Se mi sfidi, ti bacio.

di C r i s
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Red# ***
Capitolo 2: *** Yellow# ***
Capitolo 3: *** Blue# ***
Capitolo 4: *** Black & White# ***
Capitolo 5: *** Green# ***
Capitolo 6: *** Gray# ***
Capitolo 7: *** Dark brown# ***
Capitolo 8: *** Light Denim# ***
Capitolo 9: *** 9. Pink Cotton Candy# ***
Capitolo 10: *** ANNUNCIO ***



Capitolo 1
*** Red# ***


Se mi sfidi, ti bacio.
 



 

Il rumore di un bacio non è forte come quello di un cannone,
ma la sua eco dura molto più a lungo.



«Mi spieghi cos’è che vuoi?», David sputò una frase intrisa di veleno.
«Te», Sharon fu schietta e gli si parò davanti non appena scese dalla motocicletta.
Si aprì in una risata tetra. «Capisco».
«No, non capisci», ribatté lei, sbuffando, «C’è differenza tra volere e potere».
«Molti non la penserebbero così», le fece notare, togliendo il casco.
«Molti non sono me», precisò l’altra con stizza.
David la osservò in silenzio, aspettando che si decidesse a vuotare il sacco.
La ragazza gli si fece vicino, i suoi capelli gli solleticarono il braccio e trattenne il respiro, pensando che la distanza non sarebbe bastata per tenerlo a bada.
«Soltanto perché le nostre famiglie non possono tollerarsi l’un l’altra, questo non significa che dobbiamo seguire il loro esempio», Sharon assunse un’espressione seria e agitò leggermente le mani per valorizzare il concetto.
«Bel termine, tollerare, ma non penso renda l’idea», David rise, pensando che avrebbero volentieri usato un lanciafiamme a vicenda per sbarazzarsi degli antagonisti.
«Ci stai, David?», fece un passo in avanti e i suoi occhi assunsero una sfumatura decisa.
Il ragazzo sostenne il silenzio, prima di sfiorarle con una mano la guancia.
«Non capisco».
Lei sorrise, consapevole. «Ti sfido. Ti sfido a trovare le situazioni più compromettenti per baciarmi e il bacio dovrà durare dieci secondi esatti».
David sembrò leggermente sorpreso, ma sorrise. «La tua strategia cerca d’intaccare il mio orgoglio maschile, non è vero?», aveva compreso che quella ragazza avesse soltanto le sembianze d’essere umano e nulla più, il cervello proveniva da un’altra galassia.
«No, in realtà sto cercando di solleticare i tuoi ormoni», la risposta sincera di Sharon gli suggerì un’ennesima risata.
«Potrò barare?», fu la domanda che gli uscì dalle labbra.
«Ovvio che no», Sharon agitò l’indice, «Stipulerò le regole».
«Perché devi essere tu a farlo?», inarcò un sopracciglio sospetto.
«Perché sarai tu a proporre le sfide e io a soccomberle», schioccò la lingua nel palato come se fosse il discorso più ovvio del mondo e gli sorrise.
«Quindi non potrai tirarti indietro», realizzò in quel momento il potere che avrebbe trattenuto tra le mani se avesse accettato di partecipare a quella follia.
«Attento, Playboy. Se dovessi andare contro le mie regole, sarò io a porre pegno a te», gli regalò uno sguardo ammiccante e si leccò le labbra con la punta della lingua.
David reagì e si portò una mano al mento, pensieroso.
«Cosa ci guadagnerei?»
A quel punto, la mascella di Sharon volle toccare il pavimento, ma si trattenne per dar man forte al proprio orgoglio. «Me».
«Sai che guadagno», ridacchiò, ma tornò serio. «Sul serio, che ci ricavo?»
Sharon assottigliò lo sguardo, prima di ruotare sui tacchi e scuotere la testa.
Aveva davvero creduto che, nonostante tutto, quell’aria da impassibile e indifferente cronico potesse vacillare, che quella sera non avesse baciato un perfetto sconosciuto e che anche lui sentisse il bisogno di averla ancora tra le braccia, di pregustare il proibito ancora una volta.
Si era sbagliata.
Sbatté la portiera dell’automobile e sospirò, stringendo il manubrio tra le dita. Accese il motore e stette per dare gas, quando la portiera del passeggero venne spalancata e David salì a bordo, l’espressione seria, ma interessata.
«Scendi, non sei gradito».
«Di già?», incalzò, bloccandole il freno a mano con un gesto fulmineo, «Sbaglio o il gioco è appena iniziato?»
Sharon rimase immobile per qualche istante, mettendo a fuoco le sue parole, per poi sbattere le palpebre. «Durerà un’Estate, David. Soltanto un’Estate, dopodiché fingeremo che non sia mai accaduto niente. Tu avrai la tua strada ed io avrò la mia».
Il ragazzo fece spallucce e prese una sigaretta dalla tasca. «Posso porre la prima sfida?»
Sharon annuì e notò il ragazzo rilassarsi. «Leva il freno».
Ubbidì dopo qualche secondo d’esitazione. «Beh?»
«Mettiti sulla strada».
Deglutì e si guardò attorno, prima d’inserire la prima marcia e immettersi nella sua corsia.
«Dai gas».
Si ritrovò ad eseguire per la terza volta in neppure un minuto e, ringraziando la strada deserta, pigiò l’acceleratore.
«Vuoi propormi di schiantarmi contro un albero?»
«E’ più semplice di quanto credi», sorrise tra sé.
«Allora che devo fare?»
«Baciami».
Sharon soffocò con la propria saliva, ruotò nella sua direzione e notò che fosse tremendamente serio. Pensò che avesse bevuto per farle una proposta del genere, ma, quando capì che fosse decisamente consapevole delle proprie parole, rabbrividì e fu tentata di rifiutare.
Una follia, così l’aveva ritenuta, no?
Reagì di stomaco, lasciò andare il volante, allentando anche l’acceleratore, prima di agguantargli il viso e baciarlo, le loro labbra sussultarono per quel contatto agognato e il tempo sembrò fermarsi.
Sharon carezzò i suoi lineamenti mascolini e rabbrividì dal piacere che quella vicinanza le aveva procurato, quando fu lui a ritrarsi e a sorridere.
«Dieci secondi, no?», le schioccò un buffo sulla guancia, «Sono un uomo di parola».
Sharon tornò a fissare la strada, stringendo il volante come se fosse un antistress.
Accostò e si voltò verso di lui, un sorriso appena accennato, mentre David apriva la portiera. La chiuse e Sharon calò il finestrino.
«Ehi David», lo richiamò e si voltò, la sigaretta sulle labbra pronta per essere gustata.
Si osservarono, la domanda di Sharon le premeva sulla lingua.
«Ci stai?», ripeté allora, con uno strano nodo alla bocca dello stomaco.
Lui si dilatò in un sorriso e le strizzò l’occhio.
«Ci sto, bambina».



If you have a minute.

Non vorrei perdermi nei soliti discorsi senza capo nè coda, cercherò di essere il più coincisa possibile. Questa nasce prettamente come una raccolta, un insieme di situazioni che vedranno come protagonisti Sharon e David, la loro follia e le loro sfide.
Cercherò di far emergere nel corso del tempo le loro caratteristiche, le loro storie, le loro emozioni e quant’altro, come giusto che sia, e sarò felice di leggere il vostro parere a riguardo.
Proprio ieri sono rimasta folgorata da questo pensiero e mi sono subito cimentata a mettere su carta quello che mi gironzolava per la testa, saranno tutte cavolate, si vedrà col tempo XD
Tengo a precisare una cosa: i primi tre generi che ho inserito per la descrizione della storia potrebbero non sempre coincidere con la stesura del capitolo, in fondo si tratta sempre di una collezione d'attimi, che siano felici o tristi, questo spetta ai protagonisti :)
Adesso vi saluto, alla prossima, se vorrete!
Un abbraccio,
Crì.

 

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Capitolo 2
*** Yellow# ***


Se mi sfidi, ti bacio.

 







 

Un bacio è come bere acqua salata: bevi e la tua sete aumenterà.

«Ci stai?»
Sharon non indugiò, «Ci sto».
Quella calda mattina d’Estate segnava l’inizio delle vacanze, le automobili in corsa lungo l’autostrada per giungere alla base erano le protagoniste delle stazioni radio, mentre le spiagge abbandonavano la solitudine per abbracciare il caos.
L’acqua del mare s’infranse sulla battigia, riportando Sharon al presente.
La ragazza scrutò con caparbietà gli occhi nocciola del suo sfidante e sorrise, l’adrenalina riempì le sue vene e stiracchiò le braccia, preparandosi alla futura proposta.
«Fremo», David soffiò, provocante, e si avvicinò.
Sharon portò le mani sul suo petto per scansarlo. «Ah-ha, non puoi avvicinarti».
«Non è una regola», ribatté l’altro.
«Lo è da adesso».
«Non puoi aggiungerla», le bloccò le mani con una mossa rapida.
«Ah no?», Sharon si dilatò in un sorriso birbante e ritrasse le dita, «Chi me lo impedirebbe?»
«Non provocarmi, bambina», prese una sigaretta dalla tasca e la portò alle labbra, l’accese senza ripensamenti, nonostante il naso arricciato della ragazza, e ispirò a fondo la nicotina.
«Affatto», rispose con finta ingenuità, «Sto aspettando».
David le lanciò un’occhiata fuggiasca, prima d’immergere le iridi nocciola nell’orizzonte, sorrise colto dall’idea improvvisa e Sharon rabbrividì appena.
«Dunque?», la ragazza strinse le braccia al petto con fare altezzoso, immaginò che dovesse terminare la sigaretta prima di darle delucidazioni.
Eppure, la sorprese, poiché lasciò cadere l’oggetto dalle dita e le agguantò un polso, prima di trascinarla lungo le scale.
Le dita dei piedi vennero sommerse dalla sabbia calda, marciò alle spalle di David chiedendosi cosa le avrebbe chiesto di fare quella volta e rimase muta, pregustando il silenzio che annunciava tempesta.
Si fermò soltanto quando l’acqua le raggiunse le caviglie, David si voltò di scatto e l’agguantò per il bacino, la sollevò con estrema facilità e si chinò quanto bastò per permettere alle vertigini di prendere forma.
Sharon annaspò alla ricerca dell’ossigeno, decisamente precario, e avvolse le dita tremanti attorno alla camicia leggera di David, il quale si ritrovò a ghignare, soddisfatto della sua reazione.
Le gambe strinsero in una morsa d’acciaio i fianchi del ragazzo che ridacchiava sotto i baffi, le lasciò una carezza lungo la schiena e si compiacque di sentirla contorcersi non appena le punte dei capelli sfiorarono l’acqua di mare.
«Quanto manca?», starnazzò con la voce impastata dal terrore, mentre David fingeva di riflettere.
«All’incirca, il tempo di farmi ridere un altro po’», per tutta risposta, le scoppiò a ridere in faccia, come previsto, e cominciò a muoversi, la vide ondulare e stringersi come un koala alle sue spalle.
«Numeri, voglio numeri!», gracchiò l’altra, il battito del cuore accelerato dal terrore di poter cascare all’indietro, seppur fosse un’altezza minima, un trauma restava sempre tale.
«Mi spiace dolcezza, nessun numero», gli occhi di David brillarono e in una manciata di secondi si trovò a sfiorare la punta del suo naso, «Posso darti soltanto questo».
Le loro labbra si afferrarono e il sapore di quel bacio fece trasparire l’adrenalina che riempiva entrambi in quel preciso istante. David la strinse a sé con quanta più forza avesse, seppur evitando di farle male, e Sharon portò le braccia dietro il suo collo, aggrovigliando le dita tra i suoi capelli sottili, color del grano.
Le labbra di lui s’inarcarono prontamente in un sorriso soddisfatto non appena la sua mente registrò i dieci secondi e si separò dal suo angolo di Paradiso, seppur a malincuore, per rimetterla con i piedi per terra.
La ragazza si massaggiò le tempie e socchiuse gli occhi, dopodiché li spalancò e si preparò ad una sfuriata in grande stile, che non avvenne per evitare d’alimentare il compiacere di David.
«Non un secondo di più», precisò, estraendo una sigaretta dalla tasca, «Visto? Rispetto le regole».
«Chissà perché, soltanto queste regole», brontolò l’altra, incrociando le braccia sotto il petto.
«Dovresti ammirarmi per questo e comunque non sai se solitamente rispetto le regole o meno, per cui, non parlare», le sventolò l’indice sotto il naso e si aprì in una lieve risata.
«Mi stai proponendo di conoscerti meglio, Baker?», lo provocò allora Sharon, un sorriso birbante a colorarle le labbra, una dentatura scintillante che funse da riflesso ai raggi del sole.
Il ragazzo, di rimando, soppesò le sue parole e non si scansò, quando lei gli si avvicinò appena. «Non potrei, una sfida alla volta, no?», la canzonò, riportandole alla mente una delle assurde e più perentorie regole, stipulate dalla ragazza stessa.
Sharon scosse il capo con noncuranza. «Faresti più bella figura ad ammettere d’averne paura».
Si accoccolò sulla sabbia a gambe incrociate, il sole le carezzò il viso e sporse la fronte verso l’alto, mentre David imboccava nuovamente la sigaretta, senza pensare minimamente di raggiungerla.
«Mi spiace deluderti, ma sono poche le cose che mi spaventano».
«Tua madre entra nella cerchia ristretta», sillabò, dondolando con armonia le gambe.
«Forse nella tua, insieme alle vertigini si contengono la cima», le soffiò all’orecchio, quando decise di raggiungerla, la sabbia si attaccò ai pantaloncini e scivolò lungo le sue gambe.
«Ti sembra corretto?», Sharon gli rivolse un’occhiata irrequieta, «Conosci una delle mie debolezze peggiori, mentre di te conosco soltanto il nome di tua madre».
«E di mio padre», aggiunse come se fosse un dettaglio necessario al discorso per la pace nel mondo.
«Se dobbiamo dirla tutta, conosco persino Proust», Sharon ricordò il batuffolo di cotone che era solito scorrazzare da un giardino all’altro, ignaro del tacito segnale di guerra che caratterizzava i Marshall e i Baker.
«Visto? Siamo pari allora, se ricordi addirittura il cane», sorrise, beffardo, e terminò la sigaretta, tentato di incominciare con una terza.
«Non era tuo il cane».
«Sai anche questo».
«Perché me l’ha detto tuo fratello», puntualizzò la ragazza con il cipiglio.
«Poi ti lamenti di non conoscermi», l’apostrofò, alludendo alla questione del fratello.
«Certo, infatti non ti conosco», replicò con fermezza, scostando dei granelli di sabbia dai piedi.
David le lanciò un’occhiata rapida, prima di tornare a scrutare l’acqua, il suo colorito azzurrognolo gli ispirava una fonte di tranquillità immane, tanto che fu tentato di spogliarsi e gettarsi senza pensare che probabilmente, a quell’ora del mattino, fosse un tantino fredda.
«Adesso sei tu a farmi credere di volermi conoscere, Marshall», incalzò il ragazzo dopo qualche attimo di apatico silenzio.
Si voltò nella sua direzione, giusto in tempo per captare il sorriso laconico di lei.
Si alzò in piedi, ripulendo le gambe dalla sabbia umida, e riservò lo stesso trattamento alle mani, dopodiché puntò i suoi occhi scuri nei suoi, chiari e limpidi.
«Hai soltanto quest’Estate, Dave», Sharon divenne seria e perentoria, gli era talmente vicino che il ragazzo venne investito dal suo profumo soave, «Cerca di non dimenticarlo».
Le loro braccia si sfiorarono, David rimase con la futura sigaretta sospesa dalle labbra, mentre Sharon gli passava di fianco per raggiungere le scale che la riportassero alla vita reale.
«Ehi», il richiamo del ragazzo la fece fermare, ruotò appena il capo per rivolgergli l’attenzione richiesta.
«Il tempo è scaduto», gli fece notare lei.
«Non te ne ruberò altro», spavaldo, ispirò la nicotina e la lasciò libera, neppure fosse un canarino scampato alle grinfie di un gatto domestico, «In futuro, evita di chiamarmi Dave».
«T’infastidisce?», chiese, sbattendo innocua le ciglia.
«Tu che ne pensi, Ronnie?», inarcò le labbra in un sorriso derisorio e la ragazza s’indispettì appena, serrando i pugni lungo i fianchi.
«Penso che Dave sia sprecato per te, che di dolce non hai niente», gli rivolse le spalle, di nuovo, ma stavolta, seppur la sua marcia fosse accompagnata dalla sua risata, non gli prestò attenzione.
L’hai voluto tu, Ronnie.
Le sembrò di sentire la sua voce echeggiarle nei timpani e capì che avrebbe dovuto disintossicarsi da David Baker prima che il suo animo imboccasse la strada della perdizione, per non trovarne più l’uscita.
Del resto, sapeva che se anche avesse lasciato delle briciole di pane a segnare il percorso, David sarebbe stato fin troppo scaltro da farle scomparire tutte, pur di trascinarla fino in fondo in quell’assurdità che altro non era partita che da lei.
E, con un labbro martoriato tra i denti, sentì nuovamente quella frase bombardarle la testa.
L’hai voluto tu.




If you have a minute.
Non avrei mai creduto di poter essere capace di mandare avanti due cose in contemporeanea, ma ho pensato che, mal che fosse andata, avrei rispettato ciò che faccio sempre, ovvero temporeggiar o, più drasticamente, sospenderne una delle due.
Invece no, sarà che al momento non ho tomi da spazzolarmi, sarà che sento ancora il clima estivo addosso - lo dimostra il ventilatore che mi sta alle calcagna - oppure sarà che la mia mente ha voglia di partorire idee in  continuazione. Nonostante tutto, son qui, con voi e con loro, Sharon e David.
Questo è stato un esempio di quello che Sharon e David intendono per "sfida". In fondo, si tratta pur sempre d'esperienze che prevedono come finale un bacio, per cui non possono essere così eccessive. Oppure no, ma si vedrà andando più avanti.
Mi auguro che i personaggi verranno scoperti passo passo così come li ho pensati e mi auguro che sappiate apprezzarne tutte le sfumature che sorgeranno con la loro storia!
Ringrazio tutti coloro che hanno inserito la storia tra le seguite, le ricordate e le preferite, chi mi segue in silenzio, chi facendomi ascoltare la propria opinione, positiva o negativa che sia è sempre piacevole averla C:
Tengo a precisare che le immagini che scelgo e posiziono prima del capitolo sono del tutto casuali, nel senso che non raffigurano l'idea che ho dei protagonisti, ma che riprendono uno spezzone della scena che ho immortalato nel testo.
Al prossimo aggiornamento,
Crì.

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Capitolo 3
*** Blue# ***


Se mi sfidi, ti bacio.
 




 

Ti ho lasciato un bacio nell'aria, prendilo quando vuoi.

 
 

