Oblivion: the story of the Hero of Kvatch (Prologue)

di Il_Signore_Oscuro
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** My surname is chance ***
Capitolo 2: *** Fire 'n' ashes ***
Capitolo 3: *** Dear Mother, Night has come. Just keep to sleep. ***
Capitolo 4: *** Goodbye White Oak ***
Capitolo 5: *** White 'n' Red ***
Capitolo 6: *** Autumn leaves ***
Capitolo 7: *** Fill the void ***
Capitolo 8: *** Warrior dinasty ***
Capitolo 9: *** Dear brother, listen my silence. ***
Capitolo 10: *** Girl, Shadow and Red Soul. ***
Capitolo 11: *** Rest in peace, my friend. ***
Capitolo 12: *** Lower the gates! ***
Capitolo 13: *** Through the glimmer of a door ***
Capitolo 14: *** A tale from the ancestors ***
Capitolo 15: *** “I am fire. I am death.” ***
Capitolo 16: *** Blood Eagle ***
Capitolo 17: *** The legend of Mannimarco ***
Capitolo 18: *** The old lucky lady ***
Capitolo 19: *** Through the darkest dream. ***
Capitolo 20: *** Two brothers, one Dread Father. ***



Capitolo 1
*** My surname is chance ***


Chapter one – My surname is chance

Avevo sempre provato un certo fascino per il gelo notturno a poche ore dall’alba, sentire la pelle irrigidirsi e rizzarsi i peli lungo il braccio risvegliava quei pochi ricordi della mia terra natale, lontana giorni e giorni da lì. Non capitava di rado che sgattaiolassi fuori dalla mia stanza, facendo attenzione che mia madre non si svegliasse. Volevo godermi un po’ di quella pace e di quel silenzio che la notte portava con sé.
Giravo indisturbato per il Priorato, osservavo l’accendersi e lo spegnersi delle torce lungo le mura di Chorrol, segno del cambio della guardia. Spiavo il fumo salire e dissiparsi dal comignolo delle fucine, dove Eronor stava ravvivando le braci, immaginando che quel vecchio dunmer scontroso stesse forgiando una qualche arma leggendaria: in realtà fabbricava più che altro attrezzi da lavoro o riparava vanghe e falci dei contadini, logorate dal continuo uso.
Se mi veniva fame mi intrufolavo nelle cucine alla ricerca di qualche fetta di pane dolce o un po’ di pasticcio Shepard lasciati incustoditi. Agguantavo quanto potevo e me la davo a gambe, mangiando tutto a grandi bocconi prima che qualcuno potesse notarmi, anche se a quell’ora il rischio era praticamente inesistente.

Quella notte però il caso volle che qualcuno mi vide. Per poco il pasticcio non mi finì di traverso, quando una voce mi prese alla sprovvista
-Ragnar? Non dovresti essere al letto?
Trangugiai quanto rimaneva del pasticcio e mi voltai di scatto, ritrovandomi di fronte Jauffre, il mastro priore di Weynon, in compagnia di un ragazzino poco più grande di me, dall’aria preoccupata. Gli occhi del priore mi guardavano con un misto di rimprovero e divertimento. Occhi chiari inscuriti da una ragnatela di rughe sottili e sempre pronti all’azione, sempre pronti a captare un pericolo imminente. La sua bocca era screpolata, piena di taglietti incisi dai denti, tipici di chi sa molto ma dice molto poco.
Jauffre aveva le spalle larghe, le mani callose, le braccia forti, tutto in lui dichiarava a gran voce “sono un soldato” eppure si vestiva e viveva da monaco. Avevo sempre pensato che la sua fosse una copertura, che nella vita facesse ben altro che pregare tutto il giorno e fare la carità ai bisognosi.
-Io, ecco – cominciai, non sapendo che scusa inventare.
-Il solito furfante, eh? – Mi scompigliò i capelli con una mano.
-Maestro, il capitano Phillida mi aveva assicurato la massima riservatezza. – Disse il ragazzo accanto a lui.
-Non si preoccupi Civello, non ne farà parola. A meno che non voglia che sua madre sappia delle sue scorrerie notturne nelle cucine, non è vero? – Mi fece un occhiolino.
-S-sì, signore non dirò nulla! Ma di cosa?
Al priore scappò una risata divertita.
-Vieni con noi Ragnar, voglio mostrarti una cosa.
Solo allora notai il curioso bastone dalla forma ricurva che portava alla cintola, mi attraversò il pensiero che lo avrebbe usato per picchiarmi, punendomi per aver rubato nelle cucine e sapevo che mia madre mi avrebbe dato anche il resto. Riflettendoci però, ricordai che Jauffre mi aveva sgridato molte volte ma non avrebbe mai alzato un dito contro di me, infondo mi aveva visto crescere e si era presa cura di me e mia madre da quando ci aveva trovato mezzi morti di freddo in una grotta nelle vicinanze di Bruma. Ci aveva tratti in salvo pagandoci una locanda in città, per poi offrirci di vivere all’interno del Priorato: in cambio di vitto e alloggio mia madre puliva le stalle mentre io, insieme a un orfanello di nome Lucien, raccoglievo l’elemosina dalla gente di Chorrol e distribuivo le razioni di cibo ai mendicanti della città.

Seguimmo Jauffre nelle stalle, Civello non mancò di lanciarmi alcune occhiatacce infastidite e smorfie di disapprovazione, scocciato da quei continui sguardi gli risposi con una linguaccia, ne fu talmente indispettito che bofonchiò qualche insulto e distolse gli occhi da me.
Nelle stalle del priorato i cavalli non erano molti e venivano usati di rado, infondo i monaci non lasciavano spesso il Priorato. Il mio preferito era una giovane puledra di nome Mere, dagli occhi color nocciola e un manto nero come la notte, anche a Lucien piaceva e finito il suo giro di elemosine spesso veniva nelle stalle per strigliarle un po’ il pelo. Mere mi salutò con un nitrito sommesso a cui risposi con una carezza sul muso, sembrò gradirla.
Il cavallo di Jauffre era un baio rossiccio dal brutto carattere, ma che si quietava al suo solo tocco, mentre il ragazzo scelse invece il pezzato del giovane priore Maborel, un animale estremamente mansueto e che si lasciava montare dagli estranei. Io stavo per salire su Mere ma il Maestro mi ordinò di salire in sella con lui, un po’ deluso obbedii e tutti e tre ci dirigemmo verso la Great Forest: un’estesa macchia di alberi ad ovest di Chorrol, preceduta da un piccolo spazio pianeggiante dove smontammo dalle cavalcature. Nel cielo le stelle cominciavano a svanire, tempo qualche ora e sarebbe sorto il sole.

Jauffre sfilò il bastone ricurvo e ne diede uno anche a Civello che ne saggiò un po’ il peso, prima di mettersi in posizione di guardia. A quel punto capii perché eravamo venuti fin lì: evidentemente il Maestro stava addestrando quel ragazzo. Lo osservai con più attenzione: a vederlo doveva venire dalla Città Imperiale: vestiva un farsetto in seta, pantaloni di lana nera e scarpe con legacci dorati. Se non veniva dalla Città Imperiale doveva essere comunque di una famiglia piuttosto facoltosa.
L’allenamento durò fino all’alba, fra scambi, fendenti, parate e capitomboli di Civello.  Avrei voluto partecipare: da sempre sognavo di diventare un giorno un grande guerriero ed esplorare ogni angolo di Cyrodill alla ricerca di gloria e tesori non ancora scovati, ma Jauffre me lo impedì, tutto ciò che potevo fare era guardare e nonostante ciò non mi annoiai affatto: mi divertiva vedere quell’antipatico imperiale cadere come un sacco di patate ogni tre per due. Alla fine era talmente pesto e sudato che fummo costretti ad aspettare che si riprendesse, prima di risalire sui cavalli per tornarcene al priorato. Durante il cammino, riempii Jauffre di domande sulla sua abilità nella scherma e su chi fosse quell’imbranato.

Jauffre preferì tacere le risposte alle prime domande, promettendomi che un giorno mi avrebbe spiegato tutto, mentre sull’identità del ragazzo la sua lingua si sciolse piuttosto in fretta: era Giovanni Civello, un soldato della Legione che era stato inviato a Chorrol dal suo capitano e mentore Adamus Phillida, affinché migliorasse le sue abilità con la scherma e il combattimento in generale. Ogni soldato veniva addestrato ma spesso in modo poco soddisfacente, i veri segreti di quest’arte venivano appresi solo con la pratica e l’aiuto dei maestri.
A quel punto chiesi al priore il motivo per cui quel soldato mi guardava con tanto astio e diffidenza, la voce di Jauffre si fece più bassa e con una punta di amaro.

-Immagino non voleva che qualcuno assistesse alla sua umiliazione – esitò – ma bambino mio, con te voglio essere sincero, devi sapere che l’Impero è una realtà multietnica, con tante persone di culture e razze differenti – lanciò un’occhiata di sbieco a Giovanni – ma sembra che qualcuno non l’abbia ancora capito, non del tutto almeno.
-Quindi è perché sono un Nord. – Abbassai lo sguardo, incupito.
-Ehi – mi rialzò la testa con un dito -  sei il ragazzino più sveglio che io abbia mai incontrato, chiaro? Che tu sia un nord, un elfo o un argoniano questo non ha alcuna importanza, furfantello.
Jauffre mi accarezzò la testa e mi sorrise. Quel gesto, le sue parole, fecero svanire ogni traccia di malumore: non c’era nessuno che stimassi più del Maestro e sentire che mi reputava una persona capace, sapere che mi voleva bene nonostante le mie malefatte, mi fece sentire compreso e apprezzato. Credo fosse un po’ come avere un padre: del resto io il mio non lo ricordavo nemmeno, sapevo solo ciò che mi aveva raccontato mia madre: era un nobile di Skyrim, all’inizio sua moglie aveva sopportato che il marito se la facesse con la sguattera, ma quando da quella sguattera ne uscì un figlio, cioè io, la situazione peggiorò. Dopo qualche anno mio padre fu costretto a cacciarci fuori dalla proprietà, forse per evitare che finissimo ammazzati da qualche sicario o dalla signora stessa. L’unica cortesia che ci concesse fu una carovana che ci condusse oltre i confini di Skyrim, salvo mollarci in mezzo al freddo e ai pericoli dei monti Jerall subito dopo. Mia madre però un po’ si vendicò e, senza che nessuno se ne accorgesse, trafugò la spada di famiglia del mio vecchio, promettendomi che un giorno sarebbe stata mia, quando ne avessi avuto l’età; per ora era nascosta da qualche parte nella baracca adiacente al Priorato, nei quartieri dove abitavamo.

Come si dice “parli del dremora  e spuntano le corna” così quando scesi da cavallo una mano mi prese per la collottola: era mia madre. La sua voce era isterica, gli occhi rossi tipici di chi si è appena svegliato.
-Razza di screanzato, dov’eri finito? A disturbare Padre Jeoffre come al solito, eh? Mi hai fatto morire di paura, disgraziato! – Poi rivolta al priore – Padre, mi scusi, non capiterà più, glielo prometto.
-Brunja, Brunja, non ti preoccupare – si affrettò a rassicurarla – avevo preso con me il ragazzo per sbrigare una commissione sulla Black Road.
-Uh! – Mugugnò lei un po’ sorpresa.
Per una volta ero innocente e la cosa mi fece spuntare un sorriso sornione sulla faccia, non appena Padre Jeoffre si fu allontanato colsi l’occasione per rimarcare il suo errore di giudizio
-Hai visto? Sempre la colpa mi dai. – Dovevo sapere che mi sarebbe costato caro quell’eccesso di superbia.
-Potevi anche avvisarmi, disgraziato! – Appunto.
Mi diede una calata dietro la nuca che mi fece gemere dal dolore. Niente, di passarla liscia con quella donna non ce n’era proprio verso, mai, neanche una volta.
-Ora vai da Lucien, ti sta aspettando davanti alle baracche per il giro di elemosine.
-Va bene. – Dissi, ancora offeso per quella che ritenevo essere un’ingiustizia nei miei confronti.
-E non mettermi il broncio che hai il resto!
La cosa bastò a levarmelo dalla faccia e a farmi correre da Lucien, lui almeno non mi avrebbe malmenato, non poteva, era un fuscello al mio confronto. Non so precisamente quando fosse arrivato al priorato né da dove fosse spuntato, sapevo solo che c’era e che eravamo amici. Del resto in fatto di amicizie non avevo poi molte alternative ma quella di Lucien non era male, alla fine entrambi sognavamo una vita di avventure.
Come annunciato da mia madre lo vidi di fronte alle baracche, vestito al solito modo, con una casacca di lino tutta sozza e un paio di pantaloni in cuoio grezzo e stivali più o meno della stessa fattura. Aveva la pelle olivastra tipica degli imperiali, gli occhi di un intenso nero e i capelli castani tenuti sempre corti e spettinati, faceva parte del personaggio: se volevamo che la gente mollasse qualche septim di più dovevamo sembrare davvero degli straccioni.
Lucien stava giocherellando con qualcosa facendola rimbalzare fra le mani, era come una palla solo che brillava ed era fatta di luce. Strabuzzai gli occhi e capii: quella era magia! Avevo sempre provato una grande curiosità per quella forza strana e misteriosa che era la magia, da quel che ne sapevo a Skyrim era malvista ma un sacco di gente “malvede” un sacco di cose, questo di certo non le rende sbagliate (almeno credo) e poi da quanto avevo letto nelle storie, gli eroi migliori erano quelli che oltre che sulla propria forza contavano anche su qualche trucchetto, magari un po’ disonesto, ma più che lecito quando era la propria vita ad essere in gioco. Mio fiondai su Lucien pieno di eccitazione, non potendo smettere di fissare quella palla di luce.
-Come hai fatto? Dai dimmelo!
Gli chiesi, tutto impaziente.  La sfera gli sparì fra le mani e mi guardò con un piccolo sorrisetto sulla faccia, nel suo solito modo: tendendo un angolo della bocca, come una smorfia.
-Angalmo, – era l’altmer della gilda dei maghi di Chorrol – in cambio ho solo dovuto trovargli un paio di ingredienti per le sue pozioni.
-Mi insegni come si fa? Dai, ti prego!
Chiesi con aria supplice. Lucien rispose con uno schiocco della lingua, finse di pensarci un po’ su’, giusto per tenermi sulle spine.
-Eddai!
-Va bene e ringrazia che non ti chieda nulla in cambio.
-Grazie mille! Ti devo un favore. – Esclamai entusiasta.
-Siediti qua e cominciamo.
Ci mettemmo sugli scalini della baracca e Lucien si schiarì la voce. Aveva sempre avuto una voce calma lui, con i primi tratti gravi dell’età adulta, con quel suo tono profondo riusciva ad ipnotizzare chiunque.
-Posiziona le mani come se stessi reggendo una sfera, così bravo, adesso concentrati.
-Inizio a sentire qualcosa, come una sensazione di calore.
-Vuol dire che sta funzionando, lascia che scorra.
Con un leggero formicolio quel tepore raggiunse i palmi e si fece talmente intenso che quasi bruciava.
-Ahi, fa male. – Mi morsi un labbro mentre le mani tremavano.
-Resisti ancora un po’, non pensarci, non manca molto.
-Woah!
Fra le mani comparve una piccola luce bianca che mi diede una strana sensazione di pace e un immediato sollievo. Durò pochi istanti, per lo stupore per poco non caddi dal gradino.
-Ce l’ho fatta! – Poi ci pensai. – Aspetta ma non era come quello che hai fatto tu!
-Angalmo mi ha detto che ognuno ha il suo elemento, il mio era l’illusione – a pensarci aveva senso visto le sue capacità di persuasione – il tuo credo sia il recupero. Credo che con un po’ di allenamento si possa imparare a far tutto.
-Allora dovremmo farci insegnare altro, ora andiamo prima che mia madre ci insegua con una scopa.

Entrammo nella città di Chorrol, le guardie ci riconobbero subito, facendoci un cenno di saluto mentre passavamo. La nostra prima tappa sarebbe stata la grande quercia, che era anche il simbolo della città, e il luogo di ritrovo degli abitanti: intorno ad essa si disponevano a piante circolare le succursali delle gilde, con relativi stendardi e insegne, oltre alle case dei cittadini più in vista della Contea come i Donton o i Bruiant; i primi erano da generazioni nei ranghi della Gilda dei Guerrieri, un’organizzazione di mercenari a servizio degli abitanti di Cyrodill, mentre i Bruiant erano famosi per l’allevamento di cani di razza, capaci di assolvere ad ogni funzione: caccia, guardia, compagnia.
I figli dei Bruiant non li conoscevo granchè ma con i fratelli Donton io e Lucien ci avevamo fatto amicizia, erano Vitellus e Viranus: il primo, il maggiore, molto estroverso e già proiettato al suo futuro nella Gilda mentre l’altro era più timido, ma diventava tutta un’altra persona quand’era in compagnia di un altro ragazzino di nome Eduard. Vitellus mi venne incontro, mentre Lucien cercava di convincere un’anziana altmer su quanto il suo contributo fosse importante per sfamare i meno abbienti della città.
-Ehi, Ragnar, come te la passi? – Chiese Vitellus, dandomi una pacca sulla spalla.
-Solito lavoraccio e tu?
-Anch’io, sto portando il pupo a farsi le ossa nella sala allenamenti – Rispose, riferendosi al piccolo Viranus che gli sgambettava dietro.
Vitellus aveva sedici anni, ormai era un uomo in tutto e per tutto: sulla faccia portava una barba folta ma ben curata, mentre io avevo a malapena dei baffetti di morbida peluria. I Donton indossavano entrambi tenute leggere in pelliccia, rivestite di cuoio spesso, l’ideale per assorbire i colpi di una vecchia spada smussata.
-Mi piacerebbe venire con te ma poi chi se la sente quella vecchia strega.
-Non dovresti parlare così della buona Brunja. – Mi rimproverò, non riuscendo a nascondere, tuttavia, un sorriso divertito. – Comunque tieni, consideralo un regalo da parte della mia famiglia.
Mi porse un sacchetto con all’interno una decina di septim. Lo ringraziai e lo infilai nella sacca che mi portavo appresso per raccogliere le offerte. Vitellus si congedò con una delle sue solite pacche.
-Ci si vede Donton.
In un certo senso lo invidiavo: le avventure che per me erano ancora sogni lontani per lui erano una realtà ormai vicina, poteva già toccarla con mano. Prima che potessi indugiare oltre in questi pensieri fui interrotto dalla voce trionfante di Lucien.
-La vecchia si è decisa a sganciare un po’ di septim, che faticaccia! Andiamo?
-Sì, andiamo.

Dopo la zona interna alla quercia la tappa seguente fu il Castello di Chorrol dove il dispensiere del Conte Valga, un enorme orco dalla faccia perennemente annoiata, ci liquidò con un piccolo sacchetto di septim senza neanche lasciarci entrare nelle sale. Il sacchetto era pure leggero, decisamente troppo per gente così ricca.
-Tutti uguali questi nobili, scorzi più di un mercante.
Commentò Lucien quando ci allontanammo.
Evitammo i quartieri di sud-ovest, le vecchie case in legno conciate com’erano: piene di tarli e spifferi, erano eloquenti su quanto denaro gli abitanti sarebbero stati disposti a tirar fuori, avremmo solo perso tempo.

Ultima tappa del giro fu la Cappella di Stendarr, per gli accordi con il priorato lì avremmo dovuto consegnare il 15% delle offerte e caricarci dei viveri da distribuire ai mendicanti che giravano per le strade. Il tutto richiese l’intero pomeriggio e quando finalmente tornammo a Weynon eravamo stanchi morti e zuppi di sudore. Lucien come al solito aveva raccolto un bel gruzzolo mentre il mio era molto meno sostanzioso, consegnammo i septim al priore Maborel per poi andarcene a chiacchierare nelle stalle. Dalle offerte della cappella era avanzata un po’ di carne secca che decisi di condividere con Lucien.
Fuori il sole stava scendendo sotto l’orizzonte e quell’ora del giorno metteva sempre strani pensieri nella testa del mio compare, che attaccava a parlare dei suoi sogni, di certe sue osservazioni e progetti futuri.
-Sai Rag, alle volte ho la sensazione che i nove mi abbiano scelto.
-Complimenti per la tua umiltà, Messere San Lucien. – Lo sfottei.
-Dai non fare l’idiota, quello che intendo dire è che nonostante tutto ciò che mi è successo: il fatto di essere stato abbandonato, non avere i genitori e tutto il resto; nonostante tutto questo sto avendo comunque un’occasione.
-Cosa intendi dire?
-Sai, avere persone che mi amano come te, Brunja, i priori, una famiglia insomma. Credo che per questo dovrei celebrare i nove.
-Facendoti monaco magari. – Proposi scherzosamente, dando un morso a una striscia di carne secca.
-Nah, non fa per me, ci tengo ad avere tutti i capelli e poi – continuò sorridendo – delle ragazze non saprei fare a meno.
-Come se ne sapessi qualcosa di ragazze, tu.
-In realtà io e la figlia dei Bruiant… - disse, distogliendo lo sguardo ma senza smettere di sorridere.
-Beh? – Chiesi impaziente.
-Diciamo che ce la intendiamo parecchio.
-Ma sei pazzo?! Spera non lo scoprano i suoi o ti faranno massacrare di botte, sempre se non ti sbattono fuori dal Priorato.
-Come sei ansioso, so come non farmi scoprire – mi lanciò un’occhiata furbesca – ma tornando a quello che stavo dicendo, come sai non ho un cognome essendo un orfano.
Mugugnai un assenso, chiedendomi dove volesse andare a parare.
-Ecco, vorrei crearmelo io.
-Cosa?
-Un cognome. – Rispose, carezzando il muso di Mere che nitriva soddisfatta.
-Ah – mi sembrava un po’ sciocco in realtà – e quale sarebbe?
-Lachance.
La chance, l’occasione, capii il riferimento.
-Uhm, Lucien Lachance. In effetti non suona male. – Constatai.
-Già! E ho pure in mente un mio motto. – Alle volte mi venivano dubbi sulla salute mentale di quel ragazzo.
-E quale sarebbe questo “motto”? – Gli chiesi, assecondando quell’eccesso di follia megalomane.
-Aspetta, aspetta, - disse lui un po’ infastidito – prima chiedimi cosa si dice.
-In che senso?
-Non fare il tonto su’, chiedimi “che si dice”.
-Lucien… - stava diventando esasperante.
-Avanti!
Decisi di accontentarlo, dopo un verso di rassegnazione.
-Che si dice?
Lui assunse un’aria tutta seria, mi si avvicinò mettendosi in punta di piedi per arrivare a guardarmi direttamente negli occhi (ero almeno venti centimetri più alto di lui) e disse con un tono grave, che sarebbe sembrato convincente non fosse stato per quella posa ridicola.
-Fratello, mi chiedi che si dice? Io non diffondo le voci … le creo. Non è fantastico? – Mi chiese tutto entusiasta.
Ci fu qualche istante di silenzio in cui lo guardai stranito.
-Lucien, va’ a quel paese.

 

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Capitolo 2
*** Fire 'n' ashes ***


Chapter two – Fire ‘n’ ashes

Recisi la testa dell’ultimo imp con un colpo secco, zittendo il suo pigolio, mentre le alette e il corpicino si accasciavano a terra con un tonfo sordo. Non potei nascondere una certa soddisfazione: gli imp erano fra le creature più fastidiose che si potessero incontrare nella macchia verde che circondava Chorrol: i loro incantesimi, anche se di debole entità, lasciavano scottature che ci mettevano giorni a guarire del tutto. L’ultimo che avevo ucciso, poi, era stato il più ostico: oltre che fastidioso era pure veloce, ma alla fine l’avevo avuta vinta io.
Gli aprii la cassa toracica con la punta del pugnale e con le mani guantate cavai fuori la disgustosa gelatina in cui era contenuto il fiele di imp: un ingrediente alchemico di una certa importanza per Teekeeus, l’argoniano a capo della gilda dei Maghi a Chorrol. Il lucertolone non mi ispirava molta simpatia, era un tipo parecchio spocchioso ma volevo unirmi alla Gilda dei Maghi come Apprendista, e ottenere una raccomandazione da parte sua era l’unico modo per entrarvi. Avrei anche optato per la Gilda dei Guerrieri, ma per unirmi a loro avrei dovuto avere sedici anni, come minimo, mentre al tempo ne avevo da poco compiuti quattordici.
Riposi il fiele nella sacca di iuta, ormai umidiccia di gelatina e sangue, trattenendo l’ennesimo conato di vomito per l’odore che emanava. Decisi che qualche minuto di riposo era più che meritato, mi sedetti sotto un albero e iniziai a curarmi le ferite che avevo in pratica ovunque.
Sospirai di sollievo nel sentire il tocco fresco della magia che ricomponeva la pelle e schiariva il rossore, ma mi accorsi fin troppo presto quanto fossi stato imprudente a rimanere lì nella Great Forest più di quanto fosse necessario.

Dietro un vecchio albero caduto chissà da quanto e coperto quasi interamente dai muschi, sentii dei passi e un verso rauco. Quando scattai in piedi mi venne quasi un infarto nel vedere la figura macilenta di un goblin. Se gli imp erano più che altro un fastidio, i goblin rappresentavano un pericolo: si spostavano in branchi, erano intelligenti e crudeli; sapevano maneggiare ogni tipo di arma e, come se non bastasse, avevano una grande forza fisica.
Quello che avevo di fronte poi, oltre a sembrare parecchio incazzato, era davvero brutto a vedersi: il mento con un forte prognatismo, gli occhi piccoli simili a quelli di un rettile, le orecchie a punta e la pelle di un verde che ricordava le acque salmastre di una palude. Fra le mani stringeva un’ascia sbeccata ma ancora capace di far male e uccidere.
La mia unica fortuna era il fatto che fosse solo, avevo sentito che ultimamente un contingente di soldati era stato mandato a liberare forte Ash da quelle creature, dopo che alcuni viandanti erano stati attaccati mentre percorrevano la Black Road (la strada che collegava Chorrol alla Città Imperiale). La missione era stata un successo, grazie anche ad una discreta collaborazione della Gilda dei Guerrieri, ma evidentemente quell’esemplare doveva essere sopravvissuto. La sua sete di vendetta non tardò a palesarsi e dopo un grido di guerra mi attaccò, non avevo protezioni e anche un singolo colpo poteva risultare fatale. Dovevo contare sulla velocità. Quando calò l’arma scartai di lato e alzai la guardia, per quanto la scarsa lunghezza del pugnale rendesse quella difesa alquanto inutile e, difatti, quando tentò un altro attacco, indietreggiai con un salto che mise a dura prova il mio equilibrio.

Dovevo trovare un modo per cavarmi fuori da quella situazione: potevo usare la magia ma, per usufruire delle proprietà offensive del Recupero, avrei dovuto avvicinarmi, con il rischio di farmi tagliare una mano o peggio, il pugnale stessa cosa … se solo Takeeus mi avesse dato una qualche cavolo di pergamena di incantesimi o, meglio ancora, se mia madre si fosse decisa a donarmi finalmente la spada di mio padre.

La stoccata del goblin mi tolse il fiato e quando caddi per terra, lo vidi caricare l’ultimo fendente, quello che mi sarebbe stato fatale.
Finiva davvero tutto così? Morto senza neanche aver avuto la possibilità di combattere per la mia vita? No, questo non l’avrei accettato. Non quel giorno, non così! Con tutta la forza che avevo stampai un calcio sul ginocchio della creatura: lo vidi sbilanciarsi, la gamba tendersi e distendersi cedendo sotto il suo peso. Gemette per il dolore e il suo verso, se possibile, si fece ancora più rabbioso e selvaggio.
Era la mia occasione, dovevo svignarmela, se avessi corso abbastanza, avrei fatto perdere le mie tracce e se il colpo che gli avevo dato era anche riuscito ad azzopparlo, tanto di cappello. Scappare non mi piaceva, ma nella mia situazione non c’era un’altra scelta possibile.
Ogni mio piano fu vanificato dal lampo di luce verde che prese la creatura in pieno petto, facendola cadere come un sacco di patate, rigida e immobile come una statua. Vidi Lucien saltare dal dorso di Mere e calarsi come un’ombra sul goblin, squarciandogli la gola in un gesto secco e deciso.
Morì lentamente, con il sangue che fuoriusciva a fiotti dal collo, scuro come pece. I suoi occhi gialli non si staccarono per un istante da me, mentre la luce che li animava si spegneva: erano pieni di rabbia, arsi da una sete di vendetta a cui neanche la morte poteva portare pace. Mi sentii dispiaciuto per quella creatura, era certamente crudele e meschina, ma sentivo dentro di me come una risonanza al senso di perdita che doveva aver vissuto, nel vedere il suo clan distrutto dalla mano degli uomini. Una fine che si meritavano (alla fine se l’erano cercata) eppure, non potei fare a meno di guardarlo morire, come se essere cosciente del suo odio fosse un modo per non lasciarlo solo.
Lucien ripulì la lama del pugnale d’argento, usando un fazzoletto di stoffa che portava nella tasca interna della giacca. Mi guardava con uno sguardo di rimprovero.
-Sei forse diventato stupido? Andare nella Great Forest completamente solo e senza un’arma decente?! – Era visibilmente preoccupato, mi ricordava un po’ mia madre.
-Dovevo sbrigare una commissione per Teekeeus – cominciai, ma lui mi interruppe.
-Beh, potevi almeno venirmi a cercare! – poi, un po’ più calmo. – Sali, ti riaccompagno a Chorrol.
Si avvicinò a Mere, quietandola con una carezza: la puledra doveva essersi agitata alla vista del sangue, ma al suo toccò si calmò immediatamente.

Lucien Lachance era cresciuto parecchio in quegli anni: si era fatto più alto, pur rimanendo più basso di me, il suo corpo era diventato più robusto senza perdere l’elasticità e lo slancio dei muscoli da ragazzino. Non aveva perso la sua parlantina, anche se crescendo aveva sviluppato una certa malinconia, non so bene dovuta a cosa: non credo ci fosse un motivo in particolare ma avevo sentito che leggere molto può provocare certi cambiamenti nel carattere di una persona e la sua cabina, nella baracca adiacente al Priorato, si era riempita di libri sui temi più svariati: dalle favole per bambini ai resoconti di spedizioni, aveva anche alcuni tomi che teneva nascosti, con la copertina scura e i titoli raschiati, perché non fossero leggibili.
Da quello che sapevo, la relazione con la figlia dei Bruiant era una storia chiusa, un giorno era tornato al Priorato con un occhio pesto, chiudendosi nella sua stanza e rifiutandosi di parlare con chiunque. Ci era voluto un po’, ma alla fine mi aveva spiegato cos’era accaduto: il fratello della ragazza li aveva scoperti, dopo avergliene date di santa ragione gli aveva fatto una promessa “Avvicinati ancora a mia sorella e mio padre saprà”, sottintendendo che il pestaggio sarebbe stata ben poca cosa, rispetto a quello che il signor Bruiant gli avrebbe fatto passare.
Avevo ascoltato il tutto con un brivido dietro la schiena, riuscendo a stento a credere a ciò che sentivo: perché mai qualcuno si sarebbe dovuto comportare in quel modo?
Lucien dopo quell’evento cambiò, in modo impercettibile per gli altri, lui riusciva a ingannarli tutti … ma non me: io lo conoscevo meglio di chiunque altro e sapevo che alla malinconia si era unito qualcosa di più amaro, oscuro e terribile.
Qualcosa nascosto nel suo sguardo, nella sua voce; al tramonto i suoi pensieri forse diventavano ancora le fantasticherie e i sogni di qualche anno prima, ma non venivano palesati, rimanevano in silenzio con la sua bocca, mentre strigliava Mere, voltandosi ogni tanto verso il crepuscolo in arrivo.

Scendendo verso sud-ovest, per immetterci nella Black Road, attraverso il terreno impervio ai piedi della Great Forest, vedemmo un cavaliere galoppare verso la città di Chorrol: vestiva una lucente armatura d’acciaio e al fianco pendeva una spada lunga inforcata in un fodero nero, dall’elsa doveva trattarsi di una lama in argento, da quel poco che si riusciva a vedere attraverso la lunga cappa che sventolava alle sue spalle. Riconoscevo l’azzurro intenso di quel mantello, quel cavaliere era un membro della Gilda dei Maghi e, a giudicare dalla fretta con cui si muoveva, doveva trasportare un messaggio importante.
-Cosa sarà successo? Un mago-guerriero da queste parti? – Chiese Lucien.
-Ne so meno di te, – risposi – seguiamolo.
Avevo una brutta sensazione. Non lanciammo Mere al galoppo. Anche se avrebbe potuto facilmente raggiungere l’altro cavallo, non volevamo che il cavaliere ci notasse, solo capire cosa si nascondeva in fondo a questa storia. Con velocità sostenuta percorremmo la Black Road e, approfittando della tranquillità, tentai una conversazione.
-Quell’incantesimo di oggi, che cos’era?
-Paralisi. – Rispose Lucien, laconico.
-Sei già arrivato a quel punto?
-Già. – Il suo tono era duro, come se-
-Non dirmi che ce l’hai ancora con me per la storia degli Imp?
-Sì, invece. – Ci fu un tremolio nella sua voce, tremolio che calmò con qualche istante di silenzio. – Rag, sei l’unico amico che io abbia mai avuto e non voglio perderti per un’azione stupida e incosciente come quella di oggi. Hai rischiato di farti ammazzare, quando avresti semplicemente potuto chiamarmi.
-Lo so, Lucien. – Dissi, dispiaciuto – E ti chiedo scusa. Anche tu sei un fratello per me, lo sai, ma non ci avevo pensato, non credevo sarebbe stato tanto pericoloso.
-Beh, avresti dovuto, invece. – Sospirò, cercando di ricomporsi.
Lucien quando ci si metteva sapeva davvero farti pesare anche il più piccolo sgarro, non era il caso di farglielo notare, non in quell’occasione almeno.
-Già, avrei dovuto pensarci. Scusa. – Lo assecondai.
Mugugnò qualcosa e poi di nuovo quel silenzio. Avvertivo la tensione, cercò di dissiparla parlando di altro.
-Come mai poi vuoi unirti ai Maghi?
-Beh, sono ancora troppo giovane per quella per i Guerrieri e poi, sai, mi servono un po’ di soldi e le commissioni vengono pagate.
-Soldi per cosa? – Chiese lui, incuriosito.
-Beh, vorrei comprare Arborwatch.
-Arborwatch? – Mi chiese, un po’ incredulo.
-Sì, la tenuta in vendita nel quartiere della Grande Quercia.
-Oh. – Il suo tono lo sentivo carico di delusione, mi affrettai ad essere più specifico.
-E’ una casa bella grande, con tanto spazio. Potremmo starci tutti e tre senza troppi problemi. Certo, andrebbe messo un po’ di mobilio e quello costa, ma sono sicuro che Jauffre ci darebbe una mano.
-Un bel progetto, non c’è che dire. – Disse Lucien, adesso più rilassato. – Tua madre dove lavorerebbe?
-Ho già provveduto anche a questo. Hai presente Seed-Neeus?
-L’argoniana del negozio “Merci e Prodotti del Nord”?
-Precisamente.
-Beh?
-Ha una bambina a cui badare ed era in cerca di qualcuno che l’aiutasse con gli affari, mi sono già messa d’accordo con lei perché tenga il posto per mia madre. – Infondo lei sapeva tener di conto e aveva esperienza nel campo delle contrattazioni, non c’era persona più adatta per aiutare un mercante.
-Fantastico, comunque siamo arrivati.
Le porte di Chorrol erano di fronte a noi: imponenti con il vessillo della quercia bianca impresso sugli stipiti. Lasciammo Mere all’ingresso della città, accanto alla cavalcatura del tizio con la cappa blu. Le guardie appostate lì vicino avrebbero scoraggiato qualsiasi ladro.
Quando raggiungemmo la Gilda dei Maghi incrociammo il cavaliere, il quale non ci degnò che di un’occhiata, lasciando intendere che la fretta con cui era arrivato era la stessa con cui intendeva andarsene.
Appena entrati nella sala, notammo che erano tutti agitati. Teekeus stava consultando un rotolo di pergamena con impresso il sigillo ufficiale della Gilda, quella comunicazione arrivava direttamente dall’Università Arcana. Dopo aver concluso la lettura passò il messaggio ai suoi sottoposti e si diresse verso di me.
-Ragnar, ti devo parlare. – La solita cadenza sibilante. – Da solo. – Aggiunse, ammiccando verso Lucien.
-Di che si tratta? – Chiesi, allarmato.
-Parliamone nel mio studio.
Rivolsi un’occhiata interrogativa a Lucien che mi fece cenno di andare, mi avrebbe aspettato lì.

Lo studio dell’argoniano era grande quanto uno stanzino, con un letto sul fondo e una scrivania al centro, sul pavimento di pietra. C’erano vari fogli sparsi e tomi che mi davano l’impressione di essere abbastanza antichi, su uno di questi mi cadde l’occhio e lessi “Dita della montagna” in mezzo ad altre parole, senza capire a cosa si riferisse. Dovevano essere sue ricerche private. Su un altro foglio, stavolta decisamente più recente, credo vi fosse una lettera di diffida verso una certa Earana: un’altmer che avevo visto nella sala della Gilda più volte e con cui evidentemente qualcuno doveva avere degli screzi.
-Signore, le ho portato le fiele. – Dissi, appoggiando il sacchetto maleodorante sulla scrivania.
-Ti ringrazio, Rag. – Lo posò sul pavimento, accanto alla sedia, senza neanche darci una controllata, la cosa un po’ mi infastidii, visto che ci ero quasi finito secco per raccoglierle. – Ma adesso abbiamo questioni più serie di cui parlare.
-Sarebbero? – Chiesi, mentre la preoccupazione dentro di me formava un groppo che mi risaliva in gola.
-Si tratta del tuo ingresso come apprendista all’interno della gilda, temo che non basterà più la mia raccomandazione.
-Cosa?! – Chiesi, mentre la paura diventava rabbia, sbattendo un pugno sul tavolo. – Ho passato due anni a sfacchinare per guadagnarmi un posto in questa cavolo di gilda e ora mi dici che la tua raccomandazione, tral’altro più che guadagnata, non basterà? Cos’altro devo fare? Portarvi la testa di un drago?! – Ormai stavo urlando.
-Calmati ragazzo, calma. Come stavo dicendo: non dipende da me – poi si affrettò ad aggiungere – o meglio, non solo da me. Per entrare a pieno diritto nei ranghi della Gilda, dovrai ottenere le raccomandazioni dalle succursali di ogni città di Cyrodill. C’è stato un cambio di regime ai piani alti dell’Università Arcana: c’è un nuovo arcimago.
-E chi cazzo sarebbe?! – Chiesi, sempre più irritato, con le lacrime agli occhi.
-Modera il linguaggio ragazzo. – Suonò più come una frase detta per abitudine, che come un vero e proprio rimprovero. – Si tratta di Hannibal Traven.
-Non so chi sia. – Dissi, più calmo (ma solo all’apparenza).
-Un messaggero ha consegnato qualche minuto fa le nuove direttive, ecco perché c’è tutto questo subbuglio. Tutto ciò che posso fare per te è spedire la mia raccomandazione all’Università, per il resto ho le mani legate.
Non riuscii a parlare, non subito almeno: uno sconosciuto, lontano da qui, nella torre dell’Arcimago, aveva distrutto in pochi secondi il lavoro a cui mi ero dedicato per due anni, mettendo a rischio anche la mia stessa vita. Non so perché l’avesse fatto, se per capriccio o per una reale esigenza, fatto sta che in quel momento non c’era persona al mondo che odiassi più di quel Hannibal Traven, di cui non conoscevo neanche il volto.
-Grazie. – Dissi, non riuscendo ad aggiungere altro ed uscii dallo studio a testa bassa.
Fuori da lì mi aspettava Angalmo, mi guardava con gli occhi impietositi. Aveva saputo delle nuove direttive e sapeva quanto mi fossi impegnato per raggiungere uno scopo che adesso si era fatto più lontano. In due anni eravamo diventati quasi amici, io e lui, cercò di consolarmi (per quanto un altmer fosse capace di consolare) dandomi delle lievi pacche sulle spalle.
-Non temere Ragnar, vedrai che ce la farai. Tieni, questo è per la commissione di oggi, insieme a un piccolo bonus.
Mi sorrise e con un certo sforzo io feci lo stesso: stavo male, ma questo non doveva farmi dimenticare le buone maniere verso chi faceva bei gesti nei miei confronti. Angalmo, poi, mi aveva insegnato le basi del Recupero e almeno un “grazie” glielo dovevo.

Lucien notò subito che il mio umore era nero, sloggiamo da lì mentre nelle sale della Gilda l’aria si stava accendendo per una discussione fra alcuni Evoker.
Ci sedemmo sulle panche di fronte alla Grande Quercia, il sole attraversava le foglie proiettando le loro ombre sul lastricato.
-Che è successo? – Mi chiese Lucien, visibilmente preoccupato.
-Che è successo?! Che tutto il mio lavoro è andato a farsi benedire!
Gli raccontai nei dettagli ciò che Teekeeus mi aveva detto, tentando di non scoppiare in lacrime.
-Dai, vedrai che troverai un altro modo, ne sono sicuro.
-La fai facile. Gli associati vengono pagati una miseria, sono poco più che portaborse per i capogilda. – Alzai lo sguardo verso Arborwatch, riabbassandolo subito dopo con una lacrima tiepida che mi percorreva la guancia. – Tenti di fare qualcosa, lavori tanto per ottenerla, ma loro distruggono tutto. Distruggono sempre tutto! – Strinsi un pugno, lo fissai intensamente. – A te non rimane che cenere, tutte le volte. – Sentii la magia scorrermi attraverso il braccio, la pelle farsi bollente. – Tutte le volte… - dissi, mentre una fiamma mi lambiva la mano, senza bruciarne la carne.

 

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Capitolo 3
*** Dear Mother, Night has come. Just keep to sleep. ***


Chapter three – Dear Mother, Night has come. Just keep to sleep.

Quando riuscii a muovere anche un solo dito, fu come se il mio corpo si fosse risvegliato da un lungo torpore: l’incantesimo di paralisi mi aveva tenuto bloccato per soli cinque minuti, eppure mi erano sembrate ore.
Erano ancora vividi, nella mia mente, gli occhi di colui che era stato il mio migliore amico ma che adesso era sparito per sempre dalla mia vita, cavalcando chissà dove, avvolto da un mantello e un cappuccio scuro. Dalle stalle di Weynon potevo sentire distintamente i corni che davano l’allarme, mentre piccoli manipoli di guardie si riversavano fuori dalle porte della città in ogni direzione, alla ricerca dell’ormai latitante Lucien Lachance.
Remus Bruiant, Jemaine Bruiant e altri tre uomini, non meglio identificati, giacevano in una pozza del loro stesso sangue, con la gola tagliata, nei pressi del quartiere della Grande Quercia. L’unico testimone era un giovane capitano di ventura, tale Audens Avitius, che aveva identificato l’assassino nella persona di Lucien, fornendo una identikit così dettagliata da dimostrare la sua colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio.
In qualche maniera non potevo evitare di sentirmi, almeno in parte, responsabile di quella tragedia. Se avessi continuato a vivere la mia vita tranquilla nelle baracche del Priorato, apprezzando semplicemente ciò che avevo, invece di desiderare qualcosa di più, forse tutto questo non sarebbe accaduto: Lucien non sarebbe diventato un assassino e io non avrei perso per sempre un amico e un fratello; è una colpa che mi perseguita ancora adesso, nonostante molto tempo sia passato da allora.

Iniziò tutto qualche settimana dopo aver accantonato l’ingresso nella Gilda dei Maghi e con esso il progetto di acquistare la tenuta di Arborwatch. La mia vita continuava fra lavoretti occasionali (non avendo più l’età per raccogliere l’elemosina) e l’addestramento con la spada insieme con Jauffre e Vitellus, oltre poi all’esercizio magico con Lucien e Angalmo.
Tutto, insomma, procedeva come aveva sempre fatto. Finché una mattina, svegliandomi, non trovai sul comodino accanto al letto un rotolo di pergamena: recava il sigillo in ceralacca della quercia di Chorrol, adottato solo per i documenti ufficiali. Ovviamente non esitai ad aprirlo e gli occhi quasi mi schizzarono dalle orbite, quando, scorrendo fra le righe, lessi:
“Attestato di proprietà della tenuta di Arborwatch,
con la presente, Orok Gro-Goth, dispensiere della lor signoria il Conte e la Contessa Valga di Chorrol e unico e legittimo proprietario della tenuta poc’anzi citata, cede il possesso della stessa, e ogni diritto a essa correlata, ai seguenti soggetti:
Brunja Wintersworth, Ragnar’ok Wintersworth e Lucien (sedicente) Lachance. Costoro avranno pari diritti e doveri nella gestione, nella manutenzione e nell’eventuale vendita della tenuta di Arborwatch.
Firmato
Orok Gro-Goth”.
Io, mia madre e Lucien tutto a un tratto eravamo i proprietari di Arborwatch! Avrei urlato di gioia, non fosse stato per il fatto che non avevo la minima idea di come questo fosse accaduto. Però avevo un sospetto: qui c’era lo zampino di Lucien.
Lo cercai nella sua cabina ma non c’era, anzi, era sparita anche tutta la sua roba, così come quella di mia madre. Fu quando mi affacciai fuori dalla finestra che li vidi salutarmi, entrambi entusiasti e con i bagagli già belli che pronti.
Ce ne saremmo andati dal Priorato e avremmo avuto una casa tutta nostra, ma prima dovevo scoprire come Lucien si fosse procurato quel documento. Colsi l’occasione quando venne ad aiutarmi a mettere via le mie cose.
-Come hai fatto? – Chiesi.
-A far cosa? – Ribatté lui, facendo lo gnorri.
-Non fare l’idiota, sai perfettamente di cosa parlo.
A quel punto non poté trattenere un sorriso, mentre riponeva una copia di “Sangue Immortale” in uno dei miei sacchi di iuta.
-Diciamo che è il risultato di una partita a carte finita bene, ieri sera, alla Quercia e il Pastorale.
“La Quercia e il Pastorale” era una delle locande più frequentate della città, lì c’ero andato con Therese, la puttana bretone con cui l’avevo fatto per la prima volta: mi sognavo le sue labbra morbide e il suo profumo di mandorlo ogni notte. Avendo ormai associato l’evento a quel posto, non potevo fare a meno di provare un certo imbarazzo ogni volta che lo sentivo nominare, ricordando l’impaccio fra le lenzuola, confortato dal bellissimo sorriso di Therese.
Vedendo che non parlavo, distratto da quei pensieri, Lucien sciolse la lingua e cominciò a raccontare.
-Sapevo che Orok ha una passione smodata per il gioco e per il vino, dopo un paio di boccali e qualche incantesimo sottobanco, l’ho convinto a giocarsi la proprietà. – Sorrideva con aria furbesca, ma qualcosa ancora non mi convinceva.
-E tu? Cosa hai in messo in palio?
Esitò un po’, poi alzò il dito e lo fece girare descrivendo un piccolo cerchio con l’indice.
-Il Priorato?! – Non potevo crederci, doveva essere completamente impazzito.
-Esatto, ho frugato fra i cassetti di Jauffre e ho trovato le carte che ne attestavano la proprietà, poi ho scritto un altro documento mettendoci la sua firma e il gioco era fatto.
-Vuoi farti arrestare per caso?! – La cosa che più mi sconvolgeva era la tranquillità con cui me l’aveva confessato, come fosse una vanteria. – E se avessi perso? E se qualcuno ti avesse scoperto?! Che avresti fatto?
-Ah, sta tranquillo. Ho bruciato quel foglio subito dopo e comunque non potevo perdere.
-Come puoi esserne sicuro? – Chiesi, fortemente scettico.
-Quell’orco era ubriaco come una spugna e poi ho usato la magia.
-Potevano comunque scoprirti! – L’avrei pestato, tanta era la rabbia che avevo in corpo in quel momento.
-No, nessuno poteva scoprirmi.
-Lucien io non ci sto ad ottenere le cose così, io me le devo guadagnare – Gettai i vestiti sul letto, invece che riporli nel baule.
-Io l’ho fatto per te.
-Non uscirtene con queste cazzate adesso.
-Non sono cazzate! – Insistette. – L’ho fatto per avere un posto da poter chiamare finalmente casa, dove non fossimo ospiti; l’ho fatto perché ho visto come stavi dopo la faccenda della Gilda. Ormai quel che è fatto è fatto, Arborwatch è nostra.
-Sì, ma non così. – Dissi, deciso a non dargliela vinta.
-Che importa il come? Il fine giustifica i mezzi, l’importante è che ora abbiamo ciò che sognavamo da tanti anni. E poi – si schiarì la voce – vorresti dire a tua madre che non se ne fa più niente? Avresti davvero il coraggio di farle una cosa del genere?

