I got demons inside my head

di serClizia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Wave ***
Capitolo 2: *** Like the heart goes ***
Capitolo 3: *** Without you, I'm nothing ***
Capitolo 4: *** Gamma Ray ***
Capitolo 5: *** Lucky ***
Capitolo 6: *** Devil's Backbone ***
Capitolo 7: *** Something to Say ***
Capitolo 8: *** Hey Darlin ***
Capitolo 9: *** Somewhere I Belong ***
Capitolo 10: *** Honey Bee ***
Capitolo 11: *** Mamma's Jam ***
Capitolo 12: *** Like a Stone ***
Capitolo 13: *** Cool if I come over ***



Capitolo 1
*** Wave ***


  1.
 
 If you think that I can save you
Then I’m throwing you the rope
  But I’m up against the wave




Tre mesi nell’istituto psichiatrico e nessun miglioramento nella terapia, o almeno così diceva la dottoressa.
“Probabilmente perché non parli. Tipo, mai,” gli disse Dean.
Dean era l’unico amico che era riuscito a farsi là dentro, se di amico si poteva parlare, perché Castiel non parlava. Con nessuno. Si sedeva sulla solita sedia ogni giorno e guardava fuori dalla finestra, verso gli alberi, verso un altro mondo in cui non aveva visto niente, dove non era mai stato in guerra, né aveva mai ucciso nessuno.
Già dal suo primo giorno nell’istituto, Dean aveva cominciato a sedersi sulla sedia di fronte, dall’altra parte del piccolo tavolino di legno sotto la finestra. Si sedeva e parlava, da solo. Piccole cose all’inizio, aneddoti di poca importanza. Poi poco a poco gli aveva raccontato della sua vita, di suo padre, di suo fratello. Gli aveva raccontato dei suoi demoni. La cosa gli aveva regalato un’occhiata sbieca da parte di Castiel, perché Dean aveva affermato testuali parole: “Ho dei demoni nella testa.”
All’inizio Cas lo aveva trovato irritante. Questo sconosciuto disturbava la sua pace, la sua penitenza. Si era abituato gradualmente, aveva ascoltato la voce roca e tranquilla del suo unico interlocutore, e aveva accolto le sue parole, lasciando che sanguinasse la sua vita tormentata su di lui. Storie di abusi, di guerra, ma non come la sua, più domestica, più vicina al cuore.
Dopo il primo mese e mezzo aveva cominciato ad ascoltarlo guardandolo negli occhi, al terzo mese era arrivato a buttare ogni tanto una domanda qua e là. Tipo quella che stava per fargli adesso, che tra l’altro gli permetteva di cambiare discorso rispetto alle parole che avevano sentito dire dalla dottoressa:
“Oggi viene Sam?”
Dean appoggiò i gomiti sul tavolo con fare soddisfatto, incrociando le mani. “Sì, viene. Manca anche a te, eh?”
Cas non rispose. Non poteva dire che le visite di Sam gli mancassero, semplicemente le trovava interessanti. Dean si comportava in modo diverso, con il fratello.
Dalle storie che gli aveva sentito raccontare, il padre li aveva cresciuti convincendoli che i demoni avessero ucciso la madre, con l'aiuto di botte e strategia militare per lottare contro questi demoni, per ottenere vendetta. Dean aveva fatto il possibile per fare da scudo al fratello, finché non aveva avuto un esaurimento nervoso ed era finito là dentro, qualche mese prima di Castiel. Era riuscito a salvare Sam, che andava all’università ed era una persona funzionale, ma non era riuscito a salvare se stesso. E oltre a colpevolizzarsi per la morte della madre, era paralizzato dalla paura di essere posseduto totalmente dai demoni nella sua testa.
O almeno, questo era quello che Castiel pensava di aver capito, tra minuscoli sorrisi e nervoso strofinamento di mani da parte di Dean.
Tornò a fissare fuori dalla finestra, incapace come sempre di mettere parole a quello che pensava.

Quando Sam arrivò, li guardò abbracciarsi e dirigersi ad un tavolino poco distante dal suo, al centro della saletta. Si sedervano sempre uno di fianco all’altro, con Sam sicuramente scomodo in quelle sedie striminzite per via della sua stazza, pur di essere più vicini possibile.
Chiacchierarono fitto per tutta l’ora di visita, prima di alzarsi ed abbracciarsi di nuovo, e Sam andò via sventolando una mano nella sua direzione. Cas non si mosse.
Dean tornò a sederglisi di fronte, e Cas ancora non mosse un muscolo, seguendolo semplicemente con lo sguardo. Gli piaceva guardare Dean negli occhi, il verde delle sue iridi aveva un che di calmante. Gli ricordava la natura, ma non in modo brutto e pericoloso. Era più la sensazione di un prato al sole d’estate.
“Gli ho parlato di te, sai. Per questo ti saluta quando se ne va. In caso te lo stessi chiedendo.”
Cas non se lo stava chiedendo.
Dean strinse un po’ le labbra, con l’aria di chi si sta preparando a dire qualcosa di spiacevole. Cas non poteva immaginare cosa potesse essere, nella loro situazione e dopo tutte le cose che Dean gli aveva detto, demoni e tutto quanto.
“La prossima volta forse potresti venire anche tu al tavolino con noi.”
Castiel aggrottò la fronte, sorpreso. Perché, era l’unica domanda che gli veniva in mente. L’unica parola che il suo cervello gli faceva lampeggiare nella testa.
“Perché?”
“Per fare conoscenza.”
“Perché?”
Dean strinse di nuovo le mani davanti a sé. “Perché non posso essere l’unico con cui parli, amico. Progressi, terapia, ricordi?”
Castiel ricordava molto bene le parole della sua terapista. La memoria non era mai stata un problema per lui, anzi, era più che altro una maledizione. Ma non capiva come Dean potesse pensare che, dopo averci messo mesi a riuscire a imbastire due minuti al giorno di conversazione con lui, Castiel potesse mettersi a chiacchierare con suo fratello Sam, con uno sconosciuto.
“Ehi, non farmi quello sguardo, Cas. Sto cercando di aiutare.”
“Non capisco.”
“Non capisci cosa?”
“Perché… Sam?”
Dean si accomodò meglio contro lo schienale della sedia. “Perché lo capisco, ok? Non è la prospettiva migliore parlare con Crazy Sue, laggiù”, indicò Susan, intenta a dondolarsi sulla sedia e bofonchiare a sé stessa sempre la stessa canzone da che Castiel era stato ricoverato, “o con… tutti quelli rinchiusi qua dentro,” fece un gesto che comprendeva tutti gli altri insieme a loro nella sala, alcuni seduti ai loro tavolinetti o sdraiati a terra, altri accompagnati da un infermiere 24 ore su 24, altri che farneticavano peggio di Susan. “Questi sono dei pazzi veri, amico. Perché pensi che sia venuto a sedermi qui con te? Eri l’unico con cui potessi parlare.”
Cas spostò di nuovo lo sguardo su di Dean. Il fatto di essere ritenuto il meno pazzo tra i pazzi non lo rendeva certo di umore migliore, e Dean dovette intuirlo perché gli si spense il mezzo sorriso arrogante dalle labbra.
“Ok, non vuoi parlare con me, lo capisco. Nemmeno io parlerei con me. Ma Sam… Sam è un toccasana. Gli piace parlare di sentimenti e quella roba lì. All’inizio... anch'io lo volevo prendere a schiaffi ogni volta che proponeva una chiacchierata, ma ora? Ora è uno dei momenti preferiti della settimana,” sorrise lievemente. “Essere ricoverati ti cambia tutto, cavolo.”
Castiel sentì un infinito senso di impotenza risalirgli nel petto. Era paralizzato all’idea di parlare con qualcuno, con un estraneo, con Sam-il-fratello-di-Dean, si sentiva indegno, sporco, un mostro che si avvicina ad una luce che non gli appartiene, che non si merita, e cercare di spiegarlo a Dean avrebbe richiesto tante parole che non aveva, che gli annodavano la lingua, le interiora, il cervello. Quindi rimase semplicemente immobile ed in silenzio, mentre dentro un esplosione gli faceva trasformare gli organi in pietra per poi distruggerli e ricominciare da capo.
“Devi lasciar uscire i tuoi demoni, amico.”
“Io non… posso, Dean.”
Castiel si ritirò verso la sua finestra, verso il mondo esteriore, e chiuse fuori tutto fino al momento di andare a dormire.

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Capitolo 2
*** Like the heart goes ***


                                                                                                                              2.
 
Just because I'm sad don't mean that I'm unhappy,
  because I'm a sinner don't mean I'm not a saint
     So I stay under covers, longing for another


Dean strinse le mani a pugno, frustrato. Castiel lo aveva chiuso fuori.
Lo aveva fatto altre volte, non aveva bisogno di parlare per sapere che Cas non gli avrebbe risposto. Aveva imparato a riconoscere i segnali nei minuscoli movimenti facciali, nell’espressione degli occhi, anche se non erano rivolti a lui ma al mondo oltre la finestra. Dean immaginava che Cas si sentisse più al sicuro quando spegneva quella specie di interruttore con le sue emozioni, con i suoi sensi, con l’umanità intera. Questo non voleva dire che non lo facesse incazzare da morire.
Voleva che Cas smettesse di scappare. Che buttasse fuori quello che aveva da buttare e cominciasse il suo percorso di guarigione. Perché sì, Dean non credeva molto nella terapia – “Dei pagliacci in camice bianco, ecco cosa sono i dottori, Sam” - ma credeva nella famiglia, nel parlare cuore a cuore con quelli che ti amano. Gli ci era voluto un sacco di tempo per arrivare a concedersi di fare una cosa del genere, e qualcosa lo spingeva a volerlo mostrare a Cas. Se solo si fosse deciso a disobbedire al suo istinto primitivo di rinchiudersi in se stesso…
Si alzò dalla sedia, tanto Castiel non gli avrebbe più prestato attenzione per il resto della giornata.
Posò le mani sullo schienale, e tentennò, fissando Cas con fare risoluto. “Un giorno riuscirò a fare breccia in quella testaccia, puoi starne certo.”
Si allontanò dalla sala, nel corridoio, verso la sua stanza e il suo letto. Quando lo raggiunse, si sdraiò a pancia in su, contemplando il soffitto bianchissimo – come tutto lì dentro era bianchissimo, con qualche eccezione di azzurro qua e là.
Ripensò al giorno in cui Cas era stato ricoverato. Dean era entrato nella saletta comune e aveva trovato quel ragazzo impettito intento a fissare fuori dalla finestra. Gli aveva immediatamente ricordato suo padre, John. Forse era la postura militare, il modo di tenere le mani sulle cosce, le spalle dritte, forse la durezza dello sguardo. Comunque sia, aveva percepito subito il passato militare, l’ombra del disturbo post-traumatico da stress. Lo stesso che aveva portato via la sanità mentale di suo padre. Era per questo che si era seduto davanti a lui, quello stesso giorno.
Era per questo che aveva deciso che lo avrebbe tirato fuori da quel buio, perché aveva già visto una persona caderci dentro e annegare, e non aveva intenzione di vederlo accadere di nuovo senza farci niente.

Al mattino passò l’infermiera a portargli la colazione, ovvero le svariate pillole nel bicchierino da buttare giù con un po’ d’acqua. Dean prendeva tutto religiosamente, anche perché Sam aveva dei colloqui mensili coi dottori e gli avrebbe piantato un casino infinito se non avesse collaborato con loro.
Si presentò in sala senza fretta, aveva tre settimane prima della prossima visita di Sam. Quasi un mese per convincere Cas a parlare con qualcuno che ne valesse la pena. Una pausa così lunga dalle visite di suo fratello lo metteva un po’ a disagio, ma Sam aveva detto di avere delle cose da fare a Stanford e Dean non aveva insistito. Poteva farcela benissimo da solo, pensò annuendo a sé stesso mentre percorreva il corridoio lisciando la parete bianca con il palmo della mano – da solo e con la sua crociata-Cas.
Ma quando arrivò a destinazione, il tavolino sotto la finestra era vuoto. Dean si guardò intorno, aspettandosi di vederlo da qualche altra parte, magari si sarebbe anche andato a congratulare con lui per il cambio improvviso di routine.
Cambiare tavolo è il primo passo verso la guarigione, dopotutto, no?
Ma Cas non era vicino a Crazy Sue, non era nell’angolo a decorare il muro con Frank, non era per terra a sprecare tentativi di giocare a Twister. Non era da nessuna parte.
Dean si andò a sedere al suo posto, fissando la sedia vuota dall’altra parte del tavolino. Forse Cas si era svegliato tardi. Forse era un po’ scombussolato e non aveva dormito bene. Forse si era preso un raffreddore ed era rimasto a letto. Forse. Ma prima o poi sarebbe arrivato ad occupare il suo posto, come tutte le mattine.

Tre giorni dopo, ancora nessun segno di Castiel. Non era ammalato, non era morto, non si era dimesso, ma nessuna infermiera aveva voluto dargli informazioni sulla sua ubicazione. Eppure andare nella sala comune ogni giorno era obbligatorio per tutti i pazienti, era pure scritto nel fottuto regolamento.
Per legare con gli altri, o qualche altra cazzata del genere.
“Perché non è qui, allora?”, chiese di nuovo, irritato, all’infermiera di turno al bancone.
“Perché di no. Verrà quando vorrà venire.”
“E questo che cazzo vorrebbe dire?”
La brunetta gli lanciò uno sguardo indurito. “Vuol dire tornatene in sala comune o chiamo la sicurezza, Winchester.”
Dean alzò le mani in segno di resa, sventolandole il medio nel momento esatto in cui spostava lo sguardo da lui al monitor che aveva di fronte.
Tornò in saletta con fare soddisfatto. Avrebbe scoperto il numero di stanza di Castiel e sarebbe andato a controllare lì. Dean Winchester non era uno che si arrendeva senza combattere.
L’infermiera del turno pomeridiano era una biondina prosperosa, con grandi occhi castani e un debole per i sorrisi melliflui. In una ventina di minuti la convinse a lasciargli il posto al computer ‘per controllare se suo fratello gli aveva mandato delle e-mail per blablabla’, cazzate inventate su due piedi.
Mezz’ora dopo uscì con il numero di stanza di Castiel. Era al terzo piano, uno solo sopra il suo. Doveva solo sperare che non ci fosse nessuno della sicurezza e tutto sarebbe andato bene.
Arrivato al piano, si accorse che era deserto, ed era anche piuttosto prevedibile. Durante il giorno i pazienti erano tutti nella sala comune, non avrebbe avuto senso piantonare i corridoi. Ma Dean non era sicuro che non ci fossero comunque delle ronde, quindi si affrettò verso la stanza 313.
Non si premurò di bussare prima di spalancare la porta.
Castiel era seduto sul letto, le lunghe gambe che penzolavano da un lato, e lo sguardo perso nel vuoto.
Cas registrò la sua presenza non appena entrò nel suo campo visivo, e spostò su Dean uno sguardo insieme vacuo e vagamente sorpreso.
“Ciao, Dean.”
“Sul serio? Mi sparisci per giorni e questa è l’unica cosa che hai da dire?”
La fronte di Cas si increspò nel suo solito cipiglio confuso.
“Ti ho cercato, Cas, ogni giorno!”
“Lo so.”
“Lo sapevi? E non ti interessava?”
Cas appiattì le labbra, non rispose.
“Non potevi mandarmi un bigliettino, un qualcosa, almeno farmi sapere che non eri morto?”
Ancora nessuna risposta, tranne un abbassare lo sguardo con fare contrito.
“E come hai fatto a restare qui, tra l’altro? Pensavo fosse obbligatorio per tutti andare in sala comune. Ti sei preso una specie di vacanza?”
Gli occhi di Cas si piantarono nei suoi con una forza intimidatoria tale che se Dean non fosse Dean-tutto-d’un-pezzo-Winchester sarebbe indietreggiato. “Ho fatto capire ai signori della sicurezza che cercare di convincermi con la forza sarebbe… sconsigliabile.”
“E quindi ti hanno lasciato qui.”
“Sì.”
“Ora capisco perché nessuno volesse dirmi dov’eri. Ci avrebbero fatto la figura dei coglioni.”
Cas deglutì, con uno sguardo negli occhi pieno di compassione che gli faceva friggere le budella. “Dean…”
“No, lo capisco, Cas. Non vuoi parlare con me, va bene. Vuoi giocare all’allegro eremita? Perfetto, non ti chiederò più niente. Né di parlare con Sam, né di parlare con me. Ma devi tornare in quella sala, amico. Non puoi rinchiuderti qui.”
“Dean…”
“Non me ne vado da questa stanza senza di te, fine della storia. Capito?”
Cas fece una breve pausa, annuì impercettibilmente. “Capito.”

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Capitolo 3
*** Without you, I'm nothing ***


 
  3.
 
I… fall
Without you, I’m nothing
Take the plan, spin it sideways
Without you, I'm nothing at all
 
 
Come ad ogni visita, Sam si aspettava di trovare Dean intento a venirgli incontro con un mega sorriso, si aspettava un abbraccio breve ma strettissimo, per poi essere pilotato verso uno dei posti liberi.
Non successe niente di tutto questo.
Dean stava dall’altra parte della stanza, ancora seduto al tavolino con Castiel, e sventolava la mano per invitarlo ad unirsi a loro.
Sam si avvicinò, deciso a non far trapelare la sua titubanza, causata soprattutto dal fatto che questo Castiel continuasse imperterrito a guardare fuori dalla finestra.
Dean calciò la gamba della terza sedia, facendolo accomodare con le spalle al resto della sala. Sam, un po’ a disagio, si schiarì la voce e si sistemò al tavolino.
Dean gli piazzò una pacca sulla spalla. “Ehi, Sammy.”
“Ehi.”
“Ho convinto Cas a unirsi alla nostra piccola riunione familiare.”
Si impegnò a sorridere. “Lo vedo.”
Si voltarono entrambi verso il Castiel in questione, che pareva non avesse nemmeno registrato la loro presenza.
“Quindi, Castiel, è un piacere conoscerti…”
Ancora nessun segno di vita.
“Sta ascoltando, non preoccuparti,” lo incoraggiò Dean.
Sam annuì. “Dean mi dice che non sei uno che parla molto…”, si stupì nel vederlo lanciare un’occhiata risentita a suo fratello, stava cominciando a temere che non ci fosse mai stata un’effettiva conversazione tra i due e che Dean si fosse inventato tutto, “e va bene, non c’è problema. Non ti farò domande, sono… solo contento che tu abbia deciso di unirti a noi.”
Dean batté forte la mano sul tavolino, facendolo sussultare. “Ha! Che ti avevo detto, Cas? È o non è un tipo intelligente?”
Castiel, che ovviamente non aveva battuto ciglio neanche di fronte allo schiocco della manata sul legno, annuì lentamente.
Dean fece una smorfia di compiacimento e Cas rimase a fissarlo, evitando di tornare alla finestra.
Sam rilassò leggermente le spalle. Ora capiva come quella specie di amicizia tra loro potesse funzionare. Non avevano bisogno che Castiel parlasse per comunicare. Dean non si era inventato nulla, avevano davvero parlato, aveva veramente chiesto a Castiel di includerlo nel loro circolo e lui aveva detto di sì.
Non che pensasse seriamente che Dean avesse manifestato altri livelli di allucinazioni rispetto a quelle dei suoi demoni, ma la paura restava sempre lì, dietro l’angolo. E voleva che Dean stesse bene, che guarisse, e non voleva mai mai più dover ripetere l’esperienza di piantargli un sonnifero nel collo e trascinarlo in un manicomio.
Li vide imbastire una conversazione muta fatta esclusivamente di sguardi per un altro po’, prima di sentirsi un intruso e tossicchiare piano.
“Allora, Bobby ha detto che vuole venirti a trovare la prossima volta.”
“Bobby?” Dean scattò per la sorpresa. “Davvero?”
“Certo. Sempre se ti va.”
“Se mi va? Stai scherzando? Sono mesi che voglio rivedere quella vecchia faccia barbuta.”
Sam annuì. “Bene, allora manderò lui la prossima volta.”
Lo sguardo di Dean si rabbuiò un poco, anche se si sforzava di non darlo a vedere. “Oh. Tu non vieni?”
“Solo un visitatore alla volta. Mi spiace.”
Dean spazzolò l’aria in mezzo a loro. “Nah, va bene. Ma ora dimmi te. Come sta Jess?”
Sam sorrise piano. “Sta bene.”



