Blue Blood

di Archangel Reliel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** De Memoire - parte 1 ***
Capitolo 3: *** De Memoire - parte 2 ***
Capitolo 4: *** De Memoire - Parte 3 ***
Capitolo 5: *** De Memoire - Last Scene ***
Capitolo 6: *** Ano Aoi Taiyou... ***
Capitolo 7: *** ...Chi no Umi desu. ***
Capitolo 8: *** A wound in the Night ***
Capitolo 9: *** Death Ruin ***
Capitolo 10: *** Everyone joins hands and farewells the people who won't return. ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Londra, 1517

“Tre mesi sono passati in questa cella dimenticata da Dio… Domani la mia testa sarà cibo per larve, e l’unica cosa che mi vien da pensare è come se la stanno cavando i miei compagni…”


L’uomo poggiò la penna d’oca sul tavolo di legno marcio e si affacciò alla finestra, mettendo la testa tra le strette sbarre che la coprivano.
Le tempie pulsavano, lo stomaco era aggrovigliato per l’ansia ma non un segno di angoscia si notava sul bel viso dalla pelle levigata.
Anche se viveva in prigionia da qualche mese il suo abbigliamento era sempre ben curato, così come il suo corpo longilineo.
Lunghi capelli gli sfioravano la schiena, neri come le ali di un corvo: erano il suo vanto, belli e puliti come quelli di una signora. Ma, al contrario delle donne che tanto amava sedurre, quei capelli avevano catturato spruzzi di salsedine, odorato di polvere da sparo e sangue.

Tra quelle ciocche si sentiva il profumo dell’avventura.

“Certo che la vita ha un senso dell’umorismo peggiore di quello di Reita…” si ritrovò a pensare, e un sorriso amaro gli tagliò in due il volto.
Era da così tanto tempo che l’ombra di un sorriso non faceva capolino che i muscoli intorno alla bocca iniziarono a dolergli.

«Maledizione!», piantò violentemente un destro nella parete, scorticandosi le nocche. Perché assillarsi con pensieri poco piacevoli? La sua vita sarebbe finita l’indomani.
Già si vedeva: frotte di disgraziati, poveracci del popolino che per svagarsi avrebbero assistito alla sua caduta. Gli avrebbero sputato addosso, l’avrebbero deriso e si sarebbero bagnati con il suo sangue…Tutto ciò lo inorridiva.
Lo sporco, la miseria e la disperazione lo gettavano nel terrore più profondo. Era fuggito da quel quadrato di Inferno quando ancora era nulla. Aveva accumulato ricchezze, amori, e anche degli amici…

E ora?

Ora era ritornato al niente, in attesa che Dio lo condannasse per i suoi peccati…

“Amen” pensò divertito mentre il grido di un gabbiano si faceva beffe di lui, rammentandogli una vita che non gli apparteneva più…






Bene, ho iniziato a scrivere un'altra storia...
So che dovrei finire le altre due che ho in sospeso, ma mi manca l'ispirazione...però per questa mi è venuta XD
Che dire? Spero che questa storia vi appassioni, perché vi mostrerò dei Gazette diversi da quelli che conosciamo...
Spero di riuscire a farvi sognare, divertire e anche affezionare a questi personaggi.

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Capitolo 2
*** De Memoire - parte 1 ***


Londra, Giugno 1497



«Bastardo! Ti scortico vivo se ti prendo!».
Un bambino dai capelli biondo pallido vestito di miseri cenci e scalzo, correva reggendo tra le mani annerite dalla sporcizia un tozzo di pane. Rubato.
L’enorme panettiere, visibilmente infuriato, lo inseguiva rovesciando casse e sacchi nell’affollato mercato di Brick Lane nell’East End, la zona popolare della città.
Il bimbo correva come un fulmine e in breve si mise in salvo, infilandosi in un vicolo stretto e buio. Procedeva con lentezza addossato ad una delle pareti, e dopo qualche minuto giunse alla sua meta: un piccolo scantinato con i gradini di legno marci e cadenti, e, sotto, il nero.
«Uruha… Sono tornato…», bisbigliò dolcemente mentre con attenzione saltava quel simulacro di scale.
Una figuretta minuta emerse dall’ombra: grandi occhi scuri pieni di paura, un corpo rinsecchito su cui posavano degli stracci, e dei capelli biondo miele straordinari.
«Sono riuscito a rimediare un bel pezzo di pane –disse il biondino slavato con un sorriso sdentato –oggi mangeremo bene!».
Con molta premura prese la figuretta per mano e la condusse verso un’accozzaglia di paglia e stracci: un piccolo giaciglio che bastava a tutti e due.
In silenzio mangiarono abbracciati così da ridurre il freddo umido di quella cavità. Nonostante fosse giugno sottoterra non c’era posto per il calore del sole.
«Sai, stavo pensando –disse il biondino parlando a bocca piena –che sarebbe bello andare a fare una passeggiata oggi, no?».
La figuretta non rispose, limitandosi a masticare guardando il vuoto.
Il biondino finì la sua parte e ritornò all’attacco: «Dai, Uruha, fuori c’è di nuovo il sole! Il Tamigi profuma ancora di pioggia, e non delle porcherie che ci sono cadute dentro. Poi… Poi c’è il mercato! Ci sono i venditori di fiori, le coppie che passeggiano… Dai vieni fuori con me!».
Uruha lo guardò con occhi spenti, e scosse debolmente la testa.
Il bambino pestò i piedi:«E’ da quando ti conosco che non esci da questo buco, e sono passati due maledetti mesi! Non guarirai mai se rimani quà a marcire!».

Niente, Uruha non rispondeva. Non aveva mai risposto al suo compagno. In verità, non aveva mai proferito parola da quando si erano incontrati, una sera di aprile sulle rive del Tamigi.
Uruha era accasciato contro un albero, umido di sangue e di sostanze viscide, con niente addosso se non i propri capelli lunghi e segni violacei.
Il bambino biondo l’aveva trovato per caso mentre cercava un nascondiglio, e subito l’aveva portato nel suo “rifugio”.
Uruha era stato pulito con l’acqua piovana, rivestito, nutrito con il pane che in realtà spettava al suo salvatore, e poi messo a dormire.
Il salvatore ne aveva appreso il nome perché la figuretta gliel’aveva scritto su un pezzettino di carta il mattino dopo, ma neanche una parola era stata pronunciata.
Da allora Uruha era entrato sotto l’ala protettiva del biondino e non se ne separava mai, se non quando il bambino era costretto ad uscire per procacciarsi il cibo.
Uruha si rifiutava di uscire: le prime volte si dimenava come un ossesso quando il bambino provava a portarlo fuori, e mai aveva rimesso piede fuori dal cunicolo dopo quella notte…

«E va bene, ho capito –sbottò il bambino –oggi ce ne stiamo di nuovo qui, contento?».
Uruha non rispose, si limitò a fissare il pavimento.
Il bambino scosse la testa tristemente. Si dispiaceva di non riuscire a far sorridere Uruha, e dall’altezza dei suoi otto anni non vedeva via d’uscita.
Calò la sera, e i due bambini stavano per mangiare delle mele rubate nel pomeriggio grazie al biondino. Il loro pasto però fu interrotto dall’irruzione di un uomo enorme: il panettiere derubato.
«Eccoti qua, sporco ladruncolo –prese il biondino per i capelli –Ora vediamo come ti faccio passare la voglia di rubare!».
Il bambino si dimenava tentando di colpire l’uomo ma quello lo teneva a distanza, ridendo di lui.
Uruha era impietrito dalla paura, non sapeva cosa fare. Quando però l’energumeno sguainò un coltello, si fece coraggio e scappò fuori in cerca d’aiuto.
Corse, corse, corse, versando lacrime e invocando aiuti senza suono. La gente si scostava quando quegli occhi imploravano soccorso e il piccolo cedeva sempre più alla disperazione.
«Ehi, ragazzina dove corri?».
Uruha si voltò e incontrò due occhi neri come la pece.
Spaventato, indietreggiò ma quegli occhi parlarono ancora.
«Hai bisogno d’aiuto?», gli occhi si abbassarono e due mani cinsero le spalle di Uruha.
Fu un attimo: si scosse dalla stretta, prese la mano dello sconosciuto e corse a tutta velocità verso la tana.
All’imboccatura del vicolo gli strilli del biondino, oltre ad una risata sguaiata, attirarono l’attenzione dei due. Fu messa a tacere da un potente calcio dello sconosciuto. L’omone si girò infuriato, lasciando cadere a terra il biondino.
«Bastardo schifoso! Cerchi grane?».
La risposta fu un altro calcio, diretto alla mano che impugnava il coltello.
Mentre i due si fronteggiavano, Uruha era accanto al suo amico che si teneva il volto con le mani, sporche ormai di sangue caldo.
Rimasero entrambi abbracciati ad assistere alla scena: lo sconosciuto aveva un mantello cencioso che lo copriva da capo a piedi ma che non gli ostacolava per nulla i movimenti. Con grazia, sferrò calci e pugni all’assalitore che, nonostante la mole, si trovava ormai alla mercé del nemico.
Con la faccia spaccata, e le dita di entrambe le mani fratturate, abbandonò il campo, sputando sangue ai piedi del misterioso sconosciuto.
«Tsk, che schifo d’uomo!».
Si accucciò accanto ai bambini, esaminando le condizioni del biondino. Il piccolo aveva il naso completamente sfregiato da tagli e il viso inondato di lacrime mischiate a sangue.
Lo straniero straccio in più brandelli di stoffa il mantello, lo immerse in una pozzanghera abbastanza pulita e pulì il viso del bambino. Fatto ciò, gli fascio il naso con l’ultimo lembo rimasto.
«Per ora dovrebbe andare… Domani ti porto da un medico».
Un’occhiata torva lo ringraziò di quelle premure.
«Cosa c’è adesso?».
«Non posso fidarmi di una persona che ha il volto coperto», gli tirò da dosso il mantello, liberando una testa dai capelli neri tagliati a spazzola e un volto dalla pelle candida come la luna.
Uruha rimase a bocca aperta, così come il compagno.
«Sei contento? Ora mi hai visto».
«Ma…ma…ma tu sei un bambino come me!», urlò indignato il ferito.
«Per niente, io ho dieci anni, so combattere e sono decisamente più bello di te. E, soprattutto, io non sono un bambino!», concluse il discorso con un’occhiata raggelante.
Il ferito stava per rispondere ma una risatina limpida lo bloccò. Una risata argentina, che ti scaldava il cuore.
Uruha stavo ridendo! Dopo due mesi finalmente si ascoltava la sua risata!
Dopo qualche istante il biondino disse:«Non devi essere poi così male se sei riuscito a far ridere Uruha –allungò una mano verso il moro –Il mio nome è Reita, e ti ringrazio».
Il moro strinse la mano e con un sorriso triste disse:«Aoi».

