Wonderwall

di Ortensia_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I – Auguri di buon compleanno dal regno dei morti ***
Capitolo 2: *** II – Esiste un filo rosso ***
Capitolo 3: *** III – Vento di guerra sulle teste dei reietti ***
Capitolo 4: *** IV – Uccidere o morire ***
Capitolo 5: *** V – Di come appassiscono i fiori ***
Capitolo 6: *** VI – Stabilità e decadenza ***
Capitolo 7: *** VII – Trovarsi lì, dove la discordia si risveglia dal suo sonno ***
Capitolo 8: *** VIII – La lealtà di uno shinigami ***
Capitolo 9: *** IX – Mi aggrappo a te, come edera fragile su di un tronco ***
Capitolo 10: *** X – L'eroe del tempo immobile ***
Capitolo 11: *** XI – Nella tana del lupo ***



Capitolo 1
*** I – Auguri di buon compleanno dal regno dei morti ***


WONDERWALL


I


Auguri di buon compleanno dal regno dei morti




2 2   d i c e m b r e   2 0 1 6

S h i b a t a   p r e f e t t u r a   d i   M i y a g i



    Quella mattina aveva creduto che sua madre fosse morta. Se n'era convinto davvero, Tobio, quando, una volta uscito dalla propria camera, aveva trovato il resto della casa al buio, una pila di piatti sporchi nel lavello della cucina e il tubetto degli antidepressivi sul tavolo. Dopotutto era sempre sua madre la prima ad alzarsi, si svegliava molto presto per lustrare casa da cima a fondo.

    Era rimasto per almeno un paio di minuti in cucina, a fissare il tubetto bianco degli antidepressivi e a chiedersi quale fosse la scelta più saggia da prendere, poi – in realtà senza pensarci troppo – aveva fatto dietrofront ed era entrato in punta di piedi nella camera di sua madre.

    Aveva scorto le forme esili sotto le lenzuola chiare, illuminate a intervalli orizzontali dalla luce arancione dell'alba che filtrava attraverso le veneziane semiabbassate. Inizialmente non era riuscito a cogliere alcun fiato, così, fermo sulla soglia, si era sentito stringere il cuore e si era detto: “Ci siamo: mia madre è morta. Si è lasciata andare, o forse sono stati gli antidepressivi”, ma poi aveva scorto un leggero movimento e aveva tratto un sospiro di sollievo. Non riusciva proprio ad accettare l'idea che sua madre potesse fare la fine di una drogata, morire di una morte squallida come quella da overdose di farmaci.

    Se poco più di un anno prima gli avessero chiesto di ipotizzare la morte di sua madre avrebbe risposto che se ne sarebbe andata in tarda età, con il sorriso sulle labbra e senza rimpianti, perché per una donna premurosa e forte come lei non avrebbe mai potuto immaginare conclusione differente, tuttavia quella prospettiva era cambiata drasticamente con la morte di suo padre.

    Sua madre si era lasciata schiacciare dal dolore, si era licenziata dal suo incarico di segretaria presso uno dei migliori studi legali di tutto il Giappone e si era chiusa in un mondo di scope, detersivi e aspirapolvere a cui lui non poteva accedere.

    La madre che gli preparava la colazione intonando melodie sconosciute non esisteva più, adesso era solo uno scheletro vivo che consumava convulsamente antidepressivi, spugne e detergenti e che non aveva altri interessi all'infuori degli specchi lucidi o degli abiti stirati e ben stipati negli armadi. Instaurare un dialogo con lei era diventato praticamente impossibile.

    Tobio chiuse gli occhi, appoggiando il mento sulle mani congiunte, i gomiti saldi sul banco. Schiuse appena le labbra e sospirò piano, per poi risollevare le palpebre e osservare la lavagna, il sunto di una lezione che non gli interessava minimamente.

    Abbassò lo sguardo sul quaderno, soffermandosi sull'unica scritta che alterava la superficie immacolata della carta: era il suo compleanno. Il suo ventesimo compleanno e il secondo come orfano di padre.

    Ciò che lo avviliva di più era che sarebbe stata una giornata come tutte le altre: cinque noiosissime ore di lezione all'università, un pranzo sciatto, un pomeriggio chiuso in camera a occupare il tempo con un assortimento di attività improvvisate che ovviamente non avrebbero incluso lo studio e sei ore di servizio serale al pub, distante appena dieci minuti a piedi da casa sua. Non aveva amici che potessero festeggiarlo e con ogni probabilità sua madre non sapeva neppure che fosse il ventidue dicembre. O forse lo sapeva, ma tale data — come ogni altra da un anno a quella parte — non le comunicava più nulla.

    Quando risollevò lo sguardo molti degli studenti stavano già abbandonando i posti e il professore era intento a cancellare i segni del pennarello sulla lavagna bianca, lentamente e meticolosamente.

    Tobio sfiatò dalle narici, chiuse il quaderno e lo infilò con disattenzione nel borsone, dunque si alzò, recuperò il piumino appeso all'attaccapanni e uscì dall'aula senza guardare in faccia nessuno.

    Scese le scale della facoltà destreggiandosi fra borsone e piumino, riuscendo a indossarlo appena prima di raggiungere l'uscita: faceva anche più freddo di quando, alle sette del mattino, si era incamminato verso l'università. A giudicare dal cielo bianco non era da escludere la possibilità di una nevicata.

    Mentre schioccava la lingua contro il palato in segno di disappunto verso quel clima troppo umido, Kageyama riprese a camminare, lo sguardo basso, le spalle e la schiena leggermente ricurve e il borsone malamente imbracciato.

    Sotto il cielo bianco le costruzioni squadrate di Shibata — alti palazzi grigi alternati ad abitazioni basse di colore chiaro, verdi o di mattoni marroni — apparivano ancora più tristi del solito. Le strade erano vuote, ma oltre i perimetri dei parcheggi segnati da alte reti metalliche, auto di ogni genere e colore si affiancavano, per non parlare delle lunghe file di bici che, a intervalli irregolari, si trovavano allineate ai bordi dei marciapiedi.

    Tobio lasciò scivolare entrambe le mani nelle tasche del piumino, guardandosi intorno con circospezione, poi, dopo qualche istante di esitazione, estrasse una sigaretta.

    Non avrebbe dovuto fumare mentre camminava per strada, rischiava una multa salata, ma d'altro canto lo aveva già fatto e sapeva che in quel lasso di tempo le volanti della polizia si palesavano solo per le emergenze, per altro segnalando immediatamente la loro presenza tramite le sirene spiegate.

    Aveva comprato quel pacchetto di Winston Blue da dieci pezzi due settimane dopo la morte di suo padre, ripromettendosi che le sigarette al suo interno le avrebbe fumate solo nelle occasioni speciali e in effetti quella che si stava portando alla bocca in quel momento era soltanto la quinta nell'arco dell'anno.

    La sera doveva lavorare fino a tardi per ovviare alla falla economica creata dal licenziamento di sua madre, perché dopotutto i risparmi dei suoi genitori non erano poi molti e la retta universitaria comportava una spesa piuttosto sostanziosa, perciò aveva deciso di concedersi solo un pacchetto di sigarette all'anno. Le aveva rese un vero e proprio lusso, guardandosi bene dal consumarne tre o quattro al giorno come la maggior parte della popolazione.

    Non era sicuro che quel giorno potesse considerarsi speciale, ma ne aveva consumate meno del previsto e in quel momento sentiva di averne davvero bisogno. Il suo compleanno sembrava il miglior pretesto per giustificare una necessità che in cuor suo detestava – dopotutto non voleva che, come per sua madre, il suo umore e il suo benessere dipendessero da qualcosa di nocivo.

    Si guardò di nuovo intorno, poi strinse la sigaretta fra le labbra, soffiando appena. La sigaretta si accese pochi secondi dopo, senza che vi fosse bisogno di un accendino.

    Fumò a piccole boccate, perché quel momento potesse durare il più possibile, perché in quei cinque minuti potesse trovare nella nicotina una consolazione che la realtà oltre quella temporanea bolla di vapore non gli avrebbe mai concesso. Il fumo alleviava facilmente il suo dolore, gli permetteva di dimenticare la sua situazione, ma durava sempre troppo poco.

    Tobio svoltò l'angolo di un negozio di alimentari imboccando una via secondaria che si estendeva fra due caseggiati grigi, allietata a intervalli irregolari da piccoli giardini. Giunto al limitare di un vicolo, quello sempre in ombra ma non troppo lungo che lo separava da casa, spense la sigaretta contro la superficie fredda di un palo della luce e riprese a camminare, il mozzicone stretto nella mano destra.

    Dopo aver compiuto una decina di passi, Kageyama rallentò: c'era un silenzio surreale fra le alte mura delle case, una quiete mai manifestatasi prima di allora. Non si udiva un fischio di vento, né il cinguettio degli uccelli, i latrati dei cani, i motori delle auto o le grida entusiaste dei bambini del quartiere. Perfino a l'una di notte, quando tornava da lavoro, c'era più rumore di adesso.

    Assottigliò lo sguardo, continuando ad avanzare: c'era un'ombra proiettata sul muro alla sua destra e lui era ormai prossimo, seguendo l'imprecisa parabola del vicolo, a scoprire a chi appartenesse.

    La sua ombra si sovrappose a quella dell'estraneo, poi la sorpassò.

Kageyama si fermò, trattenendo il respiro. Si sentì stupido per aver immaginato un pericolo reale, oltraggiato da quel ragazzino con i capelli arancioni che, immobile, lo fissava senza battere ciglio.

    Non poteva negare che ritrovarsi i suoi occhi puntati addosso gli desse fastidio; in effetti l'altro lo fissava così intensamente che in un primo momento lo credette intenzionato a domandargli qualcosa, ma il ragazzino non si mosse, come se fosse pietrificato.

    Tobio cercò di passargli accanto, ma ecco che all'improvviso l'altro si spostò sbarrandogli la strada. La scena si ripeté una seconda volta, innervosendo ulteriormente Kageyama, che riuscì a sorpassarlo al terzo tentativo.

    Mentre si allontanava pensò che quel ragazzino doveva avere qualche rotella fuori posto. Non lo aveva mai visto prima di allora, ma non gli importava poi molto.

    «Kageyama Tobio.»

Kageyama si fermò immediatamente. Sentì il sangue gelarsi nelle vene.

    Si voltò lentamente, ritrovandosi di nuovo bersagliato dallo sguardo fermo e insistente del ragazzino.

    «Come sai il mio nome?» chiese a denti stretti, la fronte leggermente aggrottata.

    «So molte cose sul tuo conto.»

    Kageyama restò a fissarlo impietrito e confuso. Forse gli mancava davvero qualche rotella, ma restava comunque l'interrogativo del nome: come lo conosceva? Che quel ragazzo fosse un amico d'infanzia il cui ricordo era stato stipato in qualche angusto spazio dell'inconscio e del quale, di conseguenza, aveva dimenticato nome e aspetto?

    «È meglio se ti togli di torno» Tobio non aveva alcuna intenzione di fare a botte e a dire il vero avrebbe evitato volentieri anche lo scontro verbale, ma in quel momento cercò comunque di apparire più minaccioso possibile.

    «Oggi è il tuo compleanno, vero?» il ragazzo dai capelli arancioni sorrise, mostrando appena i denti. Kageyama, di contro, si sentì nuovamente gelare il sangue nelle vene.

    «O-ohi! Ma tu chi cazzo sei?! Uno stalker?!» sentì di non potersi trattenere ancora, così strepitò contro il ragazzo, arretrando di un paio di passi.

    «Sono una persona di cui puoi fidarti, Kageyama» il ragazzo restò impassibile: continuava a fissarlo e ancora non aveva battuto ciglio. «So quello che sei in grado di fare.»

    Tobio spalancò gli occhi, ritrovandosi a boccheggiare: voleva uscire da quel vicolo il prima possibile, ma allo stesso tempo non poteva negare una sana curiosità nei confronti di quello strano ragazzo, soprattutto dopo le sue ultime parole.

    «Tu mi sei destinato, Kageyama Tobio» il ragazzo tese il braccio destro verso di lui, indicandolo con l'indice.

    Kageyama avrebbe voluto crogiolarsi ancora nell'idea di aver avuto la sfortuna di incontrare un pazzo, ma più l'altro parlava più diventava facile convincersi del contrario: quel ragazzino era perfettamente lucido, sapeva quello che diceva e, a quanto pareva, anche molte cose sul suo conto.

    «Per voi umani sono Hinata Shouyou,» il ragazzo abbassò il braccio, increspando le labbra in un nuovo sorriso «ma nel posto da cui provengo sono uno shinigami


❋ ❋ ❋


    Kageyama gettò il borsone a terra e si stese sul letto, esalando un sospiro nervoso: si era allontanato in fretta dal ragazzo pazzo del vicolo, ma questo lo aveva inseguito blaterando qualcosa sul “regno dei morti”, così non ci aveva pensato due volte a sbattergli la porta in faccia.

    Forse era davvero pazzo. Insomma, come si poteva considerare sano di mente qualcuno che sosteneva di essere uno shinigami venuto da una dimensione parallela?

    Tobio alzò lo sguardo, soffermandosi sulla plafoniera spenta. Solo allora si rese conto di non essersi levato il piumino ed esordì in uno sbuffo esasperato: non aveva intenzione di rimettersi in piedi per toglierlo, lo avrebbe tenuto addosso ancora per un po', tanto faceva freddo anche dentro camera sua.

    Il suo stomaco brontolò vigorosamente, così portò una mano sotto i pettorali, come se la pressione del palmo avesse potuto arrestare le proteste interne del suo organismo.

    Sua madre stava preparando il pranzo e molto presto avrebbe bussato alla porta per esortarlo a uscire dalla stanza. Come previsto sembrava non aver fatto caso al calendario, aveva dimenticato che venti anni prima aveva dato alla luce il suo unico figlio, quello che diceva essere “un bambino speciale in grado di fare cose speciali”. Era stata una brava madre, si era impegnata per non fargli mancare nulla e soprattutto per non farlo sentire diverso, ma ora lo aveva completamente abbandonato a se stesso.

    In un certo senso i ruoli si erano invertiti: lui era l'adulto che faceva il possibile per darle un'esistenza dignitosa e lei la creatura debole, da proteggere e bisognosa della supervisione altrui. Era come se sua madre avesse disimparato tutto quello che aveva appreso in quarantasei anni.

    Tobio si coprì gli occhi con una mano e strinse i denti fintantoché le sue gengive non cominciarono a pulsare: per quanto ancora poteva resistere? C'era una possibilità di uscire da quella situazione? Aveva trascorso un anno in quella condizione, come cristallizzato nel tempo, ma la comparsa di quel ragazzino lo aveva indubbiamente scosso. La sua immagine stava risvegliando in lui la volontà di destare sua madre dall'incubo, strapparla dalle braccia della depressione, il desiderio di fare un altro tentativo senza temere di fallire ancora.

    Forse aveva fatto bene a fumare la quinta sigaretta del pacchetto: in qualche modo sentiva che il ragazzo del vicolo aveva reso il suo compleanno un'occasione davvero speciale, quella giusta per assumere un'insignificante eppure necessaria dose di nicotina.

    «“So quello che sei in grado di fare”, ha detto» Kageyama sussurrò a fior di labbra, scostando la mano dagli occhi e ritornando quindi a osservare la plafoniera spenta.

    Lo sapeva meglio di chiunque altro che non aveva senso pensare a quell'accadimento come qualcosa di surreale. Lui, meno di tutti, aveva il diritto di reputare pazzo un ragazzino che si autoproclamava shinigami.

    Nel mondo che conosceva niente era impossibile: lui stesso ne era un'inconfutabile testimonianza.

    Kageyama sollevò la mano sinistra e divaricò le dita. La osservò mentre la sovrapponeva alla plafoniera, concentrandosi sul forte calore al centro del palmo, poi, quando pensò fosse sufficiente, inarcò leggermente le dita.

    Una scintilla arancione crepitò nel ristretto spazio vuoto creato dalle sue dita, come un caldo raggio di luce fra i rami gelidi dell'inverno.

    Restò a osservare la piccola fiammella che ardeva sospesa a pochi millimetri dal palmo della mano, la testa affondata al centro del cuscino e gli occhi socchiusi, rassicurati da quel tepore luminoso che non poteva ferirlo in alcun modo.

    Tobio era un diverso ed era a conoscenza dell'esistenza di altri esseri come lui già da qualche anno, ecco perché non trovava del tutto assurde le parole che il ragazzino del vicolo gli aveva rivolto, ma cosa poteva volere da lui uno shinigami? Quel ragazzino era forse venuto a prendere sua madre?

    Le dita si ripiegarono sulla fiamma, che si spense immediatamente contro la pelle: sua madre aveva bussato. Il pranzo era pronto.




L'angolino della piantina autoritaria
(You should read this):

Buongiorno a tutti! Oggi sono molto felice perché finalmente riesco a pubblicare il primo capitolo di questo progetto molto insolito per me!
Scrivere le AU mi piace moltissimo perché mi permettono di spaziare con la mente e sviluppare trame molto diverse dall'opera originale (anche se ci tengo a precisare che i riferimenti all'anime/manga non mancheranno).
Ci lavoro da un bel po' di tempo, almeno tre mesi, ma attualmente sono ancora alle prese con il secondo capitolo, che è davvero molto lungo, perciò vi dico subito che pubblicherò un capitolo al mese (precisamente l'ultimo giorno di ogni mese).
Perché il secondo capitolo sia tanto lungo lo spiegherò (con qualche altra anticipazione), in pagina: Neu Preussen FB Page.
Se questo primo capitolo – che ha più che altro una funzione introduttiva – vi ha stuzzicati, vi consiglio di seguirmi su Facebook, visto che in pagina spenderò qualche parola in più su ogni capitolo in uno spazio apposito.
Per me questa fanfiction è un po' una sfida, dopotutto non ho mai scritto long a tema soprannaturale e non ho mai trattato il tema dei super eroi (o anti-eroi, altro argomento di cui parlerò in pagina).
Volevo provare a scrivere di questo argomento pur non essendo una grande fan del genere e credo che la spinta finale me l'abbia data l'ultimo film degli X-Men; quando poi mi è venuto in mente di fondere il genere con Death Note e Psycho-Pass mi sono convinta e ho cominciato a scrivere (ovviamente la storia non è una fotocopia di una delle tre opere citate sopra, ci sono solo degli elementi di richiamo e non è comunque necessario aver visto tutte e tre per capire, visto che nei primi capitoli verrà spiegata ogni cosa).
Come promesso, ora vi elencherò le coppie o gli accenni (intesi non necessariamente come relazioni amorose, ma anche come amicizia molto stretta o rapporti conflittuali) che troverete all'interno della mia long (non sono in ordine di importanza/frequenza).
Coppie: DaiSuga; KuroKen; BokuAka; OiKage; KyoYahaba; HinaYachi; AoMoni; TenSemi; TsukkiYama; TeruHana Accenni: KageHina; IwaOi; AkiteruYamaguchi; OiYahaba, EitaShirabu; UshiOi + eventuali altri che si presenteranno nel corso della storia).
Il prossimo capitolo dovrebbe essere pubblicato il 31 ottobre, ma visto che sarà tempo di Lucca Comics farò un'eccezione e lo pubblicherò il 26, in modo che possiate leggerlo prima della partenza o, magari, mentre siete in viaggio verso Lucca~
Detto questo, fino al 26 ottobre aspettatevi alcuni interventi riguardanti “WW” in pagina!
Un grazie di cuore a tutti coloro che sono arrivati fino a qui e soprattutto a chi sarà così buono da lasciarmi una piccola recensione di incoraggiamento~

EDIT 14/07/2020:
Buongiorno a chi legge nel 2020! Io sono ancora viva e sto cercando di resuscitare questa long ormai abbandonata da tempo.
Metto un edit qui per informarvi che sto revisionando tutti i capitoli fino ad ora pubblicati, correggendo qualcosina e soprattutto aggiustando l'HTML per rendere la lettura più "leggera", trattandosi di capitoli molto lunghi!
Per il resto mi farò sentire nell'angolo autrice del capitolo XII (sperando di pubblicarlo in tempi decenti!)

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Capitolo 2
*** II – Esiste un filo rosso ***


II


Esiste un filo rosso




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S h i n j u k u   p r e f e t t u r a   d i   T o k y o



    Sugawara stava finendo di sistemare le tazzine da caffè nell'apposito ripiano quando udì una serie di passi pesanti all'interno del locale. Si voltò con l'ultima tazzina stretta nella mano sinistra e il panno umido sorretto dalla destra, ma quando vide il suo cliente non si preoccupò dell'ordine approssimativo del ripiano.

    «Buongiorno Sawamura-san» sorrise senza alcuno sforzo: era una reazione naturale e immediata che si manifestava tutte le volte che l'altro entrava nella caffetteria – dopotutto, pur trascorrendo soltanto un quarto d'ora al giorno nel locale, quell'uomo aveva la capacità di rallegrargli la giornata con la sola presenza. Il lavoro diventava molto più leggero quando c'era lui.

    «Buongiorno a te Sugawara-san» Sawamura ricambiò il sorriso, seppur con una breve e quasi impercettibile contrazione delle labbra, in completa antitesi con la spontaneità espressiva del barista.

    Sugawara lo vide posare un giornale arrotolato sul bancone di marmo scuro e aspettò che si sistemasse su uno degli sgabelli in pelle prima di riprendere a parlare.

    «Cosa dice?» indicò il giornale, per poi voltargli le spalle e riporre l'ultima tazzina da caffè sul ripiano in legno. «Oggi non sono riuscito neppure a guardare il telegiornale, solo il meteo. Dicono che nell'entroterra di Miyagi e in quello di Yamagata potrebbe nevicare.»

    «Sì, fa piuttosto freddo ultimamente» Sawamura rispose con un cenno del capo, poi picchiettò il dito sul bancone. «Dunque, vediamo...» mormorò, rivolgendo una rapida occhiata al giornale arrotolato di cui, a dire il vero, aveva letto solo pochi articoli «pare che ieri in tarda serata ci sia stato un terremoto in Hokkaidou.»

    «Perdonami Sawamura-san,» Sugawara lo interruppe a voce bassa «il solito, vero?»

    Sawamura annuì appena.

    «Un terremoto, eh?» il barista staccò il gruppo portafiltro dalla macchina del caffè e lo ripulì dai rimasugli dell'ultimo utilizzo. «Magnitudo?»

    «Tre. Non ha causato molti danni» l'altro rispose prontamente.

    «Meglio così» Sugawara sistemò il portafiltro sotto il dosatore, tirando la leva per riempirlo della polvere di caffè presente al suo interno. «E sui missili balistici? Ci sono novità?»

    «Pare che l'ONU prenderà provvedimenti. Sembra sia in programma un incontro fra il nostro primo ministro e il presidente americano.»

    «E con le indagini sui portatori del cromosoma Z?» Sugawara compattò la polvere di caffè con il pressino a mano, per poi agganciare il portafiltro al gruppo erogatore. «State facendo progressi?»

    «Non molti a dire il vero» Sawamura lo osservò sistemare una tazzina sotto il gruppo e premere il pulsante dell'erogazione, dunque ascoltò a braccia conserte il flebile gorgoglio del macchinario, riprendendo a parlare una trentina di secondi più tardi. «Sugawara-san, potresti darmi anche una fetta di torta?»

    «Certo» Sugawara non si voltò verso di lui, ma sorrise ugualmente. Ripose la tazzina fumante al centro di un piattino bianco e subito dopo sollevò la cloche di plastica trasparente sotto la quale, poche ore prima, aveva sistemato la crostata ai lamponi.

    «Comunque sembra che la maggior parte di loro viva proprio qui a Tokyo» aggiunse Sawamura, che tuttavia smise di parlare non appena vide l'altro sussultare. Sollevò entrambe le sopracciglia, stranito, per poi protendere leggermente il viso nel tentativo di sbirciare al di là del bancone «va tutto bene?»

    Sugawara ripose lentamente il coltello, osservando il taglio profondo appena procuratosi lungo il pollice sinistro: non era uscita una sola goccia di sangue, ma il rosso della carne viva era perfettamente visibile sulla pelle bianca.

    «Sì,» la sua risposta a voce bassa faticò ad arrivare alle orecchie di Sawamura, che però tornò alla postura iniziale non appena lo vide annuire con un vigoroso cenno del capo.

    «Ecco qui» Sugawara posò il piattino contenente la tazzina di caffè e quello con la fetta di crostata proprio sotto il naso del suo cliente più affezionato, il quale non poté fare a meno di soffermarsi prima sulle dita pallide e affusolate del barista e poi sul suo sorriso gentile.

    Adesso sarebbe calato il silenzio: succedeva sempre così quando Sawamura Daichi, vice capitano dell'Unità Speciale di Polizia di Tokyo, entrava nel suo locale per bere un caffè e mangiare qualcosa.

    Come sempre Sugawara si sarebbe appoggiato alla lavastoviglie e sarebbe rimasto a fissare in silenzio i dettagli della divisa nera indossata dall'altro, in particolare gli inserti d'oro sul colletto della camicia, che raffiguravano una Z stilizzata.

    L'Unità Speciale era stata istituita a metà degli anni Settanta, quando, due giorni dopo una grande frana, il corpo senza vita di Nakamura Akihiko, giovane impiegato presso una ditta edile, fu ritrovato sulle pendici sud orientali del Monte Fuji.

    Due testimoni oculari riferirono che era stato lo stesso Nakamura a provocare la frana e ciò incuriosì i medici dell'obitorio, che rivoltarono il cadavere come un calzino. La mattina dopo riferirono che non era stata rinvenuta alcuna anomalia, salvo poi dichiarare appena ventiquattro ore più tardi che l'esame del cariotipo li aveva condotti a un risultato a dir poco straordinario. Il dieci agosto 1975 divenne, quindi, la data di scoperta del cromosoma Z, successivo alla ventitreesima coppia, ovvero quella determinante il sesso dell'individuo.

    Chi era in possesso del cromosoma Z aveva capacità particolari, differenti rispetto al resto della popolazione, ma soprattutto era considerato estremamente pericoloso.

    Il venti agosto di quello stesso anno nacque l'Unità Speciale di Polizia di Tokyo e nel giro di poche settimane si formarono diversi gruppi straordinari di forze dell'ordine anche a Kyoto, Yokohama, Nagoya, Sapporo, Osaka e ancora in altre città fra le più popolate.

    L'obbiettivo della polizia e dello Stato era quello di sensibilizzare le masse alla pericolosità e alla bestialità dei portatori di cromosoma Z, oltre a persuadere la popolazione a denunciare famigliari e amici che ne erano in possesso.

    Non era questione di genetica, ma non si sapeva neppure da cosa fosse determinato. Tanti lo credevano un effetto delle radiazioni causate dalla bomba atomica.

    La caccia all'uomo, comunque, si rivelò più complicata del previsto, questo perché, anche se nella maggior parte dei casi si era capaci di usare i propri poteri fin dalla nascita, il cromosoma Z non compariva immediatamente nell'esame del cariotipo, ma era individuabile soltanto a partire da una certa età – solitamente non prima dei cinque anni. Chi era capace di controllare il proprio potere fin da appena nato spesso non lo rilasciava, continuando a tenerlo segreto anche durante l'adolescenza, per cui era difficile avere la sicurezza che il proprio figlio, amico, fratello o nipote fosse in possesso di speciali capacità come lo era stato Nakamura.

    Alla fine degli anni Novanta la scarsa presenza di tali soggetti – o più probabilmente la loro difficile individuazione – determinarono tagli ingenti nelle forze di polizia di ogni città, di conseguenza il Governo decise di investire solamente nell'Unità Speciale di Tokyo, a cui divenne sempre più difficile accedere e che nel corso degli anni aveva finito per imporsi come una vera e propria potenza d'élite.

    Pur essendo una forza di prestigio, però, l'Unità Speciale non aveva conseguito molti successi. L'unico risvolto interessante si era delineato un paio di anni prima, quando due medici dell'Aiiku Hospital, nel quartiere speciale di Minato, avevano denunciato un giovane dotato di cromosoma Z. Giovane di cui, però, si erano presto perse le tracce.

    «La crostata era ottima come sempre, grazie» Daichi posò sul bancone sei monete da cento yen, distogliendo il barista dai propri pensieri.

    Sugawara accennò un sorriso, poi prese i soldi e li sistemò nella cassa, preparando infine lo scontrino.

«Allora a domani, Sawamura-san.»

    «A domani e buon lavoro» Sawamura infilò lo scontrino nella tasca della divisa e si congedò con un sorriso appena accennato; Sugawara, dal canto suo, se ne rimase immobile, impegnato a scrutare l'arma appena sporgente dalla grossa fondina in pelle.

    L'Unità Speciale di Polizia di Tokyo aveva in dotazione un'arma altrettanto unica, la testimonianza di un progresso tecnologico senza pari, un vero e proprio vessillo per tutti coloro che erano determinati a eliminare i “diversi” dalla società. L'Exterminator, quello era il suo nome, era una grossa pistola nera dotata di intelligenza artificiale grazie alla quale era in grado di riconoscere il proprietario e di entrare in funzione solo se puntata contro un portatore di cromosoma Z.

   Quando Daichi chiuse la porta un soffio d'aria fredda colpì le guance del barista. Subito dopo, Sugawara udì un leggero rumore di tacchi contro il pavimento e il tintinnio di un cucchiaino in una tazza.

    «La mano?» riuscì a distogliere il proprio sguardo dalla porta trasparente solamente quando la voce flebile di una donna risuonò a pochi centimetri da lui.

    «La mano...?» ripeté a voce bassa, rivolgendo una rapida occhiata al pollice sinistro: la pelle era bianca e liscia. «Va tutto bene, perché me lo chiede?» quando Sugawara la guardò scoprì di avere di fronte a sé una creatura graziosissima: aveva i capelli neri e lisci, sopracciglia fini e lineamenti molto delicati; lo scrutava oltre le lenti sottili degli occhiali, le labbra rosee serrate in un'espressione seria.

    La ragazza abbassò lo sguardo, per poi indicargli la mano sinistra.

    «Ti sei tagliato, Sugawara-san» rispose con lo stesso tono pacato. Sembrava molto timida.

    «Io non...» il barista deglutì a fatica «non mi sono tagliato, probabilmente da dove era seduta‒»

    «Sugawara-san,» la ragazza posò sul bancone la tazza che fino a quel momento aveva tenuto fra le mani ed estrasse un sottile quaderno con la copertina nera dalla borsetta «non mi devi spiegazioni.»

    Sugawara deglutì ancora, soffermandosi sulle linee argentate al centro della copertina scura, le quali formavano una stella a cinque punte contornata da piccoli rombi stilizzati e irregolari.

    «Che cosa.... cos'è?» chiese poi. Non riusciva a capire cosa stesse succedendo, stava sudando freddo.

    «Un quaderno» la ragazza rispose immediatamente, ma subito dopo la vide boccheggiare e poi mordersi il labbro inferiore, probabilmente imbarazzata per avergli dato una risposta così ovvia.

    Sugawara non riusciva a percepire alcun pericolo in quella ragazza, ma quel quaderno lo inquietava, gli bastava vederlo con la sola coda dell'occhio per sentirsi soffocare.

    «Lei come si chiama?» cercò di ignorare il quaderno, rivolgendosi con gentilezza alla ragazza che, inaspettatamente, gli tese la mano.

    «Shimizu Kiyoko» quando lui le strinse la mano, lei risollevò lo sguardo e lo scrutò nuovamente oltre le lenti degli occhiali. «Sono uno shinigami


❋ ❋ ❋


    Kenma e Akaashi avevano da poco lasciato l'auditorium Yasuda, l'imponente costruzione color mattone che svettava al centro del campus Hongo dell'Università Imperiale di Tokyo, dove frequentavano entrambi l'ultimo anno della facoltà di Lettere. Si stavano dirigendo verso il Tempio Nezu, che distava appena un quarto d'ora dall'università e presso il quale si fermavano spesso a pranzare. Quel giorno, però, si sarebbero limitati a transitargli accanto, siccome faceva troppo freddo per poter pensare di trascorrere le due ore di pausa che si concedevano prima dello studio seduti sulle scalinate di pietra.

    Si sarebbero invece fermati entrambi a casa di Akaashi, che si trovava proprio di fronte al tempio, e lì avrebbero mangiato qualcosa. Dopo pranzo Kenma avrebbe continuato la partita a Monster Hunter, interrotta quella stessa mattina appena prima di entrare in università, mentre Keiji avrebbe ripreso la lettura de Il padiglione d'oro di Mishima.

    Quando transitarono accanto al tempio, Kenma rivolse una rapida occhiata al ponticello verde, ripensando con nostalgia alle giornate assolate trascorse seduti vicino al laghetto delle carpe koi, a osservare da lontano le azalee fiorite.

    Si chiese se la sua carpa preferita, l'unica Yamabuki Ogon, stesse soffrendo il freddo, ma la sua curiosità svanì immediatamente, spazzata via dagli sguardi insistenti di due ragazzi dall'altra parte della strada.

    Kozume li guardò per pochi secondi, poi rivolse una rapida occhiata ad Akaashi, tornando infine a osservare la strada di fronte a sé senza dire una parola quando capì che l'amico non si era accorto di nulla.

    Quando sorpassarono il tempio, Kenma prese un bel respiro profondo e si impose di non pensare più ai due ragazzi dall'altra parte della strada – con ogni probabilità erano soltanto due amici impegnati a chiacchierare e ridacchiare fra loro. Fortunatamente c'era Akaashi accanto a lui: la sua presenza lo aiutava moltissimo, lo confortava e lo faceva sentire al sicuro.

    Kozume aveva abitato a Osaka con la famiglia fino a quattro anni prima, quando i suoi genitori avevano acquistato un piccolo appartamento a Bunkyou per permettergli di frequentare l'Università Imperiale di Tokyo. Anche se la capitale giapponese non era poi tanto diversa da Osaka gli era risultato molto difficile ambientarsi, inserirsi all'interno di una moltitudine di facce nuove e, soprattutto, abituarsi all'idea che il suo negozio di videogiochi preferito non fosse più a due passi da casa sua – il più vicino distava due fermate di metro e non era neppure ben fornito.

    Akaashi era stata la prima persona con cui Kenma era riuscito a stringere amicizia, e dopo quattro anni era ancora l'unica – non che avere un solo amico fosse un problema, anzi era molto legato a lui ed era convinto che non avrebbe mai trovato altri che potessero metterlo a suo agio in quel modo. Keiji non gli faceva pressioni di alcun tipo, era una persona tranquilla, riservata e intelligente e per tale motivo Kenma lo ammirava, si fidava di lui.

    Ciò che li legava maggiormente, comunque, era la complicità che si era creata nel momento in cui avevano scoperto di essere entrambi in possesso del cromosoma Z.

    La scoperta era avvenuta a maggio del primo anno di università, scaturita da un eccesso di fiducia da parte di entrambi. Per un qualche motivo che Kenma non ricordava, il loro professore di letteratura angloamericana aveva menzionato il cromosoma Z, così alcuni dei ragazzi del corso avevano reso l'argomento il più gettonato durante le pause fra una lezione e l'altra. Lui e Akaashi sembravano gli unici a non preoccuparsi dell'esistenza di uomini più forti, più veloci o intelligenti di altri, difatti nessuno dei due partecipava ai pretenziosi e assurdi dibattiti che si creavano fra i loro compagni.

    La prima volta che ne avevano parlato lo avevano fatto da soli, seduti vicino al laghetto delle carpe koi.

    “Tu credi che i dotati di cromosoma Z siano un pericolo?”: Keiji aveva rotto il silenzio con una domanda simile e Kozume era rimasto a fissarlo senza dire una parola.

    Quel giorno Kenma aveva percepito qualcosa di diverso nello sguardo del compagno, aveva capito immediatamente che dietro la sua domanda c'era molto più di una legittima curiosità.

    Akaashi aveva continuato a guardarlo in silenzio, in attesa di una risposta, e tale era la sua serietà che Kenma aveva perfino pensato che fosse disposto a restare così per sempre pur di conoscere la sua opinione.

    Kozume fu colto – non di certo per la prima volta – dal sospetto che Akaashi fosse proprio come lui, ma non aveva risposto subito. Aveva fatto qualcosa di più drastico, che da quando era arrivato a Tokyo si era categoricamente vietato: era sgusciato solo per un istante nella mente dell'altro, aveva sentito un ammasso di pensieri confusi e fra questi aveva cercato una frase in particolare.

    Gli aveva risposto, subito dopo essere tornato in sé, che i dotati di cromosoma Z gli piacevano ancora meno delle persone normali, eccezion fatta per lui, e Akaashi, che non si era neppure reso conto della breve visita di Kozume nella sua testa, aveva sbarrato gli occhi e sussultato appena.

    Forse era stato proprio quel pomeriggio di maggio a consacrare la loro amicizia, la cieca fiducia che li legava e li rendeva l'uno lo scudo dell'altro. Non avevano mai corso pericoli reali, ma in definitiva sapevano entrambi che avrebbero sempre potuto contare l'uno sull'altro per qualsiasi cosa.

    «Kozume, credo di avere solo del riso a casa. Va bene comunque?»

    Kozume sollevò entrambe le sopracciglia, fissandolo con aria stranita, la mente ancora intorpidita dai ricordi. Quando annuì, Akaashi parlò di nuovo, ma Kenma non riuscì a sentirlo: i ragazzi dall'altra parte della strada avevano attirato ancora una volta la sua attenzione; li vide ridacchiare e darsi gomitate, il tutto mentre osservavano lui e Keiji.

    «Ohi, Kozume, mi ascolti?»

    Kenma avrebbe voluto annuire, ma in effetti non lo stava ascoltando. Non poteva, non ci riusciva. Continuò a guardare i due ragazzi dall'altra parte della strada, aggrappandosi alla manica della giacca dell'amico.

    «Kozume?»

    «Quelli dall'altra parte della strada...»

    Akaashi lo guardò con la fronte aggrottata, per poi rivolgere una rapida occhiata alla propria sinistra. «Due cretini,» constatò senza particolare emozione nella voce, l'espressione facciale completamente distaccata «non farci caso.»

    «Stanno venendo qui.»

    Keiji, che era già tornato a guardare altrove, dovette nuovamente rivolgere la propria attenzione ai due ragazzi, e questa volta smise perfino di camminare, assumendo un'espressione piuttosto severa.

    «Ci penso i‒»

    «Akaashi!» prima ancora di riuscire a finire la frase si ritrovò con entrambe le mani intrappolate da quelle leggermente più grandi di uno dei due sconosciuti. «Finalmente ci conosciamo!»

    Keiji ritirò le mani in assoluto silenzio, ammonendo il ragazzo dai capelli grigi con lo sguardo. Kenma, dal canto suo, fece un piccolo passo per rifugiarsi dietro l'amico, nascondersi dallo sguardo magnetico del ragazzo con i capelli neri, quello che ancora non aveva proferito parola. Il modo in cui lo guardava e il suo sorriso lo avevano gettato in uno stato di profondo imbarazzo mai sperimentato prima.


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S e n d a i   p r e f e t t u r a   d i   M i y a g i



«Oikawa-san, sei libero questa sera?»

    Tooru ascoltò la voce della ragazza alle sue spalle, gli occhi rivolti alle proprie gambe, coperte solo per un tratto dalle lenzuola.

    «Mhn...» si mise a sedere e infilò entrambi i piedi nei boxer, per poi sollevare il bacino, rispondendo solamente quando li ebbe indossati «questa sera non posso proprio, mi dispiace Tamaki-chan.»

    «Fa niente,» Oikawa la vide fare spallucce mentre si destreggiava con i laccetti del reggiseno «vorrà dire che ne approfitterò per studiare.»

    «Hai un test la prossima settimana, vero?»

    «Eh?» Tamaki si alzò dal letto e si voltò verso di lui, il viso leggermente contratto a causa della resistenza opposta dai jeans contro le cosce ancora scoperte «non avrò test prima di febbraio, Oikawa-san. Pensavo di avertelo detto.»

    Oikawa restò in silenzio, prima soffermandosi sulla vita sottile della ragazza, poi, quando tale contemplazione gli fu negata dalla maglietta larga, sulle dita affusolate che cercavano di pettinare alla bell'e meglio i capelli neri. Tamaki glielo aveva detto, in effetti, e neppure molto tempo prima, ma Oikawa preferì fingere non fosse così.

    Fortunatamente la ragazza non si soffermò più di tanto su quel rapido scambio di battute e, pur sottolineando nuovamente la convinzione di averglielo detto, non insistette e si congedò subito dopo essersi infilata le scarpe.

    Oikawa si stese nuovamente sul letto, volgendo il proprio sguardo al soffitto. Immaginò Tamaki fermarsi all'ingresso per infilare la giacca e recuperare la borsetta e poco dopo sentì la porta cigolare leggermente e chiudersi con un tonfo sordo.

    Chiuse gli occhi e inspirò profondamente, poi protese le labbra ed esalò un sospiro: era una fortuna che se ne fosse andata senza fare troppe storie, visto che di lì a poche ore sarebbe arrivata Hoshiko. Pensando alla seconda ragazza, Tooru si colpì la fronte con il palmo della mano, incredulo all'idea di essere incappato in un errore tanto grossolano: era lei quella che avrebbe avuto un test la settimana dopo, non Tamaki. Hoshiko frequentava il primo anno di Ingegneria Meccanica presso il Sendai National College of Technology, mentre Tamaki, che frequentava la facoltà di Economia alla Tohoku Gakuin University, era quasi giunta alla fine del suo percorso universitario. Era assurdo confonderle, dopotutto la sua amicizia con Tamaki era vecchia di ben tre anni, mentre Hoshiko l'aveva conosciuta solo pochi mesi prima.

    Non era facile gestire due relazioni in contemporanea – sempre se così si potessero definire, ma in fin dei conti quella era ormai l'unica difficoltà che metteva alla prova la sua testa e in generale tutta la sua esistenza. Forse lo faceva proprio per noia, non certo perché in cerca di una fidanzata – per quanto Hoshiko e Tamaki fossero belle e intelligenti.

    Tamaki, a dire il vero, gli aveva sempre dato l'impressione che facesse sesso con lui per il suo stesso motivo: o per voglia o per noia, ma non certo sulla base di un coinvolgimento sentimentale. Erano amici, non c'era dubbio, ma il più delle volte lei gli dava dello stupido e ripeteva che non avrebbe mai accettato di avere una relazione seria con uno come lui. Tooru, d'altro canto, la considerava un po' troppo ansiosa e inflessibile, ma era una brava ragazza e non gli dispiaceva affatto trascorrere del tempo con lei.

    Hoshiko gli aveva dato l'impressione di essere molto appiccicosa e sicuramente meno incline allo studio e più vanesia di Tamaki, ma in fin dei conti non la conosceva così bene da esserne certo.

    Oikawa inclinò leggermente il viso, soffermandosi per un breve istante sull'orologio digitale posato sul comodino: erano da poco passate le tredici, ma non aveva intenzione di mettersi a cucinare. Non aveva fame.

    Emise un flebile sospiro, ritornando a fissare il soffitto, e senza un motivo preciso cominciò a pensare all'unica relazione seria di tutta la sua vita.

    Non era sempre stato così, anzi fino a due anni prima non aveva neppure mai preso in considerazione l'idea di limitare tutto al sesso. Era stato fidanzato per un anno e mezzo con una compagna di corso e lo ricordava come un periodo piuttosto felice al fianco di una persona solare e comprensiva. A pensarci bene quella ragazza era perfino riuscita a migliorarlo, a frenare, in particolare, la sua smania di supremazia sugli altri.

    Oikawa chiuse gli occhi e lasciò scivolare una mano sulla coscia, per poi accarezzare il ginocchio destro con le dita: alla fine era stata proprio lei, all'apparenza così tanto amorevole e aperta, a rivelare una personalità torbida, ben più fredda ed egoista della sua.

    Al primo anno di università Oikawa era già un giocatore di pallavolo affermato e con un posto fisso nella Nazionale under ventuno. Durante il secondo anno, però, un grave infortunio al ginocchio destro aveva compromesso la sua carriera.

    Si era sottoposto a un'operazione e aveva ripreso a giocare all'inizio del terzo anno, ma già dopo una settimana avevano ricominciato a manifestarsi problemi piuttosto gravi. Dopo tre mesi di fisioterapia il medico curante gli aveva annunciato che le possibilità di una totale ripresa erano praticamente nulle, così era stato costretto ad abbandonare la pallavolo, un sogno di una vita infranto per un ginocchio dolorante.

    Quasi senza rendersene conto, era scivolato in una spirale di apatia che lo aveva completamente alienato dalla famiglia e dagli amici e che lo aveva portato a lasciare anche gli studi.

    In tutto ciò la sua ragazza non aveva provato neppure una sola volta a confortarlo. Non lo andava a trovare a casa e non lo cercava al cellulare, ignorandolo completamente. Aveva ricevuto soltanto un messaggio da parte sua: “Non mi dai più attenzioni, non ti importa più niente di me. Resta a marcire nella tua stanza”.

    Forse aveva ragione. Forse non gli era mai importato nulla della sua relazione con lei, così come non gli importava di quella con Tamaki o di quella con Hoshiko. Alla fine dei conti nessuna ragazza era mai riuscita a dargli quello che voleva; si ostinava a cercarle come ogni altro suo coetaneo, eppure non provava nulla quando ci andava a letto.

    Viveva in un perenne stato di insoddisfazione, indissolubilmente legato al suo passato di pallavolista e a un presente scomodo che trascorreva odiando se stesso: lui non era, ma avrebbe potuto essere, e questo pensiero lo logorava ogni giorno.

    Adesso faceva il modello per una piccola maison di Sendai, guadagnava il giusto e spesso appariva perfino sulle riviste, ma era comunque infelice, costretto a un lavoro che non gli andava di fare, un incarico che sfruttava soltanto la sua immagine, di fronte alla quale lui stesso inorridiva. Il presuntuoso e determinato ragazzo di un tempo si era perso nello scorrere degli anni, e non ricevendo alcuno stimolo gli era impossibile ritrovarlo.

    Quando sentì il suono alto e breve del campanello Oikawa sussultò, rivolgendo una rapida occhiata alla sveglia digitale, forse pensando che quella digressione mentale gli fosse costata qualche ora di tempo.

    «Hoshiko-chan è già qui?» sbuffò, sedendosi a gambe incrociate e massaggiandosi la nuca. Si alzò pochi istanti dopo, dirigendosi all'ingresso con indosso soltanto i boxer.

    Grey, il Golden Retriever color miele regalatogli dalla sorella quasi tre anni prima, era già seduto davanti alla porta e uggiolava appena, il muso rivolto verso l'alto e gli occhi ambrati fissi sulla maniglia.

    «Buono,» Oikawa gli accarezzò la testa, per poi abbassare la maniglia «è Hoshiko-cha‒ mhn?»

    Tooru aggrottò leggermente la fronte; Grey, invece, accolse lo sconosciuto con due brevi latrati.

    «Davvero una bella accoglienza, Oikawa» Tooru avrebbe voluto dire qualcosa, ma si limitò a fissare il ragazzo che gli stava passando accanto. Era esterrefatto: un estraneo era appena entrato in casa sua senza chiedergli il permesso e si era rivolto a lui come se si conoscessero da anni.

    «La prossima volta mettiti qualcosa addosso» l'altro ragazzo continuò, per poi voltarsi verso Oikawa, ancora fermo sulla soglia della porta.

    Era leggermente più basso di lui, aveva capelli scuri a punta leggermente arruffati e la pelle olivastra. Aveva un'espressione molto seria, ma nonostante tutto a Oikawa venne naturale percepirlo come un qualcosa di diverso dal pericolo.

    «Un momento, tu...» Tooru indicò la porta aperta, poi lo sconosciuto, gli occhi sbarrati e le labbra appena dischiuse «questa è casa mia, non hai il permesso di–»

    «Andrò dritto al punto.»

    Oikawa sollevò leggermente le sopracciglia, sempre più attonito e confuso. Il ragazzo lo stava indicando con un dito, le labbra increspate in un ghigno appena accennato.

    «Sono qui per il tuo potere, Oikawa.»


❋ ❋ ❋


    Suo padre stava leggendo il giornale, un quotidiano in lingua inglese che sfogliava ogni sera dopo cena. Inforcava gli occhiali e girava le pagine senza mai distogliere lo sguardo dalle fitte frasi di inchiostro, ogni tanto umettando la punta delle dita con le labbra. Lui lo imitava quando sfogliava i libri scolastici e l'album da disegno, anche perché il Lancelot Arch, che era davvero incomprensibile per un bambino di sei anni, non gli interessava affatto.

    Suo padre era un uomo di profonda cultura: amava, fra le tante cose, l'architettura, la pittura e i libri. Leggeva storie di qualsiasi genere, ma non quelle troppo realistiche: “Perché la realtà è sempre fuori dalla nostra finestra, ed è già abbastanza”, diceva.

    Sua madre, dotata di una più spiccata propensione al concreto e all'avventura, stava lavando i piatti. La ricordava girata di schiena, con indosso un vestito color pesca e i capelli castani ammucchiati sulle spalle come schiuma di mare incastonata fra gli scogli.

    Aveva guardato per un po' sua madre, poi si era seduto accanto a suo padre e lo aveva osservato in silenzio, fino a quando non lo aveva visto arrotolare il giornale.

    «Papà, lo sai che questa mattina Harumi-chan ha buttato il bentou di Hatsuyo-chan dalla finestra?» suo padre aveva alzato entrambe le sopracciglia, in un moto di sorpresa. «E nessuno l'ha difesa!»

    Proprio in quel momento, sua madre si era seduta accanto a suo padre, intenzionata ad ascoltare una storia che il figlio le aveva già raccontato qualche ora prima, di ritorno da scuola.

    «Hatsuyo-chan non è...?» suo padre si era voltato in cerca dell'assenso della moglie, e lui si era sentito terribilmente imbarazzato all'idea di avere una cotta di cui entrambi i genitori erano a conoscenza, tuttavia aveva ripreso a parlare quasi immediatamente.

    «Ma l'ho difesa io! Cioè...» si era grattato la nuca per l'imbarazzo, protendendo leggermente le labbra «ho diviso il mio pranzo con lei.»

    Suo padre gli aveva sorriso.

    «M-ma non perché mi piace! Perché era giusto così!»

    «Quanto senso civico in un bambino di soli sei anni» sua madre aveva commentato con una leggera risata, ma senza ironia. Era molto orgogliosa di suo figlio e aveva sempre cercato di fargli acquisire fiducia nella sua diversità.

    «Io voglio aiutare le persone! E posso farlo! Diventerò un supereroe!»

    «Io e tua madre saremo fieri di te, ma devi promettermi una cosa.»

    «Che cosa, papà?»

    «Che continueremo a fare granite» suo padre aveva sfoderato uno di quei rari sorrisi che lo distanziavano notevolmente dall'immagine di uomo serio e acculturato che trasmetteva a chiunque lo guardasse per la prima volta. Da piccolo voleva diventare proprio come lui, e anche come sua madre.

    Aveva sorriso di rimando, annuendo felice.



Non riusciva a capire perché quel ricordo fosse riaffiorato proprio in quel momento, era stato tutto molto naturale, spontaneo. Isolato oltre le barriere satinate della doccia, Yahaba aveva chiuso il getto dell'acqua già da qualche minuto, si era seduto nell'angolo, aveva raccolto le gambe al petto, aveva posato la fronte sulle ginocchia e all'improvviso gli era tornata in mente quella conversazione.

    Forse era la memoria più lontana che aveva. In effetti riusciva ancora a vedere con estrema chiarezza il contenitore rosa del bentou riverso in cortile, sotto la finestra della sua classe, e gli occhi di Hatsuyo, neri e pieni di lacrime. Se si fosse sforzato di ricordarlo, di certo non gli sarebbe venuto in mente un solo istante di quella giornata o dei suoi sei anni.

    Non aveva intenzione di sollevare il viso, quella reminiscenza lo aveva annichilito a tal punto da fargli desiderare di restare per sempre in quello spazio ristretto e umido, con i capelli impregnati d'acqua e le gocce fredde sulle gambe, gli occhi aperti ma immersi nella penombra di una gabbia sicura creata con il suo stesso corpo.

    Era bello fare le granite con i suoi genitori. Di sabato andavano tutti e tre al supermercato e gli lasciavano scegliere una bottiglia di sciroppo. Yahaba ricordava un'infinità di gusti sullo scaffale: vaniglia, mandorla, menta, fragola, anice, caffè, limone. Tutti quei colori affascinavano i suoi occhi di bambino.

    Si stupiva sempre della facilità con cui quegli sciroppi conferivano gusto e colore a qualcosa di semplice e insapore come il ghiaccio: in qualche modo gli facevano pensare che la sua diversità non fosse poi tanto sbagliata. Lui e suo padre avevano perfino parlato di aprire un piccolo chiosco, una volta.

    Chiuse gli occhi, lasciando scivolare le dita fra i capelli bagnati ed espirando appena dalle narici.

    Ora non acquistava più gli sciroppi per le granite. I colori che lo avevano tanto affascinato erano stati sostituiti da bottiglie trasparenti di alcol – vodka, di solito. Dopo l'incidente, in effetti, tutti i colori si erano compattati in una pesante massa grigia che, lentamente, si era schiarita fino alla totale trasparenza, proprio come il ghiaccio.

    Era successo subito dopo la fine delle medie, con un tempismo maledettamente perfetto che, a conti fatti, gli aveva perfino permesso di passarla liscia.

    Era la sera del due febbraio e lui era appena tornato a casa, dopo una lunga giornata trascorsa nelle biblioteche di ben cinque scuole superiori di Yokohama. Aveva la cartella piena di opuscoli e la testa satura di informazioni – quale scuola metteva a disposizione la palestra anche durante le ore serali? Quale un cortile dove era assolutamente vietato pranzare? Era stanco e molto nervoso, non riusciva a ricordare quasi nulla, confondeva ciò che aveva sentito in giornata e a un certo punto pensò perfino di aver dimenticato il blocco degli appunti da qualche parte e dovette fermarsi per controllare.

    Quella sera si stupì di essere riuscito ad arrivare a casa prima di crollare nel bel mezzo della strada. Già immaginava la velocità con cui le sue ginocchia sarebbero cedute una volta giunto di fronte al letto, ma avrebbe dormito? In quel periodo aveva difficoltà a prendere sonno. Sua madre sosteneva che con ogni probabilità fosse colpa del futuro, e aveva ragione: quale scuola era la migliore? E dopo le superiori avrebbe continuato a studiare o avrebbe scelto di lavorare? E quale professione avrebbe svolto?

    Yahaba aveva chiuso gli occhi e si era grattato la narice del naso con la punta delle dita, sospirando profondamente: era nel bel mezzo dell'età adolescenziale, perciò non aveva molto senso preoccuparsi di quella che di lì a tre o forse addirittura sette o otto anni sarebbe stata la sua professione, ma dopotutto, come suo padre gli aveva fatto notare più volte, lui era sempre stato molto più maturo e responsabile dei suoi coetanei e perciò era tristemente naturale che si tormentasse in quel modo.

    Nonostante fosse esausto, Shigeru non si era recato immediatamente in camera. Ricordava di essersi fermato in cucina, per salutare i genitori.

    Quelle ultime settimane trascorse a riflettere sul futuro e le ore di sonno arretrate furono la letale combinazione che quel giorno, per la prima volta, gli fece perdere il controllo sul suo potere. Nonostante si sentisse molto debole, il ghiaccio si era espanso in fretta e con violenza, aveva ricoperto quasi tutto lo spazio interno della casa e in quel delirio involontario aveva coinvolto anche i suoi genitori.

    Tornò cosciente pochi istanti dopo, sorprendentemente lucido. Ricordava ancora i volti esanimi dei genitori sotto il ghiaccio, gli occhiali rotti del padre, le labbra livide della madre e il suo ventre lacerato da una stalagmite.

    Ancora incapace di capire cosa fosse successo, era corso fuori casa, fino alla ferrovia, e poi era salito su uno dei treni della linea Toukaidou, giungendo alla stazione di Tokyo mezz'ora dopo. Lì era salito sul treno delle ventuno e cinquanta, poi, dopo aver trovato un posto appartato, aveva chiamato l'unica persona a cui era riuscito a pensare in quella situazione.

    Il ragazzo a cui aveva telefonato viveva a Sendai con la madre. Si erano conosciuti su Facebook, su un gruppo di appassionati della pallavolo. In realtà Yahaba non si era mai interessato seriamente a quello sport, ma aveva pensato di cominciare a praticarlo appena iniziate le superiori; il ragazzo che viveva a Sendai, invece, giocava a pallavolo dalle elementari e gliene aveva parlato con tanto trasporto da rendergliela perfino interessante.

    Tuttavia non era stata la pallavolo che lo aveva indotto a fidarsi così in fretta di una persona che non aveva mai visto, ma il fatto che chattando con quel ragazzo aveva avuto più volte l'impressione che fosse proprio come lui.

    Shigeru pianse per tutto il viaggio, finché alle ventitré e quaranta non giunse alla stazione di Sendai, dove Oikawa Tooru e sua madre lo attendevano.

    Gli bastò trascorrere un paio di giorni con Oikawa per capire che, come sospettava, anche lui era in possesso del cromosoma Z. Aveva raccontato tutto a lui e sua madre, e loro si erano dimostrati fin da subito molto comprensivi e misericordiosi, sicuramente per mera solidarietà nei confronti di un loro simile. Era stato fortunato: se fossero stati una madre e un figlio normale lo avrebbero certamente additato come assassino e denunciato.

    Lo ospitarono per tre anni, durante i quali Yahaba cambiò taglio di capelli e identità – senza mai chiedere alla madre di Oikawa dove si fosse procurata documenti falsi così ben fatti – e frequentò le superiori.