Sam aprì la porta e lanciò al buio le chiavi sul tavolino della cucina vuota.
La stanza del motel era fredda e deserta, come sempre, da quando ci si era trasferito il giorno in cui aveva fatto ricoverare Dean.
Con Jess era finita quello stesso giorno.
Aveva provato a mandare avanti le cose a distanza per un po’, ma era tutto troppo dannatamente difficile.
Guardò gli scatoloni posati a terra, pieni delle ultime cose che era andato a riprendersi da casa loro, da quella che ora era esclusivamente casa di Jess.
Si buttò sul letto senza accendere la luce.
Non era riuscito a dirlo a Dean. Si sarebbe colpevolizzato anche di questo, lo sapeva. Si era presentato a casa di suo fratello minore, delirando di demoni che avevano rapito papà, costringendo Sam a mollare tutto e farlo ricoverare in un altro stato, facendogli mollare l’università, la fidanzata, il futuro. Dean l’avrebbe vista così, sicuramente, e non si sarebbe dato pace.
Ed in effetti era così, e certo, era triste, ma Sam non dava la colpa a Dean. Non gli aveva dato la colpa nemmeno per un secondo. John, sì, quel bastardo era la persona giusta a cui dare la colpa. Sam sperava fosse morto in un vicolo da qualche parte. Dean ne sarebbe stato distrutto per un po’, ma poi si sarebbe ripreso, e lontano dalla sua influenza sarebbe piano piano guarito.
Ripensò al suo sguardo, quella notte, mentre gli rivelava il motivo della sua visita. “Papà è andato a caccia e non è più tornato.”
Lo aveva visto spezzarsi davanti ai suoi occhi, terrorizzato dall’idea di dover portare avanti una vita senza di John, senza i suoi stupidi simboli che tenevano i demoni alla larga da loro.
“Sono stati i demoni, Sammy, i demoni hanno ucciso anche papà, mi dispiace, mi dispiace così tanto.”
Sam scacciò via l’immagine di suo fratello maggiore piegato dalle lacrime, si buttò un braccio sugli occhi e cercò di addormentarsi.
Sognò la consunta giacca di pelle di papà, il suo odore mentre stringeva Dean tra le braccia e lo coccolava, mormorandogli parole di conforto, la siringa stretta tra le dita pallide.
“Va tutto bene, Dean.”
“È colpa mia, è solo colpa mia.”
“Sshh, va tutto bene.”
“Sono stato io, Sammy.”
“Sssh.”
“Vorrei… vorrei non sentire più niente.”
“Va tutto bene, Dean. Chiudi gli occhi.”
“Sammy…”
“Perdonami.”

 

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Capitolo 4
*** Gamma Ray ***



                                                                                         
4.
 
It'll take a lot more than that
to set us free
 
 
Cas continuava a cambiare posizione, a disagio.
Lo staff aveva sistemato i posti troppo vicini l’uno all’altro e c’era troppo poco spazio.
“Smettila di contorcerti,” la voce di Dean gli soffiò sulla nuca. Era seduto dietro, alla sua destra, visto che per qualche motivo che non era chiaro i posti erano assegnati in base alle stanze. Se avesse potuto, Cas si sarebbe seduto in fondo, con Dean come sola compagnia. In terza fila si sentiva troppo… esposto.
Tentò di tornare alla sua innata immobilità statuaria, ma non gli riusciva. Sentiva l’odore di sudore e urina degli altri pazienti, il loro fiato sul collo, le loro braccia troppo lunghe che gli strusciavano contro i gomiti e le gambe. Chiuse gli occhi e cominciò a respirare profondamente, imponendosi un ritmo lento e cadenzato, cercando di immaginarsi il panorama fuori dalla sua finestra.
Li riaprì solo quando sentì la mano di Dean sulla spalla.
Sapeva che fosse la sua, un po’ perché nessun altro avrebbe osato toccarlo, un po’ perché aveva imparato a riconoscere quel tocco leggero.
Dean aveva cominciato a riportarlo indietro dal suo mondo a piccoli gesti, una mano sul polso, un leggero contatto del ginocchio contro il suo.
“Tutto bene, puoi ricominciare a respirare come un essere umano.”
Dean era seduto nel posto accanto al suo. Cas lo interrogò con gli occhi su come avesse fatto ad eludere la sicurezza e convincere un pezzo grosso come Frank a fare a cambio.
“Ho le mie risorse anch’io, sai. Non li ho minacciati con la forza, certo, perché sarei un idiota e verrei rinchiuso in isolamento con la camicia di forza…”, fece scivolare via la mano, chiudendola a pugno nell’altra e sistemandole tra le ginocchia. “Ma un sorriso e tanta buona volontà possono portarti lontano.”
Dean fece uno di quei sorrisi da gatto che lo riempivano di rughette agli angoli degli occhi.
Un improvviso brusio li fece voltare verso la porta d’ingresso, dove il musicista doveva essere appena entrato.
Era un ragazzino, sì e no 17 anni, un caschetto di capelli neri su un faccino asiatico decisamente molto spaventato. Il Direttore Shurley lo pilotò fino alla sedia vuota rivolta verso il pubblico. Un pubblico di malati mentali, Cas non si stupì di vedere il ragazzo muoversi meccanicamente e con lo strumento stretto al petto.
Il Direttore ottenne il silenzio con un gesto.
“Signori, signore…”, scoccò una breve occhiata a Susan, come per accertarsi che fosse veramente una signora, “questo è Kevin Tran. Si è offerto volontario per venire a suonarci un po’ di Bach… era Bach, vero?”, Kevin annuì seccamente, e non sembrava per niente un volontario, più che altro un condannato a morte. “Per suonarci un po’ di Bach con il suo violoncello. Ringraziate Kevin.”
Si alzò un flebile coro di ‘Grazie, Kevin.’
“Vai, Kevin! Wooo!”, urlò Dean con un breve scroscio di applausi.
Cas lo fulminò con lo sguardo. “Cosa? Sto solo cercando di metterlo a suo agio.”
Intanto il ragazzo si era sistemato sulla scricchiolante sedia di legno con un sospiro rassegnato.
Incoccò l’archetto sulle corde, inspirò brevemente, e incominciò a suonare ad occhi socchiusi.
Le note inondarono la sala, correndo fino alle orecchie di Castiel, entrandovi dentro, serpentine, fino ad annidarglisi nell’anima.
Sembrava il peggiore dei cliché, non aver mai sentito musica tanto bella. Non essersi mai emozionato ad ascoltare niente fino a quel momento.
Lui, che aveva sempre avuto un approccio rigido e militare alla vita, ad emozionarsi per l’interpretazione di un adolescente di una qualche aria di Bach - non era mai stato nemmeno un intenditore di musica.
Per la prima volta scordò la finestra, il bosco al di là di essa, i prati verdi assolati, il detonare ritmico degli spari, i cadaveri dei compagni trascinati via in barelle posticce.
Dimenticò tutto, una pace innaturale annidata nel petto, gli occhi chiusi e l’anima, per la prima volta, aperta.
Non si accorse del tempo che passava finché delle lacrime silenziose non gli solcarono le guance.
Cercò di toccarsele con la mano destra, ma aveva le dita allacciate a quelle di Dean, nocca contro nocca.
Dean lo guardò dentro, lesse tutto quello che c’era da leggere a labbra strette, e per la prima volta da sempre, non disse nulla nemmeno lui.
Castiel continuò ad asciugarsi le lacrime con la sinistra per il resto della serata.
 
“Cas, posso farti una domanda?”
“Certamente, Dean.”
“Non c’è… proprio nessuno che possa venire a farti visita?”
Cas osservò brevemente il vassoio da cui stava mangiando, cercando la risposta tra i broccoli e il polpettone.
“Non proprio, no.”
“Nel senso?”
Cas abbassò le mani sul tavolo. A differenza di Dean, non amava parlare con la bocca piena.
“Nel senso che non ho… una vera e propria famiglia.”
Dean annuì due volte, le guance piene di cibo. Cas trovava ancora assurdo come a Dean potesse piacere la cucina dell’ospedale, il polpettone soprattutto. Non che Cas non lo mangiasse, aveva provato di peggio, aveva visto persone in preda alla vera fame, ma le razioni dell’esercito erano comunque abbondanti, non era più il 1914. Forse Dean aveva avuto problemi a procacciarsi il cibo quando lui e Sam erano piccoli e John li lasciava da soli per troppo a lungo. Non gli aveva forse raccontato di essere andato in riformatorio una volta per essere stato sorpreso a rubare…?
“Ok, niente famiglia, capito. Ma amici? Cugini? Un prozio, forse?”
Cas scosse la testa. Aveva cominciato ad essere presente più a lungo durante la giornata, a parlare di più, e aveva molto da ringraziare a Dean per questo. Ma queste domande lo mettevano a disagio. Lo facevano sentire mille volte ancora più solo.
“Beh, ci perdono loro. E poi la famiglia può incasinarti ancora di più, sai… Se non stai bene,” si toccò la fronte con il coltello. “Con la testa.”
Cas strinse le labbra in una pallida linea sottile. Non gli piaceva parlare dei suoi genitori. Non gli piaceva parlare in generale, figuriamoci dei suoi genitori, di quello che aveva perso. Ma sentiva un debito nei confronti di Dean, e in qualche modo si sforzò di articolare.
“Sono…”, si schiarì la voce. “I miei fratelli sono morti in Afghanistan.”
Dean smise di far lavorare la mascella di botto. “Tutti quanti?”
Cas annuì con un gesto secco. “Tre. Io sono… ero, il quarto.”
Dean riprese a masticare, lentamente. Prese un lungo sorso d’acqua e si pulì il viso con il tovagliolo. Cas sapeva cosa stava facendo, prendeva tempo prima della prossima domanda. Osservarlo era sempre interessante. “Genitori?”, chiese, finalmente.
“Padre in missione, praticamente sempre sotto copertura. Madre…”
Cas odiava parlare in frasi brevi e disarticolate così, ma gli sembrava che lo aiutassero a mettere più distanza tra lui e quello che usciva dalla sua bocca. Come un filtro. Come una finestra.
“Mia madre è a casa, credo.”
“Cosa, e non può venire a trovarti?”
Cas cominciò a sentirsi irrigidito, innervosito dalle domande. Guardò gli altri pazienti nella sala, si perse un attimo nel rumore di bicchieri posati e forchette tintinnanti sui piatti. “No, Dean, non può venire a trovare il suo unico figlio rimasto al manicomio.”
“Cristo, scusa Cas, stavo cercando di…”
“Di cosa?”
“Di conoscerti meglio, sai… adesso che finalmente le nostre conversazioni non sono a senso unico."
Cas si sentì un po’ in colpa. Dean gli aveva raccontato tutto di sé, mentre dalla sua parte aveva incontrato solo silenzio. Come poteva stupirsi delle domande, del volerne sapere di più? Pure lui era stato curioso, e aveva silenziosamente aspettato il prossimo racconto del passato di Dean.
“Le mie scuse.”
“Nah, va bene,” Dean sventolò un mano davanti al viso e riprese a mangiare. “Sono stato troppo avventato, comunque. Non puoi sapere tutto in un giorno solo, no?”
Cas appiattì di nuovo le labbra e non rispose.
Riprese a mangiare, cercando di pensare al mondo fuori dalla finestra, ma per qualche motivo più se ne allontanava più trovava difficile tornarci. Si accontentò di osservare Dean, studiare i suoi movimenti, e cercare di rilassarsi nel verde prato d’estate dei suoi occhi.
Un giorno, forse, sarebbe riuscito a far capire a Dean quanto significasse per lui la loro zoppicante amicizia.

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Capitolo 5
*** Lucky ***



5.

Does happiness lie in my fist if I fight
Or am I standing staring at a green light




Dean trovò una donna seduta al suo posto, davanti a Cas.
Lo infastidì subito come gli parlava, col busto proiettato in avanti. Puzzava di militare da chilometri, con quel completo giacca-pantalone grigio antracite. Cas sembrava scosso, guardava fuori, ma lo vedeva stringere i pugni sotto il tavolino.
“Ehi, Cas. Vuoi presentarmi la tua nuova amica?”
Fissò la donna negli occhi. Sul serio, chi porta la codina a cipolla e la frangetta?
“Naomi,” si presentò, senza allungare la mano. Lo fissava di rimando, l’ombra di un sorrisetto compiaciuto sulle labbra. Come se trovasse vagamente divertente la sua intrusione.
“Dean Winchester. Piacere. E quello è il mio posto.”
Naomi sembrò sorpresa, guardò Cas, soppesò di nuovo Dean, ma non si mosse. “Lo è?”
“Già. E il mio amico, qui, non sembra molto contento di vederla. Signora.”
La donna sorrise apertamente, come se il disagio di Cas la rendesse enormemente felice.
“È una visita familiare, signor Winchester. Sono sicura che può aspetta-“
“Familiare?”
Altro sorriso compiaciuto. Questa cosa stava cominciando a dargli sui nervi, davvero. “Immagino che Castiel le abbia parlato della sua famiglia, sì?”
Dean si mise subito sulla difensiva. Guardò Cas di sottecchi, ma non sembrava capace di unirsi alla conversazione. Né particolarmente incline a volerlo fare. Diavolo, nemmeno Dean, a questo punto.
“Certo che me ne ha parlato.”
“Davvero?”, Naomi abbandonò completamente Cas per rivolgersi unicamente a lui, come se avesse puntato una nuova preda. “E che cosa ha detto?”
Un’altra occhiata di sottecchi a Cas. Ancora nessuna reazione, anche se Dean era sicuro stesse stringendo i pugni come non mai, là sotto.
“Ha detto abbastanza.”
“Davvero?”
Cas scattò in piedi, i suoi occhi lasciarono finalmente la finestra. “Dean,” disse solo.
Dean non gli aveva mai visto un’espressione così sofferente. Cosa, avrebbe voluto chiedergli.
Fermati, sapeva fosse la risposta. Lascia perdere l’argomento. Per favore.
Non posso, avrebbe risposto a sua volta.
Cas abbassò lo sguardo. Lasciò la stanza senza una parola, né un’occhiata a quella che era l’unica visitatrice che avesse mai ricevuto in mesi.
Naomi lo stava fissando con crescente interesse. Dean si sentiva una bestia rara.
“Cosa?”
“Quindi Castiel ti ha parlato dei suoi fratelli?”
“Che diavolo di gioco malato è questo? Visita familiare un cavolo… è qui per torturarlo? Per impedirgli di guarire?”
Naomi strinse gli occhi. Gli faceva male come fossero simili a quelli di Cas, eppure così diversi. Così duri, vuoti. Ironico che quelli di un malato mentale semi-muto fossero meno vuoti, no?
“Castiel deve tornare a casa. Non appartiene a questo posto. Non è malato, solo confuso.”
Dean rise, teso. “Certo, parola di un’esperta psichiatra, non ne dubito. Sono sicuro che abbia dato lo stesso consiglio a sua madre. Da quel che ho capito è sola, a casa, no? Volete metterli insieme, farli giocare a ‘Chi si suicida per primo’?”
Naomi si alzò in piedi. Quasi lo sovrastava in altezza. I tacchi, sicuro questa stronza si metteva i tacchi per guardare tutti dall’alto in basso. “Quella non è la sua casa. Con noi, con me e mio fratello, quella è la sua casa. Nell’esercito.”
Dean avrebbe voluto ridere. Questa tizia credeva davvero che Cas potesse tornare in servizio. Dopo che Dean ci aveva messo mesi, mesi, a farlo parlare per la prima volta. Ad avere una conversazione. Ad aprirsi.
A sentire la musica.
“Non credo davvero che-“
“Non mi interessa cosa credi,” Naomi incrociò le braccia. Assottigliò lo sguardo. “Ti ha davvero parlato dei suoi fratelli? L’intera storia?”
“Senta, signora… non ho idea di quale sia il suo gioco, qui, ma non ho intenzione di giocarlo. Cas se n’è andato, la visita è finita. Può andare.”
Naomi tenne quell’espressione tra il divertito e il sorpreso. “Castiel è ricoverato qui da, quanto, qualche mese? Eppure sembra siate già molto intimi. Ammiro la tua lealtà. Vorrei che per Castiel fosse lo stesso.”
“Cioè?”
“Dubito sinceramente che ti abbia raccontato com’è andata. Come Castiel abbia tradito suo padre, i suoi fratelli. È lui la causa della loro morte.”
Dean sentì un improvviso bisogno di sedersi. Non lo fece, strinse i pugni, resse lo sguardo con tutta la sua forza di volontà. Non disse nulla, lei nemmeno.
Non ci si poteva meravigliare che Cas avesse scelto di isolarsi dal mondo. Che avesse chiuso tutti fuori, se stesso incluso. Dean non poteva nemmeno immaginare in che stato sarebbe se fossero a ruoli invertiti, se fosse successo qualcosa a Sam per causa sua…
“La visita è finita, ora,” riprese Naomi.
Dean la guardò andare via con passo marziale. La odiò con tutto sé stesso.