«Ma che bel nome che hai –disse Reita tutto entusiasta –ti si addice!».
La schiettezza di quel bambino con il naso fasciato fece di nuovo sorridere Aoi. Una cosa davvero rara, visto che non era abituato a farlo…
«Senti ragazzino, smettila di esaltarti –gli disse aspro –Piuttosto, conosci un posto dove si può dormire?».
«Ma certo –gli fece cenno di seguirlo –puoi dormire qui a casa nostra!».
Reita prese per mano Uruha e fecero strada al loro ospite.
«Attento ai gradini: fanno davvero pena, e se non sei agile come me corri il rischio di cadere…», non finì la frase che rovinò sull’ultimo scalino.
Aoi scosse la testa rassegnato. “Perfetto, non solo parla a raffica e ti stordisce di chiacchiere, è anche un imbranato.”
Reita andò a sistemare il giaciglio di fortuna mentre Uruha accendeva dei mozziconi di candela trovati chissà dove. Aoi si liberò del mantello adagiandolo con cura sul pavimento e sistemandoci su un sacco di stoffa malandato.
«Ecco qua! So che non è un vero letto ma è comodo!».
Aoi lo ringraziò con un cenno ma poi notò che c’era un solo posto per dormire…
«Scusa, e voi due dove dormite?».
«A terra, che domande! Il minimo che possiamo fare per ringraziarti è cederti il letto, vero Uruha?».
L’interpellato annuì con un sorriso.
Nel frattempo, Reita aveva preso dal giaciglio delle tuniche rattoppate alla peggio e ne passò una ad Uruha, mentre l’altra la tenne per sé.
«Amico, scusa se non te ne do una ma vorrei togliermi questi vestiti imbrattati di sangue». Aoi scosse la testa a mo di “non fa nulla” e, vedendo Uruha che stava per spogliarsi, si voltò altrove.
«Ehi, perché ti sei girato di scatto?».
«E me lo domandi zoticone? C’è una signorina che si sta cambiando, è quantomeno segno di civiltà evitare di fissarla come un baccalà».
«Ma quale signorina scusa?», Reita lo guardava con tanto d’occhi.
«Uruha, chi se no?». Non pensava che quel ragazzino fosse tonto fino a quel punto.
Reita scoppiò a ridere con le lacrime agli occhi. Uruha, intanto, aveva finito di cambiarsi e si era diretto verso un angolo della stanza, pronto per dormire. Aoi era lì che fissava la scena senza parole.
Reita si riprese e, ancora con residui di risate, disse:«Guarda che anche se ha un bel faccino Uruha è maschio!».
«Dai scemo, smettila di prendermi in giro, che io non mi sto divertendo!».
«Guarda che è la verità », si avvicinò ad Uruha e gli chiese di alzarsi la tunica e, con un sorriso furbo, eseguì l’ordine dell’amico.
«Visto? Che ti avevo detto?».
«Santi Numi!», Aoi ancora non poteva credere che sotto quella cascata di capelli biondi si nascondesse un maschio.
«Tranquillo, non sei l’unico che lo prende per una femminuccia –Reita alzò le spalle –Avrà anche un viso delicato e gli occhi grandi, però è proprio un maschio come me e te».
«Bhe, visto che qua siamo tutti dello stesso sesso, potremmo anche dividere il giaciglio…Avevo pensato di cederlo alla signorina, ma visto che ora non è più necessario…».
«Dai amico, non fa nulla, è un’offerta che ti faccio con il cuore».
Aoi l’interruppe:«Suppongo che finora abbiate dormito in due lì su…credo che anche tre ci si possa stare benissimo».

Era ormai notte fonda: Reita e Uruha dormivano abbracciati come due angioletti, mentre Aoi, dopo averli osservati per un po’, gli diede le spalle.
In che situazione bizzarra si era cacciato! Quel giorno gli aveva riservato una sorpresa dopo l’altra, e nonostante i suoi sforzi non era riuscito a far ciò che aveva organizzato.
Quei due bambini l’avevano conquistato: nelle prime ore della loro conoscenza gli avevano fatto pena in quei vestiti logori che portavano con tanto orgoglio, come se non ci fosse nulla di sbagliato.
Aveva deciso che all’alba se ne sarebbe andato, non prima di avergli lasciato del cibo in ringraziamento ma una vocina nel suo cuore l’aveva pregato di rimanere.
Non sapeva perché ma aveva deciso di ascoltarla…






Vai con i ringraziamenti ^-^ che dire? bhe, innanzi tutto, apprezzo moltissimo il supporto della femili, di shuuicha91 e Balalaika che mi hanno commentato la storia in maniera positiva, così da spingermi a continuare.
Sono contenta che la descrizione di Aoi vi sia piaciuta. E' il personaggio adatto per il ruolo che gli ho affibiato, e che pian piano spero di farvi apprezzare.
Continuate ancora a seguirmi se vi va ^-^

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Capitolo 3
*** De Memoire - parte 2 ***


Londra, 1507

Un delizioso profumo di rosa avvolgeva una stanza lussuosamente arredata e il suo occupante.
Un uomo obeso ma elegantemente vestito era accomodato su un divanetto in velluto rosso, e fissava ad occhi semichiusi un paravento di manifattura cinese.
«Allora, mia cara, sei pronta?», disse mandando giù un sorso di cherry.
Un frusciare di gonne accompagnò l’incedere di una graziosa fanciulla bionda, i capelli raccolti in fili di perle, la bocca e gli occhi generosamente truccati. Il magnifico corpo era fasciato di velluto cremisi e veniva divorato dagli occhi viscidi del gentiluomo.
«Mia cara sei il sogno di ogni uomo: bella, elegante e soprattutto…muta», accompagnò l’infelice battuta con una risata.
La fanciulla sorrise voluttuosamente e, abbastanza vicina all’uomo da essere ammirata ma non toccata, prese l’orlo della gonna con due dita, sollevandolo lentamente al di sopra della gamba snella.
L’uomo si stava visibilmente eccitando e, quando fece per avventarsi sulla ragazza, si ritrovò un coltello puntato alla gola e una pistola alla tempia sinistra.
«Amico, mi sa che la signorina non è molto ansiosa di ricevere le tue attenzioni!», un sussurrio divertito accarezzò le orecchie dell’uomo e il coltello lentamente premeva sulla carne flaccida del collo.
La signorina in questione iniziò a frugare in giro per la stanza, aiutata dall’uomo che impugnava la pistola. Rovistarono per qualche minuto tornando con delle borse in pelle piene di gioielli.
«Benissimo. Direi che per oggi abbiamo finito –con la pistola fece un cenno verso il compagno –puoi anche lasciarlo andare ora».
Il gentiluomo fu spinto sul divanetto, e, mentre il trio si allontava, riuscì ad afferrare la gonna della giovane, attirandola a sé.
«Fate un altro passo e strozzerò il collo di questa gallinella!».
I due uomini si voltarono e, per nulla preoccupati, si riavvicinarono alla loro vittima.
«Amico, mi sa che tu di sale in zucca ne possiedi ben poco», disse uno dei due sorridendo.
Quello aumentò la stretta al collo della prigioniera che aveva iniziato a dibattersi:«Ci tenete così poco a questa prostituta?». Il più alto dei due uomini alzò le spalle con noncuranza mentre l’altro semplicemente esclamò:«Ci teniamo anche troppo…».
Il gentiluomo era stato distratto da quel dialogo così da permettere alla ragazza di sfilare un coltellino da un guanto e piantarglielo nello stomaco.
Il balordo si accasciò preda del dolore e il trio ne approfittò per ripulirlo degli ultimi preziosi che portava indosso.
«Eccolo sistemato! Un suino deve fare la fine che si merita!», disse l’uomo biondo, dopo aver lasciato il gentiluomo obeso solo in mutande e legato come un salame.
«La ferita non è mortale amico, se ti dibatti un po’ ti verranno a salvare…e ora, adieu!».
Il trio fuggì nella notte, lasciando la porta dell’appartamento spalancata e come unica traccia un’accattivante scia di profumo…

«Ma guarda quante belle cosine siamo riusciti a sgraffignare!».
A Reita brillavano gli occhi di pura contentezza, e sgranava attentamente tra le mani una collana di smeraldi.
Uruha si era appena rivestito con una delicata camicia candida e un bel pantalone nero, e passeggiava a piedi nudi su un morbido tappeto che copriva il pavimento di un piccolo trilocale ai Docks, nel cuore del porto di Londra.
Guardava il compagno sorridente e si unì alla sua coinvolgente allegria, mentre tra le mani reggeva una tazza di the bollente. Lo sorseggiò lentamente, ad occhi chiusi, sentendo il liquido caldo che gli accarezzava l’interno della gola e infine giungeva nello stomaco. Reita intanto stava sistemando la refurtiva sotto un’asse del pavimento che occultava un doppio fondo in ferro. Con cura, ricoprì tutto con un lembo del tappeto. Si alzò stiracchiandosi e con un gran sbadiglio, e Uruha porse anche a lui una tazza della buona bevanda ambrata.
«Uru grazie, ma sai che a me il thé non piace…».
Uruha gli rispose con un gran sorriso, avvicinando di nuovo la delicata porcellana alla mano dell’amico.
«E va bene, tanto quando hai deciso una cosa quella è...». Il biondo sbuffò e bevve a grandi sorsate.
Qualche minuto dopo la porta venne spalancata con malagrazia e richiusa con altrettanta violenza, da un Aoi infuriato. Si strappò quasi il cappello a larghe tese dalla testa, gettandolo sul divano e la stessa fine fece il mantello.
I due amici si scambiarono degli sguardi sbalorditi e Uruha si affiancò al moro, poggiandogli una mano sulle spalle e chiedendogli con lo sguardo cosa avesse.
Aoi sospirò pesantemente:«Credo che siamo in guai seri…».
Uruha scosse la testa interrogativo e Reita chiese che cosa intendeva con “guai seri”.
Aoi estrasse dalla giacca un foglietto ripiegato alla buona e lo passò a Reita. Il ragazzo lo aprì e la sua faccia sbiancò.
«Ma…ma…non è possibile…».
«Il suino ha dimostrato più fegato di quanto credessimo…».
Uruha prese il foglio dalle mani di Reita e lesse un mandato di cattura per loro tre, con sotto dei ritratti sommari ma molto somiglianti.
Avevano agito impuniti sin da quando Aoi aveva avuto l’idea di adescare ricchi lord sfruttando la bellezza angelica di Uruha al fine di “alleggerirli” delle loro ricchezze. Erano anni che commettevano questo genere di colpi, e mai nessuno aveva avuto il coraggio di denunciarli, essendo i nobili troppo legati alle apparenze: era disdicevole confessare le modalità di incontro con i ladri, e ancora più vergognoso ammettere di essere stati irretiti da un affascinante ragazzo. Non avevano messo in conto che qualcuno avrebbe deciso di farsi avanti e denunciarli, e loro ormai erano rovinati.

Reita camminava in tondo per la camera da più di un’ora, nervoso e in assoluto silenzio, cosa assolutamente inaudita per il suo carattere. Aoi era di nuovo uscito di casa dopo aver raccomandato di sprangarsi all’interno dell’appartamento e di avere armi a portata di mano.
Uruha era nella sua camera da letto a preparare tre sacche da viaggio con un’espressione corrucciata sul volto: chiaramente, gli pesava dover lasciare quel posto.
Dei pesanti tonfi sul tappeto e la porta che veniva sbarrata l’avvertirono del ritorno del moro. Nel salone trovò i due amici a discutere animatamente.
«Ma ti è dato di volta il cervello?», Reita aveva alzato la voce. Non l’aveva mai fatto prima.
«E’ l’occasione per abbandonare questa fogna, non lo capisci?». Anche il tono di Aoi era concitato ma i suoi occhi brillavano.
«E chi ti ha detto che noi due siamo disposti a seguirti?».
«La forca rappresenta una valida alternativa per te?».
«Sempre meglio che andare all’avventura come sconsiderati! Ci abbiamo già provato a seguire i tuoi suggerimenti, e ora siamo ricercati!», Reita aveva decisamente urlato.
Aoi stava per indirizzargli un pugno in pieno viso quando Uruha gli ghermì il braccio, fermandolo: era l’unico che riuscisse a tenergli testa.
I due si fissarono a lungo e dopo istanti interminabili Aoi si liberò e abbassò il pugno. Stizzito, si accomodò sul divano, e attese.