Il tonfo di un libro planato al suolo, fece schizzare il suo cuore in gola.
Sharon distolse l’attenzione dalle righe sotto il suo naso, per osservare curiosa una donna alla ricerca di qualche libro riposto su di uno scaffale troppo alto per i suoi standard.
Se avesse avuto l’altezza adeguata, avrebbe aiutato la donna nell’impresa, ma, essendo alta quanto, se non meno, di una vigorsol, non avrebbe neppure tentato d’umiliarsi nel tentativo d’aiutare qualcuno che neppure aveva chiesto il suo intervento.
Si era rintanata nella biblioteca pubblica di Newport Beach, sapendo di potersi acquietare soltanto in uno spazio che nessuno avrebbe preteso di condividere con lei e, in quel momento, necessitava della solitudine più pura.
Continuava a pensare d’essere folle a rinchiudersi in uno spazio murato con quel caldo boia, ma non aveva avuto altra scelta. In realtà, l’alternativa sarebbe stata quella di scarrozzare la piccola Anne, sua sorella minore, per il parco comunale ed era certa che i nervi non le avrebbero retto. Quella ragazzina di soli insulsi sette anni era paragonabile al demonio e aveva fin troppi problemi già di suo per potersene affibbiare degli altri.
Tra cui, David.
Rabbrividì soltanto pensando al suo nome e tornò a prestare attenzione sulla spiegazione dell’amore platico che, era certa, le avrebbe reso le idee più chiare.
Oppure no, si sapeva che i filosofi avessero una mente contorta.
Un ennesimo rumore la ridestò, si giocò la lingua tra i denti, mozzicandola, e strinse i pugni per non dare di matto, in fondo chi avrebbe potuto pensare che la sua reazione isterica fosse dettata dalla perdita della lingua?
Fulminò la signora scoordinata di poco prima, ma, con sorpresa, si rese conto che l’oggetto della sua attenzione non fosse il libro scappatole di mano, bensì una persona in carne ed ossa: lei.
Inarcò un sopracciglio, curiosa, ma rimase al proprio posto, fingendo che Platone avesse ormai catturato la sua concentrazione, quando la donna paffuta dai ricci disordinati che le cadevano dinanzi gli occhi le si fece vicino e si sporse verso il suo orecchio, mal celando un forte imbarazzo.
«Mi scusi», biascicò, evitando un balbettio indistinto, «Ho un messaggio per lei».
Sharon si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e si guardò appena attorno, il pensiero di non essere sola in quell’abisso di cultura le fece vibrare la colonna vertebrale.
«Per me?», padrona delle corde vocali, non lasciò trapelare la curiosità che la stava logorando.
Il profumo della donna la investì e arricciò appena il naso, era certa che prima d’uscire di casa avesse quantomeno terminato l’intero flacone.
«Una volta che l’ha letto, svolti in fondo il corridoio», le recapitò un biglietto stropicciato che, in seguito, riconobbe essere stato preso da una pagina ingiallita di qualche libro della biblioteca stessa, «La sta aspettando».
Sharon si chiese cosa avesse ricevuto in cambio quella donna per essersi spacciata per piccione viaggiatore, ma non indagò oltre e concentrò il proprio sguardo su quel pezzo di carta.
Lo spiegazzò il necessario per rendere leggibile quella calligrafia, per niente idonea alla normalità, e le labbra si smorzarono in un’espressione indefinita: indignata, per aver privato un libro di un suo pezzo di storia, e febbricitante, sapendo che neppure quella volta si sarebbe smentito.
«Grazie», si rese conto dell’assenza della donna soltanto quando si decise a ringraziarla.
Le sue pupille setacciarono l’inchiostro nero e le lettere deformi, le fu spontaneo sorridere, quasi fosse intenerita.
Ti sfido.
Bastarono due parole per farla scattare: si alzò come un automa e seguì la scia invisibile di molliche che l’avrebbero condotta alla tana del lupo, si bloccò non appena percepì quel profumo di dopobarba che per innumerevoli notti aveva turbato i suoi pensieri e s’inarcò in un sorriso sospetto, che venne smorzato, quando svoltò la libreria e si ritrovò dinanzi l’uscita d’emergenza.
Sbatté le palpebre, confusa appena, prima di voltarsi e notare la presenza di David, con le braccia conserte e il corpo premuto contro gli scaffali.
«Potevi farmi riferire anche le coordinate, no?», portò le braccia lungo i fianchi e soppesò la presenza del ragazzo con aria sufficiente.
«Per poi perdermi la tua faccia?», incalzò l’altro con un sorriso furbo.
Sharon mosse un piede dinanzi l’altro, senza alcuna fretta. «Posso chiederti da quale libro è stato preso questo?», agitò il pezzo di carta consunto tra le dita e assunse un’espressione severa.
«Ha importanza?»
«Certo».
David osservò la mimica del suo volto, attese che gli si scaraventasse contro, imprecando in cinese di non dover storpiare i libri per gesti che avrebbero anche potuto scegliere un altro mezzo per far recepire il messaggio, ma non accadde.
Sharon lo sorprese, poiché lo superò, una volta raggiunto, e carezzò le mensole impolverate della biblioteca, immaginando che la pulizia fosse un punto a sfavore per quel posto che era solito ospitarla in varie occasioni.
«Allora arrampicati».
Le arrivarono ovattate quelle parole, pensò d’averle sognate, ma, osservando con la coda dell’occhio in ghigno compiaciuto di David, capì d’avere ancora i piedi per terra e la testa sulle spalle, ancora per poco probabilmente.
Seguì l’indice del ragazzo che mirava ai ripiani alti della libreria, le si spalancò la mascella man mano che l’occhio saliva di decine e decine di centimetri.
«Te lo scordi», decretò con un groppo in gola.
David si mosse dalla posizione d’invertebrato, il suo profumo la investì e sorrise, notando quanta difficoltà le stesse suscitando in quel momento.
«Non puoi tirarti indietro», le scansò una ciocca ribelle e la depositò dietro le sue spalle, la guardò negli occhi con una particolare intensità e sostenne il sorriso, sapendo che l’avrebbe avuta vinta, sempre.
Sharon, per tutta risposta, mugugnò infastidita e strinse le braccia sotto il petto, arricciò le labbra senza nascondere la propria opposizione e mancò poco che battesse i piedi per terra.
«Sono stufa di dover sottostare alle tue prove di coraggio. Possibile che tu debba marciare sempre sulla stessa fobia?», s’impuntò allora la ragazza, il volto contorto in una smorfia indispettita.
«Non conosco qualcosa che possa spaventarti di più», replicò con sincerità.
Sharon spalancò la bocca, sorpresa. «Allora lo ammetti!»
David ridacchiò, prima d’indicarle con un gesto del capo la scala in legno appollaiata lungo gli scaffali.
Batté le nocche sul materiale ruvido e le sorrise, l’espressione a trasmettere parole mute.
«Non guardarmi la gonna», sibilò la ragazza, mentre agguantava le estremità delle scale per poi farsi leva e salire il primo ostacolo.
Socchiuse gli occhi, mentre David premeva le spalle contro il muro dirimpettaio alla libreria e assisteva allo spettacolo senza trattenere la propria ilarità.
Non obbedì alle parole della ragazza; il suo sguardo costatò che Sharon avesse delle gambe tornite e immaginò di poterne assaporare la consistenza sotto il palmo delle sue mani.
Osservò la gonna ondeggiare e temette di vedere la ragazza cadere al suolo, poiché lo slancio che prese fu eccessivo. Di fatto, si separò dalla parete e stese le braccia nella direzione della scala, ma Sharon rimase salda, i pugni serrati attorno al legno, e il battito cardiaco impazzito.
«Vedi terraferma?», si trattenne dallo scoppiare a ridere per il ringhio che ricevette come risposta, tornò a poggiarsi contro il muro e, con piacevole sorpresa, riuscì a scorgere gli slip blu al di sotto della sua gonna.
«Scommetto che il mio panorama è migliore del tuo», si lasciò sfuggire, suscitando una protesta da parte di Sharon, che rischiò nuovamente di strapazzarsi al suolo per il sussulto che la scosse.
Eppure, la sua reazione stravolse completamente gli ormoni di David: agitò il fondoschiena, lasciando ben poco spazio all’immaginazione, poiché la realtà fu ben delineata da due natiche sode, fasciate dalla futile presenza di stoffa blu.
«Ah sì?», fu la risposta della ragazza. David poté notare con quanta fatica si stesse permettendo di parlare, di fatto era immobile senza pensare lontanamente di procedere, «E cos’è che vedi?»
«Blu», deglutì, sentendosi improvvisamente impedito come un ragazzino delle elementari.
 La risata cristallina di Sharon lo destabilizzò maggiormente. «Ancora in alto mare, allora».
«Per me o per te?», riuscì a riappropriarsi dell’uso della parola e, con un sorriso rilassato sulle labbra, decise di godere del panorama.
Sharon sbuffò e salì il penultimo gradino. «Posso sapere almeno cosa sto cercando?»
David portò una mano al mento e lo sfregò, pur sapendo che non avrebbe potuto vederlo. «L’ho dimenticato».
Poté percepire gli ingranaggi del suo cervello bloccarsi, vide il suo corpo irrigidirsi di colpo e immaginò che se avesse avuto meno fifa dell’altezza, a quest’ora nessuno le avrebbe risparmiato il lancio di una scarpa.
Sharon sembrò rianimarsi e si voltò con il capo, lo fulminò senza badare di distare qualche metro dal terreno.
«Fammi scendere», lo ammonì, perentoria.
«Hai le gambe per farlo», le suggerì l’altro.
«E’ la mia penitenza», rispose con rabbia.
David la osservò girando come un predatore attorno la scala. «Non ti ho neppure baciata».
«Non ce ne sarà bisogno, prova ad avvicinarti e ti mordo», il suo tono alterato catturò l’attenzione della bibliotecaria che si catapultò in quell’angolo dimenticato persino dagli acari – beh forse loro proprio no – e osservò da sopra i suoi occhiali spessi la ragazza sospesa a braccia conserte sulle scale.
«Per l’amor del cielo, cosa pensava di trovare lì su, il mondo di Narnia?», esclamò quella, i capelli raccolti in una crocchia scoordinata e il naso aguzzo che rendeva il suo viso pari a un geroglifico egiziano.
«Non parliamo di un armadio», fu la risposta biascicata di Sharon, troppo stizzita per poter rendere giustizia alla sua intelligenza.
«Neppure di ali. Scenda immediatamente di lì, se vuole evitarmi un infarto», la incitò la donna, senza ammettere repliche. Lanciò un’occhiata contrita al ragazzo che evitava di darsi un contegno e picchiettò con la punta della scarpa sul parquet del pavimento.
«Lo farei volentieri, se solo sapessi come fare», sbottò la ragazza, lanciando un’occhiata verso il pavimento e rabbrividì, percependo quanta aria galleggiasse attorno a lei.
In realtà, soltanto aria.
Si resse con forza alla ringhiera in legno, strinse un labbro tra i denti e cercò di non mugugnare come una lattante, ma la tentazione fu troppo forte.
D’improvviso, sentì la scala vibrarle sotto ai piedi, immaginò che un terremoto avesse scosso l’intera città, quando poi capì che l’unico terremoto che potesse sconvolgerla le fosse arrivato alle spalle, deglutì a fatica e sobbalzò quando una sua mano le agguantò un fianco.
Le parole concitate della bibliotecaria funsero da sottofondo, poiché l’attenzione di David era diretta al fondoschiena della ragazza che sfiorava con il proprio ventre, mentre quella di Sharon tentava invano di moderare il proprio battito cardiaco.
«Tranquilla», le sussurrò quando si riprese dallo sbalzo d’ormoni, «Ti porto giù».
Sharon seguì le sue dritte come se avesse appena trovato la sua oasi nel deserto, mosse gli arti indipendentemente dalla tachicardia avanzata e, non appena David balzò con i piedi per terra e afferrò i  fianchi di lei, Sharon si ritrovò a ruotare sul posto senza dover neppure muovere un mignolo.
Ritrovò lo sguardo di David, quella scintilla malevola che l’aveva convinta a tentare, a pensare che non potesse essere una perdita di tempo imparare a conoscere quel ragazzo definito scostante e sfuggente da tutti.
Rimasero ad osservarsi in religioso silenzio, quando Sharon gli agguantò il viso e, carica d’adrenalina, lo baciò come se avesse tra le mani l’oro del sultano. Le loro labbra divennero un unico formato, le loro lingue si solleticarono e le mani di lui finirono sulle mani di lei, avvinghiate attorno al suo viso.
Il brontolio della bibliotecaria non fu sufficiente a strapparli da quell’onda di passione, tanto che fu costretta a picchiettare sulla spalla del baldo giovane per attirare un briciolo d’attenzione.
«Non siamo in un motel», precisò con disdegno, «Vi prego di fare silenzio!», puntualizzò, prima di ruotare sui tacchi e svoltare nel corridoio, per far ricadere sulle loro nuche il peso di ciò che era appena accaduto.
Sharon riuscì a scansarlo e tornare con i piedi per terra, prima di spintonarlo con rabbia mal celata.
«Sei stato scorretto».
«Ne è valsa la pena», la sbeffeggiò con un sorriso arrogante.
«Solo per te», ringhiò l’altra, ricordando le parole della bibliotecaria soltanto in un secondo momento. «Non so se si nota, ma non sono affatto divertita».
«Non sei divertita, ma son certo che quel bacio ha parlato da solo», si chinò nella sua direzione, con la futile speranza che la ragazza non si scansasse.
Sharon restò impietrita, prima di reagire e sorridere con una smorfia macabra. «Le regole le conosci».
David sbuffò e s’arrese all’evidenza. «Ti ho salvato, cosa pretendi?»
«Cosa pretendo?», fu l’eco della ragazza, «Pretendo giustizia!»
Il ragazzo attese che lo informasse circa le condizioni di patteggiamento, ma rimase colpito, quando la giovane gli chiese. «Qual era il libro?»
«Cambia qualcosa?», si guardò attorno, intravedendo la copertina blu del libro deturpato proprio al primo scaffale e si trattenne dal sorridere radioso.
«Dave», soffiò carezzevole, lei.
Gli si avvicinò appena, sfiorò il suo petto in punta di dita e sbatté innocua le ciglia.
«Sì, Ronnie?», replicò con egual tono.
«Ti stacco gli attributi».
Candida, precisa, veritiera: non poteva trovare minaccia migliore.
Lo dimostrarono le sue dita che, pericolose, avevano varato verso quella direzione e di eccitante non vi era nulla, se non la vicinanza eccessiva.
«Non saresti così egoista», la osservò nei suoi occhi scuri, aveva sempre pensato che quel colore le donasse, nonostante la pelle chiara, nonostante i capelli arricciati dal color del cioccolato, nonostante quello sprazzo di lentiggini appena accennate sul naso.
«Tentare per credere», il suo tono cauto lo spiazzò, ma fu pronto a difendersi, bloccandole il polso in una morsa ferrea.
«Dimmi cosa fare e lo farò», si arrese, seppur fosse convinto di poter rigirare ugualmente la frittata a suo favore.
«Qual era il libro?», imperterrita, non demorse, osservò il ragazzo con una luce negli occhi e attese che replicasse.
Sbuffò, sapendo di scatenare la sua ira. «Cimetempestose».
Lo disse troppo in fretta per far sì che Sharon capisse apertamente  le sue parole, così si ritrovò a pizzicargli un braccio e ad ascoltare un mugolio di dolore sorpreso.
«Scandisci».
«Ho detto», si schiarì la gola, osservando i libri alle spalle della giovane, «Cime tempestose».
Il pensiero di David volò al fatto che un libro del genere non dovesse trovarsi in una biblioteca pubblica, ma Sharon non gli permise di rimuginare ulteriormente, poiché tornò alla carica con un pizzico che aveva l’aspetto di una puntura d’ape e gli strappò un ennesimo mugolio.
«David Alexander Baker», sbraitò, spintonandolo, nonostante alle sue spalle ormai ci fossero le mura solide dell’edificio, «Hai deturpato il sacro bagaglio culturale del mio libro preferito?»
Il ragazzo la osservò incolore, non seppe cosa fu a spingerlo a commettere una simile azione, ma, restò di fatto che spintonò Sharon agguantandola per i fianchi fino a farla combaciare con gli scaffali lungo la colonna vertebrale.
Le sorrise e avvicinò pericolosamente il viso al suo. «Com’è che faceva?», i suoi occhi si soffermarono un attimo di troppo sulle sue labbra carnose, ma riuscì a riprendersi per citare il testo: «Io gli ho dato il mio cuore, e lui lo ha preso e lo ha stretto crudelmente fino a ucciderlo. Quanta esagerazione. Sei per il dramma?»
Lo schiaffo giunse  lieve, neppure sentì il bruciore sulla pelle. In realtà, David si era soffermato sugli occhi accesi dalla stizza della ragazza, fino a quel momento era certo di non aver mai scorto nei suoi riguardi un simile disappunto, neppure per scherzo.
«No, sono per il buon gusto, quello raffinato e non credo tu possa capire», cercò di divincolarsi, nonostante David l’avesse intrappolata tra sé e la libreria. Improvvisamente sentì divenire l’aria più fittizia, sentì il bisogno d’evaporare, come se i polmoni non riuscissero ad immagazzinare ossigeno a causa sua.
«Sembri sicura delle tue parole», non le permise di replicare che le sue labbra si posarono fulminee su quelle morbide e invitanti della ragazza che, per un breve istante, lo illuse di poter sottostare al suo gioco, stavolta.
Ma non fu così.
I suoi denti gli arpionarono la carne e sobbalzò, tirandosi indietro e assaporando il gusto metallico del sangue che colava appena lungo il labbro sfregiato.
«Infatti lo sono», fu il sussurro che ricevette come risposta.
David si passò il pollice sul labbro rigonfio e la osservò, tentato di confessarle di aver indovinato quel libro poiché, tempo addietro, aveva notato che fosse l’unico che portasse sempre con sé e che cacciasse sempre nei momenti meno opportuni per leggerlo.
Perché sì, lui l’aveva osservata spesso.
Del resto, la panoramica dalla sua camera era indirizzata perfettamente sul suo balconcino, e tante, troppe sere l’aveva beccata con il naso immerso nei libri, che fossero dedicati alla cultura personale o scolastica, non vi aveva mai prestato attenzione.
Eppure, quel libro l’aveva sempre differenziato, poiché la ragazza aveva il morbo di tenerlo sempre con sé.
Ma, nonostante tutto, non fiatò.
«Ti sfido, David», il tono glaciale di Sharon lo mise in allerta.
La ragazza fu rapida, scagliò il libro con fare frettoloso sul suo ventre e gli permise di bloccarlo con un braccio, prima di scansarsi.
«Leggilo».
Inarcò un sopracciglio, sconvolto. «Non sei nella posizione adatta per pormi sfide».
«Ricordi? Se infrangi il regolamento, posso scegliere le tue punizioni».
«E quale regola avrei infranto?», sgomento, si accigliò maggiormente.
«C’è bisogno che te lo dica?», ululò, le gote arrossate e il fiato corto.
Sharon, a mente lucida, avrebbe capito che, in qualche modo, David, seppur prendendosi gioco di lei, l’avesse sfidata con l’intento di terminare allo stesso identico modo delle volte precedenti, eppure in quel momento credeva d’essere piuttosto provata.
Lei, che non era solita provare rancore.
Lei, che riusciva a trattenere lo stupore.
Lei, persona dal timore assente, ma con una quantità ben piazzata d’ansia ad accompagnarla in ogni azione quotidiana.
Lo scansò in malo modo, ma David fu fulmineo nel bloccarle il polso. Sharon rimase colpita, non aspettandosi una simile reazione, e si voltò con l’intento di schiaffeggiarlo nuovamente, ma anche la sua mano venne bloccata.
«Credi che io marci su ciò che conosco di te?», le chiese a bruciapelo.
«Sì», non rimuginò neppure per un secondo sulla risposta.
«Hai ragione».
Le si spalancò la mascella. «Sei un coglione».
«Non puoi farmene una colpa», la trattenne quando tentò di scansarsi, «Non ti conosco e quelle poche cose che so su di te, sono state scoperte per caso».
«Adesso scoprirai qualcosa che non arriverà dalle nuvole», sibilò la ragazza, il volto contratto in una smorfia indignata, «Sei uno sbruffone, David. E non mi piacciono gli sbruffoni. Hai posto una sfida insulsa quanto il tuo buon senso, mi hai spedita a metri dal pavimento soltanto per il semplice gusto di vedermi in difficoltà».
Trattenne un sospiro addolorato, sentendosi improvvisamente vulnerabile e fin troppo esposta agli occhi di un ragazzo che, probabilmente, mai avrebbe voluto capitare tra le sue mani, nella sua vita.
«Ti senti ferita, Sharon?», enfatizzò il verbo e lasciò andare la presa dalle sue mani, «Non credevo fossimo già arrivati a questo punto», si aprì in una breve risata che venne soppressa dall’espressione irascibile della ragazza.
«Quale punto?»
David sorrise, infilando le mani in tasca alla ricerca di una sigaretta.
«Questo».
«Quale?», soffiò portando un piede in avanti.
«Questo», David la osservò, le loro pupille si scontrarono e una tempesta ricolma di tuoni e fulmini si scagliò tra le loro iridi.
«Non vedo nessun punto», lo liquidò, lei, voltandosi per uscire da quella biblioteca divenuta un baule di pessimi ricordi.
«Dovresti indossare gli occhiali da vista allora», le suggerì concitato, «Non siamo neppure una coppia e già inizi a gonfiare i miei gesti».
Sharon sentì un groppo d’ansia avvolgerle la gola, deglutì con fatica mal celata e cominciò ad arrancare sempre meno.
«Non siamo una coppia, non lo saremo».
«Allora evita d’innamorarti di me».
Quelle parole risentirono l’effetto di un secchio d’acqua gelata in pieno viso, sentì il sangue arrestare il flusso ed evitò persino di mordersi un labbro, cosa che era solita fare per stemperare il malessere.
Si bloccò, ma evitò di voltarsi, consapevole della presenza di David, la sua figura prorompente riposta contro il muro, la gamba piegata all’indietro, la suola della scarpa premuta contro la parete e le mani in tasca.
«Già, evitalo anche tu».
Non negò, ma non acconsentì neppure.
Lasciò l’alone d’amarezza in quello stesso corridoio, mentre i suoi piedi si spostavano verso l’uscita per ritrovare una fonte d’ossigeno adatta a schiarirle i pensieri e un diversivo che potesse farle dimenticare che faccia avesse David Baker e il suo ascendente sul suo cuore, ancora scalpitante per quella mezza bugia detta.
Perché lei non era innamorata.
Non ancora.


 

If you have a minute.
Questo è il pomeriggio ideale per dedicarsi al fancazzismo: non ho né caldo né freddo, il pomeriggio privo d’impegni e lo stomaco adatto per scendere a compromessi col cibo; perché sì, ho fame, decisamente.
Ho aggiornato pensando di compiere un buon gesto, sembra che stia postando in maniera costante – mi sto applaudendo, notate – e questo mi spinge a scrivere di più, più, sempre più!
D’accordo, la pianto.
Commentando il capitolo seguente, mi chiedo: siete rimasti delusi? Ritenete che la reazione di Sharon sia stata gonfiata? Se sì, da cosa? Credete che sia impazzita del tutto da un momento all’altro oppure le sue parole seguono una logica?
Quanto mi piace porre domande che mettono ancora di più grilli in cantiere XD
Il libro citato credo appartenga da sempre a uno dei libri migliori che abbia mai letto, probabilmente appare una scelta scontata quella di voler citare questi generi, ma in fondo ognuno segue il proprio gusto.
Concludo qui le mie riflessioni riguardanti questo capitolo e passo ad altro.
Terrei a fare una precisazione, che nasce da una considerazione fatta da cupidina 4ever nella recensione precedente: perché i titoli prendono il nome dei colori?
Dunque, potrebbe non fregarvene una cippa, potreste anche non averli notati, ma credo che una spiegazione sia sempre gradita, per quanto sciocca possa essere, ecco. E non temete, la spiegazione tutto può essere tranne che intelligente XD
Ho deciso di intitolare ogni capitolo utilizzando la scala dei colori, scegliendoli in base a un dettaglio che fuoriesce da ogni testo. Ad esempio: il primo capitolo l’ho denominato “Red”, in quanto vengono messi in risalto sensazioni forti, come l’adrenalina, il senso di sfida, che trovo combaciabili con facilità a questa tonalità di colore. Il secondo capitolo, invece, è stato chiamato “Yellow” per la presenza del sole, la spiaggia, persino per il riferimento al colore di capelli di David. L’ho detto, le spiegazioni sono molto banali, ma ho pensato di poter trovare un’uscita diversa dai titoli classici, qualcosa che interagisse in maniera netta col testo e spero di non aver fatto soltanto la figura della deviata mentale XD
Nonostante questo, prima di concludere, vi lascio l’indirizzo del Gruppo Facebook che ho creato proprio ieri – eh sì, ho pensato di rompere l’anima anche lì -   dove potete trovare notizie, spoiler – anche se potrei dubitare in questo – e qualche ciancia che non guasta mai!
Siete tutti i benvenuti sotto il mio fungo C:
Con uno scambio di favori, pubblicizzo una long-fic che sto mandando avanti ormai da qualche mese e, per chi potrebbe essere interessato, lascio il seguente link: Il retrogusto proibito del cioccolato.
Prometto che mi farò abbattere subito, prima però mi concedo i ringraziamenti che non posso MAI mancare! Siete gentilissimi a lasciarmi i vostri pareri, per me fondamentali, e v’invito a farlo ancora, è sempre piacevole leggere i commenti altrui e magari poter dare chiarimenti e quant’altro, anche ricevere suggerimenti, sempre ben graditi!
Ringrazio tutti coloro che seguono questa raccolta, che l’hanno inserita nelle preferite e nelle ricordate.
Mi auguro di poter aggiornare con costanza.
Per chi è intento nello studio: buono studio.
Per chi lavora: buon lavoro.
Per chi – come me – ozia – ma soltanto in attesa che inizino i corsi all’Università – : buon ozio.
Al prossimo aggiornamento,
Crì.

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Capitolo 4
*** Black & White# ***


Se mi sfidi, ti bacio.
 






Il bacio è un dolce scherzo che la natura ha inventato per fermare i discorsi quando le parole diventano inutili.

 
 
 
 

«La mamma dice che non andiamo al circo».
La voce della piccola Anne non scalfì neppure lontanamente Sharon, intenta a colorarsi le labbra di un rosso acceso.
«Vuole che cambi le calze».
La ragazza arricciò appena il naso, sentendo i piccoli occhietti di Anne setacciarle le gambe, semplicemente fasciate da calze bucherellate.
«E che leghi i capelli».
La mano esile della bambina le sfiorò le spalle e Sharon sbuffò.
«A me piacciono tanto i tuoi capelli», le confidò con occhi innocenti.
Sharon chinò lo sguardo verso quel metro e trenta d’ingenuità, consanguinea da ormai sette anni, e le sorrise, un’ombra complice a colorarle il volto.
«Li vorresti così?»
Fu un sussurro, un consenso.
Un atto che avrebbe suscitato scalpore quasi quanto le sue stesse calze.
 
Sharon avanzò fiera all’interno della sala decorata a festa, i fiori raccolti in vasi di cristallo, le pareti color crema e le cravatte al collo di ricchi imprenditori facevano presupporre alla giovane Marshall che la giornata sarebbe stata piuttosto lunga d’affrontare.
Portò una ciocca ribelle dietro l’orecchio e osservò concitata la figura prorompente di suo padre, le braccia distese lungo i fianchi e un sopracciglio innalzato, mentre catturava i movimenti repentini delle persone che gli passavano accanto.
Dal lato opposto, fu sorpresa d’incontrare le labbra arricciate della madre, le dita affusolate lavorare smaniosamente tra i capelli leggeri della piccola Anne, il capo chino e gli occhi ricolmi d’imbarazzo.
Si avvicinò con tranquillità, agguantò un bicchiere di champagne e pregustò le bollicine lungo la gola. Anne intravide con la coda dell’occhio la figura della sorella maggiore avvicinarsi e trattenne il fiato, percependo il respiro affilato della madre alle proprie spalle.
«Impara dagli errori degli altri, Anne», le consigliò caldamente, allentando il fiocco che aveva innalzato sul capo della figlia, «Non seguire le orme di tua sorella».
«Tanto lei non finirà al circo», il sarcasmo giunse all’improvviso, così come un sorriso intriso di veleno.
Meredith Marshall innalzò il capo, l’espressione fiera di una donna in carriera con la totale padronanza del mondo circostante, il mento esposto per testimoniare la carenza di timore e le labbra incurvate per evidenziare il lampante disdegno nei confronti della figlia ribelle.
Quella donna dal portamento raffinato osservò il frutto dei propri cromosomi con una punta di fastidio, non appena i suoi occhi assimilarono dettagli fuori posto.
«Potresti aspirare ad altro», Meredith la scrutò con sufficienza, «Invece di porti come una sempliciotta da quattro soldi».
Sharon attese quelle parole, quasi le bramò, poiché nei suoi occhi una luce incandescente la riscosse.
«Forse perché voglio imitare te, mamma».
E attese, di nuovo.
Strinse le dita a pugno sotto il petto e dondolò appena, decisa ad accogliere le dita della madre proprio sulla sua guancia.
Eppure, non arrivò.
Meredith si limitò a trasmettere con lo sguardo il veleno che le scorreva nelle vene, le si fece vicino per sorpassarla, ma le sue labbra si fermarono tempestive accanto il suo orecchio.
«Inopportuna, come sempre».
Fece cenno alla piccola Anne di raggiungerla e la bambina, decisa a emarginare il malessere della madre, ubbidì con la coda tra le gambe.
Con le labbra increspate, Sharon rivolse uno sguardo oltre la grande vetrata che illustrava il paesaggio circostante al grande palazzo; quel giorno si sarebbe tenuto il matrimonio di Nicholas Anderson, rifornitore fedele dei Marshall, motivo per il quale la famiglia in questione non sarebbe mai potuta mancare, non quando in gioco potevano esserci ritorsioni per il nome che rappresentavano ormai sul mercato degli affari.
Meredith avanzava tra le figure, come se fosse sempre appartenuta a quel mondo, rantolatole tra le mani soltanto per fortuna, non per diritto di nascita. E la piccola Anne seguiva la sua scia, soltanto per timore che potesse ripudiarla, com’era accaduto con Sharon.
Tempo addietro, quella donna dal naso sempre puntato verso l’alto non avrebbe mai creduto possibile di poter assumere determinati atteggiamenti, né quantomeno di poter camminare su pavimenti così notevoli, circondata da personaggi che trasudavano lusso persino dal modo di osservare il mondo. Avrebbe sostenuto la propria condizione modesta, avrebbe garantito sicurezza alla propria famiglia con quel gruzzolo di monete che riusciva a guadagnare con onestà e avrebbe sposato lo scapigliato Herny Freakness per permettergli d’ingravidarla fino a che le forze glielo avrebbero permesso.
Tutto questo, se non avesse incontrato Paul Marshall.
Un uomo che prima di ogni cosa le aveva donato un’identità, un cognome al quale potersi finalmente appellare e soprattutto rivedere, dopo anni di completa oscurità.
Meredith Marshall era divenuta la donna frigida e impassibile che avrebbe sempre desiderato essere in tempi meno floridi, per permettere a se stessa di valorizzarsi e lottare affinché nessuno la calpestasse, come, invece, era spesso avvenuto.
Ritrovarsi sotto il naso una figlia dall’animo compromettente per la bomboniera di cristallo che per anni aveva modellato, si era rivelata una spina nel fianco.
E, col tempo, Sharon ne era divenuta persino fiera.
Non volendo sottostare alle direttive della madre, aveva regolato il proprio comportamento di conseguenza e, per quanto poco si sopportassero, avevano un tetto da condividere, DNA per ultimo.
Sharon sorseggiò il proprio calice di champagne, poggiò i gomiti sul bancone del bar che le si estendeva alle spalle e perlustrò la sala alla ricerca di qualche dettaglio interessante; del resto, era risaputo che a simili eventi ci scappasse lo scandalo e quel giorno aveva fiutato la scia adatta al compimento non appena aveva messo piede nell’edificio.
Sorrise e quasi le si rovesciò il liquido frizzante sul vestito quando, entusiasta, osservò l’ingresso trionfale del capofamiglia Baker.
Uomo dal portamento fiero, piccole fossette agli angoli della bocca, sottolineando l’indifferenza eclatante nei confronti del mondo circostante; una fronte ampia, uno spruzzo di capelli neri ad infoltirgli il capo e due occhi, genitori di uno sguardo a lei ben noto che gli fece ombra, soltanto dopo l’ingresso del restante della famiglia.
Sharon intravide David soltanto un istante dopo, poiché affascinata dalla sagoma di Sheila, una bambina dai grandi occhi verdi che sorrideva mesta a chi le rivolgeva attenzione. Avrebbe voluto avvicinarsi, ma si limitò a sorridere complice, le labbra celate dal calice ormai privo di liquido e occhi lampanti, vigili sul passo mansueto di David.
Lo vide guardarsi attorno distrattamente, come se si fosse appena accorto d’essersi inoltrato nella giungla e sentisse le foglie dei cespugli muoversi attorno a sé. Con la coda dell’occhio, appurò che la vetrata fosse abbastanza distante dal padre per permettergli di coinvolgerlo nel mondo degli affari, cosa che era abitudine, quando era Luke a mancare.
Luke, colui che avrebbe sempre mantenuto alto il cognome dei Baker;
Luke, perché non inseguiva passioni, semplicemente scie, che avrebbero condotto al successo.
Luke, primogenito degno d’essere un Baker, in ogni caso.
Perché lui non sbagliava, anche quando era evidente.
E, nonostante tutto, quel giorno non sarebbe stato presente.
Lui poteva.
David fu infastidito da una luce riflessa, la chiazza si espanse dinanzi la sua pupilla e fu costretto a strizzare l’occhio, infastidito. Si portò una mano dinanzi la palpebra e la sfregò appena, prima di osservare la direzione da demolire.
Con sorpresa ben evidente, si ritrovò a sorridere; si sentì improvvisamente sollevato per l’approccio con quel volto amico e si avvicinò senza guidare le proprie gambe. Entrambi si mossero verso quella vetrata, individuò la figura longilinea di lei stagliarsi contro il riflesso del sole e osservò le sue spalle esili, provando il folle impulso di stringerle tra le mani, per concretizzarne la presenza.
Scosse appena il capo per ridestarsi, si poggiò contro il marmo bianco e diede le spalle al panorama che s’intravedeva dal finestrone. Sharon immerse le sue iridi scure e carezzò con esse quel manto soffice d’erba; avrebbe voluto rotolarsi lì, senza pensieri.
«Gusti raffinati», fu il commento di David.
Indicò con l’indice il calice ormai svuotato di Sharon e la ragazza si ritrovò a giocherellarci, senza un reale scopo.
«Quando si può», scrollò le spalle e attese che David proseguisse.
Si ritrovò ad ascoltare il battito frenetico del cuore, ripensò al loro ultimo incontro, in quell’angolo di biblioteca che si era annientato per lasciare che divenisse semplicemente una grande bolla di sapone dove avrebbero potuto consumarsi a vicenda.
E ripensò alla sua reazione, eccessiva, sentendosi nuovamente in difetto.
Avrebbe voluto cantare le proprie scuse, persino dissolvere il macigno che definiva orgoglio, ma la lingua le si impastò e rimase ancorata al palato.
David osservò incuriosito la scena che si stava svolgendo al centro della sala: le note di pianoforte e violini irruppero tra le mura e la folla presto affiorò volteggiando per la sala.
Il ragazzo temette che Sharon gl’imponesse di danzare, ma fu sollevato nel ricordare che tra di loro non funzionasse in quel modo: lei non poteva avanzare alcuna pretesa su di lui.
«Non mi sfidi?»
Tre semplici parole servirono l’effetto identico di uno schiaffo, fu persino tentato di tastarsi la guancia per capire d’averla ancora integra. Sbatté le palpebre, senza mai incrociare lo sguardo profondo della ragazza, e rimuginò su cosa le saltasse alla testa; in fondo era a conoscenza della famiglia Marshall e delle regole che essa celava con parsimonia.
Non molto differente dalla mia, si schernì da solo, ricordando l’ammonimento del padre, prima di mettere piede al di fuori della Mercedes, per partecipare ad una festa dove non sarebbero stati del tutto graditi.
«Non imbarazzarmi di nuovo, David. Interagisci, è quello che fanno i Baker dopotutto».
Avrebbe voluto rispondere che era ciò che si aspettava dai Baker, non ciò che avrebbero fatto. Avrebbe voluto puntualizzare che non era con Luke che stava parlando, ma col figlio dagli ideali insani che portavano la sua condizione sociale pari a quella di un vermiciattolo ormai escluso tramite le feci di qualcuno che poteva contare più, di quel vermiciattolo.
Si passò una mano sul viso, irrigidito per aver soltanto ripensato allo sguardo severo dell’uomo che era costretto a vedere quantomeno una volta al giorno. Lanciò uno sguardo all’abbigliamento strampalato di Sharon e gli fu spontaneo sorridere.
«Non riesci a starne senza?», le chiese retorico.
Per un attimo, Sharon tentennò.
Si rese conto che aveva ragione David: non poteva farne a meno.
Perché era adrenalina, ciò che facevano. Era vita. Una vita che non le era concessa d’avere, a causa del suo cognome altolocato. Una vita che potevano condurre tutti, ma non lei.
«No», fu la replica sincera della ragazza.
Fu allora che David la osservò, le labbra inarcate in un sorriso arreso all’evidenza che entrambi cercavano di soffocare: stavano cercando d’emergere, insieme, da quell’oceano ricolmo di squali, ai quali, purtroppo, appartenevano.
E sapevano di potersi annientare allo stesso identico modo, come il nero sul bianco.
I non colori.
Le porse una mano e Sharon la accettò, senza esitare.
Quel contatto fece scoppiettare le scintille del suo cuore, ebbe l’impressione di poter vivere soltanto di quello e fu tentata di scostarsi, intimorita da quei presagi irrazionali.
David l’avvicinò a sé non appena si alzò, i loro volti si sfiorarono e i respiri si scontrarono, si mozzarono per qualche instante, in sincrono, prima di riprendere la propria corsa.
«Balla».
Sharon osservò le labbra estese di David, le gambe le traballarono appena e fu tentata di rifiutare, ricordando che la danza non appartenesse ai suoi periodi felici.
Ricordò improvvisamente le lezioni impostale, i pomeriggi trascorsi a martoriare il proprio corpo sul parquet in punta di piedi e gli specchi a riflettere l’immagine di ciò che era: nulla.
Le sembrò di catapultarsi nel passato, sentì gli occhi pizzicare, quando alla mente tornarono i momenti trascorsi sul letto, a massaggiarsi i piedi indolenziti, e le lacrime silenziose che le avevano bagnato le guance per quelle volontà imposte.
Aveva soltanto sette anni quando capì il mondo di sua madre.
David captò il tentennamento della ragazza e inarcò un sopracciglio, sopraffatto dalla curiosità. Percepì i suoi occhi velati da un manto di tristezza e chinò il volto per immergere le sue iridi nocciola nei suoi pozzi senza via d’uscita.
Sharon non glielo permise.
Si scansò, portando con sé il dolore, la malinconia, l’angoscia. Si volle proteggere, timorosa di portare a galla quel bagaglio che ormai apparteneva a un passato dimenticato.
«D’accordo», fu la risposta monocorde che diede.
Fece per voltarsi, ma David le arpionò il polso.
«Non ho finito».
Le rivolse un sorriso deliziato e i suoi occhi atterrarono sull’enorme vasca di cristallo che ospitava il liquido rossastro, quale il ponce. Il banco era addossato alla parete, nessun cameriere sembrava dedicarvi attenzione, troppo impegnati nel gironzolare come un cane in attesa delle reclamate carezze dei passanti.
«Balla nel ponce».
Sharon si trattenne dal ridere, ma piegò le labbra in una posa buffa. «Nel ponce?»
David la scrutò, portando le braccia incrociate sotto il torace, e i suoi occhi brillarono.
«Nel ponce».
«Almeno non mi hai chiesto di arrampicarmi sul lampadario», le fu istintivo lanciare uno sguardo all’oggetto in questione che pendeva dal soffitto.
«Sono ancora in tempo».
«E’ la prima proposta, quella che vale», precisò Sharon, un sorriso complice a colorarle le labbra umettate.
«Il tempo scade però», le ricordò con occhi lampanti.
La ragazza gli riservò un ultimo sguardo, prima di sfilarsi le scarpe e porgergliele. Le accettò, seppur titubante, e gli fu automatico rivolgere uno sguardo in direzione della propria famiglia, del tutto ignara di ciò che si sarebbe scatenato di lì a poco.
Sharon si avvicinò cauta, passeggiò a ritmo di musica e sostò accanto il tavolo del ponce come se lo stesse esaminando da critica culinaria. Si lanciò uno sguardo alle spalle e l’unico che lo corrispose, fu quello di David; con le spalle poggiate contro un pianoforte, osservava le sue movenze ed era pronto a pregustarsi lo spettacolo.
Per un breve istante, la mente di Sharon fu presa in assedio dallo sguardo inceneritore di Meredith.
Confermerò soltanto ciò che pensa di me, si ammonì, per nulla scoraggiata.
Si issò sul tavolo, lo sentì traballare appena e fu tentata di rinunciare; quel tremolio le aveva fatto attorcigliare lo stomaco. Avanzò verso la ciotola di cristallo e si arricciò in una smorfia corrucciata: che spreco.
Infilò dapprima una gamba, poi l’altra, dopodiché si posizionò in maniera coordinata e rivolse l’attenzione verso il centro della sala. Nessuno parve accorgersi di lei, fino a quando la musica venne sostituita e non le fu difficile capire chi ne fosse l’artefice.
Lo sguardo complice di David ne fu la prova concreta.
Cominciò ad agitare il bacino, portò le braccia sulla testa e socchiuse gli occhi, un sorriso a incorniciarle il volto e lo stomaco serrato, al pensiero di ciò che la madre le avrebbe detto, una volta bloccata quella pagliacciata.
David rimase nella stessa posizione, ghignò appurando che Sharon avesse ottenuto l’attenzione richiesta, tanto che, le coppie formatesi al centro pista, si bloccarono per scrutare l’incosciente che aveva osato profanare il ponce.
Avrebbe potuto cercare una condotta più semplice, proporle magari di camminare scalza per l’intera sala e farsi prendere in braccio da un cameriere, ma nulla sarebbe stato paragonabile all’espressione allibita dei presenti, indignati e perplessi.
Sharon non demorse, fino a quando Meredith Marshall non si presentò al suo cospetto, le braccia conserte e uno sguardo infuocato ad annunciare una tempesta ricolma di fulmini e saette. Si schiarì la gola e tentò di sovrastare la musica, pur non volendo dar spettacolo.
«Ti sembra il caso, Sharon?»
La ragazza non l’ascoltò neppure, le diede le spalle e ancheggiò premendo il sedere nella sua direzione. In quel momento, le sembrò di rivivere la scena di un suo compleanno, anni addietro: nessuno degli invitati presenti era lì per lei. Sua madre aveva invitato coloro che avrebbero fruttato al loro conto in banca e la festa era stata incolore, nessuno le aveva rivolto la parola se non per mormorarle un ‘Auguri Sharon’. E, per rimediare, la ragazzina che era stata un tempo aveva cercato giustizia da sola, proprio come in quel momento.
Lanciò uno sguardo in direzione della madre, sopraggiunta da una schiera di camerieri imbarazzati. Non appena Paul Marshall fece il suo ingresso in scena, la ragazza arrestò i movimenti del corpo e portò le braccia lungo i fianchi. Osservò il volto colpito del padre, i suoi occhi privi d’ammonimento, ma turbati dalla reazione spropositata che aveva utilizzato la figlia per dialogare con la madre. La invitò con un gesto del capo a lasciare la postazione, la ragazza sorrise tra sé e scansò persino l’aiuto dei camerieri per uscire dalla vasca. Scorrazzò per la sala sentendo completamente gli occhi infissi su di sé, aumentò il passo e rimase senza fiato quando venne afferrata per la caviglia. Per poco non rantolò al terreno come una pera cotta, ma, nonostante ciò, fu lieta di capirne il motivo dopo qualche istante: David la catturò, portandola al sicuro al di sotto del pianoforte che veniva nascosto dalla presenza di un alto pilastro, le sorrise e, osservandosi in silenzio, si aprirono in una risata allegra. La tensione si dissolse non appena Sharon portò le sue mani sul volto di lui, lo carezzò come se volesse appurarne la consistenza e vi si scagliò contro, sentendo il cuore tuonarle nei timpani. Le sue labbra calde le fecero vibrare lo stomaco, chiuse gli occhi permettendo alle sensazioni piacevoli di riscaldarle la mente e al tempo stesso d’annebbiarla. Dimenticò d’essere in una sala colma di persone che l’avrebbero additata sempre e comunque, dopo ciò che aveva fatto; dimenticò l’ira trattenuta della madre, nonostante lo sguardo liquido; dimenticò persino d’avere una consistenza umana. Tutto ciò a cui pensava erano labbra: soffici, morbide, sue.
Si separò come fulminata.
Quell’aggettivo non le apparteneva, lui non le apparteneva.
«E’ un gioco», soffiò, più per rammentarlo a se stessa.
David osservò le sue labbra, soffocò l’impulso di baciarla di nuovo con una certa difficoltà e spostò l’attenzione sui suoi occhi, così lucidi da fargli perdere il controllo.
«Questo gioco brucia, Ronnie».
Furono parole marchiate sulla pelle, furono sussurri che si dispersero tra le mura della sala, furono sillabe afferrate e ingabbiate nel cuore.
«Evita le ustioni», biascicò Sharon.
Desiderò di potersi osservare, in quel momento.
Poter giudicare con occhi estranei quei due ragazzi, rannicchiati al di sotto di un pianoforte, per sfuggire alle critiche di quello che era stato il mondo nel quale avevano sguazzato fino ad allora.
Lo desiderò, pur sapendo di non poter avverare quell’insana follia.
La sua ancora di salvezza era dinanzi ai suoi occhi, dal principio non avrebbe mai pensato che potesse rappresentare una simile importanza nella sua vita, eppure, giunta a quel punto, Sharon sapeva di non poter tornare indietro.
«Anche tu», David le passò una mano sul volto, quel contatto fu più intimo di quanto si aspettarono e Sharon si ritrasse, presa in contropiede.
La ragazza annuì, con la compassione dipinta sul volto, mentre si apprestava a tornare alla realtà.
Una realtà che, purtroppo, doveva appartenerle.
E, mentre lasciava David inginocchiato sotto quello che era stato il loro riparo, realizzò che non avrebbe potuto mantenere quelle parole, non le avrebbe potute rispettare.
Era già ustionata, lei.
Troppo tardi, Dave.

