.» aveva detto la donna, appena lo aveva visto, avvicinandosi a lui per stringerlo in un debole abbraccio. Suo padre, invece, noncurante della sua presenza, non gli aveva rivolto nemmeno uno sguardo.

Avevano fatto colazione in silenzio, con due uova e qualche fetta di pancetta. Contro ogni sua aspettativa, sua madre gli aveva fatto trovare una tazza di caffè con cui accompagnare il pasto, il che aveva fatto scattare la rabbia del marito. L'uomo, tarchiato e corpulento, si era alzato di scatto dalla sedia, sbattendo con forza i pugni sul tavolo. Aveva preso la tazza e, senza pensarci due volte, l'aveva scaraventata a terra.

«Niente caffè.» aveva sibilato, il volto livido.

«Ma John, è il suo complean-»

Prima che la donna riuscisse a completare la frase, uno schiaffo violento l'aveva colpita in pieno volto. A sua volta il ragazzo era balzato in piedi, in un inutile tentativo di difendere la madre. Si era ritrovato a terra ancora prima di riuscire ad assestare un solo colpo. Aveva perso i sensi, o almeno così gli parve. Quando aveva riaperto gli occhi, la casa era immersa in uno stato di quiete che sembrava irreale. Sua madre, accanto a lui, lo fissava senza proferire parola. Quando era riuscito ad alzarsi, lei gli aveva fatto un cenno con il capo.

«Roy.» aveva detto, con un filo di voce. «Devi andartene. Ho messo via dei soldi, per te. Promettimi che te ne andrai.»

A quell'affermazione, il ragazzo aveva sgranato gli occhi.

«N-non posso, mamma. Non voglio.»

«Ti prego, promettimelo.»

Nonostante continuasse a ripetere di non volersene andare, la donna insisteva affinché lo facesse. Alla fine, dopo qualche minuto di silenzio, si era deciso.

«Te lo prometto.» aveva detto, stringendole le mani tra le sue.

Il resto della giornata era stato esattamente come tutte le altre giornate, tranquillo finché suo padre non era tornato dal lavoro. Con uno sguardo compiaciuto, l'uomo aveva contemplato il viso della moglie, dove era possibile vedere un livido violaceo appena sopra lo zigomo. Poi aveva infilato una mano nella tasca dei pantaloni e aveva tirato fuori un pacchetto di sigarette già aperto, per poi gettarlo su tavolo con un gesto sprezzante.

«Buon compleanno, figliolo.» aveva detto, senza preoccuparsi di nascondere il suo tono sarcastico.

Roy, irritato, lo aveva ringraziato a mezza voce, aveva preso il pacchetto e se lo era messo in tasca. Dopo cena, appena rientrato in camera sua, lo aveva gettato nell'immondizia. In fretta e furia, aveva messo un paio di magliette e dei jeans in un borsone, insieme alle poche cose che riteneva necessarie e, ovviamente, i soldi che gli aveva dato sua madre. Cinquecento dollari, ottenuti grazie alla benevolenza di qualche vicino o attraverso favori che la donna aveva deciso di fare.

«Rendimi fiera.» aveva detto, mentre glieli dava, al che il ragazzo non aveva potuto far altro che annuire.

Sarebbe andato a Los Angeles, le aveva detto, a Hollywood. Sarebbe diventato attore, un attore famoso, e allora lei avrebbe potuto raggiungerlo, da sola. Era quella l'unica cosa a cui riusciva a pensare.

Era arrivato in stazione con qualche ora di anticipo. Aspettava il treno per Denver, il più economico tra quelli che poteva scegliere. Da lì, avrebbe proseguito fino a Las Vegas in autostop, o in qualunque altro modo, a patto che non gli venisse a costare troppo, e da Las Vegas avrebbe preso una bus fino a Los Angeles. A Los Angeles, senza un posto in cui stare, avrebbe cercato un lavoro che gli permettesse di affittare una stanza di motel e sopravvivere per il tempo necessario per trovare qualcosa di meglio.