    Nei primi due anni Oikawa divenne suo mentore, senpai a scuola e durante gli allenamenti di pallavolo, e Yahaba cercò di vestire i panni del ragazzo normale. Non usò più i suoi poteri e cercò di dimenticare quello che aveva fatto.

    La consapevolezza di aver ucciso i suoi genitori, però, era sempre presente, e quando Oikawa andò a vivere per conto suo e cominciò a frequentare la Tohuku University, lasciandolo solo a casa e all'Aoba Johsai, Yahaba cominciò a vacillare.

    Non aveva senso non utilizzare i propri poteri, non sfruttare la propria diversità, ma dopo aver ucciso i genitori era impensabile desiderare ancora di essere un eroe.

    Yahaba lasciò il club di pallavolo in terza superiore e cominciò a fare qualche lavoretto, poi, subito dopo la fine della scuola, affittò un piccolo locale.

    Ricominciò a usare i poteri per procurarsi i soldi di cui necessitava per sopravvivere e perse i contatti con Oikawa e sua madre, anzi sembrò quasi che fra loro si fosse venuto a creare un tacito accordo per cui era meglio non intralciare le decisioni di nessuno, per quanto riprovevoli.

    Le dita di Shigeru arrancarono sulla parete umida della doccia; si alzò lentamente, uscendone pochi istanti dopo.

    Impegnato ad asciugarsi i capelli, Yahaba guardò il proprio riflesso e pensò ancora una volta al due febbraio di sei anni prima. Si chiese che aspetto avesse il suo viso subito dopo l'accaduto, chi avesse trovato i corpi dei suoi genitori e ancora tante altre cose.

    A sei anni voleva diventare un eroe e a quindici aveva ucciso i suoi genitori: era quasi paradossale.

    Cominciò a vestirsi un paio di minuti dopo, ignorando i capelli ancora umidi appiccicati alla nuca e alla fronte. Uscì dal bagno e giunse in cucina dopo aver compiuto appena una decina di passi – era un appartamento di modeste dimensioni, mal costruito e disordinato, lo stesso in cui si era rifugiato poco dopo aver ricominciato a usare i poteri, una volta racimolate le somme per poter pagare l'affitto.

    Yahaba infilò una mano nella tasca della giacca che si trovava sul tavolo della cucina, estrasse il portafoglio e sbirciò all'interno, biascicando un improperio non appena vide che era vuoto: gli toccava uscire per procurarsi qualche soldo.

    Sospirò spazientito, infilandosi la giacca e poi scrollando leggermente le braccia e le spalle per abituarsi alla sensazione di averla addosso, dunque si avvicinò al lavandino e versò un po' di vodka in una tazzina da caffè, bevendola in un solo sorso. Chiuse gli occhi per qualche istante, sospirando nuovamente, poi mosse qualche passo e si fermò all'ingresso, che in realtà non era altro che un piccolo spazio di cucina di fronte alla porta.

    Abbassò la maniglia senza indugi, uscendo immediatamente sul pianerottolo, ma si fermò subito: un ragazzo biondo e con delle occhiaie da far spavento lo stava fissando in cagnesco e sembrava non avere alcuna intenzione di togliersi dai piedi. Assurdo: un estraneo che gli impediva di uscire da casa sua.

    «Togliti» Yahaba sibilò; l'altro, invece, arricciò leggermente il naso, continuando a fissarlo senza dire una parola. «Sei sordo? Devo passare.»

    Avrebbe potuto uccidere lui e prendere i soldi, si sarebbe risparmiato un viaggio, ma per contro una delle prime impressioni che aveva avuto su quel ragazzo era che fosse uno squattrinato.

    In pochissimi secondi, però, la possibilità che l'altro non avesse un centesimo nel suo portafoglio divenne irrilevante: la sua immobilità lo aveva irritato a tal punto da impedirgli di ragionare, così Shigeru sollevò una mano, intenzionato ad attaccarlo. Lo sconosciuto gli bloccò il polso con una tale forza e con tanta velocità da pietrificarlo.

    Yahaba soffocò un gemito, cercando invano di ritrarre la mano. Le dita si contrassero in un pugno, serrò i denti con forza, aumentando la pressione almeno finché non sentì le gengive pulsare: la presa di quel ragazzo era troppo salda perché lo si potesse considerare normale.

    Forse era come lui, ma a prescindere da ciò sentì di odiarlo non appena si guardarono negli occhi.


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E d o g a w a   p r e f e t t u r a   d i   T o k y o



    Nonostante stesse tornando a casa in motorino, Eita aveva il fiato corto. Quella sera si sentiva più stanco del solito, ma con una salute precaria come la sua era inutile domandarsi il motivo di quel malessere, né sperare di trovare una soluzione che lo facesse stare meglio.

    Due anni prima aveva lasciato Minato e si era trasferito a Edogawa per necessità, così adesso viveva con sua nonna vicino al Furukawa Shinsui Park e lavorava come commesso in un negozio di giocattoli per bambini. Il suo era un impiego che pur occupandogli l'intera giornata gli fruttava ben poco, per non parlare poi di quanto fosse faticoso avere costantemente a che fare con padri disattenti, madri frettolose e bambini capricciosi. Nove volte su dieci, infatti, appena un genitore e suo figlio entravano in negozio Eita intuiva come si sarebbe svolta la situazione basandosi sulla mera esperienza e su ovvietà facilmente deducibili: l'adulto medio era oberato di lavoro, si recava al negozio di giocattoli controvoglia, timoroso di perdere tempo e spendere troppo, ma il bambino che spesso lo accompagnava e che ovviamente ignorava l'importanza del denaro cominciava a chiedere giocattoli sempre più costosi e a fare i capricci se la sua richiesta veniva rifiutata.

    Non era un lavoro per lui, che di pazienza non ne aveva molta e che, sopratutto, non amava i bambini, eppure aveva continuato ininterrottamente per quasi due anni al solo scopo di aiutare sua nonna nelle spese della casa e perché non aveva idea di che cos'altro fare del suo futuro. Non che davanti a sé ne avesse uno particolarmente lungo.

    Poco più di due anni prima, infatti, aveva cominciato a riscontrare problemi respiratori: spesso, se sotto sforzo, aveva l'impressione di entrare in un prolungato stato di apnea seguito da una dolorosa iperventilazione. Sua madre e suo padre avevano insistito molto perché si recasse dal medico, ma lui aveva tergiversato perché temeva che questo gli avrebbe prescritto un'analisi dalla quale sarebbe potuta risultare la sua particolarità genetica.

    Tuttavia, dopo aver visto sua madre scoppiare in lacrime, si era deciso a consultare il medico, che accertatosi delle sue condizioni gli aveva immediatamente consigliato di rivolgersi all'ospedale.

    Ancora più scettico, Eita aveva trascorso un intero pomeriggio all'Aiiku Hospital, per poi sentirsi dire, appena qualche giorno più tardi, che aveva un tumore ai polmoni.

    I suoi genitori si erano immediatamente battuti perché cominciasse la chemioterapia come consigliato dal dottore, ma lui aveva opposto resistenza. Avendo sempre pensato che la sua particolarità lo rendesse immune a determinati malesseri, Semi aveva fatto davvero molta fatica ad accettare la realtà, per non parlare del fatto che più tempo trascorreva in ospedale, più le possibilità che qualcuno scoprisse che era dotato del cromosoma Z aumentavano.

    Alla fine, però, il dolore era divenuto così insopportabile che era stato lui stesso a recarsi all'ospedale per chiedere aiuto, ma solo perché nel peggiore dei casi la sua abilità gli avrebbe permesso almeno in parte di rimediare.

    Aveva un carcinoma polmonare a piccole cellule, un tumore aggressivo e altamente metastatizzante che gli causava dolori ossei e muscolari frequenti, difficoltà respiratorie, nausea, emicranie e che a lungo andare avrebbe potuto causargli sindromi come quella di Cushing o quella di Lambert-Eaton, che lo avrebbero portato a un totale e irreparabile indebolimento del sistema immunitario.

    Forse perché il suo corpo era leggermente diverso da tutti gli altri o perché era riuscito a sfruttare la sua abilità a proprio vantaggio, Eita aveva comunque ottenuto un riscontro ottimistico dal dottore: il suo tumore cresceva molto più lentamente del normale e non c'erano ancora metastasi, perciò iniziando subito il trattamento c'erano modeste possibilità di guarigione.

    Il primo ciclo di chemioterapia lo aveva spezzato a metà. Il dottore gli aveva assicurato che ciò che in quel momento pareva ingigantire alcuni aspetti del suo male – la nausea, le difficoltà respiratorie e la febbre – si sarebbe rivelato di fondamentale importanza a lungo termine, ma Semi non ebbe mai occasione di sperimentarlo.

    Da alcune analisi di laboratorio era trapelato qualcosa di strano, così il dottore che lo aveva in cura aveva richiesto un esame più dettagliato che aveva portato alla luce la sua particolarità.

    Eita chiuse gli occhi solo per un istante, sospirando appena, poi rivolse la propria attenzione al semaforo e rallentò leggermente, fermando il motorino allo scattare del rosso.

    Se dopo due anni dalla fuga era ancora vivo lo doveva proprio al suo essere speciale, alla sua abilità, ma che senso aveva cercare di prolungare una vita colma di tanta sofferenza?

    Il motorino sgusciò in avanti non appena scattò il verde, ma poco prima di svoltare l'angolo Eita rallentò la sua corsa: c'era qualcosa di strano nell'aria, quel leggero fetore di bruciato che percepiva quando si verificava qualcosa di brutto, qualcosa che, però, con una piccola e semplice variazione si sarebbe potuto evitare.

    Quando svoltò l'angolo vide un ragazzino steso nel bel mezzo della strada, ad appena un metro dalle strisce pedonali: una donna gli stava sentendo il polso e un uomo stava parlando animatamente al cellulare.

    Eita vide la donna scuotere il capo, rivolgendosi a un'altra appena giunta sul posto. Quest'ultima si inginocchiò accanto al bambino e cominciò a singhiozzare.

    C'era sangue sull'asfalto e un odore di bruciato sempre più fastidioso.

    Eita inspirò profondamente, gonfiando il petto senza badare al forte dolore che si diffuse nella zona dello sterno, poi chiuse gli occhi, riaprendoli soltanto quando l'odore di bruciato svanì.

    Adesso era di nuovo a qualche metro dal semaforo. Accelerò, sorpassando le strisce pedonali prima che scattasse il rosso, dunque svoltò in fretta l'angolo e accostò il motorino al marciapiede, proprio accanto alle strisce pedonali su cui qualche secondo prima aveva visto una madre piangere la morte del figlio.

    Scese dal motorino e sbarrò la strada al bambino, lo afferrò per le spalle senza badare alle sue lagnose proteste e lo lasciò soltanto quando il rombo dell'automobile appena transitata sulle strisce cominciò a diminuire.

    «Sta più attento! È pericoloso attraversare con il rosso!» lo rimproverò, ma il bambino aveva già sorpassato la terza striscia bianca. Lo guardò arrivare sano e salvo dall'altra parte della strada, fino a che non scomparve, inghiottito dalla bocca squadrata e colorata di una fumetteria.

    Sfiatò dalle narici, poi, dopo qualche istante di esitazione, tornò in sella al motorino.

    La prima volta che era tornato indietro nel tempo aveva cinque anni. Un bambino gli aveva rubato il suo pupazzo preferito, allora lui aveva strizzato gli occhi per la rabbia per più di dieci secondi e quando li aveva riaperti aveva di nuovo il suo orsacchiotto fra le braccia. A dieci anni ricordava diversi accadimenti simili, ma ancora non aveva capito esattamente come e perché si verificassero; aveva pensato che fosse una fantasia, la sua immaginazione, ma con il superamento dell'adolescenza si era reso conto che era reale.

    Semi possedeva l'innata e importantissima abilità di tornare indietro nel tempo, ovviamente con alcune limitazioni. Poteva farlo solo in alcuni casi, quando si verificava un avvenimento evitabile e un odore di bruciato che soltanto lui poteva avvertire si sollevava dalla terra; all'inizio i suoi salti temporali non duravano più di qualche secondo, ma con la pratica la sua resistenza era aumentata e in rare occasioni era riuscito ad andare indietro anche fino a dieci minuti.

    Nel contesto della malattia la sua abilità gli era utile per rallentare i progressi del tumore, tuttavia non era servita a impedire ai medici dell'Aiiku Hospital di scoprire il suo segreto, perciò era stato costretto a scappare e a procurarsi un documento d'identità falso. I suoi genitori erano rimasti a Minato, ed Eita non aveva più comunicato con loro per paura di essere intercettato. Sapeva che stavano bene – anche se la polizia li aveva tenuti sotto controllo per circa un anno e mezzo – solo grazie a sua nonna, che comunicava regolarmente con sua madre attraverso un Internet point.

    Non parlavano mai direttamente di lui, ma per far capire a sua madre che era vivo, sua nonna le diceva che la clessidra funzionava ancora.

    Eita arrivò a casa dopo un paio di minuti. Parcheggiò il motorino nel vialetto di fianco all'abitazione e una volta spalancato il cancello di ferro attraversò velocemente il piccolo giardino.

    «Sono a casa» una volta giunto sulla soglia si pronunciò con sforzo, perciò non fu sicuro di essere stato udito, ma comunque avanzò tranquillamente fino in salotto, dove sapeva avrebbe trovato sua nonna impegnata a leggere un romanzo o a guardare un film.

    A pochi passi dall'entrata del salotto annunciò nuovamente il suo ritorno, ma non appena poté vederne l'interno ammutolì: sua nonna era in ginocchio sul tatami, i gomiti poggiati sul tavolo e una tazza di tè fumante sotto al naso, ma la televisione era spenta e di libri non vi era neppure l'ombra. Non era sola: una persona sedeva di fronte a lei.

    «Ah» sua nonna voltò la testa in un movimento ingessato, sistemandosi gli occhiali con le dita tremanti della mano sinistra. «Bentornato, Semi. Questo giovanotto dice di essere tuo amico.»

    Eita assottigliò il proprio sguardo e mise a fuoco il volto del ragazzo seduto di fronte a sua nonna; questo gli sorrise e sollevò la mano in segno di saluto, ma siccome la sua gli parve un'espressione di scherno – e anche perché non lo aveva mai visto prima di allora, Semi non ricambiò.

    «Vado in bagno» annunciò indispettito, allontanandosi immediatamente dal salotto: da quando sua nonna era così imprudente? Quel ragazzo doveva essere speciale per averla convinta a farlo entrare, ma Eita non aveva intenzione di rendersi disponibile nei suoi confronti. Poteva essere un poliziotto in borghese, magari un investigatore privato – soprattutto considerando che sua nonna non si era fatta problemi a chiamarlo con il suo vero nome, come se lo sconosciuto avesse chiesto di vedere “Eita Semi” e non “Matsumoto Akihiro”, ovvero colui che risultava dai documenti falsi che si era procurato al suo arrivo a Edogawa e come, di conseguenza, tutti lo conoscevano.

    Eita arrivò in bagno con il respiro smorzato e una nausea terribile. Si aggrappò allo stipite della porta a causa di un capogiro, poi al lavandino con entrambe le mani.

    Vomitò come spesso era accaduto negli ultimi mesi, poi tossì e sputò un po' di sangue. Girò la manopola del rubinetto e ripulì in fretta il lavandino, per poi sciacquarsi la bocca.

    «Ah, fantastico.»

    Eita sussultò appena, poi sollevò il viso per osservare lo sconosciuto: era sulla soglia del bagno, troppo vicino a lui. Aveva un taglio d'occhi bizzarro, che faceva risaltare la sua espressione da esaltato, per non parlare dei capelli, che come un lungo ciuffo di erba rossa si sollevavano di almeno dieci centimetri dalla sua testa.

    «Che cos'hai?»

    «Tu chi diavolo sei?» Semi raddrizzò la schiena e si asciugò la bocca con un canovaccio. «Un poliziotto? Un investigatore? O un commerciante di organi?»

    «Niente di tutto questo» lo sconosciuto sfoderò di nuovo un sorrisetto di scherno.

    «Allora credo di non avere nulla a che fare con te» Eita aveva i nervi a fior di pelle.

    «Semisemi,» Eita arricciò il naso, infastidito «vista la tua abilità, quando mi hanno assegnato a te speravo in un bell'affare, ma se sei davvero messo male come dice tua nonna abbiamo già perso! Sì, proprio un bell'affare di merda!»

    Eita restò a fissarlo inebetito, ribattendo solo qualche istante più tardi: «Si può sapere chi cazzo sei?»


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B u n k y o u   p r e f e t t u r a   d i   T o k y o



    Moniwa forzò il nodo della cravatta, allentandolo appena con le dita. Al contrario di ciò che poteva suggerire il suo gesto, e anche se sotto la giacca scura sia il blazer che la camicia erano ben abbottonati, aveva un gran freddo. Se da un momento all'altro si fosse messo a nevicare, la cosa non lo avrebbe di certo stupito.

    Sorpassato il quarto di cinque semafori si disse mentalmente di non voltare il viso a sinistra, ma un vago profumo di spezie si insinuò nel suo naso e lo indusse a guardare nella direzione che fino a quel momento aveva cercato di ignorare. Ohayou Ramen era uno dei migliori ristoranti del quartiere, in particolare per le sue zuppe di maiale, e transitandogli davanti ogni giorno Kaname si era ritrovato spesso a osservare con aria sognante le vetrine leggermente offuscate dal calore proveniente dalle cucine, a fiutare l'aria pregna di profumi delicati e confortanti. Avrebbe dato tutti i suoi yen pur di entrare lì dentro e riscaldarsi con una ciotola fumante di ramen, ma in realtà non poteva permettersi soste neppure per allacciarsi le scarpe.

    Da aprile, Kaname lavorava presso uno studio legale del quartiere – era il suo master post-laurea per prepararsi al lungo dottorato che avrebbe cominciato di lì a circa un anno.

    Da otto mesi, ormai, si ripeteva ogni giorno la stessa storia: si alzava alle sei, indossava il completo da ufficio, faceva colazione in fretta perché terrorizzato all'idea di arrivare in ritardo – anche quando era evidente che sarebbe giunto allo studio legale in orario, prendeva la ventiquattrore con all'interno il blocco degli appunti e si dirigeva sul posto di lavoro. Trascorreva la mattinata nello studio legale, fino a mezzogiorno e trenta, poi, per una ragione molto semplice, doveva correre a casa.

    Moniwa sorpassò il quinto semaforo, fermandosi una decina di metri più avanti, di fronte a un portone. Estrasse le chiavi dalla tasca della giacca e non appena entrò all'interno del condominio esalò un sospiro di sollievo: il tepore era così piacevole da essere riuscito perfino a smorzare il suo appetito.

    Kaname salì una rampa di scale, fermandosi davanti alla porta numero tre. Le chiavi tintinnarono contro la serratura, ma questa scattò senza che lui si fosse effettivamente mosso e la porta si aprì subito dopo.

    «Mhn?» Moniwa sollevò leggermente le sopracciglia, preparandosi a posare la ventiquattrore a terra «Tetsu-chan, è successo qualcosa?»

    Ogni volta che tornava a casa la trovava intenta a ordinare i quaderni e i libri utilizzati in mattinata, oppure distesa sul divano o, più frequentemente, già seduta a tavola, pronta a reclamare il pranzo; non era mai accaduto che fosse rimasta ad aspettarlo dietro la porta e che, addirittura, lo avesse preceduto nell'aprirla.

    Sua sorella, Tetsuko, era il motivo per cui, una volta terminato il proprio lavoro allo studio legale, doveva correre a casa senza concedersi neppure una sosta di cinque minuti. Frequentava la prima elementare e finite le lezioni, a mezzogiorno in punto, tornava a casa per conto suo, ma i genitori – che lavoravano fino a tardi – gli avevano raccomandato di fare in modo che non restasse sola per più di un'ora.

    Moniwa, in realtà, la reputava piuttosto autonoma ed era certo che sarebbe stata capace di provvedere a se stessa anche per più di tre o quattro ore. Era una bambina vivace, certo, ma era anche ubbidiente e per nulla sconsiderata, tuttavia non si era mai opposto al volere dei genitori e avrebbe continuato a badare a lei fino a quando gli sarebbe stato possibile.

    «C'è un signore che vuole parlarti, onii-chan!» esordì lei, ora abbarbicata alle gambe del fratello, gli occhi chiusi e la guancia paffuta contro le sue ginocchia.

    «Un signore che vuole parlarmi?» Kaname si guardò intorno, soffermandosi in particolare sull'ascensore. «E dove sarebbe?»

    «In casa!»

    Si sentì gelare il sangue.

    «In casa nostra? L'hai fatto entrare?»

Tetsuko restò abbracciata alla sue gambe, ma sollevò il viso per guardarlo e annuì con un leggero cenno del capo.

    «H-hai fatto entrare uno sconosciuto?» doveva ritirare tutto: forse un po' sconsiderata lo era. «Mio Dio, Tetsu-chan, ti ho detto mille volte di non aprire a nessuno, è pericoloso‒» non appena lei lasciò la presa, lui avanzò, seppur con le gambe rigide e il respiro smorzato.

    Moniwa era una persona ansiosa e neppure troppo coraggiosa, e in quel momento non sapeva davvero cosa aspettarsi, semplicemente rabbrividiva al pensiero del pericolo corso dalla sorellina.

    Chiuse la porta e affidò la ventiquattrore a Tetsuko. «Mettila sul mio letto, poi va' in camera tua e resta lì finché non te lo di‒»

    «Ma io ho fame!» la bambina si lagnò immediatamente, le braccia sottili impegnate a sorreggere la valigetta di pelle.

    Moniwa la guardò per qualche istante, le dita premute alla radice del naso. Esalò un sospiro rassegnato, riprendendo a parlare poco dopo: «Ci sono due barrette ai cereali sulla mia scrivania, per ora cerca di accontentarti. Io faccio presto, d'accordo?»

    Tetsuko annuì appena. Non gli sembrò molto convinta, ma fortunatamente si diresse verso camera sua senza fare altre storie.

    Kaname trattenne il respiro fino a che i passi leggeri della sorellina non si udirono più, poi inspirò profondamente, voltando il viso alla propria destra, in direzione del salotto: perché una bambina intelligente e ubbidiente come Tetsuko aveva fatto entrare uno sconosciuto? Che cosa l'aveva convinta a prendere una decisione tanto avventata? Il loro ospite doveva avere qualcosa di veramente particolare, altrimenti Kaname non sarebbe mai riuscito a spiegarsi il motivo di un tale rischio.

    Deglutì appena, indugiando nell'atrio. L'università gli era stata utile per fronteggiare la sua innata timidezza, ma non amava particolarmente parlare con gli sconosciuti e avrebbe evitato volentieri qualsiasi confronto, tuttavia in quel momento era perfettamente consapevole dell'importanza di assicurarsi che l'ospite non fosse pericoloso.

    Avanzò lentamente, le dita della mano sinistra nuovamente impegnate a massaggiare la radice del naso, gli occhi socchiusi. Rallentò vistosamente in prossimità del salotto, poi, giunto a pochi passi dall'entrata, si fermò e protese leggermente il viso per sbirciare al suo interno.

    La prima impressione che ebbe di quel ragazzo seduto nel suo salotto fu quella di un grosso e annoiato orso polare in attesa che la foca facesse capolino dal buco nel ghiaccio.

    Anche se era seduto era facilissimo coglierne non solo la larghezza delle spalle, ma anche l'altezza. Aveva i capelli bianchi e leggermente arruffati, un'espressione seria e lineamenti massicci, ma probabilmente aveva la sua stessa età.

    Kaname si sostenne con entrambe le mani allo stipite della porta, deglutendo a fatica ed emettendo un singulto non appena il suo ospite lo guardò.

    «B-buongiorno» balbettò, spaventato a morte dallo sguardo truce dell'altro, che non rispose ma abbassò il capo in un cenno veloce.

    Moniwa rimase fermo sulla porta ancora per un po', il respiro trattenuto e i muscoli delle gambe rigidi, intirizziti dal terrore: non aveva mai incontrato un ragazzo così intimidatorio, forse era entrato perché sua sorella era scappata in camera non appena lo aveva visto e aveva lasciato la porta aperta – era la dinamica più plausibile a cui riusciva a pensare.

    Moniwa si scostò dallo stipite della porta e avanzò lentamente, pensando a cosa fosse più appropriato dire in quella circostanza, ma senza trovare una risposta.

    «Sono Aone Takanobu» la voce grave e vagamente meccanica del suo ospite lo fece sobbalzare. Restò imbambolato per qualche istante, le labbra serrate.

    «Piacere di conoscerla,» boccheggiò, accennando un inchino con il capo. L'altro rispose allo stesso modo, ma il movimento fu tanto rigido da dargli l'impressione che il suo ospite fosse anche più a disagio di lui – e questo lo tranquillizzò un po'. «Come... emh, come posso esserle utile? Conosce i miei genitori?»

    Kaname si sentiva come quando la notte si alzava e cominciava a tastare nel buio in cerca dell'interruttore della luce. Sì: procedeva a tentoni. Era l'espressione giusta.

    Aone negò con un cenno del capo, poi inclinò il busto.

    Moniwa notò solo in quel momento la valigetta ai piedi dell'ospite. Lo vide estrarre un quaderno che gli porse poco dopo e che lui afferrò, seppur esitante. Osservò il disegno stilizzato in copertina: sembrava un palco di cervo, ma il colore verde faceva pensare ai rami di un giovane albero. Lo aprì e lo sfogliò in silenzio, per poi tornare a osservare il suo ospite con le labbra leggermente protese in avanti per l'evidente confusione.

    «È vuoto...» si sentì estremamente imbarazzato nel farglielo notare, poi, osservando Aone da vicino, notò qualcosa che lo mise ancor più a disagio: il suo ospite non aveva sopracciglia.


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N e r i m a   p r e f e t t u r a   d i   T o k y o



Detestava consegnare pizze anche durante l'ora di pranzo, ma se voleva continuare ad avere un tetto sulla testa non poteva fare altrimenti.

    Shirabu lavorava come fattorino presso una delle migliori pizzerie di Nerima, e da circa un anno si ripeteva che prima o poi avrebbe trovato un incarico migliore, un impiego che andasse a vantaggio non solo della sua realizzazione personale, ma anche del suo portafoglio; tuttavia, più tempo passava più quella speranza si affievoliva. Forse il suo presenta era già il suo futuro, forse sarebbe rimasto ancorato per tutta la vita a un misero stipendio e a uno squallido monolocale in uno dei quartieri più malfamati della zona.

    Se pensava a tutto ciò che aveva passato prima di giungere a Nerima, però, non poteva che considerarsi fortunato – dopotutto adesso aveva uno spazio suo, un'infinitesimale parte di mondo che pagava con il proprio stipendio; aveva la sicurezza di potersela cavare da solo, ma soprattutto aveva imparato a non soffrire il rifiuto degli altri.

    Quanti dei suoi curricula erano stati cestinati nell'arco di un anno? Probabilmente più di mille, ma a chi poteva interessare una persona senza alcun attestato di istruzione e la cui unica competenza lavorativa era consegnare pizze? Lo sapeva benissimo anche lui che tutto quel tempo trascorso a compilare candidature di ogni tipo sarebbe andato sprecato, non aveva posto alcuna speranza in nessuno dei curricula consegnati né si era soffermato troppo a riflettere su un lavoro che avrebbe voluto davvero provare. Era deciso a perseverare senza stigmatizzarsi troppo. E se gli capitava di demoralizzarsi pensava che per lo meno un lavoro lo aveva.

    «Porca puttana...» borbottò a denti stretti, il capo leggermente chinato nella speranza di proteggere il collo dalle raffiche di vento: faceva molto freddo, senza contare che addosso aveva soltanto un maglione piuttosto sottile e la casacca e i pantaloni della pizzeria, di un tessuto dal colore decisamente discutibile e fin troppo leggero. Non vedeva l'ora di tornare a casa per infilarsi sotto le coperte e non uscirne fino alle diciotto.

    Casa sua distava circa venti minuti a piedi dalla pizzeria – in realtà quaranta, ma conosceva una scorciatoia e aveva un passo molto veloce.

    Mancavano appena due vicoli per giungere allo spiazzo cementificato che fungeva da parcheggio per le auto del grosso caseggiato in cui abitava, perciò si fece forza e allungò ulteriormente il passo, i muscoli facciali intorpiditi dal freddo, le dita delle mani arrossate.

    Transitò in fretta di fronte alla serranda chiusa di una piccola farmacia e imboccò un vicolo puzzolente che aveva già percorso centinaia di volte. Osservò con disgusto i cassonetti spalancati, aspettandosi di vedere – non senza una certa apprensione – un topo col pelo arruffato rosicchiare qualche scarto di cibo in putrefazione, ma notò che intorno ai bidoni della spazzatura era tutto pulito e che il caratteristico fetore che normalmente impregnava le pareti del vicolo era molto meno marcato del solito.

    Non si fermò neppure per un istante e non appena tornò a guardare davanti a sé colse con la coda dell'occhio un movimento alla propria sinistra: qualcuno che fino a pochi secondi prima era poggiato al muro aveva cominciato a seguirlo.

    Doveva essere membro di una qualche gang, dopotutto gli era capitato spesso di avere a che fare con i teppistelli del quartiere, anche in pieno giorno, perciò non si stupì più di tanto.

    Shirabu chiuse gli occhi per pochi secondi, sbuffando: avrebbe potuto ucciderlo, dopotutto era già successo, ma non voleva esporsi ulteriormente. Gli era già capitato un paio di volte di scontrarsi con delle gang, ma il temporale gli aveva fatto da copertura, aveva reso fattibili le morti di due ragazzi che in giornate come questa, fredde ma senza pioggia, sarebbero invece risultate assurde.

    Misurava sempre le conseguenze di una morte, ecco perché quando aveva bisogno di soldi uccideva solo durante i temporali e solo persone anziane rimaste completamente sole. I teppistelli della zona erano un'eccezione, esistenze che lui non osava sfiorare con un dito se non quando lo minacciavano.

    Kenjirou mosse appena la testa, rivolgendo una rapida occhiata a destra e poi a sinistra: non c'era nessuno e all'uscita del vicolo mancavano come minimo dieci metri. Forse non poteva ucciderlo, ma se erano soli cosa gli impediva di voltarsi e assestargli un bel pugno in piena faccia?

    «Shirabu Kenjirou?»

    Shirabu si costrinse a contenere un sussulto: si sarebbe aspettato di tutto, ma non di essere chiamato per nome da una voce sconosciuta. Possibile che fosse uno degli amici dei due teppisti morti? Magari era in cerca di vendetta e ne era stato così ossessionato da arrivare perfino a scoprire il suo nome.

    Continuò a camminare, nella speranza che l'altro si arrendesse, ma tre dita affusolate si aggrapparono alla manica del suo maglione.

    Shirabu rallentò appena e guardò alla sua sinistra, ma senza alcuna reazione brusca, perché dopotutto la presa dell'altro era davvero molto delicata.

    Il ragazzo che lo aveva chiamato per nome sembrava tutto fuorché un teppista: aveva un'espressione concitata, le labbra serrate con forza e le guance vagamente arrossate, come se fosse stato infastidito dal vento gelido e, allo stesso tempo, davvero molto felice di vederlo. E poi aveva un taglio di capelli davvero ridicolo – forse si era messo un'insalatiera in testa e aveva tagliato senza particolare cura tutte le ciocche che ne erano fuoriuscite.

    «Scusami, non ho tempo» comunque Shirabu non aveva intenzione di fermarsi e fare la sua conoscenza. Non gli importava che quel ragazzo sapesse il suo nome, voleva soltanto tornare a casa.

    «Io mi chiamo Goshiki Tsutomu.»

    Avrebbe voluto rispondere che non gliene importava nulla, ma si trattenne e si limitò ad accelerare il passo e a scuotere il braccio nella speranza di far desistere l'altro.

    «Aspetta! Io ti conosco» l'altro rafforzò la presa.

    Shirabu inarcò un sopracciglio, rivolgendogli un'occhiataccia: «Ah sì? Mi pare di non averti mai visto» sfiatò, scuotendo nuovamente il braccio.

    «Infatti sono io a conoscere te. Tu non mi hai mai visto‒»

    «Adesso piantala di dire cazzate e lasciami il braccio.»

    «No, dico davvero‒»

    «Lasciami il braccio!»

    Il ragazzo restò aggrappato, così Shirabu si vide costretto a farlo desistere con le maniere forti.

    Goshiki avvertì una scossa accartocciargli le dita della mano destra. Mollò immediatamente la presa e si massaggiò l'avambraccio, mugugnando appena a causa del forte bruciore sulla pelle, poi guardò davanti a sé e scoprì che Shirabu era già a qualche metro dall'uscita del vicolo.

    Restò a fissarlo per un po', la fronte arricciata in un piccolo cruccio e le labbra piegate in una smorfia di sconforto dovuta più che altro all'intorpidimento della mano e del braccio destro.

    Tsutomu stese le braccia lungo i fianchi e, ritto in piedi, inspirò con forza dalle narici, gonfiando il petto come un soldato, poi buttò fuori tutta l'aria che aveva in corpo e cominciò a correre.

    Questa volta, non appena si sentì afferrare, Shirabu si fermò.

    «Ti ho detto di non rompere!» reagì di nuovo, ma questa volta il ragazzo con la testa di fungo non lo lasciò e fu lui stesso a soffrire una scossa dolorosa e inaspettata.

    Shirabu sussultò, per poi arricciare il naso e aggrottare la fronte: era infastidito e anche un po' sorpreso.

    «Cosa...? Tu hai appena...» non riuscì a dire altro. Goshiki sorrise.




L'angolino della piantina autoritaria
(You should read this):

Non vedevo l'ora di pubblicare! Il capitolo l'ho terminato almeno una settimana fa, ma come potete notare è davvero molto lungo (cosa di cui sono veramente soddisfatta, visto che tento sempre di scrivere capitoli lunghi senza grandi risultati; questo mi è venuto naturale~ ovviamente è così lungo causa presentazione personaggi, sicuramente i prossimi saranno più brevi), quindi ci ho messo sì e no una settimana per revisionarlo.
Duuunque, sulla pagina Facebook (Neu Preussen FB Page) mi sono divertita a postare anticipazioni su ogni personaggio, ma erano molto difficili da indovinare e infatti ci è riuscita solo Elena con Eita (i miei complimenti, mi hai commossa, non credevo che qualcuno avrebbe pensato a lui ;u;).
Come dicevo, questo capitolo è consacrato più che altro alla presentazione dei personaggi e al loro background. Di alcuni sappiamo già i poteri, mentre gli shinigami (che, attenzione, non sono protagonisti, ma personaggi comunque molto molto importanti che affiancheranno i nove protagonisti nel corso della storia) sono abbastanza intuibili.
In sintesi abbiamo (a sinistra i protagonisti e a destra gli shinigami):
Kageyama (fuoco) – Hinata
Sugawara (non ho ancora specificato il suo potere, ma penso sia abbastanza intuibile) – Shimizu
Akaashi (non ho ancora menzionato il potere) – Bokuto
Kenma (non ho ancora menzionato il potere) – Kuroo
Oikawa (non ho ancora menzionato il potere) – Iwaizumi
Yahaba (ghiaccio) – Kyoutani
Semi (controllo del tempo) – Tendou
Moniwa (non ho ancora menzionato il potere) – Aone
Shirabu (si capisce, dai /???/) – Goshiki
Il prossimo capitolo (che sarà pubblicato il 30 novembre) riguarderà più che altro il ruolo degli shinigami e il funzionamento dei quaderni consegnati ai protagonisti (e probabilmente sarà rivelato qualche altro potere; a proposito di questo, anche gli shinigami hanno dei poteri, quindi ci sono ancora molte cose che devono essere rivelate).
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che la scelta di tali protagonisti (il mio amore per i setter mi ha spinto a questo, chiedo venia) non sia motivo di disinteresse verso la storia.
Spero di riuscire a rispettare l'IC il più possibile (visto che non sarà facile gestire personaggi poco considerati come Kyoutani e Yahaba o nuovi come Eita, Tendou, Shirabu e Goshiki), o comunque di riuscire ad adattarlo al background che ho destinato a ognuno di loro.
Il titolo del capitolo riguarda ovviamente il filo rosso del destino, che in questo caso unisce i nove protagonisti ai nove shinigami.
Grazie a chi ha letto il primo capitolo, a chi ha inserito la storia fra preferiti/seguiti/ricordati, a chi ha recensito (poi vi rispondo, promesso! ;u;'), a chi recensirà, a chi mi ha scritto in mp e a chi ha commentato in pagina~
Per chi mi segue in pagina, penso che nel prossimo mese ci saranno almeno due o tre post dedicati alle anticipazioni~ e ora, finalmente, posso mettermi a lavorare sul prossimo capitolo **
Alla prossima!

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Capitolo 3
*** III – Vento di guerra sulle teste dei reietti ***


III


Vento di guerra sulle teste dei reietti




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S h i b a t a   p r e f e t t u r a   d i   M i y a g i



    Per la prima volta in tutta la sua vita, Kageyama si ritrovò a considerare la possibilità di avere doti telepatiche. Nemmeno era capace di dare una definizione di “telepatia”, sapeva di cosa si trattava solo a grandi linee e pertanto non sarebbe mai riuscito a spiegare a parole un fenomeno simile, tuttavia avvertiva una strana sensazione, come se – volente o nolente – fosse entrato in simbiosi con il ragazzino pazzo del vicolo.

    Nonostante non conoscesse quel ragazzino e lo avesse visto per un brevissimo lasso di tempo, Tobio si sentiva sempre più legato a lui. Era convinto fosse ancora dietro la porta di casa sua, ad aspettarlo; era quasi certo di poterne rilevare la presenza in ogni momento, come se riuscisse a sentirlo pur senza l'ausilio di suoni o di particolari odori.

    In cuor suo, Kageyama sperava si trattasse soltanto di un presentimento dettato da una suscettibilità recondita, ma forse l'istinto aveva ragione. Ciò di cui era certo, comunque, era che non aveva alcuna intenzione di alzarsi dal letto e uscire dalla propria camera.

    Immerso nella penombra, osservava la plafoniera spenta nel silenzio più assoluto, la testa sul cuscino, le mani congiunte sul petto e la gamba sinistra leggermente piegata. Si potevano cogliere soltanto il movimento lento e regolare del suo petto e il sibilo sottile del suo respiro.

    Kageyama chiuse gli occhi per qualche secondo, poi increspò le labbra e le protese in una piccola smorfia, sospirando rumorosamente. Pensò al ragazzino pazzo davanti alla sua porta, poi a sua madre che strofinava un canovaccio umido e profumato sul tavolo di cucina, già pulito e lucido da ore.

    Dovevano essere le sedici e trenta – lo sapeva perché non molto tempo addietro aveva sbirciato la sveglia digitale –, quindi mancava ancora qualche ora prima che fosse costretto a uscire per andare a lavorare, ma questo pensiero non fu sufficiente a distogliere la sua attenzione dall'immagine fissa del ragazzino con i capelli arancioni. Forse era meglio andare a controllare, altrimenti avrebbe trascorso l'intera giornata in preda ai tormenti.

    Scoprire che oltre la porta che lo proteggeva dal mondo esterno non c'era nessuno lo avrebbe aiutato sicuramente ad affrontare con più facilità la monotonia e l'apatia.

    Kageyama sospirò ancora, poi lasciò scivolare entrambe le gambe lateralmente e si mise seduto. Rivolse una rapida occhiata alle forme spigolose della finestra chiusa, fumosa oltre le sottili tende arancione chiaro: non c'era il sole, ma la luce sprigionata dal cielo bianco era davvero molto forte.

    In quel momento rimpianse moltissimo la decisione di fumare la Winston Blue di ritorno dall'università. Ne aveva molto più bisogno in quel momento, e se lo avesse saputo l'avrebbe conservata più che volentieri.

    Tobio uscì da camera sua qualche minuto più tardi. Attraversò in fretta il corridoio centrale, una smorfia fissa in viso a causa del frastuono dell'aspirapolvere proveniente dal salotto, poi, arrivato all'ingresso, aprì la porta senza indugi, sicuro che non avrebbe trovato nessuno – d'altronde il ragazzino pazzo poteva essere solo frutto della sua immaginazione.

    «Kageyama! Finalmente!»

    Le dita di Tobio furono attraversate da uno spasmo, una scossa leggera che le distese e poi le costrinse a impugnare con più forza la maniglia.

    «Devi ascoltarmi, Kageyama! È pericoloso!» era ancora il ragazzino pazzo, che adesso gesticolava e strepitava di fronte a lui come se fosse stata la cosa più naturale del mondo. Probabilmente non riusciva a mettersi nei suoi panni, mancava di empatia, difetto che poteva confermare realmente il suo essere pazzo.

    «Vattene,» Kageyama sibilò, già pronto a chiudere la porta «non ho tempo da perdere dietro alle tue fesserie.»

    «Kageyama!»

    Tobio sentì i nervi della fronte pulsare a fiori di pelle: non riusciva a sopportare la voce acuta e leggermente stridula dell'altro, lo faceva sentire quasi soffocato, oppresso, come se una forza invisibile gli stesse impedendo ripetutamente di fare qualcosa di assolutamente legittimo e innocuo.

    Kageyama spinse la porta in avanti, ma trovò immediatamente una forza opposta di una potenza tanto inaspettata che, almeno in un primo momento, gli fece perdere il contatto dei piedi sul pavimento.

    «Se ti trovo ancora qui» sbottò, i denti stretti, i muscoli delle braccia tesi e duri «giuro che ti ammazzo. E adesso» Tobio inspirò con forza, inarcò ulteriormente la schiena e fece leva sui piedi, riuscendo finalmente a chiudere la porta «vattene!»

    Restò fermo per qualche secondo, gli occhi chiusi, i piedi puntati saldamente a terra, le spalle leggermente sollevate e le braccia distese lungo i fianchi, le dita delle mani raccolte in due pugni tremanti.

    Quel ragazzino, Hinata, aveva nelle proprie braccia molto più forza del previsto. Che provenisse davvero da un altro mondo? Tobio aprì gli occhi e guardò il pavimento: magari gli aveva detto così perché era un po' stupido, ma ciò non escludeva che potesse essere in possesso del cromosoma Z proprio come lui.

    Avrebbe fatto bene a cacciarlo via, se lo avesse trovato nuovamente di fronte a casa sua? Questo si chiedeva Tobio, le labbra increspate verso il basso, contratte in una smorfia di tristezza, le palpebre leggermente abbassate, gli occhi vuoti ancora rivolti al pavimento lucido.

    Si voltò lentamente, pochi istanti dopo, e si sorprese nel trovare sua madre che, in fondo al lungo corridoio, lo fissava con le mani bianche strette attorno a un canovaccio bagnato. A quanto pareva il suo breve diverbio con Hinata era servito a distoglierla dalla pulizia per qualche minuto, ma la tristezza nello sguardo di Kageyama non scomparve, anzi si intensificò non appena la donna rientrò in salotto senza dire una parola. Il rumore dell'aspirapolvere tornò a martellargli le orecchie pochi istanti più tardi.


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S h i n j u k u   p r e f e t t u r a   d i   T o k y o



Sugawara non avrebbe dovuto farlo, ma in quel frangente sentì che abbassare le serrande per qualche minuto lo avrebbe aiutato a restare tranquillo e a capire con più facilità ciò che stava accadendo.

    Shimizu era rimasta seduta al bancone e lo aveva osservato per tutto il tempo, il quaderno nero poggiato sulla superficie di marmo scuro.

    «Beh...» Koushi esitò, sedendosi accanto a lei con cautela «mi sarei aspettato qualunque tipo di cliente, ma tu... sei davvero uno shinigami

    «Per rispondere a questa domanda ho bisogno di sapere che cosa intendi tu per shinigami, Sugawara-san.»

    Sugawara scrutò Shimizu e restò in silenzio per qualche istante, pervaso dalla speranza che per shinigami intendesse qualcosa di diverso da quello che aveva immaginato lui.

    «Gli shinigami sono una divinità della nostra mitologia e personificano la morte» mormorò senza smettere di guardarla: come poteva una ragazza così graziosa personificare qualcosa di tanto orribile?

    «Non c'è un solo shinigami,» la vide annuire appena «e tutti sono in qualche modo collegati alla morte. Ad esempio, se non ricordo male, ce ne sono alcuni che ti fanno desiderare il suicidio.»

    «Questa è la concezione mitologica. La morte avviene per cause naturali, per mano altrui, propria o per tanti altri motivi, ma posso assicurarti che non è legata in alcun modo all'esistenza degli shinigami, quindi puoi stare tranquillo.»

    «Menomale» Koushi tirò un sospirò di sollievo, per poi forzare le labbra in un sorriso: era liberatorio sapere che quella visita non aveva nulla a che fare con la morte, ma le informazioni ricevute non erano sufficienti perché potesse tranquillizzarsi del tutto.

    «Sugawara-san?» la vide chinare leggermente il viso, gli occhi bassi e le guance leggermente arrossate mentre sistemava una ciocca corvina dietro l'orecchio destro. «Potrei avere un altro tè alla rosa? Era...» borbottò imbarazzata «era davvero molto buono.»

    Koushi sbatté le palpebre un paio di volte, sorpreso da quella richiesta, poi si rialzò e tornò dietro al bancone.

    «Non c'è problema, Shimizu-san, ma mentre lo preparo potresti spiegarti meglio su quello che intendi per shinigami

    Shimizu annuì, riprendendo a parlare non appena l'altro mise l'acqua in ebollizione.

    «Non viviamo qui.»

    «Per “qui” cosa intendi?»

    «Sulla terra. Viviamo altrove, ma possiamo vedervi e conosciamo molte cose riguardo la vostra cultura, in effetti credo sia per questo che ci definiamo shinigami e pensiamo al posto dove viviamo come una dimensione in cui confluiscono le anime dei morti.

    La cosa più importante è che siamo connessi a voi e che anche noi abbiamo dei poteri.»

    «Poteri?» Sugawara volse le spalle alla teiera metallica e tornò a fissarla. «Tu cosa... cosa sai fare?»

    Shimizu aggrottò leggermente la fronte, per poi voltare il viso verso l'uscita del locale, come se avesse temuto che le serrande fossero state nuovamente sollevate.

    «Shimizu-san, se non vuoi non sei obbligata a‒» appena la vide indicare qualcosa, Sugawara ammutolì.

    «Sugawara-san, quello ti serve?»

    «Mhn?» Koushi voltò leggermente il viso, soffermandosi per qualche istante su un boccale di vetro che non usava mai perché venato. «No» mormorò appena, senza riuscire a staccare gli occhi dal boccale.

    Pochi istanti dopo, la crepa sul vetro si ingrandì. Con uno scricchiolio fastidioso, il boccale perse la sua forma e divenne un cumulo di frammenti luminosi in bilico sul bordo della mensola.

    Sugawara restò immobile, le labbra appena schiuse, contratte in un'espressione incredula.

    «Hai... hai detto che siamo connessi,» Koushi non attese una risposta, gli occhi ancora fissi sui resti del boccale «ma in che modo?»


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    «Succede periodicamente!»

    «Già! All'incirca ogni cinquant'anni, a volte anche cento.»

    «Dal momento in cui ciascuno dei prescelti ha compiuto vent'anni, noi vi veniamo assegnati!»

    Akaashi non ne poteva più di quello schiamazzo continuo. Si stava pentendo amaramente di aver fatto entrare in casa sua quei due sconosciuti, ma aveva sentito di non poter fare altrimenti e anche in quel momento, nonostante tutto, non avrebbe permesso a nessuno di andarsene.

    I due sconosciuti sembravano entusiasti: entrambi sventolavano un piccolo taccuino nero con le labbra increspate in un sorriso sottile, ma in un primo momento Keiji riuscì a soffermarsi soltanto sul rapido e disordinato accavallamento delle loro parole.

    «Kuroo-san, Bokuto-san, vi prego di smetterla» Akaashi si pronunciò con decisione, mentre Kenma, fermo dietro di lui, restò a osservarli in silenzio. «Ci state dicendo che siete creature con poteri soprannaturali?»

    «Shinigami!» puntualizzò fieramente Bokuto, il dito indice sollevato verso il soffitto.

    «E periodicamente venite assegnati a persone come me e Kenma?»

    Il ragazzo con i capelli neri, Kuroo, annuì appena, per poi indicare Bokuto. «Non sempre, in realtà, ma questa volta è successo. Se non credi alla storia dei poteri soprannaturali, guarda cosa sa fare lui.»

    «Ci crediamo» Kenma parlò, con grande sorpresa di tutti. Si era fatto avanti solo di qualche passo, incerto e timido, e adesso scrutava Kuroo di sottecchi. «Akaashi, stanno dicendo la verità.»

    Keiji guardò l'amico senza fiatare, le labbra leggermente increspate verso il basso: Kenma aveva colto la diffidenza e la paura nei suoi pensieri, ma doveva essere entrato con altrettanta facilità nella mente dei due shinigami e adesso lo stava rassicurando sulla loro identità.

    Akaashi inspirò appena, per poi rivolgere un'occhiata a Bokuto e Kuroo: se Kozume gli diceva così, non poteva che fidarsi.

    Con sguardo inespressivo e voce atona, Keiji chiese quale dei due fosse il suo shinigami.

    «Avresti dovuto riconoscermi fin dall'inizio, Akaashi!» Bokuto mostrò i denti in un sorriso solare, al quale Akaashi rispose con un sospiro rassegnato.

    «Avevo immaginato fossi tu, volevo solo esserne sicu‒» Keiji ammutolì non appena l'altro gli passò accanto, il viso leggermente sollevato, le braccia spalancate e gli occhi vaganti.

    «Che bella casa!» Bokuto si voltò verso Kuroo, le labbra piegate in un sogghigno. «Chissà se avrai la stessa fortuna» poi rivolse una rapida occhiata a Kenma, facendolo sussultare.

    «Cosa intendi?» Akaashi lo seguì con lo sguardo, l'espressione seria, rigida, le braccia conserte.

    «Mi sembra ovvio!» Bokuto gli diede le spalle, il viso ancora sollevato, rivolto all'alto soffitto.

    «Abiteremo con voi» fu Kuroo a dare una risposta concreta ad Akaashi, che serrò con forza le labbra.

    «Con... noi?» con timidezza, Kenma si rivolse a Kuroo, che sorrise nella speranza di rassicurarlo – di fatto, però, la sua espressione risultò forzata e vagamente inquietante, così da spaventarlo.

    Kozume lo guardò e attese che i battiti del suo cuore diminuissero di velocità, poi schiuse appena le labbra, ma le serrò subito dopo, senza dire niente e sforzandosi di sostenere lo sguardo del suo shinigami.

    «Se vuoi leggermi ancora nella mente, fa' pure.»

    Kenma spalancò appena gli occhi; Akaashi, invece, distolse la propria attenzione da Bokuto – intento a sbirciare una delle stanze adiacenti all'ingresso – e rivolse un'occhiata silenziosa a Kuroo.

    «Però, Kenma, questa è mancanza di fiducia, e sappi che la mancanza di fiducia è una premessa nociva per l'unione fra uno shinigami e il suo protetto.»

    Kozume restò in silenzio e abbandonò l'idea di sbirciare nuovamente nella mente dell'altro, dunque si rivolse nuovamente ad Akaashi, che annuì appena, come a volerlo rassicurare.

    Dopo qualche istante di esitazione, Akaashi indicò il taccuino nero che Kuroo stringeva ancora fra le mani.

    «Quello che cos'è?»


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S e n d a i   p r e f e t t u r a   d i   M i y a g i



    «Questo è di vitale importanza per te» il ragazzo posò il quaderno nero sul tavolo e lo mosse verso Oikawa, che ancora lo fissava con gli occhi sbarrati e le labbra schiuse in un'espressione incredula.

    Tooru non riusciva ancora a credere che uno sconosciuto fosse entrato in casa sua senza preoccuparsi di chiedergli il permesso, per non parlare del fatto che si era presentato come “suo shinigami”.

    Si chiamava Iwaizumi Hajime, e l'unico motivo per cui Oikawa aveva deciso di starlo a sentire era perché gli aveva detto che era a conoscenza del suo potere e che poteva aiutarlo a diventare più forte.

    Non riusciva proprio a immaginare cosa stesse per dirgli, ma non poteva fare a meno di prestargli la sua attenzione, soprattutto a causa del quaderno dalla copertina nera, con al centro una goccia azzurra ripiegata su se stessa come un'onda.

    «Immagino tu sappia che al mondo esistono altre persone come te» Iwaizumi spostò la sedia senza fare rumore e si sistemò con estrema calma, tuttavia, quando sollevò il proprio sguardo e incontrò gli occhi di Oikawa, ancora puntati su di lui, non poté fare a meno di inarcare le sopracciglia per la sorpresa: l'altro lo guardava con una luce totalmente diversa in volto, le palpebre quasi chiuse, le labbra increspate in un sorriso compito ma decisamente inquietante.

    Se guardava solo la bocca, Hajime vedeva l'innocuo sorriso di circostanza di un ragazzo educato; soffermandosi sugli occhi, invece, si poteva avvertire immediatamente una schiacciante carica di cattiveria. Guardare il viso di Tooru nel suo insieme, immobile e inquietante come una maschera a due facce, gli provocò una fitta allo stomaco.

    «Proprio in questo momento alcuni di loro, otto, per la precisione, stanno ricevendo un quaderno simile al tuo.»

    «E anche loro lo stanno ricevendo da uno shinigami

    «Sì,» Iwaizumi annuì appena, spostando ancora di qualche centimetro il quaderno e riprendendo a parlare solo quando Oikawa lo ebbe afferrato «e riceveranno anche le stesse istruzioni che sto per darti io, perciò fa' molta attenzione a quello che ti dico.»


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Le dita di Yahaba artigliarono il pavimento freddo, le labbra serrate nascosero i denti bianchi, ora digrignati. Umiliato, era seduto a terra, caduto rovinosamente a causa della spinta violenta da parte dell'altro ragazzo.

    In normali circostanze, Shigeru si sarebbe rialzato immediatamente, avrebbe reagito, prevalso, non sarebbe certo rimasto a fissarlo con le labbra contratte in una smorfia, intento a sorreggere con dignità il peso dell'orgoglio spezzato, ma quel ragazzo – che si era presentato come Kyoutani Kentarou – gli aveva appena confessato di essere uno shinigami e che il quaderno che stringeva fra le mani gli sarebbe potuto tornare molto utile.

    «Ti ascolto» nonostante tutto, fu proprio Yahaba a rompere il silenzio, impaziente di ricevere una spiegazione che avrebbe potuto perfino fargli cambiare idea sul bastardo che lo aveva buttato a terra con la stessa facilità con cui un gatto avrebbe potuto uccidere un topo.

    Kyoutani arricciò leggermente il naso, infastidito dall'intonazione secca e aspra dell'altro, sulla quale, però, decise di non soffermarsi più di tanto.

    «Prima di tutto dovrai scoprire i nomi degli altri otto» Kyoutani borbottò, ammutolendo non appena si accorse del cambiamento nell'espressione dell'altro.

    «Un nome potrei già conoscerlo» Shigeru, il volto più rilassato, non poté fare a meno di trattenere un sorrisetto compiaciuto, ma pochi secondi dopo esortò nuovamente l'altro a procedere con la spiegazione.

    «Scrivendo il nome di un dotato di cromosoma Z su questo quaderno e uccidendolo, potrai acquisirne il potere» Kyoutani continuò, ma senza risparmiarsi un'occhiataccia verso il proprio protetto, che a quanto pareva non aveva intenzione di smetterla con i capricci.

    «Qual è il tuo ruolo in tutto questo?» Shigeru si augurò non dovessero collaborare, che quel ragazzo fosse solo una sorta di messaggero, un messo venuto da lui solo per consegnargli il quaderno e istruirlo sul da farsi.

    «Alzati.»

    Yahaba assottigliò il proprio sguardo e, in uno spasmo nevrotico, rafforzò la presa delle dita fra le piastrelle fredde, come se improvvisamente, dopo aver pensato per tutto il tempo di rialzarsi, avesse deciso di restare seduto sul pavimento.

    Kyoutani, dal canto suo, sollevò leggermente il mento, offeso e infastidito dall'opposizione dell'altro.

    «Mi rispondi o no?»

    «Ti ho detto di alzarti.»

    Shigeru avrebbe voluto alzarsi non tanto per compiacere l'altro, quanto più per tentare di attaccarlo di nuovo e metterlo a tacere per un po', fargli capire chi comandava, tuttavia intese che se voleva sentire un seguito avrebbe fatto meglio a seguire le sue direttive senza stravolgere la situazione, quindi, sbuffando leggermente e senza scostare il proprio sguardo da Kyoutani, si rialzò.

    Kyoutani attese prima di ricominciare a parlare, infastidito dallo sguardo insistente dell'altro, che almeno in un primo istante pensò di non riuscire a sostenere.

    «Noi shinigami abbiamo più che altro il compito di difendervi,» Kentarou indugiò solo per qualche istante, procedendo a voce più bassa «ovviamente non l'ho deciso io, farei volentieri a meno di difendere uno come te.»

    «Ah?» Yahaba sollevò appena le sopracciglia e il mento, in un'espressione di mera superbia. «Hai bisogno di essere addomesticato, ragazzino?»

    Kyoutani sferrò un pugno in direzione del volto di Yahaba, ma si ritrovò con la mano sospesa a mezz'aria, immobile, le dita serrate e rigide, avvolte da uno strato di ghiaccio sottile ma incredibilmente resistente.

    «Stavi dicendo?» Yahaba sibilò, un sorrisetto compiaciuto sulle labbra.

    Kyoutani digrignò i denti, ma abbassò il pugno. Lo sentì pesante contro il fianco, ancora rigido, le dita intirizzite e doloranti.

    «Non possiamo uccidere in alcun modo un dotato di cromosoma Z. Possiamo uccidere un altro shinigami, però.»