 
 






 
 
 
If you have a minute.

Imperdonabile, mi definirete.
E probabilmente dovrei darvi ragione.
Ma l’importante è che io sia qui, adesso, no?
Sono sopravvissuta all’attacco inaspettato di un branco di pinguini appollaiati fuori la mia finestra, per cui, questa è fortuna!
Dunque, follie a parte, questo è il quarto capitolo. Ho spruzzato qualche ricordo qui e lì, ho introdotto finalmente altri personaggi, chi citati, chi inseriti nel contesto del capitolo. Ciò nonostante, la situazione tra David e Sharon sembra scaldarsi maggiormente, sarà possibile calmare le acque?
Per qualsiasi domanda, sono sempre disponibile a dare una risposta, dentro i limiti ovviamente! Non concedo spoiler – non solitamente – per cui domande attinenti al capitolo e non al futuro svolgimento sono sempre ben accette C:
Questo Sabato, oltre ad avermi gelato i neuroni, mi sa molto d’inverno.
Sarà il freddo, il vento, la coperta sulle spalle. Sarà un po’ tutto, però, mi piace.
Apro una parentesi per ricordare, a chi vuole, di poter passare sul Gruppo Facebook, siete sempre i benvenuti **
Ringrazio tutti voi che seguite con me le strambe sfide di David e Sharon, voi che ci dedicate il vostro tempo; spero di meritarlo C:
Buon fine settimana,
Crì.

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Capitolo 5
*** Green# ***


Se mi sfidi, ti bacio.





 

Il bacio, scintille multicolori su labbra che non avvertono mai sazietà d'amore.
 

 

«No».
Sharon fu perentoria, non avrebbe indossato alcuna maglia fuori taglia, per di più bianca, soltanto per assecondare il capriccio di una bambina fuorviata.
Anne sbatté le ciglia, gli occhi inumiditi pronti a fungere l’effetto sperato. «Ti prego».
«Hai i colori, gioca con quelli».
Sbuffò, sgranocchiando i popcorn, mentre sfogliava il documentario settimanale: quella volta, i protagonisti erano i delfini.
«Io non gioco!», puntualizzò la bambina, risentita, «Io creo».
Sharon roteò gli occhi, l’ego della sorella aveva sicuramente frequentato la scuola della madre, non ne aveva dubbi.
«Giochi, crei, scarabocchi: il risultato non cambia», puntualizzò senza degnarla di un’occhiata.
Anne sfoderò un labbro tremulo che venne ignorato senza indugio, così, determinata ad averla vinta, strappò letteralmente di mano la rivista che Sharon cercava invano di leggere da ormai venti minuti e sorrise soddisfatta, avendo ottenuto l’attenzione che desiderava.
«Io creo», sibilò nuovamente, «Oggi mi sento ispirata e la mamma non può portarmi. Oggi è la giornata del compagno e non ho compagni. Ho soltanto te».
Sharon si chiese da quando la potesse spacciare per compagna. Qualche centimetro di differenza era ben evidente per far capire a chi avesse un paio d’occhi funzionanti che non frequentasse la seconda elementare.
«Ergo, devi accompagnarmi».
«Devo?», sorseggiò della Coca Cola in lattina ed espresse il proprio disappunto con lo sguardo, fu tentata di balzare alla gola della bambina per stritolare tra le dita ossute la sua rivista, ma qualcosa la trattenne, probabilmente il buon senso.
«La settimana scorsa ti ho coperto con la mamma, quindi sì, devi», la lingua biforcuta di Anne la fece sussultare; immaginava che non l’avrebbe passata liscia per quella scappatella, per niente proficua tra l’altro.
«D’accordo», concesse infine, alzandosi, «Tu crei, ma non costringere anche me».
Il sorriso di Anne non fu per niente consolante.
 
«Le ripeto che io non so neppure tenere un pennello in mano», era la terza volta che Sharon tentava d’opporsi a quel folle che le aveva persino rifilato quelle orripilanti maglie extra large monocolore.
«E io le ripeto che può imparare, se lo fanno dei bambini».
Tom Jefferson aveva trentacinque anni, la passione per gli acquarelli sin da moccioso e una tendenza omosessuale lampante. Aveva costretto il padre di Sally Cleake, una bambina che frequentava assiduamente quel corso quasi quanto Anne, ma per niente sua amica, a presidiare quel giorno, in veste di compagno. Sharon gli aveva rivolto uno sguardo ricolmo di pietà, poiché si rincuorò pensando di poterne ricevere un altro a sua volta.
Ovviamente non accadde.
Si rese conto che le occhiate di Tom fossero ben accette e immaginò il volto contratto della moglie, una volta scoperta l’omosessualità del marito.
Altro dettaglio che non sarebbe accaduto mai.
«Non ho la predisposizione», inventò la ragazza, seppur ormai seduta su di uno sgabello di legno.
«Se la faccia venire», le consigliò caldamente Tom, sorridendo benevolo alla piccola Anne, i capelli raccolti in uno chignon impassibile e il visino asciutto di chi non ha neppure un problema al mondo.
La porta del laboratorio fu spalancata in quell’esatto momento, ovvero quello in cui Sharon pensò di filarsela dall’uscita d’emergenza. Rimase completamente folgorata nel riscontrare la figura incappucciata di David, la piccola Sheila a fargli il verso alle spalle.
«Mia adorata fanciulla!», Tom le si fece vicino, ammaliato dalla presenza di David, «Questo pomeriggio mi riservate enormi sorprese!»
La felicità non fu condivisa, lo dimostrò il naso arricciato del ragazzo, per niente ingenuo. Catalogò quel tipo nel momento esatto in cui gli perlustrò la zona X, si sentì quasi in dovere di proteggersi la patta dei pantaloni, ma si avvicinò semplicemente alla postazione indicatagli da Tom e afferrò una maglia bianca, allentata, che sembrò quasi suggerirgli d’allestire una squadra di pallone al suo interno per quanto fosse grande.
Sbuffò e, non appena fece capolino con la testa, ruotò sullo sgabello e s’imbatté nel sorriso concitato di Sharon.
Inarcò un sopracciglio, colpito. «Sapevo che me ne sarei pentito».
«E’ un piacere anche per me, David», lo schernì l’altra.
«Che noia», sbottò, osservando i pennelli che giacevano al suo fianco.
«Ti faccio l’eco», ribatté la ragazza, portando i capelli dietro le spalle per poi racchiuderli in una coda.
Entrambi lanciarono uno sguardo ai posti in prima fila, dove entrambe le loro consanguinee troneggiavano. Dallo sguardo incendiato che si scambiarono, poterono appurare che non fossero alleate in quella battaglia dove il vincitore poteva essere soltanto uno.
«Non giocate», fu il primo avvertimento di Tom. Lanciò un’occhiata in direzione dei nuovi arrivati e Sharon si ritrovò a far vacillare lo sguardo. «I pennelli danno vita all’arte e l’arte non è un gioco. Per di più, costano. Sono quelli buoni, eh».
Si trattenne dal ridere per la comicità della faccenda e aspettò le indicazioni successive.
«Non vi colorate la faccia, non siamo in un asilo e non giochiamo agli indiani».
Sharon sfoggiò la sua aria dispiaciuta e David scosse la testa, annoiato.
«Siete liberi di dipingere quello che volete, l’importante è che lo fate».
«Se sapevo, mi facevo portare in carcere», borbottò David, uno sbadiglio a premere contro le labbra.
Quel pomeriggio avrebbe dovuto incontrare Claire, la ragazza del corso di matematica che quell’anno era risultato comodo avere tra i piedi. Invece, oltre ad averle dato buca, si era persino addormentato – dopo una notte insonne – ed era stato obbligato dalla madre a partecipare a quell’assurda attività che quel pagliaccio di Tom s’imponeva di continuare, ogni misero anno.
Ed era uscito da casa, sotto la pioggia battente, nonostante fosse giunto Luglio.
Sharon lo riportò al pianeta Terra, sporcandogli il polso con una chiazza verdognola di pittura. Lui sorrise, furbo, e soppesò quella dichiarazione di guerra con sguardo attento. Tom, col suo vociare insistente, aveva prestato completa attenzione verso l’altra ala della sala, così permise a David di potersi vendicare, senza beccarsi una ramanzina: le imbrattò l’intero braccio con una scia rossa e osservò la smorfia meravigliata della ragazza sciogliersi sul suo viso.
«Ci ha proibito di giocare», soffiò Sharon, la punta del pennello che procedeva indisturbata verso l’oceano di colori della tavolozza.
«Non lo stiamo facendo», si oppose il ragazzo, un sorriso furbo gli arpionò le labbra, «Stiamo creando, Ronnie».
I riflessi poco accentuati permisero a David di contrattaccare prima che la ragazza potesse agire, la guancia le s’impiastricciò di un color ocra e gli occhi del ragazzo brillarono, per la vittoria assegnata al suo casale.
La mascella di Sharon arrivò alla cantina dell’edificio, ma riuscì a riprendersi in tempo per schivare un secondo attacco. Le scappò un sorriso, non appena il suo pennello marchiò il jeans chiaro di David; quest’ultimo, non poté fare altrettanto.
Osservò uno degli indumenti migliori in suo possesso, ricordò d’averlo acquistato tempo addietro, per pura necessità, in occasione di un addio al celibato. Sentì le tempie picchiettare e una voce sussurrare alla sua anima di aprire le danze, così l’assecondò.
Si voltò con occhi fumanti in direzione di una Sharon alquanto agitata, si mosse sulla sedia e agitò il pennello tra le dita neppure partecipasse a un incontro di scherma.
David immerse la punta in una sfilza di colori, senza curarsi delle gocce che ricadevano sulla propria mano, e si tuffò sul corpo della ragazza. Bloccò un polso e le disegnò cerchi deformi sulle guance, le lasciò un cerchio sul naso e lo riempì, per poi tirarsi indietro e osservare il proprio capolavoro.
«Sono soddisfatto della mia arte», sghignazzò, incrociando le braccia al petto.
Sharon tremò appena sullo sgabello, la mente le suggeriva di restare con i piedi per terra, si trattava pur sempre di un gioco; eppure, il suo orgoglio graffiava, ruggiva per giostrare la situazione a suo favore e Sharon lasciò che fosse quest’ultimo a muovere i fili.
«Mi spiace deluderti, Dave», sorrise melliflua e si sporse dallo sgabello, posò il pennello sulla tavolozza e si dichiarò disarmata, «Ma quest’arte non è dovuta a te, dovresti parlare con mia madre per i copyright che esercita su di me».
Osservò lo stato perplesso del ragazzo, ma preferì non soffermarsi oltre, bensì lasciò che le dita s’imprimessero nei liquidi colorati e le alzò verso la faccia, non più immacolata, di David. Scoppiò in una risata notando come si dimenasse per sfuggire dall’attacco; rimase soddisfatta dal notare che fosse totalmente inutile.
Non passò inosservata quella lotta di colori, poiché, non appena Sharon tornò al proprio posto, sentì un’ombra privarle della luce. Ruotò gli occhi e si morse un labbro, scrutando il cipiglio di Tom, le mani serrate sui fianchi e la scarpa picchiettante sul pavimento.
Non prometteva nulla di buono.
«Parlo un’altra lingua?», il tono innocuo che utilizzò suggerì aria di tempesta, «Per caso mi sono espresso in turco senza neppure accorgermene?»
Sharon giocherellò con le dita impiastricciate di colore e lanciò uno sguardo di sbieco in direzione di David, silenzioso, eppure apparentemente tranquillo.
«Affatto», fu la sua risposta saccente.
«Per quale motivo, allora, siete ricoperti di tempera?», fu quasi un sibilo; Sharon notò con quanta difficoltà Tom cercasse di mantenere la calma.
«Per esprimere la nostra arte», David si limitò ad abbozzare un sorriso, il più sadico che Sharon avesse mai visto.
Si martoriò le labbra, a conoscenza del fatto che Tom non avrebbe tollerato un simile atteggiamento, eppure quest’ultimo la sorprese, poiché si picchiettò una mano contro la fronte e sbuffò appena.
«Mi auguro che quelle anime non crescano come voi, siete un caso perso ormai», scosse il capo e li abbandonò alla loro solitudine.
Sharon si strinse nelle spalle e osservò la loro postazione: al fianco della finestra, neppure avessero deciso di emarginarsi insieme.
«E’ un vero peccato per il tuo jeans», mormorò ad un certo punto, per spezzare l’atmosfera.
David sembrò rianimarsi e le lanciò uno sguardo, il pennello impugnato e la mano pronta a scattare sul foglio immacolato.
Soppesò le parole della ragazza e d’improvviso decise di sfruttare l’occasione a suo vantaggio.
«Ponici rimedio».
Sharon sbatté le palpebre, apparentemente confusa. Imitò il ragazzo al suo fianco e portò il pennello sul foglio, sfiorò con una carezza lo sfondo bianco e una scia rossastra impregnò il suo candore.
«Non c’è una lavanderia da queste parti», ribatté con ironia, definendo i contorni di una mela.
«Non ce n’è bisogno», il sorriso furbo tornò a impregnargli le labbra, «Trova il modo di dargli un’apparenza normale».
Sharon si ritrovò a fissarlo, i suoi occhi ipnotici soggiogarono la sua lucidità e si ritrovò a captare il segnale: la stava sfidando e non poteva ritrarsi.
Il cervello si mise in moto, cercò di dare senso alle sue parole, eppure non vi riuscì. Gli occhi le caddero sulla tavolozza di colori al suo fianco e, d’improvviso, il neurone malvagio mosse gli ingranaggi e si ritrovò ad agire di conseguenza.
S’inginocchiò e carezzò il ginocchio del ragazzo, sembrò persino annoiato, eppure Sharon aveva notato il guizzo malizioso nelle sue iridi. Mosse le dita verso l’alto, sfiorò le sue cosce, muscolose il giusto, e si ritrovò a sorridere, per un contatto così ravvicinato.
Non appena quei gesti assunsero un calore ben differente dall’innocenza che li aveva contraddistinti fino a quel momento, David perse concentrazione dal foglio bianco e si ritrovò a stringere il pennello tra le dita con una forza maggiore. Fu tentato di chiudere gli occhi per abbandonarsi alle scosse elettriche che gli stavano trapassando la schiena, ma il pudore prese il sopravvento e si limitò a martoriare il legno dello strumento che impugnava.
Il cuore nel petto galoppò con ardore e David si allarmò. Non che fosse un adolescente alle prime armi, il suo letto aveva conosciuto e ospitato molte esperienze, eppure non aveva mai lasciato che parti di se stesso venissero coinvolte con così tanta ferocia.
Osservò con la coda dell’occhio la capigliatura di Sharon, i capelli raccolti in una coda, che si agitava sulla sua schiena. Desiderò osservarli districati, sconvolti dal vento, in balia della sua forza e sentì la necessità di stringerli tra le dita.
Travolto dalle sensazioni, non si accorse del sorriso furbo della ragazza, né tantomeno dei suoi riflessi: agguantò la tavolozza e ne rovesciò il contenuto sullo strato chiaro dei jeans.
David sobbalzò, sentendosi improvvisamente invaso, e dilatò le pupille, rappresentando dinanzi la vista lo spettacolo raccapricciante che raffigurava ormai i suoi pantaloni.
Non seppe cosa lo trattenne, fu tentato di afferrare Sharon per un braccio e quasi schiaffeggiarla, eppure il suo animo combattente venne messo al tappeto dal calore di Sharon, che, avendo immerso le mani nel liquido colorato, portò le dita sul volto di lui e finì la sua opera.
Osservò le sue labbra per un istante, un breve istante, per capire che avrebbe dovuto agire in quel momento.
Non le importò di essere esposta a occhi estranei; non le importò di aver osato, quando avrebbe dovuto soltanto attendere d’essere baciata; non le importò del cuore che scalciava nel petto.
Diede ascolto all’istinto, di nuovo.
Arricciò il naso per un istante, essendo a contatto con il retrogusto della tempera, ma tralasciò i dettagli e si soffermò sulla fonte della sua fibrillazione. Si trattenne dal sospirare e si concentrò sulle labbra che torturavano le sue.
Le mani di Sharon furono sovrastate da un altro paio, più grande, più forte. David strinse quelle dita quasi microscopiche tra le sue, la sentì talmente vicino in quel momento che il cuore tremò. Intrecciò le loro mani e Sharon sentì mancarle il respiro.
Le sue labbra divorarono quelle di lui, neppure si rese conto d’essersi spinta sempre più verso David.
Soggiogata, trasportata da quella dolce sinfonia che scalfiva i suoi battiti.
La realtà pungolò alla sua finestra, strattonò i suoi pensieri e permise alla razionalità di tornare sovrana. Aprì gli occhi e si ritrovò a diretto contatto con una sensazione del tutto nuova: una scintilla, riflessa in entrambi i loro sguardi.
La prima a svanire fu quella di David, quella di Sharon si spense di conseguenza.
«Sono passati i dieci secondi», fu l’unico commento che fuoriuscì dalle labbra del ragazzo, stralunato per l’arcobaleno di sensazioni che avevano sommerso il suo stato d’animo.
Sharon sbatté le palpebre, attendendo d’avere l’illuminazione adatta.
Tutto ciò che riuscì a fare, fu scansarti, neppure si fosse folgorata.
Tornò a sedere sullo sgabello, le dita strette attorno alla maglia più grande di cinque taglie. David le riservò uno sguardo rapido, dopodiché si concentrò sui jeans colorati.
«Bell’idea, comunque», non sorrise neppure, sentì il proprio cuore ghiacciarsi, ritirarsi nella sua tana, «Anche se di normale non c’è molto».
«Per niente», fu il sussurro di rimando della ragazza.
Non s’intromise, David aveva la netta impressione che quella reazione avesse spezzato qualcosa tra loro, ma non seppe inquadrare cosa fosse quel qualcosa.
Non avevano un legame, non l’avrebbero mai avuto, ne era fermamente convinto. Quell’avventura era nata per restare tale, sarebbe stata fugace, avrebbero arricchito il loro bagaglio per poi salpare senza rimpianti, avrebbero inforcato strade differenti sapendo che il loro destino non avrebbe mai imboccato le stesse scorciatoie e aveva timore che Sharon, anche per un solo istante, l’avesse pensato.
Il ghiaccio nato nel suo cuore era dettato dall’angoscia che fosse potuto accadere, non perché non volesse, ma perché sapeva di non potere. Sharon non avrebbe dovuto confidare nei suoi sentimenti, non era capace di valorizzare le persone che lo circondavano, preferiva sostenere dei legami sufficienti alla sopravvivenza.
Aveva timore di ferirla più di quanto già non stesse facendo da sola, eppure c’era una piccola speranza che fosse soltanto frutto della sua fantasia.
Portò il pennello nuovamente sul foglio, non collegò il cervello alla mano, eppure ciò che prese forma lo sconvolse a tal punto che sbatté più volte le palpebre.
Che fossero acquerelli o che fossero pastelli, la sua mano era in grado di rappresentare magia.
Conosceva il contorno di quel viso, conosceva quelle labbra arricciate, eppure preferì non proseguire. Un volto al quale avrebbe affidato soltanto un nome, ma che non avrebbe confidato a nessuno. L’anonimato consolava l’animo umano.
David sentì vibrare il cellulare nella sua tasca. Lo afferrò con distrazione e notò il display lampeggiare. Lesse il nome di Claire senza preoccuparsene, deviò la telefonata e si accorse di averne già ignorate dieci. Scrollò appena le spalle e tornò a osservare quel volto. Allungò il pennello verso la tavolozza di Sharon, ancora intatta, e immerse la punta nella tempera marrone. Tornò a occuparsi della sua tela e la perfezione che scaturì dalla sua mano raffigurò due perle color del cioccolato, l’intensità che gli regalò fu talmente forte che provocò una stretta al suo stomaco.
Una nuova vibrazione lo portò a sbuffare.
Notò soltanto in quel momento Sharon impegnata a raffigurare delle strisce verdi sul foglio, inarcò un sopracciglio e deviò nuovamente la telefonata.
Sbirciò sul foglio della compagna e si ritrovò a sospendere l’azione della mano: un serpente troneggiava accanto ad una mela, la mordeva con ferocia, mentre il veleno scorreva dai denti.
Si ritrovò a incrociare gli occhi spenti della ragazza e non ebbe tempo di chiederle il significato di quella rappresentazione, che la vide schizzare verso la porta, senza neppure munirsi di giacca.
La pioggia l’accolse, le sferzò sul viso e le donò il refrigerio adatto a schiarirle i neuroni, per tornare con i piedi per terra. La delusione dipinta sul suo volto non aveva pari, mai prima d’allora aveva provato sensazioni del genere, e il senso di colpa la corrodeva come il veleno di un serpente. Si sentiva una mela, scialba, insulsa, dal colore sbiadito, nata su uno degli alberi più belli che avessero mai preso forma sulla Terra. Osservava le altre mele, degne d’attenzione, e sentiva la sua inadeguatezza crescere, fino a quando l’albero stesso non l’aveva scaraventata, dopo averla illusa, sull’erba umida.
Gli occhi le punsero e fu tentata di schiaffeggiarsi, quando una mano la strattonò e si ritrovò a ruotare su se stessa.
«Vuoi risparmiare l’acqua a casa?», le domandò David, pungente.
«Voglio rinfrescarmi le idee», la pioggia deformò il colorito delle sue guance, la tempera cominciò a sciogliersi e David fu quasi tentato d’allungare una mano per aiutarla a pulirsi.
«Prenderai un malanno», il ragazzo si rese conto troppo tardi di non indossare nessuna giacca da poterle prestare.
Il cellulare tornò a vibrare tra le sue mani, destando stavolta l’attenzione di una Sharon irritata. Notò il disappunto del ragazzo e gli strappò l’apparecchio dalle mani. Un messaggio lampeggiava, per cui l’aprì senza indugio e senza curarsi del fastidio di David.
«Oh, è Claire», scimmiottò un tono petulante e zuccheroso, «Cerca il suo Dave. Chissà, magari è partito per l’Africa alla ricerca di zebre e colibrì».
«Piantala», fu il sibilo contrito del ragazzo, nessun tono scherzoso.
«Ti sta aspettando, Dave. Non dovresti illudere le persone», la verità trapelò dalle sue parole, lo guardò sapendo d’essere uno specchio d’acqua chiara.
«Non sono io a mettere in testa alla gente strane idee», accolse la sfida e rispose per le rime, destabilizzando la ragazza per qualche attimo.
Tornò alla carica, stringendo i pugni lungo i fianchi.
«Hai una dote innata per portare la gente al fraintendimento», avanzò di un passo nella sua direzione, la fronte corrugata e la guerriglia nel cuore.
«Sono chiaro come l’acqua, Sharon», la sincerità che utilizzò disarmò la ragazza, «Non ho segreti, credevo avessi capito cosa ci legasse».
Sharon maciullò le proprie dita e il cuore subì la stessa sorte. «Non ci lega niente, David».
«Allora perché continui a credere l’opposto?», la voce gli uscì elevata, si pentì d’aver utilizzato una simile impronta, ma Sharon, dapprima sconvolta, tornò alla carica.
«Cosa ti fa credere che io possa confidare una simile speranza folle in te?», si ritrovò quasi ad urlare, fortuna che la strada era completamente deserta.
«Tu!», esplose lui, «Ti comporti come se ti avessi rifiutata».
E’ così!, gridò dentro di sé, ma ebbe la decenza di tacere.
«Il fatto che tu abbia pensato ad una simile possibilità, mi fa pensare che sia così, David. Credi di avermi rifiutata?», fu la domanda a trabocchetto che gli pose.
«Ovvio che no», esclamò turbato, «E’ uno stupido gioco, Sharon, per l’amor del cielo, non facciamolo più grande di quello che sia».
Incassò i colpi, Sharon.
Lasciò che il cuore assorbisse quelle parole intrise di veleno, accolse le spine che quella rosa preziosa conficcava nella sua anima e spazzava via le gocce di sangue che accompagnavano la presenza di quel fiore.
«Hai ragione, è un gioco», il tono incolore che usò fece tremare il ragazzo, «Allora giochiamo».
Gli si avvicinò con rapidità, la pioggia sferzava sui loro visi, ma non se ne curarono. David la guardò negli occhi, il fiato gli mancò per quanto fosse intenso, fino a quando non parlò.
A quel punto, si spezzò del tutto.
«Devi pagare pegno».
Se avesse tenuto la bocca chiusa, era certo che neppure se ne sarebbe accorta.
«Le regole sono le regole», si arrese alzando le mani, «Cosa faccio?»
Sharon sorrise, le labbra piegate in una smorfia a dir poco spettrale.
David ebbe l’impressione che la proposta della ragazza non gli sarebbe piaciuta, iniziava a conoscerla e aveva timore delle sensazioni che lo assalivano, in sua presenza.
Osservò quel volto colorito e si ritrovò a pensare che lì dentro avesse un’operazione in sospeso: intendeva terminare quel dipinto, più che altro per se stesso. Aveva come l’impressione che se non l’avesse terminato, la situazione tra di loro sarebbe rimasta sempre in bilico.
Voleva stabilità, voleva chiarimenti. Ne aveva bisogno.
«Semplice», Sharon gli ripose il cellulare nella tasca, il sorriso ancora sulle sue labbra.
David attese, in agonia.
Lei dischiuse le labbra e soffiò contro quelle di lui. «Portami da Claire».
 