Lucien sapeva dove colpire, in questo non lo batteva nessuno. Brunja, mia madre, non la vedevo così felice da tanto, anzi, forse non l’avevo mai vista felice prima di allora. Il sotterfugio di Lucien mi spaventava, mi disgustava e mi faceva rabbia, ma per amore di mia madre scesi a compromessi. Se solo avessi insistito di più, se solo non mi fossi lasciato convincere e non avessi scelto la strada più facile ma quella più onesta e giusta, come invece mi era stato insegnato.
Salutammo Jauffre e gli altri del Priorato con le lacrime agli occhi, ringraziandoli di tutto ciò che avevano fatto per noi in quegli anni e promettendo che saremmo passati a trovarli il prima possibile.

Arborwatch era grande, anche per tre persone, era bella ma vuota, se non per il letti e il mobilio essenziale. Arredarla richiese qualche settimana ma alla fine diventò la casa dei nostri sogni. Ci si stava bene ed eravamo felici, nonostante i rapporti fra me e Lucien fossero diventati gelidi: non potevo perdonarlo per aver messo a rischio, per aver ingannato, le persone che ci avevano accolto quando non avevamo nulla. Era più forte di me.
Ma quando vidi il suo umore farsi più nero, credetti che dipendesse dal mio forzato silenzio e nonostante ce l’avessi ancora con lui, decisi di perdonarlo. Quella tristezza, però, non dipendeva solo da me, purtroppo, ben presto scoprii che c’erano in gioco altre questioni che credevo, e speravo, si fosse lasciato alle spalle molto tempo prima. Mi decisi ad affrontare il discorso quando lo vidi guardare fuori dalla finestra, ma con gli occhi persi nel vuoto, come coperti da un velo.
-Si può sapere che ti prende? – Gli chiesi.
Lui non rispose subito, si voltò verso di me come se lo avessi distolto da una profonda meditazione, notai che i suoi occhi erano rossi e umidi: doveva aver pianto da poco.
-Niente. – Disse, in un tono che non era convincente né pretendeva di esserlo.
-Ti conosco, cosa c’è che non va?
Si voltò nuovamente verso la finestra, come per indicarmi qualcosa o qualcuno, e quando mi sporsi vidi Rena Bruiant intenta a parlare con un giovane Imperiale, un ragazzo che non avevo mai visto prima in città. Realizzai che il cattivo umore di Lucien doveva dipendere da un eccesso di gelosia nei confronti della ragazza, nonostante si fossero lasciati da tempo.
-Pensi ancora a lei? – Chiesi, preoccupato.
-Umpf – sbuffò, in un sorriso amaro – non ho mai smesso.
-Sono passati mesi e mesi da quando avete rotto. Non credi sia il momento di andare avanti?
-Andare avanti dici? Noi non abbiamo mai rotto, Rag, continuavamo a vederci di nascosto ma adesso…
-Lucien, cosa succede? – Chiesi, stufo di quelle frasi enigmatiche e inconcludenti.
-L’ha promessa in moglie! Suo padre, l’ha promessa in moglie al figlio del fratello. Un matrimonio fra cugini per non disperdere l’eredità! – Le lacrime gli scivolarono sul volto ma non singhiozzò, la sua voce era solo leggermente incrinata. – Ma non è solo questo, suo fratello Jemaine e suo padre Remus hanno assoldato dei soldati di ventura per assicurarsi che la verginità di Rena resti illibata fino al matrimonio, quei bastardi vogliono la mia testa – si coprì il volto e iniziò a singhiozzare rumorosamente – devo andarmene da Chorrol o sarete coinvolti anche voi, ne sono certo. Suo fratello deve avermi visto e deve averlo detto a suo padre. Io, io-
-Ehi, Lucien, cerca di calmarti. – Lo consolai – È solo per spaventarti, non possono torcerti un capello! Le guardie li sbatterebbero, tutti lì come stanno, in gattabuia e getterebbero via la chiave. Ho un’idea, vieni con me, raccontiamo al capitano della guardia tutto quanto, così non dovrai più temere nulla.
-Oh, Ragnar, è per questo che sei mio fratello: sei ancora puro e il male di questo mondo non ti ha ancora contaminato. – Sorrise, con aria malinconica ma senza distogliere lo sguardo dalla finestra. – Il denaro compra la coscienza, l’onestà e il silenzio di molti uomini e si da’ il caso che i Bruiant di denaro ne abbiano parecchio e sappiano come usarlo.
-Si sistemerà tutto, vedrai. – Gli diedi una pacca sulla spalla, anche se quella faccenda mi turbava profondamente.
-Sì, si sistemerà tutto … ogni cosa andrà al suo posto. Tutto andrà come deve andare e noi saremo felici, sì, noi saremo felici. – Disse a mezzavoce, ma sembrava parlasse più con sé stesso che con me.
Avrei dovuto capirlo in quel momento, ma non lo feci. Lucien aveva ragione: ero ancora puro, buono, troppo ingenuo per anche solo arrivare ad immaginare ciò che sarebbe accaduto.
Quella notte ero nel mio letto, perso fra le righe di Sangue Immortale, quando Lucien, avvolto da un incantesimo dell’invisibilità, entrò in casa Bruiant sgozzando con il suo pugnale d’argento Remus e Jemaine; in un ultimo atto d’amore lasciò in vita Rena e il suo promesso. Sceso in strada, attirò nell’oscurità due dei quattro soldati di ventura, prendendo la loro vita allo stesso modo, lontano da occhi indiscreti. Anche il terzo cadde sotto la sua lama, ma stavolta il Capitano Audens Avitius lo vide e, forse per un errore di calcolo o per un caso fortuito, riuscì a scampare a Lucien e non perse tempo ad avvertire le guardie della città, impegnate nella loro solita ronda notturna. Ci fu un gran baccano: la gente urlava, gli ordini risuonavano da un angolo all’altro delle strade, il tintinnio metallico delle armature in movimento e poi il frastuono creato dai corni, suonati per avvertire tutti di stare all’erta e ai civili di restare nelle proprie case. Fui distolto dalla mia lettura e non mi ci volle molto per capire cos’era successo, quando vidi che Lucien non era più nella sua camera. Mia madre dormiva, troppo profondamente per accorgersi di tutto il trambusto che improvvisamente animava la vita notturna della città.

Nella mente si affollarono i pensieri, ma uno si impose sugli altri “Trovare Lucien”. Non sapevo bene a che scopo, forse per convincerlo a spiegare la situazione, dentro di me ero sicuro che non avrebbe scontato più di qualche mese nelle prigioni; infondo se aveva commesso un crimine l’aveva fatto per difendere la sua sicurezza e incolumità, questo doveva pur valere qualcosa. Ci ragionai su’: se voleva lasciare la città c’era un unico posto da cui prima sarebbe passato, un’unica compagna che avrebbe portato insieme con sé.
Sgattaiolai da casa attraverso la porta sul retro, approfittai del caos generale per uscire da Chorrol e correre, quanto più veloce possibile, verso il Priorato di Weyon e le sue stalle. Come avevo previsto Lucien era lì, in sella a Mere e pronto a partire. Le sue mani grondavano sangue che, ancora fresco, insozzava le redini rendendole viscide e appiccicose.
-Ragnar, non dovresti essere qui. – La sua voce non era mai stata così cupa e … glaciale. Provavo un forte disagio, accresciuto dal cappuccio e dal mantello nero che avvolgevano la sua figura.
-Lucien, qualunque cosa tu abbia fatto andartene non è la soluzione, se spiegherai a tutti la situazione sono sicuro che-
-No, Ragnar, ormai è troppo tardi per le spiegazioni. Torna a casa adesso.
-No, non ci torno a casa senza di te! – Non avevo la minima intenzione di dargliela vinta questa volta.
-Non costringermi a fare cose che non vorrei.
-Perché? Che vorresti fare? Tagliarmi la gola come hai fatto con i mercenari e i Bruiant? Sono tuo fratello, Lucien! Tuo frat- Non avrei dovuto provocarlo in quel modo.
Non ebbi il tempo di completare la frase che un lampo di luce verde mi colpì in pieno petto, facendomi stramazzare a terra senza la possibilità di muovere un singolo muscolo. Mi aveva paralizzato con un incantesimo.
-Addio, fratello. Cerca di essere felice. – La sua voce tremò un’ultima volta, prima che lanciasse Mere al galoppo: lontano da me, lontano dalla sua famiglia, lontano da tutto ciò che Lucien Lachance era stato fino ad allora.

Quando mi ripresi tutto ciò che volevo fare era tornare a casa. Non piansi, non subito almeno; dovetti varcare la soglia di Arborwatch prima che le lacrime mi invadessero le guance, appannandomi la vista. In una sorta di gesto istintivo, quasi a voler provare che tutto non era stato che un sogno, entrai nella sua camera: ovviamente era vuota, ma fu allora che notai uno dei libri dal titolo graffiato via, poggiato sul comodino in bella vista.
Era un piccolo libricino, non più di qualche pagina, ma ebbe il potere di farmi gelare il sangue nelle vene. C’era scritto:

“Non disonorare la Madre Notte. Fare ciò significa invocare l’ira di Sithis.

Non tradire la Confraternita Oscura o i suoi segreti. Fare ciò significa invocare l’ira di Sithis.

Non disubbidire o rifiutare di eseguire un ordine di un superiore della Confraternita Oscura. Fare ciò significa invocare l’ira di Sithis.

Non rubare a un Fratello Oscuro o Sorella Oscura. Fare ciò significa invocare l’ira di Sithis.

Non uccidere un Fratello Oscuro o Sorella Oscura. Fare ciò significa invocare l’ira di Sithis:”

Richiusi quel libricino e lo rimisi dove l’avevo trovato, ammutolito da quello che avevo appena letto. Lucien non l’aveva neanche nascosto, voleva che lo trovassi, che sapessi la vita che aveva scelto. La Madre Notte, Sithis, erano le entità venerate dalla Confraternita Oscura: una setta di spietati sicari e assassini che uccideva per denaro o per semplice divertimento.
Era la setta più famosa e temuta di tutta Tamriel, un morbo che la affliggeva ormai da secoli.
Dopo aver letto quei pochi versi, per la prima volta mi sentii davvero solo, abbandonato dalla persona che mi era più cara al mondo. La magia dentro di me, come spesso mi capitava, interpretò le sensazioni che si agitavano nel profondo e si palesò in una nuova forma: l’evocazione. Uno scheletro animato comparve davanti ai miei occhi, come se la magia tentasse disperatamente di colmare quel vuoto dentro di me che mi riempiva, mi consumava, mi divorava.

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Capitolo 4
*** Goodbye White Oak ***


Chapter four – Goodbye White Oak.

Quella mattina fui svegliato dal cigolare delle ruote di un carro, trasportava i nastri e gli addobbi che avrebbero decorato la Grande Quercia di Chorrol.
Era un giorno di festa in tutta Tamriel: il 30 di Gelata, il compleanno del nostro amatissimo imperatore Uriel Septim VII. Nelle città dell’impero si riversavano i mercanti erranti provenienti da ogni dove, recando con loro leccornie e cianfrusaglie di ogni genere.
Nelle piazze si organizzavano balli e concerti che duravano per tutta la notte, fra vino, idromele e risate. Nelle cappelle delle grandi città i guaritori concedevano benedizioni a tutti, dal nobile al popolano, senza richiedere alcun compenso.
Persino i Conti e le Contesse di Cyrodill, di solito arroccati nei loro castelli, scendevano in strada per farsi partecipi della grande festa (seppur accompagnati da una folta scorta di uomini armati).
Così, con tanto fasto e rumore, un uomo passava da un’età all’altra, acclamato da tutte le genti, mentre io compivo i miei sedici anni in sordina, nella mia stanza fra le mura della tenuta di Arborwatch.
Da bambino avevo l’illusione che tutto questo festeggiare fosse dedicato a me, essendo venuto al mondo proprio il 30 di Gelata, e giravo entusiasta per Chorrol: chiedendo questo o quel balocco a mia madre, che mi accompagnava per mano fra le bancarelle.
Adesso quelle convinzioni infantili erano svanite e mi accontentavo di sapere che le uniche persone a ricordarsi del mio compleanno, e non solo di quello dell’Imperatore, fossero quelle a me più care.

Mi alzai dal letto, stiracchiando i muscoli ancora intorpiditi dal sonno. Ormai avevo la statura e la stazza di un vero Nord ed ero già più alto della maggior parte dei miei concittadini. Scesi le scale, raggiungendo la sala da pranzo dove mia madre stava mangiucchiando qualcosa per colazione, con davanti una tazza ancora fumante di una strana bevanda, diffusasi solo negli ultimi anni: la chiamavano caffè, si ricavava dai semi di certe piante: questi semi venivano pestati, miscelati con acqua e alcuni aromi, per poi essere riscaldati per alcuni minuti e filtrati. Alcuni ritenevano che fosse dotata di proprietà magiche, che berne una tazza allontanasse il sonno e desse un’immediata carica di energia.
Non sapevo se fosse vero o solo una diceria, ma quel gusto intenso e un po’ amarognolo mi piaceva e non mancavo di berlo ogni mattina, prima di sbrigare le mie commissioni.

Quando mi vide arrivare in sala da pranzo, mia madre mi stampò un bacio sulla fronte, stringendomi forte forte fra le braccia esili. Gli anni l’avevano cambiata, sia fuori che dentro: pur rimanendo ancora una bella donna, sul suo corpo si facevano evidenti i segni dell’età che avanzava: aveva piccole rughe intorno alla bocca e agli occhi; nella folta chioma bruna, debolmente legata da un nastro rosso, si intravedevano i primi sottili filamenti d’argento.
Il suo carattere era rimasto forte, eppure aveva intervalli di dolcezza: una dolcezza malinconica, che quando sovveniva anch’io, che ero suo figlio, stentavo a riconoscerla. Questo mutamento latente del suo carattere aveva iniziato a presentarsi da quando Lucien ci aveva lasciato: era rimasta segnata da quell’evento, per lei fu come perdere un figlio (infondo ci aveva cresciuti entrambi) e non avere neanche l’occasione di dirgli addio doveva averla ferita nel profondo, pur sapendo ciò che aveva fatto.
Le avevo tenuto nascosta la faccenda della Confraternita Oscura, non ritenevo necessario che soffrisse ancora e quel peso potevo sopportarlo da solo
Mia madre mi carezzò il viso, velato di una sottile barba ispida.
-Sedici anni, il mio bambino ormai è diventato un uomo! Auguri amore. – Disse, stampandomi un altro bacio, sulla guancia stavolta.
-Grazie, mamma. – Risposi, un po’ imbarazzato da tutte quelle premure.
-Vuoi mangiare qualcosa? C’è della frutta o dei biscotti secchi, li ha portati stamattina la signora Motierre, la vicina. È proprio una cara donna e poi suo figlio Francois è un amore. C’è anche del caffè, attenzione che scotta però.
-Prenderò del caffè, grazie. – Mi sedetti e allungai una mano per prendere la caraffa, quando mi arrivò un buffetto.
-Eh, no, caro mio. Faccio io.
-Mamma non c’è bis-
Mi fulminò con lo sguardo. Sì, forse era meglio ubbidire senza fare tante storie.
-Grazie, basta così. – dissi, quando la tazza fu piena per metà.
Sorseggiavo il caffè mentre lei mi guardava sorridente, masticando degli acini di uva fresca.
-Quando vorresti partire?
Si riferiva al viaggio per Cyrodill che avevo in progetto e che avrei intrapreso non appena avessi avuto l’età, l’idea di entrare nella Gilda dei Maghi non l’avevo mai accantonata del tutto in questi anni, anche se i miei obbiettivi adesso erano diversi.
-Pensavo di mettermi in cammino domani, giusto per godermi un po’ la festa in paese.
-Uhm, va bene – disse Brunja, nascondendo vanamente una precoce nostalgia – allora vai di sopra, preparati la sacca e vedi di portare solo lo stretto necessario. Quando hai finito scendi nello scantinato: ho un regalo per te.
-Che cos’è? – Chiesi, divorato dalla curiosità.
-Lo saprai quando lo vedrai. Ah, quasi dimenticavo: nel pomeriggio non dimenticarti di passare dalla Gilda dei Guerrieri, ho convinto Oreyn a tenere aperto apposta per te, così puoi firmare le carte per l’iscrizione.
Mordryn Oreyn era il Dunmer che si occupava della burocrazia all’interno della Gilda, parallelamente allo svolgimento dei contratti, roba come addestramento dei nuovi adepti, inventari e carte da compilare; insomma tutta quella parte noiosa da cui la Donton si teneva lontana. Anche in un gruppo di mercenari al servizio dei cittadini di Cyrodill c’era bisogno di organizzazione, infondo non poteva essere tutto avventure e battaglie.

Vuotai la tazza tutta in un sorso, rischiando di ustionarmi la lingua tanto era bollente, e salii le scale di fretta.
Quando entrai in camera mi guardai attorno, cercando di scegliere cosa mi sarei portato dietro nel viaggio che mi aspettava. Fosse dipeso da me, mi sarei portato tutto ciò che c’era in quella stanza: dal soldatino di legno, usato come soprammobile, fino all’ultimo dei miei libri. La mia libreria era strapiena: dopo la partenza di Lucien mi ero impossessato dei libri che si era lasciato dietro e li avevo piazzati in camera mia; non so bene il perché, forse per coltivare l’illusione che in qualche modo fosse ancora con me. All’inizio li sfogliavo semplicemente, poi cominciai a leggerli, uno dopo l’altro, scoprii che mi piacevano e li lessi tutti, dal primo all’ultimo: a partire da “Un Anuad per bambini” continuando con la “Biografia di Vera Barenziah”, fino ad arrivare ai tomi con il titolo graffiato: pagine e pagine che parlavano di Daedra, Negromanzia, vampiri, licantropi e tanto altro. Dei vampiri qualcosa la sapevo già, avendo letto e riletto “Sangue Immortale”, il quale raccontava la storia di un cacciatore di queste creature ( e che le combatteva a mani nude!) che finiva per essere ucciso proprio da un vampiro, celatosi sotto mentite spoglie.
Probabilmente era una storia vera, scritta da un autore anonimo, ma a quel tempo per me era solo un racconto appassionante con cui trascorrere le lunghe ore di noia.
Dopo le prime esitazioni, comunque, iniziai a fare una cernita di ciò che mi sarei portato dietro: presi una tunica da notte, il pugnale che usavo per la caccia agli imp e ad altre piccole creature, un paio di libri (fra cui l’immancabile “Sangue Immortale”), alcune pozioni comprate da Angalmo qualche giorno prima e una cote per riaffilare le lame smussate. Scelsi di non portarmi dietro ricambi, avendo abbastanza septim da potermi comprare nuovi vestiti ovunque fossi andato, all’ovvia condizione che non fossero stati troppo costosi. La roba che avrei lasciato ad Arborwatch la riposi nei bauli che avevo sotto il letto, era inutile lasciarla lì ad occupare spazio. Ciò che avevo scelto di portarmi, invece, lo ficcai nella sacca, lasciando fuori solo il pugnale e le fiale di pozione, che avrei riposto rispettivamente nel cinturino e nelle tasche dei vestiti. Finita di preparare ogni cosa diedi un ultimo sguardo alla mia stanza, provando una sensazione strana nel vederla così vuota, per poi richiudere la porta alle mie spalle. Mia madre mi aspettava nello scantinato con il suo regalo, un’idea su cosa potesse essere ce l’avevo ma nonostante ciò non potei nascondere la commozione, quando nel doppio fondo di un baule, sotto un manto in pelliccia d’orso, trovai esattamente ciò che mi aspettavo: la spada di mio padre, inserita in un fodero d’ebano pregiato.
Quell’arma era tutto ciò che mi legava a Skyrim e alla mia natura di Nord, insieme col sangue. La sfilai con delicatezza, l’elsa era anch’essa in legno pregiato, con il pomo che ricordava una zampa di lupo e il viso d’una creatura dalle fattezze demoniache inciso sulla coccia: lungo la lama l’acciaio era stato piegato più e più volte, percorso com’era da venature biancastre e da una vena scarlatta che si inerpicava sino alla punta, sul piatto della spada erano incise parole di cui non comprendevo il significato, doveva essere una lingua molto antica, carezzavo le lettere in rilievo mentre la voce di mia madre, dietro di me, recitava:
-“Io sono Durendal, lì dove discendo il sangue mi accoglie”. – Seguì un istante di silenzio. – Tuo padre mi mostrò per la prima volta questa spada la notte in cui ti concepimmo, giaceva nel letto insieme con noi. Credo che in qualche modo tu sia sempre stato destinato ad averla.
Non riuscivo a parlare, avevo le lacrime agli occhi e le parole di Brunja, tremanti nella nostalgia di un vecchio amore, non facevano che accrescere la mia commozione. Posai Durendal con rispetto e abbracciai mia madre, asciugandomi le lacrime fra i suoi capelli, lasciando che i singhiozzi mi scuotessero la gola. Lei mi consolò, come quando ero bambino, carezzandomi le spalle per poi tirarsi da parte e tenermi il viso con entrambe le mani.
-Promettimi che farai attenzione figlio mio, che non smetterai di inseguire i tuoi sogni, qualsiasi cosa accada.
-Te lo prometto, madre. Ti renderò fiero di me!
-Sono già fiera di te. – Sorrise, calcandomi gli zigomi con i pollici. – Lo vedo nei tuoi occhi, tu sei destinato a grandi cose Ragnar, non può essere altrimenti.
Mi stampò un ultimo bacio sulla fronte. Il tempo di piangere era finito, non ero più un ragazzino, adesso ero diventato un uomo: mi ricomposi, asciugandomi gli occhi umidi con le mani.

I violini cominciarono a suonare, accompagnando le danze intorno alla Grande Quercia, avvolta di nastri bianchi e rossi che da un ramo si incurvavano verso l’altro, salendo sempre più in alto. Sui balconi venivano stesi gli stendardi del Dragone, simbolo della casata Septim.
Ai balli partecipò persino la Contessa Valga, mentre il marito la osservava, serio e tutto d’un pezzo, seguito come sempre dalla serva Redguard, giovane e dalle belle forme scure.
Intorno alla Cappella di Stendarr i venditori ambulanti avevano aperto le loro bancarelle, disponendo su lunghe tavole di legno le loro merci: esotici profumi, spezie piccanti di Elseweyr, portagioie e soprammobili di ogni forma e dimensione, marionette e soldatini di legno intagliati a mano, spettacoli di saltimbanco provenienti da ogni dove. Un gioco sinestetico di colori, voci, odori, luci e sensazioni che rianimava la vita quotidiana di una qualche strana e particolarissima magia, che andava a creare un qualcosa di unico, qualcosa da ricordare.
Questa sfida ai sensi si placò quando la Cappella aprì i battenti per accogliere chiunque desiderasse ricevere le benedizioni o le cure dei guaritori, concesse gratuitamente per grazia dell’Imperatore Uriel Septim VII. In file lunghissime si alternavano esemplari umani, e non, di ogni ceto sociale ed estrazione: nobili annoiati, mercanti timorati degli dei, vecchi macilenti e mendicanti che evocavano una certa compostezza, nelle loro vesti di stracci, grigie e maleodoranti.
Nelle locande, intanto, si aprivano le botti con le migliori annate di vino e idromele, la birra scorreva a fiumi fra canti da osteria e cozzare di boccali, l’uno contro l’altro.
Bevvi qualche sorso di idromele alla Quercia e il Pastorale prima di raggiungere Mordreyn Oreyn alla Gilda dei Guerrieri, per firmare le carte necessarie all’ingresso nei ranghi.

Aveva la pettinatura più strana che avessi mai visto: una tonsura, come quella dei monaci di Weynon, sovrastata da una lunga cresta nera. Pensai fosse una sorta di acconciatura tribale tipica di Morrowind, terra di origine dei Dunmer (chiamati anche Elfi Oscuri). Sul suo viso, di un grigio scuro, risaltavano i penetranti occhi scarlatti della sua razza. La sua voce era forte, autoritaria, quella di un capo, ma un capo che sentivi sarebbe sceso in battaglia con te, pronto a offrire la sua vita per la tua, invece di dare semplicemente ordini dall’alto. Mi ispirava una fiducia e una stima che avevo provato raramente verso qualcuno.
-Bene, ragazzino. La tua fedina penale è illibata e questo mi basta per dire che sei il benvenuto nella Gilda. Vitellus mi ha parlato molto bene di te.
-Quindi è tutto in regola, bene. – Dissi, soddisfatto.
-Adesso firma queste scartoffie, così posso tornare a bere: c’è un boccale pronto per me alla Giumenta Grigia e non intendo farlo attendere. Per i contratti dovrai recarti a Cheydinhal o ad Anvil, potresti trovare qualcosina pure a Skingrad ma non ti assicuro nulla. È un periodo un po’ di magra.
-Come mai? – Chiesi, mentre mettevo l’ennesima firma, intingendo la penna d’oca nel calamaio.
-La Compagnia di Blackwood, – sbuffò, stizzito – bastardi. Vogliono fregarci il lavoro! Ma, infondo, un po’ di sana competizione non può farci che bene, magari smuoviamo un paio di culi mosci in questa Gilda.
Sorrisi, mentre apponevo l’ultima firma.
-Finito, ecco qui. – Soffiai sull’inchiostro per farlo asciugare.
-Perfetto.
Mordreyn controllò velocemente le carte, le risistemò e le posò sulla scrivania.
-Vai avanti tu ragazzino, chiudo io la baracca.

La festa riprese nel pomeriggio e continuò fino a notte fonda, ininterrottamente, quando la gente esausta ritornò a casa, magari barcollando per aver esagerato col vino. Prima di ritornare ad Arborwatch decisi di fare una capatina al Priorato, per rivedere Jauffre e informarlo della mia partenza, prevista per il giorno dopo. Fu contento di potermi salutare e mi fece anche un regalo: una mappa di Cyrodill, con la posizione delle città principali e dei luoghi che era consigliabile esplorassi. Nel darmela mi disse qualcosa che non avrei mai dimenticato, che sul punto quasi mi commosse “Perché tu possa tener sempre a mente dove vai e non scordare mai da dove sei venuto”.
Ero nato a Skyrim, il trenta di Gelata di sedici anni fa, ma era il Priorato, era Chorrol il luogo che potevo davvero chiamare casa. Il luogo dove chi mi era caro era pronto a riaccogliermi a braccia aperte. Lì ero cresciuto, lì ero diventato l’uomo che ero e nulla avrebbe mai cambiato tutto questo, qualunque cosa i fati avessero avuto in serbo per me, io avevo una certezza, avevo un luogo a cui poter ritornare. Prima o poi avrei rivisto la quercia bianca sulle porte, sugli stendardi blu che svettavano ai pennacchi delle torri, avrei rivisto gli occhi bruni di mia madre, così simili ai miei e avrei saputo che appartenevo a loro e loro sarebbero sempre stati parte di me.

Il mio compleanno volgeva ormai al termine, passando in sordina nella mia stanza ad Arborwatch, con i regali che avevo ricevuto, proprio accanto al mio letto: lo scudo incantato che mi aveva dato Vitellus, le pergamene magiche di Angalmo e gli stivali di Seed-Neeus “con la sorpresa dentro” (dovevo ancora capire a cosa si riferisse). Ero stanco e felice, il sonno ormai vinceva il mio corpo ma prima … prima di svanire nei sogni, il mio ultimo pensiero andò a Lucien: rividi il suo volto, lo vidi sorridere e il sonno mi avvolse.


Note dell'autore

Qui si conclude la prima parte di "Oblvion: the story of the Hero of Kvatch (Prologue)", d'ora in avanti le cose si faranno un po' più movimentate, vi avverto. Scusatemi se il capitolo è stato un po' noiosetto ma era necessario che scrivessi un "ponte" e se lo avete attraversato con me, beh, vi ringrazio. Spero la storia vi stia piacendo, un ringraziamento speciale va' al mio fedelissimo recensore QWERTYUIOP00, a Helmyra costante confronto in materia di scrittura e idee e in ultimo (ma non per importanza) a deianirarouge il cui sostegno e affetto vanno ben oltre questa storia, pur rimanendo fondamentali per la stessa. Un grazie anche ai lettori silenziosi che mi seguono, sperando che prima o poi diano voce ai loro pensieri, così che possa ascoltarli :)

Un abbraccio,
NuandaTSP.

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Capitolo 5
*** White 'n' Red ***


Chapter five – White ‘n’ red.

Il khajiit sferrò un fendete, calando a picco l’ascia bipenne schiantandola contro lo scudo con un rumore sordo. Ressi l’urto a stento, ma lo scudo non cedette o avrei sicuramente perso un arto, vista la forza del colpo.
Scansai il khajiit con una spallata e, a malincuore, dovetti liberarmi dello scudo, ormai inutilizzabile. Presi a due mani Durendal, riuscendo così a gestirne meglio il peso e il bilanciamento. Mi misi in posizione di guardia, attendendo la prima mossa del mio avversario. Il khajiit era stanco, ma non sembrava in alcun modo intenzionato ad arrendersi; mi soffiò contro, mostrandomi le zanne giallastre, e portò un altro attacco simile al precedente, ma questa volta ero pronto: lo schivai, indietreggiando brevemente, e avanzai in un affondo: Durendal passò come in mezzo a un panetto di buro fuso, penetrando la corazza di cuoio, la pelliccia, i muscoli, la carne e le ossa del bandito khajiit, fuoriuscendo dall’altra parte tinta d’un rosso scarlatto.
Il bandito rantolò, sputando un fiotto di sangue, mi maledisse con il suo ultimo respiro, mentre l’ascia cadeva sulla neve e il suo corpo si accasciava inerte contro il mio.
Era finita, per la prima volta avevo ucciso un essere umano … okay, non proprio un essere umano, ma una creatura sicuramente più simile a me dei goblin, degli imp e delle bestie feroci che avevo affrontato fino ad allora.
Mi chiesi se Lucien aveva provato le stesse cose che provavo io in quel momento: un miscuglio di sensazioni, terrore, sollievo ed euforia. L’euforia mi spaventava più di ogni altra, pensavo fosse sbagliato provare euforia per cose simili ma, mio malgrado, il brivido della battaglia l’aveva accesa in me e bruciava nelle mie carni, facendomi battere forte il cuore. Quel bandito aveva una sua storia, forse aveva una famiglia, degli amici e adesso tutto ciò che lui era stato svaniva così: sulla punta della mia spada.
Avvertii un accenno di rimorso che mi risolsi a dissipare con il pensiero che era stato lui ad attaccarmi per primo, io mi ero solo difeso, eppure… l’avevo fatto con troppo entusiasmo, come se non aspettassi altro.
Mi ci volle un po’ per realizzare che ero a contatto con un cadavere, mi scostai subito, lasciandolo cadere accanto a me; Durendal scivolò fuori dal groviglio di carni con un sibilo che mi gelò il sangue nelle vene, più di quanto già non facesse il freddo.
Per qualche istante guardai la neve tingersi di rosso a poco a poco, spostai lo sguardo sugli occhi del felino, per poi distoglierlo subito dopo: avevo immaginato cosa stessero vedendo in quel momento, nel nulla assoluto in cui erano sprofondati.
Raccolsi lo scudo e mi diressi verso Bruma, incapace di parlare per l’esperienza che avevo appena vissuto.
Man mano che avanzavo, all’orizzonte si faceva più nitido il profilo frastagliato dei monti Jerall: pendici ripide incise nella roccia antica, picchi innevati che lambivano le nuvole nel cielo grigio di quella mattinata. Quei titani di roccia dividevano Cyrodill da Skyrim, avevano visto grandi eserciti, battaglie che avevano deciso la storia e cambiato la sorte di interi regni. Le sue radici si erano nutrite del sangue di tanti uomini, seppellendo sotto la neve le loro ossa inermi.
Ai piedi dei Jerall, diroccata e solitaria, si ergeva Bruma con le sue alte mura massicce. La vedevo in lontananza, ma anche da lì potevo notare gli stendardi sventolare ai picchi delle torri di guardia, con impresso il blasone dei Carvain: l’aquila nera in campo giallo.
Ai cancelli della città due focolari rimanevano sempre accesi, ravvivati con pece e sterpaglie ad ogni cambio della guardia. All’interno la città si sviluppava secondo una forma basso-conica, per non disperdere il calore; le case erano costruite con massicci tronchi di legno, impilati su solide fondamenta di pietra; le strade in lastricato collegavano i vari piani di cui era composta la città e venivano cosparse di sali di fuoco ad ogni crepuscolo, per evitare che si ghiacciassero durante la notte.
A differenza delle altre città di Cyrodill, abitate prevalentemente da imperiali, Bruma aveva la sua maggiore fetta di popolazione in persone di etnia nord: c’era chi viveva lì da generazioni o era giunto esule da Skyrim, del resto quest’ultima si trovava proprio lì, oltre i monti Jerall.

Varcati i cancelli, la prima cosa che feci fu fiondarmi nella locanda più vicina: era “lo Zippo e il Chiodo di Olav”. Olav, l’oste, non era esattamente la persona più gentile e cortese che avessi mai incontrato, ma i piatti che serviva alla sua tavola erano buoni e la tinozza per i bagni, nello scantinato, era riempita con acqua calda.
Fu una bella sensazione sentirmi finalmente ripulito dal sozzume e dal sangue rappreso che avevo addosso.
Quindi, fresco e riposato, andai a consegnare il mio equipaggiamento a un fabbro locale: credo si chiamasse Olfand o qualcosa del genere, al fine di farlo riparare. Gli consegnai lo scudo, ma quando vide la spada mi raccontò una storia curiosa, di cui non avevo mai sentito parlare prima di allora.
-Questa lama non perderà mai il filo. – Mi disse, riconsegnandomi Durendal, dopo averla ripulita dal sangue con uno straccio. – Vedi queste venature bianche nell’acciaio? Non ti ricordano uno specchio d’acqua?
-Direi di sì. – Risposi incerto, non capendo dove volesse andare a parare.
-Ecco, ne sono sicuro. Questo è acciaio Damasco!
-Acciaio Damasco? Cosa sarebbe?
Olfand si schiarì la voce e mi spiegò, con tono concitato.
-In giorni lontani, agli albori della prima era, un ordine di fabbri-stregoni rinvenne nel sottosuolo di Yokuda, terra d’origine dei redguard, un minerale dalle proprietà particolari, non manipolabile con i normali ferri del mestiere. Da questo minerale, attraverso il fuoco e la magia del sangue, ricavarono un acciaio di gran pregio, il cui aspetto ricordava la luce rifratta da uno specchio d’acqua. Nell’antica lingua redguard “Damasco” significa infatti “acquoso”. Con il Damasco, questa setta di fabbri forgiò armi magnifiche e letali, proprio come questa spada. Lame il cui filo non può essere smussato dal tempo inesorabile o dalle battaglie più feroci e la cui tempra non può essere disciolta neanche dalle lave dell’Oblivion. Vere e proprie opere d’arte!
-Esistono altre armi fatte dello stesso materiale?
-Certo, ma si contano sulle dita di una mano. Dopo che Yokuda sprofondò nel mare, i segreti dei fabbri stregoni andarono perduti insieme al minerale da cui ricavavano l’acciaio. Da quello che so’ gli unici altri esemplari di Damasco sono un pugnale, in possesso del nostro amato imperatore, e un’ascia, che il re di Hammerfell si tiene ben stretto. Custodisci quest’arma con cura, ragazzo, in molti farebbero di tutto per averla. Fai conto che il suo valore in septim equivale a quello dell’intera città di Bruma!
-Così tanto?!
-Già, comunque io ne so molto poco a riguardo, nel caso tu voglia saperne di più ti consiglio di parlare con Rohssan, nella Città Imperiale, ne sa molto più di me in merito all’acciaio Damasco.
-Grazie, se mi capiterà di passare da quelle parti ci farò un salto.
-Perdona il mio sproloquio, ma era la prima volta che vedevo un’arma del genere, finora ne avevo solo sentito parlare.
-Non ti preoccupare. – Dissi, con un sorriso comprensivo. – Non fa nulla.
-Per il resto dell’equipaggiamento ripassa pure fra un’ora, dovrei aver finito.
Salutai Olfand, lasciandolo al suo lavoro. Ero rimasto affascinato da tutta quella storia sull’acciaio Damasco e non vedevo l’ora di saperne di più, indagare più a fondo su questa questione ma, almeno per il momento, avrei dovuto dare la precedenza ad altri impegni, primo fra tutti: le raccomandazioni per la Gilda dei Maghi. Da quello che avevo sentito, a gestire la sede di Bruma c’era una donna, una bretone per la precisione. Il suo nome era Jeanne Fresoric. Volanaro (l’altmer con cui avevo parlato), dopo aver tentato vanamente di coinvolgermi in uno scherzo ai suoi danni, mi disse che l’avrei trovata nella sua stanza al piano di sopra, intenta a scrivere lettere, per ragioni che non volle spiegarmi, forse perché era rimasto offeso dalla mia mancata partecipazione ai suoi giochi.
Avevo sentito che la sede di Bruma era fra le più scadenti di Cyrodill, non potei che constatare quanto questa considerazione avesse una base reale e giustificata: a parte la grande penuria di libri, pozioni e ingredienti alchemici, l’offerta di incantesimi consisteva in sciocchezzuole dilettantistiche e la principale occupazione dei pochi membri di quella succursale sembrava consistere nel giocare squallidi scherzi ai proprio superiori. L’unica persona che mi sembrò un po’ più seria lì in mezzo era Selenia Orania, l’alchimista, che, pur avendo a disposizione poche risorse, lavorava con serietà e professionalità.
La decadenza della sede era imputata essenzialmente alla mancanza di competenze in fatto di incantesimi e amministrazione da parte di Jeanne, la domanda mi sorse spontanea: se nei fatti era un’incapace, come l’aveva raggiunta quella posizione all’interno della Gilda?
Salii le scale e quando entrai nella camera della bretone la trovai buia, rischiarata solo dalla debole luce delle candele sulla sua scrivania. Era un donna di bell’aspetto: i suoi capelli, di un biondo ramato, erano raccolti in un elegante chignon che faceva risaltare i gentili contorni del viso e la graziosa curva del collo. Mentre scriveva, aveva accanto a sé un calice di peltro, riempito per metà di un vino rosso dal colore vivo e intenso. Mi schiarii la voce perché si accorgesse della mia presenza all’interno della stanza, improvvisamente distratta da ciò che stava facendo, volse lo sguardo verso di me.
-Mi scusi, signorina Fresoric. – cominciai.
-Prego, caro. – Si affrettò a dire, indicando la sedia dall’altra parte della scrivania. – Accomodati pure.
-La ringrazio.
Mi sedetti, mi incantai a guardarla per qualche altro secondo: il volto della donna era opalescente al lume della candela, la sua pelle doveva essere molto chiara. I suoi occhi di un verde scuro si posavano su di me con delicatezza, accesi dalla fiammella riflessa nelle sue pupille. Sugli zigomi un poco paffuti, c’era un piccolo stuolo di lentiggini che le davano un’aria un po’ da bambina.
La sua voce era acuta, premurosa e molto dolce, pur non mancando di quell’accortezza (me lo sentivo sulla pelle) che doveva fare di lei un’abile e scaltra conversatrice. Iniziai a sospettare come avesse raggiunto la posizione più elevata nella Gilda di Bruma.
-Non ti ho ma visto da queste parti. – Disse, bevendo un sorso di vino e riempiendo un bicchiere anche per me. – Da dove vieni?
-Chorrol, signorina.
-Oh, bellissima città. Ci sono stata qualche volta, – si toccò le labbra con un dito, lasciandole poi scivolare lungo il mento, – la Grande Quercia mi ha sempre affascinato molto, ma immagino tu non sia qui per scambiare chiacchiere da viaggiatore. Sei qui per una raccomandazione, non è vero caro?
-S-sì, signorina Fresoric. – Risposi, nascondendo il rossore dietro il bicchiere che mi ero cacciato alla bocca.
Per qualche motivo quella donna mi metteva una soggezione tremenda, mi sentivo il viso avvampare.
-Oh, chiamami pure Jeanne. Possiamo essere amici tu e io. – Mi fece un occhiolino. – Tu farai qualcosa per me e io, in cambio, farò qualcosa per te.
Deglutii, continuando a guardarla senza sapere cosa dire.
-Come sicuramente saprai, per concederti la mia raccomandazione devo mettere alla prova le tue abilità e le tue competenze magiche, guarda caso ho una piccola commissione che si presta a questo scopo e che tu dovresti svolgere per me. – Riprese, in tono mellifluo.
-D-di cosa si tratta … Jeanne?
-Un mio caro amico, – disse, incrociando le gambe e portandosi un dito al labbro inferiore, – nei piani alti dell’Università Arcana, è da tempo alla ricerca di un oggetto molto particolare: un manufatto chiamato “Pietra del Sigillo” che proviene direttamente dall’Oblivion. Come sicuramente saprai, per un mortale è impossibile entrare in quella dimensione, almeno dai tempi dell’Imperatrice Alessia, ma si da il caso che un uccellino – si morse il labbro inferiore – mi abbia sussurrato che una Pietra del Sigillo si trovi nelle rovine Ayleid di Woland, poco più a Sud di Bruma, custodita da non-morti e altre strane creature.
-Immagino che dovrò andare lì e recuperarlo. – Intuii.
-Esattamente, so’ che è un compito pericoloso, ma sono sicura che riuscirai a svolgerlo senza problemi. – Mi rivolse un sorriso rassicurante. – Portami la Pietra del Sigillo e invierò immediatamente una raccomandazione all’Università Arcana e chissà, – disse, con un sorriso malizioso e mordendosi il labbro inferiore per l’ennesima volta – potrebbe anche scapparci un piccolo bonus. – Concluse, rivolgendomi un occhiolino ammiccante.


NOTE DELL'AUTORE
Ciao, se sei arrivato a leggere fin qui sono contento. Vuol dire che forse la storia ti piace o magari stai aspettando il momento giusto per iniziare a insultarmi, se così fosse grazie per non averlo ancora fatto! :D
Comunque, come i buoni e vecchi giocatori di TES IV Oblivion avranno notato, la quest di Jeanne è un pelino diversa da quella presente nel gioco, ma seriamente vi aspettavate che mettessi Ragnar a giocare a nascondino con J'skarr o lo condannassi ad assecondare l'ultimo scherzo idiota di Volanaro? Ho deciso di renderla un po' più interessante, così come ho scelto di rendere più interessante la stessa Jeanne (almeno per il mio punto di vista), infondo, sia questo personaggio, che quello del LORE originale, hanno notevoli doti affabulatorie e sono seghe con la magia (ma questo aspetto lo approfondiamo nel prossimo capitolo). Beh, che altro dirvi? Spero la storia vi stia piacendo leggerla quanto a me piace scriverla! Lettori silenziosi, non fate i timidi :3 parlate su' su'!

PS per l'acciaio Damasco mi sono ispirato all'acciaio Valyriano de "Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco", come il buon vecchio Zio George a sua volta si è ispirato all'acciaio di Damasco, da cui ho preso il nome ( e sì, vuol dire davvero "acquoso").

 

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Capitolo 6
*** Autumn leaves ***


Chapter six – Autumn leaves.