“Cas? Posso entrare?”
Nessuna risposta dalla stanza numero 313. Naturalmente.
Dean scivolò dentro comunque, piuttosto abituato a invadere gli spazi di Cas. Tanto a Cas non importava, no? Anzi, era grazie a questa noncuranza se stava meglio, giusto?
“Cas…”
Castiel se ne stava seduto sul letto, la solita espressione smarrita nel vuoto. Sembrava tornato indietro a mesi prima, alle prime volte in cui aveva cominciato a riportarlo indietro. Maledisse Naomi per l’ennesima volta.
“Cas, andiamo,” prese la sedia dal tavolino e gli si posizionò di fronte. “Parlami.”
Non sembrava che Cas sapesse della sua presenza nella stanza. Gli sventolò le dita di fronte agli occhi. Nada.
Passò allo step successivo: la mano sulla polso. Se non era troppo grave, di solito funzionava subito.
Sfregò un po’ le dita, passandogli il pollice all’interno del polso.
Ancora niente. Provò a spostare la mano sul ginocchio, al tavolino il contatto gamba-contro-gamba aveva sempre funzionato.
Cas si riaccese, sbatté le palpebre, riavviando il sistema operativo.
Dean gli sorrise, compiaciuto. “Eccoti qui,” gli diede una pacca sul ginocchio. “Bentornato, amico.”
Cas si irrigidì, come se si fosse appena ricordato del motivo per cui avesse fatto check-out dalla realtà.
“Ehi, va tutto bene. Ho mandato via la matrigna cattiva.”
Cas inclinò la testa di lato, Dean poteva praticamente leggere ‘Non è la mia matrigna’ nel suo sguardo confuso.
“Non so chi sia, è un modo di dire. L’importante è che se ne sia andata. Siamo solo io e te, ok?”
Gli sembrava così piccolo, gli avrebbe dato un buffetto sulla guancia. Cas probabilmente non avrebbe gradito. Dean non era sicuro della sua età, ma di sicuro sembrava più grande di lui. E non aveva l’aria di uno a cui piaceva essere preso per un cucciolotto, istituto psichiatrico o meno.
Rimasero in silenzio. Cas lo stava sondando. Dean immaginava che cercasse dei cambiamenti. Dei segni che Naomi gli avesse parlato, di quella roba dei suoi fratelli o di Dio sa cos’altro Cas non gli aveva detto.
“Non devi dirmi niente, sai,” in qualche modo fu la cosa sbagliata da dire. Cas chiuse gli occhi, strettissimi. Dean si maledisse. Tradito dalle sue stesse parole, bel lavoro, Winchester.
“Ehi, non mi importa. Davvero, non mi interessa.”
Cas lo fulminò. Mi prendi per il culo?
“Sul serio. Non sono affari miei. E se non c’è niente da dire, a me sta bene non parlarne più. Zona libera dal giudizio, qui.”
Cas sospirò. Per interi minuti, non dissero nulla. A Dean non dispiaceva. Si era abituato ad ammazzare il tempo, non avendo di meglio da fare. Adesso c’era Cas, ed era diverso, ma prima del suo arrivo…
Si guardò attorno, memorizzando tutte le chiazze sui muri. Il tavolino di metallo sporco, spoglio. C’erano dei fogli sopra, e una penna, forse Cas si era messo a scrivere qualcosa?
Forse a sua madre? Dean avrebbe scritto a sua madre, se ancora ne avesse avuta una.
“Zia,” Castiel spezzò il silenzio.
“Mh?”
“Naomi è mia zia.”
Sembrava pallido, come se parlare gli costasse uno sforzo tremendo.
“Non dobbiamo farlo adesso-“
“Voglio farlo. O potrei non farlo più.”
In qualche modo, Dean sapeva che stesse aspettando il suo consenso, quindi annuì, concedendogli di continuare.
“Mio padre… era riuscito a mettere i miei fratelli nella stessa guarnigione. Ha riscattato dei favori, qualcosa del genere. Li aveva addestrati tutta la vita, per questo. Cacciavano in branco. Non poteva lasciare che l’esercito li separasse.”
Dean sentiva l’aria appesantirsi ad ogni parola. E un crescente desiderio di avere un bicchier d’acqua.
“Sono riusciti ad entrare nelle forze speciali, come lui. Erano stelle che splendevano nel cielo, un esempio per tutti.”
Cas si concesse un sorriso flebile. Cominciò a stropicciarsi le dita. Dean avrebbe voluto fermarle, ma non si mosse. “E tu?”
“Io… ero un cecchino. Uno dei migliori, così mi dicevano. Non so se anche questo avesse a che fare con mio padre. Ero bravo, certo. Non sono sicuro che la mia carriera andasse di pari passo con quella degli altri, però. Mi sembrava tutto troppo veloce. Troppo facile.”
Cas non aveva mai parlato così tanto. Mai. Dean aveva paura che la cosa lo rompesse, continuava a controllarlo, sicuro che prima o poi sarebbero spuntate delle crepe, e gli si sarebbe frantumato davanti agli occhi.
“Comunque, la mia squadra e la loro vennero chiamate per una missione. Doveva essere una cosa semplice. Ovviamente, in realtà era una trappola.”
Tipico. Dean si riacchiappò in tempo prima di dirlo davvero.
“Ma Gabriel… Gabriel era un impulsivo. Non ascoltò gli avvertimenti, né aspettò i rinforzi. Fu il primo a morire. Io…”
Cas deglutì. Dean sentiva sempre più arsa la gola.
“Io sarei dovuto rimanere indietro, sul tetto. Ma quando ho sentito di Gabriel nell’auricolare…”
Dean chiuse gli occhi. Non era sicuro di volere sapere il resto.
“Non ho resistito. Sono corso da loro, ad aiutarli. Michael era…”, scosse la testa. “Comunque, nessuno vide i loro rinforzi, perché nessuno era sul tetto.”
“Gesù.”
Castiel sembrava un nervo scoperto. Si teneva il più rigido possibile, ma Dean ormai lo conosceva. Sapeva.
Stava aspettando.
“Cas, se c’è una cosa che ho capito da tutto questo, è che sei fortunato ad essere vivo…”
“Dean-“
“Fammi finire. Non me ne frega un cazzo di quello che dice la zia malefica, okay? Sono felice che tu sia qui. E… cazzo, Cas, non ti incolpo per essere corso dalla tua famiglia per-“
“Ho rotto la mia famiglia, Dean. La mia casa. Ho deluso tutti.”
“Non hai deluso me.”
Questo riuscì a zittirlo, finalmente. Ah, l’ironia: Cas aveva appena cominciato a parlare e Dean era già nostalgico dei suoi silenzi.
“Senti, mi dispiace per quello che è successo alla tua famiglia. Mi dispiace davvero. Ma non è colpa tua, okay? Non potevi controllare il nemico o quello che è, non era-“
“Non era come essere posseduto da dei demoni nella mia testa?”
Dean chiuse la bocca. Era una stilettata che non si aspettava. “Questo è un colpo basso, e lo sai.”
Cas si sfregò il viso con le mani. “Lo so, scusa. Sono solo…”, Dean lo guardò comporre una frase almeno cinque volte, prima di cambiare idea e scartarla. “Lo so che è diverso dalla tua famiglia. Che siamo qui per motivi diversi. Io mi sono ricoverato da solo. Mi sono detto, se rimango a casa, temo che potrei uccidermi.”
Dean strinse la mascella. Aveva fatto lo stesso ragionamento. L’unica differenza, si era presentato a casa di suo fratello, completamente allo sbando. Il pensiero di ricoverarsi non gli era mai passato per la testa. Per fortuna, a Sam sì. E grazie al cielo, anche a Cas. Aprì la bocca, anche se non sapeva ancora cosa ne sarebbe uscito.
“Dean, io…”, Cas lo interruppe. “Vorrei rimanere solo.”
“Oh. Okay.”
Dean tentennò. Si alzò dalla sedia, si sfregò i palmi. Non gli piaceva come stavano lasciando le cose.
“Uhm, domani viene Bobby,” buttò lì. “Vieni anche tu?”
“Certo, Dean.”
Cas sembrava tranquillo ma Dean non se la beveva. Non dopo tutta quella merda che aveva tirato fuori. Non era quello che gli diceva sempre, di lasciare uscire fuori i suoi demoni? Avrebbe dovuto dirglielo.
Ma qualcosa era cambiato.
Non era sicuro di sapere cosa, né come ripararlo.

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Capitolo 6
*** Devil's Backbone ***


 
 

6.

Give me the burden, give the blame
I'll shoulder the load, I'll swallow the shame
 
 
 
 
Sam gli saltò praticamente al collo, e già questo era sufficiente a far suonare l’allarme interiore di Bobby. Non che Sam fosse uno stitico emotivo – ci pensava Dean per tutti e due, a quello – solo non era mai stato così… espansivo. Lo pilotò dentro quello che definiva un appartamento, ma che per (i sebbene bassi) standard di Bobby era una topaia. Muri ingialliti dal fumo, sensazione di unto ovunque, quel genere di posto.
“Vuoi una birra?”
“Certo.”
Non fosse mai che Bob Singer rifiutasse una birra. Non con quel caldo di inizio estate che schiacciava i polmoni. Si accomodarono attorno al tavolino consunto della cucina, gambe allungate, birra in mano.
“Allora…”
“Allora…”
Bobby si grattò la barba. “Che combini di bello?”
Non gli sfuggì l’ironia di essere lì per trovare uno al dannato manicomio ed essere intento a preoccuparsi per l’altro, quello che doveva essere a posto con la testa. Ma Dio, il motel era una schifezza, c’erano scatoloni e vestiti ovunque. Sam non era Martha Stuart ma non era nemmeno così… barbone, fu la parola che gli balenò in testa.
“Sto bene,” Sam scrollò le spalle. “Il motel mi paga per fare dei lavoretti. Così non devo preoccuparmi per la camera. Anzi,” sorrise. “Sto riuscendo a mettere qualcosa da parte. Non so quanto Dean starà ancora dentro, ma non voglio correre rischi.”
Certo, sacrificio tipico dei Winchester. Uccidersi pur di salvare l’altro. Un classico.
“Uh. Buon per te. E per il motel, credo…”, si pulì la bocca con la manica. “E tu non hai… nessuno che venga a sistemare qua dentro?”
Sam divenne improvvisamente conscio di quello che li circondava. Dopo un paio di secondi con una faccia da cerbiatto preso dai fari in autostrada, si alzò e cominciò a raccogliere velocemente cose da terra, imbarazzato.
“Sam, non devi…”
“No, no, va bene. Scusa, sono solo… impegnato e…”
Bobby voleva dirgli che non era la pulizia dell’ambiente che lo interessava, era lo stato di degrado in cui sembrava vivere. Non era salutare, non per Sam-precisino-salute-e-vegetali. Prima di… beh, prima di Dean, una volta al telefono gli aveva pure detto di avere cominciato a fare jogging.
Ora l’unica attività di cui Sam sembrava capace era scordarsi di radersi e preoccuparsi per suo fratello.
Imbastì la predica nella sua testa mentre lo guardava cercare – e fallire – di rassettare, ma suonò il telefono prima che riuscisse a pronunciarla.
Sam mollò il fagotto che si era creato in mano e corse al cellulare.
“Pronto?”
Bobby lo guardò passarsi una mano tra i capelli e rilassare le spalle. “Sì, dottor Milton, salve.”
Si voltò verso Bobby con un sorriso. Doveva essere uno dei dottori dell’ospedale.
“No, oggi non ci sarò io, verrà mio zio… sì. No, certo, la prossima settim… Certo, assolutamente. Grazie. Uh, lui come sta? Uh-uh. Okay. Benissimo. E Cas? Uhm, Castiel. No, non so il cognome… ah, non è un suo paziente. Capisco. No, la ringrazio. A presto.”
Bobby lo fissò mentre sorrideva al telefono per qualche secondo.
“Chi diavolo è Castiel?”

Come Sam gli aveva anticipato, trovò Dean e Castiel seduti al tavolino più distante, sotto una delle finestre.
Bobby si guardò un po’ intorno, valutando la struttura. I pazienti sembravano tranquilli, i più problematici accompagnati da infermieri in divisa. Il fatto che Dean non fosse uno di quelli lo rassicurò un poco.
Non era mai andato ad una visita e non era certo dello stato in cui l’avrebbe trovato. Certo, Sam lo teneva aggiornato, ma… beh, era Sam. Il loro amore o quello che era lì rendeva delle fonti inaffidabili.
C’erano anche delle librerie, dei giochi aperti per terra – qualcuno stava giocando a Twister? Divertente – colori, fogli da disegni. Sam aveva scelto bene. Doveva aver fatto un sacco di ricerche prima di scegliere questo.
Quando gli aveva raccontato della nottata in cui Dean era piombato da lui in preda al delirio, Bobby non riusciva a crederci. Dannazione, sapeva che avesse dei problemi, sapeva che John gli aveva scazzato il cervello, ma non immaginava… non immaginava che Sam avrebbe dovuto metterlo a letto, cercare di calmarlo, andare a cercare un fottutissimo sedativo nel mezzo della notte perché non ci riusciva.
Conoscendolo, non aveva dormito niente e aveva fatto ricerche tutta la notte in quel suo piccolo computer per trovare questo posto. Bobby si sentì fiero di lui.
Dean lo notò e gli andò incontro, un grosso sorriso stampato in faccia. Bobby non si fermò, colmò la distanza studiandogli il viso. Gli sembrava il solito ragazzino sbarbato di sempre - gli spaccò anche due o tre costole nell’abbraccio in cui lo aveva avviluppato. Si levò un’altra tacca di preoccupazione.
“Bobby, è bellissimo rivederti, amico.”
Non aveva fatto in tempo a sedersi al tavolino che Dean si era sporto per posargli una mano sulla spalla – Bobby non se ne stupiva, nonostante lo negasse fino allo sfinimento, Dean amava il contatto fisico.
“È bello vedere anche te,” era sincero, e avrebbe voluto dire lo stesso per Castiel, ma il ragazzo sembrava deciso a infastidirlo fissandoli senza battere ciglio.
“Allora…”, distolse lo sguardo dal tipo inquietante. “Che combini? Come si sta nel mondo dei pazzi?”
“Non è la terminologia esatta.”
Uh, quindi il tizio aveva anche la voce e l’intonazione inquietanti, buono a sapersi. Dean doveva proprio fare amicizia con tutti i casi umani, eh? Bobby si ricordava ancora quel pazzo di Benny, alle superiori…
“Cas, è una battuta, tranquillo,” Dean non riusciva a smettere di sorridere, a quanto pare. “Sto bene, stiamo bene.”
“Stiamo?” Bobby lanciò un altro sguardo a Castiel. Anche lui sembrava accigliato.
“Sì, sto bene. Tu? Il garage?”
“Ah, la solita merda,” scrollò le spalle. “Finché ci sono idioti che sfasciano le macchine, siamo a posto.”
Bobby fissò lo sguardo su Castiel e capì perché la sua immobilità gli dava fastidio. John. Quel ragazzo era la copia sputata di John. La rigidità, il modo di parlare… doveva essere stato un militare anche lui.
Gesù se Dean non aveva il complesso del papà. Come si chiamava, Edipo? Al contrario?
“Allora… hai sentito Sam?”
“Sì, ogni tanto mi danno la possibilità di chiamarlo. Se sono stato bravo con la maestra e cose così.”
“Mh-mh.”
“Ultimamente l’ho visto di meno, è tornato a Stanford a fare le sue cose eccetera.”
Bobby sospirò. Sam lo aveva implorato di non dirgli niente, ma… Lo fissò a lungo, mentre pensava ai suoi due ragazzi. Sam, che stava prendendo la cosa peggio di come sperava, che aveva mollato tutto per lavorare in una merda di posto, che nonostante tutto faceva del suo meglio. E Dean, di fronte a lui… che stava meglio di come si aspettava, ma che ripeteva gli stessi schemi affezionandosi a un altro pazzo militare come suo padre. Si sistemò il berretto sulla nuca, e decise di fare quello che faceva sempre: il suo lavoro.
“Sam non vive più a Stanford.”
Dean aggrottò la fronte, il labbro di sotto che si apriva e chiudeva leggermente. “Cosa?”
“Ha lasciato la scuola. Si è trasferito in un motel a un quarto d’ora da qui.”
Le pupille saettavano da un occhio all’altro di Bobby, lo soppesavano per cercare delle bugie, o forse il senso di quello che stava dicendo.
Quando completò l’analisi, si abbandonò con la schiena contro la sedia.
“Perché?”
“Secondo te, idiota?”
“Perché non me l’ha detto?”
Bobby scrollò le spalle. “Non lo so. Per non farti preoccupare, immagino.”
Dean si lisciò il palmo sulla bocca, per un secondo guardò Cas – che sembrava concentratissimo – per finire a tornare su di lui. “Perché me lo stai dicendo? Conoscendo Sam, ti ha chiesto di non dirmelo.”
“Esattamente perché mi ha chiesto di non dirtelo!”
Bobby si ricordava tutte le bugie del cazzo che si erano detti nel corso degli anni. Le telefonate che gli facevano nel cuore della notte per lamentarsi l’uno dell’altro, le litigate furiose, le riappacificazioni. E tutto perché continuavano a mentirsi – anche se sventolavano la bandiera del lo-faccio-per-il-tuo-bene.
“Sono stanco delle vostre bugie. Hai mentito così tanto a te stesso e a tutti che ti abbiamo dovuto ricoverare, dannazione! Non ho intenzione di fare lo stesso errore con Sam. Non sta bene, Dean…”
“Cosa vuoi dire, non sta bene?”
Dean si era proiettato in avanti, Bobby voleva quasi ritirare quello che aveva detto. No, doveva farlo. Faceva schifo, ma qualcuno doveva pur fare il suo lavoro.
“Sono stato a casa sua, prima. Vive nella merda, al buio perché ho notato un paio di lampadine esplose. Lavora per il motel per pagarsi l’affitto. Non vede una bella doccia da giorni.”
“Gesù.”
“Già.”
Dean si portò le mani alla testa, si sfregò i capelli. Bobby tenne a bada il senso di colpa guardando Castiel. Sembrava uguale a prima, magari con gli occhi leggermente più spalancati. Che fosse preoccupato per Dean? Almeno in questo sarebbe stato diverso da John, glielo poteva concedere.
“E Jess?”
Bobby chiuse gli occhi. Sperava di non dover dire anche questo. “A Stanford.”
“Non può aiutarlo? Trasferirsi con lui?”
“Non stanno più insieme.”
Dean batté le mani sul tavolo. “Gesù! Perché non me l’ha detto!”
Bobby guardò con sorpresa Castiel far strusciare le mani sul legno e raggiungere quelle di Dean. Stringerle.
“Probabilmente pensava stessi passando già abbastanza senza preoccuparti anche per lui.”
Bobby spostava la testa a destra e a sinistra da uno all’altro. Sembrava stessero comunicando in qualche modo. Dean mollò le mani e si alzò di scatto.
“Devo chiamarlo.”
Sparì dalla loro vista imboccando il corridoio verso la reception.
Bobby si passò una mano sulla fronte. La rabbia gli gorgogliava nello stomaco, rabbia verso sé stesso dettata dai sensi di colpa, e anche una strana sensazione di allarme.
Castiel lo stava fissando intensamente – si chiese se questo tipo avesse un altro modo di guardare le persone oppure se usasse solo quello.
“Sei preoccupato per lui.”
L'eufemismo del secolo.
“Sono preoccupato per entrambi.”
“Pensi che Sam non sia capace di farcela da solo?”
“Se c’è una cosa che ho capito di Sam e Dean, è che nessuno dei due può farcela da solo.”
Castiel sembrò assimilare la frase, annuì lentamente.
“Penso che questa informazione scombinerà un po’ gli equilibri, adesso.”
Bobby annuì. “È quello che gli serviva. Ho fatto il mio lavoro.”
“Che lavoro?”
Guardò il ragazzo che inclinava la testa di lato. Probabilmente avevano un rapporto strano, lui e Dean. Probabilmente erano qualcosa di più di semplici amici, e li aveva osservati solo per tipo 5 minuti. Quindi probabilmente doveva anche fare quello che non vuole che tu porti la propria figlia al ballo scolastico senza sapere che hai un fucile a pompa nell’armadietto vicino alla porta. Gonfiò il petto.
“Qualcuno deve pur fargli da dannatissimo padre.”

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Capitolo 7
*** Something to Say ***


 
7.