Sognava di diventare attore da quando aveva cinque anni, ma il suo sogno non era mai stato preso in considerazione dal mondo degli adulti. Suo padre lo sminuiva in continuazione, e i suoi amici con lui. Sua madre, l'unica a cui sembrava importare qualcosa, lo aveva incoraggiato ad iscriversi al club di teatro organizzato dalla scuola. Quando suo padre lo aveva scoperto, Roy era rimasto confinato in camera sua per un mese. Sulle gambe e sulle braccia aveva i segni della cinghia dell'uomo, che sua madre cercava in ogni modo di coprire. Un giorno, mentre lei gli spalmava una pomata sul braccio, il bambino aveva detto una delle cose più orribile che avesse mai pronunciato.

«È colpa tua.»

Ricordava ancora l'espressione ferita della madre, e il solo pensiero di essere stato così crudele lo faceva star male. Una parte di lui era certa che non sarebbe mai riuscito a ottenere il suo completo perdono, ma vi avrebbe provato in qualunque modo.

Immerso nei suoi pensieri, sentì il treno fischiare. L'enorme ammasso di metallo si fermò sui binari, a pochi metri da lui, e un fiume di persone si riversò fuori dalle porte. Appena il passaggio si sgomberò, il ragazzo salì sul treno.

Aveva il sedile numero 27. 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Note dell'autrice:
Salve a tutti! 
Prima di lasciarvi al capitolo ci tenevo a ringraziare le persone che hanno recensito il capitolo precedente e che hanno inserito la storia nelle seguite, grazie davvero ^.^
Poi, visto che siamo in tema, vorrei far notare che in questo capitolo, e anche tutti quelli a venire, la regola del punto dentro il dialogo (sapete di cosa parlo) verrà rispettata, nonostante io continui a trovarla un pugno nell'occhio dal punto di vista estetico (davvero, lo trovo proprio brutto!).
Detto ciò, godetevi il capitolo :)




Hollywood Girl
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Capitolo 2

 

Hollywood, 20 Settembre 1985

 

«Nancy.»

La voce giunse ovattata alle orecchie della ragazza, che si mosse appena sul materasso.

«Nancy, tesoro, svegliati.»

Aprì appena gli occhi, quanto bastava per scorgere una figura seduta accanto a lei. Lasciò che le scostasse una ciocca di capelli dal viso, imponendosi di non sottrarsi a quel tocco.

«Mamma» rispose, con la voce ancora impastata. «Cosa ci fai qui?»

La donna sorrise, alzandosi e avvicinandosi alle finestre. Iniziò ad alzare le tapparelle, lasciando che la luce del sole penetrasse nella stanza.

«Ci vivo, sciocchina!» affermò, con un tono che Nancy trovò fin troppo allegro.

La ragazza, dopo essersi messa a sedere, si stropicciò gli occhi. Spostò lo sguardo sulla madre che, inconsapevole – o forse incurante – di ciò che era accaduto, continuava a trattarla come se nulla fosse. Una parte di lei sapeva che non lo faceva apposta e che, in fondo, cercava solamente di continuare a vivere felicemente, come quando si era sposata, ma un'altra parte di lei non poteva fare a meno di colpevolizzarla. D'altronde, si disse, era colpa di sua madre se il padre aveva deciso di abbandonarle. Era stata lei a dare inizio ai litigi, mesi prima, senza mai dare l'impressione di volervi porre la parola fine.

«Papà se n'è andato» disse, lapidaria.

La donna, intenta ad aprire le finestre in modo da arieggiare la stanza, si fermò, immobile.

«Sapevamo che sarebbe successo» affermò infine, scrollando le spalle, per poi riprendere quello che stava facendo.

Nonostante non la stesse guardando, Nancy le rivolse uno sguardo carico d'odio. Com'era possibile, si chiese, che quella donna potesse accettare così facilmente l'abbandono di suo marito? L'aveva vista – e sentita – piangere per il fallimento del suo matrimonio tante, troppe, volte. L'unica spiegazione plausibile era che, allora, fingesse, e che, in realtà, desiderava davvero porre fine al suo matrimonio.