    «E io posso uccidere uno di voi?«»

    «No» Kentarou rispose con una certa soddisfazione, anche se la sua espressione incarnava tutto fuorché un sentimento positivo.

    «Quindi voi shinigami vi ammazzate fra di voi e noi umani ci ammazziamo fra di noi. Ho capito bene?»

    «Sì.»

    «Mi stai dicendo che potrei uccidere una persona come me e impossessarmi del suo potere?»

    «Sì.»

    «Allora so chi potrebbe essere il primo.»

    Kyoutani non disse nulla, piuttosto aprì e richiuse un paio di volte le dita, finalmente libere dal ghiaccio.

    Guardò la porta chiusa alle proprie spalle, le labbra arricciate in una smorfia di disappunto, poi tornò a rivolgersi verso Yahaba.

    «Fa troppo freddo qui dentro.»


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E d o g a w a   p r e f e t t u r a   d i   T o k y o



    Eita lo aveva guardato in cagnesco per tutto il tempo, confuso ma comunque molto concentrato.

    Che Tendou fosse strano lo aveva capito ad una prima, veloce occhiata, ma questo pensiero non era sufficiente a farlo desistere riguardo la convinzione che le sue parole, per quanto bizzarre, avessero un senso e, soprattutto, un fondo di verità.

    «Il quaderno non può essere distrutto in alcun modo.»

    Eita passò il polpastrello su un foglio di carta, per poi tornare a guardare l'altro.

    «È solo un foglio» forse non tutto aveva un fondo di verità, ad esempio come si poteva mettere in discussione la resistenza di un materiale fragile come la carta? «Basterebbero delle forbici per distruggerlo.»

    «Jan-ken-pon

    Non appena vide il pugno chiuso di Tendou arrestarsi a pochi centimetri dal quaderno, Eita sollevò leggermente le sopracciglia, come a volerlo interrogare sul suo gesto inaspettato e alquanto fuori luogo.

    «Il sasso batte le forbici! Non stiamo giocando a morra cinese?» Tendou, gli occhi spalancati e le labbra socchiuse, inclinò leggermente il viso verso sinistra, in un movimento ingessato e inquietante.

    «Direi proprio di no.»

    «Mhh,» Tendou ritirò la mano, per poi inarcare la schiena all'indietro «dovresti sorridere un po' di più, sai?»

    Eita si trattenne dal fargli notare la sua condizione, ma comunque si dimenticò quasi subito di quella breve conversazione, visto che Tendou, strappatogli il quaderno di mano e afferrato l'accendigas posto sul piano cottura, appiccò fuoco alla carta.

    «Ma cosa fai?! Guarda che‒ mh?»

    «Hai visto, Semi?» l'angolo della carta, ancora bianco e perfettamente intatto, era visibile oltre la fiammella bluastra, che lo aveva avvolto in un istante nella sua trasparenza opaca e calda. «Non brucia! Sorprendente, vero?»

    «Non brucia...» Eita ripeté a fior di labbra, osservando la fiamma che si allontanava dalla carta.

    Tendou gli restituì il quaderno, e quando Eita toccò l'angolo della pagina appena entrata in contatto con la fiamma dell'accendigas lo scoprì freddo.

    Un po' gli dispiaceva che fosse indistruttibile: avrebbe preferito di gran lungo vederlo bruciare, piuttosto che riempirlo di nomi di persone da uccidere come gli aveva detto il suo shinigami.

    «Se dovessimo incontrare qualcuno che è già riuscito a raccogliere uno o più poteri e tu riuscissi ad ucciderlo, questi passerebbero tutti a te.»

    «Non ucciderò nessuno» Eita tagliò corto, le braccia conserte.

    «Ahh?! Vuoi farmi morire di noia?! Ho fatto un lungo viaggio per arrivare fin qui!»

    «Sì, immagino» Semi sbuffò appena, per poi coprirsi la bocca a causa di un colpo di tosse. «Ho salvato un sacco di persone grazie alla mia abilità, non potrei mai...» dovette fermarsi per riprendere fiato, la mano che prima era sulla bocca adesso era ferma sullo sterno, lo premeva con forza, nella speranza di alleviare il dolore.

    «Se riuscirai a riunire tutti i poteri potrai chiedere che un tuo desiderio venga esaudito» Tendou fece solo una breve pausa. «Magari potresti chiedere di guarire.»

    Eita negò con un rapido cenno del capo, la mano ancora ferma sul petto.

    «Sto morendo. Vivo conoscendo la mia fine, ed è passato così tanto tempo, ormai, che mi sono abituato all'idea. Non cercherò di cambiare il mio destino: morirò presto, ma mi renderò utile fino alla fine, come ho sempre fatto.»

    «Le persone che hai salvato non sanno nemmeno che esisti.»

    «Questo non cambia il mio pensiero. Perché io che sto morendo dovrei uccidere delle persone? Persone simili a me, per di più.»

    «Perché loro tenteranno di uccidere te.»

    Eita assottigliò appena lo sguardo, pizzicato dal tono tagliente di Tendou. Restò in silenzio per qualche istante, le labbra increspate in una smorfia amareggiata, poi, non appena il dolore al petto scomparve, lasciò scivolare le braccia lungo i fianchi.

    «Sai che c'è? Se mi uccidessero mi farebbero soltanto un favore.»


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B u n k y o u   p r e f e t t u r a   d i   T o k y o



    Moniwa era sollevato. Se inizialmente i gesti di Aone gli erano parsi quasi incomprensibili, adesso riusciva a capire senza troppi sforzi ciò che l'altro gli stava dicendo.

    Non era facile comprendere la vera natura degli shinigami, distaccarsi dalla mitologia e dalle leggende metropolitane, da tutte le storie che, fin da bambino, lo avevano tanto affascinato quanto terrorizzato.

    Aone gli aveva raccontato che ogni shinigami aveva il suo territorio e che, di norma, conducevano un'esistenza piuttosto solitaria. Pochi si conoscevano di persona, e solitamente la misera manciata di rapporti che riuscivano a intrecciare si basavano su un sentimento di reciproca ostilità.

    Kaname li pensò come cani addormentati: non si doveva assolutamente disturbare la loro quiete, né invadere il loro territorio, altrimenti si mostravano riottosi o diffidenti – a seconda dei casi. Il suo shinigami, comunque, gli diede l'impressione di essere molto più pacifico di quanto suggerisse l'aspetto, anche se quello che gli aveva raccontato riguardo al quaderno gli aveva fatto venire i brividi.

    «Aone-san?» quando inalò l'aria tiepida del salotto, Moniwa si rese conto di avere la gola completamente secca e strizzò gli occhi per il dolore, ma solo per pochi istanti. «Aone-san,» si schiarì la voce «se io... se io non fossi disposto a uccidere? Voglio dire, non li conosco, e anche se li conoscessi e non mi piacessero...»

    Aone sollevò la mano per attirare la sua attenzione.

    «Non sei obbligato, ma» Moniwa lo guardò chiudere il quaderno, come a volergli far capire che non avrebbe dovuto scrivere nulla su quelle pagine «se non uccidiamo, ci difendiamo.»

    Moniwa restò immobile per qualche istante, poi, increspando le labbra in un sorriso cordiale, annuì con un rapido cenno del capo.

    «Resta con noi?»

    Sia Aone che Moniwa, sorpresi, rivolsero un'occhiata all'uscita del salotto: lì, ferma sulla porta, Tetsuko attendeva una risposta con sguardo attento e curioso.

    «Direi di sì» Kaname ampliò il sorriso, ma in un'espressione forzata, come se avesse già inteso quello che la sorellina stava per dire.

    «Ma, onii-chan, cosa diciamo a mamma e papà?»

    «Gh!» Moniwa strinse i denti, per poi rivolgere nuovamente la propria attenzione ad Aone. «Già... non è certo il tipo che passa inosservato o che si può nascondere sotto il letto.»


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N e r i m a   p r e f e t t u r a   d i   T o k y o



    Goshiki si fermò proprio sulla porta di casa Shirabu, inebetito dal buio che lo aveva investito improvvisamente.

    «Chiudi.»

    Shirabu doveva essersi allontanato solo di pochi centimetri, eppure faceva già fatica a scorgerne la sagoma, tuttavia Tsutomu avanzò e chiuse la porta come richiesto.

    La luce si accese poco dopo, senza che nessuno di loro si fosse mosso.

    Goshiki si guardò intorno, osservò l'ingresso stretto e pallido, le due piccole lampade a muro sulle pareti, un attaccapanni alto e scheletrico accanto alla porta chiusa e un piccolo mobile vicino all'ingresso del salotto, dove, a causa delle imposte serrate, riuscì a vedere solo una sedia su cui era posato un cartone di pizza.

    «Non ho una camera degli ospiti. In effetti è già tanto se c'è spazio per me» Kenjirou avanzò verso la cucina, subito seguito da Goshiki, che non poté fare a meno di notare l'adombrarsi delle luci alle sue spalle.

    La luce di cucina – come quella dell'ingresso – sembrò accendersi in automatico, non appena entrarono nella piccola stanza. Anche lì, le imposte erano chiuse.

    «Se devi restare qui, ti dovrai accontentare del salotto. Devo avere un futon in più da qualche parte» Shirabu borbottò, l'attenzione rivolta verso le imposte chiuse.

    «Non è un problema, Shirabu-san, ma...» Tsutomu si soffermò per qualche istante sulle due bottiglie di acqua minerale poste sul piano cottura «fa un po' freddo qui dentro.»

    «Mhn» Shirabu lo guardò con espressione annoiata, per poi sospirare appena. «Porto pizze. Credi che questo mi basti per pagare luce, gas e acqua?»

    «Nh‒» Goshiki negò con un leggero cenno del capo: ecco il perché delle bottiglie d'acqua sul tavolo e dell'aria gelida all'interno della casa; in quanto alla luce, probabilmente Shirabu stava sfruttando la propria abilità a suo vantaggio, per alimentare le lampade da sé. Nei pensieri di Tsutomu, però, aleggiava un altro interrogativo a cui proprio non riusciva a trovare risposta.

    «Perché le imposte sono chiuse?» chiese poco dopo, il tono di voce alimentato da una sincera curiosità.

    Kenjirou restò in silenzio per qualche istante, poi emise uno sbuffo prolungato e cominciò a parlare.

    «È una storia lunga, forse te la racconterò quando saprò qualcosa di più sul tuo conto. Per quanto riguarda il riscaldamento, la notte è sempre in funzione, non preoccuparti.»

    Tsutomu si accorse di avere gli occhi dell'altro puntati addosso, dunque sussultò appena, per poi ricominciare a guardarsi intorno con movimenti frettolosi del capo, almeno fino a quando, tornando a osservare Shirabu, non lo vide indicargli una sedia.

    «Ah! Sì!» Goshiki si sistemò in fretta, tanto da rischiare di inciamparsi nell'istante in cui scontrò la gamba della sedia con il piede.

    «Poco fa stavi parlando di un quaderno, giusto?»

    Goshiki esitò per un attimo: voleva conoscere davvero la ragione delle imposte chiuse, ma dover essere oggetto di interrogatorio per poter ascoltare la storia del suo protetto lo innervosiva un po'.

    Chiuse gli occhi e inspirò appena. Risollevò le palpebre.

    «Sì, ma prima che ti spieghi tutto, Shirabu-san,» estrasse un quaderno nero dalla piccola tracolla posata sulle gambe, porgendolo all'altro «sappi che ci sarà bisogno di una maschera e di uno pseudonimo.»


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S h i b a t a   p r e f e t t u r a   d i   M i y a g i



    Kageyama cominciava a sentirsi meglio. Non solo non aveva incontrato Hinata durante il suo breve viaggio in direzione del pub, ma il proprietario lo aveva congedato venti minuti prima della fine del suo turno.

    Era davvero stanco e non vedeva l'ora di infilarsi sotto le coperte e dormire. Forse aveva soltanto bisogno di riposare, forse per tutto quel tempo Hinata era stato soltanto un'allucinazione, il frutto malato di una mente sofferente e stressata.

    Imboccò con decisione il vicolo in cui si erano incontrati la mattina precedente, senza temere un altro confronto – dopotutto il buio della notte celava ogni singola ombra, dandogli l'impressione che non vi fosse nessuno ancor prima di aver superato la curva.

    Kageyama procedette nel silenzio della notte, l'asfalto umido sotto i piedi, la strada sgombra davanti ai suoi occhi.

    C'era un silenzio agghiacciante, una grande massa trasparente che aveva riempito ogni centimetro dello spazio circostante, così pesante che anche i suoi stessi passi gli risultarono impossibili da udire. Per un istante ebbe perfino l'impressione di star camminando a qualche metro da terra.

    Quando giunse al termine della curva, Tobio si fermò.

    C'era qualcuno pochi metri più avanti, era poggiato al muro e la luce tenue della luna ne mostrava a fatica i lineamenti, sottolineandone soprattutto la scarsa altezza. Sì, era basso, e quando Kageyama se ne rese conto arricciò il naso.

    Restarono immobili per circa un minuto, senza emettere neppure un fiato.

    Forse Hinata era davvero uno psicopatico, ma non aveva assolutamente l'aria di essere interessato al suo portafoglio o alla sua vita.

    «Maledizione...» Kageyama borbottò a denti stretti, ancora una volta domandandosi quale fosse la scelta migliore, poi chiuse gli occhi ed emise un sospiro profondo.


❋ ❋ ❋


    «Kageyama! Abbiamo perso un sacco di tempo, lo sai?!»
    Tobio digrignò i denti e gli afferrò il collo con la mano, facendolo rantolare.
    «Ohi, scemo, non urlare e non cominciare a ripetere il mio nome!» continuò a tenerlo per il collo, gli occhi assottigliati e le labbra serrate con forza. Tutta quella confidenza gli dava sui nervi.
    Hinata, dal canto suo, cercò di allontanare leggermente il viso, tossicchiando sommessamente.
    «Non parlare finché non te lo dico io» Tobio lasciò la presa e riprese a camminare, dirigendosi in fretta verso la camera degli ospiti. Shouyou, invece, avanzò piuttosto lentamente, esitando proprio a causa dell'altro – da arrabbiato faceva davvero paura!
    Appena Kageyama chiuse la porta della camera degli ospiti, Hinata riprese a parlare, la voce poco più bassa che in precedenza.
    «Kageyama‒»
    «Ohi, basta ripe‒»
    «Kageyama!» Hinata lo interruppe, urlando nuovamente il suo nome. «Gli altri shinigami saranno già arrivati!»
    «Mhn?» Kageyama abbandonò immediatamente l'idea di portargli ancora una volta le mani al collo per zittirlo, la fronte aggrottata per la confusione. «Gli altri?»
    «Cerco di dirtelo da ieri» Shouyou si sedette sul letto, le gambe tese, entrambe le mani affondate nel materasso. «Non sei l'unico ad aver ricevuto le visite di uno shinigami
    Kageyama restò in piedi, immobile e in silenzio per un po'.
    «Che cosa sta succedendo?»
    «È appena iniziata una guerra, Kageyama, e tu potresti morire. Se un altro dotato di cromosoma Z ti conosce potrebbe venire a cercarti molto presto, e quasi sicuramente sarà intenzionato a ucciderti.»
    Tobio sollevò le sopracciglia, incredulo e leggermente inorridito.
    Un brivido gli attraversò la schiena, una scossa fredda dalla nuca ai reni: aveva appena pensato all'unico dotato di cromosoma Z che aveva avuto la sfortuna di conoscere, realizzando con orrore che non sarebbe stato poi tanto strano ricevere sue visite da un momento all'altro.




L'angolino della piantina autoritaria
(You should read this):

Ed eccoci con il nostro appuntamento mensile! xD
Fortunatamente sono riuscita a finire la stesura del capitolo per tempo e ho avuto anche qualche giorno d'avanzo per revisionarlo~
Come avevo detto nel precedente, questo si è concentrato soprattutto sulle dinamiche del “gioco” in cui i nostri nove protagonisti sono appena stati coinvolti, quindi sul fatto che il quaderno serva, attenzione, non per uccidere (come nel caso del Death Note), ma per rubare il potere della persona che viene uccisa. Detto questo facciamo un esempio: Z uccide Y ma non ha scritto il suo nome sul quaderno, perciò dopo averlo ucciso non riceverà il suo potere; Z uccide Y e ha scritto il suo nome sul quaderno, perciò dopo averlo ucciso riceverà il suo potere. Questa è l'unica funzione del quaderno, che, ripeto, è solo un mezzo per rubare un potere altrui, non un mezzo per uccidere.
Come dice Yahaba, i dotati di cromosoma Z non possono uccidere o essere uccisi dagli shinigami, che sono autorizzati a eliminare soltanto i loro simili.
Se ci fosse qualcosa che non vi è chiaro o aveste delle domande su un particolare aspetto potete contattarmi ovunque (ergo: qui su EFP o su Facebook). Vi risponderò molto volentieri~
Per il resto vorrei assicurarvi che dal prossimo capitolo in poi, che sarà pubblicato a fine dicembre (più probabilmente il 29 o il 30, visto che il 31 saremo quasi sicuramente tutti impegnati – e ubriachi, almeno io /??/), le cose diventeranno molto più movimentate e vedremo i primi scontri. Tanto per rassicurarvi (?), è probabile che il quarto capitolo si intitolerà “Uccidere o morire” – e già da questo si capisce tutto 8D
Inoltre i personaggi non appariranno più in questo ordine (e probabilmente nemmeno tutti in ogni singolo capitolo).
Prossimamente verrete anche a conoscenza degli alias scelti dai bimbi.
Credo di aver detto tutto. Spero che il capitolo sia stato di vostro gradimento~
Alla prossima!

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Capitolo 4
*** IV – Uccidere o morire ***


IV


Uccidere o morire




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B u n k y o u __ p r e f e t t u r a _ d i _ T o k y o



Seppur balbettando e boccheggiando, Moniwa era riuscito a convincere i propri genitori riguardo l'identità di Aone.
Aveva detto loro che Takanobu stava facendo un master post-laurea come lui, ma che, pur vivendo nella prefettura di Kyoto, era stato assegnato al suo stesso ufficio legale in seguito ad alcuni problemi burocratici e – per quel momento – non aveva ancora abbastanza denaro per permettersi una camera di albergo, né amici o parenti a cui chiedere ospitalità.
Detestava mentire, specie ai suoi genitori, persone di buon cuore e onesti lavoratori. Ovviamente avevano accolto calorosamente Aone, ma l'espressione con cui sua madre li aveva bersagliati nel corso della cena aveva fatto cadere Kaname in un profondo stato di imbarazzo.
Sua madre era una donna buona e molto tranquilla, ma nel suo silenzio celava una mentalità spesso contorta e piuttosto diffidente. Era palese che avesse dei sospetti, che non credesse del tutto a quello che le aveva detto il figlio. Probabilmente pensava – ed era questo a imbarazzarlo maggiormente – che in realtà Aone fosse molto più di un collega appena incontrato; magari, essendo a conoscenza dell'orientamento sessuale del figlio e considerando che Kaname non insisteva per ospitare qualcuno dai tempi delle medie, si era convinta che fosse il suo fidanzato o qualcosa del genere.
Che sua madre gli credesse o meno, comunque, avevano ricevuto la sua benedizione, e questo era un motivo sufficiente per stare tranquilli.
Come sempre, una volta uscito dallo studio legale, Moniwa era tornato a casa in fretta. Anche se adesso c'era Aone ad assicurarsi che Tetsuko tornasse a casa sana e salva – chiedergli di andare a prenderla direttamente a scuola gli sembrava ancora inappropriato –, Moniwa non si era soffermato neppure per un secondo sul profumo invitante proveniente dal ristorante Ohayou Ramen ed era rientrato perfino prima del previsto.
Tetsuko doveva essere arrivata da pochi minuti, perché venne a salutarlo con ancora il piumino rosa ben abbottonato.
«Com'è andata a scuola?» Moniwa le sorrise e le accarezzò la testa, scompigliandole leggermente i capelli.
«Bene!» Tetsuko ridacchiò. «Ho risolto un problema alla lavagna e la maestra mi ha detto che sono stata bravissima!»
«Ah sì?» Moniwa non poté che ampliare il sorriso. «E brava la mia sorellina!» le accarezzò nuovamente la testa, fermandosi non appena avvertì un profumo delicato proveniente dalla cucina.
«Tetsuko, va' in camera a cambiarti.»
Tetsuko annuì appena e corse verso la propria camera, mentre Kaname si diresse nella direzione opposta.
Appena Moniwa varcò la soglia della cucina, Aone lo salutò con un leggero inchino, provocandogli una vaga sensazione di imbarazzo che però fu subito spazzata via dalla tavola imbandita.
«A-Aone-san, hai fatto tutto questo per noi?» Kaname non poteva credere ai suoi occhi. In realtà non c'era una grande quantità di cibo in tavola, ma la varietà era impressionate, così come l'attenzione nella presentazione di ogni pietanza.
Al centro della tavola spiccava un'insalata di granchio e code di gambero, circondata da piatti più piccoli contenenti alghe in aceto di riso, germogli di soia alla piastra, zenzero in salamoia e tempura di verdure. C'erano poi tre piatti di udon ai frutti di mare e ancora un vassoio contente temaki e onigiri.
In quel momento, Moniwa fu certo che non avrebbe trovato qualcosa di tanto bello e impressionante neppure all'Ohayou Ramen.
«Non avresti dovuto. È tutto... così bello» Moniwa era ancora in piedi, immobile ed estasiato. Tetsuko, al contrario, urlò di gioia non appena entrò in cucina e prese subito posto a tavola, esortando gli altri due a fare lo stesso.
Moniwa fu l'ultimo a sedersi, mentre Tetsuko aveva già infilzato due gamberetti con la forchetta.
«Tetsuko, ringrazia Aone-san.»
«Uh?» Tetsuko richiuse la bocca, un po' indispettita per non essere riuscita a assaggiare nulla prima che il fratello la interrompesse.
«Grazie, Aone-san!» congiunse le mani senza lasciare la forchetta, chinando il capo in segno di gratitudine, poi riaprì la bocca, pronta a divorare i gamberetti.
«Prima di iniziare...»
«Onii-chan!» la bambina esordì in uno strepito lamentoso, accendendo un'espressione rammaricata sul volto del fratello.
«Scusami, Tecchan,» Kaname infilò la mano in tasca, poi la estrasse e tese il pugno chiuso verso la sorella «devo darti una cosa.»
«Un regalo?» Tetsuko avvicinò le mani a quella del fratello, ritirandole soltanto quando avvertì qualcosa di liscio e tiepido sul palmo.
«Non devi aprirla assolutamente, Tetsuko.»
La bambina osservò la piccola boccetta di plastica, chiusa da un tappo di sughero al quale si congiungeva una cordicella nera.
All'interno della boccetta vi erano un sottile strato di terra e un germoglio minuscolo, di un verde chiaro e brillante.
«Se dobbiamo difenderci, vorrei iniziare dalla tua salvaguardia» Kaname si voltò verso Takanobu, che annuì energicamente, poi tornò a fissare la sorella, sorridendole. «Non devi aprirla, a meno che non si tratti di un'urgenza reale. E con urgenza non intendo un brutto voto a scuola o papà che mangia l'ultimo budino.»
«Lo so, onii-chan» Tetsuko sembrò essere diventata improvvisamente triste. Si rigirò la boccetta fra le mani, guardandola assorta, per poi tornare a rivolgere la propria attenzione al fratello.
«Può fare fiori?» chiese riferendosi al germoglio.
Moniwa negò con un lieve cenno del capo, allora Tetsuko serrò le labbra con forza, indossando la collana con un movimento lento e preciso.
Recuperò la forchetta e guardò con estrema tristezza i gamberetti infilzati. Non c'era più un briciolo di entusiasmo nei suoi occhi, neppure una singola scintilla, e così il pranzo proseguì in totale silenzio.


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S h i b a t a __ p r e f e t t u r a _ d i _ M i y a g i



«Kageyama!»
Tobio sussultò, rischiando di bucarsi il dito con l'ago.
«Che vuoi?!» sbottò a bassa voce, incenerendolo con lo sguardo. «E poi devi stare proprio qui a fissarmi? Mi metti ansia!»
«Ho paura di incontrare tua madre,» Hinata restò seduto sul letto, per un attimo stringendo i denti con forza e poi esordendo in un breve piagnisteo «però ho fame e devo andare in bagno!»
«Per il cibo posso prenderti qualcosa dalla cucina, ma per il bagno dovrai arrangiarti» Kageyama trapassò il tessuto elastico con l'ago, sospirando esasperato – odiava cucire, e inoltre aveva la spiacevole e snervante impressione che la forma della maschera fosse sempre più quadrata e meno ovale.
«E comunque mia madre non ti rivolgerà nemmeno la parola» riprese, sollevando e distendendo la maschera davanti ai propri occhi. «A dire il vero è probabile che si accorgerà di te solo fra qualche giorno.»
Hinata restò a fissare la schiena di Kageyama in silenzio, stupito dalla sua affermazione, ma quella quiete bizzarra durò pochi secondi.
«Perché una zucca?» chiese Shouyou, ora intento a osservare la maschera di Kageyama. «Ti piace Halloween?»
«No» Tobio rispose borbottando, rapito dal contrasto cromatico dell'arancione e del nero e un po' dubbioso riguardo al sorriso ampio, sottile e fittamente righettato che aveva cucito con tanta cura.
«E allora perché?»
«Non ti riguarda» Kageyama ripose la maschera sulla scrivania e si alzò, esortando Hinata a fare lo stesso. «Avanti, andiamo a mangiare qualcosa.»
Affamato com'era, Shouyou non se lo fece ripetere due volte: si alzò immediatamente dal letto e lo seguì fuori dalla stanza.
Una volta giunti in cucina, Kageyama non poté fare a meno di rivolgergli un'occhiata stranita, confuso da quell'improvviso e insolito silenzio, ma alla fine decise di non farci troppo caso e, anzi, godersi il momento.
«Ci sono solo gli avanzi della cena.»
«Va bene» Hinata mormorò: riusciva a capire quello che Kageyama gli stava dicendo, ma la sua voce era come ovattata, sovrastata dalle domande che si stava mentalmente ponendo riguardo la maschera scelta dal suo protetto.
Mangiarono in fretta, in silenzio, e terminarono quasi in contemporanea.
Hinata annunciò di voler tornare in camera di Kageyama; quest'ultimo, al contrario, lo invitò poco gentilmente a togliersi dai piedi, a chiudersi nella stanza degli ospiti e a non uscire fino a sera, così si ritrovarono a spintonarsi nel bel mezzo del corridoio, come due adolescenti capricciosi.
«Vado in bagno» fu Hinata a interrompere lo scontro, ma in realtà non ebbe modo di allontanarsi da Kageyama neppure di una decina di passi, siccome la madre di quest'ultimo gli sbarrò la strada.
Hinata sobbalzò appena, per poi deglutire a fatica: quella donna era davvero molto simile a Kageyama, e anche se sembrava decisamente più docile e remissiva del figlio, il suo sguardo fisso e le labbra serrate, votate al silenzio, la rendevano inquietante oltre ogni misura.
«Si-signora Kageyama!»
Kageyama alzò gli occhi al cielo, serrando le labbra con forza, come a trattenere un grido: avrebbe voluto dire a Hinata di proseguire, di non parlarle perché non sarebbe servito a niente, ma non aveva fatto in tempo. Sua madre aveva colto di sorpresa anche lui, ma era certo che Shouyou avrebbe comunque potuto dire qualunque cosa senza che lei si scomponesse; non avrebbe reagito in alcun modo, semplicemente se ne sarebbe rimasta in silenzio a fissarlo per un po', per poi ritirarsi in qualche stanza.
«Mi dispiace per il disturbo,» Hinata procedette con voce leggermente tremante, innervosito dallo sguardo dell'altra fisso su di lui «a-avrei dovuto avvisarla. Spero non le dispiaccia se mi fermerò qui per un po'.»
Kageyama restò a fissare sua madre in silenzio, irritato dalla voce di Hinata: non serviva a nulla parlare, aspettare una risposta.
«Hinata‒» Tobio era sul punto di dirgli di lasciar perdere, ma fu allora che sua madre mosse un passo verso di loro e tese le mani in avanti.
Trasalirono entrambi, e Hinata accennò perfino un passo indietro.
La madre di Kageyama posò entrambe le mani sulle guance di Hinata, lasciando entrambi i ragazzi esterrefatti, senza respiro.
Shouyou restò a fissarla senza dire una parola, notando solo in quel momento la differenza fra il lato destro e il lato sinistro del viso.
Sotto l'occhio destro della donna si estendeva una chiazza di pelle più scura e leggermente raggrinzita, i cui bordi irregolari arrivavano a ricoprire gran parte della guancia. Le mani caldissime della donna gli suggerirono che quella zona di pelle cicatriziale doveva essersi originata da una bruciatura.
Hinata schiuse appena le labbra, boccheggiando, ma la donna lasciò il suo viso prima che potesse dire una sola parola.
Lui e Kageyama la osservarono allontanarsi e ritirarsi in una delle stanze, lenta e silenziosa come un fantasma.


❋ ❋ ❋


La madre di Kageyama si chiuse la porta alle spalle, lentamente e senza fare rumore.
Con espressione trafelata, osservò l'ampia scrivania, sgombra e impolverata, gli occhi appena stuzzicati dalla luce che riusciva a filtrare oltre le veneziane, abbassate solo per metà.
Lo studio del marito defunto era l'unica stanza della casa che riusciva a sottrarsi alla sua ossessione per il pulito: vi entrava di rado, e quando lo faceva sentiva di non poter trascorrere più di una decina di minuti al suo interno.
Guardò la sedia in pelle nera, e pur sapendo che l'avrebbe trovata vuota, avvertì un forte dolore nel petto, un peso soffocante che all'improvviso parve gravarle anche sulle palpebre.
Portò entrambe le mani sulla bocca, soffocando un singhiozzo.
Quando le lacrime cominciarono a sgorgare, piegò le ginocchia e si sedette a terra, la schiena aderente alla porta chiusa. Raccolse le gambe al petto e affondò il viso fra le mani, singhiozzando sommessamente.
Con i palmi aderenti alle guance umide e le dita tremanti raccolte attorno agli occhi, lasciò la bocca libera di incamerare aria, schiudersi in gemiti e mormorare, per quanto difficile fosse articolare le parole durante un pianto tanto intenso.
«Adesso mi... mi porterete via anche mio figlio.»


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S e n d a i __ p r e f e t t u r a _ d i _ M i y a g i



Sendai non gli era mai sembrata così bella. Oikawa immaginava lo stemma indaco della città svettante sul fondale del cielo, di un azzurro tanto tenue da sembrare bianco; era fissato in alto, sopra a ogni cosa e visibile a tutti.
Aveva camminato lungo la strada Aoba-dōri, sotto le piante di zelkova, alberi alti e spogli che permettevano alla cupola biancastra del cielo di rischiarare la strada.
In realtà quel viale non gli era mai piaciuto in inverno; lo trovava deprimente anche a Natale, quando le luci bianche e gialle illuminavano gli alberi a cui erano avvolte, evidenziandone l'essenzialità, i ramoscelli freddi e senza foglie. Eppure in quel momento, nella sua famigliarità, Aoba-dōri gli parve calda e accogliente, eterna nella fascinosa fragilità dei suoi alberi spogli.
Non sapeva per quanto tempo si sarebbe allontanato dalla sua città. A dire il vero, non sapeva neppure se l'avrebbe rivista.
Quella mattina si era alzato di buon'ora, aveva salutato Iwaizumi e aveva portato Grey a sua madre, dicendole che avrebbe dovuto prendersi cura di lui per un po'. Ovviamente sua madre gli aveva ricordato che il cane apparteneva a lui e che per tale motivo non spettava a lei occuparsene, poi gli aveva chiesto per quanto tempo avrebbe dovuto tenerlo con sé e si era arrabbiata quando Tooru l'aveva salutata senza risponderle.
Le aveva sorriso, ma si era sentito morire quando le aveva voltato le spalle. Forse non avrebbe rivisto più neppure sua madre, e lei, che lo amava davvero più di ogni altra cosa al mondo, si sarebbe sgretolata come un albero morto.
In quel momento stava tornando dalla maison. Aveva chiesto una settimana libera e il datore gliel'aveva concessa senza fare troppe storie, probabilmente perché Oikawa non aveva mai disertato nessuno dei suoi incarichi.
Ora, mentre si allontanava dalla maison e si avvicinava sempre di più alla stazione ferroviaria, si sentiva meglio: la prospettiva di una settimana in cui nessuno si sarebbe avvalso della sua immagine per riempirsi il portafoglio lo confortava, lo liberava.
Si chiese se non sarebbe stato meglio prendersi una giornata prima di lasciare Sendai, dunque transitò accanto alla stazione ferroviaria di Aoba-dōri ma non si fermò. Sospirò appena, facendo marcia indietro per qualche metro, imboccando poi una strada secondaria.
Sarebbe partito quel giorno stesso, ma più tardi. Prima gli sarebbe piaciuto poter tornare alla sua vecchia scuola, anche se sapeva che non gli avrebbero permesso di rientrare per vedere un'ultima volta la palestra.
«Oikawa-san!»
Fino a quel momento, Oikawa non aveva considerato che aggirarsi in città senza prestare un minimo di attenzione a ciò che lo circondava potesse essere pericoloso. Sobbalzò appena e si voltò immediatamente, fermandosi quando vide Hoshiko corrergli incontro.
«Buongiorno, Hoshiko-chan» salutò con gentilezza la ragazza, che gli sorrise non appena lo raggiunse. «Vieni dall'università?»
«Sì» oltre alla giacca scura, Hoshiko indossava ancora la divisa nera, in perfetto contrasto con i capelli di un bellissimo biondo dorato, quel giorno legati in una coda alta, probabilmente nel tentativo di rendere meno voluminosa la massa di piccoli riccioli che diceva spesso di detestare. «Tu cosa stai facendo, Oikawa-san?»
«Sono andato alla maison per chiedere una settimana libera.»
«Una settimana libera?» Hoshiko sbatté le palpebre un paio di volte. «Vai da qualche parte?»
Oikawa le rivolse un'occhiata stupita, perdendosi per un istante nel languore dei suoi occhi nocciola, adombrati dalle lunghe ciglia.
Era sempre stata così perspicace? In quel momento gli sembrò molto più matura e tranquilla di come l'aveva giudicata nei mesi scorsi.
«Sì» Tooru rispose a fior di labbra, temendo che Hoshiko volesse sapere anche dove era diretto, ma la ragazza si limitò ad ampliare il sorriso, come se avesse intuito che qualcosa non andava e stesse cercando di rassicurarlo.
«Ti accompagno a casa, Hoshiko-chan» Tooru la stava vedendo davvero sotto una nuova luce, e in quel momento cominciò ad avere paura.
Se era in pericolo lui, allora anche Hoshiko lo era. Così come sua madre, Tamaki e chiunque altro a cui fosse legato.
«Davvero mi accompagni a casa?» in quel momento, Oikawa rivide nei suoi occhi e risentì nella sua voce la Hoshiko che aveva conosciuto fino a quel momento, molto entusiasta e troppo vivace, un po' infantile e piagnucolona.
«È per farmi perdonare, visto che ieri ti ho dato buca» Oikawa le sorrise, ma non c'era niente di sereno nelle sue parole e nella sua espressione. A dire il vero non gli importava molto di averle dato buca il giorno prima, e in un contesto normale avrebbe fatto in modo che ognuno tornasse a casa per conto suo, ma ora una guerra era cominciata e perciò voleva assicurarsi che Hoshiko arrivasse a destinazione sana e salva.
Hoshiko abitava in un quartiere molto carino e tranquillo, ma prima di arrivarci si dovevano attraversare due o tre strade a dir poco inquietanti, strette, cupe e sempre vuote.
«L'università mi sta stremando, sai?» Hoshiko sospirò appena, una mano ferma sulla cinghia del borsone scuro per evitare che scivolasse via dalla sua spalla. «Fortuna che fra due giorni è Natale!»
«Festeggi il Natale?» Oikawa era leggermente più avanti rispetto a lei, e si guardava intorno con circospezione.
«Sì,» Hoshiko non poté fare a meno di sorridere «mio padre è sempre stato affascinato dal Natale e ha finito per contagiare anche mia madre, così lo festeggiamo come una famiglia occidentale. Lui e mamma prendono ferie, e io non vado all'università. È solo un giorno, ma è molto divertente e piacevole.»
«Bello,» Oikawa commentò a bassa voce, rivolgendo una rapida occhiata sopra la propria testa «anche io e mia madre lo festeggiamo, di solito.»
Guardando il cielo bianco, pensò che quell'anno avrebbe trascorso il venticinque dicembre altrove e che, forse, si sarebbe perfino dimenticato che era Natale.
Quando riabbassò la testa, Tooru ebbe una strana sensazione, come se qualcosa alle sue spalle – e anche alle spalle di Hoshiko – si fosse mosso all'improvviso e con estrema velocità.
«Oikawa‒» quando sentì le dita calde di Hoshiko afferrare la sua mano, Oikawa si voltò e la vide interporsi chiaramente fra lui e qualcosa che non riuscì a intercettare in tempo.
Hoshiko spalancò la bocca in un gemito e sputò sangue sul suo cappotto.
Il borsone scivolò e cadde a terra. Le gambe della ragazza si piegarono, così Oikawa la prese per le braccia e cercò di sorreggerla.
«Hoshi‒» Oikawa abbassò lo sguardo, le mani tremanti ma ancora strette saldamente alla ragazza.
Il torace di Hoshiko era appena stato trapassato da una grossa stalagmite appuntita, un artiglio di ghiaccio bianco sulla cui superficie fredda e umida cominciò a defluire una grossa quantità di sangue.
«Hoshiko!»
Lei lo guardò, il volto pallido e l'espressione trafelata, gli occhi nocciola arrossati e acquosi.
«A-anche se...» una lacrima le rigò il viso e un rivolo di sangue le uscì dalla bocca «non sono la tua ragazza, avrei... avrei voluto tanto passare la vigilia c-con te, Oikawa-san.»
La stalagmite si ritirò, e per le mani tremanti di Oikawa il peso di Hoshiko divenne insostenibile.
«Ma va bene,» Hoshiko lo trascinò giù, le ginocchia sull'asfalto freddo e insanguinato «sono...»
«Hoshiko, ti prego» Oikawa le sorresse il capo con una mano dietro la nuca, ma lei si accasciò comunque a terra, senza smettere di guardarlo.
«Sono riuscita a proteggerti» Hoshiko tossì sommessamente, e il corpo sussultò in uno spasmo. Altro sangue le uscì dalla bocca e dal torace lacerato, e la luce nei suoi occhi svanì. Due stelle immobili e fisse, piccole biglie nere attraverso le quali Oikawa guardò di nuovo il cielo bianco e capì che l'artefice di quel freddo pungente era lì, proprio di fronte a lui.


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N e r i m a __ p r e f e t t u r a _ d i _ T o k y o



Shirabu non era così restio e scontroso come gli era parso all'inizio. A colazione gli aveva fatto diverse domande, soprattutto riguardo al mondo da cui proveniva, così Tsutomu aveva azzardato a sua volta una piccola indagine a cui l'altro si era sottoposto senza resistenze.
Forse la notte portava davvero consiglio, perché Kenjirou gli aveva parlato con estrema calma, come se si stesse confidando con un amico.
Shirabu gli aveva spiegato che era nato a Tsukuba, nella prefettura di Ibaraki, ma che all'età di otto anni era stato abbandonato di fronte a un orfanotrofio di Kashiwa, nella prefettura di Chiba. Ricordava come i suoi genitori fossero terrorizzati da lui e dal suo potere: sua madre urlava ogni volta che una lampadina si accendeva o si spegneva da sola, e quando questo accadeva, suo padre lo picchiava con la cinghia.
Era riuscito a scappare dall'orfanotrofio poco dopo i dodici anni, così si era rifugiato per qualche tempo nelle strade di Nagareyama; dalla prefettura di Chiba si era mosso nuovamente verso la sua città natale e oltre, fino ad Adachi, dove aveva trovato ospitalità presso un'anziana signora per cui aveva svolto lavoretti domestici fino a pochi mesi prima del suo diciassettesimo compleanno, quando la donna morì.
Arrivato a Nerima, aveva acquistato quel piccolo appartamento con il lascito dell'anziana e aveva cominciato a lavorare come fattorino. Aveva smesso di scappare, ma si stava ancora nascondendo, visto che viveva sotto falso nome e con le imposte sbarrate per sentirsi più sicuro. In particolare, poi, Shirabu sembrava rimpiangere la sua istruzione, ricevuta solo per i primi due anni di elementari e – in maniera ridotta – all'orfanotrofio e presso l'anziana signora.
In quel momento si trovavano nel piccolo salotto, ed entrambi si tenevano impegnati osservando il cielo scuro fuori dalla finestra.
«Shirabu-san?» Goshiki mormorò a fior di labbra «che cosa farai, adesso?»
Shirabu sospirò sommessamente, impensierito dalla domanda dell'altro.
«Prima di tutto tenterò di localizzarli. Credo che ci proverò proprio adesso.»
«E come?» Tsutomu distolse la propria attenzione dalla finestra e rivolse un'occhiata interrogativa all'altro, che di contro continuò a guardare fuori.
«La luce viaggia a trecentomila chilometri al secondo.»
Goshiki sbatté le palpebre un paio di volte, ancora più confuso di prima.
«I tralicci dell'alta tensione» Shirabu lo guardò solo per qualche istante, per poi tornare a rivolgere la propria attenzione fuori dalla finestra. «L'ho già fatto in passato. È come se la mia parte di cervello che riesce a trasmettere al corpo ogni percezione sensoriale possa spingersi molto lontano. Credo di poter sfruttare i tralicci dell'alta tensione per farlo, riuscirei a localizzare qualsiasi anomalia nel raggio di moltissimi chilometri e in pochissimo tempo.»
Goshiki restò a fissarlo in silenzio, le labbra spalancate per lo stupore, poi balzò giù dalla sedia, emettendo un fragore entusiasta.
«Che figo, Shirabu-san!»
«A Sendai.»
«Eh?»
Shirabu si voltò verso di lui, l'espressione estremamente seria.
«Sta succedendo qualcosa a Sendai.»


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S e n d a i __ p r e f e t t u r a _ d i _ M i y a g i



«Da quanto tempo, Oikawa-san.»
Tooru era ancora inginocchiato accanto al corpo esanime di Hoshiko, in parte ancora incapace di realizzare quello che era appena accaduto.
Riusciva a pensare soltanto a quanto fosse triste il fatto che lei, ignorando la sua particolarità, si fosse sacrificata per proteggerlo. Oikawa si sarebbe potuto difendere da solo, e avrebbe potuto salvare anche lei, ma il mondo andava così: non si poteva confessare alle persone normali di possedere il cromosoma Z, altrimenti si rischiava una denuncia alla polizia o di ritrovarsi altri gruppi organizzati e molto più violenti alle calcagna. Era una situazione assurda che lo imbizzarriva, perché se solo le persone prive di cromosoma Z fossero state più aperte, molto probabilmente lui e Hoshiko si sarebbero salvati.
Oikawa strinse i denti con forza, fino a farsi pulsare le gengive, il viso contratto per la rabbia.
«Perché?» era rimasto tanto concentrato all'idea di lasciare Sendai da aver dimenticato che Yahaba viveva nella sua stessa città. Ma Yahaba uccideva le persone? Sentendo alcune notizie in televisione lo aveva sospettato, ma mai tanto intensamente da crederlo davvero.
Shigeru era diverso da come lo ricordava: sembrava essersi sbarazzato per sempre della personalità semplice e benevola che, con fatica, aveva tentato di ricostruire dopo l'incidente.
Se non fosse stato per la voce, forse Tooru non lo avrebbe neppure riconosciuto così in fretta.
«Mi spiace per la tua amica,» Yahaba sibilò, le labbra increspate in un sorriso «o meglio: mi spiace che tu sia ancora vivo per colpa sua.»
Oikawa si risollevò, inspirando un grande quantitativo d'aria dalle narici. Restò a fissare Yahaba senza dire una parola, le labbra serrate con forza, in una linea dritta e severa.
Quando lo vide lasciarsi alle spalle il corpo della ragazza, Yahaba ampliò il sorriso.
«Non puoi farmi nulla, Oikawa.»
«Sì?» le labbra di Oikawa si piegarono appena, a tracciare un sorrisetto sghembo. «Invece pare proprio che oggi morirai!» il cemento sembrò frantumarsi sotto i loro piedi, e un ampio ventaglio d'acqua si diresse rapidamente verso Yahaba, pronto a inghiottirlo.
Shigeru balzò indietro e, le mani spalancate e tese davanti al viso, congelò l'onda ad appena un metro da lui.
Yahaba abbassò le mani e l'onda di ghiaccio si sfaldò in un istante, lasciando una patina fredda e scivolosa sull'asfalto crepato. Oikawa attaccò di nuovo, questa volta con le fruste d'acqua che in passato Yahaba aveva già saggiato e odiato.
Tooru controllava l'acqua e poteva plasmarla a proprio piacimento, per cui spesso la conteneva, la richiudeva in una sorta di sacca trasparente e flessibile che le impediva di disperdersi e la rendeva più resistente.
Shigeru ghiacciò una delle fruste, mentre l'altra si strinse al suo braccio destro con tanta forza da riuscire perfino a storcerglielo.
Yahaba urlò per il dolore, e in un gesto istintivo spalancò la mano sinistra a pochi centimetri dal pavimento, creando una distesa di ghiaccio che arrivò fin oltre il corpo di Hoshiko.
Oikawa perse l'equilibrio, così la presa della frusta divenne debole e Yahaba ne approfittò per congelarla e liberarsene definitivamente.
La sottile superficie di ghiacciò si spaccò in diversi punti, crepitando, e alcune stalagmiti si sollevarono. Oikawa creò una sorta di pedana d'acqua sotto di sé, scivolando all'indietro per evitare le lingue di ghiaccio, più appuntite che mai.
Per garantirsi ancora una maggiore sicurezza, Tooru innalzò un muro d'acqua che, se sfiorato da fuori, sarebbe risultato elastico al tocco e, paradossalmente, perfino impermeabile. Il muro gli permise di diminuire l'attrito fra il suo corpo e le stalagmiti, arrotondandone le punte, ma l'impatto fu comunque doloroso, in particolare per gambe e fianchi.
Le stalagmiti si ritirarono, e Oikawa si preparò ad attaccare di nuovo. Era un sollievo che fino a quel momento il danno più grosso fatto dal ghiaccio di Yahaba fosse soltanto qualche graffio alle gambe, ma Tooru cominciava ad avere davvero troppo freddo, gli arti intirizziti.
Gli bastarono pochi secondi per rendersi conto che i suoi movimenti erano stati drasticamente ridotti, quindi si guardò le gambe e scoprì che il piede sinistro e parte del polpaccio erano intrappolati nel ghiaccio.
«Ti facevo più forte.»
Oikawa strinse i denti, prima guardando la distesa di ghiaccio davanti a sé e poi Yahaba.
«Togliti quel sorrisetto del cazzo dalla faccia» sibilò, accennando un sorriso quando scorse un'alta onda d'acqua alle spalle di Yahaba. Non appena l'altro si voltò per congelare l'onda, Oikawa gli avvolse la vita con due fruste d'acqua.
Avvertendo la morsa attorno alla vita e il peso di Oikawa, che per altro rischiava di farlo ruzzolare sul ghiaccio, Yahaba lasciò che il gelo gli avvolgesse entrambi i piedi, in modo da garantirgli una presa maggiore sul terreno.
Quella resistenza opposta da parte di Shigeru permise a Tooru di liberare la propria gamba dal ghiaccio. Oikawa scivolò sulla superficie bianca e liscia, prendendo velocità anche grazie alle fruste d'acqua che lo tenevano legato al corpo dell'altro; in pochi secondi si trovò proprio di fronte a Yahaba, giusto in tempo perché questo voltasse nuovamente il viso verso di lui.
Tooru gli assestò un pugno in piena faccia, secco e violento.
Shigeru urlò, il naso gocciolante di sangue, le labbra e il mento già macchiati di rosso. Tooru gli fu alle spalle in un istante, immobilizzandogli le mani con le fruste d'acqua.
Yahaba inarcò il corpo in avanti e urlò di nuovo, questa volta per la frustrazione che gli causava il non potersi toccare il viso, l'essere immobilizzato mentre una parte importante del suo corpo pulsava e sanguinava copiosamente. Il naso gli faceva così male da fargli perfino girare la testa.
«Pare che il ghiaccio sia un'arma a doppio taglio, per te» Oikawa gli strinse il collo con un'altra frusta d'acqua, togliendogli immediatamente il respiro, già compromesso dalla grande quantità di sangue presente nel naso e nella bocca.
«Non dimenticare mai che tu sei me allo stato solido» Oikawa riuscì a sollevarlo leggermente da terra. «Posso sbarazzarmi di te quando voglio» ma in realtà non fu troppo convinto della propria affermazione, visto che le sue fruste, lì dove entravano in contatto con il corpo di Yahaba, stavano già cominciando a ghiacciarsi.
Oikawa strinse i denti in una smorfia di rabbia, cercando di rafforzare la stretta delle fruste attorno al collo di Yahaba, ma qualcosa di inaspettato lo costrinse a mollare la presa.
Un grosso lupo gli si era gettato contro e gli aveva azzannato la gamba destra, gettandolo a terra.
Oikawa batté la testa sul ghiaccio, ma il gemito di dolore, forte e secco, fu dovuto alla bocca dell'animale stretta attorno al suo ginocchio, ai denti appuntiti conficcati nella carne, in profondità.
Yahaba, le ginocchia leggermente piegate e le mani impegnate a massaggiare il collo, sputò sangue, poi rivolse un'occhiata al lupo e a Oikawa. Sarebbe rimasto a osservare il volto trafelato e dolorante di Oikawa per l'eternità, ma poi si ricordò che aveva di meglio da fare, così estrasse la penna e il quaderno nero dalla tasca del cappotto.
Spalancò il quaderno sotto il proprio naso, senza curarsi del sangue che si riversò sulle pagine bianche. Cominciò a scrivere il nome di Oikawa, i denti scoperti in un sorriso maligno.
All'improvviso, però, il lupo guaì e il quaderno gli venne strappato di mano. Yahaba guardò il quaderno sospeso in aria, proprio di fronte a sé, poi lo vide tracciare un arco invisibile in aria e cadere diversi metri più avanti.
Restò immobile per qualche istante, confuso, per poi voltarsi verso il lupo. Lo vide ancora in piedi, ma intrappolato dalle fruste di Oikawa, e poi qualcosa lo colpì dritto nello stomaco. Il pugno o forse la ginocchiata di qualcuno che non riuscì a vedere.
Shigeru scivolò sul ghiaccio e, seppur già pronto a rialzarsi, non ci riuscì. Lo stomaco e la faccia facevano troppo male, lo stordivano.
Il lupo emise un ringhio prolungato e gutturale e si spinse in avanti con il corpo, fino a che non riuscì a sovrastare la potenza delle fruste d'acqua di Oikawa. Tooru lo vide spalancare le fauci, mostrare i denti bianchi e aguzzi; arpionò il ghiaccio con le dita delle mani, cercando di trascinarsi indietro, ma la gamba era troppo rigida e pesante.
In quell'istante pensò a quanto fosse stato patetico. Si era crogiolato per una notte intera all'idea di lasciare Sendai per qualche giorno, ma a quanto pareva il suo viaggio sarebbe finito ancor prima di salire sul treno. Aveva già perso la guerra, e avrebbe lasciato sua madre sola con Grey.
Oikawa chiuse gli occhi, e fu circondato immediatamente da un pesante silenzio.
Non capì perché ci volesse così tanto, perché non fosse accaduto ancora nulla. L'unico dolore che riusciva a percepire era quello alla gamba, continuo e di intensità sempre uguale.
Quando riaprì gli occhi, Tooru si ritrovò spettatore di una scena assolutamente inaspettata: il lupo, grande quanto due cassonetti messi insieme se non di più, era sospeso da terra di circa due metri. Lo vide ondeggiare leggermente in avanti, e poi venire scagliato via, nella stessa direzione di Yahaba.
A mezz'aria, le dimensioni dell'animale si ridussero drasticamente: le zampe si accorciarono e divennero più massicce; la coda, le orecchie e il lungo e folto pelo, di un biondo miele screziato di nero, si ritirarono; la testa si arrotondò. Il ragazzo che aveva appena preso il posto del lupo atterrò alla bell'e meglio proprio accanto a Yahaba.
«Iwaizumi-san» Kyoutani ringhiò, volgendo il proprio sguardo allo spazio vuoto di fronte a Oikawa.
«Niente di personale, Kyoutani,» Iwaizumi comparve proprio in quel momento, lasciando di stucco Oikawa «ma non ti permetterò di sbranare il mio protetto.»
Hajime gli voltò le spalle e si chinò per aiutare Oikawa a rialzarsi. Yahaba, dal suo canto, trovò finalmente la forza di rialzarsi e disse a Kyoutani che dovevano andare – ora che iniziava a intravedere una possibile sconfitta, quel giochino cominciava a sembrargli molto noioso; per quel giorno poteva accontentarsi di una sola vittima. Tuttavia, quando tutti e quattro furono in piedi, ai vertici del vicolo, Shigeru decise di provocare ulteriormente Oikawa.
«Lo troverò prima di te, Oikawa» accennò un sorriso, le labbra e il mento ancora sporche di sangue, poi gli voltò le spalle e si allontanò, seguito da Kyoutani.
«Troverà cosa?» Iwaizumi si rivolse immediatamente a Oikawa, il cui sguardo si era già posato sul corpo esanime di Hoshiko. Non era un “cosa”, ma un “chi”, e Tooru non aveva bisogno di altro per capirlo.
«Oikawa?»
Non rispose. Chiuse gli occhi e inspirò dalle narici, cercando di ignorare il forte dolore alla gamba.
Il ghiaccio sotto ai loro piedi scomparve.


❋ ❋ ❋


Nonostante il dolore alla gamba, Oikawa aveva chiesto a Iwaizumi di accompagnarlo fino al corpo di Hoshiko.
L'aveva guardata per qualche secondo, le labbra increspate in una smorfia: quella visione orribile e il forte dolore al ginocchio lo stavano stordendo, quasi gli avevano fatto scordare perché si fosse trascinato fino a lei.
Tooru piegò il ginocchio sinistro e fletté la schiena, lasciando scivolare la gamba destra – tesa e dolorante – in avanti, finché non riuscì a raggiungere la tasca della giacca di Hoshiko. Si lasciò avvolgere la mano da uno strato d'acqua elastico, dunque affondò le dita nella tasca, sospirando di sollievo non appena afferrò il cellulare della ragazza.
Sotto lo sguardo vagamente confuso di Hajime, Tooru aveva selezionato la rubrica della ragazza e cancellato il proprio numero di cellulare. In realtà la polizia sarebbe potuta risalire a lui senza alcun problema, anche se il suo numero non appariva più nella rubrica di Hoshiko, ma sul momento eliminare il proprio contatto gli era sembrata la cosa più giusta da fare – si trattava pur sempre di una precauzione in più.
Sempre con il cellulare di Hoshiko, aveva poi telefonato alla polizia, segnalando anonimamente il ritrovamento di un cadavere in un vicolo poco frequentato di Sendai.
Infine, sul punto di restituire il cellulare alla legittima proprietaria, Tooru aveva pensato che distruggerlo per proteggersi sarebbe stata una decisione molto più saggia rispetto a quella di assicurarsi che rimanesse integro per non mancare di rispetto a una persona che ormai non c'era più. Aveva esitato solo per qualche secondo, poi lo aveva gettato a terra e aveva chiesto a Iwaizumi di calpestarlo con forza, fino a sbriciolarlo.


❋ ❋ ❋


Adesso si trovavano nello stretto bagno di un treno, Oikawa con entrambe le mani aggrappate al lavandino e la gamba destra leggermente sollevata da terra. Respirava affannosamente, stringendo i denti fino a farsi male.
La ferita si sarebbe rimarginata di lì a circa un'ora – così aveva detto a Iwaizumi –, ma fino a quel momento, nonostante avessero trovato il modo di fasciarla ben stretta, avrebbe continuato a pulsare e a farlo gemere di dolore. Odiava, poi, che si trattasse proprio del ginocchio destro, quello che lo aveva costretto a rinunciare per sempre alla pallavolo.
Con i denti stretti e il capo chino, fra un gemito e un singulto, Oikawa versò perfino una lacrima per la frustrazione che gli provocava quel dolore e per la morte stupida e inutile di Hoshiko.
Iwaizumi rimase con la schiena aderente alla porta chiusa, fissando l'altro attraverso lo specchio. Avrebbe voluto chiedergli tante cose, ma decise di attendere in silenzio la scomparsa del suo dolore.