People stare

Trees are interference
Looking for some clearance
Fear taking hold
You've got to be bold
If you've got something to say

 

 

Dean non era al suo posto.
Castiel provò a non darci peso, cercando imperterrito di focalizzarsi sulle api che ronzavano al di là del vetro. Ci riuscì pure – cedeva solo ogni tanto, lanciando una breve occhiata alla sedia vuota lì di fronte.
Dean stava bene, era quello che continuava a ripetersi. Probabilmente era arrabbiato con Sam, o confuso. O non aveva voglia di stare a perdere tempo con lui, che comunque non era mai stato di grande compagnia. 'Ma sono migliorato, un po',' gli sussurrò una vocina. In ogni caso, Dean aveva tutto il diritto di prendersi una pausa. Castiel non si aspettava mica che passasse tutte le sue giornate a stargli dietro… no?
Passò un giorno intero.
Il sole era sorto, passato sopra il picco di mezzogiorno, disegnando le ombre delle tendine della finestra sul piccolo tavolinetto quadrato di Castiel, e adesso brillava nel cielo del tardo pomeriggio. Qualcosa lo pungolava nel collo, e non una cosa tangibile. Un pensiero, una preoccupazione. Non gli piaceva, non era più abituato a preoccuparsi di nessuno. Era già tanto se riusciva a pensare a sé stesso.
Lanciò un ennesimo sguardo di sottecchi al legno della seggiolina, forse il millesimo della giornata. Grazie a questa distrazione dalla quotidiana contemplazione dell’esterno, individuò un camice bianco in sala. Le antenne gli si drizzarono subito. Era un signore alto, con radi capelli bianchi e quella che Dean avrebbe definito una ‘faccia da schiaffi epica’. Doveva essere il Dottor Milton. O Zack, come lo chiamava Dean. Era il responsabile del suo caso, il suo terapista numero uno.
Cas strinse ancora di più le dita che teneva piegate sulle cosce. Forse il suo Dottore avrebbe saputo dirgli dov’era, se la sua assenza aveva a che vedere con Sam o qualche ricaduta, qualcosa di simile. Lo osservò chinarsi a parlare con un paziente – Castiel non si prese la briga di cercare di capire quale – scambiare due parole e passare al successivo.
Non l’aveva mai visto prima, anche se non si poteva dire che conoscesse bene il personale presente all’interno della struttura, troppo preso a proiettarsi al di fuori.
Dopo qualche minuto il dottor Milton sembrò fare una cernita dei pazienti presenti – il suo sguardo passò brevemente dalle parti di Cas, e non riconoscendolo passò oltre – e con una stretta allo stomaco Castiel capì che aveva finito il giro. Stava per andarsene. Neanche il tempo di fare tre passi, Cas gli poggiò una mano sulla spalla. Il dottor Milton spostò due occhi molto blu e molto sorpresi su di lui.
“Vorrei sapere…”, Castiel si schiarì la voce. Si rendeva conto di essere in un posto pieno di malati di mente – lui e la persona che stava cercando compresi – e che la sua iniziativa poteva essere fraintesa, creduta pericolosa.
“Sì?”, il dottore si rilassò davanti alla sua esitazione, che lo aveva portato a credere che Castiel non fosse un pericolo. Ne approfittò e decise di buttarsi, irrigidendosi per la tensione.
“Vorrei sapere dove è situato Dean Winchester.”
Zack sorrise. Castiel decise di chiamarlo Zack – in modo dispregiativo, come Dean – perché quest’uomo aveva davvero una faccia da prendere a schiaffi, con un sorriso che sembrava nato esclusivamente per prendersi gioco degli altri.
“Lo conosce?”
“È mio amico.”
“Mhh. Al momento il signor Winchester è impossibilitato a raggiungerla.”
“Impossibilitato?”
“Vedi…”, Zack lo prese per una spalla e lo condusse con sé, lontano dagli altri tavolini. Dalle altre orecchie, pensò Castiel – e non gli sfuggì nemmeno come fosse passato a dargli del tu. Il resto della sala continuò imperterrita nelle sue faccende, mentre il dottor Milton si tese verso di lui, inchiodandolo fisso con lo sguardo.
“Dean ha una personalità un po’… difficile. Abbiamo dovuto sedarlo.”
“Sedarlo?”
Castiel si fermò, Zack con lui. Non ritrasse comunque la mano, quel contatto fastidioso. “Non dirmi che non ha mai avuto comportamenti violenti con te.”
“Certo che no,” le parole gli uscirono di bocca senza che avesse bisogno di pensarci. Era di Dean, che stavanno parlando. L’antitesi di tutta la violenza che Castiel aveva sperimentato durante il corso della sua vita.
Zack gli sorrise, stavolta con compassione. “Mentire non fa bene, signor…?”
Castiel non rispose. Non gli avrebbe dato neanche una minima soddisfazione.
“Farò comunque in modo di dirlo al tuo terapista. Magari la vostra amicizia non fa bene a nessuno dei due.”
Se ne andò e lo lasciò lì, imbambolato sulla soglia della saletta, con le dita strette a pugno, le spalle tese, e lo stomaco in gola.

Era una fortuna che qualche settimana prima Dean avesse dovuto farsi dare il numero di stanza di Castiel con l’inganno, perché quella volta si era premurato che Castiel sapesse il suo, in caso di necessità.
Saranno state le tre del mattino e – dopo aver aspettato il sonno senza risultati – Castiel scivolò fuori dalla sua stanza. L’allenamento militare con cui era cresciuto gli aveva donato almeno qualche skill positiva: silenzioso come un gatto, passò inosservato e agile sulle punte fino al primo piano. Stanza 101.
Non voleva far rumore, e comunque se Dean era sedato non avrebbe potuto rispondere, quindi non si premurò di bussare. Entrò in una stanza identica alla sua, anche se completamente diversa.
Dean aveva… arredato.
Cas si avvicinò, assorbendo la familiarità di avere una stanza leggermente disordinata anche se pulita, un po’ come tutte le persone – tranne lui.
C'erano delle foto sulla scrivania.
Una di tutta la famiglia: la mamma di Dean sembrava veramente bellissima, con dei lunghi capelli biondi ad incorniciarle il viso. Dean da piccolo era semplicemente adorabile, mentre Sam avrà avuto solo qualche mese. Castiel si soffermò un attimo a guardare John. In questa foto doveva essere un’altra persona: stava sorridendo con tutti i denti, abbracciato alla sua famiglia come se niente di male dovesse mai succedere loro.
Nell’altra foto c’era un altro mini-Dean, stavolta più grande, sugli otto o nove anni. Aveva gli stessi capelli di ora, un guantone da baseball più grande della sua testa e sorrideva a Bobby, che lo guardava dietro una folta barba rossiccia. Nella terza foto c'erano i due fratelli, più o meno adolescenti.
C'erano sorrisi anche in questa foto, ma Castiel vide quanto avessero un sapore diverso, un retrogusto dolceamaro. Il quadretto rappresentava due ragazzini cresciuti troppo e troppo in fretta, che cercavano di aggrapparsi al bello della vita per non farsi inghiottire dalle sue ombre. Cas si allontanò, osservando il resto della camera.
C'erano dei quaderni e dei disegni sparsi qua e là, ma non osò toccarli, non senza permesso.
Arrivò accanto al letto, aspettandosi di trovare Dean addormentato. Ed era così, solo che in più c'erano le cinghie. Grosse, fatte di quello che sembrava plastica e gommapiuma.
Le aveva viste più volte nei film, non si era mai immaginato di vederle costringere i polsi di qualcuno. Di Dean.
Si accomodò con la sedia accanto al letto, come se fosse un parente in visita. Invece era Castiel, un amico, un qualcosa di più, una persona connessa a Dean in modo più profondo di quanto entrambi riuscissero a concepire. Dean non era solo una persona da ascoltare, da voler in qualche modo aggiustare. Non era solo compagnia in un posto come quello in cui si trovavano, e non era solo un orecchio a cui riuscire a raccontare il proprio passato. Dean gli era affine, Dean lo sentiva.
E Castiel sentiva lui, in un modo assolutamente nuovo che non aveva mai sperimentato prima. Sperò solo che non andasse tutto in malora per qualcosa che stava succedendo nella vita della sua famiglia, di Sam, del motivo per cui era lì legato a quel letto come una bestia feroce.
Quando Dean lo chiamò, Castiel si accorse che ad un certo punto doveva essersi appisolato nei suoi pensieri.
Lo chiamò con una vocina flebile, rotta, esattamente come appariva lui in quel momento.
Non era più il maschio alfa dal sorriso facile e la battuta pronta. Era solo Dean, nella sua vera forma. Che lo chiamava, la voce roca che gli raspava la gola. “Cas…”
“Ciao, Dean.”
“Cosa ci fai qui?”, sussurrò.
“Sono venuto a trovarti. Non eri… disponibile, ultimamente.”
Dean si leccò le labbra, stancamente. Doveva essere sotto un sacco di sedativi.
“Ero preoccupato. Per te.”
Non rispose ancora, anche se un lieve sorriso gli increspò la guancia destra. Non sta bene, pensò Castiel.
Dean non stava affatto bene, ma almeno era contento di vederlo. Cosa poteva aver fatto per farsi imprigionare così? A Castiel era stato concesso di restarsene in stanza senza dare fastidio a nessuno.
Sedarlo non era mai passato di mente agli infermieri, per qualche motivo. Forse non volevano farlo. Forse lo facevano solo quando passavano i dottori in visita. Dean continuava a guardarlo, a bere la sua presenza con gli occhi. Probabilmente vedere un volto amico lo aiutava. Ma lo aiutava da cosa?
“Sono… sono tornati?”
Dean strinse la mascella. Non aveva bisogno di chiedere a cosa Castiel si riferisse: i demoni nella sua testa. Annuì, molto lentamente. Castiel esitò, si allungò per stringergli l’avambraccio. Prima del giorno precedente, al tavolino con Bobby, non l’aveva mai toccato, non aveva mai cercato il suo contatto fisico – gli era sempre stato dato volontariamente da Dean, e Castiel non aveva mai reciprocato. Faceva strano sentirlo sotto le dita, il suo calore, il battito cardiaco che pulsava nelle vene.
“Vuoi… parlarne?”
Dean buttò giù un groppo di saliva grande quanto il suo pomo d’Adamo, stringendo i pugni nelle cinghie.
“Io lo so… che non sono reali, ma in qualche modo… in qualche modo lo so che c’è qualcosa di brutto… e sbagliato, in me. E a volte… a volte non sono abbastanza forte per combatterlo.”
Parlava stancamente, strascicando le parole, i farmaci che gli rallentavano la parlata.
Castiel fece scivolare la mano giù per l’avambraccio, superò la plastica e si fermò a stringere le dita di Dean tra le sue.
Non c’era bisogno di dire nulla, di aggiungere nulla – Dean stesso non lo avrebbe voluto, troppo orgoglioso, troppo eroico per essere compatito – e la notte passò con una testa di capelli corvini appoggiata tra le coperte, e una bionda sul cuscino che guardava dall’altra parte, mano nella mano.
Quando venne mattina, l’alba li trovò ancora così.
Castiel fu costretto a scivolare via così com’era arrivato, in silenzio, con una noia nel petto al pensiero di Dean che si svegliava da solo, senza trovarlo al suo fianco.





Note:


Avevo deciso di non creare note per questa fic, ché date le tematiche mi sembrava di spezzare troppo il tono dell'ambientazione.
Solo che la meravigliosa everlily mi ha fatto questo banner, e non potevo non condividere con voi la gioia e la gratitudine.
Inoltre, ho creato una pagina Autore, quindi se volete seguirmi e avere degli aggiornamenti in corso (o scleri, perché ce ne sono parecchi), basta cliccare qui.
Ne approfitto per ringraziarvi, per essere arrivati fin qui, ho tanti lettori e la cosa non può che rendermi enormemente felice. Also, spero che si colgano i vari riferimenti al canon (ad esempio il fatto che questa storia sia un po' il Purgatorio di Castiel, che sta facendo penitenza per aver "rotto" il Paradiso.)
E il fatto che questi due li puoi mettere in qualunque AU possibile ed immaginabile e si innamoreranno sempre l'uno dell'altro, perché sono il completamento perfetto, la compensazione di necessità e caratteri più adeguata ever. E con questa mi dileguo.
Ancora grazie,
Clizia

PS: i testi delle canzoni sono presi dalla band Louden Swain (il gruppo di Rob Benedict aka Chuck), ma solo quelli dei POV Cas e Dean. I POV degli altri personaggi hanno altre canzoni. (Probabilmente mi metterò ad editare roba ora che ho più tempo e mettere un link da qualche parte per farvele sentire).

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Capitolo 8
*** Hey Darlin ***



8.

There's one life I've ever known
Much I've changed but not outgrown
I'm trying to make a go
Alone
But I can't see without your stare
 When your voice is never there
There's a void hang in the air
At home



Dean tamburellò con le dita sulla scrivania.
Stava meglio senza sedativi, e finalmente lucido si era alzato da quel dannato letto, anche se era riuscito a fare solo tre passi prima di dover collassare sulla sedia per riprendersi (contava comunque come miglioramento). Passare le giornate da solo nella sua stanza era una palla totale, ma almeno non era più legato. Ci era voluto un po’ a convincere Zack a ridurre le dosi, e Dean sospettava che ci fosse lo zampino di Sam. Doveva essere passato durante la sua visita settimanale, e non trovandolo… Cas sicuramente gli aveva detto qualcosa. Dean poteva vedere chiaramente il suo fratellino tirare fuori gli artigli e fare un casino per tutto l’ospedale finché non avesse stanato Zack e si fosse fatto spiegare la situazione. E richiesto di vederlo. E se non poteva vederlo, che almeno gli togliessero le cinghie, perché suo fratello non era un animale.
Quando avesse visto Cas quella sera - ormai era una visita fissa, ogni notte scivolava silenzioso nella sua stanza - glielo avrebbe chiesto. I primi giorni, troppo intontito dai medicinali per stare sveglio più di qualche minuto alla volta, Dean se lo trovava lì quando apriva gli occhi, immobile e rigido su quella seggiolina, lo sguardo un po’ fuori fuoco che ritornava lucido quando si rendeva conto che Dean fosse sveglio. Probabilmente si sentiva anche lui solo, a stare tutto il giorno in quella saletta senza Dean a tenergli compagnia. Ironico, no? Si erano invertiti i ruoli.
I fogli erano sparpagliati a caso per tutta la scrivania, ma Dean sapeva più o meno cosa fossero, in quel modo particolare che hanno le persone disordinate di saper localizzare le cose nel mezzo del casino perché il subconscio, in qualche modo, sa dove trovarle. Prese un po’ di carta straccia dove aveva abbozzato qualche disegno nei momenti di noia - momenti pre-Cas, non aveva più toccato matita da quando si era votato alla crociata di far rinsavire quella testa dura – e qualche schizzo di Sam e Bobby, qualcosa di John (che però non aveva mai finito), qualche riga buttata giù a mo’ di diario personale, un po’ parlando a se stesso e un po’ a Sammy.
Prese un altro foglio bianco, stringendo il tappo della penna tra le dita e facendolo picchiettare sul legno.
Non aveva comunque altro da fare, no? Cas non sarebbe arrivato fino a tarda sera, quando i turni di guardia diventavano meno frequenti (sul serio, era più una prigione che un ospedale), e avrebbe dovuto trovare un modo di ammazzare il tempo, visto che di muoversi intorno alla stanza non c’era verso. Ripensò alla scrivania di Cas, ricolma di lettere. Si ricordava di aver immaginato che fossero dirette alla sua famiglia, a sua madre – pensò di chiedergli anche questo quella sera.
Il tappo sapeva di un qualcosa di ferroso sulla lingua, mentre lo mordicchiava.
Finalmente si decise. Posò la punta sul foglio, e tergiversò scrivendo la data sul margine in alto a destra.
Prese un profondo respiro.
‘Ehi mamma, sono io. Dean.’

**


Cas lo trovò a letto, quella sera. Si era stancato comunque, anche se non aveva fatto altro che scrivere tutto il pomeriggio – dannati sedativi. Alla fine si era accasciato sulle coperte, col cervello talmente sfinito che era stato quasi tentato di chiedere all’infermiera di imboccargli la cena.
Era nel dormiveglia quando sentì la porta richiudersi, e aprì un occhio. Cas era impalato nel suo solito modo, lo sguardo attento su di lui.
“Ehi, Cas.”
Si stropicciò gli occhi e si accomodò con la schiena sui cuscini, mentre Cas continuava a sorvegliarlo, cercando segni di recupero o di cedimento. Che mammina apprensiva. Il pensiero della mamma gli contrasse un po’ lo stomaco, ma lo ributtò giù, dietro tutto gli organi, dove non poteva fare male a nessuno.
“Stai bene?”
“Alla grande. Ho persino fatto una passeggiata fino alla scrivania, oggi.”
Cas si voltò verso il cumulo di fogli, valutando la distanza dal letto al tavolo con un cipiglio e probabilmente chiedendosi come fosse riuscito ad arrivarci, date le sue condizioni zombifiche.
“Ho… ehi, posso chiederti una cosa?”
Cas annuì, confuso dalla domanda - Dean gliene aveva sparate tante senza mai preoccuparsi di chiedere il permesso, prima d’ora – e si sistemò con la sedia di fronte al letto, come d’abitudine.
“Quelle lettere che sono in camera tua…”, Cas si irrigidì appena, “sono per tua madre?”
Un lieve cenno di assenso fu tutta la risposta che l’altro riuscì a dargli.
“Bene. Voglio dire… bene che vuoi rimanere in contatto con lei. Sono sicuro le faccia piacere, e…”
“No, non…”, Cas lo interruppe, e si leccò le labbra dallo sforzo che gli costava parlarne. “Non le ho mai spedite.”
“Perché no?”
“Perché a differenza tua, non sono affatto sicuro che le farebbe piacere.”
“Andiamo, è tua madre…”
L’irritazione scattò fulminea agli occhi di Cas. “Ho ucciso tutti i suoi figli, Dean.”
“Non li hai uccisi tu! E per la miseria, anche tu sei suo figlio.”
Si strinse nelle spalle. “Non più.”
Dean si stropicciò mento e bocca con il palmo, un fastidio enorme allo stomaco per quanto la rassegnazione di Cas lo facesse stare… male. E stava cercando di non ribattere e dirgli quanto tutto quello che aveva detto fosse una stronzata. Ma alla fine chi era lui per giudicare i rapporti familiari? O giudicare qualunque cosa a prescindere? In più, discuterne non sarebbe servito a nessuno dei due.
“Non è… non è qui che volevo arrivare con questa storia. Anche se, credimi, non mi fa piacere sentirti dire che non appartieni alla tua stessa famiglia…”
“Come a me non piace sentirti dire che hai dei demoni nella testa,” tagliò corto Cas.
“Giusto,” Dean azzardò un sorriso che Cas riuscì quasi a contraccambiare – si era un po’ rilassato, almeno.
Era strana quella situazione, Dean avrebbe voluto sentirsi diverso. Dopo quel break down emotivo, il minimo sarebbe stato provare disagio. E c’era certo una specie di imbarazzo di base nell’essere stati visti al proprio punto più basso – o almeno uno dei più bassi – invece di disagio non ne trovava traccia. Forse era per via di tutto quel tempo speso a far riaffiorare Cas, a volerlo proteggere. Forse perché sapeva che Cas non l’aveva guardato e visto debole, ma solo… rotto, come lui. Forse quando si conoscono le crepe degli altri, è più facile non avere vergogna delle proprie.
“Quello che volevo dire è…”, tentò di ricominciare. “Te l’ho chiesto perché… perché oggi ho scritto una lettera anch’io.” Studiò il volto di Cas, che rimase inespressivo, sebbene in ascolto. “A mia madre.”
Qualcosa gli si accese nello sguardo, un guizzo in quel mare di blu. “Davvero.”
Non era nemmeno una domanda, anche se raramente con lui lo erano.
“Davvero,” si costrinse a non stropicciare le coperte per il nervosismo come una ragazzina. Questo era un argomento mai toccato prima, tabù con papà e conseguentemente con Sam. “Se ti può consolare, nemmeno questa verrà spedita.”
Riprovò con un altro sorriso, ma a questo Cas non pareva intenzionato a reciprocare. “Non mi porta nessuna consolazione, Dean.”
Per la prima volta si ritrovò ad abbassare lo sguardo sotto la ferrea rigidità di Cas, anche se con un sorriso a mezza bocca. Una morsa gli stringeva lo stomaco, perché quel tipo di sguardo era proprio quello che nel pomeriggio, in un momento di pausa dalla scrittura, aveva buttato giù in un ritratto che ora giaceva nascosto tra la rete fredda del letto e il materasso.