Irritata, la ragazza uscì dalla stanza, assicurandosi di chiudersi la porta alle spalle con più forza del dovuto. Sentì sua madre urlare il suo nome, ma decise di ignorarla. Afferrò la borsa che aveva lasciato sul divano poche ore prima ed uscì di casa.

Fece pochi passi sul marciapiede, cercando di decidere dove andare. Sapeva di non avere abbastanza soldi per raggiungere il padre a San Francisco – ammesso che lui fosse effettivamente andato lì – né per andare in qualsiasi altro posto. E poi, si disse, non era davvero sicura di volersene andare. Era cresciuta ad Hollywood, e l'idea di allontanarsi da quel posto la spaventava. Allo stesso tempo, però, non voleva tornare da sua madre. Non poteva contare sulle amiche, perché era certa che, in un modo o nell'altro, l'avrebbero fatta tornare a casa. Per la prima volta in vita sua, era sola.

Alla fine, ancora incerta sul da farsi, decise di rifugiarsi presso la biblioteca. Nonostante la giornata soleggiata, l'aria era gelida e il vento le sferzava violentemente il volto. Aveva fame, ma nessuna voglia di mangiare. Il suo stomaco continuava ad emettere sonori gorgoglii, ma decise di ignorarli, sforzandosi di coprirli con un finto colpo di tosse.

La fermata degli autobus non era molto distante e impiegò una manciata di minuti per raggiungerla. Si sedette sulla panchina, dopo aver dato una veloce occhiata agli orari, appoggiando la schiena al freddo vetro della banchina. Sospirò, infilando le mani nelle tasche. Continuava a non sapere cosa fare, se cercare un modo qualsiasi per allontanarsi dalla madre il più velocemente possibile, oppure se sforzarsi di sopportare e tornare a casa. Un'infinità di scenari andarono a crearsi nella sua mente, ognuno con un finale diverso e, prima che potesse fermarsi, si ritrovò a camminare sul marciapiede, con passo sicuro. Si fermò solo quando scorse un vecchio palazzo, probabilmente costruito negli anni '30, e, facendosi coraggio, suonò il campanello.

«Nancy Hoggins» disse, quando una voce le chiese di identificarsi.

Passarono alcuni secondi, poi il portone d'ingresso si aprì.

Salì rapida due rampe di scale, fino a raggiungere l'appartamento in cui era sicura di trovare chi stava cercando. Sospirò nuovamente, mentre la sua mano andava a posarsi sulla maniglia di ottone. Poi, sicura di quello che stava facendo, aprì la porta.

Carlos Ramirez era un uomo spregevole, la persona più disgustosa che Nancy avesse mai incontrato, ma era ricco. Era stato lui ad aiutare la sua famiglia, quando si erano ritrovati sull'orlo del baratro, e la ragazza era sicura che avrebbe potuto aiutare anche lei.

Fece qualche passo nell'ingresso, diretta verso il soggiorno. Come si aspettava, l'uomo era lì, seduto su una poltrona, intento a fumare una sigaretta. Non appena si accorse della sua presenza, spostò lo sguardo su di lei.

«Nancy Hoggins» disse, guardandola fisso negli occhi. «Cosa posso fare per te, bambolina?»

Il tono con cui l'uomo le aveva parlato la fece rabbrividire, ma si costrinse ad ignorare l'istinto che le urlava di scappare da quel posto il più velocemente possibile.

«Ho bisogno di soldi, Carlos.»

L'uomo la squadrò per qualche istante, per poi distendersi sulla poltrona, allungando le gambe in avanti. Le fece cenno di avvicinarsi e lei, sebbene intimidita, obbedì. Fece una mezza giravolta, come l'uomo le aveva indicato di fare attraverso un veloce gesto della mano, per poi attendere una sua risposta.

«Dovrai guadagnarteli, bambolina» affermò l'uomo, con un viscido sorriso stampato sul volto.