❋ ❋ ❋


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S h i b a t a __ p r e f e t t u r a _ d i _ M i y a g i



«Quando ero piccolo mia madre mi raccontava sempre delle storie su una zucca» la voce di Kageyama spezzò un silenzio profondo e prolungato. Hinata, lo sguardo fisso sull'anfratto di cielo arancione che si poteva ammirare dal rombo impreciso lasciato scoperto dalle tende, sollevò le sopracciglia, sorpreso e vagamente confuso, poi voltò leggermente il viso, guardando l'altro in attesa che continuasse a parlare.
«La zucca si chiamava Jack-o'-lantern, ma non aveva niente a che fare con la leggenda su cui si basa Halloween.»
Hinata annuì appena, guardandolo mentre infilava la maschera.
«Mia madre aveva preso in prestito soltanto il nome. Le storie le inventava lei» Kageyama si tastò le guance con i polpastrelli, per assicurarsi che la maschera aderisse bene al viso ma senza provocare irritazione alla pelle. «La sera era il momento della giornata che preferivo.»
Hinata aveva capito. Non gli dispiaceva che Kageyama avesse deciso di ispirarsi alla sua infanzia per concepire il suo personaggio, e poi all'interno delle zucche intagliate venivano inserite delle candele accese per illuminarle, il che richiamava senza ombra di dubbio alla lucentezza e al calore del fuoco. Senza contare, infine, che aveva già visto sul volto del suo protetto un'espressione molto simile al ghigno inquietante che ad Halloween veniva disegnato sulle zucche.
«Ci vedi, Kageyama?» gli occhi erano neri come la bocca, due triangoli sottili i cui vertici più acuti erano diretti verso l'interno.
«Sì, vedo perfettamente.»
«Alla fine è venuta piuttosto bene» Hinata sorrise e Kageyama annuì con un movimento ingessato del capo, ancora dubbioso sull'accuratezza e la resistenza delle cuciture.
«Fra poco devi uscire per andare a lavoro, vero?» Shouyou lo vide annuire di nuovo «allora lascia che ti accompagni!»
Al contrario di quanto si era aspettato, Tobio non protestò, anzi rimase in silenzio per qualche istante, la maschera ancora aderente al viso, le braccia tese lungo i fianchi.
«Hinata.»
La voce profonda e nervosa di Kageyama lo prese alla sprovvista, facendolo sussultare appena.
Kageyama chinò appena il viso, per sfilarsi più facilmente la maschera, poi, finalmente libero dall'aderenza dello spandex, guardò Hinata dritto negli occhi.
«Ho conosciuto una persona come me qualche anno fa, e credo che in questo momento sia molto vicina.»




L'angolino della piantina autoritaria
(You should read this):

Nello scorso capitolo avevo detto che avrei pubblicato il 29 o il 30, ma poi ho pensato che sarebbe stato carino pubblicare a Natale (visto che il capitolo stesso è ambientato nel periodo natalizio), quindi ecco il mio regalo per voi! Buon Natale! >w<
Originale regalare una scazzottata con una morte innocente come bonus, no? E pensare che siamo solo all'inizio! xD
Sto cominciando a delineare anche i rapporti fra i vari dotati di cromosoma Z, oltre che fra loro e i rispettivi shinigami, e come vedete in certi casi c'è molto attrito (nel caso di Yahaba, in realtà, c'è sempre attrito, ma con Oikawa si trova in misura sicuramente maggiore, visto che, come è stato spiegato anche nel secondo capitolo, Shigeru ha trascorso qualche anno in casa Oikawa e quando Tooru se n'è andato per la sua strada si è sentito abbandonato). In questo capitolo non sono presenti tutti i personaggi, ma non temete: li vedrete sicuramente nel prossimo che, ve lo anticipo, conterrà un'altra scazzottata (ma di dimensioni più grandi /?/)
Se avete domande e curiosità resto sempre disponibile~
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, e ancora buon Natale e buone feste!
Alla prossima!

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Capitolo 5
*** V – Di come appassiscono i fiori ***


V


Di come appassiscono i fiori




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S h i n j u k u __ p r e f e t t u r a _ d i _ T o k y o



«Ho fatto qualche ricerca» nonostante avesse libro e quaderno spalancati sotto al naso, e la penna stretta fra le dita affusolate e pallide, Akaashi aveva capito già da qualche minuto che non sarebbe riuscito a seguire la lezione, dunque esordì a bassa voce, osservando Kenma con la coda dell'occhio.
Non dovette dargli ulteriori informazioni: Kenma vide da sé che l'altro aveva passato l'intero pomeriggio del giorno prima a fare ricerche su Internet; aveva trovato un archivio contenente alcuni vecchi articoli di giornale molto interessanti, ma nessuno che potesse davvero spiegare ciò che stava accadendo.
«Anche io ho fatto qualche ricerca» Kozume rispose a bassa voce, gli occhi fissi sul gatto appena scarabocchiato sul quaderno.
Questa volta Akaashi girò il viso per guardarlo, fulminandolo con un'occhiataccia colma di disappunto: il “fare ricerche” di Kenma equivaleva molto probabilmente all'insinuarsi di nascosto in qualche cervello, un metodo poco ortodosso e soprattutto decisamente più efficace del trascorrere un pomeriggio intero a consultare Internet.
«Hai trovato qualcosa?»
«Ricordi che...» Kenma si fermò, osservando di sottecchi il professore, che per una qualche ragione aveva appena alzato la voce «che qualche tempo fa ero riuscito a localizzarne uno?» riprese a parlare pochi istanti dopo, non appena constatò che l'insegnante stava rimproverando una studentessa in prima fila.
«Sì» Akaashi rispose immediatamente, accompagnando la propria voce con un lieve cenno del capo.
Kenma si riferiva a un dotato di cromosoma Z che era riuscito a localizzare per puro caso; gli era entrato nella testa quasi senza rendersene conto, e ciò significava che in passato doveva averlo incontrato – questa era la condizione per accedere alla mente altrui, il suo limite. Un limite mastodontico, considerando la quantità smisurata di persone che abitavano il mondo.
«Credo di essere riuscito a individuare la zona in cui potrebbe vivere.»
Keiji restò a guardarlo in silenzio. Era sollevato e allo stesso tempo inquietato da quella notizia, ma Kozume era stato bravo e sembrava davvero interessato a trovare il dotato di cromosoma Z intercettato tanto tempo prima.
«Non rischiamo di farci scoprire?» azzardò poi, la voce sempre più bassa.
«Non mi ha mai dato l'impressione di essere una persona aggressiva,» Kenma cominciò a tracciare altre linee brevi con la punta della penna «credo preferisca collaborare, piuttosto che combattere.»
Akaashi rivolse la propria attenzione alla lavagna, quindi incrociò le braccia al petto sospirando sommessamente.
«Lo spero» borbottò poi, un po' angosciato all'idea che la sua alleanza con Kenma potesse subire un'alterazione in seguito all'ingresso di un terzo elemento.
«Kenma,» dopo qualche istante passato a cercare inutilmente di ascoltare la lezione, Keiji richiamò nuovamente l'attenzione dell'amico «come sta andando con Kuroo-san?»
Kenma sollevò leggermente le sopracciglia, sorpreso da quella domanda, poi accennò un sorriso a malapena percettibile.
«È molto gentile con me.»
«Sono contento.»
«E Bokuto-san? Com'è?» sopraffatto dall'irrequietezza che gli derivava dal fare domande, Kozume si concesse più confidenza del solito. Akaashi, dal canto suo, non rispose immediatamente, ma soltanto dopo aver voltato la testa verso di lui, lentamente e con un movimento ingessato che, sommato allo sguardo trafelato, lo aveva reso a dir poco inquietante.
«È un inferno.»


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E d o g a w a __ p r e f e t t u r a _ d i _ T o k y o



«Dovremmo andare a Shinjuku» non appena udì la voce di Tendou, Eita chiuse gli occhi e inspirò dalle narici. Deciso a ignorarlo – dopotutto era entrato in cucina soltanto per prendere un bicchiere d'acqua – continuò ad avanzare senza degnarlo neppure di uno sguardo, ma gli occhi di Satori erano davvero insistenti, li sentiva addosso senza che dovesse voltarsi per accertarsene.
Si fermò sulla porta, esalando un sospiro rassegnato, poi si girò per guardare l'altro.
«Perché dovremmo andare a Shinjuku?» chiese a voce bassa, incrociando le braccia al petto.
«Perché ho avuto una sensazione» Tendou sfoderò un sorriso compiaciuto che non fece altro che indispettire maggiormente il suo protetto.
«Non andremo a Shinjuku perché hai avuto una stupida sensazione. Riguardo a cosa, poi? Ti ho detto chiaramente quali sono le mie intenzioni.»
«Eita-kun!» Satori protese le labbra ed emise uno sbuffo rumoroso. «Sono bravo con le sensazioni, sai?» annunciò poi, impettito per l'orgoglio.
«E allora dimmi: perché Shinjuku?» non che Eita avesse un qualche particolare interesse a scoprirlo, anche perché non credeva a una sola parola dell'altro, ma era davvero curioso di sentire la sua risposta, riempire il proprio tempo con una qualche idiozia.
«Questo non lo so nemmeno io, ma le mie intuizioni portano sempre a qualcosa.»
Posto che stesse dicendo la verità, che le sue intuizioni portassero sempre a qualcosa non voleva significare nulla di preciso, visto che i risvolti potevano essere sia positivi che negativi: questo pensò Eita, il bicchiere ancora pieno d'acqua sorretto dalla mano destra.
«Comunque sia non ci andremo,» sospirò rassegnato «oggi pomeriggio devo lavorare.»
«Ah?» Satori inarcò un sopracciglio, protendendo le labbra in una smorfia, in segno di disappunto. «Potresti prenderti un giorno libero...» Eita gli aveva già voltato le spalle, perciò ponderò se continuare a parlare o meno, poi continuò con voce più bassa «oppure licenziarti.»
Semi fece solo un passo. Si fermò e restò a fissare le scale senza dire una parola, trattenendo il respiro per qualche istante, poi si voltò nuovamente verso il proprio shinigami: anche se non aveva percepito malizia o cattiveria nella voce di Tendou, quell'eccessiva schiettezza non gli era piaciuta affatto. Quella proposta equivaleva palesemente a: “Visto che stai per morire che ti importa di lavorare? Potresti mollare tutto e non fare un bel niente fino al giorno del giudizio, che probabilmente è più vicino di quanto pensi”.
Satori sostenne il suo sguardo, sollevando entrambe le sopracciglia e serrando con forza le labbra: l'espressione rabbiosa di Eita era eccitante e spaventosa allo stesso tempo, un po' lo confondeva e lo faceva sentire colpevole, tanto da renderlo molto simile a un bambino che continuava a negare le accuse di qualcosa che aveva fatto, in una folle danza sul confine tra divertimento e terrore.
Eita sfiatò appena, quasi disgustato dall'espressione dell'altro.
«Me ne torno a letto,» borbottò fra un colpo di tosse e un altro, voltando ancora una volta le spalle al proprio shinigami «vedi di non rompere.»


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S h i b a t a __ p r e f e t t u r a _ d i _ M i y a g i



Oikawa massaggiò il ginocchio destro con le dita, il polpastrello dell'indice premuto sotto la rotula, alla ricerca di un punto dolorante o particolarmente sensibile. Si alzò dal letto pochi istanti più tardi, infilandosi subito i pantaloni.
«La gamba?» fu Iwaizumi, in piedi davanti alla porta della camera e con il piumino già ben abbottonato, a interrompere il silenzio.
«Come nuova» Tooru rispose immediatamente, infilandosi in fretta le scarpe da ginnastica: stava bene, non c'erano segni sulla pelle né un minimo cenno di dolore, come se non fosse accaduto nulla. Era stato fortunato, in realtà, perché la sua rigenerazione era relativamente veloce soltanto a livello superficiale e muscolare, quindi i denti di Kyoutani non dovevano avergli arrecato grossi danni ai tendini e alle ossa.
Iwaizumi infilò entrambe le mani nelle tasche del piumino, quindi si avvicinò alla finestra e sbirciò fuori.
«Si vede che è un albergo da poveracci» borbottò poi, lo sguardo fisso sulla strada stretta e desolata, racchiusa fra l'hotel in cui avevano passato la notte e un'abitazione grigia, tappezzata di macchie di umido e finestrelle sottili.
Durante il viaggio, appena il dolore alla gamba aveva cominciato a scemare, Oikawa gli aveva spiegato che era vissuto a Shibata per qualche anno, quando, in seguito al divorzio dei suoi genitori, sua madre aveva lasciato Sendai per prendersi una pausa.
Aveva cominciato le medie in una scuola nel centro città, e siccome si era trovato piuttosto bene, sua madre aveva deciso che sarebbero tornati a Sendai a ciclo scolastico compiuto. Essersi trattenuto più del dovuto in quella città gli aveva permesso di memorizzare determinati luoghi, conoscere e diventare amico di alcune persone, per questo, appena scesi dal treno, Oikawa si era diretto verso il bancomat più vicino senza indugi. Aveva prelevato qualche migliaio di yen, e poi, con Iwaizumi al seguito, era giunto di fronte all'ingresso di uno degli hotel più economici della città.
«Spero non sarà necessario restare qui ancora per molto, Iwa-chan,» parlò con calma, mentre infilava il cappotto «ma in tal caso abbiamo ancora soldi sufficienti per due giorni.»
«E poi?» Iwaizumi inarcò un sopracciglio, le labbra protese in una smorfia di disappunto. «Andremo a dormire sotto un ponte? E non chiamarmi in quel modo.»
Oikawa accennò un sorriso quasi impercettibile, poi gli voltò le spalle, diretto verso la porta chiusa.
«Chiamerò un amico e gli chiederò se è disposto a ospitarci» appena Hajime lo raggiunse, Tooru aprì la porta. «Certo, dovrò inventarmi una bella scusa...»
Uscirono in corridoio e lo attraversarono in silenzio, entrambi ben coperti, le mani nelle tasche – faceva un freddo tremendo in quell'albergo, tanto che Oikawa cominciò perfino a pensare che il riscaldamento non fosse previsto nei già esigui comfort della struttura.
Quando le porte dell'ascensore si chiusero a pochi passi da loro, Iwaizumi si schiarì la voce e decise di rompere ancora una volta il silenzio.
«Come stai? Per la ragazza, intendo» esordì con un certo imbarazzo, guardandolo di sottecchi: il suo protetto non si muoveva, fissava le porte chiuse dell'ascensore con le labbra serrate, le mani ancora in tasca.
Tooru pensò che si sarebbe sentito più sollevato se in quel momento avesse potuto indossare la maschera che aveva preparato con tanta fatica, ma in realtà anche in quel caso non ne aveva bisogno, visto che si stava recando da una persona che conosceva perfettamente il suo aspetto e il suo nome.
«Sto bene» disse poi, a costo di sembrare uno stupido stoico, un patetico orgoglioso o un crudele egoista. Era vero che stava bene, forse perché non aveva ancora elaborato del tutto l'accaduto, forse perché non era lui ad aver perso Hoshiko, ma la famiglia di quest'ultima, perciò non poteva fare molto oltre che dispiacersi.
Le porte dell'ascensore si spalancarono.
«Stiamo andando da lui, vero?» Hajime fu il primo a uscire.
«Sì» Tooru gli fu subito accanto, e poi lo superò, impaziente e eccitato – voleva rubare un potere, più poteri che non erano suoi; avrebbe ucciso, se fosse stato davvero necessario.
L'ascensore si richiuse alle loro spalle.


❋ ❋ ❋


Avendo conosciuto Kageyama alle medie, anche se era stato suo senpai solo per un anno, Oikawa sapeva dove si trovava la sua casa, mentre per quanto riguardava l'università, conoscendone il nome, gli era bastato fare qualche ricerca.
Quella notte aveva riflettuto sul luogo in cui si era svolto il suo scontro con Yahaba: un posto stretto, isolato, dove anche la comparsa di un improvviso strato di ghiaccio sulla strada o di una qualche onda anomala nata dal nulla era passata inosservata. Un luogo sicuro in cui lottare era una condizione fondamentale, soprattutto perché difendersi dai possessori del cromosoma Z era un dispendio di energie sufficiente, non serviva che si intromettessero anche le persone “normali” come la polizia o addirittura i civili.
Pensando a questo e a una presunta routine quotidiana di Kageyama, Tooru era arrivato a una conclusione valida, ovvero bloccare la strada che l'altro imboccava per tornare a casa e costringerlo a percorrerne un'altra. E l'altra, in quel caso, era una strada appena più lunga di quella solitamente percorsa da Kageyama, meno trafficata ma, soprattutto, adiacente a una fabbrica abbandonata.
In quel momento, Oikawa aveva già messo in atto il suo piano: aveva sfruttato l'acqua delle fogne e aveva fatto sì che allagasse una zona precisa della città, isolando la casa di Kageyama da quasi ogni lato, ad esclusione di quello raggiungibile percorrendo la strada della fabbrica abbandonata.
Adesso stava aspettando al piano più alto dell'edificio. Solo – anche se Iwaizumi non era molto lontano –, osservava la strada attraverso le grandi vetrate, proprio di fronte a un'enorme apertura dentro cui si riversavano l'aria fredda e i rumori provenienti dall'esterno. Inspirò appena, ascoltando lo scricchiolio di un vetro rotto sotto al proprio piede, lo sguardo fisso sulla strada. A malapena batteva le palpebre.
Kageyama transitò di fronte all'edificio abbandonato dieci minuti più tardi, il passo accelerato e l'aria decisamente ansiosa. Sospettava qualcosa, era evidente, ma era così concentrato sui suoi passi, sull'idea di arrivare a casa il più in fretta possibile, che non aveva considerato la fabbrica abbandonata neppure per un secondo.
All'improvviso, qualcosa gli afferrò le gambe, lo strattonò con forza e lo fece cadere, ma Tobio fu sollevato in aria ancor prima di toccare terra.
Venne trascinato verso l'alto, così in fretta che riuscì soltanto a schiudere le labbra. Incredulo, osservò la strada vuota sotto di lui, il borsone con all'interno i libri universitari – abbandonato al centro del marciapiede – rimpicciolirsi sempre di più.
Kageyama aveva capito, sapeva esattamente cosa lo stava trascinando, ma l'impatto con il pavimento fu tanto forte che per qualche istante, la faccia a terra, schiacciata contro le schegge di vetro che ricoprivano il terreno, smise di preoccuparsi.
Avrebbe dovuto immaginarlo, dopotutto quella delle fogne era acqua, non c'era ragione per la quale Oikawa non potesse manovrarla a suo piacimento.
Le dita di Tobio arrancarono, si contrassero in un lieve spasmo, facendo crepitare qualche scheggia di vetro contro la superficie ruvida e consumata del pavimento, poi sollevò il viso da terra, i denti stretti e un taglio sottile sulla guancia sinistra.
«Tobio-chan!» per un momento, la voce di Oikawa gli sembrò quella di un presentatore televisivo che annunciava con entusiasmo l'ingresso di un ospite. Era così fintamente stucchevole da mettergli la nausea.
Tooru sfoderò un sorriso morbido e gentile, che nel giro di pochi secondi si allargò in un ghigno inquietante.
«Da quanto tempo!» Oikawa tese le braccia in fretta, pronto ad attaccare, ma Kageyama fu più veloce: si alzò in piedi con un balzo, cercando di non badare ai piccoli tagli che il vetro gli aveva lasciato sulle mani. Investì l'altro con una vampata di fuoco, rovente e rossa come lava densa e voluminosa.
Tobio vide le fruste d'acqua scomparire tra le fiamme, ma la risata di Oikawa soppresse ogni sua speranza sul nascere.
«Lo hai dimenticato?» le fiamme si dissolsero, lasciando i segni del loro passaggio sul pavimento, ora leggermente più scuro e friabile sotto i loro piedi. Oikawa era in piedi di fronte a lui, neppure una minuscola scottatura, perfino i vestiti erano totalmente integri; lo guardava e gli sorrideva a denti scoperti, una pozzanghera d'acqua ai suoi piedi.
«Il fuoco non può bruciare l'acqua» Oikawa gli afferrò i polsi con le fruste d'acqua, schiacciandolo contro una parete.
Kageyama si dimenò ed evocò una seconda fiammata, ma di nuovo Oikawa non subì il minimo danno.
«Tutto qui, Tobio-chan? Mi aspettavo qualcosa di più.»
Kageyama si concentrò solo per un istante sullo sguardo dell'altro, sul suo tono di voce: adesso sembrava che Oikawa fosse serio, non lo stava prendendo in giro, si era aspettato davvero qualcosa in più da lui. Ma come avrebbe potuto imparare qualcosa in più, lui che usava la propria abilità principalmente per accendere un paio di sigarette l'anno e non soffrire il freddo durante i mesi invernali?
Kageyama piegò le gambe, inarcò la schiena, ma le fruste d'acqua del più grande erano forti e irremovibili, e presto gli immobilizzarono anche i piedi.
«Le tue ultime parole prima di morire, Tobio-chan?»
Oikawa era pronto: aveva già scritto il nome di Kageyama sul taccuino.
Tobio strinse i denti con forza, sostenendo il suo sguardo: da quanti anni non si parlavano? O meglio, da quanti anni non gli parlava, visto che alle medie Oikawa lo aveva degnato a malapena di uno sguardo?
Dar voce alle parole che aveva in mente era come condannare a morte il proprio orgoglio, ma non voleva morire. E in realtà non voleva neppure che fosse Oikawa a soccombere.
«Alleiamoci» sembrò quasi sputare, reticente e disgustato.
Oikawa restò immobile, limitandosi ad assottigliare lo sguardo e protendere appena le labbra, in una smorfia di disappunto.
«Muori» poi sibilò sommessamente, avvolgendogli il collo con una delle fruste e cercando di spalancargli la bocca con l'altra.
Kageyama scostò il viso, ma la stretta attorno al suo collo lo indusse molto presto ad aprire la bocca per incamerare più aria possibile.
La seconda frusta si insinuò rapida nella sua bocca, e quando Kageyama cercò di serrare i denti per spezzarla, questa resistette e, grazie all'elasticità della superficie, riuscì perfino a respingerlo. La frusta arrivò fin quasi in fondo alla gola: Tobio ne sentì lo spessore freddo che gli tolse del tutto il respiro; tentò di tossire, ma l'acqua gli riempì la bocca, scivolò giù veloce, nei polmoni.
Il diaframma di Kageyama si sollevò in uno spasmo di dolore, la fastidiosa sensazione di soffocamento lo spinse a dimenarsi di nuovo e a chiudere gli occhi con forza: Oikawa voleva annegarlo e ci stava riuscendo. Non aveva avuto alcun tentennamento a riguardo, e fu questo pensiero che spense del tutto la ribellione di Kageyama, la voglia di uscire da quella situazione, sopravvivere.
Oikawa fece affluire più acqua attraverso la frusta che si trovava nella bocca dell'altro, rafforzando inoltre la presa delle altre attorno ai suoi polsi e al suo collo. Appena sollevò gli angoli della bocca in un sorriso, qualcosa gli squarciò la schiena con terribile tempismo.
Oikawa spalancò la bocca in un gemito, le fruste d'acqua si ritirarono e Kageyama scivolò a terra, finendo un'altra volta con ginocchia e mani sui vetri rotti.
Tobio guardò davanti a sé, ritrovandosi a boccheggiare quando vide una macchia di sangue espandersi al centro del torace di Tooru.
Oikawa barcollò, portando immediatamente una mano sulla ferita.
«Vuoi darmi un altro pugno, Oikawa?»
Quando sentì la voce di Yahaba, Oikawa spalancò gli occhi e strinse i denti, mostrandoli in una smorfia rabbiosa.
«Yahaba!» urlò, il pugno destro già pronto, ma appena si voltò tutta l'energia che era riuscito a raccogliere scomparve: Yahaba aveva una maschera, e non di banale spandex. Era di ghiaccio, uno spesso elmo squadrato che si appuntiva sul mento e terminava sulla testa con due grosse corna di demone che racchiudevano una piccola corona di stalagmiti; gli unici spiragli erano un'apertura orizzontale per gli occhi e una serie di piccole colonne rettangolari sulla bocca.
Se gli avesse assestato un pugno si sarebbe frantumato il polso.
Shigeru tese il braccio sinistro, la mano spalancata a un metro da terra: le stalagmiti di ghiaccio ricoprirono il pavimento, correndo inarrestabili verso Oikawa.
Oikawa spalancò entrambe le mani, pronto a evocare una barriera d'acqua che potesse proteggerlo, ma le stalagmiti si arrestarono molto prima, distrutte da una bocca rovente che si aprì sotto il ghiaccio, illuminandolo per pochi secondi.
Yahaba rivolse un'occhiata al fianco di Oikawa, sorpreso, per poi assottigliare lo sguardo e increspare le labbra in una smorfia disgustata.
«Oikawa stava per ucciderti e tu lo proteggi? Sei proprio stupido, Kageyama.»
Tooru rivolse una rapida occhiata a Tobio, per poi tornare a osservare l'altro.
«Io vi ucciderò entrambi,» Yahaba sibilò contro l'elmo di ghiaccio, completamente a suo agio con il viso racchiuso in quella pesantezza gelida «non che l'acqua mi serva a molto, ma visto che mi hai abbandonato te lo meriti, Oikawa-san.»
«Me lo merito?» Oikawa soffiò, i pugni stretti con forza contro i fianchi. «Soltanto perché me ne sono andato di casa? Credevo fossi abbastanza maturo per capirlo, e poi non eri solo, c'era mia madre con te. Qual è il problema, Yahaba? Hai bisogno del babysitter?»
«Hai sempre preferito lui a me» le parole di Yahaba giunsero forti e chiare alle orecchie di entrambi, ma Oikawa, al contrario di Kageyama, non ne fu sorpreso.
Yahaba attaccò di nuovo, e Oikawa spinse Kageyama da parte, riuscendo a proteggersi dal ghiaccio dell'altro con una spessa barriera d'acqua.
«Sarò io ad ammazzarvi,» Tooru parlò a denti stretti, per poi sbraitare tutta la sua rabbia «vi ucciderò tutti e mi prenderò i vostri poteri!»
Kageyama riuscì a evitare la frusta d'acqua che giunse ai suoi piedi, mentre Yahaba la congelò e fece in modo che – attraverso di essa – il ghiaccio arrivasse il più vicino possibile al corpo di Oikawa.
«Oikawa-san,» Tobio lo afferrò per il braccio e lo strattonò verso di sé «non puoi sconfiggerlo da solo, hai bisogno del fuoco.»
Oikawa non rispose: lo sapeva anche da solo che sarebbe stato più facile se si fosse alleato con Kageyama, ma l'idea lo repelleva, era una via di uscita a dir poco umiliante.
Tooru se lo scrollò di dosso e lo spinse di nuovo da parte, in segno di rifiuto, per poi spazzarlo via con un'onda alta e impetuosa.
Kageyama si ritrovò sott'acqua per qualche istante, la schiena premuta contro una parete, di nuovo la fastidiosa sensazione di soffocamento e il rapido indebolimento del corpo, che non sopportava l'umidità.
Oikawa attaccò nuovamente Yahaba, più volte, ma le sue fruste vennero tutte congelate e frantumate.
«Non hai neppure idea di quanto ti detesti, Oikawa» Yahaba ringhiò a denti stretti, pronto a bloccare l'ennesimo attacco.
Il più grande evocò un'altra frusta d'acqua, cercando di ignorare la strana sensazione di affaticamento e appesantimento del corpo. La frusta, però, era così sottile che Yahaba la congelò in un istante, senza il minimo dispendio di energie.
Shigeru si avvicinò paurosamente, e fu allora che Tooru si rese conto di non riuscire più a evocare l'acqua.
Yahaba lo vide retrocedere di qualche passo, guardarsi le mani con aria confusa e vagamente spaurita.
«Questo è il vantaggio dell'essere te allo stato solido» Shigeru increspò le labbra in un ghigno appena visibile.
Oikawa batté i denti, una mano di nuovo a premere la ferita al centro del torace. Non era mai successo che l'acqua lo tradisse, quindi perché voltargli le spalle proprio in momento così delicato?
«Cos'hai fatto?!»
Il ghigno di Yahaba si distese.
«Stai ghiacciando dall'interno, Oikawa-san.»
Oikawa spalancò gli occhi, inorridito, mentre un prolungato brivido di freddo lo avviluppava, annichilendolo.
«L'acqua è una sostanza liquida che si solidifica con il freddo. Adesso si sta condensando dentro di te, sta diventando ghiaccio e tu non riuscirai a evocarla. Morirai di freddo, Oikawa-san, o forse ti ucciderò prima io. In ogni caso non hai più difese e io mi divertirò.»
Yahaba, i denti scoperti in un sorriso, tese le braccia in avanti e spalancò le mani, pronto ad attaccare. Oikawa fece lo stesso, ma quando realizzò che non sarebbe riuscito a evocare alcuna onda o frusta serrò le palpebre con forza, trattenendo il respiro.
Tooru avvertì nuovamente la sconcertante e dolorosa sensazione del ghiaccio freddo e duro conficcato nel petto, ma in realtà non accadde nulla del genere.
Con ancora gli occhi chiusi, sentì la pressione di una mano calda al centro della sua schiena, dunque sollevò in fretta le palpebre, appena in tempo per vedere un muro di fuoco innalzarsi fra lui e Yahaba.
Shigeru spalancò gli occhi, confuso, per poi serrare con forza i denti nel momento in cui vide il muro di ghiaccio liquefarsi e ripiegarsi su se stesso ancora prima di toccare il fuoco, gocciolare rovinosamente sui frammenti di vetro cosparsi ai loro piedi.
«Maledizione» borbottò fra i denti, cercando di aumentare l'intensità del proprio attacco.
Oikawa guardò alla propria sinistra, la mano calda ancora premuta al centro della schiena, lo spirito rinvigorito dalla piacevole sensazione di tepore emanato dalle fiamme, che ondeggiavano a pochi passi da lui.
«Tobio-chan...?»
Kageyama ricambiò il suo sguardo per qualche secondo, per poi rivolgere la propria attenzione al muro di fuoco.
Tooru si chiese cosa stesse facendo, ma il calore sprigionato dalla mano sulla sua schiena lo rassicurò e dissipò ogni dubbio. Guardò le fiamme alte che danzavano e crepitavano di fronte a loro, mosse le dita di entrambe le mani, distendendole e ripiegandole prima lentamente e poi in una contrazione fluida e veloce.
Oikawa aveva capito: si concentrò sul muro di fuoco, sulla sagoma che si intravedeva al di là delle fiamme, quindi mosse un rapido passo in avanti e si voltò verso sinistra, in direzione della parete più vicina. Pochi istanti più tardi una frusta d'acqua trapassò il muro di fuoco, avvolse il collo di Yahaba, lo sollevò appena e lo sbatté con forza contro la parete.
Shigeru si lasciò sfuggire un gemito, ma con le mani ancora libere afferrò la frusta e tentò di congelarla. In quello stesso istante, però, un nuovo muro di fiamme – più basso e circoscritto del precedente – lo circondò, e il calore cominciò subito a indebolirlo, impossibilitarlo.
Le sue mani strinsero con forza la frusta di Oikawa, ma non riuscirono a congelarla. La maschera cominciò a sciogliersi.
Kageyama stava utilizzando la sua stessa strategia, ma contraria: con il calore del fuoco stava sciogliendo il ghiaccio dentro di lui, rendendogli impossibile controllarlo.
Sembrava una presa in giro, o forse una disperata imitazione strategica per tentare di ovviare alla sua scarsa astuzia – in ogni caso, Shigeru lo odiava e quella situazione stava soltanto accrescendo il sentimento di disprezzo che nutriva nei suoi confronti.
Oikawa rafforzò la stretta della frusta attorno al collo dell'altro, compiaciuto all'idea che Yahaba non potesse più sfruttare il ghiaccio a proprio piacimento, poi si voltò verso Kageyama.
Tooru aspettò ancora qualche istante, perché il fuoco continuasse a compromettere l'abilità di Yahaba e Kageyama acquisisse sempre più confidenza, poi, appena lo vide abbassare la guardia, evocò una seconda frusta.
Kageyama si ritrovò immediatamente sbattuto contro il muro, a pochi metri da Yahaba, il respiro soffocato da una frusta d'acqua attorno al collo. Si dimenò, afferrando la frusta e piantando i piedi contro la parete per fare leva, ma si ritrovò subito annichilito dalla mancanza di ossigeno e soprattutto dalla risata divertita di Oikawa.
«Sapevo che eri stupido, Tobio-chan, ma non immaginavo così tanto!» Oikawa rise di nuovo, per poi serrare le labbra in un sorriso nervoso e spostare la propria attenzione su Yahaba, che a incendio dissipato sembrava aver riacquistato le proprie energie più in fretta del previsto.
Oikawa arricciò il naso, contrasse il viso in una smorfia e rafforzò la stretta attorno al collo di Yahaba; lo vide spalancare la bocca in cerca d'aria, contrarre il petto in uno spasmo, ma le mani del più piccolo erano sempre lì, salde attorno alla frusta d'acqua, la cui superficie stava cominciando a ricoprirsi di brina.
Kageyama, al contrario, era sul punto di perdere i sensi, indebolito da tutta quella umidità.
Oikawa non nascondeva di aver provato una certa attrazione per quel gioco fatale, ma l'inasprimento vero e proprio, la decisione di uccidere chi fino a quel momento aveva condiviso il suo stesso destino di emarginato, derivava principalmente dalla morte di Hoshiko. Non pretendeva di vendicarla perché la conosceva, ma perché detestava il fatto che una civile ignara avesse perso la vita. Era una questione di principio.
Fin da piccolo, Tooru aveva dimostrato un senso di giustizia aggressivo, profondo e istintivo. Si faceva forte dei valori irremovibili su cui aveva fondato parte della sua personalità, concezioni dai confini fumosi e confusi che tuttavia lo portavano a perseverare in macchinose vendette al limite del sadico. In sintesi, Tooru isolava un abuso e dopo averlo razionalizzato decideva di rispondervi per annullarlo – un pensiero più che condivisibile, finché lui stesso non dimostrava di essere disposto a ogni mezzo pur di giungere al proprio fine, tramutando di fatto un'intenzione benevola in una seconda ingiustizia, non meno efferata della prima.
Contrariamente a quanto desiderato e fortemente perseguito, Tooru non eliminava le ingiustizie, ma ne creava di nuove. Era pieno di buoni sentimenti che poco prima di uscire dal suo corpo si tramutavano in cattiverie spietate.
Probabilmente non sarebbe mai riuscito a mantenere pura anche una sola delle sue intenzioni, ecco perché aveva già scritto i nomi dei suoi kouhai sul quaderno nero.
Posto che in cuor suo desiderasse salvarli, avrebbe finito comunque per fare loro del male, quindi tanto valeva ucciderli subito.
Oikawa si decise a dare un taglio a quella situazione: distese le dita a ventaglio, distanziandole il più possibile l'una dall'altra, poi le piegò, si incurvarono come artigli bianchi, fermandosi all'improvviso, bloccate dalla leggera pressione che avvertì al centro della schiena.
Oikawa capì che si trattava di una mano. Cercò di muovere tutto il corpo, ma fu in grado di voltare il viso solo di qualche centimetro.
D'un tratto gli sembrò che qualcosa lo avesse nuovamente trapassato, che una lama invisibile avesse percorso la stessa strada che la stalagmite di ghiaccio si era aperta nel suo torace.
Una scossa piegò il suo corpo in una spasmo, lo costrinse a spalancare la bocca, in cerca di aria.
Le fruste d'acqua si ritirarono veloci, come elastici rilasciati dopo essere stati in tensione per lungo tempo; Tooru si inginocchiò a terra, una mano premuta sul petto e il respiro smorzato, il corpo attraversato da dolorosi tremiti di calore.
Le dita di Oikawa arrancarono contro il pavimento ruvido, strisciò in avanti, facendosi spazio fra i vetri rotti, per poi voltarsi.
La vista gli si annebbiò per qualche secondo, quando il dolore al torace divenne più intenso, tanto che per un istante pensò perfino di essere sul punto di vomitare.
Di fronte a lui svettava un ragazzo con indosso un piumino scuro e una maschera viola, l'occhio sinistro ben visibile grazie a una larga apertura a forma di fulmine, una saetta gialla che partiva dalla guancia e poi abbandonava la bidimensionalità per sollevarsi in alto, fin oltre l'orecchio destro. Oikawa si soffermò solo per un istante sulle tre piccole luci gialle e tonde che sulla maschera rappresentavano la bocca, poi sulla mano del ragazzo, sollevata e spalancata.
L'altro stava per attaccarlo di nuovo, e questa volta sembrava avere intenzione di rincarare la dose.
Oikawa si ritrovò incapace di ragionare, semplicemente cercò di trascinarsi ancora più lontano, pietrificandosi nel momento in cui una fila di stalagmiti si delineò di fronte ai suoi occhi, crescendo alta e compattandosi in uno spesso muro di ghiaccio.
«Lui è mio!» Yahaba sbraitò, la maschera di ghiaccio di nuovo intatta a coprirgli il viso.
Shirabu osservò il muro di ghiaccio per qualche istante, la sagoma fumosa di Oikawa oltre la parete fredda e luminosa, poi rivolse la propria attenzione a Yahaba.
«Non osare toccarlo!» se Oikawa doveva morire, sarebbe stato lui a ucciderlo: questo pensò Shigeru nel momento in cui si gettò contro il ragazzo del fulmine.
Oikawa guardò il ghiaccio senza davvero vederlo, il respiro smorzato, il cappotto insanguinato incollato al corpo, a premere sulla ferita aperta. Aveva caldo e freddo allo stesso tempo, e la schiena bruciava terribilmente.
Increspò le labbra in una smorfia, allargò le braccia e si distese sui vetri, serrando le palpebre – anche solo respirare e tenere gli occhi aperti gli causava un dolore terribile. Probabilmente era vero che non avrebbe più rivisto sua madre e Grey.
All'improvviso, però, una mano calda aggrappata al suo braccio gli restituì un po' di coscienza.
«Oikawa-san,» Kageyama si chinò su Oikawa, aspettando che aprisse gli occhi «adesso ti porto fuori di qui.»


❋ ❋ ❋


Oikawa ebbe la sensazione di essere tornato a respirare dopo una lunghissima apnea. Sollevò le palpebre ma le riabbassò immediatamente, dischiuse le labbra e inspirò, aggrottando la fronte a causa della gola secca e dolorante.
«Vuoi uccidere tutti e poi devo venire sempre a salvarti» sentì la voce di Iwaizumi, che sembrò schioccare la lingua contro il palato, in segno di disappunto.
Tooru riaprì gli occhi, massaggiando le tempie con le dita della mano destra: stava molto meglio, la lacerazione al centro del torace doveva essersi rimarginata, e il tremore provocato dalla scossa era svanito, anche se la schiena bruciava ancora.
Restò disteso ancora per qualche istante, rivolgendo una rapida occhiata a Iwaizumi, poi, però, vide che c'erano anche Kageyama e un ragazzino che non conosceva.
«Io e Hinata abbiamo aiutato Kageyama a portarti fuori da lì,» spiegò Hajime, che evidentemente aveva letto più che facilmente l'espressione spaesata che gli aveva ritorto il viso «attualmente sto rendendo invisibili i nostri corpi, quindi non dobbiamo preoccuparci delle altre persone.»
«Non siamo loro amici, Iwa-chan» Oikawa si mise a sedere e subito dopo si alzò, le labbra serrate con forza, increspate in una smorfia. Rivolse un'occhiataccia a Kageyama, che subito sembrò mettersi sull'attenti. Proprio come alle medie. Non lo sopportava.
Oikawa sfiatò dalle narici e assottigliò il proprio sguardo: perché Kageyama lo aveva aiutato? Desiderava così tanto collaborare con lui? Ed era così stupido da pensare che non avrebbe tentato di ucciderlo?
Era frustrante che fosse stato proprio Tobio a salvargli il culo.
«Non lo sono,» ammise Iwaizumi, le braccia conserte e la schiena aderente a un muro grigio e scrostato «ma faresti meglio a prendere in considerazione la possibilità di un'alleanza.»
Oikawa storse il naso.
Anche se lui e Iwaizumi si conoscevano da poco, si sentì tradito e vagamente umiliato dalla sua raccomandazione.
Indubbiamente aveva avuto diverse difficoltà in entrambi i combattimenti sostenuti, ma non a tal punto da doversi alleare con qualcuno – Kageyama in particolare.
«Oikawa-san,» Kageyama si fece coraggio, ritrovandosi a deglutire non appena l'altro gli puntò gli occhi addosso «siamo nella stessa situazione, e tu sei molto debole contro il ghiaccio e l'elettricità‒»
Kageyama ammutolì: Oikawa lo stava guardando malissimo, come se fosse sul punto di azzannarlo, ridurlo in brandelli.
«Siamo...» Tobio si schiarì la voce, chiaramente a disagio a causa dello sguardo dell'altro ancora fisso su di sé «siamo acqua e fuoco e per questo dovremmo cercare di collaborare. Ci completiamo e possiamo esserci utili a vicenda.»
Tooru sollevò il mento, indignato, e incrociò le braccia al petto, gli occhi aperti e vigili e le labbra serrate con forza.
Hinata guardò Oikawa e Kageyama con il fiato sospeso, per poi rivolgere una rapida occhiata a Iwaizumi, increspando le labbra in una piccola smorfia non appena si rese conto che quest'ultimo aveva tutta l'aria di non voler interferire a prescindere dal risvolto di quella disturbante situazione di stallo.
Oikawa inspirò con forza dalle narici, chiuse gli occhi e sciolse la stretta delle braccia sul petto. Kageyama lo vide riaprire gli occhi pochi istanti dopo, schiudere le labbra in un sospiro e stendere le braccia lungo i fianchi: stava accettando?
«La pallavolo?»
La voce di Oikawa giunse alle sue orecchie in un sussurro appena udibile. Kageyama sollevò le sopracciglia e sbatté le palpebre un paio di volte, sorpreso e disorientato da quella strana domanda.
«Ho...» esitò: davvero voleva saperlo? E proprio in quel momento?
Tobio deglutì, bersagliato dallo sguardo penetrante dell'altro.
«Ho lasciato.»
Aveva pronunciato quelle parole a fior di labbra, ma Oikawa le aveva sentite chiaramente e non aveva perso neppure un istante: lo aveva afferrato per il bavero del cappotto e lo aveva sbattuto con forza contro al muro.
«Perché?!»
All'urlo rabbioso di Oikawa, Hinata scattò in avanti, ma Iwaizumi tese il braccio e gli fece segno di fermarsi.
«Perché hai lasciato?!» Tooru sbraitò contro il viso contratto del più giovane, strattonando con forza il bavero. «Rispondimi, idiota!»
Non lo sopportava. Non poteva sopportare che Kageyama avesse lasciato la pallavolo. Lui che sicuramente non aveva problemi di nessun tipo alle giunture, lui che – per quanto odiasse anche solo pensarlo – era un genio, aveva mollato.
Oikawa era stato costretto a lasciare, mentre Kageyama...
«Oikawa-san‒» Kageyama gli afferrò entrambi i polsi per cercare di fargli mollare la presa.
«Perché?!»
«Mio padre...» aspettò che Oikawa allontanasse leggermente il viso e smettesse di tirargli il bavero «mio padre è morto. Devo risparmiare per pagare l'università»
Le dita di Oikawa scivolarono sul bavero, allontanandosene pochi istanti dopo.
Kageyama lo guardò: adesso Oikawa era calmo, le labbra increspate in una piccola smorfia, come se si fosse appena reso conto della magra figura appena fatta e se ne stesse dispiacendo.
Sia Hinata che Iwaizumi, in quel momento, si scoprirono sorpresi e incantati dall'improvvisa manifestazione del lato più umano dei loro protetti.


❋ ❋ ❋


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S h i n j u k u __ p r e f e t t u r a _ d i _ T o k y o



«Questa è Shimizu-san» Koushi si rivolse ai bambini, i denti bianchi allineati in un grande sorriso gentile, poi si voltò verso Shimizu, che sussultò appena.
Sugawara le aveva detto come comportarsi, ma Kiyoko, almeno a primo impatto, si sentiva sempre un po' a disagio con i bambini. Era assurdo che creature così piccole mettessero soggezione a uno shinigami, ma la sua timidezza era tale da renderle alcuni approcci molto più difficili di altri.
«Ciao» Shimizu sollevò leggermente la mano, facendola ondeggiare in un cenno delicato, le labbra rosee piegate leggermente, in un sorriso appena percettibile.
Una bambina – quella con la cuffia azzurra attorno alla testa e l'ago cannula fissato al braccio sinistro da un cerotto bianco – sollevò la mano e le sorrise, altri risposero in coro al saluto, ma frettolosamente, e i pochi rimasti la fissarono senza dire nulla, forse perché avevano percepito il suo imbarazzo e ne erano stati completamente rapiti.
«Shimizu-san può giocare con noi?» uno dei bambini più piccoli, il pupazzo di un gatto fra le mani ossute, si rivolse a Sugawara, che subito gli accarezzò la testa annuendo.
Shimizu si morse il labbro inferiore, le dita delle mani intrecciate con forza: voleva davvero giocare con quei bambini, aiutarli a trascorrere una serata serena perché potessero addormentarsi senza pensare al dolore, alle medicine o alla nostalgia di casa e della famiglia, ma non sapeva proprio da dove iniziare.
«E visto che Shimizu-san è una signorina...» Koushi rovistò in una grossa scatola bianca, per poi sollevare trionfante una corona di plastica argentata, con pietre rosa su ogni lato.
«Il tè delle principesse!» una delle bambine più grandi gridò a gran voce, seguita a ruota dalle più piccole.
Shimizu, vagamente stordita da tutto quell'entusiasmo che lì per lì le parve immotivato, si irrigidì leggermente, arrossendo quando Sugawara le posò la corona sulla testa.
«Non preoccuparti,» Koushi sussurrò, rivolgendole un sorriso affabile e rassicurante «il tè delle principesse è perfino rilassante, una volta che ti lasci andare.»


❋ ❋ ❋


«Vieni qui spesso?»
«Cerco di visitarli almeno una volta a settimana» Koushi sollevò il viso, rivolgendo la propria attenzione al cielo scuro, l'alone pallido e lattiginoso della luna appena visibile oltre gli strati iridescenti delle nuvole di notte.
«Da quanto tempo?» adesso Kiyoko era molto più rilassata, aveva il viso disteso e sulle labbra c'era ancora la traccia di un sorriso: si era divertita con il tè delle principesse, ed era riuscita a prendere confidenza con tutti i bambini del reparto.
«Precisamente non lo so» Sugawara non aveva mai fatto troppo caso al tempo, né ricordava con esattezza cosa avesse comportato l'avviarsi di un'abitudine simile; a lui importava solo dei bambini, che restassero vivi e, possibilmente, guarissero.
L'ospedale pediatrico distava appena venti minuti a piedi dal suo appartamento, per cui vi si recava ogni volta che aveva un momento libero ed era sicuro di avere energie sufficienti da dedicare ai piccoli pazienti. Quelle due semplici condizioni erano più che sufficienti.
«È davvero bello, Sugawara-san.»
Sugawara le sorrise, chinando il viso in segno di ringraziamento.
«Purtroppo non credo riuscirò mai a guarirli del tutto, ma posso alleviare il dolore, rallentare la crescita di alcune malattie od ostacolarne lo sviluppo. Sarei una persona orribile se non usassi la mia specialità per fare del bene.»
«E pensare che i dottori stessi sarebbero pronti a denunciarti, se lo scoprissero.»
«E probabilmente anche i genitori dei bambini e chiunque altro» il sorriso di Sugawara divenne tirato, una smorfia amareggiata. «In questo mondo, se hai il cromosoma Z sei una creatura pericolosa e nociva.»
Shimizu lo guardò senza dire una parola, sentendosi sollevata all'idea che il suo protetto fosse lui, non un esibizionista con un qualche potere meno altruistico e più distruttivo.
Oltre i nuvoloni scuri, nel buio della notte, l'aria invisibile e fredda si espanse, esordendo in un tuono che fece vibrare la strada sotto i loro piedi. Sollevarono entrambi il viso, guardando il cielo: ora l'alone bianco della luna non c'era più.
«Spero che i bambini dormano bene» Sugawara sussurrò a fior di labbra, il riflesso del cielo nero negli occhi. Una goccia di pioggia si infranse sulla sua guancia.




L'angolino della piantina autoritaria
(You should read this):

Buongiorno a tutti!
Come stabilito, ecco qui il nuovo capitolo~
Comprendo che per alcuni di voi questa tempistica è un po' spiacevole, ma purtroppo ora come ora pubblicare una volta al mese è davvero tutto quello che posso fare (anche perché i capitoli sono sempre piuttosto lunghi ;w;'')
La fanfiction comunque è seguita da un discreto numero di persone e io sono una mamma soddisfatta!
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, finalmente cominciano a formarsi le prime alleanze, così che si possa entrare davvero nel vivo della storia. Inoltre nel prossimo capitolo verranno introdotti nuovi personaggi, tanto per complicare un po' le cose 8'D
Il titolo di questo capitolo si riferisce in particolare ai personaggi di Yahaba, Oikawa e Kageyama e al legame che Oikawa ha con ognuno dei due. Le personalità di Yahaba e Oikawa, così come il loro rapporto, si stanno evolvendo – con velocità – in qualcosa di molto negativo, mentre il rapporto fra Tooru e Tobio non è mai stato sano e positivo, ma si trova decisamente più umanità in un confronto fra loro due piuttosto che fra Oikawa e Yahaba.
Per quanto riguarda il prossimo capitolo, dalla scaletta che ho scritto immagino sarà molto lungo, e sfortunatamente febbraio è un mese breve- inoltre mi laureerò fra il 20 e il 24, quindi è molto probabile che a causa di ansia e tempo da dedicare allo studio non riuscirò a pubblicare per l'ultimo del mese.
Approssimativamente credo riuscirò a postare il capitolo fra il cinque e il dieci marzo, ma subito dopo cercherò di essere più attiva in modo da postare quello successivo entro la fine del mese o i primi di aprile, così da poter regolarizzare le pubblicazioni future.
Grazie per l'attenzione e per il supporto!
Alla prossima!

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Capitolo 6
*** VI – Stabilità e decadenza ***


VI


Stabilità e decadenza




D a t a : s c o n o s c i u t a

L u o g o : s c o n o s c i u t o



«Perdoni il disturbo.»
«Di cosa si tratta?»
«Mi trovo al suo cospetto in merito al decimo protetto.»
Silenzio.
«Sembra sia deceduto, signore.»
Silenzio.
«Mandami qui lo shinigami che gli era stato assegnato. Voglio parlare con lui.»
«Lo faccio chiamare immediatamente, signore.»


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S h i n j u k u __ p r e f e t t u r a _ d i _ T o k y o



«A giudicare dalle ultime informazioni inviate dalla Divisione di Sendai, sembrerebbe che la scientifica sia riuscita a individuare due DNA differenti dalle tracce di sangue rinvenute nel vicolo» Daichi, il busto ritto aderente allo schienale di pelle della sedia da ufficio, staccò le dita dalla tastiera del computer e afferrò un plico di fogli tenuti insieme da un paio di graffette, lo soppesò per qualche istante e infine lo porse al proprio superiore.
«E per quanto riguarda quello che è successo oggi pomeriggio a Shibata?»
Sawamura inclinò il viso per guardarlo, quindi lo vide girare la prima pagina con un movimento misurato della mano, una calma solo apparente, che andava a cozzare disastrosamente con l'espressione accigliata che gli deformava il volto.
«I resoconti sulla vicenda odierna sono ancora molto imprecisi» fu la ragazza seduta accanto a Sawamura a rispondere. «Sono state rinvenute tracce di sangue anche nella fabbrica, comunque.»
Kazue Chidori, sottoposta diretta di Sawamura, strinse il mento sottile fra le dita, massaggiandolo con un movimento inconscio dei polpastrelli, gli occhi rivolti a una grande schermata olografica e la mano destra ferma sul mouse del proprio computer, vigile e pronta in caso vi fossero nuove notizie in arrivo.
«All'inizio avevamo ipotizzato che potesse trattarsi di ghiaccio, vero?» un altro poliziotto, Terushima Yuuji, intervenne, ma subito dopo aver posto la domanda sembrò perdere ogni considerazione dell'ambiente circostante, interessarsi soltanto ad abbottonare il piumino e sistemare la sciarpa attorno al collo.
«Anche nella fabbrica è stato rilevato un tasso di umidità superiore alla norma» Ushijima Wakatoshi, il capo dell'Unità Speciale di Polizia di Tokyo, restituì il plico di fogli a Sawamura. «Inoltre sembra siano state trovate delle bruciature.»
«Acqua e fuoco, quindi?» Yuuji rispose all'ultimo giro di sciarpa, la mano destra già aggrappata alla maniglia della porta.
«Sì, e non escluderei il ghiaccio» mentre rispondeva, Ushijima estrasse il cercapersone dalla tasca, soffermandosi per qualche istante sul messaggio presente sul display. «Domani riavrete gli Exterminator. Il loro potenziamento ha avuto successo.»
«In che modo sarebbero stati potenzia‒»
Il cigolio della porta interruppe la domanda di Chidori. Terushima, un piede già fuori dalla stanza, fu investito da un silenzio improvviso e inquietante, quindi si voltò verso i propri colleghi, sussultando nel ritrovarsi bersaglio dello sguardo duro e impenetrabile di Ushijima, che subito lo ammonì.
«Non è educato manifestare tanto apertamente il desiderio di lasciare il proprio posto di lavoro, Terushima.»


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S h i b a t a __ p r e f e t t u r a _ d i _ M i y a g i



Una luce chiara e delicata sfiorò il muro nero del sonno, ma la sua presenza così flebile fece sì che Oikawa richiudesse immediatamente gli occhi senza capire cosa stesse accadendo.
Erano passate da poco le otto, ma le palpebre erano serrate ermeticamente. Il buio era tornato, denso e confortante.
«Oikawa?» la voce roca di Iwaizumi risuonò all'improvviso, in un lontano richiamo che nel dormiveglia di Tooru divenne un sassolino gettato contro un muro e rimbalzato all'indietro.
«Oikawa!»
Tooru sobbalzò, prendendo subito una grande boccata d'aria, come se si fosse trovato in apnea fino a un secondo prima: questa volta il sassolino si era aperto un varco nel muro, aveva crepitato fastidiosamente nel buio della coscienza e aveva strappato la sua esistenza dalla serenità del sonno.
«Ahh! Iwa-chan...» Oikawa biascicò, mugugnando in segno di protesta.
Si passò le dita di una mano fra i capelli, più scompigliati del solito, e sbadigliando voltò il viso in direzione di Iwaizumi, fermo alla finestra.
«Cosa c'è? Perché mi hai svegliato?»
«Guarda» Hajime si scostò dalla finestra e si voltò in direzione del proprio protetto, per assicurarsi che stesse effettivamente guardando e non fosse sul punto di rimettersi a dormire.
Oikawa, la vista annebbiata dal sonno, assottigliò lo sguardo per mettere a fuoco il più possibile, quindi, non appena si rese conto dello scenario oltre la finestra, increspò le labbra in una smorfia inorridita.
«Merda...» borbottò, alzandosi dal letto mentre si passava un'altra volta le dita fra i capelli. Si avvicinò lentamente alla finestra, fermandosi proprio accanto a Iwaizumi, gli occhi rivolti al cielo bianco al di là del vetro lucido, la neve alta a ricoprire i marciapiedi, uno strato sottile e sporco sulla strada, segnato in orizzontale dagli pneumatici delle auto.
«Il tuo amichetto è ancora qui» commentò atono Iwaizumi.
«Sì,» Tooru strinse i denti, amareggiato e innervosito dalla situazione «e pare stia creando il suo ambiente ideale, il bastardo.»