Seduto di fronte al focolare, curai una ferita sul braccio. Il tocco della magia, sulla pelle irritata, mi diede una certa sensazione di sollievo; vidi i lembi di carne richiudersi lentamente, finché della ferita non rimase che una macchia di sangue, poi pulita con uno straccio che mi portavo appresso.
Avevo attraversato buona parte delle Rovine di Woland, facendomi largo fra i piccoli branchi di furfanti che occupavano quel luogo: i furfanti erano creature di bassa statura, perfide, maleodoranti, con la pelle aderente alle ossa. Una minaccia di poco conto, non fosse stato per gli incantesimi del fuoco che sapevano usare con una certa maestria, per mia fortuna avevo scoperto che lo scudo regalatomi da Vitellus era infuso di una magia capace di riflettere gli incantesimi e questo mi aveva già salvato da un paio di brutte scottature. Forte di quella protezione, Durendal fu libera di squarciare le carni di quegli esseri disgustosi, fra sangue e grugniti sofferenti.
I furfanti, però, non costituivano l’unica minaccia di quelle rovine, gli Ayleid che le avevano costruite, nel corso della prima era, le avevano disseminate di un gran numero di trappole. Woland era un intricato susseguirsi di sale e corridoi, dove si affollavano dardi da muro, pannelli in pietra che si alzavano o sprofondavano verso fitte schiere di spuntoni acuminati, comignoli da cui fuoriusciva gas velenoso e altro ancora. Insomma, mi ero dovuto muovere con la massima cautela, soprattutto nei punti più bui, dove la luce dei cristalli, che in genere illuminavano le rovine, non era presente.
Nel mio discendere attraverso le profondità di Woland, non avevo ancora trovato traccia della Pietra del Sigillo, ma in compenso avevo fatto la conoscenza di un avventuriero, coperto dalla testa ai piedi da un’armatura dwemer, intento a riprendere le forze al calore di un piccolo falò di fortuna. I bagliori del fuoco risaltavano sul metallo dorato delle sue armi, creando giochi di luce e ombra di grande effetto e suggestione. Essendo ormai a una decina di metri sottoterra, faceva molto freddo laggiù, e per questo, quando l’avventuriero mi propose di condividere il focolare e il pasto che si accingeva a preparare, accettai di buon grado l’offerta.
Per le consuetudini dell’ospitalità, si tolse l’elmo oblungo che gli copriva interamente il viso, rivelando un volto dal colore verdastro con due piccoli occhi ambrati. Era un orco, o orsimer, non c’erano dubbi (avrei dovuto capirlo già dalla massiccia corporatura, tipica della sua razza).
-Cosa ti porta da queste parti, ragazzo? – Mi chiese, con la voce cavernosa che riecheggiava nella grande sala dove eravamo.
-Sono qui per recuperare un oggetto nascosto in queste rovine, – ammisi, mentre spezzettavo della carne secca nella zuppa, per insaporirla – ma finora non ho avuto fortuna.
-Uhm, forse ho visto l’oggetto che stai cercando. È forse una sfera? Una sfera nera, dello stesso colore della notte?
-Sì, è quella! – Dissi, entusiasta.
-Allora dovrai spingerti più in profondità, oltre il ponte spezzato, ma sappi che la strada è irta di ostacoli.
-Altre trappole?
-Trappole e non solo. – Disse l’orco, sorridendo. – Una creatura custodisce quell’oggetto e stai pure sicuro, amico mio, che lo proteggerà con la sua stessa vita. – Mentre parlava si sfilò lo spallaccio, mostrando un brutto livido impresso sulla pelle verdastra. – Questo è un suo lascito, sono stato costretto a fuggire per aver salva la vita … che disonore. – Abbassò lo sguardo, fissando il fuoco.
-Di che genere di creatura si tratta? – Chiesi, provando inutilmente a immaginare cosa potesse spingere un orco di quella stazza a fuggire con la coda fra le gambe.
-Invero, non ne ho mai viste di simili: la sua pelle ha il colore del fumo e del fuoco, i suoi occhi brillano come braci, sul capo ha due corna puntute e il suo corpo è avvolto da un’armatura che pare fatta di carboni ardenti, così la sua mazza.
Quella descrizione corrispondeva a … no, era impossibile. Quelle creature non erano di questo mondo e potevano restarci solo per poco tempo, se evocate da un mago di un certo livello. L’essere che l’orco aveva descritto corrispondeva a un Dremora, un servo di Mehrunes Dagon, il più terribile fra i signori daedrici: il principe della distruzione.
-Sei davvero sicuro di non esserti sbagliato?! – Gli chiesi, preoccupato.
-Questi occhi non mi hanno mai mentito, giovane nord. – Rispose l’orco, un po’ risentito.
Ci ragionai su’: la presenza di un manufatto proveniente dall’Oblivion, forse poteva spiegare anche la presenza di un Dremora all’interno delle rovine. In ogni caso dovevo recuperare la pietra del sigillo e, per farlo, avrei dovuto sconfiggere quella creatura di cui non avevo che vaghe informazioni. Dovevo giocare d’anticipo, saperne il più possibile.
-La creatura che hai affrontato si chiama Dremora, proviene dall’Oblivion.
-Dall’Oblivion?! Non è possibile! I fuoch-
-Sì, sì, i fuochi del Drago non lo permetterebbero, ma se queste rovine sono molto antiche, è possibile che quel Dremora sia qui da prima che i fuochi fossero accesi, infondo sono creature immortali.
-Malacath ci protegga!
-Ascolta, ho davvero bisogno che tu mi dia qualche informazione su come quest’essere si muove, come combatte e cose così, se usa incantesimi e di che tipo.
Il panico iniziale dell’orco scemò poco a poco e, quando fu nuovamente padrone di sé, mi spiegò
-Da quanto ho potuto notare è dotato di una grande forza fisica, ma non si allontana mai troppo dalla sfera che custodisce.
“Quindi ha scarsa mobilità” pensai, continuando ad ascoltare.
-Non l’ho visto utilizzare incantesimi, combatte più che altro con una mazza, non preoccupandosi di utilizzare alcun tipo di scudo.
-Non indossa un elmo?
-No, combatte a viso scoperto.-
“Bene, questo è un particolare interessante”. Pensai, posando la mano sull’elsa di Durendal.
-ma il resto del suo corpo è protetto dall’armatura, come ti ho già detto. La mia ascia è riuscita appena a scalfirla, prima di finire in pezzi.
-Ti ringrazio, con le informazioni che mi hai dato forse riuscirò a sconfiggere quel Dremora, ti sono debitore. – Dissi, mentre mi rimettevo in piedi, pronto per proseguire.
-Aspetta, ragazzo. – Si alzò anche lui, con una certa fatica per via delle ferite. – Questa è una cosa mai sentita: un umano scende in battaglia quando un orco non osa farlo? Sarei lo zimbello di tutta Orsinium, verrò con te!
-Ma sei ferito e-
-Non m’importa, è solo qualche graffio. Fai strada tu, io ti sto dietro.
Quell’orco era ostinato e anche se mi fu impossibile convincerlo ad aspettare lì dov’era, lo costrinsi quanto meno a lasciare che lo curassi con la magia.

Il viaggio nelle profondità di Woland fu lungo e periglioso: la luce si era fatta più fioca, le trappole erano più numerose e letali e i furfanti avevano lasciato il posto a scheletri e cadaveri ambulanti, dal fetore pestineziale.
Anche se un po’ ammaccati riuscimmo finalmente ad arrivare al ponte spezzato: per l’appunto un lungo ponte di pietra, in cui si susseguivano ghigliottine insozzate di sangue rappreso e ruggine, le lame calavano e si rialzavano a ritmi regolari, con un inquietante sferragliare di ingranaggi in continuo movimento. Una parte del ponte, poi, aveva ceduto e per attraversarlo avremmo dovuto compiere un piccolo salto.
L’orco era accanto a me, al fianco portava un’accetta di ferro, strappata dalle falangi di uno degli scheletri che avevamo abbattuto. Per tutto il percorso avevamo parlato poco, ma avevo una curiosità da soddisfare, una domanda che dopo qualche esitazione gli posi, allontanando il timore di poter sembrare invadente.
-Morg – era questo il nome dell’orco – posso chiederti cosa ti ha spinto ad addentrarti in queste rovine?
Lui sorrise, scoprendo le lunghe zanne che sporgevano oltre il labbro inferiore.
-L’amore, giovane Ragnar’ok. L’amore per una dolce e nobile fanciulla.
-Come si chiama lei? – Chiesi, sorridendo per la tenerezza nella sua voce.
-Lady Rogbut gra-Shurgak, voi umani non potete capire la bellezza di una orsimer. Per noi la bellezza è nella forza e nel carattere e lei è grande e meravigliosa in entrambe. – I suoi occhi d’ambra si fecero umidi. – Appartiene a una famiglia nobile, un povero figlio di nessuno come me non avrebbe avuto alcuna possibilità con una come lei, se non compiendo una grande impresa come pegno d’amore ed è per questo che sono entrato in queste rovine, amico mio. Le porterò la testa di quel demonio, suo padre non potrà che acconsentire al nostro matrimonio. – Sorrise, aveva l’aria sognante.
-Sei molto nobile, sono sicuro che si getterà fra le tue braccia.
-Ragazzo, devi promettermi una cosa: se non dovessi farcela … c’è una lettera che porto sotto l’armatura. Vorrei che la portassi a lei, insieme alla testa di quella creatura e all’anello che mi ha donato il giorno prima della mia partenza.
-Potrai farlo da te, quando avremo finito. – Dissi, con aria decisa.
-Ma se non dovessi farcela … me lo devi promettere.
-Hai la mia parola, Morg.
Ci rimettemmo in cammino attraversando il ponte spezzato, evitare le ghigliottine fu semplice, bastò procedere con calma. Io e Morg ci ritrovammo di fronte a un corridoio che conduceva alla sala più profonda dell’intera rovina di Woland. La luce azzurra dei cristalli illuminava la stanza: una sfera nera fluttuava su di un altare a base circolare, inciso con spirali e rune dal significato sconosciuto. Il Dremora era immobile, a guardia della pietra del sigillo, sembrava non averci notato. Forse quella battaglia poteva finire ancora prima di cominciare.

Morg lanciò la sua accetta, puntando dritto alla testa della creatura, mentre io scagliai una palla di fuoco. Non avevamo considerato la prontezza di riflessi del Dremora: difatti schivò l’arma e si lasciò avvolgere dalle fiamme, che gli lasciarono giusto qualche scottatura appena visibile.
-Mortali! Avete violato un luogo sacro con la vostra sudicia presenza, avrò il vostro sangue, la vostra carne!
La sua voce, tuonata dalle labbra nere, sembrava provenire dal fondo di un abisso: gutturale, profonda e imperiosa. Niente in quell’essere suggeriva una qualche appartenenza al nostro mondo, no, lui era un demone vomitato direttamente dalle lave dell’Oblivion. Non esitò ad attaccarci, passai pugnale e scudo a Morg, perché non restasse disarmato, mentre tenni per me Durendal.
L’orco ingaggiò il Dremora in uno scontro diretto, contenendo la forza spaventosa con cui mulinava la mazza, grazie allo scudo di Vitellus. Quando passò al contrattacco lo assistetti, sferrando un fendente con Durendal: l’attacco su due fronti non disorientò il Dremora e, prontamente, bloccò l’attacco di Morg afferrandogli il polso e parò il mio con la mazza che, con mia sorpresa, resse l’urto, scheggiandosi appena.
Capii che avevo sottovalutato la forza di quella creatura quando con un unico movimento del braccio scagliò Morg dall’altra parte della stanza, facendolo urtare contro una parete. Si concentrò su di me, i suoi occhi spiritati guardavano Durendal e pronunciò la parola “Damasco” in un tremito lieve, che ricordava vagamente la paura.
-Esatto. – Gli dissi, disimpegnando la spada e cacciando un colpo alla spalla che lo fece gemere di dolore.
La lama aveva attraversato l’armatura, lacerando appena la pelle ma, pur essendo solo un graffio, bastò a farlo infuriare.
Colpì Durendal, tenuta in posizione di guardia, disarmandomi come niente e con una sola mano mi sollevò da terra, tenendomi per la gola. Mi mancava l’aria, il bastardo stringeva poco a poco la presa, deciso a uccidermi lentamente.
-Hai osato versare il mio sangue, sciocco mortale! Pagherai il fio con la vita.
Ironicamente fu il suo sadismo a salvarmi, se la sua stretta fosse stata rapida e letale sin da subito, probabilmente sarei morto in quelle rovine. Morg, azzoppato dal volo di prima, era strisciato verso l’altare, ci si era arrampicato e ora teneva fra le mani la pietra del sigillo. Gridò qualcosa al Dremora e poi tutto si susseguì rapidamente, come in un sogno


La creatura mi lascia andare, ho la gola dolorante. Durendal è così vicina, “devo raccoglierla”, il Dremora ha colmato la distanza con Morg in pochi rapidi passi, la mano che tiene la pietra si spezza con un rumore secco, insieme con il resto del braccio. La pietra rotola via.
La creatura lascia cadere la mazza sul pavimento, Durendal è così vicina, le mani del Dremora si serrano sulla testa di Morg, lui è immobile, impotente. Arrivo a Durendal “Posso ancora fermarlo. Devo fermarlo”. Mi alzo in piedi, appena in tempo per vederlo: la testa di Morg va’ in frantumi: una poltiglia di carne, sangue e materia cerebrale. Prima della fine mi sembra pronunci queste parole “Ricorda la promessa”. L’orco affronta la morte senza una lacrima, senza un singhiozzo. Le sue braccia ricadono pesanti lungo i fianchi, il suo corpo si accascia con un tonfo sordo.
I miei occhi … i miei occhi sono in lacrime, le mie gambe si muovono da sole mentre la magia mi pervade le braccia, sta irrobustendo i muscoli, donandogli nuova forza, nuovo vigore. Durendal non è mai stata così leggera fra le mie mani.
Il Dremora mi vede arrivare ma è troppo tardi: la spada sembra avere la mia stessa sete di vendetta, bruciare della mia stessa rabbia quando recide di netto le braccia della creatura, si insinua fra le ginocchia frangendone le giunture, spezzando ossa e cartilagini. Cade in ginocchio, lo prendo per i capelli, finirebbe con il muso per terra se lo lasciassi andare. È in mio potere.


I suoi occhi simili a tizzoni ardenti mi fissavano: mi odiava con tutto l’animo (sempre che ne avesse uno), non poteva accettare di essere ucciso da un essere che lui considerava inferiore. Non mi importava, non mi importava del suo odio, del suo rancore. La sua sete di vendetta non era che una stilla della mia, il suo odio non era che una pallida ombra in confronto alla notte che mi bruciava dentro. “Ricorda la promessa”, la voce di Morg mi risuonò nella testa un’ultima volta, prima che Durendal tagliasse di netto il collo, dividendo il capo dal resto del corpo, che si accasciò riverso sul pavimento. L’espressione del Dremora era rimasta contratta in una smorfia di ira, nemmeno la morte gli aveva dato pace e io … io ne ero immensamente felice.

La magia che aveva reso forti le mie braccia si dissipò, insieme con la mia sete di sangue. Fui avvolto da un senso di torpore, provato e spezzato dal dolore fisco ed emotivo mi sedetti per terra, poggiando la schiena contro l'altare. Piansi, piansi per ore, lasciando che i miei lamenti riempissero quelle rovine senza vita.
Morg era morto, lo conoscevo da poco eppure lo consideravo già un amico. Forse dovevo imparare ad essere più distaccato, a non legarmi così presto alle persone, perché nel mondo in cui vivevo le persone se ne andavano, se ne andavano con una facilità disarmante. Forse il distacco, la solitudine, era il solo modo per non soffrirne.
Mi avvicinai al corpo di Morg, cercando di non guardare ciò che era rimasto della sua testa ed estrassi la lettera che gli avevo promesso di consegnare, in caso non fosse sopravvissuto come nei fatti era accaduto. Aprii il foglio di carta ingiallita e scivolai lo sguardo fra le righe, vergate con mano elegante.

“Caro Amore,
nell’ultimo tramonto di Focolare scrivo questa lettera, con la luce del sole che scivola fra i vetri della mia finestra, sfiorandomi il viso. Domani partirò e intanto mi rigiro fra le dita l’anello che mi hai donato come pegno d’amore, qualche minuto fa, prima di andar via, lasciandomi con un bacio … un bacio che sento ancora sulle labbra. Che sciocco: continuo a sfiorarmele chiudendo gli occhi, immaginando di ripetere quell’istante altre mille volte.
Ti cingevo il fianco, ti stringevo a me, respirando a pieni polmoni il profumo di muschio selvatico che ti riempie la pelle, verde e morbida come una foglia di ginkgo. Sapevo che sarei stato lontano per molto tempo. Tuo padre è un tradizionalista, pretendere un’impresa degna della mano di sua figlia è il minimo, visto e considerato che sono un figlio di nessuno.
Non ti nascondo che ho paura, paura di non ritornare, paura di lasciare questo mondo senza averti visto un’ultima volta, paura della tua assenza nei mesi a venire. Ma cosa sono questi timori paragonati alla grandezza del mio amore per te? Pallide ombre, nient’altro che pallide ombre. I giorni che ci aspettano, l’uno senza l’altra, non sono che istanti fugaci al confronto della vita che passeremo insieme.
Foglie d’autunno riunite alla terra, foglie d’autunno che alimenteranno la vita del nostro seme.
Ora lascio questa penna, ho bisogno di riposare, dormire un po’, prima del viaggio di domani…

Ti amo,
per sempre tuo
Morg


Riposi il foglio nel taschino della mia casacca. Avevo gli occhi rossi, non smettevo di piangere, ma prima o poi anche le lacrime si sarebbero fermate, asciugandosi sul mio viso. Il dolore si sarebbe cicatrizzato: avrebbe lasciato un segno indelebile e forse, con l’andar del tempo, avrebbe fatto un po’ meno male. Avrei mantenuto la mia promessa, a Morg gli dovevo almeno questo, dopo che aveva sacrificato la sua vita per la mia. Non avrei lasciato che le sue parole rimanessero sulla carta, no, sarebbero arrivate agli occhi della sua amata … lei avrebbe saputo: avrebbe saputo quant’era grande il suo amore, che aveva combattuto ed era morto da eroe. Dovevo onorare la sua memoria, ad ogni costo.
Sfilai l’anello dal cadavere dell’orco: v’era incisa una rosa rossa.
Raccolsi la testa del Dremora e la chiusi un sacchetto di iuta, mentre la pietra del sigillo, immobile sul pavimento, la infilai nella mia sacca.
Riposi Durendal e lo scudo dietro la schiena, assicurate dalle cinghie, dopodiché abbandonai quelle rovine, ora così maledettamente silenziose.



Note dell'autore
E così con un pizzico di malinconia e silenzio si conclude questo sesto capitolo. Vi dirò la verità cari lettori, non è stato facile per me. Raramente faccio fuori personaggi che mi piacciono e/o che mi ispirano tenerezza come Morg, ci sono stato male e ha avuto un forte impatto emotivo, rovinando il mio umore per più di qualche ora. Cyrodill però è un posto crudele e un avventuriero dev'essere pronto anche a questo, Rag al solito se l'è cavata (bello essere il protagonista, vero?) e ora se ne torna a Bruma e poi... chissà, lo scoprirete solo leggendo.
Grazie a tutti coloro che mi seguono, spero il capitolo vi sia piaciuto! (E che siate un po' tristi anche voi)

Un abbraccio
NuandaTSP

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Capitolo 7
*** Fill the void ***


Chapter seven – Fill the void.

-È bellissima. – Commentò Jeanne, osservando la pietra del sigillo a lume di candela. – Nessuna sorpresa che il mio amico la cercasse con tanta insistenza. – Alzò poi gli occhi verso di me. – Domani mattina scriverò la tua raccomandazione e la invierò all’Università, te la sei davvero meritata.
-Grazie. – Risposi, abbozzando un sorriso poco convincente.
Sarei dovuto essere entusiasta, avevo compiuto un ulteriore passo verso la meta tanto agognata: l’ingresso a pieno titolo nella Gilda dei Maghi. Eppure non riuscivo ad essere felice, non dopo ciò che era successo nelle rovine.
C’era poca luce, il mio viso si vedeva appena, ma Jeanne notò comunque la mia espressione cupa.
-Ragnar – mi chiese, con tono improvvisamente serio e preoccupato – ti senti bene?
-Sì, Jeanne. Sto bene. – Dissi, abbassando lo sguardo.
Lei si avvicinò, mi prese il viso fra le mani candide e fresche e mi costrinse a guardarla negli occhi. La sua voce era dolce mentre mi parlava, mentre mi consolava dicendomi che ogni male era passeggero, che ogni cosa sarebbe passata. “Tutto si risolverà” e io, intanto, pensavo che alla morte non esisteva un rimedio: era qualcosa di definitivo, qualcosa da cui non si poteva tornare indietro. Mi guardava con quegli occhi verde scuro, il corpo piccolo e  gracile, era così indifesa.

La strinsi a me e la baciai con irruenza: all’inizio esitò, sentivo le sue labbra serrate contro le mie, poi le dischiuse e la sua lingua si intrecciò alla mia. La sua bocca aveva ancora il sapore speziato della cena consumata mezz’ora prima, non era un aroma gradevole ma neanche così cattivo. A guidarmi era la forza di un bisogno impellente, più che un desiderio, e lei non si oppose, lasciando che le mie mani tremanti le slacciassero i lacci del bustino, mentre il mio sesso premeva contro le braghe di cuoio leggero. Insinuai le dita fra i suoi seni: due pesche acerbe, dalle areole chiare e i capezzoli turgidi. Strinsi il suo petto al mio, una mano dietro la schiena arcuata, l’altra che le sfilava la gonna, lasciando nudo il pube  dalla peluria irsuta. Sul letto le divaricai le gambe e mi insinuai dentro di lei, la presi con la forza.
Era tutto così diverso dalla prima volta con Therese, la ricordavo come in un sogno: il suo alito aveva il sapore delle foglie di menta che masticava dalla mattina alla sera, con lei il tutto durò non più di qualche minuto ma fu intenso, magico, idilliaco quasi. Con Jeanne invece c’erano state tutte le imperfezioni di un qualcosa d’improvviso, inaspettato, niente che somigliasse a un sogno, eppure, anche con lei fu a suo modo qualcosa di speciale. Quando il mio seme le si riversò nel ventre, lei si sdraiò, porgendomi la schiena e io la abbracciai: sentivo il disperato bisogno di avere un corpo accanto, le baciai il collo e lei mi accarezzò lievemente i capelli.

Sentii il torpore avvolgermi: qualche altro minuto e mi sarei addormentato, con il suo respiro cadenzato ad accompagnarmi come una nenia. Nel vortice di ricordi che imperversano ogni notte, agli sgoccioli della veglia, quella volta uno si impose sugli altri: era qualcosa che Jauffre mi aveva detto alcuni anni fa, dopo che gli avevo chiesto perché si fosse preso la briga di seppellire un passerotto trovato stecchito nei pressi della Great Forest, “restituire un corpo alla terra, beh, lo vedo come un atto d’amore, caro Rag. Credo che la morte lasci un vuoto che solo un atto d’amore può ricolmare”, quando pronunciò quelle parole ripensai ai soldati che tornati da una battaglia, la prima cosa che facevano era giacere con una puttana. Credevo fosse un po’ la stessa cosa, anche se questo paragone lo tenni per me.
L’uccisione del khajiit, la morte di Morg, la crudeltà con cui avevo annientato quel Dremora nelle rovine, tutto questo si era fatto un po’ più distante da me dopo Jeanne.
Un vuoto che si era riempito, almeno un pochino, e un animo un po’ più leggero che finalmente mi concedeva di riposarmi dalla stanchezza e dal dolore.

Stavo per chiudere gli occhi quando lei si voltò, tenendomi le mani.
-Ti senti un po’ meglio adesso? – Disse, con voce sottile, come per non farsi sentire da qualcuno.
-Ora sì. – Sorrisi. – Scusa se-
-Non hai niente di cui scusarti. – Mi passò una mano sotto il mento, lasciandola scivolare lungo il collo. – Lo volevo anch’io. Però, non vorrei ti facessi illusioni, sei un caro ragazzo Rag, ma io non voglio legami, almeno per il momento.
-Non preoccuparti. – La rassicurai. – È stato l’amore di una notte. Domani lascerò Bruma.
-Va bene. – Concluse, con un certo sollievo.
Rimanemmo in silenzio per un po’, poi Jeanne prese a giocherellare con i miei capelli arricciandoseli fra le dita.
-C’è tanta magia in te, tanto potenziale. Lo si avverte al primo sguardo. Vorrei avere avuto la stessa fortuna ma, ahimè, non tutti nascono con questa attitudine naturale e alcuni non la sviluppano mai, temo che questo sia il mio caso. – La sua bocca si era incrinata in un sorriso amaro.
-Non dire così, forse hai solo bisogno di fare più pratica.
-Sei molto dolce Rag, ma credo che non sia proprio cosa per me. Il mio unico dono è persuadere le persone e ho la fortuna di avere un bel corpo, un bel visino, con queste qualità ho raggiunto la posizione che occupo. – Socchiuse gli occhi, abbassò lo sguardo. La bocca tremolava. – Sai, alle volte mi sento così in colpa, sento di non meritare ciò che ho. Credo che i miei sottoposti abbiano ragione: non sono altro che una povera incapace. – I suoi occhi si riempirono improvvisamente di lacrime.
Non avrei mai immaginato di vederla piangere, non mi sembrava il tipo, eppure eccola lì: con gli occhi umidi e le guance rigate. Raccolsi le gocce sul suo volto con il pollice, le asciuga sulla pelle, pensando a cosa dire.
-Jeanne, tu tieni alle persone. – Cominciai. - Mi hai dato tutta te stessa nel momento in cui ne avevo più bisogno, rispettando il mio silenzio quando non desideravo parlare. Forse non sei una grande maga ma sei sicuramente una bella persona ... sei umana e con quel che si vede in giro, ti assicuro, non è cosa da poco.
In ciò che dissi avevo volontariamente omesso la parte in cui aveva messo a repentaglio la mia vita, spedendomi a recuperare un oggetto magico in delle rovine infestate da non morti e trappole a ogni angolo, ma il mio obbiettivo al momento non era essere pacato e sincero, quanto consolarla dopo che lei si era presa cura di me.

La mattina seguente scesi al piano di sotto che Jeanne dormiva ancora. Mi ero svegliato di buon’ora, sperando di consumare la mia colazione e andar via senza perdermi in convenevoli vari con chicchessia. Ma quando entrai in camera da pranzo trovai un khajiit seduto al tavolo, intento a mangiare del formaggio stagionato con del pane appena sfornato. Il suo viso felino si distese in un sorriso quando mi vide arrivare, sollevò appena la punta delle orecchie, appesantite da due vistosi orecchini d’oro.
-Buongiorno, associato. Non credo di aver avuto il piacere di conoscerti, ma Volanaro mi ha parlato tanto di te.
-Immagino non abbia detto niente di lusinghiero. – Dissi, a mezzo sorriso.
-Già, ma alle volte quell’elfo è un pizzico pizzico permaloso, – replicò con una risatina – comunque piacere di conoscerti, il mio nome è J’skarr.
Avevo già sentito quel nome, girando per le strade di Bruma. Sembrava che fosse  l’unico mago di un certo talento all’interno della succursale della città, peccato perdesse il suo tempo giocando scherzi infantili ai suoi superiori, insieme a quell’idiota di Volanaro.
-Ragnar’ok Wintersworth, il piacere è tutto mio.
-Prego, Ragnar, vuoi favorire? – Mi chiese, porgendomi una fetta di pane con sopra del formaggio.
-Mi basta un po’ d’uva, grazie.
Mi guardava con occhi divertiti, come se dentro di sé stesse ridendo per qualcosa e cercasse di nasconderlo.
-Hai intenzione di partire da Bruma oggi stesso, non è vero?
“Come diavolo fa’ a saperlo?” pensai.
-Sì, sono diretto verso Cheydinhal. – Ammisi, dissimulando lo stupore.
-Uh, allora ho una buona notizia per te, associato. Proprio oggi, a mezzogiorno, una carovana di mercanti partirà verso Cheydinhal, lungo la Silver Road. Ho saputo che sono alla ricerca di una scorta e da quel che so’ non te la cavi male quando si tratta di metter mano alle armi. Ho saputo che pagano piuttosto bene e ti forniranno un cavallo, se non ne hai uno.
-Uhm, interessante, grazie della dritta, J’skarr – dissi, sospettando tuttavia che ci fosse qualcosa sotto – con chi dovrei parlare per la guardia alla carovana? – Chiesi, masticando un acino d’uva.
-Vai allo Zippo e il Chiodo di Olav, chiedi di una certa Tertia Viducia. – Sorrise. – Siamo vecchi amici, se le farai il mio nome sono sicuro che ti prenderanno con loro.
Pur non fidandomi del tutto di quel khajiit, l’offerta di cui mi parlava sembrava alquanto vantaggiosa: un paio di septim in più mi avrebbero fatto comodo.

Di tutti gli imperiali che avessi mai incontrato in vita mia, la donna che Olav mi indicò come Tertia Viducia era certamente fra le più stravaganti: in primo luogo perché non sembrava affatto una donna, difatti, non fosse stato per i seni che si delineavano sotto il grembiule da fabbro, l’avrei scambiata tranquillamente per un uomo. Aveva le braccia robuste, le mani callose, con tracce di fuliggine fra le dita; portava i capelli cortissimi e la sua fronte era cinta da una striscia di stoffa, di quelle che i soldati usavano per impedire che il sudore appannasse loro la vista, scivolando sugli occhi.
Stava bevendo un boccale di birra nell’angolo più appartato della locanda, quando mi sedetti al suo tavolo.
-Prego? – Mi chiese, stranita da quel gesto sfacciato.
-Tertia Viducia?
-In persona, tu chi saresti? – Mi domandò lei, mal celando un certo sospetto.
-Il mio nome è Ragnar’ok Wintersworth, sono un amico di J’skarr. – Anche se forse “collega” sarebbe stata la parola più adatta.
-Ah, quel gattaccio è ancora in circolazione – disse, con una luce negli occhi – io e lui ne abbiamo passate tante insieme. – Aggiunse, sbuffando. – Come se la passa quel furfante?
-Bene, almeno credo. Mi ha detto che proprio oggi una carovana sarebbe partita verso Cheydinhal.
-Esatto, è lì che intendo spostare la mia attività. Qui a Bruma gli affari vanno a rilento e io devo pur campare. Qualche amico mi aiuterà con il trasporto della merce fin laggiù. Perché ti interessa?
-So’ che sei alla ricerca di una scorta che vi accompagni lungo la strada, sono qui per questo. – Dissi, con la massima serietà.
-Tu, proprio tu – scoppiò in una risata fragorosa, schizzandosi qualche goccia di birra sulle vesti – torna a casa ragazzino! Hai deciso di farti ammazzare per caso? Ho bisogno di guerrieri validi, non di mocciosi a cui fare da balia e poi  ho già ingaggiato tre uomini della Gilda – immaginavo si riferisse alla Gilda dei Guerrieri.
Non mi ci volle molto per capire che Tertia non mi stava prendendo sul serio, tuttavia non avrei rinunciato a quel lavoro, per me era diventata una questione personale, ne andava del mio onore.
-E se ti dicessi che sono io l’uomo fatto per questa missione? – Insistetti.
-Come vorresti dimostrarmelo, scusa? Scatenando una rissa da locanda con gli ubriaconi del primo mattino? Te l’ho detto ragazzo, tornatene a casa.
Non l’avrei convinta a parole, questo l’avevo capito, dovevo fare un gesto eclatante che la convincesse delle mie abilità. Allora decisi: presi il sacco di iuta che portavo al fianco, lo aprii e lasciai cadere sul tavolo la testa del Dremora che avevo decapitato: sul volto violaceo c’era ancora quella spaventosa smorfia di rabbia e odio che aveva qualche attimo prima che Durendal mettesse fine alla sua vita.
Quando la vide, per poco Tertia non caracollò giù dalla sedia, avevo suscitato il suo interesse e non solo, nella locanda tutti avevano gli occhi puntati verso di noi, c’era un silenzio di tomba.
-Woh! Questo, questo è-
-Esatto, una creatura dell’Oblivion. – Dissi, con un ghigno dipinto in volto. - Posso assicurarti che non è stato un lavoro semplice. Penso basti come prova delle mie abilità, non credi?
-Ma come-
-Ha importanza? – Incalzai.
L’imperiale si ricompose, guardò negli occhi del Dremora, accesi come tizzoni ardenti, con un po’ di inquietudine e poi spostò lo sguardo verso di me. Si schiarì la voce, cancellando ogni traccia di derisione dal suo tono.
-Suppongo di no. E va bene ragazzo, mi hai convinta, sei assunto. Partiremo a mezzodì.



NOTE DELL'AUTORE
E così si conclude la seconda parte di Prologue, spero vi sia piaciuta. Ragnar ha ottenuto la sua raccomandazione da Bruma e ora si prepara per un nuovo viaggio, stavolta verso la città di Cheydinhal. Cosa lo aspetta? Devo ancora scriverlo *sgrunt*. Spero vi piaccia leggere la mia storia tanto quanto a me piace scriverla!

PS Dopo questi capitoli ho deciso di alzare il rating perché sono entrato nei particolari durante scene piccanti o particolarmente truculente, ho già cambiato alcune caratteristiche della storia perché la descrizione sia più fedele alla trama :)

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Capitolo 8
*** Warrior dinasty ***


Già da alcune miglia le bianche nevi di Bruma avevano ceduto il passo alle verdeggianti terre intorno al Lago Rumare, lo specchio d’acqua al cui centro, insediata su un isolotto, si ergeva magnifica la Città Imperiale: capitale di Cyrodill e dell’Impero. Avevamo seguito la Silver Road verso sud, sino alla brusca deviazione ad ovest, dove la strada si inerpicava fra le lande selvagge e i terreni impervi intorno alla Contea di Cheydinhal.
Ad ovest il sole si lasciava morire, inghiottito dalla terra, e nel cielo le prime stelle della sera facevano capolino, preannunciando l’arrivo del crepuscolo imminente. Aggirarsi di notte nelle Heartlands era pericoloso, per questo decidemmo di accamparci, con l’intenzione di riprendere il cammino il giorno seguente. Fortuna volle che una coppia di giovani contadini ci offrisse vitto e alloggio nella propria fattoria, non lontano dalla Silver Road.

La carovana era costituita da tre mercanti, due cocchieri e altrettanti calessi, e quattro uomini della scorta, con un totale di otto cavalli (poiché Tertia e i suoi colleghi viaggiavano all’interno di una carrozza, mentre l’altra era adoperata per il trasporto delle merci). L’abitazione dei Northwode, la coppia di contadini, era un modesto casolare. Da ciò ne deriva che non poteva ospitarci tutti, quindi solo i mercanti avrebbero usufruito dei letti, mentre gli altri si sarebbero accampati intorno alla tenuta, prendendosi cura dei cavalli e alternandosi nei turni di guardia.
Come preannunciato da Tertia i componenti della scorta erano membri della Gilda dei Guerrieri. Durante il cammino avevo scoperto che erano stati assegnati alla sede di Cheydinhal e che quindi, come me, avevano colto un po’ l’occasione con quell’incarico.

C’era Ohtimbar, un altmer con un passato da gladiatore nell’Arena della Città Imperiale, aveva conosciuto persino il Grande Campione in carica: un orco conosciuto da tutti  con il nome di “Principe Grigio”. Ascoltare i resoconti dei suoi combattimenti, fra la sabbia rovente e la folla festante, mi aveva emozionato moltissimo; giurai a me stesso che un giorno ci avrei provato anch’io a combattere nell’arena. Dopo tre o quattro di questi racconti, comunque, Ohtimbar mi confessò che aveva scelto di abbandonare la carriera da gladiatore, finché aveva  ancora il suo set originale di gambe, braccia e occhi. Non sapendo come campare decise di unirsi alla Gilda dei Guerrieri, dove riuscire a non farsi ammazzare era relativamente facile, mi disse, se si aveva un pizzico di prudenza.
Maestro in fatto di prudenza era Keld delle Isole, un nord borioso che per tutto il tempo non aveva smesso di menarla con il suo panegirico sull’importanza di non fare sciocchezze, di evitare i guai, di non ficcarsi in brutte situazioni e fare attenzione e tutta una sequela di direttive e insegnamenti che nella mia testa diventarono ben presto un indistinto e persistente “blablablabla”.
L’ultimo membro della scorta era un mio vecchio amico. Non saprei descrivere la felicità che provai quando rividi Vitellus. Non erano trascorse che poche settimane dall’ultima volta che l’avevo visto a Chorrol, eppure mi sembravano passati anni, le sue spalle si erano fatte più larghe e i capelli legati in un codino, dietro la schiena, erano diventati più lunghi e folti. Avevamo tanto da raccontarci: mi parlò del suo ultimo contratto ad Anvil: una tizia che allevava ratti nel suo scantinato e li considerava come dei figli, si era ritrovata dei leoni di montagna dentro casa. Dopo varie ricerche si era venuto a sapere che i felini erano stati attirati da della carne marcia, lasciata sul retro della casa da una vicina che non sopportava i roditori e che voleva cavarli fuori da lì, così che le guardie cittadine completassero il lavoro. Alla fine Vitellus si era ritrovato a sedare una rissa fra le due donne. Quando mi raccontò la storia mi piegai in due dalle risate, canzonandolo con il nomignolo di “Salvator di pantegane”.
Comunque, oltre agli uomini della scorta, c’erano Brutus e Augustus Ipponia, i due nocchieri attempati, fratelli gemelli, simili come due gocce d’acqua ma dal temperamento e dal carattere completamente antitetico. Se Augustus era calmo, imperturbabile, composto e silenzioso (al punto da far venire il dubbio che fosse muto), Brutus era invece chiassoso, logorroico e costantemente ciucco come una pera, difatti si scolava almeno una bottiglia di buon Tamika al giorno, quando non le accompagnava con idromele o qualche liquore forte.
Con questa sgangherata compagnia passavamo la serata intorno al fuoco, gustando il pasticcio di carne e verdure bollite, offerto dalla gentile signora Northwode. Io mi godevo la dolce brezza notturna e il panorama di stelle sopra la mia testa, rivangando un po’ nei vecchi ricordi. Intanto Brutus stava sproloquiando fra un bicchiere e l’altro, buttato giù tutto d’un sorso.
-Sapete ragazzi – singhiozzò, ubriaco come al solito – voi qua siete tutti avventurieri. Ma la sapete una cosa? La volete sapere, eh? – Rise da solo – anch’io un tempo ero un avventuriero, p-prima di buscarmi una freccia nel ginocchio. – sì udì un sibilo e poi qualcosa si conficcò nel terreno, a pochi centimetri da noi – Sì! Una freccia proprio come quella!
-All’arme! – Urlò Vitellus, scattando in piedi con la spada sguainata. – Keld, porta dentro i due vecchi. Ohtimbar, Rag, voi con me.
-Ma io- provò a replicare Kerl.
-Dì un’altra parola e ti faccio sbattere fuori dalla Gilda prima che tu possa dire “a”!
-Sissignore. – Disse il Nord, rassegnato.
Eravamo sotto l’attacco di predoni, a differenza dei normali banditi questi erano organizzati e ben armati. Dovevano aver puntato le merci di Tertia e non avrebbero esitato a ucciderci pur di raggiungere il loro scopo.
Per adesso l’unico di loro in vista era un arciere argoniano che continuava a bersagliarci con dei dardi. Ci eravamo riparati dietro il calesse per evitare le frecce che fendevano l’aria.
-Dobbiamo prendere i cavalli, dove li ha messi Kerl? – Chiese Vitellus.
-Sono nelle stalle, al sicuro, almeno per il momento. – Rispose Ohtimbar.
-Vi faccio notare che abbiamo problemi più urgenti a cui pensare, tipo quella lucertola bastarda. – Dissi, allarmato.
-Ragazzo, i predoni non sono degli sprovveduti. Il loro piano è farci uscire allo scoperto. Morti noi, potranno occuparsi della casa. – Disse l’altmer, con l’aria di uno che ne sapeva parecchio.
-Ohtimbar, hai ragione ma non possiamo rimanere qui dietro per tutta la notte, prendi i cavalli e fai fuggire chi è dentro casa, poi ritorna qui. Saremo sicuramente in inferiorità numerica e anche un solo uomo può fare la differenza. – Sentenziò Vitellus.
-Come desideri capo, fai attenzione.
-Dovranno essere loro a fare attenzione. – Replicò, spavaldo.
Accompagnai Vitellus nell’attacco, bloccammo i dardi levando gli scudi e quando fummo abbastanza vicini non lasciammo all’argoniano il tempo per la ritirata. Morto quello, fummo subito circondati da un folto gruppo di predoni.
Io e Vitellus ci mettemmo spalla contro spalla, avevo sentito in una storia che un guerriero e il suo scudiero, disposti così, avevano sconfitto da soli un piccolo esercito.
La prima ad attaccare fu una donna redguard, replicai al suo fendente con lo scudo ma non potei procedere in un affondo: avevo poca liberta di movimento, vista la situazione, staccarsi da Vitellus significava morte certa.
Vitellus parò l’attacco di un bosmer armato di due spade e senza esitazione gli tagliò la gola, soffocandolo nel suo stesso sangue, “meno uno” pensai. La battaglia infervorò con il passare dei minuti: resistere agli assalti non fu facile ma la lama di Durendal e la spada del mio compagno non tardarono a sfoltire il gruppo che ci circondava. Il più ostico era un imperiale, coperto dalla testa ai piedi da un armatura in duro acciaio, mulinava lo spadone con una maestria tale che più d’una volta rischiai di veder cedere la mia guardia. A sbloccare la situazione fu l’arrivo di Ohtimbar: passò in mezzo allo schieramento, spezzando il cerchio, e conficcò nella testa di un dunmer un’accetta tirata al volo. Nella confusione che si era venuta a creare io e Vitellus potemmo staccarci l’uno dall’altro e attaccare i predoni uno per uno, fino a quando non rimase che l’Imperiale con l’armatura pesante e un orco con una semplice cotta di maglia. Non esitai a utilizzare la magia sull’orsimer: le fiamme lo avvolsero, ardendolo vivo fra le urla di dolore e le imprecazioni. Posi fine alla sua sofferenza conficcandogli Durendal dritta nel petto.
Frattanto Vitellus duellava con l’ultimo predone, in un cozzare d’acciaio e librarsi di scintille, era alto almeno trenta centimetri più di lui ma Donton non ne era affatto intimorito. Resisteva ai fendenti più blandi e schivava con incredibile agilità quelli che, sapeva, avrebbero fatto a pezzi il suo scudo. Io e Ohtimbar provammo a intervenire ma Vitellus ci impose di rimanere ai nostri posti, per lui era diventata una questione personale.

-Non te la cavi male ragazzino ma non hai molto sale in zucca, ho ucciso uomini più grossi e forti di te. – Lo provocò il predone, descrivendo un fendente diretto alla testa.
-Già, eppure io non sono ancora morto. – Bloccò il colpo con la spada d’argento, si udì il cozzare del metallo, poi disimpegnò la lama e scattò in un affondo.
-Solo questione di tempo, vedrai. – Deviò di lato, lo atterrò con una spinta e calò lo spadone.
-O magari sarai tu a cadere. – Rotolò appena in tempo per evitare il colpo fatale, la sua spada passò fulminea sulla gamba del predone, colpendolo alla giuntura, fra una placca d’acciaio e l’altra.
-Razza di bastardo! – Il grosso imperiale dovette spostare il peso sull’altra gamba per non cadere a terra, adesso maneggiare la grossa spada era diventato un compito estremamente difficile.
-Arrenditi e potrei prendere in considerazione l’ipotesi di risparmiarti la vita.
-Preferirei morire! – Raccolse tutte le sue energie in un ultimo fendente.
-Come desideri.
Vitellus evitò il colpo spostandosi sulla destra, l’equilibrio del predone era precario e quando si sbilanciò il ragazzo gli prese il braccio e con un solo colpo secco lo spezzò sul proprio ginocchio, facendolo urlare di dolore. Caricò una veronica che tagliò la gola dell’imperiale, liberando una fontana di sangue scuro.
L’uomo morì in una pozza di sangue che fiottava dalla carne divelta, macchiando il lucido mithril dell’armatura di Vitellus: il rosso brillava fra le maglie color argento e i risvolti in oro.
Molte volte avevo tirato di spada con quel ragazzo, interi pomeriggi passati ad allenarci. Con me ci andava piano perché eravamo amici, e forse per questo avevo dimenticato che era pur sempre il discendente di una stirpe di guerrieri: uccidere con freddezza ed eleganza, era qualcosa che lui si portava dentro, qualcosa che gli scorreva nel sangue. Non si trattava solo di addestramento, no, anch’io ero stato addestrato ma non sapevo combattere così. Non avevo il suo stesso controllo, la stessa mente lucida, mi lasciavo travolgere dalle mie emozioni: ero impulsivo e furioso. In un eventuale duello con quel ragazzo neanche il vantaggio di avere Durendal mi avrebbe aiutato, sarei stato sicuramente sconfitto. Avevo ancora così tanto da imparare…



NOTE DELL'AUTORE
Salve, lettori. Rieccoci con un altro capitolo! Rivediamo una faccia già conosciuta, eh? Il buon Vitellus Donton è diventato un uomo degno del cognome che porta. Comunque il proseguio è già in fase di scrittura e non temete arriverà presto :) del resto i lettori che seguono questa storia sanno che aggiorno piuttosto di frequente. A tal proposito vorrei avanzare una richiesta: qualcuno sarebbe interessato a farmi da beta? Avrei bisogno di una persona che correggesse le mie sviste nei capitoli precedenti e in quelli a seguire e che mi desse una mano con la punteggiatura, perchè, lo ammetto, alle volte combino un sacco di casini perdendomi in fiumane di virgole e punti. Vi avverto però, proponetevi solo se siete davvero motivati, il sottoscritto è un gran rompiballe sotto certi aspetti.

Un abbraccio
NuandaTSP

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Capitolo 9
*** Dear brother, listen my silence. ***


Chapter nine – Dear brother, listen my silence.

Il resto del viaggio non ci riservò altre brutte sorprese. Seppelliti i corpi, e ringraziati i Northwode per la loro ospitalità, ci avviammo verso Cheydinhal.
Alle porte della città ci congedammo da Tertia, riconsegnando i cavalli e ricevendo il pagamento pattuito. Io e Vitellus ci accordammo di rivederci nella sede della Gilda dei Guerrieri, non appena avessi ottenuto la mia raccomandazione.