Attendeva anche Uruha…Spiegazioni, ma più di tutto che cosa ne sarebbe stato di loro.
Reita sbollì e a beneficio di Uruha disse:«Ti stai chiedendo cosa abbia proposto di così tanto assurdo, non è vero?».
Il biondo annuì e i capelli formarono delle intricate onde sulle sue spalle. Reita gli si accostò e, con un sorriso amaro e beffardo insieme, disse:
«Ci ha imbarcati tutti e tre su una caravella diretta nelle Indie Occidentali!».




Ecco qua il terzo capitolo. Da ora in poi le cose entreranno nel vivo, spero di non annoiarvi.
Grazie nuovamente a shuuicha91, mi fa piacere che ti abbia colpito *-*.
Che dire di più? Al prossimo capitolo ^-^

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Capitolo 4
*** De Memoire - Parte 3 ***


Rumore di vetri infranti e un grande tonfo furono compagni di un urlo furibondo. Un ragazzo alto con i capelli castani ben pettinati e un viso dolce era impegnato a placarne un altro.
«Signorino, per favore, cercate di calmarvi!».
Un violento spintone lo allontanò da quello che in apparenza sembrava un adolescente, con i capelli ramati e gli occhi grandi che in quell’istante saettavano.
«Non mettermi mai più le mani addosso o te ne farò pentire, Kai!».
Kai sospirò impercettibilmente, abituato a quelle minacce: le riceveva dall’infanzia e mai erano state messe in pratica.
Il ragazzo respirava affannosamente, nervoso, e un ghigno gli piegava gli angoli della bocca. La bella giacca di broccato bordeaux era sgualcita così come la camicia color avorio. I capelli erano scompigliati e incollati al volto, rendendolo ancora più singolare: era glacialmente bello.

Qualche minuto passò e il giovane si ritrovò a camminare per un lungo e scuro corridoio, diretto nello studio del padre. Con due colpi secchi bussò alla pesante porta di legno massello e, senza aspettar permesso, entrò.
«Spero che ora tu sia in grado di condurre una discussione per lo meno civile, Ruki…».
Un uomo sulla sessantina seduto come un despota in trono su una poltrona, rivolse la parola al figlio con voce atona. Il ragazzo sbuffò e con stizza si lasciò cadere su un grande divano, mettendo le braccia a corona della testa e accavallando le gambe.
Il padre sollevò un sopracciglio ma fu tutta la sua manifestazione di dissenso verso il figlio. Ruki aveva gli occhi socchiusi, e aspettava…
«Spero che ora tu sia più ragionevole…».
Ruki rise sommessamente:«Ragionevole? Io lo sono sempre! Sei tu che sei un vecchio irragionevole, a mio parere!».
Un violento pugnò si abbatté sulla scrivania: il gentiluomo aveva smesso la sua aria imperturbabile.
«Piccolo ingrato che non sei altro! Non osare più parlarmi in questo modo», questa frase bastò a rimettere in riga il ragazzo, ma solo all’apparenza.
«E tu non osare spedirmi in quella terra di selvaggi!», gli occhi di Ruki dardeggiavano.
«Posso eccome, figliolo –calcò la parola con ironia –dopo il tuo comportamento a dir poco osceno, questa “punizione” è un grande regalo che ti faccio!».

Il padre di Ruki, un potente lord inglese di antica casata, era un esponente della corte di Enrico VII Tudor, il vincitore della Guerra delle due Rose.
Aveva ottenuto grandi meriti militari al fianco del monarca e ora ne raccoglieva i frutti, possedendo una discreta flotta e contribuendo ai successi delle missioni d’esplorazione che dopo la scoperta delle Indie Occidentali erano diventate sempre più fitte.
L’unica pecca al momento era rappresentata dal suo unico figlio: era, come tutti i figli del benessere, un poco di buono dedito alle donne e alle malefatte, con una pericolosa crudeltà d’animo. L’ultima sua prodezza, l’aver svergognato pubblicamente una giovane nobile, aveva spinto il padre a prendere una drastica decisione.

«Pensi davvero che spedendomi in quel posto dimenticato da Dio tutti ti elogeranno come un salvatore di giovani fanciulle?», Ruki non prendeva sul serio le minacce del padre.
«No, penso che così la smetterai di procurarmi guai e che lo scandalo nato per colpa tua verrà dimenticato più in fretta!».
«Sappi che la principessina Mary Ann è una sgualdrina fatta e finita e io ho voluto solamente farlo capire alla corte intera!».
Un sonoro schiaffo mise fine alla conversazione.
«Sono stanco…stanco del tuo comportamento che copre di ridicolo la nostra famiglia».
Il ragazzo scosse la testa, per niente colpito da quelle parole:«A quanto pare sono un tuo ottimo erede, padre».
L’anziano lord strinse i pugni mentre il figlio abbandonava lo studio immerso nella luce delle candele.
Quel ragazzo rappresentava la sua sconfitta: aveva desiderato plasmare un uomo degno di questo nome ma tutto ciò che aveva ottenuto era un nobiluccio qualunque, uguale a tutti i porci che sguazzavano nel fango dorato chiamato corte.
Ritornò di nuovo allo scrittoio e gettò nuovamente lo sguardo sulla seconda ragione della sua decisione.
In mezzo a documenti contabili, inviti a corte e scartoffie di qualunque genere figurava un foglio lacero e consunto per esser stato sfogliato tante e tante volte.
In mezzo a tanta carta pregiata risaltava per la sua sgranatura grezza, ingiallita per la scarsa qualità, lacera ai bordi e riempita da artigliate nere d’inchiostro scadente.
Coltellate di scuro tracciavano tre ritratti: una donna bellissima dai lineamenti delicati e un ragazzo dall’aria furba e una fascia che copriva il naso erano disegnati ai lati, cornice per un quadro più raffinato. Capelli e occhi nerissimi, aria truce e un volto elegante.
Pochi tratti che, con bravura, avevano immortalato tre criminali diventati famosi negli ambienti altolocati per il tipo di misfatti compiuti. Innumerevoli nobili erano caduti nella loro rete e venivano derisi sottovoce, perché tutto alla corte inglese doveva apparire edulcorato: non c’era posto per storie scabrose ma nel chiuso dei loro salotti i signori bisbigliavano di un altro mondo.
Il padre di Ruki era uno dei pochi a non essere stato raggirato dal trio ma la sua reputazione veniva comunque guastata da quel diavolo che si ritrovava per erede.
Una punizione esemplare era già nei suoi piani da tempo ma quel mandato di cattura gli aveva suggerito un’idea molto più vantaggiosa: da settimane voci insistenti davano il trio imbarcato per le Indie Occidentali, e la taglia sulle loro teste venne triplicata così da spingere i coraggiosi a seguirli fino in capo al mondo.
Quale migliore occasione di spedire Ruki sulle loro tracce così da calmarne i bollenti spiriti e guadagnarci anche un patrimonio?
Il giovane si era dimostrato immediatamente contrario siccome settimane di navigazione avrebbero significato rinunciare a tutti lussi cui era abituato, senza contare d’essere costretto a lasciare il suo campo di giochi.
Ma ormai era già stato tutto deciso e niente avrebbe smosso la decisione paterna.

Una settimana dopo il colloquio con il padre Ruki si ritrovava sul ponte della “Andromeda”, la seconda ammiraglia della flotta paterna, in attesa di salpare.
Alla fine aveva ceduto: in realtà, non avrebbe potuto opporsi al volere del padre ma non si era nemmeno rassegnato all’imposizione. Semplicemente, aveva deciso di ricavarne quanti più vantaggi possibili, anche se per ora non vedeva altro che buio, e mare…
«Signorino? –il sorriso dolce di Kai rispuntò da sottocoperta –ho sistemato i vostri bagagli nella cabina».
Ruki rispose con un cenno della mano; l’unica cosa che lo consolava era di aver Kai al suo fianco, come da 17 anni ormai…
Il ragazzo tornò alla cabina dando aria all’interno e sistemando le ultime cose: sapeva che sarebbe stato un viaggio difficile e cercava di ridurre al minimo i disagi.
Era stato lusingato alla richiesta di Ruki di accompagnarlo ma anche lui covava in fondo al cuore timore per l’ignoto. Non era un vigliacco e amava le sfide ma affrontare un intero oceano era al di fuori della sua portata.
Un sorriso, come sempre, spuntò su quel volto gentile:«Eppure credo che questo viaggio sarà più divertente del previsto!».



Scusate il ritardo, ma avevo il cosidetto "blocco dello scrittore"; non sapevo come introdurre Ruki e Kai, e ora spero di averlo fatto nel migliore dei modi.
Ringrazio Higasi (la tua recensione mi ha fatto sorridere, mi è piaciuta molto),shuuicha, Balalaika e nanalove, che mi seguono dall'inizio: questi sono capitoli statici, ma l'azione arriverà a breve (non so se dal prossimo capitolo, dipende come mi gira XD). Ringrazio nuovamente la femili, che anche se tratto male voglio sempre bene XD
A presto ^-^

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Capitolo 5
*** De Memoire - Last Scene ***


Fili color dell’oro morivano tra le braccia di zaffiro del mare e chi li aveva gettati sorrideva con un’ombra di dispiacere.
A passi lenti fece ritorno alla propria cabina, dove i suoi compagni lo aspettavano. Aoi, immerso nella lettura di un libro, alzò lo sguardo e sorrise con approvazione.
Reita, impegnato a scribacchiare su un quaderno, accolse l’amico con un fischio.
«Ragazzo mio, se fossi una donna mi sarei già alzato le sottane per te!».
Uruha, con i capelli biondi raccolti in un corto codino, ora rivelava tutta la sua bellezza di uomo nel fiore degli anni: le trine e i fiocchi ormai non servivano più.
Il ragazzo scoppiò a ridere quando Aoi diede un sonoro scappellotto al compagno.
«Sei di una finezza unica Reita, complimenti!».
Reita piantò una faccia offesa:«Ma è mai possibile che tu, invece, sei delicato come un ubriacone?».
Un altro scappellotto, stavolta ancora più forte:«Si usa il congiuntivo, non il presente in questa frase».
Reita si massaggiò la nuca guardandolo di traverso:«Ho la sensazione che questo colpo sia stato per il paragone», e si spostò appena in tempo per evitarne un altro.
Aoi sbuffò scuotendo il capo:«Le tue buone maniere sono come la tua voglia di imparare: inesistenti!».
Uruha, sempre ridendo, si avvicinò ai due ragazzi accomodandosi ad una sedia accanto a quella di Reita, lo fece sedere tirandolo per la camicia e si fece consegnare il quaderno.
Era da qualche giorno che avevano preso il largo e nella migliore delle ipotesi sarebbero giunti a destinazione tra quasi 6 settimane.
Per ingannare il tempo Aoi aveva deciso che Reita avrebbe dovuto avere un’istruzione minima così da non aver difficoltà in futuro.
Uruha non aveva bisogno di lezioni, era allo stesso livello del suo bruno compagno, che avrebbe tanto voluto sapere qualcosa di più sul conto dell’amico. Ma Uruha non aveva ancora mai parlato, e sicuramente non gli avrebbe mai scritto un resoconto sulla propria vita precedente al loro incontro.Dimostrava una sete di cultura infinita e, da quando avevano iniziato a guadagnare abbastanza, i due ragazzi acquistavano libri su libri, di cui buona parte avevano dovuto abbandonare nella loro ultima residenza ai Docks.
Al contrario il biondino sapeva a malapena scrivere il proprio nome e far di conto. Per un po’ poteva andar bene ma, ora che il futuro ormai si dimostrava incerto, i due ragazzi avevano deciso di insegnargli quanto più possibile per renderlo così pienamente autonomo.