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E d o g a w a __ p r e f e t t u r a _ d i _ T o k y o



Eita si sentiva più stanco del solito, e la presenza di Tendou che canticchiava al suo fianco non lo aiutava a convincersi del contrario. Le ginocchia facevano così male da dargli l'impressione di non poter più sopportare il suo peso, essere sul punto di spezzarsi; le braccia erano intorpidite e la testa dolorante.
Era come se non dormisse da giorni, ma non era vero. La notte, a dirla tutta, era il suo momento preferito, perché le sofferenze fisiche e mentali se ne andavano con il sonno e lo disturbavano al massimo una o due volte nell'arco di più o meno sette ore. Era la mattina, il momento in cui apriva gli occhi e si rendeva conto di essere ancora vivo, a stancarlo e scoraggiarlo maggiormente. Spesso si addormentava augurandosi di non risvegliarsi mai più.
«Sbrigati» per evitare di incupirsi ulteriormente pensando al proprio destino, Semi si rivolse con nervosismo al proprio shinigami, che continuando a canticchiare aveva rallentato il passo, probabilmente perché attirato da qualcosa.
Eita strinse i denti, serrò le labbra ed espirò con forza dalle narici: Tendou aveva insistito per accompagnarlo, così non avrebbe potuto utilizzare il motorino ma si sarebbe dovuto accontentare di un mezzo pubblico, per non parlare del fatto che, proprio a causa dell'altro, erano paurosamente in ritardo. Inoltre Tendou si era portato appresso un borsone di cui non riusciva davvero a comprendere la funzione – non che quella lacuna conoscitiva fosse necessaria da colmare.
Quando Satori lo raggiunse, affiancandosi nuovamente a lui, Semi diede una rapida occhiata all'ora digitale sullo screensaver del cellulare.
«Il negozio apre fra dieci minuti» sbuffò sonoramente, bersagliato dallo sguardo curioso di Tendou, ora finalmente in silenzio.
Eita avrebbe voluto dirgli di tornare a casa, minacciarlo – se fosse stato necessario –, ma ci aveva già provato lungo i primi cento metri di tragitto e non aveva ottenuto alcun risultato che potesse considerarsi soddisfacente. Avrebbe potuto offenderlo per ore e Tendou avrebbe continuato a canticchiare e saltellargli attorno senza curarsi delle sue parole. Per lui doveva valere meno di zero.
Eita accelerò il passo, e proprio in quel momento, in un movimento rapido e inaspettato, Tendou gli strappò il cellulare dalle dita. Non ebbe neppure il tempo di capacitarsene. In effetti, quando si voltò verso di lui per chiedergli una spiegazione, lo vide già a qualche metro di distanza.
«Ma che cazzo...» Semi borbottò, confuso e indispettito, guardando Tendou che correva via con il suo cellulare e il borsone che, ingombrante, ondeggiava sotto il suo braccio destro.
Possibile che quello svitato si fosse avvicinato a lui soltanto per rubargli il cellulare? Ne dubitava, anche considerando l'età del suo apparecchio telefonico, ma era anche vero che la storia dello shinigami era assurda, sicuramente falsa.
Eita restò fermo, incapace di agire non tanto per il dispiacere di essere appena stato derubato, ma perché non sapeva se valesse la pena seguirlo – e poi non avrebbe potuto correre, considerando le sue condizioni.
Tendou però, al contrario di ogni aspettativa, rallentò drasticamente e si voltò indietro, come ad assicurarsi che Eita lo stesse seguendo, come se volesse essere raggiunto.
Semi aggrottò la fronte, per poi piegare le labbra in una smorfia colma di disappunto: non riusciva davvero a capire quali fossero le intenzione dell'altro, e forse anche per questo si decise a seguirlo, il passo rapido e i denti stretti, a occultare parolacce ed epiteti di cattivo gusto causati soprattutto dal fatto che il suo ritardo a lavoro fosse sempre più considerevole. Era paradossale che proprio lui si ritrovasse a ragionare su come sarebbe stato bello essere in grado di fermare il tempo, ma purtroppo era capace soltanto di tornare indietro di qualche minuto.
Pochi istanti più tardi, a Semi divenne definitivamente chiaro che Satori voleva essere seguito.
Percorse velocemente la banchina su cui si trovava, poi, sgomitando fra i passanti, attraversò il sovrappassaggio e arrivò al binario opposto, dove finalmente raggiunse Tendou.
«Si può sapere cosa stai facendo? Hai la segatura al posto del cervello?» era ovvio che non volesse derubarlo, ma Eita ancora non capiva e le labbra di Tendou increspate in un sorriso sottile e malizioso lo stavano innervosendo moltissimo.
Tendou barcollò di fronte alle porte spalancate del treno, il cellulare dell'altro stretto fra le dita della mano sinistra e sollevato in alto.
«Restituiscimi il cellulare.»
«Questo?» sollevò entrambe le sopracciglia, così come gli angoli della bocca, indispettendo ulteriormente Eita, che tese il braccio per cercare di recuperare ciò che gli apparteneva.
«Ahh! Semisemi, non essere precipitoso!» Satori si scostò leggermente, tendendo un orecchio per ascoltare il messaggio ovattato dell'altoparlante, poi gettò il borsone all'interno del treno, retrocedendo per avvicinarsi maggiormente alle porte.
«Ohi! Restituiscimi il cellulare, ho detto!» nel momento in cui Eita lo raggiunse, Tendou lo afferrò per il bavero della giacca e salì sul treno, trascinandolo con lui.
Eita si dimenò, liberandosi quasi immediatamente dalla presa dell'altro, ma le porte si chiusero proprio nel momento in cui si voltò, deciso a scendere dal treno e abbandonare definitivamente Tendou e il proprio cellulare.
Restò a fissare le porte chiuse con le labbra serrate, il naso appena arricciato.
«Che cosa significa? Che cosa hai fatto?» sussurrò fra i denti, infuriato – dopotutto non sarebbe stato facile scendere subito da quel treno, perciò era quasi ovvio ormai che avesse appena perso una giornata di lavoro.
Tendou, un sorrisino consapevole sulle labbra, mosse il braccio lentamente, facendo ondeggiare il cellulare proprio di fronte al viso dell'altro per incitarlo a riprenderselo.


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Eita, la mano nella tasca della giacca e le dita a stringere saldamente il cellulare, sprofondò nel sedile di pelle sbuffando sonoramente.
«Almeno si può sapere dove stiamo andando?» borbottò a denti stretti, sbirciando solo per un istante fuori dal finestrino.
«Shinjuku» Tendou rispose immediatamente, con una lieve nota di eccitazione ad alterargli la voce.
Eita lo bersagliò con un'occhiata rapida e silenziosa, decidendosi a controbattere solo dopo aver incrociato le braccia al petto.
«Shinjuku?» fece eco con tono scettico. «E perché?»
Satori spalancò gli occhi e inclinò il capo, rivolgendosi all'altro con espressione esterrefatta.
«La mia intuizione, Semi!»
Eita sollevò leggermente un sopracciglio, sostenendo lo sguardo dell'altro per alcuni istanti: evidentemente Tendou si sentiva offeso dal fatto che avesse dimenticato la sua intuizione, ma dal suo canto non si sentiva per niente in colpa per aver occultato una memoria così ridicolamente superficiale e irrilevante.
«La tua intuizione,» Semi schioccò la lingua sui denti «certo. Perderò il lavoro, per colpa della tua intuizione del cazzo.»
A pensarci bene, però, perdere il lavoro era forse la conseguenza migliore in cui potesse sperare. Non era sicuro per lui viaggiare così liberamente, non soltanto perché avrebbe potuto sentirsi male da un momento all'altro, ma anche perché – per quanto fosse strano anche solo pensarlo – era un ricercato.
Tendou schiuse le labbra, intenzionato a dire qualcosa, ma alla fine serrò i denti proprio nel momento in cui il cellulare di Eita squillò. Si voltò a guardarlo, pronto ad ascoltare ogni singola parola pronunciata dalla sua bocca.
Eita indugiò fin da subito, balbettò appena per poi increspare le labbra in una smorfia marcata: doveva essere il suo datore di lavoro, altrimenti non ci sarebbe stata alcuna ragione di boccheggiare in quel modo, stringere le dita attorno al cellulare così saldamente da farlo crepitare contro l'orecchio.
Semi ammise il ritardo, poi disse che non si sarebbe presentato a lavoro.
Tendou cercò di aguzzare l'udito, ma non riuscì a distinguere una sola parola di quelle pronunciate dal datore di lavoro dell'altro; alle sue orecchie giunse un vociare indistinto e fastidioso, amplificato dal continuo scoppiettio delle ruote del treno sulle rotaie.
Eita disse che non sarebbe più avvenuto, in una supplica implicita che Tendou notò – con ammirazione – essere comunque veicolata da un tono di voce fermo e deciso.
Ascoltò di nuovo con attenzione, questa volta riuscendo a carpire le parole provenienti dall'altra parte del cellulare: il datore gli aveva chiesto se stava male, ma senza dargli il tempo di ribattere si era detto sicuro che la situazione si sarebbe ripetuta.
Satori poteva sembrare distante o comunque disinteressato nei confronti del proprio protetto, ma lo aveva osservato attentamente per accertarsi della situazione ed era abbastanza intelligente da capire che era grave, che Eita aveva ancora poco da vivere. Probabilmente si era già assentato tante volte da lavoro a causa della malattia, e il livello dell'acqua che si era accumulata nel vaso era ormai giunto al limite.
Eita indugiò solo per un istante, poi mentì dicendogli che, sì, stava male.
Guardò Tendou per una misera frazione di secondo, poi rispose affermativamente, a voce bassa. Chiuse gli occhi, serrando con forza le labbra, restò in ascolto ancora per un attimo e poi rispose di nuovo di sì.
Tendou vide i suoi occhi arrossarsi appena, sentì la sua voce tremare nel momento dei saluti.
Eita chiuse la chiamata e infilò il cellulare in tasca, in fretta. Sbatté le palpebre un paio di volte, cercando di scacciare il pianto imminente, poi incrociò le braccia al petto e fissò in silenzio lo spazio di fronte a sé, le labbra serrate con forza, incrinate in un'espressione rabbiosa e amareggiata.
«Ti ha licenziato?» Tendou inclinò leggermente il viso, ponendo la sua domanda senza malizia, senza cattiveria.
Eita lo guardò solo per un istante, in cagnesco ma con gli occhi ancora leggermente lucidi. Era offeso, triste, arrabbiato, pronto a fargliela pagare qualora la sua intuizione si fosse rivelata sbagliata.
«Che importa, alla fine?» Semi borbottò, guardando nuovamente di fronte a sé «dopotutto morirò fra qualche mese.»


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Eita era esausto, e aver trascorso il viaggio in silenzio, senza potersi sfogare e continuando a pensare alle parole del suo datore di lavoro, lo aveva reso anche più spossato del previsto.
Lui e Tendou avevano imboccato il lungo viale alberato a pochi metri dalla stazione di Shibuya, e adesso lo stavano attraversando, procedevano lentamente fra gli alti grattacieli della città, in uno spazio grigio e così ampio da disperdere ulteriormente i colori freddi e attribuire al quartiere un'aria decisamente sterile.
Eita riconobbe il Palazzo di Tokyo, guardò l'alta costruzione trattenendo il fiato per qualche istante e poi, come se avesse realizzato soltanto in quel momento di trovarsi in un quartiere diverso da Edogawa, decise di richiamare l'attenzione dell'altro.
«Ehi, Signor Intuizione, si può sapere dove stiamo andando?» Semi attese per qualche istante, poi, quando Tendou accelerò il passo, serrò le labbra con forza e sfiatò indispettito. «Ohi?!»
Tendou non rispose né si voltò, semplicemente sollevò la mano sinistra per esortarlo a seguirlo.
«Lo sai che sei uno stronzo? Mi fai salire su un treno per Shinjuku a forza, mi fai licenziare e adesso neanche mi parli!»
Satori sollevò gli occhi al cielo, per poi protendere le labbra in uno sbuffo leggero.
«Non strillare» borbottò a denti stretti, sicuro che Eita lo avrebbe comunque sentito.
«Ti ho fatto una domanda» Semi si affiancò a lui, rimbeccandolo con tono alterato ma fortunatamente più basso, tuttavia Tendou restò di nuovo in silenzio.
Attraversarono la strada pochi metri più avanti, giungendo in un istante sul marciapiede opposto, in uno spiazzo condominiale piuttosto ampio, con aiuole piene di arbusti secchi e panchine così lucide da sembrare appena verniciate.
«Ehi,» Eita assottigliò lo sguardo, soffermandosi su un'automobile dall'aspetto inconfondibile «quella è dell'Unità Speciale di Polizia di Tokyo.»
A differenza delle volanti di polizia standard, quella dell'Unità Speciale era completamente nera, con soltanto una scritta in kanji bianchi su entrambe le fiancate e le Z dorate sugli specchietti.
«Lo so» Tendou tagliò corto, per poi indicargli un locale con un rapido movimento della mano.
Eita osservò le vetrate lucide del locale senza capire, per poi fermarsi accanto a Tendou, dietro un muretto che permetteva loro di avere piena visibilità del locale e che l'altro probabilmente riteneva trovarsi in una posizione sufficientemente coperta.
«È un bar» Semi si sentì un idiota nel pronunciare quelle parole, ma non riusciva davvero a capire cosa stessero facendo e quel silenzio da parte dell'altro lo aveva innervosito a tal punto da spingerlo a dichiarare l'ovvio.
«Vado a dare un'occhiata all'orario. Torneremo qui mezz'ora prima della chiusura.»
Eita schiuse le labbra nel tentativo di dire qualcosa, ma si ritrovò a boccheggiare confuso, guardando Tendou dirigersi a passo spedito verso il locale.


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Mezz'ora prima dell'orario di chiusura del locale, Tendou ed Eita erano tornati nello spiazzo condominiale, prima dietro il muretto e poi seduti su una delle panchine più distanti e meno in vista dal loro punto di interesse.
Eita non era molto felice della piega presa dagli eventi, perché – dopo aver trascorso appena mezz'ora a Shinjuku – il sospetto che Tendou avesse pianificato tutto, che rubargli il cellulare per attirarlo al binario giusto e farlo salire a forza su un treno non fosse stata una decisione dell'ultimo minuto, ma un piano studiato con sorprendente attenzione, aveva trovato conferma. Forse anche farlo ritardare era stato intenzionale, così che si decidesse a estrarre il cellulare per controllare l'ora e lui potesse rubarglielo più facilmente.
Eita si era sentito preso in giro, ma doveva ammettere di essersi tranquillizzato piuttosto velocemente dopo aver scoperto che Tendou aveva prenotato una camera d'albergo per permettergli di riposare; inoltre aveva sistemato tutte le sue medicine nel borsone che si era portato appresso, lo stesso che lui, sobillato dalla stizza, aveva ritenuto inutile fino a quel momento.
Semi incrociò le braccia al petto e sfiatò dalle narici, sbirciando l'altro di sottecchi per un breve istante, poi tornò a osservare il locale con espressione annoiata.
Forse Tendou non era così superficiale o menefreghista come sembrava, ma Eita non riusciva ugualmente a comprendere quale fosse lo scopo del restare appostati su una panchina a osservare un locale qualunque. Che per un qualche equivoco fosse finito a far parte di un'agenzia di spionaggio? O peggio ancora di una qualche organizzazione mafiosa come in un film?
Sarebbe dovuto restare in albergo, riposare al caldo senza arrovellarsi il cervello sulle intenzioni di Tendou. Non riusciva davvero a capire che cosa c'entrasse quel locale con la sua “intuizione”, quale fosse il suo obbiettivo. Possibile che vi fosse un dotato di cromosoma Z al suo interno? Non era da escludere, ma Eita dubitava fortemente di una simile possibilità, soprattutto perché per lui era incomprensibile che Tendou fosse riuscito a localizzare un suo simile così facilmente.
Forse era quello il suo potere di shinigami? Localizzare i dotati di cromosoma Z con la sola forza dell'intuizione? Basandosi su qualcosa di invisibile agli occhi di tutti gli altri?
Eita sfiatò di nuovo dalle narici, scuotendo leggermente il capo: come poteva credere alla storia dello shinigami? Trascorrere tanto tempo con Tendou lo aveva rincitrullito.
«Eccoli.»
Eita sussultò, poi guardò Tendou e infine il locale.
Vide due figure uscire: una ragazza e un ragazzo che si occupò di abbassare la saracinesca.
«Shimizu Kiyoko» Tendou sibilò fra i denti, attirando nuovamente l'attenzione di Eita.
«La conosci?»
Satori si voltò verso di lui, increspando le labbra in un sorriso ampio e sghembo, a dir poco inquietante.
«La chiamano Spaccaossa. Ci sarà da divertirsi, Semisemi!»


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Mentre avanzavano, Tendou osservava con attenzione lo spazio che li circondava, i palazzi alti e la larga strada che lui ed Eita avevano percorso in mattinata. Trovare un posto isolato in un orario in cui molti tornavano a casa da lavoro era piuttosto difficile, ma non aveva intenzione di darsi per vinto, anzi proseguiva con zelo, come un segugio affamato degli elogi del proprio padrone. Era così concentrato sull'ambiente circostante da non fare assolutamente caso a Eita, rimasto qualche passo più indietro.
Se fino a quella mattina il fatto che nel locale lavorasse un dotato di cromosoma Z era solo un sospetto, ora, grazie alla presenza di Shimizu, era una certezza. Era stato fortunato a trovare lei, ma la sua idea di buona sorte non trovava radici nel fatto che Shimizu fosse un'avversaria di poco conto, al contrario era generata dall'euforia che derivava dalla consapevolezza della forza dell'altra, dall'impazienza di attaccarla e riuscire a distruggerla.
Non appena imboccarono una strada più stretta e meno illuminata, non troppo distante dalla stazione, Tendou diede un colpetto al braccio di Eita, che quindi, seppur esitante, estrasse la maschera di plastica dalla tasca della giacca.
Eita si sentiva ridicolo, e pensare che Tendou si era preso la briga di infilare la maschera nel borsone lo metteva ancora più a disagio. Chi poteva garantirgli di non essere cascato nello scherzo di un esaltato?
Nel momento in cui infilò la maschera pensò di star pedinando due ragazzi innocenti, quindi rallentò il passo, deciso a chiedere a Tendou di fermarsi. Quella situazione era sempre più insensata ai suoi occhi, perciò non aveva intenzione di continuare; sarebbero tornati in albergo, avrebbero dormito e l'indomani avrebbero preso il treno per Edogawa, dove si sarebbe preoccupato di restare fino all'ultimo dei suoi giorni.
Eita fece appena in tempo a pronunciare il nome dell'altro. In un attimo si ritrovò a boccheggiare, rivolgendosi al vuoto, le gambe improvvisamente rigide a causa del leggero eppure perfettamente percettibile tremolio della terra sotto i propri piedi.
In pochi rapidi balzi, Satori giunse alle spalle del ragazzo che aveva abbassato la saracinesca del bar, piegò le ginocchia, spalancò le mani e fece aderire i palmi al terreno.
Semi vide la ragazza spingere l'amico lontano dalla traiettoria di Tendou, e poi una crepa aprirsi sotto i suoi piedi.
Eita, incredulo e ansante, si pietrificò.
Era stato Tendou a rompere l'asfalto? Con la sola forza delle mani?
Quando lo vide retrocedere di qualche passo e poi portare una mano alla spalla sinistra, i denti stretti con forza, Semi fu avvolto da un brivido prolungato.
La ragazza non aveva neppure sfiorato Tendou, ma lui sembrava sofferente. “Spaccaossa”: possibile che fosse quella la motivazione del nomignolo della ragazza?
«Non mi deludi mai, Shimizu-san» Tendou mostrò i denti bianchi in un sorriso divertito, al contrario di Shimizu, che mantenne l'espressione disinteressata di sempre.
Sugawara, dal canto suo, tentò di avvicinarsi, ma la ragazza lo allontanò con un rapido cenno della mano.
«Non servirà a niente mandarlo via, Shimizu-san. Sappiamo entrambi come finirà.»
Shimizu assottigliò lo sguardo senza muoversi, e fu allora che Sugawara la vide sotto una luce diversa, le labbra sottili increspate in una smorfia colma di ostilità, nessuna traccia di timidezza ad alterare la sua espressione. Non era più una donna discreta e garbata, ma una bestia oscura e infuriata, una vedova nera silenziosamente impegnata a edificare una tela invisibile ma letale.
Koushi rivolse una rapida occhiata alle spalle di Tendou, soffermandosi sull'ombra che scorse qualche metro più in là, quindi schiuse le labbra per esortare lo sconosciuto ad andarsene, ritrovandosi infine a boccheggiare spaurito: perché quel tizio aveva una maschera a coprirgli la parte superiore del volto?
«Maledizione...» sussurrò a fior di labbra, per poi deglutire: le sue uniche armi erano l'autorigenerazione e la cura, quindi non avrebbe potuto respingere quel ragazzo in altri modi.
Sugawara, comunque, fu distratto dall'improvviso movimento di Tendou, che afferrò il collo di Shimizu con la mano destra, applicando la forza sufficiente per gettarla a terra. L'impatto fu così violento che perfino Koushi cadde all'indietro, e l'asfalto sotto il corpo di Shimizu si crepò in più punti.
Kiyoko emise un gemito soffocato, la bocca spalancata alla ricerca d'aria. Tendou, forse a causa dell'esaltazione del momento, le sembrò anche più forte del solito, come se non si stesse limitando a strozzarla, ma fosse intenzionato a trafiggerle il collo con tutte le dita della mano, affondare le falangi nella carne e aprirsi un varco alternativo nella sua gola.
«Lasciala!» Sugawara si risollevò in fretta, pronto a gettarsi su Tendou, così Shimizu decise di agire.
Il braccio destro di Satori si piegò all'improvviso, si contorse in un crepitio simile a quello di un ramo spezzato.
Tendou le lasciò il collo, soffocando un gemito fra i denti, e non appena mise un po' di distanza fra lui e Shimizu, questa gli frantumò anche la gamba, facendolo cadere rovinosamente a terra.
«Io so come finirà,» Shimizu si risollevò in piedi, sotto lo sguardo esterrefatto di Sugawara «perché le ossa sono tutte uguali, Tendou-san. Anche le tue sono fragili e si spezzano. Anche tu ti spezzi.»
«Shimizu-san» Koushi la chiamò, la voce smorzata dalla tensione. Lei non lo degnò di uno sguardo, piuttosto continuò a fissare Tendou, una mano a massaggiare il collo, ancora leggermente intorpidito.
«Al contrario di te, Tendou-san, non sono affatto divertita da questa situazione.»
Tendou, una gamba distesa e l'altra ancora piegata contro l'asfalto, i denti serrati in un sorriso nervoso e la fronte leggermente aggrottata a causa del dolore, sostenne il suo sguardo senza sentirsi troppo turbato da quel preambolo.
«Io sono qui per sostenere il mio protetto,» Kiyoko indicò Koushi con un posato cenno della mano, ma senza smettere di fissare il proprio nemico «e se sarà necessario ucciderò te e tutti gli altri.»
Un altro crepitio.
Questa volta Tendou si lasciò sfuggire un gemito, crollando ai piedi della ragazza. La diagnosi era semplice: entrambe le gambe erano spezzate, così come il braccio destro, e la spalla sinistra lussata.
«Vuoi...» sollevò il viso, increspando le labbra in un sorriso sottile «vuoi farmi soffrire fino alla fine, eh?»
Shimizu si avvicinò a lui di un paio di passi, guardandolo senza alcuna particolare emozione a illuminarle il viso: era giunto il momento della fine, bastava spezzargli il collo.
«Fermati! Aspetta!» all'improvviso, però, il ragazzo mascherato che era rimasto in disparte fino a quel momento, forse troppo spaventato per muoversi, si gettò su Tendou, come se pensasse che un ostacolo fisico potesse impedirle di continuare.
Eita sentì il braccio sinistro cedere, scricchiolare, il gomito spostarsi all'infuori in un movimento rapido e doloroso. Subito urlò, e poi non sentì più il braccio, lo vide piegato innaturalmente, posato mollemente contro l'asfalto scuro.
«Shimizu-san!»
L'urlo improvviso di Sugawara la fece sussultare. Il flusso dei suoi pensieri si interruppe per un istante, e poi riprese a scorrere confusamente, a tal punto che per un attimo si interrogò perfino sulle sue vere intenzioni.
«Shimizu-san, vorrei che ti fermassi» Sugawara incrociò il proprio sguardo con Eita, che ora lo stava fissando incredulo, il petto riscaldato da una speranza ancora quasi del tutto inconscia.
«Questo shinigami è molto pericoloso» Shimizu guardò Sugawara solo per un istante, per poi rivolgersi nuovamente a Tendou. «Se lo risparmio tenterà di uccidermi, e il suo protetto tenterà di uccidere te.»
«Io non ho intenzione di uccidere nessuno,» si intromise Eita «e poi non credo che la mia abilità lo permetta.»
Sugawara gli rivolse un'occhiata interrogativa, incuriosito e tentato di domandargli quale fosse la sua abilità, ma pochi istanti più tardi tornò a concentrarsi su Shimizu, perché tentare di convincerla a risparmiare i due sventurati era di prioritaria importanza.
«Se i nostri protetti decidessero di collaborare non sarei così stupido da ucciderti, Shimizu-san» Tendou, le labbra ancora increspate in un sorriso a dir poco irritante, si sollevò sui gomiti, in attesa che anche le ossa delle gambe tornassero intatte.
«Entrambi i nostri protetti hanno bisogno di una forza offensiva, a quanto pare, quindi non credo che questa alleanza possa essere la scelta più saggia.»
«Saremo noi la parte offensiva della squadra, Shimizu-san, ma se non vuoi collaborare» Tendou piegò le gambe e si girò verso di lei, pronto a risollevarsi in piedi «tanto vale farla finita!»
«Smettila di fare il coglione!» Eita, però, fu molto più veloce di lui e perfino di Shimizu. Gli piantò un pugno nello sterno, e lo fece con tanta forza che Tendou tornò steso contro l'asfalto, il respiro bloccato per qualche istante.
Shimizu e Sugawara sollevarono leggermente le sopracciglia, entrambi sorpresi dalla reazione di Eita.
«Noi non uccideremo nessuno! Hai capito?!» Eita continuò a sbraitare contro il proprio shinigami, nonostante questo fosse paralizzato a terra, il respiro ancora smorzato. «Non morirà nessuno!»
«Tu...» Tendou lo incenerì con lo sguardo, i denti stretti con forza: avrebbe voluto insultarlo, tirargli un pugno in faccia per farlo stare zitto, ma era la prima volta che qualcuno si imponeva su di lui e, per quanto fosse fastidioso, c'era anche qualcosa di estremamente gratificante e accattivante. Sbuffò sonoramente, per poi rivolgere il proprio sguardo al cielo scuro.
Sugawara si chinò accanto a Eita, assicurando a Shimizu che sarebbe andato tutto bene.
«Potrei dare un'occhiata al tuo braccio?»
Eita lo vide avvicinare entrambe le mani al suo braccio sinistro, ancora piegato in più parti, un ramo cresciuto in più direzioni, all'inseguimento di un'immaginaria linea deforme. Annuì appena, quindi Sugawara gli circondò il gomito con i palmi delle mani, applicando una forza appena percettibile.
«Che cosa stai facendo?»
«Fra poco capirai quanto giusta è stata la mia intuizione» fu Tendou, ancora steso a terra, a rispondere a Eita.
Sugawara applicò quella leggera pressione lungo tutto il braccio di Eita, e sembrò estrarre il dolore a poco a poco. Il gonfiore si ridusse e l'arto cominciò ad assumere un aspetto più naturale e decisamente rassicurante.
Eita guardò le sue mani con la fronte aggrottata, confuso e curioso, e poi, non appena riuscì a piegare il braccio senza sentire dolore, capì ogni cosa.
«Tu...» si rivolse a Sugawara boccheggiando, guardandolo con incredulità «tu curi?»
Sugawara increspò le labbra in un sorriso gentile, annuendo con un leggero cenno del capo, ed Eita sentì il cuore tremargli nel petto.
Quel ragazzo era come lui, ma la sua abilità gli sembrava molto più preziosa, un'ancora di salvezza, una provvidenziale stabilità per il suo deplorevole stato di decadenza.
«E la tua abilità qual è?» Koushi si risollevò in piedi, tendendogli la mano.
«Io posso... posso andare indietro nel tempo di qualche minuto» Eita afferrò la sua mano, sollevandosi subito da terra.
«Una bella abilità» Sugawara gli sorrise di nuovo, ma adesso Eita aveva rivolto un'occhiata a Tendou, adesso si rendeva conto del perché avesse insistito tanto per portarlo a Shinjuku.
Forse Tendou aveva pensato che dovesse uccidere quel ragazzo e impossessarsi della sua abilità, ma Eita preferiva di gran lunga adottare soluzioni che non comportassero la morte di qualcuno.
«Senti,» parlò a fior di labbra, guardando ancora Tendou «non è che potresti dare un'occhiata anche a lui? In cambio mi assicurerò che smetta di fare l'idiota.»


❋ ❋ ❋


Tendou avrebbe preferito che Eita uccidesse Sugawara e si impossessasse del suo potere, ma aveva messo in conto anche la possibilità che il suo protetto desiderasse un'alleanza, perciò non si sarebbe opposto.
Eita, Sugawara e Shimizu si stavano allontanando in fretta dal luogo dello scontro, ma lui aveva mosso solo qualche passo, poi, percependo un chiaro cambiamento nel vento, che adesso soffiava più forte e in una direzione leggermente diversa, si era fermato.
Voltò le spalle ai tre compagni, quindi sollevò il viso e osservò i confini fumosi dei tetti e del cielo scuro.
Assottigliò lo sguardo nel sentire un battito di ali, quindi attese per qualche istante e finalmente riuscì a intravedere la sagoma chiara di un uccello.
Gli ricordò le forme tondeggianti di alcuni rapaci che aveva visto in un documentario a casa di Eita, di certo non di un qualche tipico volatile giapponese, ma la voce del suo protetto che lo chiamava tagliò di netto la sua rimembranza e lo indusse a ignorare una nuova eventuale intuizione.




L'angolino della piantina autoritaria
(You should read this):

Ero sicura che non sarei riuscita a pubblicare oggi, e invece vi ho fatto la sorpresona! 8'D
Questo mese è stato un po' movimentato. Tenete conto che il pensiero della laurea mi ha bloccato per circa una settimana, poi subito dopo ho avuto delle questioni da sbrigare e la proclamazione, quindi gran parte del capitolo è stato scritto sabato scorso e in effetti la qualità non è delle migliori – me ne rendo perfettamente conto e anche se ho cercato di rimediarvi il più possibile in questi due giorni di revisione, questo è probabilmente il capitolo di cui sono meno soddisfatta.
Detto questo, vorrei analizzarlo (?) brevemente con voi.
Il primo paragrafo doveva essere esattamente così: breve e conciso, quasi privo di testo narrativo. Sono le primissime hint sul mondo degli shinigami, e in particolare quello che i personaggi dicono è strettamente collegato al paragrafo successivo (sicuramente il collegamento non è ancora chiaro, ma state sicuri che più avanti capirete ogni cosa).
Parlando del secondo paragrafo: finalmente arriva la polizia! *^*
Ammetto che avrei voluto introdurla in un modo più movimentato, renderle più giustizia, ma una tale scelta avrebbe comportato un cambiamento strutturale nella trama che, a mio avviso, mi avrebbe reso molto difficile far coincidere determinati eventi.
I membri della polizia non solo solo quelli introdotti in questo capitolo, ma molti di più (tre li vedremo sicuramente nel prossimo capitolo). Ho introdotto anche una OC che cercherò di farvi conoscere in pagina entro la fine di marzo, visto che sicuramente avrà un ruolo più importante di Tamaki (l'amica di Oikawa che è ancora viva, tanto per capirci). Chidori comunque non monopolizzerà la trama né verrà ridotta a povera Mary Sue, promesso (?)
Per seguire la pagina, dove presto inserirò anche le maschere dei vari personaggi, andate qui: Neu Preussen FB Page.
Non credo di avere altro da dire su questo capitolo. Il prossimo potrebbe non essere pubblicato il 31 marzo, ma nei primi giorni di aprile, perché fino al quindici marzo ho intenzione di dedicarmi a un progetto di scrittura molto importante (che non vedrà la luce qui su EFP), e quindi avrò solo metà mese per scrivere e revisionare il capitolo, ma visto che non voglio continuare a diminuire la qualità della storia potrei decidere di prendermi qualche giorno in più.
Sicuramente vi saprò dare informazioni più precise in pagina.
Grazie per l'attenzione e per il supporto!
Alla prossima!

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Capitolo 7
*** VII – Trovarsi lì, dove la discordia si risveglia dal suo sonno ***


VII


Trovarsi lì, dove la discordia si risveglia dal suo sonno


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S h i b a t a __ p r e f e t t u r a _ d i _ M i y a g i



Due volanti dell'Unità Speciale di Polizia di Tokyo giunsero a Shibata all'imbrunire.
Yachi Hitoka, uno dei membri di élite più giovani, fu la prima a scendere dall'auto, seppur lentamente, affondando gli stivali nella neve con estrema cautela.
«Si gela!» chiuse la portiera strepitando fra un battito di denti e un altro, per poi sfregare le mani lungo le braccia nel tentativo di mantenerle il più calde possibile.
«Vuoi un cappotto più pesante, Yachi-san?» Chidori scese dalla parte del conducente, rivolgendo una rapida occhiata ai due ragazzi appena usciti dalla seconda volante.
«Posso farcela» Yachi si affiancò alla collega, diminuendo a poco a poco lo sfregamento delle mani contro le braccia e serrando i denti con forza, nella speranza di stroncare i brevi spasmi del freddo, che ormai avevano preso il controllo di mandibola e mascella.
«Davvero questa nevicata potrebbe essere stata provocata da un dotato di cromosoma Z?» Yamaguchi Tadashi si avvicinò alle due ragazze, seguito a ruota da Tsukishima Kei, uno dei membri più promettenti dell'Unità Speciale di Polizia di Tokyo, nonché amico fidato dell'altro.
«Potrebbe» Chidori rispose immediatamente. «Tsukishima, tu cosa ne pensi?»
Tsukishima non rispose immediatamente. Si guardò intorno, mosse qualche passo affondando le punte degli stivali nella neve, in modo da poter raggiungere l'asfalto, saggiare ciò che si trovava sotto la morbida coltre bianca.
Chiuse gli occhi per un istante, esalando un respiro che si condensò in una fumosa nuvola biancastra.
«Noto alcune irregolarità da non sottovalutare. Ad esempio sotto la neve ci sono punti ricoperti di ghiaccio e altri no, ed è un po' strano considerando che la precipitazione è recente.»
«Ma fa freddo» Yamaguchi intervenne, il naso arrossato a causa dell'aria gelida.
«Il freddo potrebbe essere stato causato proprio da un dotato di cromosoma Z, Yamaguchi.»
Chidori annuì appena, pronunciandosi a favore di Tsukishima, poi retrocesse di qualche passo.
«Tenete il cercapersone acceso e siate vigili,» Kazue diede una pacca affettuosa sulla spalla di Hitoka, ancora al suo fianco «Yamaguchi con me, Yachi-san con Tsukishima.»
Gli altri tre annuirono quasi simultaneamente, quindi Yamaguchi e Yachi si scambiarono di posto e le coppie presero subito direzioni opposte.


❋ ❋ ❋


Yahaba, lo sguardo fisso sullo specchietto centrale, vide Shirabu sussultare appena, per poi risollevare rapidamente le palpebre.
«Qualcosa non va, Raijuu?»
Anche se Yahaba considerava la loro una tregua necessaria, piuttosto che un'alleanza, il ragazzo che si faceva chiamare Raijuu gli aveva spiegato brevemente la sua abilità, il fatto che potesse percepire determinati cambiamenti e particolari vibrazioni tramite i tralicci dell'alta tensione.
«La polizia» Shirabu rispose senza esitazione, provocando un brivido lungo la schiena di Goshiki – già di per sé piuttosto inquietato dalla presenza di Kyoutani e il suo protetto, seduti davanti a loro.
Yahaba assottigliò il proprio sguardo, rivolgendo una rapida occhiata fuori dall'auto abbandonata che erano riusciti a trovare ad appena un chilometro fuori Shibata, un catorcio che non sarebbero mai riusciti a far funzionare ma che per fortuna si trovava in una posizione sufficientemente protetta.
«Sei riuscito a localizzare Oikawa?»
«No. E personalmente comincio a pensare che non sia più così sicuro restare qui ad aspettare» Shirabu fece una breve pausa, inspirando appena. «Dopotutto posso garantire sulla presenza della polizia, ma Oikawa potrebbe aver già lasciato la città.»
Tsutomu rivolse un'occhiata colma di terrore al proprio protetto, raccomandandogli mentalmente – nonostante sapesse che non poteva sentirlo – di stare attento a quello che diceva. Non si erano mai incontrati di persona, ma aveva sentito parlare spesso di Cane pazzo, uno degli shinigami più forti insieme a Iwaizumi, Aone, Tendou e Shimizu. Tendeva a stare sulle sue ed era piuttosto silenzioso, ma bastava un nonnulla per provocarlo, a quel punto faceva ricorso a tutta la sua forza per eliminare le seccature.
Da quando erano entrati in auto, Goshiki lo aveva osservato di sottecchi attraverso lo specchietto retrovisore, e tutte le volte – che riuscisse a scorgere solo un quarto del viso o l'intero – Kyoutani teneva le palpebre leggermente abbassate e le labbra serrate con forza ma appena piegate, protese, come se si stesse preparando ad azzannare qualcuno, forse il suo stesso riflesso nel parabrezza polveroso.
Tsutomu guardò solo per un istante fuori dal finestrino, schiudendo le labbra in un sospiro rassegnato: il freddo era già penetrato nelle ossa, ma era sicuro che una volta lasciata l'auto sarebbe stato anche peggio. D'altronde lo aveva sperimentato in mattinata, quando Shirabu gli aveva chiesto di accompagnare Kyoutani al supermercato più vicino perché potessero rimediare qualcosa da mangiare. L'iniziativa del suo protetto non gli era piaciuta, innanzitutto perché lo aveva messo in una posizione piuttosto spiacevole, costringendolo a lasciarlo nelle mani di Yahaba e a trascorrere davvero troppo tempo solo in compagnia di Kyoutani, ma Goshiki aveva capito che si trattava di una prova di fiducia. Non aveva idea di come fosse andata fra Shirabu e l'altro; in quanto a lui e Cane pazzo, questo non aveva fiatato per tutto il tempo, ammutolendo automaticamente Goshiki, che aveva aperto bocca solo per ringraziare la cassiera dello scontrino e congedarsi con un saluto educato.
«Noi andiamo via.»
Goshiki rivolse un'altra occhiata inquieta a Shirabu, senza riuscire a dire niente per farlo tacere.
«Dovreste farlo anche voi, e al più presto» Kenjirou aprì la portiera per primo, increspando le labbra in una smorfia nervosa non appena le scarpe affondarono nella neve gelida; Goshiki scese dall'altra parte, frettolosamente e un po' goffamente, bersagliato dallo sguardo vitreo di Kyoutani.
«Stammi bene, Raijuu.»
Alla risposta di Yahaba, sia Shirabu che Goshiki chiusero le portiere, allontanandosi in fretta dall'auto.


❋ ❋ ❋


«C-c-ci...» Goshiki boccheggiò per il freddo, mentre il vento, che come un rastrello nella sabbia secca deformava e disperdeva la coltre bianca, sfaldandola e sollevandone le infinitesimali parti, gli frustava il viso e sferzava i suoi capelli.
Raggiunse Shirabu azzardando qualche passo allungato, le braccia strette al petto e il capo chino, il mento affondato oltre il bavero del cappotto.
«Ci alleiamo da-davvero con... loro?»
«Con Frost Bite e il suo cagnaccio?» Shirabu, anche lui visibilmente infreddolito e infastidito dal vento, riuscì comunque a rispondere senza battere i denti, fermandosi non appena giunsero in un punto più riparato. «Non ho intenzione di allearmi con dei tipi simili, e ho l'impressione che la cosa sia reciproca. Siamo rimasti con loro perché volevo tentare di localizzare Oikawa o l'altro ragazzo.»
«Ma è vero che non ci sei riuscito?»
Shirabu annuì, guardandosi intorno con aria angustiata.
«To-torniamo a casa, adesso?» domandò Goshiki, tirando su con il naso.
«Sì. Mi auguro che ci siano treni in partenza, altrimenti finiremo dritti dritti nelle fauci della polizia.»


❋ ❋ ❋


Yachi si sentiva sempre in imbarazzo quando si trovava con Tsukishima. Non si trattava di un impedimento strettamente sentimentale, perché, per quanto riconoscesse la sua perspicacia e il suo acume, non era attratta da lui. A metterla in difficoltà era Kei stesso, la sua personalità troppo silenziosa e impenetrabile; anche quando le diceva qualcosa, Hitoka aveva l'impressione che non le stesse raccontando tutta la verità, o che per lo meno stesse omettendo qualche pensiero astuto che preferiva tenere per sé. Sapeva che era un bravo ragazzo, molto concentrato sul lavoro, ma alcune volte non le sembrava del tutto umano e la metteva a disagio – senza contare, poi, che lei stessa aveva un carattere piuttosto vulnerabile e suscettibile.
«Tsukishima,» in quel momento, però, forse perché la vista uniforme dei marciapiedi imbiancati l'aveva annoiata abbastanza e desiderava liberare almeno il viso dall'intorpidimento del freddo, decise di parlargli «come ti sei trovato con l'Exterminator potenziato?»
«Bene» Kei tagliò corto, senza guardarla. Continuò ad avanzare, gli stivali scuri immersi nella neve e l'Exterminator che, attaccato alla cintura, ondeggiava leggermente.
Yachi deglutì, innervosita dalla risposta frettolosa dell'altro. Di nuovo, come spesso accadeva, aveva l'impressione che dietro il cripticismo del suo collega si nascondessero milioni di congetture illuminanti che tuttavia voleva tenere soltanto per sé. Perché doveva essere sempre così ermetico? Per lei, che non riusciva neppure a intuire i suoi pensieri, era frustrante. In effetti capire Tsukishima risultava difficile un po' a tutti, in polizia, solo che Yachi, a differenza degli altri, non voleva accontentarsi della superficie.
«Un'arma che adatta il proprio potere a seconda di chi le sta di fronte...» azzardò un commento «mi chiedo come siano riusciti a crearla.»
«A tale riguardo credo che sia opportuno porsi meno interrogativi possibili,» Tsukishima prese fiato, scrutando lo spazio ristretto del marciapiede opposto al loro «a tempo debito avremo la risposta.»
Questa volta fu Hitoka a chiudersi nel silenzio. Osservò Kei con le labbra serrate e leggermente contratte, e quando lo vide girare il viso verso sinistra fece lo stesso, cercando di capire cosa stesse guardando.
Per un istante, l'attenzione di Yachi fu attirata dall'insegna colorata di una libreria per bambini, kanji arcobaleno disposti su un libro spalancato dietro il quale facevano capolino la testa, una zampa e la coda di un gatto nero e grigio. Era stata tanto coinvolta dalla preoccupazione derivante dal trovarsi sola con Tsukishima da aver dimenticato che in quella città vivevano anche dei bambini, che oltre a uno o più eventuali dotati di cromosoma Z c'erano studenti, lavoratori, madri, padri, persone comuni come lei.
Schiuse le labbra, boccheggiando appena, un po' perché indecisa se dire ancora qualcosa, un po' a causa del freddo, ma poi la punta del suo stivale sinistro si agganciò a qualcosa di duro. Yachi perse l'equilibrio, sbilanciandosi in avanti, e le dita del piede si piegarono dolorosamente, scivolando via dall'incastro sottile che si nascondeva sotto lo strato di neve – la fessura di un tombino di scarico, molto probabilmente.
Hitoka cadde in avanti, scivolando rovinosamente a causa della neve, quindi tese le braccia e serrò gli occhi per prepararsi all'impatto imminente, ma due mani, una presa salda sulle sue spalle, arrestarono la caduta.
«Stai bene?»
Fu la voce squillante di un ragazzo a spingerla a riaprire subito gli occhi, quindi Yachi sollevò il viso imbarazzata, pronta a scusarsi, allontanarsi da lui e sparire per sempre dalla sua vista, se fosse stato possibile scomparire nella neve e fargli dimenticare che quel giorno una poliziotta stupida aveva evitato una facciata nella neve grazie a lui.
Nel momento in cui vide il ragazzo, però, il corpo di Hitoka si pietrificò; si ritrovò a boccheggiare, le guance arrossate e la luce degli occhi più vivida sotto un cielo bianco e vuoto.
Il ragazzo dai capelli arancioni le sorrise, e all'improvviso ebbe l'impressione di conoscerlo da una vita. I muscoli tesi cominciarono a sciogliersi, e le sue labbra si piegarono all'insù, seppur timidamente: era a casa, in quel momento, e niente avrebbe potuto convincerla del contrario.
«Sì,» rispose a voce bassa, ancora un po' imbarazzata, per poi tornare a reggersi solo sulle proprie gambe «grazie.»
Hitoka guardò per un istante alle sue spalle: vide un ragazzo dai capelli corvini, l'espressione contrita, come infastidito dal fatto che l'altro si stesse intrattenendo a parlare con lei, come se volesse allontanarsi immediatamente da lì – o forse si sentiva scocciato da Tsukishima, che lo stava fissando con insistenza, squadrandolo dalla testa ai piedi.
Il ragazzo dai capelli arancioni guardò l'altro solo per un istante, poi tornò a rivolgersi a lei, ampliando leggermente il sorriso.
«Ora dobbiamo proprio andare, buona giornata!»
Il ragazzo si allontanò all'improvviso, velocemente, tanto che Yachi si ritrovò a balbettare inutilmente un saluto e un secondo ringraziamento.
«Buona giornata» anche il ragazzo dai capelli neri la sorpassò, bofonchiando con reticenza quell'augurio di pura cortesia.
Tsukishima li seguì con lo sguardo finché non scomparvero dietro l'ampia mole di un palazzo.


❋ ❋ ❋


«Ma sei stupido?!» Kageyama afferrò con forza il braccio di Hinata, strattonandolo. «Hinata, imbecille! Perché proprio una poliziotta?»
Hinata emise un rantolio prolungato, lasciandosi scuotere da Kageyama senza riuscire a liberarsi dalla sua presa – anche a causa del sottile strato di neve liquefatta sotto i suoi piedi.
«Avresti potuto lasciare che si ammazzasse!» Tobio mollò la presa, borbottando rabbiosamente. «Sarebbe stato molto meglio per noi...»
«L'avresti lasciata cadere, Kageyama?» Hinata lo bersagliò con sguardo interrogativo, facendogli realizzare quanto sarebbe stato scortese e squallido da parte sua lasciare che una ragazza cadesse rovinosamente nella neve e sperare per una perdita tra le fila dell'Unità Speciale di Polizia di Tokyo.
Imbarazzato, Kageyama allontanò lo sguardo e sbuffò leggermente: per quanto impacciato e impulsivo, non era cattivo, perciò non avrebbe permesso davvero che quella ragazza si facesse male; Hinata aveva fatto una cosa buona, in fin dei conti, e a pensarci bene era assurdo che uno shinigami avesse dimostrato un'educazione civica più acuta della sua.
«Piuttosto,» Hinata riprese a parlare, cambiando argomento con grande sollievo dell'altro «dove stiamo andando?»
Continuarono a camminare, e per qualche istante si sentì solo la neve crepitare sotto i loro piedi, condensarsi e indurirsi contro le suole delle scarpe e poi scricchiolare e rompersi in piccole zolle di ghiaccio grigiastro.
Kageyama si voltò verso il proprio shinigami appena qualche attimo più tardi.
«Ad avvertire Oikawa-san.»


❋ ❋ ❋


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B u n k y o u __ p r e f e t t u r a _ d i _ T o k y o



Moniwa sorresse la cornetta del telefono per qualche istante, restando a fissarla stranito, inquietato dal tempismo con cui il cellulare – ancora nella tasca dei pantaloni – aveva incominciato a vibrare contro la sua coscia. Aveva fatto appena in tempo a salutare sua madre, che aveva telefonato dall'ufficio per dirgli che si sarebbe trattenuta un paio di ore in più e che quindi avrebbe fatto meglio a preparare subito la cena per sé, Tetsuko e Aone.
Senza fare movimenti bruschi, come se Kaname temesse che il cellulare potesse smettere di vibrare a causa sua, infilò una mano nella tasca dei pantaloni, quindi, dopo averlo estratto e aver letto il nome del mittente della chiama, strabuzzò gli occhi stupito: cosa poteva volere da lui il principale dell'ufficio legale in cui stava svolgendo il proprio master? Aveva sbagliato qualcosa? Non lo aveva mai chiamato, d'altronde, e quello gli parve un orario piuttosto strano.
Moniwa deglutì, quindi si schiarì la voce e rispose, anche se avrebbe preferito ingoiare ancora un po' di saliva nell'attesa che il suo superiore si arrendesse e terminasse la chiamata.
«Nijima-san,» esordì con tono vagamente tremante, deglutendo «buonasera.»
«Buonasera a te, Moniwa-kun» il suo capo rispose pacatamente, come al solito. Non c'era nulla di diverso dal tono che usava in ufficio, perciò Kaname sperò che la sua chiamata fosse dettata da una ragione differente rispetto a un suo errore commesso durante l'orario di lavoro.
Schiuse le labbra, intenzionato a domandargli se vi fosse un motivo particolare dietro quella chiamata, ma Nijima lo precedette.
«Mi auguro di non essere di disturbo.»
«No, assolutamente» Moniwa si affrettò a rispondere, rischiando perfino di strozzarsi con la sua stessa saliva, ma visto che il capo riprese subito a parlare dovette perfino sforzarsi di trattenere la tosse.
«Ho una proposta.»
Kaname si schiarì la voce con fatica, sbattendo le palpebre un paio di volte, confuso.
«Che... che genere di proposta?»
«Ascolta, un collega di Shinjuku mi ha telefonato poco fa per dirmi che per qualche giorno nel suo ufficio vi sarà un posto di stagista vacante. Si tratta di pochi giorni, ma ho pensato che un'esperienza a Shinjuku potrebbe rivelarsi interessante, senza contare che si tratta di uno studio legale piuttosto rinomato. Se mi fosse capitata un'occasione simile quando ero giovane, avrei accettato immediatamente.»
Moniwa non riuscì a parlare, semplicemente emise un fievole suono gutturale per esprimere la sua confusione.
«Inoltre sarò io a occuparmi delle spese riguardanti viaggio e alloggio. Tu dovrai provvedere soltanto al pranzo.»
Kaname restò in silenzio ancora per qualche istante. Cosa gli stava dicendo? Il suo capo gli aveva appena proposto di lavorare in un importante studio legale di Shinjuku per qualche giorno, fra l'altro a un costo a dir poco irrisorio. Gli sarebbe piaciuto lasciare Edogawa per qualche giorno, rompere gli schemi della routine anche soltanto per quarantotto ore.
«È un'offerta davvero allettante,» non mentì, tuttavia affondò i denti nel labbro inferiore, turbato dalla situazione «ne discuterò in famiglia e domattina le darò una risposta, sempre che non sia necessario un immediato consenso da parte mia.»
«Domattina è perfetto,» Moniwa ebbe l'impressione che Nijima stesse esitando, e in effetti questo riprese a parlare qualche istante dopo, la voce leggermente roca «ma ti consiglio vivamente di accettare. In ogni caso mi scuso ancora per il disturbo. Buona serata.»
«B-buona serata anche a lei» Kaname, preso alla sprovvista dall'improvviso congedo del capo, si ritrovò a balbettare, le dita della mano destra strette con forza attorno al cellulare. «A... a domani, allora!»
Chiuse la chiamata, quindi restò a fissare lo screensaver per qualche secondo, le labbra serrate con forza, leggermente contratte a causa delle tempie bollenti e della gola secca.
Cosa avrebbe potuto fare? In normali circostanze avrebbe accettato immediatamente; certo, si sarebbe approcciato alla proposta del superiore con un po' della sua tipica titubanza, ma si sarebbe sentito fortunato. In quel momento, invece, era combattuto, riusciva a visualizzare con chiarezza la proposta ed entrambi i suoi lati – buono e cattivo.
Si trattava di un'esperienza che avrebbe chiaramente arricchito il suo bagaglio professionale e personale, ma era ovvio che quello non fosse il momento migliore per lasciare Bunkyou. C'erano altri dotati di cromosoma Z come lui, in Giappone, anche loro avevano uno shinigami e sicuramente avevano deciso di attaccare, piuttosto che puntare sulla difensiva, per cui partire da solo e recarsi in un posto poco conosciuto gli sembrava la decisione più stupida che potesse prendere.
Deglutì, e poi tentò di schiarirsi la gola, seppur con scarsi risultati, dunque sospirò e si diresse verso camera sua, il cellulare ancora stretto dalle dita della mano destra: prima di decidere ne avrebbe discusso con Aone.


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S h i b a t a __ p r e f e t t u r a _ d i _ M i y a g i



Chidori non si preoccupava troppo del modo in cui chiedeva ragguagli. Le riusciva piuttosto facile far valere la propria autorità con educazione e senza creare allarmismi, e anche in quell'occasione era riuscita a procurarsi diverse informazioni relative agli ospiti di tutti gli alberghi presenti nella cittadina.
Erano giunti al penultimo della lista, e come per gli altri, quasi automaticamente, Kazue si era seduta su uno dei divanetti presenti nella hall e aveva cominciato ad analizzare i nomi presenti nel database dell'hotel, facendo qualche rapida ricerca su ciascuno degli ospiti.
Nel frattempo Yamaguchi stava ispezionando l'albergo in cerca di dettagli particolarmente sospetti, come richiesto espressamente da Kazue.
Giunta ai nomi della stanza numero ventitré, Chidori fermò la propria ricerca per qualche istante, soffermandosi in particolare sull'orario del check out.
«Mi scusi,» tenendo il piccolo computer con entrambe le mani, così da assicurarsi una maggiore aderenza contro le proprie gambe, si rivolse alla receptionist dell'hotel «i clienti della stanza ventitré se ne sono andati oggi pomeriggio?»
Voleva accertarsi che non si trattasse di un errore, visto che normalmente il check out avveniva al mattino.
«Sì» la risposta della receptionist fu piuttosto sbrigativa: era evidente che la visita della polizia l'aveva messa a disagio, non riusciva a capire cosa stesse accadendo, e il non sapere la agitava più del dovuto.
«Non questa mattina?» Chidori, non troppo soddisfatta dalla risposta concisa dell'altra, cercò un'ulteriore conferma.
«No, oggi pomeriggio» ripeté la receptionist.
Kazue digitò il primo nome, iniziando una breve ricerca in rete.
«Potrebbe dirmi più precisamente a che ora se ne sono andati?» domandò poi, la mano sinistra a sorreggere il PC e la destra impegnata a estrarre una penna e un piccolo taccuino dalla tasca della divisa scura.
«Io... la privacy» la donna alla reception balbettò, l'indice e il medio della mano destra ad accarezzare le labbra in un movimento misurato, probabilmente a causa dell'imbarazzo generato da quell'insolita situazione.
«Ne sono consapevole, e immagino che la mia domanda possa sembrarle troppo scomoda e pretenziosa, ma» Chidori poggiò il computer sul divanetto in pelle, accanto a lei, quindi sistemò il taccuino sulle ginocchia e appuntò il primo nome «ne va della sicurezza della città.»
La receptionist annuì con un movimento ingessato del capo, le dita congiunte nervosamente dietro il bancone. Guardò Chidori scrivere in fretta sul taccuino, poi infilarlo nuovamente in tasca, riprendere il computer e digitare ancora una nuova ricerca.
«La sto mettendo in difficoltà, me ne rendo conto,» Kazue riprese a parlare e voltò il viso verso di lei, le labbra increspate in un sorriso discreto e rassicurante «ma nessuno verrà a sapere che è stata lei a darci le informazioni, e anche se così fosse, noi stessi ci occuperemo di mettere al sicuro la sua posizione. D'altronde non ha altra scelta.»
La receptionist annuì di nuovo, quindi, dopo qualche istante di esitazione, le disse che i due clienti della stanza ventitré avevano lasciato l'albergo circa mezz'ora prima.
Chidori si alzò dal divanetto senza tradire alcuna fretta, quindi ripose il computer nell'apposita custodia e richiamò Yamaguchi inviandogli un messaggio vocale tramite il cercapersone. Si avvicinò alla reception e con le labbra piegate in un sorriso forzato ringraziò la sua informatrice, congedandosi con cortese brevità.


❋ ❋ ❋


«Hai trovato qualcosa, Chidori-san?» Tadashi la raggiunse fuori dall'albergo pochi istanti più tardi.
Kazue lo guardò, e in quel momento ebbe come l'impressione che il taccuino dentro la tasca destra della giacca si stesse muovendo, cercando di saltare fuori. Socchiuse gli occhi e inspirò dalle narici.
«No. Nulla» rispose.