La città di Cheydinhal, con il rovo in campo bruno come blasone, era divisa in due parti da un piccolo lago che la attraversava nella sua interezza. In passato quel braccio d’acqua doveva essere parte del vicino fiume Niben, ma adesso ne era ormai distaccato. Il fatto che non si fosse ancora prosciugato negli anni, era forse dovuto alle acque sotterranee che innervavano tutto il bacino del Nibenay.
La due sezioni di Cheydinhal erano collegate fra loro da due ponti, costruiti con il legname delle Heartlands e solida pietra grigia.
Nella parte est, l’edificio più importante era senza dubbio la Grande Cappella di Arkay, circondata dalle case del ceto medio-basso della città.
La parte ovest era invece la più ricca e rigogliosa: qui c’erano le sedi delle due gilde e le abitazioni delle famiglie più importanti della città, oltre, ovviamente, al castello del Conte.
L’architettura delle abitazioni era insolita: mura massicce, edifici spaziosi e in stretto contatto fra loro. Ciò era dovuto, probabilmente, all’influenza della vicina Morrwind; del resto, lo stesso conte Andel Indarys e il suo unico erede, Farwil Indarys, erano dunmer originari di quella provincia.

Passando per il quartiere della Cappella, il mio sguardo fu attirato da una catapecchia ormai in completo disfacimento, con le assi inchiodate alla porta e un pozzo prosciugato nel cortile. Mentre fissavo quell’ammasso di legno marcio e vetri rotti, sentii un brivido corrermi dietro la schiena e come una voce nella testa, che sussurrava parole incomprensibili. Distolsi lo sguardo e proseguii.
Attraversando il ponte venni spintonato da un capitano della guardia: un bretone dai capelli unti. Avevo rischiato di capitombolare in acqua, ma fui costretto a mordermi la lingua: insultare una guardia non sarebbe stata una buona idea. Almeno per il momento quella città mi stava facendo una pessima impressione e me ne sarei andato di lì il prima possibile.
Dopo circa una mezz’oretta riuscii ad orientarmi nell’intrico di vicoli e viuzze di cui era composto Cheydinhal, finalmente vidi un palazzo con i famigliari stendardi blu-oro e l’occhio stilizzato: avevo finalmente trovato la sede della Gilda dei Maghi.
Entrai: l’ingresso era piuttosto spoglio. A parte una teca con dentro storte e pestelli, non c’era granché. Su ciascun lato della sala c’erano due scale: una per salire e l’altra per scendere; l’ambiente era freddo e mal illuminato e nell’aria sentivo una strana tensione, quel posto mi piaceva ancora meno del resto della città.
Fui accolto da un’argoniana di mezz’età: le sue squame presentavano le più disparate sfumature del verde e sugli zigomi risaltavano due piccole chiazze violette. Nei suoi occhi da rettile, di un intenso colore arancio-ambrato, c’era un’espressione quasi materna.
-Buongiorno, associato. Il mio nome è Deetsan, cosa ti porta qui?
-Salve, sono venuto per una raccomandazione da questa sede.
Vidi la sua bocca incrinarsi in una smorfia di preoccupazione.
-Come temevo. – Si guardò intorno, con circospezione. – Fintanto che Falcar non è qui lascia che ti dica una cosa. Seguimi, associato.
Eravamo alle solite: l’argoniana mi accompagnò per due rampe di scale, fino alla sala da pranzo. Mentre salivamo vidi di sfuggita un redguard brizzolato, infilato in delle vesti da mago che non gli calzavano per niente: quella vista suscitò la mia ilarità e lui probabilmente se ne accorse, vista l’occhiataccia risentita che mi lanciò.

-Accomodati. – Mi invitò la maga, sedendosi al tavolo.
-Grazie, di cosa voleva parlarmi?
-Bisogna che tu sappia, associato: ottenere una raccomandazione da Falcar non è solo difficile, ma anche molto pericoloso. – Deglutì. – Non esiterà a mettere in pericolo la tua vita, assegnandoti compiti assurdi. – “Come se fosse una novità”, pensai. – Sai, non ha mai avuto un bel carattere, ma da quando Hannibal Traven è salito al rango di arcimago, bandendo la negromanzia, è peggiorato parecchio.
-Come mai? – Chiesi.
-Falcar ha studiato la magia nera per anni. Vedere il lavoro di una vita mandato in fumo l’ha reso irascibile e intransigente. Come se non bastasse, ha ottenuto la direzione di questa sede da poco e credo non abbia ancora ben capito come ci si debba comportare quando si hanno certe responsabilità.
-Quindi era un negromante?
-Sì, ma dopo la riforma di Traven promise di abbandonare i suoi studi e dedicarsi ad altro, così poté mantenere il suo posto all’interno della Gilda.
In un certo qual modo potevo capire come si era sentito Falcar, anch’io mio malgrado avevo subito le ripercussioni delle riforme di Traven, qualche anno prima.
-Capisco, ti ringrazio per avermi avvisato Deetsan. Lo apprezzo molto.
-Fai attenzione, associato. Non sopporterei di perdere un altro promettente candidato per la negligenza di quell’elfo.
-Non si preoccupi, - la rassicurai – me la sono già cavata in brutte situazioni.
-Va bene. - Disse, non troppo convinta. – Falcar dovrebbe arrivare a breve. Mangia sempre qualcosa prima di rintanarsi nel suo studio. Aspettalo pure qui, io ho alcune commissioni da sbrigare. Buona fortuna, associato.
-Grazie, Deetsan. – Risposi, sorridendole.

Falcar si fece attendere per un’altra mezz’oretta prima di farsi vivo, la prima cosa che mi colpì, in quell’altmer, furono gli occhi: piccole pietre di ossidiana che guardavano al mondo colme di disprezzo.
Sul suo viso, sulla sua pelle bronzea, c’erano i segni dei lunghi anni di insoddisfazione e risentimento che dovevano aver segnato la sua vita.
I suoi abiti erano eleganti, sfarzosi, con i risvolti impellicciati. Di certo non pativa la fame, questo era evidente.
Quando mi avvicinai per parlargli, la sua voce mi fulminò con un tono freddo e velenoso, non doveva gradire particolarmente la mia presenza.
-Perché mai mi disturbi, associato? – Disse, mangiando spicchi di mela tagliati con il coltello, senza neanche degnarmi di uno sguardo.
Mi schiarii la voce, cercando di sembrare il più serio e motivato possibile.
-Signore, sono qui per la raccomandazione.
-Dovrebbe interessarmi? Sparisci dalla mia vista, adesso. – Non sembrava affatto impressionato, tutt’altro, era annoiato.
Era un osso duro, ma non lo avrei mollato fino a quando non mi avesse dato ascolto, con tutta la faccia tosta che avevo presi una sedia e mi piazzai di fronte a lui.
-Sei forse sordo o solo idiota? Ti ho detto di sparire.
-No, non lo farò, signore.
-Ma che? – Finalmente mi guardava negli occhi, avevo catturato la sua attenzione. – Oseresti disubbidire agli ordini di un tuo superiore? – Nel suo sguardo c’era un lampo d’ira.
-Solo se li ritengo ingiustificati, come in questo caso.
-Sei testardo, eh. Va bene. Ti avverto: non farmi perdere tempo se non sei pronto a fare quanto richiesto.
-Sono pronto. – Confermai, laconico.
-Molto sicuro di te a quanto vedo. Bene, bene, seguimi nelle mie stanze, associato.
Le camere private di Falcar era situate sotto il pian terreno, nessun’altro condivideva quegli alloggi con lui, doveva essere uno degli aspetti positivi del dirigere una sede della Gilda.
L’altmer si mise comodo su una poltrona, lasciandomi bellamente in piedi, mentre parlava con la sua voce gracchiante e altezzosa.
-C’è una questione alquanto complicata a cui porre rimedio, associato. A nord-est di Cheydinhal c’è un antico forte chiamato Farragut, recentemente è stato occupato da un gruppo di negromanti piuttosto bellicosi. Come intuirai, se non sei del tutto imbecille, rappresentano un pericolo per la popolazione locale e il nostro “amato” Arcimago Traven ha disposto che ci si liberi di questo problema al più presto. Inoltre questi negromanti sono in possesso di alcuni particolarissime gemme dell’anima, spero tu sappia almeno cosa siano.
-Certo che lo so, servono per catturare l’anima di creature e animali.
-Molto bene, il ragazzino ha fatto i compiti a casa. – Mi canzonò. Per Akatosh, gli avrei stampato un pugno su quel naso adunco. – Queste gemme però possono essere utilizzate per catturare l’anima di esseri umani, mer, eccetera.
“Inquietante” pensai, eppure non potevo negare che la cosa avesse un certo fascino.
-Simili artefatti sono una minaccia per la nostra “gloriosa” Gilda, – perché mi sembrava così terribilmente sarcastico? – Il tuo compito è quello di recuperarle e portarmele qui, così che io possa studiarle e smaltirle in modo sicuro.
-Capisco, allora mi metto già in cammino.
Per un momento rimase ammutolito dallo sprezzo con cui andavo di fronte al pericolo (ma del resto dopo aver affrontato un dremora … almeno i negromanti erano esseri umani), poi ritornò in sé e aggiunse.
-Un’ultima cosa, associato.
-Mi dica. – Risposi, voltandomi indietro.
-Non dovrai farne parola con nessuno, mai e poi mai. Sono stato chiaro? – Sulla faccia aveva un ghigno da brividi.
-Cristallino. – Dissi, sorridendogli a mia volta.



Le sale interne di Forte Farragut erano illuminate dal lume delle torce, il fuoco che le animava doveva essere di natura magica, visto che non accennava mai a spegnersi. Nell’aria c’era un intenso odore di umido e di muffa, mitigato appena dalla penetrante essenza dolciastra della belladonna, lasciata seccare qua e là, negli interstizi fra i muri.
Sul pavimento di pietra gli stivali di Seed-Neeus non facevano rumore, cercavo di muovermi con la massima cautela: l’ultima cosa che volevo era uno scontro diretto contro un manipolo di negromanti. Così, nascondendomi nell’ombra, aguzzando la vista e camminando in punta di piedi, arrivai al portone che precedeva la sala più interna di Farragut. Stavo per salire gli scalini sbeccati, quando un rumore di passi mi allarmò e tornai a nascondermi, origliando un’animata conversazione fra due negromanti. Uno di loro era piuttosto alto, con la voce grave, mentre l’altro aveva un marcato accento di Valenwood, la terra dei Bosmer, a sud di Cyrodill.
-E poi boom, del Maestro Eremita non è rimasto neppure un capello. – Disse, con aria eccitata. – Avessi visto che scena, chi se lo immaginava che Cardys la Grigia fosse tanto potente?
-E poi? Che è successo? – Incalzò il primo negromante, quello con la voce grave.
-Dopo, niente, abbiamo preso le gemme dell’anima e ce ne siamo tornati qui. Adesso Cardys è nelle sue stanze a studiarle, ha detto che ci vorrà un po’ ma appena capirà come funziona, lo insegnerà anche a noi.
-Ma ci pensi? – Anche il primo negromante si infervorò. – Diventeremo dei Lich! Cyrodill sarà nostra!
-Cyrodill? – Ridacchiò quello. – Tutto l’Impero! È il sogno del nostro ordine sin dalla sua fondazione. Vedrai, schiacceremo quel che rimane dei servi del Re dei Vermi e poi toccherà a quegli spocchiosi della Gilda dei Maghi.
Sentii un brivido, nei libri che avevo letto i Lich era il nome usato per indicare due tipi differenti di creature: c’erano i Lich Inferiori, ossia maghi particolarmente potenti, le cui ossa, dopo la morte, erano animate dal magicka residuo e attaccavano chiunque capitasse loro a tiro. E c’erano poi i lich superiori, anche noti come “Veri Lich”, stregoni che avevano imbrigliato la propria anima in un oggetto chiamato “filatterio”, finché il filatterio non veniva distrutto, il Vero Lich era immortale e poteva aumentare il suo potere a dismisura, nutrendosi delle anime degli esseri viventi. Se davvero quei negromanti erano a pochi passi dal divenire Veri Lich, era fondamentale che recuperassi al più presto le gemme dell’anima. Da quanto avevo capito, poi, esistevano diverse fazioni di negromanti in lotta fra loro.
-Perché, poi, avevano creato le gemme nere? – Chiese quello alto.
-Uhm, credo per conservarle in attesa del ritorno del loro messia: il Re dei Vermi.
-Il Re dei Vermi?! Ma se è morto da secoli! – Protestò.
-Lo so, lo so, quei poppanti sono convinti che prima o poi ritornerà. – Sbuffò. – Stronzate, così la penso io, ma almeno ci hanno fatto il favore di creare gemme dell’anima nere: era da parecchio che non se ne vedevano in giro.
-Già, una vera fortuna. Ci hanno risparmiato un sacco di lavoro.
I passi e le loro voci si fecero sempre più lontani, quando non li sentii più uscii allo scoperto. Era una faccenda pericolosa, di questo fantomatico “Re dei Vermi” non avevo mai sentito parlare, ma forse all’Università Arcana qualcuno poteva saperne più di me, magari ci avrei fatto una capatina più in là. Tuttavia, almeno per adesso, dovevo dare la priorità alla missione.
Salii la scalinata due gradini alla volta e aprii la porta quel tanto che bastava per passarci attraverso, prima di richiuderla dietro di me. Davanti avevo un lungo corridoio piuttosto angusto, con torce accese su entrambe le pareti.
In lontananza c’era un cancello sorvegliato da due scheletri, armati con pesanti spadoni. Nella camera a cui facevano la guardia c’era una donna di razza dunmer: sembrava assorta in una profonda meditazione. Il suo corpo levitava letteralmente ad alcuni centimetri da terra, con le gambe incrociate e i palmi sulle ginocchia. Emanava un flusso di energia violetta, convogliata in una pietra oblunga, nera come la pece, collegata dallo stesso fascio di luce a una piccola clessidra, la cui sabbia invece di scendere risaliva, granello dopo granello.
La donna era avvolta da una lunga veste nera, come gli altri negromanti, e sul petto era ricamato quello che probabilmente era il simbolo del loro ordine: due mani scheletriche che stringevano una piccola clessidra stilizzata.
Non potevo perdere tempo. Sconfiggere le due guardie d’ossa non sarebbe stato semplice, con la poca libertà di movimento data dallo spazio angusto. Se volevo fare in fretta avevo bisogno di un piccolo aiutino.
Mi concentrai, tesi un palmo e lasciai che la magia facesse il suo corso: dalle profondità dell’Oblivion invocai uno scheletro. Quando la nube di cenere e scintille che lo avvolgeva si dissipò, notai, con estrema delusione, che la creatura che avevo appena evocato era totalmente disarmata.
“Solo io potevo beccarmi l’unico scheletro tanto sfigato da non avere neanche un bastone, dannazione!”, quel mucchietto d’ossa, tralaltro, non accennava a muoversi. Se ne rimaneva lì imbambolato, mentre le guardie ci venivano addosso.
-Avanti! Attacca, razza di idiota. – Gli urlai.
L’unico aspetto positivo era che eseguiva gli ordini, non che servisse poi a molto alla fine: il suo primo e ultimo assalto finì con uno spadone d’argento che lo mandò in pezzi. Lo vidi svanire in una nebbiolina leggera, mentre faceva ritorno nell’Oblivion.
Era necessario che approfondissi la disciplina dell’evocazione, pensai, ma per adesso me la dovevo cavare da solo (come al solito).
Sguainai Durendal, assumendo la consueta posizione di guardia e indietreggiai nel corridoio. Avevo avuto un’intuizione e si rivelò corretta: quelle creature agivano meccanicamente, eseguendo gli ordini, ciò stava a significare che il loro unico obbiettivo era uccidermi, poco importava se nel mentre si colpivano fra loro.

Ridotto in un mucchietto di polvere l’ultimo scheletro, presi lo scudo e avanzai. Cardys era rimasta in trance per tutta la durata del combattimento, ma non appena varcai la soglia del cancello i suoi occhi scarlatti si spalancarono, incenerendomi con lo sguardo.
-Chi osa disturbare la mia ascensione? – Le sue iridi brillarono all’improvviso di un bagliore violetto.
Lo scudo di Vitellus esplose in una pioggia di schegge che mi lasciarono il braccio contuso. Non ebbi il tempo di levare Durendal che, con un gesto della mano e un incantesimo, Cardys mi schiacciò contro il muro, lasciandomi senza la minima possibilità di muovermi.
Si avvicinò, fluttuando, avvolta in quella luce che le scorreva fuori dal corpo.
-Strabiliante il potere di un lich, non è vero ragazzo? E pensare che il processo non è che all’inizio. Riesci a immaginare il mio potere quando la mia anima sarà tutta contenuta nel filatterio? Prova a pensarci: non essere più schiacciato dal peso della mortalità e accedere a una conoscenza che non si può apprendere neanche in secoli di studio. Questo è potere!
Proruppe in una risata demoniaca, la sua voce mi ricordava quella del dremora: sembrava provenire dal profondo di un abisso.
-Quegli sciocchi dei miei servi pensano che condividerò il mio potere con loro, stolti! Banchetterò con le loro anime, banchetterò con la tua anima e poi toccherà a Traven. Sì, quel maledetto la pagherà per ciò che mi ha fatto. Io sarò la Regina dei Vermi, “Cardys la Grigia”, colei che superò persino il grande Mannimarco.
Le sue parole rasentavano il puro delirio, forse era l’anima che le scorreva fuori dal corpo ad averle fatto perdere il senno.
-Mentre ogni traccia di ciò che c’era di mortale in me svanisce, lascia che dia un’occhiata ragazzino, sì, lascia che veda cosa si cela dietro questo bel visino.
Avvicinò un dito, lo premette contro la mia fronte. Sentii come se qualcosa stesse cercando di introdursi dentro di me, come se un’altra voce mentale volesse sovrapporsi alla mia, senza tuttavia riuscirci.
-Due anime…ci sono due anime, troppo vicine perché io possa varcare la difesa di entrambe.
“Due anime?!” ma di che diamine stava parlando?
-Non importa, quando la mia ascensione a Lich sarà conclusa, non potrai resistermi.
All’improvviso ci fu un rumore di vetro rotto, la luce che avvolgeva Cardys svanì e anche la presa del suo incantesimo su di me cominciò ad affievolirsi. Nella stanza era appena comparso un ragazzo avvolto da un’armatura dalle tinte bluastre, un cappuccio copriva il suo volto e sotto il suo piede c’erano ancora i cocci della clessidra, con la sabbia ormai sparsa sul pavimento.
La dunmer si voltò con uno sguardo di fuoco, digrignando i denti per la rabbia.
-Cardys la Grigia, – quella voce … sentii il mio respiro spezzarsi – la Madre Notte ha fatto il tuo nome e Sithis reclama la tua anima nel vuoto.
-Tu, sciocco assassino! Tu danzerai nel vuoto con il tuo dio!
Dalle sue mani si librò un intreccio di saette che avrebbe ridotto in polvere chiunque, ma con un acrobazia il ragazzo sfuggì all’incantesimo. Era composto, freddo, letale, nei suo incedere non c’era la minima traccia di paura. Cardys era una strega potente ma lui non la temeva, già, lui non aveva mai temuto niente e nessuno.
Il suo pugnale d’argento si conficcò nel cuore della donna e poi squarciò la gola; non c’era esitazione o rimorso nelle sue azioni. Sarei potuto diventare anch’io così un giorno? Uccidere mi sarebbe riuscito così semplice e naturale?
La dunmer crollò a terra, immersa nel suo stesso sangue. Negli occhi c’era ancora la tristezza di una vendetta che non era riuscita a portare a termine: quella ai danni di Hannibal Traven. Non potevo fare a meno di chiedermi cosa la avesse spinta su quella strada, cosa nutrisse quel desiderio di distruzione. L’esigenza di potere, il sogno di essere immortale e acquisire conoscenza, questo potevo capirlo ma voler annientare ciò che c’era al mondo, farne polvere, no, questo non riuscivo a comprenderlo.
L’incantesimo che mi teneva premuto al muro ormai si era dissipato, tuttavia ero ancora troppo intorpidito per sollevarmi in piedi.
L’assassino non mi degnava di uno sguardo mentre ripuliva il pugnale con la veste della negromante.
-Lu-Lucien! – Dissi, con voce rauca. Nel pronunciare il suo nome sentii un groppo alla gola, le lacrime presero a scorrere, senza che potessi fermarle.
-Oh, Ragnar, caro fratello. Ne hai fatta di strada, eppure, nonostante tutto il tempo che è passato, devo continuare a salvarti la pelle. – Disse, con una traccia impercettibile di amarezza.
-Quindi è così? È questo che sei diventato? Un assassino? Ti sei unito alla Confraternita Oscura? Perché l’hai fatto Lucien? Perché?! L’amore e il sostegno della tua famiglia non era abbastanza per te?! – Ecco, ecco che veniva fuori: l’astio e il risentimento covati per anni, dopo che lui mi aveva lasciato solo, dopo che se ne era andato, dopo che l’avevo perso.
-Non fare l’ipocrita, – rispose, visibilmente irritato: il mio sfogo era riuscito a toccarlo. – L’ho fatto per voi, per proteggervi. Dovevo ucciderli, lo sai anche tu. Per salvare voi e fare in modo che una nuova famiglia potesse accogliermi. Sai come funziona, quando si uccide qualcuno … un membro della Confraternita Oscura viene da te e ti offre una nuova vita.
-Credi davvero che fosse l’unica strada possibile?
-Oh, no, caro fratello. Ma è l’unica strada che ho scelto di seguire e questo ha la sua importanza. Infondo non facciamo una vita tanto diversa, io e te: uccidiamo persone, strappiamo anime da questo mondo consegnandole a un altro.
-Io uccido solo quando sono costretto, per difendermi.
-Eppure uccidi, proprio come me.
-Non è la stessa cosa! – Non mi avrebbe abbindolato con i suoi giri di parole.
-Stessa azione, moventi differenti. Solo che il mio richiede un maggiore sforzo di volontà, l’autoconservazione è un istinto naturale. Adesso basta con le parole, ultimamente mi sto educando al silenzio, caro fratello. È la sinfonia di Sithis. Sul soffitto c’è una botola, prendi ciò che vuoi da questa stanza e vai via, io ho un lavoro da finire.
Ecco che per la seconda volta se ne andava, lasciandomi a me stesso. Lucien era cambiato, era cambiato così tanto. Del ragazzo che mi parlava dei suoi sogni, nelle stalle con il crepuscolo che inscuriva il cielo, non era rimasto più nulla. Adesso era la lama nell’oscurità, il portatore di morte, un assassino della Confraternita Oscura.

Quando finalmente riuscii a rialzarmi Lucien se ne era ormai andato, non mi restava altro che prendere ciò per cui ero venuto e tornarmene a Cheydinhal. La camera di Cardys la controllai da cima a fondo: c’era un letto sfatto, un tavolo malconcio con sopra alambicchi e storte, una tinozza di pietra con dentro ossa umane, mele che non osai nemmeno toccare e fiori di belladonna. Di altre gemme dell’anima, a parte quella sul pavimento, non ce n’era traccia. Forse Cardys le portava con sé, mi sarebbe toccato ispezionare il suo cadavere.
Frugai nelle sue vesti con un certo imbarazzo, distogliendo lo sguardo e affidandomi al solo senso del tatto, finalmente iniziai a sentire oggetti duri e di forma oblunga. Le gemme erano in tutto cinque, ma non fu l’unica cosa che trovai: addosso la dunmer si portava anche un libricino sgualcito che baluginava di una nebbiolina violetta.
Non ci misi molto a capire che quello non era un  semplice libro, no, quello era un diario. E una parte dell’anima di Cardys vi era rimasta aggrappata nell’istante in cui Lucien le aveva tolto per sempre la vita.



Note dell’autore
Salve lettori! Perdonate il mio insolito ritardo (sebbene sia passata meno di una settimana ci ho messo comunque più del solito per aggiornare) questo capitolo era pronto già da un po’, necessitava solo di una breve revisione ma volevo concentrarmi sull’altro prima di pubblicare, insomma: mettermi un po’ avanti con il lavoro. In ogni caso mi sembra che qui ci sia un bel po’ di roba in pentola :D Lucien ha fatto una comparsata e Ragnar come al solito ha rischiato di finire ucciso. Vediamo come andranno le cose con Falcar, quando ritornerà a Cheydinhal. Inoltre vi ho piazzato due piccoli misteri che saranno disvelati più avanti: perché Cardys odiava tanto Traven e cosa intendeva la Grigia con le due anime troppo vicine? Per non parlare del suo diario.
Insomma la nostra aspirante Lich sebbene sia morta non ha ancora finito di dire la sua, la rivedremo ancora, ve lo posso assicurare. Avete qualche bella teoria in merito? Supposizioni? Curiosità? Fatemi sapere :D

Al prossimo capitolo,
un abbraccio
NuandaTSP

 

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Capitolo 10
*** Girl, Shadow and Red Soul. ***


Chapter ten – Girl, Shadow and Red Soul.

-Come sarebbe a dire “non scriverò nessuna raccomandazione”?
Gli occhi di ossidiana di Falcar non ammettevano repliche. Ero tornato da poco dal forte, recandomi immediatamente alla sede di Cheydinhal. L’altmer era nel suo studio e quando gli avevo mostrato le gemme nere dell’anima, si era infuriato, accusandomi di averle danneggiate e rese quindi inutili per i suoi studi.
Perciò non avrebbe inviato alcuna raccomandazione, venendo meno così ai nostri patti.
Dal canto mio credevo che le sue fossero solo scuse: le gemme le avevo custodite con la massima cura, premurandomi anche di avvolgerle in un panno, subito dopo essere uscito da Farragut.
-Significa esattamente ciò che ti ho detto, moccioso, puoi andartene a casa. Non c’è posto per l’incompetenza nella Gilda!
-Incompetenza?! – Ripetei, furioso. – Ho rischiato di farmi ammazzare per recuperare quelle stramaledette pietre, tutto per quella raccomandazione! E ora mi vieni a dire che non se ne fa niente?!
-Non mi interessano i pericoli che puoi aver corso, ragazzino. – Disse, con un ghigno nervoso. – Hai fallito il tuo compito, sparisci immediatamente dalla mia vista.
Gli animi si stavano scaldando. Falcar non era solo indisponente e difficile, no, lui stava nascondendo qualcosa: il sospetto mi era venuto già da prima, dopo che avevo ascoltato la conversazione fra i due negromanti a Forte Farragut: era certo una strana coincidenza che l’altmer mi avesse mandato a recuperare delle gemme sottratte ai Servitori del Re dei Vermi poco tempo prima. C’era poi Lucien: mandato nel forte per eliminare Cardys e i suoi servitori, dietro contratto.
Di solito la Confraternita Oscura non lasciava testimoni dietro di sé, anche se in quel caso le cose erano andate diversamente.
Se le mie supposizioni erano esatte, Falcar mi aveva spedito a recuperare le gemme sperando che, nel migliore dei casi, finissi ucciso o, nel peggiore, che riuscissi lì dove l’assassino avrebbe potuto fallire.
Una cosa era certa: ero diventato una persona scomoda per Falcar e le persone per cui lavorava, sapevo troppo. Forse mi stava provocando contando su un mio eccesso d’ira, in quel caso avrebbe potuto giustificare la mia uccisione come conseguenza accidentale di un’autodifesa troppo zelante.
Non dovevo stare al suo gioco, no, dovevo emularlo e rivoltarlo contro di lui: quell’altmer aveva un carattere irascibile e non sopportava l’insubordinazione, indurlo a fare la prima mossa non sarebbe stato difficile, se mi fossi giocato bene le mie carte.
Dovevo solo fare attenzione alle sue mani: non aveva la stazza del guerriero quindi, certamente, se mi avesse attaccato lo avrebbe fatto con la magia.
Nello studio c’eravamo solo io e lui. Mi avvicinai con cautela, sussurrandogli, con voce improvvisamente calma e tono mellifluo.
-Sai, Falcar, ho sentito un paio di cose interessanti laggiù, a Farragut. Quel genere di cose che al Consiglio piacerebbe sapere, chissà se troveranno curiose certe coincidenze come le ho trovate curiose io.
-Cosa vorresti insinuare, associato? – Chiese, lo sguardo incupito in un’espressione minacciosa.
-Io? Assolutamente niente. – Dissi, con non curanza. – Penso che potrebbero addirittura promuoverti e darti l’accesso ai piani alti dell’Università Arcana, viste le tue scoperte. Sempre che queste coincidenze, a cui prima accennavo, non destino sospetti sicuramente infondati sul tuo conto. – Conclusi, con aria trionfante. Le carte erano sul tavolo, avevo fatto la mia puntata: c’era solo da vedere se il mio avversario avrebbe abboccato o meno.
-Osi minacciarmi? Osi prenderti gioco di me? Pagherai cara la tua impudenza! – I miei occhi erano fissi sulle sue mani, in attesa, non potevo distrarmi neanche per un istante. – Il Re dei Vermi farà danzare il tuo cadavere!
Eccola, la luce verde: l’incantesimo della paralisi che più e più volte mi aveva lasciato inerme, mi aveva colto alla sprovvista. Lo riconoscevo al primo sguardo, come un vecchio nemico che torna a bussare alla tua porta. Stavolta non mi sarei lasciato trovare impreparato.
Le parole di Angalmo durante le lezioni di magia, a Chorrol, mi risuonarono nella testa come un memento “Troppi, fra noi maghi, allenano la mente trascurando il corpo, il suo potere. Così, anche il più grande e potente fra gli stregoni può cadere sotto il vigore di un guerriero e l’acciaio della sua lama”.
Non esitai ad afferrare il polso di Falcar, torcendolo fino a quando il bagliore verde non si estinse e lui non emise un gemito di dolore. Con l’altra la mano lo colpii con un destro, poi con un altro e un altro ancora, finché quella sua brutta faccia non divenne una maschera tumefatta di lividi e sangue, che fiottava giù dal naso adunco.
Gli piazzai una ginocchiata nello stomaco, sentii il suo respiro spezzarsi. L’altmer cadde a terra, imprecando contro di me.
Preparai un incantesimo del fuoco: le fiamme mi lambivano le dita, pronte a essere liberate, e il loro calore mi sfiorava il viso con un tocco ardente.
-Tu, maledetto bastardo! – Inveì, sputando un grumo di sangue e denti rotti. – Me la pagherai, stanne certo!
-Non aspetto altro. – Risposi, senza scompormi.
Si rialzò a fatica, fiondandosi fuori dal suo studio.
Non cercai di fermarlo, aveva lasciato dietro di sé le gemme dell’anima e tutta la sua roba, c’erano comunque abbastanza prove per farlo sbattere fuori dalla Gilda. Falcar non sarebbe più ritornato a Cheydinal, di questo potevo starne certo.

Prima di andarmene dovetti rilasciare una deposizione, Deetsan si preoccupò di trascriverla per inviarla, insieme con le gemme, al Consiglio. L’argoniana stilò anche una raccomandazione per me, rassicurandomi che sarebbe stata senz’altro accettata, viste le circostanze. Anche se lei non era la direttrice di quella sede non avrebbero fatto problemi.
La ringraziai e Deetsan mi augurò di non trovarmi mai più in situazioni simili, che ottenere le raccomandazioni dalle altre succursali sarebbe stato meno complicato e pericoloso. Su quest’ultimo punto avevo seri dubbi, ma a ben sperare non ci perdevo nulla, tanto valeva essere ottimisti.
Mi congedai dall’argoniana promettendole che non avrei fatto parola con alcuno su quanto era successo, avevo ormai capito che la Gilda dei Maghi era quel tipo di organizzazione per cui vigeva la massima “i panni sporchi si lavano in casa”.
Per un po’ avrei fatto a meno di intrighi, complotti, tradimenti e quant’altro. Al momento volevo solo bermi una birra e farmi quattro chiacchiere con un vecchio amico.

Diedi appuntamento a Vitellus alla “Locada di Terrenuove”, situata nel distretto del mercato nella parte ovest di Cheydinhal. Il posto sembrava accogliente ed era gestito da una dunmer che si ammazzava di lavoro giorno e notte.
Vitellus mi aspettava ad uno dei tavoli più riparati, sapeva che non gradivo granché stare in mezzo alla folla, dove a stento si potevano sentire i propri pensieri, figuriamoci avere una tranquilla conversazione.
Con un pollice l’imperiale stava schiacciando del tabacco, secco e sdrucciolato, in una pipa in terracotta. Quando arrivai la stava accendendo con uno stecchetto di legno, arso al fuoco di una candela.
Vitellus fumava la pipa dall’età di quindici anni, sui suoi denti erano comparse piccole macchioline brune: all’inizio la cosa mi aveva stranito, ma alla fine ci avevo fatto un po’ l’abitudine e non mi dava più fastidio.
Anch’io, da canto mio, mi portavo dietro una pipa, era di legno. L’avevo comprata in un negozietto a Bruma. Chiesi a Vitellus un po’ di tabacco e lui me loro porse. Lo accesi con un rudimentale incantesimo del fuoco.
Ordinammo una paio di birre dal sapore dolce e intenso, Vitellus intanto guardava il mio braccio fasciato e notò che non avevo più lo scudo che mi aveva regalato.
-Mi spiace, è andato distrutto in una zuffa contro alcuni banditi. – Mentii. – Era ridotto talmente male che ripararlo è stato impossibile.
-Non preoccuparti, l’importante è che abbia fatto il suo dovere finché ha potuto e che non ti sia fatto nulla. – Tirò una boccata alla pipa. – E quella roba al braccio? Perché non te la curi con la magia?
-Non mi piace fare troppo affidamento sul recupero e poi, sai, - dissi, soffiando una voluta di fumo – vorrei un bel set di cicatrici come quei soldati che vedevamo alla locanda.
-Ah, beh, io ho un bel morso di pantegana se ti interessa.
-Lode a te VItellus Donton – dissi, alzando il boccale – colui che ha resistito alle terribili fauci di un topastro.
-E piantala cretino! – Rispose, prorompendo in una risata.
Risi anch’io e bevvi un lungo sorso di birra: curioso come in poche settimane stessi sviluppando una certa resistenza all’alcol, prima per rimanere ciucco mi bastava appena mezzo boccale.
-Qual è la prossima tappa? – Chiese Vitellus, ora serio.
-Uhm, penso Bravil.
-Partirai domani?
-Sì, anche se prima devo occuparmi di una cosa.
-Beh, se ti interessa nelle prossime settimane dovrebbe partire una nave dal porto della Città Imperiale, farà scalo a Bravil. Procurarti un passaggio non dovrebbe costarti molto e poi è una buona scusa per dare un occhio alla Capitale.
-Grazie della dritta, vecchio mio.
-Figurati, che cos’è che devi fare prima di andare?
-Dovrei parlare con un certo Lord, Lord – schioccai le dita, cercando di ricordare il nome. – Ah, sì! Lord Rugdumph.
-Questo nome non mi è nuovo, sai? – Disse Vitellus, passando un dito sulla folta barba bruna. – Credo abiti in una tenuta fuori dalle mura di Cheydinhal. È un orco, giusto?
-Sì, ha anche una figlia.
-Allora ho capito chi è, per informazioni più dettagliate parlane con Burz gro-Kash, - Burz era il capo della sede della Gilda dei Guerrieri a Cheydinhal, - credo che le loro famiglia siano in qualche modo legate, ma non so come. Valle a capire le vicende famigliari degli orsimer.
-Perfetto, allora domattina ci vado a parlare.
-Non ti aspettare che sia gentile, però. Quell’orco potrebbe essere il figlio di un’orsa visto il caratteraccio che si ritrova. Io ci vado abbastanza d’accordo tutto sommato, ma oggi c’è mancato poco che malmenasse Keld.
-Non mi sorprende, quello è un idiota borioso.
-Un po’ come tutti i nord alla fine, no? – Mi punzecchiò, sorridendo.
-Già e gli imperiali sono tutti una massa di checche in gonnella, giusto.
Era bello passare un po’ di tempo così, dimenticando per un attimo le cose terribili che il mondo riservava. Alle volte mi chiedevo se mettermi in viaggio fosse stata una buona idea, se ne valeva davvero la pena. Poi però ricordavo i posti che avevo visitato, la gente che avevo incontrato, le persone che avevo conosciuto, le esperienze che avevo fatto e i pericoli che, a modo loro, mi stavano portando a crescere. Mi rendevo conto che una vita così valeva davvero la pena di viverla, pur con le sue brutture e i suoi momenti difficili.

Quella notte dormii nella locanda di Terrenuove, in cui avevo trascorso l’intera serata. Avrei potuto usufruire degli alloggi gratuiti forniti dalle due Gilde, ma il solo pensiero di rificcarmi fra l’intrico di vicoli e strade di Cheydinhal mi fece cambiare idea. Inoltre avevo voglia di starmene un po’ per i fatti miei e magari darmi una lettura al diario che avevo trovato a Forte Farragut.
Dopo essermi svestito e usando il mantello d’orso a mo’ di coperta, aprii il piccolo libricino e provai a leggere: le parole mi galleggiavano davanti agli occhi, erano incomprensibili. Magari ero troppo stanco e affaticato, le palpebre mi pesavano sugli occhi.
Decisi di rimandare la lettura al giorno dopo, quando fossi stato nel pieno delle forze e capace di concentrarmi. Riposi il diario sotto il cuscino e dopo pochi istanti precipitai in un sonno profondo.
Le immagini illuminarono il buio dietro le mie palpebre chiuse come in un sogno, ma con i colori smorti e la vividezza di un incubo.

Ero in una stanza che non avevo mai visto prima di allora: un caminetto, acceso, con il fuoco che consumava la legna e rilasciava nella stanza una luce pallida ma accogliente; sulla mensola c’erano alcuni vasi in terracotta, con sopra iscrizioni che non riuscivo a decifrare. Al centro della stanza un divanetto con due persone sedute, un uomo e una donna, intente in una conversazione: il tono era quello calmo e pacato di una lunga conoscenza, eppure nella voce della donna c’era un tremolio leggero, come se le sue parole fossero accese da un’aria sognante.
Mi avvicinai per vederli in viso, loro non sembravano fare caso a me. Era come se non fossi lì, ero un inerme spettatore di quella scena.
La donna aveva un viso che avevo già visto prima, era Cardys la Grigia, ma nel suo aspetto non c’era traccia dell’odio e dell’amarezza che le riempivano il volto a Forte Farragut. L’uomo invece non lo conoscevo: i lineamenti morbidi e la pelle chiara suggerivano che fosse di etnia bretone, i suoi capelli era schiariti dal primo biancore della vecchiaia. Era, insomma, un uomo di mezz’età. Era, apparentemente, molto più anziano della ragazza, eppure condivideva con lei una certa intimità.
-Ormai sei una maga a tutti gli effetti, sono così fiero di te. – Disse lui, sorridendole.
-Maestro, è tutto merito vostro. Se non mi aveste seguito nelle mie ricerche non sarei riuscita a buttar giù una tesi, Polus ne è sembrato così entusiasta. Mi avete seguita e sostenuta in tutti questi anni, nonostante le nostre idee sulla negromanzia siano tanto differenti.
-Piccolina, non darmi del lei, chiamami semplicemente Hannibal. Quante volte te lo devo ripetere? – La rimproverò teneramente, stropicciandole una guancia. – Ti ho accolto come mia pupilla dal primo momento in cui hai messo piede in questa Università, per me ormai sei come la figlia che non ho mai avuto.
La frase sembrò colpire la ragazza come uno schiaffo. Cardys si discostò un po’ dall’uomo e abbassò lo sguardo, cercando di nascondere gli occhi diventati lucidi.
-Come una figlia? Solo questo? – La sua voce tremava sempre di più. – È così che mi vedi?
-Cardys, bambina mia, che ti prende? – Chiese lui, a un tratto allarmato.
-Hanni, dal primo momento in cui ti ho visto ho sentito qualcosa che bruciava dentro di me, che mi scombussolava. All’inizio ti ho visto come un amico, un mentore, poi come un padre ma … ma andando avanti mi sono accorta che sentivo qualcosa di più forte nei tuoi riguardi. Credimi, ho cercato di resistere, sapevo che questa cosa avrebbe potuto mettere a rischio la tua posizione all’interno della Gilda e del Consiglio, ma non posso più tacere, non posso più far finta di nulla. Alla fine mi sono arresa a ciò che mi si muove dentro, al sentimento che a te mi lega. – Alzò lo sguardo. Le sue guance erano inondate di lacrime. – Hannibal Traven, i-io ti amo …
“Woah!” esclamai, indietreggiando di qualche passo per la sorpresa. Era una fortuna che oltre a non vedermi quei due non potessero neanche sentirmi. Il brandello di anima presente all’interno del diario di Cardys doveva avermi trascinato dentro uno dei suoi ricordi. Più in là avrei riflettuto su ciò che mi stava capitando, per il momento dovevo osservare con attenzione e ascoltare, probabilmente non avrei avuto un’altra occasione per assistere a questa scena.
Hannibal Traven era rimasto sbigottito dalla confessione della sua pupilla, dopo aver balbettato qualcosa, essersi scostato un po’, si schiarì la voce e disse:
-M-ma Cardys, bambina mia, t-tu sei così … così giovane, nel fiore degli anni mentre io-
-Non essere sciocco Hanni! – Protestò lei, risentita. – Per quanto ne sai potrei avere il doppio dei tuoi anni. Noi dunmer viviamo più a lungo del più longevo degli esseri umani, il tempo tarda a consumarci e invecchiamo lentamente. È solo apparenza, un’illusione, questo viso da ragazzina. – Gli prese una mano e la portò alla sua guancia levigata, color cenere.
-C-Cardys-
Non ebbe il tempo di finire la frase che la ragazza lo baciò.
Traven all’inizio rimase immobile di fronte a quel gesto inaspettato, poi le sue braccia cedettero, stringendosi attorno ai fianchi dell’elfa, premendo il corpo di lei contro il suo.

La scena mi si dissolse di fronte agli occhi: migliaia di frammenti, recanti brandelli di immagine, si librarono in aria, trascinati via da un vento proveniente da chissà dove. Mi ritrovai in uno spazio vuoto, senza pareti né cielo, tutto era nero, tutto era buio.
Ero come in un limbo, mi ritrovai davanti una ragazza dunmer che piangeva, con la testa fra le ginocchia, tutta rannicchiata per nascondere le belle forme del suo corpo nudo.
Era Cardys, ma sulla sua pelle c’era una nebbiolina bianca, lattiginosa. In quel limbo indossavo la mia armatura in cuoio, foderata con pelliccia; sulle spalle il mantello d’orso proveniente da Skyrim. Lo sganciai e lo posi sulle sue spalle, per coprirla.
Smise di singhiozzare, levando gli occhi verso di me: erano umidi, ancora ricolmi dell’ingenuità e gentilezza che le avevo visto in viso durante il ricordo con Traven.
-T-tu sei il ragazzo, – disse, tirando su con il naso, - come sei arrivato qui?
-Non saprei, suppongo sia per via del diario.
-Il diario? Per questo siamo ancora nel limbo. – Il suo tono si allarmò tutto ad un tratto. – Devi andare via, lei è qui! Cercherà di prendere il tuo corpo.
-Cosa? Chi è qui? Ci siamo solo io e te. – Non capivo.
-La donna vestita di nero, farebbe di tutto per vendicarsi di lui.
-Di chi? Di chi vuole vendicarsi?
-Dell’uomo che amavamo … vuole vendicarsi di Hannibal Traven.
-Ma-
-Non c’è tempo ragazzo, devi andare via adesso! Lei è qui!
Avvertii una presenza alle mie spalle, quando mi voltai notai con stupore che si trattava di Cardys: era vestita con gli abiti da negromante, nei suoi occhi c’era la stessa espressione furiosa che aveva nel forte.
Tentò di attaccarmi, ma un lampo di luce rossa la sbalzò indietro.
-Dannazione, l’altra anima! – Disse, con voce carica d’odio. – Non potrà proteggerti per sempre, sappi questo.
-Ma di che stai parlando? – Non ci stavo capendo nulla.
Gridò e tentò di attaccarmi una seconda volta, fallendo di nuovo.
-Maledizione!
-Devi andartene, ragazzo. – Disse quella che doveva essere la parte buona di Cardys.
-Taci, debole. – Le disse l’altra. – Vuoi davvero che Traven la passi liscia dopo quello che ci ha fatto?! Sei senza spina dorsale, senza di me tu non sei niente!
La ragazza si rialzò, asciugandosi gli occhi con il dorso della mano. Nel suo sguardo c’era un’espressione forte e decisa, l’altra digrignò i denti e indietreggiò di qualche passo.
-Io non sono debole. Quella debole sei tu, consumata dal tuo odio.
-Come osi… - Rispose, caricando un incantesimo del fulmine fra le dita.
-Perché non ci diamo tutti una calmata? Spiegatemi cosa è successo. – Dissi, frapponendomi fra loro.
-Vattene, ragazzo. – Disse la buona, preparando un incantesimo a sua volta, per difendersi.
-No, ragazzo, rimani e muori. – Concluse l’altra.
Prima che potessi assistere allo scontro fui avvolto da una luce scarlatta, la stessa che mi aveva protetto dalla Cardys malvagia. La luce mi coprì gli occhi e la visione svanì così come era apparsa.
Mi svegliai di soprassalto nel mio letto. Nella stanza sentivo distintamente un acuto sibilo metallico, mi guardai intorno e capii che proveniva da Durendal: la spada era avvolta da un intenso bagliore rosso che si propagava dalla sua vena centrale.

 
NOTA DELL’AUTORE
Rieccomi :) “Oblivion: the story of the Hero of Kvatch (Prologue)” compie dieci capitoli. Capitolo denso di avvenimenti questo qui: vediamo Ragnar scoprire una parte del passato di Cardys e confrontarsi con la parte buona e la parte malvagia che è dentro ognuno di noi, come si risolverà questo scontro? C’è poi “l’altra anima”, quale mistero si nasconde dietro Durendal e perché protegge il nostro Nord? Lo scoprirete solo leggendo. Spero questo capitolo vi piaccia e che non sia troppo incasinato, poi lo sapete: se avete dubbi basta chiedere :D. Comunque per il diario avrete colto la citazione Potteriana, credo che la “Camera dei segreti” sia uno degli episodi più interessanti e originali della saga.

PS Se desiderate posso aggiornarvi personalmente sullo stato della storia, fatemi sapere tramite mp o nei commenti.

Un abbraccio,
NuandaTSP

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Capitolo 11
*** Rest in peace, my friend. ***


Chapter eleven – Rest in peace, my friend.