 
 
 
 
If you have a minute.

La vostra ritardataria cronica è tornata per farvi compagnia durante un ennesimo fine settimana. Da come avrete capito, mi ridurrò a postare sempre in quest’angolo di settimana, a causa degli impegni.
Questo capitolo ha il ruolo di evidenziare le sensazioni che iniziano a nascere nei nostri protagonisti, spero abbiate apprezzato C:
Lascio il link del Gruppo Facebook per chi fosse interessato, siete sempre ben graditi!
Ringrazio tutti voi che leggete, apprezzate, in silenzio e non; ringrazio tutti voi che mi dedicate del tempo, che recensite e che mi regalate un sorriso per le vostre parole C:
Grazie di cuore.
Mi auguro di poter aggiornare il prima possibile, sto buttando giù il capitolo seguente, per cui, in caso dovessi finirlo, potrei aggiornare prima del solito.
Per testimonianza, vi lascio uno spoiler!
Prima di farlo, però, vi regalo un altro grazie.
 
-
«Campo estivo».
Uno scambio di sguardi.
«Tre anni di seguito».
Una mossa positiva del capo.
«Malattie veneree?»
Una gomitata nel fianco di Sharon. «Chiedo, è lecito!»
-
 
Al prossimo aggiornamento,
Crì.

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Capitolo 6
*** Gray# ***


Se mi sfidi, ti bacio.
 



 

Baciare é un modo per mettere due persone così vicine
da non vedere cosa c’é di sbagliato in loro.

 
 


 
 

«Campo estivo».
Uno scambio di sguardi.
«Tre anni di seguito».
Una mossa positiva del capo.
«Malattie veneree?»
Una gomitata nel fianco di Sharon. «Chiedo, è lecito!»
Il viso candido di Claire Handler fu scosso da un forte rossore. Era un animo solitario, preferiva trascorrere il suo tempo in maniera proficua, anziché assecondare gli istinti dei suoi stessi coetanei. Portava delle lenti sottili sul naso che le donavano un’aria aggraziata, gli occhi a mandorla, di un caldo nocciola, spiccavano tramite il vetro. Uno sprazzo di lentiggini decorava il naso all’insù, mentre le labbra a cuoricino si aprivano in un sorriso delizioso, quando rideva.
Torturò il tovagliolo che cadeva sulle gambe, fasciate da calze doppie, a righe, e cercò di sorseggiare il tè senza rovesciarlo sulla camicia immacolata.
La pioggia cadeva imperterrita, s’infrangeva contro i vetri delle finestre del Champignon, una caffetteria rinominata nel paese dove erano soliti incontrarsi ragazzi come anziani. Il caffè non aveva età, era un pretesto per permettere alle persone di scoprirsi, come se il nodo che legava la lingua si sciogliesse soltanto a sentirlo sul palato.
Avevano accompagnato le rispettive sorelle alle rispettive case, prima d’attuare il loro piano.
Sharon nascondeva il proprio naso dentro la tazza di caffè macchiato, mentre David, al suo fianco, distendeva le gambe sotto al tavolo e pregava che quell’agonia terminasse il più presto possibile.
Ancora non credeva possibile che avesse permesso a Sharon d’incastrarlo in quel modo. Era stato costretto a richiamare Claire, darle un nuovo appuntamento e aggiungere una sedia al tavolo, regalando alla povera Handler una sorpresa che mai avrebbe creduto possibile.
Claire aveva frequentato alcuni corsi con Sharon, ma non aveva mai tentato l’approccio, aveva sempre temuto di perdere qualche arto, se avesse avanzato di qualche passo in più. Era la nomina che si diffondeva nella scuola, per altro, e, seppur fosse stata sorda e talvolta cieca, a quel richiamo aveva drizzato bene le orecchie.
Dal suo canto, Sharon non aveva mai prestato attenzione a chi pensava non ne meritasse; e Claire rientrava perfettamente nella cerchia, non perché la ritenesse invisibile, semplicemente non la credeva all’altezza di ciò che poteva regalarle.
Di fatto, le amicizie di Sharon erano uniche, quasi rare, escludendo le falsità che la circondavano da tempo immemore. Sapeva che era per il titolo della propria famiglia, nient’altro, ecco perché non restava turbata più del dovuto quando notava i loro sguardi scettici nei suoi confronti.
Questione di sopravvivenza.
Ciò che David le aveva donato andava fuori ogni binario di sua conoscenza, la destabilizzava a tal punto d’aver timore persino di se stessa, di non conoscersi come invece aveva creduto fino allora. Si sentiva meno sola, più compresa.
Accavallò le gambe e sorseggiò il proprio caffè con attenzione. Il cielo era ricoperto di nuvoloni grigi, quasi come il suo cuore, offuscato da una tempesta in piena regola, che non aveva intenzione di dissolversi.
«Non credevo foste amici», Claire scoprì la dentatura splendente e Sharon si ritrovò a stringere di rimando la tazzina tra le mani. Non si era accorda della bellezza sbarazzina che nascondeva dietro l’abbigliamento anonimo.
«Non lo siamo infatti», puntualizzò Sharon, sorridendole di rimando.
David captò la tensione della mora e si passò una mano dietro la nuca.
Claire mosse la capigliatura bionda e inarcò un sopracciglio, con aria innocua. «Allora perché l’hai accompagnato?»
«Ti disturba?», ribatté Sharon, sbattendo le ciglia.
«Assolutamente», Claire sostenne il sorriso e si massaggiò il polso, «Sono contenta che tu abbia preso questa decisione: uscire fa bene».
Sharon improvvisamente si sentì compatita. La sensazione non le piacque, per cui si regolò di conseguenza.
«In realtà, David non voleva venire», osservò con la coda dell’occhio il ragazzo gelarsi, «L’ho convinto io a farlo».
Lo sentì scattare sulla sedia, ma non gli permise d’insinuarsi nella discussione.
«Ho pensato che non fosse carino abbandonare una persona così gentile come te. Sbaglio o l’hai persino aiutato in matematica, quest’anno?», Sharon si trattenne dal sorridere per soffocare la vena vittoriosa che pulsava sotto la pelle.
Claire arrossì ancor di più e David, notando come fosse agitata, fulminò Sharon.
«Non sono un caso perso, come tu pensi».
«Chi ti dice che lo pensi?», la ragazza sbatté le ciglia e pulì le labbra dall’alone di caffè.
Si limitò a osservarla, la tentazione di strattonarla sul posto fu forte, ma seppe contenersi, per evitare che Claire s’impressionasse più del dovuto.
«Mi ha chiesto una mano», sussurrò Claire, la timidezza nella voce, «E gliel’ho semplicemente data».
«Oh, semplicementedata», Sharon non poté evitare di scimmiottare con tono melenso le parole della bionda, volle mordersi la lingua per il calcio che David le rifilò sotto il tavolo, ma seppe controllare le proprie reazioni, «David ottiene sempre quello che vuole».
Incrociò le mani sul tavolo e fece forza sui gomiti, mentre David scambiava occhiate rincuoranti in direzione di una Claire sommersa dall’imbarazzo.
«E’ una sua capacità», proseguì Sharon, imperterrita, «Quasi quanto riesce a illudere, non credi?», i suoi occhi lampeggiarono, non seppe spiegarsi cosa la stesse spingendo a infangare il ragazzo che le sedeva affianco; sapeva soltanto di doverlo fare.
Claire balbettò delle sillabe sconnesse tra loro, ma Sharon neppure vi prestò attenzione, poiché David le agguantò un polso e glielo strinse con fermezza. I loro occhi si scontrarono e una sfilza di tuoni echeggiò nelle loro orecchie, presagendo l’arrivo di una tempesta in piena regola.
«Non hai qualcun altro a cui rompere le palle? Magari una vita sociale da coltivare, anziché distruggere quella altrui?», il tono velenoso che adottò per rivolgersi alla ragazza la devastò, «Nessun appuntamento in lista? Ma come, non eri la ragazza più gettonata della scuola? Strano come nessuno ti si fili più».
Nel momento in cui smise di parlare, le labbra si ricucirono in un’azione di difesa. David osservò gli occhi dilatati di Sharon, ma non mosse un singolo muscolo. Sapeva di aver infilato il dito nella piaga, di aver stuzzicato l’orgoglio polemico della ragazza senza neppure doversi applicare, com’era a conoscenza del fatto che avesse appena destabilizzato il pegno che Sharon gli aveva imposto.
Il gioco è bello, quando dura poco, Ronnie.
Sharon si passò una mano tra i capelli, avvertiva lo sguardo compassionevole di Claire sulle proprie spalle e respirò a fondo per non dare di matto.
«Avevo un appuntamento oggi, Dave. Proprio con te», gli rivolse un sorriso ricolmo di veleno che Claire non poté notare, eppure Sharon, con la coda dell’occhio, osservò lo sguardo dispiaciuto della bionda e fu tentata di battersi il cinque da sola.
«Non mentire», sibilò l’altro, i pugni stretti tra loro sulle ginocchia.
«Non sto mentendo», si giustificò la ragazza, il tono di voce innocuo, «A differenza tua, non gioco con le persone, sono piuttosto fedele ai miei propositi».
David incassò il colpo e notò troppo tardi Claire Handler alzarsi in piedi per lasciare fuggiascamente delle monete sul tavolo. La pioggia sferzava sulla città senza dare cenno di dissolvimento, eppure la bionda aveva deciso di abbandonare il campo, anziché sopportare un minuto di più le frecce dirottate da Sharon verso David Baker.
«Dove stai andando?», le chiese quando aveva già infilato il cappotto.
«A casa, David», rispose l’altra, lo sguardo ferito come l’orgoglio di donna.
«Non puoi. Non devi», si alzò di rimando, ma Claire lo fermò con un gesto della mano.
«Posso e devo andare», l’assenza di carattere in quel momento si dimostrò una bufala. Per quanto potesse apparire innocua, gentile e dolce, Claire Handler sapeva difendere il proprio cuore con la giusta proporzione d’artigli.
Aveva sprecato mesi e mesi dietro un ragazzo che neppure si era mai accorto della sua cotta megalitica, aveva umiliato la propria persona secondo dopo secondo, stando al suo fianco. Sapeva cosa si farneticasse in giro sul suo conto, sapeva che l’avesse sempre e solo usata per i propri benefici, eppure non aveva mai voluto crederci sul serio. Forse, il fatto che non l’avesse neppure mai baciata, avrebbe dovuto farle capire quali fossero i segnali, ma, da donna ingenua qual era, aveva sempre rifiutato quella strada per imboccare quella dell’illusione.
Sharon Marshall, per quanto poco la tollerasse, aveva ragione: era l’asso delle illusioni.
David osservò la bionda abbandonare la caffetteria e un rossore si espanse nel suo stomaco, lo sentì corrodersi e, quando si voltò con occhi fiammeggianti in direzione di Sharon, la trovò con le gambe accavallate che si osservava le unghie: la vittoria era dipinta sul suo volto.
«E’ questo che hai intenzione di fare?», sbatté i piedi della sedia con forza sul pavimento e si sedette di fronte alla ragazza con abilità fulminee, tanto che Sharon rimase sorpresa di trovarselo così vicino in così poco tempo.
«Cosa blateri?», domandò con poca certezza, lei.
«Cosa blatero?», David alzò il tono di voce senza curarsi di non essere soli, «Eri o non eri qui quando hai dato fiato alla tua boccaccia per infangarmi?»
Sharon si limitò ad attendere che terminasse il discorso.
David, invece, la sorprese.
Si alzò e infilò il cappuccio per proteggersi dalla pioggia.
«Dove stai andando?», gli chiese quando le diede le spalle.
«Accompagno Claire», sibilò intriso di veleno.
«Sarà già entrata in un taxi», tentò Sharon, la lingua impastata.
David le rivolse uno sguardo appena, la rabbia era chiara nei suoi occhi. «Tenterò».
«Perché lo fai?», sbraitò la ragazza, con il cuore cigolante.
«No, perché tu lo fai?», la voce di David si alzò di un’ottava e coinvolse i tavoli vicini, «Ti senti potente a spezzare la mia vita, Sharon? Lo fai perché vorresti farne parte?»
Le rivolse un ultimo sguardo. «Invece non ne fai».
Le rivolse uno sguardo sprezzante, dopodiché andò via senza neppure aver saldato il conto.
Sharon osservò David immergersi nella pioggia per inseguire una persona che per lui aveva probabilmente fatto qualcosa degno di nota. A differenza di Claire Handler, Sharon aveva tentato di entrare nel cuore di David, ma la porta era serrata da un lucchetto; e lei non aveva la chiave.
 
 
Sharon non dormì quella notte, così come il temporale non si acquietò.
Diede il meglio di sé, i lampi inondarono la camera della ragazza e le diedero modo di sentirsi meno sola.
David aveva ragione: Sharon aveva confidato in lui, probabilmente per ricordare d’aver ottenuto qualcosa nella sua vita, prima d’intraprendere il cammino verso il futuro.
Le amicizie su cui poteva contare erano pressoché inesistenti e avrebbe voluto conservare un bel ricordo da raccontare un giorno, magari, a chi di dovere.
La sua vita era uno schema, trascritto con un pennarello indelebile, senza possibilità di rimuovere qualche freccia con della gomma Staedler. Aveva tentato, inutilmente, e David le era sembrata la gomma adatta per riuscire nell’impresa. Aveva fallito.
Si stava affezionando, provava affetto nei confronti di una pura e folle illusione, dalla quale sarebbe dovuta uscire volente o nolente.
Quella mattina si alzò presto, molto presto, e prese una decisione: quella di porre rimedio. Indossò il suo berretto preferito, sapeva che essendo un periodo estivo, avrebbe dovuto indossare poco e niente; eppure il buon senso le suggeriva di coprirsi e fu contenta di avergli dato ascolto, poiché, quando uscì, si ritrovò immersa nell’acqua piovana e nel freddo pungente, neppure si trattasse di un temporale invernale.
Aprì l’ombrello e camminò a passo spedito in direzione di casa Handler. Quando la porta fu aperta e sotto il suo sguardo comparve la figura asciutta di Claire, trattenne un sospiro di sollievo. La bionda le riservò uno sguardo interrogativo, eppure Sharon preferì restare sulla soglia, rifiutando silenziosamente l’invito della ragazza a entrare.
«Posso esserti d’aiuto?», il tono sereno che utilizzò strinse lo stomaco di Sharon.
«No», rispose cercando di moderarsi, «Sarò io a esserti d’aiuto».
«Non vedo come», ribatté con sincerità la bionda.
«Fino a questa mattina, neppure io», confidò ritrovandosi persino realista in quel commento, «Mi sono svegliata sapendo di dover venire da te».
Claire inarcò un sopracciglio e si strinse nella vestaglia. «Sharon, guarda che non devi fingere simpatia nei miei confronti. So di non piacerti, i tuoi occhi parlano chiaro», affermò, abbozzando un sorriso di circostanza.
La mora sbuffò. «Perché credete tutti di conoscermi, quando invece non è così?!» si ricompose notando d’aver alzato la voce. Si aggiustò un ciuffo sfuggito al berretto e giocherellò con i bottoni della giacchetta. «Sono qui per scusarmi».
Semplice, diretto, altamente stupido.
Claire strabuzzò gli occhi, sorpresa. «Scusarti?»
«Non fingere di non aver capito, Handler», sibilò Sharon, le mani immerse nelle tasche della giacchetta, «Sono stata meschina, lo concedo. Ho obbligato David a portarmi da te perché avevo voglia di mettergli i bastoni tra le ruote».
«Ti piace», fu il commento di Claire, nessun rancore negli occhi, «Si vede».
«Cosa?», balbettò la mora presa in contropiede, «N-no, affatto!»
Claire si aprì in una risata genuina, «Dovrai scusarti di nuovo: mi stai dando della stupida».
Sharon, agitata, afferrò l’ombrello e cominciò ad aprirlo. «Ingenua, piuttosto. Non sono interessata a David, lui è interessato a te».
«Non direi», la bionda si sistemò i capelli e le lanciò uno sguardo ricolmo d’amarezza, «Se così fosse stato, non credi che ci avrebbe provato, in tutti questi anni?»
Sharon si ritrovò con la lingua impastata. I segnali c’erano e non poteva illudere quella ragazza, anche se non si spiegava la reazione di David.
«E’ timido», suggerì allora la mora, pur sapendo di aver fatto una gaffe.
Claire si aprì in un sorriso. «Non gli si addice».
Sharon si sentì improvvisamente in difetto. Non aveva mai notato l’attaccamento di Claire per David e lo reputò normale, in fondo non aveva mai prestato attenzione a nessuno dei due fino a quel momento. In realtà, David lo conosceva da tempo immemore, eppure aveva deciso di muoversi soltanto quell’Estate, l’ultima che avrebbe trascorso lì.
«Mi dispiace», fu l’unico commento che uscì dalle labbra della mora.
Aprì l’ombrello e tornò sotto la pioggia, agitando il capo come segno di saluto in direzione di Claire, che la osservava dalla soglia.
«A me no», le rispose, sconvolgendola per la sincerità adottata, «Hai ragione, non vale la pena essere illuse. David non l’ha mai fatto, credo, sono stata io troppo stupida a crederci davvero».
Quelle parole echeggiarono nella sua testa tanto da ferirla, sentì piccole gocce invisibili di sangue uscirle dal cuore e capì in quel preciso istante di essersi spinta troppo oltre, per tornare indietro con le sue stesse gambe.
 
 
Con occhi vacui, giunse fino al ponte d’attraversare per imboccare il proprio quartiere. La pioggia riversava l’acqua nel torrente sotto i suoi piedi. Si guardò attorno e notò che la strada fosse stranamente solitaria; del resto, essendo mal tempo e avendo imboccato una scorciatoia, non sarebbe potuto accadere differentemente.
Osservò l’acqua con distrazione, quando poi riportò lo sguardo sulla strada, dall’altra parte del pontile notò una figura che fino a pochi attimi prima non era presente. Riuscì a riconoscerlo soltanto dopo qualche istante e il suo cuore perse un battito.
S’impose di restare impassibile, di non dargliela vinta, di uscire da quel gioco dove il cuore sarebbe rimasto l’unico perdente. Avrebbe dovuto porre fine a quell’assurdità, la ragazza tenace che era stata un tempo doveva seppellire il proprio orgoglio per lasciare spazio al cuore, che meritava tranquillità.
Quel ponte, talmente minuscolo, sembrò avvicinarli più del dovuto. Distolse l’attenzione e fece per ruotare su se stessa, avrebbe preso un’altra strada, quando l’urlo di David la bloccò.
«Dove pensi di andare, Ronnie?»
Lontano da te.
Gli lanciò appena uno sguardo, torturò il bavero della giacchetta e respirò a pieni polmoni, cercando un equilibrio interiore che tardava ad arrivare.
«Non muoverti», il grido di David le raggiunse le orecchie, non appena spostò i piedi nella direzione opposta.
Sharon si ritrovò a sbuffare, frustrata. «Non hai diritto d’impormi le cose».
Desiderò rimangiarsi quelle parole non appena terminò di dirle. Immaginò il sorriso derisorio dipinto su quelle labbra perfette e socchiuse gli occhi, picchiettandosi la fronte con una mano.
«Ah no?», fu la risposta retorica del ragazzo.
Sharon ruotò sui talloni per poterlo guardare in faccia, rabbrividì per la sensazione di vuoto che provava all’altezza del cuore e si strinse nella giacchetta.
Attese, in silenzio, che la raggiungesse; sapeva che sarebbe finita così.
David, dal suo canto, si limitò a imporre un ordine.
«Vieni da me».
Sfida, sfida, sfida! Nella sua testa rimbombava quell’unica parola.
Tremò dalla rabbia, dalla dipendenza che quel ragazzo creava in lei.
Mosse le gambe appena, sentiva le ginocchia tremare, eppure non riuscì a resistere alla tentazione. Camminò con lentezza esasperante, a tal punto che David, impaziente, mosse veloce le gambe per raggiungerla. L’afferrò di slancio, quasi rischiò di rompersi l’osso del collo per quel movimento brusco, per cui poggiò un ginocchio per terra e strinse la presa sui fianchi della ragazza, mentre l’ombrello scappava dalle sue dita sottili per poi piombare al suolo. Sharon rimase col fiato sospeso fino a quando non chinò il mento verso il basso; David, perso nei suoi occhi, si sospinse nella direzione di quelle labbra rosee e la baciò, il suo sapore lo inebriò a tal punto che sentì la testa girare.
Portò le mani verso la sua schiena e la strinse più forte a sé; Sharon di rimando lasciò che la sua vicinanza la stordisse al punto giusto. Ebbe l’impressione che in quel momento nessuno prestasse attenzione alla sfida che si erano lanciati, alle regole che avevano stipulato o alla pioggia che li aveva inzuppati di sana pianta. Sharon si ritrovò a sospirare in preda all’estasi e ciò che più la colpì fu l’intensità con la quale David le martoriò il labbro. Le carezzò una guancia e le strinse i capelli tra le dita.
Fu Sharon a tirarsi indietro.
David la guardò con aria interrogativa, quando poi la realtà bussò alla sua porta, capì il perché avesse quello sguardo e si sentì colpevole.
Si alzò in piedi e tornò a sovrastarla, osservò le sue perle color cioccolato e fu tentato di sfiorarle nuovamente. La ragazza si morse un labbro e indietreggiò di qualche passo.
«Hai detto che per te si tratta di giocare», sussurrò Sharon.
David si sentì sbagliato e soprattutto ipocrita.
Quella notte non aveva chiuso occhio, sia a causa del temporale, sia a causa dei pensieri; probabilmente erano stati questi ultimi a fare più rumore dei tuoni. Aveva ripensato alle parole di Sharon, alle sue reazioni, al dipinto incompiuto che Tom gli aveva permesso di riportare con sé a casa. Era stato il dipinto probabilmente a tenerlo sveglio più di tutti: si era alzato, nel cuore della notte, si era fatto un caffè, sapendo di non poter chiudere ugualmente occhio, e aveva deciso di utilizzare la matita, anziché la tempera.
Terminò quel ritratto sentendo il cuore distruggergli le orecchie, si ritrovò a sorridere spontaneamente, non per la bravura, ma per il soggetto che aveva reso quel disegno senza alcun eguale.
Era collassato sul letto non appena si era steso per avere una visuale migliore di quel disegno e si era risvegliato sapendo perfettamente cosa avrebbe dovuto fare: in primis, si sarebbe dovuto scusare con Claire, dopodiché si sarebbe fiondato da Sharon e avrebbe messo in chiaro cosa gli ronzava per la testa.
In realtà, non era certo di quello che stava per fare; aveva rimuginato sulle considerazioni riguardanti Sharon, aveva cercato un’alternativa migliore, ma si era ritrovato dinanzi un vicolo cieco. Inutile negarlo, si stavano relazionando l’uno all’altro, avevano bisogno di quelle prove per continuare a usufruire della loro vicinanza, non per rallegrare le giornate monotone. A quel punto, un semplice videogioco avrebbe reso meglio l’idea.
David aveva bisogno di Sharon, così come Sharon aveva bisogno di David.
A non capirlo, probabilmente, in quel momento fu la ragazza stessa. Lo osservava, scostante, come se il danno fosse già avvenuto e non avesse i mezzi per porvi rimedio.
Afferrò l’ombrello caduto a terra e lo chiuse, senza portarlo sulle loro teste. La pioggia accompagnava i loro pensieri rumorosi, ma dalla bocca di entrambi non uscì nulla. I loro respiri divennero affannosi, come se fossero coscienti del fatto che entrambi avessero bisogno di confrontarsi l’un con l’altro, ma che nessuno trovasse il coraggio sufficiente per farlo.
«Lascia che ti spieghi», David si fece carico delle sensazioni che in quel momento affollavano il suo petto, decise di dargli voce, senza più soffocarle.
Sharon non fu della stessa opinione. «Affatto».
Gli riservò uno sguardo determinato che lo spaventò.
«Abbiamo intrapreso questo cammino soltanto per ravvivare l’Estate, David. Non ci siamo mai prestati attenzione, pur vivendo a pochi metri di distanza. Se non ti avessi avvicinato, a quest’ora neppure sapresti ancora il mio nome e non te ne faccio una colpa, neppure io l’avrei fatto in altre circostanze».
Eppure l’hai fatto, sussurrò la coscienza di David, mi hai avvicinato. Perché?
«Da Settembre inizieremo ad essere adulti, troveremo la nostra indipendenza e quando torneremo occasionalmente in questa città, ci guarderemo e neppure ci riconosceremo», l’amarezza che trasudò dalle sue parole lo ferì.
«Come fai a esserne così sicura?», le chiese, ormai determinato a capirci qualcosa. «Sharon, leggo nei tuoi occhi che qualcosa non va, quando sei con me».
La ragazza inarcò le labbra in un breve sorriso. «Perspicace».
«Parlamene, mettimi alla prova», la incoraggiò, bloccandole il viso tra le mani, «Non scappare, non serve».
Un gemito di frustrazione uscì dalle sue labbra. Sharon prese la decisione peggiore che potesse, in quel preciso istante. La ragione le suggeriva di lasciare in disparte il cuore e così fece.
«Non è te che voglio. Ho timore che facendomi vedere in tua compagnia, qualcuno potrebbe pensare che ci stiamo frequentando, che stiamo imparando a conoscerci e…», non riuscì a proseguire, parlava di tutto ciò che avrebbe voluto diventasse realtà.
David la squadrò con attenzione, le labbra strette per non ringhiare.
«Hai paura per la tua reputazione?», le chiese con sarcasmo, «Non sapevo ci tenessi così tanto».
Sharon si strinse le braccia al petto e al tempo stesso il manico dell’ombrello con fermezza. «Sono una donna, cosa pretendi?»
«No, Sharon, non perché tu sia una donna», l’essere rifiutato danneggiò la propria razionalità, il malessere prese il sopravvento e lasciò che si espandesse nei suoi occhi, per trasmetterle le emozioni che aveva suscitato dentro di lui, «Ma perché sei semplicemente questo: vuota. Non hai nulla cui aggrapparti. Né amici, né famiglia. È tutta ipocrisia, tutta finzione. E provo pena per te, sai? Ne provo molta», parlò con tutto il rancore conservato dentro di sé, le riservò uno sguardo agghiacciante, ma Sharon incassò il colpo e reagì a testa alta, senza dimostrare quanto fosse stata ferita.
«Non avrò una famiglia perfetta né amicizie veritiere attorno a me, ma resto fedele ai patti, David, e soprattutto evito d’illudere le persone. Anzi, non me ne circondo per un tornaconto personale, come fai tu. Claire Handler non è la ragazza migliore del pianeta, ma per te c’è stata e guarda come l’hai ripagata. Ringrazia Dio che io non sia lei», sibilò aprendo l’ombrello, decisa ad abbandonare il campo.
«Non potresti essere lei, Sharon, hai troppi difetti», quelle parole le giunsero alle orecchie non appena gli diede le spalle. Strinse i denti tra loro per evitare di singhiozzare, una lacrima le era caduta sulla guancia e non aveva potuto fermarla.
«Sono fiera di averli», ribatté con tono determinato, «Sono i difetti a rendermi ciò che sono ed è includendo questi che un giorno troverò qualcuno che apprezzerà prima loro, dei pregi».
E quel qualcuno non sarai tu, fu tutto ciò che riuscì a pensare non appena mosse i piedi verso l’altro lato del ponte.
«Parli tanto d’illusione», David alle sue spalle immerse le mani nelle tasche dei jeans, osservò la sua figura esile allontanarsi, sentì un burrone separarli e il cuore gli si strinse, per cui reagì nell’unico modo che sapeva utilizzare: contrattaccare. «Eppure non capisci che sei la prima a farlo: continua a crederci, magari prima o poi qualcuna delle tue illusioni si avvera».
Con un groppo alla gola, notò il passo di Sharon diminuire, per poi riprendere in maniera del tutto sbrigativa. Vederla fuggire, correre disperata verso una luce che mai avrebbe carezzato anche lui, lo ferì. Si sentì tagliato fuori dal suo mondo ed era troppo coinvolto per pensare al fatto che Sharon avesse reagito in quel modo a causa sua.
La vide fermarsi, d’improvviso, e voltarsi nella sua direzione. Il suo sguardo era scostante. «Gioca il tuo ruolo, io il mio. Quando il gioco finirà, forse potrai capire con chi hai avuto a che fare, Baker».
La ragazza strinse le labbra, le mordicchiò per sostenersi e quando finalmente David non fu più sotto il suo mirino, si lasciò andare in un respiro profondo.
Avrebbe fatto di tutto affinché David capisse chi avesse di fronte. L’avrebbe fatto capitolare ai suoi piedi, l’avrebbe costretto ad ammettere cosa provasse nei suoi confronti e l’avrebbe deriso, dimostrandogli che non erano soltanto fantasie, le sue.
Vedremo poi, chi è l’illusa.