❋ ❋ ❋


Chidori dischiuse le labbra, ora pallide e leggermente raggrinzite a causa del freddo. Ascoltò la neve scricchiolare sotto i piedi, e vide il proprio fiato condensarsi in una nuvoletta di fumo bianco e infine disperdersi nell'aria invisibile.
Anche le ricerche condotte nell'ultimo hotel della lista non si erano rivelate particolarmente fruttuose, ma durante l'ispezione nelle varie infrastrutture alberghiere della città, Kazue aveva appuntato diversi nomi sul proprio taccuino, ancora custodito gelosamente nella tasca della divisa. Una volta tornata nel proprio appartamento di Shinjuku, avrebbe indagato individualmente riguardo l'identità di quelle persone – dopotutto nel corso degli anni aveva imparato che la privacy su Internet non esisteva o era estremamente facile da violare, per cui si poteva considerare uno dei primi strumenti utili al suo mestiere e alla sua curiosità personale.
Prima di parlarne con i propri colleghi, e soprattutto con i superiori, Kazue voleva essere sicura di aver individuato i nomi giusti e che, soprattutto, quelle persone costituissero un fondato pericolo per la vita dei cittadini comuni. Dopotutto non era mai stata d'accordo riguardo la politica dello sterminare tutti i dotati di cromosoma Z indiscriminatamente; prima di prendere una decisione preferiva indagare approfonditamente sul loro conto, propendendo per le soluzioni più drastiche qualora tali individui costituissero una rilevante minaccia per la società. Alcuni dotati di cromosoma Z non erano cattivi, né possedevano abilità particolarmente pericolose, per cui non comprendeva assolutamente la necessità di radiarli dalla comunità.
Guardò frettolosamente l'orologio da polso, poi il cielo, stracci di nubi colme di neve addensate su un compatto fondo blu. Le tracce arancioni e rosate dell'imbrunire erano scomparse, e lei stava tornando alle volanti con tre tramezzini al tonno – visto che Yachi e Tsukishima non erano ancora tornati, ne aveva approfittato per sgranchirsi le gambe fino alla stazione, dove aveva bevuto un caffè amaro e comprato da mangiare per i colleghi.
Era quasi certa che una volta arrivata alle volanti avrebbe trovato soltanto Yamaguchi, che infreddolito si era già sistemato accanto al posto del conducente di una delle due auto. Che Tsukishima e Yachi avessero scoperto qualcosa? Non sarebbe stato strano, considerando il genio di Kei, ma si augurò che non fosse così, o che fossero tracce troppo confuse per essere elaborate e cucite insieme da chi, al contrario di lei, non possedeva alcun nome.
Accelerò il passo, perché il freddo pungente stava cominciando a farle bruciare il naso, e si preparò a spostarsi per liberare la strada al ragazzo che le stava venendo incontro.
Chidori rallentò impercettibilmente il proprio passo, per creare un lasso di tempo sufficiente a osservare con più attenzione il ragazzo, siccome la postura – mani in tasca e testa bassa – non prometteva nulla di buono. Lui sollevò il viso proprio quando passarono l'uno accanto all'altra, incontrando lo sguardo della poliziotta.
Entrambi si fermarono immediatamente, sembrarono pietrificarsi, tramutarsi in sculture di ghiaccio, come se fossero rimasti esposti a quel freddo pungente per giorni.
Chidori fu la prima a reagire, seppur schiudendo solo per un istante le labbra, boccheggiando senza parlare, un fremito nel petto a bloccarle il respiro. Era davvero lui? Non poteva credere che, dopo anni trascorsi a cercarlo, si fossero incontrati per puro caso in un posto che dalle sue ricerche non era mai risultato avere alcun collegamento con quel ragazzo.
Lui abbassò lo sguardo per un breve istante, e poi tornò a osservare l'espressione della ragazza, le labbra increspate in una piccola smorfia. Chidori capì immediatamente che non doveva fargli piacere averla rincontrata dopo anni nei panni di un membro dell'Unità Speciale di Polizia di Tokyo, ma cercò di sorvolare su quell'aspetto, così che lui potesse rendersi conto che i loro ruoli non erano necessariamente contrapposti e incompatibili.
«Kenjirou» era strano. Kazue non pronunciava quel nome da dieci anni, e in quel momento fu come essere tornati a respirare dopo tutto quel tempo.
Shirabu non rispose, non perché non volesse parlarle, ma perché, dopo aver trascorso tanto tempo senza vederla, non aveva la più pallida idea di come interagire con lei.
«Hai idea di quanto sono stata in pena per te?!»
Tuttavia ci pensò Chidori a rompere il ghiaccio, sbraitandogli contro con voce leggermente smorzata – per la rabbia o forse per l'emozione.
«Ho chiamato l'orfanotrofio appena arrivata a casa e mi hanno detto che eri scappato! Ti rendi conto che potevi morire in strada? Che sei ricercato?» abbassò la voce, la fronte aggrottata, il viso ridotto a una maschera di apprensione.
«Non aveva senso restare in orfanotrofio senza di te,» Shirabu rispose immediatamente, affondando i denti nel labbro inferiore subito dopo essersi reso conto di quanto la risposta potesse risultare imbarazzante, tuttavia riprese pochi istanti più tardi, la voce leggermente smorzata «ma sono sopravvissuto, come vedi.»
Chidori schiuse nuovamente le labbra, pronta a ribattere, ma poi pensò quanto fosse importante che Kenjirou in carne e ossa si trovasse davanti a lei. Socchiuse leggermente le palpebre e protese le labbra in uno sbuffo quasi impercettibile, per poi distenderle in un sorriso discreto.
«Sono felice di vedere che stai bene» decise di non insistere sugli accadimenti del passato, quindi ampliò leggermente il sorriso.
«Sì» per quanto lo pensasse, Shirabu – disturbato dalla visione dell'altra con indosso la divisa dell'Unità Speciale – non riuscì a dirle che per lui era lo stesso.
«Tu lavori in polizia» constatò l'ovvio dopo qualche istante di esitazione, ricevendo in risposta un lieve cenno di assenso da parte di Chidori.
«Quindi dovresti arrestarmi.»
«No,» Kazue scosse la testa «non ti arresterò. Non è per questo che sono‒» prima ancora che potesse terminare la frase, già squadrata dallo sguardo scettico di Shirabu, Chidori fu interrotta dal suono del cercapersone.
Lo estrasse immediatamente, controllò in fretta il nome del mittente e poi rispose.
«Ushijima-san» lo esortò a parlare.
«Avete scoperto qualcosa?»
Shirabu, che poteva sentire piuttosto facilmente anche la voce di colui che si trovava all'altro capo della ricetrasmittente, assottigliò lo sguardo. Prendendo in considerazione l'idea che Goshiki fosse rimasto chiuso nel bagno pubblico della stazione e chiedendosi se non fosse meglio andare via prima che Chidori facesse il suo nome, rivolse la propria attenzione alla ragazza, che ora, il cercapersone vicino alle labbra serrate e ritte, lo stava guardando senza battere ciglio.
Quando era arrivato all'orfanotrofio, Chidori era stata l'unica bambina ad avvicinarsi a lui, a prescindere dalle voci che giravano sul suo conto, e anche se all'inizio l'aveva trovata troppo curiosa e invadente, Shirabu aveva finito per considerare addirittura confortante la compagnia di quella ragazza. Lei era affascinata dalle storie sui dotati di cromosoma Z, e lui le aveva mostrato alcuni semplici trucchetti con le luci dell'orfanotrofio. Lei sapeva di lui, e adesso era un membro di élite della Polizia di Tokyo e probabilmente lo avrebbe denunciato al suo superiore, se non arrestato o radiato direttamente con le sue mani.
«Niente» alla risposta di Chidori, Shirabu aggrottò leggermente la fronte, sorpreso soprattutto dall'espressione ancora impassibile dell'altra. «Sono in attesa di eventuali aggiornamenti da parte di Tsukishima e Yachi-san, ma temo che quello che stiamo cercando sia già altrove.»
«Ho capito. Grazie comunque per il lavoro svolto. A domani.»
«A domani.»
Shirabu la vide abbassare lo sguardo e riporre il cercapersone nella tasca della giacca, dove frugò per qualche secondo. Lo stava proteggendo? Non aveva idea di quali potessero essere le conseguenze di una tale bugia, ma se l'avessero scoperta, di certo Chidori le avrebbe ricordate.
Inspirò a fondo, poi schiuse le labbra per parlare, ma Chidori mosse ancora un passo verso di lui e gli infilò un bigliettino nella tasca della giacca.
«Non metterti nei guai» Kazue avrebbe voluto parlare ancora un po' con lui, spiegargli qualsiasi cosa e chiedergli dove abitava, ma aveva intravisto Tsukishima e Yachi in lontananza e non voleva che Kenjirou corresse rischi, dunque aveva deciso di lasciargli un biglietto dove aveva appuntato il numero del cellulare che utilizzava prima ancora di entrare in polizia, quello che aveva deciso di tenere attivo proprio per tale evenienza. Solo per un istante, poi, posò la mano sinistra sulla spalla di Shirabu.
«Non mi piace questo lavoro, sfocia troppo spesso nella persecuzione e nella violenza ingiustificata, ma ho dovuto farlo per trovare te» poi lo lasciò, si allontanò da lui e se ne andò, svanendo tristemente come tanti anni prima.




L'angolino della piantina autoritaria
(You should read this):

È ancora il 31 marzo, ma in effetti non mi è mai capitato di pubblicare Wonderwall così tardi!
Devo dire che questo capitolo mi ha dato qualche problemino, anche a causa di alcune questioni personali che non mi ha permesso di mettere la solita cura e attenzione nella stesura della storia.
Sono comunque molto felice di essere riuscita a pubblicare in tempo, per il resto non credo di avere altro da aggiungere (anche perché sono esausta e vorrei andarmene a letto, nh).
Unico appunto sulla parola “cripticismo”, attualmente non riconosciuta come corretta, ma presa in considerazione da molti – me compresa – come possibile neologismo.
Plus: se volete conoscere qualcosa su Chidori, la OC introdotta nello scorso capitolo, cliccate qui cliccate qui.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto! Alla prossima!

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Capitolo 8
*** VIII – La lealtà di uno shinigami ***


VIII


La lealtà di uno shinigami




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E d o g a w a __ p r e f e t t u r a _ d i _ T o k y o



- La clessidra?
-Persa.
- Si è rotta?
- No, non riesco più a trovarla.




❋ ❋ ❋


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S h i n j u k u __ p r e f e t t u r a _ d i _ T o k y o



Dopo aver considerato attentamente tutte le conseguenze che sarebbero potute derivare da un eventuale cambiamento di alloggio, Tendou ed Eita avevano deciso di lasciare l'hotel in cui avevano passato la notte precedente così da potersi sistemare in uno poco distante dall'appartamento di Sugawara.
Era ormai evidente quanto Sugawara fosse importante per Eita, perciò Satori si era definitivamente deciso a supportare l'alleanza proposta dal suo protetto, a prescindere dalla presenza di Shimizu. A dire il vero dubitava che quest'ultima stesse pianificando un tradimento, ma sapeva che era molto forte e perciò non avrebbe abbassato la guardia per nessuna ragione.
Da quando erano giunti nel nuovo albergo, Eita si era alzato dal letto solo due volte, per andare in bagno, senza contare che aveva rifiutato il pranzo e sembrava a malapena in grado di rispondergli. Tendou, dal canto suo, si era piazzato davanti alla televisione nella speranza di scacciare la noia, ma in realtà, visto che aveva trascorso tutto il tempo a voltarsi per controllare che l'altro fosse ancora cosciente, non avrebbe saputo nominare neppure uno dei programmi che quel pomeriggio erano stati proiettati sul piccolo schermo.
Quando vide che erano le venti, Satori esalò un flebile sospiro di sollievo, felice di potersi finalmente staccare dalla televisione e di avere un buon pretesto per buttare Eita giù dal letto e controllare con più attenzione il suo stato di salute.
«Semisemi, dobbiamo andare!» si sollevò dalla sedia con un unico, rapido movimento, quindi si avvicinò al letto del suo protetto, che tuttavia non accennò il minimo movimento.
Tendou serrò le labbra e lo guardò respirare in una alquanto inusuale e discreta contemplazione, poi prese fiato e lo chiamò di nuovo, questa volta con voce più bassa ma utilizzando allo stesso tempo un timbro più profondo, così da poter essere sentito con chiarezza.
Eita emise un rantolio a malapena percettibile, quindi si rigirò lentamente fra le lenzuola e voltò il viso in direzione del proprio shinigami, la pelle leggermente stropicciata dal contatto prolungato con il cuscino e gli occhi socchiusi. Sospirò sommessamente, portando le dita della mano destra a massaggiare la fronte.
«Scusami, ma non credo di farcela.»
Satori non batté ciglio, ma affondò i denti nel labbro inferiore: se gli chiedeva scusa, doveva essere davvero grave.
Avrebbero dovuto incontrare Sugawara e Shimizu davanti a un locale non troppo distante dall'albergo, così da poter scambiare qualche opinione e idea sulla situazione attuale, ma era evidente che lo stato di malessere di Semi avrebbe impedito a quest'ultimo di lasciare la struttura.
«Vorrà dire che daremo buca ai nostri amichetti» Tendou sospirò sommessamente, non troppo contento all'idea di dover scegliere fra l'accamparsi ancora di fronte al televisore e l'andare subito a dormire pur di non annoiarsi, ma Eita non gli diede il tempo di accennare un solo passo.
«Aspetta» Semi cercò il suo sguardo, gli occhi vitrei e le labbra leggermente socchiuse, come se in quel momento avesse difficoltà a respirare. «Va' a chiamare Hýdra, fallo venire qui.»
Tendou assottigliò lo sguardo e corrugò la fronte, infastidito dalla richiesta imprudente del suo protetto, che tuttavia si ripeté fra un colpo di tosse e l'altro.
Eita smise di parlare. Per qualche istante, la camera fu riempita soltanto da continui colpi di tosse e rantolii che aumentarono di intensità e che spinsero il moribondo a mettersi a sedere, piegare la schiena e tastare febbrilmente le lenzuola in cerca di un fazzoletto da portarsi alla bocca.
La tosse si placò pochi istanti più tardi, soffocata dalla stoffa sottile del fazzoletto che Semi teneva energicamente premuto sulle labbra.
«Va'...» Eita, la voce smorzata, scostò il fazzoletto dalla bocca «portalo qui.»
Tendou non fiatò, ma lasciò la camera immediatamente, non appena vide che il fazzoletto usato da Eita si era sporcato di sangue.


❋ ❋ ❋


Le venti e venti.
«Sono in ritardo.»
Sugawara sussultò all'osservazione discreta di Shimizu, come se l'aver pensato al ritardo dei loro alleati nello stesso istante dell'altra lo avesse fatto sentire spiato nella profondità dei propri pensieri.
Seduto sulla panchina, le mani congiunte sotto al mento, sollevò lo sguardo per osservare Shimizu, in piedi a qualche passo da lui, quindi lo riabbassò ed emise un sospiro rassegnato.
«Dovremmo provare a chiamarli?»
«Meglio evitare qualsiasi conversazione telefonica, Sugawara-san.»
Sugawara restò immobile per qualche istante, poi annuì con un lento cenno del capo, il dito medio della mano sinistra ad accarezzare il mento e lo sguardo fermo sull'asfalto scuro.
«Cosa facciamo?» chiese poi a fior di labbra.
«Fra dieci minuti ce ne andiamo» Shimizu fece una lunga pausa. «Spero solo non si tratti di un'imbosca–»
Smise di parlare nel momento in cui udì una serie di passi pesanti e ravvicinati, quindi inclinò leggermente il viso, così da poter osservare con più attenzione la sagoma che si stava dirigendo frettolosamente verso di loro.
«Non è serata, Kiyoko-san!» a quelle parole, anche Sugawara voltò il capo in direzione dei passi. «Vedi di non sbriciolarmi le ossa!»
Tendou si fermò accanto alla panchina, e Sugawara si alzò subito in piedi.
Vi fu un breve istante di silenzio durante il quale Shimizu e il suo protetto restarono immobili, in attesa di fronte a Tendou. Satori prese una grande boccata d'aria, cominciando a parlare non appena riuscì a intercettare lo sguardo di Koushi.
«Klessidra ha bisogno del tuo aiuto.»


❋ ❋ ❋


Quando sentì cigolare la maniglia della porta, Eita si scostò le lenzuola dal viso ed emise un sospiro che, seppur debole e leggermente tremante, aveva tutta l'aria di essere una genuina espressione di sollievo.
Restò immobile, ma con sguardo vigile seguì ogni singolo movimento di Sugawara, scortato da Shimizu; Tendou fu l'ultimo a entrare, richiudendo subito la porta dietro di sé.
«Tendou mi ha detto che non stai molto bene,» Koushi, titubante, si avvicinò al letto «che ti succede?»
Alla domanda di Sugawara, Eita rivolse una rapida occhiata a Shimizu e poi a Tendou.
«Tendou,» poi si decise a richiamare l'attenzione del suo shinigami, le labbra increspate in una piccola smorfia e la fronte corrugata «esci.»
Satori corrugò la fronte a sua volta, sorpreso dalla richiesta del suo protetto. Si guardò intorno per qualche istante, spaesato, per poi schiudere le labbra, intenzionato a protestare – non riusciva a capire che in quel momento era il solo che avrebbe potuto proteggerlo? Lo detestava così tanto da volerlo allontanare a tutti i costi? Anche in un frangente simile? Anche dopo che si era prodigato per portare Sugawara in quella stanza di albergo?
«Che aspetti?» Eita, comunque, fu più veloce di lui: lo punzecchiò all'improvviso, frustandolo in pieno volto con la sola voce, sprezzante seppur roca e bassa. «Esci dalla stanza.»
Tendou afferrò la maniglia, stringendola con forza fra le dita della mano destra, ma restò a guardare Eita ancora per qualche istante, decidendosi a lasciare la camera nel momento in cui Sugawara si voltò verso di lui annuendo, come a rassicurarlo e a volergli comunicare che non avrebbe dovuto preoccuparsi.
Non appena la porta fu richiusa, Sugawara tornò a rivolgere la propria attenzione a Eita, mentre Shimizu emise un flebile sospiro, come infastidita dall'ovvia indecisione di Tendou riguardo il seguire le direttive del protetto.
«Non è necessario che tu protegga uno come Tendou-san, Klessidra» Shimizu lo apostrofò istintivamente, affondando i denti nel labbro inferiore subito dopo: non voleva essere cattiva, semplicemente non riusciva a comprendere esattamente il comportamento di Eita nei confronti di Tendou – lo allontanava per proteggerlo? Perché? Nessuno teneva particolarmente a Satori, tanto meno quel ragazzo, o almeno così le sembrava.
«Non so neppure io perché l'ho fatto» Eita rispose a fior di labbra, la fronte leggermente aggrottata: non ne capiva esattamente il motivo, ma non voleva assolutamente che Tendou restasse a guardare; non era abituato a rendere partecipe del suo dolore qualcuno che conosceva, a malapena lasciava che sua nonna si occupasse di lui nei momenti peggiori, ma con Sugawara e Shimizu, che aveva incontrato appena qualche ora prima, sarebbe stato tutto molto più facile.
«Cosa senti?» Sugawara si fermò accanto al letto, piegando leggermente le ginocchia per avvicinarsi ulteriormente.
«Mi fanno male le gambe,» Semi fece una breve pausa, guardando Shimizu sedersi in silenzio sulla sedia foderata che si trovava di fronte alla televisione spenta «e le braccia.»
«I muscoli?»
«Le ossa» Eita ribatté immediatamente, amareggiato, perché lui più di tutti sapeva che quel dolore era una delle manifestazioni peggiori del tumore che da tempo gli stava divorando i polmoni.
«Dammi il braccio» Sugawara si sedette, le mani già tese a mezz'aria, pronte ad afferrare il braccio di Eita e sistemarlo sulle proprie gambe «vedo cosa posso fare.»
«Non sono le braccia il problema» Semi si schiarì la gola «né le gambe, a dire il vero.»
Sugawara lo guardò con la fronte aggrottata. Era confuso, ma voleva capire quale fosse il vero malessere di Eita.
Aveva l'impressione che fosse grave, ma non riusciva a immaginare di cosa potesse trattarsi.
Semi cominciò a tossire, e per un po' non riuscì a fermarsi.
«Shimizu-san» senza che Sugawara avesse il bisogno di guardarla e continuare a parlare, Shimizu si alzò e si diresse rapidamente verso il bagno, tornando indietro poco dopo, un bicchiere di plastica pieno d'acqua fra le mani.
Eita afferrò il bicchiere con la mano destra, la sinistra a coprire la bocca, ancora percossa dagli spasmi della tosse.
Bevve l'acqua in un solo sorso, non appena la tosse si placò.
«Grazie» rantolò, schiarendosi nuovamente la gola.
«Klessidra, cos'hai? Precisamente.»
Eita lo guardò, l'espressione contrita e gli occhi lucidi a causa dell'attacco di tosse.
«Precisamente?»
«Sì, così forse potrò aiutarti davvero.»
Semi emise un flebile sospiro, rassegnato all'idea di dover informare l'altro della sua condizione.
«Un...» esitò: non gli era mai piaciuto il nome della sua malattia, aveva un suono orribile che rispecchiava in pieno la sua entità malevola «un carcinoma polmonare a... a piccole cellule. Non so a che stadio sia.»
«Oh...» Sugawara non era un dottore né conservava nel suo intelletto particolari nozioni scientifiche, ma sapeva che in medicina parole come “carcinoma” non promettevano nulla di buono.
Si voltò solo un istante, rivolgendo un'occhiata silenziosa a Shimizu, che dal canto suo si fermò ad appena due passi dalla sedia foderata e poi tornò indietro, dirigendosi verso la porta.
Sugawara tornò a rivolgere la propria attenzione a Eita, riprendendo a parlare solo quando sentì che la porta si chiuse e capì che erano rimasti soli.
«Se sai quello che hai, significa che sei stato dal medico» curvò leggermente la schiena, poggiandogli la mano destra sul petto. «Quanto tempo fa lo hai scoperto?»
«Due anni fa.»
Sugawara lo guardò, mentre con il palmo della mano cercava maggiore aderenza: non sapeva niente di medicina, ma il buonsenso gli diceva che Eita sarebbe dovuto morire già da tempo.
«Ascoltami,» si schiarì la voce, per poi serrare le labbra e contrarle in una smorfia lievemente disturbata «non credo di poterti guarire, ma posso aiutarti ad allentare il processo più di quanto tu abbia fatto finora.»
Semi annuì appena, per poi emettere un sospiro e volgere gli occhi al soffitto bianco, come annoiato o rassegnato dalle parole dell'altro.
«Cosa c'è?» Sugawara si morse il labbro inferiore, in attesa di una risposta.
«Niente» Semi sospirò di nuovo. «Immaginavo che mi avresti detto così, solo non so più se rallentare il processo sia la cosa giusta da fare... alla fine, sai, prolungo soltanto la mia sofferenza.»
«Adesso come stai?»
Eita trattenne il respiro solo per un attimo, preso alla sprovvista dalla domanda dell'altro. Sbatté le palpebre un paio di volte, come se avesse bisogno di riacquistare il controllo del proprio corpo per verificarne la condizione.
«Sto...» sbatté ancora le palpebre, stupito «sto molto meglio.»
«Sì,» Koushi accennò un sorriso «le gambe e le braccia fanno ancora male?»
«Per niente, e respiro perfettamente» Eita lo guardò e sorrise di rimando. «Grazie.»
«Non prolungheremo la tua sofferenza,» Sugawara si alzò dal letto, ampliando il sorriso «finché resterai con me andrà tutto bene.»
Eita restò in silenzio e annuì leggermente, ancora sconvolto dalla velocità con cui l'altro era riuscito a dissipare la sua sofferenza.
«Klessidra, posso farti una domanda?»
«Cosa vuoi sapere?»
«Due anni fa vivevi a Minato, vero? E ti sei rivolto all'Aiiku Hospital per la diagnosi.»
Eita dischiuse appena le labbra, aggrottò la fronte e abbassò leggermente le palpebre. Sugawara vide il suo viso contrarsi, l'ombra dell'inquietudine abbattersi sul suo sguardo.
«Perché se così fosse,» Koushi continuò «allora credo di sapere il tuo vero nome. Ricordo bene la storia del dotato di cromosoma Z scappato da Minato in seguito ad alcune analisi ospedaliere. Ho ancora l'articolo a casa.»
Eita prese una boccata d'aria, ma non rispose: doveva mentire? Quante possibilità c'erano che un altro dotato di cromosoma Z avesse vissuto la sua stessa storia?
«Non ti ucciderò» Sugawara cercò di rassicurarlo, e proprio in quel momento Eita si sentì come scosso: che differenza faceva preoccuparsi che l'altro venisse a conoscenza del suo vero nome? Probabilmente non lo avrebbe davvero ucciso, e se invece lo avesse fatto avrebbe dato un taglio definitivo alle sue sofferenze.
«Sei Eita? Eita Semi?»
Eita serrò le labbra e guardò in basso solo per qualche istante.
«Sì,» risollevò lo sguardo, schiarendosi appena la gola «sono Eita Semi.»
Sugawara lo guardò, e per qualche secondo restò immobile, senza dire nulla.
«Io mi chiamo Sugawara Koushi,» poi gli tese la mano e gli sorrise «piacere di conoscerti.»


❋ ❋ ❋


Giunta nella hall dell'hotel, Shimizu arrestò i propri passi e si guardò intorno con attenta circospezione: si trattava di un ambiente confortevole, saturo dell'eco di una musica rilassante e di luci soffuse che addolcivano ulteriormente le già delicate tonalità di colore. Restò immobile per qualche istante, limitandosi a sbattere le palpebre un paio di volte, poi, individuato Tendou, riprese a muoversi.
Sentendola arrivare, Tendou abbassò il grosso bicchiere – ormai pieno di birra solo per metà – e sollevò lo sguardo, rivolgendole un'occhiata per niente amichevole. Tuttavia restò fermo, in silenzio, in attesa che fosse lei a fare la prima mossa.
«Non affezionarti troppo» Kiyoko mosse soltanto le labbra, austera e impassibile.
«Come dici?» Tendou assottigliò lo sguardo, stringendo la presa sul bicchiere.
«Dico che non dovresti affezionarti troppo al tuo protetto, Tendou-san» Shimizu rispose con calma, nessuna cattiveria o cenno di malizia nella sua voce. «Gli resta davvero poco da vivere.»
Satori rimase a fissarla senza dire una parola, il bicchiere sorretto da una mano, sospeso a mezz'aria, lo sguardo assottigliato e le labbra increspate in una smorfia appena percettibile: davvero Shimizu stava tentando di dargli lezioni di vita? Come se le importasse, come se per Eita fosse stato possibile affezionarsi a lui e come se questo avesse potuto compromettere i suoi sentimenti.
«Sono un mostro,» Satori accennò un sorriso «giusto? Non potrei affezionarmi in nessun caso a qualcuno. E se davvero succedesse, non soffrirei per la sua morte... perché sono un mostro.»
Fece una piccola pausa, riprendendo a parlare non appena vide l'altra schiudere le labbra.
«Ma, soprattutto, questa è la mia vita. Se riuscirò e vorrò affezionarmi al mio protetto lo farò, a prescindere che da vivere gli restino due giorni o decenni» poggiò il bicchiere sul tavolino di vetro, alzandosi in piedi per fronteggiare al meglio l'altra. «Non hai diritto di dire se posso o meno affezionarmi a qualcuno. Stanne fuori.»
Con espressione cupa, contratta dalla rabbia, Tendou le transitò accanto in fretta, il passo pesante. Shimizu restò immobile, a fissare il divanetto di pelle, il posto appena lasciato vuoto dall'altro.
Si era sentita simile a lui, a volte. Quasi sempre incapace di esprimere i propri sentimenti, soprattutto quelli positivi, e respinta con orrore e terrore a causa della propria reputazione. Se gli aveva detto qualcosa di simile era perché lei, al contrario degli altri, non lo considerava un mostro, non lo aveva dato per scontato ed era certa potesse provare sentimenti positivi come tutti; ciò significava che avrebbe sofferto, quindi Shimizu aveva semplicemente tentato di farlo riflettere attraverso la sua filosofia di vita, invitandolo a isolarsi emotivamente per non restare ferito in maniera irreparabile dalla cruda realtà. Lei e Tendou potevano essere anche due fra gli shinigami più forti, ma i loro ragazzi erano buoni di cuore, e per questo deboli, e sarebbero morti, e loro avrebbero sofferto. Sofferto in modo contenuto, se fossero riusciti a non affezionarsi troppo.
A quel pensiero, Shimizu chiuse gli occhi ed emise un sospiro rassegnato: non avrebbe obbligato Tendou ad ascoltarla, ma lei avrebbe ugualmente continuato a proteggersi da un futuro piuttosto evidente.


❋ ❋ ❋


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S h i b a t a __ p r e f e t t u r a _ d i _ M i y a g i



Kageyama inclinò il capo, abbassando le palpebre non appena il naso si immerse completamente oltre la spessa sciarpa. La neve cominciava a sciogliersi, ma faceva davvero molto freddo, perciò cominciò a dondolare leggermente, sollevarsi sulla punta dei piedi e poi riabbassarsi in continuazione, nella vana speranza di sgranchire e rilassare i muscoli delle gambe.
Aspettava Oikawa, e più tempo passava più si convinceva di aver preso la decisione sbagliata, questo perché – a prescindere dal fatto che avesse scelto un luogo piuttosto in vista e non troppo lontano da casa – era solo.
Non riusciva assolutamente a credere alla possibilità che Oikawa rispettasse i patti e si presentasse senza il proprio shinigami, ma forse poteva confidare direttamente in Iwaizumi, che Hinata aveva detto essere piuttosto serio, leale e rispettoso; Hajime era forte, ma sembrava non sentire né il bisogno né il desiderio di lottare, per cui era improbabile che avesse deciso di assecondare un eventuale piano malvagio ideato dal suo protetto.
«Vuoi chiedermi qualcosa in particolare, Tobio-Chan?»
Kageyama sussultò, per poi voltarsi immediatamente: Oikawa lo stava fissando, le labbra ritte, serrate con forza, lo sguardo annoiato e le mani sprofondate nelle tasche del cappotto.
Si guardò intorno, in fretta, ma non abbastanza per passare inosservato agli occhi dell'altro.
«Siamo soli.»
Kageyama rivolse nuovamente la propria attenzione a Oikawa, affondando leggermente i denti nel labbro inferiore.
«Cosa hai intenzione di fare, adesso?»
«Me ne andrò da qui.»
«E dove?»
«Non ti riguarda» lo sguardo di Tooru, così come la voce, parvero incupirsi. «E prima ancora che tu possa fiatare,» lo indicò con un dito, facendolo rabbrividire appena «sappi che non ti dirò altro, perché io e te non siamo alleati.»
Tobio non fu sorpreso dalle parole dell'altro, ma la pressione dei denti sul labbro aumentò ugualmente.
«Alla fine giocare agli amichetti è stato conveniente, ma la tua brutta faccia mi ricorda che il mio unico desiderio è ammazzarti.»
Kageyama si sentì smuovere qualcosa nel petto, offeso e mortificato dalle parole pronunciate da Oikawa.
«Allora fallo» disse poi, lo sguardo assottigliato e la fronte leggermente aggrottata.
«Non qui, in un posto tenuto sotto controllo dalla polizia» Tooru indietreggiò, riprendendo a parlare pochi istanti dopo, un cinguettio serafico che sgorgava lentamente da un disgustoso sorriso serpentino. «Ma verrà il tuo momento, Tobio. Stanno certo.»
Si girò, ma prima ancora di accennare un passo voltò il viso per rivolgersi nuovamente a Kageyama.
«A proposito: grazie per avermi detto di andare via dall'hotel, l'altro giorno. Mi hai proprio salvato.»
“E ti sei condannato da solo, idiota”: fu questo che Kageyama, disilluso, pensò di se stesso, il sangue congelato e il viso in fiamme per la rabbia.


❋ ❋ ❋


Hinata aveva tutte le ragioni per sospettare di Oikawa, pensare che avesse intenzione di attaccare ancora una volta Kageyama per cercare di eliminarlo una volta per tutte, eppure era piuttosto tranquillo. Restare alla finestra della camera del proprio protetto, a osservare attentamente Iwaizumi – fermo sul marciapiede opposto alla casa – lo confortava. Avevano stretto un patto: lui e Hajime si sorvegliavano a vicenda, per assicurarsi che nessuno corresse a dare man forte a Oikawa o Kageyama, attenti anche alle più vaghe sfumature dell'interno, al sesto senso che smuoveva il loro istinto nel momento in cui i loro protetti si trovavano in pericolo.
Kageyama non era molto lontano, comunque, e anche questo lo tranquilizzava; probabilmente avrebbe fatto ritorno di lì a un quarto d'ora.
Shouyou chiuse gli occhi solo per qualche secondo, stanco, riaprendoli nel momento in cui avvertì i passi della madre di Kageyama appena fuori dalla stanza, in corridoio. Batté le palpebre un paio di volte e si girò per guardarla: aveva l'aria leggermente affannata, la paletta nella mano sinistra e la scopa sorretta dalla destra; tuttavia non si mosse, ma restò a fissare il pavimento con le labbra serrate in una smorfia contrita, come se volesse esprimere il suo disappunto nei confronti dell'ambiente già pulitissimo.
Pensieroso, Hinata tornò a dare un'occhiata a Iwaizumi, poi si voltò nuovamente verso la madre di Kageyama, indeciso se dirle qualcosa o meno – ma cosa? E a che scopo? Lei a malapena lo guardava, lo aveva sempre ignorato, come se non esistesse.
Si schiarì appena la voce, quasi a volerle far capire che era lì, e poi, dopo aver atteso diversi secondi, decise di rivolgere nuovamente la propria attenzione allo scenario fuori dalla finestra, questa volta fino al ritorno di Kageyama e Oikawa.
Appena un minuto più tardi, però, un rumore all'interno della camera lo fece sobbalzare e poi rabbrividire: la madre del suo protetto era entrata e probabilmente stava spolverando una delle mensole; non era mai stata così vicina e, considerato che era sotto pressione anche per il costante monitoraggio di Iwaizumi, Shouyou dovette convenire fra sé e sé che quella situazione era a dir poco pessima.
Assottigliò lo sguardo, deciso a mettere maggiormente a fuoco la figura di Hajime e non pensare ad altro che a quello che aveva davanti agli occhi.
«Hinata, vero?» ma una domanda improvvisa, posta da una voce docile e leggermente tremante, recise con violenza il flusso dei suoi pensieri e per un attimo sembrò perfino accecare la sua vista.
Hinata si pietrificò. Riuscì soltanto a schiudere leggermente le labbra, che tremarono in un rantolio appena accennato.
Si voltò poco dopo, così lentamente che per un istante sembrò essersi trasformato in una statua di gesso, quindi rivolse un'occhiata incredula alla madre di Kageyama, immobile al centro della stanza e con uno straccio bianco fra le mani.
Possibile che con: “Mia madre non parla mai” Kageyama intendesse che di norma era piuttosto taciturna? Altrimenti perché rivolgeva la parola a un estraneo e non al proprio figlio?
Confuso, Shouyou si limitò ad annuire con un cenno del capo.
La madre di Kageyama restò a fissarlo in silenzio, senza che l'espressione seria cambiasse di una virgola. Era di un'austerità strana, quel viso, e a renderlo anche più particolare era la bruciatura sulla guancia destra. Guardandola bene, con il volto dai lineamenti delicati tagliato a metà dalle labbra serrate e la pelle candida plagiata dalla macchia scura della bruciatura, quella donna non sembrava proprio cattiva, ma solo leggermente triste, nostalgica come una fanciulla che attende il ritorno del proprio amato in riva al mare.
«Hai fame?» la domanda innocua lo rincuorò, perché quella non sembrava certo la prima cosa da dire dopo un lungo periodo di silenzio. Il suo protetto doveva aver esagerato quando gli aveva parlato di lei.
«Ho visto che sei rimasto qui in camera per tutto il giorno» continuò, lentamente. «Posso prepararti un panino, se vuoi.»
Hinata rivolse una rapida occhiata oltre la finestra: Iwaizumi era ancora fermo dall'altra parte della strada.
«Sì,» tornò a voltarsi verso la donna, increspando le labbra in un sorriso di cortesia «in effetti ho un po' di fame. Grazie.»


❋ ❋ ❋


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S h i n j u k u __ p r e f e t t u r a _ d i _ T o k y o



Moniwa aveva accettato la proposta del capo quella mattina stessa, ma non prima di aver imposto una determinata condizione – per quanto fosse stato imbarazzante parlarne.
Aveva detto al proprio capo che desiderava una camera matrimoniale, ma che ovviamente avrebbe provveduto a pagare da sé la spesa in eccesso. Fortunatamente non aveva ricevuto domande che potessero considerarsi inopportune, semplicemente, il suo superiore aveva acconsentito con un sorriso leggero e un deciso cenno del capo.
Moniwa si sentiva tranquillo all'idea di essere riuscito a rimanere vago riguardo il motivo della camera matrimoniale; per quanto ne sapeva il suo capo, lui poteva, sì, volere compagnia durante il suo soggiorno a Shinjuku, oppure desiderare uno spazio più ampio per una maggiore comodità. La verità, comunque, stava nel mezzo, perché a fargli compagnia ci sarebbe stato Aone.
Recarsi a Shinjuku da solo gli era parsa una cattiva idea fin dall'inizio, e così aveva ritenuto anche Aone, per cui avevano deciso di partire insieme.
Quando Kaname aprì la porta della stanza, gli sembrò che il viso si infiammasse, emanando soffi di vapore bollente: nonostante avesse parlato di camera matrimoniale fin dall'inizio, per tutto il tempo non aveva pensato affatto che tale decisione avrebbe implicato il dover condividere il letto con il proprio shinigami.
Proprio in quel momento, le dita di Aone sul dorso della sua mano lo fecero sobbalzare. Takanobu afferrò il manico della valigia del suo protetto e varcò la soglia con i bagagli di entrambi, posandoli sul letto matrimoniale pochi istanti dopo.
«Non entri?» poi si voltò a guardare Kaname, ancora fermo sulla porta.
«S-sì» Moniwa si richiuse la porta alle spalle pochi istanti dopo, avanzando verso di lui con passo esitante, deciso a dedicarsi a disfare il proprio bagaglio e infilarsi subito sotto le coperte, stanco a causa del viaggio e desideroso di scuotersi di dosso l'imbarazzo. Appena aprì la valigia pensò a Tetsuko, che sarebbe rimasta con la nonna fino al suo ritorno, e trovò subito un po' di sollievo.


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S e n d a i __ p r e f e t t u r a _ d i _ M i y a g i



Kyoutani e Yahaba avevano lasciato Shibata quella mattina, dopo essersi assicurati che la zona non fosse più sorvegliata dalla polizia. Una volta ritornati a Sendai avevano fatto velocemente la spesa – Kyoutani, in realtà, visto che Yahaba non aveva comprato nulla ma rubato una bottiglia di vodka – e poi erano tornati in fretta e furia a casa.
Proprio in quel momento, immerso nel sacco a pelo, Kentarou inclinò leggermente il viso e rivolse una rapida occhiata alla porta socchiusa, come se, consapevole del poco spazio che lo divideva da Yahaba, potesse vederlo con chiarezza.
Non era passata neppure una settimana dal loro primo incontro, ma Kyoutani lo aveva già visto bere più volte, aprire e richiudere freneticamente il frigo e riempire bicchieri e tazze di vodka. Yahaba beveva, uccideva per soldi che non usava – visto che rubava – ed era scorbutico e violento: una personalità affetta da vizi fastidiosi e che cozzava pericolosamente con quella di Kyoutani, sebbene per certi versi potessero considerarsi piuttosto simili.
Innervosito dal solo pensiero del proprio protetto, Kentarou sfiatò dalle narici e tornò a rivolgere la propria attenzione allo spazio buio che lo separava dal soffitto.
Chiuse gli occhi, ma qualcosa gli impedì di addormentarsi. Ci impiegò qualche minuto per capire cosa lo stava privando della rilassatezza mentale tipica dello stato che precede il sonno profondo, quindi sollevò improvvisamente le palpebre, inspirando con forza dalle narici e sollevando le braccia per incrociarle al petto, nella speranza di respingere il freddo che si era insinuato nel sacco a pelo.
Gli bastarono un paio di minuti per rendersi conto che sprofondare nel sacco a pelo e sfregarsi energicamente le braccia con le mani non sarebbe servito: faceva sempre più freddo, a tal punto che, nel buio della stanza, riuscì a scorgere perfino il proprio fiato condensarsi in un fumoso ammasso biancastro.
Sfiatò dalle narici, spazientito, e scivolò lentamente fuori dal proprio giaciglio, quindi, le labbra contratte in una smorfia a causa del pavimento gelido a diretto contatto con le piante dei piedi, raggiunse la porta e uscì dalla piccola camera. Il corridoio era anche più buio della sua stanza, essendo privo di finestre, ma nell'immediato capì che c'era qualcosa di diverso, come se stesse emanando una fioca luce propria dalle pareti e dal pavimento.
Kyoutani aggrottò la fronte e tirò su col naso, confuso e infastidito dal freddo sempre più pungente, poi riprese ad avanzare, deciso a raggiungere la camera del proprio protetto.
Si fermò a pochi passi dalla porta di Yahaba, quando notò una strisciolina bianca, luminosa e irregolare correre lungo la parete alla sua destra, e proprio in quel momento mise il piede sinistro su qualcosa di estremamente freddo che lo fece sobbalzare.
Guardò il pavimento, e poi alla sua sinistra, e scoprì che tante sottili tracce di brina stavano tessendo trame bizzarre attorno a lui, rendendo la casa sempre più fredda e ostile ma illuminando suggestivamente il corridoio, guidandolo lungo il percorso che lo avrebbe condotto a Yahaba.
Kentarou cercò di aggirare le trame di brina meglio che poté, ma era evidente che più avanzava più queste diventavano fitte, si inspessivano e si indurivano, trasformandosi in ghiaccio aguzzo e scivoloso. Dovette camminarci sopra a piedi nudi, le dita ad arrancare lungo la parete per non scivolare, ma quasi del tutto invano, visto che anche questa era congelata.
Yahaba aveva lasciato la porta aperta, ed era una fortuna, perché in caso contrario era probabile avrebbe trovato la serratura completamente bloccata dal ghiaccio. Kyoutani barcollò sulla superficie ghiacciata ancora per qualche istante, chiedendosi se non sarebbe stato più facile superare quell'ostacolo una volta trasformato, tuttavia, ancor prima che potesse prendere una decisione, giunse alla soglia della camera del proprio protetto.
Si fermò, trattenendo appena il fiato: nel suo corpo scorreva il sangue di un mutaforma, di un lupo, perciò stava cominciando ad abituarsi a quel freddo pungente, ad adattarsi all'ambiente ostile per sopravvivere; quello che lo lasciò pietrificato, infatti, non ebbe niente a che fare con le sensazioni fisiche che stava percependo, ma con quel che videro i suoi occhi: il ghiaccio aveva ricoperto gran parte del pavimento e delle pareti, aveva inghiottito le lenzuola, e Yahaba vi dormiva come incastonato, una brina lieve sui capelli e sul viso leggermente più pallido del solito.
Kyoutani aggrottò leggermente la fronte, confuso e innervosito dalla situazione: che Shigeru avesse perso il controllo del suo potere? Non sembravano esserci danni, come se il ghiaccio si fosse formato lentamente e senza fare rumore, il fusto paziente di una rosa che riesce a ricoprire interamente un muraglione e raggiungerne la cima solo dopo decenni.
Sarebbe voluto tornare a dormire, e prese seriamente in considerazione l'idea di fare dietrofront, ma fu proprio in quel momento che si rese conto che Yahaba non stava dormendo – non serenamente, per lo meno.
Shigeru aveva il viso contrito, la fronte aggrottata e le labbra incrinate in una smorfia sofferente; a volte le braccia, strette attorno al corpo, scattavano, come scosse da piccoli spasmi, e dalla bocca sfuggiva qualche flebile rantolio.
Kentarou protese leggermente le labbra, impensierito e infastidito dalla situazione, ma non si mise a pensare: quello che doveva fare gli era sembrato ovvio fin dall'inizio. Serrò le palpebre, sospirando spazientito, e quindi lasciò che il suo lato animalesco prendesse il sopravvento, che nella profondità della notte fosse sostituito dal lupo.
Si avvicinò con passo felpato al letto, velocemente e senza esitazioni grazie alle unghie ben ancorate al ghiaccio, quindi lo aggirò, osservando con attenzione lo spazio a disposizione, e non appena ebbe individuato un punto ottimale vi saltò sopra.
Guardò Yahaba, che tremava senza sosta mentre un altro strato di brina stava cominciando a formarsi su quello che già gli ricopriva il viso. Sfiatò dalle narici e si accucciò accanto al suo protetto, così che la pelliccia calda potesse entrare in contatto con il suo corpo. Kyoutani osservò Yahaba con attenzione, lo strato bianco sul suo viso assottigliarsi fin quasi a divenire trasparente, la pelle riacquistare un po' di colore; appena il suo protetto smise di tremare, sistemò il muso fra le zampe e chiuse gli occhi, pronto ad addormentarsi nella morsa del gelo.




L'angolino della piantina autoritaria
(You should read this):

Sì, non sono morta.
Mi scuso di aver saltato la pubblicazione di aprile, davvero, mi è dispiaciuto moltissimo, ma non è stato un periodo facile. Voglia di scrivere e ispirazione sono scomparse, qualsiasi cosa mettessi su carta mi sembrava privo di senso e sentimento e quindi ho lavorato davvero molto lentamente a questo capitolo. Non posso dire di aver pienamente superato questo periodo difficile, ma sto un po' meglio e, soprattutto, ho ritrovato la volontà per lasciarmelo alle spalle – che è una cosa più che fondamentale, direi.
In realtà, rileggendo il capitolo, non credo neppure di aver fatto un completo disastro (però il titolo lo odio, giuro u-u). È un capitolo privo di azione, quindi ai più potrà risultare un po' noiosetto, ma Wonderwall è un po' come se avesse molti terremoti dentro di sé: dopo gli scontri ci sono piccole scosse, capitoli di assestamento che mi servono per riequilibrare le cose e bilanciare gli avvenimenti (oltre ad approfondire i personaggi e i loro rapporti, cosa che – ormai lo sapete – ha la priorità nelle mie storie).
Detto questo, se nella scorsa pubblicazione avete trovato un paragrafo che non c'entrava assolutamente con Wonderwall, mi scuso. Ero davvero stanca e avevo copiato e incollato un trafiletto di un articolo nel posto più sbagliato in assoluto, ovvero nel bel mezzo del capitolo! xD
Detto questo, mi permetto un appunto sull'inizio di questo capitolo, su Sugawara e su Aone e Moniwa, per poi passare a una comunicazione importante.
La strana conversazione che avviene all'inizio del capitolo si svolge fra la nonna e la madre di Eita (già nel capitolo II, si è detto che la nonna di Eita comunica regolarmente con sua madre attraverso un Internet Point, ricordate?)
Per Sugawara ho scelto l'alias “Hýdra”, che essendo greco non si legge all'inglese ma proprio come “idra”. Ho scelto questo nome per l'abilità di Sugawara, cioè la cura e la rigenerazione, siccome nel contesto della mitologia greca l'Idra è un mostro dotato di più teste a cui, se se ne mozza una, dal moncherino ne rinascono addirittura due. (Per Eita... Klessidra con la K, sì. Perché fa figo).
L'Aone di Wonderwall parlerà con Moniwa, poco, ma lo farà. Qualora si dovessero ritrovare di fronte ad altri, però, gesticolerà proprio come fa nell'anime.
E ora, ahimè, la comunicazione importante: domani subirò un intervento laser agli occhi per eliminare la miopia (FINALMENTE!), e, niente, le disgrazie sono improbabili, ma... non si sa mai? Non credo diventerò cieca, ma il periodo post-operatorio potrebbe essere un po' difficile (anche per questo ho voluto pubblicare ora e non ho aspettato il 31 maggio). Almeno i primi giorni cercherò di riposare gli occhi il più possibile, ma comunque, se non dovessero presentarsi complicazioni, nulla mi impedirà di pubblicare il prossimo capitolo in tempo, cioè il 30 giugno (in ogni caso, provvederò ad avvertirvi sulla mia pagina Facebook).
Grazie per aver letto il capitolo e anche le note! Alla prossima!

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Capitolo 9
*** IX – Mi aggrappo a te, come edera fragile su di un tronco ***


IX


Mi aggrappo a te, come edera fragile su di un tronco




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S e n d a i __ p r e f e t t u r a _ d i _ M i y a g i



Era estate, e anche nelle grandi città come Sendai si celebrava il Tanabata, una delle maggiori festività del calendario giapponese.
Nella sua oscurità, il cielo era limpido, quella notte. Al di là di yukata colorati e capigliature elaborate, se Tooru alzava lo sguardo riusciva a vedere con chiarezza le stelle, grossi cristalli bianchi incastonati sopra le loro teste e piccoli aloni dispersi in lontananza, come se la luna si fosse lasciata alle spalle vecchie lacrime e ora ne stesse versando di nuove.
Le dita della madre, strette attorno alle sue, erano calde e gentili, e lo yukata azzurro della donna ondeggiava leggiadro a pochi centimetri dal suo viso, come la vela di una barca in mezzo al mare. Lei camminava lentamente, con un sorriso sereno stampato sulle labbra, ma non era interessata alle bancarelle; sembrava, piuttosto, che volesse trascorrere più tempo possibile lontano dalla monotonia di casa, mano nella mano con il figlio di appena sei anni. Aveva promesso a Tooru che gli avrebbe comprato una mela caramellata e che poi sarebbero andati a vedere i fuochi d'artificio, per questo lui – per quanto corte le sue gambe e scomodi i geta – camminava molto più in fretta di lei.
Tuttavia vi fu un momento in cui Tooru rallentò.
La voce disperata di una bambina era giunta alle sue orecchie, e per un istante lo aveva pietrificato. Sua madre sembrava non essersi accorta di nulla, ma lui aveva notato quasi immediatamente ciò che stava accadendo: una bambina con indosso uno yukata giallo e bianco di almeno una taglia più grande di lei stava strattonando sua madre per il braccio, urlava e la supplicava di fermarsi, mentre con la mano sinistra cercava di afferrare qualcosa che si trovava a terra.
«Il mio pesce rosso! Mamma! Il mio pesce rosso!» la bambina era disperata, scoppiò a piangere e Tooru lasciò la mano della propria madre.
­«Te ne comprerò un altro,» la madre della bambina non si voltò neppure a guardare, ma continuò a trascinare la figlia «forza! Dobbiamo andare, adesso!»
Tooru balzò in avanti di un paio di passi, mentre la bambina con lo yukata giallo e bianco scomparve nella folla – e il rumore del suo pianto appena qualche secondo più tardi, sovrastato dallo sfrigolio dei takoyaki e dalle risate delle persone.
Sentì sua madre chiamarlo, non in tono angosciato o spazientito, ma come se fosse rimasta spaesata dalle loro dita sciolte così improvvisamente, tuttavia continuò ad avanzare, giungendo nel punto in cui il sacchetto contenente il pesce rosso della bambina era caduto.
La plastica del sacchetto si era lacerata e l'acqua aveva bagnato l'asfalto. Al centro della chiazza di umidità, il pesce rosso agonizzava, spalancando e richiudendo la bocca tonda sempre meno frequentemente.
Tooru si chinò, le labbra dischiuse in una piccola smorfia, turbato dalle branchie del pesce rosso che si aprivano e si richiudevano in continuazione e dalla coda, che ogni tanto si sollevava e si riabbassava in un piccolo spasmo: stava per morire.
Non pensò di raccogliere il pesce rosso, ma lo fece.
Lo lasciò scivolare lentamente sulle dita, senza badare a sua madre, che avendolo raggiunto gli chiese immediatamente cosa avesse intenzione di fare. Il sacchetto di plastica era rotto e l'asfalto aveva assorbito l'acqua al suo interno: in effetti non c'era niente che si potesse fare, il pesciolino sarebbe morto da un momento all'altro, strappato crudelmente al suo elemento naturale. Poteva succedere anche a loro, poteva accadere che grandi titani extraterrestri rinchiudessero gli umani in scatole di vetro e poi, per errore, le frantumassero, abbandonando i loro nuovi acquisti a morire nello spazio, lontani dalla loro casa: Tooru la pensò così, in quel momento; si sentì estremamente affine a quella minuscola e viscida creatura sofferente.
Proprio in quell'istante, senza che facesse o dicesse nulla, la conca formata dalle sue mani unite si riempì d'acqua, e il pesce rosso riacquistò subito vigore. Tooru lo vide dimenarsi, ritrovandosi a rabbrividire ogniqualvolta la coda viscida gli sfiorava i palmi delle mani.
A un certo punto capì che sua madre si era fermata proprio dietro di lui; doveva essersi arrestata in una silenziosa rigidità che, tuttavia, era durata appena qualche secondo. Lo aveva afferrato per un braccio, conducendolo in fretta al lato della strada, dietro una piccola bancarella di maschere e bambole Daruma.
«Mamma...» Tooru l'aveva chiamata, mormorando, ma senza staccare mai gli occhi dalle proprie mani e dal pesce rosso che si dimenava nell'acqua, alla ricerca di una profondità maggiore.
«Stai fermo, Tooru» sua madre era agitata: le tremava la voce, e le sue dita erano conficcate con forza nel suo braccio. «Non fare niente. Non pensare a niente.»
Gli lasciò il braccio e si allontanò solo per pochi istanti, quindi si inginocchiò di fronte a lui, tenendo spalancato un sacchetto di plastica trasparente.
«Ecco.»
Tooru lasciò scivolare con cautela il pesce rosso nel sacchetto, ritrovandosi poi a osservare la mano delicata di sua madre muoversi appena oltre il sottile strato di plastica, un rivolo d'acqua che sgorgava dal suo palmo bianco.
Pochi secondi dopo, il sacchetto fu riempito per metà d'acqua e il pesce smise di dimenarsi: nuotava serenamente, come se non fosse accaduto nulla.
Tooru e sua madre, mentre questa provvedeva a chiudere il sacchetto con un nodo, osservarono il pesce rosso senza parlare, poi lui sollevò gli occhi timidamente, spaventato.
«Mamma?»
Sua madre lo guardò, gli angoli delle labbra leggermente piegati all'ingiù e la fronte aggrottata: era evidente che aveva considerato quella possibilità, che si era preparata a quel momento, ma era preoccupata e sembrava perfino dispiaciuta. Forzò le labbra in un sorriso, accarezzando con dolcezza il viso di Tooru.
«Sono come te, mamma?»
«Sì, tesoro. Sei come la tua mamma.»



«Tooru!»
Si era preparato all'idea che, appena aperta la porta, sua madre gli avrebbe distrutto i timpani, eppure Oikawa non riuscì a non chiudere gli occhi e strizzarli appena, come un bambino spaventato.
«Si può sapere dove sei finito?!» sua madre continuò a strepitare, per poi incrociare le braccia al petto e arretrare di qualche passo, così da farlo entrare. «Non hai neppure idea di quanto mi hai fatto preoccupare!»
«Scusami» Tooru entrò, borbottando fra i denti per paura che sua madre riprendesse a gridare da un momento all'altro; fortunatamente, questa chiuse la porta e si limitò a rivolgergli un'occhiataccia, esalando un grande sospiro.
Nonostante sua madre lo stesse incenerendo con lo sguardo, Tooru si sentiva sollevato di trovarsi lì, al sicuro nella sua vecchia casa.
In quei quattro giorni di lontananza da Sendai, aveva cercato di non pensare troppo a quello che era accaduto, come se avesse sigillato la parte più fragile della sua mente in una bolla, ma ora, trovandosi finalmente al sicuro, era divenuto paradossalmente più vulnerabile; poteva lasciarsi sopraffare dalle emozioni, ricordare ancora una volta il peso morto di Hoshiko fra le proprie braccia, il dolore lancinante alla gamba, dilaniata dai denti di un mostro, e – infine – l'inquietudine di trovarsi circondato da tre temibili fuochi: Yahaba, il dotato di cromosoma Z con il potere dell'elettricità e l'Unità Speciale di Polizia.
Stava cominciando a mancargli il respiro, ma il ticchettio delle zampe di Grey contro il pavimento lo riportò alla realtà.
Quando vide il cane corrergli incontro, scodinzolando energicamente, sorrise e si chinò per accarezzarlo – ritrovandosi poi ad abbracciarlo, estasiato dal pelo folto e morbido.
«Oh,» la madre di Oikawa emise un piccolo sbuffo «grazie per la considerazione, figlio mio!»
Tooru sciolse la stretta attorno al collo di Grey, quindi guardò sua madre e ampliò leggermente il sorriso.
«Mi hai sgridato.»
«Per tutta l'ansia che mi hai fatto provare in questi giorni, mi merito comunque un abbraccio» con aria sostenuta, la madre di Oikawa socchiuse leggermente gli occhi e protese le labbra in avanti, piegandole in una smorfia offesa.
Tooru si alzò e ampliò il sorriso, ma, ancora prima che potesse muovere un passo, sua madre lo trascinò a sé e lo abbracciò con forza.
In un primo momento, Tooru si irrigidì leggermente: era evidente che c'era qualcosa di diverso in quell'abbraccio, sua madre doveva essersi preoccupata davvero.
Le poggiò il mento sulla spalla, inspirando con forza dalle narici e poi chiudendo gli occhi.
«Scusami» poi ricambiò l'abbraccio.
Lei restò in silenzio, accarezzandogli affettuosamente la testa.
Se non ci fosse stato Iwaizumi, probabilmente sarebbe ritornato a vivere con sua madre, perché dopotutto il loro era un legame davvero molto forte.
«Tooru...»
La voce tremante della madre gli gelò il sangue. Oikawa sciolse lentamente l'abbraccio, e anche la madre si scostò leggermente, così da poterlo guardare negli occhi.
«Temo dovrò farti qualche domanda, adesso.»
Oikawa strabuzzò gli occhi, per poi sbattere le palpebre un paio di volte, velocemente, come se una polvere invisibile stesse ammantando le sue ciglia, irritandolo: le domande di sua madre sarebbero state scomode, era ovvio, ma lui fino a che punto poteva raccontarle la verità? Se c'era il rischio di mettere in pericolo la vita di sua madre, non avrebbe risposto.
«Cosa sta succedendo, Tooru?»
Oikawa la guardò e serrò le labbra con forza, pensieroso: cosa avrebbe dovuto risponderle?
Prima ancora che aprisse bocca, però, fu sua madre a continuare.
«Ti hanno dato un quaderno?»
Oikawa si pietrificò, per poi schiudere appena le labbra e ritrovarsi a boccheggiare pateticamente: come faceva a saperlo?
«Tooru, cerca di rispondere almeno a questa prima domanda, dopo potrai limitarti ad ascoltare quello che ho da dire» sua madre fece una breve pausa, prendendo una piccola boccata d'aria e chiudendo gli occhi per un istante. «Allora,» risollevò le palpebre «ti hanno dato un quaderno o no?»
Oikawa si portò una mano al viso, per poi massaggiare la radice del naso con un movimento circolare delle dita.
«Che cosa...» si schiarì la voce, ancora indeciso se avere o meno quella conversazione «cosa sai, di preciso?»
Sua madre serrò con forza le labbra, per poi dischiuderle ed emettere un piccolo sospiro.
«Un bel po' di cose, a meno che le regole non siano cambiate.»
Oikawa restò immobile, in silenzio: sua madre parlava di quaderni e regole, quindi non era da escludere che sapesse degli shinigami.
Iwaizumi gli aveva detto che solitamente i dotati di cromosoma Z venivano scelti una generazione sì e una no, ma c'erano stati casi straordinari in cui gli shinigami erano discesi in terra a distanza di pochi anni, anche più volte nell'arco di una sola decade. Era quindi possibile che fosse accaduto anche a sua madre, ma come mai non gliene aveva mai parlato? Era sopravvissuta senza uccidere tutti gli altri e rubare loro i poteri? Non aveva espresso alcun desiderio? Adesso era lui a essere curioso.
«Qualcuno che non fa parte di questo mondo ti ha dato un quaderno.»
Ormai esasperato, Tooru annuì senza aprire bocca.
«E quel qualcuno ti ha detto che esaudirà un tuo desiderio a patto che tu uccida gli altri dotati di cromosoma Z e raccolga i loro poteri.»
«Sai troppe cose» la interruppe, le labbra increspate in una piccola smorfia. «Devo dedurre che in realtà siamo ancora più simili di quanto abbia mai creduto?»
Sua madre non si era mai fatta problemi a mostrargli i suoi poteri, ancor prima che lui scoprisse di essere come lei. Ricordava ancora vagamente le immagini d'acqua che sua madre creava quando era bambino, per divertirlo o distoglierlo dai capricci, ed era stata proprio lei, dopo quella sera a Sendai, a insegnargli a controllare la propria abilità. Per qualche giorno era stata preoccupata ed era divenuta più protettiva, ma era una buona insegnante e una madre premurosa che era riuscita a instaurare un ottimo dialogo fra lei e il figlio, ecco perché a Oikawa pareva strano avesse nascosto una parte così importante del suo passato.
Sua madre serrò le labbra e annuì con aria sconsolata, le braccia incrociate al petto e le palpebre semiabbassate.
«Anche io ho conosciuto gli shinigami. Avevo ventun anni.»
Oikawa restò in silenzio, la fronte leggermente aggrottata, le labbra arricciate in una smorfia corrucciata.
«Questo non me lo hai mai detto» disse a bassa voce, notando subito che sua madre aveva chinato lo sguardo: sembrava dispiaciuta. «Perché?»
«Forse credevo che se te lo avessi tenuto nascosto non sarebbero venuti anche da te» rispose d'un fiato, le labbra tese in un sorrisino nervoso.
«A quanto pare siamo stati sfortunati» la contrazione delle sue labbra si ammorbidì, come se perfino i suoi muscoli facciali si stessero rassegnando.
«Se è successo anche a te e tu sei qui...»
La madre di Oikawa negò con un leggero cenno del capo, per poi adagiare una mano sulla schiena del figlio, per invitarlo a seguirla fino in cucina, dove si sarebbero seduti e avrebbero discusso con più calma.
«Rispetto agli altri prescelti, sono stata molto fortunata, Tooru.»
«Che cosa è successo?»
Appena Oikawa si sedette, sua madre sollevò il coperchio della teiera di acciaio che si trovava sui fornelli e vi versò dell'acqua, poi accese il fuoco.
«So che era estate, anche se non ricordo il giorno preciso. Ero seduta su una panchina, sotto un grosso albero, e lui è venuto da me.»
Tooru non fiatò. La guardò sedersi di fronte a lui, congiungere le mani e posarle sul tavolo.
«Credevo fosse il solito idiota intenzionato a importunarmi, invece mi diede un quaderno e mi chiamò per nome.»
«All'inizio è abbastanza inquietante» Tooru commentò senza pensarci troppo.
«Già» sua madre accennò un sorriso, riprendendo a parlare poco dopo. «Nel giro di pochi giorni scoprii che altri nove dotati di cromosoma Z erano in possesso di quel quaderno, e che ognuno di noi avrebbe dovuto uccidere gli altri per impossessarsi dei loro poteri e infine concretizzare un proprio desiderio.»
Tooru annuì.
«E gli uomini amano il potere. Ne siamo attirati come falene da una candela accesa» sua madre sospirò, ignorando – almeno in un primo momento – il fischio stridulo emesso dalla teiera. «Sono morti quasi tutti, sai?» si alzò per spegnere il fuoco, restando in piedi a fissare il proprio riflesso nel profilo arrotondato della teiera.
«Qualcuno desiderava riunire in sé più poteri possibili, e qualcun altro lo ha aiutato.»
«E tu sei... ti stanno ancora cercando, per caso?»
La labbra della donna si contrassero, tremando appena.
«No...» sussurrò, il naso arricciato a causa della tristezza appena riaffiorata «io ero l'aiutante.»
Oikawa spalancò gli occhi, ma non fu in grado di parlare. Riuscì soltanto a pensare a quanto forte fosse il suo battito cardiaco.
«Ho aiutato un pazzo finché qualcuno non mi ha salvato» sua madre si voltò lentamente, il viso contratto, una smorfia triste e addolorata a segnarle le labbra.
«Mamma...» era strano vederla così: di solito era una donna sorridente e un po' civettuola; mai il suo sorriso – gentile o malizioso che fosse – aveva lasciato trasparire il dolore che Tooru stava scorgendo sul suo viso in quel momento.
«Ci sono stati gruppi di dotati di cromosoma Z che si sono distrutti a vicenda, e in ogni generazione c'è sempre un pazzo che cerca di riunire più poteri possibili anche per il solo gusto di essere più forte degli altri» una lacrima le solcò la guancia destra. «Non essere quel pazzo, Tooru. Non aiutarlo. Trova degli alleati e siate coloro che lo fermeranno.»
Stava ancora respirando? Oikawa non lo sapeva. A malapena riusciva a comprendere le parole di sua madre.
«Fermate il pazzo» la voce tremante della donna lo scosse.
Oikawa aggrottò la fronte e abbassò lo sguardo sulle proprie mani, rialzandolo pochi istanti più tardi.
«Mamma,» affondò i denti nel labbro inferiore, una smorfia amareggiata a contrargli il viso «credo che il pazzo sia Yahaba.»
La madre di Tooru schiuse appena le labbra, boccheggiando; le braccia distese mollemente lungo i fianchi, in segno di resa. Guardò il figlio, lasciando che le lacrime sgorgassero copiosamente dai suoi occhi.