Il sogno della notte prima mi aveva lasciato stranito: dovevo indagare più a fondo. Il diario di Cardys non era fatto per essere letto, o almeno non più, dopo che la sua anima si era legata alle pagine. Quel libricino, i ricordi che conteneva, era fatto per essere visto e vissuto in prima persona.
L’anima della dunmer, o ciò che ne era rimasto, era divisa in due: una parte buona, la Cardys del passato, ancora innocente e pura, e la parte malvagia, la negromante incontrata a Forte Farragut.
Forse sarebbe stato più saggio disfarmi di quel diario, nasconderlo in un posto dove nessuno potesse trovarlo, ma non ero mai stato saggio: sulla mia saggezza aveva sempre prevalso la mia curiosità. Dovevo risolvere il conflitto fra le due parti e scoprire le ragioni che lo avevano generato.
Comunque, per quanto questa ricerca potesse essere eccitante, avevo una promessa a cui tenere fede.

Mi svegliai di buon’ora per recarmi presso la Gilda dei Guerrieri e parlare con Burz, come Vitellus mi aveva suggerito. L’orco mi indicò una tenuta a nord-ovest di Cheydinhal, facilmente raggiungibile a piedi. Sembrò fin troppo interessato ai motivi che mi spingevano fin lì, ma non gli diedi risposte chiare, deciso a rimanere sul vago: del resto erano pur sempre fatti miei.
Ad accogliermi fu Lord Rugdumph in persona. Come avrei scoperto di lì a poco, quella casa era totalmente sprovvista di servitù, cosa curiosa per una famiglia di alto lignaggio come quella.
Il Lord era il primo orsimer che avessi mai visto arrivare alla vecchiaia: di norma gli orchi morivano in giovane età, per la loro naturale tensione alla battaglia e alla guerra. Rugdumph invece aveva i capelli bianchi, la pelle olivastra schiarita e raggrinzita dal tempo. Le sue guance cascanti mi ricordavano quelle di un mastino, complici le zanne che sporgevano dal labbro inferiore.
Vestiva un farsetto di seta turchina, con bottoni d’argento e legacci d’oro. Le sue scarpe, con la punta all’insù, erano in pelle di camoscio, finemente conciata.
Persino nei modi e nella voce palesava la sua nobiltà; era di certo l’orco più stravagante che avessi mai incontrato.
Mi fece accomodare alla sua tavola, imbandita per la prima colazione. In segno di ospitalità divise il suo pasto con me.
-Cosa ti porta fin quassù, giovane nord?
-Mio signore, perdonate l’impudenza, sono qui per parlare con vostra figlia, Lady Rogbut.
-In merito a cosa, se non sono indiscreto? – Chiese, scusandosi unicamente per cortesia.
Cavai fuori dal taschino della corazza di cuoio l’anello che Morg mi aveva affidato: sopra v’era incisa la stessa rosa presente sugli stendardi del palazzo. Glielo porsi.
-Questo anello – disse, rigirandoselo fra le dita con aria nostalgica, - lo donai alla mia amatissima Gerbuten molti anni fa. Quando ella morì – aggiunse, chiudendo la mano a pugno, - lo lasciò in dono a Rogbut, nostra figlia. Dimmi, giovane nord, sei forse un ladruncolo tornato in cerca di redenzione? – Chiese, con aria sospettosa e diffidente.
-Niente del genere, milord. Sono qui per conto di un amico, per adempiere all’ultima promessa che gli feci prima che… - lasciai che intendesse da sé il seguito.
I suoi occhi si illuminarono, il suo sguardo si fece cupo mentre posava l’anello sul tavolo.
-Oh, Malacath, si tratta forse di Morg, il figlio di nessuno?
Risposi con un cenno sommesso.
-Gli dei serbino la sua anima. La mia povera figliola si strugge da mesi in attesa del suo ritorno, se sapesse ciò che è accaduto…
-Milord, se mi è concesso, - mi schiarii la voce, - ritengo sia più giusto e doveroso che vostra figlia sappia. Il dolore le spezzerà di certo il cuore, ma perlomeno potrà mettersi l’anima in pace, non più consumata dal dubbio.
Rugdumph ci pensò su’ per un po’, poi rispose.
-Hai ragione ragazzo, per quanto mi spaventi vederla soffrire, credo non vi sia altro modo. Oggi stesso manderò degli uomini della Gilda a recuperare il corpo del povero Morg, il ragazzo merita di essere sepolto insieme con i miei avi. Vado a chiamare la mia figliola, perché tu possa darle la notizia. Ti prego solo di avere un po’ di tatto nelle parole che dirai.
-Non si preoccupi, milord. – Lo rassicurai, abbassando lo sguardo.
Cosa avrei potuto dire in una situazione simile? Quali parole avrei potuto trovare, affinché facesse meno male possibile? Risolsi che non c’era un modo giusto e indolore per dirlo, l’unica cosa da fare era dire la verità, pura e semplice.

Morg mi aveva detto che gli esseri umani non sono in grado di cogliere la bellezza di una orsimer, ciò in parte era vero: il viso di Lady Rogbut lo trovavo sgradevole quanto quello degli altri orchi, eppure il suo corpo possedeva una bellezza giunonica e un vigore così raro nelle altre donne: i seni erano pieni e sodi, la veste color borgogna aderiva ai fianchi tonici scendendo giù per il largo bacino, fino alle cosce formose. Le sue spalle erano ampie quasi quanto le mie, eppure possedevano una certa grazia ed eleganza, nel loro essere scoperte sotto le sottili spalline.
Gli occhi d’ambra erano ancora umidi per il sonno da poco interrotto e la sua voce aveva l’insofferenza di un dolore che, protratto troppo a lungo, aveva logorato il corpo e la mente.
-Milady. – Dissi, alzandomi dalla sedia e inginocchiandomi.
-Alzati, straniero. Non ho bisogno di cerimonie. Parla, dimmi semplicemente ciò per cui sei venuto.
Cosa dire? No, non avrei detto nulla. Avrei lasciato che le parole di Morg parlassero per me.
Le consegnai la lettera e posi ai suoi piedi la testa del dremora decapitato.
Gli occhi di Lady Rogbut scorrevano fra le righe, tremando un po’ di più, parola dopo parola, frase dopo frase. Il dubbio che l’aveva consumata si spezzò in certezza e lei scoppiò in lacrime, buttandosi fra le mie braccia. In un gesto istintivo la strinsi, lasciai che soffocasse i suoi singhiozzi nel vello d’orso del mio mantello.
Lord Rugdumph, da tradizionalista qual’era, disapprovava tanta confidenza nei confronti di un estraneo, ma scelse di tacere, comprendendo la situazione. Era come se, attraverso me, quella ragazza avesse un ultimo contatto con l’uomo che aveva amato, ormai perso per sempre-
-È morto con onore … lui voleva che lo sapessi. – Dissi, provando a consolarla.
-Che importa come è morto? Non è più qui, non tornerà.
-Rogbut, bambina mia. – Il Lord suo padre le posò una mano sulla spalla, ma lei si scostò in malomodo.
-Non mi toccare, bastardo! È colpa tua, è tutta colpa tua e delle tue stupide regole sull’onore. Se solo avessi lasciato che ci sposassimo, lui ora sarebbe qui, accanto a me! Mi hai portato via l’unica persona al mondo che per me contasse qualcosa. Ti odio! Ti odio! Ti odio! – Le sue urla erano assordanti, intervallate alle lacrime e ai singhiozzi.
Per quanto riguarda Lord Rugdumph, beh, avevo visto banditi soffrire meno con Durendal conficcata nelle carni.
-Milady, comprendo la vostra rabbia, il vostro dolore, ma non prendetevela con vostro padre. Lui voleva solo proteggervi. Morg non avrebbe voluto che litigaste, è inutile rivangare il passato. Sapete, mia signora, il suo ultimo pensiero è andato a voi quando … quando è arrivata la fine. Ha affrontato la morte con coraggio, senza paura, senza un singolo lamento. Egli vi amava con tutta l’anima.
-Straniero, tu hai visto morire il mio Morg? – Chiese, recuperando un po’ di contegno.
-Sì, mia signora. – Risposi, con gli occhi lucidi. – Egli  ha sacrificato la sua vita per la mia. Se io sono qui, se ho potuto avere la meglio su quella creatura, è stato esclusivamente per merito suo. Se, sapendo ciò, vorrete odiarmi, beh, io lo capirò.
Ci fu qualche istante di silenzio, poi fu lei a riprendere parola.
-Straniero, io non ti odio. Averlo perso mi spezza il cuore, provo un dolore che le parole non possono descrivere. – Fra le lacrime comparve un lievissimo sorriso. – Ma so’ com’era fatto il mio Morg: quell’idiota si sarebbe fatto ammazzare pur di proteggere le persone a cui teneva, coloro che amava e considerava amici. Per questo non riesco ad odiarti, perché Morg credeva che valesse la pena che tu vivessi e io ho sempre avuto fiducia in lui, nelle sue scelte … per quanto questo mi faccia male.
-Milady-
-Ascolta, c’è una cosa che mi devi promettere, straniero. Giurami che farai tesoro della vita che ti è stata concessa, che il sacrificio di Morg non sarò vano. Giuramelo.
-Ve lo giuro mia signora: sui nove divini e i principi daedrici, sull’Impero e il mio sangue di nord, sulla famiglia e sull’onore. – Dissi, con aria solenne.
-Da questo istante sino all’ultimo dei tuoi giorni.
-Da questo istante sino all’ultimo dei miei giorni.
-Il tuo giuramento è un vincolo, possa la tua anima essere dilaniata negli abissi dell’Oblivion, se mai lo romperai.
-Così sia, mia signora. – Conclusi, abbassando lo sguardo.
Lady Rogbut si ritirò nelle sue stanze, congedandosi con un inchino appena accennato.
Avevo tenuto fede alla mia promessa, adesso mi aspettava la Città Imperiale.
Declinai l’offerta di Lord Rugdumph di rimanere per le cerimonie funebri, non sarebbe servito che a riaprire una ferita che appena adesso cominciava a rimarginarsi. Lady Rogbut meritava di celebrare in solitudine il suo dolore, così come desiderava. Raccomandai al nobile di far coprire il corpo di Morg durante le esequie, lasciando intendere che era stato orribilmente mutilato durante lo scontro con il dremora.
Uscito dalla tenuta voltai lo sguardo verso sud-ovest, verso il Lago Rumare e la città che vi era sopra insediata: mi sembrava quasi di intravedere le due antiche torri, svettanti oltre le mura.
Così, con l’animo un po’ più leggero, mi incamminai verso una nuova avventura.


NOTE DELL’AUTORE
Così, con questo brevissimo (e spero intenso) capitolo si chiude la terza parte di  Prologue. Per me, come per Rag, questo è un andare avanti dopo un momento difficile. La morte di Morg per me è stata una delle scene più difficili da scrivere, emotivamente parlando, ma adesso che il nostro nord ha adempiuto alla propria promessa, beh, è tempo di andare!

Un abbraccio,
NuandaTSP

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Capitolo 12
*** Lower the gates! ***


Chapter twelve – Lower the gates!

Mi accingevo, preso da un’impazienza fanciullesca, ad addentrarmi nella Capitale attraverso la piccola salita che precedeva il portale nord, quando una voce mi chiamò.
-Ehi, giovane! Me la daresti una mano?
Mi guardai intorno, cercando di capire da dove provenisse. Quando mi voltai lo vidi: era un imperiale, non più nel fiore degli anni. Dai suoi vestiti e dall’odore poco gradevole capii che era un pescatore.
Avrei fatto volentieri a meno di fermarmi per starlo ad ascoltare, ma qualcosa me lo impedii: non so se fosse un mio innato senso di bontà o, piuttosto, la paura che si diffondesse la voce che avevo negato il mio aiuto a un povero vecchio.
Dunque mi fermai e andandogli incontro sorrisi, con aria disponibile.
-Certo, mi dica.
-Senti, senti – disse, biascicando le parole – volevo chiederti un favore. Io ho lavorato per tutta la vita, spaccandomi la schiena e quando qualche tempo fa mi fu offerta una grande somma di denaro per raccogliere delle scaglie di pesci assassini, beh, io accettai subito. Capisci? Era la mia occasione per andarmene in pensione!
-Capisco, ma che è successo?
-Aspetta che ci arrivo, ragazzo. In pratica i pesci assassini che andavo cercando si trovano proprio qui, nel Lago Rumare, ma sono molto più feroci e violenti che in ogni altra parte di Cyrodill. Appena provai a prenderne uno – sputò per terra un grumo di muco – quel bastardo si è portato via la mia gamba, come puoi notare.
Abbassai lo sguardo, vidi che non solo le gambe ce le aveva tutte e due, ma che erano integre, senza neanche un graffio. Quel tipo non doveva starci molto con la testa, ma feci finta di nulla e continuai ad ascoltarlo.
-Facciamo così, tu prendi quei pesciacci per me e io faccio a metà la ricompensa con te. Tanto anche se i soldi saranno un po’ meno mi basteranno comunque. Che ne dici, giovane bretone?
Mi astenni dal fargli notare che ero un nord (il che era evidente dalla mia statura e dai lineamenti) e accettai la sua offerta. Dando un ultimo sguardo malinconico al portale della città, mi diressi verso le rive del lago Rumare.
L’acqua era limpida e placida, erano passati anni dall’ultima volta che mi ero fatto una nuotata. Ricordo che da bambino, nel piccolo laghetto dove di tanto in tanto Jauffre mi portava, mi divertivo a rimanere sott’acqua il più a lungo possibile; talvolta facevo a gara con Lucien, per vedere chi resisteva di più. Questo nostro gioco preoccupava parecchio il vecchio Priore, che più d’una volta s’era tuffato per controllare che non fossimo annegati. Mi tolsi i vestiti, rimanendo con dei calzoni corti a coprire la mia nudità; per quella piccola caccia non mi sarei portato dietro Durendal, sarebbe stato un peso inutile, avrei optato per il pugnale. La mia unica paura era che qualche ladro di passaggio potesse rubare la mia roba o anche solo la spada mentre non vedevo, purtroppo era un rischio che dovevo correre. Avevo dato la mia parola a quel vecchio e non me la sarei di certo rimangiata.
Proprio mentre stavo per immergermi nell’acqua, calciai per sbaglio uno degli stivali di Seed-Neeus, gettandolo nel lago. Con mio stupore mi resi conto che la calzatura non affondava, tutt’altro, rimaneva sospesa sul pelo dell’acqua. Era questa la sorpresa a cui si riferiva l’argoniana, capii.
Spesso e volentieri i maghi incantavano gli oggetti di uso comune con simili incantesimi, era un ottimo modo per incrementarne il valore a livello economico. Camminare sull’acqua poteva essermi molto utile, magari proprio in quell’occasione, ma pensandoci meglio, ricordai che i pesci assassini si immergevano prima di attaccare. Con ai piedi gli stivali non avrei potuto seguirli e questo mi avrebbe reso una preda facile.
I pesci assassini erano creature pericolose: carnivore, simili nel corpo a serpenti ma con file di denti seghettati. Non era raro che nuotassero in piccoli branchi di due o tre elementi. Erano soliti cibarsi di granchi del fango e altri pesci, ma non disdegnavano i piccoli animali che si avvicinavano incautamente alla riva, e gli uccelli che volavano a bassa quota, catturandoli in spettacolari salti fuori dall’acqua per poi dilaniare le loro carni nel fondale.

Ne uccisi all’incirca una decina, ritenendo che fossero sufficienti. Non ebbi grossi problemi, me la cavai giusto con qualche graffio qua e là. Quando ebbi finito, trascinai i loro corpi sulla riva e iniziai a squamarli uno ad uno, gettando via le interiora e conservando sotto sale le parti commestibili. Poco dopo portai le squame al vecchio Aenlin, questo il nome del pescatore, che sembrò entusiasta del mio lavoro.
-Bel lavoro bretone! Eccoti la ricompensa, come promesso. Il cliente me l’ha data in anticipo, vedi di non spenderli tutti in una volta. – Disse, ridendo.
Contai i septim e rimasi sbigottito, evitando di darlo a vedere: erano cinquanta septim! Aenlin mi aveva parlato di una fortuna, abbastanza per smettere di lavorare. Neanche il più umile dei contadini poteva sperare di campare con cento septim per il resto della sua vecchiaia. Forse quel vecchio mi aveva ingannato, dandomi meno di quanto aveva promesso, o magari anche l’ultima delle sue rotelle era andata fuori posto. Una cosa era certa: non sarei rimasto lì a sindacare.
Ringraziai il vecchio e mi addentrai finalmente nella Capitale.

La Città Imperiale sorgeva su un isolotto al centro del Lago Rumare, insieme con altri piccoli fazzoletti di terra su cui erano insediate l’Università Arcana, il Porto e la Prigione Imperiale, collegate con la città tramite ponti di pietra. La Capitale si sviluppava secondo una pianta circolare in due anelli concentrici: il primo, il più esterno, comprendeva i quartieri residenziali e quelli destinati allo svago dei cittadini: la zona del Tempio; quella del Mercato, dove i commercianti potevano vendere le loro mercanzie; Talos Plaza, con la statua del dio-drago Akatosh; i Giardini elfici; l’Arena, dove di giorno in giorno uomini liberi combattevano all’ultimo sangue in veste di gladiatori, accompagnati dal vociare della folla festante e l’Arboretum, un parco dove grandi e piccoli potevano godersi le calde giornate d’estate, sotto gli occhi benevoli dei nove divini, scolpiti nella pietra.
Il secondo anello, quello più interno, costituiva anche il centro della capitale: qui  c’erano i mausolei delle famiglie più importanti della città, la grande strada circolare chiamata Green Emperor Way, da cui svettava la gloriosa Torre d’oro-bianco, costruita nel corso della prima era dagli Ayleid, noti anche come “Antichi Elfi”. Tale torre fungeva anche da Palazzo Imperiale, come testimoniato dai vessilli bianco-rossi, raffiguranti il dragone della casata Septim, ed era sorella della Torre dell’Arcimago, nell’Università Arcana, dove lui e i suoi più fidati consiglieri decidevano le sorti dell’intera Gilda.
Le due torri, l’occhio e il dragone, sembravano quasi vegliare sull’intera Cyrodill  e su tutto l’Impero, dai pennacchi innalzati oltre le massicce mura di cinta.

Dei tanti impegni che mi attendevano nella Città Imperiale non avrei saputo a cosa dare la priorità: c’era da chiarire chi fosse questo fantomatico Re dei Vermi, raccogliere informazioni sull’acciaio Damasco presso Rasheeda e, ancora, pagarmi un passaggio per la nave diretta a Bravil. Nel dubbio decisi di dare la priorità al piacere, prima che al dovere: mi sarei recato nell’Arena della Città Imperiale, l’unica a Cyrodill a parte quella di Kvatch, nella Colovia. Orientarmi nella Capitale sarebbe stato difficile, per questo chiesi indicazioni ad una guardia imperiale. Era un uomo sulla trentina, coperto d’una solida armatura in acciaio scuro, con l’ampio scudo della stessa fattura, un elmo cuneiforme sulla testa e un lunga spada d’argento, portata alla cintola.
Vagai per un po’, ma finalmente arrivai. L’allibratore all’ingresso mi indicò la porta sulla destra, quella che conduceva direttamente sugli spalti.

L’Arena era gremita di gente, mai avevo visto tante persone riunite in un solo luogo. L’intera popolazione di Chorrol non raggiungeva nemmeno un quarto di quella folla.
Mi affacciai dagli spalti, sotto i miei occhi la sabbia del campo di battaglia era ancora intrisa del sangue rappreso degli scontri precedenti. Una sottile nube di polvere si levava di tanto in tanto dal suolo, in piccoli ghirigori, come mossa dalle voci, sovrapposte l’una all’altra, di quell’unico brusio confuso.
Lo scontro fra i due gladiatori sarebbe iniziato a breve, nel frattempo uno stuolo di ragazzini scivolava fra gli astanti, vendendo souvenir e vivande a poco prezzo. Vidi un imperiale riempirsi il boccale di vino Tamika Surrilie e affiancarsi a me, al bordo del parapetto.
Vestiva una casacca colo crema, con sopra un gilet di cuoio grezzo; pantaloni in lino e due stivali che di passi ne avevano visti parecchi. Notai sulla sua testa una tonsura, poteva essere un prete, eppure dalla quantità di vino che tracannava e dallo fatto stesso che fosse lì, impaziente di assistere a uno spettacolo di acciaio e sangue, non l’avrei mai detto.
Forse lo fissai troppo a lungo, difatti si accorse del mio sguardo e non tardò ad attaccar bottone.
-Guardi la pelata, eh?
-Scusami… - dissi, imbarazzato dalla figuraccia che avevo appena fatto.
-Ma sta tranquillo, suvvia, non è niente. – Mi rassicurò. – Tempo fa ero un prete e i capelli non mi sono più ricresciuti dall’ultima volta che li ho tagliati.
-Eri? Non lo sei più?
-Eh, già. Sai, avevo ottime ragioni però. – Rispose, con un sorriso.
-Che è successo?
-Ho scoperto l’Arena, l’Arena e il vino! – Disse, alzando il boccale e rovesciandosi un po’ della bevanda sul petto.
Scoppiammo entrambi in una risata.
-Comunque, davvero, è uno spettacolo senza pari. Devi sapere che quando arrivai in città per la prima volta, con mia sorella, fu questo il primo posto che visitai.
-Hai ragione, non è certo una cosa che si vede tutti i giorni.
-E invece sì, ma solo qui nella Capitale: tante persone riunite in unico luogo, indescrivibile. – Rimase per un attimo in contemplazione della folla. – Tu non sei di queste parti, vero?
-No, sono qui solo di passaggio.
-E dov’è che sei diretto? – Chiese lui, incuriosito.
-A Bravil, prenderò una nave fra una settimana, circa.
-Oh, un avventuriero! Mi piace. – Esclamò, soddisfatto. – E senti, ce l’hai già un posto dove stare?
-Finito qui, vedrò di trovare una locanda a poco prezzo in città.
-Macchè! – Disse, dandomi una pacca sulla spalla. – Sarai mio ospite, a casa mia c’è sempre un posto per viaggiatori e amici. – Bevve un altro lungo sorso, stavolta alla mia salute.
-Ecco, non vorrei disturbare…
Quell’uomo lo conoscevo appena, anche per questo ero piuttosto restio ad accettare la sua offerta. Dopo l’episodio di Falcar avevo imparato che era meglio non fidarsi, eppure, nonostante la mia diffidenza, nonostante il gusto smodato per il vino di quell’imperiale…lui mi sembrava un uomo di buon cuore. Nei suoi occhi scuri c’era gentilezza, era qualcosa che sentivo a pelle. Forse nei fatti non era più un sacerdote, ma continuava a volere il bene delle persone.
-Disturbo? Ma quale disturbo! Mia sorella Sabine sarà felice di vedere una faccia diversa dalla mia dentro casa. Lei fa da badante agli anziani, una persona giovane come te sarebbe di certo una bella novità. Sai, è una ragazza così buona. – Si bloccò un attimo, come se si fosse improvvisamente ricordato di qualcosa. – Aspetta, ma non mi sono neanche presentato, vero?
Feci cenno di no.
-Le mie buone maniere si vanno a far benedire quando sono brillo, scusami.
-Non ti preoccupare. – Lo rassicurai. – Comunque il mio nome è Ragnar, Ragnar’ok Wintersworth. – Dissi, porgendogli la mano, che lui strinse all’istante.
-Claudius, Claudius Arcadia. – Mi rispose, con un sorriso a trentadue denti.

Ci fu il risuonare di un corno, seguito da un altro e un altro ancora, finché nell’Arena non vi fu il più totale silenzio. Venne il rullo dei tamburi: lento, regolare, come fosse il cuore pulsante dell’intera Capitale.
Anche questo scemò, fino a spegnersi del tutto, e una voce, amplificata forse da un incantesimo, riempì l’aria.
-Brava gente della Città Imperiale, benvenuta nell’Arena!
La folla rispose con un’ovazione tanto fragorosa da far tremare il pavimento sotto i piedi.
-Anche quest’oggi due valorosi sfidanti si affronteranno per l’onore, la gloria e, non di meno, per il vostro divertimento! Direttamente dai Giardini Elfici della Città Imperiale, con una serie schiacciante di vittorie: per la Squadra Blu, signori e signori, Shimmerstrike!
Ci fu un boato, molti si alzarono in piedi, molti ripeterono il nome del gladiatore con tono festante.
Claudius mi si avvicinò, parlandomi all’orecchio.
-Il novellino non ha speranze, i pugnali di quel bosmer sono letali.
La voce del presentatore tornò a levarsi su ogni altra.
-Carne fresca fresca di addestramento, assetato di gloria e di sangue. Quest’oggi, per la Squadra Gialla, un altmer proveniente dal distretto templare: Egida Grigia!
La folla rispose con fischi di disapprovazione, volarono anche alcuni insulti. Il bosmer di certo era il favorito del pubblico.
-Combattenti, possano i Nove serbare l’anima dello sconfitto e la gente della Città Imperiale innalzare alla gloria degli dei il vincitore. Abbia inizio la battaglia! Giù i cancelli!

Le sbarre dietro cui attendevano i due gladiatori si abbassarono con un cigolio metallico. La sabbia fu smossa dai passi celeri dei due elfi: il bosmer era di bassa statura, come caratteristico della sua razza. Era armato con due pugnali, uno dei quali baluginava di una lieve luce azzurrina. Capii immediatamente che quell’arma era incantata, ecco spiegato come quel piccoletto avesse schiacciato finora nemici più grossi e forti di lui.
L’altmer rischiava grosso: la magia di quel pugnale costituiva una minaccia per chiunque, ma gli elfi alti erano particolarmente sensibili agli incantesimi, se non avesse fatto attenzione sarebbe stato fulminato in un nonnulla.
Egida era armato con uno scudo d’acciaio, di robusta fattura, e con una pesante mazza d’argento. L’unica possibilità per l’altmer era far saltare la testa del piccoletto prima che si avvicinasse troppo.
Spesso gli scudi normali erano totalmente inutili contro le armi incantate. Lui però non sembrava affatto preoccupato, tutt’altro, guardava il bosmer con aria di sfida, attenendo la sua prima mossa.
Shimmerstrike non se lo fece ripetere due volte: attaccò prima con il pugnale normale, poi con quello incantato, in un turbinio di fendenti. Il corto raggio d’azione di quelle lame permise a Egida di schivare gli attacchi e studiare i movimenti del suo avversario.
-Combatti, maledetto spilungone! – Lo provocò il bosmer.
-Tornatene a Solstheim, rammollito! – Gridò un imperiale dal pubblico.
Egida non si scompose e quando Shimmer attaccò di nuovo, lui rimase saldo nella sua posizione. Il pugnale incantato cozzò contro lo scudo, liberando una pioggia di scintille e saette che si disperse nell’aria, sotto gli occhi increduli della folla e del bosmer. L’altmer non perse tempo: disarmò l’avversario e gli spezzò una gamba con la mazza: l’osso uscì dalla carne in un fiume di sangue che si riversò sulla sabbia dell’Arena. Qualcuno nel pubblico si voltò disgustato, qualcun altro urlò di orrore, ma la maggioranza della folla era entusiasta. Lo scudo di Egida doveva essere stato incantato con un incantesimo non molto differente da quello con cui era intriso lo scudo che Vitellus mi aveva donato, per questo era riuscito a rendere innocuo il pugnale di Shimmerstrike.
L’altmer fracassò il cranio dell’avversario e quando fu a terra, privo di sensi, continuò fino a ridurlo in una poltiglia indistinta di carne, ossa e materia cerebrale. Ad ogni colpo la folla, ormai in visibilio, lo incitava sempre più. Era questo il vero volto di Cyrodill? Dell’Impero?  Un guazzabuglio di bocce e voci assetate di sangue e di una violenza tale da rasentare l’animalesco? Il bestiale?
Distolsi lo sguardo, reprimendo un conato di vomito. Claudius mi prese per una spalla e commentò, irritato.
-Dannato Bosmer, avevo puntato cinquanta septim su di lui. – Sbuffò. – Via, andiamo, ti faccio fare un giro della città.


Note dell’autore
Così, con lo spappolamento del povero Shimmer si conclude anche questo capitolo. Ragazzi, non sapete che faticaccia. Confrontarsi con la Città Imperiale, la vastità di cose che ci sono da vedere e da raccontare. Un incubo, ve lo giuro! Sono contento di aver finalmente concluso questo capitolo, anche se non ne sono pienamente soddisfatto. Il giudizio finale però va’ a voi lettori :)

Un abbraccio,
NuandaTSP


 

 

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Capitolo 13
*** Through the glimmer of a door ***


Chapter thirteen – Through the glimmer of a door.

Durante il tour per i quartieri della Città Imperiale, chiesi a Claudius dove avrei potuto trovare un fabbro di nome Rohssan, l’imperiale mi indicò un negozio chiamato  “Un’occasione per combattere”.
Appena dentro, fui accolto da un vecchio cane che mi annusò la gamba con circospezione. Era privo di un occhio, ma sembrava un animale abbastanza tranquillo; il suo pelo era lungo e scuro, le orecchie a punta si alzavano appena. Lo lasciai fare, mentre fissavo una redguard intenta a riaffilare un paio di vecchie spade vicino alla forgia, accesa dal fuoco scarlatto.
Era una donna avanti con gli anni. Il viso scuro e avvizzito era incorniciato da lunghi capelli bianchi, tenuti legati dietro la testa in un rozzo chignon. I suoi abiti erano tutto fuorché femminili: indossava un pettorale di ferro grigio, pantaloni e stivali di cuoio, con una spada di media misura alla cintola.
Non mi dedicò attenzione, concentrata com’era sul suo lavoro, difatti dovetti aspettare un bel pezzo prima che si degnasse di rivolgermi la parola.
Mi venne incontro ripulendosi il viso e le mani dalla fuliggine, con uno straccio umido.
-Salve, sono Rohssan. Come posso esserti utile? – Mi chiese, con la voce rauca e grave di chi ha respirato troppo fumo nel corso della sua vita.
Mi presentai, stringendole la mano, per poi sfilare Durendal fuori dal fodero in legno e porgergliela con gentilezza.
-Vorrei alcune informazioni su questa spada e sull’acciaio con cui è stata forgiata.
Lei la prese e la pose sul banco. I suoi occhi grigi scorrevano per tutta la lunghezza della lama, con lo sguardo analitico e distaccato di chi conosce e fa’ il suo lavoro da molto tempo. Passò le dita sulle venature dell’acciaio, bianche-azzurine, e poi sulla frase incisa a caratteri runici “Io sono Durendal, lì dove discendo il sangue mi accoglie”.
-Damasco. – Risolse, quasi fra sé e sé. – Una spada di acciaio Damasco, la prima che vedo in tutta la mia vita. Conosci già la storia?
-Sì, me l’ha raccontata Olfand di Bruma. Mi ha raccomandato di rivolgermi a te per ottenere maggiori informazioni.
-Ah, quel nord – sbuffò la donna – mi mandasse tanti clienti quanti curiosi, sarei già più ricca dell’Imperatore. Beh, quel che posso dirti non è molto, ti va’ lo stesso di ascoltarlo?
-Certo. – Dissi, risoluto. Infondo avevo fatto tutta quella strada.
-Come vuoi, devi sapere che il mio avo, Lonvan di Yokuda, faceva parte di quell’ordine di fabbri-stregoni di cui certamente Olfand ti avrà parlato. Gran parte delle sue memorie e di quelle dei suoi compagni sono andate perdute, ma nella mia famiglia si tramanda una storia, di generazione in generazione, che riguarda proprio la forgiatura dell’acciaio Damasco.
-Sarei curioso di conoscerla.
-La storia narra che per forgiare queste armi fosse necessaria non della semplice magia, bensì di veri e propri rituali del sangue. Hai idea di cosa stia parlando?
-In realtà no. – Ammisi.
-Sacrifici umani. Per questo i fabbri-stregoni non diffusero mai i loro segreti, sarebbero stati malvisti da tutte le genti, e già la loro reputazione non era delle migliori. Comunque, da quel poco che so’, si ardeva l’acciaio fra le fiamme e lo si intingeva nel sangue del povero malcapitato: sembra fosse l’unico modo per mantenerlo malleabile, e quindi lavorarlo, per un certo periodo di tempo. Quando si era ottenuta la forma desiderata, si legava l’anima della vittima sacrificale all’arma, conficcandogliela dritta nel cuore.
Ascoltai questa storia con i brividi dietro la schiena, ma non era finita lì. Rohssan continuò.
-Saprai che oggi si legano le anime delle creature a oggetti comuni, per incantarli, ma quello che facevano i fabbri-stregoni di Yokuda era qualcosa di molto più profondo e oscuro. Lo spirito del sacrificato, la sua coscienza, la sua volontà, ogni parte della sua anima rimaneva per sempre legata all’arma in Damasco. Inoltre, non tutte le anime erano adatte al sacrificio: era necessario che il prescelto fosse puro e innocente, non ancora toccato dal male del mondo.
Sentii un brivido gelarmi il sangue nelle vene. Ecco di cosa parlava Cardys, ecco perché Durendal aveva preso a brillare dopo il sogno di quella notte. In quella spada c’era l’anima di una persona, condannata ad un’eterna prigionia. Quello che fino ad allora avevo visto come un oggetto, pur caro che mi fosse, iniziai a guardarlo con occhi diversi. Lì, in quella prigione d’acciaio, era intrappolata l’anima di un essere umano, condannata a un’eterna prigionia. Avevo creduto di esser stato solo per la maggior parte del mio viaggio, ma la verità era che qualcuno vegliava su di me sin dall’inizio, guidando la mia mano nel momento del bisogno. Volevo di più, non mi sarei accontentato di così poco, dovevo conoscere l’identità del mio protettore.
-Rohssan, esiste un modo per interagire con l’anima all’interno della spada? – Chiesi, alzando lo sguardo da Durendal ai suoi occhi grigi.
La redguard mi fissò per qualche istante, in silenzio, forse pensando a cosa dire o magari sorpresa da quella domanda così insolita. Non potevo saperlo, i suoi occhi immobili innalzavano un muro di fronte a chiunque cercasse di interpretare ciò che le si muoveva dentro.
Fu ridestata dal muso umido del suo cane, premuto contro la gamba, alla ricerca di una carezza o di un po’ di attenzione.
-Questo non so’ dirtelo, mi spiace. – Poi riprese. – Teoricamente si potrebbe fare … del resto, come ti ho già detto prima, lo spirito conserva la sua volontà e coscienza. Immagino sia come rapportarsi a una qualsiasi persona: prima che si apra con te c’è bisogno che si fidi, ma è anche vero che non so in che modo potrebbe manifestarsi tale conversazione.
-Capisco, ti ringrazio. – Conclusi, offrendole un piccolo compenso per le informazioni che mi aveva dato.
-Risparmia i tuoi septim per qualcosa che possa davvero servirti, ragazzo, non sperperarli per storie e vecchie leggende dimenticate.
-Allora questi sono per quella strana coppia di asce.
Sorrise, capendo che lo facevo soltanto per offrirle il mio compenso.
-Sono armi da lancio quelle, giovane nord, si chiamano tomahawk.
Mi mostrò come usarle, spiegandomi che in passato erano utilizzate per la caccia a grossi animali, impossibili da abbattere in uno scontro diretto. Assicurai le due asce alle cinghie che mi ero legato lungo le cosce.

Lasciai il negozio, ringraziando Rohssan e pagandole ciò che avevo comprato, con l’aggiunta di una piccola mancia. Decisi di farmi un giretto per la Città Imperiale, già che c’ero, prima di raggiungere Claudius a casa sua, nel distretto templare.
La Capitale sembrava un posto felice, dove il benessere e la civiltà regnavano sovrani: la gloriosa Torre d’Oro bianco, splendente come una gemma alla luce del tramonto; gli sfarzosi palazzi nobiliari; i vestiti raffinati delle persone che riempivano le vie principali; le armi d’argento dei capitani della guardia, impreziosite talvolta con gemme variopinte, i pettorali con bassorilievi in oro placcato e i mantelli cremisi, sventolanti alla brezza, con la fodera bianca come la neve.
Bellezza e ricchezza, questa era la prima faccia che la città mostrava a chiunque fosse di passaggio, eppure già ne intravedevo un’altra: più oscura e meschina, in piccole tracce disseminate qua e là: il massacro quotidiano dell’Arena, i mendicanti e i ladruncoli che strisciavano fra i vicoli più nascosti, gli occhi sempre guardinghi degli uomini della Legione. Soldati in attesa di un pericolo imminente e le mani guantate di acciaio scuro, sempre tese nervosamente sull’elsa, pronte a sguainare la spada e bagnarla nel sangue di qualche criminale da quattro soldi: un semplice fastidio di cui liberarsi, risparmiandosi di occupare le celle della Prigione Imperiale con un’altra bocca da sfamare. Le guardie della Capitale erano violente e intransigenti: se un criminale colto in fragrante non si arrendeva immediatamente, non esitavano a ucciderlo. Questo in teoria avrebbe dovuto rendere la città più sicura, tuttavia non erano mancati numerosi casi di corruzione anche nei piani alti della Legione. Si sussurrava che certi capitani della guardia si facessero pagare fior fior di septim per chiudere un occhio sullo spaccio di skooma e sul contrabbando di merci acquisite in modo poco chiaro. Erano voci, dicerie sparse nelle bocche della gente su cui non mi presi la briga di indagare.

Mentre mi dirigevo presso la dimora di Claudius Arcadia, un manifesto affisso sui muri attirò la mia attenzione: c’era raffigurato un uomo con una strana maschera grigia, con caratteri runici impressi sopra. Sul manifesto c’era scritto che il soggetto era ricercato per molteplici crimini e che era noto come “Volpe Grigia”: presunto capo di una fantomatica organizzazione di ladri e borseggiatori, che aveva esteso la sua influenza su tutta Cyrodill.
-Interessato alla Volpe Grigia, cittadino? – Mi chiese una voce familiare, mentre davo un’occhiata al manifesto.
Mi voltai di scatto e per poco non mi prese un colpo, quando di fronte mi ritrovai un comandante della guardia, che riconobbi come Giovanni Civello, la recluta che si era addestrata con Jauffre molti anni prima.
-Sei tu, il ragazzo nord. Il pupillo del priore. – Disse, con un sorriso stampato in volto. – Caspita se sei cresciuto.
-Si può dire lo stesso di te. – Gli risposi, con aria diffidente. Non avevo dimenticato lo sguardo che mi aveva rivolto anni prima.
-Sai, non mi sono mai scusato per come ti ho trattato quella volta, al Priorato …
Rimasi sbigottito: non sapevo come rispondere a quelle scuse tardive quanto inaspettate.
-Al tempo ero solo uno stupido ragazzino. Girando per la città, confrontandoti con tante persone, alla fine capisci che per quanto possiamo essere diversi fisicamente e caratterialmente, siamo tutti cittadini di Cyrodill e sudditi dell’Impero.
-Oh, - dissi, sorpreso – n-non preoccuparti, è passato tanto tempo.
-Le bastonate del vecchio sono servite a qualcosa come vedi. – Disse, prorompendo in una risata.
-Già, - lentamente ricominciavo a sentirmi a mio agio – posso assicurarti che ne ho ricevuta una buona dose anch’io.
-Che ci fai qui nella Capitale? – Chiese Giovanni, cambiando argomento.
-In realtà sono qui di passaggio, dovrei prendere una nave per Bravil fra una settimana.
Civello annuì, poi il suo sguardo si illuminò, come se si fosse improvvisamente ricordato di qualcosa.
-Ora ricordo! Il Galleggiante Gonfio, conosco il proprietario. Posso farti avere un posto a bordo, se ti va.
-Davvero? Sai per caso quanto costerebbe?
-Ma figurati, niente soldi. Prendilo come una richiesta di scuse. – Mi disse, dandomi una pacca sulla spalla.
Provai a insistere ma fu inutile, Giovanni mi impose di accettare e alla fine lo feci. Mi era andata bene: non mi sarei dovuto recare al Porto fino alla prossima settimana e, in più, avrei risparmiato qualche septim, il che faceva sempre comodo. Ci congedammo, ripromettendoci di farci una birra una di quelle sere, ma prima che potesse andare, lo fermai, chiedendogli:
-Ehm, scusa, sapresti indicarmi la strada per il Tempio? Non so ancora orientarmi bene in questa città.
-Vai tranquillo, all’inizio è così per tutti. Vai di là, oltre quel portone.
-Grazie Giovanni, ci si vede.

Era strano vedere quanto potessero cambiare le persone nel corso del tempo, ma alla fine: io ero molto diverso dal ragazzino che aveva lasciato Chorrol qualche mese prima; Lucien era diventato un assassino al soldo della Madre Notte e Civello, beh, lui era diventato un ufficiale nei ranghi della Legione. Eravamo tutti cambiati, era una cosa che avevo sotto gli occhi ogni giorno. Non c’era niente di cui stupirsi.
Mi recai a casa di Claudius, nella periferia del quartiere templare: come avevo immaginato la sua abitazione era alquanto modesta, ma perlomeno sembrava un posto accogliente. L’imperiale aveva già apparecchiato la tavola con della frutta fresca, pane schiacciato, qualche bottiglia di vino e un po’ di carne stufata. L’odore speziato riempiva l’intera sala da pranzo e sembrava parecchio invitante. Mi accomodai alla tavola con lui, lasciando le armi in un angolo della stanza: non era cortese né comodo cenare con una spada dietro la schiena.
-Eccoti, finalmente. Ho appena finito di preparare, Sabine dovrebbe arrivare a momenti.
-Sembra tutto buonissimo. – Mi complimentai, con l’acquolina in bocca.
-Non avendo più un gregge da condurre, mi sono dedicato alla cucina. Un po’ di vino? – Mi chiese, con un sorriso stampato in volto.
-Certo. – Risposi, porgendo il bicchiere.
-Come è andato il primo giorno nella Capitale?
-Bene, mi sono fatto un giretto e ho sbrigato un paio di commissioni. – Non scesi nei dettagli, non volevo certo che si sapesse in giro che mi portavo appresso una spada che valeva migliaia di septim, anche se di Claudius potevo fidarmi. – È davvero una bella città.
-Già, più da visitare che da vivere però. – Sulla sua faccia c’era ora una smorfia di amarezza.
-Perché dici così? – Chiesi, anche se immaginavo la risposta.
-Beh, all’apparenza qui tutto sembra perfetto, ma se provi a scavare più a fondo ti accorgi di un sacco di cose che non vanno. La zona del porto è una discarica a cielo aperto, in pratica un covo di pirati e tagliagole. Ci sono un mucchio di guardie corrotte, gente che non ha un septim manco a rivoltarle dalla testa ai piedi e tante, tante, tante persone che muoiono di fame. I mendicanti sono talmente odiati che li vedi più spesso nascondersi che venirti incontro a chiedere elemosina, a rischio di essere sbattuti in gattabuia perché “rovinano l’immagine della città”. Al Tempio poi – sbuffò, stizzito – nessuno muove un dito, paradossalmente l’unico a cui importa della povera gente, qui in città, è un criminale.
-Chi sarebbe? – Chiesi, incuriosito.
-Avrai sicuramente visto i manifesti appesi in pratica ovunque: è la Volpe Grigia.
-Uhm, sì, credo di averne visti un paio. – Ammisi.
-Viene considerato una sorta di re dei ladri, sembra che ogni povero e nullatenente di Cyrodill sia sotto la sua protezione, ma non lo si è mai visto in giro, alcuni credono che si tratti solo di una leggenda. Il capitano Lex si dedica alla sua cattura da anni.
-Seriamente?
-Vedessi quanti soldi sperpera in quella che alla fine è diventata una questione personale. Non scherzo, questa città peggiora di giorno in gior-
-Quanto la menerai ancora con questo pessimismo? Eh, fratellone? – Disse una voce alle mie spalle.
Mi voltai di scatto: a parlare era stata una ragazza minuta, forse un po’ più giovane di me. Aveva i capelli corvini e gli stessi occhi scuri di Claudius. Era davvero graziosa: la sua pelle mi ricordò quella di Jeanne, simile all’alabastro, ma tutto in lei richiamava purezza e innocenza.
Quando mi rivolse lo sguardo, mi sentii avvampare e abbassai gli occhi. Alla compagnia femminile dovevo farci ancora l’abitudine, nonostante tutto.
-S-salve. – Dissi, trovando il coraggio di rialzare lo sguardo.
-Ciao, tu devi essere l’amico di cui Claudius mi ha parlato. – Aveva un sorriso stupendo. – Piacere di conoscerti, il mio nome è Sabine, Sabine Arcadia.
-Ragnar’ok Wintersworth. – Dissi, alzandomi di scatto e baciandole la mano.
Le scappò un risolino: quel gesto di galanteria, fatto di getto, all’improvviso mi apparve come una dimostrazione di estrema idiozia.
-Non c’è bisogno, non sono una lady, signor Ragnar. – Poi accennò un gesto, col capo. – Ma la ringrazio, lei è molto gentile.
-Dai, sediamoci, che si fredda la cena! – Disse Claudius, impaziente.
Ci accomodammo e mangiammo lo stufato di carne, accompagnandolo col pane e qualche sorso di vino. Amavo quei momenti di pausa, in cui potevo starmene sereno e senza pensieri, a godermi un po’ di buon cibo e la compagnia di nuovi amici. Sabine, come preannunciatomi dal fratello, si occupava di quelle persone anziane che erano rimaste sole, senza nessuno che se ne occupasse. In quest’ultimo periodo badava a un vecchietto in particolare, che Claudius non sembrava gradire granché.
-Perdonatemi l’espressione, ma è davvero un vecchio porco quello lì! – Disse l’ex sacerdote, non riuscendo a nascondere una certa irritazione.
-Andiamo, non dire così, che sai che non è vero. – Protestò la sorella.
-Un uomo di quell’età non dovrebbe guardare in quel modo una ragazza così giovane, sbaglio Rag?
Odiavo essere ficcato in mezzo a discussioni in cui non c’entravo assolutamente nulla ma, non sapendo che dire, accennai un sì.
-Fratellone, tu ti preoccupi troppo ed è per questo che ti voglio bene! – Lo stuzzicò la sorella, mandandogli un bacio volante.
-Sfotti, sfotti pure. Non voglio ammorbare oltre il nostro ospite con simili questioni. Vuoi un altro pezzo di pasticcio, Ragnar? – Mi disse, pronto a tagliare un’altra fetta.
-No, no, grazie sono a posto così.
-Io lo voglio, grazie!
-Ti sei abbuffata fin troppo tu. Rag, - disse, mentre Sabine si fiondava sul pasticcio servendosi una bella fetta, - tu puoi dormire nella mia stanza, io starò nel letto nello scantinato, mi ricorderà i vecchi tempi al monastero.
-No, assolutamente. Non voglio dare disturbo, dormo io di sotto.
-Ma cosa? Sei mio ospite- provò a protestare.
Quella notte avrei provato a entrare di nuovo in contatto con l’anima di Cardys, avrei preferito farlo in un posto che fosse isolato. Mi inventai una scusa, perché l’imperiale si decidesse a desistere.
-Sai, è che preferisco la solitudine. Ormai ci ho fatto l’abitudine e poi mi piace leggere prima di coricarmi, quindi davvero, insisto.
-Ah, i ritmi del viaggiatore. – Si rassegnò. – Va bene, se è questo che desideri.
-Domani cosa fai? – Mi chiese la ragazza, dopo aver trangugiato l’ultimo pezzo di pasticcio.
-Sabine! – La rimproverò il fratello.
-No, non fa niente. – Lo rassicurai. – Dovrei recarmi all’Università Arcana per risolvere una questione.
-Bello! Domani ho la giornata libera, posso venire? Eh? Eh? Ho sempre sognato di vederla! – Mi pregò, tutta eccitata.
-Non dare disturbo al nostro ospite!
-Claudius, tranquillo, non c’è problema. – Poi, rivolto a Sabine. – Certo che puoi venire, mi farebbe piacere.
Sabine ne fu entusiasta. Rimanemmo d’accordo che ci saremmo incamminati per l’Università Arcana il giorno dopo, per le nove e mezza del mattino.
Data la buonanotte agli Arcadia, raccolsi le mie cose e scesi nello scantinato.
Fra i cassoni, i bauli e le vecchie bottiglie impolverate, c’era un letto a una sola piazza: le lenzuola erano state cambiate di recente, il cuscino era fresco e morbido sotto la testa.
Presi il diario di Cardys e Durendal, lasciando il resto della mia roba su un comodino accanto al letto. Osservai la spada, sfilandola appena dal suo fodero, per ammirare le venature acquose lungo tutta la lama. Le parole di Rohssan mi riecheggiarono nella testa come un monito: “c’è bisogno che si fidi di te”. Fu allora che ebbi l’impulso irrefrenabile di parlarle sottovoce, come ad un’amante che si incontra ogni notte di nascosto.
-Mi hai protetto per tutto questo tempo, dolce anima, e io non ti ho mai ringraziata per questo … beh, voglio farlo adesso: grazie, Durendal, grazie di cuore. Posso solo immaginare cosa tu abbia dovuto patire, dolce anima, non lo meritavi, ma sappi che in me troverai un compagno, un amico che attenui un po’ l’amara pena della tua prigionia. Voglio che tu lo sappia.
Sentii la spada sibilare, sorrisi e continuai a parlarle, finché, ormai sconfitto dal sonno, non precipitai nei miei sogni.