**

Era stato un paziente modello per giorni – ok, se si escludeva l’aver cercato di andarsene dal letto prima del tempo consigliato dal dottore, ma cazzo se si annoiava – e finalmente lo lasciarono uscire dalla sua stanza per tornare insieme a tutti gli altri residenti. (Già, residenti, come se cambiare il nome li facesse sentire meno prigionieri, là dentro).
Dean si trascinò per il corridoio, le spalle ricurve sotto gli ultimi effetti dei sedativi. Si raddrizzò appena quando un infermiere passò con un carrello pieno di bicchierini e medicine, lanciandogli un sorriso e un mezzo saluto con la mano, per poi incurvarsi di nuovo su se stesso non appena fu di nuovo solo.
Raggiunta la soglia della saletta si affacciò, appoggiandosi allo stipite bianco della porta a vetri. Cas era lì. Al suo solito posto, le mani rigidamente posate sulle cosce, la testa proiettata chissà dove tra le fronde degli alberi del giardino. Dean ebbe un dejà-vu di Cas al suo primo giorno di ricovero. Sembrava ugualmente perso come allora. Ma prima di andare ad annunciargli la buona notizia della sua recente liberazione, c’era un’altra cosa che Dean doveva fare. E non sarebbe stato divertente.
Dean si trascinò via, mettendo tutta la sua risoluzione nella camminata.

“Pronto?”
“Sam.”
“Dean! Oh, grazie al cielo… Sono giorni che cerco di vederti! I dottori non mi permettevano di-”
“Sam, basta con le stronzate.”
“Cosa? Che stronzate?”
Quell’idiota sembrava genuinamente sorpreso. E un po’ ferito, forse.
“Bobby è venuto a trovarmi.”
“Sì… Uh, lo so, la scorsa settimana.”
“Esatto. E indovina cosa mi ha detto?”
Una pausa. Una lunga pausa. “Non lo so, cosa?”
“Tutto, Sammy. Mi ha detto tutto.”
Di nuovo il silenzio. Dean si immaginava troppo bene Sam con una mano tra i capelli, ed era un’immagine che faceva schifo, ma così stavano le cose.
“Come hai potuto non dirmelo!”
“Dean...”
“No, Dean un cazzo. Hai perso tutto, Sam!”
“Non ho perso te.”
“Cosa?”
Oddio, Dean sperava non fosse un altro di quei momenti hippie di Sam. Odiava i momenti hippie di Sam.
“Non posso- senti…”, si schiarì la voce. “Dean, c’è una cosa sola che non posso perdere, e quella cosa sei tu.”
Dean appoggiò la fronte contro la plastica fredda della cabina telefonica dell’ospedale, gli occhi chiusi.
“Sam…”
“No, ascoltami. Lo so che adesso sei incazzato, e lo capisco, ok? Ma non c’era assolutamente nient’altro che potessi fare. Pensi davvero che sarei riuscito a tornare a scuola? A seguire una vita normale, con te là dentro?”
Stavolta era il turno di Dean di fare una pausa. “E Jess?”
“Ci abbiamo provato. A distanza. Non ha funzionato.”
Dean poteva capirlo. Con una stretta di pugni, riuscì anche a capire l’impulso di traferirsi per stargli più vicino. Dannazione, era la stessa cosa che avrebbe fatto anche lui, no?
“Ok, senti. Sto cercando di farmi andare giù tutto, e non è facile, ma ehi, non è niente che non abbia fatto anch’io in passato, più o meno.”
Sam ridacchiò lievemente, sicuramente ricordando anche lui tutte le volte in cui Dean aveva messo Sam in cima alla lista delle sue priorità, dalla morte della mamma fino a quando era partito per Stanford.
Anzi, soprattutto quando era partito per Stanford, visto che Dean lo aveva lasciato andare via e farsi una vita, facendolo scappare dalle assurdità di John.
“Ma non è il modo di vivere, amico.”
“Sto perfettamente bene.”
“Ah, sì? Quand’è stata l’ultima volta che ti sei fatto una doccia?”
“Uh…”
“Esattamente. E il motel…”
“È un modo come un altro di fare soldi…”
“…non puoi vivere in una topaia…”
“…se tu non fossi così occupato a giudicare…”
“Oh, andiamo, Sam, non prendermi per il culo!”
“Winchester!”, l’addetta alla reception fece trasalire Dean, che si impegnò per non prenderla a male parole quando gli fece cenno di abbassare la voce.
“…te ne renderesti conto e mi lasceresti essere un adulto, cosa che, se non te ne fossi accorto, sono già,” stava intanto dicendo Sam.
Dean si voltò per dare la schiena alla receptionist. “Sam, hai 22 anni, non sei un adulto.”
“Finiscila. Sono perfettamente in grado di prendermi cura di me stesso.”
“E allora ricordati di farti la doccia!”
“Me la faccio! Dio, sei peggio di…”
Sam si bloccò bruscamente.
“Peggio di cosa?”
“Dean…”
“Coraggio, voglio sentirti finire quella frase.”
Sam lasciò andare un lungo sospiro. “Lo sai che cosa volevo dire e sai anche che non era veramente quello che intendevo.”
“Non lo so, a me sembrava molto che tu stessi per dire che sono peggio di papà. Il che sarebbe piuttosto fottutamente ironico.”
Sam rimase in silenzio ancora qualche momento, Dean sentì un movimento che associò alle dita che grattano una barba non fatta da giorni. “Lo sai che non è vero.”
“Lo so?”
“Cristo, Dean, se dopo tutti quei mesi là dentro non sei ancora giunto a questa conclusione, magari l’unica cura possibile è prenderti a calci.”
“Mmh. Tough love*. Mi piace.”
Ridacchiarono entrambi come due idioti. Sam aveva ragione, non esisteva nessuna versione del mondo in cui lui fosse uguale a papà. Idiota, sì, incasinato nel cervello, certo, ma quanto John? Mai.
“Dean…”
“Senti, Sam…”
Avevano di nuovo cominciato a parlare contemporaneamente.
“Prima tu,” gli concesse Sam.
“Va bene. Io… sto veramente cercando di guarire, qui, ok? E con Cas e tutto… non è facile, ma ci stiamo lavorando. Ma non posso farlo se tu non sei con me, se vivo col pensiero di te in uno schifo di posto a fare dei lavori di merda.” Dean poteva chiaramente sentire un sorriso di scherno sulle labbra del fratello. “Devi lavorare con me, amico. Se io mi devo fare il culo per stare meglio, devi farlo anche tu, ok?”
La voce di Sam si era addolcita notevolmente quando parlò di nuovo, con l’ombra di un sorriso che vi aleggiava dentro. “Certo, Dean.”
“Bene. E un’altra cosa.”
“Cosa?”
“Devi farmi una promessa solenne. Croci sul cuore e tutto.”
“Certo, qualunque cosa.”
Dean lasciò che salisse ancora un po’ l’anticipazione.
“Fatti una doccia.”
Sam scoppiò a ridere. “Coglione.”
“Stronzo.”

**

Dean stava pensando seriamente di arrivare alle spalle di Cas, afferrarlo e urlare: “Buuh!”, ma non era del tutto certo che l’ex soldato non l’avrebbe ucciso subito dopo con una super mossa militare. Si limitò a sedersi con (immaginaria) fluidità sulla sua solita seggiolina e godersi l’espressione sorpresa di Cas, tutta occhi spalancati e blu.
“Ehi, Cas.”
“Dean. Come hai-“
“Sono stato rilasciando ufficialmente. Per buona condotta.”
Castiel piegò le labbra in un sorriso lieve. “Ne dubito seriamente.”
“Ok, va bene, non per buona condotta. Perché, non sei felice di vedermi qui?”
“Certo che ne sono felice. Avevo solo paura ti fossi…”
“Cosa?”, Dean ridacchiò. “Che mi fossi auto-assolto?”
“Non hai bisogno di assoluzione, Dean.”
Certo che se Cas lo diceva così seriamente, così onestamente, finiva per crederci anche lui.
“Come ti pare. Com’è andata, qui? Ci sono novità? Vedo che Sue sta ancora cercando di decorare le pareti con le sue feci, che cosa carina.”
Castiel non si voltò nemmeno a guardare, rimanendo fisso su di lui (come se lasciassero veramente prendere in mano le proprie feci a qualcuno, andiamo gente!).
“Tu come stai, Dean?”
“Come un fiore,” intrecciò le mani davanti a sé, sul tavolino. “Ho chiamato Sam.”
Castiel annuì, concentratissimo.
“Abbiamo parlato,” Dean scrollò le spalle. “Va tutto bene. Penso che starà bene.”
“Lo penso anch’io.”
La sicurezza nel suo tono fece qualcosa alle viscere di Dean, un annodamento particolare e caldo. E quello sguardo così preso, così – devoto, gli sarebbe venuto da dire – dolce, ma attento, ecco, quello sguardo era uno di quelli che lo lasciavano senza parole, capace solo di fissarlo di rimando, con nessuna precisa indicazione su quale espressione avesse messo su la sua faccia.
Probabilmente fu per quello, per quella quieta osservazione da entrambe le parti – il soldato, rigido sulla sedia con le spalle ricurve, e il guerriero, con le mani sul tavolo e il cuore in gola – che Dean non si rese conto dell’avvicinarsi di un qualcosa di drastico, una di quelle che cambiano il corso di una vita.
Anzi, quando si accorse dell’arrivo dell’altra presenza al loro tavolo, era già troppo fottutamente tardi, e non c'era modo di tornare indietro, o fuggire.
“Dean,” disse John. “Ciao.”
John Winchester.
Suo padre.




Note dell’autrice:
Primo:
TAN TAN TAN TAAAAAAAAAAAAAAAAAAN!!!
Secondo: come sempre, scusate del ritardo. Ho avuto qualche problema di feels, vita privata, e troppa roba da scrivere. Sono stata sveglia finora (4 AM) per concludere questo capitolo, quindi spero possiate chiudere un occhio – soprattutto se trovate degli errori.
Terzo: quel “tough love”* non ha una traduzione italiana decente quindi lo lascio così. Sostanzialmente, è un'espressione che indica quando ti intrometti nella vita di una persona, rivolgendoti a loro in modo rude e a volte anche crudele, ma per il loro bene. Più o meno. Ve l’ho detto che non c’è una traduzione decente, no?
Quarto:
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Capitolo 9
*** Somewhere I Belong ***



 
9.

I wanna heal
I wanna feel like I’m close to something real
I wanna find something I wanted all along
Somewhere I belong

           



L’ora del martedì era la più facile di tutte, per Meg.
Dei pazienti che si susseguivano giorno dopo giorno alla sua scrivania, vomitandole addosso lacrime da coccodrillo e insulti, Castiel era il suo preferito. Veniva ogni settimana in perfetto orario, si sedeva al suo posto, si metteva in quella che lui probabilmente riteneva una posizione comoda, e fine. Non parlava. Non proferiva parola. A niente erano serviti i suoi tentativi di fargli dire anche solo ‘Buongiorno’ quando entrava dalla porta. Sembrava un automa, il soldato perfetto, come diceva la sua cartella clinica. Col passare dei mesi ci aveva dato su, e quando arrivava il loro appuntamento, si accomodava felicemente coi piedi sulla scrivania e si dedicava a fare quello che non riusciva a fare durante le altre sue ore come Dottoressa Masters, per poi accompagnarlo alla porta e rimettere su le sue vesti ufficiali alla fine dell’ora. Non si aspettava niente di più, da lui, se non completo ed inesorabile silenzio. Castiel aveva anche assistito ad innumerevoli telefonate con quello stronzo dell’avvocato di Crowley (e con l’ex marito in persona, in un paio di occasioni, e Meg doveva ammettere di aver urlato almeno una di quelle volte) ma lui niente, non batteva mai ciglio e rimaneva imperterrito a fissare il vuoto.
Quel martedì, però, qualcosa la turbava. Forse era il fatto che Castiel fosse in ritardo di 10 minuti e non era mai successo, o forse era quello che le aveva detto il Dottor Milton: Castiel gli aveva parlato.
Meg aveva fatto di tutto per rimanere impassibile davanti alla notizia, ma si era fatta ripetere parola per parola quello che si erano detti. Per motivi terapeutici, chiaro, non perché fosse curiosa come una gatta. Fece una smorfia, doveva smetterla di fare così. Non vedeva l’ora che arrivasse il momento in cui le frasi di Crowley (“Sempre curiosa come una gatta, eh?”) le scivolassero via dall’inconscio. Avesse potuto, le avrebbe spellate via lei stessa.
Al rintocco del dodicesimo minuto, la porta si aprì su di un Castiel scompigliato, con le spalle cadenti, la faccia livida dalle occhiaie. Meg lo fissò con sorpresa senza riuscire a proferire parola lei stessa.
Lo osservò richiudersi la porta alle spalle e sedersi al suo posto, stavolta scomposto, con il gomito sul bracciolo e il mento sul palmo, pensieroso. Preoccupato.
Aveva a che fare con quel Winchester? Dopo la conversazione con Milton era andata a spulciarsi la sua cartella clinica. Un caso da manuale di schizofrenia paranoide, quello. E chiaramente il suo muto con PTSD doveva collidere con una personalità del genere. Un classico, il salvatore e il salvato che non vuole essere salvato. Non avrebbero mai dovuto farli incontrare, due così.
La curiosità professionale le solleticò un po’ la gola. Avrebbe volentieri ceduto il mutismo per la schizofrenia, doveva chiedere a Milton di fare a cambio.
“Castiel,” esordì. Visto che sembrava fuori dalla sua membrana, doveva provare a fare breccia pure lei.
Il paziente si voltò a guardarla con uno sguardo di confusa disperazione. Almeno era qualcosa.
“C’è qualcosa di cui vorrebbe parlarmi, per caso?”
E incrociò le dita. Era una ‘fredda stronza malefica’ (con perfetto accento British di Crowley a risuonarle in testa) ma ciò non voleva dire che non le piacesse fare il suo lavoro. Voleva, doveva far parlare il suo paziente e rispedirlo più o meno funzionante in società, a metter su una famiglia e fare danni anche in quella, creando un’altra generazione di pazienti e via dicendo. Ok, forse era davvero una fredda stronza malefica.
Castiel sembrò accogliere la domanda con gioia. Sì, c’era qualcosa di cui voleva parlare. Con estremo fastidio di Meg, si scoprì che non voleva affatto parlare di se stesso e della propria terapia.

La prima volta che Castiel parlò, fu di un’altra persona. Parlò di Dean Winchester. Prevedibile, certo, ma comunque una sorpresa. Si sporse in avanti, incrociò le dita tra le ginocchia e le piantò addosso uno sguardo blu e tormentato.
“John Winchester è tornato,” asserì, come se questo significasse qualcosa. Come se per tutti dovesse avere lo stesso peso che gliene dava lui.
“È imparentato con il suo amico Dean?”, tentò Meg. Castiel annuì, ancora rigido. Sembrava deciso a parlare ma contemporaneamente a mantenersi placido, come un’esplosione che si rifiuta di accadere. La sua tranquillità era disarmante, così scoordinata dal suo aspetto e dal subbuglio che doveva avere dentro.
“Si è avvicinato al nostro tavolo come se niente fosse. Come se non fosse una bomba appena caduta in un campo profughi.”
Meg annotò mentalmente l’analogia militare.
“E la faccia di Dean. Lui era… completamente perso. Non l’avevo mai visto così, con l’espressione di un bambino sperduto.”
Sospirò. Meg non avrebbe voluto niente per paura di fermare il miracolo, ma non si trattenne.
“Era la prima volta che questo parente veniva a trovarlo, quindi.”
Castiel sembrò quasi stupito che lei non sapesse di chi stessero parlando. “Padre. È suo padre.”
Problemi col padre, un classico.
“No, non era mai venuto. Non si faceva vivo da quasi un anno.”
Paura dell’abbandono, chiaro.
“Ha detto il motivo del suo ritorno al suo amico?”
Castiel chiuse brevemente gli occhi, prese un altro lungo sospiro. “Sì. È nel programma degli alcolisti anonimi.”
Quindi i 12 passi, chiedere scusa. Niente di nuovo. Meg era sempre più intrigata, soprattutto dal perché la cosa avesse spinto Castiel a rompere quel lungo silenzio, a sconvolgerlo così tanto.
“Penso sia un passo importante per Dean,” azzardò. “Sarà stato un momento topico, per lui. Rivedere il padre, ricevere le sue scuse. Magari riuscire a perdonarlo.”
Si allungò contro la sedia, pensieroso. “Sì. Sì, lo è stato. Dean era… molto sorpreso. E credo che John… sì, John gli ha fatto capire molte cose.”
Forse stavano andando da qualche parte.
“Cosa pensa gli abbia fatto capire?”
“Che non era colpa sua. Che niente di tutto quello che gli aveva fatto credere era vero. Che non è pazzo.”
Meg intrecciò le gambe sotto la scrivania, pendendo dalle sue labbra. “Pensa che possa succedere anche a lei? Che qualcuno entri qua dentro a dirle quello che vorrebbe sentirsi dire?”
Castiel scosse piano la testa, sembrava in un luogo lontano, come se l’ascoltasse solo in parte. “No, non è… A me non succederà.”
“Ne è così sicuro? Potrebbe ricevere questa certezza anche da qualcuno che non si aspetta. Qualcuno al di fuori della sua famiglia.”
Il ragazzo la incenerì con lo sguardo. “Non è della mia famiglia che sto parlando. E non ho bisogno che mi dicano che non sono pazzo, per saperlo.”
“Quindi crede che Dean non fosse in grado di saperlo da solo?”
“Dean… è diverso.”
Non aggiunse altro, non addusse spiegazioni. Meg cominciava a dubitare che qualunque cosa stessero dicendo, gli sarebbe stata utile per aiutarlo nella terapia.
“Quindi si sono parlati, chiariti. Lei cosa ha fatto?”
“John ha parlato. Ha porto le sue scuse. Dean ha ascoltato e poi…”
“E poi?”, lo incalzò.
“E poi me ne sono andato,” ammise, sempre più affranto.
“Perché?”
“Perché ho visto il sollievo sul suo volto. Perché Dean starà meglio.”
“Bene. È un bene per il suo amico, no?”
Castiel annuì, lentamente. “Per lui, sì.”
“E per lei no?”
Finalmente il bandolo della matassa stava arrivando al termine.
“Non proprio, no.”
“E perché?”
“Perché tutto questo vuol dire che Dean… se ne andrà.”
Si schiacciò contro la sedia, come sconfitto di fronte a quell’improvvisa realizzazione.
“Certo, e questo è un po’ il punto, non crede? È anche il nostro obiettivo.”
Ma Castiel aveva smesso completamente di ascoltarla. Si era raccolto nella sua posizione standard da appuntamento del martedì, e aveva ripreso a fissare il vuoto di fronte a sé.
Meg provò a richiamarlo al qui e ora, ad attirarlo con domande su questo Dean Winchester, a sventolargli sotto il naso interpretazioni sulle analogie tra la sua situazione e quella del suo amico, ma niente. Castiel era tornato il suo muto paziente di sempre.
Lo osservò per i rimanenti dieci minuti mentre si limava le unghie, pensando e ripensando alle cose che le aveva detto, a come utilizzarle per elaborare una strategia di successo.
Allo scoccare della fine dell’ora, si alzò come un automa e si diresse verso la porta. Meg gliela aprì e lo lasciò uscire, come da prassi. Si richiuse dentro a pensare nei 10 minuti di tempo prima del prossimo paziente. L’unica soluzione che le venisse in mente, era quella di provare a parlare con questo Dean Winchester.