Uruha stava controllando il tema scritto da Reita, mentre quest’ultimo si sedeva con la classica paura dello scolaretto di non aver fatto bene i compiti.
«Eppure ho la sensazione che tu –indicò Aoi che nel frattempo continuava a leggere –mi stai dando “lezioni” solo per non morire di noia, e non perché mi vuoi aiutare!».
Uruha sorrise mentre ancora esaminava la scrittura contorta dell’amico e Aoi non alzò nemmeno la testa quando disse:«Reita, non è colpa mia se la mia bontà d’animo viene spesso equivocata da voi miseri mortali!».
Il biondo rimase spiazzato dall’uscita dell’amico e si batté una mano sulla fronte in segno di resa. Uruha aveva finito di correggere l’opera di Reita e con pazienza gli indicava gli errori con una bella penna d’oca. Aoi, di nascosto, li osservava con grande tenerezza: nonostante fosse passato un decennio quei due ancora vivevano in stretta simbiosi, come se fossero rimasti due piccoli bambini spauriti.
In fondo al cuore li invidiava…Invidiava la sua inadeguatezza a legarsi a chicchessia ma più di tutto la sua incapacità ad esprimerlo in gesti concreti. Scosse la testa.

Sciocchezze.

Il suo cuore era una fortezza, non doveva permettere che venisse espugnata altrimenti di lui non sarebbe rimasta che un’ombra…

Le grida di gioia di Reita lo scossero dai suoi pensieri.
«Urrà, sono un genio!», stringeva il quadernetto trionfante.
«La smetti di comportarti come una scimmia una buona volta?».
Reita sogghignò:«Tsk, Uruha ha detto che sono migliorato, e tra qualche tempo non avrò più bisogno di correzioni. Altro che scimmia!».
Aoi lo guardava per niente fiducioso:«Bah, se lo dice Uru…».
Nonostante fosse così duro, Aoi era sinceramente soddisfatto dei progressi di Reita: stava diventando un uomo completo e ciò lo faceva sentire come un padre orgoglioso.

Sorrise tra sé: beh, non nuoceva a nessuno far entrare un po’ di luce nel suo mondo nero, no?



«Prego milady, da questa parte», un vecchio marinaio sulla sessantina fece accomodare un’elegante dama nella cabina dell’ospite d’onore. Ruki era disteso sul letto, intento ad osservare Kai mettere in ordine delle scartoffie prima dell’imminente levata dell’ancora.
«Eccoti qui, figliolo», una fredda voce di donna fece voltare i due giovani. Il ritratto femminile di Ruki era ritto sulla soglia, con la differenza che lunghi capelli biondi, raccolti in una crocchia, incorniciavano il suo viso.
Il ragazzo si precipitò ad abbracciare la madre, mentre Kai lasciava silenziosamente la cabina.
«Alla fine vostro marito è riuscito a mandarmi via», un sorriso malizioso gli piegò la bocca carnosa.
La madre gli scompigliò i capelli con affetto:«Farò in modo di fargliela pagare, non preoccuparti».
«Di questo non ne dubito, madre mia», entrambi scoppiarono a ridere ma non si leggeva allegria in quei suoni.
La dama si accomodò su una delle due poltrone rivestite in velluto che arredavano l’angusta sistemazione del figlio. Si guardò intorno molto contrariata:«Non si può dire che sia stato magnanimo con te…».
«Madre, l’alloggio è una delle ultime cose che mi da noie al momento».
«Come pensi di comportarti una volta arrivato lì?».
Il ragazzo ci pensò su, poi alzò le spalle:«Per un po’ farò il bravo ragazzo poi, quando vostro marito sarà tornato in sé, vedrò di tornare indietro».
La donna sospirò:«Figliolo, non essere così ottimista. Potrebbero volerci più di pochi mesi…».
«In tal caso mi scomoderò a trovare un terreno di divertimenti anche in mezzo a quei selvaggi».
La donna aprì un pregiato ventaglio spagnolo e iniziò a darsi aria: la bella stagione era arrivata da un pezzo ma solo da poco le temperature erano diventate estive.
«Figliolo, a quanto mi ha detto tuo padre lì ad attenderti troverai il governatore spagnolo in carica; immagino che abbia almeno una corte decente in grado di intrattenerti…».
Ruki rise:«Oh, le spagnole sono delle donne così abili ad alzarsi le gonne che mi sono sempre chiesto se mai un giorno ne avrei incontrata una!».
La madre poggiò con violenza il ventaglio sulla scrivania, lievemente arrossita:«Ruki modera il linguaggio, per l’amor di Dio!».
«Madre non fingete di fare la santa con me. Ricordatevi che questi giochetti non vi sono poi così estranei se ora vi trovate al fianco di mio padre!».
La madre lo osservò a lungo, poi scoppio in una risata:«La tua lingua è molto più tagliente della mia: sono contenta che tu l’abbia ereditata insieme alla bellezza».
Si alzò in piedi e abbracciò nuovamente il figlio:«Ora devo proprio andare –si asciugò una lacrima immaginaria con la punta del mignolo –fa attenzione durante il viaggio e, una volta arrivato lì, tieni alto il tuo buon nome».
Il ragazzo ricambiò l’abbraccio:«Come mi avete insegnato, madre!».

La donna fu scortata fuori dallo stesso marinaio che l’aveva accolta e sul ponte si incrociò con Kai. Il ragazzo le lanciò una fredda occhiata sfuggente ma subito si profuse in un inchino.
«Ragazzo, sorveglia il tuo padrone –lo squadrò con malevolenza dall’alto in basso –non so cosa abbia in mente suo padre ma mi aspetto che torni sano e salvo. In caso contrario, saprò a chi rovinare il suo bel visino».
Con una risata crudele la donna salì nella sua lussuosissima carrozza, e sparì nel chiasso del porto.

Kai entrò nella sua cabina, più piccola e di fianco a quella di Ruki; chiuse la porta a chiave ed estrasse dalla tasca un foglio consumato. Tre ritratti noti avevano catturato la sua attenzione e ora stava riflettendo sul da farsi.

“Figliolo”, con queste parole lo fermò il suo padrone poche ore prima di lasciare il palazzo.
“Milord”, aveva risposto con un inchino arrossendo leggermente. Il padrone lo trattava con familiarità ormai da molti anni ma quel privilegio gli procurava sempre un sottile imbarazzo.
Il nobiluomo gli porse il mandato di cattura del trio e, allo sguardo interrogativo di Kai, rispose:«Voglio che, una volta arrivati a destinazione, tu e mio figlio diate la caccia a questi tre criminali».
Il ragazzo non nascose una certa sorpresa e chiese come mai non potevano pensarci le autorità locali.
«Voglio che mio figlio impari cosa significhi mettersi al servizio della comunità, voglio che rischi la sua vita per maturare e capire come si diventa uomini! –gli cinse una spalla –desidero che tu vegli sulla sua sicurezza, e fino al vostro approdo voglio che questo colloquio non venga menzionato. Non deve essere in condizione di opporsi al mio volere».


“Padrone, prometto di fare il mio dovere fino in fondo!”, Kai lo giurò guardando il volo sereno dei gabbiani, liberi come la brezza che li portava in alto, estranei al mondo e agli uomini legati ineluttabilmente al suolo, senza alcuna possibilità di librarsi verso il sole…






Rieccomi *arriva rotolando* stavolta sono stata più veloce *O* cercherò di mantenere questo ritmo ù_ù
Moglie, ne è valsa la pena rompere a tutti, così continuo *tsk*
Zio, credo che Ruki cattivo sia il sogno proibito tuo e di foglia Faissu, quindi principalmente è nato per voi XD *non è vero, però così sono buona e carina*
Higasi, te non dai noia, anzi le tue recensioni sono sempre divertenti XD
Grazie nanalove, mi fa piacere che l'aver "buttato" quei due in scena a questo modo sia piaciuto ^-^
Oh mi sono guadagnata un'altra lettrice ^O^ Grazie Ayumi per i complimenti ^//^
Bene, di solito i miei ringraziamenti sono scarni, stavolta ho fatto la brava ù_ù

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Capitolo 6
*** Ano Aoi Taiyou... ***


Caldi raggi di sole brillavano come diamanti sul blu sconfinato dell’oceano. Quella superficie di vetro era solcata dalla potente chiglia di una nave solitaria che a vele spiegate si dirigeva verso il porto sicuro di Cuba. Mancavano ancora parecchie miglia ma l’odore di casa aveva risollevato gli animi dell’equipaggio.
Il capitano era sul cassero e osservava sereno il lavorio dei suoi uomini, ringraziando il Signore del buon esito della traversata. Il galeone era partito dalla Spagna circa un mese prima, appesantito da un carico importante e da nuove braccia per il Nuovo Mondo, ormai da quasi quindici anni proprietà dei Re Cattolici di Castiglia.
Mentre stava per scendere sottocoperta, il capitano fu richiamato da un urlo della vedetta.
«Che succede?», si avvicinò al nostromo che gli passò un cannocchiale abbastanza rudimentale.
Quello che il capitano vide lo fece sbiancare: una nave che batteva bandiera nera.

Sferragliare di spade, odore di polvere da sparo, il ruggito dei cannoni e odore di sangue: un teatro perfetto per tre magnifici attori.
I pensieri del giovane Uruha erano poetici anche quando la sua spada affondava nella carne del nemico: uccidere era diventata una necessità e non aveva in nessuna occasione provato rimorso. Nel mondo sopravvivevano i leoni e non poteva permettersi di non essere uno di loro.
Erano passati alcuni anni da quando i tre fuggitivi erano approdati nel Nuovo Mondo, nel regno dove “il Sole mai tramonta” dei Conquistadores spagnoli.
Poco ci avevano messo a mettere in pratica un’idea di Aoi: spacciandosi per giovani nobili in esilio erano riusciti a contattare un armatore loro conterraneo e a farsi costruire un galeone. Caduto tra le braccia dell’oceano, subito era diventato la loro nuova casa e il loro più grande compagno.
Corsari: un nome che profumava di leggenda, e Aoi aveva voluto consacrare il loro destino ad essa e alla sorella Gloria, che sempre fa vivere gli uomini in eterno.
Su quel poderoso veliero in quercia avevano costruito fama e fortuna, e mistero…

Una figura agile come un folletto combatteva sul castello di prora e aveva l’aria di divertirsi un mondo; con affondi rapidi e decisi aveva messo sotto scacco molti avversari, spedendone alcuni tra le onde. Combattere era un gioco in cui Reita si cimentava con passione, e riusciva a distinguersi dagli altri per il suo essere scanzonato anche in pieno arrembaggio.
«Signorine, metteteci più entusiasmo! Così ci rendete un gioco da ragazzi farvi fuori!». La voce squillante del ragazzo sovrastava la confusione della lotta, infondendo carica ai compagni di scontro. Uruha sorrise e si sbarazzò dell’ultimo spagnolo che l’aveva assalito. Lesto si diresse verso la postazione di Reita quando, poco prima di raggiungerlo, vide un soldato attaccarlo alle spalle.
Ad Uruha partì un grido di avvertimento ma era troppo tardi: il compagno fu ferito al braccio destro perdendo così la spada che venne spinta lontano dall’avversario.
Reita, ora in terra, indietreggiava sulle ginocchia per evitare i fendenti e con lo sguardo cercava una qualsiasi via di fuga, in modo da recuperare un’arma e restituire il fio. Inutilmente.
Lo spagnolo levò in alto la spada e si preparò a falciare il ragazzo ma esalando un verso strozzato non poté concludere. Sangue zampillante macchiò il legno, e una lama faceva capolino dal ventre dell’uomo.
Un demone ammantato di nero l’aveva scagliata dalla coffa e, con l’abilità di un funambolo raggiunse Reita, recuperando la sua arma e aiutando l’amico a rialzarsi.
«Grazie Aoi, quel bastardo si era proprio deciso ad ammazzarmi!».
Aoi lo accompagnò da Uruha che nel frattempo era riuscito a raggiungerli, e rapido si rigettò nella mischia.
Era una delizia guardarlo combattere: elegante come un felino sembrava un ballerino con madama spada, uniti in un affascinante lento di morte.
«Tsk –bofonchiò il biondino –è mai possibile che faccia il dannato damerino anche quando ammazza?!».