La ragazza lo guardò, confusa.

«Come?» domandò.

L'uomo, in tutta risposta, scoppiò a ridere.

«Molto divertente, davvero. Adesso, senza farmi perdere altro tempo, spogliati.»

Quell'ordine giunse alle orecchie di Nancy come il peggiore insulto che avesse mai ricevuto. Fece qualche passo indietro, mentre Carlos si avvicinava velocemente a lei. Prima che potesse fermarlo, si ritrovò appoggiata ad una parete, con in corpo dell'uomo pericolosamente vicino al suo.

«Ho sempre voluto scoparti» disse, con voce roca, scostandole una ciocca di capelli dal viso. «Ma tuo padre, quell'ipocrita bastardo, non me lo ha mai permesso.»

La ragazza sentì tutto il suo corpo tremare e si maledì per aver deciso di recarsi in quel luogo. Carlos la stava terrorizzando, e le sue parole non facevano altro che metterle ancora più paura.

«Lasciami andare, per favore» lo pregò, con voce tremante.

«Non vedo perché dovrei» rispose lui, avvicinandosi maggiormente a lei.

«Mio padre è qua sotto, mi sta aspettando» mentì lei, cercando di sembrare convincente.

L'uomo sbuffò, allontanandosi dalla ragazza.

«Ovviamente» disse. «Ovviamente

Tirando un sospiro di sollievo, Nancy uscì velocemente dall'appartamento. Senza che se ne rendesse conto, si ritrovò a correre come non aveva mai fatto, con l'unica intenzione di tornare a casa.


 

Denver, 21 Settembre 1985

 

L'uomo continuava a parlare, ma Roy non gli prestava attenzione. Il paesaggio scorreva veloce sotto i suoi occhi, un continuo susseguirsi di alberi e rocce illuminato appena dalla luce del sole. Avevano lasciato Georgetown all'alba ed erano in viaggio da un paio d'ore. Avrebbero proseguito insieme fino ad Elsinore, nello Utah, dove si sarebbero divisi. Da lì, Roy avrebbe proseguito per Las Vegas, mentre l'uomo si sarebbe diretto verso Portland. Sarebbero dovuti arrivare a destinazione verso l'ora di pranzo, se non ci fossero stati intoppi. Stiracchiandosi sul sedile, il ragazzo rivolse la sua attenzione all'uomo che, imperterrito, continuava a raccontargli di come avesse conosciuto sua moglie.

«E allora io le dico “Tu è meravigliosa!” e lei ride, perché io parlava male inglese.»

Roy annuì, reprimendo l'istinto di correggere l'uomo. Il suo compagno di viaggio si chiamava Igor ed era russo; si era trasferito in America una ventina di anni prima, poco dopo la nomina di Brežnev a Segretario generale del PCUS. Aveva sposato una ragazza americana, una certa Liza, e, a quanto diceva, si era trattato di amore a prima vista – o almeno da parte sua, avrebbe aggiunto il ragazzo.

«Ehi, mi stai ascoltando?»

Il ragazzo fece un cenno di assenso, fingendosi interessato.

«Tu parlavi male inglese, e poi?» disse, invitando l'uomo a continuare.

«E poi» riprese Igor, spostando nuovamente lo sguardo sulla strada. «E poi le offro da bere e la invito a ballare, e balliamo, balliamo e balliamo e poi-»

«E poi la baci!» esclamò Roy, anticipandolo.

L'uomo gli rivolse un'occhiata offesa, sbuffando.

«No» lo corresse. «Poi l'accompagno fino a casa, e lì la bacio.»

Il ragazzo sorrise, ripensando a sua madre, chiedendosi se anche suo padre, all'inizio, si fosse comportato in modo simile.

«Hai figli, Igor?» domandò, distogliendo lo sguardo dalla strada per rivolgerlo all'uomo.

«Da, ragazzo. Una figlia, Elena» risponse l'uomo, avvicinando la mano destra al parasole, per tirarne fuori una foto in bianco e nero.