❋ ❋ ❋


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S h i b a t a __ p r e f e t t u r a _ d i _ M i y a g i



Kageyama non aveva chiuso occhio per tutta la notte. Per tutto il tempo aveva pensato a quello che gli aveva detto Oikawa e, soprattutto, a ciò che gli aveva raccontato Hinata una volta che era tornato a casa.
Sua madre aveva parlato. Dopo tanto tempo, la triste figura aveva emesso un suono che l'aveva resa nuovamente reale, vicina, ma perché era successo quando lui non si trovava a casa? Era convinto che, se mai sua madre avesse ripreso a parlare, sarebbe stato lui il primo ad ascoltare la sua voce, e invece era stato Hinata. Perché? Si era dimenticata che Kageyama Tobio era suo figlio? Che gli voleva bene?
Cercando inoltre di vagliare tutte le possibili ragioni che gli avevano permesso di attirare a sé l'odio di Oikawa, Kageyama aveva tenuto gli occhi aperti per tutto il tempo, chiudendoli soltanto al primo ingresso di luce, ma senza addormentarsi. Esausto, aveva perfino rinunciato ad andare all'università, quella mattina.
Cosa poteva fare? Chiedere direttamente a sua madre? Come l'avrebbe presa se questa fosse rimasta in silenzio? Cosa potevano dirsi, dopo così tanto tempo?
Non sapeva cosa fare. Sbuffò: aveva proprio bisogno di una sigaretta. Forse poteva cominciare a fumare un po' più spesso, dopotutto tre o quattro pacchetti di sigarette in tutto l'arco dell'anno non gli avrebbero di certo impedito di pagare le rette universitarie, no?
Sbuffò di nuovo, il palmo della mano sinistra aderente al vetro della finestra di camera sua e gli occhi fissi sulla strada, la striscia di asfalto scuro che si distendeva fra i rimasugli sporchi della neve, ormai quasi totalmente sciolta.
«Cosa dovrei fare, papà?» si ritrovò a sussurrare quasi senza rendersene conto, come se la sua lingua si fosse mossa pur non ricevendo alcun impulso dal cervello.
Socchiuse le palpebre e increspò le labbra in una piccola smorfia, aggrottò la fronte e si massaggiò la radice del naso.
«Potresti provare a parlare con tua madre, no?»
«Ah?!» Kageyama sussultò, per poi voltare le spalle alla finestra, incenerendo Hinata con lo sguardo.
«Non sei mica mio padre!» sbottò, per poi incrociare le braccia al petto e borbottare. «E poi bussa prima di entrare in camera mia.»
Hinata restò a fissarlo per qualche istante, ancora impegnato a reggere la porta, poi sospirò e si andò a sedere sul suo letto. Kageyama, invece, indispettito dall'evidente disappunto espresso dal suo shinigami, si ritrovò a protendere le labbra in una smorfia.
«Kageyama,» tuttavia, il tono di voce di Shouyou gli parve fin da subito quello di una persona preoccupata, piuttosto che infastidita «la guerra è appena cominciata, perciò nuotiamo ancora in acque tranquille.»
Tobio aggrottò nuovamente la fronte, per poi tornare a guardare la strada.
«Ma arriverà il giorno in cui, affacciandoti alla finestra, vedrai la tempesta.»
Hinata tese entrambe le gambe, sollevando i piedi in un rapido movimento alternato, solo per un attimo.
«E sai cosa significa, Kageyama?»
«Che cosa significa?» Tobio gli stava dando ancora le spalle, ma non guardava più la strada. Stava fissando il suo riflesso nel vetro della finestra, i suoi occhi, lasciandosi inebetire dall'evidente traccia di rassegnazione al loro interno. In quella contemplazione di se stesso cercava soltanto un po' di coraggio, un briciolo di determinazione, ma sapeva che non avrebbe trovato altro se non il desiderio di scappare da quel destino confuso che improvvisamente si era abbattuto su di lui.
«Significa che prima o poi dovrai andare via da questo posto. Che io e te dovremo andare lontano, così da proteggere tua madre. Se io avessi una madre e iniziassi a sentire l'eco della tempesta, beh, cercherei di parlarle. Non avete più molto tempo a vostra disposizione.»
Tobio restò in silenzio e immobile per un po', poi si voltò lentamente verso Hinata, si appoggiò al davanzale interno e incrociò le braccia al petto.
«Hai detto: “Se avessi”...» esordì poco dopo, sorprendendo Hinata.
«Cosa?»
«Su tua madre.»
«Oh!» Hinata sollevò l'indice, per poi mostrare i denti in un sorriso allegro. «Noi shinigami non abbiamo né madre né padre. Comprendiamo l'importanza che queste figure hanno nella vita delle persone, ma nel nostro mondo l'idea di essere figlio di qualcuno è inconcepibile.»
«E quindi cosa...» Kageyama esitò: non c'era ragione di interessarsi; forse Hinata era solo una persona che si stava prendendo gioco di lui, altrimenti perché non lo aveva ancora visto utilizzare i suoi poteri? Eppure, a prescindere dal fatto che Hinata si stesse vestendo di fantasie o meno, voleva saperne di più. «Insomma, com'è che venite al mondo? Qualcuno vi crea? Vi riproducete per scissione? O forse per... come si dice? Gemmazione?»
«Non ho la più pallida idea di quello che stai dicendo, e poi questi discorsi non ti si addicono!»
«Eh? Mi stai dando dello stupido, Hinata?»
«Beh.»
«Hinata!»
La risata che Shouyou stava per lasciarsi scappare si tramutò in un rantolio di terrore: il suo protetto faceva davvero paura quando si arrabbiava!
«Comunque» riprese a parlare poco dopo, schiarendosi la voce «la nascita di uno shinigami è un po' difficile da spiegare. Ti svegli, come se fosse mattina e avessi dormito fino a quel momento, e non vedi niente, ma senti rumore. È tutto buio ma senti rumore, e poi, all'improvviso, entra la luce» Hinata fece una pausa, la mano destra a massaggiare il mento. «Cominci a vedere tanti rami neri che scricchiolando si scostano, aprendosi e distendendosi in avanti, verso la luce, come braccia.»
Kageyama restò in silenzio, cercando di capire se Hinata stesse dicendo la verità o delirando.
«E in effetti, una volta sveglio, ti rendi conto di essere stato per davvero sotto una coltre di rami intrecciati, dentro un tronco cavo per un tempo che non puoi immaginare. Abbiamo solo questi tronchi cavi avvolti da rami nerissimi, che rimangono per sempre protesi in avanti, nella luce.»
«Solo i tronchi cavi? Ci sarà pur qualcos'altro intorno, no?»
«C'è solo una grande luce, è tutto bianco.»
«Tutto?» Tobio rifletté per qualche istante, poi batté la punta del piede destro a terra. «Vuoi dire che non avete un pavimento? Camminate nel vuoto?»
«Non c'è distinzione fra terra e cielo come da voi, ma la sensazione che provo quando cammino nel mio mondo è identica a quella che sento stando qui, perciò, anche se è tutto bianco, non camminiamo davvero nel vuoto.»
Kageyama inspirò dalle narici, voltandosi nuovamente verso la finestra.
«Chissà se è vero, quello che dici» borbottò, ma Hinata lo sentì, perché alle sue parole piegò le labbra in una smorfia, offeso che il suo protetto stesse dubitando di lui.
«Allora, Kageyama?»
Tobio tornò a guardarlo senza battere ciglio.
«Le parlerai o no?»

❋ ❋ ❋


La madre di Kageyama era in cucina, girata di spalle. A giudicare dal movimento lento del gomito, era probabile che stesse affettando qualcosa sul tagliere, dopotutto – Kageyama lo constatò dando una rapida occhiata all'orologio da parete – era quasi l'ora di pranzo.
Con le labbra increspate in una smorfia amareggiata, pensò che un tempo sua madre si sarebbe preoccupata di non vederlo andare all'università e si sarebbe assicurata che stesse bene, ma ora lei era solo un guscio vuoto. Aveva cucinato davvero poco, nell'ultimo anno, e per quanto vederla tagliare un pomodoro potesse considerarsi un progresso, agli occhi di Tobio il movimento del suo gomito sembrava fin troppo automatico, paurosamente meccanizzato, come se sua madre fosse stata sostituita da un anaffettivo robot.
Restò in silenzio, fermo all'ingresso della cucina, a fissare le spalle magre della donna divise dalla coda di cavallo corvina.
Temeva che sua madre non gli rispondesse, che non si voltasse neppure a guardarlo, come se nemmeno lo sentisse.
Inspirò dalle narici, per poi espirare rumorosamente. Proprio in quel momento, il gomito di sua madre si immobilizzò. Kageyama udì il rumore del coltello contro il tagliere, e poi la vide voltare leggermente il viso.
Non appena sua madre lo guardò, Kageyama sussultò, restando però fermo all'ingresso della cucina.
La presa delle dita della madre sul manico del coltello si fece blanda, fino a divenire totalmente assente, quindi la donna mosse due timidi passi in direzione del figlio, congiungendo le mani al grembo, come se anche lei stesse pensando a cosa dire e quella situazione la stesse gettando in un profondo stato di disagio.
Forse anche lei aveva paura che il figlio non le avrebbe risposto, magari che le stesse serbando rancore per il suo comportamento.
Kageyama schiuse le labbra e si ritrovò a boccheggiare: di fatto, gli ci volle qualche secondo per trovare la voce.
«Mamma?» la chiamò semplicemente, come un bambino, e si stupì di come suonò quella parola, pronunciata dopo tanto tempo dalla sua bocca.
Kageyama tacque, constatando con sollievo che sua madre stava reggendo il suo sguardo apparentemente senza difficoltà.
Avrebbe voluto chiamarla ancora una volta, pronunciare di nuovo la parola “mamma” per verificare se l'effetto strano che gli suscitava persisteva, ma lei mosse ancora un passo, annichilendolo del tutto.
Sua madre aggrottò leggermente la fronte, le labbra tremarono per un istante, increspandosi in una piccola smorfia: sembrava mortificata e anche un po' imbarazzata.
«Ci ho provato, ma...» a sua madre tremò subito la voce, ma Tobio non vi diede peso: spinto dalla gioia di averla finalmente sentita parlare, si mosse subito verso di lei, stringendola non appena la vide allargare le braccia.
«Ho provato a parlarti, davvero» sua madre singhiozzò, ricambiando con affetto l'abbraccio.
«Non preoccuparti» Kageyama rafforzò la stretta, serrando i denti per non singhiozzare a sua volta.
«Mi dispiace,» sua madre gli prese il viso fra le mani, e Kageyama si ritrovò a fissarla con un leggero fremito sulle labbra, come commosso «mi dispiace averti lasciato solo per tutto questo tempo.»
Sua madre lo accarezzò, gli occhi leggermente lucidi.
«Tobio, quel ragazzo...»
«Eh? Hinata?» Kageyama sollevò appena le sopracciglia: possibile che sua madre fosse contraria alla presenza di Hinata in casa? Dopotutto non aveva mai espresso un'opinione a riguardo, ma allora perché, dopo tanto tempo, proprio Shouyou era stato il primo con cui aveva ritrovato il coraggio di parlare?
«Andrà via presto» rispose senza pensarci troppo, temendo che sua madre sentisse la necessità di indagare su Hinata e sulla sua presenza in casa loro.
«No,» sua madre scosse appena il capo, accennando un sorriso «non fa niente, dico davvero, ma... ecco, stai at‒»
Lo squillo acuto del telefono fece sobbalzare entrambi, interrompendo di netto le parole di sua madre.
Kageyama girò il viso per guardare fuori dalla cucina, da dove giungeva il suono del telefono, quindi sbuffò appena e, dicendo a sua madre di aspettare, uscì fuori in corridoio.
«Pronto?» dall'altra parte della cornetta rispose il silenzio, e nel frattempo Hinata si affiancò a lui, come se avesse voluto conoscere più particolari possibili riguardo quella telefonata.
«Yahaba è pericoloso.»
Tobio sussultò, ritrovandosi a boccheggiare, la gola secca.
Hinata si avvicinò ancora un po', un sopracciglio sollevato e uno sguardo indagatore puntato sul suo protetto.
«O-Oik‒»
«Sh!» l'altro lo zittì immediatamente, e Kageyama capì all'istante la pericolosità di parlare al telefono, finendo per mordersi il labbro inferiore con colpevolezza.
«Però io...» dall'altro capo del telefono vi fu esitazione «io non sono così forte, contro di lui.»
Vi fu una pausa, Kageyama ancora immobile, quasi incapace perfino di respirare.
«È davvero scocciate ammetterlo,» Oikawa sfiatò dalle narici «ma tu, per quanto fastidioso, saresti davvero utile contro di lui
Kageyama prese fiato.
«Che cosa mi stai chiedendo?»
Silenzio. A Oikawa costava molta fatica chiedere determinate cose.
«Ti sto chiedendo di...» Tooru esitò nuovamente: probabilmente stava stringendo i denti, frustrato e umiliato da quella spiacevole situazione – in effetti proseguì con tono leggermente alterato, annichilendo del tutto Kageyama «di allearti con me, almeno finché Yahaba non sarà sconfitto.»




L'angolino della piantina autoritaria
(You should read this):

Nonostante il capitolo fosse terminato, ieri non sono riuscita a revisionarlo tutto, quindi eccomi qui con un giorno di ritardo (meglio un giorno che un mese come la scorsa volta, però! xD)
Ci tenevo molto a scrivere questo capitolo. Sono consapevole del fatto che spezza un po', ma ora mai si sarà capito che Wonderwall non è solo combattimenti e poteri speciali. Volevo davvero scrivere delle pagine per fare un po' più di luce sul rapporto che le mamme di Oikawa e Kageyama hanno con i loro figli (e ci sarebbe un'altra ragione perché ho dato particolare peso a loro piuttosto che ad altre, ma questo si scoprirà molto più avanti /con tanto di spin off, probabilmente).
Spero che questo capitolo, per quanto piuttosto diverso dagli altri, non stoni troppo all'interno della fanfiction e che, soprattutto, vi sia piaciuto.
Alla prossima (e felici vacanze estive! /o in bocca al lupo per esami di maturità e sessioni universitarie negli altri casi/)

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Capitolo 10
*** X – L'eroe del tempo immobile ***


X


L'eroe del tempo immobile


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S h i n j u k u __ p r e f e t t u r a _ d i _ T o k y o



Akaashi restò imbambolato per un po', le braccia distese in avanti ed entrambi i palmi delle mani aderenti al tavolo.
Kenma era seduto di fronte a lui, ma a differenza sua non sembrava per nulla interessato all'ambiente circostante: continuava invece a premere freneticamente lo schermo del suo cellulare, senza mai sollevare lo sguardo – un nuovo rhythm game? Keiji ne era quasi certo.
Inspirò appena, congiungendo nervosamente le mani, dunque guardò verso il bancone, osservando con indifferenza Bokuto e Kuroo.
I due shinigami li raggiunsero poco più tardi, scusandosi subito per l'attesa, quindi Akaashi vide Kenma sollevare leggermente il cellulare, così che Kuroo potesse sistemare tranquillamente il vassoio sul tavolo.
«Ohi, Akaashi,» Bokuto gli porse il toast «sicuro che questo ti basti?»
Keiji fissò il toast con sufficienza, per poi annuire appena: non era abituato ai fast food, né li trovava particolarmente allettanti, perciò invidiava la capacità di Kenma di isolarsi fin quasi a ignorare ogni cosa.
«Scusateci, non avremmo voluto rimandare questo incontro, ma i test...»
Alle parole di Akaashi, Bokuto – impegnato ad addentare il suo hamburger – si strinse nelle spalle; solo Kuroo rispose – non prima di aver dato un'occhiata a Kozume, forse nella speranza di vederlo mettere via il cellulare.
«Lo sapete che d'ora in poi le vostre priorità saranno altre, vero?» non c'era alcuna cattiveria nelle parole di Tetsurou, ma Keiji assottigliò comunque lo sguardo, infastidito all'idea di farsi improvvisamente condizionare la vita da quei due sconosciuti che ora sedevano al suo stesso tavolo.
«Non ho chiesto io di essere coinvolto in tutto questo» Akaashi sibilò, sotto gli sguardi silenziosi di Bokuto e di Kenma, che si era finalmente deciso a staccare gli occhi dal cellulare.
«Quali...» fu proprio Kozume a parlare, affondando i rebbi della forchetta in un tortino di mele «quali saranno le nostre priorità?»
«Sopravvivere?» Kuroo, il mento appoggiato sul dorso della mano sinistra, addentò una patatina con espressione annoiata.
«Sì,» Bokuto – bersagliato dallo sguardo di Akaashi – biascicò, addentando nuovamente l'hamburger «dopotutto abete espessamente detto che non bolete ucci‒»
«Bokuto-san,» Keiji schioccò la lingua contro il palato, in segno di disappunto «non parlare con la bocca piena.»
«Che non volete uccidere nessuno» Kuroo finì la frase dell'amico. «Il che non ci dispiace, visto che tu e Kenma siete tanto uniti, ma non è detto che gli altri dotati di cromosoma Z siano della stessa idea, ecco perché è fondamentale ricavare più informazioni possibili riguardo i due che tu e Bokuto avete avvistato l'altro ieri, così da poter trovare degli alleati e non dei nemici.»
«Un'alleanza?» Kenma rivolse un'occhiata spaurita a Kuroo, poi ad Akaashi, che si limitò a mordere il toast, strappandone un pezzo con un vago accenno di rabbia.
«C'è qualche problema, Kenma?» quando fu Bokuto a rivolgersi a lui, Kenma sussultò. «Non vuoi avere qualche alleato in più?»
Kozume si ritrovò a boccheggiare, poi tornò ad afferrare il cellulare, guardando il proprio riflesso nello schermo scuro: non sapeva cosa rispondere. Non era sciocco pensare a un'alleanza ampia, soprattutto considerando il fatto che lui e Akaashi non avevano intenzione di uccidere nessuno, ma sarebbe stato capace di instaurare un rapporto di fiducia con altre persone?
Guardò Keiji, che questa volta ricambiò il suo sguardo: stavano pensando la stessa cosa, ma erano molto riservati e di certo Akaashi si sarebbe risparmiato dal dire a Kuroo e Bokuto quanto fosse difficile, soprattutto per Kenma stesso, stringere un rapporto oltre la semplice conoscenza. Si era dovuto sforzare perfino di sedersi a quel tavolo, a dirla tutta.
Per un istante, Kenma pensò di prendere possesso della mente dell'amico così da gestire al meglio la situazione, ma Akaashi era intelligente e doveva aver intuito qualcosa, perché all'improvviso colse un'occhiata da parte sua; decise, quindi, di non interferire.
«Nessuno ha chiesto il nostro consenso, perciò siamo in difficoltà,» Akaashi riprese a parlare, emettendo un sospiro rassegnato «ma credo che un'alleanza con altri dotati di cromosoma Z sia per ora la scelta più saggia.»
Kenma arricciò appena le labbra: la pensava come Akaashi, ma avrebbe preferito tentare un'altra soluzione prima di cercare altre persone simili a loro.
«Forse riusciremo a trovare persone che la pensano davvero come noi, Kenma» Akaashi si rivolse all'amico per tranquillizzarlo, per poi alzarsi. «Tuttavia ho intenzione di continuare a studiare, anche se per un periodo dovremo allontanarci da qui.»
Guardando Keiji, Kenma si sentì sollevato, ma la voce squillante di Bokuto lo mise nuovamente sull'attenti.
«Eh? Quello non lo mangi?» Koutarou indicò il toast morsicato a metà, posato proprio al centro del vassoio.
«Mangialo tu» Akaashi voltò le spalle al gruppo, intenzionato a dirigersi verso l'uscita del fast food.
«Vai già a casa?» fu Kenma a parlare, precedendo Bokuto di qualche secondo.
«E se andassimo tutti alla sala giochi qui accanto?» Kuroo intervenne e Akaashi si fermò.
Kenma spalancò gli occhi e guardò Kuroo con adorazione, come se al posto della sua voce avesse udito un coro angelico: in effetti era da un po' che, proprio a causa dello studio, non andava alla sala giochi.
Akaashi si voltò nuovamente a guardarli, scoprendo di essere fissato a sua volta da tutti e tre: Bokuto con la bocca piena del suo toast, Kuroo con le labbra increspate in un sorrisetto sghembo e Kenma con un leggero luccichio nello sguardo.
In una situazione simile, andare alla sala giochi gli sembrava davvero stupido, ma era anche vero che aveva bisogno di rilassarsi un po'. E poi il loro era un gruppo di persone all'apparenza così male assortito da aver provocato in lui la curiosità di scoprire se vi fosse davvero compatibilità oppure no.
«D'accordo,» Keiji accennò un sorriso appena percettibile «andiamo.»
Finalmente tutta la tensione che Kenma aveva accumulato fino a quel momento si sciolse.


❋ ❋ ❋


Il suono di una goccia che si infrange: solo uno dei tanti infinitesimali respiri del mondo, ma è potente e lo annichilisce.
È buio. Chiude gli occhi per un istante, e quando li riapre scorge qualcosa che prima non c'era: un alternarsi di strane forme pallide e spazi di tenebra dove queste sembrano trovarsi sospese.
Un'altra goccia si infrange, ma questa volta è lontana e perciò discreta nel suo disfacimento, come se non volesse essere sentita.
Continua a fissare il pallore fumoso di una delle strane sagome che lo circondano, poi gira su se stesso, cercando di contarle.
… Sette, otto. Otto! Sono otto.
Conoscerne il numero sembra aiutarlo a visualizzare con più chiarezza i contorni delle sagome, che improvvisamente assumono un nome: piedi. Otto paia di piedi insanguinati che penzolando lo accerchiano, imprigionandolo in uno spazio ristretto interamente occupato da una pozza di sangue.
È buio, ma ogni dettaglio è nitido. Vede chiaramente una goccia di sangue che, piena e luminosa, segue la linea magra di un piede, tracciando dietro di sé un rivolo rosso e vagamente impreciso. La goccia si ferma sulla punta dell'alluce e poi cade, ma questa volta non si infrange a terra: resta sospesa a mezz'aria, come se un filo invisibile la tenesse ancora legata al corpo da cui è appena fuoriuscita.
Il tempo si è fermato? Eppure qualcosa si muove.
Un serpente nero striscia accanto ai suoi piedi, non lo sfiora neppure, ma una stretta improvvisa attorno al suo collo gli strazia il respiro: quel mostro lo osserva, e con il solo sguardo riesce a soffocarlo.
Il suo collo si spezza a metà come uno stuzzicadenti.



Eita si svegliò di soprassalto e si mise immediatamente a sedere, in un rapido movimento che per fortuna gli risultò indolore.
Si guardò intorno, le lenzuola strette fra le dita di entrambe le mani e il respiro smorzato: ricordava con chiarezza ciò che lo aveva svegliato, quei piedi insanguinati e quel serpente nero che lo aveva stritolato con lo sguardo.
Affondò le dita di entrambe le mani nei capelli, quindi abbassò leggermente la testa, chiudendo gli occhi e premendo le labbra contro i palmi: doveva calmarsi e – soprattutto – smettere di pensare a quell'incubo almeno per un po', visto che in lui si era già insediata la volontà di non dimenticarlo del tutto, per quanto spiacevole si sarebbe rivelato il ricordo.
Restò con gli occhi chiusi per un po', in attesa che il battito cardiaco rallentasse, quindi inspirò con forza e non appena sentì di essersi rilassato abbastanza diede una rapida occhiata all'ambiente circostante: si trovava ancora in hotel, e Tendou non era in camera con lui.
Per qualche strana ragione, nonostante l'incubo, Eita era sicuro di aver dormito più profondamene del solito, come se fosse riuscito a ritrovare quella piacevole linearità persa durante i primi sviluppi del tumore. Si sentiva piuttosto bene, a dire il vero, ma non pensò neppure per un istante che potesse essere merito di Sugawara: era solo una coincidenza – d'altro canto il suo alleato aveva chiarito fin da subito che non avrebbe potuto guarirlo.
Semi si alzò poco dopo, approfittando della mancanza di particolari dolori alle ossa per vestirsi in fretta.
Gli ospiti dell'albergo dovevano avere iniziato a pranzare da almeno venti minuti, ma evidentemente Tendou aveva deciso di lasciarlo dormire così da permettergli di riposare il proprio corpo il più possibile – un gesto fin troppo premuroso. A pensiero concluso, Eita si ritrovò ad affondare i denti nel labbro inferiore: difficile non pensare a Tendou che decideva di non svegliarlo così da poter arrivare più in fretta alla sala da pranzo, eppure lui aveva appena ipotizzato che il suo shinigami avesse attentamente considerato il suo stato di salute e deciso di lasciarlo dormire per non debilitarlo ulteriormente.
Scosse la testa come per scrollarsi di dosso quel pensiero, dunque recuperò il piccolo astuccio contenente i medicinali e uscì dalla stanza.
Nel tragitto per la sala da pranzo, Eita pensò di estrarre il portapillole, così da essere già pronto una volta giunto a tavola, ma questo gli scivolò a causa delle mani leggermente sudate.
Semi si lasciò scappare un'imprecazione, guardando il portapillole rotolare fino in fondo alla rampa di scale, quindi, la mano sinistra ben salda al corrimano, scese in fretta, pietrificandosi quando, appena chinato, vide il braccio massiccio di un uomo proprio davanti alla sua faccia.
L'uomo afferrò il contenitore delle pastiglie ed Eita seguì ancora per qualche istante il movimento del suo braccio, per poi scoprirne il viso.
Quando vide il figuro che gli si stava parando davanti nella sua interezza, subì una fastidiosa e improvvisa stretta allo stomaco: era corpulento e aveva un'espressione furente, alimentata dalla bizzarra mancanza di sopracciglia.
Semi schiuse le labbra, boccheggiando appena: forse aveva infastidito quell'uomo, perciò aveva pensato di scusarsi immediatamente, ma l'altro non gli disse nulla e si limitò a porgergli il portapillole.
Eita afferrò il contenitore e lo ringraziò, e l'uomo, dopo aver risposto con un una sorta di brontolio, gli voltò le spalle e si diresse verso la sala da pranzo.




❋ ❋ ❋



Moniwa masticava lentamente, come se fosse convinto che il cibo gli sarebbe andato di traverso da un momento all'altro, ma dopotutto era anche vero che la persona che si era seduta al suo tavolo lo aveva messo sull'attenti a tal punto da impedirgli di concentrarsi perfino su una cosa semplice come pranzare.
Quell'uomo si era seduto accanto a lui senza chiedere il permesso, all'improvviso, e aveva cominciato a fissarlo con insistenza, senza dire una parola. Kaname si era voltato solo per un istante, per rivolgergli un sorriso cordiale che, di fatto, doveva essere risultato più che altro forzato e nervoso; l'uomo, in tutta risposta, aveva continuato a guardarlo con quella sua inquietante espressione spiritata.
Lo innervosiva e lo spaventava, ma aveva paura potesse reagire in malo modo qualora gli avesse chiesto di sedersi altrove. Come poteva fargli capire che lo stava disturbando? Che fissandolo con così tanta insistenza stava compromettendo perfino la sua capacità di masticare una fetta di pane?
Interagire di punto in bianco con degli sconosciuti gli era sempre risultato difficile, figurarsi rivolgersi a una persona – che per altro aveva tutta l'aria di uno psicopatico – per chiedergli di lasciarlo solo.
Moniwa inspirò dalle narici, per poi affondare i denti nel labbro inferiore, esercitandovi una leggera pressione. Afferrò il manico della forchetta, ma non la sollevò; semplicemente fece pressione sull'impugnatura, sbirciando i rebbi che sprofondavano nel tovagliolo: gli avrebbe chiesto gentilmente di sedere a un altro tavolo, siccome stava aspettando una persona.
Kaname lo guardò, ritrovandosi a sua volta osservato con ancor più insistenza: era come se quel ragazzo sapesse qualcosa, e questo pensiero provocò un misero balbettio sulle sue labbra.
Fortunatamente, ancor prima che riuscisse a dire qualcosa, Aone li raggiunse.
Moniwa vide il tizio che si era seduto al loro tavolo rivolgere un'occhiata sprezzante ad Aone, che a sua volta assottigliò il proprio sguardo: cosa stava succedendo?
Deglutì, atterrito all'idea di trovarsi fra quelli che sembravano proprio due ordigni sul punto di esplodere, tuttavia qualcun altro giunse al loro tavolo, affiancandosi ad Aone.
«Ah, Yuta-kun,» l'ambiguo personaggio dai capelli rossi e a punta si alzò, rivolgendosi al nuovo arrivato «eccoti qui!»
Prese sottobraccio il ragazzo dai capelli grigi e insieme si allontanarono, andandosi a sedere ad appena un tavolo di distanza da Aone e Moniwa.




❋ ❋ ❋



«Perché mi hai chiamato in quel modo?» Eita si voltò solo per un istante, in cerca dello sguardo di Tendou, ancora impegnato a spintonarlo verso il tavolo vuoto. «Qualcosa non va?»
«Ho avuto un presentimento.»
Eita osservò solo per un istante il sorrisetto del suo shinigami, per poi incrinare le labbra in una smorfia e tornare a rivolgere la propria attenzione al tavolo vuoto: non gli piaceva vedere quell'espressione sul volto di Tendou, né che avesse avuto un presentimento, soprattutto considerando che la sua precedente intuizione si era rivelata utile, avendoli condotti fin lì e avendogli permesso di incontrare Sugawara.
Semi rivolse una rapida occhiata al tavolo del presunto dotato di cromosoma Z, soffermandosi in particolare sul ragazzo corpulento che aveva raccolto il suo portapastiglie per poi restituirglielo.
«Se uno dei due è un dotato di cromosoma Z, significa che l'altro è uno shinigami, giusto?»
«Già,» Tendou ampliò leggermente il sorriso «non ho mai avuto l'onore di incontrarlo, ma le descrizioni corrispondono.»
Era ovvio che il suo shinigami stesse parlando di quello con i capelli bianchi. L'altro, dopotutto, era solo un gracile ragazzo dall'aria riservata, una persona così comune che normalmente sarebbe passata inosservata.
«Non so quale sia l'abilità del suo protetto, ma quello shinigami è molto forte.»
«Più di Shimizu-san?»
Tendou rivolse un'occhiataccia a Eita, protendendo le labbra in segno di disappunto: avrebbe dovuto utilizzare lui come unità per misurare la potenza di uno shinigami, non Shimizu.
«Beh,» riprese poco dopo, ancora leggermente indispettito «questo non saprei dirlo con certezza.»
Eita restò a osservare in silenzio il gracile ragazzo dai capelli neri, come se sperasse di capire quale fosse il suo potere con la sola forza dello sguardo. Pochi istanti più tardi serrò le labbra e le increspò in una smorfia appena percettibile, dunque inspirò dalle narici e congiunse le dita delle mani.
«Tendou...» assottigliò lo sguardo, aggrottando appena la fronte.
«Mh?» Tendou si voltò verso il suo protetto e – subito incuriosito dalla sua espressione turbata – lo osservò senza dire altro.
«Io ho...» Eita esitò: non aveva idea del perché ci tenesse così tanto a farglielo sapere «ho avuto un incubo.»
Semi si stuzzicò il labbro inferiore con i denti, rivolgendo la propria attenzione a un cameriere, impegnato a spingere il carrello adibito al trasporto della carne.
Per una qualche ragione, Eita si ritrovò a boccheggiare, incapace di continuare il discorso e quindi di saziare la curiosità di Tendou. Restò, piuttosto, a osservare il grosso carrello muoversi lentamente fra i tavoli, avanzare e avvicinarsi al loro.
All'improvviso gli si chiuse lo stomaco e una nausea leggera lo costrinse a serrare la bocca. Tendou lo guardò ancora per qualche istante, poi decise di seguire il suo sguardo, soffermandosi sul cameriere; la situazione pareva innocua, ma ancor prima che potesse aprire bocca notò il carrello della carne sobbalzare e poi slittare violentemente in avanti.
Sia Eita che Moniwa colsero lo scatto anomalo del carrello, quindi videro il cameriere sbilanciarsi in avanti, cercare un appiglio senza trovarlo e di conseguenza incespicare. Qualcosa di metallico, però, lo stava precedendo nella caduta: un grosso coltello da cucina, la punta della lama rivolta verso lo stesso cameriere.


Che cosa dovrei fare?

Se il cameriere dovesse cadere...

… morirà.

Se solo riuscissi a tornare indietro.

Se solo non ci fossero tutte queste persone.

Se solo il tempo si fermasse come nel mio incubo!

Cosa posso fare?

Ma come?!

Come posso salvarlo?!

Devo fermarlo!



Eita strinse i denti con forza e chiuse gli occhi, ripensando intensamente all'incubo che lo aveva svegliato, a quel serpente che si muoveva attorno a lui quando tutto il resto era fermo, alla goccia di sangue sospesa a mezz'aria, come dipinta e perciò inchiodata in una frazione di tempo immobile.
Ci aveva provato più volte, ma non era mai riuscito a fermare il tempo, perciò aveva gettato la spugna, ma forse le immagini che aveva visto nel suo incubo significavano qualcosa, forse in passato non ci era mai riuscito perché non aveva ancora il pieno controllo sulla propria abilità.
Inspirò con forza, affondando i denti nel labbro inferiore fino a sentirlo pulsare: avere bene in mente quello che si desiderava fare con il proprio potere era facile, ma metterlo in pratica era tutta un'altra storia.
Fermare il tempo gli avrebbe permesso di salvare una vita senza che nessuno lo vedesse, perciò riuscire in quell'impresa era fondamentale. Fondamentale ma impossibile.
Si alzò in piedi, senza mai smettere di osservare il cameriere, e all'improvviso i movimenti di tutti i presenti parvero rallentare, per poi arrestarsi del tutto.
Eita esitò e, sbalordito, si fermò per osservare l'immobilità generale che gravava nella sala da pranzo: un bambino che tentava di sfilare un grissino dal cestino del pane di nascosto dalla madre, impegnata a frugare nella borsa; un ragazzo e una ragazza che pur tenendosi per mano utilizzavano i loro cellulari con quelle libere; un anziano che reggendosi al bastone si avviava verso un piccolo tavolo vuoto.
«Ce l'ho fatta...» Eita sussurrò, ancora incredulo, tornando a muoversi subito dopo.
Non aveva idea di quanto sarebbe durato, perciò si affrettò a prendere il coltello da cucina e posarlo sul tavolo accanto al carrello, dunque spostò leggermente il cameriere, così da permettergli di ritrovare l'equilibrio più facilmente.
Tendou, che fino in quel momento aveva osservato Eita, rivolse la propria attenzione al tavolo di quello che credeva essere un altro shinigami e del suo protetto. Appena li vide assottigliò il proprio sguardo, trattenendo il respiro: entrambi stavano guardando in direzione di Eita, il che non era strano, considerando che prima di ritrovarsi bloccati nel tempo dovevano aver rivolto la propria attenzione al cameriere, attirati dal rumore del carrello che era slittato in avanti, tuttavia Tendou era sicuro di aver colto un movimento. Per qualche secondo tornò a guardare il suo protetto, appena scostatosi dal cameriere, poi rivolse di nuovo la propria attenzione agli altri due, e finalmente lo vide: il presunto dotato di cromosoma Z, seppur immobile, aveva mosso gli occhi per seguire i movimenti di Eita.
Il tempo riprese a scorrere ancor prima che Semi tornasse a sedersi, ma grazie al trambusto provocato dal cameriere impiegato per il trasporto della carne, che per evitare di inciampare si era tenuto al carrello e perciò lo aveva fatto sobbalzare un'altra volta, nessuno sembrava averlo notato.
«Quanto è passato?» gli chiese poco prima di sedersi.
«Un minuto al massimo» Tendou rispose senza guardarlo, gli occhi fissi sui due che il suo protetto non era riuscito a fermare nel tempo.
«Non l'ho mai fatto...» Eita aggrottò la fronte e si schiarì la gola, per poi afferrare il tovagliolo.
«La mia intuizione era corretta.»
«Cosa?» Eita tossì, premendo il tovagliolo contro le labbra, poi seguì lo sguardo di Tendou, soffermandosi sul ragazzo gracile e su quello corpulento.
«Loro ti hanno visto.»
Eita spalancò lo sguardo, in un primo momento sorpreso, poi strinse i denti, infastidito da un'altra intuizione di Tendou appena avveratasi e angosciato all'idea che lo avessero visto – ma d'altronde cos'altro avrebbe potuto fare?
«Per ora fingiamo di non saperne nulla, ok?»
Tendou annuì con decisione, voltandosi verso Eita appena lo sentì tossire di nuovo, con più concitazione.
Eita scostò il tovagliolo dalla propria bocca solo pochi istanti più tardi, rivelando una macchia rossa al centro.
«Eita-kun!»
Eita guardò il tovagliolo, poi, le labbra increspate in una smorfia amareggiata, si rivolse al suo shinigami.
«Mi sono sforzato troppo, ma dopotutto ho sempre speso il mio tempo per salvare le persone» accennò un sorriso, e soltanto guardando la sua espressione, Tendou si sentì squarciare il petto.


❋ ❋ ❋


Da quando era tornata a Shinjuku, Chidori non aveva fatto altro che sfruttare ogni singolo momento libero per controllare il suo cellulare, nella vana speranza di ricevere una chiamata da parte di Shirabu.
Erano trascorsi appena due giorni dal loro incontro, quindi non c'era motivo di angosciarsi, anzi era perfettamente comprensibile che Kenjirou volesse concedersi del tempo per decidere se farsi sentire o meno, eppure in quel momento le era davvero difficile pensare razionalmente.
Attorcigliando i capelli fra le dita, Kazue rivolse una rapida occhiata fuori dalla finestra, mordendosi il labbro inferiore quando notò che aveva iniziato a piovigginare.
Si alzò da tavola e si fermò proprio davanti alla finestra, emettendo un sospiro appena percettibile nell'istante in cui guardò il cielo: le nuvole non erano eccessivamente scure, perciò era probabile che quella pioggerellina fosse destinata a diradarsi da un momento all'altro. La pioggia che cadeva in scarse quantità, scomparendo presto, le lasciava sempre una fastidiosa sensazione di incompletezza, la rattristava e infastidiva; arrivava e in un primo momento la confortava, la illudeva che stesse per giungere un temporale, e poi se ne andava, lasciandola a bocca asciutta.
Da quando aveva conosciuto Shirabu, e soprattutto da quando si erano detti addio, ciò che la confortava di più al mondo erano i temporali, quelli spaventosi, con i prolungati scoppiettii dei tuoni che facevano tremare i vetri e con i fulmini, che schioccando nel cielo parevano squarciare l'atmosfera.
Inspirò dalle narici e diede le spalle alla finestra, osservando il cellulare e l'Exterminator, entrambi sul tavolo.
L'attesa che Shirabu la chiamasse era estenuante, ma ancora più insopportabile era l'idea di aver trascorso ben due giorni a chiedersi come avessero fatto ad apportare cambiamenti così drastici all'Exterminator senza potersi fermare un momento per tentare di scoprirlo.
Non avrebbe sprecato un minuto di più.
Chidori sorpassò il tavolo, si chinò accanto a un mobile e aprì l'ultimo cassetto, estraendone un kit.
Posò la cassetta degli attrezzi sul tavolo e tornò a sedersi, quindi estrasse tutto il necessario per smontare parte della struttura dell'Exterminator.




❋ ❋ ❋



Dopo diversi minuti, Chidori era riuscita a smontare il carrello dell'Exterminator così da poterne osservare l'interno.
Tendendolo con fermezza per l'impugnatura, si accertò fossero presenti tutti gli elementi che normalmente componevano l'interno di una pistola, ovvero quelli che permettevano il rilascio e il passaggio del proiettile: il percussore, la molla e il dente di scatto. Notò subito una molla più lucida e spessa, più robusta, per poter veicolare una potenza di fuoco dirompente, ma ciò che attirò maggiormente la sua attenzione fu la presenza di una sorta di anello fra questa e la fine del percussore.
Era un anello sottile e perfettamente levigato di colore bianco, duro e liscio al tatto. Era stato fissato con cura e di fatto pareva l'unico elemento aggiunto nella struttura dell'arma.
Chidori prese fiato, affamata di informazioni ma incapace di capire, e per tanto intenzionata a sostenere qualche verifica non del tutto innocua nella speranza di chiarirsi le idee. Sua madre le aveva detto spesso che la curiosità moderata era cosa buona, mentre quella eccessiva si sarebbe rivelata portatrice di guai, e forse aveva ragione, ma Kazue non aveva intenzione di fermarsi.
Si alzò da tavola lentamente, le dita della mano destra strette con fermezza attorno all'impugnatura dell'Exterminator.
Si avvicinò al rubinetto, dunque aprì l'acqua e vi puntò contro l'Exterminator. Fin da subito, i piccoli led presenti sulla leva dell'otturatore si illuminarono, così come l'anello bianco posto fra la molla e il processore.
Chidori vide una scintilla attraversare la molla: una scarica elettrica, come reazione al getto d'acqua. Finalmente capì perché l'impugnatura dell'arma, così come il carrello, le erano sembrati leggermente diversi al tatto: dovevano essere stati sostituiti, realizzati con un particolare materiale isolante.
Spense l'acqua, quindi posò l'Exterminator sul tavolo, prese un bicchiere e un coltello e aprì il freezer.
Grattò via un po' di brina dalle pareti del freezer, fino a riempire il bicchiere, quindi lo vuotò sul tavolo e afferrò nuovamente l'Exterminator.
Anche in questo caso, appena puntò l'arma verso il mucchietto di brina, vide l'anello bianco illuminarsi leggermente, e quando avvicinò la mano alla molla avvertì un calore intenso sulla pelle. In quel caso, se avesse premuto il grilletto l'arma avrebbe sprigionato una fiammata, perciò il materiale utilizzato doveva essere sia isolante che ignifugo.
In sostanza, oltre alla molla più spessa e al materiale del carrello e dell'impugnatura, l'unico elemento che differenziava il nuovo Exterminator dal modello precedente era quell'anello bianco e perfettamente levigato che pareva reagire in modo differente a seconda del target. Di fronte all'acqua, la pistola usava l'elettricità; di fronte al ghiaccio usava il fuoco, e così via: era una mera questione di elementi.
Ma com'era possibile che una pistola fosse tanto intelligente? Come poteva quel semplice anello bianco determinare quali fossero la difesa e l'attacco più efficaci contro un'altra persona?
Purtroppo smontare l'Exterminator fino a estrapolarne l'anello era troppo pericoloso, si rischiava di compromettere le funzioni base della pistola, quel minuscolo chip di algoritmi che – insieme al lettore di impronte digitali sul grilletto di carica – permetteva all'arma di riconoscere il proprietario.
Chidori emise un sospiro rassegnato e si preparò a rimontare la pistola, più desiderosa che mai di ricevere la chiamata di Shirabu, ma il silenzio restò immutato e perfino la pioggia cessò di battere.




❋ ❋ ❋



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N e r i m a __ p r e f e t t u r a _ d i _ T o k y o



«Ehi,» Goshiki stava osservando il cielo scuro alla finestra, come in attesa della pioggia «la chiamerai? La ragazza che hai incontrato a Shibata, dico.»
Anche Shirabu guardò il cielo, aspettando qualche secondo prima di rispondere alla domanda dell'altro.
«No.»
Goshiki gli rivolse un'occhiata stupita, ma Shirabu lo ignorò e continuò a guardare il cielo, riprendendo a parlare pochi istanti più tardi, una vaga malinconia nella sua voce.
«Sta per piovere.»




L'angolino della piantina autoritaria
(You should read this):

Ed eccomi qui, stranamente in grado di rispettare i tempi!
Vi dico fin da subito che il prossimo capitolo potrebbe essere pubblicato con un leggero ritardo (provvederò comunque ad avvisare sulla pagina Facebook), siccome da domani comincerò un nuovo lavoro e gli orari saranno abbastanza ostici.
In questo capitolo ho introdotto due innovazioni stilistiche (il sogno al presente e quelli che ho definito “pensieri incrociati”); nel mio piccolo sono piuttosto soddisfatta, perciò mi auguro che anche voi abbiate apprezzato questo capitolo un po' bizzarro (o per lo meno che queste due innovazioni non abbiano rovinato del tutto la lettura). Il sogno al presente è quello che lascia più a desiderare, essendo tutto il resto al passato, ma volevo imprimere con più facilità l'immagine dell'incubo – e il tempo presente è sicuramente un buon espediente per farlo.
Dal prossimo capitolo in poi, le cose torneranno più movimentate, siete stati avvisati~
Un'ultima nota: mi sono resa conto di aver fatto un errore nel secondo capitolo, dove avevo già detto che l'Exterminator “non conteneva i classici proiettili, ma particolari cartucce il cui effetto mutava a seconda del target”. Ebbene, ho compiuto una sorta di spoiler involontario (?), siccome questa particolarità è stata introdotta con l'ultimo aggiornamento dell'Exterminator, avvenuto dopo il capitolo II (se ne parla per la prima volta nel capitolo VI, per la precisione). Per tale motivo ho cancellato la frase sopra riportata dal capitolo II, così da rettificare il tutto.
Bene! Spero che questo capitolo vi sia piaciuto!
Alla prossima!

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Capitolo 11
*** XI – Nella tana del lupo ***


XI


Nella tana del lupo


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S h i n j u k u __ p r e f e t t u r a _ d i _ T o k y o



Nonostante avesse sentito la porta chiudersi e avesse intravisto l'ombra di una persona stagliarsi sulla scrivania, a fendere lo spazio vuoto accanto a lui, Reon posò la penna soltanto dopo aver scritto l'ultima parola del paragrafo del quale si stava occupando già da una buona decina di minuti – un breve ma piuttosto dettagliato riassunto sulle anomalie rinvenute a Shibata.
«Come mai qui?» era raro che qualcuno al di fuori di Ushijima si recasse al laboratorio, ma trattandosi di Chidori la risposta alla sua domanda era in realtà piuttosto scontata – infatti qualche volta era capitato che si fosse rivolta a lui per reperire ulteriori informazioni sui casi più importanti nei quali era stato supposto il coinvolgimento di almeno un dotato di cromosoma Z.
«Volevo sapere qualcosa in più sulla nevicata di Shibata.»
Reon la guardò e scosse la testa in segno di negazione, le labbra dritte, a tracciare un'espressione seria ma comunque priva di severità.
«Lo sai» rare volte le aveva concesso il lusso di ricevere informazioni supplementari o di venire a conoscenza delle sue teorie, eppure sembrava non essersi ancora rassegnata e ogni tanto si presentava in laboratorio con tali pretese.
«Sei gentile, Ouhira-san, ma davvero troppo intransigente.»
«È il mio lavoro» rispose tranquillamente lui, le labbra piegate in un sorriso a malapena percettibile. «Sono sicuro che anche tu eseguirai al meglio il tuo dovere, perfino senza venire a conoscenza di determinati fatti prima degli altri.»
Chidori ricambiò il sorriso dell'altro, per poi esordire con rinnovato entusiasmo.
«Ah! A proposito, Ouhira-san!»
«Cosa?»
«L'Exterminator aggiornato è davvero incredibile! Come avete fatto a renderlo tanto intelligente e reattivo?» ampliò il sorriso e accennò una risata. «La tecnologia fa passi da giganti, eh?»
Ouhira la guardò senza dire una parola, di nuovo serio. Esitò per qualche istante, per poi tornare a sorriderle discretamente.
«Già, la tecnologia.»
«Però immagino che questa volta non si tratti soltanto di una semplice serie di algoritmi, vero?»
Reon esitò nuovamente, rivolgendo la propria attenzione allo schermo del computer, statico e luminoso.
«Temo di non essere nella condizione di rivelarti a cosa è dovuto un progresso simile.»
«Eh?!» Chidori gonfiò leggermente le guance e batté l'indice sulle labbra, incrinate in una piccola smorfia: voleva fingersi dispiaciuta e, soprattutto, rassegnata.
«Quindi non sapremo mai da cosa è stata determinata un'intelligenza artificiale così elevata? Che peccato!»
Che cos'era quell'anello bianco fra la molla e il processore? Era quello l'elemento che permetteva all'Exterminator di agire in un determinato modo? Oppure era stato aggiunto qualcosa che, al contrario, era passato inosservato ai suoi occhi?
Reon le sorrise, questa volta forzatamente, per poi scuotere il capo in segno di negazione.
«Mi dispiace, Chidori-san.»
Chidori negò con un leggero cenno del capo, tornando a sorridere pochi istanti più tardi.
«No, lo capisco. E poi immagino che questa sia ancora la fase sperimentale per il nuovo Exterminator» ciò che intendeva dire Kazue era che probabilmente il laboratorio avrebbe rilasciato un resoconto delle modifiche apportate di lì a qualche mese, solo dopo aver appurato la mancanza di anomalie nel sistema dell'arma. Pur sapendo che non era quello il caso, Reon annuì con fare compiaciuto, tornando poi a osservare lo schermo del terminale.
«Bene, Chidori-san,» afferrò il mouse e continuò a parlare senza guardarla più «se non ti dispiace avrei del lavoro da sbrigare.»
«Certo,» Kazue si portò una ciocca di capelli dietro l'orecchio destro, già pronta a incamminarsi verso l'uscita del laboratorio «non ho intenzione di trattenermi ancora. Buon lavoro, allora.»
«Anche a te» quello che normalmente Reon avrebbe pronunciato con un sorriso affabile a piegargli le labbra, fu rivolto allo schermo luminoso del PC in un sibilo roco, che riuscì a malapena a liberarsi dall'infida strettoia di una smorfia a dir poco contrariata.


❋ ❋ ❋


Reon restò immobile, gli occhi puntati sullo schermo luminoso del computer. Attese che Chidori se ne andasse, ma di fatto si mosse soltanto due minuti dopo la chiusura della porta.
Lasciò scivolare indietro la sedia da ufficio, dunque afferrò il cellulare e dopo aver selezionato il contatto desiderato se lo portò all'orecchio.
«Puoi parlare?» domandò appena l'altro gli rispose.
«» dall'altro capo del telefono, la voce di Ushijima risuonò ferma e imperturbabile come al solito.
«Chidori voleva delle informazioni sull'ultimo aggiornamento dell'Exterminator.»
Ushijima restò in silenzio per qualche secondo, poi schioccò la lingua contro il palato, in segno di disappunto.
«Da questo momento in avanti mi assicurerò che non metta più piede in laboratorio.»


❋ ❋ ❋


Moniwa aveva i nervi a fior di pelle: un altro dotato di cromosoma Z – e probabilmente il suo shinigami – stavano soggiornando nel suo stesso albergo. Quante possibilità c'erano perché potesse accadere qualcosa di simile? Considerando la rarità del cromosoma Z e la grandezza di Tokyo, quasi nessuna. Possibile che quei due lo avessero fatto di proposito? Che avessero deciso di seguire lui e Aone? In quelle condizioni era difficile credere a una pura coincidenza.
Pur stringendo con vigore il nodo della cravatta attorno al collo, Moniwa trasse un sospiro di sollievo, come se si fosse appena liberato di un grosso peso: era stanco, ma l'idea di dover trascorrere quasi tutta la giornata nello studio legale lo confortava, anche perché lui e Aone sarebbero tornati a Bunkyou quella sera stessa.
«Sono pronto» annunciò ad Aone, che aprì la porta e uscì prima di lui, così da assicurarsi che fosse tutto a posto: lo avrebbe accompagnato a lavoro e sarebbe rimasto per tutto il tempo a passeggiare nei paraggi; era troppo pericoloso lasciare che Moniwa rientrasse in albergo da solo.
Proprio quando Kaname mise piede fuori dalla stanza, il suo cellulare squillò.
Quando vide che il mittente era il signor Nijima, il suo datore di lavoro a Bunkyou, fu scosso da un brivido: come mai lo stava chiamando? E perché appena venti minuti prima che iniziasse a lavorare?
Moniwa deglutì, rispondendo immediatamente.
«Stai andando a lavorare,» esordì il signor Nijima «ti chiedo scusa, ma ho delle novità.»
Moniwa deglutì ancora, annuendo appena.
«La ascolto...»
«Lo stagista di Tokyo ha dovuto rinviare l'inizio del suo tirocinio, perciò potrai restare a Shinjuku ancora per qualche giorno.»
Moniwa si sentì gelare il sangue. Gli mancò il respiro, perciò boccheggiò per qualche istante, sotto lo sguardo confuso di Aone.
«Veramente io...» trovò la forza di parlare pochi istanti più tardi, ma fu subito interrotto.
«Tranquillo, ho già parlato con i tuoi genitori.»
Rimase completamente senza parole, annichilito, atterrito dalla velocità di azione del suo superiore e dall'ovvia incapacità di sfuggire a un destino ormai evidente.
«Per il proprietario dell'albergo non ci sono problemi, infatti provvederò a pagare il resto del soggiorno entro questa sera.»
Aveva parlato anche con il proprietario dell'albergo? E in più aveva l'impressione che si stesse offrendo di pagare perfino per Aone.
Normalmente una tale opportunità lo avrebbe reso felice, sarebbe stato riconoscente verso cotanta generosità, ma in quel frangente avrebbe voluto soltanto darsi per malato e rinchiudersi nella camera d'albergo o prendere il primo treno per tornare a casa senza doverne dare conto al signor Nijima e al legale di Shinjuku.
Moniwa boccheggiò nuovamente, desideroso di parlare, interrompere il signor Nijima per dirgli che non si sarebbe potuto trattenere oltre, tuttavia questo non gli concesse neppure il tempo di elaborare mentalmente un discorso.
«Adesso devo andare. Continua a darti da fare, sono sicuro che te la stia cavando bene.»
«A-aspet‒» Kaname serrò le labbra con forza, per poi deglutire, la mano destra impegnata a sorreggere il cellulare.
Aone lo stava fissando. Lo vide abbassare la mano con arrendevolezza, mentre osservava la schermata della chiamata terminata con le labbra increspate in una smorfia.
«Abbiamo un problema» disse poi, serrando le labbra in segno di resa.
Aone richiuse la porta.
«Cosa succede?»
«A quanto pare dovremo restare qui ancora per qualche giorno.»
Aone sembrò sorpreso, poi anche le sue labbra si contrassero in una smorfia. Annuì pochi istanti più tardi, per poi rivolgere un'occhiata alla porta chiusa, le dita della mano destra a stringere con forza la maniglia.
«Che facciamo? Anche quei due sono qui, e sono sicuro che non se ne andranno molto presto.»
Aone annuì di nuovo, emettendo un brontolio basso e appena percettibile.
«Stiamo qui» concluse poi.
Moniwa affondò i denti nel labbro inferiore, avvicinandosi al proprio shinigami.
«Devo andare allo studio legale...»
Aone dischiuse le labbra, intenzionato a rispondere, ma notando l'espressione rattristata dell'altro decise di tacere: non voleva dirgli che forse avrebbe dovuto lasciare il master, probabilmente Moniwa se ne sarebbe resto conto da solo di lì a poco tempo.
«Staremo in guardia» Aone aspettò che l'altro annuisse, dunque aprì la porta: per quel momento avrebbe permesso a Moniwa di tenersi stretta la sua vita, limitandosi a proteggerlo.