Davanti a me si materializzarono di nuovo le immagini e i colori smorti dei ricordi di Cardys. Ero in una stanza buia, lei era accanto a me, intenta a guardare qualcosa attraverso lo spiraglio della porta socchiusa.
Vestiva un abito elegante, bianco, con le spalline in pizzo e  con balze e merletti lungo la gonna. Fra le mani stringeva una piccola scatolina, probabilmente un regalo per qualcuno.
La sua espressione era inquieta: forse stava assistendo a qualcosa che non avrebbe voluto vedere. Oltre la porta sentivo delle voci, intente in una conversazione. Quando mi sporsi, spinto dalla curiosità, vidi due persone intente in una conversazione, sullo stesso divano dell’altra volta.
Erano un uomo e una donna: il primo lo riconobbi immediatamente come Hannibal Traven, mentre l’altra era un’altmer che non conoscevo, indossava la tunica riservata ai maghi della Gilda.
-Vedo che ti sei affezionato parecchio alla nostra piccola dunmer, Hannibal, non me lo sarei mai aspettato da te. – Disse l’elfa, in tono canzonatorio.
-Non essere sciocca Caranya, la sto semplicemente seguendo nei suoi studi. – Rimbeccò il bretone, abbassando tuttavia lo sguardo.
-Figurati, sei libero di fare ciò che vuoi, non mi interessano le tue storielle da quattro soldi con gli studenti. Mi interessa solo sapere che tieni a mente l’obbiettivo che ci siamo prefissati.
-Non lo dimentico, tranquilla.
-E spero che quando verrà il momento, non avrai remore o tentennamenti. – Disse, passandogli un dito sotto il mento. – Ho lavorato a lungo per renderti gradito agli occhi del Consiglio e spero farai la tua parte.
-Sono deciso quanto te, Caranya. – Disse Traven, risoluto.
-Ti eleggeranno Arcimago e tu bandirai la negromanzia dalla nostra gloriosa Gilda, sbattendo fuori dai ranghi quei folli che ancora la praticano.
-Lo farò. – Promise, con voce sicura. Eppure nel suo volto non riusciva a nascondere una stilla di dolore.
-Compresa lei? – Chiese l’altmer, come per metterlo alla prova.
-Compresa lei.
Gli occhi di Cardys si sgranarono e si fecero umidi, “povera ragazza”, pensai.
-Così mi piaci, tesoro mio. – Disse Caranya, baciandolo sulla bocca.
Cardys corse via, lanciando all’aria il dono che aveva portato forse per Traven, lasciandolo lì, di fronte alla porta.

La visione svanì e le voci si dissolsero, lasciandomi solo di fronte alla parte ancora buona di Cardys. I suoi occhi erano umidi e tristi, come se la scena che avevo appena visto risalisse a non più di qualche minuto prima.
-Sei tornato, ragazzo. Così hai visto ciò che l’uomo che amavamo ci ha fatto. – Abbassò lo sguardo. – Sai, in me, come in ognuno di noi, c’è sempre stata una parte che si nutriva dell’odio e del rancore nei confronti di chi ci feriva, ci derideva, ci ingannava. Fino ad allora ero riuscita a tenerla sotto controllo, ma vedere ciò che Hannibal ci aveva fatto le diede potere su di me. Lentamente fui reclusa in un angolo della mia mente e lei prese il controllo assoluto sul mio corpo e sulle mie azioni. Ammetto che in un certo senso l’ho lasciata fare: lei era quella forte, lei era quella che poteva reagire a un simile dolore … mi sono resa conto del mio errore quando ormai era troppo tardi.
-Ci dev’essere un modo per placarla, qualcosa che le ridia pace, che ristabilisca l’equilibrio.
-Temo che se non potrà uccidere Traven il suo odio non farà altro che crescere, l’unica possibilità che rimane è distruggere il diario… - Rispose, con rassegnazione.
-Questo significherebbe uccidere anche te. – Dissi, dopo un’iniziale esitazione. – Mi rifiuto, ci dev’essere un’altra via.
-Il male è troppo ben radicato, giovane nord, non c’è altro modo per estirparlo. – Strabuzzò gli occhi. – Sta arrivando, faresti meglio ad andare.
-Non può farmi del male, lasciami parlare con lei. – Le proposi.
-È tutto inutile, cercherà di ucciderti e impossessarsi del tuo corpo, come l’ultima volta.
-Lasciami provare, abbi fiducia. – Insistetti.
Appariva scettica ma alla fine cedé, discostandosi un poco e rimanendo in attesa, lì con me.
La Cardys malvagia non tardò a manifestarsi, avvolta come sempre dai suoi abiti da negromante. Come preannunciato da quella buona, era pronta ad attaccarmi. Misi le mani avanti, lasciando intendere che volevo solo parlare.
-Ancora tu, ragazzo, e il tuo guardiano. Perché sei tornato?
-Vorrei tu ascoltassi ciò che ho da dirti.
-Perché mai dovrei farlo? Nulla di ciò che mi dirai può interessarmi.
-Ascoltalo, provaci almeno. – Le disse la parte buona.
-Senti, capisco il tuo odio. Anch’io sono stato tradito e abbandonato da chi amavo. Fa male, ti spezza qualcosa dentro, qualcosa che non tornerà mai più come prima. Ma la verità è che ormai è finita: sei morta e la tua anima è confinata fra le pagine di questo diario. Ti prometto che Traven pagherà per ciò che ha fatto. Non costringermi a distruggere il diario.
-Oseresti farlo?! Non mi negherai la mia vendetta, ragazzino! – Avevo sbagliato a citare il diario, pessima mossa, pensai. – Non andrò nel vuoto con Sithis! Sarò io a uccidere Traven! – Urlò.
Si scagliò contro di me, ma prima che potesse anche solo toccarmi una luce rossa mi avvolse, strappandomi alle grinfie di Cardys la Grigia, trascinandomi verso un altro luogo, lontano da lì.


Note dell’autore

E così finisce il tredicesimo capitolo di Oblivion: the story of the Hero of Kvatch (Prologue), qui abbiamo risposto a un paio di domande che ci facevamo da un po’, eh? Spero la storia vi stia piacendo :3 io l’entusiasmo non lo perdo mai.
Comunque, signori e signori, salutate con la manina la mia BetaReader: Arwyn Shone :D datele un caloroso bevenuto! *90 minuti di applausi* Dopo aver seguito con passione la storia ha deciso di darmi una mano, ripulendo le bozze dai piccoli errori di distrazione che facciamo un po’ tutti ^^

Grazie, Arwyn!

Alla prossima,
NuandaTSP
 

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Capitolo 14
*** A tale from the ancestors ***


Chapter fourteen – A tale from ancestors.

Il tamburo batteva a un ritmo regolare, seguito dallo scrosciare di sessanta remi che andavano ad immergersi nelle acque del mare. Dovunque guardassi vedevo l’azzurro del cielo fondersi a quello dell’oceano, lungo la linea dell’orizzonte.
Dov’ero finito? Questo non sembrava un ricordo di Cardys: i colori erano vivi e brillanti, come se li stessi guardando in prima persona, era tutto così reale. Ben presto constatai che, come nelle scene in cui ero trascinato dal diario, nessuno sembrava notare la mia presenza.
La nave su cui mi ero ritrovato era molto diversa da qualunque altra imbarcazione avessi mai visto in precedenza: il ponte era più stretto e lungo; c’era un unico albero con una sola vela, tra l’altro ammainata. La prua in legno era stata intagliata in guisa di un’enorme testa di lupo, ritratta in un’espressione feroce.
All’albero maestro era stato legato un ragazzino di etnia nord, come tutti quelli presenti sulla nave. Aveva gli occhi chiari e gentili, con una stoppa di capelli biondicci, le sue vesti erano logore e maleodoranti. Non si esprimeva tramite parole, ma con versi acuti: il fatto di essere legato non sembrava impensierirlo granché, i suoni che emetteva erano docili ed entusiasti. Le sgraziate fattezze del suo volto, privo di armonia, mi suggerirono che quel bambino doveva soffrire di un qualche male che intaccava il funzionamento della sua mente. Jauffre chiamava le persone come lui “agnelli dei Nove” forse per via della loro ingenuità e il fatto che, per forza di cose, fossero impossibilitati a compiere il male.
Ignoravo le ragioni per cui era stato legato in quel modo, non vedevo quale pericolo potesse costituire una creaturina tanto piccola e indifesa. L’unica persona a cui sembrava importare qualcosa di lui era una ragazza da lineamenti gentili, le labbra piene e gli occhi bruni. Lo imboccava con tozzi di pane secco, bagnati in una zuppa di verdure, pulendolo ad ogni boccone, ricevendone in cambio un sorriso di gratitudine. La donna aveva lunghi capelli corvinitenuti fermi da un diadema in argento: forse era una principessa o qualcosa di simile.
Sul ponte di prua due uomini erano intenti a discutere, sottovoce, per non farsi sentire da altri se non loro stessi. Mi avvicinai, sperando di riuscire ad ascoltare quel che si dicevano.
Per la differenza d’età e le somiglianze nella corporatura supponevo che fossero padre e figlio. Il padre aveva un viso dai contorni squadrati, colmo di cicatrici risalenti a vecchie battaglie, e due occhi gelidi come la neve che copriva i Monti Jerall. Vestiva una corazza di cuoio foderata in pelliccia, dal fianco gli pendeva un’imponente spada con una runa incisa sul pomo. Le sue larghe spalle erano cinte da un manto d’orso bruno.
L’altro indossava un’armatura fatta d’ebano, con i segni e le ammaccature del lungo uso. Era armato con una spada simile a quella del padre, ma più minuta, e senza il carattere runico inciso sul pomo. Il suo mantello era quello di un lupo, con la pelliccia dello stesso colore della notte.
I capelli e la barba corvini, portati entrambi lunghi, erano percorsi da piccole treccine. Il suo volto, sebbene più magro e adulto, era sorprendentemente simile al mio, così come gli occhi, nel taglio e nel colore.
-A breve usciremo dalla zona di bonaccia. – Osservò il padre. – Spiega le vele, quando ti do il segnale.
-Padre, - chiese l’altro con voce grave, - siete proprio sicuro di volerlo fare?
-Ne abbiamo già discusso Lothbrok, - gli rispose, fulminandolo con i suoi occhi di ghiaccio – non cambierò la mia decisione.
Il figlio non sembrava tuttavia intenzionato a desistere, forse mi assomigliava anche nel carattere oltre che nell’aspetto.
-Padre, ascoltami, ho affrontato le prove di Peryite. Il Daedra mi ha donato Spezza-Incantesimo. Potremmo usarlo per-
-Ti aspetti che uno scudo incantato, donatoti dal più debole fra i signori Daedrici, possa anche solo sperare di competere con il fuoco e la furia di Fafnir? Sei molto più sciocco di quanto pensassi. – Lo rimproverò.
-Allora stringi alleanze con gli altri Jarl! La forza congiunta dei nostri villaggi potrebbe liberare le nostre terre dalla creatura che le infesta. Insieme saremmo più forti, perché ti ost-
Un manrovescio del vecchio lo zittì prima che potesse concludere la frase.
-Osi dare ordini a me?! Io sono Sigfrid, Jarl di Wintersworth, portami rispetto ragazzino. Le alleanze con gli altri Jarl si stringono con la forza e la paura, non con la diplomazia. Nessuno porta rispetto ad un uomo che da’ più importanza alle parole, che al suo braccio. Sei sempre stato un debole Lothbrok, ma speravo che gli anni passati a combattere gli elfi ti avessero irrobustito la spina dorsale, o meglio, te l’avessero fatta crescere. – Sputò sul legno del ponte. – Ma vedo che così non è. Ora sparisci dalla mia vista finché non saremo giunti a Yokuda.
“Yokuda?” ripetei, incredulo. Questo ricordo non poteva appartenere ad altri che all’anima contenuta all’interno di Durendal e gli uomini che avevo visto discutere dovevano essere i miei antenati, supponendo che la spada fosse sempre appartenuta alla mia famiglia: ma l’estrema somiglianza con Lothbrok e il fatto che dal sangue dello Jarl fosse plausibile uscisse un uomo come mio padre, beh, non mi lasciavano molti dubbi in merito. L’anima all’interno della spada mi stava mostrando le sue ultime ore di vita.
Mi avvicinai al ragazzino legato all’albero maestro, fissando i suoi occhi chiari: non c’era creatura più dolce e più pura di quella al mondo. Ero quasi spinto dal desiderio di carezzare quel viso, ignaro di ciò che lo aspettava, cosciente che non avrebbe avvertito il mio tocco. “E’ così sei tu colui che mi ha protetto per tutto questo tempo? Sono così felice di poter finalmente vedere il tuo volto, anche se in così tristi circostanze” gli dissi, non ricevendo ovviamente risposta.
Accanto a me, vidi Lothbrok avvicinarsi alla ragazza e parlarle, posando una mano sulla sua spalla.
-Mi spiace, dolce sorella, nostro padre non sente ragioni. – Disse, con tono sinceramente dispiaciuto.
Lei abbassò lo sguardo, delusa e improvvisamente intristita.
-Povero bambino, la sua unica fortuna è non sapere ciò a cui sta andando incontro. – Si chinò per baciarlo sulla fronte. – Gli Otto sono stati caritatevoli con lui in questo senso, spero soltanto che non soffra …
-Lo spero anch’io. – Rispose Lothbrok, rivolgendo un’occhiata rammaricata al piccolo, per poi farsi prendere dalla rabbia e imprecare fra sé e sé. – Idiota! Se solo nostro padre non fosse ossessionato dall’idea di far guerra contro tutto e tutti.
-Dolce fratello, un giorno tu guiderai il nostro villaggio. – Disse la ragazza, rialzandosi e posandogli una mano sotto il mento, perché la guardasse negli occhi. – Sarai il più grande di tutti gli Jarl che Wintersworth abbia mai avuto! – Lo rincuorò lei.
Nell’aria si propagò un filo di vento, proveniente da est: all’inizio era poco più di una brezza leggera, ma ben presto si trasformò in un soffio impetuoso e feroce che smuoveva le onde in furenti cavalloni.
-Spiegate le vele! Tirate via i remi! Presto, presto! – Urlò lo Jarl, gridando ordini a destra e a manca.
La nave sembrò volare sopra il pelo dell’acqua tanto andava veloce, solcando i venti dell’oriente: il tessuto bianco della vela si gonfiava con un rumore secco con le corde che la assicuravano all’albero maestro in un’agonia di lamenti.

Yokuda ci accolse con le sue spiagge dorate. Il clima sarebbe stato piacevole, non fosse stato per i ventacci che tiravano da quelle parti: le acque si erano agitate non appena eravamo giunti in prossimità dell’isola.
Procedendo oltre la riva, Yokuda si estendeva per miglia e miglia in una distesa sconfinata di ruvide steppe.
Gran parte dell’equipaggio era rimasto sulla nave, gli unici ad essere scesi eravamo io, il bambino, lo Jarl e i suoi due figli, insieme a due soldati che trasportavano il ragazzino, prendendolo per le braccia con la gentilezza che si riserva ad un animale da soma. Rimanemmo in attesa per alcuni minuti, finché un uomo non ci venne incontro: aveva la pelle bruciata dal sole d’estate, il volto coperto da un cappuccio grigio e logoro come la sua veste, le mani nascoste in larghe maniche; al suo seguito due guardie armate dalla testa ai piedi: erano di etnia redguard. Indossavano una corazza a piastre, decorata con tessuti di seta variopinta, ricca di ricami e intricati ghirigori. Le loro spade avevano una curiosa forma ricurva, dalla lama piatta ed estesa.
L’incappucciato si presentò:
-Benvenuti, uomini del Nord. – Fece un leggero inchino. - Io sono Lonvan: voce dei fabbri-stregoni di Yokuda. Vi prego di seguirmi.
L’incappucciato ci condusse attraverso la landa desolata, fino a giungere in quella che sembrava una sorta di santuario tribale: quattro menhir descrivevano un quadrato, al centro un imponente palo di legno, ricavato da un tronco, infilato in una grossa bacinella di pietra.
-Jarl Sigfrid di WIntersworth. – Disse l’incappucciato, mentre dietro ogni menhir comparivano uomini vestiti come lui. – Prima di cominciare il rito, dobbiamo invocare il nostro Padre Oscuro, affinché ci conceda l’anima della vittima che sacrificheremo.
-Non mi interessano i vostri dei, stregone, fate in fretta e facciamola finita. – Disse con insofferenza lo Jarl.
Lonvan non badò alla risposta e, insieme con i suoi compagni, intonò:
-Akel, oh, Akel: padre del vuoto e del caos. Concedi a questi tuoi umili e fedeli servitori di serbare  qualche boccone del tuo banchetto, la vittima che offriamo alla tua gloria: di lei prendi le ossa, la carne e il respiro. Lascia a noi la volontà, l’anima e il sangue. Che il suo corpo ceda alla polvere solo quando il rito sarà concluso, con il tuo benestare. Akel, oh, Akel.
Rimasero in silenzio a lungo, immersi in quella grottesca preghiera che ripeterono più volte, all’unisono. Aprirono gli occhi solo quando nel vento si udii un sussurro da far gelare il sangue nelle vene, mi ricordò in qualche modo la sensazione che avevo provato guardando la vecchia casa abbandonata, nel distretto ovest di Cheydinhal.
-Sigfrid di Wintersorth, - disse Lonvan, - il nostro Padre Oscuro ha accolto la tua richiesta. Presenta pure la tua offerta al suo altare.
Lo Jarl fece un cenno alle guardie, le quali, senza esitare un momento, portarono avanti il ragazzino. Il piccolo, forse in un gesto di istintiva paura, cominciò ad agitarsi. Lonvan si chinò su di lui, scoprì le mani rachitiche e nodose, più simili ad artigli che ad arti umani. Lo esaminò con attenzione, tastando ogni parte del suo corpicino.
-Puro come acqua di fonte- disse, commentando con compiacimento.
-Padre, ti prego! Non farlo! – Protestò la figlia dello Jarl, con le lacrime che ormai le riempivano le gote rosate.
-Taci Durendal! – Il mio cuore mancò un colpo. – Continua, stregone.
Mi ripetevo che non poteva essere, no, il sospetto che lentamente cresceva in me non poteva essere fondato. Il fatto che quella ragazza avesse lo stesso nome della spada forse era un caso, doveva essere un caso. Quale padre avrebbe mai fatto una cosa del genere?
-Come dicevo, il ragazzo è puro e innocente. Tuttavia, la sua malattia mentale inficia la sua volontà non rendendolo quindi adatto al rito, Jarl Sigfrid. Suggerisco di offrire un’altra persona al suo posto. – Ci furono istanti di nervoso silenzio. I due fratelli rivolsero sguardi allarmati al loro padre. – La fanciulla, magari. Sì, lei sarebbe perfetta.
-Cosa?! – Urlò Lothbrok, sguainando la spada. – Nessuno si azzardi a toccarla.
Il figlio dello Jarl sarebbe stato pronto a uccidere ognuno dei presenti pur di difendere la sorella, glielo leggevo negli occhi.
-Rinfodera la spada, giovane nord, - disse Lonvan, con un ghigno – la nostra magia è potente.
Lothbrok si voltò verso Sigfrid, senza mettere via l’arma.
-Padre, se ma hai avuto un briciolo di amore verso la tua famiglia o di timore verso gli Dei, ti prego, non lasciarglielo fare.
Durendal non parlava, aveva lo sguardo basso, come un condannato in attesa della scure del boia sulla propria testa. Lo Jarl di Wintersworth rimase in silenzio per alcuni istanti, poi rivolse un ultimo sguardo di ghiaccio a sua figlia, prima di rispondere:
-Procedi, stregone. – E poi, rivolto ai suoi soldati. – Se solo mio figlio muove un muscolo, uccidetelo.
-Non lo permetterò. – Lothbrok rivolse la spada verso suo padre, era pronto ad affrontarlo, togliergli la vita, se necessario.
-Rinfodera la tua lama, tua sorella morirà comunque. – Gli intimò lo Jarl.
-Loth, basta così. – Disse la ragazza, frapponendosi fra i due e prendendo il volto del fratello fra le mani. – Ricorda le mie parole, fratello: verrà il giorno in cui l’aquila di sangue spiegherà le sue ali e io sarò con te. Verrà il giorno in cui il lupo, ferito, riaprirà gli occhi e innalzerà ancora il suo canto alle due lune e agli astri erranti, anche allora io sarò con te, a cingerti il fianco. – Lo baciò sulla fronte. – Ci rivedremo, fratello.
Così, con parole che avevano il sentore di una profezia, la nobile Durendal fu portata al patibolo dai suoi aguzzini, pronta a lasciare questo mondo con tutta la dignità della sua persona.

I fabbri stregoni levarono le mani, simili a rami. Dal cuore della terra una spirale di catene avvolse il corpo di Durendal al palo di legno.
I due redguard dalle lame ricurve portarono un pesante lingotto avvolto in drappi di seta, lo posarono e si disposero ai fianchi di Lonvan. Uno degli incappucciati aprì uno squarcio nei polsi della ragazza: il sangue prese a scorrere, raccolto nella massiccia bacinella di pietra ai suoi piedi.
Il lingotto aveva un colore grigio brillante: sembrava provenire da una stella caduta giù dal firmamento. Mosso da un incantesimo, il lingotto si sollevò in aria e fu avvolto dalle fiamme che si libravano dalle mani degli stregoni: la sua superficie si colorava delle tinte rosso-dorate del tramonto, per poi spegnersi nel colore scuro del sangue. Una strana magia manipolava la forma di quel materiale, assottigliandolo poco a poco, modellandolo, affilandolo: pezzo dopo pezzo, ora dopo ora.
Alla fine fu una lama quella avvolta nel sangue e accesa dal fuoco, un’ultima volta, prima che il rito giungesse al suo termine.
Durendal era livida, il suo corpo aveva perso il colore della vita. Sembrava un cadavere, eppure respirava ancora, tenendo fisso lo sguardo su suo fratello, che da parte sua non lo staccava un attimo: quasi volesse accompagnarla sino alla fine, come se fra i due ci fosse un’invisibile abbraccio con gli occhi, al posto delle braccia, e l’aria al posto del calore dei loro corpi.
L’acciaio rovente fluttuò verso di lei, scivolando lentamente nel suo cuore, fra i morbidi seni, squarciando e bruciando la carne. Non aveva le forze per gridare, il suo fu un lamento flebile e appena udibile da lì.
Così, spada e anima divennero una cosa sola, il Damasco assunse le sfumature dell’acqua e dalla carne squarciata si propagò, attraverso tutta la lunghezza della lama, una venatura centrale, di un rosso scarlatto.
Finalmente il corpo di Durendal si accasciò inerte e ciò che di vivo c’era in lei si riversò nel freddo acciaio della spada.
Gli stregoni avvolsero l’arma  nello stesso drappo che avevano usato per il lingotto e la consegnarono allo Jarl Sigfrid di Wintersworth.
Per la prima volta, in quegli occhi di ghiaccio notai una forma di commozione: in quell’arma egli vedeva una promessa di potere ed eternità. Poco importava se per ottenerla aveva sacrificato il sangue del suo sangue, condannando sua figlia ad un destino peggiore della morte: un’eterna prigionia che non conosceva fuga o evasione.
Lothbrok si era già avviato verso la nave, portando dietro di sé il bambino risparmiato da quell’orribile rituale. Mentre il mio antenato inveiva con maledizioni e vendette verso suo padre e l’intera Yokuda, dava uno sguardo al piccolo, sembrava ammirare la spensieratezza con cui ricercava forme curiose nelle nuvole mosse dai venti nel cielo. Avrebbe voluto essere come lui per qualche istante: tanto innocente da non essere toccato dal male del mondo, quel male che lo circondava e lo avvelenava con oscuri pensieri di morte, parole che gli turbinavano nella mente e che, sentivo, presto avrebbero trovato voce. 


NOTA DELL’AUTORE
Eccoci alla fine del XIV capitolo, piuttosto corto … ma spero che la densità di ciò che è accaduto possa in qualche modo supplire alla brevità. Abbiamo scoperto quale anima si nasconde all’interno di Durendal e ora vedremo come l’antenato di Ragnar, Lothbrok, si vendicherà di suo padre. Per i nomi e certe ambientazioni mi sono ispirato a Vikings, una serie che sto seguendo ultimamente.
Spero vi sia piaciuto :3 alla prossima!

Al solito ringrazio coloro che mi seguono e soprattutto la mia beta Arwyn che mi ha evitato un enooooorme strafalcione xD ah, e ci tiene a sottolineare che LEI LO SAPEVA CHE DENTRO DURENDAL C’ERA L’ANIMA DI UNA DONNA!

Un saluto,
NuandaTSP

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Capitolo 15
*** “I am fire. I am death.” ***


Chapter fifteen – “I am fire. I am death.”

La scena si dissolse di fronte ai miei occhi in una nube di fumo, prima dissipata poi riaddensata in nuove immagini. Ero all’interno della corte: una grande sala con i pilastri in legno, i pavimenti coperti da tappeti macchiati di idromele e chissà cos’altro. Su un piano rialzato c’era uno scranno, avvolto da pelli d’orso, su cui sedeva lo Jarl Sigfrid. La spada era infilata in un fodero di cuoio, l’uomo la teneva stretta a sé come se da questo dipendesse la sua vita. Accanto a lui c’era un’elfa in catene, molto diversa da quelle che avevo visto a Cyrodill: i suoi lineamenti erano acuminati, la sua pelle ricordava il colore della neve, i capelli le scendevano in una lunga coda grigia intrecciata, dietro la schiena. Vestiva abiti succinti in pelle di vitello e nei suoi occhi brillava la luce dei cristalli che avevo visto nelle rovine Ayleid.
L’anziano nord era cambiato molto: i suoi occhi di ghiaccio erano avvolti da un alone rosso, si muovevano nervosi da un lato all’altro della sala. Sembrava non dormire da molto tempo. Sussurrava fra sé e sé parole incomprensibili. Nella folla di astanti c’erano delle voci, voci che riferivano che lo Jarl stava perdendo la ragione: alcuni dicevano che dormisse con la spada accanto al letto, che quando giaceva con una concubina le legava i polsi perché non potesse rubargli il suo tesoro mentre era assopito. La spedizione tanto attesa in tutto il villaggio, quella per mettere fine alle scorrerie del drago Fafnir, era rimandata ormai da mesi per l’indisposizione dello Jarl. Alla fine Lothbrok si era preso sulle spalle l’impresa senza alcuna scorta; a Sigfrid aveva fatto un’unica richiesta.
-Padre- cominciò, prima di essere bruscamente interrotto.
-“Mio Jarl”. – Lo rimbeccò Sigfrid, senza nascondere la sua insofferenza.
-Mio Jarl, - si corresse – ti prego: concedimi la spada, solo per questa volta, affinché possa mettere fine alle malefatte del drago Fafnir) una volta per tutte, e riportare la pace nelle nostre terre.
-Tu … ladro! Ingannatore! – Tuonò lo Jarl, sporgendosi dal trono di legno. – Credi di potermi sottrarre ciò che è mio con una menzogna? Pensi che io non sappia? Che io non sappia ciò che trami? Tu … tu vuoi prendere il mio posto, sì, tagliarmi la gola e prenderti ciò che è mio.
Nella sua voce c’era il tono di una follia che ormai lo aveva totalmente soggiogato. Nella folla si diffuse un vociare di dissenso.
-Mio Jarl, non voglio tradirti. Il mio cuore è sincero, se non intendi prestarmi la spada, almeno vieni con me: affrontiamo insieme il drago. – Gli propose.
Nella folla di contadini e soldati ci fu un nuovo vociare, stavolta di assenso e approvazione. Lothbrok stava mettendo suo padre alle strette.
-Tu, tu ti ostini a prenderti gioco di me! – Urlò, con gli occhi che sembravano voler schizzare fuori dalle orbite, la saliva che fiottava fuori dalla bocca e la mano tremante sul bracciolo dello scranno. – Vuoi assassinarmi, dare le mie spoglie in pasto al drago e prenderti il mio trono! La mia spada! Il mio … il mio tesoro.
L’espressione di Lothbrok si fece rassegnata, si rialzò e si avviò verso l’uscita.
-E sia, se questo è ciò che credi, partirò da solo, padre. – Uscì.
-Sia maledetto il giorno in cui uscisti dal grembo di tua madre. – Inveì lo Jarl, sputando un grumo di muco e saliva sul pavimento di legno della sala. – Tu, puttana elfica, portami dell’idromele! Ho la gola secca. E voi, voi andatevene, via dalla mia casa! Prima che vi faccia decapitare.
La serva obbedì, riempiendo il corno al suo signore, mentre la corte scivolava nel silenzio con le voci dei sudditi che si facevano sempre più lontane.

Quando scese la notte Sigfrid cadde in un sonno agitato. La schiava giaceva al suo fianco, nel letto, con le spalle voltate verso di lui e una smorfia di disgusto dipinta in volto.
Con un incantesimo si liberò delle corde, si massaggiò i polsi segnati. La vidi avvicinarsi al corpo addormentato dello Jarl, fissarlo per alcuni istanti prima di sottrargli Durendal dalle braccia inerti. L’espressione dell’anziano nord si fece ad un tratto più quieta: come se gli incubi e le visioni che lo tormentavano si fossero placate. L’elfa contemplò Durendal, nei suoi occhi di un intenso azzurro vidi l’ombra della vendetta, così seducente nei suoi pensieri: sarebbe bastato così poco, sfilare la lama e tagliare la gola di quel bastardo che aveva approfittato di lei, notte dopo notte. Forse per un momento cedette a quell’impulso, ma poi si ritrasse e disse, in un soffio di voce: “No, non meriti di morire nel calore del tuo letto. L’aquila di sangue spiegherà le sue ali e io sarò lì per assistere alla scena”.
La donna si occultò con un incantesimo dell’invisibilità e scivolò via, senza far rumore, fuori dalle porte del palazzo. Ritornò visibile solo dopo essersi nascosta in uno dei vicoli di Wintersworth, dove l’attendeva un uomo con il cappuccio calato sugli occhi, perché il suo volto non fosse riconoscibile.
L’incappucciato le venne incontro e, quando calò la cappa dal viso, riconobbi in lui Lothbrok, il figlio dello Jarl.
-Lathasa, ce l’hai fatta. – Le disse, carezzandole la guancia con gentilezza.
-Hai rimosso il sigillo che bloccava la mia magia, - sorrise – è stato semplice.
-Sei stata brava, ora però devi andartene da Wintersworth, mio padre ti darà la caccia. – Cavò fuori dalla sacca alla cintola un piccolo bracciale di legno, con delle rune incise sopra. – Tienilo sempre ben in vista e tutti sapranno che sei sotto la mia protezione. Aspettami a Holden, dallo Jarl Bjorn, è già pronto ad accoglierti nella sua dimora.
-Non se ne parla Loth, io verrò con te. Non puoi affrontare Fafnir da solo. – Protestò lei, con un’espressione dura in viso.
-Sei testarda come il primo giorno che ti ho incontrata. – La baciò sulla bocca, l’elfa non si ritrasse. – Ma questa è una cosa che devo fare da solo.
-La mia magia è potente, io-
-No, Lathasa! Non rischierò di perdere un’altra persona cara. – Si impose lui, visibilmente irritato. – La follia di mio padre mi ha già strappato mia madre e mia sorella, - abbassò lo sguardo su Durendal per un attimo, - non perderò anche te. – Concluse un po’ più calmo.
Le diede un ultimo bacio e svanì nella notte, mentre le urla dello Jarl Sigfrid risvegliavano Wintersworth dal suo sonno.

La tana di Fafnir era situata ad alcune miglia dal villaggio, fu lì che Lothbrok si fermò, a pochi passi dall’entrata. Nella mano destra stringeva Durendal, nella mano sinistra “Spezza-Incantesimo”, lo scudo donatogli dal principe daedrico Peryite. Guardò il cavo nella roccia che lo avrebbe condotto dal suo nemico: nei suoi occhi c’era paura, ma anche una stoica forma di determinazione.
Sua sorella gli era accanto, non avrebbe fallito. Non poteva permettersi di fallire.
Indossò il suo elmo, sfilando dagli appigli dell’armatura il manto di lupo: facile preda del respiro infuocato, che il drago gli avrebbe certamente lanciato contro.
Alzò lo sguardo verso le stelle, forse affidando agli dei le sue ultime preghiere. “Se non dovessi farcela, possa la mia anima dimorare nelle festanti sale di Shor.”
Si avviò e l’oscurità lo inghiottì: la caverna scavava fin nel cuore della terra, con una lunga discesa che pareva non finire mai. Più di una volta rischiò di incespicare e cadere per terra, ma alla fine giunse lì dove Fafnir riposava.
Mi salì il cuore in gola, il mio respiro si mozzò quando lo vidi: disteso su un giaciglio di ossa umane, il corpo da serpe, alto come una torre di guardia, ali la cui ombra avrebbe ricoperto un’intera città, gli occhi chiusi dietro scagliose membrane e il suo respiro pesante, che riecheggiava sulle pareti di roccia.
I passi di Lothbrok incapparono in un femore, l’osso si sgretolò sotto i pesanti stivali d’ebano. Il rumore bastò a ridestare la creatura: le sue iridi da rettile si scoprirono, avevano lo stesso colore d’un gioiello d’ambra.
-Chi-chi osa destare Fafnir dal suo sonno?
Parlava la nostra lingua, notai. La sua voce era cupa, imponente, fece tremare il pavimento di roccia della caverna.
-Lothbrok, figlio di Sigfrid e prossimo Jarl di Wintersworth.
La creatura proruppe in una risata gutturale, alzando il pesante capo dalle zampe accucciate.
-E a quale scopo giungi sin qui, Lothbrok, figlio di Sigfrid? Sei forse stanco di vivere?
-Drago Fafnir, sono qui per chiederti di lasciare in pace queste terre.
-E se non intendessi farlo? – Chiese lui, con evidente scherno e divertimento.
-Allora, in quel caso, io ti ucciderò. – Rispose il nord, tenendo salda la presa su Durendal.
Il drago scoppiò in un’altra risata, levandosi sulle possenti zampe posteriori.
-Parole coraggiose per un piccolo mortale, confido che le tue azioni lo saranno altrettanto.
-Non temo la morte, conosco destini peggiori, e non temo i mostri, sono cresciuto avendone uno per padre.
-Ti illudi Lothbrok, figlio di Sigfrid. Tu non conosci la paura ma te la mostrerò, prima che tu possa lasciare il Nirn e raggiungere i tuoi dei. – Spiegò le ali, scagliando in aria una pioggia di ossa. – La mia armatura è di ferro. I miei denti sono spade. – Si avvicinò. – I miei artigli sono lance. Le mie ali sono un uragano. – Sorrise con un ghigno da brividi, dipinto sul volto da rettile. – Io … sono fuoco. Io … sono morte.
“YOL-TOOR-SHUL”
Avevo sentito parlare della potenza del Thu’um, la voce del drago, ma le parole non potevano spiegare efficacemente un simile spettacolo: dalla bocca di Fafnir si riversò un fiume di fuoco che consumò la roccia, lasciando cenere dove passava. Lothbrok si riparò dietro lo scudo, la magia di Spezza-Incantesimo lo protesse dal respiro ardente della creatura.
-Sei ricco di sorprese, mortale. – Ghignò di nuovo, - ma questo non ti salverà.
La coda di Fafnir, tempestata di spuntoni, si schiantò contro lo scudo di Lothbrok che fu sbalzato contro una roccia. L’elmo gli evitò di fracassarsi la testa, ma era stato un brutto colpo.
-Sorella, aiutami tu. – Disse, forse per darsi coraggio.
Corse contro il drago, schivò una zampata e lo ferì sul fianco: neanche le spesse scaglie della creatura potevano resistere a un fendente ben assestato di Durendal. Il drago ruggì di dolore e, posizionatosi su un punto sopraelevato, lanciò un altro urlo del potere: FUS-RO-DAH!
Lothbrok fu atterrato dall’onda d’urto che ne seguì, Fafnir tentò di schiacciarlo con una zampa, ma la spada squarciò i suoi artigli, lasciandolo con un arto ormai monco. Nella voce del drago crebbe la rabbia, ma più in profondità, nei meandri della sua voce, si celava una paura che lentamente lo attanagliava. Perché egli sapeva … sapeva di trovarsi di fronte a un mortale fuori dal comune. Guardò con orrore Durendal, intrisa del suo sangue.
-Quella spada, come l’hai avuta? – Sibilò.
-È stata forgiata dai fabbri-stregoni di Yokuda, drago. – Rispose Lothbrok, non riuscendo a nascondere una certa amarezza.
-Damasco… - ringhiò, - in quell’acciaio sento il riverbero del vuoto, l’ombra di Pandomay.
-E l’anima di mia sorella. – Concluse.
Il drago proruppe nell’ennesima risata.
-Riservate ai vostri simili un trattamento che non useremmo neanche contro il peggiore dei nostri nemici, voi mortali siete creature affascinanti: non v’è crudeltà più grande che segregare un’anima in un oggetto che non può essere distrutto.
-Non l’ho fatto io, - si difese Lothbrok, - è stato mio padre.
-Sigfrid, Jarl di Wintersworth, dunque. – Sorrise. – Non posso permettere che un simile rivale in cattiveria mi sopravviva. Egli brucerà … insieme al suo villaggio.
-Non te lo permetterò!
YOL-TOOR-SHUL!
Un altro fiume di fuoco, Lothbrok si protesse con lo scudo ma, stavolta, l’oggetto non si limitò a contenere il fuoco ma lo rivoltò contro Fafnir stesso. Il nord approfittò del diversivo e si lanciò contro la creatura, aprendogli un lungo squarcio nel ventre da cui fuoriuscirono i suoi scuri intestini.

Fafnir crollò a terra, con il sangue che fiottava giù dalle fauci. Lothbrok si sedette su una roccia, respirando a fatica: la battaglia l’aveva provato molto, sul corpo aveva ustioni e lividi, ma alla fine se la sarebbe cavata. Il drago, da parte sua, era ormai morente, seppur ancora vivo. Fra un rantolo e l’altro gli rivolgeva le sue ultime parole.
-E così un mortale ha avuto la meglio su di me. – Rise, quasi divertito. – Si fosse trattato del Dovhakiin questa sconfitta mi sarebbe bruciata meno. – Tossì, sputando rosso scuro.
-Fafnir, devi dirmelo: esiste un modo per liberare mia sorella? Perché possa riunirsi ai suoi antenati a Sovngrade?
Il drago sorrise debolmente.
-Sciocco mortale, non si spezza un patto siglato con Pandomay. È qualcosa che dura sino alla fine dei tempi. – Tossì nuovamente. – Quando il cielo precipiterà nel vuoto e tutte le cose viventi e non viventi di questa terra saranno riunite alla polvere. Quando gli Aedra e i Daedra saranno dimenticati, allora, solo allora, tua sorella potrà riunirsi ai suoi antenati nelle sale di Shor.
-Quindi è condannata. – Disse, piangendo e guardando impotente Durendal.
-Hai ragione ad essere amareggiato, nessuna creatura merita un simile destino, per quanto infima possa essere. Questa è la follia di voi umani: aspirate tanto al potere da non fermarvi neanche lì dove si fermerebbe la più abbietta delle creature.
-Non l’ho voluto io! Io ho cercato di fermarlo.
-Sarebbe stato meglio se l’avessi uccisa allora. – Disse, ridendo ancora. – Ma ora che si esauriscono gli ultimi istanti della mia vita sul Nirn, lascia che ti faccia un dono, mortale, poiché mi hai sconfitto: prego mio padre Akatosh affinché tu possa ritornare alla vita quando il male più grande si farà prossimo, e possa tu combatterlo con tua sorella al tuo fianco e trionfare, se così dovrà essere.
-Che significa questo?!
-Quello che ho detto, Lothbrok di Wintersworth. Con un nome o con un altro sarai ricordato per l’eternità. Congratulazioni. Tuttavia, sappi che quando fratello combatterà fratello e Alduin, la sventure dei re, l’ombra mai domata con una fame sconfinata, tornerà dal suo esilio fuori dal tempo … io verrò a cercarti e ucciderò te o ciò che rimarrà della tua stirpe. Ci affronteremo un’ultima volta, mio nemico. – Con queste ultime parole Fafnir si spense.
Lothbrok cercò di non pensare a cosa aveva sentito, le parole di un drago non andavano prese alla leggera: erano pur sempre creature discendenti dal dio Akatosh. Ma non poteva permettersi di perdere tempo in ragionamenti fini a sé stessi, c’erano cose più importanti da fare adesso.
Il nord sospirò e, avvicinandosi alla carcassa di Fafnir, tagliò via una delle sue zanne per poi uscire dalla grotta, così come vi era entrato.


NOTA DELL’AUTORE
Inizio ringraziando Arwyn per il suo lavoro di editing che si rivela prezioso di capitolo in capitolo :3. Come avrete notato per il drago Fafnir mi sono ispirato al grande e potente Smaug, presente ne lo Hobbit di “Gennarino” Tolkien (come mi piace chiamarlo), ho preso una delle sue frasi che era così bella e badass che non potevo proprio farne a meno. Scusandomi con Gennarino o con “Pietro figliodiJack” vorrei ringraziare tutti voi che mi seguite, mi leggete, mi recensite per il sostegno che mi state dando :3 lo apprezzo davvero tantissimo. Se questo capitolo vi è piaciuto behbeh il prossimo vi assicurò che non sarà da meno :D

Con affetto,
NuandaTSP

 

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Capitolo 16
*** Blood Eagle ***


Chapter sixteen – Blood Eagle.

Era tarda sera quando a Holden, in una piccola locanda nella periferia del villaggio, dodici figure furono viste riunirsi in gran segreto, con guardie armate a sorvegliare l’entrata e pattugliare l’intero perimetro. Questi uomini erano gli Jarl di Skyrim (meno Sigfrid, Jarl di Wintersworth) convenuti in quel luogo, insieme con Lathasa, giunta lì sotto richiesta del suo amato.
C’era Bjorn, detto il Generoso, Jarl della stessa Holden; Soledaj, detta Contessa di spade, Jarl dell’attuale città di Dawnstar; Thor, con il suo martello ammazza-giganti, Jarl di Falkreath; Rollo, santo vivente di Kynareth, Jarl di Morthal; Loki, detto il Corvo, Jarl di Riften; Hodir, detto Occhio-di-nebbia, Jarl di Whiterun; Igor lo zoppo, Jarl di Solitude e infine Harald, tredicesimo discendente di Ysgramor, il sangue di Drago, e Jarl di Windhelm.