 
 
 
If you have a minute.
Siamo entrati già nell’aria natalizia o è soltanto mia impressione?
Dunque, per quanto io possa paragonare questo capitolo ad un parto naturale, posso dirvi che ce l’ho davvero messa tutta in queste settimane per poter rispettare i tempi, ma non è andata così. Purtroppo gli impegni costanti me lo impediscono e l’ispirazione, se non c’è, è davvero difficile da ottenere. Questo capitolo era pronto da un po’, ma ho voluto aspettare, in caso giungesse qualche illuminazione divina – cosa che ovviamente non è accaduta –, e, siccome avremmo raggiunto Natale di questo passo, ho preferito aggiornare, sperando che questo capitolo vi possa piacere (:
Devo ammettere che a me è piaciuto, probabilmente per aver svelato altre sfaccettature dei personaggi, per aver messo a nudo i loro pensieri e i loro sentimenti. Non so, probabilmente sono ancora assonnata dopo le poche ore di sonno, tutto può essere!
Ricordo il link del Gruppo Facebook, dove siete sempre i benvenuti in caso siate interessati alle mie storie, agli spoiler o semplicemente a una chiacchiera (:
Il prossimo capitolo è tutto da buttare giù, non posso neppure supporre quando sarà il prossimo aggiornamento, ma terrò aggiornato il gruppo, in tal caso.
Ringrazio tutti voi che leggete, che avete inserito questa storia tra le vostre seguite, ricordate, preferite. Voi, che mi seguite, che sia in silenzio o lasciando una recensione.
Sarò davvero contenta di sapere le vostre opinioni su questo capitolo!
A presto,
Crì.
 

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Capitolo 7
*** Dark brown# ***


Se mi sfidi, ti bacio.








Il bacio è come il Whisky: si preferisce sempre doppio!

 
 
 
 

«Sharon Marshall».
Dalle mani della ragazza, cadde il libro sul quale aveva prestato attenzione per circa due minuti netti. Ruotò lo sguardo, piccata d’essere stata interrotta e le pupille si dilatarono appena, quando si rese conto di chi le avesse rivolto la parola.
Era seduta in giardino, su di una panchina di legno, le gambe incrociate e una limonata al proprio fianco. Quel giorno il sole picchiettava come se avesse qualcosa di cui vendicarsi e Sharon aveva legato i capelli in una coda alta, affinché non le cadessero sulle spalle.
«Ci conosciamo?»
Luke Baker si aprì in un ghigno derisorio. Le iridi verdi brillarono al contatto con il sole e Sharon si chiese a cosa stesse mirando, per averle parlato.
«Conosci bene mio fratello, a quanto pare», fu l’insinuazione candida che le scagliò contro, il sorriso dilatato quasi a girargli dietro la nuca.
Sharon poggiò il libro al suo fianco, dopo averlo raccolto, e portò una mano sugli occhi, per scrutare con maggior attenzione quel viso arrogante.
«Probabilmente abbiamo concezioni diverse per ‘conoscere bene’ qualcuno», replicò senza peli sulla lingua, nonostante sapesse che non si sbagliava più di tanto.
Luke si sporse oltre la staccionata, fece forza sui gomiti e i denti scarlatti spuntarono dalle labbra sottili, probabilmente consumate a furia di regalare baci fuggiaschi a qualunque donzella si presentasse al suo capezzale.
«Credo tu abbia capito a cosa mi riferisco», le lanciò un lungo sguardo, fu un guizzo che le fece pensare a un possibile interesse da parte di quel ragazzo, il quale scopo nella vita era soddisfare appieno il titolo familiare e nient’altro.
«Cosa vuoi, Luke?», decise di mirare dritto al sodo e il suo sguardo si ridusse a due fessure.
«Come siamo malfidati», la risata sprezzante che le regalò le sconvolse il sistema nervoso. «Perché pensi che voglia qualcosa?», il tono di voce mutò e il suo ghigno assunse delle sfumature maliziose.
«Ah, non saprei», Sharon adottò uno sguardo innocuo e sbatté le ciglia, «Dimmelo tu».
Luke scosse appena il capo, le lanciò uno sguardo divertito, prima di avvicinarsi maggiormente al viso immacolato della ragazza. Quasi affogò nei suoi occhi scuri, ma riuscì a riemergere e portare il proprio discorso fino in fondo.
«Non so a cosa tu stia mirando, Marshall, ma una cosa è certa: non te lo lascerò fare».
Sharon inarcò un sopracciglio, avendo captato il tono serio appena adottato dal ragazzo.
«Non viviamo costantemente nei complotti, Luke», puntualizzò, ma si accorse troppo tardi di quella determinazione che aveva sempre caratterizzato il primogenito Baker.
«Credi?», si aprì in una risata sprezzante, «Lascia che ti spieghi: ciò che interessa alla tua famiglia è annullare la mia, in modo da ottenere il primato sul mercato. E, per ottenerlo, si attuano dei complotti, come a te piace definirli. E sono ben certo che il tuo nuovo interesse nei confronti di mio fratello non può che esserne uno. Sarò la vostra ombra, otterrò i tuoi punti deboli e li userò senza alcun problema. Hai sbagliato previsioni, Marshall: per quanto reputi mio fratello un emerito invertebrato, non ti permetterò d’incassare vittorie contro la mia famiglia».
Luke le regalò un ultimo sguardo, prima di darle le spalle e infilare le mani nelle tasche dei jeans. S’incamminò sull’erba immacolata e sparì dagli occhi di Sharon, non appena la ragazza sbatté le palpebre e realizzò il discorso.
La gente ha bisogno di più sesso.
Fu l’unico commento che riuscì a elaborare.
 
 

***

 
«Non credi d’averne mangiate abbastanza?»
Sharon sgranò gli occhi, colta sul fatto, e pulì rapidamente le labbra con una passata di mano. Sentì i passi concitati di Anne raggiungerla e deglutì a vuoto, osservando le dita impregnate di zucchero.
«Non posso lasciarti sola un attimo», sbuffò la bambina, portando le mani sui fianchi.
«E’ colpa tua», l’ammonì Sharon, lo sguardo compunto, «Assumiti le tue responsabilità».
Lo sguardo di Anne non ammise repliche. «Qui ho finito».
Sharon sospirò e lanciò un ultimo sguardo al banco di dolciumi che aveva prettamente prosciugato. Non aveva resistito al richiamo di quell’ammasso di zucchero che supplicava di portarle alle labbra, così aveva ceduto. Ne aveva assaggiata una e, non contenta, era riuscita ad affondare i denti in una dozzina di quelle caramelle gommose.
La sua lingua chiedeva una tregua, era un ammasso di colori poco definiti e non avrebbe di certo retto un ennesimo attacco di gola.
La piccola Anne le agguantò un polso e la trascinò verso le casse. In quel momento, Sharon provò infinita compassione nei propri confronti: quella bambina aveva soltanto sette anni e, in quel momento, era la sua babysitter.
Una donna, dietro il banco, le sorrise con tenerezza: un enorme grembiule le cingeva la vita, era di azzurro tenue, che combaciava con i suoi occhi. I capelli ricci erano domati da innumerevoli forcine sparpagliate come un campo minato sulla sua testa e le mani tozze si allungarono verso di lei, stringendo una bustina colorata.
«Ho notato che ti piacciono», le strizzò l’occhio e Sharon desiderò seppellirsi.
Si limitò a sorridere, ma non perse l’occasione e nascose le caramelle nella tasca.
«A mia sorella verrà presto il diabete», bofonchiò Anne, che si allungava verso il bancone con delle barrette al cioccolato tra le mani.
«Ti farò un fischio, quando sarà», replicò asciutta la ragazza, prima di darle le spalle.
Nel momento esatto in cui ruotò lo sguardo verso l’uscita, la porta si aprì e un insieme armonioso di suoni s’espanse nella saletta colorata. Claire Handler mosse le gambe come se calzasse delle scarpe di stoffa e un tutù bianco. Non si accorse neppure della clientela immobile a osservarla, bensì salutò con un sorriso sulle labbra la commessa paffuta e si diresse alla vetrina, dov’erano esposti diversi volantini. Sharon notò che tra le braccia reggesse dei cartoncini colorati e uno andò candidamente a finire sul vetro, con una panoramica diretta sulla strada. Incuriosita, inarcò un sopracciglio e lasciò che la piccola Anne gestisse i propri affari. Sgusciò in direzione di Claire, intenta a staccare del nastro biadesivo con i denti, e le fu alle spalle, allungando appena il collo per sbirciare silenziosamente sul volantino.
Ciò che non calcolò fu il gesto repentino della bionda, la quale si portò all’indietro con fin troppa irruenza e finì candidamente contro il labbro della mora.
I volantini caddero dalle sue mani come piccole gocce di pioggia, ma Claire neppure vi prestò attenzione. Trafelata, ruotò su se stessa e portò le mani alle labbra, dispiaciuta d’aver coinvolto e ferito qualcuno. Non appena si rese conto di chi brontolasse sotto i suoi occhi, si aprì in un profondo sospiro.
«Cosa facevi alle mie spalle?», le chiese senza alcun tono di rimprovero.
Si chinò per raccogliere gli innumerevoli volantini e, stupita, notò che Sharon stesse facendo la stessa medesima cosa, seppur fosse imbronciata e avesse un labbro gonfio.
«Non attentavo alla tua vita, se è questo che vuoi sapere».
«Non ti è riuscito comunque», le rispose accennando un sorriso.
Sharon lanciò uno sguardo al materiale tra le sue mani e fu tentata di sorridere per essere riuscita nell’intento, seppur a caro prezzo. Inarcò un sopracciglio, sorpresa, e agitò il foglio tra le dita in direzione di Claire.
«Indiana Party?», non riuscì a trattenere lo sdegno e arricciò il naso.
La bionda annuì. «Questa sera ci sarà la luna piena e hanno organizzato un falò sulla spiaggia, con musica tipicamente indiana. Chi vorrà partecipare dovrà anche travestirsi come un indiano», precisò, annuendo con vigore.
Sharon immaginò che chi avesse organizzato una simile pazzia non dovesse avere tutte le rotelle al proprio posto, ma, nonostante tutto, se avesse avuto qualcuno con cui presentarsi, non sarebbe stato così male.
«Ho degli acquerelli se vi servono», ironizzò la mora, andando incontro al disappunto della bionda.
«Verrai?», le chiese, rimettendosi in piedi.
Sharon si aprì in una risata frizzante. «Ovvio che no».
«Non preoccuparti per gli abiti, quelli rimarranno poco addosso. Credo che i ragazzi complotteranno per un bagno notturno».
«Non mi interessano gli abiti», la mora si osservò la punta delle scarpe, «Non mi interessa neppure la festa».
Claire scrollò le spalle e strinse al petto i volantini, sospirando. «Come vuoi».
Le porse un volantino e Sharon lo accettò con riluttanza.
«In caso cambiassi idea, almeno hai l’indirizzo», le strizzò l’occhio e s’incamminò verso l’uscita, dopo aver salutato la commessa paffuta, intenta a socializzare con la piccola Anne.
Sharon osservò l’immagine sul volantino e si ritrovò a rabbrividire: non avrebbe indossato nessuna piuma assurda né avrebbe sporcato la propria faccia per farsi prendere in giro.
«A David dispiacerà non vederti, però».
Quella frase la ridestò. Sharon alzò lo sguardo e lo puntò sulla figura minuta di Claire, che le sorrise, prima di lasciare il palcoscenico e scomparire oltre la porta della pasticceria. Le sue mani sudarono freddo e si ritrovò a stringere con possesso quel volantino.
Aveva promesso a se stessa di non farsi coinvolgere, non più. Avrebbero semplicemente giocato e lei avrebbe mosso scrupolosamente le proprie pedine, per far in modo che David cedesse per primo e che ammettesse di essere legato a lei più di quanto pensasse. Non era affatto arrogante nel pensarlo, un sentore glielo suggeriva quando era in sua compagnia; eppure sapeva di dover avere i fatti, non le parole, per ottenere una simile conferma.
Piegò il volantino e lo infilò in tasca.
«Vieni, Anne», le allungò la mano e la bambina l’agguantò, incuriosita.
«Cosa devi fare?»
Sharon osservò con determinazione un punto indefinito oltre la finestra e mangiò una caramella gommosa. «Ti piacerebbe colorare con me, oggi?».
 
 
***
 
 
Il fuoco scoppiettava nel cerchio di vecchie pietre, i ceppi ardevano al ritmo di musica etnica e diverse ragazze, dalle piume multicolori sul capo, agitavano la gonnella con movenze sensuali, adocchiate da ragazzi traboccanti di bava.
Sharon provò difficoltà nel riconoscere vecchi compagni di classe o di autobus. Aguzzò la vista, alla ricerca della figura asciutta di David, ma, fallendo miseramente, la mente fu sollecitata da una minuscola voce, la quale le suggerì di fare retromarcia e tornare a casa, prima che fosse troppo tardi.
E lo fece, diede ascolto a quella voce sottile, ruotando su se stessa, ma destino volle che s’imbattesse nel sorriso sgargiante di Meredith Cooper, una vecchia compagna di banco che le aveva dato ben poco filo da torcere.
I suoi capelli neri svolazzarono in balia del vento e i suoi occhi grigi brillarono al contatto con i guizzi di fuoco. «Sharon?»
Quel richiamo fu eccessivo; la ragazza fu tentata di portarsi le mani alle orecchie per evitare che fossero scombussolate più del necessario, ma ormai il danno era fatto.
Sospirò e prese coraggio, rivolgendole uno sguardo di sufficienza, che fu spazzato via dalla confidenza strabiliante che adottò nei suoi confronti.
Le agguantò un braccio e la strinse a sé, un sorriso che compiva un giro completo della testa. «Questa sì che è una sorpresa, non pensavo partecipassi a simili eventi!»
«Neanch’io», fu il sussurro trattenuto di Sharon, che si vide completamente assalita dal chiacchiericcio e dai pettegolezzi dei presenti.
Si diede mentalmente della paranoica e decise d’acquietarsi: si sarebbe adattata, mimetizzata e confusa con il resto delle persone. Non era complicato come si credeva.
Non appena si sedette su un vecchio tronco malridotto, immaginò d’aver toccato il fondo. Quello che ancora non aveva preso in considerazione, era il fatto di dover condividere l’aria con un branco di affamati alla ricerca di pettegolezzi e la sopravvivenza non era garantita.
Meredith le allungò un bicchiere rosso, non indagò sull’origine di quel liquido ambiguo, bensì pensò di giocherellare con la plastica e fingere di prestare attenzione alle chiacchiere della ragazza.
«Sai di cosa ho bisogno questa sera?», Meredith ingoiò tutto d’un sorso il bicchiere di birra e sorrise, determinata. «Di sesso».
Sharon si strozzò con la sua stessa saliva ed evitò d’esporre a voce il proprio commento.
«So cosa pensi», la rimproverò bonariamente, strizzandole l’occhio. «Troveremo qualcuno anche per te».
Improvvisamente, dinanzi agli occhi di Sharon, comparve la figura asciutta di Claire, che passeggiava al fianco di un ragazzo dalle strambe piume sul capo. Assottigliò lo sguardo e realizzò che quel ragazzo altro non era che David. David Baker.
Non le aveva mentito, dunque; Claire aveva davvero invitato il ragazzo in questione ad indossare assurde piume e costume della stessa fonte bizzarra per partecipare a un evento che mai e poi mai avrebbe potuto godere della sua presenza, in circostanze diverse.
Sharon non badò al sottofondo fastidioso che le procurò Meredith riguardo l’accoppiamento in spiaggia, bensì utilizzò tutte le sue forze per inseguire le due figure che quasi volteggiavano sulla sabbia; erano talmente vicini che le loro braccia scaturivano scintille, testimoni del loro passaggio.
Deglutì con fatica e scostò lo sguardo, non appena quell’immagine ferì, più di quanto avesse mai potuto fare una fiamma sulla pelle. Gli occhi affondarono nel mare chiaro che il suo bicchiere conteneva, desiderò annaspare pur di non soccombere, impotente, alle sensazioni che la realtà le aveva provocato.
Avrebbe dovuto seguire la razionalità, avrebbe dovuto stracciare quel volantino e sarebbe dovuta tornare a casa, dopo la pasticceria.
Improvvisamente, il peso di quelle piume sul capo gravò più di quanto avesse mai pensato. Agguantò la coroncina e osservò l’arancione delle sue piume. Le sfiorò e socchiuse gli occhi, ispirando a fondo.
Non appena li riaprì, scattò in piedi, interrompendo il discorso animato di Meredith.
«Ehi», Sharon la guardò negli occhi, «Fai bene: fa’ quello che ti pare stasera, l’importante è che lo fai lontano da me».
Avanzò a passo spedito oltre il gruppo di ballerine, oltre i guardoni dai rivoli incessanti di bava, oltre gli ubriaconi distesi sulla sabbia a contare per la centesima volta la stessa stella, oltre l’innumerevole quantità di coppie ammassate sulla spiaggia, al buio, pensando d’essere al sicuro da sguardi indiscreti.
Fu allora che arrestò il cammino, sentì il fiato mancarle, ma non vi badò. Sfilò i sandali e si accasciò sulla battigia, le onde del mare giunsero ai suoi piedi e l’acqua fredda dell’oceano le provocò un brivido lungo la schiena che non riuscì a sopprimere.
Portò le ginocchia al petto e il respiro carezzò la pelle morbida delle gambe. Gli occhi lentamente le si chiusero e il pensiero corse al futuro, laddove il mare non sarebbe stato più presente, in ogni momento di sconforto. Il mondo urbano l’avrebbe attesa, avrebbe dovuto abbandonare la terra natale per abbracciare una nuova realtà, dove gli squali sarebbero sempre stati in agguato, con o senza acqua.
Era consapevole che lo squalo più grande l’avrebbe rincorsa ovunque, perché era dentro di lei che risiedevano i suoi denti aguzzi.
 
 
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«Non verrà».
Il brontolio indistinto di David provocò un sorriso arrendevole sulle labbra di Claire.
«Dalle tempo», gli batté una mano sulla spalla e gli allungò una birra, che accettò, senza bere.
«Dovrei regalarle un orologio, a dire il vero», sbottò risentito, accasciandosi su un tronco malandato.
Le fiamme si rifletterono nei suoi occhi privi d’espressione, mentre le labbra s’incurvavano per permettere a un ennesimo sbuffo di realizzarsi nell’aria.
«Preferirebbe degli orecchini, un tipo come lei».
Nella voce di Claire comparve l’amarezza che risvegliò il giovane Baker dal suo torpore. La osservò di sottecchi e ricordò lo scambio di battute poco signorili che aveva avuto come protagonisti lui e la stessa Sharon. Il senso di colpa risalì nuovamente a galla, trascinando le ancore del malessere che in quella settimana di distanza l’avevano accompagnato sul fondale.
«Non l’indossa», fu la risposta genuina che riuscì a darle dopo qualche attimo di silenzio.
Il sorriso di Claire s’intensificò. «Te ne sei accorto, allora».
«Il più delle volte», fece spallucce e buttò giù un sorso di birra.
«David», Claire sospirò, «E’ stata mia compagna di classe per cinque anni e non ho mai prestato attenzione se portasse gli orecchini o meno».
Il ragazzo sapeva dove volesse andare a parare, ma non le avrebbe mai dato la soddisfazione di sentirsi dire d’aver ragione. «Vuol dire che sei poco attenta».
«No, vuol dire che non sono interessata, è diverso».
Touché.
«Ho un grande spirito d’osservazione, Claire. Tutto qui», liquidò la faccenda con un movimento alterato della mano e sbuffò, rivolgendo lo sguardo in direzione del mare.
Fu allora che un dettaglio stonò con l’insieme: una figura sedeva alla riva e il cuore di David palpitò con irruenza. Assottigliò lo sguardo e Claire lo seguì, arrendevole al fatto d’aver perso in partenza quella battaglia.
Lo scosse appena, lasciandogli una carezza lungo la schiena. «Serve a te un orologio, non a lei».
David non riuscì a replicare; semplicemente, osservò da lontano l’unica persona che aveva saputo rifiutarlo e al tempo stesso accettarlo nella propria vita. Aveva rifiutato qualcosa di concreto, eppure l’aveva stretto a sé, con la sciocca scusante di continuare il gioco che entrambi avevano accettato di svolgere. Fino a quando non fosse finito, non si sarebbero separati, questo era certo.
Si alzò dal tronco e infilò le mani in tasca, abbandonando il bicchiere per terra.
Lanciò uno sguardo verso Claire e si aprì in uno sbuffo finale. «Tanto non l’avrebbe messo».
«Vuoi presentarti da lei a mani vuote?», gli chiese, ruotando con il busto, per poi cercare animatamente la fonte del suo interesse all’interno di una grande busta gialla.
David corrugò la fronte, curioso di capire cosa stesse producendo la sua mente corrosa e arrugginita, fino a quando non estrasse, con un sorriso luminoso dipinto sulle labbra, una corda di cuoio, la quale sorreggeva un ciondolo intagliato nel legno. Fu riluttante ad accettare un simile accessorio, eppure lo fece.
Claire lo fronteggiò, rilasciando tra le sue mani il ciondolo di legno. «Non sarà Tiffany, ma saprà apprezzarlo. In fondo è in tema con la serata».
David massaggiò nervosamente la propria nuca, prima di lanciare uno sguardo al tavolo imbandito di bibite. «Mi ci vuole proprio qualcosa di forte».
«Non aspettare un minuto di più allora», Claire gli lasciò una rapida carezza sul braccio, i loro occhi scattarono all’unisono in direzione di Sharon, accovacciata sulla battigia, e nulla fu mai così chiaro.
«Credo che serva a entrambi», proferì il ragazzo, voltando le spalle all’oceano, per poi dirigersi in direzione del liquore.
 
 
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Il silenzio del mare stuzzicò i suoi pensieri. Sharon era conscia del fatto che prima o poi avrebbe dovuto abbandonare la spiaggia e, con essa, tutte le certezze che l’avevano spinta a raggiungere un simile luogo, circondarsi di persone mai notate fino ad allora e indossare uno stupido cappello di piume sulla testa.
Aveva sperato con tutta se stessa di ritrovare David raggomitolato in un angolo, a contare i granelli di sabbia, con un’espressione disperata e del sangue che capitolava giù da una vena scoperta. Probabilmente aveva sperato in qualcosa d’eccessivo, in fondo le sarebbe bastato vedere i suoi occhi spenti per cantar vittoria; quella sera, era stato lui a darle il colpo di grazia, passeggiando melenso in compagnia di Claire Handler. La spensieratezza dei loro visi, la naturalezza dei loro movimenti, la perfezione che univa le loro figure era stata talmente eccessiva che una crepa all’interno del petto era spuntata dal nulla, portando con sé un marchio indelebile.
Sharon deglutì, cercando di soffocare un groppo alla gola, e, in un attimo di lucidità, ragionò sul proprio ruolo, all’interno di quella serata: si era emarginata, osservava il mare e lasciava che la sabbia entrasse persino nel suo intimo, pur di non alzarsi e affrontarlo. Preferiva fuggire? Era una domanda dalla quale fuggiva, la risposta.
Scosse debolmente il capo, un brivido di freddo la incoraggiò a rimettersi in piedi e pulì le gambe dai granelli di sabbia che le avevano tenuto compagnia. Osservò distrattamente l’acqua, prima di ruotare su se stessa e alzare il mento. Ciò che si ritrovò dinanzi agli occhi fu un’ennesima frustrata: Claire e David le davano le spalle e si allontanavano in direzione del buffet; lei poggiava una mano sul suo braccio e lui restava al suo fianco, senza avere intenzione alcuna di spostarsi.
Fu un attimo e bastò per suggerirle di tornare a casa e partire la mattina seguente, senza attendere altre sofferenze. Un attimo che venne cancellato dall’intromissione di una voce irritante quanto la varicella.
«Portamento elegante, animo nobile, media elevata. E’ sempre stata un’ottima candidata, dapprima che arrivassi tu. Credi che sia stato un caso, il campo estivo trascorso insieme?»
Sharon strinse le dita tra loro, affinché potesse soffocare l’impulso di gettarsi sulla figura di Luke Baker e rendere la sua faccia pari ad un colabrodo.
Socchiuse gli occhi e si concentrò sulla propria respirazione. Non voleva dargli alcuna soddisfazione, avrebbe mantenuto alto anche il suo di portamento, non aveva nulla da invidiare a nessuno.
«Anche per un effetto estetico, direi che non peccano in niente», ennesima frecciatina incassata, ma Sharon non demorse, tanto che Luke si sentì spronato a procedere.
«Potrei citare persino mio padre. E mio padre non si sbilancia, mai».
Le parole di Luke carezzarono la nuca di Sharon, sapeva che le fosse ormai fin troppo vicino per darsela a gambe, ma non poteva neppure soccombere e dichiararsi sconfitta, senza neppure controbattere.
«Dovresti prendere esempio da lui», fu la sua replica tagliente. Voltò il capo e immerse i suoi occhi severi nelle pupille limpide di malvagità di Luke.
«Sono iperprotettivo, cosa posso farci?», esclamò con tono ilare, prima di allungare una mano in direzione dei capelli scuri di lei. «La famiglia è ciò che ci resta, dopotutto».
Sharon chinò il capo all’indietro e osservò, indignata, la figura meschina di Luke. «Tu sei morboso, non credo che iperprotettivo sia il termine da utilizzare soltanto per pulirti la coscienza».
Non si schernì, bensì il sorriso si allargò. «Parliamo di coscienze sporche?», ammiccò, tentando di scavalcare gli strati che sommergevano la vita di Sharon. Luke aveva la capacità di scrutarti e smascherarti nello stesso istante ed era ciò che a Sharon meno piaceva. La differenza tra lui e David era abissale, non avrebbe mai immaginato che potessero condividere lo stesso DNA, a immaginarsi lo stesso contesto familiare. A dire il vero, ripensando alla figura composta e impassibile di Jonathan Baker, la questione di chi fosse figlio, adesso non le sembrava così ambigua.
Sharon lanciò uno sguardo in direzione dei falò accesi, la figura di David era scomparsa e si era mimetizzata con le decine di cappellini sfoggiati in una danza attorno al fuoco.
«Ti do un consiglio, Marshall», il tono tagliente di Luke le mozzò il fiato, la vicinanza fu eccessiva, tanto che il suo respiro le squarciò la pelle. «Attenta a ciò che fai, con chi lo fai e come lo fai. Ho occhi e orecchie ovunque e tutto ciò che dico non è soltanto per intimidire: sarà fatto».
Quella minaccia per niente velata rimase a tenerle compagnia, anche quando la solitudine l’avvolse. I passi di Luke furono ovattati dalla consistenza della sabbia e un brivido le colse le ginocchia, fino a farla cascare per terra. Si sentì vulnerabile, scoperta agli occhi di chiunque e a stento si riconosceva. Dov’era finita Sharon? La Sharon che combatteva, la Sharon che contrattaccava, la Sharon che alzava il mento e sorrideva, pur sapendo d’aver torto. Crescere significava perdere tutto ciò che si era? Non lo sapeva, eppure il suo inconscio la spingeva verso David. Per quanto potesse essere pericoloso, non aveva intenzione di fuggire. Non per il momento.
 