Note dell'autrice:
Capitolo corto, ma necessario. Scusate per le lunghe pause, sono una necessità dettata dalla mia nuova abitazione DOVE NON PRENDE INTERNET MA TE PARE CHE SIAMO NEL 2016 ED ESISTONO ANCORA POSTI DOVE NON PRENDE INTERNET ok mi calmo. Anyway... lancio la campagna #saveCas perché è un cutie pie e... ecco. Buonanotte.
solito link alla mia pagina Autrice: cliccate
qui

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Capitolo 10
*** Honey Bee ***





   
10.

Ask me why
There's pain and there's lies
Don't always have the answer but I'm happy to try
Ask me how
There's you and there's now
I'll share it with you soon as I can figure it out
 
 
Dean stava meglio.
Lo si vedeva chiaramente dallo sguardo limpido che gli rivolgeva mentre aspettavano Sam, e gli sorrideva in modo genuino, seduto con gli avambracci sul tavolo e le dita intrecciate tra loro, parlando di qualcosa che Cas non stava assolutamente ascoltando – sicuramente di qualcosa di futile per ingannare l’attesa.
Sembrava quasi in pace con se stesso. Cas non se ne stupiva, John doveva avergli tolto un enorme peso dalle spalle.
Sam arrivò in perfetto orario, il primo della fila del manipolo di visitatori del giorno. Dean gli andò incontro con una certa urgenza e si scambiarono un lungo abbraccio prima di pilotarlo al loro tavolo, dove Sam si premurò di salutare Cas con un sorriso tirato dalla tensione. Dean doveva avergli parlato della visita di John al telefono.
Ne parlarono (conversazione che Cas non aveva voluto ascoltare, mettendosi a guardare con ostinazione fuori dalla finestra e canticchiandosi un motivetto nella testa), e Sam ne era tutt’altro che contento, ma poi doveva aver visto il miglioramento repentino di Dean con i suoi occhi, perché si mise a guardare il fratello maggiore con un misto di orgoglio e luminosissima felicità. Sembrava una lampada, da tutta l’energia e il calore che sprizzava da ogni poro.
Cas cercava di esserne felice. E lo era, davvero, come poteva non esserlo? Come poteva non gioire del benessere dell’amico più caro che avesse al mondo?
Si affossò sempre più nella sua sedia per i sensi di colpa. Era un egoista, lo sapeva, ma vedere Dean migliorare lo riempiva di un terrore indescrivibile.
Neanche gli incubi gli facevano più compagnia, le notti, dato che le passava per lo più insonne.
Sam se ne andò cercando di abbracciare anche lui, cosa che Cas accolse con la sua solita immobilità. Dean gli piazzò una pacca sulla spalla, felice, mentre guardava il fratellino andarsene via con il volto sorridente.

“Cas.”
Dean gli schioccò le dita davanti agli occhi. “Dove sei in questi giorni, amico?”
Addentò un’enorme fetta di pane che gli era stata servita con la zuppa. Cas la sua l’aveva a malapena toccata e se ne stava lì, le braccia penzoloni tra le cosce, lottando come sempre con l’idea di essere un mostro, anche se per motivi completamente diversi, stavolta.
“Andiamo, Cas. Parlami.”
Si costrinse a tornare al presente, infilando la paura del futuro in una grotta lontana del suo cervello. “Cosa vorresti che ti dicessi?”, chiese, sinceramente.
“Dove te ne vai con la testa? Sono giorni che ci sei a malapena. Va tutto bene?”
Dean si infilò la rimanente fetta di pane in bocca, asciugandosi le mani col tovagliolo ma senza mai distogliere lo sguardo da Cas.
“Non vado da nessuna parte.”
“Certo,” abbozzò Dean, poco convinto. “Ora che ci sei ne approfitto, volevo darti un’altra buona notizia.”
Un’altra? Cosa stava per succedere, di nuovo? Un altro parente con una lista di scuse?
Cas si accigliò, in attesa.
“Sam ed io… abbiamo deciso di cercare casa insieme.”
“Oh.”
“Sai, visto che quando uscirò di qui non ho intenzione di andare a vivere in quel buco di Motel di merda.”
Castiel non rispose.
“Voglio una casa vera e propria sai? Con un divano, una cucina, una lavatrice… tutta quella merda lì.”
“Certo,” si sorprese a dire. Alla fine John lo aveva tenuto sempre tenuto incollato alla strada, Dean non conosceva la sensazione di avere una casa da quando aveva circa 4 anni.
“Quindi ho pensato… perché no? Ci prendiamo un appartamento in affitto. Da qualche parte vicino a Stanford, così può tornarsene a scuola. E in due si spende decisamente meno,” un sorriso luminoso gli illuminò il volto. “Certo, sempre che non si rimetta con Jess.”
Scosse la testa, contento, e bevve un lungo sorso d’acqua. “Quello sarebbe il massimo.”
Castiel rimase immobile, pietrificato. Stava già avvenendo. Il futuro era lì, e lo stava guardando in faccia. Molto prima di quel che aveva pensato.
“Sai…”, Dean cominciò a tamburellare le dita contro il vetro del bicchiere. “Potresti venire a trovarci.”
Azzardò uno sguardo nella sua direzione, e sicuramente vide le sue sopracciglia scattare verso l’alto, occupate a riempirgli tutta la fronte per la sorpresa. “Quando uscirai anche tu, voglio dire. Sarai… sei sempre il benvenuto.”
No.
“No?”, ripeté Dean, stupito, battendo le ciglia. Castiel non si era accorto di aver parlato.
Non poteva farcela. Non lui, non Castiel.
Dean se ne sarebbe andato. L’avrebbe lasciato lì, solo.
Senza il suo tocco, le sue mani, il prato verde d’estate dei suoi occhi.
Non ci sarebbe più stato nessuno a riportarlo indietro.
Cosa avrebbe dovuto fare, aspettare semplicemente che Dean se ne andasse? Tenere d’occhio il calendario, segnarsi i giorni, e magari avere un break-down emotivo il mattino dopo la sua partenza, cosa da cui nessuno avrebbe potuto tirarlo fuori? Perché l’unico che poteva farlo gli stava di fronte, e lo guardava con uno sguardo ferito e così innocente. Perché Dean era innocente, lo sapevano tutti. Lo sapeva Sam, lo sapeva Cas, lo sapeva suo padre, e ora finalmente lo sapeva anche lui. Era Castiel il mostro. Il rovina famiglie. L’abominio.
Quindi, no.
Non avrebbe aspettato. C’erano tante cose che si meritava, ma torturarsi nell’attesa della partenza di Dean non era una di queste. Persino l’aver ucciso la propria famiglia non gli sembrava abbastanza da farsi questo.
Avrebbe cominciato subito ad imparare a fare a meno di lui.
A riabituarsi alla vita senza Dean Winchester.
Prese un grande sospiro (“Cas, come sarebbe a dire ‘no’?”) e si voltò verso la finestra, vecchia compagna di avventure. Ci si tuffò dentro, aspettando che il familiare torpore lo invadesse da dentro, spegnendo tutto completamente.
Dopo poco, riuscì a non sentire più nemmeno la voce di Dean che continuava a chiamarlo.
 
 


Spazio autrice:
vi prego, non odiatemi… era necessario… ve l’ho detto che per Cas questa è la sua penitenza, no? Il suo Purgatorio. Ecco. 
Scusatemi XD
Spero che almeno siate felici di aver ricevuto il capitolo successivo in così poco tempo. No, eh? Aiut!

Ps: cliccate qui per un "missing moment" della storia, ambientato una delle notti passate in camera di Dean quando era sotto sedativi. Un po' di Fluff fa bene all'anima!
 

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Capitolo 11
*** Mamma's Jam ***





11.

 Pain is on the outside
 We will not let it in
  Wavin' from the windows
  Breezin' in the wind
   Cryin' at the rainbow
    You locked the door again



 
“Dean,” disse John Winchester. “Ciao.”
Dean avrebbe riconosciuto la sua voce ovunque, e suo padre era proprio lì, di fronte a lui. Un po’ stropicciato, la barba non fatta da giorni, un sorriso teso e gli occhi nascosti da un paio di spessi occhiali neri. Dean si ritrasse istintivamente, cozzando con le spalle lo schienale della sedia. “Cos-“
John non si prese la briga di aggiungere altro o chiedere il permesso prima di afferrare una sedia e aggiungersi al loro tavolo, una nota di tensione a fare a pugni con la finta tranquillità che mise nel gesto.
Dean lo guardò continuando a battere le palpebre, una marea di domande che gli si formavano nel petto. ‘Cosa ci fai qui’, ‘Dove sei stato tutto questo tempo’, ‘Perché mi hai abbandonato’.
“Come mi hai trovato?”, fu quella che trovò l’uscita giusta fuori dalla gola.
John sorrise, l’implicazione che per lui fosse difficile trovare chicchessia semplicemente divertente. Si schiarì la voce, si voltò verso Castiel ed allungò la mano. “John, piacere di conoscerti.”
Si scambiarono una stretta veloce prima che John lo escludesse completamente dal suo campo visivo, voltandogli le spalle. Dean si soffermò sugli occhi spalancati di Cas, che doveva aver capito chi si trovava davanti ed era stupefatto tanto quanto lui. Beh, almeno non era solo.
John adesso lo stava guardando con un’espressione strana, come se stesse aspettando qualcosa, quella tensione ancora più palpabile nell’aria. Dean si guardò intorno furtivamente, colpito da un’improvvisa realizzazione, e si avvicinò chinandosi in avanti. “Sei a caccia?”, sussurrò. Era un motivo più che plausibile per rispuntare così dal nulla. E per chiedere che Dean lo aiutasse a finire il lavoro, come tutte le altre volte. Ma le cose non stavano più così, non per Dean almeno.
“No,” John ridacchiò di nuovo. “Sono qui per vedere te.”
Si allacciò le mani in grembo e continuò a guardarlo con quel sorriso spiazzante, e quella strana espressione di attesa.
“Me?”, riuscì a chiedergli.
John si strofinò brevemente il naso con le dita. “Sei sempre mio figlio, Dean. Sei davvero così sorpreso?”
“Oh, andiamo. Smettila con la recita e dimmi cosa cazzo sei venuto a fare. Non mi bevo la sceneggiata paterna, signore.”
John contrasse la mascella. Un gesto che Dean conosceva bene, e che gli mandò delle immediate scariche di paura e senso di colpa giù nello stomaco. Se papà era arrabbiato era un male, il suo compito era quello di obbedire e compiacerlo, nient’altro. Ricacciò tutto indietro, stringendo i pugni.
“Io, uh…”, John perse d’improvviso tutta la sua patina di invincibilità. “Sono venuto… a chiederti scusa, a dire il vero.”
Dean mandò a volare le ciglia su e giù un altro paio di volte. “A chiedermi scusa?”
“Sì, sono uh… sono nel programma. Sono entrato nel programma degli alcolisti anonimi da uh… qualche mese ormai.”
Si strofinò di nuovo il naso.
“Mi ha aiutato una vecchia amica, Missouri, te la ricordi? No? Non importa. Lei uh… mi ha ripescato da un brutto baratro e… mi spiace di averti lasciato da solo, Dean. So quanto dev’essere stata dura, per te.”
Il cervello di Dean si riattivò di colpo. “Dura? Mi prendi per il culo?”
“No, lo so, io… con tutta quella roba dei demoni…”
“Tutta quella roba?!”, Dean stava praticamente urlando. Qualcuno nella saletta lo ammonì di abbassare la voce, ma non lo registrò nemmeno.
“Quello che sto cercando di dirti è che… è colpa mia.”
“Ma non dirmi!”
“Dean…”
“No, Dean un cazzo! Pensi di poter piombare qui, sventolarmi le tue scuse del cazzo e pace fatta? Puoi prenderti i tuoi cazzo di 12 passi di merda e infilarteli su per il culo. Abbiamo finito.”
“Dean…”
“Abbiamo finito!”
Dean non rilasciò la mascella, tenendo i denti serrati mentre suo padre lo scrutava in volto per cercare una qualche apertura. Non trovandone nemmeno una, si alzò lentamente, come un vecchio ex alcolizzato qualsiasi. Sconfitto e perso. Si allontanò con un passo più pesante di quel che Dean ricordava, ricurvo su se stesso. Provò quasi pena per lui.
Si ricordò che Castiel aveva assistito a tutta la scena, e si voltò a guardarlo, un insulto scherzoso verso il padre per allentare la tensione già sulla lingua.
Ma l’espressione di Cas glielo fece morire in gola. Era piatta, vuota, immota. Dean si era aspettato la sua compassione, che per qualche motivo era l’unica al mondo a non metterlo a disagio, invece si era ritrovato davanti il niente. E non c’era bisogno di scherzare per scacciare il niente, no?
“Cas?”, disse invece.
“Sì?”, rispose, tranquillo.
“Tutto okay, amico?”
“Certo, Dean.”
Cas si strofinò brevemente i palmi sulle cosce. “Credo che andrò nella mia camera, ora.”
“Uh, okay. Certo. Ci vediamo-“
“Buona giornata, Dean.”
Dean guardò per la seconda volta allontanarsi qualcuno da lui nel giro di 5 minuti. Questa volta era diverso, certo. La schiena di John erano sensi di colpa, dolore, altre emozioni che non sapeva spiegarsi bene, essendo collegate a suo padre. Quella di Cas gli mandava un senso indefinito di allarme, e anche di dispiacere. Avrebbe voluto parlargli di quello che era appena successo.
Forse Castiel era scombussolato quanto lui, però. I suoi rapporti con la famiglia erano più complicati di quanto desse a vedere, Dean ne era sicuro. Di certo aveva solo bisogno di un momento per schiarirsi le idee. La cosa importante era che fosse sempre lì, che gli avesse parlato e non si fosse ritirato in se stesso.
L’indomani sarebbe sicuramente stato meglio.
E poi aveva sempre Sam, con cui parlarne, no? Ecco, chiamarlo adesso era la cosa migliore, così non avrebbe dovuto aspettare domani per dirgli tutto. Si mosse verso il telefono ancora con la sensazione che qualcosa non quadrasse, ma la cacciò via per premere i pulsanti di chiamata.

**

Cas era silenzioso.
Un po’ troppo, anche per lui. Era un silenzio con un peso diverso. Non era fuori di sé, non guardava fuori dalla finestra, era proprio perso tra i suoi pensieri. Dean poteva quasi vedere le rotelle che giravano, là dentro.
Immaginava che non avesse ancora avuto tempo di digerire l’improvvisata di John. Cavolo, nemmeno lui ci era riuscito. Si era girato e rigirato nel letto senza riuscire a dormire quasi nulla – e no, non ammetterà di aver sperato in una delle visite notturne di Cas.
Pensò comunque che fosse meglio non disturbarlo, e lasciarlo ponderare le sue cose da solo. Era assolutamente certo che Cas sapesse di poter parlare con lui, se lo avesse voluto. Quindi non doveva far altro che aspettare che si sentisse pronto a farlo, e nel frattempo poteva continuare a parlare di cazzate come stava facendo (qualcosa riguardo ad un film che aveva visto un weekend in cui era rimasto da solo tanti anni fa, una di quelle volte in cui John era andato a caccia e Sammy era già al college)  per ingannare l’attesa.
Sam entrò finalmente nel suo campo visivo, affannato e impaziente davanti alla fila dei visitatori. Non si fermò a salutare l’infermiera di turno come faceva sempre, praticamente correndo verso Dean, che gli andò incontro – non poteva sopportare di vederlo così in ansia. Si abbracciarono un po’ più a lungo del solito, prima che Dean lo pilotasse al tavolo vicino a Cas e Sam si sedesse pesantemente sulla sedia vuota.
“Raccontami tutto,” ordinò senza preamboli. Bisognava riconoscergli il pregio di andare dritti al sodo.
“Papà è venuto, ha chiesto scusa, e se n’è andato. Fine.”
“Sì, è quello che mi hai detto al telefono. Dettagli, prego.”
“Beh, non c’è molto da dire. Non è stata una lunga conversazione, vero Cas?”
Ma Cas non li stava ascoltando, stava guardando fuori dalla finestra. Brutto segno. Dean alzò le spalle.
“Dean…”, Sam lo sollecitò ad andare avanti, esasperato.
“È negli alcolisti anonimi, ci credi?”
“Oh. Quindi era parte del programma, chiedere scusa eccetera?”
“Esatto. Figuriamoci se mi potevo beccare delle scuse sincere.”
“Beh…”, Sam si aggiustò sulla sedia, a disagio. “Magari erano sincere.”
“Sì, certo. E gli unicorni scoreggiano arcobaleni. Andiamo, Sam. Ha cercato di tirare fuori la storia dei demoni, di dirmi in pratica che è solo colpa sua se mi trovo qui.”
Sam allargò gli occhi dalla sorpresa, e aggrottò la fronte. “Wow. Questa è una cosa buona, Dean.”
“Una cosa buona? Col cazzo! È solo ed esclusivamente colpa mia se sono qui. Facile buttare tutta la colpa su di lui. Io gli ho creduto, io gli sono andato dietro per tutti questi anni. E se adesso sto meglio, non è certo perché lui è piombato qui a chiedermi scusa!”
Sam sorrise. “No, certo che no. Non era questo che intendevo. Stai andando alla grande, qui. Sono… sono davvero fiero di te.”
“Beh, grazie,” Dean gli piazzò un calcio deciso contro la sedia – che si spostò di nemmeno due centimetri, dannato gigante. “Sono fiero di me anch’io.”
**