Lothbrok arrivò per ultimo, calandosi il cappuccio solo quando varcò le porte della locanda e il fuoco nel camino riscaldò il suo corpo, gelato dal rigido inverno. Harald gli andò incontro, accogliendolo fra le imponenti braccia da guerriero. I suoi occhi ambrati si posavano su di lui con uno sguardo entusiasta, come sollevato da una pena che gli pesava sul cuore chissà da quanto tempo.
-Mio vecchio amico, è dalla battaglia nel Pale che non ci vediamo. Prego, siedi con noi e bevi caldo idromele, affinché possa scaldarti in questa notte.
-E in quelle a venire. – Continuò Loth, concludendo quella che doveva essere una frase di rito.
Gli fu passato un corno da cui bevve un lungo sorso della bevanda, per poi asciugarsi la bocca con il dorso della mano.
-Compagni, fratelli, - cominciò, sedendosi – l’impresa è andata a buon fine: il drago Fafnir giace morto nella sua tana.
-Lode a te, Lothbrok, uccisore del drago! Skol! – Inneggiò Thor, bevendo alla sua salute, imitato poi dagli altri Jarl.
-Grazie, amico mio. Ma ora v’è altro da fare: vi ho convocati qui per parlarvi della difficile situazione in cui versa la mia casa, Wintersworth. Mio padre, lo Jarl Sigfrid, ha ormai perso la ragione: ha sacrificato mia sorella, confinando la sua anima nella spada che porto con me, per ottenere i favori di una divinità oscura. Facendo ciò ha violato le leggi divine e quelle degli uomini. Egli mi da’ la caccia, accusandomi di averlo tradito.
-E ciò corrisponde al vero? – Chiese Loki, con la sua voce gracchiante.
-In realtà sì, almeno ai suoi occhi. Io gli ho sottratto la sua spada – poi si affrettò ad aggiungere – ma l’ho fatto al solo fine di affrontare e uccidere Fafnir, il serpente che vessava le nostre terre ormai da anni.
-Allora perché mai dovremmo dare il nostro sostegno a un ladro e a un traditore?! – Chiese Igor, ricevendo l’approvazione del Corvo.
-Miei Jarl, - intervenne Harald – conosco Lothbrok da quando entrambi eravamo poco più che bambini e vi assicuro: non v’è uomo un con cuore più nobile e coraggioso del suo in tutto il Nirn, possano i miei antenati rinnegarmi se non dico il vero.
L’intervento di Harald sembrò placare gli animi. Ogni persona in quella stanza aveva un profondo rispetto per il discendente di Ysgramor, l’eroe nord che, nell’era Meretica, si era opposto alla tirannia degli elfi della neve.
-Io ti credo Harald, e credo anche a te, Lothbrok. – Disse Soledaj. – Ma intendi forse riunire un esercito e attaccare il tuo stesso villaggio? Uccidere la tua stessa gente? Tutto per deporre tuo padre?
-Quegli uomini sono fedeli a un traditore degli Otto. – Si pronunciò Rollo. – Meritano di cadere con lui.
-Preferirei evitare inutili spargimenti di sangue. – Rispose Lothbrok. – Ma mio padre ha perso la ragione e non esiterà a combatterci fino all’ultimo uomo, la gente di Wintersworth deve a lui la sua fedeltà.
-Se mi è permesso – intervenne Lathasa, - miei signori. La follia di Jarl Sigfrid era in parte dovuta agli influssi della spada, ora che non è più in suo possesso potrebbe essere ritornato in sé.
-Ciò che dice l’elfa ha senso – osservò Soledaj, - se come hai detto lì dentro c’è l’anima di Lady Durendal, è possibile che abbia insidiato la mente di Sigfrid per vendicarsi.
-Può essere… - commentò Lothbrok, - ma, anche se fosse, mio padre non tiene in conto le amicizie o gli antichi legami di sangue, egli combatterà fino all’ultimo uomo. Come possiamo entrare a Wintersworth senza combattere?
-Un modo c’è – disse Bjorn, fino ad allora rimasto ad ascoltare – Harald, amico mio, il momento è arrivato.
Gli occhi dei presenti furono puntati tutti verso lo Jarl di Windhelm.
-Ebbene, se così vogliono gli dei… - prese un respiro, poi continuò – come tutti saprete: dai tempi della grande migrazione da Atmora, la nostra gente non ha più avuto un unico capo a cui fare riferimento ... uno Jarl che si elevasse sopra gli altri, il primo fra gli eguali. Quando Ysgramor guidò i cinquecento compagni qui a Skyrim, dopo la Notte delle Lacrime, si ipotizzò di elevare al rango di sovrano proprio lui. Questo progetto, tuttavia, per un motivo o per un altro, non è stato mai attutato … fino ad ora. – Cavò un oggetto fuori dai risvolti del mantello. – Nella Forgia Celeste i mastri fabbri hanno costruito questa corona uncinata. Essa sarà posta sul capo di uno fra noi, così che quando l’inverno si farà più rigido e le nostre terre saranno minacciate da un comune nemico, un solo uomo possa riunire sotto il suo comando gli Jarl di Skyrim e i loro eserciti: un unico re.
-Un Re dei re. – Sussurrò Lothbrok.
-Se la decisione sarà unanime, gli uomini di Sigfrid riconosceranno un’autorità più alta di quella del loro stesso Jarl e deporranno le armi. – Concluse Bjorn.
-Ma chi, chi fra noi potrà fregiarsi di un tale titolo? – Chiese Hodir, strizzando l’occhio cieco, avvolto da una patina grigia.
Ci fu un vociare concitato, poi fu Lothbrok a prendere la parola.
-Tu, Jarl Harald … tu saresti il più degno fra noi. – Gli altri Jarl mormorarono un assenso.
-Sarebbe un onore, fratello, ma – sospirò – tutti conoscete la mia vera natura, la mia particolare condizione. La mia anima è nelle mani di un signore dei Daedra e la creatura dentro di me prende il sopravvento nelle notti di luna piena. No, non potrei permettere che un uomo con una simile maledizione guidi Skyrim e i suoi Jarl. Propongo Lothbrok come Re dei Re: più di ogni altro in questa stanza, egli si è dimostrato coraggioso, disposto a rischiare la sua stessa vita per il bene e la salvaguardia della sua gente. Egli  ha scelto il bene comune quando avrebbe potuto consumare la sua vendetta personale in segreto.
-Io, io- provò a dire Lothbrok.
-Skol! – Disse Bjorn, levando in alto il suo corno. – Lunga vita a Lothbrok di Wintersworth, primo Re dei Re.
Uno dopo l’altro gli Jarl lo imitarono. Igor e Loki esitarono fino all’ultimo, ma alla fine si piegarono anche loro alla decisione comune.
-E sia… - disse Loth, abbassando lo sguardo e rialzandolo quando la corona uncinata fu posta sul suo capo dallo stesso Harald, - preparate i cavalli. Si va’ a Wintersworth.



Mentre i dodici cavalli galoppavano senza sosta mi fermai ad osservare la bellezza di Skyrim: sino ad allora ero rimasto troppo concentrato sugli avvenimenti che si susseguivano davanti ai miei occhi per porvi attenzione: le cime ineguali, le verdeggianti foreste e le bestie selvatiche celate dietro ogni anfratto. In quel mondo onirico potevo librarmi senza peso, muovermi rapido come il vento e godere del gelo che mi si condensava sulla faccia, senza sentire alcun brivido di freddo.
I cristalli di neve mi traversavano le mani, scorrendo attraverso la carne come fossi fatto d’aria, fumo o qualche altro corpo etereo.
Ero uno spettro, un osservatore non visto di quel mondo passato che, nei ricordi di Durendal, era tornato alla vita e mi avanzava dinanzi senza sosta.
Lathasa, montata sullo stesso cavallo di Lothbrok, si teneva stretta a lui sussurrandogli parole che non avrebbe riservato a nessun altro
-Amore, - disse l’elfa – potrei farlo io, se lo desideri. Non c’è bisogno di caricarti di un simile peso … per quanto tu possa odiarlo rimane sempre tuo padre.
-Quell’uomo non è più niente per me, o almeno vorrei che fosse così. Non sarà facile, ma devo farlo io. Lo devo a mia madre Brunilde e, soprattutto, a mia sorella Durendal. – Disse, posando una mano sull’elsa della spada.
-E se, quando arriverà il momento, dovessi esitare?
-Non vacillerò. Il mio odio prevarica di molto gli ultimi residui d’amore che posso avere nei suoi riguardi.
-E dopo?
-Dopo cosa?
La voce dell’elfa si fece preoccupata.
-Sai cosa intendo: sei il Re dei Re adesso. Come vedranno gli altri Jarl il tuo rapporto con un’elfa della neve? I nostri popoli sono nemici da secoli ormai.
-Di questo non devi preoccuparti. – La rassicurò Lothbrok, con una voce densa di tenerezza. Quasi le sue parole fossero una promessa di eterna protezione.
-Come potrei non preoccuparmi? – Chiese lei, irritata.
-Fidati di me. – Rispose lui, carezzandole la mano che gli stringeva il ventre.
Lei lo guardò, all’inizio sembrò dubbiosa … poi qualcosa nei suoi occhi si scaldò e cedette: un sorriso le distese le pallide labbra.
-Va bene, amore mio – disse, stringendolo più forte a sé – mi fido.

La cavalcata durò fino al mattino, quando nel cielo scuro si imposero i primi raggi del sole nascente. I cavalli giunsero sulla soglia di Wintersworth esausti e boccheggianti, perciò il gruppo scelse di fermarsi per qualche minuto, così da farli riposare.
Il villaggio di Wintersworth era sprovvisto di mura, nonostante fosse relativamente grande. Le sue uniche difese preventive consistevano negli uomini che percorrevano, in una ronda continua, il perimetro delle abitazione periferiche. Quando una delle guardie li vide sbarrò loro la strada. Il suo sguardo ostile, tuttavia, si placò quando riconobbe Jarl Harald, a cui si rivolse non riuscendo a nascondere nella voce un tono di timorosa riverenza.
-Signore, è un onore conoscervi di persona.
-L’onore è mio, soldato. – Rispose lui, con un cenno del capo.
-Per quanto rispetto nutra nei vostri riguardi, signore, debbo chiedervi di allontanarvi da qui: Jarl Sigfrid ha disposto che nessuno possa entrare o uscire dal nostro villaggio, a parte le truppe di ricognizione.
-Per quale ragione, soldato? – Chiese Harald, pur sapendolo perfettamente.
-Suo figlio, Lord Lothbrok, si è macchiato di tradimento e furto ai suoi danni. Sono giorni che vengono inviati uomini alla sua ricerca, gli da’ la caccia senza posa.
-E tu – lo provocò il discendente di Ysgramor, - cosa pensi in merito a tale questione?
Il soldato sembrò in difficoltà di fronte a quella domanda.
-Lungi da me metter bocca sugli ordini del mio signore, ma ritengo che Lord Lothbrok abbia fatto la scelta migliore: il suo furto è stato al solo scopo di uccidere il drago Fafnir. – Si schiarì la voce. – Tuttavia devo fedeltà al mio Jarl e devo eseguire gli ordini, dopotutto sono solo un soldato.
-E se, mettiamola così, dovesse presentarsi un uomo la cui autorità prevarichi di gran lunga quella del tuo Jarl? Un re ad esempio.
-Un re? – Ripeté lui, confuso e incredulo. – È dai tempi di Ysgramor che non si parla di unico sovrano per l’intera Skyrim.
-Fino ad ora. – Intervenne Lothbrok, calandosi il cappuccio e rivelando il suo volto, cinto dalla corona uncinata.
-Milord! Voi-voi-
-Sono il tuo re. - Disse, non troppo convinto. - Comunica ai tuoi pari e ai tuoi superiori la notizia, che nessuno alzi la spada contro di me o uno dei miei compagni.
-Sire, ma io-
-Obbedisci, ragazzo. – Concluse Loth.
Nella sua voce, nel suo incedere attraverso le vie del villaggio, vidi che qualcosa era cambiato in lui. Non era più l’uomo che aveva implorato per la vita di sua sorella, colui che aspirava a meritare il posto di suo padre, no, quello di fronte a me era un re: il Re dei Re.
Né uomo, né donna, né bambino si frappose fra lui e la sua meta: la casa di suo padre, lì dov’era cresciuto, dove gli anni più felici della sua vita era volati via spazzati dal tempo e dalle tragedie che la storia di Skyrim non avrebbe ricordato, ma che per lui erano un continuo memento. In Lothbrok non c’era esigenza di potere, come in Sigfrid. Egli non lo desiderava, glielo lessi negli occhi, ma lo usava soltanto per raggiungere uno scopo.
Quando Lothbrok e i suoi compagni entrarono a corte, furono accolti non da soldati, bensì da mercenari: uomini che per le loro vesti e sembianze dovevano certamente provenire da Yokuda. Seduto sul suo scranno, in fondo alla sala, Jarl Sigfrid: con gli occhi tornati alla loro glaciale freddezza, la postura composta e il cipiglio fiero.
-E così i miei uomini mi hanno tradito, c’era da aspettarselo. Eccolo, il figliol prodigo, che torna a casa con un una corona sul capo. – Mimò un applauso, schernendolo apertamente.
Lothbrok in tutta risposta lanciò per terra la zanna strappata dal drago Fafnir. Sigfrid si passò una nocca lungo il mento, sorridendo compiaciuto.
-E così hai ucciso il serpente, non mi stupisce: la spada che mi hai rubato, con l’aiuto di quella puttana elfica, ha un grande potere.
Lathasa sbuffò stizzita, forse stava riconsiderando l’idea di qualche notte prima: quando non aveva tagliato la gola dello Jarl mentre dormiva.
Lo sguardo di Loth, invece, era cupo: non aveva intenzione di raccogliere le provocazioni di suo padre, non era per quello che era venuto fin lì. Parlò con voce autoritaria, senza far trasparire emozioni: non sembrava quasi più lui.
-Sigfrid di Wintersworth, in qualità di Re dei Re di Skyrim ti spoglio del tuo titolo di Jarl e delle tue proprietà.
-Come al solito: tanta forza nelle parole, ma a fatti? – Lo provocò, per poi dare ai mercenari l’ordine di attaccare.
Il primo che mosse un passo si ritrovò con la testa aperta in due da un’accetta, lanciata dallo Jarl Rollo, che sorrise divertito. Gli altri, dopo un’iniziale timore, si scagliarono contro i nord. Fu una battaglia breve, conclusasi fra il librarsi di lame di Soledaj; la cenere che lasciava al suo passaggio la magia di Lathasa; la carne e le ossa squarciate dall’ascia di Harald e il filo di Durendal, che lì dove calava era accolta dal sangue.
L’ultimo rimasto fu un ragazzino redguard dai capelli ricci, che in un guizzo di buonsenso gettò via la sua arma e si inginocchiò di fronte a Lothbrok, implorando per la sua vita.
-Dimmi, ragazzo, qual è il tuo nome?
-Barbas, s-signore. – Rispose lui, tutto tremante.
-E dimmi, Barbas, che lavoro facevi prima di diventare un mercenario?
-Io-io allevavo cani, cani da pastore.
-E a quale divinità hai votato la tua fedeltà?
-Clavicus Vile, mio signore. Il principe daedrico Clavicus Vile.
-Bene, allora torna ad allevare i tuoi cani e ringrazia il tuo dio per aver avuto salva la vita quest’oggi, adesso sparisci.
-Lo farò, lo farò! Grazie, grazie mio signore, grazie!
Il ragazzo se ne andò, non premurandosi neanche di riprendere la sua spada.
Sigfrid adesso era rimasto da solo, si alzò e andò incontro a suo figlio. Il suo sguardo era fisso nel suo, forse alla ricerca di una qualche debolezza che non trovò.
-Porgimi la tua ascia. – Disse Lothbrok.
Tutti i presenti lo guardarono fisso: “porgimi la tua ascia” era una frase usata per sfidare qualcuno a duello. Il Re dei Re si sfilò l’armatura, rivelando il petto nudo e percorso di cicatrici, e porse Durendal ad Harald, per poi tornare a sostenere lo sguardo impassibile di suo padre.
-Perché non si dica che ti ho sconfitto grazie ad una lama migliore della tua. Deponi le tue armi, combatteremo a mani nude.
-Pessima scelta ragazzo, queste braccia hanno spezzato il collo di guerrieri più forti e valorosi di te. – Commentò Sigfrid, buttando a terra la spada e le sue asce.
-Miei Jarl, che non gli sia fatto alcun male se dovesse riuscire a uccidermi. – Ordinò Loth, sfilandosi la corona dal capo. – Combatti, padre.
Sigfrid non se lo fece ripetere due volte: sferrò un dritto diretto alla faccia, Loth lo deviò con il braccio e alzò la guardia, indietreggiando di qualche passo. Lo Jarl gli fu subito addosso, afferrandolo con una presa e bloccandolo per terra: i suoi muscoli stringevano intorno alla gola, quel vecchio aveva la forza e il vigore di un orso.
-Loth! – Gridò Lathasa, muovendo qualche passo.
-Non intrometterti, ragazza. – Ordinò Harald. – È una questione d’onore.
-Ma lo ucciderà! – Protestò, con le guance rigate.
-Già, e poi toccherà a te, lurida puttanella. – Disse Sigfrid, con un ghigno a distorcergli il volto severo.
Lothbrok, forse sentendo quella minaccia, riunì le sue forze e si levò in piedi, con Sigfrid ancora avvinghiato alla sua gola. Si lasciò cadere in avanti, caricando tutto il suo peso sul corpo dello Jarl che, rimasto senza fiato, allentò un poco la presa. Tanto bastò perché Loth si divincolasse e, bloccati i polsi dell’avversario sotto le ginocchia, iniziò a pestarlo selvaggiamente: i suoi pugni erano scagliati con una furia animale, si schiantavano sulla faccia di Sigfrid  in un tempestare di denti rotti e sangue, che schizzava sul suo volto, sulle nocche e persino sul legno del pavimento.
Quando si fermò un attimo, per riprendere fiato, la faccia dello Jarl era diventata una maschera tumefatta di pelle violacea. Dalla bocca gonfia il vecchio bofonchiò qualcosa, sussultando per quelle che dovevano essere risate.
-Finalmente ti riconosco … sei davvero mio figlio. Adesso uccidimi, avanti.
-Padre, ti sbagli, io sono peggiore di te. – Gli sussurrò, alzandosi e asciugandosi il sudore misto al sangue dalla faccia.
Riprese la corona e, dopo alcuni istanti di silenzio, pronunciò una sentenza, con la stessa voce autoritaria di poco prima.
-Sigfrid di Wintersworth, figlio di Beowulf, sei colpevole dell’assassinio di tua moglie Brunilde e di tua figlia Durendal. Sei colpevole di tradimento e insubordinazione nei confronti del tuo sovrano. Tali crimini sono sufficienti perché tu venga condannato alla decapitazione.
-Non temo la morte, ragazzo. – Rispose lo Jarl, con quello che sarebbe stato il suo ultimo sorriso.
-Fa’ silenzio. – Poi riprese, - tuttavia i tuoi crimini hanno violato non solo la legge degli uomini, ma anche quelle divine. Hai offeso gli Otto, sacrificando la tua stessa prole sull’altare di un’entità maligna. Per queste ragioni, stabilisco che la tua morte sia conseguita tagliando l’aquila di sangue. – Ci fu un verso di incredulità nelle voci degli altri Jarl, solo Lathasa sorrideva, assistendo alla scena con compiacimento. – L’esecuzione avverrà pubblicamente.
-F-figlio, t-tu non puoi. – Protestò Sigfrid, perdendo all’improvviso il suo sangue freddo e la sua sicurezza.
-Sono il tuo Re. – Rispose Lothbrok, lapidario. – Jarl Rollo, Jarl Hodir, portatelo in piazza e legatelo ai due ceppi. Eseguirò io stesso la condanna.
I due obbedirono senza fiatare, seguiti dagli altri Jarl. Solo Harald si trattenne, avvicinandosi all’amico, mentre i lamenti e le urla di Sigfrid si facevano lontane.
-Loth, fratello mio, sei certo di volerlo fare?
-Sì, Harald.
-Lascia almeno che sia qualcun altro a-
-Lo farò io. – Concluse, senza ammettere repliche.
Recuperò da terra la zanna di drago e uscì dalla sala, seguito dall’elfa della neve.

Nella piazza del villaggio, si era radunata una gran folla per assistere alla pubblica esecuzione del loro vecchio Jarl. Il taglio dell’aquila di sangue avveniva molto di rado, poiché era riservato a quegli uomini che si erano macchiati di colpe inenarrabili e che avevano attirato su di sé la collera degli Dei. I polsi di Sigfrid vennero legati ai ceppi, come richiesto, e le gambe tenute ferme con spesse corde, di quelle usate per le vele delle navi. Lothbrok era a petto nudo, intento a prepararsi per quella che sembrava più una cerimonia che un’esecuzione: racchiuse i capelli in una lunga treccia, disegnò tribali sul suo viso e sul torace, usando del sangue d’orso come tintura.
Sotto gli occhi della folla, in un raccolto silenzio, arroventò la lama del pugnale alle braci di un focolare e si avvicinò a suo padre.
-Urlare durante l’aquila di sangue negherebbe alla tua anima di entrare a Sovngrade, Sigfrid di Wintersworth, ma in virtù del nostro legame famigliare eviterò che tu possa correre questo rischio.
Si chinò su di lui, gli cavò fuori la lingua dalla bocca e la tagliò via, gettandola nel fuoco lì vicino. Il moncone sanguinolento fu ciò che si ritirò fra i denti, nelle urla e nei versi incomprensibili dello Jarl.
-Tu, soldato, tienigli chiusa la bocca. – Ordinò Lothbrok, tornando ad arroventare il pugnale.
Quando la lama, dello stesso colore del sole al tramonto, si posò sulle labbra di Sigfrid la carne sfrigolò, giungendo insieme le tenere carni. Distolsi lo sguardo, come molti all’interno della folla.
Quando ebbi di nuovo il coraggio di guardare, la bocca dello Jarl era diventata un groviglio inestricabile di carne bruciata. Gli occhi di Sigfrid adesso erano un pozzo di lacrime e lamenti inespressi, pupille alla sola ricerca della fine di quella pena, alla sola ricerca del vuoto … della morte.

Fu allora che l’aquila di sangue ebbe inizio, accompagnata dal vibrare incessante dei tamburi. Loth squarciò la schiena dello Jarl, tagliando la pelle con la zanna di Fafnir, rivelando agli occhi ossa e carne viva. Se solo avesse potuto, il condannato avrebbe levato urla udibili fin nell’Oblivion, ma quella tortura non era che al suo inizio: una ad una, Lothbrok spezzò le sue costole. A quel rumore secco, come di un ramo rotto sotto un piede, la folla rimaneva sospesa, con il respiro soffocato in gola. Negli occhi scuri del Re dei Re leggevo la fredda crudeltà di suo padre.
Rotta l’ultima delle costole, Lothbrok cavò fuori i polmoni, poi riposti sulle spalle ormai inerti di Sigfrid, ricordava un’aquila con le ali richiuse intorno ai fianchi.
Constatata la morte, Loth sciolse i polsi del cadavere, lasciando che cadesse in terra. La sua schiena aperta, con le ossa spezzate, mi ricordavano un paio d’ali spiegate a percorrere i venti nell’alto dei cieli. “Verrà il giorno in cui l’aquila di sangue spiegherà le sue ali…” mormorai, ricordando la profezia di Durendal; guardai Lathasa, avevo come l’impressione che dentro di sé stesse pronunciando le mie stesse parole.

Con le mani insozzate di rosso, gli occhi tornati al loro sguardo di sempre e inondati dalle lacrime, Lothbrok si rivolse alla sua gente.
-Mio padre ha pagato le sue colpe, adesso la sua anima riposa a Sovngrade. – Abbassò lo sguardo, trattenendo i singhiozzi. – Egli è stato piegato e corrotto dalla sua sete di potere. Io sono diverso da lui, eppure nelle mie vene scorre lo stesso sangue che oggi ho versato. Per evitare che un giorno lo stesso male, la stessa sete possa possedere anche me … io, Lothbrok di Wintersworth, primo Re dei Re di Skyrim, cedo la mia corona ad Harald, Jarl di Windhelm e tredicesimo discendente di Ysgramor, Sangue di Drago. Rinuncio anche al titolo di Jarl di Wintersworth e alle proprietà che ne derivano, cedendo tutto al compagno e amico Bjorn, Jarl di Holden, confidando nella sua saggezza e capacità di giudizio. Andrò via, portando con me i frutti della follia e scelleratezza di mio padre.
Senza proferire un’altra sola parola, Lothbrok depose la corona e cavalcò via, lontano, con Lathasa abbracciata al suo fianco e Durendal nel fodero, baluginante d’una luce rossa, come per dare un ultimo saluto alla sua casa. Così il futuro veniva loro incontro, col sole che tramontava verso ovest.


Note dell’Autore
Ringrazio sin da subito la mia beta Arwyn, la sua conoscenza enciclopedica su Skyrim e il LORE mi hanno permesso di non scrivere certe cagate, oltre poi all’ottimo lavoro di correzione sui dialoghi :3. Qui si chiude il sedicesimo capitolo che, posso dirlo, mi è piaciuto un sacco scriverlo. Magari in certi punti è un po’ troppo rapido, lo ammetto, ma non ci posso fare niente … ero totalmente coinvolto.
Piccola chicca storica: l’aquila di sangue è una tortura menzionata in alcune saghe norrene, tuttavia non si ha la totale certezza sulla reale applicazione di questa pena (personalmente spero di no, dio mio che male avrebbe fatto).

Un abbraccio,
NuandaTSP

 

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Capitolo 17
*** The legend of Mannimarco ***


Chapter seventeen – The Legend of Mannimarco

Riaprii gli occhi sul soffitto dello scantinato. Il sogno sembrava essere durato per giorni, ma non era passata che una singola notte. Con il respiro affannato mi misi a sedere, osservando Durendal, passando la mano sull’elsa, carezzando il pomo con il pollice. “Quindi è questa la tua storia?”, l’acciaio rispose con una debole vibrazione. “Mi spiace … nessuno dovrebbe soffrire così”, mi sforzai di sorridere “Troverò un modo per liberarti un giorno. Lo prometto.”, brillò di un bagliore rosso in risposta … non sembrava troppo convinta, ma avevo l’impressione che avesse apprezzato le mie parole.
-Rag?
Sobbalzai quando sentii la voce di Sabine e vidi il suo visino da bambina sporgersi oltre le scale.
-Che stai facendo? – Chiese, incuriosita. – Ti ho visto che parlavi da solo.
-Ehm, ecco, io … ecco, stavo pregando, sì! Pregavo i Nove Divini. – Sentivo le guance arroventarmi la faccia per l’imbarazzo.
-Uh, - mugugnò lei, confusa – non ti facevo una persona devota agli Dei.
-Eh, sì, le apparenze ingannano alle volte. – Ma che diamine stavo dicendo?
Le scappò un risolino divertito.
-Comunque sono le nove passate, Claudius ci ha preparato qualcosina da mangiare lungo la strada.
-Certo, certo, mi do una sistemata e salgo. – Dissi, con un sorriso.
-Va bene! – Rispose lei, entusiasta.
Lasciò lo scantinato, salendo le scale due gradini alla volta.

L’Università Arcana era situata in un isolotto a sud-ovest della Città Imperiale, collegato al resto della Capitale tramite un robusto ponte di pietra lastricato. Durante il tragitto avrei avuto modo di chiacchierare con Sabine: era una ragazza vivace, più bambina che donna, sebbene avesse ormai quindici anni. Il suo sogno era sempre stato quello di unirsi alla Gilda dei Maghi, ma non aveva mai avuto il cuore di lasciare da solo suo fratello.
-Da quando “ha perso le fede”, come dice lui, si è attaccato alla bottiglia. Spesso lo vedo che se ne sta seduto a lamentarsi, con il naso rosso per l’ubriacatura. Credo abbia davvero bisogno di una donna nella sua vita.
-Mi ha detto che ha lasciato la toga per il vino e l’Arena-
-Sì, racconta sempre questa storia, ma la verità è che è stato sempre troppo buono per questa città. Quando ha intravisto la corruzione dilagante, se ne è cavato subito fuori. Disse che non voleva averci niente a che fare con i magheggi del Tempio.
-Mi spiace …
-Lo so – disse lei, sospirando, - ma sono convinta che un giorno tornerà in sé. – Mi diede una pacca sulla spalla. – Siamo tosti noi Arcadia!
Arrivammo finalmente alle porte dell’Università, due guardie imperiali ( con cappucci azzurri al posto dei consueti elmi) ci lasciarono passare, rivolgendoci un saluto cordiale.
La sede della Gilda dei Maghi consisteva in un cerchio di mura diviso al suo centro da due portali, chiusi ermeticamente con qualche strano incantesimo, e fra i due cancelli si trovava Torre dell’Arcimago, la quale si ergeva su tutto ciò che la circondava.
Il semicerchio all’ingresso e il piano terra della torre erano a libero accesso, mentre il resto era destinato unicamente ai membri effettivi della Gilda, ossia coloro che avevano ricevuto raccomandazioni da ognuna delle sedi. Sperai che nella sala al piano terra avrei trovato qualcuno in grado di darmi maggiori informazioni su questo fantomatico “Re dei Vermi”, sperando che il mio interesse, per così dire, puramente accademico non venisse scambiato per altro … ma, del resto, con la mia credenziale non avrei dovuto suscitare sospetti. Venni accolto da un imperiale con i capelli brizzolati, aveva la pelle olivastra e indossava gli abiti azzurri di un Maestro Mago. La sua voce era cortese, gentile, profonda.
La sala d’ingresso era, un po’ come tutto nella Città Imperiale, di forma circolare: un alto soffitto in legno oltre il quale si riunivano i membri del Consiglio e, ancor più su’, dove c’erano le stanze private dell’Arcimago; lungo le pareti teche riempite con gemme dell’anima, importanti tomi rilegati in pelle e cristalli provenienti da chissà quale rovina; c’erano infine alcuni tavoli, dove studenti con le tonache d’apprendista parlavano fra loro, leggevano o vergavano rotoli di pergamena con dell’inchiostro. Vicino alla porta brillava una piccola piattaforma, su cui era composto un mosaico recante l’effige della Gilda: un occhio dorato. Lo sguardo di Sabine era estasiato, voltava il capo da una parte all’altra con la bocca spalancata per lo stupore.
-Salve, posso fare qualcosa per voi? – Chiese il Maestro Mago.
-Salve, sono Ragnar’ok Wintersworth e lei è Sabine Arcadia.
-Molto piacere. – Disse la ragazza, improvvisamente strappata alle sue contemplazioni.
-Ragnar’ok hai detto? – Chiese il Maestro, stupito. – Ho saputo delle tue “imprese” nella sede di Cheydinhal, davvero un ottimo lavoro.
-La ringrazio. – Risposi, con un lieve cenno del capo.
Dopo che l’imperiale si fu presentato e aver soddisfatto le domande di Sabine sulle mie “imprese”, potei finalmente rivolgere le mie domande a Raminus Polus, questo il nome del Maestro.
-Sono venuto qui per raccogliere alcune informazioni riguardo il “Re dei Vermi”. – Gli sussurrai, mentre ci discostavamo un po’ da Sabine e dagli studenti.
Assunse un’aria pensierosa.
-Posso chiederti i motivi di questo improvviso interesse?
-Ecco, ne ho sentito parlare mentre ero a Forte Farragut. Voglio saperne di più, sapere contro cosa combattiamo.
-In realtà il Re dei Vermi è una minaccia simbolica, lui è morto ormai da anni se non da secoli. Il vero problema sono i suoi discepoli.
-Maestro, mi è stato sempre insegnato che bisogna conoscere il proprio nemico per affrontarlo.
L’imperiale brizzolato sorrise, incrociando le braccia.
-Sei molto saggio per la tua età.
-Ho avuto un buon insegnante. – Risposi, rivolgendo un pensiero a Padre Jauffre.
-Ne sono sicuro. Comunque voglio accontentarti, dammi un attimo. – Si schiarì la voce e alzò il tono, rivolgendosi agli studenti all’interno della sala. – Ragazzi, ragazzi! Andate a continuare i vostri studi negli archivi mistici, io e questo apprendista dobbiamo discutere di alcune questioni.
Polus rivolse un’occhiata a Sabine, che lo guardava speranzosa.
-Va bene, puoi andare anche tu, ma non combinare guai. – Le raccomandò, con un sorriso paterno.
Sabine esultò e si avviò insieme alla folla di studenti.
-Mucianus, tu resta qui.
Un ragazzo dall’aria tranquilla, ma intelligente, si fermò sul posto e si voltò verso di noi, mettendosi al fianco di Raminus. Quando la sala fu vuota, l’Imperiale fece le dovute presentazioni.
-Associato, lui è Mucianus Allias, uno dei nostri studenti più brillanti. Ha condotto un interessante studio sulla genesi della negromanzia insieme al maestro Angmar, prima della sua dipartita. Rivolgigli pure tutte le domande che vuoi, non c’è studente più preparato di lui in materia.
-Maestro, lei è troppo gentile.
-Ed è pure modesto, - sorrise – vi lascio soli.

Raminus lasciò la stanza e potei dedicarmi alla conversazione con Mucianus in piena libertà. Aveva i capelli castano-rossicci, tenuti legati in una coda di cavallo. Aveva gli occhi di un verde accesso che a guardarli ti sentivi compreso e protetto, il suo sorriso era appena accennato sulle labbra. Aveva mani eleganti, dita affusolate che teneva conserte sul tavolo, mosse da piccoli tic come picchiettarsi con un polpastrello la nocca dell’altra mano o muovere le dita come se stesse giocherellando con un filo invisibile. La sua voce, come il suo aspetto, mi davano una sensazione di calma e sicurezza.
-Dimmi tutto. – Mi invitò, facendo un lieve gesto per darmi la parola.
-Sono qui per avere informazioni sul Re dei Vermi.
Le sue sopracciglia sobbalzarono, si poggiò sullo schienale, con le mani adagiate sulle gambe.
-Ci sarebbe molto da dire in merito, ma penso sia meglio procedere con ordine. Sai chi erano gli Psijic?
Feci cenno di no con la testa.
-Bene, allora iniziamo da loro: per farla breve erano un gruppo di potenti maghi e stregoni che si formò nel corso della prima era, potresti considerarlo il nucleo originale dell’attuale Gilda dei Maghi. Mannimarco non era altro che un giovane altmer unitosi agli Psijic.
-Cosa gli accadde?
-Egli rimase affascinato dalle arti oscure e, per dire la mia, posso ben comprenderlo: ciò che non si conosce o ti spaventa o ti attrae e, talvolta,  il confine fra l’uno e l’altro è davvero molto sottile. Ma quelli che all’inizio erano puri studi accademici per Mannimarco diventarono un’ossessione. Iniziò a condurre esperimenti sempre più spinti, fino ad utilizzare come cavie non più cadaveri, ma persone vive e vegete. Non so cosa abbia intravisto, cosa l’abbia spinto a farlo: forse l’idea di conquistare la vita eterna. Dagli archivi si evince che oltre ad essere particolarmente dotato nelle arti magiche, beh, era anche un abile oratore: non tardò a creare proseliti, uomini e donne, soprattutto giovani, guidati dalla sua figura carismatica e dall’ideale che la sete di conoscenza non dovesse concepire un qualsivoglia confine etico o morale.
-Un pensiero affascinante. – Commentai.
-Già, molto intrigante e Mannimarco seppe sfruttare appieno la sua presa sulle persone. Insidiò le menti di molti e in poco tempo si trovò a capo di un vero e proprio esercito. Ciò che lo rese tuttavia il nemico più pericoloso per l’Ordine fu il rinvenimento di alcuni manufatti, tramite i quali raggiunse l’immortalità, diventando il primo negromante e il primo Vero Lich della storia. Alimentava la sua forza vitale nutrendosi delle anime dei suoi nemici, prolungando indefinitamente la sua permanenza nel Nirn.
-Quindi potrebbe essere ancora in circolazione? – Chiesi, non senza un certo timore.
-Qualcuno afferma di sì, ma la realtà dei fatti è che sono decenni che non se ne sente più parlare. Chi ancora crede che sia vivo si aggrappa a sporadiche e discutibili testimonianze.
La conversazione con Mucianus si prolungò per ore, volevo sapere ogni cosa: ero affamato della conoscenza che portava dentro di sé … nel corso del mio viaggio, avevo dimenticato l’emozione che provavo quando imparavo qualcosa di nuovo. Assimilavo le sue parole, ponevo le mie domande aspettando voracemente risposte, svisceravo i concetti e i fatti che mi erano posti davanti, uno per uno. Mannimarco mi affascinava, forse erano le parole con cui Mucianus me lo aveva descritto, eppure in quell’antico altmer sentivo un’anima affine: conoscere ad ogni costo, tenendosi pronti a qualsivoglia rischio.
Era la stessa sete di conoscenza che mi aveva portato a dormire con il diario di Cardys sotto il cuscino o a chiedere a Durendal di raccontarmi la sua storia, la stessa sete che aveva portato me e Lucien ad approfondire il nostro legame con la magia La stessa sete che aveva condotto Lucien, proprio come Mannimarco, all'oscurità. Un destino che adesso sembrava essere riservato anche a me. No, no, per me sarebbe andata diversamente: me lo sentivo.
Non mi sarei lasciato avvelenare, non mi sarei lasciato corrompere … l’importante era mantenere il controllo. Dedicare il mio sapere a uno scopo, come a uno scopo Lothbrok aveva sfruttato il potere di cui era stato investito: senza che questo diventasse un tutt’uno con lui, una fame che non poteva essere soddisfatta.
Il mondo a cui Mucianus mi aveva spalancato le porte mi avrebbe dato da pensare per un bel pezzo. Ciò che mi piaceva in quel ragazzo era la capacità di sapersi spiegare: come persona e, forse, in quanto figlio di Skyrim, detestavo la retorica e i giri di parole. Mucianus, invece, non aveva bisogno di paroloni, no, lui ti arrivava con parole semplici e concetti chiari, che districavano la matassa dell’ignoto filo per filo, nodo per nodo.
-Credo di averti detto tutto ciò che so’, amico mio. – Concluse il ragazzo, stiracchiandosi un po’ sulla sedia.
-È più che sufficiente, ti ringrazio. – Risposi.
-Figurati! Sai, dovresti pensare di venire a studiare qui nell’Università. Hai la curiosità che ogni studente dovrebbe avere.
-E tu lo spirito che ogni maestro dovrebbe avere. Comunque è ciò che vorrei fare, mi sono messo in viaggio da Chorrol per ottenere le raccomandazioni da ognuna delle sedi. Un tempo era più facile …
-Vero, ma penso che l’esperienza sul campo abbia una sua importanza e questo è un modo per valorizzarla.
-Spiegati meglio … - lo invitai.
-La Gilda, divisa com’è in tante succursali, è frammentaria e i problemi che la affliggono sono difficili da notare se si rimane chiusi fra quattro mura. Ma, indipendentemente da questo, poiché per ottenere raccomandazioni ci si ritrova a fronteggiare diverse situazioni e a capire come porvi soluzioni, questo aiuta a capire la natura pragmatica ed emozionale della magia stessa.
-Non l’avevo mai vista in questo modo. – Commentai, con un certo stupore.
-Quasi nessuno lo fa … sai perché gli antichi Ayleid e gli Elfi della neve erano tanto potenti e portati per le arti arcane?
-Perché?
-Perché avevano capito che la magia è ben più che un sapere puramente accademico: essa è una forma di adattamento, un modo per rispondere alle difficoltà che il mondo ci pone dinanzi.
La conversazione fu interrotta dall’arrivo nella stanza del Maestro Polus, seguito subito dopo da Sabine. La ragazzina stringeva fra le braccia un piccolo libricino, forse preso in prestito dalla biblioteca dell’Università.
-Spero di non avervi interrotto, ragazzi. – Si scusò.
-No, maestro, avevamo finito. – Dissi, alzandomi dalla sedia.
-Bene, - rivolse a Mucianus un cenno soddisfatto. – Spero tu abbia trovato le risposte che cercavi, associato.
-Sì, maestro, Mucianus è stato più che esaustivo. Ora penso sia ora di andare. – Dissi, rivolto a Sabine.
-Spero di rivedervi presto in qualità di studenti, sareste una grande risorsa per la nostra Gilda.

Lasciata alle nostre spalle la Torre dell’Arcimago e la stanza circolare, ci dirigemmo verso casa. La mia visita nell’Università aveva dato i suoi frutti: molte delle domande che mi ponevo avevano trovato risposta. La dolce Sabine, accompagnandomi attraverso i vicoli e le strade della Capitale, mi raccontava delle meraviglie che aveva visto: la biblioteca, con il suo vastissimo numero di volumi; i laboratori alchemici, traboccanti di storte, alambicchi, calcinatori e piante d’ogni genere; il centro praxografico e il chironasium, dove si potevano creare nuovi incantesimi e infondere magia negli oggetti più disparati. Mi raccontò dei fiori variopinti che costellavano i rampicanti insediati nella pietra, la bellezza delle fiamme violette, che non bruciavano neanche se ci mettevi la mano dentro, e poi le lezioni all’aperto, i duelli di magia fra studenti e tanto altro ancora.
-Ho deciso, l’anno prossimo mi metterò in viaggio per entrare nella Gilda, proprio come hai fatto tu, Rag.
-Potresti venire con me, quando la nave salperà per Bravil. – Le proposi.
-Mi piacerebbe un sacco, - disse, con un sorriso bianco-latte, - ma prima voglio mettere abbastanza da parte per potermi permettere di viaggiare. Mio fratello vive con l’indennità datagli mensilmente dal Tempio in quanto ex-sacerdote e, ahimè, gli basta a malapena per tirare a campare … devo occuparmi di lui prima che di me stessa.
-Sei davvero una bella persona, Sabine. – Le dissi, voltando il capo per nascondere il rossore.
-Lo so, lo so, grazie! – Rispose, lanciandomi un occhiolino.
Scoppiammo entrambi in una risata mente, stanchi ma felici di quella lunga giornata, varcavamo la soglia di casa.

Sabine mi piaceva. I giorni successivi, passati nella Città Imperiale, non fecero altro che confermare quello che all’inizio era poco più di una sensazione. Spesso mi ritrovavo a pensare a lei, steso nel mio letto. Mi scoprivo a tenere lo sguardo fisso sul suo viso dai lineamenti dolci, a perdermi in quegli occhi scuri che si posavano su tutto con la meraviglia e l’ingenuità di una bambina.
Mi piaceva il suo corpo minuto, pieno di energie … mi piaceva la sua forza vitale.
Adoravo il suo sorriso, che le si distendeva oltre le labbra piene. Ma ciò che più mi colpiva in quella ragazzina era il suo carattere: era decisa ma anche gentile, in lei rivedevo qualcosa che io sentivo di aver ormai perduto da tempo. Quando la guardavo, nella mia testa risuonavano le parole di Lucien, quelle che mi aveva rivolto qualche tempo prima che lasciasse Chorrol “il male del mondo non ti ha ancora toccato”.
Forse in Sabine riscoprivo un ideale di purezza che le esperienze fatte nel corso dei miei viaggi avevano consumato e intorpidito, sì, in lei riscoprivo tutto il bene in cui avevo perso la speranza, tornato finalmente a nuova vita per palesarsi di fronte ai miei occhi. Nonostante tutto, i miei sentimenti rimasero celati, nel corso della mia permanenza nella Capitale, non ebbi mai il coraggio di rivelarglieli: non so se per timidezza, per impaccio o per non recare offesa a suo fratello, che con tanta gentilezza mi aveva accolto nella sua casa. Il mio amore rimase in parole sussurrate solo al silenzio, in una voce che sempre tace.


Note dell’autore
E a tarda ora *rullo di tamburi* ecco che arriva il diciassettesimo capitolo! Leggero leggero, avete visto? Nessun morto, nessuna tragggggedia, nessuna pippa mentale (oddio, qualcuna sì) ma non vi ci abituate! (Continuo a chiedermi con chi stia parlando a parte quei quattro disgraziati che mi seguono e che, a proposito, ringrazio di cuore).
Al solito un grazie grande grande alla mia beta reader, come al solito efficiente nel svolgere il suo lavoro anche a tarda ora.

un abbraccio,
NuandaTSP

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Capitolo 18
*** The old lucky lady ***


Chapter eighteen – The old lucky lady

I giorni trascorsi nella Città Imperiale furono forse i più felici e spensierati di quell’ultimo periodo, del resto prima di allora non mi ero trovato che di fronte ad assurdi complotti e missioni che avevano messo a repentaglio la mia vita. Era bello rivivere un po’ di quella “normalità” che tendevo a dimenticare nel mio vagare per Cyrodill e le sue città. Ogni giorno nella Capitale era una festa di nuove scoperte, racconti di vecchie storie e bevute nelle osterie più in voga. Nella capitale era ogni giorno una novità: nelle osterie più in voga c'era sempre un via vai di viaggiatori pronti a raccontare di vecchie e nuove storie con cui intrattenere gli avventori facendogli vivere, attraverso l'immaginazione, meravigliose avventure.  Quasi ci si dimenticava del lato più oscuro della città, nascosto dietro quel clima festoso, se ci si lasciava trascinare da quel vortice di sfarzosa mondanità.
Ben presto la mia amicizia con Claudius e sua sorella Sabine si rafforzò. Sapevo che non avrei mai più dimenticato quelle persone, che mi avevano accolto con tanta gentilezza all’interno della loro casa. Sabine, poi, mi sarebbe mancata più della città stessa, dati i miei sentimenti, ma chissà, forse un giorno ci saremmo ritrovati entrambi fra le mura circolari dell’Università Arcana.
Come tutti i tempi felici anche questo giunse al termine e, che potessi rendermene conto, era arrivato il momento di partire.
I fratelli Arcadia furono gentili, accompagnandomi fino al porto e aspettando fino all’ultimo istante prima che la nave partisse. Mi congedai da loro con gli occhi pieni di lacrime, stringendo forte entrambi, promettendo che avrei scritto loro una lettera non appena fossi sceso a Bravil. Li ringraziai per tutto ciò che avevano fatto per me durante quei giorni e mentre la nave si allontanava, lungo il fiume Nibenay, vidi le loro mani alzarsi e muoversi in un gesto di saluto, fino a quando le loro figure non si fecero così piccole da non essere neanche più visibili.
Come avrei scoperto più in là, la “Boccia Fluente”, questo il nome della nave, era una sorta di locanda che si muoveva sull’acqua. Si spostava di città in città durante la bella stagione: partiva dalla Capitale, faceva scalo a Bravil e poi attraccava a Leyawiin, prima di ripetere il percorso in ordine inverso.
Quando durante l’inverno le intemperie rendevano pericolosa la navigazione, la Boccia Fluente sostava nella zona del porto della Città Imperiale: protetta dalla perenne calma delle acque del Lago Rumare. Per quanto forti potessero essere i venti e le correnti del fiume, niente poteva smuovere quella superficie immobile che avvolgeva nel suo abbraccio la Capitale. Ormil, l’altmer proprietario della Boccia, aveva avuto di certo una buona idea: il pensiero di poter vivere per un po’ come i marinai o i pirati che percorrevano le acque, ma senza i rischi che simili mestieri comportavano, doveva stuzzicare la fantasia e la curiosità di molti a Cyrodill: in particolare le comitive di ragazzi annoiati che non sapevano in cosa spendere il tanto e denaro e tempo che avevano e gli avventurieri che non avevano più l’età per mettersi in viaggio, che forse nel legno che fendeva le acque e nel vento che gonfiava le vele rivivevano qualche barlume della loro giovinezza ormai passata … immaginando di gettarsi in un’ultima gloriosa impresa.
Se Ormil gestiva la Boccia Fluente come un qualunque esercizio commerciale, non era lui a guidarla attraverso il fiume Nibenay. Difatti mi rivelò che di navigazione lui non ci aveva mai capito nulla, ma in compenso aveva sempre avuto  abbastanza denaro da non preoccuparsi di ciò che non sapeva fare (e queste erano parole sue): poteva pagare qualcun altro per farlo al suo posto. A guidare la Boccia e il suo equipaggio, per assicurare un viaggio senza intoppi alla nave e ai suoi passeggeri, era il capitano Petrus Calamai: un attempato imperiale con la pelle inspessita dalla salsedine.
Io adoravo ascoltare storie e Calamai sembrava quel tipo di persone a cui piaceva raccontarle. Appoggiato alla balaustra, sul ponte di comando, fumavo la mia pipa, mentre lo osservavo avvolto intorno al timone: erano un unico corpo, la nave e l’uomo che la guidava, e si muovevano come fossero uno l’estensione dell’altro. Socchiudeva le ciglia spesse per scrutare l’orizzonte con gli occhi lattiginosi.