Gli occhi color oro di Ruki saettavano: aveva appena appreso di un’altra incursione ai danni di un galeone iberico, e subìto gli istantanei rimproveri del governatore.
«Maledizione!», strinse i pugni digrignando i denti. Era furioso.
Aveva ventiquattro anni ora, e sette erano trascorsi dal giorno della sua partenza dalla madrepatria. Non aveva perso tempo: con non molta fatica era entrato nelle grazie della corte castigliana e, con abili manovre e l’ingresso nei circoli e letti giusti, in quelle del viceré.
Potere e divertimento, li possedeva entrambi ora ma c’era una macchia in quel mondo perfetto: tre spregiudicati pirati inglesi.
Era dal suo arrivo a Cuba che gli dava la caccia, suo padre l’aveva lanciato di forza in quell’assurda impresa; non era il suo obbiettivo principale, mai stato, però era essenziale alla sua sopravvivenza politica. Prendere o lasciare, e aveva conquistato la via del mare.
Capo di un’intera flotta, era ormai una sorta di giustiziere. Il governatorato aveva un'arma violenta da usare contro i criminali, sempre efficiente ma non abbastanza da riuscir a prendere loro.

«Signorino?».
Ruki si scosse dai pensieri e si sorprese a ritrovarsi nel suo salotto, a fissare la finestra da una poltrona.
«Si, Kai?»
«Ho pensato di prepararvi del the…siete così pallido!».
Ruki sorrise mentalmente: solo Kai riusciva a comprendere i suoi stati d’animo ed era sempre lì, come un angelo custode a vegliare sulla sua anima perduta…
Mentre Kai gli serviva il the il ragazzo si concentrò sul rapporto consegnatogli dal governatore. Sorbì la bevanda senza assaporarne il gusto:«Sai Kai, i nostri fuggitivi hanno assaltato un’altra imbarcazione».
«I falchi sono sempre molto voraci, signorino».
Ruki rise a quella battuta: l’ammiraglia dei tre amici era stata battezzata con il nome di “Crimson Hawk”, e rispecchiava perfettamente il modus operandi dei proprietari.
«Si ma i falchi rimangono pur sempre uccelli e, se un bravo cacciatore gli sbarra il cammino, finiranno presto in gabbia».
«Dalle vostre parole si direbbe che state architettando qualcosa…».
Ruki si limitò a sorridere furbamente e a passare a Kai un fagottino.
«Bene, sono atteso per una riunione. Alle otto devo partecipare al ballo della figlia del viceré, assicurati di farmi trovare un bagno caldo...».
Mentre Ruki lasciava il suo salotto Kai svolse il cartoccio, liberando un pugnale e una rosa legati assieme e sporchi di sangue.
Scosse la testa:«Lo sapevo che aveva intenzione di cacciarsi in qualche guaio!».






*arriva tutta bardata in armatura* lo so che mi stavate aspettando da un po', chiedo perdono çOç ho capito che fare lo scrittore non mi darà da campare, sono troppo inconstante XD
Orsù, ringrazio di nuovo tutti i lettori e i recensori, che con affetto mi seguono e che mi danno voglia di continuare.
Siccome so soltanto come andrà a finire, ma non conosco l'intermezzo, questa trama darà sorprese anche a me. E accontenterò anche le yaoiste, ovviamente senza ricorrere allo yaoi *sghignazza*
Bene, il prossimo capitolo avrà tutta la mia concentrazione, e spero di presentarvelo presto.
In anticipo, vi auguro buone feste *O*
*traduzione del titolo: Questo oceano azzurro...

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Capitolo 7
*** ...Chi no Umi desu. ***


Uruha uscì di casa sospirando contento. Si era nei giorni novembrini e a Cuba il clima era nel suo culmine di benevolenza. Temperature tiepide e scarse precipitazioni rendevano l’isola e il suo compagno oceano emuli di un piccolo Eden per la gioia degli abitanti. E dei pirati.
“Serata libera!”, pensò il biondo soddisfatto. Insieme ai compagni aveva provveduto a sistemare i proventi dell’ultima scorreria e ora era libero di gironzolare per la cittadina e le sue taverne.
L’idea di passare il suo tempo a gustare alcolici metteva Uruha particolarmente di buon umore, soprattutto perché non poteva farlo molto spesso a causa della vita raminga che conduceva. Appena ne aveva l’occasione soddisfava la sua astinenza con generose ubriacate.
Sorridendo stava percorrendo la strada principale, intento a decidere in quale taverna fermarsi per iniziare quando la sua attenzione venne attratta da una fanciulla.
Quella testa di favolosi capelli neri aveva fatto capolino dal fondo della strada e sembrava dirigersi verso la taverna prescelta dal biondo. La pelle olivastra era fasciata da un sinuoso abito color crema che sembrava fluttuare tanto il passo era aggraziato.
Uruha si rese conto di esser rimasto letteralmente a bocca aperta quando due occhi nerissimi, accarezzati da ciglia del medesimo colore, si trovarono a fissarlo dall’entrata della taverna.
«Vuole entrare, signore?», chiese la fanciulla in spagnolo.
Il ragazzo annuì e, sfoderando il suo miglior sorriso, entrò.

«Reita, quei bifolchi hanno rimesso al loro posto la polena?».
«Seh, te l’avevo già detto ieri sera –esclamò il ragazzo stizzito, richiudendo la porta alle sue spalle –che bisogno c’era di svegliarmi all’alba, all’ALBA, per farmi controllare di nuovo?».
«Prima di tutto non è l’alba ma sono quasi le dodici; secondo, Telsiope va trattata bene!».
«La polena è solo un pezzo di legno! Se la chiami con un nome non è che cambia la sua situazione eh», Reita era tentato di alzare gli occhi al cielo.
«Sarà pure un pezzo di legno ma non dimenticare che la signorina custodisce il nostro segreto…»

Telsiope, una delle quattro grandi sirene dell’antichità, era diventata la bellissima polena della “Crimsom Hawk”, il galeone più temuto del mare.
La grande figura lignea in battaglia non compariva mai, messa preventivamente al sicuro dall’equipaggio; solcava i mari quando il terzetto aveva bisogno di spacciarsi per cittadini rispettabili e, soprattutto, quando nessuno al mondo doveva sapere cosa ci fosse al di sotto della coda...
«Certo certo. Ma chi vuoi che si accorga in mezzo al mare di uno stemma sulla prua?».
«La prudenza non è mai troppa, amico mio».
«Sei troppo puntiglioso».
«E tu troppo superficiale».
«Ok, siamo pari».
Sorrisero.

Era ormai calato il tramonto quando Reita si trovò a correre a perdifiato verso camera di Aoi, con la voglia di urlare a squarciagola. Si precipitò all’interno senza preoccuparsi di bussare, non era momento per i convenevoli. Aoi si voltò di scatto verso il compagno già pronto a fargli una strigliata secolare ma bastò guardarlo in volto per capire che era successo qualcosa di gravissimo.
«Reita, cosa…».
«Uruha è…Uruha è…».
Prontamente lo fece sedere e riprendere fiato. Appena si fu calmato Reita riuscì a riformulare la frase che agghiacciò entrambi fino alle ossa.
Uruha era scomparso.

«Da quanto tempo manca da casa?», i passi pesanti di Aoi calcavano quasi di corsa il corridoio.
«Da ieri sera, prima che facesse buio».
«E perché diavolo te ne sei accorto solo ora?».
«Una domestica mi aveva detto che riposava e desiderava non esser disturbato».
Aoi si voltò di scatto allarmato.
«Non preoccuparti, l’ho sbattuta in cella appena mi sono accorto dell’accaduto. Più tardi la potremmo interrogare».
Aoi ghignò:«A quanto pare qualcosa l’hai imparata».
Ansimando, giunsero alla camera da letto dell’amico e ne spalancarono la porta. Reita corse a tirare le tende mentre Aoi rovistava in cerca di qualche indizio.
«Maledizione non c’è nulla!», esclamò il biondino spazientito.
«Non ti abbattere, Rei, vedrai che non gli sarà accad…».
Aoi rimase impietrito e Reita, seguendo la direzione del suo sguardo, ebbe la stessa reazione.
Un pugnale conficcato sulla testiera del letto, dalla lama insanguinata che straziava il bocciolo di una rosa tea, i cui i petali macchiati erano caduti sul cuscino.
«No non è possibile…», Reita non riusciva a parlare.
Aoi urlò pieno di rabbia e stringendo i pugni:«Se lo sono preso, dannazione!».






Eccomi qua *O* Mi scuso fin da ora per la ridotta lunghezza del capitolo, però ho fretta. Fretta di arrivare al punto che ora ho in mente. Ci vorrà ancora qualche passettino, però ho bisogno di questi capitoli mordi-e-fuggi.
Al solito, spero di non avervi delusa e di aver premiato l'attesa. La storia si sta evolvendo bene, nella mia testolina, vediamo scrivendo che esce fuori.
A presto! E buon Anno Nuovo!
*traduzione del titolo:...è un mare di sangue.