***
 
David strizzò gli occhi e cercò d’acquistare maggior visuale. Camminava lungo la battigia da ormai venti minuti e rimpianse di non aver calzato un orologio al polso quella sera. Girovagava per la spiaggia con un ciondolo al collo e due bottiglie di birra tra le dita. Come se Sharon avesse mai potuto berla. Sapeva quanto poco sopportasse quell’odore, eppure aveva quasi avuto bisogno di quell’appoggio, come se l’alcol avesse potuto levigare la sensazione di smarrimento che stava provando in quel momento. E cosa avrebbe provato, quando l’avrebbe trovata dinanzi a sé?
Il peso delle piume sul capo provocava degli sbalzi d’aria tra i capelli, il vento accompagnava il suo passo ovattato e quasi credette d’essere impazzito, quando notò una figura esile venirgli incontro.
Strabuzzò gli occhi e portò una bottiglia alla tempia, per grattarla nervosamente. Man mano che la distanza colmava, i suoi occhi disegnavano il contorno della figura e riconobbe dei lunghi capelli scuri, sciolti in balia del vento, una corona di piume sul capo e una vestaglia marroncina che fasciava appena le cosce. Riconobbe Sharon soltanto quando fu anch’ella ad alzare gli occhi, fino a quel momento tenuti sul manto d’acqua scuro. La sorpresa che lesse nelle sue pupille fu gioia per il proprio cuore, si trattenne dal saltellare in maniera indecente soltanto perché era abbastanza lucido da capire d’avere una reputazione da salvare. Le rivolse un sorriso, prima d’adombrarlo con una finta serietà.
Sharon si strinse le braccia al petto e lo raggiunse con pochi passi. Entrambi si fermarono l’uno di fronte l’altro, l’altezza che li distingueva era alquanto buffa, così David, con qualche neurone consumato dall’alcol, si chinò sulle ginocchia e alzò il mento per osservare una Sharon turbata.
«Cosa si prova a essere i più alti?», le domandò, soffocando a stento una risata.
Era certo che Claire avesse corretto il punch. Un attimo, non c’era del punch sul tavolo da buffet. Allora quante birre aveva bevuto?
Era certo di averne bevuta una soltanto, in compagnia di Claire. Una sola.
«Credo che si provi l’identica cosa d’essere ubriachi marci», replicò la mora, osservando con attenzione le bottiglie di vetro tra le sue mani. Si allungò per strapparle dalla sua presa, risultò molto facile in realtà e sbarrò gli occhi, con disappunto.
«E’ questa la tua idea di festa?», si trattenne dall’inserire Claire in quel discorso, in fondo era stata lei l’organizzatrice e fino ad un attimo prima era in sua compagnia.
«No, ma pensavo che ti avrebbero aiutato con l’isteria», faticò per rimettersi in piedi, quasi cascò sulla spalla di Sharon, ma riuscì a reggere l’equilibrio.
«Le hai bevute entrambe, non vedo come mi avresti potuta aiutare se non con un travaso di stomaco», sbottò, agitando le bottiglie di birra, ormai prosciugate.
David sussultò appena, sconvolto dalla notizia: possibile che durante il tragitto avesse sentito il bisogno di consolarsi con una birra? O meglio, due, ma non era il numero a fare la differenza, talvolta.
L’affermazione di David diede da pensare a Sharon che l’avesse inquadrata dunque, durante la festa, per avere l’idea malsana di raggiungerla con una coppia di birre. Il pensiero le regalò un breve luccichio, che venne sommerso dall’immagine barcollante di David.
«Sei ripugnante», sbuffò lei, portando una mano attorno al suo fianco.
«Sono sexy», biascicò lui, con un mezzo sorriso.
«Certo, come no», asserì la mora, trattenendosi dal lanciarlo in acqua per svegliarlo da quello stato parassitario.
L’idea la colpì in pieno viso, fu quasi tentata di farlo, ma desistette.
«Un uomo con una birra in mano che sbraita contro una partita di football, per te non è sexy?», domandò il biondo, quasi fosse una domanda adibita a una ricerca scientifica, per la serietà utilizzata.
Sharon si aprì in un breve sorriso. «Ci credi davvero?»
«E’ un falso mito?», sibilò l’altro, stravolto dalla verità rivelata.
La ragazza tentò di trascinarlo verso il centro abitato, ma David continuava ad opporsi, senza muoversi neppure di un passo.
«Non so chi l’abbia messo in circolazione», cercò di spintonarlo, ma l’unico risultato fu un grande rantolo sulla sabbia. Il tonfo fece alzare della polvere e Sharon si ritrovò a starnutire, in una posizione fin troppo compromettente per i propri ormoni.
David si aprì in una risata, nonostante il lieve dolore alla schiena, e cinse i fianchi della ragazza come se si trattasse di routine. Non si accorse neppure della debole scossa che s’impossessò delle sue dita, non appena prese confidenza con la sua pelle, né tantomeno Sharon si accorse del piacere che procurò a se stessa, con quella vicinanza eccessiva. La punta dei loro nasi quasi si strofinò e nessuno dei due si scansò. Il cuore palpitò nella gabbia toracica d’entrambi, quando David, immerso negli occhi della mora, si aprì in una forte risata.
«Hai un…», ridacchiò così forte che un colpo di tosse gli scombussolò il petto.
La ragazza inarcò un sopracciglio. «Un?»
«Neo!», esplose l’altro, ridendo a più non posso.
Sharon scivolò al suo fianco e l’impatto con la sabbia le diede l’idea della carne impanata.
David rideva senza un motivo ben preciso. Sharon poco sopportava quel suo stato incosciente, ma l’unica cosa che poteva fare – oltre a soffocarlo – era riportarlo in condizioni integre fino a casa.
«Ehi, ehi. Dove vai?», esclamò turbato David, non appena Sharon si mise in piedi.
«Dove andiamo, vorrai dire», ribatté l’altra, con voce perentoria.
David osservò la mano tesa da Sharon e, dopo qualche attimo di silenzio, l’agguantò, per poi trascinarla su di sé. Un sorriso di vittoria aleggiò sulle sue labbra carnose e gli occhi luccicarono, quando si posarono su quelle rosse di Sharon.
«Ti sfido».
Due parole che echeggiarono nella notte estiva, ma che sconvolsero il suo cuore.
Sharon svincolò gli occhi di David e scosse il capo. «Non possiamo, David».
«Certo che possiamo», rispose, costringendola a guardarlo. Il tono poco serio tradiva le sue intenzioni, avrebbe voluto farle capire che stava alle sue condizioni, pur di averla accanto, ma non riuscì a dirlo. «Giochiamo, no?»
«Non quando tu sei ubriaco!», trillò Sharon, gli occhi appena sgranati e le labbra dischiuse per la scossa appena subita.
«Sono lucidissimo», proferì David, tentando di restare in piedi. Il cappello di piume ormai giaceva al suolo, in compagnia del cappello di Sharon.
La ragazza trattenne uno sbuffo e portò le braccia contro il petto. «Che razza di sfida vuoi propormi in queste condizioni? Soltanto una follia!»
David osservò Sharon in un primo istante, dopodiché portò l’attenzione sull’acqua dell’oceano. Rabbrividì al sol pensiero di quanto fredda potesse essere e un secondo dopo aveva già lasciato cadere sulla sabbia la camiciola sbracciata che aveva indossato quella sera prima d’uscire. Gli occhi della ragazza si sbarrarono non appena comprese le sue intenzioni, fece un passo in avanti per bloccarlo, ma David, nonostante tutto, ebbe migliori riflessi e si scansò, marciando spavaldo verso il pelo dell’acqua.
«David!», urlò la mora.
Il ragazzo ruotò appena la testa e le sorrise. «Ti sfido a raggiungermi in acqua!», fu la sentenza, un attimo prima di tuffarsi col capo sott’acqua.
La sensazione delle ossa ghiacciate lo scosse in profondità, gli occhi chiusi e il cervello completamente svuotato lo aiutarono a dimenticare tutto ciò che l’aveva turbato negli ultimi giorni. Riemerse, portando con sé il carico della vita, della concretezza, delle paure. L’acqua graffiò sulla sua pelle nuda e rabbrividì vistosamente, osservando la figura di Sharon che restava immobile lungo la battigia, con i pugni serrati lungo i fianchi e un’espressione incolore sul viso.
David, ripreso dal torpore iniziale, mosse le braccia nell’acqua. Era convinto che, muovendosi, avrebbe dato calore al corpo o, quantomeno, si sarebbe abituato. Eppure, l’idea di avere Sharon tra le sue braccia, stringerla e inalare il suo profumo, rendeva poco attive le sue cellule. Sapeva che la ragazza era abbastanza testarda da non dargliela vinta, ma avrebbe giocato qualsiasi carta per ottenerla al suo fianco. L’aria fredda aveva contribuito a risvegliarlo completamente, ma decise di giocare la carta dell’ubriaco fin quanto poteva fruttare.
Di fatto, notando la compostezza di Sharon, David reagì di conseguenza. Smise di canticchiare una canzone dalle parole inesistenti e finse di chinare il capo nell’acqua. Lentamente, sparì sotto il manto scuro dell’acqua e trattenne il respiro fin quanto gli fosse concesso.
Sharon, dalla riva, notò l’azione di David e, pur non avendo alcuna intenzione di cedere, ricordò che il ragazzo non aveva le facoltà mentali adatte per distinguere un dito dall’altro, figuriamoci un pericolo! Non sfilò neppure l’abito, si tuffò a pesce e nuotò laddove aveva osservato David scomparire. Non appena arrestò il respiro, si rese conto che David neppure vi galleggiasse: era stato completamente risucchiato.
Trattenne il respiro sufficiente e immerse gli occhi nell’acqua scura, l’impatto glieli fece richiudere immediatamente, ma ebbe forza necessaria per riaprirli e osservare il buio totale. Tornò a galla, dopo qualche attimo di ricerca, e sentì l’ansia regnare sul suo autocontrollo.
D’improvviso, qualcosa si appigliò alla propria caviglia, sbarrò gli occhi, presa in contropiede, e agitò le gambe, cercando di mirare alla riva. La sagoma di David comparve alle sue spalle e la soffocò in un abbraccio, fino a portarla sott’acqua. Quando entrambi riemersero, Sharon tossicchiava, avendo ingerito parte dell’acqua dell’oceano, mentre David ridacchiava, soddisfatto delle sue azioni deplorevoli.
Attonita, la mora osservò distrattamente il profilo di David. Aveva la bocca impastata di salsedine, gli occhi gonfi e rossi a causa della sua idiozia cronica e le ossa congelate. Con l’ira sovrana, si scagliò contro la sagoma divertita di David, lo riempì di schizzi d’acqua, fino a quando David simulò una resa. Lasciò che Sharon si rilassasse, prima di arpionarle i fianchi in una morsa salda e rubarle il respiro con sbuffi d’acqua incessante. La ragazza cercò di divincolarsi, fino a quando dei colpi di tosse non fecero desistere il biondo.
Fu un attimo, un semplice attimo in cui i loro sguardi si scontrarono e brillarono, per la loro complicità. David chinò le labbra verso le sue, le sfiorò, quasi timoroso che potesse tirarsi indietro. La ragazza rimase immobile, al suo tocco delicato. Sentì un calore divampare nel proprio petto e portò una mano dietro la sua nuca, mentre il bacio prendeva spessore. Pelle contro pelle, labbra che s’inseguivano, si aggrappavano l’una all’altra, che assaporavano la vicinanza e ne desideravano ancora e ancora.
Quel bacio privò entrambi della lucidità, i corpi iniziarono a cercarsi, in maniera placida. David percorse la schiena di lei quasi con tocco assente, come se temesse di spezzarla. Sfiorò il suo fondoschiena e sorrise sulle sue labbra, pensando di non aver toccato nulla di così perfetto. Sharon, dal suo canto, trattenne un brivido d’eccitazione, assaporando le sue mani sulla propria pelle. Carezzò il suo petto scoperto e il fiato cominciò a mancarle.
Talmente avvinghiati e proiettati verso un altro mondo, neppure si accorsero del vociare insistente che si avvicinava alla spiaggia.
Fu un urlo a ridestarli.
Entrambi sbarrarono gli occhi e voltarono il capo verso il falò acceso. Un ragazzo reggeva in aria un cappello di piume e lo volteggiava; non aveva l’aria propriamente lucida, per cui immaginarono che fosse più in là che di qua.
«Al mio tre…Scatenate l’infe-erno-o!», il tono sguaiato e poco mascolino avrebbero provocato le loro risa, se non fossero stati così attenti a capire cosa sarebbe accaduto di lì a poco.
Gruppi di persone reggevano in aria delle povere vittime, completamente vestite, che venivano portate verso l’acqua ghiacciata dell’oceano. Per quanto fosse Estate, restava pur sempre mare aperto e le correnti fredde non risparmiavano nessuno. L’impatto con l’acqua fu devastante: una per una, le ragazze venivano gettate in acqua come fantocci e i gridolini di disappunto riempirono l’aria. Un faro si accese in direzione dei ragazzi in acqua, un ragazzo impugnò il megafono e simulò l’urlo tipico indiano.
«Tutti in acqua!», gridò, incoraggiando i compagni ad abbandonare la lucidità.
Sharon osservò la vita attorno a sé e tornò alla brutale realtà. Le persone ridevano, scherzavano. Vivevano.
E non in un assurdo gioco di cui erano i fautori. Avevano stipulato loro stessi le regole e ne stavano rimanendo sommersi.
Ci fu un singolo istante in cui entrambi si osservarono negli occhi, taciturni. In singolo istante nel quale capirono che anche quel momento rubato era terminato. Scansarono gli sguardi e ognuno si separò dall’altro.
«Sei abbastanza lucido per tornare a casa da solo?», gli chiese a quel punto, buttando lo sguardo sulla battigia. Lì, con le ginocchia strette al petto, sedeva Claire Handler, con gli occhi rivolti nella loro direzione e l’amarezza dipinta nel cuore.
Sharon ricordò il discorso di Luke, ricordò il tono utilizzato e proiettò nella propria mente l’immagine di Claire, sorretta dal braccio di David, in un futuro di cui non avrebbe mai preso parte. E se Luke avesse avuto ragione? David non poteva aspirare un gioco dalla vita e non era ciò che gli augurava.
David, dal suo canto, osservò le persone attorno a sé, ma non era certo di guardarli davvero. Nella sua testa, l’unica faccia rappresentata era quella di Sharon. Le lanciò uno sguardo interrogativo quando gli pose quella domanda e faticò a caprine il motivo. Quando ci arrivò, si avvicinò di qualche centimetro e le rivolse uno sguardo attento, colmo d’aspettativa. «Non ne sono molto certo».
Sharon distolse l’attenzione da Claire nel momento in cui anch’ella incrociò il suo sguardo. Si sentì colta in fallo, ebbe quasi timore di un confronto con lei, ma ciò che la destabilizzò fu l’affermazione di David. Ne colse il significato, ma fu decisa a stroncarlo.
«Te la caverai».
Gli lanciò una breve occhiata, colma di rimpianti, prima di dargli le spalle e avanzare verso la riva.
La mano di David scattò rapida verso il suo polso. Sharon bruciò per quel contatto e il cuore le salì in gola. Ebbe timore di voltarsi e scrutarlo, perché aveva la netta sensazione che, se fosse rimasta ad osservarlo per più di un istante, non avrebbe più avuto il coraggio di lasciarlo andare.
David non parlò, si limitò a sfilare una corda di cuoio dal collo e porgergliela. Aveva inciso nel legno un triangolo con la punta rivolta in basso a destra. Sharon si chiese cosa potesse significare ed era sicura che avrebbe presto cercato quel significato, ma David lasciò andare la presa e, con essa, la pace che aveva invaso il corpo di Sharon.
La ragazza gli lanciò uno sguardo indefinito, prima di dargli le spalle e nuotare verso la riva. Emerse dall’acqua e si diresse nella direzione opposta di Claire. Non avrebbe retto uno scontro con lei, neppure un semplice saluto.
Si strinse le braccia al petto ed ebbe la forza di non voltarsi indietro, con la speranza che David stesse lì, ad osservarla. Alzò lo sguardo verso la luna piena e assimilò il suo contorno etereo, prima di salire le scalinate. Fu allora che notò la figura scura di Luke, avvolta nella penombra del falò, che accompagnava la sua passeggiata.
Sharon rabbrividì appena, non immaginava d’essere osservata in maniera così attenta, ma mantenne lo sguardo fiero e non gli prestò alcuna attenzione.
Cadde in tentazione, prima d’abbandonare la spiaggia. Si soffermò all’uscita e scrutò il mare, ricolmo di persone intente a giocare tra loro. Il dettaglio che stonava si fece presto vivo dinanzi i suoi occhi.
Quando Sharon si rese conto di David, sorretto da Claire, a riva mare, tornò a porgere l’attenzione su Luke, che restava nell’ombra a godere tacitamente della propria vittoria.
Perché sì, Sharon doveva ammetterlo: Claire era tutto ciò che lei non era.

 
 
 
 
 
If you have a minute.
Posso quasi sentire la melodia della marcia funebre!
Ogni tanto rispunto, come i funghi.
L’altro giorno ho avvertito una forte nostalgia, per cui ho aperto il file word di Sharon e David e ho percepito un richiamo. Così si sono scritti da soli ed io sono qui soltanto per riportarli da voi!
Questo capitolo è stato scritto in pochissimo tempo, forse perché l’ispirazione patteggiava per me o perché le idee erano già ben chiare; resta di fatto, che avrei voluto giungesse tutto il prima possibile.
Sono curiosa di capire cosa ha suscitato in voi il bel Luke Baker. È il suo debutto nella storia e posso assicurarvi che non si mischierà nell’ombra, anzi, sarà un personaggio piuttosto attivo, di tanto in tanto; il giusto per rovinare o ristabilire un equilibrio!
Lo so, come sempre sono poco chiara, mi piace spesso contraddirmi e ci riesco alla perfezione XD
Ringrazio tutti voi, cari lettori, che mi date modo di proseguire su questa strada. Ringrazio voi che leggete, che apprezzate, che lasciate un vostro giudizio: è acqua preziosa per il mio mulino!
In caso siate interessati, questo è il link del mio Gruppo Facebook, dove chiunque è il benvenuto!
Ecco, adesso posso anche dedicare il resto del pomeriggio – perché sì, fino alla settimana scorsa per me era notte fonda a quest’ora(viva l’esagerazione) – all’ozio più puro e vi auguro di poterlo trascorrere nella mia stessa identica maniera.
Prima di abbandonarvi, lascio il link di una shot che ho scritto, partecipando ad un contest indetto su Facebook dalle ragazze del gruppo “Tutte per Una…” – vi consiglio di passare, è un gruppo gestito davvero bene! – e sarei curiosa di capire se, nonostante lo stile adottato e la tematica scelta, possa piacervi. Avverto che è una lettura un po’ complessa, giusto per avere la coscienza pulita. XD
Inganno.
D’accordo, ritorno nel mio angolo di mondo. Attendo vostre opinioni, saranno sempre ben gradite, e ringrazio ancora tutti i coraggiosi che sono arrivati a leggere queste ultime cavolate finali. ♥
Crì.

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Capitolo 8
*** Light Denim# ***


Se mi sfidi, ti bacio.

 



 

Ancor piùdolce è il bacio sognato quando lui ti manca.

 
 

Nessuno avrebbe mai presagito un simile destino, per una giornata cosìsolare, come quel Lunedìmattina.
Una telefonata squilibròl’intero assetto settimanale, disintegròsicurezze e infranse la falsa tranquillitànella quale si erano crogiolati fino ad allora.
Lo stesso David, quella mattina, frastornato dalle poche ore di sonno concessegli, aveva barcollato fino alla cornetta del telefono e aveva biascicato parole sconnesse. Il pianto trattenuto di Emily Baker lo allarmònel momento piùopportuno.
«Ti passo la mamma», aveva proferito in quel modo, non si era sbilanciato piùdel dovuto, privo d’emozioni. Aveva pigiato il numero 5 sulla tastiera e aveva lasciato che il telefono in camera dei propri genitori squillasse, per assimilare la notizia da sé.
David agganciòla cornetta e sprofondòtra i cuscini del divano di pelle. Tamburellòsul manico e rimase in attesa, un’attesa che lo privòdi qualsiasi emozione.
Quel lunedìdi sole macchiòla famiglia Baker.
Dopo due ore esatte da quella telefonata, quattro membri della famiglia erano saltati su di un taxi per raggiungere il piùvelocemente possibile l’aeroporto. I volti contratti dal dolore e dall’angoscia avevano abbandonato quella dimora per raggiungere la fonte della propria disperazione.
E David aveva deciso di non prendere parte a quella farsa. Nessuno provava dolore per quella perdita, perchénon era affatto una perdita. Era certo che, alla lettura del testamento, una guerra si sarebbe innescata affinchéognuno mettesse in pratica il proprio egoismo. E David non avrebbe retto dinanzi a tanta mancanza di rispetto.
Per quanto non avesse mai provato ammirazione nei confronti di Nathaniel Baker, non sarebbe mai stato tanto avido e ipocrita da presentarsi al suo capezzale, soltanto per accalappiarsi la propria eredità.
Aveva sempre ritenuto morto da tempo suo nonno e quel giorno per lui era soltanto divenuto una data da affibbiare a quel concetto.
 
***
«Non siete obbligati a partire», Sharon era distesa sul proprio letto e leggeva una rivista sulla fauna marina e aveva interrotto la lettura per via dell'intervento rivolto alla sorella.
«La mamma dice che sarebbe maleducato restare a casa», proferìAnne, dondolando le gambe dal grande materasso.
«La mamma dice tante cose», sbottò, osservando l’immagine di un delfino intrappolato.
«Tutti diciamo tante cose», ribattéla bambina, lisciando l’abitino bianco, dai merletti neri.
«Molte potremmo risparmiarcele anche, sai?»
Anne osservòla sorella maggiore e le rivolse uno sguardo curioso. «Tu non vuoi venire?»
«Non lo conoscevo neppure, sarebbe ipocrita visitare qualcuno al proprio funerale», Sharon esibìspallucce e tornòad occupare il tempo, sfogliando la propria rivista.
«Neppure io lo conoscevo», Anne scattòin piedi e si portòdinanzi lo specchio, osservòla treccia che Susy, una delle cameriere di fiducia, le aveva fatto quella mattina in soli due minuti. Era talmente abile con le acconciature che Anne ogni giorno le chiedeva di usare i suoi capelli come cavia.
«Le persone vanno onorate da vive, ricordatelo».
«Lo ricorderòal tuo funerale», le regalòuna linguaccia breve, prima di sussultare, quando bussarono alla porta della camera.
Meredith Marshall comparve nella sua eleganza, indossava un cappellino nero che copriva parte del capo e un tailleur sobrio che esprimeva il suo disappunto nel prendere parte a quella che reputava una farsa. Ma, avendo un nome importante, i Marshall non potevano rifiutarsi di prendere parte ad un evento che avrebbe potuto fruttare anche sul settore economico. In fondo Nathaniel Baker aveva preso parte alla vita di suo marito e il minimo era presentarsi al funerale.
«E’arrivata l’automobile», annunciòla donna, osservandosi discretamente attorno. «Immagino continuerai a sostenere quanto sia ipocrita partecipare a quest’evento, per cui non insisterò. La casa potrai benissimo gestirla da sola, in questi due giorni», le rivolse quel commento con rigiditàe Sharon non si aspettònulla di più.
Si limitòal silenzio, scrutòcon attenzione l’immagine della barriera corallina e desideròdi potersi teletrasportare lì, convinta che fosse una distanza perfetta da sua madre.
Anne trotterellòin direzione della madre, salutòcon la manina la sorella e uscirono di scena, lasciando Sharon in balia dei propri pensieri.
Non aveva mai chiesto abbastanza informazioni a suo padre riguardo Nathaniel Baker. Sapeva soltanto che fosse il nonno di David, nonostante non scorresse buon sangue, la famiglia si ostinava a recitare una farsa, agli occhi dei giornali, per mantenere integro il nome della societàBaker. Eppure, era convinta che i genitori non avessero intenzione di partecipare al funerale dei Baker per rispetto degli affari: sapeva che c’era dell’altro sotto, ma avrebbe atteso il ritorno del padre per chiedere maggiori informazioni, anche se non era dato per scontato che il padre avrebbe risposto alla sua curiosità.
Ciòche Sharon si chiedeva era se David fosse partito con i genitori. Era suo nonno, per quale motivo non avrebbe dovuto?
Ricordòl’ultima volta in cui si erano visti e avevano potuto approfittare del momento di vicinanza. Erano trascorse due settimane, l’estate era inoltrata e il tempo da trascorrere insieme si era dimezzato. Sharon aveva timore di contare quanti giorni mancassero alla partenza; la cosa buffa era che, tempo addietro, utilizzava un pennarello rosso per eclissare i giorni mancanti a qualunque attivitàle emozionasse il cuore. C’era stato un tempo in cui, al liceo, aveva davvero contato i giorni mancanti a Settembre, per intraprendere un nuovo cammino, abbandonare Newport Beach e tutto ciòche essa rappresentava, per dimenticare persino cosa potesse significare il cognome Marshall. Era divenuto un marchio, per l’intera vita trascorsa nei banchi di scuola, chiunque la guardasse, sapeva di doverci andare cauto con lei, e non perchétemesse Sharon di per sé, ma per via del suo cognome.
Era intenzionata a ricominciare da zero, ma dopo aver conosciuto David, aveva paura di farlo.
Inclinòla testa e lanciòuno sguardo all’angolo di parete completamente decorato con ritagli di giornale, cartoline di acquari vari e una sua fotografia al centro, in compagnia dei delfini. Ricordava ancora quel giorno, trascorso in un parco acquatico, dove aveva avuto l’onore di nuotare insieme ai delfini e di farsi scattare una fotografia. Probabilmente era stato lìche aveva capito quale fosse la sua vocazione. E all’epoca aveva soltanto dieci anni.
Sua madre non tollerava la presenza di animali in casa, non poteva di certo ammettere la sua intolleranza, bensìdoveva nascondersi dietro false allergie che non esistevano néin cielo néin terra. Sharon aveva bisogno di realizzarsi e probabilmente quella scelta di vita era stata presa proprio in base a ciòche stava vivendo e che aveva vissuto fino a quel momento. Intraprendere la carriera di veterinaria le era sempre piaciuto, da bambina pensava di poter divenire un’insegnante apprezzata e ben retribuita, poi aveva altalenato tra chef mondiale e avvocato dalla ricca fama. Eppure, dalla prima volta che trovòun cagnolino zoppicante nel parco di fronte la scuola, capìd’avere un dono nei confronti degli animali e che sarebbe stato sprecato, se l’avesse soppresso.
Sharon si alzòe camminòlungo la stanza, fino ad arrivare al marmo della finestra. Vi si sedette e gettòuno sguardo verso la camera di fronte, che sapeva per certo fosse di David. Negli ultimi tempi spesso sedeva in quella posizione, in attesa di vederlo spuntare, anche solo di passaggio. Men che meno quel giorno avrebbe atteso la sua figura, era certa che fosse partito.
Sospiròrattristata e decise d’uscire per prendere un po’d’aria, restare in casa, per lo piùda sola, poteva soltanto corroderle il cervello. Non appena diede le spalle alla finestra, dalla casa dirimpettaia David Baker si soffermòalla propria finestra e gettòun occhio verso la camera di Sharon.
 