Era passato pochissimo dalla visita di John, e dalle successive di Sam.
Dean e Cas stavano pranzando come sempre al loro tavolo – zuppa, e anche se non era uno dei suoi piatti preferiti, era proprio buona e Dean se la stava mangiando con gusto.
Castiel era sempre assorto tra i suoi pensieri, ma ormai non ne poteva più. Voleva parlare con lui. Gli mancava. E aveva anche delle ottime notizie che non vedeva l’ora di dargli da giorni.
Quindi, stufo del suo silenzio, gli schioccò le dita davanti agli occhi. Sapeva che avrebbe funzionato, in quei giorni di contemplazione misteriosa Cas era stato comunque presente. Un automa, che rispondeva a malapena, ma presente.
“Cas,” gli disse. “Dove sei, amico?”
Castiel lo mise a fuoco, ma non si degnò di dire nulla.
“Andiamo, parlami.”
“Cosa vorresti che ti dicessi?”
Wow, quel cretino era veramente… beh, cretino. “Dove te ne vai con la testa? Sono giorni che ci sei a malapena. Va tutto bene?”
Cas rimase immobile mentre Dean mangiava. “Non vado da nessuna parte.”
“Certo,” si lasciò sfuggire. Non voleva allontanarlo, né litigare. Non quando aveva un pezzetto della sua attenzione. "Ora che ci sei, ne approfitto. Volevo darti una buona notizia.”
Lo guardò battere le palpebre una volta, poi accigliarsi, senza dare altri segni di voler partecipare alla conversazione. Dean continuò comunque a parlare, sapendo che in qualche angolo di quel cervello, Cas stava registrando tutto.
“Sam e io… abbiamo deciso di cercare casa insieme.”
BOOM.
Perché questa era una notizia bomba, no? Lui e il suo fratellino, di nuovo insieme. Con un tetto sopra la testa, una casa, come due persone normali.
“Oh.”
Okay, non era proprio la risposta che Dean si aspettava. Ma era meglio di niente, no?
“Sai,” continuò, incapace di fermarsi, “visto che quando uscirò di qui non ho intenzione di andare a vivere in quel buco di Motel di merda. Voglio una casa vera e propria. Con un divano, una cucina, una lavatrice… tutta quella merda lì.”
“Certo.”
Castiel era più immobile che mai. Lo stomaco gli stava dicendo di smetterla, di prendere fiato, di ascoltare quel campanello d’allarme, ma Dean non ci riusciva, era lanciato.
“Quindi ho pensato… perché no? Ci prendiamo un appartamento in affitto. Da qualche parte vicino a Stanford, così può tornarsene a scuola. E in due si spende decisamente meno. Certo, sempre che non si rimetta con Jess.” Bevve una sorsata d’acqua. “Quello sarebbe il massimo.”
E lo sarebbe stato davvero. Avrebbe lasciato Sam tornare a casa a Stanford già da subito, ma quel maledetto testardo non ne voleva sapere. Dean sospettava che c’entrasse anche la paura di affrontare Jess, ma non poteva ribattere. Aveva davvero bisogno di Sam. Non ce l’avrebbe fatta a ricominciare da solo.
Il panico, l’allarme, così come erano arrivati se ne scivolarono via. Sarebbe andato tutto bene. Con Sam al suo fianco avrebbe potuto affrontare ogni cosa. E poi, quando si fossero sistemati, avrebbe preso a calci il culo di Sammy fino allo zerbino di casa di Jess, e ce lo avrebbe lasciato.
C’era solo una cosa in sospeso.
“Lo sai… potresti venire a trovarci.”
Azzardò un’occhiata, e Cas aveva una faccia comicamente sorpresa. E la sorpresa non era male, anzi, andava benissimo.
“Quando uscirai anche tu, voglio dire. Sarai… sei sempre il benvenuto.”
Per qualche secondo Dean sospettò che Cas non avesse nemmeno preso un respiro.
“No.”
“No?”, risputò subito. Questo non era il tipo di sorpresa che andava bene. Non andava bene per niente. Si era aspettato tante cose, ma un rifiuto? Così netto? Cosa diavolo c’era che non andava in quel piano?
Uscire da quel posto era un sogno, l’unico problema era non vedere più Cas, e lui aveva appena fornito ad entrambi una dannatissima soluzione!
“Cas, come sarebbe a dire ‘No’?”
Con estremo sgomento, guardò Castiel tuffarsi con lo sguardo nella finestra. Conosceva bene quell’espressione. Lo stava perdendo.
“Cas! Cas!”
Lo chiamò ancora e ancora, provò a scuoterlo per le gambe da sotto il tavolo, ma senza risultato. Non poteva credere che stesse succedendo di nuovo. Per che cosa, poi?
“CAS!”

**

Dean chiuse la zip del borsone con un gesto secco.
Doveva essere una bella giornata – c’era pure il sole fuori, l’estate al suo picco e tutta quella merda lì – e invece era anche la peggiore. La solita infermiera, quella che veniva a dargli le pillole della colazione ogni mattina, picchiettò le nocche contro lo stipite della porta.
“Sei pronto, Winchester?”
“Sì, sì, arrivo.”
Si sistemò la tracolla sulla spalla e diede un’ultima occhiata veloce alla stanza. Quasi gli dispiaceva lasciarla. Sammy lo aspettava nell’entrata davanti alla reception, e Dean affrettò il passo per andargli incontro. Dio, com’era diverso camminare con i jeans, dopo tutto quel tempo. Si scambiarono un abbraccio veloce ma strettissimo, prima che Sam tentasse di prendergli il borsone – cosa che Dean accolse con uno sguardo assassino, e Sam lasciò perdere alzando le mani. Come se non si sapesse portare da solo la sua merda, Cristo! Non disse niente, alla fine non era colpa di Sammy se era di cattivo umore. (Anche se andiamo, portargli il borsone? Cos’era, una ragazzina?)
“Hai sbrigato tutte le scartoffie?”, chiese. Voleva mettersi alle spalle quell’Ospedale una volta per tutte.
“Sì, tutto a posto. Dobbiamo solo andarcene.”
Dean annuì, teso. Era il giorno del suo rilascio, doveva esserne contento, no? Eppure…
Eppure qualcosa continuava pungolarlo e dirgli di rimanere, qualcosa chiamato Cas.
“Okay,” mollò il borsone tra le mani giganti di Sam. “Tieni questo. Torno subito.”
Sammy piegò le sopracciglia all’ingiù nel suo solito modo implorante. “Dean, non credo sia il caso…”
Ma Dean non lo stava ascoltando. “Ho detto che torno subito. 5 minuti.”
In un attimo era sulla porta della saletta comune, e non doveva cercarlo, sapeva benissimo dove fosse Cas; dove era sempre stato dalla prima volta che lo aveva visto: davanti a quella fottuta finestra.
Si riempì i polmoni d’aria con un gran respiro ed imboccò il cammino verso il suo, il loro, tavolo. Cas, come previsto, non batté ciglio. Da quella loro ultima conversazione, settimane prima, Castiel non era mai più tornato. Non una parola, non uno sguardo. Dean entrava in sala comune, a volte lo trovava già lì, altre lo guardava arrivare, sedersi e poi guardare fuori – per tutto il cazzo di giorno. Una regressione totale, dopo mesi di progressi. La sua dottoressa – Masters? – era venuta a parlargli, ma Dean non era dell’umore e l’aveva mandata a quel paese in modo molto colorito. Cosa ci poteva fare, lui, se Cas non parlava? Che altro poteva avere da dire, da offrire, se tutto quello che aveva fatto non era servito a niente?
Arrivò di fronte a quella dannata sedia, ma non si sedette. Rimase in piedi, a fissare Cas. Nessuno lo avrebbe più fatto sedere lì in tutta la sua vita.
“Beh, eccoci qua.”
Cas rimase immobile, come se Dean non fosse lì, come se non esistesse. O peggio, come se non fosse mai esistito.
“Il grande giorno è arrivato.”
Già, grande giorno una sega. Strofinò i palmi sulla camicia verde, il tessuto ancora alieno sotto le dita.
“Sto andando via.”
Degli uccellini volarono dall’altra parte del vetro e Cas non diede segno di aver registrato nemmeno quelli.
“Dannazione, Cas. Potresti almeno dire qualcosa, qualsiasi cosa!”
Il silenzio che seguì era più pesante di mille parole. Più forte di mille mattoni nello stomaco. Alzò lo sguardo al soffitto, e si rimangiò il vaffanculo. Non aveva senso dirlo a qualcuno che non ti stava ascoltando.
Girò i tacchi di scatto, senza guardarlo un’ultima volta, ma con l’immagine di Cas seduto su quella seggiolina impressa a fuoco sulle retine.
Sammy lo aspettava sulla soglia, stretto al borsone consunto che Dean era solito portarsi dietro nelle spedizioni con papà. All’epoca aveva tenuto i suoi vestiti, e quel poco che rimaneva di lui. Lo sfilò dalle braccia del fratello, buttandoselo sulla spalla. Era quasi vuoto, proprio come Dean, mentre infilava la porta d’ingresso, senza voltarsi indietro.






Note dell'Autrice:

sono le 3, non so se sono in grado di rileggerlo ancora per vedere se ci sono degli errori, perdonatemi se ne trovate. Ma dovevo pubblicare. Condividere il mio dolore con voi. Help.
Il link alla pagina autrice lo metto domani. Notte a tutti, e grazie di avermi seguita fin qui.

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Capitolo 12
*** Like a Stone ***





12.

In your house I long to be
Room by room, patiently
I’ll wait for you there
Like a stone
I’ll wait for you there
Alone




Sam Winchester parcheggiò l’Impala e scese posando pesantemente gli stivali sul ghiaino.
Chiuse la portiera con un sorriso, era tanto che non guidava quella macchina ed era un bel ritorno al passato. Si era promesso che non l’avrebbe mai più aperta, non finché Dean era ricoverato.
Si incamminò verso l’entrata ma ebbe un ripensamento, e si fermò ad osservare il Glenwood Springs Psychiatric Hospital, contemplando il colore delle mura esterne, le finestre, le scale dell’entrata. Quella, finalmente, sarebbe stata l’ultima volta. Non avrebbe mai più messo piede lì dentro, non sarebbe mai più stato costretto a guardare quelle mura e pensare a cosa contenevano e quanto ciò significasse per lui.
Dean era libero, erano entrambi liberi.
Giocherellò con le chiavi, prima di ficcarsele in tasca e infilare finalmente la porta. Per l’ultimissima volta.
L’interno era sempre uguale, erano passati mesi dall’ultima visita e niente era cambiato. Forse c’era un tasto pausa per questo genere di posti. Gli inservienti erano gli stessi, persino l’infermiera rossiccia della reception, che lo salutò con un sorriso smagliante.
“Sam Winchester! Pensavo non ti avrei più rivisto, da queste parti.”
“Sì, beh, non è certo una visita di cortesia.”
Il sorriso le si spense sulle labbra. Sam decise di soprassedere. “Sto cercando il Dottor Milton.”
“Certo, glielo chiamo subito. Aspetti qui.”
Sam decise di soprassedere anche sull’improvviso ritorno al ‘lei’. Non sarebbe mai uscito con una ragazza che lavorava nell’ospedale psichiatrico che aveva rinchiuso suo fratello – no, nemmeno se era stato lui a mettercelo dentro. Voleva mettersi l’intera faccenda alle spalle. Si guardò intorno nell’attesa, tanto per fare qualcosa, mentre stava appollaiato col gomito sul bancone della reception in attesa di finire di pagare l’ultima rata doveva all’ospedale.
Non aveva neanche chiesto a Dean se volesse farlo lui stesso, anche se in passato si era sempre occupato dei suoi debiti. In questo caso, c’era stato un tacito accordo perché Dean non mettesse mai più nemmeno il naso in quell’edificio. Sam gli aveva detto dove fosse diretto prima di uscire, e Dean aveva semplicemente borbottato un “Oh, okay” a testa bassa prima di lasciare la stanza. E Sam sospettava che ci fosse più di un motivo per quella reazione.
E non riuscì a resistere.
Si avvicinò alla porta della sala comune, esitando un secondo prima di affacciarsi. Aveva il terrore di quello che poteva trovare, o meglio, non trovare. Un pensiero lo aveva tormentato per un sacco di tempo ‘E se Cas avesse deciso di fare qualcosa di stupido…?’. Aveva provato a parlargliene, ma quel testardo di suo fratello maggiore non aveva voluto saperne. La loro casa, di nuovo in Kansas, lontano da questa merda dell’Oklahoma, era una zona ‘Cas free’.
Per fortuna una testa di capelli arruffati vicino alla finestra fugò tutti i suoi timori. Cas era lì, seduto al tavolo, che guardava fuori e sembrava… beh, sembrava miserabile.
Non era solo l’espressione, più spenta di quella che gli avesse mai visto fare, l’occhio vacuo, o le spalle afflosciate su se stesse, no, fu la barba incolta a colpirlo. Cas, almeno a quanto Sam aveva potuto vedere nelle sue visite, era sempre rasato di fresco. E quel piccolo, stupido, enorme dettaglio lo spinse ad agire, ad avvicinarsi mentre trovava un vecchio foglio di carta strappato e una penna nelle sue tasche. Si piantò di fronte a lui, un gigante e un barbone, con la luce che entrava dalla finestra che li avvolgeva come una coperta calda.
“Ehi, Cas,” lo salutò.
Castiel, prevedibilmente, non rispose.

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Capitolo 13
*** Cool if I come over ***


WARNING: capitolo finale
 



13.
 
Is it cool if I come over
And see if you’re into me
 



Dean sciacquò le mani nel lavello e le asciugò con lo straccio a righe della cucina.
Della cucina, perché al momento ne possedevano solo due – di cui uno stava in sala – ma era abbastanza. La vita in casa Winchester era piatta e serena, così come Dean supponeva dovesse essere – soprattutto se vivevi con tuo fratello.
Si appoggiò contro il bancone e osservò il suddetto fratello mentre leggeva un plico enorme di fogli dell’esame che stava preparando. Ebbene sì, Sammy era tornato al college. Non si era ancora voluto ritrasferire a Stanford, ma Dean ci stava lavorando su. Al momento faceva avanti e indietro con la California per dare gli esami, ma entrambi sapevano che prima o poi sarebbe dovuto tornare a frequentare le lezioni. Nel frattempo il secchione studiava da casa – anche troppo, a dire il vero – e il patto era che gli lasciasse fare almeno la maggior parte dei lavori, tipo lavare i piatti come aveva appena finito di fare.
Tornare a Lawrence era stata più una necessità che una vera e propria decisione, ne avevano a malapena parlato. Quando si erano messi a cercare casa era stato semplicemente naturale farlo lì, dove c’era stata l’unica che avessero veramente avuto.
Bobby era accorso subito, aiutandoli nel trasloco dal motel in Oklahoma fino a quel piccolo appartamento di periferia, e gli aveva trovato lavoro in un garage in città. Il meccanico era comunque l’unica cosa che Dean sapesse fare a parte cacciare con papà, quindi non si lamentava. Non avrebbe voluto fare nient’altro in ogni caso. Il cameriere, il lavapiatti? Troppe persone intorno. Potevate lasciarlo sotto il cofano di una macchina per ore, e lì sì che sarebbe stato contento.
“Ehi, Sammy,” lo apostrofò finendo di strofinarsi le mani con lo straccio.
Sam era talmente concentrato che non alzò lo sguardo dal suo plico. “Mh?”
“Stavo pensando… Jess?”
Questo attirò la sua attenzione, e uno sguardo nervoso che in realtà copriva l’allarme. Dean conosceva suo fratello come le sue tasche. “Jess cosa?”
“Quando hai intenzione di chiamarla?”
“Non ho intenzione di chiamarla.” Tornò a guardare il foglio, come se quella risposta determinasse la fine della conversazione. Sì, certo.
“Perché no?”
“Perché non sono affari tuoi, Dean.”
“Lo sono perché staresti ancora vivendo con lei, se non fosse per me.”
Lo disse così, semplice e diretto, senza fronzoli. Era vero e non vedeva perché doverci girare intorno. Ogni tanto la schiettezza era la cosa migliore. Sam, più che grato della mancanza di giri di parole, sembrava addolorato.
“Non dire così,” mormorò.
Dean alzò le spalle. “È la verità, pura e semplice.”
“Senti, non… non voglio parlarne. E poi non è colpa tua, ma di papà.”
Cazzo se questa cosa lo faceva imbestialire. Strinse le labbra, lanciando via lo straccio. “Non è tutta colpa di papà. Ne abbiamo già parlato!”
“Sì, beh,” Sam fece roteare il suo evidenziatore, infastidito. “È così e basta. E poi non mi sembra di vederti correre al telefono per chiamare Cas, o sbaglio?”
Quella era una risposta che Dean decisamente NON si aspettava. “Cas? Cosa diavolo c’entra Cas?” Che non si aspettava e che faceva un male cane.
Sam ridacchiò. “Cosa diavolo c’entra Cas, certo.” Scosse la testa tornando sui suoi appunti.
“E questo cosa cazzo vorrebbe dire?”
“Gesù, Dean. Non lo so. Quello che ti pare. Non chiamerò Jess, fine della storia.”
“Perché?!”, Dean sbottò, esasperato.
“Perché tu non chiami Cas?”, ribatté Sam con lo stesso tono.
“Io non DEVO chiamare Cas! Cas ha fatto check-out, se n’è andato, finito. Sua scelta. Con Jess avete finito per altre cose, hai ancora una possibilità.”
“No, IO,” Sam lo sorprese alzandosi in piedi di scatto. “Io decido se ho ancora una possibilità con Jess, non tu. E quella di Cas è una cazzata bella e buona, se volessi chiamarlo lo chiameresti, senza piagnucolare come stai facendo.”
“Quando mai ho piagnucolato su Cas!”
“Oh, per favore,” Sam era veleno puro, non gli sembrava di averlo mai visto così; si pentì quasi di aver tirato fuori Jess, forse doveva essere ancora troppo doloroso. “Non hai bisogno di parlare per piagnucolare. Lo so che ci stai di merda ma non hai le palle per affrontarlo.”
Dean ricacciò subito i sensi di colpa in un luogo molto, molto lontano. “Ah, sì? Come tu hai le palle di affrontare lei? Fottuto ipocrita.”
“Mh,” Sam fece il suo sorriso finto pieno di rabbia e amarezza. “Sai una cosa? Non ho tempo per queste cose.”
Raccolse i suoi fogli dal tavolo e se ne andò in camera sua, sbattendo forte la porta.
“Bella chiacchierata,” disse Dean alla cucina vuota.
 