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Capitolo 8
*** A wound in the Night ***


«…ecco dove merita di marcire uno scherzo della natura come te!». La voce tonante e sgraziata di un uomo rimbombava tra le pareti viscide d’umidità.
Una figuretta giaceva riversa su un pagliericcio, le labbra strette e gli occhi gonfi di lacrime. Diversi ematomi chiazzavano di viola la pelle lattea, coperta alla meno peggio da un vestito senza garbo ne forma. La figuretta sentiva le ossa fredde trafitte dallo sguardo maligno del carceriere, e rabbrividì fin dentro l’anima.
Sapeva cosa l’attendeva ma non aveva paura: l’unico timore che l’attanagliava era il rischio di poter vivere troppo a lungo…

«Cristo santo!», Reita rovesciò con un calcio la sedia che l’aveva ospitato pochi secondi prima.
«Rei, scomodare il Messia con le tue bestemmie non credo sia di molto aiuto…».
Nonostante fosse stanco, preoccupato e infuriato Aoi si imponeva di conservare un certo controllo, utile a mantenere un minimo di concentrazione. Erano rimasti tutta la notte chiusi in cella con la domestica ma l’unica cosa che avevano ottenuto era una risata di scherno e delle offese in castigliano.
«Hai ragione, scusami –mormorò l’amico sedendosi accanto a lui –ma brancolare nel buio in questa situazione non è un buon calmante».
«Anche io sono preoccupato per Uru, ma ho bisogno di rimanere concentrato…».
«Stai pensando ad un modo per convincere quella sgualdrina a sputare il rospo?».
Aoi scosse la testa, prendendosela tra le mani. Sospirò pesantemente e rimase in silenzio per molto tempo. Reita era in attesa di una sua parola, una qualunque, un appiglio in tutta quell’inquietudine.
A un tratto Aoi si alzò in piedi e fece cenno al biondo di seguirlo. Non disse una parola per tutto il tragitto fino alla cella della prigioniera, finché non infilò la chiave nella toppa:
«Rei, precedimi per favore. Io ti raggiungo tra poco…».
Il ragazzo attese per qualche minuto e guardando in cagnesco la donna, la quale si era svegliata al sentire rumori fuori dalla cella ed ora lo fissava con disprezzo misto a divertimento.
«Eccomi », Aoi entrò reggendo tra le braccia oggetti che Rei, a causa della penombra, non riuscì subito a identificare. Il moro poggiò il tutto su un tavolo di legno tarlato e accese diverse candele sparse per la stanza.
«Aoi, ma sei impazzito?», Reita lanciò un grido a metà tra l’incredulità e il terrore: Aoi aveva portato con sé una pistola, un pugnale, una frusta e persino un bastone di ferro.
«No, sono lucidissimo», rispose con voce atona.
«Capisco che ti sta a cuore ritrovare Uru, ma non puoi…».
«Certo che posso! –sbottò il moro interrompendolo –Ho tutto il diritto di torturare questa donnaccia! Le farò sputare anche l’anima se necessario ma deve dirmi che fine ha fatto Uru!», guardò Reita, il quale indietreggiò di colpo, colpito dalla ferocia che lesse negli occhi neri dell’amico. La prigioniera, che aveva assistito all’intera scena, era rimasta impietrita dalla paura: gocce di sudore gelido le imperlavano il volto e le si seccò la gola non appena vide il carceriere nero impugnare la pistola.
Aoi giocherellava con l’arma, soppesandola e testando la mira mentre i suoi occhi non abbandonavano un istante la faccia della donna.
«Che dici mia cara –iniziò a parlare in spagnolo –credi sia più divertente girare con un buco nella gamba o nel braccio?».
La donna mosse le labbra ma non emise alcun suono: era agghiacciata, letteralmente, consapevole di questo mutismo involontario che l’avrebbe condotta tra le braccia del dolore. Aoi posò la pistola e lanciò il pugnale mirando alla testa della spagnola. Ella chiuse gli occhi in tempo per sentire un ronzio sfiorarle l’orecchio sinistro e del liquido caldo scorrerle lungo il collo: la lama si era conficcata nella parete volutamente.
Reita era sotto shock:«…Dio, pensavo l’avresti ammazzata…».
Aoi ghignò:«Non sono così stupido da finire il lavoro prima del tempo», rispose in spagnolo a beneficio della terrificata. Il moro le diede le spalle e chiese alla donna se si fosse ricordata di aver qualcosa di importante da riferire. La castigliana prese coraggio: intuì che il ragazzo non faceva sul serio e decise di giocare l’ultima carta.
«Perché parlare? Ho capito che voi non siete un assassino a sangue freddo, señor. Non mi farete alcun male visto che vi servo in buone condizioni, o altrimenti il vostro amico non lo ritroverete mai».
La sciocca emise una risatina fastidiosa cui fece eco quella più profonda di Aoi.
«Sei un’abile calcolatrice a quanto vedo –Aoi si girò con in mano la frusta –ma non abbastanza da permetterti di sfidare la mia pazienza!», urlò infuriato, e una scudisciata partì a segnare la spalla della prigioniera.
Un grido più di sorpresa che di dolore riecheggiò tra le pareti e Reita si lanciò sul compagno, afferrandogli il braccio destro.
«Aoi, per l’amor di Dio, smettila!».
Il moro se lo scrollò di dosso mandandolo a sbattere contro il pavimento:«Rei, non intrometterti. Non voglio colpire anche te».
Aoi rivolse nuovamente le sue attenzioni alla vittima, continuando a colpire sui punti lasciati scoperti dal vestito, braccia e caviglie e spalle; faceva attenzione a non usare troppa forza in modo da lasciare segni che sarebbero guariti dopo un po’.
«Allora, la voglia di parlare è tornata oppure devo continuare?», il moro ansimava per rabbia repressa.
La spagnola che aveva tenuto gli occhi serrati per tutto il tempo li riaprì di colpo, urlando che non bastavano quelle ridicole sferzate a darle un buon motivo per parlare. Aoi perse le staffe; lanciò la frusta sul pavimento e prese con uno scatto la spranga di ferro. Iniziò a batterla lentamente sul palmo della mano sinistra mentre con disprezzo osservava la prigioniera.
«Mi costringi ad essere drastico, e bada che ben pochi hanno osato spingersi dove tu ti sei avventurata –sorpassò Reita che lo osservava senza muovere un muscolo –Ti do un’alternativa: o parli o ti farò cadere tutti i denti, uno ad uno, in un’agonia così lenta che mi supplicherai di ucciderti».
Faceva sul serio, la donna lo capì. Il tono del moro era deformato in un ringhio ferale e, quando le arrivò così vicino da poterne sentire il respiro furioso, la spagnola finalmente parlò.
«Mi hanno pagata molto, con un bel sacchetto di monete sonanti…».
«Come hai fatto a introdurti in casa nostra?», chiese Rei che finalmente aveva recuperato la parola.
«Sono al vostro servizio da qualche settimana…».
«Chi ti ha ordinato di adescare il nostro amico?».
La donna abbassò gli occhi:«Era il mio giorno libero…per caso in una taverna mi è capitato di sentire il discorso di un ragazzo ben vestito a proposito di una banda di tre fuorilegge. All’inizio non vi ho prestato molta attenzione ma poi ho visto che faceva passare dei fogli con dei ritratti su…».
Rei alzò lo sguardo verso Aoi, che dall’ultima minaccia era rimasto in silenzio:«La taglia…è arrivata fin qua…».
Aoi annuì:«Qualcuno che sa del nostro passato è riuscito a scovarci persino qui…».
Difatti, sin dall’arrivo dei tre amici nel nuovo mondo, nessuno mai aveva sospettato che tre ladruncoli inglesi scomparsi nel nulla fossero legati alle scorrerie della Crimson, ed erano vissuti in una discreta serenità…fino a quel momento.
«Continua, donna, e in fretta!», il biondino era diventato nervoso.
«Ecco, quando mi è capitato sotto mano il foglio sono rimasta colpita dal ritratto di una donna, somigliantissimo a quello del vostro amico. Non sapevo che gli altri due foste voi…
Ho sentito che il ragazzo prometteva una lauta ricompensa e, siccome appariva come una persona rispettabile, ho deciso di farmi avanti.
Gli ho parlato di padron Uruha e mi sembrava soddisfatto: mi ha consegnato una borsa di monete d’oro per ripagarmi dell’informazione e me ne aveva promessa un’altra se gli avessi portato il ragazzo», tirò un sospiro e si zittì.
«Hai parlato di un ragazzo ben vestito –esordì Aoi dopo qualche minuto, –puoi dirci che aspetto avesse?». Il tono del moro si era di colpo raddolcito ritornando ai modi galanti abituali, e la donna perse del tutto il timore nei suoi confronti, sentendosi improvvisamente disposta a collaborare sua sponte.
«Un bel ragazzo magro, dal viso gentile, un po’ più alto di voi due signori –sorrise maliziosa –con capelli ed occhi castani molto dolci. Molto elegante nei movimenti».
«Oh certo, un ragazzo diversissimo da quelli che possiamo trovare in una cittadina», sbuffò Reita spazientito.
«Era inglese».

«Credi che abbiamo fatto bene a liberarla?», bisbigliò Reita al compagno.
Erano accucciati dietro una pila di botti da quando la notte era calata, in attesa.
«Non ci creerà altri problemi, non dopo il trattamento che le abbiamo riservato…».
Aoi, dopo essersi fatto indicare il luogo di un altro appuntamento fissato col rapitore, aveva pagato la donna, lasciando sia lei che Reita sbalorditi.
«Una ricompensa per la collaborazione, e per non farti vedere mai più», queste le parole di Aoi, prima che la donna li ringraziasse a capo chino e sparisse.
«Sono ore che aspettiamo! Non è che quella donnaccia ci ha gabbati?».
«Rei sei troppo diffidente».
«Hai voglia di prendermi in giro?».
Aoi non rispose ma fece cenno a Reita di stare in silenzio: c’era del movimento al di fuori della taverna. In uno dei vicoli laterali si era fermata una carrozza e l’occupante aveva appena varcato la soglia dell’edificio. I due si sistemarono in modo da tener più comodamente sotto controllo la porta, in attesa che lo sconosciuto, vedendo sfumato l’appuntamento, facesse ritorno a casa.
Dopo un’ora erano già ben ancorati nello spazio riservato ai bagagli sul retro della vettura, col cuore in gola e l’adrenalina in circolo.
Viaggiarono nel silenzio più assoluto, accompagnati dai battiti solitari dei loro cuori.

«Chi l’avrebbe mai detto che quel porco del governatore sapesse di noi!».
Rei quasi rideva mentre con il compagno correva per i corridoi del governatorato.
«L’ironia della situazione è anche troppo amara! Qualche avventuriero deve averci seguito fin qui e avrà parlato di noi agli ispanici!».
«Ma perché accanirsi su quella vecchia taglia? In fondo, sono passati sette anni!».
«Evidentemente siamo stati una grossa spina nel fianco della cara vecchia Inghilterra».
I due ragazzi proseguirono la loro avanzata: non avevano incrociato nessuno finora e questo avrebbe dovuto mettere in guardia l’istinto ma il bisogno di liberare il compagno aveva scavalcato il buon senso. Nella corsa trovarono l’accesso a una lunga rampa di scale in pietra e intuirono che li avrebbe condotti nella zona delle prigioni. I due amici si guardarono, perfettamente consapevoli che così sarebbero caduti tra le grinfie del lupo. Il pericolo era il loro pane quotidiano, e l’addentarono anche quella volta.
Discesero a perdifiato nel buio, riuscendo prontamente a stordire una sentinella che fortunatamente dormiva piuttosto che montare la guardia. Finalmente, stanchi e sotto tensione, arrivarono davanti ad una grande cella. Speranzosi, chiamarono il nome di Uruha ma un suono di passi li raggelò. Erano caduti in trappola, lo sapevano, e ora non gli restava che sfuggire allo scatto della tagliola.
Si trovarono faccia a faccia con due ragazzi della loro età, vestiti molto elegantemente e scortati da alcune guardie. Un silenzio di tomba cadde tra gli antagonisti cadenzato da respiri pesanti e da vecchi rancori che, spezzate le antiche e rugginose catene, erano tornati alla luce, più vivi e dolorosi che mai.

«Mio padre ha un senso dell’umorismo davvero impareggiabile…».