***
Nel tempo libero, Sharon intraprendeva le vesti di dog-sitter. Quel giorno, avendo tempo da occupare ed essendo sola, aveva deciso di rallegrare quella giornata di sole, passeggiando per il parco, in compagnia di due simpatici cani, l’uno maschio, l’altro femmina. La padrona, una vecchietta di almeno sessant’anni, si era ben raccomandata di tenerli l’uno distante dall’altro, affinchénon ci fossero gravidanze inaspettate. Sharon era certa che in sua presenza non sarebbe avvenuto nessun accoppiamento tra i due, avrebbe avuto gli occhi aperti come due pozzi. O almeno, era quello che avrebbe voluto.
Passeggiòper il parco con tranquillità, osservòpadre e figlio agitare un aquilone nel cielo, origliòil discorso di qualche madre frustrata che raccontava per via telefono tutte le disgrazie della propria vita e invidiòper un istante una ragazza distesa all’ombra con un libro poggiato in grembo. In fondo avrebbe potuto farlo anch’ella, ma aveva deciso di rendersi utile e prendere dimestichezza con gli animali non poteva far che bene, nel suo caso.
Riportòi cani alla padrona soltanto qualche ora dopo. Era stata puntuale e soprattutto magnanima, rifiutando la parcella che la donna voleva darle. Un’altra volta, le aveva risposto.
Lungo la strada di ritorno, era immersa nei propri pensieri, da non accorgersi del cambiamento di tempo. Il cielo azzurro scomparve dietro grandi nuvole e immaginòche un temporale estivo non l’avrebbe scampato nessuno. Con un movimento rapido, s’infilònel supermercato lìdi fianco e osservòle prime gocce d’acqua cadere su Newport Beach con una certa frenesia. Sospiròe agguantòun cestino, prima di mirare ai corridoi semi affollati. Infilòqualche oggetto di routine, certa che le sarebbero serviti in quei due giorni di solitudine, e aggiunse al tutto una scatola di gelato alla vaniglia. Si avvicinòalla cassa, quando ricordòd’aver dimenticato il tè. Ruotòsui tacchi e si diresse al reparto bibite, scrutòcon attenzione gli scaffali, quando delle voci giunsero alle sue orecchie, presentando l’arrivo di alcune sue coetanee.
«Pensavo che a un funerale non si facesse baldoria», affermòla rossa, dalle innumerevoli lentiggini sul volto.
«Infatti non èun funerale. Lui non ci èandato», replicòasciutta la bionda. Una ciocca blu spuntava tra la folta chioma, ma Sharon tentòdi non fissarla con fin troppo interesse.
«E quindi dàuna festa. Non ha molto senso», la rossa portòun dito alle labbra, confusa.
La bionda invece sbuffò. «Cosa c’èda capire? Ha casa vuota e vuole spassarsela senza i suoi. Non credevo ti facessi tanti problemi per birre gratis».
«Dove c’èbirra, ci sono io», esclamòl'altra con emozione.
Sharon si trattenne dallo scuotere la testa, amareggiata. Possibile che non si avesse un po’di tatto? Insomma, si trattava pur sempre di un funerale e…
Sharon corrugòla fronte e osservòle ragazze che muovevano i passi verso la cassa. Fu quasi decisa a pedinarle, quando la figura di Claire Handler comparve come per incanto e le si serrarono le ginocchia. La bionda sorrideva spensierata e osservava con attenzione un’immagine proiettata sullo schermo del cellulare. Non si accorse di Sharon fino a quando non le andòcontro, quasi le cascòdi mano l’attrezzo e sospirò, poichénon accadde. Alzògli occhi e s’imbatténelle pupille scure della mora. Fu quasi sorpresa di trovarsela davanti, ma ancora piùsorpresa per ciòche Sharon portava al collo.
«Bella collana», biascicò, cercando di sostenere un tono neutro.
«Già», fu la risposta monocolore di Sharon.
Le ragazze dietro di loro si fermarono non appena riconobbero la voce di Claire e le andarono incontro. «E’vero che stai organizzando tu la festa di questa sera?»
Claire inarcòun sopracciglio. «Quale festa?»
La rossa lanciòuno sguardo allarmato all’amica di fianco. «A casa Baker. Non dirmi che non ne sai niente! Ne parla tutta la città!»
Ebbe l’impulso di scappare per raggiungere David e riempirgli la faccia di schiaffi. Come si poteva essere cosìinsensibili?
Claire rimase perplessa. «Sono stata questa mattina a casa loro per dare le condoglianze. Mi ha aperto il maggiordomo dicendomi che erano partiti per il funerale».
La rossa saltellòsul posto. «David èrimasto e organizzeràquesta festa. Questa sera non tardare, ci saràda bere!»
Le ragazze sparirono in un altro corridoio e sia Sharon che Claire rimasero assorte nei loro pensieri, fino a quando non fu Sharon a spezzare il clima di tensione. Posòil cesto per terra e schizzòverso l’uscita, non prima d’aver udito Claire chiamarla.
Non aveva tempo per starla a sentire, doveva agire prima di dimenticarsi cosa dire.
 
***
Il campanello suonava ininterrottamente e David non aveva alcuna intenzione di abbandonare la postazione presa. Tra le dita aveva una sigaretta accesa, mentre la TV trasmetteva I fantastici quattro, un film che poteva conoscere a memoria per quante volte l’avesse visto.  Aveva congedato il maggiordomo, dopo la visita di Claire, e aveva preso la decisione di distrarsi. Restare in quella casa, da solo, era stato il peggior errore che avesse mai potuto commettere e se n’era reso conto troppo tardi. Aveva inviato qualche e-mail e la notizia si era ben presto diffusa: era questa la potenza dei social-network. Non c’era niente di piùefficace di qualche amico, birra e ragazze smaliziate per distrarre  la mente. Fin quando non fosse calata la notte, avrebbe vissuto come uno spettro in quella casa: non voleva nessuno che gli ronzasse attorno.
Inspiròla nicotina e la lasciòandare con uno sbuffo, quando il campanello riprese a suonare. Evidentemente lìfuori qualcuno era abbastanza cocciuto da lasciarci attaccato il dito tutto il giorno. David cercòd’ignorare quel rumore e sembròvincere quella battaglia, quando qualcosa picchiettòcontro il vetro della veranda. Sbuffò, infastidito, e decise di risolvere la situazione, a modo suo. Avrebbe preso a pugni chiunque l’avesse infastidito e poi sarebbe tornato sul divano, in stato passivo.
Non appena scostòle tende, si ritrovòdinanzi il volto irritato di Sharon e capìche non sarebbe stato cosìsemplice liberarsi di lei, figurarsi scaraventarle un pugno in faccia. Non si sarebbe fermata nemmeno dinanzi a quello e David ne era completamente intimorito. Lasciòla veranda chiusa e ruotòsui tacchi, tornando ad appollaiarsi sul divano, mentre Sharon picchiettava contro il vetro. Il ragazzo sospiròe chiuse gli occhi, alzando il volume della TV. Avrebbe anche potuto bussare tutto il giorno, ma non si sarebbe arreso. Il rumore del vetro infranto lo riportòalla realtà. Sbarròle pupille e balzòin piedi, notando i cocci di vetro sparpagliati sul suolo. La sagoma di Sharon comparve da dietro le tende, agitate dalla lieve brezza estiva, e la osservòcompletamente stravolto.
«Cosa c’èche non va in te, si puòsapere?», le urlòcontro, scrutando con eccessiva parsimonia il vetro disintegrato e  una sedia da sdraio capovolta sul tappeto.
«Non mi hai dato altra scelta», soffiòla ragazza, con sguardo tagliente.
«Sìche te l’ho data: di andartene a casa e farti i cazzi tuoi!»
David era decisamente alterato, eppure Sharon non si smosse. Portòle braccia sotto il petto e assottigliòlo sguardo, notòla sigaretta tra le sue dita e si avvicinòper sfilargliela via. David si ritrasse e ringhiòtra i denti. «Se sei venuta qui per fare la bacchettona, puoi anche risparmiarti la paternale e tornartene da dove sei venuta».
«Quanto sei gentile oggi».
«Non farlo. Non puoi essere sarcastica dopo avermi sfasciato una finestra».
«Tu potevi anche aprirla quella maledetta porta, ti pare?», gracchiòSharon, con la gola secca.
David la prese alla sprovvista: l’afferròper le spalle e la scaraventòcontro il muro. Gli occhi saettarono verso i suoi e vi lesse tutto tranne che David. Si sentìquasi cascare per terra per quanto fossero intensi i suoi occhi, ma il ragazzo non le diede via di scampo.
«Dannazione, Sharon. Èquesto quello che ti piace fare? Entrare nella vita della gente e stravolgerla in continuazione? Non mi conosci, non sai come sono e cosa faccio, come voglio reagire in determinate situazioni e non hai alcun diritto di spaccarmi una finestra soltanto perchédevi avere un argomento di pettegolezzo davanti al caffècon le amiche. Mettitelo in testa, non hai alcun diritto sulla mia vita, perciòtienitene fuori perchénessuno ti ha invitata», sibilòquelle parole con una cattiveria inaudita, la voce era corrosa dalla rabbia che si era irradiata nella sua pelle, tanto che Sharon ebbe l’impressione di avere dinanzi a séuno sconosciuto. Non lo aveva mai visto in quel modo, neppure quella volta che ebbero una discussione per via di Claire. Era diverso, poteva notarlo, poteva sentirlo.
Per un breve istante, nei suoi occhi tornòun bagliore familiare, sembròrendersi conto d’aver esagerato, ma si scansòe le diede le spalle, con l’invito silenzioso di lasciarlo da solo.
Sharon decise di non demordere, sapeva di aver giàtoccato il fondo, spaccando quella finestra, ma almeno era riuscita ad ottenere la sua attenzione.
«E’cosìche reagisci ad un lutto, David? Organizzando una festa?», esclamòla ragazza in preda all’ansia. Non aveva idea di come avrebbe potuto reagire, ma non se ne sarebbe andata fino a quando non l’avesse visto distrutto o quantomeno provato da quel lutto.
«Ho bisogno di gente attorno», ribattéaspro.
«Potevi chiamarmi», fu l’unico sussurro che uscìdalle sue labbra.
In quel preciso istante, Sharon si accorse d’aver detto piùdi quanto volesse. Avrebbe dovuto tappare la bocca e il cuore, avrebbe dovuto soffocare le emozioni e lasciare che fosse la ragione a gestire il discorso.
David non diede a vedere quanto quell’affermazione l’avesse addolcito improvvisamente, sentire la sua voce e quelle parole, cosìdeboli, ma vere, gli fece provare l’impulso di abbracciarla forte, ma restòimmobile, sul divano, a terminare la sigaretta.
«Disdicila», tentòancora la ragazza, avvicinandosi. «Bastano un paio di telefonate».
David non replicò, si limitòad osservare un punto indistinto nella stanza, mentre Sharon cercava il suo cellulare.
«Non hai bisogno di nessuno per scacciare via i pensieri», sussurròpiùa se stessa, in realtà. Trovòil cellulare di David sul tavolino di vetro e trafficònella sua rubrica, quando lo stesso ragazzo reagìe glielo strappòdi mano. La afferròper un gomito e la spintonòverso la porta principale. Sharon si dimenò, speròcon tutta se stessa che non la sbattesse fuori di casa, ma David rimase impassibile. Aprìla porta e la scaraventòall’esterno. I suoi occhi erano spenti.
«Non sprecarti a venire stasera», prima che Sharon potesse replicare, la porta le si chiuse davanti la faccia.
 
***
 
La musica echeggiava tra le mura di casa Baker. Le persone si distribuivano in diverse zone della sala, chi sul divano, chi sul pianoforte, chi sul tavolo da pranzo. Bottiglie di birra erano sparpagliate lungo tutto il mobilio della casa, la cucina era divenuta una pattumiera per la presenza di bicchieri e piatti di plastica gettati alla rinfusa nel lavello e sul pavimento, mentre urla e schiamazzi si susseguivano al ritmo di musica.
David era affacciato al balcone, tra le dita una sigaretta e lo sguardo immerso nel cielo nuvoloso. Alle sue spalle, la musica tuonava tra le mura, ma non vi diede peso. Avrebbe sistemato il tutto l’indomani, l’importante era avere qualcosa a cui pensare, qualcosa che l’avrebbe distratto.
Tutto il pomeriggio aveva cercato di dare un senso alla proposta di Sharon, alla sua disponibilità, al fatto che fosse stata lìper lui, per una volta, senza bisogno di chiederle aiuto. Si era sentito un verme per il modo in cui aveva reagito al suo soccorso, ma non avrebbe potuto porvi rimedio. Portòalle labbra una bottiglia di Vodka rubata dall’ufficio del padre, era certo che mai se ne sarebbe accorto e che, anche se fosse accaduto, avrebbe dato la colpa al lutto improvviso.
E tutto quel trambusto era dovuto proprio a quello. Pur di non pensarci, aveva architettato una festa in tutto e per tutto, pur non partecipandovi. Si era reso conto troppo tardi che quel metodo aveva fallito lo scopo, ma ormai non poteva aspettare altro che passasse e che tutti tornassero a casa loro.
Buttògiùun altro sorso di Vodka e scrutòil cielo, in attesa di un cambiamento.
Al piano di sotto, Sharon vagabondava alla ricerca di David, ma di lui non vi era neppure l’ombra. S’imbattélungo le scale in una coppia seminuda che si accoppiava senza il minimo pudore, l’odore di alcol aveva impregnato le mura e Sharon dovette tapparsi naso e orecchie per ignorare ciòche accadeva dinanzi ai suoi occhi. Scavalcòla coppia e si guardòattorno una volta raggiunto il secondo piano. Al pian terreno c’erano soltanto alcolizzati con birra e canne tra le mani, non aveva visto un solo volto conosciuto e immaginòche David avesse amicizie un po’fuori dal comune. Aprìuna porta e ciòche si ritrovòdinanzi la spiazzòtalmente tanto che fu quasi costretta a cercare un bagno. Richiuse la porta con uno scatto e rabbrividì. Era certa che David non avesse manette pelose con cui giocare, quindi provenivano certamente dall’esterno.
Mosse dei passi in direzione di una seconda porta, contòfino a tre prima di aprirla e quando lo fece, socchiuse gli occhi. Rimase piacevolmente colpita quando constatòche fosse vuota. Un letto singolo si ritrovava lungo il muro, mentre, nell’angolo, un cavalletto reggeva un foglio bianco, da disegno. Si chiuse la porta alle spalle e si guardòattorno. Quando riconobbe il sorriso di David in una fotografia, capìd’essere entrata nella sua stanza. Le sembròquasi che non fosse vissuta. La scrivania aveva fogli sparpagliati in ogni angolo, matite prive di punta e qualche temperamatite rotto. Portògli occhi in alto e notòdelle mensole piene di fumetti. Fu tentata di sfiorarli con la punta delle dita, quando un rumore ridestòla sua attenzione: del vetro era caduto al suolo e si era infranto, provocando un tonfo brusco. Si precipitòin quella direzione e notòche quella camera fosse munita anche di balcone. Fu allora che si ritrovòfaccia a faccia con David, completamente ubriaco, con una sigaretta mezza spenta tra le dita. Il ragazzo si  ritrovòSharon dinanzi agli occhi e neppure la riconobbe, riuscìsoltanto a mettere piede in camera che si accasciòsul letto e si massaggiòle tempie.
«Smettila di girare», mugugnava, chiudendo gli occhi.
Sharon lo osservava senza avere la forza alcuna di muoversi. Improvvisamente la porta si aprìalle loro spalle e il viso trafelato di Claire comparve senza far presagire nulla di buono. NotòDavid in quelle condizioni e impallidìancor di più, si avvicinòin punta di piedi e gli carezzòla fronte. «Oh David!»
Sharon sembròquasi un fantasma, li osservava come un personaggio dietro le quinte, mentre loro dirigevano lo spettacolo sul palcoscenico. Claire carezzava il volto del ragazzo quasi con fare esperto e Sharon sentìuna fitta al cuore. Fece per sgusciare via, quando il tono severo di Claire la colpìcome una frustata.
«Fiducia, Sharon», sibilò, amareggiata.
Sharon le rivolse uno sguardo confuso. «Come?»
«Il ciondolo che porti al collo significa fiducia», esclamò, rivolgendole uno sguardo di fuoco. «Sono stata io a darlo a David, affinchéte lo regalasse. Perchévolevo provare a fidarmi di te, notando quanto lui tenga a te. Invece continui a deludere chiunque cerchi d’avvicinarsi piùa te. Possibile che lui debba sempre rimetterci per colpa tua?»
Sharon rimase folgorata, sia dalla rivelazione del ciondolo e da chi provenisse, sia per quel discorso che non aveva nécapo nécoda. Strinse le dita attorno al ciondolo, quasi tentata di gettarglielo ai piedi. Sentiva uno strano peso attorno al collo, si sentìsoffocare per l’intensitàdi quelle sensazioni, ma riuscìa soffermarsi sulle sue parole e rabbrividì.
«Non lo stai dicendo sul serio», replicòSharon, trafelata.
«Cosa?», domandò, arresa, Claire. «Cosa non starei dicendo? Che sei fin troppo cieca per renderti conto di quanto lui ti piaccia? O di quanto tu sia insensibile, nel capire che lui ète che vuole? Io non sto dicendo niente, Sharon, perchédici tutto da sola, senza bisogno dell’aiuto degli altri».
Una serie di schiaffi avrebbe fatto meno male. Sharon era consapevole del fatto che Claire avesse ragione, ma non era concepibile una cosa del genere. Provava talmente tanta rabbia nei suoi confronti in quel momento, nei confronti di Luke che le aveva inserito la pulce nell’orecchio, che ogni volta che li guardava insieme sentiva il cuore sgretolarsi.
David mugugnòparole sconnesse e Sharon si riprese. Senza proferire parola alcuna, sgusciòverso il piano inferiore, alla ricerca di un caffèda preparare. E una festa da terminare.
 
***
Tornòal piano di sopra che David aveva ripreso i sensi, in compagnia di Claire, ma sembrava dare di matto, tanto che la bionda sospiròalla vista di Sharon e si alzòin piedi. Osservòdistrattamente il caffèche la mora reggeva tra le mani e cercòle chiavi dell’auto all’interno della borsa.
«Ce la fai a metterlo a letto?», le chiese, una volta estratte le chiavi.
Sharon si limitòad annuire, mentre David si alzava e trotterellava verso il bagno, trascinando con séle lenzuola azzurre.
Si scambiarono uno sguardo d’intesa che duròappena un attimo. «Va’pure, ci penso io».
«Mi dispiace, Sharon», asserìla bionda. «Non mi sarei mai dovuta permettere di dire certe cose».
La mora scosse il capo. «E’tutto ok».
«Non lo è, ma apprezzo il tentativo». Le regalòun breve sorriso, prima di scomparire dietro la porta.
Sharon si massaggiòla nuca, prima di entrare nel bagno e notare David completamente accovacciato all’interno della vasca da bagno, il lenzuolo a coprirlo e gli occhi semichiusi.
«David?», lo chiamòdebolmente Sharon, ma il ragazzo scosse vistosamente la testa.
«Non urlare!»
«Non urlo», sussurròla ragazza, avvicinandosi debolmente. Si accovacciòal bordo della vasca e gli pose la tazza di caffèche l’avrebbe certamente aiutato. David dapprima scosse la testa, poi decise di assecondarla e bevve tutto d’un sorso, piegandosi in una smorfia di disgusto.
Nell’arco di dieci minuti David infilòla testa nel water circa cinque volte, Sharon lo sorresse e lo aiutòa lavarsi denti e faccia. Quando anche l’ultimo sintomo lo abbandonò, David non riuscìa trascinarsi fino in camera da letto e si accasciònuovamente nella vasca da bagno.
«Non rendermi le cose difficili», soffiòla ragazza, stremata dalla giornata decisamente pesante che aveva dovuto affrontare.
David le fece spazio e con gli occhi chiusi la invitòal suo fianco.
«Piantala, Dave. Hai un letto grande una piazza e mezza, perchédevi dormire in una vasca?», gli chiese in maniera retorica.
«Perchécosìposso sfidarti e baciarti».
Quell’affermazione la destabilizzò, non avrebbe mai pensato di sentirsi rispondere in quel modo e non poténegare a se stessa d’aver apprezzato.
«Non ne hai avute abbastanza oggi, eh?», gli chiese, tirando appena un lembo del lenzuolo, che David afferròe trattenne. La forza non gli mancava, nonostante tutto.
«Di te no».
Sharon sussultòsul posto per quell’ammissione. Il cuore le schizzòin gola e cercòdi soffocare il formicolio allo stomaco che le aveva  provocato quella frase. David le dedicòun debole sorriso e Sharon non potéresistere.
Lo raggiunse alle spalle e si accovacciò, poggiando il mento sulla sua spalla. E David fu talmente veloce che Sharon neppure se ne accorse: le loro labbra si legarono, combaciarono come due tasselli di un puzzle. Le loro lingue si rincorsero in un gioco armonioso che superòi dieci secondi, ma nessuno dei due sembròfarvi caso. Sharon portòle dita tra i suoi capelli e li strinse debolmente, mentre David si lasciava cullare dalle sue carezze dolci. Fu stordito dal profumo di lavanda che Sharon emanava  e la strinse di piùal suo corpo, mentre lasciava una carezza sulle sue gambe scoperte. Assaggiòla loro consistenza, le risalìe portòle dita al di sotto della maglietta leggera. La sua pelle scottòal semplice tocco e l’emozione fu talmente forte che il corpo reagìin autonomia. David si posizionòsu un fianco e il suo volto potéfinalmente assimilare i contorni di Sharon: le passòuna mano tra i lunghi capelli e giocòcon una ciocca; la spensieratezza che traspariva dai loro gesti, dalle loro sensazioni, dalla familiaritàche nasceva all’atto della loro unione, faceva di loro dei deboli. Non riuscivano a rifiutarsi, a starsi lontani, e, pur sapendo d’avere il fuoco tra le mani, accoglievano le bruciature, pur di non rinunciarvi.
Il trambusto al piano di sotto sembròterminare d’improvviso, la corrente sbalzòe Sharon pensòimmediatamente a Claire. Aveva completamente dimenticato che la casa fosse sommersa d’ubriachi e, per un singolo attimo, le parole di Luke le oltrepassarono il cervello. Vibròappena e fu in quel preciso istante che le sue labbra smisero di sfiorare quelle di David. Si ritrasse e chinòil capo, mentre il ragazzo tentava d’ingabbiare quanto piùossigeno possibile.
I pensieri vorticavano irrefrenabili, Sharon desideròspegnerli con la forza di un soffio, ma divenne arrendevole, cercando di concentrare la propria attenzione sul volto di David.
Fu quest’ultimo a irrompere nel silenzio. «Ho trascorso tutto il pomeriggio ad aspettare Justin», bofonchiò, massaggiandosi una tempia. Justin era un omino simpatico sulla cinquantina d’anni che si occupava di qualunque cosa e aveva contatti con tutta la città. Era stretto amico di famiglia e David aveva pensato di chiamarlo, contando sulla sua discrezione; e cosìera stato. Nell’arco di una giornata, la veranda era tornata al suo  esatto splendore e nessuno se ne sarebbe mai accorto.
«Sei fortunata che non abbia sporto denuncia».
Sharon si aprìin un breve sorriso e arrestòle dita, che volevano correre in direzione dei suoi capelli. David captòquel movimento soppresso e sospirò, affranto. Le rivolse uno sguardo ricolmo d’amarezza e gli occhi caddero sulle sue labbra dischiuse.
«Sono dispiaciuto per il mio comportamento», diede spazio ai suoi pensieri e li canalizzòverso la bocca, sperando che Sharon potesse apprezzare. «Volevi aiutarmi, anche se spaccare una finestra non rientrava nel pacchetto, soltanto che avevo bisogno di reagire in quel modo».
«Quale modo, Dave?», replicòschietta la mora. «Urlando contro il mondo d’aver bisogno di un ammasso di estranei ed alcol per superare la perdita di un familiare?», non trattenne l’aciditàdel proprio discorso, bensìsi convinse del fatto che potesse soltanto fargli bene, sentirsi dire com’era che stavano realmente le cose.
David arricciòil naso e osservòil soffitto. «Ho trascorso la mia infanzia con quell’uomo. Ho sempre pensato che potesse essere migliore di mio padre, ma èbastata l’entrata in societàdi Luke e i miei interessi per il disegno a fargli dimenticare d’avermi come nipote».
Sharon fu tentata di stringergli la mano. «Disegno?», fu l’unica cosa che riuscìad esprimere. Ricordòdel cavalletto nella camera, della sfilza di fumetti esibiti sulle mensole di legno e un sorriso dolce si impossessòdelle sue labbra.
David sembròimbarazzarsi, deviòlo sguardo della ragazza e puntòil lavandino bianco, come se avesse davvero qualcosa d’interessante. «Che scoperta».
«Per me lo è», ribatté, con un nodo alla gola. Claire sapeva di questa sua presunta passione?
David notòl’espressione turbata della mora e le riservòuna rapida analisi, prima di emettere un sospiro lungo e pesante. «Nella mia famiglia non esistono i sogni. Ognuno segue una striscia rossa, imposta dal cognome. Non posso permettermi néambizione nédesiderio per qualcosa che non riguardi il mondo d’affari Baker».
Sharon percepìuna nota d’astio in quel discorso e non potéche biasimarlo. Erano piùvicini di quanto pensasse, del resto neppure la madre era favorevole ai suoi studi futuri; ciòche peròdistingueva David da Sharon, probabilmente, era il fatto che il primo teneva fin troppo agli affetti familiari per poter dar  loro una delusione di quel calibro, mentre la seconda s’infischiava delle premesse del proprio cognome e desiderava soltanto allontanarvisi il piùpossibile, per acquisire una personalitàautonoma.
«Tu non vuoi, David», sussurròa quel punto la mora.
Il ragazzo inarcòun sopracciglio, preso in contropiede. «Lo pensi sul serio?»
«Altrimenti perchéne staremmo parlando?», contestòlei, il timbro calibrato. «Dopo quest’Estate, nulla saràpiùlo stesso. Avrai la vita nelle tue mani e potrai decidere cosa farne. L’hai detto tu stesso: di Baker ce ne sono giàabbastanza in societàe sono sicura che tuo fratello compensi per bene la tua assenza».
Quella frase venne fraintesa e Sharon se ne accorse soltanto quando David si rabbuiò.
«Lui compensa sempre tutto».
«Non intendevo questo», cercòdi porre rimedio, ma David le diede nuovamente le spalle.
«Nessuno lo intende mai», sbuffò, con voce stanca.
«Io non sono nessuno», il suo stesso mormorio la scosse. Portòle mani al petto e aggrovigliòle dita attorno alla maglia, sentendo il cuore perdere man mano battiti.
Reagìd’istinto, si aggrappòalle spalle di David e si accoccolòcontro la sua schiena. Il suo respiro la cullòe socchiuse gli occhi, sentendo il peso della vita gravarle sulla testa. Coprìentrambi con un lembo del lenzuolo azzurro e, senza soffermarsi sulle azioni, gli lasciòun bacio dietro la nuca, con una debole carezza lungo il braccio.
«Sai perfettamente cosa intendevo, David. Non farmelo dire», gli sussurròall’orecchio.
Il giovane non rispose, rimase immobile e Sharon pensòche il sonno avesse ottenuto il sopravvento. Poggiòla guancia contro la sua schiena e ispiròil suo profumo, con il forte impulso di abbracciarlo e non lasciarlo andar via.
«Resto qui, stanotte. Per te».
Certa che David fosse ormai tra le braccia di Morfeo, si lasciòandare a quel bisbiglio, a quella breve confessione che non lasciònulla al caso. Sharon stava smarrendo la strada, aveva perso i contorni di ciòche la circondava e lo stava facendo consapevolmente.
L’occhio cadde sul cielo sereno al di fuori della finestra: il temporale era passato, il blu era tornato. L’indomani sarebbe stata una bella giornata, o quantomeno, Sharon se lo augurava.
Chiuse gli occhi, lasciandosi trasportare dalla dolce sensazione che le provocava la vicinanza di David, mentre quest’ultimo, con gli occhi ancora sbarrati, aveva le labbra increspate in un mezzo sorriso, per quel sentimento che, sapeva, stava per essere smascherato.





 
If you have a minute.
So che non ho diritto alla parola, ma lasciate che vi spieghi un dettaglio fondamentale: è pur vero che non aggiorno da ormai mesi, ma questa storia è nata per essere una raccolta; non vi è alcun termine di scadenza, potrei anche decidere di troncare con questo capitolo come qualcun altro, perché alla fin dei conti si tratta di momenti. Ovviamente non è mia intenzione farlo e sono dispiaciuta per coloro che ripongono fiducia nei miei confronti e pazientano per leggere qualcosa di Sharon e David. Eppure avevo bisogno di farvi questa premessa, perché, per quanto mi dispiaccia, questa resterà ugualmente una raccolta di momenti e la mia priorità è la long-fiction.
Cercherò, in ogni caso, di pubblicare non ogni cinque mesi, questo è certo!
Chiudendo questa parentesi, spero che la vostra estate stia scorrendo per il meglio e vi auguro di trascorrere più tempo possibile nel relax più totale, perché il caldo è decisamente eccessivo in questi giorni e sento fondere tutte le rotelle del cervello >.< (tante che ce ne sono)
Bando alle ciance, questo è il mio Gruppo Facebook, dove siete sempre i benvenuti per domande e chiacchiere varie!
Ringrazio per la pazienza di coloro che avranno aperto questo capitolo dopo secoli di attesa :)

 

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Capitolo 9
*** 9. Pink Cotton Candy# ***


Se mi sfidi, ti bacio.