❋ ❋ ❋


«Non sappiamo quale sia il suo potere» Semi sorseggiò il tè, osservando Sugawara di sottecchi.
«E per quanto riguarda il suo shinigami?» Sugawara, seduto con una tazza di cioccolata calda fra le mani, sbirciò fuori dalla sala della colazione, per poi tornare a rivolgere la propria attenzione agli altri.
«Se si tratta di Aone-san, come dice Tendou-san, non dobbiamo sottovalutarli.»
«Lo hai mai incontrato?» Satori si rivolse a Kiyoko, addentando un biscotto.
«Un paio di volte,» rispose lei, gli occhi bassi, fissi sulla bustina di tè che teneva stretta fra le dita «e anche se non l'ho mai visto combattere, mi è sempre sembrato molto forte.»
«Eccoli là» Eita diede un'ultima sorsata al tè, mentre Sugawara fletté leggermente il corpo verso destra, così da poter sbirciare attraverso lo spazio che separava Tendou e Shimizu, seduti di fronte a loro.
«Li seguiamo, allora?» Tendou – così come Shimizu – non si voltò, piuttosto addentò un altro biscotto in attesa di direttive da parte di Eita e Sugawara, la punta del piede destro che batteva con forza sul pavimento, rivelando tutta la sua impazienza.
Dopo essersi assicurato che i due fossero usciti dall'albergo, Eita annuì.


❋ ❋ ❋


«Sono loro» alle parole di Akaashi, Kenma annuì: aveva già individuato Sugawara, e per quanto riguardava gli altri due si fidava delle parole dell'amico, che insieme a Bokuto li aveva visti scontrarsi in un vicolo della città qualche giorno prima.
«Kenma, puoi prendere possesso delle loro menti?»
«Quattro in una sola volta?» Bokuto, sorpreso, si voltò verso Kuroo, che aveva appena posto quella domanda spinosa al suo protetto.
«È impossibile,» tagliò corto Kenma «il mio potere si è sempre limitato a un soggetto alla volta. L'ipnosi collettiva non ha nulla a che vedere con me.»
«Per ora limitiamoci a seguirli» concluse Akaashi.
«Una bella gatta da pelare...» Bokuto borbottò «Shimizu e Tendou sono molto forti.»
«Noi saremo più forti» Kuroo rivolse un sorriso strafottente agli altri tre, scatenando un brivido lungo la schiena di Kenma.
Akaashi, dal canto suo, rivolse una rapida occhiata a Bokuto, nella speranza che questo non desse corda all'amico, ma ovviamente Kotarou ricambiò il sorriso dell'altro shinigami.
«Giusto!» Bokuto sollevò il pugno sinistro, esultando come se avesse appena vinto qualcosa. Akaashi lo colpì fra le scapole, facendolo rantolare per la sorpresa.
«Taci, Bokuto-san, o ci scopriranno per colpa tua» lo rimproverò, colpendolo ancora una volta, scatenando la risata di Kuroo.
Indispettito dall'umiliazione appena subita, Bokuto sfiatò, rivolgendo un'occhiataccia all'altro shinigami, poi increspò le labbra in un broncio, zittendosi completamente.
«Perfetto» Akaashi commentò soddisfatto e vagamente divertito, tornando serio non appena notò l'espressione concentrata di Kenma, che stava ancora osservando Tendou, Shimizu e gli altri due dotati di cromosoma Z.
«Cosa c'è, Kenma? Hai notato qualcosa?» era così attento che sembrava aver appena preso possesso della mente di qualcuno, ma il leggero movimento delle pupille gli suggerì che era ancora completamente cosciente e che, di fatto, stava solo osservando.
«Credo...» Kenma esitò, per poi bagnarsi le labbra con la punta della lingua «che stiano seguendo qualcuno.»


❋ ❋ ❋


«Mi sento molto stupido a inseguire un altro dotato di cromosoma Z e il suo shinigami senza maschera» Sugawara accennò una risata nervosa, per poi guardarsi attorno: c'erano molte persone in giacca e cravatta, che con le loro ventiquattrore camminavano spedite verso il proprio posto di lavoro.
«A me non cambia nulla, visto che mi ha guardato in faccia,» Eita rispose, le labbra increspate in una piccola smorfia «ma comunque ti saresti messo davvero la maschera? Con tutta questa gente?»
«In effetti...»
«Tendou-san» la voce di Shimizu attirò l'attenzione di entrambi i protetti, in quanto il tono di voce della donna fece da subito intendere che qualcosa non stava andando nel verso giusto.
«Cosa c'è, Tendou?» Semi fu sul punto di voltare la testa per guardare il suo shinigami, ma Tendou gli poggiò una mano sulla spalla come per esortarlo a procedere e a non voltarsi.
«Continuate a camminare, non voltatevi» fu Shimizu a parlare prima di Tendou, che tuttavia continuò al posto della donna.
«Altri due shinigami e i loro protetti ci stanno seguendo.»


❋ ❋ ❋


«Un triplo stalking? Ne sei proprio sicuro, Kenma?» Tetsurou sembrò quasi divertito all'idea di star seguendo due coppie di destinati che a loro volta ne stavano spiando un'altra ancora diversa, mentre Bokuto – pur pensandola allo stesso modo dell'amico – continuò a tenere il broncio, camminando dietro ad Akaashi con le braccia incrociate al petto.
«Effettivamente avevo sentito parlare di uno shinigami di corporatura massiccia e con i capelli chiari...»
«Aone Takanobu,» finalmente Bokuto riprese a parlare, seppur a denti stretti «chiamato anche Muro di Ferro.»
«Deve essere molto forte, allora» commentò Akaashi, osservando Kenma con la coda dell'occhio.
«Deve essere molto forte,» ripeté Kenma, per poi guardare proprio Akaashi «ma la forza fisica appartenente a una mente soggiogata non vale niente.»
Keiji sollevò leggermente le sopracciglia, sorpreso dall'affermazione dell'altro, poi accennò un sorriso e posò il proprio sguardo sullo shinigami dai capelli bianchi.
«Ho capito.»
«Dobbiamo fare in modo che riesca a vederlo in viso...» commentò Kenma a fior di labbra, ora attirando a sé anche l'attenzione dei due shinigami.
«Bokuto-san,» Akaashi riprese a parlare «come hai detto che si chiama?»
«Aone Takanobu.»
Keiji annuì, per poi assottigliare leggermente lo sguardo, arrestando i propri passi qualche istante più tardi. Subito dopo, si fermarono anche Kenma e i due shinigami.
«Akaashi?» appena Bokuto lo chiamò, Kenma gli fece segno di restare in silenzio.
Akaashi chiuse gli occhi e portò la mano destra sulle labbra, ritta in verticale così da coprire anche il naso con le dita distese. Inspirò con forza dalle narici, poi abbassò leggermente la parte superiore della mano e soffiò, incurvando le dita verso destra di pochi millimetri. Infine abbassò la mano.
«Guarda bene, Kenma.»
«Sì.»
Aone si voltò pochi secondi più tardi, lasciando senza parole Kuroo e Bokuto.
«Co-co‒» Bokuto boccheggiò.
«Puoi parlare, adesso, Bokuto-san.»
«Cosa hai fatto?!»
Akaashi accennò un sorriso.
«L'ho chiamato» fece una piccola pausa, per poi rivolgere una rapida occhiata a Kozume. «Pronti ad aiutare Kenma? Presto si assenterà completamente.»


❋ ❋ ❋


Dovevano svoltare a destra. Aveva già accompagnato Moniwa all'ufficio legale e sapeva perfettamente che avrebbero dovuto procedere dritto ancora per un bel po', ma fu più forte di lui afferrare il braccio del proprio protetto per esortarlo a svoltare a destra.
«A-Aone-san?!» Kaname piantò i piedi a terra, sorpreso e soprattutto terrorizzato all'idea che il suo shinigami lo stesse per condurre in una strada molto meno frequentata della principale.
Qualcuno li stava seguendo? Aone gli aveva comunicato il suo sospetto appena trenta secondi prima, ma mai si sarebbe aspettato che perdesse la calma in quel modo – o forse aveva qualcosa in mente?
Ovviamente non riuscì a opporsi alla forza bruta dell'altro, che lo costrinse a imboccare la stradina e ad avviarsi in direzione di una via piuttosto stretta su cui si affacciavano soltanto il retro di un ristorante italiano e un negozio di antiquariato ancora chiuso.


❋ ❋ ❋


«Hanno appena girato a destra?» Shimizu aggrottò la fronte, sorpresa dall'improvviso cambio di rotta dei loro obbiettivi – considerando soprattutto che era stato proprio Aone a effettuarlo.
«Che vogliano lo scontro diretto?» chiese Sugawara, il tono leggermente preoccupato.
«Che scontro diretto sia, allora» Tendou, al contrario, si sfregò le mani, impaziente di sfidare Aone.


❋ ❋ ❋


«Tendou, Shimizu e i loro protetti andranno a destra, perciò noi cercheremo di arrivare da sinistra, ok?»
«Quindi dovremo fare il giro del palazzo» commentò Kuroo.
Akaashi annuì, riprendendo subito a parlare.
«Con le nostre abilità dovremmo essere più veloci, ma lo stato di Kenma ci rallenta, perciò per ora andremo solo io e Bokuto.»
«Vi raggiungerò appena mi sarà possibile» Kuroo adagiò entrambe le mani sulle spalle di Kenma, come per sorreggerlo pur non essendocene bisogno – avrebbe dovuto trasportarlo, comunque.
Akaashi annuì, per poi voltargli le spalle e allontanarsi in fretta, seguito da Bokuto.
«A fra poco, allora.»


❋ ❋ ❋


«A-Aone-san, non dovremmo stare qui!» se qualcuno li stava pedinando, allontanarsi dalla strada principale non si poteva considerare di certo la scelta più saggia, eppure il suo shinigami sembrava esserne convinto.
Aone rafforzò la stretta sul braccio del proprio protetto, senza tuttavia fargli male: lo sapeva perfettamente che quello non era il posto giusto, che dovevano andarsene da quel vicolo il prima possibile, eppure non avrebbe mai permesso a Moniwa di allontanarsi. Piantò i piedi a terra, quindi vide nitidamente l'espressione confusa e spaventata di Moniwa, che stava cercando con tutte le sue forze di strattonarlo in avanti, fuori dalla via desolata.
La paura negli occhi del suo protetto, diversamente dal solito e da come sarebbe dovuto avvenire, non gli fece alcun effetto. Non scalfì neppure una piccola parte del suo essere.
«Aone-san!» Kaname strepitò, adesso completamente sopraffatto dall'inquietudine. Ormai era evidente: Aone non aveva un piano in mente, anzi era totalmente assente, come se al posto suo ci fosse un'altra persona.
Lo chiamò ancora una volta, e poi gli si gelò il sangue: il ragazzo del tempo, insieme al suo shinigami e ad altre due persone, avevano appena occupato l'imboccatura del vicolo.
Aone lo lasciò in quel momento, quindi Moniwa si voltò per scoprire che anche l'altra estremità era stata occupata da due ragazzi.
«Aone-san!» tornò a voltarsi verso il proprio shinigami, ma Aone era immobile, come se avesse avuto l'intenzione di restare totalmente fermo e lasciarsi sopraffare.
«Aone-san...» lo chiamò ancora una volta, afferrandogli il braccio per scuoterlo, ma Takanobu non si mosse e neppure lo guardò, provocandogli un fremito di terrore nel petto. Moniwa si sentì improvvisamente abbandonato, già sconfitto.
Strinse i pugni, le lacrime agli occhi. Catturò un rapido movimento alla propria sinistra, da parte del ragazzo con i capelli rossi, e poi uno da parte di quello con i capelli scuri, alla propria destra.
Urlò con forza, buttando fuori tutta l'aria che aveva nei polmoni, quindi sollevò leggermente i pugni.
L'asfalto si crepò all'improvviso, sia a destra che a sinistra, e grossi rovi verdi si innalzarono verso l'alto, una muraglia invalicabile che arrestò la corsa di Tendou e il colpo di aria compressa lanciato da Akaashi.
Ora rinchiuso in una robusta gabbia verde, Moniwa distese le dita delle mani, rivolgendo il proprio sguardo al cielo nuvoloso, una piccola frazione visibile oltre le punte aguzze dei rovi.
Guardò Aone, trovandolo ancora immobile.
Intanto, fuori dalla gabbia di rovi, Tendou si preparò a colpire l'asfalto, ma venne subito fermato da Eita.
«Tendou, aspetta! È la nostra occasione per parlargli senza scatenare un putiferio.»
«È vero, ma dall'altra parte c'erano altre due persone...» Sugawara intervenne, stroncando sul nascere le pacifiche intenzioni di Eita.
«A dire il vero siamo proprio sopra la vostra testa» a quelle parole, alzarono tutti e quattro lo sguardo: come se avesse avuto le ali ai piedi, il ragazzo dai capelli scuri stava fluttuando in aria, perfettamente in equilibrio, un gufo grigio appollaiato sulla spalla sinistra.
«Bokuto e il suo protetto» ringhiò Tendou.
«Li spezzerò» Shimizu distese le dita della mano destra, pronta a richiuderle immediatamente, ma un grosso artigliò d'ombra la colpì in pieno, gettandola a terra.
«Shimizu-san!» Sugawara corse da lei, per assicurarsi che non fosse ferita.
«Ce n'è un altro» Tendou strinse i denti, quindi saltò contro la parete destra, per poi rimbalzare sulla sinistra e lanciarsi in aria, dritto verso Akaashi e Bokuto.
Akaashi distese le mani e con una potente folata di vento rispedì Tendou verso il basso, proprio addosso a Eita, schiacciando entrambi contro l'asfalto.
Che cosa stava succedendo lì fuori? Moniwa si stava mangiando le dita, osservando prima Aone – ancora immobile – e poi le punte dei propri rovi, che stavano cominciando ad appassire, ripiegandosi su se stesse. Presto sarebbero rimasti scoperti, non che la gabbia fosse molto utile alla fine, visto che a quanto pareva uno dei mostri lì fuori era in grado di volare mentre un altro riusciva a controllare le ombre.
A Moniwa non era mai piaciuto usare il proprio potere; lo aveva fatto con gioia solo per la sorella, sfruttandolo per creare fiori variopinti con cui realizzare ghirlande colorate insieme, ecco perché i suoi rovi appassivano così in fretta. Era un potere poco sviluppato, come quello di un neonato.
La sua gabbia era racchiusa a sua volta in una ancora più grande e pericolosa. Presto sarebbe stato spazzato via. Non poteva vincere.
Strinse i denti e trattenne un singhiozzo, quindi afferrò Aone per il colletto del piumino e cominciò a scuoterlo.
«Aone-san, non posso farcela da solo! Aone-san!»
«Sei buono o cattivo?» Aone esordì all'improvviso, pietrificando completamente Moniwa. Lentamente, lasciò il colletto del proprio shinigami, mentre due grosse lacrime gli solcavano le guance: qualcuno gli aveva appena parlato attraverso la voce di Aone.
«Buono o cattivo? La tua risposta potrebbe fermare tutto questo.»
«Tu... tu chi sei?»
«Qualcuno come te.»
Poteri psichici. Qualcuno che si trovava vicino a loro e che aveva preso possesso della mente di Aone.
«Vuoi uccidere gli altri dotati di cromosoma Z per impossessarti del loro potere?» «N-no,» Moniwa negò con un energico cenno del capo «certo che no.»
Aone restò fermo e in silenzio per qualche istante, poi, all'improvviso, sollevò la mano destra e asciugò le lacrime al proprio protetto.
«Eh?» Moniwa lo guardò, ritrovando una confortante scintilla di lucidità nei suoi occhi.
«Aone-san?» sussurrò confuso, non riuscendo a trattenere un sorriso, e altre lacrime di gioia gli colmarono gli occhi.
Aone si guardò intorno, trovando soltanto una serie di rovi alti e robusti.
«Cosa sta succedendo?»
«Ci hanno circondato: quattro alla nostra sinistra e quattro alla nostra destra, credo. Penso che qualcuno abbia preso possesso della tua mente per parlare con me... mi ha chiesto se voglio uccidere gli altri dotati di cromosoma Z.»
Fuori dalla gabbia di rovi, Kenma tornò in sé. Guardò Kuroo attraverso le grosse unghie di ombra, che avevano fatto da scudo al suo corpo inerme per tutto il tempo in cui era rimasto nella mente di Aone.
«Kuroo» appena lo chiamò, le unghie di ombra sembrarono liquefarsi, ritirandosi nel terreno.
«Hai scoperto qualcosa?»
«Mi ha detto che non ha intenzione di uccidere i dotati di cromosoma Z, e personalmente mi ha dato davvero questa impressione» Kozume indicò la parte superiore della gabbia di rovi. «Solo che presto resteranno scoperti, perciò ci converrà difenderli dagli altri quattro.»
Kuroo annuì, per poi chiamare Akaashi.
«Thyphone, Psyche dice che il ragazzo all'interno della gabbia è pulito!»
Akaashi diede una rapida occhiata alla gabbia di rovi e si abbassò di quota, ma proprio in quel momento Shimizu – aiutata da Sugawara – si rialzò.
Keiji si preparò a sollevare un'altra folata di vento, ma Kiyoko fu più veloce: stese le dita di entrambe le mani, richiudendole in fretta e all'unisono.
Lo scricchiolio delle ossa di Akaashi fu sovrastato immediatamente dal suo urlo di dolore, che attirò seduta stante l'attenzione di Kuroo e Kenma.
Keiji perse quota in fretta, le palpebre serrate e i denti affondati nel labbro inferiore, nel tentativo di trattenere un altro urlo di dolore. Il gufo tese le ali e balzò giù dalla spalla di Akaashi, toccando terra non con gli artigli neri, ma con piedi umani, le ginocchia piegate e i polpacci tesi.
Bokuto afferrò Akaashi appena in tempo, evitandogli di cadere, quindi lo fece stendere a terra con attenzione.
«Akaashi...» sussurrò, la fronte leggermente aggrottata, gli occhi puntati sul viso del suo protetto, contratto dal dolore e madido di sudore.
«Cosa sta succedendo?!» la voce di Kuroo giunse forte e chiara dall'altro capo del muro di rovi.
«È Shimizu-san!» alla risposta di Bokuto, l'altro shinigami piegò le labbra in una smorfia.
«Devo vederla» Kenma, poco più indietro del suo shinigami, rivolse una rapida occhiata ai rovi che li separavano dagli altri.
Kuroo si avvicinò all'alto muro verde e diede un pugno proprio al centro di uno dei rovi più grossi.
«Ohi, tu, lì dentro!»
Moniwa si irrigidì. Aone si mise sull'attenti.
«Ritirali» Kuroo si stava riferendo ai rovi, cosa che Moniwa comprese immediatamente, ma nonostante questo restò immobile, volgendo solo una fugace occhiata verso Aone.
Kuroo strinse i denti, tornando subito a strepitare.
«Ritira questi maledetti affari! Ti proteggeremo noi!»
Moniwa guardò di nuovo Aone, trovandolo accigliato e con le labbra increspate in una piccola smorfia – cosa che non lo confortò affatto.
«Che cosa facciamo?» gli tremò la voce.
Takanobu volse un'occhiata verso l'alto, alle punte dei rovi, ormai di un verde sbiadito e ripiegate su se stesse come radici di un albero vecchio e rinsecchito: in ogni caso era ovvio che presto sarebbero rimasti scoperti.
Fuori dalla loro barriera rigogliosa c'erano sicuramente Kuroo, Bokuto e Shimizu, e pur considerando la forza inarrestabile di quest'ultima e la vivacità degli altri due, erano degli shinigami piuttosto ragionevoli. Qualunque piega avessero preso gli eventi, comunque, lui avrebbe fatto in modo di proteggere Moniwa.
Aone posò una mano sulla spalla del proprio protetto, con una delicatezza tale da sorprenderlo.
«Facciamo come vogliono,» trovò un po' di difficoltà ad articolare quelle parole, tanto che la sua voce parve fuoriuscire da un vecchio dispositivo arrugginito «ma stiamo in guardia. Se serve, li attacchiamo.»
Kaname aggrottò la fronte, evidentemente angustiato, ma si limitò ad annuire con un rigido movimento del capo. Allargò le braccia e i rovi cominciarono a ritirarsi.
«Teniamoci pronti» Kuroo si mise in posizione, pronto ad attaccare, e così fece anche Shimizu, dalla parte opposta. Tendou, che aveva aiutato Eita a rialzarsi, afferrò il braccio dell'altra shinigami, strattonandola da parte.
«Mettiti questo» quindi le porse un fazzoletto.
Shimizu esitò: coprirsi gli occhi le precludeva la possibilità di attaccare, ma significava anche non essere visti in viso dai propri avversari – che Tendou sospettasse qualcosa? Un dotato di cromosoma Z con poteri psichici? L'intuito di Tendou era fenomenale, per quanto le seccasse riconoscerlo, perciò si decise a legare il fazzoletto dietro la testa, così da coprirsi gli occhi.
Appena i rovi scomparvero, le mani d'ombra evocate da Kuroo si mossero in direzione di Shimizu, ma Semi le ordinò di spostarsi velocemente a destra, così da permetterle di evitarle.
Tendou, invece, balzò contro Moniwa, il pugno teso a mezz'aria e i denti stretti: con un ringhio strafottente, si stava preparando all'impatto con Aone, che si era già messo in mezzo a lui e al suo obbiettivo.
Aone tese il pugno a sua volta, e il pallore rosato della sua mano venne sostituito da uno strato grigio e lucente come l'acciaio.
Quando i due pugni si scontrarono, dando vita a un rumore secco e rapido, i denti di Tendou affondarono nel labbro inferiore fino a farlo sanguinare, così da reprimere un grido di dolore: la forza incanalata nella sua mano si era direttamente scontrata con una spessa superficie di metallo, che ovviamente ne era uscita totalmente illesa; le sue dita, invece, si erano accartocciate come ramoscelli imputriditi dal ghiaccio implacabile di un rigido inverno.
Anche una forza devastante come quella di Tendou non avrebbe potuto nulla contro il muro di ferro di Aone. Solo la forza di un altro shinigami si sarebbe potuta considerare pari a quella di Takanobu, se non addirittura superiore.
Aone allungò il pugno sinistro in direzione del suo avversario, ma Tendou fu abbastanza veloce da schivarlo, balzando ulteriormente indietro quando un grosso rovo si librò di fronte a lui per poi schiantarsi a terra, cercando di colpirlo.
«Qual è il piano?» Moniwa si rivolse a Kenma e Kuroo, che tornò ad attaccare, questa volta ostacolato direttamente da Tendou.
Kenma non rispose, ma guardò Moniwa per qualche secondo.
“Devo vedere quella ragazza in viso.” Moniwa sobbalzò, mentre un brivido gli attraversava la schiena: questa volta l'altro dotato di cromosoma Z gli aveva parlato direttamente nella testa, dandogli una direttiva ben precisa.
Moniwa strinse i pugni e annuì con decisione, rivolgendo il proprio sguardo in direzione della donna con gli occhi coperti, ora ferma fra il ragazzo che aveva fermato il tempo e un altro di cui ignorava l'abilità.
«Kuroo» appena Kenma pronunciò il nome del proprio shinigami, ancora impegnato a respingere Tendou, grossi artigli d'ombra bucarono il terreno, formando una gabbia nera attorno a lui.
Akaashi, nel frattempo, riuscì a veicolare una vigorosa folata di vento contro la shinigami e gli altri due ragazzi, e quando questi si protessero il viso con una mano, Kuroo cercò di direzionare un artiglio d'ombra verso Shimizu; Tendou, però, lo colpì allo stomaco con un pugno così potente da scaraventarlo a terra, a diversi metri di distanza da lui – le dita della sua mano destra erano fuori uso, ma la sinistra era ancora funzionante, quindi perché non utilizzarla? Non era la sua mano dominante, ma fu comunque in grado di costringere Kuroo a terra e di provocargli uno spasmo di dolore.
Provato dal colpo appena subito, Tetsurou si concentrò a mantenere intatta la barriera che difendeva Kenma, il che si rivelò una decisione piuttosto saggia, perché Moniwa, approfittando della confusione, condusse fino a Shimizu un rovo sottile e appuntito che, colpendo di striscio la guancia della donna, tagliò di netto un lato del fazzoletto.
Il fazzoletto scivolò via, lasciando scoperti gli occhi di Shimizu, e Kenma ne approfittò immediatamente per fare breccia nella mente della donna.
«Shimizu-san!» Sugawara tese la mano destra in direzione del viso di Shimizu, così da nasconderla nuovamente, seppur non ancora sicuro del motivo per cui Tendou le aveva dato quel fazzoletto, ma proprio in quel momento le sue ginocchia si piegarono simultaneamente e lui cadde a terra. Un dolore lancinante gli attraversò le cosce, scuotendolo e nauseandolo, e con gli occhi spalancati si ritrovò a osservare le mani di Shimizu, tese in pugni chiusi.
Fu investito dalla paura, e si ritrovò a boccheggiare incredulo e confuso.
«Shi-Shimizu-san...?»
«Che costa stai facendo?» Eita intervenne immediatamente, e con orrore, Sugawara vide le dita di Shimizu distendersi e chiudersi nuovamente, per poi udire l'urlo di dolore dell'altro: aveva spezzato le gambe a entrambi, come se avesse voluto costringerli a terra.
«Shimizu-san, cosa stai...» per il dolore e la confusione, Sugawara non riuscì più a parlare.
«Quella non è Shimizu!» Tendou diede un pugno alla gabbia d'ombra che circondava Kenma, ora immobile, gli occhi spalancati e fissi. «Questo bastardo la sta controlla–»
Anche Tendou cadde rovinosamente a terra, entrambe le gambe spezzate e i denti nuovamente affondati nel labbro inferiore, in un ringhio di dolore e frustrazione.
Kuroo si rialzò barcollando, la mano sinistra premuta contro lo stomaco dolorante.
«Typhone?» si avvicinò a Bokuto e al suo protetto.
«Comincia a passare,» fu proprio Akaashi a rispondere, la voce leggermente roca «ancora qualche minuto e potrò tornare in piedi.»
Kuroo non disse altro, quindi rivolse una rapida occhiata a Moniwa e Aone, che subito si mise sull'attenti.
«Come vi ha già riferito il mio protetto, non abbiamo intenzione di ammazzarci a vicenda. Forse non vi sembrerà così, adesso, ma siamo un gruppo pacifico.»
Moniwa si sentì sollevato, ma comunque trattenne il fiato per qualche istante, le braccia rigide lungo i fianchi.
«Chi ci assicura che non ci state facendo il lavaggio del cervello?» Eita intervenne, la voce scossa dal dolore e dalla rabbia.
«Il mio protetto può prendere il possesso di una sola mente alla volta, e come vedi si trova ancora nella testa di Shimizu-san.»
Eita e Sugawara rivolsero un'occhiata a Shimizu, in piedi e immobile in mezzo a loro.
«Anche se voi due non ci avete attaccato, con Tendou al vostro fianco non penso siate un gruppo pacifico, o mi sbaglio? Ce ne andremo quanto prima» Tetsurou si rivolse ad Aone. «Tu e il tuo protetto volete unirvi?»
Aone e Moniwa si guardarono, ma ancor prima che uno dei due potesse parlare, Eita tornò subito a farsi valere.
«Non saltare a conclusioni affrettate,» Eita arpionò l'asfalto con le dita, reggendosi sui gomiti «se non fossimo un gruppo pacifico, Tendou vi avrebbe già fatto a pezzi.»
Kuroo strinse i denti in una smorfia contrariata, al contrario di Tendou, che increspò le labbra in un sorriso divertito.
Moniwa deglutì, incapace di capire se quel ragazzo stesse dicendo la verità. Aone, al contrario, sembrava più tranquillo: non avrebbe abbassato la guardia per nulla al mondo, ma non voleva neppure saltare a conclusioni affrettate come aveva fatto Kuroo. Se il dotato di cromosoma Z dai poteri psichici avesse lasciato la mente di Shimizu, forse sarebbero riusciti a parlare con lei e a fidarsi, ma per ora anche a lui pareva più saggio continuare a tenerla sotto controllo; discuterne con Tendou, invece, gli pareva inutile e anche piuttosto azzardato.
«Attualmente siamo alla ricerca di alleati, e se è possibile vorremmo evitare di uccidere i nostri simili.»
Moniwa annuì appena, ma restò in silenzio.
«Non avete desideri che vi spingano a uccidere?» chiese Bokuto, dopo aver esitato per qualche istante.
«No, così come i vostri protetti, a quanto pare» Eita rispose, per poi mordersi il labbro inferiore. «Finché sono qui voglio soltanto aiutare le persone, e lo voglio fare con il potere che mi è stato concesso.»
«Anche io» Sugawara lo sostenne senza alcuna esitazione.
Kuroo rivolse un'occhiataccia a Tendou, ancora steso a terra, le labbra increspate in un mezzo sorriso.
«Per placarti è bastato davvero che il tuo protetto ti dicesse questo, Tendou?» chiese Kuroo, scettico e allo stesso tempo vagamente divertito.
Tendou ampliò leggermente il sorriso, per poi chiudere gli occhi.
«Placare la mia forza? No...» si mise a sedere, gli occhi fissi sulle gambe malamente piegate e le labbra strette in una smorfia di dolore «diciamo solo che come ogni shinigami ho deciso di rispettare il volere del mio protetto, anche se all'inizio è stato abbastanza difficile e avrei preferito me ne avessero assegnato un altro.»
«Gentile» Eita sbottò, intento a insultare il proprio shinigami, ma proprio in quel momento vide Shimizu scuotersi appena, e gli artigli d'ombra che fino a quel momento avevano protetto il ragazzo dotato di poteri psichici liquefarsi.
Shimizu era tornata in sé, e nonostante l'assenza prolungata sembrava sapere esattamente cosa si fossero detti. Guardò Eita e poi Sugawara, coprendosi la bocca con le mani.
«Non preoccuparti, Shimizu-san» Sugawara le sorrise, per poi posare le mani sulle proprie ginocchia. «Non è colpa tua, e anche da parte loro, questa è stata una mossa più che comprensibile.»
Sugawara piegò leggermente le gambe, per poi distenderle nuovamente, così da assicurarsi di ritrovare la sensibilità perduta, dunque si rialzò, aiutato da Shimizu, per poi rivolgersi alle altre coppie con un sorriso affabile a increspargli le labbra.
«Se non vi dispiace, ora provvederò a curare i miei amici.»


❋ ❋ ❋


2 8 _ d i c e m b r e _ 2 0 1 6

S e n d a i __ p r e f e t t u r a _ d i _ M i y a g i



Kageyama aveva trascorso il viaggio a chiedersi se stesse facendo la cosa giusta, se accettare di entrare nella tana del lupo pur di non discutere al telefono e rischiare di essere intercettati avesse anche qualche lato positivo, tuttavia la noiosissima ora passata in treno non era bastata a dissuaderlo dall'idea iniziale: era un suicidio. Inoltre, in quel momento si stavano svolgendo i corsi universitari, che probabilmente non avrebbe avuto più modo di frequentare – il tutto all'insaputa di sua madre.
La signora Kageyama era consapevole dei poteri del figlio – dopotutto la bruciatura che aveva sul viso gliel'aveva causata lui – ma di certo Tobio non le avrebbe parlato di shinigami e quaderni, premesse che ricordavano in modo assurdamente ridicolo un'opera di fantasia piuttosto famosa.
Quando il treno giunse alla stazione di Sendai gli mancò il respiro, e quella fastidiosa sensazione di soffocamento lo costrinse a fermarsi proprio davanti alla porta di uscita, per permettergli di prendere una boccata d'aria. Seguì Hinata – già sceso – con lo sguardo, finché non venne spintonato fuori da una calca di persone innervosite e sbuffanti.
Quando riuscì finalmente a individuare uno spiraglio nel muro umano formato dalla folla – e a sfruttarlo per uscirne –, trovò Hinata fermo ad aspettarlo, come se questo avesse saputo che sarebbe spuntato proprio in quel punto.
«Stai bene, Kageyama?»
Tobio lo guardò senza parlare, le labbra serrate con forza e contratte in una piccola smorfia: come poteva andare tutto bene? Stava per incontrare Oikawa, e che questo gli avesse telefonato per chiedergli di allearsi lo aveva reso felice, sì, ma pensandoci bene avrebbe potuto trattarsi di una trappola, visto che prima di quella chiamata gli aveva detto che lo avrebbe ucciso.
«Anche io sono un po' agitato,» Hinata protese le labbra in una smorfia, piegandosi in avanti e tenendosi la pancia con le braccia «infatti credo di dover vomitare da quando siamo partiti!»
«O-ohi!»
Al contrario di quanto previsto, però, Hinata sorrise.
«Ma a Iwaizumi-san non piacciono i sotterfugi, perciò sono sicuro che andrà tutto bene.»
«Oikawa-san, però, sembra proprio una di quelle persone a cui i sotterfugi piacciono» Kageyama borbottò, serrando le dita di entrambe le mani.
«Mhhn...» Shouyou batté l'indice sulle proprie labbra, pensieroso, per poi sorridere nuovamente «beh, non credo che Iwaizumi-san si sia lasciato convincere.»
«Forse...» Kageyama diede un'occhiata oltre la folla, sussultando non appena lo vide «ma allora perché...»
Esitò, indicando Oikawa con il dito.
«Perché è da solo?»
Hinata rivolse una rapida occhiata a Oikawa, che – appoggiato a una colonna con le braccia conserte – pareva non averli ancora visti.
Era vero che Iwaizumi non era lì con lui, ma probabilmente si trovava nei paraggi e in ogni caso lui e Kageyama avrebbero evitato di farsi condurre in qualche posto poco frequentato da Oikawa. Deglutì con forza, le mani ferme su entrambi i fianchi, dunque saltellò tra la folla, subito seguito dai passi ingessati di un Kageyama in preda al panico.
Appena li vide, Tooru si scostò dalla colonna e rivolse loro un cenno con la mano.
«Yo‒!» Oikawa forzò un sorriso cordiale che in qualche modo tranquillizzò Kageyama, in quanto fu da subito evidente che anche il più grande non era esattamente a suo agio.
«Seguitemi, cercando però di stare attenti al lupo» Oikawa se li lasciò alle spalle con un lascivo gesto della mano, le labbra increspate in un sorrisetto divertito e decisamente meno forzato di quello di benvenuto.
Inizialmente, Kageyama non capì: a chi si stava riferendo? Non era proprio Oikawa il lupo?
«Non sei tu, il lupo, Oikawa-san?» alla domanda di Hinata, che per altro, a giudicare dall'espressione, sembrava essere stata dettata da pura e innocente curiosità, sia Kageyama che Oikawa sussultarono.
«Hinata!» Kageyama lo rimproverò, ma il suo shinigami ricambiò con un'espressione confusa: avevano pensato la stessa cosa, ma per lo meno lui aveva avuto la decenza di restare zitto – era ovvio che Oikawa non avrebbe gradito.
In effetti, Tooru, poco più avanti degli altri due, tremolò, le labbra strette in una smorfia sghemba e un fastidioso formicolio sulle tempie.
«Veramente stavo parlando dello stronzo che vuole trasformarmi in ghiacciolo,» mostrò i denti in un sorriso nervoso, per poi assottigliare leggermente lo sguardo e indicare Hinata con un movimento sprezzante della mano «e comunque, Gamberetto, vedi di usare il mio pseudonimo! Vale anche per te, kouhai dei miei stivali.»
Kageyama e Hinata si misero sull'attenti, annuendo quasi all'unisono.
«E quale sarebbe il tuo pseudonimo?» domandò Shouyou, incuriosito.
«Anglerfish.»
«Woah!» Hinata gli rivolse uno sguardo ammirato, per poi indirizzare un'occhiataccia a Kageyama, trattenendo una risata.
«Che vuoi?» Kageyama lo incenerì con lo sguardo.
«Jack-O'-Lantern...» sussurrò Hinata, trattenendo ancora la risata.
Oikawa si voltò, le labbra dischiuse in un'espressione confusa e vagamente divertita.
«Jack-O'-Lantern?» Oikawa lo indicò, gonfiando le guance per trattenere una risata «Jack-O'-Lantern!»
«Oik‏‒»
Oikawa, tornato serio all'improvviso, premette l'indice sulle labbra di Kageyama, zittendolo con un'occhiataccia. Dopo qualche istante, allontanò il dito dalle labbra dell'altro, ora pietrificato, le spalle alte e rigide: doveva abituarsi al più presto a utilizzare lo pseudonimo, anche se chiamarlo “Anglerfish” in pubblico avrebbe attirato ugualmente l'attenzione – se non di più.
«Andiamo,» il più grande voltò loro le spalle, il tono di voce serio e fermo «Iwa-chan ci sta aspettando.»


❋ ❋ ❋


Sendai pareva ergersi mollemente al di sotto del cielo plumbeo del mattino, sfiorata solo in alcuni tratti da un sole pallido e lontano. Al contrario di ciò che poteva ispirare il paesaggio triste e monotono, la città non era desolata, anzi era perfino difficile riuscire a tracciare il proprio percorso lungo i marciapiedi, colmi di uomini e donne in carriera, giovani studenti e genitori che accompagnavano i figli a scuola.
Avrebbe voluto far nevicare. Se avesse fatto nevicare, molto probabilmente la folla si sarebbe dimezzata.
Tutta quella gente, inoltre, significava non poter uccidere e derubare nessuno, e perciò rimanere con neppure tremila yen in tasca. A quel pensiero schioccò la lingua contro il palato, in segno di disappunto, attirando per qualche istante l'attenzione del proprio shinigami.
Kyoutani lo guardò per pochi secondi, per poi tornare a osservare senza troppo interesse, anzi quasi per inerzia, il continuo susseguirsi di vetrine di negozi di abbigliamento, librerie, ristoranti e fast food.
Da qualche giorno sembravano essere entrati in una fase di stallo, cosa che normalmente lo avrebbe infastidito, tuttavia, considerando il temperamento sanguinario e privo di scrupoli del proprio protetto, forse era meglio così. Kentarou non si era mai considerato buono, né tanto meno tranquillo, anzi era sempre stato piuttosto impulsivo e scontroso, tuttavia la sua moralità non si poteva ritenere completamente assente; ne aveva quel tanto che bastava per impedirgli, innanzitutto, di uccidere e derubare persone innocenti.
Yahaba, che camminava pochi passi davanti a lui, si fermò all'improvviso. Kyoutani gli rivolse un'occhiata veloce, con l'intenzione di capire dove stesse guardando e cosa lo avesse infastidito, ma trovandolo con i denti leggermente scoperti e serrati con forza, le braccia tese e i pugni chiusi, lo fissò per un tempo maggiore di quello inizialmente previsto.
Era come se un'ombra fosse calata sugli occhi del suo protetto, una furia cieca lo aveva investito in pieno e adesso il suo sangue stava ribollendo con violenza. Per un istante, Kyoutani pensò che la temperatura corporea di Yahaba sarebbe potuta arrivare a un valore così alto da farlo scoppiare; era come se qualcuno, per gioco, avesse appena picchiettato la superficie di una bomba inesplosa e dopo aver sentito un rumore all'interno dell'ordigno si fosse inciampato e non potesse più rialzarsi.
Yahaba inspirò con forza, divorando l'aria con un leggero tremore delle narici; arricciò ulteriormente le labbra e strinse maggiormente i pugni, finché le nocche non persero colore e divennero improvvisamente gelide.
Kyoutani riuscì a rivolgere il proprio sguardo altrove solo per qualche istante, un lasso di tempo ragionevole visto che individuò quasi immediatamente la causa del turbamento di Yahaba: Hinata, con i capelli arancioni, fu il primo ad attirare la sua attenzione, e subito dopo vennero Oikawa e Kageyama. Kageyama, la persona che probabilmente Yahaba avrebbe voluto uccidere anche prima di Oikawa.
Camminavano tutti e tre vicini e Hinata stava parlando con Oikawa. Si erano alleati? Kyoutani spalancò gli occhi, per poi rivolgerli nuovamente al protetto.
Yahaba stava guardando ancora Oikawa e Kageyama, gli occhi fissi, del tutto immobili. Non batteva neppure le palpebre.
Uno spesso strato di ghiaccio aveva appena ricoperto i suoi pugni chiusi, e ora si arrampicava rapidamente lungo le braccia tese: la bomba era stata innescata e Kentarou ebbe l'impressione che il conto alla rovescia sarebbe terminato una volta che il ghiaccio avrebbe raggiunto le spalle.
Yahaba era furioso e nella sua collera riusciva a vedere soltanto Oikawa e soprattutto Kageyama: voleva ucciderli, infilzarli nel ghiaccio e utilizzarlo come picca per le loro teste. Avrebbe colpito l'intera città, se fosse stato necessario – dopotutto c'erano solo loro tre.
Kyoutani serrò i denti in una smorfia, per poi afferrare la spalla di Yahaba e stringerla con forza, facendolo sussultare leggermente.
«Che cazzo stai facendo?» Kyoutani sussurrò fra i denti, per poi serrarli nuovamente quando il ghiaccio ricoprì anche la sua mano, incollandola del tutto alla spalla dell'altro.
«Se li colpissi alle spalle... voglio che Oikawa sparisca per sempre, e Kageyama...» Yahaba spalancò gli occhi e mostrò i denti in un ringhio, la voce alterata dalla rabbia, come quella di un bambino capriccioso «Kageyama...»
Kyoutani si soffermò per un istante sul cospicuo numero di persone in transito fra loro e gli altri tre – una bambina che con la cartella in spalla teneva la mano aggrappata a quella di sua madre, strattonandola leggermente nel vederla da troppo tempo ferma di fronte a una vetrina oltre la quale erano esposti alcuni vestiti da sera; due studenti e una studentessa che camminavano vicini, ridendo fra loro; un uomo d'affari che parlava concitatamente al cellulare e tanti altri. Avrebbe ucciso tutta quella gente e poi sarebbe stato quasi sicuramente eliminato dalla polizia.
Senza sapere come, Kyoutani riuscì a muovere le dita della mano nonostante fosse completamente immersa nel ghiaccio, e questa volta strinse la spalla di Yahaba con così tanta forza da riuscire a strapparlo dallo stato di odio e di torpore in cui si era confinato.
«Non è il momento, Yahaba,» il ghiaccio sulle braccia di Shigeru iniziò a diradarsi, con grande sollievo dell'altro, che subito si ritrovò a piegare e distendere le dita per riacquistare la sensibilità «andiamocene.»


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S h i n j u k u __ p r e f e t t u r a _ d i _ T o k y o



Chidori stava pranzando nel suo piccolo appartamento; masticava lentamente, come annoiata, una foglia di zenzero, le bacchette strette fra le dita della mano destra e lo sguardo fisso sull'orologio da parete: sarebbe rientrata alla centrale alle quindici, perciò mancavano ancora due ore. Chiuse gli occhi ed emise un piccolo sospiro: le piaceva stare a casa da sola, trascorrere il tempo intrattenendosi con qualche gioco di grattacapi online, vedere un documentario sulla fauna di qualche paese esotico sorseggiando una tazza di tè o anche più semplicemente cucinarsi il pranzo, meditando in silenzio, ma quando sapeva di dover rientrare alla centrale non riusciva mai a rilassarsi completamente; era impaziente di riprendere un lavoro che magari aveva lasciato a metà, e non perché amasse particolarmente il suo mestiere, ma perché era estremamente curiosa e pretendeva di trovare una spiegazione esaustiva per qualsiasi caso le venisse assegnato.
Quando il cellulare squillò, smise di masticare e guardò nuovamente l'ora, come se prima non avesse effettivamente realizzato che erano le tredici. Le tredici.
Abbassò lo sguardo sul piatto vuoto: sua madre la chiamava spesso a quell'ora e anche per quel giorno non aveva fatto alcuna eccezione.
Kazue afferrò il cellulare e fece per portarselo subito all'orecchio, tuttavia sobbalzò non appena notò che il mittente era sconosciuto.
Strinse il cellulare fra le dita, deglutendo e poi inspirando con forza dalle narici.
«Pronto?» mantenne un tono di voce fermo, pur avendo il battito cardiaco piuttosto accelerato.
«Chidori?»
Spalancò gli occhi e trattenne il respiro.
«Kazue Chidori?» ma l'entusiasmo scemò non appena sentì pronunciare il suo nome per intero: non era Shirabu.
Chidori esitò per qualche istante: con chi stava parlando? E come faceva, questa persona, a sapere il suo nome?
«Chi sei?» non le interessava rispondere a una domanda sollevando un ulteriore quesito, ma da quel momento in avanti aveva deciso che sarebbe stata lei a interrogare il suo interlocutore.
«Mi chiamo Goshiki Tsutomu.»
Chidori rimase sorpresa con la leggerezza con cui l'altro le confessò il suo nome, tuttavia mantenne la propria compostezza.
Prima ancora che potesse fare un'altra domanda, l'altro riprese a parlare.
«Sono amico di Shirabu.»
Kazue si sentì scuotere, schiuse le labbra dalla sorpresa, ritrovandosi a boccheggiare. La sua reazione la fece sentire così stupida che le guance le si imporporarono, cominciando a scottare.
Aspettava quella chiamata da giorni, era divenuta di prioritaria importanza, e ora riusciva a malapena a parlare. Si era convinta che non avrebbe più sentito il nome di Shirabu, ma ora qualcuno le aveva telefonato dicendo di essere un suo amico.
Chidori avrebbe voluto parlare liberamente, tuttavia affondò i denti nel labbro inferiore proprio per stroncare sul nascere tale desiderio, in quanto non aveva idea di cosa sapesse l'altro su Shirabu.
«Shirabu non sembrerebbe intenzionato a chiamarti.»
Chidori affondò ulteriormente i denti nel labbro: dunque le aveva telefonato solo per dirle che Shirabu non l'avrebbe chiamata? Da quando aveva bisogno di farsi difendere? Avrebbe localizzato la chiamata.
«Ma in realtà credo voglia farlo, per cui ci ho pensato io, anche se a sua insaputa.»
Kazue restò nuovamente sorpresa, perciò esitò qualche secondo prima di riprendere la conversazione. «Goshiki, giusto? Tu che cosa sai, di Shirabu?»
Seguì qualche istante di silenzio durante il quale Chidori rafforzò la stretta delle dita attorno al cellulare.
«Quello che sai anche tu.»
Chidori chiuse gli occhi e chinò il viso, inspirando con forza dalle narici. Risollevò le palpebre pochi istanti dopo, l'espressione decisa e imperturbabile.
«Allora di' a Shirabu che ho urgentemente bisogno del suo aiuto.»


❋ ❋ ❋


Appena Chidori posò i bicchieri di plastica sulla scrivania, Ouhira le rivolse un'occhiata confusa. Afferrò quello più vicino, socchiudendo gli occhi e stendendo le labbra in un'espressione rilassata non appena il profumo di cioccolata calda ammantò l'aria.
«A cosa devo tutto ciò? Te l'ho già detto, Chidori-san,» fece una pausa, osservando il riflesso fumoso delle lampade sulla superficie scura della bevanda «non ti darò le informazioni che cerchi.»
Chidori scosse la testa, per poi accennare un sorriso.
«Ho soltanto pensato di venire a trovarti e portarti qualcosa di caldo. Fuori fa molto freddo.»
Se non fosse stata una persona seria ed estremamente tranquilla, Reon avrebbe riso – una nota divertita, in effetti, fu chiaramente percettibile nella sua voce, quando rispose.
«Grazie, ma è come se io vivessi qui, ormai. Sono quasi quarantotto ore che non metto piede fuori dal laboratorio, perciò se stessero piovendo asteroidi non me ne accorgerei.»
Chidori serrò le labbra per qualche istante, per poi piegarle in un sorriso di circostanza, facendo ondeggiare leggermente il proprio bicchiere così da disperdere l'aroma della sua bevanda.
«Caffè?»
«Sì, la cioccolata dei nostri distributori è troppo dolce per me, e poi ho bisogno di caffeina, visto che mancano solo venti minuti all'inizio del mio turno» diede una piccola sorsata al caffè, osservando Ouhira fare lo stesso con la cioccolata calda.
«Pattuglia o ufficio?»
«Pattuglia.»
«Con chi?» Reon adagiò il bicchiere accanto al tappetino del mouse, così da poter digitare una breve risposta a una e-mail appena giunta – probabilmente contenente i ringraziamenti di qualche cittadino.
«Nishinoya e Tanaka» Chidori, invece, restò immobile, emettendo un sospiro rassegnato, il bicchiere di plastica vuoto e ancora leggermente tiepido fra le mani.
«Due belle gatte da pelare» Reon accennò una risata, per poi tornare a sorseggiare la sua cioccolata.
Restarono in silenzio per un po', finché entrambi non ebbero finito di bere. Ouhira posò il bicchiere vuoto sulla scrivania, mentre Chidori gettò il suo, ormai freddo, nel cestino della carta.
Diede un'occhiata all'orologio da polso e sbirciò l'altro, ora fermo, le palpebre che si abbassavano e si rialzavano continuamente, come quelle di un bambino stanco.
«Bene,» Kazue si alzò, dando una pacca sulla spalla del collega, in modo che questo si scuotesse momentaneamente dal torpore che lo aveva assalito «allora vado. Buon lavoro, Ouhira-san.»
«O-oh...» Reon sbatté le palpebre un paio di volte, confuso «buon lavoro, ciao» poi biascicò e serrò nuovamente gli occhi.
Chidori, nel frattempo, si diresse lentamente verso la porta, la aprì e attese che Reon crollasse sulla scrivania, dunque, sapendo di trovarsi in uno dei pochi punti irraggiungibili per le telecamere, inviò l'SMS che aveva preparato già da qualche minuto, ancora prima di entrare nel laboratorio.
Le luci si spensero pochi istanti più tardi: un black out aveva appena investito la centrale nella sua interezza. Chidori accese subito la torcia, quindi si diresse alla scrivania e si impossessò del bicchiere di plastica appena svuotato dal collega per sostituirlo con quello che aveva tenuto in tasca fino a quel momento, in verticale e avvolto da uno sottile strato di carta assorbente. Infilò il bicchiere di Reon nella tasca, dunque afferrò l'altro e dopo averne accostato il bordo alle labbra del ragazzo e aver fatto in modo che le dita di questo ne sfiorassero la superficie, lo sistemò nella stessa posizione del precedente: erano identici, entrambi di plastica, con residui di cioccolata all'interno e le impronte digitali e la saliva di Ouhira all'esterno, con la sola differenza che, qualora avessero richiesto un'analisi, nessuna traccia di sonnifero sarebbe stata rinvenuta all'interno del sostituto.
Dopodiché indossò i guanti di plastica che aveva sistemato nell'altra tasca della giacca, per poi frugare in quelle del collega, lasciando la stanza soltanto quando ebbe trovato le chiavi dell'archivio.
Kazue si ritrovò nel corridoio buio, il mazzo di chiavi appena sottratto alle tasche di Ouhira stretto fra le dita della mano sinistra, la torcia – a illuminare il cammino a pochi centimetri dal suo naso – sorretta dalla destra.
Deglutì, rafforzando la stretta delle dita attorno al metallo ormai caldo delle chiavi.
Percorse il corridoio in fretta, senza preoccuparsi dei passi pesanti e della luce bluastra della torcia: le telecamere erano fuori uso e nessun altro sarebbe venuto laggiù – probabilmente un paio dei suoi colleghi si stavano incamminando verso il generatore, mentre gli altri si destreggiavano con le luci di emergenza.
Dopo pochi secondi, Kazue intravide l'angolo della grossa porta dell'archivio, dunque si fermò, trattenendo il respiro per qualche istante.
Senza alcuna esitazione, tentò di infilare ogni singola chiave nella serratura, fino a che non riuscì a trovare quella giusta.
Doveva ammetterlo: se avesse avuto più tempo a disposizione, si sarebbe fermata per osservare con più attenzione l'ambiente circostante – per quanto il buio lo permettesse – e ovviamente anche per riprendere fiato; sfortunatamente per lei, doveva sbrigarsi, perché dopotutto non sapeva entro quanto tempo i suoi colleghi sarebbero riusciti a ripristinare il flusso elettrico.
Una volta entrata, Chidori si avvicinò alla lunga e alta serie di cassetti, si chinò e con l'ausilio della torcia cominciò a leggere tutte le targhette, finché non individuò la scritta “Exterminator”. Fortunatamente, trattandosi di documenti importanti, sembravano trovarsi tutti nello stesso cassetto, ma quando Chidori vide che l'ultimo plico inserito risaliva al penultimo aggiornamento affondò i denti nel labbro inferiore, gli occhi leggermente assottigliati e la fronte aggrottata, infastidita da quella apparente e immediata sconfitta.
Era certa avessero già archiviato il plico riguardante l'ultimo aggiornamento, dunque perché non si trovava lì? Che vi fosse un altro cassetto? Subito puntò la torcia sugli altri tiretti, ma l'eco di un presentimento provocò un lieve tremolio lungo la sua mano, che subito si abbassò.
Tornò a illuminare l'interno del cassetto dedicato all'Exterminator, quindi prese ogni singolo plico e lo posò ai suoi piedi, infine fece aderire i palmi delle mani al fondo, applicando una leggera pressione, e quando questo si abbassò riuscì a infilare le dita in una fessura: era a doppio fondo.
Spingendo con le dita, fece scivolare il fondo in avanti, scoprendo un plico che si trovava proprio al di sotto di esso. Conteneva la documentazione più recente, quella riguardante l'ultimo aggiornamento.
Trattenendo il respiro, la torcia sorretta dalla mano sinistra, Chidori aprì il plico e cominciò a sfogliarlo, soffermandosi quasi immediatamente sulla terza pagina, dove era presente una foto dello strano anello bianco che aveva visto fra la molla e il percussore dell'arma.
Quando arrivò a metà del paragrafo, fu investita da un conato di vomito e rimase completamente al buio, in quanto il dito, colto da un fremito, era scivolato via dal tasto di accensione della torcia.
Chiuse gli occhi, deglutendo più volte e con fatica, per poi riaccendere la torcia e ricominciare a leggere, la mano destra a chiudere la bocca con una forza soffocante.
«Oh mio Dio... oh mio Dio» la nausea era scomparsa, sovrastata dalla paura: adesso voleva soltanto uscire da quel posto maledetto e far sapere a tutti la verità sull'Exterminator.




L'angolino della piantina autoritaria
(You should read this):

Il mio ritardo è a dir poco vergognoso, lo so e mi dispiace davvero tanto.
Come avrete notato, questo capitolo è molto più lungo dei precedenti (praticamente il doppio delle pagine), motivo che mi ha rallentato ulteriormente nella stesura e soprattutto nella revisione (parlo di “motivo ulteriore” perché al primo posto c'è il lavoro, seguito dalla pratica di patente).
A questo proposito ci tengo a riportare anche qui quello che ho scritto qualche giorno fa sulla mia pagina Facebook: ho deciso che da ora in poi Wonderwall non sarà più pubblicata alla fine di ogni mese. Cercherò di pubblicare un capitolo ogni 30/40 giorni, così da allungare leggermente i tempi senza però farvi aspettare un'eternità.
Spero che la mia decisione non vi rattristi, né alteri la fruizione del prodotto (perché lo so benissimo che ai più dà molto fastidio se i tempi di aggiornamento sono lunghi, ma cercate di capire: ogni capitolo è pari o superiore alle dieci pagine, non sono capitoli di una pagina come la maggior parte delle fanfiction presenti sul sito).
Come avevo promesso, questo capitolo è stato molto più movimentato del solito e ha racchiuso tanti eventi necessari; avevo pensato di spezzarlo a metà, ma penso che tale decisione avrebbe diminuito la tensione che potreste aver percepito una volta arrivati in fondo.
Piccoli appunti sui due pseudonimi apparsi in questo capitolo: Typhone è la combinazione delle parole “typhoon” e “cyclone”, così che si possa leggere “taifon”, Psyche si legge semplicemente “psiche”.
Grazie a chiunque abbia aspettato pazientemente il capitolo. Spero vi sia piaciuto e spero di non farvi aspettare troppo per il prossimo!

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