*rotola per tutto lo spazio*Ce l'ho fatta *O* Siamo arrivati al punto cruciale, i cinque ragazzi hanno in serbo delle sorprese per voi *gongola*
Ringrazio la femili per i commenti precedenti, higasi e shuuicha *i complimenti allo stile mi mandano in brodo di giuggiole*
Kairi *O* ho rapito anche te, che bello *batte manine* sono contenta che ti sia piaciuta ^-^
Bene, il mio ringraziamento sincero sta in questo capitolo, che è più lungo del solito.
Attendo un responso da voi lettori ^-^ Spero di aggiornare presto ^-^

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Capitolo 9
*** Death Ruin ***


«Mio padre ha un senso dell’umorismo davvero impareggiabile se ha fatto in modo di spedirti fin qui a darmi la caccia!», mormorò il ragazzo tra i denti.
«Non credo che il signore in questione abbia tanto da divertirsi dopo tutti i tuoi crimini», rispose l’altro con disprezzo malcelato.
«Se vivere per l’onore e la libertà è un crimine allora sono contento della mia vita, fratello», Aoi sottolineò l’ultima parola con uno sguardo di sfida.
«Lo siamo per un disgraziato caso, ricordatelo –Ruki gli si avvicinò a spada sguainata –l’unico legame che sento con il tuo sangue è quello della morte!»
«E sia!», anche Aoi aveva sguainato la spada, raggiungendo il suo rivale al centro del corridoio.
Simultaneamente Reita e Kai si erano lanciati accanto ai rispettivi compagni, pronti a dargli manforte in quello scontro. «Dopo dovrai spiegarmi alcune cosette!»
«Sempre che ne usciamo vivi, Rei»
«Avete detto bene –Ruki sogghignò –sempre che ne usciate vivi!»

Uruha fu risvegliato da un clangore di spade. A fatica si alzò dal pagliericcio che l’accoglieva e raggiunse le sbarre della piccola feritoia sulla porta della sua cella. In un primo momento i suoi occhi, succubi della penombra, non riuscirono a focalizzare bene la scena ma bastarono alcune imprecazioni a suggerirgli l’identità di almeno uno dei contendenti.
Era così sollevato che avrebbe voluto gridare di essere lì, ammaccato ma vivo, ma tutto ciò che riuscì a pronunciare fu un sospiro strozzato. Innervosito, decise di escogitare un modo per uscire fuori dalla prigione ma, ovviamente, nella cella non c’era nessun tipo di oggetto utile al caso. L’investigazione fu interrotta da un forte tonfo contro la porta di legno che lo gettò sul pavimento.
Rialzatosi, ebbe un’idea…

A Reita si mozzò il respiro: la caduta contro la porta era stata così forte da comprimergli la cassa toracica e costringerlo a terra, senza forze.
Aoi era impegnato a duellare con Ruki e aveva avuto appena il tempo di vedere Rei afflosciarsi come un sacco vuoto e perdere i sensi. Con una spallata riuscì ad atterrare il fratello e in un balzo a raggiungere il compagno, opponendo la sua spada a quella di un soldato che stava per attaccarli; lo trapassò senza pietà, pronto a fronteggiare il resto di loro.
«Arrenditi, Aoi, ormai sei spalle al muro», Ruki lo fissava soddisfatto.
«Un uomo non è sconfitto finché ha vita fratellino!»
Un luccichio maligno s’impossessò degli occhi del giovane:«Mi trovi d’accordo con te!»
Aoi non ricordò mai bene come fosse accaduto: i suoni divennero ovattati, le persone attorno a lui goffe e lente, mentre la spada no, acquisì una velocità straordinaria. La pelle del collo fu incisa nell’istante in cui un rumore sordo e polvere li avvolsero.

Il sofferto tossire di Reita scosse i sensi di Aoi. A fatica riuscì a spostare un pesante ciocco di legno che gli bloccava la gamba destra e a ripulire dal pulviscolo il volto del compagno sofferente.
«Aoi, che diavolo è successo?»
«Non ne ho la minima idea. Tu piuttosto stai bene?»
«Abbastanza da poter alzarmi in piedi». I due compagni si sollevarono a fatica da pavimento e videro cos’era accaduto: la porta della cella di Uru ora si trovava al suolo in pessime condizioni e il lui vi ci era disteso, immobile. I due compagni si precipitarono accanto all’amico che, con grande sforzo, aveva ripreso i sensi e ora era riuscito a sedersi. Il biondino abbracciò i due, felice che l’impatto con la porta non li avesse danneggiati.
«Che bel quadretto», Kai sorreggeva il suo padrone imbiancato dalla polvere, un rivolo di sangue a solcargli una guancia e una momentanea incoscienza che lo lasciava inerte tra le braccia del servo. Aoi ebbe uno slancio in direzione del fratello ma una guardia riuscì ad agguantarlo e trattenerlo. Altre due erano ai lati di Reita e Uruha, immobili e sconfitti ma di nuovo assieme.
«Non preoccupatevi, il signorino è semplicemente svenuto –disse il ragazzo, adagiando Ruki tra le braccia di un soldato e ordinandogli di condurlo nelle sue stanze –Ora potremmo regolare i conti».
«Kai, non sei mai stato amante della violenza. Lasciaci andare ora, e nessuno di noi avrà conseguenze».
«Signorino Aoi avete mantenuto un ricordo di me del tutto errato –Kai sguainò la spada e la puntò contro il suo antico padrone –Battetevi con me, e così decideremo il destino che vi spetta».
Aoi accettò la sfida e, indirizzando uno sguardo ai suoi due amici, disse:«Ho un patto che vorrei tu accettassi».
«Sempre che si tratti di un accordo onesto».
«Voglio che tu li lasci andare…»
«E se perdete?»
«Il mio volere prescinde dall’esito del duello».
Kai fissò pensieroso i due ragazzi biondi, poi annuì:«E sia. Voi però rimarrete nostro “gradito” ospite, affinché il mio padrone possa decidere quale sorte sia la più adatta a voi».
«Aoi, ti prego non farlo! Possiamo andar via tutti e tre assieme!».
«Rei, non dire assurdità –esplose il moro –voi due siete disarmati, e tu ancora ferito! Andatevene, io me la caverò. Kai, dì ai tuoi scagnozzi di condurli fuori».
«Come diavolo fai a fidarti di quello?», Reita ringhiava mentre le due guardie trascinavano fuori lui e Uruha. Uruha guardava il suo capitano con sguardo supplicante ma Aoi gli dava volutamente le spalle.
«Sparite dalla mia vista –fu il saluto che fece ai suoi amici mentre concentrava tutta la sua attenzione su Kai –In guardia!».

«Fateci entrare spagnoli schifosi!».
Reita stava battendo con tutte le sue forze le mani contro il portone del governatorato. I soldati erano stati leali agli ordini, e li avevano disarmati e sbattuti fuori dal palazzo intimandogli di sparire entro l’alba, dopodiché, se li avessero trovati ancora lì fuori, li avrebbero ammazzati.
Il cielo si stava colorando del lillà che annuncia l’aurora quando Uruha fece ritorno dalla sua ispezione. Era riuscito a trovare le scuderie e, in assoluto silenzio e senza spaventare i cavalli, a prenderne tre e portarli il più possibile vicino l’uscita, ben nascosti sotto le loro coperte e dall’oscurità.
«Ah, sei tu –Reita sospirò –Mi hai spaventato!», Uruha gli porse un paio di spade che era riuscito a recuperare nelle stalle e fece cenno al compagno di seguirlo. Fecero il giro della residenza fino al punto in cui erano nascoste le cavalcature e Uru indicò a Rei quello che sembrava l’ingresso delle cucine. Cautamente i due ragazzi sgusciarono nuovamente all’interno.
«Mi dici ora come facciamo a raggiungere le prigioni?», bisbigliò Reita una volta imboccato il corridoio degli alloggi della servitù. Uru sollevò le spalle e lo trascinò per un passaggio che sembrava conoscere; Rei lo seguì docilmente, fidandosi ciecamente del ragazzo biondo che correva come una lepre davanti a lui. Dopo l’ennesima svolta si ritrovarono finalmente sulla via delle segrete e ora anche Reita aveva acquistato sicurezza, aumentando il passo e sfoderando la spada.

Il duello procedeva inconcluso: i due avversari erano allo stremo ormai ma nessuno dei due aveva raggiunto il limite, e mai avrebbe ceduto in favore dell’altro. Si muovevano entrambi a fatica e i colpi non andavano a segno come avrebbero dovuto, riducendo il tutto ad una semplice attesa; sarebbe stata la fatica a proclamare un vincitore.
«Kai, non sarebbe meglio finirla qui?»
«Lo stavo pensando anche io signorino. Sarebbe meglio per voi arrendersi».
«Ti stavo suggerendo la stessa cosa, a dire il vero».
Respiravano affannosamente e le armi avevano raggiunto un peso scomodo per entrambi. Aoi si lasciò andare contro una parete e lo stesso fece Kai: erano spalla contro spalla e si fissavano mentre riprendevano fiato.
«Un ultimo giro di valzer, non ti chiedo altro».
«D’accordo, se è quello che volete ».
I due ripresero a tirar di lama quando degli schiamazzi li interruppero nuovamente. Due teste bionde gli piombarono letteralmente addosso mentre un pugno di guardie scendeva correndo le scale.
«Stupidi! Perché siete ritornati indietro?», Aoi era al contempo adirato e felice di quell’intromissione.
«Perché il proprio capitano non si abbandona mai. In guardia manigoldi!».Erano l’uno accanto all’altro, tre lame sguainate, luccicanti e indivisibili come le stelle del cielo.

Nell’impeto della battaglia i tre amici erano riusciti a sfuggire alle guardie e a dirigersi verso il corridoio centrale del palazzo, ma fu una mossa fatale; decine di soldati prima allertati ora li circondavano, messi definitivamente spalle al muro. Kai era di fronte a loro, conscio che ormai le loro vite erano nelle sue mani.
«Vi avevo dato la possibilità di salvarvi, perché siete tornati?».
«Non siamo tipi da abbandonarti nel momento del bisogno, Aoi».
Aoi scosse la testa e chiese a Kai di liberare nuovamente i suoi compagni.
«Mi dispiace signorino, ma un’occasione preziosa è stata sprecata. Non sono tipo da concederne altre».
«Che intendi fare? Ucciderci?»
«Non è mi…»
Un applauso interrupe il dialogo: Ruki, ormai ripresosi, stava scendendo lentamente i gradini della grande scala principale.
«Non è suo compito, fratello –Ruki avanzò a passo rapido tra i soldati e scostò bruscamente Kai, spingendolo alle sue spalle –Con te farò i conti dopo, Kai! In quanto a voi tre, il mio compito era di consegnarvi alla giustizia –si leccò le labbra soddisfatto –ma non mi è stato specificato in quale condizione».
Ruki ordinò di disarmare il trio e di costringerli a terra:«Vi prometto che sarà un’esecuzione abbastanza veloce per voi, e molto soddisfacente per me».
I soldati si avvicinarono per eseguire gli ordini, e fu un attimo: ad un cenno di Aoi i tre ragazzi ammazzarono gli uomini più vicini e salirono di volata le scale, diretti ad una delle enormi finestre della residenza. Uruha fu abbastanza veloce da sfondarne una lanciandogli contro un busto in marmo e a gettarsi di sotto, mentre i due amici gli coprivano le spalle.
Ruki era quasi riuscito a raggiungerli e, poco prima che i due si lanciassero nel vuoto, a scagliare con mira infallibile la spada contro il fratello. Aoi ebbe appena il tempo di girarsi e sentire un singulto strozzato: lo stomaco di Reita era stato passato da parte a parte dall’arma e, con le ultime forze, riuscì a spingere Aoi di sotto.