La porse a Roy, che la avvicinò al viso in modo da vederla più nitidamente. Ritraeva una ragazza sulla ventina, forse leggermente più vecchia, con i capelli ricci tagliati corti e enormi occhi chiari – se fossero azzurri o verdi, questo non lo sapeva. Aveva dei fiori intrecciati nei capelli, probabilmente margherite, e sorrideva.

«Bella, vero?» chiese Igor, qualche istante dopo.

«Molto» rispose il ragazzo, riconsegnando la foto al proprietario. «Potresti presentarmela!» scherzò, accennando una risata.

«Non offenderti, non le piaci.»

«Non puoi saperlo.»

«A lei piacciono le ragazze» concluse Igor, ridacchiando.

Il ragazzo lo guardò, sorpreso per la semplicità con cui l'uomo aveva fatto quella affermazione. Non si sarebbe mai aspettato che riuscisse a farlo con una tale leggerezza.

«Vive a Los Angeles» riprese poi l'uomo, dopo qualche minuto di silenzio. «Potresti farmi un favore?»

Roy annuì, chiedendosi che genere di favore avrebbe mai potuto chiedergli.

«Apri il cruscotto, c'è un pacchettino azzurro. Cerca Elena Volkov e daglielo» spiegò, mentre con una mano gli indicava il cassettino del cruscotto. «Grazie» aggiunse poi, una volta che il ragazzo ebbe preso il pacchetto.

Prima di metterlo nel borsone, il ragazzo cercò una penna e scrisse velocemente il nome della ragazza sul pacchetto, poi lo infilò in una delle tasche esterne, assicurandosi di chiuderne la cerniera.

Trascorsero il resto del viaggio in silenzio, senza soste, finché non giunsero ad Elsinore. L'uomo si fermò per fare benzina e Roy ne approfittò per sgranchirsi le gambe. Prese il borsone, salutò l'uomo, dopo avergli nuovamente promesso che avrebbe consegnato il pacchetto alla figlia, e si avviò verso quello che sembrava essere un ristorante. L'interno del locale era deserto, fatta eccezione per una coppia di anziani e un cameriere. Il ragazzo si avvicinò al bancone e ordinò un piatto di mac and cheese, una poltiglia di pasta e formaggio che trovava disgustosa, ma economica.

«Puoi dirmi dove posso trovare un motel?» domandò, non appena il cameriere fece ritorno con il suo piatto.

Il cameriere, un ragazzino che non poteva avere più di sedici anni, scoppiò a ridere.

«Mi dispiace deluderti, ma non ci sono motel a Elsinore. Dio mio, non ci sono nemmeno gli abitanti!» esclamò, tra una risata e l'altra.

Roy arrossì, consapevole di aver appena fatto la figura dell'idiota.

«Però posso trovarti un posto in cui stare, se vuoi» continuò il cameriere, con il tono di chi sapeva esattamente ciò che stava dicendo.

«Sì, per favore.»

Il cameriere si allontanò velocemente, mentre il ragazzo si costringeva a mandare giù quello che veniva spacciato per un delizioso piatto della tradizione americana. Quando il cameriere – si chiamava Joel, stando alla sua targhetta – fece ritorno, Roy non era ancora riuscito a mangiare metà del contenuto del suo piatto.

«Si vede che ti piace» osservò il ragazzino, sarcastico. «Ad ogni modo, puoi stare da me, per stasera.»

Roy lo ringraziò, prendendo l'ennesima forchettata di pasta, e osservò il ragazzino tornare dietro il bancone. Si chiede cosa lo avesse spinto a offrirgli un posto nella propria casa, se avesse l'aria davvero così disperata, ma, non riuscendo – o non volendo – a trovare una risposta, decise di tornare a concentrarsi sul suo piatto di pasta. Contò distrattamente i maccheroni rimasti, stupendosi quando si accorse che erano ventisette.

Per la seconda volta nel giro di un paio di giorni, quel numero tornava.

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