**
 
La rabbia continuò a ribollirgli nel petto per giorni.
Sam si era chiuso in camera a studiare, usciva solo per i pasti, duranti i quali si scambiavano solo monosillabi. Avevano avuto miliardi di liti simili in passato, e si sarebbero risolte, prima o poi, come sempre. Non chiamò Bobby stavolta, gli sembrava stupido e immaturo, ma gli sembrava ugualmente stupido e immaturo non voler almeno riallacciare un rapporto con la propria ex.
Non si erano lasciati per incongruenze o litigi, si erano lasciati per colpa sua! Cosa diavolo serviva a Sam per convincerlo a muovere il culo e tornare da lei? Forse doveva essere Dean a farlo per conto suo. Quasi quasi avrebbe potuto farlo davvero. Quello stronzo non l’avrebbe ringraziato, ma quando mai l’aveva fatto. Anche la conversazione di quella sera era a suo beneficio esclusivo, invece aveva reagito come se Dean lo avesse accusato di qualcosa.
E poi tirare fuori Cas così, dal nulla! Non solo era fottutamente ingiusto, era anche fuori contesto, completamente. Come se Cas avesse nulla a che vedere con quello che avevano Sam e Jess. E no, non parlava di una casa, parlava di un rapporto. Una relazione. Dean non sapeva nemmeno cosa fossero le relazioni, ma sicuro come il diavolo che non ne aveva avuta una con Cas. Non era certo di cosa avessero avuto. Qualcosa di molto strano, soprattutto in quel contesto, ma non era una relazione del genere.
Non c’erano nemmeno arrivati lontano, a uno stadio simile. Non aveva mai neanche avuto il tempo di pensarci, quindi Sam poteva ficcarsi le sue cazzate dove non batteva il sole.
Strinse il cuscino quando andò a dormire, ricolmo di legittima rabbia.
Per la prima volta, sognò Cas, anche se al mattino non ne ricordava i dettagli.
 
**
 
Il sole stava tramontando all’orizzonte, Dean lo guardava sparire dietro i tetti delle case seduto sul divano.
Aveva mollato il libro che aveva in grembo da tempo, annoiato come non mai. Aveva dei turni molto blandi, sicuro zampino di Bobby che voleva prendesse il ritmo piano piano, ma passare a casa così tanto tempo lo stava facendo impazzire. Non avere niente da fare era quasi come stare all’Ospedale. Solo che là aveva compagnia, mentre qui…
Guardò Sam che metteva su un caffè sulla moka macchiata che avevano trovato al mercatino dell’usato. Sam era di compagnia, e lo sarebbe stato anche di più quando avessero ricominciato a parlare, ma non era la stessa cosa. Era pur sempre suo fratello, e soprattutto era temporaneo. Dio gli era testimone, avrebbe fatto in modo che tornasse dalla sua fidanzata, anche se avesse dovuto portarcelo trascinandolo per quei capelli perfetti.
Il gorgogliare tipico della macchinetta avvisò Sam che il caffè era pronto, e bussarono alla porta.
“Vado io,” borbottò Dean alzandosi, più che altro per avere qualcosa da fare. L’appartamento era così piccolo che in un attimo era alla porta, che aprì sul tramonto del Kansas, una strada deserta, e Castiel sullo zerbino.
Dean aprì la bocca. Gli si formarono talmente tante domande che nemmeno una riuscì ad avere la meglio sulle altre e farsi sentire. Vagò con lo sguardo su Cas, impettito come non mai, in un trench logoro buttato semplicemente sopra la divisa dell’ospedale, e una barba incolta riccioluta.
“Ciao, Dean.”
 
**
“Ciao Dean… wow,” riuscì a dire.
“È ancora il termine esatto, giusto?”, chiese aggrottando la fronte come Dean gli aveva visto fare un miliardo di volte.
“Sì… sì è ancora in voga.”
Dean aveva il cervello ancora in fase di assestamento. Continuava a pensare: ‘E poi un giorno mi sono alzato, ho aperto la porta, e c’era Cas.’
Il silenzio si protrasse. Castiel sembrò ancora più a disagio, se possibile, ma Dean lo sapeva perché conosceva il significato di quel suo sguardo immoto. La sua mente non aveva dimenticato niente.
“Ehi, chi c’è?”, domandò Sam, che comunque non aspettò risposta da quel ragazzino che era e si affacciò.
Appena vide Cas si illuminò come un sole a ferragosto. “Cas! Ciao!”, si spinse fuori ad abbracciare Cas, che rimase in un immobile imbarazzo. Sam non se la prese, gli diede due pacche sulla schiena e sciolse l’abbraccio, voltandosi a guardare Dean e forse notando che non aveva ancora lasciato la maniglia.
“Posso… posso entrare?”
Sam cadde dalle nuvole. “Ma certo!”, cominciò a gesticolare e si fece di lato. Dean lo imitò per inerzia, fissando Cas varcare la soglia ed essere preso sotto braccio da Sam, pilotato in cucina e fatto sedere pesantemente al tavolino di legno ammaccato, e finalmente poté richiudere la porta e riprendere possesso della sua mano. E un di un pochino della sua prontezza mentale.
“Allora hai trovato il mio biglietto,” stava dicendo Sam mentre apriva e chiudeva le ante, posava un bicchiere vuoto e lo riempiva d’acqua.
“Sì, l’ho trovato molto utile,” rispose Cas.
“Bene, bene,” commentò Sam soddisfatto.
Dean collassò su di una sedia dall’altra parte del tavolo, così rumorosamente che entrambi spostarono lo sguardo su di lui.
“Come…? Chi…”
Sam lo fissò con un mezzo sorriso di scherno e Dean ebbe la risposta a entrambe le domande. Biglietto e Sam. Ne rimaneva una importante.
“Perché?”
Cas strinse forte il bicchiere, inspirò e il suo sguardo blu si fece improvvisamente contrito.
“Mi spiace, Dean.”
“Ti dispiace?”
Gli sembrava di stare rivivendo la conversazione con suo padre. Ormai alle persone bastava chiedere scusa e tutto era perdonato. Sam si schiarì la voce. “Vado a fare un po’ di spesa,” e con quella bugia sfacciata si levò di torno, lasciandoli soli in qualche nanosecondo.
“Cas, non mi basta un fottuto ‘mi dispiace’. Non stavolta.”
“Ma è vero,” ribatté Cas, confuso. Dean sospirò. Doveva fare alla vecchia maniera, diretto ed efficace.
“Perché sei qui?”
“Mi…,” deglutì. “Volevo vederti.”
“Ok, è bello vedere anche te. Sei scappato?”
Cas batté le palpebre. “No, certo che no. Mi sono dimesso.”
“Huh.”
“Ho sentito che fosse arrivato il momento.”
“Certo. Dopo una ricaduta allo stato comatoso, sono sicuro che adesso stai benissimo.”
Dean si alzò a prendersi una birra. Stava cominciando a odiare questa conversazione.
“Mi rendo conto del dolore che ti ho causato…”
“No, non penso che tu te ne sia reso conto,” affermò, e subito dopo trangugiò un notevole fiotto di birra.
Si appoggiò contro il bancone, pronto a battersi esattamente come aveva fatto con Sam.
“Dean…”, e non c’era solo dispiacere nella voce di Cas, ma anche compatimento, e Dean lo odiava, il che lo sorprese, perché non l’aveva mai odiato prima. “Non c’era niente che tu potessi fare.”
“Ah, no? E chi lo dice?”
“Io lo dico,” il suo sguardo era blu e fermo come l’oceano. “Non potevi salvarmi perché non volevo essere salvato. Stavo scontando la mia penitenza, Dean, e non aveva niente a che fare con te.”
Dean vacillò sotto quella forza, ma solo per un attimo, poi il fuoco che gli ardeva lo stomaco ebbe la meglio.
“Ah, sì? E perché non potevo fare quel fottuto viaggio con te? Mi hai lasciato solo! Di punto in bianco!”
“Mi dispiace…”
“Smettila di dire che ti dispiace!”
Castiel richiuse la mandibola, ma il suo sguardo diceva ben altro. Era ferreo e duro, militare. Non aveva concluso, semplicemente stava andando dietro all’umore infantile di Dean.
Dean lo osservò a lungo, sorseggiando. C’era tempo per risolvere la questione, dopo tutto. Non dovevano dissezionare tutta la faccenda in quel preciso momento. Castiel ricambiava lo sguardo in intensità ma non proferì parola. Dean buttò giù l’ultimo sorso di birra e non si vergognò di essere il primo a spezzare il silenzio.
“Seguimi.”
Castiel obbedì, un’ombra silenziosa alle sue calcagna, mentre entravano in camera di Sam e Dean puntava all’armadio in fondo, appoggiato alla parete. Aprì l’ultimo cassetto e cominciò a prendere delle lenzuola e ficcarle in braccio a un Cas molto confuso.
“Che c’è,” chiese dopo avergli dato la federa verde stinta di un cuscino, “hai un altro posto dove dormire?”
Cas gli regalò un sorriso sottile e scosse la testa.
“Bene, allora aiutami a farti il divano letto e non rompere.”
 
**
 
Sam rientrò mentre finivano di sistemare gli angoli, il divano letto aperto in mezzo alla sala, e sorrise.
Dean cominciò ad avere il sospetto, con tutto questo buon umore e bigliettini, che avesse insistito per averne uno non solo per le visite dello zio Bobby, come aveva proclamato. Appoggiò il sacchetto di carta che aveva in mano sul tavolo e si diresse in bagno, per poi uscire poco dopo con un paio di asciugamani grigi. “Tieni,” li porse a Cas. “Immagino vorrai rinfrescarti un po’.”
Cas annuì con gratitudine, e si allontanò mentre Sam si premurava di dirgli che poteva usare il suo rasoio, qualora gli fosse servito.
Dean intanto era entrato in cucina e si era stappato la seconda birra nel giro di mezz’ora. Sam lo raggiunse e lo guardò subito storto.
“Cosa? È un’occasione particolare, me la merito.”
“Come ti pare, aprine una anche a me.”
Dean obbedì e gli lanciò una birra, che Sam prese al volo e si portò alla bocca. Durò esattamente 5 secondi prima di schiarirsi la voce e rovinare il perfetto silenzio che era sceso in cucina.
“Allora…”
“No.”
“Andiamo…”
“No. Non ho intenzione di parlarne.”
Sam scoppiò a ridere. “Beh, almeno adesso sai come mi sono sentito io.”
Dean prese un altro po’ da bere per infondersi il coraggio di dire quello che aveva da dire. “Sì, a proposito…”
“Non ti preoccupare. So perché mi dicevi quelle cose. E hai ragione, ma non sono ancora pronto.”
Si sedette al tavolo e Dean lo imitò. “Ehi, lo capisco. Ma potevi dirmelo, anzi che saltarmi alla gola.”
“Sì, beh. Tasto dolente. Scusa.”
“Nah, non ti preoccupare,” alzò le spalle. “E poi, a quanto pare te ne devo una.”
Fece cenno verso il bagno, dove l’acqua aveva appena smesso di scorrere. Sam sorrise come un bambino.
Cozzarono le birre con uno sguardo d’intesa, e Dean sperò di non dover affrontare altri discorsi seri per il resto della giornata.
Cas fece il suo ingresso con addosso un paio di pantaloni di cotone del pigiama e una maglietta dei Led Zeppelin – entrambi di Dean, che si dovette sistemare meglio sulla sedia e gli parve di sentire Sam ridacchiare al suo fianco.
“Meglio?”, chiese Cas, finendo di asciugarsi le mani con l’asciugamano. Dean annuì brevemente, e non risposte, sentendosi addosso anche lo sguardo di Sam.
“Ho preso queste,” stava continuando Cas. “Erano le uniche cose in bagno. Spero non sia un problema. Non… volevo rimettermi i vestiti dell’ospedale.”
“Certo, Cas, va bene,” si alzò di scatto e si piazzò ai fornelli, mettendosi tutto quanto alle spalle. “Chi ha fame?”
 
**
 
Dean fece un semplice purè di patate e mise sulla piastra le bistecche che Sam aveva deciso di comprare ‘per festeggiare’ – quel dannato sentimentalone.
Mise tutto sul tavolo e stappò una birra per tutti e tre, godendosi l’espressione scocciata di Sam. Si poteva bere tre bottiglie se voleva, era un adulto e nessuno poteva fermarlo. Oltre al fatto che la giornata sembrava appropriata per tre birre, se non di più. Cas fissò la propria con sospetto.
“Non penso che dovrei bere.”
“Oh, andiamo, Cas,” disse Dean sedendosi al suo posto. “Vivi un pochino.”
“Dean, penso che voglia dire che è ancora sotto… lo sai…. Farmaci.”
“Oh.”
Giusto. Anche Dean per un po’ aveva tenuto a bada la voglia di alcool, appena fatto il check-out. Alzò le spalle e piazzò la bottiglia di Cas accanto alla propria, ignorando le proteste di Sam di sana pianta.
Tagliò la carne e cominciò a mangiare ignorando anche il “Buon appetito” indispettito di Sam, e osservò Cas affettare con cura la sua bistecca e portarsela alla bocca, per poi scegliere una piccola porzione di purè. La scena aveva un che ipnotico. Dean aveva visto Cas mangiare miliardi di volte, ma non era mai stato il suo cibo, preparato con le sue mani. Sperava di ottenere qualche reazione, ma Cas si limitò a mangiare come faceva sempre, meticolosamente e in silenzio.
Silenzio che nessuno dei presenti aveva intenzione di rompere.
A fine pasto Dean si sentiva piacevolmente brillo, quasi in fondo alla quarta birra della giornata – grazie psicofarmaci di Cas.
“Ok, allora,” disse Sam all’improvviso, dandosi una vistosa pacca sulla pancia. “Io mi devo alzare presto domattina. Buonanotte, ragazzi.”
Un pretesto davvero sottile, Sam. Castiel mormorò un ‘buonanotte’ mentre Dean non disse nulla, ancora nascosto dietro il collo ambrato della Ceres. Non parlò nemmeno quando Cas gli piantò addosso uno sguardo carico di aspettativa.
‘Non stasera’, pensò Dean. Era stanco, brillo, e non aveva in sé le forze per affrontare una litigata, perché di questo si trattava. Non gli andava ancora giù che Cas lo avesse escluso dal suo viaggio o quello che era, e un fottuto mi dispiace non lo aiutava per niente a fargli bruciare di meno il petto.
Finita la quarta birra incominciò a sparecchiare, e Cas lo aiutò in silenzio. Sapeva di dover aspettare che fosse Dean a iniziare il discorso, in qualche modo.
Messe le ultime cose nel lavello, fece per voltarsi e si ritrovò piantato a terra dallo sguardo intenso di Castiel, a una manciata di centimetri da lui. Gli occhi gli scivolarono solo un attimo sulle labbra di Cas, solo un istante, un nanosecondo.
“Dean…”
“Sono molto stanco. Ne parliamo domani, okay?”, interruppe il contatto visivo, e al cenno secco di Castiel, gli diede una pacca sulla spalla e si andò a rifugiare in camera sua.
 
**


 
Come prevedibile, non riusciva a dormire.
Le lenzuola gli stavano troppo appiccicate, ma se le toglieva aveva freddo. Il pigiama gli sembrava una camicia di forza. Forse perché aveva dovuto cambiarlo, visto che Cas al momento indossava il suo.
Cas, che in quello stesso istante sicuramente dormiva sogni beati nel divano letto del salotto. Ma chi voleva prendere in giro? Cas era sempre insonne, dormiva pochissimo, probabilmente stava sdraiato là a fissare il soffitto.
“Ok, fanculo.”
Si alzò e passò silenziosamente davanti alla porta di Sam, affacciandosi sulla sala cercando di fare meno rumore possibile nello strano caso fortuito in cui Cas stesse davvero dormendo. In realtà, come previsto, era sveglio, e fissava davvero il soffitto, sdraiato tanto rigido come stava da in piedi, le mani intrecciate sulla pancia.
“Ciao, Dean.”
Dean trasalì un poco, e ridacchiò quando Cas mosse gli occhi per guardarlo, rimanendo però immobile.
“Che diamine di udito hai?”, borbottò, avvicinandosi.
Si sedette sul bordo del letto, mentre Cas non lo mollava un attimo. Si sentiva stranamente esposto, ma contemporaneamente sapeva che non c’era modo di ritirarsi nella sua stanza, adesso.
Con un sospiro si voltò a mezzo busto per reciprocare lo sguardo apparentemente impassibile di Cas. Buffo, ormai sapeva che non c’era niente in Cas che fosse apparente. E lui era l’unico a saperlo.
“Mi dispiace, Dean. So che non vuoi sentirtelo dire, ma è vero.”
“No, lo so. Lo so che ti dispiace.”
Si grattò il collo, e poi si fermò prima di continuare combattendo un prurito che sembrava esserglisi espanso per tutto il busto.
“Sono solo… perché non…”
Non riuscì a finire, incapace di formulare una domanda coerente. Non lo sapeva nemmeno lui, perché era ancora così arrabbiato. Così ferito.
“Dean…”, lo sguardo contrito di Cas lo ferì ancora di più, rifacendogli gorgogliare lo stomaco di rabbia.
“Ho fatto tutto quello che ho potuto. Tutto quanto. E non ho bisogno di sentirmi così di merda per averti deluso, così come ho deluso tutti quelli a cui tengo. Non ne ho bisogno!”
Cas sospirò, e si sdraiò di fianco, infilando una mano sotto il cuscino, lasciando uno spazio vuoto evidente di fronte a sé. Dean si lasciò andare lentamente all’indietro, finché la schiena non toccò il materasso, e la testa il cuscino accanto a quello di Cas.
“Non mi hai deluso, mai,” cominciò Cas lentamente, e lo bloccò quando Dean aprì la bocca per ribattere. “Non è mai stato tuo compito salvarmi. Non è tuo compito salvare nessuno. Anche se ci provi sempre.”
Gli regalò un sorriso affettuoso che gli torse le budella. Il calore gli salì forte al petto, su per la gola, inondandogli la testa. Non c’erano parole con cui rispondergli, e seguì la voce di quel calore, avvicinandosi a Cas strisciando sulle coperte, aspettando un segno, un rifiuto, e non trovandone, esitò un secondo a un centimetro dal suo naso per coprire quella piccola, enorme distanza e premere le labbra su quelle di Cas.
Dean tenne gli occhi bene aperti, spalancati, per osservare le reazioni di Cas, che invece chiuse i suoi e inspirò lentamente e a pieni polmoni, allargando completamente la cassa toracica.
Li riaprì quando Dean si allontanò al rallentatore, conscio di avere l’espressione spaventata di un bambino, ma senza riuscire a fare niente a riguardo. Cas tolse la mano da sotto il cuscino, cercò la sua e gliela strinse. Dean reciprocò la stretta buttando giù litri di saliva.
Non seppe per quanto tempo osservò Castiel in silenzio, che lo osservava di rimando, guardandolo combattere con il sonno e perdere, e poi contemplare l’alzarsi ed abbassarsi ritmico del suo petto.
Più avanti, Sam gli avrebbe detto che la mattina dopo li aveva trovati così, per mano, che dormivano fronte contro fronte.
 
 
 
 
 
 
Spazio autrice:
‘This is the end… my only friend, the end.’ Sto praticamente urlando con il male alla pancia e il fangirlamento alle stelle. Non vedevo l’ora di darvi questa scena, questo finale. Lo so che non è un “finale”, perché è aperto, ma a me piacciono le cose così. Non mi piace darvi la pappa pronta e dirvi cosa succederà. Preferisco lo immaginiate voi. Io, certo, ho le mie idee, ma questo è un altro discorso XD
Vi dico solo che non penso Cas continuerà per molto a dormire su quel divano letto… credo che si trasferirà molto presto in camera di un certo ex-cacciatore dagli occhi verdi. E che cercherà di capire con loro cosa diamine fare del resto della sua vita, esattamente come stanno facendo i Winchester. E con queste ultime, tristissime, parole, vi saluto. Ho un’altra destiel in corso, e altra roba, se vi interessasse. Basta cliccare sulla mia pagina. Dio, quant’è difficile mettere la parola fine….
Un bacio a tutti, grazie di essere stati con me fin qui.

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