«Reita!»
Uruha aveva assistito all’intera scena dabbasso e lo shock fu tale da permettergli finalmente di parlare. L’ultima cosa che riuscì a vedere fu il caro amico che, gridando, lo supplicava di fuggire e i soldati che lo circondavano; prontamente recuperò il suo capitano, svenuto su un gruppo di cespugli, e lo issò sulla cavalcatura rubata. Era tentato di tornare indietro ma fece la scelta più penosa della sua vita: sentendo la voce di Ruki gridare di riacciuffarli decise di non rendere vano il sacrificio di Reita.
Con il cuore in frantumi e un fiume di lacrime a bagnargli il viso spronò il cavallo al galoppo.

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Capitolo 10
*** Everyone joins hands and farewells the people who won't return. ***


Per quanto tempo ancora giacerai come un morto, mio capitano?
Per quanto tempo ancora dovrò augurarmi di non aver perso la mia guida nel mondo?
Per quanto tempo ancora dovrò piangerlo da solo?
Per quanto tempo ancora…



Era una settimana che Uruha non abbandonava la cabina di un Aoi privo di conoscenza, sette giorni che cambiava bende di lino fradice di sudore febbrile, sette giorni che attendeva una parola di conforto, sette giorni che sperava di non rimanere solo al mondo…
Da quella terribile notte erano ancorati con la Crimsom in un’insenatura nascosta: Uruha aveva radunato gli uomini appena smontato da cavallo. Con voce resa roca dalla rinascita e dal dolore aveva urlato ordini con una fermezza che non sospettava avere, e con il capitano nel buio della sottocoperta avevano preso il largo, destinazione ignota.
Mentre il suo capitano delirava Uruha si chiedeva perché il fato si era accanito contro di loro. Non gli importava di sapere se Dio era in collera per le loro malefatte o se avesse deciso di punirli in un modo troppo crudele, gli interessava sapere perché la malvagità di un uomo gli aveva strappato il suo più caro amico. Non poteva domandarlo ad altri se non a sé stesso poiché chi custodiva una risposta aveva gli occhi chiusi e non sapeva di quanto dolore aleggiasse intorno a loro.
Uruha, indebolito nel fisico e nell’anima, decise di salire sul ponte dopo giorni che non vedeva altra luce che quella delle candele.
«Non mi giocare brutti scherzi mentre non ci sono, intesi?».
Parlava Uruha ore ed ore. Parlava al suo capitano dormiente e a sé stesso non sopportando di chiudersi nel mutismo del pensiero, non ora che aveva riacquistato la parola. La sua voce gli piaceva e sperava di poter parlare presto con Aoi, anche se essa sarebbe servita a discorrere di morte.
Chissà, forse Reita l’avrebbe preso in giro per la sua nuova abilità: il timbro vocale di Uruha era molto profondo e degno di un vero uomo, in aperto stridore col suo aspetto delicato. Sorrise immaginando l’amico additarlo come un fenomeno da baraccone e scoppiò irrefrenabilmente a ridere pensando ad una possibile reazione violenta di Aoi, sempre pronto a difenderlo. Uruha rise e rise, così fragorosamente da doversi reggere al parapetto del ponte, e vi si accasciò su scosso dai singhiozzi. Non dovette attendere molto che quegli schiamazzi allegri si trasformassero in un pianto disperato; come un bambino piccolo si sedette sul duro legno della tolda, tirò le gambe a sé e appoggiò la cascata di cappelli biondi sulle ginocchia, abbracciandole strettamente. Rimase in quella posizione per un tempo interminabile, sferzato dalla brezza e riscaldato da un sole oscenamente caldo e luminoso per quell’istante di sofferenza.
Il ragazzo biondo si riscosse solo quando un mozzo gli strattonò la manica della camicia, alzò gli occhi e si ritrovò davanti a un bambino con la pelle bruciata dal sole e il sorriso sdentato.
«Signore state bene?»
Uruha accennò un sorriso, si alzò e scompigliò i capelli del piccolo:«Ora meglio, ti ringrazio».
«Allora venite con me, di sotto c’è un macello». Il bambino lo trascinò sottocoperta fino alla cabina del capitano dalla quale provenivano dei forti schiamazzi. Uno dei marinai uscì fuori imprecando e tenendosi il braccio destro.
«Armand si può sapere che sta succedendo lì dentro?»
«Meglio che andiate a dare un’occhiata voi signore, con le bestie non ci parlo io!»
Uruha aprì la porta e trovò la sedia dove aveva passato le sue veglie distrutta ai piedi di una parete e Aoi, i capelli scarmigliati, con il busto faticosamente sollevato, paonazzo e sudato, che a denti stretti provava ad alzarsi dal letto. Appena lo vide gli inveì contro:«Immagino che tu sappia chi mi ha legato dalla vita in giù a questo maledetto letto!»
Uruha gli si avvicinò e con forza lo spinse nuovamente sul giaciglio:«Si, visto che sono stato io!»
Aoi sbarrò gli occhi sbigottito e dimenticò di opporre resistenza al compagno:«Devo essere morto o qualcosa del genere se sento Uruha parlare!»
Il biondino scoppiò a ridere e riuscì finalmente a far distendere il capitano:«No, non sei ancora morto sei solo un po’ più ammaccato e isterico del solito!»
«Io non sono isterico, ho solo espresso il mio male di vivere con il comportamento adeguato!»
«Se Armand ti avvelena la cena poi non ti lamentare!»
«E’ più facile che la rifili a quella testa vuota di Reita!»
Uruha strinse i pugni fino a farsi sbiancare le nocche, chiuse gli occhi e gli sfuggì un gemito addolorato ed Aoi allora ricordò. E pianse.

«Non è stato un incubo…».
«No…»
Aoi, disteso tra i guanciali, fissava il soffitto con occhi vacui, le mani strette intorno al lenzuolo e il cuore rivolto al suo compagno d’avventure. Sperava che dopo averlo spinto Rei fosse saltato con lui in mezzo ai cespugli, sperava che il ventre dell’amico squarciato da una lama impietosa fosse solo un’immagine e non la realtà.
«Perché non sei andato a salvarlo?». Aoi non osava guardare Uruha.
«Mi ha gridato di portarti via…non potevo non esaudire il suo ultimo desiderio…».
La stretta sul lenzuolo divenne una morsa e dagli occhi di Aoi calde lacrime scesero a solcargli le guancie. Era troppo crudele il Destino, mai generoso. La stessa vita del moro ne era una testimonianza.
«Quel fendente era per me! Perché quello sciocco si è messo di mezzo?!», gridò.
Uruha gli si accostò e provò a dire qualcosa ma subito richiuse le labbra: la verità è che non c’è mai nulla da dire quando una vita si spegne. Però c’è qualcosa da fare, e lui la fece: abbracciò il suo capitano scoppiando assieme a lui in un pianto dirotto, perché chi se ne va non concepisce il dolore che infligge a chi rimane. E non restano altro che lacrime.

Uruha richiuse delicatamente la porta alle sue spalle lasciando Aoi, debole per il dolore e per la coscienza ritrovata, dormiente. Si diresse pensieroso verso la cambusa in cerca di Armand, che ritrovò intento a giocare a carte con un marinaio. L’uomo fece cenno di averlo visto e Uruha si accomodò su uno sgabello, attendendo pazientemente la fine della partita.
«Si è calmata la fiera?», domandò l’uomo qualche minuto dopo; aveva perso ed ora erano rimasti soli nella piccola stanza.
Uruha annuì:«Sei riuscito a visitarlo?». Armand oltre ad essere il cuoco era anche il fidato medico di bordo.
«Sì, prima che si svegliasse, ed ho delle buone notizie».
Uruha sorrise:«Avanti, non tenermi sulle spine!»
Quando Uruha riportò Aoi alla nave quella orribile notte Armand rimase chiuso nella cabina con il capitano per più di un’ora. Diagnosticò che la caduta non aveva danneggiato la testa in quanto Aoi delirava e riusciva a muovere la parte superiore del corpo. Ciò che preoccupava il medico erano le gambe innaturalmente immobili, cianotiche, che non rispondevano a nessuno stimolo.
«Oggi ho colpito nuovamente il ginocchio con un martelletto e c’è stata una modesta reazione».
«Si è mosso?».
«Non precisamente. Ha fatto un lieve movimento e poco dopo si è risvegliato –fece una pausa –gliel’avete detto in che condizioni versa? E perché l’avete legato?».
«Gli ho spiegato che era per non farlo cadere giù dal letto col mare grosso, visto che era incosciente, ma non di più. Aspettavo di conoscere un tuo responso».
«Dovete dirgli al più presto che cos’ha, quello di oggi potrebbe essere stato un episodio sporadico…»
Uruha lo interruppe con un gesto secco della mano:«Dobbiamo essere ottimisti, se dovesse succedere ciò che temiamo per Aoi sarebbe peggio che morire. Mi occuperò io di spiegargli la situazione ma tu fa il possibile!».
«Non posso fare miracoli, signore, ma mi impegnerò al massimo delle mie possibilità».
Era un congedo ed Uruha ne approfittò per ritornare al capezzale di Aoi.
«Signore, a nome di tutto l’equipaggio, volevo dirvi che siamo tutti addolorati per la perdita di Reita, e abbiamo giurato che faremo il possibile per vendicarlo».

Vendetta. L’intero intimo di Uruha era attanagliato dalla sua sete e non aveva ancora avuto il coraggio di manifestarla, ma ora che Aoi era di nuovo cosciente avrebbe potuto parlarne con lui.
Il biondo si bloccò nel mezzo del corridoio: e se Aoi avesse rifiutato? E se Aoi avesse ripugnato l’idea di macchiarsi con il suo stesso sangue per onorare quello di un altro?
Uruha aveva paura, temeva un rifiuto ma, più di tutto, la possibilità che il voler rispettare la memoria dell’amico avrebbe significato perdere l’ultimo membro dell’unica famiglia che avesse mai avuto.
“Non sarò un codardo!”, pensò.
No, non lo sarebbe stato. Avrebbe affrontato la questione con il suo capitano e, se inevitabile, avrebbe perseguito il suo scopo anche da solo. Glielo doveva.
E Uruha rivide sé stesso: tanti anni fa un bambino giurò in fondo al suo cuore che avrebbe difeso a costo della vita colui che gliel’aveva ridata una notte di pioggia. Allora egli non sapeva che le sue spalle si erano fatte carico di un fardello che anche l’uomo più forte spesso non riesce a sostenere…






*si inchina* scusate per il ritardo ma sono rimasta bloccata su questo capitolo per settimane, non sapevo davvero come fare >_< Mi scuso anche per il finale perché era scritto in maniera completamente diversa, solo che mi si è spento il pc e non avevo salvato. E ovviamente non me lo ricordo bene çOç
Il prossimo capitolo conterrà un flashback ma ancora non ho deciso se lo sarà per intero. La storia non ne risentirà ma anzi servirà a catapultare l'azione al punto cruciale.
Rileggendo le recensioni ho notato che nessuno si è stupito del legame di parentela di Aoi e Ruki: era così prevedibile?*scoppia a piangere*
Mi dispiace per il povero Rei ma se vi dico che non era voluta la sua morte dite che peggioro le cose?*fa faccina angelica*
Saprò farmi perdonare non temete u.u
Siccome stanno per arrivare gli esami non vi garantisco un aggiornamento rapido, però di solito mi viene ispirazione sotto pressione, magari rifò una capatina con il nuovo capitolo.
*Il titolo è la traduzione in inglese di una strofa di "Okuribi".

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