 
 

 
Bacio: l'arte di far star zitta la persona che ti piace.
 
 
 
 
 
Wilma Spencer sedeva al tavolo di fianco la finestra principale del Caffè e picchiettava la scarpa con una certa frenesia. Intravide la chioma castana di Sharon oltre la porta scorrevole e trattenne un sospiro estasiato. Le agitò la mano e Sharon le andò incontro, infilando le mani nelle tasche della camicia a quadri.
Wilma arricciò il naso, ma sottintese il suo disappunto: all’amica serviva una terapia a base di shopping.
«Caffè o tè?», le chiese, allungandole un menù dalla copertina color porpora.
«Non ho sete», replicò la mora, scrutando la sciarpa color giallo sgargiante al collo dell’amica.
«Non ti ho offerto della vodka», Wilma le strizzò l’occhio e agitò il cucchiaio nella sua tazza di tè ghiacciato.
Sharon sprofondò contro lo schienale della sedia e lanciò sguardi indifferenti alla sala gremita di gente. Non ricordava nemmeno l’ultima volta che avesse trascorso un pomeriggio in compagnia di Wilma, tanto che, aver ottenuto un invito da parte sua quel giorno, l’aveva stupita.
Non piacendole i giri di parole o i temporeggiamenti, andò dritta al sodo. «Cosa posso fare per te?»
Wilma sorseggiò il tè con tranquillità e sgranò gli occhi, per il tono indagatore dell’amica. «Evitare di puntarmi una lampadina in faccia sarebbe il primo passo, non credi?»
Sharon non fu dello stesso parere. Al Liceo le amicizie che si era creata erano prettamente a scopo beneficiario da entrambe le parti e non aveva mai avuto intenzione di coltivarle anche dopo aver terminato la scuola. Era pur vero che fino a qualche mese prima fossero ritenute persino inseparabili, ma la verità era ben diversa dall’apparenza.
«Ho da fare», mentì risoluta.
A quel punto, Wilma emise un sospiro e trafficò nella borsa, per poi estrarre una busta colorata. Gliel’allungò senza preamboli e gliela infilò sotto le mani incrociate.
«Inaugurano una fiera questa sera», spiegò.
«Lo so, ma non sono interessata», sfilò le dita e tirò indietro la sedia per abbandonare il campo; non avrebbe acconsentito a quella richiesta.
«Ethan sarebbe contento di vederti».
Sharon osservò la delizia negli occhi dell’amica, poiché sapeva d’aver toccato un nervo scoperto. Ciò che Wilma non sapeva ancora, era che ormai di Ethan l’era rimasto soltanto il lontano ricordo.
Ethan Russell giocava nella squadra di basket della scuola, quando sorrideva rispecchiava la luminosità del sole e amava fare terra bruciata attorno a sé. Sharon aveva avuto modo d’ustionarsi tempo addietro e aveva neuroni a sufficienza per tenersi alla larga da un secondo incendio.
Mentre rimuginava sulla risposta da dare a Wilma, pensò a David. Il giorno della festa era stato devastante, non soltanto per il vomito nel water, ma anche i sentimenti erano stati gettati fuori dal cuore e Sharon non aveva avuto modo d’affrontarlo con la giusta lucidità, poiché David l’aveva lasciata da sola in quella grande vasca da bagno. Soltanto in seguito era venuta a sapere che avesse preso il primo aereo per raggiungere la sua famiglia e prendere parte al funerale. I suoi genitori erano tornati la sera stessa e nessuno aveva aperto l’argomento sulla cerimonia.
«Sa dove abito», commentò Sharon, chiudendo l’argomento.
Wilma s’impuntò, allungandole nuovamente la busta, contenenti i biglietti dell’ingresso. «Permettimi il beneficio del dubbio, almeno».
Sharon le concesse una speranza, nonostante avesse già deciso. Infilò la busta in una tasca e le rivolse le spalle, rifilandole un saluto con un cenno del capo.
Wilma Spencer era un’ape: saltava di fiore in fiore per rifornirsi, mai per affezionarsi.
 
***
 
David bloccò lo skateboard sotto il piede e inarcò un sopracciglio.
«Ciao Claire», la salutò tra i denti, notandola correre nella sua direzione.
«Speravo di vederti», esclamò con il fiato corto e le gote arrossate.
«Per venire fino a casa mia, direi che è una cosa urgente», ironizzò il ragazzo.
«Sei appena tornato?», Claire abbozzò un sorriso, indicando lo skateboard.
«A dire il vero, stavo per andare», David fece spallucce e le indicò la casa alle spalle. «Di questi tempi l’aria a casa mia è più tossica del normale».
«Infatti volevo sapere se era tutto apposto, dopo il funerale…», balbettò la bionda, pur sapendo che fosse trascorsa ormai una settimana dall’accaduto, ma che di David erano completamente sparite le tracce.
L’occhio del ragazzo cadde sull’auto appena sbucata dietro la curva che sostò sul ciglio della strada. La portiera fu aperta e ne uscì Luke, vestito di tutto punto. David storse il naso alla vista di giacca e cravatta, ma fu quasi ripagato dal pensiero che fosse Luglio inoltrato e che il caldo dovesse soffocarlo, conciato in quel modo.
Claire non nascose il suo timore agli occhi del fratello maggiore e distolse lo sguardo dall’auto rossa fiammante. David sbuffo sonoramente, non appena constatò il sorriso sbarazzino di Luke.
«Da queste parti girano sempre le stesse facce», commentò sarcastico.
«Non potrei essere più d’accordo», borbottò David tra i denti, senza lasciare nessuna parola al caso.
Claire si mantenne in disparte da quello scambio di battute, ma Luke fece in modo che rimanesse estranea ancora per poco.
«A dire il vero, questo credo si chiami tempismo».
David percepì una scintilla negli occhi del fratello giusto in tempo per intercettarne il pensiero. Alzò il capo e scorse Sharon sull’altro lato della strada, pronta ad attraversare per tornare a casa propria. Erano giorni che non la rivedeva e improvvisamente dimenticò d’essere in compagnia di Claire e Luke, perché i suoi occhi erano su di lei, sulle sue gambe, sui suoi capelli ondeggianti. E quando le loro pupille s’incontrarono, capì quanto in realtà gli fosse mancata.
L’atmosfera fu smorzata dalle parole sinistre di Luke. «Ho dei biglietti per voi due, ragazzi», elargì ad alta voce, in modo che Sharon potesse udire a piene orecchie; e fu ciò che accadde.
«Immagino sappiate della fiera in città quest’oggi», proseguì imperterrito, estraendo dalla giacca una busta bianca, e commise l’azione giusta, porgendola ad una Claire attonita.
«Non c’interessa», sbottò prontamente David, sviando lo sguardo sulla figura di Sharon che aveva appena poggiato il piede sul marciapiede.
«Ci saranno alcuni stand universitari», infilò il dito nella piaga, allargando il proprio sorriso. «Claire sarà interessata».
La bionda sussultò e arrossì sulle gote.
«L’entrata è in coppia, il biglietto è per due», condì il tutto con un ultimo sorriso, dopodiché ruotò appena la testa in direzione di Sharon, che muoveva lentamente i passi. «Non vorrete perdere quest’occasione».
David strinse i pugni e, anziché fulminare il fratello, osservò le spalle irrigidite di Sharon e il labbro martoriato di Claire, per via dell’imbarazzo. Lasciò andare lo skateboard e si fiondò in direzione della mora, che si accingeva ad entrare nel suo viottolo.
«Non si saluta?», adottò una tattica differente da quella che aveva pensato e, nel momento in cui la ragazza si voltò, desiderò di tornare indietro.
«Eri impegnato», replicò asciutta.
«Adesso non lo sono», le si avvicinò di un passo.
«Ma io sì», le labbra di Sharon si piegarono in un sorriso derisorio: stava cercando di proteggersi.
«A fare cosa?», la provocò, i pugni serrati lungo i fianchi.
«Devo prepararmi», la mora lanciò uno sguardo fuggiasco in direzione di Claire, con le braccia incrociate e il capo chino verso i suoi piedi.
Tornò a fissare gli occhi di David e sentì l’adrenalina scorrerle nelle vene. «Ho un appuntamento questa sera».
Osservò una luce attraversare gli occhi di David e una seconda scarica pervase il suo corpo.
«Come?»
Sharon decise di non interpretare quell’unica parola, né tantomeno il tono che era stato utilizzato.
«Andrai alla fiera, no?», Sharon agitò la busta ripescata dalla tasca. «L’invito non lo hai soltanto tu».
Gli diede le spalle e percepì la tensione sciogliersi ad ogni passo.
David osservava la ragazza che si allontanava e permise al cervello di scollegarsi dalla bocca. «Con chi andrai?»
La mora sopraggiunse sulle scale di legno e un sorriso galleggiò sulla bocca rosea. «Lo scoprirai».
Lasciò David tra mille dubbi e, quando si chiuse il portone alle spalle, dovette poggiarsi al muro: le tremavano le gambe e non sapeva se per rabbia o delusione.
 
***
 
 
«Non hai voglia d’appartarti?»
Ethan Russell era come lo ricordava: superficiale e ossessionato dal sesso. Bastava captare l’unico sguardo che le rivolgeva per capire dove terminasse e, puntualmente, Sharon accostava la maglia sui seni per evitare un’autopsia completa.
Ancora non capiva come mesi addietro uscisse pazza per un simile gorilla; probabilmente gli ormoni avevano preso possesso del suo cervello.
Ethan allungò un braccio per cingerle le spalle e lasciò cadere le dita lungo il torace. Un brivido le colse la schiena non appena percepì i polpastrelli sfiorarle la parte scoperta dei seni e si scostò bruscamente.
«Sai di cosa ho voglia?», elargì con finto entusiasmo.
Gli occhi di Ethan s’illuminarono speranzosi.
«Di zucchero filato».
Si spensero con altrettanta velocità e, imprecando tra i denti, si allontanò verso il primo banchetto che potesse offrirgliene uno.
Sharon respirò a pieni polmoni e si allontanò velocemente da quell’area nociva. Aveva accettato con disperazione l’invito di Wilma perché non poteva permettere a David di divertirsi senza averla tra i piedi, per di più in compagnia di Claire. Non aveva ancora ben chiare le sue intenzioni ed era questo a spaventarla di più.
Scrutò attentamente ogni passante e soffocò il boato all’interno del suo stomaco. Le saltò alla mente il sorriso malefico di Luke e la fame svanì del tutto. Incrociò gli occhi smaliziati di Wilma, in compagnia del suo prode cavaliere, e provò pena nei confronti di quel povero ragazzo che ben presto avrebbe ricevuto un bel tre di picche.
Puntò ad una panchina semivuota e stette per sedersi, quando inquadrò Claire, con indosso un abito rosso, stretta al braccio di David. Improvvisamente desiderò d’avere Ethan accanto a sé per dimostrare a entrambi di non aver bisogno né dell’aiuto di una, né della presenza dell’altro.
Tempismo volle, invece, che fosse Claire a individuarla e agitare la mano nella sua direzione. Sharon maledì lo zucchero filato e l’idiozia cronica di Ethan Russell, prima di muovere le gambe verso la coppietta felice. Si mordicchiò un labbro e prese un respiro profondo, doveva essere pronta ad attaccare.
David si accorse di Sharon soltanto quando la raggiunse e sentì lo stomaco contrarsi alla vista di quel visino scontroso. Si permise d’esaminare la sua tenuta e gli si seccò la gola alla vista della scollatura, così come delle gambe fasciate da piccoli short neri. Non aveva bisogno d’eccedere per dimostrare la sua bellezza, anzi, David era certo che anche in pigiama di flanella gli avrebbe tolto il fiato.
Gli morirono le parole in gola, non riuscì a muovere la mascella di un millimetro, mentre Sharon lo fissava con una scintilla guerriera negli occhi. Claire, notando la tensione, si schiarì la voce e proferì: «Sharon, come sei bella questa sera».
La mora non si sprecò a contraccambiare i complimenti, così la bionda proseguì: «Hai visto quanti stand ci sono?»
«Non ho avuto modo di guardare molto», sillabò Sharon, lasciando sospeso il significato delle proprie parole.
David irrigidì i tratti del viso e la esaminò. «Si rimedia subito».
Sharon inarcò le sopracciglia e cercò di capire dove volesse arrivare con quell’insinuazione. Non appena David percepì il suo smarrimento, sorrise divertito e le suggerì di voltarsi. Sharon, seppur riluttante, obbedì e le si seccò la saliva per via dell’imponente ruota panoramica che s’ergeva sotto i suoi occhi.
«Da lì vedrai di tutto e di più», ironizzò David con tono tagliente. Le soffiò quelle parole all’orecchio e la tensione riaffiorò. Sharon sentì la pelle vibrare sotto il tocco del suo fiato e desiderò allontanarsi di dieci metri.
«Non ho intenzione di salirci», ribatté prontamente la ragazza.
David stette per infierire, quando una voce mascolina s’intromise nel discorso.
«Salire dove?»
Sharon impallidì alla vista di Ethan Russell, munito di zucchero filato, che le si avvicinava. Glielo porse con un gesto brusco e si sgranchì le braccia, prima di cingerle un fianco. Sharon incrociò gli occhi di David e fu lieta d’osservare ciò che scuoteva lei ogni qualvolta lo vedesse in compagnia di Claire.
Spezzettò lo zucchero filato e non chiese a nessuno di favorire. Ethan, dal suo canto, scrutò il biondo e si passò una mano sul mento, prima d’illuminarsi. «Luke Baker!»
«Sono David, non Luke», precisò subito l’altro con tono acido.
«Oh beh, comunque un Baker», minimizzò Ethan, gracchiando una risata.
Claire intervenne per smorzare la tensione. «Ho proprio voglia di marshmallow. Mi accompagni, Ethan?»
Sharon non seppe se essere grata nei confronti della bionda o semplicemente portarle maggior rancore. Non capiva perché talvolta sembrava schierarsi a suo favore e altre remarle contro, ma non gliel’avrebbe mai chiesto, avrebbe significato scendere in confidenza e Sharon non era ancora pronta a farlo.
In men che non si dica, Ethan fece spallucce e abbandonò il campo, scortando Claire lontano a sufficienza per lasciare Sharon nelle grinfie delle vertigini. David osservava le spalle di Ethan con la mascella contratta, ma, notando soltanto dieci secondi dopo d’essere rimasti soli, riempì d’aria i polmoni e soffermò gli occhi sul viso rigido della mora.
«Lo zucchero fa venire le carie», le strappò di mano il bastoncino e lo gettò nel primo bidone a portata di mano.
Sharon s’imbronciò immediatamente, ma non gli lasciò alcuna soddisfazione.
«Anche certe persone», ribatté prontamente e David captò l’antifona.
«Certe coppie sanno essere alquanto smielate, te lo concedo», precisò con un sorrisino, mentre si avvicinava alla biglietteria della ruota panoramica.
Sharon soffocò l’impulso di vomitare, ma rimase ferma sul posto. David la osservò e sfoderò la carta finale.
«Sharon, non te lo sto chiedendo», le ricordò. «Te lo sto imponendo».
La mora strinse i pugni e fu combattuta dall’istinto di mandarlo al diavolo e dall’orgoglio di dimostrargli quanto tenace fosse. Vinse l’ultimo e, a testa alta, gli si avvicinò. Al momento, il pensiero di baciarlo non l’allietava affatto, bensì se avesse potuto barattare un bacio con un pugno, avrebbe firmato persino un contratto per la vita.
«Una sfida è una sfida», mostrò un sorriso beffardo e gli passò avanti per salire per prima sulla piccola cabina a due posti. Deglutì, dandogli le spalle, e socchiuse gli occhi, con l’insulso presentimento che avrebbe allietato il terrore.
 Li riaprì non appena si sedette e le gambe presero a tremare in parallelo con le mani. David si sedette al suo fianco e sorrise, mentre l’addetto alla sicurezza chiudeva la sbarra per potersi proteggere.
«Stai bene?», non c’era alcuna premura nel tono di voce di David.
«Benissimo», così come non c’era nulla di veritiero nelle parole di Sharon.
«Si vede, hai un colorito fantastico», David infilò il dito nella piaga e si aprì in una forte risata non appena la ruota prese a muoversi. «Direi che sei piuttosto verdastra, quale sole hai preso ultimamente?»
Sharon cercò di prendere più ossigeno possibile ed evitare di rispondergli a dovere fu impossibile. «Il tuo vomito circa una settimana fa, non so se ricordi».
A quel punto, David la osservò senza derisione. Ammirò i suoi occhi, il suo colorito e il tremore delle sue mani. E desiderò baciarla, stringerla a sé e sussurrarle che niente sarebbe andato storto, in sua presenza.
Eppure sapeva che Sharon non avrebbe apprezzato; probabilmente, in quel preciso istante gli avrebbe vomitato sulla maglietta, un po’ per la vertigine, un po’ per aver tastato un nervo scoperto.
«Ethan Russell», cambiò argomento. «Perché?»
Sharon soffocò nella sua stessa saliva e si schiarì la gola bruscamente. «Perché così mi andava».
«Non sparare stronzate», l’ammonì severo. «L’hai fatto per ripicca».
David iniziava ad essere tanto perspicace quanto irritante e Sharon non poteva reggere entrambe le cose. Non aveva alcuna voglia di sentirsi accusare di una cosa, sì vera, ma alquanto stupida. In fondo se non fosse stato per colpa sua, non avrebbe mai chiesto ad Ethan Russell di accompagnarla quella sera,  né si sarebbe trovata su una stupida ruota panoramica a osservare tutta la sua vita sotto gli occhi.
«Avevo voglia di fare sesso», sbottò invece.
David rise. «Con quello lì?»
«Ci vanno tutte con lui», borbottò la mora, voltandosi dall’altra parte per non guardarlo in faccia.
«Ecco perché non ci credo», David si portò le mani dietro la nuca e si mise comodo. Sharon inorridì soltanto al pensiero di poter imitare quella posizione e deglutì, facendo il conto alla rovescia dei secondi trascorsi lì su.
«Non mi conosci evidentemente», balbettò l’ultima parola e chiuse gli occhi si scatto.
Era sul punto di buttarsi di sotto, almeno quella tortura sarebbe terminata.
David si mosse impercettibilmente e poggiò una mano sulla sua. Sharon sentì il calore della sua pelle e rabbrividì. Eppure si lasciò cullare da quella sensazione piacevole e si mordicchiò un labbro, con il cuore in subbuglio.
David chinò il capo nella sua direzione. «Hai ragione, non ti conosco», le soffiò sulla guancia, pacato. «Ma come lo spieghi questo?», le lasciò una carezza sul braccio e Sharon reagì, rabbrividendo.
«E questo», le sue labbra partirono a setacciarle il collo. Il contatto fu estremo e la pelle s’infuocò. Non aveva capito quanta tensione ci fosse tra di loro fino a quel momento, dove, in un frangente così delicato, tutto riusciva a pensare tranne che alle vertigini.
David le alzò il mento e s’incastrò nei suoi occhi. «O questo», fu appena un mormorio, dopodiché si osservarono silenziosi e lasciarono parlare al cuore.
Le loro labbra si avvicinarono, bramose di ricongiungersi, e Sharon dimenticò l’altezza, la leggera brezza che le provocava la pelle d’oca e la gelosia latente che l’aveva scossa per l’intero pomeriggio. David le strinse il viso tra le grandi mani e sfiorò le sue guance con i polpastrelli.
Smisero di baciarsi soltanto quando il biondo desiderò guardare i suoi occhi scuri.
Sharon gli strinse improvvisamente la mano e mai emozione sembrò più giusta di quella. Si avvicinò nuovamente alle sue labbra morbide e David non si tirò indietro; accolse la sua bocca calda e lasciò che Sharon gli dimostrasse ciò che stava celando dentro di sé nei suoi confronti.
Tornarono a guardarsi negli occhi e Sharon neppure s’accorse della cabina sospesa in aria. L’altezza non era eccessiva, ma aveva vissuto sicuramente esperienze minori e se si fosse concessa quella debolezza, ne avrebbe risentito per tutta la vita. David fu abile a catturare del tutto la sua attenzione con un terzo bacio, l’attirò contro di sé e la baciò con più ardore, mentre le mani scorrevano sulle spalle, le braccia, i fianchi.
Il bacio terminò nel momento in cui la cabina si scosse e riprese la discesa. Sharon sbarrò gli occhi, ma non li portò verso il basso. David le lasciò una tenue carezza sulla guancia e le abbozzò un sorriso. «Imparerò a conoscerti, Sharon».
Quelle parole suonarono come una promessa e fu la serietà che impiegò nel discorso a maciullare il cuore della ragazza, in balia di sentimenti mai provati prima. David si stava aprendo con lei, cercava un punto d’incontro, un passo avanti e non poteva tirarsi indietro, perché era ciò che voleva.
«Credo d’essere già a buon punto», sorrise divertito, mentre le sfiorava il ventre per risalire verso i seni.
Battagliera, Sharon prese un respiro e si tirò indietro di qualche centimetro, mentre la cabina s’avvicinava al terreno. «Invece sei completamente fuori strada».
David corrugò la fronte e tirò indietro la mano, capendo soltanto in quell’istante di quanto fosse stato stupido quel gesto. Sharon si voltò dall’altro lato e, pur avendo detto il contrario, aveva ormai imparato alcuni suoi tratti. Ed era certo che l’avesse frainteso, con quella carezza. David non voleva darle l’impressione d’essere attratto semplicemente dalle sue forme, ma era l’unica che Sharon avesse ricevuto. Doveva rimediare.
La cabina si assestò e Sharon schizzò fuori alla velocità della luce. David la seguì e le afferrò il polso. La ragazza lo linciò, per nulla arrendevole.
«Soltanto perché ti ho detto che avevo voglia di fare sesso, non significava che rientravi nei miei interessi», sibilò la mora con tono tagliente.
David si trattenne dallo sbuffare. «E vorresti farmi bere la storia di Ethan Russell?»
«Almeno lui mi ha preso lo zucchero filato», si difese.
«Ti accompagnerò dal dentista, tranquilla», David fu incolore.
«Non ne ho bisogno!», sbottò la mora. «Come non ho bisogno d’essere toccata per sentirmi realizzata», Sharon aveva elaborato la situazione in maniera fin troppo ampia e aveva permesso alla bocca d’enfatizzare ancor di più il concetto.
David strabuzzò gli occhi. «Non l’ho mai pensato», ammise, sincero.
Sharon gli riservò uno sguardo intenso e l’adrenalina si sciolse. Non le fu permesso di replicare poiché la voce delicata di Claire interruppe la loro discussione.
«Com’è stato il giro?», reggeva tra le mani uno zucchero filato sul procinto di terminare e le labbra erano completamente imbrattate di zucchero appiccicoso.
«Fantastico», replicarono in coro.
Ethan Russell non accompagnava la bionda, così aggiunse. «Ethan si è allontanato».
«Meglio per lui», non aveva alcuna voglia di farci i conti.
Sharon guardò l’orologio, poi gettò uno sguardo in direzione di Claire e lo stomaco ne risentì. La bionda ricambiò lo sguardo, seppur perplessa. «Come tornerai a casa?»
«Con le gambe», fece spallucce e si aggiustò la maglia.
«Non pensarci nemmeno», David estrasse le chiavi dalla tasca. «Sono dieci chilometri».
«Camminare fa bene», sibilò la mora, fulminando il ragazzo.
«Non di notte», l’accostò, dopodiché si rivolse a Claire. «Ho visto le tue amiche prima».
«Tornerò con loro, non ti preoccupare», agitò le mani per rassicurarlo e gli riservò un sorriso, per poi rinvolgersi a Sharon. «Lo capisco».
La mora non si ribellò, attese che David le facesse un cenno, ma l’arrivo imminente di Luke cambiò la situazione.
«La serata è già finita?»
Sharon rabbrividì dal nervosismo, mentre David gli rivolse appena un’occhiata. «Fatti miei».
«Wow-wow», Luke alzò le mani, in segno di resa. «Vengo in pace».
«Non si direbbe», fu l’intervento di Sharon.
«Non abbiamo tutti secondi fini», Luke esibì un sorriso viscido che stuzzicò il nervosismo del fratello.
«Allora gira al largo».
Luke si grattò la nuca con fare disinvolto, indossava dei jeans scuri e una camicia grigia. Vederlo in tenuta sportiva era una rarità, o quantomeno lo era per chi non era solito imbattersi in Luke al di fuori del contesto lavorativo.
«Credo che quello che ho da dirti, t’interesserà. Immagino che stavate andando al parcheggio», Sharon sapeva che ogni parola uscita dalla bocca di Luke suggeriva soltanto guai.
David incrociò le braccia al petto. «E allora?»
Il fratello sorrise armonioso. «Sono appena arrivato e la tua macchina è stata portata via dal carroattrezzi», gettò quella bomba con tranquillità, mentre David strabuzzò gli occhi, sorpreso.
«Ma l’ho parcheggiata nelle strisce», cercò conferma negli occhi di Claire, che si ritrovò immediatamente ad annuire.
«Evidentemente a qualcuno dava fastidio», si finse turbato dall’avvenimento, dopodiché si rivolse a Sharon. «Se hai urgenza di tornare a casa, posso accompagnarti io».
Il sol pensiero le serrò la gola. «Ho voglia di camminare».
David era combattuto: voleva evitare a Sharon di tornare al buio e da sola, ma, d’altro canto, se l’accompagnatore risultava essere suo fratello, probabilmente il marciapiede era quasi più allettante.
Fu Claire a dare la soluzione. «Chiederò a mio padre di darci uno strappo, voi potete raggiungere la centrale e riprendere l’auto».
David si passò una mano tra i capelli e fissò Sharon negli occhi. L’idea di lasciarla andare senza chiarire il discorso precedente lo attanagliava, ma qualcosa gli suggeriva che quel discorso non sarebbe stato più aperto.
«L’ho sempre detto che questa ragazza ha intelligenza da vendere», Luke sganciò un lieve pugno sulla spalla del fratello ed esibì un sorriso armonioso, prima di raggelare Sharon con un’occhiata. «Peccato che non esistano distributori dove acquistarne, vero Marshall?»
La mora contrasse la mascella e fu pronta a rispondergli a dovere, ma Claire la tirò per un polso e le sorrise appena. «Raggiungiamo mio padre allo stand della pizza. Buona serata, ragazzi».
David osservò gli occhi irritati di Sharon, ma si sentì impotente. La vide allontanarsi senza poter muovere un muscolo, anche perché sarebbe stato vano come tentativo.
Luke gli lasciò una pacca sulla spalla. «Vedi, l’intelligenza sta anche in questo: incassare il colpo e sviare l’argomento».
Gli diede le spalle e David tentò d’ignorarlo. Sharon si voltò prima di scomparire dietro uno stand di caramelle, lanciò un’occhiata tra la folla e s’imbatté negli occhi rabbuiati di David.
E pensò che quella era un’ingiustizia: degli occhi così belli avevano il diritto di splendere, non d’essere oscurati da una nube di nome Baker.
 



 
 
If you have a minute.

*si schiarisce la voce*
**avverte l'odore della polvere da sparo ma non vede i cannoni**

***cerca uno scudo con cui proteggersi***
Caro popolo di EFP. Sono passati anni dall'ultima volta che ho aperto questa fanfiction. Vi chiederete perché ho deciso di tornare adesso dall'oltretomba e importunare i vostri pomeriggi con questa apparizione mistica. Un motivo, in particolare, non c'è. Sapete come funziona quella pessima faccenda dell'ispirazione, no? Un giorno è lì con te che muove le dita al posto tuo e quello dopo ha fatto i bagagli e se n'è andata in giro per il mondo, lasciandoti con il blocco della pagina bianca.
Evidentemente, il mio subcoscio creativo ha deciso di darci un taglio con questa storia della vena creativa sabbatica e ha preso in mano le redini della situazione. (O, cosa più vera, l'ispirazione è tornata a casa).
Sono qui a implorare il vostro perdono con un nuovo capitolo. Non so in quanti lo leggerete, in quanti lo odierete (o me) e in quanti vi rifarete sentire. Ma in ogni caso, sappiate che capirò. 
Questa mattina mi sono svegliata pensando a Sharon e David, alla loro storia incompiuta e ho pensato di regalarvi un altro sprazzo della loro vita.
Lo so, sono passati anni da quell'ultimo capitolo, ma io sono tornata e spero che ci sarete anche voi, o chi di nuovo vorrà aggiungersi. C'è posto per tutti.
Un besos.
Vostra,
Crì.

 

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Capitolo 10
*** ANNUNCIO ***


ANNUNCIO:
Popolo di EFP, so che ne è passata di acqua sotto questi ponti e che forse il ruscello si è pure contaminato, ma sono qui per condividere con voi una lieta novella. 
Nonostante abbia sospeso o terminato le mie storie su questo fantastico portale che mi ha assistito per tanti anni, adesso sono qui a informarvi che sono tornata, ma con un progetto più serio: a breve uscirà un mio romanzo rosa in ebook, edito dalla Butterfly Edizioni, e sarei felice se voleste condividere con me questo momento.
Potete seguirmi su questa pagina facebook per tutte le info: https://www.facebook.com/cristinamigliaccioautrice/
Vi aspetto numerosi!
With love,

your Crì.

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