Dopo un iniziale silenzio fu lui a rivolgermi per primo la parola, chiedendomi da dove venissi e dove fossi diretto; la mia storia gliela raccontai in breve, evitando di scendere in particolari, e approfittando della sua domanda, gliela rivolsi a mia volta: sapevo, o forse intuivo, che non vedeva l’ora di raccontare la sua di storia.

Un tempo Calamai aveva servito nella sezione della marina militare della Legione Imperiale. Dopo una gavetta durata dieci anni, durante i quali dimostrò le sue notevoli capacità strategiche e un’innata attitudine al comando, Calamai era stato nominato primo ufficiale dell’ammiraglia Andrea Doria.
Questo nome, “Andrea Doria”, risuonava familiare a tutta la gente dell’Impero. Ai tempi delle scorrerie aldmeri sulle coste occidentali, l’Andrea Doria era stata il gioiello della Marina Imperiale: anche il più ardito e impavido pirata del tempo fuggiva a gambe levate non appena vedeva il vessillo del drago sventolare all'orizzonte, fiero, sugli imponenti alberi maestri del galeone e dell'esigua flotta che la seguiva.
A Calamai lacrimavano gli occhi mentre parlava della sua nave, come fosse una vecchia amica ormai perduta: un gigante di legno, con tre alberi maestri, un ponte lungo tre volte quello della Boccia Fluente; uno scafo con una fila di cinquanta arpioni per lato, con tanto di sportelli richiudibili; una prua rinforzata in ebano, recante la testa del Dio-drago Akatosh, e una chiglia prolungata sotto il velo dell’acqua, forgiata con metallo daedrico: capace di speronare e precipitare nel fondale qualunque nave le fosse passata troppo vicino.
La costruzione dell’Andrea Doria aveva richiesto tre anni e un dispendio in termini di denaro tale da far indebitare l’Impero con Hammerfel e alcuni privati cittadini particolarmente facoltosi. L’equipaggio era composto da centocinquanta uomini, selezionati fra i migliori nei ranghi della Marina Imperiale.
A pochi mesi dalla sua messa in mare aveva spazzato via la minaccia dei pirati aldmeri, affondando una dopo l’altra le loro flotte. Quel gigante di legno era stato l’orgoglio dell’Impero e del Capitano che la guidava. Calamai mi raccontò della sua ultima battaglia, al largo delle coste di Anvil, contro la Stockholm, il galeone guidato da Varnez mano di bronzo, ultimo dei pirati aldmeri. Ogni altra nave delle rispettive flotte giaceva ormai nel fondo del mare. Solo le due ammiraglie erano rimaste in piedi. Gli ordini di Calamai prevedevano di schiacciare il nemico con un ultimo arrembaggio, ma i suoi uomini erano sfiniti, inoltre Varnez poteva contare sui potenti stregoni presenti nella sua ciurma. L’allora giovane capitano poteva solo immaginare cosa sarebbe successo se gli altmer si fossero impossessati dell’Andrea Doria.
Ponderò attentamente il da farsi: sapeva che dopo quell’ultima battaglia, la sua nave sarebbe stata smantellata e i suoi pezzi venduti per ripagare almeno in parte il debito che l’Impero aveva contratto.
-L’Andrea Doria non meritava di finire così – mi disse – se doveva andarsene, doveva farlo in mare: in un’ultima, gloriosa battaglia.
Ordinò al suo equipaggio di abbandonare i propri posti e riversarsi nelle scialuppe, dirigendosi verso il porto sicuro di Anvil. Per ultimo scese anche lui, guardando la Doria dirigersi, a vele spiegate, verso la sua fine: si schiantò contro la Stockholm, squarciandone il ventre legnoso. I due giganti di legno furono inghiottiti dalle acque del mare.
Il Comando fece pagar caro a Calamai il suo orgoglio: fu espulso dalla Legione e multato pesantemente, la sua casa venne confiscata insieme a tutti sui beni, dovette anche scontare alcuni anni di reclusione nelle Prigioni Imperiali. Petrus concluse la sua storia dicendomi che era venuto a trascorrere i suoi ultimi anni di vita nel Porto della Capitale, quando aveva incontrato Ormil. In lui aveva visto riaccendersi la speranza di rivivere, anche se ridimensionati, quei giorni ormai lontani della sua passata giovinezza, che tanto ancora amava.

Così, fra le storie del capitano Petrus Calamai e le notti passate sul ponte, a riempirmi gli occhi con le stelle del firmamento, trascorsi i due giorni di viaggio dal porto della Capitale alle mura sgangherate di Bravil. Situata su una protuberanza di terra che si sporgeva nelle acque del Nibenay, Bravil era considerata la città peggiore in cui vivere di tutta Cyrodill: l’aria era umida e malsana, il terreno limaccioso intorno alle mura era la culla in cui proliferavano insetti e malattie d’ogni genere. All’interno della città le baracche si ammassavano le une sulle altre, in un dedalo confuso di vicoli, porte e scale. Gli scantinati delle abitazioni dimenticate erano diventate il rifugio di pantegane grandi come cani da compagnia. Nella desolazione delle strade la gente girava con un alone scuro negli occhi, mentre fra le ombre si nascondevano gli spacciatori di skooma che lì avevano trovano un terreno fertile per i loro affari. Per qualche strano scherzo del destino il simbolo della città era una statua, situata al suo centro, che gli abitanti chiamavano “La vecchia signora fortunata” forse un ultimo appiglio a cui si aggrappavano in cerca di speranza. Varcata la porta cominciai ad avvertire una sensazione di profondo disagio, la stessa che mi aveva colto quando a Cheydinhal avevo posato gli occhi sulla casa abbandonata. Sentivo dei sussurri chiamarmi, come in sottofondo a quel silenzio che dominava su ogni cosa. Cercai di non pensarci e camminai, camminai fino a raggiungere la statua: la vecchia signora aveva il viso gentile, eppure c’era una così profonda malinconia nel suo sguardo di pietra, nei lineamenti scolpiti. Sotto i piedi sentivo qualcosa che si agitava, come se volesse emergere dalla terra, afferrarmi per le caviglie e trascinarmi giù.

Abbassai lo sguardo e accanto alla mia ombra ne vidi comparire un’altra: le spalle larghe, cinte forse da un’armatura, una testa ricolma di fluenti capelli da cui sfilavano sinuose due lunghe corna. Sgranai gli occhi, riconoscendo all’istante quella sagoma. Misi mano alla spada e mi voltai di scatto, ritrovandomi di fronte la pelle violacea e gli occhi di lava ardente di un dremora. Sulla sua bocca vedevo chiaramente una smorfia di disgusto. “Cosa ci fa qui?” mi chiesi, ma la risposta seguì poco dopo la domanda.
-Riponi la tua arma mortale, reco un messaggio dal mio evocatore.
Dunque quella creatura era stata portata qui da un mago, sospirai sollevato.
-Capisco, di che si tratta?
Mi consegnò un rotolo di carta, prima di svanire in una nube di fumo e scintille, così come era apparso.

Superato l’iniziale stupore, srotolai con le mani tremanti il messaggio e lessi, scivolando con lo sguardo fra le righe.

“Caro associato,

è con un macigno nel cuore che ti scrivo questa lettera. Vorrei che tu rimanessi all’oscuro di tutto, perché la tua vita potesse continuare senza l’ombra che ora grava sulla mia. Tuttavia so’ che prima o poi lo verrai a sapere, ed è giusto che sia io a dirtelo, in quanto tuo superiore e responsabile di ogni persona all’interno della nostra amata Gilda.
Quest’oggi, in un abitazione nei pressi di Talos Plaza, è stato rinvenuto il corpo di una giovane donna. In quanto importante membro della comunità della Città Imperiale, sono stato chiamato per effettuare il riconoscimento. Non saprei descrivere l’orrore che ho provato quando in quel viso bianco, rigido negli ultimi istanti di terrore prima della morte, ho riconosciuto le fattezze di Sabine Arcadia. Ho già provveduto personalmente a informare suo fratello dell’accaduto. Sembra che la ragazza sia stata strangolata in seguito a un tentato stupro. La Legione sospetta che sia stato il proprietario dell’abitazione in cui è stato rinvenuto il corpo, un certo Rufio, misteriosamente scomparso prima della triste scoperta. Io stesso, insieme ad alcuni compagni della Gilda, gli stiamo dando la caccia e ti prometto che prima o poi riusciremo a trovarlo e consegnarlo alla giustizia. Sono amareggiato per la tua perdita, ma adesso quella dolce ragazza è nelle mani degli Dei. Sarai distrutto dopo questa notizia ma spero che, con il tempo, riuscirai ad andare avanti come vorrebbe anche lei. Ti faccio le mie più sentite condoglianze…

Un abbraccio,
Raminus Polus”


NdA
Cari lettori, come vi avevo preannunciato questo non è stato un capitolo allegro. Se mi odiate sappiate che la mia ragazza e la mia beta reader mi hanno cazziato potentemente per la fine che ho fatto fare alla povera Sabine. Ammetto che mi è dispiaciuto, ma la sua morte aveva un suo fine preciso e forse più in là lo scoprirete. Per quanto riguarda l’Andrea Doria e il capitano Petrus Calamai mi sono ispirato al comandante Pietro Calamai e al transatlantico italiano che affondò negli anni sessanta. Li ho voluti celebrare con un piccolo raccontino inserito.

Un abbraccio,
NuandaTSP

 

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Capitolo 19
*** Through the darkest dream. ***


Chapter nineteen – Through the darkest dream.

La lettera scivolò dalle mie dita, dondolando verso terra e cadendo con quello che mi sembrò un tonfo assordante. Incredibile quanto potesse essere pesante un rotolo di carta così piccolo e quali grandi cambiamenti recassero quelle poche righe vergate con l’inchiostro.
Sabine non c’era più, e io stentavo a rendermene conto: il suo viso, così chiaro e delineato nella mia memoria, si fece improvvisamente opaco, con i contorni sfumati, sempre più lontano … sempre più lontano da me. Avevo immaginato giorni futuri in cui ci saremmo potuti rivedere, giorni futuri in cui avrei potuto rivelarle i miei sentimenti, ma adesso tutto questo era sparito. Le mie parole sarebbero rimaste inespresse, chiuse con il rimorso di non essere stato lì quando lei ne aveva più bisogno. “Potevo salvarla” mi ripetevo, “Potevo ammazzare quel bastardo e stringerla fra le braccia, dirle che andava tutto bene, che era ormai tutto passato” intenzioni, cose che avrei potuto fare e che non avevo fatto perché non ero lì. La rabbia mi raschiava lo stomaco e il dolore mi dava il mal di testa. Volevo lasciare il mondo per un po’, smettere di sentire, smettere di provare tutto questo.
Avevo bisogno di un sonno artificiale che spegnesse la luce, i miei sensi, che mi precipitasse in un vuoto dove ogni sensazione sarebbe stata lontana, insieme alla sofferenza e al rimorso che non smetteva di avvelenarmi l’anima, ma che, anzi, cresceva con il passare dei minuti. Il monito di Jauffre “La morte è parte naturale della vita” ritornava alla mia mente come un unguento per alleviare il dolore di una bruciatura, ma non c’era nulla di naturale in tutto questo: quale creatura poteva essere tanto crudele da spezzare una vita nel fiore degli anni? Vedere l’innocenza in uno sguardo e scegliere comunque di soffocarla? Avessi avuto Rufio fra le mani, in quel momento, non l’avrei solo ucciso, no, gli avrei squartato il ventre … lo avrei soffocato con i suoi stessi intestini. I Nove Divini educavano al perdono, ma non esisteva perdono per una simile crudeltà. Sentivo le mani tremare, desideravo ardentemente impugnare la spada e spargere sangue, sangue che avrebbe ripagato tre volte tanto quello di Sabine. Eppure Rufio non era qui, era chissà dove, lontano da Bravil, lontano dalla lama che lo stava aspettando

Calò la sera e mi addentrai nei vicoli di Bravil, dove uomini incappucciati diffondevano il loro veleno: lo chiamavano Skooma, un derivato dello zucchero lunare, prodotto ad Elsewyr, patria dei khajiit. Aveva effetti narcotici, chi lo assumeva per lungo tempo sviluppava una forte dipendenza. Le reazioni alla sostanza andavano da un’incontrollabile euforia a uno stato di catatonia. Era su quest’ultimo che puntavo mentre cavavo il tappo della boccetta e buttavo giù, tutto d’un sorso, quel liquido dal colore lattiginoso. Mi scese lungo la gola, con la sua densa consistenza e il sapore dolciastro. Sentii i miei sensi ovattarsi; il dolore, la rabbia, il rimorso si dissolsero come fumo al soffio di un vento di primavera. Il mio corpo, svuotato delle sue sensazioni, si era accasciato sul pavimento di legno marcio, nella baracca abbandonata in cui mi ero rifugiato, a riparo dagli occhi delle guardie. Tutto si fece scuro, mentre i miei occhi precipitavano in un sonno indotto.
Eccola finalmente: la pace che mi affrancava dai dolori della veglia. Il torpore causato dalla skooma mi aveva dato un sonno profondo, simile alla morte, da cui sentivo e speravo che non mi sarei più risvegliato. Mi lasciai cullare nel vuoto, precipitare nel dolce abbraccio dell’oscurità quando una voce lontana mi richiamò, scuotendo la coscienza che credevo perduta.
Sentivo il suono ma non capivo le parole che lo componevano. Era forse un sogno? Eppure c’era qualcosa di diverso: non c’era traccia delle due Cardys e certamente non si trattava di un ricordo di Durendal. Tesi l’orecchio, chiusi gli occhi, tentando di interpretare quel rumore confuso: il tono era quello tremante e allarmato della paura, forse qualcuno aveva bisogno di aiuto? Camminai e camminai, per minuti o forse ore, fino a quando non vidi in lontananza il volto del sofferente: per i lineamenti aguzzi, le orecchie puntute e il colore bronzeo della pelle doveva essere un altmer. Ma in lui non c’era traccia della rigida compostezza della sua razza, tutt’altro, si agitava in un letto dalle bianche lenzuola, madido di sudore come in preda ad un incubo da cui non riusciva a svegliarsi. Quando tentai di posargli una mano sulla spalla per scuoterlo, questo svanì insieme alle lenzuola che lo ricoprivano.
I suoi lamenti furono sostituiti da una voce di donna, che pareva provenire da un abisso profondo: ripeteva una frase, qualcosa come “Questo è il mio regno”. Non sapevo di chi si trattasse, nulla in quelle parole mi suonava famigliare, in nessun modo. Mentre mi voltavo, cercando di capire da dove provenisse quella voce, vidi una ragazza materializzarsi davanti ai miei occhi, avvolta d’una nebbiolina scarlatta. Nelle sue fattezze riconobbi quelle della giovane vittima sacrificale di Yokuda, la mia antenata, Durendal.
Mi parlò con voce allarmata, gli occhi sgranati come se il tempo a nostra disposizione si stesse riducendo sempre più velocemente.
-Devi andare via da qui, Lothbrok, vai via.
-Io non sono Loth- provai a protestare.
-Vattene via! Svegliati Loth! Svegliati!

Mi alzai di soprassalto, con il fiato spezzato dalla vividezza di quell’incubo. Come avevo imparato dal mio viaggio nei ricordi di Durendal, i miei sogni non erano semplici fantasie evocate mentre dormivo, no, i miei sogni avevano sempre e comunque un significato: qualcosa di oscuro gravava sulla città di Bravil, me lo sentivo sulla pelle. La verità, tuttavia, era che non mi interessava: dopo essermi svegliato, gli effetti della skooma erano scivolati via dal corpo e il peso della perdita ritornava a farsi sentire.
Fuori dalla finestra l’alba aveva schiarito gli ultimi residui della notte passata. Sebbene avessi dormito per ore continuavo a sentirmi stanco, ma neanche con un letto a disposizione sarei riuscito a dormire ancora. Mi alzai dal pavimento sudicio della baracca e mi accesi la pipa, giocherellando con il fumo che si riversava fuori dalla bocca: provavo ad afferrarlo con le dita e quello mi sfuggiva, ad ogni ennesimo, futile tentativo. Una volta che del tabacco non rimase che cenere, scesi in strada, sperando, anche se forse inconsciamente, di incontrare qualche attaccabrighe così da poter sfogare con un labbro rotto o un occhio nero quel dolore che mi logorava dentro. Non ebbi fortuna in questo senso: a Bravil ognuno pensava ai fatti suoi, la gente scambiava a malapena quattro chiacchiere per strada.

Mentre giravo, l'occhio mi cadde sulla statua della vecchia signora fortunata: un uomo vestito di stracci le andava sussurrando una preghiera, baciandole il ginocchio di pietra con grande foga. La cosa mi stranì, perché lo stava facendo? Quando ebbe finito mi avvicinai e glielo domandai.
-La vecchia signora concede un po’ di fortuna a chi le rende omaggio – disse – io vengo qua ogni mattina.
“E sei ancora un mendicante, vedi tu che fortuna” pensai, senza dar voce a quelle parole. Non ci avevo mai contato molto sulle benedizioni o nella fortuna in generale: ero del parere che ognuno se la dovesse cavare con le proprie forze, che contare sull’aiuto degli altri o su una fantomatica entità superiore fosse il modo migliore per rovinarsi. Eppure, nella condizione attuale, un po’ di fede non poteva farmi male. Mi inginocchiai di fronte alla statua, non sapendo bene che chiederle. Percorsi con le dita le pieghe della sua umile veste di pietra prima di sussurrarle:
-Ciao signora, scusami l’impaccio ma “pregare”, beh, non so proprio come si fa. Pensa che sono cresciuto in un monastero e ho parlato con gli Dei al massimo una o due volte, quando ero costretto dai monaci. Niente da fare, ero recidivo. Mi rivolgo a te perché per la gente di qui sembri avere una certa importanza, se ti hanno così a cuore magari c’è un motivo … magari li aiuti nel momento in cui hanno più bisogno. – Rimasi un po’ in silenzio, raccattando le parole. – Recentemente ho perso un’amica, una cara amica, e io non so che fare … come reagire insomma. Capisci signora, sto male e mi sento perduto, altrimenti non ti disturberei con i miei problemi. Vorrei, vorrei che tutto questo passasse, che non fosse altro che un brutto sogno … ma non è un sogno, che si può fare? È la realtà. – Strinsi i pugni. – Se il dolore non me lo puoi guarire, se deve passare da solo, io un sola cosa ti chiedo: fa che, prima o poi, io abbia la possibilità di vendicarmi del bastardo che me l’ha ammazzata, solo questo. Si chiama Rufio, non so dirti dove sta né come sia fatto di preciso, so soltanto che è un vecchio e che merita di fare una brutta fine. Esaudisci la mia richiesta, vecchia signora, ti prego.
Conclusi, baciandole il ginocchio: sulle labbra sentii il freddo contatto della pietra e il suo sapore salato. Nelle orecchie un sommesso vociare che si placò non appena mi alzai da terra. Forse la mia preghiera qualcuno l’aveva ascoltata, chissà. Rivolsi un ultimo saluto alla signora, prima di andare.

Per impegnare la mia permanenza a in città mi sarei potuto recare presso la Gilda dei Maghi, per ottenere la mia raccomandazione da quella sede. Ma con l’umore che mi ritrovavo, l’ultima cosa di cui avevo voglia era rischiare la vita in una qualche folle missione al servizio di un altro. Quindi rimandai, almeno per il momento. Mi recai nella parte sud-ovest di Bravil, in cui era situata una locanda chiamata “Il Pretendente Solitario”. La zona sud-ovest era collegata al resto della città tramite un ponte sospeso, di sotto fluivano le acque di scolo, poi liberate nel Nibenay. La superficie torbida lasciava largo spazio all’immaginazione su ciò che scorreva in quel canale.
Il Pretendente Solitario si sviluppava in tre piani: quello terreno era destinato all’intrattenimento di chi era lì solo di passaggio o per consumare un pasto in compagnia; il primo e il secondo erano invece destinati alle camere da letto, quindi per coloro che avessero bisogno d’un posto in cui passare la notte.

Notai sin da subito la grande varietà presente all’interno della locanda: a tenere il banco era un orsimer paffuto, dall’aria tanto allegra da stonare con il resto della città; quasi a fargli da contrappeso nelle cucine c’era un’altmer dall’aria cupa e che per la freddezza di certi suoi gesti: tagliar patate e frutta di stagione, sembrava nascondere qualche segreto; in fondo alla sala, vicino al fuoco, un argoniano coperto da una corazza scura. Consumava la sua colazione non distogliendo gli occhi ambrati dal camino acceso. Sul pettorale era inciso uno stemma raffigurante un’ascia e una mazza incrociate; ad un altro tavolo una donna, forse di etnia imperiale, e una khajiit discutevano su questioni che sembravano di una certa importanza, passandosi di tanto in tanto piccoli oggetti di valore, ricambiati dall’imperiale con manciate di septim.

Presi un posto libero e ordinai da bere, ignorando l’occhiata stranita dell’orco, forse sorpreso da una simile richiesta a quell’ora del mattino. Sorseggiando la mia birra, presi a ripetere uno dei giochi che facevo da bambino: immaginare le vite degli altri, delle persone che osservavo, crearci dietro una piccola storia di fantasia, basandomi su ciò che mi suggeriva il loro aspetto.

L’orsimer forse era una padre di famiglia, lieto per la nascita del suo primo bambino, questo avrebbe spiegato la sua aria così allegra e spensierata. Magari stava raccogliendo abbastanza denaro per spostarsi altrove, lontano dall’aria malsana di Bravil, chissà magari a Kvatch oppure ad Anvil.
La cuoca invece doveva avere un losco passato, forse era stata un membro della Confraternita Oscura e in quell’umile lavoro a servizio degli avventori cercava una qualche forma di riscatto dalle sue malefatte passate: del resto la mano salda da assassina sembrava avercela.
L’argoniano… l’argoniano, dovetti pensarci un po’ di più, ecco! Lui doveva essere un mercenario in missione, probabilmente era molto lontano da casa sua. L’aria meditabonda mi suggeriva che dovesse svolgere un’impresa piena di pericoli, dove le probabilità di uscirne vivo erano molto scarse. Magari i suoi compagni c’avevano già provato, rimettendoci la pelle, quindi lui ora era del tutto solo, ma un contratto non l’aveva mai declinato prima e non aveva di certo intenzione di farlo ora: aveva una reputazione da difendere!
Le due donne, beh, arrivato alle due donne ero già al terzo boccale e la mia testa galleggiava a qualche metro dal corpo. Quelle due erano di sicuro membri della- ed ecco che capii cosa succede quando si beve troppo e a stomaco vuoto. Un flusso acido partì dal ventre, risalì per la gola e si riversò fuori dalla mia bocca dritto sul pavimento. Ebbi appena il tempo di vedere la melma giallastra del mio vomito prima di crollare giù dalla sedia e finirci dentro, insozzandomi il viso e i capelli. Nella locanda scese un silenzio di tomba, tutti erano scattati in piedi per vedere cos’era successo. Fu l’orco il primo a venire in mio soccorso.
-Ah, dannazione ragazzo! Ma che hai combinato?! Ti avevo detto di fermarti!
-Come sta tuo figlio? È un maschietto o una femminuccia? – Ero proprio andato.
-Ma che- lasciamo perdere. S’krriva, aiutami a portarlo fuori.
La khajiit obbedì e insieme mi trascinarono fuori dalla locanda, posandomi con la testa sull’erba. Le dita felpate di S’krriva mi aprirono l’occhio, mentre le sue iridi feline lo esaminavano con attenzione.
-Skooma. – Disse, storcendo il muso.
-Un altro?! Quando la toglieranno quella merda dalle strade?! – L’orco aveva decisamente perso il suo buon umore.
-Fatti dare da Lucia una pozione rinvigorente e fai preparare una tinozza, questo qui ha bisogno di un bel bagno caldo.
-Vado e torno. – Disse l’orco, rassegnato.
-Ah e degli spicchi di mela con foglie di menta, per Mara: ha un alito pestilenziale. – Aggiunse, infastidita dal cattivo odore.
L’oste tornò poco dopo con quanto richiesto. S’krriva mi pulì il viso e i capelli con uno straccio umido, prese la boccetta e cavò via il tappo con i denti. Mi sollevò leggermente il capo e mi versò l’intruglio in bocca.
-Bevi, bevi, da bravo.
Deglutii, mentre la pozione cominciava già a fare effetto. Sentivo un certo sollievo, il mio stomaco aveva smesso di contorcersi.
-Adesso mangia questo, su’.
Masticai la mela, avvolta in foglie di menta. Era un toccasana per il sapore acre che mi sentivo in bocca. Mi misi a sedere e sputai per terra, pulendomi le labbra con la manica.
L’orco, visto che la situazione sembrava essersi calmata, rientrò nella locanda, forse per ripulire lo schifo che avevo lasciato sul pavimento.
-Ti senti meglio, ragazzo? – Mi chiese lei evidentemente preoccupata.
Risposi con un breve cenno di assenso, mentre prendevo lunghe e profonde boccate d’aria.
-Perché ridursi così, alla tua età poi … - mi rimproverò, con aria severa.
-S-Sabine. – Fu l’unica cosa che ebbi la forza di dire.
-Chi è Sabine?
Gli occhi mi si inumidirono, distolsi lo sguardo. Non lo sopportavo, non potevo proprio sopportare che una sconosciuta, per quanto gentile, potesse vedermi piangere e singhiozzare.
-Ascolta giovanotto, - mi richiamò lei, con fermezza – non posso sapere cosa t’è preso e non posso costringerti a parlarne. Ma sta sicuro che ridurti a una pezza da piedi non ti aiuterà, anzi, peggiorerà soltanto le cose. Non lo so chi sia questa Sabine, se una tua amica o altro, ma di certo non vorrebbe vederti conciato così. Promettimi che non toccherai più quella schifezza della skooma, siamo intesi?
Mi ricordava così tanto mia madre Brunja, con quel suo misto di dolcezza e rudezza insieme. Ah, mia madre, chissà come stava, cosa stava facendo … forse avrei dovuto scriverle. Comunque, mi sentivo in imbarazzo ad essere trattato come un bambino, ma immagino che me lo meritassi: un uomo non si sarebbe comportato come avevo fatto io. Risposi alla khajiit con un breve cenno di assenso e, tornato finalmente in me, mi rialzai e rientrai nella locanda. Cavai dalla sacca una manciata di septim, consegnandoli al proprietario e ringraziandolo dell’aiuto. Volevo farmi perdonare per il disturbo che avevo causato a lui e ai suoi clienti. L’orco accettò volentieri il denaro, dopo averlo messo da parte mi indicò la porta che conduceva allo scantinato, quindi al piano sotterraneo.
-Di sotto c’è una tinozza d’acqua calda, datti una ripulita e poi – si schiarì la voce – hai un posto dove poter riposare?
Mi sarei potuto recare nella sede di una delle Gilde e usufruire dei letti, ma di camminare non ne avevo proprio voglia. Quindi risposi di no. L’orco sospirò e poi concluse dicendo:
-Allora ti farai una bella dormita di sopra, questi basteranno a pagarti la camera. – Disse, riferendosi alle monete che gli avevo dato.
-Ti ringrazio. – Risposi, prima di congedarmi con un cenno sommesso del capo.

Sceso nello scantinato mi spogliai, poggiando la mia roba sugli sgabelli accatastati vicino al muro di legno, dall’acqua fuoriusciva un denso vapore che mi rinfrancava della stanchezza. Quando fui avvolto dal calore la mia mente volò libera: ripensai a Sabine e a ciò che avevo fatto, a ciò che non avevo fatto. Ricordai il suo viso di neve, gli occhi scuri, quella promessa che aveva fatto a sé stessa: entrare un giorno nella Gilda dei Maghi. Lo stesso obbiettivo che mi ero prefissato io, ma a lei quel futuro, quella promessa, era stata negata. Sentii il bisogno di parlare, parlare a me stesso e a lei, a voce alta. La mia voce all’inizio era rauca, poi si distese e si sciolse nel tono di sempre: quello grave ed energico di un ragazzo in attesa di diventare un uomo a tutti gli effetti, nel corpo e nella mente.
-Cara Sabine, hai visto? – Sorrisi con amarezza. – Ho combinato un po’ di guai da quando non ci sei più. Se fossi qui ne staremmo già ridendo insieme, mi rimprovereresti con una delle tue pacche sulle spalle: così energiche per un manina tanto piccola, un braccino così sottile. Ma tu non sei qui, te ne sei andata e io devo ancora capacitarmene del tutto. – Ecco, di nuovo gli occhi lucidi. – Perché? Perché è successo proprio a te? Poteva capitare a qualcun altro, ma no, è a te che è capitato. – Tirai su con il naso. – Ci sono due cose che non riuscirò mai a perdonarmi, un peso che mi porterò per sempre nell’anima, cara Sabine. La prima, la prima è di non essere stato lì quando ne avevi bisogno … io avrei potuto salvarti, ne sono convinto, avrei potuto salvarti ma non c’ero. La seconda, beh, la seconda è che non ti ho mai detto ciò che provavo per te, sì Sabine, perché tu devi sapere, devi sapere anche adesso che è troppo tardi … io ti amavo, no, anzi, io ti amo! Per Akatosh, ti amerò fino alla fine dei miei giorni in questo stramaledetto mondo! – Due gocce calde mi traversarono le guance. – Non te l’ho mai dimostrato il mio amore, avrei potuto farlo ma non l’ho fatto. Ma il mio amore c’era e c’è anche adesso, qui, nel mio cuore o dove altro sta, ma sta! Io, io avrei voluto vedere i tuoi sogni realizzarsi, viverli insieme con te e ti prometto, ne andasse della mia vita, ti prometto che entrerò nella Gilda dei Maghi! Lo farò per entrambi, costi quel che costi lo farò. Basta cazzate, basta scuse, d’ora in poi mi ci impegnerò per davvero. – Poi aggiunsi, in tono più deciso. -  Basta fuggire … basta fuggire. – Sorrisi, qualche lacrima salata mi scivolò nella bocca.
Ecco che un poco andava placandosi quel senso di perdita. Se mi fossi aperto sin da subito, svuotandomi di tutto ciò che mi si agitava dentro, avrei evitato di umiliare me stesso come invece avevo fatto. Non sarei più scappato dai problemi, no, da quel momento in avanti avrei affrontato le cose di petto, senza scuse o giustificazioni. Lo dovevo a me stesso, lo dovevo a Sabine.
 

 

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Capitolo 20
*** Two brothers, one Dread Father. ***


Chapter twenty – Two brothers, one dread father.

La Confraternita Oscura ebbe origine nella Seconda Era: i suoi membri erano al servizio di Sithis e, per richiedere i loro “particolari” servigi, una persona doveva effettuare un rituale chiamato Sacramento Nero. Svolto tale rituale, la Madre Notte, tramite fra Sithis e i membri della setta, dava disposizioni perché un membro della gilda, chiamato Udiotre, inviasse un altro membro, chiamato Oratore, si recasse presso chi aveva fatto richiesta. Quest’ultimo comunicava il nome della persona che voleva veder morta, pattuendo un compenso e le modalità secondo cui andava effettuato l’omicidio. Dopodiché l’Oratore provvedeva ad assegnare il contratto a un sottoposto o, se il bersaglio era particolarmente ostico o la ricompensa sostanziosa, poteva decidere di occuparsene lui stesso.
Negli anni la Confraternita era diventata uno strumento potente nelle mani di nobili e regnanti. Più di un nobiluomo di Tamriel era caduto sotto le lame dei fedeli di Sithis. Da ciò ne derivava che farsi nemiche persone con a disposizione molto denaro e risorse, beh, poteva risultare letteralmente fatale a Cyrodill. Ma questo l’avrei capito ben presto da solo …

Dopo il bagno caldo avevo dormito fino a tarda sera, tenendo lontano dal mio cuscino il diario di Cardys. L’ultima cosa di cui potevo occuparmi, visti gli ultimi eventi, era metter pace fra le due parti della negromante dunmer. Ero caduto in un sonno profondo, privo, fortunatamente, di sogni. Dai vetri della finestra un pallido raggio lunare scivolava nella stanza, arrivandomi a metà busto.
Sembrava una notte tranquilla, silenziosa, fino a che non sentii il legno scricchiolare e un lieve rumore di passi farsi più vicino. All’inizio pensai si trattasse di una mia impressione, magari una di quelle illusioni notturne che la mente crea scrutando un’oscurità appena rischiarata. Ma quando il rumore di passi si fece più deciso e sentii il sussurro di un respiro, capii ciò che stava accadendo: qualcuno era entrato nella mia stanza, avvolto da un incantesimo dell’invisibilità. Mi lanciai giù dal letto, appena in tempo per schivare il pugnale che calò sul materasso, squarciando lenzuola e coperte. L’incantesimo che occultava l’intruso si dissolse e di fronte ai miei occhi si materializzò una donna di mezz’età, avvolta in una veste scura. Poteva essere una negromante, ma non v’erano simboli che reclamassero la sua appartenenza a una determinata setta. La donna sorrise sotto il cappuccio che le celava il volto. La piega fredda della sua bocca mi dava i brividi.
-Silenziante, - disse, rivolta a qualcuno che non vedevo, - chiudi la porta.
Un ragazzo, anche lui coperto alla vista da un incantesimo, si rivelò ed eseguì seduta stante gli ordini di quella che doveva essere un suo superiore. La serratura scattò con tre mandate secche e decise. Il giovane si voltò verso di noi, tenendo le braccia conserte.
Indossava vesti diverse da quelle della donna, vesti che avevo già visto in passato: di un colore scuro, fatte d’un materiale simile al cuoio e aderenti al corpo, magro e slanciato. Spostai il mio sguardo alla finestra, con un incantesimo del recupero mi saprei potuto buttare di sotto, senza farmi neanche troppo male per la caduta. Ci pensai meglio e arrivai alla conclusione che alla fine sarebbe stato tutto inutile: avevo capito che quelli erano membri della Confraternita Oscura, mi avrebbero dato la caccia fino in capo al mondo, tanto valeva finirla qui e subito. Sfilai Durendal fuori dal suo fodero, il ragazzo alla porta lanciò un’occhiata interessata alla spada. Immaginavo chi si nascondesse dietro quel cappuccio … in cuor mio sentivo che prima o poi ci saremmo reincontrati in simili circostanze e, pur se con dolore, mi ci ero già preparato da tempo.
-Fratello, - dissi – sei venuto per darmi l’ultimo saluto?
-Rag, non ti si può davvero nascondere nulla. – Rispose, in quello che sembrava un sorriso, ma senza riuscire a nascondere una certa tristezza.
-Silenzio, - ci interruppe la donna, - la Madre Notte ha pronunciato il tuo nome Ragnar’ok Wintersworth, danzerai nel vuoto con Sithis.
La guardai per qualche istante. Mi scappò un sorriso cui poi seguì una risata. Che destò il suo sconcerto. Non provavo più paura dentro di me, o meglio la provavo, ma non lasciavo che questa prendesse il sopravvento. Era una bella sensazione, anche se strana: mi sentivo forte, sicuro di me e delle mie capacità, come non lo ero mai stato prima.
-Prima dovrai uccidermi assassina e come hai avuto modo di vedere non sarà un compito facile. – Roteai Durendal, fendendo l’aria. – Adesso combatti.
La donna tese una mano e, stretta fra le sue dita, si materializzò una spada in metallo daedrico. La magia dell’evocazione comprendeva simili trucchetti, avrei dovuto studiarla prima o poi.
Parai il primo fendente e poi le lame presero a incontrarsi in un clangore di scintille, rapidi scambi discesi e ascesi in eleganti archi, volte e stoccate. Lo scontro mandò in pezzi buona parte del mobilio e persino sulle pareti rimasero larghi squarci, da cui pendevano schegge e brandelli di legno.
-Assassina, - chiesi, a un punto – chi ha fatto il mio nome? Chi è che mi vuole morto?
-Perché ti interessa, ragazzo? – Chiese la donna, disimpegnando la spada. – I morti non possono vendicarsi.
-Oh, non hai idea di quanto ti sbagli. – Risposi, con un sorriso.
Non volle rispondere alla mia domanda fino a quando Durendal non deviò un suo affondo e le si conficcò nel ventre, passandola da parte a parte. Cadde sulle ginocchia, sputando un rivolo di sangue che mi arrivò in faccia.
-Ora dimmi quel nome. – Le dissi, freddamente. – Me lo devi.
-Fal … car. –Furono le sue ultime parole, prima che spirasse.
-Porta i miei saluti a Sithis. – Conclusi, sfilando la spada via dal suo ventre, il suo corpo si accasciò sul pavimento con un tonfo.
Rialzai gli occhi verso il ragazzo, che mi guardava sconvolto. Gli vedevo tremare la mano destra, sbuffai, non lo avevo mai visto così. Per un momento avevo notato una punta di sollievo attraversare il suo volto ma poi, subito dopo, la paura: sapeva, sapeva che adesso doveva essere lui a portare il termine il lavoro, sì, lui doveva uccidermi.
-Lucien, vattene via. – Gli dissi. Nonostante tutto ciò che era successo avevo ancora dell’affetto per lui, lo consideravo un fratello … no, lui era mio fratello. Non volevo che tutto finisse così, non volevo affrontarlo in quella che sarebbe stata una lotta all’ultimo sangue. Pregai perché lasciasse quella stanza adesso, dimenticando tutto ciò che aveva visto, dimenticando la Confraternita Oscura e la sua vita da assassino.
-Io … io non posso fare altrimenti. – Disse, con rassegnazione. – Ragnar’ok hai ucciso l’Oratrice, io devo portare a termine il contratto. È mio dovere in quanto membro della gilda. – La sua mano tremava, una lacrima gli percorreva il viso.
-Dovere?! Dovere?! Tu mi parli di dovere, ma io vedo paura! – Dissi, in un filo di voce. - Sì, paura di perdere ciò che ti resta, ma la vuoi sapere una cosa? Io non ho rischiato di perdere delle persone, io le ho perse per davvero! Strappatemi via senza neanche poter dare loro un addio, uno straccio di saluto, senza neanche la possibilità di provare a salvarle. Non scaricare sul tuo dovere qualcosa che vuoi fare da tempo, prova a uccidermi se ti riesce ma assumiti la responsabilità delle tue azioni, Lucien Lachance!
Fece un passo indietro, non l’avevo mai visto così. Riunì i piedi, sospirò, abbassando lo sguardo per qualche istante e poi fece ciò che speravo non facesse: sfilò il pugnale, lo stesso pugnale d’argento con cui mi aveva salvato dal goblin nella Great Forest, lo stesso con cui aveva trucidato i Bruiant e i loro mercenari.
-Hai ragione fratello, sei cambiato.
-Già, sono come te, adesso. Buona fortuna, fratello.
Gettai da parte Durendal e presi il pugnale, quello che avevo sempre usato per dare la caccia agli imp. Con la spada di mio padre avrei avuto la meglio, ma a Lucien dovevo quantomeno uno scontro leale.
Fu lui il primo ad attaccarmi, per quanto mi fu possibile mi limitai a parare ed evitare i fendenti. Più andava avanti più si lasciava prendere da una furia incontrollata, maneggiava la lama con le lacrime agli occhi, profondendo talvolta in singhiozzi. Non c’era criterio né decisione nelle sue azioni ma tentava comunque di ferirmi. Iniziai a colpirlo anch’io, nient’altro che graffi, ma poi capii che non si sarebbe fermato e a quel punto mi rassegnai … lo colpii nello stomaco, piegandolo in due, e puntai la lama alla gola: un singolo gesto e questa si sarebbe aperta liberando un lungo flusso di sangue, spezzandogli il respiro. Sentii qualcosa toccarmi il collo, qualcosa di freddo e appuntito, era il suo pugnale.
-Che aspetti, dannazione?! Che aspetti?! Fallo! – Mi urlò, in preda ad una cieca disperazione, mentre dall’altra stanza qualcuno batteva sulla parete, chiedendo silenzio.
Non parlai, avevo la gola completamente secca ma qualcosa di tiepido prese a percorrermi le guance, erano lacrime. In un istante vidi scorrere davanti a me tutti i giorni, i momenti che avevo passato con lui: le nottate nelle stalle a masticare carne secca, le giornate fra le strade di Chorrol, i giochi, gli esercizi con la magia, il suo sguardo che si faceva malinconico … i corni che suonavano quella notte, i corni. Quasi me li sentivo risuonare nelle orecchie quegli stramaledetti corni. Tutto sarebbe finito, bastava un singolo gesto ed entrambi saremmo morti: il dolore, la paura, l’odio che ci avevano tenuti divisi sarebbero svaniti per sempre in un attimo, evaporando via con le nostre vite. Eppure nessuno di noi due aveva il coraggio di compiere quell’ultimo gesto; perché noi eravamo fratelli, sì, magari il nostro sangue era diverso, ma gli eventi che ci avevano condotti fino a quel punto ci avevano reso fratelli ed era un legame che neanche la morte, neanche gli orrori più cupi e tetri di questo mondo potevano spezzare. Eccoci faccia a faccia, un’ultima volta prima della fine, rimandata un momento dopo l’altro, istante per istante. 

La contesa fra noi sarebbe potuta finire solo in un modo, ma un qualche evento fortuito ci salvò entrambi quella notte. Il velo bianco delle due lune si colorò di rosso nel cielo scuro della sera, i grani di polvere rimasero sospesi in aria senza più potersi muovere. Sembrò che il tempo si fosse bloccato, che io e Lucien fossimo stati catapultati in un’altra dimensione. Una voce riempì il silenzio, una voce più antica degli stessi Dei e dell’universo che giace sconfinato. Era una voce di donna, con una eco che tremava l’anima e sembrava poter scuotere persino i Daedra nei loro piani dell’Oblivion.
-Figlio mio, rinfodera il tuo pugnale.
Lucien si irrigidì, per un attimo, poi obbedì ai comandi della voce, rialzandosi in piedi e guardandosi intorno spaesato. Sul pavimento Durendal era animata di un intenso bagliore scarlatto, c’era qualcosa che la agitava, forse proprio quell’entità che si era manifestata a noi in quel modo.
-Ma … ma, dolce Madre … il contratto-il contratto dev’essere portato a termine. Lui ha ucciso l’Oratrice.
-Oh, dolce bambino mio. Il contratto è annullato, l’unica ragione per cui è stato comunicato all’Uditore è perché Greta, la tua Oratrice, morisse servendo Sithis.
-Perché uccidere la tua stessa Oratrice, Madre Notte? Non capisco.
-Ella doveva cadere perché tu potessi ergerti in quanto nuovo Oratore della Confraternita Oscura. Il nostro Temibile Padre ha dei piani per te Lucien Lachance e anche per il tuo amico, Ragnar’ok Wintersworth. – Poi disse con una punta di divertimento. – O forse dovrei dire Lothbrok Wintersworth?
Lucien si voltò verso di me con aria interrogativa. Non parlava, forse per timore di offendere la Madre Notte, ma nei suoi occhi vedevo quella domanda inespressa “Di che diamine sta parlando?”.
-Ho solo un nome ed è Ragnar’ok. – Dissi, con aria il più possibile decisa.
Ci fu una risata che mi fece gelare il sangue nelle vene.
-Oh, bambino mio. Se solo tu sapessi … se solo tu potessi vedere la realtà dei fatti come la vedo io. Ti basterebbe smettere di negare la verità e accettare ciò che in realtà sei. Ma un giorno tu lo accetterai, nel mio sguardo c’è già quel momento. Tornate a riposare bambini miei, una lunga notte vi aspetta.


NdA
Salve lettori eccoci giunti a quello che potrebbe essere definito il centro esatto della storia. Ragnar è ormai a metà del suo viaggio e, si direbbe, del suo percorso di crescita. Affronta le difficoltà con spirito nuovo, dopo la morte di Sabine che gli ha cambiato qualcosa dentro. Ma passiamo alla parte divertente: siccome in questo capitolo, come avrete notato, Ragnar ci è mancato poco che finisse ammazzato ho deciso di fare un piccolo scherzo alla mia ragazza e alla beta reader: ho scritto un altro finale in cui Rag moriva mettendo fine all’intera storia. Fatto questo ho inviato i capitoli falso-finale alla mia ragazza e alla mia betareader e, dopodiché, mi sono goduto le reazioni rotolando dalle risate.
Dopo ho spiegato che era uno scherzo e la nostra Arwyn mi ha lasciato un regalino correggendo il capitolo nella sua versione attuale


“(Si ringrazia la sora Notte per questo improvviso salvataggio che ha evitato alla sottoscritta di spezzare le gambe all'autore <3 Se mi rifai un altro scherzo del genere ti ammazzo male <3)”

LOL. Comunque piccole note per i puristi: non mi fustigate, tecnicamente la Madre Notte dovrebbe parlare solo all’Uditore, ma questa l’ho interpretata come una sua precisa scelta. Essendo necessario uno strappo alla regola, ed essendo tale strappo concorde alla volontà di Sithis, eccovi un bel deus ex machina.

Un abbraccio,
NuandaTSP

 

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